La memorialistica della Resistenza attraverso gli scritti di Giovanni Pesce

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1 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE Corso di Laurea in Lingue e Letterature Straniere DISSERTAZIONE FINALE La memorialistica della Resistenza attraverso gli scritti di Giovanni Pesce Relatore Prof. Claudio Sensi Candidato Valentine Braconcini matr. n. 238940 Anno Accademico 2007-2008

Transcript of La memorialistica della Resistenza attraverso gli scritti di Giovanni Pesce

1

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO

FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE

Corso di Laurea in

Lingue e Letterature Straniere

DISSERTAZIONE FINALE

La memorialistica della Resistenza

attraverso gli scritti di Giovanni Pesce

Relatore

Prof. Claudio Sensi

Candidato

Valentine Braconcini

matr. n. 238940

Anno Accademico 2007-2008

2

INDICE

INTRODUZIONE

3

1. LA MEMORIALISTICA COME GENERE LETTERARIO 6

1.1 Definizione 6

1.2 Il problema delle fonti 8

1.3 Tra racconto e silenzio: la memorialistica della

deportazione

11

2. STORIOGRAFIA, MEMORIA E CRITICA LETTERARIA

DELLA RESISTENZA

17

2.1 1946-2008: Le fasi della produzione resistenziale 17

2.2 Il “peso” della politica

24

3. DALLA RESISTENZA IN PIEMONTE AI GAP: APPUNTI

DI STORIA

3

3.1 I caratteri della Resistenza in Piemonte 27

3.2 Torino 29

3.3 I Gruppi d’azione patriottica (GAP) 35

3.4 Biografia di Giovanni Pesce

38

4. SENZA TREGUA: TRA STORIA, MEMORIA E

LETTERATURA

42

4.1 Due guerre, stesso nemico 42

4.2 Io narrante/io testimone 46

4.3 La morte di Dante Di Nanni

48

5. CONCLUSIONI

52

6. BIBLIOGRAFIA 54

3

INTRODUZIONE

Oggetto di questo lavoro è un’analisi e una riflessione degli aspetti

caratteristici del genere letterario definito “memorialistica”. In particolare

un’osservazione delle tappe e delle letture che a partire dagli anni ‘40 fino

ad oggi hanno caratterizzato la produzione riferita alla tematica

resistenziale.

Partendo da una più ampia analisi storico-letteraria mirata a individuare le

peculiarità di tale genere, successivamente ci si soffermerà a trattare uno

degli aspetti fondamentali che hanno caratterizzato la memorialistica che si

rifà alla seconda guerra mondiale, in altre parole il tema concentrazionario,

per anni accantonato e poi riscoperto con forza sia dagli storici che dai

curatori di memorie. Un ambito sicuramente difficile da delineare e che

presenta non poche questioni aperte sulle modalità di approccio e studio.

Si passerà poi all’altro grande corpus della memorialistica che costituisce

peraltro il nucleo di questo lavoro, la memorialistica della Resistenza,

fornendo poi un tentativo di analisi più specifica attraverso il principale

libro di memorie scritto dal gappista Giovanni Pesce, Senza tregua. Un

testo in grado di fornirci da un lato un esempio tangibile di memoria

resistenziale, inserita per altro in una cornice letteraria, e dall’altro lato

capace di costituire una sorta di “anomalia”, trattandosi di una

testimonianza per lo più non supportata da fonti storiografiche che possano

aiutarci ad avere un quadro più storico che epico della peculiare attività

svolta da questi “partigiani metropolitani”. Nello specifico le analisi più

accurate sono rivolte ai mesi della lotta in Piemonte e più in particolare a

Torino.

Questo lavoro vuole inoltre essere un modesto contributo a quanto

prodotto negli anni dal seminario su Il valore letterario e culturale della

memorialistica della deportazione, giunto nel 2008 al suo VII ciclo;

4

seminario che ha fornito i principali stimoli di avvio a questo tipo di

riflessione. Organizzato dalla Fondazione Istituto Piemontese “Antonio

Gramsci” e dagli italianisti delle Facoltà torinesi di Lingue e di Lettere,

sotto l’egida del Consiglio regionale del Piemonte – Comitato per

l’affermazione dei valori della Resistenza – e dell’Aned, il Seminario sulla

memorialistica della deportazione venne ideato e proposto nel 2002 dal

professor Marziano Guglielminetti.

L’intento era quello di

riflettere sulle specificità della scrittura che fissa quella particolare memoria,

che accoglie in sé l’offesa, lo sradicamento, la prevaricazione, la violenza e il

dolore inutili; col desiderio di comprendere, con delicatezza e lucidità, come la

penna abbia potuto tradurre esperienze d’intensità estrema.1

Inevitabili le riflessioni sulle peculiarità della memoria:

«Dobbiamo guardare – diceva Guglielminetti – alla testimonianza quale si

forma, quale è, nella sua origine immediata, come si deposita, che sforzo

comporta: con particolare attenzione ai meccanismi della memoria, della

memoria interrotta, o inceppata, o aperti su nuove dimensioni del tempo e dello

spazio».2

Premesse che hanno dato avvio a un intenso seminario che negli anni ha

tentato di affrontare i molteplici aspetti della letteratura concentrazionaria,

problematizzando l’uso della fonte orale come fonte storica, avviando un

percorso di riflessione sulla trasmissione della memoria, e dando voce ad

eccezionali testimoni che hanno tentato di raccontare quell’“esperienza

indicibile”, consci dell’importanza della loro parola e del loro ruolo nel non

permettere l’oblio di quell’evento tragico, inserito a pieno titolo nella

modernità, e pertanto non accantonabile dalle nostre coscienze.

1 C. Sensi, Presentazione del seminario, in Scrivere la memoria del lager: un confronto

internazionale, a cura di F.Uliana, Torino, Fondazione Istituto Piemontese Antonio Gramsci 2008,

p. 4. 2 Ibidem.

5

La scelta specifica del seminario non poteva per ovvie ragioni includere

l’altro grande filone della memorialistica, quello resistenziale. La

Resistenza costituisce l’aspetto della seconda guerra mondiale su cui per

anni la storiografia dominante è rimasta appiattita, il che, insieme ad altre

concause che verranno in seguito analizzate, non ha lasciato molto spazio

ad altre esperienze, tra cui la Shoah e le deportazioni nei campi di

concentramento.3

Il tema resistenziale costituisce una sorta di tappa obbligata per tutti gli

scrittori “maggiori” del secondo dopoguerra. Secondo disparate modalità si

sono confrontati con esso Italo Calvino, Beppe Fenoglio, Elio Vittorini,

Carlo Levi, Cesare Pavese e numerosi altri grandi autori.4 Tuttavia si

desidera qui far emergere due “generi” specifici che hanno dato un

contributo fondamentale alla costruzione di una memoria “letteraria”, colta

e popolare, della Resistenza, in altre parole la “letteratura

concentrazionaria” e la “letteratura resistenziale”.

Lungi dal tentare un raffronto o accostamento tra i due filoni di

testimonianze, questo lavoro mira a trattare gli aspetti più problematici e

caratteristici della letteratura resistenziale, quali l’uso politico della

memoria e della storia, il “giudizio storico”, l’uso della cornice romanzesca,

la stratificazione della memoria e l’aspetto didattico.

3 C. Spartaco, Aspetti e peculiarità del sistema concentrazionario fascista. Una ricognizione tra

storia e memoria, in Lager, Totalitarismo, Modernità, a cura dell’Istituto Ligure per la storia della

Resistenza e dell’età contemporanea, Milano, Bruno Mondadori 2002, p. 234. 4 Cfr. G. Falaschi, La resistenza armata nella narrativa italiana, Torino, Einaudi 1976;

www.novecentoitaliano.it

6

Capitolo 1

LA MEMORIALISTICA COME GENERE LETTERARIO

1.1 Definizione

Il termine memorialistica impone, anzitutto, una riflessione terminologica.

La parola memoriale, la “scrittura di memoria” per molto tempo nella

tradizione italiana del secondo dopoguerra è stata posta ai margini, come

scrittura di seconda qualità o sottoletteratura. Per molto tempo la

memorialistica è stata considerata come qualcosa che non poteva accedere

alla repubblica delle lettere. Anche nella manualistica scolastica, persino Se

questo è un uomo per molti anni è stato rubricato nella memorialistica, così

come Uomini e no di Vittorini.5

È con queste parole che Alberto Cavaglion6 apre la sua riflessione sulla

memorialistica, in un intervento che pone principalmente l’accento sulle

testimonianze riferite alla deportazione, le cui considerazioni possono però

ritenersi pertinenti per quanto riguarda l’intero blocco di memorie che si

rifanno in qualche modo all’esperienza della seconda guerra mondiale.

Egli individua come «atto iniziale della memorialistica scritta» gli scambi

di corrispondenze private, che precedono la memoria scritta pubblicata in

monografie o in articoli di riviste. Sono lettere scritte anche prima del

ritorno in patria dagli ex prigionieri i quali sono mossi dalla volontà di

cercare i loro compagni e cercare un confronto tra le proprie esperienze.

Cavaglion cita come esempio emblematico di primi esercizi di memoria e

scrittura i ricordi che Leonardo Debenedetti e Primo Levi affidarono ad un

memoriale (termine da cui deriva il conseguente memorialistica) per le

5 A. Cavaglion, Per una memorialistica mal nota, in Scrivere la memoria del lager: un confronto

internazionale, cit., pp. 13-16. 6 Alberto Cavaglion, storico e scrittore, lavora presso l’Istituto Piemontese per la storia della

Resistenza e della società contemporanea. Tra le sue pubblicazioni: Per via invisibile (Bologna

1998), Ebrei senza saperlo (Napoli 2002), La Resistenza spiegata a mia figlia (Milano 2005) ed

Notizie su Argon. Gli antenati di Primo Levi da Francesco Petrarca a Cesare Lombroso (Napoli

2006).

7

autorità sovietiche, le quali avevano richiesto un rapporto igienico-sanitario

sulle condizioni di Auschwitz. I primi testi che appaiono sono quasi sempre

pubblicati a spese dell’autore e da piccolissimi editori. Sono testi che

presentano caratteristiche molto differenti rispetto a quelli che verranno

pubblicati in seguito, fino all’oggi, in quella che viene definita “era del

testimone”.7 Le peculiarità risiedono in una scrittura piuttosto scarna, netta,

priva di artifici letterari, e nell’individuare come destinatario un compagno

di prigionia o una ristretta cerchia di amici. Un valido esempio è costituito

da Se questo è un uomo di Primo Levi, pubblicato per la prima volta nel ‘47

e in seguito nel ‘58, quando verranno aggiunti nuovi passi e assumerà uno

stile più “letterario”. L’importanza della figura di Levi si può intravedere

anche nel fatto che la sua morte costituisce un vero e proprio spartiacque

nella memorialistica in Italia. Al suo decesso infatti segue una fase in cui il

numero delle testimonianze subisce un incremento molto forte, che va di

pari passo con una trasformazione sul piano stilistico e un avvio della

testimonianza televisiva, teatrale, scolastica.

Levi resta sicuramente il più conosciuto “cronista” della tragedia dei lager.

Egli torna sulla sua esperienza di prigioniero ebreo ad Auschwitz in diversi

libri. Il già citato Se questo è un uomo è forse il principale punto di

riferimento per tutta la letteratura dei reduci. La cronaca, estremamente

lucida, ripropone l’intero soggiorno di Levi nel campo di concentramento,

insistendo sui singoli dettagli che impedirono la sua completa

disumanizzazione, e sottolineando nel contempo la casualità cui l’autore

deve la propria salvezza. A Se questo è un uomo si riallaccia il racconto

successivo, La tregua, che narra singolare viaggio di ritorno che il

protagonista dovette affrontare dopo la liberazione dal campo. Merita di

essere ricordato, anche se uscito molto più tardi, nel 1986, il volume in

forma quasi saggistica I sommersi e i salvati, un tentativo di analisi

7 A. Wieviorka, L’era del testimone, tr. it., Milano, Cortina 1999.

8

approfondita e distaccata dell’universo dei campi di concentramento, che

non cancella però i tratti autobiografici della propria esperienza.

Con estrema pertinenza, Cavaglion cita anche la questione messa in

evidenza da Pier Vincenzo Mengaldo,8 che risiede nel domandarsi dove

passi il confine tra la memorialistica pura e la letteratura. Per anni,

soprattutto in Italia, la memorialistica è stata vista come letteratura “di serie

B”, ma Mengaldo ha saputo dimostrare come ogni scrittura sulla

deportazione non sia distinguibile da una fonte in qualche modo letteraria.

Analizzando ogni forma di scrittura ha concluso che la letteratura

costituisce comunque un passaggio decisivo. I classici cui fanno riferimento

tutti gli ex-prigionieri sono un riferimento ben preciso nell’ambito di tutta la

letteratura italiana.

In questi anni il problema va ponendosi sempre più con forza, in quanto

con la sparizione dei testimoni diretti, saranno la letteratura e i nuovi

scrittori a costituire alcuni tra i principali veicoli di preservazione della

memoria; un passaggio inevitabile a cui abbiamo assistito durante tutto il

corso della storia.

1.2 Il problema delle fonti

Altra questione fondamentale è quella di «come interpretare la

memorialistica. 9 Le fonti cui lo storiografo può attingere sono numerose e

8 P. V. Mengaldo, La vendetta è il racconto. Testimonianze e riflessioni sulla Shoah, Torino,

Bollati Boringhieri 2007. 9 Cfr. Per non dimenticare. Bibliografia ragionata dell’internamento e deportazione dei militari

italiani nel Terzo Reich, Introduzione di G. Rochat, INSMLI-ANEI-GUIS.Co 1997, vol. I.

Interessante è la catalogazione delle fonti, sia scritte che orali, anche sul metro della maggiore o

minore affidabilità che possono avere per gli storiografi. Il discorso è riferito alla memorialistica

degli internati e dei deportati militari, ma risulta valido, con le dovute differenze, anche se

applicato alle altre categorie di deportati. Importante pure tutto il lavoro sulle cifre, che dimostra

come questo aspetto della deportazione sia stato e sia tutt’oggi considerato marginale e poco

indagato. A questo si aggiunge il particolare status dei testimoni, soprattutto gli internati, la

maggior parte dei quali (otto o nove su dieci) «hanno rimossa la memoria di un “internamento

9

diversificate, ma difficili da interrogare. Essi fanno affidamento prioritario

alle fonti scritte, cosiddette “d’archivio” o “ufficiali”, ma le fonti sia

tedesche che italiane sulla deportazione e l’internamento «sono scarse,

frammentarie e sovente enigmatiche»; inoltre ci rivelano principalmente gli

aspetti gestionali dei Lager (anche questi spesso volutamente falsati),

tralasciando totalmente gli aspetti riguardanti la “società del lager” e

l’uomo in quanto essere privato di ogni sua libertà.

Molto più numerose sono le fonti orali a cui gli storiografi guardano

spesso con una certa diffidenza. I diari coevi, scritti nei Lager anche sotto

forma di brevi appunti e rielaborati a “memoria viva”, subito dopo la

liberazione o nei primi anni seguenti, e le “relazioni” in particolare di

fiduciari, medici e cappellani, vengono considerate insieme tra le “fonti

scritte” valide per le ricostruzioni storiografiche.

Ciò che spingeva prigionieri e internati a scrivere era principalmente la

consapevolezza di trovarsi a vivere e subire eventi di portata storica e di alta

drammaticità. La volontà era quella di lasciare un segno di quanto stava

accadendo, per poter tentare di raccontare la disumana esperienza, nel

remoto caso in cui si fosse riusciti a sopravvivere, con l’intima speranza che

quanto vissuto e poi testimoniato non potesse più ripetersi.

Nei Lager era proibito scrivere ed era altresì difficilissimo recuperare

matite o fogli. Ciò che si è riuscito a salvare risiede principalmente in

appunti per lo più sintetici, telegrafici, enigmatici, omettenti nomi e fatti

che potevano essere compromettenti. Necessitano pertanto di essere

rielaborati da parte degli autori o dei loro compagni, il che costituisce un

rischio di inquinamento. Il testimone diretto rimane un fondamentale

collaboratore dello storico.

Le fonti orali sono costituite dalla memorialistica tardiva rielaborata e

dalle interviste e testimonianze antologiche “brevi” che per valide ragioni

volontario” incompreso, considerato inutile e che “non fa notizia”. E il reduce su dieci che

“ricorda” non vuole pensarci troppo!»

10

vengono guardate con diffidenza dagli storiografi. In questi casi sono

necessari i riscontri incrociati ma, in mancanza di altre fonti, diventano

essenziali, in quanto uniche e chiarificatrici.

Le memorie quindi rappresentano gran parte delle fonti che gli storici

hanno a disposizione, ma bisogna maneggiarle con grande accuratezza:

Sono anche convinto –dice Contini – che le fonti di memoria vadano affrontate

con una strumentazione metodologica adeguata alla loro complessità, alla loro

tendenza, per fare solo alcuni esempi, a condensare più fatti in uno, a spostare

o cambiare i soggetti degli aneddoti, a invertire l’andamento cronologico reale

della narrazione.10

Brunello Mantelli individua due rischi principali sull’uso della

memorialistica come fonte storica:11 da un lato il credere che la memoria sia

strettamente attinente alla realtà dei fatti, e ciò non può essere possibile in

quanto la memoria è sempre ricostruzione; dall’altro lato l’idea che anche il

documento scritto rappresenti la verità, mentre anch’esso è prodotto in un

ambiente preciso, in una determinata circostanza. Altro errore da non

commettere è di scartare a priori il documento che appare “falso”. Le stesse

omissioni, gli errori o la ricostruzione “inventata” di situazioni o eventi non

possono darci informazioni su quanto avveniva all’epoca, ma sono processi

che ci dicono molto sul modo di pensare e sul contesto sociale dei quali

quel documento è un prodotto.12

Pertanto mi pare opportuna la prospettiva dalla quale si pone Luisa

Passerini la quale dice:

[La memoria] la assumiamo come l’atto narrante di un individuo in un contesto

sociale, nel tentativo di conferire significati condivisibili a certi eventi o aspetti del

mondo ed eventualmente di metterne in secondo piano altri. L’atto narrante è sempre

nello stesso tempo memoria autobiografica, trasmissione di un’esperienza di vita, e

10 G.Contini, Memorie di guerra e di guerra civile, in Memoria/Memorie, Centro Studi Ettore

Luccini, 2006, 1, pp. 27-49. 11B. Mantelli, Prospettive storiche, in Il valore letterario e culturale della memorialistica della

deportazione, III ciclo, a cura di F. Uliana, Torino, Fondazione Istituto Piemontese Antonio

Gramsci 2004, pp. 106-109. 12 B. Wilkomirski, Frantumi, trad. it. di U. Gandini e L. Fontana, Milano, Mondadori 1996.

11

tradizione, cioè riformulazione e innovazione di qualcosa – se non altro il linguaggio –

che si è ricevuto da generazioni precedenti e che si vuol passare a generazioni future.13

Sempre la Passerini, a proposito dei silenzi che ricorrono nelle interviste,

ha evidenziato come, proprio attraverso un inventario dei silenzi, si possano

anche interpretare le fonti orali e ha invitato ad una maggiore

storicizzazione dei silenzi stessi. Per esempio, ha notato come «la storia di

vita fa spesso un salto dal periodo dell’avvento del fascismo fino alla sua

caduta [...]. Avevo inoltre notato che il ricordo del periodo fascista

sembrava comprendere soprattutto aspetti [...] legati alla quotidianità».14

Premesse queste necessarie per chiunque voglia tentare un approccio

corretto e non superficiale ad una tematica tanto complessa e delicata.

1.3 Tra racconto e silenzio: la memorialistica della deportazione

Quella dei campi di concentramento è da tutti considerata l’esperienza-

limite della Resistenza europea, nella quale le conquiste della modernità e

la scelta del terrore come arma politica, vengono utilizzate al fine di

distruggere l’uomo in quanto uomo. Uno dei caratteri che maggiormente

ricorre nei documenti di chi è sopravvissuto a questa esperienza è

l’agghiacciante testimonianza sul sistema di annientamento della

personalità umana. Da qui l’urgenza di dover raccontare ciò che l’uomo

stesso è stato in grado di fare all’uomo e in questa condizione di

“sottoumanità”. Lo scrivere costituisce un atto di riappropriazione dell’io,

della propria personalità. Primo Levi, nella prefazione da lui curata ne La

13 L. Passerini, Sette punti sulla memoria per l’interpretazione delle fonti orali, in Italia

Contemporanea, n. 143, 1981, pp.83-92. 14 Ibidem.

12

vita offesa15 rileva che tendenzialmente il bisogno di raccontare risale al

tempo stesso della prigionia e come esso sia talvolta quasi un voto, una

promessa che il credente fa a Dio ed il laico a se stesso. Raccontare è

necessario anche affinché la propria vita non sia priva di scopo.

E Levi aggiunge:

Per il reduce, raccontare è impresa importante e complessa. È percepita ad un

tempo come un obbligo morale e civile, come un bisogno primario, liberatorio,

e come una promozione sociale: chi ha vissuto il Lager si sente depositario di

un’esperienza fondamentale, inserito nella storia del mondo, testimone per

diritto e per dovere, frustrato se la sua testimonianza non è sollecitata e

recepita, remunerato se lo è.16

Prosegue più avanti:

ritorneremo, il mondo non saprà di cosa l’uomo è stato capace, di che cosa è

tuttora capace[…] se moriremo qui in silenzio come vogliono i nostri nemici,

se non: il mondo non conoscerà se stesso […].17

Un impulso a vivere e raccontare dunque, da cui molti hanno potuto trarre

la forza di resistere.

L’esigenza di raccontare si scontra però con l’incapacità di far capire la

drammaticità e la brutale crudeltà di quanto si è visto e vissuto, insieme alla

consapevolezza dell’impossibilità di capire e soprattutto del rischio di

essere fraintesi. La propria è un’esperienza di cui si rivendica l’unicità,

inspiegabile, «ma che dovrebbe tuttavia essere presa da chi ascolta come

paradigma di vera sofferenza».18

Nell’importante libro intitolato La vita offesa gli autori hanno raccolto le

testimonianze di duecento sopravvissuti, in un montaggio di più di

novecento brani tratti dalle diecimila pagine di trascrizione delle loro

15 La vita offesa, Storia e memoria dei Lager nazisti e nei racconti di duecento sopravvissuti, a

cura di A. Bravo, D. Jalla, Milano, Franco Angeli 1986, 20012, pp. 8-9. 16 Ibidem. 17 Ibidem. 18 www.novecentoitaliano.it

13

testimonianze. È una raccolta delle storie di vita degli ex deportati

fortemente voluta dall’Aned in Piemonte, che a quarant’anni di distanza si

propone di dare voce a tutti quelli che hanno subito la tragica esperienza

della prigionia, in particolare a coloro che non avevano mai trovato ascolto

al di fuori della famiglia e del piccolo gruppo di amici. Sono tanti – o

meglio la stragrande maggioranza – i testimoni che non hanno mai scritto o

raccontato la loro esperienza, e in questo testo ogni singola voce va a

formare un coro che ancora una volta denuncia la drammaticità della «vita

non vita nel Lager».19

Ma perché per più di quarant’anni sono rimasti in silenzio?

Sono loro a dircelo: «Raccontar poco non era giusto, raccontar il vero non

si era creduti. Allora ho evitato di raccontare, sono stato prigioniero e bon».

«Adesso cominciano a credere, ma c’è voluto degli anni». Frasi, queste, di

Temporini a cui si aggiungono quella di Mongarli: «Non ne parlo mai. Cioè

ne parlo quando sono coi miei compagni, perché loro possono capirmi.

Mica possono capirmi gli altri». E ancora quella di Franco: «Credo che la

deportazione in sé sia una cosa irriferibile nella sua integralità, nella sua

interezza».20

In queste frasi si legge il timore di essere fraintesi e la sensazione che

parlare porterebbe comunque a una riduzione o a uno spostamento dei

significati. Questo avviene soprattutto nei primi tempi del ritorno, quando ci

si accorge che l’esperienza è indicibile e non vale nemmeno la pena di

tentare di raccontarla perché si scontra con l’incredulità generale e con

l’impressione che non interessi a nessuno, poiché tutti vogliono solo

dimenticare e “andare avanti”.

19 Ivi, p.12. 20 Ivi, pp. 57-63.

14

Nei primi quarant’anni il ricordo dei sopravvissuti prende forme diverse:

deposizioni processuali, racconti, scritti autobiografici, discorsi

commemorativi. Ma Anna Bravo e Daniele Jalla ci fanno notare come

questo ricordo non sia diventato patrimonio comune, non si sia visto

riconosciuto uno spazio certo e definito nella memoria nazionale, quasi

come se la deportazione e lo sterminio non fossero un “affare italiano”, ma

di pertinenza della Germania, della Polonia, di un imprecisato est europeo;

insomma una realtà lontana.

A tal proposito Spartaco Capogreco parla di “vuoto di memoria”:

Parlando dei campi fascisti, una questione appare ineludibile: quella del “vuoto

di memoria” che ha accompagnato quei fatti per così lungo tempo nel

dopoguerra: gli italiani “brava gente” si sono adagiati per anni nella

presunzione che i campi di concentramento li riguardassero solo in quanto

vittime, e non anche nel ruolo attivo di deportatori e costruttori di lager,

cosicché quella realtà è rimasta sostanzialmente estranea alla memoria pubblica

nazionale del dopoguerra.21

E prosegue:

Diversamente che in Germania, dove la riflessione e l’elaborazione sulle

responsabilità del nazismo hanno interessato profondamente larghi settori della

società, in Italia i conti col passato sono stati fatti in misura molto trascurabile,

Peraltro, l’eccessiva insistenza sul radicamento sociale della Resistenza – come

sottolinea Anna Bravo – «ha finito per avvalorare l’idea di un popolo

unanimemente antinazista e perciò riabilitato in massa. Un popolo nella

sostanza incolpevole, quando non vittima».22

21 S. Capogreco, Aspetti e peculiarità del sistema concentrazionario fascista, in Lager,

totalitarismo, modernità, Milano, Bruno Mondadori 2002, p. 233. 22 Ibidem.

15

Sono diverse e molteplici le cause di una rimozione tanto forte, ma

un’iniziale problematicità nel raccontare era sicuramente data

dall’indisponibilità del mondo del dopoguerra a far propria un’esperienza

così in contrasto con il tentativo di riprendere una parvenza di “vita

normale”, in cui non fosse lo spettro della guerra a farla da protagonista. A

questo si aggiungeva anche il fattore della dimensione sociale della

deportazione, che in Italia non è un fatto di massa come nell’est, qualcosa

con cui ogni individuo e ogni famiglia ha un rapporto di qualche natura.

Una questione, questa, che non può tuttavia essere considerata come

determinante, in quanto resta il fatto che ben 45000 furono i prigionieri

italiani e 40000 non ritornarono, e oltretutto non bisogna dimenticare che

l’Italia stessa ospitò sul suo suolo campi di concentramento e di transito in

cui venne anche messo in atto lo sterminio.

Il nodo cruciale sta quindi in ciò che avvenne nell’immediato dopoguerra.

Nessuno parve particolarmente interessato a rendere esplicite tutte le

esperienze e le sfaccettature che in un certo senso travalicavano la guerra

ma che avevano comunque coinvolto un numero impressionante di esseri

umani e migliaia di italiani. L’antifascismo vincente aveva come principale

riferimento la lotta armata e stentava ad accogliere su un piano di parità i

deportati politici, mentre la classe politica, proiettata verso la pacificazione,

era più attenta al peso numerico e istituzionale della Resistenza. Dal canto

suo, l’opinione comune aveva in mente ciò che la guerra aveva comportato

nel proprio quotidiano e si mostrava più ansiosa di fornire solidarietà ai

pochi ebrei sopravvissuti che affrontare il peso dei tanti, deportati per

ragioni razziali o politiche, spariti nei campi tedeschi. Un peso minore

ebbero i fattori internazionali legati alla rapida stabilizzazione dei “blocchi”

e allo sforzo dell’Italia di costruirsi un’immagine il più possibile slegata dal

nazismo.

16

Anche la letteratura e la storiografia hanno avuto un ruolo particolare,

dimostrandosi – per dirla con Cavaglion – «singolarmente pigre»,23

lasciando che per lungo tempo vi si sostituisse la memorialistica composta

da diari, autobiografie, corrispondenze private, manoscritti rimasti inediti

ma trasmessi agli eredi, interviste registrate, memorie rilasciate a fini

processuali. Infatti è solo con gli anni ’60 che sembra rompersi la cortina di

riserbo e forse anche di rimozione che circondava la questione della

deportazione.24

23 www.como.istruzione.lombardia.it 24 Vd. ad esempio V. Morelli, I deportati italiani nei campi di sterminio 1943-1945, Milano,

Scuola grafica pavese 1965.

17

Capitolo 2

STORIOGRAFIA, MEMORIA E CRITICA LETTERARIA

DELLA RESISTENZA

2.1 1946-2008: Le fasi della produzione resistenziale

Si è ormai soliti distinguere gli oltre cinquant’anni di storia bibliografica

della Resistenza in diverse fasi o periodi.25 Questa abitudine lascia

trasparire la convinzione diffusa, anche se sottaciuta, che la ricostruzione

storica del periodo resistenziale sia soggetta a sollecitazioni politiche e

ideologiche prima ancora che storiografiche. Questo elemento deve essere

considerato non come un limite, in quanto il confronto politico e ideologico

sotteso agli studi sulla Resistenza ha sospinto, motivato e valorizzato più

che frenato le ricerche . Un interesse che si è tenuto sempre molto alto e ciò

è dimostrato dall’elevata – quantitativamente parlando – produzione

storiografica.

La prima fase, che va dal 1943 al 1955, può essere definita come quella

della costruzione della memoria collettiva, tra la sorpresa e la

straordinarietà dell’evento e la nostalgia per un’esperienza così intensa e

coinvolgente quale è stata per molti giovani ventenni quella della

partecipazione, anche avventurosa, al movimento. È però una costruzione

contrastata, conflittuale, tesa più a inserire la Resistenza come discrimine

nel dibattito e nel confronto politico che stanno dando configurazione alla

“nuova” democrazia italiana e all’Italia “nata dalla Resistenza”, che a

definirne contorni e caratteri storici. Si spiegano così le oscillazioni tra

memoria individuale, rivendicazione psicologica e riflessione politica delle

25 A. Ballone, Bibliografia della Resistenza, in Dizionario della Resistenza, a cura di Enzo

Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi, Torino, Einaudi 2001, pp. 719-734.

18

numerose pubblicazioni di dirigenti politici e di “semplici” partigiani che

caratterizzano questo decennio.

È una fase ricca e intensa soprattutto di “memorie” e di raccolte

documentarie, non sempre fedeli e attendibili, ma comunque utili a

ricostruire un clima se non una vicenda. Ma sono anche numerose le

monografie locali, i diari, le lettere e vi sono le prime riflessioni con intenti

più propriamente storiografici, come gli scritti di Longo, Valiani e

Cadorna,26 tutti e tre alti dirigenti politici della Resistenza ma di ascendenze

politiche diverse (comunista il primo, azionista il secondo, moderato il

terzo). In questi testi si ritrova una rappresentazione più distaccata,

l’interpretazione politica della vicenda storica e dunque l’esplicitazione di

differenziate tendenze che si profilano nella storiografia resistenziale, pur

senza rinnegare la dimensione soggettiva, individuale, talora esistenziale

dell’esperienza partigiana.

In questo stesso periodo si colloca la nascita del progetto di Ferruccio

Parri di creazione dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di

Liberazione in Italia (Insmli), affiancato dalla rivista Il Movimento di

Liberazione in Italia che andrà pubblicando una documentazione sempre

più ricca e puntuale e da una collana di studi storici. L’obbiettivo di Parri,

ma anche di tutti i più attenti uomini della Resistenza, è quello di sottrarre

la memoria e la vicenda stessa all’oblio, alla rimozione collettiva e alla

sottovalutazione politica. Ci si trova però di fronte ad un “clima” politico

diverso che vede prevalere il distanziamento istituzionale dall’esperienza di

consenso e partecipazione al movimento partigiano e che porta quindi

all’asprezza del confronto politico e ideologico che coinvolge non solo il

giudizio sulla Resistenza, ma anche quello sull’operato dei singoli

partigiani, tanto da legittimare la convinzione che studi, ricerche e

26 L. Longo, Un popolo alla macchia, Milano, Editori Riuniti 1947; L. Valiani, Tutte le strade

conducono a Roma. Diario di un uomo nella guerra di un popolo, Firenze, La Nuova Italia 1947;

R. Cadorna, La riscossa. Dal 25 luglio alla liberazione, Milano, Rizzoli 1948.

19

testimonianze possano in quegli anni mirare soprattutto a un riconoscimento

stesso della Resistenza.

Anche per contrastare questo ridimensionamento della “portata storica”

dell’evento si organizzano i primi importanti convegni di studio e

soprattutto si pubblicano le prime ricostruzioni storiche complessive che

hanno il merito di accentuare l’approccio più propriamente “scientifico”.

Una seconda fase può essere collocata tra il 1956 e il 1964, cioè tra i primi

segnali di crisi del momento “caldo” della “guerra fredda” e l’inizio della

“svolta” degli anni sessanta. Cinque sono gli aspetti più interessanti della

bibliografia sul tema resistenziale di questo decennio: il primo è di ordine

quantitativo in quanto gli studi si moltiplicano e “per spinta dal basso”,

prevalentemente cioè a opera di studiosi non accademici e neppure

professionisti. Accanto a questi studiosi si affaccia però anche una

generazione di storici nuova, formatasi all’università e in quelle facoltà

dove è significativa l’azione di studiosi che dopo brillanti carriere

accademiche, per lo più di storia moderna e risorgimentale, rivolgono la

loro attenzione a temi di storia italiana più recenti (come ad esempio Piero

Pieri, Leo Valiani e Guido Quazza).

Significativa comincia ad essere anche la presenza di studiosi e di studi

stranieri grazie ai quali i rapporti tra la Resistenza italiana e gli alleati

diventa un tema di approfondimento.

D’altra parte con i primi anni sessanta prendono avvio anche studi

sull’occupazione nazista stimolati dalla Terza conferenza di storia della

Resistenza in Europa, tenutasi a Karlovy Vary il 2-4 ottobre 1963 con il

titolo L’occupazione nazista in Europa.

Con questi studi e questi studiosi si spostano gli accenti e gli approcci alla

tematica antifascista e resistenziale: intanto nella direzione di un

inserimento della Resistenza nell’alveo della ventennale tradizione

antifascista e poi nell’accentuazione dell’interesse per le questioni più

propriamente sociali, rispetto a quelle militari e politico-istituzionali.

20

Un ulteriore aspetto innovativo è rappresentato dalla crescita esponenziale

di lavori di storia locale e dalla memorialistica legata a esperienze

circoscritte (da ricordare B. Ceva, Tempo dei vivi 1943-1945, Milano,

Ceschina 1954). I lavori di storia locale, che si avvalgono anche di

testimonianze orali, di documentazione inedita e dispersa, di fonti diverse,

sono veramente molti. Tanto da motivare alcune prime, importanti

riflessioni sulla metodologia, globale e analitica, della ricerca e

ricostruzione storica.

Ultimo aspetto, ma non meno rilevante, è l’avvio degli studi sulla

deportazione, a cominciare dalla traduzione del volume di L. Poliakov e J.

Sabille Gli ebrei sotto l’occupazione italiana (Milano, Comunità 1956), e

più in generale sul razzismo fascista e sulla vicenda ebraica in Italia. È però

soprattutto dalla comunità ebraica, anche attraverso la rivista «La rassegna

mensile di Israel», che viene approfondito questo filone di ricerca,

sollecitato anche dalle polemiche accesissime attorno al «dramma teatrale

in cinque atti» di Rolf Hochhuth Il Vicario (tradotto da Feltrinelli nel 1964).

Come già detto, la svolta si avrà con il libro di V. Morelli I deportati

italiani nei campi di sterminio 1943-1945.

Questo decennio vede inoltre la crescente attenzione al cosiddetto “mondo

cattolico”. Numerosi saranno gli studi sulla partecipazione dei cattolici alla

Resistenza contro il fascismo e il nazismo e sul contributo del clero e delle

gerarchie ecclesiastiche. Elementi tutti questi che indicano un processo di

legittimazione della Resistenza e dell’antifascismo e anzi, a giudizio di

rigorosi critici, persino di istituzionalizzazione e di ufficializzazione, un

processo che i fatti del luglio 1960, la “distensione” tra le “superpotenze” e

il dinamismo della società italiana hanno contribuito in misura determinante

ad avviare e consolidare.

D’altra parte l’introduzione, nel 1957, dell’educazione civica tra le materie

di insegnamento nella scuola italiana, coniugandosi con le conseguenze

delle trasformazioni sociali e con la consapevolezza circa l’affacciarsi di

21

una nuova generazione “post-resistenziale”, solleciterà l’impegno di case

editrici e autori, più che al rinnovamento dei manuali scolastici, alla

pubblicazione di sintesi, testi narrativi e antologie destinate all’uso

didattico.

Con la metà degli anni sessanta comincia una fase, definibile come di

transizione, che va circa fino al 1972. Si può dire che il periodo abbia

inizio, dal punto di vista delle ricerche storiche, con due opere che, pur con

i loro limiti e difetti, rappresentano i due estremi entro i quali si collocherà

il dibattito successivo: il riferimento è all’ampia sintesi divulgativa, dovuta

a due autori, già partigiani e dirigenti politici, da tempo impegnati sul

versante della ricostruzione scientifica e della raccolta documentaria, Pietro

Secchia e Filippo Frassati (Storia della Resistenza. La guerra di

Liberazione in Italia. 1943-1945, Roma, Editori Riuniti 1965), e sul

versante opposto e ideologico, la Storia della guerra civile in Italia, (3

voll., Milano, Mursia 1965-66) di Giorgio Pisanò, monumentale opera nata

per contrastare il più efficacemente possibile il punto di vista di sinistra sul

biennio di fine guerra. L’esito del confronto propenderà in favore della

prima interpretazione.

In questa breve fase si assiste sin dall’inizio ad un massiccio e

determinante contributo di Secchia che darà l’avvio ad un dibattito con altri

due dirigenti comunisti, Giorgio Amendola e Luigi Longo. Ciò che questo

confronto metterà in rilievo sarà il fatto che la ricostruzione storica della

Resistenza costituisca un terreno di confronto, talora aspro e inconcludente,

all’interno dello stesso schieramento di sinistra, anche in conseguenza

dell’emergere di una generazione giovanile e soprattutto di una militanza

politica che non mira a rifiutare o a superare quell’esperienza, ma a

rileggerla secondo altri criteri e a riappropriarsene con altre, più radicali,

finalità. Da questa sensibilità, presto collettiva grazie alle vicende che

coinvolgono il mondo universitario e studentesco, nascono proposte,

progetti, ricerche, ambizioni di revisioni e di reinterpretazione della vicenda

22

resistenziale, revisioni che hanno come comune denominatore la

constatazione che lo spunto esclusivamente politico, ideologico e patriottico

e l’evoluzione dell’antifascismo nel ventennio non siano sufficienti a

spiegare natura, ragioni ed esiti della Resistenza italiana, e che sia

necessario un esame individualizzato e specifico per i diversi soggetti del

“fronte antifascista”. Anni fecondi, questi, che segnano un passaggio

definitivo al prevalere di un approccio storico e storiografico, con un

gruppo di opere talvolta anche spigolose e rigide, ma capaci di sollecitare

ripensamenti e riproblematizzazioni.

Importante diventa sempre più a partire da questi anni l’attività di

promozione, di aggregazione, di raccolta documentaria, di sollecitazione

teorica degli Istituti storici della Resistenza, sotto i cui auspici nascono

contributi rilevanti.

L’intenso, breve periodo si conclude con l’acquisita convinzione che sia

ormai necessario uscire, dopo un trentennio, dalla mera descrizione dei

tratti caratteristici della Resistenza come “fatto in sé” e vedere i risultati

positivi e i limiti del suo “passaggio” nella storia italiana e internazionale.

Nel 1972 Guido Quazza di fatto prende la direzione dell’Istituto nazionale

per la storia del Movimento di Liberazione in Italia e avvia un “piano di

lavoro” per la rete degli Istituti che darà i suoi frutti nei quasi vent’anni

successivi, al termine dei quali la vitalità del “paradigma antifascista”

comincerà a mostrare limiti e insufficienze e lo stesso tema della Resistenza

verrà letto con crescente distacco dalle giovani generazioni, oramai “figlie”

di padri che si sono avvicinati all’argomento attraverso il Sessantotto e la

“contestazione studentesca”.

Importante è ciò che avvenne in quegli anni anche in base alle polemiche

che li attraversarono. La Resistenza cessò di essere considerata un evento a

sé, inquadrabile, ben definito e pigramente accettato, e si fece anzi un

“problema” storico, politico, culturale da inserire in un “contesto” di

vicende e in una dinamica di eventi, alcuni dei quali di portata assai più

23

vasta, come è appunto il caso dei diversi fronti della seconda guerra

mondiale.

Sono anni, questi, in cui si dispiega un’intensa attività da parte degli

Istituti storici della Resistenza e in cui si fanno sempre più massicce le

monografie locali, che spaziano su tutti gli aspetti della storia sociale,

culturale, politica e istituzionale del decennio 1938-48 e le opere di

memorialistica, ad esempio Dalla clandestinità alla lotta armata a cura di

Aldo. Agosti e Giulio Sapelli (Torino, Musolini 1977), che contiene il

diario di Luigi Capriolo.

Nel complesso è tutta la storia dal 1930 al 1950 circa che viene

attraversata da numerose ricerche monografiche. Pare utile qui sottolineare i

quattro aspetti che più d’altri hanno interessato da ultimo gli storici: la

questione della deportazione, la partecipazione dei cattolici e la soluzione

da essi offerta ai problemi della “nuova” Italia, l’occupazione tedesca e i

problemi derivati, infine il problema della resistenza all’estero, fuori dal

territorio italiano. Per quanto riguarda il primo aspetto, dopo un lungo

periodo di sottovalutazione della questione, gli studiosi han preso a prestare

sempre maggiore attenzione al tema della Shoah.27

L’ultima fase viene fatta iniziare con la seconda metà degli anni ’90, e più

propriamente nel 1994 per quel che riguarda il profilo politico e il dibattito

ideologico, ma che era stata anticipata, per ciò che riguarda studi e ricerche,

dal fortunato lavoro di Claudio Pavone,28 che già nel titolo sottolinea il

lungo e contrastato percorso di questo ambito storiografico nel momento in

cui recupera, con altro significato e con forte valenza politica, una

definizione di Resistenza invero condivisa nei primi anni del dopoguerra e

poi rifiutata dagli antifascisti in quanto percepita come nozione ambigua e

in qualche misura legittimante del nemico fascista: la nozione di «guerra

civile».

27 Vd. ad esempio il già citato La vita offesa, 1986. 28 C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati

Boringhieri 1991.

24

Per quanto concerne i futuri percorsi di ricerca, essi saranno

probabilmente indirizzati verso gli approfondimenti di storia locale e vita

quotidiana nella realtà drammatica della guerra; resistenza non armata e

antifascismo consapevole e infine puntualizzazione e definizione del

concetto di guerra civile.

2.2 Il “peso” della politica

Le riflessioni storiche sulla Resistenza e la stessa produzione di memorie,

nel corso di tutti questi anni sono spesso state utilizzate (più o meno

consciamente) dalla politica per favorire interpretazioni storiche piuttosto

che altre, per attribuirvi un proprio peso specifico e per consolidare simboli

presenti nell’immaginario collettivo.

Un aiuto in questa riflessione ci viene dato dalla relazione a cura di Anna

Favaro del convegno dal titolo I fondamenti dell’Italia Repubblicana:

mezzo secolo di dibattito sulla Resistenza, tenutosi il 28 e 29 gennaio 2000

a Vercelli con l’obiettivo di

affrontare il tema del rapporto tra politica militante e storiografia della

Resistenza, come una sequenza di “revisioni”, fino alle ultime e più

provocatorie, inquadrando storicamente le forme prese dalla discussione

nel cinquantennio repubblicano, evitando di subordinare questo esame ai

suoi esiti attuali, ma senza rifiutare il confronto con le ultime revisioni e

negazioni.29

La tesi di partenza era che parlare di Resistenza significa parlare dei

“fondamenti” dell’Italia repubblicana. Francesco Traniello vi sottolineava

come la Resistenza non possa essere interpretata esclusivamente come

fenomeno di rottura, soprattutto in considerazione degli elementi di

continuità dello Stato che attraversarono indenni gli anni 1943-45. Tuttavia

è evidente che in passato siano state date rappresentazioni della Resistenza

29 http://www.storia900bivc.it

25

che avevano lo scopo di storicizzarla in modo da renderla fenomeno

simbolico e legittimante la Costituzione e la Repubblica e garantendo la

sopravvivenza dei partiti che più avevano avuto un peso in quel contesto

storico.

Gianfranco Petrillo, che si è occupato delle interpretazioni della

Resistenza da parte di esponenti del Partito comunista italiano dal 1945 al

1970 circa, ha individuato alcuni aspetti permeanti la storiografia di matrice

comunista: l’estrema semplificazione dei rapporti di forza tra gli attori in

campo, la sottovalutazione del fascismo, la pretesa continuità tra la lotta

antifascista e quella resistenziale, il ruolo epico del popolo nella guerra

patriottica, nel “nuovo Risorgimento” italiano.

Come hanno evidenziato sia Gianpasquale Santomassimo, sia Claudio

Dellavalle, negli anni sessanta e settanta ci fu una profonda revisione della

storiografia “di partito”: Battaglia individuò la non –continuità tra

antifascismo di partito e spontaneità, infatti la partecipazione fu espressione

del concetto privato di patria posseduto dalle masse, e almeno inizialmente

non si articolò sulle direttive dei partiti. Concetto invece da altri rivalutato a

favore della riaffermazione di un legame tra antifascismo e Resistenza.

Anche il Sessantotto contribuì portando nuova linfa al dibattito:

nonostante il passato e la storia fossero sostanzialmente estranei alla

contestazione, proiettata nel futuro, l’aspetto della partecipazione popolare

e spontanea alla lotta resistenziale fu riabilitata dal dibattito di quegli anni.

Come ha sottolineato Mimmo Franzinelli, questa fase storica ebbe il merito

di dare avvio all’importante periodo di ricerca sulle fonti orali e

politicamente si assistette a duna visione della lotta di resistenza

essenzialmente come lotta operaia, e quest’interpretazione parziale

contribuì a un’involuzione di una parte della storiografia, che in quegli anni

recuperò enfasi e retorica “su misura” per il Sessantotto: l’ideale della

Resistenza andò così a colmare il vuoto di ideali contestato.

26

Gianni Perona ha affermato che, in cinquant’anni di revisioni, i partiti

hanno pesato a volte più delle fonti stesse, in forma di sottomissione

spontanea degli storici ai partiti: se è vero che il senso comune della storia e

della memoria si accompagna all’antifascismo e si nutre dei suoi valori, è

purtroppo vero anche che a volte etichette ed abitudini mentali si sono

sovrapposte alle fonti primarie: è indiscutibile comunque che furono i

partiti a parlare di Resistenza per primi, con le evidenti conseguenze di

deformazione dovuta all’impronta ideologica.

L'affrancamento della storiografia dalle forzature di partito, che ha sostenuto

l'ampliamento dello studio di aspetti emblematici della guerra civile e il crollo dei

miti sull'antifascismo, ha dato adito a nuovi sviluppi storiografici: la disponibilità

ad occuparsi anche di aspetti controversi, come la complessità dei rapporti dei

partigiani con la popolazione (spesso deteriorati a causa di violenze e requisizioni

forzate, oltre che le rappresaglie antipartigiane subite), o il carattere di spontaneità

e non politicizzazione delle bande partigiane, o ancora l'effettiva consistenza di

queste ultime, dimostra che la storiografia si è orientata negli anni novanta verso

la direzione da tempo auspicata.

Sorge spontaneo il confronto tra la storiografia prodotta in ambienti di sinistra e la

storiografia neofascista. Come esposto da Francesco Germinario, un primo

elemento che risalta è la narratività di quest'ultima, la semplicità delle forme e dei

contenuti.

E se quest'approccio è più memorialistico che storiografico, è certamente

auspicabile un moderato rinnovamento del metodo di scrittura nel senso di una

maggior fiducia nell'autonomia del racconto storico, collocato all'interno di una

storiografia aperta e in trasformazione che nasce dal confronto, dallo sforzo non di

produrre la certezza, ma di ricostruire la fluidità dei fenomeni, per capire come si

sono manifestati, cosa hanno manifestano.

Raccontare la memoria della percezione della Resistenza è la chiave per

comprenderne le cause, i motivi di quella partecipazione, di quelle scelte e del

valore simbolico della Carta costituzionale, i cui princìpi furono dettati dalle forze

che durante la Resistenza avevano combattuto insieme, e che di lì a poco si

sarebbero frammentate e in alcuni casi dissolte.

27

Capitolo 3

DALLA RESISTENZA IN PIEMONTE AI GAP: APPUNTI DI

STORIA

3.1 I caratteri della Resistenza in Piemonte

Prima di addentrarci nell’analisi di un testo di memorie che si rifanno in

gran parte all’esperienza partigiana torinese, è necessario aver ben presente

il contesto storico in cui esso ci proietta.

Mario Giovana ritiene che i profili salienti della resistenza armata e

clandestina nella regione possano essere individuati in quattro ordini di

grandezza.30 Il primo è sicuramente l’immediatezza con cui, al domani

dell’armistizio dell’8 settembre 1943 e del crollo delle Forze armate regie,

ebbe avvio l’organizzazione partigiana. Il secondo connotato che emerge

risiede nella diffusione che essa assunse rapidamente, sviluppandosi

soprattutto nella primavera del ’44 in una fitta trama di bande in crescita

numerica che riuscirono a estendersi capillarmente in tutto il territorio,

stendendovi una rete di forze combattenti pressoché senza soluzione di

continuità. Ed è in questo quadro che si inserisce il terzo elemento di rilievo

che consiste nell’impiego di tutti i moduli di lotta armata e clandestina in

ogni condizione ambientale. La lotta partigiana si attuò in montagna, in

pianura, nelle zone collinari e negli ambienti urbani. Il quarto fattore sta

nell’elevato tasso di protagonisti, il più alto in assoluto nel centro-nord, che

coinvolgeva uomini e donne di diversa estrazione sociale e sensibilità

politica.

Ciò che concorse ad attuare un tempestivo e piuttosto ordinato sviluppo

della Resistenza in Piemonte fu sicuramente la costituzione a Torino del

30 In Dizionario della Resistenza, cit., pp. 500-518

28

Cln, il Comitato di Liberazione Nazionale, costituitosi con l’accordo di tutte

le correnti politiche antifasciste. A partire dal 1943 esso assunse pratiche

funzioni di organo di direzione regionale del movimento avvalendosi della

collaborazione di un nucleo di ufficiali effettivi. Il Cln regione Piemonte

(Clnrp) si dotò di un comitato finanziario, di un corpo di ispettori e, a

partire dal maggio del ’44, di un proprio organo di stampa, «La Riscossa

italiana». Il marzo ’44 vide la cattura della maggioranza dei suoi

componenti e la condanna a morte per otto di loro. In giugno venne quindi

ricostituito un organo di direzione militare regionale, il Cmrp, Comando

militare regionale piemontese, composto da comandanti regionali delle

formazioni differenziate.

L’azione delle bande armate partigiane vide l’alternarsi di diverse fasi,

dall’estate del ’44 – che corrisponde al periodo di massima espansione della

resistenza e alla creazione delle “zone libere” – al difficile autunno-inverno

che seguì, con l’arrestarsi delle spinte alleate verso il nord Italia e la

rinnovata serie di cicli di rastrellamenti su tutto l’arco della regione. Con

difficoltà nel complesso l’impalcatura partigiana resse, ma si scontarono

perdite elevate.

Ai primi avvisi della ripresa offensiva alleata sui fronti e con la fine

dell’inverno, il fronte partigiano ripartì all’attacco accelerando la

dissoluzione dell’apparato fascista e incalzando i tedeschi.

Allo scadere del marzo ’45 tutte le misure per la fase insurrezionale erano

pronte e da qui gli eventi si susseguirono in maniera incalzante. La svolta fu

segnata dallo sciopero del 18 aprile indetto a Torino dalle cellule sindacali

clandestine e dal Cln. Di fronte all’imponenza della dimostrazione i fascisti

registrarono un completo crollo dei loro apparati. Nei giorni successivi le

squadre di fabbrica delle Sap occuparono gli stabilimenti e iniziò l’assalto

alle cellule residuali fasciste. I tedeschi nel ritirarsi dovettero sfilare ai

margini della città, non senza compiere un massacro di sessanta civili e

volontari a Grugliasco.

29

Il 26 aprile, il Clnrp redasse il manifesto che annunciava l’assunzione dei

poteri e recava le firme di suoi componenti appartenenti alle diverse sigle:

Pli, Dc, Pda, Psiup, Pci. Il primo maggio una ristretta avanguardia alleata

entrò in Torino già presidiata dai partigiani.

Alla liberazione, lo schieramento partigiano piemontese comprendeva

cinquanta divisioni, nove brigate “indi visionate” (una Autonoma, sei di Gl,

due di Rinnovamento), i nuclei dei Gap e delle Sap delle diverse

formazioni. La struttura di questo organico presentava: dodici divisioni

Autonome, sedici Garibaldi, dodici di Gl, sette Matteotti, tre Rinnovamento

nel Cuneese, di orientamento democratico-repubblicano.

In totale in Piemonte sono stati riconosciuti dalle apposite commissioni

43685 partigiani.

3.2 Torino

Un approfondimento a parte merita la città di Torino.31

La cronaca e la storia dei venti mesi dal ’43 al ’45 ruotano principalmente

attorno al clima di rivolta della città operaia, al vuoto di consenso che

l’opinione pubblica creava alla parvenza di autorità del regime della Rsi,

alla paura che incutevano i tedeschi senza tuttavia riuscire a frenare una

diffusa omertà e collaborazione con la ramificata organizzazione della

Resistenza e, comunque, con le manifestazioni della sotterranea reazione al

binomio fascisti-nazisti.

Mario Giovana ha tentato di delinearne la situazione sociopolitica. Sin dal

ventennio della dittatura in città si respirava un clima di freddezza verso il

regime, un distacco dalle manifestazioni più rumorose del fascismo, e un

persistere nelle masse lavoratrici di atteggiamenti di non curanza, quando

non di ostilità nei suoi confronti.

31 Ivi, pp. 511-518.

30

Nel giugno del ’40, in cui si colloca la dichiarazione di guerra alla Francia,

gli organi di controllo fascisti registravano profonde contrarietà

dell’opinione pubblica all’avventura militare, crescenti malumori per le

difficoltà degli approvvigionamenti, l’accentuarsi di indizi di generale

distacco dal regime, accanto all’affiorare dei primi germogli di

un’opposizione politica non limitata alle attività clandestine comuniste.

A metà del ’42 si assistette ad un acutizzarsi del malcontento dovuto

principalmente alle sempre più pesanti condizioni di vita in cui versava la

popolazione. Tra la fine dell’agosto e il settembre si verificarono episodi di

blocco della produzione in alcune fabbriche; proteste che vennero ripetute

nel gennaio e febbraio del ’43. Il primo marzo ebbero inizio i blocchi delle

produzioni alla Fiat Mirafiori, estesisi poi ad altri grandi complessi cittadini

e del resto della regione. A ciò si affiancano gli scioperi spontanei, con

rivendicazioni salariali e di approvvigionamenti alimentari, in cui riuscì ad

inserirsi l’iniziativa comunista per caricare le proteste di significato

politico, propagandando la parola d’ordine della pace accanto a quelle delle

rivendicazioni economiche. Nemmeno la dura repressione fascista riuscì a

placare gli animi.

Il colpo di stato del 25 luglio ’43 sopravvenne in quest’atmosfera

surriscaldata: gli operai scioperarono per tre giorni, folle di cittadini si

riversarono nelle piazze inneggiando alla caduta del regime, cinquecento

detenuti politici furono liberati a forza dalle carceri cittadine e la Casa del

Fascio venne assalita e saccheggiata. In quegli stessi giorni si costituì il

comitato dei partiti antifascisti (Pci, Psiup, Gl-Pda, Dc, Pli), sotto la

denominazione di Fronte nazionale.

L’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre precedette di poco l’arrivo in

città di una modesta avanguardia tedesca, che prese possesso dei punti-

chiave urbani e ricevette la resa incruenta dell’apparato militare.

Da qui fino all’inizio primavera del ’44 la realtà resistenziale torinese fu

contraddistinta dall’azione incalzante e spettacolare dei Gruppi d’azione

31

patriottica (Gap) comunisti, comandati dapprima da Ateo Garemi e poi da

Giovanni Pesce, detto “comandante Visone”, a cui succedette Walter

Nerozzi. I Gap ripetevano un’esperienza mutuata dalla Resistenza francese

e “importata” dai militari comunisti italiani che vi avevano partecipato: essi

attuarono una serie di sabotaggi e di attentati che costrinsero il nemico a

sentirsi assediato e a barricarsi nelle proprie sedi. Essi però dovettero anche

subire una dura repressione che li portarono a sostenere ingenti perdite e

nella primavera del ’44 si ritrovarono praticamente in crisi e costretti a

ridurre drasticamente le proprie incursioni.

Le agitazioni operaie furono uno degli aspetti preminenti della resistenza

torinese. Le officine della Fiat rimanevano l’epicentro delle contestazioni di

massa, ed è proprio qui che nel novembre-dicembre ’44 presero corpo

imponenti scioperi che si estesero alle altre maggiori fabbriche cittadine e

della provincia, anche se con meno successo. Questi furono a carattere

fortemente autonomo e spontaneo: il legame con il Pci, seppur persistente,

era piuttosto labile e il Cln era attraversato da numerose contraddizioni

rispetto ai problemi delle rivendicazioni operaie.

In realtà , la situazione del movimento dei lavoratori e delle sue agitazioni

si svolgeva tra complesse manovre in cui fascisti, tedeschi e industriali

perseguivano ciascuno obiettivi propri, e l’attivismo comunista spingeva a

posizioni di scontro frontale e di endemica rivolta tese a forzare una massa

operaia stretta dalle immediate esigenze di ottenere miglioramenti salariali,

ottenere soccorsi in viveri e generi di prima necessità. Questo “estremismo”

dalla Federazione del Pci torinese verrà condannato dalla direzione del

partito. Ne derivano incertezze e pause di riflessione nella massa dei

lavoratori dinanzi alle parole d’ordine di sollecitazione a incessanti azioni

di lotta; né la conduzione dell’azione sindacale da parte dei dirigenti

comunisti pareva adeguata alle difficoltà obiettive in cui essi si dibattevano

quando il nemico offriva piattaforme di trattativa salariale e avanzava

promesse di rifornimenti di beni indispensabili.

32

Da qui l’andamento non lineare delle agitazioni, che dal novembre al

dicembre ’43 e poi nel gennaio ’44 si produssero nelle fabbriche, segnando

in pratica sconfitte delle rivendicazioni operaie e disorientamenti nel

movimento. Tuttavia, il permanente atteggiamento di ostilità della massa

lavoratrice, il ripetersi delle agitazioni, l’evidente incapacità del sindacato

fascista di accreditarsi come interlocutore credibile e i limiti che

puntualmente rivelavano le concessioni dei tedeschi, accompagnate da

minacce e repressioni sempre più violente, facevano salire la temperatura

della protesta e indicavano un radicalizzarsi della situazione.

Le agitazioni scattarono in febbraio, e culminarono nel marzo ’44, con il

concomitante appoggio di forze partigiane esterne che prolungavano dalle

basi di montagna le loro azioni fino alla periferia della città. Se i risultati

sindacali della lotta non potevano dirsi soddisfacenti, l’esito politico della

manifestazione di forza del movimento dei lavoratori fu senza dubbio più

che significativo: il nemico toccava così con mano l’isolamento nel quale si

trovava e anche la sua relativa impotenza, malgrado la durezza delle

repressioni, di fronte a masse popolari che non si piegavano.

L’occupazione alleata di Roma nel giugno ’44 aprì nuove prospettive

all’azione della Resistenza intensificando la guerriglia partigiana ma

contemporaneamente affacciando il rischio che i tedeschi, in vista di una

ritirata generale verso i confini, decidessero di trasferire in Germania il più

possibile gli impianti industriali e intensificassero le deportazioni di

manodopera.

Il 12 giugno iniziò la mobilitazione a Mirafiori. Il 21, il commissario

prefettizio decretava la serrata a tempo indeterminato degli stabilimenti di

Mirafiori, con il risultato di estendere le agitazioni anche ad altri

stabilimenti, unendo rivendicazioni salariali e lotta contro i trasferimenti

degli impianti.

Dal 17 al 27 luglio le industrie torinesi erano in gran parte bloccate; il 22

gli aerei alleati colpivano con estrema precisione l’officina 17, sgombra di

33

maestranze per la serrata, tanto da far pensare che la stessa direzione della

Fiat avesse sollecitato l’incursione. Tedeschi e industriali capirono di essere

in netta difficoltà: furono accantonati sia i piani di smantellamento generale

dell’apparato industriale del paese, sia il progetto di deportazione degli

operai.

L’agitazione aveva quindi conseguito un risultato di fondo; e, del resto,

nelle fabbriche si lavorava ormai a smontare e a nascondere pezzi dei

macchinari più importanti, e si preparavano i nuclei della Squadre di azione

patriottica (Sap) destinati a difendere gli stabilimenti nella fase

insurrezionale. Il movimento, infatti, si poneva ora in un’ottica di

preparazione dello scontro conclusivo.

A partire dal febbraio ’45 furono accelerati tutti i preparativi in vista della

scadenza finale della lotta. Si insediò il Cln cittadino, destinato a diventare

Giunta popolare della liberazione, composto da esponenti delle diverse

forze presenti nel fronte antifascista.

Il 10 febbraio, raggiunta l’intesa unitaria sulle modalità per la liberazione

di Torino, fu emanato dal Comando militare regionale piemontese (Cmrp) il

piano di movimento delle forze partigiane foranee destinate a convergere

sul capoluogo.

Il 20 aprile il Cmrp avvertì i comandi partigiani che stavano per iniziare le

operazioni conclusive scandite in tre fasi, di cui la seconda, liberate le varie

zone, contemplava la liberazione di Torino, e la terza l’aiuto da fornire alle

operazioni alleate. Il 18 aprile, lo sciopero proclamato come prova generale

dell’insurrezione da attuare aveva paralizzato la città e dato il segnale del

completo isolamento della autorità della Rsi, le cui strutture erano di fatto in

piena dissoluzione. I fascisti avevano reagito con rabbia, con una dura

repressione nei confronti dei civili.

Accanto al comando regionale del Cln si insediava il comando piazza di

Torino, preposto ai cinque settori militari in cui era stata suddivisa la città e

del quale assumeva il comando un esponente delle formazioni Garibaldi,

34

Italo Nicoletto detto “Andreis”. In questo frangente si dispiegò anche la

manovra, intessuta dal comandante della missione alleata, tenente

colonnello John Stevens, paracadutato in Piemonte nell’inverno, con lo

scopo evidente di bloccare i movimenti verso Torino delle unità foranee, di

isolare le forze cittadine e quindi far fallire l’insurrezione, in attesa che le

avanguardie alleate precedessero nel capoluogo la marcia partigiana. Un

falso ordine di sospendere il movimento verso la città raggiunse le forze

della VII Zona dopo che il Cmrp aveva emanato, la sera del 24 aprile,

quello di eseguire il Piano insurrezionale.

I comandi partigiani, dopo breve esitazione, subodorando l’inganno non ne

tennero conto e l’avvicinamento alla città fu ripreso. Ma, nel frattempo, le

forze cittadine avevano iniziato l’insurrezione, le Sap presero possesso delle

fabbriche da difendere e i combattimenti si svilupparono nella cerchia

urbana.

Le truppe tedesche furono costrette al ritiro e sfilarono ai bordi di Torino.

Quando, il primo maggio, una esigua avanguardia alleata si affacciò alla

città, Torino era libera: funzionavano i principali servizi pubblici così come

gli impianti e gli stabilimenti produttivi erano stati salvati. In prefettura si

era insediato il socialista Piero Passoni, in questura l’azionista Giorgio

Agosti, a Palazzo civico il sindaco della città, il comunista Giovanni

Roveda.

Un quadro, questo, che ci permette di comprendere meglio il contesto in

cui si inseriva l’azione dei Gap, per poi procedere alla comprensione del

fondamentale ruolo che essi ebbero nell’incutere un sentore di isolamento

nel nemico e nel saper riaccendere gli entusiasmi della popolazione civile.

35

3.3 I Gruppi di Azione Patriottica (GAP)

Chi furono i gappisti?

Potremmo dire che furono “commandos”. Ma questo termine non è esatto. Essi

furono qualcosa di più e di diverso di semplici “commandos”. Furono gruppi di

patrioti che non diedero mai “tregua” al nemico: lo colpirono sempre, in ogni

circostanza, di giorno e di notte, nelle strade delle città e nel cuore dei suoi

fortilizi.

Con la loro azione i gappisti sconvolsero più e più volte l’organizzazione

nemica, giustiziando gli ufficiali nazisti e repubblichini e le spie, attaccando

convogli stradali, distruggendo interi parchi di locomotori, incendiando gli

aerei sui campi di aviazione. Ancora non sappiamo chi erano i gappisti.

Sono coloro che dopo l’8 settembre ruppero con l’attendismo e scesero nelle

strade a dare battaglia, iniziarono una lotta dura, spietata, senza tregua contro i

nazisti che ci avevano portato la guerra in casa e contro i fascisti che avevano

ceduto la patria all’invasore, per conservare qualche briciola di potere.32

È con queste parole piene di enfasi che Giovanni Pesce, il gappista che più

ha contribuito a lasciarci una testimonianza dell’attività svolta da questi

“commandos” metropolitani, tenta lui stesso di dare una definizione dei

Gap. Un aiuto a comprenderne meglio la natura ci viene dato da quanto

riportato dal Dizionario della Resistenza33 che spiega come essi fossero

nuclei partigiani creati per la guerriglia urbana, anche nelle sue forme

estreme, quali l’uccisione di esponenti della Rsi o di ufficiali tedeschi.

Un’importante questione storica, non ancora risolta, riguarda la data della

loro creazione. Secchia34 scrive che «nei Gap del Pci venivano arruolati

esclusivamente comunisti» e che l’istituzione dei Gap avvenne, su iniziativa

del Comando generale delle brigate Garibaldi, verso la fine del 1943.35

32 G. Pesce, Senza tregua, Milano, Feltrinelli 1967, pp. 7-8. 33 Voce GAP, in Dizionario della Resistenza, cit., pp. 209-212. 34Pietro Secchia (Occhieppo Superiore, 19 dicembre 1903 – Roma, 7 luglio 1973) è stato un

politico e antifascista italiano, importante dirigente del Partito Comunista. Liberato dai partigiani

nel 1943, partecipò alla Resistenza in qualità di commissario generale delle Brigate Garibaldi,

comuniste. Come Longo e altri partigiani comunisti, sosteneva una politica rivoluzionaria che

preparasse la prospettiva di un’insurrezione armata, ma aderì nell’immediato dopoguerra alla

cosiddetta svolta di Salerno di Palmiro Togliatti, che spingeva il PCI alla collaborazione con gli

altri partiti di massa e con le istituzioni. Togliatti nominò Secchia vicesegretario del PCI, carica

che mantenne dal 1948 al 1955. Nel 1946 fu deputato all’Assemblea Costituente mentre nel 1948

fu eletto senatore nelle file dei Fronte Democratico Popolare; rimase senatore fino alla morte. 35 Voce GAP, in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, Milano-Roma, Edizioni La

Pietra 1971, vol. II, pp. 475-79. Essa era diretta dallo stesso Secchia.

36

Secondo lo storico Ernesto Ragionieri il Pci ne aveva invece disposto la

creazione già con una circolare del maggio 1943.36

Questo problema di datazione è indice della scarsità – o meglio della quasi

totale inesistenza – di documenti e comunicati ufficiali che caratterizzino le

attività di queste formazioni. Elemento questo che non deve destare stupore

in quanto la natura stessa – cospirativa – dei Gap, imponeva il massimo

riserbo sulle azioni, sui componenti e sugli spostamenti; nessun particolare

doveva trapelare.

La struttura dei Gap è consequenziale agli scopi: rigidamente separato da

tutte le altre organizzazioni della Resistenza, ogni nucleo è collegato al

gradino superiore di comando esclusivamente attraverso il sistema dei

“recapiti”. Non può contare su più di quattro componenti, compresi

comandante e vicecomandante; tre Gap costituiscono un distaccamento

guidato da comandante e commissario (responsabile soprattutto del

controllo sulla vita privata e sul morale dei membri) entrambi tenuti a

partecipare alle azioni più rilevanti.

Nelle grandi città italiane, tra l’autunno del ’43 e la successiva primavera,

i Gap non superarono mai la cinquantina di appartenenti per zona, con

riduzione anche a poche unità per lunghi periodi dopo operazioni repressive

particolarmente efferate.

Molto discussa è stata la tipologia della loro azione sia durante il biennio

’43-’44, ma anche dopo, sia pure senza dissociazioni pubbliche da parte

degli organi rappresentanti il fronte antifascista di quel periodo. La

rappresentanza della Dc si opporrà per ragioni di principio (non a Genova);

quella liberale per considerazioni politiche. La scelta operativa dei

comunisti è presto condivisa anche da Gl, mentre l’approvazione socialista

–spesso con riserve – a Roma si concretizzerà nell’organizzazione di un

nucleo d’azione.

36 Cfr. E. Ragionieri, La terza Internazionale e il Partito comunista italiano. Saggi e discussioni,

Torino, Einaudi 1997, pp. 328-329.

37

Alla primavera del ’44 quasi tutti i combattenti che hanno costituito i Gap

sono caduti, uno dopo l’altro. Ad esempio per quanto riguarda Torino

possiamo ricordare: Dario Cagno, Ateo Garemi, Giuseppe Bravin, Dante Di

Nanni. Nonostante la gravità delle perdite subite, dovute a tradimenti o

confessioni estorte sotto tortura, nelle piccole e grandi città del Centro-nord

i Gap mantengono ed estendono la loro iniziativa.

Il loro sviluppo – con le Sap dall’estate ’44 – avviene in interazione con la

crescita della mobilitazione sociale, mentre l’autunno-inverno 1944-’45

segna il periodo della massima difficoltà per l’azione gappista. Un esempio

può essere dato dalla città di Milano. Qui dall’autunno ’43 i Gap sono

protagonisti della resistenza nascente. Forse per l’eccesso di sicurezza

derivante dall’esito del ciclo di operazioni intenso e cruento dei primi mesi,

un anello dell’organizzazione si rompe. La polizia segreta della Rsi penetra

fino al vertice. Il comandante Egisto Rubini, garibaldino di Spagna e

organizzatore dei Ftp francesi, arrestato e sottoposto a interrogatorio riesce

a impiccarsi in cella; Vittorio Bardini, commissario politico del comando, e

Cesare Bruno Roda, capo di stato maggiore, anch’essi combattenti della

Repubblica spagnola, sono catturati e deportati a Mauthausen. Altri gappisti

vengono arrestati o uccisi.

A fine maggio il comando generale garibaldino chiama da Torino a

Milano Giovanni Pesce perché ricostruisca la III brigata Gap. Egli riesce a

riorganizzare il gruppo e tra fine giugno e settembre la guerriglia urbana

riprende con ritmo incalzante (distruzione di locomotori e attrezzature fisse

alla stazione e deposito di Milano-Greco e di due aerei al campo militare di

Cinisello, imboscate ad automezzi sulle arterie che collegano Milano a

Torino e Varese, attacchi ai militari tedeschi o di Salò).

38

3.4 Biografia di Giovanni Pesce

Come già accennato, le testimonianze di Giovanni Pesce costituiscono una

delle principali fonti a cui attingere informazioni sull’attività dei Gap.

Le memorie della sua vita e della sua attività politica si possono

rintracciare in diversi libri,37 ma il fondamentale rimane sicuramente Senza

tregua,38 che costituisce il nucleo d’analisi di questo lavoro. Pubblicato per

la prima volta ne La clessidra nel marzo 1967, è poi arrivato alla settima

edizione nel marzo 2006. Ma è in Soldati senza uniforme39, scritto nel 1950,

che rintracciamo il fulcro di memorie che poi troveremo ampliato in Senza

tregua e su cui sarà necessario svolgere un confronto.

Prima di intraprendere un viaggio nel testo è necessario innanzi tutto

comprendere cos’è che ha permesso a Giovanni Pesce di diventare una sorta

di “eroe” della Resistenza e per farlo è doveroso volgere uno sguardo alle

esperienze di vita che più hanno contribuito a “forgiare il suo animo

gappista” , in primis la partecipazione alla guerra di Spagna.

Egli nacque il 22 febbraio 1918 a Visone (da qui il soprannome datogli a

Milano di “comandante Visone”), in provincia di Alessandria. Dopo pochi

anni la sua famiglia dovette emigrare in Francia alla ricerca di

un’occupazione e di una condizione migliore. Alla Grand’Combe, dopo

avere frequentato le scuole elementari, iniziò subito a lavorare per aiutare la

famiglia. A 14 anni scese in miniera, dove coltivò il suo desiderio di

indipendenza e il piacere di condividere la fatica con gli altri lavoratori.

Ben presto prese a frequentare la "Jeunesse communiste", l’organizzazione

giovanile del PCF, il Partito Comunista Francese. Nel 1935 aderì al Partito

Comunista d’Italia e, nel 1936, in febbraio, si recò in gita a Nîmes con gli

amici e, più tardi, per festeggiare la vittoria elettorale del Fronte Popolare, a

37 Vd. bibliografia. 38 G. Pesce, Senza tregua, Milano, Feltrinelli 1967. 39 G. Pesce, Soldati senza uniforme, Roma, Edizioni di Cultura Sociale 1950.

39

Parigi, ove visitò la sede del giornale del PCF, «L’Humanité», che da

giovane minatore comunista diffondeva ogni domenica alla Grand’Combe.

Qui raccolse i volantini a favore del governo repubblicano spagnolo firmati

ed illustrati da Joan Miró e ascoltò l’appello della Pasionaria, Dolores

Ibárruri, ad arruolarsi nelle Brigate Internazionali per prendere parte alla

guerra civile di Spagna. Egli si arruolò e si recò in Spagna insieme a

numerosi altri giovani antifascisti d’origine italiana. Infatti a partire

dall’ottobre del 1936 si vennero costituendo delle formazioni armate di

volontari a sostegno della Repubblica di Spagna, le "Brigate

Internazionali". Formate soprattutto da antifascisti provenienti dalle

Americhe e da tutt’Europa, giunsero a contare circa 40.000 uomini di ben

70 nazionalità diverse, con prevalenza di francesi, italiani e tedeschi,

animati non solo da spirito di solidarietà verso i repubblicani spagnoli, ma

anche dalla speranza di porre un freno all’espansione del fenomeno fascista

anche nei propri Paesi d’origine.

Pesce, tra i primi a giungere in Spagna, come gli altri volontari fu, una

volta arrivato sul posto, aggregato ai volontari italiani organizzati nella

"Brigata Garibaldi", costituita ad Albacete nel novembre del 1936, sebbene

fosse nel frattempo divenuto quasi di madre lingua francese.

Il suo primo impiego in battaglia si ebbe il 17 dicembre nei pressi di

Madrid, a Boadilla del Monte. Impegnato spesso in prima linea durante

tutta la durata dell’impiego delle Brigate Internazionali nel conflitto, rimase

più volte ferito in combattimento (riportandone lesioni anche serie e rose di

schegge mai rimosse dalle sue carni), prima a Brunete, quindi due volte

presso Saragozza e in occasione dell’offensiva sul fiume Ebro.

Sul finire del 1938 la Repubblica congedò le Brigate internazionali e di lì a

pochi mesi crollò. Il 1° aprile 1939 Franco annunciò la fine della guerra e

l’inizio di una dittatura di stampo fascista, il Franchismo, conclusasi di fatto

solo con la sua morte, il 20 novembre 1975.

40

Lasciata la Spagna e poi la Francia, Pesce rientrò in Italia nel 1940 ma fu

subito arrestato e inviato al confino sull’isola di Ventotene, ove conobbe

alcuni tra i massimi rappresentanti politici dell’antifascismo italiano.

Liberato nell’agosto del 1943, si unì alle prime formazioni partigiane e fu

tra i fondatori dei GAP di Torino. Qui svolse, con il nome di battaglia

"Ivaldi", numerose azioni di sabotaggio contro l’occupante nazifascista e

uccise diversi esponenti del regime fascista, spie e collaborazionisti, tra i

quali il maresciallo della Milizia e amico personale di Benito Mussolini

Aldo Mores, e il giornalista fascista Ather Capelli (31 marzo 1944). A

Torino, il 18 maggio 1944, avvenne anche la morte di Dante Di Nanni,

membro del GAP comandato da Pesce, subito dopo l’attentato contro la

stazione radio dell’Eiar che disturbava le trasmissioni di Radio Londra.

In seguito a questi ultimi avvenimenti, nel mese di maggio 1944 Pesce si

trasferì a Milano, dove riorganizzò la formazione locale. Qui operò con la

staffetta partigiana "Sandra", Nori Brambilla, che dopo la Liberazione, il 14

luglio 1945, divenne sua moglie.

Dopo la seconda guerra mondiale è stato consigliere comunale a Milano

nelle file del Partito Comunista Italiano, dal 1951 al 1964, e consigliere

nazionale dell’ANPI fin dalla fondazione. Nel 1991 entrò nel Partito della

Rifondazione Comunista, continuando sino alla fine la sua attività politica e

di testimonianza sulla Resistenza e i suoi valori, riconoscendosi nelle

posizioni dell’area Essere comunisti. Ha firmato con Claudio Grassi il

secondo documento congressuale all’ultima assise nazionale del PRC.

Per le sue attività nella Resistenza italiana, il 23 aprile 1947 è stato

insignito della Medaglia d’Oro al Valor Militare per decreto del Presidente

del Consiglio dei Ministri Alcide De Gasperi. Un’iniziativa per nominare

Giovanni Pesce Senatore a Vita ha raccolto 2450 firme fino al 26 luglio

2007, e continua a ricevere firme come omaggio postumo alla figura del

"Comandante Visone".

Giovanni Pesce è morto a Milano il 27 luglio 2007, all’età di 89 anni.

41

La miniera alla Grand’Combe, la partecipazione alla Guerra di Spagna, il

confino a Ventotene sono tutte esperienze che si riveleranno indelebili nella

sua memoria e che spesso si sovrapporranno ai ricordi della guerra di

liberazione che combatté in Piemonte e Lombardia.

42

Capitolo 4

SENZA TREGUA TRA STORIA, MEMORIA E

LETTERATURA

4.1 Due guerre, un solo nemico

Abbiamo già detto come Senza Tregua sia il libro di memorie di Giovanni

Pesce che racconta la sua esperienza come gappista prima in Piemonte e a

Torino e poi in Lombardia e a Milano. Esso si apre in data 9 settembre

1943, all’indomani dell’armistizio, giorno in cui Pesce si trova ad Acqui, in

provincia di Alessandria, e si chiude con il 25 aprile a Milano. Tra queste

due date si sviluppa un racconto primo, narrato al presente, che è costituito

dalla lotta partigiana che egli, insieme ai suoi compagni, compì nelle

metropoli, a cui si inframmezza un racconto secondo, narrato al passato,

costituito dalle memorie della guerra spagnola.

Perché questa scelta?

Bisogna innanzi tutto considerare cosa ha significato per molti italiani

antifascisti combattere quella guerra.

Luigi Ganapini ha provato a spiegarlo argomentando che la guerra civile

di Spagna fu il terreno di prova e il grande momento di diffusione

internazionale per l’antifascismo unitario prospettato dai Fronti popolari.40

Fu una guerra dai caratteri complessi, che coinvolse anche la

partecipazione internazionale. Le grandi potenze si erano formalmente

accordate su un patto di non intervento, ma l’Italia e la Germania inviarono

ugualmente truppe e materiale bellico a sostegno dei fascisti spagnoli,

facendo le prime prove della strategia terroristica che caratterizzerà pochi

40 L. Ganapini, Antifascismo, in Dizionario della Resistenza, a cura di Enzo Collotti, Renato Sandri

e Frediano Sessi, Torino, G. Einaudi 2001, pp. 15-16.

43

anni dopo la guerra mondiale. In soccorso alla repubblica spagnola

accorsero combattenti volontari da tutti i paesi, che costituirono le Brigate

Internazionali, per un totale di circa quarantamila uomini.

La guerra di Spagna fu un banco di prova decisivo: da una parte

dimostrava la determinazione feroce e la gratuità dell’intervento delle

potenze fasciste, dall’altra denunciava la totale incapacità delle potenze che

si dicevano democratiche di reagire con efficacia. Fu l’antifascismo

internazionale che tra gli uni e gli altri trovò la strada per opporsi con forza

e dignità alla violenza del totalitarismo nazista e fascista.

Per l’antifascismo internazionale e per quello italiano in particolare la

Spagna rappresentò dunque un momento decisivo di presa di coscienza

internazionalista, antifascista e antimperialista. Inoltre per l’antifascismo

italiano la guerra di Spagna fu la prima occasione di scontro armato contro

il fascismo.

E a proposito della pagine dedicate alla Spagna inserite nel suo libro è lo

stesso Pesce a dire:

Se è vero che in terra spagnola il fascismo fece la prova generale della

successiva aggressione all’Europa è altrettanto vero che in Spagna si

formarono, si temprarono i valorosi combattenti della Resistenza italiana ed

europea. Combatterono il fascismo in Spagna gli organizzatori e i comandanti

gappisti come Barontini, Garemo, Rubini, Bonciani, Leone, Bardini, Roda,

Spada ed altri. Ed è proprio in virtù degli antifascisti italiani delle Brigate

Internazionali che la Resistenza italiana poté contare, fin dall’inizio, su molti

uomini politicamente e militarmente preparati, pronti cioè ad affrontare con

mezzi di fortuna un nemico bene organizzato.41

Ed è proprio la struttura stessa del libro che permette a Giovanni Pesce

quest’alternarsi – e a volte quasi sovrapporsi- delle due memorie.

In esso sono presenti 14 capitoli all’interno dei quali vengono utilizzati –

non sempre- gli asterischi per gli stacchi temporali (spesso i flash-back) e/o

situazionali. 41 G. Pesce, Senza Tregua, , Milano, Feltrinelli 1967, p. 9.

44

Un vero e proprio impianto cinematografico, per cui il lettore viene

continuamente catapultato dall’una all’altra dimensione (guerra civile

spagnola-guerra di liberazione a Torino o Milano), vi si ritrova immerso, la

vive con il protagonista-narratore.

Ma come affiorano i ricordi della guerra combattuta in Spagna?

La risposta non è univoca. Spesso si tratta di un vero e proprio salto

improvviso nel tempo, come avviene in questa pagina in cui troviamo

inizialmente il racconto che fa Pesce della terza azione compiuta dai Gap

torinesi, la quale si conclude così:

Nel pomeriggio si riunirà il Comitato di liberazione piemontese per discuterne

e per fronteggiare le rappresaglie dei nazisti. Approverà o sconfesserà la mia

iniziativa? Saprà che un garibaldino, un gappista, ha giustiziato gli ufficiali

nazisti.42

A questo punto compare il segno dell’asterisco (altrove potrà non

esservi), e così riprende:

La battaglia di Guadalajara: verso la fine di dicembre giunse l’ordine di

partenza per il fronte di Mirabuena. Il Battaglione Garibaldi che al primo

scontro con i franchisti a Madrid, era arrivato il prima linea senza fucili, era

equipaggiato completamente. Partimmo un mattino presto, con buio fitto.43

Altrettanto spesso sono pensieri, sensazioni, che sopraggiungono

soprattutto nei momenti di solitudine, a farlo tornare indietro nei ricordi.

Frequenti sono i flash-back nei momenti in cui Pesce si rende conto della

solitudine a cui è costretto il gappista. Seppur diverse, sia quella combattuta

a Torino, sia quella combattuta in Spagna, sono entrambe guerre; guerre in

cui egli si trova comunque in prima linea, in cui fronteggia il medesimo

nemico. Far parte dei gap, combattere in città, in quel momento e con quelle

modalità, significa essenzialmente vivere la sensazione di lottare in

42 G. Pesce, Senza tregua, cit., p. 48. 43 Ibidem.

45

solitudine, il che rimanda – inevitabilmente – alla “moltitudine” dei

compagni di guerra in Spagna.

Quando Pesce non trova il coraggio di uccidere il maresciallo Aldo

Mores, spiega così la sua paura:

Ora so perché sono scappato dal negozio. Mi ha paralizzato l’impressione di

essere solo a combattere una guerra diversa, ho sentito la mancanza dei

compagni che corrono attorno a me all’assalto. Mi ha bloccato il silenzio al

posto del grido che esce insieme da cento petti. Non ci sono bandiere spiegate

in questa guerra, non c’è l’eroismo del bel gesto in faccia alla moltitudine degli

amici e dei nemici. Ma la guerra è la stessa.44

E ancora qualche pagina prima sempre in relazione al mancato omicidio:

È difficile definire quello che ci sta accadendo. Paura, rabbia, tensione si

mescolano ad un odio profondo verso un nemico che ci costringe a metodi di

lotta ben diversi da quelli a cui eravamo abituati. In Spagna ed in montagna il

nemico si affrontava in combattimento: faccia a faccia. 45

Ogni cosa pare portare alla memoria la guerra di Spagna: le ferite che

ancora fanno male, un treno che ricorda l’inizio dell’avventura della guerra

civile, il sentimento di paura, ma persino le macchie del soffitto che Pesce

spesso si trova a fissare nel suo nascondiglio, nelle interminabili ore – se

non giorni – di solitudine e isolamento.

È così che piano piano «quella grande [la macchia] diventa la Casa del

Campo»,46 dove poi si scoprì si nascondevano i fascisti, mentre «quell’altra

macchia, quella lunga e contorta che taglia in due il soffitto, può diventare

una strada; la strada di Jarama».47

I ricordi di Spagna avranno sempre un grande peso nel corso di tutta la sua

vita. Chiunque abbia conosciuto il “comandante Visone”, nota come nei 44 Ivi, p. 39. 45 Ivi, p. 35. 46 Ivi, p. 107. 47 Ivi, p. 108.

46

momenti in cui tornava indietro nel tempo con la memoria, egli

privilegiasse sempre i racconti che si rifacevano all’esperienza lì vissuta,

lasciando agli uditori la sensazione che il periodo gappista rimanesse quasi

in secondo piano.

Forse questo non è poi così strano. La Spagna rappresenta il primo

momento di contatto con la guerra, il combattere in prima persona,

un’esperienza tremendamente forte, in cui anche la morte diviene una

presenza drammaticamente vicina. Va poi ricordato che quando Pesce si è

affacciato a quell’esperienza aveva solamente diciotto anni; pertanto viverla

ha permeato completamente la sua visione della vita e inciso nella sua

crescita. Resta poi l’elemento di quelle schegge che gli rimasero conficcate

in corpo per tutta la vita, un dolore incessante che lo accompagnò fino alla

fine dei suoi giorni, quotidiano rammentatore dei giorni passati.

4.2 Io narrante/io testimone

Pesce narra praticamente sempre in prima persona (vedremo più avanti le

significative eccezioni). L’“io narratore” e l’“io testimone” sono

sovrapposti, un espediente questo spesso condiviso con la narrativa della

deportazione. Lui è il testimone diretto di quello che accade, partecipa agli

avvenimenti, vede con i suoi occhi.

La questione dell’uso dell’io è antichissima: già Tucidide lo poneva alla

base della trattazione sulla Guerra del Peloponneso:

Ho ritenuto mio dovere descrivere le azioni compiute in questa guerra non sulla

base di elementi d’informazione ricevuti dal primo che incontrassi per via; né

come paresse a me, con un’approssimazione arbitraria, ma analizzando con

infinita cura e precisione, naturalmente nei confini del possibile, ogni

particolare dei fatti cui avessi di persona assistito, o che altri mi avessero

riportato.48

48 Tucidide, La guerra del Peloponneso, tr. it. di Ezio Savino, Milano, Garzanti 1974, vol. I, p. 16.

47

E prima ancora sosteneva:

Gli argomenti invece e gli indizi da me addotti assicurano la possibilità di

interpretare i fatti storici, quali io stesso ho passato in rassegna, con una

certezza che non si discosta essenzialmente dal vero.49

Lo status di testimone diretto dei fatti costituisce quindi una sorta di

garanzia di veridicità per il lettore. Ciò che noi sappiamo sui Gap lo

sappiamo in ultima analisi grazie a Giovanni Pesce.

Egli ci narra con stile scarno, netto, con un ritmo sempre incalzante, le

continue azioni messe in atto dai Gap, la meticolosa preparazione che vi

stava dietro, e la tensione che li accompagnava costantemente, la “febbre

dell’azione”.

A ciò si aggiungono straordinari momenti di intima riflessione, pieni di

drammaticità, in cui Pesce riflette sul significato del proprio operato

quotidiano, sul senso di angoscia provocato dall’isolamento forzato, ma

soprattutto sulla paura. Una paura che ritroviamo come protagonista nel

secondo capitolo. Qui terrore, tensione, angoscia fanno da filo conduttore

alla narrazione, una sorta di Leitmotiv; sono sentimenti che pervadono

infiniti aspetti del vivere quotidiano, dell’agire politico e dell’atmosfera

delle due guerre. In poco più di dieci pagine questi termini appariranno ben

ventidue volte. Se riferiti alla guerra spagnola li ritroviamo nella paura dei

volontari in partenza, che si lasciavano per sempre alle spalle quella che era

stata fino a quel momento la loro vita, ma c’è anche il terrore sul volto del

nemico che, prima orgoglioso e prepotente, quando poi si trova di fronte

alla morte perde ogni controllo della propria persona, trasfigurandosi per la

paura e supplicando per la vita.

La paura è ancora più presente nella guerra che Pesce combatte a Torino.

L’intera città è permeata da questo sentimento: paura delle rappresaglie,

49 Ivi, p. 15.

48

timore che il proprio vicino sia una spia, terrore del plotone tedesco. Ma

anche “Visone” ha paura, molta. Una paura legata indissolubilmente al

senso di solitudine che si prova a sentire di essere soli nel combattere una

guerra, solo tu e il nemico. È un sentimento che fa perdere il controllo di se

stessi e che comincia appunto dal senso di abbandono e impotenza:

La paura mi ha tolto il controllo di me stesso, ma a gradi, non all’improvviso. È

cominciata da quel senso di solitudine e di impotenza. Mi sono sentito braccato

prima di cominciare e, quando ho deposto la bicicletta presso il negozio,

immaginavo già i repubblichini che mi inseguivano.50

E la paura, il terrore è proprio la strategia messa in atto dall’oppressore

nazi-fascista, uno dei suoi strumenti di guerra privilegiati, che i gappisti

sapranno fare loro e usare contro il nemico: «Risponderemo al terrore con il

terrore»51, «Colpire il terrore con il terrore».52

4.3 La morte di Dante di Nanni

Un’analisi a parte merita il capitolo sesto, dal titolo Morte e

trasfigurazione, dedicato alla morte di Dante Di Nanni, giovane gappista

torinese, percepito come un vero e proprio eroe della Resistenza dalla

memoria cittadina.

Innanzi tutto bisogna notare come queste pagine siano le uniche in cui si

parla in terza persona. Qui Giovanni Pesce non si pone più nell’ottica

dell’io testimone, bensì in quella del narratore onnisciente, in grado di

conoscere gli intimi pensieri del compagno Di Nanni e persino quelli della

madre di questi.

Il capitolo prende avvio dall’ordine ricevuto di far saltare la radio che

disturba le frequenze di Radio Londra. È un’operazione che “Ivaldi” (il

50 Ivi, p. 37. 51 Ivi, p. 32. 52 Ivi, p. 32.

49

nome di battaglia che Pesce aveva a Torino) fin da subito percepisce come

complessa in quanto presenta dei problemi per la ritirata dopo l’azione, ma

alla fine concluderà così: «Ci ritireremo risalendo lo Stura: se rischio di

essere scoperti c’è, perché saranno in allarme, è un rischio che dobbiamo

correre. D’altra parte non vedo altre vie d’uscita».53

Il capitolo è costellato da continue anticipazioni. In un punto del capitolo

Pesce narra l’avvicinamento all’obiettivo. Nel paragrafo successivo invece

ci troviamo già dopo il compimento dell’azione (che ci verrà poi narrata in

un successivo paragrafo) e “Ivaldi” è vicino al letto sporco del sangue delle

ferite di Dante Di Nanni.54 Da qui prendono avvio alcune pagine altamente

drammatiche in cui Di Nanni, in un dialogo con Pesce, vede avvicinarsi la

morte e capisce che non potrà vedere la fine della guerra. In lui si

susseguono sensazioni di paura, rabbia, sofferenza e orgoglio. Il loro

discorso riprenderà poi qualche pagina dopo assumendo la forma di un

dialogo intimo, amichevole, affettuoso, in cui emerge tutto l’eroismo dei

personaggi. L’intensità dello scambio di parole è molto forte e ne escono

fuori due eroi pieni di umanità, con le loro paure e insicurezze.

Le ultime parole di Di Nanni sono domande tese a dare un senso a quanto

compiuto fino a quel momento. Egli vuole quasi essere rassicurato sulla

grandezza del loro partito e sul fatto che per il dopoguerra esso punti sui

giovani. Domande che rispecchiano una forte incertezza per ciò che avverrà

quando tutto sarà finito.

Dal momento in cui Pesce se ne va dicendo che presto arriveranno i

soccorsi, prende avvio un vero e proprio racconto epico che ha come

protagonista Dante di Nanni. Egli è rimasto solo, ha voluto accanto al letto

due mitra, uno sten e il sacco degli esplosivi con le micce a strappo già

pronte e infilate nei detonatori. Sente arrivare i tedeschi che presto

aumentano di numero, fanno sgomberare l’edificio e lo circondano da ogni

53 Ivi, p. 113. 54 Ivi, p. 117.

50

lato. Le pagine che seguono vedono l’estrema supremazia di Di Nanni

rispetto al nemico, in una sorta di “uno contro tutti”. Egli riesce ad uccidere

un numero altissimo di soldati tedeschi (in Soldati senza uniforme Pesce li

quantifica in più di trenta)55 fino a quando non gli rimane più nessun’arma a

disposizione e decide di suicidarsi.

Così Pesce descrive il momento della morte del compagno:

Adesso non c'è più niente da fare: allora Di Nanni afferra le sbarre della

ringhiera e con uno sforzo disperato si leva in piedi aspettando la raffica. Gli

spari invece cessano sul tetto, nella strada, dalle finestre delle case, si vedono

apparire uno alla volta fascisti e tedeschi. Guardano il gappista che li aveva

decimati e messi in fuga. Incerti e sconcertati, guardano il ragazzo coperto di

sangue che li ha battuti. E non sparano.

È in quell'attimo che Di Nanni si appoggia in avanti, premendo il ventre alla

ringhiera e saluta col pugno alzato. Poi si getta di schianto con le braccia aperte

nella strada stretta, piena di silenzio.56

Da notare la differenza con cui lo stesso episodio si conclude nelle prime

memorie scritte da Giovanni Pesce, Soldati senza uniforme:

I vigili si erano ritirati mentre i tedeschi, sempre più furibondi, facevano

arrivare sul posto i due carri armati e riprendevano a sparare all’impazzata.

Così, il 18 marzo 1944, Dante Di Nanni moriva da eroe: la popolazione del

rione, attirata nella strada dalla battaglia, salutava con commosso silenzio la

morte di questo glorioso combattente.57

Pare quindi non esservi traccia del coraggioso suicidio di Di Nanni.

Questo elemento, insieme ad altri, ha portato lo storico Nicola Adduci a

svolgere alcune ricerche, ancora inedite, circa le circostanze della morte del

giovane gappista. Non entreremo qui nel merito dei dati da lui rilevati, in

quanto in questa sede non ci interessa fare una ricostruzione storica degli

eventi, bensì osservare come a distanza di anni, gli stessi ricordi, le stesse

55 G. Pesce, Soldati senza uniforme, Roma, Edizioni di cultura sociale 1950, p. 100. 56 G. Pesce, Senza tregua, cit., p. 145. 57 G. Pesce, Soldati senza uniforme, cit., p. 101.

51

memorie, possano subire variazioni, anche in base alle nuove circostanze e

alle scelte che si operano.

Quanto riportato sopra costituisce un esempio del rischio di accostarsi ai

testi di memoria attribuendo loro la stessa validità di una fonte storica in

senso tradizionale.

Come già osservato precedentemente, il ruolo della letteratura non è

quello di fornire una precisa ricostruzione storica degli eventi, bensì di

fornirci altri elementi, donandoci il senso complessivo dell’esperienza.

L’intento di Pesce, come quello di molti altri memorialisti, è pedagogico.

È lui stesso a dircelo:

“Senza Tregua” ha una morale profondissima valida oggi come ieri. È un

insegnamento che gli uomini, i giovani che furono impegnati in drammatiche

battaglie, hanno consegnato ad altri uomini, ad altri giovani, oggi impegnato

nel lavoro o nello studio, perché sappiano lottare per le libere istituzioni, la

giustizia, la libertà, la democrazia.58

Quindi si tratta di raccontare affinché le nuove generazioni sappiano ciò

che è stato, perché non si ripeta, nella speranza che, con la scomparsa di

coloro che hanno combattuto per la libertà della gente, ci sia qualcuno

disposto a “raccogliere il testimone”.

58 G. Pesce, Senza tregua, cit., p. 9.

52

CONCLUSIONI

Uno degli scopi che si prefiggeva questo lavoro era di tentare di “mettere un

po’ d’ordine” nel variegato mondo di tutta quella memorialistica che in qualche

modo scaturisce dagli eventi che si verificarono in Europa e soprattutto in Italia

negli anni ’43-’44. Una memorialistica composta essenzialmente da due filoni,

quello resistenziale e quello che si rifà alla deportazione sia politica che razziale,

che in un certo senso fanno parte di una più ampia produzione a carattere

antifascista.

La memorialistica concentrazionaria è però in un certo senso “una scoperta

recente”, infatti solo negli ultimi anni si è iniziato a studiarne le peculiarità, ad

analizzarlo come “evento a sé”. Non è che non vi fossero scritti lasciati dai

sopravvissuti, al contrario vi erano molte memorie, ma non vi era stato l’interesse

da pare della letteratura e della storiografia ad analizzarne le specificità e gli

elementi più problematici.

Per anni infatti il tema dominante è stato appunto quello della Resistenza,

intorno alla quale l’acceso dibattito prosegue fino ai giorni nostri. Un dibattito che

spesso è stato alimentato da “spinte politiche” che però non hanno intralciato la

qualità della produzione, bensì concorso ad una maggiore volontà di

approfondimento e comprensione dell’evento,.

La memorialistica è per sua definizione un genere “spurio”, in cui vi si

incrociano e sovrappongono storia e letteratura, pertanto richiede degli strumenti

di analisi particolari e adeguati alla sua natura.

Si è visto come da un lato essa per anni sia stata catalogata come letteratura di

“serie b”, considerata una sorta di sottogenere, ma fortunatamente negli ultimi

anni è stata riabilitata, grazie anche all’alta attenzione ricevuta da uno degli

scrittori-testimoni simbolo della tragedia di quegli anni, Primo Levi, le cui opere

sono ormai universalmente viste non più solo come “splendidi testi di memorie”,

ma anche come prodotti letterari di un certo spessore, che meritano di essere

analizzati e confrontati: infatti intercorrono diversi cambiamenti tra Se questo è un

uomo (1947) e I sommersi e i salvati (1986) rispetto al suo approccio a quanto

vissuto nel passato.

53

Si è visto come uno degli aspetti principali di cui tener conto sia il problema

dell’utilizzo della memoria come fonte storica. Infatti uno dei rischi maggiori in

cui si è incorsi in questi anni è che da testimone, il supersite rischi di essere

trasformato in testimone coatto della propria eccezionalità. Ma non si può

delegare ad egli la ricostruzione storica di ciò che ha vissuto. Questo è compito

della storia che saprà analizzare le fonti, anche attingendo alle memorie, ma

procedendo secondo una “gerarchia”. Infatti la memoria è per sua natura soggetta

a stratificazioni, a privilegiare certi aspetti piuttosto che altri e anche a

dimenticare.

Si è scelto poi di utilizzare il libro di memorie scritto dal gappista Giovanni

Pesce, Senza Tregua, come esempio di memoria resistenziale. Un testo che

presenta diverse problematiche e peculiarità rispetto all’utilizzo della memoria e

che rappresenta una sorta di “anomalia” nel mondo della memorialistica in quanto

ciò che racconta, a causa della natura stessa –cospirativa- dell’organizzazione

gappista, per lo più non può essere supportato da fonti storiografiche.

È stato necessario svolgere quindi un confronto con le memorie precedenti di

Pesce, fare attenzione agli espedienti letterari e cinematografici utilizzati, alla

costruzione del racconto e appoggiarci ai pochi elementi storici reperibili. Un

lavoro necessario per chiunque non voglia rimanere appiattito sul mito eroico dei

personaggi e delle vicende, e desideri comprendere davvero cosa è stata

quell’esperienza e il senso profondo che ha avuto nel concorrere alla liberazione

di Torino –e non solo- dal nemico nazi-fascista.

Un lavoro propedeutico insomma, utile anche in vista dell’imminente esaurirsi

dei testimoni diretti di quel periodo, il che porterà inevitabilmente a nuovi

interrogativi rispetto alla preservazione di quella memoria, di cui principale carico

si faranno la storia e la letteratura.

Tutte queste riflessioni e proposte di metodo possono anche rendersi utili per

una corretta “pedagogia della memoria”, affinché coloro che sono preposti a tale

compito e vogliano esaurirlo in maniera approfondita e non superficiale, possano

trovarvi degli spunti di approccio alla questione.

54

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