Classe, religione, territorio

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149 MARCO MARAFFI, HANS M.A. SCHADEE, CRISTIANO VEZZONI E GABRIELE BALLARINO LE FRATTURE SOCIALI: CLASSE, RELIGIONE, TERRITORIO Classe, religione e territorio costituiscono le tre fondamentali linee di divisione che hanno attraversato gli elettori e i partiti nella Repubblica Italiana. Esse hanno rappresentato i principali cleavages costitutivi della nostra democrazia. Intorno a essi i partiti si sono strutturati, creando in alcune aree del paese subculture politiche territoriali – quella socialista-comunista e quella cattolica – capaci di produrre per un lungo periodo una profonda continuità dei risultati elettorali e degli insediamenti partitici. Ma anche dove, come nel Mezzogiorno, l’attaccamen- to di tipo subculturale è sempre stato più debole, i richiami basati sull’appartenenza di classe o di tipo religioso hanno significativamente contribuito a orientare il comportamento di voto degli italiani. La letteratura contemporanea tende tuttavia ad attenuare l’influenza di questi fattori sulle scelte di voto, a causa dei processi di trasformazione economica e sociale delle democrazie avanzate, che chiamano in causa anche la natura stessa dei partiti moderni e i loro cambiamenti. Il dibattito è quindi quanto mai aperto. Anche nel caso italiano, soprattutto dopo la cesura del 1993 e il costituirsi di un nuovo sistema partitico, vengono avanzate interpretazioni di «scongelamento» dei tradizionali cleavages sociali quali antecedenti delle scelte di voto: i partiti non lancerebbero più appelli di classe mentre le modifiche nella struttura occupazionale renderebbero obsolete e rozze le distinzioni binarie tra classe operaia e borghesia; la compiuta secolarizzazione della società italiana non lascereb- be che spazi interstiziali a movimenti politici basati sul mero richiamo religioso; la geografia politica dell’Italia contempo- Il paragrafo 1 è stato scritto da Gabriele Ballarino, Hans M.A. Schadee e Cristiano Vezzoni; il paragrafo 2 da Marco Maraffi; il paragrafo 3 da Cristiano Vezzoni.

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MARCO MARAFFI, HANS M.A. SCHADEE, CRISTIANO VEZZONI E GABRIELE BALLARINO

LE FRATTURE SOCIALI: CLASSE, RELIGIONE, TERRITORIO

Classe, religione e territorio costituiscono le tre fondamentali linee di divisione che hanno attraversato gli elettori e i partiti nella Repubblica Italiana. Esse hanno rappresentato i principali cleavages costitutivi della nostra democrazia. Intorno a essi i partiti si sono strutturati, creando in alcune aree del paese subculture politiche territoriali – quella socialista-comunista e quella cattolica – capaci di produrre per un lungo periodo una profonda continuità dei risultati elettorali e degli insediamenti partitici. Ma anche dove, come nel Mezzogiorno, l’attaccamen-to di tipo subculturale è sempre stato più debole, i richiami basati sull’appartenenza di classe o di tipo religioso hanno significativamente contribuito a orientare il comportamento di voto degli italiani. La letteratura contemporanea tende tuttavia ad attenuare l’influenza di questi fattori sulle scelte di voto, a causa dei processi di trasformazione economica e sociale delle democrazie avanzate, che chiamano in causa anche la natura stessa dei partiti moderni e i loro cambiamenti. Il dibattito è quindi quanto mai aperto. Anche nel caso italiano, soprattutto dopo la cesura del 1993 e il costituirsi di un nuovo sistema partitico, vengono avanzate interpretazioni di «scongelamento» dei tradizionali cleavages sociali quali antecedenti delle scelte di voto: i partiti non lancerebbero più appelli di classe mentre le modifiche nella struttura occupazionale renderebbero obsolete e rozze le distinzioni binarie tra classe operaia e borghesia; la compiuta secolarizzazione della società italiana non lascereb-be che spazi interstiziali a movimenti politici basati sul mero richiamo religioso; la geografia politica dell’Italia contempo-

Il paragrafo 1 è stato scritto da Gabriele Ballarino, Hans M.A. Schadee e Cristiano Vezzoni; il paragrafo 2 da Marco Maraffi; il paragrafo 3 da Cristiano Vezzoni.

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ranea appare sempre meno riconducibile alle mappe che ci orientavano nel passato.

Assumere una prospettiva di lungo periodo – quale è quella qui presentata – consente di valutare quanto effettivamente valide siano le interpretazioni che enfatizzano la discontinuità dell’impatto di questi tradizionali antecedenti sociali del voto, e di apprezzare anche i margini di continuità che la politiciz-zazione di questi cleavages ancora segnala.

1. La classe sociale

L’interesse per l’associazione tra la classe sociale degli in-dividui e le loro scelte elettorali risale direttamente alle origini della politica di massa contemporanea, e ai classici delle scienze politiche e sociali. Da quando è iniziato lo studio empirico di questo legame, negli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, è stata osservata una tendenza delle classi superiori a votare più di frequente per i partiti di destra, e di quelle infe-riori a votare per la sinistra1. Gli studiosi della stratificazione sociale e i politologi hanno interpretato questo fenomeno con il concetto di «lotta di classe democratica» [Anderson e Davidson 1943]: nel capitalismo maturo, con libere elezioni e un sistema politico democratico, il conflitto tra borghesia e classe operaia si «civilizza», perde le forme drammatiche e violente della rivoluzione e della reazione controrivoluzionaria, e assume le forme pacifiche e regolate dalla legge del confronto elettorale e parlamentare tra partiti politici che esprimono gli interessi delle classi in conflitto.

Le ragioni dell’associazione tra classe e voto stanno nella divaricazione degli interessi connessa con la stratificazione sociale: i gruppi occupazionali che ricoprono posizioni pri-vilegiate (imprenditori, dirigenti, professionisti) prediligono politiche conservatrici, che tutelino la gerarchia sociale che li vede vincenti, mentre quelli subordinati (coloro che svolgono lavoro dipendente poco qualificato, soprattutto manuale)

1 La vasta letteratura sul tema è passata in rassegna da Manza, Hout e Brooks [1995] e da Evans [2000].

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preferiscono politiche orientate alla redistribuzione del red-dito e all’espansione del welfare state, tali da diminuire la distanza di risorse e/o di opportunità che li separa dai gruppi privilegiati. Questa spiegazione elementare è stata successiva-mente arricchita considerando da una parte il peso dei fattori storico-politici, dall’altra quello dei fattori socio-psicologici: tra i primi emergono la composizione di lungo periodo delle diverse classi, le caratteristiche delle reti di comunicazione che le contraddistinguevano, il rapporto tra interessi di classe e offerta programmatica proveniente dai partiti; tra i secondi ci sono gli atteggiamenti verso la politica e le identificazioni partitiche degli individui, con i relativi antecedenti psicologici [Manza, Hout e Brooks 1995; Corbetta, Parisi e Schadee 1988].

Il classico lavoro di Lipset e Rokkan [1967] ha inserito la classe sociale tra i grandi fattori di cleavage politico cristalliz-zatisi nel processo di formazione dei moderni stati nazionali europei. Già all’epoca di Lipset e Rokkan, tuttavia, molta letteratura ipotizzava una riduzione dell’associazione tra classe e voto, in base a diversi fattori di mutamento [Manza, Hout e Brooks 1995]: l’indebolimento strutturale delle divisioni di classe, dovuto in particolare all’«imborghesimento» della classe operaia e/o alla mobilità da questa alle classi superiori; l’emergere di nuovi cleavages politico-elettorali, basati sul ge-nere, sulla razza, sull’appartenenza etnica e/o linguistica, sui comportamenti sessuali e così via; la «mobilitazione cognitiva» degli elettori, sempre più capaci di fare le proprie scelte in base a interessi individuali e non radicati in un’appartenenza collettiva; l’emergere di una «nuova sinistra» non più diretta-mente basata sulla stratificazione sociale ma su interessi e valori «post-materialisti»; lo spostamento dell’offerta politica verso il centro e verso obiettivi superiori alle divisioni di classe, quali la competitività globale dell’economia nazionale, il sostegno alla famiglie e così via.

Nel paragrafo 1.1 esamineremo l’associazione tra classe e voto in Italia, osservandola nell’arco di un trentennio. Con-fronteremo poi in modo più dettagliato il peso della classe sociale sul voto nelle elezioni del 1972 e in quelle tenutesi a trent’anni di distanza, negli anni 2000. Infine, considereremo una dimensione distinta da quella di classe, seppur legata all’am-bito professionale individuale, che sembra ricoprire un ruolo

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TAB. 5.1. Schema delle classi utilizzato nelle analisi

Raggruppamenti utilizzati

in questo lavoro

Posizione di classe nello schema

Erikson-Goldthorpe-Portocarero

Descrizione

BORGHESIA

Imprenditori

Lavoratori indipendenti con disponibilità di capitale,

che gestiscono imprese con quattro o più dipendenti*

Professionisti

Lavoratori indipendenti la cui principale risorsa è un titolo

di studio elevato e l’iscrizione a un albo professionale

DirigentiLavoratori dipendenti che

comandano e dirigono altri lavoratori

IMPIEGATIClasse media impiegatizia

Lavoratori dipendenti non manuali in posizione intermedia

nella gerarchia aziendale

PICCOLA BORGHESIA

Piccola borghesia urbana

Piccoli imprenditori (fino a tre dipendenti) e lavoratori autono-mi dell’industria e del terziario

Piccola borghesia agricola

Piccoli imprenditori agricoli e coltivatori diretti

OPERAI

Piccoli imprenditori agricoli e coltivatori

diretti

Lavoratori dell’industria, qualificati e non qualificati, e lavoratori non qualificati

del terziario

Piccoli imprenditori agricoli e coltivatori

diretti

Lavoratori dipendenti dell’agricoltura

Legenda: * Si tratta di una soglia molto bassa: normalmente si fa riferimento a un numero più alto di dipendenti ma applicando una soglia alta a dati provenienti da sondaggi elettorali si rischierebbe di far scomparire del tutto questa categoria. Bisogna quindi tenere presente che la soglia di quattro dipendenti fa sì che la categoria degli imprenditori sia piuttosto vicina alla piccola borghesia urbana (cfr. pagine successive).

Fonte: Itanes.

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sempre più marcato nella definizione degli atteggiamenti e delle preferenze politiche: essere lavoratore dipendente o lavoratore autonomo. Questo elemento ha giocato una parte importante nella definizione del dibattito politico nelle recenti campagne elettorali, lasciando spazio a interpretazioni che associavano il centro-sinistra principalmente col lavoro dipendente e il centro-destra con quello autonomo.

Lo schema di classe utilizzato è basato sulle occupazioni dei rispondenti, raggruppate secondo la versione dello schema neo weberiano Erikson-Goldthorpe-Portocarero [cfr. Breen 2004] – utilizzata di norma nei lavori sulla mobilità sociale in Italia [Ballarino e Cobalti 2003] – la quale distingue otto posizioni di classe. In questa sede le otto posizioni originali sono state riaggregate in quattro gruppi, per ragioni principalmente legate alle basse numerosità di alcune classi, come mostrato nella tabella 5.1. I primi tre gruppi della classificazione Erikson-Goldthorpe-Portocarero (imprenditori, professionisti, dirigenti) sono uniti in un’unica classe, la borghesia. I due gruppi classe operaia urbana e classe operaia agricola possono essere riuniti all’interno della classe operaia [cfr. Bellucci 2001]. Infine, pic-cola borghesia urbana e agricola sono state aggregate, formando cosi la generica piccola borghesia2.

1.1. Classe e voto in Italia: 1972-2008

Gli argomenti avanzati dalla letteratura internazionale si applicano bene anche al caso italiano, e sono stati estesamente utilizzati per studiarlo. Corbetta e Segatti [2003] sottolineano il peso dei cambiamenti della struttura sociale, come la dimi-nuzione delle disuguaglianze e l’indebolimento dei cleavages ideologici creati dalla Guerra Fredda, e confermano questa ipotesi trovando un forte declino dell’associazione tra classe e voto nel periodo compreso tra le elezioni del 1968 e quelle del 2001. I due autori osservano anche un effetto della ridefinizione dell’offerta politica dei primi anni Novanta, connessa con la

2 Per una precisa descrizione del metodo di attribuzione della classe sociale al singolo rispondente, si veda Ballarino, Schadee, Vezzoni [2009].

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sparizione di DC e PSI e il mutamento del sistema elettorale in senso maggioritario. Su questo effetto si concentra l’analisi di Bellucci [2001; cfr. anche Bellucci e Heath 2007], che dal punto di vista teorico privilegia proprio le dinamiche dell’offerta: egli sottolinea quindi che l’associazione tra classe e voto diminuisce solo con gli anni Novanta e la ridefinizione dell’offerta politica, mentre un effetto delle dinamiche strutturali si sarebbe dovuto mostrare prima, e trova anche una tendenza al rafforzamento dell’associazione nelle elezioni del 1996. Egli propende quindi per una versione più sfumata della teoria del declino, e sottoli-nea le fluttuazioni dell’andamento dell’associazione – connesse all’andamento dell’offerta politica – piuttosto che la dinamica strutturale di indebolimento della stessa.

In realtà le due interpretazioni sembrano divergere più nell’accento che nella sostanza, ed entrambe reggono alla prova del dato, aggiornato alle elezioni più recenti. La tabella 5.2 mostra l’associazione tra le due variabili nella forma più semplice, ovvero come percentuale di voto al centro-destra da parte delle quattro classi sociali prese in considerazione. Il voto della classe superiore (borghesia), si orienta decisamente verso destra anche se con il tempo questa tendenza si attenua, specialmente nelle ultime due tornate elettorali. Per quanto riguarda le due classi medie (impiegati e piccola borghesia) si nota come la dinamica di voto sia sostanzialmente diversa. Da un lato gli appartenenti alla piccola borghesia accentuano la loro propensione a votare centro-destra, mentre dall’altro gli impiegati che negli anni Settanta e Ottanta erano pressoché divisi a metà tra centro-destra e centro-sinistra, negli anni 2000 si orientano decisamente a sinistra. Tanto da ribaltare la situazione rispetto agli operai: questi negli anni Settanta e Ottanta si orientavano compattamente a sinistra, mentre negli anni 2000, con qualche fluttuazione, si dividono a metà.

I dati riportati nella tabella 5.2 suggeriscono quindi cam-biamenti nell’associazione tra voto e classe, dovuti soprattutto alla minore propensione della classe media impiegatizia a votare a destra, visibile soprattutto dagli anni Novanta in avanti e quindi verosimilmente connessa con la ridefinizione dell’offer-ta politica che risale a quel periodo. Nelle ultime tre tornate elettorali la situazione sembra però essersi sostanzialmente stabilizzata, con leggere fluttuazioni che appaiono collegate a

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fattori contingenti relativi a ciascuna tornata piuttosto che a una tendenza vera e propria.

Questi risultati sono stati confermati anche da sofisticate analisi multivariate dove l’associazione tra classe sociale e voto viene stimata al netto di alcune variabili la cui influenza sul voto può sovrapporsi a quella della classe, nascondendola o distorcendola: il genere; l’età; il livello d’istruzione. A questo scopo sono stati stimati una serie di modelli logistici dove la variabile dipendente è il voto, dicotomizzato tra centro-destra (valore = 1) e centro-sinistra (valore = 0). Si è dapprima stimato un modello contenente solo le variabili di controllo sopracci-tate (M1). Quindi si è proceduto inserendo la classe sociale (M2). L’ipotesi che distingue i due modelli è che in generale, nel complesso del periodo osservato e controllando tutte le variabili indipendenti, la classe sociale spieghi una porzione significativa della probabilità di votare a destra.

La tabella 5.3 riporta alcune misure di adattamento per questi due modelli nelle tornate elettorali considerate: il chi quadrato di verosimiglianza, la percentuale di casi assegnati

TAB. 5.2. Statistiche descrittive dell’associazione tra classe sociale e voto

PERCENTUALE DI VOTI AL CENTRO-DESTRA NELLE ELEZIONI CONSIDERATE

1972 1983 2001 2006 2008

Borghesia 65 64 63 53 57

Impiegati 52 52 47 38 38

Piccola borghesia 58 55 65 56 63

Operai 41 33 54 40 49

DIFFERENZA PERCENTUALE TRA ALTRE CLASSI E BORGHESIA

1972 1983 2001 2006 2008

Impiegati -13 -12 -16 -15 -19

Piccola borghesia -7 -9 2 3 6

Operai -24 -31 -9 -13 -8

Fonte: Itanes [1972-2008].

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correttamente e lo pseudo-R2 di Nagelkerke. I valori di queste statistiche mostrano come il modello 2, che comprende la classe, migliora in modo significativo l’adattamento rispetto al modello 1. Ciò suggerisce che l’associazione tra classe sociale e voto continua a esistere, anche se non molto forte (lo sco-stamento tra modelli e dati osservati rimane rilevante), e con fluttuazioni di elezione in elezione che non sembrano però seguire un andamento sistematico. La tesi del declino del voto di classe tout-court non sembra quindi descrivere adeguatamente la situazione italiana, anche in ragione dello scarso peso che la classe sociale sembra avere sempre avuto, almeno nel periodo qui osservato (si noti il basso valore di R2).

Nella tabella 5.4 sono presentati i parametri dei modelli M2 – contenenti quindi la classe sociale – relativi alle diverse tornate elettorali. Si vede qui chiaramente come gli effetti non tendono a diminuire nel tempo, ma in alcuni casi cambiano direzione. Ciò

TAB. 5.3. Indici di adattamento del modello base (M1) e del modello contenente la classe sociale (M2) per le elezioni considerate

Elezione N Modello Chi2% casi

assegnati correttamente

Pseudo-R2 (Nagelkerke)

1972 929 M1 1253 59% 0,054

M2 1230 61% 0,084

1983 1254 M1 1668 60% 0,059

M2 1614 63% 0,113

2001 2195 M1 2996 55% 0,013

M2 2960 57% 0,034

2006 2505 M1 3433 56% 0,002

M2 3377 58% 0,032

2008 1531 M1 2096 56% 0,023

M2 2062 58% 0,051

Fonte: Itanes [1972-2008].

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conferma quanto già visto nella tabella 5.2. Se consideriamo che la categoria scelta come riferimento nei modelli è quella della classe media impiegatizia (impiegati), si può vedere come questa negli anni Settanta e Ottanta si collocasse a metà tra il gruppo che riunisce borghesia e piccola borghesia e il gruppo operai. In particolare, gli operai avevano una probabilità maggiore rispetto agli impiegati di votare per il centro-sinistra. Negli anni 2000 questa propensione si modifica, con gli impiegati che somiglia-no di più, in termini di comportamento di voto, agli operai. I parametri relativi al 2001 e al 2006 non indicano infatti una distinzione significativa tra impiegati e operai, mentre entrambe queste classi si distinguono da borghesia e piccola borghesia per una minore propensione a votare per il centro-destra. Nel 2008 la posizione di impiegati e operai addirittura si ribalta, con gli

TAB. 5.4. Parametri dei modelli logistici contenenti la classe sociale

1972 1983 2001 2006 2008

N 929 1254 2195 2505 1531

Costante 0,10* -0,05 0,27** -0,36*** 0,00

Genere (maschio) -0,68*** -0,61*** -0,05 -0,14 -0,21**

Età (>45 anni) 0,55*** 0,55** -0,23** -0,03 -0,21**

TITOLO DI STUDIO (rif.: basso)

Medio 0,10 0,47*** -0,35*** -0,05 -0,06

Alto 0,42 -0,09 -0,23 -0,26** -0,48***

CLASSE SOCIALE

(rif.: impiegati)

Borghesia 0,68 0,74** 0,62*** 0,66*** 0,80***

Piccola borghesia 0,34 0,21 0,62*** 0,66*** 0,83***

Classe operaia -0,35 -0,72*** 0,12 0,01 0,25**

Nota: Variabile dipendente: voto al centro destra (1), al centro-sinistra (0).Legenda: * p < 0,05; ** p < 0,01; *** p < 0,001.Fonte: Itanes [1972-2008].

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operai che manifestano una probabilità significativamente più alta degli impiegati di votare il centro-destra.

Questi risultati indicano abbastanza chiaramente come la classe sociale continui a essere associata, seppur debolmente, al voto. La domanda che rimane, però, è quale sia il senso di questa associazione. Il fatto che la direzione dell’associazione manifesti cambiamenti consistenti fa supporre di non essere in presenza di un cleavage inteso in termini rokkaniani, come frattura sociale cristallizzata nell’ambito politico. Piuttosto, si potrebbe pensare a effetti legati al riconoscimento individuale di interessi dati dall’appartenenza a un gruppo, che però non sottendono quella che tradizionalmente sarebbe stata definita «coscienza di classe».

Questa considerazione è emersa anche in sede di dibattito pubblico prima e dopo le elezioni degli anni 2000, quando diversi osservatori hanno evidenziato come la spaccatura più significativa nell’ambito delle occupazioni non fosse tanto quel-la di classe quanto piuttosto quella tra lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti. In questa sede affronteremo la questione solo in termini descrittivi, proponendo una rappresentazione grafica della percentuale di voto al centro-destra dei lavoratori autonomi rispetto alla percentuale di tutto il campione nelle elezioni del 1972 e poi in quelle degli anni 2000, come si vede nella figura 5.1.

La figura mostra chiaramente come la distanza tra lavoratori autonomi e popolazione complessivamente presa sia aumentata attraverso il tempo con un picco nel 2006. Analisi inerenti agli andamenti nella campagna elettorale del 2006 confermano questi risultati, ma mostrano come le intenzioni di voto tra dipendenti e non dipendenti non siano cristallizzate fin dall’inizio della campagna e si modifichino con l’avvicinarsi delle elezioni, pre-sumibilmente anche per l’emergere nel dibattito di tematiche economico-sociali che favoriscono il riconoscimento di interessi economici differenziati, ma attivati a livello del singolo e non già come interesse di classe o di gruppo [Ballarino, Schadee e Vezzoni 2009].

Le analisi presentate rivelano quindi che l’associazione tra classe sociale e comportamento di voto non mostra una tendenza chiara di mutamento nel tempo: la relazione esiste, e non ci sono prove evidenti di una sua diminuzione. Si osservano tuttavia

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alcuni cambiamenti tra un’elezione e l’altra, cambiamenti che riguardano specifiche classi sociali e che quindi potrebbero dipendere da determinati fattori legati alla situazione sociale ed economica del periodo, nonché alla campagna elettorale. Ciò significa che le lotte di classe democratiche sono vestigia del passato? La risposta è che senza dubbio la contrapposizione tra identità di classe abbia perso di importanza, mentre permangono differenze nelle scelte di voto secondo l’occupazione. Ciò che rimane ancora da investigare è attraverso quali meccanismi (di gruppo o individuali, di lungo o di medio periodo) gli effetti dell’occupazione si riverberino sulle scelte individuali di voto.

2. Religione

Tra i fattori di lungo periodo che influenzano durevolmente le scelte di voto, la religione merita una considerazione specia-le. Infatti, sia nel suo aspetto istituzionale e organizzativo (la

FIG. 5.1. Percentuale di voti al centro-destra dei lavoratori autonomi confrontati col campione complessivo, nel 1972, 2001, 2006 e 2008.

0

25

50

75

1972 2001 2006 2008

Autonomi Campione

160

chiesa) sia in quello culturale e normativo, la religione plasma il comportamento di individui e collettività da migliaia di anni. L’analisi del fattore «religione» non può essere ridotta a quella del conflitto fra stato e chiesa, potere politico e potere reli-gioso, e tantomeno agli ultimi due secoli di storia europea. La durata e il radicamento senza paragoni della religione nella vita sociale ne spiega la persistenza e la capacità di sopravvivenza e adattamento anche in circostanze avverse, per non parlare della sua ricomparsa e ripresa in tempi recenti [Inglehart e Baker 2000]. E ciò vale, nello specifico, anche per le scelte di voto e gli orientamenti politici [Inglehart e Norris 2004].

Fatta questa premessa di carattere generale, è fuor di dubbio che le scelte elettorali compiute dagli italiani nel dopoguerra siano state segnate in maniera peculiare dall’istituzionalizzazione del conflitto stato-chiesa. In tale contesto, la creazione e l’attività politica della Democrazia Cristiana costituiscono l’elemento più noto e importante. Va detto che se non ci fosse stato un singolare partito politico come la DC (in nessun modo assimilabile a un classico partito conservatore, ma anche distante, per esempio, dai cristiano-sociali tedeschi), gli elettori (cattolici) italiani non avrebbero avuto lo stesso comportamento di voto.

2.1. La fine del partito «dei» cattolici e di quello «di» cattolici

Nel 1968 – il nostro termine a quo – quasi l’80% dei cat-tolici praticanti regolari indirizzava il proprio sostegno politico verso i partiti di centro-destra3. Fra coloro che frequentavano con regolarità le funzioni religiose e i (pochi) non praticanti, il divario in termini di scelte elettorali era abissale: 65 punti percentuali. A metà strada si collocavano i praticanti saltuari, con oltre un terzo di loro (36%) che votava i partiti di centro-destra. Il che vuol dire che i partiti di centro-destra, nell’in-sieme, traevano il 40% dei loro voti dall’elettorato cattolico

3 Gli elettori sono stati suddivisi in tre categorie in base alla frequenza alla messa: i «praticanti regolari» ovvero coloro che vanno a messa (almeno) tutte le domeniche, i «praticanti saltuari» invece vanno a messa da due o tre volte al mese a qualche volta all’anno, i non praticanti non assistono mai alla messa.

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più osservante e quindi più attento e sensibile al magistero della chiesa. Come abbiamo già osservato a proposito delle differenze politiche di genere, era la componente femminile dell’elettorato a fornire un contributo sproporzionato al con-senso del centro-destra.

La stragrande maggioranza di questi voti, è storia ben nota, andavano alla Democrazia Cristiana: quello che è stato definito, con riferimento ai primi due decenni della storia repubblicana, il «partito dei cattolici» [Parisi 1979] otteneva quasi il 70% dei propri voti dai cattolici praticanti, soprattutto nelle aree della cosiddetta «subcultura bianca», le regioni nord-orientali della penisola.

Questo elevatissimo, e mai più eguagliato, livello di consenso al centro-destra si mantenne stabile praticamente sino all’inizio degli anni Novanta, anche se probabilmente le motivazioni erano mutate rispetto agli anni Sessanta. Il fatto è tanto più ri-marchevole, in quanto nel frattempo la pratica religiosa conosce un rapido declino. È comunque solo verso la fine degli anni Ottanta che si dispiegano pienamente gli effetti dell’onda lunga della modernizzazione della società italiana, che aveva preso avvio proprio negli anni Sessanta; a riprova che gli orientamenti politici, come del resto tutti gli orientamenti culturali, hanno una notevole vischiosità e inerzia rispetto al ritmo, talvolta incalzante, del cambiamento delle strutture sociali (fig. 5.2).

I praticanti saltuari, diventati intanto gruppo sociale largamente maggioritario all’interno dell’elettorato, aumen-tano gradualmente la loro propensione a votare i partiti del centro-destra attestandosi, di elezione in elezione, sopra il 40% all’inizio degli anni Novanta. Un vero e proprio balzo lo compiono invece i non praticanti (che sono pure in aumento fra la popolazione): in un ventennio infatti cresce di due o tre volte, a seconda delle elezioni, la percentuale di loro che dà il proprio sostegno al centro-destra. Un processo di attenuazione delle differenze di voto in base alla religiosità e la conseguente convergenza appaiono dunque essere già maturati alla «soglia del cambiamento» [Parisi e Schadee 1995], che nel giro di pochi anni avrebbe mutato profondamente la vita politica ita-liana. Tanto che la distanza, in punti percentuali, nel voto al centro-destra fra praticanti e non praticanti nel 1992 risultava dimezzata rispetto al 1968.

162

Nel 2008, quaranta anni dopo l’inizio della nostra analisi, i cattolici praticanti regolari si erano ridotti a un terzo degli elettori italiani e «solo» i due terzi di loro votavano per i (nuovi) partiti del centro-destra. In altri termini, su 100 voti dello schieramento di centro-destra ora 20 vengono dai cattolici praticanti, la metà rispetto ai 40 del 1968. Del resto, fra gli elettori del PDL nel 2008 poco più di un terzo erano cattolici di stretta osservanza, ovvero la metà di quanti furono tra gli elettori della DC nel 1968: non solo non esiste più – e questa non è certo una novità delle ultime elezioni – il partito «dei» cattolici, ma neppure quello composto «di» cattolici4.

4 Solo l’Unione di Centro ha nel 2008 un elettorato composto in leggera maggioranza (55%) da cattolici praticanti.

0

Praticanti regolari Praticanti saltuari

10

20

30

40

50

60

70

80

90

1968 1996 2001 2006 20081972 1983 1992 1994

Non praticanti

FIG. 5.2. Percentuali di voto ai partiti di centro-destra secondo la pratica religiosa.

163

Il punto di svolta di questa vicenda elettorale sono le elezioni del 1994, caratterizzate dall’implosione del sistema partitico della Prima Repubblica e in particolare dalla trauma-tica scomparsa della DC. L’offerta politica cambia radicalmente e inizia la «diaspora cattolica» verso entrambi i nuovi poli della competizione politica ed elettorale [Diamanti 1997]. A questa elezione partecipa ancora una formazione centrista di chiara matrice e ispirazione cattolica, che nel maggioritario si presenta come Patto per l’Italia (15,5% dei voti) e nel pro-porzionale con due liste, Partito Popolare Italiano (11,1%) e Patto Segni (4,7%)5. Questo spiega l’andamento anomalo, invero unico, del comportamento elettorale dei cattolici nel 1994: ben il 30% dei praticanti regolari (ma solo l’11% di quelli saltuari) indirizza infatti il proprio voto, per l’ultima volta, verso questa formazione di centro «ibrida», mentre i nuovi partiti di centro-destra (Forza Italia in primis) ottengono un consenso equidistribuito fra tutti i livelli di pratica religiosa indistintamente; persino i non praticanti fanno registrare un picco di voti per lo schieramento di centro-destra mai più eguagliato in seguito.

Nelle elezioni successive al 1994 prosegue il processo di assestamento del voto cattolico, che vede una costante seppur lenta risalita del consenso al centro-destra, sino al picco del 2008, e, di pari passo, un sostanziale allineamento del comportamento elettorale dei cattolici praticanti e di quelli meno assidui alle funzioni religiose (con la parziale eccezione del 2006). Segno questo dell’affievolirsi della pratica religiosa «convinta» come discriminante all’interno del campo cattolico e del progressivo affermarsi di quella che è stata chiamata «religione personale» sganciata dal contesto istituzionale e dal controllo sociale della chiesa e delle sue gerarchie organizzative. Vale anche la pena re-gistrare, a futura memoria, un concomitante e costante ampliarsi della forbice fra voto cattolico e voto dei non praticanti e dei non credenti, a mano a mano che lo schieramento di centro-destra si caratterizza come campo politicamente conservatore e culturalmente tradizionalista.

5 Nel file di dati quest’area è stata codificata come «centro» separata-mente da «sinistra» e «destra» (unica elezione da noi non dicotomizzata). La categoria «centro» è stata, in questa sede e per gli scopi di questa analisi, esclusa dal calcolo.

164

Questo, a grandi linee e per sommi capi, il cambiamento dell’effetto della religione (in termini di pratica religiosa) sul comportamento elettorale degli italiani nel quarantennio 1968-2008: un complessivo, marcato, indebolimento della sua relazione con il voto6. Un cambiamento e una vicenda che mettono in luce come la modernizzazione sociale e culturale da sola non sia in grado di spiegare il mutare della relazione fra comportamento elettorale e identità religiosa, se non è accompagnata da una significativa modificazione dell’offerta politica e della struttura della competizione elettorale. Cioè a dire che il cambiamento sociale, e in questo caso soprattutto i processi di secolarizzazione e individualizzazione tipici delle società postmoderne, costituisce solo la precondizione del cambiamento politico: perché questo si realizzi è necessario un catalizzatore specificamente politico, sotto forma di nuovi partiti, nuovi leader o nuove regole del gioco7.

2.2. L’influenza specifica della religione sul voto

Per comprendere meglio questo cambiamento e il ruolo della pratica religiosa nell’influenzare il comportamento elettorale è ora necessario abbandonare l’analisi descrittiva e far interagire più variabili. Abbiamo visto nel capitolo precedente che va-riabili quali il genere, l’età e il livello di istruzione influiscono sul comportamento di voto degli italiani. Accanto a queste variabili socio-demografiche vanno ovviamente ricordate le altre due che rappresentano, assieme alla religione, le fratture classiche del sistema politico italiano: il territorio e la classe sociale [Corbetta 2006]. Nella figura 5.3 vengono presentati i risultati (coefficienti b) di tre regressioni logistiche – per il 1968, 2006 e 2008 – che stimano gli effetti netti della pratica

6 Basti guardare a una semplice misura di associazione fra voto e pratica religiosa: la V di Cramer passa da 0,453 nel 1968 a 0,161 nel 2006, per risalire tuttavia leggermente (0,231) due anni dopo.

7 Si tratta di un dibattito ben noto nella letteratura sul comportamento elettorale e il cambiamento sociale nelle società industriali avanzate [cfr. Dalton et al. 1984: Norris e Inglehart 2004].

165

religiosa, tenendo sotto controllo le variabili socio-demografiche e quelle relative alle fratture sociali8.

Come si può vedere, in tutte e tre le elezioni considerate la pratica religiosa presenta effetti significativi sulla propensione a votare partiti o schieramenti di centro-destra9. In particolare si osserva che, rispetto ai praticanti regolari, quelli saltuari, e più ancora i non praticanti, in tutte le elezioni prese in consi-derazione hanno una propensione relativa inferiore a votare a favore del centro-destra.

Questo è già un primo risultato apprezzabile: a parità di altre condizioni, la pratica religiosa influisce sul compor-tamento di voto (nel nostro caso sulla propensione a votare centro-destra) sempre nella stessa direzione, a conferma di

8 Le variabili sono: genere, età, istruzione, dimensione del comune, si-tuazione occupazionale, classe sociale e zona geopolitica. Nella figura sono presentati i parametri relativi ai praticanti saltuari e ai non praticanti (i praticanti regolari costituiscono la categoria di riferimento).

9 Ovviamente, gli stessi valori dei coefficienti, col segno mutato, danno la propensione a votare lo schieramento di centro-sinistra.

FIG. 5.3. Effetto della variabile pratica religiosa sul voto ai partiti di centro-destra (co-efficienti b di regressione logistica; valore di riferimento per i praticanti regolari B = 0).

1968

Non praticanti Praticanti saltuari

-3,5

-3

-2,5

-2

-1,5

-1

-0,5

0

2006 2008

166

quanto emerso dall’analisi bivariata. Tuttavia, se la direzione della relazione è la stessa, la sua forza muta in maniera molto evidente, separando nettamente le elezioni del 1968 dalle due più recenti. Quarant’anni fa la propensione relativa a votare i partiti del centro-destra diminuiva drasticamente nel passaggio dagli elettori cattolici praticanti regolari a quelli con una pratica religiosa occasionale, per calare ancora più vistosamente fra i non praticanti.

In termini di rapporto di associazione (odds ratio), nel 1968 la propensione relativa dei non praticanti a votare i partiti del centro-destra era bassissima, appena il 5% di quella dei praticanti regolari; ma anche quella dei praticanti saltuari si fermava a un risicato 20%. Le distanze fra questi gruppi di elettori, distinti in base all’assiduità della frequenza alla mes-sa, erano nettissime; in effetti, si trattava di «mondi» fra loro poco o niente comunicanti, almeno al momento di deporre una scheda nell’urna elettorale.

Nel 2006 e nel 2008, invece, la situazione si presenta molto cambiata: osservando i parametri b delle regressioni, la pro-pensione relativa dei praticanti irregolari a votare centro-destra è solo di poco inferiore a quella dei cattolici che si recano a messa con cadenza settimanale, uno scarto quasi trascurabile10; il che fa anche pensare che tra questi due gruppi di cattolici le differenze – comportamentali e culturali – si siano progres-sivamente molto affievolite. Resta invece decisamente più alto, come del resto avevamo già constatato nell’analisi bivariata, il divario fra praticanti regolari e non praticanti (questi ultimi mantengono una propensione a votare centro-destra del 30-35% inferiore a quella dei primi). Si tratta comunque di differenze incomparabili con quelle della fine degli anni Sessanta.

Il cambiamento nell’effetto che la religione ha sul voto si può anche apprezzare osservando la variazione nei valori dell’R2 di Nagelkerke nelle tre regressioni quando, dopo il blocco delle variabili socio-demografiche e delle fratture sociali, si

10 Ovviamente, trascurabile in termini di comportamenti individuali (in effetti, il coefficiente b relativo al 2008 non è nemmeno statisticamente si-gnificativo). Nell’aggregato differenze di questa entità possono condurre a risultati elettorali molto diversi. La propensione (odds ratio) dei praticanti irregolari si colloca nelle due ultime elezioni fra il 70 e l’80% di quella dei cattolici più osservanti.

167

inserisce la variabile che misura la pratica religiosa. Come si vede nella tabella 5.5a, nel 1968 l’aggiunta della sola variabile relativa alla pratica religiosa portava a un ragguardevole in-cremento del valore di R2. Anche nelle ultime due elezioni il valore di R2 aumenta quando si inserisce nella regressione la pratica religiosa; tuttavia, con un valore comunque già molto più basso in partenza, l’incremento è parecchio più contenuto, pur risultando statisticamente significativo.

Se osserviamo invece la percentuale di casi della variabile dipendente (voto al centro-destra) predetti correttamente dalle variabili inserite nelle tre regressioni, possiamo fare altre con-siderazioni interessanti (tabella 5.5b). In primo luogo, si nota che la capacità predittiva delle variabili socio-demografiche (genere, età, livello di istruzione, dimensione del comune e condizione occupazionale) unitamente alle fratture sociali considerate (classe e zona geopolitica) diminuisce di 5-7 punti percentuali passando dalle elezioni del 1968 a quelle del 2006-2008: certamente una riduzione, ma non un crollo di capacità

TAB. 5.5b. Capacità esplicativa del modello di regressione logistica del voto che include la pratica religiosa. Predizione corretta (percentuale dei casi) del voto al centro-destra per variabili incluse nel modello

Elezione Blocco 1a Blocco 2b Blocco 2-1

1968 67,4 73,3 + 5,9

2006 59,0 61,3 + 2,3

2008 62,0 65,0 + 3,0

Note: Variabile dipendente: voto al centro-destra (1), al centro-sinistra (0).a Variabili inserite nel blocco 1: genere, età, istruzione, dimensione comune,

status occupazionale, classe sociale, zona geo-politica.b Variabile inserita nel blocco 2 (in aggiunta alle precedenti): pratica religiosa

(frequenza alla messa).Fonte: Itanes [1968-2008].

TAB. 5.5a. Capacità esplicativa del modello di regressione logistica del voto che include la pratica religiosa. Valori di R2 di Nagelkerke

Elezione Blocco 1a Blocco 2b Blocco 2-1

1968 0,203 0,349 + 0,146

2006 0,078 0,109 + 0,031

2008 0,088 0,144 + 0,056

168

predittiva del modello. Ma ciò che più interessa qui è la va-riazione della percentuale di casi predetti in maniera corretta allorquando si aggiunge la variabile «pratica religiosa». Come si può osservare, la pratica religiosa migliora in tutte e tre le elezioni considerate la capacità predittiva, sebbene in misura diversa (5,9 punti percentuali nel 1968 e 3,0 nel 2008).

Questi dati si prestano a considerazioni diverse. Da un lato, si può rilevare come, tenuto conto del periodo e del contesto politico-istituzionale, tutto sommato nelle elezioni del 1968 la variabile pratica religiosa non accresca in misura particolarmente elevata la conoscenza delle propensioni elettorali degli italiani. Il che porterebbe a ridimensionare piuttosto drasticamente l’effetto netto della religione – quando esso viene controllato per alcune variabili di base – e a sollevare il dubbio di una sua sopravvalutazione quale determinante del voto nell’Italia degli anni Sessanta (e forse anche prima). Una sopravvalutazione cristallizzatasi nelle analisi fino a diventare luogo comune. D’altronde, un valore di R2 di 0,35, per un modello che com-prende tutte le principali variabili demografiche, di contesto e relative alle fratture sociali, non appare particolarmente elevato; molto resta dunque da spiegare anche per il 1968. Qui possiamo solo accennare al fatto che, per il 1968, variabili quali la classe sociale e la zona geopolitica mostrano di avere notevoli effetti diretti netti sul comportamento di voto; effetti che si mantengono anche nel 2008, seppur attenuati. Dall’altro lato, l’incremento di capacità predittiva attribuibile alla pratica religiosa nelle ultime due elezioni, certamente più contenuto ma statisticamente significativo, rende per lo meno plausibile la tesi della persistenza di una specifica e autonoma influenza della «religione istituzionale» (misurata attraverso l’indicatore della frequenza alla messa)11 sul comportamento di voto degli elettori italiani. Più in generale, questi risultati inducono a una certa cautela nel dichiarare scomparse, o in forte declino, le tradizionali fratture sociali quali determinanti del comporta-mento elettorale12.

11 Altra questione sarebbe stimare l’effetto della religiosità sul voto, ad esempio con un indicatore di importanza soggettiva della religione nella propria vita. Per un primo tentativo si veda Maraffi [2007b].

12 Sul punto si veda il recente lavoro comparativo di Elff [2007].

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Abbiamo visto che nell’Italia contemporanea le donne più giovani tendono a essere orientate politicamente più a sinistra degli uomini (anche se alle ultime elezioni del 2008 la tendenza sembra essersi congelata). La domanda che ci poniamo a questo punto della nostra analisi è se questa relazione fra genere, età e voto permane anche quando si fa entrare in gioco la pratica religiosa. La risposta è perlomeno ambigua

Partiamo dal genere. Nel 1968, nell’insieme, c’erano 20 punti percentuali di differenza fra uomini e donne nel voto al centro-destra (a favore ovviamente delle donne, 42% a fronte di 62%); tuttavia, fra gli elettori cattolici praticanti, la differen-za di genere si riduceva a soli sei punti (79% contro 73%). In altre parole, la pratica religiosa faceva premio sul genere, dimi-nuendo vistosamente la distanza fra donne e uomini nel voto ai partiti di centro-destra. Nelle elezioni del 2006, all’interno di una complessiva parità di genere negli orientamenti politici, la regolarità della pratica religiosa invece allontana di circa quattro punti percentuali donne e uomini (61%-57%): stavolta è il genere a far premio sulla religione13. Nel 2008 il quadro si modifica un’altra volta. Le elettrici nel loro insieme scelgono più degli uomini i partiti di centro-destra (60% contro 54%), ma la regolarità della pratica religiosa accorcia la distanza fra i generi (66%-63%)14. Anche da questi dati sembrerebbe dunque che la religione continui a esercitare un qualche effetto sul voto delle donne, non omogeneo o della stessa entità, ma comunque chiaramente osservabile. Questi effetti del genere e della pratica religiosa non uniformi nel corso del tempo e tra un’elezione e l’altra – ovvero l’assenza di una tendenza chiara e univoca – ci riportano all’importanza dei fattori politici contingenti, specifici di ogni singola elezione, e del contesto istituzionale, che non possono essere ignorati nell’analisi del comportamento di voto anche su lunghi archi temporali.

Come si inserisce in questo quadro la variabile «età» e quali sono i suoi effetti sul voto? Come mostra la figura 5.4, il

13 Solo fra i non praticanti gli uomini votano più a destra delle donne (circa 10 punti percentuali in più). Fra i praticanti saltuari non ci sono differenze di genere.

14 Con l’eccezione degli elettori non praticanti, che vedono donne e uomini allineati sulle stesse percentuali.

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comportamento di voto delle donne cattoliche praticanti nelle tre elezioni considerate smentisce ogni ipotesi basata sul corso di vita: sia rispetto al 1968 sia con riferimento alle due tornate elettorali più recenti, le differenze fra «giovani» e «anziane» sono irrilevanti. In altri termini, prescindendo dalle variazioni nel corso dei decenni, il voto delle donne cattoliche praticanti appare indipendente dall’età. Evidentemente la relazione lineare fra genere, età e voto non tiene per le cattoliche praticanti15. L’analisi multivariata conferma che genere, età e pratica reli-giosa non interagiscono nel determinare il comportamento di voto. Infatti, se aggiungiamo ai modelli di regressione visti in

15 Aggiungiamo che la percentuale minore di consenso al centro-destra la fanno registrare i maschi di 45 anni e oltre; in questo caso si fa sentire il peso della generazione del Sessantotto che, anche fra i cattolici praticanti, ha una propensione a votare centro-destra che è la più bassa fra tutte le coorti di età. Un fenomeno che invece non si riscontra fra le donne.

0

10

20

30

40

50

60

70

80

90

1968 2006 2008

18-44 45+

FIG. 5.4. Percentuali di voto al centro-destra fra le elettrici cattoliche praticanti per età (1968, 2006 e 2008).

171

precedenza sia le interazioni fra genere e pratica sia quelle fra età e pratica, il chi quadrato non subisce variazioni significative.

Si tratta di risultati che spingono a essere cauti nelle con-clusioni e che chiamano in causa altri fattori. Al tempo stesso, questi dati ci mettono in guardia da facili generalizzazioni e rendono problematico avanzare congetture sulla definitiva scomparsa dell’effetto della religione sulle scelte elettorali. Più probabilmente, questo effetto sta cambiando, non solo quanto a intensità ma, e forse in misura maggiore, anche quanto a forme, che le variabili tradizionalmente usate (la pratica religiosa, in particolare) faticano a riconoscere e a discernere.

3. Territorio

Abbiamo fin qui analizzato l’influenza della classe sociale e della pratica religiosa sul voto. Tuttavia, concentrandosi solo sulle variabili individuali riferibili a due dei tradizionali clea-vages proposti dal grande studioso norvegese Stein Rokkan, si trascura un elemento tipico del comportamento elettorale in Italia: la forte stabilità del voto, ovvero la sua continuità geografica nel corso di oltre mezzo secolo. In effetti, lo studio del territorio nell’analisi elettorale è uno dei classici della so-ciologia politica italiana, ben rappresentato dal fondamentale contributo delle ricerche dell’Istituto Cattaneo alla metà degli anni Sessanta [Galli 1968]. In quegli studi si arrivava alla de-finizione di una serie di zone geopolitiche omogenee rispetto agli esiti elettorali, in particolare riguardo all’insediamento delle due tradizioni politiche dominanti: quella democristiana e quella «rossa» (socialista e comunista). Questi contributi hanno avuto un forte impatto sui successivi sviluppi della disciplina, e le zone geopolitiche sono diventate una variabile «classica» nei modelli di analisi del voto a livello individuale [Caciagli 1988; Cartocci 1991; 1996]16. La rilevanza del territorio nello

16 Il numero delle zone geopolitiche e il dettaglio con cui vengono indi-viduate può variare; noi ne considereremo cinque: Nordovest (Piemonte, Liguria, Lombardia); Nordest (Veneto, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia); Zona rossa (Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Umbria); Centro (Lazio, Abruzzo, Molise, Sardegna); Sud (Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia).

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studio del voto è inoltre confermata dal fatto che, anche nelle più recenti tornate elettorali, molte delle analisi continuano a insistere sulla dimensione geografica come principale chiave interpretativa per la comprensione non solo degli esiti delle elezioni, ma anche delle scelte di voto individuali17.

L’utilizzo del territorio distinto in zone geopolitiche (rappre-sentanti tradizioni politiche omogenee a livello di macro-area) come variabile esplicativa o predittiva dei comportamenti di voto ha delle conseguenze rilevanti sul modo in cui si concepisce il processo stesso della scelta di voto, ma queste conseguenze rimangono spesso implicite e ci si limita a considerare l’appar-tenenza territoriale come variabile individuale. È invece chiaro che il territorio non rappresenta una dimensione esclusivamente geografica, ma incorpora informazioni riguardanti tradizioni politiche tendenzialmente omogenee insediate in macro-aree del paese.

La considerazione esplicita della dimensione territoriale come variabile contestuale politica, attribuibile cioè a un livello superiore a quello individuale, necessita quindi alcuni aggiu-stamenti dal punto di vista concettuale nella definizione della scelta di voto, non più vista in termini atomistici ma come un processo sociale. Già i primi fondamentali studi sul compor-tamento di voto svolti alla Columbia University [Lazarsfeld, Berelson e Gaudet 1944] avevano messo in evidenza come fosse necessario guardare al voto non solo come il risultato di «un calcolo individuale» basato sulle preferenze tematiche dell’elettore e sulla valutazione dei candidati, ma anche di un «calcolo sociale», che è influenzato dallo scambio di informa-zioni e dalle discussioni politiche che si verificano nella cerchia interpersonale nella quale l’elettore è inserito [Huckfeldt e Sprague 1993; 1995]. Nel nostro caso, la considerazione del voto come «calcolo sociale» fornisce sicuramente un’ipotesi di lavoro interessante per dare conto della continuità di compor-tamenti di voto e di esiti elettorali a livello territoriale. Infatti, si potrebbe ipotizzare l’esistenza di una specifica tradizione politica, insediata nel territorio, che nel caso italiano è stata

17 Si vedano Itanes [2008] e Vezzoni [2008], ma anche il rilevante dibattito sulla questione settentrionale sviluppato sulla stampa dopo le elezioni del 2008.

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definita «subcultura politica» [Mannheimer e Sani 1987] e che si riproduce attraverso il tempo attraverso processi di socializza-zione politica e di influenza interpersonale [Zuckerman 2007].

D’altro canto, esiste oggi un problema nell’utilizzo delle zone geopolitiche come variabili che indicano la tradizione politica di una macro-area formata da più regioni, perché col passare del tempo l’omogeneità di queste macro-aree si è ridotta [Diamanti 2003]. La definizione delle zone era originariamente basata sugli esiti elettorali a livello provinciale, dal dopoguerra fino ai primi anni Sessanta. Da allora sono intervenuti molti cambiamenti, sia demografici sia nell’offerta politica, che hanno parzialmente modificato la geografia elettorale italiana. Alcuni studi ecologici sugli esiti delle elezioni a livello provinciale hanno dimostrato che, nonostante il drammatico cambiamento del quadro istituzionale e partitico occorso a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta, la dinamica elettorale italiana si è evoluta su linee di sostanziale continuità col passato [Shin e Agnew 2008]. Ciononostante, la variabilità all’interno delle zone geopolitiche è sostanzialmente aumen-tata e alcune aree hanno addirittura cambiato colore politico [Diamanti 2003; Anderlini 2007]. Inoltre, soprattutto nelle ultime elezioni politiche del 2008, si è assistito a fenomeni di penetrazione di partiti politici quali la Lega in zone dove precedentemente tali esisti sarebbero stati impensabili data la forte predominanza della subcultura rossa [Itanes 2008].

Uno schematico riepilogo dei voti ottenuti dal centro-destra e dal centro-sinistra nelle tradizionali zone geopolitiche nell’ul-timo trentennio (1976-2006), mette in evidenza sia elementi di continuità sia alcuni cambiamenti. Naturalmente, la valutazio-ne di questi risultati ha valore indicativo per la difficoltà di avere definizioni comparabili di centro-sinistra e centro-destra attraverso gli anni. Soprattutto nel passaggio tra Prima e Se-conda Repubblica, questi confronti appaiono difficili, a volte arbitrari, e la scelta dei partiti da inserire nell’uno o nell’altro schieramento può essere discussa lungamente. Ma in questa sede lo scopo del confronto è quello di mettere in evidenza una generale tendenza alla continuità che però presenta alcuni segnali di cambiamento.

Come si vede chiaramente nella tabella 5.6, in almeno quattro zone su cinque gli esiti del confronto tra centro-destra

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e centro-sinistra non cambiano sostanzialmente anche se i rapporti di forza si modificano leggermente. Il Nordest (Zona bianca) e la Zona rossa mantengono una chiara connotazione rispettivamente di centro-destra e di centro-sinistra. In entrambi i casi però il centro-destra aumenta le sue percentuali di voto, avvantaggiandosi ulteriormente nel Nordest e recuperando terreno nella Zona rossa a discapito del centro-sinistra. Nel Centro e nel Sud la situazione è più bilanciata e solo il centro-sinistra sembra manifestare un leggero arretramento col passare del tempo. L’unica zona in cui si assiste a un vero rivolgimento di fronte è il Nordovest, dove a una sostanziale predominanza del centro-sinistra nella Prima Repubblica, si sostituisce una netta prevalenza del centro-destra che passa da poco più del 40% a oltre il 50%, specularmente a quello che avviene per il centro-sinistra (dal oltre il 50% a poco più del 40%).

TAB. 5.6. Percentuale di voti al centro-destra e al centro-sinistra per zona geopoliticaa, 1976, 1987, 1996, 2006 (Camera dei Deputati).

Elezione Nordovest Nordest Zona rossa Centro Sud

CENTRO-DESTRAb

1976 44,2 51,9 35,6 48,0 52,4

1987 41,5 48,4 32,8 45,5 50,1

1996 59,6 61,8 39,8 50,8 54,4

2006 52,4 51,9 39,1 46,8 49,1

CENTRO-SINISTRAc

1976 53,9 42,3 63,5 50,6 46,7

1987 52,8 42,8 64,5 48,0 47,4

1996 37,6 35,6 57,9 46,0 41,4

2006 41,2 36,0 56,2 45,7 40,4

Legenda: a Per la definizione delle zone geopolitiche si veda la nota 16, p. 171.b Il centro-destra è definito dalla somma dei seguenti partiti: nel 1976, DC,

MSI, PLI; nel 1987, DC, MSI, PLI, Lega Lombarda, Liga Veneta; nel 1996, FI, AN, Lega Nord, CCD-CDU, Movimento Sociale Tricolore, Socialisti; nel 2006, FI, AN, DC-Nuovo PSI, Lega Nord.

c Il centro-sinistra è definito dalla somma dei seguenti partiti: nel 1976, PCI, PSI, PSDI, PRI, DP, PDUP; nel 1987, PCI, PSI, PRI, PSDI, VERDI, DP; nel 1996, PDS, Rifondazione, Popolari per Prodi, Rinnovamento Italiano, Verdi, SVP; nel 2006, Ulivo, Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani, Verdi, Italia dei Valori.

Fonte: Ministero dell’Interno.

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3.1. Il significato del territorio

Possiamo quindi formulare una serie di domande relative al ruolo che il territorio riveste nella definizione dei compor-tamenti politici individuali. Innanzitutto, ci si può chiedere come il ruolo delle tradizionali zone geopolitiche, definite sulla base dei risultati elettorali del dopoguerra, sia cambiato negli ultimi decenni. Le zone geopolitiche in cui erano insediate forti e omogenee tradizioni politiche possono ancora rivestire un ruolo rilevante nella comprensione dei comportamenti elettorali individuali?

Possiamo inoltre domandarci se non sia opportuno, per comprenderne meglio i loro sviluppi, introdurre un livello di analisi più dettagliato, dal momento che le zone geopolitiche sono divenute meno omogenee al loro interno. Che cosa avviene se si guarda alle tradizioni politiche a partire da unità di analisi territoriali più circoscritte delle zone geopolitiche, ad esempio le province? In questo modo si potrebbero prendere in consi-derazione gli specifici sviluppi che hanno seguito le province appartenenti alla stessa macro-area caratterizzata in precedenza da un’omogenea subcultura politica. Si può immaginare che i cambiamenti elettorali siano stati diversi anche all’interno di una stessa zona in funzione della specifica tradizione politica della provincia. Ad esempio, le zone di confine tra aree geopolitiche sono sempre state caratterizzate da situazioni ibride rispetto alla tradizione politica (si pensi alle province di Piacenza e di Rovigo) e questo può aver influito sullo sviluppo specifico delle dinamiche elettorali di queste province. Sembra esserci un se-gnale di questo processo nelle province «rosse» direttamente a sud del Po, maggiormente esposte al «vento del nord» rispetto ad altre province della Zona rossa. Un altro fenomeno che può avere determinato sviluppi differenti delle tradizioni politiche a livello provinciale può essere legato a fenomeni localizzati e consistenti di cambiamento della struttura socio-economica. Qui è sufficiente ricordare il caso delle province più industrializzate del Nordovest, in particolare Torino, che fino agli anni Ottanta erano caratterizzate da una cospicua componente di elettorato di centro-sinistra, ridottasi però notevolmente negli ultimi due decenni, in concomitanza con le forti trasformazioni del tessuto produttivo [Anderlini 2007; Gallino 2003]. Prendendo in con-

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siderazione specificamente la tradizione politica delle province del Nordovest, è possibile controllare se questo fenomeno ha un peso significativo sui comportamenti di voto individuali.

Entrambi gli interrogativi precedenti, sul ruolo delle zone geopolitiche e sugli sviluppi specifici a livello provinciale, prescindono però da un aspetto fondamentale che si dovrebbe considerare nello studio del territorio e delle tradizioni politiche in esso insediate. Ci riferiamo qui ai meccanismi attraverso cui queste tradizioni si trasmettono e quindi influenzano i comportamenti di voto individuali. Affrontare questo tipo di interrogativo richiederebbe lo sviluppo di una serie di ipotesi specifiche sui meccanismi sociologici e psicologici che vanno dalla socializzazione primaria e politica all’influenza interper-sonale, al conformismo [Huckfeldt, Johnson e Sprague 2004; Mutz 1998]. In questa sede ciò non è possibile, e lo si pone piuttosto come un interessante sviluppo per future ricerche e analisi. Possiamo qui tuttavia formulare un test minimo per controllare se la forza delle tradizioni politiche stia cambiando e potenzialmente stia riducendosi nel tempo. Questo test è re-alizzato valutando se l’impatto delle tradizioni politiche risulta inferiore nelle giovani generazioni rispetto a quelle più anziane, e se questo effetto di interazione è superiore nelle ultime tor-nate elettorali. Se così fosse – se le tradizioni politiche stessero effettivamente perdendo presa tra i giovani – ciò potrebbe preludere a un loro lento esaurimento attraverso il tempo e, di conseguenza, a una rottura della continuità geografica dei comportamenti elettorali in Italia.

Riassumendo, le domande che guidano le analisi successive sono le seguenti.

• È cambiata nel tempo l’influenza tra scelte individuali di voto e residenza in una delle cinque zone geopolitiche, intese come luoghi in cui è/era insediata una specifica subcultura politica tendenzialmente omogenea?

• Gli sviluppi a livello provinciale all’interno delle macro-aree sono omogenei o si differenziano, ricalcando anche la minore omogeneità delle zone geopolitiche?

• La ristrutturazione del tessuto socio-economico ha avuto effetti differenziati sul peso delle tradizioni politiche?

• L’influenza delle tradizioni politiche è generalizzata a tutta la società o si esercita principalmente sulle generazioni

177

più anziane che sono state socializzate all’interno di queste stesse tradizioni?

3.2. Una lunga continuità

Per dare una risposta ai quesiti di ricerca abbiamo con-siderato due tornate elettorali a distanza di più di trent’anni, quella del 1972 e quella del 2006. Abbiamo stimato due modelli logistici a livello individuale che, oltre alle principali variabili socio-demografiche (genere, età, istruzione, profes-sione distinta tra autonomi e dipendenti), includono le zone geopolitiche e la tradizione politica a livello provinciale. La variabile dipendente (il voto) è dicotomica, distinguendo tra centro-destra (codificato come 1) e centro-sinistra (codificato come 0). Per l’interpretazione dei coefficienti logistici delle variabili indipendenti, un segno positivo indica una maggiore probabilità individuale di votare per il centro-destra, mentre un segno negativo indica l’opposto.

Per quanto riguarda l’operativizzazione delle zone geopo-litiche abbiamo utilizzato le macro-aree della tabella 5.6. È utile ribadire che esse non designano il territorio solo come dimensione geografica ma come luogo in cui una determinata tradizione politica (tendenzialmente omogenea) è insediata. Potremmo quindi parlare di «tradizione politica della macro-area», ma per evitare confusione con la dimensione provinciale, discussa di seguito, continueremo a indicare questa variabile come «zona geopolitica».

La tradizione politica provinciale è stata operativizzata attraverso la percentuale di voti ottenuti dal principale partito di sinistra, il PCI. L’esito elettorale considerato per definire la tradizione politica non è però quello delle elezioni di cui ana-lizziamo i dati individuali (1972 e 2006), ma l’esito di elezioni molto precedenti, così da definire la tradizione politica in modo indipendente dall’attuale forza di uno o dell’altro partito. Questa scelta, in linea con quanto sperimentato in passato [Sani 1976], è opportuna sia per coerenza con la definizione stessa di tradizione politica, che dovrebbe essere una caratteristica contestuale del territorio con una forte componente di continuità attraverso il tempo, sia per evitare problemi di endogeneità nella selezione

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dei rispondenti18. Di conseguenza, per il campione del 2006 la tradizione politica è stata definita dal voto ottenuto dal PCI a livello provinciale nelle elezioni nazionali 1976, mentre per il campione del 1972 la tradizione politica è stata definita dai risultati del PCI a livello provinciale nelle elezioni per l’assemblea costituente del 1946. La scelta del PCI è stata considerata come complementare a quella della DC, in quanto le due principali tradizioni politiche italiane facevano perno sulla forza relativa di questi due partiti19. Per rendere intellegibili i risultati ed evitare ambiguità nella interpretazione dei segni dei coefficienti, specifichiamo che la tradizione politica misurata è quella di sinistra. Dal momento che la variabile dipendente dicotomica identifica con 1 un voto al centro-destra, ci aspettiamo quindi che i segni dei coefficienti relativi alla tradizione politica siano negativi. Si noti inoltre che la variabile «tradizione politica» è stata centrata attorno alla media della percentuale PCI per ognuna delle zone geopolitiche20. Si è ricorsi a questa opera-zione per assicurare che i coefficienti stimati rispecchiassero effetti genuini della tradizione politica e non fossero frutto di effetti composizionali dovuti al differente livello di partenza nelle singole zone.

Oltre agli effetti diretti, per il 2006 abbiamo analizzato anche due interazioni: la prima è volta a controllare il peso, potenzialmente diverso, delle tradizioni politiche provinciali all’interno delle zone geopolitiche (con particolare interesse al Nordovest), mentre la seconda considera l’impatto differenzia-to delle tradizioni politiche per età, dicotomizzata in giovani (minori di 45 anni) e anziani (maggiori di 45 anni).

I risultati delle stime dei due modelli di base per il 1972 e 2006 sono presentati nella tabella 5.7. I coefficienti delle variabili socio-demografiche – incluse per controllare che gli impatti delle variabili di interesse, zona geopolitica e tradizione

18 Su questo aspetto si veda Vezzoni [2008].19 La correlazione tra percentuale di voti al PCI e alla DC è in entrambi

i casi negativa e molto alta, precisamente -0,64 nel 1946 e -0,76 nel 1976.20 L’operazione consiste nel prendere tutte le province appartenenti a

una zona, calcolarne la media e quindi sottrarre questa media dal valore percentuale del PCI per ogni provincia di quella zona. Si ripete l’operazione per tutte le zone geopolitiche. In questo modo si depura il valore provinciale dall’effetto della media di zona.

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politica provinciale, non siano falsati dalla mancata considera-zione di variabili antecedenti rilevanti – confermano quanto già osservato in precedenza, e in particolare: a) il venir meno delle differenze di genere tra 1972 e 2006; b) la persistente influenza della religione sulle scelte di voto, con i praticanti che hanno

TAB. 5.7. Risultati per i due modelli base stimati per i due campioni relativi alle elezioni 1972 e 2006

1972 (N = 1191)Modello base – M1

2006 (N = 2505) Modello base – M1

Coeff. (s.e.) sign. Coeff. (s.e.) sign.

Intercetta -0,31 (0,23) ** -0,18 (0,15)

Genere (maschio) -0,48 (0,14) ** 0,00 (0,09)

Età (> 45 anni) 0,26 (0,14) * -0,05 (0,09)

Professione (autonomo) 0,33 (0,18) * 0,81 (0,12) **

Religione (praticante) 1,70 (0,15) ** 0,52 (0,11) **

ISTRUZIONE (rif. bassa)

Media 0,07 (0,17) -0,09 (0,09)

Alta 0,29 (0,25) -0,31 (0,12) **

ZONA GEOPOLITICA

(ovvero tradizioni poli-tiche delle macro-aree, cat. rif. Nordest)

Nordovest -0,31 (0,23) 0,11 (0,15)

Zona rossa -0,85 (0,25) ** -0,87 (0,17) **

Centro 0,46 (0,26) * -0,13 (0,16)

Sud 0,46 (0,23) * -0,14 (0,14)

Tradizione politica provincialedi sinistra (% voti al PCI)

-0,22 (0,11) * -0,17 (0,07) **

Note: Coefficienti (errori standard) e significatività (variabile dipendente voto: 0 = centro-sinistra; 1 = centro-destra).

Legenda: ** p < 0,01; * 0,01 < p < 0,05.Fonte: Itanes.

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una probabilità più alta degli altri di votare per il centro-destra (coefficienti positivi significativi), anche se questo impatto si riduce considerevolmente tra il 1972 e il 2006; c) il ruolo della professione nell’orientare la scelta di voto, non tanto seguendo le tradizionali linee di classe, quanto piuttosto mettendo in evidenza la distinzione tra lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti.

Venendo agli aspetti che più interessano l’analisi territoriale del voto, guardiamo innanzitutto ai coefficienti relativi alle zone geopolitiche. Sia per il 1972 che per il 2006 la categoria di riferimento è il Nordest, che rappresenta la subcultura bianca (per questa zona i coefficienti sono quindi pari a zero). Nel 1972, il fatto di essere un cittadino residente nel Nordovest piuttosto che del Nordest non modifica significativamente la probabilità di votare per il centro-destra (coefficiente -0,31, non significativo). Le altre tre zone si differenziano in modo più sostanziale, seppur in direzioni opposte: conformemente alle aspettative, infatti, nella Zona rossa la probabilità di votare centro-destra è significativamente inferiore rispetto al Nordest (coefficiente -0,85, significativo all’1%), mentre nel Centro e nel Sud questa probabilità è superiore, anche se la significatività statistica dei coefficienti è più bassa (entrambi i coefficienti positivi e significativi al 10%).

Diversa appare la situazione nel 2006. L’unica zona in cui sembra mantenersi l’effetto osservato nel 1972 è la Zona rossa (coefficiente significativo all’1% in tutti e tre i modelli riguardanti il 2006), dove, coerentemente col passato, la pro-babilità di votare per il centro-destra è significativamente più bassa che nel resto d’Italia. Le altre zone non si distinguono significativamente l’una dall’altra (tutti i coefficienti risultano non significativi).

Passando ora alla valutazione dei coefficienti riguardanti la tradizione politica, notiamo come questi siano sempre nega-tivi, confermando del resto le aspettative. Confrontando i due modelli di base per il 1972 e il 2006 la dimensione degli effetti nelle due tornate elettorali considerate è comparabile (-0,22 nel 1972; -0,17 nel 2006). Ma nel 1972 questo coefficiente, che d’altronde ha una variabilità maggiore rispetto al 2006 (e quindi una significatività statistica minore, si vedano gli errori standard nella tabella), si aggiunge agli effetti osservati a livello delle zone geopolitiche: ovvero, la tradizione politica provin-

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ciale si innesta sulla tradizione politica della macro-area che è distinta nel Nord, nella Zona rossa e nel Centrosud. Nel 2006 le differenze tra aree scompaiono, se si eccettua la peculiarità della Zona rossa, e quindi la tradizione politica provinciale risulta l’elemento fondamentale nella definizione degli sviluppi elettorali e delle scelte di voto individuali.

Per comprendere meglio come gli effetti della tradizione politica agiscano potenzialmente in modo differenziato nelle diverse macro-aree e su diversi gruppi di età, si è proceduto ad aggiungere nel modello per il 2006 l’interazione tra tradizione politica provinciale e zona geopolitica e poi quella con l’età. I risultati sono parzialmente inattesi, come si vede dalla tabella 5.8, dove sono stati riportati solo i coefficienti di interesse, non essendo modificati in modo rilevante gli altri coefficienti inerenti le variabili individuali.

Consideriamo prima i risultati del modello dove è stata aggiunta l’interazione tra tradizione politica provinciale e zona geopolitica (modello M2, tab. 5.8, colonne a sinistra), partendo dalla valutazione dell’effetto diretto della tradizione politica provinciale. Questo di alza significativamente, da -0,17 a -0,56. Ricordiamo che questo è l’effetto diretto che si riferisce quindi alla categoria di riferimento nelle interazioni, che in linea con la precedente scelta è il Nordest. Il più pronunciato effetto della tradizione politica è però completamente compensato nel Nordovest e nella Zona rossa da effetti positivi delle interazioni. Nel primo caso, il risultato è in linea con le attese, dato che si era in precedenza osservato come la forte ristrutturazione socio-economica seguita al declino della grande industria avesse potuto erodere la presa della tradizione politica di centro-sinistra col venir meno di una componente fondamentale del suo consenso (gli operai delle grandi fabbriche in Piemonte e Lombardia). Nel secondo caso, quello della Zona rossa, è più difficile trovare una spiegazione di questo effetto. Bisogna però ricordare tale zona è rimasta l’unica dove si osserva, in continuità col passato, una differenza nella probabilità di votare il centro-destra, lì ancora significativamente minore che altrove. Si può quindi pensare che la forte tradizione politica di centro-sinistra della Zona rossa continui a fare sentire il suo peso anche nelle scelte individuali, ma a livello di provincia gli sviluppi e le dinamiche elettorali non abbiano seguito con precisione le linee di maggiore o minore

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TAB. 5.8. Risultati per i modelli con interazioni stimati per il campione relativo alle elezioni 2006

M2: Tradizione politica * Nordovest

M3: Tradizione politica * Età

Coeff. (s.e.) sign. Coeff. (s.e.) sign.

Età (> 45 anni) -0,06 (0,09) -0,06 (0,09)

ZONA GEOPOLITICA

(ovvero tradizioni poli-tiche delle macro-aree, cat. rif. Nordest)

Nordovest 0,11 (0,15) 0,12 (0,15)

Zona rossa -0,86 (0,17) ** -0,86 (0,17) **

Centro -0,11 (0,17) -0,10 (0,17)

Sud -0,12 (0,14) -0,12 (0,14)

Tradizione politica provincialedi sinistra (% voti al PCI)

-0,56 (0,17) ** -0,46 (0,20) **

INTERAZIONE

Trad. pol. * Nordovest 0,77 (0,21) ** 0,75 (0,21) **

Trad. pol. * Zona rossa 0,44 (0,28) 0,42 (0,28)

Trad. pol. * Centro 0,14 (0,35) 0,12 (0,35)

Trad. pol. * Sud 0,18 (0,22) 0,15 (0,21)

INTERAZIONE

Trad. pol. * Età -0,16 (0,14)

Note: Coefficienti riguardanti età, zone geopolitiche e tradizione politica provinciale §. Coefficienti (errori standard) e significatività (variabile dipendente voto: 0 =

centro-sinistra; 1 = centro-destra).Legenda: * 0,01 < p < 0,05; ** p < 0,01.§ Coefficienti riguardanti altre variabili individuali omessi, in quanto non

significativamente diversi da quelli dei modelli precedenti nella tabella 5.7.Fonte: Itanes.

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forza del PCI espresse a livello provinciale. L’effetto politico-territoriale prevalente nella Zona rossa è quindi ancora quello inerente alla più generale subcultura rossa, non differenziato in modo significativo a livello provinciale.

Veniamo infine alla valutazione dell’interazione fra tradizione politica ed età (maggiore di 45 anni), aggiunta al precedente mo-dello, senza peraltro modificare significativamente i coefficienti inerenti gli altri parametri (si vedano i risultati del modello M3, tab. 5.8, colonne a destra). L’effetto dell’interazione fra tradizione politica provinciale ed età è negativo. Considerando la codifica delle variabili (tradizione politica di sinistra in interazione con la variabile che indica un’età superiore ai 45 anni) ciò indica che l’effetto della tradizione politica è maggiore tra i più anziani. Specularmente, ciò significa che l’effetto della tradizione politica è inferiore per i più giovani. In altre parole, i comportamenti di voto delle persone più anziane sono maggiormente allineati con la tradizione politica del territorio in cui essi risiedono, mentre i giovani ne sono più svincolati. Questa tendenza non è d’altra parte marcata (coefficiente non statisticamente significativo), ma indica come esista un potenziale differenziale tra generazioni, con i giovani che sembrano collocarsi al di fuori del solco della tradizione. Se questa tendenza fosse confermata, si potrebbe assistere nel futuro a una perdita di forza e a un declino delle tradizioni politiche.

Alla luce dei risultati delle nostre analisi, possiamo ora cercare di dare una risposta alle domande che ci eravamo posti all’inizio. In prima istanza, si può concludere che il territorio continua a essere una variabile importante nell’analizzare i comportamenti di voto individuali. Tuttavia, diversamente dal passato, le zone geopolitiche sembrano aver perso parte del loro significato. Solo nella Zona rossa la probabilità di votare per lo schieramento di centro-destra è significativamente inferiore al resto d’Italia, in stretta continuità con decenni di forte insedia-mento della subcultura rossa. Venendo parzialmente meno le tradizioni politiche a livello di macro-area, il contesto politico provinciale diventa più rilevante nel comprendere gli sviluppi elettorali e i comportamenti individuali di voto. Si è infatti visto come l’effetto della tradizione politica provinciale, pur mante-nendo lo stesso ordine di grandezza, sia divenuto maggiormente significativo rispetto agli anni Settanta. Questo riflette il fatto

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che le zone geopolitiche classiche stanno perdendo omogeneità al loro interno: la considerazione di unità di analisi territoriali più circoscritte può quindi aiutare a tenere in conto questi an-damenti. Tuttavia, gli effetti della tradizione politica provinciale non sono sempre uguali, e abbiamo visto come esistano delle significative eccezioni, nel Nordovest e nella Zona rossa. Nel Nordovest la riduzione del ruolo della tradizione politica può essere imputata alla forte ristrutturazione del tessuto sociale e produttivo che ha seguito il declino della grande industria e che ha quindi fatto venir meno una componente fondamentale del consenso espresso fino agli anni Ottanta al centro-sinistra. Nella Zona rossa è più difficile avanzare una ragione per il minor ruolo che la tradizione politica provinciale gioca nel determinare le scelte di voto individuale; si può immaginare che la forte influenza della subcultura rossa abbia attutito le differenze negli sviluppi a livello provinciale, ma questa ipotesi necessita maggiore approfondimento.

Nonostante queste specificazioni, rimane comunque il dato di fatto che in una situazione di sostanziale individualizzazione del voto, intesa come incapacità di prevedere o spiegare il voto attraverso variabili socio-demografiche, il panorama elettorale italiano continui a presentare elementi di continuità territoria-le, riflessi nel significativo impatto che le tradizioni politiche continuano a ricoprire.

Come queste tendenze possano svilupparsi è difficile da prevedere. In prima istanza il panorama elettorale italiano conti-nua a essere leggibile in termini territoriali e dalle nostre analisi non emergono forti indicazioni di cambiamento. Se si eccettua il Nordovest, infatti, i segnali di indebolimento delle tradizioni politiche non sono pronunciati. D’altra parte, il fatto che la presa delle tradizioni politiche si indebolisca soprattutto tra i più giovani rende verosimile uno scenario di trasformazione della geografia politica italiana, potenzialmente caratterizzato da una minore continuità territoriale rispetto a quella cui siamo stati abituati.

4. Conclusioni

Un osservatore che nel 1968 guardasse i risultati elettorali del 2008 troverebbe segni deboli per riconoscere un ambiente

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politico familiare, e interpretare il voto. Far riferimento alla classe sociale quale ancoraggio politico non lo guiderebbe molto, né tanto meno lo aiuterebbe la religiosità. Anche la residenza in una regione del Nordovest non aggiungerebbe molto. È altresì vero che non ritroverebbe nessuno dei partiti da lui conosciuti. Due mondi quindi lontani, incommensura-bili? Può darsi. Cambiare direzione di sguardo può tuttavia essere di aiuto. Passando infatti da una visione prospettica a una retrospettiva il fuoco migliora. L’osservatore del 2008 che guardasse al passato troverebbe infatti alcune tracce – alcune forti, altre più deboli – di continuità in un sentiero (politico) conosciuto. Nell’equilibrio tra queste due prospettive visuali è da rintracciare la risposta alla domanda: sono venuti meno i cleavages tradizionali quali significativi antecedenti sociali delle preferenze elettorali?

Muovendo dal passato alcuni segnali sono indubbiamente inequivocabili: nei primi anni Settanta la differenza tra la scelta di voto per il centro-destra degli operai rispetto alla borghesia era pari a 24 punti percentuali, mentre nel 2008 è stata pari a solo 8 punti. Analogamente, nello stesso arco temporale, i voti al centro-destra provenienti dai cattolici praticanti si dimezzano (dal 40% al 20%). Infine, in alcune zone la geografia territoriale del voto è sensibilmente alterata: il voto per il centro-sinistra scende nel Nordovest dal 54% al 41%, e nel Nordest dal 42% al 36%. Muovendo verso il passato la continuità appare tuttavia più forte: inserire la classe sociale dell’elettore in un modello del voto ne aumenta la capacità esplicativa nella stessa misura nel 2008 così come nel 1972; analogamente, lo stesso effetto, seppure di intensità minore, si osserva se inseriamo nel modello la pratica religiosa; e anche la tradizione politica provinciale continua a esercitare un peso influente nelle scelte di voto, sebbene solo nella macro-Zona rossa permanga visibile un effetto complessivo.

Non possiamo quindi affermare che le tradizionali appar-tenenze sociali abbiano perso completamente il loro impatto politico. Si sono però indebolite. In un quadro di ridotto impatto sul voto, ciò che emerge è una trasformazione degli stessi ante-cedenti sociali. La classe sociale continua a influenzare il voto, ma non si tratta più tanto di una polarizzazione conflittuale tra opposte identità sociali (datori di lavoro e operai industriali,

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per esempio) bensì, più sobriamente, di una contrapposizione legata all’occupazione e agli interessi sociali nel mercato che i nuovi attori politici via via sollecitano. Analogamente si può affermare per la religione, il cui effetto strutturante sul voto è declinato decisamente in intensità, in particolare in coinci-denza col cambiamento del vecchio sistema dei partiti e con la scomparsa della DC. Ciò conferma, così come per la classe sociale, l’importanza di fattori politici contingenti (quali la configurazione dell’offerta partitica e la struttura della compe-tizione elettorale). Similmente, la scomparsa o riconfigurazione di partiti fortemente radicati sul territorio non implica che il territorio abbia perso di importanza per la comprensione dei comportamenti di voto. Infatti, il declino delle subculture politico-territoriali che davano omogeneità a intere aree geopo-litiche fa risaltare l’importanza delle tradizioni politico-culturali locali e dei meccanismi che ne riproducono gli effetti sul voto.

Tutti segnali, questi, che spostano progressivamente dalla società alla politica la chiave interpretativa del comportamento politico individuale. In questa direzione, nel prossimo capitolo verranno analizzate altre strutture di scelta condivisa, di natura politica, che costituiscono importanti antecedenti (politici) della scelta di voto: l’identificazione di partito e l’autocollocazione sinistra-destra.