La flotta, lo straniero, il santuario: considerazioni in margine a Erodoto 5.36

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Studi Udinesi sul Mondo Antico SUSMA 2 Serie diretta da Arnaldo Marcone Convegno organizzato con i contributi di Alexander von Humboldt Stiftung (Bonn), Università degli Studi di Udine, Regione Friuli-Venezia Giulia Volume pubblicato con i contributi di Università degli Studi di Udine Dipartimento di Storia e Tutela dei Beni Culturali Fondazione della Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone Università degli Studi del Molise Dipartimento di Scienze Storiche, Umane e Sociali Fondi FIRB (MIUR)

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Studi Udinesi sul Mondo Antico

SUSMA 2

Serie diretta da Arnaldo Marcone

Convegno organizzato con i contributi di Alexander von Humboldt Stiftung (Bonn),

Università degli Studi di Udine, Regione Friuli-Venezia Giulia

Volume pubblicato con i contributi di

Università degli Studi di Udine Dipartimento di Storia e Tutela dei Beni Culturali Fondazione della Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone Università degli Studi del Molise Dipartimento di Scienze Storiche, Umane e Sociali Fondi FIRB (MIUR)

STRANIERI E NON CITTADINI NEI SANTUARI GRECI

Atti del convegno internazionale

a cura di Alessandro Naso

Estratto

Studi Udinesi sul Mondo Antico

Le Monnier Università / Storia

© 2006 by Felice Le Monnier, Firenze ISBN 88-00-86103-2

La flotta, lo straniero, il santuario: Erodoto 5, 36 e le ‘regole del gioco’

talassocratico

a F., mulieri mirabili

Discorrendo di stranieri e santuari greci, Creso, innanzitutto il Creso erodoteo di cui qui intendiamo occuparci, può legittimamente ambire ad un ruolo non mar-ginale. Primo aggressore (e primo impositore di phoros) da cui si dipana la storia — quella del tempo storico — dei (conflittuali) rapporti fra Greci e popoli d’Asia, la sua eusebeia nei confronti di Apollo e in generale il rispetto dimostrato in più di una occasione nei confronti degli dei del pantheon greco, che si concretizzano innanzi- tutto nelle offerte ai santuari1, assumono ben presto, nell’iconografia e nella lettera-tura del V secolo, valore di exempla2. Lo stesso regno di Lidia, già efficacemente descritto come una fonte pressoché inesauribile di ricchezze quasi naturalmente a disposizione dei Greci3, solo con qualche difficoltà o addirittura imbarazzo sembra doversi includere in quella definizione di ‘doppia’ estraneità che caratterizza i non Greci (i barbaroi) nei confronti delle poleis4. L’idea di una profonda (e antica) affinità con i Greci si dispiega del resto, come da tempo dimostrato, nella complessa e sicu- ramente artificiosa genealogia dinastica del regno di Lidia5. 1 Rievocate, riassuntivamente, al capitolo 92 del primo libro delle Storie. 2 Sebbene, come è ben noto, la vicenda di Creso non conosca affatto una tradizione univoca,

soprattutto per quanto riguarda il suo epilogo: diversa da quella erodotea appare la versione che si ricava dalla raffigurazione del re lido sulla pira, soggetto della ben nota anfora a figure rosse di Mison rinvenuta a Vulci (500 a.C. ca.), che sembra concordare, quanto al finale suicidio di Creso, con la versione prescelta dal poeta Bacchilide, su cui ad es. LAMEDICA 1987; SVARLIEN 1995.

3 LOMBARDO 1989. 4 Secondo la ben nota formulazione di MOGGI 1992. 5 TALAMO 1979. ggggggg

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Questo status, quasi si direbbe ambiguo, dello straniero Creso e del suo regno (nonché dello stesso logos erodoteo che lo riguarda)6 si esalta, come accennato, nel rapporto fra Creso e gli dei Greci (primo fra tutti Apollo, l’Apollo delfico), che privi- legia senz’altro l’estrinsecazione sul piano economico — il deposito di ricche offerte —, quasi che convergano, sorreggendosi e sottolineandosi l’un l’altro, quelli che i Greci percepiscono come i due aspetti in cui più si esprime quella affinità elettiva nei loro confronti (anche qualcosa di più di un filoellenismo) del re lido: appunto il rispetto per gli dei greci (che perciò non esclude, all’occorrenza, risentiti rimproveri nei loro confronti) e la dimostrazione della propria disponibilità finanziaria. Basterà qui richiamare — ma gli esempi potrebbero essere molteplici — il racconto dell’alleanza che si stringe fra Creso e Sparta (1, 69-70) in cui, dal gratuito dono lidio dell’oro per una statua di Apollo al responso oracolare ricevuto dal re, perché cerchi l’amicizia dei Greci, si rincorrono e si intrecciano i fondamentali concetti di philia, xenia (nel duplice senso di estraneità e ospitalità) e euergesia7. Questa prodiga eusebeia e la profonda affinità con i Greci che la sorregge e la esprime sono di quelle che, secondo Erodoto, dovrebbero aver forza ed effetto anche ‘oltre’ la stessa vicenda storica del protagonista — è palpabile, nelle parole dello stori- co, l’ironico disprezzo riservato a quegli stessi Spartani che, forse, hanno venduto a Samo l’antidoron destinato appunto al re della Lidia, una volta appreso della caduta di Sardi per mano di Ciro (1, 70). In un certo senso, il profondo legame del re lido con i Greci non deve estinguersi con la morte di Creso e la scomparsa del regno: resta rinnovabile, rinsaldabile quando l’occasione lo permetta e lo richieda. Tale occasione sembra offrirsi, diremmo puntualmente, al momento della rivolta ionica contro il Persiano: i Milesii non l’hanno colta, ma sembra innegabil-mente fondarsi sulla particolare relazione di disponibilità di Creso verso i Greci (e la loro causa) il consiglio che proprio ai Milesii avrebbe elargito Ecateo durante l’as-semblea che doveva appunto decidere della sollevazione. Qualora quest’ultima fosse irrevocabilmente stabilita — così l’autore di Periegesi e Genealogie8 —, l’unica via di lotta praticabile resterebbe quella del mare e l’unico modo per allestire una flotta che garantisca qualche chance di vittoria è che i Milesii usufruiscano delle ricchezze depo- 6 «Dal capitolo 26 al capitolo 94 il tema principale è il regno di Creso. Formalmente fedele all’im-

pegno dichiarato, Erodoto apre con una breve rassegna delle ostilità e dei progetti espansionisti- ci di Creso verso la costa ionica e le isole adiacenti (26-8); in seguito, però, non si parla più di questi rapporti ostili: anzi il re lidio emerge come un benefattore filelleno in stretti rapporti con Delfi, che cerca l’alleanza dei Greci contro il pericolo persiano: c’è un divario evidente fra proe-mio e primo logos»: ASHERI 1988, c.

7 Su questa alleanza, sulla sua consistenza storica e sul formulario che la contraddistingue v. da ultima GAZZANO 2002, 14-15, 32-33, 40-41 e 62 (cui rimandiamo anche per la bibliografia di riferimento).

8 È nota la difficoltà, se non l’impossibilità, di determinare la data di composizione (che si può age-volmente ipotizzare ‘aperta’) nonché la corretta successione delle opere di Ecateo, la cui vocazio-ne ‘politica’ non è tuttavia in discussione: v., ad es., NICOLAI 1997.

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sitate appunto da Creso nel santuario di Branchidi — ricchezze che, aggiunge ancora Ecateo, sarebbe peraltro opportuno sottrarre al saccheggio nemico (5, 36). Il consiglio, come è ben noto, è senz’altro una costruzione ex eventu9 — con-fluito nelle Storie da una preesistente tradizione milesia, o frutto di elaborazione tutta erodotea a uso e consumo di uno di quei saggi consiglieri che ne popolano l’opera, secondo i diversi punti di vista espressi dagli studiosi10. Punti di vista di per sé, notiamo en passant, non inconciliabili: il ruolo narrativo di saggio consigliere che Erodoto senz’altro (qui) attribuisce ad Ecateo può ben nutrirsi di tradizioni preesi-stenti — addirittura, riteniamo possibile, di un parere realmente ecataico, magari dal protagonista espresso in una sua opera in forma di considerazione su ciò che i Milesii avrebbero dovuto o potuto fare, e non hanno fatto. La (ri)elaborazione, si diceva tuttavia, è senz’altro erodotea e si fonda, come accennato, anche sul valore simbolico della figura del lido Creso, nel suo rapporto di collaborazione e affinità con i Greci che si concretizza prima di tutto in quella che abbiamo definito prodiga eusebeia del re verso i luoghi di culto ellenici. Non è un caso, crediamo, che Ecateo consigli non semplicemente l’utilizzo delle ricchezze del santuario di Branchidi, magari opportunamente ricordando le offerte di Creso, quanto piuttosto l’utilizzo di queste ultime, depositate nel santuario. Se non è affat-to chiaro quale fosse all’epoca in cui il discorso è ambientato il rapporto fra il san-tuario di Didima e la polis di Mileto11, non crediamo possa risolvere la questione invocare proprio la testimonianza erodotea per affermare che il santuario dipendes-se appunto da Mileto e perciò la polis potesse liberamente fruire delle sue ricchezze12. Il santuario di Didima, come detto, compare nel discorso di Ecateo in funzione delle ricche offerte di Creso, il lido (una precisazione che, interna al discorso ecataico e perciò ‘diretta’ ad un pubblico che non possiamo davvero immaginare ignorasse la nazionalità di Creso, ancora una volta sembra voler sottolineare la particolarità del-l’essere straniero, barbaros, del re lido rispetto ai Greci): i Milesii sono invitati ad appropriarsi della ricchezza straniera (barbara sui generis, ripetiamo ancora, perché lida) nel luogo in cui questa si trova custodita13. Didima è perciò innanzitutto, si mmmmmmm 9 V. il commento al passo di NENCI 1994, 204. 10 Quanto alla possibilità di una preesistente tradizione milesia, v. nota precedente; a favore di una

elaborazione erodotea WEST 1991. 11 Sulla questione v. ad es. BROWN 1978; PARKE 1985; TUCHELT 1988; EHRHARDT 1998; HAMMOND

1998. La bibl. di massima qui indicata va ovviamente tenuta presente anche per la questione del saccheggio persiano di Didima e del conseguente destino della famiglia sacerdotale dei Branchidi (v. anche infra, nota 17).

12 Così ad es. BROWN 1978, 74 — piuttosto, l’autolegittimazione all’uso delle ricchezze del santua-rio attraverso la loro sottrazione al saccheggio nemico appare del tutto indipendente da, se non addirittura in contrasto con, il presunto libero accesso milesio ad esse.

13 Se la lettura proposta è corretta, l’invito all’utilizzazione delle sole offerte di Creso sembrerebbe tra l’altro ridimensionare quella laica spregiudicatezza così sovente riconosciuta come tratto pecu-liare della personalità del Milesio: «[...] undeniably this innovative proposal reminds us of mmmmmmmm

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diceva, punto di riferimento per lo straniero chiamato a ‘contribuire’ all’auspicata nuova flotta. Ma non solo. Sede di un oracolo consultato dagli Ioni tutti e dagli Eoli (1, 157), Didima è anche il simbolo di una appartenenza, di una identità comune che va ben oltre i confini della polis di Mileto. Ancora, la ricchezza da Creso offerta a Didima è, come è stato da altri sottolineato, almeno in parte di origine ionica: essa proviene infatti dal bottino ricavato dalla vittoria nella guerra contro Pantaleon, fra-tellastro di Creso di madre ionica (1, 92, 2-3)14. Il dato non sembra di quelli tra-scurabili: di certo non casualmente al dio di Delfi (nonché al santuario di Anfiarao) sono indirizzate offerte provenienti dall’eredità paterna del re lido (1, 92, 2)15. Con ciò, le particolari ricchezze depositate ai Branchidi se da un lato confermano, nel rispetto dell’ambiguo atteggiamento verso gli Ioni, l’aggressività del re lido, dall’al-tro risultano tuttavia in qualche modo ‘comuni’ ad entrambi i partecipanti chiama- ti alla costruzione della flotta auspicata da Ecateo. Il santuario dunque, indipenden-temente dalla appartenenza o meno a Mileto, diviene per i motivi sin qui esposti sicuro punto di riferimento anche per questa polis — e per tutti gli altri Ioni che vor-ranno unirsi alla rivolta. In breve, il santuario di Didima interviene nel discorso di Ecateo (Erodoto) come luogo sacro depositario della capacità di mediazione fra i Milesii (più in generale gli Ioni) e Creso. Un parere espresso da un saggio consigliere — giova ricordare a questo punto — è, ovviamente, un saggio consiglio: quel genere di consiglio che, in una situazione data, è in grado di individuare l’unica risposta ad essa adeguata o da essa richiesta — non, beninteso, la risposta a propria volta in grado di garantire un esito immanca-bilmente positivo della situazione stessa, ma la sola capace di offrire tale possibilità. Se tale risposta è dunque definibile come la sola corretta, ne consegue che essa è in sé perfetta: perfetta nel senso che gli elementi che la compongono sono tutti singo-larmente necessari, mentre soltanto la totalità da essi formata risulta sufficiente. Perfetta, perché non appesantita da elementi inutili o accessori e al tempo stesso com- pleta, non mancante di nulla. Vogliamo perciò rivolgere la nostra attenzione a quel- li che sono gli altri «elementi» che, con quello sin qui evidenziato (ossia il ruolo dello straniero e del santuario), concorrono a delineare, appunto, quella che Erodoto pare considerare l’unica adeguata risposta da parte di una polis come Mileto all’eventua-lità di un confronto bellico con una potenza come quella persiana. Innanzitutto, è necessario deporre qualunque velleità di scontro terrestre: ordi-natamente snocciolando, diremmo, davanti agli occhi dei Milesii i numerosi popo- li soggetti al Persiano che di questi costituiscono il vasto dominio, Ecateo semplice- mmmmmmm Hecataeus’ character for impatience with traditional religious ideas» (WEST 1991, 156); v. anche

BERTELLI 2001, 80-89. 14 In verità, il patrimonio da cui provengono le offerte era quello di un sostenitore di Pantaleon, di

cui Erodoto non specifica il nome — ritenendo forse sufficiente chiarirne la ‘appartenenza’ politi-ca. Sulla questione, ad es., TALAMO 1979, 143-147 (in particolare, 144-145).

15 Sulle offerte delfiche v. NENCI 1990; NENCI 1993. mmmmmm

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mente disegna, come su una carta16, una potenza terrestre che non ha avversari, contro la quale è dunque esclusa qualunque possibilità non già di vittoria, ma ancor prima di lotta, di guerra, appunto, terrestre (oÙk œa pÒlemon[...] ¢nairšesqai, si afferma esplicitamente). Il primo tassello del giusto consiglio è dunque la negazio-ne della guerra terrestre — che pure, per una polis non isolana come è Mileto, rap-presenterebbe, anche in base alle stesse parole ecataiche, la prima più naturale opzio- ne. Se scontro è inevitabile che sia, l’unica strada che possa condurre alla vittoria è perciò la guerra sul mare — che dalla negazione di quella terrestre nasce, diremmo, come naturale conseguenza ed è perciò da tale negazione inscindibile e senza tale negazione impensabile. La guerra sul mare, tuttavia, esige l’indispensabile dotazio-ne della flotta e questa richiede, a propria volta, uno sforzo finanziario insostenibi- le dalla sola polis: si inserisce qui l’elemento già discusso della ricchezza straniera (con difficoltà definibile barbara) e del santuario che, in grado di costituire trait d’u-nion fra la polis e lo straniero, custodisce e rende disponibile tale ricchezza. Infine — per menzionare l’ultimo necessario tassello di questo saggio consiglio — incombe sul santuario in questione la minaccia del saccheggio da parte avversaria: minaccia che, en passant, serve a autorizzare, legittimare la stessa fruizione della ricchezza da parte della polis (kaˆ toÝj polem…ouj oÙ sul»sein aÙt£). Ci si assolve in anticipo, in breve, proprio dall’accusa di saccheggio17. Guerra sul mare come impossibilità della guerra terrestre18, flotta e necessità finanziarie, apporto straniero e ruolo centrale di un santuario a vocazione (almeno) sovrapoleica, spettro del saccheggio incombente sul santuario stesso appaiono dun-que i termini intorno ai quali Erodoto organizza la propria riflessione che, appunto per essere espressa in forma di saggio consiglio, va ben oltre i confini della ‘contin-gente’ situazione dell’imminente scontro fra gli Ioni e il Persiano, che pure costitui-sce lo spunto per l’intervento ecataico. In parte, il discorso/consiglio appare una riflessione sulla potenza navale ate-niese. Non è un caso che i medesimi termini del consiglio ecataico/erodoteo ricorra-no (sia pur, talora, diversamente organizzati) in alcuni importanti discorsi tucididei — segni che ci sembrano evidenti di un dibattito tanto vivo quanto, probabilmente, recente, nell’Atene dell’età periclea19. Intendiamo riferirci al discorso pronunciato dai mmmmmmmm 16 Il punto, forse un po’ troppo scettico, sullo status quaestionis riguardante la carta ‘di’ Ecateo in

DORATI 2000. 17 È ben noto che la parte finale della testimonianza erodotea è interpretata come un’allusione,

ovviamente anch’essa ex eventu, al ben reale saccheggio persiano di Didima, avvenuto secondo le fonti per ordine dello stesso Dario o del sacrilego Serse: v. la bibl. indicata supra a nota 11, cui aggiungiamo qui PICHIKYAN 1991 (in russo, con riassunto in inglese).

18 Sulla contrapposizione fra guerra terrestre e guerra navale, e conseguenti forme di egemonia, v. recentemente LUPPINO-MANES 2000.

19 «La talassocrazia [...] diviene un’idea precisa in Erodoto. [...] Ad Atene i fatti avevano modo di trasformarsi in problemi spirituali, e la talassocrazia ateniese stessa venne sottoposta a penetran-ti analisi, sia nei suoi presupposti che nei suoi effetti»: MOMIGLIANO 1987, 128-129.

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Corinzi di fronte agli alleati della lega peloponnesiaca riuniti per decidere se dichia-rare o meno guerra ad Atene (1, 120-124), nonché alla ‘risposta’ periclea dinanzi all’assemblea ateniese (1, 140-144) — che, per inciso, contenendo i ben noti consigli tattici sul modo in cui gli Ateniesi devono mantenere, inalterato, il loro impero assu-me anche i tratti della tipica performance del saggio consigliere inascoltato20; infine al discorso, riferito in forma indiretta, da Pericle rivolto alla medesima assemblea agli inizi della guerra (2, 13)21. Non intendiamo in questa sede entrare troppo nei dettagli, ma alcune signifi-cative consonanze devono senz’altro essere segnalate. Nel discorso corinzio, si ipotiz- za l’eventualità di attingere ai tesori di Delfi e Olimpia per pagare gli stranieri che, sottratti alla flotta ateniese con l’allettamento di una paga migliore, costituiranno gli equipaggi dell’erigenda flotta peloponnesiaca. Ritorna dunque quella connessione fra flotta, necessità finanziarie, santuari e stranieri presente nel consiglio ecataico/erodo-teo, sebbene qui gli stranieri compaiano in veste di fruitori, piuttosto che di eroga-tori della ricchezza custodita dai luoghi sacri. La guerra terrestre, in verità, non è affat- to esclusa, anzi; ma la iattante presunzione peloponnesiaca della propria imbattibilità terrestre, insieme a quella di una facile acquisibilità dell’imbattibilità anche navale (con un insistere quasi ossessivo, nel testo tucidideo, sul concetto di «verisimile», e„kÒj: «per molte ragioni è verisimile che vinceremo», «avremo verisimilmente la meglio con una sola vittoria navale»: 1, 121, 2 e 4), è puntualmente rovesciata dalla affermazione periclea della evidente superiorità della guerra navale, che addirittura sussume in sé la guerra terrestre, e perciò di fatto la esclude: si passa dall’affermazio- ne dell’esperienza della guerra navale come palestra di guerra anche terrestre (in un rapporto che non è affatto biunivoco: 1, 142, 5) alla prospettiva, sia pure per assur-do, di una aggressione degli Ateniesi ai loro stessi campi (1, 143, 5). Ancora nella risposta periclea, l’attingere dei nemici a Delfi e Olimpia diviene tout court atto di razzia — mediante l’uso del verbo kinšw, che indica una ‘rifunzionalizzazione’ snatu- rante delle ricchezze in questione (1, 143, 1). Se, nuovamente, il secondo discorso pericleo su citato si apre con il riferimento al personale rapporto di xenia intercor-rente fra Archidamo e Pericle, che potrebbe preservare i terreni di quest’ultimo dalla devastazione nemica (2, 13, 1), prefigurando così una situazione che ha lo stesso sapore di scandalosa deviazione dell’altrettanto ipotizzata aggressione ateniese ai pro- mmmmmm 20 Accanto alla certezza (anche moderna) che le raccomandazioni periclee contenute in questo

discorso restituiscano fedelmente la condotta di guerra considerata vincente dallo stratego ate-niese — che, in una parola, esse corrispondano alla tattica effettivamente ideata e caldeggiata da Pericle —, dobbiamo infatti porre l’indubbia convinzione tucididea che la assennatezza delle paro- le periclee costituisce senz’altro la migliore arma di cui gli Ateniesi disponevano e si sarebbero dovuti servire per avere le migliori possibilità, se non di vincere, di concludere la guerra evitan-do una disastrosa sconfitta — a dimostrazione della sostanziale fragilità del confine fra realtà sto-rica e sua rappresentazione ideale, e ideologica.

21 In generale, sui passi tucididei citati: GOMME 1945, 414-420, 453-464; GOMME 1956, 16-47; HORNBLOWER 1991, 196-201, 226-231 e 251-258.

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pri campi, quasi non occorre sottolineare l’inscindibilità, nel primo e nel secondo intervento dello statista ateniese, dei termini flotta/alleati/phoros e disponibilità finanziarie — nell’ultimo caso (2, 13, 3-5) al tempo stesso analiticamente suddivise a seconda della provenienza e riunite ad offrire, sostanzialmente, l’impressione di un’a-cropoli ‘aurea’, gigantesco unico collettore delle ricchezze dell’impero22. Ancora verso l’acropoli conduce inevitabilmente la finale rassegna delle risorse templari e sacre, fino al rivestimento della stessa statua di Athena: proprio l’invito all’utilizzo di tali risorse, che puntualmente risarcite a fine conflitto non saranno perciò saccheggiate23, è di solito considerato il particolare che più esattamente sembra evocato (o più fran-camente ripreso) dal testo erodoteo24. Esso ci sembra invece, a ben vedere, segnare forse la maggiore distanza fra la riflessione erodotea e le idee periclee riportate da Tucidide. È ben chiaro, Pericle, quando invita gli Ateniesi a comportarsi, nella gestione dell’impero, come se Atene fosse un’isola (1, 143, 5)25 — così fondando, forse, quello che diverrà presto un topos nel dibattito su Atene, l’impero navale e l’ordinamento democratico interno26. Proprio facendo questo, indicando nell’assimilazione di Atene al modello di polis iso-lana le necessarie fondamenta su cui deve reggersi l’impero navale ateniese, Pericle scarta bruscamente dall’assunto che secondo Erodoto sta all’origine della corretta organizzazione degli elementi sin qui discussi (diremmo quasi le ‘regole del gioco’) a partire dai quali l’Alicarnassio (ri)costruisce il saggio consiglio ecataico — elementi di cui lo stesso Pericle tucidideo, a quanto abbiamo visto sin qui, almeno in parte accet-ta la validità, individuando l’origine della guerra navale nella negazione di quella ter-restre e riconoscendo la necessità ineludibile del concorso straniero alla flotta polei-ca. Tale assunto è tanto chiaro ed esplicito quanto la raccomandazione periclea: per bocca di Biante di Priene (o Pittaco di Mitilene: indiscutibilmente, comunque, un mmmmmmm 22 Ai seicento talenti annuali del phoros alleato Pericle affianca i seimila talenti a quel momento

depositati ™n tÍ ¢kropÒlei: «This will, or should, include the ‘treasury of the Goddess’ and the ‘treasury of the other Gods’ […], as well as the treasury of the Hellenotamiai» (GOMME 1956, 20: l’espressione, in breve, considera del tutto unitariamente i principali tesori cittadini e il teso-ro in cui è depositato il phoros proveniente dagli alleati).

23 Quanto al risarcimento, «this refers, I feel sure, only to the gold and silver ¢naq»mata, public and private, of §§ 4-5, which belong to the temples, not to the reserve fund of § 3, which was only deposited with Athena»: GOMME 1956, 26.

24 «Il consiglio finale di Ecateo nella sua laica spregiudicatezza [v. tuttavia supra nt. 13] ricorda da vicino il discorso di Pericle all’inizio della guerra del Peloponneso che parte del pubblico atenie-se doveva conoscere»: NENCI 1994, 204; v. anche WEST 1991, 156.

25 «This view was the prevailing one in Athens, thanks to the policy of Themistokles […] and of Perikles, who adopted and improved that of Themistokles by the building of the Long Walls»: GOMME 1945, 461 — tuttavia, la visione della politica periclea come «improvement» di quella temistoclea ci sembra, almeno in parte, da sfumare: v. infra.

26 Basti qui citare la notissima Athenaion politeia attribuita a Senofonte, su cui CANFORA 1982; LUPPINO-MANES 2000, 41-43. V. anche infra nt. 37.

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altro saggio consigliere), Erodoto ricorda l’impossibilità che una potenza riesca a mutare la propria natura, da terrestre a navale, o viceversa (1, 27)27. E l’ammoni-mento, non a caso, è rivolto proprio a Creso, mentre questi progetta la conquista, poi saggiamente abbandonata, delle isole ioniche dopo quella delle poleis greche conti-nentali d’Asia Minore: occorrerebbero al re Lidi isolani per ottenere vittoria — ma, d’altro canto, gli Ioni delle isole non sono cavalieri e non costituiscono perciò reale minaccia nei confronti della potenza lidia. La vicenda, anche a sottolineare la conti-nua oscillazione del re fra aggressività e disponibilità verso gli Ioni, si conclude signi-ficativamente in una alleanza. Atene, come la Lidia e come Mileto, non è un’isola: un mutamento della sua natura non è realizzabile. Se Atene vuole davvero accredi-tarsi come prima potenza talassocrate non isolana (come in effetti sarebbe, stando agli stessi riferimenti erodotei alle talassocrazie precedenti la conclusione delle guerre per-siane, e quindi la nascita della lega facente capo ad Atene)28, ci sono appunto alcune regole del gioco che non possono essere ignorate. La stessa necessaria, preliminare esclusione della guerra terrestre, che significativamente è assente dal discorso dei Corinzi ma è ben presente in quelli pronunciati da Pericle (attraverso le già sottoli-neate ipotesi per assurdo o la netta affermazione della sua sostanziale inutilità: «anche riportassimo una vittoria, ci troveremmo ad affrontare nuovamente [i Peloponnesiaci], non meno numerosi di prima»: 1, 143, 5) e costituisce così l’anti-camera dell’opzione, che diviene perciò obbligata, della guerra navale, parla esplici-tamente di una potenza a vocazione in prima istanza terrestre; su di essa tuttavia lo stratego ateniese vorrebbe appunto innestare un comportamento di tipo ‘isolano’ — un comportamento, cioè, totalmente autoreferenziale29, laddove il necessario contri-buto straniero alla flotta diviene, ormai custodito sull’acropoli, né più né meno che proprietà ateniese ed il santuario ‘comune’ degli alleati si identifica con quello della dea poliade di Atene. Con ciò, il phoros degli alleati e il santuario acropolitano di Athena non sono in alcun modo collocabili sullo stesso piano, simbolico e ideale (ma non per questo meno realisticamente politico), delle offerte di Creso e del santuario di Didima. Se Creso non è, a ben vedere, straniero «due volte» e la sua affinità con i Greci sembra distinguerlo dalla estraneità di un barbaros assimilandola piuttosto a quella di un Greco verso un altro Greco (in ciò dunque il re lido sarebbe assimilabi-le agli alleati greci della lega delio-attica), le ricche offerte depositate ai Branchidi sono frutto di un atto volontario, espressione di quella eusebeia che privilegia un dio mmmmmmmm 27 V. il commento al passo di ASHERI 1988, 279-280. 28 In tutte le Storie, soltanto a Policrate di Samo (3, 122, 8) e agli Egineti (5, 83, 6) Erodoto rico-

nosce un periodo di vera e propria thalassokratia. «Pur non essendo stata la prima a cercare di ottenere il dominio navale dell’Egeo, Atene fu la prima, in epoca storica, a raggiungere effettiva-mente il controllo dell’intera regione. Dal punto di vista storiografico, ciò diede origine a un nuovo modo di considerare sia il passato che il presente»: DAVIES 1997, 147.

29 Sulla nozione greca di insularità come isolamento (geografico ma non solo), autonomia e indi-pendenza v. ad es. GABBA 1991.

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greco il cui santuario diviene perciò il simbolo del profondo legame del re con i Greci — potremmo anche aggiungere che, frutto di un bottino di guerra, esse sembrano quasi rappresentarne la ‘restituzione’. Le ricche offerte non sono il phoros degli allea-ti di Atene la cui sessagesima affluisce al tesoro della dea di questa polis. Il tempio acropolitano di Athena non ha quel ruolo di trait d’union, di intermediazione equi-distante fra Atene e gli alleati, paragonabile al ruolo che assume Didima nel rappor-to fra Mileto (e gli Ioni) e il lido Creso. Un simile ruolo, in effetti, poteva essere rico-nosciuto soltanto al santuario di Delo — quel primo santuario tutelare dell’alleanza, in grado di essere punto di riferimento per tutti allo stesso modo con il quale, anco-ra sul piano ideale e simbolico (ma l’arte politica si nutre anche di ideali e simboli), la casa acropolitana di Athena non è affatto in grado di competere. Siamo a dire che in questo saggio consiglio ecataico/erodoteo prende forma, fondata e sorretta da una riflessione di più ampio respiro, una sorta di trasfigurazio-ne dell’originaria struttura della lega delio-attica. Quanto alla particolarità dell’essere «straniero» di Creso, che ben più lo assimila a un ‘altro’ greco di quanto non auto-rizzi a pensarlo barbaros, abbiamo già ampiamente detto — vogliamo soltanto sotto-lineare, ora, che Creso alleato, fra i Greci, con i soli Spartani può efficacemente ram-mentare quale non fosse il vero, originario nemico dell’alleanza che fa capo ad Atene. Mileto — quella Mileto la cui caduta rappresentò per gli Ateniesi uno choc da cui fu difficile riaversi — può ben rappresentare la consorella (o madrepatria) ionica d’Europa; Didima, santuario apollineo secondo Erodoto «nella chora dei Milesii» (1, 46, 2; 1, 92, 2; 1, 157, 3), sede, come abbiamo visto, di un oracolo da sempre con-sultato da tutti gli Ioni e dagli Eoli, può ben rappresentare il santuario apollineo di Delo, al tempo stesso tradizionalmente legato ad Atene ma distinto da essa, sede da sempre delle panegyreis ioniche30. Luogo, esso sì, equidistante da tutti i partecipanti all’alleanza, panionico e proprio per questo, in un certo senso, ‘neutrale’31 — come del resto, nel discorso dei Corinzi, i santuari di Delfi e Olimpia che, al tempo stesso panellenici e politicamente ‘marginali’ (o panellenici anche perché politicamente marginali)32, sono invocati a proteggere e avallare la lotta peloponnesiaca per la libertà e autonomia di tutte le poleis greche33. 30 «Il centro di culto isolano di gran lunga più importante era Delo. Malgrado le dimensioni minu-

scole e l’inospitalità, quest’isola diventò il centro di culto più importante degli Ioni»: CRAIK 1996, 900.

31 Non sembra fuor di luogo rammentare qui anche l’esemplare comportamento persiano, nella persona di Dati, nei confronti del santuario: Hdt., 6, 97 e 118.

32 V. ad es. MORGAN 1993. 33 Tuttavia, proprio il ricorso alle ricchezze di un santuario, come sono quelli di Delfi e Olimpia,

non appartenente alla polis che intenderebbe servirsene (un caso, dunque, ben diverso da quello ateniese) sarebbe agli occhi dei Greci, secondo PARKER 1983, 170-174, un sacrilegio paragona-bile a quello che sarà commesso dai Focidesi nella terza guerra sacra. Se da un lato, per quanto sin qui esposto, non ci sentiremmo di muovere accusa di sacrilegio a quanto consigliato da Ecateo ai Milesii (di cui, tra l’altro, Erodoto non rileva alcuna scandalizzata reazione) quanto mmmmmmm

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Così, per il tramite di Ecateo e di Creso, Erodoto sembra offrirci il proprio giu-dizio sulla svolta imperialistica impressa da Atene alla guida della lega delio-attica. Quella svolta, per intenderci, che si è concretizzata anche simbolicamente nel trasferi-mento del tesoro della lega stessa dall’isola di Delo all’acropoli di Atene, a conferma di un moto sempre più accentuatamente centripeto nell’esercizio dell’egemonia, che si conforma ormai al modello insulare inteso come autosufficiente e autoreferenziale. È proprio sulla legittimità dell’assunzione di tale modello da parte di una polis non iso-lana che sembra riflettere l’Alicarnassio, che non a caso sceglie proprio il logos di Creso per affermare l’ineludibile obbligo che ciascuna potenza ha, di non tradire la propria physis, terrestre o isolana: le regole del gioco egemonico navale non sono, non posso-no essere le medesime nell’un caso e nell’altro. Così, quella che appare a noi la prima articolata riflessione greca sulla talassocrazia si svolge su un piano in cui il comporta-mento, l’ethos di una polis deve innanzitutto essere determinato dalla coscienza della sua physis, delle sue possibilità e i suoi limiti — un piano che si distingue così in modo netto dall’angolazione più squisitamente (ma fors’anche più angustamente) economi-co-politica successivamente adottata da Tucidide34. Su tale piano, dunque, il proget-to ‘insulare’ di Atene, di per sé carico di hybris, non può necessariamente non com-portare il tradimento dello spirito e degli obiettivi della lega delio-attica quale sorta dopo la vittoria delle guerre persiane, un’alleanza egualitaria, nata attorno a un san-tuario cui tutti gli appartenenti erano legati dalla medesima eusebeia, per continua-re la lotta contro il nemico asiatico — contro il cui carro siriaco, cavalleria e stermina-ta fanteria lo stesso Apollo aveva indicato nell’arma navale la sola davvero possibile. È, in verità, ancor prima delle stesse guerre persiane che Atene sperimenta (o intende sperimentare) quella che abbiamo definito l’autoreferenzialità — che si tra-duce sul piano dei fatti in piena autosufficienza — di una talassocrazia di tipo isolano. Stando, ancora una volta, al racconto erodoteo, l’audacia temistoclea sembra addi-rittura aver di fatto realizzato quanto il Pericle tucidideo soltanto raccomanda: il Temistocle erodoteo pensa infatti Atene come un’isola — non «come se» Atene fosse un’isola, ma più semplicemente Atene è un’isola. La vicenda dell’allestimento della prima flotta ateniese (7, 144), appunto voluto da Temistocle, è un affare interno della polis e ricorda da vicino quello della flotta tasia35. Il surplus finanziario è soltanto ate- mmmmmmmmm all’utilizzo delle ricchezze di Creso offerte ai Branchidi, è altresì da rilevare che ignoriamo, nel

dettaglio, in che modo i Peloponnesiaci intendessero in effetti attingere ai tesori panellenici (il testo tucidideo accenna genericamente a un «prestito», d£neisma: 1, 121, 3) — dovrebbe senz’al-tro trovar posto, in una discussione sull’argomento, una testimonianza come quella di Athen., 6, 233 f, sulla (presunta) pratica spartana di depositare a Delfi le proprie ricchezze (ringrazio Manuela Mari della segnalazione).

34 Come è noto da tempo, in Tucidide «l’intero sviluppo della Grecia fino alle guerre persiane è descrit-to in termini di potenza navale»: MOMIGLIANO 1987, 131. V. anche LUPPINO-MANES 2000, 29-41.

35 «La costruzione della flotta voluta da Temistocle ha come precedente la deliberazione, di un decennio anteriore, da parte degli abitanti di Taso di costruire navi con i proventi delle miniere, mmmmmmmm

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niese e, depositato ™n koinù36, viene utilizzato per le nuove triremi invece di essere diviso fra tutti i politai37. Nessun apporto straniero, nessun santuario a tutela e garan-zia di questo apporto. Apparentemente, nessun bisogno di una esplicita rinuncia alla guerra terrestre, come neppure fosse un’opzione. L’audacia, ancora una volta la hybris temistoclea appare dunque sovvertire profondamente quelle regole del gioco cui ogni potenza deve soggiacere, data la propria physis: diviene perciò estremamente interessante cercare di comprendere l’atteggiamento erodoteo rispetto alla vicenda da lui stesso narrata, ed esplicitamente collocata proprio all’origine della grande vittoria greca contro il Persiano. Perché — come è noto — l’episodio in questione non è narrato isolatamente, ma ha piuttosto il compito di chiudere una lunga sequenza narrativa ‘a ritroso’ (7, 139-144) aperta dal famosissimo giudizio sul ruolo cruciale svolto da Atene nella salvezza della Grecia dal Persiano. «Se gli Ateniesi […] avessero abbandonato la loro terra o pur rimanendo si fossero consegnati a Serse» (7, 139, 2): questi sareb-bero stati senz’altro i comportamenti di chi avesse considerato la guerra terrestre, impossibile da affrontare, la propria unica alternativa. Così, l’affermazione di aper-tura di questa sequenza è, ancora una volta, la negazione appunto della guerra ter-restre, che viene ancora ulteriormente sottolineata dall’evidente inutilità del muro costruito lungo l’Istmo (7, 139, 3) nonché, a proseguire, dalle parole che la Pizia rivolge agli Ateniesi, per due volte giunti a consultare l’oracolo (7, 140-141). Il consiglio ricevuto, ricordiamo, è quello di volgere le spalle al nemico soverchiante, di fuggire lontano — o, specularmente, erigere un muro a protezione dell’acropoli, e difenderla strenuamente: quel muro di legno che, come è ben noto, l’interpreta-zione nuovamente temistoclea identifica con la flotta, che nettamente si staglia, dunque, come la sola alternativa ad una guerra terrestre insostenibile. E l’invoca-zione alla divina Salamina non fa altro che certificare la correttezza dell’interpreta-zione (7, 143)38. per difendersi da Istieo di Mileto (Hdt., 6, 46)»: PICCIRILLI 1983, 232 — l’episodio è infatti nar-

rato anche da Plu., Them. 4. 36 Con questa espressione Erodoto intende, secondo ogni verisimiglianza, il tesoro centrale che nel

V secolo custodisce i fondi nella immediata disponibilità degli Ateniesi, poi ripartiti fra diverse magistrature nel secolo successivo: RHODES 1981, 532.

37 Non appare ozioso rilevare qui — sottolineando la perfetta equivalenza, che va ben oltre il piano meramente economico, fra allestimento della flotta e egualitaria distribuzione all’interno dell’in-tero corpo civico, nella rappresentazione di quanto è custodito ™n koinù— come proprio l’inter-pretazione di tipo ‘isolano’ dell’esercizio dell’egemonia sembri costituire la più naturale espres-sione di un ordinamento democratico come quello ateniese che appare definibile, anch’esso, come fondamentalmente autosufficiente e autoreferenziale: «In questo ordinamento la parteci-pazione di tutti i cittadini era eguale; in esso i cittadini lavoravano per se stessi. […] In questo ordinamento essi erano signori di se stessi (autocrátores)» (MEIER 1988, 270).

38 PICCIRILLI 1983, 244 (a commento di Plu., Them. 10, in cui, come è noto, è menzionato soltanto il secondo degli oracoli riportati da Erodoto).

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Così, la scelta narrativa a ritroso riporta intanto all’origine l’opzione navale, come impraticabilità dell’opzione terrestre da parte di una polis pur continentale, come Atene. A seguire, Erodoto va inoltre gradatamente aggiungendo quegli altri elementi di cui abbiamo sin qui discusso e che devono accompagnare la stessa opzio-ne navale: alla fine, alla causa inizialmente soltanto ateniese sono invitati a congiun-gersi tutti gli altri Greci che lo vogliano, per obbedire tutti alle parole del dio — il dio di Delfi, ancora una volta (7, 144, 3). In questo modo, quando giunge a descrivere effettivamente l’allestimento della prima flotta ateniese, lo storico di Alicarnasso ha ‘ormai’ corredato l’audace operazione temistoclea di quanto le mancava (la scelta navale come impossibilità di quella terrestre; la necessità del concorso straniero; la tutela divina, incarnata dal santuario delfico) per rispondere alle regole da lui stesso giudicate ineludibili. Non è un caso che, proprio a conclusione della lunga sequenza, Erodoto voglia rammentarci che l’obiettivo originario della flotta ateniese era l’isola di Egina (7, 144, 1-2)39, contro la quale essa rimase tuttavia inutilizzata trovandosi perciò pronta per lo scontro, appunto, con il Persiano. Se da un lato il riferimento chiarisce nel modo più esplicito che Temistocle fa (vuol fare) di Atene un’isola perché possa scontrarsi contro un’isola (così come a Creso sarebbero occorsi, ricordiamo, Lidii isolani per poter conquistare le isole della Ionia), dall’altro, lo scontro ‘isolano’ non ha luogo e l’avversario di Atene — e dei suoi alleati greci — diviene invece la potenza persiana, qualificata a sua volta come essenzialmente terrestre dalle parole della Pizia, che abbiamo già avuto modo di ricordare: «si abbatte infatti fuoco e aspro Ares, siriaco carro di guerra guidando», «ma tu non attendere tranquillo la cavalleria e la fanteria che s’avanza numerosa dal continente» (7, 140, 2 e 7, 141, 4). Così, a ben vedere, l’audacia temistoclea manca in effetti di verifica: questa inter-viene soltanto quando sono stati ormai introdotti gli opportuni ‘correttivi’ di cui abbia-mo sin qui detto. In questo modo, per concludere, Erodoto riesce ad accordare anche il racconto della nascita della flotta ateniese — a tutta prima, della flotta dell’isola di Atene — alla regola, fondamentale e ineludibile, dell’impossibilità che una potenza si sottragga, per quanto grande e temeraria, alla natura che le è stata predestinata.

MADDALENA LUISA ZUNINO 39 Così secondo tutte le fonti che narrano l’episodio (un elenco in PICCIRILLI 1983, 232-233), tran-

ne Arist., Ath. 22, 7: v. RHODES 1981, 277-278. mmmmmmmmm

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