Geodemografia e Sicurezza

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Nomos & Khaos Rapporto Nomisma 2010-2011 sulle prospettive economico-strategiche Osservatorio Scenari Strategici e di Sicurezza N&K 2010-2011.indd 3 2-08-2011 16:16:49

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KhaosRapporto Nomisma 2010-2011

sulle prospettive economico-strategiche

Osservatorio Scenari Strategici e di Sicurezza

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Nomos & KhaosCopyright © 2011 Nomisma SpaEdito da A.G.R.A. srlvia Nomentana 25700161 Romatel +39 0644254205fax +39 0644254239e-mail [email protected] di stampare nel mese di luglio 2011Realizzazione editoriale: Agra srlProgetto grafico: Blu omeletteStampa: Tipolitografia CSR – Roma

Nomisma Società di Studi Economici SpAStrada Maggiore 44, Palazzo Davia Bargellini 40125 Bologna tel +39 0516483111, fax +39 051232209www.nomisma.it

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Consiglio di AmministrazionePietro Modiano (Presidente)Luciano Sita (Vice Presidente)

ConsiglieriClaudio Albertini Paolo Bruni Antonio Calabro’ Giancarlo De Martis Luca LucaroniEnzo Mignarri Rodolfo Ortolani Giovanni Pecci Juan Enrique Perez CalotGualtiero TamburiniFrancesco Cozza (Segretario)

Direttore Piera Magnatti

Comitato Scientifico Gian Maria Gros-Pietro (Presidente)

MembriFelice Adinolfi Giovanni AjassaRoberto CamagniGiuseppe CucchiRita FinziMarco FortisFrancesco GiordanoGiulio NapolitanoGiorgio ProdiFilippo TaddeiGianfranco Viesti

Coordinatore Scientifico dell’OsservatorioScenari Strategici e di SicurezzaGiuseppe Cucchi

Gruppo di Ricerca dell’OsservatorioScenari Strategici e di Sicurezza di NomismaFilippo Andreatta, Gianluca Ansalone, Giorgio Arfaras, David Gosset, Paolo Guerrieri, Celeste Cecilia Lo Turco, Fyodor Lukyanov, Amir Madani, Piera Magnatti, Marco Massoni, Raffaello Matarazzo, Roberto Menotti, Paolo Migliavacca, Pietro Modiano, Luca Muscarà, Alessandro Politi, Ferdinando Sanfelice di Monteforte, Maurizio Stefanini, Dino Tricarico, Francesco Vitali

Coordinamento scientifico del rapportoGiuseppe Cucchi, Germano Dottori

Coordinamento di Redazione e Supporto CartograficoOlana BojicEulàlia Rifé i Soler

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Indice

PrefazioneLa finanza nell'era del mondo liquido 17Pietro Modiano

IntroduzioneUn anno difficile 25Giuseppe Cucchi

Parte primaSintesi e visione degli eventi dell’annoSintesi Politico-Decisionale: Adeguare l'Europa e l'Italia alle conseguenze dello Smart Power 45Germano Dottori

Global Vision 2011:

L’era dello Smart Power: Il mondo post-occidentale di fronte alle rivoluzioni ed al ritorno della politica di potenza 51Germano Dottori

Parte seconda1. La distribuzione dei fattori di potenza/influenza1.1 Geodemografia e sicurezza 101Luca Muscarà

1.2 La redistribuzione del potere energetico 125Paolo Migliavacca

1.3 La nuova distribuzione della potenza militare 139Gianluca Ansalone

1.4 La nuova distribuzione della crescita economica e il ruolo delle spese in R&S 161Piera Magnatti

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Parte seconda1. La distribuzione dei fattori di potenza/influenza

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1.1

Geodemografia e sicurezzaLuca Muscarà

INTRODUZIONE

Sin dalle tradizionali statistiche militari sul cosiddetto man power, la demografia è sempre stata strumento insostituibile per indagare la condizione presente di ogni potenza globale o regionale al fine di valutarne la forza e i limiti. Indicatori rela-tivamente semplici come fecondità e mortalità presentano inoltre l’insostituibile privilegio di potersi proiettare con qualche certezza nel futuro: se negli Stati Uniti al baby boom del secondo dopoguerra è corrisposto vent’anni dopo il suo “baby echo” (generazione 1977-1995), un calo delle nascite produce in un paio di decenni un’inevitabile riduzione della fecondità, come da tempo sta avvenendo in Europa Occidentale.

Allo stesso modo, una preferenza per i figli maschi, tanto accentuata da pro-durre una consistente riduzione nel numero di bambine, può impedire a decine di milioni di persone di potersi sposare tra vent’anni, come sta accadendo in Asia. O ancora, un aumento nei tassi di mortalità infantile aveva condotto Emmanuel Todd, storico, demografo, sociologo e politologo francese, a prevedere già nel 1976 la caduta dell’Unione Sovietica1. Insieme a Youssef Courbage, lo stesso studioso, è giunto nel 2007 a prevedere, a partire da indicatori demografici, anche il recente fenomeno della cosiddetta “primavera araba”2.

1 E. Todd, La chute finale: Essais sur la décomposition de la sphère soviétique, Laffont, Paris, 1976, [tr. it. Il crollo finale. Saggio sulla decomposizione della sfera sovietica, Rusconi, Milano, 2009].2 Y. Courbage, E. Todd, Les rendez-vous des civilizations, Seuil, Paris, 2007, [tr.it.: L’incontro delle civiltà, Tropea, Milano, 2009].

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Tuttavia, forse anche a causa delle memorie del ventennio, non pare che la de-mografia trovi in Italia, quell’attenzione con cui viene seguita altrove, come negli Stati Uniti. Infatti, solo dopo che la domanda di democrazia è esplosa in Egitto, la nozione che oltre il 60% degli egiziani ha meno di 35 anni ha iniziato a essere presa un pò più sul serio. Prendere in considerazione il quadro demografico per politiche di medio e lungo periodo sembrerebbe avere tanto più senso quanto più proprio i paesi oggi più sviluppati, oltre che gerontocratici, divengono sempre più geriatrici, mentre classi dirigenti e popolazione paiono eludere sistematicamente l’attenzione per ogni fenomeno le cui ricadute esulino dal breve e brevissimo ter-mine, nonostante l’evidente interesse di tali indicatori per il marketing piuttosto che per la geografia elettorale.

Certo, ogni proiezione demografica va sempre presa con le dovute cautele.

Primo, perché non può tenere conto della gamma di fattori imprevedibili: anche senza evocare lo spettro di estinzioni di massa, il rischio di catastrofi di origine antropica o naturale, pandemie, guerre, carestie, invasioni, ecc. resta sempre tanto aleatorio quanto presente.

Secondo, perché se la proiezione del saldo naturale è un indicatore piuttosto affidabile, è invece difficile sapere in anticipo come potranno variare le migrazioni, che nel caso dei paesi europei costituiscono la principale causa di crescita delle po-polazioni. Così, è possibile spingersi avanti al massimo di una quarantina d’anni, sino al 2050, e con maggior sicurezza di una ventina, sino al 2030, poiché più ci si allontana nel futuro e maggiore è il rischio che fattori imprevisti intervengano a modificare lo scenario3.

Inoltre, anche la dimensione della popolazione e del territorio in questione ha una sua rilevanza nell’accuratezza della predizione. Per Stati come Cina e India le proiezioni sono dunque più affidabili, di quanto non stiano per Stati più piccoli.

Infine, e non meno importante, la tentazione del determinismo è sempre in agguato. Se a fronte della crescente difficoltà a orientarsi nella complessità del mondo post-bipolare, il ricorso a un dato “oggettivo” come quello demografico parrebbe offrire una qualche certezza cui aggrapparsi per combattere il caos cogni-tivo, la disponibilità di indicatori quantitativi sulla popolazione potrebbe facilmen-te spingere verso spiegazioni monocausali della realtà.

3 Vi sono in genere tre proiezioni, una più alta, una più bassa e una intermedia. Le proiezioni qui citate, dall’anno in corso al 2050, sono riferite allo scenario intermedio.

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Paradigmatici restano al riguardo il malthusiano allarme sull’esaurimento delle risorse fondato sulla previsione di una crescita geometrica della popolazione, come più tardi la “bomba demografica” di Ehrlich. E anche in tempi più recenti le tesi xenofobe di Huntington sullo scontro di civiltà si sono rivelate fondate tra l’altro proprio su generalizzazioni errate di dati demografici. Come vedremo oltre, una visione stereotipata della demografia nel mondo musulmano è divenuta pretesto di una visione islamofobica.

Evidentemente vanno considerate anche altre variabili. Riuscire però a com-prendere quali tra quelle economiche, politiche, culturali, storiche ecc. siano di volta in volta le più pertinenti per integrare la proiezione demografica, può fare infatti una notevole differenza. Ad esempio, negli ultimi due anni e mezzo si sono riscontrate 261 mila nascite in meno negli Stati Uniti4. E viste le conseguenze della crisi economico-finanziaria in termini di perdita del posto di lavoro, impossibilità di pagare il mutuo per la casa, sfiducia nell’economia e incertezza generale, non c’è da meravigliarsi se il comportamento riproduttivo degli americani ne abbia ri-sentito. Del resto, nella misura in cui la demografia tocca da vicino proprio gli aspetti più intimi della vita delle persone: matrimonio, riproduzione, morte, ecc., essa rappresenta una sorta di “psicoanalisi della società” (Courbage, 2009) e come tale andrebbe meglio considerata.

Così, nell’ambito di quel recente filone di studi che si avvale di indicatori demo-grafici per valutare rischi di conflitto nei diversi Stati, ossia la cosiddetta security demographics, andrà tenuto presente pure come il concetto di “rischio per la si-curezza” sia tutt’altro che oggettivo. Gli indicatori demografici potranno essere oggettivi, ma la percezione di cosa sia un “rischio” certo non lo è: essa varia nel tempo e nello spazio, anche in ragione di fattori di ordine culturale come l’identità delle nazioni, piuttosto che di differenti concezioni della natura5.

Anche la recente preoccupazione suscitata dal previsto aumento di migrazioni verso l’Europa, a seguito dell’incertezza e dei cambiamenti in atto nel Nord Africa, evoca proprio la psicologia della percezione del rischio. Senza nulla sottrarre al dramma e alle difficoltà alla scala locale, soprattutto per quelle popolazioni che già si trovavano bloccate lungo i confini africani della Libia provenendo da aree di conflitto, il problema in Europa pare piuttosto collegarsi a psicologia e identità dei paesi meta di tali correnti migratorie.

4 National Center for Health Statistics, National Vital Statistics Reports, vol. 59, no. 3, 21 dicembre 2010, http://www.cdc.gov/nchs/data/nvsr/nvsr59/nvsr59_03.pdf.5 M. Schwarz, M. Thompson, Divided We Stand: Redefining Politics, Technology and Social Choice, Har-vester-Wheatsheaf, London and University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 1990.

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A maggior ragione se si considera il crescente invecchiamento della popolazio-ne europea (e italiana in particolare). Pare ragionevole interrogarsi sul perché la gestione di qualche decina di migliaia di migranti debba essere affrontata come priorità nazionale in un modo che pare precedere anche le politiche energetiche, piuttosto che lo stato dell’industria nucleare europea dopo Fukushima.

UN QUADRO GLOBALE

La popolazione mondiale è stimata oggi in 6,9 miliardi di persone6. Alla scala regionale essa è distribuita per circa il 60% in Asia (4,1 miliardi); un altro 15% vive in Africa (1 miliardo); il 13,5% nelle due Americhe (0,9 miliardi), mentre in Europa (Russia compresa) si trova poco più del 10% del totale (0,7 miliardi). In Oceania vi sono infine 35 milioni di persone, pari allo 0,5%.

Seguendo poi la regionalizzazione oNU, il cuore demografico del pianeta si trova in due macroregioni: l’Asia Centro-meridionale e quella Orientale. Dall’Iran alle repubbliche ex-sovietiche, al subcontinente indiano si stima vi siano 1.756 milioni di persone.

Altri 1.570 milioni vivono tra Cina, Giappone, Coree, Taiwan, Hong Kong, Macao e Mongolia. Sotto la soglia miliardaria, sempre in Asia, nel Sud-Est, circa 615 milioni di persone vivono oggi tra Indonesia, Filippine, Vietnam, Thailandia, Burma, Malaysia, Cambogia, Laos, Singapore, Timor-Leste e Brunei. La quarta e la quinta regione demografica sono le Americhe: 400 milioni di abitanti in quella Latina e 347 in quella Settentrionale (Groenlandia inclusa).

Poco sotto a quest’ultima, si incontrano i primi due centri di popolazione in Afri-ca e la prima regione demografica europea: 336 milioni vivono in Africa Orientale, 304 in Africa Occidentale, 290 milioni in Europa Orientale. Sempre nella fascia superiore ai duecento milioni, vi è poi la meno popolata delle regioni asiatiche: l’Asia Occidentale: tra Caucaso, Turchia, Medio Oriente, Penisola Arabica, Cipro, Israele, West Bank, ecc. vivono 234 milioni di persone. E altri 211 milioni sono oggi nel Nord Africa. Alla soglia dei duecento milioni si avvicinano poi America Centrale e Caraibi (195 milioni) ed Europa Occidentale (190 milioni), la seconda delle quattro regioni europee.

6 La presente stima, come tutti i dati demografici presentati di seguito, salvo dove diversamente spe-cificato, sono tratti dall’ International Data Base dello Us Bureau of Census, marzo 2011, http://www.census.gov/ipc/www/idb/, consultato nel marzo 2011.

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Tabella 1.1.1 I venticinque stati più popolati al 2011

no. paese popolazIone

1 Cina 1.336.718.015

2 India 1.189.172.906

3 Stati Uniti 313.232.044

4 Indonesia 245.613.043

5 Brasile 203.429.773

6 Pakistan 187.342.721

7 Bangladesh 158.570.535

8 Nigeria 155.215.573

9 Russia 138.739.892

10 Giappone 126.475.664

11 Messico 113.724.226

12 Filippine 101.833.938

13 Etiopia 90.873.739

14 Vietnam 90.549.390

15 Egitto 82.079.636

16 Germania 81.471.834

17 Turchia 78.785.548

18 Iran 77.891.220

19 Congo (Kinshasa) 71.712.867

20 Tailandia 66.720.153

21 Francia 65.102.719

22 Regno Unito 62.698.362

23 Italia 61.016.804

24 Burma 53.999.804

25 Sud Africa 49.004.031

Fonte: Us Census – International Data Base 2011.

Scendendo ancora nella classifica demografica si trovano infine l’Europa Meri-dionale (Italia compresa) con 155 milioni, l’Africa Centrale con 127, l’Europa Set-tentrionale che si avvicina a 100 e l’Africa Meridionale con 56 milioni.

Così, in testa alla classifica degli Stati più popolati, Cina e India superano abbon-dantemente il miliardo di persone. Seguiti, nella fascia tra i due e i 300 milioni di persone circa, da Usa, Indonesia e Brasile. Sopra i 100 milioni di abitanti, Russia e Giappone sono stati nell’ultimo decennio sorpassati da Pakistan, Bangladesh e Ni-geria, pur precedendo ancora Messico e Filippine. Infine, in un’ulteriore dozzina di Stati vivono popolazioni superiori a 50 milioni: Etiopia, Vietnam ed Egitto hanno ormai sorpassato la Germania, mentre Turchia, Iran, Congo (Kinshasa), Thailan-dia hanno superato Francia, Regno Unito e Italia, tallonata ormai da Burma7.

7 Sul totale di 227 Stati e territori considerati dallo Us Bureau of Census, oltre ai 24 Stati citati, altri 60 hanno una popolazione superiore a 10 milioni; 31 Stati superano i 5 milioni; 44 oltrepassano la soglia del milione, al di sotto della quale si trovano 59 entità, soprattutto isole.

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Tenuto conto della velocità della crescita demografica, un rapido confronto geo-grafico-politico consente di aggiornare le proprie mappe mentali ed è pure un buon antidoto al rischio di etnocentrismo. Se la Nigeria è più popolata della Russia e l’Egitto più di Germania, Francia, Regno Unito o Italia, Burma ha più abitanti della Spagna, il Sudan più del Canada, la Siria più dell’Australia, l’Arabia Saudita più dei Paesi Bassi, la Somalia più dell’Austria, della Svezia o di Israele, Cuba più del Portogallo o della Grecia. Gli eritrei superano danesi, finlandesi, norvegesi, irlandesi, bosniaci e croati. I moldavi oltrepassano i neozelandesi. I libanesi sono il doppio degli sloveni. E Gibuti ha più del doppio della popolazione dell’Islanda.

Tuttavia una popolazione numerosa non è di per sé certo una garanzia di poten-za. Infatti, secondo recenti stime, la popolazione dei paesi meno sviluppati sarebbe di quasi 5,7 miliardi a fronte di circa 1,2 miliardi di abitanti i paesi più sviluppati8.

Tale ripartizione acquista però maggiore significato alla luce della distribuzione per fasce di età. Infatti se globalmente due terzi della popolazione terrestre ha oggi meno di quarant’anni, più di metà ne ha meno di trenta, e oltre un terzo meno di venti, quasi metà della popolazione con meno di 25 anni si trova nei paesi meno sviluppati. Per contro solo il 28,9% della popolazione di quelli più sviluppati è nella stessa fascia.

Più in dettaglio, oltre il 60% degli africani ha meno di 25 anni, il 45% dell’Ame-rica Latina e quasi il 43% dell’Asia è nella fascia sino ai 24 anni di età. In America Settentrionale invece il 33,5% della popolazione rientra nella fascia giovane e in Europa il 27,7%.

La presenza di una consistente popolazione giovane si accompagna spesso a uno scarso numero di anziani. E viceversa. Sopra i sessantacinque anni, i valori più bassi sono prevedibilmente in Africa, dove su un miliardo di persone solo 35 milioni (3,4%) arrivano a quell’età. Una percentuale poco più alta si trova in Asia: 269 milioni di asiatici (6,4%) sono sopra i 65 anni, Giappone escluso.

Quest’ultimo è il singolo Stato con la maggior popolazione di over 65, pari a quasi il 23%. Al punto che era stato persino notato il diffondersi di una “criminalità grigia”. Tuttavia pare più opportuno osservare che la triplice catastrofe del marzo 2011 con oltre 27 mila tra morti e dispersi pare aver colpito maggiormente proprio la popolazione più anziana.

8 Tale generalizzazione non può che essere piuttosto approssimata. Ad esempio tra i paesi meno sviluppati sono inclusi Israele e Kuwait, tra quelli più sviluppati rientrano Kosovo e Moldova.

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Complessivamente è l’Europa la regione più anziana con 120 milioni di ultra-sessantacinquenni, pari al 16,4% del totale. Qui, gli Stati più geriatrici sono Ger-mania (20,6%) e Italia (20,3%), seguiti a breve distanza da Grecia (19,8%) e Svezia (19,7%). La situazione migliora un poco in Francia e Regno Unito (rispettivamente 16,8 e 16,5% del totale) o nei Paesi Bassi (15,6%).

Ciascuna delle Americhe ha poi 46 milioni di over 65, che tuttavia pesano per il 13,4% in Nord America e per il 6,9% in America Latina.

Appare così in modo evidente la relazione tra livello di sviluppo, distribuzione delle età e potenziale migratorio: popolazioni in condizioni di scarso sviluppo eco-nomico, in cui i giovani siano maggioranza, saranno ovviamente attratte da paesi più sviluppati, spesso dotati di una popolazione anziana più numerosa.

Per quanto alla scala globale solo 215 milioni di persone viva ufficialmente fuori dal paese di nascita, le tre principali traiettorie delle migrazioni alla scala globale (verso l’Europa Occidentale, da Africa, Europa Orientale e Russia; verso l’America Settentrionale, da America Centrale e Asia; verso il Medio Oriente, soprattutto da Filippine, Indonesia e India) confermano una generale correlazione tra squilibrio demografico e squilibrio economico.

E forse è proprio in considerazione del crescente invecchiamento della popola-zione in Europa, oltre che dell’intensificarsi del fenomeno, che tali correnti migra-torie globali sollevano tante preoccupazioni alle singole scale nazionali e locali.

LA TRANSIZIONE DEMOGRAFICA

Tali considerazioni offrono tuttavia un’immagine relativamente statica della realtà demografica, che invece è tanto più interessante quanto più se ne valorizza il carattere intrinsecamente dinamico.

Ad esempio, valutando la posizione di uno Stato rispetto alla cosiddetta transi-zione demografica, quel cambiamento nella struttura di una popolazione dovuto al suo impatto con la modernizzazione, ne sono state ricavate indicazioni rispetto alla possibilità di riduzione dei conflitti civili. Misurando infatti la distanza tra fe-condità e mortalità, tale teoria consente di distinguere quattro principali stadi nella crescita di una popolazione.

Nel primo stadio essa cresce molto lentamente, poiché sia fecondità che morta-lità sono ugualmente elevate. Quindi, grazie ai miglioramenti nell’alimentazione e nelle condizioni igienico-sanitarie che accompagnano la modernizzazione, la

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mortalità si riduce, mentre la fecondità rimane alta. È in questa seconda fase che la popolazione complessiva inizia ad aumentare. Nella terza fase, per effetto tra l’altro dell’educazione femminile, anche la fecondità si riduce, e dunque la cres-cita totale rallenta. Infine nella quarta fase, fecondità e mortalità si sincronizzano nuovamente su livelli similmente bassi, tuttavia la popolazione totale ha ormai raggiunto valori più elevati.

Così nell’arco degli ultimi due secoli, dall’Europa al Giappone, il mondo svi-luppato ha già attraversato tutte e quattro le fasi della transizione demografica e dagli anni Sessanta è entrato una fase in cui la fecondità è al di sotto della soglia di sostituzione generazionale, meno di due figli per donna, mentre la popolazione continua a invecchiare.

Vi sono alcune eccezioni come Stati Uniti e Francia, tuttavia in generale la po-polazione tende a crescere soprattutto grazie al contributo degli immigrati, che almeno inizialmente tendono a riprodursi più della popolazione autoctona, come del resto accade anche in Italia.

figura 1.1.1 la transizione demografica nel regno unito

Fonte: Department of Geography, University on Cincinnati.

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figura 1.1.2 la piramide delle età degli italiani

Quest’anno la popolazione totale dovrebbe superare i 61 milioni. Il tasso di fecondità è di 1,4 figli per donna.Fonte: Us Census Bureau, International Data Base 2011.

figura 1.1.3 la piramide delle età in francia

Al 2011 la popolazione francese è stimata in 65 milioni e la fecondità ha raggiunto il tasso di sostituzione.Fonte: Us Census Bureau, International Data Base 2011.

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Quasi tutti gli altri paesi sono già avviati lungo la stessa strada. L’ascesa demo-L’ascesa demo-grafica dell’Asia, a partire da Cina e India, vede anche questi due Stati avanzare ra-pidamente nella loro transizione demografica. Nell’arco dei prossimi vent’anni la popolazione cinese sarà sorpassata da quella indiana, prima che anche la fecondità di quest’ultima inizi a diminuire. Anche Asia Occidentale e Nord Africa si situano ormai a uno stadio avanzato nella transizione demografica: la crescita avvenuta negli ultimi vent’anni si è già rallentata.

Nondimeno un rapporto Nato pone ancora la demografia al numero uno tra i sei principali rischi per la sicurezza considerati9. Un altro rapporto, di poco succes-sivo, del National Intelligence Council prosegue sulla stessa scia10. Se secondo la teoria dominante solo una volta che la transizione demografica sia completata il rischio di conflitti civili sarebbe notevomente ridotto11, tale assunzione pare oggi confutata proprio dal carattere democratico della primavera araba12.

Va poi considerato che se in Europa sono stati necessari circa due secoli per compiere tutti e quattro gli stadi della transizione demografica, il Nord Africa in soli trent’anni è passato da una media di 7,5 a una media di due figli per donna. La velocità della transizione non va sottovalutata, proprio per il suo impatto sul piano culturale. Essa aiuta infatti a comprendere la recente domanda di demo-crazia che si è manifestata di recente dalla Tunisia all’Egitto, alla penisola arabica, all’Iran. Quasi solo l’Africa Sub-sahariana resta tuttora nello stadio iniziale della transizione demografica: la sua popolazione giovane continuerà ad aumentare per un periodo più lungo.

In Cina la transizione demografica è iniziata negli anni Cinquanta, poco dopo la rivoluzione, con il declino della mortalità prescritto dalla teoria. Nonostante si pre-Nonostante si pre-veda che la popolazione cinese raggiungerà quest’anno 1,336 miliardi di persone, gli effetti delle politiche di pianficazione familiare introdotte dagli anni Settanta, soprattutto della politica del figlio unico avviata nel 1979, sono evidenti da tempo. Tra il 1990 e il 2005 il tasso di crescita della popolazione cinese si è ridotto a un quarto, dal 2% annuo all’attuale 0,5%, e per il 2025 si prevede che esso scenda a zero.

9 Nato, Towards a Grand Strategy for an Uncertain World, Lunteren, Noaber Foundation (http://bit.ly/dIe7ge), 2007.10 Us National Intelligence Council, Global Trends 2025: A Transformed World, (http://1.usa.gov/cZ-vcKi), 2008.11 R. Cincotta, R. Engelman, D. Anastasion,, The Security Demographic – Population and Civil Conflict After the Cold War, Population Action International, http://bit.ly/ic4der, 2003.12 Y. Courbage, Clash or Encounter of Civilizations? How demography may arbitrate, paper presen-Y. Courbage, Clash or Encounter of Civilizations? How demography may arbitrate, paper presen-How demography may arbitrate, paper presen-tato al Colegio de Mexico, 18 maggio 2010.

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figura 1.1.4 la piramide delle età in cina

La popolazione totale è stimata oggi in 1,33 miliardi. Il tasso di fecondità è di 1,5 figli per donna.Fonte: Us Census Bureau, International Data Base 2011.

Con una fecondità media di 1,5 figli per donna, ormai da vent’anni esso è al di sotto della soglia di sostituzione generazionale. Così anche in Cina, la popolazione diverrà gradualmente più anziana. Se oggi gli ultrasessantenni sono solo l’11,3% del totale, il loro numero è destinato a crescere al 21% nel 2025 e al 35% della popolazione cinese nel 2050. L’età mediana oggi di 34,2 anni diverrà di 38,9 anni al 2025. Già la durata della vita si è allungata, passando in due decenni dai 69 agli attuali 75 anni, mentre la mortalità infantile si è più che dimezzata.

Così anche la Cina si avvia a concludere la propria transizione demografica: tra il 2015 e il 2025 la sua popolazione è proiettata aumentare di “soli” 30 milioni di persone. Infine, la politica del figlio unico è stata una catastrofe per la Cina.

In India invece, la transizione demografica si è partita in ritardo rispetto alla Cina: nonostante politiche di pianificazione fossero state introdotte sin dagli anni Cinquanta, esse non hanno avuto i risultati sperati. La mortalità ha cominciato a ridursi, mentre la durata della vita media è aumentata di oltre 31 anni dal 1951.

Il tasso di fecondità è iniziato a scendere dalla fine degli anni Sessanta. Con una popolazione attuale di quasi 1,2 miliardi e un tasso di crescita dell’1,4% l’anno, il secondo Stato più popolato al mondo è dunque destinato a divenire il primo: Le proiezioni indicano che, con una popolazione di oltre 1,6 miliardi, l’India sorpas-

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serà la Cina nel 2025. Essa resterà più a lungo un paese relativamente giovane: se oggi il 30% della popolazione ha meno di 15 anni, più della metà ne ha meno di 25, e oltre il 65% degli indiani ha meno di 35 anni, per il 2020 si prevede un’età mediana di 29 anni, contro i 37 della Cina e i 48 del Giappone.

figura 1.1.5 la piramide delle età in India

La stima della popolazione è di 1,18 miliardi e il tasso di fecondità è di 2,6 figli per donna.Fonte: Us Census Bureau, International Data Base 2011.

Gli Stati Uniti sono oggi il terzo Stato più popolato al mondo. Se nel 1961 la po-polazione Usa era di 182 milioni, e nel 1981 di 229 milioni, nel 2011 essa dovrebbe raggiungere i 313 milioni di abitanti, con un tasso di crescita annuo dell’1% e una fecondità pari a 2,1 figli per donna. Pur appartenendo al gruppo dei paesi più sviluppati, il suo comportamento demografico resta infatti fortemente influenzato dalle elevate immigrazioni che, per quest’anno sono stimate in oltre 1,3 milioni di persone. Al 2050 la popolazione statunitense viene proiettata a 439 milioni di abitanti, con un tasso di crescita annuo dello 0,8% e una fecondità pari al tasso di sostituzione, mentre l’attesa di vita alla nascita sarà allora di 83 anni, contro i 78 di oggi.

Sempre che l’impatto della crisi economico-finanziaria che ha già prodotto una contrazione delle nascite non prosegua. Dopo aver raggiunto nel 2007 il maggior numero di nascite della propria storia, tra il 2008 e il giugno 2010 vi è stata infatti una riduzione del 4% delle nascite13. La diminuzione riguarda le fecondità di tutti i

13 National Center for Health Statistics, “Recent Decline in Births in the United States, 2007-2009“,

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Parte 2. 1.1. Geodemografia e sicurezza | 113

principali gruppi etnici presenti negli Stati Uniti e la quasi totalità dei 50 Stati. Un calo così sostenuto non si manifestava almeno dal 1973, anch’esso anno di una crisi economica dovuta allo shock nei prezzi del petrolio.

figura 1.1.6 la piramide delle età negli stati uniti

Il censimento 2010 ha registrato quasi 309 milioni di americani. La stima per quest’anno arriverà a 313 milioni.Fonte: Us Census Bureau, International Data Base 2011.

Con 245 milioni di abitanti, l’Indonesia è il quarto Stato più popolato ed è da tempo entrato nella transizione demografica. Nel 1981 la sua popolazione era di 153 milioni e cresceva del 2% l’anno, con 4,2 figli per donna. Attualmente gli in-donesiani crescono dell’1,1% l’anno e la fecondità è scesa a 2,3 figli per donna. Anche la speranza di vita alla nascita è passata da 55 a 71 anni. Nel 2050 l’Indone-sia dovrebbe contare 313 milioni di persone, una crescita prossima allo zero e una fecondità poco sotto al livello di sostituzione.

Spettacolare la crescita del Brasile, il quinto Stato più popolato, la cui popola-zione in cinquant’anni è quasi triplicata. Se nel 1961 contava 73 milioni di abitanti, nel 1991 la sua popolazione era più che raddoppiata con 153 milioni, una crescita dell’1,6% annua e una fecondità di 2,6 figli per donna. Nel 2011 essa dovrebbe raggiungere 203 milioni di abitanti. Tuttavia il tasso di crescita sarà sceso all’1,1% annuo dal 2,7 del 1970. La fecondità è oggi di 2,2 figli per donna e l’attesa di vita alla nascita è di 73 anni, contro i 58 anni del 1970. Nel 2050 la popolazione bra-

Nchs Data Brief, n. 60, marzo 2011, http://www.cdc.gov/nchs/data/databriefs/db60.htm.

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siliana è proiettata a 260 milioni di persone, con una crescita dello 0,2% e una fecondità sotto la soglia di sostituzione (1,8%), mentre l’attesa di vita alla nascita sarà di 80 anni.

Complessivamente nel 2050 quattro su cinque degli attuali Stati più popolati resteranno in testa alla classifica demografica. Se l’India sorpasserà la Cina, e Stati Uniti e Indonesia dovrebbero mantenere le posizioni attuali, il Brasile potrebbe retrocedere in ottava posizione, scalzato dal Pakistan.

Negli ultimi vent’anni Pakistan, Bangladesh e Nigeria hanno già superato Russia e Giappone. Il Pakistan è oggi il sesto Stato più popolato al mondo. Complessi-Il Pakistan è oggi il sesto Stato più popolato al mondo. Complessi-vamente la transizione demografica vi si è manifestata in ritardo sia rispetto alla Cina che all’India. Se la mortalità comincia a declinare sin dagli anni Cinquanta, la fecondità è iniziata a scendere solo alla fine degli anni Ottanta. Rispetto agli anni Cinquanta, l’aspettativa di vita alla nascita è tuttavia aumentata di vent’anni. Dai 6,9 figli per donna sino al 1985, si è passati agli attuali 3,2, anche se si prevede che la fecondità pakistana scenda al di sotto del tasso di sostituzione solo nel 2050. Intanto la popolazione totale avrà raggiunto i 200 milioni nel 2020 e i 290 milioni nel 2050.

Anche il Bangladesh risulta avviato ormai alla transizione demografica. L’ex Pakistan orientale, all’epoca della sua indipendenza, nel 1971, contava una po-polazione di 69 milioni di abitanti. A quarant’anni di distanza, essa è più che rad-doppiata, avendo superato i 158 milioni di persone (settimo stato più popolato). Il tasso di fecondità è sceso a 2,6 figli per donna e raggiungerà il tasso di sostituzione generazionale nel 2040, mentre la sua popolazione potrebbe toccare i 250 milioni nel 2050.

Il primo tra gli Stati africani per popolazione è oggi la Nigeria, con oltre 155 milioni di abitanti, che continua a crescere a un tasso dell’1,9% annuo. La fecon-La fecon-dità è di 4,7 figli per donna e l’attesa di vita alla nascita di soli 48 anni. Nel 1991 la popolazione nigeriana era di 99 milioni di persone, cresceva del 2,5% l’anno con una media di 6,4 figli per donna. L’attesa di vita alla nascita era di 45 anni. Le proiezioni al 2050 danno una popolazione di 264 milioni di persone, che crescerà dello 0,9% l’anno con 2,4 figli per donna e un’attesa di vita di 62 anni.

L’unico Stato europeo al vertice della graduatoria demografica, la Russia, ha oggi una popolazione di 138 milioni e un tasso di crescita dello -0,5%, nonostante la fe-condità sia leggermente risalita a 1,4 figli per donna. Nel 2050 la popolazione russa si sarà ridotta a 109 milioni, lo stesso valore del 1954; avrà una crescita negativa (-0,7%), una media di 1,7 figli per donna.

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Nell’anno della sua dissoluzione, il 1991, l’Urss aveva raggiunto 148 milioni di abitanti, ma la sua crescita annua era già prossima allo zero. L’aspettativa di vita in quell’anno era di 69 anni. Con la fine dell’Unione Sovietica, negli anni Novanta si è assistito a un crollo delle nascite: già nel 1995 il tasso di crescita russo è divenuto negativo, la fecondità è scesa a 1,3 figli per donna e l’attesa di vita si è ridotta a 65 anni. Da allora la popolazione russa più giovane si è notevolmente ridimensionata, oltre a essere invecchiata.

figura 1.1.7 la piramide delle età in russia

La popolazione si è ridotta a 138 milioni di abitanti. Il tasso di fecondità è di 1,4 figli per donna, pari a quello italiano.Fonte: Us Census Bureau, International Data Base 2011.

Il decimo Stato più popolato è oggi il Giappone con 126 milioni di abitanti. Il tasso di crescita è negativo (-0,3%), la fecondità è di 1,2 figli per donna e l’attesa di vita è di 82 anni. Nel 2005 ha raggiunto una crescita zero che dall’anno successivo è divenuta negativa. Le proiezioni al 2050 vedono una contrazione della popola-Le proiezioni al 2050 vedono una contrazione della popola-zione totale a 93 milioni, 33 milioni in meno rispetto alla popolazione attuale, pari alla popolazione del 1959. Nonostante ciò nel 2050 la fecondità risalirebbe a 1,6 figli per donna mentre l’attesa di vita alla nascita toccherà gli 84 anni.

Le proiezioni relative al 2050 vedono inoltre l’ascesa demografica dell’Etiopia, che supererà Nigeria, Brasile e Bangladesh nella fascia tra i 250 e i 280 milioni di abitanti, e quella delle Filippine, oggi in 13° posizione dopo aver superato la Ger-mania, che raggiungeranno allora 171 milioni di persone.

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Così, alla luce della transizione demografica, il cosiddetto mondo sviluppato pare per il momento avere scarse alternative ad un crescente avvento di una popo-lazione duale14: da un lato cittadini nativi anziani sempre più numerosi, dall’altro una gioventù di migranti nata all’estero, soprattutto in Africa e in Asia, che sarà sempre più indispensabile per sostenere economia e servizi nei paesi più ricchi divenuti geriatrici.

figura 1.1.8 la piramide delle età in Giappone

La popolazione totale è stimata in 126 milioni di abitanti. Il tasso di fecondità è sceso a 1,2 figli per donna.Fonte: Us Census Bureau, International Data Base 2011.

Al 2050 gli unici Stati ancora giovani saranno alcuni tra i paesi oggi più poveri al mondo: dall’Africa Sub-sahariana alla Somalia, dall’Iraq all’Afghanistan. Gli unici che saranno allora in grado di nutrire con la propria popolazione giovane il resto del mondo divenuto sempre più anziano e con un rapporto di dipendenza della popolazione over 65 dalla popolazione in età lavorativa sempre più sbilanciato.

SECURITY DEMOGRAPHICS

Se, come abbiamo visto, nel contesto del generale boom degli studi sulla sicurez-

14 W. A. V. Clark, “Human Mobility in a Globalizing World: Urban development Trends and Policy Implications”, H.S. Geyer (ed.), International Handbook of Urban Policy, vol. I, Contentious Global Issues, Edward Elgar, 2008.

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za dell’ultimo decennio, la demografia è stata interrogata per tentare di ricavarne indicazioni sull’eventuale propensione al conflitto di singoli Stati, tradizionalmen-te gli studi sulla relazione tra demografia e conflitti avevano in precedenza già messo a fuoco l’impatto dei conflitti sulla demografia.

I dati sui paesi coinvolti nelle due guerre mondiali mostravano infatti un decli-no della fecondità in tempo di guerra, al quale seguiva in genere un baby boom. Mentre si attendono ancora valutazioni approfondite dell’eventuale impatto degli attentati del 2001 sulla fecondità, tale relazione resta tuttora dibattuta, visto che nuovi studi, ad esempio sull’Eritrea, hanno messo in questione la possibilità che vi debba comunque essere una crescita demografica post-bellica.

Oltre agli aspetti già considerati a proposito della transizione demografica, dai carenti tassi di sostituzione delle economie sviluppate agli squilibri nella propor-zione tra popolazione giovane e anziana, all’impatto della demografia su immigra-zione legale e illegale, nell’ambito della security demographics sono stati analizzate anche le conseguenze delle pandemie sulla capacità riproduttiva di una popolazio-ne e le implicazioni per la sicurezza prodotte da uno squilibrio di genere.

Lo squilibrio di genere

Il rapporto tra il numero di maschi e il numero di femmine in una popolazione può costituire infatti un indicatore per valutare potenziali rischi per la sicurezza, soprattutto quando esso risulti sbilanciato nella prima fascia di età riproduttiva15.

Alla scala globale questo rapporto è oggi di circa 101,3 persone di sesso maschile ogni 100 persone di sesso femminile. In Asia in generale vi è un deficit di popola-zione femminile: la media della regione è di 104,4 maschi ogni 100 femmine.

Il caso più estremo riguarda la Cina con 120 maschi ogni 100 femmine. La ge-nerale preferenza per i figli maschi e la svalutazione della vita femminile sono tra le cause principali del fenomeno, che tuttavia è stato aggravato dall’aumento degli aborti selettivi a seguito della diffusione di tecniche di visualizzazione prenatale dell’identità di genere.

Inoltre una generale negligenza verso le figlie femmine che spesso sconfina nell’abbandono ha prodotto tassi di mortalità infantile più elevati per le bambine; e la situazione prosegue anche dopo la crescita: il 55% di tutti i suicidi femminili nel

15 V. Hudson e A. M. Den Boer, “Bare Branches and Security in Asia”, Harvard Asia Pacific Review, 2007, pp. 18-20.

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mondo riguardano donne cinesi in età riproduttiva. Anche in India vi è uno squi-librio, sia pure più modesto: 106 femmine ogni 100 maschi. Squilibri simili sono riscontrabili anche in Pakistan, Bangladesh, Nepal, Bhutan, Taiwan, Afghanistan, Corea del Sud (non vi sono dati sulla Corea del Nord). Infine, anche gli Stati del Golfo presentano un deficit femminile, a causa dell’elevato numero di migranti per lavoro attratti dall’economia del petrolio.

In altre regioni del mondo la situazione è invece capovolta: in Russia e nei paesi dell’ex patto di Varsavia, il deficit riguarda i maschi adulti. Negli anni Novanta, la mortalità maschile russa è divenuta molto più elevata di quella femminile, a causa tra l’altro della piaga dell’alcolismo. Il gender unbalance inizia a riscontrarsi oggi già nella fascia di età tra i 25 e i 29 anni, e aumenta in tutte le fasce successive.

Tra i 50 e i 54 anni vi sono oggi un milione di donne in più rispetto agli uomini mentre nella fascia tra i 70 e i 74 sono oltre due milioni le donne in più, esse rap-presentano il doppio degli uomini. Nel 2011 l’attesa di vita media alla nascita per gli uomini è di soli 59,8 anni, mentre per le donne supera i 73.

In Africa il rapporto tra generi vede 98,9 maschi ogni 100 femmine, valore pros-simo a quello dell’America Latina, dove nel 2000 vi erano 98 maschi ogni 100 femmine. In Europa infine il rapporto è di 93,1 a 100 (pesano Russia ed Europa Orientale).

È possibile che un deficit di femmine possa giungere a influenzare la sicurez-za di uno Stato? Vi è chi come l’antropologa Barbara D. Miller, sostiene che “il mantenimento di un equilibrio di genere sia un bene pubblico trascurato”. O chi come la demografa Valerie Hudson si chiede “che importanza avrà il fatto che alla volta del 2020, dal 12 al 15% dei maschi adulti di India e Cina non potranno formare delle famiglie tradizionali dal punto di vista culturale perché le ragazze che avrebbero dovuto divenire le loro mogli sono state eliminate dalle loro società?”

La stessa Hudson rileva un rischio di aumento della criminalità: “il matrimonio è un predittore affidabile di una svolta nei comportamenti violenti, illegali, antisociali e senza scrupoli. Una consistente percentuale di giovani che non possano sposarsi sono dunque causa di instabilità sociale”. Pure un ritardo nell’età in cui si contrae matri-Pure un ritardo nell’età in cui si contrae matri-monio è causa di instabilità: come mostra il caso dell’Egitto dove l’età media di matrimonio è ormai arrivata a 32 anni. Forse lo squilibrio di genere in Pakistan, India, Cina e Taiwan non è causa diretta di conflitti, ma potrebbe aggravarli. Trenta milioni di bambine in meno significano che oltre 30 milioni di giovani cinesi non potranno trovare una compagna nella loro fascia di età con cui formare una fami-glia e riprodursi. E saranno le persone più deboli economicamente e come educa-

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zione a non potersi sposare, creando potenziali ragioni di conflitto all’interno della società cinese.

È vero che i dati demografici ufficiali non tengono conto dell’esistenza degli hei hanzi, i figli illegali non registrati dai genitori per evitare le pesanti sanzioni alle famiglie che contravvenivano la politica del figlio unico16. Secondo lo UNhcr po-trebbero essere nell’ordine di milioni di persone, e spesso di sesso femminile.

Tuttavia, essendo privi di cittadinanza, questi figli “in nero” non hanno diritti, educazione, assistenza medica, lavoro, ecc., soprattutto quando dalle province ru-rali, dove il fenomeno è più diffuso, si recano nelle aree urbane. Essi, non esistendo ufficialmente, possono alimentare un’inquietante tratta di donne in età riprodut-tiva. Il traffico delle donne, che peraltro non riguarda solo la Cina, ma gran parte dell’Asia, in generale sarebbe già in corso da tempo. Secondo il Dipartimento di Stato americano molte proverrebbero da Corea del Nord, Vietnam, Burma, Mon-Corea del Nord, Vietnam, Burma, Mon-golia e Thailandia17.

La demografia del mondo musulmano

Nell’ultimo decennio la security demographics si è occupata naturalmente delle popolazioni di religione musulmana, in genere a partire dal presupposto che se da un lato la religione costituiva un freno alla riduzione della fecondità, dall’altro l’abbondanza di giovani in un contesto di scarso sviluppo economico offriva un terreno fertile per il reclutamento nelle fila del fondamentalismo islamico.

Tali allarmi, lanciati almeno cinque anni fa, non sono riusciti a evitare che in Somalia, dove il 63,4% della popolazione totale ha oggi meno di 24 anni e dove da vent’anni la guerra civile è la norma, il fondamentalismo giovanile crescesse dopo il 2007 al punto che gli shabab (in arabo gioventù) prendessero il controllo di quasi tutta la Somalia centro-meridionale.

Tuttavia, al di là della specificità del caso somalo, nel quale gli errori commessi dalla “comunità internazionale” hanno non poco peso, gli stereotipi secondo cui il mondo islamico sarebbe per sua natura un mondo dogmatico, immutabile, restio

16 Una parziale ammissione della loro esistenza è avvenuta nel 2008 a seguito del terremoto del Sichuan, quando il governo ha permesso alle famiglie che avevano perso il primo figlio a causa del sisma di legalizzare il secondo. Vedi: A. Jacobs, “China’s One-Child Policy Has Exceptions for Qua-ke Victims’ Parents", International Herald Tribune Online, http://www.iht.com/articles/2008/05/27/asia/27child.php, 27 maggio 2008.17 M. P. Lagon, “Trafficking in China", Office to Monitor and Combat Trafficking in Persons, United States Department of State, Congressional Human Rights Caucus Briefing, Washington Dc, 31 ottobre 2007.

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alla modernizzazione e dunque non in grado di sostenere la transizione demogra-fica paiono oggi superati. Alla loro diffusione aveva dato un notevole contributo Samuel Huntington che aveva usato il mito della crescita demografica a pretesto delle sue tesi islamofobiche dello scontro tra civiltà.

L’approccio seguito da Courbage e Todd, confermato dalla recente “primavera araba” del 2011, che da Tunisia ed Egitto si è estesa a Penisola Arabica, Medio Oriente e Africa Sub-sahariana, era infatti giunto a prevedere la nuova domanda di democrazia già nel 200718. I due studiosi francesi avevano infatti provveduto a smontare il mito che tradizionalmente circonda l’analisi della demografia dei paesi musulmani. Pur essendo partito in ritardo, il mondo musulmano sta attraversan-do, molto più velocemente, la stessa transizione già vissuta in Europa. Il fattore de-cisivo di modernizzazione sarebbe soprattutto l’aumento del livello di educazione, in particolare femminile, che si accompagna alla diffusione della contraccezione, risultando in una riduzione dei tassi di fecondità. Inoltre, anche in ambito mas-chile, figli più educati tollerano sempre meno l’autoritarismo dei padri ignoranti, come mostra proprio la richiesta di democrazia che ha coinvolto gli Stati del Nord Africa e del Medio Oriente19.

Così i dati recenti sfatano il mito che la fecondità musulmana sia universalmente elevata e priva di tendenze al calo, come quello che essa sia sempre superiore rispetto a popoli fedeli di altre religioni. I due studiosi rilevano inoltre una corre-I due studiosi rilevano inoltre una corre-lazione tra nazionalismo e demografia: come mostra il blocco della transizione in Palestina e Israele (la cosiddetta “guerra tra culle”), nel mondo albanese (Kosovo e Macedonia), nello Yemen (dove il tasso di fecondità resta di 6 figli per donna).

Anche il recente rapporto del Pew Research Center20 conferma questi risultati. Alla scala globale la popolazione musulmana è destinata ad aumentare dagli attuali 1,6 a 2,2 miliardi del 2030 passando dall’attuale 23,4% al 26,4% (la popolazione globale raggiungerebbe allora 8,3 miliardi). Tuttavia tale crescita sarà più lenta nei prossimi vent’anni di quanto non sia stata nei due decenni precedenti. Dal 2,3% del periodo 1990-2000 essa era scesa al 2,1% nell’ultimo decennio; mentre tra il 2010 e il 2030 dovrebbe scendere ulteriormente all’1,5%. Ciò dipenderebbe dal

18 T. Courbage, Les rendez-vous, cit.19 Nel subcontinente indiano il rapporto tra musulmani e induisti nei tre stati più popolati, India, Pa-kistan e Bangladesh all’anno 2000 conta 400 milioni di musulmani e più del doppio di fedeli dell’in-duismo e delle altre religioni. Le proiezioni al 2050 stimano l’ascesa del gruppo di religione musul-mana a oltre 900 milioni, mentre induisti e altre religioni conteranno 1,2 miliardi. 20 Pew Research Center’s Forum on Religion and Public Life, The future of the global muslim popu-lation. Projections for 2010-2030, 27 gennaio 2011, http://pewforum.org/The-Future-of-the-Global-Muslim-Population.aspx.

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declino dei tassi di fecondità in molti paesi musulmani, inclusi Indonesia e Bangla-desh, grazie all’educazione femminile, al miglioramento degli standard di vita, e all’urbanizzazione. Il calo riguarda la regione asiatica, il Medio Oriente/Nord Afri-Il calo riguarda la regione asiatica, il Medio Oriente/Nord Afri-ca e l’Europa, piuttosto che l’Africa Sub-sahariana. Nel 2030 il 60% dei musulmani continuerà a vivere nella regione Asia/Pacifico, mentre circa il 20% sarà in Medio Oriente e Nord Africa. Il Pakistan, come già visto, supererà l’Indonesia, divenendo lo Stato con la maggior popolazione musulmana.

I musulmani aumenteranno soprattutto nell’Africa Sub-sahariana: la Nigeria supererà l’Egitto. Mentre continueranno a essere minoranze negli Usa (dove pas-seranno dagli attuali 2,6 milioni a 6,2 milioni, a causa di immigrazioni e del mag-gior tasso di fecondità) e in Europa (dove nei prossimi 20 anni si passerebbe dal 6 all’8%). Oltre alla Russia, i maggiori aumenti nel 2030 riguarderebbero la Francia (dall’attuale 7,5 al 10,3%), il Belgio (dal 6 al 10,2%), la Svezia (dal 4,9 al 9,9%), l’Austria (dal 5,7 al 9,3%) e il Regno Unito (dal 4,6 all’8,2%). Naturalmente l’in-Naturalmente l’in-terpretazione della transizione demografica nel mondo musulmano può variare molto a seconda del fatto che si percepiscano o meno i fedeli di questo credo come una minaccia piuttosto che come una risorsa.

Se la primavera araba consente di superare l’associazione scontata tra giovani musulmani e fondamentalismo, è evidente che anche le valutazioni dell’ultimo decennio sulle implicazioni del cosiddetto youth bulge (rigonfiamento nella pira-mide delle età più giovani) per la sicurezza sono da rivedere. A maggior ragione considerando che, dopo il picco del 2000, il numero di giovani si sta riducendo. Se nel 1990 oltre due terzi della popolazione totale nei paesi a maggioranza musul-mana era sotto i 30 anni, oggi questa componente è il 60% e sarà del 50% nel 2030. Intanto l’età mediana è passata da 19 anni (1990) a 24 nel 2010, e sarà di 44 anni nel 203021. Tale tendenza non riguarda solo i paesi musulmani: è l’intera popola-Tale tendenza non riguarda solo i paesi musulmani: è l’intera popola-zione mondiale a invecchiare.

DEMOGRAFIA, SICUREZZA E AMBIENTE GLOBALE

Intorno al 2012 la popolazione mondiale raggiungerà i sette miliardi. Si tratta di un valore mai conosciuto prima nella storia dell’umanità e difficilmente riconduci-bile all’esperienza umana, se in un secolo vi sono 3,15 miliardi di secondi.

Tuttavia, nonostante il recente rallentamento, la velocità con cui la popolazione terrestre è cresciuta è anche più impressionante. Prima dell’invenzione dell’agri-

21 I sunniti continueranno a costituire la stragrande maggioranza dei musulmani all’87-90%, mentre gli sciiti declineranno a causa del calo della fecondità in Iran.

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coltura, gli esseri umani sulla Terra sono stimati essere pari a circa un milione di persone.

Il primo miliardo di persone fu raggiunto intorno al 1800. Da allora, essa ha continuato a crescere ad un ritmo sempre più accelerato. Il terzo miliardo è stato raggiunto nel 1960, il quarto nel 1975, il quinto nel 1987 e il sesto nel 1999. Se per arrivare al primo miliardo ci vollero circa dodicimila anni, il secondo fu raggiunto dopo 130 anni, il terzo in trent’anni, il quarto in quindici, il quinto e il sesto in dodici anni ciascuno. Nell’ultimo decennio il tasso di crescita è leggermente ral-lentato, così il settimo miliardo dovrebbe richiedere circa 13 anni.

Ora, se è evidente che tale aumento si è realizzato in parallello alla rivoluzione industriale, è altrettanto evidente che l’organizzazione della società umana non era preparata per affrontare una simile crescita, né tutte le sue implicazioni, in un arco di tempo tanto breve. Attualmente si aggiungono 2,4 persone al secondo alla popolazione mondiale. La proiezione intermedia evidenzia come essa potrebbe toccare i 9,15 miliardi verso il 2050. Così se lo scorso anno l’aumento demografico è stato stimato in 76 milioni di persone (più del corrispettivo dell’intera popolazio-ne egiziana), nel 2050 aumenteremo “solo” di 31 milioni di persone l’anno (quasi metà dell’attuale popolazione italiana).

Non per questo si deve cedere alla malthusiana tentazione di ritenere che non vi siano spazio e risorse sufficienti per tutti sul nostro pianeta. Rapportando sette miliardi di persone ai circa centocinquanta milioni di km2 di terre emerse si ha una densità teorica di quasi 47 abitanti per km2, inferiore ad esempio a quella della provincia di Siena.

E anche se ogni parte della Terra sarebbe teoricamente abitabile con l’ausilio di tecnologie adeguate, dimezziamo pure la superficie totale utile in modo da sot-trarre tutte quelle aree che per le estreme condizioni topografiche e/o climatiche difficilmente risultino abitabili. Anche con cento abitanti per km2 avremmo una densità media che è la metà di quella italiana e saremmo ancora molto lontani dalla soglia minima di 400 abitanti per km2 che distingue le aree urbane da quelle rurali. Dunque non è certo lo spazio sulla Terra a mancare. Su questo pianeta c’è posto per tutti.

Per quanto riguarda le risorse, Grübler (1994) aveva stimato un fabbisogno di terreno coltivabile di 0,2 ettari a persona, pari a 14 milioni di km2, ossia un decimo delle terre secondo Xiao et al. (1999), potenzialmente coltivabili. Almeno in teoria, il nostro pianeta può supportare una popolazione ben maggiore dell’attuale.

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Il problema riguarda invece la distribuzione di popolazione e risorse, visto che il 90% degli esseri umani si concentra solo sul 20% della superficie delle terre emerse (attualmente a Nord dell’Equatore). Certo, il problema del “sovra-affollamento” pone sotto pressione le aree urbane in tutto il mondo, se si considera che negli ul-timi decenni il tasso medio annuo di urbanizzazione (4,5%) è stato triplo del tasso di crescita demografica (1,5%). Solo nel 1950 la popolazione urbana era circa un terzo del totale, e se oggi più della metà di essa risulta urbanizzata, al ritmo attuale le incessanti migrazioni rurali verso le città porteranno, per il 2050 oltre due terzi della popolazione globale a urbanizzarsi.

Così non è tanto il valore totale della popolazione terrestre a superare la capacità di carico in termini di spazio e risorse del nostro pianeta, il nodo critico riguar-da la capacità delle infrastrutture attuali, da quelle urbane a quelle economiche e politiche, di farvi fronte. E l’impatto maggiore è proprio quello sul piano psicolo-E l’impatto maggiore è proprio quello sul piano psicolo-gico, nella misura in cui il mondo più sviluppato continuerà a vedere l’altra parte del mondo, la più numerosa, come minaccia anziché come risorsa, e orienterà le proprie scelte, a partire da quelle di politica energetica, nella stessa direzione per-seguita nello scorso secolo.

È qui che l’impatto della crescita demografi ca mostra le conseguenze potenzial-crescita demografica mostra le conseguenze potenzial-mente più drammatiche. La crescente domanda globale di terreni coltivabili, acqua ed energia ha da tempo creato una pressione sui sistemi naturali allarmante22. Non solo si è già assistito a una drastica riduzione della biodiversità: il tasso attuale di estinzione di specie viventi è stimato tra 100 e 1000 volte quello naturale.

Tra tutte le forme di pressione antropica sulle risorse, è probabilmente la do-manda di idrocarburi a essere cresciuta maggiormente. Ciò non deve stupire se si pensa che l’energia prodotta da un barile di petrolio equivale a quella prodotta in otto anni di lavoro da una persona di media costituzione. Così, solo negli Stati Uniti nel secolo scorso la domanda di petrolio è passata da 39 milioni a 6,6 miliar-di di barili l’anno, un aumento di oltre due ordini di grandezza, rispetto a quello demografico.

La questione è nota: un miliardo di persone, il 15% della popolazione terrestre, gode di uno stile di vita che ha un impatto spaventoso sulle risorse. Secondo Jared Diamond, un abitante medio degli Stati Uniti (o Europa Occidentale, Giappone e Australia) consuma trentadue volte più di un abitante del Kenya. E la maggior

22 Secondo l'iUcN Red List, nel 2009 erano quasi 17 mila le specie a rischio di estinzione alla scala globale: oltre un quinto dei mammiferi, quasi un terzo di rettili e animali anfibi, il 12% degli uccelli e il 37% dei pesci.

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parte della popolazione mondiale ha consumi che si avvicinano molto a quelli di un kenyota medio.

D’altro canto, come ha osservato Larry Smith, se il nostro stile di vita si esten-desse a tutta l’umanità vivente, il consumo globale di risorse si moltiplicherebbe di undici volte, come se in luogo degli attuali sette miliardi di persone la Terra dovesse sostenere un carico di oltre settanta miliardi di persone23. Così, l’impatto dei 9 miliardi di persone previste al 2050 equivarrebbe a quello di una popolazione di centocinque miliardi di oggi. Una futura riflessione sul rapporto tra demografia e sicurezza forse dovrebbe partire proprio da qui, ovvero dalla consapevolezza che non sono tanto i valori della popolazione di per sé a costituire un rischio per la si-curezza, quanto la velocità della transizione demografica e la difficoltà di adattarsi a tali cambiamenti, non solo sul piano infrastrutturale, ma soprattutto su quello psicologico.

Infine non sono tanto lo spazio terrestre e le risorse a mancare, quanto la loro distribuzione geografica a essere causa di conflitti e squilibri. Da questo punto di vista, anche senza voler negare le differenze della Storia, è forse proprio il model-lo geoeconomico e geopolitico perseguito a dover essere rimesso in discussione. Qui, ancora una volta, il Giappone mostra di essere in anticipo. Dopo la triplice catastrofe del 2011, vi è oggi in corso una riflessione sull'errore “sistematico” nel modello di sviluppo perseguito negli ultimi sessant'anni, che potrebbe portare a notevoli cambiamenti non solo per le politiche di produzione dell'energia, ma so-prattutto per quelle di consumo energetico. E' necessario augurarsi che tale ripen-samento possa estendersi al più presto anche al di fuori del Giappone, poiché al di là di tutte le divisioni geopolitiche, la Terra resta una sola e la principale questione della sicurezza è quella che riguarda la biosfera.

23 L. Smith, The World in 2050. Four Forces Shaping Civilization’s Northern Future, Boston: Dutton, 2010, p.328.

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