Il volo del cinema. Miti moderni nell'Italia fascista

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CINEMA n. 14 Comitato Scientifico: Raffaele De Berti, Università degli Studi di Milano Massimo Donà, Università Vita-Salute San Raffaele Roy Menarini, Università degli Studi di Bologna Pietro Montani, Università “La Sapienza” di Roma Elena Mosconi, Università degli Studi di Pavia Pierre Sorlin, Università Paris-Sorbonne Franco Prono, Università degli Studi di Torino

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CINEMA

n. 14

Comitato Scientifico:

Raffaele De Berti, Università degli Studi di Milano Massimo Donà, Università Vita-Salute San RaffaeleRoy Menarini, Università degli Studi di BolognaPietro Montani, Università “La Sapienza” di RomaElena Mosconi, Università degli Studi di PaviaPierre Sorlin, Università Paris-Sorbonne Franco Prono, Università degli Studi di Torino

Raffaele De Berti

iL VoLo DEL CinEMaMiti moderni nell’italia fascista

MiMESiSCinema

© 2012 – Mimesis Edizioni (Milano – Udine) isbn: 9788857510361 Collana: Cinema n. 14 www.mimesisedizioni.it / www.mimesisbookshop.com Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (Mi) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

L’editore ha effettuato, senza successo, tutte le ricerche necessarie al fine di iden-tificare gli aventi titolo rispetto ai diritti delle immagini. Pertanto resta disponi-bile ad assolvere le proprie obbligazioni.

inDiCE

il cinema, macchina mitopoietica della modernità p. 9

PaRTE iMiTi Di ConqUiSTa: Lo SGUaRDo “oLTRE”

1. Lo sguardo dall’alto. Percorsi incrociati tra cinema e aeropittura p. 31

2. il genere aviatorio italiano negli anni Trenta tra modernità e identità nazionale. il caso di L’armata azzurra (1932) p. 45

3. Salgari e il cinema: avventure intermediali negli anni del fascismo p. 61

PaRTE iiMiTi D’iMPoRTazionE: iL FaSCino DELL’aMERiCa

4. Una doppia identità culturale. La memoria popolare italiana di Rodolfo Valentino tra biografia e cineromanzi della casa editrice “Gloriosa” Vitagliano (1926-1927) p. 79

5. La guerra e la folla: King Vidor comes to Italy p. 109

6. Lo spettacolo della fede: DeMille p. 125

PaRTE iiiMiTi RiFLESSi:

La ConVERSionE DEi LETTERaTi aL CinEMa

7. Guido da Verona sceneggiatore per Josephine Baker p. 141

8. Mario Soldati nella fabbrica del cinema p. 167

9. Ettore Maria Margadonna, tra critica e storia p. 183

PaRTE iVMiTi DiFFUSi:

iL CinEMa nELL’inDUSTRia CULTURaLE

10. La critica cinematografica nella rivista “Futurismo” (1932-1933) p. 201

11. il cinema e la nascita del rotocalco moderno p. 221

12. Cinema e radio. il caso di O la borsa o la vita, film d’avanguardia popolare p. 275

aPPaRaTi

abbreviazioni bibliografiche p. 287

indice dei film p. 335

RinGRaziaMEnTi

questo libro nasce da un lungo lavoro di ricerca che ho seguito negli anni, che ha visto la pubblicazione dei singoli capitoli, in una prima versione, come testi autonomi in atti di convegni e in riviste, e che si è avvalso dello scambio d’idee con molti amici, colleghi e laureandi dei miei corsi che è impossibile qui ringraziare tutti. Un ringraziamento particolare però va a due persone: a Elena Mosconi, con cui ho sempre condiviso progetti, ricerche, idee sul cine-ma italiano fra le due guerre; e a Elisabetta Gagetti, senza la quale questo libro non sarebbe mai uscito.Un grazie, infine, anche ai tanti bibliotecari e archivisti che con il loro lavoro e la loro disponibilità, pur in condizioni sempre più difficili, mi hanno aiutato nel mio studio.

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iL CinEMa, MaCChina MiToPoiETiCa DELLa MoDERniTà

1. Il cinema, volano della modernità

all’interno del sempre più vasto territorio dei film studies, il rap-porto tra cinema e modernità è simile a un fiume carsico che, pur scorrendo sotterraneo, periodicamente emerge in superficie con grande abbondanza. in effetti, si tratta di un ambito non semplice da circoscrivere, per diverse ragioni: prima fra tutte la difficoltà di dar luogo a una definizione compiuta e stabile di “modernità”, che rende anche potenzialmente inesauribile il tema.

Cercando di richiamare qui brevemente le principali occorrenze del dibattito, il primo aspetto da tenere in considerazione è che il cinema è stato considerato l’arte della modernità per antonomasia – più di ogni altra forma espressiva – perché è nato e ha accompa-gnato le grandi trasformazioni tecnologiche e sociali del mondo occidentale tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento. La base tecnologica e meccanica del mezzo cinematografico lo ha in-dubbiamente reso parte delle principali invenzioni del XX secolo, mentre la produzione industriale e in serie dei film, nonché la loro distribuzione a un pubblico vasto lo hanno identificato come nuo-va forma d’arte rivolta non più a un’élite, bensì alla massa. alcuni studiosi, tra cui Giorgio De Vincenti, hanno tuttavia sottolineato la necessità di ampliare lo sguardo sulla modernità oltre l’aspet-to sociologico, per ricomprenderlo in un più vasto orizzonte. Sul piano ontologico, ad esempio, il concetto è stato convogliato in una sorta di “teoria del rispecchiamento”, per cui «la modernità di un’opera d’arte è identificata con la sua capacità di rispecchiare gli elementi materiali e socio-culturali che caratterizzano il processo della modernizzazione»1; ma tale idea di modernità artistica, se

1 De Vincenti 2004, p. 113. Si veda anche De Vincenti 1993.

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ben si presta a identificare momenti di crisi o di rivoluzione, si è spesso annacquata in una genericità che ha semplicemente iden-tificato la modernità con l’attualità. Più corretto – osserva sempre De Vincenti – è assumere la modernità all’interno di un campo epistemologico facendo tesoro della lezione della fenomenologia e dello strutturalismo. La critica della ragione, tipica del moderno, va assunta «al livello delle condizioni della conoscenza, in cui la ragione critica se stessa, secondo la fondamentale esigenza auto-riflessiva che è propria della stessa cultura moderna»2. Su questa scorta viene proposto un approccio formale al termine “moderni-tà”, concentrandosi sul cambiamento linguistico del cinema negli anni del secondo dopoguerra e mettendone in luce alcuni tratti: l’opposizione ai modi del découpage classico che si ritrova negli anni Sessanta-Settanta nel nuovo Cinema internazionale del-le cosiddette nouvelles vagues; ma anche − com’è implicito nella teorizzazione di andré Bazin − una serie di indici stilistici qua-li la sdrammatizzazione, l’improvvisazione del “cinema diretto”, il rifiuto della spettacolarità, il prevalere della regia rispetto alla sceneggiatura, l’uso di piani sequenza e long takes in contrappo-sizione al montaggio tradizionale, l’apertura di senso del film a più interpretazioni possibili e, soprattutto, un realismo di fondo che restituisca l’ambiguità del reale, insieme a una dimensione di riflessione metalinguistica che metta sempre in dubbio lo statuto riproduttivo e di verità del cinema3.

Di recente anche Jacques aumont ha avvertito la necessità di allocare l’essenza della modernità – che ravvisa nella capaci-tà di percezione storico-sociologica e politica, insieme all’auto-coscienza estetica – in rapporto al cinema e alla sua evoluzione. in questo senso egli ripercorre la storia del cinema dalle origini fino alla contemporaneità (moderna o postmoderna?) sul doppio versante delle implicazioni linguistiche e culturali, per arrivare alla conclusione che «il cinema poteva essere vissuto e ricevu-to come fondamentalmente moderno all’epoca della flapper girl, del jazz […] ma era solo un fenomeno moderno dunque deperi-bile come la flapper girl e il resto. D’altronde, al pari della mo-dernità rosselliniana “necessaria” (quindi più o meno eterna),

2 De Vincenti 2004, p. 113.3 Ibi, pp. 114-116.

11Il cinema, macchina mitopoietica della modernità 11

l’idea di un’“arte moderna” che dura cent’anni è un ossimoro»4.non vi è dubbio, tuttavia, che a segnare il dibattito degli ultimi

due decenni sul rapporto fra cinema e modernità sia stata soprat-tutto la ripresa, spesso secondo prospettive inedite, delle riflessio-ni più generali nate nell’ambito della Scuola di Francoforte negli anni Venti e Trenta, quando Walter Benjamin e Siegfried Kracauer si interrogavano sui mutamenti sociali, culturali e psicologici che coinvolgevano le nuove realtà urbane industrializzate. La folla che abitava nelle città era stata colta di sorpresa dalla modernità nel suo complesso, una modernità fatta di nuove scoperte scientifi-che, di sviluppo tecnologico e di conseguenti cambiamenti nell’or-ganizzazione del lavoro. Contemporaneamente, tale rivoluzione comportava anche una nuova organizzazione del tempo e nuovi stili di vita, con la possibilità di avere a disposizione un maggior tempo libero e di poter accedere a nuovi consumi: era dunque ine-vitabile comprendere l’andare al cinema tra le esperienze sensoria-li inedite vissute nelle città e già descritte da Georg Simmel fin dal 1903 in Le metropoli e la vita dello spirito5. il nuovo stile di vita mo-derno, che consisteva sostanzialmente nell’intensificazione della vita nervosa, si manifestava nello Schock: un termine simmeliano ripreso da Walter Benjamin, il quale, partendo dalle riflessioni di Baudelaire e di Sigmund Freud di Al di là del principio del piacere, rilevava anche la necessità di adottare strategie difensive con cui ripararsi dall’eccesso di stimoli. Sempre richiamandosi all’espe-rienza della modernità come Schock, grande fortuna ha incontrato la definizione di Tom Gunning di “cinema delle attrazioni” in rife-rimento allo spettacolo cinematografico delle origini, che puntava a sollecitare l’attenzione dello spettatore attraverso sorprese, cu-riosità, trucchi, eventi straordinari6.

Più recentemente, negli anni ottanta, in riferimento a un conte-sto più ampio rispetto all’ambito esclusivamente cinematografico, tra gli altri Stephen Kern analizzava il mutamento dell’esperien-za spazio-temporale a cavallo tra la fine dell’ottocento e la prima guerra mondiale, dovuto a una serie di innovazioni tecnologiche: dal telefono ai raggi X, dall’automobile al cinema, dalla bicicletta

4 aumont 2008 [2007], p. 68.5 Simmel 1995 [1903].6 Gunning 1990.

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all’aeroplano; un cambiamento che, secondo Kern, avrebbe com-portato immediate ricadute sulle forme espressive e culturali come il romanzo dello stream of consciousness, la psicoanalisi, il cubi-smo, fino alla teoria della relatività7.

Sulla scorta di queste riflessioni Francesco Casetti si è concen-trato sul cinema, che ha definito come lo snodo più emblematico della modernità: per uno spettatore, soprattutto dei primi decenni del novecento, vedere un film significava in un certo senso farne in forma concentrata l’esperienza. Per Casetti il cinema, vero occhio del novecento, ha svolto lungo il “secolo breve” una decisiva fun-zione negoziale della modernità, soprattutto nella sua forma clas-sica, mediando fra l’eccitazione sensoriale da una parte, e dall’altra cercando «forme di compensazione di riparo rispetto alle solle-citazioni troppo violente che provengono dal mondo: eccita, ma mai in modo tale che lo spettatore si senta veramente, e in modo definitivo, perduto»8.

Su un versante più ampiamente sociologico rispetto all’espe-rienza dello spettatore cinematografico, ma con molti aspetti in comune con il punto di vista di Casetti, si situa la pluriennale ri-cerca di Miriam hansen. La studiosa, partendo dalle riflessioni di Kracauer e soprattutto di Benjamin, che mettono in relazione il cinema con la rivoluzione industriale, e analizzando il ruolo as-sunto da questo medium nel dar luogo a una nuova “sfera pubblica” nell’epoca della modernità, ha osservato come il cinema desse luo-go fin dalle origini sia a un’esperienza concreta nello spazio della sala, sia a un’esperienza virtuale, creando sullo schermo mondi al-tri che potevano essere sì lontani, ma che allo stesso tempo erano anche in relazione con la vita di tutti i giorni degli spettatori. il cinema assumeva, dunque, una funzione di mediazione dell’espe-rienza della modernizzazione in atto nelle società capitalistiche occidentali, nelle quali accanto a una produzione estetica “mo-dernista” elitaria si verificava un consumo di massa di prodotti di serie legati al nuovo ambiente urbano visivo in cui era immerso lo spettatore, che comprendeva la moda, la pubblicità, l’arredamento d’interni, l’architettura, la radio, la fotografia e lo stesso cinema. hansen ha definito questo tipo di modernismo con il termine ver-

7 Cfr. Kern 1995 [1983]; si veda anche Compagnon 1993 [1990].8 Casetti 2005, p. 187.

13Il cinema, macchina mitopoietica della modernità 13

nacular (“vernacolare”), «(evitando l’espressione popolare carica di eccessive implicazioni ideologiche) perché vernacolo combina la dimensione del quotidiano, dell’uso di ogni giorno, con il riferi-mento al discorso, all’idioma, al dialetto, e con l’idea della circola-zione, della promiscuità e della traducibilità»9.

alle sue acute e condivisibili osservazioni va a mio parere af-fiancata – per il lettore italiano – una precisazione terminologica. Tradotto nella nostra lingua, l’aggettivo “vernacolare” utilizzato da hansen rischia di essere fuorviante: anche se il significato latino di vernaculus inteso come “domestico, familiare” è vicino alle sue intenzioni, il termine possiede in italiano un’accezione prevalente di “dialettale, paesano, locale” che mal si adatta a un fenomeno di massa come il cinema. Per questo, pur con tutti i problemi con-nessi al suo molteplice significato, mi pare preferibile adottare il termine “popolare” in riferimento alla produzione e al consumo di prodotti culturali rivolti a un pubblico inteso come collettività di persone senza distinzione di classi. naturalmente ciò non significa che per le varie classi sociali di spettatori il film e il cinema in gene-rale non possano rappresentare significati diversi, ma certamente negli anni tra le due guerre andare al cinematografo era, quanto meno, un’esperienza condivisa trasversalmente rispetto al ceto e al livello culturale.

Le riflessioni di hansen hanno poi rappresentato un importante punto di partenza del presente lavoro per quanto riguarda il ruo-lo svolto dal cinema hollywoodiano classico sui mercati esteri. La sua egemonia − dovuta al controllo economico dei settori della di-stribuzione e dell’esercizio, alla sua capacità di proporre istanze pluriculturali in virtù della stessa composizione eterogenea della società americana nonché della natura universale degli schemi narrativi adottati, o dell’essere in sintonia con le stimolazioni sen-soriali della vita moderna − non è mai sufficientemente ribadita: ma soprattutto il cinema hollywoodiano classico è un imprescin-dibile modello di riferimento per il ruolo centrale avuto «nella mediazione tra differenti interpretazioni della modernità e della modernizzazione, poiché fu in grado di articolare, moltiplicare e globalizzare una particolare esperienza storica»10. Ciò comporta

9 Bratu hansen 2000 [1999], p. 18.10 Ibi, p. 28.

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studiare come i film americani siano stati adattati (tenendo conto di fattori come la censura, il doppiaggio, i paratesti, ecc.) e recepiti in contesti nazionali diversi, nei quali in molti casi «non solo ebbe-ro un effetto di omologazione sulle culture locali, ma presentarono anche una sfida ai valori sociali e sessuali dominanti, proponendo nuove possibilità di identità sociale e stili culturali»11: in una paro-la, nuove modalità di articolazione del processo di modernizzazio-ne. Tutto ciò si origina dal fatto che – a prescindere da un giudizio di valore – la cultura di massa americana, in particolare attraverso il suo cinema, è stata percepita e identificata a livello popolare con la modernità, o meglio: con il mito della modernità. insomma, per capire sempre più la modernità sarebbe necessario scrivere una storia internazionale del cinema hollywoodiano classico che, oltre a individuarne i meccanismi di standardizzazione ed egemonia, tenga conto della ricezione e dell’adattamento dei film all’interno di altri contesti nazionali di modernizzazione.

Tornando al problema più generale della modernità, per non incorrere nel rischio di confondere concetti diversi con un ricorso indifferenziato e generico ai termini “modernità”, “modernizzazio-ne” e “modernismo” lungo un asse storico indistinto di più di un secolo, è condivisibile in linea di principio quanto afferma Vito za-garrio, a proposito del periodo fascista, circa la necessità di distin-guere fra «‘modernizzazione’, che è un fatto legato al processo so-ciale tecnologico, ‘modernismo’, formula legata alla storia dell’arte tra fine ottocento e inizio novecento, e ‘modernità’, nozione che sta nel linguaggio, nello stile, nello sguardo»12.

naturalmente non sempre è facile mantenere questa distinzione a posteriori, quando i termini sono spesso usati indifferentemen-te, ma è importante individuare almeno dal punto di vista cronolo-gico per le diverse realtà nazionali i tempi della modernizzazione, che presentano inevitabili scarti. Per quanto riguarda l’italia in un precedente studio, curato insieme a Massimo Locatelli, si è pro-posta una scansione temporale tripartita, ossia una modernizza-zione «in tre mosse»: in un primo periodo, dal 1880-1890 al 1914, la modernità è “progettata” come modello estetico-psicologico; essa rappresenta, appunto, un progetto, di cui il cinema italiano,

11 Ibidem.12 zagarrio 2009, p. 44.

15Il cinema, macchina mitopoietica della modernità 15

senza averne quella consapevolezza che si riscontra nel campo ar-tistico, riesce a farsi per poco meno di un decennio il più efficace portatore. nel secondo periodo, compreso fra le due guerre, ma particolarmente dalla seconda metà degli anni Venti, si assiste a una modernità di consumo “immaginata” dai mass-media; in que-sto caso anche il cinema si propone come spazio di esperienza, e prende la sua legittimità dai modelli importati e tradotti dall’indu-stria cinematografica, dal regime e dagli intellettuali nelle forme contraddittorie delle politiche culturali nazionali. La terza e ulti-ma fase, compresa fra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, porterà infine a una modernità praticata dai consumi, e perciò so-stanzialmente – e finalmente – “acquisita”. insomma: la modernità durante il fascismo è un orizzonte più vagheggiato che compiuto, che entra in relazione con il cinema per la dimensione tecnologica del mezzo (e la sua continua evoluzione) e per la sua capacità di raccontare storie, aggiornandone il portato ai nuovi tempi (allo “spirito” del tempo), per dar luogo a nuovi immaginari.

2. Il cinema, la più moderna e rivoluzionaria delle arti

Data la ricchezza e l’importanza dei contributi che hanno se-gnato il dibattito sul rapporto tra modernità e cinema, può a prima vista apparire inutile aggiungere un nuovo studio, per quanto lon-tano dall’ambizione di adottare uno sguardo omnicomprensivo e ad ampio raggio sul tema.

L’obiettivo del presente volume è tuttavia inscritto nel tipo di sguardo impiegato, che riflette una matrice e un costante interesse di carattere culturologico: il desiderio di storicizzare la riflessione sul cinema come medium moderno, con particolare riguardo agli anni tra le due guerre e all’accezione della modernizzazione. Si tratta, in altre parole, di fotografare il periodo in cui i cambiamenti si fanno vistosi e insistiti, e di leggerne la consapevolezza che cri-tici, intellettuali e persino semplici spettatori vanno acquisendo. analizzando le fonti dell’epoca non vi è dubbio che, nel corso degli anni Trenta, vi sia un addensamento di interventi sul rapporto tra modernità e cinema: in confronto al ventennio precedente, in cui solo un piccolo manipolo di intellettuali “profeti” della modernità aveva colto l’efficacia del cinema nell’avanzata verso la moderniz-

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zazione, ora tale consapevolezza appare diffusa, senza dubbio an-che grazie ai progressi dell’industria culturale e al ruolo trainante giocato dal cinema al suo interno.

Certo, il processo di modernizzazione in italia s’interseca in maniera complessa con il fascismo e con la sua politica culturale, che si trova costantemente a dover fare i conti con la sua inarre-stabile progressione. Ruth Ben-Ghiat13 ha messo bene in luce le contraddizioni presenti negli anni del regime circa il modello di modernizzazione da perseguire, e ha evidenziato quanto si realiz-zò, o preparò, per il secondo dopoguerra anche in termini diversi da quelli desiderati e progettati dal fascismo in ambito culturale, così come nel campo sociale e industriale14. non è possibile, in-fatti, sottovalutare il ruolo che la dittatura svolse nel censurare e orientare la vita intellettuale nazionale: «i film, i romanzi e la stampa culturale riaffermarono i comportamenti normativi e le gerarchie sociali prefigurati nei progetti di ‘bonifica’. Ma la cultura divenne anche un’arena privilegiata per la presentazione di visioni alternative di modernità fascista e, nei primi anni quaranta, per il rigetto dei modelli fascisti di società e nazionalità»15. in questo processo il cinema venne visto come il mezzo capace di innescare profondi cambiamenti collettivi di valori e di gusto, e in grado di attrarre «molti esponenti del mondo giornalistico e letterario che cercavano altri mezzi per articolare le immagini e i comportamen-ti destinati a contrassegnare i modelli nazionali di modernità»16. Secondo Ruth Ben-Ghiat tre vie emergevano sulle altre. La prima, esplicitata da alessandro Blasetti in Terra madre (1931), univa a una modernità stilistica, debitrice della lezione delle avanguardie

13 Ben-Ghiat 2000.14 Suggestiva e provocatoria, ad esempio, la tesi avanzata da Wolfgang Schi-

velbusch di istituire un parallelismo con reciproche interazioni tra i mo-delli di modernizzazione del New Deal roosveltiano con l’italia fascista e la Germania nazista: «nel loro sforzo di creare una comunità di popolo senza classi, fascismo e nazismo si possono considerare tentativi di modernizza-zione del continente, per adeguarlo al livello degli Stati Uniti. D’altra parte gli influssi fra il vecchio e il nuovo continente erano reciproci. adottando infatti un sistema di welfare sociale, si potrebbe dire che il new Deal attua-va una trasformazione realizzata in Europa, e in primo luogo in Germania, cinquant’anni prima» (Schivelbusch 2008 [2005], p. 167).

15 Ben-Ghiat 2000, p. 335.16 Ibi, p. 121.

17Il cinema, macchina mitopoietica della modernità 17

europee, il tema della bonifica – materiale e morale – apportata dal fascismo. La seconda, espressa da Gli uomini, che mascalzoni… (Mario Camerini, 1932) traduceva una storia sentimentale in for-ma di garbata commedia (a sua volta attenta alla tradizione bril-lante hollywoodiana e mitteleuropea), ambientata tra le lusinghe di mobilità sociale di una Milano industriale e avanzata, salvo poi esprimere dei dubbi sulla possibilità di realizzazione personale: quest’ultima infatti veniva relegata, nel finale, a una felicità dome-stica, familiare e, tutto sommato, tradizionale. infine Treno popo-lare (Raffaello Matarazzo, 1933), che pubblicizzava l’istituzione di gite a basso prezzo da parte dell’opera nazionale Dopolavoro in-tese a incentivare un turismo culturale, lasciava pure trasparire la possibilità di viverle attribuendo loro modalità partecipative non canoniche e “private”. al di là delle valutazioni possibili sui singoli film, è chiara la capacità del cinema di esprimere una modernità a più facce, che si espande in numerose direzioni.

Vale la pena ripercorrere qui brevemente alcuni di questi ambiti, così come venivano identificati “in presa diretta” da critici e intel-lettuali, per dar conto – seppure in modo sintetico – del convergere di una molteplicità di sguardi sul binomio cinema-modernità.

La più vistosa traccia di modernità avallata dal cinema riguarda la scenografia. Se ne fa presto acuto osservatore Edoardo Persico, noto per i suoi scritti critici di architettura, il quale, nel giudicare positivamente su “La Casa Bella” la messa in scena di Levi e Pau-lucci per il film Patatrac, degna di stare alla pari di quelle tedesche dell’UFa o di quelle americane della Paramount, sottolinea come essa rappresenti anche

il progetto di un vero e proprio arredamento moderno. L’atmosfera del film è, infatti, quella di una attualità viva e sensibilissima. qui si ritengono dimostrate tutte le ragioni che militano in favore di un gu-sto nuovo, e si è immessi nel congegno creato da due artisti moderni per la vita del nostro tempo. questi interni, e queste botteghe, sono gli stessi che potremmo vedere nella realtà di tutti i giorni se gl’ita-liani compissero un passo decisivo verso il rinnovamento di un gusto che non può reggere ormai il confronto con quello di altri paesi.17

17 Leader 1931. il critico interviene con lo pseudonimo di Leader, per com-mentare il lavoro di scenografia che due giovani pittori torinesi, Carlo Levi ed Enrico Paulucci, che fanno parte del famoso “Gruppo dei Sei”

18 Il volo del cinema

analoghe osservazioni potrebbero essere state fatte per le stra-ordinarie scenografie d’interni realizzate da Vinicio Paladini, sempre nel 1931, per il film La segretaria privata di Goffredo ales-sandrini, nelle quali risulta evidente l’influenza della scuola del Bauhaus nell’organizzazione degli spazi lavorativi e domestici in cui si muove con grande vivacità e felicità la protagonista, inter-pretata da Elsa Merlini18.

Più in generale, la commedia italiana all’inizio degli anni Tren-ta può proporsi come un modello ideale cui gli italiani possono ispirarsi per realizzare i propri spazi abitativi (o per sognarli, nella maggior parte dei casi): «il lettore guarderà oggi a questi interni non come a scenari, ma a vere e proprie case moderne; tanto più attuali e di buon gusto in quanto l’architetto Gastone Medin le ha pensate come uno specchio della realtà, il più esatto e ‘realistico’, per creare l’illusione della vita vera. […] oggi, modelli esemplari si possono prendere dai film»19.

di Torino, hanno realizzato per il film Patatrac (Gennaro Righelli, 1931).18 De Santi 1999. Pier Marco De Santi riprende ivi la definizione di “cinema

déco” introdotta in precedenza da Gian Piero Brunetta (si veda Brunetta 1993, passim).

19 Leader 1932. Persico commenta le scenografie di Gastone Medin predispo-ste per i film Due cuori felici (Baldassarre negroni, 1932) e O la borsa o la vita (Carlo Ludovico Bragaglia, 1933). Come è ormai noto, proprio l’in-fluenza dello stile internazionale ha valso alla commedia del periodo la calzante definizione di “cinema déco” (Brunetta 1993; De Santi 1999), al posto di “telefoni bianchi”, per indicare apporti che vanno dal costrutti-vismo al Bauhaus e che si ritrovano in molte pellicole italiane degli anni tra le due guerre. Ciò è evidente, per esempio, proprio nell’opera dell’ar-chitetto Gastone Medin, autore di un gran numero di scenografie di film per lo più appartenenti al genere della commedia, nelle quali agisce con eclettismo e disinvoltura, tenendo ben presente i modelli cinematogra-fici internazionali − da quello tedesco, che comprende anche le cosiddet-te commedie “ungheresi”, a quello hollywoodiano, senza dimenticare la Francia − e adattandoli spesso a uno stile italiano come nel caso di Gli uomini, che mascalzoni... (Mario Camerini, 1932), uno dei risultati migliori non solo nell’ambientazione alla Fiera Campionaria di Milano, ma negli arredi moderni della profumeria dove lavora la protagonista. questo sen-za dimenticare che nel suo vasto repertorio di arredi e spazi diversi – che vanno dagli interni delle case, ai bar, ai ristoranti, ai locali notturni fino ai negozi – Medin accumula come in una grande mostra oggetti e mobili mo-derni di provenienze diverse, italiane ed estere, con presenze di elementi liberty e di salotti e, soprattutto, camere da letto più tradizionali: il rischio di questa eterogeneità è quello di cadere nel falso moderno o in errori e

19Il cinema, macchina mitopoietica della modernità 19

Le parole di Persico hanno due ordini di conseguenze: da una parte esse indicano che per un giovane ma già noto intellettuale dell’epoca il cinema rappresenta un modello esemplare, cui il pub-blico può guardare per reinterpretare il proprio presente, dimo-strando così l’importanza e l’influenza che vengono riconosciute ai film nella più ampia sfera sociale e culturale; dall’altra parte esse comportano che il gusto estetico più evoluto proposto dal cinema per le case degli italiani è associato ai termini “moderno” e “mo-dernità” e a uno stile internazionale che ha nel razionalismo tra le due guerre la sua punta più avanzata20.

C’è anche una modernità della recitazione cinematografica, espressa da una nuova scuola attoriale che annovera Sergio Tofa-no tra i suoi più autorevoli esponenti. i tratti di questa moderni-tà – così come la critica del tempo li riconosce – sono numerosi e «molto differenziati: si passa dall’idea di modernità come reci-tazione accurata e attenta ai più piccoli particolari o come senso del ritmo […] o ancora come ‘rivoluzione’ gestuale […] a quella […] di apertura a una dimensione mitteleuropea»21. altri sottolineano il portato di una modernità interpretativa come consapevolezza quasi di tipo autoriale, oppure un preciso tratto stilistico che con-siste «in una recitazione ‘astratta’ e a più toni», capace di essere a un tempo naturale, vicina all’esperienza del pubblico, e insieme

deformazioni rispetto all’originale. Un rischio che sarà denunciato dall’ar-chitetto razionalista Carlo Enrico Rava a proposito del Signor Max (Mario Camerini, 1937) nella famosa rubrica La casa nel film pubblicata da “Do-mus” in sei numeri fra il novembre 1937 e l’ottobre 1938. al contrario, Rava apprezza le scenografie di Enrico Paulucci per La Contessa di Parma (ales-sandro Blasetti, 1937) e propone come modello di arredamento elegante e moderno gli interni da lui stesso realizzati per il film Gli ultimi giorni di Pompeo (Mario Mattoli, 1937). in altre parole, Rava persegue l’obiettivo di presentare, con realizzazioni d’interni esemplari, un arredamento ita-liano che susciti nel pubblico un nuovo gusto: in quest’ottica realizza le scenografie, insieme a Salvo D’angelo, di L’argine (Corrado D’Errico, 1938) e soprattutto di Inventiamo l’amore (Camillo Mastrocinque, 1938), vero manifesto di divisione razionalista degli spazi e di arredamento moderno. ad accomunare le osservazioni di Persico e di Rava è in ogni caso l’idea di propagandare, attraverso il cinema, un progetto estetico modernista molto vicino, ad esempio, anche alle idee di Le Corbusier, che guardava con gran-de interesse alle esperienze architettoniche italiane.

20 Cfr. Bignami, Rusconi 2012, p. 4.21 Mosconi 2005, p. 76.

20 Il volo del cinema

consapevolmente autoriflessiva, o ancora vistosamente meccanica (quella della marionetta)22. Si possono dunque sottoscrivere le os-servazioni di Elena Mosconi, che conclude: «questo sembra essere il progetto rivoluzionario di Tofano: il ‘gusto tutto moderno’, come scrive Vincenzo Tieri, ‘di cacciare la favola nella vita per svelare il segreto del trucco o il rovescio della finzione’»23.

in un interessante quanto assai poco conosciuto volume mo-nografico della rivista “aria d’italia” delle edizioni milanesi Daria Guarnati, Stile italiano nel cinema, uscito nell’inverno 1941, la mo-dernità cinematografica è messa in rapporto allo stile. Colpisce – pur nell’eterogeneità degli interventi, e nel costante tentativo di compiere un’analisi storica del cinema nazionale – l’intenzione di mettere a tema gli elementi che definiscono lo stile cinematografi-co24: «la tecnica per raggiungere ritmo o effetti di luce o prospettive sonore o architetture sceniche in funzione drammatica, […] la re-citazione non come fine a se stessa bensì subordinandola alla in-quadratura e questa a sua volta al montaggio, il tutto in equilibrata armonia»25. Ma insieme c’è la consapevolezza che la modernità del cinema è in stretta relazione con la sua dimensione temporale: l’arte cinematografica vive

nei moduli d’un istante che è presente e che cessa immediatamente di esserlo, travolto dall’istante successivo. il presente è tutto in essa, e – ciò che la differenzia da ogni altra arte – il presente contemplato, una sorta di eternità mantenuta sul tessuto dei ritmi. ne deriva che tanto l’avvenire quanto il passato sono esclusi da tali immagini mo-bili, assolutamente precise, e istantaneamente obliate: l’arte cinema-tografica genera una realtà, più rigorosa che in ogni altra, per la sua parentela con gli assoluti, con gli archetipi d’una forma astratta.26

22 anche la meccanicità sembra essere un attributo specifico della moder-nità. Mario Pannunzio, per esempio, in una recensione al film Follie d’in-verno, interpretato da Fred astaire e Ginger Rogers, scrive: «L’abilità dei due ballerini è di un genere nuovo e inusitato. La compostezza dei loro moti, la precisione dei passi, ha l’esattezza persuasiva di un teorema. […] il loro ballo è meccanico e moderno; ha preso in prestito dai negri il ritmo, convulso, preciso, martellato» (Pannunzio 1937, p. 9).

23 Mosconi 2005, p. 76.24 Su questi aspetti si veda anche Buccheri 2004.25 Pasinetti 1941, p. 2. Su Stile italiano nel cinema rimando a De Berti 2008a.26 Fulchignoni 1941, p. 13.

21Il cinema, macchina mitopoietica della modernità 21

in questo dialogo a più voci è Michelangelo antonioni a regi-strare in tempo reale i tratti di uno stile filmico italiano in una nuova indagine sul personaggio (anche femminile), in una comici-tà surreale, e soprattutto nell’attenzione al paesaggio, che anticipa la sensibilità neorealista:

con Piccolo mondo antico di Mario Soldati […] s’inaugura una nuo-va sensibilità che possiamo chiamare paesaggistica, nel senso che al paesaggio, questo elemento così essenziale nella vita del nostro po-polo, viene attribuita una precisa funzionalità poetica. La luminosità calda o la nebbiosa opacità del lago, acquistano nelle inquadrature del film un senso quasi panico. […] i soli film, o semplicemente i bra-ni di effettivo valore sono quelli ripresi dalla camera massimamente in esterno. ariosità e semplicità li caratterizzano: le quali, si badi, non stanno tanto a indicare una formula, quanto un’indistruttibile innata disposizione della nostra gente.27

L’attualità di cui il cinema è portatore viene naturalmente estesa agli aspetti tematici e formali – e al loro inestricabile legame –, per cui esso è in grado di affrontare «coraggiosamente i più interessan-ti e ardui problemi artistici, morali, sociali, realizzati con i mezzi più moderni»28; di rilevare «tutta una vita […] in un modo nuovo inusitato moderno, sia in larghezza che in profondità»29 attraverso nuovi ritrovati e nuove tecniche.

Ma in un senso ancora più globale è il cinema stesso ad assur-gere al ruolo di «più moderna e rivoluzionaria delle arti»30 perché rende possibile

uscire dall’aristocratica separatezza del linguaggio letterario, parlan-do al grande pubblico, senza mediazioni o concessioni di sorta. La modernità del cinema – di quello americano sopra tutti, ma anche di quello russo, tedesco e francese – consiste nel rendere popolari l’arte e i suoi messaggi […] con un linguaggio al tempo stesso universale e analitico, diretto e sofisticato, semplice e duttile.31

27 antonioni 1941, p. 7.28 Pannunzio 1932. 29 Ibidem. 30 Mario Pannunzio in Teodori 2010, p. 49.31 De Michelis 1993, p. XXiV.

22 Il volo del cinema

queste argomentazioni, che rispecchiano le più mature rifles-sioni di Miriam hansen esposte sopra, risuonano in diversi ambiti della critica italiana (soprattutto di matrice letteraria). in un in-tervento programmatico, Giacomo Debenedetti afferma esplicita-mente che

il cinema è dunque il luogo d’incontro degli intellettuali con la mas-sa: uno dei più tipici ed efficaci strumenti di cui la vita moderna si valga per stabilire una circolazione di idee e di stati d’animo tra il popolo e le élites. È una porta aperta in permanenza, che sopprime la clausura degli intellettuali, che rende impossibile – a mezzo di una bizzarra ed anacronistica cocciutaggine – la torre di avorio.32

Gli esempi che si potrebbero fare al proposito sono numerosi: ciò che gli intellettuali ormai apertamente condividono è, insieme a una nascente sensibilità mediologica, la convinzione che il cine-ma incarni la nuova arte “di massa”, capace di tradurre lo spirito dei tempi in forme e narrazioni aggiornate.

3. Il cinema, macchina mitopoietica della modernità

Ma, a uno sguardo ancor più ravvicinato, come agisce il cinema? in quali modi accelera il processo di modernizzazione? E come coglierli oggi, a distanza di settanta/ottanta anni?

Prima di tutto va ribadito come tra le due guerre, in particolare negli anni Trenta, il cinema sia il centro propulsore di un vero e proprio sistema mediatico complesso e, anche in italia, di un’in-dustria culturale che sta rinnovandosi e strutturandosi secondo le esigenze di una moderna società di massa, processo che avrà il proprio compimento negli anni Cinquanta-Sessanta33. non solo infatti il cinema domina i consumi culturali, soprattutto con i film hollywoodiani, ma la sua presenza è determinante nell’afferma-zione di una nuova cultura visiva, che investe la stampa e la pub-blicità, e nella proposta di stili di vita inediti, che hanno in una

32 Debenedetti 1936.33 Sull’apertura di una nuova fase dell’industria culturale italiana, incentrata

su un complesso circuito mediatico già dalla metà degli anni Trenta si ve-dano Forgacs, Gundle 2007 e Colombo 1998.

23Il cinema, macchina mitopoietica della modernità 23

generica modernizzazione la loro punta più avanzata34. Basti pen-sare all’influenza del cinema, per contenuti e forma, sull’afferma-zione del palinsesto radiofonico o del rotocalco – nei diversi generi di attualità, cronaca o femminile. insomma, il cinema opera nel profondo dei consumatori di prodotti culturali di massa, dai film alla stampa, al di là della propaganda del regime, facendo passare – anche senza una vera consapevolezza – modelli non in linea con quelli progettati dal fascismo ma vicini piuttosto alle linee di una modernizzazione internazionale e soprattutto americana, sempre però filtrata, adattata, rimodellata secondo caratteristiche nazio-nali.

E tuttavia, nonostante la sua enorme influenza sulla società, il cinema non può compiere in termini materiali la modernizzazio-ne: la accompagna da vicino, la promuove, la incalza ma agisce in via indiretta sulle opinioni, sugli atteggiamenti, sul costume e gli stili di vita. Per questo sarebbe forse più corretto parlare del cine-ma come cantore della modernità, macchina produttrice di miti moderni.

in un recente contributo, Gian Piero Brunetta ha definito il ci-nema come «la fabbrica e la macchina mitografica più capace di agire a livello planetario andando a toccare corde profonde della psicologia individuale e collettiva»35. in particolare, il mito cine-matografico agisce, tra l’altro, «come strumento di scandaglio e rappresentazione di comportamenti, tensioni, orizzonti e pulsioni collettive di un determinato momento storico»36, tanto «nelle for-me più dirette ed esplicite che in quelle capaci di agire in maniera più sottile, sottotraccia, a livello di inconscio collettivo»37. in que-sto senso mi pare di poter affermare che il mito avallato per eccel-lenza dal cinema di tutte le latitudini negli anni tra le due guerre sia quello della modernità. a livello stilistico e formale, contenu-tistico, sociologico e culturale, come si è visto nel paragrafo prece-dente, il grande valore che il cinema pone in gioco è quello dell’at-tualità, della risposta ai bisogni (in termini culturali ed estetici) del nuovo momento storico.

34 Per un esempio di come l’idea di modernità passi a più livelli si veda Gior-nata moderna 2009.

35 Brunetta 2011a, p. 11.36 Ibi, p. 19.37 Ibidem.

24 Il volo del cinema

il modo in cui si declina il mito della modernità nel cinema (con particolare riguardo alle dinamiche della modernizzazione) costi-tuisce l’oggetto della presente indagine, che si addensa intorno a quattro connotazioni del termine. Va premesso che talvolta i miti moderni si sovrappongono – ma solo parzialmente – all’immagine dell’uomo nuovo del fascismo. Ciononostante, il mito cinemato-grafico possiede un indubbio potere immaginifico, che va oltre i limiti di una situazione storica, politica ed economica spesso ar-retrata e decisamente limitata come quella italiana: il sogno pro-posto dal cinema, pur partendo dalla rappresentazione realistica di personaggi e situazioni riconoscibili per il pubblico, è aperto sul possibile, e non deve fare i conti con la contingenza di fatti o personaggi storicamente connotati. Per questo il cinema – come sapeva bene Mussolini – «è l’arma più forte», capace di incidere nell’immaginario assai più delle parate e delle restrizioni legisla-tive di regime.

La prima parte del volume si riferisce ai miti di conquista. il cine-ma dà corpo a un immaginario eroico e avventuroso, che interpreta lo spirito battagliero e conquistatore del fascismo e gli fornisce gli strumenti per rappresentare la modernità. Ma lo fa con strumenti propri, che implicano innanzitutto un ampliamento dello sguar-do: la conquista diventa così in prima istanza la possibilità di una visione inedita – peraltro condivisa con le avanguardie, come il fu-turismo o l’aeropittura –, e da una prospettiva di dominio, come lo sguardo dall’alto. La mitologia del volo aereo intercetta così un mito diffuso e un bisogno da parte del fascismo di accreditare il proprio potenziale militare: nel cinema essa si esprime in alcuni film d’avanguardia (come Velocità) o di genere (come L’armata azzurra), sostenuti – quando non direttamente promossi – dal governo italiano. Diversamente la conquista assume i tratti del va-gheggiamento di un “altrove” esotico e inedito, dai tratti fantastici: da qui il tentativo di avviare un filone di film salgariani che attin-gono a piene mani da un patrimonio intermediale (segnatamente letteratura e fumetti per ragazzi), incorporando e mediando anche personaggi spuri, come l’americano Tarzan, con il fine di avvici-narsi alla produzione statunitense e competere con questa.

L’america, patria della modernità, rappresenta in sé un oriz-zonte mitico che attrae chiunque – intellettuali e gente comune, persone di diverse posizioni ideologiche o convinzioni estetiche –:

25Il cinema, macchina mitopoietica della modernità 25

è un mondo continuamente vagheggiato, idolatrato, immaginato, accostato (anche per essere respinto)38, il cui fascino si riverbera in primo luogo sui film, che ben rappresentano illusioni di “vita vis-suta”. Tuttavia la ricezione del mito americano non avviene mai in modo diretto (complice la differenza linguistica), bensì attraverso una serie di mediazioni che hanno lo scopo di adattarla, filtrarla, in una parola: renderla compatibile con la cultura e la tradizione italiana. Tali mediazioni non sono sempre imputabili alla censu-ra fascista, ma appartengono a un orizzonte più esteso e immate-riale, cioè a un patrimonio di convinzioni largamente condivise39. osservare da vicino il complesso lavoro di addomesticamento dei miti americani significa cogliere l’entità dello scarto tra il vecchio e il nuovo mondo, tra il desiderio di emancipazione e il radicamento in una tradizione valoriale, culturale ed estetica che accetta con diffidenza di abbandonare il passato.

Per meglio evidenziare questo lavorio di mediazione, nella se-conda parte si è scelto di analizzare l’adattamento al mercato ita-liano e la ricezione di film americani di grande successo che affron-tano temi apertamente problematici e “sensibili”: la controversa identità culturale e nazionale di Rodolfo Valentino, ricostruita attraverso l’analisi di articoli e biografie in circolazione nel nostro Paese appena prima e appena dopo la sua morte; oppure la rilettu-ra della prima guerra mondiale, veicolata da un film celeberrimo come The Big Parade (La grande parata, 1925) di King Vidor, sul quale si accesero numerose discussioni; oppure ancora la spettaco-larizzazione della fede operata da Cecil DeMille con The Ten Com-mandaments (I Dieci Comandamenti, 1923), già pensato dall’auto-re per il mercato internazionale.

nella terza parte si è tornati alla produzione cinematografica italiana, analizzando il lavoro di alcuni letterati che si accostano alla settima arte per ragioni diverse, che spaziano dalla convinzio-ne alla necessità economica. Di là dalle ambizioni personali, dai metodi di lavoro, dalla sensibilità cinematografica di ciascuno, è possibile affermare che tutti condividono una valutazione del ci-nema come “arte popolare”, come mezzo espressivo capace di ra-

38 Sulla questione del mito americano e del tema americanismo/antiameri-canismo si vedano rispettivamente Brunetta 2009 e nacci 1989.

39 Su questo tema rinvio a Cinema, Audiences and Modernity 2012.

26 Il volo del cinema

dunare grandi masse e di parlare un linguaggio universale, certa-mente più accessibile di quello letterario40. Per Guido da Verona il cinema è oggetto d’interesse (come si rileva dalla consultazione delle inedite carte depositate nell’archivio presso il centro apice dell’Università degli Studi di Milano), ma insieme una chimera ir-raggiungibile: così alcune riflessioni teoriche di chiara ascendenza culturale francese scritte su fogli volanti, unite alla consapevolezza dei cambiamenti che il cinema comportava negli equilibri dell’in-dustria culturale, si mescolano a soggetti e sceneggiature pensa-te in relazione a un mito provocatorio della modernità degli anni Venti come Josephine Baker. il lavoro di Mario Soldati nel e sul cinema consente di comprendere l’“intermedialità” di un intellet-tuale attivo dalla letteratura al cinema, e di cogliere quali significa-ti attribuisse all’esperienza cinematografica dapprima come spet-tatore negli Stati Uniti, poi come curioso reporter della fabbrica del cinema (attraverso il suo 24 ore in uno studio cinematografico) e quindi come protagonista negli studi della Cines con le sue prime regie. Ettore Maria Margadonna, invece, permette di introdurre un versante più teorico, intercettando la necessità da una parte di istituire una storia della settima arte e, dall’altra, di intervenire nel dibattito sull’identità del cinema come macchina moderna creatri-ce di nuove forme espressive nell’ambito di un panorama in larga parte dominato dall’idealismo crociano.

L’ultima sezione si estende dal cinema all’industria culturale, per evidenziare le continue dinamiche di scambio e di reciproco arricchimento in un panorama eterogeneo. Dapprima si è voluto porre attenzione al legame con la critica cinematografica e al re-taggio dell’avanguardia futurista, nel momento in cui questa cessa di essere prerogativa di un’élite e si candida a divenire patrimonio culturale comune: in questo senso risulta estremamente interes-sante ricostruire la critica di un futurista come arnaldo Ginna sul-la rivista “Futurismo” tra il 1932 e il 1933. Un particolare interesse si è poi concentrato sull’analisi del ruolo svolto dal cinema nella nascita del rotocalco moderno: non tanto per la diffusa presenza d’immagini e articoli, ma per aver imposto una nuova cultura visi-

40 Una convinzione espressa anche da alcuni sceneggiatori che si muovono fra teatro, critica e cinema, come aldo De Benedetti, sul quale ha di recente tracciato un interessante profilo David Bruni (Bruni 2011).

27Il cinema, macchina mitopoietica della modernità 27

va che ha determinato nuove forme di stampa. infine, l’ultimo caso ha preso in considerazione un film come O la borsa o la vita (Carlo Ludovico Bragaglia, 1933) per studiare i rapporti intermediali tra radio e cinema (il film s’ispira a una radiocommedia di alessandro De Stefani) e il reciproco interesse per la modernità nell’uso del suono, o meglio: dei rumori (di stampo futurista), nella recitazio-ne (in particolare di Sergio Tofano) e nell’attenzione all’avanguar-dia francese (nelle riprese, nella costruzione di alcune situazioni e, ancora una volta, nel mito spettacolare del volo aereo acrobatico).

Collante tra tutti i saggi è la continua ricerca di fonti di prima mano, tali da lasciar parlare direttamente e nel loro linguaggio i protagonisti di questa complessa, per certi versi drammatica ma sempre affascinante stagione che si affaccia sulla modernità. insie-me, c’è la profonda convinzione che il cinema rappresenti il comu-ne denominatore di una quantità di spinte differenti, evidenzia-te attraverso materiali eterogenei (e spesso poco conosciuti), che premono in un’unica direzione: quella di offrire un linguaggio, un patrimonio di racconti, un immaginario per vivere un tempo pre-sente avvertito come radicalmente diverso dal passato. il cinema interpreta il sogno degli italiani di scrollarsi di dosso una pesante eredità storica per essere trasportati – magari a bordo di lussuosi transatlantici o veloci aeroplani – in un nuovo presente. nel buio della sala prendono corpo immagini di novità, modernità, lusso e benessere, che s’imprimono nella mente degli spettatori e cancel-lano le ombre del reale. a luci spente il pubblico mette le ali verso un futuro radioso e a-problematico. Poco importa che nella realtà quotidiana il cammino verso il compimento di una modernizza-zione sia incommensurabilmente più lungo, accidentato e fatico-so. È in sala che si compie il balzo; è davanti allo schermo che si compie il volo del cinema.

Pagina successiva. a.F. zicàri, King Vidor, La grande parata, riduzione italiana (Romanzo-Film), Milano, Casa editrice “Gloriosa” Vitagliano, 1927, pp. 80-81

Parte IMiti di conquista: lo sguardo “oltre”

31

1

Lo SGUaRDo DaLL’aLTo.PERCoRSi inCRoCiaTi

TRa CinEMa E aERoPiTTURa1

1. Aeroplano e cinematografo macchine della modernità

nel 1956 Edgar Morin dedica il primo capitolo del suo libro Il cinema o l’uomo immaginario2 al rapporto tra cinematografo e ae-roplano. Per lo studioso francese si tratta di due moderne e “mi-racolose” macchine che segnano simbolicamente il passaggio dal XiX al XX secolo. L’aeroplano «attua finalmente il sogno più in-sensato che l’uomo abbia inseguito da quando guarda il cielo: stac-carsi dalla terra»; il cinematografo, invece, «macchina egualmente miracolosa», riflette la vita del mondo quotidiano. Entrambe sono macchine che realizzano sogni mitici dell’uomo: volare e riprodur-re le immagini in movimento. nel volgere di pochi anni l’aereo da macchina per sognatori diventa «mezzo pratico per il viaggio, il commercio e la guerra […]. L’aereo non è fuggito dalla terra. Esso l’ha dilatata fino alla stratosfera e l’ha resa al tempo stesso più pic-cola». il cinematografo, ben presto, non si limita a riprodurre solo la vita quotidiana, ma guarda verso l’alto, verso il cielo e fantastici mondi di sogno come in Le Voyage dans la lune (Viaggio nella luna, 1902) di Georges Méliès. La stessa macchina da presa, con opera-tori cinematografici coraggiosi, come il milanese Luca Comerio3, sale materialmente su aeroplani e mongolfiere per riprendere la terra e le città dall’alto, da nuove e inconsuete prospettive. Come lo spettacolo cinematografico, anche le numerose manifestazioni

1 Una prima versione del presente testo è stata pubblicata in De Berti 2004.2 Morin 1956 (una prima traduzione italiana, con molte imprecisioni, si ha

nel 1962 per l’editore Silva).3 in particolare di Luca Comerio si possono ricordare, per le riprese dal cielo,

Gare di palloni all’arena di Milano (1906) e soprattutto Riprese dall’aereo di Mario Caldara (1911). Per approfondimenti sulla filmografia e l’attività del cineasta milanese si veda Moltiplicare l’istante 2007.

32 Il volo del cinema

o gare aeronautiche della fine del primo decennio del novecento (si ricordi, ad esempio, il grande successo del Circuito aereo di Brescia del 1909)4 suscitano in italia l’entusiasmo di un pubblico di massa che fanno del «volo un evento estetico, oltre a una epocale conquista tecnologica, in grado di stimolare la fantasia degli adulti e dei bambini»5. Certo, ben presto l’aeroplano diventa anche arma da guerra ed è proprio l’italia nel 1912, durante la guerra di Libia, a utilizzarlo per i voli di ricognizione e i primi rudimentali bom-bardamenti della storia6, anticipando quanto «accadrà durante la prima guerra mondiale: le missioni aeree italiane rimbalzano im-mediatamente sulle pagine di quotidiani, periodici e riviste, ripro-dotte nelle fasi salienti su cartoline illustrate, secondo uno schema mediatico e commerciale di successo già ampiamente collaudato grazie alle manifestazioni aeree civili»7.

Sono le stesse riviste di cinema negli anni Dieci, come “La Vita Cinematografica”, a sottolineare le nuove possibilità di riprese fo-tografiche e cinematografiche dagli aeroplani per avere una docu-mentazione «dal vero» di una battaglia8.

L’aeroplano e il cinematografo fanno apparire cielo e terra più vicini e parte di un medesimo spazio percorribile dall’uomo e dal suo sguardo. La velocità, per il cinema intesa sia come riproduzio-ne del movimento, sia come scorrimento della pellicola nel pro-iettore, li caratterizza come macchine specificatamente moderne, insieme al treno e all’automobile. Cinema e fotografia inoltre, con le loro riprese aeree, possono far vivere un’esperienza visiva nuova

4 Brescia fu letteralmente invasa dai visitatori per il Circuito aereo che durò alcuni giorni e fu un grande successo di pubblico, che ebbe tra i cronisti dell’epoca anche un giovane Franz Kafka oltre, tra gli altri, un entusiasta Gabriele d’annunzio. Si veda Demetz 2004 [2002].

5 Caffarena 2010, p. 43.6 L’1 novembre 1911 il tenente Gavotti lanciò a mano dall’aereo tre granate su

ain zara e una sull’oasi di Tripoli. insieme ai bombardamenti sono docu-mentati anche i primi voli di ricognizione militare sulla Libia negli stessi giorni, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, dalla serie di attualità Cines. Cfr. Festinese 2011, p. 55.

7 Caffarena 2010, p. 75. Si rimanda sempre al documentatissimo testo di Caf-farena per quanto riguarda la storia dell’aviazione italiana, sia per le vicen-de sportive e spettacolari, sia per quelle della guerra di Libia e della prima guerra mondiale. Più in generale, sulla storia dell’aviazione mondiale si veda Fiocco 2002.

8 a questo proposito si rimanda ad alonge 2006, pp. 15-29.

Lo sguardo dall’alto. Percorsi incrociati tra cinema e aeropittura 33

a tutti e, come scrive nel 1938 Gertrude Stein nel proprio libro de-dicato alla pittura di Picasso, «non si deve dimenticare che la terra vista dall’aeroplano è più splendida della terra vista dall’automobi-le. Con l’automobile finisce il progresso della terra. Va più veloce, ma i paesaggi visti dall’automobile sono essenzialmente gli stessi che si vedono da una carrozza, da un treno, da un carro o a piedi. La terra vista dall’aeroplano, invece, è un’altra cosa. […] quando fui in america, per la prima volta viaggiai quasi sempre in aereo, e guardando la terra vedevo tutte le linee del cubismo fatte quando ancora nessun pittore era mai salito su un aereo. […] il novecento è un secolo che vede la terra come non l’ha mai veduta nessuno, la terra quindi ha uno splendore che non ha mai avuto»9. Viaggio aereo e viaggio cinematografico come viaggi della modernità no-vecentesca provocano nuove sensazioni emotive e sensoriali che interessano e affascinano il pubblico di massa come gli artisti delle avanguardie, influenzando la loro produzione.

2. Cinema e aeropittura

Senza voler qui ricostruire i complessi rapporti tra cinemato-grafo e futurismo come incarnazione delle aspirazioni dell’italia moderna, che datano dagli anni Dieci10, appare tuttavia esemplare, nel riconoscimento delle profonde relazioni che intercorrono fra cinema e pittura, uno scritto del 1932 di Fortunato Depero, dal ti-tolo Il cinematografo e la pittura dinamica, pubblicato nel numero unico “Futurismo, 1932 anno X S.E. Marinetti nel Trentino”, edito a Rovereto11.

9 Stein 2001 [1938], pp. 85-86.10 nel 1916 Filippo Tommaso Marinetti, Bruno Corra, Emilio Settimelli,

arnaldo Ginna, Giacomo Balla e Remo Chiti firmano il manifesto La ci-nematografia futurista. Sempre nel 1916, arnaldo Ginna realizza il film Vita futurista, cui partecipano in qualità di attori numerosi futuristi come Marinetti, Corra, Balla, Chiti, Settimelli, ecc. Sui rapporti tra futurismo e cinema si vedano i numerosi studi sull’argomento di Giovanni Lista e, in particolare, Lista 2010.

11 Riprendo i riferimenti della pubblicazione e il relativo testo di Fortunato Depero da Crispolti 1969, pp. 552-553. Peraltro Depero già negli anni Venti scrive alcune sceneggiature per progetti di film che però non si realizzano, come Il Futurismo italianissimo del 1926. Cfr. Lista 2010, p. 74.

34 Il volo del cinema

Depero sottolinea l’importanza della velocità nel cinematografo e l’influenza che ha esercitato sull’opera di molti pittori futuristi:

il cinematografo ha enormemente contribuito a velocizzare la no-stra impressionabilità.La velocità e la contemporaneità delle immagini, sono nel Cine di una intensità che non ha confronti rispetto a quelle vissute nella vita. […] il pittore moderno, senza dubbio, ha trovato nel cinematogra-fo, il rapido sviluppo del proprio spirito di osservazione ed è quindi incapace di localizzare la propria attenzione grafica per delle ore su un’immagine unica e statica, cosicché dobbiamo considerare il ci-nematografo, vero maestro suggeritore del dinamismo pittorico che oggi impera in tutta l’arte mondiale.[…] i pittori futuristi […] furono fortemente spinti dalla velocità drammatica del «cinema» verso manifestazioni d’arte intensamente moderne e rivoluzionarie.12

Depero osserva come il tema della velocità – dai cavalli in corsa alle automobili, dai treni che partono e arrivano, ai voli aerei e ai bombardamenti guerreschi – sia ricorrente nelle opere di Umber-to Boccioni, Giacomo Balla, Luigi Russolo, Gino Severini, Fortu-nato Depero, Enrico Prampolini, Gerardo Dottori, ivo Pannaggi e altri. il risultato di questa produzione artistica «fu una scompagi-nante rivelazione di una pittura cinematica, eruttata dall’avvento dinamico e meccanico della nostra vita, completamente originale e diversa dalla vita del passato»13.

Lo stesso Depero è nel 1929 tra i sottoscrittori del Manifesto dell’aeropittura futurista14, anche se personalmente non ne trae particolari motivi d’ispirazione per la propria opera a venire. Sono, però, ben presenti nel Manifesto gli elementi caratteristici di una pittura cinematica. Contemporaneamente si potrebbero leggere molte parti di questo manifesto come una possibile enunciazione programmatica per la realizzazione di pellicole sperimentali, nelle

12 Crispolti 1969, p. 552.13 Ibi, p. 553.14 il Manifesto dell’aeropittura futurista, pubblicato il 22 settembre 1929, è

redatto da Filippo Tommaso Marinetti e Mino Somenzi e sottoscritto, oltre che da Depero, da Balla, Benedetta, Dottori, Fillia, Prampolini e Tato. Le citazioni che seguono sono riprese dall’edizione del Manifesto riprodotta in Mostra futurista 1931, pp. 5-10.

Lo sguardo dall’alto. Percorsi incrociati tra cinema e aeropittura 35

quali la pittura sia parte integrante del film. anche se creare una “pittura filmica” non è lo scopo esplicito dei firmatari del Mani-festo, è evidente la vicinanza estetica con la produzione cinema-tografica dell’avanguardia europea degli anni Venti: da Entr’acte (1924) di René Clair a Ballet mécanique (1924) di Fernand Léger, dall’animazione astratta dei film di hans Richter e di Viking Eg-geling fino alle esperienze cinematografiche di Man Ray e Marcel Duchamp.

Con il Manifesto dell’aeropittura siamo in una zona della speri-mentazione artistica, molto frequente negli anni tra le due guerre, nella quale i confini tra cinema e pittura sono labili e indefiniti e le due arti finiscono per incrociarsi in originali percorsi. È inevi-tabile pensare a una pittura cinematica quando nel Manifesto si legge che «ogni aeropittura contiene simultaneamente il doppio movimento dell’aeroplano e della mano del pittore che muove ma-tita, pennello o diffusore» e che «il quadro o complesso plastico di aeropittura deve essere policentrico». infine, il principio dell’aero-pittura è sintetizzato come

un’incessante e graduata moltiplicazione di forme e colori con dei crescendo e diminuendo elasticissimi, che si intensificano o si spa-ziano partorendo nuove gradazioni di forme e colori. Con qualsia-si traiettoria metodo o condizione di volo, i frammenti panoramici sono ognuno la continuazione dell’altro, legati tutti da un misterio-so e fatale bisogno di sovrapporre le loro forme e i loro colori, pur conservando fra loro una perfetta e prodigiosa armonia.questa armonia è determinata dalla stessa continuità di volo.Si delineano così i caratteri dominanti dell’aeropittura che, median-te una libertà assoluta di fantasia e un ossessionante desiderio di abbracciare la molteplicità dinamica con la più indispensabile delle sintesi, fisserà l’immenso dramma visionario e sensibile del volo.15

i temi dell’aeroplano e del volo aereo, tuttavia, non esordiscono nel Manifesto del 1929 e negli sviluppi successivi, ma si possono ritrovare già in precedenza sia in campo letterario-poetico, con poemi lirici di Marinetti e Aeroplani (1909) di Paolo Buzzi, sia in ambito pittorico e grafico nelle famose opere Prospettive di volo (1926) di Fedele azari, nelle decorazioni dell’aeroporto di ostia

15 Ibi, pp. 9-10.

36 Il volo del cinema

(1929) di Gerardo Dottori e in vari altri lavori di artisti come, ad esempio, Fortunato Depero, Roberto Marcello Baldessari, Bruno Munari, Enrico Prampolini, Mario Sironi, Tato16.

Pur senza entrare nel merito delle complesse vicende dell’ae-ropittura negli anni Venti e Trenta, è però utile ricordare come lo stesso Marinetti, dopo l’esposizione di aeropittura e aeroscultura alla XiX Biennale di Venezia nel 1934, abbia individuato quattro tendenze pittoriche e due tendenze di scultura17.

Una prima linea si riferisce a «un’aeropittura sintetica, docu-mentaria, dinamica, di paesaggi e urbanismi visti dall’alto e in ve-locità». i principali esponenti sono Tato e ambrosi, cui vengono affiancati Ponente, Garrisi, zucco, D’anna, Gambini, acquaviva, Forlin, Fasullo e Menin.

La seconda tendenza fa riferimento a «un’aeropittura trasfigura-trice, lirica, spaziale», nella quale paesaggio italiano e velocità ae-ree si compenetrano perfettamente, esprimendo «coloristicamen-te tutto lo spazio che separa l’apparecchio dalla terra». i maggiori interpreti di questa aeropittura sono Dottori e Benedetta, insieme a Di Bosso, androni, Ugo Pozzo, Caviglioni, Cocchia, Bruschet-ti, Mariotti, adele Gloria, Marisa Mori, Peruzzi, Tano, Fides Testi, Monachesi.

Marinetti individua una terza aerea d’azione in «un’aeropittura essenziale, mistica, ascensionale simbolica», il cui maggiore inter-prete è Fillia, «che riduce i paesaggi visti dall’alto alla loro essenza e spiritualizza aeroplani e volatori fino a ridurli a puri simboli». a questa tendenza appartengono anche oriani, Vottero, Dal Bianco, Diulgheroff, Muller, Costa, Saladin, Voltolina.

Un’ultima linea pittorica è identificata in «un’aeropittura stra-tosferica, cosmica, biochimica». il suo principale esponente è En-rico Prampolini, che «allontanandosi da ogni verismo e da ogni ricordo della realtà, esprime il senso umano e terrestre della meta-morfosi che l’uomo contiene nel suo slancio stratosferico […] egli fissa sulla tela tutto l’inesprimibile e tutto il fantasticabile dell’uni-verso». a Prampolini Marinetti affianca Munari, Ricas, Baldes-

16 Si veda, a questo proposito, Ali d’Italia 2000; si rimanda anche ad Aeropit-tura futurista 1970 e ad Aereo e pittura 1989.

17 Le citazioni di Filippo Tommaso Marinetti che seguono sono riprese dal suo testo pubblicato in Aeropittura, aeroscultura, arte sacra futuriste 1938, pp. 3-7.

Lo sguardo dall’alto. Percorsi incrociati tra cinema e aeropittura 37

sari, Taralli, Belli, Corali, Carlo Manzoni, Scaini, Furlan, Rossi.Per quanto riguarda l’aeroscultura Marinetti scrive come una

prima tendenza faccia capo allo scultore Mino Rosso, che con la sua opera «sintetica, trasfiguratrice […] riassume le città viste in volo, e crea una vita aerea, solidificata». La seconda corrente di aeroscultura è «polimaterica, astratta, simbolica, cosmica» e ha il suo maggiore interprete in Thayath e anche in Enrico Carmassi, Tullio D’albisola e Regina.

Marinetti chiude il proprio intervento collegando idealmente l’aeropittura e l’aeroscultura degli anni Trenta alla prima stagione del futurismo, individuando in antonio Sant’Elia il precursore di questa tendenza: «Si può dire quindi che nelle alte costruzioni del-la nuova architettura di Sant’Elia, tutte affamate di aeroplani, non si possono annidare logicamente che le aeropitture futuriste».

Con una semplificazione sicuramente un po’ eccessiva e sin-tetica, ma funzionale al nostro studio dei rapporti fra cinema e aeropittura, si può osservare la perfetta convivenza in questo “mo-vimento” di due tendenze, realistica e fantastica, indicate da Ed-gar Morin come precipue del cinematografo e dell’aeroplano. Due moderne macchine mitologiche che possono sia farci osservare il mondo della vita quotidiana delle nostre città da nuovi punti di vista, sia innalzarci «sulla realtà, dominarla, vederla − o sognarla − diversissima; o comunque continuamente varia e nuova»18.

Se molti aeropittori sono, come si è già detto, idealmente colle-gati e in sintonia con la produzione cinematografica dell’avanguar-dia degli anni Venti, non è difficile trovare anche una comune cifra stilistica, come il punto di vista dall’aereo sul paesaggio sottostan-te, tra scene, o meglio inquadrature, cinematografiche aviatorie presenti in film come L’armata azzurra (1932) di Gennaro Righelli o nei documentari del Luce − come ad esempio nei diversi servizi sulle manifestazioni tenute all’aeroporto del Littorio di Roma − e alcuni quadri di Tato o ambrosi, per citare solo due degli esponen-ti principali di quella tendenza definita da Marinetti come «docu-mentaria».

non si tratta di un documentarismo cinematografico piatta-

18 Le parole citate sono di Gerardo Dottori e sono pubblicate, insieme ad altri testi di aeropittori e al Manifesto del movimento, in Mostra Futurista 1931, pp. 13-14.

38 Il volo del cinema

mente realistico e statico, ma dinamico, nel quale le inquadrature utilizzate nei film cercano angolazioni sperimentali dall’alto verso la terra e dal basso verso il cielo o utilizzano vorticose soggettive dall’aeroplano in picchiata per riprendere lo spazio sottostante. Si possono trovare diversi esempi, oltre al già citato L’armata az-zurra, da O La borsa o la vita (1933) di Carlo Ludovico Bragaglia19 a Luciano Serra pilota (1938) di Goffredo alessandrini fino a Los novios de la muerte (1938) di Romolo Marcellini, dal documenta-rio Armata del cielo (1930) della Cines20 alle riprese del Luce delle trasvolate atlantiche di italo Balbo. Diverse opere degli artisti della cosiddetta corrente «documentaria» dell’aeropittura sono simili a queste immagini filmiche: basti pensare ai dipinti di ambrosio, come Volo su Vienna e ai due quadri sulla crociera atlantica di italo Balbo che rappresentano gli arrivi a Rio de Janeiro e a Chicago, o a lavori di Tato come Aereo Caproni in virata e C.R. 32.

Le sintonie estetiche immediatamente riconoscibili tra film e quadri sono date dallo sguardo dall’alto, spesso con una soggettiva del pilota dalla carlinga dell’aeroplano, o dalla ripresa oggettiva di aerei da terra verso l’alto, ma in ogni caso, anche nelle immagini apparentemente più realistiche, è soprattutto il fascino misterioso connaturato con il volo che finisce per avvolgere cinema e pittura in un’aura comune di mitologia moderna e spettacolare.

Esemplare in questo senso è il caso del documentario Lo stormo atlantico, girato dall’istituto Luce in occasione della prima trasvo-lata atlantica di Balbo dall’italia al Brasile, che nel 1931 Marinet-

19 Carlo Ludovico è il fratello minore di anton Giulio che nel 1916 aveva re-alizzato il film Thaïs, con le scenografie di Enrico Prampolini. O la borsa o la vita è uno dei film italiani più interessanti dei primi anni Trenta per la presenza di alcune scene oniriche e di nonsense che ricordano le speri-mentazioni dadaiste e surrealiste.

20 Armata del cielo è un documentario realizzato dalla Cines-Pittaluga di Roma e credo si tratti di uno dei primissimi documentari sonori italiani. Per la ripresa sonora vengono utilizzate apparecchiature della Radio Cor-poration of america (R.C.a. Photophone). il documentario, prendendo spunto da una parata della Regia aeronautica Militare italiana, esalta le imprese aviatorie nazionali, come un record del mondo di Maddalena e Cecconi conquistato con il Savoia Marchetti 64, e presenta varie esercita-zioni militari e acrobatiche evoluzioni aeree con tanto di lancio di scie fu-mogene, che disegnano nel cielo spettacolari geometrie. Si veda Memoria del cinema 2001, p. 162.

Lo sguardo dall’alto. Percorsi incrociati tra cinema e aeropittura 39

ti proietta nelle principali capitali europee, introducendolo con una propria conferenza di “esaltazione poetica” dell’impresa21. nel documentario scene di volo, di ammaraggi e di decolli sull’acqua degli idrovolanti si alternano a inquadrature di carte geografiche e alle scene esotiche dei villaggi africani nei quali la squadra ae-rea sosta per i rifornimenti. Giovanni Lista osserva, giustamente, come si tratti di un film con uno «stile dinamico e trepidante» in cui prevale la forza visiva dell’immagine, ma che «racchiude anche tutta la dimensione mitica del volo che gli aeropittori futuristi ten-tano allora di tradurre nelle loro opere»22.

Sostanzialmente le medesime osservazioni si possono fare an-che per un altro filmato del Luce del 1933, La crociera aerea del decennale23, che documenta la trasvolata atlantica verso l’america settentrionale e le trionfali accoglienze riservate a Balbo a Chicago e a new York. La solita spettacolarità dinamica delle riprese aeree, con l’utilizzo di diverse cineprese coordinate da Mario Craveri, si unisce a una grafica di evidente ispirazione futurista.

Un altro elemento che colpisce, se si guardano con attenzione documentari e scene aviatorie nei film di finzione dei primi anni Trenta, è l’importanza che viene data al sonoro inteso come “ru-more”, altro tema molto caro ai futuristi e alle avanguardie artisti-che. Si trovano spesso lunghe sequenze nelle quali la parte sonora si affida solo al rombo dei motori, al fruscio delle eliche che girano vorticosamente e al fischio del vento. il rumore, privo di dialoghi, diventa così una componente espressiva fondamentale del film o del documentario.

alla luce di quanto detto diventa difficile stabilire esattamente quanto l’aeropittura, o almeno una delle sue tendenze, abbia in-fluenzato il cinema o, viceversa, quanto il cinematografo, inteso anche come macchina moderna, abbia influenzato l’aeropittura e più in generale l’esperienza pittorica futurista. Mi pare più pro-ficuo pensare a un intreccio d’influenze e interazioni reciproche sotto il denominatore comune della ricerca, pur con tutte le sue contraddizioni e nonostante gli anni cupi del fascismo, di una via

21 Si veda Lista 2001a, p. 89.22 Ibidem.23 il film è stato presentato, in un’edizione italiana della durata di 83 minuti,

al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna, nel luglio 2003. Per ulteriori informazioni si veda la scheda del film in Cinema Ritrovato 2003, p. 89.

40 Il volo del cinema

italiana alla modernità non poi così lontana dalle altre avanguar-die europee, che ha nell’aeroplano e nel cinematografo due miti meccanici di straordinaria forza propagandistica e di grande fasci-no visivo e spettacolare, in grado di coinvolgere il grande pubblico come gli artisti più innovatori.

3. Velocità

il film Velocità (1930) di Tina Cordero, Enrico Martina e Pip-po oriani, noto anche con il titolo francese Vitesse, merita una trattazione più approfondita come esempio di film d’avanguardia perché rappresenta nell’ambito del futurismo un «tentativo di in-tegrazione tra cinema e pittura, in particolare l’aeropittura, con inserimento di quadri di oriani e di animazioni di modellini di aerei e vedute»24.

il film, ritenuto perduto, è stato recentemente rinvenuto, presso il national Film and Television archive di Londra, in una copia ridotta e probabilmente montata da Eugène Deslaw25.

Prima della scoperta della copia della pellicola, girata a Torino nel 1930, probabilmente sfruttando come interni la casa della Cor-dero e lo studio di oriani, si conosceva uno schema di sceneggia-tura con note e con il titolo francese Vitesse, fornita dallo stesso Pippo oriani a Enrico Crispolti, che l’ha pubblicata nel 196926. La sceneggiatura non ha praticamente alcuna corrispondenza con le inquadrature del film attualmente visibile. non si hanno notizie circa una proiezione a Torino nel 1930, ma una proiezione pub-

24 Costa 2002, p. 173.25 La copia del film attualmente visibile è stata stampata dalla Cineteca na-

zionale di Roma nel 1996 ed è lunga 364 metri, per una durata di circa 13 minuti. L’edizione originale sembra durasse 90 minuti. Per una precisa ricostruzione delle fasi della realizzazione del film e delle sue diverse ver-sioni rimando a Lista 1997-1998, pp. 73-103. in questo stesso saggio Lista analizza il film in tutti suoi settantacinque segmenti visivi, che raggruppa in dieci sezioni diverse (ora, con alcuni aggiornamenti, in Lista 2010, pp. 81-112). Si vedano anche «Velocità» 1997; Lista 2001a, pp. 91-101; Costa 2002, pp. 173-174.

26 La sceneggiatura è contenuta in Crispolti 1969, pp. 529-540; si veda anche Verdone 1975. Mario Verdone ha pubblicato anche una lettera di Eugène Deslaw relativa al film in Verdone 1990 [1968], pp. 117-118.

Lo sguardo dall’alto. Percorsi incrociati tra cinema e aeropittura 41

blica della copia originale del film avviene nel marzo 1931 a Parigi.Senza inoltrarci ulteriormente nella sua storia produttiva e di-

stributiva passiamo all’analisi del film esistente che è, anche se in una versione parziale, un documento futurista di grande impor-tanza e interesse.

i titoli di testa del film indicano che si tratta di una produzione della Futurista Film di Torino, con la sceneggiatura dei soli Cor-dero e Martina, la realizzazione di Cordero, Martina e oriani e le scenografie di oriani27.

Velocità si presenta come un evidente tentativo di rifarsi espli-citamente ai principi enunciati nel manifesto La cinematografia futurista del 1916. nella pellicola i riferimenti ai temi del futurismo storico e alla sua poetica degli «stati d’animo», del «dramma d’og-getti» sono costanti e puntano a creare, come prescrive il manife-sto della cinematografia, una «sinfonia poliespressiva» nella quale i mezzi d’espressione sono «gli elementi più svariati: dal brano di vita reale alla chiazza di colore, dalla linea alle parole in libertà, dalla musica cromatica e plastica alla musica di oggetti». ogni in-quadratura del film è da considerarsi autonoma nel proprio signi-ficato, secondo una modalità che ricorda il cinema delle origini dei fratelli Lumière e di Georges Méliès e mira a meravigliare, a stupire lo spettatore, senza coinvolgerlo in alcun processo d’identificazio-ne narrativa.

il film è anche un campionario di citazioni di pellicole dell’avan-guardia europea, come Chelovek s kino-apparatom (L’uomo con la macchina da presa, 1929) di Dziga Vertov, Ballet mécanique (1924)

27 Tina Cordero (1899-1951) pittrice dilettante e scrittrice, sposa nel 1930 Gui-do Martina. insieme conoscono Sartoris e oriani del gruppo futurista tori-nese. Cordero e Martina, insieme a oriani, pubblicano a Parigi nel marzo 1931 sulla rivista “Comoedia” una sorta di manifesto, Avant-garde intégrale: Marinetti et le film futuriste (Avanguardia integrale: Marinetti e il film futu-rista), nel quale si riallacciano al manifesto La cinematografia futurista del 1916 ribadendone l’attualità e rivendicando l’assoluta paternità futurista del proprio film Velocità. Guido Martina (1906-1991) è regista e sceneggia-tore. negli anni Trenta soggiorna a Parigi per lunghi periodi, realizzando documentari e cortometraggi. È uno dei maggiori sceneggiatori dell’edi-zione italiana di “Topolino” e crea i personaggi di Pecos Bill e oklahoma. Per ulteriori informazioni si vedano le schede biografiche in Lista 2001a. Di Pippo (Filippo) oriani (1909-1972) è nota l’attività come aeropittore. Espone per la prima volta con il gruppo futurista nel 1928 a Torino.

42 Il volo del cinema

di Fernand Léger, Entr’acte (1924) di René Clair, L’Étoile de mer (1928) di Man Ray, Vormittagsspuk (1928) di hans Richter e Anémic cinéma (1926) di Marcel Duchamp; altri riferimenti sono a film di animazione, da Les Allumettes animées (1908) di Émile Cohl a Ske-leton Dance (1929) di Walt Disney28. numerose sono anche le au-tocitazioni “pubblicitarie” di opere futuriste: dopo l’omaggio a Ma-rinetti con un triplice ritratto disegnato si trovano, probabilmente in una scena girata nell’atelier di Pippo oriani, sculture di Mino Rosso, quadri dello stesso oriani, ceramiche di Tullio D’albisola29.

in questa interessante fusione di esperienze futuriste e dell’avan-guardia europea più radicale si colloca una parte del film che rappre-senta un tentativo di cineaeropittura. Secondo Giovanni Lista «si trat-ta di una traduzione cinematografica dell’immaginario aeropittorico futurista. Sono da ricordare le fotografie futuriste di Tato, in particola-re le composizioni polimateriche dette ‘fotoplastici’, per il modo in cui vengono impaginati i diversi dati visivi dell’immagine»30.

Si hanno una decina d’inquadrature senza alcuna connessione logica e consequenziale fra loro se non il motivo del volo e dell’ae-roplano Per questa sezione di Velocità l’apporto di oriani è sicu-ramente determinante, visti anche i diversi riferimenti alla sua opera: da un quadro, considerato perduto, ma che ricorda Diviniz-zazione dello spazio (1930), alla presenza quasi ossessiva di piccoli aeroplani giocattolo dalla grafica molto semplice e simili a quel-li rappresentati dal pittore nei suoi dipinti come Conquista dello spazio (1931). in altre inquadrature successive gli aeroplanini, ri-presi dall’alto, sono disposti in formazione e sembrano sorvolare il mare. a seguire si presenta l’evidente inquadratura in soggettiva di un pilota dal suo aereo in volo che osserva il paesaggio sottostante scorrergli davanti. Si tratta di un paesaggio terrestre rappresentato con disegni, modelli plastici e cartine geografiche.

28 Per un riconoscimento preciso delle citazioni nelle diverse inquadrature del film si rimanda a Lista 1997-1998. aggiungo qui al suo preciso e do-cumentato studio il film La Coquille et le clergyman (1928) di Germaine Dulac. in particolare in riferimento alle inquadrature di Velocità numerate nel testo di Lista da 31 a 33, l’immagine della caraffa che versa l’acqua e l’atmosfera onirica mi ricordano gli alambicchi di vetro con cui è alle prese il sacerdote nelle scene iniziali di La Coquille et le clergyman.

29 Lista 1997-1998, passim.30 Ibi, p. 87.

Lo sguardo dall’alto. Percorsi incrociati tra cinema e aeropittura 43

il riferimento iconografico complessivo alla contemporanea aeropittura è evidente. inoltre, queste inquadrature degli aerei in volo richiamano, fatte le debite proporzioni, le immagini docu-mentaristiche di Armata del cielo (1930) e di tante altre riprese ae-ree cinematografiche. in ogni caso è assolutamente plausibile che gli autori volessero ricordare e rendere omaggio ai molti successi italiani in campo aviatorio e all’aeroplano come simbolo della mo-dernità nazionale. Ci sono poi alcune immagini, fotografie di una donna in posa e di un personaggio in costume da bagno, che se-condo l’interpretazione di Lista vogliono rappresentare i pensieri del pilota dell’aereo, inserendosi così nella linea del tema futurista dello “stato d’animo” dell’aviatore. nelle inquadrature successive continua il volo degli aeroplanini, volteggianti intorno a una sfera che ricorda l’immagine del globo terrestre.

infine gli aeroplanini sono ripresi in fase ascensionale verso il cie-lo e lo spazio cosmico. La parte del film sull’aeropittura si chiude con la ripresa dall’alto ancora di due aeroplanini, alternatamente colpiti da un pulsare luminoso che li fa passare continuamente dal buio alla luce. «Si tratta di un’evocazione mistica del volo, allora tradotta nel tema fusionale della regressio ad uterum dall’aeropittura Mater-nità cosmica (1930) di Prampolini, un tema futurista ripreso anche dall’aeropittura Nascita della simultaneità (1932) di oriani»31.

in conclusione, Velocità rappresenta il tentativo più coraggioso, rimasto sostanzialmente isolato in italia, anche se i progetti non realizzati sono diversi, di tradurre direttamente in immagini filmi-che l’esperienza dell’aeropittura e più in generale di integrare nella pellicola di celluloide esperienza pittorica e filmica per ottenere uno dei possibili esempi di realizzazione di quella “pittura cine-matica” teorizzata nei manifesti e negli scritti dei futuristi. inoltre Velocità, con tutti gli evidenti riferimenti al cinema delle avan-guardie europee degli anni Venti, testimonia come molti giovani intellettuali italiani, spesso legati o influenzati dal futurismo, fos-sero perfettamente a conoscenza e sintonizzati con quanto avveni-va sullo scenario artistico internazionale tra Parigi e Berlino e con l’importanza del cinema nella produzione di molti artisti europei.

31 Ibi, p. 89. Per i riferimenti a tutte le opere futuriste individuate nel film si veda ibi, passim.

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2

iL GEnERE aViaToRio iTaLianonEGLi anni TREnTa TRa MoDERniTà

E iDEnTiTà nazionaLE.iL CaSo Di L’ARMATA AzzuRRA (1932)1

1. un genere aviatorio?

Tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta il cinema americano presenta una serie abbastanza consistente di film che hanno per prota-gonisti piloti d’aerei e il mondo dell’aviazione. Tra i tanti titoli possia-mo ricordare Wings (Ali, 1927), primo film vincitore del premio oscar, The Legion of the Condemned (La squadriglia degli eroi, 1928) e Central Airport (Ala errante, 1930), tutti e tre diretti da William a. Wellman; The Sky Hawk (Lotta d’aquile, 1929) di John G. Blystone; Flight (Diavoli volanti, 1929) di Frank Capra; Hell’s Angels (Angeli dell’inferno, 1930) di howard hughes; The Dawn Patrol (La squadriglia dell’aurora, 1930), Today We Live (Rivalità eroica, 1933), Only Angels Have Wings (Avven-turieri dell’aria, 1939), tutti con la regia di howard hawks; il remake di The Dawn Patrol, diretto nel 1938 da Edmund Goulding; Hell Divers (I demoni dell’aria, 1931) di George William hill; The Lost Squadron (L’ultima squadriglia, 1932) di George archainbaud; Wings in the Dark (Ali nel buio, 1934) di James Flood; China Clipper (Ali sulla Cina, 1936) di Ray Enright; Test Pilot (Arditi dell’aria, 1938) di Victor Fleming2. In questo breve elenco si trovano, volutamente, film famosi e che hanno richiesto un notevole impegno produttivo, come Wings e Hell’s An-gels, e film minori che potremmo definire “di serie B”. inoltre, in ap-plicazione al criterio economico della standardizzazione produttiva, a volte scene aeree spettacolari girate per un film sono state riutilizzate in una pellicola successiva: è il caso, ad esempio, di alcune sequenze di Wings usate per Today We Live.

1 questo testo ha visto una prima versione in De Berti 2002.2 Su Wings e i film di aviazione, soprattutto in relazione al tema della mo-

dernità, ho ricavato preziosi suggerimenti in alonge 2001. Sullo stesso tema si veda anche Midkiff DeBauche 1997. Più specificamente sulla storia del cinema di aviazione si rimanda a D’anna 1997 e a Melanco 2011.

46 Il volo del cinema

queste prime osservazioni non sono, però, sufficienti per affer-mare l’esistenza di un genere aviatorio. Si può pensare di essere in presenza di una variante del war film dato che la maggior parte dei titoli citati riguardano storie ambientate durante la prima guerra mondiale, una sorta di sottogenere che si potrebbe definire “film di guerra d’aviazione”. in realtà il personaggio del pilota d’aereo, eroe protagonista di questi film, non limita la propria azione solo ai combattimenti aerei. Per i piloti il cielo non è unicamente uno scenario per la battaglia, ma anche un luogo di sfida tecnologica dove cimentarsi in avventurose trasvolate, come in China Clipper, che s’ispira alle imprese aviatorie di Lindbergh. Lo spazio aereo rappresenta una “nuova terra” da esplorare e conquistare da par-te degli uomini. L’aeroplano, prima di essere un’arma da usare in guerra, è, come l’automobile, uno dei simboli della nuova era mo-derna improntata alla velocità e al viaggio3.

Giame alonge ha giustamente definito l’aviatore come una sorta di cavaliere senza tempo, un guerriero contemporaneamente «ar-caico e futuribile, sospeso tra Medioevo e XX secolo»4. non a caso in alcuni film bellici i piloti sono ex ufficiali di cavalleria come, per citare un esempio italiano, in Cavalleria (1936) di Goffredo ales-sandrini.

Si incominciano così a delineare alcuni elementi semantici ca-ratterizzanti un possibile genere aviatorio: un eroe (l’aviatore), un oggetto-macchina protagonista (l’aereo) e un luogo (lo spazio dei cieli).

È evidente come, dati questi elementi, il pilota d’aereo si collo-chi oltre i limiti del war film e, in particolare nel periodo tra le due guerre, s’imponga come «uno dei più potenti simboli della mo-dernità, di un radioso avvenire tecnologico che attende l’umanità. […] il cinema coglie a pieno la centralità di questa figura all’interno della cultura del tempo, ben oltre i confini del genere bellico»5.

Un genere, riprendendo gli studi di Rick altman6, oltre alla di-mensione semantica, ne comporta una sintattica e una pragmatica.

3 Sul tema dell’aereo come simbolo della modernità si rimanda a quanto già detto nel capitolo precedente a proposito dei rapporti fra cinema e aereo, nonché a Morin 1956.

4 alonge 2001, p. 178.5 Ibi, p. 181.6 Si vedano altman 1999 e altman 2004 [1999].

Il genere aviatorio italiano negli anni Trenta 47

a livello sintattico le combinazioni aviatori, aeroplani e cieli porta-no a una serie possibile d’intrecci narrativi, di rapporti conflittuali o d’amore fra i personaggi, che hanno il loro esito in grandi storie esemplari (il duello aereo come quello degli antichi cavalieri, la rivalità in amore, la prova di coraggio estremo, il cameratismo, la storia d’amore tragica tra l’aviatore e una donna, il riscatto finale da un passato tormentato, la passione irrefrenabile per la velocità e il volo aereo in una dimensione di sfida continua per il superamen-to di nuovi limiti e la conquista di nuovi spazi, ecc.).

La critica cinematografica e lo spettatore riconoscono facilmen-te negli anni Trenta-quaranta quello che si può chiamare lo scena-rio aviatorio che si presenta sempre insieme ad altri generi di con-solidata tradizione e istituzionalizzazione come il melodramma, la commedia, l’avventuroso.

La constatazione empirica della mescolanza e della contamina-zione fra generi diversi in un medesimo film è un dato largamente condiviso dai più recenti studi sul genere7, ma in questo caso ci si deve chiedere se lo scenario aviatorio nel periodo storico consi-derato rimanga solo un fondale, una variante di altri generi o se abbia una propria identità più forte, almeno in parte autonoma. Per rispondere a questa domanda è utile interrogarsi a livello non tanto semantico-sintattico, ma pragmatico, considerando il gene-re come un patto comunicativo fra film e spettatore, influenzato dal contesto comunicativo e continuamente soggetto a processi sociali e culturali di negoziazione fra le parti. in questa prospet-in questa prospet-tiva, prima di passare a una verifica empirica dell’esistenza di un genere aviatorio, vale la pena ricordare la definizione di genere proposta da Casetti, cui si fa qui riferimento: «Genres appear as complex negotiating machines: their purpose is to solve produc-tively the confrontation between film and viewer, but also to solve

7 oltre ai già ricordati studi di altman si veda, fra gli altri, Leutrat, Liandrat-Guigues 1993 [1990], pp. 98-104, ove gli autori affermano che: «la determi-nazione del ‘genere’ non si può attuare se non empiricamente, a tentoni. i ‘generi’ si accavallano frequentemente. La regola, in qualsiasi epoca, è la mescolanza di ‘generi’ diversi» (p. 100). Leonardo quaresima prospetta contaminazioni non solo fra generi, ma anche con istanze autoriali e altre forme artistiche: «Un modello di genere mobile e dotato di ampi gradi di libertà, come un ‘organismo vivente’; una unità suscettibile di incrociar-si con altri sistemi, i più diversi, e di dar luogo a continue metamorfosi» (quaresima 1996, p. 226). Si veda anche Bourget 2000.

48 Il volo del cinema

confrontations with other elements that form the communicative situation and with the possible ways in which the film is used by the viewer in his/her life-world»8.

naturalmente non è sufficiente la sola presenza come elemento di contorno di un aeroplano, di un campo d’aviazione o di un pilota perché un film sia ascrivibile al genere aviatorio. a farmi propen-dere per l’esistenza di questo genere negli anni Trenta, pur sempre in compresenza con generi “maggiori”, è la constatazione di come a livello della ricezione nelle critiche cinematografiche dell’epo-ca si parli esplicitamente di film d’aviazione9. in molte recensioni sono posti in primo piano tutti gli elementi strettamente connes-si all’aviazione e alle scene di volo, identificati come punti focali dell’intreccio narrativo dotati di una loro specifica autonomia ri-spetto alle altre vicende, considerate come pure parti accessorie. Le notazioni dei critici in riferimento ad altri generi presenti in tali film sono relegate in secondo piano, in una dimensione di cor-nice rispetto alla centralità del quadro aviatorio. il tema ricorrente in queste pellicole è quello della sfida dell’aviatore con il suo aereo contro i nemici in tempo di guerra o la natura e i limiti tecnolo-gici in tempo di pace. infine, la critica sottolinea costantemente due aspetti facilmente rintracciabili nei film d’aviazione, che han-no una precisa funzione sociale: la propaganda nazionalistica, in particolare per i film d’ambientazione bellica, e l’affermazione della modernità rappresentata simbolicamente dall’aeroplano e dall’aviatore.

Per cercare di dimostrare quanto detto prenderò in esame il caso di L’armata azzurra10, una pellicola italiana del 1932 diretta da Gen-

8 Casetti 1999, pp. 32-33.9 a titolo d’esempio dell’utilizzo dell’espressione “genere aviatorio” o di altre

simili, riprendo un breve stralcio di una critica a Hell’s Angels di hughes, apparsa nel numero 5 del 1932 di “il cinema Italiano”, e ora pubblicata in Martinelli 2002, p. 32: «howard hughes, quando ha iniziato con que-sta produzione la sua attività cinematografica, a cui ha apportato ingenti sostanze, ha voluto superare quant’altro era stato fatto nel genere di film d’aviazione».

10 il film si presenta come una commedia che ha per protagonisti due uffi-ciali dell’aeronautica Italiana che rompono la loro amicizia a causa della gelosia per una donna. nel finale, dopo un coraggioso salvataggio aereo in montagna, i due si riconciliano fra loro e con le rispettive fidanzate e future mogli. L’interesse del film risiede però nelle numerose scene aeree girate

Il genere aviatorio italiano negli anni Trenta 49

naro Righelli e interpretata da alfredo Moretti, Germana Paolieri, Ennio Cerlesi e Leda Gloria, partendo dalle recensioni per passare successivamente all’analisi del film.

2. Aviazione, identità nazionale e propaganda

Le critiche di L’armata azzurra presentano diversi motivi di in-teresse per la determinazione del genere cui il film appartiene.

Uno degli interventi più interessanti è di Mario Gromo sul quo-tidiano “La Stampa” di Torino del 28 novembre 1932. il recensore pare non avere dubbi sull’esistenza di un film aviatorio americano, sulla sua funzione di propaganda e sul fatto che L’armata azzurra sia il tentativo italiano di riprendere quel genere.

Fino ad oggi i film d’aviazione erano esclusivo dominio della cine-matografia americana. i pochi tentativi compiuti da tedeschi e da francesi si sono risolti in saggi accurati e modesti da parte dei primi, in improvvisazioni talvolta grottesche da parte dei secondi. E pa-reva che plausibili e convincenti visioni del genere dovessero con-tinuare a giungerci soltanto da hollywood e dintorni, soprattutto per il larghissimo aiuto concesso ai produttori di laggiù, a scopo di propaganda, dalla potente aviazione americana. Ma la nostra avia-zione non è seconda a nessuna […] e oggi l’ala italiana ha offerto il canto dei suoi motori alla nostra risorta cinematografia […] i veri attori, qui, non sono i modesti interpreti della pletorica e al tem-po stesso gracile vicenda; i veri attori, i veri protagonisti che non ci mostrano il loro volto, sono i nostri magnifici piloti dei quali, per concessione del Ministero dell’aeronautica, possiamo ammirare numerose gesta riprese durante la recente giornata dell’ala, le re-centi manovre aeree e in un episodio assai ardimentoso […] ed è in queste pagine che il film ha profili davvero suggestivi e avvincenti.11

dal direttore della fotografia Carlo Montuori e dagli operatori della Cines e dell’istituto Luce con la consulenza tecnica del comandante Emidio Libe-rati e il diretto appoggio della Regia aeronautica italiana. Scopo dichiarato di L’armata azzurra, prodotto dalla Cines di Pittaluga, è di celebrare e glo-rificare l’aviazione militare nazionale. Una copia del film, ristampata dopo lavori di riparazione e pulitura, è stata presentata dalla Cineteca nazionale nel 1998 al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna: si veda Memoria del cinema 2001, p. 37.

11 Gromo 1932.

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anche Enrico Roma sulle pagine di “Cinema illustrazione” pro-pone, con toni ancora più entusiastici per il film italiano, le stesse argomentazioni di Gromo:

L’aviazione italiana meritava un tale omaggio […] perché non era giusto che fosse lasciato alla Marina aerea americana, un primato assoluto in questo campo […] grazie alla sapiente pubblicità che ha saputo farsi col film […]. Diremo subito che il film ci piace molto perché raggiunge lo scopo propagandistico che si proponeva, dan-doci dell’aviazione militare l’immagine pura, a differenza di come gli americani ce l’hanno descritta fin qui. Prendete le Grandi parate e i vari angeli dell’inferno: stupendi, non c’è che dire e in un certo senso insuperabili, ma non potrete negare che, in luogo di incitare i giovani a salire sulla carlinga, li intimoriscono o, peggio, creano in essi un deplorevole equivoco: quello del divismo, dell’eroismo indi-viduale, dell’arditismo isolato, fonti di rivalità gelose, non proprio militaresche.12

in effetti, il film è ideato per propagandare e celebrare i fasti dell’aeronautica italiana in coincidenza con il decennale della marcia fascista su Roma. Si punta cioè a suscitare l’orgoglio nazionale degli italiani per la nuova arma (la Regia aeronauti-ca) costituita il 28 marzo 1923 per volontà di Mussolini che, da quando nell’agosto 1925 viene istituito il Ministero dell’aero-nautica, lo tiene personalmente fino al 1943, tranne che per il periodo 1929-1933 quando il dicastero è affidato a italo Balbo13, che scelse di persona i protagonisti maschili di L’armata azzur-ra14. L’aviazione rappresenta per il duce un formidabile stru-mento di propaganda politica anche indiretta per accreditare il regime come artefice di un grande processo di modernizza-zione del Paese, che lo mette alla pari delle maggiori potenze mondiali15. nel film, però, non ci sono mai riferimenti espliciti

12 Roma 1932.13 Dal novembre 1926 Balbo era già segretario di Stato all’aviazione.14 L’informazione è ripresa da Memoria del cinema 2001, p. 37.15 in realtà, come hanno dimostrato diversi recenti studi storici, se da una

parte il fascismo usò ampiamente a fini propagandistici l’aeronautica e soprattutto i successi delle imprese aeree di Balbo e i molti record stabiliti da singoli aviatori, dall’altra parte non la sostenne adeguata-mente a livello d’investimenti complessivi, tanto che durante la secon-

Il genere aviatorio italiano negli anni Trenta 51

al fascismo, se si esclude un brevissimo cartello finale, su fondo nero, dove compare un fascio littorio. Prima di questo, il film si chiude con l’inquadratura di una bandiera italiana al vento sulla quale, come in dissolvenza incrociata, passano squadre di aeroplani in formazione perfetta. L’obiettivo propagandistico appare decisamente vicino a un patriottismo volto più a raffor-zare l’identità nazionale italiana e i successi dell’aeronautica, sullo stile dei film americani del medesimo genere, che a ce-lebrare i fasti del regime. a rafforzare questa tesi c’è anche la pubblicità del film, che ricorda significativamente la presenza sul set, per l’inizio delle riprese, del re e non del duce:

S. M. iL RE presenziò la prima scena di questo film durante la sua vi-sita alla Cines nel mese di febbraio scorso. Le parole augurali dell’au-gusto ospite in quella indimenticabile circostanza, segnarono l’au-spicio più desiderato al successo de L’Armata azzurra. il film Cines è l’esaltazione eroica dell’amicizia, tra le più audaci e perigliose gesta degli aviatori italiani […] assisterete alle più emozionanti imprese di volo con stormi di apparecchi al comando di aviatori eroici. Cuori e motori in una superba gara di conquista.16

non da ultimo, il film sfrutta e rilancia facilmente, appoggian-dosi ai recenti ricordi del pubblico, i successi ottenuti in que-gli anni dall’aeronautica Italiana. Mi limito a ricordare le pri-me grandi trasvolate solitarie di Francesco De Pinedo dall’italia all’australia (1925) e dall’italia al Sud america (1927), quella di arturo Ferrarin e Carlo Del Prete, per la prima volta senza scalo, da Roma al Brasile (1928) e la famosa prima trasvolata atlanti-ca, con una formazione di idrovolanti guidata da italo Balbo, dall’italia al Brasile (17 dicembre 1930 - 15 gennaio 1931)17 (fig. 1). inoltre, i piloti italiani con i loro velivoli partecipano con suc-

da guerra mondiale si dimostrò tutta la sua arretratezza tecnologica e di capacità produttiva rispetto alle altre potenze belligeranti (si veda Ali del ventennio 2005). Sull’aviazione come terreno privilegiato della propaganda fascista nella stampa, nel cinema e nella produzione ar-tistica per instaurare un vero culto patriottico dell’arma, si rimanda a Lehmann 2010.

16 Locandina pubblicitaria pubblicata in “Scenario”, novembre 1932, p. 5.17 Tra i tanti libri sull’argomento rimando a Rochat 1979; Falessi 1983; Bertoni

1995.

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cesso a gare internazionali come la Coppa Schneider e s’impe-gnano a battere vari record di velocità e d’altezza.

3. L’armata azzurra e la modernità

Se Gromo e Roma evidenziano la funzione propagandistica del film aviatorio e riconoscono alla cinematografia americana il me-rito della nascita del genere, nicola Chiaromonte in “L’italia Let-teraria” accosta L’armata azzurra ai film americani che hanno la funzione di rappresentare l’età moderna:

illustrare gli aspetti, le forme, gli strumenti della vita d’oggi, mettere sotto gli occhi delle folle i particolari di quei miti più o meno meccanici, più o meno nuovi, singolari e attraenti che fanno il carattere per molti straordinario, per molti persino in-quietante, di quella che si chiama l’età moderna, è funzione che il cinematografo adempie egregiamente. Gli americani ci hanno già raccontato, su tal canovaccio, molte favole, e mostrato da vi-cino i dettagli della vita del marinaio, dell’aviatore, del pugilato-re, dell’automobilista, del ferroviere: per quanto riguarda mecca-nica e novità la loro civiltà ha raggiunto una tal compiutezza che la documentazione risultava spesso, senza sforzo, grandiosa […]. Tutti i paesi hanno la possibilità piena di documentare il parti-colare uso ch’essi fanno delle macchine e delle città […] L’idea di fare un film sull’aeronautica italiana, sebbene gli americani l’ab-biano per conto loro preceduta, è sempre buona e capace d’im-preveduti sviluppi.18

La propaganda nazionalistica si connette così strettamente con la modernità tecnologica simbolicamente rappresentata dall’aero-plano. Per usare una formula sintetica: L’armata azzurra è un film che “pubblicizza” la modernità italiana.

il tema aviatorio è diffuso trasversalmente nella società e nella cultura italiane dell’inizio degli anni Trenta, legato sia ai miti della macchina e della velocità, tanto cari a Marinetti e ai futuristi, sia alla cultura di massa.

ad esempio una dimensione più popolare e romantica

18 Chiaromonte 1932.

Il genere aviatorio italiano negli anni Trenta 53

dell’aeronautica, tutta «cuori e motori», si trova nei romanzi di Liala, che nel 1931 con Signorsì pubblica il primo di una lun-ga serie di best-seller con protagonisti piloti d’aerei. Peraltro le frasi di lancio di L’armata azzurra puntano sia sulla potenza degli aerei, sia sul valore e la maestria dei piloti, che potrebbero essere i protagonisti dei romanzi di Liala, in una ideale sintesi tra tecnologia e uomini: «Le più emozionanti sequenze di volo, con imponenti stormi di velivoli pilotati dai nostri aviatori» e ancora «ardite imprese isolate e magnifici quadri d’insieme. il film che illustra tutte le audacie dell’aviazione italiana»19.

La dimensione artistica e sperimentale del volo aereo è inve-ce sinteticamente riassunta, come si è già visto20, dal Manifesto dell’aeropittura futurista del 1929 e dall’opera di pittori come Fede-le azari (anche aviatore), Giulio D’anna, Gerardo Dottori, ivano Gambini, Bruno Munari, Pippo oriani, Tato e molti altri che pre-sentano i propri quadri nel 1931 alle mostre di Roma, Trieste, Parigi e soprattutto alla Galleria Pesaro di Milano. a questo proposito si può osservare come nelle scene di volo di L’armata azzurra non sia difficile trovare una comune cifra stilistica − ad esempio il punto di vista dall’aereo sul paesaggio sottostante − con alcuni quadri di aeropittori come Tato o alfredo Gauro ambrosi, esponenti di «un’aeropittura sintetica, documentaria, dinamica di paesaggi e urbanismo visti dall’alto e in velocità»21.

L’armata azzurra presenta sia l’elemento rosa della storia po-polare sentimentale, anche se con i toni della commedia e non del melodramma come nei romanzi di Liala, sia alcuni elementi interessanti sullo stato della cinematografia italiana nella fase di passaggio dal muto al sonoro22 e, più in generale, sui rapporti tra cinema aviatorio e modernità.

in questo periodo storico la modernità, soprattutto in Europa, è

19 Le citazioni sono in Savio 1975, p. 28.20 Sull’aeropittura si rimanda al primo capitolo del presente volume.21 Ventura 2000, p. 34.22 il film è realizzato dalla Cines, dal 1932 diretta da Emilio Cecchi. Sono anni

in cui la transizione dal muto al sonoro non è ancora completamente sta-bilizzata nel cinema italiano e si tentano ancora possibili strade per un uso sperimentale del sonoro come, ad esempio, in Acciaio (1933) di Walter Ruttmann. Sulla produzione della Cines nei primi anni Trenta si veda Buc-cheri 2004; più in generale sull’argomento: Brunetta 1993, passim.

54 Il volo del cinema

connessa con l’esperienza delle avanguardie e, sia pure in una for-ma semplificata e volgarizzata, nel film aviatorio appare eviden-te l’acquisizione residuale di soggetti e linguaggi provenienti da movimenti artistici sperimentali come il futurismo23. In L’armata azzurra sono presenti arditi movimenti di macchina, angolazio-ni particolari dal basso e dall’alto e una costante attenzione per la messa in primo piano dei rumori. nel film ci sono lunghe sequen-ze aviatorie nelle quali la parte sonora è priva di dialoghi o musica e si affida solo al rombo dei motori e al fischio del vento.

nel caso di L’armata azzurra la modernità perciò è non solo nel tema, ma anche in uno stile di ripresa dal quale, almeno a tratti, traspare la lezione dell’avanguardia.

a conferma di questa ipotesi si può soffermare l’attenzione in particolare su due sequenze.

La prima è la lunga sequenza che apre il film, nella quale, dopo una serie d’inquadrature che riprendono una squadra aerea im-pegnata in una esercitazione acrobatica, la macchina da presa, in travelling senza stacchi, scende dall’alto per esplorare tutto il campo d’aviazione con gli aeroplani a terra, per poi passare all’in-terno della mensa ufficiali, muoversi fra i vari tavoli (un long take complesso esterno/interno della durata di 1’50”) e con uno stacco ritornare su una nuova serie d’inquadrature degli aerei in volo. in questa sequenza, di chiara impronta documentaristica, sono evidenti gli echi delle avanguardie sia nell’ostentata esibizione della tecnica con il lungo travelling, sia nel continuo cambia-mento di punti di vista (dall’alto, dal basso, dall’aereo). in alcune inquadrature, nelle quali è più evidente il tentativo di esplorare la profondità di campo per una nuova concezione dello spazio visivo, l’analogia e un “comune sentire” con i quadri degli aero-pittori sono evidenti24. inoltre i dialoghi sono totalmente assenti

23 alberto Farassino nota come nel decennio compreso fra la metà degli anni Venti e la metà degli anni Trenta si diffonda uno stile internazionale euro-peo con «l’incontro fra la ‘volgarizzazione’ delle invenzioni delle avanguar-die e la tendenza alla stilizzazione delle forme operante nella cultura di massa. Le avanguardie introducono nel linguaggio standard il montaggio ultrarapido […], lo sfrecciare di treni e automobili, il rapido succedersi di eventi e situazioni» (Farassino 1999, p. 498).

24 Si tratta di una profondità di campo di tipo verticale, che, come da una soggettiva dall’aeroplano, guarda il panorama del mondo sottostante.

Il genere aviatorio italiano negli anni Trenta 55

per lasciare spazio ai rumori o, all’interno della mensa, al canto dei militari.

L’altra sequenza esemplare, che sintetizzo per ragioni di spazio, riguarda una manovra militare comprendente la simulazione di un attacco aereo nemico su Milano (con pregevoli riprese dal cielo delle guglie del Duomo e della città) e successivo contrattacco alla base navale nemica. qui l’aeroplano è la macchina-simbolo della guerra moderna che si sta preparando. anche in questa sequenza sulle parole dominano i rumori e si utilizza l’espediente di un tele-grafista, che riporta a voce alta i comunicati, per orientare il pub-blico durante le fasi salienti del combattimento simulato. Velocità e rumori, come i boati della contraerea o il turbinio delle eliche, sono altri due indicatori tipici di modernità.

In L’armata azzurra, senza dilungarci oltre in esempi, è dunque evidente il legame con elementi caratteristici della modernità: una modernità data non solo dagli oggetti presenti come protagonisti (l’aeroplano), ma dall’emergenza di alcuni marchi stilistici delle avanguardie.

4. Da L’armata azzurra a Luciano Serra pilota: l’aviatore come eroe

Per affermare definitivamente l’appartenenza di L’armata azzur-ra al genere aviatorio, secondo i criteri generali stabiliti nel primo paragrafo, è necessario un passo ulteriore. infatti le due sequenze analizzate sono analoghe a inserti documentaristici e potrebbero far pensare di trovarsi di fronte non a un film di finzione, ma a un semplice filmato propagandistico sull’aviazione italiana.

in realtà, pur nell’innegabile debolezza dell’intreccio, tipico di molti film italiani del periodo, Righelli costruisce una storia di «cuori e motori» con protagonisti due piloti legati da un’amicizia virile momentaneamente messa in crisi dall’arrivo di una donna. in particolare nel finale le spettacolari scene aviatorie sono funzio-nali allo sviluppo narrativo della vicenda. Si passa dal tentativo di uno dei due aviatori di battere il record d’altezza di volo nella stra-tosfera con un nuovo aeroplano, al coraggioso intervento dell’ex amico per salvarlo, dopo un atterraggio d’emergenza sulle vette in-nevate delle Dolomiti. il film si chiude con la riappacificazione dei due amici e l’abbraccio con le fidanzate e future spose.

56 Il volo del cinema

L’esibizione della modernità tecnologica degli aeroplani e dell’efficienza dell’industria aeronautica italiana si unisce al valo-re e al coraggio individuale dei piloti e alle loro storie d’amicizia e d’amore. il recupero della dimensione narrativa è per Righelli una necessità per conquistare un pubblico il più ampio possibile, compreso quello femminile, che al cinema va a vedere i film ame-ricani e a casa legge i romanzi di Liala. L’armata azzurra è uno dei tentativi di trovare una nuova strada italiana a una produzione di genere, che all’interno dei consumi della moderna industria cul-turale possa entrare in concorrenza − o almeno arginarlo − con lo strapotere hollywoodiano.

Si può quindi affermare che L’armata azzurra appartiene al film aviatorio − con tutte le limitazioni date alla definizione stessa di genere di cui si è detto − e mira a ottenere sullo schermo quanto è riuscito a Liala nell’editoria: realizzare un prodotto culturale di massa.

il tentativo però non ha il successo sperato dal punto di vista del pubblico, ma questo è un problema che investe tutta la produzione cinematografica italiana, che non riesce a decollare come prodotto popolare rispetto al dominio assoluto americano, a parte casi spo-radici, fino alla fine del 1938, quando, con l’entrata in vigore della legge protezionistica che determina il crollo delle importazioni di film dagli Stati Uniti, si modifica radicalmente l’offerta con un grande incremento delle pellicole nazionali che vanno a occupare nelle sale lo spazio lasciato libero dalla produzione americana25. Basta confrontare i dati in percentuale degli incassi lordi dei film di nazionalità americana e italiana nel 1938 e nel 1939 per capi-re il radicale cambiamento: 73,56 % (USa, 1938) e 35,12 % (USa, 1939) contro 13,63 % (italia, 1938) e 29,28 % (italia, 1939), con una tendenza alla costante diminuzione per l’america e a un aumento esponenziale per l’italia26.

Peraltro, come osserva Lehmann nel proprio studio sulla propaganda aeronautica durante il fascismo, lo spettacolo aviatorio «non poteva mancare dagli schermi, nel momento stesso in cui si manifestava così frequentemente sugli aerodromi della penisola in occasione delle visite del Duce, delle manovre della Regia

25 Per approfondimenti si veda in particolare Brunetta 2009.26 i dati sono ripresi da Storia del cinema italiano 2006, p. 651.

Il genere aviatorio italiano negli anni Trenta 57

aeronautica e dei meeting aerei organizzati dagli aero club»27. Lehmann ha calcolato che nell’archivio digitale dell’istituto Luce per il periodo 1923-1940 ci sono ben 216 servizi cinematografici e documentari sull’aviazione italiana, a dimostrazione di quanto il regime e Mussolini in prima persona, puntassero ad accreditare l’immagine simbolica della modernizzazione dell’italia fascista.

Per il cinema di finzione, a parte sporadici casi di riferimenti aviatori come quello, comunque significativo, del finale di Caval-leria, bisogna aspettare proprio il 1938 per avere in Luciano Serra pilota di Goffredo alessandrini, con protagonista un divo come amedeo nazzari, il film aviatorio di grande successo di pubblico, costruito volutamente sul modello dei film avventurosi americani, sotto la supervisione di Vittorio Mussolini, fin dalla ideazione del soggetto nel 1937 per essere il film-simbolo, anche per il tema di propaganda trattato che è la guerra d’Etiopia, della rinascita del cinema italiano. Luciano Serra pilota narra la storia di un pilota reduce della prima guerra mondiale costretto a emigrare in Sud america prima dell’avvento del fascismo (fig. 2). Luciano, dopo una serie di disavventure che a causa della sua passione per l’aero-nautica l’allontanano dalla famiglia, tenta una trasvolata atlantica che rappresenta la sua possibilità di riscatto. L’impresa fallirà e Lu-ciano Serra troverà il proprio riconoscimento sociale solo con una morte eroica pilotando un aereo, durante la guerra d’abissinia, fino alla base italiana prima di spirare accanto al figlio, ufficiale dell’ae-ronautica Italiana, che avrà il compito di raccogliere l’eredità del padre e di ricevere la sua medaglia al valore in memoriam.

Con il personaggio di Luciano Serra il cinema, analogamen-te alla letteratura popolare, rappresenta l’aviatore come il nuovo cavaliere ed eroe moderno, cui non mancano i tratti misteriosi e sfortunati dell’eroe di ascendenza romantica. Ma anche Luciano Serra pilota, come tutti i supereroi, e a conferma sia della popo-larità del personaggio, sia dell’abile strategia di propaganda tesa a coinvolgere diversi mass-media, può tornare a vivere: è quanto avviene con il fumetto tratto dal film, con testi di amedeo Martini e disegni di Walter Molino, pubblicato a puntate su “Paperino” a partire dal 9 gennaio 1939 fino al 29 giugno 1939. a differenza del film, il fumetto si chiude con il successo della trasvolata di Luciano

27 Lehmann 2010, p. 164.

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da Rio de Janeiro al litorale di ostia, dove potrà ricongiungersi alla famiglia e arruolarsi insieme al figlio nell’aeronautica militare28.

L’operazione compiuta dal film di alessandrini e dalla traspo-sizione in fumetto è trasparente nel proprio intento di dar vita a un genere avventuroso italiano, nei due mass-media, che potesse sostituire quei prodotti cinematografici e grafici americani29 che tanto successo riscuotevano presso il grande pubblico, proponen-do un eroe italiano nuovo sulla scia della memoria e delle imprese dei trasvolatori atlantici30, che aveva nella macchina e in particola-re nell’aeroplano il simbolo della modernizzazione dell’italia.

il tentativo non darà gli esiti sperati in alcuno dei due campi, so-prattutto se confrontati con la qualità delle produzioni d’avventura statunitensi, anche se, ad esempio, per quanto riguarda il cinema, si realizzeranno in seguito nel periodo di guerra, alcuni film di propa-ganda di genere aviatorio, come I tre aquilotti (Mario Mattoli, 1942), un pilota ritorna (Roberto Rossellini, 1942), Gente dell’aria (Esodo Pra-telli, 1942), uomini e cieli (Francesco De Robertis, 1943, ma il film esce nelle sale nel 1947) e Aeroporto (Piero Costa, 1944)31.

28 Sul rapporto tra il film e il fumetto rimando a De Berti 2000, pp. 85-108. Sull’importanza di questa riduzione all’interno del più ampio contesto della storia del fumetto in italia negli anni Trenta si veda Gadducci, Gori, Lama 2011, pp. 286-288.

29 L’immaginario popolare aviatorio si alimenta da una parte con il cinema e dall’altra ancor di più con i comics americani d’avventura pubblicati a partire dal 1934 sulle pagine di “L’avventuroso” dell’editore nerbini (Flash Gordon, Radio Patrol, Tim Tyler’s Luck, Phantom, Secret Agent X9) o su “L’audace” di Lotario Vecchi (Brick Bradford, Drakeman e poi Superman). in generale sulla diffusione del fumetto americano in italia si rimanda al puntualissimo studio di Gadducci, Gori, Lama 2011.

30 Due sono le trasvolate più note: la prima partita da orbetello il 17 dicembre 1930 con quattordici idrovolanti S.55 e giunta a Rio de Janeiro il 15 genna-io 1931; la seconda, preparata per festeggiare il decennale del regime, con traversata dell’atlantico settentrionale di venticinque idrovolanti partiti l’1 luglio 1933 e arrivati a Chicago e new York per poi tornare trionfalmente a Roma il 12 agosto. Si trattò di un successo clamoroso che «impose l’ae-ronautica come simbolo e sintesi di tutte le virtù tecniche e morali della nuova italia […]. La grande stampa e quella per i ragazzi, la scuola, la radio, il cinema davano largo spazio all’aviazione e il giovane pilota audace e fa-scinoso prendeva il posto del brillante ufficiale di cavalleria nei romanzi d’amore e nella stampa d’evasione» (Rochat 1986, pp. 135-136).

31 Melanco 2011, passim.

Il genere aviatorio italiano negli anni Trenta 59

Fig. 1. italo Balbo ai comandi del suo velivolo

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Fig. 2. illustrazioni di Luciano Serra pilota, “Supplemento mensile a ‘Cinema illustrazione’”, 45, 15 dicembre 1938, p. 11

61

3

SaLGaRi E iL CinEMa:aVVEnTURE inTERMEDiaLinEGLi anni DEL FaSCiSMo1

1. un padre per il romanzo d’avventura italiano

nel 1940 il figlio di Salgari, omar, pubblicava per l’editore Gar-zanti il volume Mio padre Emilio Salgari con l’autorevole prefazio-ne di Lucio D’ambra, accademico d’italia, che auspicava, tra gli onori da tributare allo scrittore nell’avvicinarsi dei trent’anni dalla sua morte, una «Edizione nazionale riscattata dal lungo uso e abu-so di non generosi editori»2. Si trattava di un’opportuna valoriz-zazione di Salgari anche allo scopo di farne uno scrittore fascista ante litteram, come scriveva ancora D’ambra:

quindi Emilio Salgàri è uomo d’oggi, scrittore fascista, grande nar-ratore italiano di quelli che non sofisticano sul loro ombelico mora-le, ma che si fanno guide, rivelatori, animatori della nuova gioventù, capitani, più giovani anche dei ragazzi, in testa alle nuove coorti in marcia verso l’italia imperiale e le sue sontuose vittorie nella guerra e nella pace, alla frontiera e nella fabbrica, nell’azione e nello spirito. […] Si celebra dunque con pieno diritto, e concordemente, in Emilio Salgàri, non già l’opera d’uno di quei grandi artisti letterarii i qua-li, rinnovatori di forme o scopritori di più profonde e liriche verità dell’anima umana, – ché queste non furono le sue ambizioni né le sue possibilità, – ma uno di quei generosi e pieni scrittori popolari che sovente sono «utili» ad una nazione anche più dei grandissimi artisti. […] al popolo – e c’è un popolo più popolo di tutti e sono i ra-gazzi, – non giunge che l’arte popolare, senza misteri, comunicativa ed affabile.3

1 il testo, con piccole variazioni, riprende De Berti c.s.2 D’ambra 1940, p. Xii. È da ricordare che l’anno prima lo stesso omar Sal-

gari insieme a Luciano De nardis, con prefazione di Lucio D’ambra, aveva curato l’edizione del volume Emilio Salgari. Documenti e testimonianze, Predappio, Edizioni Faro 1939.

3 D’ambra 1940, pp. V-XiV.

62 Il volo del cinema

nello stesso volume, lo scritto di Lucio D’ambra veniva ripreso da Varo Varanini in un’introduzione dedicata ai cenni biografici del padre di omar, nella quale insisteva sull’importanza dell’opera di Salgari per educare i ragazzi all’avventura, al «vivere pericolo-samente», per ricordare una frase di Mussolini, pronti a combat-tere per la patria e il fascismo4. non mancavano in questi cenni biografici i riferimenti all’attualità dei libri di Salgari in polemica con romanzi e film stranieri: «anche oggi sono letti dai nostri fi-gli con lo stesso interesse di un tempo. Ed è bene, anche perché essi fanno da contro-veleno – è la vera parola – a quella letteratura criminale-poliziesca, messa così inopportunamente in auge dal cinematografo e anche… da qualche editore»5. Risultava evidente, nelle parole di Varanini, l’allusione polemica ai film americani e al grande successo della collana dei gialli di Mondadori.

in realtà la discussione su Salgari, visto come autore fascista ante litteram per valorizzarne la memoria, era iniziata fin dal 1927-1928 con le accuse all’editore fiorentino Bemporad da parte di “il Raduno”, organo del Sindacato romano autori e scrittori, di aver sfruttato lo scrittore arricchendosi alle sue spalle e di essere mo-ralmente responsabile del suo suicidio6. Contemporaneamente si proponeva la realizzazione di un’edizione nazionale dell’opera di Salgari, senza però arrivare a concretizzarne il progetto, tanto che D’ambra rilanciava la proposta nel 19407.

Senza volere in questa sede ricostruire il lungo e complesso di-battito sui romanzi di Salgari nella diffusione della letteratura per bambini e ragazzi durante il regime, è giusto ricordare che non mancarono all’interno della cultura fascista, soprattutto negli anni

4 Varanini 1940.5 Ibi, p. 4.6 nel gennaio 1928 la Federazione fascista degli editori aveva incaricato una

commissione di verificare le responsabilità di Bemporad e nel marzo 1928 era stata votata contro l’editore una nota di biasimo per la scarsa sensibi-lità dimostrata alla morte di Salgari: cfr. Scotto di Luzio 1996, pp. 224-236. allo stesso volume si rimanda per una ricostruzione dettagliata di tutta la vicenda e per il suo uso strumentale, non solo legato al problema del diritto d’autore, ma volto a creare nuovi rapporti di forza all’interno del-la Federazione nazionale fascista dell’industria editoriale, indebolendo ovviamente Bemporad, alla vigilia dell’istituzione del libro di Stato per le scuole elementari.

7 Scotto di Luzio 1996, pp. 224-236.

Salgari e il cinema: avventure intermediali negli anni del fascismo 63

delle conquiste coloniali, voci critiche nei confronti del modello salgariano del romanzo d’avventure, giudicato più adatto all’italia umbertina e liberale tra la fine dell’ottocento e primi del novecen-to, per il suo alto tasso di romanticismo e per la scelta di protago-nisti liberi, lontani dai modelli di disciplina e di obbedienza alle leggi dello Stato. Per questo, negli anni Trenta si cercò di proporre una letteratura coloniale per ragazzi che, pur inevitabilmente de-bitrice per le ambientazioni esotiche al modello salgariano, pre-sentasse istanze educatrici e propagandistiche maggiormente in linea con il regime e le sue conquiste nelle terre africane per valo-rizzare l’opera “civilizzatrice” degli italiani. Si trattò di un tentati-vo evidente nei romanzi di diversi autori come Ernesto ambrosi, Giuseppe Fanciulli e alfredo Fabietti, per citare solo alcuni nomi, i quali dovevano tuttavia comunque confrontarsi sempre con il grande successo dell’immaginario salgariano, che era ancora do-minante fra i giovani lettori. Per questo, come scrive adolfo Scotto di Luzio, «il fascismo che esaltava e celebrava autori che l’avevano preceduto, non riusciva a suscitare una propria narrativa che fosse veramente popolare»8.

Ciò spiega la prefazione di Lucio D’ambra e la scelta di includere Salgari fra gli autori popolari pienamente in linea con i dettami del fascismo per rispondere, implicitamente, ad alcune critiche che lo vedevano come un modello educativo non pienamente risponden-te a quello fascista, nonostante il suo incontrastato successo fra i giovani lettori. Le argomentazioni e la retorica usate da D’ambra e Varanini nelle pagine introduttive venivano confermate anche dalle pagine seguenti, scritte da omar Salgari, che dedicava uno dei diversi brevi capitoli che componevano il volume a Cinema e romanzo d’avventura, cogliendo in entrambi i mezzi espressivi una stretta analogia nei modi di avvincere il lettore perché entrambi basati su

un susseguirsi ininterrotto di episodi, ciascuno dei quali presenta un interesse proprio e comporta il desiderio di conoscere l’episodio se-guente, in un crescendo d’intensa drammaticità, per concludere col

8 Ibi, p. 235. Sulla questione dell’educazione dell’infanzia e dei modelli pro-posti dal regime durante il periodo della conquista africana si veda anche Gibelli 2005, pp. 291-306.

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trionfo del protagonista sull’antagonista. L’avventura – scrive omar – è per sé stessa cinematografica […] e in fondo i romanzi salgariani sono soggetti cinematografici sviluppati in capitoli, ma procedendo a ritmo di fotogrammi narrati.9

Le osservazioni di omar si possono in buona parte condividere, anche se il modello di riferimento più prossimo era certamente il film d’avventura hollywoodiano, che annoverava opere come Cap-tain Blood (1935), diretto da Michael Curtiz con Errol Flynn, e la famosa serie dei film sonori di Tarzan interpretati da Johnny Weis-smuller a partire dal 1932 con Tarzan, the Ape Man (Tarzan l’uomo scimmia) di W.S. Van Dyke ii; e non certo il cinema italiano, in cui il genere avventuroso non era riuscito a decollare, così come fati-cava a prendere piede a livello popolare una letteratura per l’infan-zia nata sotto gli auspici del regime. Peraltro, nei libri di Salgari, pur nella loro originalità, si potevano individuare alcune influenze della letteratura inglese e americana, in particolare di autori come James Fenimore Cooper o Daniel Defoe10.

2. Il fumetto salgariano

il libro di omar Salgari rappresenta un interessante e utile in-dicatore culturale per capire l’intensa produzione di film adattati dai romanzi di Salgari fra il 1940 e il 1943, all’interno di quel più generale recupero mediatico di Salgari, sia come “autore fascista” prima del fascismo (Salgari infatti morì nel 1911), sia come modello italiano del romanzo d’avventure per ragazzi. il problema che si ponevano le istituzioni educative e di regime, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, era infatti quello di contra-stare i prodotti dell’industria culturale straniera, dalla letteratura ai film fino ai fumetti, che tanto successo riscuotevano presso i ragazzi (e non solo).

Pur non mancando, come si è detto, alcune riserve sulla funzio-ne pedagogica dell’opera di Salgari, questi era uno dei pochi autori nazionali popolari in grado di contrastare con efficacia il fascino

9 Salgari 1940, pp. 107-108.10 Si veda a questo proposito Lawson Lucas 2001.

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delle avventure provenienti dagli Stati Uniti. i romanzi di Salgari costituivano un potenziale serbatoio d’immaginario visivo esotico che si poteva sfruttare accreditandolo come autore fascista avant la lettre. non era certo un caso che il mondadoriano “Topolino” dall’inizio del 1936 avesse intrapreso con successo la pubblicazione del ciclo dei Pirati della Malesia, disegnati da Guido Moroni Celsi, formato da I misteri della jungla nera, Le Due Tigri, La Tigre di Mompracem e La riconquista di Mompracem (diventati nel 1938 i primi sette albi di Salgari sempre per Mondadori). inoltre, tra la fine del 1938 e il 1940, erano usciti a puntate, sulle testate “Pa-perino” e “Topolino”, con riduzioni di Federico Pedrocchi e tavole rispettivamente di Walter Molino e Bernardo Leporini, i fumet-ti di Il Corsaro Nero, La Regina dei Caraibi e Jolanda, la figlia del Corsaro Nero. i fumetti salgariani si affiancavano e tentavano di fare concorrenza, sulle medesime pubblicazioni, ai fumetti d’av-ventura e d’ambientazione esotica importati dagli Stati Uniti già nei primi anni Trenta, come Cino e Franco11, Tarzan e molti altri, anche se, come nel caso di Guido Moroni Celsi, erano «disegni alquanto statici, lontani dagli stili figurativi dominanti in quegli anni nei generi avventurosi statunitensi»12. il problema di contra-stare l’immaginario avventuroso di provenienza statunitense nei vari mass-media era divenuto sempre più pressante per il regime fascista verso la fine degli anni Trenta e aveva determinato il ten-tativo d’imporre prodotti italiani in sostituzione di quelli stranieri nel cinema come nel fumetto e nei romanzi popolari. Si trattava di una vera e propria strategia intermediale di sfruttamento delle opere di Emilio Salgari che coinvolgeva tutti i mezzi di comunica-zione.

11 La serie di avventure esotiche in africa di Cino e Franco (Tim Tyler’s Luck in originale), ideata da Lyman Young dal 1928, venne pubblicata su “Topo-lino” prima dall’editore nerbini (fino al numero del 4 agosto 1935) e poi da Mondadori quando acquisì la testata (i due personaggi, per differenziarsi, assunsero il nome di Tim e Tom). Lo stesso nerbini continuò a pubblicare le loro avventure fondando “il giornale di Cino e Franco”. Tra le prime e più note storie pubblicate dall’editore nerbini su “Topolino” si possono ricordare Sotto la bandiera del re della giungla (da maggio a ottobre 1933) e La pattuglia dell’avorio (da aprile a settembre 1934).

12 Restaino 2004, p. 278. Per maggiori informazioni sui fumetti si veda anche l’ottimo sito della Fondazione Franco Fossati (www.lfb.it; ultimo accesso: 26 gennaio 2012) e Gadducci, Gori, Lama 2011.

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3. La serie cinematografica

Concentrando l’attenzione sul cinema e sui film tratti da Salgari fra il 1936 e il 1942, la prima uscita in ordine di tempo fu Il Cor-saro Nero (1936) con la regia di amleto Palermi, che ottenne un buon successo di pubblico; ma si dovette aspettare la fine del 1940 per vedere uscire, nel giro di un paio d’anni, ben sette pellicole salgariane, più una rimasta incompiuta a causa della guerra13: La figlia del Corsaro Verde (1940) di Enrico Guazzoni, regista di gran-de esperienza che negli anni Dieci aveva diretto kolossal storici di grande successo come Quo Vadis? del 191314, e che realizzò pochi mesi dopo anche I Pirati della Malesia (1941); Le Due Tigri (1941) di Giorgio Simonelli; Il figlio del Corsaro rosso (1942) e Gli ultimi fili-bustieri (1942), entrambi di Marco Elter; Capitan Tempesta (1942) di Corrado D’Errico e infine Il Leone di Damasco (1942), iniziato da D’Errico e completato da Guazzoni.

La spinta decisiva a questa ripresa venne sicuramente dal bloc-co dei popolarissimi film americani di genere causato dalla legge alfieri del 1938 e perciò «L’opera di Emilio Salgari (autore che il fascismo rivendica come suo) si presta magnificamente a ricoprire questo vuoto e a riproporsi come via italiana all’avventura»15, come sosteneva nella citata prefazione Lucio D’ambra. il progetto mira-va a realizzare una sorta d’ibridazione fra il cinema hollywoodiano, la tradizione letteraria italiana e, come vedremo, anche cinemato-grafica del cinema spettacolare italiano degli anni Dieci. insomma era il tentativo di riprendere un modello straniero di cinema d’av-ventura, arricchito di componenti sensuali, ma sotto il segno di un adattamento nazionale.

Di fatto l’interesse per l’esotismo apparteneva, ovviamente, an-

13 Si tratta di I cavalieri del deserto / Gli ultimi Tuareg, che fu il primo film diretto da osvaldo Valenti.

14 Sull’attività cinematografica di Enrico Guazzoni cfr. Bernardini, Martinel-li, Tortora 2005.

15 Brunetta 1993, p. 186. Sul cinema avventuroso italiano dei primi anni qua-ranta, che riprende i romanzi di Salgari e imita i film come Captain Blood, si veda anche Campari 1980, pp. 140-147; più in generale sulle trasposizioni cinematografiche salgariane si veda il numero 15 della rivista “il Corsa-ro nero”, autunno-inverno 2011, fascicolo speciale dedicato a Salgari e il cinema. Sui film tratti dall’opera di Salgari e sulle interazioni con i film americani di genere degli anni Trenta rimando a De Berti 2010a.

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che a film non direttamente ispirati al ciclo salgariano, ma che lo ricordavano da vicino. Per esempio Senza cielo16, prima pellicola interpretata da isa Miranda al suo ritorno dagli Stati Uniti (e di-retta dal marito alfredo Guarini), che esce alla fine del 194017, era ambientato in un Mato Grosso ricostruito a Cinecittà, dove l’at-trice recitava, piuttosto discinta, la parte di amante ora di Gustav Diessl, ora di Fosco Giachetti, mentre nel cast figurava anche an-drea Checchi. La critica del tempo osservava acutamente – e non casualmente – come fossero presenti gli ingredienti fondamenta-li del filone, ossia i richiami tanto a hollywood quanto a Salgari. Scriveva ad esempio Renzo Renzi:

Senza cielo è fatto da gente che a hollywood ci è stata e che sa come si fa a fare i bei film, e lo viene a insegnare a quei provincialoni degli italiani. C’è la diva (nuda) che è isa Miranda […] Tutto è americano nel racconto: c’è di americana la tipologia degli attori e c’è pure tutto il resto, compreso il dialogo patinato […]. C’è di americana la rifini-tura generale del prodotto in scatola, nonostante che noi abbiamo contati circa una quindicina di errori di montaggio.18

Gli faceva eco Gino Visentini: «Senza cielo […] è un film quasi salgariano, soprattutto per l’ingenuità dell’intrigo e il carattere un po’ infantile dei personaggi»19. Un giovane Luigi Comencini, infi-ne, notava: «Lo scenografo Bilinsky ha ricostruito a Cinecittà una giungla vaporosa e terribile non inferiore a nessuna ricostruzione americana»20.

isa Miranda inaugurava con tutta probabilità il cliché della don-na senza veli, poco dopo utilizzato da Blasetti per Vittoria Carpi (La corona di ferro, 1941) e Clara Calamai (La cena delle beffe, 1942). in un vero e proprio reticolo intermediale anche anna Magnani, nella

16 Un ringraziamento va a Elena Mosconi, cui devo la segnalazione di Senza cielo.

17 La descrizione del soggetto, allegata al visto di censura rilasciato dal Mi-nistero della Cultura Popolare in data 20 novembre 1940, descrive il per-sonaggio di Regine, interpretato da isa Miranda, con le seguenti parole: «una donna bianca, seminuda, bellissima di una bellezza pericolosa come la foresta che la circonda».

18 Renzi 1940 (ora in Caldiron, hochkofler 1978, p. 90).19 Visentini 1940.20 Vice 1940.

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rivista Quando meno te l’aspetti, di Michele Galdieri, che debuttava a Roma il 25 dicembre 1940 al Teatro quattro Fontane, ammiccava alla Miranda in una scena in cui – presentandosi a Totò-ciabattino in una ricostruzione del cortile nel film San Giovanni Decollato – gli proiettava il «film con la favella»: «Men vo per la foresta / ch’è un orto, caro a te / con pochi fiori in testa / e nuda come che… / somiglio all’impudica / compagna di Tarzan»21.

Dunque l’esotismo salgariano nel cinema italiano dei primi anni quaranta faceva rima con un americanismo mediato da Tarzan e con un inedito erotismo.

Sul successo in italia dei film con protagonista il personaggio di Tarzan basta citare una recente testimonianza dello scrittore andrea Camilleri, che ricorda la propria esperienza di spettatore negli anni Trenta al cinema di Porto Empedocle in provincia di agrigento:

avevo undici, dodici anni quando cominciò il boicottaggio delle pellicole americane a favore della cinematografia italiana […]. Dopo circa quindici minuti di proiezione, il pubblico – composto in mag-gioranza da carrettieri e scaricatori di porto – cominciava a rumoreg-giare, per così dire. allora lo spettacolo veniva interrotto e spuntava la barbetta del signor Bezzano, il proprietario, che senza troppi giri di parole domandava: “che vulite?”. a richiesta generale la scelta po-teva cadere su tre film: un western di Tom Mix, un Tarzan con Weis-smuller o l’ambitissimo La vedova allegra di Lubitsch.22

inoltre, non va dimenticato che in molti romanzi di Salgari c’è un esplicito attacco al colonialismo inglese, che ben si adattava al periodo di guerra e alla propaganda politica dei primi anni qua-ranta, che i film riprendevano e amplificavano23.

21 Cfr. hochkofler 2001, pp. 37-39. Una parodia del personaggio di Tarzan, a ulteriore conferma della sua popolarità e presenza in media diversi, si trova nella messa in scena di una sgangherata rivista nel finale del film Il feroce Saladino (1937) di Mario Bonnard, che ha tra gli sceneggiatori proprio Mi-chele Galdieri: cfr. Valentini 2002, pp. 76-82.

22 Camilleri 2011, p. 10.23 Si rimanda a questo proposito a Cardillo 2010. Però il caso più evidente di

film storico contro gli inglesi è Il re d’Inghilterra non paga (1941) di Giovac-chino Forzano.

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4. L’esotismo salgariano nei film, tra Cabiria e Cinecittà

Ma vediamo ora di entrare nel merito delle pellicole, ricordando come l’accusa di staticità rivolta ai film salgariani del periodo, a partire dallo stesso Corsaro Nero, fosse un dato comune a quasi tutta la critica dell’epoca. Mi limiterò qui ad analizzare I Pirati del-la Malesia di Guazzoni, che consolidava la nuova via autarchica al genere avventuroso, e Le Due Tigri di Giorgio Simonelli, perché pensati come una serie in due puntate. Tra l’altro Giorgio Simo-nelli aveva il ruolo di direttore tecnico in Senza cielo e certamente, almeno in parte, riutilizzava le scenografie e le ambientazioni del film di Guarini, sempre con l’obiettivo di creare un vero e proprio genere avventuroso nazionale anche nella razionalizzazione eco-nomica della produzione.

La scelta di trasporre I Pirati della Malesia non era stata casuale, perché si trattava del romanzo che, pur seguendo La Tigre della Malesia con protagonisti Sandokan e Yanez, di fatto dava avvio all’intero ciclo di I Pirati della Malesia, incrociando il prosegui-mento delle loro avventure con quelle di Tremal-naik e Kamma-muri, che erano già stati protagonisti di I misteri della jungla nera pubblicati nel 1895 in volume. il film di Guazzoni, infatti, propo-nendosi di aprire una serie salgariana, fondeva due romanzi: I Pira-ti della Malesia e I misteri della jungla nera, quest’ultimo utilizzato in misura maggiore, raccontando principalmente la controversa storia d’amore fra Tremal-naik, interpretato da Massimo Girotti, e ada, interpretata da Clara Calamai (fig. 1), mentre rimanevano in secondo piano Sandokan (Luigi Pavese) e Yanez (Sandro Ruffini). omar Salgari, che aveva concesso i diritti d’adattamento di I Pirati della Malesia alla casa di produzione Sol Film, la citava in giudi-zio per essersi indebitamente appropriata anche di I misteri della jungla nera, le cui vicende, come si è detto, erano in buona parte riprodotte nel film24.

al di là delle vicende giudiziarie, che qui non interessano, è im-portante notare come la stessa Sol Film, con una mentalità tutta salgariana e da romanzo avventuroso d’appendice, girasse contem-poraneamente negli studi di Cinecittà Le Due Tigri, con la regia di Giorgio Simonelli e gli stessi attori per le parti dei tre protago-

24 Cfr. anonimo 1942.

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nisti (Tremal-naik, Sandokan e Yanez) e i medesimi scenografo (alfredo Montori), arredatore (Cesare Pavani) e costumisti (Gino Sensani e Maria De Matteis). Le Due Tigri era interamente incen-trato sul rapimento della piccola Darma, figlia di Tremal-naik, da parte della sanguinaria setta dei Thugs, devoti alla dea Kalí, e sulla lotta per liberarla da parte del padre, con il determinante aiuto di Sandokan, Yanez e dei loro “tigrotti”. i due film uscirono nelle sale cinematografiche a distanza di poco più di un mese l’uno dall’al-tro, rispettivamente il 19 ottobre 1941 I Pirati della Malesia e il 29 novembre Le Due Tigri.

Ma ritorniamo a I Pirati della Malesia. La pellicola di Guazzoni si apriva sul paesaggio esotico di una giungla chiaramente finta, ricostruita a Cinecittà, quasi uno scenario da film muto, con Mas-simo Girotti/Tremal-naik, che appariva a torso nudo con un fisico atletico e scattante, che ricordava nelle movenze Tarzan interpre-tato da Johnny Weissmuller25 (fig. 2), che, veduta ada mentre fa-ceva il bagno (la Calamai con i seni appena coperti dai lunghi ca-pelli), se ne innamorava immediatamente e cercava di liberarla dai Thugs, che l’avevano rapita quando era bambina. L’intreccio del film risultava però frammentato e un po’ confuso nello sviluppo narrativo e presupponeva uno spettatore che avesse già letto i ro-manzi di Salgari. nel film vi era una serie di elementi che rivelava chiaramente il modello di riferimento, da identificarsi, oltre che nei romanzi di Salgari e nelle sue versioni illustrate, nei fumetti d’avventura americani di ambientazione esotica, nella serie cine-matografica di Tarzan e nel kolossal storico del cinema italiano dei primi anni Dieci.

Fin dalle scene iniziali l’ambientazione esotica si legava alla tensione erotica con il gioco seduttivo e l’esibizione dei due corpi sensuali di Girotti e Calamai. Lei poco dopo avrebbe girato con Blasetti La cena delle beffe (1942), con il famoso seno nudo, che qui si intravvedeva solo nella prima inquadratura del film subito dopo i titoli di testa. Girotti, invece, aveva girato nello stesso anno

25 il personaggio di Tarzan viene inventato nel 1914 dallo scrittore americano Edgar Rice Burroughs e conosce una grande fortuna di pubblico anche nei fumetti (dal 1929) e nel cinema. L’elenco degli interpreti dei film fin dal cinema muto è lungo, ma il più famoso è Johnny Weissmuller, campione olimpionico di nuoto, che debutta nel 1932 con Tarzan l’uomo scimmia (Tarzan, the Ape Man) di W.S. Van Dyke ii.

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La corona di ferro, che era uscito praticamente in contemporanea con I Pirati della Malesia, nel quale il suo personaggio di arminio presentava, fra le altre, alcune delle caratteristiche di un Tarzan vissuto in epoca medioevale, come il fatto di essere cresciuto nella foresta allevato dai leoni.

Se però si mette a confronto la sequenza dell’incontro “sedutti-vo” fra Girotti/Tremal-naik e Calamai/ada lungo il fiume nella fo-resta con una famosa sequenza analoga di Tarzan l’uomo scimmia, che è l’evidente modello di riferimento, i cui protagonisti sono l’in-genuo Weissmuller/Tarzan e la maliziosa o’Sullivan/Jane, risulta palese la superiorità del film americano nella sceneggiatura del-le situazioni e dei dialoghi, nella costruzione dello spazio filmico con i relativi movimenti della macchina da presa e nel ritmo nel montaggio. Ciò non solo determinava le critiche di staticità ai film italiani d’avventure, ma spiegava anche come mai il pubblico na-zionale, che fino al 1938 era stato un grande divoratore di film ame-ricani, ben difficilmente potesse essere soddisfatto da una pellicola costruita secondo un linguaggio cinematografico ormai superato, che aveva ancora come modello stilistico il film storico muto ita-liano e specificatamente Cabiria (1914)26 di Giovanni Pastrone. Dal modello Cabiria veniva ripresa pari pari, anche se in termini più modesti, la famosissima scena della Sinfonia del Fuoco, nella qua-le, nel tempio del dio Moloch, i devoti riuniti stanno per sacrificare la piccola Cabiria, che è salvata all’ultimo momento dal “forzuto” Maciste e dal nobile romano Fulvio axilla. in I Pirati della Malesia la scena si svolgeva all’interno del tempio della dea Kalí, dove ada era costretta a officiare come sacerdotessa del rito sacro dei Thugs e veniva liberata dalla coppia Tremal-naik - Kammamuri, penetra-ta di nascosto nel santuario. L’inquadratura, la messa in scena, il movimento, pur breve, di carrello erano “alla Cabiria”. Ma se in Ca-biria racconto e spettacolo s’integravano perfettamente, il film di Guazzoni risultava un Cabiria povero, nel quale lo spettacolo era assente e la già scarsa integrazione narrativa soffriva anche della lentezza del ritmo.

qui Girotti/Tremal-naik, dall’iniziale Tarzan nella giungla, quando prendeva in braccio ada e fuggiva inseguito da una folla di Thugs, passava direttamente al Maciste del tempio di Moloch in

26 Tra i tanti studi su Cabiria si veda Cabiria & Cabiria 2006.

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Cabiria. Peraltro Kammamuri (Camillo Pilotto), il fedele servitore di Tremal-naik, lo definiva forte e coraggioso, doti perfettamente in sintonia sia con Tarzan sia con Maciste, in questo semplice gioco di sincretismo fra popolarissimi personaggi del cinema americano e italiano: Girotti doveva essere un po’ Tarzan e un po’ Maciste. Del resto, nel cinema italiano in regime autarchico, che cercava d’imporre attori nazionali in sostituzione di quelli d’oltreoceano, Girotti era visto da molti critici come «un tipo all’americana» per le sue doti atletiche, rivelate dall’interpretazione di arminio in La corona di ferro27. nello stesso tempo, non era difficile pensare a continui e circolari rimandi intermediali: ad esempio, la scena della Sinfonia del Fuoco nel tempio di Moloch in Cabiria era stata a sua volta influenzata, secondo molti critici28 dalle descrizioni e dalle ambientazioni, nei romanzi di Salgari, delle cerimonie sacri-ficali dei Thugs per Kalí. infatti, al di là delle trasposizioni dirette, il mondo esotico ed avventuroso salgariano circolava ampiamente nel cinema italiano già dagli anni Dieci, anche grazie a letterati che svolgevano l’attività di sceneggiatori29. in conclusione, Guaz-zoni tentava con I Pirati della Malesia di coniugare la linea della tradizione cinematografica italiana di Cabiria (e dei kolossal sto-rici degli anni Dieci di cui egli stesso era stato uno dei principali autori) con quella esotico-avventurosa della letteratura salgariana e del cinema americano di genere, senza dimenticare un pizzico di erotismo con la Calamai e Girotti, il cui corpo appariva sicuramen-te più seduttivo di quello da gigante buono di Maciste. L’idea sem-brava funzionare, ma il risultato era però assai modesto: in primo luogo per la frammentazione della diegesi, dovuta forse anche alla fusione di due romanzi. Poi, le scene risultavano poco spettacolari, povere e abbastanza statiche rispetto al dinamismo dei film ame-ricani ai quali il pubblico si era ormai abituato. infine, si perdeva completamente quella fascinazione esotica e un po’ pedagogica presente nei romanzi di Salgari con la descrizione di fauna e flora

27 Un ritratto di Massimo Girotti che evidenzia le sue doti fisiche simili a quelle degli attori americani è in PUK 1942.

28 ad esempio, della specifica influenza di Cartagine in fiamme (1906 e 1908) di Salgari su Cabiria si è molto discusso con posizioni critiche divergenti e che negli ultimi anni tendono a ridimensionare fortemente l’apporto del romanzo al film: si veda Curreri 2012.

29 a questo proposito rimando allo studio di alovisio 2005, pp. 78-86.

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tropicali, di fenomeni atmosferici come uragani e monsoni, o di costumi religiosi e sociali degli indiani. Le stesse critiche del tem-po individuavano i gravi limiti del film e la difficoltà di far concor-renza agli Stati Uniti nel cinema d’avventura:

il nostro cinema è, per un complesso di ragioni, nuovo, e perciò im-preparato al film d’avventura. Bisognerà pensarci parecchio, per farsi la mano, per entrare nello spirito e nella tecnica di questo singolare, e tutt’altro che facile, genere. […] Clara Calamai si piazza definitiva-mente come la nostra Dorothy Lamour.30

Se Guazzoni era visibilmente legato a un modo di fare cinema ormai superato e ancora vicino al muto, Simonelli, regista del se-guito Le Due Tigri, pur utilizzando le medesime ambientazioni – ad esempio la scena iniziale nel tempio della dea Kalí – otteneva risultati leggermente migliori dedicando spazio anche alla descri-zione dei costumi e dei riti indiani e alla natura, che diventava pro-tagonista per le conseguenze di un uragano nella giungla.

La narrazione qui si presentava più lineare e trasparente nel suo sviluppo e, in generale, il film appariva più vicino all’ispirazione dei romanzi salgariani, rimanendo però sempre decisamente infe-riore nei risultati ai migliori film d’avventura americani, non ba-stando certo un maggior ritmo nel montaggio e la scena madre con il duello a colpi di scimitarre a fare di Le Due Tigri un Tarzan o un Captain Blood o un Robin Hood italiano. il finale, come nella tradizione dei serial, rimaneva aperto a nuove storie, con la nave di Sandokan che faceva rotta verso il mare aperto, ma non ci furono ulteriori episodi della serie di I Pirati della Malesia.

a raccogliere la sfida di creare un genere avventuroso di cappa e spada, da una parte in concorrenza e a imitazione di quello statu-nitense, e dall’altra con uno stile italiano facilitato in questo caso dal ricorso a Salgari, provò anche una casa di produzione come la Scalera Film, molto attiva nei primi anni quaranta. La scelta della Scalera cadde su un breve ciclo di due romanzi di Salgari: Capitan Tempesta e Il Leone di Damasco, incentrati entrambi sulla guerra fra Venezia e i Turchi nella seconda metà del Cinquecento e sugli assedi delle città cristiane, rispettivamente, di Famagosta e di Candia. Pur

30 F.S. 1941. La critica è riportata anche in Savio 1975, p. 271.

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senza soffermarsi su questi due film, si può dire che la via italiana al genere cinematografico avventuroso, pur non mancando intuizioni interessanti di “adeguamento” a uno stile internazionale, risultava sostanzialmente fallimentare nella sua incertezza fra il modello hol-lywoodiano (più pensato che realizzato) e quello nazionale, ancora in buona parte fermo alla stagione del muto, come si è già detto e come notava all’epoca Giuseppe De Santis in un lapidario giudizio che accomunava Le Due Tigri e Capitan Tempesta: «Una desolan-te tristezza ci ha colto nel vedere questi film, soprattutto perché nessun rapporto essi hanno con i nostri sentimenti dell’infanzia e tanto meno con quelli di oggi. […] qui, siamo ancora alla fase di esperienza che produsse nel 1913 opere come Cabiria, Quo Vadis?, Messalina»31. De Santis, pur probabilmente poco interessato a que-sto cinema, coglieva nel segno sottolineando l’incapacità di gran parte dei produttori e dei registi italiani di liberarsi di un modello di film spettacolare e d’azione “alla Cabiria”, senza capire che il grande consumo di cinema hollywoodiano aveva già trasformato in profon-dità lo spettatore nazionale che si era abituato, soprattutto, a ritmi narrativi più incalzanti, “all’americana”.

insomma, il film d’avventure italiano aveva bisogno di maggior ritmo e forse anche di seduzioni tecnologiche moderne: la lenta navigazione delle imbarcazioni dei pirati della Malesia non poteva ormai più competere con la fulminea velocità dell’aereo. Per que-sto il miglior film italiano d’avventure, che più di tutti si avvicinava a un ritmo hollywoodiano, e che sarebbe potuto arrivare ad essere un modello autarchico, fu senza dubbio Luciano Serra pilota32.

Per contro, la ricognizione in ambito cinematografico del genere d’avventura testimonia come l’immaginario letterario salgariano fosse rimasto un imprescindibile punto di riferimento per dare un volto e concepire storie ambientate in un “altrove” misterioso e non ancora ben conosciuto, non solo – come si è qui cercato di mettere in luce – nel cinema italiano, ma nelle cinematografie di numerosi Paesi, e soprattutto in quella hollywoodiana. Ma questa è, in fondo, un’altra storia, tutta da scoprire.

31 De Santis 1942.32 Su Luciano Serra pilota rimando al capitolo 2 in questo stesso volume e a

De Berti 2009a.

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Fig. 1. Clara Calamai come ada in I Pirati della Malesia (Enrico Guazzoni, 1941)

Pagina successiva. Fig. 2. Figurina di Johnny Weissmuller come Tarzan in Tarzan, l’uomo scimmia (Tarzan, the Ape Man) di W.S. Van Dyke ii, 1932

Parte IIMiti d’importazione:

il fascino dell’America

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Una DoPPia iDEnTiTà CULTURaLE.La MEMoRia PoPoLaRE iTaLiana

Di RoDoLFo VaLEnTinoTRa BioGRaFia E CinERoManzi

DELLa CaSa EDiTRiCE“GLoRioSa” ViTaGLiano (1926-1927)1

1. Rodolfo o Rudolph. Valentino italiano o americano?

il grande interesse dell’editoria nazionale italiana per Rodolfo Valentino esplode nell’agosto del 1926, dopo la sua morte. Tutta-via, come ben documentato dalla raccolta di testi italiani curata da Silvio alovisio e Giulia Carluccio2, cui si rimanda per una panora-mica completa, anche tra il 1923 e 1925 si segnalano alcune pubbli-cazioni che fanno riferimento al problema dell’italianità del divo, che costituisce l’oggetto del presente contributo.

in realtà, con Valentino si è davanti a un caso problematico e ambiguo: quello di una doppia identità culturale, italiana e ameri-cana, che spesso rimanda, più o meno esplicitamente, anche a una identità sessuale ambigua. nelle biografie e nei vari scritti sull’at-tore è frequente trovarsi davanti a una doppia opzione: da una par-te Valentino è l’immigrato che ha realizzato i sogni di successo con cui era sbarcato a new York e che è diventato americano – non a caso richiederà la nazionalità statunitense nel 1925; ma dall’altra parte, nel profondo del suo cuore, nei tratti della sua personalità come in quelli fisionomici, l’attore rimane un italiano. i toni posi-tivi o negativi circa i caratteri americani acquisiti, o quelli italiani innati, cambiano a seconda della nazionalità dell’autore del testo. Se in italia si critica il Valentino che vuol fare, o meglio: diventare americano, negli Stati Uniti lo si attacca proprio per le sue origini italiane, cui si associa una serie di caratteri negativi. anche nel caso delle biografie romanzate, generalmente elogiative perché funzio-

1 il testo riprende con qualche piccola variazione De Berti 2010b.2 Intorno a Rodolfo Valentino 2009.

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nali all’industria hollywoodiana, Valentino viene a essere distinto, rispetto alla massa dei compatrioti immigrati, ricordando le sue origini nobili e la madre francese: ciò giustifica la sua capacità di affascinare le donne e di imporsi – in modo più generico – come «latin lover»3.

analizzando la stampa statunitense del tempo, Miriam hansen ha osservato come

dalle accuse nativistico-razzistiche, l’opposizione maschile/femmi-nile fu collegata ad un’altrettanto rigida opposizione americano/non americano, che a sua volta fu associata a termini polari come natura-le vs. artificiale, sé autentico vs. mascheramento.4

Se hansen ha evidenziato tutte le ambiguità e i pregiudizi con-nessi alla figura divistica di Valentino nel contesto americano, tali da mettere «in discussione l’idea stessa di un’identità sessuale fissa»5, collegata a quella etnico-razziale, può essere qui interes-sante analizzare anche il problema opposto, ovvero il punto di vista della stampa d’oltreoceano, concentrando l’attenzione sulla doppia identità italo-americana di Rodolfo/Rudolph Guglielmi/Valentino, attraverso alcuni casi esemplari.

Prima di tutto è necessario ricordare che, in concomitanza con la richiesta di cittadinanza americana da parte di Valentino risa-lente al novembre 1925, in italia, tra la fine dello stesso anno e i primi mesi del 1926, si registrano il boicottaggio dei suoi film in diverse città italiane e alcuni attacchi violenti sulla stampa, che lo accusano di rinnegare le sue origini: tutto però rientra, come vedremo, già prima della sua morte in agosto.

Come si è detto, la morte di Rodolfo Valentino scatena un vero boom editoriale con «oltre una quindicina di volumi e opuscoli (a volte costituiti da non più di una ventina di pagine) interamen-

3 a questo proposito rimando alle osservazioni in Bertellini 2010, pp. 234-235. Per quanto riguarda il problema dell’italianità di Valentino nel con-testo culturale degli Stati Uniti attraverso lo studio della stampa della comunità italo-americana del periodo si veda il fondamentale Bertellini 2005. Più in generale sugli scambi cinematografici tra italia e Stati Uniti si rimanda a Muscio 2004.

4 hansen 2006 [1991], p. 223.5 Ibi, p. 228.

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te dedicati alla vita e alle più celebri interpretazioni del divo»6. Si tratta, quasi sempre, di biografie scritte velocemente e di scarsa autorevolezza:

[riprendendo] fonti di terza o quarta mano infarcite di pettegolez-zi il più delle volte inventati, […] e firmate da oscuri poligrafi dagli pseudonimi poco credibili (hugo de america, ivan Pissilenko, Li-curgo Serradifalco...), gli opuscoli della tormentata vita amorosa di Rudy sono tuttavia una fonte decisiva per comprendere le modalità con cui il mito di Valentino fu socialmente interpretato e divulgato in ambito nazionale.7

alle biografie, ai cineromanzi e alle trasposizioni letterarie dei film interpretati da Valentino si aggiungono poi articoli di attua-lità e di genere vario nonché traduzioni. È questo il caso di una biografia francese, abbastanza fantasiosa, di Edouard Ramond, La Vie amoureuse de Rudolph Valentino. Le Roman d’une étoile, pub-blicata dalle edizioni Librairie Baudinière di Parigi nell’ottobre del 1926 (fig. 1) e immediatamente tradotta in italiano dalla casa edi-trice Mondadori con il titolo ridotto di La vita amorosa di Rodolfo Valentino. il libro esce nel dicembre 1926 come una vera e propria strenna natalizia al prezzo di 9 lire, ben differenziandosi per costo e qualità editoriale dalle altre pubblicazioni più popolari, come i volumi della casa editrice “Gloriosa” Vitagliano8 dedicati ai film e alla vita di Valentino, il cui costo era di sole 4 lire. Mondadori pub-blicizza il volume sul proprio settimanale “il Secolo illustrato” con una fotografia di Valentino in primo piano e lo slogan: «Rodolfo Valentino fu felice in amore? È quanto saprete leggendo: La vita amorosa di Rodolfo Valentino di Edward E. Redmount, il noto e brillante giornalista amico personale del celebre attore»9. Come si può immediatamente cogliere, si tratta di una pubblicità ingan-nevole, perché l’autore della biografia viene accreditato come un

6 Intorno a Rodolfo Valentino 2009, p. 10.7 Ibidem.8 nel periodo 1926-1927 il nome dell’editore che compare sulle pubblicazioni

è precisamente: «“Gloriosa” casa editrice italiana Edizioni Vitagliano», che qui, per non perdersi tra le varianti del nome e per brevità, si è sintetizzato in “Gloriosa” Vitagliano, anche se in alcuni casi può comparire solo uno dei due nomi.

9 Cfr. “il Secolo illustrato”, 2 gennaio 1927, p. 15.

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fantomatico amico di Valentino, dal nome anglicizzato (Edward anziché Edouard) e dal cognome storpiato (Redmount in luogo di Ramond) perché possa apparire come americano e dunque come testimone più diretto e credibile delle vicende amorose statuniten-si dell’attore.

il libro, invece, riporta in copertina correttamente il nome di Edouard Ramond, il quale, sull’onda del successo in Francia di La Vie amoureuse de Rudolph Valentino (40.000 copie la prima edi-zione, presto esaurita e ristampata), nel 1927 pubblica per lo stesso editore La Passion de Charlie Chaplin. Sull’identità francese di Ra-mond non ci sono dubbi, anche perché aveva già scritto volumi di un certo successo commerciale come Histoires Marseillaises, men-tre in nessun catalogo di biblioteche nazionali americane, francesi e inglesi risulta il nome di Edward E. Redmount10 e tanto meno una biografia di Valentino con il titolo citato. il fatto che anche un editore importante come Mondadori entri a far parte, pur limitata-mente alla campagna di lancio del volume, del gioco di ambiguità e di falsi testimoni su Valentino per accreditarne un maggior grado di attendibilità, rende del tutto secondaria la ricerca del grado di autenticità delle biografie – impresa peraltro non sempre facile e contraddittoria – in rapporto all’analisi dei problemi che una figu-ra come Valentino creava nel contesto sociale, culturale e politico dell’italia della seconda metà degli anni Venti.

Tenendo al centro dell’analisi il problema della doppia iden-tità italiana/americana di Valentino, e confrontando l’originale francese della biografia di Ramond con la relativa traduzione italiana, si possono cogliere alcune interessanti differenze, già a partire dall’uso del nome italiano Rodolfo o di quello ameri-cano Rudolph. L’autore francese opera una scelta molto chiara circa l’identità di Valentino utilizzando il nome italiano Ro-dolfo quando racconta la vita europea (in italia e a Parigi) del futuro divo, mentre adotta il nome di Rudolph per tutta la par-te americana e quando si parla di lui come attore. L’intento di Ramond non è certo casuale, dal momento che egli considera l’attore come un divo americano di origini italiane, alla stregua

10 Si sono consultati, oltre ai cataloghi italiani, i cataloghi online della Li-brary of Congress, della British Library e della Bibliothèque nationale de France.

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di tanti altri attori nati in Europa ma entrati a far parte di uno star-system, come quello hollywoodiano, che vive e si rivita-lizza anche grazie alle differenti origini nazionali − benché, come in questo caso, possano creare problemi e contrastanti giudizi nella società statunitense. Ma se per un francese il mu-tamento di nome appare come un dato acquisito, ciò non è in-vece accettabile in italia: la traduzione del volume, per il resto sostanzialmente fedele all’originale, azzera questa differenza, adottando sempre il nome Rodolfo, tranne in un solo caso par-ticolare che vedremo.

Passiamo ora al confronto, per passi esemplari, tra l’edizione francese e quella italiana.

Un primo passo interessante fa riferimento al momento in cui il futuro attore Valentino, che sarà amato da folle di donne, si di-stacca da Bettina, il suo fantasioso presunto primo amore italiano; il testo francese usa prima Rodolfo e poi però Rudolph quando lo identifica con il divo che diventerà:

il ne restait plus à Rodolfo et à la jeune fille qu’à pleurer leur rêve d’amour: enfermé dans son collège, Rodolfo obtint à grand peine de courir jusqu’ à la gare étreindre celle qui avait incarné pour lui, dans la sublime fraîcheur du printemps de sa vie, la Femme, le Désir, l’amour, celle dont, tout le séparé d’elle… Touchant symbole de ce que devaient être, à des années de distance, la foule innombrable des jeunes filles, des femmes, qui sous toutes les latitudes, dans tous les pays, rêveraient de Rudolph et l’aimeraient, pour avoir vu, sur l’écran, sa silhouette impalpable et charmante.11

La traduzione italiana, invece, non distingue e usa sempre il nome Rodolfo:

alla giovinetta e a Rodolfo non restava più che piangere sul loro so-gno d’amore. Chiuso sempre nel suo collegio, Rodolfo poté con gran stento ottenere di correre alla stazione per abbracciare quella che aveva incarnato per lui, nei giorni più primaverili della sua esistenza, la Donna, il Desiderio, l’amore, quella che avrebbe poi invano cer-cato per tutta la sua vita, quella che lo aveva amato, sebbene tutto la separasse da lui… Simbolo commuovente e gentile di ciò che doveva

11 Ramond 1926a, p. 51.

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essere, ad anni di distanza, la folla innumerevole delle giovinette, delle donne che, sotto tutte le latitudini, in tutti i paesi, avrebbero sognato di Rodolfo, e l’avrebbero amato per aver visto sullo schermo la sua cara figura fuggevole, seducente, irreale.12

il fatto che si sia davanti a due strategie comunicative diverse, delle quali non importa sapere quanto siano consapevoli o meno, è dimostrato da altri esempi sempre coerenti fra loro, come il mo-mento in cui si narra della partenza di Rodolfo Guglielmi verso la California per entrare nel mondo del cinema e la conseguente decisione di assumere lo pseudonimo di Valentino:

Par une touchante dévotion d’amour filial, Rodolfo aborde une vie nouvelle sous les auspices du nom de sa mère, la tendre dona Valen-tina d’antonguolla.Le futur Sheik est né: et c’est lui qui s’achemine vers la Californie: Rudolph Valentino.[…] Rudolph Valentino doublant Rodolfo Guglielmi se trouva de nouveau isolé sur l’asphalte de la capitale de l’ouest comme voici deux ans sur le pavé de new-York. 13

ancora una volta, se l’originale francese distingue fra il giovane italiano devoto figlio (Rodolfo) e l’attore (Rudolph), la traduzione italiana non opera alcuna differenza:

Per un senso di dolce devozione filiale egli inizia una nuova vita sotto gli auspici del nome di sua madre, la tenera donna Valentina d’an-tonguolla.il futuro Sceicco è nato; ed è lui che s’avvia verso la California: Ro-dolfo Valentino.[...] Rodolfo Valentino, col suo intimo amico Rodolfo Guglielmi, si trovò di nuovo isolato sull’asfalto della capitale dell’ovest, come due anni prima nelle strade di new-York.14

Ed ecco, infine, il momento in cui Rodolfo Guglielmi viene can-cellato per far vivere solo, e per sempre, Rudolph Valentino:

12 Ramond 1926b, pp. 60-61.13 Ramond 1926a, pp. 107-109.14 Ramond 1926b, pp. 125-128.

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Le lendemain matin, Rodolfo Guglielmi, agronome, était rayé à jamais du nombre des vivants. Seul subsistait Rudolph Valentino, danseur, comédien et futur movie…La persuasive éloquence de norman Kerry avait agi de façon irrési-stible sur l’imagination du Rudolph. Sa détermination était prise. Sans attendre vingt-quatre heures, il quitterait San Francisco pour l’étape décisive vers l’objectif qu’émigrant de toujours il s’était fixé.15

nella versione italiana Rodolfo Guglielmi diventa semplicemen-te Valentino, ma la conservazione del nome di battesimo, Rodolfo, garantisce un passaggio che non cancella l’identità italiana origi-naria, bensì la mantiene come radice profonda anche nei nuovi panni di Valentino:

La mattina dopo, l’agronomo Rodolfo Guglielmi era cancellato per sempre dal numero dei vivi. Solo esisteva Rodolfo Valentino, dan-zatore, attore e futuro movie, o cineasta.La persuasiva eloquenza di norman Kerry aveva agito in modo irre-sistibile sull’immaginazione di Rodolfo. La sua decisione era presa: senz’aspettar ventiquattr’ore, avrebbe lasciato San Francisco per la tappa decisiva verso la mèta che l’emigrante s’era, in fondo, sempre prefissa.16

Certo si potrebbe obiettare che in fondo l’uso di Rodolfo sia do-vuto più semplicemente all’abitudine di tradurre spesso anche i nomi propri stranieri, tanto più se di persone di nascita italiana, o alla censura fascista contraria all’uso di parole di lingue estere (peraltro presenti nel volume, come movie usato nella citazione precedente; inoltre nel 1926 non si ha ancora una direttiva precisa del regime in questo senso); ma a contraddire questa ipotesi c’è proprio un’occorrenza in cui viene, non a caso, lasciato il nome Rudolph anche nella traduzione italiana, così come nel testo fran-cese. Mettiamo a confronto le due versioni dello stesso passaggio narrativo che riguarda la vita di Valentino a Parigi prima di partire per l’america:

15 Ramond 1926a, p. 117.16 Ramond 1926b, p. 137.

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Plus tard, quand il y songeait, Rodolfo, même devenu l’illustre Ru-dolph, était bien empéché de garder rancune à Paris.17

questa volta la traduzione italiana rispetta la differenza dell’ori-ginale:

Più tardi, quando ci ripensava, Rodolfo, divenuto l’illustre Rudol-ph, non riusciva proprio a serbar rancore contro Parigi.18

Si possono perciò scartare sia l’ipotesi della censura, sia quella del refuso, perché è abbastanza evidente che in questo caso l’uso dell’aggettivo «illustre» ha una funzione ironica che si vuole asso-ciare all’identità americana dell’attore (Rudolph), prendendone le distanze, e non a quella positiva italiana (Rodolfo)19.

Se nella traduzione di un’opera di grande successo dovuta a un editore di rilievo come Mondadori si possono riscontrare evidenti segni di una strategia di adattamento e di valorizzazione positiva dell’identità italiana di Valentino20, è ora interessante andare a ve-

17 Ramond 1926a, p. 69.18 Ramond 1926b, p. 82.19 L’unico caso significativo di censura, o autocensura, della traduzione si

riscontra in riferimento a uno scontro avvenuto tra immigrati italiani fa-scisti e antifascisti per vegliare la salma dell’attore. questa la parte tagliata: «Le lendemain, les journaux reproduisent un message du dictateur italien. ‘Rodolfo Valentino a plus contribué à consolider l’amitié traditionnelle des Etats Unis et de l’italie que tous les ambassadeurs et diplomates envoyés par l’italie dans ce pays…’. Le lendemain vingt-cinq fascistes, drapeaux en tête, viennent honorer la dépouille de Rudolph du salut fasciste. Et, contrepartie inévitable, l’alliance antifasciste de l’amérique du nord lance un manifeste de protestation. Elle dispute la mémoire de Valentino aux partisans du Duce; des controverses s’engagent, des rixes ont lieu. La po-lice doit constituer une garde du corps à la garde fasciste… Et tant d’excès déclenchent des mouvements d’opinion hostiles à Valentino» (Ramond 1926a, p. 230).

20 Tra le varie pubblicazioni del periodo si può ricordare almeno la lunga bio-grafia (di quasi trecento pagine) pubblicata da Licinio Cappelli di Bologna nel 1927 dal titolo Rodolfo Valentino. Cavaliere dell’amore, nei ricordi di una donna che amò e fu riamata dal celebre “divo” dello schermo, firmata da una fantomatica baronessa Sarah Weskaja che sarebbe stata amante di Valen-tino. Come scrive in una nota l’editore all’inizio del volume, «Si tratta di una lunga difesa della vita e delle gesta di Rodolfo Valentino». Una difesa appassionata anche della sua italianità, oltre a quella della sua mascolinità, come è evidente in queste righe: «V’è però nella lettera di Valentino, che ho

una doppia identità culturale 87

rificare quanto avviene nelle pubblicazioni a basso costo diffuse all’interno del mercato italiano da un editore popolare come “Glo-riosa” Vitagliano fra il 1926 e il 1927. La casa editrice fondata nel 1920 da nino Vitagliano ed Enrico Cavacchioli, dopo alcune vicis-situdini societarie e difficoltà economiche, a partire dal 1924-1925 si rivolge a un pubblico decisamente popolare, facendo leva soprat-tutto sulla pubblicazione di periodici illustrati come il settimanale di attualità “Excelsior”, la rivista “Cine-Cinema” e alcune collane di fascicoli o veri e propri libri dedicati a cineromanzi, ossia alla trasposizione letteraria di film di successo, o alle biografie dei divi del cinema come “Le Grandi films” (supplemento quindicinale di “Cine-Cinema”), “Romanzi films” e “i grandi artisti del cinema”21.

sopra riportata, un fiero accenno alla sua qualità di italiano, di cui egli era orgoglioso. […] Dico questo perché c’è stato, a proposito della cittadinanza americana che Rudy fu costretto ad assumere per tutelare i suoi interessi, un dilagare di ingiuste accuse: Rudy si gloriò sempre di essere italiano, e, nell’assumere la cittadinanza del Paese che gli dava onori e ricchezze, non rinnegò la sua Patria che amò in sommo grado, che amò, e cercò anche di servire in guerra […] Perciò l’omaggio del Duce dell’italia, che volle tribu-targli una corona di fiori, fu ben meritato: Cavaliere dell’amore, sì, ma ca-valiere sempre e in tutto, senza macchia e senza paura. […] Per noi italiani, come per l’america e per il mondo intero, Rodolfo Valentino rappresentava tutta la grazia virile, la maschia eleganza, la delicatezza appassionata, la forza gentile, il romanesco e il sentimento di un’antica razza di uomini e di una antica vita. Ritrovavano sul suo viso e nel suo gesto tanta italia, che nessuna parola saprebbe dire. […] La sua forza di seduzione era in questa tipica emanazione di italianità, che insinuava negli spiriti stranieri indefi-nite rivelazioni di una squisita sensibilità latina» (Weskaja 1927, pp. 5, 281, 287). Si veda anche, per l’insistente rivendicazione dell’italianità dell’atto-re, la biografia anonima, uscita appena dopo la morte (anonimo 1926a), che presenta in copertina sotto la fotografia del divo la frase «Le ultime parole del morente: ‘L’ italia, mia diletta patria, è sempre stata a l’apice dei miei pensieri’».

21 Per maggiori approfondimenti sulla storia della casa editrice “Gloriosa” Vitagliano si rimanda a Carotti 2007a.

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2. Rodolfo Valentino secondo Ivan (Iwan) Pissilenkodella casa editrice “Gloriosa” Vitagliano

il primo numero del rotocalco “Excelsior” della “Gloriosa” Vi-tagliano esce nel mese di ottobre 1926 e rende omaggio a Rodolfo Valentino pubblicando, a tutta pagina, una bella foto ritratto (ri-presa dalla rivista “Cine-Cinema” dello stesso editore) accompa-gnata dalla didascalia

il grande attore cinematografico italiano giudicato “l’uomo più bello del mondo” morto a new York a soli trentadue anni, fra il più vivo e generale compianto specie nel sesso femminile che lo amava con vera idolatria.22

La casa editrice milanese, con una strategia comunicativa mol-to attenta e capillare, sta preparando una serie di pubblicazioni sull’attore e i suoi film per sfruttare al massimo da una parte la commozione per la morte del divo e dall’altra la risonanza data dall’uscita in molte sale delle pellicole interpretate da Valentino23. infatti, la stessa rivista “Excelsior”, passata da mensile a settimana-le, nel numero del 17 marzo 1927 reclamizza ben tre pubblicazioni che riguardano l’attore: la biografia Rodolfo Valentino. La vita – gli amori. Le migliori films, e due cineromanzi tratti dai film L’Aquila Nera e Notte Nuziale. Sempre nel 1927 esce anche, per lo stesso editore, un altro cineromanzo, Il figlio dello sceicco. a firmare tre di questi volumi è ivan (con grafia iwan in alcuni casi) Pissilenko, pseudonimo di antonio Franco zicàri24, un collaboratore assiduo della “Gloriosa” Vitagliano, dato che diversi suoi articoli sul cine-ma si trovano anche in “Excelsior”. Per il cineromanzo L’Aquila Nera, invece, viene indicato come autore alessandro Pouchkine25,

22 “Excelsior”, ottobre 1926, p. 16.23 Se si confrontano le date delle recensioni italiane a L’Aquila Nera, Cobra,

Il figlio dello sceicco e Notte Nuziale (pubblicate da Vittorio Martinelli nell’antologia sul cinema americano negli anni Venti e la critica italiana), si può notare come siano tutte del 1927: cfr. Martinelli 2002, pp. 38, 109, 229, 389.

24 Giornalista molto attivo negli anni Venti-Trenta per la Vitagliano e redat-tore per “Progresso italo-americano” e “Corriere d’america”. Devo a Luca Mazzei la scoperta della vera identità di Pissilenko.

25 Viene usata la traslitterazione francese del cognome invece di quella ita-

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ossia il famoso scrittore russo del racconto da cui è tratto il film. Si hanno ben due edizioni di questo cineromanzo a distanza di pochi mesi l’una dall’altra: la prima in volume rilegato, come per gli altri due libri firmati da Pissilenko, al costo di 4 lire, e poi una versione più economica, da cui scompare il nome di Pouchkine, nel quindi-cinale “Le Grandi Films”, venduto a 2 lire.

L’utilizzo dello stesso testo per più edizioni è una pratica fre-quente per la casa editrice milanese. ad esempio le prime due par-ti della biografia di Valentino di Pissilenko vengono pubblicate in appendice al cineromanzo Notte Nuziale cambiandone non a caso il titolo in Rodolfo Valentino. Cavaliere dell’amore. Il romanzo della sua vita, per accentuare la dimensione romantica e avventurosa della vita dell’attore, coerentemente con la trasposizione letteraria del film. Si capisce così come la “Gloriosa” Vitagliano abbia una “cucina” redazionale molto efficiente, che riutilizza i materiali più volte proponendoli in edizioni diverse in modo identico o solo con piccole varianti, dalle fotografie in copertina a qualche taglio o ag-giunta nei testi. Per ragioni di spazio non ci si soffermerà sull’ana-lisi dettagliata dei cineromanzi tratti dai film di Rodolfo Valenti-no, che sono comunque in linea con le caratteristiche di questo genere, così diffuso tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta, che fa parte di una strategia commerciale integrata di sostegno reciproco – spesso l’uscita della pellicola e del cineromanzo sono contempo-ranei – fra il consumo collettivo del film nella sala cinematografica e la lettura privata a casa26.

questo tipo di testi utilizza la narrazione in terza persona per poter anche commentare e sottolineare azioni e pensieri dei per-sonaggi e si concentra sulla trama enfatizzandone gli elementi di maggior drammatizzazione, come nella tradizione del romanzo d’appendice in cui s’inserisce. i film di cui Valentino è protagonista ben si prestano a questo tipo di scrittura letteraria e, se si prendo-no ad esempio Notte Nuziale e Il figlio dello sceicco di Pissilen-ko, si può vedere come la descrizione dei personaggi interpretati dall’attore sia perfettamente funzionale e coerente con “l’invenzio-ne” della biografia dell’uomo Rodolfo Guglielmi. ne è un esempio

liana di Puškin, ma si tenga conto che negli anni Venti erano ancora molto diffuse in italia le edizioni francesi dei romanzi.

26 Per maggiori approfondimenti si veda De Berti 2007.

90 Il volo del cinema

l’origine nobile dei suoi personaggi, che porta il lettore senza solu-zione di continuità dall’argentino di origini spagnole marchese di Castro, protagonista di Notte Nuziale (fig. 2), all’italiano marchese De Guglielmi, titolo del primo capitolo della biografia dell’attore posta in appendice allo stesso volume. insomma, dal romanzo del film al romanzo della vita c’è un filo rosso che unisce i personaggi interpretati da Rodolfo Valentino all’uomo Rodolfo Guglielmi, in-trecciato di nobiltà, bellezza, fascino esotico e seduttivo del tratto (latino o arabo che sia), spirito d’avventura, sincerità e generosità d’animo. non a caso la biografia di Pissilenko unisce vita privata e vita artistica anche nelle fotografie che corredano il libro27, sottoli-neando come con Il figlio dello sceicco, sua ultima interpretazione (fig. 3), l’attore raggiunga la perfezione che già aveva tentato

fondendo le qualità romantiche proprie della nostra razza alla schiet-tezza ed al virtuosismo atletico caro agli anglo-sassoni, riuscendo a creare un personaggio vigoroso e deciso, simile per maschi atteggia-menti alle creature di Douglas, ma più coerente di queste per pro-fonda drammaticità temperata di dolce tristezza28:

poche righe che tracciano la continuità fra l’attore e l’uomo e fra le identità italiana e americana, con una supposta superiorità artistica innata che solo l’origine italiana può dare.

Proprio per verificare l’insistenza sull’italianità di Rodolfo Valen-tino, che conferisce anche una superiorità alla razza latina rispetto a quella americana di origine anglosassone, è interessante soffer-marsi sulla biografia di Pissilenko prendendo in considerazione la versione più lunga uscita in volume29, un vero e proprio centone, composto da diversi materiali e suddiviso in sei parti: La sua vita; L’artista, l’uomo, la sua opera; Autobiografia; Valentino quale lo co-nobbe George ullman suo segretario; Come lo ha esaltato il mondo e Lettere d’amore a Rudy. Come si vede, lo scopo è fornire, almeno

27 nel caso del volume di Notte Nuziale, che comprende anche l’appendice con la biografia di Valentino, si hanno complessivamente otto fotografie a pagina intera di scene da vari film e una molto nota dell’attore con i suoi due cani davanti al «suo villino ad holliwood».

28 Pissilenko 1927a, p. 130. Come si è detto, la stessa biografia con altre due parti aggiuntive era stata pubblicata pochi mesi prima in Pissilenko 1927c (ove il passo è a p. 42).

29 Pissilenko 1927c.

una doppia identità culturale 91

apparentemente, un ritratto completo e autentico dell’attore e del-la sua fama: per questo, alle prime due parti più tradizionali si ag-giungono le testimonianze dirette dello stesso Valentino con la sua autobiografia; la testimonianza del suo segretario, che si suppone potesse conoscerlo bene perché colui che «fu per lunghi anni il collaboratore più affettuoso dell’artista italiano, ha la possibilità di testimoniare quale furono la vita, l’essenza, le aspirazioni spiritua-li di Rudy […] e i suoi ricordi sono pubblicati oltre che da giornali inglesi e francesi anche dall’italianissimo Corriere d’America»30; in-fine, articoli usciti sulla stampa alla morte dell’attore31, commenti di persone che operano nell’ambito cinematografico e, per chiude-re, le immancabili lettere d’amore a ribadire il mito del seduttore, del Casanova italiano che fa innamorare principesse, nobildonne, poetesse, atlete di tutto il mondo32. Tra le sedici fotografie inseri-te nel volume, nell’alternanza di immagini di scena e di vita quo-tidiana, è da ricordare, proprio nella parte delle lettere d’amore, quasi a voler sottolineare la mascolinità dell’attore, una fotografia di Valentino a torso nudo che gonfia i bicipiti, ripreso di tre quarti di spalle e con la testa di profilo, con la didascalia «i suoi muscoli», in una posa che certamente ricorda quella dei culturisti, ma che al lettore italiano non poteva non richiamare alla memoria il duce senza camicia, in pantaloni sorretti da una cintura (abbigliamento identico a quello dell’attore, che non è stato fotografato in una vera e propria tenuta ginnica), nelle immagini riprese durante la cam-pagna per la “battaglia del grano”, iniziata nel 1925.

Ma torniamo a concentrarci sull’opposizione italia/america, in riferimento all’identità culturale di Valentino, analizzando alcu-ni passaggi particolarmente significativi. Com’è ovvio, entrano in azione tutti gli stereotipi più diffusi nel periodo fra le due guerre sulle caratteristiche dell’identità culturale italiana in rapporto a

30 Pissilenko 1927c, pp. 69-70.31 Sono riportati articoli ripresi dalla stampa italiana, francese e americana.

Per l’italia ci sono le firme di Luigi Barzini e Luigi Giovanola.32 Tra le firme delle lettere si hanno: la principessa Erka K… di Monaco, la

marchesa arduina L… di Siviglia, la poetessa ardim ales Pacha di Pera e il «campione di tennis del Venezuela señorita Dolores de Facha y Carthos». Come si vede, interessa sottolineare come ad innamorarsi di Valentino non siano solo anonime folle femminili, ma anche donne di rango o che pri-meggiano nei più svariati campi, dall’arte allo sport.

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quella americana. Già nelle prime pagine si sottolinea la differenza fra i due mondi attraverso la testimonianza di R. Warner che rac-conta di aver ospitato Valentino nella propria casa quando faceva il ballerino all’inizio del soggiorno americano:

Egli si sentiva così straniero in questo paese pieno d’indifferenza, in più gli era difficile farsi conoscere nel mestiere ch’egli aveva scelto: ballerino. La sua fierezza gl’impediva di chiedere aiuti alla famiglia.[…] nel suo cuore il tempo era sempre al bello e niente poteva abbat-tere la sua gaiezza. Tale carattere potrebbe meravigliare in un latino e soprattutto in un artista. Ciò non vuol dire ch’egli mancasse di fan-tasia, ma era un ragazzo estremamente sano e ben equilibrato sotto tutti i rapporti. E non aveva vizi. Fumava e beveva appena. Contra-riamente ai tre quarti degli uomini, non aveva mai “una sete terribi-le” e l’ora del cocktail non aveva nessuna attrattiva per lui. Beveva un po’ di vino ai suoi pasti ed era tutto.[…] Mi ricordo anche d’una canzone italiana che cantava sempre, con la sua bella voce baritonale. “Mamma mia”. non ho mai potu-to sentirla senza pensare a lui. E, infatti, egli scriveva sempre a sua madre delle lunghissime lettere, piene d’interesse, di cui mi leggeva qualche volta dei brani.33

Rodolfo Guglielmi non ha nessun vizio americano, come l’abi-tudine di bere cocktail; al contrario sorseggia solo un po’ di vino durante il pasto e, come ogni buon italiano, nutre un grande amo-re verso la mamma, che esprime cantando “Mamma mia”. La bella voce baritonale, inoltre, rinforza l’idea di virilità.

Dopo il testimone americano Warner, ecco la testimonianza di un compaesano dell’attore, che spiega i motivi per cui Valentino fu costretto a chiedere la cittadinanza americana pur sentendosi sempre orgogliosamente italiano:

Raccontano i suoi compaesani, e specialmente il signor Giuseppe Maldarizzi, che prima di diventare cittadino americano – cittadi-nanza che egli dovette accettare, secondo i suoi amici, per necessità di lavoro e che non implicava affatto la rinunzia della cittadinanza italiana – Rodolfo Valentino si diceva orgoglioso di essere italiano e pugliese, tanto che, essendo stato invitato a Parigi ad un banchetto offerto in suo onore, nel quale gli si fece la proposta di naturalizzarsi

33 Pissilenko 1927c, pp. 7-8.

una doppia identità culturale 93

francese, anche pel fatto che nelle sue vene scorreva sangue fran-cese, Valentino rispose fieramente rivendicando a sé stesso l’onore di essere italiano e di essere nato in quell’estremo lembo d’italia al quale tanti ricordi della fanciullezza e della prima giovinezza lo le-gavano.34

il problema della richiesta della cittadinanza americana da parte di Valentino sarà ripreso successivamente, ma va subito osservato come questa sia sempre giustificata, dopo la sua morte, come una costrizione dovuta a ragioni di lavoro.

La descrizione del ritorno dell’attore per alcuni giorni al paese natale di Castellaneta è l’occasione per narrare la sua vita felice di bambino, e l’attaccamento per la propria terra è testimoniato dal fatto che Valentino conservi due fotografie dal valore simbolico: l’immagine del Monumento ai Caduti della prima guerra mondia-le e quella del ponte sulla ferrovia:

nei pochi giorni, in cui vi si trattenne – e fu l’unica volta, in cui egli si recò al paese natio – fece delle lunghe passeggiate, prese numerose fotografie, partecipò a qualche agape paesana nella quale si abban-donò a vere scorpacciate di friselle. […] non ho mai – egli dichiarava – potuto dimenticare questi saporitissimi biscotti: e quante volte ho voluto farne fare, mai sono riusciti saporiti e croccanti, come questi. […] quando partì, portò con sé, come ricordo, due fotografie: il mo-numento ai Caduti, che i buoni Castellanatesi hanno eretto tra i pri-mi in italia in omaggio ai loro eroici morti, e il ponte sulla ferrovia da Bari a Taranto, un magnifico esemplare di orrido e di tecnica edilizia, strapiombante sulla valle, che prende il nome dal suo stesso paese.Da allora il celebre attore non fu più rivisto: sono trascorsi oltre due anni ed altre vicende lo hanno avvolto e trascinato verso il suo dolo-roso destino. Ma il suo paese natio, oggi memore, malgrado che un gesto d’opportunità abbia indotto l’attore a prendere la cittadinanza americana per difendere i suoi favolosi proventi di dollari, sente con tristezza il dolore di averlo per sempre perduto, di aver perduto più che l’attore, che ormai tutto il mondo gli contendeva, il piccolo Ro-dolfo monello scarmigliato, sempre intento per i campi ad inventa-re, con i suoi compagni, qualche bella… trovata.35

34 Ibi, p. 17.35 Ibi, pp. 19-20.

94 Il volo del cinema

in queste poche righe viene dispiegata tutta una serie di tratti di italianità positivamente connotati: il paesaggio, il cibo, la nostalgia del ragazzo felice che scorrazza nei campi della propria terra, l’affer-mazione del patriottismo (resa dalla fotografia del Monumento ai Ca-duti) e anche il riconoscimento che l’italia è ora capace di coniugare la suggestione del paesaggio con la più alta tecnologia, testimoniata dalla costruzione di un’opera di grande ingegneria civile, come il ponte sull’orrido. all’opposto, l’america sembra essere solo un paese che vive all’insegna del denaro e degli affari. Concetti ben ribaditi poche pagine dopo, quando si descrive l’arrivo a new York di Valentino:

Era invece la miseria, purtroppo, ch’egli doveva trovare e affrontare sbarcando a new York! Sperso, disoccupato, talvolta senza pane, il giovine emigrato rimpianse assai di frequente la bella patria sola-tia e lontana! quante volte non dovette egli dormire all’aria aperta, contentandosi di qualche briciola per sostentarsi e per ravvivare la propria energia sempre più depressa! in cerca di lavoro, il futuro in-terprete di Monsieur Beaucaire si assoggettò ai mestieri più penosi e più lontani dal suo ideale. Perché non era rimasto in italia, invece di cercar laggiù, nei bassifondi newyorkesi, del lavoro faticoso e avvi-lente per non morire di fame?...Forse non avrebbe conquistato la celebrità, mi si potrebbe obbietta-re; ma il fato lo avrebbe così duramente colpito?36

Certo, l’america può dare soldi e celebrità, ma il prezzo che Va-lentino ha dovuto pagare è stato molto alto; forse non ne valeva la pena e l’attore sarebbe stato più felice se fosse rimasto in patria: il messaggio rientra perfettamente nella propaganda del regime fascista, contro l’idea che emigrando negli Stati Uniti si possa fare facilmente fortuna, e a sostegno della posizione che, invece, sia meglio rimanere a vivere in italia. La biografia di Valentino deve essere sempre riadattata in modo che non possa prevalere l’idea che vivere in america ed essere cittadino statunitense sia una con-dizione preferibile alla vita in italia e al mantenimento della citta-dinanza italiana.

Come ha evidenziato Silvana Patriarca nel proprio saggio sull’italianità, alla metà degli anni Venti il regime puntava sui va-lori del ruralismo,

36 Ibi, p. 24.

una doppia identità culturale 95

[che si] fondava principalmente sull’idea che il contadino fosse il depositario e il difensore naturale della tradizione, al riparo dalla minaccia delle nuove maniere di vivere e delle abitudini cosmopolite e specialmente del nuovo modello “americano” di società.37

Tale modello americano era identificato con una cultura ur-bana nella quale prevaleva uno stile di vita moderno, visto come possibile luogo di corruzione morale e di vizi, in opposizione alla semplicità della vita contadina ispirata ai valori tradizionali della grande famiglia. Un’opposizione che è rappresentata anche dalla città associata, come nel caso di new York, ai bassifondi e al lavoro avvilente di contro alla campagna e ai piccoli paesi dove si vive fe-lici a contatto con la natura38. anche il racconto della biografia di Valentino cerca di riaffermare i valori tradizionali della vita rurale propagandati dal fascismo: ecco, allora, sfatata la leggenda dell’at-tore «don Giovanni impenitente come tutti si sforzavano di pre-sentarlo, [e invece] aveva innato in sé il culto della famiglia e dei bimbi: una gioia che mai ebbe»39.

anche il culto per la famiglia e la paternità rientra perfettamente nei valori sostenuti dal regime ed è più facilmente associabile alla vita contadina che a quella cittadina, tanto più per un attore. non a caso, nella parte della biografia dedicata alle memorie del segre-tario George Ullman, dopo che questi ha presentato il Valentino «poeta e anche filosofo»40, autore del libro di poesie Day Dreams, si propongono in traduzione italiana due liriche, tra cui una dal titolo La carnagione di un bimbo, che ribadisce l’amore del divo per i bambini: «Egli parlava spesso del giorno in cui i bimbi sarebbero stati nella sua casa, e uno dei più grandi dolori del mio amico fu di

37 Patriarca 2010, p. 166.38 il dibattito si ritrova in italia nell’opposizione tra Stracittà/Strapaese che

coinvolge le riviste culturali: da una parte “900”, fondata da Massimo Bon-tempelli nel 1926 con un orientamento cosmopolita, tanto che i primi cin-que numeri sono pubblicati in francese; dall’altra “il Selvaggio”, nata nel 1924 sotto la direzione di Mino Maccari, che si caratterizza per la sua pro-paganda ruralista e per un forte antiamericanismo e anticosmopolitismo. Più in generale, sul dibattito culturale durante il fascismo in relazione al cinema si vedano hay 1987; Ben-Ghiat 2000; Re-viewing fascism 2002.

39 Pissilenko 1927c, p. 49.40 Ibi, p. 70.

96 Il volo del cinema

non aver mai potuto realizzare questo suo supremo desiderio»41.C’è una preoccupazione costante, quasi schizofrenica, che scor-

re nelle diverse parti che compongono il centone di Pissilenko: da una parte il desiderio di sottolineare come i personaggi avventurosi che Rodolfo Valentino interpreta sullo schermo siano tanto simili alle vicissitudini della sua vita reale a causa di una sorta di inelut-tabile destino cui l’attore non può sottrarsi; dall’altra la necessità di ricordare come le più profonde e ideali aspirazioni dell’uomo Rodolfo Guglielmi siano ben diverse dal suo stile di vita cinemato-grafica. Così dichiara l’attore nella propria autobiografia:

non difendo la romantica vita che conducevo sullo schermo. in fo-tografia sono un seduttore, un appassionato, un donnaiuolo. nella realtà, ho amato come tutti i giovani amano, ma il mio ideale non erano le donne: era una donna. Una donna sola che cercavo, e che non trovavo. […] Una compagna adorata nel silenzio della casa. Sotto alla lampada domestica. Ma il mio destino è contraddittorio. non spero più nella tranquillità.Si vede che non è più possibile a questo mondo strapparsi alla fatali-tà. a chi tocca una esistenza tutta raccolta e quieta, a chi tocca invece una esistenza romanzesca e agitata. non si passa dall’una all’altra.il destino ci attribuisce delle parti, come un direttore cinematogra-fico, e non si può uscire dal personaggio. Penso che forse arriverò alla morale come un Valentino avventuroso e drammatico, mentre il vero Valentino ha tanta sete di silenzio, di devozione intima, di affetto sincero, di amore costante e buono…42

La sintesi di questo profondo sentimento per la famiglia, i figli, la bella terra italiana – a dispetto della vita pubblica e dei perso-naggi interpretati dal Rodolfo Valentino americano – è che il suo cuore è sempre e profondamente italiano:

nel mezzo dell’azione vertiginosa, qualcuno lo ha chiamato fuori: “Valentino riposati!” – Era la morte. E Valentino si è fermato, per sempre, alla voce a cui nessuno resiste. noi non sapremo mai tutto quello che egli ha portato di inespresso nel suo grande cuore italia-no.43

41 Ibi, p. 74.42 Ibi, pp. 64-65.43 Ibi, p. 67.

una doppia identità culturale 97

ancora una volta, si tratta di un chiaro richiamo ai valori propa-gandistici del tempo legati alla tradizione italiana che, al di là di ogni apparenza e della sorte immutabile, erano condivisi nell’ani-mo del divo e rappresentavano il suo vero sentire. Si costruisce così un personaggio romantico segnato dal fato contro il proprio desi-derio di una vita anonima e tranquilla da piccolo borghese.

a ulteriore conferma della profonda italianità di Valentino e del suo amore per la patria Pissilenko, che per redigere la biografia dell’attore sceglie sempre testimonianze dirette, decide di riporta-re alcuni estratti dagli articoli pubblicati dopo la morte dell’attore dalla stampa italiana, francese e americana i quali esaltano le qua-lità professionali dell’artista e, nel caso di quella italiana, anche quelle umane e del maschio latino. Scrive ad esempio Luigi Bar-zini:

Per noi italiani, come per l’america, e per il mondo intero, Rodolfo Valentino, rappresentava tutta la grazia virile, la maschia eleganza, la forza gentile, il romanzesco e il sentimento, di una antica razza di uomini e di una antica vita. Ritrovavamo nel suo viso e nel suo gesto tanta italia, che nessuna parola saprebbe dire. […] Devastatore di cuori nelle “films” egli portava nella esistenza la nostalgia italiana del focolare. Sognava una moglie che fosse una buona compagna, che lo attendesse presso la lampada domestica, che volesse essere madre. […] il mondo nel quale egli viveva non gli offriva in fatto di donne che delle associate, disposte a fare un po’ di strada insieme, più o meno gaiamente, fra un divorzio e l’altro.44

Si torna a ribadire, insomma, con parole simili a quelle citate nella parte dell’autobiografia di Valentino, il suo desiderio di for-mare una tradizionale famiglia “all’italiana”, accentuando in questo caso l’opposizione con il mondo hollywoodiano, connotato come frivolo e immorale.

Ma solo pochi mesi prima della sua morte, come si è detto, l’attore era stato fortemente attaccato in italia e i suoi film messi al bando

44 Luigi Barzini, in Pissilenko 1927c, pp. 84-86. L’articolo di Barzini venne pubblicato il 24 agosto 1926 con il titolo La morte di Rodolfo Valentino sul giornale di new York in lingua italiana “Corriere d’america”, di cui era direttore lo stesso Barzini: cfr. Intorno a Rodolfo Valentino 2009, pp. 239-240.

98 Il volo del cinema

dal regime per la sua richiesta di diventare cittadino americano45: tutto ciò viene ricordato dettagliatamente attraverso la riprodu-zione dell’articolo di Luigi Giovanola pubblicato da “La Stampa” di Torino il 28 agosto 1926, che accredita la versione secondo la qua-le Valentino si dovette piegare perché «il prender la cittadinanza americana è al tempo stesso una necessità e un dovere»46. inoltre per Giovanola gli italiani che assumono la cittadinanza america-na sono investiti della missione «di recare un soffio della nostra immortale latinità alla creazione di questa nuova civiltà tuttavia in divenire. quest’orgoglio, questa fede, questa volontà d’italiano d’america erano coscienti in Rodolfo Valentino»47.

Per questo, secondo l’articolista di “La Stampa”, Valentino non sopportava l’idea che ai propri film fosse stata vietata la possibilità di essere proiettati in italia, perché tutta la fortuna avuta in ame-rica «non poteva compensarlo di un così cocente ed immeritato dolore. E poi venne la morte a strapparlo all’arte ed all’affetto di quanti lo adoravano come italiano, come artista, come uomo»48.

L’articolo di Giovanola – non a caso ampiamente diffuso sulla stampa quotidiana di tutta italia perché pubblicato contempora-neamente anche da “La nazione” e da “il Mattino” – ha lo scopo di superare le contraddizioni e le ambiguità presenti nella figura di Valentino per restituire un personaggio-monumento dell’italiani-tà, in cui le qualità dell’artista si fondono perfettamente con quelle dell’uomo.

Tutta la biografia-centone curata da Pissilenko mira decisamen-te ad accreditare questa lettura presso il pubblico italiano, can-cellando quella frattura fra le qualità dell’uomo e dell’artista che solo pochi mesi prima, all’inizio del 1926, aveva portato la stessa

45 Valentino si difende dalle accuse di tradimento verso la patria italiana e nel febbraio 1926 scrive una lettera pubblicata sul “Corriere d’america” di new York del 15 febbraio 1926 e ripubblicata in italia da “L’impero” del 12 marzo 1926: cfr. Intorno a Rodolfo Valentino 2009, pp. 108-109.

46 Luigi Giovanola in Pissilenko 1927c, p. 91. L’articolo su “La Stampa” è pubblicato con il titolo Valentino: la fortuna e la popolarità del “Cavaliere dell’Apocalisse”. Lo stesso articolo, con titoli diversi, è pubblicato sempre il 28 agosto 1926 da “il Mattino” di napoli e da “La nazione” di Firenze; nonché dal periodico torinese di cinema “al Cinemà” nel numero del 5 set-tembre 1926: cfr. Intorno a Rodolfo Valentino 2009, pp. 112-113 e 287-288.

47 Luigi Giovanola in Pissilenko 1927c, p. 92.48 Ibi, pp. 92-93.

una doppia identità culturale 99

casa editrice “Gloriosa” Vitagliano a pubblicare, in testa a una bio-grafia di Valentino di sedici pagine a firma di Gian Franco Sicàri nel periodico “i grandi artisti del cinema” (fig. 4), un duro attacco all’attore per la questione della cittadinanza, anche dopo che que-sti aveva scritto una lettera a Mussolini per giustificarsi:

Rodolfo Valentino (al secolo Rodolfo Guglielmi) ha rinunciato alla cittadinanza italiana per acquistare quella degli Stati Uniti di ame-rica. L’atto riguarda il cittadino. L’artista rimane quello che è: grande e valoroso e rimane italiano perché squisitamente italiana è la sua figura, squisitamente italiana la sua virtù interpretativa. Ma se è de-gno di esaltazione l’artista, l’uomo, il cittadino, merita il biasimo di tutti gl’italiani perché ha rinnegato la Patria, la Gran Madre nostra. Come cittadino egli è indegno della nostra esaltazione e della no-stra considerazione. […] Cosicché se domani la nostra diletta italia dovesse richiamare alle armi i suoi figli per una guerra, questo mise-rabile rinnegatore rimarrebbe a fare il cittadino americano. Farebbe il bellimbusto, l’adoratore delle donne, l’idolo delle donne, mentre i suoi fratelli conoscerebbero la durezza della trincea.V’è una questione d’indole finanziaria, per cui Valentino ha avuto l’ardire di scolparsi del suo atto, scrivendo a Mussolini. […] infine egli, nella sua lettera, si dichiara orgoglioso della sua origine italiana. Falsa spudoratezza di quest’uomo senza carattere, che tenta – co-munque – di salvare le apparenze. […] il provvedimento preso dai fascisti contro le programmazioni di Valentino nelle sale cinemato-grafiche è quanto mai opportuno e giusto: interpreta il sentimento di tutti gli italiani. non ci mancherebbe altro che ammirare questo misero rinnegatore nelle sale cinematografiche, sarebbe un’offesa atroce a tutti gli italiani! Egli ha rinunciato, si accomodi pure, in Pa-tria e all’estero è considerato per quanto vale, per quello che è: un cittadino indegno! E ci farebbe piacere, grande piacere, cambiandosi anche nome; sarebbe più in carattere! Potrebbe chiamarsi, ad esem-pio: Rhudolph….. aventino!49

La chiusura, che sottolinea la separazione di Valentino dall’italia (“Rodolfo” diventa “Rudolph”; e quale cognome d’arte si suggerisce “aventino”, con mordace allusione alla “secessione” del 1924 dei de-putati antifascisti), non solo insiste sull’implicito antipatriottismo dell’attore, ma anticipa anche quella differenza fra la vita italiana

49 Gian Franco Sicàri, La questione della cittadinanza in Sicàri 1926, p. 1.

100 Il volo del cinema

di Valentino e quella americana simboleggiata dall’uso dei nomi di cui si è detto a proposito della biografia originale francese di Ramond e che nella traduzione italiana però si cancellava a favore di una continuità dell’identità italiana del divo ormai americano. a questo punto è d’obbligo chiedersi come mai nel giro di pochi mesi l’atteggiamento nei confronti di Valentino da parte della stampa italiana, ma ovviamente ancor prima da parte del regime e della censura fascista, cambi completamente, passando dal boicottag-gio dei suoi film e dall’attacco alla sua persona alla glorificazione come divo italiano alla sua morte. Tale mutazione, pur tra le mol-te contraddizioni presenti nella stampa dell’epoca, si avverte del resto chiaramente anche prima della scomparsa dell’attore, come dimostra una seconda edizione, sempre del 1926, della stessa bio-grafia di Rodolfo Valentino della casa editrice “Gloriosa” Vitagliano – identica a quella di Sicàri, anche se la sua firma non compare più e l’opera risulta anonima – emendata della pagina sulla questione della cittadinanza, di cui non c’è più cenno, e con l’aggiunta della trama di L’Aquila Nera, come si legge nelle righe di apertura:

Rodolfo Valentino (al secolo Rodolfo Guglielmi) di cui ci apprestia-mo a dare la biografia in edizione riveduta e corretta, con l’ultimo film l’“aquila nera” è passato a far parte degli “United artist’s” la nota casa produttrice di grandi films a cui appartengono com’è risaputo, Douglas Fairbanks, Mary Pickford, Charlot, ecc.50

in questa nuova edizione non c’è menzione né della morte dell’attore, né del film uscito postumo Il figlio dello sceicco: essa è perciò sicuramente collocabile tra la primavera e l’estate 1926, segno che la campagna scatenata per il boicottaggio dei film in-terpretati da Valentino si è chiusa o comunque molto attenuata e limitata a qualche città. La ragione è che le richieste del pubblico di continuare a vedere i film di Valentino non vengono mai meno, nonostante l’avversione del fascismo e diventano inarrestabili con la sua morte, come dimostra la posta dei lettori sulle riviste di ci-nema51.

50 anonimo 1926b, p. 1.51 Per un’interessante selezione dalla rubrica della posta dei lettori riguar-

dante Valentino in “il Corriere cinematografico”, supplemento settima-nale di “La Vita cinematografica”, tra il dicembre 1925 e il settembre 1926

una doppia identità culturale 101

i mass-media, ma soprattutto il cinema e in particolare quello americano, hanno in questo periodo una tale forza di penetrazio-ne e di fascinazione in strati eterogenei e vasti della popolazione italiana che i divieti in alcuni casi rischiano di essere controprodu-centi o quanto meno scarsamente efficaci; e la stessa propaganda contro la vita americana del divo Valentino poco incide sulla sua popolarità, come probabilmente si è presto resa conto la censura del regime, già nei mesi precedenti la morte dell’attore. La riso-nanza su tutta la stampa mondiale dei funerali, ai quali parteci-pò una folla immensa, non consente più campagne denigratorie contro l’unico divo cinematografico italiano internazionale: me-glio, allora, cancellare o almeno mascherare tutte le ambiguità che il suo personaggio suscita e trasformare Rodolfo Valentino in un mito dell’italianità, che diventi un punto di orgoglio e di riscatto per chi è emigrato negli Stati Uniti e per tutti gli italiani. Un pro-cesso di mitizzazione che giunge a pieno compimento sulla stam-pa con la pubblicazione nel giugno 1933, nel supplemento mensile a “Cinema illustrazione”, rivista dell’editore Rizzoli molto diffusa, della biografia Rodolfo Valentino. Il tragico romanzo della sua vita (fig. 5).

L’attore, famoso per la sua bellezza, diventa il frutto dell’unione fra Grecia e italia voluto dagli dèi:

Muore giovane chi è caro agli Dei sentenziarono gli antichi con pro-fonda saggezza. Ecco l’epigrafe che avrebbero dovuto incidere sulla tomba di Rodolfo Valentino, ecco le ultime parole di una leggenda, bella e meravigliosa come un antico mito, che un giorno racconterà

si rimanda al blog http://ritrovatirestauratiinvisibili.blogspot.com alla se-zione principedelsilenzio.blogspot.com/2010/01boicottaggio-della-stam-pa-italiana.html (ultimo accesso: 19.iV.2010). ad esempio, nel numero del 24 luglio 1926, dunque prima della morte dell’attore, il redattore della rivista che si firma Girandolino così risponde a irma Pittana di Padova: «in quanto a Rodolfo Valentino, non intendo più ritornare su questo ar-gomento. io la penso come deve pensarla ogni buon italiano e dico che ha fatto assai male a rinunziare alla cittadinanza del suo Paese per assumere quella americana. […] Ma voi altre donne non ragionate che col capriccio e certe cose non vi possono entrare in testa: per voi non c’è che la simpatia, l’amore… ed il mondo finisce lì. non è così?». Si può capire da questa lette-ra come il boicottaggio e la campagna di stampa non abbiano mai spento negli spettatori quell’interesse per Valentino che poi esploderà in modo inarrestabile dopo i suoi funerali.

102 Il volo del cinema

le sue gesta e la sua meravigliosa avventura. Dirà la leggenda: “Egli nacque in una terra dove un tempo migrarono gli Ellèni, popolo di guerrieri e di poeti, ed egli è un germoglio meraviglioso nato dal con-nubio della Grecia e dell’italia, madri eterne di bellezza: senza cono-scere questa segreta portentosa progenitura, voi non potrete com-prendere perché fu tanto amato, perché la sua bellezza, la sua virile, solare, giovinezza sembrò plasmata dalle magiche mani di quello stesso che trasse dal marmo la divina perfezione di Venere anadio-mene o la classica esattezza dell’apollo del Belvedere o dell’Ermete in riposo… il cinema ha strappato fiori di carne, fiori di vita da tutte le aiuole del mondo; uno solo ne ha colto in italia ed è stato il più bello, ed è l’indimenticabile”.52

È la descrizione della nascita di un eroe dell’antica Grecia, di un archetipo di maschia bellezza, onde evitare di cadere nelle ambi-guità di genere dell’attore che avevano accompagnato alcune cam-pagne di stampa estere, ambiguità androgina che però involonta-riamente (o forse in modo studiato) finisce per essere richiamata dai confronti con statue di età classica, soprattutto con l’apollo del Belvedere:

Una primavera perenne, come nel beato Elisio, riveste di amabile giovinezza la sua matura, affascinante virilità e aleggia con grazia delicata sulla superba struttura delle sue membra. [...] i singoli attri-buti di bellezza degli altri dèi si fondono in armonia come in Pan-dora. Egli ha di Giove la fronte [...], e le sopracciglia [...]; gli occhi sono quelli della regina delle dee dall’arco maestoso, e la bocca è fatta ad immagine di quella [scil. della ninfa argiope] che infuse il sommo diletto all’amato Branco. La sua morbida chioma, mossa da uno zeffiro delicato, gioca attorno a questa testa divina [...], e sembra cosparsa dal balsamo degli dèi e annodata sul capo dalle Grazie con amabile eleganza.53

Rodolfo Valentino, vicino agli dèi come i grandi divi del cinema per la sua bellezza, assurge a simbolo del riscatto di tutti gli emi-granti italiani:

Perché anche Rodolfo Valentino fu un emigrante, uno dei mille e

52 anonimo 1933, p. 3.53 Winckelmann 1990 [1764], pp. 265-266.

una doppia identità culturale 103

mille che hanno fecondato col loro sudore e col loro sangue l’ame-rica. Ecco un’altra cosa che non si può dimenticare, perché egli fu il dono stupendo, l’esemplare superbo di questo popolo italiano che laggiù è assai spesso appaiato al negro. ironie e vendette della sorte! al fratello di tanti umili figli della nostra terra si sono abbandonate in sogno tutte le fanciulle degli orgogliosi anglosassoni: Valentino, l’italiano, il dagos come lo chiamano sprezzantemente laggiù, non è stato forse l’amante sognato di tutte le donne americane, e non di esse soltanto?54

L’emigrante Rodolfo Valentino diventa l’oggetto del desiderio di tutte le donne americane e non un semplice rubacuori che per la propria avventurosa biografia fa implicitamente pensare a Giaco-mo Casanova, il seduttore italiano più famoso della storia. Certo qui non c’è più solo il Valentino, vicino alla propaganda ruralista del regime, che sogna il focolare, i bambini e di amare una sola donna, ma l’altra faccia – complementare alla prima – del maschio italiano, così come nello stesso Mussolini si coniugano il pater fa-milias e l’amatore irresistibile.

nel nodo di contraddizioni che associano Valentino di volta in volta all’identità italiana, latina o ancora americana; all’androginia o alla femminilizzazione; alle umili origini o alla fama; al desiderio di paternità o all’immenso potere seduttivo, si edifica la biografia mediale del divo, e se ne celebra il mito55.

54 anonimo 1933, p. 4.55 Tra la vasta bibliografia sul divismo e la sua mitologia si rimanda in parti-

colare a Morin 1957; Stardom 1998; Dyer 2003 [1998] e 2004.

104 Il volo del cinema

una doppia identità culturale 105

Pagina a fronte. Fig. 1. Copertina di Edouard Ramond, La Vie amoureuse de Rudolph Valentino. Le Roman d’une étoile, Parigi, Librairie Baudinière, ottobre 1926

Fig. 2. Copertina di iwan Pissilenko, Notte Nuziale, Milano, Casa editrice “Gloriosa” Vitagliano, 1927

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Fig. 3. Copertina di iwan Pissilenko, Il figlio dello sceicco, Milano, Casa editrice “Gloriosa” Vitagliano, 1927

Pagina a fronte. Fig. 4. Copertina di Gian Franco Sicàri, Rodolfo Valentino (“i grandi artisti del cinema”), Milano, Casa editrice “Gloriosa” Vitagliano, 1926

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Fig. 5. Copertina di Rodolfo Valentino. Il tragico romanzo della sua vita, in “Supplemento mensile di ‘Cinema illustrazione’”, giugno 1933

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La GUERRa E La FoLLa:KING VIDOR COMES TO ITALy1

1. Le critiche all’arrivo di The Big Parade (La grande parata)

il 3 aprile 1927, sull’autorevole rivista “La Fiera Letteraria”, nella rubrica Cinelandia, è pubblicata una breve recensione, firmata da Piero Gadda2, di La grande parata (The Big Parade) di King Vidor che racconta la cronaca della prima proiezione del film in una delle sale più grandi e importanti di Milano:

il Dal Verme, col suo vasto anfiteatro a gradinata era affollato, alla prima di “La Grande Parata” da un pubblico irrequieto e salace, facile all’impazienza quanto all’entusiasmo, che diede alla “prima” di que-sto film, abbastanza grandiosa, ma soprattutto antiquata, il carattere e la rissosa animazione di uno spettacolo popolare. […]La proiezione è stata quanto di peggio si può immaginare: sopra uno schermo macchiato, continuamente offuscata da abbassamenti di luce, qua e là interrotta da strappi della pellicola, torbida quasi sem-pre [….]. Buono, invece, l’accompagnamento orchestrale, soprattutto nello squarcio che filma la partenza delle truppe per le prime linee in lunghi convogli di “camions”: il Dal Verme si riempie allora di rombo di motori e di fragor di ferraglie, con tale efficacia da mutare total-mente gli umori del pubblico e strappargli un lungo entusiastico ap-plauso. quanto al film, come sceneggiatura, la direi d’una ingenuità e di una assenza di proporzioni ragguardevoli, dal lato tecnico può tutt’al più servire a documentare i progressi immensi che si sono

1 Si riprende qui in parte De Berti 2006a.2 P. Gadda Conti è uno tra i primi scrittori italiani a tenere con regolarità una

rubrica di recensioni cinematografiche, a partire dal 1926, sull’importante rivista culturale “La Fiera Letteraria”: si vedano Critica italiana 1973 e Ca-setti 1979. Sulla nascita della critica cinematografica italiana in generale si rimanda a Brunetta 1993; Pellizzari 2001; zagarrio 2004; Bisoni 2006; Pezzotta 2007.

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compiuti in questi ultimi tempi: poiché al solito “La Grande Parata” arriva dinanzi al nostro pubblico con alcuni anni di ritardo e dopo aver già girato mezzo mondo. […]Verso la fine della seconda parte si è pensato di introdurre ne “La Grande Parata” qualcosa che riguardasse la nostra guerra: lodevole e patriottico proposito di propaganda. Da cui pare che una visione delle nostre navi da guerra non è eccessivamente a proposito in un film che riguarda esclusivamente gli eroismi e i sacrifici del combat-timento terrestre, e che, se mai, uno squarcio da qualche film sulle gesta dei nostri Santi (e ne ricordo di efficacissime) avrebbe conci-liato un po’ meglio la coerenza col patriottismo.3

La recensione ci rivela alcuni aspetti interessanti sulla storia della ricezione di La grande parata in italia. Tralasciando le no-tazioni sulle condizioni di proiezione, sulla vivace partecipazione del pubblico e sull’interpretazione musicale dell’orchestra con tut-ti gli effetti di rumore, il primo dato che s’impone all’attenzione è l’evidente ritardo dell’uscita del film, circa un anno e mezzo dopo la prima americana, tenutasi a Los angeles il 5 novembre 1925.

il secondo elemento, ancora più rilevante, è la manipolazione effettuata sulla pellicola con l’inserimento di alcune immagini di navi da guerra italiane per affermare orgogliosamente il patriot-tismo nazionale dopo la vittoria nella prima guerra mondiale. La pratica di “adattare” ideologicamente i film originali nella versione italiana non è rara e troverà ancora più largo uso con l’avvento del sonoro. Peraltro in questo caso l’inserto nazionalistico risponde alla precisa esigenza di attenuare i molti attacchi critici, comu-ni a tutti i Paesi europei vincitori del primo conflitto mondiale, dall’inghilterra alla Francia, che il film di Vidor suscitò per aver fatto apparire i soldati americani come i protagonisti assoluti della guerra.

Tale preoccupazione è già presente in un lungo articolo di pre-sentazione del film pubblicato senza firma due mesi prima, nel febbraio 1927, sulla rivista “Comoedia” nella rubrica In Cinelandia. I nuovi films. L’articolo, corredato da diverse immagini, prima di dilungarsi in un dettagliato racconto della trama, fa alcune consi-derazioni generali sulla guerra, sul reale apporto degli Stati Uniti al conflitto e sulle ragioni per cui gli europei non abbiano ancora

3 Gadda 1927.

La guerra e la folla: King Vidor comes to italy 111

realizzato un film altrettanto grandioso sulla prima guerra mon-diale:

Gli Stati Uniti che, tutto sommato, hanno a deplorare una minima percentuale di vittime e che materialmente hanno dalla guerra piut-tosto avuto un utile che una perdita, sono nella condizione di quel-lo scrittore che si trova coinvolto nella tragedia di un amico e che perciò, dopo un tempo relativamente breve, è in grado di svolgerla per una sua opera d’arte. noi europei invece, che la guerra abbiamo compiutamente vissuta, e che troppo grande ci è sembrata e trop-po orribile anche se sotto certi aspetti bellissima, siamo oggi ancora riluttanti a volerla sfruttare come quadro o cornice ad avvenimenti immaginati dalla fantasia.4

il lungo articolo si chiude, dopo aver elogiato la veridicità delle scene di guerra, le interpretazioni e la fotografia, giudicata bellis-sima, con la preoccupazione che «i posteri meno istruiti e forse anche qualche ignorante di oggi vedendo questo lavoro possa es-sere portato a credere che la guerra l’abbiano combattuta solo, o in massima parte, gli americani!»5.

il film, pur arrivato in ritardo sugli schermi italiani, ottiene un grande successo di pubblico, come testimonia un articolo pubbli-cato nel maggio 1927 dalla “Vita Cinematografica”, che elogia anche il lavoro di riduzione compiuto per l’edizione italiana: «È forse il valente riduttore [Cortesi] che ha pensato bene di tagliare qualche metro non troppo adatto, che avrebbe appesantito il lavoro»6.

al plauso per l’interpretazione degli attori si associa, subito dopo, il consueto dubbio che Vidor abbia voluto fare un film di sola propaganda americana:

Mi sia permessa ora una domanda: King Vidor ha voluto con la sua geniale composizione costruire un lavoro di interesse mondiale o ha sotto sotto lavorato per darci ad intendere che gli eroismi di Jim furono americani e soltanto americani? Si tenga conto che La gran-de parata comporta uomini, armi, divise, metodi, sistemi, ecc. solo

4 anonimo 1927, p. 36.5 Ibi, p. 38.6 La recensione di “La Vita Cinematografica” è riportata in Martinelli 2002,

p. 291. Più in generale sulla critica italiana a King Vidor si veda Bolzoni 1994.

112 Il volo del cinema

d’america, ed è per questo che mi fa supporre… Dobbiamo proprio piegare il capo e lasciar documentare solo agli americani certe acro-bazie eroiche? E Monte Grappa, il Carso, il Piave e Vittorio Veneto?7

2. La novellizzazione

Gli articoli di critica citati intercettano evidentemente un’esi-genza diffusa nel pubblico italiano ed europeo rispetto al film di Vidor: ridimensionare il ruolo dell’intervento americano nella pri-ma guerra mondiale e ribadire, dall’altra parte, l’eroismo naziona-le. Sono anni durante i quali l’esercizio della critica cinematogra-fica in italia non è ancora istituzionalmente forte e specializzato, ma sta muovendo i propri primi passi sui quotidiani e sulle riviste non di settore; in questo caso è evidente come essa abbia l’intento di svolgere una funzione di “negoziazione” nel patto comunicati-vo8 che si stabilisce fra il film e lo spettatore, tenendo ampiamente conto del diverso contesto sociale di riferimento in cui il film vie-ne fruito. Siamo in presenza di una sorta di mediazione sociale del senso del film da parte della critica, che in un certo senso si fa ancora interprete e portavoce degli umori della maggior parte del pubblico e non solo di cerchie più ristrette di spettatori “specializ-zati”, come in seguito sarà sempre più frequente.

in questo caso la critica diventa allora «voce dello spettatore», per usare un’espressione coniata da Leonardo quaresima9. in re-altà, lo studioso usa tale definizione a proposito delle novellizza-zioni dei film e vedremo come nel caso di La grande parata sia chiarissimo come la funzione della trasposizione letteraria di un film sia essere voce dello spettatore più popolare.

infatti, le novellizzazioni – così come le critiche, i trailer, i ma-nifesti, ecc. − possono essere considerate paratesti cinematografici che anticipano, accompagnano e seguono l’uscita del film, con lo scopo di creare uno stretto rapporto con lo spettatore per orientar-ne la lettura. in generale, possiamo dire che le novelle cinemato-

7 anonimo 1927, p. 38.8 Sul concetto di negoziazione nella nozione più generale di patto comuni-

cativo fra emittente e destinatario rimando ancora una volta a Casetti 2003 e 2004.

9 quaresima 2004.

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grafiche, rispetto alla critica specialistica, accolgono maggiormen-te al proprio interno i punti di vista e gli stereotipi più radicati della maggior parte degli spettatori, contribuendo nello stesso tempo alla loro diffusione e affermazione nel contesto sociale10.

aprendo una breve parentesi generale sulle novellizzazioni dei film in italia, si può dire come esse costituiscano una pratica assai diffusa, che inizia già, sia pure sporadicamente, negli anni Dieci e che si afferma definitivamente a partire dagli anni Venti come un vero e proprio genere letterario, con la pubblicazione di collane di libri e di riviste dedicate quasi esclusivamente ai cineracconti: si pensi, ad esempio al caso della rivista “il Romanzo film” (1920) diretta da Lucio D’ambra11.

Molto attiva in questo campo è la casa editrice milanese “Glo-riosa” Vitagliano, che nel 1926 pubblica il quindicinale “Le Grandi Films”, ogni numero del quale è dedicato alla trasposizione lettera-ria di un film e che nel 1927 inaugura una collana di libri dal titolo Romanzo-Film12. Si tratta di volumi compresi fra le centoventi e le centocinquanta pagine, in formato tascabile, stampati su carta da macero, contenenti anche una decina di fotografie di scene del film e dal costo contenuto di 4 lire. Tra i titoli si trovano pellicole americane di grande successo, come i già citati film interpretati da Rodolfo Valentino Notte Nuziale (A Sainted Devil) e Il figlio dello sceicco (The Son of the Sheik)13, e due film di King Vidor: La grande parata (The Big Parade) e La folla (The Crowd), pubblicati rispetti-

10 Sui problemi legati alle novellizzazioni come paratesti cinematografici rimando a Eugeni 1999 e a De Berti 2000. Più in generale sul tema della novellizzazione si vedano Vimaux 1982; Clerc, Carcaud-Macaire 2004; No-vellisation 2004 e Baetens 2008. Utili riferimenti al problema della tradu-zione da un medium all’altro si trovano anche in Scénarios fictifs 1999.

11 Per l’ambito italiano rimando a Novellizzazione in Italia 2004. Si vedano anche Bragaglia 1997; Meneghelli 2001; Schermo di carta 2007.

12 La casa editrice “Gloriosa” Vitagliano si specializza nella pubblicazione di rotocalchi popolari cinematografici di grande successo dagli anni Venti fino ai primi anni Sessanta. Fra le sue testate principali si possono ricor-dare “Cine-Cinema” (1924-1927) e “Le Grandi Films” (1926-1927), ogni fa-scicolo della quale propone al costo di 2 lire un cineromanzo, tratto quasi sempre da film americani. nel secondo dopoguerra, con il solo nome di Vitagliano, pubblicherà “novelle Film” (1947-1958), un settimanale inte-ramente dedicato alle trasposizioni di film in novelle: al proposito si veda Carotti 2007a.

13 Supra, p. 88.

114 Il volo del cinema

vamente nel 1927 e nel 1928 in concomitanza con l’uscita delle due pellicole nelle sale italiane.

il romanzo film La grande parata è presentato come una ridu-zione italiana di antonio Franco zicàri (alias ivan Pissilenko)14.

affrontiamone ora l’analisi per verificare quale chiave di lettura del film proponga ai lettori italiani, trasmettendo «il punto di vista di un pubblico popolare»15.

Dal punto di vista letterario esso presenta le medesime caratte-ristiche di tutte le altre novelizations. L’intreccio narrativo risulta, almeno a un livello generale e superficiale, fedele al film, pur non mancando diverse variazioni con tagli o inserti di scene che posso-no risultare, come vedremo, molto significativi dal punto di vista dell’analisi socio-culturale del testo, che in questo caso interessa particolarmente. L’uso della voce narrante consente di riassumere con facilità gli avvenimenti, di descrivere ambienti e personaggi, ma soprattutto di inserirsi nella narrazione per aggiungere nuovi elementi al contesto storico e di commentare e interpretare azio-ni e pensieri dei protagonisti. in questo modo si presuppone un nuovo lettore/spettatore e si producono nuove interpretazioni ri-spetto al testo filmico, “più adeguate” a una diversa situazione di consumo, come nel caso di La grande parata quando dall’america si passa all’italia. Lo stile linguistico utilizza spesso immagini poe-tiche retoriche e indugia in forme di lirismo descrittivo tipiche del feuilleton d’appendice, come ad esempio all’inizio del film, quando il giovane protagonista, assistendo ai cortei dei volontari che van-no ad arruolarsi, decide di seguirli, mutando la propria precedente determinazione di tenersi lontano dalla guerra:

in testa v’era la fanfara che aveva intonato l’inno nazionale: segui-vano le bandiere, poi una interminabile sfilata di uomini di tutte le età e di tutte le categorie sociali, che cantavano a viva voce i ri-tornelli patriottici. Erano stati i primi ad arruolarsi. Lo scetticismo, l’indifferenza di Roberto ne risentì, il giovane fu scosso da questa dimostrazione… Egli sentì una strana emozione vedendo sventolare i colori nazionali alla testa degli eroici volontari, che offrivano la loro vita per la causa del diritto e della giustizia… [...]. Roberto non potè non riconoscere che, col suo freddo egoismo, egli era molto inferiore

14 Supra, p. 88 e nota 24.15 quaresima 2004, p. 30.

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a quei modesti eroi, comprese che a fianco di quella brava gente, così semplicemente devota alla causa del paese, egli non faceva pre-cisamente una bella figura… […]. Che cosa curiosa è l’amore per la patria − egli si disse − Per anni ed anni lo portiamo nel cuore, senza supporre la sua esistenza; poi d’un colpo un grande avvenimento, oppure un incidente apparentemente insignificante, risveglia l’istin-to che sonnecchia in noi e che pur è sì potente. Una musica militare passa, una bandiera garrisce al vento e la patria diviene, subito, la nostra unica ragione di vivere.16

Si può anche osservare come il linguaggio adotti un italiano me-dio con alcune velleità più colte, inserendo forme espressive am-pollose e ricercate, da letture di sussidiari scolastici.

Ma nel nostro caso non interessa soffermarsi più di tanto sullo stile letterario di questo genere, facilmente assimilabile ai romanzi d’appendice, quanto esaminare come tale genere rimodelli il testo letterario rispetto a quello filmico cercando di adeguarlo a un nuo-vo contesto di consumo.

Se la citazione precedente, legata a sentimenti patriottici in ma-niera del tutto generica, si adegua perfettamente a qualsiasi ambi-to nazionale, dagli Stati Uniti all’italia o alla Francia, ben più pro-blematico è cercare di valorizzare il ruolo anche dei soldati italiani e più in generale europei. il film si era limitato ad inserire qualche fotogramma di navi italiane: ben più complessa e articolata risulta, invece, l’operazione compiuta con il cineromanzo.

Prima di tutto si cambia il nome del protagonista, interpretato da John Gilbert, che da Jim apperson diventa Robert Beaumont (nel testo poi sarà quasi sempre italianizzato in Roberto), un cam-biamento che non è una semplice stravaganza, ma è motivato dal fatto che nel romanzo viene costruita al personaggio un’ascenden-za di famiglia francese: non va infatti dimenticato che la vicenda si svolge tutta in Francia e che i soldati francesi sono assenti nel film, ciò che scatenò molte polemiche nel Paese all’uscita della pellicola. il giovane americano che viene a combattere in Francia, in questo modo, non è più uno straniero, anzi: non fa altro che riscoprire le proprie origini e aiutare la patria dei propri avi.

il libro dedica il terzo capitolo, di quattro pagine, alla famiglia

16 zicàri 1927, pp. 12-13.

116 Il volo del cinema

Beaumont, inventandone l’albero genealogico:

Robert Beaumont era di origine francese. Suo nonno si era recato negli Stati Uniti, nell’anno 1885 abbandonando la natia Parigi, ove non gli era arrisa la desiderata fortuna. a new York il non-no aveva sposata un’americana, di origine francese, e quivi aveva guadagnato molto duramente il pane quotidiano. Dall’unione nacque un figlio, James, il padre di Roberto e harry, a cui il vec-chio Beaumont aveva inculcato nobili sentimenti d’amore per la patria lontana.17

Rimangono invece come nel film i nomi, rispettivamente, di Bull e Slim, i due commilitoni amici del protagonista. Un altro stu-pefacente cambiamento interessa la giovane ragazza francese, che nel romanzo non è più Mélisande, bensì diventa Lisetta, un nome di chiara assonanza italiana, anche se nulla si dice a proposito delle sue origini.

Se già i nomi introducono nel cineromanzo quell’esigen-za sentita da molta parte del pubblico europeo, e anche dalla stessa critica, di valorizzare il ruolo avuto da tutti gli alleati nella guerra, facendo apparire il protagonista come franco-americano, l’operazione di trasformazione si completa poche pagine dopo, quando si descrive l’entrata della nave dei soldati americani nel porto francese di Brest. Si tratta di una scena della quale nel film non c’è alcuna traccia, ma che consente di ricordare lo spirito comune che unì americani, inglesi, francesi e italiani per vincere la guerra in nome di un condiviso ideale di giustizia e libertà:

quando la nave entrò nel porto di Brest salutata alla voce dai mari-nai francesi, italiani e inglesi appositamente convenuti per ricevere il primo contingente americano, un possente grido si levò a bordo della Washington:Viva gli alleati!Tutte le navi innalzarono il gran pavese, fra il generale entusiasmo, mentre l’unione dell’america agli alleati, fece presentire prossimo il giorno della vittoria e diede la conferma che la santa causa del di-ritto, della giustizia, della libertà; la causa per cui strenuamente si

17 Ibi, p. 23.

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combattè e gloriosamente si vinse, era profondamente sentita da tutto il mondo.18

La retorica del grande esercito unitario combattente ritorna nel capitolo intitolato, come il film, La grande parata, dove Roberto (Jim), già in Francia ma non ancora impegnato in combattimen-to, ha un sogno premonitore (inesistente nel film) della prossima morte dei due amici Slim e Bull e vede una “grande parata” di tutti gli eserciti e i popoli alleati, anche di quelli più lontani e scono-sciuti, riconoscendone per ognuno l’identità specifica:

Roberto riconosceva ogni popolo dai costumi e dal portamento spe-ciale: gl’italiani erano in testa in grigio verde, seguivano i Francesi vestiti di bleu; poi venivano gli inglesi dalle uniformi kaki, i Belgi, e altri ancora, fino agli arabi dai costumi chiassosi, fino agli hindous dai turbanti di seta, fino ai Pellirosse coronati di piume d’aquila, fino ai negri venuti dal centro dell’africa…È la Grande Parata − si diceva − la rivista di tutti i combattenti del mondo.19

Risulta ormai evidente, mi pare, come il cineromanzo compia una vera e propria operazione di “correzione” del film, per acco-gliere una diffusa obiezione che circolava in Europa sull’opera di Vidor, proponendone una riscrittura letteraria che entri in stretta relazione con il contesto sociale di riferimento.

Si può allora pensare che, effettivamente, le varie forme di no-vellizzazione diano spazio, inglobino al proprio interno la “voce di un ideale spettatore popolare nazionale”, che avanza i propri commenti, i propri desideri, le proprie perplessità rispetto al film presentato nelle sale, ridefinendo, almeno in parte, il patto comu-nicativo tra il film e il suo spettatore/lettore. Per questo sarebbe interessante, se possibile, mettere sempre a confronto, come per le pellicole, le eventuali diverse versioni nazionali dei cineromanzi.

18 Ibi, p. 43.19 Ibi, p. 73.

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3. The Crowd (La folla)

il grande successo di pubblico ottenuto da La grande parata portò all’immediata uscita anche in italia, nel 1928, di La folla (The Crowd, 1928) e alla contemporanea pubblicazione, nella stessa col-lana della casa editrice “Gloriosa” Vitagliano di una riduzione ita-liana del film, firmata ancora da Franco zicàri, questa volta con lo pseudonimo di ivan Pissilenko20. La formula del cineromanzo è ormai ampiamente collaudata e, come per La grande parata, pre-vede l’uso della voce narrante in terza persona e l’adozione di uno stile linguistico retorico da romanzo d’appendice.

il film, come osserva Ubaldo Magnaghi in un articolo di “La Vita cinematografica” del febbraio 1929, «Lanciato con una pubblicità colossale che dura da mesi, […] ha avuto successo. Le rappresenta-zioni continuano»21.

La folla, a differenza di La grande parata che, come si è visto, aveva suscitato diverse polemiche per come era stato rappresen-tato il ruolo avuto dagli americani durante guerra, riscuote dal-la critica italiana giudizi generalmente positivi, che riconoscono a Vidor, oltre alle doti di grande autore come Griffith e Chaplin, il ruolo di interprete più sincero e rappresentativo della cultura e della società d’oltreoceano, caratterizzata, nelle moderne e con-vulse metropoli come new York, dal rischio del dominio della folla anonima sull’individuo. Lo sconosciuto recensore di La folla sulla rivista “Comoedia” sottolinea, infatti, che

il film porta sullo schermo la lotta dell’individuo contro la massa, dell’essere contro la folla nella quale vuole elevarsi, per dominarla, se possibile, o almeno per non esserne soffocato, per potere spaziare in un campo più libero, quello destinato a coloro che hanno volontà e coraggio e che gli altri chiamano eletti dal destino.22

qualche anno più tardi, nel 1933, sulle pagine di “Cine-Conve-gno”, alberto Consiglio traccerà un lungo ritratto critico dell’opera di Vidor ribadendo, pur nella sua eterogeneità, i caratteri tipica-

20 Pissilenko 1928. il romanzo consta di centotrentuno pagine in formato ta-scabile, corredato da nove fotografie del film, più una in copertina.

21 Magnaghi 1929.22 anonimo 1928-1929, p. 49.

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mente americani dell’intera produzione del regista, osservando in particolare come

“La folla” è il film della vita americana, della società capitalistica, ma intesa nel suo senso migliore, nella sua parte più elevata, svolta dai profughi europei scampati alle guerre di religione. E l’ottimismo che ispira la vicenda non è quello infantile e superficiale della “Grande Parata”, ma quello degli spiriti sanamente religiosi che non dubitino del premio promesso alla fatica umana: premio reale e terrestre, non promessa di felicità futura.23

il fascino esercitato su molti giovani intellettuali italiani dalla vita moderna nelle metropoli statunitensi risulta evidente dalle parole di Consiglio, ma si cerca spesso di ricordare come gli aspetti migliori di questa nuova società trovino le loro radici, comunque, nella cultura del Vecchio Continente, e si guarda pertanto alla so-cietà americana con una certa sufficienza o spirito di superiorità.

L’antologia delle citazioni sul film potrebbe continuare24 ma, ferma restando la diversità dei giudizi, tutti i recensori si confron-tano sugli stretti rapporti fra il film e la società americana, vista come simbolo, nel bene e nel male, della vita moderna. Per tale ragione è interessante analizzare, sia pure in modo più sintetico rispetto a La grande parata, anche la novellizzazione di La folla per trovare conferma all’ipotesi che il cineromanzo svolga, dal punto di vista della ricezione culturale, un ruolo di mediazione fra il film e lo spettatore di estrazione più popolare, compiendo un’opera-zione commentativa di adeguamento al contesto italiano e ponen-dosi come la “voce del grande pubblico” o quanto meno quella che si vuole accreditare come la voce “morale” del pubblico italiano e delle sue tradizioni. nella sostanziale fedeltà all’intreccio narrati-vo del film, nel romanzo assumono grande rilievo le numerose e lunghe digressioni di carattere morale o sull’organizzazione socia-le americana, dalle quali traspaiono posizioni fortemente critiche rispetto alla vita frenetica delle grandi metropoli come new York.

Un primo esempio in questo senso può già far capire il tono di tutto il cineromanzo:

23 Consiglio 1933.24 Si possono per esempio ricordare alberti 1930 e Chiaromonte 1933. Per ul-

teriori indicazioni si rimanda ancora a Bolzoni 1994.

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Si può dire che Jhonny [sic] Sims avesse scelto rapidamente la sua sposa dalla folla anonima e tumultuosa, da cui era circondato, non appena aveva messo piede nella metropoli immane e spaventosa. Si conoscono a priori i pericoli che derivano da queste unioni affret-tate, tumultuose, inconsiderate. […] Per fortuna c’è quella valvola di sicurezza che si chiama il divorzio; ma noi sappiamo bene come, nella generalità dei casi, codesta scappatoia traligni e degeneri in una commedia di cattivo, di pessimo gusto.25

il tema del divorzio ritorna spesso, come una vera e propria ossessione, nei commenti dei critici italiani ai film e alla società americana degli anni tra le due guerre e viene visto come uno degli elementi più rappresentativi dei rischi di corruzione morale con-nessi con la vita moderna. È inutile osservare che un simile punto di vista è totalmente assente nel film.

Rispetto alla pellicola, inoltre, il cineromanzo punta all’esaspe-razione dei toni melodrammatici della vicenda, descrivendo la condizione del protagonista come di assoluta indigenza e schia-vitù anche nella prima parte del racconto, quando questi ha un modesto e anonimo lavoro d’impiegato in una grande società, ma tutto sommato sopravvive ancora dignitosamente. in particolare se l’episodio dell’attesa della nascita del primo figlio nel film è rap-presentato in termini quasi comici per l’ansia e il nervosismo del padre, prima in ufficio e poi in ospedale, il cineromanzo opta per una descrizione strappalacrime dove a dominare sono l’indifferen-za e la durezza dei vertici dell’azienda e le condizioni di estrema povertà dei protagonisti. Tutta l’azione è estremamente dilatata nei tempi rispetto al film, al fine di poter indugiare a lungo su una serie di commenti extradiegetici.

Ma la metropoli immane si è fatalmente ristretta a quel metro qua-drato che egli occupa nella Società atlas; metro quadrato a cui non può rinunciare perché è l’unica risorsa della piccola famiglia perché a giorni egli attende il lieto evento. […] anna sarebbe entrata in una clinica benefica, fra le tante, fra le molte povere che vi sono ospi-tate. Fra le abbandonate, le misere, le perdute. […] Ecco il destino dell’uomo che avrebbe voluto dominare la folla e avrebbe desiderato di astrarsi dalla folla, di vivere in essa non anonimo e non schiavo,

25 Pissilenko 1928, p. 33.

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ma padrone, ma despota. Egli era un numero nella colossale azienda a cui apparteneva, sua moglie era un numero nell’ospedale della pie-tà e del dolore, suo figlio sarebbe stato un numero anche egli.La folla, la folla tremenda. Ed egli, Sims, e sua moglie Sims, e suo figlio Sims erano segnati dallo stesso atroce destino, quello di esser sommersi, vinti, sempre! Con un’ansia indicibile Johnny si recò in ufficio. […] il capo ufficio del personale gli aveva negato il permesso ed ecco perché infine, era al suo posto di lavoro come se non ci fos-se stato! […] nella sua ingenuità credeva di trovare subito nella sala designata la moglie e il bimbo, ma in quel salone v’erano invece ben 250 pazienti e parecchie dozzine di marmocchi che innalzavano il loro inno poco musicale alla loro nascente vita. […] La folla, sempre la folla. Ma ora essi si sentivano soli, soli nella loro felicità, contenti come nessuno al mondo. Tutti i loro dolori, le privazioni, le lotte, le avversità della vita pareva che ricevessero istantaneamente un com-penso da questa grande felicità che iddio ha riservato agli uomini operosi e buoni, a coloro che sanno soffrire: il figlio in cui la vita si rinnova e per il quale ogni sacrificio si compie con religioso senti-mento.26

La citazione riassume, molto sinteticamente, quanto viene de-scritto in terza persona in ben quindici pagine fitte di notazioni sulla vita miserevole condotta dal protagonista e da sua moglie, sul fatto di essere solo un numero senza identità personale in ufficio come in ospedale e su quanto sia tremenda la folla «nel suo do-minante bisogno di sopraffare, di vincere per non essere vinta, di sorpassare per non essere sorpassata»27.

Se la scelta dell’accentuazione dei toni melodrammatici può rientrare nelle caratteristiche consuete dei cineromanzi che ri-prendono esplicitamente i feuilletons e la letteratura d’appendice, più interessante è osservare come da una parte s’insista molto ge-nericamente sulla folla che schiaccia l’individuo nell’anonimato, mentre dall’altra si punti a sottolinearne le valenze fortemente americane che la caratterizzano in senso negativo. Si guarda cri-ticamente e con scetticismo al facile ottimismo americano circa il fatto che ognuno abbia la propria occasione per farcela:

26 Ibi, pp. 74-89.27 Ibi, p. 86.

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noi uomini della folla, parte della folla, atomi nella folla, punti neri nell’immensa folla, noi che in essa viviamo, e che di essa viviamo, non conosciamo quale immensa resistenza la folla opponga alla no-stra volontà e al nostro desiderio di fenderci un varco in essa. Jhonny [sic] Sims non chiedeva altro che una occasione favorevole per farsi strada […]. Ma sempre ogni sforzo fu inutile e ogni nuovo tentativo segnò nella sua esistenza una nuova delusione.“Keep Smiling”.“Keep Smiling” sappiate sorridere dicono gli americani e sembra che questa esortazione sia la chiave del successo.non è così. non si può sorridere quando si ha il cuore gonfio di ama-rezze e di delusioni. […] L’insuccesso e la disperazione rendono ben presto inutile questa esortazione, anche se sia forte, anche se si ha coraggio per dieci, anche se si è animati dalla massima intrapren-denza.28

La nota polemica contro l’ottimistica “filosofia di vita” ameri-cana del self-made man e dell’occasione per tutti è evidente e non viene certo inficiata dall’inevitabile conclusione di circostanza con happy end dell’epilogo del romanzo, nel quale come in una bella fiaba tutti vissero felici e contenti: «Pochi mesi di attività sono ba-stati a Jhonny [sic] per ottenere un’importante rappresentanza con un alto stipendio e una buona percentuale, dalla casa di sapone per cui aveva fatto con tanto impegno il pagliaccio nella Broadway»29.

Un finale positivo già suggerito dal film e che il cineromanzo esplicita nelle più rosee previsioni che uno spettatore auspiche-rebbe per i protagonisti. Ma si potrebbe anche vedere in questo epilogo un segno della contraddittorietà con cui si guarda alla cul-tura e alla società americana: da una parte la si vede come un luogo terribile in cui l’individuo viene cancellato nell’anonimato e nel quale la maggior parte delle persone finisce per vivere poveramen-te; dall’altra, invece, si ribadisce la possibilità che il sogno ameri-cano si possa realizzare, così come lo spettatore è abituato a vedere nei tanti film importati in italia.

Molti altri sono gli esempi sul tema della folla e delle difficili condizioni di vita dei protagonisti, ma questi non modifichereb-bero sostanzialmente un quadro di analisi che si presenta molto

28 Ibi, pp. 115-116.29 Ibi, p. 131.

La guerra e la folla: King Vidor comes to italy 123

chiaro e nel quale, tra le righe dell’ambientazione americana, non è difficile individuare gli echi delle polemiche italiane fra i soste-nitori delle posizioni di Stracittà e di Strapaese che, proprio nella seconda metà degli anni Venti, vedono il loro punto di accensione rispettivamente sulle pagine di “900”, rivista diretta da Massimo Bontempelli, e di “il Selvaggio” di Mino Maccari30. Sulla scelta di campo “strapaesana” del cineromanzo di La folla, nonostante il finale contraddittorio che si è detto, non ci sono molti dubbi, vista l’accentuazione rispetto al film di tutti i tratti polemici contro la vita nelle metropoli, o meglio: contro la modernità in generale, e il sottile, ma costante antiamericanismo che lo pervade. Ma forse negli occhi degli spettatori che escono dalle sale cinematografiche italiane rimangono impresse soprattutto le ultime inquadrature, nelle quali il sogno americano si realizza.

30 “il Selvaggio” inizia le pubblicazioni nel 1924, ma è nel periodo fra il 1926 e il 1929 che viene maggiormente esternata l’ideologia strapaesana. ol-tre a Maccari tra i principali esponenti di Strapaese si ricordano Curzio Malaparte ardengo Soffici, ottone Rosai e Leo Longanesi, che nel 1926 fonda “L’italiano”. Su “il Selvaggio” sono molto frequenti gli attacchi po-lemici contro la diffusione in italia di una cultura urbana e moderna che riprendesse i principi della civiltà e della società americana. “900” nasce nel 1926, improntata alla celebrazione dei nuovi tempi moderni e di una cultura urbana e cosmopolita, tanto da pubblicare le prime traduzioni di autori come James Joyce e Virginia Woolf. Per ulteriori approfondimenti si rimanda, fra gli altri, a Mangoni 1974; Langella 1982; Fabbri 2003; si veda anche supra, p. 95, nota 38.

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Lo SPETTaCoLo DELLa FEDE: DeMiLLE1

negli Stati Uniti la prima proiezione pubblica di I Dieci Coman-damenti ha luogo il 23 novembre 1923 e suscita grande entusiasmo, nel pubblico come nella stampa popolare. ad esempio, James R. quirk scrive nel numero del febbraio 1924 della famosa rivista ci-nematografica illustrata “Photoplay” che The Ten Commandments è «The best photoplay ever made. The greatest theatrical spec-The greatest theatrical spec-tacle in history […] it will last as long as the film on which it is recorded»2.

Peraltro, il film è preceduto già durante i mesi di lavorazione – tra la tarda primavera e l’estate del 1923 nel deserto di Guadalupe, a circa 170 miglia da Los angeles, per le scene dell’esodo degli Ebrei dall’Egitto – da articoli di stampa che raccontano il grande spetta-colo che DeMille sta preparando con la costruzione di imponen-ti scenografie, una vera e propria città, e con l’utilizzo di migliaia di comparse e centinaia di animali per girare le scene di massa. L’entusiasmo per la pellicola è già ben espresso il 5 ottobre 1923 dal produttore del film Lasky, che dopo averlo visto in anteprima, scrive al socio adolph zukor:

although twenty-four hours have passed since i saw Ten Command-ments last night, i am still under the spell of greatest motion pic-ture that has ever been produced since very beginning of the feature photoplay. Cecil has created a masterpiece that will live long after other famous pictures are forgotten… it is almost as if he were in-spired, a new and much bigger Cecil De Mille. i do not believe we can measure possible earning power of Ten Commandments. it will

1 Una prima versione di questo testo è stata pubblicata in De Berti, Subini 2011, pp. 112-119.

2 In Eredità DeMille 1991, p. 288.

126 Il volo del cinema

make [a] new motion picture industry, make new records and show power and possibilities of the screen in a way that has never been approached.3

L’eco del successo americano del film e della sua eccezionale spettacolarità ne accompagna l’uscita anche in Europa, in partico-lare in Francia e in italia tra la fine del dicembre 1924 e il gennaio 1925. ad esempio, nel numero del 30 novembre-15 dicembre 1924 di “La Vita cinematografica” ci sono ben quattro pagine di pub-blicità, illustrate da fotografie e con citazioni dirette riprese dalle didascalie del film, dedicate all’imminente uscita della pellicola, nelle quali si evidenziano le caratteristiche di grande e unico spet-tacolo con frasi come:

il capolavoro di Cecil B. De Mille. La più grandiosa e superba visio-ne biblica a colori. il primo film a meravigliosi colori naturali. Lo sbalorditivo passaggio degli Ebrei attraverso il mar Rosso. La gran-diosità e il fasto dei faraoni. Le più imponenti e suggestive visioni di masse. La realizzazione del soprannaturale.4

anche in italia la pellicola riscuote un grande successo di pub-blico proprio per la strabiliante messa in scena, gli effetti speciali e l’uso del colore, come si può intuire dalla cronaca di una serata al Cinema Corso di Roma pubblicata da “La Rivista Cinematografica” del 15 febbraio 1925:

E la miglior prova di quanto noi diciamo sono gli applausi con cui l’aristocratico pubblico che gremiva la sala del Corso ha accolto que-sto film non solo alla fine di ogni parte, ma perfino durante le pro-iezioni delle parti stesse […]. quando tutte le films saranno come questa e a colori, la cinematografia entrerà trionfante nelle arti e si sederà fra esse gloriosamente.5

Ma in italia, accanto al riconoscimento dell’unicità spettacolare di I Dieci Comandamenti, non mancano, molto più che negli Stati Uniti, perplessità e giudizi negativi da parte della nascente criti-

3 Eyman 2010, p. 203.4 Pubblicità 1924.5 anonimo 1925.

Lo spettacolo della fede: DeMille 127

ca cinematografica sulla struttura narrativa del film e sulla troppo semplicistica morale che lo ispira, come sottolinea in un articolo il corrispondente dalla Francia di “La rivista cinematografica”:

La stampa americana lo ha celebrato con un coro unanime di esaltazio-ni, pretendendo, quasi, che per il mondo moderno corrotto, rappre-sentasse come uno strumento di redenzione. Può darsi che questa ri-evocazione biblica abbia avuto qualche influenza sull’immaginazione dei popoli d’oltre oceano, un gran parte dei quali trova il suo alimento intellettuale nella Bibbia: ma è difficile che la filosofia sommaria che sgorga da questa ricostruzione fittizia, possa impressionare esagerata-mente lo spirito del pubblico francese. il film, che è come un vasto af-fresco, che celebra la morale biblica, è stato tratto da Cecil B. de Mille, da un romanzo di Jeanie Macpherson. Una parte espone le circostanze in seguito alle quali Mosè ricevette l’ispirazione divina che gli dettò i Dieci Comandamenti, e li fece rispettare dal suo popolo. in un’altra si svolge una storia dei tempi nostri, per dimostrare che i principi emessi dai Dieci Comandamenti, non hanno cessato di essere veri e giusti, e che colui che li misconosce, si espone alle peggiori catastrofi. […] La favola che il romanziere americano ha voluto creare per far rinascere il rispetto dei comandamenti biblici, appare abbastanza povera per gli spiriti europei. L’autore ha inventato un personaggio che li trasgredi-sce tutti, al quale contrappone suo fratello, che ne è fervente osservan-te. La madre, buona e pia, sarà vittima del figlio scellerato che, archi-tetto, ha costruito, con materiale di scarto, una chiesa che poi crolla, e sotto la quale essa rimane schiacciata. Ma questo cattivo soggetto sarà punito, perché avrà peccato con una lebbrosa. Si salverà, ma affogherà nel mare. La vedova di lui, che ha compreso i suoi errori, sposerà il fratello che non ha difetti… La trama è di una semplicità infantile, per la grande tesi religiosa e sociale, che lo scrittore d’oltre oceano s’è sfor-zato di sostenere. assai superiore è la rievocazione biblica […]. Mosè e le tavole della legge; il castigo del popolo che si è prosternato dinanzi al vitello d’oro, e l’imponente passaggio del Mar Rosso, sono quadri resi impeccabilmente con mezzi straordinari, e valgono a compensare la sommaria disinvoltura della fittizia concezione, che pretendeva di utilizzarli per il miglioramento dello spirito moderno…6

La lunga citazione fa capire abbastanza bene la struttura nar-rativa del film, diviso in due parti, organizzate sul parallelismo fra

6 Mancuso 1925, p. 14.

128 Il volo del cinema

le due storie. La prima, più spettacolare, narra l’esodo degli Ebrei dall’Egitto, la consegna delle Tavole dei Comandamenti a Mosè e si chiude con la punizione per l’adorazione del Vitello d’oro e i comportamenti dissoluti e immorali del popolo ebraico nel deser-to. La seconda parte, con un’ambientazione contemporanea, vuole dimostrare quanto sia ancora attuale l’insegnamento biblico attra-verso la storia esemplare di due fratelli, uno rispettoso degli inse-gnamenti della Bibbia e l’altro che li irride giudicandoli superati e tiene un comportamento ispirato solo dal proprio interesse, dal piacere personale e dalla conquista di denaro e potere.

Ma si ritornerà in dettaglio sull’intreccio narrativo attraverso l’analisi di alcune brevi sequenze esemplari per capire come le scelte di DeMille e della sua fedele sceneggiatrice Jeanie Macpher-son rispondano a un preciso obiettivo ideologico e di coinvolgi-mento del grande pubblico, che riesce perfettamente, tanto che il successo del film fu enorme non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo, con proiezioni anche nelle comunità parrocchiali e, in certi paesi di campagna americani, persino nelle stesse chiese.

È però ora utile tratteggiare brevemente chi sia DeMille e perché realizzi nel 1923 I Dieci Comandamenti. DeMille è uno dei pochi registi famosi fin dalla metà degli anni Dieci, insieme a Griffith, grazie a film drammatici e commedie come The Cheat (I prevarica-tori, 1914) o Male and Female (Maschio e femmina, 1919) con Gloria Swanson, i cui soggetti sono scabrosi e a forte tasso di erotismo, di sensualità e di violenza. Film, insomma, al limite della censura, anche se, come è stato notato quasi unanimemente dalla critica, tutto il cinema di DeMille prima di I Dieci Comandamenti (più di quaranta pellicole, tra cui molte commedie) è sintetizzabile nel binomio “sangue e sesso” come ingredienti del successo delle sue pellicole. Una formula che nella versione “sangue, sesso e Bibbia” è diventato poi lo stereotipo critico con cui definire anche tutto il successivo cinema di DeMille: ricordiamo che nel 1927 realizza The King of Kings (Il Re dei Re) sulla figura di Cristo, The Sign of the Cross (Il segno della Croce) nel 1932, Samson and Delilah (Sansone e Dalila) nel 1949 e nel 1956, nuovamente, I Dieci Comandamenti.

Ma come mai DeMille nel 1923 decide d’ispirarsi direttamente alla Bibbia? Certamente già nei film precedenti, come hanno nota-to Paolo Cherchi Usai e Lorenzo Codelli, sono presenti riferimenti alle Sacre Scritture:

Lo spettacolo della fede: DeMille 129

La religione come forma di controllo morale sulla violenza del confronto uomo e donna […] compare molto prima che DeMille affronti direttamente tematiche religiose. […] La Bibbia era dunque, per DeMille, un potente elemento di richiamo commerciale, ma era prima di tutto l’efficace manifestazione di un problema più profondo, radicato nella propria sensibilità e tale da inquadrare la tensione fra sangue e sesso nel vincolo dell’imperativo etico.7

Ma se le tematiche bibliche sono già presenti nel cinema di DeMille prima di I Dieci Comandamenti ci sono ragioni per cui esse diventano protagoniste assolute nel 1923. DeMille è un uomo molto attento a costruire film di successo, ad autopromuoversi, è un grande interprete della professionalità non solo registica ma anche organizzativa della macchina del successo di hollywood. L’obiettivo di DeMille è di essere sempre in sintonia con quanto il pubblico desidera, interpretando perfettamente la logica industriale americana. Tra la fine degli anni Dieci e l’inizio degli anni Venti, però, hollywood è percepita da molti come un luogo immorale, sia per alcuni film giudicati eccessivamente scabrosi, sia per la vita dissoluta condotta dai divi e per alcuni celebri scandali. Varie leghe moralizzatrici e associazioni religiose richiedono l’istituzione di una censura federale, l’industria cinematografica viene messa sotto accusa e si minaccia da più parti il boicottaggio delle pellicole. i produttori, quindi, per evitare rischi maggiori decidono di avviare essi stessi una politica di moralità e nel 1922 si costituiscono in associazione con lo scopo di stabilire una serie di misure e di parametri per regolamentare il contenuto morale dei film e prevenire così una legge federale di censura.

in questo quadro, girare I Dieci Comandamenti con un grande investimento economico per farne un film-simbolo di hollywood in tutto il mondo diventa una risposta alle istanze di cui si è det-to; potremmo dire, una dimostrazione delle possibilità morali ed educative del cinema a quanti lo condannano per la sua immora-lità. L’operazione di DeMille ha il fascino della spettacolarità: e la denuncia di vizi ed eccessi sessuali si trasforma nelle sapienti mani dell’uomo di cinema in un pretesto per metterli in scena, come nella lunga sequenza dell’adorazione del Vitello d’oro, nella qua-

7 Cherchi Usai, Codelli 1991, p. 23.

130 Il volo del cinema

le sono pienamente giustificati dalla presenza dell’episodio nella narrazione veterotestamentaria, soddisfacendo tuttavia anche quella parte di pubblico che nel cinema cercava emozioni forti. È da questo film che nasce, appunto, la definizione “sesso, sangue e Bibbia” che accompagnerà DeMille per tutta la sua carriera.

Ma vediamo come DeMille, insieme a Jeanie Macpherson, il cui ruolo non va sottovalutato, costruisca il proprio grande spettacolo morale di più di due ore in funzione del proprio pubblico e non tanto della rappresentazione fedele degli episodi biblici selezio-nati.

a DeMille interessa produrre un grande film spettacolare e nel-lo stesso tempo realizzare un’opera morale, istituendo, come si è accennato sopra, un parallelismo fra passato e presente, nel quale la legge di Dio è la giusta legge su cui si devono fondare le regole della vita dell’uomo, indipendentemente dalla contingente epoca storica.

naturalmente, come si è detto, si dovrebbe indagare come tale tema sia presente anche in film precedenti (basti pensare a In-tolerance di Griffith, del 1916), vederne le influenze su DeMille, analizzare lo stile e l’estetica dell’opera in relazione al cinema clas-sico hollywoodiano8 o soffermarsi sull’iconografia precedente cui s’ispira DeMille per il proprio film: ma ci si potrà qui limitare, so-stanzialmente, all’analisi della struttura del racconto in relazione agli episodi biblici scelti dal regista per capire le ragioni culturali e ideologiche di alcune scelte in funzione del pubblico a cui ci si rivolge.

almeno per quanto riguarda le fonti iconografiche, tuttavia, è importante ricordare i riferimenti alla Bibbia illustrata da Gustave Doré, edita in Francia per la prima volta nel 1865, ma poi diffusa in varie edizioni in tutto il mondo, tanto che le illustrazioni di Doré possono essere considerate una fonte d’ispirazione visiva condivi-sa non solo dalle classi medie e colte, che potevano avere accesso diretto alle edizioni dell’opera, ma anche, più o meno consciamen-te, da un pubblico popolare, perché il loro successo passava anche

8 Per uno studio sull’uso da parte di DeMille di campi e piani nel film, in relazione sia alla propria opera e a precise scelte narratologiche, sia, più in generale, al cinema americano coevo, si rimanda a higashi 1994, pp. 179-201.

Lo spettacolo della fede: DeMille 131

attraverso il riutilizzo, con piccole varianti in alcuni casi, in diverse serie culturali: dalle stampe ai calendari, ai libri per bambini, ec-cetera. inoltre si trattava di riferimenti intertestuali che potevano essere comuni a ebrei, protestanti e cattolici, dato importante per DeMille, che intendeva rivolgersi a un pubblico eterogeneo, pur avendo utilizzato come riferimento la versione della Bibbia fatta tradurre da re Giacomo i d’inghilterra nel 1611, molto diffusa negli Stati Uniti9. Per quanto riguarda altre fonti iconografiche sono evi-denti i molti debiti nei confronti della pittura inglese romantica e vittoriana di John Martin, Edward John Poynter e Lawrence alma-Tadema, che spesso si cimentarono in soggetti biblici o orientali egiziani. John Martin è famoso per le sue illustrazioni dell’Antico Testamento (1831-1835); mentre, in particolare, si è notata la preci-sa citazione del quadro di Poynter Israel in Egypt (1867, collezione privata) per le scene iniziali del film che illustrano la prigionia del popolo ebraico in Egitto. Ma per tutti i tre pittori citati bisogna ricordare come le illustrazioni dei loro quadri o delle loro incisioni si diffondano, anche in questo caso, presso un pubblico vasto ed eterogeneo per il loro riuso in illustrazioni popolari, stampe e altri media (fig. 1).

Come si vede, la strategia comunicativa di DeMille è precisa e punta su un grande spettacolo con un immaginario condiviso dal grande pubblico, tra il quale le classi più colte potranno ricono-scere direttamente i riferimenti alle fonti originarie (Doré, la pit-tura vittoriana), mentre per quelle più popolari il riconoscimento d’immagini note passerà attraverso la diffusione di queste in altri oggetti seriali. infine, non va dimenticato come l’antico Egitto rap-presentasse nel 1923 un argomento di grande interesse e fascino: nel 1922 era stata scoperta la tomba di Tutankhamun e la stampa di tutto il mondo aveva dedicato ampio spazio alla notizia.

a questo punto è importante ricordare che il pubblico cui si ri-volgeva DeMille, che mirava a un successo internazionale e perciò anche alla conquista del mercato europeo, era principalmente di fede cristiana, sia cattolica sia protestante: un pubblico che, co-munque, associava ai temi biblici più il Nuovo Testamento che il Vecchio. nell’immaginario popolare del pubblico di DeMille è la figura di Gesù ad avere soprattutto un ruolo centrale: infatti, ve-

9 Cfr. higashi 1994, pp. 179-201.

132 Il volo del cinema

dremo come DeMille non solo istituisca il parallelismo fra pas-sato e presente, ma coniughi Vecchio e Nuovo Testamento in una sorta di ibridazione culturale che possa ben coinvolgere anche gli spettatori che meglio conoscono i Vangeli rispetto ai libri vetero-testamentari. Ma procediamo alla verifica di questa tesi attraverso l’analisi di alcune sequenze esemplari.

Subito dopo i titoli di testa, una didascalia10 precisa che lo scopo del film è di mostrare non solo l’attualità dei comandamenti biblici contro gli attacchi e le derisioni di una cultura modernista e positivi-sta dominante tra la fine dell’ottocento e i primi del novecento, ma anche come questi siano leggi non soltanto religiose, ma universali e perciò fondamentali per una convivenza civile di tutta l’umanità:

il nostro mondo moderno ha definito Dio un “disturbo religioso” e ha deriso i Dieci Comandamenti ritenendoli antiquati. Poi, fra le risa generali, giunse il rombo tonante della Grande Guerra. E ora un mondo intriso di sangue, amareggiato, senza più risate implora una via d’uscita. Una via d’uscita esiste. Esisteva ancor prima di es-sere scolpita sulle Tavole di Pietra. Continuerà ad esistere quando la pietra sarà polvere. i Dieci Comandamenti non sono leggi a cui obbedire per fare un favore a Dio. Sono i principi fondamentali… senza i quali gli esseri umani non possono convivere. non sono leggi sono la Legge.

La didascalia prosegue poi con una citazione diretta dal libro dell’Esodo (1, 13-14) che introduce la scena degli egiziani che co-stringono a lavorare per loro i figli d’israele. in tutto il film sono presenti molte didascalie con citazioni bibliche, che tuttavia si al-ternano ad altre di pura invenzione, benché di tono sempre mora-leggiante, costituendo un abile amalgama testuale funzionale allo svolgimento narrativo. in particolare, tutta la prima parte è costru-ita con l’uso dei riferimenti al libro dell’Esodo, del quale sono in-dicati, fra parentesi, i precisi riferimenti. È evidente che il ricorso alla citazione diretta è un modo di dare autorevolezza a quanto viene mostrato e di far credere che il film sia fedele e rispettoso del sacro testo, benché ciò non sempre risponda a verità. questa prima parte è poi quella più spettacolare, nella quale si introduce

10 Si fa qui riferimento alla versione italiana delle didascalie così come esse compaiono in Dieci Comandamenti 2006.

Lo spettacolo della fede: DeMille 133

anche l’uso del colore per le scene dell’esodo del popolo di israele inseguito degli egiziani, tra le quali celeberrima è la divisione delle acque del Mar Rosso.

altra sequenza significativa in questa prima parte di rappresen-tazione del Vecchio Testamento è quella della consegna a Mosè delle Tavole della Legge, in un montaggio alternato con le scene delle danze orgiastiche (la didascalia recita: «Si tolsero le vesti») dell’adorazione del Vitello d’oro fatto costruire da aronne, pro-tagonista negativa delle quali è Miriam, sorella di Mosè, che viene punita da Dio con la lebbra per essersi abbandonata a tali ecces-si e aver adorato l’idolo. al ritorno di Mosè, Miriam gli chiede di essere guarita, ma ormai l’ira del Signore si è scatenata e dopo la didascalia «avete attirato la distruzione su di noi con i vostri idoli d’oro», dalle scene di terrore e morte fra gli ebrei si passa, con una dissolvenza incrociata, in un soggiorno tra il popolare e il piccolo-borghese, dove attorno a un tavolo una madre con i propri due figli già adulti sta leggendo il passo corrispondente della Bibbia come apprendiamo dalla didascalia: «e in quel giorno perirono tra i figli d’israele circa tremila uomini del popolo (Esodo 32, 38)».

Si passa così alla parte contemporanea del film. Dan, il figlio miscredente e malvagio, deride la madre e adora il denaro, nuovo evidente Vitello d’oro della contemporaneità: «Sono tutte scioc-chezze mamma. i Dieci Comandamenti andavano bene per i nostri vecchi ma tutta quella roba è morta insieme alla regina Vittoria».

Con una facile contrapposizione, l’altro fratello, John, è buono e rispettoso dei Comandamenti, e si dedica onestamente al proprio lavoro di falegname, forse con un eccesso di allusione alla figura di Cristo. Le storie dei due fratelli, come si è già detto, proseguono parallele e in opposizione fino alla scena in cui la madre muore a causa del crollo della parete di una nuova chiesa costruita da Dan con materiale scadente per ottenere maggiori profitti: da qui in poi non è più il Vecchio Testamento a fare da guida al film, ma entrano in gioco lo spirito e le citazioni del Nuovo.

La madre, prima di morire, chiede perdono a Dan: «Ti ho inse-gnato a temere Dio, invece che ad amarlo… e l’aMoRE è tutto ciò che conta». non c’è bisogno di commentare le parole della donna per capire l’evidente riferimento al nuovo comandamento di Cri-sto, «ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 19, 16-19), natural-mente senza che i Dieci Comandamenti perdano d’importanza,

134 Il volo del cinema

tanto che Dan vede comparire su un muro della chiesa la scritta «non rubare».

Ma l’integrazione fra Vecchio e Nuovo Testamento si completa nelle sequenze finali, dopo il crollo finanziario di Dan e l’uccisione da parte sua dell’amante, una donna orientale sensuale e malvagia, alla quale spara dopo averle rubato una collana di perle e aver sco-perto con orrore che ella ha contratto la lebbra. Dan fugge in barca verso il Messico, dopo aver probabilmente contagiato a sua volta la moglie. Con un montaggio alternato, funzionale a sottolineare la situazione melodrammatica della vicenda, alla disperata fuga di Dan fa da contraltare la scena della moglie che, temendo di avere la lebbra, viene accolta da John, il fratello buono, che aprendo la vec-chia Bibbia della madre le dice: «Mary, c’è un solo uomo che può aiutarti. Un uomo che hai dimenticato». nel frattempo vediamo le immagini di Dan che muore nel naufragio della propria barca e sull’immagine del suo corpo esanime su una scogliera s’inserisce una didascalia con citazione diretta dal Vangelo di Matteo: «quale vantaggio infatti avrà l’uomo, se guadagnerà il mondo intero… e poi perderà la propria anima? (Mt 16, 26)». Le immagini ritornano su Mary e John che legge: «Ed ecco venire una lebbrosa e prostrarsi a lui»11. Su questa didascalia una dissolvenza incrociata ci mostra un uomo ripreso da dietro, seduto su una panca in una povera ba-racca: le molte persone davanti a lui si allontanano quando entra una donna che gli s’inginocchia davanti mostrando le braccia ve-late. L’uomo, che è chiaramente identificabile in Gesù, la tocca e la didascalia recita: «Lo VoGLio Sii SanaTa». La donna guarita bacia il mantello di Gesù, e con una nuova dissolvenza incrociata ritorniamo su John e Mary. John sta leggendo la Bibbia e dalla notte si è passati al giorno; Mary si guarda le mani lisce e sane con stu-pore e, volgendo lo sguardo alla finestra illuminata dalla luce del mattino si rivolge a John: «John, guarda, se n’è andato nella luce!». E John, prendendole le mani, le risponde «Sì, se n’è andato nella LUCE !». Le loro mani intrecciate si appoggiano sul libro della Bib-bia aperto.

il film si chiude perciò su un’allusione al Nuovo Testamento, pur con un adattamento narrativo per cui l’episodio della vita di Gesù della guarigione del lebbroso diventa nella contemporaneità

11 Cfr. Mt 8, 2.

Lo spettacolo della fede: DeMille 135

della seconda parte della pellicola, la guarigione della lebbrosa o, meglio, il superamento della paura della malattia e del contagio nell’amore di Cristo.

Simbolicamente, dal buio della paura, della malattia e del pec-cato si passa alla luce e alla guarigione attraverso l’amore. Con un’operazione di sincretismo culturale si è passati dal Vecchio Te-stamento dell’inizio ai Vangeli della fine, ossia dai Dieci Coman-damenti di Mosè si è passati ai comandamenti dell’amore che si legano alla predicazione di Gesù.

Lo scopo di DeMille di arrivare al pubblico più vasto possibile è raggiunto, perché i milioni di spettatori cristiani, protestanti o cat-tolici, potevano riconoscere nel film gli insegnamenti biblici più popolari, dagli episodi più noti e spettacolari dei libri del Vecchio Testamento ai miracoli dei Vangeli. non è necessario sottolinea-re ulteriormente come l’impressione di fedeltà ai testi sia un’abile strategia, ben lontana dall’essere lo scopo o la preoccupazione re-ale del regista. infine, con la sua rivendicazione della superiorità morale degli antichi valori contro quelli moderni, che hanno por-tato a una guerra devastante o alla perdizione dei singoli per la loro avidità di denaro, DeMille tranquillizzava, almeno in questo caso, chi vedeva nell’industria cinematografica hollywoodiana i germi di una generalizzata corruzione morale, il tutto in una forma di grande spettacolo e con un mondo iconografico di riferimento originariamente colto, ma ora popolarizzato attraverso l’industria culturale di massa e in gran parte condiviso, negli Stati Uniti come in Europa.

La dimostrazione del fatto che lo scopo principale di DeMille fosse lo spettacolo della fede con le grandi scene di massa del Vec-chio Testamento, e non tanto la storia “moralistica” contempora-nea, inserita per compiacere le varie associazioni religiose schiera-te contro hollywood, è evidente da tutta la campagna pubblicitaria per I Dieci Comandamenti, che quasi ignora la seconda parte della pellicola. a questo proposito, per quanto riguarda l’italia, basti citare la brochure di quattro pagine databile fra dicembre 1924 e gennaio 1925, in grande formato come un quotidiano, realizzata per le proiezioni presso il cinema ambrosio di Torino, ma certa-mente costruita con i materiali pubblicitari forniti direttamente

136 Il volo del cinema

dall’ufficio stampa della Paramount produttrice del film12. infatti le due pagine anonime centrali della pubblicazione, dedicate espres-samente all’Argomento del film, lo dividono in quattordici scene, ma ben tredici descrivono dettagliatamente le scene della prima parte relativa agli episodi del Vecchio Testamento e solo l’ultima si limita a un riferimento generico alla storia contemporanea: «E i secoli successero ai secoli… E, per sanare l’umanità dalla lebbra dell’idolatria e del peccato, dovè scendere in terra il Redentore, il figliolo di Dio. La redenzione è nel rispetto alla legge suprema ed eterna, nell’osservanza del divino Decalogo»13. non a caso il rema-ke del film del 1956 dello stesso DeMille cancellerà la storia con-temporanea e punterà sul grande spettacolo della messa in scena degli episodi del Vecchio Testamento14.

Tutta la campagna pubblicitaria dell’edizione del 1923 è incen-trata sull’eccezionalità delle scene di massa con protagonista Mosè e, riprendendo l’esempio della pubblicità italiana per la sala am-brosio di Torino, si legge come titolo in prima pagina «il film del miracolo. il miracolo del film al cinema ambrosio» e, sotto, il testo Indiscrezioni firmato con la sigla F.d.T., che illustra le sensazioni provate da chi scrive davanti al film:

Scriviamo queste righe con l’anima turbata dalla più impressionante delle realizzazioni che lo schermo ci possa offrire. E non ci possono essere parole che riescano ad esprimere certe impressioni sbalorditi-ve che lasciano gli occhi ripieni ancora di luci e di splendori, sperduti in un mondo grandioso e che solo la fantasia pareva fosse capace di crearci. […] noi abbiamo visto tentativi di films a colori, ma ancora non sapevamo che le ultime scoperte avessero portato a una tecnica e ad un preparato speciale che finalmente potessero darci non sempli-ci visioni a due colori, ma splendenti scene multicolori, meravigliose nella loro bellezza. Una delle più formidabili organizzazioni cine-matografiche americane, la Paramount è riuscita appunto a risolvere l’arduo problema, e ce ne dà una luminosa e sorprendente prova ne I Dieci Comandamenti.[…] L’occhio si sazia di luci e di colori, e i qua-

12 La brochure è conservata presso il Museo del Cinema di Torino, sezione Manifesti e Materiali pubblicitari, che ringrazio per la disponibilità e per avermi consentito la consultazione e la riproduzione a scopo di studio.

13 Dieci Comandamenti s.d., p. 3.14 Per questa edizione si veda il paragrafo 3, L’edizione sonora di Tomaso

Subini in De Berti, Subini 2011, pp. 120-123.

Lo spettacolo della fede: DeMille 137

dri si susseguono rapidi e sempre più impressionanti, riempiendo gli spettatori di stupore e di ammirazione. È un brivido intenso che par scendere giù dallo schermo per comunicarsi al pubblico sbalordito. […] La parola «fine» appare sullo schermo e gli occhi e i sensi son presi ancora dall’incanto suggestivo della meravigliosa visione.15

Una descrizione della forte esperienza sensoriale provata dallo spettatore che potrebbe essere definita direttamente con il termi-ne sintetico di Schock utilizzato sia da Georg Simmel nel 1903 in Le metropoli e la vita dello spirito (Die Grossstädte und das Geistesle-ben) per definire le caratteristiche del nuovo stile di vita moderno come intensificazione della vita nervosa; e poi negli anni Trenta da Walter Benjamin proprio in riferimento alle nuove esperienze per-cettive di visione proposte dal cinema agli spettatori soprattutto attraverso il montaggio16.

Un’esperienza sensoriale moderna è senza dubbio la visione del-la prima parte di I Dieci Comandamenti, nonostante il soggetto più antico che si potesse scegliere, che certamente vivono anche un gran numero di spettatori italiani non diversamente da quelli europei e americani attraverso quel cinema hollywoodiano che più di tutti riesce a prendere «occhi e sensi».

15 Dieci Comandamenti s.d., p. 1.16 negli ultimi anni diversi studi hanno ripreso gli scritti di Simmel, Benja-negli ultimi anni diversi studi hanno ripreso gli scritti di Simmel, Benja-

min e Kracauer proprio in relazione al cinema e all’esperienza degli spet-tatori nella vita moderna. Si vedano in particolare Casetti 2005; Benjamin 2012; Bratu hansen 2012.

Pagina successiva. Fig. 1. Stampa da John Martin, The Seventh Plague of Egypt (1828)

Parte IIIMiti riflessi:

la conversione dei letterati al cinema

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GUiDo Da VERonaSCEnEGGiaToRE PER JoSEPhinE BaKER1

il rapporto tra Guido da Verona e il cinematografo può essere considerato un piccolo enigma perché consultando gli studi sul ci-nema italiano riguardanti l’arco temporale compreso fra gli anni Dieci e gli anni Trenta del novecento il suo nome è sostanzial-mente assente, a esclusione di qualche rapida citazione nelle fil-mografie per la riduzione del suo romanzo Cléo robes et manteaux nell’omonimo film diretto da nunzio Malasomma nel 1933 per la Caesar Film di Giuseppe Barattolo. Un film, come si vedrà in se-guito, fortemente contestato da Guido da Verona, che farà causa al produttore tanto che uscirà nelle sale cinematografiche solo nel 1935-1936 con scarso successo di critica e di pubblico. Un’assenza in campo cinematografico, quella di Guido da Verona, che stupi-sce in confronto ai molti interventi di tanti altri letterati coevi dei quali si conoscono sceneggiature originali, adattamenti di loro ro-manzi per lo schermo, scritti teorici o collaborazioni più o meno felici con il mondo del cinema, come nel caso, per citare alcuni nomi, di Gabriele D’annunzio, Giovanni Verga, Guido Gozzano, Luigi Pirandello, Lucio D’ambra, che da una parte possono essere incuriositi e affascinati dalla nuova arte e dall’altra attratti da pos-sibili alti e facili guadagni2. in realtà anche per Guido da Verona, soprattutto consultando le carte manoscritte del suo archivio ora

1 Una prima versione del presente testo è stata pubblicata in De Berti 2011a. Ringrazio alberto Cadioli e Sivia Morgana per l’invito a studiare i mano-scritti riguardanti il cinema dell’archivio di Guido da Verona depositati presso il Centro apice dell’Università degli Studi di Milano. Un ringrazia-mento particolare, per avermi aiutato a orientarmi nelle carte, va alla diret-trice del Centro apice Claudia Piergigli, e a Raffaella Gobbo, Gaia Riitano e Valentina zanchin dello stesso Centro apice.

2 Sui rapporti fra letterati e cinema in italia si veda: Gambacorti 2003; Bru-netta 2004; alovisio 2005.

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depositate presso il Centro apice dell’Università degli Studi di Mi-lano, emerge chiaramente che i rapporti con il cinema ci furono, e a tutti i livelli: dalla riflessione più teorica al tentativo di vende-re i diritti per gli adattamenti dei suoi romanzi più famosi, come Mimi Bluette fiore del mio giardino, alla scrittura di soggetti e sce-neggiature originali3. non diversamente dagli altri letterati italiani suoi contemporanei, le cui vicende sono però più note, i rapporti di Guido da Verona con la fragile e spesso velleitaria industria ci-nematografica italiana furono burrascosi e, nel suo caso, sempre inconcludenti, ma ne rimangono ampie tracce nelle carte inedite come nei suoi romanzi.

nelle pagine che seguono cercherò di tratteggiare una prima mappa, necessariamente sintetica in questa sede, dei rapporti fra Guido da Verona e il cinematografo prendendo in considerazione due aree di ricerca.

La prima si propone di ricostruire che cosa pensi da Verona del cinema, quale sia la sua idea sul cinematografo, utilizzando le car-te depositate presso l’archivio del Centro apice e alcuni riferimen-ti presenti nei romanzi che testimoniano la sua attenzione verso questo nuovo mezzo di comunicazione. La seconda, basandomi solo sulle carte inedite del suo archivio, indaga su da Verona scrit-tore per il cinema (soggettista e sceneggiatore), anche se nessuno dei suoi diversi progetti e lavori sarà mai realizzato.

1. «Tutto è fotogenismo»: il cinema secondo Guido da Verona

Pur in assenza, almeno allo stato attuale delle mie conoscenze, di scritti specifici sul cinema dati alle stampe direttamente da Gui-do da Verona, è possibile inferire il suo pensiero su questo nuovo mezzo d’espressione sia da sue carte inedite, sia dai molti riferi-menti al mondo del cinema che si trovano nei suoi romanzi. Cer-tamente Guido da Verona è ben presto consapevole dell’importan-

3 Utili riferimenti ai rapporti fra lo scrittore e il cinema si trovano in Magrì 2005. Per quanto riguarda, soprattutto, citazioni e rappresentazioni del mondo del cinema all’interno dei romanzi di Guido da Verona si rimanda all’imponente e imprescindibile Tiozzo 2009. Da ricordare dal punto di vista della critica letteraria e dei rapporti dello scrittore con la società del tempo è anche il più datato Piromalli 1975.

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za crescente del cinematografo nella società coeva e dell’influenza che esso esercita sugli stili di vita e i sogni di gente di tutte le classi sociali.

Un primo, cronologicamente interessante riferimento al cinema si trova in una corrispondenza di Guido da Verona con il giova-ne Enrico Roma, scrittore di drammi teatrali, già attore e futuro regista di film tra il 1919 e il 1923, giornalista, romanziere e, negli anni Trenta, critico cinematografico di “Cinema illustrazione”, il popolare rotocalco pubblicato da Rizzoli4. il 16 ottobre 1917 Guido da Verona scrive a Roma scusandosi per il ritardo con cui ha letto la sua raccolta di racconti Menzogne sincere, ma nella lunga e det-tagliata analisi delle diverse novelle, nella quale non risparmia cri-tiche, giudica come la migliore La Repubblica del silenzio che «per mio conto, regge da sé tutta l’architettura del volume»5. Guido da Verona ritiene che sia una felice idea proprio quella di «mettere in scena, se pure caoticamente, questa bizzarra vita del cinemato-grafo, e ciò ricorrendo a un sistema espositivo in particolar modo felice»6.

Come si vede, Guido è incuriosito dal mondo del cinema che giudica «bizzarro», probabilmente con lo stesso atteggiamento un po’ snob di superiorità comune ad altri intellettuali del tempo, ma anche interessante.

Roma poi pubblicherà La Repubblica del silenzio come roman-zo autonomo nel 1919 presso l’editore Ugoletti di Roma seguendo evidentemente il consiglio di Guido, secondo cui la novella poteva diventare un racconto autonomo7.

Ma successivamente da Verona prenderà sempre più sul serio il cinematografo, non solo come possibile occasione di lavoro, bensì comprendendone anche l’importanza in una società moderna nel-la quale sempre di più domina l’immagine.

4 Enrico Roma pubblica due romanzi di ambiente cinematografico: La re-pubblica del silenzio nel 1919 e Immagini per i sogni nel 1939. Per approfon-dimenti sui due romanzi si veda Marchesi 2009, pp. 73-77.

5 Università degli Studi di Milano - Centro apice, archivio Guido da Verona (d’ora in avanti aGdV), serie Lettere, fasc. 3 “Lettera di Guido da Verona a Enrico Roma”.

6 Ibidem.7 in una lettera del gennaio 1918 Guido da Verona scrive a Roma della sua

lettura del nuovo testo della Repubblica del silenzio e gli consiglia di pub-blicarlo senza troppo preoccuparsi dei giudizi degli altri (ibidem).

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Diversi sono i riferimenti al cinema nei suoi romanzi. ad esem-pio, in Azyadéh, la donna pallida, del 1927, il protagonista è un appassionato del cinema americano e di Charlie Chaplin; ma i ri-ferimenti più interessanti alla nuova arte si trovano in Mata Hari. La danza davanti alla ghigliottina, pubblicato in sei volumi tra il 1926 e il 1927 (fig. 1). nel capitolo XXiii del secondo tomo c’è la descrizione ironica di un produttore cinematografico americano, William Cragson, conosciuto come Wat, trasferitosi a Roma per realizzare grandi film con la sua casa «atalanta film. William Crag-son Ltd. San Francisco – California – USa».

Piccolo, panciuto, agile, sbarbato, elegantissimo, egli era, come tutti sanno, il portentoso re della film. aveva il suo quartiere generale, i suoi ministri, i suoi teatri, la sua corte, a San Francisco di California, con diramazioni e succursali nelle cinque parti del globo. […] Egli aveva impresso d’immagini viventi una metratura di pellicola dieci volte superiore a quella del diametro terrestre.aveva speso, in media, un milione per ogni centimetro di pellicola.nei suoi teatri di posa recitavano i re, gli arciduchi, gli arcivescovi, i leopardi, le dreadgnouths, i cannibali, e, qualche volta, Sarah Ber-nard.Si fosse trattato di prendere in affitto l’intera oceania, per girare un quadro della sua più recente film, egli non avrebbe esitato. […] Con queste iniziative a portata di mano, era naturale che M. William Cragson, il popolare Wat, fosse giunto ad una forma di notorietà uni-versale, che mai non fu emulata, nonostante ripetuti sforzi, né dal filosofo Bergson, né dal poeta Claudel. […] Chi fosse giunto in quei tempi nella Città Eterna, avrebbe creduto che il re di Roma fosse mi-ster Cragson Ltd. Tutti gli altri poteri scomparivano davanti al suo; un solo argomento faceva le spese dei mille discorsi: la misteriosa film in preparazione. Tutta Roma sentiva che la sua vera immortalità comincerebbe dal giorno in cui fosse pronta la film portentosa.8

Tiozzo, nella propria analisi del romanzo, vede nel personag-gio del produttore americano l’anticipazione di quelle figure che arriveranno nella Roma degli anni Cinquanta quando le grandi case di produzione americane girano molti film nella capitale, che diventa una sorta di “hollywood sul Tevere” a dimostrazione «di

8 da Verona 1926-1927, ii, pp. 150-156.

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quanto lo scrittore avesse recepito in pieno molte delle tendenze, delle mode, delle idee, degli atteggiamenti che avrebbero poi do-minato quella seconda parte del novecento che egli non avrebbe mai conosciuto»9. Sicuramente in da Verona vi sono la consapevo-lezza e l’intuito che il dominio del cinema americano non può che espandersi incontrastato, ma questo processo era già in atto nei primi anni Venti e probabilmente la descrizione dai toni caricatu-rali del produttore e della sua mania di fare film costosi e spettaco-lari riprende gli echi di cronaca che tra il 1923 e il 1925 riguardano la complessa realizzazione di Ben-Hur (1925) di Fred niblo da par-te della Metro-Goldwyn-Mayer (MGM), che viene girato fra l’italia e la California10.

Senza dubbio premonitrice è l’osservazione di come l’uomo mo-derno abbia come grande aspirazione quella di vedere la propria immagine sullo schermo:

alcuni filosofi pensano che l’uomo dei nostri tempi sia turbato dall’inquietudine di profondi rivolgimenti sociali, dalle ansie di una vita nuova e dalle incertezze contradditorie [sic] delle nuove metafi-siche; ma questo è un grande errore. L’uomo del ventesimo secolo ha una sola aspirazione vera e profonda: quella di vedere la sua immagi-ne proiettata sovra un telone di cinematografo.11

Sempre in Mata Hari c’è anche la constatazione di come il ci-nema sia diventato parte della vita quotidiana moderna di molte persone, dal piccolo borghese all’aristocratico, per sognare nelle sale cinematografiche con Mary Pickford o Gloria Swanson, vere “fate moderne”, o per sorridere ai film di harold Lloyd e Charlie Chaplin, o per far struggere di passione i cuori femminili con Ro-dolfo Valentino:

La passione del cinematografo si è talmente compenetrata negli usi e ne’ costumi della società moderna, che non v’è famiglia di piccoli borghesi, e, per dire il vero, nemmeno di gente patrizia, la quale,

9 Tiozzo 2009, p. 424.10 Per quanto riguarda il set italiano del film si veda quargnolo, Raffaelli,

Redi 1995. in italia il film ebbe problemi con la censura e uscì solo nel 1932.

11 da Verona 1926-1927, ii, p. 156.

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spedito in fretta il desinar della sera, non corra trepidante a cercare qualche ora di vero sogno nelle stipate sale dei cinematografi. Mary Pickford, Gloria Swanson, Mae Murray sono le vere fate leggenda-rie dell’età moderna; il desiderio di migliaia e migliaia d’uomini le contempla tutte le sere con occhi spiritati. harold Lloyd e Charlie Chaplin sono la felicità giornaliera d’infiniti focolari ove regna forse la tristezza; Rodolfo Valentino ha fatto tremare e struggere più cuori femminili che mai non abbia fatto alcun poeta su la terra.questo grande concorrente del teatro, del libro, di tutto ciò che ser-ve allo svago dello spirito, è in fondo l’invenzione più straordinaria dell’età moderna, se l’importanza vera d’un’idea deve misurarsi da’ suoi effetti pratici. E noi stessi, che pure non siamo né fanciulli né femminette, abbiamo troppe volte chiesto al bianco telone fanta-smagorico un’ora d’oblio. Mentre il teatro non ci conquista, perché angusto, perché convenzionale, perché racchiuso tra scenari di carta dipinta, perché afflitto dal pesante ingombro della parola umana, questa macchina meravigliosa che ci conduce attraverso il mondo sopra un fascio di fuggenti ombre, che raduna per il nostro piace-re le donne più belle e gli uomini più sbalorditivi, che intreccia il vero al fantastico, l’ignoto alla piccola verità umile della nostra vita giornaliera, questa macchina che non parla e dice i sentimenti più profondi, che non ride mai e ci fa ridere fino al parossismo, come alle volte ci strozza nella gola un nodo irresistibile di pianto, questa macchina che può far vivere su pochi metri di tela senza impronta le furie dei mari più distanti ed i miracoli delle terre più impenetrate, è la poesia di questa età moderna, la quale cerca nel sorriso delle Dee californesi quel senso di bellezza ultramortale che le vecchie Dee dell’Ellade non le sanno più dare, e scopre nel riso di Charlot la favilla eterna che illumina di dorate scintille il grigio fumo che si alza dai focolari delle umane vite. Dal capo nord al Capo di Buona Spe-ranza, dallo stretto di Behring allo Stretto di Magellano, tutte le sere, nelle metropoli e nei villaggi, milioni d’uomini di tutte le razze van-no a vedere le fiabe della fata Pickford, i miracoli del mago Charlot. quando gli altari sono spenti, e le officine tacciono, e gli immensi cantieri della fatica umana dormono sotto il velo della notte, l’uomo – più bimbo de’ suoi bimbi – viene a guardare questo gioco d’ombre, che rappresentano la sua fuggente vita; per un’ora dimentica il suo calvario, e guarda con occhi assorti la “féerie” del Ladro di Bagdad o La Crociera nera delle automobili Citroën.orbene, il libro se vuol vivere, il teatro se non vuol chiudere i batten-ti, l’arte narrativa e rappresentativa in genere se non vogliono riuscir di peso alla società moderna, debbono tener conto di questa mor-

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bosa passione delle folle umane per la realtà frammista con la fiaba, ed insomma per questi giuochi d’ombra, che fra centinaia e migliaia d’anni potranno far rivivere davanti agli occhi dell’umanità futura, viva ed integra, l’immagine della nostra vita.12

anche nella divertentissima parodia dei Promessi sposi pubbli-cata a Milano dalla Società Editrice Unitas nel 193013 non mancano i riferimenti a quel cinema americano che pervade la quotidianità anche degli italiani: «il signor don Rodrigo farebbe alla bella Lu-cia una posizione di prim’ordine. Se vuol ballare la farà ballare; se preferisce l’arte muta, le farà prender parte al concorso di bellezze italiane della Fox-Film, perché divenga una stella di hollywood. Cinquantamila dollari di stipendio alla settimana, come Gloria Swanson e Mary Pickford»14.

Peraltro Lucia, come tante ragazze della sua età, sogna di diven-tare una diva del cinema muto e per questo scrive e spedisce le sue foto alla Fox Film come confessa alla scettica madre agnese:

– hai spesi male i tuoi quattrini, figlia mia! quei signori non ti ri-sponderanno nemmeno.– invece vi sbagliate di grosso, mia bella mammina. quei signori mi hanno risposto puntualmente, chiedendomi, scusate se vi sembra poco, la circonferenza del mio di dietro. – Lucia trasse un lungo so-spiro, poi aggiunse: – avevo infatti dimenticato di specificarla nel dare la lista de’ miei connotati.questo argomento non mancò di far impressione sulla madre della futura diva di hollywood. […]– a ben guardarti, – ella disse infine – tu sei nata e sputata per di-ventare una Mary Pickford. Se questa è la tua vocazione, che il cielo ti assista, figliuola! Sarai certo più felice rimanendo vergine sino ai quarant’anni, che sacrificandoti per quello scampaforche d’un Ren-zo Tramaglino.Le due donne si buttarono piangendo le braccia al collo, e ardente-mente sperarono che le misure del di dietro inviate al concorso della

12 Ibi, iV, pp. 30-31.13 Tiozzo nota come l’originale della prima edizione «reca in fondo, in cifre

romane, la data MCMXXX-Vii. nell’ultima pagina del libro, prima del re-tro della copertina, leggiamo tuttavia che il romanzo fu ‘finito di stampare in Milano il 10 dicembre 1929-Vi’» (Tiozzo 2009, p. 576).

14 da Verona 2008 [1930], p. 80.

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Fox Film non eccedessero di troppo quelle della scarsissima Greta Garbo, o della ben provveduta Joséphine Baker.15

L’attenzione alla cronaca cinematografica per metterne in ridi-colo gli eccessi ha poi un folgorante esempio nell’esilarante suici-dio di Perpetua, che riprende in chiave comico-parodistica la di-sperazione femminile collettiva, con casi di suicidio, per la morte di Rodolfo Valentino nell’agosto 1926:

Deve sapere che adesso in paese abbiamo un cinematografo. Perpe-tua, frequentatrice assidua del luogo di perdizione, s’innamorò fol-lemente di Rodolfo Valentino. E quando seppe che i medici avevano assassinato il divino interprete, Perpetua, una notte, come una son-nambula, salì fino in cima al Resegone, e si buttò a capofitto.– È un caso tra i più normali tra “le vedove di Rodolfo Valentino”. Pazienza!16

Se da queste citazioni dai romanzi risulta evidente che Guido da Verona è ben consapevole di come il cinema, in particolare quello americano, sia entrato a far parte della vita quotidiana di gran parte degli italiani e abbia raggiunto una tale popolarità da farli sognare di diventare le nuove Mary Pickford o i nuovi Rodolfo Valentino, non mancano anche spunti di riflessione più teorica su che cosa sia il cinema e quali conseguenze culturali e sociali implichi la sua affermazione.

Dalle osservazioni dello scrittore sul cinema all’interno dei suoi romanzi è evidente come egli lo consideri l’invenzione più stra-ordinaria dell’età moderna e come il suo grande successo debba inevitabilmente ridisegnare i tradizionali e ormai superati ruo-li del libro e del teatro nell’occupazione del tempo libero di gran parte delle persone. inoltre, il cinema è strettamente associato con la modernità17 e con la capacità di suscitare «nelle folle umane» grandi emozioni e mescolando alla realtà la fiaba consentirà di far rivivere alle generazioni future «l’immagine della nostra vita»18.

Ma vediamo di completare e approfondire il pensiero dello scrit-

15 Ibi, pp. 194-195.16 Ibi, pp. 253-254.17 Sul ruolo del cinema come occhio della modernità: Casetti 2005.18 da Verona 1926-1927, iV, p. 31.

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tore sul cinema utilizzando due suoi scritti conservati presso l’ar-chivio depositato presso il Centro apice.

il primo, il più importante ai nostri fini, è un manoscritto in-completo, con molte correzioni e cancellature, di sei pagine nu-merate da 5 a 11 (manca però la numero 6), archiviato con il titolo Nella vita d’oggi tutto è fotogenismo19. il testo è senza data, ma per i riferimenti interni all’imminente avvento della parola nei film si può pensare che sia sicuramente compreso tra la fine del 1927 (anno della prima proiezione sonora negli Stati Uniti) e il 1929 (anno in cui anche in italia le sale cinematografiche si attrezza-no per le proiezioni sonore: nel 1930 sarà distribuito La canzone dell’amore di Gennaro Righelli, primo film sonoro italiano), perciò probabilmente di poco successivo a quanto scritto in Mata Hari a proposito del cinema, cui è riconducibile per quanto riguarda il pensiero di Guido da Verona sul cinematografo. Si riportano di seguito le poche parti decifrabili del manoscritto riguardanti il ci-nema. Dalla pagina 5:

Signori miei, dobbiamo concludere che nella vita di oggi tutto è fo-togenismo; tutto è questione di fabbricarsi “un tipo”, così nell’arte come nel cinematografo. Con tutto il rispetto per coloro che piango-no su le rovine del teatro greco – il quale teatro greco si estende da Sofocle a Petrolini – oso affermare coraggiosamente che preferisco un film di Charlot. Può darsi che occorra molto ingegno per scrivere quei vecchi tre atti ortopedici con cui si tenta invano di dare l’ossi-geno all’agonia del teatro moderno, ma io credo, senza far torto a nessuno, che ne occorra almeno il doppio per ideare ed inscenare un buon film. […]Perciò si accordi un posto nell’olimpo a questo grande cinematogra-fo, il quale riuscirà ben presto a dare l’espressione perfetta dei suo-ni terrestri e della voce umana come già è riuscito a rendere eterni gli aspetti delle cose e le forme dei movimenti; accordiamo al mago delle ombre la sua giovine Musa, tra quelle in parrucca e dentiera, imbellettate come driadi sessantenni che ormai si dimostrano im-possenti a far sorridere la vecchia umanità.[…] Salutiamo questo grande illusionista, vero Cagliostro dell’età moderna, che non cessa di far girare ogni sera, da un capo all’altro

19 aGdV, serie Saggistica e pubblicistica, fasc. 43, “nella vita di oggi tutto è fotogenismo…”.

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del mondo, in milioni di sale cinematografiche le sue meravigliose manovelle […].20

La pagina 6, come si è detto, è mancante e alle pagine da 7 a 10 si ha una lunga digressione di come nella vita moderna, caratterizza-ta dal cinema, assuma una grande importanza la fotogenia intesa come immagine pubblica delle persone anche se radicalmente di-versa dalla reale personalità in privato. in particolare a pagina 7 si legge che

l’uomo non è più il proprietario esclusivo della propria immagine […]. noi ci siamo abituati a raffigurarcelo sotto una data luce, in una speciale truccatura, così come non sapremmo figurarci harold Lloyd senza occhiali o senza cappellino e bastoncino il sublime Charlot: […] perché la sola cosa per noi interessante è “il tipo” ch’egli riesce ad incarnare sul telone delle ombre, nel cinematografo della vita.21

Lo scrittore passa poi dai riferimenti cinematografici a quelli di personaggi storici come nerone e Petronio per chiedersi:

Ma che importa in fin dei conti se nerone non fu nerone, se Petro-nio non fu Petronio, dal momento che son passati alla storia l’uno e l’altro, perciò che non furono? […] benché tutte queste siano cose da prendere con beneficio d’inventario, pensando che se il cinemato-grafo è un’invenzione di oggi, gli attori da cinematografo sono sem-pre esistiti.queste considerazioni son fatte, non per il piacere un po’ sterile di sciorinare paradossi ma perché forse io stesso […] debbo quel po’ di malfama sotto la quale son noto a’ miei contemporanei, non certo alle qualità che possiedo (nell’ipotesi che io ne possieda alcuna), ma esclusivamente all’immagine apocrifa che di me sparsero alcuni ese-crabili e diletti miei calunniatori.22

Guido da Verona chiude poi lo scritto a pagina 11 sottolineando come la propria immagine pubblica si sia formata sulla fama di autore licenzioso.

insieme alla lungimirante riflessione sull’importanza che l’im-

20 Ibi, p. 5.21 Ibi, p. 7.22 Ibi, pp. 9-10.

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magine pubblica assumerà sempre di più con l’affermarsi del cine-matografo, a scapito di quella reale, nel quale ciò che conta è come si appare e non quello che si è, Guido accorda al cinema un posto nell’olimpo delle arti e usando il termine «fotogenismo» dimostra di essere, con ogni probabilità, a conoscenza di quanto scrivono sul cinema nei primi anni Venti in Francia autori come Louis Del-luc e Jean Epstein. Delluc nel 1920 pubblica il libro Photogénie. Una nozione teorica, quella di fotogenia, che viene ad assumere una posizione centrale all’interno del dibattito teorico non solo francese, ma internazionale negli anni Venti, anche se «il termi-ne fotogenia viene coniato in Francia verso la metà del XiX secolo in ambito fotografico, dove assume fin dall’inizio l’accezione che conserva tuttora nell’uso corrente, designando la qualità che ren-de alcuni soggetti od oggetti più predisposti di altri alla riprodu-zione fotografica, indipendentemente da come appaiono a occhio nudo»23.

Delluc non dà una definizione precisa della fotogenia e tutti gli autori che si confrontano con questo termine in ambito fotografico e cinematografico sottolineano il carattere misterioso e un po’ inef-fabile di questa nozione, ma semplificando molto possiamo dire che per Delluc è una qualità insita naturalmente nelle cose e negli esseri, ma che risulta evidenziata e accresciuta dalla riproduzio-ne cinematografica e fotografica; e mi pare che tale accezione sia anche quanto emerge dallo scritto di Guido da Verona, che molto probabilmente era a conoscenza del dibattito francese, tanto più in considerazione della sua assidua abitudine a scrivere in francese e a frequentare Parigi. Peraltro anche il suo amore per Chaplin e il personaggio di Charlot è ampiamente condiviso da molti intel-lettuali, soprattutto francesi, che vedono per primi in Chaplin un grande artista che riesce a unire divertimento e grande arte. inoltre Guido da Verona, come scrive Delluc in vari articoli giornalistici, poi raccolti in Cinéma et Cie nel 1919, vede nel cinema un’arte in-dustriale e moderna che ha la sua grande forza nell’essere popolare e diffusa in tutto il mondo e che può affermarsi sempre di più a scapito del libro, come afferma in un altro testo manoscritto con-

23 Boschi 1998, p. 138. allo stesso testo si rimanda per maggiori approfon-dimenti sulla nozione di fotogenia negli scritti di Louis Delluc e Jean Epstein.

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servato presso il Centro apice. il documento, dal titolo Noi e loro, senza data, è costituito da sette pagine scritte a inchiostro, ben leg-gibili e con scarse correzioni, e ha come argomento centrale le dif-ficoltà crescenti che il libro incontrerà a diffondersi e ad affermarsi in una società moderna, caratterizzata dalla velocità, nella quale il libro rischia di morire: «Uscirà inutile cimelio per i cercatori di silenzio e di polvere, soppresso dal giornale, dal cinematografo, dall’urto immediato e sonoro dei fatti vivi»24.

in conclusione, Guido da Verona in queste sue riflessioni, col-locabili sostanzialmente negli anni Venti, sembra ben conoscere i termini del coevo dibattito internazionale critico e teorico sul ci-nematografo ed è perfettamente consapevole della centralità che sta assumendo nella società moderna in cui il cinema è la nuo-va arte popolare. Da una parte si preoccupa del destino del libro, ma dall’altra parte riconosce al cinema di rappresentare il futuro dell’arte in una società in cui dominerà l’immagine.

2. Guido da Verona autore per il cinema

Dopo il grande successo di pubblico di Mimi Bluette fiore del mio giardino era abbastanza scontato l’interessamento da parte di produttori cinematografici per la sua riduzione in film. in effetti, fin dai primi anni Venti, Guido da Verona prende contatti prima con Federico Curioni e arturo Collari e poi con Giuseppe Barat-tolo della Caesar Film per la cessione dei diritti del romanzo e di altre sue opere. Si apre però una complicata vicenda giudiziaria sui diritti d’autore, che si trascinerà per lunghi anni, anche nel dopo-guerra, coinvolgendo prima Guido e poi i suoi eredi (le famiglie Bonelli e Marzoli), Giuseppe Barattolo, Federico Curioni e arturo Collari25.

24 aGdV, serie Saggistica e pubblicistica, fasc. 44, “noi e loro”, p. 7.25 Un particolare ringraziamento va alla disponibilità e cortesia della signora

Selene Bonelli che mi ha messo a disposizione l’istanza di appello con-tro Federico Curioni e arturo Collari presentata al tribunale dell’aquila dall’avvocato Filippo Criscuolo D’oria di Milano per conto degli eredi di Guido da Verona (Bonelli, Marzoli) il 7 gennaio 1956, relativa all’intricata questione dei diritti per lo sfruttamento cinematografico di Mimi Bluet-te fiore del mio giardino e di altre opere letterarie di Guido da Verona.

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nel 1933 Giuseppe Barattolo, all’insaputa dello scrittore, invece che realizzare il tanto atteso Mimi Bluette fiore del mio giardino produce Cléo, robes et manteaux, con la regia di nunzio Malasom-ma e interpretato da Carmen Boni e arturo Falconi per la Caesar Film, senza averne i diritti, tanto che il film, per problemi giudizia-ri dopo la denuncia di Guido da Verona, sarà distribuito soltanto tra il 1935 e il 193626. Contro questo film e il suo produttore Giusep-pe Barattolo è lo stesso Guido da Verona a scrivere, in una memoria manoscritta di due pagine dal titolo Cléo (nella quale Barattolo è indicato con la sola iniziale B.), parole di fuoco e a riassumere i propri diversi progetti per il cinema che fino ad allora non hanno mai visto una concreta realizzazione:

io non ho veduto questo film. non andrò a vederlo. Dovrei per lo meno farmi accompagnare da un reparto mitragliatrici, le quali spa-rassero con palle dum-dum. […] Dovrei mitragliare senza pietà il ri-duttore, il produttore, il regista, gli interpreti, e chi ha reso possibile un tale insulto contro la legge e contro l’arte. non andrò, dunque, a vederlo, perché io sono l’autore d’un piccolo romanzo giocoso, il quale porta lo stesso nome Cléo, robes et manteaux: romanzo che non ho mai ceduto ad anima viva perché ne venisse fatta la riduzione cinematografica.questa è la piccola storia che oggi voglio raccontarvi. La bellezza di 14 anni orsono, entrai in rapporto con un produttore cinematografi-co, che a quel tempo andava per la maggiore. Egli acquistò, prima un mio film (Bluette) poi due, poi tre; poi mi fece scrivere ben quattro scenari per la Venere nera Joséphine Baker, scartandoli successiva-

nell’istanza sono riassunte le diverse tappe processuali e si data una prima cessione dei diritti di Mimi Bluette a Curioni e Collari al 26 ottobre 1926 e a qualche mese dopo la stessa cessione di Mimi Bluette e di La vita comin-cia domani, per 500.000 lire, a Giuseppe Barattolo. nel corso degli anni Trenta s’incroceranno processi per inadempienze contrattuali fra Guido e soprattutto Giuseppe Barattolo che, contravvenendo al contratto, mai realizzerà Mimi Bluette. L’istanza è ora depositata nell’archivio presso il Centro apice.

26 il film non solo fu avversato da Guido da Verona, ma si conquistò anche giudizi critici molto duri, come quello di Sandro De Feo che su “il Mes-saggero” del 17 febbraio 1936 scrive: «questo film, ci viene assicurato, è tratto da un romanzo omonimo di Guido da Verona […] non conosciamo l’opera sunnominata e non sarà certamente dopo aver visto il film che ci precipiteremo in libreria ad acquistarla. il film ahimé ci basta» (Dizionario del cinema italiano 1993, p. 80). La pellicola attualmente risulta perduta.

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mente tutti e quattro […]. Poi mi mandò, senza un soldo di viatico, a scritturare Greta Garbo e altre stelle – cosa che prudentemente non feci: – ed i 14 anni passarono, e mai nessuna scena, di nessun mio film, in nessuna parte del mondo, fu nemmeno per caso iniziato, mentre questo re dello schermo invisibile impediva sistematicamen-te, con accorti sabotaggi, che hollywood o Berlino o Parigi o Roma si occupassero di altri miei films.nell’anno di grazia 1930 si stabilì una convenzione definitiva: – il B., me estromesso da ogni controllo, prendeva solenne e formale impe-gno di eseguire Bluette entro il 24 maggio 1932; di eseguire L’amore che torna entro il 24 marzo 1934, e L’impero degli uomini vivi, en-tro la stessa data 1936. Poteva invertire l’ordine di questi tre films, ed anche chiedermi di sostituirne alcuno con altro libero della mia produzione, se, nel primo biennio, avesse però eseguito e proiettato uno dei tre.27

il testo è senza data, ma dato che cita avvenimenti accaduti fino al 1936 e il fatto che lo scrittore si rifiuta di andare a vedere il film tratto da Cléo, distribuito nelle sale fra il 1935 e il 1936, si può pre-sumere che sia stato scritto fra lo stesso 1936 e al massimo l’inizio del 1937. inoltre, facendo risalire a quattordici anni prima i con-tatti con Barattolo, si può pensare che già tra il 1922 e il 1923 si pensò alla trasposizione cinematografica di Mimi Bluette fiore del mio giardino28.

Le vicissitudini e il tormentato rapporto di Guido da Verona con il mondo del cinema, e in particolare con Barattolo, testimonia-no anche le difficoltà produttive, l’incompetenza e il velleitarismo megalomane di molti progetti, come l’idea di scritturare Greta Garbo, che caratterizzano la profonda crisi in cui si trova il cinema italiano dalla metà degli anni Venti fino all’inizio dei Trenta e di cui Barattolo, consigliere delegato dell’UCi (Unione cinematografica Italiana) che riunisce in un trust undici case di produzione, è uno dei principali responsabili.

Diverse tracce dei lavori per il cinema, soggetti, sceneggiature, di cui parla Guido da Verona nella sua memoria a proposito di Cléo

27 aGdV, serie Opere pubblicate, fasc. 45, “Cléo”, pp. 1-2.28 anche Magrì nota come già nel 1923 ci siano le prime trattative fra Barat-

tolo e da Verona per la cessione dei diritti di Mimi Bluette fiore del mio giardin (Magrì 2005, pp. 205-206).

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sono presenti fra le sue carte inedite depositate presso l’archivio del Centro apice. La traccia più interessante e consistente è quella relativa agli «scenari per la Venere nera Joséphine Baker». L’idea di Barattolo di far scrivere delle sceneggiature per Josephine Ba-ker a Guido da Verona se da una parte rientra nella megalomania dei suoi progetti, dall’altra rivela una buona intuizione perché lo scrittore è in grado di costruire attorno alla danzatrice americana delle atmosfere esotiche ed erotiche che ben si possono adattare al suo personaggio. È probabile che l’idea a Barattolo sia venuta vedendo il debutto cinematografico della Baker del 1927 con La Sirène des tropiques, diretto da Mario nalpas e henri Etiévant, che si avvaleva della sceneggiatura dello scrittore e giornalista francese Maurice Dekobra, che con i suoi romanzi di enorme successo in-ternazionale e ben conosciuti in italia, è certamente vicino a Guido da Verona per soggetti e stile adottati. il film viene distribuito in italia nel 1929 con il titolo La sirena dei tropici, ma già nel 1928 ave-va riscosso anche nel nostro Paese un notevole successo La grande rivista (La revue des revues, 1927), diretto da Joe Francis, che pre-sentava i numeri della rivista parigina della Baker29. inoltre, in ita-lia Josephine Baker, che aveva conquistato il pubblico di Parigi dal 1925 con le sue doti di cantante e ballerina (il gonnellino di banane diventa un mito) è molto popolare per le sue tournées teatrali che hanno grande risonanza sulla stampa dell’epoca30 (fig. 2). Spetta-coli teatrali, comunque, che furono sottoposti a stretti controlli di polizia e che destavano preoccupazione nel regime anche per l’en-tusiasmo del pubblico e probabilmente per il timore delle proteste delle autorità religiose nei confronti di un’attrice dalla sensualità così esplicita. Da una serie di documenti depositati presso l’ar-chivio di Stato di Milano indirizzati alla Prefettura di Milano da

29 Sulla distribuzione dei due film della Baker in italia si veda Martinelli 2000. Da ricordare è inoltre l’uscita di altri due film della Baker negli anni Trenta: zouzou (in italia zou-zou) nel 1934, con Jean Gabin e la regia di Marc allegret, e La Princesse Tam Tam (La principessa Tam Tam) nel 1935, diretto da Edmond Gréville. Sull’attività dell’attrice in italia rimando a De Berti 2011b.

30 ad esempio nel 1932 il settimanale di attualità di Rizzoli “il Secolo illustra-to”, nel numero del 13 febbraio, dedica un servizio all’accoglienza trionfale tributata alla Baker dal pubblico di Milano. Si veda. L. Ramo, Joséphine, da mezzanotte alle tre, «il Secolo illustrato», anno XXi, n. 7, 13 febbraio 1932, p. 7.

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parte della questura e del Ministero dell’interno si confermano sia l’entusiasmo di giovani studenti per l’arrivo a Milano della Baker il 4 febbraio 1932 (fig. 3) e per il suo spettacolo al Teatro Lirico la sera del 5 febbraio, sia il divieto del maggio 1932 da parte del Ministero dell’interno di autorizzare «un nuovo corso di recite della Baker che avrebbe dovuto iniziare da Trieste». Peraltro la stessa autoriz-zazione alla tournée del mese di febbraio è inizialmente negata e alla fine concessa dal Ministero dell’interno con un dispaccio del 10 novembre 1931 al Prefetto di Milano e al questore di Roma, nel quale si scrive: «Tuttavia le rappresentazioni della Baker potranno essere consentite in tutta italia, ad eccezione di Roma»31. non è difficile immaginare che l’eccezione di Roma sia intesa a evitare polemiche con il Vaticano (fig. 4).

Guido da Verona deve aver accolto sicuramente con entusiasmo la richiesta di scrivere per la Baker, come dimostra la presenza nel suo archivio presso il Centro apice di una serie di materiali pensati per la Venere nera. il documento più interessante è una sceneggia-tura manoscritta in francese, senza data, di centoquarantatre fogli sciolti, ma numerati progressivamente, dal titolo Lady Clarendon ou le préjugé de race, sulla prima pagina del quale è indicato «film écrit pour madame Joséphine Baker par M. Guido da Verona»32. il manoscritto è organizzato in tre parti, ognuna a sua volta suddivi-sa in scene: la prima da 1 a 108, la seconda da 1 a 99 e la terza da 1 a 47, per un totale di 254 scene. La sceneggiatura presenta poche correzioni ed è strutturata come un copione definitivo pronto per la lettura e le successive riprese, anche se manca in modo evidente di una o due pagine finali con le ultime battute del dialogo con-clusivo, sicuramente scritte perché la vicenda è sostanzialmente chiusa. il testo meriterebbe un’analisi approfondita e dettagliata per la sua esemplarità nel riprendere il genere avventuroso-esotico di romanzi e film, soprattutto francesi e americani, dei primi de-cenni del novecento. Si tratta di una storia ricca di colpi di scena che si apre in inghilterra nel castello dove vive la nobile famiglia dei Clarendon per poi passare rapidamente nella giungla dell’afri-

31 La documentazione è depositata presso l’archivio di Stato di Milano: aSM, Prefettura, gabinetto, 1714/16, fasc. Baker Josephine ballerina rappresentazioni.

32 aGdV, serie Testi letterari, fasc. 81, “Lady Clarendon ou le préjugé de race”, p. 1.

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ca Centrale, meta del viaggio di nozze del giovane esploratore sir harold Clarendon con lady Mabel. Vediamo, a titolo d’esempio, alcune scene iniziali che nel loro rapido alternarsi degli ambienti, peraltro descritti in modo efficace, dimostrano le buone capacità di sceneggiatore di Guido da Verona:

2 – L’ancien manoir de Clarendon Castle, dans le comté de Sussex.Parc – Façade – Ecuries – etc.3 – L’interieur du château.La salle où sir harold Clarendon a rassemblé les trophées de ses chasses africaines.[…]8 – Miss Mabel et sir harold sont dans la salle au trophées, devant le planisphère. ils parlent tendrement de leur prochaine bonheur.“notre voyage de noces aura lieu aux tropiques. on chassera la ga-on chassera la ga-zelle et le tigre”.[…]14- Dans la jungle du centre afrique.La caravane est en marche. Porteurs, mulets, chevaux, indigènes.33

Una volta in africa, alla spedizione inglese accadono varie vicis-situdini e in circostanze misteriose lady Clarendon ha un rapporto sessuale con Farga, «un superbe indigène, taillé dans le bronze»34, capo dei portatori indigeni. Rimasta incinta, al suo ritorno in in-ghilterra dà alla luce una bambina: «La fille de lady Clarendon est de sang nègre»35. La neonata, una splendida mulatta, viene affidata agli zingari e cresce come una di loro: qui si ha nella sceneggiatura una lunga digressione sulla vita dei gitani. La bambina, di nome Malou, cresce e diventa bella, forte e grande danzatrice, tanto da essere chiamata la «Vénus gypsie». in circostanze casuali Malou salverà la vita del giovane marchese di Clarendon (senza sapere che è il proprio fratellastro), che aveva avuto un incidente aereo e che s’innamora di lei. Durante la festa data al castello dei Clarendon in onore dei gitani per aver salvato l’erede della nobile famiglia, Malou, diventata principessa degli zingari, dichiara l’impossibilità di amarlo perché «Je suis une tzigane; ma destinée est de mar-

33 Ibi, pp. 2-5.34 Ibi, p. 5.35 Ibi, p. 16.

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cher de route en route, sans amour, sans bonheur, sans but…»36.La sceneggiatura s’interrompe poche pagine dopo, sempre sul-

la conversazione dei due giovani, ma si può intuire che il finale prevedeva che Malou continuasse la propria strada di principessa degli zingari, di «Vénus gypsie», probabilmente dopo la rivelazio-ne di lady Clarendon di essere sua madre. ovviamente il ruolo di Malou, che ha molte scene in cui danza, era scritto per Josephine Baker. La scelta dell’ambientazione nel mondo degli zingari, con-notato da un fascino romantico di libertà, è piuttosto interessan-te e dimostra anche l’anticonformismo di Guido da Verona, che si schiera contro ogni pregiudizio razziale in anni in cui ciò non era certo così scontato. La sceneggiatura – pur rientrando, come si è detto, nel genere avventuroso-esotico di cui sono riconoscibi-li alcuni tratti tipici nelle caratteristiche dei personaggi – mostra indubbiamente una certa originalità più in sintonia con i modelli internazionali che con quelli prevalenti nel cinema italiano fra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta.

anche gli altri frammenti di soggetti e sceneggiature riconduci-bili ai progetti per Josephine Baker, probabilmente ignara di tutto, appaiono abbastanza originali e brillanti, come il soggetto di due pagine (un foglio scritto su entrambe le facciate) un’americana di colore a Parigi, nel quale appunto «Un’americana di colore, ricca a miliardi, viene a Parigi per cercarsi marito. […] L’americana ha la passione delle bestie […], ha portato con sé il suo elefante preferi-to, ed è con questo mezzo di locomozione ch’ella fa la sua prima uscita nelle vie di Parigi»37.

Un soggetto che potrebbe adattarsi benissimo a una commedia sofisticata americana degli anni Trenta, come anche quello di La signorina Venere38, pensato per una rivista dove si utilizzi in scena anche il cinematografo:

Rivista gaia del secolo XX, con danza, commedia, musica, fonografo e cinematografo.Compare della rivista è l’onorevole Prof. Theobald Plotius, ameri-cano di Berlino. Comare la sempre bella ma disincantata signorina

36 Ibi, p. 139.37 aGdV, serie Testi letterari, fasc. 131, “Soggetto: Un’americana di colore a

Parigi”, p. 1.38 aGdV, serie Testi letterari, fasc. 74, “La signorina Venere”.

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Venere.Vi agiscono uomini, donne, bestie, alberi, statue, profumi, ed altre cose di minore importanza.questa commedia si propone di nulla dimostrare, nulla insegnare, nulla risolvere.39

Purtroppo l’idea di questo spettacolo multimediale con l’uso in scena di fonografo e cinematografo rimane solo allo stadio di un primo incompleto abbozzo. Completo, invece, con ottantaquattro pagine manoscritte, datate 1935, è un racconto in terza persona ambientato in Cina che Guido da Verona definisce «Romanzo-Film», ma che non è da confondere con una sceneggiatura per il cinema. infatti, Guido da Verona aveva già usato questo espediente di presentare ai lettori un proprio scritto letterario come fosse un film nell’introduzione a un capitolo di Mata Hari. La danza davan-ti alla ghigliottina:

Propensi ora e sempre a camminare di pari passo con le tendenze del secolo, noi pure abbiamo deciso, in questo capitolo, di far assistere i nostri lettori allo svolgimento di un interessante film. inutile dire che si tratta di un “supercolosso” dell’arte cinematografica, nel quale i milioni furono profusi come granelli di frumento secco, la prota-gonista – signorina Mata hari – ci è costata un occhio della testa, e nulla fu risparmiato, dal punto di vista dell’allestimento e della mes-sa in scena, perché questo grande cinedramma, intitolato Il calvario di una sposa onesta, riuscisse in tutto conforme all’aspettativa de’ nostri lettori.40

Lo scrittore intuisce che nell’epoca del cinematografo anche il romanzo, per poter competere commercialmente, deve adottare le tecniche spettacolari del film.

Per quanto riguarda altri testi pensati specificatamente per il

39 Ibi, p. 1. il fascicolo contiene tre testi manoscritti dallo stesso titolo, tutti incompleti. il primo, da cui è ripresa la citazione, ha solo il prologo e il primo atto con due scene; il secondo è una versione precedente del primo e presenta il prologo, il primo atto con una scena e alcuni appunti sparsi; il terzo è un racconto breve (o possibile soggetto cinematografico?) che si svolge in uno scompartimento di un treno e non ha nulla in comune con gli altri due.

40 da Verona 1926-1927, iV, p. 31.

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cinema conservati nell’archivio di Guido da Verona, rimane da ri-cordare un manoscritto a matita di diciotto pagine, Suona l’Halla-li41, che è un soggetto cinematografico in alcune parti già concepito come una sceneggiatura divisa in scene e con dialoghi fra i perso-naggi, avente come protagonista, ancora una volta, una ricca ra-gazza americana, miss Cecily Lockwood, giunta a Roma da Parigi con la madre per trascorrere la stagione invernale.

La storia è incentrata sulle stravaganze della protagonista, cui piace giocare con le armi della seduzione con vari nobiluomini ro-mani che le fanno la corte. Gli ambienti in cui si muove vanno dal salotto dove organizza il tè, alla regata di vela, all’ippodromo, alla festa di beneficenza durante la quale mette maliziosamente in vendita una propria camicia. La giovane ereditiera americana trascorre il proprio tempo a cavalcare o a correre con l’automobi-le «sedendo lei stessa al volante della sua polverosa macchina da corsa, talvolta sola, talvolta in compagnia dei suoi corteggiatori, si lancia con temeraria maestria per tutte le strade urbane o della grande campagna»42.

Una disinibita e disinvolta «Venere transatlantica», come la de-finisce lo stesso scrittore, che anche in questo caso è facile accosta-re alle figure femminili della commedia sofisticata americana.

infine restano da citare due manoscritti in francese di poche pagine, che hanno tutte la caratteristiche di appunti incompleti. Uno, dal titolo Le terrible film (sette fogli)43, ha come protagoni-sta un giovane nobile francese arruolatosi per pene d’amore nel-la Legione Straniera che si racconta in prima persona. L’abbozzo di sceneggiatura si apre con una sfilata di legionari che marciano cantando sotto il sole del deserto.

L’altro, Ouverture per Mimi Bluette (sette pagine)44, è un chiaro indizio del lavoro personale di Guido da Verona sul romanzo che più di tutti sperava di vedere realizzato sullo schermo cinemato-grafico, ma presenta solo una serie di brevi quadri ambientati nella Legione Straniera in africa e Parigi.

in sede di bilancio finale, è difficile stabilire che segno avrebbero

41 aGdV, serie Testi letterari, fasc. 134, “Suona l’hallali”.42 Ibi, p. 2.43 aGdV, serie Testi letterari, fasc. 88, “Le terrible film”.44 aGdV, serie Testi letterari, fasc. 114, “ouverture per Mimi Bluette”.

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lasciato nella storia del cinema italiano, se si fossero tradotte in film, le sceneggiature di Guido da Verona, ma certamente lo studio delle sue carte ha rivelato un inaspettato interesse verso il cine-ma in una visione di ambientazione cosmopolita con una spicca-ta propensione a disegnare personaggi femminili anticonformisti in sintonia con le cinematografie francese e americana del tempo. quello di Guido da Verona è un caso emblematico proprio per es-sere rimasto solo a un velleitario livello di progetto, come tanti al-tri di quell’industria cinematografica italiana che nelle intenzioni puntava a creare un cinema di genere italiano in grado di compete-re con quello hollywoodiano tanto amato dal pubblico nazionale. questa, a partire dalla metà degli anni Trenta, era anche la scom-messa del regime, in parte fallita, e che forse solo con l’impiego di divi internazionali come Josephine Baker, ma di fatto impossibili a scritturarsi, avrebbe avuto qualche opportunità di riuscita.

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Fig. 1. Copertina di Guido da Verona, Mata Hari. La danza davanti alla ghigliottina, volume ii, Milano, Modernissima, 1926

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Fig. 2. Fotoservizio su Josephine Baker, in “il Secolo illustrato”, 7-14 gennaio 1928, p. 7

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Fig. 3. Fotoservizio su Josephine Baker a Milano, in “il Secolo illustrato”, 13 febbraio 1932, p. 7

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Fig. 4. Copertina dedicata a Josephine Baker di “il Dramma”, 15 febbraio 1932

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MaRio SoLDaTinELLa FaBBRiCa DEL CinEMa1

new York, novembre.Un passo concitato nel corridoio mi destò di soprassalto. […] «Siamo arrivati! Siamo arrivati!».Ebbi una fitta al cuore, capii che il bastimento si era fermato. […] nel silenzio che per un attimo ancora seguì quel grido mi sentii sospeso, come allo svegliarmi da un sogno. Mi sentii fermo davanti a una vita che, passato quell’istante, mi avrebbe afferrato. in quell’istante ten-tai di ribellarmi: ero convinto di potere, con una semplice volizione della mia fantasia, continuare a vivere nell’irrealtà della traversata. Ma già un secondo, un terzo grido, uno sbattere d’usci, un accorrer di passi da ogni lato mi avvertivano che la vita era ricominciata, ine-sorabilmente. Ero arrivato: l’america esisteva sul serio; avrei dovuto viverci, lavorare, soffrire, era impossibile sottrarsi a questo futuro; prima del mezzogiorno, fra poche ore, avrei visto i grattacieli, e mi sarebbe turbinato intorno un traffico immane ed inutile.2

1 questo testo, con piccole modifiche e un diverso titolo, riprende De Berti 2010c.

2 Soldati 2007 [1929], pp. 1326-1327. L’articolo di Soldati è stato pubblicato per la prima volta in “il Lavoro” del 6 dicembre 1929. non inserito nella prima edizione del 1935, pubblicata da Bemporad, di America primo amo-re, è poi sempre presente con il solo titolo Neviorche in tutte le edizioni successive. Cfr. Soldati 2007 [1929], nota a p. 1326. Per uno studio più ge-nerale sulle diverse edizioni di America primo amore si rimanda a nigro 2003. i successivi riferimenti a questo testo saranno sempre dall’edizione curata da S.S. nigro. Si veda anche la recente edizione pubblicata in Soldati 2011, pp. 17-220. in quest’ultimo volume oltre all’introduzione del curatore (Falcetto 2011) si rimanda anche alle accuratissime Notizie sui testi 2011.

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Mario Soldati descrive così il suo arrivo a new York nel 1929 e probabilmente al suo posto avrebbero voluto esserci diversi giova-ni intellettuali che erano affascinati dalla letteratura e dal cinema americani e che potevano solo sognare quel viaggio in un luogo tanto frequentato nell’immaginario quanto tutto da scoprire nella realtà. Per citare un nome fra quei “giovani sognatori”, basta ri-cordare Cesare Pavese, che vive anch’egli a Torino, di soli due anni minore di Soldati, e che nel giugno 1930 si laurea in Lettere con una tesi sulla poesia di Walt Whitman e frequenta con assiduità e grande passione i cinematografi della città, soprattutto per vedere i film hollywoodiani che tanto successo riscuotevano in italia dalla metà degli anni Venti3. Forse i due, senza saperlo, sono stati sedu-ti vicini in qualche sala popolare per assistere alla proiezione dei film di Tom Mix o di Greta Garbo, ma più probabilmente entrambi erano presenti nella sala La Saliera, il 2 luglio 1928, per ascoltare la presentazione di Giacomo Debenedetti alla proiezione del film Voyage au Congo di Gide e allegret, che segna il debutto anche nella critica cinematografica del torinese Debenedetti, dopo un suo primo intervento su “Solaria” nel 19274. Certo, per Debenedetti il cinema rispetto alla critica letteraria rimane un’attività margina-le, ma che fra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta è praticata con grande assiduità e acume, come sottolinea orio Caldiron: «La coscienza teorica del nuovo mezzo si salda nello scrittore alla pa-dronanza dei procedimenti tecnico-linguistici»5. ad esempio, nel marzo 1929 Debenedetti pubblica sulla “Gazzetta del Popolo” di Torino, con lo pseudonimo proustiano di Swann, che già usava dal 1926 per i propri interventi critici sul giornale, cinque articoli di cinema, e in particolare l’8 marzo uno dal titolo Poesia di Charlot6, nel quale si osserva che l’arte di Chaplin ha portato «al massimo

3 negli stessi romanzi di Pavese, come Ciau Masino, si ritrovano diversi ri-ferimenti ai film americani degli anni Venti-Trenta. Per approfondimenti sul rapporto fra Pavese e il cinema a Torino si rimanda a Pavese 2007: in particolare si vedano, ibi, Della Casa 2007 e Ventavoli 2007. Più specifica-tamente si veda Prono 2011.

4 Le notizie riguardanti l’attività di critico cinematografico di Giacomo De-benedetti, così come le sue recensioni, sono riprese nell’antologia Debe-nedetti 1983. Per le citazioni degli articoli di Debenedetti si farà sempre riferimento a questa edizione.

5 Caldiron 2006, pp. 490-491.6 L’articolo è contenuto in Debenedetti 1983, pp. 141-145.

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dell’evidenza le più sottili sfumature del sentimento contempora-neo, e ha raggiunto la più alta conquista dello stile: dire in maniera semplice delle cose complicate»7. in questo articolo emerge già in filigrana un dato comune, al di là delle diverse posizioni individua-li, a tanti articoli di intellettuali e letterati italiani che negli anni fra le due guerre si occupano di cinema, come Soldati: l’interrogar-si sul cinematografo, da una parte come nuova arte, dall’altra come industria moderna dello spettacolo di massa, che ha nel cinema americano il modello con cui confrontarsi nel bene o nel male8. Tra l’altro Debenedetti dimostra di essere attento lettore di roto-calchi stranieri, perché nel suo articolo riprende esplicitamente un’intervista a Chaplin pubblicata prima da “harper’s Magazine” e poi da “Revue hebdomadaire”. Debenedetti, formatosi nella cultu-ralmente vivacissima Torino gobettiana, pubblica nel 1929 il primo volume di Saggi critici9, ove lo studio della letteratura è sempre, più o meno esplicitamente, accompagnato da una costante atten-zione al più ampio contesto sociale e culturale, così come i suoi scritti sul cinema.

Tornando a Soldati e al suo viaggio verso gli Stati Uniti, tra i pochi libri che ha nel bagaglio ci sono, insieme a Gli indifferenti dell’amico Moravia, «a Dante, ariosto, Tasso, Leopardi, ‘tutta la Recherche’ […] proprio i Saggi critici di Giacomo Debenedetti»10.

Si può forse, allora, azzardare un’influenza di Debenedetti su Soldati, che si evidenzia in una comune pratica critica libera da condizionamenti metodologici precostituiti in modo rigido, ca-ratterizzata da un interesse interdisciplinare verso tutte le arti: dalla letteratura al teatro, dalla pittura al cinema; e che si occupa,

7 Ibi, p. 141. Per i film di Chaplin si ha sempre un consenso unanime da parte di tutti gli intellettuali del mondo che li giudicano vere e proprie opere d’arte poetica. Per l’italia si rimanda, ad esempio, agli articoli di antonello Gerbi pubblicati nel 1926 sulla rivista “il Convegno” e ora riproposti in Ger-bi 2011. Si veda anche andreazza 2008, pp. 142-146.

8 Sul mito del cinema americano e sul lavoro dei letterati in italia nel pe-riodo fra le due guerre si rimanda a Brunetta 1993, pp. 158-196. a questo proposito si vedano anche Brunetta 2004 e zagarrio 2004. Sulla complessa questione dell’influenza americana in italia in ambito cinematografico si rimanda a Ricci 2008, pp. 125-155.

9 Debenedetti 1929.10 Falcetto 2006a, p. LXXXii. nello stesso volume si veda anche Falcetto

2006b.

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con la medesima attenzione, di opere e autori maggiori e minori. Ma i dati che ancor più di li accomunano, almeno per quanto ri-guarda la critica cinematografica, oltre all’ammirazione per Ernst Lubitsch, sono da una parte la considerazione dei riflessi sociolo-gici del cinema sul pubblico, e dall’altra lo svelare il funzionamen-to tecnico della macchina cinematografica, con i suoi trucchi e le sue tante professionalità: dall’attore al regista, dallo sceneggiatore all’operatore, dal produttore al truccatore e così via, come faranno Debenedetti soprattutto nelle sue recensioni sulla prestigiosa ri-vista “Cinema”, alla quale collaborerà fra il 1936 e il 1938; e Soldati nel libro 24 ore in uno studio cinematografico, che pubblicherà nel 1935 con lo pseudonimo di Franco Pallavera per l’editore Corticelli11 e con l’articolo L’operatore pubblicato in “Film” nel 1943, nel quale narra la sua prima volta su un set nel 1931 alla Cines come assisten-te di Mario Camerini12. Tra i due critici non mancano anche diffe-renze, ad esempio nell’atteggiamento verso il cinema americano, ammirato quasi incondizionatamente da Debenedetti e, invece, oscillante fra apprezzamento e caustica ironia in Soldati, come vedremo nell’articolo Il segreto di Hollywood, pubblicato sulla ri-vista “Pan” nel dicembre del 193413: ma si tratta più di sfumature e di constatazioni sulla differenza culturale fra spettatori italiani e americani che di reali divergenze. in entrambi vi è la consapevo-lezza che il cinema è industria, ma può anche essere arte, un’arte collettiva direbbe Soldati, e contemporaneamente spettacolo po-polare per grandi masse, e in questo senso Soldati «non ha alcun dubbio nel preferire il cinema americano ai film d’arte europei»14.

Soldati, fin dalla propria esperienza di spettatore cinematogra-fico in america, ha sempre dichiarato di non amare il cinema, o meglio: di amarlo molto meno del teatro o della letteratura, di es-sere finito a lavorarci per una serie di circostanze esterne dovute al bisogno, e di aver cominciato a frequentare assiduamente le sale

11 Pallavera 1935.12 Soldati 1943, poi ripubblicato in Soldati 1959 (ora in Soldati 2006b, pp.

360-372 e in Soldati 2011, pp. 1279-1289.13 Soldati 1934.14 Morreale 2006, p. 133. al testo di Morreale si rimanda in generale per un

approfondimento su tutta la complessa attività culturale di Soldati, con particolare riferimento al cinema. Per quanto riguarda il solo ambito cine-matografico si veda anche Malavasi 2006.

Mario Soldati nella fabbrica del cinema 171

cinematografiche negli Stati Uniti dopo che aveva finito i soldi che gli permettevano di andare a teatro. Un’inimicizia fra Soldati e il cinema, come la definisce Domenico Scarpa15, che però non gli im-pedisce di ammettere anche l’ammirazione e la seduzione che il cinema americano di genere, come spettacolo per il grande pub-blico, ha sempre esercitato su di lui, come scrive nel 1934 nel citato articolo su “Pan”:

questo gusto del cinematografo non esiste in Europa. E quasi tutti i film europei sono noiosi. […] invece, un film americano innanzi tutto e sempre è un film. Cioè non annoia. il film americano è quello spettacolo che una sera che hai sonno, se gli amici ti trascinano in un cinematografo e tu entri deciso a squagliartela dopo il varietà, visti così, tanto per pigrizia di alzarti, i primi metri, ti passa il sonno, gli occhi ti si aprono e stai fino alla fine senza accorgertene. Poi, quando esci, magari pensi: che stupidaggine. Ma intanto ci sei rimasto.La grande maggioranza della produzione di hollywood, i film cor-renti, comuni, in serie, sono tutti divertentissimi. E sono anonimi: non di firma ma di forma. Recano i nomi del direttore, degli scena-risti, degli attori: ma non presentano speciali caratteri, non rivelano personalità. E cioè non sono opere d’arte. Ma opere di gusto. ope-re che sorgono dalla collettività, dalla collaborazione e vorrei dire dall’artigianato. Tutt’altro che prive di parziali bellezze, queste pelli-cole, prese in blocco, caratterizzano la produzione americana molto meglio dei film famosi, dei cosiddetti colossi.[…] Volgari, violenti, convenzionali senza verosimiglianza, senza fi-nezze psicologiche e fotografiche. Ma fatti fatti fatti. Uno dopo l’al-tro che non danno tregua. Uno comico e uno tragico. Un bacio e una rivoltellata. Una preghiera e un inseguimento. Un treno di notte nella prateria e un’alba sulla terrazza di un grattacielo. quando si è nervosi, quando si è illusi, quando si è giovani, quando si è un po’ americani: allora uno di questi film fa al caso nostro più di qualun-que altro spettacolo. Cullati dal ritmo rapido, incessante e perfetto dei tagli di visione, adescati dal sorriso della indefinita girl, affasci-nati dalla smorfia del terribile gangster, ci abbandoniamo anche noi alla facile inquietudine della trama.16

15 Scarpa 2006. Tra l’altro, Scarpa ricorda come Debenedetti sia nel 1929 uno dei recensori di Salmace, esordio letterario di Soldati, a conferma di un fil rouge che lega strettamente i due intellettuali torinesi, non solo a proposi-to di cinema.

16 Soldati 1934, pp. 560-561. L’articolo è poi inserito, con alcuni cambiamenti,

172 Il volo del cinema

L’intervento su “Pan” fa riferimento all’esperienza di spettatore cinematografico di Soldati negli Stati Uniti per metterla a confron-to con quella italiana. Prima di entrare nel merito di tale paragone, è importante ricordare come Soldati nel 1934, quando scrive l’ar-ticolo per “Pan”, abbia alle spalle un’esperienza lavorativa diretta nel cinema italiano, iniziata presso la Cines di Roma al suo rien-tro dall’america nel 1931. La Cines è la casa di produzione italiana più importante e su cui si punta per il rilancio del cinema italiano dopo la crisi degli anni Venti e l’avvento del sonoro. alla Cines la-vora Emilio Cecchi, grande conoscitore dell’america e fresco re-duce da un biennio (1930-1931) d’insegnamento di Cultura italiana all’Università di Berkeley, e che, dopo una breve presenza all’Uffi-cio Soggetti (maggio e giugno 1931), nell’aprile 1932 è nominato di-rettore artistico, carica che manterrà fino al settembre 193317. Fra il luglio 1931 e il 1933 è compresa anche la prima esperienza pratica di Soldati nel cinema, che inizia, controvoglia secondo le sue dichia-razioni, dal gradino più basso, come ciacchista o terzo assistente, in Figaro e la sua gran giornata diretto da Mario Camerini. Passa però rapidamente al ruolo di sceneggiatore, e con lo stesso Cameri-ni collabora per Gli uomini, che mascalzoni… (1932) e Giallo (1933). Da segnalare anche la collaborazione alla sceneggiatura di La ta-vola dei poveri (1932) di alessandro Blasetti, La cantante dell’opera (1932) di nunzio Malasomma e Cento di questi giorni (1933) diretto da augusto Camerini, fratello di Mario, il quale ultimo è solo su-pervisore della pellicola18. Difficile stabilire esattamente l’appor-

soprattutto per quanto riguarda la parte finale, nel volume America primo amore, pubblicato da Bemporad nel 1935 (vedi supra nota 2), con il titolo Cinematografo.

17 Sulla Cines e la breve, ma importante direzione di Cecchi si vedano Redi 1991 e Buccheri 2004. Cecchi, durante il proprio soggiorno americano, vi-sita hollywood e nei propri taccuini annota varie osservazioni che poi uti-lizza per scrivere i primi articoli di cinema pubblicati su “il Corriere della Sera” tra febbraio e marzo 1931, ai quali altri seguiranno al suo rientro in italia. Sicuramente anche Cecchi influenza Soldati nelle sue riflessioni so-ciologiche sul cinema «come nuovo sguardo sul mondo» e sull’importanza della dimensione tecnico-industriale: cfr. Buccheri 2008. Sui rapporti fra Cecchi e Soldati in questo periodo (Cecchi scrive a Soldati nel giugno 1931 per proporgli di subentrargli all’Ufficio Soggetti da cui si è dimesso) si ri-manda a Falcetto 2006a, p. LXXXVi.

18 Per una ricostruzione dettagliata dell’attività di Soldati alla Cines si veda Morreale 2006, pp. 227-244.

Mario Soldati nella fabbrica del cinema 173

to di Soldati a questi film, ma certamente essi rappresentano un gruppo significativo di pellicole che puntano a rinnovare e moder-nizzare il cinema italiano nel tentativo di trovare una mediazione culturale in cui, secondo il progetto di Cecchi, siano coinvolti gli intellettuali, fra produzione alta e bassa, e che possa, almeno in parte, contrastare l’invasione americana degli schermi nazionali. Un tentativo originale che naufragherà con l’insuccesso di pubbli-co di Acciaio (1933) di Walter Ruttmann, in cui saranno coinvolti sia Cecchi sia Soldati. in particolare a Soldati, che insieme a Rutt-mann ha rivisto la sceneggiatura originale di Luigi Pirandello, cui era stata commissionata (in realtà scritta dal figlio Stefano, con il titolo Gioca, Pietro!), e che ha partecipato attivamente alla scelta degli attori e alle riprese come aiuto regista, è attribuita la colpa del fallimento commerciale del film, e lo scrittore viene licenziato.

Sono momenti difficili per Soldati, che si ritrova senza lavoro e in crisi matrimoniale: trova rifugio e serenità solo nell’ottobre del 1934 a Corconio, sul lago d’orta, dove scrive vari articoli e i libri America primo amore19 e 24 ore in uno studio cinematografico20.

in un certo senso Il segreto di Hollywood può essere considera-to una premessa “teorica” sul cinema a 24 ore in uno studio cine-matografico e una riflessione sull’esperienza di Soldati alla Cines messa a confronto con il cinema americano, ma che attraverso il cinema spiega con ironia anche le differenze culturali e di stili di vita fra americani e italiani, prendendo come esempio due ragazze qualsiasi dei due Paesi. Una dattilografa o sartina italiana andrà al cinema una o due volte la settimana: «magari il film la interessa, la prende; ma non le fa perdere la testa. Se c’è qualcosa che non le va, non manca di rilevarlo: ‘Uh! Esagerato. Figurati! impossibile’ […]. E quando esce, una risata, una scrollata di ricciolo, il film è bell’e scordato e non se ne parla più»21. invece, la dattilografa americana di Saint Louis va al cinema quasi tutte le sere, perché ha molto più tempo libero dalle incombenze familiari di quella italiana, e s’im-merge totalmente nel film senza distacco critico: «Tutta pronta e protesa a ricevere il thrill. il Brivido. il Santo Brivido. il massimo dell’ammirazione estetica, per lei ‘That was a thrill! a wonderful

19 Soldati 1935.20 Pallavera 1935.21 Soldati 1934, pp. 552-553.

174 Il volo del cinema

thrill!’. quello si è stato un brivido! Una meravigliosa pelle d’oca! E la vita attorno a lei, se non addirittura la sua vita, sembra darle ragione. in america i gangsters non sono soltanto invenzioni del cinematografo»22.

Soldati esemplifica poi alcune differenze di atteggiamento tra spettatori americani e italiani davanti al medesimo film, in casi ai quali ha assistito personalmente: If I Had a Million (1932, Se avessi un milione) di Ernst Lubitsch, e un western di Tom Mix, e arriva a concludere che è meraviglioso, in italia,

questo atteggiamento critico, questa diffidenza del popolo verso i facili incantesimi dello schermo. Un ragazzetto di diciotto anni, un garzone macellaio, un fattorino del telegrafo la sanno più lunga di tutti noi. Sfoderano uno scetticismo secolare, un cinismo che fa in-vidia. nulla più li commuove, e sono ancora fanciulli. Cominciano adesso a fare all’amore e assistono ironici, impassibili a una scena di seduzione con Joan Crawford seminuda.negli States è l’eccesso opposto. in ogni città c’è un teatro detto Bur-lesque, dove si rappresentano unicamente e continuamente riviste oscene. Lazzi di pessimo gusto. […] insomma, i nostri divertimen-ti sono più modesti; ma più continui. La nostra vita non è così av-venturosa; ma neppure così squallida. È più ferma, più civile, più umana. Ci procuriamo il nostro cinematografo senza spesa e senza trucco a guardare dalla finestra del cortile.L’america non ha cortili. È monotona, arida, buia. il secolare puri-tanesimo ha considerato quae vitam faciunt beatiorem peccati. ha represso, atrofizzato gli istinti che soli rendono sopportabile la vita: l’amore, la socievolezza, l’ozio e perfino la gola. […] non l’umanità, abbiamo dimostrato, è alla base della fioritura cinematografica ame-ricana. Ma proprio la mancanza di umanità. E non la mancanza di umanità impedisce il cinematografo italiano. Ma proprio la nostra grande, troppo grande umanità. Chi dice che il cinematografo italia-no non esiste, ha ragione. ha torto a lamentarsene.23

Per Soldati, dunque, il cinema americano nasce dalla cultura protestante e ne è il riflesso in tutti i suoi film, ma egli afferma anche che lo spettacolo cinematografico hollywoodiano è superio-re a tutti e rappresenta l’essenza stessa del cinema, che può avere

22 Ibi, p. 555.23 Ibi, pp. 556, 557, 559.

Mario Soldati nella fabbrica del cinema 175

dignità artistica perché ha creato un vero e proprio gusto artistico. Per questa ragione il cinema americano può essere considerato uno spettacolo artistico di massa. il giudizio negativo sul cinema italia-no è pesante, senza possibilità di riscatto, certamente influenzato dal recente insuccesso di Acciaio, e ad attenuarlo non basta l’abi-lità argomentativa di Soldati che utilizza lo stereotipo consolidato degli americani ingenui che hanno creato una società moderna ma disumanizzata, al contrario dei saggi e disincantati italiani eredi di una tradizione culturale antica e ricca di calore umano: «io che predico bene, razzolo male. Confesso che il cinematografo mi se-duce. Ma non mi illude. L’essenziale non è salvarsi: poiché salvarsi è impossibile. L’essenziale è conservare la calma. E intanto ralle-grarci cogli italiani: riconoscendo nella loro incapacità al cinema-tografo il vivo segno della saggezza antica»24.

Con quest’ultima frase, dai toni fortemente ironici, consideran-do gli appelli del periodo alla rinascita del cinema italiano, Soldati chiude l’articolo di “Pan”. Una conclusione che sarà tagliata, pochi mesi dopo, per la pubblicazione nella raccolta di America primo amore25.

Dietro la maschera dell’ironia, Soldati mette a nudo un nodo centrale nella trasformazione della cultura dell’immaginario po-polare che sta avvenendo in italia tra le due guerre, nella quale il cinema americano, insieme ai fumetti, ai rotocalchi, alla radio e alla letteratura “gialla”, ha un ruolo fondamentale. Certo gli italiani appartengono a un mondo di «saggezza antica» ma, come Soldati,

24 Ibi, p. 565.25 Come si è già detto l’articolo sarà pubblicato, con alcuni cambiamenti, con

il titolo Cinematografo. È interessante confrontare questo finale con quello precedente per notare come il riferimento all’incapacità degli italiani di fare il cinema scompaia a favore di un possibile innamoramento degli eu-ropei verso l’america, peraltro «terra di europei fuggiaschi», e di ribellione per diventare americani, che potrebbe però essere letta come un desiderio di fuga dalla realtà italiana del regime verso la libertà. Si riportano di se-guito le ultime righe dall’edizione di America primo amore curata da nigro (Soldati 2003, p. 216): «qualcuno affermerà che hollywood si basa tutta sull’ingegno europeo: ma proprio come l’america si basa tutta sull’Europa. L’america è terra di europei fuggiaschi e ribelli. A vast republic of escaped slaves, come disse il Lawrence con un fortunato epigramma. L’america non è soltanto una parte del mondo. L’america è uno stato d’animo, una passione. E qualunque europeo può, da un momento all’altro, ammalarsi d’america, ribellarsi all’Europa, e diventare americano».

176 Il volo del cinema

sono sedotti e affascinati dal cinema hollywoodiano e corrono in massa a vederlo, disertando per lo più le proiezioni di film italiani, perché il cinema americano rappresenta, nel bene e nel male, la modernità, un nuovo mondo da scoprire, da desiderare e da so-gnare, nonostante i richiami nazionalistici del regime26. il segreto di hollywood è proprio in tale capacità di entrare in sintonia con questo inconscio desiderio italiano, ma potremmo dire europeo, di una modernizzazione che è identificata con gli Stati Uniti e che nei film di genere è data dalle spericolate avventure, dal ritmo delle azioni, dai dialoghi scoppiettanti delle sceneggiature, dalle ambientazioni e da un nuovo divismo, solo per citare i tratti più evidenti. insomma una vita moderna che attraverso il cinema si lega strettamente agli impulsi, agli Schock visivi e sensoriali delle grandi metropoli.

Come si è detto, 24 ore in uno studio cinematografico è l’ideale proseguimento di Il segreto di Hollywood e si presenta come una guida, un carnet de voyage del dietro le quinte della produzione di un film, seguendo il classico schema dell’inchiesta giornalistica, con lo scopo di svelare al lettore la vita quotidiana in uno stabili-mento cinematografico e la natura artificiosa di quanto lo spetta-tore vede sullo schermo. Un glossario finale, «Un po’ di tecnica», dei termini più usati nel cinema − dall’inquadratura ai movimenti della macchina da presa, dall’operatore al montaggio, dall’illumi-nazione alla registrazione del sonoro − completa il libro e la cu-riosità dei lettori. Ma l’agile e divertente volume, che Soldati non si sente di firmare con il proprio nome27, dimostra la voglia dello scrittore di mettere a frutto la recente esperienza diretta sul set e il suo interesse verso il cinema in tutti suoi aspetti: da quello tecnico a quello culturale e sociologico. il libro di Soldati non è un caso

26 Come giustamente rileva Michela nacci, nell’italia degli anni Trenta sono diffusi sia un mito positivo dell’america, sia un mito negativo, come ben dimostra l’articolo di Soldati che da una parte esalta il cinema hollywoo-diano e dall’altra ne prende le distanze come espressione di una cultura puritana e di una società disumanizzata (cfr. nacci 1989). Ciò non toglie, secondo me, che a livello popolare e del grande pubblico sia dominante l’effetto seduttivo e di fascinazione degli Stati Uniti e dei suoi prodotti di culturali di massa.

27 Lo dimostra una lettera di Soldati a Cecchi del 18 luglio 1935: «il Pallavera l’ho scritto di rabbia, e proprio non me la sono sentita di portarlo su, sul piano serio». La lettera è riportata in Falcetto 2006a, p. XCii.

Mario Soldati nella fabbrica del cinema 177

isolato e s’inserisce in un genere di manualistica ibrida sul cinema, che in genere ha come riferimento hollywood, nella quale si sve-lano i segreti della tecnica cinematografica e dell’organizzazione industriale degli studios, si mette moralisticamente in guardia sui pericoli per le ragazze che sognano di diventare delle stars, si rivela la vita reale, o presunta tale, dei divi. Due volumi in particolare si possono ricordare per la loro diffusione e perché precedono il li-bro di Soldati: Hollywood paese d’avventura di arnaldo Fraccaroli, scrittore e inviato speciale del “Corriere della Sera”, pubblicato da Treves nel 192828; e Hollywood visione che incanta di Umberto Co-lombini, pubblicato nel 1929 dall’editore Lattes di Torino29.

24 ore in uno studio cinematografico ha, però, una scrittura molto più incisiva e scevra dall’uso di una facile retorica, quale ad esempio si trova nel testo di Colombini a proposito del desiderio di una ragazza di fare del cinema: «Ed hai dunque deciso anche tu. Partire. Correre fino là dove la bianca casa delle lampade a incan-descenza fa da luce abbagliante per tutte le ragazze del mondo che l’arte sognano come felicità eccelsa e più che meritoria ritengono del sacrificio di tutta una giovinezza»30.

in ben altro modo Soldati descrive con divertita ironia la stessa situazione della ragazza che vuole andare, in questo caso a Roma, perché si sente di poter diventare una diva: «Ma ecco, intanto, si sono mosse delle pedine: il cugino Giovanni ha parlato al proprie-tario del cinematografo del quartiere: hanno scritto a Roma; il papà ha radunato i risparmi, ha messo assieme qualche biglietto da cento: e una bella mattina di primavera Mariuccia e la mamma partono per Roma.

a Roma, cominciano le delusioni»31.La giovane, che Soldati chiama Mariuccia, forse non a caso lo

stesso nome della timida commessa di profumeria protagonista di Gli uomini, che mascalzoni…, 99 su 100 «finirà per diventare una generica di terza categoria, una comparsa che lavora sì e no quat-tro giorni al mese!»32. Lo scrittore imputa la triste fine dei sogni di Mariuccia alla «filmopatia», ossia alla mania per il cinematografo

28 Fraccaroli 1928.29 Colombini 1929.30 Ibi, p. 209.31 Soldati 1985, p. 89.32 Ibi, p. 91.

178 Il volo del cinema

che invade ogni momento della nostra vita quotidiana, e che come una malattia colpisce ogni classe sociale e ogni età, dalla signorina snob alla sartina; per curarla c’è un solo modo: «fare sul serio il cinematografo»33. il libro smonta sistematicamente l’illusione che il mondo del cinema sia «quel paradiso tutta gloria e luce a cui le Mariucce aspirano. E questo non soltanto in italia o in Europa, ma più ancora in California, dove l’industria cinematografica ha il suo massimo sviluppo»34. il lavoro giornaliero dell’attrice diva è molto faticoso e dura per molte ore al giorno35.

il confronto con il cinema hollywoodiano è costante, e se la pre-cisa e dettagliata descrizione tecnica di come si faccia un film na-sce sicuramente dal lavoro di Soldati alla Cines, i suoi riferimenti concreti sono però quasi esclusivamente ad attori e registi ameri-cani, segno della loro grande popolarità presso il pubblico36.

Ma a Soldati preme di svelare il backstage del cinematografo per dimostrare da una parte la grande professionalità di chi lavora nell’industria del cinema, e dall’altra come i film siano il prodotto di un artificio. artificio che può, però, essere anche artistico: «Se i risultati sono buoni, l’artificio è, senz’altro, sinonimo di arte. arte, cioè istinto ma anche lavoro, preparazione, pazienza, coscienza e intelligenza. E che cosa, se non questo, è perfino l’umile opera del truccatore?»37. Un truccatore che, ad esempio «fa le labbra della diva […]. Le labbra sono il più delle volte tipiche non di un perso-naggio, ma di un’attrice: abbiamo labbra alla Joan Crawford, lab-bra alla Greta Garbo, labbra alla Katherine hepburn, ecc.»38.

Più volte nel libro Soldati ribadisce la natura artificiale e illuso-ria del cinematografo:

La verosimiglianza dev’essere seguita fino a un certo punto. Seguita, cioè, tanto quanto basta per dare al pubblico l’illusione della vero-

33 Ibi, p. 95.34 Ibi, p. 9935 Cfr. ibi, p. 13.36 Fa eccezione un rapido accenno agli italiani Acciaio e Vecchia guardia, e al

danese Eskimo, a proposito di una nuova tendenza a girare senza trucco, messa in opposizione alla convenzionalità di film come La segretaria pri-vata di alessandrini: ibi, pp. 19-20. Da notare anche una citazione di René Clair: ibi, p. 103.

37 Ibi, p. 25.38 Ibidem.

Mario Soldati nella fabbrica del cinema 179

simiglianza. […] Strana è la sensazione di chi entra, la prima volta, in un teatro sonoro: un’aria d’artificio, d’irrealtà trasporta quasi in un altro mondo. […] Una vita rinchiusa tra quattro pareti di celotex e dominata, come da un incubo astrale, dal ronzio della macchina da presa: ma che simula, al tempo stesso, tutte le forme, le passioni, le attività, e i viaggi e le abitudini e i piaceri e i dolori della vita: che sostituisce in fondo la vita e dà al debole, al pigro, l’illusione di aver vinto la propria debolezza e pigrizia.39

in queste ultime righe sul cinema che può sostituire la vita Sol-dati coglie un dato fondamentale della funzione psicologica e so-ciale dello spettacolo cinematografico in rapporto allo spettatore, che con un processo di proiezione e identificazione partecipa alle azioni che avvengono sullo schermo e s’identifica con l’eroe, viven-do mentalmente ciò che il personaggio stesso vive. Per la sola du-rata della proiezione si può, allora, dimenticare le proprie paure, le difficoltà quotidiane e credere di vivere “realmente” in un’altra dimensione; ma fuori dalla sala l’effetto svanisce e quindi, compul-sivamente, l’ammalato di «filmopatia» deve trovare presto un altro film da vedere per potersi immergere nuovamente in un mondo artificiale40.

Tornando a chi lavora nel cinema, Soldati, partendo dal presup-posto essenziale che «il cinematografo talvolta è arte, ma è sempre industria»41, sottolinea il ruolo fondamentale del direttore (il re-gista), che prima di essere artista dev’essere un bravo «sergente», cioè un organizzatore capace e autoritario con doti comunicative. il modello di regista ideale cui pensa Soldati è forse più Lubitsch che non Camerini − che peraltro ammira molto e con cui presto torna a collaborare − o Blasetti, o Malasomma42, perché anche da questo libro, come dall’articolo Il segreto di Hollywood, traspare senza ombra di dubbio che il modello d’industria cinematografica cui pensa lo scrittore è quello americano, che lo stesso cinema è

39 Ibi, pp. 33, 35, 52.40 Sull’esperienza dello spettatore al cinema in relazione anche alla società

moderna del novecento si rimanda a Casetti 2005, pp. 229-268.41 Soldati 1985, p. 47.42 anche se Soldati ha dichiarato che Malasomma, regista-dittatore, è il mo-

dello del Regista rappresentato in 24 ore in uno studio cinematografico (l’informazione è ripresa da Morreale 2006, p. 230, nota 7). Un modello pratico: ma quello ideale, e irraggiungibile, rimane Lubitsch.

180 Il volo del cinema

connaturato con la società statunitense e che se proprio anche gli italiani devono farlo non possono che, pur mantenendo una certa distanza critica, cercare di copiarlo almeno dal punto di vista orga-nizzativo e professionale.

C’è, dunque, una forte continuità tra l’idea di cinema che emer-ge da 24 ore in uno studio cinematografico e quella rappresentata in Due milioni per un sorriso (1939), diretto da Soldati insieme a Carlo Borghesio, e in Dora Nelson (1939), prima regia di Solda-ti firmata da solo43. Entrambi i film sono, infatti, ambientati nel mondo del cinema e ci svelano visivamente quei trucchi e quelle finzioni raccontati nel libro per dimostrare la natura artificiale di questo ambiente. Protagonista di Due milioni per un sorriso è un italiano che, emigrato in america trent’anni prima e diventato un ricco industriale, decide di tornare in italia per cercare la donna che aveva amato. Scoperto che è morta, si fa convincere a finan-ziare l’apertura di una casa di produzione per girare un film che gli faccia rivedere, e perciò rivivere, il momento dell’addio al suo grande amore («Rivedere il sorriso di una ragazza che non c’è più», dice il protagonista). quanto si gira sul set del film è però palese-mente falso, e lontano dal dare la stessa emozione di un tempo al ricco industriale: quell’emozione la rivivrà solo grazie a una scena girata fuori dal set, ripresa per caso da un operatore maldestro che ha girato la macchina da presa dalla parte opposta, fuori campo. il

43 in realtà Due milioni per un sorriso è considerato a pieno titolo un film di Soldati, perché il ruolo di Borghesio sembra sia stato marginale. Soldati, prima di questi due film, aveva partecipato come sceneggiatore e co-regista a diverse altre produzioni a partire dal 1936, anno del suo ritorno al lavoro cinematografico. in particolare si deve ricordare la stretta collaborazio-ne con Mario Camerini per Il signor Max (1937), ove sono presenti temi che saranno ripresi da Soldati nei suoi primi due film, come il gioco della doppia identità di un edicolante che si finge il conte Max Varaldo e si ve-ste come un aristocratico; l’opposizione tra il mondo semplice e sincero piccolo-borghese e quello sofisticato e falso dell’alta società; l’ironia sulle abitudini importate dall’america come bere drinks e whiskies. Sempre sul-lo scambio d’identità, vera ossessione di Soldati, tra l’attore Vittorio De Sica e lo sconosciuto avvocato Motta è costruito il soggetto non realizzato 4000 donne del 1937 e ora pubblicato in Soldati 2011, pp. 1539-1566. Più in generale per approfondimenti su questi anni di attività cinematografica di Soldati fino alla realizzazione di Dora Nelson e per la continuità fra gli scritti sul cinema e il cinema di Mario Soldati si rimanda a Malavasi 2006, pp. 27-44 e a Morreale 2006, pp. 227-258.

Mario Soldati nella fabbrica del cinema 181

cinema non può, dunque, ricreare la vita vera con le sue emozioni: è qualcosa di diverso dalla realtà, può solo rappresentare un mon-do artificiale, al massimo essere strumento tecnico per riprendere la realtà per caso. il film, poi, in certi momenti assume i toni di una parodia del mondo del cinema, con l’improvvisazione della troupe (l’operatore gira tenendo in mano un manuale pratico su come fare le riprese), gli incidenti sul set, la recitazione da guitti degli attori, la folla urlante di ragazze aspiranti al ruolo della protagonista: una parodia che sembra aver di mira un preciso bersaglio, che richiama la conclusione dell’articolo Il segreto di Hollywood con l’afferma-zione dell’incapacità degli italiani di fare il cinema. La casa di pro-duzione fondata da Mr. Perotti non ha nulla dell’industria orga-nizzata e professionale e perciò non può che chiudere, mentre egli ritorna in america, dove potrà fare nuovamente il vero industria-le. Volendo leggere in termini più positivi l’aspetto parodistico del film, vi si può vedere quella distanza critica, quello scetticismo di fondo che caratterizzerebbe il pubblico italiano rispetto a quello americano nei confronti della finzione cinematografica.

Dora Nelson ha ancora al centro il mondo del cinema, un’indu-stria cinematografica decisamente più professionale, si potrebbe dire, “all’americana”, rispetto a quella rappresentata in Due milioni per un sorriso. qui dal produttore al regista ai tecnici, tutti sanno fare il proprio mestiere, tranne la diva, ex principessa russa ca-pricciosa e insofferente, che abbandona il set. La sostituisce Pieri-na, una giovane modista che le assomiglia a tal punto da saperne imitare perfettamente anche la voce. qui si respira un’aria più da commedia all’americana, alla Lubitsch, come nella bellissima sce-na iniziale d’ambientazione aristocratica con il classico gran ballo, che si rivela ben presto essere la scena di un film. Soldati ci mostra il set nella sua completezza con un fluido movimento all’indietro di un dolly che si alza fino a rivelarci brevemente tutto lo studio con la sua complessa attrezzatura e le persone che lavorano dietro le quinte. i temi del doppio, del film come finzione e artificio, dello svelamento dei segreti del cinema con i suoi trucchi − come l’uso del trasparente per simulare in studio galoppate a cavallo e farle sembrare reali − ritornano anche in questa pellicola, ma rispetto a Due milioni per un sorriso qui gli italiani il cinema sembrano saperlo fare e gli studi di Cinecittà, dove si gira il film e che si ve-dono anche in alcune inquadrature in esterno, possono ricordare

182 Il volo del cinema

gli studios di hollywood e quella modernità americana del cine-matografo che con la sua artificiosità aveva affascinato Soldati e diversi altri intellettuali della sua generazione. Una modernità che dev’essere sempre declinata all’italiana, perché, come dice in una folgorante battuta a Dora nelson una compita anziana signora mentre sorseggia il tè, a proposito delle biografie dei divi divulgate a scopo pubblicitario: «in america le attrici divorziano e qui di-ventano principesse».

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ETToRE MaRia MaRGaDonnaTRa CRiTiCa E SToRia1

1. Cinema ieri e oggi di Ettore Maria Margadonna

nel 1932 Ettore Maria Margadonna pubblica per la casa editrice Domus di Milano il libro Cinema ieri e oggi con la prefazione di an-tonello Gerbi2. il volume raccoglie le riflessioni critiche e teoriche che l’autore è andato elaborando in numerosi articoli scritti tra il 1930 e il 1932 per le riviste culturali “Comoedia”, “il Convegno” e il quotidiano “L’ambrosiano”3. Si tratta, in particolare per “il Convegno” e “L’am-brosiano”, di esperienze fortemente radicate nella realtà milanese e nei suoi circoli intellettuali. Milano, tra l’altro, può essere considera-ta nel periodo tra le due guerre, nonostante il fascismo, come la città italiana con maggiori collegamenti con Parigi e le altre realtà inter-nazionali. oltre a essere la capitale dell’editoria nazionale, è molto vivace l’attività in tutti i campi culturali: dall’arte all’architettura con la Triennale, dalla musica al cinema proprio con le proiezioni di film d’avanguardia presso il cine-circolo di “il Convegno”.

1 Una prima versione di questo testo è in De Berti 2006b.2 Margadonna 1932a.3 Tra gli interventi di Margadonna su “Comoedia” si ricordano: La comicità

cinematografica (Margadonna 1930a); Il mistero di Greta Garbo (Marga-donna 1930b); I disegni animati. Attori esemplari e avventure strabilianti (Margadonna 1931a); Marlene Dietrich (Margadonna 1931b); Pessimismo critico nel cinema (Margadonna 1932b). Tra gli articoli pubblicati su “il Convegno” in questi primi anni si vedano, fra gli altri, Felix, Mickey, Oswald and Co. (cioè la cosa cinematografica vera e propria) (Margadonna 1930c) e Il “senso del cinema” negli Europei (Margadonna 1932c). in “L’ambrosiano”, accanto ai numerosi articoli di critica cinematografica, si trovano alcuni interventi di taglio più specificamente teorico come Il cinema macchina del tempo (Margadonna 1931c); Cinema come fotogenia (Margadonna 1931d); Manualetto di bel cinema (Margadonna 1932d); Arte e cinemato-grafo (Margadonna 1932e).

184 Il volo del cinema

il volume di Margadonna può essere considerato uno dei primi tentativi organici italiani d’interrogarsi su che cosa sia il cinema dal punto di vista estetico e industriale, cercando, contempora-neamente, di ricostruire un percorso storico delle cinematografie americana ed europea. L’introduzione teorica, dal titolo Cenni di stilistica cinematografica, precede due lunghi capitoli dedicati appunto, rispettivamente, all’america e all’Europa, seguendo per entrambi un percorso identico: sviluppo storico, organizzazione tecnica dell’industria e prospettive future. il libro si chiude con un’appendice costituita da un repertorio dei film, suddivisi secon-do i registi considerati più importanti nei circa trentacinque anni di storia del nuovo mezzo espressivo; da un elenco di film sonori organizzato per nazionalità; e, infine, da una discreta bibliografia internazionale dove prevalgono le indicazioni di testi francesi.

Margadonna chiarisce immediatamente nell’introduzione quale sia la propria posizione rispetto al rapporto fra cinema ed estetica, rifacendosi esplicitamente agli scritti di Benedetto Croce e dando ormai per acquisito che anche il cinema, attraverso i film, possa essere un’espressione artistica:

Per esempio alcuni, trattando di estetica, ritengano che vi possano essere tante estetiche quante sono le arti; altri, invece, e noi siamo fra questi, sono convinti che l’estetica è la scienza dell’espressione e della linguistica generale e ritengono quindi impossibile pensare una particolare estetica del cinema.4

L’autore non nasconde però alcuni problemi che il cinema può porre dal punto di vista dell’invenzione artistica, legati alla sua natura di produzione industriale. il cinematografo appare come una macchina complessa che per realizzare un film necessita di contributi professionali diversi che possono condizionare la liber-tà artistica del cineasta, ma scopo di Margadonna è proprio di di-mostrare che:

i complessi elementi del cinema ubbidiscono integralmente all’idea dello stile, cioè che il dominio dell’artista sulla materia è assoluto e immediato e che è possibile usare, com’è stata ed è usata, la mac-china del cinema così come Utamaro e Botticelli usarono la propria

4 Margadonna 1932a, p. 3.

Ettore Maria Margadonna, tra critica e storia 185

macchina, più semplice, ma tuttavia tale. […] il punto cruciale della nostra dimostrazione sta dunque nel porre una distinzione inequi-voca, riprovata dai fatti, cioè da opere d’arte, fra riproduzione mec-canica come quella, per esempio, della macchina tipografica, e la creazione artistica del cineasta.5

il cinema è definito un’arte figurativa dinamica, per cui quando il regista (ma nel testo si usa in prevalenza il termine “cineasta”6) controlla le dimensioni spazio-temporali – come la prospettiva per la scelta dell’angolo visuale e la durata delle immagini – si può considerare che agisca in piena libertà e autonomia espressiva. Per Margadonna dall’iniziale passività riproduttiva della macchina ci-nematografica si è arrivati a una sua attività autonoma e inventiva:

Trent’anni di esperienze confuse, vertiginose, alcune stupende, mol-te umilianti, ci lasciano infine questa semplice e grande eredità: il cineasta può dominare completamente il suo mondo: egli non è più un passivo operatore, non è un regista che coordina e dirige, ma il vero, unico autore della sua opera d’arte: il film.7

il recente avvento del sonoro, o quello possibile di altre innova-zioni tecniche, non preoccupa più di tanto l’autore di Cinema ieri e oggi sui rischi di una riduzione del cinematografo a semplice mac-china riproduttiva, come ai suoi inizi, o a banale teatro filmato: egli pensa che i due linguaggi, visivo e verbale, possano coesistere in una reciproca autonomia che mantenga intatta la possibilità di realizzare film artistici.

il testo di Margadonna ben rappresenta la posizione teorica sul cinema più diffusa in italia tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta. Essa, rifacendosi all’estetica crociana, afferma l’artisticità del cinema, valorizzando solo i film “opere d’arte” rispetto alla pro-duzione media di puro consumo, e individuando nella figura del

5 Ibi, p. 5.6 il termine “cineasta” è poco in uso in italia e Margadonna lo riprende dal

francese cinéaste dove è utilizzato dalla seconda metà degli anni Dieci (ad esempio da Louis Delluc) per identificare l’autore dell’opera filmica. Per una ricostruzione storica e teorica dell’uso dei termini “cineasta” e “regi-sta” e del problema di quale figura professionale possa essere considerata l’autore del film si veda Pescatore 1999.

7 Margadonna 1932a, p. 12.

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regista il corrispettivo del singolo pittore, poeta o letterato. il con-cetto è peraltro ben espresso da antonello Gerbi nella prefazione al libro di Margadonna, nella quale apprezza il fatto che l’autore non abbia cercato di costruire un’estetica del cinema, ma abbia «rivendicato ad alcune opere cinematografiche la qualità di fatti estetici»8. Gerbi, peraltro, come vedremo, già nel 1926 sulle pagi-ne di “il Convegno” «illumina lo spazio della critica e della teoria cinematografica, in italia allo stato nascente, con articoli che, pur guidati dallo spirito crociano, brillano di luce propria e lo fanno partecipare da protagonista anche a un dibattito internazionale particolarmente fecondo e innovativo»9.

a questa linea di legittimazione artistica del cinema, fondata su una teoria estetica unitaria delle arti, si possono ricondurre gran parte degli scritti, oltre che di Gerbi e Margadonna, di altri intellettuali interessati all’oggetto filmico, come alberto Consiglio, Enzo Ferrieri e Carlo Ludovico Ragghianti, che intervengono su pubblicazioni culturalmente significative, milanesi e non, da “il Convegno” a “Comoedia” e “Scenario” – queste ultime due pubbli-cate da Rizzoli –, da “La Fiera Letteraria” – che tra il 1926 e il 1928, prima del trasferimento a Roma, ospita una delle prime rubriche di recensioni cinematografiche di Piero Gadda Conti – al quotidia-no “L’ambrosiano”.

Come sottolinea antonio Costa, l’estetica idealistica domina la riflessione teorica sul cinema in italia, ma non mancano anche negli autori già citati spinte «in direzione centrifuga rispetto alla tendenza dominante»10.

Si tratta di linee di fuga legate soprattutto ai rapporti con la tec-

8 Gerbi 1932, p. X.9 Brunetta 2011b, p. 92.10 Costa 2001, p. 439. Per una storia delle teorie e della critica cinematografica

in italia si rimanda a Brunetta 1993, pp. 197-230, che, oltre a evidenziare lo stretto intreccio esistente fra teoria e pratica critica su singoli film e autori, sottolinea anche il contributo dell’idealismo gentiliano alle formulazioni teoriche nazionali. Pur datato, ma ancora ricco di spunti interessanti è Viazzi 1973. Tra gli studi più recenti si veda il capitolo Intellettuali e politica culturale in zagarrio 2004, pp. 98-140; Eugeni 2006 e andreazza 2008. infi-ne, per una valorizzazione di teorie “dimenticate”, minoritarie o alternative a quelle dominanti, che ha aperto nuove prospettive di ricerca, si segnala-no Microteorie 2004-2005 e il sito http://filmtheories.org di The Permanent Seminar on Histories of Film Theories (ultimo accesso: 14.iX.2012).

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nologia e la società moderna11, ma anche alle preoccupazioni sulla funzione sociale del cinema in relazione alla realtà e alla sua na-tura di “arte industriale”. Proprio su questi punti dissonanti, in al-cuni casi evidenti, in altri decisamente più sotterranei, ci si soffer-merà prendendo in considerazione esempi illuminanti presenti in due esperienze particolarmente significative come “il Convegno” e “L’ambrosiano”.

2. “Il Convegno”

“il Convegno. Rivista di letteratura, di arte, di idee e di libri” viene pubblicato a partire dal 1920. il mensile è fondato e diret-to da Enzo Ferrieri, figura di animatore di tutte le numerose ini-ziative culturali che nasceranno intorno alla rivista, soprattutto a partire dal 1922 con l’inaugurazione dell’omonimo circolo attivo fino al 193512. il periodico, che conclude le pubblicazioni con la fine dell’anno 1939, ha come programma esplicito quello di raccogliere e diffondere le esperienze più innovative e significative della let-teratura e dell’arte italiane e straniere13. L’apertura internaziona-le, e in particolare europea, è il tratto distintivo che accomuna le diverse attività del circolo, dalla rivista alle proiezioni cinemato-grafiche. in campo letterario vengono fatti conoscere al pubblico italiano autori come Joyce, Mann e Wedekind; e per quanto riguar-da il cinema il programma delle proiezioni viene inaugurato il 14 dicembre 1926 con La Soirée des vilains [sic] di Germaine Dulac e

11 Costa lega gli sconfinamenti teorici del cinema dal territorio crociano ai rapporti con una nuova estetica della civiltà tecnologica che trae la propria ispirazione da suggestioni wagneriane, nietzschiane e futuriste. in parti-colare si ricordano in questa prospettiva Luciani 1928 e Giovannetti 1930. Sull’idea di Giovannetti di cinema come arte meccanica si veda Casetti 2005, pp. 174-176.

12 Del comitato di redazione fanno parte inizialmente, insieme a Ferrieri: Eugenio Levi, Carlo Linati, Giorgio De Chirico, Carlo Carrà e Giuseppe Raimondi.

13 nel febbraio 1940 viene pubblicato un indice sistematico di tutte le attività svolte dal circolo: articoli pubblicati nella rivista, spettacoli teatrali, pro-iezioni cinematografiche, conferenze. Per approfondimenti sui rapporti fra “il Convegno” e il cinema si rimanda ad anderi 1996 [1988]; Ronzullo 2006; Morandini 2010. Per un inquadramento della rivista nel panorama culturale italiano del periodo si vedano Langella 1982; Mangoni 1982.

188 Il volo del cinema

Entr’acte di René Clair, cui seguono, con un calendario abbastanza irregolare fino alla chiusura definitiva nel 1935, proiezioni di film dell’avanguardia francese (Cavalcanti, Epstein, L’herbier, Gance) e di autori come Chaplin, Pabst, Vidor, Lang, Murnau e Ruttmann. agli stessi vengono dedicati interventi monografici e recensioni sulle pagine della rivista, secondo il principio di valorizzazione dell’opera di registi identificati come autori di film considerati “opere d’arte”. negli anni Venti “il Convegno” con le sue attività è un polo di aggregazione degli intellettuali milanesi e di numero-si studenti dell’Università Statale (fondata come tale l’8 dicembre 1924), che frequentano i corsi di estetica di Giuseppe Borgese o di filosofia di Piero Martinetti.

La rivista ha una dichiarata impostazione idealistica crociana con un’evidente influenza rondista, aperta a ogni nuova espressione culturale e artistica. a partire dal numero di ottobre del 1926, con l’articolo di antonello Gerbi Teorie sul cinema14, sulle sue pagine co-minciano ad apparire interventi di teoria e critica cinematografica e specifiche rubriche per le recensioni. il crescente interesse dei colla-boratori della rivista per il cinema li porta a pubblicare, tra il febbra-io 1933 e il luglio 1934, un supplemento mensile, “Cine-Convegno”, dedicato esclusivamente ai film. oltre allo stesso Gerbi, a Ferrieri e a Margadonna, già presenti in precedenza con articoli sul cinema, collaborano al supplemento in particolare Rudolph arnheim, Rémy assayas, Filippo Bovini, alberto Consiglio e Carlo Ludovico Rag-ghianti. Dopo la chiusura del supplemento e la fine delle proiezioni cinematografiche nel 1935, gli interventi di cinema sulla rivista si fanno più sporadici e in generale perdono quella ricchezza di rifles-sione teorica che li aveva caratterizzati negli anni precedenti.

L’impostazione generale dominante dei vari collaboratori è quel-la di rifarsi all’estetica crociana, come abbiamo visto in precedenza per Margadonna e Gerbi. quest’ultimo, nel primo intervento sulla rivista, non lascia adito a dubbi sulla scelta di campo:

Potremo dire allora che ‘il cinema è arte’? nemmeno. L’estetica ci proibisce anche questo. Proprio come non è la Pittura che è bella,

14 Gerbi 1926. Gli scritti di Gerbi sul cinema sono ora ripubblicati in Antonel-lo Gerbi 2011; si veda anche Francione 2009.

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come non è la Pittura che è arte, mentre arte saranno la Ronda di Notte o La Colazione dei Canottieri, non è il cinema che è arte. arte sono le opere, non i mezzi tecnici con cui le opere sono prodotte; arte potrà essere un film, non la cinematografia. Ma allora, Dio Los angeles, che cosa è mai questo benedetto cinema? L’ho già detto; è una nuova tecnica, un nuovo strumento d’espressione.15

Tuttavia, accanto alla visione estetico-artistica di Gerbi, Marga-donna, Ferrieri e Consiglio troviamo, a ben guardare fra i diversi articoli, anche vie alternative all’estetica idealistica. Esse guardano alla funzione del cinema come mezzo tecnico, che supera la pro-blematica artistica per affermare la propria natura di grande diver-timento popolare capace d’influenzare larghi strati di spettatori; o alla stretta interconnessione esistente fra arte e industria, che rimane uno dei nodi più problematici nell’applicazione dell’esteti-ca di Croce al cinema16.

Ben esemplificano la presenza di questi elementi “centrifughi” nella rivista due articoli pubblicati sul numero del 25 marzo 1934 di “Cine-Convegno”: La cinematografia come industria di Filippo Bovini e Il cinema come linguaggio di Rémy assayas.

Bovini insiste sull’importanza che si costituisca anche in italia, sul modello di quella americana, un’industria cinematografica forte, senza esclusive preoccupazioni artistiche: «perché se è vero che la cinematografia può essere arte altissima, è vero altresì che la produzione cinematografica non è che un’industria artistica, e, a ben guardare, non più di molte altre, quella delle ceramiche ad esempio o dei tessuti stampati»17.

Rispetto alle posizioni idealistiche più ortodosse si cerca di sot-

15 Ibi, p. 777.16 a questo proposito, anche se esula dall’esperienza di “il Convegno”, non

si può non ricordare come Luigi Chiarini affronti, pur mantenendo l’im-postazione originaria del proprio pensiero legata all’estetica gentiliana, il problema della natura industriale del cinema nel volume Cinematografo (Chiarini 1935), che raccoglie una serie di articoli pubblicati in “quadrivio”, con una prefazione di Giovanni Gentile che riconosce l’artisticità del film. Chiarini scioglie il nodo arte-industria distinguendo fra film, possibile fat-to artistico da definire caso per caso, e cinema, che è sempre industria. Per ulteriori approfondimenti critici si rimanda a Brunetta 1993; Costa 2001; Luigi Chiarini 2001. Più in generale, sul pensiero teorico di Chiarini nei suoi sviluppi successivi si veda Casetti 1993.

17 Bovini 1934, p. 1.

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tolineare la necessità per il cinema dell’integrazione tra arte e in-dustria, anche se il rischio implicito in cui cade Bovini è poi quello di considerare il cinema un’arte “minore” perché influenzata da fattori economici. Ciò non toglie che il suo intervento punti ad aprire un nuovo campo di discussione nel quale problemi estetici ed economici siano affrontati insieme in tutta la loro complessità:

Sebbene la grande arte poco risenta dei riflessi economici e si possa immaginare realizzato un film stupendo anche con pochissima spe-sa, è innegabile che nella produzione industriale, cioè nella massa dei film, vi sono degli stretti rapporti fra i mezzi ed i risultati, fra il costo e la qualità. Perciò la discussione economica non esclude, anzi integra quella estetica ed aiuta a stabilire, o ad intravedere, la zona d’incontro fra le necessità economiche e le possibilità artisti-che. L’esperienza industriale e commerciale dei produttori ameri-cani sarebbe ai nostri di non minore utilità di quella dei loro grandi registi.18

in realtà quanto scrive Bovini s’inserisce all’interno di un dibat-tito sul binomio arte-industria come elemento caratterizzante del cinema che si ritrova in diverse riviste culturali, come ad esempio “Pegaso” e “quadrante”, a partire dai primi anni Trenta. Si segnala-no, in particolare, gli interventi di Ernesto Cauda sulla necessità di uno sviluppo dell’industria cinematografica nazionale pubblicati in “quadrante”, rivista d’ispirazione razionalista19.

anche l’articolo di Rémy assayas si pone la domanda che cosa sia il cinema e quali applicazioni possa avere al di là della produzio-ne di film “opere d’arte”. all’autore interessa capire quali “funzioni sociali” potrà svolgere in futuro il cinema nella vita quotidiana. as-sayas parte dall’affermazione che «il cinema è un linguaggio in via di formazione»20 e che può essere considerato un nuovo metodo di scrittura, sintetizzando in sé immagine, suono, parola e gesto. L’identificazione del cinema quasi esclusivamente da una parte come spettacolo-divertimento e dall’altra come arte ha ritardato

18 Ibi, p. 2.19 Una ricostruzione dettagliata del dibattito che il cinema suscita sui pe-

riodici culturali italiani tra le due guerre si trova in zagarrio 2004, pp. 98-140.

20 assayas 1934, p. 21.

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il suo sviluppo in altre direzioni, che assayas vede in via di grande crescita: dal cine-giornale (con l’auspicato prossimo avvento del-la televisione) alla pubblicità cinematografica, dal documentario industriale al film educativo per le scuole, che, sostituendosi alla lingua scritta, potrà aprire nuove vie pedagogiche agli insegnanti.

Con questo intervento di assayas si completa, sostanzialmente, il quadro dei problemi in gioco nel dibattito italiano sul cinema che muovono da preoccupazioni estetiche per definirlo come arte, ma che anche s’interrogano sulla sua natura di merce e di prodotto in-dustriale e sulla sua funzione nella società moderna. a corollario di tutto questo non va dimenticata una diffusa attenzione alla ricerca di nuove strade da percorrere per una rinascita dell’industria cine-matografica nazionale e per la definizione di un “film italiano”.

naturalmente non è questa la sede per ricostruire le diverse li-nee teoriche presenti nelle riviste cinematografiche e culturali del tempo, ma i termini principali su cui si discute sono quelli sopra definiti, cui è sempre implicitamente sotteso l’interrogativo di fon-do sulla natura del cinema.

3. “L’Ambrosiano” e il cinema

Se l’esperienza complessiva del circolo di “Convegno” e della sua rivista sono un punto di riferimento per gli intellettuali milanesi, e non solo, è interessante osservare come la vivacità culturale del capoluogo lombardo porti negli anni tra le due guerre alla nascita del quotidiano “L’ambrosiano”, sul quale si possono ritrovare, per quanto riguarda il cinema, molti articoli, tra l’altro firmati dagli stessi Margadonna e Cauda, per non citare che due tra i numerosi collaboratori, che riprendono i termini del dibattito teorico sopra individuati.

“L’ambrosiano” nasce il 7 dicembre 1922, fondato e diretto da Um-berto notari, giornalista vicino al fascismo e ai futuristi e amico di Marinetti, con interessi che spaziano dalle interviste a personaggi famosi alla politica, allo sport, alla letteratura classica e alla musica21.

il progetto di notari è di stampare un quotidiano per una me-

21 Per maggiori informazioni sul quotidiano si vedano, tra gli altri, nasi 1958; Cantini et Alii 1982.

192 Il volo del cinema

tropoli moderna ed europea, rivolgendosi non solo alla città, ma anche al suo Hinterland. il foglio vuol essere un laboratorio spe-rimentale sia per il formato e per la grafica – ampio è l’uso delle fotografie per illustrare gli avvenimenti più importanti –, sia per i temi trattati. Un’ampia parte del giornale è dedicata, oltre che alla cronaca, ai temi più vari, dall’informazione economica a quel-la tecnico-scientifica – si segnala, ad esempio, il grande interesse per la radio e le sperimentazioni televisive, che negli anni Trenta sono già molto avanzate anche in Europa – e a quella letterario-artistica e culturale in genere. i collaboratori del quotidiano sono prevalentemente giovani intellettuali che si affermeranno in se-guito nel panorama culturale italiano. Fin dai primi numeri com-paiono, comunque, firme prestigiose, come quelle del grecista Et-tore Romagnoli e di Carlo Carrà, responsabile della rubrica Le Arti; ma occasionalmente vengono anche ospitati articoli di Marinetti e Carlo Linati, per ricordare due fra i nomi più noti del periodo. “L’ambrosiano” non incontra tuttavia il successo sperato e notari nel marzo 1925 cede la proprietà al finanziere Riccardo Gualino e lascia la direzione a Enrico Cajumi che, con alcune correzioni, pur mantenendo il carattere innovativo del giornale, riesce ad aumen-tarne la tiratura da seimila a circa cinquantamila copie. nel 1930 la direzione è assunta da Giacomo Benedetti che la mantiene fino alla chiusura nel 1944. nell’arco di ventidue anni di vita il giornale conserva la propria attenzione, rispetto alla cronaca, per la vita ar-tistica e «gli interessi per la vita culturale escono dai confini della terza pagina, specificatamente articolata in rubriche fisse per ogni argomento: le arti, la musica, il teatro, la letteratura: sono rivolti anche al cinema, alla fotografia, allo sport, alle invenzioni scienti-fiche, all’urbanistica, all’architettura, alla moda, ecc.»22.

Per quanto riguarda il cinema, “L’ambrosiano” è il primo quo-tidiano a inaugurare, con Edgardo Rebizzi, una rubrica di recen-sioni cinematografiche fissa, anche se non a cadenza giornaliera, a partire dal 9 dicembre 192223.

Gli articoli di Rebizzi, che si collocano in un arco cronologico compreso fra il 1922 e il 1925, evidenziano i temi principali ricor-

22 Cantini et Alii 1982, p. 58.23 Per un quadro generale degli interventi di cinema rimando direttamente a

De Berti 1996.

Ettore Maria Margadonna, tra critica e storia 193

renti negli interventi sul cinema nel corso degli anni Venti: amore e odio verso il cinema americano, comunque sempre visto come un modello industriale e professionale ideale; l’auspicio di una ri-nascita del cinema italiano; la consapevolezza dell’importanza dei film a fini educativi e propagandistici. Dal 1926 inizia la pubblica-zione, anche se a ritmo irregolare, di una serie d’interventi di rifles-sione più generale e teorica su che cosa sia il cinema, non solo dal punto di vista estetico ma anche sotto il rispetto più strettamente tecnico-industriale. il respiro europeo del giornale è testimoniato anche in questo caso dal fatto che due tra gli articoli più interes-santi siano corrispondenze da Parigi e Berlino, rispettivamente di alberto Savinio e di Guido Piovene24, che si riprenderanno in det-taglio in seguito.

Si può facilmente individuare un clima culturale comune fra l’esperienza di “il Convegno” e dell’“ambrosiano”, entrambi impe-gnati, pur a livelli diversi, a far conoscere in italia quanto si muove negli ambienti intellettuali delle capitali europee e a creare un ide-ale collegamento fra Milano, Parigi e Berlino.

Gli articoli di Ettore Maria Margadonna sono il fil rouge che lega in modo evidente le due pubblicazioni dal punto di vista cinema-tografico. Fra il 1931 e il 1933 i numerosi articoli di Margadonna, spesso firmati con le sole inziali in carattere minuscolo (e.m.m.), abbracciano un ampio orizzonte d’interessi: dai problemi legati all’estetica e al linguaggio cinematografico alle recensioni dei film fino all’informazione su nuovi sviluppi tecnologici. È lo stesso Margadonna a rivendicare in uno dei suoi primi interventi teorici sul quotidiano milanese la continuità con “il Convegno” e il diritto di primogenitura di quest’ultimo nell’occuparsi di cinema:

Gli intellettuali italiani si sono accorti assai tardi del cinema. […] Certe precedenze è bene metterle a verbale e per esempio, ricordare che fin dal 1926 sul Convegno (rivista) e nel Convegno (circolo) siamo stati i primi, Ferrieri, Gerbi, Gadda, io, a occu-parci del cinema con la stessa serietà con cui ci si occupa del-la pittura, della scultura e delle altre arti belle, bene ricordarlo

24 in particolare alberto Savinio (pseudonimo di andrea de Chirico) è corri-spondente fisso da Parigi per la cultura e saltuariamente interviene sul ci-nema. Da Berlino si alternano le corrispondenze di anton Giulio Bragaglia e di Guido Piovene.

194 Il volo del cinema

non per vantare delle benemerenze ma perché stanno arrivando quelli della sesta giornata, cioè certi eruditissimi messeri capaci di tirarti fuori, tutta fragrante di novità, una ‘estetica del cinema’. Sic! Sentono costoro un miglio distante di crocianesimo e non hanno ancora imparato che di estetica ne esiste solo una: quel-la dell’arte, e che in altra sede si può tutt’al più compilare una stilistica o retorica o poetica o manuale di bello scrivere (di bel cinema nel nostro caso) e basta.25

Dalle poche righe riportate sopra si capisce immediatamente come Margadonna pubblichi sul giornale, in alcuni casi con una perfetta corrispondenza, alcune anticipazioni di quanto sta scri-vendo per il proprio libro Cinema ieri e oggi26. anche gli articoli più strettamente di critica puntano a valorizzare alcuni cineasti, Chaplin e Griffith ad esempio, come autori di film “opere d’arte”27, che saranno trattati ugualmente nel volume.

Senza riprendere quanto già detto sul pensiero di Margadonna, è evidente che anche per gli interventi sul cinema in “L’ambrosia-no” l’opzione dell’estetica idealistica crociana è dominante, anche se non mancano alcune voci che aprono altre vie d’interesse più pragmatiche e vicine alle posizioni razionaliste, attente ai rapporti fra arte e industria.

È il caso di una serie d’interventi di Ernesto Cauda, compresi fra il 1931 e il 193328, che analizzano le ragioni della crisi della ci-nematografia italiana legandoli ai problemi dell’industria cinema-tografica nazionale, alla sua fragilità economica e alla necessità di un intervento organico e mirato dello Stato. La proposta di Cauda è un progetto complessivo, che prende forma progressivamente e che, oltre a insistere su questioni molto pratiche di tipo economi-co, tecnico e professionale – come la necessità di costituire una scuola nazionale per preparare ai mestieri del cinema –, affronta

25 Margadonna 1931e.26 nella serie d’interventi teorici che seguono a quello introduttivo, Spira-

glio sui misteri del cinema (Margadonna 1931e) si possono ricordare: Mar-gadonna 1931c; 1931d; 1932d (dove si commenta la traduzione dei testi di Pudovkin condotta da Umberto Barbaro) e, infine, la corrispondenza da Parigi Margadonna 1932e.

27 Margadonna 1931f; Margadonna 1932f. 28 Tutti gli articoli hanno sempre il medesimo titolo Il film italiano; i più si-

gnificativi sono: Cauda 1931a; 1931b; 1931c; 1931d; 1932; 1933.

Ettore Maria Margadonna, tra critica e storia 195

una serie di nodi problematici tra cui il rapporto fra produzione e aspettative del pubblico:

in tema di produzione bisogna che questa corrisponda ai desideri del pubblico: abbiamo in precedenza accennato alle possibilità d’in-fluire sui gusti e sulle tendenze delle masse di spettatori: dicemmo però trattarsi di azione perfettamente possibile, ma lenta e non pri-va di rischio. in periodo di sviluppo e di lotta (e in questo periodo si trova attualmente l’industria nazionale) occorre tener conto dei gusti del pubblico, seguendoli per quanto possibile, sia pure senza concessioni eccessive.29

Cauda, una volta dato per scontato che il cinema possa realizza-re “opere d’arte”, si preoccupa del suo lato industriale e dei rapporti con lo Stato per arrivare a produrre film italiani che possano regge-re il confronto con le principali cinematografie straniere; senza per questo arrivare a teorizzare un’arte di stato o di sola propaganda, ma lasciando spazio alla libera creatività artistica30.

Se le preoccupazioni di Margadonna erano più di ordine estetico e di definizione del linguaggio cinematografico, quelle di Cauda sono di carattere tecnico-economico e investono i rapporti con il potere politico, con una particolare attenzione al rapporto fra il cinema e il pubblico cui il film deve rivolgersi. non mancano in “L’ambrosiano” altri interventi di intellettuali e di artisti di discipline diverse, che guardano al cinema con attenzione e curiosità: da alberto Savinio a Guido Piovene, da Giuseppe Prezzolini a Delio Tessa.

alberto Savinio, con il suo stile ironico e paradossale, scrive da Parigi numerose corrispondenze su varie attività culturali, dedi-cando un certo spazio al cinema31. Basta riprendere il suo primo intervento, Cinematografo intellettuale, del 7 dicembre 1926, per capire come quella di Savinio sia una voce controcorrente rispet-

29 Cauda 1931c.30 Per approfondimenti ulteriori su Ernesto Cauda e in particolare sugli arti-

coli pubblicati nella rivista “quadrante” si veda zagarrio 2004, pp. 113-115.31 Gli articoli di cinema pubblicati da “L’ambrosiano” sono: Cinematografo

intellettuale (Savinio 1926); una serata all’Opéra (Savinio 1927); Cinemato-grafo e teatro (Savinio 1931); Borghesia in ansie (Savinio 1932a); René Clair (Savinio 1932b); Scuola di costumi (Savinio 1933). Per maggiori approfon-dimenti sul rapporto tra alberto Savinio e il cinema si vedano Savinio 1981 e Bernardi 1992.

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to alle più diffuse preoccupazioni di legittimare il cinema come arte attraverso l’utilizzo di argomenti e testi impegnati provenien-ti dal repertorio letterario e teatrale europeo contro “l’ingenuità” dei film americani. Savinio, invece, vede proprio nella produzione hollywoodiana con le sue storie semplici la riproposizione di una cultura popolare antica:

il cinematografo (dico il cinematografo americano) aveva se non al-tro questa preziosa virtù: vivere in uno stato di perfetta innocenza […]. E noi si respirava in quei film innocenti il profumo stesso dei poemi omerici, l’aria limpida di una civiltà pura, patriarcale, e pre-cedente, come insegna monsieur Bérard nella sua nuova edizione dell’odissea, il fosco medioevo storico.32

Per attaccare e ridicolizzare il cinema intellettuale e il suo pub-blico, Savinio prende spunto da una proiezione cui ha assistito nel-la piccola e famosa sala per “cinefili” Vieux Colombier nel quartie-re Latino: il film Kean (1923) di alexandre Volkoff, interpretato dal noto attore russo ivan Mosjoukine:

il conferenziere con voce malferma e cavernosa, illustra le qualità, le intenzioni, il substrato drammatico e psicologico del film che è per essere proiettato. applausi. il pubblico del Vieux Colombier (pub-blico speciale composto in prevalenza di giovani pallidi, pensosi e affetti evidentemente di grave dispepsia, e di donne magre ed edu-cate in qualche scuola di danze ritmiche con refettorio vegetariano) applaude molto, applaude continuamente, applaude senza ragione, ma con l’intenzione manifesta di sollevare il cinematografo al livello del teatro di prosa. il film si svolge come Dio vuole. Che diremo di questo Kean? Riassumiamolo con due parole: roba da chiodi. [...]ora volete conoscere gli effetti sinistri del cinematografo intellet-tuale? Durante la scena della giga, abbiamo visto un uomo seduto accanto a noi, un uomo alto e robusto, cadere svenuto ai nostri piedi. Finito lo spettacolo abbiamo, visto una madre, una madre estatica e dolorosa, traversare la sala sollevando in braccio una bambina con le gambe irrigidite da una paralisi improvvisa.Morale: bambini guardatevi dal cinema intellettuale, se volete ser-bare le gambette in buono stato.33

32 Savinio 1926.33 Ibidem.

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Se Savinio da Parigi invita a diffidare di chi vuole «sollevare il ci-nematografo al livello del teatro», rivendicando una specifica auto-nomia del cinema, libero dalle influenze intellettuali e di altre arti, lo stesso fa Guido Piovene qualche anno dopo, nel 1930 da Berli-no, nell’articolo Cinematografo impuro34, affermando che «battute nella letteratura, la più scolastica rancidità, la più antiquata retori-ca si sono rifugiate da noi in questo campo ancor vergine»35.

Piovene, però – a differenza di Savinio che, libero da preoccupa-zioni artistiche, rivendica al cinema la funzione di manifestazio-ne moderna di una cultura popolare antica –, risponde alla con-sueta domanda di che cosa sia il cinematografo secondo i canoni dell’estetica di Croce:

Se tutti sanno che non esiste il Poema, né il Romanzo, né la novella, ma esistono tanti poemi, romanzi e novelle, né nessuno ormai cerca (da quanti mai anni) come dev’essere una commedia; però si cerca che cosa è il Cinematografo, puro e non adulterato, e come dev’esse-re l’opera cinematografica per corrispondere a quella mistica essenza con didascalie, senza didascalie, muta, parlata, silenziosa, sonora, di persone vive, di disegni animati, d’uomini o gatti o paesaggi.36

Per Piovene il cinema non è diverso dalle altre arti e se, attual-mente, ci si trova davanti a una produzione di film mediocre è sicuramente possibile ipotizzare la realizzazione di opere cine-matografiche artistiche: «La moda veristica che quasi sempre lo ispira, se spesso lo rende grezzo ed informe, lo rende anche mate-ria duttile, senza performazione, all’opera dei veri artisti che certo è imminente»37.

La qualità e la quantità di articoli sul cinema pubblicati da “L’am-brosiano” è tale che si potrebbe continuare a portare altri esempi, ma poco aggiungerebbero al dibattito sul cinema come arte o in-dustria e alla questione del suo ruolo nella società, già messi a fuo-co nei termini generali prendendo in considerazione gli interventi compresi fra la seconda metà degli anni Venti e i primi anni Trenta, dato che tra il 1934 e il 1937 lo spazio dedicato al cinema è minore e

34 Piovene 1930.35 Ibidem.36 Ibidem.37 Ibidem.

198 Il volo del cinema

si limita sostanzialmente alla cronaca e alla presentazione dei film in programmazione nelle sale milanesi. Cessata la collaborazione di Cauda e Margadonna – nel 1933, lo ricordiamo –, come critici si succedono oreste Biancoli, Gualtiero altichieri ed Emilio Ceret-ti, ma i momenti più vivaci del dibattito teorico sul cinema sono ormai chiusi con la definitiva “istituzionalizzazione” del cinema come arte38. Dal febbraio 1938 nel tentativo di un rinnovamento del giornale teso a rivitalizzare le rubriche degli spettacoli cine-matografici e teatrali si hanno nuovi collaboratori come Francesco Pasinetti e Delio Tessa che intervengono rispettivamente con la professionalità del giovane critico e con l’originalità del poeta, ma la loro attività esula dai limiti cronologici della nostra indagine.

il dato, insomma, che s’impone con evidenza negli anni considera-ti è non solo la vivacità e l’interesse dell’ambiente culturale milanese nei confronti del cinema, ma soprattutto il costante sforzo di guardare alle altre esperienze europee sia in termini di film proiettati nelle sale milanesi o nel circolo di “Convegno”, sia nelle descrizioni di quanto avviene a Berlino o a Parigi. infine l’attività critica di Margadonna, che si svolge tra una rivista di alto profilo culturale e un quotidiano, ben rappresenta la consapevolezza di molti giovani intellettuali che il cinema è un’esperienza artistica che per sua “natura” si apre a una di-mensione quotidiana della fruizione che rompe i tradizionali confini tra cultura d’élite e cultura popolare, investendo anche tutti i campi disciplinari dall’architettura alla letteratura e proponendosi come po-tente strumento educativo nonché d’influenza sociale e come l’arte del nuovo secolo e della moderna società industriale.

38 Tra i segni più chiari dell’ormai acquisita legittimazione artistica del cine-ma si segnala nel 1932 – nell’ambito della Biennale di Venezia e per volontà del suo segretario, lo scultore antonio Maraini, e del conte Volpi di Misu-rata – la nascita della Mostra del Cinema di Venezia (con il titolo di 1ª Espo-sizione internazionale d’arte cinematografica alla 18ª Biennale) con lo sco-po dichiarato di essere il primo festival dedicato all’“arte cinematografica”.

Parte IVMiti diffusi:

il cinema nell’industria culturale

201

10

La CRiTiCa CinEMaToGRaFiCanELLa RiViSTa “FUTURiSMo” (1932-1933)1

1. “Futurismo” e il cinema

La rivista “Futurismo” nasce a Roma, sotto la direzione di Mino Somenzi, con il numero datato 15-30 maggio 1932: inizialmente a periodicità quindicinale, passa a settimanale con il numero 4 del 2 ottobre 1932, per poi tornare quindicinale dal numero 43-44 del 9 luglio 1933. il nome “Futurismo” rimane fino al numero 59 del 26 novembre 1933, per poi modificarsi in “Sant’Elia” e successivamen-te in “artecrazia”, uscendo, con periodicità irregolare, fino al nu-mero 118 del gennaio 19392. Si tratta di una delle pubblicazioni più importanti del cosiddetto “secondo futurismo”3, che ha come pro-gramma, esplicitato dal direttore Mino Somenzi, quello dell’affer-mazione di uno stretto legame tra fascismo e futurismo, nel quale quest’ultimo rappresenterebbe l’espressione artistica ufficiale del regime, l’interprete e il custode dello spirito originario contro le corruzioni di personaggi opportunisti, sia nel campo intellettuale, sia in quello politico. Un tentativo, insomma, di far riconoscere il futurismo come l’arte fascista di Stato. Gli omaggi al fascismo e a Mussolini (soprattutto quelli degli inizi) sono costanti, come si legge nella nota appena sotto il titolo della rivista, che viene pub-blicata in ogni numero come dichiarazione d’intenti:

1 il presente testo è stato pubblicato in una prima versione in De Berti 2008b.

2 Per le complicate vicende editoriali della testata con i cambiamenti di nome, formato e periodicità si vedano Salaris 1992, pp. 193-199, e Grueff 2001.

3 Per il dibattito critico sul “secondo futurismo”, considerato, pur con le dovute differenze, in linea di continuità con il primo grande sviluppo del movimento che, invece, per alcuni si concluderebbe nel 1916 alla morte di Boccioni e Sant’Elia, si fa riferimento soprattutto a Crispolti 1969; Crispolti 1986 e Futurismo 2001, pp. 9-18.

202 Il volo del cinema

il futurismo è stato creato da F.T. Marinetti con un gruppo di ar-tisti nel 1909. Vent’anni di lotte spesso consacrate col sangue, con la fame, con la prigione, hanno contribuito al trionfo, in Europa e nel Mondo, di tutte le correnti, scuole o tendenze generate dal mo-vimento futurista italiano: – avanguardismo – novecentismo – ra-zionalismo – modernismo ecc. i futuristi (molti senza saperlo) […] si contano a centinaia di migliaia. La passione innovatrice che ha invaso oggi l’italia è merito del genio futurista di Benito Mussolini. il futurismo è patrimonio spirituale del fascismo. arte è intesa come creazione dell’utile e del bello, ovunque sia, in ogni campo: “artecra-zia italiana”.

Da tale nota si possono già evincere ulteriori elementi di fon-do, oltre a quelli dell’identità con il fascismo, che caratterizzano il periodico: l’orgogliosa rivendicazione del futurismo come primo movimento d’avanguardia che ha generato, ispirato e influenzato tutte le altre avanguardie europee; e l’identificazione del futurismo come movimento artistico non elitario, ma di massa, innovatore e moderno «veicolo di una estetica globale»4. La rivista accoglie contributi di vario tipo: dal teatro al cinema, dalla radio all’aero-pittura, dalla scienza alla letteratura, fino alla cucina futurista, ma l’interesse prevalente è per l’architettura.

Per quanto riguarda il cinema, gli interventi sono numerosi e qui ci si concentrerà sulla rubrica di critica tenuta da Ginna (si farà riferimento solo a recensioni firmate) con una sostanziale re-golarità dal numero 7 del 23 ottobre 1932 al numero 30 del 2 aprile 1933. Ginna interviene anche con altri articoli: sia di cinema, per ricordare l’importanza storica del film Vita futurista (1916), o per denunciare la crisi della produzione italiana; sia su temi più gene-rali: sull’arte, sull’uomo del futuro e sulla fondazione del concetto “scienzarte”, che consente di liberarsi dal senso estetico a favore di un positivismo scientifico nella ricerca artistica. Sempre in relazio-ne al cinema si possono anche ricordare, tra gli articoli più signi-ficativi di altri autori5, quelli di Prampolini sulla cinepoetica nelle esperienze delle avanguardie cinematografiche attraverso l’esem-pio del film di Jean Cocteau Il sangue di un poeta (Le Sang d’un

4 Grueff 2001, p. 495.5 Per una rassegna analitica di questi articoli cfr. Crispolti 1969, pp. 511-579.

La critica cinematografica nella rivista “Futurismo” (1932-1933) 203

poète, 1930)6, e sulla Mostra futurista di scenotecnica cinematogra-fica7, nel quale definisce il cinema «nuovissima arte industria»; i contributi di Fernando Raimondi sugli stretti rapporti fra futuri-smo e cinema8; e lo scritto di Farfa (Vittorio osvaldo Tommasini) La musica per il cinema9, ove si auspica la nascita di un nuovo ci-nema italiano in cui verranno finalmente utilizzati gli strumenti musicali inventati da Luigi Russolo. Un tema ricorrente sia in “Fu-turismo”, sia poi in “Sant’Elia”, è quello della rinascita del cinema italiano per propagandare e dare, comunque, lustro al fascismo e alla sua ideologia, come, ad esempio, nell’articolo di Renato ange-lo Righetti Films per l’Italia fascista10 e, soprattutto, nell’intervento dello stesso Marinetti Morale fascista del cinematografo, pubbli-cato sul numero 65 del 15 aprile 1934 di “Sant’Elia”11, nel quale il fondatore del futurismo pensa ad una educazione scolastica basa-ta sull’utilizzo del cinematografo. alla richiesta di rilancio dell’in-dustria cinematografica italiana con l’apporto dei futuristi, per ora sempre esclusi o relegati a un ruolo marginale, si affianca un violento attacco, soprattutto dalle pagine di “Sant’Elia”, contro l’in-dustria cinematografica hollywoodiana con una serie d’interventi anonimi, ma attribuibili allo stesso direttore Mino Somenzi, che accusano il cinema americano di «assalto metodico e a testa bassa contro tutto ciò che è amore, onore, dignità della famiglia»12. L’at-teggiamento xenofobo di Somenzi è ancora più esplicito quando scrive che «la cinematografia mondiale, l’americana in specie, è saldamente in mano all’ebraismo internazionale: e dire ebraismo e dire massoneria è su per giù la stessa cosa»13. Somenzi, inoltre, denuncia la Commissione di Censura di corruzione e di conni-

6 Prampolini 1933a.7 Prampolini, 1933b, p. 1.8 Raimondi 1933.9 Farfa 1933. anche Farfa, come tanti altri futuristi, lavora in diversi campi

artistici: dalla pittura alla scultura, dalla poesia alla pubblicità. Per il ci-nema ha scritto i soggetti cinematografici Miss Club; Tuberie e Reciproca-mente: si rimanda a Bottaro 2001.

10 Righetti 1933.11 Consideriamo “Sant’Elia” il proseguimento di “Futurismo” anche per quan-

to riguarda la numerazione. in realtà per i primi fascicoli si ha la doppia numerazione: numero 1 per “Sant’Elia “ e numero 60 per “Futurismo”.

12 anonimo 1934a.13 anonimo 1934b.

204 Il volo del cinema

venza con le case di produzione straniere, e in particolare con la Metro-Goldwyn-Mayer, per far ottenere il nulla osta a film inac-cettabili dal punto di vista morale e politico per i loro contenuti denigratori verso l’italia: «La maggior parte dei film che ci pro-vengono dall’estero, specie dall’america, sono immorali, secondo il nostro modo di concepire la vita e le sue manifestazioni: sono antitaliani perché o dichiaratamente tali o troppo lontani da quel clima di rettitudine, di sacrificio, di disciplina, di amor patrio cui il Fascismo ci ha abituato»14. infine, Somenzi, con lo pseudonimo di anacleto Tanda, sostituirà Ginna nelle brevi recensioni dei film in programmazione nelle sale romane nella rubrica Cinema teatro e radio sulle pagine di “Futurismo” dall’aprile 1933, ma limitandosi a brevi notazioni tecniche o a giudizi sulla trama.

Prima di passare a un’analisi approfondita delle recensioni di Ginna, si possono trarre alcune conclusioni generali sull’atteggia-mento verso il cinematografo da parte della rivista che testimo-nia un passaggio fondamentale nella considerazione del cinema come medium e del ruolo centrale che ha assunto nella società. al di là dello stretto legame con il fascismo e con la sua ideologia, con lo scopo di usare il cinema come strumento di propaganda, la rivista diretta da Somenzi è un caso esemplare dell’atteggiamen-to del secondo futurismo verso la nuova arte che «non riguarda più soltanto una prospettiva di film sperimentale d’avanguardia, bensì una penetrazione dell’avanguardia nel comune ‘consumo’ cinematografico»15.

C’è, insomma, la consapevolezza che, con l’avvento del sonoro e con i processi di modernizzazione e industrializzazione in atto nella società, non si può più pensare ai film solo come a una pratica artistica più o meno d’avanguardia, ma che il cinema, proprio per la sua natura di mezzo di comunicazione di massa e per il gran-de “consumo” quotidiano che ne viene fatto, ha un ruolo cruciale nei processi sociali e culturali dell’epoca, proponendo stili di vita e modelli di comportamento che possono influenzare grandi masse di persone, come si è più volte ribadito anche nei precedenti capi-toli. questo spiega gli attacchi al cinema americano, che godeva del favore del pubblico, e l’insistenza sulla necessità della rinascita

14 anonimo 1934c.15 Crispolti 1969, p. 575.

La critica cinematografica nella rivista “Futurismo” (1932-1933) 205

di un cinema e di un’industria nazionale in grado di produrre film con una forte identità italiana (fascista, secondo i dettami della propaganda). Si preferisce rinunciare a un ruolo d’avanguardia, ma marginale, e cercare di far confluire questa esperienza, con tutte le mediazioni del caso, nella realizzazione di film che possa-no ottenere un buon successo popolare. non a caso sono gli anni della ripresa produttiva della Cines e che precedono la fondazione di Cinecittà. Come ha ben sottolineato Elena Mosconi16, il cinema italiano nel periodo compreso fra l’avvento del sonoro e la seconda guerra mondiale si legittima come medium e completa quel pro-cesso d’istituzionalizzazione a tutti i livelli, dalla produzione al consumo fino alla critica, che nei primi anni Trenta diventa pratica quotidiana sui giornali e non più esercizio estemporaneo.

2. Arnaldo Ginna critico cinematografico

il rapporto con il cinema di arnaldo Ginna, pseudonimo di ar-naldo Ginanni Corradini, è generalmente noto sia per il ruolo de-terminante da lui svolto nella realizzazione del film Vita futurista, prodotto a Firenze nel 1916 insieme a Marinetti, Balla, Corra, Ven-na, Settimelli, Chiti, nerino, nannetti; sia per essere, ancora con Marinetti, Corra, Settimelli, Balla e Chiti, tra i firmatari del mani-festo La cinematografia futurista, sempre del 1916, e per aver pub-blicato nel 1938 con Marinetti La Cinematografia, che in buona parte riprendeva letteralmente le tesi già enunciate nel 191617. Da notare in quest’ultimo manifesto è però la consapevolezza nei due autori della necessità per la cinematografia italiana di uscire dal-

16 Mosconi 2006.17 Sul tema del legame tra cinema e futurismo si rimanda, tra i molti studi

di Mario Verdone e Giovanni Lista, in particolare a Verdone 1990 [1968], che contiene un’antologia dei principali testi teorici, oltre ai due manife-sti sulla cinematografia; Lista 1990; Lista 2001a; Lista 2001b; Lista 2010. Si vedano, inoltre, Crispolti 1969, pp. 511-579; Velocità 1986; Costa 2002, pp. 164-173; Brunetta 2004, pp. 84-91; Cinema Video Internet 2006. Da segna-lare, per l’ampia documentazione e soprattutto per l’originalità interpre-tativa rispetto agli studi precedenti, Strauven 2006. Per quanto riguarda specificamente gli studi su arnaldo Ginna si vedano Lista 1987; Manifesti futuristi 1984; Verdone 1990 [1968]; Tedeschi 2001, e, per la parte relativa ai due manifesti del 1916 e del 1938, Strauven 2006, pp. 82-129.

206 Il volo del cinema

la crisi stimolando un coraggioso «balzo in avanti»18. Marinetti e Ginna constatano, inoltre, che «per opera degli americani e recen-temente dei francesi il pregio caratteristico dei migliori film d’oggi consiste nell’arricchire le situazioni drammatiche meno originali o banali con molti particolari ossessionanti per tipicità e perfezio-ne di fotografia e d’inquadratura (esempio Tovarich, ecc.)»19. Se si considera che il film citato, Tovarich, è una commedia hollywoo-diana diretta da anatole Litvak, con Claudette Colbert e Charles Boyer, uscita nel dicembre 1937 negli Stati Uniti e nel marzo 1938 in italia, si può concludere come i due estensori del manifesto fos-sero attenti osservatori di quanto si proiettava nelle sale cinemato-grafiche nazionali (probabilmente Ginna ancor più di Marinetti); e come, apprezzando la qualità tecnica e stilistica dei film america-ni più popolari, implicitamente ammettessero un’apertura anche a un modello di questo tipo e non solo a un cinema sperimentale, come nel manifesto del 1916, per l’auspicato «balzo in avanti» del cinema italiano. insomma, i conti con il successo del cinema ame-ricano devono farli tutti, per arrivare alla conclusione che quello sia il modello da seguire per poter sviluppare una competitiva in-dustria cinematografica nazionale.

Ma ritorniamo a Ginna e ai primi anni Trenta che, come do-cumentato da Verdone20, svolge tra le proprie molteplici attività anche un’intensa attività giornalistica, collaborando con le riviste “L’italia Futurista”, “Roma Futurista”, “L’impero”, “oggi e domani” e “Futurismo”, sulle quali scrive di scienza, pittura, cinema, radio e musica.

in particolare, Ginna teorizza la nascita di una critica futurista, sintetica nei giudizi, che punti a una valutazione scientificamen-te oggettiva, superando gli sproloqui del critico-giornalista. in un articolo pubblicato in “Futurismo” del 20 novembre 1932, con il ti-tolo Critica futurista ne delinea le caratteristiche generali e quelle specifiche per i film:

La critica cinesonora, teatrale, pittorica, ecc. dovrebbe essere, quan-to si può, veloce sintetica ed esattamente valorizzatrice; dovrebbe

18 Marinetti, Ginna 1938 (ora in Marinetti 2001 [1968], p. 214).19 Marinetti, Ginna 1938 (ora in Marinetti 2001 [1968], p. 215).20 Per un elenco dei principali articoli di arnaldo Ginna sulla stampa si ri-

manda a Verdone 1990 [1968], pp. 294-298.

La critica cinematografica nella rivista “Futurismo” (1932-1933) 207

essere piuttosto chiamata valutazione. Si va verso una concezione positivista che invade ogni campo dell’arte e della scienza […]. Per-ché dunque la critica d’arte deve rimanere allo stato di prolisso mo-nologo nella mente e nella penna dell’eminente critico-giornalista? Perché valutare un’opera d’arte cominciando ogni volta dalla crea-zione dell’uomo? D’altra parte perché raccontare l’intreccio e poi chiudere l’articoletto lasciando il lettore con un palmo di naso? ad esempio, valutazione di un lavoro cinesonoro, interessa: 1. il pubbli-co; 2. il tecnico; 3. L’artista; 4. L’industriale. a nessuno dei quattro interessa conoscere l’intreccio. […] il cinesonoro è composto di varie parti indissolubili ma chiaramente distinguibili: intreccio. quadri. Sonoro. Recitazione. […] Scomposti così i lavori rappresentati nelle diverse parti caratteristiche ed essenziali, se ne possono rappresen-tare con un numero i diversi relativi valori anche se oggi non si può seguire strettamente questa valutazione è indubbio che, man mano che la coscienza del pubblico e degli interessati si affina e si sviluppa, la valutazione futurista deve tendere alla più sintetica delle forme di valutazione, quella espressa da una frazione numerica.21

Sia Mario Verdone22 che Enrico Crispolti23 hanno osservato come Ginna riprenda quanto affermato dal fratello Bruno Corra e da Emilio Settimelli nel manifesto del 1914, Pesi, misure e prezzi del genio artistico, sulla necessità di una valutazione critica scien-tifica ed oggettiva:

La prima critica nasce oggi in italia per opera del Futurismo. Ma poi-ché le parole critico e critica sono ormai disonorate dall’uso immon-do che se ne è fatto, noi futuristi le aboliamo definitivamente per adottare in loro vece i termini misurazione, misuratore. […] Misu-razione futurista di un’opera d’arte vuol dire determinazione esatta, scientifica, espressa in formule, della quantità di energia cerebrale rappresentata dall’opera stessa, indipendentemente dalle impressioni buone, cattive o nulle che dall’opera possa ricevere la gente.24

a ben vedere, però, nell’articolo di Ginna si può notare come, rispetto al manifesto del 1914, i toni, pur rimanendo polemici nei

21 Ginna 1932a.22 Manifesti futuristi 1984, pp. 11-12.23 Crispolti 1969, p. 550.24 il manifesto è riportato in Manifesti futuristi 1984, pp. 167-173.

208 Il volo del cinema

confronti della «critica passatista» e tradizionale, siano impron-tati a un pragmatismo operativo, che propone nuove modalità da seguire nella critica cinematografica. Un pragmatismo che in re-altà riprende uno scritto poco noto di Marinetti, La misurazione futurista, pubblicato in “La Fiera Letteraria” del 6 marzo 1927 per commentare una recensione di Aria di Capri di Edwin Cerio, usci-ta sulla stessa rivista il 16 gennaio 192725. Marinetti introduce con queste parole il breve testo:

La critica nelle sue forme attuali usate dal giornale quotidiano non risponde alle esigenze dello spirito moderno innamorato di esat-tezza velocità e simultaneità. occorre o sopprimerla o modificarla integralmente. Perciò continuando lo sforzo di precisione iniziato dal manifesto futurista pesi misure e prezzi del genio artistico di Set-timelli io trasformo la critica in misurazione sintetica con rubriche separate.26

Marinetti indica in particolare sei punti da perseguire per la mi-surazione sintetica:

(1) ottenere la massima sintesi, eliminando ripetizioni, sprolo-qui e rancori personali; (2) raggiungere la massima sincerità grazie anche alla brevità del giudizio da esprimere; (3) offrire una sintesi chiara al lettore che può distinguere i diversi valori dell’opera; (4) distinguere i giudizi sulle varie componenti dell’opera e della sua rappresentazione: dall’autore agli attori, dallo scenografo alle rea-zioni del pubblico in sala. ad esempio il misuratore può constatare la favorevole accoglienza del pubblico del lavoro, ma giudicare ne-gativamente lo stesso lavoro; (5) informare rapidamente il lettore dinamico, spesso distratto, così che possa con una rapida occhiata rendersi conto del nuovo lavoro teatrale; (6) sottolineare l’even-tuale originalità creativa (trovate) dell’opera che ne rivela il suo valore artistico.

Ginna, ispirandosi implicitamente al modello delle critiche te-atrali di Marinetti, nella rivista “Futurismo” s’impegna in prima persona in una rubrica di recensioni cinematografiche, nella quale

25 Devo l’indicazione di questo intervento di Marinetti a un bell’articolo di alberto Pezzotta che lo riprende per analizzare lo stile delle critiche cine-matografiche di Tullio Kezich (Pezzotta 2008).

26 Marinetti 2004 [1927], p. 749.

La critica cinematografica nella rivista “Futurismo” (1932-1933) 209

tenta di applicare i principi sintetici di valutazione già enuncia-ti nel proprio articolo sulla critica futurista. nel numero 3 del 30 luglio 1932 viene pubblicata una piccola tabella denominata Valo-rizzazione sintetica cine sonora, che si presenta come una pagella scolastica divisa in quattro righe orizzontali nelle quali sono indi-cati rispettivamente: «Elementi drammatici e comici» (equivalen-te del termine “intreccio”), «Sonorizzazione», «quadri», «Recita-zione», e a ogni colonna verticale corrisponde un film cui viene assegnato un voto (s’intuisce che la scala di valore è da 1 a 10) per ognuna delle quattro voci.

Dei cinque film valutati è indicato il titolo italiano, la casa di produzione e la sala cinematografica di Roma dove si proietta27. Si tratta quasi esclusivamente di pellicole americane prodotte da ma-jors, e tutte raggiungono voti alti, compresi fra il 7 e il 9, per quanto riguarda le voci «quadri» e «Recitazione», tutte il 6 per «Sonoriz-zazione» (tranne un 7 per L’ingannatrice), e voti più diversificati, compresi tra il 5 e l’8, per «Elementi drammatici e comici»28.

il fatto che si tratti di produzioni statunitensi è abbastanza ov-vio, dato che in quel periodo dominano incontrastate il mercato italiano; più interessante, invece, è notare come la valutazione sia generalmente più che positiva, con punte di eccellenza per quanto riguarda «quadri» (La corsa alla vanità di archie Mayo conquista addirittura un 9) e «Recitazione».

Giudizi, questi, apparentemente contraddittori e che possono stupire per la loro generosità se messi a confronto non solo con il manifesto sulla cinematografia del 1916, ma con quanto afferma lo stesso Ginna nel numero 5 del 9 ottobre 1932 di “Futurismo”, quando ricorda l’esperienza della pellicola Vita futurista per rilan-ciare la produzione di film «originalissimi» e che siano liberi «da

27 i titoli dei film sono: L’amorosa tentazione (produzione privata: titolo ori-ginale e regia non identificati), L’armata segreta (Men of the Sky, 1931, First national, alfred E. Green), L’ingannatrice (Quand on est belle, versione francese di The Easiest Way, 1931, Metro-Goldwin-Mayer, Jack Conway), La corsa alla vanità (Bought, 1931, Warner Bros., archie Mayo) e Tastatemi il polso (Feel My Pulse, 1928, Paramount, Gregory La Cava). Per titoli origi-nali, anno e regia cfr. Farinotti 1990 e soprattutto Martinelli 2002.

28 nello specifico L’amorosa tentazione: 6; L’armata segreta: 5 (unica insuffi-cienza di tutte le voci); L’ingannatrice: 7; La corsa alla vanità: 8; Tastatemi il polso: 7.

210 Il volo del cinema

ogni convenzionalismo di naturalezza e di estetica»29. Lapidario, nello stesso intervento, è il giudizio sulla prima Mostra del Cinema di Venezia: «Si è pertanto constatato questa triste verità: i mezzi tecnici sono ben al di sopra della forza creativa artistica della mon-diale cinematografia che si dimostra povera e ristretta»30.

in un’intervista sul film futurista ad anacleto Tanda (pseudoni-mo di Mino Somenzi), nel numero 7 del 23 ottobre, Ginna ribadi-sce che «La cinematografia futurista si poneva all’avanguardia con la sua genialità e con le sue iniziative che il mondo cinematografico non vuole ancora considerare»31, ma si dichiara anche convinto che con il film sonoro «Si potrà realizzare finalmente la meraviglio-sa fusione della plastica e dei suoni sognato da Riccardo Wagner e quella della parola e della musica desiderato da E. Berliotz»32. Ginna si dimostra ottimista sul futuro del cinema prevedendo l’av-vento del «passo gigante» che permetterà la proiezione su grandi schermi, e allora

il pubblico sarà quasi assorbito dalle scene dove si produrranno gran-di masse umane, di forme plastiche e cromatiche interpretate da suoni e rumori potentissimi e perfezionatissimi. […] l’avvenire della cinematografia è veramente lusinghiero solo che si abbia il coraggio di staccarsi una buona volta dalla pania passatista e abbracciare in pieno i principi da noi enunciati, che oltre tutto risolverebbero an-che commercialmente le sorti della cinematografia odierna.33

Ginna vede nell’avvento del sonoro la possibilità di coniu-gare nuove sperimentazioni cinematografiche con il coinvol-gimento emotivo e sensoriale del pubblico, arrivando a rea-lizzare pellicole di successo. La scommessa sul sonoro come apertura verso nuove possibilità creative caratterizza i primi anni della transizione dal muto al sonoro, e si collega sia ad alcune esperienze radiofoniche futuriste alla radio di Pino Ma-snata, sia all’attività di Luigi Russolo. Peraltro, lo stesso Ginna era intervenuto sulle possibilità di una nuova «arte fonica» tra-

29 Ginna 1932b.30 Ibidem.31 Ginna 1932c.32 Ibidem.33 Ibidem.

La critica cinematografica nella rivista “Futurismo” (1932-1933) 211

smessa alla radio o registrata su dischi e pellicole in alcuni ar-ticoli pubblicati tra il 1931 e l’inizio del 1932 sulle riviste “oggi e domani” e “L’impero”34.

Con le sue recensioni sintetiche ai film (difficilmente superano la ventina di righe su una colonna), Ginna non solo si propone di fondare una critica cinematografica su presupposti oggettivi, ma focalizza l’attenzione sulla presenza nei film di elementi significa-tivi, nei quali si possa intravedere la nascita di quel nuovo cinema auspicato nei suoi scritti teorici. inoltre, è utile ricordare che la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta sono un periodo cruciale nella pratica critica cinematografica perché inizia ad affermarsi la «figura professionale del critico di cinema: primo è Filippo Sac-chi sul “Corriere della Sera”, seguito a ruota da Mario Gromo su “La Stampa”, da Piero Gadda Conti sul “Popolo d’italia” e da tanti altri»35.

Vediamo ora di entrare nel merito delle recensioni di Ginna con alcuni esempi tratti dalla rubrica di cinema e teatro di “Futurismo”, nella quale egli cura esclusivamente la parte cinematografica. i film presi in considerazione sono quasi soltanto americani e ita-liani, con alcune puntate nel cinema tedesco. nel numero 10 del 13 novembre Ginna recensisce Il Dottor Jekyll (Doctor Jekyll and Mr Hyde, 1932, Rouben Mamoulian): pur sottolineando la distanza dai presupposti del film futurista, ne apprezza diverse qualità, a partire dall’ammirazione per casa produttrice Paramount, che ha avuto il coraggio di realizzare una pellicola dal racconto di Steven-son, fino al riconoscimento delle straordinarie qualità recitative di Miriam hopkins e Fredric March:

Sonoro. non vi è un vero commento orchestrale. […] i rumori e i sospiri rimarchevoli. Quadri. il realizzatore Mamoulian coadiuvato da buoni operatori è riuscito a darci dei quadri veramente belli ed originali la dove la trama non dava che delle situazioni dialogate e teatrali. in certi punti vi sono persino delle simultaneità e delle in-tersecazioni di stati d’animo che noi futuristi cercammo di dare con mezzi molto primitivi, ma con arte più avanzata del nostro primo

34 Per approfondimenti sui rapporti fra radio e cinema si rimanda a Valentini 1998 e 2007. Si veda anche De Berti, Mosconi 1999.

35 Pezzotta 2007, p. 27. Sempre sulla critica cinematografica si vedano Casetti 1979; Brunetta 1993; Pellizzari 2001; zagarrio 2004.

212 Il volo del cinema

film. Recitazione. ottimamente specialmente la mimica di Miriam hopkins; straordinaria l’interpretazione e lo sforzo dualista di Fedric March.36

Già in questa prima recensione si delineano alcuni degli elemen-ti costanti che si ritroveranno nei commenti critici di Ginna: nes-suna pellicola tra quelle distribuite nelle sale soddisfa pienamente le caratteristiche dell’ipotetico film futurista, e gli appunti critici sulla mancanza d’inventiva e di soluzioni originali, soprattutto per la trama e il sonoro, sono pressoché ricorrenti; d’altra parte Gin-na riconosce in molti film meriti cinematografici che lo portano a esprimere giudizi sostanzialmente positivi anche per opere di genere. Un esempio è la sinteticissima critica a Il testimonio muto (Silent Witness, 1932) di Marcel Vanel e Robert Lee hough, pubbli-cata sul numero 21 del 29 gennaio 1933: «Vicenda. L’intreccio è del tipo… misterioso e con questo mistero vuole attrarre l’attenzione del pubblico. Sonoro nulla da notarsi. Quadri. Le fotografie buone sono montate con discrezione. Recitazione. Buona quella di Greta nissen e Lionel atwill»37.

i maggiori favori critici di Ginna vanno a film di registi come King Vidor, Raoul Walsh e Josef von Sternberg, dimostrando una grande capacità nel saper individuare, nella vasta produzione cir-colante nelle sale, le opere più originali anche all’interno dei gene-ri cinematografici di maggior successo. Letteralmente entusiasta si dimostra per Shangai Express (1932) di von Sternberg:

Vicenda. […] La trama è tenue e delicata ma è condotta con tale mae-stria dal polso di ferro del realizzatore Josef Von Sternberg, che avete davanti a voi un susseguirsi d’ininterrotte ondate drammatiche che tolgono il respiro ed inebriano possentemente. Sonoro. […] i suo-ni, i rumori e la musica sorgono sempre a proposito ed accrescono ogni volta l’efficacia dello stato d’animo plastico, drammatico. nota-re il suono petulante delle campane nei treni cinesi; suono che non fu adoperato per un semplice bisogno realistico, ma per dare forza alla fatalità tragica di quel popolo e di tutto il dramma. Quadri. Le fotografie sono bellissime e sono espresse con intenzione tecnica differente a seconda del momento drammatico da riprodurre. Ma

36 Ginna 1932d.37 Ginna 1933a.

La critica cinematografica nella rivista “Futurismo” (1932-1933) 213

quello che forma veramente un capolavoro è il taglio e il montaggio del film. qui si comprende quale importanza abbia questa tecnica nell’arte cinematografica, tecnica che sino ad oggi è stata purtroppo trascurata. Recitazione. Un complesso d’interpreti famosi che anco-ra una volta si mostrano tali: Marlene Dietrich, Clive Brook, anna May Wong, Warner oland, Gustav von Seyffertitz, Eugene Pallette. Ma notiamo soprattutto l’arte signorile ed inimitabile di Clive Bro-ok e soprattutto la grandissima Marlene Dietrich. qui troviamo una Marlene Dietrich che fa perdere enorme terreno alle sue rivali, una Marlene Dietrich che non mi fa pentire di averla altra volta chia-mata la più grande attrice cinematografica esistente, una Marlene Dietrich… o Marlene Marlene come mi piaci, e mentre te ne stai mollemente assaporando la gloria qui c’è pericolo di sfida per posta fra arnaldo Ginna, Marco Ramperti e Paul Morand.38

Una vera dichiarazione d’amore incondizionato per Marlene Dietrich, che con il suo anticonformismo negli stili di vita, dei suoi personaggi come nella vita privata, è sicuramente in sintonia con la provocazione e l’originalità futurista, ma certo molto lontana e in evidente contraddizione con i richiami moralisti di Somen-zi, quando questi si scaglia contro il cinema hollywoodiano come agente di corruzione del pubblico. in altri casi, le riserve avanza-te sui film americani sono maggiori, ma non mancano quasi mai, come si è detto, gli apprezzamenti per la professionalità di registi e attori come nel caso di Il campione (The Champ, 1931), di King Vidor:

L’intreccio è interessante, i caratteri sono vivi e ben delineati; e ne nascono situazioni con discreti contrasti. Lo spunto però non è nuovo e se King Vidor non avesse, con la sua maestria, presentato particolari interessanti il lavoro non avrebbe reali meriti. […] Qua-dri. i quadri si susseguono con fine abilità e con perfetta armonia lungimirante. Le fotografie sono ottime. La recitazione è imperniata sull’abilità dell’allora appena ottenne Jackie Cooper. il prodigio di questo ragazzo è però evidentemente sfruttato al massimo dalle tro-vate geniali del Vidor il quale mostra la sua possente personalità in ogni punto saliente.39

38 Ginna 1932e.39 Ginna 1933b.

214 Il volo del cinema

nello stessa rubrica del 5 febbraio 1933 porta però a modello da seguire Grand Hotel (1931) di Edmund Goulding:

L’intreccio è un poco comune, situazioni già sfruttate, caratteri già visti, ma è cinematografico al 100 per cento e il successo si delinea per la speciale interpretazione del realizzatore Edmund Goulding. agli spiriti attenti e profondi, agli analisti-sintetici dovrebbe bastare questo esempio del film “Gran hotel” per dare un’idea di quello che può fare la tecnica cinesonora anche con deboli situazioni d’intrec-cio. […] Quadri. La fotografia è inquadrata con profonda sensibili-tà, la plastica in movimento è guidata con fine intuito e pienezza di concetto. il montaggio, sebbene tagliato qua e là, è fatto con arte e dà senso di completezza. Recitazione. La Metro-Goldwyn chiama in riscossa tutte le sue migliori energie interpretative: Greta Garbo, John Barrymore […]. questi conosciutissimi artisti non smentiscono la loro arte.40

Come si vede, le osservazioni critiche di Ginna dimostrano una precisa conoscenza del mezzo cinematografico, e puntano a valo-rizzarne le specificità stilistiche ed espressive, evitando commenti impressionistici o legati a modelli letterari.

alla luce di questi giudizi tecnici molto positivi sui film ame-ricani risulta evidente come l’inserimento nel manifesto La Cine-matografia del 1938 del sopra citato riferimento a Tovarich sia da attribuire soprattutto a Ginna, e a un suo ancor più esplicito rico-noscimento della qualità del cinema d’oltreoceano.

Grande attenzione viene dedicata al cinema italiano, dalla cui crisi Ginna auspica una ripresa attraverso l’affermarsi di una sua precisa identità nazionale, che tenga conto delle proposte dei fu-turisti. al di là della stima per alcuni attori, come Vittorio De Sica o Elsa Merlini, o di un generico apprezzamento per le capacità tec-niche della Cines, le critiche di Ginna esprimono spesso un’evi-dente insoddisfazione per la produzione di quegli anni, anche se non mancano giudizi sostanzialmente positivi, come nel caso di Gli uomini, che mascalzoni… (1932) di Mario Camerini:

Intreccio. non eccessivi meriti comici drammatici, ma tutto vi è con misura e prestanza. Caratteri e situazioni del nostro paese. – Sono-

40 Ibidem.

La critica cinematografica nella rivista “Futurismo” (1932-1933) 215

ro. il parlato non è eccessivo e chiarisce anziché appesantire l’azione visiva. – Quadri. ottime fotografie, ben inquadrate, tagliate e mon-tate. – Recitazione. al di là di ogni elogio specialmente riguardo l’at-tore Cesare zoppetti, Lia Franca e Vittorio de Sica.41

nel confronto critico fra il cinema americano e italiano, Ginna non ha dubbi sulla netta superiorità del primo e la sua delusione per il cinema nazionale è profonda quando vede L’armata azzurra (1932) di Gennaro Righelli, che doveva esaltare un tema fascista, futurista e moderno come quello dell’aviazione italiana, ed è in-vece ben lontano nei risultati anche dai tanti film di genere ame-ricani, che in quegli anni esaltano lo «spirito moderno» del volo aereo:

abbiamo aspettato tanto tempo il film drammatico eroico della nostra grande aviazione che, nel vedere poi l’armata azzurra, la delusione è stata enorme. […] non vogliamo fare paragoni tra que-sto lavoro cinematografico edito dalla Cines ed i grandi films esteri d’aviazione; come sarebbe assurdo paragonare la “larghezza” di una botte all’“altezza” di un campanile. non vogliamo nemmeno rilevare e discutere gli innumerevoli errori tecnici ed artistici di questa pelli-cola. Desideriamo soprattutto affermare l’assurdo di volere esaltare l’eroismo futurista, la meccanica futurista, l’organizzazione futurista dell’aviazione e dell’aeroplano con un’arte pedestre, statica e passa-tista. La nostra critica esorbita questa volta dalla solita valutazione meticolosa e sintetica, perchè sentiamo di esprimerci con un grido di rammarico, un grido di dolore, un grido di protesta. […] io non sono un tecnico di aviazione, ma vorrei chiedere: che cos’è quella piccola macchinetta da caffè che avrebbe avuto la possibilità di raggiungere, se non erro, i diecimila e più metri. […] E troppo vorrei chiedere, se non venisse spontaneo un pensiero tutto latino: date a Cesare quello che è di Cesare; date le invenzioni moderne ai modernissimi, date soprattutto le realizzazioni fasciste, e la meccanica, e la cinemato-grafia, alla genialità futurista.42

in questa recensione è ben sintetizzato uno dei principi di fondo che ispirano “Futurismo”, ossia la volontà di affermare lo stretto le-game tra futurismo e fascismo, che sarebbero uniti da una comune

41 Ginna 1932c.42 Ginna 1932f.

216 Il volo del cinema

spinta all’innovazione e alla modernizzazione nel campo della po-litica, della scienza, della società e dell’arte. Certo, Ginna non può trovare elementi innovativi in sia pur dignitose commedie, come Paradiso (1932) di Guido Brignone con protagonista nino Besozzi, e il suo commento positivo non può che limitarsi ancora una volta, per la produzione nazionale, agli stretti elementi tecnici o stilistici come la fotografia di Ubaldo arata:

Lo spunto non è nuovo e veri caratteri non ce ne sono. non sappiamo se si può trovare del pubblico che ami tal genere di lavori. Sonoro. Lo svolgimento orchestrale Colacicchi è buonissimo e la registrazione eseguita dai tecnici della Cines è perfetta. Quadri. il taglio di mon-taggio è eseguito con perizia, la ripresa fotografica di arata è eccel-lente sotto ogni punto di vista.43

Ginna auspica un maggiore coraggio sulla strada del cinema sperimentale e d’avanguardia anche da parte della Cines, che sem-bra svolgere un ruolo di freno anche in casi come O la borsa o la vita (1933) di Carlo Ludovico Bragaglia, autore che per la sua vi-cinanza al futurismo poteva realizzare quel film italiano “nuovo” tanto atteso:

Si vede spesso lo sforzo del realizzatore di restare nel campo della prudenza tecnica per non dispiacere troppo alla Cines, che, secon-do noi, sbaglia nel non voler intendere realizzazioni d’avanguardia e nuovi propositi tecnici cinesonori. […] Quadri. Le fotografie mol-to buone sono spesso inquadrate con originalità ma anche qui in-tuiamo che, volente o no, il realizzatore si lascia prendere la mano dall’operatore. Recitazione. Vediamo un nuovo Tofano, ma non tal-mente inaspettato da crearci una sorpresa dato che questo attore ebbe sempre sotto il lato burlesco delle sue interpretazioni un senso grottesco-drammatico molto umano. Eccellenti anche gli altri inter-preti.44

il problema della rinascita di una cinematografia naziona-le dopo la profonda crisi del cinema italiano dalla metà degli anni Venti è un tema comune a tutte le pubblicazioni che si

43 Ginna 1933c.44 Ginna 1933d.

La critica cinematografica nella rivista “Futurismo” (1932-1933) 217

occupano di cinema in quegli anni, e “Futurismo” non è da meno nel denunciare i limiti della produzione contempora-nea, avendo ben presente però la necessità di trovare un giu-sto equilibrio fra esigenze economico-industriali e artistiche. Mario Rispoli, nel numero 21 del 23 gennaio 1933, denuncia il poco coraggio delle case di produzione italiane, che si limitano a realizzare commedie di stampo teatrale senza nessuna spinta a sperimentare nuove possibilità creative aperte con l’avvento del sonoro:

noi, in italia, abbiamo case cinematografiche, ma le chiavi del successo l’hanno padreterno insigni che al posto del senso artisti-co hanno quello affaristico. Colendissimi signori, che gabellano il pubblico con lavorucci anemici. i loro lavori si limitano ad eterni esperimenti, così che fino a quando in italia si gireranno films come quelli fin’ora girati, la nostra industria cinematografica farà sempre cilecca. Lavori di simile conio, di sì ristretta mentalità, non potranno mai piacere – anche se ben interpretati –. Sarebbe ora di finirla con la commediola teatrale sciorinata sullo schermo. il cinematografo è un’arte a sé. non deve avere nulla di comune con il teatro. […] inoltre sarebbe opportuno stabilire un equilibrio fra gli elementi artistici e quelli commerciali, fra spese di realizzazione e guadagni di incasso. Rintuzzare la concorrenza straniera col produrre lavori superiori e come arte e come tecnica.45

Una denuncia della crisi creativa del cinema italiano ripresa da Ginna, nei numeri 23 del 12 febbraio 1933 e 25 del 26 febbraio, che attacca la politica direttiva della Cines, al cui vertice, in quel momento e fino alla fine del 1933, si trovano il banchiere Ludo-vico Toeplitz e, per quanto riguarda la direzione artistica, Emilio Cecchi46. il primo articolo è dedicato esplicitamente alla crisi del cinema italiano:

quanti ne ha mollati degli S.o.S. l’industria cinematografica italia-na? Molti certamente. Ma oggi il grido di aiuto si fa sentire più forte ovunque. a parte il “mal di mare” cronico della Caesar, che non si sa se voglia vivere o più coraggiosamente crepare, abbiamo la “Cines”,

45 Rispoli 1933.46 Per approfondimenti sulla Cines: Buccheri 2004.

218 Il volo del cinema

la grossa “Cines” apoplettica che fa sentire un rantolo poco rassicu-rante.47

nel secondo caso, invece, Ginna inserisce una polemica osser-vazione sulla Cines nella recensione al film Sette giorni cento lire (1933) diretto da nunzio Malasomma:

Vorrei dire bene, anzi benissimo, anche di questa creatura della Ci-nes, ma mancano totalmente anche i più semplici valori. […] Tut-tavia diremo che la Cines ha tutte le possibilità di fare bene e noi attendiamo ancora con fiducia, con piena fiducia nel Dirigente, che certamente si prepara a rilevare ben più originali e giovani energie, per ben più importanti realizzazioni e successi.48

nei suoi polemici interventi sul cinema nazionale, che ignora l’esperienza e la collaborazione dei futuristi che potrebbero fornire quella spinta innovatrice necessaria a far uscire dalla crisi un cine-ma ripetitivo e troppo legato agli schemi teatrali della commedia, Ginna non risparmia nemmeno Camicia nera (1933) di Giovacchi-no Forzano, realizzato dal Luce per celebrare il decennale della marcia su Roma:

E mi si permetta di rammaricarmi per il fatto che i futuristi, che ben diciotto anni fa realizzarono il primo film d’avanguardia nel mondo, non furono chiamati almeno per una umile collaborazione, a fianco di Forzano, nella ricostruzione storica del fascismo, notoriamente nato e vissuto in piena atmosfera futurista, nell’idea avvenirista per cui ancora oggi combattiamo con sacrifici penosissimi.49

in Ginna, nonostante i proclami che accomunano nel segno della modernità futurismo e fascismo, c’è come la consapevolezza che il manifesto della cinematografia futurista non abbia inciso minimamente sulla produzione nazionale, e che il modello di film cui pensa lo possa trovare, paradossalmente, più facilmente in pel-licole straniere diverse fra loro, che possono comprendere lo stile barocco e anticonformista dei film di von Sternberg con Marlene

47 Ginna 1933e.48 Ginna 1933f.49 Ginna 1933g.

La critica cinematografica nella rivista “Futurismo” (1932-1933) 219

Dietrich, o le inventive più sfrenate del René Clair di A me la liber-tà (À nous la liberté, 1931), del quale scrive in termini entusiastici:

Vicenda. L’intreccio ilare e gaio qui ha poco valore, mentre ha valore l’interpretazione cinematografica di René Clair. Sonoro. il comples-so sonoro è originale e segue mirabilmente la tecnica visiva. Quadri. nella sequela dei quadri, nelle originali riprese, e specialmente nella linea del montaggio, troviamo le qualità migliori di questo film Ce-rebrale? È questa una critica? È un pesare dei valori? Un genio della cerebralità sarebbe pur sempre un genio, che dovremmo ammirare e che passerebbe indubitabilmente alla storia della cinematografia. Recitazione. Guidata dalle salienti caratteristiche individuali di René Clair, e con successo.50

Si potrebbe continuare con molti altri esempi della breve ma intensa attività di critico di Ginna, ma non cambierebbe la valu-tazione finale che si può trarre: volontà di fondare una critica ci-nematografica basata sulla competenza specifica per un medium contemporaneamente artistico e industriale, nel quale la dimen-sione del consumo quotidiano comporta la necessità di mediare fra le istanze d’avanguardia e quelle del cinema narrativo. Parados-salmente viene da un intellettuale futurista e sperimentale come Ginna la consapevolezza della necessità di considerare il cinema-tografo ormai un’istituzione legittimata a tutti gli effetti, con una sua storia e anche una sua critica. Si riconosce l’arretratezza del cinema italiano e nell’auspicarne la ripresa e la modernizzazione si guarda, nonostante le polemiche moraliste e l’appoggio incondi-zionato al fascismo, alle cinematografie straniere e in particolare a quella americana come a un modello professionale da perseguire. Un gusto sicuro, insomma, che infine inscrive la modernità del cinema nel cuore stesso della (breve) tradizione futurista.

50 Ginna 1933f.

221

11

iL CinEMa E La naSCiTaDEL RoToCaLCo MoDERno1

Se nei capitoli precedenti si è concentrata l’attenzione sulla cen-tralità del cinema in relazione a diversi contesti culturali, letterari, sociali e di consumo durante il fascismo, cercando di studiarne i rapporti con il contesto cinematografico internazionale europeo e americano, si vuole ora vedere in quale grado in italia si sia af-fermata quella “modernizzazione visiva” che, a partire dall’avven-to prima della fotografia e poi del cinema, nel contesto della vita urbana ha investito tutta la stampa e ha svolto un ruolo decisivo nella costituzione di un vero e proprio sistema di circolazione in-termediale. in particolare si studierà il caso della stampa a rotocal-co che, per le proprie vaste diffusione e varietà di pubblicazioni, ha un pubblico di lettori che a grandi linee può essere considerato lo stesso del cinema, e che ha come obiettivo un prodotto non solo da leggere, ma soprattutto da guardare2. non si analizzeranno tanto le innumerevoli pubblicazioni dedicate esclusivamente al cinema o i contenuti specifici di queste riviste, dove peraltro i divi dello schermo con il loro fascino sono protagonisti assoluti di molte co-pertine e servizi, quanto la loro forma e struttura, confrontandole con i coevi modelli stranieri più avanzati per capire quanto, al di là delle censure del regime e allo spesso inevitabile conformarsi alle sue direttive3, proprio nel periodo tra le due guerre si siano

1 il presente capitolo riprende, con alcuni cambiamenti e integrazioni, De Berti 2009b.

2 È bene precisare che il pubblico di riferimento, anche quando si aggiun-ge l’aggettivo “popolare”, è principalmente quello urbano della piccola e media borghesia del Centro-nord, mentre rimane esclusa, o comunque marginalizzata dai consumi dei mass-media e in particolare della stampa, una grande parte della popolazione analfabeta, delle campagne e preva-lentemente del Sud d’italia.

3 Sui rapporti controversi fra queste pubblicazioni e il regime fascista ri-mando a Piazzoni 2009.

222 Il volo del cinema

gettate le basi di quel nuovo giornalismo che vedrà il proprio pieno sviluppo nel dopoguerra, in un moderno sistema di mass-media. L’ipotesi di partenza è la convinzione che la rivoluzione visiva de-terminata dal cinema abbia svolto un ruolo centrale e determinan-te nello sviluppo del rotocalco anche nel nostro Paese. Da tenere presente, comunque, dal punto di vista della cronologia interna al periodo, è come, non diversamente dal cinema, dai fumetti o dalla letteratura per ragazzi, l’attenzione della censura del regime per la stampa periodica illustrata a rotocalco − pubblicata da editori come Mondadori, Rizzoli, Vitagliano e da tanti altri più piccoli − si faccia più stringente a partire dal 1936, per orientarla secondo i principi educativi del fascismo e in vista di una valorizzazione autarchica dell’italianità contro l’influenza straniera, in particola-re americana e francese (si pensi, ad esempio, rispettivamente al cinema e alla moda). il progetto del regime è di arrivare a costruire un sistema di mass-media perfettamente allineato con i principi del fascismo, nel quale la presenza dei prodotti culturali esteri sia progressivamente eliminata o ridotta al minimo, ma senza per questo farne un’industria direttamente statale.

Peraltro, già nel febbraio 1928 arnaldo Mussolini, fratello del duce e direttore di “il Popolo d’italia”, intuisce la crescente impor-tanza che i giornali illustrati stanno assumendo nel panorama del-la stampa, tanto da scrivere una lettera aperta a Enrico Cavacchioli, che ha appena assunto la direzione di “il Secolo illustrato” e di altri periodici che Rizzoli ha da poco rilevato da Mondadori. La lettera, pubblicata su “il Secolo illustrato” del 25 febbraio 1928, dimostra come arnaldo Mussolini da una parte fosse perfettamente consa-pevole della svolta visiva imposta dai rotocalchi in sintonia con il dinamismo della vita moderna, ma dall’altra notasse con preoc-cupazione i rischi “morali” connessi ai contenuti di queste riviste, invitando implicitamente Cavacchioli a un cambio di rotta e a una stretta vigilanza:

non ho difficoltà ad aggiungere che io credo formalmente in un grande sviluppo dei giornali illustrati. i tempi serrati, in cui viviamo, lo spirito – per dirla con un aggettivo corrente – dinamico, che infor-ma la nostra vita di italiani e di fascisti, ci allontanano sempre più dai lunghi articoli delle lunghe colonne dei giornali. noi vediamo per sintesi. […] La immagine dà subito la sensazione dell’avvenimen-

Il cinema e la nascita del rotocalco moderno 223

to. a questo punto, è opportuno rilevare che molti giornali si sono abbandonati ad un evidente cattivo gusto. La pubblicazione delle azioni meno nobili, e meno indicate per affinare la sensibilità del nostro spirito, va condannata, perché pregiudica l’unità della nostra vita morale. i fattacci trovano ancora largo posto nelle illustrazioni. Così pure certe provocanti forme di glorificazione femminile, turba-no la sensibilità precoce dei giovani. Gli atteggiamenti sbarazzini, volgari, odiosi, antipatici, formano ancora la parte centrale di molte pubblicazioni popolari. È tempo, se vogliamo rinnovarci dal profon-do, che sia esaltato in modo degno e conveniente, tutto ciò che è la pura sorgente dello spirito […]. Le azioni che si ispirano alle virtù della stirpe, agli ordinamenti generosi della razza, ed alla istintiva bontà del nostro popolo, debbono trovare ampio rilievo.4

Le accuse e gli auspici di arnaldo circa i contenuti della stampa illustrata popolare sono, sostanzialmente, i medesimi che ricor-reranno nel periodo successivo, e soprattutto dalla seconda metà degli anni Trenta, per invocare un maggior controllo o la chiusura di alcune testate; ma va detto che la grande quantità di queste pub-blicazioni e la loro popolarità renderanno il compito dei censori più complesso e inevitabilmente non così capillare come per i quo-tidiani o le riviste culturali e politiche. Perciò i rotocalchi, senza volerli considerare modelli contrari o alternativi al fascismo, cosa che non sarebbe certo stata possibile, rappresentano in molti casi, per la loro stessa forma e cultura visiva conforme a un modello in-ternazionale, una via alla modernizzazione italiana quanto meno dissonante rispetto al regime e, almeno in parte, già proiettata nel secondo dopoguerra.

1. La forma rotocalco

nel 1959 l’editore Vallecchi per la collezione del Vieusseux di Firenze pubblica un ciclo di conferenze sul tema della stampa con-temporanea tenute, presso la stessa sede del Vieusseux, da gior-nalisti e intellettuali come orio Vergani, Eligio Possenti, ignazio Silone, Gio Ponti e arturo Tofanelli, quest’ultimo segretario di re-dazione del famoso rotocalco mondadoriano “Tempo” fin dal pri-

4 Mussolini 1928.

224 Il volo del cinema

mo numero del 1939, poi redattore dall’aprile 1940 e direttore per molti anni nel dopoguerra. il tema della conferenza di Tofanelli è proprio I Rotocalchi ed è utile partire dalle sue parole per cercare di definire, pur con tutte le ambiguità che un termine di uso così comune e generale può comportare, che cosa sia un rotocalco.

Che cosa si intende per rotocalco? Vorrei cominciare la risposta os-servando che il termine è sbagliato se applicato ai settimanali che voi tutti conoscete. il significato leggermente dispregiativo che al-cuni ritengono insito nella definizione è frutto della faciloneria con la quale si vuole spiegare un sistema che ha rivoluzionato i mezzi di stampa dei nostri giorni.Le macchine rotocalcografiche furono introdotte in italia una tren-tina di anni fa e fu con esse che vennero lanciati alcuni periodici di una letteratura deteriore diretti ad un pubblico minuto, che gustò attraverso quelle pagine le novelle sentimentali di Mura e i romanzi amorosi di Bruno Corra. Per la prima volta vennero perfettamente riprodotte le immagini dei divi cinematografici su fogli a forte tira-tura. La rivoluzione consisteva proprio in questo: poter riprodurre, grazie al principio del retino adoperato per la stampa rotocalco-grafica, le mezzetinte con grande fedeltà, a differenza della rotativa tipografica adibita alla stampa dei quotidiani […]. Si chiamò allora “in rotocalco” questa letteratura amena e siccome anche i nostri settimanali, nati subito dopo la fine della guerra, si stamparono con lo stesso procedimento, si portarono dietro il “peccato di origi-ne”, e a nulla è valso il fatto di discendere in linea diretta da un an-tenato piuttosto nobile, l’Omnibus, fondato da Longanesi nel 1937 e soppresso come tutti sanno dal regime, dopo breve vita, per aver detto male di Leopardi.È d’altronde una disputa di scarsa importanza poiché l’avvenire è tutto del rotocalco […]. non tutti si sono accorti che organi antichi, di gloriosa tradizione per le nostre tipografie, hanno abbandonato le vecchie rotative dalle lastre di piombo per passare ai cilindri di rame del rotocalco. il Corriere dei Piccoli e La Domenica del Corriere, il primo da tre anni e la seconda dall’anno scorso, si stampano in rotocalco.[…] in sostanza, uno alla volta, tutti i nostri periodici che abbiano una tiratura superiore alle centomila copie sentono il bisogno di ab-bandonare il loro vecchio abito di grossolano fustagno per vestir-ne uno più moderno e raffinato e soprattutto più attraente. Vorrei perciò affermare che chiamare «rotocalco» un giornale, attualmente

Il cinema e la nascita del rotocalco moderno 225

non significa più nulla, poiché è impossibile classificare un genere con questo solo attributo, dato che rotocalchi sono Tempo, Epoca, Oggi, L’Espresso, Il Mondo, La Domenica del Corriere, Il Corriere dei Piccoli e persino Grand Hotel. Mi domando come sia possibile un discernimento tra così disparata carta stampata.5

La diretta testimonianza di Tofanelli fornisce una definizione tecnica del rotocalco come una specifica modalità di stampa corre-lata – almeno in italia, nella fase iniziale – a contenuti molto popo-lari (novelle sentimentali, fotografie di divi, ecc.), che si ramificano progressivamente in un panorama di possibilità molto più ampio (come prova l’esempio di “omnibus”). in secondo luogo, Tofanel-li stabilisce una periodizzazione, facendo risalire l’introduzione e diffusione di questa tecnica nel nostro Paese alla seconda metà degli anni Venti. infatti è proprio alla fine del 1925 che Mondadori inizia la stampa in rotogravure di “il Secolo illustrato”6, storico set-timanale illustrato, supplemento del quotidiano milanese “il Se-colo”, acquistato insieme all’altro periodico “il Secolo XX” nel 1923 soprattutto per volere di Senatore Borletti, divenuto presidente e maggior azionista della società nel 19217. L’utilizzo della tecnica a rotocalco consente di offrire a prezzi bassi riviste con molte foto-grafie: infatti “il Secolo illustrato”, con il passaggio alla stampa a rotocalco, non solo modifica profondamente la propria struttura,

5 Tofanelli 1959, pp. 47-48.6 Come scrive Enrico Decleva, grandi sforzi «furono riservati al settimanale

Il Secolo illustrato e alla sua trasformazione, sotto la direzione di Enrico Cavacchioli, cui successe nel maggio 1926 Casimiro Wronowski, nella ‘più illustrata fra le riviste italiane’. Un obiettivo che fu raggiunto ricorrendo alla fine del 1925 alla novità tecnica della stampa in rotogravure, per la quale vennero acquistate presso la Winkler Fallert i relativi macchinari, e dando spazio larghissimo alle fotografie d’attualità, a tutta pagina ovve-ro fantasiosamente composte entro ritagli di varia forma» (Decleva 2007 [1993], p. 78).

7 arnoldo Mondadori, amministratore delegato della società, esercita una diretta influenza sulla gestione delle pubblicazioni periodiche del gruppo: oltre al quotidiano, la linea editoriale punta a raggiungere un pubblico ete-rogeneo con “novella”, “il Giornalino della Domenica” (fondato da Vamba e destinato a bambini e ragazzi), “Comoedia” (più culturale) e “La Donna” (destinato al pubblico femminile). Per approfondimenti sull’operazione di acquisizione di “il Secolo” e dei periodici che ad esso facevano capo si rimanda a Decleva 2007 [1993], pp. 70-73.

226 Il volo del cinema

ma abbassa il prezzo da 2 lire a 50 centesimi, mirando a raggiunge-re un pubblico vasto quanto eterogeneo.

1.1. un pubblico di lettori-spettatori

alcuni dei tratti fondamentali che caratterizzano un rotocalco negli anni tra le due guerre sono già esplicitati nel fondo di promo-zione di “il Secolo illustrato” dell’1 gennaio 1927:

Con questo numero il Secolo Illustrato entra nel sedicesimo anno di attività e nel secondo anno di rinnovata veste tipografica dopo aver in un anno battuto il record della diffusione fra i giornali italiani.Il Secolo Illustrato può con legittima soddisfazione affermare il suo primato fra i periodici illustrati d’italia per la bellezza di riproduzio-ne delle illustrazioni e per la nuova e movimentata presentazione delle illustrazioni stesse. nel nuovo anno il Secolo Illustrato pro-mette non solo di mantenere e di affinare sempre più tali sue pre-rogative, ma di conquistare un altro primato: quello della ricchezza dei documenti fotografici degli avvenimenti. Da tutte le cento città d’italia nonché dalle principali città dell’estero […] e dalle due ame-riche una vastissima rete di corrispondenti fotografi assicureranno al Secolo Illustrato la documentazione visiva degli avvenimenti. Solo chi seguirà il Secolo Illustrato potrà avere la certezza che vedrà pas-sare sotto i propri occhi riflesso fedelmente come in uno specchio quanto l’obiettivo fotografico può cogliere.Ma di questa mobilitazione fotografica vera e propria il Secolo Illu-strato non si contenta. Esso lancia con l’anno nuovo un appello a tut-ti i dilettanti fotografici, dei quali vuol diventare il più grande amico, perché mandino, secondo norme stabilite, le istantanee che fanno e che, se pubblicate, verranno compensate con L. 25 ciascuna.Con questi fondamentali intenti il Secolo Illustrato è sicuro di offrire ai sempre più numerosi suoi amici quanto di più importante può dare un giornale illustrato di attualità: rapidità, ricchezza, varietà, fedeltà di fotografie di avvenimenti, oltre ad un testo curato per va-lentia di collaboratori, dall’articolo in ogni campo dell’umana attivi-tà, al romanzo, alla novella.8

Da alcune espressioni utilizzate – come «nuova e movimentata

8 Redazionale 1927.

Il cinema e la nascita del rotocalco moderno 227

presentazione delle illustrazioni», «documentazione visiva degli avvenimenti» caratterizzata da «rapidità, ricchezza e varietà» – si può capire come “il Secolo illustrato” si proponga come un model-lo innovativo rispetto alle riviste illustrate italiane più tradizionali, nate nella seconda metà dell’ottocento, come “L’illustrazione ita-liana”, che pure aveva introdotto le prime fotografie a partire dal 1885, o “La Domenica del Corriere”9, che si caratterizzava soprat-tutto per le famose tavole disegnate da achille Beltrame, che, pur a fronte di un grande successo di pubblico, era lontana da quello «stile modernista e aggiornato su modelli internazionali della mi-gliore grafica del ventennio»10.

Un grande numero di fotografie unito a un’evidente tendenza all’innovazione grafica modernista sono, invece, i protagonisti as-soluti di “il Secolo illustrato” a partire dalla metà degli anni Venti. Lo scopo è quello di produrre un giornale che si muova con articoli «in ogni campo dell’umana attività», oltre a offrire i classici ro-manzi a puntate e novelle. L’orientamento grafico cosiddetto “mo-dernista” si accentua con il passaggio della proprietà da Mondado-ri a Rizzoli nel luglio 1927, quando si ha l’impressione di trovarsi davanti a un vero e proprio montaggio visivo, alternato a parti di testo. Più che a decifrare le parole, il lettore è invitato a guardare il foglio come uno spettatore cinematografico: il suo sguardo è cala-mitato da immagini inserite all’interno dei testi scritti, spesso po-sizionate senza alcuna correlazione con essi, solo per rendere più dinamica la lettura e alleggerire la pagina. Le fotografie – che non sono semplici illustrazioni del testo ma hanno spesso un signifi-cato autonomo – montate in serie vanno a formare un racconto per immagini: il nuovo periodico a rotocalco ha chiaramente uno stretto vincolo con l’abitudine del lettore a essere anche spetta-tore cinematografico, a vedere più che a leggere (figg. 1-2). Forse non è un caso che l’atto di nascita ufficiale del cinematografo con

9 Per approfondimenti relativi a “La Domenica del Corriere” si rimanda a Domenica del Corriere 2007.

10 Ginex 2007, p. 34. “L’illustrazione italiana”, a differenza di “La Domenica del Corriere”, è certamente un modello di riferimento di cui tengono conto come ispirazione iniziale i nuovi rotocalchi, ma negli anni Venti-Trenta è a sua volta la rivista fondata da Treves, soprattutto grazie alla direzione di Enrico Cavacchioli, a essere influenzata dall’inedito stile grafico di questi ultimi.

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i fratelli Lumière, nel 1895, coincida proprio con l’invenzione del procedimento di stampa rotativo ideato dal boemo Klič; in que-sto senso quella sorta di «peccato originale» che Tofanelli vede-va nei rotocalchi dedicati al cinema e alle dive diventa invece il segno quasi dovuto di un omaggio, di uno stretto, indissolubile e inevitabile rapporto di reciproco sostegno tra cinema e stampa. quest’ultima fa proprio il procedimento del montaggio cinema-tografico nel montaggio fotografico; inoltre, sostiene il consumo di film diffondendo immagini e notizie sui divi. nello stesso tem-po biografie, aneddoti, anticipazioni sul mondo del cinema fanno sì che aumentino le vendite dei rotocalchi, grazie al pubblico che affolla le sale e trova in quelle pagine la continuazione ideale di quanto ha visto sugli schermi. non va dimenticato che il 1895 vede anche, negli Stati Uniti, la nascita del fumetto con la pubblicazio-ne delle strisce di yellow Kid sul quotidiano popolare “The World” di new York.

Tale data, il 1895, segna dunque, emblematicamente, una tra-sformazione che dà origine a un nuovo tipo di consumatore, quel-lo che potremmo chiamare il “lettore-spettatore” dei mass-media: un consumatore che si muove in città soggette a una forte trasfor-mazione, che cambia i modi di esperire, nonché la stessa struttura della propria psiche a contatto con i nuovi ritmi dettati dalla vita moderna nelle città11.

insomma, il rotocalco è la nuova forma moderna della stampa periodica a larga diffusione che ha la propria definizione di for-ma e stile e il primo grande sviluppo negli anni tra le due guerre, e la completa affermazione nel secondo dopoguerra. Una forma, quella del rotocalco, che grazie alla tecnica adottata consente di produrre a basso prezzo riviste nelle quali le fotografie hanno un ruolo fondamentale e dove si possono sperimentare impostazioni grafiche originali, fotomontaggi, fotocomposizioni e collage12 che riprendono, non raramente, modelli delle avanguardie artistiche degli anni Dieci e Venti e che convivono accanto a contenuti più

11 inutile ribadire l’ambiguità della nozione di modernità: in questo caso si fa riferimento a quei processi di cambiamento rapido e profondo, anche negli stili di vita, che avvengono soprattutto nelle grandi aeree urbane tra fine ottocento e primi del novecento.

12 Sulla complessa questione del fotomontaggio e del collage nel rotocalco rimando a Bignami 2009.

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tradizionali come la cronaca, le immagini dei divi, la moda, le ru-briche dei consigli ai lettori e le novelle sentimentali. Si tratta di una forma che può raggiungere e soddisfare un vasto pubblico sem-pre più abituato a guardare alla realtà attraverso quell’«occhio del novecento»13 che è il cinema insieme alla fotografia. Si ha dunque, come si è detto, un lettore-spettatore, per il quale la dimensione visiva è fondamentale perché è quella che sperimenta nelle grandi città, non solo frequentando le sale cinematografiche nel tempo libero, ma anche semplicemente camminando per le strade, dove lo sguardo è continuamente attratto dai cartelloni pubblicitari e dalle insegne luminose. Peraltro la pubblicità sui rotocalchi ha un posto privilegiato, perché garantisce agli editori una fonte di in-troiti fondamentale, ponendosi come destinatario in prevalenza il ceto piccolo-borghese con prodotti di uso quotidiano per l’igiene, la bellezza e l’alimentazione, pur non trascurando la dimensione del sogno, da realizzarsi con automobili ed elettrodomestici. il diffondersi della fotografia pubblicitaria si collega direttamente al grande sviluppo del rotocalco: infatti «se nel 1920 la fotografia era utilizzata da meno del 15 per cento delle pubblicità illustrate sulle riviste di massa, nel 1930 la percentuale era salita quasi all’80»14.

1.2. Per una nuova cultura visiva

anche nella stampa illustrata si riflette quel cambiamento pro-fondo che avviene, più in generale, tra gli ultimi decenni dell’ot-tocento e la fine della prima guerra mondiale. Un cambiamento che porta a una nuova percezione del mondo, conseguenza della mutata esperienza umana dello spazio e del tempo favorita da una serie d’innovazioni tecnologiche come la fotografia, il telefono, la bicicletta, l’automobile, il telegrafo, i raggi X (anche questi scoperti nel 1895), il cinema e l’aeroplano, con le relative ricadute culturali dall’impressionismo al romanzo di stream of consciousness, dalla psicoanalisi (L’interpretazione dei sogni di Freud viene pubblicata nel 1900) al cubismo, fino alla teoria della relatività15.

13 L’icastica definizione è di Francesco Casetti (Casetti 2005).14 Johnston 2008b, p. 402.15 Cfr. Kern 2007 [2003]. Si veda anche Berman 1999 [1988]. Per quanto ri-. Per quanto ri-Per quanto ri-

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questa trasformazione si accompagna a un dibattito e a una sperimentazione sulle arti visive, in particolare fotografia e cine-ma, che si ritrovano nei movimenti d’avanguardia degli anni Dieci con il futurismo (si pensi alle sperimentazioni fotografiche sul fo-todinamismo dei fratelli Bragaglia) e soprattutto degli anni Venti con il costruttivismo di aleksandr Rodčenko16, con il dadaismo e il surrealismo, l’espressionismo e il Bauhaus di Weimar, con Lá-szló Moholy-nagy, che pubblica nel 1925 (ma è completato già nel 1924) Pittura fotografia film in cui afferma che

Cent’anni di fotografia e due decenni di film ci hanno arricchiti enor-memente. Si può dire che vediamo il mondo con occhi totalmente diversi. Ciononostante, a tutt’oggi il risultato generale non è molto di più di una raccolta enciclopedica d’immagini. Ma non ci basta: noi vogliamo produrre secondo un programma consapevole, poiché per la vita è importante la creazione di nuove relazioni.17

È opinione di molti intellettuali che la fotografia e il cinema ab-biano determinato una svolta epocale verso una cultura del visivo che ha inevitabilmente investito anche la stampa18. accanto a en-tusiasti fautori di questa invasione delle immagini, come il teorico del cinema Béla Balázs, che nel 1924 scrive L’uomo visibile (Der sichtbare Mensch oder die Kultur des Films)19, mentre sotto i suoi occhi nasce un’epoca in cui attraverso il cinema si può avere una nuova esperienza del mondo, in contrapposizione con l’astrattez-za delle parole scritte o verbali, non mancano, ovviamente, anche commenti preoccupati e negativi per l’eccesso d’immagini cui sono esposte le grandi masse urbane. È il caso di Siegfried Kracauer che,

guarda il cinema come luogo privilegiato dell’esperienza della modernità, si rimanda, ancora una volta a Casetti 2005.

16 Da ricordare in particolare la sua attività di fotografo tra il 1923 e il 1928 per la rivista sovietica “novy Lef” con i suoi cosiddetti foto-articoli, l’uso di fotomontaggi e le riprese fotografiche da angolazioni inusuali: si veda Rodčenko 2011.

17 Moholy-nagy 2008 [1925], p. 55 (cfr. anche Moholy-nagy 2010 [1925], p. 27). Si veda anche, per approfondimenti, negri 2008.

18 Per quanto riguarda il rapporto tra fotografia e movimenti d’avanguardia in una prospettiva di storia culturale, si veda Warner Marien 2006 [2002], pp. 235-268.

19 Balázs 2008 [1924].

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in un articolo sulla fotografia pubblicato il 28 ottobre del 1927 sulla “Frankfurter zeitung”, scrive a proposito delle riviste illustrate:

La prova più convincente della enorme importanza della fotografia ai nostri giorni è data soprattutto dall’incremento delle riviste illu-strate. in esse vengono raccolti, assieme alla diva del cinema, tutti quei fenomeni che sono accessibili alla macchina fotografica ed al pubblico. […] L’intenzione delle riviste illustrate è quella di ripro-durre perfettamente il mondo accessibile all’apparecchio fotogra-fico. Esse registrano nello spazio il cliché di persone, di situazioni e di avvenimenti da tutti i possibili angoli visuali. […] nelle riviste illustrate il pubblico vede il mondo, ma proprio tali riviste gli impe-discono di percepirlo. il continuum spaziale, visto dalla prospettiva della macchina fotografica, ricopre l’immagine che l’oggetto cono-sciuto ha nello spazio, la somiglianza con esso cancella i contorni della sua “storia”.20

inoltre, il fatto che il cinema sia ancora muto (l’avvento del so-noro è del 1927, ma la sua affermazione su larga scala si avrà solo a partire dal 1929-1930) accentua il suo carattere di linguaggio di comunicazione visiva e di luogo di sperimentazione, con montag-gi discontinui, acronici, basati sul dinamismo e sul ritmo visivo, come nel cinema sovietico, o sul libero accostamento d’immagini, come nel dadaismo e nel surrealismo. La stessa ricerca del ritmo visivo diventa essenziale anche nella composizione grafica della pagina.

Verso la metà degli anni Trenta comincia a emergere maggior-mente e progressivamente a prevalere, peraltro anche nel cinema e nelle altre arti, una tendenza più realistica, che tende a narrare la realtà con un montaggio delle immagini più lineare e cronolo-gico, pur mantenendo un certo dinamismo con l’uso, ad esempio, di formati diversi delle fotografie. questo processo ha il proprio esito finale nel reportage e nel fotosaggio. in un caso come nell’al-tro, la svolta visuale nel rapporto con il lettore-spettatore rimane, comunque, un dato ormai acquisito.

20 il testo è in Kracauer 1982 [1963], pp. 122-123. Le due diverse posizioni ri-cordano la costante contrapposizione fra i cosiddetti “apocalittici” e gli “in-tegrati” rispetto ai mass-media e all’invasione delle immagini nel mondo contemporaneo. Sul pensiero di Kracauer riguardo a questo tema si veda Bratu hansen 2012, pp. 29-31.

232 Il volo del cinema

2. La nascita della stampa moderna

Una prima grande trasformazione della stampa periodica inter-nazionale in senso moderno avviene all’incirca fra il 1880 e il 1920, come sottolinea una recente ricerca francese sulle riviste europee21, la quale ribadisce che in un contesto generale di «mutation des formes et des idéès, la revue joue un rôle fondamental parce qu’el-le est l’instrument même de la circulation et de l’amalgame»22. Le stesse curatrici della ricerca, Évanghélia Stead e hélène Védrine, osservano come in questo periodo le riviste si caratterizzino per la loro forma ibrida, sia per quanto riguarda il livello testuale dei contenuti, sia per il livello visivo. inoltre, «cette hybridité formel-le est redoublée et induite par l’hybridité des techniques»23. Fra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento convivono sistemi molto diversi di riproduzione e stampa delle immagini: accanto a quelli più tradizionali si affermano quelli fotomeccanici, che modificano la relazione stessa fra testo e immagine, privilegian-do progressivamente in molti casi l’aspetto visuale, e in generale l’uso della fotografia singola rispetto a quello delle tavole. il nuovo modello di rivista che comincia ad affermarsi è poi, pur con le do-vute differenze e specificità locali, transnazionale, dal momento che si manifesta tutti i grandi Paesi europei e negli Stati Uniti. Ma se questa prima fase, fino alla fine della prima guerra mondiale, è una tappa fondamentale nella trasformazione e modernizzazione della stampa periodica illustrata, la seconda, che possiamo collo-care tra le due guerre, non è da meno. Se nella prima l’illustrazione tradizionale convive con la fotografia ma è ancora la protagonista, nella seconda è quest’ultima a trionfare definitivamente. Come os-serva Michel Melot a proposito delle riviste europee, il 1920 segna un profondo cambiamento sociale e culturale che si riflette anche nelle riviste:

après la Grande Guerre et le massacre des hommes, une nouvelle redistribution des classes sociales se met en place. La France, qui, dans le domaine de la presse illustrée et de l’art en général, avait fini par supplanter l’angleterre, perd sa suprématie. C’est l’amérique qui

21 Cfr. Europe des Revues 2008.22 Stead, Védrine 2008, p. 10.23 Ibi, p. 9.

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débarque. La nouvelle presse illustrée répond aux nouvelles normes économiques de l’industrie de masse. Déjà la parution d’Excelsior, en 1910 annonçait le triomphe de la photographie de presse, enfin techniquement maîtrisée, avec sa mise en page tapageuse. Les pre-mières agences photographiques se sont développées après 1905, avec le bélinogramme. En 1909, apparaisent les actualités cinémato-graphiées et en 1912, le Pathé Journal passe dans une salle permanen-te du boulevard Saint Denis.24

Per completare una proposta di periodizzazione della forma rotocalco si può poi pensare a una terza e definitiva fase, che si afferma nel secondo dopoguerra e negli anni Cinquanta, che ha in parte le proprie radici nel fotogiornalismo della seconda metà de-gli anni Trenta (“Life”, per citare il caso più noto, nasce nel novem-bre 1936), quando – come afferma Tofanelli – la stampa a rotocalco domina il mercato e diventa «impossibile classificare un genere con questo solo attributo».

questa periodizzazione dei cambiamenti delle riviste illustrate in tre diversi momenti, che si lega alle profonde trasformazioni sociali e culturali connesse ai processi di modernizzazione che av-vengono fra gli ultimi decenni dell’ottocento e la metà del nove-cento, non è naturalmente rigida, perché, come si è visto, nuove forme si presentano, almeno in nuce, già nel periodo precedente la loro affermazione, come nel caso della fotografia, che ha il suo grande momento di sviluppo negli anni Trenta, ma è già ben pre-sente negli anni Dieci.

2.1. Stili e modelli internazionali

Dato per acquisito che la tecnica della stampa a rotocalco si ac-compagna a un grande utilizzo in quotidiani e settimanali della fotografia, e che la forma in cui quest’ultima è presentata è spesso l’elemento caratterizzante di una rivista, concentrerò ora la mia attenzione sulle innovazioni fotografiche e grafiche che circolano in alcune testate europee e americane le quali, influenzandosi re-ciprocamente, portano a definire uno stile comune internazionale,

24 Melot 2008, p. 18.

234 Il volo del cinema

in buona parte trasversale anche rispetto ai diversi contesti politici che, invece, influenzano e caratterizzano i contenuti25.

«La nascita del fotogiornalismo moderno», scrive Richard Whe-lan, «avvenne intorno al 1900 (non solo in Germania ma anche in Francia, Gran Bretagna e in america), mentre negli anni Venti (so-prattutto in Germania, Francia e in Unione Sovietica) ci fu un’im-portante accelerazione nella sua evoluzione»26. Tale accelerazione è dovuta, come si è più volte detto, alla massiccia introduzione della stampa a rotocalco, ovviamente non riducibile al solo foto-giornalismo, che pure ne è una componente importante, favorita anche dall’utilizzo, a partire dalla metà degli anni Venti, di nuove macchine fotografiche più leggere, molto versatili, adatte a scatti rapidi in interni ed esterni, come la Ermanox (1924), la Leica (1925) e la Contax (1932), che garantivano ai fotografi una buona qualità dell’immagine.

Proprio dalla Germania si può partire per analizzare il rotocalco europeo: qui, intorno agli anni Dieci, entrano in funzione le prime grandi macchine a rotocalco e la sperimentazione fotografica ha un notevole sviluppo. Dal 1928 Erich Salomon pubblica le proprie fotografie scattate con la Ermanox sul settimanale illustrato “Ber-liner illustrirte zeitung”27 (detto più semplicemente “Biz”). i suoi soggetti preferiti sono gli incontri diplomatici o le immagini di personaggi celebri della politica e della cultura “al naturale”, tanto che il termine “candid camera” (“candid photographs”) è stato co-

25 questo non significa, naturalmente, che i contenuti dei singoli periodici non siano importanti e significativi, ma un’analisi approfondita richiede-rebbe un lavoro comparativo che eccederebbe i limiti del presente saggio: pertanto, ci si limiterà in questa sede ad alcune considerazioni di carattere generale.

26 Whelan 2009, p. 11. Whelan ricorda come l’introduzione della macchina fotografica Kodak alla fine dell’ottocento abbia agevolato l’uso della foto-grafia non solo per accompagnare i testi, ma per mostrare gli eventi diret-tamente con le immagini, citando tra gli esempi il periodico tedesco “Die Woche” e l’americano “The illustrated american”. Da non dimenticare an-che il caso inglese del “Daily Mirror” che, nato nel 1903, a partire dal 1904 diventa un vero e proprio quotidiano illustrato che utilizza molte imma-gini fotografiche. Per lo studio dei rapporti tra fotogiornalismo e stampa illustrata fra le due guerre si rimanda, oltre che a Whelan, a Paoli 2009, in particolare sul caso italiano.

27 La grafia del titolo sarà variata in “Berliner illustrierte zeitung” nel 1941: Lange 2008, p. 85.

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niato proprio per il suo modo di fotografare. La “Berliner illustrir-te zeitung”, uno dei periodici illustrati più importanti dell’epoca, rappresenta un modello di riferimento per molti rotocalchi. La rivista, nata nel 1891 e ben presto passata di proprietà al grande gruppo editoriale Ullstein, «dal 1924 al 1933 fu il periodico illustra-to tedesco più importante della Germania, per diffusione (1.844.130 copie nel 1930), numero di pagine e inserzioni pubblicitarie»28. il periodico, sotto la guida di Kurt Korff (caporedattore dal 1911 al 1933), in stretta collaborazione con l’illustratore e direttore artisti-co del gruppo Ullstein, Kurt Szafranski, diventa fra la metà degli anni Venti e i primi anni Trenta un caso esemplare del moderno rotocalco, nel quale l’immagine prevale sul testo e l’innovazione grafica punta a impaginazioni caratterizzate da montaggi in sti-le cinematografico (fig. 3). Korff è consapevole di come il cinema abbia cambiato profondamente anche la maggior parte dei lettori della stampa e di come questa debba adattarsi a un nuovo pubbli-co, tanto che nel 1927 scrive:

non è un caso che lo sviluppo del cinema e quello del Berliner Illustrirte zeitung siano andati di pari passo. Con la vita che diventava più frenetica e le persone che avevano sempre meno voglia di sedersi per gustarsi una rivista in santa pace, era necessario trovare una forma di presentazione illustrata di maggior impatto che non avrebbe deluso i lettori già al primo sguardo, anche se l’avrebbero solamente sfogliata.29

Sulla rivista berlinese è possibile trovare fotografie di autori che hanno fatto la storia della fotografia mondiale, come le immagini di Man Ray o le fotografie sportive di Martin Munkácsi, che riesco-no a restituire il dinamismo e la plasticità degli atleti (ad esempio lo scatto di un giocatore di calcio ripreso a mezz’aria mentre colpi-sce il pallone). Munkácsi, ungherese di nascita, dopo aver inizia-to la carriera in patria, passa a Berlino fra il 1927 e il 1933 per poi

28 Ibi, pp. 84-85. Per un quadro storico e teorico complessivo degli anni della Repubblica di Weimar in relazione alla cultura di massa e al ruolo decisivo svolto da fotografia, stampa illustrata, cinema e radio nell’offerta di nuove e moderne esperienze «inebrianti» a un vasto ed eterogeneo pubblico, si veda Weitz 2008 [2007], pp. 241-291.

29 La citazione è in Whelan 2009, p. 20.

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trasferirsi nel 1934 negli Stati Uniti, dove lavora come fotografo di moda per “harper’s Bazaar” con grande successo. altra figura esemplare di fotogiornalista tedesco i cui scatti si possono trovare sulla “Berliner illustrirte zeitung” e su molte altre testate, anche inglesi e americane, come “The London illustrated news”, è alfred Eisenstaedt che lavora come freelance a Berlino tra la fine degli anni Venti e il 1935, quando si trasferisce a new York: nel 1936 è uno dei quattro fotografi assunti stabilmente da “Life”30.

al di là dei singoli casi, se si seguono le carriere di molti dei più noti fotografi, o di giornalisti come Kurt Korff, si può facilmente ri-levare un flusso migratorio costante che in genere coinvolge i Paesi dell’Europa centrale (si pensi al caso dell’Ungheria, dove iniziano la loro attività, oltre a Munkácsi, andré Kertész e Robert Capa)31, ma anche la Germania e la Francia e ha termine negli Stati Uniti. La mostra fotografica Foto. Modernity in Central Europe, 1918-1945, organizzata dalla national Gallery of art di Washington nell’otto-bre del 2007, evidenzia come la fotografia nel periodo considerato, oltre a essere un importante agente di quel processo di moderniz-zazione che investe tutti i mass-media del periodo, sia un feno-meno che travalica i confini geografici degli Stati, coinvolgendo Paesi come austria, Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria – oltre a Germania, Francia, inghilterra e Stati Uniti – e che si caratterizza per la rappresentazione della vita quotidiana nelle città:

Such characteristics of modernity reveal themselves plainly in pho-tography, a public, popular image medium, but they are discernible in other creative disciplines in this region as well. Similarly, the mo-del of modernity put forth here is not intended – despite the con-trast of artists offered above – to stand purely in contradistinction to a Francocentric or other Western model. i hope instead that the-se propositions may refresh our perspective on modernism overall, across media and geographic boundaries.32

Per la circolazione internazionale delle immagini non va di-menticato il ruolo fondamentale svolto dalle agenzie di stampa,

30 Per un’idea della sua fotografia si veda Eisenstaedt 2000.31 Martin Munkácsi (pseudonimo di Martin Marmorstein): Sachsse 2008;

andré Kertész: hamilton 2008; Robert Capa: Johnston 2008a.32 Witkovsky 2007, p. xxiv.

Il cinema e la nascita del rotocalco moderno 237

che cominciano a distribuire fotografie33 (ad esempio la associa-ted Press dal 1927), dalle grandi agenzie fotografiche come Dephot (nata a Berlino nel 1928), Parisian alliance Photo (fondata a Parigi nel 1934) e Black Star (nata a new York nel 1936), e dagli uffici stampa delle case di produzione cinematografiche, che veicolano le immagini dei divi in tutto il mondo.

Ritornando all’esempio della “Berliner illustrirte zeitung”, se si è sottolineato il dato visivo come l’elemento più importante e inno-vativo di questo tipo di stampa, caratterizzata anche da una forte presenza di pubblicità, ciò non significa che siano assenti i tipici testi scritti dei periodici popolari, come i romanzi sentimentali o d’avventura a puntate, gli articoli di costume e di attualità, la pa-gina della moda femminile, i giochi e i cruciverba, la pagina degli spettacoli che spazia dal teatro al cinema alla musica e alla danza, naturalmente tutti corredati da fotografie.

Tra le altre numerose riviste tedesche illustrate del periodo me-rita almeno una citazione l’“arbeiter illustrierte zeitung” (detta “aiz”), un giornale di propaganda comunista pubblicato tra il 1925 e il 1933 che raggiunge una buona diffusione anche in alcuni Pae-si europei, famoso per la pubblicazione dei fotomontaggi di John heartfield, di grande impatto visivo ai fini della propaganda poli-tica34.

anche in Francia la tecnica del fotomontaggio è molto utilizza-ta, per esempio da “Vu” per copertine a colori di grande impatto visivo, anche a fini di critica politica35. La rivista è fondata e di-retta da Lucien Vogel dal primo numero del 21 marzo 1928 fino al 1936, quando, a causa della decisa presa di posizione a favore dei repubblicani spagnoli nella Guerra Civile, Vogel viene costret-to a ritirarsi dai propri finanziatori conservatori. il settimanale, che in precedenza si era comunque caratterizzato per le posizio-ni progressiste (in particolare a partire dal 1931), continua a uscire fino al 29 maggio 1940, quando cessa la pubblicazione. il titolo stesso della rivista, “Vu”, che arriva a tirature fra le 300.000 e le 450.000 copie, fa intuire la volontà di dare grande rilevanza alla

33 Cfr. Matthews, Lenman 2008.34 Per approfondimenti si rimanda a Siepman 1978.35 all’interno della rivista, stampata con la tecnica del rotocalco, si usa molto

il viraggio delle fotografie nelle tonalità seppia e bluette. Per approfondi-menti si rimanda alla bella antologia Vu 2009.

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fotografia tanto da ridurre il testo, in molti casi, a semplice com-mento a quanto raccontano le immagini. nell’editoriale del primo numero Vogel scrive che “Vu” nasce con lo scopo di dare vita a un innovativo settimanale francese illustrato che trasmetta al lettore il ritmo frenetico della vita contemporanea, interessandosi a tutti gli argomenti di attualità: dai fatti politici alla cronaca, dalle sco-perte scientifiche allo sport, dalla moda allo spettacolo36. all’uso dei fotomontaggi si associa un’impaginazione molto dinamica – che risente della grafica sovietica e d’avanguardia – spesso giocata sull’uso della doppia pagina, che si accentua in particolare a partire dal 1932, quando a occuparsene è chiamato come direttore artisti-co alexandre Liberman, che aveva lavorato con adolphe Cassan-dre. alla rivista collaborano importanti fotografi, oltre allo stes-so Vogel e alla figlia Marie-Claude, come Brassaï (Gyula halász), andré Kertész, henri Cartier-Bresson, Germaine Krull, Eli Lotar, Man Ray e Robert Capa, che su “Vu” pubblica per la prima volta, il 23 settembre 1936, la celeberrima e tanto discussa fotografia del miliziano spagnolo repubblicano colpito a morte. Dai nomi dei fotografi citati, cui spesso vengono commissionate vere e proprie storie fotografiche, si può facilmente intuire come il settimanale unisca uno stile modernista d’avanguardia a una forte propensione per il reportage. Straordinari documenti storici rimangono alcuni numeri monografici, realizzati a più mani da fotoreporter e gior-nalisti, dedicati ora a inchieste sull’Unione Sovietica (nel 1931 con il titolo Au pays des Soviets), ora alla complessa situazione politi-ca tedesca nel 1932 (il titolo in copertina è L’Enigme allemande) e all’italia fascista nell’anno seguente (1933). Proprio su quest’ulti-mo numero possiamo leggere un’intera pagina dedicata al bilancio delle grandi inchieste sui problemi del mondo condotte da “Vu” con una redazione mobile:

nos grandes enquêtes sur les problèmes posés au monde.En constituant, pour aller poursuivre sur place des enquêtes sur les problèmes posés au monde, une véritable «rédaction ambulante», Vu a incontestablement innové, en matière de périodique illustré.Les problèmes actuels son tels, si amples, si graves, si lourds de conséquences, si urgents qu’ils exigent des études d’ensemble. Un

36 Cfr. Whelan 2009, pp. 38-42.

Il cinema e la nascita del rotocalco moderno 239

journal qui a la conscience et la fierté de sa responsabilité ne peut confier une enquête de cet ordre à un seul homme, quels que soient sa compétence, son talent et son intégrité morale. il faut, à la fois, éliminer les réactions subjectives et multiplier les contacts entre les faits et les esprits qualifiés pour les analyser, les comprendre et en tirer des conclusions. […] notre principe a toujours été d’aller à la source, sur place, observer le document direct, dans son cadre, en un mot de faire une enquête de l’intérieur du pays et du problème, sans faveur ni défaveur préalable, en tâchant de comprendre les choses telles qu’elles sont dans leur ordre, et en s’abstenant de toute ironie, qui est trop souvent paresse de comprendre.37

È importante notare come in “Vu”, soprattutto nel periodo 1932-1936, possiamo vedere all’opera sia la tendenza più vicina alle avan-guardie, con un montaggio delle immagini movimentato e discon-tinuo, sia la tendenza più realistica del reportage e del fotosaggio, che narra un fatto o una storia o approfondisce un tema, con un montaggio fotografico più lineare e diacronico pur nella differenza dei formati delle immagini. Per questo la rivista francese38 nella nostra breve rassegna sui modelli stranieri rappresenta uno snodo cruciale nella transizione da una tendenza all’altra (figg. 4-5).

in questa breve rassegna si potrebbero citare molti altri roto-calchi francesi, tedeschi o inglesi, ma procedendo sinteticamente per casi esemplari è inevitabile accennare all’americano “Life”, che raccoglie l’ideale testimone di “Vu” per quanto riguarda il repor-tage e il fotosaggio e lo rilancia su carta patinata. “Life” esce per la prima volta il 23 settembre 1936: in copertina, una fotografia di Margareth Bourke-White che rappresenta la costruzione di una diga nel Montana; all’interno del nuovo settimanale si racconta, attraverso immagini integrate con il testo, la vita degli operai e del-le loro famiglie. in generale “Life” pubblica «due tipi di fotografie: fotografie d’attualità prese sul luogo, fornite per lo più da agen-zie, e serie di fotografie corredate di testi, su soggetti stabiliti dalla redazione»39. Si tratta di veri e propri racconti fotografici su temi

37 Vogel 1933.38 Per quanto riguarda il reportage in ambito francese è da ricordare per la

sua importanza la rivista “Regards”: si veda Whelan 2009, passim. Più in generale, sul fotogiornalismo negli anni Trenta e per un confronto tra “Vu” e “Regards”, si rimanda a Dogliani 1989.

39 newhall 1984 [1982], pp. 359-360. Per ulteriori approfondimenti su “Life” si

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d’attualità, che nascono dalla collaborazione fra fotografi e redat-tori. Una rappresentazione realistica del mondo che henry Luce, il finanziatore della rivista, enuncia come programma del nuovo periodico fin dalla sua gestazione nel 1934:

Vedere la vita, vedere il mondo, essere testimoni oculari dei gran-di avvenimenti; scrutare i visi dei poveri e gli atteggiamenti dei su-perbi; esaminare cose strane – macchine, eserciti, folle –; scoprire ombre della giungla o della luna; vedere le opere dell’uomo, i suoi quadri, i suoi monumenti, le sue scoperte; scoprire cose lontane mi-gliaia di chilometri, come nascoste dietro i muri e dentro le stanze, cose pericolose da avvicinare; vedere le donne che gli uomini amano e molti bambini; vedere e provarne gioia; vedere e stupire; vedere ed esserne arricchiti […].40

a ulteriore dimostrazione della circolazione internazionale di stili e modelli comuni tra Europa e america vanno ricordati il fatto che tra i principali consulenti per l’ideazione del nuovo settimana-le vi è Kurt Korff, già a lungo caporedattore della “Berliner illustrir-te zeitung”, e la presenza di tanti fotografi europei, da Eisenstaedt a Capa.

Riguardo ai modelli di rotocalco internazionale, vanno infi-ne richiamate le riviste illustrate specificamente indirizzate a un pubblico femminile, che anche in italia riscuoteranno un notevole successo popolare negli anni Trenta. Su queste esercitano una cer-ta influenza i modelli “alti” per un pubblico d’élite, come “harper’s Bazaar” e “Vogue” nelle diverse edizioni nazionali, riviste sulle quali non è raro trovare sulle copertine e in certe fotografie ispi-razioni di chiara matrice d’avanguardia, come il surrealismo, o di pittori, come Giorgio de Chirico che firma la copertina di “Vogue”, edizione inglese, del gennaio 193641.

Prima di passare a una panoramica sulla situazione italiana la do-manda da porsi è quanto, effettivamente, editori, giornalisti e più in generale la classe intellettuale potessero conoscere la stampa estera, visto il controllo di censura che il regime fascista esercitava.

veda Wainwright 1986.40 La citazione è contenuta ibi, p. 359.41 Esempi di copertine d’ispirazione surrealista delle due riviste sono docu-

mentati in Cosas del Surrealismo 2007, pp. 100 e 159.

Il cinema e la nascita del rotocalco moderno 241

Un fascicolo depositato presso l’archivio di Stato di Milano ri-guardante “Giornali e periodici francesi venduti dalle agenzie di Milano” nell’agosto 1934 consente di verificare l’effettiva circola-zione delle riviste42. L’elenco è inviato dalla questura di Milano al Prefetto in data 17 agosto 1934 in risposta a una richiesta del 18 luglio che a sua volta faceva seguito a un esposto del Direttore del Servizio per la stampa italiana, che richiedeva un elenco no-minativo delle copie vendute dei giornali e periodici francesi del 10 luglio.

La lista, aggiornata al 31 luglio 1934, è divisa in due colonne per le copie vendute, rispetttivamente, alla Stazione Centrale e in cit-tà. Per quanto riguarda i quotidiani ci sono ben ventisette titoli, compresi quelli sportivi: si va dalle 880 copie del “Journal” alle 40 di “Le Figaro”; vi sono poi le edizioni europee del “Chicago Tribu-ne” (47 copie) e del “Daily Mail” (125 copie), ma in calce all’elenco si nota che la media dell’invenduto va dal 42 al 45%. Tra le riviste si hanno novantasette periodici di vario tipo, da quelli d’attuali-tà a quelli letterari, dai periodici di moda e cinema a quelli più settoriali come “Jardin modes”, che distribuisce ben 1300 copie con una media di invenduto che va dal 30 al 35%. Per quanto ci riguarda, il dato più interessante è la presenza nell’elenco di “Vu”: le copie sono solo trentacinque, ma questo dimostra come la te-stata fosse, comunque, conosciuta in italia, benché nello stesso fascicolo redatto dalla questura sopra citato siano presenti gli atti di sequestro di alcuni numeri (100, 138 e 140) del 1930 e di anni successivi perché contenenti articoli antinazionali. Per quanto ri-guarda invece le riviste illustrate di moda, l’edizione francese di “Vogue” diffonde tra Stazione e città ben 485 copie. non è quindi un’ipotesi senza fondamento supporre che chi lavorava nell’in-dustria editoriale italiana fosse a conoscenza di modelli stranieri di stampa periodica. inoltre, gran parte degli intellettuali italiani viaggiava frequentemente verso Berlino e soprattutto Parigi, e tra-dizionalmente la lingua e la cultura francese erano ben conosciute nel nostro Paese43. Perciò si può ipotizzare una certa circolazione

42 Ringrazio irene Piazzoni per avermi segnalato il fascicolo depositato presso l’archivio di Stato di Milano: aSM, Prefettura, Gabinetto, i versamento, b. 426, fasc. “Giornali e periodici francesi venduti dalle agenzie di Milano”.

43 a proposto della diffusione della cultura francese in italia negli anni Venti si veda Decleva 1996.

242 Il volo del cinema

anche in italia di quello stile internazionale modernista presente nelle riviste straniere di cui si è detto, e al quale la stampa nazio-nale poteva ispirarsi adattandolo al mercato italiano con le dovute mediazioni imposte anche dal regime fascista.

2.2. La risposta italiana

Torniamo ora in italia per vedere come i modelli stranieri sia-no presenti e attivi, e come si debba segnalare una nuova decisiva tappa nell’affermazione di quella cultura visuale nell’ambito della quale l’immagine non è più solo l’illustrazione di un testo scritto, ma tende a rappresentare direttamente gli eventi. Si procederà an-che qui per casi esemplari.

Ripartiamo da “il Secolo illustrato”, che può essere considerato il primo rotocalco italiano confrontabile con analoghe esperienze estere degli anni Venti. a uno sguardo anche rapido dei numeri della seconda metà di questo decennio – indipendentemente dalla proprietà, Mondadori o Rizzoli – risulta evidente che si tratta un periodico non liquidabile semplicemente come «appartenente a una letteratura deteriore diretta a un pubblico minuto», come scri-veva Tofanelli. Certo l’intento è quello di raggiungere un pubblico vasto ed eterogeneo, perciò si tratta effettivamente di un settima-nale a grande tiratura sul quale sono presenti i romanzi a puntate di Bruno Corra o di Mura e di altri scrittori popolari; ma le sedici pagine di “il Secolo illustrato”, accanto alle rubriche fotografiche, corredate da brevi didascalie di commento, di cronaca e attualità dall’italia e dal mondo, degli avvenimenti sportivi, o alla consueta pagina della moda o a servizi sul cinema, la danza o il teatro, pro-pongono anche, sia pure sporadicamente, articoli di divulgazione culturale soprattutto in riferimento a mostre d’arte, scavi arche-ologici e musei, in un tentativo di divulgazione presso il grande pubblico di temi artistici44. Ma il vero dato innovativo non è tanto nei contenuti, comunque inevitabilmente condizionati dal regi-me fascista per censura diretta o autocensura, quanto, come si è detto, nell’uso della fotografia e dell’impaginazione grafica: questo

44 a proposito della divulgazione artistica in “il Secolo illustrato” rimando a Rusconi 2009.

Il cinema e la nascita del rotocalco moderno 243

è l’elemento nuovo che fa di “il Secolo illustrato” un interessante caso confrontabile con quanto avviene contemporaneamente a li-vello internazionale. Un articolo autocelebrativo firmato da Luigi a. Garrone è pubblicato nel numero del 30 luglio 1932 con il signi-ficativo titolo un giornale in “roto”. (La settimana del mondo su un metro quadrato). il testo, corredato da numerose fotografie della tipografia di Rizzoli dove si stampa “il Secolo illustrato”, dopo una premessa generale sul processo detto di “rotocalco” o di “rotogra-vure” o di “rotoincisione” e sul suo uso nei quotidiani e nelle riviste in Europa e in america, chiarisce molto bene i processi di costru-zione del settimanale e più in generale di un rotocalco:

Certamente al processo tecnico si deve in gran parte il successo delle riviste di questo genere, a cui appartiene anche «il Secolo illustrato», ma ad esso si collegano altri elementi, logicamente affini a quelli che costituiscono il successo dei grandi quotidiani. affini, ho detto, non identici: infatti, il quotidiano deve «informare» il pubblico; il set-timanale illustrato lo deve interessare e divertire, documentando e commentando l’attualità con l’immagine fotografica.

Tutto il mondo in una stanzaquesto delle fotografie, è effettivamente un capitolo essenziale per il periodico illustrato; se ne ricevono 200, 300, forse di più, ogni gior-no; ad ogni ventiquattro ore i tavoli si riempiono di visioni e panora-mi variatissimi, è il mondo che ci passa dinanzi agli occhi; immagini che ci vengono da ogni regione; ritratti di personalità politiche, di-sastri automobilistici, girls, atleti, protagonisti di cronaca nera, pa-esaggi, congressi: tutto quanto ha interessato la cronaca, dall’ultima regina di bellezza, all’uomo con la barba più lunga del mondo, dal nuovo ministro all’inventore della miglior trappola per le mosche. Un po’ di tutto, insomma. […] in questo caos di argomenti, in questo intrecciarsi e accavallarsi continuo di temi, il redattore del giornale illustrato deve orientarsi per scegliere sagacemente quello che può interessare la maggioranza del pubblico. questa è la famosa «sensi-bilità giornalistica». […] nel senso che il settimanale illustrato, deve dare, concentrato, il sapore degli avvenimenti mondiali che da sette giorni bollono nel pentolone dell’attualità, e scegliere per offrire in poche pagine un riassunto esauriente della settimana, cercando in una forma delicatissima di equilibrare l’importanza dell’avvenimen-to con il suo carattere, diciamo così, d’illustrabilità. Cosa che non sempre capita. il lettore spesso ignora gli sforzi che si compiono per questa «dosatura» degli argomenti: per dare con buone e giuste pro-

244 Il volo del cinema

spettive il panorama della settimana, quando su un fatto di interesse mondiale ci vediamo arrivare due o tre scarse fotografie e qualche dozzina (oh agenzie americane) per le gambe più belle del nica-ragua! […] Ed ecco l’impaginatore accingersi all’impresa: «impagi-nare» significa dare un volto al giornale; e nel caso del settimanale illustrato questo volto deve essere il più armonioso, il più seducente possibile. il bravo impaginatore deve pensare che ogni pagina, prima di essere letta viene «veduta»; spesso «il taglio» di una fotografia è sufficiente a trattenere l’attenzione del lettore e ad affezionarlo, di-ciamo così, all’argomento.Di qui la cura per servire la materia al lettore con un’armonia, un’ar-chitettura viva e originale della pagina.45

L’articolo conferma non solo la varietà di contenuti del settima-nale, ma soprattutto quanto si è detto sul ruolo fondamentale della fotografia e dell’importanza data all’impaginazione, pensata come un vero e proprio montaggio cinematografico caratterizzato da un ritmo visivo rapido e per un lettore che è ancor prima spettatore, osservatore delle immagini; infine – notazione apparentemente marginale, ma di grande importanza – che le fotografie arrivano dalle agenzie di tutto il mondo, america compresa, a dimostrazio-ne che anche in italia si ricevono con buona probabilità più o meno le stesse immagini presenti nel circuito internazionale46. nei primi numeri del 1938 “il Secolo illustrato” presenta copertine colorate molto innovative, decisamente ironiche e provocatorie, frutto di abili fotomontaggi con una grafica rinnovata molto moderna, già pienamente proiettata in quello che sarà lo stile del dopoguerra e in linea con le sperimentazioni straniere e con il più famoso caso di “omnibus”: questo cambiamento coincide con la direzione, anche se limitata ai soli primi due numeri di gennaio per poi tornare alla consueta firma di Mario Buzzichini, di Leo Longanesi che dà gran-de importanza alla parte grafica e all’uso della fotografia (figg. 6-7). Un’altra direzione importante, da ricordare, nel 1929, è quella di Enrico Cavacchioli: commediografo e poeta, tra i quattro firmatari del manifesto futurista del 1909, pur allontanatosi dal movimento ha probabilmente portato nella rivista uno spirito di rinnovamen-

45 Garrone 1932.46 naturalmente, ai fini di un’analisi più documentata, andrebbe verificato il

tipo di controllo esercitato dalla censura fascista.

Il cinema e la nascita del rotocalco moderno 245

to estetico, i cui riflessi sarebbero tutti da studiare, come anche il suo ruolo di giornalista e direttore in varie testate dell’epoca di editori diversi, da Vitagliano a Treves a Rizzoli47.

non ci sono dubbi che anche in italia sia in atto una svolta verso una nuova cultura visiva per il lettore-spettatore, analoga a quel-la del panorama internazionale sopra delineato. Basti pensare al modo in cui il cinema concorre a dare forma a un nuovo imma-ginario, soprattutto a partire dagli anni Venti, quando i film hol-lywoodiani dominano il mercato nazionale, che trova una vasta eco su tutta la stampa. Si tratta di un mondo più moderno rispetto a quello in cui vive gran parte degli italiani; un mondo visto su-gli schermi delle tante sale cinematografiche, nelle quali vengono presentati nuovi oggetti e stili di vita inediti e più spregiudicati, ossia una società dei consumi che per ora è possibile sognare quasi esclusivamente nel buio dei cinema o sui rotocalchi che la rappre-sentano48.

Una tappa importante nell’evoluzione del rotocalco italiano, una sorta di «padre nobile», come affermato da Tofanelli e come ampiamente ribadito da tutti gli storici della stampa italiana, è “omnibus”, il settimanale di attualità politica e letteraria diretto da Leo Longanesi e pubblicato da Rizzoli dall’aprile 1937 al gennaio 1939, data della sua soppressione49. La fotografia ha un ruolo pro-gressivamente sempre più importante nel susseguirsi dei numeri della rivista: il modello ispiratore è quello dei rotocalchi francesi e in particolare − come suggerito da aldo Garosci in un intervento dell’agosto del 1937 sul giornale antifascista “Giustizia e Libertà” che si stampava a Parigi − a “Marianne. Grand hebdomadaire lit-téraire illustré” diretto da Emmanuel Berl50; effettivamente i due periodici si assomigliano sia per formato, sia per impostazione gra-fica, rubriche, articoli di politica e uso delle fotografie (figg. 8-9).

Dopo la chiusura di “omnibus”, Rizzoli pubblica un altro roto-calco di attualità e letteratura, “oggi”, nel quale le fotografie han-no uno spazio ben maggiore, oltre a essere di grande qualità: vi

47 Per un sintetico profilo biografico di Enrico Cavacchioli si veda Ruta 2001.48 Sulla modernizzazione in atto nell’italia durante il fascismo di veda l’esem-

plare volume Giornata moderna 2009.49 Per un’analisi approfondita a tutto campo sulla rivista si veda Granata

2009; per la parte fotografica si rimanda a Paoli 2009.50 Riprendo l’informazione da Granata 2009, pp. 199-200.

246 Il volo del cinema

sono vere e proprie serie d’immagini, in stile reportage, che con sintetiche didascalie raccontano fatti tanto di costume quanto di tema bellico (ad esempio i marinai italiani o le donne giappone-si) (figg. 10-11). il settimanale, che esce dal giugno 1939 al febbraio 1942, diretto da arrigo Benedetti e Mario Pannunzio, unisce cro-naca, politica, attualità, letteratura e cultura varia, spaziando dalla pittura alla musica, dal teatro al cinema: tra i suoi collaboratori vi sono giovani intellettuali come Elsa Morante, Vitaliano Brancati, Bruno Barilli, Ennio Flaiano, Tommaso Landolfi e Giaime Pintor. Elio Vittorini vi pubblica alcuni articoli con il titolo Letture ame-ricane, che si affiancano ai romanzi di Saroyan, Steinbeck, Cain e altri scrittori americani.

il primo giugno 1939 esce “Tempo”, il rotocalco pubblicato da Mondadori, che adotta in modo evidente la formula del fotogior-nalismo, tanto da sembrare, com’è ampiamente noto, una copia italiana di “Life”. La rivista, diretta da alberto Mondadori, si avva-le della grafica innovativa di Bruno Munari e punta, oltre che sui servizi dedicati all’attualità, al cinema, al teatro e allo sport, sui fotosaggi, vere inchieste fotografiche su un tema o un luogo (come quella sui minatori di Carbonia nel primo numero), condotte da Lamberti Sorrentino o Federico Patellani, considerato il padre del fotogiornalismo italiano51. insomma, dalla copertina con il colore rosso del titolo come in “Life”, alla grafica, alle fotostorie realisti-che, o potremmo dire meglio “neorealistiche”, non ci sono dubbi: “Tempo” rappresenta il punto di arrivo dei rotocalchi italiani tra le due guerre in un’ideale sintonia con i periodici internazionali di maggior successo. nello stesso momento, “Tempo” costituisce anche uno dei punti di partenza verso quel giornalismo d’inchiesta del dopoguerra tipico di testate come “il Mondo”, “L’Europeo” e “L’Espresso”.

Per chiudere questa breve panoramica sulle possibili influenze della stampa estera sui periodici italiani, è doverosa una citazione dei tanti rotocalchi femminili – da “Lei” (poi “annabella”) di Riz-zoli a “Grazia” di Mondadori – che, pur contenendo, inevitabil-mente, richiami ai valori tradizionali della famiglia e al ruolo della donna quale moglie e madre devota, presentano per lo più figure

51 Per approfondimenti su “Tempo” si rimanda, fra gli altri, a Lascialfari 2002 e Cellinese 2008.

Il cinema e la nascita del rotocalco moderno 247

femminili moderne, vivaci, sportive e vestite alla moda non meno di quelle di giornali come “Vogue”, che abbiamo visto ben diffu-so in italia nell’edizione francese. Rispetto agli eleganti “Vogue” o “harper’s Bazaar”, il target italiano è però più ampio e apparte-nente prevalentemente alla piccola e media borghesia cittadina. Da ricordare, infine, sono le innumerevoli pubblicazioni popolari di cinema e in particolare, tra le più diffuse e migliori dal punto di vista grafico, “Cinema illustrazione” di Rizzoli.

in generale, si può concludere come i rotocalchi nazionali, ana-logamente ad altri mass-media, non si limitino a importare dei modelli stranieri ma, ben consapevoli della loro forza innovativa, da una parte li adattino alla cultura e alla società italiana, e dall’al-tra cerchino di mediare con la censura fascista. quest’ultima non riesce comunque a fermare la nascita di un nuovo mercato dell’in-dustria culturale che si avvia verso quel consumo di massa del do-poguerra caratterizzato da connotati internazionali52.

3. Elementi per una mappa del rotocalco italiano

nella citazione iniziale di Tofanelli troviamo un’altra afferma-zione che vale la pena riprendere: negli anni Cinquanta il termine “rotocalco” ha perso la propria specificità, ed è impossibile classifi-care un genere in base alla sola tecnologia. Ma il direttore di “Tem-po” afferma ciò nel momento in cui la tecnica è ormai diffusissima: negli anni Venti e Trenta il rotocalco presenta invece una fisiono-mia definita, che si è tentato fin qui di mettere in luce. Per entrare ancor più in profondità, converrà ora accennare alla dimensione imprenditoriale e alle tipologie di riviste.

52 Sull’argomento: Colombo 1998 e Forgacs, Gundle 2007.

248 Il volo del cinema

3.1. Rotocalchi ed editori53

Come si è detto in precedenza, il 1927 segna un momento fonda-mentale dell’evoluzione dei rotocalchi: a causa del forte deficit del settore periodici, Mondadori cede a Rizzoli “il Secolo illustrato”, “il Secolo XX”, “novella”, “Donna” e “Comoedia”. Rizzoli da stampato-re diventa così editore, iniziando la propria grande fortuna proprio con i periodici e in particolare i rotocalchi. Con grande pragmati-smo, l’ex martinitt intuisce i meccanismi di funzionamento del-la nascente industria culturale italiana, nella quale la lettura dei periodici, soprattutto illustrati, si apre sempre più a nuove fasce sociali; e capisce che un pubblico potenziale può essere facilmente conquistato con una serie di prodotti mediali: dalla stampa alla radio al cinematografo. Ed è proprio facendo leva sulle varie ti-pologie di lettori che Rizzoli pubblicizza le diverse testate per la campagna abbonamenti del 1929 (fig. 12):

iL SECoLo iLLUSTRaTo Settimanale di attualità e varietà. Crona-ca fotografica degli avvenimenti. in ogni numero una novella, una puntata di romanzo, articoli di varietà. [...] iL SECoLo XX il più moderno quindicinale illustrato. i migliori collaboratori. i più noti artisti. 36 pagine di grande formato, completamente stampate in rotogravure. [...] La Donna Fascicoli mensili di moda, arte, lette-ratura, mondanità e vita femminile. Modelli dei grandi sarti parigi-ni. [...] noVELLa il settimanale più vario e divertente di letteratura narrativa. illustratissimo. 6-8 novelle di autore ogni fascicolo. [...] CoMoEDia La maggiore rassegna mensile illustrata del mondo te-atrale italiano e straniero. in ogni fascicolo una commedia d’autore. [...].54

il capolavoro di politica editoriale di Rizzoli è sicuramente “no-vella”, che con Mondadori pubblicava racconti di autori importanti come Pirandello e D’annunzio, ma con scarse tirature. “novella” (fig. 13) viene trasformata in un rotocalco popolare con periodicità settimanale, ottenendo uno strepitoso successo che la porta nel

53 Per una storia generale degli editori italiani con vari riferimenti alla nasci-ta dei rotocalchi, in genere ignorati o molto trascurati, si veda Tranfaglia, Vittoria 2007 [2000].

54 Pubblicità in “il Secolo illustrato”, 1-7 gennaio 1929, p. 14.

Il cinema e la nascita del rotocalco moderno 249

giro di pochi anni dalle 7.000 copie di Mondadori a ben 150.00055. La nuova formula miscela sapientemente foto e servizi sui divi del cinema con la pubblicazione a puntate di romanzi sentimentali di Milly Dandolo, Salvator Gotta, Luciana Peverelli, Carola Prosperi e Mura, che tiene anche una rubrica fissa di corrispondenza con i lettori56. alla rivista collaborano giovani come Marotta e zavatti-ni57. Un’altra pubblicazione di buon successo di Rizzoli è “Piccola”, un settimanale di varietà, curiosità illustrate e i soliti racconti e romanzi.

il mondo del cinema e la vita dei divi affascinano il pubblico femminile e diventano un ingrediente fondamentale anche di al-tre pubblicazioni di Rizzoli. nel 1930 nasce “Cinema illustrazione”, diretto inizialmente da Casimiro Wronowski, sul quale zavattini, firmando con vari pseudonimi, scrive le proprie immaginarie cor-rispondenze da hollywood. La rivista s’impone come una delle pubblicazioni sul cinema di maggiore successo per la sua varietà dei contenuti e per la qualità grafica e fotografica58 (fig. 14). a par-tire dal 1937 Rizzoli compare anche come stampatore della rivista “Cinema”, fondata nel 1936 da hoepli, ma stranamente mai come suo editore, benché la rivista sia proposta nelle pubblicità in ab-bonamento con gli altri periodici del gruppo59. Sempre in campo cinematografico è molto interessante anche il caso del mensile francese “Visages et contes du cinéma”, un rotocalco pubblicato dal 1936 al 1939, ogni numero del quale è dedicato quasi esclusi-vamente alla biografia di un divo. La rivista risulta stampata da Rizzoli, anche se la sede della direzione e dell’amministrazione è a Parigi, in rue du Faubourg St. honoré 56. “Visages et contes du cinéma” è identica per lunghezza (trentasei pagine), formato, im-postazione grafica e copertine a colori ai supplementi mensili di “Cinema illustrazione”, differenziandosene solo per la scelta degli

55 Tranfaglia, Vittoria 2007 [2000], p. 319.56 Sulla rubriche di costume si veda Mosconi 2009.57 a proposito della relazione tra cinema e rotocalchi, Cesare zavattini ricor-

da che «bastava pubblicare la faccia di una certa diva che “novella” saliva. Era una delle chiavi del successo dei rotocalchi di Rizzoli» (zavattini 2002, p. 68).

58 Dall’1 agosto 1939 “Cinema illustrazione” viene assorbito da “Cine illustrato”.

59 Si veda Cinema 2002.

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attori, non tanto quelli americani quanto, ovviamente, quelli fran-cesi al posto di quelli italiani. Una conferma, inequivocabile, dei rapporti costanti fra l’editore milanese e la Francia, che dimostra-no una volta di più l’esistenza di uno stile internazionale nel quale anche l’italia è coinvolta.

nel 1933 esce il primo numero di “Lei”, un settimanale intera-mente dedicato alle donne. il pubblico femminile è il target pri-vilegiato dei rotocalchi popolari di Rizzoli che, come afferma lo stesso zavattini, «sono riviste ancillari scritte per le serve ma lette anche dalle padrone»60.

angelo Rizzoli, visti il successo della ricetta “cinema più roman-zi d’appendice” di “novella” e la propria disponibilità di denaro li-quido, comincia a pensare di produrre direttamente dei film, in un momento che, tra l’altro, appare favorevole perché tutti auspicano la rinascita del cinema italiano. nel 1933 viene fondata la casa di produzione novella-Film, che punta a sfruttare il marchio già noto della pubblicazione della casa editrice milanese come garanzia per gli spettatori. Rizzoli decide di ridurre in pellicola La signora di tutti, un romanzo di Salvator Gotta già pubblicato dall’editore mi-lanese nello stesso anno e pubblicizzato come «una drammatica vicenda di passione e d’amore, che si svolge nella tumultuosa cor-nice della vita moderna»61. Tra l’altro, l’uscita in volume del roman-zo è anticipata dalla sua pubblicazione a puntate, tra la primavera e l’estate del 1933, proprio sul settimanale “novella” (fig. 15). ogni puntata è illustrata da diverse fotografie di attori e registi del mon-do del cinema, com’è consuetudine di questo rotocalco, che ha così trovato la formula del proprio successo. ad esempio nella puntata del 21 maggio 1933 il testo di quattro pagine in formato rotocalco è intercalato da diverse fotografie, tra le quali quella di otto belle ragazze (quattro brune e quattro bionde) protagoniste di un film americano, e da ritratti fuori dal set di attori italiani, come Gui-do Celano, Diomira Jacobini, Leda Gloria, e dei registi alessandro Blasetti e Mario Camerini. La scelta di Rizzoli del primo film da

60 Per maggiori informazioni sull’attività di Rizzoli e dei suoi collaboratori rimando a Mazzuca 1991. Si veda anche il catalogo della mostra Lei e le altre 2011.

61 “Lei”, i, 24 ottobre 1933, p. 8. Sulla campagna di stampa promozionale del film volta anche ad affermare isa Miranda come diva italiana internaziona-le rimando a De Berti 2010d.

Il cinema e la nascita del rotocalco moderno 251

produrre è perciò perfettamente coerente, a partire dal nome della casa di produzione e dalla scelta del soggetto, con il progetto di costituire quella che forse si potrebbe definire la prima moderna industria culturale italiana a carattere di integrazione mediatica, anche in considerazione del fatto che Rizzoli lancia un concorso sulle proprie testate per la scelta della protagonista, del quale ri-sulterà vincitrice isa Miranda; e che punta a produrre un film che possa avere un successo internazionale, affidandone la regia a Max ophüls. in realtà l’operazione cinematografica non avrà il successo economico sperato.

La strategia editoriale propone una diversificazione delle testate per raggiungere un pubblico eterogeneo, ma con uno stile grafico e una composizione movimentata delle pagine, paragonabile a un ritmo musicale allegro, inconfondibile per i diversi periodici illu-strati. nella seconda metà degli anni Trenta, come si è visto, Rizzo-li pubblica rotocalchi più attenti alla cronaca politica e alla cultura come “omnibus” e “oggi”, e si lancia nella creazione di giornali satirici come “il Bertoldo” nel 1936 e all’acquisto del concorrente “Marc’aurelio” nel 1939. L’indubbia lungimiranza di Rizzoli verso una modernizzazione del sistema editoriale italiano non è però disgiunta da una pratica ancora artigianale nella gestione della re-alizzazione delle riviste, basata sul controllo padronale diretto e su redazioni numericamente molto ridotte, tanto che le stesse firme passano da una testata all’altra senza soluzione di continuità. Tra il 1930 e il 1936, anno del suo licenziamento e del passaggio a Mon-dadori, un ruolo fondamentale è svolto da Cesare zavattini, che passa attraverso le redazioni di “il Secolo illustrato”, “il Secolo XX”, “novella”, “Piccola” e soprattutto “Cinema illustrazione”, del quale diventa anche direttore. i medesimi nomi dei responsabili delle riviste si ritrovano da un periodico all’altro: da Mario Buzzichini a Casimiro Wronowski ed Enrico Cavacchioli, da Filippo Piazzi a Cesare zavattini, da Giuseppe Marotta a Luciana Peverelli.

analoghe osservazioni sull’“artigianato” della confezione dei pe-riodici Rizzoli si possono fare anche per Mondadori, l’altro impren-ditore che rinnova tra le due guerre il sistema editoriale italiano62. Tra l’altro, non è raro trovare nelle riviste di Mondadori gli stessi

62 L’osservazione sulle basi marcatamente artigianali dei periodici monda-doriani è in Decleva 2007 [1993], p. 241.

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nomi che avevano fatto la fortuna di Rizzoli. Mondadori ritorna in questo settore, e più in generale in quello dei periodici, dalla metà degli anni Trenta (la fortunata operazione di accordo con la Walt Disney per i diritti di “Topolino” è del 1935): la prima rivista illustrata è “il Cerchio Verde”, che pubblica soprattutto romanzi gialli a puntate oltre che cronaca e cineromanzi. il settimanale il-lustrato esce tra il 1935 e il 1937 e inizialmente è diretto da Mario Buzzichini, firma già ben nota dalle pubblicazioni della Rizzoli. Ma il colpo grosso di Mondadori rispetto al concorrente Rizzoli è l’assunzione di Cesare zavattini, che dà l’impulso decisivo all’ide-azione di nuovi periodici o alla trasformazione di testate storiche. Tra questi ultimi “Le Grandi Firme”, in precedenza un quindicinale letterario diretto da Pitigrilli, che viene acquistato da Mondadori nel 1937 e che zavattini, come direttore responsabile, anche se for-malmente la direzione rimane a Pitigrilli, trasforma in un settima-nale illustrato di grande formato dai contenuti vari, sulla falsariga di “novella” e dei più popolari rotocalchi di Rizzoli, con le famo-se copertine disegnate da Gino Boccasile, caratterizzate da don-ne dalle lunghe gambe e dalle forme procaci, intese a conquistare maggiormente un pubblico maschile63. zavattini punta molto sulle rubriche fotografiche di attualità, e in alcuni numeri della rivista introduce brevi raccontini fotografici, con sintetiche didascalie, che illustrano con taglio umoristico momenti di vita quotidiana. nella rivista sono definiti letteralmente «Un film Grandi Firme» e riportano anche l’indicazione della regia. in genere occupano lo spazio di una mezza pagina e si passa da titoli come La sorpresa del signor Giovanni con la regia di angelo Frattini a una giornata felice di Steno, insolitamente su ben due pagine, a Drammi della villeg-giatura di Michele Pellicani. il settimanale viene chiuso nel 1938 dalla censura fascista: prende il suo posto, con zavattini direttore, “il Milione”, settimanale di novelle e varietà, che ne assume l’eredi-tà. nel 1937 ancora zavattini, insieme ad achille Campanile, dirige il nuovo settimanale umoristico “il Settebello”, che due anni dopo viene sostituito da “Ecco Settebello”. Sempre zavattini è il direttore di “il Giornale delle Meraviglie”, un settimanale di divulgazione scientifica e di curiosità varie. nel 1939, in aperta concorrenza con

63 Per approfondimenti sulla figura di Cesare zavattini rimando, fra la vasta bibliografia, a Carpi 2002; Parigi 2006, pp. 125-185; Conti 2009.

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Rizzoli fin dal titolo, Mondadori pubblica “novellissima”, diretto da Carola Prosperi, prolifica scrittrice di romanzi popolari; l’1 giu-gno dello stesso anno è in edicola “Tempo”, di cui si è già detto; inoltre da pochi mesi, più precisamente dal novembre 1938, è usci-to “Grazia”, che rinnova ampiamente la precedente e più ricercata “Sovrana”, ed è pensato per il nuovo pubblico femminile cittadino e moderno. in questo modo la proposta dei rotocalchi illustrati di Mondadori si rivolge, non meno del concorrente Rizzoli, a un lettore-spettatore eterogeneo e ad ampio raggio.

a questi due colossi editoriali va affiancata la casa editrice mila-nese Vitagliano, fondata nel 1920 da nino Vitagliano ed Enrico Ca-vacchioli, che per ragioni economiche a metà degli anni Venti per alcuni anni assume il nome di Casa Editrice italiana “Gloriosa”64. il nome stesso di Enrico Cavacchioli, già incontrato come direttore di “il Secolo illustrato” e di “L’illustrazione italiana” e al quale era indirizzata − non a caso − la lettera di arnaldo Mussolini sopra citata, conferma come l’editoria italiana fra le due guerre si basi su un ristretta cerchia di giornalisti e intellettuali che si muovono fra le principali testate: Vitagliano stesso, nella propria storia, ha stretti rapporti prima con Rizzoli, nelle cui tipografie fino al 1933 stampa i propri rotocalchi, e poi con Mondadori, che a sua volta usufruisce della tipografia impiantata da Vitagliano in via Serio per stampare “Grazia” e “Tempo”65. anche la Vitagliano, accanto alla pubblicazione di varie collane di libri, entra nel mercato delle riviste illustrate negli anni Venti-Trenta con diverse testate, con una strategia editoriale sempre opportunamente diversificata per tipi di pubblico, benché a carattere più popolare e meno curato dal punto di vista grafico rispetto alle coeve pubblicazioni di Riz-zoli. nel 1926 esce “Excelsior”, che ricorda “il Secolo illustrato” e si occupa di attualità, cronaca, sport, viaggi, cinema, moda, giochi e soprattutto presenta novelle e romanzi a puntate, ma anche nu-merose fotografie in rubriche come Nel Vasto Mondo o Attualità fotografica. Molte sono poi le riviste e le collane dedicate al cine-ma come “Cine-Cinema” (dal 1924) e “Stelle” (dal 1933) diretta da

64 Per una ricostruzione dettagliata della storia della casa editrice si rimanda ai documentatissimi studi Carotti 2007a e 2007b. Per quanto riguarda le riviste cinematografiche rimando a De Berti 2000.

65 Carotti 2007a, pp. 20-21.

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Luciana Peverelli, altro nome già incontrato in precedenza. Più in generale, il cinema (associato al divismo hollywoodiano), le novel-le e i romanzi sentimentali sono gli ingredienti portanti di buona parte delle pubblicazioni di Vitagliano (fig. 16): tra queste “zenit” (dal 1930) ed “Eva” (dal 1933) (fig. 17), quest’ultima specificamen-te femminile, diretta da ottavia Mellone Vitagliano, progenitrice di “Eva Express” e altrove pubblicizzata come «il settimanale più completo, più utile per la donna italiana. Si occupa dei più vari ar-gomenti della donna moderna». a completare l’offerta di rotocal-chi della Vitagliano nei primi anni Trenta è il settimanale sportivo “azzurri” (dal 1934) con molte fotografie.

Dal panorama descritto delle pubblicazioni a rotocalco di Mon-dadori, Rizzoli e Vitagliano si può concludere che negli anni tra le due guerre sia in atto una strategia editoriale moderna a prodotti diversificati nell’intento di raggiungere il maggior numero possi-bile di lettori-spettatori.

3.2. I generi del rotocalco italiano

Lasciamo ora la storia editoriale con le sue strategie per ritorna-re brevemente alla tipologia dei rotocalchi che possiamo rubricare − pur nella consapevolezza che si tratta di una suddivisione “di lavoro”, nella quale a volte i confini fra un genere e l’altro sono assai labili − in cinque grandi gruppi: attualità e cronaca varia, attualità politico-letteraria e inchiesta, cinematografico, femminile, spor-tivo.

Per i settimanali di attualità e cronaca varia possiamo pensare a “il Secolo illustrato” e a “Excelsior”, sul modello della “Berliner illustrirte zeitung”: al loro interno prevale uno sguardo curioso sul mondo in tutte le sue possibili latitudini geografiche e in tutti i campi, dallo spettacolo alla moda, dalla curiosità scientifica alla cronaca rosa; essi hanno tra gli elementi di forza anche la pub-blicazione a puntate di romanzi sentimentali; raramente mirano all’inchiesta e all’approfondimento di singoli temi, che sono inve-ce l’asse portante dei rotocalchi d’attualità politica come “oggi”, “Tempo” e in buona parte “omnibus”. quest’ultimo è però in una zona di transizione con il modello dell’attualità varia, perché fa scarso uso di fotografie in funzione di fotostorie o fotosaggi. Ri-

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spetto alle precedenti testate, “oggi”, “Tempo” e “omnibus” hanno poi uno spiccato interesse per la letteratura e la cultura “alta” e an-ticipano i rotocalchi d’inchiesta del dopoguerra, come “il Mondo” e “L’Espresso”: i riferimenti stranieri sono “Vu” e “Life”.

anche le riviste di cinema – a partire da “Cinema illustrazione”, “Cine Romanzo”, “Film”, fino a perdersi in una miriade di pubbli-cazioni minori – sono molto diffuse. il modello grafico e d’impagi-nazione è simile a quello di “il Secolo illustrato”; i contenuti sono costituiti da cinenovelle, biografie di divi, articoli (spesso inventa-ti) sulla loro vita, corrispondenze da hollywood, rubriche di posta nelle quali si dispensano consigli di ogni tipo ai lettori. nei roto-calchi il film è spesso solo il pretesto per scrivere o parlare dei suoi interpreti, più che per fare della critica. È presente un atteggia-mento pedagogico che “tempera” e addomestica l’effetto (ritenuto eccessivamente spregiudicato) del cinema americano.

Sono spesso legati al mondo del cinema i rotocalchi femminili che, più o meno esplicitamente, richiamano il mondo della cel-luloide e la moda incarnata dalle dive sullo schermo. anche qui le testate pubblicate sono numerose e differenziate a seconda del modello di donna cui fanno riferimento, ma da “Eva” a “Lei”, da “Gioia” a “Grazia”, pur aderendo apparentemente ai modelli tradi-zionali accreditati dal fascismo,

gli esempi della divaricazione esistente tra i modelli imposti dal cor-so politico e quelli diffusi dalla stampa periodica sono evidenti e nu-merosi: talvolta si riscontrano voci contraddittorie all’interno della stessa rivista, a riprova della difficoltà di definire in termini univoci il grado di “consenso”; tuttavia si può affermare che – entro certi limiti – l’editoria popolare costituisce una specie di zona franca rispetto alle direttive del regime, almeno fino alle soglie della seconda guerra mondiale.66

nei rotocalchi femminili è protagonista una donna che si muove fra tradizione e modernità, in bilico tra due modelli contradditori, che pure convivono nella stessa testata. i contenuti generali – pur

66 De Berti, Mosconi 1998, p. 149. Sulle riviste femminili si vedano anche Mondello 1987; De Grazia 1992; Periodici femminili 2003 [1993]; Salvatici 2004; e, per la relazione con i modelli culturali offerti dal cinema, Mosconi 1998.

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nelle diverse declinazioni delle riviste – sono le rubriche della po-sta e dei consigli pratici (dalla cucina ai piccoli lavoretti di casa fino al galateo), i servizi sulla moda e sullo spettacolo; più rari sono i riferimenti alla cronaca politica, ma alla fine emerge una figura di donna più indipendente, impegnata nel lavoro non meno che nella famiglia. ad esempio, “Lei” propone una donna sportiva, sbaraz-zina, decisamente moderna che nella prima copertina si presenta in pantaloni e afferma spavaldamente: «Ci sono anch’io» (fig. 18). nel 1938 quando esce “Grazia”, e “Lei” deve cambiare il nome in “annabella”, il modello di donna presentato diventa, come si è det-to, più sofisticato (soprattutto in copertina) e più vicino a quello di “Vogue”, mentre più spregiudicato e popolare rimane quello di “Eva”. Molto interessante è leggere una tabella pubblicata da “Gra-zia” nel numero del 21 settembre 1939 che, sotto il titolo Ordine nella vostra vita, propone «secondo la vostra condizione sociale, secondo la vostra professione» un orario da seguire nella giorna-ta per le diverse attività di una donna. Si propongono stili di vita diversificati, dalla signorina di famiglia all’impiegata, dalla madre di famiglia alla professionista, dall’operaia alla ricca, che presup-pongono la consapevolezza di contare lettrici di ogni ceto, che da una parte possono identificarsi nel proprio ruolo sociale, e insieme possono anche sognare di appartenere un giorno a una classe su-periore, della quale apprendono con curiosità e un po’ d’invidia i ritmi della vita quotidiana che iniziano alle 10 di mattina e si chiu-dono alle 2 di notte.

Da ultimo, non si possono dimenticare le riviste di sport e in particolare “il Calcio illustrato”, che propone un interessante uso delle immagini sportive che ricordano quelle di fotografi come Martin Munkácsi: ancora una volta il dato visivo si conferma come l’elemento determinante per il successo dei rotocalchi.

La tipologia qui proposta è, come s’è detto, solo indicativa e di necessità sintetica, ma è ampiamente significativa da una parte della svolta visiva che fotografia e cinema hanno impresso nei con-sumi culturali del novecento, influenzando in modo determinan-te anche la stampa; e dall’altra di come il rotocalco durante gli anni tra le due guerre abbia imposto un nuovo panorama editoriale che troverà nel secondo dopoguerra un ulteriore sviluppo, ma le cui radici sono state già poste.

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Fig. 1. Copertina di “il Secolo illustrato”, 10-17 settembre 1927

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Fig. 2. “il Secolo illustrato”, 7-14 aprile 1928, p. 8: fotoservizio Epilogo di una tragedia del mare

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Fig. 3. Copertina della “Berliner illustrirte zeitung”, 20 novembre 1927

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Fig. 4. Copertina di “Vu”, numero monografico L’énigme allemande, 13 aprile 1932

Pagina a fronte. Fig. 5. “Vu”, numero monografico L’énigme allemande, 13 aprile 1932, p. 491

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Fig. 6. Copertina di “il Secolo illustrato”, 22 gennaio 1938

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Fig. 7. Copertina di “il Secolo illustrato”, 29 gennaio 1938

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Fig. 8. quarta di copertina di “Marianne”, 29 marzo 1933

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Fig. 9. Copertina di “omnibus”, 3 aprile 1937

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Fig. 10. quarta di copertina di “oggi”, 16 novembre 1940

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Fig. 11. “oggi”, 26 ottobre 1940, pp. 4-5

268 Il volo del cinema

Fig. 12. “il Secolo illustrato”, 1-7 gennaio 1929, p. 14: pubblicità delle testate Rizzoli

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Fig. 13. quarta di copertina di “novella”, 21 maggio 1933

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Fig. 14. Copertina di “Cinema illustrazione”, 17 ottobre 1934

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Fig. 15. “novella”, 21 maggio 1933, p. 7

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Fig. 16. quarta di copertina di “Supplemento a ‘Excelsior’”, Viii, 57, novembre 1935: pubblicità delle testate “Gloriosa” - Vitagliano

Pagina a fronte. Fig. 17. Copertina di “Eva”, 23 marzo 1935.

Il cinema e la nascita del rotocalco moderno 273

274 Il volo del cinema

Fig. 18. Copertina del primo numero di “Lei”, 15 luglio 1933

275

12

CinEMa E RaDio.iL CaSo Di O LA BORSA O LA VITA,FiLM D’aVanGUaRDia PoPoLaRE

L’avvento del sonoro nel cinema italiano a partire dal 1930, con l’uscita di La canzone dell’amore di Gennaro Righelli e di Resur-rectio di alessandro Blasetti, coincide con la crescente diffusione e popolarità della radio, che a partire dal 1924 inizia a trasmettere regolarmente con la nascita dell’URi (Unione Radiofonica italia-na), poi trasformata a partire dal 1927 in EiaR (Ente italiano au-dizioni Radio)1. nei primi anni Trenta, riflessioni comuni a radio e cinema in relazione all’utilizzo del suono si trovano spesso in riviste come “Convegno”, “Scenario”, “Comoedia”. Un’attenzione verso i film sonori e i radiodrammi volta a definire un’estetica e delle caratteristiche espressive che non cadessero nel rischio di limitarsi all’inserimento della sola voce e della musica nei due media, ma di puntare su quello che si è definito successivamente come “ambiente sonoro” da Rick altman o “paesaggio sonoro” da Michel Chion2, nel quale i rumori, ad esempio della città, vengo-no ad assumere un ruolo di primo piano in un’esperienza spetta-toriale di vera e propria audiovisione. È inevitabile, dunque, che i due nuovi media, il cinema e la radio, mirassero a riprodurre quel paesaggio sonoro legato alla vita moderna. Paola Valentini, ai cui studi rimando, ha ricostruito in tutte le sue sfaccettatu-re il complesso passaggio dal muto al sonoro in italia negli anni Trenta, rivelando gli stretti rapporti fra cinema e radio e arrivan-do a ipotizzare l’esistenza di un modello ricorrente, che defini-sce “film radiofonico” e che sarebbe «l’emblema di un sistema di rappresentazione storicamente definito, di modalità d’ascolto

1 Sulla storia della radio negli anni del fascismo si vedano isola 1990; Monte-leone 1992; isola 1998.

2 altman 2004 [1999]; Chion 1990.

276 Il volo del cinema

complesse, frutto di interazioni con l’intero paesaggio mediale»3.O la borsa o la vita (1933) di Carlo Ludovico Bragaglia è tra i

film che la stessa Valentini individua come uno tra i più significa-tivi, nel quale convergono la teoria dell’avanguardia futurista che, soprattutto negli scritti e nei manifesti sulla radio (o meglio “la radia”, come la chiama Marinetti), dà grande importanza ai rumori − riprendendo lo scritto di Luigi Russolo del 1913 su L’arte dei ru-mori − e la sperimentazione radiofonica, tesa a ricreare un paesag-gio sonoro complesso, per consentire nelle radiocommedie e nei radiodrammi di far capire all’ascoltatore il passaggio tra ambienti diversi. Più specificamente, come sì è detto, i rumori della vita ur-bana, sulla scorta dell’influenza futurista e delle altre avanguar-die europee, hanno un ruolo rilevante nel primo cinema sonoro italiano: basti pensare all’esempio di Gli uomini, che mascalzoni… (1932), di Mario Camerini, che dedica grande attenzione alla parte audio della pellicola, tanto che il contratto firmato con la Cines prevede la registrazione di una o più colonne sonore separate, in modo da poterle poi tagliare in fase di montaggio. Fin dalla prima sequenza del film, che riprende il risveglio di Milano nelle prime ore del mattino, i suoni dei clacson e dei motori delle automobili sono in primo piano, a comporre una sorta di sinfonia urbana dei rumori, che culminerà nelle scene girate alla Fiera Campionaria, con il brusio della folla e gli annunci pubblicitari lanciati dagli al-toparlanti, sovrapposti ai suoni assordanti di macchinari di ogni tipo.

Ma torniamo al caso di O la borsa o la vita, che è strettamente legato alla radio perché è liberamente tratto dalla commedia radio-fonica La dinamo dell’eroismo di alessandro De Stefani. De Stefani è un prolifico scrittore di commedie e di sceneggiature per film fin dalla metà degli anni Dieci, e anche di alcune regie nel cinema muto, e poi dagli anni Trenta agli anni Cinquanta vanta una vasta produzione di romanzi, commedie e sceneggiature per film. Un autore d’indubbio successo commerciale, ma che negli anni Venti è considerato con grande attenzione anche dalla critica per le sue prime commedie, vicine a temi pirandelliani tanto che nel 1925 Il calzolaio di Messina è rappresentata al Teatro odescalchi di Roma dalla Compagnia Pirandello, così come anche I pazzi sulla monta-

3 Valentini 2007, p. 21.

Cinema e radio. Il caso o la borsa o la vita, film d’avanguardia popolare 277

gna, messa in scena dalla stessa compagnia nel 1926 al Teatro d’arte di Firenze. ai fini del nostro discorso è però importante ricordare la vicinanza con il futurismo: De Stefani, infatti, lavora con anton Giulio Bragaglia nel 1925 e 1926 al Teatro degli indipendenti, men-tre nel 1928 Marinetti lo invita a far parte del gruppo letterario dei Dieci con Beltramelli, Bontempelli, D’ambra, Martini, Milanesi, Varaldo, Viola e zuccoli. infine, collabora a diversi programmi ra-diofonici, promuovendo la diffusione anche in italia del genere del radiodramma4.

La commedia radiofonica La dinamo dell’eroismo è trasmessa dalle stazioni del Gruppo nord dell’EiaR le sere del 3 e del 10 feb-braio 1932. La sceneggiatura di De Stefani, introdotta da una sua breve premessa, è stata ritrovata da Riccardo Redi e pubblicata nel 19935 e dimostra la volontà dell’autore di sperimentare nuove forme espressive artistiche attraverso il suono per creare «il teatro radiofonico italiano»:

Tutto quello che i sensi combinati suggeriscono deve essere ora ottenuto col solo aiuto dell’udito. Si deve vedere, riconoscere luoghi, persone, gesti col solo sussidio del “clima” e del dialo-go. io ho voluto questa prima volta fare una commedia comica, schiettamente comica; […] dove i rumori della strada, della not-te, di una taverna e di un aerodromo, di un circolo anarchico e di un incendio debbono alternarsi con rapida successione di quadri acustici e suggerire i luoghi. il pubblico è quindi chiamato a se-guire i personaggi durante i loro spostamenti e questo movimen-to, questa diversa prospettiva di piani devono essere dati dalla diversa gradazione dei rumori.6

L’ascendenza futurista di quanto scrive De Stefani è eviden-te, anche se il manifesto futurista della radio, a firma di Mari-netti con Pino Masnata, esce successivamente, il 22 settembre 1933, su “La Gazzetta del Popolo” di Torino con il titolo esat-to di La Radia. Manifesto futurista dell’ottobre 19337, anche se già in gran parte anticipato dallo stesso Marinetti in Perché mi

4 Su De Stefani si veda Giacomelli 2001.5 De Stefani 1993.6 Ibi, p. 57.7 Marinetti, Masnata 1933.

278 Il volo del cinema

piace la radio, un articolo pubblicato sul “Radiocorriere” del 16 aprile 1932. in realtà, un rapporto ancora più stretto tra la radiocommedia di De Stefani, la sua successiva messa in scena cinematografica di Carlo Ludovico Bragaglia e i testi futuristi si riscontra con Il teatro aereo radiotelevisivo. Manifesto futu-rista a Italo Balbo scritto da Marinetti con Mino Somenzi l’8 dicembre 1931 e pubblicato su “La Gazzetta del Popolo” il 15 gennaio 19328, ispirato alla famosa prima trasvolata oceanica compiuta da italo Balbo al comando di una squadriglia di idro-volanti Marchetti che attraversò l’atlantico da orbetello a Rio de Janeiro tra il 17 dicembre 1930 e il 15 gennaio 1931. il testo, inoltre, rende omaggio all’aviatore, pittore e poeta Fedele aza-ri, scomparso da poco, riconosciuto precursore della corrente dell’aerofuturismo, che si sviluppa all’interno del movimen-to negli anni Trenta, con il manifesto Teatro aereo futurista del 1919. il manifesto di Marinetti e Somenzi riprende anche temi già affrontati nelle diverse redazioni dei coevi manifesti dell’aeropittura e dell’aeropoesia, scritti tra il 1929 e il 1931.

il testo di Il teatro aereo radiotelevisivo inizia raccontando le sensazioni provate a bordo di un aeroplano, per poi proseguire con l’idea di uno spettacolo aereo immaginato come un grande teatro popolare all’aperto, e perciò accessibile a tutti, nel quale altopar-lanti e schermi consentano al pubblico di assistere e di seguirlo anche se l’azione aerea si svolge nell’alto del cielo:

Furono prevalentemente teatrali le sensazioni da me provate sul seggiolino dello snello Caproni da turismo che Mario De Ber-nardi muoveva acrobaticamente nel cielo di Roma a guisa di ruota, barile, trivello, cravatta, getto d’acqua, colpo di fioretto e pugnalata alla terra. […] L’aeropittore futurista Mino Somenzi, nella Prima Giornata aerosportiva organizzata da lui a Roma nel novembre 1930, intuì una utilizzazione drammatica della radio da aggiungere alla concezione di azari. io, personalmente, credo utile perfezionare il teatro aereo mediante:1. Speciali altoparlanti montati su automobili originariamente e tra-sformandoli dal tragico al comico. […]2. Smisurati pannelli di aeropoesia e schermi per televisione che, sospesi a speciali aeroplani, si sposteranno per offrire a tutti gli

8 Marinetti, Somenzi 1932.

Cinema e radio. Il caso o la borsa o la vita, film d’avanguardia popolare 279

spettatori quella parte di rappresentazione aerea molto alta e quindi poco visibile.9

nel terzo atto della radiocommedia di De Stefani, una lunga scena si svolge proprio in un campo d’aviazione, dove il protago-nista, con un inganno, riesce a salire su un aeroplano pronto per uno spettacolo acrobatico, compiendo senza volerlo straordinari volteggi. Una sequenza analoga è presente anche nel film, che si avvale come controfigura proprio dell’asso dell’aviazione Mario De Bernardi citato da Marinetti nel manifesto: una lunga sequenza praticamente senza dialoghi, nella quale ci si affida alle immagini, alla musica e soprattutto ai rumori dei motori e delle eliche e al vo-ciare e alle grida della folla. negli stessi passaggi da un’inqudratura all’altra e negli sviluppi narrativi, il rumore ha un ruolo di primo piano, come quando il frastuono della messa in moto del motore di un aereo fa fuggire una folla inferocita che stava inseguendo il protagonista.

Ma procediamo con maggior ordine per capire i rapporti fra la ra-diocommedia e il film tenendo conto che lo stesso Bragaglia ha di-chiarato: «il soggetto di alessandro De Stefani non c’entrava nien-te con il cinema. non era adatto. Lo cambiai completamente»10. Dal punto di vista della trama, in realtà, i punti in comune non mancano: entrambe le vicende hanno al centro una forte perdita di denaro (al gioco nella radiocommedia, in borsa nel film), affi-dato da altri al protagonista, che dispone – come unico modo per poterlo restituire – di morire per una disgrazia o un incidente, in modo che si possa incassare una forte assicurazione sulla vita. Tut-ti i tentativi del protagonista (nella commedia Gastone, nel film Daniele) di trovare la morte falliscono, spesso in modo comico, ma alla fine tutto si risolve ed egli trova anche una donna d’ama-re. Una stretta comparazione tra i due testi evidenzia, comunque, numerosi cambiamenti, soppressioni e aggiunte di episodi, anche perché Bragaglia punta a valorizzare, insieme all’uso del suono e del rumore − che, come si è detto, accomuna la radiocommedia e il film sotto il segno della sperimentazione futurista e d’avanguardia − la parte visiva, con soluzioni più originali rispetto al testo di De

9 Ibidem.10 Bragaglia 1993.

280 Il volo del cinema

Stefani. il regista tenta in definitiva una sintesi, esemplare per il periodo, fra visivo e paesaggio sonoro urbano moderno.

non va infine dimenticato che Carlo Ludovico Bragaglia è fratello minore di anton Giulio e di arturo, che a partire dal 1911 iniziano le loro sperimentazioni sul dinamismo delle immagini, che li porta alla creazione delle “fotodinamiche”: anche se Carlo Ludovico non vi partecipò personalmente, come tendeva invece ad accreditare in alcune dichiarazioni a partire dagli anni ottanta11, ciò non toglie che il regista vivesse ampiamente all’interno delle esperienze futuriste, sia in ambito fotografico che teatrale, con le rappresentazioni fino al 1930 allo sperimentale Teatro degli indipendenti, esperienze che si possono ritrovare nel suo film d’esordio O la borsa o la vita.

Dal punto di vista cinematografico sono poi palesi le analogie con l’avanguardia francese, in particolare con L’Argent (1928), di Marcel L’herbier, e À nous la liberté (A me la libertà, 1931), di René Clair. ad esempio, una citazione quasi letterale è la lunga se-quenza d’apertura in Borsa (che dura circa sei minuti), che ricalca quella di L’Argent con l’inquadratura iniziale dall’alto dei moderni spazi della sala nella quale ondeggia come impazzita la folla degli agenti di borsa, per proseguire con una carrellata laterale di volti, poi indugiare sulla lavagna con le quotazioni in caduta libera delle azioni e, infine, inquadrare il volto preoccupato del protagonista Daniele Pitti, interpretato da Sergio Tofano. Una vaga reminiscen-za surrealista si può anche riscontrare nella scena onirica nella quale Daniele sogna per libere associazioni un fiume, un prato, degli alberi, un aereo che vola e Renata – la giovane psichiatra che ha appena incontrato e di cui s’innamora – vestita da sposa al suo braccio mentre stanno entrando in una chiesa, ma che scompare improvvisamente lasciando il posto al suo creditore che lo vuole far arrestare. in tutte queste scene visivo e audio s’integrano reci-procamente, mentre la parola è ridotta al minimo.

anche le scenografie di Gastone Medin richiamano ambien-ti moderni, sia nell’interno della Borsa, ma soprattutto nella sala d’attesa e negli spazi degli uffici dell’aeroporto, dove dominano i tubolari d’acciaio di tavoli e sedie disegnati da Mies van der Rohe e una divisione degli ambienti che richiama lo stile essenziale di Le Corbusier.

11 Cfr. Lista 2001a, p. 263.

Cinema e radio. Il caso o la borsa o la vita, film d’avanguardia popolare 281

Ma rispetto alla radiocommedia il grande valore aggiunto del film è l’interpretazione di Sergio Tofano, accanto alla moglie Ro-setta, che, come sottolinea Filippo Sacchi nella sua critica pubbli-cata su “il Corriere della Sera” del 13 gennaio 1933, tiene la scena con la sola presenza fisica, con la figura allampanata che ricorda da vicino il Signor Bonaventura, il famoso personaggio dei fumetti creato nel 1917 dallo stesso Tofano, con lo pseudonimo di Sto, e pubblicato da “il Corriere dei Piccoli”: «C’è qualcosa del Signor Bo-naventura in questo Daniele stilizzato e burattinesco, che ha tante sventure, anche lui, e una specie di milione alla fine, e come non vedere nel bassotto del film una replica di quell’altro bassotto di-ventato un attributo inseparabile del noto personaggio?»12 (fig. 1).

in effetti, come il personaggio dei fumetti il protagonista del film passa attraverso una serie di avventure incredibili: dall’entrare nella gabbia dei leoni allo zoo al pilotare un aereo a incontrare un gruppo di pazzi fuggiti dal manicomio, uscendone sempre inden-ne, seguito da un cane bassotto che ha salvato dai leoni. alla fine la Borsa ha un improvviso rialzo che non solo lo salva, ma lo rende ricco. non tutti i critici colgono, come invece Sacchi, la modernità dello stile recitativo di Tofano nel film, con tratti di straniamento dalla scena di stampo surreale, con quel suo muoversi quasi come una supermarionetta di Gordon Craig, e con il trucco da maschera della commedia dell’arte in grado di fondere tradizione teatrale e via italiana all’avanguardia13. Bragaglia, però, riconosce in Tofano quella personalità che «era arrivata da sé ad assumere un atteggia-mento moderno di naturalezza che lo ha distinto e completamen-te isolato dagli altri attori suoi contemporanei»14.

in questo film Tofano interpreta come non mai il protagoni-sta con i toni di una recitazione astratta, e anche nelle situazioni più incredibili o comiche il suo personaggio mantiene sempre un comportamento inappuntabile, con il vestito sempre perfetto e un volto imperturbabile che ricorda quello di Buster Keaton, cui lo accosterei in questo caso.

C’è anche da sottolineare, infine, una modernità mediale di To-

12 Sacchi 1933.13 Sul rapporto fra tradizione e modernità nella recitazione di Tofano si veda-

no Mosconi 2005 e Faccioli 2011, pp. 201-212.14 Carlo Ludovico Bragaglia in Menza 1996, p. 113.

282 Il volo del cinema

fano, che passa dalla scrittura al fumetto, dal teatro al cinema, in un vero e proprio circuito intermediale che lo colloca tra i prota-gonisti dell’industria culturale italiana della prima metà del nove-cento.

O la borsa o la vita s’inserisce perfettamente nel progetto pro-duttivo della Cines, diretta da un fine intellettuale come Emilio Cecchi nel periodo fra l’aprile 1932 e l’ottobre 1933, che punta a sprovincializzare il cinema italiano rilanciandone la produzione, e ad avvicinarlo ai modelli anche stilistici internazionali batten-do però «una strada intermedia rispetto alle tendenze del cinema europeo: quella di un’estetica (e un’etica) del realismo simboli-co, ‘spirituale’, che presenti la realtà attraverso il velo di soluzioni avanguardistiche, per impostare un discorso pedagogizzante con le masse»15.

Certamente il film di Bragaglia si colloca tra le pellicole mag-giormente sperimentali a livello di stile e di tecnica; tuttavia l’in-tento pedagogico e la volontà di realizzare un film popolare − pe-raltro, come si è visto, lo stesso futurismo degli anni Trenta con il manifesto del Teatro aereo radiotelevisivo pensava a uno spettaco-lo popolare − traspare dalla semplicità del racconto, che esalta le virtù morali e di onestà del protagonista, disposto a morire pur di riparare a un errore, e nel felice epilogo che si chiude, come sempre nelle commedie di quegli anni, con un probabile matrimonio. Le stese scene allo zoo e al campo d’aviazione hanno una dimensione comica quasi da vaudeville.

La strada della modernità italiana indicata da O la borsa o la vita, l’ibridazione tra un cinema sperimentale nello stile di ripre-sa, di recitazione e soprattutto nell’uso del suono e un cinema più classico e tradizionale nei temi di fondo, non arriverà ad affermarsi negli anni del fascismo, esaurendosi in buona parte nei primi anni Trenta e limitandosi negli anni successivi a episodi puramente sporadici.

15 Buccheri 2004, pp. 69-70.

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Fig. 1. Sergio Tofano in O la borsa o la vita, 1933

Apparati

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I tre aquilotti, di M. Mattoli (1942), 58.

If I Had a Million (Se avessi un milione), di E. Lubitsch (1932), 174.

Il campione (vd. The Champ)Il Corsaro Nero, di A. Palermi (1936),

66, 69.Il feroce Saladino, di M. Bonnard

(1937), 68 nt. 21.Il figlio del Corsaro Rosso, di M. Elter

(1942), 66.Il figlio dello sceicco (vd. The Son of

the Sheik)Il ladro di Bagdad (vd. The Thief of

Bagdad)Il Leone di Damasco, di C. D’Errico

ed E. Guazzoni (1942), 66, 73. Il re d’Inghilterra non paga, di G.

Forzano (1941), 68 nt. 23.

Il sangue di un poeta (vd. Le Sang d’un poète)

Il signor Max, di M. Camerini (1937), 19 nt. 19, 180 nt. 43.

Il testimonio muto (vd. Silent Witness)Intolerance, di D.W. Griffith (1916),

130.Inventiamo l’amore, di C. Mastrocinque

(1938), 19 nt. 19.Kean, di A, Volkoff (1923), 196.L’amorosa tentazione (titolo originale

e regia non identificati), 209 ntt. 27 e 28.

L’Aquila nera (vd. The Eagle)L’Argent, di M. L’Herbier (1928),

280.L’argine, di C. D’Errico (1938), 19

nt. 19.L’armata azzura, di G. Righelli (1932),

24, 37, 38, 45, 48, 49 e nt. 10, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 215.

L’armata segreta (vd. Men of the Sky)L’Étoile de mer, di M. Ray (1928), 42.L’ingannatrice (vd. Quand on est

belle)L’uomo con la macchina da presa (vd.

Chelovek s kino-apparatom)La cantante dell’opera, di N.

Malasomma (1932), 172.La canzone dell’amore, di G. Righelli

(1930), 149, 275.La cena delle beffe, di A. Blasetti

(1942), 67, 70.La Contessa di Parma, di A. Blasetti

(1937), 19 nt. 19.La Coquille et le clergyman, di G.

Dulac (1928), 42 nt. 28.La corona di ferro, di A. Blasetti

(1941), 67, 71, 72.La corsa alla vanità (vd. Bought)La Crociera nera (vd. La Croisière

noire)La Croisière noire (La Crociera nera),

di L. Poirier (1926), 146.

Indice dei film 337

La figlia del Corsaro Verde, di E. Guazzoni (1940), 66.

La grande parata (vd. The Big Parade)

La grande rivista (vd. La Revue des revues)

La Princesse Tam Tam (La principessa Tam Tam), di E. Gréville (1935), 155 nt. 29.

La Revue des revues (La grande rivista), di J. Francis (1927), 155.

La segretaria privata, di G. Alessandrini (1931), 18, 178 nt. 36.

La signora di tutti, di M. Ophüls (1934), 250.

La Sirène des tropiques (La sirena dei Tropici), di M. Nalpas e H. Étiévant (1927), 155.

La Soirée des vilains, di G. Dulac (1926), 187.

La tavola dei poveri, di A. Blasetti (1932), 172.

La vedova allegra (vd. The Merry Widow)

Le Due Tigri, di G. Simonelli (1941), 66, 69, 70, 73, 74.

Le Sang d’un poète (Il sangue di un poeta), di J. Cocteau (1932), 202.

Le Voyage dans la lune (Viaggio nella luna), di G. Méliès (1902), 31.

Les Allumettes animées, di É. Cohl (1908), 42.

Lo stormo atlantico, Istituto Nazionale Luce (1931), 38.

Los novios de la muerte, di R. Marcellini (1938), 38.

Luciano Serra pilota, di G. Alessandrini (1938), 38, 55, 57, 60 fig. 2, 74 e nt. 32.

Male and Female (Maschio e femmina), di C.B. DeMille (1919), 128.

Men of the Sky (L’armata segreta), di A.E. Green (1931), 209 ntt. 27 e 28.

Messalina, di M. Caserini (1910), 74.

Monsieur Beaucaire, di S. Olcott (1924), 94.

Notte Nuziale (vd. A Sainted Devil)O la borsa o la vita, di C.L. Bragaglia

(1933), 18 nt. 19, 27, 38 e nt. 19, 216, 275, 276, 280, 282, 283 fig. 1.

Only Angels Have Wings (Avventurieri dell’aria), di H. Hawks (1939), 45.

Paradiso, di G. Brignone (1932), 216.Patatrac, di G. Righelli (1931), 17, 18

nt. 17.Piccolo mondo antico, di M. Soldati

(1941), 21.Quand on est belle (L’ingannatrice) di

A. Robinson (1932), 209 e ntt. 27 e 28.

Quo Vadis?, di E. Guazzoni (1913), 66, 74.

Riprese dall’aereo di Mario Caldara, di L. Comerio (1911), 31 nt. 3.

Samson and Delilah (Sansone e Dalila), di C.B. DeMille (1949), 128.

Senza cielo, di A. Guarini (1940), 67 e nt. 16, 69.

Sette giorni cento lire, di N. Malasomma (1933), 218.

Shangai Express, di J. von Sternberg (1932), 212.

Silent Witness (Il testimonio muto), di M. Vanel e R.L. Hough (1932), 212.

Skeleton Dance, di W. Disney (1929), 42.

Swing Time (Follie d’inverno), di G. Stevens (1936), 20 nt. 22.

Tarzan, the Ape Man (Tarzan l’uomo scimmia), di W.S. Van Dyke II (1932), 64, 68, 70 nt. 25, 71, 73, 75 fig. 2.

Tastatemi il polso (vd. Feel My Pulse)Terra madre, di A. Blasetti (1931), 16.Test Pilot (Arditi dell’aria), di V.

Fleming (1938), 45.Thaïs, di A.G. Bragaglia (1916), 38 nt.

19.

338 Il volo del cinema

The Big Parade (La grande parata), di K. Vidor (1925), 25, 109, 110, 111, 112, 113, 118, 119.

The Champ (Il campione), di K. Vidor (1931), 213.

The Cheat (I prevaricatori), di C.B. DeMille (1914), 128.

The Crowd (La folla), di K. Vidor (1928), 113, 118, 119.

The Dawn Patrol (La squadriglia dell’aurora), di H. Hawks (1930), 45.

The Dawn Patrol (Missione all’alba), di E. Goulding (1938), 45.

The Eagle (L’Aquila Nera), di C. Brown (1925), 88 e nt. 23, 100.

The Easiest Way, di J. Conway (1931), 209 nt. 27.

The King of Kings (Il Re dei Re), di C.B. DeMille (1927), 128.

The Legion of the Condemned (La squadriglia degli eroi), di W.A. Wellman (1928), 45.

The Lost Squadron (L’ultima squadriglia), di G. Archainbaud (1932), 45.

The Merry Widow (La vedova allegra), di E. Lubitsch (1934), 68.

The Sign of the Cross (Il segno della Croce), di C.B. DeMille (1932), 128.

The Sky Hawk (Lotta d’aquile), di J.G. Blystone (1929), 45.

The Son of the Sheik (Il figlio dello sceicco), di G. Fitzmaurice (1926), 88 nt. 23, 90, 100, 106 fig. 3, 113.

The Ten Commandments (I Dieci Co-mandamenti), di C.B. DeMille (1923), 25, 125, 126, 127, 128, 129, 135, 136, 137.

The Ten Commandments (I Dieci Comandamenti), di C.B. DeMille (1956), 128.

The Thief of Bagdad (Il ladro di Bagdad), di R. Walsh (1924), 146.

Today We Live (Rivalità eroica), di H. Hawks (1933), 45.

Tovarich, di A. Litvak (1937), 206, 214.

Treno popolare, di R. Matarazzo (1933), 17.

Un pilota ritorna, di R. Rossellini (1942), 58.

Uomini e cieli, di F. De Robertis (1943), 58.

Vecchia guardia, di A. Blasetti (1934), 178 nt. 36

Velocità (Vitesse), di T. Cordero, E. Martina, P. Oriani (1930), 24, 40 e nt. 25, 41 e nt. 27, 42 e nt. 28, 43.

Vita futurista, di Arnaldo Ginna (1916), 33 nt. 10, 202, 205, 209.

Vormittagsspuk, di H. Richter (1928), 42.

Voyage au Congo, di A. Gide e M. Allegret (1928), 168.

Wings (Ali), di W.A. Wellman (1927), 45 e nt. 2.

Wings in the Dark (Ali nel buio), di J. Flood (1934), 45.

Zouzou (Zou-Zou), di M. Allegret (1934), 155 nt. 29.

Cinema

1 Jean-Luc Douin, Dizionario della censura nel cinema. Tutti i film tagliati dalle forbici del censore nella storia mondiale del grande schermo

2 Donà Massimo, Abitare la soglia. Cinema e filosofia3 angelo Moscariello, Breviario di estetica del cinema. Percorso teorico-critico

dentro il linguaggio filmico da Lumière al cinema digitale4 Dziga Vertov, L’occhio della rivoluzione. Scritti dal 1922 al 19425 Enrico Biasin, Giovanna Maina, Federico zecca (a cura di), Il porno espanso.

Dal cinema ai nuovi media6 Thomas E. Wartenberg, Pensare sullo schermo. Cinema come filosofia7 Roland quilliot, La filosofia di Woody Allen8 andrea Panzavolta, Lo spettacolo delle ombre. un itinerario tra cinema,

filosofia e letteratura9 Francesco Ceraolo, L’immagine cinematografica come forma della

mediazione. Conversazione con Vittorio Storaro10 Luca Taddio (a cura di), David Cronenberg. un metodo pericoloso11 andré Bazin, Jean Renoir12 andrea Rabbito, Il cinema È sogno. Le nuove immagini e i principi della

modernità13 alessandra Spadino, Pasolini e il cinema ‘inconsumabile’ una prospettiva

critica della modernità