Brigate Rosse - Una Storia Italiana - Mario Moretti - Rossana Rossanda - Carla Mosca

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MARIO MORETTI BRIGATE ROSSE UNA STORIA ITALIANA Intervista di Carla Mosca e Rossana Rossanda © EDIZIONI ANABASI SPA MILANO PRIMA EDIZIONE APRILE 1994 ISBN 88-417-6003-6 _*_*_ Creare un ebook da un libro fisico non è un'operazione immediata. Il modo migliore per ringraziarmi del tempo che ci ho speso è farne uno a tua volta, e renderlo pubblico su forum, torrent, e servizi di file hosting. Ecco come fare, in sintesi: 1) Copia del libro, senza sottolineature 2) Programma OCR (Abby Fine Reader, magari portable) 3) Scannerizza tenendo ben premuto, 250-300 dpi 4) Passa le immagini in AFR 5) Correggi gli errori 6) Salva in doc/html e sistema indice, impaginazione, note, immagini, ecc 7) Share with the world :) ***

Transcript of Brigate Rosse - Una Storia Italiana - Mario Moretti - Rossana Rossanda - Carla Mosca

MARIO MORETTI

BRIGATE ROSSE

UNA STORIA ITALIANA

Intervista di Carla Mosca e Rossana Rossanda

© EDIZIONI ANABASI SPA MILANO PRIMA EDIZIONE APRILE 1994

ISBN 88-417-6003-6

_*_*_

Creare un ebook da un libro fisico non è un'operazione immediata. Il modo migliore per ringraziarmi del tempo che ci ho speso è farne uno a tua volta, e renderlo pubblico su

forum, torrent, e servizi di file hosting. Ecco come fare, in sintesi:

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Prefazione

di Rossana Rossanda

Ho visto Moretti per la prima volta all'appello del processo Moro. Era il giorno della deposizione di Valerio Morucci che per la prima volta rispondeva in aula, con l'autorità di essere stato uno dei leader della colonna romana, sul sequestro di Aldo Moro, i cinquantacinque giorni e la sua uccisione nella primavera del 1978. Carla Mosca, che era stata il mio mentore al processo 7 aprile, e che aveva seguito i processi Moro per il Grl, mi indicò, nella prima gabbia entrando, un uomo esile con un maglione rosso stinto sotto il cappotto: quello è Moretti.

Non l'avrei riconosciuto, Mario Moretti, dalla fotografia scattata all'arresto, cinque anni prima. Stava ascoltando Morucci. Dalle altre gabbie - pentiti, dissociati, irriducibili, Partito di guerriglia, Pcc, Ucc e non so quali altre sigle, tra frammenti delle Brigate Rosse e riclassificazioni giudiziarie -venivano segni di emozione o di collera o di sarcasmo. Anche nella gabbia di Moretti alcuni seguivano nervosamente, commentando. Lui se ne stava solo, immobile, molto attento, senza insofferenza, in piedi dietro all'inferriata.

Quando la seduta fu sospesa, parenti o amici si addensarono davanti alle gabbie come talvolta il presidente della Corte consentiva. Ci avvicinammo e ricordo la bella voce di Carla che lo apostrofava in tono scherzoso: "E lei, tutto solo? Neanche una zia, una cugina, un'amica?" Aveva il sorriso non difficile ma riservato, i modi cortesi. Pareva di più anni che non avesse. "Delle Br non sapete molto," mi disse a nn certo punto. "Non è che vi sforziate molto di farvi capire," ribattei.

Il giorno dopo qualcuno lasciò per me al giornale un opuscolo con la copertina rossa che conteneva i documenti d'una divisione interna - due posizioni più una, forse di uno solo. Per quanto abituata al linguaggio criptico dei materiali politici, mi perdei in quel fiume di parole nelle quali mi parve che soltanto i destinatari potevano scorgere amare differenze. Pensai che quello firmato da uno solo fosse di lui, Moretti, perché mi era parso solo. Gli anni e gli eventi sono precipitati, non ne abbiamo mai parlato.

Negli anni seguenti chiesi ogni tanto alla direzione degli istituti di pena il permesso di visitare, oltre che Renato Cur-cio, anche lui. Non era facile, ma meno difficile di adesso; le Brigate Rosse erano manifestamente sconfitte, le carceri sedate dal regime speciale, Moretti era stato arrestato nel 1981, Curcio dal 1976. Non avevo incrociato né l'uno né l'altro quando erano ancora fuori dalla clandestinità a Milano, ma il mio giornale, "il manifesto", era nato poco prima delle Brigate Rosse e giorno per giorno ne aveva seguito, non senza sconcerto e apprensione, le gesta. In polemica con il Partito comunista da un lato e con i gruppi estremisti dall'altro, eravamo sopravvissuti a fatica agli anni '70, detestati dagli uni e dagli altri. Ma eravamo degli outsider comunisti e non potevamo non chiederci perché, come, dove prendesse forma questa insorgenza armata che aveva così poco in comune con le rivoluzioni del passato. Di rivoluzione, lotta armata, poteri sulla punta del fucile avevano parlato fra approssimazione, esasperazione e simbolismo tutti i movimenti dei primi anni '70 specie dopo le bombe fasciste, chiaro avvertimento alla marea senz'armi montata nelle università e nelle fabbriche e per le strade. E specie dopo il Cile: se anche quel socialismo tranquillo e pluralista era stato offuscato, che cosa si poteva sperare dalla democrazia?

Nel corso degli anni '70 tutto quel movimento era defluito e nei primi anni '80 le "organizzazioni combattenti", meno d'un migliaio di armati ma con un'area di sostegno/ ascolto vasta e dagli incerti confini, erano state messe fuori combattimento, abbattute per le strade, arrestate, disseminate per gli speciali. Avevano fatto diverse centinaia di morti, l'Italia era stata percorsa da un crescendo di piccole e grandi violenze dentro un conflitto più vasto e anch'esso perdente. I tribunali le avevano ingigantite e avevano iniziato la serie infinita dei processi, che continuano ancora negli anni '90 riavvolgendosi su se stessi. Alcuni di coloro che avevano militato nel gruppo armato più forte, le Brigate Rosse, avevano parlato e denunciato fin dal 1979, altri andavano rompendo il silenzio ai processi, ammettevano e disconoscevano, come sorpresi di se medesimi, le ragioni che li avevano mossi. Mario Moretti e Renato Curcio tacevano, non disconoscevano nulla, non attaccavano né pentiti né dissociati né le convulsioni di quel che della loro organizzazione era rimasto fuori dal carcere.

Vedevo dunque ogni tanto Renato Curcio, più raramente Moretti, l'accesso al quale richiedeva procedure ancora più complicate, nonché una "liberatoria" nella quale egli doveva più o meno assicurare che, se mi avesse fatta a pezzi durante il colloquio, nessuno avrebbe potuto prendersela con la direzione carceraria. La burocrazia ha del sublime. Parlavamo del passato e del presente, mi interessava la loro distanza e assieme assunzione da quel che era stato, pensavo che si dovesse chiudere con una misura di legge quella lunga e inutile carcerazione. Non credo che si attendessero molto da me e non so come apparisse ai loro compagni, figure ancora più silenziose, quel parlare con una ex Pci, non dei loro, non nel giro dei potenti - figura d'una sinistra che non avevano ascoltato né apprezzato.

Divenne un rapporto rado e costante. Da Renato Curcio capii molte cose e vidi come ci si costruisce una sopravvivenza contro la deriva d'una detenzione della quale non si scorge la line - la prima volta che andai a trovarlo a Rebibbia un direttore mi mostrò il registro con la data d'uscita attorno al 2035 - e nella quale perfino la domanda d'un permesso veniva sovraccaricata dal senso d'una dichiarazione di lealismo. Curcio costruiva dei fili di ricerca fra dentro e fuori, letteratura, sociologia della segregazione. Moretti di che viveva, oltre che di musica? Lo definivano un non intellettuale, lui non si definiva in alcun modo, aveva un parlare colto e calmo, una passione del ragionar politico senza enfasi, una sorta di severità che si traduceva anche in una vena di ironia, ma non amara, un riproporzionarsi sulle cose. Né l'uno né l'altro si confidava su quel che li univa o divideva, e io non facevo interrogatori. Parlavamo. Se chiedevo come stavano, stavano bene. Avevano bisogno di qualcosa? Nulla. Una sola volta, andavo a Londra, Curcio mi pregò di telefonare alla madre, Jolanda, ma era fine d'anno e non la trovai. A Moretti mandavo cassette di musica classica che non sempre arrivavano. Mai mi fece sapere quelle che avrebbe desiderato.

Nel 1987 mi pervenne una lettera aperta firmata da Renato Curcio, Mario Moretti, Maurizio Iannelli e Pietro Ber-tolazzi. Era la dichiarazione della fine delle Brigate Rosse, in quel che ne era rimasto, e, come chi rende le armi, chiedeva che la fine fosse dichiarata anche dall'altra parte. E domandava alla sinistra di rivisitare gli anni '70 e in essa ricollocare

l'esperienza armata, torti o ragioni, come frammento d'una storia politica. Gallinari aderì con una lettera appena diversa e poco dopo anche Barbara Balzerani. Salvo

11 Partito guerriglia, erano tutte le Brigate Rosse.

"Il manifesto" ospitò la lettera ma il dibattito non decollò. La detenzione politica era un corpo pieno di ferite e contusioni, quella lettera diceva assieme molto e non abbastanza. Veniva tardi. È probabile che fino all'arresto di Barbara Balzerani qualsiasi dichiarazione di chiusura che fosse venuta dal carcere sarebbe parsa accusatoria, anche se la giovane donna trascinava con esiti tragici un'esperienza da molti anni conclusa. "Barbara si trovò a gestire una eredità tremenda," rispose una volta Moretti a un mio "Ma perché ancora? Che senso ha?" Non si chiude una guerriglia quando si vuole, è una via di non ritorno. Sta di fatto che nel 1987 nessuno capi o volle capire quella lettera. Le Brigate Rosse erano state vinte e seppellite, quello che era stato il movimento non nascose il suo rancore - avevano deciso da sole e le loro decisioni erano ricadute su tutti - l'area comunista non apri bocca. Chi intervenne chiese un'autocritica più di fondo, che in carcere, assediati da una dissociazione che diventava rinnegamento di tutto, non erano in grado di fare.

Neanche la proposta di una "soluzione politica" si riuscì a definire. La sola idea inviperiva gli emergenzialisti perché significava riconoscere che si era trattato di un fenomeno politico. Né fu intesa dal filone cattolico del "perdono", espressione che come il "pentimento" inseriva nella politica e nel diritto un elemento coscienziale che non pertiene né all'una né all'altro. Infine qualcuno faceva sapere che si sarebbe mosso se dal carcere fosse venuto del materiale che potesse mettere in difficoltà Dc e/o comunisti. "Se avete da vender qualcosa - osservai a Moretti - troverete compratori." "Ma non abbiamo nulla da vendere," rispose con una punta di esasperazione. Forse alcuni che a quel tempo andavano in pellegrinaggio a Rebibbia, promettendo questo o quello e arretrando al primo titolo di giornale, non se ne sono persuasi ancora.

Fu la Rai a interrogarsi cautamente ma correttamente in qualche occasione. Sergio Zavoli per "La notte della repubblica" e Ennio Remondino per il

Tg1 erano riusciti a sfondare il silenzio, e i leader e le parole delle Br apparvero brevemente sugli schermi. Dopo l'assassinio di Ruffìlli, l'allora ministro Giuliano Vassalli chiuse tutto, se mai un varco s'era aperto.

Certo la Prima Repubblica è finita senza affrontare quella spinosa questione, che periodicamente riaffiora come una balena soffiando sbuffi sulla stampa, e poi sprofonda. Nel 1992 il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, dopo essersi giocato con Andreotti la libertà di Renato Curcio, propose alle camere una discussione che doveva essere anche una sanatoria sulla base della tesi seguente: l'Italia era stata una democrazia imperfetta perché internazionalmente condizionata, le eversioni di destra e di sinistra stavano direttamente o indirettamente in quel quadro ormai datato, era bene chiudere tutto. Era un dare e avere su Gladio, che qualcuno sopravvalutò. Il parlamento si guardò comunque dall'inoltrarsi in quelle acque.

Faticosamente Renato Curcio usciva in semilibertà, costruiva nel Progetto Memoria un archivio di quegli anni, e ricostruiva con Mario Scialoja il suo itinerario nelle Brigate Rosse. Mario Moretti non lo aveva letto ancora quando nel giugno del 1993 mi scrisse. Se un giorno vorrai raccontare come andarono le cose, conta su di noi, gli avevamo detto Carla Mosca ed io. Quel giorno gli pareva venuto. Ci stavamo? Rispondemmo di si.

Chiedemmo al Ministero di Grazia e Giustizia il permesso di intervistare Mario Moretti per sei giorni. Fu concesso a rate: lo incontrammo dunque nel carcere di Opera nei giorni 19, 20 e 21 luglio e 25, 26 e 27 agosto - calore torrido e gran via vai di inquisiti e avvocati per l'inchiesta di Tangentopoli. Qualche settimana prima gli avevamo mandato una scaletta proponendogli di ordinare il lavoro per quattro blocchi, un primo sul maturare del passaggio alle armi "verso le Br", un secondo "le Br fino a Moro", un terzo sui "cinquantacinque giorni" e infine "le Br dopo Moro". Non era geniale e, come vedemmo, non rappresentava tutte le scansioni che segnano quella vicenda. Perché non stendeva egli stesso qualche parte in modo da condurre successivamente l'intervista su un primo testo? Rispose che preferiva sottoporre direttamente a due persone amiche ma non dalla sua parte il magma di memoria che aveva accumulato dentro. Se scrivessi io, disse pressappoco, verrebbe fuori una specie di manuale tutto

ordinato e noiosissimo, farei tornare tutti i conti, e invece non tornano.

In realtà Moretti scrive assai bene, quasi come parla, ma altra cosa è scrivere per sé o a qualcuno, e altra è incidere per così dire su pietra una vicenda che aveva parlato di sé in un linguaggio del quale egli non salva niente ma che era stato anche suo. Egli voleva, per così dire, abbracciare pietosamente quella storia e con lo stesso gesto metterla impietosamente a distanza, e la nostra presenza rendeva quasi obbligate le due operazioni. D'altra parte la sua non era una memoria placata. Nei tredici anni di carcere il percorso delle Br si era andato disponendo nella sua mente tutto attorno a una domanda: se quel che esse avevano tentato aveva avuto una possibilità, se s'era data o no una chance di andare a un rivoluzionamento o almeno a una modifica dei rapporti sociali e politici, prendendo le armi in un paese come l'Italia e negli anni '70. Era chiaro che dalla risposta veniva per lui la legittimazione politica di quella esperienza e dei suoi costi - le vite coinvolte e quelle distrutte, il dolore inflitto e patito - al di là dell'avventura esistenziale, che si può rivendicare sempre, dura ma "anche ricca" non una vicenda da "disperati". Questa domanda avanzata e ritirata, le risposte acerbe o problematiche, segnarono tutte e sei le conversazioni costituendone lo scenario e una ricorrente digressione.

Ne risultava un racconto inquieto nel quale nomi e date sfuggivano o si spostavano o sovrapponevano, come respinti in secondo piano dal vero oggetto della memoria, le "scelte" possibili e quelle effettuate, e quelle che di volta in volta esse e l'altro, il nemico, producevano. Questa memoria del tempo autentico, non lineare, era precisa in Moretti quanto imprecisi i giorni e sfumati i volti; come se oltre venti anni di vita non vita fra clandestinità e carcere gli facessero custodire un orto privato, nel quale gli occhi altrui e specie quello carcerario non hanno da accedere. In esso stanno le vite degli amati e perduti, sui quali ammutolisce; difficile far dire a Moretti, che pur non è avaro di sé, che cosa sia stato per lui questo o quel suo compagno, o anche un avversario.

L'avversario raramente ha un volto. Mario Moretti ha diretto le Brigate Rosse e si assume la responsabilità delle morti date e di quelle ricevute. Dare morte per un fine politico non rende la morte meno grave, Moretti sa e dice che è la tragedia, l'irreparabile, un costo che non si recupera. Non

misura violenza su violenza, la violenza esplicita d'una classe dominata su quella non enunciata della classe dominante; misura i mezzi sul fine e su questo non si lascia facilmente indottrinare ma neppure si consente scappatoie. Tuttavia è più facile colpire un uomo quanto più è un simbolo, un'astrazione, non è mai avvicinato, come nelle guerre; il "nemico" per le Br è una figura nella quale si incrociano poco più che accidentalmente i poteri. Ma questa riduzione, che può essere giudicata ancora meno tollerabile del colpire nell'avversario una precisa persona, si può dare solo negli attentati a distanza. Già nei sequestri la fisicità dell'ostaggio diventa concreta, lo si tocca, lo si vede, gli si parla, e allora la memoria di Moretti la registra tanto più facilmente in quanto l'esito non è sanguinoso. Dicono i comunicati delle Brigate Rosse che al sequestrato tale o talaltro vien fatto "il processo", ma come inquisitore Moretti ammette di non valere nulla, invece di interrogare si mette a discutere. Anche se quel che più lo prende sono le dinamiche che un sequestro o un attentato provocano, quello è l'essenziale. È anche, io credo ma egli non lo confessa, una fuga. Soltanto con Aldo Moro non c'è possibilità di distanza: con Moro è lui, Moretti, e lui solo a dialogare, il viso coperto, per cinquantacinque giorni e quando si tratterà di ucciderlo, sarà lui che lo dovrà fare.

Non soltanto dunque per l'importanza che ebbe in Italia il sequestro e l'uccisione di Moro, sui cinquantacinque giorni l'intervista si è riawicinata. Era per molti versi l'esperienza più tragica e quella che avrebbe segnato uno spartiacque nella storia del decennio oltre che nel destino di quel suo frammento che erano le Brigate Rosse. In quei quasi due mesi Moretti scopriva attraverso le parole del suo prigioniero lo spessore di quel che le Br chiamavano "stato" e del quale poco sapevano. E che reagiva in modo inatteso per ostaggio e rapitore, i quali nei primi giorni coltivarono la certezza che la prova di forza era stata tremenda, ma si sarebbe conclusa senz'altro sangue con un negoziato. Che il negoziato fosse respinto, che lo "stato" cancellasse via da sé non soltanto le Brigate Rosse che gli erano estranee ma anche Moro, che era parso quasi la sua essenza, cadde su tutti e due come un colpo. E tutti e due vissero l'esito come una fatalità. Anche se della morte di Moro è semplice e veritiero dire che sono le Brigate Rosse a portare la prima responsabilità, non è stata la sola responsabilità. E tra il dilemma morale e politico, per Moretti indistinguibile, diventava quella

volta anche una storia fra due uomini.

Non so se Moretti ne avesse mai parlato prima così come con noi. Era stato naturale spezzare l'ordine cronologico della ricostruzione andando già il secondo giorno alla primavera del 1978, perché era un termine al quale il discorso tornava fin dal principio. Ma ricostruire non fu semplice. Carla Mosca s'era ristudiato tutto, voleva togliere di mezzo le troppe impalcature fantastiche, circoscrivere una verità. Si soffocava sotto il lucernario in vetrocemento nella stanzetta, Moretti era teso, ripercorreva con qualche inciampo lo svolgersi degli eventi, Carla assieme implacabile e turbata. Fra le domande che venivano dal fuori e le proporzioni e le luci interne gettate su quelle sequenze c'era come un attrito, e la tensione proruppe a proposito di via Gradoli, quando Moretti, che si controlla sempre, esplose: possibile che in quella tragedia si iscrivessero sempre note grottesche, immiserenti. Poi, man mano che ci si avvicinava alla fine caddero delle pause, delle fatiche fra domanda e domanda, risposta e risposta. Carla gli chiese quando avesse veduto Moro l'ultima volta, e lui rispose, dopo una attimo e con voce mutata, che lo aveva veduto al momento della morte. Aveva accelerato, come rispondendo alla domanda che sarebbe seguita: lo aveva ucciso lui? Si. Non poteva essere diversamente. Più tardi, già in piedi, disse d'improvviso: Io sono in pace con quell'uomo.

Ma eravamo tramortiti tutti e tre. Uscendo nell'adden-sarsi d'uno di quei temporali che sono ancora più grevi dell'afa, Carla ed io fummo circondate dai giornalisti, credevano che fossimo là per le inchieste milanesi. Ci dissero che Gabriele Cagliari s'era ucciso quella mattina a San Vittore mettendo la testa in un sacchetto di plastica. Da morte a morte. Un paese pieno di morti. Rientrammo a Milano senza scambiar parola. Nei giorni successivi, in un conversare che tutti e tre ci sforzavamo di mantenere tra le righe, amichevole, normale anche per momenti scherzoso, ritornò spesso l'espressione: "le Br ne morirono", "noi morimmo allora". Non si fraintenda, per Moretti la tragedia era politica, la battaglia non solo sua era perduta.

In agosto riprendemmo un certo ordine cronologico, anche se tornando di continuo alle analisi, agli esiti, alle strette, alle scelte - le parole chiave di Moretti. Ma le risposte, che si era sforzato prima di dare più chiare

possibili, si fecero aggrovigliate dopo l'arresto nel 1981. Esitava, tendeva a non dire.

Per due ragioni forse non del tutto esplicitate, ma che crediamo di avere compreso e in parte ricostruito poi per iscritto. Una è che non gli va di giudicare le responsabilità altrui, è un capo e risponde di quel che ha fatto o non risponde. Non è né reticenza né umiltà, è orgoglio; anche della incapacità di finire delle Br si sente responsabile per assenza, giudicare sarebbe ingeneroso, come se quelli che erano rimasti fuori non avessero ereditato da lui una situazione irrisolvibile. L'altra che sul declino delle Brigate Rosse pesa l'interpretazione di altri. Non sono stati capaci, gli uomini e le donne delle Br, di chiuder assieme quel che avevano cominciato insieme. Curcio l'amico, il compagno, l'altro, quel che gli viene di chiamare Renato, col quale c'è eternamente dissidio e intesa, legge quel che è stato con occhio diverso. Soprattutto l'intera vicenda è stata deformata, sconnessa, dice Moretti, dalla dissociazione, il mancare dei compagni a se stessi: quella è stata la sconfìtta vera, quella che ad armi da tempo deposte priva le Brigate Rosse di una identità, rende impossibile finire degnamente, passare a testa alta fra gli sconfitti. E ripercorrere sul serio gli errori. Alla ricerca delle radici dell'errore pochi sono i limiti che Moretti pone, il solo, forse, è l'inaccettabilità del dubbio sul fatto che si dovesse tentare. Sul come, persino sulla lotta armata, si deve andar a vedere e magari rivedere tutto. Ma si può fare solo se ci si assume le responsabilità di tutto.

Allo scadere dei sei giorni partimmo con molte cassette più o meno registrate e molti appunti. Non poco di quel che avevamo sentito ci aveva sorpreso. Ci riservammo di dare a quel materiale una prima forma, mandarla a Moretti perché correggesse, completasse le lacune e rispondesse a qualche altra domanda, su quella base avremmo steso una seconda versione e avremmo riveduto assieme capitolo per capitolo tornando a novembre ad Opera. Non avevamo incontrato alcuna difficoltà né dal Minuterò né dal carcere, e non ne prevedevamo. Se ci aveva sfiorato il sospetto che quel che ci si diceva potesse essere ascoltato, in un paese dove i servizi hanno sempre fatto quel che volevano, non ne eravamo preoccupati né frenati. Noi non cercavamo verità giudiziarie, era un modesto tentativo di fare storia o almeno raccogliere materiali di prima

mano per una storia. Ci pareva che fosse di comune interesse.

Sbagliavamo. In ottobre veniva arrestato a Roma Germano Maccari con l'accusa di essere il "quarto uomo" nell'appartamento di via Montalcini, dove Moro era stato sequestrato. Non avevamo mai sentito questo nome, era inteso fra noi e Moretti che nomi di non inquisiti non sarebbero stati fatti. Ed ecco che sulla stampa montava un caso gigantesco: non solo Maccari sarebbe stato il misterioso "ingegner Altobelli", ma sarebbe stato lui a sparare su Moro. Contemporaneamente Alberto Franceschini, che nel 1978 era in carcere, dichiarava che molte altre persone, oltre i nomi già noti alla magistratura, erano state in via Fani; poteva esserci anche la n'drangheta, di cui un pentito arrestato a Milano aveva sentito dire.

Carla Mosca ed io sapevamo che a sparare su Moro era stato Moretti, ce l'aveva detto in quella greve mattina, ed era fuori di discussione, oltre che di logica, che in via Fani le cose fossero andate come Moretti aveva detto e non lui solo. Perché inventare che le Brigate Rosse erano legate alla malavita? Ancora una volta ci si aggrovigliava nel non senso. Ci parve normale restituire quel tanto di verità che sapevamo. Non era del resto una verità giudiziaria, Moretti era stato condannato alla massima pena anche per quell'omicidio di Moro. E, benché ne dubitassimo, chissà che da quel risvegliarsi dell'attenzione non potesse giovarsi Prospero Gallinari, sul quale pesava una condanna non scritta e non scrivibile che gli negava la remissione di pena cui davano diritto le sue disastrate condizioni cardiache. Io dunque ne scrissi sul "manifesto" del 24 ottobre e Carla Mosca ne parlò al Grl il giorno dopo, facendo sentire un frammento della registrazione fatta in estate.

Non l'avessimo mai fatto. A Moretti venne sospeso ogni contatto esterno e messo in causa il corso di informatica che aveva organizzato con la Regione Lombardia e per il quale era stato elogiato pochi giorni prima dal ministro Conso e dal cardinale Martini. L'Italia parve scoprire quel giorno che era stato giudicato e condannato per il sequestro e l'omicidio di Moro. Molti gridarono all'orrore. Alcuni aggiunsero che era orribile da parte nostra averlo ascoltato. Un quotidiano nazionale propose che venissimo incriminate, e la Procura di Roma chiese repentinamente il sequestro dei nastri.

Consegnammo le bobine relative ai cinquantacinque giorni, anche se, tome poi venimmo a sapere, eravamo tenute non più che a lai accertare ai magistrati che non contenevano alcuna notizia di reato. Ma perché negarle? Davamo per scontato che i sostituti procuratori che le avevano chieste e sapevano bene quanto poco vi fosse di giudizialmente interessante, non ne avrebbero fatto uso per non ledere il diritto di un imputato a non parlare. Ma sbagliavamo di nuovo. Nel processo Moro quater la voce di Moretti venne per così dire trascinata in aula e si deve al presidente della Corte, Severino Santiapichi, se non si acquisirono dichiarazioni non rese da un imputato. Non eravamo riuscite a custodire quella sua sola proprietà ancora gelosa. Non solo ma Carla Mosca e io ci trovammo nei panni di involontarie confidenti della Procura che avevano carpito le parole di un detenuto. Alla protesta del Consiglio dell'Ordine dei giornalisti, il Consiglio Superiore della Magistratura non ha dato risposta.

Per tutto il 1993 il Ministero o la Direzione degli Istituti di Prevenzione e Pena o la Procura di Roma ci impedirono di rivedere Moretti. Lo rividi per poche ore a capodanno, quando ebbe repentinamente il permesso di andar dai suoi, e poi il 3 e 4 marzo scorsi di nuovo in carcere. Non portai registratore, non so più quale sia la condizione di diritto d'un giornalista. Questo libro a sei mani è stato dunque scritto come fra due paesi esteri prima della guerra, perché non solo non potemmo lavorare assieme, ma in carcere non si telefona né si mandano o ricevono fax e funziona solo, flemmatica, la posta.

Così ci siamo scambiati il primo abbozzo, Moretti correggeva e aggiungeva, e spiegava in una corrispondenza a parte. Carla Mosca ed io rivedevamo sfrondavamo annotavamo quel che ci restituiva e alla fine abbiamo calibrato il tutto. Moretti ha riletto mentre già andava in stampa. Tutte le risposte di Moretti sono nel suo linguaggio, sue sono le parole e le immagini - è un narratore nato, reattivo alle domande, pronto ad andar oltre. Ma non sono tutto quel che ci ha detto. Il materiale che resta fuori è vasto; il più grande gruppo armato d'Europa è durato dodici anni. Sono le idee d'una generazione, vite. Abbiamo selezionato. Non abbiamo rilanciato una ricerca, non potendo né parlarci né sentirci nel modo proprio d'un lavoro come questo. Da novembre in poi quel gusto di ritrovare, andare a

fondo, sapere e dire che in estate aveva preso tutti e tre era caduto. Abbiamo concluso con scrupolo, e basta.

Abbiamo anche gettato tutto il materiale grezzo, e chi ha una certa passione per la storia come andò e le sue fonti sa come sia costernante. Ma la giustizia è una macchina cui preme definire il reato e incalzare i rei, afferra quel che trova anche a costo di consigliare silenzi, rinvìi o offuscamenti del tessuto storico. Forse non può essere diversamente. Già troppo della vicenda italiana è legato alle torrenziali sentenze delle Corti di giustizia e al relativo spaventevole idioma. Ma la società dovrebbe aver più cura del suo passato, non arretrare davanti alle sue lacerazioni, non darne interpretazioni reticenti, vegliare insomma, sull'ieri e sull'oggi come su un suo corpo continuo. Questo non avviene.

Perché? Mario Moretti è convinto che il Partito comunista prima e il Pds ora non vogliano guardare a se stessi negli anni '70, e di qui venga una censura di tutti. Come tutte le formazioni estreme anche le Br avevano guardato al Pci con amore e odio, bellissima barca mal guidata da un gruppo che avrebbe represso e sviato una grande ondata di cambiamento. Non è così semplice. Ma è certo che il Pci allora e il Pds adesso, intenti a sbarazzarsi di tutto quel che è stato, non si sono interrogati su quel che negli anni '70 si formava alla loro sinistra, e si guardano dal chiedersi perché e che cosa avrebbe significato capire e recuperare invece che maledire. È una incapacità che li fa pavidi, obliosi. Sulle Br avallano ogni fantasia, sul sequestro di Moro non tornano, non sia mai che si fossero sbagliati in quella difesa senza riserve di quello stato. E se gli ex comunisti non lo fanno, perché altri lo dovrebbero fare? Le Brigate Rosse sono una storia della sinistra.

Una storia a parte. È a parte rispetto a ogni altro gruppo armato di questa seconda metà del secolo, che pure vide molte insorgenze armate dopo quella cubana, e nessuna felice. Con diverse di esse le Brigate Rosse cercarono un contatto ma non riuscirono mai a incontrarsi davvero. Qualcosa le fa dif ferenti.

Le Brigate Rosse non sono simili all'Eta o all'Ira e neppure all'Olp, nate da una radice nazionalista o nazionale che le prolunga nel tempo ma ne

condiziona la natura. Non si sono formate per liberare un territorio o per affermare l'indipendenza d'un popolo.

Non sono simili alla Raf, come pur parrebbe per parallelismo di tempi e radicalità, perché sorgono sull'onda di un movimento, operaio e non, che la Germania non ha avuto. La Raf si sa isolata e vuole scuotere l'accidioso popolo tedesco, nel quale gli operai sono integrati. Le Brigate Rosse nascono dentro una speranza, si sentono immerse in un movimento di operai, alto e più grande di loro, e si formano per esprimere quelli che ne ritengono i bisogni già presenti. Vogliono andare oltre, non solo contro. Non esprimono una protesta, non sono vendicatrici, o lo sono raramente e in genere per proteggere i compagni carcerati. L'essenziale per loro è che in Italia c'è un conflitto di classe radicale, si tratta di dargli un simbolo, essere il suo braccio armato.

Non sono simili alle guerriglie latino-americane, che pure evocano senza troppo conoscerle. Quando le prime Brigate Rosse si formano, con Ernesto Guevara è morta la guerriglia in Bolivia, e Cuba ha cambiato strategia nel subcontinente. Resta un'aura, la Sierra, i Mir, i favolosi Tupa-maros. Ma, come Cuba, tutte quelle guerriglie si formano e contro una dittatura di destra e su un programma nazionale-democratico. Le Brigate Rosse si sentono classiste, operaie, comuniste.

Non sono simili alle partigiane Brigate Garibaldi che pure vagheggiano come loro antecessori, e assai parzialmente soltanto a quel breve frammento che è la cosiddetta Resistenza rossa. Il Partilo comunista che rinasce, e al Nord si batte con le armi contro tedeschi e fascisti, fa una guerra di liberazione, non ha un'ipotesi insurrezionale: c'è Yalta e ci sono gli eserciti di tutto il mondo che si spartiscono l'Europa. L'Italia non è la Iugoslavia, Togliatti non è Tito. E dopo la guerra quella sua parie che conserva le armi pensa a una difesa piuttosto che a un attacco, che dagli anni venti non sta più nelle ipotesi dei partiti comunisti europei. Le "duplicità" del Pci furono minoritarie e sconfitte nei primi anni cinquanta. Non sono quelli gli avi delle Brigate Rosse, l'album di famiglia sta molto più lontano, in un'idea dello stato e della rivoluzione che già Lenin non praticò più.

Classiste, comuniste, ma non marxiste né leniniste - altro è il concetto di avanguardia nella tradizione che viene dal 1917 - sono un prodotto di culture e umori d'un paese industrialmente avanzato e fortemente di sinistra. Sono un fenomeno del nord, Moretti dirà dei poli industriali; prima di installarsi al sud il loro ciclo è chiuso. Sono un'insorgenza che segue il decennio decisivo, gli anni sessanta. Non ammette facilmente, Moretti, che quel coagulo operaio -alla Pirelli, alla Sit Siemens, a Sesto e poi a Torino - si forma anche perché è in presenza di un movimento di nuovo tipo, che trascorre dalle università alle fabbriche e viceversa, e poi investirà segmenti o soggetti della società non disposti a collocarsi nella tradizione operaia. Quella effervescenza è per le Brigate Rosse uno sfondo dal quale viene, se non un alimento, una sorta di indiretta conferma che si, il paese si muove. Le Br, dice Moretti con modestia, non capiscono gli studenti, ma è convinto in cuor suo che non fosse così importante capirli. Eppure è Renato Curcio, che viene dalla facoltà di Sociologia di Trento, a inventare il nome delle Brigate Rosse con Mara Cagol prima ancora di incrociare la lotta alla Sit-Siemens - il legame fra loro lo fa la Pirelli, prima fabbrica d'un rosso diverso. Più tardi, recentemente, Curcio scriverà che molti erano i luoghi e i soggetti di quella rivoluzione e ridurrà il peso del conflitto sui luoghi di lavoro, mentre Moretti li vedrà tutti come accessori al luogo dove il contrasto dei poteri diventa assoluto e trasparente: la fabbrica. Là sta la divaricazione, l'inconciliabilità. Le Brigate Rosse ne sono l'espressione più determinata.

Ma qui sta anche lo scoglio. In fabbrica le Br hanno sempre avuto successo ma sempre a breve termine. Gli operai non la spuntano, nessun conflitto in fabbrica la spunta davvero, perché induce il meccanismo del comando capitalistico a spostarsi fuori dell'unità produttiva, a monte, a valle, sul mercato internazionale - esso cambia agli operai il terreno sotto i piedi, sposta il fronte, è inafferrabile. Se si vuol agire bisogna spostarsi fuori del perimetro aziendale, e per questo nel 1974 le Brigate Rosse fanno "il salto sul terreno dello stato". Che poi è la scena politica, sono i partiti e soprattutto la grande diade, Democrazia cristiana e Partito comunista, e gli apparati della repressione.

La Democrazia cristiana è "il cuore" dello stato, l'avversario storico della

sinistra, e si articola negli apparati. Il Partito comunista è l'aggregato di un "popolo comunista" che però è altra cosa della linea della sua segreteria, della sua direzione, del suo comitato centrale: il Pci ha due anime, Moretti ne resta persuaso. In fabbrica i comunisti conoscono i brigatisti, litigano con loro ma fanno a volte circolare i volantini, non li denunciano. Non sono con il padrone né con la polizia e neppure con il loro gruppo dirigente; le Brigate Rosse ne deducono che sono con loro. Ma è un passaggio illecito. Frequentano le avanguardie, i più decisi, forse i più esasperati, non vedono che quella antica classe operaia del nord ne ha passate troppe, vorrebbe cambiare ma non sa bene come, sta a vedere quei suoi figli strani. Figli, non li consegna. Ma neppure si batte con loro o per loro. Tace. Tace anche durante il sequestro di Moro, quando le Br pensano di avere incarnato il sogno popolare di mettere la Dc con le spalle al muro. La classe operaia osserva e in qualche modo protegge la guerriglia, ma la guerriglia non è della classe operaia.

D'altra parte mentre il padrone trattava sempre, lo stato non tratta, fa muro. Anzi riorganizza le sue forze di repressione. Spostatesi dalla fabbrica per mirare al potere che la determina, le Brigate Rosse si trovano sotto i fari della stampa e sotto i fucili dei corpi speciali. Si alza quello che chiamano il livello di fuoco mentre il movimento in fabbrica defluisce, fino al massimo della divaricazione dopo il 1978, quando si infittiscono i gruppi e le azioni armate mentre il conflitto nella società si spegne.

La seconda metà del tempo delle Br e di questo libro è la storia dello sbattere contro un muro, la guerra degli apparati contro le Br e delle Br contro gli apparati. Non era questo che si erano prefisse, non era stata questa l'azione più ambiziosa, il sequestro di Moro: era stata pensata come uno scontro di forza politico sul terreno politico, del quale sparatorie e sequestro in via Fani sarebbero stati soltanto il grimaldello. Sarebbe saltato l'accordo Dc-Pci e il Partito comunista avrebbe ripreso la strada di una opposizione di sinistra, rafforzato da quella straordinaria azione e in certo modo investito della sua radicalità. Per arrivare dove? Forse solo a un mutamento di regime, forse a una situazione "rivoluzionaria": le Br non architettano molto. Ma ce n'erano le condizioni? Moretti s'impazientisce. Che altro fare, se no? Che altro è stato fatto, che non sia fallito? Che cosa

hanno fatto il Partito comunista, il polo di sinistra, le nuove sinistre che sia riuscito a impedire il disastro degli anni ottanta?

La discussione con Moretti si avvolge come una spirale. La lotta armata forse era fuori tempo, forse non era la forma della rivoluzione italiana - il suo dubbio si spinge molto oltre, poi bruscamente si ferma. Che altro c'era? Quali altre strade? Dove sono finiti il grande Partito comunista, il sindacato più forte d'Europa? In questa doppia impossibilità gli anni '70 in Italia giungono al punto morto del movimento operaio occidentale: esso non passa mai. Non passa nelle forme del conflitto democratico e di massa, non passa nelle forme di rottura di una avanguardia armata.

Di questo parla la storia delle Brigate Rosse se appena ci si china su di essa con animo sgombro, con qualche intelligenza e pietà. Pietà non solo per coloro che morirono e ne morirono, ma per la vicenda delle rivoluzioni del secolo, dentro la quale come un asteroide si sono accese e spente.

CAPITOLO I

Dalla fabbrica alla clandestinità

Mario Moretti, sei fra i leader delle Br quello che le ha dirette più a lungo, quello che più a lungo è sfuggito all'arresto. Moretti l'imprendibile. Dal 1981 sei in carcere, nei processi non ti sei difeso, non hai negato, non hai risposto. Sei stato pesantemente condannato. Lavori, studi, non fai proclami. Moretti il più chiuso, il più silenzioso. Perché?

Già. Perché non parla Moretti? Questo dilemma è meno ingenuo di quel che si vuol far credere. Su di me si è costruito come su nessuno. Non è vero che io non ho mai parlato: ho risposto alle domande di giornalisti poste in tutte le lingue, mostrato la mia faccia in tutte le televisioni, persino coi magistrati mi è capitato di parlare, ma sempre in sede extragiudiziale. In carcere o in tribunale la parola si configura come una confessione, una testimonianza a carico, una delazione, oppure non puoi aprire bocca. So che molte delle nostre azioni sono state anche reati, e gravi, non sto rivendicando un rifiuto di principio della giustizia borghese o simili. È finita la guerriglia, è finito anche il processo guerriglia. Ma dico che la storia delle

Brigate Rosse è un frammento di storia politica, non un frammento di storia penale. Non è in tribunale che si può fare.

Dove si doveva farei

In una sede politica, in un luogo della società. La sinistra la doveva fare, da un pezzo. E noi avremmo parlato, come ora faccio con voi, senza riserve. Ma sugli anni '70 la sinistra non parla, perché dentro ci sta anche una insorgenza armata, si voglia o non si voglia, e comunque la si giudichi. Le Brigate Rosse sono finite da anni, i compagni sono in carcere, e ancora siamo una spina che va di traverso. Si tace o si cerca di esorcizzarci. E, peggio, c'è chi cerca di intorbidare una vicenda che è stata piena di speranze, forse illusioni, tentativi, errori, dolore, morte - ma non sozzure. Vorrei cercar di restituire questa storia alla possibilità di una critica. Spero che lo facciano altri compagni che hanno militato con me.

Perché ora ?

Andava fatto già prima. Bene o male le vicende giudiziarie si stanno concludendo. Restano strascichi processuali che una vicenda come questa si porterà dietro sempre, almeno finché un'amnistia non chiuderà con i nostri quindici anni di esistenza liberando tutti, compresi i giudici, dalla necessità di trattarla in sede penale. Nessuno che vi si accosti onestamente può pensare che sulle Br la giustizia non si sia esercitata fino in fondo. Un'analisi seria dovrebbe essere possibile anche a chi più ci ha avversato.

Delle Brigate Rosse pensi di sapere l'essenziale!

Delle Br fino al mio arresto so tutto. A eccezione forse di alcuni mesi all'inizio, una gestazione alla quale non ho partecipato.

«

Qual è stata la tua storia ? Che famiglia era la tua ?

Ho 47 anni, la maggior parte dei quali vissuti in questo nebbioso, orribile e straordinario termitaio che è Milano. Non mi è andata sempre male. Fino a vent'anni ho vissuto in un paese stupendo delle Marche, si chiama Porto San Giorgio. Sta sul litorale adriatico, da una parte la campagna e i famosi

colli leopardiani, dall'altra il mare. Ho praticato il mare, sopra, sotto, a metà strada; credo di aver imparato a nuotare prima che a camminare. Abitavo con i miei fratelli, un maschio e due femmine, in una casa a ridosso di un castello, un castello vero, con torrioni, merli e tutto. Era accessibile soltanto alla nostra banda di ragazzini, gli unici che potessero arrampicarsi sui muri e passare attraverso le feritoie. Campagna, mare, castello, in un posto così un'infanzia non è triste. La ricordo come un periodo felice, i miei erano poveri, a casa si mangiava soprattutto pane e mortadella, ma ci andava benissimo cosi. Mio padre votava comunista, come gli amici che da bambino vedevo per casa, ma in quel periodo e da quelle parti la gente si sentiva soprattutto antifascista, contro quello che il fascismo aveva lasciato in eredità e non era mutato. Non capivo bene, lo percepivo come un rancore sordo che serpeggiava nei discorsi, ma soprattutto nei silenzi tra le persone che conoscevo. Tra mio padre e un mio zio materno; tra due miei zii, entrambi reduci da una lunga prigionia in Africa, in un campo di concentramento degli alleati; uno di loro aveva imparato insieme all'inglese anche le idee liberal-democratiche, l'altro era tornato più fascista di prima. Per tutti gli anni in cui sono rimasto a Porto San Giorgio non ho conosciuto realmente la politica, semplicemente perché là nessuno la faceva. Quasi tutti i miei amici erano operai che lavoravano sui pescherecci, nelle fabbriche di calzoleria o di meccanica che si stavano diffondendo nella zona. Quando si andava a votare in generale si votava comunista, ma tutto finiva li. Io sono stato, credo, l'unico che ha continuato a studiare dopo le medie, all'Istituto tecnico industriale. Mi sono diplomato a Fermo.

È vero che sei stato mantenuto agli studi da una signora del luogo ?

Non era del luogo, era la marchesa Casati di Milano che molti anni dopo sarebbe morta per una tragica vicenda sentimentale.1 Avrò visto questa donna un paio di volte in tutto, posso dire soltanto che fu molto generosa. Per il suo interessamento i miei poterono far fronte alle spese necessarie per farmi finire gli studi; non sarà stato un granché, ma i soldi per farmi arrivare al diploma i miei non li avevano. Non è che la scuola mi entusiasmasse, era una noia insopportabile, non trovavo mai risposta alle mie curiosità. A parte la disciplina c'era ben poco. Per arrivare a scuola da casa mia dovevo fare una strada con il mare da una parte, la pineta

dall'altra, due tentazioni irresistibili. Infatti resistevo pochissimo. Non si può dire che a scuola andassi bene, ma neanche male, la verità è che molto spesso non andavo affatto. Questo almeno finché mori mio padre. Avevo sedici anni. Mia mamma, per una di quelle amorose ed implacabili ostinazioni delle madri, decise di portare ugualmente tutti e quattro i suoi figli alla fine degli studi. Riprese perciò a insegnare, il suo stipendio era l'unica entrata, si sacrificava in modo tale che ci sentimmo tutti chiamati a responsabilità da adulti. Dovetti mettermici anch'io, che mi piacesse o no. Fu allora che una mia zia, che era portinaia a Milano, in via Torino, dove abitavano i Casati, parlò di noi alla signora e questa si offri di aiutarci. Così la mia sorella più grande si è laureata in lettere, la più piccola ha preso il diploma di maestra e io, bene o male, finisco per diplomarmi perito in telecomunicazioni nel luglio del 1966. Dopo qualche mese trovo un lavoro a Milano.

Dovei

Alla Ceiet, una società di impianti telefonici. Mi mandano a seguire i lavori in un cantiere di Varese dove si sta costruendo un grosso palazzo per uffici. Vado avanti e indietro tutte le mattine tra Milano e Varese, prendendo il treno delle Ferrovie Nord dopo mezz'ora di strada a piedi per arrivare alla stazione, perché a quell'ora non ci sono ancora tram. Soltanto chi fa il pendolare da queste parti e in questa stagione sa che cosa siano nebbia e freddo messi insieme. Chi dice di amare Milano mente o non sa che cosa siano le sue strade alle sei del mattino di un giorno di dicembre.

Là incontri gli operai ?

Gli operai li conoscevo già, tutti i miei amici e quelli di mio padre erano operai, ma la fabbrica no, quella non la conoscevo. Quel miscuglio di organizzazione, efficienza e disciplina che si amalgama e si scontra con l'umanità delle persone che intrecciano il loro destino nella produzione. Quella gente la incontro per la prima volta sui vagoni della Nord, dove tutte le mattine ci ammassiamo taciturni e infreddoliti. Nessuno sa dove va l'altro, ognuno sa che deve andare, tutti hanno fretta, tutti sono incazzati eppure tutti in qualche modo riconoscono un senso forte in quell'andare. Tra i muratori, i carpentieri, gli elettricisti del cantiere entro in contatto con

la fabbrica, non ancora con la politica. Quella la incontrerò alla Siemens, una grande azienda che oggi si chiama Italtel. È là che un giorno nel reparto dove lavoravo - un reparto di collaudo, eravamo tutti tecnici - vedo irrompere un gruppo di scalmanati: gridano contro i padroni, non hanno l'aria di avercela con noi, io poi sono sicuro di non essere un padrone. Alla fine usciamo insieme e ci mettiamo a discutere nel cortile. Io non ci sto a farmi determinare dalla vita, voglio capire il perché delle cose, perché quegli operai protestano, domandano, esigono. In quegli anni è come se nella testa di ciascuno di noi scattasse una molla. E per farla scattare bastava un episodio come questo e anche meno.

Erano del sindacato ?

Erano sindacalizzati, si. Questo lavoratore non lo avevo ancora conosciuto: è la classe operaia vera e propria, quando gli operai pensano da operai, parlano da operai, si comportano e si organizzano da operai. Quella volta la loro protesta investe anche i tecnici, categoria che era molto numerosa in fabbrica, fra i quali c'ero anch'io. Di solito la divisione del lavoro porta gli amministrativi, gli impiegati e i tecnici a sentirsi se non servi, alleati del padrone. Ma nelle fabbriche ad alto contenuto tecnologico, come la Siemens, il tecnico cominciava a rendersi conto che stava dentro un processo di produzione che faceva di lui una parcella del ciclo, che la nostra posizione non era granché diversa da quella degli operai. 11 mio primo lavoro politico è fra i tecnici.

Quanti erano alla Siemens ?

Le proporzioni erano più o meno queste: circa quattromila donne, tutte operaie, che facevano lavoro di linea con l'eccezione di poche segretarie, e duemila uomini, quasi tutti tecnici che lavoravano nei laboratori e nei collaudi. C'era una secca divisione, anche sessuale, del lavoro. Sui tecnici il sindacato non aveva nessuna presa; ma c'era un rappresentante di Commissione Interna che era un tecnico come me, era di estrazione cattolica, aveva molta più esperienza di me che non so nulla. Diventiamo amici e decidiamo con pochissimi altri di partecipare al prossimo sciopero degli operai. E così facciamo, ma saremo in cinque tecnici su duemila. È chiaro che con il sistema tradizionale non funziona, bisogna inventare

qualcosa di nuovo. Prendiamo l'iniziativa, assolutamente inedita per quel tempo, di convocare un'assemblea che dia vita a un gruppo di studio. Non caratterizzato politicamente, per conoscere i nostri problemi e parlarne. La sede ce la presta una cooperativa socialista (allora i socialisti erano una cosa quasi seria) dalle parti di San Siro. Il successo è strepitoso, vengono in tantissimi. Avevamo toccato la molla, fatto scattare meccanismi che erano maturi. Erano sempre stati gli operai a indire assemblee, stavolta eravamo noi, magari un po' razzisti o corporativi da principio. Ma andavamo incontro a qualcosa, una tendenza travolgente a mettere tutto in discussione.

Discuteste di questioni sindacali ?

Sindacali, e qualcosa di più. Del fatto che i tecnici non si potevano più considerare intellettuali d'un certo tipo, giacché non eseguivano che un segmento parcellizzato del ciclo; come gli operai, identico. Inoltre i livelli salariali erano bassissimi, perché s'erano tenuti fuori dalle rivendicazioni precedenti. Avevano perduto insieme ogni incidenza sul processo e le briciole tradizionalmente elargite con aumenti premiali. Figura e posizione erano cambiate, se ne prendeva coscienza in modo dirompente. I,'assemblea formò il

Gruppo di studio, lo riconobbe come suo riferimento, ed esso divenne quasi leggendario tra chi si occupava di problemi sindacali nelle grandi fabbriche del nord. Fu un po' il prototipo di un metodo di aggregazione vincente fra figure produttive fino ad allora inaccessibili al sindacato. Nella discussione mettevamo a punto le piattaforme rivendicative, decidevamo le forme e i tempi di lotta. La partecipazione era straordinaria. Quando il Gruppo di studio indice il primo sciopero e ci ritroviamo in un corteo che dilaga pacificamente intorno alla fabbrica, scopriamo di essere una forza.

Curcio2 viene dall'esperienza di Trento, Franceschini3 dalla memoria dei partigiani di Reggio, la tua è u n 'altra storia ?

Io vengo da quel primo Gruppo di studio, che è contemporaneo al Cub4

della Pirelli, è il suo corrispettivo a livello dei tecnici. È stato un esperimento di organizzazione autonoma di lavoratori in fabbrica, tra il

sindacato e la politica, tra la critica al modo di produzione capitalistico e il sogno di una progettualità democratica, rivoluzionaria. Vengo dalla Siemens, là ho imparato una professione, là ho visto le regole che fanno girare il meccanismo del capitale e ho conosciuto la lotta di classe. Vengo di là. E non è tanto singolare. Le Br vengono in gran parte dalla fabbrica.

Quanti eravate nel Gruppo ?

Al principio una ventina. Il fatto è che riempivamo un vuoto e avemmo un seguito pressoché totale. Decidemmo di lavorare sulle contraddizioni del processo produttivo e sulla divisione delle mansioni. E a quel punto, visto che più nessuno mi obbligava a farlo, mi sono messo a studiare, mi sono iscritto a Economia e ( Commercio all'Università Cattolica. Era l'unica università che avesse un corso serale. Eravamo alla fine del 1967.

Hai fatto esami ?

Si, ma non mi sono laureato, ho smesso molto prima. In quell'anno anche l'università era in subbuglio, un'assemblea dietro l'altra. Alla Cattolica si era ammessi soltanto con un certificato di buona condotta del parroco, eppure il Movimento Studentesco di Milano è nato proprio da una manifestazione alia Cattolica che la polizia aveva caricato violentemente. L'università era quasi sempre occupata, che si facessero lezioni o no il clima era di totale insubordinazione, di una critica che non conosceva zone vietate, bellissimo. Mi colpiva la fantasia degli studenti e dei loro slogan, il linguaggio o incomprensibile o di un estremismo fantastico. Noi delle fabbriche abbiamo subito il fascino del movimento studentesco più di quanto fossimo disposti ad ammettere; li guardavamo un po' dall'alto, come si guarda qualcuno che sa tutto ma non capisce niente. Studentame, li chiamavamo.

Non si può dire che li capiste molto, gli studenti.

È vero. Gli steccati che durano da decenni non cadono in un giorno. Prima del '68 gli studenti erano prevalentemente di destra. Ero ragazzino quando a scuola scioperavano per Trieste. Gli operai ne diffidavano, gli studenti non erano mai stati dalla loro parte. Ma in quegli anni finisce anche la scuola dei figli dei padroni. Da li a poco avremmo trovato gli studenti fuori

dai cancelli delle fabbriche. Ma neanche allora il rapporto è stato facile.

Anche Curcio ti parve studentame?

No, certo. Ma Curcio non lo incontro all'università. Non so che cosa il flusso di studenti abbia travasato fra gli operai, credo che portassero molto della loro esperienza e ne avessero in cambio molte frustrazioni. Chiunque di loro venisse davanti ai nostri cancelli assumeva di colpo il punto di vista operaio, l'interesse degli operai soverchiava tutto, al limite della piaggeria; lo studente smetteva di essere studente oppure ne se andava. Neppure gli sporadici interventi degli operai nelle assemblee studentesche - anche a me è capitato di parlare all'Università Statale a nome del movimento dei tecnici - accorciano la distanza. Non è stata, la mia, un'esperienza intellettuale. Io sono nato come migliaia di compagni dentro le lotte in fabbrica. Uno che arriva a Milano dalla provincia, già fuori dalla miseria, con gli occhi aperti e qualche speranza, e si infila tutto intero nel groviglio di contraddizioni della grande metropoli. La odio subito Milano, non si può amare un posto così; però è la mia città, la città dove le cose succedono e succedono prima che altrove, in cui incontri la gente e in cui le cose cambiano.

Che cosa senti cambiare ?

Già quel primo gruppo alla Siemens non aveva nulla a che vedere con il passato. In fabbrica si diffidava della politica perché si diffidava dei partiti: non si parlava che di sindacato. Ricordo compagni bravissimi che non scrivevano in un volantino la parola "politica" se non ci aggiungevano "sindacale", quasi a scongiurare ingerenze di un partito, che avrebbe diviso o allontanato i più. Invece il Gruppo di studio è sentito subito come un evento politico, delicato e enorme; è la prima volta che un ceto come quello dei tecnici, che di storia non ne ha, tende a identificarsi con la classe operaia, che è invece carica di grandi tradizioni.

Gli operai come vi vedono?

Inizialmente con qualche sospetto, non c'era mai stata un'intesa fra categorie che il ciclo produttivo aveva tenuto separate. E solo di recente i tecnici avevano scoperto una nuova identità. Gli operai conoscevano alcuni di noi, perché eravamo sempre in pista durante gli scioperi, ma come

categoria la fiducia ce la dovevamo conquistare. Ma ci volle poco; in quei mesi c'è un passaggio di cultura che sconvolge i Comportamenti di tutti, operai e tecnici. Le rappresentanze sindacali sono obsolete, le Commissioni Interne che hanno retto gloriosamente gli anni '50 non ce la fanno più, si formano le assemblee, le riunioni di reparto. E sono travolgenti. La partecipazione è straordinaria e i modi totalmente di rottura. Non c'è più il relatore ufficiale che prende il microfono e va avanti per due ore, il microfono lo prendono in tanti e dicono le proprie ragioni, ti puoi identificare o con l'uno o con l'altro. E una comunicazione come non c'era stata mai.

Ve l'hanno insegnata gli studenti. Sono loro che scoprono l'assemblea nel 1968. Certo, è più facile opporsi ai professori che ai padroni, a scuola non licenziano... ma l'assemblea la imparaste da loro.

Si, era stata anticipata dal movimento degli studenti. I giovani operai respirarono l'aria che veniva dalle università anche se non le avevano mai viste. C'era bisogno di partecipare, di decidere ognuno con gli altri quali lotte, per che cosa, come, quando. Gli operai fecero propria l'assemblea, la moltiplicarono nelle assemblee di reparto, ne fecero lo strumento maggiore di autodeterminazione. Se ne impadronirono e le imposero al sindacato. Solo molto più tardi l'assemblea è stata istituzionalizzata, per così dire: gli apparati sindacali ne diffidano perché scavalca le sedi consuete di decisione. Ai funzionari l'assemblea appare un caos, è incontrollabile, ed effettivamente è il momento di massima creatività, dove si inventano anche nuove forme di lotta, gli scioperi articolati per reparto, i cortei interni, le occupazioni pacifiche. Al sindacato siamo iscritti tutti, qualcuno di noi è anche un dirigente a livello regionale, ma soltanto una parte della Firn ci appoggia apertamente e mette a disposizione le sue strutture per stampare i volantini e il resto che ci serviva. Mi ricordo che la Cgil ci guardava come il gatto guarda il topo, aspettando di acchiapparci appena se ne fosse presentata l'occasione.

E vi acchiappava ?

L'occasione arrivava nel momento della trattativa e dell'accordo. Non importa se gli operai sono cento chilometri più avanti, la conclusione della

lotta resta sempre in mano al sindacato, non l'ha mai mollata, in nessuna fabbrica milanese, neppure in quelle dove gli organismi autonomi erano più forti, come in un certo momento alla Pirelli e per poco anche alla Siemens. L'assemblea era in grado di mobilitare lavoratori e attivare potenzialità che il sindacato non avrebbe mai potuto raggiungere; ma poi gli scioperi erano indetti dal sindacato ed era il sindacato ad andare alla trattativa. Ricordo che noi della Siemens e dell'Alfa Romeo indicemmo un'assemblea così grossa che, per starci tutti, occupammo il Palazzetto dello Sport fra le due fabbriche. Non fu troppo legale, perché nessuno ce lo voleva dare. Ma venne fuori un'assemblea fantastica. Senza un oratore ufficiale sul palco, senza interventi preordinati, chi prendeva il microfono aveva un solo limite, l'attenzione che riusciva a ottenere dalle migliaia di presenti. Come incidere sulle condizioni del lavoro, quali erano gli obbiettivi che avevamo in comune, come cambiare le cose. Sognavamo di cambiarle, anzi che stessero già cambiando. Noi eravamo il "prodotto" più alto del cambiamento. Difficile prendere decisioni in momenti così, nessuno si illudeva che bastassero. Ma è in essi che la gente dava alla democrazia un senso diverso da quello che conosceva fino ad allora. Poco dopo a gestire il tutto sarebbe venuto Pierre Camiti. Era interessato, simpatizzava. Ma fu tutta un'altra cosa.

Qual è per te l 'anno decisivo ?

Sicuramente il 1969, e non soltanto per me. È l'anno del contratto nazionale dei metalmeccanici. E decisivi sono i contratti integrativi della primavera seguente. Molte delle cose che accadranno negli anni a venire nascono in quell'onda. Il movimento dei tecnici si è già formato e integrato con gli operai in azienda. I comitati autonomi hanno proliferato, sia fra i tecnici come alla Snam Progetti, alla Ibm, alla Philips, sia quelli prevalentemente operai come i Cub4 della Pirelli, della Borletti, della Marelli. Si muovono tutti su contenuti avanzatissimi: normative egualitarie, organizzazione del lavoro, orari, mobilità interna, salari fuori dai parametri della produttività. Ci conosciamo tutti, ci vediamo sempre, nessuno ancora pensa a un'organizzazione che ci raggruppi perché non ne sentiamo il bisogno: abbiamo una forte incidenza sul sindacato, almeno a livello aziendale. Riusciamo ad imporgli temi e contenuti nostri, e per giunta

nessuno fa caso a quale delle tre confederazioni si appartenga. Ci fu, ricordo, un convegno a San Pellegrino indetto dalla Firn al quale partecipano praticamente tutti i militanti di base del sindacato milanese, dai comunisti della Fiom agli anarco-sindacalisti della Ghisolfa, tema ufficiale: come porre termine al più presto alla struttura degli apparati burocratici. Il sindacato che discute su come distruggere il sindacato, pazzesco. Eravamo alquanto ingenui.

Insomma nel giro d un anno scopri la fabbrica, ti vedi come tecnico nel ciclo produttivo, impari il conflitto di classe e fai la prima esperienza collettiva ?

Già, la vita intorno si è messa a correre. Come se non bastasse, con un gruppo di compagni e compagne - gli stessi che in fabbrica partecipano alle lotte, quelli più in sintonia tra di loro - facciamo un'esperienza comunitaria.

Andate ad abitare nella stessa casa ?

Si, la Comune di Piazza Stuparich. Da principio eravamo in diciotto, di provenienza diversa: ragazzi del movimento studentesco o cattolici vicini alle Acli, marxisti ortodossi, tutta la gamma dell'anarco-sindacalismo; c'era anche uno che al suo paese aveva bazzicato il Partito socialista, ma aveva diciotto anni e nessuno gliene faceva colpa. I più, come me, erano senza partito e senza una vera ideologia, ma si sentivano bene lo stesso. La gente si aggregava volentieri, aveva voglia di stare assieme, si faceva un mucchio di domande e aveva abbastanza entusiasmo da tentare le risposte.

Come nasce l'idea della Comune?

Un po' per caso. Lavoriamo tutti nella zona, tutti impegnati nel sindacato e nel movimento, è pratico prendere un unico appartamento grande e abitarci insieme, potremo far politica senza diventar matti con le incombenze domestiche, e risparmieremo un sacco di soldi. A pensarci, credo che soprattutto ci tentasse un'avventura esistenziale, nella quale provavamo a ricomporre quel tanto di pubblico che stavamo vivendo insieme con quel tanto di privato che per tutti si arresta sulla porta di casa. Aggiungete che Milano è, si, la mia città, ma se non ti difendi Milano ti ammazza. Non ti impedisce niente, ma non ti regala niente. Ti devi inventare e costruire da te il modo di star con gli altri, e la sopravvivenza devi strapparla coi denti. La

Comune di Piazza Stu-parich si fa, diventa un punto di incontro, quasi tutti i compagni milanesi che poi hanno militato nelle Brigate Rosse ci sono passati almeno una volta, magari solo per mangiare il risotto.

E le vostre signore ?

Vengono molte delle nostre signore - è la prima volta che le sento chiamare cosi. Non c'era scissione fra vita politica e vita personale, preparare un volantino e badare ai bambini. Solo le camere da letto erano separate. C'era una grande sala comune con i muri tappezzati di manifesti e di scritte, ognuno lasciava li il suo messaggio, quasi sempre prendendosela ferocemente con qualcun altro. Credo che servisse a compensare, o forse a permettere una tolleranza autentica, come non ho più trovato da nessuna parte. Forse dopo quegli anni nessuno ne è stato capace.

Come funzionavano i rapporti familiari ?

C'erano le coppie naturalmente, ma inserite in una struttura che serviva a tutti. A un certo punto, quasi ci fossimo dati un segnale, le coppie si sono messe a fare figli. Credo che quella vitalità che permeava tutto quel che stavamo facendo avesse bisogno di proiettarsi subito nel futuro. La decisione di fare un figlio non è granché pensata, è la più allegra delle nostre scelte, e basta. Lia, la mia compagna di allora, ed io mettiamo in cantiere Marcello e quasi contemporaneamente altri hanno la stessa idea. Il risultato è che la Comune si riempie di neonati. Mettiamo assieme anche una dozzina di marmocchi dei compagni che girano intorno alla Comune e organizziamo un asilo nido in piena regola. Me ne sono occupato anch'io, per qualche tempo. Puoi amarli moltissimo i bambini, ma soltanto chi non l'ha mai fatto pensa che accudirli sia semplice: fui felice quando scoprii che, tra uomini e donne, c'era chi lo sapeva fare meglio di me.

Quando incontri Curcio ?

Proprio in quel periodo. I comitati di base erano molto attivi, e sul Cub della Pirelli confluiva l'attenzione di chi veniva a Milano per vedere che succede. Ricordo di aver incontrato la prima volta Margherita5 a una riunione del Cub della Pirelli, commentammo sfavorevolmente assieme la decisione di alcuni di far nascere un gruppo a livello nazionale, rubando al

Maggio francese uno slogan cui eravamo molto affezionati: "C'est n'est qu'un debut... la lotta continua." È l'argomento centrale di tutte le discussioni, il movimento è grandissimo, le strutture di base sono dappertutto, la loro incidenza sulla propria fabbrica è forte ma sul piano generale contano meno di niente. Come fare perché questi organismi autonomi abbiano, insieme, una capacità che da soli non hanno? Veniva data più di una risposta. E si formarono molti gruppi, tra gli altri il Collettivo Politico Metropolitano.

Sei stato tu a cercarlo ?

È un momento in cui tutti cercano tutti. Cercano qualcosa che consenta, se non l'unità, un coordinamento. All'inizio il Cpm non si presenta neanche come un gruppo - non ha una linea precisa - ma come un luogo di ricerca d'una piattaforma capace di mettere insieme soggetti diversi come gli operai della Pirelli, i tecnici della Ibm e della Siemens, e chi stava nei Collettivi lavoratori-studenti. Gli animatori del Cpm sono Simioni6 e Curcio, ma è nella sua natura che le singole realtà di fabbrica che lo frequentano mantengano la propria autonomia.

Hai conosciuto bene Simioni ?

Quanto basta per separarmene molto presto. Il dibattito nel Cpm si stringe, si accelera, e non solo per nostra volontà. Gli avvenimenti incalzano, l'avversario non sta a guardare, ci sono i primi processi di ristrutturazione in fabbrica, la polizia si fa violenta nelle piazze, cominciano a scoppiare le bombe, con Piazza Fontana c'è chi comincia a far politica con le stragi. Allora da un generico discorso sulla violenza si passa alla discussione sulla lotta armata. La verità è che non abbiamo un'idea precisa di come far fronte a una situazione che sfugge al nostro controllo. Abbiamo chiara soltanto una cosa: stanno attaccando quel che siamo diventati, non dobbiamo cedere, il movimento deve mantenere l'offensiva. Siamo lontanissimi da una teoria sulla lotta armata, e ancora più da una sua organizzazione. Però ne sentiamo la necessità. Se ne trovano gli accenni nel famoso libretto giallo che fu elaborato in un convegno che il Cpm tenne a Chiavari. In un pensionato di nome Stella Maris.

Chi venne a quel convegno ?

Praticamente tutti i dirigenti dei comitati di base di Milano. Fu una discussione intensa e contraddittoria, era una fase di passaggio, il che fare è confuso. A un certo punto ci accorgiamo che il convegno, pur indetto con una certa riservatezza, è sorvegliato da alcuni poliziotti della Squadra politica di Milano: li conoscevamo benissimo, almeno quanto loro conoscevano noi. Sulle prime c'è grande preoccupazione, temiamo una retata, una provocazione. Ma appena una compagna scopre un pianoforte in una delle sale e siede alla tastiera, ci mettiamo a cantare a squarciagola "Bandiera rossa". Alle tre di notte. Altro che clandestinità, l'allegria ha il sopravvento persino sulla buona creanza. Ma tornati a Milano cominciamo a riflettere sul serio sul che fare. E quasi subito parte un dissidio con Simioni, che porterà me ed un piccolo gruppo di compagni ad uscire dal Cpm.

Simioni non ti va giù, perché?

Non sopportavo il suo modo di fare. Cominciavamo appena a far qualcosa di concreto oltre le chiacchiere, non c'era ancora un progetto definito, ma una cosa io e i compagni della mia stessa formazione avevamo chiara in testa: sarebbe stato un disastro se si fosse andati a qualcosa di men che controllabile. Simioni era l'opposto. Aveva la mania della segretezza, un po' millantatore e un po' suggestionato dai romanzi di spionaggio. Ma ci voleva altro che far qualche nome della guerriglia latino-americana per coinvolgerci in avventure non trasparenti. Un dissidio sul metodo era più che sufficiente per dare un taglio netto, almeno per me. Se accetti dei livelli di segretezza, accetti una gerarchia.

Accettasti gli uni e l'altra nella clandestinità.

È ben altro la divisione dei compiti in una organizzazione clandestina. Hai le strutture di verifica, il flusso delle decisioni non è unilaterale, la rotazione degli incarichi è fisiologica. Non era questo che veniva proposto e praticato nel Cpm. Che cosa volesse fare Simioni e che cosa poi effettivamente abbia fatto, non so. Da allora non mi ha più interessato né l'ho rivisto. Con me sono venuti via alcuni compagni che lavorano nella scuola, negli ospedali,

qualcuno della Siemens, tra i quali Corrado Alunni.7 Non è stata una rottura politica con il Cpm, che non era un'organizzazione, era più movimento che altro. I rapporti con quelli di noi che lavorano in fabbrica rimangono gli stessi.

Curcio è d 'accordo ?

Ne parlo a lungo con lui. Ne abbiamo discusso tutto un pomeriggio, su una panchina nei giardini davanti alla Comune di Piazza Stuparich. Io non stavo facendo una scissione. Pensavo che fosse venuto il momento di prepararsi alla lotta armata, e che questo non si potesse fare nel Cpm e con i suoi metodi. Convenimmo che me ne andassi. Ma avevamo in mente la stessa cosa e fu facile dirci che, magari senza Simioni, ci saremmo ritrovati.

Rimproveri al Cpm che non si decidono sulla lotta armata e nello stesso tempo fanno del segretismo ?

Io non gli rimprovero niente. Trovo inaccettabile che si vada a scelte che sarebbero state un passo irreversibile, e che lo si faccia per così dire alle spalle. D'altra parte forse forzavo i tempi, ma discutere seriamente di un movimento armato mi pareva urgente. In fabbrica lavoravamo già in questa ottica, pur conservando ciascuno i propri impegni sindacali, o nei comitati o nei reparti. Sta di fatto che ci separammo dal Cpm. Per senso di responsabilità, misi fine anche alla vita nella Comune, sia pure con molti rimpianti. È stata una esperienza bellissima. Sarà che eravamo giovani, ingenui, inesperti e chissà cos'altro, ma fa bene aver provato una volta nella vita, anche se per poco, un modo di esistenza diverso e pieno di entusiasmo. Più tardi noi delle Br ci siamo condannati a vivere soltanto nell'immaginazione le idealità che chiamavamo comunismo. Quando mia moglie, il bambino ed io ce ne andiamo dalla Comune, sento che non si tratta soltanto di andare ad abitare da soli, che una stagione si è chiusa.

Dopo la vostra uscita dal Cpm che lavoro fate? Che cosa intendi per "lotta armata " quando le Brigate Rosse sono appena in incubazione?

Non voglio sopravvalutare quel che facevamo. All'apparenza nulla cambia, c'è un mutamento ma dentro al solito guscio. Il gruppo di compagni che è con me discute e sperimenta le prime tecniche della clandestinità, come

falsificare documenti, predisporre delle basi, dei laboratori. Reperiamo qualche arma. Non sappiamo neppure se quel che stiamo facendo servirà davvero. Non ci sono precedenti di guerriglia in una metropoli industriale come Milano. Le informazioni di alcuni rifugiati sudamericani non ci sono di grande aiuto, perché vengono da tutt'altre situazioni. Dobbiamo inventare tutto. Sarà così sempre per le Brigate Rosse; non somiglieremo a nessun altro, neanche sul piano delle strutture e del modo di combattere.

Siete soli o in contatto con altri ?

Siamo in contatto con i compagni che, attraverso Sinistra Proletaria, fanno le prime azioni delle Br alla Pirelli. È questo il salto che occorreva, lo capiamo. Badate che le prime azioni delle Brigate Rosse non sono così lontane da quelle più aspre del movimento operaio tradizionale, che conosce dure violenze. Ma c'è un elemento che le rende dirompenti: vengono rivendicate. Quando un gruppo di operai dice: "Si, la tal cosa l'abbiamo voluta e ci siamo organizzati per farla", ne cambia radicalmente la natura. È l'assunzione di un'offensiva, fa circolare l'idea che lo scontro può andare oltre i soliti limiti, che non si tratta più di essere violenti un attimo e poi vergognarsene, lanciare il sasso e nascondere la mano. Si dice chiaro che vogliamo aggredire l'azienda, il capitale. Che questo vogliamo fare e faremo.

Non ti trovavi con Curcio e con Maia quando inventano il nome Brigate Rosse? E nasce la prima brigata alla Pirelli ?

No. In vent'anni ho sentito almeno tre versioni sulla nascita del nome e del simbolo delle Br. Scelgo quella in cui c'è Mara, perché è lei che mi ha insegnato a fare la stella a cinque punte dopo che l'ho vergognosamente sbagliata sul cartello al collo di Mincuzzi 8 quando lo rilasciamo davanti i cancelli dell'Alfa Romeo. Io sono esperto nel disegno tecnico, è il mio mestiere, ma per far come si deve la nostra stella ci vuole un pizzico di fantasia: si prende una moneta da cento lire... be' lasciamo perdere. Non vorrei che a qualcuno venisse in mente di ricominciare.

C'è un salto fra le esperienze che hai fatto nel '67-68 e le Brigate Rosse. Che cosa lo provoca ?

Quel che ribolliva nell'autunno caldo del '69 e poi la strage di Piazza Fontana. Avevamo una forza grande in fabbrica, passavano dovunque le forme più radicali di critica all'organizzazione del lavoro, l'insubordinazione era quotidiana, si inventavano aggregazioni che duravano, è vero, lo spazio di un mattino, ma nelle quali gli operai si muovevano con una libertà che non avevano mai avuta. Esercitavano una pressione enorme, mettevano in croce il sindacato su tutto. E a quel punto comincia una ristrutturazione, anche se soltanto alla Pirelli, che ha effetti deflagranti. Ci spazza via. L'azienda chiude i reparti più combattivi, licenzia le avanguardie, muta le condizioni della produzione in modo tale da depotenziare la capacità di opporvisi, fino a farla scomparire. Sulle prime solo le avanguardie capiscono che si tratta, più che di un'esigenza della produzione, di un attacco politico micidiale. La Pirelli è ramificata e integrata nel mercato mondiale, e per la prima volta fece arrivare i materiali dagli stabilimenti in Spagna mentre gli operai avevano fatto un blocco totale alla Bicocca, annullandone gli effetti. Avevamo messo in discussione il potere in fabbrica, ci toglievano letteralmente di sotto il terreno su cui incidere. Con la lotta in azienda, lo scontro tradizionale, ci troviamo fuori gioco. Decideremo la lotta armata per conservare una effettiva capacità di scontro

Nella lotta armata ce un salto. Dove vedete la continuità con le esperienze operaie anche più radicali ?

È un salto enorme, lo ammetto. Dire che siamo in continuità con il movimento precedente è una forzatura, ma certo i nostri legami non vengono affatto recisi, ci sono ancora tutti. Noi ci rivolgiamo alle avanguardie, pensiamo che non si possa fare altrimenti, verificheremo strada facendo se diventerà una linea di massa. Fuori gli eventi stanno precipitando. Tutto il movimento ha sentito la bomba alla Banca dell'Agricoltura come un attacco, è una percezione quasi fisica: qualcosa, lo stato, qualcuno che non è soltanto la controparte in azienda, ti mette nell'angolo. Non hai più da scontrarti solo con il padrone o con le istituzioni, partiti e sindacati, c'è dell'altro, c'è lo stato. L'autonomia degli operai, la spontaneità non bastano più. Le Brigate Rosse in fabbrica nascono cosi.

Questo è il tuo passaggio ?

Questo è il nostro passaggio.

Dici che restate legati, intrinseci al movimento nelle fabbriche?

Siamo nelle fabbriche. Con qualche significativa appendice nei quartieri, al Giambellino e a Quarto Oggiaro. Nel tessuto cittadino di Milano la distinzione tra fabbrica e quartiere non è netta come altrove. Succede di trovare gli stessi compagni nel comitato di base dell'Alfa e al Centro sociale di Quarto Oggiaro, oppure qualcuno alla Marelli in un comitato alla Bovisa, un ragazzo che lavora alla Breda nei Comitati lavoratori-studenti. Prendete l'occupazione delle case che diventa una caratteristica di quegli anni: la guidano gli stessi operai che nel sindacato o altrove tirano le lotte in azienda. Gli operai sono stati dei protagonisti a Milano, non brontosauri in estinzione. Sono stati soggetti politici forti, che dicevano la loro nei processi di trasformazione, che si inventavano la loro organizzazione e, guarda un po', praticavano un altro tipo di democrazia. Le Brigate Rosse sono state fino al '72-73 un fatto esclusivamente milanese e non potevano che nascere qui.

In quali fabbriche in particolare?

La prima in assoluto è la Pirelli. La Pirelli è stata la prima in tutto, anticipa quello che nelle altre capiterà dopo. Il primo Cub operaio è formato alla Pirelli da Raffaello De Mori, e più tardi alcuni del Cub formeranno la prima Brigata Rossa. È Pirelli che ristruttura per primo in Italia. Ed è la nostra prima leggendaria Brigata Rossa della Pirelli che morirà per prima, quasi subito, senza neanche aspettare che la Bicocca chiuda i battenti e sparisca dalla storia di Milano.

E alla Siemens ?

Alla Siemens duriamo molto di più, praticamente dall'inizio alla fine delle Brigate Rosse. La Siemens era un'azienda molto più articolata, il ciclo era in espansione, e quel che dicevamo ha sempre trovato riscontro sia fra i tecnici sia fra gli operai. A un certo punto potevamo contare su un centinaio di compagni. Una volta, dopo il sequestro Macchiarini, un compagno cui chiesero che cosa producesse la Siemens rispose: telefoni e brigatisti, in uguale proporzione.

Altre aziende? Alla Borletti c'eravate?

Alla Borletti s'era formato un Cub ma non fu mai d'accordo sulla lotta armata. Discutevamo, c'era una simpatia.

Invece eravamo determinanti nella zona di Sesto San Giovanni, dove sono concentrate molte fabbriche, le due Marcili, la Falck, le tre Breda, la Pirelli... Detto così non sembra, ma vuol dire decine di migliaia di operai. Quando partiva un corteo da Sesto verso il centro, Milano si fermava. In ciascuna di queste fabbriche avevamo una brigata, non tantissimi compagni, ma nei punti giusti. Da loro avevamo una controinformazione davvero dettagliata, dall'analisi del ciclo produttivo alla struttura di direzione dei progetti, quella che determinava i modi ed i tempi della produzione. I progetti produttivi sono chiacchiere se non trovano le gambe su cui camminare. Gli operai lo sanno e conoscono a menadito dirigenti e capi reparto. Le prime informazioni affluiscono spontaneamente alla brigata: a ogni picchetto c'è qualcuno che si premura di indicarti con nome e cognome i capi che gli stanno avvelenando la vita. È la brigata che poi completa l'informazione e individua gli obiettivi da colpire.

E come?

Per lungo tempo ci limitiamo a bruciare le auto. Di azioni clamorose di propaganda armata non ce ne sono tantissime; puntiamo su una miriade di piccole azioni che danno subito dei frutti. È questo che ci ha permesso di radicarci nel corso degli anni. Il massimo di presenza nelle.fabbriche lo raggiungiamo verso il '75. In quell'anno decidemmo di far muovere lo stesso giorno, anzi la stessa notte, tutte le brigate di fabbrica di Milano, bruciando le macchine di decine di capi e dirigenti della Siemens, della Breda, della Ma-relli, dell'Alfa, di altre aziende della zona Nord. È stato uno spettacolo pirotecnico senza precedenti, "la notte dei fuochi". Assolutamente incruenta, puramente dimostrativa, mostrò quanto straordinariamente fossimo diffusi e organizzati.

E l'Alfa?

L'Alfa Romeo è stata differente, anomala, sempre che si possa considerare "normale" una qualche parte del movimento di quegli anni. Nel biennio

'68-69 nascevano a Milano dappertutto i comitati autonomi, e all'Alfa niente. Nel momento più caldo, inspiegabilmente, niente. Naturalmente è un modo di dire, perché anche all'Alfa si lottava: intendo che all'Alfa l'Assemblea Autonoma si forma dopo, quando le altre sono già scomparse. Forse è per questo che durerà molto più a lungo, anche se finirà essa pure per spegnersi. Con quell'Assemblea Autonoma le Brigate Rosse hanno avuto un rapporto intenso, forse il più maturo. Non abbiamo tentato mai di trasformarla in una brigata: doveva esprimersi pienamente, liberamente, ci limitavamo a organizzare alcune azioni che emergevano come le più giuste dalla discussione. Per esempio il sequestro Mincuzzi nasce da questo rapporto, in un momento acuto delle lotte contro i tempi e i carichi di lavoro nel '73. C'è anche un altro elemento: noi ci eravamo formati dentro il sindacato, anche se contestandolo, e le prime Br nascono dai Cub. Nel nascere determinano la morte degli organismi che le avevano generate. All'Alfa riusciamo a evitarlo, l'Assemblea Autonoma è fuori dalla storia del sindacato e anche dalla sua involuzione. Sarà soffocata dai mutamenti della produzione. Finisce come un cerino che si spegne perché non ha più niente da bruciare.

Quanti eravate in questa prima fase f

Una brigata di fabbrica non ha mai avuto più di una decina di compagni, ma ne influenzava molti di più. Le strutture restano a lungo fluttuanti, c'è un grande fermento, cresciamo dentro un humus. Rappresentiamo un'idea forte, con una incredibile capacità di attrazione per chi vuol cambiare, e lo pensa possibile, urgente.

Non eravate ancora clandestini ?

Nessuno di noi lo è stato fino al 1972. Nessuno era individuato o ricercato.

Non avevate compiuto azioni clamorose?

Prima del '72 una soltanto, ma non la rivendichiamo: una rapina in banca. All'epoca queste azioni, un po' per modestia e un po' per moralismo, non le rivendicavamo come Br. Che cosa infatti differenzia un esproprio da un furto puro e semplice? Soltanto che chi lo compie sia riconosciuto dal movimento, abbia una credibilità come organizzazione rivoluzionaria. E

questo per noi non era per niente assodato, era ancora tutto da dimostrare. Dovremo arrivare al '77, al sequestro dell'armatore Costa, per rivendicare il primo esproprio. Intanto in quell'estate del '71 cominciavamo ad avere bisogno di soldi, l'autofinanziamento non basta più. I compagni di Trento avevano individuato una piccola banca a Pergine, nella zona del Garda, dove d'estate con il turismo girano un sacco di quattrini. Va bene, prendo le ferie per fare la prima azione armata della mia vita, la prima rapina. Ci frutterà circa nove milioni, allora non erano pochi, e a noi sembrarono tantissimi, abituati com'eravamo a finanziarci tosando pesantemente i nostri stipendi.

Come andò ?

Avevamo l'appoggio dell'organizzazione, ma materialmente la facemmo in quattro. Tutti inesperti di armi e di rapine. E preoccupatissimi. Oltre al moralismo operaio che ci portavamo dentro - un operaio non ruba - che cosa ci autorizzava a dire che si agiva in nome della classe operaia e della rivoluzione?

Te la ricordi, questa rapina ?

Altroché. All'inizio seguiamo la tecnica vista nei film. Salvo che le armi sono una più ridicola dell'altra. Il compagno che fa il palo fuori ha una calibro 6 e 35, un affarino che non ci spaventi un cane. Uno dei due che entrano in banca ha una Flobert a tamburo dall'aria terrificante, ma è tutta scena. La sola pistola efficiente l'ho io, l'altro che entra in banca, ma a ogni buon conto non ho messo il colpo in canna: mi era sembrato prudente evitare ogni eventualità che per sbaglio partisse un colpo. Il quarto, l'autista, niente; a che serve una pistola se deve guidare? Emozionatissimi, impauritissimi, inespertissimi, diciamo la frase canonica: mani in alto, questa è una rapina...

Avevate il viso scoperto ?

Appena camuffato, chi non aveva i baffi se ne era messi di posticci, chi li aveva se li era tagliati, i nostri camuffamenti non andarono mai molto oltre. Ricordo ancora la scena, tutti alzano le mani impietriti, io che per arrivare alla cassa devo aprire un cancelletto di quelli bassi, con l'apertura tipo

saloon. Spingo e non si apre, sbatte contro un impiegato il quale, alla terza volta che lo riceve sul ginocchio, mi fa: guardi che se lo tira verso di sé forse è meglio. Era terrorizzato, e io più di lui. Prendiamo i soldi e invece di fuggire verso Trento, come sarebbe stato logico, ci allontaniamo dalla parte opposta, inerpicandoci per una strada che non porta da nessuna parte, tranne che a campeggi disseminati intorno a un lago. I soldi li abbiamo lasciati a una compagna che aspetta ai margini del paese con in braccio il suo bambino, un tedeschino biondo molto bello, che rientrerà con i pannolini appesantiti dalle banconote che ci abbiamo infilato. Anche io sono atteso da una donna e un bambino in un campeggio dove ho piazzato una tenda canadese. È dall'altra parte del lago e ci arriviamo in barca abbandonando la macchina su un sentiero. La polizia non capirà mai perché una macchina usata per una rapina sia arrivata lì. Campeggi, famigliole, bambini... non era un modus operandi da professionisti.

Foste inquisiti per quella rapina ?

Non ricordo la vicenda giudiziaria, c'è stata un'inchiesta, ma alla fine nessuno di noi venne condannato per quell'episodio. Erano anni in cui i magistrati non si sentivano subordinati alle esigenze politiche, le leggi speciali erano lontane, nel processo toccava all'accusa dimostrare la colpevolezza. Fu così persino di fronte alle ammissioni di un tipo come Pisetta,9 una specie di pentito ante litteram, che appena arrestato si era messo a denunciare un po' tutti. Era un personaggio strano che si era agganciato a Curcio a Trento e lo seguiva dappertutto.

Era un provocatore ?

Non è facile qualificare uno cosi. Cercammo di venire a capo del rebus quando Pisetta fu individuato in Germania dove si era rifugiato dopo che la polizia lo ebbe rilasciato. Pensammo che valesse la pena di andarci a fare quattro chiacchiere e magari qualcos'altro. Se ne occuparono Margherita e un compagno di Torino, ma non riuscirono a concludere niente. E forse è stato un bene. Certi estremismi non nascono con Senzani.

Poco prima dell'irruzione di maggio della polizia nelle vostre basi avevate sequestrato alla Siemens l'ingegner Macchiarini: è un salto nella illegalità in fabbrica.

Certamente, lo sappiamo bene. È la prima azione in cui usiamo esplicitamente le armi: la lotta è armata. La decisione matura nella brigata di fabbrica. Macchiarini è un dirigente della Siemens, non appartiene all'olimpo della direzione aziendale, lavora a contatto con la produzione ed è molto conosciuto nello stabilimento di via Monterosa. Oltre a svolgere il suo ruolo per quello che è, come quasi tutti i dirigenti di quel periodo, spesso provoca gli operai in lotta, per cui è un bersaglio fìsso dei cortei interni. Decidiamo di prenderlo, di tenerlo per qualche ora e scattargli una foto dove lo si veda sotto il tiro di una pistola. Oltre a me partecipano all'azione tre compagni della Siemens; dovevano essere quattro, ma all'ultimo momento uno non se la senti, un'azione armata è anche un fatto fisico tremendo, bisogna vincere la paura, andare contro la propria natura - come saltare un metro e ottanta, la convinzione non basta. Nel gruppo c'era un partigiano delle Sap, ci dava sicurezza; presto capimmo che una cosa era stata la guerriglia in montagna contro i tedeschi e i fascisti, un'altra la guerriglia in città negli anni '70. Comunque per catturare Macchiarini usammo una tecnica che divenne poi il nostro marchio: lo caricammo su un furgone e lo portammo in periferia. Fu più diffìcile scattare la fotografia, eravamo in quattro l'uno sull'altro nello spazio di poco più di un metro. E io non me la cavavo neanche come un fotografo della domenica. Ma la fotografia era lo scopo dell'azione: mostrare un dirigente nelle nostre mani, in primo piano un cartello con le parole d'ordine della propaganda armata, "Mordi e fuggi", "Colpiscine uno per educarne cento", "Tutto il potere al popolo armato". Gli slogan non erano tutta farina del nostro sacco, come vedete. E poi la pistola, simbologia inequivocabile. Quella pessima foto fece il giro del mondo.

Come reagì Macchiarini ?

Come tutti i dirigenti industriali che sequestrammo. Parlavamo la stessa lingua e parlavamo della stessa cosa. Non è mai accaduto lo stesso con politici o magistrati in situazioni analoghe. A me era facilissimo discutere con i dirigenti d'azienda, accusavo dal punto di vista operaio i carichi di lavoro, l'organizzazione delle mansioni, il senso politico della ristrutturazione - e loro le difendevano dalla parte dell'impresa. Non si giustificavano. Le spiegavano come necessità del processo produttivo.

Dopo azioni del genere, qualcosa cambiava nella fabbricai

Cambiava il clima tra direzione ed operai. C'era, è vero, chi strillava alla provocazione fascista, gli stessi che hanno ripetuto per anni questa sciocchezza, ma gli effetti si facevano sentire, eccome. Ricordo che mettemmo in crisi persino parecchi attivisti di estrazione cattolica, aclisti. Gente impegnata socialmente e politicamente, ma che non accettava la violenza - anche se con loro si poteva discutere, i cattolici impegnati sono gente strana - e dopo l'azione mi diceva: però avete ragione, adesso si respira un po' più di libertà.

L'azienda mollava qualcosa ?

Qualcosa. Ma soprattutto cresceva l'agibilità politica in fabbrica. Noi esprimevamo un contropotere che agiva su un terreno fino ad allora precluso. Erano azioni simboliche e nient'altro, ma ci sembravano il grimaldello per scardinare quel blocco che impediva il dispiegamento della forza operaia. Ma via via che sentivamo crescere la simpatia intorno a noi, ci cominciavamo ad accorgere quanto tutto questo fosse fragile. C'era lo stato, c'era la repressione. La lotta in fabbrica a un certo punto impatta con il senso generale delle cose.

La polizia vi dà la caccia ?

Credo che ce la dessero da un pezzo. Avevamo adottato qualche misura prudenziale ma non bastava a fare di noi un'organizzazione clandestina. Quando la polizia arriva, ai primi di maggio, nella base di via Boiardo dove avevamo intenzione di sequestrare il deputato della Dc Massimo De Carolis, sapevano di noi già tutto, ci avevano seguiti, individuati.

Trovarono qualcuno nella base?

No, arrivarono di notte e non ci abitava nessuno, era uno scantinato. Ma si appostarono aspettando che qualcuno cadesse nella rete. Per primo pigliarono Semeria,10 da li a poco arrivò Pisetta il quale subito dette le informazioni che ancora non avevano sulle pochissime basi di cui disponevamo. Le scoprirono tutte, e arrestarono tantissimi di noi. I pochi che sfuggirono sono i compagni poi definiti un po' enfaticamente il nucleo

storico, tra i quali Curcio, Mara, Franceschini, Pierino Morlacchi11 e io. Anche altri se la cavarono, ma quel tanto che c'era di organizzazione venne distrutto. Quella volta la scampai per miracolo, perché avevo passato la notte a discutere con un compagno recuperato dai disciolti Gap12 di Feltrinelli, e quando la mattina alle otto andai in via Boiardo, la polizia c'era già da diverse ore.

Come te la sei cavata ?

Mi ha salvato Enzo Tortora. Arrivo sulla meravigliosa 500 blu di mia moglie, intontito dal sonno, e mentre la parcheggio fra due macchine davanti alla base, qualcosa mi scatta dentro, c'è qualcosa che non va. Scendo, mi guardo attorno, la macchina davanti alla mia ha un tipo di antenna particolare. Polizia. Non penso che sia lì per noi, vicino c'è una piazzetta in cui fanno un po' di traffico di sigarette, forse si prepara una retata. Comunque mi dirigo dalla parte opposta della strada, e aspetto, tenendo d'occhio i due che ho individuato come poliziotti. È la prima volta che mi accorgo di questa polizia: non è quella delle manifestazioni, quando si sta uno di fronte all'altro come due eserciti e qualche volta arriva la carica. Questa è una faccenda più subdola, c'entra l'astuzia, ci si sfiora e si fa finta di niente. Mi sentivo come nei film, uno che si muove nella giungla.

Quanto sei stato fermo ?

Ero seduto in un bar col giornale, non si decidevano ad andarsene, avevo sonno, ancora un po' e sarei finito per entrare. In quella arriva Tortora con una troupe della Tv e un codazzo di gente. E si appoggia proprio sul tetto della mia 500 per scrivere qualcosa su un taccuino. Chiedo a una vec-china: ma che succede? E lei: hanno trovato uno scantinato pieno di armi. Tutto quel trambusto era per noi, la frittata è fatta, devo andarmene alla svelta. Se soltanto Tortora non fosse appoggiato alla mia macchina... ma non posso dirgli: scusi, è la mia auto, si scansi che devo scappare. Sono in un bel casino. Perdipiù la macchina è intestata a mia moglie.

E che cosa hai fatto ?

Tento di recuperare la macchina, andando in un bar più

distante e chiamando mia moglie in ufficio: vieni a prendere la macchina nel tal posto, ti aspetto. Ma quando torno la macchina non c'è più, la polizia l'ha individuata e presa. Me ne devo andare. Spiego la situazione a Lia, non mi rimprovera per averla messa nelle peste, sa che se la caverà presto. In quel momento è prevalso il sentimento che ci aveva fatto stare insieme. Ci rivedremo chissà quando. Quella sera la arrestano.

Hai mantenuto un rapporto con lei

No. Non aveva avversato ma neppure condiviso le mie idee. Il distacco è stato brusco e definitivo. Questi sono i prezzi d'una scelta, li devi pagare. Ci siamo riparlati venti anni dopo. L'avevo vista qualche volta per strada, ma lei non ha visto me: se l'avessi avvicinata sarebbe stata la fine per tutti e due. La rilasciarono dopo un paio di giorni, ma la pedinarono per diverso tempo. Anche il bambino, lo hanno perfino interrogato all'asilo; era il mio punto debole, lo sapevano.

È venuta a trovarti quando sei stato arrestato ?

Non subito. Non è facile vedersi per anni il marito in tv, presentato come il simbolo del male dell'universo. I media hanno fatto di noi dei mostri. Lia ha imparato a difendersene, ma il prezzo è stato un distacco deciso, che ha coinvolto anche Marcello, nostro figlio. Adesso i nostri rapporti sono molto buoni, ma abbiamo litigato per anni...

E tuo figlio?

L'ho rivisto pochi mesi fa, al mio primo permesso, più di vent'anni dopo. Mi è diffìcile parlarne. Io avevo lasciato un bambino piccolissimo, che avevo voluto e a modo mio avevo molto amato. Per vent'anni me ne sono portato dentro la perdita, una conseguenza d'una scelta come quella che avevo fatto. Ma ho sempre pensato che fosse affar mio e, quando ci siamo rivisti, anche di Marcello. Le vicende pubbliche sovrastano le persone, ben poco di quel che io sono sta nella mia immagine. Oggi quel bambino ha 23 anni, siamo due uomini che hanno avuto accidentalmente una storia in comune. Ci siamo trovati spesso a distanza di poche centinaia di metri ma come se fossimo su due pianeti. Stiamo scoprendo ora, perché lo vogliamo, lo spessore dei nostri sentimenti, e ci sta andando molto bene. Non era mai

venuto a trovarmi in carcere. Non posso rimproverare né lui né mia moglie.

Quando sei entrato in clandestinità tua madre era viva?

Si. Non ha dato mai molta importanza a quel che si diceva di me, ma neppure a quello che di me le dicevo io. Le bastava che scrivessi dal carcere come stavo e che cosa facevo, badando a minimizzare le notizie che potevano arrivarle sui pestaggi che subivamo. Non so se quel che lega una madre ai figli sia la cosa migliore del mondo, ma se non ci fosse, in certe situazioni sarebbe la disperazione. La visita che mi fece a Cuneo dopo l'arresto, appena uscito da tre mesi di isolamento duro, mi fece star bene. Qualche anno dopo, un mattino di aprile dell'84, durante il processo alla colonna Walter Alasia,13 mi portarono nell'aula bunker di San Vittore un telegramma di mia sorella: stanotte mamma se n'è andata. Soltanto Paola Besuschio, che mi sedeva accanto nella gabbia, capi, a lei non riuscii a nasconderlo, prese le mie mani fra le sue e non ci dicemmo niente. Nessun altro se ne accorse, non volevamo concedere niente a nessuno, tantomeno a quelli che ci stavano osservando con i loro stupidi taccuini in mano.

Da clandestino non hai mai visto tua madre?

No. Per dieci anni non ho saputo come vivessero, mia madre e mia moglie. Mi ero imposto una censura rigida soprattutto per Marcello: riuscire a vederlo voleva dire torturarmi, avevo per lui troppa tenerezza per non star male. Stare nella clandestinità vuol dire anche questo, e perdere il ritmo e le cadenze di come vive la gente. Eravamo uomini molto comuni. E sapevamo vivere tra la gente comune, è stata la nostra vera forza, il resto sono balle; ma era come se osservassimo scorrere la vita degli altri intorno a noi e non ci riguardasse per davvero. Nella clandestinità la sopravvivenza dipende dalla rapidità con cui ti muovi, con cui cambi tutto, dove abiti, dove mangi, come ti vesti. Finisce che, mentre una certa sensibilità sociale si acuisce perché impari a cogliere gli umori della gente per capire come muoverti da organizzazione armata, esistenzialmente diventi un fantasma. Non che per te stesso non sei reale; anche i compagni sono reali e i rapporti con loro hanno una intensità forse maggiore. Ma è per gli altri che non devi esistere. Stai nell'astrazione d'una lotta nella quale il più piccolo

errore può avere conseguenze gravi, sei totalmente vincolato alle sue necessità, obbligato a traversare l'universo delle relazioni imponendoti di ignorarne la consistenza. Proprio come un fantasma passa attraverso i muri.

È stato molto pesante?

Ci voleva molta persuasione. E, credo, in molti compagni c'è stata una grande generosità. Per darvi un'idea dello spirito in cui vivevamo, negli ultimi anni mi ritenevo obbligato a fare un discorsetto preliminare a quelli che volevano entrare nelle Br. Gli dicevo: prima di tutto, parliamoci chiaro, le statistiche sono impietose, tra sei mesi se ti va bene sei in galera, se ti va male sei morto. Chi veniva doveva saperlo e metterlo in conto.

Li hai sempre lasciati scegliere? Si.

CAPITOLO II

Perché la lotta armata. Idee e ideologie

Perché vi fate clandestini? Non cerano ancora imputazioni così gravi su di voi... Violenza sui capi, un sequestro di un paio d'ore, macchine incendiate stavano allora più nella cronaca che nei tribunali.

Non entriamo in clandestinità perché ricercati dalla polizia, anche se, dopo la retata successiva alla scoperta della base di via Boiardo, ci ritroviamo quasi tutti latitanti. Non è una decisione in difesa, ma in attacco. Non stiamo scappando: al contrario. Nella clandestinità costruiremo il potere proletario armato.

Intendi voi stessi come "partito armato "?

No, le Br non saranno mai un partito. Non abbiamo mai puntato a gonfiarci cooptando le altre avanguardie. In Italia è arrivata a un punto alto la contraddizione fra proletariato e borghesia, sta maturando una possibile alternativa di potere, non saremo noi a rappresentarla, ma lavoreremo perché cresca il soggetto sociale del cambiamento. Le Br sono dentro di esso e costruiscono gli strumenti del potere proletario armato. Bella frase, no? Ma per noi questo è l'essenziale. All'ordine del giorno è uno scontro

che ha per posta il potere, le Br sono nel movimento antagonista, ogni loro azione ne rende visibile la forza.

Ma chi ve lo chiede ? Chi vi delega ?

Nessuno ce lo chiede. Non s'è mai visto che un'avanguardia chieda una delega. In questo siamo stati fin troppo leninisti. Eravamo certi di interpretare un bisogno diffuso. Le Br si formano come organizzazione nel '72, ma la pressione del movimento - come dare uno sbocco a quel punto delle lotte? - è di molto prima. È difficile mettere una data al formarsi delle idee, ognuno mette la sua, ma quando ci presentiamo sulla scena la coscienza che si è a una svolta è vastissima. Studenti, operai, tecnici, tutto c'era. I movimenti dal '68 al '72 avevano messo in crisi la famiglia, lo stato, la chiesa. Eravamo alla soglia di un mutamento, una rivoluzione, si trattava di dire come organizzarne la potenzialità. Adesso si dice che no, quella potenzialità era apparente: ma quel che si vede oggi non era necessariamente iscritto nelle cose ieri.

Perché vi definite marxisti-leninisti? Un'avanguardia armata che colpisce obiettivi singoli e simbolici non ha niente a che vedere con la tradizione comunista.

Dite?

Sicuro. Da Marx in poi il movimento operaio concepisce la violenza come urto di massa, rivoluzione d 'una classe contro una classe. Somigliate di più ai tupamaros.14

E questo mette in agitazione i marxisti ortodossi. Non difenderò l'ortodossia delle Br. Ho sempre pensato che metà della nostra forza stesse nel non avere rigidità teoriche. Non staremo nei classici, ma stiamo nella scia delle rivoluzioni comuniste. Come Cuba.

Con Marx e Lenin il Moncada e la Sierra non c'entrano.

Si, però la rivoluzione cubana ha il difetto di essere riuscita. Noi ci facciamo forti della convinzione che nessuna rivoluzione è uguale a quella che l'ha preceduta. E non sempre rientra nello schema marxista-leninista.

E allora perché vi denominate cosi? Quelle latino-americane sono rivoluzioni nazionali democratiche contro una dittatura. Il capitalismo non c'entra. Un gruppo d'avanguardia

può essere il detonatore di tutto un movimento anche borghese contro la tirannia. Ma voi vi definite un movimento rivoluzionario di classe, dite che è il capitalismo, il vostro avversario.

Non è che le Br sono strane, è il movimento di quegli anni che è fuori dalla tradizione. Critica il modo di produrre, di organizzare il lavoro. Vuol entrare nelle decisioni della fabbrica, e prima in quelle del sindacato, e così apre un conflitto che a livello istituzionale non trova mediazione. E rapidamente diventa inconciliabile. Noi nasciamo da esso, non da una teoria, da una concezione generale: nasciamo dall'esigenza di mantenere e sviluppare l'offensiva operaia nell'intero ventaglio delle figure che allora la componevano. Non è un caso che le Br si formino alla Pirelli e alla Siemens, in una città, Milano, dove la composizione sociale è così articolata. Di Milano riflettiamo tutto, anche la non rigidità ideologica. Solo successivamente ci radicheremo alla Fiat di Torino dove è dominante quasi esclusivamente la più classica delle figure operaie, l'operaio massa.

Dov 'era scritto in quel bisogno di cambiare che si dovesse andare a uno scontro armato ?

Non era obbligatorio. Ma è indiscutibile che la contraddizione fra le classi, e fra movimento e stato, si presenta presto come insuperabile. Uno degli scontri più acuti in Siemens si produsse semplicemente perché alcuni di noi volevano partecipare alle trattative all'Intersind. Eravamo, si badi, tutti iscritti al sindacato, ma non facevamo parte dell'apparato esterno. L'Intersind era disposta a qualche concessione salariale, ma non voleva saperne di una rappresentanza extraistituzionale.

Che cosa eravate di così spaventoso?

Eravamo incontrollabili. Non avevamo altro baricentro che l'interesse di classe in azienda. Per questo il ruolo dei tecnici in Siemens fu dirompente. Più tardi le nostre richieste furono mutuate in qualche misura da alcune piattaforme nella parte normativa. Ad esempio, parve rivoluzionario chiedere aumenti uguali per tutti; all'inizio fu difficilissimo far passare questo concetto, che poi divenne naturale, uno dei punti avanzati della piattaforma sindacale. Non fu facile neppure per gli operai. La tendenza all'egualitarismo, che era uscita dalle lotte studentesche, nella fabbrica

stravolge l'organizzazione del lavoro e la contrattazione, diventa un evento politico, produce una insubordinazione diffusa.

Se era diffusa perché separarvene? Il fronte dei salariati, degli studenti andrebbe allargato, dovrebbe inventare le alleanze, i tempi... e voi vi chiudete in una guerriglia che nel 1968 lo stesso Castro dice perdente, il destino di Guevara lo ha dimostrato. Vi sbagliate di rivoluzione.

All'inizio non ci sentiamo chiusi affatto. Né separati. È che, lo ripeto, in fabbrica si avverte presto che, a quello stadio di sviluppo delle forze produttive e della conflittualità operaia, non funziona lo schema: vertenza, accordo al ribasso, vertenza, accordo sempre più al ribasso. E allora bisogna uscirne. La spinta di classe è di una qualità senza precedenti in società di capitalismo maturo. Non può richiamarsi né a un'analisi né a una teoria precedente. E le Br indicano nella guerriglia la forma del potere proletario delle metropoli.

Il potere proletario abbatterebbe il capitale sequestrando un dirigente?

Il dito nella piaga... ma è oggi che sembra strano, allora il clima era quello di contendere centimetro per centimetro il territorio e il potere, perfino nelle sue impersonifìcazioni. Allora le lotte di fabbrica avevano gli schemi seguiti dagli italianisti nelle partite di calcio: si marcava a uomo. Scherzo, ovviamente. Non ci proponevamo però di abbattere il capitale, ci proponevamo di far esprimere il movimento in tutto il suo antagonismo, attraverso le azioni che chiamavamo di propaganda armata. Di renderlo visibile come soggettività forte, capace di costruirsi via via in organizzazione. Lo so che non sta negli schemi dei vecchi comunisti. Chi ci dà degli stalinisti, chi dei maoisti, dei troskisti, degli anarco-sindacalisti, chi dei piccolo borghesi: ci si può dare di tutto perché ci portiamo dietro i frammenti un po' di tutto e non siamo la fotocopia di niente. Però siamo durati dodici anni. Come ci saremmo riusciti se non avessimo espresso un bisogno autentico?

E quale scenario prevedevate ?

Ci muovevamo in uno scenario parziale, radicale e parziale. Non ci interessava fare grandi previsioni, ma esserci, dare una risposta

all'immediatezza delle domande. Ci fu sempre un senso di urgenza in quello che facevamo. E questo, paradossalmente, nella convinzione che la partita si sarebbe giocata nel lungo periodo, che non stavamo facendo altro che mettere qualche seme, gettare qualche base per la nostra rivoluzione. Non c'è negli inizi delle Br qualcosa che somigli a una strategia. Prendete i nostri primi documenti, non hanno una elaborazione organica alle spalle. Questa è la realtà, che volete che vi dica. È stata la nostra forza e la nostra debolezza. Quante volte Gianfranco Faina15 mi ha detto con l'aria di farmi un complimento: la tua fortuna è che sai sempre dove ti trovi e da che parte vuoi andare;

buon per te che non hai letto abbastanza da farti quelle domande che te lo renderebbero assai meno semplice...

La mancanza di previsione non è una debolezza ?

Può essere che, inchiodati sull'immediato, abbiamo sottovalutato le tendenze del lungo periodo. Per esempio, che il capitale si sarebbe ristrutturato in modo tale da recuperare, scompaginando e ricomponendolo secondo le sue esigenze, il tessuto sociale dove ci muovevamo.

Che senso avrebbe avuto una proposta grave, irreversibile, come quella di una lotta armala prolungata senza una prospettiva ?

La prospettiva era da costruire. Non la offriva certo il Pci. Non la davano 1 modelli comunisti fuori: quello dell'Urss no di certo. C'era la fascinazione della Rivoluzione culturale cinese, ma che c'entrava la Cina con noi? Certi slogan sulla partecipazione di base, "sparare sul quartier generale", ci risuonavano dentro, echeggiavano un conflitto fra masse e partito che era anche nelle nostre lotte. D'altra parte le Br non potevano credere che di un partito si potesse fare a meno, avevamo visto montare rapidamente le lotte spontanee di base ma anche rapidamente spegnersi... Niente di quel che conoscevamo qui o veniva da altri paesi ci serviva. Quando i gruppi di base si avvicinano al Cpm è per trovare un coordinamento che li salvi dalla precarietà e dai riflussi. E consenta di uscire dal ghetto della fabbrica.

La fabbrica è l 'humus o la fabbrica è il ghetto ?

È il nostro humus, ma sempre sul punto di trasformarsi in ghetto se prevale la logica del capitale. E infatti tutto quel che il movimento voleva, e in parte aveva conquistato, sarà stravolto negli anni successivi. Voleva chiudere con la parcellizzazione, per esempio, non dico sul piano della ricomposizione del lavoro intellettuale e manuale, ma almeno su quello della monotonia, sulla possibilità di riappropriarsi del ciclo, di turnare le mansioni. Non è un obiettivo rivoluzionario, ma è intollerabile per l'organizzazione del lavoro in fabbrica. E infatti è contrastato, o una parte, mutilata, viene riaccorpata in maggiore efficienza.

Come succede?

Il padrone ristruttura e lo stato reprime. Il movimento viene battuto da tutte e due. Il padrone gli toglie di sotto i piedi il terreno che conosce. Prendete la Pirelli che ho citato più volte, c'è il movimento più forte, più nuovo, più fluido; se il Cub vuole, il sindacato deve indire lo sciopero. E là ci sono le prime azioni di guerriglia. Eppure la Brigata della Pirelli muore presto. Muore quando la Pirelli si ristruttura. La prima ristrutturazione fu clamorosa per il senso di sconfitta che lasciò. Proprio mentre era più grande la nostra forza...

La forza delle Bri

La forza operaia, pareva che non si potesse non vincere. Gli operai avevano paralizzato lo stabilimento della Bicocca bloccando il traffico delle merci - una forma di lotta che si ripeterà negli anni, anche all'Alfa, dove si arrivò a saldare ai binari le ruote dei vagoni che trasportavano le auto. Ebbene, Pirelli risponde cercando di far entrare in fabbrica un carico di pneumatici che fa arrivare dalla Spagna. Non ci riesce, ma dimostra che il blocco delle merci non lo tocca, che il luogo della produzione per lui è il mondo, che può far a meno della Bicocca. Non è del tutto vero, ma indica la spiaggia sulla quale la lotta operaia è destinata ad arenarsi. E cominciano i licenziamenti. Pirelli anticipa i processi che porteranno poi fino ai 61 della Fiat, è tre anni avanti a tutti. Insomma, alla Pirelli nascono le Br e nel momento in cui la fabbrica internazionalizza la produzione, agisce davvero come multinazionale, le Br muoiono. All'Alfa e alla Siemens, che sono industria di stato con dinamiche diverse da quelle del padrone privato,

dureremo molto di più.

Pirelli sta nelle regole del conflitto di classe. Il capitale ristruttura.

E fa capire che nell'ambito dell'azienda gli operai non la spuntano. Le spinte più potenti muoiono di asfissia se rimangono in questo ambito.

E fuori ?

Fuori c'è la repressione di stato. Le bombe di Piazza Fontana tolgono ogni illusione su uno sviluppo lineare e pacifico delle lotte. È il primo episodio di terrorismo che sentiamo di stato o coperto dallo stato da dentro lo stato. Ed è terribile non solo per i sedici morti nella Banca dell'Agricoltura, ma perché da quel momento sappiamo che ogni cambiamento dovrà fare i conti con qualcosa di oscuro di cui percepiamo soltanto la potenza. Da quel momento ci sentiremo sempre, e non a torto, sovrastati da forze capaci di determinare quel che veramente conta. Ogni volta che si arriva a un certo punto, succede qualcosa che ridetermina gli spazi dall'esterno, da fuori, e non vedi da dove.

Cambia il clima dei due anni precedenti ?

Orto. Neanche le forme pacifiche di lotta sono più tanto pacifiche, la tolleranza, se mai c'è stata, è finita e la polizia è tornata quella degli anni '50. Ricordo come caricò un corteo che era andato davanti alla Rai per protestare sulla disinformazione che faceva della nostra vertenza. Un corteo straordinario che vedeva assieme tutti i lavoratori della zona Sempione, l'Alfa, la Fiat, la Siemens. La carica avvenne davanti al velodromo Vigorelli e fu violentissima; il corteo resse, forse perché la zona era piena di sassi e a difenderlo si misero anche i vecchi sindacalisti del Pci. Quelli che si erano fatti le ossa con la polizia di Sceiba sapevano benissimo che fare in certe situazioni. E poi sono fermi, arresti, non c'è picchetto in cui non devi mettere in conto di fare a botte. Lo senti che sei a un punto oltre il quale o riesci a pesare sugli equilibri generali del potere o la lotta in fabbrica muore. Questo lo capiamo ancora prima degli arresti dopo la caduta di via Boiardo. Non riusciremo a mantenere il movimento all'offensiva restando in termini di rivendicazioni interne, tanto meno puramente sindacali. Del resto non è che abbiamo mai proposto un sindacalismo armato. Occorre allargare la

strategia.

Che cosa intendete per "allargare "? Siete nel maggio del 1972: alle elezioni la sinistra va avanti, i contratti d'autunno finiranno con conquiste grosse, salariali, inquadramento unico, 150 ore, e voi scegliete la clandestinità. A leggere i vostri documenti è come se non vi foste accorti che il movimento i suoi spazi li prendeva.

Quei contratti non fanno che sancire conquiste già strappate e consolidate. Nelle fabbriche di avanguardia, dove la lotta ha avuto la maggiore intensità, la discussione è ben oltre quello che stipulano i sindacati nei loro accordi. Dove siamo noi non si pensa più solo a quali rivendicazioni avanzare, ma come organizzare le strutture che permettano di andare oltre il sindacato. Viviamo di questo.

Ma vi separate dal resto del movimento.

Ma no. Prendete l'Assemblea Autonoma dell'Alfa, una cinquantina di operai permanentemente in attività - non era uno scherzo neppure per quei tempi - con una presa in azienda che nessuno poteva ignorare. Li abbiamo sempre incontrati, in forma appena un poco più riservata, anche se non ricordo una riunione in cui non razzolassero una mezza dozzina di bambini. L'Assemblea seguiva la sua strada, dinamiche tutte legali, noi ci battevamo per il comunismo cercando di organizzare strutture di potere proletario armato. Non eravamo sulla stessa lunghezza d'onda, ma il dialogo era permanente. Ci fu sempre un rapporto. Dico rapporto, non integrazione: due soggetti che si capiscono ma che non si uniscono. L'Assemblea lavorava in modo totalmente aperto ma sentiva che questa forma di autonomia operaia diretta non sarebbe sopravvissuta a lungo. Prima o poi l'avrebbero soffocata.

In conclusione, quando entrate in clandestinità nel 1972 pensate che il movimento è in avanzata o sta arretrando ?

Pensiamo che è grande e che da solo non ce la farà. Non è che stia scendendo, sta perdendo. La guerriglia, proprio perché si muove in una situazione limite, è come un nervo scoperto nel corpo sociale, avverte con assoluta esattezza i rapporti di forza, e come cambiano. Magari avremo sbagliato la risposta, ma avevamo capito che si stava marciando verso la

sconfitta. O almeno lo percepiamo, la ragione ce lo dice. E però noi siamo nati dentro un'offensiva, non conosciamo il riflusso. La nostra esperienza di militanti di quegli anni, proprio anagrafìcamente, non sa che cosa sia arretrare. Sa solo rivendicare più spazi, più libertà di muoversi, più rottura delle idee ricevute. Rilanciamo.

Non vi viene il dubbio che "alzando il livello dello scontro", come dite voi, il movimento si troverà accerchiato ?

Ma come può contrastare in altro modo, per esempio, il contratto nazionale di lavoro? Non lo vuole nessuno quel contratto, così come è uscito, eppure si firmerà... perché le rappresentanze sono quelle, i rapporti istituzionali sono quelli. O l'autonomia operaia cresce fino a imporsi come soggetto politico, capace di uno scontro sul piano dello stato, oppure muore. E infatti muore.

E il soggetto di uno scontro di questa vastità sarebbe un gruppo clandestino armato ?

Ho già detto che il nostro è un obiettivo a tempi lunghi, che il soggetto si andrà formando nel corso di un conflitto sociale che si dimostra sempre più radicale, irrisolvibile, e che l'espressione di questa radicalità è la lotta armata. Questa è per noi la discriminante. Sarà ideologico finché volete, ma così era: da una parte la lotta armata, dall'altra tutto il resto. Nelle infinite riunioni con i compagni che incontravamo si finiva con una specie di slogan, una battuta: a sinistra del Pci si sta solo con il fucile in spalla. Venivamo dopo un secolo e più di lotta operaia, c'era alle spalle l'esperienza della Terza Internazionale, del partito, del sindacato, di tutte le strategie possibili che non passassero dalla rottura. E avevano sempre perduto.

In Europa anche la rivoluzione e la rottura avevano perduto. Ci sarà stata una ragione. E poi siete leninisti ma vi scordate che "la rivoluzione rafforza la reazione"? Vi proponete di vivere a tempo indefinito come gruppi metropolitani armati ?

Qui c'è stata una presunzione tipica delle avanguardie, lo riconosco. È come se vedessimo soltanto quel che dovevamo e potevamo fare subito e un obiettivo raggiungibile in tempi lontanissimi. In mezzo quasi niente, una voragine. Il vuoto di progetto, pensavamo, sarebbe stato riempito strada facendo. Un occhio puntato sull'immediato e l'altro rivolto all'infinito, lo

strabismo era fin troppo evidente. D'altronde non avevamo letto da tutte le parti che la rivoluzione non si progetta a tavolino e che soltanto nel farsi metterà insieme teoria e prassi? In quel momento una sola cosa contava, che l'antagonismo sociale reggesse, ed era nostra convinzione profonda che non avrebbe retto senza darsi un'organizzazione armata. Venivamo da anni di lotte operaie anche dure e ne conoscevamo il limite. Bisognava andar oltre. Forse abbiamo sbagliato il come, voglio essere impietoso. Ma non sbagliammo nel capire che gli operai in fabbrica non l'avrebbero spuntata più.

Lo diceva anche il Pci... si può obiettare che è venerabile leninismo, mentre dicevi che le lotte di quegli anni non avevano modelli nel passato?

Gli operai avevano fatto quel che potevano, quel che era nel loro orizzonte. E avevano mutato non poche cose. Ma quando la ristrutturazione gli cambia la fabbrica sotto il naso, crolla il mito dell'operaio massa. Non ho mai creduto, fra parentesi, che l'operaio potesse essere il motore della trasformazione. A ogni modo si poteva rilanciare solo fuori della fabbrica e noi abbiamo rilanciato.

Gli operai dei Consigli si sono trovati stretti, massacrati tra voi e una direzione sindacale debole.

Impotenti, si sono trovati. Privati di ogni potere dal loro sindacato, dal loro partito. Non certo da noi.

Fra l'assemblea operaia, o la guerriglia rivendicativa, come la chiamavano e facevano in quegli anni, e il nucleo armato ce ne corre.

È vero. Fino a tutto il '72 le strade sono ancora tutte aperte. Persino noi che diciamo necessaria la lotta armata, ci consideriamo una possibilità fra le tante di quella effervescenza.

Imporre a quella effervescenza la lotta armata non significa perderla ? Il movimento ve lo rimprovererà amaramente.

Di lotta armata allora parlavano tutti. In termini più o meno camuffati, ma il minimo di cui si discuteva era del rapporto fra lotte di massa e violenza

rivoluzionaria. Non ce n'era uno, dei gruppi, che non pensasse al braccio armato o tradizionale o in nuove forme. Ognuno a suo modo, da Potere Operaio,16 a Lotta Continua,17 all'Unione dei marxisti-leninisti,18 persino Avanguardia Operaia19. Solo il Movimento Studentesco, credo, ne rimase fuori.

Non è stata molto gloriosa la vita dei gruppi, appena usciti dal movimen to vero e proprio.

Non so se furono i gruppi che si allontanarono dal movimento o se fu il movimento a divorarli. Il movimento ha travolto quel che non gli serviva. I gruppi muoiono presto. Noi proponiamo una strategia di lunga durata, una lunga marcia.

Prendendo le armi lo fate precipitare, lo dividete.

Non proponevamo a tutto il movimento di prendere le armi, di farsi Brigate Rosse. Le Br volevano essere un nucleo, un sostegno per un'aggregazione che sarebbe stata più grande di loro e avrebbe trovato forme sue. Non ci siamo riusciti, ma è questo che cercavamo.

Quel movimento faceva una critica radicale all'avanguardia esterna, al partito che decide per te. Voi nascete da quella critica ma lo riproponete, il partito, e irrigidito dalla clandestinità. Che cosa portate di nuovo ?

Quello che ci differenzia, che considero forse l'unica nostra cosa preziosa, è che avevamo superato lo schema insurrezionalista del partito separato dal braccio armato. Per noi l'azione armata non è altra cosa dal fare politica. Al contrario è il momento di massima concentrazione della politica, quello cui si arriva dopo un lungo lavoro nelle istanze di movimento e da cui si riparte per un passo successivo.

Non hai il dubbio che se, invece di acutizzare uno scontro limitato, aveste impiegato le vostre energie ad allargare e allargarvi sul fronte delle lotte sociali, voi e gli altri gruppi, il risultato sarebbe stato più durevole?

Saremmo morti subito. Sul fronte sociale non si spuntava più nulla. Il capitalismo era in movimento e le sue nuove dinamiche avevano nello stato

il referente. Questo è indiscutibile. Se sbagliammo, ma non solo noi, nel sovrastimare l'incombere di un golpe, avevamo però ragione nel vedere che a livello dello stato avveniva una svolta, e che lo stato avrebbe represso in prima persona il conflitto sociale. Lo vedemmo tutti, e sbaglia chi oggi si rimangia quell'analisi.

Non credi che semplifichiate molto il rapporto fra capitale e stato ?

Non puoi aggredire il capitale soltanto dalla fabbrica, lo ripeto. Lo avevamo provato: le Br, a parte alcuni compagni, sono operai, tecnici. Dopo l'autunno caldo la classe operaia è con le spalle al muro. Bisogna uscire sul piano politico. Non saremo stati abbastanza marxisti, forse anche poco leninisti, ma qualche cosa avevamo respirato della storia del movimento comunista.

Ma che cosa intendete per stato? Non lo confondete con l'apparato dello stato ? Pensate che potete colpire lo stato colpendo il tale personaggio, o l'agente, o il magistrato. Ma lo stato moderno non è un sistema molto più complesso ?

Certo che lo è. Ma in quel periodo nessuno percepisce come errore una semplificazione simbolica. Se indichiamo come "cuore dello stato" quello che allora appare il progetto o gruppo dominante. Procediamo per simboli, per rappresentazioni. È vero che quando ci spostiamo all'attacco allo stato ci muoveremo su un terreno che non conoscevamo, e si sarebbe dovuto studiare: sono severo quanto voi. Ma vi sfugge, come a molti, che ogni nostra azione contro uomini o simboli dello stato ha avuto un'eco enorme; va dunque a colpire qualcosa di non secondario nei rapporti tra le classi. Costringiamo i media a darci un'attenzione che neppur sospettavamo di poter avere. Le nostre azioni, e quel che volevamo denunciare, hanno una risonanza che nessun'altra lotta aveva mai avuto.

È una scelta alquanto autoreferenziale, colpite per essere visti e non per colpire ?

Non è stato sempre cosi. Certamente non negli anni in cui era ancora possibile che un movimento ottenesse dei risultati. Poi una certa autoreferenzialità ha tentato alcuni di noi.

Quel movimento nel quale vedi la vostra origine è stato anche la prima ondata di massa

che si interroga su conflitto e guerra, guerra e annientamento. Non accetta il passaggio dell'uno nell'altra. Intuisce che non devi somigliare all'avversario che vuoi battere. Non avete sottovalutato questo ?

Nel dibattito di quegli anni questo non c'è. In quegli anni si fronteggiarono due concezioni della violenza di classe.

Una, tradizionale e nel solco dei partiti comunisti, riconosce che la violenza anche armata può essere necessaria, ma la subordina alla strategia di massa; è una concezione difensiva che considerava la violenza una scomoda necessità. L'altra concezione è offensiva, supera sul piano ideologico il discorso generico sulla violenza e parla di lotta armata. Non più la difesa di presidi politici come potevano essere i cortei, i picchetti o altro, ma la conquista di altri spazi. Si attacca con le armi il nemico dove esso si trova, non ci si limita a difendere con le armi il terreno cui è arrivata la lotta di massa.

Tu riecheggi sempre e solo la discussione fra Pciy gruppi e avanguardie. E non sottovaluti la distanza che c'è tra parola violenta e decisione di passare a una guerra ?

Ma non proponiamo il passaggio immediato del movimento alla guerra civile, non siamo sciocchi fino a questo punto. Noi siamo, insisto, una organizzazione di propaganda armata, che verifica modi e forme di un passaggio che non saremo noi a stabilire. È vero che questo passaggio non avverrà, anche se in certi momenti il numero delle azioni, non solo nostre, sarà così elevato da far parlare di un inizio di guerra civile. Ma non ci sarà la guerra civile. Noi non abbiamo mai superato lo stadio della propaganda armata: siamo inchiodati lì dall'inizio alla fine. La contestazione di fondo alle Br non può partire che di qui.

Un paio d'anni dopo vi troverete di fronte alla morte. Darla e subirla. Questo vi dividerà definitivamente dal movimento, operaio e non.

Gli operai da un secolo in qua sono stati spesso messi a morte e non penso solo a quelli rimasti sulle strade sotto i fucili della polizia o dell'esercito. Ci sono molti modi di distruggere le persone; condizioni di vita imposte o negate che sono condanne a morte decretate legalmente. Ma non credo che

questo argomento giustifichi. Quando si parla della morte entrano in discussione valori e principi che ci investono, non ammettono diminuzioni, ogni riduzione è un insulto a qualcosa di noi che è inviolabile. E credo che una politica che se lo scordi sia poca cosa. Ma non possiamo assumere questi valori come criterio di valutazione storica. Quando scegliemmo la lotta armata era perché ogni altra strada ci era preclusa, ce ne sentimmo costretti. Costretti a cose tremende. Sapevamo cosa voleva dire uccidere, e anche restare uccisi, il primo colpo l'avevano sparato addosso a noi. Impattiamo sulla morte e la lacerazione è fortissima. Chi ci è passato è stato obbligato a guardare dritto nei significati ultimi da dare all'esistenza sua propria e altrui. E ne doveva aver fatto i conti in partenza. Come in una guerra, dove si fanno cose terribili perché si ritengono terribili e necessarie. Quando un partigiano metteva mezzo chilo di piombo nella pancia di un tedesco, potevi dirgli: "Ma non hai pensato che probabilmente Fritz aveva moglie e cinque figli in Baviera, allevava mucche e non voleva altro?" Avrebbe risposto: "Si, ma io sto difendendo il mio paese." Questa dicotomia, questo stacco, bisogna operarli in qualche modo se vogliamo capire gli avvenimenti nella dimensione storica. Poi a ognuno resta un problema con se stesso. Di quelli che ho avuto io, non mi rifiuto di parlare ma lo farò malvolentieri, credo poco ai pentimenti e alle lacrime in diretta. Non mi convincono neppure come forma di catarsi delle tragedie sociali. Meno ancora che si possano assumere come chiave di interpretazione.

Aver dato la morte diventa metro e chiave di interpretazione di tutto, quando si è perduto. È stato sempre così nella storia, quando non si può dire - ammesso che si possa dire che è almeno servita a qualcosa. Lo sapevate.

Lo sapevamo, e sapevamo che sarebbe stato tremendo. Ma lo dovevamo fare. Credemmo che avrebbe accorciato lo scontro, le sofferenze. Non tutto è stato semplice e liscio nelle Br. Posso solo dire che nelle decisioni più dure abbiamo avuto una sola linea. Questo si, una sola.

Non faremo la domanda un po' sciocca "ricominceresti?" Ti chiediamo: sei convinto anche oggi che avevate ragione?

Sono convinto che si doveva tentare di dare uno sbocco alle aspettative, forse ingenue, che in tanti avevamo nutrito.

Fallimmo, non c'è dubbio, ma allora facemmo una scelta di vita e non di morte. E non abbiamo distrutto movimenti che senza di noi sarebbero stati vincenti. Questo non è vero. Quei movimenti non sono stati soffocati da chi ha fatto la lotta armata, ma dalla sinergia fra il processo di ristrutturazione capitalistica e la cooptazione nello stato di tutto quello che era stata la rappresentanza proletaria storica.

Non avete mai avuto il dubbio che quel bisogno di trasformazione che pur resse quasi un decennio andava sorretto nei. suoi tempi, non forzato nei modi, allargato ?

Certo, ma è su questo che non ce la facciamo. A un certo punto non fummo più capaci di comprendere le controtendenze (nel senso non solo di vedere che c'erano ma di sapersi muovere dentro), quindi valutare i rapporti di forza, le avanzate e i riflussi, i punti di mediazione, insomma le dinamiche reali d'una lotta di classe. Nella lunga durata i contesti cambiano in continuazione, e una strategia è tale se è in grado di adeguarsi. Noi non ne siamo stati capaci. A distanza di quasi venti anni, i mutamenti avvenuti sul piano internazionale mettono in crisi ben altro che la nostra particolare esperienza comunista; ma è bene che ognuno parli per sé. Della nostra sconfitta, dico che essa si è prodotta su questo: sull'incapacità di articolare una strategia che regga nel tempo e nel mutare dei dati di realtà.

Quando ne prendete atto ?

Noi non cresciamo mai. È incredibile che nessuno se ne sia accorto. Le Br si riproducono sempre ma non crescono mai. Le nostre brigate di fabbrica, politicamente fortissime, numericamente sono sempre esigue. Alla Fiat, nel momento di massimo splendore, avevamo al più una decina di compagni: ridicolo rispetto al numero di operai che influenzavamo e alla vastità degli interessi di cui si facevano interpreti. Tanto più che il padrone non sta fermo, e a un certo punto il terreno non lo controlliamo più. Quando lo capiamo? Qualcuno di noi lo capisce subito, ma un'organizzazione di avanguardie tende a credere che sta solo pagando lo scotto di una fase di sperimentazione, che provoca un certo isolamento. Scopriremo nei fatti che, mentre credevamo di essere alla testa di un accumulo di massa, ne siamo, finché ci riusciamo, solamente l'espressione più radicale. Le Brigate Rosse ci metteranno degli anni ma si esauriranno in se stesse.

CAPITOLO III

Le prime colonne (1972-1974)

La polizia arriva nella base di via Boiardo, siamo nel maggio del 1912, sfuggi per un soffio ali 'arresto, che fai ? Dove vai ?

Mi ritrovo isolato dagli altri compagni, finiti in galera o fuggiti, senza una base in cui rifugiarmi, senza altro che gli abiti che ho addosso, senza saper dove passar la notte. "Essere in mezzo a una strada" non è più per me un modo di dire, ma un modo di vivere, finirà con l'essere una condizione psicologica dalla quale non mi separerò più. Ma è quella che ci vuole per la guerriglia urbana: ti muovi in città, dove più alto è il controllo degli apparati militari, sei come accerchiato, mai davvero al sicuro, precario. Ma la metropoli è anche un groviglio, un insieme di luoghi sconnessi, contigui ma non aggregati, ti sposti di strada ed è come se fossi in un'altra città, non conosci l'inquilino della porta a fianco. Se è vero che in nessun posto sei sicuro, è vero anche che non sei fuori posto da nessuna parte.

Come vi siete ritrovati ?

Quel pomeriggio so solo che alcune basi sono cadute, non so perché, devo presumere che sono cadute tutte. Cerco qualcuno che mi ospiti la notte, che non sia delle Br, è un amico della Siemens, ricordo la sua faccia sorpresa - ma non troppo - quando vede in televisione la faccia mia fra quella dei brigatisti ricercati. Di giorno cerco i compagni ancora in circolazione, Piero Bertolazzi20 mi fa sapere che gli altri sono in un cascinale nel Lodigiano. Li raggiungo e ci ritroviamo in cinque un po' fuori dal mondo, Pierino Morlacchi, Curcio, Franceschini, Margherita ed io. Forse le Brigate Rosse sono nate davvero soltanto in quel 1972, quando dovemmo affrontare quella prima sconfitta e la massa di problemi che ci erano caduti di colpo addosso.

La retata era stata grande ?

Il grosso dei compagni in fabbrica e nei quartieri non sono stati catturati, e si stanno riorganizzando. La vecchia struttura è azzerata, ma i compagni, che sono poi quel che conta, sono ancora al loro posto. Ma dobbiamo

ricominciare. È allora che decidiamo due cose che determineranno quel che siamo poi stati, nel bene e nel male. La prima è di attrezzarci alla guerriglia sul serio: non bastano quattro regole di prudenza, ci vuole altro per sopravvivere in offensiva, in condizioni di agire anche se sei ricercato. Impareremo a vivere in mezzo alla gente senza farci individuare. La clandestinità diventa la chiave del nostro modo di essere, dalla struttura di direzione alla più minuscola brigata di quartiere. La seconda decisione è di impiantarci nei maggiori poli industriali, organizzandoci per colonne, autonome politicamente, compartimentate, in grado di agire senza dipendere da altre. Anche se l'intera organizzazione viene distrutta ma rimane in piedi una colonna, una sola, le Br potranno rigenerarsi. Così, per pochi che siamo, ci dividiamo fra Torino e Milano.

Chi di quei cinque va a Torino ?

Margherita e Curcio. Seguiranno altri, tra cui Maurizio Ferrari,21 uno dei licenziati della Pirelli. A Torino la stagione delle lotte è altissima, le studiano, prendono contatti, reclutano alcune avanguardie. Decisivo è "Il Gatto", uno dei compagni più vecchi della Fiat, dirigente sindacale, intelligente, acuto, conosce tutte le fabbriche torinesi. "Il Gatto" è prezioso, ma poi non ci seguirà: si separerà dalle Br e, per quel che ne so, non farà altro. Come Raffaello De Mori della Pirelli, Gaio di Silvestro della Siemens, leader indiscussi che sono stati decisivi ai nostri inizi, ma a un certo punto se ne vanno e spariscono dalla politica.

Come lo spieghi ?

Penso che niente come lo staccarsi di questi tre compagni dimostra come le Brigate Rosse siano una cesura, non stiano in continuità con il movimento operaio precedente. È operaio anche il nostro codice genetico, ma non siamo uno sviluppo di qualcosa che c'era già. È come se spiccassimo un salto da una piattaforma solidissima, ma non un salto in lungo, che gli altri vedessero i movimenti da fare per raggiungerci: un salto in alto, senza saper neppur noi se avremmo trovato un appiglio per sorreggerci.

Chi invece vi seguii

Moltissimi di quelli che allora guidavano le lotte. Poco a poco le Br si

insediano in tutti gli stabilimenti Fiat, alla Pi-ninfarina, alla Singer, alla Lancia. Pochi mesi dopo, nella primavera del 1973, c'è l'occupazione di Mirafiori, bandiere rosse sui tetti dello stabilimento, gli operai padroni della fabbrica. È un fatto enorme, è la riappropriazione politica del luogo di produzione, non un momento rivendicativo ma di potere. Non durerà, ma non c'è chi non lo veda con speranza o con timore. E poi c'è la famosa "spazzolata" dei reparti, che butta fuori tutti, capi e dirigenti: niente più che una forma radicale di sciopero, se non fosse che i "Fazzoletti rossi" sono centinaia di operai, con il fazzoletto rosso appunto, che guidano i cortei interni, una specie di milizia

spontanea e informale, che nessuno controlla e cui nessuno è in grado di porre limiti. Gli slogan "riprendiamoci la fabbrica", "riprendiamoci tutto", assumono ben altro senso che fra gli studenti. Penso che i padroni non se la siano mai scordata e si siano presi la loro vendetta anni dopo con la marcia dei quarantamila colletti bianchi.22

Cercaste di reclutare i "Fazzoletti rossi "?

No, il numero dei nostri militanti è sempre stato relativo, quello che cresceva era la nostra influenza. Le Br nuotavano in questa acqua tumultuosa. Ne discutemmo riunendo per la prima volta a Montecatini i militanti delle brigate di fabbrica di Milano con quelli di Torino. Fu li che conobbi "Il Gatto", e Rocco Micaletto,23 che in seguito sarà molto importante per le Br.

E a Milano ?

A Milano stavamo Pierino Morlacchi, Franceschini e io. Siamo in quasi tutte le principali fabbriche e nei quartieri come Lambrate, Quarto Oggiaro e il Giambellino. Come a Torino, ci par di avere un orizzonte smisurato, sentiamo attorno non soltanto simpatia ma disponibilità. Si moltiplicano sempre più fitte piccole azioni di sabotaggio o contro i capi e i dirigenti, o il sindacalismo giallo in Fiat, e a Milano anche contro i fascisti che sono una presenza non da poco. Guardano a noi gli operai che conoscono la lotta in fabbrica, sentono di essere forti e vogliono collegarsi e che si veda. Alle Br non si aderisce idealmente e basta: le cose, se si è d'accordo, si cerca di

farle. Alla fine di quell'anno i compagni di Torino propongono di sequestrare un dirigente Fiat, il Cavalier Ettore Amerio, capo del personale. Stavolta non lo terremo poche ore, è la stessa intenzione che ci ha portato a sequestrare l'anno prima Macchiarini, ma è qualcosa di più di un "mordi e fuggi". Abbiamo realmente fatto un prigioniero, la polizia ci cerca dovunque, per una volta non siamo i più deboli fra operai e padrone, e quando vorremo, dopo una settimana, lo rilasciamo. È visibilmente un contropotere.

Il Cavalier Amerio poi lasciò la Fiat, no ? Che effetto ebbe quel sequestro ?

Grandissimo. È ancora un conflitto in fabbrica, non è ancora quel che chiameremo 1'"attacco allo stato", ma è una enorme insubordinazione. Gli operai non ci sono abituati, e tanto meno i sindacati e i partiti. La conseguenza è che la pressione poliziesca si fa molto meno approssimativa. Ma anche una risposta entusiasmante dalla base operaia, ci cercano, affluiscono. Sarebbe sbagliato dilatare l'organizzazione clandestina. A Milano quell'anno avevamo cercato di promuovere forme di organizzazione non clandestine, i Nora, Nuclei operai di resistenza armata. Se ne sono formati molti nelle fabbriche ma anche nei quartieri e in zone come il Lodigiano, da sempre attive nella militanza antifascista. Ma non funzionerà, i Nora avranno vita effimera. È indicativo, secondo me, di un limite che avevamo già allora: alla grande potenzialità che sentiamo attorno non sappiamo dare che una risposta formale, organizzativa. Non siamo mai stati capaci di alimentare un circuito che non restasse schiacciato fra la clandestinità e la marginalità, senza incidenza effettiva. Sulle prime la rete dei Nora fu vastissima, ma presto i compagni o se ne andarono o diventarono militanti delle Br.

Vi accorgete di questo limite ?

Si e no, ci diciamo che è presto, che la lotta armata deve conquistarsi qualche caposaldo prima di diventare un riferimento per organismi allargati, di massa. Ci riproveremo nel '77-78, quando il movimento in fabbrica sarà molto lontano dalle lotte del '72-73. Si chiameranno Nuclei del movimento proletario di resistenza offensiva, un nome più lungo, ma non avranno una vita più lunga. Ma per tornare al 1973, le difficoltà non ci appaiono come

limiti invalicabili di una linea. La lotta armata è ancora da cominciare, il terreno è inesplorato, nessuno sa dove la guerriglia potrà portarci, quel che non riusciamo a fare oggi lo faremo domani, l'importante è stare nella grande ondata e farla crescere.

Dove cercate di insediarvi nell'estate del 1973?

Andiamo nel Veneto, prevalentemente nella zona di Marghera e a Padova. A Marghera nel Petrolchimico, e a Padova negli ambienti dell'università. La regola dell'organizzazione è che non andiamo se non dove qualcuno ci chiama e non diamo a nessuno una delega in bianco. Dove ci chiamano mandiamo un paio di compagni i quali, se la situazione lo consente, costruiscono poi con le forze locali un altro polo delle Br. Succede così anche in Veneto, dove vanno Fabrizio Pelli24 e Robertino Ognibene,25 i quali entrano in contatto, fra gli altri, con Susanna Ronconi26 e Nadia Mantovani.27

Ronconi e Mantovani, parliamo delle brìgatiste. Quanto hanno contato nella storia delle Br? Avete eretto un altare alla memoria di Mara, ma sono state compagne o "vostre " compagne?

Quanti uomini, secondo voi, hanno contato quanto Margherita, Barbara Balzerani28 o Mariuccia Brioschi29 all'inizio e Aurora Betti30 verso la fine? Barbara ha diretto la colonna di Roma per anni, è una donna molto fragile, fragile e d'acciaio. Margherita per due anni è stata il dirigente più autorevole della colonna di Torino, composta di operai, e chi conosce gli operai della Fiat sa che ci vuole qualcosa di più che due occhi verdi, bellissimi fra l'altro, per farsi rispettare da loro. Personalmente sono sempre stato convinto che le compagne hanno avuto un ruolo molto più grande che si dica. È l'immaginario maschilista che domina i media, per loro contano soltanto gli uomini in politica, anche quella da condannare. Alle donne tocca al più l'epiteto di "pasionaria". Nelle Br, non so se sono state qualcosa di più o di meno di noi uomini (propendo per il più) ma è sicuro che non sono state subalterne a nessuno.

Le femministe direbbero che erano subalterne in quanto uomini

perfetti, identiche a voi. Ma torniamo alla crescita del 1973. Avevate una struttura

organizzativa, di direzione?

Non si anticipa una direzione prima di essere presenti sul terreno. Per noi è una legge. Quando ci siamo separati nel 1972 fra Torino e Milano l'unica struttura centralizzata è una specie di coordinamento fra le due colonne che, un po' pomposamente, chiamiamo il "Nazionale". Siamo i soliti quattro, Margherita, Curcio, Franceschini e io. E una direzione, anche se non c'è molto da dirigere, dobbiamo soprattutto esistere, ci teniamo in contatto, discutiamo di tutto, ma l'autonomia delle due colonne è completa. Avremmo potuto scomparire da un momento all'altro. Ci uniscono alcune scelte di fondo e una grande amicizia. Fra vertice e base poi c'è allora una simbiosi, per la buona ragione che è impossibile individuare un vertice. Più tardi, con la creazione dei fronti di combattimento, ci sarà una certa verticalizzazione e il "Nazionale" si trasformerà nel "Comitato Esecutivo". Sarà la struttura più centralizzata delle Br. Ma dobbiamo arrivare al '75 e oltre.

Che cosa sono i fronti? Strutture organizzative o settori di intervento?

Entrambe le cose, e questo ha creato confusione in chi ci osservava. Decidemmo di formarli nell'autunno del 1973 e ne avemmo tre, quello delle fabbriche, quello logistico e quello della controrivoluzione. Quello delle fabbriche, inutile spiegare che cos'era. Il fronte della controrivoluzione doveva analizzare l'altra parte, la scena politica, lo stato, capire i progetti a medio termine della borghesia. Voleva dire documentarsi, lavorare, capire quel che accadeva.

Qualcuno di esterno vi aiutava?

Per documentarci utilizzavamo di tutto. Sono enormi le informazioni di cui si può disporre in una società come la nostra. Il problema non è come reperirle, ma come non farsene sommergere. Occorre chiarezza di vedute e capacità di indirizzo. All'inizio pensavamo a una sorta di "intelligence", ma ci rendemmo conto che lo spionaggio è una fesseria in una società evoluta. A noi occorreva sapere per decidere un'azione, collocarla al punto giusto, portarla a termine. Per il sequestro del giudice Sossi a Genova, che è stato il primo attacco allo stato, lavorò il fronte della controrivoluzione, con alcuni

compagni di Milano e di Torino.

E il fronte logistico ?

Doveva sistematizzare l'organizzazione. Che modo di esprimersi, eh? Sta di fatto che sul partito in genere, e operaio in particolare, sono stati scritti volumi, ci sono due secoli di storia. Ma non esiste nessuna, per dire così, scienza della guerriglia urbana. Ho cercato dovunque, ho trovato al massimo qualche opuscolo del tipo: bricolage per il giovane attentatore, niente a che vedere con noi. La guerriglia è una cosa tremendamente pratica, alla fine del discorso bisogna combattere. E la struttura logistica è ciò che lo rende possibile. Ne discutemmo molto, anche aspramente, con Curcio nel 1974. Io temevo che questo lavoro comportasse un abbandono delle fabbriche, non fosse che perché eravamo quattro gatti e non si può fare tutto. Alla fine concordiamo che io non mi sposterò dalle fabbriche e del fronte logistico si occuperà lui. Forse quella volta Curcio aveva ragione, passare ad azioni dirette contro lo stato richiedeva un riadeguamento assai rapido. Lui non riuscirà neanche a cominciarlo questo suo lavoro, perché sarà arrestato poco dopo per la spiata del famoso frate Girotto31 che si presenta come un esperto di guerriglia.

Che cosa doveva procurare il fronte logistico ?

Le basi, le case, le armi, le stamperie clandestine per il materiale di propaganda. Una pistola in più o in meno non fa differenza, ma diffondere un volantino dopo un'azione è vitale. Essere tiratori scelti non serve, ma per passare un posto di blocco occorre un documento perfettamente falsificato. Sapete quanti documenti falsi ci vogliono per venire via puliti se ti fermano su una macchina rubata? Ce ne vogliono otto. Se non li hai è meglio girare in tram, altrimenti non duri neanche tre giorni. Siamo in una società tecnologica e il controllo non è lo stesso che se fossimo in Bolivia o in Perù. Per la clandestinità devi disporre di officine, tipografie, piccoli laboratori di elettronica. Dovemmo risolvere tutto con le nostre forze, inventarci il come e il che cosa. C'è stata una certa genialità operaia nel saper fare e far bene. Il nostro materiale umano veniva dall'industria, possedeva competenze che permettevano di inventar qualsiasi cosa. Non si ha idea di cosa riesce a fare gente così quando è motivata. Qualcuno, fra

coloro che ci hanno combattuto, lo ha capito e se ne è spaventato. Chi non l'ha capito si inventa mille misteri per far quadrare la nostra efficienza con la sua stupidità.

Come vi procuravate le armi ?

Avevamo escluso in maniera tassativa di ricorrere al giro malavitoso o alla rete del traffico di armi. Non sopravvalutate la questione, le armi girano sul mercato come la Coca Cola, rendono bene e un fucile, se mai ha avuto un'ideologia, negli incroci commerciali la perde. Noi, comunque, le armi siamo stati sempre in grado di andarle a prendere, o le abbiamo comperate in armeria con documenti falsi, o abbiamo recuperato residuati bellici da qualche partigiano. Ci fu un rapporto politico con i compagni palestinesi che per un aspetto riguardò le armi: ovviamente non ha nulla a che vedere col traffico.

Non avete mai derogato su questo punto?

Per quel che ne so è successo una sola volta che certi compagni di Roma proposero di acquistare in un colpo solo diciassette pistole. Le prendiamo ma quando chiedo: da dove provengono? risulta che vengono da un certo giro. Armi italiane, ma anche in Italia c'è un traffico internazionale. A quel punto: fermi tutti, è la prima e l'ultima volta, non se ne parla più. È notorio che il mercato delle armi è controllato, e certo non da gente che sta dalla nostra parte.

Vi è successo di rinunciare a qualche azione perché non avevate armi di provenienza sicura ?

No, mai. Vi ho detto che siamo stati sempre in grado di acquistarle o prenderle.

Siamo nel 1974. Vediamo le cose da oggi: il sequestro di Amerio ha avuto, per dir così, un lieto fine. I Nora, dici, si formano egregiamente anche sepoi moriranno. Le azioni in fabbrica sono fittissime, funzionano. È come se le aziende implicitamente ammettessero che in fabbrica le regole non esistono, c'è violenza da una parte e dall'altra. Perché cambiate obiettivo? Non sarà più così quando attaccate un personaggio-simbolo dello stato.

È proprio a Torino che abbiamo visto come in fabbrica non si va oltre più di tanto. Quale lotta poteva essere più forte di quella dei "Fazzoletti rossi"? Nessuna. È enorme e si dimostra ugualmente senza sbocco, asfìttica. Gli operai hanno preso in mano la fabbrica, l'hanno dominata e hanno toccato rapidamente il loro limite. Che cosa potrebbero cambiare, all'interno, al di là di una certa agibilità? È la fabbrica che cambia, a monte si opera un processo di ristrutturazione che li mette nella impossibilità di realizzare alcunché a partire dall'azienda.

Ma non è un corto circuito ? Se la ristrutturazione cambia lo scenario produttivo perché non imparare a conoscerlo e ad intervenire su di esso? Forse perché non è vero che la Fiat l'avevate in mano, come hai detto. Nel giro di due anni l'avevate bella che persa.

Non ho mai detto che l'avevamo presa in mano noi, è la classe operaia che ad un certo momento se l'era presa, ma è durato ben poco. Guardate i contratti nazionali, erano brutti ma ce li hanno firmati sotto il naso. Possibile che non possiamo farci niente? Come rompere quel tetto? Persino l'occupazione delle fabbriche a un certo punto non basta più. Se si occupasse Mirafiori un giorno si ed uno no, si incazzerebbero moltissimo (e infatti non si occupa un giorno si ed uno no), ma più lontano la lotta operaia non andrebbe. Se restiamo inchiodati in fabbrica la forza si trasformerà in impotenza. Io rimarrò sempre un maledetto fabbrichista, per me è assiomatico che se ce ne andiamo dalle fabbriche, oppure ce ne buttano fuori, saremo finiti. Tuttavia sono d'accordo con Curcio che dobbiamo andare oltre. Oltre non vuol dire genericamente nel sociale, ci siamo già, almeno dove c'è un movimento, nelle scuole e nell'occupazione delle case. Oltre vuol dire metterci in grado di pesare sulla scena politica.

È quel che chiamate il "salto politico", l'attacco allo stato?

Si, dobbiamo colpire lì. Non facciamo la filosofia dello stato e neppure dell'antistato, siamo molto più pragmatici. E in questa scelta perderemo qualcosa.

Che cosa ?

In parte, la capacità di leggere i processi di trasformazione stando all'interno dei medesimi. Anche io poi ho perduto la caratteristica di uomo

che viene dalle fabbriche. Del resto anche la classe operaia si andrà trasformando.

C'è una discontinuità, quando vi mettete a dire che sul capitale si interviene dagli spalti dello stato: siete il reciproco esatto del Pci. Il Pci pensa di controllare lo stato entrandovi con il compromesso storico, voi pensate di condizionarlo colpendone degli esponenti.

Non puoi, ripeto, aggredire il capitale soltanto dalla fabbrica. Lo avevamo già provato. Eravamo operai, tecnici, impiegati, formati nelle lotte dal basso: ma già nel pieno dell'autunno caldo, con le bombe a Piazza Fontana, il movimento sa di essere aggredito, è con le spalle al muro. In fabbrica rischia di morire. Occorre uscire dalla fabbrica, sente il bisogno di una direzione generale, di un partito. E noi pensiamo a un partito diverso.

Ma eravate d'accordo tutti? Curcio scrive:32 ho sempre pensato

a un movimento nel quale l'esperienza di lotta armata fosse secondaria.

Nelle Br delle differenze ci sono, e spesso le discussioni hanno fatto scintille. Però si usciva sempre con una decisione unitaria. Magari a distanza di anni non sempre si è dimostrata la più giusta. Ma era comune. E che qualcuno delle Brigate Rosse ritenesse secondaria la lotta armata non s'è mai sentito. Le Br erano nate per la lotta armata, era la loro ragione di esistere.

Comunque quando decidete "l'attacco allo stato"partite da Genova. Perché Genova ?

Perché a Genova si teneva il processo dei Gap, che fu clamoroso. I Gap erano stati il primo gruppo di lotta armata in Italia. Erano gruppi di resistenza antifascista, che a quel tempo sopravvalutavano, ma non erano certo i soli, il pericolo golpista. Sul piano delle azioni avevano anticipato tutti. E nel processo al gruppo "XXII Ottobre", formazione dei Gap genovesi, veniva in luce per la prima volta un più stretto intreccio tra magistratura e forze politiche. 11 meccanismo processuale perdeva ogni caratteristica di terzietà, come dicono i giuristi, e diventava un momento di repressione. Mario Rossi fu il primo a rifiutare questo processo, revocando l'avvocato difensore. Pubblico ministero era il giudice Sossi e guidava il tutto sotto la supervisione di un altro magistrato che noi sentimmo

nominare per la prima volta, Francesco Coco. Il processo scatenò grandi polemiche, accentrò l'attenzione della stampa.

Vi interessò anche perché era un grande palcoscenico?

Si, anche questo. Noi facevamo la propaganda armata ed è naturale che ci premesse la visibilità di quel che facevamo. Sequestrando il giudice Sossi colpimmo come mai prima anche l'immaginazione della gente.

Avevate già una radice a Genova ?

Ancora non avevamo una colonna, disponevamo soltanto di una base e di alcuni compagni che ci appoggiavano, quanto bastava insomma. La colonna a Genova la costruimmo l'anno successivo, partendo come al solito dai compagni che ci chiamavano. Ci andai io, era un terreno su cui avrei potuto muovermi a occhi chiusi: l'Ansaldo, l'Italsider e, una specificità credo unica, i lavoratori del porto. Genova era una città molto vecchia, a me parve già morente, il primo polo industriale che cominciava a diminuire di popolazione. Era dominata da un Pci con grandissima storia e tradizione. A Genova stare fuori dal Pci voleva dire rompere di brutto con il Pci, non c'erano vie di mezzo. In nessun'altra colonna come a Genova avremmo avuto un rapporto di amore e odio con i militanti di base di quel partito. E praticamente tutte le forme di movimento alternativo confluirono su di noi. Il salto nelle Br fu quasi immediato per compagni come Giuliano Naria33 che lavorava all'Ansaldo, Riccardo Dura, 34 un marittimo che tra un viaggio e l'altro aveva trovato il modo di transitare per Lotta Continua. C'era anche un forte gruppo, di idee e pratiche libertarie, che gravitava in parte sull'università di via Balbi, attorno a Gianfranco Faina.

Quell'anno vedemmo a Genova, su un muro, una scritta curiosa, colta: "Rossi, con te nella notte dove muore la preistoria. " Era vostra o loro ?

Probabilmente era loro. Avevano difeso pubblicamente i compagni del "XXII Ottobre" durante il processo, con un coraggio e un'audacia politica che nessun altro aveva avuto. Quando arrivammo a Genova, anche una parte degli anarchici di via Balbi fecero un pezzo di strada con noi, ma poi ci separammo: dev'essere vero che eravamo degli stalinisti tremendi. Sono rimasto molto amico di Gianfranco Faina, ci stimavamo molto malgrado la

diversità di formazione.

Il 18 aprile 1974 dunque sequestrate Sossi. È una data simbolica, antidemocristiana, a causa della campagna di Fanfani contro il divorzio ?

È la data in cui siamo pronti. Più che al divorzio e al suo significato sociale, pensiamo alla svolta a destra che può produrre il raggruppamento di forze che ne sostiene l'abolizione. Noi facciamo politica, e quando il risultato del referendum dirà che Fanfani può andare a farsi benedire, pensiamo non solo che la coscienza del paese è molto più avanti di quello che immaginano i democristiani, ma che smentisce coloro che ci avevano accusato di favorire, con il sequestro Sossi, un'affermazione delle destre.

E voi invece avevate visto giusto ?

C'è poco da ironizzare. Quell'azione ha di straordinario che parte da un'analisi assolutamente sbagliata ma funziona lo stesso in modo perfetto. Noi lanciammo il sequestro Sossi come attacco allo stato, denunciando come progetto politico dominante il "neogollismo" che punta a una repubblica presidenziale fortemente di destra, e sul quale gravitano personaggi come Sogno e Pacciardi e circoli reazionari, sia nostrani che esteri. Questo scriviamo nel documento diffuso durante l'azione. È un abbaglio clamoroso, quello neogollista è un progetto minoritario che la borghesia abbandona sul nascere. È verso il consociativismo che si sta andando. Ma l'azione funzionerà ugualmente perché va a cogliere un bisogno di radicalità che era proprio del movimento e anche di gran parte dell'opinione di quegli anni. Se non avessimo espresso questo, certi errori grossolani di analisi ci avrebbero tagliato le gambe.

Che cosa rappresenta nella vostra vicenda il sequestro Sossi ?

È la prima grande azione armata contro lo stato e ha un grandissimo effetto. È uno scontro reale, vissuto, visibile, piccolo ma emblematico, con lo stato vero, con la magistratura, con la polizia, con i carabinieri. Affascina molti, ha un'eco straordinaria nella stampa.

Molto più che i sequestri in fabbrica ?

Come mai prima. È con Sossi che conquistiamo il terreno dei media. E poi, in quel sequestro c'è, secondo me, quasi tutto quello che caratterizzerà le azioni future, compresi i limiti. Al centro c'è un'analisi politica, stavolta sbagliata ma altre volte esatta, e il nostro messaggio di sempre: siamo in grado di mettere in scacco lo stato. Intorno, la questione dei prigionieri e l'uso politico della giustizia. È su queste due questioni che si sviluppano scontro e soluzione dello scontro. Quella volta individuiamo bene obiettivo, mezzi e mediazione. Non ci riusciremo sempre.

Spiegati.

Prendete il caso di Macchiarini. È un dirigente di fabbrica conosciuto. Lo prendiamo, lo portiamo in un certo luogo, gli facciamo una fotografia che parla da sé, dice che esiste un gruppo rivoluzionario interno al movimento operaio. Non chiediamo niente. Raggiunto l'effetto simbolico, lo lasciamo libero dopo tre ore. Lo stesso schema funziona con il sequestro Amerio. Dura di più, ma sappiamo dove fermarci, l'azione comincia e finisce quando diciamo noi, la decisione è tutta in mano nostra. Con Sossi invece lo è fino a un certo punto. L'operazione ha successo, ne parla il paese, si discute della magistratura, Sossi, Coco, Catalano, insomma l'effetto di propaganda armata è massimo, il risultato politico è raggiunto. Ma come concluderla? Abbiamo proposto lo scambio con i compagni prigionieri del "XXII

Ottobre", che pensiamo saranno accolti a Cuba o in Algeria. E invece così non è, malgrado l'intervento dell'ambasciatore di Cuba presso il Vaticano. Sossi stesso insiste scrivendo alla Procura. Ma a un certo punto tutto sembra bloccato. Che possiamo fare? Lo teniamo, lo lasciamo, lo giustiziamo? Dobbiamo considerare tutte e tre le possibilità, tutti convinti che la cosa migliore sarebbe rilasciarlo, ma che non possiamo farlo senza ottenere qualcosa. Appena Coco propone: voi rilasciate Sossi e noi ci impegniamo a rivedere la posizione di quei detenuti, subito dopo il rilascio perché non possiamo farlo sotto costrizione, noi accettiamo. Ognuno salva i suoi principi. La mediazione è questa. Se uno dei due si irrigidisce è la guerra.

Ma il sequestro che implica uno scambio è diverso da quello di Macchiarini e Amerio: la

prova di forza è molto più dura.

Non è solo più dura, perché comporta la possibilità di una morte che è una tragedia senza rimedio, ma il meccanismo è più complesso. Nel sequestro ti presenti come soggetto totalmente autonomo, antagonista, irrecuperabile: ma il suo esito non sta tutto nelle tue mani, la soluzione non può avvenire che in una mediazione, quindi è in parte nelle mani di chi rappresenta lo stato. Quello che il tuo nemico decide è determinante almeno quanto quello che decidi tu.

Nel sequestro ti opponi allo stato con i suoi mezzi, quelli che denunci. Gli somigli, l'ostaggio ridotto a niente, la "prigione" del popolo, gli interrogatori.

Eh si, questa è la terminologia che usiamo. Delle Br accetto tutto, anche quel che critico, nel bene come nel male, ma quel linguaggio no. "Nomina sunt consequentia rerum", dice il filosofo, ma quelle parole non ci esprimono, ci falsificano. Non siamo quello. Le abbiamo mutuate dai codici ma non indicano le stesse cose. La prigione dove un nostro sequestrato si trova è materialmente peggio di questa dove da tredici anni mi trovo io, ma la sua condizione è tutt'altra. Sta in mezzo a uno scontro politico, lo sa, se ne parla, se ne discute, può venirne fuori. Noi non segreghiamo nessuno. Prigione del popolo, interrogatorio, processo non esprimono una pratica sociale decente. Ma non abbiamo altri mezzi, né altre parole.

E come ricordi la parte "militare" dell'azione Sossi?

Io non vi ho partecipato personalmente, anche se con i soliti tre facevo parte della Direzione che discuteva dei comunicati, della gestione e in definitiva prendeva le decisioni. Operativamente il sequestro fu simile agli altri che l'avevano preceduto, soltanto era relativamente lontana la base dove tenere Sossi. Da Genova occorreva fare un tragitto non breve. E li avemmo le maggiori difficoltà. Margherita rimase viva per miracolo.

Racconta.

Margherita, sola, doveva precedere a distanza l'auto in cui veniva trasportato Sossi, con un walkie-talkie per segnalare un eventuale posto di blocco. E infatti dalle parti di Tortona incrocia una pattuglia locale, pochi

carabinieri e inesperti. Come al solito il walkie-talkie non funziona, a Margherita non resta che fermarsi e farsi controllare per dare la possibilità alla macchina che la segue di forzare il blocco. Infatti va così, i compagni che guidano la macchina con Sossi vedono Margherita ferma con la polizia e sfrecciano avanti; sono convinti che Margherita sia arrestata, c'erano delle armi sul sedile posteriore. Invece i carabinieri, disorientati dall'auto che forza il blocco, si attaccano al radiotelefono e lasciano andare Margherita senza perquisirla. Lei riparte a tutta birra, cercando di raggiungere i compagni, ma questi, a notte fonda, vedendo due fari che gli corrono dietro pensano che sia la polizia. Non possono tirarsela dietro fino alla base. Si fermano a una svolta, scendono, si appostano tenendo sotto tiro Sossi, e appena compare la macchina di Margherita la crivellano di colpi. E un miracolo che sia rimasta illesa. Si catapulta fuori, si fa riconoscere, i compagni risalgono in macchina con Sossi (chissà cosa gli sarà passato per la mente in quel momento) e Margherita... per Margherita non è ancora finita. I proiettili le hanno bucato una gomma, tira fuori il cric e si cambia da sola la ruota. Quando Piero Bertolazzi, tempo dopo, me lo raccontò, era commosso. Le leggende nascono anche cosi: Margherita che cambia la ruota nel buio, dopo che è successo di tutto, le hanno sparato addosso ed è viva per caso.

Hai riconosciuto che quella vostra prensione del 1974 era sbagliata. Non eravate i soli a pensare che l'Italia sarebbe andata a destra. Lo teme anche Berlinguer. E tutta la sinistra, di movimento e no. Invece le sinistre avanzeranno in tutta Europa. Cadono Franco in Spagna, il salazarismo in Portogallo, i colonnelli in Grecia, e invece del golpe l'Italia diventerà rossa. La discutete questa cosa ?

Certo. Vediamo da una parte crescere un bisogno di cambiamento ma dall'altra una reazione dei poteri. La cosiddetta avanzata delle sinistre non contraddice la nostra analisi, la conferma: è naturale che una spinta al cambiamento si rifletta nel successo elettorale del Pci. Ma prevediamo che quel movimento si scontrerà con la riorganizzazione del capitale in atto. Ci convincono le tesi della Trilaterale. Forse erano sbilanciate, ma non così irrealistiche come ora si vuol fare intendere. Una grande riorganizzazione del capitale multinazionale ci fu.

Ma non in quelle forme. Come si diceva per il 1972-73, sembra che voi siate a lato di

quel che succede nel paese. Come se vi faccia paura la destra e però anche un 'avanzata di sinistra più vasta e meno radicale. Visto da oggi che ne pensi ?

Siamo molto al di là dal temere una destra o preoccuparci dell'avanzare di una sinistra moderata. Siamo sul bordo di uno scontro rivoluzionario che nasce e si alimenta dalla necessità di un cambiamento profondo. Nella radicalità dei comportamenti operai leggiamo una richiesta di potere cui cerchiamo di dare risposta collocando la nostra lotta a livello del potere politico.

Ma andiamo, quale rivoluzione nel 1974... Quella spinta che allora si esprime è molto vasta ma meno radicale e non tutta operaia. La caratterizza anzi il fatto di convogliare altre figure sociali, inabituali a sinistra e tuttavia portatrici di una diversa radicalità.

In quel momento non ci passa neanche per la testa che il problema del cambiamento, in una società moderna, passa dalla capacità di connettere figure sociali diverse. Noi reagiamo alla ristrutturazione capitalistica e al muro che costituisce per la lotta operaia, come ho detto. E nel modo con il quale si riesce a contrastarne gli effetti vediamo anche la questione della democrazia e della sua natura. Non è mai stata nostra l'idea della presa del Palazzo d'Inverno, ma non per questo avevamo abbandonato quella d'un mutamento rivoluzionario, e in questo ci trasciniamo tutti i problemi irrisolti dei comunisti. Insisto che quella spinta lo poneva, lo avrebbe affrontato o sarebbe stata sconfitta. E infatti è andata cosi.

Nel comunicato dell'aprile 1974 affermate che la contraddizione principale è ancora fra maturità operaia e controrivoluzione. Non hai detto che giudicavate la lotta operaia già alle corde ?

Sta perdendo non perché nella fabbrica si è più deboli, perché si è inermi e impotenti sul piano economico e politico generale. Per questo ci spostiamo su quello. Come dicevo prima: facciamo un salto in alto.

Non si può dire che questo salto riuscite a spiegarlo. Colpisce la schematicità dei vostri documenti. Nei primi volantini il linguaggio era violento, cane qui, fascista là, ma era immediato e, a dire il vero, era anche il linguaggio di altri in quegli anni. Perché dopo i documenti politici sono così astratti, enfatici e poco articolati ?

I documenti erano più poveri dell'esperienza che facevamo. Appena era parlata o scritta nel volantino, diventava più stretta, schematica, lontana. Discutevamo sulle virgole, sugli aggettivi, il volantino doveva riflettere una linea tutta comunista e perfettina. Per cui venivano fuori cose impossibili. C'era una gran voglia di esprimerci, ma non abbiamo trovato un linguaggio nostro. Prendemmo quello vecchio e ci ficcammo dentro una pratica che non aveva niente a vedere con esso.

Ci sarà più tardi un solo testo efficace, vero, che parlava come la gente parlava, la dichiarazione di Domenico Jovine, uno dei 61, che esce nell'80 e dice: col cavolo, si, sono un operaio rivoluzionario. Magari te lo sei scordato, sei un capo e la base te la scordi.

Lo ricordo benissimo invece. Siete voi ad avere il mito degli operai. Quel documento fu una produzione collettiva, come quasi tutto quel che scrivevamo.

Com 'è che quella volta avete avuto un lampo di efficacia ?

Perché è scritto in prima persona. Eravamo abituati a esprimerci in astratto, con almeno due citazioni ogni dieci righe, scrivevamo per la storia... l'abbiamo imparato dai comunisti vetero. Quella volta volemmo parlare come un operaio che non si esprimeva a nome delle Br, il partito sacro e ufficiale, ma a suo nome, da solo, come una persona. Spiegava alla fabbrica il perché della sua scelta e perché se ne andava. Ci fu una maggiore libertà mentale. Jovine non fu obbligato a presentarsi con un'analisi globale e un trattato di marxismo.

Insomma, su questo autocritica totale.

Sf. Non spieghi il mondo a partire dal fatto che hai bruciato la macchina ad un capo Fiat, oppure che hai ferito un assessore di Cl del tal quartiere di Roma.

Parlando del sequestro Sossi, insisti sull'importanza della mediazione, anche se simbolica. Però subito dopo, nel giugno, vi si accusa di aver ucciso due missini 35 nella loro sede di Padova. C'è un comunicato in cui rivendicate alle "forze rivoluzionane" il diritto di trarre vendetta sugli stragisti. Susanna Ronconi dice che non fu un'azione decisa dalle Br. Ma anche di recente siete stati condannati per essa. Come andarono

realmente le cose ?

Quando ci sono responsabilità penali è difficile districarsi tra verità storica, voglia di non finire in galera e preoccupazione di non mandarci qualcun altro. Quel che so è che la nostra linea prevedeva anche azioni contro i fascisti. Le avevamo fatte sin dall'inizio, soprattutto nei quartieri; già nel 1972 a Milano, a Quarto Oggiaro, prelevammo l'auto di uno dei capi squadristi che passavano il tempo ad aggredire i compagni del centro sociale, la portammo in un immondezzaio e la facemmo saltare in aria. Così quando i compagni del Veneto ci dissero che volevano perquisire con le armi la sede del Msi di Padova, demmo l'assenso. Non era una gran proposta, ma altre brigate facevano azioni del genere per qualificarsi in una fase iniziale. L'azione andò male. Nell'entrare, un compagno rimase isolato, venne assalito dai due missini presenti e sopraffatto. Quando sopraggiunse il secondo compagno, inesperto e agitato, sparò e li uccise entrambi.

Non era un agguato, insomma ?

No di certo. Il punto è un altro. Non era mai morto nessuno nelle nostre azioni, ma chiunque non stesse nelle nuvole sapeva che poteva succedere, e avrebbe modificato la nostra collocazione. E malauguratamente con Padova là ci trovavamo. Ne discutemmo. Considerai un opportunismo intollerabile far fìnta di niente. È pericoloso: cullarsi nell'illusione che stessimo spensieratamente giocando una partita della quale non sapevamo valutare le conseguenze. Cambiammo il volantino proposto dalla colonna del Veneto e rivendicammo l'azione spiegando quel che era avvenuto. Non è che la lotta armata ci stava prendendo la mano, si manifestava per quello che è: una lotta dove si muore. Negli anni successivi sospendemmo ogni attività nel Veneto e ci ritornammo soltanto nel '78, quando ci andarono Vincenzo Guagliardo36 e Nadia Ponti.37 Nadia Mantovani era già in galera, se non ricordo male, o era andata altrove.

Queir estate il nucleo antiterrorismo di Dalla Chiesa vi stringe

dappresso. Scoprono la base di Robbiano di Mediglia -è una perdita grave?

Robbiano è stato un duro colpo, ma ne avevamo avuti altri. Il primo clandestino arrestato, dopo che ci eravamo dati regole precise, è stato

Maurizio Ferrari a Firenze nel maggio '74. Sembra incredibile ma è ancora in galera dopo quasi vent'anni ed è evidente che non è per quel che ha fatto. Fin dall'inizio ha assunto un atteggiamento politico molto rigido, ma è assurda una carcerazione così lunga che non ha più senso. Tutti i compagni che sono in carcere lo sono ormai, a mio avviso, contro ogni ragionevolezza. Nel caso di Ferrari siamo nell'assurdo.

Forse così facendo conferma una identità ?

Se la mia identità di comunista fosse garantita dal fatto che mi tengono in galera, sarebbe solo negativa. Bisogna battersi per uscirne. E guardare positivamente a una riconsiderazione della nostra storia e alla possibilità di riacquistare la libertà. Ci sarà pure un modo di ricostruire anche impietosamente la nostra vicenda senza doverla rinnegare, senza dissociarsene o buttarla in blocco alle ortiche.

Il colpo più duro lo subite l'8 settembre, con l'arresto, fuori Pine-rolo, di Curcio e Franceschini. Stavolta è una denuncia, quella di Silvano Girotto, frate Mitra. Come si era infiltrato f Tu sostieni che foste sempre molto attenti.

Frate serpente, come chiamammo Girotto, era stato lanciato dal settimanale "Il Borghese" come 1111 gran guerrigliero reduce dall'America Latina. Suonava strano, ma non avevamo elementi per sospettarlo, stava facendo il giro di tutti gii ambienti di sinistra accolto con molto credito. Chiese un contatto con noi attraverso un partigiano di cui ci fidavamo. Lo incontrò un paio di volte Curcio, per inserirlo eventualmente nel fronte logistico in via di costituzione. Ne riferi al Nazionale non negativamente ma un poco perplesso. Perplessi restammo tutti e decidemmo che all'incontro successivo andassi anche io. Rimasero le perplessità. Stavamo derogando da una regola ferrea: nelle Br si arrivava dopo una militanza nel movimento, sperimentata e verificata. Per Girotto non poteva essere cosi. Decidemmo di essere rigidissimi almeno sulla compartimentazione. A lui non dicemmo niente ma stabilimmo che avrebbe lavorato in contatto soltanto con Curcio in una struttura periferica, alla cascina Spiotta nei pressi di Asti, che poi sarebbe diventata famosa per altre ragioni, vi morirà Margherita. Non si arrivò mai a questo stadio del suo inserimento, venne scoperto subito dopo che fece arrestare i due compagni.

Che significa la perdita di Curcio e Franceschini per la vostra struttura ?

Sono due compagni importanti: la nostra linea si fa in gran parte sul campo, e avere certi compagni oppure no non è davvero indifferente. Sarà il problema per tutti gli anni a venire: appena si forma una direzione di compagni che hanno esperienza politica, e anche militare, la repressione ce li porta via. E si deve ricominciare da capo. Se si esclude me, uno dei più longevi nelle Br, nessuno è rimasto fuori dall'inizio alla fine.

Ti si accusa di non aver fatto il necessario per avvertire Curcio che era in pericolo.

Uno solo lo fa ed è il dissociato Alberto Franceschini, e magari mi accusasse apertamente. Allude, fa intendere, a-dombra sospetti. Ma la storia di quell'arresto è sempre stata chiarissima all'organizzazione. Ed è chiarissima.

Come sono andate le cose ?

Il giorno prima dell'arresto, era un sabato, Curcio, Franceschini ed io teniamo una riunione del Nazionale in una base a Parma. Margherita si era tolta dal Nazionale, restavamo in tre, Curcio che rappresentava la colonna di Torino, io quella di Milano e Franceschini che, oltre al fronte della controrivoluzione, rappresentava il lavoro iniziato a Roma, e infatti era venuto da Roma. Terminiamo nel tardo pomeriggio. Io me vado per primo, tornando a Milano. Curcio mi dice che resterà a dormire a Parma per andare a Pinero-lo la mattina dopo a incontrare Girotto. Franceschini ripartirà per Roma la stessa sera. Arrivo a Milano e trovo ad aspettarmi Attilio Casale tu, "Nanni",38 che mi fa: guarda, attraverso un giro un po' lungo è arrivata la notizia che un compagno di Torino ha ricevuto una telefonata anonima39 in cui si avverte che domenica Curcio verrà arrestato a Pinerolo. Cristo santo, io so che è vero, domani Curcio va a Pinerolo. Ma perché dovrebbe essere arrestato? Che è successo?

Non sapeste subito chi era stato a ricevere la telefonata e avvertirvi ?

Non capimmo chi potesse essere, certo non uno dei più vicini che ci potevano raggiungere facilmente. Ma non importava, contava l'avvertimento. Risalgo in macchina e con Nanni mi precipito a Parma dove

Curcio, tre ore prima, mi aveva detto che sarebbe rimasto la notte. Arriviamo un po' dopo le dieci, non ho le chiavi, non è una base della colonna di Milano, suono il campanello, non funziona. Dobbiamo avvertirlo assolutamente, cerchiamo di farci sentire, ma la casa non ha finestre sul davanti e non possiamo metterci a urlare in piena notte davanti a una base. Nessuno ci sente. Ma non può sfuggirci, dovrà uscire molto presto per andare a Pinerolo, ci mettiamo in macchina davanti al portone e aspettiamo. Dopo qualche tempo ci viene in mente che, se nessuno risponde, è forse perché Curcio ha cambiato idea e se ne è andato a Torino, nella base dove sta con Margherita. Io quella base non saprei trovarla neanche se mi ci portassero davanti, c'ero stato una volta sola per una riunione d'emergenza, ed è abitudine di clandestini non memorizzare quel che può nuocere alla compartimentazione: la sola cosa che non potrai mai dire è quella che non sai. Neppure "Nanni" conosce quella base. Nelle poche ore che rimangono non possiamo far niente per arrivarci. Rimaniamo a Parma fino all'alba e quando siamo certi che Curcio li non c'è andiamo sulla strada per Pinerolo, separandoci sui due percorsi che portano a quella cittadina, e ci mettiamo sul bordo della strada sperando che Curcio ci noti mentre passa. Non è un granché, è quasi impossibile che funzioni, ma non possiamo fare altro. Non lo vediamo. E dopo un'ora non resta che andarcene: o ha saltato l'appuntamento o ha fatto un'altra strada, e in questo caso la frittata è fatta. Tutto qui. Anche a distanza di anni, non riesco a vedere che altro potessimo fare, Nanni ed io, quella notte, passata tra corse trafelate, serenate sotto le finestre e patetici appostamenti sulla via di Pinerolo.

È Franceschini che ti accusa. Era in auto con Curcio ed è stato arrestato con lui.

Franceschini non avrebbe dovuto essere su quella macchina, avrebbe dovuto ripartire per Roma ed esserci già arrivato. Nessuno gli chiese mai, né allora né in seguito, perché invece che a Roma andò a Torino. Le Br sono state molto rispettose delle questioni personali. Ma è lui che avrebbe dovuto spiegare all'organizzazione che faceva da quelle parti invece che a ottocento chilometri di distanza.

Ma perché ti sospetta ?

Ma quali sospetti. Franceschini ha ormai fatto un mestiere della dissociazione e delle insinuazioni contro le Br. Ha un rapporto contorto con se stesso e la verità. Quella sera non è andato a Roma, per una ragione personale, credo pulita, frequente fra i comuni mortali. Quando trovo Margherita alla cascina Spiotta, dove vado subito dopo l'inutile appostamento, è lei che mi dice: guarda che a Pinerolo non è andato solo Renato, c'è andato anche Alberto, poi dovevano venir qui tutti e due. Sono un po' sorpreso ma lei e io non dobbiamo spiegarci niente. Nei giorni successivi dovemmo concentrarci sullo sconquasso provocato dall'arresto. Nessuno cerea giustificazioni, nessuno recrimina, nessuno cerca di imbrogliare. Margherita ha la durezza, la tenacia di chi ha fatto scelte come la nostra. Ma è una donna, e le donne hanno la fortuna di saper piangere quando ci vuole. Ha pianto solo un momento.

Chi poteva aver avvertito quel vostro amico di Torino che slavano per arrestare Curcio ?

Non lo so. È l'unico mistero di tutta la storia delle Br che né io né altri ci sappiamo spiegare. Non c'è riuscita neppure la procura di Torino, che ha aperto un'inchiesta senza venire a capo di nulla. O almeno non l'hanno mai detto. Chi sapeva del tentativo di infiltrazione di Girotto per mandato di Dalla Chiesa? E dell'operazione che sarebbe scattata a Pinerolo? I carabinieri. I magistrati che si occupavano di noi. Forse qualcuno del giro incaricato di creare la falsa immagine del frate guerrigliero. A far trapelare la voce fu probabilmente qualcuno che simpatizzava con noi fra i magistrati, difficile immaginarlo fra i carabinieri.

Ne discuteste?

Ci volle qualche giorno per aver la certezza che la spiata l'aveva fatta Girotto. Il quale chiese un incontro facendo l'offeso; ci riprovava, incredibile. Gli fissammo un appuntamento a Torino per vedere che succedeva e a un semplice controllo constatammo che la zona brulicava di polizia. Solo allora lo denunciammo come spia con un volantino. Fino ad allora quelli che lo avevano accolto a braccia aperte erano stati zitti. Come noi s'erano bevuta la storiella dell'ex guerrigliero.

Da allora ad oggi esce ogni tanto su di te come un sospetto, detto e non detto, echeggiato

soltanto da alcuni media e dalle costruzioni di parte comunista dopo il caso Moro. Ma come spieghi che nasca fra tuoi compagni ?

Non scambiate Franceschini per l'insieme dei miei compagni delle Br. Mi conoscono fin troppo bene per quel che sono, e non uno è sfiorato da qualche dubbio, neppure quelli cui sono antipatico. Mi considerano un brigatista doc proprio tutti, pentiti, dissociati, irriducibili e persino gli innocenti. Dovrebbero replicare a chi mi getta addosso insulti così pesanti? Non so. Il problema non è che tacciono su di me, ma che tacciono su di sé, sulla loro storia. Questa è la cosa grave. Migliaia di compagni hanno tacitato la memoria, cancellato i significati di un intero periodo della loro vita. Significati che non sono solo loro, appartengono a una vicenda che ha segnato oltre un decennio del paese.

CAPITOLO IV

Lo stato è il nostro nemico (1974-1977)

Quando arrestano Curcio e Franceschini, chi resta dei vecchi dirigenti ?

In sostanza Margherita ed io che ci intendiamo benissimo. Per prima cosa occorre ricostruire un gruppo di direzione. Non ci sono state cadute a catena come dopo via Boiardo, ma è grave perdere i compagni di più lunga esperienza, che sono sempre un elemento di equilibrio anche nelle diversità. Dal 1974 in poi la polizia non ci darà pace: ci toccherà di ricostituire il gruppo dirigente più o meno ogni sei mesi. Non è facile, ci vorrebbero tempo e possibilità di sperimentare, proprio quel che ci manca. Inoltre quando cadono i responsabili d'una colonna, non solo ci troviamo in quattro di meno, ma per mesi non si riesce a metter insieme uno straccio di discussione sensata. C'è paura o incertezza o esasperazione in chi rimane, e le posizioni tendono a divaricarsi.

È stato così anche quella volta ?

Certo. Era una botta grossa. C'è chi pensa che ormai non resta altro che colpire gli apparati della controrivoluzione e chi, come me, dalle fabbriche non intende muoversi d'un millimetro. Ho capito più tardi quanta

attenzione e pazienza ci vuole per dare modo a ciascuno di vincere l'angoscia, comprensibile, e distinguere fra quel che va deciso subito e quel che va lasciato maturare domani. Allora è Margherita che ha un colpo di genio, con la sua speciale intelligenza delle persone e il suo pragmatismo: "Liberiamo un compagno dal carcere", propone. È un'idea che mette tutti d'accordo e lascia impregiudicate le scelte di linea. Quanto al compagno da liberare, non è diffìcile decidere. Dev'essere il più utile all'organizzazione e anche un suo simbolo. Sarà evidentemente Curcio.

È stata un'impresa ?

Be', si tratta di assaltare un piccolo carcere, a Casale Monferrato, ma pur sempre una struttura militare. Non lo avevamo mai fatto. A me preme che i compagni sappiano che, se va male, va in briciole quel che è rimasto della direzione: se ne sono consapevoli, accada quel che accada, chi resta ricomincerà. Margherita è la sola a capirlo, è la più decisa ed è fuori dalle polemiche. All'azione partecipano in molti, fra gli altri Pierluigi Zuffada,40 Tonino Paroli,41 Rocco Micaletto, oltre Margherita e me. Abbiamo una mappa del carcere: si tratta di entrare dal portone di ingresso con la scusa di un pacco da lasciare a un detenuto e occupare prima la portineria e poi l'armeria a fianco. Pare che i cancelli che portano alle celle siano quasi sempre aperti. Prima vanno tagliati i fili del telefono che corrono lungo il muro esterno, e lo fa Zuffada con una scala che ci siamo portati dietro. Margherita è una perfetta moglie con pacco, la guardia apre il portone e i compagni appostati a lato dello spioncino irrompono e occupano l'androne. Io resto fuori e accosto il portone in modo che dalla strada non si veda quel che succede dentro. Ma sento delle urla, non è andata liscia: e infatti siamo piombati sul cambio di turno delle guardie, la mappa è sbagliata, dove dovrebbe esserci l'armeria c'è lo stanzino dove si fanno il caffè, al posto della camerata c'è un gabinetto. Le informazioni venivano dall'avvocato Edoardo di Giovanni, che a Casale era andato molte volte. Grande compagno, Edoardo, ci ha aiutato nelle nostre infinite vicissitudini legali e non ci ha mai lasciati soli. Ma come guerrigliero sarebbe stato un disastro. Per fortuna le guardie sono colte di sorpresa, i compagni le tengono sotto controllo, ma non si trovano le chiavi del cancello che porta alle celle: urlano tutti, specie le guardie che, braccia alzate e faccia al muro,

gridano al collega di non fare il fesso e aprire immediatamente. Ma lui è paralizzato. La confusione è al massimo, stiamo perdendo tempo, può passare una pattuglia. Entro e vedo, accostando dal di dentro, che le chiavi pendono dalla serratura: le ha lasciate la guardia quando siamo entrati e non è che facesse il duro, era terrorizzato. Da quel momento tutto diventa rapidissimo, si apre il cancello, Curcio esce di corsa, sale nell'auto che gli indichiamo, ci defiliamo per vie di fuga diverse, chi verso Milano e chi verso Torino. Ci rivedremo fra qualche giorno.

Quando Curcio torna in libertà vi capite?

Con Curcio lo sforzo di intendersi ha funzionato sempre. Non chiedetemi come, ma sul fondo ci siamo sempre capiti. Non è vero che avessimo linee diverse. Avevamo propensioni diverse, dissensi anche caratteriali, di formazione, nel modo di vedere le cose, del peso da dare nell'immediato a questa o quella. Quella volta, appena libero lo informiamo della discussione e ci mette un attimo a capire. Andrà a Milano, dove un ricercato del suo calibro si può muovere con meno difficoltà che altrove, e lavorerà sulle fabbriche, in particolare sull'Alfa Romeo. Dove si renderà conto come sul versante operaio le cose stiano cambiando rapidamente e non in meglio. A Genova, dove vado io a organizzare una colonna, incontro le stesse difficoltà, ne discuterò con Curcio. Curcio non avrà tempo di trovare grandi risposte perché verrà arrestato di nuovo. È stato in libertà meno di un anno.

È da allora che prima di ogni altra cosa puntate a liberare i prigionieri ?

Diventa sicuramente un obiettivo di fondo, anche perché la quantità degli arrestati cresce. Alla fine i rapporti saranno invertiti, poche decine di noi in libertà e molte centinaia in prigione. Molte delle considerazioni che ci indussero a continuare erano legate a questo: i compagni prigionieri non si abbandonano.

Nell'aprile del 1975 diffondete una Risoluzione strategica nella quale vi ridefinite: costruire il Partito combattente in presenza d'un movimento di classe, antagonista ma non "maturo e di operare per "disarticolare " lo stato, che è un 'appendice dello Stato Imperialista delle Multinazionali e punta a reprimere questa spinta o riassorbirla

tramite il Pci del "compromesso storico". È cosi? È una analisi unitaria ?

È il risultato della Direzione strategica che si riunisce appena Curcio è tratto dal carcere. È un buon punto di convergenza fra la tendenza che vedeva al centro la lotta nelle fabbriche e quella che privilegiava l'attacco allo stato. Non era un contrasto incomponibile: individuare il nemico nello Stato Imperialista delle Multinazionali spostava l'orizzonte della lotta dalla singola fabbrica, ma confermava come soggetto antagonista gli operai delle grandi fabbriche. Che cosa ne derivasse, come andare alle azioni contro lo stato senza perdere una presenza concreta fabbrica per fabbrica, restava in gran parte da vedere - è un nodo che non abbiamo mai sciolto, credo, perché non si poteva sciogliere, toccava un limite intrinseco della lotta armata.

Nella Risoluzione definite o ridefinite il Pci ?

Del Pci del compromesso storico diamo una definizione diversa da prima. Ai nostri occhi era stato un grosso Partito democratico che mirava per via opposta al nostro stesso scopo. Ma ora era diventato - scrivemmo - il partito che riduceva gli interessi della classe operaia a quelli dello stato. Giudizio massimalista? Forse. Ma sarebbe stato meglio prenderlo sul serio, avremmo evitato molti errori.

Quella Risoluzione indica che avete raggiunto un compromesso o è davvero unitaria ?

È davvero unitaria. Fissa anche un altro punto fermo: il Partito comunista combattente è il nucleo strategico del movimento di classe. Niente di nuovo, è tradizionale per i comunisti che il partito sia la testa. Solo che a "partito" noi aggiungiamo "combattente" ed è tutt'altra cosa.

In quella circostanza definite anche le vostre strutture?

No. Sei o sette mesi dopo diffondiamo un altro documento, che aveva avuto una gestazione molto lunga, sulla struttura organizzativa: le brigate di fabbrica e di quartiere, le colonne guerrigliere, i fronti di combattimento. Una summa dell'esperienza e dei saperi che ci eravamo fatti nella .clandestinità, e non era poco. Diventerà una specie di vangelo per i nostri militanti, ai quali era chiaro quel che eravamo quanto pareva oscuro

all'esterno. Molti anni dopo, a chi mi chiedeva cosa diavolo fossero le Br, rispondevo: leggete quel documento, è tutto scritto li quel che siamo, non rompetevi la testa. Una volta mi divertiva. Adesso assai meno.

Strutturati, ma sempre pochi?

Sempre pochi, sempre capaci di riprodurci. Dopo ogni legnata invece di finire stesi per sempre, cresciamo da qualche altra parte. Ce le danno a via Boiardo nel '72 a Milano? Ricostruiamo a Milano e ci insediamo a Torino. Prendiamo una gran botta nel '74 per la spiata di Girotto? Si forma la colonna di Genova, e sarà una delle più forti. Nel '75 falliamo il primo sequestro per autofìnanziarci e, perché la catastrofe sia completa, nell'azione muore Margherita? Costruiamo la colonna di Roma.

Quanti eravate per colonna ?

I clandestini non sono mai stati molti, qualche decina per colonna al massimo. Molto maggiore la rete dei compagni legali, e soprattutto erano nei posti giusti. Alle riunioni della Direzione strategica, che io ricordi, non c'erano mai più di 15 persone. Penso che la più numerosa sia stata quella che ha preceduto l'operazione Moro, dove c'era la maggior parte dei dirigenti. Difficilmente venivano più di tre compagni per colonna, sia per ragioni organizzative sia perché non era necessario. La Direzione era un po' la sintesi d'una esperienza o discussione che andava avanti da mesi e perlopiù sanciva una linea già operante.

In quegli stessi mesi nel paese avanza un 'ondata di sinistra, elettorale, di cultura e opinione - fra l'altro tutta contro la legge Reale e il blocco d 'ordine - che alle amministrative fa diventare rossi i comuni di Roma, Milano, Torino, Genova, Venezia, Napoli, Bari... Di questo nella Risoluzione non c'è cenno.

Non vediamo nessuna contraddizione fra crescita elettorale della sinistra e maturare d'un cambiamento rivoluzionario.

Ma non è un 'ondata rivoluzionaria. Non è neanche "anticapitalistica”. Vorrebbe una maggior partecipazione, un'altra democrazia, più autogovernata. E battere la Dc, avere un governo di sinistra.

E vi pare poco? Cacciare la Dc all'opposizione è in Italia una rivoluzione. La Dc è il perno del sistema politico, se cade si scardinano gli equilibri e gli interessi che ci hanno dominato. Anche i riflessi internazionali sono non da poco. Tutti i muri eretti in Europa dopo il '45 sono saldamente in piedi, non uno che mostri una crepa: un cambiamento del genere provocherebbe uno scontro violentissimo.

Ecco di nuovo un 'analisi identica a quella del Pci. Vi credete nel 1945, per dedurne o che non c'è niente da fare o che bisogna impugnare le armi. A prender sul serio questo scenario, appare più ragionevole la prima ipotesi.

Ci crediamo a metà degli anni '70 invece, con una Dc che è ancora fra i gruppi forti del fronte imperialista, la Dc ancora il partito stato, partito regime. Impossibile immaginare allora un qualunque cambiamento del paese senza un crollo della Dc, né un crollo della Dc senza una crescita rivoluzionaria. No, non era più ragionevole la decisione di Berlinguer di allearsi con la Dc, con la lotta armata noi volevamo esattamente quello che il Pci temeva. Ma il Pci un cambiamento vero non lo determinerà mai. Avremo molti torti, ma ammetterete che su questo non ci sbagliavamo. Un cambiamento radicale l'avrebbe garantito soltanto una forza organizzata, autonoma, alternativa al puro ambito parlamentare. La partita vera si sta giocando fuori. Gli spostamenti elettorali contano, ma sono secondari.

Intanto questa sinistra si troverà con le spalle al muro fra guerriglia e repressione, fra le Br e quello stato. Mentre tutta l'Italia brinda alla vittoria elettorale, andate a ferire a Milano il deputato Dc Massimo de Carolis...

Eppure queste azioni non ci isolano. Anzi. Cresciamo, ci siamo e ci rimarremo per anni.

Crescete come organizzazione, ma siete sempre più minoritari nel movimento. Puoi dire che ne aveste mai la direzione ?

No, è vero. Ma bisogna intendersi se si parla di minoranza e di direzione. Chi ha la direzione del movimento reale tra il '75 e il '77? Nessuno. Non è inquadrabile nelle categorie note, i suoi comportamenti sono radicali e non riconducibili alla tradizione. Molti se la cavano con la definizione di "proletariato metropolitano antagonista", una gran bella espressione che

non vuol dire niente, è un contenitore dove puoi mettere o trovare di tutto. Noi ci mettiamo la strategia della lotta armata, che ha il centro di gravità nell'unità delle avanguardie nel Partito comunista combattente. Non riusciremo ad andare oltre.

Molti fra voi pensano che in quel periodo vi siete divisi sulla linea da tenere.

Bada che questa è una ricostruzione ex post. Da un certo momento, tardi, negli anni '80, la storia delle Br comincia ad apparire come una vicenda segnata da diverse individualità e itinerari personali. A mio avviso non è stato cosi. La nostra forza era straordinaria perché avevamo una linea comune, una sola e da tutti condivisa.

Era la tua ?

Era quella delle Br.

Ci torneremo allora. Ma il punto cui anche tu accenni è che nella seconda metà degli anni '70 le figure sociali radicali non sarebbero più gli operai, ma i giovani, operai e studenti nei quartieri. Figure come Walter A lasia, che alcuni di voi non avrebbero voluto o potuto capire.

Walter era un compagno molto giovane, quasi un ragazzino, con un'intelligenza non comune delle tensioni sociali di quegli anni. Veniva da una famiglia di operai di Sesto San Giovanni, gente del Pci. Erano un mucchio i ragazzi della sua età e della sua provenienza che ci giravano attorno. E anche se erano studenti, tendevano a prender subito un punto di vista rigidamente operaio. Per Walter era ancora più naturale, vista la sua origine. Non so davvero se rappresenti quella leva giovanile dei quartieri che si andava formando fuori dalle fabbriche. Io non l'ho mai percepito cosi.

L'hai conosciuto bene?

Si, l'ho conosciuto bene. Li conoscevo quasi tutti, i compagni. Fu finito dalla polizia. Noi avevano definito le regole dei comportamenti politici, non ancora quelle operative, e in quel periodo capitò ai compagni più giovani di affrontare, in circostanze diverse, scontri a fuoco sanguinosi, tragici per

loro e per gli altri. Toccò a Fabrizio Pelli a Padova dove restarono uccisi due missini, toccò a Robertino Ognibene che ferito, prima di essere catturato, riuscì a sparare e uccise il maresciallo dei carabinieri Maritano. E toccò a Walter. La polizia lo aveva individuato come Br, ma non sapeva che ruolo avesse: viveva in parte nella legalità, andava in casa dei suoi, poteva parere uno studente. La polizia lo sorprese in quella casa durante una perquisizione del caseggiato, che avevano circondato con grande spiegamento di forze.

Walter cercò di fuggire quando si vide entrare gli agenti in camera, aveva la pistola, sparò e ne colpi due, uccidendoli, poi si calò dalla finestra. Ma era ferito, la sua corsa fini sul prato di un giardinetto li davanti, non riuscì più a muoversi, i poliziotti lo raggiunsero e non provarono neppure ad arrestarlo, spararono una raffica e lo finirono. "Si, gli abbiamo sparato sul posto. Neanche voi scherzavate, aveva appena ammazzato due colleghi. Questa è la guerra, signori." Così mi disse uno di loro che era là quel giorno e anni dopo arrestò me. Io ho avuto più fortuna, quando mi son trovato in situazioni analoghe, ed è successo più d'una volta. L'esperienza mi ha insegnato che non tutto era inevitabile come allora sembrava. I compagni più giovani andavano subito allo scontro, per loro la lotta era armata o non era, avevano saltato a piò pari l'esperienza precedente. Fu una grande tristezza la morte di Walter. Meritava un'altra occasione, meritava di vivere in un altro modo quel suo straordinario impegno.

Curcio pensa che si sentiva isolato nelle Br, e ne morì.

Spero che voglia intendere altra cosa. Le Br hanno molte responsabilità ma questa proprio no. Non è vero che c'era nelle Br un coté movimentista che sarebbe stato prima ignorato e poi soffocato dalla perfida tendenza militarista. Curcio dirigeva la colonna di Milano, quando alcuni compagni che esprimevano tesi più vicine a quelle dell'autonomia che a quelle delle Br, furono invitati senza tanti complimenti ad andarsene altrove a verificarle. Erano Corrado Alunni e Fabrizio Pelli della colonna di Milano che insieme a Susanna Ronconi fondarono poi le Formazioni Comuniste Combattenti. Io ero allora a Genova e mi rincrebbe molto che a Milano non si fosse fatto lo sforzo di recuperare quel dissenso. Bicio e Corrado erano compagni della prima ora, li conosco da prima della lotta armata,

pare impossibile che non si sia trovato un punto di accordo. La verità è che sulla teoria del Partito combattente le Br erano rigide, tutte e in tutti. E lo resteranno negli anni a venire. Chi parlava di nuovi soggetti sociali e di organizzazione diffusa andava in Prima Linea. Con risultati non diversi, si sa come andò a finire per tutti.

Vuoi dire che poi finirono tutti in lotta armata e non altro? Non è che alcuni di voi puntaste a una "militarizzazione dello scontro "?

Ma non siamo noi a decidere che lo scontro abbia forme più pesanti. Le ha. Si muore in questa lotta, muore Walter, muore Margherita. Siamo un piccolo esercito che ha ormai i suoi caduti. Non è da questo che viene il mutamento.

Ma c'è un mutamento. Come lo definiresti tu? E come avviene?

Posso dire quando avviene: durante il processo torinese alle Br che comincia nel maggio '76 e durerà per quasi due anni. Lo stato fa per la prima volta un uso politico in grande stile del processo e i compagni nelle gabbie rispondono con il "processo guerriglia". Da quel momento c'è, è vero, un pericolo di auto referenziali tà delle nostre azioni estreme: processano le avanguardie? Se le avanguardie rispondono colpo su colpo, saranno alla testa del movimento. Questo modo di ragionare ha un pericolo di solipsismo.

C'è una soluzione di continuità con quel che eravate stati fino ad allora ?

Non esattamente. Non è che avvenga un cambiamento genetico. La nostra radice rimane immutata. Siamo sempre le stesse persone, gli stessi compagni, gli stessi maledetti operai. E ci chiamano da tutte le parti proprio perché attacchiamo lo stato, non perché facciamo o proponiamo di fare qualcosa d'altro. È vero che da allora non saremo più l'espressione diretta, acuta, antagonista, di questo o quel conflitto sociale specifico, ma questa è una conseguenza alla nuova collocazione delle Br e che sembrava a tutti il superamento dei limiti precedenti, quindi una buona cosa. Quando però altri ci chiedono che cosa fare, spesso non sappiamo cosa rispondere, se non: aggregatevi a noi. Come collegare una strategia di lotta armata a spinte che avrebbero altri tempi, altri modi? Ecco dove falliamo. Non saremo mai

in grado di dirigere un processo di classe articolato. È un limite grosso. Non per questo eravamo fuori dal movimento, o c'era qualcun altro capace di dargli una direzione.

Non ammetti un vero e proprio errore ?

Dico che in quegli anni ci modifichiamo, ma non perché cambino le persone o la linea, ma perché cambia la situazione. È lo stato del movimento e la forza della repressione che ci inducono a diventare le Br che conosciamo. Ma provate a vederla con gli occhi di chi sente che c'è un riflusso ma non vuole chiudere!

Nelle notizie di "Progetto Memoria " è scritto che "nel 1976 non senza conseguenze nel dibattito interno, il fronte delle grandi fabbriche viene sussunto all'interno del fronte della lotta alla controrivoluzioneIn parole povere, che lasciate le fabbriche per spostarvi sugli attentati ?

Questa è una sciocchezza. E che in quell'anno lavoriamo non più solo nelle grandi fabbriche e nei quartieri operai del nord. Per esempio, a Roma abbiamo una brigata di fabbrica a Pomezia, ma ne abbiamo anche tra i lavoratori dei servizi, alla Sip, negli ospedali, al Policlinico, per non parlare delle brigate di quartiere, al Tiburtino, a Centocelle, a Primavalle. Investiamo segmenti sociali più articolati, siamo diffusi sul territorio in mezza Italia, dal Veneto alla Toscana, dal Piemonte alle Marche, dalla Lombardia alla Liguria. Solo al Sud non siamo e non andremo mai. Quel documento ne prende atto, non scioglie un bel niente. Figuratevi se andiamo a diminuire le brigate delle fabbriche. Piuttosto sollecitiamo tutta l'organizzazione al lavoro di massa, nessuno ne sarà esentato, neppure quelli che lavorano nel fronte logistico che per sua natura è il più interno e compartimenta-to. Già nel '76 una base clandestina è nient'altro che la casa di un compagno, spesso con famiglia, che la mette a disposizione dei militanti clandestini. E questo senza un lavoro di radicamento tra la gente non lo ottieni. Non ci fu alcun equivoco. Forse non capirono alcuni compagni in prigione che avevano in mente gli albori della lotta armata, e le Br del Nord.

È detto anche: "È una vera e propria seconda fondazione delle Br in seguito alla quale

tutti i comparti e tutte le attività dell'organizzazione vengono ripensati entro lo schema di un impostazione che mette al centro l'attacco al cuore dello stato."

È una valutazione che ritengo errata. Legittima, naturalmente, anche se "seconda fondazione" sembra dire che da quel momento qualcuno dei "padri fondatori" usciva dalle Br. Se è così doveva essere più esplicito, né io né altri ce ne siamo accorti.

Ma la fabbrica non è più al centro del vostro agire, no?

Ha un peso diverso da quel che aveva nel '72, nessuno più di me lo sa, ma perché la controrivoluzione è passata come un rullo compressore nelle fabbriche prima che altrove. È per questo che sembra inevitabile, ma proprio a tutti, di andare all'attacco fuori per mantenere l'offensiva. Non fu una scelta organizza ti vista. Fu l'unica scelta politica che ci permise di fare per molti anni quel che era nelle possibilità della lotta armata. Meglio sarebbe discutere sulle reali possibilità che aveva fin da principio una lotta armata, e ancora più su quelle che non poteva avere... piuttosto che riscrivere la nostra vicenda come se qualcuno l'avesse rimessa in causa nel 1976.

Allora non ne discuteste? Fra la scelta di lavorare sugli operai o altri soggetti, sul sociale o nello scontro con lo stato ?

Ho già detto che sentivamo come ormai gli operai, sul luogo di produzione, non avrebbero spuntato più nulla. La propaganda armata in fabbrica stava girando a vuoto. A Genova la prima azione di una certa consistenza fu la copia esatta della prima azione di Milano, il rapimento per poche ore di Idalgo Macchiarini. Stavolta toccò a un ingegnere dell'Ansaldo, Vincenzo Casabona. Venne preso sotto casa, caricato sul solito furgone, interrogato e rilasciato in perfetta salute. L'effetto politico fu il solito, molto clamore, tanta simpatia da parte degli operai, molto credito fra i compagni più combattivi, l'organizzazione crebbe un po'. Ma in fabbrica non si mordeva più, incombeva un senso di sconfitta, non bastava l'azione armata a dissiparlo. Non cresce nessuna alternativa di potere in fabbrica, mentre cresce la milita

lo

rizzazione del territorio, il controllo della polizia nei quartieri. C'è stato un momento in cui s'è detto: basta, non ha senso continuare a colpire 1 capi, le dinamiche che contano sono fuori. Lo abbiamo detto e tuttavia fino all'ultimo giorno della nostra esistenza proporremo la lotta armata in fabbrica, a Milano a Marghera a Torino. Siamo come pesci che se abbandonassero il mare morirebbero subito, ma quel mare, che era stato così ricco e vitale, è diventato stagnante e inquinato.

Sta di fatto che dal '69 fino al '72-73 siete un'avanguardia estremista ma dentro la classe operaia, diversamente da ogni altro gruppo armato in Europa. Dopo diventate come gli altri.

Non più stretti nella dinamica della fabbrica.

Neanche in una dinamica più larga.

Diversa. Se l'alternativa dipende dal mutare degli equilibri nello stato, è chiaro che nei nostri ragionamenti pesano di più i discorsi che si fanno a Roma, i progetti e processi politici al centro, gli accordi e scontri fra i partiti. Questi diventano gli elementi di valutazione. E questo ci induce a costruire finalmente una colonna a Roma. Ci andiamo nel 1975.

E perché lo stato starebbe a Roma ? Lo stato ha un luogo ? O è lo stesso che il governo ?

Che cosa sia lo stato moderno è un interessante interrogativo. Ma noi non stiamo facendo teoria. E non ci vuole una grande scienza per vedere che le strutture centralizzate dello stato stanno a Roma, dove è concentrato l'apparato del potere politico. Per un'organizzazione di propaganda armata basta e avanza.

Fra stato e apparato dello stato c'è una differenza. L'apparato può essere vulnerato e lo stato restare tale e quale. Forse che nell'Italia degli anni '90 c'è meno stato, nel senso che intendevate?

Ma non pensiamo di abbattere lo stato. Pensiamo attraverso questa o quella azione di indurre una tensione, disarticolare i poteri. E a Roma non andiamo solo per questo: se fosse solo per fare delle azioni, al limite,

basterebbe un nucleo di compagni decisi. Ci andiamo per insediare una colonna vera e propria, come avevamo fatto nelle grandi aree industriali. Ci rivolgiamo sempre alle avanguardie beninteso, proponendo nient'altro che la lotta armata. Ma le prime azioni non sono clamorose, servono a consolidarci su un terreno che non conosciamo. Nel '76 mobilitiamo tutte le colonne per un'altra notte dei fuochi, come a Milano alcuni anni prima. Simbolicamente, senza sangue, attacchiamo i mezzi della polizia e dei carabinieri in tutte le città dove siamo presenti; bruciamo gli automezzi, molti pulmini, qualche macchina. È la prima campagna cui partecipa la colonna di Roma, incendiando un pulmino dei carabinieri alla Garbatella, c'ero anche io nel nucleo operativo. È una azione minuscola, ma è la prima firmata dalle Br e fa un grandissimo effetto tra i compagni delle borgate. La lotta armata aveva una straordinaria forza di attrazione. Quasi che risolvesse tutti i problemi.

Nel '75, mentre insediate la colonna romana, sequestrate in Piemonte Vittorio Vallarino Gancia. È il primo sequestro che fate per denaro ?

Si, e finirà tragicamente con la morte di Margherita. Avevamo bisogno di denaro, non eravamo più un gruppetto e per quanto si contengano le spese, dobbiamo fare continui espropri. Non abbiamo nulla da vendere; i padroni, se non glieli prendiamo, spontaneamente non ci danno i soldi di certo. Ma gli espropri sono faticosi per le forze che costringono a impiegare. In pratica facciamo una rapina in banca ogni mese e, a parte i rischi, sarebbe meglio concentrare su altro le esigue forze di cui disponiamo. I soldi sono presi in consegna fino all'ultima lira dal Comitato Esecutivo che li distribuisce alle varie colonne e fronti. Ogni compagno può chiederne conto, ma nei dodici anni in cui sono stato nelle Br non è mai accaduto. Probabilmente perché stare nelle Br ci costava tanti stravolgimenti, tanto sangue, tanto di noi stessi che dei quattrini ci si curava ben poco. Ognuno di noi affidava la propria sopravvivenza alla responsabilità del compagno che gli stava vicino, poteva ben affidargli una manciata di milioni. Tanto più che si era andati insieme a prenderli correndo gli stessi rischi, avrebbe certo fatto di tutto per risparmiare. Ma per tornare al '76, la questione del bilancio si fa seria. Decidiamo allora di rapire un industriale molto ricco, e di chiedere il riscatto e niente altro: l'azione è politica di per sé, una forza

rivoluzionaria espropria i capitalisti, punto e basta. Scegliamo Vallarino Gancia, quello dello spumante. Se ne occupa soprattutto la colonna di Torino e l'operazione è diretta da Margherita.

Come muore Margherita ? Come mai lei e un altro erano soli a custodire l'ostaggio, senza che qualcuno sorvegliasse gli accessi alla cascina ?

Perché il sequestro era andato bene, Gancia era stato prelevato senza problemi e lo avevano portato alla cascina Spiotta dove non c'era ragione di sorvegliarlo in tanti. Erano due, e dovevano soltanto accudire il prigioniero. È vero che mentre stavano dirigendosi con lui alla cascina un compagno42 del gruppo di appoggio sbagliò strada, fece un pasticcio e si fece prendere. Ma non vicino alla base. Margherita ci avverti subito e valutammo la cosa assieme. Ma lei era certa che la polizia non poteva fare alcun collegamento fra le macchine e non sarebbe arrivata alla cascina Spiotta; si sentiva sicura. E infatti la pattuglia che arriva nel cortile della cascina non sospetta minimamente che ci sia il nostro prigioniero: è un controllo a vasto raggio, senza un obbiettivo preciso, e se Mara e l'altro compagno non si fossero distratti l'avrebbero vista arrivare e si sarebbero comportati tranquillamente. Invece i carabinieri suonano alla porta, sono presi alla sprovvista, tardano ad aprire, si crea un certo trambusto, i carabinieri si insospettiscono, uno rimane davanti alla porta mentre gli altri due si defilano e si appostano. A questo punto sono incastrati. I compagni cercano di uscire dalla cascina lanciando una bomba a mano SRCM, ordigno che fa molto rumore ma è pressoché innocuo se

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proprio non ti scoppia addosso, e subito dopo sparano alcuni colpi ed escono correndo verso le macchine. Margherita è la prima e le arriva addosso la raffica del carabiniere appostato. È ferita, ma riesce a raggiungere la sua macchina e salirvi. Anche il compagno riesce ad arrivare alla seconda macchina. Ma Margherita non ce la fa a guidare, dopo pochi metri lo tampona e finiscono fuori strada. Il compagno, che si salverà fuggendo a piedi attraverso i campi di mezzo Piemonte, ci racconterà poi come è andata e ammetterà che si erano fatti prendere dal panico. Non avevano capito quanti fossero i carabinieri appostati e tutte le armi, dopo il

tamponamento, erano rimaste nelle macchine finite fuori strada. Tentarono di scappare a piedi. Margherita era ferita, non ce la faceva a correre e neppure a camminare, rimase in quel prato. Soltanto il carabiniere che le arrivò addosso può dire se è stata finita volutamente o avrebbe potuto sopravvivere. Io ne ho viste troppe in questa guerra per non sapere che coraggio, generosità e nobiltà accompagnano gli uomini meno spesso della paura e della disperazione. In quello scontro è morto anche un carabiniere e un altro è gravemente ferito. Giudicare fuori da quel contesto mi è impossibile, e in quel contesto sono meno manicheo di quanto mi piacerebbe.

Ne parli con molto dolore.

Margherita era molto importante per me, lo era per l'organizzazione, lo era per i compagni con cui viveva. "Ci sono delle morti che pesano come una piuma ed altre che pesano come montagne..." forse è così per la storia, forse è stato così anche per noi. Margherita è diventata un simbolo. C'è però uno spazio, intimo ed inviolabile, in cui si va a collocare la morte di una persona che hai conosciuto, dove essa è solamente la persona che hai conosciuto. Niente può far crescere o sminuire il suo ricordo, il dolore per la sua scomparsa non si sana, le parole sono intrusioni, solo il silenzio è all'altezza della perdita subita. E questo vale, credo, per tutti, da qualunque parte abbiano combattuto o da qualunque argine osservino la scena.

Che cosa ricordi di lei soprattutto ?

Quel che mi è rimasto più caro nella memoria è la sua normalità. L'hanno trasformata in un'immaginetta, e invece era una donna vera, con tutti i problemi delle donne della sua e mia generazione. La conoscevo dai tempi della Comune e della Siemens, era un'amicizia lieve e molto profonda, priva del gioco della seduzione e delle relative tensioni, un'esperienza rara per me con una donna. Potevamo dirci tutto, anche degli aspetti più intimi delle nostre esistenze, senza timore di equivoci. Con lei non c'era bisogno di bugie per far tornare i conti delle nostre vite stravolte dalla clandestinità, vissute sopra le righe; poteva permettersi di cogliere il ridicolo dell'immagine di grandezza che avevamo di noi stessi, mentre ci ritrovavamo con i problemi di tutte e di tutti. Lei ci stava con saggezza e

allegria, anche dove non trovava facilmente una soluzione.

Il '76 è un anno cruciale. Per voi vengono al centro la repressione e le azioni contro gli apparati repressivi, mentre il paese va verso la maggioranza di governo con i comunisti.

La sinistra che sorpassa la Democrazia cristiana... ricordo il pomeriggio nel quale la televisione dava i risultati del voto, rimanemmo allibiti, ci sembrò una cosa enorme. Presto vedemmo che il più spaventato ne era Berlinguer che, sull'onda del Cile, era convinto che ci voleva soprattutto prudenza per evitare un colpo di stato. Noi invece vedemmo nel successo elettorale la prova che cresceva il bisogno di una svolta, ne esistevano le condizioni. Credevamo la situazione più in movimento, più fluida di quel che fosse. Specie dentro al Pci.

Eravate stati severi verso il Pci nella Risoluzione del 1975. Come mai quando si astiene sul governo Andreotti non pensate che i giochi sono fatti ?

E quando mai nel modo di far politica dei partiti si può dire che i giochi siano definitivamente fatti su qualsiasi cosa? E del resto noi guardavamo alla base. Il famoso popolo comunista era una realtà in questo paese.

In questo paese come negli altri il popolo comunista segue i suoi leader.

Li segue si, e li incalza. Prendete gli accordi sindacali, passano sempre al ribasso, ma nascono da una pressione che spinge, che obbliga la direzione a un'alternativa, la rende praticabile. Nel 1976 abbiamo ben avuto motivo di chiederci che cosa avrebbe fatto la base comunista quando si fosse posta davvero la possibilità di un'alternativa.

Sta di fatto che proprio in quella tornata elettorale, cui partecipa per l'ultima volta anche Lotta Continua e c'è un investimento di speranza anche da parte dei gruppi, si apre il processo alle Br a Torino. E voi preparate il primo agguato mortale, l'attentato al procuratore Coco.

Si. È un passaggio importantissimo per quel che diventeremo. Quel processo ha un enorme valore simbolico. Per lo stato, che sancisce la sua vittoria tentando di negare ogni valenza politica alle Brigate Rosse, sostenendo che si tratta di criminalità comune, anche se poi si contraddirà

promulgando leggi speciali, modificando il codice e le procedure, costruendo le carceri speciali. Giancarlo Caselli, allora alla Procura di Torino, scrive chiaro nell'ordinanza di rinvio a giudizio che negare la politicità delle Br è l'obbiettivo del processo. Ma il processo ha grande impatto anche per noi: che atteggiamento tenere quando lo stato celebra in tribunale la sua vittoria? Le strade sono due. Una è quella tradizionale della sinistra storica: ci si difende, si usa accortamente dei meccanismi processuali, si rigettano le accuse e, dove le maglie si allentino, si fanno valere le ragioni sociali di chi si è ribellato. Il tutto nel rispetto delle regole del gioco. Ma infrangere le regole del gioco è l'essenza della nostra proposta. Noi prenderemo la seconda strada, non diremo: "non abbiamo commesso il fatto", diremo che era giusto commetterlo.

È una scelta dell'organizzazione?

Se ne era discusso fra dentro e fuori, utilizzando, tra molte difficoltà, un collegamento sicuro. E fino all'immediata vigilia del processo prevaleva l'opinione di seguire, anche se in modo molto rigido, la via tradizionale. Sono i compagni prigionieri che all'ultimo momento decidono di presentarsi al processo rifiutando il ruolo di imputati, rifiutando il difensore, persino l'avvocato d'ufficio, che è parte dell'istituzione giudiziaria. Loro rappresentano le avanguardie comuniste all'offensiva nel paese, sono in aula in catene ma per accusare e non per difendersi. È la fine di ogni mediazione legale, è il processo guerriglia. Da quel momento il solo rapporto possibile con lo stato, per chi si riconosca nelle Br, è di guerra.

La decisione matura nel carcere ?

Si. Fuori non la aspettavamo. Ma è nella nostra linea oltre che nella nostra sensibilità. Offensiva, offensiva, sempre all'offensiva. Qualsiasi cosa vada oltre i limiti legalitari della sinistra storica ci affascina. Fra due opzioni sceglieremo sempre quella che brucerà i ponti con il passato, anche quando non vedremo davanti a noi dove porti quella strada. Nei processi non accetteremo più il ruolo di imputati ma rivendicheremo quello di militanti di un'organizzazione che si trova all'attacco. Così ci si collega alla guerriglia fuori, sul territorio, e sarà soprattutto l'azione combattente a rendere visibile questa identità. C'è una concomitanza fra le singole azioni delle Br e

le scadenze processuali. "Le nostre parole ai processi contavano soltanto perché erano l'eco di uno sparo" mi disse Vincenzo Guagliardo un paio d'anni dopo. Ed era vero, ma lo sparo parlava anche perché, credo, rappresentava qualcosa in cui molti riponevano più di una speranza. Dovremmo andare ben in fondo all'analisi critica di quegli anni, se non vogliamo che, dopo la lotta armata, non ci siano più speranze di sorta.

Anche nella guerriglia c'è una svolta con l'agguato al procuratore Francesco Coco.

Si, è la nostra prima uccisione, la prima azione volutamente cruenta. È anche la prima i cui soggetti siano soltanto le Br e lo stato. Il movimento resta del tutto sullo sfondo, non ci colleghiamo a un suo momento e obbiettivo, ne interpretiamo e rappresentiamo, come un distillato, l'essenza antagonista assoluta. Se abbiamo avuto un'autoreferenzia-lità, è certamente a partire da questa azione. Da allora in poi la sola verifica della nostra linea starà nella capacità di metterla in atto, riprodurci e durare.

Perché proprio il procuratore Coco ?

È il simbolo del ruolo assunto dalla magistratura. E c'è la promessa mancata quando rimettemmo in libertà il giudice Sossi. Coco si era impegnato in tv a rivedere la posizione dei prigionieri del "XXII Ottobre" subito dopo il rilascio di Sossi. Ma appena lasciammo Sossi libero, fece sapere che non ci pensava neanche lontanamente. Noi avevamo accettato la mediazione, e lui ci aveva ricambiato con un inganno.

Stavolta siete voi che non offrite mediazione alcuna.

No, quando si arriva alla morte è la fine di ogni mediazione. Rispondiamo alla decisione dello stato di annientarci. È sua la scelta, non è più possibile evitarla. E non la vogliamo evitare, gli andremo contro a tutta velocità. Il primo è Coco.

E i due uomini della scorta.

Non è possibile risparmiare un agente armato durante un'azione, non è questione di crudeltà verso qualcuno che non c'entra. In genere non è proprio possibile evitarlo. Posso solo dire che abbiamo ragionato mille

volte prima di considerare necessaria un'azione cruenta, mille volte e una prima di concludere che non c'era alternativa. Quella volta, presa la decisione, la fase operativa è stata lunga e preparata nei minimi dettagli: scelto il posto dove incrociare Coco, la tecnica per mettere sotto controllo la zona che è nel centro di Genova, il momento in cui la scorta si riduce a due agenti, lasciando le pattuglie dei carabinieri che di solito lo accompagnano.

Per prudenza o per risparmiarli ?

Che mi crediate o no, non abbiamo mai deciso senza scrupoli quando si trattava della vita o della morte. Non avevamo motivo di colpire le pattuglie, e neanche la scorta. Se si può, si cerca di ridurre il sangue.

Chi decide sul nome di Coco ?

È un nome che circola fra tutti anche senza dirselo. Ci inquietò persino, e oggi sembra strano, ma a quel tempo si ragionava alla stessa maniera e facilmente si arrivava alle stesse conclusioni. Quel che l'organizzazione doveva sapere è che si stava preparando un'azione diversa, più rischiosa, più violenta, non una delle tante. L'unica cosa che il Comitato Esecutivo non aveva comunicato era il nome: il luogo ed il personaggio erano mantenuti segreti. Ma, ripeto, per un'azione che si compie in relazione ai processi e ai prigionieri, a tutti viene in mente Coco. Anche ai compagni in prigione, i quali ci mandano a dire che la figura da colpire è lui. Come ho detto, ce ne inquietiamo: se l'obbiettivo è così scontato da venir in mente a chiunque, ci può arrivare anche la polizia. E ci inquieta l'imprudenza dei compagni in carcere: il canale che hanno usato è tra i più sicuri, ma è esterno alle Br, un'involontaria fuga di notizie può tradursi in una catastrofe.

D'abitudine non consultavate il carcere?

Sarebbe un suicidio, per noi e per loro, se si facesse decidere sui nomi dai compagni in carcere. È tassativo: massimo di discussione politica, zero indicazioni operative. Ma ormai l'azione contro Coco era praticamente partita, non restava che eseguirla e sperare che non ci fossero sbavature.

L'attentato è a un anno dalla morte di Mara. Avevate scelto quella data per commemorarla, come era scritto nella rivendicazione?

Fummo costretti a rimandare la prima data perché Coco era andato a un convegno, credo a Bari. Il processo di Torino incalza, dal carcere insistono: muovetevi. Passiamo all'azione quindici giorni dopo, appena Coco torna a Genova. È un colpo politico durissimo, viene avvertito in tutta la sua portata. E impressiona l'inutilità della scorta di fronte a un attacco guerrigliero. Noi abbiamo bruciato tutti i ponti alle nostre spalle, ma l'avversario ha di che preoccuparsi. La forza simbolica delle nostre azioni ha passato tutti i confini e scardinato tutti i tabù. Al processo di Torino i compagni mettono in atto il rifiuto del processo, è la rottura. E si modifica la procedura, il processo si celebra senza la presenza dell'imputato: salta il ruolo di mediazione della magistratura. Il conflitto è totale, ultimativo.

Questa tattica fu decisa a Torino ?

Si, dai compagni al processo. Ma non vorrei che si creassero equivoci, l'organizzazione non esita neanche per un attimo a far sua questa linea, e la manterrà ininterrottamente per tutta la sua infinita vicenda giudiziaria. C'era stato un atteggiamento processuale per così dire "normale" da parte dei primi arrestati, ma i nostri processi divennero presto speciali. Non subire il processo voleva dire trasformarlo, ribaltarlo come un guanto. Non che farlo fosse semplice. Al di là del rifiuto del dibattimento in aula, non sapemmo mai come andare.

Non rispondere significava rinunciare a far sentire le vostre ragioni fuori.

Fuori c'era la guerriglia. Ad essa corrispondeva il rifiuto del meccanismo processuale. Bastava rivendicare le azioni in aula per cambiare diametralmente la nostra posizione, da accusati si diventava accusatori.

Ma non vi rendete incomprensibili una volta di più alla maggior parte della gente ? La scelta di uccidere fa arretrare anche chi poteva simpatizzare senza essere affatto un'avanguardia. Fuori c'è la famosa avanzata della sinistra che, come hai detto, vi stupisce. Perché passate a uccidere proprio allora ?

Perché in quel momento non è questione di trattare, ma di colpire. In tutti i

cortei del '76 e '77 tra gli slogan più gridati c'è “Coco, Coco, Coco, è ancora troppo poco”: nel famoso magma del movimento quell'azione era passata. Magari solo la sua radicalità e nient'altro, perché il senso d'una azione non sta nell'essere più o meno cruenta, sta nella contraddizione che riesce ad aprire. Più tardi capirò che fino a un certo punto comandi tu l'operazione, scegli il livello dello scontro e puoi proporre la mediazione. Oltre, è la scelta dell'avversario a diventare determinante. La guerra come l'amore si fa in due.

Attorno al processone moltiplicate il sangue. Quando il dibattimento riprende nell'aprile del 1977 uccidete l'avvocato Croce43 Poi colpite i giornalisti, ferite Montanelli,44 poi Emilio Rossi,45 e uccidete Casalegno46? Perché? E perché alcuni feriti e alcuni uccisi?

Ferimenti e uccisioni: messa così è incomprensibile e inaccettabile. Cerco di spiegare: non siamo in una guerra civile, la guerriglia non si misura sul numero dei caduti. Deve agitare dei contenuti e aggregare una forza che poi si dispiegherà nel lungo periodo. Noi accettiamo la violenza rivoluzionaria, la tragedia delle morti, la sofferenza delle ferite sulle carni e la lacerazione di quelle nell'animo, ma come strada obbligata per un cambiamento che non saremo noi a determinare nei modi e nei tempi. Solo in seguito scopriremo che c'è una china verso la quale la lotta armata scivola inevitabilmente, e in gran parte prescinde dalle decisioni che potremo prendere volta per volta. Ma all'inizio pensiamo che dipenderà solo da noi misurare i colpi, e quindi anche usare le armi a due livelli. Ogni nostra azione è simbolica, agisce sul piano dell'immaginario e della rappresentazione politica. Pensiamo che ci possa essere un uso mediato delle armi. Sembrerà cinico, ma crediamo di controllare il messaggio graduando la ferita inferta.

Perché usi il termine "mediato", che mediazione c'è quando entrano in gioco le armi ?

È un'astrazione arbitraria, ma non infondata. Nel conflitto politico e in quello sociale c'è una specie di codice morale non scritto che valuta colpe e responsabilità. È il senso comune, l'idea popolare di giustizia. Sarà sbagliato, ma è quello che assumiamo come criterio.

All'avvocato Croce sparate per ucciderlo ? Si.

Per impaurire gli avvocati? I tupamaros colpivano quelli che il popolo poteva riconoscere

come suoi nemici. Perché gli operai dovrebbero sentirsi vendicati dalla morte di Croce? Non è la loro guerra.

Non vendichiamo nessuno. Il processo penale è mutato da quando si attacca il movimento rivoluzionario. Noi rifiutiamo di difenderci, sono gli avvocati d'ufficio che garantiscono per conto dello stato un ruolo di imputati che non accettiamo. Ed è questa loro funzione che vogliamo colpire nel presidente dell'Ordine degli avvocati. "Ma io che debbo fare," mi dirà più avanti un giovane procuratore che era stato nominato mio avvocato d'ufficio: "Io non posso rifiutare l'incarico e inoltre vorrei aiutarvi davvero. Magari starei pure dalla vostra parte." Già. La simbologia delle azioni armate è affilata e precisa come un intervento chirurgico, ma a spiegarla sembra terribilmente astratta. O non abbiamo risposte o quelle che diamo non soddisfano nessuno.

E Casalegno ?

In giugno avevamo lanciato la campagna contro la stampa di regime ferendo il direttore del Tgl Emilio Rossi, quello del "Giornale nuovo" Montanelli e Valerio Bruno del "Secolo XIX" di Genova. Sempre la stessa propaganda armata. Il regime che si è formato in quegli anni ha avuto nella stampa un supporto totale, difficile trovarne altrove una più asservita. Si, colpiamo i simboli della stampa di regime. È criticabile come ogni altra azione armata, ma non più ingiustificata di altre. Naturalmente i giornalisti reagirono come non avevano reagito per nessun altro. Era naturale, forse anche giusto, il loro furore. Comunque, quando in novembre riprendemmo questa campagna, con Casalegno andammo oltre le intenzioni di partenza e venne ucciso.

Altre volte andaste, come dici, oltre l'intenzione?

A Padova nella perquisizione della sede del Msi, e a Genova uccidendo Guido Rossa. E una volta ferimmo per sbaglio il gemello di un capo della Fiat. Abitavano nello stesso palazzo, lavoravano entrambi alla Fiat, erano identici. Nessuno si accorse, tranne noi, che era il fratello sbagliato.

All'inizio del 1977 anche in un 'azione incruenta c'è un salto di livello: sequestrate l'armatore Costa e lo tenete per più di due mesi e mezzo, da gennaio ad aprile. È il

primo sequestro dal quale strappare un riscatto, quello di Vallarino Gancia era finito con la morte di Mara. Sceglieste Costa anche per motivi politici?

No, fu solo un autofinanziamento. Però a Genova il vecchio Costa era stato il presidente della Confindustria negli anni terribili, un mito per i padroni e per gli operai. A Genova i Costa sono qualcosa. Non è difficile individuare Pietro Costa, uno dei più giovani, abita con la famiglia in una villa alla spianata di Castelletto - un posto da cartolina, si domina tutta Genova. Lo catturiamo con la solita tecnica, ma era altissimo, sarà stato poco meno di due metri, una fatica tremenda farlo entrare nella cassa. Quando lo tiriamo fuori dice per prima cosa: "Fra tanti della famiglia proprio me siete venuti a cercare, potevate prenderne uno più basso." Era una persona simpatica. Aveva previsto la possibilità di essere sequestrato - c'era stato il rapimento Gadolla,47 c'era stato il sequestro di Vallarino C-ancia - a Genova le Br c'erano da un pezzo, non c'era padrone con un po' di soldi che non ci avesse pensato. I Costa ne avevano tanti di soldi che si erano addirittura assicurati con i Lloyds di Londra per questa eventualità, ce lo disse lui stesso. E tuttavia il nostro rapito aveva le scarpe bucate. Da non credersi, pioveva, eravamo in gennaio, era stato a bordo di una sua nave e s'era tenuto i piedi a mollo tutto il giorno. È una vecchia famiglia di capitalisti, una dinastia dove si fa carriera per linee interne ma solo se si lavora sodo. Quando gli chiediamo se ha bisogno di un'alimentazione particolare dice: no, io mangio di tutto purché sia tanto.

Non era spaventato ?

Un po', è naturale, ma non si scompone più di tanto. È uno che razionalizza quel che gli succede, sa circoscriverlo, forse pensa: sono un padrone, faccio il padrone, ho un sacco di soldi, è normale che i comunisti ce l'abbiano con me. Gli diciamo che il nostro obiettivo è uno e limitato: dovrà pagare una tassa, suo malgrado finanziare la rivoluzione. Dieci miliardi, buttiamo li. Ribatte che dieci miliardi non li spunteremo, la famiglia è in crisi nera, il grande albergo a Rapallo sta fallendo, gli armatori stanno andando a rotoli, l'olio Dante non è che vada a ruba... insomma fa la sua parte. Alla fine ci accordiamo per un miliardo e mezzo.

Nessun incidente drammatico ?

Durante il sequestro muore suo padre, bisogna dirglielo con delicatezza, cerco di farlo ma non sono bravo in queste cose. Non ha bisogno di parole di conforto: è un cattolico e non gli manca il senso della dignità, si racchiude un po', piange in silenzio. Un altro episodio m'è rimasto impresso: nel portafoglio aveva i documenti, le foto dei figli, le solite cose e qualche biglietto del tram. Al momento del rilascio glielo restituiamo, lo prende, guarda dentro e fa: manca un biglietto del tram, era ancora valido. Veniva fuori da un paio di mesi certo non allegri, aveva appena pagato un miliardo e mezzo, ma a quel biglietto non voleva rinunciare. Questa era la borghesia genovese. La storia con i Costa fìnisce li, siamo espliciti con lui quando se ne va, non è una guerra privata. E infatti al processo non insisteranno più di tanto, non so neppure se si siano costituiti parte civile. Anzi, subito dopo il riscatto e la liberazione, il loro avvocato incrocia uno dei nostri difensori e lo prega di trasmetterci i suoi complimenti per la precisione con cui abbiamo condotto l'operazione e per aver mantenuto la parola data, nonostante una provocazione che aveva rischiato di mandare tutto all'aria.

Riguarda il pagamento del riscatto ?

Si. Il denaro doveva essere consegnato a Roma da uno dei suoi fratelli e una sorella, che era una suora laica. Era lei, morta di paura, a guidare l'automobile con le due valigie piene di banconote che avremmo bloccato in una strada senza uscita dalle parti di Monteverde, dopo averle fatto fare il giro di mezza Roma, una specie di caccia al tesoro, controllando a ogni tappa che la polizia non ci segua o non ci abbia teso qualche trabocchetto. Fila tutto liscio, trasbordiamo le valigie, la sorpresa è quando le apriamo. Le banconote sono letteralmente sommerse in una polverina fosforescente, impalpabile e appiccicosa come il borotalco. Basta un respiro appena più profondo che si alza e te la ritrovi sulle mani, sui capelli, sugli abiti. Alla luce normale è invisibile, ma ai raggi ultravioletti si accende e ti ritrovi illuminato come un albero di Natale. È una provocazione, quei soldi sono inutilizzabili, chi ha messo la polverina non l'ha nascosta, vuole farci sapere che c'è, forse spera in una reazione esasperata. Invece no. Ritardiamo di qualche giorno il rilascio, facciamo analizzare la polvere da un compagno chimico, ci informa che esiste una sostanza per neutralizzarla ma che è

ancora più semplice lavare le banconote nell'acqua, una per una. Non so quanti compagni hanno passato giorni e giorni nelle settimane seguenti a fare il bucato a quei soldi, appendendoli ad asciugare sul filo come nel film di Totò. Un miliardo e mezzo sono un sacco di quattrini. Ci andremo avanti una vita.

Spendevate molto ?

Neanche per sogno. Una volta Pecchioli,48 che conosce i bilanci del Pci oltre che le loro fonti, prese a riferimento quelli per tentare di farci i conti in tasca. Assurdo. Quel che secondo lui un nostro militante spendeva in una settimana, ci bastava a coprire le spese d'una colonna per due mesi. Erano pochissimi i compagni stipendiati, solo quelli che operavano per le Br a tempo pieno e in totale clandestinità. Gli altri lavoravano tutti, operai, impiegati, insegnanti e vivevano con quello che guadagnavano. Io campavo con 200.000 lire al mese, avevamo tutti lo stesso stipendio, è la verità. Come avremmo dovuto calcolare quel che occorreva al sostentamento di un militante? Sullo stipendio di un operaio, non c'era altro criterio. Sarà stato moralismo, ma lo ritenevamo obbligatorio per una organizzazione clandestina che si finanzia espropriando, atto di cui può rispondere alla gente, ma che resta in buona misura arbitrario. Il miliardo e mezzo di Costa ci bastò per quattro anni, praticamente fino al mio arresto nell"81.

Rivendicaste il sequestro ?

Subito dopo il i ilascio. È la prima volta che rivendichiamo un esproprio. Facciamo non solo un volantino ma un opuscoletto, tanto ci preme spiegare il significato di questa pratica.

Mentre sequestrate Costa, fuori c'è una grande effervescenza. Si separano dall'area comunista i movimenti o soggetti radicali. Lama49 viene fischiato all'università di Roma, e mentre Bologna si divide per la morte di Francesco Lorusso,50 a Roma ci sono i cortei, i quaranta giorni di blocco della città. Tutto questo è però soprattutto autonomia. Sarà il movimento del '77. Non è roba vostra, non ci siete.

Che non sia roba nostra è evidente, che non ci siamo non è vero. Ma un conto è esserci e un altro è averne la direzione. Noi non l'abbiamo. Il movimento dell'autonomia, un arcipelago variegato, non ci riesce nessuno a

convogliarlo. Non esprime la contraddizione operaia, quella degli anni precedenti, è del tutto diverso. I punti di massima aggregazione sono le università ma non è un movimento di studenti. Si disse che erano "nuovi soggetti", ma quali in concreto? Per me, ma non solo per me, quel movimento resterà un oggetto sconosciuto fino alla fine. È un mio limite, non lo capisco, non è un movimento di fabbrica, è nuovo, che cosa lo abbia prodotto e che cosa abbia prodotto o lasciato non so bene neanche ora.

C'è anche un fatto di generazione, non solo d'età ma di esperienza. Vengono dieci anni dopo.

Si, sono nuovi compagni, un'altra generazione. Moltissimi poi entreranno nelle Br, ma io li distinguo ad occhi chiusi. Certo le lotte del '77 riflettono una composizione sociale molto modificata, nella quale emergono altre figure. Ma come, quali? Persino i compagni che di quel movimento sono stati i leader hanno difficoltà a spiegarlo, se appena si va oltre l'immediata esperienza che hanno fatto. Altri fingono di averlo afferrato per le corna, quel '77, ma non è vero. Esso sorprende tutti, noi come, sul versante opposto, Luciano Lama. Credo che quando andò all'Università di Roma non avesse la più pallida idea di quel che bolliva in quel crogiolo, ne venne espulso proprio come un corpo estraneo. Per noi fu diverso, eravamo altra cosa, nuotavamo nelle stesse acque. Ma non eravamo "quel" movimento. C'era in noi anche qualche pregiudizio non secondario a far da diaframma, relativo alla natura operaia della nostra nascita. Ma non è solo questo che ci tiene fuori dal movimento del '77, anche se avvertiamo il depauperamento di contenuti e possibilità del movimento operaio tradizionale, che era proprio alle corde.

Siete andati al convegno di settembre a Bologna f

Andarono un sacco di compagni, noi no. Per correttezza. Eravamo un'organizzazione clandestina combattente con una linea precisa. Quelle erano istanze autonome del movimento, che aveva il diritto di praticare la sua linea, ed era bene che lo facesse.

Che bugiardo.

Ma no. Che c'entrava con noi? Uscirono da quel convegno gridando "rosse, rosse, rosse, Brigate Rosse", abbiamo sentito la cassetta registrata nel corteo. Era una cosa fantasmagorica, fatta di mille esperienze, mille cose. Non erano minimamente Br, chissà cosa pensavano che fossimo, noi Br, mentre se ne andavano in giro in piena legalità per Bologna e noi eravamo dove eravamo... Però diversi nostri compagni andarono a Bologna. Quattro della brigata di Primavalle, a Roma, furono fermati al casello dell'autostrada all'ingresso di Bologna dove la polizia aveva fatto un posto di blocco insuperabile. Passarono perché non avevano armi. Non è paradossale? Noi brigatisti eravamo disarmati mentre in quel convegno erano pochi quelli che, oltre alle bandiere, non s'erano portati qualcosa di più.

Negli anni '70 parlare di armi e usarle è stato un altro paio di maniche, dappertutto. Ma per tornare al convegno di Bologna del '77, fu una sorta di occupazione della città, c'erano i giovani non integrati, quelli che si sentivano "non garantiti e i diversi, e le donne. Non vi interessa questa altra società ?

Capivamo che era altra, come dite, ma quanto socialmente e politicamente potesse produrre a me è sfuggito. È sfuggita alle Br questa potenzialità, se potenzialità c'era. Con quel movimento abbiamo interagito pochissimo. Ci era vicino per la radicalità delle rivendicazioni, per l'estraneità ai meccanismi istituzionali, per la maturità delle pratiche, ma lontanissimo nel non sapersi dare e neppur volere una direzione, una meta. Certo alla direzione nostra non guardava. Anche se, quando nelle manifestazioni romane venivano assaltate le armerie e asportate decine di armi da caccia, spesso finivano nei nostri depositi: le portavano compagni del movimento che non sapevano che cosa farsene e speravano che lo sapessimo noi. Ma neanche noi sapevamo che farcene; un fucile lungo un metro e mezzo non è esattamente quel che ci vuole per la guerriglia urbana. E sarebbe stato poco male se avessimo saputo che cosa dirgli, a quei ragazzi. Ma non sapevamo neanche questo, salvo di mettersi con noi.

Che non sapevate cosa dirgli lo capisci adesso o lo sentiste già allora?

Allora non era possibile accorgersene. Le teorie che si sentivano in giro non ci piacevano affatto, erano inservibili per una pratica rivoluzionaria che alla fine metteva tutti al bivio: o si fa la guerra o si perde senza neanche aver

combattuto. Inseguendo lo scontro politico finimmo, almeno in parte, per seguire una rotta che della politica prese anche i vizi, diventando distante dalle dinamiche sociali. Io preferisco pensare che le Br erano figlie del movimento precedente, quello che aveva nella classe operaia il cuore e il cervello, restarono indissolubilmente legate ad esso e non si adattarono mai ai mutamenti sociali di quegli anni. Quelli li fece balenare il movimento del '77, rivelandoli con la sua fantastica irruenza. Così a noi ne vennero soltanto molti nuovi compagni; l'ultima leva delle Br viene da li. Come quella di Prima Linea. Ma quando vennero, non ci cambiarono, cambiarono loro. La linea era la nostra.

Sempre diversi siete stati. Ammetterai che neanche guardavate in faccia chi non era con voi.

Ma chi prende le armi, uccide e si fa uccidere, se non ha la convinzione assoluta di possedere la linea giusta? Che la nostra fosse una presunzione almeno esagerata, avremmo dovuto accorgercene, lo ammetto. Non ce ne accorgemmo. Per noi c'era una cosa che contava, la lotta armata, e tutto il resto, se c'era, avrebbe retto soltanto se essa reggeva. Era una persuasione profonda, e non del tutto immotivata.

CAPITOLO V

Da via Fani a via Caetani. I 55 giorni

Finora solo i pentiti ed i dissociati, per conoscenza parziale o indiretta hanno consentito ai giudici51 e alla Commissione parlamentare52 d'inchiesta di ricostruire quello che accadde il 16 marzo '78, i 55 giorni di Aldo Moro nelle vostre mani, la sua uccisione e le ragioni che vi avevano portato a via Fani. Sarai tu, ora, a completare questa ricostruzione, o a modificarla, dal momento che la verità processuale ammette di essersi formata, in più punti, solo "con ragionevole approssimazione " Sono state anche fissate alcune date di riferimento. Ad esempio, la scelta cadde su Moro nell'autunno '77, ma da due anni ti eri stabilito a Roma. È il punto culminante del cosiddetto "attacco al cuore dello stato" che vi siete prefissi dal '74?

Sono in galera da più di dodici anni e la galera fa brutti scherzi alla memoria. Comprime il tempo o lo dilata, con effetti bizzarri sulla

collocazione dei ricordi. Ad ogni modo la scelta dello scontro con lo stato - "attacco al cuore dello stato" è la formula semplificatrice e retorica - non ha una data in un giorno o in un mese, viene dall'evoluzione della nostra prima esperienza, quando ci rendiamo conto che il rapporto fra la proprietà industriale e lo stato è stretto, e non si può colpire l'una senza che intervenga l'altro. Per scontro non intendemmo però guerra fra il nostro apparato militare, quasi inesistente, e quello dello stato: ci avrebbero fatti a pezzi in un batter d'occhio. Puntammo a colpirne alcune articolazioni. La prima era stata la magistratura, con il sequestro del giudice Sossi.

Le linee definitive sono nella Risoluzione strategica del febbraio '78? È una data che possiamo tenere ferma?

Si, è stesa nella forma definitiva a Velletri, dove la colonna romana aveva una base. È là che la Direzione strategica, che riunisce i militanti di tutte le colonne, la ratifica.

È diventato il documento un po ' mitico per le Br. Perché si era alla vigilia del sequestro Moro ?

Perché è un documento molto ben fatto. È la sintesi del dibattito di alcuni anni e della nostra lettura sulla situazione italiana. Individua l'avversario nello "Stato Imperialista delle Multinazionali", e non ci sbagliavamo. L'errore fu nel credere che il progetto che in quel momento avevamo pensato fosse dominante, restasse assoluto ed immobile, senza controtendenze. Per un certo tempo l'organizzazione si irrigidì su questa analisi, ed è probabile che molti compagni l'abbiano inteso come un dogma. Comunque il centro focale della Risoluzione del '78, sul quale tutti convergono, è che la Democrazia cristiana è l'epicentro del sistema, il nemico assoluto della lotta operaia. In questo, forse banalizzavamo lo scenario politico. Un secondo punto che dà alla Risoluzione del '78 grandissimo valore agli occhi dei militanti è che la liberazione dei compagni prigionieri è indicata come obiettivo strategico. Tutta la storia delle Br ne è stata percorsa, fin dall'inizio, ma con la Direzione del '78 diventa irrinunciabile, quasi un'ossessione: non c'è azione che non abbia questo punto di riferimento.

Ti sei trasferito a Roma nel '75 ?

Si. Dopo esserci impiantati al nord, a Milano e Torino quasi contemporaneamente, poi a Genova, tentiamo Roma. E una volta deciso di attaccare la Dc, la campagna doveva essere centrata là.

Inizialmente sei solo ?

Per poco. Quasi nello stesso tempo vengono a Roma, dalla colonna di Milano, Cadetta Brioschi e Franco Bonisoli, il "Rossino". Era il nomignolo da ragazzino, pervia dei capelli rossi, e se l'è portato dietro nella clandestinità, anche quando se li è dovuti tingere di un tremendo colore biondo.

Prendi subito una casa ?

Non subito. Prima dobbiamo verificare se ci sono le condizioni per impiantare la colonna. Al principio mi appoggio per qualche notte in casa di Barbara Balzerani, qualche altra da certi compagni di Centocelle o della Magliana. A quel tempo nessuno di loro era clandestino. A Roma di clandestino c'ero solo io. Ma non ho avuto problemi: oggi non ci si rammenta più cos'erano gli armi '70 e quanto fosse vasta la solidarietà del movimento, anche fra organizzazioni diverse. Si stenterà a crederlo, ma da quando sono stato ricercato dalla polizia ho vissuto soprattutto ospite. C'era la mia faccia su tutti i giornali e in Tv, ma qualcuno mi ha sempre offerto ospitalità; anche se c'era paura in giro e i pericoli erano molti, e io ne provavo imbarazzo. C'erano quasi sempre dei bambini in quelle case.

Che cosa fai a Roma nei primissimi tempi?

Un giro di incontri intenso, con tutti coloro che avevano chiesto di vederci e sembravano politicamente qualificati e inseriti nella situazione romana. Una frangia del disciolto

Potere Operaio, un gruppo di formazione marxista-leninista, alcuni dell'Autonomia allora nascente. Tutti vengono dal movimento, sono conosciuti, gente che si è fatta le ossa nelle lotte studentesche, nelle occupazioni delle case di Roma sud, nelle lotte sindacali della Sip, dell'Eni,

del parastato. Quasi tutti hanno provato forme di lotta illegale o violenta. A Roma succede come dappertutto, le Br funzionano da catalizzatore, accelerano i processi; sono come una calamita per i frammenti di ferro.

Insomma, raccogliete quel che c'era ?

Si, persone e cose... È allora che ci imbattiamo nella maledetta macchina da stampa53 che ci attirerà a distanza di anni le petulanti attenzioni dei dietrologi. Pare accertato che originariamente appartenesse a non so quale ufficio dei servizi segreti militari di Forte Braschi. L'avevano comprata in un magazzino dell'usato dalle parti di Porta Portese un gruppo di compagni che all'epoca lavoravano all'Eni, quel palazzone di vetro davanti al laghetto dell'Eur, per stampare il materiale del loro comitato, compreso un giornale. È probabile che fosse finita da quel rigattiere per una di quelle magie che permettono a un sacco di piccoli funzionari statali di farsi la barca e la villa al mare con uno stipendio ufficiale di due milioni al mese. Insomma, nell'impiantare la colonna non solo cooptiamo i compagni ma ne "ereditiamo" il materiale, compresi i rottami, che non si buttano perché, si sa, tutto può servire. In realtà la stampatrice è tanto vecchia che non sarà mai adoperata. A immaginare come ne sarebbe stata strumentalizzata la presenza fra le nostre cose, avremmo fatto meglio a mangiarcela bullone per bullone.

Quando hai affittato l'appartamento di via Gradoli 96?

Nel '77. È la nostra prima base a Roma e la terremo fino a quando viene scoperta. Le regole della clandestinità vorrebbero che le basi venissero cambiate con una certa frequenza, ma non ci siamo mai riusciti. C'è penuria di appartamenti, regole o non regole va a finire che una base non l'abbandoniamo mai di nostra volontà. La chiude la polizia quando la scopre.

Affitti l'appartamento con un nome falso?

Fornisco un'identità fittizia, ingegner Borghi. La tecnica è prendere un'identità inesistente, ma con qualche verosimiglianza: ingegnere Mario Borghi di Genova è plausibile per uno che si presenta come me, che viene dal nord ed ha bisogno di un alloggio provvisorio. Via e numero civico del

mio documento falso esistono davvero, in modo che un'eventuale verifica sommaria dia esito positivo. Non reggerebbe a un'indagine approfondita, ma non s'è mai visto un proprietario di immobili che si interessi all'anagrafe dei suoi inquilini più che alla pigione. Se paghi puntualmente l'affitto nessuno fa domande superflue.

Chi di voi ha abitato in via Gradoli ?

Un sacco di gente, in periodi diversi. All'inizio Carla e Rossino. Per un poco anche Morucci e Faranda, prima del sequestro Moro, quando salta la base dove abitavano. Durante il sequestro Moro ci abitiamo Barbara Balzerani e io. Barbara è un dirigente di colonna e vi fa base fissa, io ci sono saltuariamente, e per pochissimo tempo ogni volta.

L'appartamento di via Montalcini 8, interno 1, dove Moro sarebbe stato tenuto prigioniero, l'avete invece comprato?

Non dove Moro "sarebbe" stato tenuto, ma dove "è" stato tenuto prigioniero. Da li non è mai stato spostato, dalla mattina del 16 marzo a quella del 9 maggio.

Quando l'avete comprato, esattamente? E con quali soldi ?

Nell'autunno '77, con i soldi dell'armatore Costa che avevamo sequestrato a Genova alcuni mesi prima. Ne ricavammo più di un miliardo e ci servì per finanziare l'organizzazione praticamente fino al mio arresto.

Perché avete scelto Aldo Moro ?

Volevamo attaccare la Dc ed era il suo presidente. Ed è successo che la prima volta lo individuassimo per puro caso. Va cosi. Bonisoli abita in via Gradoli, sulla Cassia nuova, per andare in centro può fare corso Francia e il viadotto oppure la Cassia vecchia. Nel secondo caso traversa per forza la Piazza dei Giochi Delfici, dove c'è la chiesa di Santa Chiara. Una mattina Bonisoli vi scorge davanti un'auto blu con una scorta numerosa. A queste cose siamo attentissimi. Si incuriosisce, invece che tirar dritto si ferma e di li a poco vede uscire Aldo Moro. Semplicemente. E verifica che c'è quasi tutte le mattine. Ce lo racconta alla prima riunione. Al momento la cosa

resta archiviata nella nostra testa. Non ce lo diciamo ma sappiamo che non ci resterà per molto.

L'idea di sequestrare lui anziché un altro viene dall'aver visto dove passava ogni giorno ?

Ma no, viene dalla decisione nient'affatto casuale di attaccare la Dc a un alto livello. È casuale il modo in cui localizziamo a Piazza dei Giochi Delfici il personaggio che simboleggia l'intera storia della Dc. Santo cielo, non è che debba spiegarti perché scegliamo Moro. È il presidente della Dc ed è stato al governo per quarant'anni.

Se è per questo lo è stato anche Andreotti.

Ai nostri occhi erano gemelli. Perché dovevamo stare a distinguere fra Andreotti o Moro? Se fra i due c'erano differenze sostanziali, in quel momento a noi non apparivano; ci sembravano più chiare, ad esempio, le differenze fra Moro e Donat-Cattin, Moro e Fanfani. Anche su quest'ultimo avevamo raccolto delle informazioni preliminari. È la Dc che rappresentava lo stato, era quella che volevamo colpire: questo almeno non dovrebbe sorprendere. Se no, gli obiettivi a Roma non sarebbero certo mancati: quante volte abbiamo incontrato per strada, che so, La Malfa padre, Pajetta abitava di fronte alla nostra tipografia di via Pio Foà, era più difficile evitarlo che andarci a sbattere quando usciva di casa. Ma come poteva venirci in mente di rapire La Malfa o Pajetta, il capo del Partito repubblicano o uno del gruppo di Berlinguer? Nessuno mi ha mai chiesto perché non abbiamo sequestrato uno dei due.

Già, ma come si fa a pensare che nella Dc Moro e Andreotti si equivalgono ?

Forse sbagliammo valutazione, non posso negarlo in assoluto. Forse non abbiamo capito che fra i due c'erano differenze molto più profonde di quelle che apparivano. Di sicuro, se ci sono, in quel momento non era facile coglierle. Andreotti e Moro marciavano insieme da interi lustri, si facevano il controcanto fra governo e partito da trentanni. Anche il governo inaugurato il 16 marzo è figlio di entrambi: Moro, nelle sue lettere, non smetterà un momento di ricordarlo. Si, lo stile è sicuramente diverso, questo si. Moro è il gran sacerdote che per far tornare i conti del potere è capace di fondare un'eresia. Andreotti è piuttosto il giocoliere che alla fine

dei maneggi fa sparire il mazzo di carte. È facile dire oggi che questa diversità avrebbe influito sulla Dc in modo non indifferente, forse determinante; mancando ogni verifica si può immaginare quel che si vuole. Ma noi eravamo le Brigate Rosse, un'organizzazione rivoluzionaria, non una conventicola del palazzo: del potere sapevamo poco o nulla. Soltanto discutendo con Moro scopriremo i meccanismi attraverso i quali la Dc si regge.

Il 16 marzo. Perché eravate pronti o perché il governo Andreotti si presentava in Parlamento ?54

Sapevamo naturalmente che era il giorno della presentazione del governo Andreotd. Del varo dell'unità nazionale si era discusso da molto tempo. Ma per deludente che sia, la coincidenza delle date è casuale. Dipende esclusivamente dalla messa a punto dell'azione. D'altro canto, quindici giorni prima o quindici giorni dopo non ne cambierebbe i significati: i tempi politici sono il passaggio di fase, non certo un giorno.

Prospero Gallinari ha fatto una dichiarazione al processo, prima che la Corte andasse in camera di consiglio, per dire che il sequestro fu deciso il 16 marzo perché coincideva appunto con il giuramento del governo.

Questi sono discorsi del dopo.

Patrizio Peci55 ha dichiarato al processo che il sequestro era stato programmato per durare a lungo, anche fino a settembre. È vero?

È vero che questa azione è pensata come il fulcro di una campagna, la "campagna di primavera" come l'avevamo chiamata. Quindi non avrà tempi brevissimi, e sarà accompagnata da un crescendo di iniziative di guerriglia in altre città. Ma tempi così lunghi sono irrealistici per qualsiasi sequestro, figuriamoci per quello d'un personaggio politico come questo. Non scherziamo, nella guerriglia urbana cinquantacinque giorni sono già un tempo infinito. Avevamo messo in conto che i tempi potevano non essere brevi: a determinarli sarebbero state le contraddizioni che pensavamo di aprire tra le forze politiche. Da esse sarebbe dipeso anche l'esito del sequestro, e non ci siamo nascosti che avrebbe potuto essere una scelta durissima; l'esecuzione del prigioniero era un'eventualità che non potevamo

scartare. Ma non era certo la conclusione cui puntavamo, puntavamo

esattamente all'opposto. Abbiamo cercato un esito non cruento per Moro dal primo all'ultimo istante. E dall'altra parte che nessuno ci ha neanche provato.

La preparazione del sequestro, a conti fatti, è durata cinque mesi. In che cosa è consistita ?

Prima di tutto nel conoscere tutto di Moro, le abitudini giornaliere pezzetto per pezzetto: a che ora esce di casa, dove va, che itinerari percorre, quando rientra, in quali giorni della settimana fa una cosa e in quali occasioni ne fa un'altra. Non è semplicissimo, Moro viaggia, ha molti impegni, non ci sono movimenti che si ripetano con sufficiente frequenza nella giornata. Alla fine torniamo al punto di partenza, alla chiesa di Santa Chiara dove Rossino lo aveva casualmente individuato mesi prima. Quando è a Roma, va regolarmente ad ascoltar la messa al mattino. Studiamo l'itinerario che percorre, è sempre lo stesso, del resto le varianti possibili sono piccole varianti e tutte all'inizio, perché da un certo punto in poi la strada è obbligata. La scorta è sempre la stessa, almeno nel numero, e in gran parte nei componenti. Cambiano di tanto in tanto le macchine. Sono due, ma l'andatura è tipica di un convoglio scortato: hanno la perentorietà di chi è abituato a passare col semaforo rosso, impossibile confonderle.

Avreste rinunciato se Moro avesse usato un 'auto blindata ? 56

Assolutamente no. Un'auto blindata non è un carro armato. Non è aggredibile con le armi più comuni, ma non c'è bisogno di chissà che per perforare queste blindature. I fucili Fal oppure i Kalashnikov, ad esempio, sono in grado di perforare una comune auto blindata e sono armi da guerra molto diffuse. In quel momento non ne avevamo, ma se ne avessimo avuto bisogno ti assicuro che le avremmo trovate. Magari andandole a prendere dove normalmente stanno.

Dove avete imparato a sparare con tanta precisione?

Non esageriamo con la precisione. La nostra decantata capacità e precisione militare è stata sempre approssimativa.

Non si direbbe. Siete riusciti ad uccidere i cinque uomini della scorta,57 lasciando Moro indenne e senza colpirvi fra di voi.

Ma no, non confondiamo capacità organizzativa e capacità tecnico-militare della guerriglia. Ti assicuro che i brigatisti non sono stati dei grandi guerrieri. Sono stati formidabili organizzatori politici, militanti comunisti capaci di un'autodisciplina che, allora non me ne rendevo conto, rasentava la follia: è questo che ci vuole per una lotta armata che duri nel tempo e abbia qualche possibilità di successo in una città supermilitarizzata. Invece il nostro addestramento militare avrebbe fatto ridere un caporale di qualsiasi esercito.

Avrete pur fatto delle esercitazioni a fuoco?

Si, ma in modo occasionale, sempre a ridosso delle azioni di combattimento, per il gruppo di compagni che dovevano parteciparvi. Per il sequestro di Moro non facemmo nemmeno quelle, perché i compagni incaricati dell'azione vera e propria sarebbero venuti da diverse colonne e da diverse parti d'Italia; se mai ciascuno si è arrangiato ad addestrarsi per conto proprio, so che i compagni romani lo facevano in montagna, sull'Appennino, dalle parti del Terminillo. Naturalmente si scelgono luoghi isolati, sentieri di campagna, oppure cave abbandonate. Si è favoleggiato che le Br avessero un poligono di tiro: non lo abbiamo mai avuto. La verità è che per un addestramento vero e proprio occorre sparare molto, ma è sempre e dovunque più difficile procurarsi munizioni che armi. Mi viene in mente una battuta di Che Guevara: si distingue subito il guerrigliero da un soldato di Batista, è quello che non spara a raffica. Ci siamo esercitati pochissimo, in una decina d'anni avrò sparato con il mitra non più di un paio di volte. Nelle Br non conosco tiratori scelti, tipo quelli dei film per intenderci. Ma non è questo che conta: conta il tempismo, l'organizzazione, la sorpresa. Oltre naturalmente la motivazione politica, senza la quale nessuno alzerebbe un dito, il pericolo lo fermerebbe. Si dice che eravamo efficienti, efficientissimi, e non si aggiunge mai che correvamo rischi enormi: non ho mai fatto un'azione che non comportasse il rischio di lasciarci la pelle. Molti di noi sono rimasti uccisi sulle stesse strade in cui avevano colpito quelli che consideravamo nemici. Questo non sgrava moralmente nessuno, naturalmente, e non sono certo io a cercar

giustificazioni. Ma è bene rammentarlo.

Hai detto che quel che conta è il tempismo, l'organizzazione e la sorpresa ?

Certo, il vantaggio della prima mossa; non avevamo altra superiorità che questa da contrapporre alla forza enorme dell'apparato con cui ci scontravamo. Se l'iniziativa è tua, parti avvantaggiato. Per il resto c'erano soltanto artifizi organizzativi da escogitare per compensare le nostre carenze. Per esempio in via Fani non siamo sicuri che nello scontro a fuoco tutto andrà come previsto e per questo decidiamo di impiegare il doppio dei compagni che sono tecnicamente necessari. E mai previsione è stata più azzeccata.

Quanti ?

I compagni incaricati di eliminare la scorta sono quattro, due per ciascuna macchina del convoglio. E sono ovviamente tutti piazzati dallo stesso lato della strada: le ricostruzioni che dicono il contrario sono sbagliate, e soprattutto stupide: se uno si mette sulla linea di fuoco del compagno, si finisce con l'ammazzarsi uno con l'altro. È evidente a chiunque abbia un minimo di buon senso, non occorre essere un perito balistico, basta non guastarsi il cervello nel tentativo di dimostrare che in via Fani non c'erano soltanto le Br ma chissà chi altri. La verità è che abbiamo scelto via Fani proprio perché è il punto dove lo scontro a fuoco si può meglio controllare. Oltreché, come ho detto, essere un appuntamento certo: Moro a messa in Santa Chiara va sempre e, non voglio banalizzare la capacità della sua scorta, ma fa sempre la stessa strada.

In che senso lo scontro a fuoco era più controllabile in via Fani ?

Dal punto di vista operativo l'ideale sarebbe stata la stessa chiesa di Santa Chiara. Moro vi si trattiene venti-trenta minuti, il tempo della messa, si mette in uno dei primi banchi, mentre due agenti della scorta controllano gli ingressi in fondo. Gli altri restano fuori sul sagrato o vicino alle auto. Sarebbe relativamente facile neutralizzare la scorta e portare via Moro dal retro della chiesa.

Avreste ucciso in chiesa i due della scorta che controllavano gli ingressi ?

Non abbiamo neppure esaminato questo passaggio, ci siamo fermati prima. C'è una difficoltà insormontabile: siamo tra le otto e le nove del mattino, Piazza dei Giochi Delfici brulica di bambini che vanno a scuola. Una pattuglia di vigili dirige l'attraversamento degli scolari ad un passaggio pedonale, che si trova a poche decine di metri dal punto in cui si fermano le auto di Moro. C'è troppa gente in giro, lo scontro sarebbe disperso su diversi punti, non possiamo essere sicuri di controllarlo completamente. E non è immaginabile che apriamo una sparatoria contro uomini anch'essi armati, in un luogo dove può finir in mezzo qualche ragazzino. Neanche parlarne. Potrei raccontarti di molte azioni cui abbiamo rinunciato per non mettere in mezzo estranei, alcune sarebbero state clamorose. Certo, ci si può obiettare che la vita di un poliziotto non vale meno di quella di un bambino, ma questo è un altro discorso. In quel momento noi con lo stato siamo in guerra: lo scontro è fra noi e la scorta di Moro. Ed è mortale. O noi o loro. Se sbagliamo muoiono dei compagni. È sicuro. Una volta presa una decisione come quella di sequestrare Moro, che è protetto da cinque uomini armati, non sono più permesse incertezze. Ogni esitazione è il fallimento. È forse la cosa più difficile per chi dirige: deve estraniarsi dai sentimenti, è uno sforzo quasi sovrumano, decidere cosa fare o non fare con totale freddezza. Uno sbaglio è fatale, e non vi si rimedia scrivendo un volantino in onore dei compagni caduti. Il disastro è totale, sia politico che umano.

Quindi optate per via Fani perché le difficoltà sono in certo senso minori ?

Difficoltà ci sono, ma diverse da quelle di Piazza dei Giochi Delfici; per certi aspetti sono maggiori, ma si possono circoscrivere. Differentemente che in chiesa, l'obiettivo in via Fani è in movimento. Bisogna fermare il convoglio e questa è una partita che si gioca nei decimi di secondo. Abbiamo studiato il percorso metro per metro, e individuato il punto dove bloccare le due macchine nell'incrocio fra via Fani e via Stresa, dove c'è uno stop. Da una parte c'è un bar, chiuso perché fallito. Metteremo li quattro compagni vestiti da steward dell'Alitalia, come se aspettassero il pulmino per l'aeroporto, tutti li vedranno ma nessuno li noterà. Dall'altra parte della strada c'è un edificio d'abitazione: le finestre sono al primo piano, ad altezza di strada c'è soltanto un muro. Se non siamo proprio sfortunati, al

momento della sparatoria tra le macchine e il muro non dovrebbe trovarsi nessun passante; l'eventualità di coinvolgere estranei è quasi nulla. C'è però una complicazione, un fioraio, tale Spiriticchio, che mette la bancarella appena un poco oltre il punto dove pensiamo di bloccare le auto. L'azione avrà una sua dinamica, non possiamo essere certi che fermeremo le auto esattamente davanti al bar: basta che ci sia una macchina davanti alle nostre e finisce che, per una questione di metri, il fioraio si troverebbe sulla linea di fuoco. Bisogna dunque evitare che Spiriticchio e i suoi dannati garofani si trovino in via Fani la mattina del 16. La sera prima Seghetti va sotto casa sua, in centro, a via Brunetti, e gli buca con un punteruolo le quattro gomme del furgone. Un baccano tremendo, ma lo scopo è raggiunto, la mattina dopo non potrà muoversi. Se per qualche ragione il giorno dopo l'azione dovesse essere rimandata, ci troveremmo in un guaio, saremmo costretti a bucargli di nuovo le gomme, a ogni rinvio dovremmo ripetere questa solfa. A parte che a Spiriticchio verrebbe l'esaurimento nervoso, il ripetersi di una cosa così strana potrebbe destare sospetti, attrarre l'attenzione verso il percorso che Moro fa tutte le mattine. Sarebbe un disastro. La forza della guerriglia urbana sta tutta nel fatto che agisce quando nessuno se lo aspetta: è come un fantasma, si materializza un attimo e scompare. Militarmente è un lampo. Nei pochissimi secondi in cui scatta l'azione, chi attacca è il più forte in assoluto, sa quel che succede, ha previsto i passaggi. Gli altri ci arrivano qualche secondo dopo. Questo vantaggio non possiamo perderlo. Il caso vuole che non lo perderemo. Moro è a Roma, l'abbiamo accertato nei giorni precedenti, non sarà necessario nessun rinvio. Ho sempre pensato che è stata l'unica circostanza per così dire fortunata di tutta l'operazione.

Cosa hai fatto la sera precedente ? Te lo ricordi ?

Di sicuro non riesco a dormire. La tensione è tale che non ci riesco. Ripercorro i dettagli dell'operazione, un'infinità, credimi. Un sequestro è l'operazione più difficile della guerriglia. Dura molto, gli effetti politici sono deflagranti, ma il fallimento militare incombe sempre. Non chiudo occhio, e penso, penso. Domattina cominciamo. Cominciamo con una sparatoria che è un'iradiddio. Un errore di calcolo, una disattenzione, un banale incidente, e siamo tutti fregati. Ricordo Marighela,58 diceva che alla fine di

tutti i ragionamenti un guerrigliero si trova solo in mezzo alla strada con la sua pistola e la sua paura. È cosi. La solitudine comincia la sera prima, quando su quella strada è già con l'immaginazione. Per il resto, quella sera abbiamo fatto le ultime "presentazioni". Sono arrivati a Roma i compagni che devono partecipare all'azione, alcuni non si conoscono fra loro e sono sconosciuti alla colonna romana. Bisogna che si vedano in faccia, perché il giorno dopo non ci si spari tra di noi.

La colonna romana da quanti era composta, ?

Non più di dieci e non meno di sei i militanti regolari, cioè quelli clandestini. Poi ci sono gli irregolari, i componenti delle brigate organizzate in borgata, quelli che fanno una vita alla luce del sole per intenderci. Non ne conosco molti, la direzione delle brigate a Roma non è compito mio.

La sentenza ha stabilito che a sparare furono Fiore, Gallinari, Morucci e Bonisoli. È così?

Si.

Ci sono un paio di testimoni che dicono di aver visto anche due uomini, di cui uno armato, a bordo di una moto Honda. Come la mettiamo ?

Non la mettiamo. Può darsi che un testimone, suggestionato dal clamore dell'avvenimento, riferisca in buona fede qualcosa che magari aveva visto mezz'ora dopo oppure il giorno prima. Non lo so proprio. Di sicuro noi non usiamo nessuna Honda e non c'è nessun compagno a fare il cowboy in motocicletta.

Chi erano gli altri, oltre te? Seghetti, Balzerani...

Scusa, ti interrompo perché qui bisogna fare davvero una premessa: non ci sono misteri, zone d'ombra, per quanto riguarda l'azione di via Fani. I magistrati sanno da tempo per filo e per segno chi erano i compagni presenti e qual è stato il loro ruolo: glielo ha detto Morucci, gli altri lo hanno confermato. Non ricordo più quale insigne giurista ha stabilito che se un processo arriva a provare l'ottanta per cento della verità è un ottimo processo. Ecco, nel caso dei processi Moro, siamo ormai all'eccellenza,

visto che ci si avvicina al cento per cento... Non c'è stata Corte d'Assise in Italia che abbia potuto puntualizzare con altrettanta precisione date, fatti, circostanze e anche responsabilità penali. Per quanto riguarda le Brigate Rosse, poi, è più facile che qualcuno si sia preso ergastoli immeritati che non il contrario. E quindi si, a via Fani i compagni in azione sono quelli stranoti. Ma un minuto prima ce n'era un altro, che nessuno ha visto perché al momento dell'azione si era già defilato. Per l'esattezza è un'altra, una compagna.

È stata inquisita per altri fatti ?

Si, non per questa azione. Tutti i brigatisti sono noti e arcinoti anche se, per fortuna, ad alcuni è capitato di evitare qualche imputazione da ergastolo.

Che compito ha avuto ?

Piccolo, ma molto delicato.

Ricostruisci tutto dall'inizio.

A ogni compagno è assegnato non solo il posto preciso dove stare e un ruolo specifico, ma anche il percorso di avvicinamento a via Fani. Andrà ad appostarsi nei punti esatti soltanto se tutto è a posto e l'azione parte di sicuro. La verifica tocca a me, e fino all'ultimo faccio la spola tra un gruppo di compagni e l'altro.

Che tipo di verifica ?

Dobbiamo capire se Moro c'è e se uscirà di casa come al solito. I giorni precedenti c'era. Per accertarsene con almeno mezz'ora di anticipo basta vedere se c'è la scorta sotto casa, alla palazzina dove abita in via del Forte Trionfale. Passo con la macchina, la scorta c'è, le due auto sono parcheggiate una in fila all'altra nel cortile antistante l'ingresso, come al solito. Sicuramente di li a poco Moro esce. Faccio l'ultimo giro fra i compagni in avvicinamento, confermo, ciascuno va a prendere posizione. L'azione è partita. Il momento critico è quello iniziale: una nostra macchina (la 128 targata Corpo Diplomatico) deve andare a mettersi davanti al piccolo convoglio composto dalla 130 con dentro Moro, l'autista e il

maresciallo, e dall'Alfetta con gli altri tre. Bisogna avvistare in tempo le due macchine, che vanno veloci per motivi di sicurezza e cogliere il momento esatto in cui rallentano per girare a sinistra da via del Forte Trionfale in via Fani. È un attimo, la nostra macchina deve essere in movimento e mettersi con naturalezza davanti a loro. Se non li agganciamo li non li riprendiamo più. Guai se la manovra riesce male o se succede qualcosa, anche piccola, che attiri l'attenzione degli agenti di scorta. Su quella macchina non ci vuole uno che guidi come un pilota di Formula Uno, ma che abbia esperienza e nervi saldi. Tocca a me. Ma occorre che un compagno mi segnali che il convoglio sta arrivando con qualche attimo d'anticipo prima che svolti pervia Fani.

La ragazza ?

La ragazza, appunto. Deve fare solo questo, poi salire su una Vespa e andarsene. È giovane, carina, non ha che da star ferma all'incrocio con un mazzo di fiori in mano. I poliziotti non sono degli sprovveduti, ma una donna con dei fiori in mano è nel ruolo, non dà nell'occhio. Come un operaio che mangia un panino su un muretto, con le gambe penzoloni: ci può stare anche un'ora, non si meraviglia nessuno. Eravamo abili nell'osservare queste cose. La ragazza fa il segnale, esco al momento giusto e mi metto davanti alle due macchine di Moro, regolando l'andatura: abbastanza piano perché le macchine che ci precedono si allontanino un poco, in modo da non venire coinvolte nella sparatoria, ma anche abbastanza veloce perché il convoglio di Moro non mi sorpassi. Funziona. Nessuno si accorge di niente. Tutto va tranquillamente.

Anche tu sei tranquillo ?

Mah, non lo so. Forse proprio l'opposto, non ho modo di percepirlo. L'adrenalina è a mille, il cuore è impazzito, ma non ho il tempo di sentire emozioni, il tempo delle incertezze, dei dubbi, è prima e dopo un'azione, mai durante. Quando ci sei dentro l'unico problema è come fare nel modo migliore quel che si è deciso. A me è capitato sempre di essere lucido, concentrato, non mi è sfuggito mai nulla, il tempo si dilata, ogni secondo è un'eternità. Credo che in genere sia così per tutti. Procedo, sorpasso una 500 che va troppo a rilento e le macchine di Moro mi vengono dietro.

L'ideale è che tutte e tre le macchine si fermino allo stop dove sono appostati i quattro compagni che dovranno neutralizzare la scorta, altrimenti dovranno risalire via Fani e la scorta potrebbe notarli. Mi fermo dunque allo stop, un po' di traverso per occupare la parte maggiore di strada ma senza che sembri strano, normalmente, senza stridore di gomme.

Non ti sei fatto tamponare dalla 130 di Moro? Si è sempre detto questo.

No. Un tamponamento li avrebbe messi in allarme e invece devo dare tempo ai compagni di avvicinarsi. Moro e la scorta sono vulnerabili, lo ripeto, in quanto non notino nulla. E non notano nulla perché fino ad un secondo prima della sparatoria non c'è niente da notare. I quattro compagni aprono il fuoco. Allo stesso momento i due che devono bloccare il traffico in alto lo bloccano. Barbara è già in mezzo all'incrocio a due metri dallo stop di via Fani e ha fermato il traffico che risale da via Stresa; verremo a sapere che la prima macchina a essere fermata - vedi le coincidenze - è la 500 di un poliziotto, che non capisce nulla e infatti non fa nulla. Per prima i quattro compagni colpiscono l'Alfetta della scorta, poi con una raffica il maresciallo Leonardi che è con Moro nella 130. L'autista dell'Alfetta, colpito, lascia andare la frizione, la macchina fa un salto in avanti, tampona la 130 di Moro che a sua volta tampona la mia. Avevamo previsto di abbandonare la 128 sul posto, e io sarei sceso per andare a rafforzare la posizione di Barbara. Ma a questo punto succede l'imprevisto: si inceppano sia il mitra di Morucci sia quello di Bonisoli. Uno dei poliziotti dell'Affetta riesce a scendere dalla macchina, impugna una pistola, Bonisoli lascia andare il mitra, tira fuori la pistola sua, spara e lo colpisce. Credo che nemmeno lui sappia come ha fatto a sparare con tanta precisione, certo se non ci fosse riuscito in via Fani avremmo lasciato anche qualcuno dei nostri. E io sono costretto a rimanere in macchina con il freno premuto perché l'autista di Moro, che non è stato colpito, cerca di togliere la 130 dall'incastro formato per il doppio tamponamento. In quegli attimi Morucci sostituisce il caricatore al suo mitra inceppato, spara una seconda raffica e riesce a colpirlo. Pochi secondi e la sparatoria è finita, la scorta neutralizzata. Quella scena non ce la scorderemo per la vita.

Ma che armi avevate, due mitra che si inceppano in pochi secondi ?

Eh sì. Mi ero augurato sempre di non dover affrontare uno scontro a fuoco, perché con il nostro addestramento e con la nostra dotazione di armi, sarebbe stato un disastro.59 Uno dei mitra che si inceppa, uno Zerbino per la precisione, è un residuato della Repubblica di Salò, ereditato da qualche partigiano, non saprei dirti né dove né da chi, non c'è alcun significato politico, solo per dire che è un'arma vecchia di quarantacinque anni. In via Fani avevamo soltanto due armi efficienti e moderne: un M12 che è anche in dotazione alle forze di polizia, lo usa Fiore, e la famosa mitraglietta Skorpion che, ovviamente, tiene Barbara.

Perché ovviamente ?

Perché è un'arma molto piccola. Un mitra normale pesa alcuni chili, è grande, è difficile per una donna occultarlo sotto il cappotto.

Chi preleva Moro dalla macchina, finita la sparatoria ?

Io, benché fosse previsto diversamente. È saltato un po' lo schema. Mi sembra necessario accelerare la ritirata. Scendo dalla macchina, vado alla 130 e prendo Moro per un braccio per farlo scendere.

Stava curvo per sjuggire agli spari ?

No, era seduto, molto impaurito, frastornato. Era stata una scena apocalittica, si può capire.

Si racconta che abbia detto: "Cosa vogliono da me, mi lascino andare. "

Non ha detto una parola, eravamo sotto shock anche noi, figuriamoci lui. Ha dei piccoli graffi sul dorso delle mani per via dei vetri frantumati, sono poca cosa, non si lamenta. Lo faccio salire sulla 132 guidata da Seghetti e sdraiare.

Ma se si fosse tirato su ?

Non avrebbe avuto nessuna importanza in quei primi momenti. Una sparatoria come quella si sente a un chilometro, inutile tentare di passare inosservati. L'essenziale è andar via il più presto possibile. È nella seconda parte del percorso, e quando cambiamo le automobili, che bisogna

nascondere il prigioniero.

Chi c'è nella 132, oltre Seghetti ?

Fiore nel sedile di dietro e io, seduto davanti. Ci precede una macchina di copertura, tutti gli altri ci seguono con le macchine sul tragitto previsto. Arrivati a Piazza Madonna del Cenacolo, facciamo un rapido controllo, ci siamo tutti. A questo punto la ritirata avviene in modo diversificato. 1 compagni delle colonne di Milano e Torino vanno immediatamente alla stazione a prendere il treno. I compagni di Roma si defilano in città, rientrando nelle basi dove preparare la gestione politica dell'azione. Intanto, sempre sulla piazza, trasbordiamo Moro dalla 132 in un vecchio furgone 850.

Sotto gli occhi di tutti ? Come avviene il trasbordo ?

Affiancando le due macchine. Basta un attimo per farlo passare dall'una all'altra nel momento in cui nessuno passa vicino al luogo dove siamo parcheggiati. La cosa avviene senza inconvenienti. Siamo ragionevolmente certi di non essere seguiti; avevamo predisposto una via di fuga per strade che sulle carte topografiche non sono neppure considerate percorribili.

Quanto tempo è passato dalla sparatoria all'arrivo in Piazza Madonna del Cenacolo ?

Pochissimi minuti. L'allarme è scattato ma quando arriviamo alla piazza del trasbordo non può aver prodotto effetti importanti. Dobbiamo fare in fretta, ma siamo certi che al massimo le pattuglie stanno ora correndo verso via Fani.60 Non perdiamo tempo, ma neppure ce ne preoccupiamo molto.

Come viene sistemato Moro nel furgone?

Nel solito cassone di legno. Abbiamo già fatto dei sequestri e sappiamo che il modo migliore di trasportare un uomo è usare una cassa rigida di legno. È fatta in modo che è possibile entrarci rapidamente, e starci rannicchiati. È incredibile come in una cassa alta un metro e venti e larga ottanta centimetri possa starci chiunque; certo, senza fare un movimento. Non è comodissima, anzi non lo è per niente, ma per un tragitto breve non è una gran sofferenza. Potrà sembrare ridicolo, ma di questa piccola crudeltà ci

siamo scusati sempre con coloro cui l'abbiamo imposta. Chissà, forse ci sembrano più giustificabili le grandi durezze della lotta armata, dove muoiono degli uomini, delle piccole sofferenze come questa, in cui non riusciamo ad evitare a un uomo di subire un'umiliazione.

Nemmeno allora Moro ha fatto resistenza ?

No, non è un energumeno e neppure uno sciocco. Sebbene confuso e sotto shock si è reso conto di quel che è successo, ha visto che la scorta è stata eliminata: cinque uomini colpiti da raffiche di mitra sono una scena terribile. Non so che cosa passi nella sua mente, io sono ancora stordito dal frastuono degli spari e ho negli occhi la visione di tutto quel sangue.

Chi guida il furgone con la cassa ?

Lo guido io. Nel furgone non c'è nessun altro, sarebbe inutile, se veniamo intercettati non c'è rimedio, l'azione in un modo o nell'altro si conclude. Ma contiamo di avvicinarci alla base senza incontrare blocchi stradali, è troppo presto. In più, è una buona regola non portare alla base compagni non strettamente indispensabili. C'è solo una macchina con due compagni che mi fa da battistrada, una vecchia Dyane che va pianissimo. Oltrepassiamo senza fermarci il luogo dove avevamo messo una macchina per un cambio di emergenza qualora non fosse riuscita la prima operazione di trasbordo: è pericolosissima l'eventualità che sia stato notato il furgone col quale ci avviciniamo alla base, perché una segnalazione anche a distanza di giorni consentirebbe di circoscrivere la zona in cui ci troviamo. Ma non è necessario cambiare macchina. Siamo quasi a destinazione, non rimane che l'ultimo trasbordo nella macchina che "ufficialmente" frequenta la base predisposta per la prigione di Moro. Il trasbordo avviene nel parcheggio sotterraneo della Standa dei Colli Portuensi: là sotto la gente carica ogni genere di sacchetti, scatoloni, cassette. Nessuno fa attenzione a una cassa appena più grossa del normale che passa da un furgone al baule di un'auto familiare. Che è la macchina di Lauretta.

È Laura Braghetti che la guida fino alla casa ?

Si. I compagni che ci avevano fatto da staffetta nella Dyane si defilano, Gallinari e io andiamo alla base.

L'appartamento di via Montalcini 8?

Si, te l'ho detto: Moro rimarrà sempre lf. L'avevamo comprato e adattato proprio per questo.

Con modifiche all'interno ?

Si. Avevamo cercato un appartamento con alcune caratteristiche, poche, ma tassative. Primo, doveva avere un garage interno, sotterraneo, dove ogni inquilino avesse un suo box con tanto di saracinesca, e dal quale si potesse salire con poche scale. Non potevamo essere certi che quando saremmo arrivati con Moro, nel garage non ci fosse nessuno; poteva darsi che fosse impossibile trasportare immediatamente la cassa dalla macchina all'appartamento, e lo stesso per il tragitto inverso, a operazione conclusa. Occorreva che nel garage si potesse sostare qualche ora, se necessario. Secondo, l'appartamento doveva essere abbastanza grande da poter ricavare da una delle stanze un'intercapedine che non ne alterasse vistosamente le proporzioni, il box dove avremmo tenuto Moro.

Quanto grande?

Non c'era una misura vincolante. L'appartamento di via Montalcini faceva al caso nostro, è sui cento metri quadri, una cucina, le camere da letto, un salone a forma di elle, uno studio. È l'appartamento tipico di quella zona di piccola e media borghesia, quasi uno standard. Lo studio non è grande ma si può ricavare un'intercapedine nel muro che lo separa dal salone. Bisogna che il rimpicciolimento dello studio non si noti troppo. Un compagno architetto ci suggerisce come sistemare l'arredamento e dove piazzare uno specchio che aumenti visivamente lo spazio.

A cose finite tutto è stato ripristinato come prima. Però il punto dove c'era il box è stato individuato.

Credo di si, l'ho letto da qualche parte.

Il box è la sola modifica che avete fatto ?

Abbiamo messo delle inferriate alle finestre, per il caso di un'incursione della polizia. Siamo al primo piano, un terrazzo corre tutto intorno alla

casa, tutti da quelle parti hanno paura dei ladri, nessuno si stupisce se mettiamo delle grate molto decorative alle finestre.

Come era costruito il box ? Come era occultato ?

Tiriamo su un muro, Prospero e io. Prospero ha fatto mille mestieri, è anche un bravo muratore. Usiamo dei pannelli di gesso che si incastrano e sono tenuti insieme da una specie di colla, sono prefabbricati facilissimi da montare quando si sappia come. Insonorizziamo le pareti, tappezziamo l'esterno con carta da parati e ci appoggiamo una libreria che lo copre fin quasi al soffitto. Impossibile sospettare l'esistenza di un'intercapedine. Un controllo generico, del tipo per intenderci di un rastrellamento di tutto un quartiere, non lo scoprirebbe. Dall'esterno è invisibile. Dall'interno è un cunicolo alto, lungo e molto stretto. Gli oggetti che servono ci stanno tutti, ma non è certamente confortevole.

Dentro cosa c'è?

Un letto, una specie di piccolissimo comodino dove Moro appoggia i fogli che scrive. Un wc chimico, una conduttura per l'aria condizionata; un microfono, ben in vista nella parete. Moro lo vede subito: "È un microfono, vero?" "Si - gli faccio - registriamo quello che dici, e serve a te per chiamare se ti serve qualsiasi cosa."

Perché gli dai del tu ?

Di solito dò del tu a tutti, a meno che non mi accorga che il mio interlocutore tiene molto alle formalità. Non è questo il caso. I.a situazione è tutt'altro che formale.

Non c'è nemmeno un tavolino per scrivere?

No, non c'è spazio per un tavolo vero e proprio. È un vano angusto, non è stato costruito per farci delle passeggiaste. Sappiamo di obbligare Moro a un grosso disagio, ma, sappiamo anche che nei tempi brevi è sopportabile, non sono queste le cose che contano per uno che è sequestrato. Per quanto possiamo diamo a Moro ogni cosa che chiede o di cui pensiamo abbia bisogno: lo trattiamo in questo meglio di come trattiamo noi stessi. Non c'è

di che vantarsene: se ci prendiamo il diritto di tenere, anche per breve tempo, un uomo segregato in prigionia, abbiamo il dovere di trattarlo come la persona più cara al mondo. Quali che siano le scelte cui arriveremo alla fine. È una regola alla quale non abbiamo mai derogato.

Moro scrive molto, moltissimo, come fa li dentro?

Fa, eccome. Si alza pochissimo dalla branda, sta sempre sdraiato o seduto. Legge e scrive con i cuscini dietro la schiena. Porta una tuta da ginnastica che gli abbiamo procurato e provvediamo a cambiargli. Ha molta carta, scrive in continuazione. A parte le conversazioni che ha con me -mi rifiuto di chiamarli interrogatori, l'inquisizione non è il mio forte: dopo la seconda domanda mi metto a discutere con chi dovrei interrogare ed alla fine sa più lui di me di quanto io sappia di lui - Moro non fa che scrivere. Ha riempito una quantità di fogli.

Facciamo un passo indietro. Perché la casa era stata acquistata dalla Braghetti ?

Laura è una compagna del movimento, ma non è molto conosciuta, per la polizia sarà una delle migliaia di compagni del movimento romano. È impiegata, fa un lavoro stabile in una ditta di import-export. È credibile come inquilina di quella casa. Visto che è giovane e carina le diamo un fidanzato. Un convivente. Il famoso Altobelli.

Chi era in realtà ?

È ovvio che tu me lo chieda, anche se sai che non lo dirò. Il nome di questo compagno non cambia di una virgola quel che è successo, ma se lo facessi cambierebbe l'esistenza a lui: gli tirerebbe addosso un ergastolo. Io credo che sia tempo di far uscire tutti i compagni dalle galere e non di mandarci qualcun altro. Altobelli è un compagno di movimento, è sufficientemente esperto per reggere una situazione del genere, sufficientemente coperto da non essere ricercato.

Ingegner Altobelli è il finto cognome. Ti ricordi il finto nome?

Forse non è chiaro che cosa sia un'identità fittizia in clandestinità. I dati dei tuoi documenti falsi li conosci e li usi solamente tu, quando devi mostrarli a

qualcuno. Che so, alla stipula del contratto oppure, più spesso e con una fifa che ti stritola le budella, se i poliziotti fanno un controllo. Per gli altri compagni non ha importanza il nome scritto su quei documenti, non ti chiameranno mai con quel nome.

Altobelli è presente al momento dell'acquisto dell'appartamento ?

Trattativa e acquisto dell'appartamento sono svolti da Laura. Alla fine la base è perfetta: all'esterno si presenta come un alloggio abitato da due giovani che lavorano, una coppia molto rispettabile, molto perbene, molto piccolo borghese. Laura è formidabile, sa unire le regole della clandestinità con un suo modo di prendersi cura delle persone che le attira simpatie dovunque. In via Montalcini si prende cura di una signora molto anziana che abita al piano di sopra, le va a fare la spesa, ogni tanto prendono il tè insieme. Laura e il suo fidanzato sono le uniche persone che gli altri inquilini vedono durante il sequestro. Prospero, io e naturalmente Moro non siamo stati mai visti. Gallinari non si muove mai dall'appartamento, è un fantasma esattamente come Moro: nessuno può immaginare che sono lì. Quanto a me, che faccio la spola tra questa base ed il Comitato Esecutivo, entro ed esco in ore che mi permettono di non essere notato.

Qual è la prima cosa che dici al prigioniero appena lo porti nel box?

La dice lui, quando vede la bandiera rossa con la stella a cinque punte sulla parete dietro il letto: "Ah, siete voi, lo immaginavo." La bandiera è un rituale obbligato: dobbiamo fargli una fotografia sul suo sfondo, da mandare ai giornali, come di consueto, con il primo comunicato.

E la prima cosa che gli dici tu ?

Gli chiedo come sta. Vedo che non è ferito, ma devo sapere se ha qualche malattia che richiede cure particolari. È molto importante: un cardiopatico o un diabetico hanno bisogno di diete e di medicine indispensabili. Risponde che sta bene e di non soffrire di malattie particolari. Non ha superato lo shock, ma se è per questo siamo in due. Sono tra i più vecchi nelle azioni di combattimento, ma non mi sono abituato mai alla paura, né alla lacerazione di momenti come quello in via Fani. So che parlare di cose comuni aiuta a ritrovare la calma, gli chiedo che cosa mangia, risponde che

mangia poca carne, qualche formaggio, molte verdure. I minestroni sono la costante della sua dieta, gli piacciono e lo accontentiamo senza difficoltà. Mangia con appetito, ma poco. Mi chiede se ho trovato le sue medicine, in una delle due borse ce ne sono moltissime, gliene dò con parsimonia, in realtà m'è parso che non ne avesse bisogno davvero, era un po' una mania. Nella tasca del paltò ha una fiaschetta di whisky, gli chiedo come mai perché non ha davvero l'aria di un alcolizzato. Dice che gli serve per gli abbassamenti di pressione: ma non ne avrà mai bisogno, e non ne chiederà mai.61 La verità è che fisicamente sta bene. Una volta ne parliamo e mi dice, sorridendo con ironia, che quella situazione gli fa bene alla salute: soffre di un disturbo agli occhi, la luce del giorno gli crea delle difficoltà, li dentro può regolare l'intensità dell'illuminazione e, mi dice, non ha mai visto così bene come adesso. Chissà se c'era una metafora nelle sue parole.

Come provvede alla pulizia personale ?

Quando occorre gli vengono portati dei catini.

Non ha mai camminato ?

No. Si alza, si sgranchisce le gambe, ma non si è mai mosso da li dentro. Non possiamo permettercelo e lui non lo chiede mai, capisce. Il poco che chiede gli viene dato. È un uomo davvero frugale. Segue gli orari che vuole, perché a parte i momenti in cui io c'ero e discutevamo non c'è nulla su cui si deve regolare: come ho detto scrive molto.

L'interrogatorio, chiamiamolo così, quando è cominciato?

Non subito. Devo prima scrivere il comunicato62 e non ho ancora ripreso fiato, sono inzuppato di sudore, il cuore mi è schizzato su fino in gola. Avrei bisogno per un po' di non pensare a niente: un'operazione come questa ti distrugge anche fisicamente, lo senti appena cade la tensione.

Lo scrivi li ?

Si, non devo lasciarmi andare. Mi concentro sul volantino, i contenuti sono già stati discussi con il Comitato Esecutivo, la bozza l'ho in testa. Butto giù il testo, capisco che è un po' raffazzonato, ma dobbiamo immediatamente

rivendicare l'azione e caratterizzarla, altrimenti ci toccherà rincorrere le interpretazioni degli altri. Insomma scrivo il comunicato, non è granché, mi sento anche un po' grottesco mentre lo stendo là in cucina, ma se in queste tragedie uno non riesce a ridimensionarsi perde il senso della realtà. Il comunicato lo passo a Morucci assieme alla foto di Moro e sullo sfondo la bandiera. Avevamo deciso che fosse Morucci a dare i comunicati alla stampa.

La forma l'hai improvvisata in quel momento?

È una regola tassativa: i comunicati sulle azioni si scrivono soltanto ad azione effettuata. Una volta a Milano la polizia ha trovato in una base la rivendicazione d'una azione che si doveva fare due giorni dopo: non solo è saltato tutto ma ci è toccato anche gestire un'azione non fatta. Da allora non abbiamo più scritto niente prima; naturalmente il contenuto è sempre concordato con l'Esecutivo. Su questo primo comunicato non c'è tanto da pensare: è la "campagna di primavera", è l'operazione Moro, la più importante delle azioni armate che estenderemo in tutto il paese. L'Esecutivo è riunito in permanenza, per controllare e decidere il da farsi momento per momento.

Dove si riunisce? Quanti sono?

Giusto quelli che devono prendere le decisioni e comunicarle alle colonne e, in senso inverso, portare al centro il parere di tutti i compagni delle colonne. Quattro o cinque persone sono sempre bastate: in quel periodo siamo Azzoli-ni, Micaletto, Bonisoli e io. L'operazione Moro è nota nei dettagli soltanto ai compagni che la realizzano - neanche all'intera colonna romana - oltre naturalmente all'Esecutivo. La base per riunirci è messa a disposizione dal Comitato rivoluzionario della Toscana (si chiamano così le colonne non concentrate su una sola città). Si trova alla periferia di Firenze, facile da raggiungere dal nord e dal sud, a metà strada da tutto. Ma nel corso dei cinquantacinque giorni ci sposteremo a Rapallo. In Liguria siamo meglio organizzati e Rapallo è il più frequentato dei comuni rivieraschi anche d'inverno. Ci si può andare senza dare nell'occhio.

La prima volta vi siete riuniti a Firenze?

Si. Abbiamo battuto li il comunicato su una Ibm con la testina rotante, quella pallina - allora era una novità - che può essere applicata a tutte le macchine da scrivere di quella marca. Una scelta neanche tanto pensata, ma che si rivelerà importantissima. Infatti decidiamo una cosa pazza: ogni comunicato sarà diffuso contemporaneamente in ogni città in cui abbiamo una presenza, in modo da dare un'immagine di forza, mettendo in campo tutta l'organizzazione, neanche un compagno deve rimanere fuori. Sempre la stessa testina, sempre gli stessi caratteri, sempre le stesse modalità di diffusione per tutti e nove i comunicati. Funziona cosi: io scrivo la bozza, l'Esecutivo rifinisce, vengono tirate quattro copie identiche, partono immediatamente e arrivano, praticamente nello stesso istante, a "Il Messaggero" di Roma, "La Stampa" di Torino, il "Corriere della Sera" a Milano, "Il Secolo XIX" a Genova. Può parere da matti, in uno scontro militare di quella portata. Ma diventa il nostro marchio di fabbrica, quello che dà autenticità a ogni comunicato, impossibile barare. E se i giornali decidessero un blackout, la propaganda ce la faremo da soli: il testo viene ripreso e ciclostilato dalle varie colonne, che lo distribuiscono in migliaia di copie tramite la rete d'appoggio che abbiamo in fabbrica e nei quartieri. Non vi abbiamo mai rinunciato, neanche quando controllo e repressione sono pesantissimi. I giornali non hanno censurato i nostri comunicati - nella società moderna non è possibile - ma la mobilitazione che si determina nel far circolare un volantino clandestino è la ragione dell'esistenza del volantino. In questo modo conquistiamo nuovi compagni, verifichiamo se abbiamo appoggi e consensi o no.

Il comunicato n. 7 del 18 aprile, che dà Moro per morto e gettato nel lago della Duchessa, non ha questa distribuzione.

No, ovviamente, perché è falso. Basterebbe lo stile per accorgersene. Tutto di quel comunicato è falso. Non c'è da discutere tanto è palese, c'è da ragionare sul perché, con quella marea di esperà, nessuno sembri accorgersi che nel comunicato che sarebbe più drammatico, quello decisivo, non una virgola somigli ai comunicati Br, nulla nella diffusione ricordi i comunicati precedenti. Ma andiamo!

Il comunicato l'ha scritto Chicchiarelli?63

Un sacco di gente si è vantata di questa prodezza, ex anarchici, mestatori legati ai servizi, mitomani di ogni genere. Non so chi sia stato, non ha importanza. Importa che tutti sanno che è falso ma lo usano come se fosse autentico. La mistificazione permette una conclusione annunciata, quasi la sollecita: "Chiudiamo al più presto questa faccenda, seppelliamo un cadavere e non parliamone più." Quando Scalfari pubblica a nove colonne che Moro è stato ucciso, fa le prove generali sull'opinione di un epilogo che tutto l'establishment auspica. Così si preme anche su coloro che vorrebbero tentare strade diverse: nessuno ci si azzardi, tanto è così che va sicuramente a finire.

Hai scritto i comunicati sempre in via Montalcini ?

Si, oppure in treno mentre vado all'Esecutivo. Non sono grandi comunicati. Ci muoviamo con frenesia e ciascuno con troppe incombenze. E poi, per dirla fuori dai denti, molte cose mi si chiariscono soltanto parlando con Moro. Noi non conosciamo il potere, possiamo aver fatto delle analisi corrette sulla struttura della fabbrica e sullo stato, ma dei meccanismi del potere vero non sappiamo niente. Solo chi è dentro il gioco ne possiede le chiavi. È Moro che mi insegna un po' a capire, mi parla in maniera esplicita, anche molto colloquiale di quella che per lui diventa subito una battaglia con la Dc, e che alla fine perderà. Siamo su fronti opposti, ma riusciamo a ragionare insieme su quel che succede, io gli fornisco delle informazioni, qualche giornale. Gli bastano pochi particolari, a volte una battuta, per capire. Conosce perfettamente quell'universo in agitazione.

Come ti si rivolge ? Come ti chiama ?

Non mi chiama. Una volta sono arrivato con mezza giornata di ritardo da Rapallo perché la riunione dell'Esecutivo s'era prolungata oltre il previsto, e aveva chiesto a Prospero come mai il suo "collega" non si era fatto vivo. All'inizio mi dà del lei, ma dopo qualche giorno mi dà spesso del tu. C'è un rapporto che si crea fra gli uomini anche nelle situazioni più incredibili.

Ti ha mai visto in faccia ?

Mai. Quando entro nel box metto una specie di passamontagna, di cotone,

leggero, ma fastidioso. Non solo perché il ruolo rimanga impersonale: chi parla sono le Br e basta. Ma anche per sicurezza: se alla fine lo avessimo liberato, era necessario che non potesse riconoscere nessuno. O mettevo un cappuccio io o dovevamo tenerlo bendato. È chiaro che mi incappuccio io.

Usi sempre il termine "conversazione". Ma voi Moro lo avete processato, il processo lo avete sbandierato ai quattro venti, anche se non ne avete detto nulla in concreto.

Ma no, non è stato un processo, anche se scrivevamo così nei comunicati. Già allora quel linguaggio mi appariva tremendo. Rileggendoli a posteriori, mi sono chiesto non tanto come avevamo fatto a scriverli - non li rinnego, un senso lo avevano, eccome... Certo non ne ho conosciuto uno, di compagno, che sia entrato nelle Br perché conquistato dalla lettura di una Risoluzione strategica. Anche se poi se l'imparava magari a memoria. Ti ripeto, processo è una terminologia povera, forzata, una scimmiottatura del tribunale borghese. Non siamo mai stati capaci di fare un processo. Ricordo quando abbiamo sequestrato Mincuzzi,64 un dirigente dell'Alfa Romeo che seguiva le trattative all'Inter-sind. Lo teniamo in un capannone fuori Milano, gii contestiamo le condizioni di lavoro, gli orari, i ritmi, i temi della lotta all'Alfa in quel momento. Sono accuse aspre, ma dopo cinque minuti ci troviamo a discutere: lui difende l'oggettività del meccanismo produttivo, contesta le nostre contestazioni. Siamo su posizioni inconciliabili. Ma a un certo punto, lui, che ha gli occhi bendati e un naso gonfio così perché s'è beccato un pugno dibattendosi mentre lo facevamo salire sul furgone, mi fa: uMa me lo spieghi perché non sei venuto a casa mia a discutere di queste cose?" Avrà anche avuto interesse a sdrammatizzare, però quella battuta conteneva una verità. Con Moro poi... ma che processo! La violenza sta nella situazione in cui si trova, è in certo modo oggettiva. Ma accusa e difesa si giocano sul piano storico, non c'è rituale che le possa rappresentare. Il resto è un parlare fra due uomini da sponde opposte, cerco di farmi capire, cerco di capire. Siamo dentro un conflitto terribile, mortale, l'esito dipende anche da quello che diciamo.

Come è stato il rapporto fra voi ?

Non è semplice da spiegare. In situazioni come questa si creano rapporti né

univoci né lineari. Fra noi era dominante la politica, ma eravamo anche due persone che stavano assieme per molte ore; e allora si opera una sorta di scissione, una schizofrenia fra il ruolo - lui il presidente della Dc ed io il dirigente delle Br - e gli uomini che siamo, più complicati e meno riducibili in una definizione. Davanti a me c'è un uomo abbandonato dai suoi, e che non sa darsene ragione. Ha uno spasmodico attaccamento per la famiglia, c'è un nipotino piccolo di cui si preoccupa molto a causa di una fragilità che vede nei genitori. Si sente responsabile di quel piccolo, lo ama moltissimo, ne parla in continuazione. E lo capisco, per forza; da qualche parte anch'io ho Marcello, l'ho lasciato che era appena capace di camminare, chissà come viene su, che cosa gli succede, ogni volta che ci penso sto male. Non ci assomigliamo, Moro e io, ma so quel che gli passa dentro. E poi ho davanti un uomo che mi fa pietà, nel senso virgiliano della parola. E qualche volta anche un po' rabbia, lo ammetto: ma insomma, sei il presidente della Dc, governi il paese da quando neanche andavo all'asilo, non puoi dire che "tieni famiglia" come uno qualunque. Si, è un rapporto contraddittorio. C'è qualcosa che appartiene ad entrambi, una dimensione di sofferenza -cosi diversi e nemici, riusciamo a provare simpatia uno per l'altro. Altrimenti non so cosa saremmo. Naturalmente c'è la politica. A chiedergliene conto non sono io, ma le Brigate Rosse, gli muoviamo accuse durissime, non tocca a me essere indulgente e nemmeno potrei. Lui lo capisce, capisce presto che la nostra intransigenza si deve anche al muro che ci si oppone dall'altra parte. Capisce che siamo in una spirale che renderà ineluttabile il peggio, che siamo a un passaggio tragico nella vita del paese, e nessuno avrà la forza di evitarlo. Lo capisco anche io e anche a me fa paura.

Che cosa sapeva di voi prima del sequestro ?

Sapeva chi eravamo, eccome. Siamo nel 1978, le informazioni sulle Br non gli mancano. Conosce la questione dei prigionieri politici, dalle lettere si vede che ha seguito il processo a Torino. Ma più che sottovalutare, come altri, la lotta armata, non la sa valutare. Per lui sinistra vuol dire Pci, non immagina che possa esserci altro di qualche rilevanza. La politica ha un solo terreno, quello che lui pratica. Non solo le Br, ma tutto il movimento gli appare un magma, indistinto, confuso. Neanche ci prova a capire, e pensa che comunque non tocca a lui: un'insorgenza sociale come quella, che

prende forme di violenza diffusa e persino di lotta armata, deve essere assolutamente fatta rientrare, ma questo secondo lui è compito del Pci. Così, capisce la situazione in cui si trova e quel che vogliamo, riconosce un certo linguaggio comunista, ma è altro da quello cui è abituato e non sa come prenderci. Mi chiede subito: "Ma non c'è qualcuno nel Pci, che so, un Longo, che possa parlare con lei?" È sottinteso: al quale io posso far parlare. Questo è il suo modo di ragionare. È il Pci, partito deputato secondo lui agli scontri sociali, che forse potrebbe fungere da tramite; come vedi non siamo i soli a cadere in certi errori. Gli rispondo che non c'è nessun Longo che si possa incontrare per questi sentieri, che siamo quel che siamo anche perché il Pci è andato da tutt'altra parte. È lui scrive a Cossiga, in quella prima lettera: "Mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato."

Una frase che diede molto da pensare, si disse che forse conteneva indicazioni per trovarlo.

Ma si, ricordo. Si sono dette cose strane e non tutte innocenti: che Moro fosse drogato, coartato da psicofarmaci. Favole. Con quelle parole Moro voleva dire: dietro a questi non c'è nessuno, non li controlla nessuno, dovete vederve-la direttamente con loro. Alcuni dei destinatari forse non capiscono, ma altri ne profittano per negare autenticità a quel che dice, ignorare quel che chiede. Più tardi è tornato a insistere con me: "Se nel Pci ci fosse qualcuno che ha influenza su quel che state facendo, che vi conosce e che io conosco, potrei muovermi meglio."

Quella a Cossiga è la sua prima lettera65. Come mai si mette a scrivere tanto dopo il sequestro ? È il 29 marzo, sono passati tredici giorni.

Volevamo che il primo impatto fosse su quel che comunicavamo noi. Sono giorni carichi di pathos e una lettera di Moro farebbe saltare i sismografi. È al movimento che rivolgiamo il nostro primo messaggio e non vogliamo interferenze, venga accolto o no. Se non gli diamo altro di cui parlare, i media non parleranno d'altro: semplicistico, ma è il massimo che ci possiamo garantire, e in certa misura funziona. E poi c'è un secondo motivo: prima di scrivere Moro sta a vedere quel che succede, esattamente come noi. E quel che succede è sorprendente, sconvolgente. Anche lui ha

bisogno di pensarci.

Voi di che cosa siete sorpresi ?

Di come si compatti di colpo il fronte della fermezza. È uno scenario molto diverso da quello che prevedevamo. Progettando il sequestro davamo per sicuro che lo scontro sarebbe stato durissimo, ma che sul piano della "propaganda armata" avrebbe avuto successo. Ma insomma, attaccavamo la Dc, per davvero, senza mediazioni, come mai dal '45 a oggi, mettevamo sotto accusa il suo presidente. Quel Moro che non tanto tempo prima, a proposito dello scandalo della Lockeed,66 aveva detto in Parlamento: la Dc non si processa. Invece noi la mettiamo spalle al muro, per una volta non è la più forte: è il sogno di un sacco di gente. Prevediamo che fra partiti si dividano. Vi sembra peregrino? Lo scontro sulla Lockeed era stato violento, fra governo e opposizione, specie tra Dc e Pci. Non era plausibile che, nel momento in cui prendiamo Moro, si aprissero nel Pci delle contraddizioni? Che andasse in crisi il compromesso storico? Molti settori del partito non ne erano affatto convinti. Il Pci conservava larghe fasce di militanti, che potevano - o almeno così pensavamo - premere per rompere una linea che stava salvando la Dc dalla crisi; quei militanti ci avrebbero attaccato, era ovvio, non potevano essere per la lotta armata, ma non si sarebbero messi dalla parte della Democrazia cristiana. Ci sarebbe stato qualche problema, qualche scollamento tra base e gruppo dirigente. Cristo santo, è il nemico di sempre che avevamo incastrato. D'altra parte anche nella Democrazia cristiana s'erano viste molte perplessità su un governo di unità nazionale. Moro le aveva ricomposte con un lavoro di cesello, in questo era un fenomeno, capace di levigare le sfaccettature più aspre. Ma non era filato tutto liscio, molti temevano che il compromesso storico finisse per logorare la Dc e minare il suo primato. Avevamo pensato che anche questo avrebbe giocato a nostro favore.

Il sequestro di Aldo Moro ha avuto l'effetto di spazzare via tutte le perplessità, ed infatti il governo Andreotti la fiducia l'ha ottenuta in un lampo, senza che nessuno fiatasse. Dal vostro punto di vista, è la prima sconfitta: avete determinato la chiusura delle contraddizioni, altro che aprirne.

C'è stata un'ingenuità nelle nostre supposizioni, ci siamo ingannati al limite

dell'autolesionismo. Il Pci aveva portato a compimento la parabola, non c'era più margine perché la base esprimesse qualcosa di diverso. Forse lo sapevamo già ma non volevamo crederci, non potevamo. Quando il Pci si

compatta sulla fermezza, questo ci colpisce come una mazzata. Almeno è l'effetto che fa a me.

Anche Moro, tu dici, è sorpreso.

Prima sorpreso, poi incredulo, sconcertato, irritato. Sempre lucidissimo, però. È convinto che il blocco si smuoverà da quella chiusura solo se la Dc avrà un'iniziativa, si muoverà per prima. E comincia la sua battaglia politica con il suo partito. È proprio una battaglia, anche se la fa molto in chiave personale. La vera partita la gioca con i suoi, con noi ha poco da discutere. E i democristiani lo sanno, lo sapevano allora e oggi. Per questo, credo, non si danno ancora pace. Potevano fare e non hanno fatto.

Che Moro fosse disposto a gestire in prima persona la battaglia per la propria liberazione non l'avevate messo nel conto. Vi sorprende?

Soltanto sulle prime. Poi capiamo che è naturale, Moro è il taumaturgo della politica italiana e fa politica anche in questa circostanza. Questo Moro non lo conoscevamo; tante cose scopriamo in quei giorni. E non soltanto noi. Il potere è nudo come non è mai stato. I suoi amici, il suo partito possono non condividere la posizione di Moro, ma come possono ignorarla? Lui scrive: sono in mano alle Brigate Rosse, sono un prigioniero politico, mi trovo in questo passo tremendo non perché gli sono antipatico ma perché sono il presidente della Dc, non sono qui a rispondere per me, ma per tutti voi. E aggiunge: badate, se in un paese i conflitti sociali assumono questa esasperazione, una soluzione si deve trovare, occorre uno sforzo perché non ci siano altre morti,67 questa dev'essere la scelta, non la pura e semplice repressione, se la Dc non la fa diventa un'altra cosa da quella che conosco e condivido. È un discorso tutt'altro che banale su come affrontare il conflitto sociale. Certo a spingerlo è la condizione in cui si trova, ma non solo questo. In fondo quel che egli dice è che in un'epoca di contrasti come quella, la Dc di De Gasperi o sarà all'altezza o si distruggerà: questo scrive, incessantemente. E dall'altra parte, niente, sordi,

zitti, hanno deciso di stare fermi e si controllano a vicenda.

A questo punto ti sei pur dovuto accorgere che Moro non è la stessa cosa di Andreotti.

È vero, sono due modi opposti di intendere come si governa, in una circostanza in cui ad entrambi non è consentito tergiversare. Ma non è in contrasto solo con Andreotti. La linea della fermezza è qualcosa che è estranea al suo modo di pensare e, ritiene, al modo di essere della Dc. Mi spiega che la Dc non è un partito come gli altri, non è paragonabile, che so, al Pci. È un insieme di interessi e tendenze che si tengono attraverso spinte e controspinte, ogni decisione si forma per piccoli spostamenti. "Alla fine, dopo settimane di discussione i capi delle correnti si mettono intorno a un tavolo e nel da fare e nello spartirsi ministeri o incarichi più o meno grandi si fa in modo di andare incontro un po' a tutti. Questa è la Dc." Insomma è una continua mediazione, su qualsiasi cosa, perché non dovrebbe esserlo stavolta? Si sbaglia, ne prenderà coscienza poco a poco, pensa che è una scelta disastrosa, non solo per lui.

Come si spiega, Moro, che l'anima mediatrice della Dc non appare? Che non c'è scontro - a parte qualche amico, pochi e flebili -fra chi vuol salvarlo e chi no ? Che cosa ti dice?

Pensa che la Dc è paralizzata da qualcuno o qualcosa. Che qualcosa è intervenuto, l'abbia come narcotizzata. Accenna di continuo a un intervento straniero, nulla di preciso, parla di un ambito Nato da cui potrebbe essere partita un'interferenza. Dice che i tedeschi sono in testa nella repressione dei fenomeni simili al nostro. E poi è convinto che la Dc sia ricattata dal Pci, che la tiene in pugno perché in quel momento essa è debole: ci occorre un allargamento del consenso sociale, dice, possiamo garantircelo solo attraverso un accordo con il Pci. Deve tenere fino all'elezione del presidente della repubblica, poi si vedrà. Quando, anni dopo, sono andato a vedere le date, mi accorgo che coincidono. Il Pci è messo fuori dall'area di governo alla scadenza del mandato presidenziale. O meglio a quella che avrebbe dovuto esserlo, Pertini viene eletto un po' prima per le dimissioni di Leone. Ma Moro non lo poteva prevedere. Nel 1978 paventava, a torto o a ragione, uno scontro sociale irrimediabile, voleva prendere tempo, e il governo di solidarietà nazionale era un modo di temporeggiare.

Ma quale scontro sociale ? La Cgil aveva già cambiato linea politica, all'Eur all'inizio del '78.

Già, chi se la scorda "la linea dei sacrifici". Ho sempre pensato che sia stata più disastrosa per il movimento dello stesso compromesso storico. Un suicidio. Lama può non dirselo, ma quello fu un regalo che la Confindustria neppure si sognava.

Dicevi che ad un certo punto Moro si irrita proprio. Quando ?

Molte volte. Moro non è uno che dia in escandescenze, il suo disappunto si esprime in sarcasmo. Si arrabbia per davvero quando, alla sua domanda di negoziare, i suoi rispondono rafforzando la rigidità. Conosce tutti, quando si rivolge ad uno e questo non fa una mossa, Moro sa esattamente che cosa significa. Per questo continua a scrivere e non smetterà neanche quando si rende conto che non lo ascoltano. Forse è quel che lo ferisce di più: è un capo, non accetta di essere ignorato, tanto meno che lo trattino come uno che non sa quel che si dice, che è manovrato.68 Protesta amaramente per questa umiliazione almeno in un paio di lettere, una a Zaecagnini e una a Piccoli. Noi abbiamo reso pubblico quasi tutto quel che scrive, le poche volte in cui non è stato così è perché inoltrare le sue lettere è rischiosissimo, tutta la polizia cerca di agganciarci. Del resto perché avremmo occultato qualche lettera? Quel che chiede è una mediazione sui prigionieri politici, ed è anche quello che vogliamo noi.

Non ti puoi stupire che si siano fatte molte congetture sulle vostre possibili omissioni, perché in una vicenda tragica e cruciale come questa ogni particolare conta.

Si ricama su quel che avremmo reso e non reso noto, delle lettere di Moro, perché tutti sperano che ne esista una che smentisca le altre. Un fogliettino inedito, che rimetta tutto a posto e consenta a tanta gente di dirsi: anche lui era d'accordo. In tutto questo agitarsi sul foglio mancante o le lettere non recapitate o le bobine sparite c'è la speranza che "spariscano" le lettere che ci sono e, francamente, a me sembrano più che sufficienti. Moro era teso, provato, ma il suo pensiero è chiaro, sta scritto e non si presta a fraintendimenti. Da quel che scrive si capisce della Dc più che da tutti gli studi fatti su di essa da Don Sturzo in poi. Dovrebbero mettere il

memoriale di Moro fra i testi scolastici.

Nelle lettere si riferisce alla scorta soltanto due volte, per accennare che forse non era sufficiente, adeguata. Ha parlato con te di quegli uomini cui certamente era affezionato, colpiti in quel modo sotto i suoi occhi ?

No. Non l'ha fatto, credo, perché non aveva senso parlarne con me. Quali che fossero i suoi sentimenti per quegli uomini non potevano influire sull'andamento delle cose.

Aveva realizzato che erano stati uccisi tutti ?

Sono sicuro di si, aveva visto tutto, aveva vissuto una scena tremenda.

Hai avuto l'impressione che avesse qualche speranza di essere liberato dalle forze dell'ordine?

Che ci sperasse mi sembra umano. Ricordo però che quando leggeva delle ricerche, i suoi commenti erano ironici, scettici. I giornali scrivevano che si stavano decifrando i suoi messaggi per scoprire la base dov'era tenuto. Quasi che fossero delle sciarade. Pensava però che fossero incapaci, non che non lo volessero trovare.

Leggeva i giornali, quindi. Radio, Tv ?

No, la radio e la Tv non ha avuto modo di ascoltarli. Dei giornali leggeva i fogli che gli davamo, ma gli bastavano. Era totalmente immerso nella battaglia con il suo partito, ricavava moltissimo da dettagli minimi, una riunione fatta in un posto piuttosto che in un altro. A volte me le descriveva.

Come?

Per esempio, un giorno leggendo di una riunione che è in corso a Piazza del Gesù, mi dice: "Le posso descrivere quel che sta succedendo. In un angolo c'è Zaccagnini che piange, Piccoli si agita e parla a vanvera. Andreotti sta zitto, fermo, osserva, scrive, ragiona, non è emozionato. La maggior parte degli altri ha perso la testa."

Di Zaccagnini non dice altro ?

Lo credeva il suo alter ego, e pensa che ora dev'essere in balia di qualcun altro. Non smette di sollecitarlo, gli ricorda che è il segretario, tocca a lui convocare gli organi collegiali per salvare la vita al presidente, ha il dovere di fare qualcosa. Ma Zaccagnini non fa niente. Moro pensa che non sappia tener testa a personaggi più forti che hanno deciso di tacere. Infatti Zaccagnini non proferirà parola, leggerà solo un foglietto alla Tv, visibilmente stravolto. Quando lo riferisco a Moro, dice un po' ironico: "È tipico di Zaccagnini. Di solito in una riunione è il segretario che tira i fili, ma Zaccagnini mi allunga sempre un biglietto: che cosa devo dire?" Penso che in quei giorni Moro scopre di aver fatto segretario della Dc un uomo così debole da permettere a lui, Moro, di essere presidente e il vero segretario, e ora che è prigioniero, la Dc non ha più né presidente né segretario. Moro non lo stima. Mi ha sconcertato quanto poco stimasse i suoi in genere, ma su Zaccagnini si pronuncia senza appello. "Il peggior segretario che la Dc abbia mai avuto", lo definisce nel memoriale. Fino ad allora, mi dice, Zaccagnini lo aveva considerato non solo un amico, ma una guida, non solo in politica, un'autorità morale cui affidarsi come tra padre e figlio. E nel momento cruciale il figlio abbandona il padre. Moro è implacabile: "Il mio sangue ricadrà su di voi e sul partito..." scrive a Zaccagnini in una delle ultime lettere. Sono parole tragiche, a me sembrano eccessive, ma al cattolico Zaccagnini devono essere suonate come la maledizione biblica. Credo che sia morto anche di crepacuore.

A loro scrive durante i vostri colloqui ?

Qualche volta prende un appunto, ma, penso, soltanto per fissare un'idea che svilupperà nel memoriale o nelle lettere. Abbozza di continuo qualcosa che corregge e precisa. Sta in politica e si regola man mano che va avanti. Gran parte dei fogli e foglietti trovati nella base di via Montenevoso ha questa origine. Io non ho mai interferito su quel che scriveva. E, per dirla francamente, neppur sarei stato capace di prevederne il possibile effetto. Il linguaggio, i riferimenti, le categorie che usa mi sono estranei. Capisco quel che sostiene, ma soltanto lui sa fino in fondo come lo leggeranno i destinatari delle lettere. Si raccomandava molto che venissero recapitate.

Ha mai chiesto di mandare una lettera privata ?

In un solo caso, e lo accontentiamo. Una lettera alla moglie.69 Avrebbe pagato chissà che per ricevere qualcosa dai suoi familiari, ma non potevamo permettercelo. È pericoloso ma possibile far arrivare una lettera, e anche avvertire il destinatario che è personale, ma il contrario non si può fare. Se andassimo a ritirare una lettera, il rischio di farci agganciare sarebbe altissimo. E figurarsi se facessimo venire una persona qualsiasi nella base. Ma neanche un prete. Si è detto che aveva parlato con un sacerdote, perché fa cinema. Non è mai successo.

Sappiamo che ha avuto la Bibbia. Ne aveva chiesta una in particolare?

No, soltanto un'edizione completa. La leggeva di quando in quando, ma quando non parlavamo passava quasi tutto il tempo a scrivere. E spesso pregava, si raccoglieva.

Come lo sai ?

Se ne è accorto Prospero, io lo vedevo soltanto quando parlavamo. Per il resto doveva essere Prospero, anche lui con il volto coperto, a entrare nel box per portargli da mangiare e per ogni altra cosa. Moro non ha visto che noi due.

Bonisoli ha detto che gli è stata fatta ascoltare la messa registrata.

Non ricordo, può essere ma non mi sembra verosimile. Abbiamo altro di cui preoccuparci in quei giorni, cento cose da fare di vitale importanza. Con Moro siamo comprensi-

vi, esaudiamo le sue richieste, ma siamo le Brigate Rosse, insomma!

Hai detto che non interferivi mai su quello che egli scriveva, ma la lettera alla Dc del 30 aprile potrebbe far pensare il contrario. A via Montenevoso ne sono state trovate due copie con alcune varianti, e c'è scritto: "Quello che segue è da rivedere a seconda dell'utilità che può avere per sua espressa opinione. " Si può pensare ad una supervisione.

Non è una frase diretta a me. Non abbiamo super visionato un bel niente,

l'ho già detto. Probabilmente è diretta alla persona che fa da tramite con il destinatario. Non ricordo con esattezza, forse facemmo avere la lettera a Rana70 perché la desse a Zaccagnini ed è a Rana che chiede di valutare l'utilità della diffusione di una sua parte. È semmai la prova che Moro sta conducendo una vera battaglia politica, e lascia a uno dei suoi collaboratori un margine di valutazione sull'opportunità di render pubblica una cosa piuttosto che un'altra. So bene che tutto è stato letto in controluce in cerca di significati reconditi o segnali, ma non ci sono. Né ci sono delle differenze che possono esistere tra due copie di lettere quasi identiche. Quel che è chiarissimo, è che Moro passa dalla pacatezza a un'assoluta esasperazione, transitando per tutti i gradi dell'irritazione. E lo credo. Si sente sempre più solo, isolato, persino insultato.

Quando ti è parso che si sia sentito perduto ?

Dopo la lettera del Papa alle Brigate Rosse.71 Si era appellato a Montini toccando tutte le corde cui lo pensava sensibile, argomenti politici, religiosi, morali, l'antica militanza nella Fuci, i vecchi tempi e gli entusiasmi giovanili. Gli rammentava un'udienza avuta con i familiari poco tempo prima. Insomma, si rivolge al Santo Padre, con tutto quello che questa espressione significa per lui. Montini risponde con una lettera politica a noi. Gli accenti sono molto alti, accorati, anche toccanti, ma il significato del messaggio è un macigno. Moro se ne rende conto. Quelle parole che cominciano con "Uomini delle Brigate Rosse" e finiscono con "lasciatelo senza condizioni" gli dicono che anche Montini si è schierato, e il cerchio si è chiuso. È disperato. Se il Papa, che avrebbe tutta l'autorità morale per percorrere i sentieri di un compromesso, non si è proposto come mediatore o almeno come interlocutore neutrale, vuol dire che sta con chi ha deciso: meglio Moro morto che trattare con le Br. Dopo quel "senza condizioni" nessuno avrà il coraggio di fare la minima mossa. Da quel momento Moro si sente perduto.

La lettera del Papa l'avete intesa così anche voi?

Certo. Non ci sono più margini. Ci stringono a una decisione che non è quella che volevamo, ma a quel punto è l'unica per noi possibile. Il mio senso di impotenza non è inferiore a quello che sta provando Moro. Per un

po' egli perde anche le staffe: non va sopra le righe, questo no, mai, ma quando scrive a don Mennini72 perché dica al cardinale Poletti di supplicare ancora il Papa, ha un tono diverso dal solito. Scrive al Papa una seconda lettera, gli dice come la sua chiusura lo ha sconvolto. E si capisce. È vero che il sequestro è stata una grande violenza, è vero che ci si sta ammazzando da una parte e dall'altra, ma nei comunicati abbiamo sempre lasciato aperta una porta. Andremo fino in fondo, ma siamo stati aperti sino alla fine a tutte le mediazioni.

Tutte?

Non è facile trovarle, lo so. Sarebbe necessario che qualche personaggio autorevole, ma per forza della Dc, facesse da sponda a Moro e a quello che dice. È questo che devono fare, che altro? Non è con noi che devono parlare, noi che volete che trattiamo? Abbiamo detto quel che avevamo da dire, volevamo mostrare che si può colpire e mettere sotto accusa la Dc, ci siamo riusciti. Abbiamo raggiunto il massimo effetto propagandisdeo possibile, nessuno ce lo può togliere. Per chiudere ci basta che venga ammesso che esiste una questione riguardante i prigionieri politici. Non è questione di quanti o quali e se verranno liberati immediatamente, abbiamo ancora fresca la memoria di quel che è successo alla Raf, il sequestro dell'aereo a Mogadiscio e Stam-mhein. Non sarebbe realistico attendersi delle liberazioni immediate. Ma questo è secondario. Quel che è indispensabile, che è una questione politica e di principio, è che si riconosca dall'altra parte che in Italia ci sono dei prigionieri politici. Se qualcuno avesse solo detto: "Fermi, discutiamone", ci saremmo fermati, avremmo discusso.

Come ? Di che cosa ?

Le soluzioni si trovano, quando si vuole. In quel momento ci saremmo accontentati di parole, ma quelle parole nessuno ha voluto dirle. Oggi possono scrivere: "Vedete, vi abbiamo spazzati via, avevamo ragione." Non discuto. È cosi. Ma benché la storia non perdoni e non abbia certo risparmiato noi, non appaiono certo grandiosi, nell'anno di grazia 1993, i trionfatori di allora. La storia la fa chi vince, recita un vecchio adagio. Ma se fosse stata detta la parola che noi esigevamo e Moro supplicava fosse detta,

le cose sarebbero andate diversamente. Prova ad immaginare che una persona che conta dichiari: si, il problema esiste, se ne deve e se ne può parlare - è poi quel che Moro chiede. Che avremmo potuto fare se non interrompere ogni attività di combattimento? Mentre si discute non si spara. Se si cerca una soluzione, ogni decisione su Moro è sospesa. È davanti a quel muro di silenzio che dobbiamo consumare la tragedia fino in fondo. Tanto è vero che nessuno, salvo Morucci e Faranda, si pronuncia, a quel punto, contro l'uccisione del prigioniero. Dico nessuno, fra tutti i militanti di tutte le colonne e i compagni in prigione.

Moro ti ha mai pregato di lasciarlo andare ?

Si. Si. Non prega, si appella alle Br perché capisce che solo un nostro gesto, verso l'uomo, non verso il presidente della Dc, lo può salvare. Alla fine lo chiede.

Soltanto alla fine ?

SI. Prima pensa che quella partita si possa giocare, con i suoi e anche con noi. E infatti all'inizio chiede riservatezza sulle lettere, per muovere le sue pedine. Penso che la chieda senza sperarci troppo: è troppo intelligente per non capire che non avremmo messo in piedi un'operazione di quella portata senza propagandarla al massimo e in ogni passaggio.

Vai da lui tutti i giorni ?

No, perché devo partecipare alle riunioni dell'Esecutivo. Ma quando ci vado mi trattengo a lungo. Abbiamo proceduto da subito su due binari. Uno l'interrogatorio, chiamiamolo cosi. L'altro è il tentativo di scardinare il blocco della fermezza. Ci rispondono che non esistiamo se non come problema di carattere militare, poliziesco: vi andrà bene se vi prenderemo vivi, questo ci dicono.

Lo interroghi solo tu ?

Si, per mantenere omogeneo il dialogo, tenerne il filo. Moro non tace, rivela molte cose, ma lo fa da democristiano, parlando in codice. Quando stende il memoriale ha in mente coloro che posseggono le chiavi del suo

linguaggio, sanno di che parla; non pensa, credo, che io lo possa davvero capire. E infatti non lo capisco. È chiaro che sta denunciando misfatti di ogni tipo, rivela nomi e circostanze che dovrebbero far tremare il Palazzo; ma per noi in quel momento non sono gli scandali che contano, non siamo là per rovinare la carriera di qualcuno, puntiamo ad altro. Ma fuori chi è in grado di capire deciderà di ignorare. L'intero mondo politico ha deciso di ignorare qualsiasi cosa Moro dica. E a spingere su questo è soprattutto il Pci, farebbe finta di niente neppure se Moro rivelasse, che so, di aver fatto mettere la bomba in Piazza Fontana o che Andreotti è un mafioso. Ecco perché anche noi leggiamo con superficialità quel che Moro scrive. È una bomba impossibilitata ad esplodere. Il Palazzo se ne sta muto.

Come è andato esattamente il processo ? Chiedete a Moro spiegazioni? Giustificazioni? Cosa vi aspettate?

Moro non ha negato certi passaggi compromettenti, ma quelli che noi consideriamo crimini lui li stempera, li reinterpreta, li attribuisce alla necessità storica. Il rapporto fra noi, come ho spiegato, non è paragonabile a un processo. Non mente, come non mentiamo noi: esprime il suo punto di vista, quello di un dirigente politico della Dc.

Ma su quel che vi preme, immagino il conflitto sociale, che tipo di ragionamento fa ?

Moro è Moro, su tutto. Le scelte di governo che hanno prodotto divisioni tragiche fra lavoratori e hanno distrutto le possibilità di una svolta politica, Moro le smussa e insiste invece su una, per me fantomatica, anima popolare della Dc.

Ti spiega come ha cercato di costruire un certo sistema politico ? Analizza la svolta del '63, il centro-sinistra?

Ne parla come il luogo e il momento delle aperture. Insiste che la sua è stata la posizione più a sinistra di tutto il partito.

E il movimento ? Siamo a dieci anni dal '68, cosa ne pensa ?

Era professore all'università, deve aver visto il movimento studentesco, ma dev'essergli parso un arcipelago che non merita una vera esplorazione. Me

ne ha parlato soltanto una volta, dicendo della incapacità strutturale della Dc di recuperare in qualche modo le istanze di quel movimento, mentre il Pci le aveva capitalizzate in crescita elettorale. Per questo immagina che il Pci potrebbe interloquire con noi, si sorprende che non voglia farlo. Ha fatto anche un tentativo diretto, mandando uno dei suoi che faceva da tramite tra la Dc e Botteghe Oscure, a suggerire al Pci, se proprio non riteneva di potersi muovere in prima persona, di tener ferma la sua posizione, e bene in vista, ma di allentare i divieti e consentire ad altri di cercare una soluzione. È moroteismo allo stato puro. Moro pensa di indicare ai comunisti una linea di comportamento. Lui, il presidente della Dc, dice a Berlinguer quel che dovrebbe fare, e in un linguaggio così esplicito e familiare da rivelare una consuetudine... Sono rimasto di sasso. Quei sussurri, e ammiccamenti, tra segretezza e complicità.

Quindi il nocciolo dei 55 giorni è la trattativa. Torniamo alla prigione. Nel box cera un microfono - hai detto - perché potesse chiamare, e anche per registrare i vostri colloqui. Che fine hanno fatto quelle registrazioni ?

Sono state distrutte, successivamente. I tre compagni nell'appartamento cominciano a trascriverle, ma è una gran fatica e hanno poco tempo: Altobelli e Lauretta vanno a lavorare, c'è da occuparsi della casa, del prigioniero, di tutto. E per noi non è essenziale trascrivere quel che dice perché è lo stesso di quel che scrive. Oltre le lettere, sta stendendo un memoriale: per noi quello che conta è tutto H. A un certo punto smettiamo perfino di registrare.

Quindi il fatto di non aver reso pubblico tutto, come avevate preannunciato a gran voce, tu lo spieghi cosi?

Si. Rendiamo subito pubbliche le lettere perché incidono direttamente sullo scontro che è in atto. Pensiamo che il memoriale avrà valore in seguito, lo utilizzeremo in un secondo momento. Curiosamente sembra che abbia più valore oggi, a distanza di quindici anni, che non allora.

Però fra le cose che Moro ti dice, e poi riversa nel memoriale, ve ne sono di importanti, dall'Italcasse a Gladio... Tu hai bisogno di scomporre il blocco della fermezza. E allora, prendi il caso di Gladio: siamo nel '78, e vieni a sapere da Moro che esiste un

'organizzazione anti-Pci. Se questa cosa la rendi pubblica qualche problema al Pci lo crei, la sua alleanza con la Dc ne può risentire. Non capite cosa avete in mano ? O fate una scelta ?

Tutte e due, direi. Non abbiamo le chiavi di lettura per valutare quelle rivelazioni. Moro parla in cifra, annega le cose concrete in un oceano di genericità. Gladio, ad esempio, lo noti ora, quindici anni dopo, quando ne hanno parlato Andreotti e Cossiga.

Per la verità qualcosa da capire già c'era. I magistrati che si erano occupati della Rosa dei Venti avevano tratteggiato a grandi linee una struttura supersegreta, e la cosa tenne banco sui giornali nel '74-75. All'epoca del sequestro è in pieno svolgimento da un anno, a Catanzaro, il processo per la strage di Piazza Fontana: il generale Miceli, ex capo del Sid, forse con l'intento di mandare un messaggio ricattatorio, va in aula a dire che esiste un super Sid, una struttura supersegreta legata agli americani, ed anche in questo caso i giornali danno ampio risalto. Per un addetto ai lavori, e voi a modo vostro lo siete, è difficile dire che la rivelazione di Moro è proprio così incomprensibile.

Io continuo a pensare, invece, che le parole di Moro sono decifrabili con il senno di poi. E poi, quando il memoriale è stato pubblicato, ha forse prodotto sconquassi terribili? È prevalsa di gran lunga la voglia di sorvolare. E tacere su quel che si era detto di lui quando scriveva quelle cose. Certo a noi sembrò che non avrebbero sortito alcun effetto dal momento che il coro era unanime: non è lui, non è in sé, la calligrafia è la sua quel che scrive no...73 Io ammetto di non aver capito allora molte delle rivelazioni di Moro, ma c'è chi aveva scelto di non capire, e non lo ammette neanche ora.

Però si può fare l'ipotesi che certe cose Moro le dica, e le scriva poi nel memoriale, proprio per mettere in difficoltà qualcuno. Ad esempio per far intendere a Cossiga che avrebbe potuto fare rivelazioni dirompenti per tutti.

Si, è un'ipotesi. Ma quanto poteva pesare sulla scelta, tenace, determinata, fredda, di fare blocco? Crediamo davvero che se avessimo mandato a Berlinguer quel memoriale, si sarebbe staccato dalla De? Ma via. Il Pci che voterà per Cossiga alla presidenza della Repubblica... Cossiga, l'uomo di Gladio!

Il 24 aprile Moro scrive a Zaccagnini la lettera terribile in cui dice che non vuole nessuno

di loro al suo funerale. È davvero già sicuro che sarà ucciso, oppure lo scrive come provocazione estrema ?

Moro vede che si va a una conclusione inesorabile. Aveva scritto a Zaccagnini un'altra lettera per dirgli che può essere salvato e se non accade, vuol dire che è la Dc a condannarlo, così scrive. Nel comunicargli che non vuole il partito al suo funerale c'è forse la speranza di provocare un sussulto morale che li obblighi a uno spostamento. L'ho già detto, Moro non smette neppure per un istante di far politica. Ma credo che a quel punto sappia che nulla lo salverà. Sa di dover morire. Quelle parole gli escono dall'anima. Io non sto qui a cercar di attenuare la responsabilità di una scelta che per noi era politica, obbligata e dalla quale non avremmo derogato. Eppure, Cristo santo in quel momento Moro mi fa una pena infinita, nessuno al mondo dovrebbe essere così solo come lui. Conosce tutti i potenti della terra, al governo ci sono i suoi, il ministro degli Interni è un suo amico... e nessuno che faccia un gesto, non fosse che per separare la sua persona dagli altri. Questo Moro non lo accetta. Non accetta che fìngano di non sentirlo, che lo chiamino pazzo o plagiato, che ciancino di sindrome di Stoccolma o che so io.74 Non può dire a nessuno: "Muoio, ma so che mi sei vicino." Certo che vuole soltanto la famiglia al funerale, è soltanto di quell'affetto che ha certezza, è la sola cosa che gli è rimasta.

La settimana prima di quella lettera c'è stata la scoperta della vostra base di via Gradoli. Chi ci abitava in quei giorni?

In quella base viveva stabilmente la Balzerani. Sarebbe anche la mia, ma non ci sono quasi mai. Sto in via Montalcini, e ci dormo se finisco di parlare con Moro troppo tardi. Altrimenti vado anch'io a dormire in via Gradoli. In ogni caso devo partire la mattina seguente per riferire all'Esecutivo e definire la prossima mossa. Quella mattina, il 18 aprile, ero uscito da via Gradoli insieme a Barbara, saranno state le sette.

Chi è uscito per ultimo e ha chiuso la porta ?

Chi ha chiuso la porta... non me lo ricordo proprio, ma sono certo che siamo usciti insieme. E ci siamo separati subito. Io ho preso il treno per Rapallo. Sarei tornato a Roma alcuni giorni dopo e che si allagasse

l'appartamento o che il Tevere straripasse allagando tutta Roma non mi interessava, ero da tutt'altra parte e non solo con la testa. Non succede niente neanche a Barbara, sente dal telegiornale, come me, che la base è stata scoperta e si guarda bene dal rimetterci piede.

Un atto processuale descrive lo stato dell'appartamento, cosi: "La doccia è aperta all'interno della vasca, in posizione obliqua, con il manico di uno spazzolone che la orienta contro il muro, dove c'è una fessura fra le piastrelle. " Sembra un po' bizzarro che l'allagamento, che ha indotto gli inquilini a chiamare i pompieri, sia stato casuale.

Non è colpa tua ma... possibile che si riduca questa storia, che per molti versi è una tragedia, a una faccenda di tubi di scarico, di docce, di cessi insomma? E va bene. C'è una perdita strutturale nella colonna di scarico collegata a tutti gli appartamenti di via Gradoli, proprio all'altezza del pavimento del nostro bagno e di conseguenza, del soffitto di quello dell'inquilina di sotto. Più volte costei se ne è lamentata con l'amministratore il quale manda un idraulico -questo avviene qualche mese prima, quando nell'appartamento abita Morucci. L'idraulico guarda, armeggia, dà qualche colpo di martello e sentenzia: qui bisognerebbe tirar giù tutto, è un lavoro lungo, decidete e fatemi sapere. Se ne va e nessuno l'ha più chiamato. Intanto non è che la perdita si aggiusti da sola, anzi si mette a gocciolare mentre le Br stanno attuando la loro operazione più sconvolgente. Così dovrò rispondere per il resto dei miei giorni alla domanda: perché sgocciolava proprio quel 18 aprile? Non lo so, lo giuro, avrò lasciato aperto un rubinetto, oppure l'ha fatto Barbara, che è una donna straordinaria ma di mattina è sempre insonnolita. Accetto qualunque ipotesi, purché si smetta di chiedermelo.

E lo spazzolone contro la doccia ?

Non lo so. Ma supponiamo che io, pazzo, abbia allagato apposta la casa dove ogni tanto vado a dormire: a che scopo l'avrei fatto?

L'ipotesi che si è fatta, fra le tante, è che sia venuto qualcuno, un vostro compagno dissidente magari, per far arrivare la polizia. Qualcuno che ce l'ha con te?

A parte che la mente diabolica per definizione sono io e ci tengo che non ci sia un affollamento in questo ruolo, a parte che stiamo parlando di

un'organizzazione dove ogni militante è obbligato a portarsi addosso almeno una pistola, e per dirimere radicalmente un dissenso con me non avrebbe bisogno di ricorrere a uno spazzolone - a parte tutto questo, se mai si tratterebbe di qualcuno che ce l'ha con Barbara. In via Gradoli io non ci sono quasi mai. Per favore, torniamo alla serietà. Non sta in piedi.

In quella base è stato trovato molto materiale importantissimo. Proprio perché c 'era, non controllare i rubinetti o altro prima di uscire è in contrasto con la prudenza e l'abilità che rivendichi alle Br.

Abili qualche volta, prudenti spesso, gente normale sempre. E infatti abbiamo fatto tante bestialità che se ci penso... compagni che dimenticano la pistola in treno o sul tavolino del bar, per esempio. Quando dico che siamo abili, penso alla media della gente. Non che non ci siamo mai distratti. I compagni si devono comportare con accortezza, ma si devono anche arrangiare. E infatti, che trova la polizia oltre carte, documenti, armi e aggeggi vari? Le mie camicie a mollo nel catino. Chi me le doveva lavare? Me le lavavo da solo.

Hai detto che spesso dormivi in via Montalcini. Riesci a quantificare quanto tempo sei stato con Moro dietro quell'intercapedine? Nel primo comunicato avete scritto che il processo era cominciato e il 15 aprile, con il comunicato n. 6, annunciate che il processo si è concluso e che Moro è stato riconosciuto colpevole. Sei stato con lui un mese? Quando esattamente hai smesso di vederlo ?

Mai.

Quando l'hai visto l'ultima volta ?

Quando è morto. E lo trasportiamo in via Caetani.

Secondo Morucci uno dei rastrellamenti arrivò vicino alla casa pochi giorni prima dell'epilogo. Lo ricordi? Vi siete sentiti in reale pericolo?

Ricordo un posto di blocco a via della Magliana, non molto lontano dalla base, ma visibile a un chilometro, un mucchio di poliziotti e carabinieri. Per evitare questo tipo di blocchi basta un po' d'attenzione. Nelle borgate vivono molti compagni, sanno o intuiscono chi è delle Br, e se notano

qualcosa lo contattano, la segnalazione arriva ai responsabili delle brigate, che avvertono i dirigenti di colonna. Non ci sfuggiva nulla. Ci siamo sentiti in pericolo soltanto quando il parlamento ha varato a tempo di record un pacchetto di misure di sicurezza, una delle quali impone che tutti i contratti di vendita o d'affitto siano denunciati dai proprietari al commissariato di zona. Di colpo tutte le basi cessano di essere sicure. L'appartamento di via Montalcini è stato comprato di recente, se fanno un controllo seguendo a ritroso le date di registrazione ci arrivano presto. Ma non possiamo farci niente. Andiamo avanti.

La richiesta di liberare tredici detenuti politici è del 20 aprile. Da più di un mese vi si diceva che non si sarebbe trattato su nulla. Voi per primi eravate convinti che non sarebbe stata presa in considerazione?

Infatti. Vedi, la distanza tra via Fani e la sola richiesta precisa indica come valutassimo l'andamento delle cose. All'inizio avevamo semplicemente posto il problema dei compagni da liberare, senza precisare le richieste: lasciamo aperto un ventaglio di possibilità per chi votole muoversi, stiamo a guardare. Come ho già detto, consideriamo sufficiente che si riconosca che in Italia ci sono detenuti che sono prigionieri politici. Quando e chi liberare non è un problema che si ponga adesso. Adesso basta che si apra una porta, che si mostri che si sta pensando come aprirla. Andiamo avanti così per venti giorni. Faremo i nomi dei tredici compagni con il comunicato n. 8, quando i giochi sono fatti, come occasione estrema: la richiesta è così palesemente fuori misura che sarebbe facile spostarci su un terreno meno ambizioso, se ci venisse offerto. Che quella fosse una richiesta irrealistica, lo dice anche il fatto che fra i nomi c'era quello di Piancone, che era rimasto ferito in uno scontro a fuoco, pochi giorni prima, in cui era morto un agente.75 Quando mai potevamo pensare che lo avrebbero liberato? Andiamo. Affermiamo una posizione rigida perché è rigida la chiusura. Spostarcene sarebbe facile.

Ma quando vennero fuori i nomi di Alberto Buonoconto e di Paola Besuschio avete fatto finta di niente.76

Perché erano chiacchiere. Chi si muove in modo confuso, forse con scopi non del tutto disinteressati, sono i socialisti. Guardiamo comunque con

attenzione, inizialmente pensando che possano avere qualche effetto sulla Dc, ma ci rendiamo conto presto del carattere velleitario di quel che fanno - voci, mezze proposte messe in circolazione ma delle quali nessuno si assume la responsabilità. Niente che possa essere preso in esame da un'organizzazione come la nostra, che aveva escluso a priori trattative segrete, o metodi obliqui. Se qualche trafficone ha tentato dei maneggi, nessuno è arrivato neanche alla più periferica delle nostre strutture di Direzione. Io sono membro dell'Esecutivo di allora: non ci è mai arrivato nulla che potesse indurci a prendere un contatto. Altro che canali riservati che si interrompono improvvisamente. In quel periodo le Brigate Rosse non hanno un solo rapporto che non sia palese.

Vaticano, Charitas?

Nemmeno. Se hanno parlato con qualcuno, certamente non è con le Br. I giornali scrivono che si mossero in molti per cercarci, ma noi non abbiamo un ufficio di rappresentanza. Nessuno è venuto da noi in quei giorni.

La conclusione è vicina. Il 3 maggio, a Piazza Barberini, ti incontri con Morucci e Faranda, discutete dell'epilogo. Essi dicono che avete parlato per tre ore. Non è poco, era anche pericoloso. Perché una discussione così lunga ?

Non so quanto sia durata. È già da molti giorni che la discussione è aperta in tutta l'organizzazione, è il momento di decidere. Io rispetto il parere di Morucci e Faranda, ma è il solo che differisce da quello di tutti gli altri militanti dell'organizzazione, compresi i compagni in prigione che ci mandano a dire per iscritto di decidere esclusivamente in base alle nostre valutazioni politiche. Vedi, quello che sostengono Morucci e Faranda non è irragionevole. Anzi, molte delle loro argomentazioni sono condivisibili. Ma a quel punto sono impraticabili. Oggi potrei dire che se ci hanno obbligato a quella scelta è perché non siamo stati capaci di sottrarci ad essa. Ma in quel momento farne un'altra voleva dire chiudere con le Br, dichiarare il fallimento di una strategia nata nel '72 e liquidare l'organizzazione. Nessuno in quel momento poteva farlo. E difatti nessuno la propose sul serio, nemmeno Morucci e Faranda. Siamo a dover decidere come concludere quella battaglia e andare avanti, non come smettere e andare a casa. Quando decidiamo di eseguire la sentenza di morte c'è in noi la

consapevolezza che a parure da quel momento lo scontro diventava quasi disperato. E sarebbe scivolato sul piano esclusivamente militare. Io sento questo clima di cupezza, ho il senso di una ineluttabilità. Non possiamo fare che quel che abbiamo deciso, non possiamo essere che quello che siamo... e non è bene. Decido per un ultimo tentativo, non c'è tempo per consultare l'Esecutivo ma so che cosa pensano i compagni, mi prendo da solo la responsabilità di telefonare a Eleonora Moro. Morucci, Faranda e Barbara mi si mettono intorno e mi coprono mentre chiamo casa Moro da un telefono pubblico in un sottopassaggio della stazione Termini. È pericoloso, possono individuare quel telefono in pochi secondi. Sto parlando di una morte, che segna già me, con l'unica persona, dall'altra parte del filo, che di sicuro ne avrà un dolore terribile. Vorrei non doverlo fare, vorrei essere altrove. Riesco soltanto a dirle in modo chiaro che c'è ancora la possibilità che non si esegua la sentenza. Mi sono risentito in quel nastro, ho un tono concitato e inudlmente perentorio. Ma sono sicuro che sono riuscito a dire che basta una parola della Dc, una qualsiasi purché autorevole. Metto giù il telefono, ci defiliamo, io torno in via Montalcini e comincia l'attesa più lunga e più inutile della mia vita.

Il 9 maggio era convocata la direzione della Dc, perché non ne avete atteso l'esito ?

Perché in quella sede non sarebbe successo nulla. In cinquantacinque giorni c'era stato il tempo di fare un'infinità di cose e non le hanno fatte. Tutto, ma proprio tutto, ci dice che la partita è chiusa. Anche Moro lo sa.

Quella mattina si è tolto la tuta da ginnastica e ha indossato l'abito scuro che portava il 16 marzo. Nel risvolto dei pantaloni fu poi trovata della sabina, perché?

La mettemmo noi, prendendola dal litorale di Roma. Non era un depistaggio serio, ma li avrebbe confusi per un po', il tempo di smantellare la base. Dovevamo rimettere tutto come era originariamente.

Da quindici anni vieni indicato come l'uomo a cui Moro lasciò i suoi saluti, prima di andare. Quali furono le sue parole per te?

Io ero li, Moro non doveva mandare a salutarmi. Ha visto soltanto me e Prospero, gli altri compagni per lui non esistono.

Dal processo risulta che gli diceste che sarebbe andato a casa...

No. Moro sa di essere stato condannato a morte, sa di quell'estremo tentativo, sa che non c'è stata nessuna risposta, sa che è finita. Non è stato ingannato. Gli dico solo di prepararsi perché dobbiamo uscire. Non immagini quel che uno prova, ho un bel dirmi che è una scelta politica, che è inevitabile, che l'abbiamo presa collettivamente, che non siamo noi responsabili se una mediazione non c'è stata. Il tempo dei ragionamenti è scaduto. Adesso uno deve prendere un'arma e sparare.

Sei stato tu ? Si.

Si è detto che era Gallinari ?

No. Non avrei permesso che lo facesse un altro. Era una prova terribile, uno si porta la cicatrice addosso per la vita.

Tutte le sentenze hanno indicato Gallinari e lui non ha mai smentito.

Perché Prospero ha sempre visto, come tutti noi, l'aspetto politico. E in questo quel che aggiungo ora non cambia niente. Io ne parlo per la prima volta, non l'ho mai fatto neppure con i compagni. Non è nostro costume. Ma stavolta è diverso, non mi pare onesto lasciare all'infinito un peso su altri, anche se politicamente e giudiziariamente non conta. Quando ho deciso di fare con voi questo lavoro sugli anni della lotta armata, ho deciso anche di non tacere più nulla, e prendermi le mie responsabilità senza lasciare non dico zone oscure, ma neppure ombre. I compagni dalle mani pulite... sono fortunati a cavarsela cosi. Io rispetto di più quelli che si sono presi il carico di ferire quando si era deciso di ferire, di uccidere quando si era deciso di uccidere, gesti di guerra guerreggiata, ma anche pesi che uno non si scrollerà di dosso per il resto della vita. Ed è un bene che sia cosi.

Per te è questo!

Vuoi che questa cosa non mi segnasse? Me la porto addosso, e la rivendico anche, mi appartiene al pari di tutto il resto. Se ne parla perché riguarda Moro, ma cosa credi, è stato pesante anche per gli altri sparare a via Fani. Per me è stato peggio, perché Moro lo conoscevo, avevo passato

cinquantacinque giorni chiuso con lui... Gli agenti della scorta non li abbiamo mai visti in faccia. Si dice che si può tollerare la morte del nemico impersonale, chissà se è vero.

Anche se è vero, non è giusto.

È stata una guerra. Se fosse stato possibile, se ci fosse stato aperto uno spiraglio, avremmo risparmiato Moro. Io sono in pace con quell'uomo.

Sei in pace con tutta questa storia ?

Non ho rimpianti, non dimentico. Non dimendco che sono morti anche tanti compagni. Che io ne sia uscito vivo è un caso, avevo messo la mia morte nel conto come quella che noi davamo ad altri. Non ho mai lasciato su nessuno responsabilità che non avessi preso per me. Potrà sembrare poco, ma aiuta in una storia in cui i conti sono in rosso per tutti.

Sei solo con lui, quella mattina ?

Ci sono i compagni che lo avevano custodito.

È avvenuto nel garage?

Si.

Nove colpi con il silenziatore, due senza... se fosse arrivato qualcuno?

Eravamo nel box dell'auto di Lauretta. Era buio. Moro era nell'auto. Controlliamo che dalle scale non stia scendendo nessuno. I colpi sono di due armi, tutti con il silenziatore.

Nella sentenza è scritto che due sono senza silenziatore.

Tutti e nove col silenziatore. Guarda che stai riaprendo una ferita tremenda, Carla.

Che percorso avete fatto per arrivare in via Caetani?

La Magliana. I compagni hanno controllato che il percorso e il punto dove vogliamo parcheggiare la Renault siano sgombri. Forse sono io che guido la

Renault rossa, non ne sono sicuro, nella mia memoria l'operazione si è conclusa nel garage. Il peso che mi spetta me lo sono assunto lf.

Ti pesa parlarne ?

Lo vedi, riesco a farlo con più oggettività di altri. Credo che sia perché non cerco niente. Ho già fatto tredici anni di galera, penso che un'amnistia dovrebbe liberare tutti i compagni in carcere o all'estero. Ma se non ci sarà, mi farò il resto. C'è qualcosa di peggio dello stare in galera.

Che cosa è peggio ?

Perdere la propria identità, rinnegare quel che si è stati, dibattersi per apparire diversi da quel che eravamo.

CAPITOLO VI

Il sequestro Moro: mai così forti, mai così deboli

Il 1978, il sequestro e l'uccisione di Moro segnano una svolta non solo nel paese ma nella vostra stona. Proviamo a definirla. Non constatavate, anzitutto, degli errori di previsione, uno sugli spazi per la trattativa, l 'altro sul Pci ?

Dire "trattativa" mi fa rabbrividire. È diventata sinonimo di "cedimento", anticipa un solenne "non possumus", chiude con ogni possibilità di ragionare. Noi - lo ripeto - non volevamo né trattavamo nessun riconoscimento istituzionale. Come potevamo chiedere una patente di legittimità allo stato che stavamo combattendo? Non è mai stato questo il problema.

Non giochiamo sulle parole. Per salvare Moro, hai detto, bastava che qualcuno "dello stalo " ammettesse: si, in Italia ci sono dei detenuti politici, dunque c'è un soggetto politico con il quale dobbiamo interloquire. Non era un "riconoscimento"?

Sarebbe stata l'ammissione d'uno stato di fatto, niente di più, e del "come uscirne" per una via che non fosse la guerra. Dal momento in cui si fosse detto, soprattutto da parte comunista: "Fermi tutti, ragioniamo", sarebbe stata un'altra storia.

Tu insisti: "soprattutto da parte comunista ". Ma come pensare a una sua indulgenza verso un gruppo armato, quando con la lotta armata aveva chiuso nel 1945 e stava per proporsi nell'area di governo?

Non ci aspettavamo questo, ma che avrebbe avuto dei problemi seri al suo interno si. C'era un grande movimento operaio, per niente integrato, e in esso c'era quel grande Partito comunista. La storia delle Br è una storia in quella storia. Il Pci pareva una grande forza democratica, non rivoluzionaria, ma che per vie sue, opposte alle nostre, puntava a una trasformazione. Nel '78 scrivemmo che era ormai parte organica d'un processo di riqualificazione del sistema... ma non ci credevamo sul serio. Conoscevamo i compagni del Pci, come ne vivevano la linea, le illusioni che si facevano. E loro conoscevano noi. Ci conoscevano e non ci denunciavano, ci parlavano, parlavamo. Magari non erano d'accordo, ce ne dicevano di tutti i colori, ma erano compagni, non eràno lo stato e non lo sarebbero stati mai... Questa base non poteva non condizionare i dirigenti.

Si può capire che vi illudeste ancora nel '68-69. Ma nel 1973 il "compromesso storico " teorizza la moratoria nel conflitto. E il '76 la mette in atto. Dove vedeste traccia di una linea diversa ?

Pensammo che sarebbe esplosa la contraddizione vertice e base nel momento in cui avessimo messo la Dc con le spalle al muro. Dimostravamo che non era invincibile, si poteva processarla e chiederle conto di quel che aveva fatto. La linea dell'unità nazionale sarebbe entrata in collisione con l'anima di base, il compromesso avrebbe potuto saltare, il Pci restava quel che era ma avrebbe giocato un ruolo diverso, non appiattito sulla difesa dello stato e della Dc. Quando questo non si verificò, restammo folgorati. Quella contraddizione non esplose, ma neppure spari: quando più tardi a Torino il Pci distribuì agli operai il questionario che chiedeva di denunciarci, non raccolse nulla.

Fra non denunciarvi ed essere dalla vostra parte ce ne correva. Non fu un errore ?

Mi rimprovero soltanto di non aver visto prima quel che constatammo tre giorni dopo il sequestro di Moro: il grado di integrazione del Pci nello stato. Ci saremmo mossi in altro modo. Non ignoravamo che il Pci fosse su

quella strada, ma fu fulminante scoprire fino a che punto fosse avanzato. Nel 1978 si salda un fronte di ferro. Stavamo processando la Dc, santo cielo, con gli argomenti che erano stati di tutta la sinistra, che erano diventati comune sentire negli anni '50, '60 e '70. Quelli erano i capi di imputazione, parevano andar da sé. Certo quello pensava la base comunista. Il suo nemico storico era la Dc, non le Brigate Rosse. Non noi. .

E se il Pci non avesse voluto proporsi come mediatore proprio in quanto temeva che foste una sua frangia ?

Se lo sospettarono perfino i vertici del Pci, perché non potevamo illuderci che almeno una sua parte avrebbe capito e si sarebbe posta il problema d'un dialogo, anche acerbo ma dialogo? E che non gli sarebbe stato facile, fra la Dc e noi, scegliere tranquillamente la De?

Il Pci scriveva in tutte lettere che qualsiasi destabilizzazione avrebbe provocato una situazione cilena. Non lo diceva Berlinguer dal 1973?

Fino all'astensione sul governo Andreotti, ognuno poteva interpretare quel testo come gli pareva. Anche come una tattica, una linea di opposizione morbida: molti comunisti di base lo intesero cosi. Che si trattasse di un'alleanza politica organica per il governo del paese, lo capirono in pochi. Che essa avrebbe consegnato ai gruppi forti della borghesia i poteri istituzionali e avrebbe lasciato briglia sciolta a quelli extraistituzionall, forse neppure Berlinguer lo previde. Dopo un paio d'anni farà marcia indietro ma non saprà più dove andare. Sarebbe andata diversamente se si fosse spezzato il fronte della fermezza.

Come sarebbe andata ?

Sarebbe andata diversamente per Moro, diversamente per le Br, diversamente per il Pci e anche per la storia del paese. Visto quel che è successo negli anni '80 non mi sembra che l'unità nazionale abbia portato a grandi cose di cui vantarsi.

Se vi fosse stato concesso qualcosa, pensarono, si sarebbe moltiplicata la vostra forza e la vostra offensiva, e questo avrebbe reso incontrollabili esercito e carabinieri...

Intanto si cessava di sparare. A breve, subito, si cessava di sparare. Le Br ne avrebbero avuto prestigio, è vero, ma anche il partito disponibile alla discussione. Avremmo liberato Moro e si sarebbero spostati gli equilibri politici: chi, Pci o altri, avesse preso atto della nostra esistenza, avrebbe tentato un nostro recupero, un rientro, avrebbe fatto politica e rafforzato la sua contrattualità. Quanto a noi, Br, il solo fatto che qualcuno dicesse: parliamo, non siamo d'accordo ma ragioniamo, avrebbe prodotto conseguenze molto serie. Non saremmo stati costretti a usare solo o prevalentemente le armi, anche noi saremmo stati costretti a far politica. Persino nostro malgrado. Saremmo rimasti una forza rivoluzionaria ma sarebbe cominciata un'altra storia. Di questo sono certo.

Che cosa sareste diventati ?

L'ho detto. Ci eravamo sempre pensati come qualcosa che agisce dentro un processo di lotta armata più grande di noi, ma lo vedevamo in tempi lunghi, diluiti. Il nostro orizzonte stava su una linea lontana. I passaggi di questa crescita non erano scritti a priori, anzi. Nei tempi brevi la nostra disponibilità poteva essere illimitata, non eravamo condizionati né obbligati a sparare. E in politica contano i tempi brevi. Nei tempi lunghi, qualcuno ha detto, la sola cosa certa è che saremo tutti morti.

Keynes, lo diceva. Intendi dire che se non foste stati braccati a morte nei cinquantacinque giorni, sareste stati spinti a ridiscutere la vostra linea ?

Se qualcuno avesse finalmente preso atto che negli anni '70, in Italia, in una società moderna, s'era formata una avanguardia armata dentro una base sociale che non la isolava né espelleva, e si fosse chiesto perché era avvenuto -che cosa esprimeva? quali soggetti, quali bisogni? - avrebbe interloquito e ci avrebbe obbligati a interloquire. Ma nessuno lo tentò. Tutti vollero schiacciarci. Fecero delle Br un oggetto non di politica, ma di repressione, e lo consegnarono ai militari, carabinieri e polizia. Di colpo per noi non ci furono più tempi lunghi, fummo stretti ad accelerare in difesa e in attacco... e alla fine queste corse si pagano salate. È come se l'organizzazione fosse tutta tesa in avanti, ma con la testa voltata all'indietro.

Perché non prendeste in esame la possibilità di liberare unilateralmente Moro ? Avrebbe rotto con la Dc, avrebbe messo in difficoltà il Pci. Se si trattava di incrinare la scena politica, questo l'avrebbe modificata.

Non si può giudicare col senno di vent'anni dopo. Nel 1978 la Dc era compatta sulle posizioni di Andreotti-Berlin-guer, la spaccatura era fra Moro e tutti gli altri. Quanto sarebbe durata? Oggi sappiamo che i suoi amici al governo stavano occupandosi di come neutralizzarlo, farlo passare per matto. Avevano preso le loro brave precauzioni per ricondurre la pecorella all'ovile.

Adesso sei tu a paventare una sindrome di Stoccolma... Il Moro che ci hai descritto si sarebbe ribellato a farsi trattare con psicofarmaci. E non sarebbe rientrato docilmente all'ovile.

Se si fosse aperto un varco e l'avessimo liberato, come abbiamo fatto con altri, Moro sarebbe diventato presidente della Repubblica e la Dc non sarebbe stata demolita affatto.

Forse, se si fosse creato il varco nel fronte della fermezza. Ma stiamo prospettando l'ipotesi che lo liberaste unilateralmente, mentre tutta la scena politica gli aveva detto "no". Fra l'altro nei movimenti c'era stata una simpatia al momento del sequestro, sembraste figure vendicatrici, i nuovi Robin Hood. Ma quando si parlò di esecuzione, tutti vi chiesero di fermarvi e lasciarlo libero.

Ah si, è vero, verissimo. Quelli che hanno libertà di esprimersi dicono proprio questo. Immaginavano che si trattasse d'una partita, più o meno sportiva; se le stanno dando, ma poi suonerà il gong. Non è stato molto serio.

Sei ingeneroso. Avreste parlato al paese, lasciando Moro Ubero.

Il paese chiedeva molte cose, delle quali la libera/ione di Moro non era certo la più pressante. La sinistra che non stava nello stato stava alla finestra. Liberare Moro con un atto unilaterale significava ammettere una parziale sconfitta o incassare un parziale successo - su questo si potrebbe discutere all'infinito. Ma per un'organizzazione di guerriglieri che avevano fatto un'operazione enorme, con un grandissimo impatto, lasciar libero

Moro senza contropartita significava registrare un limite invalicabile della nostra strategia, ammettere che la guerriglia aveva un tetto che non avrebbe mai potuto sfondare. La guerriglia urbana, quella che avevamo definito nientemeno che la politica rivoluzionaria dell'epoca moderna, sarebbe apparsa sulla difensiva, e in fin dei conti lo stato invincibile. Era inaccettabile... non lo potete capire, non siete Brigate Rosse. Per questo, nonostante avessimo fatto di tutto per evitarla, all'unanimità decidemmo l'esecuzione. Dico all'unanimità perché due compagni che dissentono - Morucci e Faranda - non fanno un'eccezione, sono una eccentricità.

Non eravate in grado di far capire ai vostri militanti che un punto era stato segnato, una contraddizione aperta, e che liberando Moro rilanciavate sul piano politico ?

Eravamo in grado di capire e far capire questo e altro. Ma non è il punto. Il punto è che qualsiasi cosa fosse successa dopo che avessimo lasciato libero Moro, liberarlo senza contropartita significava decretare la fine della lotta armata, ammettere che la lotta armata non può vincere. Una riflessione del genere, in quelle circostanze, nessuno pòteva né proporla né accettarla, si sarebbe gridato al tradimento. Se mai, mi ostino a credere, una ridiscussione su noi stessi sarebbe stata favorita dalle circostanze opposte, quelle che la Dc e il Pci non vollero, o che non seppero creare. Alla fermezza non potemmo rispondere che con uguale rigidità: non è una grande vittoria, pensammo, ma almeno non è la sconfitta sicura. Abbiamo processato la Dc, guadagnato grandi simpatie pur in quella tragedia e sotto quella cappa tremenda, e questo ci resta. Tanto è vero che saremmo andati avanti ancora quattro anni.

Le simpatie che avevate guadagnate - è vero che ci furono negli ambienti più vari -il 16 marzo, erano perdute il 9 maggio. E non è vero che "andate avanti" per altri quattro anni, "durate" altri quattro anni.

Durate... magari stessimo durando. Andavamo di corsa verso una guerra guerreggiata. E noi per primi sapevamo che questa sarebbe stata una tragedia. Spariva lo spazio della guerriglia, si scivolava su quello della guerra, non sapevamo come evitarlo. Non riusciremo mai a trovare la soluzione di questo rebus. Non concepiremo mai lo scontro come sparatoria e basta, e riusciremo a evitare le degenerazioni che si sarebbero

potute produrre sotto la violenza dei colpi che ricevevamo. Non abbiamo mai fatto un'azione di terrorismo, neanche quando ci vollero morti, ci strinsero alla disperazione. Ma è anche vero che non riusciremo più a rompere lo schema nel quale eravamo obbligati a muoverci. Nonostante tutto ci riproduciamo, si moltiplicano i gruppi armati, non solo quelli diretti da noi. Quando ci esauriremo non sarà perché ci hanno sconfitto militarmente - anche questo ha contato, ci mancherebbe - ma perché si è scompaginato il tessuto sociale che ci alimenta, non riusciamo a stargli dietro. È finita quella spinta a cambiar tutto dentro la quale sta il nostro atto di nascita. È questo che fa sparire le Br.

E l'esservi separati dall'opposizione sociale?

La sola opposizione che esiste nel paese siamo diventati noi, senza averne peraltro le forze. Era già così, ma diventa chiaro soltanto allora. La sola opposizione che c'è stata in Italia alla fine degli anni '70 e agli inizi dell'80 è stato il movimento della lotta armata. Non soltanto le Br, ma le decine di gruppi armati che hanno fatto migliaia di piccole e grandi azioni di combattimento.

Parli di quelli che appena deposte le armi sono balzati in grembo alla Chiesa ? L 'opposizione sociale non conta ?

Per esprimersi come opposizione ha dovuto prendere le armi.

Chi ha preso le armi ha disarmato l'opposizione sociale.

Si può discutere tutto. Dico che chi le prese si sentiva opposizione, lo era. E non erano quattro gatti. E la storia in qualche modo gli dà ragione: in quegli anni l'opposizione è stata armata o non è stata. Nuli'altro tenta di arrestare un regime che si sta consolidando.

Il regime si consolida anche a causa della vostra esistenza.

Si consolida perché il Pci ha cambiato campo. Il risultato finale è stato, prima, la sconfitta del movimento che era partito dagli anni '60, e poi la sua. Dentro alla sconfitta generale sta anche quella delle Br. Ma gli altri porteranno al disastro degli anni '80,1111 regime che si appropria di tutto,

fa il deserto nella vita sociale e lascia prosperare soltanto il peggio. Certo le responsabilità sono diverse. Le ha il Pci. Le ha la Dc. Le hanno le altre forze politiche. Sta di fatto che si va a un regime che azzera letteralmente ogni sinistra. Per questo dico che in quegli anni ci troviamo ad essere l'unica opposizione reale. Altro non c'era.

Ogni volta che un movimento ripartiva, c'era un attentato che lo schiacciava sull'equazione conflitto/terrorismo. Mettitelo in testa che avete sparato al movimento, non allo stato.

E come no. Le Br hanno sparato a tutti, allo stato, alla Dc, al Pci, all'economia nazionale, all'autonomia, al movimento, chiunque vuole si faccia avanti, tanto ce n'è per tutti. Io non so se ce lo meritiamo, i brigatisti mi sono simpatici e credo di no. Ma anche se mi fossero antipatici mi sembrerebbe poco serio attribuire alle Br le colpe di tutte le sconfìtte, come l'attaccapanni cui ognuno appende i suoi fallimenti.

Questa è cattiva polemica. Negli anni '70 i soggetti sociali di cambiamento sono stati stretti fra la scelta del Pci e quella di Curdo, Moretti eFranceschini. Con relative varianti. Chi spara, lo hai detto tu stesso, fa un grandissimo rumore.

È stata l'enormità della posta in gioco a determinare la radicalità dello scontro. Il peso che avrebbero avuto le classi subalterne, il senso da dare a questa democrazia. Le forze progressiste, ovunque stessero, non hanno vinto, e sarebbe bene che ciascuna si chiedesse perché le sue proposte non hanno avuto miglior fortuna delle nostre. La lotta armata è fallita, ma non ha distrutto niente. Si, delle vite. Persone uccise. E compagni uccisi, perduti. Ma non ha distrutto niente... se non una falsa sinistra. Perché in Italia c'era si una grande potenzialità di movimenti, ma c'era anche la sinistra del doppio binario: dico ma non faccio, faccio ma non dico. Quella che ci veniva a raccontare che la democrazia era nata nel fulgore dalla resistenza e fulgida restava, con qualche incompiutezza. Oggi si vede quel che è. E dunque doveva in qualche modo esserlo dall'origine. Le deformità se le porta dalla nascita, compromessi che vengono fin da allora. Da lontano.

Una volta hai detto che mai il vostro prestigio e la domanda che vi è rivolta sono stati

così alti, ma che con Moro comincia anche il vostro declino. Non è un paradosso ?

No, non lo è. È stata un'azione clamorosa, l'hanno seguita da tutto il mondo, abbiamo tenuto in scacco lo stato. Sembriamo, e operativamente siamo, imbattibili. Ma avevamo sequestrato Moro per aprire una dinamica nel fronte politico, riaprire il conflitto fra sinistra e governo, e non è andata cosi. A metà del 1978 ci troviamo al massimo della forza e di fronte a strettoie e dilemmi politici che non supereremo più sino alla fine delle Br.

Tracciale.

Mettiamola cosi: il meccanismo che aveva funzionato -catturiamo un personaggio, lo teniamo un certo tempo, il fronte avverso si divide o si incrina - non funziona più. Su

Moro si è verificato l'opposto. E se hanno sacrificato il presidente della Dc, per chi altro saranno disposti a discutere? Per nessuno. Il sequestro di Moro non è un'azione andata male, un piccolo o grande errore di valutazione, è la fine di un modo di pensare la guerriglia, la fine della teoria sulla propaganda armata. Non otterremo più con un'azione di guerriglia un obbiettivo sulla scena politica, perché la scena politica si è ridotta a pura difesa dello stato.

Avevate deciso il "salto" nell'orizzonte dello stato perché in fabbrica la strada era sbarrata.

Lo è. Nel 1978-79 è già in avanzata una trasformazione selvaggia, che si compirà in tutto il decennio successivo: la fabbrica non è ancora trasformata come vediamo oggi, ma alla fine dei '70 è già distrutta la forza operaia. Dopo che si è giocata una partita furibonda e senza esclusione di colpi. Alla ristrutturazione della produzione, in funzione dell'internazionalizzazione dei mercati, la classe operaia delle grandi fabbriche del nord ha resistito a lungo. Oggi si dice che era destinata a scomparire ed era stata un'illusione attribuirle un ruolo salvifico universale; sta di fatto che gli operai si sono sentiti un soggetto politico, sono in grado di governare differentemente la fabbrica, sarebbero in grado di governare differentemente anche quei processi se l'accesso non gliene fosse sbarrato.

La ristrutturazione avviene anche contro questo soggetto che è nell'impresa ed è in conflitto con essa.

Si. Ma il suo segno va oltre l'impresa. Quel ciclo di lotte dà anche un'idea diversa della democrazia, partecipazione e potere. Non è soltanto il salario che si difende, urlano contro i licenziamenti e la cassa integrazione. L'occupazione delle fabbriche, i cortei interni, le assemblee, i comitati, persino i primi consigli operai, erano fiducia nella propria forza, possibilità di mettere il proprio segno sui cambiamenti. Niente a che vedere con la rassegnazione, tra rabbia e piagnucolio, che si vedono in tv nelle interviste di adesso ai cassintegrati.

È diverso per gli operai battersi mentre il sistema economico tira, e quando non tira, e i posti di lavoro si riducono.

Sta di fatto che la sconfitta è consumata negli anni '78-79. Gli operai delle grandi fabbriche non sono più il propulsore del cambiamento, il soggetto sociale rivoluzionario ci si è trasformato sotto gli occhi. Eravamo nati per dar loro forza, offrire una loro organizzazione combattente e conquistarli ad essa - se il loro ruolo sociale si indebolisce, le nostre azioni possono forse restituirgli la forza che non hanno? Nati per sostenere un'offensiva, non siamo più niente quando quell'offensiva non può essere mantenuta. Continuiamo a combattere nelle fabbriche, facciamo azioni in continuazione, alla Fiat, all'Alfa, al Petrolchimico, all'Ansaldo, ma in quel biennio non contiamo niente.

E allora ?

Questa è la vera disperazione. Non saremo più una soluzione, neanche un moltiplicatore per il movimento operaio, nell'impasse nella quale si trova. Saremo opposizione, resistenza, faremo azioni, ma non indicheremo la via per vincere. La vera sconfitta non è perdere, ma è perdere la convinzione che si possa vincere.

Se questo vi è chiaro, perché continuate f

Perché il movimento operaio è in riflusso, ma la società si scompone in agitazione e rifiuto, non è pacificata, non è rassegnata. Quando come in

quegli anni c'è tanta asprezza di scontro? Tanta violenza politica diffusa? Talvolta abbiamo detto che sono stati anni di "guerra civile", ma è improprio. In Europa guerra civile ha voluto dire eserciti contrapposti, territori liberati, città occupate, ecc. Qui invece abbiamo un movimento armato diffuso nel territorio, politicamente articolato e socialmente polverizzato. Piccoli gruppi che attaccano tutto, dalle caserme dei carabinieri alle gerarchie di fabbrica, dai burocrati della Dc ai funzionari ministeriali, dai giornalisti ai professori e perfino i ginecologi che speculano sugli aborti. Non resta fuori forse nessuna delle figure che costituiscono la classe dominante in una società moderna. Non c'è un conquistar terreno, un costituirsi di roccaforti liberate, c'è il continuo aprirsi di momenti in cui lo scontro, armato o violento, esprime il continuum di una vertenza sociale che comincia sempre da un'altra parte e non trova sbocco in nessuna.

Ma voi che avevate a che vedere con questo ?

Per noi la lotta armata, anche la violenza diffusa, è per la rivoluzione o non è facile reggerla come pratica di sopravvivenza non si sa bene di chi, non si sa bene per che cosa. Era difficile praticarla anche per noi che avevamo le radici in un movimento operaio da far impallidire quello di chiunque altro in Europa, figurarsi per i gruppi che nascevano dalla polverizzazione di un tessuto sociale che produceva più emarginazione che ricchezza. Ma non ci si rassegna alla miseria sociale e umana più di quanto non si possa accettare la tragedia di una lotta armata ormai sconfitta. Nascono e muoiono gruppi armati fatti di tre o quattro amici, nello spazio di un'azione, azioni violente e diffuse, arcipelago di gruppi armati non omogenei, non coesi intorno a un progetto, e quadri formati su esperienze diverse e spesso non propriamente politiche. Insomma disponibilità numerose, magari le avessimo avute nel '72, ma che dimostrano più rabbia che capacità di direzione. A noi sembra, lo definiamo con un embrione di guerra civile, ma non è guerra civile, è forse più o forse meno.

Vi proverete a unificarli ?

Ci proviamo nell'80: proponiamo di organizzare le masse sul terreno della lotta armata e mirare le azioni ai loro bisogni immediati. Ma stiamo barando con le parole, attribuiamo ad un atto di volontà politica il potere di

determinare quello che il movimento non riesce più a produrre. Anche se fosse stato possibile, sarebbe stato un compito immane; ma non raccontiamoci storie, non lo era. Abbiamo verificato senza possibilità d'appello che dopo la caduta del grande movimento operaio in fabbrica e la "propaganda armata" spazio per una, lotta rivoluzionaria non ce n'è più. Non c'è più niente.

Curcio dà oggi un giudizio diverso sulle possibilità di un 'altra linea in quel periodo. Che conclusioni ne derivate nel '78-79?

Ne deriviamo, in quel periodo, la stessa ipotesi, non due diverse e se si guarda la nostra pratica durerà almeno fino all'81. A differenza di altri siamo un'organizzazione molto cementata da uno spirito unitario, e le difformità si manifestano non come spaccature ma come scontri verbali, acuti, caotici, e spesso non così contrapposti da rendere facile la distinzione. Perdipiu siamo ormai un misto di compagni che veniamo dalle lotte della fine degli anni '60 e dei primi '70, più altri che approdavano a noi da altre esperienze come all'ultima spiaggia, più dei giovani che provenivano da un movimento successivo a quello operaio. Ricordo un ragazzo della Walter Alasia, si chiamava Zellino e si è preso un ergastolo al processo milanese: ci diceva ridendo che la più grande lotta cui aveva partecipato prima era la rivendicazione del sei politico alle medie. Come farne un progetto, se non vincente, efficace? Per un certo periodo penseremo che basti estendere queste azioni: una dozzina di azioni contemporanee in diverse parti d'Italia può dare l'idea d'una forza e d'una guerra più di un'azione eclatante, che ha perduto efficacia. Allora lo slogan: "Colpiscine uno per educarne cento", che era stato il cardine della propaganda armata quando pensavamo che a ogni nostra mossa sarebbe seguita una crescita del movimento, è diventato: "Colpire dovunque i centri della controrivoluzione". Ma il senso è cambiato. Tra i due slogan c'è la differenza che passa tra lo splendore di un solitario pesce pagliaccio e i bagliori di un branco di sardine, per restare nella metafora dei pesci.

CAPITOLO VII

Fine della leggendaria unità (1979-1981)

D ali estate del 1978 all'aprile del 1981, quando vieni arrestato, sono tre anni. Le Brigate Rosse passano dall'operatività più elevata al punto più drammatico di crisi. I motivi stanno nella trama di fondo che hai descritto del dopo Moro, il muro che avevate incontrato, la sproporzione fra vostra immagine, effervescenza sociale violenta, e restringersi della prospettiva. Anche se non foste braccati dall'apparato dello stato, che si riorganizza contro di voi, la crisi si stava consumando. Ma mettiamo assieme questo groviglio di contraddizioni. E cominciamo da quel che sembrate.

Sembriamo fortissimi. E quindi forse non italiani. Forse agenti di qualcuno, il luogo comune per cui se qualcosa funziona con precisione e durata dev'essere non italiano. Questa dietrologia serve a chi non vuol ammettere che in Italia c'è stata per oltre dieci anni una guerriglia di sinistra in grado di tenere in scacco gli apparati dello stato.

Dietrologia a parte voi aveste dei contatti internazionali. Quando cominciano?

Con il 1978. Nella Direzione strategica del 1978 avevamo deciso di prendere dei rapporti almeno a livello europeo, smettere di considerarci come un'isola. Non per cercare unificazioni, ognuno avrebbe fatto, se ne era capace, la sua propria rivoluzione - questa non è merce che si esporta. Ma se in Europa non cresceva un movimento simile al nostro, anche noi prima o poi ci saremmo spenti.

Prima del 1978 nessun collegamento ?

Nella fase iniziale avevamo avuto alcuni incontri in Italia con compagni della Raf, ma fra la differenza delle posizioni e le esiguità delle nostre forze, non ebbero seguito. Fummo cercati dopo il sequestro di Moro. Da tutti. La Raf, l'Età, l'Olp, alcuni compagni francesi. I contatti li stabilimmo a Parigi.

Tramite la famosa "Hyperion"?

No, questa è una delle invenzioni che servono a dar corpo al fantasma del "grande vecchio". Con Simioni avevamo chiuso fin dal Cpm, non lo

vedemmo più e apprendemmo dai giornali che era finito a Parigi. Avevamo in Francia dei compagni espatriati alcuni anni prima, che erano in grado di collegarci con tutti i movimenti rivoluzionari d'una certa consistenza. A Parigi c'erano più o meno tutti, e si arrivava attraverso canali riservati, ma non segretissimi. Avevamo un credito che ci consentiva di incontrare chi volevamo.

Chi si mosse di più ?

Io. Lo decise l'organizzazione. Mi mossi dall'inverno del 1978 al 1981. Ma fu un compito al quale mi dedicai saltuariamente. Sapevo fin troppo bene qual era il nostro stato reale, grande capacità operativa, ma anche grandi difficoltà politiche. Con i rapporti internazionali non ne avremmo risolto neppure una.

Dove andavi ?

Avanti e indietro da Parigi. Mi fermavo non più d'un giorno o due, come se facessi una riunione d'un'altra colonna. Prendevo l'aereo la mattina presto a Roma e tornavo con un altro la sera a Milano. Se penso che ero fra i brigatisti più ricercati e passavo quattro volte in un giorno i controlli di frontiera, dev'essere vero che ero matto, come mi dissero una volta i palestinesi.

Che passaporto avevi ?

Ne avevo diversi. Il più bello era il passaporto di Maurizio Iannelli, che era della colonna romana e lavorava all'Alitalia. Avevo sostituito la fotografia, falsificato i timbri, cancellato e rifatto la firma. Maurizio correva i miei stessi rischi, perché se finivo in galera ci finiva con me. Era un po' sulle spine, perché, per le regole della compartimentazione, non aveva idea di come e quando avrei usato quel passaporto. Qualche volta, quando passavo la frontiera da Mentone in treno, usavo una carta d'identità. Come vi ho detto quelle che fabbricavamo erano perfette.

Andavi a Parigi tu solo ?

All'inizio vi andavamo in tre, poi venne con me qualche volta Laura

Braghetti che parla francese molto bene. Prendemmo una base in affitto. Lauretta era molto giovane e le fu facile farsi passare per una studentessa.

E giravi con la tua faccia ?

Ma si. E impossibile riconoscere qualcuno da una foto. Bisogna proprio che te la mostrino e ti avvertano che quella persona passerà dalla tal porta entro dieci minuti. Se ti metti per strada e aspetti che passi uno visto in fotografia, non lo vedi neanche se ti viene a sbattere addosso.

Ma con chi discutevate in Francia dopo il 1978? Non c'era più nessun gruppo di estrema sinistra.

Erano compagni molto giovani, in qualche modo legati al movimento del '77 italiano. La situazione in Francia era molto diversa, e io smorzai molto i loro entusiasmi. Noi eravamo già forti eppure non erano rose e fiori. Mostrai loro tali e tante difficoltà che più che incoraggiarli li dissuasi. Infatti non mi sembra che andarono avanti. Crearono soltanto una preziosa rete d'appoggio per i rifugiati che seguitavano ad arrivare da ogni parte del mondo.

Quali gruppi stranieri hai cercato ?

Avremmo potuto incontrare l'Ira ma vi rinunciammo perché non pensavamo di aver gran che in comune. Eravamo molto interessati all'Eta e moltissimo al movimento di liberazione della Palestina. Abbiamo visto soprattutto loro e sempre a Parigi, era il posto più sicuro. Non che mancasse ogni controllo, ma ce n'era meno che da noi. In Italia c'era una situazione di guerra, quattro persone al tavolino di un bar erano notate subito dalla Digos. Una mossa falsa nel metter mano al borsello e potevi trovarti dei mitra spianati addosso. E girar di notte per certi quartieri voleva dire farsi fermare dalla polizia. Avevamo quasi abolito le automobili per spostarci, troppo rischioso, le usavamo nelle azioni e per il trasporto del materiale, per il resto si andava in tram. Così era in Italia. Quando scendevo a Orly mi pareva di sbarcare in un altro pianeta, l'aria cambiava.

Quando hai incontrato l'Eta?

Sempre fra il '78-79. Senza gran frutto. Quando ci incontrammo erano reduci da una scissione. L'Eta ci interessava perché era una organizzazione indipendentista in una grande regione operaia, con radici sociali vere, di sinistra, comuniste. E aveva una straordinaria capacità operativa: l'attentato a Carrero Blanco era stato un'operazione chirurgica selettiva effettuata con quintali di esplosivo. Ci chiarimmo le rispettive posizioni in due riunioni, di punti comuni ne avevamo davvero pochi. La stima reciproca non basta. Ci lasciammo senza concludere altro se non che ogni tanto ci saremmo visti.

E con la Raf?

Con la Raf i rapporti vennero ripresi nell'estate del 1978. Furono gli unici contatti che un paio di volte avemmo in Italia. La prima volta a Milano, non ci conoscevamo e l'appuntamento era a una fermata della metropolitana: loro avrebbero tenuto in mano un giallo. Il regolare che fu mandato a prenderli, fargli fare un giro vizioso per controllare che nessuno li seguiva, e accompagnarli in una base dove avremmo discusso qualche giorno, tornò indietro perplesso: "Ci hanno fatto il bidone" - dice - "c'era un sacco di gente ma nessuno che somigliasse a un tedesco. Con un giallo c'erano soltanto tre ragazze". Ci precipitammo a cercarle, non dicemmo alle tre della Raf - erano loro che in quel momento dirigevano - che il primo appuntamento con le Br era stato bucato per un pregiudizio maschilista. Non eravamo certi che ne avrebbero riso come noi mentre facevamo a pezzi l'amor proprio del compagno avvilitissimo. Aveva a sua scusante che nelle fabbriche di Sesto da dove veniva, di solito le donne non dirigono mai niente.

E quel contatto come andò ?

Durò molto. Ci incontrammo ripetutamente a Parigi. Furono discussioni interminabili, che misero in evidenza la diversità delle situazioni e delle storie prima ancora delle diversità di linee. Il capitale è uno e plurimo, ma domina popoli e movimenti con storia, cultura, condizioni del tutto differenti. Cercammo di trovare con la Raf dei punti in comune tali da consentirci una qualche omogeneità di azioni, ma non ci siamo neanche avvicinati a una possibilità del genere. Più in là di una solidarietà non si andò... Qualche scambio di documenti falsi, qualche difficoltà economica

alla quale faceva fronte quello dei due che in quel momento poteva di più, e nient'altro.

C'è una frustrazione in quel che dici come se, adesso o già allora, si riflettesse anche in questi contatti un senso di impossibilità, un blocco. Si è parlato di vostri rapporti con l'Est, viaggi a Praga e simili. Anche se nulla è uscito dagli archivi russi e da quelli della Stasi. Che ne sai?

Non ci sono stati rapporti tra noi e l'Est europeo. Sono favole, e politicamente senza senso. Quale interesse poteva avere l'Urss a sostenere una polarità come la nostra? Tutto il loro appoggio andava al Pci. Questa scelta dei paesi comunisti l'avevamo misurata già al momento del sequestro Sossi.

Ma non c'è stato un filo con i bulgari? Il caso Scricciolo?

Non lo conosco con esattezza, ero già in galera. Ne so pochissimo, ma parlando con i compagni mi sono convinto che è una vicenda gonfiata, del tutto secondaria.

Insomma, niente servizi ?

Sarebbe bello, eh?, se si potesse metter assieme tutto, Cia, Kgb, Sisme, Sisde, mafia, P2, eccetera per far rientrare tutti gli eventi di questi vent'anni nel grande complotto universale. Anche un movimento come il nostro sarebbe più tranquillizzante se lo si vedesse come manovra di forze oscure, simili a quelle che hanno manovrato le stragi, i servizi. Siamo invece condannati a distinguere le cose se vogliamo capirle e criticarle. La verità è che le Br non sono entrate in contatto con servizi segreti di qualunque tipo e nazionalità, né direttamente né di sponda. Questi sono i fatti e nessuno crede seriamente il contrario. Si può dire di noi di tutto, fuorché che siamo stati qualcosa di poco limpido.

Ma all'inizio non cercò di contattarvi il Mossad?

Ah, si. Forse fu anche questo a metterci in guardia. Nel 1972 ci aveva fatto pervenire una specie di apprezzamento. Neppure gli rispondemmo per le rime, tanto era assurdo. Guardate, per farla breve, il solo rapporto politico

reale che avemmo fu con l'Olp. I compagni palestinesi ci interessavano perché facevano un discorso simile al nostro.

Con quale parte dell 'Olp ?

L'Olp che ho conosciuto aveva diverse anime. Contattammo una parte di tendenza comunista, che guardava molto all'Europa. Per loro era importante che nei paesi dell'area mediterranea si creasse una forte opposizione, armata se possibile, per indebolire la morsa dell'imperialismo americano in Medio Oriente. Ci dissero: non vi chiediamo di fare delle operazioni per noi, è molto più significativo che siate voi a rafforzarvi.

Ma qualcosa per loro faceste, la famosa spedizione del uPapago"?

Escluse operazioni in comune, ci premeva offrirgli almeno una solidarietà. Gli demmo un piccolo appoggio per i documenti falsi, ci mettemmo ovviamente a disposizione per qualsiasi appoggio politico del quale avessero bisogno. L'Italia è un crocevia obbligato per qualsiasi cosa transiti dal Medio Oriente verso il centro-nord, ed essi ci chiesero di trovar loro un deposito di armi da tenere come riserva, destinate ai movimenti di resistenza o di liberazione nazionale. In particolare quella volta sarebbero servite all'Ira, che le avrebbe richieste in un secondo tempo. Con l'Ira i contatti furono tenuti dai palestinesi, noi ci limitammo a metterci a disposizione.

E andaste a prendere le armi ?

Si. Via mare. L'Italia sembra proprio un molo sul Mediterraneo. Tanto perché non sembrasse che stavamo facendo un'opera di mera solidarietà - tipo, noi vi teniamo le armi e voi combattete - un piccolo quantitativo di armi era destinato a noi, degli Stern molto vecchi, dei mitra dismessi dalla polizia britannica che però funzionavano perfettamente. Ma si trattava d'uno scambio simbolico, a noi servivano armi piccole, quelle della guerriglia e non avevamo, come vi ho detto, alcuna difficoltà a procurarcele. Quel che ci interessava era il rapporto politico, di fraternità, fare qualcosa per l'Olp.

Quando è stato ?

Nell'estate del '79 e coincise, casualmente, con la necessità di stringere un rapporto con delle formazioni combattenti in Sardegna. La barca la trovò un compagno di Ancona, medico psichiatra in un ospedale, era uno skipper molto esperto nella vela. Con lui ci imbarcammo sul "Papago"

Riccardo Dura, genovese, marittimo di mestiere che aveva navigato per mezzo mondo, e che sarebbe stato ucciso in via Fracchia, un compagno di Venezia del quale si supponeva avesse dimestichezza col mare e io, che col mare me la cavo sempre. Pagammo la barca quaranta milioni; poi fu rivenduta, e ci guadagnammo pure, mi sembra. Salpammo da Ancona per Cipro, dove aspettammo l'appuntamento ancorati in un porticciolo stupendo, ma non era una vacanza. Avevamo un po' l'aria da fricchettoni, barba incolta, orari e vita spartana. Funzionò. Il giorno convenuto ci incontrammo al largo di Tripoli nel Libano, e trasbordammo da una barca all'altra le armi che erano state preparate in sacchi di iuta. 1 palestinesi si sorpresero che preferissimo fare il carico in mare, perché in quel momento avevano il controllo di parte della città, ma la nostra barchetta a vela, palesemente inerme - la guardarono con curiosità da una pilotina armata di tutto punto - una volta riempita aveva tanto di quell'esplosivo a bordo che se ci avesse colpito un solo proiettile il botto si sarebbe sentito per tutto il Libano. Fatto il carico li salutammo col pugno chiuso, e loro risposero alzando in alto i fucili. Il nostro minuscolo sloop tornò in Italia dopo una traversata di 1500 miglia di mare fatte tutte d'un fiato.

Dove avete scaricato ?

A Venezia. Entrammo in laguna, aspettando le maree, quasi fino a Mestre. Le armi presero strade diverse, una parte venne distribuita nelle basi di ogni colonna. C'erano dei proiettili anticarro facili da usare, che i ragazzi palestinesi avevano impiegati nel deserto durante la guerra del Kippur. Noi li sperimentammo una sola volta contro la caserma dei carabinieri di via Moscova a Milano. Pochissimi i danni, ma credo che il generale Dalla Chiesa non ce l'abbia mai perdonata.

E le armi per l 'Ira ?

Le depositammo in Sardegna. Con l'aiuto di Barbagia Rossa, una

formazione combattente radicata nel nuorese e che disponeva di una rete capillare tra i pastori della zona.

Come "magazzino" venne scelta una grotta in una desolata pietraia del Sopramonte, introvabile per chiunque tranne che il pastore che la sorvegliava. Era il posto migliore per un grosso carico di esplosivo, dei missili aria-aria, un bazooka o due che dovevano restar fermi per un pezzo. Lo portammo su per i sentieri con i muli, quei compagni pastori erano in grado di attraversare tutta la Sardegna senza passare mai per una strada.

L Ira venne poi a prendere le armi ?

No, andarono perdute. Dopo il mio arresto quel deposito assolutamente sicuro venne smantellato e le armi vennero portate in città, impropriamente e incomprensibilmente. Le Br non avevano un'aviazione e di un missile aria-aria proprio non sapevano che farsene. Ho intravisto anche dei bazooka nella foto di una base scoperta quando presero alcuni del Partito guerriglia; non avrebbero dovuto esserci, non era materiale nostro. Suppongo che nel casino delle scissioni, nessuno capisse più bene cosa stesse facendo e cosa prendesse e di chi.

Ancora sull'immagine. Torniamo alili alia. Come siete visti ?

Dall'establishment, anche di sinistra, come sapete. Ma non ci fu militante rivoluzionario che non cercò dopo la primavera del 1978 di mettersi in contatto con le Br. Fu una vera corsa verso di noi e la nostra forza numerica crebbe. Ma non è un sintomo tutto positivo. Molti ci cercano per persuasione, molti per disperazione, li riconosco appena li vedo. Dopo il '77 è fallita anche l'autonomia e non pochi cercano una via d'uscita ma senza convinzione. Sta di fatto che non sappiamo come tener fuori quelli che domandano di entrare. Non sappiamo quale altra indicazione dargli. Per dirla brutalmente non sappiamo dirgli che cosa fare. E dire che a nessuno poteva sfuggire come eravamo messi, senza un interlocutore politico, tutti contro, nessuno neutrale. Gli altri movimenti armati europei avevano in genere una sponda, l'Ira aveva il Sinn Fein, l'Età aveva Herri Bata-suna, noi in Italia soltanto nemici. Eppure continuiamo a essere un riferimento, a essere cercati, a pesare... Non so darmene del tutto una

spiegazione. Ma a dir il vero se lo dovrebbe domandare chi la lotta armata non l'ha fatta: è una sfida più per voi che per me.

Coloro che arrivano tanto copiosamente, restano ? 0 se ne vanno? O saranno quelli che poi si pen tono ?

Non se ne va praticamente nessuno. Una nostra forza è stata la solidarietà fra compagni, tutti in una situazione limite; è durata tantissimo, fino alla dissociazione. E poi c'era il vincolo fortissimo con quelli in galera. Anche ad aver voglia di andarsene, non si poteva lasciarli.

Una volta ci dicesti che al tempo del sequestro Moro, non eravate più di 120 regolari. È vero?

Tenere il conto dei militanti è sempre stato un'impresa, e non solo per le regole della clandestinità. Con gli arresti la fluttuazione è continua. Per sicurezza ci si sposta di colonna, per ridistribuire le forze si va da un fronte all'altro... a pensarci avevamo realizzato una perfetta turnazione delle mansioni. I regolari sono sempre stati pochissimi, 120 in totale, tra colonne e fronti, è una cifra verosimile ma sicuramente per il nostro periodo migliore. Non ne occorrevano di più, avevamo attorno una rete enorme che gestiva i rapporti politici e tutto quel che occorreva.

Quantificala, questa rete enorme.

Fate il numero degli arresti, quelli erano i militanti. E moltiplicate per dieci, quella era la rete. È stata grande anche negli anni cupi dopo Moro: mi sono chiesto molte volte perché venissero, erano ragazzi giovani, nati dopo il movimento esaltante che tutto poteva e tutto voleva, c'era intorno senso di sconfitta, perfino di angoscia. Non era certo sulla base d'un entusiasmo che ci si accostava a noi. O era una convinzione molto solida, o un bisogno che superava ogni altra emozione.

Vi estendete in altre città, ?

Siamo dappertutto. Milano, Torino, Genova, il Veneto, la Toscana, le Marche, Roma... poi, ultima arrivata, Napoli.

Siete in pochissimi posti.

Sono quelli che contano. Noi non siamo una coalizione di gruppi. Siamo un'organizzazione con una linea. E quando lanciamo una campagna si scatena un'ira di Dio. Un osservatore che non intuisca quali difficoltà politiche ci stanno stritolando, può anche immaginare che siamo fortissimi. Che non lo siamo, non lo capiscono neppure alcuni compagni che erano in prigione già da un po' d'anni.

Infatti, nel 1978 moltiplicate il fuoco, è una grandinata. Sembra che colpiate soprattutto chi appartiene all'apparato dello stato, Palma a Roma prima di Moro, il maresciallo Berardi a Torino, Esposito a Genova e poi di. nuovo il giudice Tartaglione a Roma in ottobre. Che senso ha, dopo il sequestro di Moro e quel suo esito tragico anche per voi, colpire queste figure minori?

Tutte le azioni di quel periodo fanno parte della campagna attorno al sequestro. In Moro avevamo preso di mira le forze politiche, con le persone che avete nominato gli apparati di repressione, e avevamo previsto un attacco alle forze economiche. Erano le tre direttrici su cui ci muovevamo. Sul versante economico era difficile colpire i progetti di ristrutturazione fabbrica per fabbrica, in presenza di un movimento operaio che resisteva ma sempre più debolmente. Era un terreno molto differenziato, omogeneo solo nel dilagare della cassa integrazione e dei licenziamenti. Promuovemmo un'infinità di piccole azioni contro le gerarchie aziendali, ma ci vuole ben altro per scalfire la determinazione del padronato. Avevamo progettato di rapire anche Leopoldo Pirelli pochi giorni dopo Moro. L'inchiesta preliminare er a già fatta, sapevamo dove abitava, i suoi percorsi abituali, avevamo scelto il punto dove bloccare la sua vettura, erano pronti il furgone e il luogo dove lo avremmo tenuto, mancavano solo alcuni dettagli e la scelta del giorno. In breve, avevamo pensato a due azioni clamorose, sul terreno politico e su quello economico, mentre le colonne si impegnavano contro gli apparati repressivi.

Se si fosse andati a una trattativa, che avreste fatto di tutte queste azioni messe in marcia ?

Si sarebbero fermate. Immediatamente. L'organizzazione aveva una capacità decisionale immediata, rapidissima, c'era intelligenza e disciplina. Infatti il sequestro di Pirelli venne sospeso appena valutammo che quel che

si era messo in moto subito dopo il rapimento e durante il sequestro di Moro aveva una portata politica tale che un'altra azione non avrebbe aggiunto niente. Calibravamo sempre le azioni su un ragionamento politico, giusto o sbagliato che fosse. Dalla fine del '78 a tutto il '79 seguimmo questa logica. Contro la Dc il massimo dell'offensiva si realizzò con la campagna di tutte le colonne concentrata tra aprile e maggio del '79: nella perquisizione/distruzione del Comitato romano di piazza Nicosia morirono due agenti della Digos accorsi dopo l'allarme dato da una suora. La Digos: ecco chi diventa da allora un vero obbiettivo. Prima si andava allo scontro con polizia e carabinieri quasi esclusivamente se era inevitabile per conseguire altri obbiettivi. Adesso non più, cerchiamo di colpire proprio questi apparati e specialmente le loro strutture di direzione, anche nei ministeri, specie se legati alle carceri. Anche le sparatorie con le pattuglie dei quartieri sono quasi sempre volute. Il governo ha demandato alle forze repressive di liquidarci, o teniamo loro testa sullo stesso terreno o tanto vale che smettiamo subito. Non smettiamo.

Sta di fatto che colpite politici e apparati dello stato, ma nello scontro sociale, che in quella fine del decennio è decisivo, prepara la ristrutturazione totale degli anni '80, non ci siete. Non è uno dei limiti intrinseci della guerriglia, che mira alla persona, al simbolo ? In fabbica, nel gen naio 1979, fate un errore clamoroso dal vostro stesso punto di vista. Che senso ha uccidere Guido Rossa ?

È sicuramente un errore. Credo che sia la tragedia politica e umana più emblematica di quel che si consumava in quegli anni. Guido Rossa era un operaio del Pci e denuncia un nostro compagno, Francesco Berardi, anche lui operaio. È l'unico episodio del genere che io conosca - un operaio che ne denuncia un altro alla polizia. Non per caso succede all'Italsider di Genova: è un'azienda dello stato e il Pci la considera altra cosa rispetto al privato, pensa che su di essa, essendo forte, può intervenire, con quel tipo di padrone può collaborare. È diventa più realista del re. Propone assieme la collaborazione con l'impresa e la denuncia degli operai che non ci stanno. Ma ambedue le scelte lo mettono in contrasto con se stesso, con la sua base, la sua tradizione. È su questo che volemmo intervenire. Ma sbagliammo due volte: sopravvalutando il pericolo che la classe operaia si trasformasse in un'accozzaglia di delatori (il solo che ci crederà a lungo sarà

Giuliano Ferrara, allora dirigente del Pci a Torino, che distribuirà un questionario apposito senza alcun esito). E nel pensare che una contraddizione di quella natura, fra operai, si risolvesse con le armi.

Chi decise di colpire Rossa ?

La colonna genovese. Ma l'Esecutivo avrebbe potuto opporsi, e non lo fece. L'intento era ferirlo, non ucciderlo.

Perché invece fu ucciso?

Andarono per colpirlo mentre saliva in macchina, ci fu una specie di colluttazione, i compagni spararono e anziché ferirlo lo uccisero. La morte è sempre grave, stavolta è l'errore politico che induce a non controllare rigidamente l'uso delle armi. Del resto lo sbaglio stava a monte. Guido Rossa non bisognava neanche ferirlo. Una contraddizione interna al movimento operaio, o la risolvi politicamente o la sconfitta è di tutti, le armi non servono.

Ma perché lo fate, quell'errore?

Forse eravamo tratti in inganno dall'esito d'una azione precedente, quando avevamo ferito un altro esponente del Pci in fabbrica, Carlo Castellano, che era alla direzione del personale, la controparte storica degli operai. Quella volta toccò al Pci spiegare ai suoi iscritti com'è che si ritrovavano il partito in veste di padrone. Con Guido Rossa la situazione era completamente diversa.

Sentiste la reazione ?

Pesantissima. Ma non avevamo bisogno di sentirla per sapere che avevamo sbagliato. Così ammisero tutti, non ci fu nessuno a dire che avevamo fatto bene. Non lo abbiamo mai detto, quando abbiamo dovuto uccidere. Ma quella volta alla gravità della scelta si aggiunse lo sbaglio proprio dove non si doveva assolutamente sbagliare. La contraddizione nella coscienza operaia era sotterranea, silenziosa. Ma c'era, e la proposta di delazione fatta dal Pci non passò neppure dopo Rossa, che pure gli operai non ci perdonarono.

Ne discuteste ?

Fu una discussione drammatica. Ma semplice. Avevamo sbagliato.

E perché si uccise Berardi, che Rossa aveva denunciato ?

Berardi era un metalmeccanico che lavorava in fonderia e distribuiva i nostri volantini e documenti. Per questo Rossa lo denuncia nell'ottobre del 1978. È una storia brutta e bella e terribile. Un compagno operaio dell'Italsider che denuncia un altro compagno operaio dell'Italsider. Li divide il contrasto acerrimo fra Pci e Br. Rossa risolve il suo problema mandando in galera Berardi. Ma qualche mese dopo che le Br uccidono Rossa, Berardi si uccide. Chissà se qualcuno di coloro che sedevano a Botteghe oscure ha colto la dimensione di quel che stava succedendo, quali lacerazioni passavano nel corpo operaio.

Ma anche questo, che definite un errore e che pagate caro, non è l'indizio che siete inchiodati in una situazione della quale non vedete lo sbocco ? Percepite questo vicolo cieco ?

La valutazione non fu univoca. Come vi ho detto non c'eravamo aspettati la saldatura delle forze politiche, con un Pci totalmente integrato nel fronte comune con la Dc e senza neppure l'opposizione dell'anima operaia della base. Si sono ristrette le condizioni esterne sia per la guerriglia sia per il movimento di classe. Non tutti, credo, hanno avvertito le conseguenze che l'emergenza avrebbe avuto su ogni forma di conflitto. Così nel 1979 ci troviamo a dover venire a capo d'un punto: le Br non potranno più essere quello che erano state finora. Avevamo colpito davvero al cuore dello stato, al livello simbolico più alto ed eravamo diventati più grandi, forse, di quanto avessimo mai voluto essere. C'eravamo concepiti in altro modo, catalizzatori d'un processo, non i soli protagonisti.

E di qui ?

La prima conseguenza è che qualsiasi nostra azione aveva perduto la natura di scontro limitato, di conflitto per arrivare a una mediazione: lo stato la assolutezza come richiesta di legittimazione, decide che o ci distrugge o sarà la sua debacle. È un pensiero debole che dispone di mezzi forti, roba più da

generali che da eredi di Machiavelli. La seconda conseguenza è che la propaganda armata resta senza il suo cardine: se non apri un varco nel fronte avverso, i tuoi discorsi rimangono lettera morta. Il solo messaggio che puoi mandare è di distruzione, sta nei colpi che assesti all'apparato dello stato. Ma che senso aveva la nostra strategia se non avessimo potuto puntare su continue mediazioni tattiche, questo imponi, questo contratti, questo ottieni per coloro che rappresenti? Ci eravamo spinti a dire che la guerriglia urbana è la forma della politica rivoluzionaria del nostro tempo, ma per definizione politica è mediazione. E ora non riusciamo a farcela più. I compagni più esperti lo capiscono, le difficoltà che avemmo agli inizi erano niente a confronto di questa.

Non ne deduceste che, giusta o sbagliata che fosse, la vostra partita era perduta ?

Ma eravamo più forti come struttura e capacità operativa. Eravamo il riferimento di avanguardie non da poco, il solo, non avevano altra parte cui guardare. Non potevamo che tentar di rilanciare, ma voleva dire trasformarci da avanguardia guerrigliera in partito, partito rivoluzionario. Un'impresa enorme e, oggi si può dire con certezza, del tutto fuori dalla nostra portata.

Allargarvi come organizzazione in quella stretta ?

Non c'era altra possibilità. Avevamo pensato a tempi lunghi, finché si aggregasse un vero e proprio partito rivoluzionario del proletariato, e adesso i tempi non c'erano più. Quel partito dovevamo diventarlo noi e, messe da parte le formule o formulette che questa esigenza trova nella discussione o nelle diatribe interne, questo è per tutti il problema. Ma quale partito, su quale linea, quali tempi, quali livelli organizzativi, e proprio mentre la situazione ci spinge a scelte esclusivamente militari. La via militare l'avversario l'ha scelta: ormai a ogni spinta rivoluzionaria o di movimento, risponderà con situazioni militari. Anche quando saranno scelte legislative all'apparenza sofisticate, saranno pensate come strumenti di guerra.

Vorreste sottrarvi a quella spirale ?

Si. Ma si riversano su di noi tutti gli interrogativi che investono ormai la

questione del partito. Non saremo noi a scioglierli, dovremo prendere atto che un partito rivoluzionario è cosa molto più complessa che non fossimo noi. Noi avevamo indicato, simbolicamente e nei fatti, un fine ultimo della classe operaia e del popolo: il rovesciamento del sistema. Ma un partito si costruisce anche sui bisogni immediati, su un programma articolato per obbiettivi parziali. Noi eravamo una guerriglia, neppur sapevamo che cosa potesse essere un partito assieme antagonista ma capace di legarsi ai bisogni immediati, e tanto meno come si potesse muovere in un quadro politico rigido, in un momento basso delle lotte, mentre capitale e stato si ristrutturano travolgendo tutto.

E allora ?

Allora l'alternativa è secca: o assumi che nel capitalismo avanzato in una situazione di riflusso una lotta rivoluzionaria armata non è praticabile, oppure proprio la mancanza di altri sbocchi fa di essa l'unica alternativa che resti. Il problema è così grosso che ritardiamo molto l'uscita di un bilancio politico dell'azione Moro. Non potevamo limitarci a valutarla senza dire: che fare adesso.

Come avviene la discussione fra di voi? Nel 197S si percepisce da fuori una prima divisione nelle Brigate Rosse. E oggi è riconoscibile nelle memorie di chi ha partecipato e ne parla in sede giudiziaria, o giornalistica, o nei libri. Prima di tutto c'era stata una divergenza durante il sequestro di Moro ?

Adriana Faranda e Valerio Morucci non concordarono con la decisione di giustiziare Moro, mentre in quel senso si espressero tutti gli altri membri dell'organizzazione. Solo loro due dissentirono, nessun altro.

Neanche i compagni dal carcere?

No. Ci fu unanimità di opinione e di scelta, questo va detto con chiarezza. Anche se in carcere erano sicuramente sorpresi, un mese e mezzo prima, quando sequestrammo Moro. Avevano partecipato alla discussione per la risoluzione strategica del 1978, alcuni di loro avevano dato un contributo importante a quel documento. Ma era in corso l'interminabile processo a Torino iniziato nel '76 e da loro ci veniva insistentemente la richiesta di intervenire con un'azione armata: il processo guerriglia funziona se è la

cassa di risonanza di una pratica combattente altrove. Ma l'organizzazione sta progettando una campagna, come dicevo, articolata su diversi obbiettivi che non siano solo d'appoggio a quel processo. Il perno è il sequestro di Moro, sono informati soltanto i membri dell'Esecutivo e chi la dovrà fare. Prima e dopo ruoteranno attorno ad esso alcune altre azioni. La prima è appunto a Torino contro un agente dell'antiterrorismo, Rosario Berardi, i compagni la rivendicano in aula ed è probabile che pensassero che il nostro intervento fosse quello e finisse li. Rimangono quindi assolutamente sorpresi quando una settimana dopo segue il sequestro di Moro, operazione di tutt'altro livello, per la statura del personaggio, per la lunga durata evidentemente

prevista e la vastità dello scontro che mette in atto. %

Dal carcere vi arriva un dubbio ?

No, ci mancherebbe, la campagna di primavera e l'azione Moro sono la messa in pradca della risoluzione che abbiamo steso assieme. Le decisioni d'attuazione non le prende chi sta in carcere: i compagni detenuti venivano interpellati sulle scelte di linea, non sulle azioni, e tanto meno sulla loro gestione. Né avevano il mandato di trattare con questo o con quello durante il sequestro, anche se intorno ad essi ci fu più d'un maneggio. Così quando a situazione bloccata si delinea la decisione di uccidere Moro il carcere viene interpellato, sì, ma non sulla decisione, bensì sulla rappresaglia che avrebbe potuto subire. Avevamo in mente Stammheim,77 l'anno prima, che allora tutti imputavano ad una vendetta della polizia. Risposero per iscritto che procedessimo secondo le nostre valutazioni, senza tenere in conto quella eventualità. Noi possiamo reggere qualsiasi cosa, ci dissero. Che poi qualcuno dei compagni dentro avrebbe preferito una soluzione meno tragica è banale. Tutti l'avrebbero preferita. Abbiamo fatto di tutto perché fosse possibile.

Ma dal carcere venne un 'esortazione ?

No, e non c'è da stupirsi. Non è da dentro che arrivano le indicazioni più pacate. Essere chiusi in uno speciale non ispira sentimenti pacifici. I soli che si pronunciarono apertamente contro l'uccisione furono Morucci e

Faranda. Secondo me più che un giudizio politico esprimevano un timore, che, giunti a quel punto, non aveva molto senso. Ma era legittimo che lo esprimessero e tutta l'organizzazione ne è stata messa al corrente. È un dissenso che si protrae nei mesi seguenti.

Che ne pensi oggi ?

Secondo me parlavano del futuro ma con la testa rivolta ai discorsi del movimento del '77. Ma eravamo oramai oltre, quelle tesi erano state verificate ed erano fallite. Naturalmente ne abbiamo discusso, ma presto diventa un discorso fra sordi nella colonna romana, cui il resto dell'organizzazione è estraneo. Il contrasto va avanti per mesi e paralizza la colonna perché le Br sono rigidissime: se c'è una contrapposizione si discute fino a che non sia risolta, non si passa sopra a niente. La colonna romana chiese a un certo punto l'intervento di un altro membro dell'Esecutivo, oltre Gallinari che la rappresentava. Ma risultarono inconciliabili le posizioni di Morucci con le nostre, e intendo proprio le nostre di sempre. Morucci e Faranda sono altro, non appartengono neanche nello stile alla nostra storia. Morucci lo riconobbe e anche se ne vantò: si, è vero — replicò - ma le organizzazioni si prendono, vi si sale come su un cavallo finché serve, quando non serve più si scende. Fa' quello che vuoi, gli risposi, per me non sarà mai cosi.

Qualche'mese dopo, nel gennaio del 1979, Morucci e Faranda usciranno.78 Su questo eravate d'accordo?

Si, ognuno è sempre stato libero di andarsene. Ne avevamo concordato le forme, ma hanno preferito non tenerne conto. Avrebbero dovuto scrivere un documento che ci impegnavamo a far conoscere: lo scrivono ma lo mandano soltanto ad alcuni compagni incarcerati, i quali ne deducono che è in corso nell'organizzazione una titanica lotta, mentre sono soltanto due compagni che se ne vanno. Dal carcere gli viene una risposta fin eccessivamente dura.

Perché portano con sé la famosa Skorpion ?

Perché Morucci era un fanatico delle armi. Spero che si sia convertito. Dopo l'uscita aggregheranno poco più di niente, non c'è lo spazio che si

erano sognati. Se ci arrabattavamo noi, che eravamo le Br, senza trovare una via d'uscita in una ricerca severa ma apertissima, non foss'altro che per disperazione, figurarsi che cosa potevano combinare loro.

»

Poi però il carcere riapre la discussione.

Col carcere si apre un dissenso più tardi, nell'autunno del 1979, su tutt'altre questioni. È più grave e per molti versi per me sorprendente. I prigionieri avvertono che siamo a un nodo politico difficile, ma ci attribuiscono una forza assai superiore a quella che avevamo. Fanno lo stesso errore di quelli che ci osservano dall'esterno: scambiano l'efficacia politica delle nostre azioni, e quella di Moro in particolare - la si giudichi come si vuole, ma fece impazzire l'intero sistema politico - per una straordinaria potenza militare. Ma la verità era che registravamo in continuazione delle perdite. Nell'ottobre del 1978 erano stati arrestati due membri dell'Esecutivo, Azzolini e Bonisoli, a Milano è caduta la base di via Montenevoso e con essa l'intera direzione di colonna. Non resta un solo regolare e la rete in città è paralizzata. La colonna di Milano è distrutta.

Dopo Moro polizia e carabinieri sono riorganizzati, era da attenderselo. Nell'autunno del 1979 ci saranno le leggi speciali. Lo avvertite?

Certo. Per noi tutto diventa più difficile. Non solo l'acqua tumultuosa nella quale eravamo cresciuti sta diventando stagnante, ma non possiamo permetterci più nessun errore, cresciamo rapidamente di numero ma con la stessa rapidità si finisce in galera. O peggio.

Dal carcere si poteva non rendersene conto. Che cosa chiedono ?

Un gran numero dei nostri era ormai concentrato all'Asinara, e ci chiedono di farli evadere via mare: l'operazione più grossa dopo lo sbarco in Normandia... abbiamo tentato ma non ci siamo riusciti. Qualche anno dopo ho incontrato in carcere alcuni compagni che erano allora all'Asinara, la delusione era stata così forte che a distanza e contro ogni evidenza erano ancora convinti che non ce l'avessimo messa tutta. Credo che questo episodio non sia stato estraneo alle diatribe politiche che si svilupparono

poco dopo.

Com 'era andata ?

Era successo che per le misteriose alternanze di rigidità e rilassamento proprie del carcere, nella prima estate del 1979 i compagni dell'Asinara si sono trovati in condizione di impadronirsi del carcere e uscire dalle mura. Di là ci sono poche centinaia di metri fino alla battigia. Ci chiedono di andarli a prendere e portarli al sicuro. L'isola è pattugliata da una jeep dei carabinieri, perlopiù in sosta vicino alla sezione Fornelli, mentre due guardie presidiano il piccolo molo. Non avevamo mai fatto niente di simile, non avevamo né una base né una minima brigata in Sardegna, ma d'accordo. Contattiamo Barbagia Rossa: assicura che se riusciamo a portarli nel barbaricino, saranno al sicuro. Non so, sessanta brigatisti armati evasi in Barbagia, da Roma avrebbero mandato l'esercito e per noi la Sardegna sarebbe diventata non molto più grande di una zattera nel mare.

Il piano non ti persuadeva?

No, al contrario. La guerriglia si prefìgge un obbiettivo per volta, farli uscire dall'Asinara sarebbe stato formidabile, poi si sarebbe visto. Ci mettemmo all'opera, Barbagia Rossa indicò gli itinerari - ci sarebbero volute una dozzina di macchine per arrivare fin dove si sarebbe proseguito a piedi, sui sentieri invisibili che conoscono solo i pastori, e prima sei gommoni per coprire il braccio di mare, bellissimo, dall'Asinara a Stintino. E sei compagni per portarli. Inoltre non bastava mettere fuori combattimento le due guardie sulla battigia ma anche il presidio d'un commissariato di polizia in cima al cucuzzolo che domina quel tratto di costa: i gommoni si sarebbero trovati per un quarto d'ora sotto tiro, se non avessimo neutralizzato quella caserma. Trasferimmo dunque in Sardegna il meglio dei compagni, praticamente tutti i regolari salvo un membro dell'Esecutivo. Eravamo in luglio e ci siamo accampati sulle spiagge libere mimetizzandoci fra la gente. Bisognava agire entro l'estate, finché c'era la folla. A metà settembre ci saremmo stati solo noi e i gabbiani. Il primo che passava ci avrebbe visto, si sarebbe fatto delle domande e dato le risposte.

Non ce l'avete fatta?

No. La guerriglia in una metropoli è un'altra cosa. Rubiamo la prima macchina, la camuffiamo e la lasciamo parcheggiata a Sassari. Non passano due giorni e la polizia la trova. Non siamo a Milano o a Roma, dove una macchina poteva restare in borgata tre anni; qui è più facile imboscare un gregge di pecore che un veicolo. Facciamo una serie di ricognizioni per i gommoni, troviamo quelli che ci servono in un campeggio vicino a Porto Torres, e la notte, quando li tirano in secco, andiamo a prenderli. Tutto è improvvisato, ci muoviamo in fretta, senza inchieste preliminari, si va a giorni per cose che richiederebbero mesi. Mentre stiamo impacchettando la flottiglia di gommoni, salta fuori un guardiano notturno armato, non lo avevamo previsto, urla e dà l'allarme. Non possiamo che andarcene precipitosamente. La Sardegna è splendida ma per la guerriglia urbana è un incubo: in quella zona c'è una sola strada costiera, un posto di blocco e non si esce più. A metà agosto facciamo i conti. Siamo là quasi tutti, ci siamo sbattuti come pazzi, ma non abbiamo macchine né gommoni, abbiamo solo le idee più chiare su come l'operazione andrebbe fatta. L'intero supporto logistico andava preparato nel continente: macchine, gommoni, armi, tutto. E all'ultimo momento avremmo dovuto trasferirci in Sardegna. Insomma ci vogliono altri tempi e altri mezzi, entro agosto non ce la faremo, l'azione è realizzabile ma dobbiamo rimandare all'estate successiva. Lo comunichiamo ai compagni imprigionati e se noi siamo delusi loro sono furenti. È comprensibile, l'aspettativa era grande. Meno comprensibile che accusino la tendenza "organizzativista" di non essersi impegnata a fondo.

Perché "organizzativista "?

Quando si dice la trappola delle parole. Intendono per "organizzativismo" che l'Esecutivo darebbe la priorità a preservare le Rr, privilegiare l'organizzazione invece che agire. Per la mancata evasione dell'Asinara era accaduto l'opposto, a impedirci di agire era stata la scarsa organizzazione in quel momento. A dir la verità quella critica non ci impressionò molto: eravamo sulla linea del fuoco tutti i santi giorni, preservare qualcosa sarebbe stato la nostra più ardente aspirazione, ma ci pensavano i corpi dell'antiterrorismo a fare in modo che restasse un pio desiderio.

Chi vi rivolge questa critica ?

Soprattutto chi era in carcere da un pezzo, come Franceschini che vi stava dal 1974 e aveva acquisito una logica tutta carceraria, post-nappista per così dire, quando già i Nap erano scomparsi da un pezzo e con l'istituzione degli speciali erano state isolate le avanguardie nate nei primi anni '70 dalla popolazione detenuta. In carcere si sogna di evadere, si può capire, ma anche per questo sono nati gli speciali. E dislocandone i più importanti nelle isole, se ne era realizzato il massimo isolamento politico e materiale. Questo ha annullato gli sforzi di evadere, mai nessuno c'è più riuscito. Anche a Favignana i compagni avevano tentato un'evasione dall'isola, avevano scavato un buco che dal sottosuolo portava fuori dalle mura di tufo del carcere speciale. Ma fuori per modo di dire, Favignana è a molte miglia dalla Sicilia e quello scoglio, apprezzatissimo dal turismo in agosto, in ottobre è abitato soltanto dalle famiglie delle guardie carcerarie, un brigatista è individuato di colpo. Feci io il sopralluogo dell'isola non appena i compagni ci comunicarono il piano, affittammo una base a Mazara del Vallo, acquistammo un motoscafo d'alto mare equipaggiato per sfuggire alla motovedetta dei carabinieri, eravamo pra-dcamente pronti. Ma occorreva aspettare l'estate. "Non ce la faremo, non ci danno tregua con le perquisizioni." Purtroppo avevano ragione, il buco venne scoperto da li a poco e tutto andò all'aria. Quel nostro velocissimo motoscafo dev'essere ancora ormeggiato da qualche parte in Sicilia. Lo stesso successe all'Asinara. I compagni ci dissero che non avrebbero retto, quel poco di respiro che avevano avuto dentro sarebbe finito presto. E tutto precipitò con l'arresto di Prospero Gallinari, a Roma, ferito gravemente in uno scontro a fuoco. Aveva in tasca dei fogli da cui si poteva decifrare il piano di evasione, i prigionieri giudicarono che non si sarebbe mai più potuto attuare e decisero la rivolta per distruggere il carcere.

Come l'avete vissuta, quella rivolta ? Con un senso di colpa per l'evasione mancata ?

Non ci mancavano che i sensi di colpa. Fuori vivevamo in condizioni estreme, era guerra aperta, si moriva anche. Quando sentimmo alla radio che Prospero era stato catturato79 dopo che una raffica di mitra lo aveva colpito anche alla testa, e si trovava praticamente morto all'ospedale, m'ero messo a scrivere il comunicato di commemorazione - quante volte mi è

toccato farlo, per quanti. Quella volta non servi. Prospero - è assodato che è immortale - se la cavò contro ogni previsione. Ma non avevamo certo dei compiessi nei confronti di chi era già in prigione. Abbiamo appreso della rivolta come tutti, la distruzione dell'Asinara fu davvero epica, di grande coraggio. Ma effìmera. Il carcere fu ricostruito da Dalla Chiesa in pochi mesi, e divenne un inferno. I detenuti erano disposti a qualsiasi cosa pur di non tornarci. Sarebbe stata la strenua resistenza dei compagni degli speciali, insieme al rapimento del giudice d'Urso, a chiudere nel 1981, almeno per quella fase, il carcere dell'Asinara.

Torniamo alla vostra discussione. E da parte di alcuni compagni che erano stati all'Asinara che viene una contestazione di linea?

La contestazione ha due momenti. Una, la più importante e seria, è esposta in un documento preparato all'Asinara e poi ultimato nel carcere di Palmi. E un documento ponderoso, sono più di 120 pagine, nelle Br sarà conosciuto come il "documentone". Dice un sacco di cose giuste, indica quasi tutto quello che bisogna fare per realizzare una rivoluzione, non lascia indietro quasi niente: la costruzione del Partito combattente, come organizzare le masse nella lotta armata, i passaggi necessari dalla guerriglia alla guerra, non tralascia nulla e, manco a dirlo, esorta a sconfiggere il militarismo e a liquidare il soggettivismo. Preso in astratto è quasi perfetto, ma è proprio per la sua astrazione che susciterà molte perplessità nella organizzazione.

E tu rispondi con un bigliettino del tipo: non ci siamo proprio. Perché sei così arrogante ?

In verità scrivo di peggio. Scrivo che ci dev'essere un errore da qualche parte, non so quale ma c'è di sicuro. Qualcuno dirà: riconosco lo stile. Ma qui bisogna essere chiari, stiamo parlando di una discussione in una guerriglia urbana, non fra i partiti e nella sede del Comintern. Per leggere un nostro documento bisogna imboscarsi da qualche parte, la circolazione del dibattito deve avvenire nella clandestinità e gli strumenti che si usano non hanno a che vedere con quel che gli storici poi trovano nelle

biblioteche. In quel periodo non ci si poteva certo far trovare con documenti addosso: è capitato che uno, che non era neanche dei nostri, s'è fatto arrestare con imputazione da ergastolo perché disegnava distrattamente una stella a cinque punte sul tovagliolo di carta in un bar. Se qualche compagno non si rende conto, nell'Italia del 1979, che diffondere e mettersi a discutere un documento clandestino di centoventi pagine è materialmente impossibile, è lui che è fuori dal mondo, non è l'organizzazione che reprime le sue idee. Sarà brutale doverlo dire, ma bisogna pure che qualcuno lo faccia senza pietose bugie.

Ma se avevano così a lungo discusso ed elaborato una tesi, perché non assumerla o controbatterla ?

Centoventi pagine sono un libro, non il documento di un'organizzazione combattente. Che dovevamo rispondere? Lo stiamo ciclostilando e lo faremo arrivare a tutti? Ci vorranno dei mesi... No, è la verità, voi non ci credete ma far girare anche una cartella di roba è un'impresa. Leggete i comunicati delle organizzazioni clandestine in giro per il mondo, già i nostri soliti erano eccessivi, ci consideravano dei grafomani pazzi.

Questa non è una risposta. Non ve lo mandano per dire: stampatelo in diecimila copie. Lo mandano per dire: non siamo d'accordo. Rispondi sul merito.

L'analisi di fondo di quel documento è errata. Si ignorano i processi di ristrutturazione in atto, o meglio, se ne ignorano le conseguenze, Non si vede che stanno scompaginando il tessuto sociale e che le forme di organizzazione spontanea precedente ne vengono prima svuotate di significato, e poi disperse. Si assumono come referente assoluto i contenuti radicali che la ricchezza delle figure sociali di quegli anni aveva prodotto, e si immagina, del tutto astrattamente, che siamo in presenza di movimenti all'offensiva in procinto di passare ad una guerra civile rivoluzionaria. È un abbaglio. In quegli anni tutti erano scesi in campo, dagli operai agli studenti, dai disoccupati alle donne, dai carcerati ai pensionati, persino i poliziotti non erano rimasti del tutto estranei. Ma l'onda era passata, quel che restava del movimento era già alle corde, sulla difensiva, abbarbicato su posizioni

di sopravvivenza. E infatti fuori le Br cominciavano a parlare di "resistenza" anche se, concessione verbale, la chiamano "resistenza offensiva". Apriti cielo, a sentir parlare di resistenza e non di guerra rivoluzionaria, alcuni dei sostenitori delle famose 120 pagine perdono il lume della ragione.

Renato Curdo scrive che su quel documento si rompe il gruppo storico.

Credo anch'io che qualcuno avrebbe voluto rompere con l'organizzazione, ma non lo fece. Per registrare una vera rottura delle Br bisogna arrivare al 1981, con la fondazione del Partito guerriglia, sostenuto proprio da quella parte del gruppo storico che nel 1979 stendeva il "documentone" - questo per dire come, su quelle posizioni, si potesse arrivare a qualcosa di molto lontano dalle Br, in qualche caso persino delirante. Ma nel 1979, tolte dalle 120 pagine molte cose giuste ma ovvie, il succo del documento è che si tratta di passare alla guerra civile mettendo insieme tutto quello che c'era stato fino ad allora, una sommatoria di contenuti e di organizzazioni. Non possiamo essere d'accordo, a parte che non c'è più quasi niente da sommare. Il passaggio alla guerra civile non è cosa imminente, se avverrà sarà a seguito di una lunga resistenza. Ma, come sappiamo, non avverrà. Avverrà che ci troveremo a fare i conti con una sconfitta che mette in luce i limiti intrinseci e invalicabili della lotta armata. Chi non vede con chiarezza come sono, nel 1979, i r apporti di forza, parla d'altro, sta sulle nuvole. Sono forse l'unico che prende molto sul serio quel documento, mi pesa che certi compagni del carcere siano fuori non tanto dal nostro dibattito, ma dalla realtà. Ce lo diciamo, con gli altri della Direzione: dai vecchi che sono dentro è finito il contributo. Ce ne avevano dato uno grande, per anni.

Sta di fatto che poi chiedono le dimissioni dell'Esecutivo.

Sono nel loro diritto. Non le chiedono su Moro, come sarebbe stato comprensibile se avessero avuto un'altra linea, ma sull'accusa che l'organizzazione non sta più facendo nulla. A Milano, dicono, non si combatte più, e chi non combatte non esiste. Hanno chiesto tre o quattro azioni a Torino, non sono state fatte, perché? Che ci vuole, per chi ha sequestrato Moro, a colpire un capo reparto? Basta un quarto d'ora di inchiesta e mezz'ora di intervento armato. Perché reprimete la lotta armata,

perché le impedite di decollare verso la guerra civile? Torino non sta forse insorgendo, i fazzoletti rossi non stanno occupando la Fiat a seguito dei 61 licenziamenti? Non immaginano neppure quanta disperazione ci sia in quella occupazione e il senso di sconfitta che la domina. Riversano tutto sulle responsabilità dell'organizzazione, che pure ci sono ma sono tutt'altre rispetto a quel che immaginano, e chiedono la convocazione della Direzione strategica, l'assunzione della linea da loro proposta e le dimissioni dell'Esecutivo. Tutto formalmente corretto, ma è ridicolo e tragico a un tempo.

Sem bri ancora molto ferito.

Lo ero, lo eravamo. Questo secondo momento della critica, che viene dal processo di Torino in dicembre, sebbene ispirato al "documentone" è rivolto direttamente a chi dirige l'organizzazione, e fra tutti a me che sono il più vecchio, l'unico che tutti conoscono. Io me le assumo le responsabilità, tutte. Ma la personalizzazione rende il dissenso più povero, lacerante. Più tardi se ne avvedranno anche in carcere. La contestazione che viene da alcuni di loro ha delle forme che ci lasciano esterrefatti. È vero che a Milano non si combatte, ma perché la colonna è distrutta, azzerata dagli arresti, abbiamo bisogno di qualche mese per ricostruire. C'erano compagni nuovi, inesperti. Era un momento tremendo, Milano è realmente a zero, io e Barbara Balzerani riprenderemo i contatti all'inizio dell'80, e si ricostruirà con Vittorio Alfieri, Aurora Betti, Roberto Adamoli e altri quella che sarà la nuova colonna Walter Alasia. Quelli del processo o lo ignorano, ma sembra impossibile visto che da Milano ultimamente in galera sono arrivati a frotte, oppure non capiscono quel che significa.

Insomma, dai compagni al processo viene una requisitoria ?

Durissima e fuori misura. Comunque convochiamo la Direzione strategica, a Genova, ordine del giorno la richiesta di dimissioni dell'Esecutivo. Sarà una Direzione debole, prematura, raffazzonata, nell'ultimo anno erano stati arrestati quasi tutti, Galli nari, Azzolini, Bon isoli, Savino, Fiore. Della vecchia Direzione e dell'Esecutivo rimaniamo Mica-letto ed io. È la fine del '79 e brancoliamo nel buio sulla svolta da fare, siamo sicuri che la proposta dei compagni prigionieri è sbagliata, ma più in là non siamo in grado di

andare. Micaletto e io naturalmente ci dimettiamo, io sono un esperto in dimissioni, è la terza volta che mi capita di darle perché va sempre a finire che non c'è nessuno disposto a prendere il mio posto. Ci sono, fra gli altri, Bruno Seghetti, Barbara Balzerani, Riccardo Dura alla fine ci guardiamo in faccia e qualcuno fa: e adesso? Tutti al mare? Un Esecutivo non si sostituisce con un atto burocratico, bisogna scegliere fra i compagni ancora disponibili, magari loro malgrado. Siamo irritati, perché costretti a una Direzione alla quale non eravamo pronti. Ne usciamo infatti senza una nuova linea, con lo stesso Esecutivo di prima, e avendo compiuto un errore che, scopriremo poi, costerà la vita di quattro compagni. La Direzione si chiude rispondendo in modo lapidario alla comunicazione del carcere, con ironia, senza curarsi se si arrabbieranno.

Di nuovo? Insomma, c'è una spaccatura ma non incide sull'organizzazione?

Come avrebbe potuto? Eravamo obbligati prima di tutto a rimetterci in piedi, a ricostruire la rete dove era stata spezzata. E la ricostruiremo, con grande difficoltà e ricevendo grandi colpi.

Qiiale valutazione deste del '19? C'erano stati i 61 licenziati alla Fiat, primo colpo esplicito all'antagonismo di fabbrica, e il sindacato ne aveva assunto la difesa - come contraddizione, non era da niente. Poi il grande sciopero, la discesa degli operai del Nord a Roma contro il governo. Il Pci passa all'opposizione, il consociati-vismo dichiarato è finito. Ci sono le leggi speciali. È un quadro confuso, pesante, ma non è più quello totalmente omologato del 1978.

In tutte le rivoluzioni sconfitte di cui mi è capitato di leggere, c'è sempre un momento in cui chi c'è dentro si rende conto che la disfatta è solo questione di tempo. Ecco a noi è capitato alla fine dell'estate del 1979. La Fiat è scatenata, prima licenzia i 61 che sono l'avanguardia e poi fa 24 mila cassintegrati in pochi mesi. La reazione operaia è forte, si occupa la fabbrica, riprendono i cortei interni, ma si stanno difendendo, cercano di resistere disperatamente. Ed è vero che Berlinguer ha un moto di resipiscenza e va a sostenere quell'occupazione davanti ai cancelli di Mirafiori,80 ma è troppo tardi; è stata la sua politica e quella di Lama a concedere il biennio di tregua che era necessario per imporre i costi della ristrutturazione. E questa è passata. La vera svolta l'ha fatta Agnelli. I danni

della solidarietà nazionale sono definitivi. È la manifestazione dei 40.000 che segna la fine di un ciclo, quel corteo è purtroppo il fatto politico di gran lunga più significativo. È la rivalsa dei "colletti bianchi" contro un decennio di insubordinazione operaia. Sono miopi,

l'impresa non lascerà indenni neppure loro, ma intanto è chiaro che gli operai sono stati sconfitti.

Chi ne discusse a Genova ?

Soprattutto i compagni che venivano dalla fabbrica. Lorenzo Betassa era alle Carrozzerie della Fiat, stava nel consiglio di fabbrica. Ci rendevamo conto che avremmo avuto un terreno dove mettere radici, ma non è più con la propaganda armata che ci riusciremo. Uno scontro diretto contro la Confindustria non sarebbe indifferente, ma dopo Moro nessuno può sperare che un'azione di propaganda, per quanto centrata e ben accolta dagli operai, scalfisca minimamente gli equilibri consolidati. Potremmo fare qualsiasi azione se lo volessimo, ma in quale prospettiva se ci stiamo chiedendo quale compito dobbiamo darci per superare la propaganda armata? Sono finiti i tempi in cui bastava denunciare il nemico, analizzarne i piani e agganciarsi a un movimento montante per aprire una grande speranza e contare. I tempi dell'ingegnere Macchiarini o del cavaliere Amerio sono lontani. Adesso o riesci a contrastare o almeno a condizionare la ristrutturazione, oppure non conti più niente. Uno come Raffaele o Rocco o Mariuccia, siamo in quel momento nell'Esecutivo, veniva da un decennio di lotte operaie e ne aveva respirato gli umori e conosciuto i desideri, non si inganna.

Raffaele, Rocco e Mariuccia f

Non so perché mi siano venuti i nomi di battesimo, forse una crisi di sentimentalismo. Sono Raffaele Fiore, Rocco Micaletto, Carla Brioschi. Insomma, sappiamo che c'è un'aggressione e non c'è speranza di contrastarla, e noi, nati nell'avanzata, non abbiamo la benché minima risposta da dare a chi ci chiede che cosa fare adesso. Facciamo piccole azioni che tentano di articolare una presenza, ma basta. Anche su questo la Direzione lascia aperto il dibattito. Non decidiamo nessuna azione

clamorosa, dobbiamo lavorare molto per definire una linea. È accettare i rischi che una situazione di indeterminatezza comporta. È una decisione saggia, ma più facile da enunciare che da praticare nella tempesta in cui siamo. Il 1980 è un anno terribile.

Prendete subito dei colpi ?

Ne arrivano due tremendi ai primi mesi dell'anno. Lorenzo Betassa, individuato dalla Digos, sfugge all'arresto per un soffio, dalla fabbrica va direttamente in clandestinità. Era rimasto alle Carrozzerie fino all'ultimo, la Fiat era irrinunciabile. Anche un compagno della Lancia, Piero Panciarelli, era dovuto venir via dopo uno scontro a fuoco con la polizia, durante un'azione. La colonna di Torino era in tale difficoltà che entrambi si rifugiarono temporaneamente a Genova, nella base di via Fracchia, dove avevamo riunito quella affrettata Direzione. Talmente affrettata che saltammo le regole della compartimentazione e della esistenza di quella base venne a sapere anche Patrizio Peci, che poco dopo veniva arrestato insieme a Rocco Micaletto. Peci non aveva un gran ruolo nella colonna di Torino, mentre Rocco era importantissimo, uno dei vecchi dirigenti, membro dell'Esecutivo. Fu un colpo tremendo. E poco dopo, vengono uccisi dai carabinieri quattro compagni proprio in via Fracchia.

Che pensaste?

Nulla pensammo. Che a un mese dall'arresto, sulla promessa del generale Dalla Chiesa di promuovere una legge che premiava la delazione, Peci prendesse a collaborare con i carabinieri, svelasse tutto quel che sapeva dell'organizzazione, denunciasse i compagni, indicasse le basi, guidasse gli agenti, questo nessuno di noi poteva neanche sognarlo. Ci mettemmo del tempo a capire, non avevamo conosciuto il tradimento, non stava nella nostra mente che i colpi che ci arrivavano fossero causati dalla delazione di uno di noi, che aveva vissuto con noi. Fu Peci comunque a portare i carabinieri anche in via Fracchia a Genova, dove allora abitavano quattro compagni, Riccardo Dura (Roberto) e Annamaria Ludman (Cecilia) militanti della colonna genovese, Lorenzo Betassa e Piero Pancelli, rifugiati temporaneamente da Torino. È una strage. I carabinieri hanno le chiavi della base, le avevano trovate in tasca a Rocco Mica-letto, Rocco non ha

detto parola, ma Peci gli ha detto dov'è la base e possono entrare senza neanche sfondare la porta. Nella notte del 28 marzo sorprendono i compagni nel sonno e li uccidono deliberatamente, tutti.

Si capi anche fuori, i giornalisti furono tenuti lontano per diversi giorni. Fummo in ben pochi a protestare per quell'impresa. Facevate la guerra e vi si risponde con la guerra.

È vero che a Genova non eravamo stati teneri, avevamo attaccato delle pattuglie dei carabinieri e c'erano stati dei morti, ma quello fu un macello deliberato che potevano evitare e invece decisero di sbatterlo in faccia a tutti. Ci misero tanto zelo che un proiettile feri accidentalmente anche uno di loro. Ma non diedero gran pubblicità all'incidente. Dalla Chiesa voleva mostrare la decisione dello stato, la potenza dei corpi speciali e darci una lezione che non lasci dubbi: nessuno deve uscir vivo da quella base. Se sangue deve essere mostrato, sia solo quello dei brigatisti. E, meglio che si parli di politica quando parliamo dello scontro degli anni '70, perché se ci fermiamo sulla disumanità dei comportamenti, su ciò che si poteva evitare e ciò che si era obbligati a fare, non sono solo le Br a dover spiegare qualche cosa.

Dura era un amico per te oltre che un compagno ?

Si. Ho scritto il volantino per commemorare quei nostri quattro morti in una casa di Sampierdarena, dove abitava una compagna operaia e una sua figlia, allora diciottenne. Eravamo in tre generazioni intorno a quel tavolo e certo per la mente ci passavano cose diverse, a mala pena saprei dire quello che passava nella mia. Ma dovevamo avere qualcosa di molto forte in comune per stare tutti e tre a guardare in faccia la morte di quattro che sentivamo come fratelli. Un dolore terribile, che non vogliamo neppure che si veda. "Mia figeù, semo ne 'a bratta, ma u sciu Costa ha già pagou",81 avrebbe detto Roberto, un marinaio comunista come ne ho conosciuti tre nella vita, che dopo l'azione Costa ci ripeteva questo tormentone ogni volta che ci trovavamo nei guai. Lo immagino anche stavolta.

La divisione tra carcerati e non, si riflette fra gli esterni ?

Non in questi termini. Tutti vedevano che si era arrivati a una gabbia, ma il dibattito era più complesso. Almeno fino all'estate dell'80, quando

arriviamo ad alcune riunioni della Direzione strategica, a Santa Marinella e Tor San Lorenzo, che mi parvero surrealiste. Ormai si parlano molte lingue diverse. C'era voluto ancora un anno di combattimento prima che si vedesse tutti che eravamo in un vicolo cieco e un mutamento si imponeva. I compagni che lo avevano già capito e cercano di guidare l'organizzazione a questo dibattito, non hanno soluzioni facili.

I compagni..., cioè tu e chi? L'Esecutivo di Genova meno gli arrestati e gli uccisi ? Quali sono le divergenze ?

Non è semplice. I vecchi rimasti sono pochi, Lo Bianco, Barbara, Fenzi che era uscito dal carcere e alcuni compagni romani. Quando si sente che non si sa bene che fare, la discussione si fa confusa, gruppettara, uno getta le responsabilità sull'altro, ci si attribuisce parti che non sono quelle vere. Ogni tanto qualcuno fuori cerca appoggio in questa o quella parte dei compagni in carcere, e questi sperano in un aiuto di quelli fuori. Le dinamiche personali e psicologiche si complicano, e si capisce, ma non giovano a discernere le posizioni politiche che vi sono intrecciate. E poi eravamo sempre stati uniti e al massimo della difficoltà si esita a dividersi e non solo per ragioni politiche, come me che sono per non dividersi mai, ma per una spontanea reazione di difesa del gruppo.

Ma se è tutto un fiorire di documenti ?

Nelle riunioni ci si scannava, ma quando poi vai a vedere i documenti stenti a distinguerli. Dicono tutti: dobbiamo estendere la guerra "di classe, costruire il Partito combattente e gli organismi di massa rivoluzionari, unire i bisogni strategici della rivoluzione comunista con i bisogni immediati delle masse. E ti par poco. E che significa rispetto a quel che eravamo stati fino ad allora? Che tipo di mutamento in concreto, che cosa lasciare, che cosa prendere? Pochi se lo chiedono, la controversia si ingarbuglia, nessuno sembra d'accordo con nessuno, neppure nelle ovvietà. In certi momenti un po' ridicoli qualcuno non riesce più ad essere d'accordo neppure con se stesso. Era uscito allora da Palmi, perché assolto in un processo, Enrico Fenzi:82 aveva partecipato alla stesura del famoso "documentone" nato all'Asinara. Appena fuori si avvede di colpo che una cosa è quel che immaginavano dentro e un'altra la realtà. Che non stessimo viaggiando sulla

cresta dell'onda videro in fretta anche Marina Petrella83 e Luigi Novelli,84 usciti anch'essi di prigione in quel periodo e inseriti nella colonna romana. Tutti cambiano idea in un batter d'occhio sulla presunta facilità di una svolta. Ma non basta riconoscere che siamo fermi per sapere come muoversi.

C'è una brigata da cui vi dividete, la milanese Walter Alasia?

Si, precisamente si tratta di una parte molto significativa della colonna di Milano. E una vicenda esemplare del bisogno di agire e della impossibilità di far altro di quel che si è sempre fatto senza riprodurne tutti i limiti. Malgrado le tensioni eravamo rimasti uniti - siamo a metà del 1980 -mettiamo un rallentatore alle azioni, non serve a niente un'azione se non sai a che indirizzarla, serve solo a coprire le nostre difficoltà. Con Fenzi ci intendiamo bene, discutiamo del "documentone", ne recuperiamo gli elementi d'analisi che erano i soli utilizzabili, cerchiamo di guidare il dibattito verso una linea che abbia un senso. La Walter Ala-sia non ci sta, scalpita, vuole fare subito, forse pensa di avere già trovato le soluzioni giuste.

Nella memoria di altri brigatisti la Walter Alasia sarebbe una brigata in qualche modo a parte, come quel che Alasia era stato, una figura della seconda generazione, giovane, meno legata alla storia operaia che le Brigate Rosse classiche non riescono a assimilare. È cosi?

La Walter Alasia è stata una nostra parte, del tutto integrata nell'organizzazione, e soltanto dopo una campagna nazionale sulle fabbriche che era stata insoddisfacente decide di agire per conto suo. È vero che sono compagni arrivati tardi, ultimi, nelle Brigate Rosse, come De Maria, Betti e Alfieri e in loro si esprimono al massimo le difficoltà comuni. In quello scorcio d'estate scalpita, ripeto, per intervenire e non ha tutti i torti, la situazione all'Alfa Romeo è tale che non possiamo stare a guardare, siamo fermi da troppo e rischiamo di essere assenti come alla Fiat nel momento cruciale. Quindi mettiamo in cantiere assieme due azioni, individuando un dirigente dell'Alfa Romeo, Manfredo Mazzanti,85 e uno della Marelli, Renato Briano.86 Ma come colpire, dove fermarci, che cosa proporsi e che cosa raggiungere: dove indicare, appunto, una svolta. Ci

stiamo lavorando quando il gruppo milanese forza i tempi e realizza le due azioni autonomamente, colpisce e... Incomprensibile, per uno come me. Per loro forse era importante dimostrarsi indipendenti. Ma indipendenti da che? Stavamo dibattendo come venirne fuori e ripiombano a capofitto nella propaganda armata quando era dimostrato che per quella strada non si modificava niente. Uccidere un uomo è una tragedia e la motivazione che si dà a questo gesto non ne cambia la dimensione. Ma stavolta sapevamo che l'uccisione dei due dirigenti sarebbe stata inutile. Non abbiamo mai scherzato con la morte, era una dolorosa necessità della guerra che credevamo giusta e ce ne siamo sempre assunti la responsabilità. Ma per queste morti non lo possiamo fa-

re. La Walter Alasia ha agito per sua scelta, le Br lo rendono pubblico con un giudizio molto severo.

È una frattura totale ?

Ho sempre pensato che la Walter Alasia forzava e prima o poi la realtà più che le parole l'avrebbe costretta ad accorgersene. Per questo fui molto d'accordo che si mantenessero i contatti anche se ciascuno andava per proprio conto. Avevamo troppo in comune con compagni come Nicola Giancola, un operaio della Philips che conoscevo da una vita, per non pensare che se avessimo trovato il modo di venirne fuori ci saremo reincontrati.

La colonna Walter Alasia era radicata davvero nell'Alfa?

Ereditava un radicamento, c'eravamo stati da anni. Lo estese, forse. Ma se chiedevo dei vecchi compagni dell'Alfa ai nuovi, ne sapevano poco, si conoscevano ma non si stimavano. I nuovi erano molto giovani, spesso venivano dalle lotte di quartiere. Prima a portare nei quartieri un'identità forte erano stati gli operai dell'Assemblea autonoma - a Quarto Oggiaro avevano organizzato loro l'occupazione delle case, il Sindacato degli inquilini - adesso succedeva l'inverso. Nell'Alfa c'è tutta la storia delle Br. Era un'azienda a partecipazione statale ma nel ciclo dell'automobile dominato dalla Fiat, cambiava spesso la composizione sociale della manodopera e cambiano quindi le Br. C'erano compagni come Alfieri, che

in fabbrica aveva un prestigio straordinario e, fuori, tutta l'organizzazione dalla sua -avremmo fatto qualsiasi cosa per l'Alfa. Un vecchio delle Br avrebbe fatto l'ira di Dio, e lo dico senza un briciolo di presunzione. Era diventato operaio tardi, s'era formato nell'autonomia. È un tipo di militante diverso nelle idee, nei linguaggi. La comunicazione è difficile.

Non giudichi troppo duramente, da operaista, la seconda generazione? Si direbbe che da Morucci in poi, il vostro problema sia l'emergere nelle Br di posizioni simili al movimento del'77, l'ex Po-top o Primalinea.

Non è che emergano le loro posizioni, è che introiettia-mo le debolezze. Eravamo stati per dieci anni l'organizzazione più forte, la sola che avesse una linea univoca e chiara, persino quelli che ne esprimevano un'altra, come Prima Linea, ci aveva preso, non senza qualche complesso, come modello per molte cose. Quando, nel 1980, dopo le leggi speciali e la svolta della Fiat, anche noi entriamo in crisi gli altri avevano smesso da un pezzo di brillare per il riverbero che gli veniva dal movimento del '77. È vero che alcuni compagni della Walter Alasia erano passati per Potere Operaio, altri per i gruppi dell'autonomia del ticinese, ma non portavano più una ricchezza, portavano alle Br la domanda che veniva dai fallimenti che ciascuno aveva già consumato per conto suo, e a questa richiesta l'organizzazione non aveva risposta.

Hai gestito tu quella discussione ?

Ho gestito tutte le discussioni per mesi, per anni, con uno scrupolo da far invidia a un democraticista inveterato, convocando la Direzione strategica ogni volta che veniva richiesta, rassegnando le dimissioni ogni volta che le chiedevano. Anche se sapevo che i problemi - quando sono della dimensione di quelli che avevamo noi dopo Moro - non li risolvi in questo modo.

Però espelli la Walter Alasia.

Io non espello nessuno, figuratevi se espello qualcuno, eravamo quattro gatti. Il mio sforzo disperato è di tener tutti assieme. Sapevo che una divisione delle Br sarebbe stata la fine, non solo perché i comunisti la pensano così da sempre, ma perché era evidente che soltanto sforzandoci

assieme, avremmo forse trovato una via d'uscita, per difficile che fosse.

Allora come vi dividete?

Ci divide il fatto che la Walter Alasia comincia a far azioni per suo conto. Si-può capire se c'è chi pensa che la difficoltà che abbiamo venga semplicemente da una cattiva direzione, che sarebbe la mia, dei compagni a me più vicini. È naturale che qualcuno finisca per dire: adesso vi facciamo vedere noi quel che siamo capaci di fare. Pazienza. Ma va messo in chiaro che operano per loro conto, sono responsabilità grosse. Siamo le Br, non uno dei tanti gruppi. Qualunque cosa facciamo, comprese le cazzate, la rivendichiamo. Ma che siano nostre.

Allora, con la Walter Alasia ce un dissenso che viene per la loro esasperazione e fretta, facciamo qualcosa per essere presenti. E a te e ai compagni che ti sono più vicini questo tipo di lotta armata senza una prospettiva sembra, come dire, movimentista e estremista. In altri, specialmente nel carcere, non c'è invece il dubbio di fondo sulle possibilità della lotta armata ? Tu stesso accenni di continuo ai suoi limiti, limiti intrinseci. Ma qualcuno disse, nell'80, bisogna chiudere?

Nel 1980 a me nessuno ha detto: chiudiamo con la lotta armata. E dal carcere quasi tutti hanno sostenuto un qualche gruppo di lotta armata fino ad oltre il 1982, cioè persino oltre le Br e, secondo me, oltre la ragionevolezza.

Anche tu pensavi a un rilancio anarra possibile?

In quel momento si. Per un momento l'organizzazione crede (spera) di aver trovato il modo di far quadrare il cerchio, con la Direzione strategica del 1980. Una linea che tenga fermi gli obbiettivi finali, che erano sempre nostri e propri della propaganda armata, ma sappia agire sui bisogni immediati della gente. Per questo, si capisce, occorre diversificare i luoghi di intervento, gli operai del Nord, i disoccupati di Napoli, gli ospedalieri di Roma, e formulare rivendicazioni puntuali nelle quali essi si riconoscano e si sentano sorretti. Senza confondersi con una sorta di sindacalismo armato, e senza perdere volta a volta il punto di fin dove si possa arrivare e dove mediare. È una pratica da partito, il contrario della guerra guerreggiata, insomma. Non scopriremo come ci si possa arrivare a partire

dalla lotta armata. Certo era come correre a tutta velocità con un Tir in un vicolo stretto e pieno di curve, e non graffiare la carrozzeria di nessuno. Comunque è l'unica possibilità che abbiamo. Ci proviamo.

Da che parte cominciate ?

Proprio dalle carceri e dai proletari imprigionati.

Per recuperare i compagni dentro ?

Perché li stanno massacrando. Perché siamo molto forti dentro le carceri speciali. Perché ci sono e funzionano organismi unitari: minuscole code che rappresentano solo gli speciali e non la maggior parte della popolazione detenuta nei penali e nei giudiziari. Tuttavia possiamo assumerli come referente "di massa". Progettiamo una campagna che considero il capolavoro politico delle Br, l'operazione d'Ur-so, con la quale chiudiamo il carcere dell'Asinara. C'è tutto in quell'azione. Riusciamo a dividere la magistratura che non vuole più immolarsi per quelle che considera le deficienze del sistema politico, tiene fermo il principio di legalità, ma si faccia di tutto per concludere con la liberazione di d'Urso. Il fronte della fermezza, dopo che il Pci è stato emarginato dall'area di governo, mostra qualche crepa. Solo il peggio dello schieramento reazionario rimane sulle posizioni: muoiano tutti, lo stato non cede. Chiediamo una cosa precisa, di grosso valore umano e simbolico che si può ottenere subito: la chiusura dell'Asinara, un lager incubo dei detenuti, e la otterremo; nessuno, tanto meno la sinistra, osa difenderne l'esistenza. Lo scenario politico si divide, esplode il problema e la polemica sulla stampa, interviene Pannella. Scoppia una rivolta nel carcere di Trani, i detenuti occupano il carcere, avanzano alcune rivendicazioni. Niente di sconvolgente, colloqui, pacchi, qualche spazio interno, ma il governo manda i corpi speciali (è l'esordio delle teste di cuoio nostrane) che assaltano il carcere lanciando bombe a mano e sparando ad altezza d'uomo. Non ci scappano i morti solo per caso, ma quando i carabinieri riprendono possesso del carcere, li pestano selvaggiamente. Venti ore dopo le Br uccidono a Roma il generale dei carabinieri responsabile del controllo militare delle carceri, Enrico Galvaligi.87 Tutto parrebbe destinato a bloccarsi su una reciproca esasperazione. Invece stavolta la breccia resta aperta, d'Urso verrà liberato

poche ore dopo la lettura d'un comunicato dei prigionieri di due speciali, quello di Trani e quello di Palmi. Che dicessero, specie quelli di Tra-ni, ancora nudi, ammassati a trascorrere la notte nei cortili all'aperto del carcere, doloranti per le fratture e le ferite subite dopo la rivolta: avrebbero detto si, liberatelo, abbiamo vinto.

Il sequestro d'Urso è un esempio della linea che intendi? Come spieghi questo successo ? La vostra capacità, dici, di porre un obbiettivo concreto, condivisibile e ottenibile subito...

Su questo insistiamo. Sono le ultime dieci righe del comunicato che contano. È lo stesso d'Urso a suggerirci di farlo rilevare a una persona di sua fiducia presso il Ministero di Grazia e Giustizia, il dottor Zara Buda, credo si chiamasse cosi. Gli facciamo arrivare questo messaggio.

Ma dalla parte dello stato ?

Dall'altra parte si impegna la procura di Roma. Il procuratore di Roma, Gallucci e Sica vanno dall'avvocato Di Giovanni e gli chiedono di portare il comunicato ai detenuti e insistere perché lo leggano. Di Giovanni, che non lo ha, lo riceve dallo stesso Gallucci. La determinazione della procura di Roma è fermissima. Sica forse era più esitante. Lo incontrai qualche anno dopo e ne parlammo.

Tiraste un bilancio del sequestro ?

Certo. L'abilità, la pazienza, i nervi saldi, la gestione dell'immagine pubblica, insomma un'azione armata ma con molte dimensioni politiche, aveva pagato. Non era stato puro scontro, solo guerra. I compagni sono d'accordo, la sensazione è che si sta risalendo. E si discute quindi delle tecniche di combattimento: se appena possibile non si uccide nessuno, perché quando hai dei morti è difficilissimo discutere alcunché, trovare le mediazioni. Con Galvaligi eravamo stati tirati per i capelli, ma d'Urso lo avevamo liberato. La soluzione incruenta doveva essere la nostra forza a imporla.

Ma perché non vi siete mossi poi su questa strada ?

L'azione d'Urso è stata, l'ho detto, un capolavoro di guerriglia, ma si

rivelerà ingannevole come nessun'altra. Dovrebbe essere un paradigma, e si rivelerà invece una perfetta opera di artigianato, così particolare da restare un pezzo unico, non si ripeteranno più le modalità politiche che, sperimentate con successo nel caso d'Urso, ci sembravano risolutive. Se fossi un presuntuoso come alcuni di noi un po' passati di cottura, direi che è andata così perché dopo qualche mese io sono stato arrestato e sono stati altri a dirigere l'organizzazione, ma sarebbe una bugia. Quel successo non era indicativo di una possibilità di trasformazione della guerriglia, esprimere quel che avveniva, un corpo sociale in mutazione rimaneva del tutto fuori dalle sue possibilità.

È un giudizio che hai maturato più tardi ?

È un giudizio che danno le cose. Arriviamo alla spaccatura al massimo della capacità operativa mai avuta. Tre sequestri contemporaneamente: Sandrucci a Milano per l'Alfa Romeo, Giuseppe Taliercio88 a Marghera per il Petrolchimico, Ciro Cirillo a Napoli per i disoccupati. È il canto del cigno delle Br. Non più unitarie affretteranno la propria morte, ma porteranno fino all'estremo la verifica delle diverse linee. Nel sequestro Sandrucci la Walter Alasia, totalmente libera da presunti impedimenti, si colloca tutta dentro ai problemi di quella specifica fabbrica, il punto sono i salari, la nocività dei reparti. Sfiorano il sindacalismo armato. Ma come motivare i costi, umani e politici, che la lotta armata comporta, sulla richiesta di un aspiratore più efficiente, o anche qualche cassintegrato in meno? O prendi le armi, spezzi la regola della convivenza in nome d'un obbiettivo grande, sposti, incidi, o non lo puoi fare. Non ti capisce più nessuno. E così finisce la Walter Alasia. Con Taliercio non si va oltre la denuncia dei piani di ristrutturazione, con conseguenti cassa integrazione e licenziamenti, perché in una fabbrica oltre non vai, lo avevamo capito fin dal 1976. Il sequestro Taliercio si conclude in modo cruento, rivelando la stessa impotenza di quello Sandrucci che invece viene rimesso in libertà.89 Io sono in prigione già da mesi e chi, come me, cerca di ragionare deve trarne una conclusione terribile: mordiamo così poco che persino il concludere un'azione con la vita o con la morte, è del tutto indifferente rispetto all'esito politico. Tutte le nostre domande: dove possiamo arrivare con la lotta armata? a quel punto avevano ricevuto risposta.

Poi ci sarà il sequestro Cirillo.90 Tu eri già stato arrestato ?

Si, sono stato arrestato qualche mese prima che venissero realizzate le azioni Sandrucci, Taliercio e Cirillo. Delle ultime due conosco solo il dibattito interno che le ha precedute; per lo svolgimento dei fatti ne so quanto chiunque legge i giornali. Nel caso di Cirillo l'azione era stata progettata mentre ero ancora fuori, ma è stata realizzata mutando il fine iniziale, cioè allo scopo di mettere in piedi un'altra organizzazione, il Partito guerriglia. Noi l'avevamo pensata in altro modo. Napoli era un terreno socio-politico del tutto inabituale per noi, neppure Roma, borgate e quartieri impiegatizi, era così diversa dai nostri tradizionali poli d'intervento. E si che la prima volta andai a Napoli nel 1979, per incontrare alcuni operai dell'Italsider, tra cui Vittorio Bolognesi, per creare in fabbrica la prima brigata. Ma quando nel 1980 vorremo intervenire a Napoli, cercheremo di farlo sui disoccupati: sono essi l'evidenza, l'emergenza di Napoli. Avremmo stabilito una posizione di forza sequestrando un cardine del partito democristiano locale, e avremmo trattato su un obbiettivo che il proletariato napoletano potesse riconoscere come suo. Poi non fu così, il Partito guerriglia chiese un riscatto, e la Dc che non aveva trattato per Moro per Cirillo trattò.

Che tu sappia c'è stato un qualche collegamento fra i vostri compagni a Napoli e la camorra in quella circostanza ?

Vi ripeto che non conosco direttamente la vicenda. In tutta la nostra esperienza abbiamo evitato qualsiasi rapporto con le organizzazioni criminali. Abbiamo sempre saputo che se avessimo voluto agire al Sud avremmo dovuto fare i conti, oltre che con lo stato anche con loro, sarebbe stata una partita a tre. Ma non arrivammo a sperimentare fino in fondo quel che sarebbe successo se avessimo avuto la forza di impiantarci solidamente a Napoli. Bisognava avere idee chiare sulla natura delle forze in campo e in quel momento il Partito guerriglia non le aveva.

È risultato dal processo che è stata la Dc a chiedere la mediazione della camorra.

Risulta anche che sono stato condannato per strage, anche se da tre mesi ero chiuso nel carcere speciale di Cuneo in stretto isolamento. Ma lasciamo

andare. Nel caso di Cirillo si vide che la Dc avrebbe utilizzato chiunque pur di sopravvivere.

Insomma il caso d'Urso resta a sé? L'organizzazione non riesce a riprodurlo?

No. Mi sono andato convincendo che una linea sul filo del rasoio, che nessuno sembra capace di attuare non è una linea. Se funziona soltanto nella mia testa vuol dire che non sta nelle possibilità reali. Mi piacerebbe moltissimo rispondervi che se io non fossi stato arrestato... la vanità mi suggerirebbe questa gratificazione e mi risparmierei la fatica di cercare oltre i motivi di una sconfìtta. Ma purtroppo non è vero. Non dico: se ci fossi stato io le cose sarebbero andate diversamente. Certo tutti contano e anch'io qualcosa avrei contato. Ma non più di questo.

CAPITOLO VIII

Il coraggio di guardare, il coraggio di chiudere

Il 4 aprile del 1981 vieni arrestato a Milano.91 Hai tirato un respiro di sollievo ?

Sicuramente ho pensato: adesso riposerò per molto tempo. Il che è successo, forse troppo. No, non ho tirato un sospiro di sollievo. Quella era la mia vita. Per quanto dura non era da disperati. Era stata anche ricca.

Ma in quell'aprile eravate ormai senza via d'uscita.

Pensavamo di averne trovata una proprio allora, avevamo portato a termine con successo il sequestro d'Urso, dunque si poteva combinare la forza nell'operazione con l'intelligenza nella trattativa. Oggi so che questo era quasi impossibile. Ma in quei mesi pensai che si poteva farcela. Molti compagni bravi, di quelli che contavano, erano convinti dopo d'Urso che si poteva ricostruire un lavoro, anche senza farsi troppe illusioni. Era una scommessa più grande di quella del'72.

La prima volta che ne accennasti hai detto: sono stato arrestato quando tentavo di rimettere in piedi i cocci delle Br.

Cercavo di ritessere dei fili a Milano. Di problemi di fondo non ne

avevamo risolti neanche nno, tutto si sarebbe giocato nell'impostare e gestire bene le campagne che stavamo preparando. Ma a Milano i compagni della Walter Alasia se ne erano andati per i fatti loro facendoci perdere un punto di forza - erano una presenza vera dentro alla fabbrica, abbastanza integra organizzativamente, ma politicamente i più arretrati, non avevano rielaborato nulla, ripetevano e si incagliavano dove eravamo incagliati da un pezzo. Non si rendevano conto delle ragioni vere della nostra crisi. E le Brigate Rosse non potevano rinunciare a Milano, non è questione di potere o di concorrenza fra gruppi, avevamo sempre saputo che se per qualche ragione ce ne fossimo andati da Milano e dalle fabbriche, avremmo smesso di esistere, per quanto forti fossimo altrove. Nell'inverno del 1981 a noi non restava che riprendere i vecchi contatti in città con i compagni e ricominciare un lavoro di ricucitura.

Per unoi " chi intendi ?

Intendo le Brigate Rosse, che erano ancora una organizzazione. Di regolari andammo a Milano Enrico Fenzi, Barbara Balzerani, io, e basta. Non ne servivano di più, non contava tanto il numero quanto la conoscenza della città, delle sue strutture, della gente. Io sono politicamente nato a Milano, la so a memoria. Per un super ricercato era un'imprudenza imperdonabile cercare i primi contatti. Questo è il lavoro tipico degli irregolari, che vivono legalmente nel movimento, setacciano le disponibilità, fanno le prime verifiche, e se si accorgono - non ci vuol molto - delle magagne di quello che si diceva comunista e non lo era, non proseguono. E non succede niente se il primo contatto è stato preso da un compagno legale, è lui che funziona da filtro verso l'organizzazione clandestina. È stata questa rete capillare e severa che ci ha permesso di evitare gii infiltrati; a mia conoscenza, nessuno è riuscito, dopo Girotto, a infiltrarsi, certo nessuno s'è accostato a una struttura di direzione sia pur periferica. È quasi un record mondiale. Ma a quel momento a Milano questa rete s'è inaridita, siamo debolissimi, e benché sia una pazzia i primi contatti li cerco io. Alla più piccola sbavatura può essere il patatrac, ma che fare? Quante volte si fa una sciocchezza pur sapendo che è una sciocchezza. E così in uno dei contatti che, dopo la prima volta, avremmo scartato, Fenzi e io cadiamo in una trappola tesa dalla polizia e veniamo arrestati.

Forse in questo errore c'è stata da parte tua, che eri sfuggito sempre a trappole del genere, una stanchezza, allenti la guardia perché non ne puoi più. Ma lasciamo andare l'inconscio, che non frequenti volentieri. Dopo il tuo arresto, chi rimane ?

Rimane integra la colonna romana. Ne fanno parte compagni come Luigi Novelli, Remo Pancelli, Marina Petrella e Piero Vanzi. È sicuramente la colonna più compatta, e nella crisi politica dei mesi successivi sarà quella che guiderà il passaggio dalle Brigate Rosse al Partito comunista combattente. Poi ci sono Barbara Balzerani, Antonio Savasta e Francesco Lo Bianco che tra la colonna in Veneto e quel che rimane a Milano faranno parte della stessa tendenza. Ma al momento del mio arresto anche la colonna di Napoli, che è guidata da Giovanni Senzani92 e Vittorio Bolognesi, è d'accordo con la linea dall'organizzazione sperimentata con d'Urso. Beh, ci dicemmo con Fenzi parlandoci tra le grate delle celle d'isolamento, forse c'è una speranza che vadano avanti, rimane Barbara, rimane Lo Bianco, rimane Savasta, che era uno dei più convinti, uno che aveva macinato molto della nostra storia. E che altro potevo fare se non sperare? Ormai stavo in galera e non avevo scelte, dovevo solo tenere botta.

In carcere sei un po' solo ?

Più che solo in isolamento: fra la caserma della polizia a Milano e le celle di isolamento di Cuneo mi sono fatto tre mesi senza vedere nessuno che non fossero le guar die. Ma era l'inizio e dopo dieci anni di clandestinità potevo persino prenderlo come una tregua; mi sono letto due volte di fila Guerra e pace. Mille e settecento pagine di Tolstoj riempiono di gente una cella di isolamento per ben più di tre mesi.

Guerra e pace, (hial è il "tuo" personaggio? Ormai ti trovi, nella posizione di Pierre Bezuchov che guarda come va la guerra... ma ci sei costretto.

No, non Pierre Bezuchov. Neanche altri personaggi maschili. Quelle che mi hanno incantato sono le donne, come si muovono su quello sfondo di guerre. Natascia Rostova è affascinante. Quanto al guardare da una certa distanza, non occorre esserci costretti dal carcere. In clandestinità i miei pensieri dovevano schizzare più rapidamente di quanto si muovessero gli

eventi, ma c'è sempre un momento nel quale uno riesce a vedersi, a veder quel che succede.

E quando ti fanno uscire dall'isolamento? Per prima cosa ti prendi una coltellata ?

Ah, quella resta inspiegabile. Si possono fare delle supposizioni, ma non mi piace fare supposizioni, su di me ne ho sentite troppe. Ho già raccontato come è successo. Eravamo al passeggio, non ero solo, in senso inverso camminava un camorrista, tal Figueras che, arrivato alla mia altezza, mi infila d'improvviso un coltello - una lama lavorata a coltello - nell'addome da sotto in su, come si vede nei film, un colpo per ammazzare. Non so come lo schivo, mi ferisce appena di striscio e la lama finisce sull'inferriata che mi sta dietro, storcendosi. È solo per questo che sono ancora vivo, quello continua a colpirmi all'impazzata, sono caduto, cerco di coprirmi con le mani, mi lacera mani e un braccio. Poi, forse convinto che con me ha raggiunto lo scopo, cerca di colpire anche Fenzi che si trova dal lato opposto del cortile. Riesce solo ad infilzarlo ad un fianco prima che un compagno, Agrippino Costa, reagisca e cerchi di bloccarlo. Ma a questo punto le guardie aprono il cancello e sparisce con loro, senza cercar di buttare il coltello, glielo dà. Non ho capito chi e perché mi volesse ammazzare, chi gli aveva dato questo ordine. Non la camorra in carcere, con quella non c'erano né contatti né scontri - è sempre stata la regola. La cosa ci colse di sorpresa proprio perché non nasceva dall'interno del carcere. Credo che anche dalla parte dello stato non fosse tutto chiaro, ad un certo punto persino alla Digos persero per un momento la testa, mi buttarono su una camionetta e correndo verso l'ospedale uno mi tenne per tutto il tragitto la pistola puntata alla fronte continuando a gridare: se succede qualcosa tu sei quello che muore per primo. Ma dopo neanche mezz'ora cambiarono idea e mi riportarono di corsa in carcere. Di là mi spedirono a Pisa per l'operazione chirurgica. Dopo il primo momento sedarono tutto.

Ma che interpretazione avete dato ?

Appunto, non riesco a darne una sicura. È certo che l'ordine è venuto da fuori. In quel tempo era in atto il sequestro di Cirillo, e a Napoli gli interessi dei diversi poteri, legali ed illegali, si intrecciavano e si sorreggevano a

vicenda, spesso si identificavano. Quel tentativo di sbudellarci poteva essere qualcosa di più che un avvertimento: voi tenete Cirillo, noi vi ammazziamo Moretti e, per buon peso, anche Fenzi. Ma è un'ipotesi che non posso appoggiare su niente. "Noi" chi era? Resta il fatto che ci provarono e seriamente. Nel volantino di denuncia dicemmo che erano stati i carabinieri, che va sempre bene.

Quella volta hai creduto di morire?

No. Una volta che la manovra era andata buca si sono preoccupati dei buchi che avevano fatto a noi. A Pisa mi hanno curato benissimo.

Che cosa è stato il carcere per te?

Non stiamo mettendo insieme le mie memorie dal carcere. E neanche le mie esperienze esistenziali. Quel che ho vissuto sta dentro. Anche i compagni che ho perduto, stanno dentro.

È vero che non sei con la testa nel carcere, sei un uomo in gabbia con la testa fuori. Ma vuol dire che non hai mai considerato l'universo carcerario come un terreno di lotta ? Negli anni '70 lo era stato per molti.

Io ci arrivo nel 1981, quando il circuito delle carceri speciali è ormai completamente isolato dal resto. Gli speciali, che sono un'invenzione di quel tempo - da noi l'ha realizzata Dalla Chiesa - non è il carcere dei primi anni '70. In quello arrivano i politici, si innestano in una situazione di ribellione diffusa, politicizzano i comuni e danno vita ad un ciclo di lotte che trasformerà profondamente il carcere. I Nap nascono da quelle rivolte e si sviluppano anche fuori. Nel 1976 facemmo un'azione assieme noi Br e i Nap, un'incursione all'Ispettorato distrettuale per le carceri di Milano. Fu un momento di unità che non ebbe seguito, mai che si sia riusciti ad unire esperienze diverse anche quando non erano molto distanti fra loro. In comune ci restò solo il grande sogno dell'evasione. Ma con gli speciali la situazione cambia radicalmente, prendono i politici e i comuni più ribelli, li separano dal resto dei detenuti e li mettono in carceri durissimi e inaccessibili, tanto meglio se c'è il mare attorno, come all'epoca di Montecristo. Da uno speciale in quell'epoca non è mai evaso nessuno, anche se il mito dell'evasione è duro a morire. I Nap, che erano stati una

esperienza genuina e avevano la loro base nell'universo detenuto, muoiono di asfissia con gli speciali.

Tu non hai mai tentato di evaderei

No. Quando ancora si pensava a queste cose ero dell'avviso che il problema non fosse rincorrere tentativi più fantasiosi che reali. Lo avevo visto da fuori il carcere speciale, sapevo che cosa era nelle possibilità delle Br e che cosa no, a me non era consentito farmi illusioni. Ma c'era sempre qualcuno che avevà un piano bellissimo per scappare e me ne faceva generosamente parte. Una volta a Cuneo me ne illustrarono uno entusiasti Ognibene e Franceschini. Molto bello, saremmo volati in cielo con un elicottero dopo aver segato innumerevoli sbarre, perforato molte blindate e scalato altissimi muri. Non riuscirono neppure a cominciare, ovviamente.

Diciamo la verità: solidarietà a parte, il carcere non ti interessa. E da quando sei dentro, sei tu che potresti domandar solidarietà. Ma non lo fai. Ci conosciamo da anni, stai sempre bene e non hai mai bisogno di niente.

Il carcere è il carcere. Sei tagliato fuori. Però il mondo continua a girare anche senza di te. Se hai la modestia di accettare questo pensiero atroce per l'amor proprio, impari a difendertene con efficacia. Devi solo tenere botta e cercar di ragionare.

Che succede dopo l'operazione a Pisa ?

Chiedo di tornare a Cuneo. Quando riemergo, fra Centro Clinico e isolamento, ritrovo alcuni compagni, ma non sono molti quelli che la pensano come me. Anche i carabinieri lo sanno che c'è una tensione e scegliendo oculatamente qua e là ci mettono nello stesso carcere per vedere se ci dilaniamo. È così sporca e scoperta che per non dargli questa soddisfazione, Franceschini e io decidiamo di metterci addirittura nella stessa cella. Non la vediamo allo stesso modo da un pezzo, come sapete. Ma molti mi stanno a sentire. Per la prima volta dopo anni qualcuno gli dice: ma piantatela di dire cazzate, di raccontarvi che le Br stanno vincendo e travolgendo tutto. Siamo in una crisi spaventosa, come tutto quel che resta del movimento. Ascoltano. E anche i risentimenti sull'evasione mancata dall'Asinara, sulle azioni che avremmo potuto fare e non abbiamo

fatte, le polemiche, con un po' di fatica spariscono, ci capiamo. Ma tutto questo è secondario rispetto a quel che ci viene da fuori. Notizie di fratture, divisioni, esasperazioni. Ci comunicano che è avvenuta una separazione organizzativa fra due schieramenti che mi sorprendono persino per come sono composti. Tutto dimostra che la prospettiva che avevamo creduto di trovare con la Direzione strategica dell'80 non basta a tenere unite le Br. Ma non è che da dentro si possa aggiustar molto. Non sono mai bastati i discorsi.

Incontri Curcio?

No, Curcio lo incontrerò molto più tardi, soltanto al processo Moro ter nel 1986 e ci spiegheremo. Con Renato non siamo mai stati del tutto d'accordo e ci siamo capiti sempre, ve l'ho detto. Avrei voluto rivedere i compagni subito. Appena arrestato era in corso a Milano il processo per le prime azioni delle Br dov'ero imputato, chiesi di andarci. Sarebbero stati obbligati a mandarmici. Ma pur di non farlo hanno stralciato irregolarmente la mia posizione. Forse allora avremmo potuto allacciare un rapporto, aprire una discussione e prendere d'anticipo la dissociazione. Sono pensieri che faccio ora, con i "se" non si combina molto.

Sapete tutto quel che avviene fuori ?

Si, anche se con un po' di ritardo. In quel momento le Brigate Rosse stanno attuando le tre operazioni che anziché segnare un salto di unità, sanciscono la loro divisione in tre gruppi. Dopo Taliercio, Cirillo e Sandrucci la partita era chiusa. Non importa per colpa di chi, non fu colpa di nessuno. Ma a quel punto occorreva aver la forza di dire: siamo in piedi, abbiamo ancora una capacità operativa ma fermiamo tutto e riflettiamo. Questo bisognava fare. Lo dissi a pochissimi compagni, naturalmente, perché ormai si infittivano i pentiti e bolliva in pentola la dissociazione anche se nessuno ancora la chiamava cosi. Un discorso del genere poteva venire interpretato alla rovescia. Si poteva farlo solo con compagni molto esperti e con molta fiducia reciproca.

Con chi ne hai parlato più a fondo ?

Nel carcere di Cuneo con Fenzi. Lui capisce, sa qual è la situazione,

parliamo della stessa cosa. Ma è già su un'altra lunghezza d'onda, in una difficoltà personale. È al suo secondo arresto. La prima volta si regge, la seconda è molto più dura. Inoltre la» seconda volta ha molte meno illusioni della prima. Credo che il suo sia stato, si, un crollo politico, ma anche molto personale. Ci mette un pezzo. Al processo di Milano mi confida le sue difficoltà, dice che intende difendersi. Gli obbietto: guarda che non hanno permesso a nessuno di difendersi in maniera pulita, accettano solo la delazione, non ci sei ancora ma ci vai a finire dritto e sparato, sarà inevitabile. Mi risponde: sei forse più lucido di me in questo momento, ma io non me la sento di chiudermi questa possibilità. Ognuno fa le scelte che vuole, anzi molto più spesso quelle che può. Io ne faccio un'altra, non mi difendo, è questa la linea delle Br. Ce lo diciamo con franchezza, non è da poco la diversità che ora c'è fra noi. Però restiamo in cella insieme. Non sono mai stato un forcaiolo, non ho difficoltà a stare con chicchessia, oggi.

Sembra che tu capisca tutti, oggi. Ma che cosa intendevi con la proposta: fermi tutti e ripensiamo tutto ?

Intendevo che andava ripensato davvero tutto. Ma se bastasse capirle, le cose... a quel punto occorreva risolvere un rebus: in capo a dieci anni, la lotta armata non portava più da nessuna parte, s'era esaurita come tutto il ciclo di lotte nato nei primi anni '60. Ma non era davvero semplice mettervi fine.

Perché la guerriglia è una via di non ritorno?

Perché eravamo dei comunisti, neppur ci passava per la mente di rassegnarci e diventare un'altra cosa. Trovare una risposta - come continuare senz'armi - era meno facile per noi che per chiunque altro.

La tua proposta fu ascoltata ?

No, non ebbe nessun seguito. Un'operazione politica del genere, fare il punto e trarne le conseguenze, poteva essere effettuata soltanto da compagni che fossero fuori di prigione, gli esterni erano determinanti. Ma da fuori chiedono al carcere soltanto di prendere posizione sulle diatribe che li dividono. La sola cosa che faccio io è dire: non prendo posizione, compagni state sbagliando, con le divisioni non risolvete niente. Non mi

schiero. C'era una continua richiesta di schieramento, dentro e fuori, una frattura dopo l'altra. Avete presente quando una cosa non funziona più? Chi ha vissuto un'esperienza di partito - no, il Pci non si è spaccato mai - ma chi ha vissuto nei movimenti, organizzazioni, gruppi sa che quando cade il cemento politico la frammentazione è furibonda. Tutti contro tutto, si spacca il capello in quattro, una virgola diventa un monumento, una parola diventa un macigno. Questo non produce niente. Quindi io non mi schiero. Alcuni ne furono delusi, ad esempio Barbara.

Perché Barbara Balzerani ?

Perché erano i compagni più vicini nelle battaglie precedenti. È probabile che anche allora non fossimo così distanti, solo che il loro sguardo è tutto rivolto alle polemiche interne e sono preoccupati di rimanere fedeli ai principi delle vecchie Br. Non riescono a trarre l'unica conclusione che la situazione imponeva: la nostra lotta armata aveva esaurito ogni possibile funzione. Li capisco, so bene come sia più facile cominciare quella impervia strada che trovare il modo di abbandonarla, persino quando è evidente che non conduce da nessuna parte. Giocano tanti fattori. Occorre che ti permettano di farlo senza rinunciare alla tua identità, occorre che non significhi l'abbandono dei prigionieri alla loro sorte, occorre che ci sia un'altra opposizione praticabile, occorre che qualche forza politica esterna sottragga ai militari la delega per arrivare a una soluzione... occorre l'impossibile. Conosco il dramma di un'impotenza così totale che non ti permette neppure di smettere. Ma io, che mi sono prese tutte le responsabilità fino a qui, non ci sto d'ora in avanti a prendere su di me quella di mandar qualcuno al macello. Mi batterò come posso, quel che penso lo dico, non mollo nessuno ma non sorreggo più una pratica che è inutile, sbagliata. Nei serial del processo Moro mi pare senza senso la simbologia delle gabbie, dove ciascuno se ne sta diviso dagli al ni, non li guarda, li odia - compagni che avevano condiviso tutto. Ma nessuno riesce a sottraisene. Vogliono che stia nella loro gabbia questi compagni di Roma? Siamo all'effetto bandiera? Sto con loro, che importa.

Questi chi ?

Iannelli, Seghetti, Piccioni, Prospero e gli altri, quelli che avevano aderito al

Pcc. Nessuno si preoccupa più che la gente ci capisca, tutti sono attentissimi alla ufficialità della rappresentanza e dei discorsi. Assurdo. È proprio vero, meno politica c'è e più si diventa formali. C'era un controllo reciproco tremendo.

Quando sei stato arrestato, pur sapendo che le Br stavano in estrema difficoltà, non prevedevi queste rotture ?

Una frattura così secca no. Mi sorprende. Fino ad allora c'era stata soltanto una separazione, quella della colonna Walter Alasia, e vi ho detto come l'avessi valutata; si dibattevano nella speranza che la soluzione stesse nel farsi autonomi, che l'intoppo stesse nella direzione delle Br invece che nella loro linea, e si erano messi a ripetere le solite azioni in una spirale dalla quale non riuscivano a uscire. Ma le posizioni diverse non si erano espresse in divisioni, e tanto meno in formazioni e organizzazioni diverse. La direzione del-l'80 e l'operazione d'Urso sembravano aver messo d'accordo tutti, compresi i compagni prigionieri. Soltanto nel 1981 le Br si dividono, diventano il Partito guerriglia e il Partito comunista combattente. Il primo era capeggiato da Senza-ni, che aveva fatto parte anche del Fronte delle carceri, il secondo tutto il resto. Si frantumano.

Chi tenne la sigla Br?

Tutti. Nessuno, per nessun motivo al mondo, vuol abbandonare la sigla Br: né la Walter Alasia, né il Pcc, né poi le Ucc - tutti. Ma nonostante dicessero: "siamo un'altra cosa", di politicamente nuovo, che superasse le vecchie Br non trovarono nulla. L'epilogo venne in brevissimo tempo, si polverizzò l'organizzazione. Una organizzazione rimasta unitaria per dodici anni, nell'81 diventa un arcipelago.

In coincidenza con il tuo arresto?

Sf, ma il mio arresto non ne è la causa, anche se in qualche misura influisce, è inutile negarlo. I più vecchi di noi erano la continuità dell'organizzazione, ne eravamo il cemento.

Allora qual è la causa di quell'andare in pezzi ?

L'incertezza sul che fare e il pretendere di continuare come prima. Gli effetti sono disastrosi. C'è una gran quantità di discorsi ma le pratiche sono uguali, io neppur capisco in che consistono realmente le due posizioni, salvo nelle parole. A tentar di ricostruirle, è come cercar il bandolo d'un caos. Più di una volta mi è capitato di sentire compagni che si dichiaravano d'accordo con un documento ma non con quel che facevano quelli che lo avevano scritto; e quel che facevano invece entusiasmava altri, che magari non erano affatto d'accordo con il documento.

Tu insisti che è la rottura che causa la diversificazione politica e non l 'inverso ? Non è paradossale ?

No. La rottura produce i tentativi di argomentarla. Le posizioni si diversificano, la parola di ciascuno è diversa da quella dell'altro, ma come sono diversi i rivoli di un fiume che sta per essere ingoiato dalla sabbia del deserto. Nessuna azione in sé manda più un messaggio comprensibile, è così sterile che chi la fa deve spiegarla con talmente tanti discorsi che alla fine ci perdi la testa. È un tale intrico. Ci ha provato ad orientarsi Fenzi che è un intellettuale di mestiere, lo guidavo in quel labirinto, ma il filo non lo trovavamo.

Delle azioni del 1981 vieni a sapere solo in carcere?

No, sapevo che erano in via di preparazione, tranne il sequestro Sandrucci. Non c'era azione di cui l'Esecutivo non fosse informato, da quando si cominciava; se non nella fase dell'inchiesta generica, certo quando si andava all'inchiesta operativa. Di li a pochi mesi o pochi giorni l'operazione veniva realizzata. Quindi sapevo. Ma c'era una discussione, un dissenso sui contenuti di esse, quando sono stato arrestato. Se ne stava discutendo perché, lo ripeto, tranne la Walter Alasia le Brigate Rosse erano ancora una cosa sola.

Da chi sarà composto l'Esecutivo dopo il tuo arresto?

Naturalmente Barbara, probabilmente hanno cooptato Savasta; eravamo debolissimi, alla frutta, agli sgoccioli. Le scissioni e le divisioni sono presentate come lotte fra titani, e invece sono crisi di nervi di pigmei. Sono feroce, ma tra i pigmei metto anche me.

Ma con il Partito guerriglia c'è una diversità, almeno anche dall'esterno sembra di ravvisarla, anche nel metodo. La gestione del sequestro Cirillo è altra cosa da quelle che avevate sempre fatto. Certi estremismi, certe crudeltà non solo verbali non sono vostre.

Non voglio parlare di quél che avviene dopo il mio arresto. Prima di tutto, non so, una formazione non si giudica dalle parole dei documenti ma da quel che fa, e bisogna esserci per sapere quel che fa e quel che può fare. Io non ci sono. Le Brigate Rosse non sono più né unite né sulla strada che m'era parso di intravedere, ma sono i miei compagni. E non mi va di dire: ah, noi Br doc eravamo così diversi, non avremmo fatto questo, avremmo fatto quest'altro. Per esempio il Partito guerriglia: in quel linguaggio, in quel soggettivismo assoluto, declamatorio, anche spietato, sta anche qualcosa che era intrinseco al carcere. E che si incontra con il Pg esterno, non so bene in che modo, perché in una fase di fratture le comunicazioni si dividono, chi ha già dei rapporti se li tiene, e chi non ce l'ha cerca di conquistarli. Finché l'organizzazione era unita chi teneva i rapporti con un settore li portava poi a ricomposizione nelle strutture centralizzate dove non tutti conoscevano tutto. Quando ci si spezza, il Fronte delle carceri che era stato gestito da Senzani diventa la sua arma segreta per una battaglia che considero demenziale.

Anche in carcere avvengono cose tremende.

Molte delle aberrazioni avvenute in carcere e fuori sono frutto di questa perdita d'una bussola politica. Prendono il sopravvento dei soggettivismi deliranti. Tenete presente che in quegli anni il carcere speciale è durissimo, intollerabile. Quando fuori è già tutto finito, Spadolini ci regala i tre anni dell'articolo 90, la sospensione anche dei più elementari diritti per i prigionieri. Ogni sopruso divenne legittimo e non ce ne risparmiarono neppure uno; condizioni terribili che si fatica persino a raccontare. Pianosa o Nuoro in certi momenti sono stati fin peggio dell'Asinara e sono durati molto di più. L'esasperazione è grande quanto l'impotenza. Chi doveva subire non ha avuto sempre una reazione saggia. Ad esempio c'è chi ha pensato che si potesse funzionare come un anti-stato nelle mura in cui eravamo ristretti; nonostante tutto le Br conservavano in carcere una certa forza - avrebbero fatto giustizia, avrebbero epurato se medesime colpendo i loro nemici interni, i delatori, i pentiti. Era fuori da ogni realtà e quando si

esce dal reale è facile finire in aberrazioni anche dal punto di vista umano. Così ci sono state esecuzioni che non si possono neanche definire come ferocie politiche. Una volta, in un carcere, rimuginarono tre mesi sulla necessità di eliminare una piccola spia, un ragazzo, non era neanche un politico. Ma siamo matti, dico, che cosa stiamo facendo, che senso ha, sarà anche un confidente delle guardie ma una volta scoperto è innocuo, è un povero cristo, stiamo andando fuor di senno. Se ne parla per tre mesi. Una mattina è stato trovato strangolato. Non so da chi. Il carcere tace su queste cose. Ma occorre tenersi ben saldi per non essere trascinati in questi deliri. Qualche volta neanche noi ne siamo stati immuni.

Cerchiamo di capire quel che è successo. Per esempio, quanto pesa Senzani con il suo Partito guerriglia nella vostra storia politica ? È una meteora. Nella primavera del 1981 sequestra Cirillo, nell'agosto fa la campagna su Peci e ne uccide il fratello,93 con quel videotape, si scinde dall'Esecutivo in settembre, si mette fuori come Partito di guerriglia e viene arrestato il 4 gennaio. Neanche un anno, a guardar bene.

Si, neanche un anno, ma arriva quando le Br sono già finite. È vero però che hanno messo parecchio di loro, lui e il Pg, per seppellire quel che restava della nostra credibilità.

Quel che intendo è che nessuno può dire: Senzani? Non lo conosco. È una scheggia di un coté brigatista minimo ma sempre esistito. Non possiamo espellerlo fuori da noi come qualcosa di assolutamente esterno. In un libro di Curdo di quel periodo, che è un lavoro sul linguaggio e certe filosofie recenti, c'era una specie di ode alla guerra sociale totale e al Partito guerriglia, alla rivoluzione contro un nemico che attraverso lo stato si infiltra nella coscienza proletaria e ne coopta il sentito intimo, per cui il poliziotto è dentro ciascuno di noi... Non faceva parte della nostra cultura, ma a un certo punto vi entra.

E una parte del movimento del '77, sta anche nell'immaginario di allora. Il nemico è in noi. Nella autonomia diffusa c'è qualcosa che non è Negri. Senzani riflette secondo te queste posizioni un po ' selvaggiamente psicologi co-esistenziali ?

Riflette soprattutto l'idea che il complotto è universale e diffuso, ha messo radici anche dentro di noi, la lotta di classe è lo scontro con uno stato che

alligna in ciascuno. Se no come si concepisce l'azione per denunciare "la belva Ligas"94 o l'esecuzione di Roberto Peci? E perdipiù con un videotape di accompagnamento che nessuna persona sensata può pensare abbia un effetto politico positivo. Il meccanismo che produce quel tipo di operazione è un delirio.

Che cosa pensa Senzani ? Poi è stato trattato in maniera terribile. Un anno e mezzo di isolamento, e ora questo silenzio, questo sprofondamento.

Che cosa pensa proprio non lo so, per me è quasi impossibile entrare nella logica che guidava il Pg. Vedo una pratica che forse parte dall'idea che tutto si può fare, che non c'è limite alla volontà di potenza. Io i compagni li ho conosciuti fino al sequestro d'Urso. Anche con Senzani si poteva lavorare. Facemmo un buon opuscolo per quella battaglia, ci mise mano lui per la parte relativa al carcere, mentre per la parte politica la bozza venne presentata da Fenzi e da me. Lo scrivemmo in una settimana in una casa a Terracina e trovammo anche il tempo di fare un capatina all'isola di Ventotene. Confino politico durante il fascismo, meta turistica da favola oggi. Guardando il mare e le scogliere dal traghetto che ci portava sull'isola, non riuscivamo a capire come un posto così potesse essere considerato punitivo. Forse bisognava immaginarsi nell'Italia di allora per capirlo. Non meno di quanto bisogna far ora per capire gli avvenimenti di cui stiamo parlando. Ci sembrava ragionevole -a Fenzi, Senzani e a me - quel che andavamo scrivendo su quel documento. Senzani era una persona con la quale si ragionava, anche se inclinava a qualche esaltazione. Fu questa a fargli prendere il peggio delle Br.

L'hai incontrato in carcere?

Si, al processo Moro ter. Io ero un po' lontano da tutti perché non schierato con nessuno, ma per la stessa ragione ero l'unico che parlava con tutti. Ci parlammo, dissi che non ero d'accordo su quello che avevano fatto e sostenuto, però non attacco mai a fondo se non ho una alternativa forte da proporre. Ma basta con Senzani. Voglio solo ripetere che fa parte delle Br, non è una cosa diversa.

Quando è entrato nelle Br?

Molto tardi, credo addirittura dopo Moro. È un criminologo, aveva rapporti marginalissimi con noi da molto tempo.

Ma fu lui che rilasciò l'intervista a Scialoja 95 durante il sequestro d 'Urso ?

L'intervista l'ho scritta io e, come al solito, venne sottoposta all'approvazione dell'Esecutivo. Senzani gestiva la prigionia di d'Urso, si occupava lui del Fronte delle carceri, io mi disinteressai dell'interrogatorio, sapevo di non essere un inquisitore attendibile - io mi metto a discutere con la gente. Per di più ormai sapevo che qualsiasi cosa si venga a conoscere è marginale rispetto al modo con il quale si riesce a impostare lo scontro fuori, alla capacità di interferire sui meccanismi dell'opinione e di qui sulla scena politica. Per come sarebbe andata a finire non importava quel che d'Urso diceva. Anche se poi con le sue dichiarazioni distrusse metà del Ministero di Grazia e Giustizia.

Com e che l 'intervista è passata per sua ?

Perché ci fece pervenire le domande di Scialoja, cui avremmo risposto come sempre per iscritto - mai de visu con nessuno. Gli interventi di linea non erano di competenza del Fronte carceri. Senzani ebbe anche l'incarico di farle pervenire con i metodi tradizionali a Scialoja. Si, com-partimentati, alla solita maniera: una telefonata anonima, la cosa si trova nel luogo tale, andatela a prendere. Lui invece si mosse come in un film di spionaggio: eravamo nel mezzo d'una azione politica decisiva e dette un appuntamento personale, verrò io stesso, terrò in mano un giornale, farò un segnale eccetera. Gli piacevano queste cose.

Senzani non è mai stato membro dell'Esecutivo?

No. Finché ci sono stato io.

E che cosa sono invece le Ucc? Antonio Da Empoli, l'autointervista, poi Lido Giorgieri, qual è il rapporto con il passato, con il presente? Cosa fa Gallinari con loro?

Secondo me le Ucc arrivano fuori tempo massimo e non è facile spiegarle, durano così poco. Non è storia delle Brigate Rosse, e non perché abbiamo un marchio doc, ma perché è un percorso tardivo, con personaggi diversi.

Sono i meno simili alle Brigate Rosse delle origini, giovani romani, qualcuno anche molto preparato, ma hanno fatto un altro percorso.

Cosa è per te Gallin ari ?

Il nome di battaglia di Prospero era Giuseppe e non è certo per caso. Se l'era scelto con molta ironia ma per un vecchio comunista quel nome vuol dire qualcosa. Prospero è uno dei compagni di fiducia e di linea, è lui che guida la battaglia politica con Morucci nella colonna romana. Prospero è il marxismo-leninismo, tutto quel che ci succede, ascese e cadute, lui lo legge alla luce del rapporto tra partito e masse, avanguardia e masse. Pensa che è là che manchiamo. Viene dalla esperienza emiliana, per lui il partito è tutto, la coerenza politica è tutto, e ha un senso morale fortissimo. Ognuno vive la sconfitta in maniera diversa... per lui, se le cose tornano sui paradigmi marxisti-leninisti va bene, e di li non si muove neanche se gli spari. Quando le Br si esauriscono, spera in una continuità in qualcosa che non siano le Br. Il che a mio parere non ha senso, e gliel'ho detto, pur con il grande rispetto che ho per lui. Prospero è uno di quelli con cui mi intendevo, è d'acciaio, proprio d'acciaio, è fatto così, è un vecchio contadino del Pci. Prospero è importantissimo. È un vecchio amico. Siamo in due carceri diversi, sono anni che non ci vediamo. .....

Gallinari incaricò Piccioni di fare una ricostruzione politica delle Br al processo per insurrezione. C 'erano i giudici e due giornalisti - assolutamente nessun altro - nell'aula bunker di Rebibbia. L'hai letta?

Non è facile fare una storia. Non è semplice collocarsi rispetto a se stessi con una certa distanza. Una volta esclusa la possibilità di scriverla collettivamente, la nostra storia, restano pochissimi quelli che lo possono fare. Non che gli altri valgano poco: gli scalzacani che per quindici anni hanno inchiodato lo stato al più alto livello di scontro, qualcuno devono essere stati. Ma bisogna rassegnarsi: in quegli anni si è espressa un'intelligenza politica collettiva, ma non ci sono le grandi figure delle rivoluzioni vincenti. Ho riflettuto molto sul fatto che non abbiamo intellettuali. Siamo migliaia ma un intellettuale organico nelle Br non si trova - o meglio sono eccezioni, quasi animali strani; potrebbero esserlo Curcio o Fenzi o Senzani, molto diversi e in ruoli molto diversi. Altri non

ce n'è. Questo dice molto sulla natura delle Brigate Rosse. E anche sugli intellettuali.

Per ultimo, le Br-Pcc. Qui non siamo alle figure nuove, ci sono almeno due ustorici ", Barbara e Savasta.96 Ma sequestrando Dozier somigliano più alla vecchia Raf che alle vecchie Br. Siamo agli anni '80 inoltrati, e continuano a sparare. Che senso danno al ferire nel 1983 Gino Giugni, nel 1984 il diplomatico americano, uccidere nel 1985 Ezio Tarantelli ? Le Br mica sono nate per vendicare questo o quello. E se in Tarantelli vogliono colpire chi era contro il referendum, sbagliano il personaggio. Non è un errore da poco.

Posso solo dire come li leggo io stando in prigione. Con Dozier è evidente il tentativo di trovare su una scena internazionale quello che non riescono più ad esprimere qui. Ma nell'insieme ho visto gli avvenimenti di quel periodo come impossibilità di smettere, di trovare una via d'uscita. Ci provano, i compagni del Pcc, teorizzando la ritirata strategica sulla base del concetto maoista, ma che aveva da vedere con la nostra situazione? Ne discussi, quando ci vedemmo in carcere, con Lo Bianco che l'aveva sostenuta, e ne trassi la sensazione che si trattava di un disperato tentativo di evitare di essere schiacciati tra una continuità inutile e la resa. Ma è un'esperienza, quella del Pcc, di cui non posso, lealmente, parlare. So soltanto che portavano un fardello pesante e si sbagliavano. Basta.

Ti sei sempre assunto la responsabilità delle Brigate Rosse, anche dove direttamente non la porti. Perché non ti sei assunto in quegli anni la responsabilità di chiuderei

Non potevamo farlo. Di questo in qualche modo porto la colpa, la responsabilità. C'era un momento in cui ho avvertito che dovevamo dire: fermi, ragioniamo.

Al processo Moro di appello eri in una delle gabbie. Stava parlando per la prima volta Morucci. Avevi un golf rosso sotto un vecchio cappotto, e ascoltavi. Morucci raccontava di via Fani. I tuoi compagni di gabbia facevano finta di non sentire. Tu invece ascoltavi alle sbarre, fermo, attento, non seminavi né sorpreso né irritato, solo molto serio, forse triste.

Vedevo quella tragedia, vedevo che l'operazione giusta la facevano nel modo sbagliato, dissociandosi. E non potevo oppormi a quel che

succedeva. Ero vecchio rispetto alla media dei compagni, avevo visto il '68, nascere tante cose, gruppi illegali, legali, sapevo bene quel che avveniva, avevo tutti i parametri per misurarlo. Capivo la ferocia con cui due gabbie limitrofe si odiavano a morte, uno controllava l'altro, gente che si amava, marito e moglie, una in una gabbia e uno nell'altra. Perché una debacle così totale in gente che s'era fatta tanti anni di galera? Era l'impatto di questo stato, la sua forza sulla immaginazione della maggior parte dei compagni? Mi sembrava allucinante e ineluttabile. Sentivo una rassegnazione: abbiamo preteso tutto, è giusto che paghiamo tutto. Ci abbiamo provato fino in fondo, ci siamo presi il diritto di far la lotta armata, di compiere atti duri e complicati, era giusto che l'epilogo fosse altrettanto travagliato. Ogni parola aveva avuto il suo peso, e ne erario state dette tante, da tanti che ora facevano mostra di essere terrorizzati da un volantino marxista-leninista... quando mai un volantino aveva impaurito qualcuno. Quel che avremmo dovuto fare era rivendicare un'identità, e su quello morire come esperienza politica. Non ci siamo riusciti. Era troppo fragile la nostra generazione.

Quando parlammo dei pentiti, dopo il 1979 e l'arresto di Peci, ci accennasti che la delazione era un "classico " dei conflitti, mentre non lo era la dissociazione: era questa il segno d'una crisi più grave e per te imperdonabile. Spiega.

Non siamo stati sconfitti dai pentiti, che cominciano a denunciarci con Peci; è stata la sconfitta a produrre i pentiti. Essi sono un disastro, culturale prima ancora che politico, che va oltre la lotta armata. Ha pesato meno su di noi di quanto abbia pesato nell'evoluzione della società. I pentiti delle Br sono pochissimi.

Come, pochissimi?Non c'era mai stata in un movimento rivoluzionario una tale quantità di delazioni.

No. Rispetto ad altri movimenti armati di lunga durata e delle nostre dimensioni, il numero dei pentiti delle Br è al di sotto della media. Dal '72 al '79 la delazione praticamente non esiste, a parte casi insignificanti. È vero che dal '79 in poi diventa un'altra cosa dalla classica spiata, assume valenze politiche e non può essere sottovalutata. Ma è più significativo che su questi cedimenti lo stato abbia operato uno stravolgimento giuridico. Il pentitismo diventa il fondamento del sistema giudiziario, il diritto diventa

guerra. La delazione è il criterio di misura dell'accusa, e le procedure le si adeguano. Non ci sono più colpevoli e innocenti, ma delatori rei confessi oppure irriducibili. La figura del Giuda è stata sempre assieme inquietante e bassa, ma ora se ne è fatta una figura nobile, il modello paradigmatico della verità storica, l'esempio morale e sociale che si propone a coloro che, a torto o a ragione, avevano espresso nella lotta armata un antagonismo non privo di valori. Non invidio la condizione del "pentito". Non vorrei vivere con i suoi incubi.

Ma come si produce un caso come quello di Peci ?

Non riesco a entrare nella psicologia di un delatore e men che meno in quella d'un delatore brigatista. Ma come sia stato fabbricato il capostipite dei pentiti brigatisti, è stato più volte ricostruito. Peci fu preso e messo in isolamento nel carcere di Cuneo, dove poi sono stato anch'io, e pare che un maresciallo delle guardie carcerarie, Incandela, famosissimo, lo cucinasse facendo dei discorsi, promettendo, invogliandolo, tastandolo - aveva intuito che era un debole, che stava cercando di sgattaiolarne Inori. In quel periodo, per uno di quegli incontri strani che capitano in carcere, i compagni incrociarono Peci mentre anelava dal magistrato: ciao, come stai, ti serve qualcosa? E lui, in un modo che sembrava sincero: no va tutto bene, mi mancano soltanto i compagni. Quando sapranno sarà per loro uno < lux

Non avevano dubitato di nulla ?

No. E penso che non ne avessero ragione. Doveva essere proprio come perduto. In galera i nervi sono scoperti, se uno sta parlando lo capisci; la delazione è vecchia come le galere, si sente quando c'è. Forse non aveva ancora saltato il fosso. Le leggi premiali per la delazione che Dalla Chiesa prometteva erano ancora per aria. La verità è che Peci era cotto e a un certo punto non ha retto. Se vogliamo parlare di Peci, parliamo di Peci, ma il fenomeno è un'altra faccenda ed è infinitamente maggiore di un personaggio come lui. Perché ciascuno fa storia a sé, chi arriva al tradimento ci arriva perché sente una sconfitta, incombente o avvenuta. In clandestinità le condizioni sono terribili, lotte, sacrifici, una pressione psicologica continua, senti addosso la campagna della stampa, la

separazione pesa, la reggi o non la reggi, ma è tremenda. All'inizio la solidarietà dei compagni è un muro che ti protegge, poi diventa una pressa. Se si perde la speranza si cede. Credo che abbiano fatto leva su questo per ottenere da alcuni che denunciassero i compagni con i quali avevano combattuto fino a un momento prima. È un classico che è stato descritto milioni di volte, nient'al-tro che un momento della guerra, un episodio del conflitto che serve a spostare gli equilibri dei contendenti mentre si stanno sparando.

Quando cominciò, prendeste delle misure?

Diventammo più prudenti, cercammo di irrigidire un tantino la compartimentazione, ma non modificammo i metodi organizzativi. Credo che sapessimo senza dircelo che non eravamo in grado di impedire la delazione, o meglio quel che avrebbe indotto alcuni alla delazione. Quando l'ho rivisto in carcere, Maurizio Iannelli mi ha detto: "Hai avuto un bel coraggio, Mario, non sai cosa hai rischiato." Maurizio era stato arrestato alla fine dell'80 a Roma mentre prendeva una macchina che avremmo dovuto utilizzare per il sequestro d'Urso. Sapeva benissimo dove abitavo. Lo avevano torturato come una bestia per tre giorni consecutivi, era allo stremo, non ce la faceva più: mentre lo portano ammanettato da una stanza all'altra della Questura si è buttato contro una finestra, ha fracassato i vetri con i polsi legati recidendosi tendini e vene. Perché non morisse dissanguato dovettero toglierlo dall'isolamento e portarlo in ospedale. Mi ha detto: "Se non facevo così, ancora qualche ora di quel trattamento e facevo qualche altra cosa, non so dirti quale, ma non scommetterei che non sarebbe stata la peggiore. Mi sono incasinato i tendini delle mani per il resto della vita ma è andata bene a tutti e due, credimi." Io da quella casa non mi ero mosso dopo il suo arresto. Se fossimo entrati nell'idea che ogni compagno arrestato poteva consegnarci alla polizia, avremmo smesso subito di combattere.

Ne discuteste nella organizzazione?

Non a fondo, era un fenomeno distruttivo. Era più semplice condannarlo che cercar di capire come e perché nascesse proprio allora. Nasceva perché si faceva strada in noi l'idea che ormai non avremmo più vinto, che era

impossibile, e siccome eravamo forti, era forte anche l'effetto catastrofe.

Stai dicendo che non sono i pentiti a sconfiggervi, ma sono essi stessi il frutto d'una introiezione della sconfitta?

Col passare dei mesi nei militanti avveniva qualcosa di non univoco. Molti cercarono spasmodicamente una soluzione rimanendo dentro, in altri ci fu una disperazione, spesso inconfessata, uno sfaldamento interiore. Anche di questo va tenuto conto. Nei movimenti armati in Italia ci sono stati comportamenti inspiegabili. Prendete uno come

Marco Barbone. Era entrato nel movimento armato tardi, finiti i tempi dell'entusiasmo, come reazione al massacro in via Fracchia, causato proprio da un delatore. Non era delle Br, aveva fondato un gruppo armato che avrebbe chiamato appunto con la data del 28 marzo. Va e uccide Walter Tobagi. Neanche un'ora dopo l'arresto denuncia tutti e diventa un pentito di professione. Non voglio sminuire l'importanza della critica politica, non ci capiremmo più niente, però la politica non spiega tutto.

E la pressione dei carabinieri e della polizia ?

Quelli usano i mezzi forti. Con il governo Spadolini arrivano a giustificare la tortura. E molti sanno che dei nuclei speciali girano a questo scopo per le questure, ma solo dopo che un nostro militante arrestato in Veneto, Cesare Di Lenardo,97 denuncia di essere stato torturato, qualcuno si decide a protestare. Io non giustifico i compagni che hanno parlato, ma se appena posso evito di giudicare. Prendete uno come Savasta, che ha ammesso ancora più di Peci e fatto molti più danni: noi su Savasta mettevamo la mano sul fuoco, era uno che ci credeva, di quelli che sarebbero andati fino alla morte. Non so che cosa sia scattato in lui. Probabilmente il fallimento dell'azione Dozier segnava il tracollo della ipotesi politica del Pcc. Ma certo sono state determinanti le torture subite, e più ancora quelle subite dalla sua donna, Emilia Libera - brutalmente, con una bottiglia - cui lo hanno costretto ad assistere. "Siete finiti, vi state distruggendo da soli," mi ha detto durante un trasferimento dal carcere uno strano poliziotto in vena di chiacchierare. "E allora perché le torture?", ribatto. "Be', con quelle vi diamo una spintarella." Molti hanno retto, alcuni no.

Facevate cose tremende ma non pretendevate una grande tempra da chi veniva con voi ?

Alla fine del '78 gli armati erano un movimento di massa, furono decine di migliaia fra combattenti, sostenitori e simpatizzanti attivi... È stata anche gente semplice, che quando ha perduto la speranza s'è trovata senza bussola. È vero che dal 1979 la frana è verticale, molti cedono, parlano. Ma perché continuare a chiamarli pentiti? Chiamateli come sono stati chiamati sempre, il pentimento non c'entra. Pentiti in senso proprio sono i dissociati.

Intendi per "pentiti " coloro che hanno un problema di coscienza?

Certo quelli che chiamano pentiti non lo hanno. Chiedono allo stato che cosa vuole per farli uscire e glielo danno. Tradiscono e passano dall'altra parte, nello schema classico della delazione. Gente così non è simpatica a nessuno, neppure a quelli che se ne servono; li pagano e li liquidano. Sono molto più severo con la dissociazione perché rinnega una storia, distrugge un'identità collettiva, fugge dalle responsabilità politiche per racimolare benefici giudiziari individuali. E il più grave è che avviene quando sarebbe stato possibile chiudere collettivamente, certo con molta difficoltà, ma lasciando aperta la possibilità di una critica decorosa e forse utile. La dissociazione abbatte la possibilità di riflettere su questi anni. I dissociati scelgono di collocare la nostra storia fuori dalla storia. Impediscono che venga superata davvero.

Non ammetti che dicano: abbiamo sbagliato tutto ?

Magari avessero detto questo. Hanno detto che l'altra parte, lo stato, il capitale, avevano ragione. Nessuna sconfitta può giustificare un tale sbracamelito. Significa perdere il senso non solo della nostra lotta ma di un intero movimento di un decennio. Contenuti, esperienze, obbiettivi, valori, tutto azzerato nell'adorazione dello stato, una perdita di memoria che produce più disastri di quanti ne abbia prodotti la lotta armata. Quella storia andava riconsegnata alla gente, ai soggetti sociali vivi, che l'avrebbero magari divorata e fatta a pezzi; non sarebbe stato comodo per noi. Ma non andava regalata all'altra parte.

A chi pensi in particolare?

Una figura emblematica è Morucci, un'altra sta dall'altro capo del filo, è Franceschini. Al si salvi chi può, ognuno cerca e trova il padrino politico che gli lancia il salvagente. Ma ci sono altri, nostri, e moltissimi di Prima Linea. Figure sfaccettate ma tutte determinate a regalare la propria identità. Perlopiù sono state recuperate dall'ambiente cattolico, che ha quel tanto di autentico da far sembrare meno squallida una scelta opportunistica. La fede la nobilita, e questo spiega perché prima o poi si finisca fra le braccia di un prete. Ma poi molti vivono malissimo. Appena messi fuori tenere un atteggiamento coerente diventa difficile, i ricatti non finiscono più, vuol dire magari tornare in prigione. Non ci hanno perdonato niente.

I dissociati però non fanno nomi.

Vi pare? Li hanno fatti a rate, chi con gli indovinelli, chi con le allusioni, altri con "non dico come si chiama ma lo indico con il dito". Penoso. E hanno alimentato tali ambiguità che ancora oggi chi vuole può trascinare all'infinito la nostra vicenda giudiziaria e strumentalizzarla politicamente. Andiamo alla radice. Io ce l'ho molto con la mia generazione. Prendiamo Sofri, sul piano giudiziario avrà sicuramente ragione e sono felice che il suo processo sia finito com'è finito, ma non è tollerabile che chi è stato un leader rinneghi tutte le idee e un periodo cui ha partecipato. Fatela questa critica, compagni, ma fatela vera, che non sia una un'abiura in cambio di qualcosa.

Sofri non ha chiesto né avuto in cambio niente.

Vero. Mi è venuto il suo nome per indicare quel che intendo per "pentimento" in senso proprio. Sofri e Lotta Continua non ci sono stati mai neanche contigui, non c'entrano con la lotta armata e non vedo come potrebbero "pentirsene" giudizialmente. Ma ritengo che nessuno può chiamarsi fuori da quegli anni, anche se non ha responsabilità penali. Se critica al passato deve essere, sia aperta, totale, fuori dalle aule di giustizia finalmente. Non un atto di contrizione, che sarà'anche nella cultura italiana ma a me sembra il peggio del gesuitismo.

Ti pesa più chi abiura le idee che chi denuncia i compagni ? Non pensi che uno possa cessare di credere in quel che ha creduto ?

Chi ha mandato in galera gli altri si è adeguato con il tradimento alle leggi meno nobili della guerra, e tutto finisce quando finisce la guerra. Ma l'abiura è come un'eco lunga, un discorso che ricomincia sempre dallo stesso punto, un rimbombo senza fine. Essa nasconde, non svela. Dirò una cosa che vorrei provocasse quelli della mia generazione. Quel che è avvenuto negli anni Settanta è roba nostra, non puoi glissare. I dissociati glissano. Mentre sarebbe stato possibile - difficile ma possibile - fare tutti assieme una riflessione vera, completa, senza rimozioni, dichiarando che era finita. Perché il progetto era realmente fallito, questo era chiaro, anche a quelli che continuarono non potendo far altro.

Pensi che non sia più possibile questa riflessione collettiva ?

La vorremmo in molti, ma non si vede dove e con chi farla. A quel tempo sarebbe stata più produttiva. Eravamo prigionieri in tanti e a partire da un'identità rivendicata potevamo andare a una critica, oltre che a una chiusura decorosa. Ma per far questo bisognava che ci fossero condizioni che né i pentiti né i dissociati hanno determinato... 110, non ce l'ho neanche con i dissociati, neanche con i pentiti. Comincio a non avercela con troppa gente.

Stai diventando mitissimo.

E la cosa mi preoccupa alquanto. Volevo dire che non abbiamo avuto nessuno che fosse disposto ad ascoltare, accogliere, recepire. Non un'area di sinistra, non un ambito intellettuale, non una forza politica progressista, come si dice oggi, che sentisse questa nostra necessità.

Quando poi deciderete di farlo, con la lettera del 1987, il discorso non sarà così netto come quello che stai facendo ora. Era chiaro soltanto che dicevate: noi chiudiamo, ma senza esser dissociati né pentiti.

Fu proprio questa la novità. Prendevamo la parola non per barattarla con qualche beneficio o prendere le distanze dalle Br. Al contrario. Prendevamo atto pubblicamente che le condizioni che dieci anni prima ci avevano indotto ad impugnare le armi e combattere per un cambiamento non c'erano più. Avevamo diretto un'organizzazione combattente, noi la lotta armata l'avevamo fatta e avevamo convinto un sacco di gente a farla. Una

nostra presa di posizione che ne rilevasse l'inattualità non sarebbe stata indifferente.

Da chi è venuta l'idea della lettera ?

Penso fosse maturata in molti. Erano in molti a sperare in una un'iniziativa che consentisse di chiudere la nostra esperienza, ma nessuno aveva trovato il coraggio di fare qualcosa.

Perché hanno firmato soltanto Curcio, Moretti, Iannelli e Berto-lazzi?

Erano il minimo indispensabile fra quelli che si trovavano nel carcere di Rebibbia per il Moro ter. Per anni non avevamo potuto incontrarci. E come potevi pensare di chiudere unilateralmente le Br? Quando hanno scelto di annientarci, non hanno costruito le carceri speciali per favorire il dibattito. Né gli importava una soluzione diversa. Quando ci siamo ritrovati a Roma sono quei quattro che significano buona parte della storia delle Br: in tre c'eravamo stati sin dall'inizio, poi chi aveva appoggiato il Pcc come Iannelli e Bertolazzi, chi il Pg come Curcio, e chi nessun gruppo come me. Insomma pur essendo solo quattro c'era un po' di tutto, quindi gli altri non ci avrebbero sparato addosso subito; almeno una prima lettura della nostra lettera l'avrebbe fatta tutto l'arcipelago di gruppetti nei quali ci eravamo ormai divisi. Non ci proponevamo come un nuovo schieramento e tutti erano liberi di pensarci su. Balzerani e Gallinari, ad esempio, inizialmente non ci stavano. C'è voluto un certo coraggio, eravamo proprio quattro desesperados. Ma convinti di rappresentare molta più gente di quella che in quel momento si manifestava. La lettera è partita così, con molta buona volontà e pochissimo calcolo.

Balzerani e Gallinari sono seguiti poi con due altri documenti.

Si. La logica settaria è una brutta bestia, una volta che s'è infilata fra noi non ce ne libereremo più. Ma il sasso era stato gettato, nessuno poteva ignorare quel che proponevamo e lentamente, ciascuno a modo suo, sono arrivati quasi tutti alle nostre conclusioni.

Ma perché quella lettera è tanto più povera di quel che dici adesso ?

La piattaforma politica su cui avremmo sicuramente trovato un accordo era minima, assolutamente minima. Consisteva nel dire pubblicamente: questa esperienza noi l'abbiamo aperta, noi la chiudiamo. E chiediamo anche dall'altra parte, dallo stato, un atto politico. Punto e basta. Se avessimo aperto allora un dibattito, si sarebbe frantumato anche il poco che restava. E infatti è difficile farlo anche ora. Non a caso scrivevamo che soltanto una parola libera consente la verità.

Se foste riusciti a dibattere voi, invece di presentare quella che parve una dichiarazione compatta e poco incline a mettersi in causa, avreste innescato una discussione anche fuori, una interlocuzione.

Mi piacerebbe crederlo, ma dubito che se anche fossimo stati di una disponibilità straordinaria avremmo trovato chi ci avrebbe dato ascolto. In ogni caso allora non potevamo andare oltre. Fare questo dibattito sul serio e a fondo significava assumersi la responsabilità politica di tutto mentre si chiudeva tutto. E quanti erano disposti a farlo? Fra di noi e fuori di noi? Appena si fosse arrivati a una discussione seria anche sul modo con il quale si reagì al fenomeno Br e lo si combatté, coloro che non vogliono fare i conti con quegli anni, avrebbero inchiodato la discussione con i soliti falsi misteri che servono a impedire che se ne parli. Avrebbero fatto e detto di tutto contro di noi - nella sconfitta, ci ricorda la scuola dei cinici, chi ha perso non solo ha perso, ma deve essere cancellato, deformato, annichilito. E sarebbe stato ancora più diffìcile il tentativo di mantenere una identità collettiva.

L'attacco vi fu fatto ugualmente. Nel vostro silenzio o sulle parole di chi se ne andava e rimetteva in dubbio perfino le ragioni che vi avevano mosso.

Si, lo fecero immediatamente, anche in maniera più volgare, meno sofisticata di quanto credessi. E questo rese difficile, suppongo, a molti di noi di prendersi la responsabilità di tutto quel che avevamo fatto. Un conto sono le assunzioni di principio sulle responsabilità politiche collettive, e un conto è arrivare al dunque, prendersi la briga di spiegare e prendere su di sé le azioni, le scelte, la pratica delle Br. E dei fatti che ti si chiede conto e lo devi dare. Su questo vedevo troppi silenzi, sotto la veste di sdegnosi rifiuti di parlare, per farmi delle illusioni: rimandare la discussione era un modo di

non compromettere le proprie convenienze personali. A quel tempo ini sarei trovato solo.

Intendi dire che appena hai cercato di andare nella direzione "chiusura e rivendicazione di tutto ", ti sei sentito isolato dai tuoi stessi compagni ?

Si, solo. La campagna furibonda sulle ambiguità delle Br e su di me, l'unico dirigente che le aveva conosciute tutte dall'inizio alla fine, comincia allora - siamo nell'87 - e trova in un ex Br, Franceschini, chi la alimenta. I mezzi di informazione la raccolgono e dipingono le Br e me come un teatrino di burattini manovrati da chissà quali servizi. Non so come definire quel che è successo in Franceschini, nessun dissenso politico giustifica quel che ha fatto. Così noi proponiamo la soluzione politica per i prigionieri della lotta armata e ci rispondono cercando di demolirci sul terreno della limpidezza politica. Non era una novità, il Pci diceva che eravamo fascisti persino quando colpivamo Labate alla Fiat o Macchiarmi alla Siemens... anche se non persuadeva nessuno. Ma soltanto quando hanno capito che alcuni di noi erano disposti a svendere la nostra identità si sono scatenati. E Moretti è diventato un personaggio misterioso e losco.

Ti pesa molto ?

Pesa sempre essere ingiuriati, ma non è questo. Pesa che gli altri tacciano. Pesa su quello che stavamo proponendo, ne è l'affossamento definitivo. Del resto c'era un certo bluff nel nostro parlare dei prigionieri come un'entità politica. Lo erano stati, i prigionieri delle Brigate Rosse, ma quando sono diventati tantissimi e avrebbero potuto assieme rivendicare e chiudere con dignità, sono stati distrutti dalla dissociazione. Pensare un corpo prigioniero in grado di fare una battaglia come quella che proponevamo era già un'astrazione.

Perché la faceste allora ?

Perché chiudiamo la nostra esperienza, e per quel che possiamo, bene. Diciamo: non resta più una delle condizioni del ciclo di lotte dalle quali siamo nati, continuando a combattere non si va più da nessuna parte. E non era poco come atto politico, era un atto di chiarezza che dovevamo fare e l'abbiamo fatto.

Era l'87. Non è stato tardivo? Che ne pensi oggi?

Penso che la soluzione politica, come l'avevamo immaginata in quell'anno, è morta da un pezzo. Perché non siamo stati in grado di assumere la nostra identità, e perché la sinistra continua a gettare fuori da sé e rimuovere la storia delle Brigate Rosse. Perché lo stato dovr ebbe andare a una soluzione politica se i prigionieri negano o tacciono di essere stati un fatto politico reale? Al massimo si andrà ad atti di clemenza, del tipo "riequilibriamo le pene smisuratamente erogate per le leggi speciali". E discriminando fra quelli che sono convertiti davvero e quelli che non lo sono. Lo ripeto, finché la sinistra non si misurerà sugli anni Settanta, non macinerà la lotta armata come parte della propria storia, contraddizione propria, non ci sarà alcuna chiusura. Rimarrà un infinito strascico giudiziario anche se nessun magistrato può onestamente dire che restino margini da indagare sul versante brigatista. E rimarranno gli effetti della detenzione e dell'esilio.

E dunque?

Dunque non sto parlando con voi per un calcolo che riguardi direttamente la nostra sorte. Ma perché credo che il discorso vada ribaltato. Un'amnistia per i prigionieri sarà necessaria, ci si dovrà arrivare prima o poi, nessuna società può trascinare in eterno le code giudiziarie d'uno scontro passato, del quale non esistono più i soggetti sociali reali. Ma non è questo il punto. Il punto è che si deve fare una riflessione che renda l'accaduto comprensibile a quanti nella società hanno ragione di chiedercene conto. Questo mi ha spinto a fare questa ricostruzione con voi, e senza altri limiti che quelli di una memoria che, ahimè, invecchia come tutto il resto. Con l'unica preoccupazione, che non è più neanche una riserva, di non mandare in galera altri. Mi sono fermato soltanto dove qualcuno poteva ancora essere coinvolto, anche se siamo fuori tempo massimo. E spero di esserci riuscito, voglio molto bene a questa gente.

Come pensi che questo tuo racconto sarà accolto dai tuoi compagni ?

Credo che ormai molti compagni in carcere la pensino come me, anche fra quelli che per autodifesa - se non c'è uno spazio per esistere neanche come passato su cui riflettere, perché non chiudersi in sé? - si sono barricati

finora in rigidità poco sensate. Quel che non vedo è una disponibilità fuori. Oppure talmente scarsa che pare inesistente: quando facemmo quell'appello agli intellettuali, lo verificammo ancora una volta.

Ancora una volta è una sponda che ti mancai

A chi dice che è stato tutto senza senso, sono in tanti ad offrirla. A uno come me, per il quale un senso c'è stato, chi ne offre una? Moretti ed altri raccontano una storia indigesta, non tranquillizzante, non pacifica. Quando mi si incalza: "diteci perché avete sbagliato", io sono disposto a farlo. Ma lo posso fare ragionevolmente se andiamo a vedere gli errori di tutti, il contesto in cui eravamo. Se no è difficile chiedermi un'autocritica, non so neanche che cosa dire.

Ma ti batti per una amnistia.

Si, per tutti quelli che negli anni '70 sono stati protagonisti e responsabili di quel che è costata una contrapposizione mortale. Sono passati molti anni. L'amnistia dirà davvero che siamo andati oltre. Non sarà la conseguenza di un cambiamento della società e neppure lo provocherà, sarà solo il segnale che qualcosa è cambiato. Spero in meglio.

Ma la soluzione politica vera, chiudere tra parti in guerra, vincitori e vinti, non potrà esserci più. Dove sono i protagonisti di allora ? Dove sono più quella Democrazia cristiana, quel Partito comunista, quel movimento, quella idea di rivoluzione? Sono tutti morti. Fra chi e chi si sigla la fine?

La memoria di noi non è morta. Non è neanche conservata. È esorcizzata, allontanata, deformata. Non si finisce mai con il processo Moro, tutti sanno tutto e tutti continuano a elucubrare, non vedere quel che è semplice. Tragico e semplice.

Quel che chiamavate lo stato correva dietro a voi mentre cresceva la mafia, e dietro alla mafia mentre prosperava Tangentopoli; sempre indietro d'un nemico. Senti, sei fuori dal mondo della gente da ventidue anni, nove clandestino e tredici in prigione. Finora hai avuto carcere e distruzione della memoria. Se un angelo cattivo ti offrisse su un piatto libertà e oblio, e su un altro carcere e memoria, che cosa prender esti ?

Non esistono angeli così perfidi, solo gli uomini propongono due modi ugualmente crudeli di morire. Comunque gli direi: dammi libertà e memoria. Se non sei capace di tanto, mio caro angelo, allora voli basso, neanche all'altezza della nostra sconfitta.

1 Anna Fallarino, moglie del marchese Camillo Casati Stampa. Nell'agosto '70 viene uccisa dal marito, che si toglie la vita dopo aver assassinato il giovane che era con lei, Massimo Minorenti.

2 Renato Curcio, tra i fondatori delle Br. Studente di Sociologia a Trento. Arrestato a Pinerolo l'8 settembre '74, evade dal carcere di Casale Monferrato il 18 febbraio '75. Arrestato a Milano il 18 gennaio '76. Condannato a 30 anni, ha ottenuto la semilibertà nel '93. Di giorno lavora presso la cooperativa "RI" Sensibili alle Foglie a Roma, da lui fondata, la sera rientra nel carcere di Rebibbia.

3 Alberto Franceschini, tra i fondatori delle Br. Figlio di comunisti di Reggio Emilia, nel '62 entra nella Fgci e diventa membro del direttivo. Responsabile della Commissione Fabbriche, dirige molte lotte negli stabilimenti di Reggio. Esce dal Pci nel '69. Arrestato con Curcio a Pinerolo nel settembre '74. Si dissocia dalla lotta armata il 21 febbraio '87. È libero, lavora all'Arci.

4 Comitato Unitario di Base. Per contrapporsi ai sindacati gli operai lo costituiscono nel '68. Leader del Cub della Pirelli era Raffaello De Mori.

5 Margherita Cagol, "Mara", moglie di Renato Curcio. Si laurea in Sociologia a Trento, con Francesco Alberoni. Guida il commando che fa evadere Curcio dal carcere di Casale. Il 5 giugno '75 muore in un conflitto a fuoco con i carabinieri alla cascina Spiotta di Arzello, presso Acqui Terme, dove era tenuto sequestrato l'industriale Vittorio Vallarino Gan- cia, che viene liberato. Nella sparatoria rimane ucciso l'appuntato dei Ce Giovanni D'Alfonso e sono gravemente feriti il tenente Umberto Rocca ed il maresciallo Rosario Cattafi.

6 Corrado Simioni, veneto, alla fine degli anni '50 a Milano è nella Gioventù Socialista, autonomista, con Bettino Craxi. Quando lascia l'Italia fonda a Parigi l'istituto di lingue "Hyperion" (in quai de laTournelle 27), con Vanni Mulinaris e Duccio Berio. L'istituto, di cui è presidente Marie Françoise Tuscher, nipote dell'Abbé Pierre, viene indicato dal Pm padovano Pietro Calogero (inchiesta "7 aprile") e da altri magistrati del caso Moro come una centrale del traffico di armi del terrorismo internazionale. Nel 1980 Bettino Craxi interviene nella discussione sui santuari del terrorismo e parla di un "grande vecchio" che a molti osservatori sembra il ritratto di Simioni: "Bisognerebbe

pubblica II serraglio di stato, saggio sul carcere minorile di cui dice: "Considerati i magri risultati raggiunti, e cioè qualche direttore trasferito, qualche agente di custodia condannato per abuso di mezzi di correzione, il libro è servito solo ai riformisti da strapazzo del ministero della giustizia." Per il suo lavoro di criminologo ha modo di consultare i documenti interni del Ministero di Grazia e Giustizia. La prima volta viene arrestato su mandato del sostituto procuratore di Firenze, Vigna, nel marzo '79 perché ospita Salvatore Bombaci, Br del Comitato Toscano. Viene messo in libertà poco dopo. Catturato a Roma il 4 gennaio '82.

93 Roberto Peci, sequestrato a San Benedetto del Tronto il 10 giugno '81, ucciso con un diti colpi. Il suo corpo viene fatto ritrovare a Roma il 3 agosto.

94 Natalia Ligas, colonna napoletana con Antonio Chiocchi e Vittorio Bolognesi. Il 19 giugno '81 le Br feriscono l'avvocato De Vita, difensore di Patrizio Peci e lei rimane gravemente ferita nella sparatoria. Viene curata in Calabria, nella clinica del senatore socialista Domenico Pinella, che poi sarà rinviato a giudizio per banda armata. Nell'estate '82 Natalia Ligas si trasferisce a Torino, nella colonna ricostituita alla meno peggio da Francesco Pagani e Flavia Nicolotti. La sua imprenditorialità insospettisce alcuni compagni che, per darle una lezione e metterla in condizione di non nuocere, decidono di sequestrarla. Il giorno prima del sequestro viene arrestata. L'accusa di tradimento la terrorizza e quando viene trasferita a Roma per essere giudicata al processo Moro, il presidente Santiapichi dispone che venga collocata in una gabbia da sola. Successivamente andrà in gabbia con altri e questo sarà il segno che i suoi compagni hanno smesso di sospettare di lei.

95 Mario Scialoja, inviato speciale dell'Espresso, che pubblica i "verbali" dell'interrogatorio Br al giudice d'Urso, e viene arrestato subito dopo l'assassinio del generale Galvaligi, con Gian Paolo Bultrini, redattore della stessa testata. Le accuse sono di favoreggiamento, violazione del segreto istruttorio e, per Bultrini, anche falsa testimonianza. La

vicenda processuale si trascina per alcuni anni e si chiude con formule tecniche da cui traspare che non si può dare loro torto fino in fondo, ma non si vuole neppure dar loro ragione: si ricorre soprattutto a dichiarazioni di improcedibilità dell'azione penale.

96 Antonio Savasta, arrestato a Padova il 20 gennaio '82 dai Nocs che liberano il generale Dozier.

97 Arrestato a Padova con Savasta.