La fine dell'innocenza. L'infanticido nella disciplina postuntiaria

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LA FINE DELL’INNOCENZA. L’INFANTICIDIO NELLA DISCIPLINA DELL’ITALIA POSTUNITARIA di Loredana Garlati 1. L’infanticidio nell’esperienza legislativa preunitaria «L’infanticidio è reato gravissimo e, se le cause prossime possono ap- parire degne di pietà, le cause prime sono delle più immorali e riprove- voli individualmente e socialmente» 1 . Pietà ed orrore, dunque: forse nes- sun delitto riesce a suscitare al contempo sentimenti così contrastanti e opposti. L’azione omicida delle “mamme cattive” 2 , anch’essa prodotto di «quel grande enigma che è la maternità» 3 , è da sempre al centro del- l’attenzione socio-giuridica, e da sempre variamente giudicata. Scorrendo le pagine della storia, a ragione si può sostenere che «l’infanticidio è de- litto intorno al quale le legislazioni oscillarono assai, così per stabilirne la nozione, come per misurarne la pena» 4 . La fattispecie di riferimento è stata costantemente rappresentata dall’omicidio: sui suoi elementi co- stitutivi e sulla sua pena base se ne è plasmata la configurazione. L’asti- cella punitiva è tuttavia stata innalzata o abbassata a seconda delle istanze e degli interessi volta per volta reputati prevalenti: inasprire la pena in ragione dell’impossibilità della vittima a difendersi, della facilità ad oc- 1 A. Calabresi, L’infanticidio (commento teorico-pratico all’art. 369 c.p.), Ferrara, 1899, 7. 2 C. Carloni e D. Nobili, La mamma cattiva. Fenomenologia e antropologia del figlicidio, Firenze, 1975. 3 G. Di Bello e P. Meringolo, Il rifiuto della maternità. L’infanticidio in Italia dall’Ottocento ai giorni nostri, Pisa, 1997, 9. 4 F. Ambrosoli, Studi sul codice penale toscano confrontato specialmente coll’au- striaco, Mantova, 1857, 125. La Corte d’Assise nella storia

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LA FINE DELL’INNOCENZA.L’INFANTICIDIO NELLA DISCIPLINA

DELL’ITALIA POSTUNITARIA

di Loredana Garlati

1. L’infanticidio nell’esperienza legislativa preunitaria

«L’infanticidio è reato gravissimo e, se le cause prossime possono ap-parire degne di pietà, le cause prime sono delle più immorali e riprove-voli individualmente e socialmente»1. Pietà ed orrore, dunque: forse nes-sun delitto riesce a suscitare al contempo sentimenti così contrastanti eopposti. L’azione omicida delle “mamme cattive”2, anch’essa prodotto di«quel grande enigma che è la maternità»3, è da sempre al centro del-l’attenzione socio-giuridica, e da sempre variamente giudicata. Scorrendole pagine della storia, a ragione si può sostenere che «l’infanticidio è de-litto intorno al quale le legislazioni oscillarono assai, così per stabilirnela nozione, come per misurarne la pena»4. La fattispecie di riferimentoè stata costantemente rappresentata dall’omicidio: sui suoi elementi co-stitutivi e sulla sua pena base se ne è plasmata la configurazione. L’asti-cella punitiva è tuttavia stata innalzata o abbassata a seconda delle istanzee degli interessi volta per volta reputati prevalenti: inasprire la pena inragione dell’impossibilità della vittima a difendersi, della facilità ad oc-

1 A. Calabresi, L’infanticidio (commento teorico-pratico all’art. 369 c.p.), Ferrara,1899, 7.

2 C. Carloni e D. Nobili, La mamma cattiva. Fenomenologia e antropologia delfiglicidio, Firenze, 1975.

3 G. Di Bello e P. Meringolo, Il rifiuto della maternità. L’infanticidio in Italiadall’Ottocento ai giorni nostri, Pisa, 1997, 9.

4 F. Ambrosoli, Studi sul codice penale toscano confrontato specialmente coll’au-striaco, Mantova, 1857, 125.

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cultare il reato e del particolare vincolo di sangue intercorrente tra of-feso e reo oppure mitigarla in considerazione del singolare stato psico-logico in cui opera l’autore e del fine dell’atto criminoso, ossia salvarel’onore proprio o della propria famiglia annientando la causa prima del-l’infamia5? Qualora siano le prime considerazioni a imporsi, l’infantici-dio non potrà che considerarsi un omicidio aggravato; in caso contra-rio, godrà di una speciale riduzione sanzionatoria.

Il trattamento penale riservato all’infanticidio si è in questo senso ade-guato al mutare della sua percezione etica e morale6. Da normale stru-mento di controllo demografico, tipico delle comunità più antiche e pa-gane, divenne, con la diffusione della cultura cattolica e con il maturaredi una diversa concezione della vita umana e dei rapporti familiari, unacolpa gravissima e, di conseguenza, uno dei reati più spietatamente re-pressi. Dal medioevo fino al Settecento l’infanticidio rappresentò la proie-zione giuridica di ciò che era considerata la massima degenerazioneumana: il tradimento della ‘vocazione e dell’istinto materno’, da repri-mere con misure estreme, quali la pena capitale applicata nelle sue formeesacerbate e più cruente7. Se l’uomo, «essere toracico», era destinato allavoro, alla lotta e a tutto ciò che implicava l’uso della forza, la donna,«essere addominale», era destinata «al lavorìo della maternità»8. «Bastariflettere – scriveva Ferri – alla grandiosità fisica e morale di questa ma-ternità…; basta riflettere alla quantità enorme di sacrificio organico e psi-chico rappresentato dalla gravidanza, dal parto, dal puerperio, dall’allat-tamento… e subito si vedrà come la maternità sola è la ragione, quasi

5 Si veda per tutti E. Pessina, Elementi di diritto penale, vol. II, Napoli, 1883, 21.6 «Non v’è, forse, azione umana che, al pari dell’infanticidio, sia stata giudicata, presso

i vari popoli, a seconda del mutare dei tempi, in modi così svariati e, fra loro, cosìprofondamente diversi» (S. Sighele, Sull’infanticidio, in Archivio giuridico, XLII, 1899,177) e «questa varietà di concezioni si è riprodotta pure nei Codici italiani» (E. Pes-sina, Elementi, cit., 23).

7 F. Carfora, Infanticidio, in Digesto Italiano, vol. XIII, I, Torino, 1927, 663-726;R. Pannain, Omicidio (diritto penale), cap. VIII Infanticidio per causa d’onore, in No-vissimo Digesto Italiano, vol. XI, Torino, 1965, 884-891; C. Fiore, Infanticidio, in En-ciclopedia del diritto, vol. XXI, Milano, 1971, 391-402; I. Merzagora, Infanticidio, inDigesto delle discipline penalistiche, vol. VI, Torino, 1992, 392-396. Si vedano anche i si-gnificativi contributi di F. De Cola-Proto, L’infanticidio: studio legale, Messina, 1877e L’aborto e l’infanticidio nella dottrina e nella giurisprudenza, Messina, 1886; L. Fer-riani, La infanticida nel codice penale e nella vita sociale, Milano, 1886, 73-86.

8 V. Mellusi, La madre delinquente (studio di psicologia morbosa), Roma, 1897, 12-13.

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direi, darviniana, dei principali caratteri fisico-psichici della donna, oltrenaturalmente i caratteri anatomici, che ne costituiscono la sessualità»9.Sebbene le riflessioni provengano da esponenti della scuola positiva, no-toriamente indulgenti verso le infanticide, come si vedrà nel prosieguodi questo lavoro, tale rappresentazione è sufficiente per comprendere l’i-dentificazione, anche da parte dell’ala scientifica dei penalisti, della fi-gura della donna con la madre (ruolo cui la natura stessa l’aveva predi-sposta e preparata)10, con una serie di implicazioni di cui si possono giàora cogliere i riflessi11.

È a partire dall’enunciazione dei princìpi illuministici che emerge unanuova concezione dell’infanticidio, legata, da un lato, alle trasformazionieconomico-sociali, al cambiamento della morale sessuale, ad una inedita vi-sione della donna e della maternità12, e dall’altro, allo sviluppo delle scienzeausiliarie e alla nascita di scuole penalistiche ideologicamente orientate.

Il percorso di elaborazione di tale reato, prima di approdare al testodefinitivo del 1889, fu lungo e tortuoso, conseguenza delle oscillanti teo-rie sostenute dai diversi estensori dei progetti preliminari, a loro voltaretaggio di un passato che aveva disciplinato l’infanticidio fondandosi suvalori e disvalori contrapposti.

I due tradizionali e tra loro alternativi riferimenti codicistici europei13

9 E. Ferri, a commento del volume di Lombroso-Ferrero, in Archivio di psichia-tria, scienze penali ed antropologia criminale, vol. 14, 1893, 484 e C. Lombroso e G.Ferrero, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, Torino, 1903, 499.

10 Per un interessante studio ottocentesco sul collegamento tra infanticidio e involu-zione del senso materno, a dimostrazione di un dibattito dalle origini antiche cfr. R.Perrone Capano, L’infanticidio e l’esposizione d’infante nel loro significato onto-filoge-netico, Napoli, 1899.

11 L’esaltazione del ruolo materno, compiuto anche e soprattutto da esponenti dellascuola positiva, aveva tutto sommato risvolti ambigui: da un lato la donna poteva ri-vendicare di fronte all’uomo la propria dignità e di fronte alla società il diritto ad unrispetto e ad una tutela in virtù di questa sua capacità riproduttiva; dall’altro la mater-nità veniva raffigurata come un limite alla sua indipendenza, oltre che costituire una si-tuazione che finiva per gravare la donna di una serie di responsabilità, addossando alsuo fallimento educativo la colpa della delinquenza minorile.

12 Sul punto cfr. R. Selmini, Profili di uno studio storico sull’infanticidio. Esame di31 processi per infanticidio giudicati dalla Corte d’Assise di Bologna dal 1880 al 1913,Milano, 1987, 17.

13 Così li definisce, con riferimento ai codici francese e austriaco, A. Cadoppi, Il“modello” rivale del code penal. Le “forme piuttosto didattiche” del codice penale uni-versale austriaco del 1803, in Codice penale universale austriaco (1803), rist. anast., Pa-dova, 2001, XCV-CXLI.

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avevano sul punto adottato soluzioni opposte. Il codice francese del 1810aveva liquidato la questione in una disposizione, l’art. 302, formulata nelsolito style spartiate14, con cui si equiparava parricidio, infanticidio e ve-neficio, punendoli con la morte, e null’altro prevedendo sul punto15.

Maggiormente articolata, per quella vocazione trattatistica e pedago-gica propria dei codici asburgici, la disciplina contemplata nella Franzi-skana (1803), forse direttamente influenzata dalle riflessioni di Beccaria16.La diversa commisurazione delle pene discendeva sia dalla natura legit-tima o illegittima della prole che dalla modalità omissiva o commissivadell’azione. Il § 122, infatti, puniva con il perpetuo carcere durissimo lamadre che volontariamente procurava la morte di un figlio legittimo; ilcarcere duro da dieci a vent’anni era invece il castigo per la soppres-sione di un figlio illegittimo, sanzione che si riduceva da cinque a diecianni nell’ipotesi di deliberata omissione dei necessari soccorsi17. In que-st’ultima ipotesi si operava dunque un’ulteriore differenziazione che nonaveva corrispondente nel caso di uccisione di prole legittima, introdu-cendo una poco motivata sperequazione tra le due fattispecie18. Tali di-sposizioni furono integralmente riprodotte nel § 129 della revisione del1852. Si noti come il codice austriaco accolse il principio di speciale te-

14 Cfr. A. Cavanna, Ragioni del diritto e ragioni del potere nel codice penale au-striaco del 1803, in Codice penale, cit., CCL-CCLXI, ora in Id, Scritti (1968-2002), II,Napoli, 2007, 1169-1180.

15 Una mitigazione si ebbe nel 1824, in cui si previde l’introduzione dei lavori for-zati a vita, ribadita nella legge 28 aprile 1832.

16 «E il codice Austriaco del 1803 fu il primo in Europa a secondare l’impulso delpubblicista italiano [Beccaria] sostituendo alla pena di morte il carcere da cinque a ventianni» (E. Pessina, Elementi, cit., 23). Sul pensiero di Beccaria in tema di infanticidiocfr. infra, nt. 124.

17 La differenza tra carcere duro e durissimo era dato dal sistema di esacerbazioniche accompagnavano la detenzione. Sul punto mi permetto di rinviare a L. Garlati,Nella disuguaglianza la giustizia. Pietro Mantegazza e il Codice penale austriaco (1816),Milano, 2002, 86-88.

18 Cfr. L. Garlati, Nella disuguaglianza, cit., 115-121. Va precisato tuttavia che ilcodice austriaco cercava da un lato di prevenire l’estremo dell’infanticidio, dall’altro dievitare quanto più possibile che questo, se commesso, restasse impunito. Per questo siobbligavano le donne rimaste incinte “da commercio illegittimo” a chiedere l’assistenzadi un’ostetrica, una levatrice, o qualunque altra “donna onesta” nell’imminenza del parto.In caso di doglie improvvise, la donna era tenuta a presentare il cadavere del bambinoeventualmente nato morto a persona autorizzata ad esercitare l’arte dell’ostetricia o co-munque ad una pubblica autorità (parte II, sez. I, Delle gravi trasgressioni di polizia,§ 94).

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nuità dell’infanticidio considerato nella sua intrinseca essenza: non com-pare infatti alcuna menzione della causa d’onore sulla quale la scienzagiuridica italiana fondò il reato.

Per i codici ottocenteschi italiani preunitari, con la sola eccezione deltoscano, il riferimento fu il codice napoleonico19: infatti l’infanticidio fuconsiderato omicidio aggravato a partire dal codice napoletano (artt. 349e 352) fino a quello sardo del 1859, passando per l’esperienza parmense(art. 308), pontificia (art. 276, §7, che prevedeva la esemplarità della penacapitale) ed estense (artt. 351 e 358 § 1)20.

Il codice toscano distingueva invece tra infanticidio doloso e colposo(artt. 316-320), il primo punito con la casa di forza da dieci a quindicianni se la donna si era determinata al delitto prima che fosse sorpresadai dolori del parto, da cinque a dieci anni negli altri casi, riconoscen-dole quindi un’attenuazione di pena per aver agito senza premeditazione.

Una simile impostazione recepiva a livello normativo la convinzione,sostenuta dalla medicina legale, che la partoriente vivesse una partico-lare condizione di debolezza fisica e di alterazione psichica, definita ma-nia o follia puerperale21, degenerante in una patologia psichiatrica. Lapena scendeva da sei mesi a due anni nel caso di infanticidio doloso susoggetto nato vivo ma non vitale (art. 319), un requisito che, come ve-dremo, impegnerà in accesi dibattiti dottrina e giurisprudenza.

19 Si potrebbe ipotizzare che nella ideazione della disciplina sull’infanticidio ci si siaispirati anche al progetto Luosi, il cui art. 433 sembra anticipare le soluzioni in seguitoadottate, prevedendo una mitigazione per la madre e per i correi. Sull’incidenza di que-sto ‘modello’ cfr. A. Cavanna, Codificazione del diritto italiano e imperialismo giuri-dico francese nella Milano napoleonica. Giuseppe Luosi e il diritto penale, ora in Id.,Scritti (1968-2002), vol. II, 833-927, in particolare 925-926, un’intuizione la cui eco èstata ripresa anche dalla storiografia successiva. In realtà la dottrina tende a individuarenel codice austriaco del 1803, per quanto riguarda espressamente l’infanticidio, il primocodice che assecondò le istanze dell’illuminismo e la richiesta di attenuazione della pena;su questa falsariga si plasmarono tutti i ‘codici liberali’, progetto Luosi compreso, ri-prodotto quasi letteralmente dal testo napoletano del 1808 (v. nt. 16. Le parole di Pes-sina verranno riprodotte poi da altri come, ad es., P. Arena, L’infanticidio per ragiond’onore: studio giuridico-sociologico, Napoli, 1896, 15; V. Mellusi, La madre delinquentecit., 101; L. Masucci, Studio critico sulla premeditazione, Napoli, 1886, 78).

20 Oltre ai codici preunitari, merita una menzione, per la particolare disciplina, il co-dice penale di S. Marino, per il quale mi permetto di rinviare a L. Garlati, “Il delittodi Erode”. L’infanticidio nel codice penale di S. Marino: norme nuove per un delitto an-tico, in Codice penale della Repubblica di San Marino (1865), rist. anast., a cura di S.Vinciguerra, Padova, 2004, CLXVII-CC.

21 Cfr. A. Stoppato, Infanticidio e procurato aborto, Verona-Padova, 1887, 36-56.

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L’infanticidio colposo prevedeva invece il carcere da due mesi ad unanno per l’uccisione di prole viva e vitale (art. 320).

Tutti i codici ottocenteschi italiani però avevano riconosciuto una mi-tigazione della pena alla madre infanticida spinta ad agire da un parti-colare movente: la difesa dell’onore.

Il codice delle Due Sicilie del 1819 aveva collegato tale scusa e la con-seguente riduzione della pena (il terzo grado dei ferri, per una duratada diciannove a ventiquattro anni, anziché la pena di morte) alla illegit-timità della prole (artt. 349, 352 n. 2, 387): in altre parole la causa ho-noris ricorreva in modo indiretto, quale circostanza sempre presunta nel-l’ipotesi di reato commesso su prole illegittima22. Lo stesso aveva fattoil codice sardo sia nell’edizione del 1839 (art. 579) che in quella succes-siva del 1859 (art. 532). La mancata esplicita previsione dell’onore com-portava però che la diminuzione di pena fosse facoltativa e rimessa alladiscrezionalità del giudice: l’art. 532 del testo sardo-piemontese preve-deva infatti che la pena potesse essere diminuita riguardo alla madre. Per-ciò, nel caso di reato commesso su prole illegittima in cui il moventenon fosse la difesa dell’onore, il giudice poteva decidere di non appli-care una pena più mite dal momento che la presunzione era stata con-traddetta dal fatto. «Non è però chi non veda quanto poteva divenirepericolosa la libertà lasciata al giudice, specie se si pensi che l’infantici-dio era, com’è tuttavia, di competenza della Corte d’assise, in cui il ma-gistrato che ha la scelta nell’applicazione della pena è diverso da quelloche è chiamato a decidere il fatto»23. L’obbligo di considerare tale cir-costanza si ebbe con le modifiche introdotte dal decreto luogotenenzialedel 17 febbraio 1861, in occasione della estensione del testo sabaudo alleprovince meridionali.

Un chiaro riferimento all’onore si riscontra nelle disposizioni par-mensi del 1820 (art. 308), che mitigavano la morte, ordinariamente com-minata, con i lavori forzati a vita o a tempo nei soli confronti della ma-dre spinta all’infanticidio verso la propria prole illegittima a patto che

22 Si trattava di una presunzione legale: provata l’illegittimità della prole, si desumevail fine di salvare l’onore (G.B. Impallomeni, I delitti contro la persona, in Completotrattato teorico e pratico di diritto penale secondo il codice unico del Regno d’Italia, pub-blicato da P. Cogliolo, vol. II, II, Milano, 1889, 291). Cfr. anche V. Cosentino, Brevecommentario al codice penale italiano, Napoli, 1866, 375-376.

23 F. Carfora, Infanticidio, cit., 699.

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fosse provato che la donna non aveva avuto altro mezzo con cui sal-vare l’onore o la vita.

Anche il Regolamento pontificio in vigore dal 1832 concedeva la re-clusione a vita (anziché la morte) alla madre che uccideva il frutto di“un parto illegittimo per sentimento di onore” (art. 276, § 7).

Il codice estense del 1855 si avvaleva in parte dell’esperienza legisla-tiva toscana nell’attenuare il rigore della pena capitale prevista per l’in-fanticida con i lavori forzati da dieci a venti anni nell’ipotesi in cui ilreato fosse derivato dalla necessità di salvare la vita o di far fronte a“sovrastanti sevizie” (art. 358, § 2), formula presente nella normativa del1853 all’art. 318. Si trattava di disposizioni valide per la sola madre (il§ 3 dell’art. in questione comminava infatti la morte a chiunque avessecooperato dolosamente all’infanticidio): in esse la causa d’onore era vir-tualmente compresa dal legislatore nel concetto di illegittimità della prole,come si è prima indicato.

Era però soprattutto la determinazione del concetto di infante, e con-seguentemente l’individuazione del momento temporale in cui risultavaapplicabile la disciplina prevista per l’infanticidio, a creare una varietà,più che linguistica, concettuale24.

Non vi era dubbio alcuno che non vi fosse coincidenza tra il valoregiuridico e quello meramente semantico dell’espressione infante. Per ildiritto, infatti, l’infanticidio non designava l’uccisione di un bambino ingenere, o, per la precisione, di colui che non sapeva parlare, ma di unneonato (qualunque significato si voglia dare all’espressione). Tanto ba-stava a differenziare l’infanticidio dal figlicidio e dall’aborto, oltre chedal comune omicidio25. Ne era consapevole Carrara, allorché precisava

24 Rilevava Ambrosoli quanto fossero ancora lontane le legislazioni «dal mettersid’accordo; e non poco hanno cooperato gli scrittori a introdurre tante e sì rilevanti di-versità» (F. Ambrosoli, Studi, cit., 128).

25 Il figlicidio (o liberticidio) non solo non partecipava dell’attenuazione di pena ri-servata all’infanticidio, per la mancanza delle condizioni richieste, ma, al contrario, go-deva nei codici ottocenteschi di un trattamento simile a quello riservato al parricidio.L’aborto, invece, si sostanziava nell’interruzione volontaria di una gravidanza e riguar-dava il feto, un “organismo umano non ancora nato”. Si è tuttavia assistito, nel tempo,ad un uso disinvolto del termine ‘infanticidio’, con rilevanti ripercussioni di ordine pra-tico. Basti pensare ad alcune indagini statistiche condotte nel XIX secolo: fino al 1890sotto la voce ‘infanticidio’ erano rubricati il figlicidio, il feticidio, l’aborto e perfino l’e-sposizione di infante, figure certo collegate, ma non sovrapposte né sovrapponibili giu-ridicamente. «Per pochi altri reati la quota che compare nelle statistiche giudiziarie è

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come si fosse fatto ricorso ad un linguaggio figurato e improprio, dalmomento che «la parola infante non esprime la infanzia in generale, masolo un brevissimo periodo di quella, e precisamente la prima auroradella vita estrauterina»26. Sulla stessa scia si poneva Sighele, per il qualeil vocabolo, «che nel suo significato più generale e comune denota ognie qualunque uccisione d’infante, è stato adoperato giuridicamente a de-signare l’uccisione di certi infanti, compiuta da certe persone»27.

Per il codice napoletano il reato si integrava se commesso su fan-ciullo nato di recente e non ancora battezzato o iscritto nei registri distato civile (art. 349); per quello di Parma si doveva trattare di bambinonato di fresco (art. 308), per quello sardo di un infante di recente nato(art. 525)28 e per quello estense di un infante neonato (art. 351).

Vi erano invece codici, come si è visto, che preferivano prescindereda tale nozione per spostare l’attenzione sulle condizioni della donnapartoriente: così si distingueva tra “uccisione avvenuta nell’immedia-tezza del parto” o “subito dopo il parto”, lasciando alla libera valuta-

così lontana dalla realtà quanto si verifica rispetto al reato di infanticidio» (G. Ta-gliacarne, Infanticidio, abbandono d’infante e procurato aborto nella vita sociale, stu-diati sulle nostre statistiche della criminalità, in Giornale degli Economisti e Rivista diStatistica, agosto-ottobre 1925, 5). Cfr. anche A. Stoppato, Infanticidio, cit., 11-16(per il quale i dati erano falsati dal fatto che un gran numero di infanticidi si compi-vano nell’ombra); A. Spallanzani, I reati di infanticidio e di procurato aborto secondole statistiche giudiziarie italiane, Roma, 1931: le statistiche, per l’autore, ricomprende-vano nella nozione di infanticidio l’uccisione di qualsiasi bambino al di sotto di unanno, distinguendo poi ulteriormente tra infanti con più o meno d’un mese di età,con evidente sfasamento tra la nozione giuridica e la nomenclatura nosologica validaper le statistiche. Per buona parte dell’Ottocento disponiamo quindi di dati non at-tendibili, che rendono l’infanticidio reato difficilmente quantificabile: a seconda deltipo di approccio metodologico, risulta essere ora un reato di rara eccezionalità, oradi inaudita frequenza. Di pratica molto diffusa parla Langer, il quale, tuttavia, giungea tali conclusioni considerando anche l’esposizione o l’abbandono dei bambini unaforma legalizzata di infanticidio (W.L. Langer, Infanticidio: una rassegna storica, inT. McKeown, L’aumento della popolazione nell’era moderna, Milano, 1978, 225 e, piùin generale 225-238). Per Mura Succu questi dati statistici hanno valenza più sociolo-gica che giuridica, in quanto svelano appieno la lotta della miseria contro i pregiudizisociali (T. Mura-Succu, L’infanticidio nella legge penale e nella medicina legale, Sas-sari, 1884, 36).

26 F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale, parte speciale, vol. I, Lucca,1872, § 1212, 304-305. L’autore precisava che, se vi era universale concordia sul tale con-cetto, sussisteva invece diversità nella formula con cui si era voluto esprimerlo.

27 S. Sighele, Sull’infanticidio, cit., 181. 28 Salvo poi nel 1861 accogliere gli estremi indicati dal codice napoletano.

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zione del giudice l’accertamento, nei singoli casi concreti, della possi-bile riconduzione del gesto criminoso allo stato di eccitamento e di tur-bamento emotivo della madre nelle ore o nei giorni immediatamentesuccessivi alla nascita del bambino. Era la soluzione prescelta dai co-dici austriaco e toscano29: il primo puniva l’atto della madre che to-glieva la vita al proprio figlio nel parto o in occasione del parto (§ 122);il secondo contemplava un ancor più generico riferimento, stabilendoall’art. 316 che «quella donna che nel tempo del parto, o poco dopo diesso, ha dolosamente o colposamente cagionato la morte della sua proleè rea di infanticidio».

Si trattava, come si può notare, di espressioni apparentemente sem-plici e immediatamente comprensibili; tuttavia se si passa dal piano dellinguaggio comune a quello giuridico si rileva la vaghezza e indeter-minatezza lessicale: quanto dura lo stato di neo-nato o nato di frescoo di recente? Ore, giorni, settimane? Non vi era il pericolo di lasciareaperto un varco alla bagarre interpretativa, dottrinale e giurispruden-ziale?

A ragion veduta il codice napoletano, il cui contenuto fu trasfusonell’art. 525 di quello sardo con il provvedimento del 1861, aveva im-posto criteri di carattere formale: la mancata iscrizione del neonato neiregistri di stato civile. Le ragioni di tale previsione sono intuitive: il fattomateriale dell’iscrizione, dando pubblicità alla nascita del bambino, esclu-deva virtualmente l’unica vera causa attenuante, ossia il fine di occultarela nascita per ragione di onore. L’art. 525 modificato non richiedeva néche soggetto attivo fosse la madre né che la prole fosse illegittima: chiun-que poteva essere chiamato a rispondere di infanticidio a patto che l’o-micidio volontario si fosse consumato su un fanciullo di recente natonon ancora iscritto nei pubblici registri. L’art. 532, rivisto nel 1861, con-sentiva la riduzione di pena a quanti avessero agito per celare una proleillegittima al fine di preservare l’onore.

L’infanticidio andò così gradualmente assumendo un’identità propria,cui far corrispondere sanzioni meno severe rispetto a quelle comminateal comune omicidio ogni qual volta fosse sorretto da una specifica causasceleris, identificata, per l’appunto, nel motivo d’onore.

29 A dimostrazione di un’intima connessione tra la dottrina austriaca e l’elaborazionedel testo toscano cfr. K.J.A. Mittermaier, Contribuzioni alla dottrina del delitto d’in-fanticidio, in Scritti germanici di diritto criminale, t. II, Livorno, 1846, 209- 312.

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2. Convulsi progetti per un codice penale unitario

All’appuntamento con l’unificazione penale, il nostro Paese si pre-sentò con il dualismo normativo espresso dai codici piemontese e to-scano, che riassumevano ed esprimevano le diverse istanze e concezioniche avevano attraversato la scienza e la legislazione italiana del XIX se-colo.

Un assaggio del vorticoso succedersi di progetti che precedettero laredazione dell’art. 369 del codice Zanardelli in tema di infanticidio puòessere utile per comprendere sia il grado di influenza degli immediatiantecedenti normativi sia, al contrario, l’indipendenza mostrata dal testodefinitivamente approvato rispetto alle concezioni che ne ispirarono lostesso iter formativo30.

La difficoltà di elaborare un ‘comune sentire’ in tema di infanticidiosi rivelò fin dalle prime battute dei lavori preparatori.

Sulla formulazione del primo progetto del 1868, considerato «un esem-pio di civiltà ed italianità»31, pesarono infatti i rilievi mossi da Carrara,il quale intendeva riversare nell’incarico legislativo affidatogli alcuni con-vincimenti da lui maturati in sede dottrinale.

La Sottocommissione Ambrosoli, Arabia, Tolomei presentò alla Primacommissione un articolo, il 325, che traeva la principale ispirazione dalcodice toscano. Esso faceva coincidere l’infanticidio con l’atto della ma-dre che nel parto “o fin che dura la condizione del parto” toglieva vo-lontariamente la vita al proprio figlio illegittimo32, sia con azione che

30 Per ripercorrere le fasi dei lavori preparatori con specifico riferimento al reato diinfanticidio valgano per tutti G. Perroni-Ferranti, Studi sul nuovo progetto di codicepenale italiano, Trapani, 1884, in particolare 41-43; G. Crivellari, Il codice penale peril Regno d’Italia, vol. VII, Torino, 1896, 749-785; Carfora, Infanticidio, cit., 699-702;M. Speciale, Il codice penale pel Regno d’Italia. Studio dei progetti comparati, vol. II,Roma, 1889-1890, 512-549.

31 B. Paoli, Saggio di una storia scientifica del decennio di preparazione del codicepenale italiano, Firenze, 1878, 6-7.

32 Si fa qui riferimento all’illegittimità della prole (come era accaduto per quasi tuttii codici preunitari) e non del concepimento (come invece previsto dagli artt. 316 del co-dice toscano e 351 di quello estense). Sembrerebbe una discrepanza meramente lessicale,ininfluente giuridicamente. In realtà la differenza emerge se si considera il caso di undonna coniugata fecondata prima della celebrazione del matrimonio: il figlio è presuntolegittimo (e non si potrebbe quindi applicare nei suoi confronti la definizione di proleillegittima), pur essendo in realtà frutto di un ‘concepimento illegittimo’ (E. Brusa, In-torno al nuovo progetto di codice penale italiano. Osservazioni e proposte in ordine alla

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omissione, al fine di salvare l’onore o sottrarsi a sovrastanti sevizie. L’at-tenuante veniva estesa ad eventuali complici della madre.

Ambrosoli aveva spiegato le ragioni di tale scelta e anche in questocaso scienza e diritto si fondevano: le motivazioni di Ambrosoli legisla-tore ricalcavano quelle espresse a suo tempo dall’Ambrosoli giurista, al-lorché, confrontando codice toscano e austriaco, non aveva mancato disottolineare come fosse «dottrina generale e accertata che la donna nelparto si trova in uno stato psicologico di minore imputabilità, e taloraperfino di vero furore». Ciò bastava a giustificare la minor pena rispettoall’omicidio: un’eccezione che doveva «valere unicamente per la madre,e per la durata del parto»33. O anche oltre quel momento, aveva già al-lora ventilato il giurista lombardo, accogliendo alcuni orientamenti giu-risprudenziali austriaci che consentivano l’applicazione del regime del-l’infanticidio commesso in un lasso di tempo successivo al parto, pur-ché sussistesse nella donna quello stato di alterazione d’animo e di menteprovocata dall’esperienza appena vissuta.

Su questo profilo si tornava nella seduta del 18 aprile 1868, giustifi-cando proprio con le argomentazioni appena espresse la scelta di esten-dere il trattamento punitivo più mite a un periodo più ampio, facendolocoincidere con il perdurare dello stato di prostrazione fisica ed emotivadella donna. «Trattandosi di una disposizione che prende le sue ragioninon tanto dalla minore importanza della creatura, quanto dalla minoreimputabilità della madre, si accolse il suggerimento dei medici legali,adottando quella locuzione scientifica che appunto serve a fissare il punto,di caso in caso, in cui cessa nella partoriente lo stato anormale che giu-stifica la disposizione speciale sull’infanticidio»34.

Le argomentazioni di Ambrosoli trovarono solo in parte sostegno inCarrara. Questi propose di considerare e disciplinare come ipotesi atte-nuata di omicidio il solo infanticidio per causa di onore, senza distin-zione tra madre di prole legittima o illegittima, senza particolare insi-stenza sulla condizione psicologica della donna e limitando il più pos-sibile il lasso temporale di azione (nel parto o poco dopo esso, come eragià nel codice toscano), poiché «la forza della pressione morale del sen-

circolare indirizzatami in nome del presidente della commissione compilatrice, in Moni-tore dei tribunali, 1867, 1069).

33 F. Ambrosoli, Studi, cit., 126. 34 Il progetto del codice penale pel Regno d’Italia, vol. I, verbale n. 86, seduta del

18 aprile 1868, Firenze, 1870, 535.

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timento d’onore perde di intensità man mano che si allontana il mo-mento del parto e si aprono altre vie per nascondere il neonato»35.

Caduto il rilievo dato allo status di illegittimo e attribuita rilevanzaesclusiva alla causa d’onore, si decise di estendere il trattamento sanzio-natorio previsto per l’infanticida anche ai familiari se mossi ad agire dalsolo scopo di evitare il pubblico disdoro.

Fu nella seduta del 4 gennaio 1870 che si preferì recuperare gli estremipresenti nel codice napoletano prima e nel testo sardo modificato poi.L’infanticidio veniva ricompreso tra gli omicidi aggravati (una sorta diomaggio al passato) per la particolare barbarie di un atto che spegnevala vita di un essere incapace di suscitare sentimenti diversi dalla bene-volenza. Il reato era dunque qualificato come l’omicidio volontario diun infante non ancora iscritto nei registri di stato civile commesso en-tro i primi cinque giorni dalla nascita (art. 285 § 2; la redazione suc-cessiva escluse il riferimento numerico, preferendo la più generica for-mula entro i primi giorni dalla sua nascita): soluzione che anticipavaquella poi accolta nella redazione finale36. Se il reato era stato commessoin un periodo successivo al termine fissato, trovava applicazione la di-sciplina sull’omicidio. Nella seduta del 7 gennaio si decise di limitare lascusante a chi avesse agito per salvare l’onore proprio o della moglie,della madre, della figlia o della sorella (art. 347), ritenendo eccessivo epericolosamente vago (e perciò fonte di incertezza interpretativa) il ri-chiamo generico alla famiglia come possibile beneficiaria del trattamentosanzionatorio attenuato37.

Si mantenne tale impostazione anche nei progetti successivi, con lievi

35 Il progetto del codice penale, vol. I, cit., 536.36 Il progetto del codice penale pel Regno d’Italia, vol. II, verbale n. 49, seduta del

4 gennaio 1870, Firenze, 1870, 335.37 Il progetto del codice penale, vol. II, cit., 347. Di nuovo Ambrosoli interveniva

sul punto, rilevando che la nozione di infanticidio era stata dedotta «dal doppio ele-mento che consiglia di aumentare la pena, cioè dall’impotenza della vittima a difendersie dalla facilità di occultare il reato … Ben diverso dalla nozione è il computo delle causescusanti che nella maggior parte dei codici si vollero inopportunamente innestare nelladefinizione stessa dell’infanticidio, riferendolo alla sola madre e al solo tempo del partoo immediatamente successivo. Il progetto, distinguendo accuratamente le due cose, harimandato le disposizioni speciali di attenuazione al capo che ne tratta in generale pertutte le specie di scuse, scemando poi la pena quando l’infanticidio è commesso per sal-vare l’onore» (Sul progetto del codice penale e del codice di polizia punitiva pel Regnod’Italia. Rapporto della Commissione nominata con decreto 3 settembre 1869 a Sua Ec-cellenza il Ministro Guardasigillli, Firenze, 1871, 58).

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modifiche (rivolte più che altro alla determinazione della pena) che tut-tavia non incidevano né scardinavano la ratio del sistema. La tendenzagenerale fu quindi quella di delineare l’infanticidio come omicidio ag-gravato, salvo prevedere nella difesa dell’onore una specifica circostanzaattenuante, escludendo che esso potesse costituire un titolo autonomodi reato come ventilato nel disegno di legge precedente.

Fu il secondo progetto Zanardelli presentato il 22 novembre 1887 adinvertire la rotta e a profilare tratti di disciplina che si rifacevano al pri-mitivo disegno del 1868. L’infanticidio cessava di essere considerato unaforma aggravata di omicidio e si parificava a qualunque altra uccisione.La qualità d’infante in sé considerata non era motivo sufficiente per pre-vedere un inasprimento della pena, dal momento che la legge tutelavala vita come tale, fosse essa di un adulto o di un fanciullo38, né la ra-gione di un aggravamento sanzionatorio poteva ravvisarsi nella qualitàgenitoriale dell’autore del reato o nella insufficiente capacità di tutela edi difesa della vittima, dal momento che simili argomentazioni dovevanovalere anche per chi fosse uscito dalla condizione di infante39.

Solo nel caso in cui il delitto fosse stato commesso per causa d’o-nore (condizione intrinseca, dirà il Ministro) l’infanticidio meritava untrattamento differenziato40.

Da omicidio aggravato l’infanticidio diveniva omicidio ‘mitigato’ seconnotato da una condizione specifica come l’onore41: si assisteva ad un

38 In realtà, precisava il Ministro, a differenza di quanto sostenuto nel passato, l’uc-cisione di un soggetto che avesse acquisito una certa maturità psico-fisica avrebbe do-vuto considerarsi più grave della soppressione di chi aveva appena «schiuso gli occhi aiprimi bagliori della vita» (Progetto del codice penale pel Regno d’Italia […] RelazioneMinisteriale, vol. II, Roma, 1887, 293).

39 Relazione Ministeriale, cit., 290-292. Nella relazione del Ministro Zanardelli rie-cheggiano le osservazioni svolte da Carrara, per il quale nessuna differenza intercorrevatra un bambino nato da poche ore e uno nato da un mese o due quanto alla capacitàdi difendersi, essendo entrambi affidati alla cura dei genitori (F. Carrara, Programma,cit., § 1208, 300).

40 Relazione Ministeriale, cit., 294. Nella Relazione accompagnatoria si insiste sulfatto che l’infanticidio fosse ‘omicidio scusato’ che comportava una pena minore per ilparticolare stato in cui si trova l’agente (disperazione, straordinaria eccitazione nervosa):condizione che evidentemente ne diminuiva l’imputabilità. Si tratta di un passaggio im-portante, spesso richiamato dai commentatori del codice a sostegno delle proprie ragionicontro quelle espresse dalla Cassazione che individuava nell’infanticidio un titolo auto-nomo di reato. V. infra.

41 Si opponeva Carrara agli «aristarchi della scienza, sempre pronti a trasportare nelgiure punitivo le dottrine puramente ascetiche», per i quali era immorale scusare un de-

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completo ribaltamento di posizioni, tanto che «gli elementi che primavenivano utilizzati per dimostrarne la maggiore gravità, ora contribui-scono a giustificare l’attenuazione di pena»42.

Discusse e respinte le obiezioni volta per volta sollevate (vi era chivoleva elevare la vitalità a requisito costitutivo e chi escludere il maritodal novero dei soggetti a cui estendere la specifica disciplina sanziona-toria; chi riteneva che solo la madre di prole illegittima potesse benefi-ciare del più mite trattamento punitivo e chi proponeva di omettere l’in-dicazione dei giorni di vita dell’infante necessari per ritenere integratal’ipotesi delittuosa), si accolse solo la proposta di un’ulteriore riduzionedel minimo edittale della pena, da sei a tre anni di detenzione.

E così, al termine di un lungo lavorío, si delineò l’art. 369 del primocodice penale unitario: quando il delitto di omicidio “sia commesso so-pra la persona di un infante non ancora iscritto nei registri dello statocivile, e nei primi cinque giorni dalla nascita, per salvare l’onore pro-prio, o della moglie, della madre, della discendente, della figlia adottivao della sorella, la pena è della detenzione da tre a dodici anni”, rispettoalla reclusione da diciotto a ventun anni per l’omicidio semplice e daventidue a ventiquattro anni o addirittura l’ergastolo nell’ipotesi in cuii due soggetti fossero legati da particolare vincoli di parentela o di san-gue (artt. 364-366).

La scelta sanzionatoria si proponeva come espressione di una misu-razione intermedia tra l’indulgenza verso talune condizioni femminilimeritevoli di commiserazione43 e la necessità di mantenere alto il valoredella vita umana.

Era scomparso ogni riferimento all’illegittimità della prole, che avevaaccompagnato a lungo i lavori preparatori, per giustificare il fine dell’o-nore; il concetto di infante era stato individuato in ragione del tempuscommissi delicti (i cinque giorni previsti erano quelli richiesti dall’art. 371del codice civile per la denuncia della nascita all’ufficiale di stato civilee per l’iscrizione nel relativo registro); la scusante era estesa ad altri sog-getti, tassativamente indicati dalla legge.

litto con un fatto vizioso, quale la precedente condotta frivola della donna che avevadato luogo al concepimento e alla successiva necessità di occultare la prole (F. Carrara,Programma, cit., § 1216, 314).

42 R. Selmini, Profili di uno studio storico, cit., 47. 43 «L’infanticidio… può essere commesso in condizioni assai miserande e veramente

degne di grande pietà» (F. Puglia, Manuale teorico-pratico di diritto penale, Napoli,1895, 312).

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«Dalla rapidissima quanto arida esposizione storica fatta possiamoadunque dedurre che l’infanticidio nella storia passa per tre stadii: in unprimo periodo è quasi sempre favorito dalla legge, in seguito è punitoquasi dovunque con la morte, oggi infine è considerato come un fattopiù doloroso forse che malvagio e indulgentemente punito»44.

Dopo un quarto di secolo, il processo unificatorio penale si era com-piuto, «ma in Italia, unificare ha spesso, o quasi sempre, senso di di-struggere quel che ci è, per riedificare il nuovo, che appunto in quantoè nuovo e solo perché è tale, si presume esser l’ottimo»45. In realtà, iltesto definitivo molto doveva al primigenio progetto, come era accadutoper altre parti del codice46, in una sorta di ritorno alle origini. Si trat-tava, comunque, più che di un punto di arrivo, di un punto di partenza.Il dibattito interpretativo stava infatti per infiammarsi.

3. Omicidio attenuato o titolo autonomo di reato?

Il codice Zanardelli, dunque, considerava l’infanticidio «un omicidiocome qualunque altro, che può essere semplice, aggravato o qualificato,a seconda che sia o no accompagnato da circostanze aggravanti o qua-lificanti e soggetto alle pene ordinarie, quando il motivo che spinse acommetterlo non sia quello di salvare l’onore. Quando però questo mo-tivo intervenga, la nuova legislazione commina una pena speciale»47.

La didascalica definizione non bastò tuttavia ad evitare un violentocontrasto tra dottrina e giurisprudenza: si doveva qualificare l’infantici-dio una figura speciale oppure un omicidio attenuato dalla causa d’o-nore48?

44 P. Arena, L’infanticidio, cit., 14.45 F.S. Arabia, Sull’applicazione del codice penale italiano, Napoli, 1893, 3.46 Mi permetto di rinviare a L. Garlati, Reati di cui i legislatori si occupano poco

e gli scrittori pochissimo: l’abuso dei mezzi di correzione e i maltrattamenti in famiglianel Codice ticinese, in Codice penale per il Cantone del Ticino (1873), Padova, 2011,CLXXVII-CCXII.

47 G. Crivellari, Il codice penale, cit., 824.48 L’elevazione dell’infanticidio a titolo speciale di reato era stata contestata vivace-

mente ben prima della promulgazione del codice Zanardelli, in fase di lavori prepara-tori, per indirizzarne, in qualche modo, la discussione, come si rileva in G. Perroni-Ferranti, Un pensiero sul titolo di infanticidio, in Id., Pagine sparse. Studi di diritto cri-minale e di rito civile, Messina, 1879, 5-10.

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Era questo un profilo problematico che divideva gli interpreti: le po-lemiche si placarono solo con l’avvento del codice Rocco, il cui art. 578elevò espressamente l’infanticidio per causa di onore a titolo autonomodi reato, contrassegnato sia dalle particolari condizioni e qualità dei sog-getti attivi e passivi sia dal movente.

In realtà, tale soluzione era stata nei fatti anticipata dalla giurispru-denza della Corte di Cassazione già all’indomani dell’entrata in vigoredel codice Zanardelli. La Suprema Corte aveva sostenuto, in una pro-nuncia destinata a far scuola, che «a differenza del soppresso Codice Pe-nale… il nuovo Codice fa dell’infanticidio un titolo speciale di reatoquando trattasi di renderlo scusabile in considerazione della causa dionore»49. Il principio venne confermato in una serie di sentenze succes-sive50, in cui, con chiarezza, si escludeva la possibilità di qualificare l’in-fanticidio come omicidio scusato per circostanze personali soggettive,preferendo considerarlo reato speciale.

Ribadiva con insistenza la Corte come non fossero sufficienti la vo-lontà di uccidere e l’evento morte (propri dell’omicidio) per configurareun infanticidio; occorrevano infatti altri estremi (la mancata iscrizionenei registri di stato civile della vittima, il compimento del fatto illecitonei primi cinque giorni di vita del neonato, la tutela dell’onore), così chela pena stabilita non era una semplice diminuzione di quella sancita perl’omicidio, ma costituiva una sanzione a sé.

La linea costante («e per noi assurda»51) seguita dalla Suprema Cortenon incontrava il favore della dottrina, che respingeva le argomentazionigiurisprudenziali nella convinzione che il legislatore avesse voluto disci-plinare l’infanticidio come ipotesi circostanziata e attenuata di omicidio:così risultava anche dalla relazione al progetto del 188752. Vi era tutta-via nei commentatori la consapevolezza che l’impiego della particolaredenominazione di infanticidio, meramente convenzionale («un conven-

49 Cass., 7 ottobre 1891, in Il foro penale, 1892, 127.50 Cass., 15 gennaio 1892, in Riv. pen., 1892, 297-298; Cass., 27 gennaio 1892, in

Riv. pen., 1892, 397; Cass., 24 agosto 1897, in Giust. pen., 1897, col. 1464; Cass., 17 ot-tobre 1900, in Monitore dei tribunali, 1901, 458 (in cui si ribadiva che la causa d’onorefaceva del reato di infanticidio un reato a sé, non agendo come semplice circostanza at-tenuante, ma quale elemento costitutivo «venendo a determinare quel dato specifico, dacui il delitto medesimo è dovuto derivare»).

51 L. Majno, Commento al codice penale italiano, II, Verona, 1894, 130.52 V. nt. 39.

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zionalismo non punto necessario»53), potesse creare fraintendimenti «achi si preoccupa più dei nomi che della sostanza»54 ed avesse così con-tribuito ad insinuare nella Cassazione «una falsa idea» che l’aveva in-dotta «a togliere il suo vero carattere alla circostanza della causa d’o-nore, facendola considerare come elemento costitutivo di uno specialedelitto»55. In realtà, «il reato tipo è sempre l’omicidio. Ciò emerge dallastessa dizione dell’art. 369»56.

Non mancava qualche voce dissonante, per la quale l’infanticidio «stafra gli omicidi come una figura distinta, per la pena più mite che per lostesso viene applicata», in adesione agli orientamenti giurisprudenziali57.Sulla considerazione che il maggior numero di infanticidi veniva com-messo causa honoris, era opportuno creare una speciale figura giuridica«che comprenda quasi la totalità dei casi, piuttosto che lasciare una fi-gura teorica e rara, dalla quale poi bisogna discendere, ogni giorno, me-diante la prova dell’effetto»58.

Chi sosteneva la tesi della specialità la fondava spesso sulla mancanzadi danno mediato, in ragione sia dell’incapacità delle vittime di averepercezione dei pericoli sovrastanti sia della mancanza di un allarme ri-flesso nella società (nessuno, infatti, poteva temere di vedere ucciso ilproprio figlio da altri per ragione d’onore)59. La specialità, dunque, de-rivava dal fatto che il danno mediato prodotto dall’infanticidio era es-senzialmente diverso da quello di qualunque altro omicidio e si ridu-ceva al turbamento prodotto nell’ordine giuridico dalla violazione deldiritto all’esistenza. La scuola positiva rifiutava tale ricostruzione, inquanto scientificamente insostenibile, dal momento che una figura cri-minosa autonoma richiedeva una formula generale capace di racchiuderetutti i possibili casi di aggressione del diritto protetto: non poteva dirsiessere questo il caso dell’infanticidio60.

53 G.B. Impallomeni, Dei reati contro la persona, cit., 290.54 Ivi, 289.55 G.B. Impallomeni, L’omicidio nel diritto penale, Torino 1899, 555. 56 A. Stoppato, Questioni di diritto e di procedura penale, Verona-Padova, 1892, 195.57 G. Suman, Il codice penale italiano, Torino, 1892, 689. O ancora: «l’infanticidio

non è omicidio scusato per circostanze personali subbiettive, ma è una speciale figuradi reato» (M. Pinto, Infanticidio [art. 369 cod. pen.], Campobasso, 1895-96, 18). Cfr.anche P. Arena, L’infanticidio, cit., 20.

58 B. Alimena, Intorno al delitto d’infanticidio, Napoli, 1896, 8.59 R. Balestrini, Aborto, infanticidio ed esposizione d’infante, Torino, 1888, 81.60 «Il tentativo fatto dal Carrara e ripetuto dal Balestrini, per togliere l’infanticidio

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La questione non era di mera nomenclatura o sistematica, ma com-portava conseguenze rilevanti sia sul piano sostanziale che processuale.La pronuncia del 7 ottobre 189161, ad esempio, con la quale la SupremaCorte aveva tentato di rimediare ad un errore commesso dalla Sezioned’Accusa nel formulare l’imputazione a carico di tal Salvatore Buccolo,complice di una madre infanticida, aveva suscitato più di un dissenso pro-prio sotto il profilo della correttezza procedurale. La Sezione d’Accusa,infatti, pur ritenendo che il coimputato avesse ucciso un infante non perragione d’onore ma per lucro (un guadagno di 20 lire), lo aveva rinviatoa giudizio per infanticidio, «ma si era ben guardata dal comprendervi leparole – per salvare il proprio onore, o delle persone di famiglia – inesso articolo [369] tassativamente designate; poiché se tanto avesse fattosarebbe incorsa in una aperta e flagrante contraddizione»62. La Corted’Assise, di fronte all’alternativa di invitare i giurati a confermare un capodi imputazione smentito dai fatti o a modificare l’accusa in omicidio vo-lontario, aveva scelto questa seconda strada, aggravando, ovviamente, laposizione del correo e distaccandosi dalla formula originaria di accusa. Ilpresidente della Corte d’Assise si era inoltre rifiutato di accogliere la ri-chiesta della difesa di sottoporre ai giurati, in via sussidiaria, il quesito sel’imputato avesse commesso il fatto per ragione d’onore. Contro la sen-tenza aveva presentato ricorso il soccombente, ritenendo violata la deci-sione della Sezione d’Accusa, poiché la Corte, nonostante l’opposizionedella difesa, aveva voluto proporre le questioni relative al Buccolo in baseall’art. 364 (omicidio) e non 369. La Corte di Cassazione rigettava il ri-corso e confermava il corretto operato della Corte d’Assise, rilevando cheil codice faceva dell’infanticidio una figura speciale di reato solo se com-messo per causa d’onore (e non era questa l’ipotesi) e che, «se dalla mo-tivazione della sentenza di accusa non risultava o era esclusa la ragioned’onore, l’aver rinviato alla Corte d’Assise un accusato di infanticidio exart. 369 non implicava che il presidente dovesse nella questione ai giu-rati includere la circostanza della ragione di onore, senza il concorso dellaquale non è applicabile il citato articolo»63.

causa honoris dalla classe degli altri omicidi … fa uno strappo a quel simmetrico edifi-zio, in cui la rigida inflessibilità delle formule teoricamente sancite, vuole che s’inqua-drino tutti i reati» (S. Sighele, Sull’infanticidio, cit., 191).

61 V. nt. 48.62 Cass., 7 ottobre 1891, in Il foro penale, 1892, 128.63 Cass., 7 ottobre 1891, in Il foro penale, 1892, 127.

La Corte d’Assise 1-2/1234

Per la dottrina, invece, la Corte avrebbe dovuto riconoscere alla di-fesa il diritto di sottoporre ai giurati la questione sulla causa d’onore,dal momento che il codice di rito del 1865, ai sensi dell’art. 494, impo-neva al presidente di proporre alla giuria, ogni qual volta la difesa neavesse fatta richiesta, le questioni su fatti che, ai termini di legge, scusa-vano l’imputabilità. Di conseguenza, la discussione se il movente di unomicidio sopra un infante fosse da individuarsi nella causa d’onore omeno integrava gli estremi dell’art. 494, essendo una circostanza atte-nuante64. La sostanziale riduzione di pena prevista dal codice, si obiet-tava, non si legittimava in ragione di una diminuzione nella lesione obiet-tiva del diritto, ma in virtù di una minorata responsabilità generata daun particolare stato d’animo «del quale il legislatore ha creduto di inte-ressarsi… Nulla dunque importa se l’infanticidio costituisca per legge untitolo speciale, quando è la scusante che tale lo crea»65.

In letteratura, dunque, si ribadiva che l’art. 369 altro non era se nonuna sottospecie dell’omicidio, scusata per circostanze speciali di indolesoggettiva con il concorso di altre di carattere oggettivo: «la causa d’o-nore devasi considerare come una scusante, la quale… fa declinare o de-gradare, a così esprimerci, il titolo principale, e, mantenendo il tipo giu-ridico del delitto ne riduce la responsabilità e ne diminuisce conseguen-temente la pena»66.

In una successiva pronuncia, sulla falsariga di quella or ora esami-nata, si era precisato che, «una volta affermata da’ giurati la questionedell’omicidio, era evidente che non potessero votare l’altra riguardanteil reato speciale di infanticidio, perché votandola ed affermandola, in-vece di un unico reato, ne avrebbero affermati due diversi, perché con-templati da due diverse disposizioni di legge»67. Il ragionamento aveva

64 La stessa nota alla sentenza, pur non lineare nella sua interpretazione dell’art. 369e della mens legis, censurava l’operato della Corte Suprema, nella convinzione che essaavrebbe dovuto «almeno dichiarare scorretto il procedere del presidente delle Assise eciò per evitare che si stabilisse un precedente pericoloso, che potrebbe man mano ri-solversi nella più flagrante violazione della regola fondamentale prescritta, sotto pena dinullità, dall’articolo 494 del Codice di Procedura Penale» (Cass., 7 ottobre 1891, in Ilforo penale, 1892, 128, nt. 1).

65 A. Stoppato, Questioni di diritto, cit., 197. 66 Ivi,195.67 Cass., 15 novembre 1897, in Giurispr. pen., 1898, 321. «La gran ragione! Con que-

sta logica gli articoli… che prevedono circostanze attenuanti e aggravanti di reati, indi-cano altrettanti titoli di reato, perché sono disposizioni di legge diverse da quelle che

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suscitato energiche reazioni, non scevre da un certo sarcasmo: «Insommanel pensiero della nostra Corte regolatrice (?) v’è addirittura incompati-bilità tra un omicidio e un infanticidio, e la causa dell’onore ha la sin-golare virtù d’impedire che un infante sia un uomo!»68.

Entrava in gioco un’ulteriore questione rilevante. Considerare l’in-fanticidio un titolo particolare di delitto comportava riconoscere la com-petenza del tribunale penale anziché della corte d’assise quando il col-pevole fosse minorenne, dal momento che, essendo prevista per l’infan-ticidio scusato la detenzione da tre a dodici anni, in ragione del combi-nato disposto dell’art. 56 del c.p. (che prevedeva l’ulteriore riduzione diun sesto per i maggiori di anni 18 anni ma minori di 21) e dell’art. 9 e10 del c.p.p. del 1865 (quest’ultimo delegava al tribunale, tra gli altri, lacognizione dei reati puniti con una pena restrittiva della libertà inferiorenel minimo ai cinque anni e nel massimo a dieci), la pena risultante «ve-niva a ridursi nei cancelli della competenza» del tribunale69.

Le due diverse opzioni, inoltre, avevano ricadute anche sul tratta-mento dei complici. Se l’infanticidio era reato a sé stante, la causa d’o-nore ne rappresentava un elemento costitutivo e perciò comunicabile alcomplice; se invece lo si considerava un omicidio attenuato, la scusanteera strettamente personale e intrasmissibile. Aderendo alla prima solu-zione, la Corte di Cassazione aveva sancito che la sanzione da irrogareagli estranei che concorrevano in un infanticidio commesso dalle per-sone indicate dall’art. 369 doveva determinarsi in base a questa disposi-zione e non con riferimento a quelle che regolavano il titolo ordinariodi omicidio70. Per giungere a questo risultato, la Cassazione ovviamenteaveva ribadito che non si trattava di comunicabilità o meno di circo-

servono a indicare una forma comune e generale di reato!» (G.B. Impallomeni, L’o-micidio, cit., 558, nt. 1).

68 G.B. Impallomeni, L’omicidio, cit., 558.69 G. Crivellari, Il codice penale, cit., 825.70 Cass., 27 gennaio 1892, in Riv. pen., 1892, 397-398. Nel caso di specie la madre

infanticida era stata condannata dalla Corte d’Assise di Lanciano a cinque anni di de-tenzione, mentre la complice era stata ritenuta responsabile di concorso in omicidio(avendo essa fornito alla madre, alcuni mesi prima del parto, le istruzioni su come sop-primere l’infante) e per questo condannata a nove anni di reclusione. In seguito a ri-corso, la Cassazione riconobbe alla complice un concorso nello stesso reato di infanti-cidio, dal momento che «è assurdo che nella fattispecie la complice sia punita più gra-vemente di colei che ha commesso l’infanticidio, imperocché se tale è a considerarsi ilreato per l’autore, non v’ha ragione per raffigurarlo altrimenti ne’ rapporti del com-plice».

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stanze scusanti, ma che l’onore di cui all’art. 369 andava annoverato fragli «elementi obiettivi del fatto che ne formano il carattere e ne sono ilmateriale costrutto, senza di che scomparirebbe quel titolo speciale cheha voluto creare il legislatore per ragioni di eminente equità e giustizia,sia relativamente all’ordine morale-sociale, come in riguardo allo stato ealle condizioni psicologiche delle persone autrici del misfatto, che valerdevono come conseguenza giuridica anche per rispetto al complice»71.Proprio questo però era il punto: il legislatore aveva veramente voluto,come sostenuto dalla Corte, creare un’autonoma figura delittuosa?

La Cassazione, inoltre, aveva ingenerato una certa confusione quando,in una sua ulteriore sentenza, aveva escluso l’applicazione dell’art. 369 afavore dell’art. 364 qualora l’autore del reato non rientrasse tra i sog-getti tassativamente indicati dalla norma, anche se costui avesse agito persalvare l’onore della madre dell’infante72. Ciò si traduceva, in pratica,nella distinzione tra «autore diretto dell’infanticidio e complice: comecomplice si può profittare della causa honoris della madre infanticida,come autore diretto no. In che si fondi questa distinzione l’eminenteConsesso non lo insegna»73. In ragione della specialità del titolo, quindi,la madre era soggetta a una pena minore se avesse soppresso con le suemani la propria creatura rispetto alla sanzione che l’attendeva se fossestata complice di un estraneo (ossia d’un soggetto non compreso nel no-vero ex art. 369), anche se la donna avesse agito con l’intento di cui al-l’articolo in esame: nell’un caso la causa d’onore agiva come scusantenei confronti della donna, nel secondo no.

Della mitigazione della legge finiva per usufruire «anche chi non neè meritevole… Noi non esitiamo a chiamare una vergogna morale que-sto beneficio che la legge sia pure indirettamente viene a concedere apersone che non hanno nessuna scusante», un inconveniente che si po-neva quale conseguenza della «teorica della specializzazione e dell’indi-vidualità del titolo nelle quali persiste la Cassazione»74.

Con sentenza 3 febbraio 189375 il Supremo Collegio cambiava avviso

71 «Mai più estesamente che in tale arresto la Cassazione ha svolto la sua dottrina,giungendo sino a dire che quando si uccide un infante non si commette omicidio» (A.Calabresi, L’infanticidio, cit., 55).

72 Cass., 24 giugno 1892, in Giurisp. pen., 1892, 479.73 G.B. Impallomeni, L’omicidio, cit., 556.74 A. Calabresi, L’infanticidio, cit., 47.75 Cfr. Rivista penale, 1893, 488.

Loredana Garlati / La fine dell’innocenza 37

e decideva che la minore pena stabilita nell’art. 369 non poteva che es-sere applicata alla donna e ai congiunti specificamente elencati in quelladisposizione. Tale massima era riaffermata in una pronuncia del 9 gen-naio 189576. Con un ragionamento a contrario, la Corte osservava che,avendo l’art. 369 enumerato le persone a vantaggio delle quali potevamilitare il beneficio della scusante, ne escludeva implicitamente tutte lealtre. «Si potrà forse censurare la legge per aver posto delle barriere –proseguiva la sentenza – ma non interpretarla diversamente». Si sottoli-neava dunque che per la ratio dell’art. 369 la scusa dell’onore era stret-tamente personale, sia per indole propria, sia per essere stata dal legi-slatore limitata soggettivamente. Ne conseguiva che il cooperatore o ilcomplice d’infanticidio, quando non fosse ricompreso nel novero deisoggetti previsti dall’art. 369, fosse perseguito per omicidio volontario.

«Ma fu un breve lampo. La dottrina della specializzazione fu poiininterrottamente mantenuta»77, e la nostra Corte Suprema «sopraffattadalla sua stessa giurisprudenza»78 con una serie di pronunce scandite ne-gli anni riconobbe costantemente nell’infanticidio un reato sui generis79

e i ‘complici estranei’ responsabili ex art. 369.

76 Cfr. Cassazione Unica, 1895, 358-359. V. anche Cass., 18 dicembre 1896, in Rivi-sta penale, 1897, 298, in cui si precisava che il discrimine tra infanticidio scusato e co-mune omicidio era la circostanza dell’onore e non la condizione estrinseca di essere ildelitto commesso su un infante non ancora iscritto nei registri di stato civile.

77 A. Calabresi, L’infanticidio, cit., 57.78 Ivi, 96.79 Così, ad esempio, Cass., 6 marzo 1896, in Riv. pen., 1896, 518; le già citate sen-

tenze del 24 agosto e del 15 novembre 1897; Cass., 11 gennaio 1899, in Riv. pen., 1899,422. Nella sentenza 30 gennaio 1899 la Cassazione ribadiva la configurazione dell’in-fanticidio come reato sui generis e la responsabilità di tutti quanti concorrano nel suocompimento ai sensi dell’art. 369. Nel caso di specie la madre di una partoriente neaveva ucciso il figlio con la complicità di quest’ultima e dell’altra figlia. La Corte d’As-sise di Cosenza aveva condannato per infanticidio per causa d’onore l’esecutrice mate-riale del reato (la nonna dell’infante), disponendone la detenzione per due anni e seimesi, mentre la madre dell’infante e la sorella erano state condannate alla reclusione, laprima a quindici anni, come colpevole di concorso immediato in omicidio, la secondaa due anni e sei mesi quale complice non necessaria. Le donne avevano presentato ri-corso e la Corte Suprema ne aveva accolto l’istanza, rilevando nel verdetto pronunciatoun’evidente contraddizione. Invocando il titolo speciale di reato e l’estensione della causad’onore a tutte le persone che avevano preso parte al crimine, la Cassazione precisava:«Ora non si può al tempo stesso riconoscere e negare il concorso in detto fatto dellecondizioni che costituiscono l’infanticidio». Risultava impossibile, per la Corte, ammet-tere il motivo di onore per una sola delle persone accusate dello stesso fatto e negarlo

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Un contrasto, quello tra la dottrina e una giurisprudenza etichettatadai più come caotica, che i principali commentatori del tempo non man-carono di stigmatizzare, denunciando l’atteggiamento di una Corte do-minata da un «bizantino formalismo»80. Taluno liquidava il problema inmodo perentorio: «il Codice non fa un titolo speciale dell’infanticidio…che cade per il nostro Codice sotto le categorie generali degli omicidi»:un omicidio volontario, dunque, di competenza della Corte d’assise81.

Nella vivace nota alla sentenza del 15 gennaio 1892, pubblicata sullaRivista penale e ricca di argomenti persuasivi, si dissentiva dal responsodella Corte, la quale con vigore aveva precisato che l’infanticidio «nonè l’omicidio dell’articolo 364, anche se richiede gli estremi del fine diuccidere e del fatto di aver cagionato la morte». Nel commento si os-servava, invece, che proprio il ragionamento della Cassazione finiva perpalesare che l’infanticidio era omicidio volontario, visto l’esplicito ri-chiamo all’art. 364. Ancora meno meritevoli di considerazione suona-vano le altre due argomentazioni addotte dalla Corte a sostegno dellapropria soluzione: la circostanza che l’indice del codice rubricasse ilfatto con il nome speciale di infanticidio e che il medesimo fosse col-pito da pena speciale. «Ma, Dio Buono! È mai possibile che l’indicedel Codice faccia testo di legge? Si potrebbe mai sostenere che l’art.369 prevede un delitto a sé stante perché nell’indice sta scritto infanti-cidio a quell’articolo?»82. Un argomento, questo, eliminato da un altro,pure esso estrinseco ma più incisivo: l’art. 369 era incluso nel capo in-titolato all’omicidio, «mentre il legislatore, se avesse voluto specializ-zare, avrebbe seguito l’esempio del codice toscano che il Capo I del ti-

per le altre due, dal momento che «tutte e tre facevano parte della stessa unica famigliacomposta dalla madre e di due figlie. Se vi era un onore di famiglia da tutelare … ilsentimento di onore della famiglia era inscindibile, non potendo concepirsi distinto e di-verso l’onore dell’una da quello delle altre due, quando tutte e tre facevano parte di unsol tutto» (Il Foro italiano, 1899, 171-172). «Così o tutte oneste o tutte sfrontate: laCassazione non vuol distinguere e dimentica così che ogni giudizio sul dolo, perché siagiusto, deve essere sempre individuale e concreto» (A. Calabresi, L’infanticidio, cit., 98,ma per una lettura complessiva della posizione fortemente critica dell’autore verso que-sta pronuncia ivi, 98-100). Per un’interpretazione di questa sentenza cfr. anche G. B.Stagni, Il nuovo codice penale spiegato ai giurati, Napoli, 1900, 279-282.

80 L. Majno, Commento, cit., 130.81 G.B. Impallomeni, Dei reati contro la persona, cit., 289-290. Cfr. anche Id., Il ti-

tolo del reato per gli effetti della competenza, in Rivista penale, XXXV, 1892, 1-24.82 Rivista penale, XXXV, 1892, 298, nota.

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tolo VII libro II intitola “Dell’omicidio, dell’infanticidio, e del procu-rato aborto”»83.

Compatta, dunque, la dottrina del tempo rivendicava la correttezzadella propria linea interpretativa nel ravvisare nell’infanticidio un omici-dio doloso diversamente punito per il concorso di una circostanza atte-nuante84. L’errore della Suprema Corte fu di aver voluto elevare ragionispeciali a criteri universali, o meglio, nell’aver voluto costruire la figuracriminosa dell’infanticidio su condizioni desunte da casi particolari.

4. Gli elementi costitutivi tra dubbi e certezze

La mera analisi esegetica dell’art. 369 non bastava neppure a dissi-pare le incertezze interpretative relative agli elementi essenziali di tale fi-gura delittuosa. Nessun dubbio che ad integrare l’infanticidio dovesseroconcorrere contemporaneamente la volontà di uccidere (il dolo), un sog-getto passivo identificato con un infante, la sua uccisione prima dell’i-scrizione della nascita nel registro dello stato civile e nei primi cinquegiorni di vita, particolari qualità del soggetto agente, il fine dell’onore.Si trattava di profili tra loro profondamente compenetrati e tutti neces-sari: la mancanza di uno solo di essi impediva l’integrazione dell’infan-ticidio ex art. 369 e comportava l’applicazione del titolo di reato di ge-nere, ossia l’omicidio ex art. 36485.

83 A. Calabresi, L’infanticidio, cit., 52.84 Se di Impallomeni si è detto, si veda, ad esempio, G. Crivellari, Il codice pe-

nale, cit., 825; L. Majno, Commento, cit., 130; U. Conti, L’omicidio volontario e in-fanticidio (Art. 364 e 369 del Cod. pen. Italiano), in La Legge, 43 (1903), 3-10 (in cuil’autore ribatte alla giurisprudenza della Suprema Corte evidenziando come l’art. 369 delcodice Zanardelli dichiarasse il solo infanticidio per causa d’onore come «circostanzascusante dell’omicidio volontario», mentre l’infanticidio in genere stava nella nozioned’omicidio); F. Puglia, Delitti contro la persona, in Trattato di diritto penale, a cura diE. Florian, A. Pozzolini, A. Zerboglio, P. Viazzi, vol. VI, Milano, 1905, 210 (dove si ri-badiva che «sia per i precedenti legislativi, sia per la connessione logica e scientifica chesussiste fra le diverse disposizioni legislative, sia per il modo come è redatto l’art. 369,si deve escludere che in questo articolo si contempli un titolo speciale di delitto»).

85 «Esclusa dalla sentenza di rinvio, nell’uccisione di un infante, la cagion d’onore,il fatto rientra nella figura di reato prevista dall’art. 364 c.p.; quindi non si deve, in que-sto caso, chiedere ai giurati se l’ucciso era un infante nei primi cinque giorni dalla na-scita e non ancora iscritto nei registri dello stato civile» (Cass., 5 gennaio 1900, in IlForo italiano, Repertorio 1900, 223).

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4.1. La nozione di infante tra vita e vitalità

A differenza delle legislazioni precedenti, il codice Zanardelli avevarifuggito espressioni quali neonato o nato di recente per definire il sog-getto passivo del reato, preferendo operare una scelta fondata su un ter-mine temporale convenzionale (entro i cinque giorni dalla nascita) e unatto ufficiale (prima dell’iscrizione nei pubblici registri)86: l’esistenza, dun-que, diveniva giuridicamente accertata una volta denunciata la nascita,oppure la si riteneva presuntivamente nota trascorsi cinque giorni dalparto. Una volta data pubblicità alla nascita del bambino si escludevavirtualmente, secondo l’interpretazione più accreditata, l’unica vera causache da sola motivava la riduzione di pena rispetto all’omicidio, ossia ilfine di celare la prole per sfuggire il disonore87.

La fissazione di un termine, a detta dei più, segnava un notevole pro-gresso rispetto alle codificazioni abrogate e rimuoveva tutti i dubbi chele vecchie formule avevano suscitato88. Una tesi contro cui si levava qual-che dissenso89, come dimostra Calabresi laddove ironicamente imputa al

86 Il modello di riferimento per tale norma era, come si è constatato nelle pagineprecedenti, il codice napoletano, che all’iscrizione nei registri equiparava il battesimo,estremo soppresso già nel codice sardo e non più riproposto nel codice penale dell’ ’89nel clima liberale di laicità che si respirava nella legislazione unitaria, come se l’annota-zione della nascita nei pubblici registri rappresentasse una sorta di battesimo civile dellasocietà.

87 Si sosteneva che un eccessivo decorso di tempo consentiva alla madre di recupe-rare la calma e la freddezza, la capacità di riflettere, superando il turbamento dell’animo.«La non iscrizione dell’infante e il non trascorrimento del termine di cinque giorni dallanascita sono due condizioni delle quali è necessario il cumulativo concorso» (L. Majno,Commento, cit., 131). Pertanto, l’uccisione nei cinque giorni ma a registrazione avve-nuta ricadeva nel titolo ordinario di omicidio.

88 Così M. Pinto, Infanticidio, cit., 10. Dello stesso parere B. Alimena, Intorno aldelitto d’infanticidio, cit., 17: pur ammettendo che la fissazione del termine di cinquegiorni potesse apparire un criterio «artificiale ed empirico, esso, ad onta dei suoi difetti(comuni a tutti i rigidi termini), ha però il vantaggio di comprendere il maggior numerodei casi e produce il beneficio di evitare ogni discussione».

89 Non mancò, ad esempio di avanzare qualche riserva sull’effettivo grado di cer-tezza offerto da una simile opzione Alessandro Stoppato, per il quale una formulazionedi questo tipo evitava ogni genere di arbitrio a livello applicativo, ma aveva determinatoparecchie esitazioni in sede di lavori preparatori, dove si oscillò da trenta fino a duegiorni (A. Stoppato, Infanticidio, cit., 139-149). Sulla stessa linea Sighele, per il qualeun bambino «può avere un giorno di vita ed essere la sua nascita ancora ignota, men-tre può avere un’ora sola di vita e la sua nascita essere già notoria» (S. Sighele, Sul-l’infanticidio, cit., 186). Cfr. anche R. Balestrini, Aborto, cit., 257 e Puglia, che defi-

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legislatore di ridurre una questione giuridica e morale ad un ‘problemadi orologio’ o, tutt’al più, di calendario. È come se la legge dicesse allamadre disonorata che teme la scoperta della sua vergogna e che dopouna lotta interiore si arrende e decide di distruggere il testimone dellacolpa commessa «ieri avresti potuto meritar scusa, oggi no, è spuntatal’alba del sesto giorno… tu non sei più l’infanticida causa honoris, sei lamadre snaturata: a te non più la detenzione anche per pochi anni, mal’ergastolo… Noi comprendiamo che nella determinazione delle normedi diritto sia spesso necessario tracciare dei limiti precisi e assoluti ….Ma ricorrere a presunzione e statuire dei termini fatali è sistema incivilee pericoloso …. E gli stessi autori che criticano l’espressione nouveau-né del Cod. Francese, siccome quella che apre la via all’equivoco e lo-dano le legislazioni che hanno fissato limiti precisi, debbono riconoscereche tali limiti sono necessariamente arbitrari. La rigorosa precisione quipuò produrre ineguaglianza ed ingiustizia»90.

Si percepisce in queste parole l’eco di alcune osservazioni di Carrara,il quale, pur identificando l’infante con il nato di fresco, asseriva che,meglio esaminata la cosa, non erano le circostanze di tempo a dover es-sere prese in considerazione, ma la sola causa scusante: «dovrebbe dun-que a mio credere rettificarsi la nozione di questo delitto, e richiamarei giudici unicamente a verificare se il bambino fu ucciso pel fine di sal-vare l’onore della donna. Con ciò si eviterebbero le insolubili questionisul tempo»91.

Tuttavia, lo scopo di sottrarre ad un’elasticità interpretativa la for-mula di recente nato o nato di fresco non bastava a giustificare la sceltadi «tagliuzzare il periodo della vita umana, per divertirsi poi a dargli,colle norme legali, secondo i vari pezzetti, una protezione maggiore o

niva discutibile la scelta del legislatore (F. Puglia, Delitti contro la persona, cit., 194-195). Questi aveva già avuto modo di esprimere la propria contrarietà prima dell’entratain vigore del codice del 1889, ritenendo che la scelta temporale conducesse «a risultatiingiusti», dal momento che non si comprendeva la ratio del differente trattamento pu-nitivo riservato a chi operava entro un termine prestabilito: «il criterio dell’intervallo ditempo non ci sembra risponda al giuridico fondamento del reato d’infanticidio, non es-sendo esso criterio sicuro, assoluto di maggiore gravità del delitto» (F. Puglia, Del reatodi infanticidio, in Studi critici di diritto criminale, Napoli, 1885, 178-179).

90 A. Calabresi, L’infanticidio, cit., 139.91 F. Carrara, Programma, cit., § 1226, nt. 2, 331. «Pare a noi che in una mode-

sta nota, il Carrara abbia con grande saggezza completamente innovata la dottrina, rin-negando quasi il “nato di fresco”» (A. Calabresi, L’infanticidio, cit., 143).

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minore»92. Illogico punire in un modo l’uccisione di un bambino com-piuta entro i cinque giorni dalla sua nascita e in un modo completa-mente diverso quello consumato nel sesto giorno di vita. L’elementoconnotativo dell’infanticidio non doveva essere il tempus commissi de-licti ma l’intenzione, rivolta a occultare il parto e mantenere ignota lanascita, finalità che non necessitava di limiti di tempo, dal momento chela vita di un bambino poteva divenire nota in poche ore o rimanere ce-lata per molto tempo.

La stessa nozione di nascita poneva poi dubbi epistemologici.Si trattava innanzitutto di distinguere tra procurato aborto e infanti-

cidio, tra i quali si rilevava una spiccata analogia insita anche nella causache ne determinava il compimento, ossia l’onore93. Nel primo caso, unessere umano in formazione, vivente nell’utero della donna, veniva vio-lentemente e prematuramente espulso: la legge, qui, «non ha propria-mente per oggetto di tutelare un diritto individuale all’esistenza, non es-sendovi un soggetto capace di diritti là dove non v’è una persona, maha piuttosto per oggetto di tutelare il diritto della società a che non siainterrotto… il normale sviluppo della popolazione»94. Nel secondo «unorganismo umano, in uno stato di formazione sufficiente a condurre unavita extrauterina autonoma»95, veniva ucciso.

Rimaneva tuttavia impregiudicato il problema della qualificazione giu-ridica della morte dolosa del nascente, destinato a trovare risposta defi-nitiva soltanto con il codice Rocco96.

92 S. Sighele, Sull’infanticidio, cit., 185.93 Vi era chi vedeva nell’infanticidio un reato sì grave, ma meno odioso dell’aborto,

poiché rivelava «un’anima meno pervertita e una natura femminile meno anormale, com-messo in un momento di difesa suprema contro l’aggressione sociale, e quindi d’impul-sività […] mentre l’aborto si prepara e compie coi mezzi più raffinati, studiati e pre-meditati e prova perciò la rinunzia alla maternità con relativa freddezza d’anima» (F.Minici, La base economica nelle degenerazioni specifiche del sesso femminile, Napoli,1907, 58).

94 G.B. Impallomeni, L’omicidio, cit., 45.95 Ivi, 544.96 Il codice penale del 1930 introdusse, per la prima volta, la figura giuridica del fe-

ticidio a causa d’onore, rivolto contro il bambino nascente e attuato durante la faseespulsiva del parto, prima del distacco totale dal corpo materno. La pratica giudiziariae la medicina legale fornivano debite informazioni sulle modalità attuative di simile reato:i modi più frequenti erano il parto in acqua, con conseguente annegamento del feto, ol’inflizione di colpi sul capo del nascente durante l’espulsione. Partendo dalla conside-razione che l’uccisione di un feto durante la nascita non è aborto, inteso esclusivamente

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Il tema intrigava la dottrina, che spesso si faceva scudo delle paroledi fronte a certe zone grigie tratteggiate da una legislazione imperfetta:l’espulsione di un feto immaturo vivente, ma assolutamente non vitale,sul quale si fossero esercitate azioni violente dirette a cagionare la morteera infanticidio, procurato aborto o un’ipotesi priva di connotazione equindi di tutela giuridica? E la soppressione di un bambino nell’atto dinascere, mediante ferite inferte al capo nel momento del parto, primache l’intero corpo fosse uscito dall’alveo materno, era da considerarsireato? Gli autori, come è ovvio, accolsero sul punto soluzioni diverse espesso distanti tra loro97, divisi fra chi era favorevole ad estendere la pre-visione dell’infanticidio anche all’uccisione di un nascente’98 e chi era

come interruzione del processo fisiologico di gravidanza, e nemmeno omicidio o infan-ticidio, perché il feto non vive ancora una vita propria, prima della disposizione del co-dice Rocco esisteva nell’ordinamento penale una sorta di lacuna normativa, forzatamenterisolta dagli interpreti con l’equiparazione del feticidio all’infanticidio.

97 Si voleva evitare che la mancata espressa previsione del feticidio creasse una saccadi impunità intollerabile per un’azione «la quale parteciperebbe di ambedue i reati»:aborto e infanticidio (A. Stoppato, Infanticidio, cit., 128). Carrara, fornendo la sua no-zione di infanticidio, la qualificava come uccisione di un bambino nascente, o nato difresco, proprio per sopire le eterne dispute sorte fra i giuristi e fra i medici legali rela-tivamente al punto in questione. Così tuonava il giurista lucchese contro i dubbiosi in-terpreti e le equivoche normative: «Voi potete dettare severe sanzioni contro questo fattomalvagio della strage del feto nascente; ma non lo potete chiamare infanticidio, perchénon si può uccidere chi non è ancora nato. Questo fatto non è un aborto, perché lavita fetoplacentale è cessata naturalmente a causa della maturità del feto» (F. Carrara,Programma, cit., § 1225, nt. 1-2, 325-326). In realtà una legislazione che aveva accoltotale suggerimento c’era ed era il codice penale austriaco del 1803, il quale al § 139 avevaparificato la soppressione dell’infante nascente a quella del nato («la madre che nel partotoglie la vita al proprio figlio…»), suscitando un ampio dibattito, soprattutto fra gli ope-ratori sanitari, che ne avevano censurato la portata, ritenendo che la denominazione diinfanticidio riservata a chi non era ancora nato fosse contraria alla verità delle cose. Siveda R. Pannain, Omicidio, cit., 887-888.

98 G.B. Impallomeni, L’omicidio, cit., 544-550; Id., Dei reati contro la persona, cit.,295, per il quale «la creatura è in uno stadio di transizione», essendo terminata la vitaintra-uterina senza che sia cominciata quella extra-uterina. Balestrini sosteneva che eranecessario ricomprendere nella nozione del reato il nascente, vista «l’impossibilità di di-stinguere con un taglio netto il momento preciso della nascita» (R. Balestrini, Aborto,cit., 242). Favorevole ad un’equiparazione tra nascente e nato G. Salmonj, L’infantici-dio ed il Nuovo Codice Penale pel Regno d’Italia. Osservazioni, Roma, 1875, 17, nt. 1;F. Puglia, Delitti contro la persona, cit., 196-197. Sulla parificazione tra infanticidio euccisione durante il parto si era espressa anche Cass., 2 giugno 1891, in Annali dellaGiurisprudenza Italiana, 1891, 195-196, precisando che «il legislatore spiega la sua pro-tezione e difende la vita dell’uomo sino al momento della fecondazione» e che l’ucci-

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contrario, ritenendo che in questo modo la donna fosse punita più gra-vemente rispetto a chi, a poche ore o settimane dal parto, a gravidanzainoltrata, si sbarazzasse del feto99.

Per aversi infanticidio, occorreva inoltre che il bambino fosse natovivo, accertamento di grande rilevanza per escludere il reato ogni qualvolta fosse possibile provare che la violenza era stata esercitata su unbambino nato morto: sarebbe mancata in questo caso l’essenza di fattodel titolo, l’antigiuridicità dell’azione. In un neonato l’accertamento dellavita era esperimento delicato, in cui diveniva indispensabile l’apportodella medicina legale per acquisire il corpo del delitto. Sulla base delprincipio che vivere è respirare, la docimasia polmonare idrostatica eraconsiderata, pur tra qualche perplessità, la prova piú attendibile100.

sione di un feto, compiuta quando il processo fisiologico di maturazione si è conclusoe l’espulsione è spontanea, deve qualificarsi come omicidio.

99 Va ricordato, infatti, che il procurato aborto era punito, ai sensi dell’art. 381, conla detenzione da uno a quattro anni. Sposavano questa linea, ad es., G. Crivellari, Ilcodice penale, cit., 829; F. Puglia, Del reato di infanticidio, cit., 180. Di dottrina «in-giusta e infondata», con riferimento a quanti erano proclivi a ritenere infanticidio anchel’uccisione di un bambino nascente, parla P. Arena, L’infanticidio, cit., 23.

100 I periti escludevano che il grido emesso dal bambino o i movimenti compiuti inautonomia (intesi come riflessi dipendenti dal midollo spinale) o addirittura il battitocardiaco indicassero lo stato di vita. L’esperimento universalmente seguito per consta-tare se il bambino al momento della nascita respirasse era dunque la docimasia polmo-nare idrostatica: i polmoni, espiantati dal corpo della vittima, venivano immersi in ac-qua potabile, a temperatura tra i 15 e i 18 gradi, per verificarne il galleggiamento, cau-sato dal minor peso specifico derivante dalla dilatazione avvenuta con la respirazione.Seppure non da tutti condiviso, il metodo era il più seguíto in Italia. La docimasia pol-monare non aveva però valore assoluto; anche i più convinti assertori erano costretti adammetterne in taluni casi l’insufficienza: gli studi medici attestavano che vi erano casidi bambini che, pur avendo respirato, presentavano i polmoni vuoti, o di esperimentidi docimasia idrostatica dove alcune sezioni del polmone avevano galleggiato ed altreno. Posizioni critiche sono espresse, ad esempio, da Carmignani, il quale definiva taleesperimento fallacissimo e, quasi a svalutare l’apporto certo della scienza alla soluzionedi questioni giuridiche, consigliava di non accontentarsi dell’esame, seppur accurato, deimedici, ma di avvalersi anche di congetture e fama (G. Carmignani, Elementi del di-ritto criminale, Milano, 1863, 348). Poca fortuna aveva invece l’esame della cavità deltimpano (nel caso di mancata respirazione la cavità risultava riempita da un cuscinettomucoso) o la ricerca di cristalli urati nei reni, quale segno di vita extrauterina. Tra i trat-tati di medicina legale si vedano, a mero titolo esemplificativo, G.L. Casper, Manualepratico di medicina legale, Torino, 1858, 551-702; G. Ziino, Compendio di medicina le-gale in trenta lezioni secondo le leggi dello Stato e i più recenti progressi della Scienza,Napoli, 1872, 281-303 e 469-498; F. Strassmann, Manuale di medicina legale, Torino,

Loredana Garlati / La fine dell’innocenza 45

Per quanto non espressamente previsto dal dettato normativo, lascienza giuridica si interrogò a lungo sulla necessità del requisito dellavitalità, intesa come idoneità ed attitudine del bambino a continuare inautonomia la vita extra-uterina.

I teorici della vitalità, sostenendo che «un feto che non è ancora ma-turo da poter naturalmente continuare una vita fuori dalla madre non hain realtà cominciato a vivere, non essendo che un’apparenza quella chesi potesse chiamare vita»101, tendevano ad escludere l’integrazione del-l’infanticidio quando vittima fosse un neonato non vitale. A base di unasimile conclusione si richiamavano l’art. 724, n. 2 del c.c., che conside-rava il figlio non vitale incapace a succedere, e l’art. 135 del c.p.p., il qualeprescriveva ai periti di accertare se il bambino fosse nato vivo e vitale.

La dottrina era concorde nel respingere tale assunto102: il silenzio dellalegge penale non poteva dare adito ad interpretazioni integrative103. Seci si fosse voluti spingere fino a chiedere la sussistenza di tale requisitosi sarebbe finito per porre una condizione non richiesta per nessun al-tro tipo di omicidio (un’osservazione, come si può notare, particolar-mente cara a chi escludeva la tipizzazione di tale reato), introducendouna previsione di eventualità future destinate a rendere quanto mai vagae indeterminata la figura delittuosa, con grave pericolo per la giustizia104.

Inopportuno appariva il richiamo al diritto civile, dal momento che

1901, 706-773; F. Leoncini, Principii di medicina legale per gli studenti di legge, Fi-renze, 1924, 324-338.

101 F. Saluto, Commento al codice di procedura penale italiano per il Regno d’Ita-lia, Torino, 1877, 271. «Veramente non si dà una vita apparente, essa è sempre reale sinoa quando si respira» (G.B. Impallomeni, Il codice penale italiano, Firenze, 1891, 133).

102 Per il Pessina, invece, nel fanciullo appena nato la vitalità era elemento essenzialeper aversi omicidio (Elementi, cit., 3). Così Filippi riteneva che, nonostante la mancanzadi un’espressa previsione normativa, i due estremi necessari ad integrare l’infanticidiofossero la vita e la vitalità, le uniche condizioni utili a dimostrare l’esistenza di una vitalegale (A. Filippi, Principii di medicina legale, Firenze, 1889, 282-286), locuzione chesuscitò la vibrante reazione di Impallomeni: «Ma donde mai è venuto in mente all’e-gregio prof. Filippi cotesto concetto della vita legale? Ove sta scritto che vi sia una vitanon legale o illegale?» (L’omicidio, cit., 49). E ancora: «in quale novissima appendice dilegge egli abbia trovato l’estremo della vitalità dell’infante noi non sappiamo davvero»(A. Calabresi, L’infanticidio, cit., 132).

103 Tanto più che quando il legislatore aveva voluto richiamare il concetto di vitalitàa fondamento dell’ipotesi delittuosa lo aveva fatto espressamente, come era accaduto nel-l’art. 319 del codice toscano.

104 G.B. Impallomeni, Il codice penale, cit., 133.

La Corte d’Assise 1-2/1246

gli scopi perseguiti dai due ambiti erano profondamenti diversi: il primomirava a regolare lo svolgimento dei rapporti giuridici tra privati in vi-sta del soddisfacimento dei bisogni e degli interessi di ciascuno; il se-condo si proponeva di preservare l’ordine sociale da comportamenti in-dividuali in grado di comprometterlo attraverso la lesione dei diritti fon-damentali dei singoli105. La richiesta di vitalità a base dell’infanticidio giu-stificata su basi civilistiche si presentava come «una del non poche illo-giche conseguenze di quella smania di simmetria architettonica tra i variistituti giuridici, che forma lo studio e l’ambizione di molti scienziati»106,ricercando una perfetta concordanza tra disposizioni codicistiche desti-nate a regolamentare rapporti di natura diversa.

L’indagine imposta ai periti, invece, rilevava non a fini ontologici delreato, ma procedurali107 «riferentesi al modo di accertare il corpo delreato»108. Essa avrebbe dovuto confermare il sospetto di una soprag-giunta morte non naturale ma violenta.

A identiche conclusioni era giunta anche la giurisprudenza109. Si obiettava che l’accoglimento dell’estremo della vitalità conducesse

per via logica a conseguenze inaccettabili, come il non considerare omi-cidio l’uccisione di un moribondo o di un condannato a morte110. Lavitalità «potrà talora presentarsi come modificatore dell’imputabilità inrapporto all’intenzione del soggetto, ma, appunto perciò, non può es-sere oggetto di una regola assoluta»111. Si ammonivano le corti a non ri-

105 F. Puglia, Del reato di infanticidio, cit., 181-182.106 S. Sighele, Sull’infanticidio, cit., 182.107 «Questa disposizione non può avere un valore illustrativo del cod. p. sulla qui-

stione in discorso, giacché essa non intende punto a stabilire, come non è suo compito,gli elementi dei quali debba constare il reato d’infanticidio, ma solo che, agli scopi del-l’accertamento generale del reato medesimo, i periti non debbano trascurare l’indaginesulla vitalità del neonato» (M. Pinto, Infanticidio, cit., 9).

108 G. Crivellari, Il codice penale, cit., 827.109 Si ribadisce in alcune sentenze che a costituire infanticidio non era necessaria la

vitalità del bambino, inidonea ad influire sull’essenza del reato, bastando la vita (App.Napoli, 31 luglio 1890, in Foro penale, 1892, 46-47; Cass., 27 gennaio 1892, in Rivistapenale, 1892, 397). Tuttavia una selezione di sentenze oscillanti di fronte al tema dellavitalità è offerta da A. Stoppato, Infanticidio, cit., 118-122.

110 «Come si difende la vita anche di un giustiziando sino ai piedi del patibolo,quando non gli venga tolta da colui che solo ha la facoltà, per legge, di toglierla, nonsapremmo perché non dovesse difendersi la vita di un fanciullo nato vivo, ma che pureaveva la impossibilità di vivere» (G. Crivellari, Il codice penale, cit., 827).

111 A. Calabresi, L’infanticidio, cit., 137.

Loredana Garlati / La fine dell’innocenza 47

comprenderla tra le questioni da sottoporre ai giurati, per evitare «di farentrare dalla finestra ciò che fu scacciato dalla porta»112, alla luce anchedelle precise indicazioni ricavabili dai lavori preparatori113.

Provato che l’infante era nato vivo, il passo successivo era accertarela causa naturale o violenta della morte, altro compito di esclusiva per-tinenza dei periti e della scienza medica (sempre più presente nelle auledi giustizia ed erosiva di competenze un tempo monopolio dei magi-strati) e incombenza di estrema difficoltà, dal momento che le più fre-quenti modalità di eliminazione degli infanti potevano spesso confon-dersi con cause accidentali di morte114. La frattura del cranio poteva es-sere al tempo stesso volutamente provocata o conseguenza di una ca-duta accidentale del bambino nell’ipotesi, non rara, di donne che di-chiaravano di aver partorito in piedi o di non essere riuscite ad impe-dire che il corpo viscido del neonato scivolasse dalle mani. Lo strango-lamento poteva essere stato causato dall’attorcigliarsi del cordone om-belicale intorno al collo, oltre che ovviamente da un’azione dolosa, cosìcome il bambino poteva essere stato soffocato accidentalmente dalle col-tri o «da muco che passi dalle fauci alle glotide»115 o dall’interventoumano; ogni tipo di lussazione poteva essere derivato da un travaglioparticolarmente difficoltoso o da un’azione ad hoc.

4.2. La causa d’onore

Ciò che connotava precisamente l’infanticidio era però la più voltericordata causa d’onore. Vero è che si trattava di reato proprio, di cuipotevano rispondere solo quanti erano tassativamente indicati dall’art.369116, ma era altrettanto indubbio che gli stessi soggetti rispondevano

112 B. Alimena, Intorno al delitto d’infanticidio, cit., 18.113 Si veda, a tal proposito Relazione della Commissione speciale del Senato, Roma,

1888, 231.114 In questo modo si potrebbe spiegare come mai nel periodo 1890-92 il 31% de-

gli infanticidi denunciati vennero ritenuti inesistenti o non costituenti reato, una per-centuale destinata a scendere al 24% negli anni compresi tra il 1893-95 e all’11% tra il1918-1930 (A. Spallanzani, I reati di infanticidio, cit., 7-9).

115 A. Poma, Dizionario anatomico-medico-legale, Padova, 1834, 236-238.116 Cfr. sentenza 3 febbraio 1893, in Riv. pen., 1893, 488 e Giurisp. pen., 1893, 179, in

cui, per il principio di tassatività, si escluse l’applicabilità dell’art. 369 ai cugini della donna.Così la scusa dell’onore non competeva al cognato della donna che aveva partorito un fi-glio illegittimo (Cass., 31 maggio 1893, in Foro penale, II, 75, mass. 527).

La Corte d’Assise 1-2/1248

di omicidio ex art. 364 qualora l’uccisione dell’infante fosse dettata daragioni diverse dalla volontà di difendere l’onore proprio o della fami-glia, quali ad esempio esercizio di vendetta o finalità di lucro.

Il codice Zanardelli aveva preferito non limitare alla madre l’ecce-zionale mitezza della pena, ma aveva ricusato anche una estensione ge-neralizzata: la causa d’onore poteva infatti essere invocata solo da alcuniprossimi congiunti (il marito, il figlio/a, l’ascendente, i genitori, ancheadottivi, il fratello/sorella della madre), ritenendo che gli stessi, pur noncondividendo la situazione personalissima vissuta dalla puerpera, vede-vano, al pari di lei, nella nascita del bambino un attentato all’onore117.Per le persone annoverate dall’art. 369 la causa d’onore agiva a prescin-dere dalla circostanza che avessero concorso o meno con la madre e an-che nell’ipotesi in cui la madre non avesse avuto alcun ruolo nella com-missione del reato: la scusa, infatti, non sorgeva per l’aiuto prestato alladonna, ma per aver mirato a salvare una stima sociale cui l’agente erapersonalmente interessato118.

Qualche perplessità si era mostrata in dottrina sulla ricomprensionetra i possibili destinatari del beneficio sanzionatorio del marito delladonna («un’ipotesi da romanzo», a detta di Majno119), ma la previsioneera in linea con la scelta del legislatore di evitare ogni riferimento aduno status illegittimo dell’infante per giustificarne l’omicidio120. Ciò com-

117 Di «commozione straordinariamente cagionata dal caso miserevole di una donnaonesta traviata» scrive G.B. Impallomeni, L’omicidio, cit., 551. Per Calabresi il senti-mento d’onore da cui erano mossi i parenti o «è un riflesso di quello che agita la ma-dre o si riferisce al pregiudizio sociale che ad una famiglia fa carico dell’onta di uno deisuoi membri» (A. Calabresi, L’infanticidio, cit., 93). L’autore riteneva che alle sole ma-dri la legge avrebbe dovuto garantire una particolare disciplina legislativa. Allo stessotempo l’individuazione di alcune categorie e l’esclusione di altre (ad esempio i collate-rali di secondo grado) erano da considerarsi arbitrarie e incongrue (ivi, 95). In fase dielaborazione del codice unitario, ci si era spinti fino a proporre di ricomprendere nellaclasse di persone scusabili i “domestici fedeli e le nutrici affettuose”, spesso veri confi-denti e quasi figure sostitutive dei genitori nei confronti delle giovani affidate alle lorocure e pertanto interessati per primi a conservarne la pubblica stima (G. Salmonj, L’in-fanticidio, cit., 28-31).

118 F. Carfora, Infanticidio, cit., 704.119 L. Majno, Commento, cit., 129. Una difesa appassionata della possibilità ricono-

sciuta al marito di difendere l’onore attraverso la morte dell’infante, senza limitarsi alsuo disconoscimento, si trova in P. Arena, L’infanticidio, cit., 54-56.

120 Qualche scetticismo sulla correttezza della soluzione codicistica e sulla equipara-zione, sia relativamente agli estremi integrativi del reato sia sull’entità della pena, tra ma-dre di prole adulterina (ma presuntivamente legittima) e madre di prole sicuramente il-

Loredana Garlati / La fine dell’innocenza 49

portava che anche il marito potesse avere interesse a salvaguardare l’o-nore della moglie, nonché il decoro proprio e della propria famiglia, qua-lora la donna avesse dato alla luce il frutto di una relazione adulterina,ossia ove fosse stata, ricorrendo ad una terminologia che, come si è vi-sto, aveva incontrato il favore dei più, illecitamente fecondata121, primao in costanza di matrimonio. Proprio perché si prescindeva dalla qua-lità di illegittimo dell’infante, l’elemento dell’onore doveva essere pro-vato122.

La norma nulla diceva in relazione al padre naturale del bambino,escluso dalla possibilità di invocare l’attenuante di cui all’art. 369. Se peralcuni si trattava di una scelta immotivata123, per altri una simile limita-zione aveva il pregio di evitare l’uso improprio della condizione miti-gante da parte di chi, dopo aver disonorato una donna, invocava la di-fesa dell’onore a giustificazione del proprio agire delittuoso124.

legittima è espresso da A. Calabresi, L’infanticidio, cit., 112-121): «vagliati i diversi ar-gomenti – conclude l’autore – noi vorremmo esclusa la madre legittima dalla scusantedell’art. 369».

121 Così G.B. Impallomeni, L’omicidio, cit., 552; Id., Dei reati contro la persona,cit., 290. Cfr. Cass., 12 maggio 1893, in Monitore dei tribunali, 1893, 536: due coniugierano stati giudicati dalla Corte d’Assise di Siena colpevoli di omicidio premeditato econdannati il marito all’ergastolo e la donna a quindici anni di reclusione per compli-cità non necessaria. La sentenza fu confermata in Cassazione. La difesa aveva sostenutol’ipotesi di infanticidio, sulla presunzione della condizione di illegittimità della prole,concepita dalla donna con il cognato. E aveva richiesto alla corte di sottoporre ai giu-rati la domanda sulla scusante ai sensi dell’art. 369. L’ Istanza fu respinta con la moti-vazione più volte ricordata, ossia che l’art. 369 desse vita ad una speciale figura di reatoi cui estremi non ricorrevano nell’ipotesi di specie, dal momento che le risultanze pro-cessuali lasciavano impregiudicata la presunzione di legittimità dell’infante.

122 G. Crivellari, Il codice penale, cit., 829.123 E. Pessina, Circostanze dirimenti ed escusanti, in Enciclopedia del diritto penale

italiano, V, Milano, 285. Cfr. L. Majno, Commento, cit., 130-131 (il quale convenivacon la proposta, formulata da Pessina «a diritto costituendo», di non determinare a priorile categorie di persone alle quali applicare la disciplina dell’infanticidio); F. Carfora,Infanticidio, cit., 714.

124 F. Puglia, Delitti contro la persona, cit., 200; P. Arena, L’infanticidio, cit., 58-60; B. Alimena, Dei delitti contro la persona, in Enciclopedia del diritto penale, a curadi E. Pessina, vol. IX, Milano, 1909, 605. Non vi era nel seduttore il fine di tutelarel’onore della donna, ma quello di volersi disfare di un inutile fardello. Il principio si ri-cava dagli stessi lavori preparatori, e in particolare dalla Relazione di Zanardelli al pro-getto del 1887: qui si legge che la mancata previsione di un’enumerazione specifica deisoggetti agenti (come avrebbe voluto Pessina) generava il rischio di «vedere scusati sen-timenti più illegittimi che nobili, come si avesse a giudicare il caso di un amante …. La

La Corte d’Assise 1-2/1250

L’onore costituiva la spinta criminosa dell’agente, il movente esclu-sivo125: si trattava di una concezione strettamente connessa con la mo-rale sessuale126 e considerata al tempo stesso in senso oggettivo, qualestima, reputazione sociale, ‘virtù civile’. In altre parole, l’onore espri-meva un valore pubblico, e non già una sensibilità o un apprezzamentosoggettivo. La paura della perdita della credibilità (l’antica fama) eserci-tava una tale pressione psicologica e un senso di colpa per la rotturadelle convenzioni sociali da generare uno stato di eccitazione anomalonell’agente e da indurlo a preferire la soppressione di una vita alla pro-pria rovina pubblica. L’onore diventava quasi una merce di scambio edi reintegrazione mediante un gesto criminoso127, un movente degnod’indulgenza128, un elemento morale diminuente129, o, per dirla con laCassazione, la ratio dell’art. 369130.

scusa dell’onore dev’essere, in altri termini, personale all’agente; e quando la nascita il-legittima non può cagionare un indiretto pregiudizio all’onore, non vi è sufficiente mo-tivo per ammettere la scusa».

125 Così R. Balestrini, Aborto, cit., 266-267. Per Impallomeni, tuttavia, non il finedi salvare l’onore scusava il delitto («se così fosse la logica comanderebbe di scusareogni altro delitto determinato dallo stesso movente, come, ad esempio, nel caso dell’as-sassinio di una persona dalla quale si temessero rivelazioni compromettenti l’onore»),ma quello di occultare il disonore (G.B. Impallomeni, L’omicidio, cit., 551), come ave-vano indicato Romagnosi, chiedendosi se l’infanticida fosse mossa da «spinta veramentemalvagia o da spinta derivata da un sentimento lodevole, ma male applicato» (G.D. Ro-magnosi, Genesi del diritto penale, Prato, 1837, 447-448, nt. 1) e ancor prima Beccaria:«L’infanticidio è parimente l’effetto di una inevitabile contraddizione in cui è posta unapersona che, per debolezza o per violenza, abbia ceduto. Chi trovasi tra l’infamia e lamorte di un essere incapace di sentirne i mali, come non preferirà questa alla miseriainfallibile, a cui sarebbero esposti ella e l’infelice frutto?» (C. Beccaria, Dei delitti edelle pene, ed. nazionale a cura di L. Firpo e G. Francioni, Milano, 1984, § XXXI, 102).Sulla stessa scia Mittermaier, la cui descrizione del dramma vissuto dalla donna, laceratatra il dilemma se salvare l’onore o la vita che si forma dentro di lei e l’angoscia ampli-ficata dai dolori del parto sarà ripresa e imitata da molti giuristi (K.A. Mittermaier,Contribuzioni, cit., 224-226).

126 L’onore sessuale corrispondeva al dovere di castità e fedeltà imposto alla donna, acui si chiedeva di comportarsi in modo inverso rispetto agli uomini: «non è la donna chesente degradante l’atto d’amore impulsivo e intenso da cui si lasci vincere, ma la societàche glielo definisce e rimprovera come tale» (F. Minici, La base economica, cit., 64).

127 R. Selmini, Profili di uno studio storico, cit., 35.128 F. Puglia, Delitti contro la persona, cit., 198.129 A. Stoppato, Infanticidio, cit., 195-197.130 Cass., 9 gennaio 1895, in Annali della Giurisprudenza Italiana, 1895, 66; 19 lu-

glio 1911, Giurisprudenza Italiana, 1911, 320.

Loredana Garlati / La fine dell’innocenza 51

Per questi motivi, era necessaria la pre-esistenza di un’onorabilità dasalvare per poter invocare l’applicazione dell’articolo in esame. Così unameretrice o una donna dalla condotta di vita contraria alla morale nonavrebbe potuto avvalersi dell’attenuazione concessa dalla norma, «poi-ché nulla avea più da salvare»131. Il criterio valeva per donne già madridi figli illegittimi che non potevano vantare più alcun onore da difen-dere o vergogne da occultare132 o per infanticide recidive, rivelatrici diun’indole malvagia e di inclinazione al delitto, come sostenuto dagli espo-nenti della scuola positiva133.

Il legislatore unitario, a differenza di quello toscano, con «giusta eaccorta innovazione»134, aveva escluso il fine di evitare sovrastanti sevi-zie135, ritenendo che tale timore, minorante dell’imputabilità e implicanteuno stato di coazione nell’autore del reato, fosse già disciplinato dai prin-cipi generali e che, comunque, si trattava di una causa assorbita dall’o-nore. A tal proposito la Cassazione respinse il ricorso con il quale unadonna, condannata ai sensi dell’art. 369 per aver ucciso un infante da leiillegittimamente concepito, sosteneva di aver commesso il reato in stato

131 G. Crivellari, Il codice penale, cit., 829. «Non bisogna però avere dell’o-nore un concetto assoluto: sovente può meritare la scusa uno donna disonesta perle condizioni peculiari in cui si è trovata al momento del commesso reato. Più chealtro bisogna guardare alle intenzioni» (P. Arena, L’infanticidio, cit., 6). Per que-st’ultimo, che riprendeva una tesi sostenuta da K.A. Mittermaier, Contribuzioni,cit., 239 e da F. Carrara, Programma, cit., § 1230, 344-345, nt. 2, una ricostruita‘verginità’ da parte della donna in un luogo diverso da quello che l’aveva vista pa-tire una cattiva fama o esercitare la prostituzione sarebbe sufficiente per invocare lascusa dell’onore; in ogni caso, sarebbe necessario anche nei confronti di donne dimalaffare valutare il particolare stato psicologico in cui esse si trovavano al momentodel parto per accordare una riduzione di pena (P. Arena, L’infanticidio, cit., 64-66).«Argomento serio – ribatterà Alimena – ma, però, esso non si può accogliere inmodo troppo assoluto, ma bisogna vagliarlo caso per caso, perché l’esperienza d’unprimo fallo dovrebbe ben servire a qualche cosa» (B. Alimena, Intorno al delittod’infanticidio, cit., 20).

132 G.B. Impallomeni, L’omicidio, cit., 553; Id., Dei reati contro la persona, cit., 291-292.

133 Secondo le classificazioni operate dalla scuola positiva, se l’infanticida al suo primodelitto era da considerarsi delinquente d’impeto, quella recidiva transitava immediata-mente nella classe delle delinquenti nate, immeritevoli di ogni pietà.

134 A. Calabresi, L’infanticidio, cit., 83.135 «Ma sarebbe stato meglio se, ad esempio del codice toscano, si fosse aggiunta al-

l’ipotesi dell’onore anche quella delle sovrastanti sevizie» (B. Alimena, Intorno al de-litto d’infanticidio, cit., 8).

La Corte d’Assise 1-2/1252

di necessità, consistente nel pericolo certo di una morte che il maritonon avrebbe esitato a infliggerle nel momento in cui fosse venuto a co-noscenza del parto. L’imputata richiedeva che ai giurati, unitamente al-l’ipotesi di reato formulata nei suoi confronti, fosse proposto, ai sensidell’art. 49, n. 3 c.p., il quesito circa l’esclusione di imputabilità per avereagito sotto la pressione di un pericolo grave e imminente non volonta-riamente cagionato. La Corte rilevò l’impossibilità di ravvisare l’invo-lontarietà del pericolo nel caso di specie, visto che il fatto (ossia l’avve-nuto concepimento) conseguiva ad una consapevole e volontaria rela-zione sessuale adulterina (la donna, perciò, sapeva il rischio a cui si sa-rebbe esposta), e precisò che, nell’infanticidio, il pericolo determinantel’azione delittuosa era già previsto dall’art. 369 quale circostanza neces-saria del reato136.

Dunque, il fine di evitare le sevizie poteva rientrare sotto le regolegenerali relative alle circostanze diminuenti l’imputabilità, ma in questocaso il titolo di reato sarebbe stato quello ordinario di omicidio e nondi infanticidio137.

La volontà espressa in sede giurisprudenziale di escludere ogni altracircostanza attenuante concorrente con la causa di onore si presentavacon una certa frequenza allorché si trattava di discutere dell’eventualevizio di mente parziale dell’agente. Operando anche in questo caso con-tro le indicazioni della dottrina, i magistrati affermarono sistematica-mente un’incompatibilità tra infanticidio per causa d’onore e vizio dimente, nella convinzione che il legislatore, nel mitigare la pena, avesseimplicitamente tenuto conto dello stato di alterazione e di agitazione incui si trovava il soggetto attivo del reato138. Come nelle ipotesi prece-

136 Cass., 13 aprile 1898, in Monitore dei Tribunali, 1898, 558-559. La nota alla sen-tenza criticava tuttavia la soluzione adottata dalla Corte, ritenendo che la domanda sullostato di necessità andasse posta ai giurati in virtù dell’art. 498 c.p.p. che sanciva l’obbli-gatorietà di formulare quesiti relativi a circostanze escludenti o minoranti l’imputabilità.Per Alimena la condizione dell’infanticida era simile a quella di chi delinqueva per statodi necessità: non si poteva tuttavia dare luogo ad una scriminante, ma solo ad un’atte-nuante dal momento che «il pericolo non è un pericolo estremo e, perché, spesso, chisi trova in pericolo non può dire di non avergli dato causa» (B. Alimena, Intorno aldelitto d’infanticidio, cit., 10).

137 L. Majno, Commento, cit., 129.138 Così, ad es., la sentenza 5 maggio 1899 rigettò il ricorso presentato dall’infanti-

cida contro la pronuncia dell’8 marzo della Corte d’Assise di Viterbo. La ricorrente con-testava il rifiuto del presidente di sottoporre ai giurati la questione sul vizio parziale di

Loredana Garlati / La fine dell’innocenza 53

denti, la corte di legittimità confermava le sentenze degli organi giudi-ziari inferiori in cui si era esclusa la sottoposizione ai giurati della que-stione circa il vizio di mente una volta accertato che il fine del delittoconsisteva nell’evitare il disonore139.

La massima traeva linfa dalla teoria secondo la quale il turbamentodell’infanticida aveva come base il travaglio del parto: in altre parole, la«condizione fisiologica anormale»140 in cui si trovava la donna ne offu-scava la capacità di intendere e di volere, generando una situazione ditemporanea alienazione mentale.

La dottrina era coesa nella critica alla giurisprudenza. Si obiettava cheil motivo del delitto non poteva essere confuso con lo stato mentale delsoggetto: il primo rappresentava l’origine e il fondamento della spintacriminosa; l’infermità mentale incideva sulla libera determinazione141. Delledue l’una, quindi: o l’infanticida era sana di mente e non poteva perciòbeneficiare del disposto di cui agli artt. 46 e 47 c.p. o era affetta da vi-zio parziale di mente e quindi non vi era inconciliabilità tra l’art. 369 el’art. 47 c.p. «perché se il turbamento, che nasce dall’idea del disonore,

mente, ma la Suprema Corte confermò la correttezza dell’operato del tribunale inferioreper le ragioni sopra esposte (Cass., 5 maggio 1899, in Monitore dei Tribunali, 1899, 556).Cfr. anche App. Milano, 13 luglio 1891, in Riv. pen., 1891, 596 e App. Napoli, 31 lu-glio 1890, in Il Foro penale, 1890, 46-47 (in cui a chiare lettere si affermava l’impossi-bilità di applicare contemporaneamente scusante dell’onore e vizio parziale di mente).Nella nota alla sentenza, tuttavia, si ribaltava completamente l’assunto del tribunale na-poletano, sostenendo che la causa d’onore «si accorda e si concilia del tutto» con il vi-zio o l’infermità parziale, dovendosi ravvisare nella prima una «passione tanto nobile,quanto viva e potente che poggia sullo stato di agitazione e di esaltazione dell’animoumano nella quale essa è inviscerata»; nella seconda, invece, «un’affezione morbosa, unamalattia» (ivi, 46, nt. 1).

139 Cass., 10 luglio 1902, in Monitore dei Tribunali, 1903, 38-39. In questo modo,tuttavia, la Corte si poneva in contrasto con il proprio orientamento riguardante la spe-cialità del reato di infanticidio: ricusare la questione della minorante riguardante l’infer-mità parziale di mente significava, infatti, riconoscere l’art. 369 non già quale titolo au-tonomo di reato, ma come norma regolatrice di soggettiva responsabilità.

140 V. Marchetti, Compendio di diritto penale, Firenze, 1901, 264.141 G.B. Impallomeni, L’omicidio, cit., 561; B. Alimena, Dei delitti contro la per-

sona, 606-607. Si poteva ammettere che in taluni casi lo stato d’animo in cui versava l’a-gente fosse tale da privarlo in parte della coscienza e della libertà dei propri atti (l’ec-citazione psicologica della partoriente si connetteva al suo stato patologico), ma una di-versa valutazione doveva essere compiuta sul piano giuridico: essendo la causa d’onoreuna scusa speciale, «ogni altra circostanza minorante è distintamente proponibile e con-corrente» (A. Calabresi, L’infanticidio, cit., 70).

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può sconvolgere una mente sana, a maggior ragione potrà sconvolgereuna mente mezzo ammalata»142. L’assimilazione tra malattia mentale esmarrimento determinato dal parto era un errore da cui prendere le di-stanze: «se fosse così – rifletteva Alimena – non si saprebbe spiegare laestensione del beneficio al padre, al figlio, all’ascendente, al padre adot-tivo, al fratello, a meno che non si voglia pensare ad una magica e sin-golare esteriorizzazione della sensibilità, ovvero ad envoûlement a dirit-tura»143.

4.3. Infanticidio premeditato e colposo: la difficile conciliazione con l’es-senza del reato

Nel tempo, la teorica che aggravava la pena ordinaria dell’omicidioin caso di infanticidio si era erta sulla presunzione che il reato fossecompiuto con premeditazione144. Proprio questa presunzione, che esclu-deva pertanto la necessità di accertare volta per volta la sussistenza dellapremeditazione, aveva sollevato alcune perplessità.

Sia Carrara che Stoppato consideravano la presunzione priva di unabase di fatto costante. Il giurista lucchese, inoltre, contestava che la pre-meditazione venisse presupposta solo per l’infanticidio, e non già per al-tri reati. Il neonato, inoltre, secondo Carrara, non poteva né essere sog-getto di provocazione, né oggetto di odio, base psicologica della pre-meditazione145.

Tuttavia la tesi estrema di Stoppato, che negava in modo assoluto lapossibilità di premeditazione nell’infanticidio146, veniva da altri respintacon le stesse argomentazioni dialettiche con cui ci si opponeva alla teo-ria di una premeditazione presunta: «escludendo sempre la premedita-zione, si viene, sotto veste di teorica generale, a dar vita a una nuovapresunzione che l’infanticidio non possa mai essere premeditato»147.

142 B. Alimena, I limiti e i modificatori dell’imputabilità, II, Torino, 1886, 105 e III,1899, 204-205.

143 B. Alimena, Intorno al delitto d’infanticidio, cit., 21.144 Per Impallomeni l’infanticidio «ordinariamente è premeditato» (G.B. Impallo-

meni, Il codice penale, cit., 170).145 F. Carrara, Programma, cit., § 1209, 300 e § 1214, 310-311.146 «Durante la gestazione il concepito ha dei diritti, è persona giuridica, ciò non si

nega, ma non può essere, a così esprimermi, oggetto e fornire materia di premeditazioneche si esplicherà allorché sia venuto alla luce» (A. Stoppato, Infanticidio, cit., 70).

147 A. Calabresi, L’infanticidio, cit., 39.

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Si riconosceva come assurda la tesi di quanti ritenevano che in certireati si dovesse ammettere necessariamente il dolo di proposito «peroc-ché per qualsivoglia reato il dolo può manifestarsi in tutte quelle grada-zioni che comunemente si ammettono nella scienza»148.

Quanti invece sostenevano che la premeditazione fosse insita nell’il-lecito ritenevano inconciliabile il tempo della gestazione con il caratteredell’immediatezza dell’impeto. Nove mesi rappresentavano un tempo suf-ficiente per consentire alla donna di meditare, riflettere, programmare,decidere. «L’accusata può rispondere che ci ha pensato, non una ma millevolte, nelle notti angosciose e che smarrì il senno… nel momento terri-bile in cui i dolori la straziarono, in cui il vagito del neonato poteva es-sere udito dal proprio padre, dal proprio fratello»: la lunga attesa erastata una sorta di campo di battaglia tra sentimenti contrastanti, tra ne-gazione della realtà, speranza di un evento accidentale capace di risol-vere ab imis la questione, rinvio di ogni scelta, tanto che la decisioneultima maturava unicamente nel momento del travaglio e proprio perquesto ogni presunzione di premeditazione doveva essere esclusa149.

Per Alimena la soluzione coinvolgeva la nozione degli stessi elementisoggettivi del reato: «se della premeditazione si ha un concetto pura-mente formale, allora non ha dubbio alcuno che possa aversi anche uninfanticidio premeditato. Ma se della premeditazione si ha un concettodiverso, se si pensa che essa consista in un dolo più intenso… la rispo-sta non può che essere assolutamente negativa, perché lo stato dell’a-nimo dell’infanticida se è tale da diminuire il grado del dolo semplice,deve, a maggior ragione, far sparire del tutto il dolo di proposito»150.Così, durante il parto, «la perdita della coscienza esclude ogni premedi-tazione ed il delitto è compìto bruscamente, con furore cieco, senza ri-guardo né al tempo, né al luogo, né ai mezzi»151.

Vi era chi invece non nutriva dubbi sull’applicabilità dell’aggravantedi cui all’art. 366 n. 2 (ossia la premeditazione per omicidio), sul pre-supposto che «più frequentemente, e le statistiche giudiziarie ne fanno

148 F. Puglia, Del reato di infanticidio, cit., 175. Cfr. anche P. Arena, L’infanticidio,cit., 34-39.

149 L. Ferriani, La infanticida, cit., 100-102.150 B. Alimena, Intorno al delitto d’infanticidio, cit., 15.151 V. Mellusi, La madre delinquente, cit., 84. L’autore offre anche una spiegazione

della possibilità di conciliare la coscienza dei motivi (ossia desiderio di nascondere laperdita dell’onore sessuale, paura dell’avvenire) con l’incoscienza completa dell’azionedelittuosa (cfr. 84-89).

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fede, ricorre la premeditazione», anche se in sede esemplificativa i casidi premeditazione riguardavano non l’infanticidio causa honoris, ma quellocommesso per vendetta o per interesse economico152.

Accolta la tesi della mancata presunzione di dolo, si innescava un’ul-teriore questione: era ammissibile un infanticidio colposo? Entrava inquesto caso in gioco la difficile conciliazione con la causa honoris: lacolpa supponeva un’azione non voluta, mentre il fine speciale assegnatoall’infanticidio richiamava un’azione volontaria.

Carrara, pur consapevole delle potenziali obiezioni, riteneva la causahonoris compatibile con la colpa. Egli ipotizzava il caso di una donnache, per celare al marito il parto di un figlio adulterino, nascondeva ilneonato in attesa dell’arrivo di un’amica con cui si era in precedenza ac-cordata perché prelevasse il bambino. Il ritardo accidentale dell’amica fi-niva però per determinare la morte della creatura. In questo caso appa-riva evidente a Carrara l’esclusione di ogni dolo: la madre si era infattideterminata al solo occultamento dell’infante. Era invece possibile im-putarle un comportamento quanto meno imprudente nel non aver pre-visto tutte le conseguenze possibili della sua azione; il gesto era tuttaviameritevole di attenuazione di pena in ragione del ricorrere del fine disalvare l’onore153. In definitiva, la ‘commozione’ dell’animo e la pauradel disonore concorrevano con la negligenza154.

Per quanto lucida nella ricostruzione casistica, la tesi del Carrara ve-niva fatta oggetto di critiche, tra chi vedeva nell’esempio narrato nonuna colpa ma una disgrazia e chi negava un rapporto necessario di causaed effetto tra il fine di salvare l’onore e una determinazione impru-dente155.

152 M. Pinto, Infanticidio, cit., 19.153 F. Carrara, Programma, cit., § 1227, 331-334.154 Favorevole alla possibilità di configurare l’infanticidio colposo P. Arena, L’in-

fanticidio, cit., 21; F. Carfora, Infanticidio, cit., 710.155 A. Calabresi, L’infanticidio, cit., 154 e 156. Per l’autore la punizione dell’infan-

ticidio colposo trovava la propria previsione nel generico disposto dell’art. 371 c.p., re-lativo all’omicidio colposo, anche se una simile soluzione poteva risultare inammissibileper quanti ritenevano l’infanticidio causa honoris un reato speciale: questi ultimi avreb-bero di fatto dovuto o negare l’integrazione di un infanticidio colposo o affermarne l’im-punità per mancanza di una specifica disposizione di legge. Cfr. L. Majno, Commento,cit., 132; B. Alimena, Intorno al delitto d’infanticidio, cit., 14, per il quale la tesi di Car-rara è inammissibile dal momento che «la colpa è costituita dall’assenza di ogni fine».

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5. Responsabilità individuale, colpa sociale

L’infanticidio fu anche terreno privilegiato di confronto tra le cosid-dette ‘scuole’ classica e positiva. Le posizioni tra i rappresentanti dei dueorientamenti divergevano – com’era prevedibile – circa le cause e le ra-gioni di tale reato, la sua incidenza nel tessuto sociale, gl’indici della re-lativa gravità, i possibili rimedi156. In particolare, la scuola classica (comesarà definita dagli stessi positivisti, e solo inizialmente per dileggio, comericordato da Lucchini157) si mostrava legata all’idea di una specializza-zione di reato (conseguenza di un processo di complessa articolazionedelle varie fattispecie delittuose), un concetto di ‘specialità’ che era an-dato modificandosi nel tempo (da atto particolarmente odioso l’infanti-cidio era divenuto oggetto d’uno sguardo piú ‘benevolo’ se commessoper causa d’onore)158, ma che veniva tuttavia riproposto e sostenuto purdi fronte ad un’evidente diversa volontà legislativa, come quella espressanel codice Zanardelli.

In particolare Stoppato rimproverava alla scuola positiva, che secondol’autore si limitava a studiare l’infanticida nei suoi caratteri somatici edantropometrici, di rendere inutile il titolo speciale di infanticidio in ra-

156 Accanto agli ormai fondamentali studi di M. Sbriccoli (in particolare La pena-listica civile. Teorie e ideologie del diritto penale nell’Italia unita, ora in Id., Storia deldiritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti [1972-2007], Milano, 2009, I, 493-590 e Il diritto penale liberale. La “Rivista penale” di Luigi Lucchini [1874-1900], ivi,II, 903- 980), si vedano ora i saggi confluiti in Diritto penale XXI secolo, anno X, n. 2,2011.

157 L. Lucchini, I semplicisti (antropologi, psicologici, e sociologi) del diritto penale.Saggio critico, Torino, 1886, XXIV. «Pronuba l’antropologia, col corteo delle scienze fi-siche a cui essa attinge; auspice la sociologia, essa pure fiancheggiata da buon numerodi scienze ausiliari, ed in prima linea dalla statistica… si annunciò una “nuova scuola”o “scuola positiva del diritto penale”, in contrapposto a quella dominante in materia chefu detta “scuola metafisica” o “scuola classica”» (ivi, V).

158 «Ed è un curioso fenomeno il vedere come, pur mutando di continuo il giudi-zio su questo reato, la sua specializzazione sia sempre rimasta. Si potrebbe quasi dire,che i criminalisti non si siano mai dati la pena di considerare serenamente se tale de-litto avesse davvero ragione di costituire un titolo speciale, ma abbiano sempre accettataquesta specializzazione, che veniva a loro da tempi antichissimi, come un fatto che nonsi dovesse né potesse discutere. Essi si limitavano semplicemente a mutarne, di volta involta, quando occorreva, le ragioni giustificatrici» (S. Sighele, Sull’infanticidio, cit., 181).Cfr. anche F. Carrara, Programma, cit., §§ 1206-1210, 294-303; F. Carfora, Infanti-cidio, cit., 665-666.

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gione di una mancata graduazione del dolo, distruggendo in questo modoun sistema senza nulla però riedificare159.

Inoltre, secondo le ben note peculiarità delle due correnti culturali, i‘novatori’ analizzavano il problema con riferimento al profilo antropo-logico e sociologico, interessati più alla possibile classificazione del de-linquente e all’influenza di fattori economico-sociali sull’agente che allanatura del delitto in sé, spostando l’attenzione dal reato al delinquente(«la frase è vecchia, ma è bene ripeterla»160) esaminato nelle sue com-ponenti fisiche, psichiche, sociali. Ciò comportava l’inevitabile contami-nazione tra saperi: la medicina, la criminologia, le scienze sociali e psi-cologiche, la statistica divenivano supporto imprescindibile alla cono-scenza giuridica, e alla penalistica in particolare161.

La nuova scuola, oltre ad una diversità nel metodo, presentava undifferente intento pratico: se quella classica mirava alla diminuzione dellepene, la positiva si proponeva piuttosto la riduzione dei delitti162, con laconseguenza, però, a detta di alcuni, di accrescere la compassione per idelinquenti e indebolire la repressione penale163.

Le infanticide rappresentavano un formidabile campo di studio e altempo stesso banco di prova per testare le teorie messe a punto dallascuola positiva.

Le madri erano spinte al delitto proprio da quel sentimento d’onoreche secondo la scuola classica, Carrara in testa, ne motivava l’attenua-zione sanzionatoria e che invece nella visione ‘positiva’ rappresentava lamolla sociale scatenante. Il libero arbitrio individuale (cardine della ‘scuolaitaliana’) cedeva di fronte al condizionamento sociale164; all’imputabilità

159 A. Stoppato, Infanticidio, cit., 78.160 S. Sighele, Sull’infanticidio, cit., 192.161 Il merito della scuola positiva era di aver portato nel sinedrio dei criminalisti an-

tropologici, per lo più medici e alienisti, quel criterio distintivo giuridico che mancava perdare veste di scienza alle loro osservazioni sbrancate e dirette un po’ a caso (F. Turati, Ildelitto e la questione sociale. Appunti sulla questione penale, Milano, 1883, 70-71).

162 E. Ferri, I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale, Bologna, 1884,24. Una chiara disamina delle caratteristiche delle due scuole è illustrata in L. Majno,La scuola positiva di diritto penale, estr. da Monitore dei Tribunali, Milano, 1885, 1-50.

163 A. Gabelli, La nuova scuola di diritto penale in Italia, in Nuova Antologia, vol.82, 1885, 600.

164 «Quando l’accusata uccise il proprio bambino, fu padrona della sua volontà? Enell’affermativa, cotesta volontà fu più o meno vincolata, in quanto poteva disporre comecolei che ha calmo l’animo e la mente sgombra da idee perturbatrici?» (F. De Cola-Proto, L’aborto e l’infanticidio, cit., 286).

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morale si sostituiva una responsabilità del contesto collettivo ambientalee culturale; la prevenzione e la difesa sociale, e non l’accanimento pu-nitivo e retributivo, erano gli obiettivi perseguiti. La pena pertanto pre-scindeva da una valutazione proporzionalistica legata all’intrinseca gra-vità del delitto, ma discendeva dal grado di temibilità dell’agente, con-siderata dai criminalisti della scuola positiva come l’indice più sicuro perdeterminare la qualità e il grado della reazione sociale alle azioni anti-sociali.

Le due scuole, pur partendo da presupposti diversi, condividevanoperò alcune riflessioni165. Entro certi limiti, entrambe esaminavano il mag-giore o minor grado di temibilità166 sulla base di una serie di circostanzeche precedevano, accompagnavano o seguivano la consumazione delreato. Carrara stesso, esplicitamente, affermava che l’indice di temibilitàdel delinquente rientrava nel calcolo della qualità politica d’un reato, ri-tenendo questo criterio indispensabile «e non poteva avvenire altrimenti.Poiché la società è un organismo, è fenomeno naturale ch’essa si difendacontro chi minaccia la sua esistenza come qualunque altro organismo»167,ricorrendo a mezzi più severi contro l’individuo più pericoloso e piúflebili contro chi procura un minor allarme sociale. Convergenze, tutta-via, che non significano coincidenza tra opposte scuole, le quali, anzi, si

165 Non doveva destare meraviglia questa interazione dal momento che «le discre-panze dei vecchi criminalisti intorno ai sommi principi non si traducono poi, nella parteconcreata del diritto penale, in una sensibile divergenza. Anzi, è fenomeno singolare che,dopo tanto battagliare intorno ai sommi principii, i vecchi criminalisti si trovano, in so-stanza, d’accordo nelle teorie speciali – le sole, veramente, che possono trapassare in ar-ticoli di codice» (L. Majno, La scuola positiva, cit., 20).

166 Arena evidenziava come il criterio della temibilità (o pericolosità) non fosse unanovità introdotta dalla scuola positiva: «quasi tutti i più valorosi campioni della scuolaclassica lo riconoscono in generale come utile, nella determinazione del danno mediatodi un delitto» (P. Arena, L’infanticidio, cit., 69). Dello stesso tenore le parole di Sighele,il quale precisava che la scuola positiva non aveva la vana ambizione di esporre idee maipensate prima, ma si accontentava di «disotterrare [sic] dal lungo oblio in cui eran se-polte, e di portare alla luce del sole, quelle idee che finora furono ingiustamente e dan-nosamente neglette. E così, mentre, per la scuola classica, il riconoscimento del criteriodella temibilità del delinquente era stato un riconoscimento embrionale», con tutte leimperfezioni di una verità solo percepita, per la scuola positiva diventava l’unico crite-rio sicuro (S. Sighele, Sull’infanticidio, cit., 194). Arena, invece, era poco propenso adelevare il criterio della temibilità a «misuratore dei reati», per evitare conseguenze para-dossali come la non punibilità del parricida perché poco pericoloso e impossibilitato difatto ad una recidiva (P. Arena, L’infanticidio, cit., 76).

167 S. Sighele, Sull’infanticidio, cit., 193.

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dividevano proprio sulla rilevanza della pericolosità sociale e sulle mo-dalità per accertarla.

La scuola positiva, d’altronde, celava numerose anime: semplificando,si potrebbe giustapporre a quella lombrosiana, particolarmente attenta aiprofili bio-antropologici168, la sensibilità ‘sociologica’ di Ferri. I due ver-santi cercarono inizialmente di compensarsi e d’interagire, ma i risultatideludenti scaturiti dall’indagine sulle caratteristiche fisiologiche e dege-nerative delle infanticide (con la classica tripartizione fra infanticide nate,folli e occasionali)169 lasciarono campo aperto a studi socio-economici,ritenuti i principali fattori capaci di influenzare e orientare le azioni delleinfanticide170.

Miseria e fragilità, condizione sociale e seduzione generavano, a dettadei positivisti, corruzione e perdita di moralità: l’infanticida è descritta

168 Lo studio di Lombroso, compiuto su 22 infanticide detenute nel penitenziariofemminile di Torino, aveva evidenziato anomalie organiche, quali l’eurigmatismo (ossiagli zigomi pronunciati), la peluria sul viso e una folta capigliatura scura, due elementi,questi ultimi, che costituivano il carattere più spiccato delle infanticide e che, messi aconfronto con la craniometria, rivelavano un arresto di sviluppo (C. Lombroso, L’uomodelinquente in rapporto all’antropologia, alla giurisprudenza e alle discipline carcerarie,vol. I, Torino, 1889, 259-272). I dati erano confermati successivamente da Vincenzo Mel-lusi, allievo di Enrico Ferri, il cui lavoro ricevette l’approvazione dello stesso Lombroso.Nel saggio di Mellusi, compendio di antropologia criminale, filosofia e diritto, l’analisidi 32 infanticide recluse a Trani conduceva agli stessi risultati anticipati da Lombroso:secondo le classificazioni adottate dalla nuova scuola, le infanticide non erano delin-quenti nate ma d’occasione e presentavano gli stessi tratti fisiologici messi in luce dalmaestro (62-72). Va tuttavia precisato che accenni della necessità di studiare l’“uomo fi-siologico” si trovano già in epoca precedente come attestato da F. Poletti, Il diritto dipunire e la tutela penale, Torino, 1853, 83-84.

169 Si trattava di una classificazione contestata da Ferriani: «Con tutta la riverenzache porto a questi nobili scrittori [Lombroso e Ferri], mi permetto di dire che una si-mile risposta non mi convince perché dessa, parmi, che dia uno strappo al libero arbi-trio: la psichiatria, la frenologia, andando innanzi così, finiranno per soffocare il codicepenale. È altamente pietosa, è nobile la classificazione dei delinquenti, che fanno gli scien-ziati illustri che nominai, ma è dessa pienamente giusta? Con essa s’acqueta la coscienzadell’uomo?» (L. Ferriani, La infanticida, cit., 21-22).

170 La spiegazione economica del delitto prendeva le mosse dalla concezione delladonna come un bene di proprietà o dell’uomo o della famiglia (così che la libera ses-sualità della donna allarmava il clan parentale che si lasciava coinvolgere nel reato peril timore di un deprezzamento della ‘merce’ donna) fino alla identificazione delle fan-ciulle sedotte in vittime «della degradante e degradata costituzione capitalistica della so-cietà moderna»: un’interpretazione che sembra debitrice alle correnti del socialismo giu-ridico che si andavano affermando (F. Minici, La base economica, cit., 66-76 [la citaz.è a p. 75]).

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solitamente come una donna povera, sola, sedotta, di infima estrazionesociale, nubile, lavoratrice171, spesso proveniente dalla campagna, di bassao nulla istruzione, dalla irreprensibile condotta precedente, raramente re-cidiva172. «Più che una delinquente volgare spesso è un’infelice … vit-tima di certi pregiudizii ormai radicati nella società moderna», la primaa deplorare «il fallo che commette»173.

Si tratta di stereotipi, di donne rappresentate come «vere e propriemacchiette» sullo sfondo di vicende dal «sapore dickensiano»174? Se gliautori insistevano compiaciuti sulle situazioni vissute dalle infanticide, èinnegabile che le storie, di vita e giuridiche, che emergono dalle sentenzepronunciate in costanza del codice Zanardelli confermano simili scenari.

Un punto su cui convergevano due dei principali esponenti della pe-nalistica tardo ottocentesca, Carrara175 e Sighele176, avvalendosi entrambidelle statistiche giudiziarie, era il «pietoso paradosso»177 secondo il qualeil numero degli infanticidi era proporzionale alla ‘demoralizzazione’178.Vista l’attestata frequenza di tale reato in un ambiente considerato mo-ralmente più sano come la campagna, ne derivava che il sentimento del-l’onore conduceva la donna al gesto estremo laddove maggiore era lacondanna sociale, ossia dove più elevato era il senso morale e spiccatala considerazione riservata all’onore della donna179. Sighele sottolineava,

171 Spallanzani, pur confermando su basi statistiche che si trattava di reato commessoper lo più da donne nubili, non trascurava l’apporto delle vedove. Dal punto di vistaoccupazionale, invece, emergeva che la maggioranza era impegnata nell’ambito agricolo,industriale o in altri ‘bassi servizi’ (A. Spallanzani, I reati di infanticidio, cit., 21), datisuffragati da G. Tagliacarne, Infanticidio, cit., 19-27.

172 «Sono le giovani maestre [spinte] dalla necessità dello scarso bilancio di famigliamandate sole … in una misera borgata, dove o la sete d’amore o la libidine dei potentile seduce prima ancora di corromperle; sono le giovani operaie degli stabilimenti indu-striali, che, tra l’orgia dei macchinari fumanti, tra le lusinghe del lavoro notturno … ca-dono nelle braccia o di un giovane seduttore o di un vecchio libertino …; sono le av-venenti cameriere che sfuggono alla fame della casa paterna, forse alla violenza di unpadre beone o di una madre adultera» (A. Calabresi, L’infanticidio, cit., 8). Una gal-leria colorita di infanticide è offerta da L. Ferriani, La infanticida, cit., 39-72.

173 Entrambe le citazioni sono tratte da P. Arena, L’infanticidio, cit., 5-6.174 R. Selmini, Profili di uno studio storico, cit., 57-58.175 F. Carrara, Programma, cit., § 1213, nt. 2, 308-309.176 S. Sighele, Sull’infanticidio, cit., 197-198. 177 A. Calabresi, L’infanticidio, cit., 5.178 «Per la ragione dei contrari», ciò significava «che l’infanticidio è in ragione di-

retta della moralità» (A. Calabresi, L’infanticidio, cit., 5).179 «Se da una parte [l’infanticidio] può essere preso come un indizio di cattivi co-

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sulla base delle indagini compiute, che i delitti avevano nelle regioni ita-liane non solo manifestazioni, ma anche cause sostanzialmente diverse:solo accettando un simile presupposto sarebbe stato possibile adottarestrumenti preventivi e repressivi differenziati a seconda dei bisogni deisingoli territori. L’illusione patriottica, che «chiamandoci tutti fratelli la-sciò credere che noi fossimo anche tutti uguali», aveva impedito, a dettadell’autore, alla politica, alla sociologia e alla criminalità di percepire leprofonde differenze intercorrenti tra gli italiani abitanti nelle diverse pro-vince, preferendo alla verità «le stampelle della retorica»180. In altre pa-role, «l’Italia, adunque, non è fusa nemmeno nel male»181.

Per quanto paradossale, l’affermazione di Sighele incontrava sosteni-tori che, dati alla mano, dimostravano come nei reati contro il buon co-stume e l’ordine delle famiglie fosse la Calabria a detenere il primato182,«una regione di rara pudicizia… Questo, dunque, è un paradosso stati-stico, il quale prova che le provincie meridionali d’Italia sono oneste, eappunto perché tali, apprezzano come delitti gli attentati al pudore…Inoltre negli ambienti più civilizzati e meno morali l’infanticidio è so-stituito dall’aborto che essendo un mezzo preventivo e più comodo, con-viene meglio all’indole delle classi più civili»183.

Taluni prendevano le distanze da una simile ricostruzione e, ammet-tendo che nelle campagne si consumassero più infanticidi rispetto allecittà, rinvenivano la causa di ciò non nella maggior moralità dell’am-biente ma nella sua ‘configurazione’, idonea a rendere più agevole l’oc-

stumi e di depravazione morale, è indubbio che, da un altro punto di vista, in deter-minate condizioni ed entro certi limiti, sta ad indicare quanto la donna sia gelosa dellasua reputazione» (G. Tagliacarne, Infanticidio, cit., 1).

180 S. Sighele, Un paese di delinquenti nati, estr. da Archivio di Psichiatria, Scienzepenali ed Antropologia criminale; vol. XI, fasc. V-VI, 1-29.

181 C. Lombroso, Troppo presto. Appunti al nuovo codice penale, Torino 1888, 65.182 Le elaborazione dei dati di Spallanzani sembrano confermare questa tendenza: ac-

canto ad un aumento progressivo del reato, si nota una concentrazione di tale illecito(una percentuale valutata in rapporto alla popolazione) nel Lazio, nella Calabria e nellaBasilicata (e in genere nell’Italia meridionale): A. Spallanzani, I reati di infanticidio,cit., 19.

183 V. Mellusi, La madre delinquente, cit., 105-106, nt. 1. Aggiungeva Arena: «ciconforta il pensiero che l’infanticidio va da sé solo scomparendo, essendo sostituito daun delitto meno crudele, l’aborto procurato» (P. Arena, L’infanticidio, cit., 85), un con-vincimento fondato sulla fiducia che il progresso della civiltà avrebbe contribuito all’e-clissi di un simile reato, legato a condizioni di abiezione intellettuale, di ignoranza e dirozzezza. Sul punto cfr. anche G. Tagliacarne, Infanticidio, cit., 25-42.

Loredana Garlati / La fine dell’innocenza 63

cultamento e la segretezza del parto, così come la carenza di brefotrofi(diversamente da quanto avveniva negli ambienti urbani) impediva alledonne che volevano tutelare la propria dignità un’alternativa all’omici-dio184. Considerazioni che riproponevano il tema – ricorrente in lettera-tura – d’un possibile rapporto tra infanticidio e abbandono di infante.

In concomitanza con le fibrillazioni sociali dell’Italia di fine secolo,gli studiosi attribuivano sempre piú alla società specifiche colpe nella dif-fusione del reato in questione. Una comunità – si osservava – che con-dannava all’ostracismo una donna dopo averla spinta al delitto oppri-mendola con il rispetto di un concetto conformista come l’onore era«barbara, medio-evale, teocratica, feudale, immoralissima… ipocrita, cor-rotta e corruttrice»185. «La società non solamente ha le leggi che essamedesima si fa, ma anche i delitti che si merita… E siccome le leggisono il portato delle condizioni sociali, pessima essendo la società pes-sime in generale devono necessariamente essere le sue leggi. Il delin-quente eseguisce il delitto, ma è la società che lo prepara»186. Apparivainoltre discutibile rispondere alle infanticide solo mediante l’inflizione diuna pena: «la pena, ecco la panacea dei rimedi. E non ci si avvede chela pena è insufficiente a rimarginare le grandi piaghe sociali: che è in-sufficiente tanto più quando risparmiando i veri rei colpisce le vittime»187.Era necessario dunque ricorrere a mezzi di igiene sociale (i sostitutivipenali, per dirla alla Ferri) dal momento che era più facile evitare l’in-fanticidio con la prevenzione che con le sanzioni codicistiche188.

Occorreva innanzitutto cambiare l’atteggiamento e la mentalità versole madri di prole illegittima, meritevoli non già di biasimo ma di aiutoper il loro coraggio: nonostante i figli fossero la prova e la testimonianzaevidente della loro colpa, sfidando i pregiudizi, esse sceglievano di met-terli al mondo. Ne derivava, per convinzione di molti, che la scomparsadi questo delitto fosse intimamente connessa al mutamento sostanzialedi quella morale «simulata dalla società con un’ostentazione che ricordala rigida pruderie delle vecchie peccatrici»: opera questa, «se non im-possibile, certo difficile e lunga»189.

184 A. Calabresi, L’infanticidio, cit., 7.185 G.B. Borelli, Infanticidio e matrimonio, Roma, 1884, 20.186 A. Stoppato, Infanticidio, cit., 8.187 C. Corsi, Le passioni nel delitto e nel delinquente, Firenze, 1894, 44.188 Un’interessante e corposa dissertazione sugli strumenti di prevenzione dell’infan-

ticidio si trova in F. Carfora, Infanticidio, cit., 716-726.189 S. Sighele, Sull’infanticidio, cit., 205.

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E quell’onore, che nella stretta valutazione tecnico-giuridica, fornivala circostanza attenuante del reato, finiva al contrario per rappresentareun sentimento ambiguo ed esagerato fino al patologico190. L’onore sal-vava e condannava allo stesso tempo: era la ragione prima che spingevaa delinquere; era la ragione di una benevolenza sanzionatoria.

Le infanticide, per Lombroso, erano delinquenti d’impeto191, le cuiazioni erano determinate dalla volontà di sottrarsi all’infamia che ac-compagnava la maternità illegittima192: l’infamia era una condizione chenon la natura, ma la società suggellava. Infatti, se l’azione dell’infanti-cida, valutata in modo oggettivo, rivelava un individuo privo di pietà193,per i positivisti la crudeltà del gesto era come «un lampo che interrompesinistramente la normalità della vita»194.

La donna «si riconosce per disonorata non perché si senta o sia tale,ma perché gli altri ne la credono. Si giudica attraverso il prisma del giu-dizio altrui: vede la sua fama corrosa nell’ingranaggio dell’opinione pub-blica»195. Senza indagarne la ragionevolezza e la fondatezza, ella l’accet-tava come imperativo categorico a cui era impossibile sottrarsi.

190 Come si doveva intendere effettivamente l’onore? Come un mero motivo che perla sua natura spiccatamente antisociale e non immorale diminuiva la gravità del fatto?Un impulso capace di generare turbamento psicologico che accresce «l’eccitazione fi-siologica determinata dal parto sicché… la cosiddetta causa honoris assuma anche – al-meno parzialmente – i caratteri di un vero stato patologico? Conviene subito ricono-scere che non si può accogliere esclusivamente l’uno o l’altro di questi criteri» (A. Ca-labresi, L’infanticidio, cit., 67).

191 C. Lombroso, L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla giurispru-denza e alle discipline carcerarie, vol. II, Torino, 1896, 219-220.

192 C. Lombroso, Polemica, in C. Lombroso, E. Ferri, R. Garofalo e G. Fio-retti, Polemica in difesa della scuola criminale positiva, Bologna, 1886, 12, in cui si re-spinge la facile accusa rivolta ai positivisti di ricollegare ad ogni infrazione del codicepenale particolari anomalie: «i rei di stampa, anche quelli di calunnia, in gran parte i po-litici, molte forme di aborto, d’infanticidio, i duelli, le percosse improvvise, certi abusidi confidenza, gli adulteri ecc. non sono che affatto occasionali e non presentano alte-razioni somatiche, le quali non si riscontrano che rarissime nei delinquenti per passione».

193 La mancanza di pietà dell’infanticida non ne faceva tuttavia un soggetto inidoneoalla vita sociale, dal momento che ciò poteva affermarsi «soltanto se l’individuo sia deltutto privo del senso morale elementare… L’intimo senso morale non rappresenta cheuna delle forze che si affollano e lottano per determinare la volontà e quando l’impulsogli ripugna diventa una forza di resistenza»: era questo lo stato psicologico dell’infanti-cida per causa d’onore (R. Garofalo, Criminologia. Studio sul delitto e sulla teoriadella repressione, Torino, 1891, 251-252).

194 S. Sighele, Sull’infanticidio, cit., 197.195 F. Minici, La base economica, cit., 65.

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Perché non considerare responsabili al pari, se non in misura mag-giore, delle donne quell’uomo che ne aveva corrotto l’animo o la so-cietà che con un moralismo insistente le obbligava a decidere, come ri-cordava Beccaria, tra la propria infamia o la propria sventura?

In questa prospettiva l’infanticidio diveniva spesso pretesto per criti-care il diritto vigente nel complesso e per suggerire al legislatore propo-ste riformistiche. Questo accadeva soprattutto con riguardo al divietodella ricerca della paternità196: solo consentendo, anzi, imponendo tale ri-cerca sarebbe stato possibile per la donna vedersi riconosciuto un dirittoal risarcimento dei danni subiti, in una contaminazione tra strumenti ci-vilistici e penalistici. Al contempo, «alla prole infelice sarebbe dato ilmodo di ricercare e di ritrovare l’autore spietato de’ suoi giorni, per adem-piere gli obblighi che la natura gl’impone»197. Si sarebbe così assistito aduna contrazione degli infanticidi, ma purtroppo «la società, che il piùdelle volte si dice civile e non lo è… si guarda bene (disgraziatamenteper ora) da questo efficacissimo mezzo preventivo del delitto»198.

Non mancava chi stabiliva una stretta connessione di interdipendenzatra infanticidio e matrimonio indissolubile, inneggiando alla libera unionee condannando con una certa violenza verbale la formalità di una ceri-monia che conduceva a tracciare una linea di confine e a discriminaretra madri nubili e maritate: «ecco dove ha condotto la società una leggesuperstiziosa, imposta dapprima dalla prepotenza chiesastica, seguita poidall’ipocrisia civile, legge iniqua, legge di dispotismo, legge liberticida»199.E a chi vedeva nel matrimonio («illusi!») la base della famiglia, e nellafamiglia la base della società, si rispondeva che non all’abolizione delmatrimonio si doveva mirare, ma al suo ripristino di istituto naturale edi contratto privato, spogliato della soverchia teatralità dei riti e resti-tuito allo spirito di libertà proprio di ogni convenzione umana. Di con-seguenza, procurando che nessuna gravidanza potesse considerarsi ille-

196 Si trattava di un divieto imposto «per non turbare neppure lontanamente la pacedi coloro che han distrutto la pace altrui» (F. Carfora, Infanticidio, cit., 718). Le ri-chieste della dottrina avevano trovato qualche riscontro nei progetti susseguitisi con re-golare cadenza dal 1877 in poi e che avevano avuto quali promotori i giuristi più in vi-sta del tempo, come Gianturco, Filomusi-Guelfi, Ugo Conti e altri.

197 E. Cimbali, La nuova fase del diritto civile nei rapporti economici e sociali conproposte di riforma della legislazione civile vigente, Torino, 1895, 136-137.

198 C. Corsi, Le passioni, cit., 43. Poco convinto dell’efficacia di questo rimedio, ge-neratore di inconvenienti di altro genere, era S. Sighele, Sull’infanticidio, cit., 205, nt. 1.

199 G.B. Borelli, Infanticidio, cit., 15.

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gale, o meglio, sottraendo «ogni gravidanza a qualunque indagine e con-trollo di legalità o accusa di illegalità»200, si sarebbe riusciti nell’intentodi limitare il numero di infanticidi.

Dalla condanna, che cadeva come una mannaia sul seduttore, indi-fendibile agli occhi dei più, non si salvavano neppure i genitori dell’in-fanticida, indicati come i primi veri responsabili della mala educazioneimpartita alle figlie (a prescindere da vere e proprie forme di complicitàeffettiva o tacita nel reato). Nella famiglia si annidava l’origine del male,lì sorgeva il vero problema morale da affrontare201, vista l’incapacità dellastessa di insegnare «quella fermezza di carattere che dà all’uomo corag-gio nella sventura e lo salva dai mille pericoli, dalle mille insidie, dallemille infamie ne’ quali si imbatte a ogni piè sospinto»202.

Qualche voce si spingeva sino a prospettare la depenalizzazione delreato. Taluni insistevano sulla incomprensibile disparità giuridica (riflessodi una diversa riprovazione morale) riservata alla madre e al padre na-turale del bambino: «io non ho mai capito il perché non si debba es-sere indulgenti con le donne sedotte… e perché si debba glorificare»l’uomo che le disonorò203. «La madre uccide, ma chi le pone l’arma inmano è il seduttore»204; «l’esclamazione non pecca di retorica, non è un

200 Ivi, 26.201 In realtà la questione era più ampia. Riguardava da un lato il complessivo pro-

blema educativo, dal momento che alla famiglia spettava il compito di allevare e i for-mare i futuri sudditi o cittadini e quindi di plasmare il nerbo sano della compagine so-ciale (con la conseguenza che «la devianza dei minori testimoniava l’incapacità delle fa-miglie [soprattutto di quelle povere] a svolgere il loro ruolo o, addirittura, imputava lorola responsabilità morale e biologica del traviamento»: B. Montesi, Questo figlio a chilo do? Minori, famiglie, istituzioni [1865-1914], Milano, 2007, 16); dall’altro coinvolgevala tematica delle cause della delinquenza minorile in generale, che Vittorio EmanueleOrlando volle esaminare in profondità istituendo nel 1909 un’apposita commissione.

202 L. Ferriani, La infanticida, cit., 123-125, ma anche più in generale 127-155. Idati rilevati da Tagliacarne evidenziavano che il 94% delle infanticide erano figlie legit-time, analfabete o con un grado di istruzione non superiore all’elementare (G. Taglia-carne, Infanticidio, cit., 17-19).

203 C. Corsi, Le passioni, cit., 43. «Ma, se l’uomo fu la causa prima della cadutadella donna, per una di quelle contraddizioni tanto frequenti nella vita, avviene che, nellasocietà così com’è costituita al presente, è solo la donna quella che ne ha la vergogna erisente le tristi conseguenze morali e materiali… mentre l’uomo, che ha fatto il piacersuo, traendo al disonore una fanciulla onesta, ne trae fama di uomo di spirito e fortu-nato, scevro di ogni responsabilità» (F. Carfora, Infanticidio, cit., 718).

204 L. Ferriani, La infanticida, cit., 174-175. In generale, sulla figura e il ruolo delseduttore cfr. 157-183.

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traslato elegante; l’affermazione è vera non solo moralmente, ma anchegiuridicamente»205. Altri, enunciando in forte sintesi una regola quasidogmatica, affermavano un’impossibilità assoluta per un’infanticida causahonoris di una recidiva specifica e – quasi in pari misura – di una reci-diva generica206: per questo invocavano l’impunità completa, vista la man-canza di ogni pericolo futuro per la società207.

L’impunità era per altri da riconnettersi alla valutazione delle parti-colari condizioni in cui si trovava la donna nel momento della com-missione del fatto illecito: se non si poteva parlare di un vero e propriostato di alienazione mentale, il parto annebbiava la mente e il timoredell’infamia faceva il resto, esercitando quanto meno una pressione mo-rale208. «L’abolizione del libero arbitrio nella depressione psichica cagio-nata dal parto e dal puerperio non si potrebbe porre in dubbio. La co-scienza della colpabilità dell’atto esiste nella infanticida in un modoastratto, ma nel momento del parosismo [sic] è oscurata ed impotentedi fronte allo interesse della sofferenza psichica»209. Indagini compiutedimostravano come le infanticide operassero spesso in uno stato di in-coscienza morbosa, prive quindi di volontà, tanto che, sottoposte ad in-terrogatorio, dimostravano di non ricordare più nulla del loro gesto, ri-mosso completamente dalla memoria. Altre, invece, ricordavano il fatto,ma non le ragioni dello stesso, imputabile ad uno sdoppiamento dellapersonalità. Alla presa di coscienza seguivano smarrimento, incredulitàe poi profondo pentimento, e ciò spesso comportava l’assoluzione210. Ilproblema, in realtà più complesso di quanto qui si possa descrivere, coin-volgeva profili delicati (e nuovamente di contrapposizione tra scuola clas-sica e positiva), quali l’interrogativo se il riconoscimento di una disu-guaglianza ‘naturale’ (biologica e fisiologica) dell’uomo e della donna do-vesse tradursi anche in disuguaglianza giuridica; la supposizione d’unaminore inclinazione alla criminalità della donna, da non confondere con

205 A. Calabresi, L’infanticidio, cit., 107.206 Per Puglia, la recidiva per i delinquenti che agivano sotto la spinta di un impulso

etico ed irresistibile, come le infanticide, era pressoché inconcepibile (F. Puglia, Dellarecidiva, in Studi critici, cit., 36).

207 V. Mellusi, La madre delinquente, cit., 118.208 Sul collegamento fisio-psicologico tra ansia generata dalla vergogna e dal rimorso

per il perduto onore sessuale e spasmi del parto cfr. V. Mellusi, La madre delinquente,cit., 24-43.

209 Ivi, 80-81.210 Ivi, 44-60. Ma in generale passim.

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la necessità di riconoscere una minor imputabilità alla stessa, osserva-zione quest’ultima che, saldando un ideale cerchio, si ricongiungeva altema del libero arbitrio211. Il diritto, non immune da contaminazioniscientifiche e criminologiche, discuteva quindi sulla possibilità di una ‘pe-nalità di genere’212, alla cui base si situava l’annosa discussione sul gradodi incidenza della conformazione fisiologica della donna sulla sua capa-cità psico-fisica, dal momento che particolari stati organici consideratianomali (mestruazioni, parto, puerperio etc.) generavano per taluni unavera e propria incapacità di discernimento tra bene e male, giusto e in-giusto, lecito e illecito.

La depenalizzazione si ricollegava, inoltre, all’idea che le infanticide,‘cancellando’ i propri figli illegittimi, compivano una sorta di ‘pulizia edi prevenzione sociale’, dal momento che le statistiche dimostravano daun lato che soltanto un decimo di illegittimi sopravviveva (quindi la loromorte violenta non era che un’anticipazione dell’inevitabile morte natu-rale che li attendeva), dall’altro che la maggior parte dei superstiti an-dava ad ingrossare le file dei delinquenti o dei degenerati.

«Dal male giuridico derivante dall’uccisione di un infante, deve de-trarsi, per così dire, la quantità di mali, in parte certi, in parte proba-bili, che deriverebbero dalla conservazione» dei figli stessi213. In altre pa-role, si annullava un’esistenza che era al tempo stesso minacciata (vistala frequenza della mortalità) e minacciosa (per l’infamia causata alla ma-dre).

Con un linguaggio che risentiva di accenti evoluzionistici e al tempostesso anticipatore di ben più tragici sviluppi, Sighele non esitava a de-finire l’infanticidio uno «strumento di selezione, della quale sarebbe daciechi il disconoscere gli effetti», un fenomeno di fronte al quale «sel’uomo può compiangere e il moralista condannare, il sociologo, forse,deve più che altro rallegrarsi, perché di esso può dire che è una valvoladi sicurezza per le generazioni future, cui risparmiano una triste e fataleeredità di dolori»214.

211 Le questioni sono riassunte e chiaramente espresse, in una sorta di confronto dia-lettico tra pro, contra e solutio da F. Puglia, La donna delinquente, in Studi critici, cit.,79-100.

212 Cfr. M. Sbriccoli, ‘Deterior est condicio foeminarum’. La storia della giustiziapenale alla prova dell’approccio di genere, in Id., Storia del diritto penale e della giusti-zia, cit., II, 1247-1265.

213 C. Lombroso, Troppo presto, cit., 37.214 S. Sighele, Sull’infanticidio, cit., 208-209.

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I nati fuori dal matrimonio erano reputati una «specie debole e piùo meno guasta», condannati in partenza dalla loro condizione, «pesi evittime ad un tempo della pubblica beneficienza»215. Si trattava dell’an-tica convinzione che connetteva al numero dei figli illegittimi il gradodi sventura sociale: «la madre di un figlio nella società odierna non èquasi mai in grado di allevarlo. Se essa appartiene alla classi povere lemancano i mezzi, se fa parte della buona società, allora essa per rima-nere onesta e tener nascosta la sua caduta, deve abbandonare il figlio suoa gente straniera che se ne prende ben poca cura»216. In entrambi i casiil risultato era identico: i figli illegittimi divenivano fonte di vizio e dimiseria molto più degli orfani.

L’impunità era una tesi estrema che lo stesso Sighele mitigava per ri-spetto a una pubblica opinione che, piú o meno fondata, costituiva co-munque un dato col quale fare i conti e che voleva le infanticide in qual-che modo punite217. Non mancavano, per converso, i dissensi da partedi chi riteneva che, per quanto minimo potesse essere il danno com-messo uccidendo un neonato illegittimo, «nessuno può chiedere per que-sto riguardo di non essere condannato, come nessuno potrebbe arro-garsi il diritto di uccidere un malfattore sia pure dei più volgari e deipiù pericolosi, con la pretesa di fare un bene alla società. Si è tanto la-vorato per l’abolizione della pena di morte e vorremmo ora concedereindirettamente il diritto di uccidere – sia pure dei fanciulli – ai privaticittadini?»218.

215 V. Mellusi, La madre delinquente, cit., 112.216 P. Arena, L’infanticidio, cit., 72-73.217 S. Sighele, Sull’infanticidio, cit., 20. La scuola positiva, e Sighele nello specifico,

pur brandendo strumenti scientifici presentati come sintomi di progresso civile, celavanotuttavia un volto indubbiamente reazionario. Il difensore dell’impunità delle infanticidenon temeva al tempo stesso di affermare: «si sappia punire arditamente, senza paure esenza sentimentalità» (quel sentimentalismo morboso da cui, non a caso, metterà in guar-dia anche il fascismo). «La scuola positiva non ha un grande affetto per i mezzi repres-sivi cui attribuisce solo una secondaria importanza nella terapia del delitto, ma essa ap-plica alla sociologia i criteri della medicina e sa che quando non può più far nulla l’i-giene perché il male è avanzato e ha già formato cancrena, l’unico mezzo di salvezza èla chirurgia» (S. Sighele, Un paese di delinquenti nati, cit., 29). Così come, consapevoledella contraddizione «tra le nostre idee e la ripugnanza istintiva che sentiamo a lasciarimpunito l’infanticidio», l’autore ribadiva che proprio la difesa sociale, scopo unico deldiritto di punire, imponeva una sanzione a carico delle ree (Id., Sull’infanticidio, cit., 201).

218 P. Arena, L’infanticidio, cit., 76, ma vedasi anche, per un ragionamento più ar-ticolato, 77-78.

La Corte d’Assise 1-2/1270

Se una pena doveva essere proprio prevista, questa era finalizzata so-prattutto all’emenda del reo. Così, escludendo il carcere, luogo di cor-ruzione e non di miglioramento, previsto da un codice ondivago tra il«desiderio di accogliere le audacie della scuola positiva, e l’attaccamento,non ancora illanguidito, verso le dottrine classiche»219, alcuni, sulla sciadi Garofalo220, proponevano l’esilio dell’infanticida in un luogo in cuinon fosse perseguitata dall’arma velenosa della maldicenza e dove la suacolpa non le venisse costantemente rimproverata, ostacolo a una vita re-golare ed onesta221. A riprova di questa opzione, Lombroso sostenevache le infanticide inviate nelle colonie e lì maritate si erano rivelate ot-time mogli e madri, dando vita a famiglie eccellenti222. La relegazione suun’isola, in una colonia o in un villaggio remoto, dunque, appariva ingrado di soddisfare una collettività giustamente impressionata dall’infan-ticidio, raggiungendo al contempo lo scopo dell’emenda di una colpe-vole, che sarebbe rimasta libera ma sorvegliata223. Però una simile solu-zione, non disprezzabile in teoria, si rivelava inadatta nella pratica: «comevolete che tiri innanzi la vita una povera donna… quando si trovi, dipunto in bianco, sbalzata in un paese a lei ignoto, senza mezzi, senzaconoscenze?… Non trova innanzi a sé aperta altra via che quella dellaprostituzione»224.

Una valida alternativa sarebbe potuta consistere nel riconoscimentodi diritti e di autonomia alla donna, d’una libertà personale e un’indi-pendenza economica che l’avrebbe sottratta al giudizio dell’opinione co-mune: «a lei la responsabilità dei propri atti, a lei la cura dei propriiistinti, se essere umano è, capace di diritti e doveri»225. Anche un sif-fatto programma tuttavia, ovvio prima facie, si scontrava con la realtàdei fatti: «la donna ha dei diritti: la universale coscienza li sente e li pro-clama, ma la società degli uomini li disconosce… Si parla e si scrive dellaeguaglianza della donna e dell’uomo di fronte alla legge… ma insino a

219 V. Mellusi, La madre delinquente, cit., 119.220 R. Garofalo, Criminologia, cit., 470.221 S. Sighele, Sull’infanticidio, cit., 203-204.222 C. Lombroso e G. Ferrero, La donna delinquente, cit., 494. 223 R. Garofalo, Criminologia, cit., 470: «Il reo dev’essere escluso da quell’ambiente

determinato, che coi suoi pregiudizii giustifica quasi il suo delitto, perché egli non hain sé una sufficiente forza di resistenza contro le spinte al delitto che quell’ambiente me-desimo fa sorgere».

224 P. Arena, L’infanticidio, cit., 82.225 F. Minici, La base economica, cit., 76.

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tanto che una società scostumata consuma in nome di leggi equivochedelle ingiustizie dolorose» si trattava di mera utopia226.

Un problema era posto poi dalla rimessione alla giuria popolare delverdetto circa l’infanticidio, un nodo ulteriore sul quale le scuole pena-listiche si erano confrontate227. Gli studi dimostravano un dato costante,ossia che il numero delle assoluzioni si assestava intorno alla metà dellacifra totale delle accusate228. Il metro morale con cui la giuria popolareguardava le donne che sedevano sul banco d’accusa per rispondere del-l’uccisione del loro neonato era ispirato alla pietà, talvolta assolvendo adispetto delle prove più evidenti di colpevolezza229. «Anche qui, i giu-rati superano i cancelli della legge, e, non solo nell’alternativa tra la penadi morte e l’assoluzione, non esitano punto, ma assolvono anche quandoil codice non minacci che una pena lieve»230.

I verdetti di non colpevolezza erano spesso frutto della percezioneche le infanticide fossero trascinate al delitto da una forza quasi irresi-stibile: «formula inesatta ed antiscientifica, ma che, grossolanamente, ri-specchia un fatto reale», dal momento che con tale espressione si volevaparificare il delitto ad una momentanea aberrazione «alla quale succedeil pentimento, e dopo la quale ritorna l’impero dei sentimenti pietosi»231.Tanto che infanticide riconosciute colpevoli mostravano poi tenerezza ecura nei confronti di figli di altre donne.

226 A. Stoppato, Infanticidio, cit., 4.227 «Ora diamo un’occhiata ai signori giurati e intendiamoci bene non come istitu-

zione, ma come uomini… Sta bene che i giurati sono unicamente giudici del fatto, ma,buon Dio!, questo fatto origina una questione di diritto di cui i giurati dovrebbero purecapire almeno qualche cosina. Ora che ne direste voi di un gruppo di medici chiamatia giudicare un quadro artistico? di una commissione composta di periti-agromensorichiamata a giudicare una statua equestre? Non dico che i giurati debbano essere tantilegali, ma li vorrei scelti tra il fiore della cittadinanza, fiore non per virtù di censo mad’intelligenza» (L. Ferriani, La infanticida, cit., 22-23).

228 Si veda, ad es., Statistica giudiziaria generale per l’anno 1889, Roma, 1891, XC-XCI oppure Statistica giudiziaria generale per l’anno 1893, Roma, 1895, CX-CXII. Af-fermava Tagliacarne che in realtà il numero dei condannati non rappresentava più del20% degli imputati (G. Tagliacarne, Infanticidio, cit., 9, nt. 2). Complessivamente, neldecennio dal 1906 al 1917 furono condannate 539 persone per infanticidio, di cui il 94%erano donne (505) e il 6% uomini (pari a 34 persone) per lo più padri e fratelli delladonna. Fra le donne, 21 avevano un’età compresa tra 14 e 18 anni, 70 dai 18 ai 21 e 89tra i 21 e i 25 (G. Tagliacarne, Infanticidio, cit., 10-13).

229 A. Stoppato, Infanticidio, cit., 15.230 B. Alimena, Intorno al delitto d’infanticidio, cit., 9.231 S. Sighele, Sull’infanticidio, cit., 197.

La Corte d’Assise 1-2/1272

La clemenza dei giurati, a sua volta, veniva annoverata tra i molti-plicatori degli infanticidi, registrati in costante e progressivo aumento ne-gli anni: la donna, di fronte ai precedenti giurisprudenziali, era quasi in-coraggiata, anziché frenata, nei propositi delittuosi, confidando o nel-l’assoluzione o nella mitezza della pena232.

Di fronte alla parabola storica compiuta dall’infanticidio, la previsionedei novatori era che il progresso della ragione e della civiltà avrebbe na-turalmente e inevitabilmente condotto alla sua scomparsa. Lo sviluppointellettuale, le scoperte della scienza, il miglioramento delle condizionieconomiche e sociali (forze dinamiche di trasformazione) avrebbero sem-pre più spogliato l’uomo della sua origine animale e selvaggia, con ov-vie ripercussioni anche nel campo della criminalità, secondo una regolache voleva che ad azioni crudeli (l’infanticidio) se ne sostituissero altremeno spietate (l’aborto) e infine atti solo immorali. In realtà la storia,anche quella penale, non segue linee rette: e la profezia maturata nelclima di scientismo ottimista di fine Ottocento s’è rivelata illusoria.

Abstract

L’Autore ripercorre l’evoluzione storica del delitto di infanticidio, dalle co-dificazioni pre-unitarie al codice Zanardelli.

La fattispecie di riferimento è stata costantemente rappresentata dall’omici-dio: sui suoi elementi costitutivi e sulla sua pena base se ne è plasmata la con-figurazione. La pena è stata innalzata o abbassata a seconda delle istanze e de-gli interessi volta per volta reputati prevalenti: inasprire la pena in ragione del-l’impossibilità della vittima a difendersi, della facilità ad occultare il reato e delparticolare vincolo di sangue intercorrente tra offeso e reo oppure mitigarla inconsiderazione del singolare stato psicologico in cui opera l’autore e del finedell’atto criminoso, ossia salvare l’onore proprio o della propria famiglia an-nientando la causa prima dell’infamia?

Qualora siano le prime considerazioni a imporsi, l’infanticidio non potràche considerarsi un omicidio aggravato; in caso contrario, godrà di una specialeriduzione sanzionatoria.

Non manca inoltre l’analisi dei contrasti tra giurisprudenza e dottrina al-l’epoca del codice del 1889. Interessante risulta, infine, il raffronto fra le di-verse posizioni espresse dalle scuole positiva e classica, non solo nella pro-spettiva del diritto vivente, bensì anche nell’ottica delle possibili riforme deldelitto in esame.

232 G.B. Borelli, Infanticidio, cit., 19.

Loredana Garlati / La fine dell’innocenza 73

The Author traces the historical evolution of the crime of infanticide, fromthe codifications pre-unification to code Zanardelli.

The reference case has been represented by the murder: his constituents andhis sentence on the basis if they have shaped configuration. The penalty wasraised or lowered depending on the demands and interests from time to timedeemed prevailing: tougher punishment because the victim’s inability to defenditself, the ease to conceal the crime and the particular blood tie lag between of-fense and offender or mitigate them in view of the peculiar psychological statein which the author and the end of the criminal act, ie to save his own honoror the honor of his family destroying the root cause of infamy?

Where are the first considerations in establishing itself, infanticide can onlybe considered an aggravated murder, otherwise, it will enjoy a special reducedpenalties.

Do not miss also the analysis of the contrasts between case law and doc-trine at the time of the 1889 Code. Interesting is, finally, the comparison be-tween the different positions expressed by the classical and positive schools,not only from the perspective of the living law, but also in view of possiblereforms of the crime in question.

La Corte d’Assise 1-2/1274