IL SASSO DEL REGIO

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IL SASSO DEL REGIO ( Questo articolo è pubblicato nella rivista dell’Università di Firenze, "Memorie Valdarnesi" 2006) Il reperto Che a culti pagani si siano sovrapposti nel corso dei secoli culti cristiani è un fatto consolidato per quanto concerne molti luoghi sacri delle nostre campagne, trovarne l’evidenza tangibile è tuttavia sempre una sorpresa; quando poi emergono prove che residui del culto pagano palesemente perdurano evolvendosi a fianco del culto cristiano fino ai nostri giorni, la cosa diventa davvero interessante e degna di esame. Il “Sasso del Regio” scoperto di recente a Stia, in Casentino, rappresenta qualcosa che va ben oltre tutto ciò e ben oltre ogni possibilità di piena comprensione. Vi sono in Casentino, quattro santuari dedicati alla Madonna sui siti di altrettante teofanie manifestatesi fra il XIV e il XV secolo ed è chiaro che questi "interventi della Madonna" abbiano avuto luogo al fine di por termine ad un persistente culto popolare pagano. In una località presso il Santuario della Madonna delle Grazie, nel Comune di Stia in provincia di Arezzo, sul pendio sud occidentale del Monte Falterona, abbiamo riscontrato, su segnalazione del proprietario del terreno, l’esistenza di un manufatto consistente in elaborate figurazioni incise su una superficie verticale di pietra arenaria. La parete, perfettamente orientata verso ovest, appartiene ad un masso erratico spaccato da un grosso rovere cresciuto da inseminazione spontanea in un suo anfratto, non meno 50 anno or sono. La complessa raffigurazione, di circa 130 cm di altezza, è dominata da ciò che sembra a prima vista un “albero della vita” fruttifero che si ramifica dai due fianchi di una collinetta sul culmine della quale si erge un fallo. Dal basso verso l’alto, si trova, in continuità col fallo, una vulva e sopra di essa una nicchia a doppia profondità con base orizzontale e volta a tutto tondo. I rami fruttiferi dell’albero, cinque su ogni lato, terminano al di sopra della nicchia. Sul lato sinistro di chi guarda, in basso sulla stessa parete rocciosa, si trova la figura stilizzata di un orante. La raffigurazione fin qui descritta pare appartenere ad un’unica epoca ed essere eseguita dalla stessa mano. In alto, separata, ma facente parte di questa composizione, si trova, al centro della superficie in oggetto, una testa circolare rudimentale mostruosa, avente occhi e naso incavati e bocca con espressione triste. Dalla testa si leva una croce, forse incisa in epoca posteriore. Sui due lati della testa sono incise due figure antropomorfe, a destra una figura elementare, con testa, torso e gambe e sinistra la stessa con pancia prominente. Potrebbe trattarsi di una figura femminile rappresentata prima e dopo la fecondazione. Sul culmine del sasso, in corrispondenza con la croce, si trova una cavità naturale poi aggiustata a formare un piccolo bacino della capacità di circa 200 cl. Nel terreno circostante si nota la presenza, sia pure sporadica, di frammenti di laterizi romani e di recipienti di terracotta rossa. La roccia è situata sul dorso di un contrafforte della collina sovrastante circa 70m l’ex casa colonica del podere Docciolina, che si trova a qualche centinaio di metri a sud del Santuario della Madonna delle Grazie per chi proviene da Stia. La strada che da Stia raggiunge il santuario transitava un tempo di fronte alla stessa casa colonica, mentre oggi transita alcune decine metri più in basso. L’antica strada, oggi non più percorribile nel tratto fra la casa e il santuario, risale forse al XV-XVI secolo, epoca in cui fu edificato lo stesso santuario. La data di costruzione del muro a retta che sostiene la strada stessa e del muro di terrazzamento che sostiene il terreno al di sopra di essa, è abbastanza facilmente arguibile. Lungo la

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IL SASSO DEL REGIO

( Questo articolo è pubblicato nella rivista dell’Università di Firenze, "Memorie Valdarnesi" 2006)

Il reperto

Che a culti pagani si siano sovrapposti nel corso dei secoli culti cristiani è un fatto consolidato per quanto

concerne molti luoghi sacri delle nostre campagne, trovarne l’evidenza tangibile è tuttavia sempre una

sorpresa; quando poi emergono prove che residui del culto pagano palesemente perdurano evolvendosi

a fianco del culto cristiano fino ai nostri giorni, la cosa diventa davvero interessante e degna di esame. Il

“Sasso del Regio” scoperto di recente a Stia, in Casentino, rappresenta qualcosa che va ben oltre tutto ciò

e ben oltre ogni possibilità di piena comprensione. Vi sono in Casentino, quattro santuari dedicati alla

Madonna sui siti di altrettante teofanie manifestatesi fra il XIV e il XV secolo ed è chiaro che questi

"interventi della Madonna" abbiano avuto luogo al fine di por termine ad un persistente culto popolare

pagano.

In una località presso il Santuario della Madonna delle Grazie, nel Comune di Stia in provincia di Arezzo,

sul pendio sud occidentale del Monte Falterona, abbiamo riscontrato, su segnalazione del proprietario

del terreno, l’esistenza di un manufatto consistente in elaborate figurazioni incise su una superficie

verticale di pietra arenaria. La parete, perfettamente orientata verso ovest, appartiene ad un

masso erratico spaccato da un grosso rovere cresciuto da inseminazione spontanea in un suo anfratto,

non meno 50 anno or sono.

La complessa raffigurazione, di circa 130 cm di altezza, è dominata da ciò che sembra a prima vista un

“albero della vita” fruttifero che si ramifica dai due fianchi di una collinetta sul culmine della quale si erge

un fallo. Dal basso verso l’alto, si trova, in continuità col fallo, una vulva e sopra di essa una nicchia a

doppia profondità con base orizzontale e volta a tutto tondo. I rami fruttiferi dell’albero, cinque su ogni

lato, terminano al di sopra della nicchia. Sul lato sinistro di chi guarda, in basso sulla stessa parete

rocciosa, si trova la figura stilizzata di un orante. La raffigurazione fin qui descritta pare appartenere ad

un’unica epoca ed essere eseguita dalla stessa mano.

In alto, separata, ma facente parte di questa composizione, si trova, al centro della superficie in oggetto,

una testa circolare rudimentale mostruosa, avente occhi e naso incavati e bocca con espressione triste.

Dalla testa si leva una croce, forse incisa in epoca posteriore. Sui due lati della testa sono incise due

figure antropomorfe, a destra una figura elementare, con testa, torso e gambe e sinistra la stessa con

pancia prominente. Potrebbe trattarsi di una figura femminile rappresentata prima e dopo la

fecondazione. Sul culmine del sasso, in corrispondenza con la croce, si trova una cavità naturale poi

aggiustata a formare un piccolo bacino della capacità di circa 200 cl. Nel terreno circostante si nota la

presenza, sia pure sporadica, di frammenti di laterizi romani e di recipienti di terracotta rossa.

La roccia è situata sul dorso di un contrafforte della collina sovrastante circa 70m l’ex casa colonica del

podere Docciolina, che si trova a qualche centinaio di metri a sud del Santuario della Madonna delle

Grazie per chi proviene da Stia. La strada che da Stia raggiunge il santuario transitava un tempo di fronte

alla stessa casa colonica, mentre oggi transita alcune decine metri più in basso. L’antica strada, oggi non

più percorribile nel tratto fra la casa e il santuario, risale forse al XV-XVI secolo, epoca in cui fu edificato

lo stesso santuario. La data di costruzione del muro a retta che sostiene la strada stessa e del muro di

terrazzamento che sostiene il terreno al di sopra di essa, è abbastanza facilmente arguibile. Lungo la

strada, ad intervalli regolari, si trovavano dei "monti domini", oggi rimossi e giacenti qua e là, che un

tempo portavano croci di legno.

Al piano terra della casa, al livello della strada, si trovano due stanze oggi adibite ad uso di cantina e

magazzino, entro quella di destra, sulla parete dalla parte del pendio collinare, vi è una profonda nicchia,

dalla quale sgorga dell’acqua che forma una concrezione calcarea biancastra. Osservando il piano terra

delle suddette stanze si nota che in origine la nicchia con la sorgente si trovava al centro di un ambiente

dal pavimento ben lastricato, oggi diviso fra i due vani, contenente al centro una vasca quadrangolare

nella quale probabilmente si riversava, mediante un canale ben visibile, l’acqua della fonte.

Il proprietario riferisce che alcuni anziani, ex contadini del circondario, asseriscono che la roccia col

manufatto era un tempo nota col nome di "Sasso del Règio" e che rappresenta “un santo eremita” o “un

frate”, mentre la fonte all’interno della casa era ritenuta miracolosa essendo "frequentata soprattutto

da donne" sino ad epoca recente "che con l’acqua si medicavano gli occhi". Il luogo era anche meta di

una processione religiosa, che aveva luogo durante le “erogazioni”, proveniente dal vicino Santuario

della Madonna delle Grazie.

La tipologia di questo manufatto, se pure unico nel suo genere, lo farebbe ascrivere ad un contesto non

cristiano e lo identificherebbe come “apparato liturgico” per officiare un rito legato al culto della

fecondità. E’ altresì possibile che la frequentazione ed il culto si siano protratti fino all’era moderna e che

perciò il manufatto si è conservato. Vi sono chiari indizi che testimoniano il protrarsi della frequentazione

del Sasso fino a circa trenta anni fa da parte delle popolazione locale, che in certe occasioni qui si riuniva

per officiare delle “messe nere”, come riferiscono oggi diversi testimoni oculari.

Non esistono, a nostro parere e neanche a parere di vari esperti di arte rupestre convocati sul posto,

raffigurazioni analoghe a quella del “Sasso del Regio” altrove. Tuttavia, sempre in Toscana, si trova a

Massa Marittima l’affresco delle “Fonti dell’Abbondanza”. E’ questa un’opera pittorica “colta”, cioè non

ascrivibile all’arte popolare, risalente al XIII secolo ma che esplicitamente fa riferimento agli stessi

elementi simbolici per alludere al concetto di fertilità : albero fruttifero, acqua, attributi sessuali.

Il contesto archeologico del Sasso del Regio è ricco e complesso e da quindi adito a varie e anche

contrastanti interpretazioni. Sul fianco sud occidentale del Monte Falterona (1658m), ossia sul costone

che precipita verso l’Arno a sud e ad ovest del Poggio Castellare (977m), si trovano numerose rovine di

abitazioni di epoca tardo romana e barbarica, sottoposte ad indagine archeologica ormai da un decennio.

Gli scavi di 5-6 delle numerosissime abitazioni, hanno rivelato edifici monolocali con fondazioni di

pietrame, elevati in terra battuta e copertura a tegole ed embrici ad incastro. Le case erano con tutta

probabilità abitate da pastori che coltivavano anche qualche varietà di cereali. A fianco di ognuna delle

costruzioni, disposte caoticamente e distanti una decina di metri l’una dall’altra, vi era una capanna di

frasche e legname.

I reperti mobili rinvenuti dagli archeologi consistono in ceramiche di impasto, ‘dolia’ ed anfore, attrezzi

agricoli analoghi a quelli ancora in uso alcuni anni or sono nella stessa zona e monete datate dal III secolo

d.C. inoltrato al VI. La toponomastica della zona conserva un idronimo greco nel torrente adiacente al

monumento (fosso della Basèlica) e un toponimo derivante dalla stessa radice (Basèrca) si trova poco

oltre, nella valle del torrente Staggia. (G.A.C. (ed) –1990)

Sulla sommità del Poggio Castellare, una prominenza del costone del Falterona che scende sino al

castello guidigno di Porciano, vi sono tracce di costruzioni non ancora indagate al momento della stesura

di questo articolo. Il monumento in questione ed il suo contesto geografico, attendono un accurata

indagine archeologica. Nel frattempo un sollecito intervento conservativo e di tutela si rende

assolutamente indispensabile soprattutto per frenare il rapido degrado già in atto.

Paganesimo, magia, superstizione

Non vi è motivo di ritenere un falso l’opera di Charles Godfrey Leland che testimonia la sopravivenza del

paganesimo etrusco-romano nell’Appennino tosco-romagnolo fino alla fine del XIX secolo (Leland C.G.,

1898). E’ quindi opportuno esaminare il soggetto in rapporto a ciò che oggi riscontriamo nella stessa zona

ed in particolare in relazione al ritrovamento di cui sopra. Il Leland (1824-1903), storico delle religioni e

Presidente della Gypsy-Lore Society di Londra, recuperò, sul finire dell’800, nell’Appennino a cavallo fra

Romagna e Toscana, uno straordinario retaggio di elementi del paganesimo etrusco-romano,

inspiegabilmente sopravvissuto nella tradizione popolare di quella zona.

Il fatto è straordinario, non si tratta infatti di regioni remote e marginali della nostra penisola, bensì del

cuore della campagna italiana più evoluta e ricca. E’ evidente, come appare attraverso il rigoroso ed

ineccepibile lavoro del Leland, che nella Romagna toscana e nelle aree limitrofe delle province di Firenze

e Arezzo, la “vecchia religione” era sopravvissuta intatta sino ai giorni nostri, a fianco di quella cristiana,

relegata de factoin secondo piano e a lato delle superstizioni notoriamente presenti nella cultura

popolare. Queste credenze e pratiche segrete registrate quando erano ancora vive e diffuse e se pur

taciute, note a molti, testimoniano la sopravvivenza, nel centro più civile dell’Italia cristiana, non solo di

una forte fede in antiche divinità, spiriti, elfi, streghe, incantesimi, sortilegi, profezie, pratiche mediche

‘alternative’, amuleti, ma addirittura del paganesimo classico.

E’, quello miracolosamente tramandatoci dal Leland, un mondo spirituale parallelo, celato o negato da

benpensanti, che ben lo conoscevano e dal quale traevano forse motivo d’imbarazzo. Una cosa è, infatti,

accettare l’esistenza di stregonerie e superstizioni, peraltro condannate anche in epoca romana, ben

altra cosa è venire a patti con la sopravvivenza del paganesimo tout court. L’autore descrive

puntualmente, documentandola con metodo rigorosamente scientifico, questa civiltà territoriale che

sarebbe altrimenti rimasta ignota, come l’esistenza di libri etruschi, senza lasciar traccia, fornendo una

mole di informazioni essenziali per una sua accurata verifica.

E’ interessante notare che il confine naturale fra Romagna e Toscana, ossia il crinale appenninico, che è

stato confine politico soltanto fra il VI e l’VIII secolo d. C., costituisce uno dei più drastici confini linguistici

d’Europa. La catena appenninica che divide le due regioni non costituisce un baluardo naturale tale da

giustificare la cesura linguistica che invece vi si osserva. Né le Alpi, né i Pirenei e nemmeno il Caucaso o il

Pamir, hanno confini linguistici lungo i loro spartiacque. E’ solo in epoca moderna che questi sono venuti

sempre più a coincidere con gli spartiacque laddove essi sono divenuti confini politici invalicabili. Come

spiegare il fenomeno tosco-romagnolo?

Il dialetto romagnolo appartiene all’area linguistica franco-provenzale ed ha il suo confine

meridionale sul versante adriatico con il fiume Cesano, in provincia di Pesaro. Quest’area linguistica,

come tutte le altre dell’Italia attuale, è residua di una distribuzione precedente l’unificazione romana

della penisola, anche se è improbabile che questa coincida con esattezza con quella di duemila anni fa. Il

dialetto romagnolo e i vernacoli dell’area limitrofa della Toscana, sono incompatibili ed incomprensibili

l’uno all’altro. I vernacoli del versante toscano hanno un preciso e netto confine solo lungo il crinale

appenninico fra Pistoia e Cagli, essi sfumano, infatti, gradualmente nel ligure-parmense, nell’umbro o nel

laziale altrove.

Il marcato confine linguistico fra Toscana e Romagna coincide col confine politico militare fra l’Italia

Longobarda e quella Bizantina, vale a dire fra la Tuscia e l’Esarcato di Ravenna, solo fra il VI e l’VIII secolo;

né prima, né dopo questa linea geografica costituì un confine politico rilevante. Sia in epoca etrusco-

romana sia in epoca medievale, la gente poteva oltrepassare questo crinale in tutta l’area sopra indicata,

senza remore di sorta. Resta da spiegare perché un simile divario linguistico non si riscontri invece su

confini politici presidiati per secoli da eserciti contrapposti.

Una spiegazione potrebbe trovarsi nel fenomeno della transumanza, così poco studiato nei suoi

effetti linguistici. Tutti i pastori della montagna romagnola, che dal Pistoiese al Montefeltro si recavano

in Maremma e parlavano il toscano fino all’epoca in cui chi scrive vi iniziò le proprie ricerche (1964-67).

Tutta questa area montana del versante adriatico, appartenuta politicamente a domini comitali a cavallo

dell’Appennino, quindi ai comuni di Pistoia, Firenze ed Arezzo fino da quando esistono documenti, era

bilingue. Il toscano era parlato dai pastori delle campagne e il romagnolo dagli abitanti dei borghi e delle

cittadine. Con l’andare del tempo, e con l’evoluzione economica che ha portato ad estendere l’area della

coltivazione del grano sempre più in alto, causando il restringimento o la scomparsa dei pascoli, il

romagnolo è risalito fino allo spartiacque.

Tuttavia rimane da risolvere il dilemma che tradizioni pagane, etrusche e romane – e non semplici

superstizioni e stregonerie - siano sopravvissute in maniera così evidente, non solo e non tanto in Etruria

propria, ossia sul versante toscano, ma su quello romagnolo, che oltre ad essere area linguistica “gallica”,

ha subito traumatici sovvertimenti genetici e culturali a seguito delle invasioni barbariche e di consistenti

immigrazioni levantine. Mi pare di poter ritenere che queste tradizioni sia esistite soprattutto

nell’ambito culturale della transumanza e quindi nell’ambito culturale e linguistico toscano, intatto

all’epoca del Leland e oggi stravolto.

Sul versante toscano e in particolar modo in Casentino, la stragrande maggioranza dei toponimi appare

rimasta inalterata dal 1000-1200 a.C. fino ad oggi. Si badi bene, ciò denota una continuità culturale, non

genetica. La sostituzione genetica accertata nel Casentino come altrove a causa dello spopolamento

dovuto in primo luogo alle Guerre Gotiche, poi ad epidemie e quindi da forti immigrazioni, non ebbe

luogo, evidentemente, in modo traumatico, ma graduale. La sostituzione genetica deve essersi compiuta

nell’arco di alcuni secoli, consentendo la trasmissione dei toponimi e di altri tratti culturali dagli indigeni

agli immigrati. Tale fenomeno è in atto oggi con l’immigrazione di africani, albanesi, rumeni, polacchi ecc.

i cui figli, anche se nati nei paesi di origine parlano perfettamente il vernacolo locale. Una così densa

concentrazione di toponimi preistorici come si riscontra nel Casentino non ha eguale in altre parti

d’Europa. Ciò mette ancor più in risalto la totale assenza di tali toponimi sul versante romagnolo. Qui

solo Cesena e Ravenna hanno toponimi preromani certi.

Se tutto ciò fosse vero sarebbe risolto il mistero di come tracce di paganesimo etrusco-romano si siano

potute conservare fino alla fine del XIX secolo proprio in Romagna, dove già nel VI secolo la popolazione

latina era ridotta al 50%, col 40% di Levantini (greci siriaci, armeni, ebrei, egiziani, ecc.) e il 10% di Goti (A.

Pertusi, 1963). Nel Casentino e in Mugello, dove la sostituzione genetica si realizzò con modalità diverse e

culturalmente non traumatiche. Comunque sia, questa è solo una delle possibili spiegazioni di questo

fenomeno antropologico di straordinaria singolarità che caratterizza l’area della ricerca del Leland.

Dall’opera stessa del Leland traspare, a vari livelli d’interpretazione, l’autenticità assoluta del lavoro. Nel

testo dell’antropologo americano, analogamente a quanto accade in altri anche moderni che trattano la

stessa tematica, si trovano costrutti quali “paganesimo”, “vecchia religione”, “stregoneria”, “magia” e

simili, che rischiano di causare, nella mente del lettore non specialista, una gran confusione fra concetti e

significati spesso radicalmente diversi. Occorre chiarire che anche la religione pagana condannava la

“stregoneria” –vi sono documenti relativi a streghe date al rogo in autori classici- ed è quindi erroneo

riferirsi alla stregoneria come “vecchia religione”, intendendo con ciò il “paganesimo” classico. (R. Lane

Fox, 1986). La stregoneria era probabilmente ritenuta “vecchia religione” persino dai Romani e dai Greci

che la sanzionavano con leggi severe. Un conto è quindi la credenza in divinità e spiriti del pantheon

pagano classico, ben altra cosa sono invece la magia e la stregoneria, che derivano da tradizioni

preistoriche antichissime o, come vedremo nel caso specifico del Sasso del Regio, alla presenza di

popolazioni indoeuropee pagane.

Superstizione, in latino ‘superstitio-onis’, deriva da ‘superstare’ o “star sopra”; il lemma indicava

originariamente una cosa che è ‘al di sopra della realtà terrena’, piuttosto che un’aberrazione della

religione come nel suo significato moderno. La superstizione è al di sopra ed è quindi inaccessibile;

l’etimologia stessa del termine ne spiega quindi il concetto. La pratica della magia, invece, si perde nella

notte del Paleolitico ed è basata su due principi essenziali. Il primo principio consiste nel credere che una

cosa ne produca una eguale, ossia, che l’effetto somigli alla sua causa; il secondo nel credere che due

cose che sono state legate, continuino ad influenzarsi a vicenda dopo essere state separate. Il primo

principio è definito “Legge della Similarità”, mentre il secondo “Legge del Contatto o Contagio”. Secondo

la Legge della Similarità, il ‘mago’ assume di poter produrre qualsiasi effetto desiderato, imitandolo,

mentre secondo la Legge del Contatto egli ritiene che una azione prodotta su di un oggetto avrà

ripercussioni sulla persona alla quale l’oggetto appartiene o che con tale oggetto ha avuto contatto.( J. G.

Frazer, III, 1, 1922)

Il Lavoro del Leland tratta queste materie, senza tuttavia fare le dovute distinzioni che invece il lettore

moderno dovrà fare, per non cadere nell’errore di far di tutta l’erba un fascio. Il complesso dei graffiti del

“Sasso del Regio” la cui esecuzione inizia con tutta probabilità nella preistoria, esprime a nostro avviso

ambedue le tradizioni, quella pagana di ambito greco-romano e quella della stregoneria di ambito

indoeuropeo. Tuttavia, l’impostazione iconografica così come appare oggi, mostra analogie con la

Kabbalah in versione cristiana, o ermetica, facendo sospettare il sovrapporsi di un intervento, forse

anche recente, da parte di intellettuali appartenenti alla tradizione cabalistica cristiana del circolo

mediceo fiorentino oppure di illuministi o rosicruciani dell’800 o del ‘900.(A.C. Ambesi,1990)

Modalità dell’affermazione del Cristianesimo

Come scrive J.A.F.Thomson, (1998) “Mentre i luoghi sacri del paganesimo diventavano tabernacoli di

santi e martiri, le autorità ecclesiastiche esercitavano il controllo su di essi e sui riti che vi si

svolgevano”. Sulpicio Severo riporta che perfino San Martino di Tours era scettico sul fatto che sotto i

templi cristiani dedicati ai martiri si trovassero davvero le loro ossa; quando scoprì che sotto un altare

era sepolto un brigante, subito fece distruggere l’altare. Il paganesimo fu bandito da Teodosio I (379-395)

che dichiarò la religione cristiana unica religione dell’Impero. Tuttavia è giusto chiederci fino a che punto

il popolo minuto -delle città come delle campagne- fosse realmente cristianizzato nel IV secolo. E’ chiaro

che nella maggior parte dei casi la gente accettava i riti e le formule della Chiesa come supplementi delle

loro reali credenze, primo perché era obbligata ad accettare il cristianesimo per legge, secondo perché la

sua cultura era politeistica (J.A.F.Thomson, 1998). I primi cristiani furono infatti ebrei e appartenenti ad

altre religioni monoteiste, come il buddismo e il mazdaismo. Nelle città, in virtù del fatto che la

stragrande maggioranza della popolazione era di origini levantine, il Cristianesimo attecchì presto e senza

problemi (J. M. H. Smith, 2005).

I Goti che invasero l’Italia provenivano dai Balcani, i loro leader erano di lingua greca e di fede Ariana, ma

è naturale che fra le loro masse multi-etniche predominasse il paganesimo di radice indoeuropea. Il

Concilio di Nicea (324) condannò l’arianesimo e stabilì che il Padre e il Figlio avevano la stessa, e unica,

sostanza; il Concilio di Calcedonia (451) affermò invece la dottrina della doppia natura – umana e divina -

in Cristo. Tuttavia rimasero radicate altre credenze come, appunto, quella degli Ariani che riteneva il

Figlio di sostanza simile ma non identica a quella Padre. Nel regno barbarico che emerse in Italia dalle

rovine dell’Impero, convissero le due credenze, quella ariana e quella ‘ortodossa’ del Concilio di Nicea.

Il primo sovrano d’Europa, il franco Clodoveo, abbracciò l’ortodossia, mentre la maggior parte dei sovrani

germanici rimaneva ariana; tuttavia le due versioni del Cristianesimo si tollerarono reciprocamente. Gli

Ostrogoti ed i Longobardi erano di fede ariana, Teodorico scoraggiò le conversioni proprio per mantenere

chiara la divisione ‘etnica’ fra Romani e Germani. Il Cristianesimo ortodosso era infatti diffuso solo fra i

Levantini che in prevalenza –con l’eccezione del Ravennate dove immigrati ebrei convertiti al

cristianesimo divennero anche contadini- risiedevano nelle città (A.

Guillou, XVIII Convegno di Studi Romagnoli, Cattolica, 1967). Prima di aderire all’Arianesimo, i popoli

germano-iranici (Sarmati e Germani orientali) erano in prevalenza adoratori di Ahura Mazda e fu solo nel

III secolo che essi decisero di abbandonare Mithra e di abbracciare il cristianesimo ariano, che dal

mithraismo ereditò la liturgia e spesso anche i templi del culto, evento simbolizzato nell’arte dalla

comparsa dei Magi – i sacerdoti di Mitra- nell’iconografia cristiana. I mitrei diventano le prime chiese

cristiane, ovvero le ‘cripte’ sulle quali sorgeranno le chiese posteriori.

Costantino (IV sec.) si rivolge spesso agli aruspici etruschi per interpretare i segni premonitori, come

avevano sempre fatto i cesari. Nelle sue dichiarazioni pubbliche egli non fa mai riferimento ad alcuna

divinità soprattutto allo scopo di non offendere i monoteisti che a Roma erano di certo la maggioranza.

Impiegando gli aruspici - è evidente- Costantino non offendeva alcuno. Il riferimento agli aruspici nelle

cronache costantiniane ci dimostra non solo la loro attività nei secoli IV e V, ma induce a ritenere che,

nelle regioni più remote e appartate d’Italia, come ad esempio in Casentino, la loro sopravvivenza si sia

protratta ancor più a lungo.

Ciò che fa supporre che i numerosissimi toponimi etruschi e pre-etruschi del Casentino siano stati

trasmessi ai Longobardi da una popolazione rurale di lingua etrusca, sono i fatti a cui ci troviamo di

fronte. Uno di questi fatti è l’apparente mancanza di una fase latina nell’evoluzione del vernacolo

casentinese, rilevata da numerosi linguisti, l’altro è il numero stesso dei toponimi pre-latini in Casentino,

numerosissimi nonostante essi siano sicuramente dimezzati dall’epoca longobarda. Mentre i rarissimi

toponimi etruschi in altre province toscane possono essere stati tramandati dalla tradizione latina fino

all’epoca in cui si stipulano i primi atti notarili, è assai improbabile che ciò sia accaduto nel Casentino

dove praticamente ogni toponimo di insediamento antico era -e spesso è tuttora- etrusco nella

stragrande maggioranza dei casi.

Nel Casentino devono essere stati anzitutto le istituzioni monastiche a diffondere il cristianesimo. Come

accadeva in altre parti d’Italia e dell’Impero, monaci e asceti cristiani si offrivano come paradigmi (W. H.

C. Frend, 1967). Vi sono buone ragioni per giustificare l’istituzione, fra il X e il XII secolo, di case comuni

come quelle di Selvamonda, Tega, Santa Trinita in Alpe, Camaldoli, Capo d’Arno, Cetica, ecc., nei più

remoti recessi della valle, tutte queste case comuni nascono presso fonti sacre, o “benedette”. Qualche

secolo più tardi San Francesco viene chiamato ad estirpare il “male” dall’orrido nascondiglio della dea

Laverna, come vedremo più avanti, mentre più tardi ancora, fra XIV e XV secolo, quattro teofanie

mariane tenteranno di estirpare il male da altrettanti luoghi di culto pagano frequentati dalla

popolazione casentinese. Come scrive il Thomson, il successo di queste misure adottate dalla Chiesa per

sradicare credenze e pratiche spesso millenarie è assai dubbio.

Nel paganesimo tardo indoeuropeo molte pratiche sono legate all’avvicendarsi delle stagioni e

soprattutto centrate attorno a riti concernenti la fertilità e la buona riuscita dei raccolti (Thomson. 1998,

1-10). I concili delle Gallie e dell’Iberia del VI e VII secolo denunciano il persistere di culti antichi attorno

ad alberi e a fonti sacre. Nel 693 il re visigoto, Egica ordina ai vescovi di disciplinare i contadini che fanno

offerte sacrificali agli idoli e di consegnare tali offerte alla chiesa più vicina. Vengono inoltre prese severe

misure contro coloro che adorano sassi, fonti ed alberi (Thomson, 1998, 1-11). Ancora più tardi i codici di

Liutprando (727) e di Carlomagno, contemplano pene severe per coloro che adorano fonti ed alberi

(Thomson, 1998, 1-13). Da Bede apprendiamo che Gregorio Magno consiglia Sant’Agostino di

Canterbury di convertire i templi adattandoli al culto cristiano. Fu il suo successore Bonifacio IV a

trasformare il Pantheon di Roma in chiesa cristiana. All’inizio del X secolo, come riportano fonti

agiografiche, i Baschi erano ancora pagani. (Thomson, 1998, 1-17)

Il metodo adottato dagli evangelizzatori e dai missionari del primo medioevo era quello della

conversione dall’alto al basso nella scala sociale e non viceversa. I predicatori del medioevo ottenevano

anzitutto il consenso dei governanti, dei signori locali, convertendo anzitutto loro, poi seguivano

battesimi di massa coinvolgenti l’intera popolazione di una “curtis”. San Colombano di Bobbio,

accingendosi nel 590, a diffondere il monachesimo irlandese nell’Europa franca non si appellò alle

autorità ecclesiastiche della Gallia, bensì ai re franchi. Nel cristianesimo primitivo il battesimo di un

individuo segnava invece la conclusione di un lungo periodo di istruzione. Non deve sorprenderci se le

conversioni del medioevo non riuscirono a sradicare le tradizioni pagane, perciò la Chiesa dovette

consentirne il sincretismo oppure sradicare il paganesimo con la forza.

Poiché il mondo indoeuropeo era politeista, il problema dell’evangelizzatore non era quello di far

accogliere il Cristo -dal momento che un politeista accetta con facilità un nuovo dio- ma quello di far

accettare l’idea di un solo dio “che reclamava il monopolio della verità” (Thomson, 1998) e che tacciava

ogni altra divinità, fin ora adorata e venerata, insignificante o demoniaca. Il re sassone Redwald dell’East

Anglia eresse un altare a Cristo nel tempio dove erano venerati altri dei (Thomson, 1998, 1-18). Un

libretto di penitenze del VII secolo dell’Arcivescovo Teodoro di Canterbury, proibisce l’assunzione di carni

di animali “sacrificati ai demoni” e di “fare incantesimi con l’aiuto degli àuguri”(Thomson, 1998, 1-23).

Dal tardo VIII secolo in poi, orde asiatiche pagane si riversarono di nuovo sull’Europa, fra queste vi erano

gli Eruli di Scandinavia, che verranno chiamati“Vichinghi”, gli Slavi, i Bulgari, gli Ungari, ma tutti questi

popoli si convertirono abbastanza rapidamente.

Verso l’inizio del XII secolo il paganesimo nell’Europa occidentale era ormai relegato underground. Ad

est, costretta com’era fra la Polonia cattolica e la Russia bizantina, la Lituania rimaneva saldamente

attaccata al paganesimo che andò underground solo nel XV secolo inoltrato. Nel resto d’Europa, solo un

gruppo minoritario assai disperso, quello degli Ebrei, rimaneva fuori dalla Chiesa. Nonostante l’accusa

ufficiale di essere responsabili della morte di Cristo, gli Ebrei sopravvivevano ma solo laddove essi

promettevano di non cercare di far proseliti o di tenere schiavi cristiani. La maggior parte di essi

gettarono la spugna e si convertirono. L’antisemitismo era, allora come oggi, istigato dall’ordine

costituito, piuttosto che dal sentimento popolare e perciò molti ebrei non avevano la convinzione,

l’energia o le risorse per una perenne lotta senza quartiere.

L’albero, il sasso, la fonte, l’eremita e il monaco

Alla Docciolina c’è l’albero, c’è il sasso e c’è la fonte. Naturalmente il sasso e la fonte sono lì da secoli

mentre l’albero ha si e no 40 anni, tuttavia è assai probabile che in passato un venerando albero abbia

adombrato sia il sasso sia il pellegrino che vi giungeva per devozione.

Il Sasso viene da alcuni definito come “immagine di un eremita”. Ma perché un eremita o la sua

immagine dovrebbero diventare oggetto di culto e venerazione? La spiegazione sta nel fatto che la

devozione mutò la sua natura quando la costante minaccia di persecuzione diminuì e quindi scomparve.

L’ascesi sostituì il martirio come il più alto ideale a cui il cristiano potesse aspirare.

All’inizio del III secolo, Clemente di Alessandria, è il primo fra i Padri della Chiesa a porre sullo stesso

piano il martire e l’asceta. Durante le due generazioni fra il 260 e il 324 l’ascesi si diffonde come modo

prevalente di esprimere la pietà cristiana. Per il Casentino occorre ricordare Illaro, nato in questa valle

verso il 476, che lasciò memoria di sé a Sant’Ellero di Reggello, castello guidigno. L’ascesi è di origine

induista e fino al XVI secolo inoltrato gli Indù sono ritenuti cristiani, come si apprende persino dagli scritti

di Vasco da Gama e di altri viaggiatori portoghesi dell’epoca. Dal monaco palestinese Pseudo Palladio

(343-430) abbiamo resoconti di prima mano concernenti i contatti fra il Levante e il Gange. Su tutta

questa immensa regione si parlava l’aramaico dal III secolo a.C. mentre il greco vi era conosciuto fino dal

IV secolo. Sull’esempio buddista e induista, incominciano a formarsi comunità religiose di cristiani

Levantini che si ritirano dal mondo, concentrando la loro attenzione su questioni divine, liberi dalle

distrazioni della vita quotidiana.

Nel terzo secolo già esistevano fra i cristiani “famiglie” o congregazioni di asceti formate da uomini o

donne celibi e nubili. Panfilo di Cesarea presiede su una confraternita di celibi dediti all’apprendimento

delle cose sacre. Queste “famiglie” di celibi erano numerose in tutta l’Anatolia. Nel Simposio di Metodio,

modellato sull’opera di Platone, undici donne si uniscono in conversazioni che esaltano la castità, ma che

hanno il vero intento di fornire una “regola” o manuale di dottrina per comunità di asceti di sesso

femminile. La comunità di Metodio gode del patronato di una ricca fondatrice e si trova sulle sue terre.

Questo monachesimo rappresenta la diretta continuità di quello ebraico dei cosiddetti “Therapeutae” del

I secolo i cui aderenti erano considerati cristiani dai cristiani stessi. Il monachesimo più antico ha infatti le

sue radici in quello ebraico la cui tradizione, conservatasi nei secoli in Mesopotamia, fu reintrodotta in

Siria in Palestina e in Egitto da missionari manichei (McNeill, W.H. 1963). Sant’Agostino era appunto uno

di questi manichei, la sua “Regola” porta con se le tracce evidenti di una lontana provenienza: il

monachesimo buddista. (S. Agostino, “La regola”)

Dal IV secolo d.C. in poi ha luogo una consistente immigrazione di Levantini ebrei, siriaci, armeni, egizi,

greci e iranici in particolar modo verso Ravenna e la Romagna. Molti ebrei diventano infatti contadini

dell’esarcato e sono antenati dei romagnoli di oggi (A. Pertusi, 1963). E’ probabile che alla Docciolina sia

anche vissuto, in antica epoca cristiana, una venerabile asceta forse proveniente dalla Romagna.

Laverna

"Pulchra Laverna, da mihi fallere, da iusto sanctoque videri, noctem peccatis et fraudibus obice

nubem". ( Orazio, “Lettere” XVI – 60)

"No est in toto sanctior orbe mons" (Non vi è monte più santo al mondo) Scritto su una lapide presso

l'ingresso a la Verna.

Non esisto ad associare La Verna del Casentino alla divinità romano-italicaLaverna, risultando ciò palese

sia dalla derivazione del nome, sia dal fatto che le notizie tramandate dalla tradizione popolare

concernenti la persistenza del culto di Laverna, provengono dall'Appennino tosco-romagnolo e da Firenze

e provincia, dove operavano, fino ai primi decenni del XX secolo, “streghe e stregoni” romagnoli.

La montagna della Verna è un enorme monolite di roccia sedimentaria miocenica 'alloctona' (nel caso

specifico pare proveniente dall'Appennino ligure) che poggia su arenarie e crete di epoca posteriore,

costituendo un punto di riferimento assai ben visibile da grande distanza sia dal Casentino sia dalla

Valtiberina. Vista da Bibbiena o da Poppi la forma della montagna è, in effetti, vagamente riconducibile a

quella di una figura umana sdraiata, priva di testa, della quale La Penna è la spalla, e su cui il monastero

si erge all'altezza del pube. E' del tutto probabile che così abbiano interpretato la montagna le

popolazioni antiche del Casentino, poiché rientrava nel loro modo di percepire il leggere lineamenti

antropomorfi in formazioni naturali per ascriverle poi a manifestazioni di divinità ctonie (terrestri).

Laverna era infatti, nel Pantheon latino italico una variante dell' Ecate omerica. Chiusi della Verna era

con tutta probabilità una postazione doganale in epoca romana, quando numerose greggi provenienti dal

Montefeltro e dall'alta Valtiberina vi transitavano provenienti da Compito ('trivio') dove da generazioni si

rinvengono tombe a fossa con suppellettili di epoca etrusco-romana. E' plausibile che, come riportato

dalla tradizione, negli anfratti della Verna si nascondessero ladri e malfattori che prosperavano grazie al

traffico che si svolgeva lì attorno.

Nella primavera del 1213 Francesco e Frate Leone vagavano per il Montefeltro predicando e

benedicendo. In occasione di una festa locale, il Conte di Chiusi, Orlando Catani, volle fare al santo

un'offerta consona alla sua ricerca di solitudine. Si riporta che il conte si sia rivolto a Francesco in questi

termini: "Io ho in Toscana uno monte divotissimo il quale si chiama monte della Vernia, lo quale è molto

solitario e salvatico ed è troppo bene atto a chi volesse fare penitenza, in luogo rimosso dalla gente, o a

chi desidera fare vita solitaria. S'egli ti piacesse, volentieri Io ti donerei a te e a' tuoi compagni per salute

dell'anima mia." L'offerta piacque a Francesco, che inviò due suoi compagni a vedere questo monte.

Avuta conferma di quanto il conte diceva, accettò l'offerta con grande gioia.

La Verna fu donata a Francesco affinché egli sconfiggesse il "male" che vi si annidava e liberasse il luogo

dai pericoli, dalla paura, dal peccato e dal maligno. La zona era tanto temuta che …"il conte stesso volle

accompagnare insieme con 50 soldati per timore dei ladri e delle fiere che infestavano il bosco"…, come

recitava una iscrizione affissa presso la Cappella delle Stimmate.

Dice il Beni che nel fianco della parete rocciosa, verso la valle, "si celano all'occhio selvaggi dirupi, grotte

tenebrose, caverne inaccessibili, voragini profondissime". Lo stesso Beni scriveva che dal precipizio si

entrava "in una tortuosa galleria della quale a suo tempo nessuno conosceva l'estensione, la direzione o

la profondità. Alcuni frati tentarono di esplorare questo luogo, ma arrivati ad un certo punto stimarono

cosa prudente tornarsene indietro".(C. Beni, 1881)

Non a caso Francesco scelse il più profondo anfratto della montagna, il Sasso Spicco –che secondo la

configurazione antropomorfa della roccia corrisponde alla vagina della dea- come luogo di preghiera e

meditazione, per sgominare il maligno dall'interno. All'interno del Sasso Spicco si celavano

probabilmente quelle praticanti che operavano aborti e sostituzioni di neonati, di cui parla la tradizione

ottocentesca raccolta meticolosamente da G. C. Leland (1898). Se certi accostamenti anatomici

offendessero la sensibilità di alcuni fedeli, basterà che questi riflettano sui tempi a cui facciamo

riferimento e al fatto, comune in tutto il mondo cristiano, che laddove esisteva un luogo sacro pagano di

grande potere, il culto della Madonna vi si radicò con più determinazione e vigore che altrove, proprio

per sconfiggere il maligno. Se la Verna è oggi un luogo di pace, d'amore e di tranquillità, dedicato a Santa

Maria degli Angeli, è proprio in virtù dell'opera di San Francesco.

La Kabbalah Ermetica e il mistero svelato…almeno in parte

La similitudine formale fra il Sasso del Regio e l’Albero della Vita della Kabbalah appare troppo evidente

per essere relegata al livello di coincidenza.

La Kabbalah rappresenta un aspetto del misticismo giudaico. Essa comprende un vasto insieme di

speculazioni sulla natura del divino, sulla creazione, sul destino dell’anima e sul ruolo degli esseri umani.

La Kabbalah è un insieme di pratiche mistiche meditative devozionali e magiche, insegnate a pochi eletti

ed è per questo che la Kabbalah è considerata un aspetto esoterico del giudaismo. Sotto alcuni aspetti, la

Kabbalah è stata anche praticata o studiata, da centinaia di anni, dai cristiani. Il termine “Kabbalah”

significa “ricevere, accettare” ed è sinonimo di “tradizione”, vale a dire “ricevere o accettare la

tradizione”.

Il termine può essere scritto o pronunciato in numerosi modi: Qabalah, Cabala, Qaballah, Qabala, ciò è

dovuto a diverse interpretazioni e relative trascrizioni delle lettere ebraiche in lettere romane. Il modo

corretto di scrivere la parola è Kabbalah. Secondo la tradizione giudaica la Torah (la “Legge” ovvero i

primi 5 libri della Bibbia) esisteva prima della Creazione ed è un “manuale” che Dio impiega per operare,

ad esempio, la creazione dell’uomo. Quando Mosè ottiene le tavole della legge da Dio, egli riceve anche

la legge orale, quella non scritta, da tramandare di generazione in generazione. A volte questa tradizione

orale è definita Kabbalah. Nasce così fra gli Israeliti una tradizione orale segreta che contiene una

conoscenza, una interpretazione iniziatica della Torah, dei suoi significati reconditi e del divino potere in

essa contenuto. Alla radice dalla Kabbalah c’è la credenza nella divinità della Torah a che studiando i testi

secondo questa tradizione non scritta si sveli il segreto della creazione. La Kabbalah ha anche a che fare

con la tradizione biblica della profezia. Il profeta, scelto da Dio, parla a nome di Dio. I Kabbalisti,

insomma, credono di essere gli eredi dei profeti biblici.

E’ solo fra il 100 e il 1000 d.C. si sviluppa una letteratura kabbalistica nella tradizione giudaica, non esiste

evidenza della Kabbalah prima di allora. Tuttavia, in alcuni suoi aspetti ed in particolare quello

“ermetico”,la Kabbalah esula dall’ambito della religione ebraica. Date le affinità formali circa i simboli

raffigurati sul Sasso Regio e alcuni appartenenti alla “Kabblah Ermetica” o “Cristiana”, è bene esaminare

in cosa questa consista. Da circa 500 anni, ebrei e non ebrei si sono dedicati alla Kabbalah Ermetica o

Kabbalah Cristiana, come era chiamata agli inizi. Le origini di questa nuova tradizione sono da ricercarsi

nell’Italia del Rinascimento e nell’ultima decade del XV secolo (per coincidenza, data di costruzione del

santuario di Santa Maria delle Grazie). A quel tempo, a Firenze, Marsilio Ficino aveva istituito

l’Accademia Platonica sotto il patronato mediceo e stava traducendo Platone. In questo ambito avvenne

la scoperta di un corpus di manoscritti in greco su papiro, del I e II secolo d.C., noto come “Corpus

Hermeticum”poiché attribuito a Hermes Trismegistus, il nome greco del dio della sapienza egizio, Thoth.

A seguito di questa scoperta, Cosimo de’ Medici ordinò a Ficino (1460) di occuparsi di questo materiale e

sospendere la traduzione di Platone. Si ritenne allora che questi manoscritti fossero un corpus di

religione egizia e che Hermes fosse una sorta di Mosè. Essendo i testi imbevuti di filosofia neoplatonica

ed essendo ritenuti assai più antichi di quanto in realtà fossero, si manifestò l’idea che la stessa filosofia

platonica derivasse dalla filosofia religiosa degli Egizi. Questa idea ebbe una grande risonanza nel mondo

intellettuale del Rinascimento. Allo stesso tempo giungevano in Italia ebrei spagnoli cacciati dalla Spagna

nel 1492 ed essi portarono con se la Kabbalah, che fu ritenuta, appunto, la chiave del sapere inziatico

della Bibbia.

Due uomini si fanno avanti come interpreti di questa nuova visione filosofica, uno è Pico della Mirandola,

che fa fare diverse traduzioni di testi kabbalistici rendendo nota la Kabbalah agli intellettuali suoi

contemporanei; l’altro è Johannes Reuchlin, che imparando l’ebraico si immerge nella letteratura

kabbalistica. Da questo amalgama di cristianesimo, ermetismo, neoplatonismo e umanesimo

rinascimentale trae origine la “Kabbalah Ermetica”. Nei secoli questa forma di misticismo si è sviluppata

i varie direzioni venendo ad arricchirsi di massoneria e di rosacrucianesimo, ma mantenendo nella

sostanza il suo spirito originario. Questa forma di misticismo kabbalistico ermetico cristiano, non

pretende di definire Dio o dettare in cosa uno uomo debba credere, ma ritiene che sia possibile ottenere

un certo livello di conoscenza di Dio e che ciò possa avvenire applicando un metodo pratico.

La Kabbalah ermetica del Rinascimento ha conservato fino ai nostri giorni alcuni elementi originari

nell’ambito della scuola europea della magia nera, come sostiene R. Aryeh Kaplan, (1992). La linea di

divisione fra la Kabbalah ebraica e quella ermetica sta nel fatto che la prima si occupa di teurgia e la

seconda di taumaturgia. Per essere più semplici, mentre la prima partecipa nell’opera divina per

migliorare la creazione, la seconda interferisce con la creazione a beneficio del praticante. La Kabbalah

ermetica è legata a riti cerimoniali nell’ambito di numerose tradizioni teosofiche e soprattutto sataniche

o di magia nera. Se pensiamo al fatto che alcuni abitanti di Stia hanno fatto riferimento alla pratica di

“messe nere” presso il Sasso Regio, questo fatto gioca a favorire dell’ipotesi che si tratti davvero di una

raffigurazione kabbalisica ermetica. Una domanda davvero interessante è quella di chi può aver creato

questa immagine di Stia.

Nota sul monachesimo e le sue origini

Il monachesimo non lo inventano né Pacomio, né Sant’Antonio, ne altri Padri a del Deserto, poiché già

esisteva da secoli nelle religioni zoroastriana, ebraica e induista, vale a dire in una unica ed inscindibile sfera

culturale, politica e commerciale. Intanto l’elemento principale di unità di questa sfera culturale, politica e

commerciale sono le lingue greca ed aramaica che consentivano a mercanti, studiosi, saggi, mistici e asceti,

di viaggiare di capirsi dalla costa mediterranea fino al Gange e all’Oxo. Altri elementi unificanti erano

l’ellenismo e l’esistenza di accademie greche in tutto questo territorio, quindi l’influenza politica partica e

sassanide.

Tuttavia, come osserva William H. McNeill (pp.381), l’importanza dell’influenza indiana sul monachesimo e

su altri aspetti della pietà cristiana è stata esagerata da un lato e troppo sminuita dall’altro. Era comune agli

inizi del 900 esagerare l’apporto indù al cristianesimo, d’altro canto, appariva chiaro come le comunità

ascetiche ebraiche, come ad esempio quella di Qumran ed accenni biblici ad antichi profeti che abitavano

nel deserto, avessero potuto offrire ai cristiani modelli importanti. Tuttavia nei precedenti ebraici non si

riteneva che il fine della disciplina ascetica fosse la visione beatificante di Dio, come invece era il caso

nell’induismo. Inoltre, gli effetti psicologici indotti dal digiuno e da altre privazioni fisiche non si

affermavano come visioni dell’Immenso. Le interpretazioni indù di tale esperienze nel campo della teologia

e della trascendenza, possono invece essere state di fondamentale importanza nella formazione culturale

dei primi mistici cristiani. In sostanza, McNeill ritiene che il monachesimo cristiano debba assai più a quello

indù e buddista che non a quello ebraico.

La più sensazionale scoperta archeologica in Casentino dal 1838

L'incisione sul Sasso del Regio

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Il Sasso e l'albero

Schema

NOTE:

Colin Low in “Emanation and Ascent in Hermetic Kabbalah”, (2002), spiega in dettaglio la materia,

lasciando pochi dubbi sul fatto che la raffigurazione di Stia, nella sua forma finale, è una raffigurazione della

Kabbalah ermetica. Vedasi:http://www.digital-brilliance.com/kab/

La Kabbalah si trova descritta nella famosa opera di Agrippa von Nettesheim (1486-1535) De Occulta

Philosophia Libri Tres (1531). Il XIX e il XX secolo hanno visto ulteriori sviluppi della Kabbalah Cristiana

(ovvero Occidentale), da parte di occultisti quali Eliphas Levi, Papus (1865-1916), membri dell’Ordine

Ermetico della Golden Dawn, come Aleister Crowley e Dion Fortune (1890-1946). Legami fra la Kabbalah e

altri sistemi filosofici, religiosi o mitologici, quali ad esempio l’astrologia ed i tarocchi, sono spesso stati

postulati.

La Kabbalah uno “strumento” per giungere alla comprensione del divino, sia dal punto di vista intellettuale,

sia da quello dell’esperienza pratica, quindi chi adotta la Kabbalah presuppone l’esistenza di un Dio. Nella

Kabbalah giudaica è chiaro che il Dio è quello giudaico, perciò la Kabbalah giudaica è una branca del

giudaismo. In un certo senso lo stesso vale per la Kabbalah cristiana, tuttavia, il concetto della “divinità”

nella Kabbalah cristiana è alquanto diverso poiché deriva dal concetto del Divino espresso da Platone,

Plotinoe dal Corpus Hermeticus. La Kabbalah ermetica è più legata alla libera ricerca individuale che al

dogma. Essa fa parte della tradizione neoplatonica di Iamblicus e Proclus filtrata attraverso l’esperienza dei

“magi” del Rinascimento che integravano il misticismo del mondo ellenico con quello del giudaismo

europeo

.

Kabbalah ermetica

Le fondamenta della “teurgia” o Alta Magia consiste nel credere di poter influenzare i processi del mondo

fisico applicando il sapere occulto per comunicare con i più alti livelli dell’essere.

La “taumaturgia” o “goetia”consiste invece nell’impiego dei più bassi livelli dell’essere, o secondo lo

schema dualistico, delle forze diaboliche. L’impiego degli spiriti per giungere alla conoscenza e al potere è

sempre stato soggetto di controversie attraverso il Medioevo ed il Rinascimento nell’ambito culturale

dualistico-emanazionistico.

La Kabbalah cristiana e Lull

Gli inizi della Kabbalah cristiana si trovano nell’opera del filosofo e mistico catalano Raymond Lull (1232 -

c.1316). Lull viveva in una regione in prevalenza cattolica, ma gran parte della quale era sotto il controllo

islamico e studiosi ebrei avevano il monopolio della cultura. L’idea di Lull era quella di unificare,

naturalmente nel credo cattolico, le tre religioni dalla comune radice ed intese farlo sviluppando una

filosofia che conteneva elementi comuni a tutte. Anche se la meta finale di Lull era quella di convertire tutti

al Cattolicesimo senza rispettare alcun principio di tolleranza, egli intendeva convertire mediante una

dottrina razionale mistica. Lull illustrò questa dottrina in una vasta opera intitolata “Ars” dove teneva

presente il fatto che cristiani, mussulmani ed ebrei danno grande risalto agli attributi ed ai nomi del divino.

Il catalano elenca nove attributi e nomi chiamandoli Dignità e questi sono: Bontà, Magnitudine, Eternità,

Potestà, Sapienza, Volontà, Virtù, Verità e Gloria. Lull abbina queste nove dignità al Sefirot della Kabbalah

ebraica in questo modo:

Keter (Corona; Volontà Divina) = Voluntas (Volontà)

Hokmah (Sapienza)= Sapientia (Sapienza)

Binah (Intelligenza) = Veritas (Verità)

Hesed (Misericordia, Amore) = Bonita (Bontà)

Gevurah (Forza) = Potestas (Forza)

Tifaret (Bellezza) = Virtus (Virtù)

Netzah (Perseveranza) = Eternitas (Eternità)

Hod (Maestà) = Gloria (Gloria)

Yesod (Fondamenta) = Magnitudo (Grandezza)

Nell’opera di Lull troviamo inoltre i quattro elementi e qualità, i sette pianeti e i dodici segni, medicina

alchimia, geometria ecc. Vi è poi un elaborato sistema di corrispondenze fra le nove Dignità, la sfera

celeste, il livello umano, quello animale, vegetale e l’aspetto materiale della creazione in generale. Nell’Ars

si nota non solo l’influenza della Kabbalah ebraica, ma anche delle categorie aristoteliche, del platonismo

agostiniano (Quasi tutte le Dignità lulliane sono riscontrabili negli Attributi Divini di Sant’Agostino) le

gerarchie celesti degli angeli del cristiano neoplatonico Dionisio. Yates F.A.(1979)

Kabbalah Rinascimentale

La Kabbalah cristiana rinascimentale deriva da diverse fonti inclusa l’Ars di Lull, ma anzitutto dalle

speculazioni cristologiche di alcuni ebrei convertiti fra il XIII e il XV secolo. Tutto ciò culmina nelle

speculazioni kabbalistiche che si svilupparono nel circolo dell’Accademia Fiorentina medicea.

I fiorentini, con a capo il famoso ermetico rinascimentale Pico della Mirandola (1463-1494), ritenevano di

ravvisare nella Kabbalah una rivelazione divina perduta che conteneva la chiave per comprendere sia gli

insegnamenti di Pitagora, Platone e degli Orfici, sia i misteri reconditi del Cattolicesimo. Lo stesso Pico fece

tradurre in latino molte opere kabbalistiche da Samuel ben Nissim Abulfarai.

Nella proposta delle novecento tesida discutere in un convegno di dottida Pico (1486), vi era quella che

sosteneva: “Non vi è scienza che meglio della magia e della Kabbalah ci convinca della divinità del Cristo”.(

L'edizione di riferimento è quella a cura di Eugenio Garin, Firenze, Vallecchi, 1942 - contiene anche

l'Heptaplus e il De ente et uno e scritti vari). Pico sosteneva di poter illustrare i dogmi della Trinità e

dell’Incarnazione mediante assiomi kabbalistici.

Tutto ciò causò lo sconcerto fra gli intellettuali cristiani e gli scritti di Pico e del suo seguace Johannes

Reuchlin (1455-1522) suscitarono da un lato grande interesse nella “Dottrina dei Momi” e nella Kabbalah

magica (sintetizzata da Cornelio Agrippa di Nettesheim in De Occulta Philosophia del 1531) dall’altro alla

ricerca di una sintesi fra la Kabbalah e la teologia cristiana. (Scholem, G. “Zur Kabbala und ihrer Symbolik“.

Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1998)

Kabbalah Rosicruciana

Dal seicento fino a tutto il settecento, la Kabbalah cristiana si permea di simbolismi alchemici. Fra i

rappresentanti più noti di questo movimento vi sono il filosofo e alchimista rosicruciano Robert Fludd

(1574-1637) e l’alchemista Thomas Vaughan (1622-1666). Fludd propone una interpretazione dell’Albero

Sefirotico che egli illustra in forma di palma le cui dieci fronde che si allargano dal basso verso l’alto

suggeriscono che l’uomo sulla terra, ossia il microcosmo, è lo specchio del macrocosmo, ossia l’universo.

Durante la seconda metà del XVIII secolo questa Kabbalah alchemica viene ad abbinarsi alla numerologia e

all’occultismo massonico, da cui prende il via il revival dell’occultismo e della magia dell’ottocento, noto

come “Ordine Ermetico” o “ dell’ Alba Dorata” iniziato nel 1998.

Kabbalah Occulta

Nel XIX secolo gli occultisti del revival della magia in Francia, quali Eliphas Levi (Alphonse Louis Constant,

1810-1875) e Papus (Gerard Encausse, 1868-1916), avevano perduto ogni nozione del significato originale

ebraico della Kabbalah, avendovi aggiunto numerosi elementi estranei fra i quali persino i Tarocchi. Levi fu

una figura ragguardevole sia nell’ambito della teosofia di Blavatsky e ancor più nell’Ordine dell’Alba

Dorata di Mathers e Westcott, con la sua peculiare formulazione del Sefirot, mediante la quale la Kabbalah

si inserisce nella tradizione occulta occidentale contemporanea.

Sopravvivenze

Nella tradizione demartiniana si da per scontata, soprattutto nelle campagne del meridione, una continuità

culturale che partendo dalla preistoria e traversando il periodo romano giunge fino ai nostri tempi. Alla luce

di più rigorose ricerche storiche e scientifiche, come ad esempio le analisi genetiche, questo presupposto

viene a cadere.

A parte il costrutto di “cultura subalterna” per me oscuro, le recenti acquisizioni non svalutano la ricerca di

Vittorio Dini, pubblicata con il titolo “Il potere delle antiche madri” (1980), poiché i numerosi dati

rigorosamente raccolti sul campo dall’illustre antropologo hanno grande valore documentario. Ciò che

occorre è dire con chiare parole, che le credenze, i riti, le superstizioni, la magia nera e bianca, riscontrate

dai ricercatori del primo ‘900 nel meridione d’Italia e non solo, fanno parte di un retaggio condiviso da

popoli eterogenei, dai confini con la Cina fino all’Atlantico. Bisogna tener presente il fatto comprovato che

non esiste in Italia e per quanto se ne sappia, neanche altrove nell’Europa mediterranea, alcuna continuità

genetica fra epoca antica ed epoca moderna ed è proprio per questo motivo che quanto riscontrato dal

Leland in materia di sopravvivenze “pagane” nell’Appennino tosco-emiliano, rappresenta un fatto più unico

che raro, come appunto, la densità di toponimi protostorici nel Casentino.

Giovanni Caselli

Gennaio 2006