La documentazione linguistica preromana lungo la fascia tirrenica a sud di Velia: un bilancio delle...

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Estratto da Paolo Poccetti La Calabria tirrenica nell’antichità Nuovi documenti e problematiche storiche Rubbettino Atti del Convegno (Rende - 23-25 novembre 2000) a cura di Giovanna De Sensi Sestito La documentazione linguistica preromana lungo la fascia tirrenica a sud di Velia: un bilancio delle acquisizioni più recenti IRACEB - ISTITUTO REGIONALE PER LE ANTICHITÀ CALABRESI CLASSICHE E BIZANTINE - ROSSANO Finito di stampare nel mese di dicembre 2008 dalla Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali per conto di Rubbettino Editore Srl 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro)

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Estratto da

Paolo Poccetti

La Calabria tirrenicanell’antichità

Nuovi documenti e problematiche storiche

Rubbettino

Atti del Convegno(Rende - 23-25 novembre 2000)

a cura di Giovanna De Sensi Sestito

La documentazione linguistica preromanalungo la fascia tirrenica a sud di Velia:

un bilancio delle acquisizioni più recenti

IRACEB - ISTITUTO REGIONALE PER LE ANTICHITÀ CALABRESI CLASSICHE E BIZANTINE - ROSSANO

Finito di stampare nel mese di dicembre 2008 dalla Rubbettino Industrie Grafiche ed Editorialiper conto di Rubbettino Editore Srl 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro)

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Il decennio che si pone a cavallo tra il II e il III millennio della nostra eraha segnato, per quanto riguarda la documentazione linguistica preromanadella fascia costiera del basso Tirreno a sud di Velia, alcune acquisizioni chenon è esagerato definire epocali. Al loro fianco, poi, si pongono altre di mo-nore impatto, ma comunque interessanti per la conoscenza dell’assetto lin-guistico degli insediamenti indigeni tra VI e II secolo a.C.

Il tratto costiero in questione, che per l’esattezza è compreso tra il golfodi Policastro e quello di Lamezia, ha restituito, infatti, nel ristretto arco ditempo sopradetto un dossier eterogeneo quanto estremamente significativodi testi scaglionati cronologicamente tra il VI e il III secolo a.C. Questi testinon solo hanno permesso di far uscire dal silenzio epigrafico che finora cir-condava un tratto di costa che ha giocato un ruolo primario nei vettori dellacolonizzazione e nei processi di acculturazione delle adiacenti comunità in-digene, ma rivestono anche primaria importanza per la documentazione del-la storia linguistica e delle strutture istituzionali delle popolazioni anelleni-che a più ampio raggio, rivoluzionando sotto diversi riguardi le precedenticonoscenze. Le nuove acquisizioni, infatti, dilatandosi lungo un arco crono-logico cruciale compreso tra la caduta dell’“impero di Sibari” e il costituirsidei Saunitik6 œqnh, iscrivibili, dunque, tra la fase tardo “enotria” e quellainiziale “bruzio-lucana” hanno inevitabili ripercussioni di più vasta portatanel panorama più generale delle lingue e delle culture della Penisola Italianasoprattutto di età arcaica.

Di importanza meno “epocale” sono, invece, i rinvenimenti epigrafici diepoca più recente (IV secolo in avanti), consistenti in testi di maledizione,che, tuttavia, sono di notevole interesse per il quadro linguistico sincronicodelle comunità del Bruzio di epoca sannitica, arrecando un contributo moltosignificativo alla definizione del “bilinguismo” osco-greco che le fonti roma-ne hanno avvertito come caratteristica regionale.

Poiché a questi testi sono stati dedicati dettagliati commenti in altre se-di, ci limitiamo qui a ricapitolare i capisaldi cogliendo alcuni aspetti essen-ziali che ne giustificano la loro considerazione entro un quadro d’insieme.

Paolo Poccetti

La documentazione linguistica preromanalungo la fascia tirrenica a sud di Velia:

un bilancio delle acquisizioni più recenti

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1. Due testi istituzionali tra fase “enotria” e fase “lucana”: Tortora e Roccagloriosa.

Iniziamo ovviamente dai due testi di portata “epocale”. Due siti relati-vamente vicini, Roccagloriosa e Tortora, per quanto oggi appartenenti l’unoalla provincia di Salerno, nell’immediato entroterra di Sapri e l’altro alla pro-vincia di Cosenza, ma insistenti entrambi nell’antica Lucania tirrenica hannoconsegnato due testi che sono distanti sotto molti aspetti (tipologia di sup-porti, livelli cronologici, pertinenze grafiche e linguistiche), ma che si rastre-mano sotto un unico comune denominatore, cioè il contenuto prescrittivo dicarattere pubblico e istituzionale.

Il documento di Tortora [Lazzarini - Poccetti 2001; Rix ST Ps 20] cheoccupa quattro facce di un blocco di pietra a forma di parallelepipedo è re-datto nell’alfabeto delle antiche colonie achee e in una lingua classificabilecome varietà arcaica del gruppo sabellico. Tale lingua è definibile, in sostan-za, come varietà di “paleoitalico” che si affianca, con convergenze e diver-genze, alle varietà coeve di area più settentrionale rappresentate dal corpuscosiddetto “sud-piceno”. Anzi è proprio grazie a questa nuova attestazioneche si ha prova inoppugnabile dell’estensione, già nella fase “presannitica”,dell’area linguistica italica con tratti sufficientemente unitari, ma anche consensibili differenziazioni al proprio interno in quel dominio linguistico suc-cessivamente ricoperto dalla documentazione osca e umbra. Queste diffe-renziazioni si ripropongono, pur in termini diversi, nella successiva fase“sannitica” dando luogo alla partizione tra il gruppo osco e il gruppo umbro.

Anche sul piano alfabetico l’iscrizione sul cippo di Tortora mostraquanto antica sia stata la distinzione, che appare netta a partire dal IV secoloa.C., tra un’area che adotta l’alfabeto greco e l’area che adotta alfabeti localiper scrivere le lingue indigene. Il fatto saliente è che questa partizione alfabe-tica distingue lingue indigene sostanzialmente molto affini tra loro. Questalinea di confine, che in prossimità della costa tirrenica si può fissare con buo-na approssimazione lungo il confine antico tra Campania e Lucania, viene acoincidere, pertanto, con il limite settentrionale di espansione delle colonieachee. La distribuzione della documentazione epigrafica, infatti, ci permettedi constatare che tale frontiera alfabetica passava all’incirca tra l’agro “nuce-rino”, dove si attestano lingue locali per le lingue italiche e i dintorni di Saler-no (necropoli di Fratte) dove si hanno attestazioni dell’uso dell’alfabetoacheo per le lingue indigene.

L’adozione dell’alfabeto greco da parte delle genti anelleniche risale,dunque, in questa area ad una fase presannitica. Tale condivisione del mo-dello alfabetico mette in evidenza la stretta coesione culturale delle popola-zioni locali con il circuito delle colonie achee, circostanza con la quale con-vergono anche le esperienze di coni monetali da parte di comunità indigene.La forza e la profondità di questo amalgama con il circostante mondo greco

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che contrassegna le popolazioni italiche di questo ambito risaltano dal man-tenimento del ricorso all’alfabeto greco anche nella successiva epoca sanniti-ca, pur nel mutamento del modello alfabetico greco: in altre parole il mondoindigeno, pur nelle sue articolazioni tra Lucani e Bruzi, adotta il nuovo mo-dello alfabetico di tipo “ionico orientale” diffuso nel mondo ellenistico, con-servando, però, l’antico tratto unitario che lo distingueva dal restante mon-do italico che fino all’altezza della Penisola di Sorrento adottava rielabora-zioni locali di alfabeti greci. Questa continuità sottolinea la forza di un trattoculturale che resta saldo attraverso il passaggio da una fase linguistica aun’altra.

Sotto un altro aspetto il cippo di Tortora ci permette di identificare conprecisione la lingua di quelle comunità locali comprese nel quadrilatero del-le colonie achee, che la tradizione greca, forse di “ottica ionica”, identificasotto il nome di Enotri. Pertanto, il nuovo testo, che si può definire “eno-trio”, ci apre le porte alla conoscenza della lingua di questa popolazione, cheera finora quasi impercettibile, in quanto affidata unicamente ai dati topono-mastici e a due brevissimi documenti finora noti, l’iscrizione sull’olla di Ca-stelluccio [Rix St Ps 1] e quella sulla pietra di Stalettì [Rix St Ps 2]. Questalingua esce ora nella sua piena fisionomia sabellica entro un quadro di con-vergenze e di variazioni rispetto al gruppo italico. Tale condizione ci permet-te di intravedere una continuità linguistica estesa nello spazio tra l’Umbria ela Calabria e diluita nel tempo dagli albori fino alla scomparsa della docu-mentazione. Tale continuità spazio-temporale ci obbliga a ridisegnare il pro-cesso della “sannitizzazione” che le fonti colgono nello strutturarsi dei Sau-nitik6 œqnh e che l’epigrafia ci manifesta con la comparsa della facies lingui-stica osca in termini di continuità piuttosto che di sovvertimento.

Tale prospettiva porta inevitabilmente anche a riconsiderare il fenome-no della “sannitizzazione” nella sua portata storica, oltre che linguistica.

Già da qualche tempo – soprattutto negli ambienti degli storici e degliarcheologi – si è fortemente ridimensionata, se non ribaltata la visione del fe-nomeno della sannitizzazione secondo l’ottica “invasionista” del passato, le-gata, cioè, ad un’unica chiave di lettura che privilegiava la discesa di “nuovegenti” da nord verso sud, sommergendo o sostituendosi come dominatori al-le popolazioni precedenti.

Ora, il testo di Tortora induce anche i linguisti a cambiare completa-mente opinione sullo svolgersi della sannitizzazione, che ha come suo effettosaliente l’apparire della lingua osca. Tale fenomeno ci si presenta ora più net-tamente come un processo di trasformazione interna, in parte forse anche le-gata all’arrivo di nuovi elementi da nord, ma certamente in massima partedeterminata da modificazioni interne alle società indigene, che sul piano lin-guistico ha come sua manifestazione il subentrare di un modello diverso, al-ternativo rispetto al precedente.

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Anzi, proprio la contiguità geografica di due documenti importanti e re-lativamente omogenei in quanto espressione di organismi pubblici, come l’i-scrizione di Tortora e quella di Roccagloriosa, rende immediatamente per-cettibile il subentrare di una varietà rispetto a un’altra dello stesso gruppolinguistico proprio a livello della lingua ufficiale. Infatti, lo scarto tra le duevarietà, quella “enotria” (o più latamente “paleoitalica”) e quella “lucana” (opiù latamente osca) appare determinato sì da fenomeni evolutivi, scalati indiacronia, ma anche dalla selezione di modelli diversi coagenti in sincronia.In altre parole, la continuità linguistica tra la fase enotria e quella lucano-bruzia in uno spazio geografico non troppo dilatato si configura secondo unrapporto non troppo dissimile a quello che separa il latino di epoca prelette-raria da quello di età ciceroniana. C’è sicuramente tra i due livelli di latinouna distanza consistente, tale da rendere, a noi come ai contemporanei di Ci-cerone, difficile l’accesso ai testi molto arcaici del latino, ma nessuno né deimoderni né dei Romani del I secolo a.C. si sentirebbe di negare che si trattidella stessa lingua. Ovviamente non conosciamo quale fosse per un parlanteosco di II-I secolo il grado di comprensibilità di un testo risalente al VI seco-lo a.C. Appare, tuttavia, verosimile che la situazione si ponesse in termininon troppo dissimili da quelli documentati a Roma: un parlante medio avevaforse scarsa accessibilità a un testo paleoitalico, ma poteva mantenere pienacoscienza che si trattasse della stessa lingua.

L’acquisizione del testo sul cippo di Tortora (località San Brancato) ha,dunque, rivoluzionato le nostre conoscenze del mondo italico a vari livelli.Innanzitutto ci sembra il caso di sottolinearne l’importanza per la storia loca-le, naturalmente in relazione alla quota cronologica a cui si riferisce (appun-to, fine VI sec. a.C.). Giova ricordare che tale datazione si fonda non su basearcheologica in quanto il cippo è stato trovato in un contesto di reimpiegosuccessivo, ma su basi epigrafico-linguistiche. Un testo di questa portata hauna rilevanza non solo per l’ambito ristretto alla zona di rinvenimento, maanche per il sistema insediativo arcaico gravitante sull’intera vallata del No-ce. Anche se la presenza di insediamenti riferibili a tale epoca è ben attestatain questa area, pochissime sono le informazioni delle fonti antiche e ben po-co traluce anche dai relitti toponomastici. Non ci è noto, infatti, l’idronimoantico che corrisponde a quello odierno Noce: questo ci preclude la cono-scenza non solo del nome del corso d’acqua in sé, ma forse anche della co-munità che vi gravitava intorno, secondo un modello toponomastico moltodiffuso nella Calabria antica (es. i Lamhti~noi, dall’idronimo Lamato/La-meto, i LaFi~noi dall’idronimo La~oj, ecc.) [Poccetti 2000b ].

È assai probabile che lo stesso modello onomastico di una comunità ar-caica che prende nome dal fiume sul quale insiste si riproponesse anche nelcaso del corso del Noce. Quale sia il motivo per il quale non conosciamo ilnome di questa comunità è difficile dire. È possibile che, a differenza di altre

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vallate fluviali della Calabria che hanno dato luogo allo svilupparsi (sia purein forme diverse) di un insediamento di tipo urbano o paraurbano nel bassocorso di un fiume, da cui hanno assunto il nome (es. La~oj, M2dma,Metau~roj, ecc.) secondo il cliché di omonimia di potamÕj kaˆ pÒlij, regi-strato dalla descrizione straboniana della Calabria, in questo caso non si siacostituito un tale tipo di struttura insediativa oppure che essa sia precoce-mente scomparsa, sì da non avere alcuna visibilità per le fonti letterarie.

È altresì vero che nell’antichità il Noce e la Fiumarella di Tortora nonerano convergenti, bensì paralleli: ciò induce a domandarsi se esistesse unasola designazione onomastica che si riferiva al complesso del bacino idrogra-fico oppure due distinte. Il cippo di Tortora sollecita a riprendere la questio-ne dietro due considerazioni: la prima è l’esistenza stessa di una comunitàstrutturata, implicata dall’attestarsi di un documento di tale portata, di cui èespressione; la seconda è un indizio testuale interno allo stesso documento diTortora che permette di cogliere nel testo il nome della comunità che lo haespresso […] (irnenia).

Infatti la ricorsività della stessa sequenza in due porzioni del testo (sud-divise tra le facce del cippo) e il fatto che in questa stessa sequenza sia seg-mentabile un elemento suffissale (-e-no) presente in forme onomastiche (an-troponimi, toponimi ed etnonimi) induce a ritenere probabile che si trattidel nome della comunità in sintonia con la rilevanza istituzionale del docu-mento. Per le ragioni di omologia con altre tipologie onomastiche e insedia-tive della Calabria tirrenica scandite dalla gravitazione lungo la vallata di unfiume è verosimile che questa denominazione abbia alla base lo stesso idro-nimo. La presenza di un etnonimo costituisce la manifestazione di una iden-tità etnica, una sorta di autoaffermazione e di vessillo della autonomia etno-politica, che, peraltro, è già implicata sia dallo stesso attestarsi del tipo di do-cumento in quanto tale sia dal sistema di scrittura. L’alfabeto usato nel testoinfatti, non è una banale trasposizione dell’alfabeto greco, ma implica unosforzo di rielaborazione che presuppone contatti con altre aree alfabetichedel mondo italico. Infatti, questa scrittura ha sopperito alla mancanza del se-gno per /f/ nell’alfabeto che ha fornito il repertorio principale dei segni (ap-punto quello delle circostanti colonie achee) ispirandosi a un grafo usato(con valore diverso) presso altre tradizioni alfabetiche attestate per registra-re lingue italiche fino alla Campania. Poiché questo stesso percorso riapparesu sistemi alfabetici diversi due secoli più tardi, occorre desumere che l’iscri-zione del cippo di Tortora non rappresentasse un’esperienza isolata nell’am-bito della cultura enotria, in quanto preconizza un sistema riproposto su piùlarghe basi regionali dalla scrittura osca. Ci si può chiedere, d’altra parte,quali siano stati i vettori che hanno veicolato i rapporti con le aree alfabeti-che più settentrionali e se proprio questa fascia dell’antica Lucania tirrenicane sia una cerniera fondamentale.

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A rispondere affermativamente a tale domanda spinge il frammento ditavola bronzea da Roccagloriosa che ci attesta proprio nella Lucania tirreni-ca l’esistenza di una tradizione scrittoria legata a testi di carattere pubblico eistituzionale. In effetti, prima dell’acquisizione dell’iscrizione paleosabellicadi Tortora e del frammento della tavola bronzea di Roccagloriosa le testimo-nianze della scrittura nella Lucania occidentale erano assai misere sul pianosia qualitativo sia quantitativo. Infatti, finora, per quanto riguarda l’epocaenotria non si disponeva che di qualche graffito su vasi di area posidoniateche registrano nomi indigeni (taluni in forma greca), oltre naturalmente all’i-scrizione sull’olla di Castelluccio sul Lao. Quest’ultima, tuttavia, più che allaparalia appartiene alla mesogaia e non è pertanto, di per sé, significativa perl’orientamento dei flussi della scrittura nel mondo enotrio. Va poi tenutoconto del fatto che i supporti su cui si trovano le iscrizioni finora note sonofacilmente amovibili, essendo oggetti di ceramica, circostanza che non ci ga-rantisce sulla localizzazione della produzione scrittoria. Invece, un’iscrizio-ne su un cippo delle dimensioni di quello di Tortora non può attribuirsi che auna realizzazione locale. Per quanto riguarda la successiva fase “lucana”, leiscrizioni osche della fascia occidentale si concentrano nel Vallo di Diano econsistono per lo più di epitafi databili al II secolo a.C., salvo l’importantedocumento del bouleterion di Posidonia, che ostenta la “lucanizzazione” po-litica della città antecedentemente alla deduzione coloniale del 273 a.C.[Greco 1981; Rix ST Lu 14].

Finora tutte le argomentazioni sulla genesi e sullo sviluppo del sistemadi scrittura dell’osco meridionale basato sul modello alfabetico greco si affi-davano al corpus del santuario di Rossano di Vaglio che si impone tuttoraper il suo spessore e l’ampio ventaglio diacronico in cui si dilata. D’altra par-te, proprio il nodo dell’interpretazione del ruolo dello stesso santuario luca-no sia nell’ambito della Lucania sia nei rapporti con la Campania ed il San-nio ha ovviamente i suoi riflessi anche nell’accertamento del suo ruolo comecentro di normalizzazione e di irradiazione della scrittura nel restante mon-do lucano.

In questo quadro il rinvenimento del frammento di tavola bronzea aRoccagloriosa rappresenta un tassello importante e decisivo. Il sistema discrittura qui rappresentato rispecchia una tradizione indipendente da quelladi Rossano di Vaglio per quanto riguarda le regole ortografiche nella regi-strazione del sistema vocalico, ma certamente a essa collegata per quanto ri-guarda l’uso di un grafo particolare a tre tratti (qualunque ne sia l’origine)per rappresentare /f/ . La forma di questo stesso grafo si ritrova in due testioschi più meridionali di cronologia non troppo distante dall’iscrizione diRoccagloriosa, la cui datazione, per ragioni esposte in dettaglio in sede diedizione del testo, deve orientarsi tra fine IV e inizio III secolo a.C.: si trattadi una defixio da Laos [Rix ST Lu 63]e di una da Tiriolo [Rix ST Lu 43].

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Il fatto che l’impiego di questo segno è condiviso da queste iscrizioni, da-tabili entro l’orizzonte del IV secolo a.C., che uniscono la Lucania lungo la pa-ralia tirrenica fino al cuore del Bruzio (Tiriolo) induce a ritenere che tale inno-vazione grafica doveva essere abbastanza antica se vede coinvolti unitaria-mente il mondo bruzio e quello lucano sullo scorcio del IV secolo. Diversa-mente, a Rossano di Vaglio e in altre zone interessate dalla scrittura osco-luca-na, le attestazioni più antiche del segno per /f/ mostrano grafi totalmente dif-ferenti, che presuppongono un modello diverso. Ci si può domandare, dun-que, se alla base di questa diversità di grafi anziché una trafila evolutiva di se-gni tra loro diversi, che era stata supposta al momento della scoperta del dos-sier epigrafico di Rossano di Vaglio, si possano ravvisare modelli diversi pro-pagatisi secondo filoni e aree distinte. In concreto, stando alla documentazio-ne osca disponibile di fine IV secolo a.C., un filone sarebbe rappresentato dalsegno circolare presente a Rossano di Vaglio (non importa qui decidere se l’o-rigine ne sia dal theta greco o dall’adattamento del segno a 8 dell’etrusco), unaltro filone dal segno a tre tratti (probabile variante del segno per le sibilanti),che ha una diffusione lungo la costa tirrenica da Roccagloriosa a Laos e arrivafino all’entroterra di Tiriolo. L’attestarsi di tale segno a Rossano di Vaglio inepoca più tarda e in concorrenza con altri dovrà essere, pertanto, consideratocome un influsso grafico proveniente dalla Lucania tirrenica e non viceversa.

Sempre la rappresentazione del segno per /f/ che costituisce uno dei fat-ti più salienti di innovazione e di distinzione negli alfabeti dell’Italia antica ciporta a individuare nella fascia costiera basso-tirrenica un canale di contattiancora più antichi tra le due aree alfabetiche in cui si suddivide l’ambito lin-guistico sabellico, cioè l’area che adotta come modello principale l’alfabetogreco e l’area che adotta rielaborazioni indigene. L’iscrizione del cippo diTortora ha mostrato definitivamente come questa partizione (che la docu-mentazione osca ci permette di far coincidere geograficamente all’incircacon il confine antico tra Campania e Lucania) è antecedente alla fase lucanae che, anzi, la creazione della scrittura osco-greca ispirata all’alfabeto elleni-stico di tipo ionico orientale altro non ha fatto che ripercorrere un camminogià aperto entro gli stessi scenari geografici.

Inoltre, come già detto, la stessa iscrizione di Tortora ci mostra che an-che i contatti tra le due aree scrittorie risalgono già ad età presannitica. Infat-ti, il segno che qui è chiamato a denotare /f/ trova riferimenti diretti nelleiscrizioni paleoitaliche più settentrionali di ambito sia “sud-piceno” sia cam-pano. Finora lo stesso segno che a Tortora è chiamato a indicare /f/ era atte-stato in queste iscrizioni con il valore di /w/ [Lazzarini-Poccetti 2001]. L’im-piego di un segno per /w/ per denotare /f/ non desta stupore, se si riflette alfatto che lo stesso procedimento è stato seguito dall’alfabeto etrusco arcaicoe da quello latino che hanno fatto ricorso al segno greco del digamma per in-dicare la fricativa /f/. Se fino a ora si poteva anche supporre che tale adatta-

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mento fosse avvenuto in ambiente enotrio, la recente scoperta di una nuovaiscrizione “protocampana” in alfabeto “nucerino” ci mostra che lo stesso se-gno era già utilizzato in quell’area alfabetica con il valore di /f/ [Russo 2005].Pertanto, nell’iscrizione di Tortora l’impiego con il valore di /f/ non è l’adat-tamento di un segno di un altro alfabeto a un valore diverso dal modello,bensì l’adozione del segno con lo stesso valore del modello.

In totale, per quanto riguarda gli aspetti del sistema di scrittura il cippodi Tortora e la nuova iscrizione vascolare in alfabeto “nucerino”, per la quotapaleoitalica, e quella di Roccagloriosa, per la quota lucana, accentuano ilruolo della fascia basso-tirrenica come cerniera e flusso di contatti tra le duearee scrittorie del mondo italico anche attraverso il mutamento dei rispettivimodelli alfabetici.

Un altro dato saliente che emerge dalla considerazione comparativa del-l’iscrizione di Tortora e di quella di Roccagloriosa tocca direttamente la na-tura e il contenuto dei due documenti. Pur nella loro estrema frammenta-rietà, i due testi, per ragioni diverse, dovevano avere una cospicua estensio-ne, segno evidente di una attitudine non occasionale e superficiale con lascrittura. Anche il frammento di lastra bronzea di Roccagloriosa ci induce adesumere un livello molto elevato di acculturazione grafica implicato dallatipologia del documento stesso, attribuibile a una legge pubblica, cosa che ciappare straordinaria in rapporto alla datazione tra la fine del IV e l’inizio delIII secolo su cui convergono diversi elementi di varia natura.

Tanto l’iscrizione di Tortora quanto quella di Roccagloriosa dovevanoavere un’estensione ben più ampia delle porzioni che si sono rispettivamenteconservate. Per avere un’idea approssimativa della parte mancante del testodi Roccagloriosa si può calcolare, in rapporto alle dimensioni medie delle ta-vole bronzee, che il frammento superstite rappresentasse un sesto o un otta-vo dell’intero. Infatti, poiché la perdita investe ben tre lati di un testo opisto-grafo, la porzione superstite può oscillare da un dodicesimo a un sedicesimodella totalità delle due facce.

Per quanto riguarda il cippo di Tortora non è azzardato presumere chela parte che ci è conservata non fosse molto inferiore alla porzione che è an-data perduta e, di conseguenza, rappresentasse non meno della metà dell’in-tero documento. A tale conclusione si è sospinti dalla considerazione che iltesto ha una struttura sintattica complessa, con un’architettura costituita dapiù enunciati, che spaziano dalla forma descrittiva (segnalata dall’uso dellaIII persona sia singolare sia plurale) a quella prescrittiva (segnalata dalla pre-senza di almeno due forme di imperativo II), nelle quali si incastrano altreforme verbali (di presente indicativo o di congiuntivo). Una tale architetturasintattica articolata e complessa induce a credere che il testo non poteva cheessere articolato e complesso. Le obiettive difficoltà nel ricostruire ancheuna sola frase compiuta favoriscono la deduzione che la parte mancante fos-

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se di entità tutt’altro che insignificante. A tal proposito, va tenuto conto delfatto che la tecnica della scrittura bustrofedica, adottata nel cippo di Torto-ra, taglia contemporaneamente non solo la fine di ciascuna riga, ma anche l’i-nizio della successiva, in pratica raddoppiando l’entità della perdita in unacatena sintattica.

Appare, tuttavia, fuori discussione che i due testi convergono su un co-mune denominatore costituito dal contenuto prescrittivo e dalla valenza isti-tuzionale. Per “istituzionale” si intende ciò che tocca l’identità, l’organizza-zione della struttura delle rispettive comunità di cui entrambi sono espres-sione. Il frammento di Roccagloriosa ci permette di cogliere più compiuta-mente le indicazioni relative all’organizzazione politica della touta di cuiignoriamo il nome. Precisi riferimenti a termini relativi all’ordinamento giu-risdizionale e la presenza di diverse forme di imperativi in -tod ci fanno intra-vedere la struttura di un testo legislativo inerente il diritto pubblico.

Assai meno chiara è l’identificazione del contenuto dell’iscrizione delcippo di Tortora. Pur nella frammentarietà sintattica di un testo estrema-mente complesso, occorre, innanzitutto, richiamare l’insieme degli elementiche ne additano la valenza istituzionale. Si è già fatto cenno alla possibileidentificazione di un elemento onomastico ricorsivo (…irnenia) attribuibilealla denominazione della comunità (connessa all’idronimo?) che ha espressoil documento. D’altra parte, il termine istituzionale per eccellenza dell’orga-nizzazione della comunità italica cioè touta- sembra figurare nel testo nellaforma di un suo derivato purtroppo mutilo all’inizio (…]tovtid), il quale pre-suppone un composto aggettivale tipo -toutio-. Non siamo in grado di stabi-lire se l’elemento in questione si riferisse alla comunità stessa che ha espressoil testo o ad una comunità prossima. Tuttavia, la sua menzione ci permette dicogliere l’esistenza a livello locale di questa organizzazione istituzionale basi-lare e comune a tutta la cultura italica. Infatti, la nozione espressa dal termi-ne touta- è attestata già a quota arcaica in tutto il dominio linguistico italicodalla Sabina (cippo di Cures) [Rix ST Sp RI 1] attraverso l’ambito medio-adriatico (stele di Penna S.Andrea) [Rix ST TE 5] fino a Castelluccio sul Laonel derivato aggettivale (toutiko-). Un ulteriore anello in questa collana di at-testazioni arcaiche di strutture istituzionali designate con il termine touta- èora rappresentato dall’iscrizione di Tortora.

Per quanto riguarda specificamente l’ambito enotrio, il documento diTortora e quello di Castelluccio ci fanno intravedere l’esistenza di almenodue comunità organizzate territorialmente e politicamente in coincidenza didue bacini idrografici che affluiscono al Tirreno, l’una situata lungo il corsodel Noce, l’altra lungo il corso del Lao. Ciò legittima l’ipotesi che – in paral-lelo ad altre strutture insediative omologhe della Calabria antica – le due en-tità istituzionali coincidessero con i territori scanditi dal corso dei due fiumie forse anche prendessero nome dai rispettivi idronimi.

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Altro elemento “sensibile” sotto il profilo istituzionale nel documentodi Tortora è il derivato del teonimo (iiovio-) relativo alla massima divinità delpantheon italico, cioè Giove, che figura in apertura del testo in sintagma ap-posto come formula intestazione del testo stesso. Ci limitiamo a ricordareche l’attributo derivato dal nome di Giove in diversi testi sabellici si presentatalvolta in riferimento a strutture istituzionali come okri- (bronzo di Rapino,Tavole Iguvine) e che il nome della stessa divinità sincretizzato con l’attribu-to di “padre” come nel lat. Iuppiter appare connesso al termine relativo all’i-stituzione stessa della touta- nell’iscrizione “enotria” sull’olla di Castellucciosul Lao. In qualche misura, dunque, questo dato dell’iscrizione di Tortoraesalta la coerenza con l’iscrizione di Castelluccio nel quadro della valenzapolitica e istituzionale del culto della massima divinità comune alla culturaitalica, su cui poteva attuarsi anche una simbiosi con il culto greco di Ze5jpolieÚj.

Non è, dunque, necessario presumere che alla base della formula atte-stata nel vaso di Castelluccio sul Lao ci sia il modello del culto greco, ma ècerto verosimile che si sia attuata – almeno in questo contesto – una conver-genza tra il culto indigeno e quello greco.

Altro indizio che nel cippo di Tortora ci indirizza verso un contenutoistituzionale è rappresentato dalla possibile identificazione del corrispettivodella parola latina terminus. Tale base lessicale, anche se è presente in varielingue indoeuropee, assume nelle lingue dell’Italia antica (latino, osco, um-bro, venetico), dove è copiosamente attestata un senso specifico in rapportoalle pratiche di “delimitazione di confine” con forti implicazioni culturali eistituzionali [Untermann 2000, pp. 745 e ss.], cioè la definizione di uno spa-zio pubblico e di uno spazio sacro attraverso un sapere tecnico e procedurerituali di tipo “augurale”. Pertanto il riferimento alla definizione di un confi-ne nel testo di Tortora non solo ben si adatta alla condizione per così dire“performativa” del supporto (cioè il cippo stesso che costituisce di per sé ilsegnacolo del confine nel momento in cui dichiara di esserlo e attuandosi co-me tale nel contesto in cui è collocato), ma conviene anche al presuppostodella sacralità introdotta dal derivato dal teonimo apposto come formula diintestazione al documento stesso.

Tuttavia, ciò che segnala in maniera più forte e inequivocabile il carattereprescrittivo del documento di Tortora è la presenza di due forme di imperati-vo in –tod, precedute da negazione con il pronome indefinito pis. Con ciò sirealizza l’espressione di uno o più divieti che caratterizzano gli enunciati pre-scrittivi sia del latino sia delle lingue sabelliche. Il testo, dunque si compone diuna sezione argomentativa in cui si espongono verosimilmente le premesse edi una sezione prescrittiva che costituisce la seconda parte in cui si formulanodei divieti. Tale struttura sostanzia un testo a carattere giuridico, di cui defini-re la pertinenza all’ambito religioso o a quello politico non solo è difficile, ma

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forse neppure indispensabile, dato che il confine tra i due ambiti è molto sot-tile e spesso impercettibile. Quello che qui preme sottolineare è l’implicazio-ne culturale di ordine più generale sottesa al contenuto di siffatto documentoche permette una sintonia con il frammento di Roccagloriosa.

Il cippo di Tortora si connota – almeno per la sua parte conclusiva – cometesto di contenuto prescrittivo di cui ci sfuggono i dettagli relativamente al con-tenuto, ma che si caratterizza in quanto tale per strutture formali che individua-no i testi prescrittivi di ambiente italico e latino noti a partire dal III secolo a.C.,siano essi disposizioni sull’uso di spazi sacri o leggi concernenti il diritto pub-blico. Come abbiamo già detto poc’anzi, la lastra bronzea di Roccagloriosa nonlascia spazio ad equivoci sotto questo punto di vista. Malgrado la frammenta-rietà, la presenza di ben cinque forme di imperativo in –tod (tra integre e muti-le) e di cinque pronomi indefiniti (di cui tre rafforzati da un elemento genera-lizzante) e di frasi subordinate rappresentate da pronomi relativi e dalla parti-cella condizionale suai “se” lasciano intravedere strutture sintattiche comples-se scandite da una premessa di una casistica generale e dalla statuizione che neconsegue, del tipo: “se qualcuno si trova in una certa condizione o se si realizzanodeterminate condizioni […] allora in questo caso si deve o non si deve […]”.Questo tipo di formulazione sintattica identifica le strutture elementari dei te-sti normativi, in pratica le disposizioni di legge. Anzi, proprio la statuizioneespressa mediante l’imperativo in –tod, introdotta da una subordinata che necostituisce la premessa generale, è il fatto formale ritenuto costitutivo dello stiledelle leggi [Magdelain 1978; Prosdocimi 1999]. L’esempio più antico, perquanto riguarda le culture autoctone dell’Italia antica, era finora rappresentatodalle formule conservate dai frammenti della legge delle XII Tavole. Il nucleodi questo tipo di strutture rimane una caratteristica immanente dello stile delleleggi romane, anche quando esse si sono man mano successivamente ampliatefino a raggiungere l’ampollosità dello stile cancelleresco imperiale.

Ora la nuova iscrizione di Tortora permette di accertare l’esistenza diuno stile che potremmo dire “legislativo” già in ambiente enotrio alla finedel VI secolo a.C. ed è pertanto cronologicamente anteriore alla data canoni-ca della legislazione decemvirale a Roma. Questo particolare lascia da solotrapelare l’importanza del testo prescrittivo di Tortora, che ci mette in prati-ca di fronte alla prima esperienza di documento giuridico delle genti indige-ne dell’Italia antica, direttamente attestato per canale epigrafico. Che questaesperienza non fosse del tutto isolata e soprattutto nella fascia tirrenica èprovato dal frammento di tabula bronzea di Roccagloriosa, che a cavallo traIV e III secolo a.C., rivela l’esistenza nel mondo lucano di tradizioni legislati-ve in forme che avevano raggiunto un elevato grado di raffinatezza concet-tuale e di elaborazione formale.

L’accertamento dei due testi a contenuto normativo caratterizzati dastrutture formali che si incardinano nel formulario attestato nelle leggi sia

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della Roma arcaica (come le XII Tavole) sia del mondo italico ha delle impli-cazioni ben più ampie che impongono una riconsiderazione delle origini del-la tradizione in materia legislativa nel mondo indigeno. Finora le attestazioniitaliche di testi normativi calandosi in epoca relativamente bassa e in una fasedi più o meno avanzata latinizzazione hanno alimentato la loro analisi nellaprospettiva dell’influsso e del condizionamento allogeno, per lo più nell’an-golazione romana, ma anche greca ed ellenistica. È noto, d’altra parte, che laTabula Osca di Bantia è stata finora palestra di esercizio per misurare laprofondità della latinizzazione dell’osco proprio in materia del linguaggiogiuridico [Campanile 1976; Del Tutto Palma 1990].

Nel caso del documento bantino la questione della passività e del cedi-mento dell’osco nei confronti delle strutture latine si salda con le questioninodali relative alla composizione e alla datazione del testo in ordine aglieventi della guerra sociale e all’ordinamento municipale. Ora i due nuovi do-cumenti della Lucania tirrenica scaglionati tra VI e inizio III secolo a.C. invi-tano a riconsiderare nel suo insieme la questione dell’esistenza di una tradi-zione di testi di legge e della loro codificazione scritta all’interno del mondoitalico, inducendo quanto meno a ridimensionare l’immagine di una produ-zione legislativa delle popolazioni sabelliche come totalmente tributaria diquella romana. Certamente è il frammento di Roccagloriosa che, per la suacomplessità sia di strutture sia di contenuto normativo, permette un accosta-mento più diretto con la Tabula Osca di Bantia facendola peraltro uscire dal-l’isolamento in cui di fatto finora si trovava. Il fatto che nel testo di Roccaglo-riosa non si trovino dei latinismi, resi di per sè improbabili dalla cronologiarelativamente alta, esonera immediatamente dal sospetto dell’influsso roma-no. Qualche occasionale coincidenza con espressioni o formule note nel lin-guaggio giuridico latino inducono a credere che, anziché, fenomeni di calchio di prestiti esse siano attribuibili a semplice convergenza con un formulariocomune. D’altra parte, non si incontrano neppure grecismi, lessicali o sintat-tici, in misura tale da indurre a pensare a un modellamento massiccio dellatradizione legislativa indigena su quella ellenica.

Queste considerazioni, dunque, spingono verso la conclusione che i duenuovi documenti prescrittivi della cultura italica meridionale riflettano unatradizione legislativa autenticamente indigena, certamente stimolata dallacodificazione scritta delle leggi che il mondo greco ha conosciuto fin da anti-ca data, ma comunque autonoma nella sua fisionomia.

Ma è soprattutto l’indipendenza dall’influsso romano, implicata dai duenuovi testi normativi di Tortora e di Roccagloriosa, ad avere conseguenze diprimaria importanza. Innanzitutto il presupposto di una solida tradizione le-gislativa indigena spinge a riconsiderare l’inquadramento del corpus già no-to, a partire ovviamente dalla Lex Osca bantina. L’acquisizione dei due testi,infatti, permette di disegnare il tracciato di una tradizione che, sia pure inter-

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vallato da iati cronologici e culturali, si dilata dal VI al I secolo a.C. con l’a-nello intermedio di IV secolo. Questo nuovo quadro porta a rimettere in di-scussione la misura della dipendenza dal modello romano per quanto riguar-da la Tabula Bantina. L’impronta di tale modello è, in questo caso specifico,innegabile tanto per i contenuti istituzionali più generali quanto per questio-ni di dettaglio. Tuttavia, le due nuove acquisizioni, ben più antiche, alimen-tano la convinzione che il testo bantino, pur improntato a modelli romani eadattato alle circostanze del momento, si inserisca nel solco di una consoli-data tradizione indigena che, in una fase di romanizzazione come si verifica aBantia, giustifica la scelta dell’osco rispetto al latino. Con la linearità crono-logica in cui mettono in serie il cippo di Tortora, la Tabula di Roccagloriosa ela Tabula Bantina si congiunge la solidarietà areale, che è un dato di interessenon secondario, specie in questa sede.

Ci si può chiedere, infatti, se la concentrazione dei tre documenti legi-slativi nella Lucania antica sia casuale o piuttosto non rifletta una particolarelocalizzazione geografica delle esperienze testuali della cultura italica perquanto riguarda la codificazione scritta delle leggi pubbliche. Come ancheviene fatto di chiedersi se sia casuale la priorità cronologica delle attestazioninella Lucania occidentale rispetto alla parte centro-orientale dove si localiz-za lo statuto bantino. L’impressione immediata quanto sommaria che si rica-va sembra orientare il senso di questa tradizione dalle coste tirreniche versol’interno della Lucania e non viceversa andando, dunque, in sintonia con ladirezione della propagazione di fatti grafici, quali, per esempio, il segno per/f/ che abbiamo già rilevato in precedenza. Tale problema chiama in causauna questione di portata assai più generale attinente l’esistenza e la circola-zione di tradizioni legislative in Magna Grecia e Sicilia, che tocca anche lagenesi del più antico corpus normativo romano, cioè le XII Tavole.

Come è noto, infatti, relativamente alla legislazione decemvirale intornoalla metà del V secolo a.C., un filone delle fonti antiquarie ne invoca un’ispi-razione a modelli di ordinamenti e a prassi legislative greche sia della madre-patria sia della Magna Grecia. D’altro canto, per quanto riguarda il mondodella colonizzazione occidentale, si hanno molteplici testimonianze lettera-rie della precoce esistenza di forme di codificazione scritta di leggi legata a fi-gure dai contorni evanescenti quali Zaleuco di Locri, Caronda di Catania eDiocle di Siracusa i quali avrebbero preceduto i legislatori ateniesi comeDraconte e Solone. Con queste testimonianze si accordano attestazioni epi-grafiche arcaiche di testi legislativi in ambito magnogreco e siceliota. Oral’attestarsi di testi legislativi presso le genti anelleniche delle coste del bassoTirreno non solo si inserisce nel quadro generale dei dati già noti, anzi, incre-mentandolo e arricchendolo, ma mostra il pieno coinvolgimento del mondoindigeno nelle tradizioni di legislazione scritta Magna Grecia, circostanzache potrebbe aver giocato qualche ruolo nella trasmissione di queste espe-

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rienze verso Roma. La presenza di tali documenti proprio in questa fascia tir-renica potrebbe, pertanto, essere indicativa dei vettori di contatto e di diffu-sione relativamente a questo tipo testualità tra gli ambienti sicelioti, quellidella Calabria ionica e il Lazio stesso. Più tardi, lo sviluppo del diritto e dellaproduzione di testi di legge per effetto della romanizzazione sembrerebbeaver avuto un effetto di rimbalzo nelle culture locali stimolando la produzio-ne scritta ed esperienze specifiche di amalgama tra le due tradizioni in uncontesto di profonda latinizzazione come appunto quella di Bantia.

2. Spaccato sociolinguistico di una comunità tra Lucani e Brettii alla fine del IVsec.: il caso di Laos

Al di fuori dei due testi appena esaminati, che spiccano per loro eccezio-nalità non solo nel panorama generale dell’epigrafia dell’Italia antica, ma an-che in rapporto alla scarsità di documentazione linguistica tanto greca quan-to anellenica che ci offre l’intera fascia tirrenica della Lucania e della Cala-bria, pochissime sono le acquisizioni che hanno scandito gli ultimi venti annie di importanza non certo comparabile – anche per i risvolti di ordine più ge-nerale – a quella dei due documenti di Roccagloriosa e di Tortora.

Tuttavia, i pochi testi di cui si è arricchito il dossier linguistico di questafascia regionale pur collocandosi su piani diametralmente opposti ai testinormativi di Tortora e di Roccagloriosa contribuiscono efficacemente a dareun’idea del quadro sincronico del repertorio linguistico dei singoli abitati.

Questi testi sono costituiti da laminette di esecrazione che, a differenzadei documenti precedenti, non sono destinate all’esposizione né a una lettu-ra pubblica, ma, al contrario, all’occultamento. Esse riflettono, pertanto, leistanze linguistiche del contesto in cui si iscrivono e, proprio in grazia dellaloro condizione di toccare i molteplici aspetti della vita quotidiana, i rappor-ti sociali, quelli economici o affettivi, costituiscono prezioso termometro delclima linguistico dell’ambiente in cui si attestano. La datazione di questinuovi documenti ai decenni finali del IV secolo a.C. ha un positivo effetto diconsentire uno sguardo sincronico della situazione linguistica sia nell’ambi-to del singolo insediamento sia nella visione comparativa d’insieme.

Il caso di Laos è senz’altro il più interessante anche per il significativoincremento a fronte di una condizione di partenza assolutamente minimalerappresentata fino a non molti anni fa solo da leggende monetali. Le iscrizio-ni monetali di Laos lucana, infatti, consistono ora del nome dell’etnico conmorfema greco La…nwn, che ripropone la forma dell’etnico degli incusi piùantichi recanti LaF…nwn, ora i nomi abbreviati dei magistrati locali, di cui èpossibile riconoscere l’appartenenza al repertorio antroponimico italico, manon la pertinenza linguistica.

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In questo quadro è notevole l’importanza che assumono le tre tabellaedefixionum che nell’arco dell’ultimo quindicennio sono state rese note dal si-to al confine tra Lucani e Bretti. La prima, ora conservata al Museo di Reg-gio, è una tabella opistografa, rinvenuta insieme al corredo di una ricca tom-ba bisoma, di cui è ben accertato il contesto [Rix ST Lu 46; Poccetti 1993];delle altre due laminette, consegnate al Museo Nazionale di Napoli da Ore-ste Dito alla fine dell’800, l’unica certezza è la provenienza dall’area dell’an-tica Laos [Poccetti 2000; Rix Lu 63].

I tre documenti consistono quasi esclusivamente di antroponimi, chematerializzano circa 30 denominazioni personali tra formule binomie e sin-goli nomi individuali. Tale circostanza, oltre ad aver incrementato il reperto-rio antroponimico osco di nomi finora in gran parte ignoti, permette di avereun’idea del ruolo svolto dalle componenti italiche che al volgere del IV seco-lo a.C. detenevano il potere politico in quell’insediamento, come rivelanoappunto i nomi dei magistrati monetali.

Il lungo elenco di nomi che otteniamo da questo gruppo di documentiha una qualche significatività sul piano pubblico travalicando il livello deirapporti tra singoli individui legati alle vicende sottese a documenti di que-sto genere. Questa condizione, spicca, per esempio, confrontando l’articola-zione che le tre defixiones di Laos ci presentano a fronte di altre tre defixio-nes osche più o meno della stessa epoca, rinvenute, l’una a Tiriolo [Rix Lu43], l’altra a Castiglione di Paludi [Rix Lu 47], l’altra a Cirò [Rix ST Lu 44].Queste ultime, infatti, non contengono che il nome del defiggente e quellodel defisso, entro una struttura sintattica che li oppone morfologicamentel’uno in caso nominativo, l’altro in caso accusativo. Questi testi si confinano,dunque, strettamente al livello dei rapporti individuali di singole persone,senza escludere l’intervento di rivalità che potevano intaccare aspetti dellavita pubblica (carriera politica o azioni giudiziarie).

Invece, la lista plurima di nomi, anche nell’ipotesi che inerissero aspettie organismi di ambito privato, implica una pluralità di coinvolgimenti e diinteressi che hanno riverberi inevitabili sull’assetto sociale e sulle connessio-ni con la vita pubblica. Tale considerazione generale è sollecitata dall’esem-pio delle defissioni attiche, dove le lunghe liste di nomi ivi frequenti si riferi-scono non di rado a personaggi in vista implicati nella carriera politica o inbeghe giudiziarie di una certa importanza.

È fuor di dubbio che notevoli implicazioni istituzionali, pur entro con-torni tuttora da definire, ha la lamina opistografa rinvenuta all’interno dellatomba bisoma di Marcellina. In questo testo complesso nodo centrale è l’in-terpretazione del termine medekon presente sul lato che ospita solo nomi ma-schili e del corrispettivo femminile medekan nella superficie opposta conte-nente solo nomi femminili. La discussione sulla pertinenza designativa diquesto titolo morfologicamente marcato dall’opposizione nella categoria del

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genere grammaticale (medekon~medekan) si è polarizzata intorno al semanti-smo del termine meddiss. Tale termine istituzionale si attesta nell’osco oracome designazione della magistratura pubblica di rango più elevato ora co-me generico titolo per indicare una carica di tipo pubblico o privato [Cam-panile 1992b; Poccetti 1993]. In tale discussione ha avuto il suo peso l’iden-tificazione della funzione della sua controparte femminile (medekan) finorainusitata. Considerazioni di ordine interno al testo giocano a favore dell’unaquanto dell’altra soluzione. Senza riprendere qui nei dettagli il dibattito, acui rispetto ad anni passati non si sono aggiunti – a nostra conoscenza – ele-menti significativi, è il caso di sottolineare che la scelta del contesto dellatomba bisoma “principesca” per deporre un testo di esecrazione così com-plesso e articolato è probabilmente connessa alla complessità del contrastosociale che oppone defiggenti e defissi, al di là delle banali ragioni personalie delle occasioni contingenti che possono aver motivato l’iniziativa del testodi maledizione. D’altro canto, la ripartizione tra una sezione maschile e unafemminile della defixio costituisce un decisivo indizio in favore di un ruolonon secondario della donna nel mondo lucano-brettio che risalta, del resto,anche da altre testimonianze di ordine sia epigrafico sia letterario [Poccetti1995, p. 222; Poccetti 2000a]. Inoltre, il fatto che alcune donne replicano alfemminile le denominazioni che appaiono al maschile sull’altra faccia lasciapresumere l’esistenza di legami di parentela esistenti tra personaggi di sessidiversi distinti nei rispettivi ranghi.

Oggetto di discussione è stata anche la pertinenza linguistica di questo te-sto complesso di Laos vertente nell’alternativa della sua pertinenza all’osco o algreco. Su questo punto vale forse la pena di ricalibrare alcune considerazioniespresse qualche anno fa anche alla luce dei nuovi ritrovamenti. È certamenteinsufficiente affidare l’onere della prova della grecità linguistica del documentoalla presenza della terminazione –n in luogo di –m nella flessione nominale (nel-lo specifico rappresentata da accusativi singolari. Su tale particolare non puògravare il peso della definizione della scelta operata dal redattore in favore diuno dei due codici. Siamo tuttora dell’avviso che questo elemento, piuttostoche un indicatore linguistico, è un indicatore grafico, che di per sé rivela nontanto l’opzione per l’una o per l’altra lingua quanto piuttosto la consuetudineche il redattore del testo aveva con la scrittura greca. Ne viene, così, implicatauna condizione di soggiacente bigrafismo e biculturalismo che si intreccia ov-viamente con la nota condizione di bilinguismo osco-greco che connota la cul-tura brettia fino ad età romana sì da diventarne un motivo topico e proverbialesancito dall’espressione usata da Ennio e da Lucilio bilingues Bruttaces.

Invece, le strutture morfologiche delle designazioni personali obbedi-scono sostanzialmente al sistema osco sia per quanto riguarda l’uscita dell’u-nico nome identificabile come nominativo (FarFariej) sia per il dato strut-turale attinente la ben nota distinzione morfologica che oppone in osco pre-

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nomi e gentilizi: –(i)s ~ ies : -im ~ -iom (es. nel nostro testo, Far Fariej: Sta-tin Oyion). Tale opposizione morfologica, che ha una rilevanza funzionalenell’osco, si colloca a livello di varianti nel greco già anteriormente alla koinéellenistica, dove le terminazioni –ij: –in figurano come caratteristica di par-ticolari registri in luogo del tradizionale rapporto –ioj: –ion proprio dellalingua standard. Questa circostanza fa sì che il testo della defixio potesse pre-starsi tanto a una lettura come greco quanto come osco in un contesto in cuile due lingue coesistevano e coagivano negli stessi parlanti. Ulteriore segnodi questo dualismo, linguistico e culturale al tempo stesso, si coglie anche nelsistema misto delle designazioni personali presenti nella defixio, in cui convi-vono formule binomie (prenome + gentilizio), di tipo italico, accanto a sin-goli elementi in funzione di idionimi, secondo il modello ellenico, selezionatiora sul prenome ora sul gentilizio. La stessa pratica si ritrova anche in altriambienti dove coesistono i due sistemi onomastici. Questa condizione haprovocato nella defixio di Laos qualche incoerenza e oscillazione nel mante-nimento dell’opposizione morfologica sopra illustrata tra prenome e gentili-zio, che si giustificano con il neutralizzarsi della loro opposizione funzionalenella scelta del solo idionimo.

Il quadro delineato dai dati che emergono dalla lunga defixio della tom-ba bisoma di Marcellina si chiarisce ulteriormente alla luce dei testi di male-dizione conservati al Museo di Napoli (e pubblicati successivamente). Inquesto caso le due laminette, che sono di assai più piccole dimensioni oltreche di minore densità di scrittura, contengono solo liste di nomi personali.Questi nomi appartengono tutti al repertorio osco e sono posti al caso nomi-nativo. Tuttavia, le due laminette si oppongono nettamente per quanto ri-guarda le scelte linguistiche: una è in osco, indicato dalle marche morfologi-che (-ij: –iej, al nominativo) che scandiscono la distinzione formale tra pre-nome e gentilizio (es. LoFkij Suriej), mentre l’altra è in greco: qui, infatti, lestesse strutture designative bimembri figurano secondo la consueta morfolo-gia che non fa alcuna distinzione formale tra prenome e gentilizio, entrambimarcati dall’uscita –ioj (es. Minioj Farioj).

I due testi, pur accomunati dalla stessa struttura, oltre che dalla stessa ti-pologia di riferimento, tradiscono evidentemente scelte linguistiche non so-lo differenti tra loro, ma diversificate anche rispetto alla defixio di cui si è fat-to parola in precedenza. In sostanza, delle tre tavolette di maledizione finoranote da Laos due mostrano, l’una una decisa opzione per la scelta dell’osco,l’altra una altrettanto netta in favore del greco. È, invece, la laminetta dellatomba bisoma che presenta una soluzione compromissoria in cui i due siste-mi si mescolano neutralizzando di fatto la loro opposizione in termini socio-linguistici. Queste tre diverse soluzioni colpiscono proprio in ragione dellaomogeneità dei tipi testuali che sembra annullare una ripartizione funziona-le-contestuale tra i due codici nell’ambito di una comunità bilingue. In so-

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stanza, le tre laminette ci forniscono l’immagine di un uso indifferente del-l’osco e del greco almeno nell’ambito di un genere testuale che nell’ambitodell’epigrafia rispecchia più da vicino le realtà della lingua colloquiale e del-l’uso quotidiano. Inoltre, poiché dai nomi personali non si percepisce alcunadistinzione di ordine sociale tra gli individui ivi rispettivamente elencati sipuò desumere che i due codici fossero interscambiabili a parità di livello so-ciale e di contesto situazionale.

Il quadro sociolinguistico che ne scaturisce, almeno sulla base dei testimagici a nostra disposizione, è quello di un bilinguismo senza diglossia, cioèdi un uso indifferente tra osco e greco a parità di contesti situazionali e in ra-gione di analoghe funzioni comunicative. Tale situazione è quella più favore-vole al realizzarsi di una sovrapposizione e di una neutralizzazione nell’uso deidue codici. Quest’ultima condizione è rappresentata dalla defixio più lunga earticolata (quella della tomba bisoma per intenderci) dove viene neutralizzatanon solo l’opposizione morfologica, ma anche quella funzionale che opponela denominazione personale bimembre (di tipo italico) a quella monomembre(di tipo greco). D’altra parte, l’alternarsi tra designazioni bimembri e quellemonomembri è altrimenti ben attestato negli ambienti bretti [Poccetti 1988,pp. 127 e ss.]. La stessa alternanza compare forse anche nella designazione uf-ficiale dei magistrati della monetazione della città, dove figurano in sigla taloraun solo nome (Spel) talora una coppia di nomi (es. Ko Mo). A tal proposito èbene ricordare che alla scelta delle sigle dei nomi dei magistrati monetali – se-condo una tecnica di troncamento tipicamente greca – non è forse estraneoanche l’intento di annullare la distinzione tra i due codici: la mancanza di mar-ca morfologica, infatti, ne comporta una lettura ed una fruizione indifferentenell’una come nell’altra lingua. [Poccetti 1988, p. 129 e ss.].

Sotto un altro aspetto, che tocca più direttamente la struttura delle com-ponenti sociali, le tre laminette di Laos rispecchiano un’articolazione tra lo-ro diversa, che oppone le due conservate nel Museo di Napoli a quella dellatomba bisoma conservata al Museo di Reggio. In quest’ultima si verifica unapartizione tra gruppi di individui distinti in base ai sessi, in cui entra in sot-tordine una distinzione per qualifiche (cioè l’opposizione tra medekon che fi-gura tre volte nel lato maschile, e medekan, una volta nel lato femminile). Èpossibile che questo tipo di articolazione, in cui la qualifica è subordinata al-la distinzione in base ai sessi della defixio nella tomba bisoma principesca, seletta in rapporto al contesto in cui è stata collocata, potrebbe far supporreuna situazione di passaggio tra un tipo di società più arcaica, appunto quelladi ¥ristoi o di principes, verso cui si scaglia la maledizione, a un tipo di so-cietà più paritaria propria della pÒlij greca.

Tale condizione “paritaria” tra individui sembrerebbe, invece, traspari-re dalle due laminette conservate al Museo di Napoli, dove non si hanno fi-gure di spicco distinte per gradi e per sessi, ma solo gruppi di persone elen-

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cate senza alcuna distinzione sociale o professionale. Questa presentazioneha l’apparenza di un quadro molto più democratico, in cui i cittadini sonoposti sullo stesso piano. Inoltre, nelle due laminette dove l’osco e il greco so-no tenuti distinti, le designazioni personali, indipendentemente dalla linguausata, consistono di formule onomastiche bimembri con prenome e gentili-zio, conformemente alla denominazione personale “ufficiale” di tipo italico.

Tuttavia, come si è già accennato, il corpus epigrafico della Laos bruzio-lucana, pur confinato alle defixiones e alle leggende monetali, mette in evi-denza un significativo parallelismo nel duplice trattamento dell’onomasticapersonale in due tipologie di testi pur così distanti tra loro. Infatti, nell’unacome nell’altra classe di documenti, l’indicazione dell’identità personale èespressa in due modi, l’uno conforme al sistema italico “bimembre”, l’altroalla consuetudine greca dell’idionimo.

D’altro canto, le tre laminette di Laos costituiscono sì un caso eccezio-nale solo per la sorte fortunata che ne ha consentito il loro inserimento entrocoordinate spazio-temporali abbastanza ristrette, ma, al tempo stesso, rap-presentano una campionatura significativa di una condizione sincronica esintopica che non è affatto insolita in ambito brettio. Inoltre, le tre laminettedi Laos rispecchiano due modelli linguistico-culturali che trovano ulterioririscontri in altri ambienti brettii, sì da darci conferma che il quadro delineatoper Laos non è frutto del caso né è circoscritto a quell’ambiente specifico.

Ci limitiamo a ricordare altri due esempi significativi che possono esseremessi in parallelo al caso di Laos. Le uniche due laminette finora note nelcentro indigeno di Tiriolo sono redatte l’una in osco [Rix ST Lu 43] e l’altrain greco [Lazzarini 1994]. La compresenza dei due codici (osco e greco) nel-le due defixiones di Tiriolo mette in risalto una situazione del tutto analoga aquella di Laos contrassegnata da una apparente indifferenza al loro uso inrapporto agli stessi livelli funzionali-contestuali. Tale condizione, inoltre,spicca in modo ancora più accentuato, da una parte, in considerazione del-l’omogeneità cronologica tra le due laminette di Tiriolo e quelle di Laos con-servate al Museo di Napoli e, dall’altra, al cospetto della diversità di modelliinsediativi tra la città costiera e il centro dell’interno che ancora in età roma-na aveva titolo di ager (appunto l’ager Teuranus del Senatusconsultum de Bac-chanalibus).

Invece, un esempio che può essere accostato alla defixio della tomba bi-soma di Laos per quanto riguarda la commistione linguistica tra osco e greco,sebbene con effetti differenti, ci viene ora restituito da una defixio di Peteliadi ancor più recente rinvenimento [Lazzarini 2004]. Qui la mescolanza tradue codici avviene con regolarità scrupolosa e, per così dire, quasi simmetricae paritetica tanto nelle denominazioni personali (ove si alternano marcheosche di nominativo e uscite greche di genitivo) quanto nella formula di ese-crazione (in cui l’osco si intercala al greco). Non è il caso qui di entrare nei

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dettagli di questo testo straordinario che attende ancora una valutazione neidettagli. Ci limitiamo qui ad una constatazione che scaturisce da una primaimpressione, che è, in sostanza, la sintonia con la defixio della tomba bisomadi Laos nel mostrare effetti e risultati diversi dell’amalgama tra osco e greco inambito brettio. Ed è proprio questo amalgama che costituisce il connotatospecifico della cultura brettia percepito, anche più tardi, dall’esterno, sì damotivare la definizione romana di bilingues Bruttaces presso Ennio e Lucilio.

Proprio il filo di questo ragionamento ci porta alla conclusione che le trelaminette di Laos, lungi dal costituire un fenomeno isolato e circoscritto al-l’insediamento posto al confine tra Lucania e Bruzio, si iscrivono nell’ampiacornice di una realtà sociolinguistica che ci appare caratteristica più dellacultura brettia che di quella lucana. Ciò permette di qualificare più netta-mente come brettio – almeno in base ai connotati linguistici – il profilo del-l’insediamento costiero che Strabone [VI 1,1 253C] definisce, invece, come«ultima delle città lucane». Infine, sul piano più generale, tale conclusione,argomentata sulla base dei recenti ritrovamenti, ripropone la legittimità del-la domanda posta da E. Lepore sulla base della formula bilingues Bruttaces,se cioè la civiltà connessa a tale condizione fosse «veramente mista o sempli-cemente dualistica» [Lepore 1968, p. 53]. La risposta, che risulta ora piùidonea per tale domanda, sembra contemplare entrambe le condizioni, che,non solo sulla scorta dei documenti appena presi in considerazione, ma an-che alla luce di altre risultanze, si configurano come caratteristica regionale,pur entro il variare delle articolazioni locali e delle scansioni temporali.

Per terminare, merita attirare l’attenzione su un ulteriore dato che sca-turisce da alcune tra le tabellae defixionis prese in considerazione e che ri-guarda le componenti etniche del corpo sociale riflesse attraverso l’onoma-stica. Nel gruppo di persone elencate nella defixio di Laos redatta in osco fi-gurano, insieme ad altri nomi che hanno basi onomastiche decisamente itali-che, due individui che recano lo stesso gentilizio: Suriej. Tale nome, che haevidentemente alla base l’etnonimo relativo ai Siri, lascia intendere la perti-nenza a elementi allogeni che si sono integrati nella comunità derivando ilgentilizio dal loro etnico di origine. In realtà, tale gentilizio è tratto dell’ete-ronimo di assai probabile mediazione greca, giacché l’autonimo dei Siri ave-va probabilmente alla base la denominazione semitica ’Aram, trasposto ingreco nella forma 9Arama‹oi. La forma SÚroj identificabile alla base di Su-riej (< Sur-io-) è, dunque, la designazione greca, che si è trasmessa non soloal mondo romano, anche come nome individuale specialmente di ambitoservile (Surus/Syrus) a motivo dell’affluenza a Roma di schiavi di origineorientale, ma, evidentemente, anche agli ambienti sabellici. Ciò rende legitti-mo prendere in considerazione almeno la possibilità che attraverso la media-zione di lingue italiche il nome dei Siri sia arrivato nel latino. Il fatto che aLaos il nome dei Siri si presenta in forma di gentilizio lascia presumere che il

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processo di integrazione di questi allogeni nelle comunità locali si sia avviatoin epoche ben antecedenti all’attestarsi del nome con questa funzione nelladefixio di Laos. Ovviamente non ci è dato di stabilire se il punto di arrivo ditale integrazione in quella specifica comunità sia stato preceduto da un ruoloservile (in parallelo appunto a quanto si verifica ben più tardi nel mondo ro-mano) [Poccetti 2000c, pp. 756 e ss.].

D’altra parte, riguardo alla presenza di nomi ispirati a etnici del VicinoOriente, il caso di Laos non è affatto isolato nelle società degli insediamentiindigeni della fascia tirrenica al volgere del IV secolo a.C. Un altro esempio(non identico, ma analogo) è rappresentato dal nome dei Fenici, anch’esso in-trodotto attraverso l’eteronimo greco Fo…nikej, attestato in forma purtroppomutila, in una defixio da Roccagloriosa, ove non è ben riconoscibile il ruolodel nome nella formula di designazione personale (prenome, gentilizio, etno-nimo?) [Poccetti 1990; Rix ST Lu 45]. A complicare la questione si aggiungeil fatto che nella lacunosa defixio di Roccagloriosa è stata ravvisata la restitu-zione di un possibile nome semitico identificabile come nome originario del-l’immigrato posto in aggiunta a quello assunto nella comunità di arrivo (Ga-Fij) [Campanile 1992a]. Se così è, il testo di Roccagloriosa ci lascerebbe in-travedere un livello di integrazione meno profonda di questo individuo di ori-gine “fenicia” rispetto ai due menzionati nella defixio di Laos che sono con-trassegnati da un gentilizio tratto dal nome dei Siri. È certo, invece, che la de-signazione greca dei Fenici ha comunque subito nell’antroponimia osca unprocesso di piena integrazione, analoga al caso di SÚroj> Suriej testimonia-to a Laos, configurandosi più tardi (fine del III secolo) a Capua come gentili-zio: Puinik(is) [Rix ST Cp 1]. Insomma, il nome dei Fenici e quello dei Sirisembra aver essere alla base di designazioni personali di ambiente osco estesoalmeno da Capua a Laos dando luogo a gentilizi già tra IV e III secolo a.C.

In definitiva, le due defixiones osche di Laos e di Roccagloriosa rivelanochiaramente presenze di elementi allogeni inseriti – forse con diverso gradodi integrazione sociale almeno da quanto è dato di cogliere attraverso l’ono-mastica – nella vita nelle rispettive comunità, sì da essere coinvolti a pieno ti-tolo nelle vicende quotidiane che li hanno accomunati agli indigeni nellastessa sorte dei testi di maledizione. Tutto ciò tradisce la facile permeabilitàdel mondo indigeno – in specifico quello della fascia costiera tirrenica – al-l’accoglimento di elementi allogeni, secondo un fenomeno che va in paralle-lo a quanto si verifica anche negli ambienti delle colonie greche. Indubbia-mente la localizzazione di siffatte presenze in testi provenienti da siti dispostilungo la fascia del basso Tirreno (Laos e Roccagloriosa) non è di secondariaimportanza per documentare ulteriormente e sotto diversi aspetti il ruolosvolto da questo tratto litoraneo nel quadro sia dello sviluppo delle rispettivecomunità locali sia dei rapporti a più ampio raggio tanto con il mondo grecoquanto con le comunità anelleniche dell’entroterra.

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