Articolo - La Scherma dei Greci

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a cura diAlberto Bernacchi dossier professionescherma LA SCHERMA DEI GRECI

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LA SCHERMA DEI GRECI

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La scherma dei Greci

Evoluzione delle tecniche e delle attrezzature schermistiche nella Grecia antica dalla età del Bronzo all’Ellenismo www.professionescherma.org

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L’autore Alberto Bernacchi è nato a Borgomanero il 2.11.1980. Diplomato

al Liceo Classico, frequenta la facoltà di Scienze dei Beni Culturali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove è stato biennalista di Storia Greca e Metodologia della Ricerca Archeologica ed ha effettuato ricerche sulle armi ed armature nel mondo greco antico. E’ stato corsista di Archeologia e Storia dell’Arte Greca e Romana presso l’Università Statale di Milano, per la quale ha partecipato ad una campagna di scavo a Bedriacum, di Archeologia Ambientale, Archeologia Quantitativa, ed Informatica Applicata all’Archeologia presso l’Università Statale di Siena, per la quale ha collaborato con il LIAAM - Laboratorio di Informatica applicata all’Archeologia Medioevale. Ha conseguito il diploma presso l’Accademia Nazionale di Scherma di Napoli. E’ideatore e webmaster del sito professionescherma.org ed editore dei contenuti di diverse pubblicazioni didattiche legate all’insegnamento della scherma.

Abstract Comunemente collochiamo la nascita della scherma nel

Rinascimento, poichè è relativamente a questo periodo che si ha notizia dei primi e più completi trattati delle scuole italiana, francese e spagnola, ma l’arte sistematica del combattere, in Europa, sembra antica almeno quanto l’uomo stesso. Riferimenti alle arti marziali abbondano già nella letteratura greca; le fonti sul pankratio olimpico, per esempio, documentano esempi di wrestling, boxe e kick-boxing molto simili a quelli moderni.

Il desiderio di conoscere i dettagli degli antichi sistemi di combattimento con le armi invita ad una sempre più attenta analisi delle fonti visive e dei pochi frammenti testuali a riguardo, per compiere osservazioni sulle tecniche che gli antichi Greci impiegavano nella pratica della scherma e che trasmisero alle epoche successive, attraverso la mediazione dei Romani. Ricostruire scientificamente l’antico modo di combattere, le tecniche e le tattiche impiegate nell’uso della spada, richiede più che una speculazione deduttiva sulla base delle fonti: l’archeologia sperimentale è oggi divenuto un insostitubile aiuto per i ricercatori di questo campo.

La perdita moderna della tradizione della scherma greca dell’antichità si può ricondurre a diversi fattori: per primo il modo orale di trasmettere le conoscenze schermistiche proprio di quell’epoca. Inoltre la segretezza dei metodi faceva sì che le teorie dei maestri si perdessero con la loro morte, così come si è persa anche l’implicita continuità con la scherma romana, medievale e rinascimentale.

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Capitolo 1

Introduzione I presupposti della ricerca

La scherma nel tempo

La scherma è un’arte, un complesso di tecniche, tattiche e strategie di combattimento profondamente radicate nell’essere umano. Non si può stabilire una data definitiva per le sue origini, poichè essa affonda le sue ragioni nel passato più remoto e nasce con l’uomo stesso. L’arte della scherma è un patrimonio culturale dell’umanità, che attraversa i secoli e non esiste epoca storica che non abbia i suoi schermitori, i suoi maestri e le sue tecniche schermistiche. Lo schermitore di qualunque epoca può, a buon diritto, sentirsi parte di un tutto, un’immagine puntiforme sulla lunga linea del tempo che unisce il presente ai secoli più remoti: nel profondo dell’animo, laddove si innescano meccanismi che non sappiamo meglio definire, lo schermitore di oggi rassomiglia in tutto e per tutto a quello di ieri, greco o latino, cavaliere medievale o signore del Rinascimento che fosse. Il contesto storico e sociale muta con il mutare dei tempi, con il succedersi di culture e civiltà diverse; la scherma dei nostri tempi non è quella di cinquant’anni fa ed evidentemente la scherma dei popoli antichi non poteva che essere ancora diversa e profondamente legata con la storia dei propri tempi. Il mondo della scherma, disciplina olimpica e sport di opposizione, non può resistere al fascino del confronto con il passato più remoto. La scherma è infatti un’espressione culturale al pari di altre arti e non vi è campo del sapere umano che non desideri ricercare le proprie origini e le proprie ragioni storiche. In particolare è interessante poter ricostruire le tecniche del maneggio dell’arma, le tattiche e le strategie utilizzate per aver ragione dell’avversario, poiché queste, pur nella loro evoluzione, rappresentano una continuità storica avvincente e rinsaldano il legame tra gli schermitori d’ogni tempo.

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La ricerca e la ricostruzione delle tecniche schermistiche del Medioevo, grazie agli studi italiani, francesi e tedeschi, è ormai una scienza completa ed affermata; molte sono anche le nozioni che possediamo sulla scherma dei latini, se non altro perchè l’evidenza storica delle numerose fonti a riguardo non può essere ignorata. Non è difficile, per quante differenze possano esserci nella pratica, assimilare lo spettacolo gladiatorio dei Romani con il fenomeno sportivo odierno ed è altrettanto facile instaurare un confronto tra quei combattimenti e la scherma moderna. Nulla o quasi, invece, sappiamo della scherma al di fuori dei confini dell’Impero Romano e dei limiti temporali che ne determinano la nascita, l’apogeo e l’inesorabile declino. E’ logico supporre che la scherma delle genti che popolarono il Tardo Antico europeo fosse in perfetta continuità con la scherma dei Romani, sulla base di una tradizione tecnica che si era affermata nel tempo ed era stata canonizzata nell’opera di trattatisti ed esperti del settore: Vegezio

fu uno di questi, senza dubbio la figura predominante, tanto che la sua Epitoma de Re Militari ha potuto superare nel tempo la selezione dei copisti amanuensi. Una sopravvivenza, questa, destinata a confondersi lentamente con nuove teorie e con il progresso dell’arte schermistica che attraversa tutto il Medioevo ed il Rinascimento, fino ai giorni nostri. Come schermitori, dunque, riconosciamo di essere in parte debitori ai latini che maneggiarono le loro corte spade, pretoriani, centurioni, gladiatori. Il tempo ha prodotto una inevitabile selezione: la memoria dell’uomo si lega agli avvenimenti più recenti, dimenticandone le cause e le ragioni del passato. La ricerca delle origini della scherma non può tuttavia fermarsi laddove le fonti abbondano ed il terreno di indagine sembra essere più sicuro: la scherma, ben prima di essere “la scherma dei Romani”, fu quella degli Osco-Sabelli, in particolare dei Sanniti, degli Iapigi, dei Liguri e delle altre genti italiote, ma fu soprattutto quella dei Greci, giunta attraverso la mediazione etrusca ad un processo di lenta assimilazione ed evoluzione nell’ambito del fenomeno culturale romano.

Figura 1 – Guerriero armato di daga bronzea, vaso ateniese a figure nere, museo di Tampa

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I Greci ed il loro apporto culturale

Con le prime colonizzazioni nell’Italia del Sud, nelle zone circostanti al golfo di Napoli, all’incirca verso l’VIII secolo a.C., i Greci portarono nella penisola un patrimonio culturale già maturo di più di quattro secoli di storia: arti, architettura, letteratura, ma anche tecniche agricole e di gestione del territorio e, non ultime, tecniche militari. In uno straordinario melting-pot di genti autoctone, principalmente Sanniti, Greci ed Etruschi -questi ultimi stanziatisi nel golfo di Salerno e nell’entroterra campano pressochè contemporaneamente alla colonizzazione greca- la cultura mediterranea trovò nell’Italia del Sud un irripetibile centro di sviluppo e, di lì a poco, il terreno di contatto con l’astro nascente della politica internazionale, Roma. E’ in questo contesto che le nozioni di combattimento con le armi, che i Greci certamente possedevano, poterono radicarsi, evolversi e trasmettersi nei secoli successivi ed è quantomeno suggestivo, benchè storicamente nemmeno troppo ardito, voler tracciare un fil-rouge che unisca storicamente la presenza greca nel golfo di Napoli con la tradizione che ha reso per secoli questi luoghi uno dei maggiori centri di diffusione della scherma italiana -sino ai giorni nostri con l’attività dell’Accademia Nazionale di Scherma. E’ proprio dello studio delle tecniche schermistiche dei Greci che possiamo oggi occuparci, per estendere il nostro quadro di conoscenze sull’evoluzione della scherma nella storia. Se è vero che la Grecia fu a tutti i livelli la culla della civiltà mediterranea, tanto più ci dovrebbe stupire che i soli studi sistematici in merito alle tecniche di combattimento dei Greci si debbano a ricercatori di origine anglosassone. Il motivo di questo apparente disinteresse degli studiosi mediterranei per le tecniche schermistiche degli antichi Greci risiede senz’altro in un retaggio culturale che, a partire dal XVIII secolo, fa da sfondo allo studio dell’antichità classica in Italia e nei paesi mediterranei in genere. L’attenzione degli studiosi italiani, francesi e tedeschi prima, e anche greci poi, si è focalizzata sulle arti figurative, sulla letteratura, sulla ricerca delle concezioni filosofiche, sociali e politiche, nell’ambito della visione neoclassica Winckelmanniana che fece da sfondo ai primi scavi archeologici ed alle prime ricerche nella metà dell’’800 e già fortemente influenzata dalla tradizione erudita rinascimentale. Non ci stupisce, quindi, che l’impulso allo studio degli ambiti tecnico-militari di epoca classica sia prevalentemente anglosassone: furono Inglesi e Statunitensi, per primi, a contribuire al mutamento delle prospettive di ricerca nella seconda metà del ‘900. Siamo profondamente debitori alla New Archeology ed alla rivoluzione culturale che essa rappresentò nell’ambito degli studi storici se oggi ci sentiamo in grado di speculare su tutti gli aspetti della vita quotidiana dell’uomo dell’antichità, tecniche di combattimento comprese.

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In particolare è la cosiddetta Archeologia sperimentale l’ambito scientifico entro il quale possiamo operare, alla ricerca delle tecniche schermistiche del passato e della loro più plausibile veridicità storica.

Lo stato dell’arte nella ricerca

Sul suolo britannico, molti sono stati, negli anni, i tentativi di ricostruzione in questo senso e molto validi sono i risultati raggiunti. Ne è testimonianza il recente proliferare in Inghilterra di compagnie d’arme, il cui scopo è quello di dar vita a rievocazioni di battaglie di contesto greco: dettagliati costumi, tecniche e conoscenze sperimentate sulla base delle fonti, conferiscono una attendibilità scientifica molto solida a queste ricostruzioni che spesso sono realizzate in collaborazione con gli studiosi di importanti istituti di ricerca, non ultimo il Departement of Classical History del British Museum, coinvolto in questo genere di studi a partire dagli anni ‘90. Nella Archeologia sperimentale il metodo di ricerca è basato solo in parte sulle fonti: la certezza di un dato è piuttosto ricavata dalla sperimentazione a partire dall’evidenza del reperto. Se le fonti in merito alle

tecniche schermistiche dei Greci sono scarse, non si può dire altrettanto dei reperti. Numerosi sono gli esemplari di spade ed attrezzature da battaglia che hanno rivisto la luce nel corso delle campagne di

scavo. Se trattati come semplici oggetti artistici, di inestimabile pregio per le decorazioni che recano, essi non possono aiutarci ad accrescere le nostre conoscenze sul modo in cui venivano maneggiati; ma, presi in mano, ci daranno molte più informazioni sul peso, sull’equilibrio dell’arma e sulle modalità di impugnarla. L’Archeologia sperimentale è oggi in grado di riprodurre processi produttivi, materiali e caratteristiche fisiche di queste armi con assoluta precisione: perfette copie delle stesse possono essere impiegate in simulazioni di combattimento e fornire una completa gamma di informazioni sulle possibilità di utilizzo che le spade greche consentivano ai loro utilizzatori di duemilacinquecento anni fa. Non è indispensabile che vi sia una fonte letteraria a descrivere i diversi tipi di colpi possibili, qualora si parta dall’assunto che la scherma è prima di tutto un’espressione ancestrale, uguale per l’uomo di qualunque secolo. Il ricercatore non dovrà far altro che comportarsi nel modo che ritiene più naturale, più efficace per avere ragione dell’avversario nel corso della simulazione spermentale: saranno così solo le

Figura 2 – un ricercatore con le armi di un oplite greco del V secolo, ricostruzione sperimentale

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caratteristiche fisiche dell’arma, la forma, il peso, la lunghezza, a limitare le possibilità tecniche e, sui limiti riscontrati sperimentalmente, sarà possibile ricostruire in modo abbastanza verosimile anche le conoscenze tattiche e strategiche. Il confronto con le conoscenze acquisite in modo certo per epoche storiche successive serve poi da guida per calibrare i risultati e affinare la ricerca. Anche le fonti -sebbene, come si è detto, siano particolarmente rare per l’argomento delle tecniche schermistiche nella Grecia antica- rientrano poi nel processo di confronto e di conferma dei risultati ottenuti sperimentalmente. In effetti l’unico testo in lingua greca dichiaratamente riguardante “le cose militari” è la Poliorketika di Enea il Tattico o Enea di Stinfalo , autore del IV secolo a.C.: ma l’argomento principale del testo sono i precetti tattici e le strategie politiche da mettere in atto nella difesa e nell’assedio delle città fortificate; non si parla di tecniche di combattimento individuale. Tuttavia lo studio delle tecniche, come si è visto, è sempre possibile, anche sulla base di pochi indizi, e sta alla correttezza scientifica del ricercatore il non voler superare il limite che separa una corretta speculazione da una pura ricostruzione di fantasia. Spesso sottovalutate dalla storiografia tradizionale, infatti, non mancano altre fonti letterarie di periodo greco relative alle tecniche di scherma: molti storici, poeti e trattatisti descrivono talvolta quasi incidentalmente duelli e combattimenti individuali. Pochi frammenti, scarse indicazioni che, però, unite al confronto con le conoscenze schermistiche note per l’epoca romana, possono servire come traccia per una ricostruzione neppure troppo audace della autentica scherma dei Greci. Inoltre, è soprattutto dall’arte figurativa che ci perviene un ulteriore aiuto, con indicazioni più concretamente utili: è noto in Archeologia classica che tra il VI ed il V secolo a.C. i reperti più consistenti per abbondanza di materiali nel bacino del Mediterraneo sono proprio le ceramiche dipinte. Le raffigurazioni, per lo più su vasi attici e corinzi a figure nere e a figure rosse, di guerrieri impegnati in scontri individuali sono rare, ma quelle che ci sono pervenute non mancano di dettagli importanti. Viste le convenzioni proprie dell’arte figurativa, anche in questo caso sarà talvolta necessario uno sforzo di immaginazione per configurare correttamente il problema della posizione di guardia o del modo di portare i colpi così come vengono rappresentati dagli artisti.

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Capitolo 2

Evoluzione storica e sociale Il ruolo culturale della scherma

La scherma greca ed il concetto di sport

Si è visto come la mancanza, per la conoscenza delle tecniche schermistiche greche, di un testo guida come quello già citato di Vegetio per i Latini, non è un ostacolo insormontabile qualora si pensi che la scherma ha radici comuni e che l’uomo moderno ne trae le stesse sensazioni degli antichi; a mutare è il contesto sociale e, semmai, il ruolo sociale che si attribuisce al concetto di scherma nelle diverse epoche. La scherma moderna è uno sport olimpico di opposizione, al pari di altre arti marziali. Svuotata del suo significato di vita e di morte, la scherma si è oggi profondamente modificata nelle tecniche e nelle tattiche adottate, ma per molti secoli essa ha rappresentato lo strumento per risolvere controversie d’onore nel contesto quotidiano. Anche prima di essere regolata nelle convenzioni del duello d’onore, la scherma, intesa come uso delle armi bianche, doveva essere alla base della risoluzione di molte controversie. Possiamo a ragione immaginare che un uomo greco non avesse altro mezzo che la spada per vendicare un torto o per difendersi da un’aggressione sulla strada.

Figura 3 – Olimpia, resti del tempio di Zeus

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Alcune fonti in greco antico -ed in particolare lo storico Senofonte- accennano poi alla danza Pirrica, praticata da alcuni soldati prima della battaglia. Danzavano con gli scudi e con le spade in pugno, dice Senofonte e cantavano il canto di guerra, il peana. L’esibizione delle capacità di combattimento in una danza fu tipica, in altri tempi, anche delle tradizioni delle popolazioni germaniche e coinvolgeva l’uso delle spade. L’antropologia culturale ci insegna che tali riti e costumi sono propri dell’uomo per via ancestrale e si ripetono con le medesime modalità in epoche diverse. E’ questa una testimonianza del profondo legame che unisce la spada come entità simbolica e le manifestazioni sociali e culturali anche nel mondo greco. Tuttavia il ruolo sociale ricoperto dalla scherma nel mondo greco è un argomento piuttosto controverso e che richiede di essere analizzato sotto diversi punti di vista. Proprio nell’ anno olimpico che vede il ritorno dei Giochi ad Atene, sembra doveroso iniziare valutando se essa avesse anche o primariamente un ruolo sportivo proprio nell’ambito della cultura greca. Sappiamo che alcune arti marziali possedevano questa prerogativa nel mondo greco, ma la scherma, sarà bene chiarire, sebbene fosse a tutti gli effetti un’arte marziale, non era compresa nelle gare atletiche che costituivano il nucleo originario dei giochi che si svolgevano quadriennalmente ad Olimpia in onore di Apollo, nè tantomeno era prevista dal programma di gare dei giochi che si svolgevano in altri luoghi ed in onore di altre divinità. Sembra che l’arte della spada non potesse per qualche ragione rientrare nell’ambito ludico -sempre che così si possa definire il fenomeno dei Festivals Panellenici- che rappresentava per i Greci prima di tutto un evento religioso e politico e solo in ultima analisi un fattore di gioco. Il concetto stesso di agone e di eccellenza atletica andava ben oltre la nostra definizione di competizione sportiva, compenetrandosi di significati religiosi e, in senso più lato, sociali, che oggi non riusciamo

a cogliere con totale naturalezza. Delineare l’importanza del fenomeno sportivo nella Grecia antica e metterne in correlazione le caratteristiche con lo sport(1) dei nostri tempi è argomento assai vasto, già oggetto di molte trattazioni specifiche, per le quali si rimanda alla bibliografia. Ciò che possiamo affermare con certezza è che i Greci concedevano che le mani

Figura 4 – Olimpia, l’ingresso dello stadio

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venissero usate per l’agone atletico, ma la spada era destinata solo ad uccidere. Indipendentemente dal valore dello sport nell’allenamento del soldato, l’opinione popolare vedeva nella dimostrazione di coraggio e di tenacia una sicurezza per la città in tempi difficili. Lo sport era un modo indiretto per allenarsi alla guerra. Ma Sparta, la città greca tradizionalmente meglio organizzata militarmente, riduceva e condannava il ruolo dello sport e allenava i suoi giovani direttamente in attività di guerra. Le gare atletiche per i Greci si restringevano agli eventi equestri, per lo più corse con i carri, al lancio del disco e del giavellotto, al salto in lungo ed alla corsa. Vi erano anche –si è detto- alcune arti marziali, quali una forma di boxe molto simile a quella attuale, lo wrestling, il pankration, e un posto a parte ricopriva il pentathlon che, però, a differenza della odierna disciplina olimpica, non comprendeva alcuna forma di combattimento armato. Vi erano infine varie specialità di corsa; proprio tra queste, sorprendentemente, individuiamo una forma di sport che, sebbene non prevedesse il combattimento tra due avversari, risultava fortemente connessa con l’attività militare degli uomini in armi, gli opliti. Specialità introdotta per la prima volta nei giochi di Olimpia del 520 a.C. e in quelli di Delfi nel 498 a.C., come risultato dei primi scontri dei Greci con gli arcieri persiani, si trattava di una gara di corsa della lunghezza di due o quattro stadi (da 384 a 768 metri), in cui competevano atleti con indosso un’armatura completa, schinieri ed elmo compresi, e che correvano impugnando una spada. Considerando il peso dell’intera armatura doveva essere un evento particolarmente faticoso, la cui importanza era collegata con l’addestramento dei giovani soldati che, sul campo di battaglia, dovevano essere in grado di spostarsi rapidamente, specie quando si trovavano sotto il tiro degli arcieri nemici. La misura di due o quattro stadi corrispondeva approssimativamente alla lunghezza della zona di combattimento coperta dal tiro degli arcieri nemici durante una battaglia, distanza che i fanti greci dovevano percorrere per entrare in contatto con le linee nemiche, come descritto da Erodoto nel suo racconto della battaglia di Maratona del 490 a.C. La corsa degli uomini in armi serviva agli efebi -giovani tra i 18 e i 20 anni che prestavano la leva militare obbligatoria biennale- in addestramento ad imparare a correre portando con sè lo scudo. Laddove questo tipo di competizione sportiva è raffigurata sui vasi attici, gli scudi dipinti spesso mostrano identici blasoni, a testimonianza del fatto che lo Stato deteneva alcuni scudi “da competizione” evidentemente di uguale misura e peso. Gli inventari dei magazzini dei templi spesso citano scudi o scudi leggeri (aspidìskoi) mantenuti appositamente per l’uso sportivo. Gli scudi recano normalmente simboli di una divinità nel cui tempio sono tenuti, o al cui festival pertiene la competizione: per esempio la lettera Α o la parola ΑΤΗΕ, per Atena, e il simbolo del sole per Apollo. Scudi standardizzati con il simbolo della lettera iniziale del nome di una divinità compaiono dapprima nell’ambito sportivo; solo successivamente l’apposizione di un blasone sullo scudo interessa anche quelli usati sul campo di battaglia, dove l’uso sugli scudi di lettere come blasone dello Stato deve essere derivato dalla analoga pratica che se ne faceva negli hoplitòdromi (stadi per la corsa degli opliti).

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Dunque i Greci, a parte questa forma di corsa che coinvolgeva le armi ma non il loro uso, non ritenevano l’esercizio della scherma una pratica sportiva. Se i Romani seppero tramutare i combattimenti in armi in spettacoli gladiatori che attiravano immense folle di spettatori, sembra che per i Greci non vi fosse proprio nulla di divertente nel confronto con le spade. E’ questo uno spunto di riflessione piuttosto importante, poichè analizzarne le ragioni ci permette di trarre conclusioni sul ruolo della pratica delle armi nella società greca. In un contesto storico, infatti, individuare le interconnesioni tra un fenomeno, nel nostro caso quello della pratica della scherma, e il suo delinearsi nella società, ci permette di riconoscere anche cause e ragioni del progresso delle tecniche. I legami sacrali, rituali e in definitiva religiosi che nei popoli antichi si instauravano attorno alla spada, simbolo di forza, di ricchezza e di potere, ed al suo possesso, dovevano certo esistere anche per i Greci. Così come è evidente che ad essere armati erano, almeno in un primo momento, gli individui preminenti della società, la cerchia degli aristocratici, in qualche modo avvolta da un aurea di sacralità. Vi è quindi una sorta di rispetto da parte della cultura greca nei confronti dell’uso delle armi, o forse, al contrario, una scarsa considerazione. Sappiamo da Aristotele e da molti altri autori che culturalmente i Greci consideravano sconveniente dedicarsi ad attività manuali ed abbiamo visto come le uniche arti marziali comprese nei giochi olimpici implichino la lotta a mani nude. Anche nella corsa degli uomini in armi l’atleta dimostrava la sua eccellenza mediante un confronto quasi indiretto: vinceva sopportando il peso dell’armatura e giungendo per primo al traguardo, ma non si doveva confrontare con un avversario sugli aspetti tecnici del maneggio dell’arma. Si potrebbe ascrivere tale implicita disattenzione per l’uso delle armi all’ideale sportivo greco -ben riassunto nella parola kalokàgathia (kalòs= bello, agathòs= buono)- che è compenetrazione di valore etico e bellezza fisica: sarebbe dunque il corpo in se stesso e la sua forma perfetta a sostanziare il valore dell’atleta e non il ricorso ad una tecnica di qualunque specie. Tuttavia contrasta con tale ipotesi la presenza, tra le gare, di diversi tipi di competizioni equestri, nelle quali è indiscutibilmente importante anche la capacità tecnica di condurre il cavallo piuttosto che la sola eccellenza del kalòs kaì agathòs, senza poi dire che boxe, pankration e wrestling, senza dubbio, dovevano essere discipline tecniche e tattiche oltre che fisiche. Dunque, la ragione della marginalità della scherma nell’evento sportivo è da ricercarsi altrove e più probabilmente nel passaggio dal contesto socio politico della società oligarchica a quello della pòlis di omoìoi, cioè il passaggio dalle forme di monarchia a quelle di

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democrazia in città-stato di cittadini che si consideravano tutti uguali tra loro. Come vedremo, questo mutamento influì molto sulle concezioni militari dei Greci e tale influenza dovette riflettersi anche su quelle sportive.

Il quadro storico e le testimonianze archeologiche

Erano molte le differenze fra la società greca dell'età del Bronzo e quella dei periodi arcaico e classico. La guerra in questo primo periodo probabilmente non coinvolgeva falangi organizzate di fanteria pesante (opliti), che divennero invece caratteristiche del periodo classico, anche se c’è prova, sia archeologica che documentaria (dalle tavolette micenee in lineare B), che almeno alcuni guerrieri greci della tarda età del Bronzo erano armati pesantemente e potrebbero essere stati allineati in formazioni ammassate in fila. La loro attrezzatura, come sappiamo dai ritrovamenti e dalle

rappresentazioni, poteva includere elmi di bronzo o di qualche altro materiale rinforzato con il bronzo, corazze di bronzo o di altri materiali metallici e grandi scudi di cuoio, a forma rettangolare o a forma di otto, o uno scudo più piccolo, di tipo circolare, come lo scudo dell’oplite, particolarmente popolare verso la fine del XIII e XII secolo a.C. Sembra essere caratteristico degli scudi della tarda età del Bronzo l’essere stati sostenuti da una cinghia di cuoio che attraversava la spalla del soldato e l’esser maneggiati grazie ad una singola impugnatura centrale che permetteva al guerriero di spostare il suo scudo da un lato all’altro, in un modo che sarebbe stato impossibile per l’oplite di qualche secolo dopo. Ciò probabilmente condusse ad un'organizzazione più allentata della fanteria e potrebbe aver permesso i duelli fra i campioni aristocratici, che sappiamo essere una caratteristica della guerra nei poemi omerici. Le armi utilizzate includevano daghe (caratteristiche dell'età del Bronzo più recente), spade e lance, la maggior parte delle quali, giudicando dagli esemplari sopravvissuti, erano del tipo da punta fino alla fine dell'età del Bronzo; dal XII secolo

Figura 5 – campo di archeologia sperimentale, ricostruzione di un oplite greco

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a. C. in avanti, entrò in uso anche una lancia più leggera adatta al lancio, comunemente detta giavellotto. Fra l’inizio del VII secolo e la metà del IV secolo a.C., i Greci antichi hanno adottato una forma di guerra che li ha differenziati dalle altre civiltà contemporanee nel Mediterraneo orientale. Ciò ha coinvolto l'uso del fante pesantemente armato, chiamato oplite, sostenuto da frombolieri armati alla leggera e da arcieri. Gli opliti erano contraddistinti dal loro scudo rotondo, di legno e di cuoio ricoperto da bronzo, dalle loro lunghe lance da stocco e dalla loro armatura protettiva di bronzo, solitamente formata da un elmo, una corazza e dagli schinieri. Il bronzo, una lega di rame e stagno, può brillare come oro quando è nuovo e l’avanzare delle strette fila della falange degli opliti al suono dei canti di guerra –unito talvolta a terrificanti blasoni raffigurati sui loro scudi- doveva rappresentare una vista impressionante per il nemico. In oriente, d'altra parte, l'abitudine era di portare armature riempite di tela e di cuoio, che erano più leggere e più confortevoli di quelle degli “uomini di bronzo” greci. Le armi impiegate dai Greci in questo periodo erano costruite solitamente di ferro e di legno e, pertanto, generalmente, non hanno resistito ai secoli, diversamente dal bronzo, che tende a rimanere stabile una volta che si è formata una patina di ossidazione sulla superficie. L’attrezzatura personale era in qualche caso sepolta con il corpo del guerriero morto sul campo, almeno a partire circa dal 700 a.C., in modo tale che i ritrovamenti di tali contesti archeologici sono rari ma sempre significativi. D'altra parte, armi e armatura erano spesso dedicati agli dei di un santuario dopo una vittoria in battaglia e gli scavi moderni, come per esempio ad Olimpia, mettono spesso in luce reperti di questo genere. L'armatura e l'attrezzatura dell’ oplite riflettono queste differenze fra il modo di combattere nell'età del Bronzo e quello dei periodi arcaico e classico. Al tempo delle poléis era usata da cittadini-soldato una forma specifica di guerra, sviluppata soltanto dalle città-stato greche nell’intero bacino del Mediterraneo. Questa organizzazione, naturalmente, non è stata adottata da ogni polis contemporaneamente, ma si è sviluppata lentamente per molti anni, fino a che la falange oplitica (phàlanx) o la formazione di fanti armati pesantemente disposti in fila vicine, dominò il campo di battaglia greco. La vittoria dipendeva dall'unità e resistenza delle fila e dalla capacità di rompere le linee del nemico. Una volta che la linea fosse stata rotta, l’oplite era mal dotato per il combattimento individuale. Un cittadino non veniva ammesso nell'esercito oplitico a meno che potesse procurarsi la sua propria attrezzatura. La città-stato di Atene, tuttavia, certamente dopo il 335 a.C., forniva ogni giovane, al completamento del suo addestramento, di una lancia ed uno scudo. Inoltre, se il padre fosse morto in battaglia, altre armi gli venivano fornite. Un'idea del costo per l’attrezzatura usata può essere ricavata dai prezzi registrati a Atene nel 415 a.C.: un giavellotto costava due

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dracme; una lancia, una dracma e quattro oboli. Per confronto, il soldo dell’oplite, a quei tempi, era di circa una dracma al giorno più una sovvenzione per i pasti.

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Capitolo 3

Gli uomini e la scherma La figura del guerriero dall’età del Bronzo all’Ellenismo

Il ruolo del guerriero nelle fonti omeriche

Tra il XII e l’VIII secolo a.C. il ruolo individuale del guerriero era riconducibile alla sua appartenenza ad un’élite aristocratica. Testimonianze di questa condizione si ritrovano nell’epica

omerica. Iliade ed Odissea narrano in forma poetica le gesta di questi eroi e spesso ce li mostrano impegnati in combattimenti individuali. Certo, dobbiamo interrogarci sulla attendibilità storica delle opere omeriche, giacchè -come è noto- esse furono il risultato dello stratificarsi di tradizioni orali in seguito ricollegate tra loro nel primo testo scritto della letteratura greca, operazione che gli studiosi collocano tra il IX e l’VIII secolo a.C. La società greca ed i suoi costumi, così come narrata da Omero, è la commistione della struttura socio-politica del periodo miceneo con quella della civiltà greca del periodo in cui i poemi furono effettivamente redatti in forma scritta. Molteplici sono i dettagli storici che hanno fatto propendere gli studiosi per questa convinzione: Iliade ed Odissea non sono una testimonianza storica diretta e non presentano un quadro della società

omogeneo che sia riconducibile ad un preciso periodo storico, ma sono piuttosto la raccolta di diverse tradizioni e strutture sociali che si svilupparono tra il XII e il IX secolo. Ciò non significa che tutti i dettagli in Omero siano necessariamente inventati o

Figura 6 - archeologia sperimentale, un guerriero iliadico

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inattendibili ed inutilizzabili ai fini della corretta ricostruzione delle tecniche di combattimento. Se gli studi comparativi di poesia epica suggeriscono che l’era da cui la tradizione epica attinge maggiormente la sua cristallizzazione narrativa contribuì alla visione storica contenuta nei poemi -e sebbene la stratificazione di dettagli renda artificiale la veridicità storica di queste opere per quanto concerne le tecniche militari, così come per gli usi della società e in tutte le sfere della attività umane- è pur vero che Omero si dimostra abbastanza preciso e prodigo di informazioni quando si tratta di descrivere i duelli tra gli eroi. Certo il poeta avrà attinto dalla realtà storica, o da più realtà storiche, ma non è discutibile il fatto che, se Iliade ed Odissea mostrano diversi duelli, questa forma di combattimento doveva essere stata effettivamente in uso nel periodo miceneo che fa da sfondo alle vicende narrate, tra il XII e il X secolo. Tuttavia, proprio per la stratificazione storica che caratterizza questi poemi, essi testimoniano anche gli usi militari contemporanei alla loro stesura in forma scritta, cioè quelli del IX secolo, che avevano ridotto progressivamente l’importanza del combattimento individuale. Infatti nei poemi, a parte il duello tra Achille ed Ettore descritto nell’Iliade, i combattimenti individuali non hanno mai un peso determinante nello svolgimento delle battaglie omeriche e molto spesso le guerre sono combattute da

schieramenti contrapposti di interi eserciti, piuttosto che risolte dai loro campioni.

L’estasi poetica del combattimento eroico individuale era una forma di ideologia politica che innalzava i guerrieri sopra il gruppo (pròmakhoi) e attestava ruoli politici e non solo militari per le élites aristocratiche della Grecia fino al IX secolo, ma il processo che da lì a poco avrebbe visto il costituirsi delle poléis democratiche era evidentemente già in atto ai tempi di Omero. L’importanza dei duelli individuali eroici non può quindi essere assunta come presupposto definitivo per

un’analisi del ruolo della scherma nella società greca: essa è un’illusione creata dai poeti –e nondimeno dalla cinematografia moderna- per esigenze narrative, ma è pur vero che i poemi

omerici non mostrano ancora compiutamente quella che sarà la tecnica di guerra dei Greci in età arcaica e classica. Si è detto infatti che Iliade ed Odissea spesso descrivono combattimenti di interi schieramenti d’uomini, ma,

Figura 7 – scudo dell’età del Bronzo, ricostruzione

Figura 8 – elmo dell’età del Bronzo, ricostruzione

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contrariamente alla ortodossia dell’opinione dei revisionisti storici, vi è molta differenza nella realtà tra guerra di schieramenti e guerra di falangi, forma di combattimento che sarà caratteristica dei Greci solo a partire dall’VIII secolo a.C. E’ legittimo indicare che le descrizioni omeriche di battaglie nelle quali i campi nemici erano a poca distanza tra loro, implicano la tecnica dei combattimenti tra file organizzate di uomini, ma è illegittimo paragonare tali schieramenti alle falangi: infatti il continuo muoversi di truppe, anche nella medesima giornata, descritto da Omero, è incompatibile con il movimento in formazioni strette. Di seguito è riportata una breve rassegna dei passi omerici più significativi per la descrizione di duelli individuali. Del testo dell’Iliade e dell’Odissea sono state antologizzate tutte le occorrenze della parola “spada”, espunti quei passi nei quali l’uso del termine assolveva meramente ad una funzione descrittiva. Il testo dell’Iliade è presentato nella famosa traduzione di Vincenzo Monti, mentre quello dell’Odissea nella traduzione di Ippolito Pindemonte: entrambe restituiscono il sapore eroico dei passi omerici meglio di altre traduzioni più moderne. TESTO OMERICO COMMENTO

[…] Lo guatò bieco Achille, e gli rispose: Anima invereconda, anima avara, chi fia tra i figli degli Achei sì vile che obbedisca al tuo cenno, o trar la spada in agguati convegna o in ria battaglia? […] […] L'irato Atride allora trasse la spada, ed erto un gran fendente gli calò ruïnoso in su l'elmetto. Non resse il brando, ché in più pezzi infranto gli lasciò la man nuda; ond'ei gemendo e gli occhi alzando dispettoso al cielo, Crudel Giove, gridava, il più crudele di tutti i numi! Io mi sperai punire di questo traditor l'oltraggio: ed ecco che in pugno, oh rabbia! mi si spezza il ferro, e gittai l'asta indarno e senza offesa. […]

Achille cita l’uso della spada in duelli individuali, distinguendolo dall’uso in battaglie di più uomini. L’uso della spada è segno di coraggio ed è contrapposto da Achille alla viltà del suo interlocutore. Vi è qui la descrizione dell’inizio della sequenza di colpi tipica del duello individuale in epoca prearcaica, che verrà conservata nelle sue linee generali anche negli scontri individuali di epoca classica: fendente alla testa, verticale dall’alto verso il basso; ma la spada si rompe inaspettatamente nell’impatto con l’elmo dell’avversario, lasciando disarmato l’eroe che, rivolgendosi a Zeus, lamenta di aver rotto il proprio ferro e di aver precedentemente già lanciato invano il suo giavellotto.

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[…] e in pugno stretta l'acuta spada glie l'immerse nella ventraia, e gli rapìo la vita; […] […] A prima giunta Astìnoo uccise ed Ipenòr: trafisse l'uno coll'asta alla mammella; all'altro la paletta dell'omero percosse con tale un colpo della grande spada, che gli spiccò dal collo e dalla schiena l'omero netto. […] […] Indi la spada agli omeri sospende rilucente d'aurate bolle, e la vestìa d'argento larga vagina col pendaglio d'oro. Poi lo scudo imbracciò che vario e bello e di facil maneggio tutto cuopre il combattente. Ha dieci fasce intorno di bronzo, e venti di forbito stagno candidissimi colmi, e un altro in mezzo di bruno acciar. Su questo era scolpita terribile gli sguardi la Gorgone col Terrore da lato e con la Fuga, rilievo orrendo. Dallo scudo poscia una gran lassa dipendea d'argento, lungo la quale azzurro e sinuoso serpe un drago a tre teste, che ritorte d'una sola cervice eran germoglio. Quindi al capo diè l'elmo adorno tutto di lucenti chiavelli, irto di quattro coni e d'equine setole con una superba cresta che di sopra ondeggia terribilmente. Alfin due lance impugna massicce, acute, le cui ferree punte mettean baleni di lontano. Intanto

Sintetica descrizione di una puntata che trafigge l’avversario al petto, uccidendolo. Lo scambio di colpi tra due eroi: l’uno trafigge con la lancia il suo nemico, l’altro mena un colpo di spada alla parte superiore del braccio dell’avversario, all’altezza dell’omero, riuscendo a mozzarlo di netto. Non è forse una esagerazione, considerando il peso delle armi dell’epoca. E’ la vestizione del guerriero in cui vengono descritte molte parti dell’attrezzatura: la lucente spada intersiata a sbalzo, introdotta in un fodero d’argento che pendeva dai fianchi; lo scudo, facile da maneggiare, che proteggeva il corpo del guerriero, di venti fasce bronzee e venti di stagno e, di ferro al centro, recava il blasone della Gorgone; poi due lance e l’elmo con il suo pennacchio di crine di cavallo. Emblematico il fatto che, nella sequenza, venga citata per prima la spada(2), certamente per il significato simbolico che ricopriva nell’immaginario collettivo. La lancia, sebbene sappiamo che sul campo veniva usata per prima, lasciando alla spada un ruolo secondario, è citata solo successivamente, addirittura dopo l’elmo. Evidentemente fu un’innovazione tecnologica posteriore, che permetteva di affrontare il nemico senza avvicinarglisi troppo pericolsamente, ma il nucleo originario dell’attrezzatura doveva essere composto da spada, corazza ed elmo. Da notare altresì come Omero si concentri ampiamente sui

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Giuno e Palla onorando il grande Atride dier di sua mossa con fragore il segno. […] […] alza Eleno la spada, ed alla tempia Dëìpiro fendendo gli dirompe l'elmo, e dal capo glielo sbalza in terra. Ruzzolò risonante la celata fra le gambe agli Achivi […] […] Nettunno li precorrea, nella robusta mano sguäinata portandosi una lunga orrenda spada che parea di Giove la folgore, e mettea nel cor paura. Misero quegli che la scontra in guerra! […] […] Si scagliò questi con ira contro Acamante che del re l'assalto non attese; ed il colpo a lui diretto Ilïonèo percosse, unica prole di Forbante che ricco era di molto gregge; e Mercurio, che d'assai l'amava, di dovizie fra' Troi l'avea cresciuto. Il colse Penelèo sotto le ciglia dell'occhio alla radice, e la pupilla schizzandone passar l'asta gli fece via per l'occhio alla nuca. Ilïonèo assiso cadde colle man distese: ma stretta Penelèo l'acuta spada, gli recise le canne, e il mozzo capo, coll'elmo e l'asta ancor nell'occhio infissa, gli mandò nella polve. […]

dettagli decorativi e costruttivi delle armi, citando il numero di anelli che componevano lo scudo, distinguendo tra i diversi tipi di metalli impiegati e descrivendone il grado di lucentezza. Ampio spazio è dato anche alla figura della Gorgone, che doveva incutere timore alla vista, per spaventare il nemico. Un altro fendente alla testa(3), tirato con tanta forza da far cadere l’elmo all’avversario: i colpi alla testa servivano inizialmente per stordire l’avversario e renderlo più vulnerabile, non certo per trapassare di taglio il robusto elmo. Si cita una lunga spada(4), portata dal guerriero ad una sola mano. Sembra che i Greci, anche nell’età del Bronzo, non conoscessero né la spada a due mani né tantomeno tecniche di utilizzo dell’arma con la mano sinistra(5). Nuovamente due guerrieri si scontrano: l’uno si scaglia con forza, forse a tutta corsa, verso l’altro, colpendolo sotto le ciglia e cavandogli un occhio. E’ questo un colpo vibrato con una corta lancia, usata però come fosse una spada: non viene lanciata a gran distanza, ma impugnata e diretta verso il bersaglio con una puntata. La spada vera e propria, di cui Omero sottolinea la acutezza della punta, viene sguainata solo per finire l’avversario, con un colpo che gli viene vibrato al collo e gli mozza il capo. Da notare come non vi sia alcuna convenzione cavalleresca nei duelli di questi campioni eroici:

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[…] Di frassino una grave asta scotea Aiace. A questa avvicinato Ettorre tal trasse un colpo della grande spada che netta la tagliò là dove al tronco si commette la punta. Invan vibrava il Telamònio eroe l'asta privata della sua cima, che lontan cadendo risonò sul terren. […] […] Indi la spada di bei chiovi d'argento aspra e lucente dall'omero sospese. Indi lo scudo saldo e grande imbracciò: la valorosa fronte nell'elmo imprigionò, su cui d'equine chiome orrendamente ondeggia una cresta. Alfin prese, atte al suo pugno, valide lance; ed unica d'Achille l'asta non prese, immensa, grave e salda cui nullo palleggiar Greco potea, tranne il braccio achillèo. […] […] S'azzuffâr Lico e Penelèo: ma in fallo trasser ambo le lance. Allor più fieri dier mano al brando. Del chiomato elmetto Lico il cono percosse: ma la spada

l’avversario, già a terra, viene colpito a morte e non vi è nemmeno un breve sambio di parole tra i due. Quella descritta da Omero è prima di tutto una guerra e, più che capacità tecnica, quella dei suoi guerrieri sembra essere vera e propria furia cieca. La spada viene qui utilizzata direttamente contro un avversario armato di lancia. L’equità dei mezzi non rappresentava certo una preoccupazione sul campo di battaglia, ma in questo caso ha la meglio proprio l’eroe che utilizza la spada: egli riesce con un colpo a spezzare in due la lancia dell’altro e a renderla così inoffensiva. Possiamo ipotizzare che il guerriero abbia provato a parare un colpo proprio usando il legno della lancia. Un'altra scena di vestizione dell’eroe: la spada viene legata in un fodero che penzola dalla spalla, viene imbracciato lo scudo e poi l’elmo. Achille prende con sé anche due lance, ma Omero ci dice che non si arma del giavellotto, l’asta corta adatta al lancio. Le lance lunghe, infatti, non venivano usate per essere gettate, bensì come vere armi da stocco: portate di punta, esse, in un certo senso, non erano altro che spade tubolari, più sottili, più lunghe e prive di elsa. Lico e Peneleo si scontrano, ma entrambi rompono le proprie lance: entrambi passano alla spada. Ancora una volta la frase d’armi è semplice ed inizia con un fendente verticale alla testa. Questa volta,

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si franse all'elsa. All'avversario il ferro assestò Penelèo sotto l'orecchio, e tutto ve l'immerse. Penzolava in giù la testa dispiccata, e sola tenea la pelle. […] […] Ma riparo l'intrepido vi mise Automedonte, che rapido insorgendo, e via dal fianco sguäinata la lunga acuta spada tagliò netto al giacente le tirelle, e fu l'opra d'un punto. Entrambi allora rassettârsi i corsieri, e raddrizzârsi al cenno della briglia obbedïenti. […] […] Indi Mulio investendo, entro un'orecchia gli fisse il telo, e uscir per l'altra il fece. Ad Echeclo d'Agènore un fendente calò di spada al mezzo della testa, e la spaccò; si tepefece il grande acciar nel sangue, e la purpurea morte e la Parca possente i rai gli chiuse. Colse dopo di punta nella destra Deucalïon là dove i nervi vanno del cubito ad unirsi. Intormentito nella mano il guerrier vedeasi innanzi la morte, e passo non movea. Gli mena un mandritto il Pelìde alla cervice, netto il capo gli mozza, e via coll'elmo lungi il butta. Schizzâr dalle vertèbre le midolle, e disteso il tronco giacque. […]

però, l’avversario, Peneleo, esegue un’uscita in tempo e colpisce di punta Lico sotto l’orecchio, aiutato dallo spezzarsi del ferro dell’altro. Vista la dinamica del colpo possiamo pensare che si sia trattato di una passata sotto(6), infatti Peneleo raggiunge Lico al di sotto dell’orecchio, dal basso verso l’alto. Ancora una citazione di una lunga spada, anche se in questo caso vi è una contraddizione: certo non poteva trattarsi di uno spadone, giacchè il poeta ci dice che essa penzolava dal fianco dell’eroe. Si tratta evidentemente di un caso di epiteto esornativo formulare: la spada è definita “lunga” in modo meccanico, con l’uso di una parola che permetteva di richiamare alla memoria il proseguo dei versi(7). Un solo eroe contro diversi avversari, che gli si presentano individualmente, in sequenza: il primo è trafitto con un lancio di giavellotto che colpisce il bersaglio. Poi un colpo di spada, l’abituale fendente nel mezzo della testa pone fine alle velleità del secondo. Il terzo è invece colpito con una puntata in un punto vitale: per questo cade a terra ed è poi raggiunto da un colpo di mandritto, diagonale da destra a sinistra, che gli mozza il capo all’altezza del collo. Ancora una volta il fendente verticale alla testa è il colpo preferito per iniziare lo scontro, mentre il colpo orizzontale o diagonale è usato per finire l’avversario già inerme. Il colpo di punta evidentemente non poteva essere sferrato con la forza necessaria per uccidere subito l’avversario, a causa dello spessore dell’armatura. Per finirlo si poteva

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[…] strinse l'eroe la spada, e dentro il flutto come demón lanciossi, rivolgendo opre orrende nel cor. Menava a cerchio il terribile acciar; s'udìa lugùbre dei trafitti il lamento, e tinta in rosso l'onda correa. […] […] Strinse Achille la spada, e alla giuntura lo percosse del collo. Addentro tutto gli si nascose l'affilato acciaro, e boccon egli cadde in sul terreno steso in lago di sangue. […] […] Dal fianco allora trasse Achille la spada, e furibondo assalse Asteropèo che invan dall'alta sponda si studia di sferrar d'Achille il frassino: tre volte egli lo scosse colla robusta mano, e lui tre volte la forza abbandonò. Mentre s'accinge ad incurvarlo colla quarta prova e spezzarlo, d'Achille il folgorante brando il prevenne arrecator di morte. Lo percosse nell'epa all'ombelico; n'andâr per terra gl'intestini; in negra caligine ravvolti ei chiuse i lumi, e spirò. […]

scegliere se trapassarlo, affondando il colpo al petto, oppure se decapitarlo, e questo era certo un colpo simbolicamente più suggestivo. Un caso di mischia: un eroe solo nella turba dei nemici. La tecnica usata in questo caso è quella di menar la spada circolarmente, davanti a sé. Ma Omero, contraddicendosi, dice che gli avversari così uccisi erano stati trafitti, il che implica colpi portati di punta, che mal si abbinano alla tecnica descritta. Una vera puntata al collo. Questa volta è un colpo di punta che uccide l’avversario, ma il collo non offre una gran resistenza ed era forse un bersaglio più facile per essere trapassato di punta laddove non era protetto dall’armatura. Achille sguaina la spada dal fodero e corre verso il nemico. L’attacco correndo era usuale ed aveva una funzione: evitare di rimanere fermi in un punto metteva in difficoltà l’avversario, che non poteva scagliare facilmente la sua lancia contro un avversario in continuo movimento. Inoltre, data la semplicità della frase schermistica e l’impossibilità di parare i colpi con il pesante ferro, chi prendeva per primo l’iniziativa dell’attacco, in genere, risultava vincitore. Anche in questo caso il colpo risolutivo è una puntata all’addome. Si noti che, nonostante fossero dotati di scudo, quasi mai questi eroi ricorrono ad esso per difendersi(8). Se questa fosse la realtà storica è difficile dirlo entro un contesto poetico che

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[…] Ciò detto, scintillar dalla vagina fe' la spada che acuta e grande e forte dal fianco gli pendea. Con questa in pugno drizza il viso al nemico, e si disserra com'aquila che d'alto per le fosche nubi a piombo sul campo si precipita a ghermir una lepre o un'agnelletta: tale, agitando l'affilato acciaro, si scaglia Ettorre. Scagliasi del pari gonfio il cor di feroce ira il Pelìde impetuoso. Gli ricopre il petto l'ammirando brocchier: sovra il guernito di quattro coni fulgid'elmo ondeggia l'aureo pennacchio che Vulcan v'avea sulla cima diffuso. E qual sfavilla nei notturni sereni in fra le stelle Espero il più leggiadro astro del cielo; tale l'acuta cuspide lampeggia nella destra d'Achille che l'estremo danno in cor volge dell'illustre Ettorre, e tutto con attenti occhi spïando il bel corpo, pon mente ove al ferire più spedita è la via. […]

richiedeva la spettacolarità ma anche la brevità del duello. Ancora uno sguainar di spada nel duello finale dell’Iliade: Ettore si scaglia di corsa contro il nemico, con l’arma posta in linea davanti a sé. Anche Achille fa lo stesso, di fronte all’avverario, ma copre il petto con lo scudo. Non vi è tattica, i guerrieri omerici risolvono con la rabbia lo scontro. La forza fisica è più importante di qualunque strategia, ma l’abilità tecnica non deve essere sottovalutata. Un colpo tirato in modo impreciso, con una dinamica del pugno o del braccio non corretta, doveva risultare vano e metteva certo in pericolo chi l’aveva eseguito. Infatti, dato il peso dell’arma e la forza messa nel tirare il colpo, recuperare dopo un errore doveva essere piuttosto difficile. Chi sbagliava rimaneva scoperto abbastanza a lungo da permettere all’altro di trafiggerlo facilmente di punta. Le uniche uscite in tempo permesse dalla situazione erano le schivate e le sottrazioni di bersaglio, entrambe giocate sullo sbilanciamento dell’avversario, che finiva con il ferro sulla linea bassa, non riuscendo nella maggior parte dei casi a riportarlo su quella alta per sferrare un secondo attacco. Tuttavia, che i duelli descritti da Omero siano solo uno spettacolo poetico e che Greci dell’età del Bronzo sapessero invece controllare meglio la forza dei colpi, dando vita a duelli tattici, fatti di seconde intenzioni e uscite in tempo, è abbastanza plausibile, se non addirittura certo.

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[…] Così dicendo, con la man gagliarda Dal suol raccolse la tagliente spada, Che Agelao su la morte avea perduto; E di percossa tal diede al profeta Pel collo, che di lui, che ancor parlava, Rotolò nella polvere la testa. […]

Nell’Odissea è questo l’unico passo(9) che descrive l’uso della spada. Moltre altre occorrenze del termine ricorrono per scopi figurativi ma non sembrano utili alla analisi delle tecniche di combattimento. In questo passo Omero descrive il consueto diagonale al collo, fatale per chi lo riceve.

La nascita delle poléis: dagli eroi agli opliti

I poemi Omerici, in definitiva, sono fonti che possono essere utili alla ricostruzione delle tecniche di combattimento individuale, ma, per quanto riguarda il ruolo della scherma nella cultura greca, risultano fuorvianti, poiché mostrano una sorta di età di mezzo tra la società

micenea aristocratica, nella quale certo il duello aveva un’importanza sociale legata all’esercizio del potere da parte dei gruppi dominanti e la società greca arcaica, nella quale il primo sviluppo della pòlis democratica aveva sminuito l’influenza proprio di quelle élites che erano state depositarie dell’arte della scherma. Inoltre, all’idea di individualità si sostituisce, a tutti i livelli della società ed anche evidentemente nella concezione militare, il valore della collettività. Si produsse quindi anche un cambiamento nell’etica: non più il valore individuale, la forza o il coraggio del singolo combattente, ma la coesione con i compagni erano i punti di forza dell’uomo d’armi, come ebbe a scrivere attorno alla metà del VII secolo Archiloco, poeta lirico di Paro: “…e dagli avversari difenditi opponendo di fronte il petto, contro gli assalti dei nemici ergendoti vicino saldamente…” (trad. R. Cantarella)

Figura 9 – opliti greci del V secolo, ricostruzione di archeologia sperimentale

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Nell’Iliade la guerra era un problema anche di combattimenti individuali: il guerriero arrivava sul carro nel campo di battaglia, si cercava un avversario e combatteva, ma cinquecento anni dopo gli opliti combattono solo in fila organizzate. Sofocle disse “vero e nobile è stare ciascuno al fianco dell’altro”; se una formazione si sentiva instabile abbandonava il campo senza combattere. Anche le evidenze archeologiche lo confermano: ritrovamenti di armi e armature e loro rappresentazioni ci indicano che un’innovazione cruciale nell’equipaggiamento fu rappresentata dallo scudo convesso, di legno ricoperto di bronzo, che comparve in Argo nel 700 a.C. Ovviamente, uno scudo del genere, pesante e poco maneggevole, era inappropriato per il combattimento individuale e fu introdotto proprio per accrescere le capacità difensive degli uomini che erano destinati a combattere insieme nelle fila della falange. In seguito, l’invenzione delle corazze di bronzo e dell’elmo corinzio caratteristico dell’oplite, sempre intorno al ‘700, indicano la medesima propensione. Evidentemente questo mutamento fu lungo e non avvenne contemporaneamente in tutte le zone della Grecia, come è vero per tutti quei cambiamenti che implicano una completa revisione delle scale di valori sociali ed etici. Erodoto (I, 82) ancora nel 545 a.C. attesta che, nell’ambito delle guerre sorte tra Spartani ed Argivi per questioni di confine, ci fu un combattimento agonale e rituale di 300 campioni, selezionati da ciascun fronte. Alla fine del combattimento solo tre uomini sopravvissero, due argivi ed uno spartano, ma quando i sopravvissuti argivi lasciarono il campo per riportare la notizia della loro vittoria ai concittadini di Argo, l'unico sopravvissuto spartano, Othryadas, rimase sul campo nella sua posizione. Acclamò la vittoria per Sparta poichè era rimasto sul posto (en tàxei, nelle fila). Sebbene non ci fosse una uniformità completa tra tutti gli eserciti delle città della Grecia, l’oplite ben presto divenne però la norma e l’archeologia ci conferma per via negativa, insieme alle fonti letterarie, che a partire dal VIII secolo non vi è più testimonianza alcuna di combattimenti individuali. Se nella società micenea del XII – IX secolo possiamo verosimilmente immaginare che i capi aristocratici nella vita di tutti i giorni portassero la propria spada nel fodero, nel periodo arcaico, a partire dall’VIII secolo, armi e armature uscirono dalla sfera dell’utile quotidiano e servirono piuttosto per dediche nei templi, come dimostrano, tra le altre, le figurine di piombo dedicate a Ortheia presso Sparta. Il ruolo dell’individuo armato e, conseguentemente, il ruolo della scherma come abilità nel maneggio delle armi, dovette essere fortemente ridimensionato(11). Nella società della pòlis non c’è spazio per l’uso delle armi nella risoluzione delle controversie private, o, per lo meno, non primariamente. Esso è semmai una conseguenza della legittimazione data nel dibattito giuridico, ma il ricorso alle armi non è la prima soluzione che il cittadino della pòlis

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ricercava. La forza della collettività superava ormai di gran lunga, per i Greci, quella dell’individuo, e questo valeva in ogni ambito della cultura e della società, uso delle armi compreso. Per certi versi, quindi, la società greca si dimostrava anche in questo molto progredita e simile a quella moderna. Se pensiamo che nel Medioevo e fino al XVII secolo era cosa piuttosto naturale risolvere le più piccole controversie sfidandosi in duelli mortali, dobbiamo ritenere che i Greci avessero piuttosto una concezione delle armi molto più simile alla nostra: il loro uso era militare, ma non poteva sostituire nella vita di tutti i giorni le armi della civiltà. Ciò che invece manca alla società greca è allora uno spazio entro il quale confinare l’arte della scherma: si è detto che questo spazio non era rappresentato dalle attività sportive, ma neppure dall’esercizio delle armi per via dilettantistica o come ricerca dell’accrescimento di se stessi. Alla filosofia greca, a differenza di alcune filosofie orientali più recenti, è ancora sconosciuto il rapporto che lega l’io dell’individuo e la sua spada. Il ruolo della scherma nella società greca fu dunque fortemente condizionato e limitato dalla incredibile fioritura intellettuale ed etica cui questa civiltà giunse tra l’VIII e il IV secolo a.C., ma l’uso delle armi, come vedremo, continuò a conservare una fascia di rispetto, che ancora è possibile intravvedere dietro quella mentalità etica che fece della falange e dei suoi opliti i campioni del combattimento collettivo.

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Capitolo 4

La guerra delle poléis Il ruolo del duello individuale nelle tecniche militari

L’oplite e le tecniche sul campo

Fra l’inizio del VII secolo e la metà del IV secolo a.C. i Greci antichi si schierarono sui campi di battaglia secondo una forma di guerra che faceva uso di fanti pesanti, gli hoplìtes, muniti di una spada corta, uno scudo ed una lancia. Il termine oplite indica l’uomo in armi e deriva da tà hòpla, le armi. Prima di tutto, l’oplite greco era un guerriero protetto dal suo scudo di bronzo, che combatteva entro una falange di soldati allineati in file a ranghi stretti. La falange era una formazione di combattimento che basava il suo successo sull’attività coordinata del gruppo: la falange che riusciva a mantenere la coesione delle sue linee più a lungo, normalmente, risultava vittoriosa nella battaglia. Quando gli domandarono perchè gli opliti spartani che perdevano la loro posizione nella falange venivano disonorati, mentre quando perdevano il loro elmo non lo erano, secondo Plutarco (Moralia 220 A) il re spartano Demarato rispose: “Perchè l’elmo lo mettono a loro protezione, mentre la posizione la tengono per la salvezza dell’intera linea”. Nel corso del loro addestramento di due anni, organizzato dallo stato, gli opliti erano addestrati nel loro ruolo di membri della falange. Si addestravano a marciare in file, cambiare formazione, unire gli scudi insieme e usare le lance all’unisono con quelle dei compagni. La falange era una macchina da guerra molto più efficace di qualunque guerriero singolo: permise ai Greci di vincere a Maratona nel 490 a.C. ed alle Termopili nel 480 a.C., contro l’esercito dei Persiani. La battaglia tra gli opliti si svolgeva secondo un copione formulare: due falangi venivano in contatto in numero all’incirca uguale di uomini. Al grido rituale del canto di guerra del peàna, rivolto ad Apollo, iniziava lo scontro e le due falangi avanzavano compatte, a

Figura 10 – scudo greco del V secolo, ricostruzione

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ritmo di corsa solo se si trovavano entro il raggio degli arcieri nemici, per superare la zona da loro coperta. Altrimenti si preferiva avanzare molto lentamente per mantenere più facilmente l’organizzazione e la compattezza della falange. ”Eluleu” era il grido di guerra che dava l’inizio allo scontro vero e proprio. Le prime file delle due falangi contrapposte, una volta entrate in contatto, si spingevano l’un l’altra, scudo contro scudo, e i soldati passavano le punte delle lance laddove vedevano uno spiraglio tra gli scudi delle file nemiche. La morte sopraggiungeva per l’impatto e la pressione esercitata dagli scudi dei nemici più che per le ferite eventualmente riportate. L’oplite era coperto dal proprio scudo alla sua sinistra, mentre alla sua destra era coperto da quello del compagno di fila, e sarebbe risultato completamente scoperto nel caso in cui il compagno che aveva al fianco avesse perso per qualche ragione la sua posizione. Se ne deduce che l’organizzazione della falange non prevedeva la possibilità di opliti mancini: chi non era di mano destra veniva comunque addestrato all’uso dell’arma, lancia o spada che fosse, con quella mano. Se all’inizio dello scontro le prime linee si contrapponevano spingendosi, dopo un tempo che gli studiosi hanno ritenuto valutabile in circa un quarto d’ora, esse iniziavano a ruotare, mescolandosi con le fila nemiche e si presentavano infine secondo uno schema simile a questo(12):

***********°°°°°°°°**********°°°°°° °°°°°°°°*********°°°°°°*******°°°°°

* = soldati falange esercito A; ° = soldati falange esercito B

L’oplite era un ottimo soldato in gruppo, ma non da solo: egli non riusciva a combattere efficacemente dinnanzi ad un nemico a distanza molto ravvicinata. Per questo, una volta che la sua fila si era mischiata a quelle della falange nemica, egli doveva assolutamente mantenere la posizione. In genere otteneva la vittoria chi sapeva aspettare senza lasciarsi trascinare nella foga del combattimento. Se l’ordine delle fila veniva perso, la battaglia diventava individuale e, solo da quel momento, contava il valore e l’abilità tecnica di ciascuno.

Gli opliti erano armati pesantemente ed erano accompagnati sul campo da fanti armati più alla leggera, cittadini di basso rango che non potevano permettersi l’acquisto di un’attrezzatura da oplite, o anche schiavi. Questi fanti leggeri Figura 11 – scudo greco del VI secolo,

ricostruzione

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portavano i pesanti scudi degli opliti durante gli spostamenti e si occupavano di trasportare le vettovaglie; essi erano armati con giavellotti, ma certamente anche con spade, poiché tra i loro compiti vi erano quelli di sorvegliare il campo e di coprire eventuali ritirate; per questo non erano predisposti a combattere in fila organizzate, bensì individualmente. Data forse anche la loro appartenenza ai più bassi strati sociali, sappiamo ben poco di questi soldati, citati solo incidentalmente dalle fonti e mai rappresentati nelle arti figurative, il che ci impedisce di cogliere i dettagli delle loro tecniche di combattimento. Qualche informazione in più ci è data riguardo ai frombolieri e all’uso delle fionde, ma nessuna testimonianza diretta ci è pervenuta circa l’uso della spada da parte dei fanti armati alla leggera. Essi svolgevano un compito di supporto e si spostavano rapidamene sul campo, perciò si può ritenere che tendessero ad evitare il combattimento, tenendosi a distanze tali dal nemico da non permettere l’uso della spada. Tuttavia essi la portavano nel fodero, a scopo difensivo e, probabilmente, per finire nel corso della ritirata i nemici che erano caduti sul campo. Le truppe armate alla leggera erano spesso impiegate dagli eserciti Greci per sostenere la fanteria pesante. Erano frequentemente forze speciali o di mercenari quali gli arcieri di Creta o i frombolieri di Rodi. I frombolieri spesso usavano proiettili di piombo di cui sono stati rinvenuti diversi esempi (lunghezza: 3,85 centimetri, peso: 55,3 g). Inizialmente erano usati semplici ciottoli o sfere di argilla, ma entro il quarto secolo a.C. si adottò un proiettile standard di piombo con un peso ragionevolmente uniforme e una forma usuale a mandorla. La fionda era fatta da due strisce di cuoio, tela o crine di cavallo, ciascuna di lunghezza di circa 1 metro, con una tasca centrale, solitamente di cuoio, per alloggiare la pallottola. Questi piccoli proiettili dovevano essere molto efficaci: presentano una forma aerodinamicamente valida e un fromboliere poteva lanciare una pallottola ad una velocità di oltre 100 Km/h ad una distanza di 400 m, causando lesioni letali anche a soldati protetti dall’armatura. Il piombo era facilmente forgiato in stampi che potevano produrre parecchie pallottole contemporaneamente. Frequentemente lettere e simboli venivano intagliati negli stampi, in modo che si imprimessero sulla pallottola. Queste iscrizioni potevano riferirsi alla proprietà - "B" per "degli abitanti della Beozia", per esempio –o potevano essere propaganda utile o, ancora, costituire una ingiuria al nemico, per esempio "prendi questo", "muori", o "colpo". L’ esempio in figura riporta su un lato l'iscrizione "ΚΛΕΑΝ∆ΡΟ" ("appartenente a Kleandros "- indicando proprietà). L'iscrizione è retrograda e deve essere letta da destra a sinistra. Le lettere sono state intagliate nello stampo da sinistra a destra, generando un'immagine a specchio quando la pallottola è stata forgiata. La fotografia è stata ingrandita e rovesciata per mostrare l'iscrizione come comparirebbe se fosse stata scritta nel senso usuale.

Figura 12 – proiettile da fionda, visione per mezzo di uno specchio

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Le fonti sono molto più prodighe di particolari circa la falange oplitica ed i soldati che la componevano. Per potersi muovere nelle loro pesanti armature, gli opliti dovevano essere atleti veri e propri: la corazza comprendeva una piastra anteriore per il petto ed una posteriore per la schiena, unite da cinghie di cuoio. Il metallo di protezione scendeva fino ai fianchi, mentre più in basso si agganciava una piccola frangia di lamine di metallo, allacciate insieme con strisce di cuoio che raggiungevano poco meno della metà della coscia. Da sotto questo punto sino alle ginocchia le gambe erano scoperte, ma appena al di sotto del ginocchio vi erano ulteriori protezioni, gli schinieri, piatti di bronzo sagomati sulla forma della gamba e aperti posteriormente: erano tenuti fermi alla caviglia e alla gamba con cinghie di cuoio. Tutta l’attrezzatura pesava diversi chili: fino a 35 Kg in base a recenti ricerche di Rudolph Storch della Maryland University. La sola corazza pesava 5-10 Kg, in base ad una stima ragionevole del suo spessore, che non ci è noto per certo. Per confronto un soldato moderno porta 22 Kg in combattimento e 25 Kg quando marcia. A testimonianza della difficoltà di movimento cui andava incontro il

soldato, nel 392 a.C., durante la Guerra del Peloponneso, il generale ateniese Ificrate introdusse la figura del peltasta, soldato armato di un corto giavellotto e di un piccolo scudo, dotato di armatura leggera per renderlo più agile e veloce sul campo. La corazza, in effetti, per tutti i 327 anni che passarono dalla sua introduzione nel 650 a.C. all’epoca di Alessando (323 a.C.), fu opzionale in molti schieramenti greci, principalmente per le suddette questioni di manovrabilità. Oltre alla difficoltà di movimento causata dal peso dell’armatura, l’oplite doveva sopportare altre scomodità: l’elmo era di bronzo, abbastanza aperto anteriormente per lasciare spazio agli occhi, ma spesso dotato di pezzi mobili per proteggere le guance. Alla sommità vi era una cresta per deviare i fendenti e un pennacchio. L’elmo corinzio chiudeva maggiormente la faccia e le guanciere non erano amovibili, similmente a quelle degli elmi dei cavalieri medievali. Lo scudo costituiva poi la protezione principale: conoscere come usare lo scudo per coprire ogni bersaglio, o come atterrare il nemico colpendolo con esso, era una parte fondamentale dell’addestramento.

Figura 13 – armatura da oplite, ricostruzione moderna

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Evidentemente non si prevedeva di poter parare con l’uso del ferro. Lo scudo era rotondo, ma talvolta anche ovale, di 120 cm di diametro. Esso era costituito da molti strati di metallo rivettati insieme e presentava una sporgenza metallica al centro. Al suo interno vi erano due maniglie per la mano sinistra. Gli scudi erano dipinti e, sebbene non esistessero nel mondo greco distintivi e stemmi araldici, essi recavano simboli specifici: gli scudi dei cittadini di Sicione, per esempio, erano marcati con la lettera Σ e quelli degli Ateniesi con la lettera Α. I primi scudi erano più grandi e pesanti ed avevano una sola maniglia interna; a causa del loro notevole peso, per essere spostati da parte a parte, avevano una cinghia che veniva fatta passare attorno al collo del soldato. L’oplite aveva una lancia(13) con manico di legno, lunga 180 cm in tutto. Troppo pesante per essere usata come arma da lancio, serviva più efficacemente come arma da punta. La spada era tenuta di riserva nel caso di rottura della lancia. Non superava i 65 cm di lunghezza, configurandosi come una corta daga bilama più che come una sciabola: essa era usata sia di taglio che di punta per combattere a distanze ravvicinate, che i Greci non amavano e ritenevano troppo pericolose. In effetti, sebbene spendessero molto tempo ad allenarsi, i soldati greci, specie quelli spartani, non erano affatto abili nel maneggio della spada. Si è visto come nella falange non vi fosse spazio per la tecnica o le abilità tattiche personali e questo aveva indubbiamente influito negativamente sulle capacità individuali. L’attrezzatura dell’oplite era composta da: Aspìs (scudo): spesso detto inesattamente hoplon, termine che indica piuttosto “l’uomo in armi”. Corazza: di tela (linothòrax) o corpetto intarsiato a sbalzo, di bronzo. Krànos: elmo completo di cresta e pennacchio di crine di cavallo. Kìton: un tipo di tunica da portare sotto l'armatura e imbottita dentro. Sandali: calzature di cuoio, allacciate fino al ginocchio. Spada: spada di tipo variabile tra kòpis, machàira o xìphos. Lancia: da 180 a 220 cm di lunghezza, con un piccola punta a forma di foglia ed un rinforzo bronzeo di circa 38 cm di lunghezza. Pìlos di lana o di feltro: cappello da portare sotto l'elmo per impedire ferite alla testa nel caso in cui l’elmo fosse stato perforato. Cappello tessalico: cappello da portare nel corso del riposo Himàtion: mantello, rosso scuro o lavorato con patchworks colorati.

Figura 14 - schineri, completano l'armatura precedente, ricostruzione moderna

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Le tecniche di combattimento individuale

La spada era un’arma assolutamente di seconda scelta, sfoderata solo quando la lancia dell’oplite era stata lanciata (doràtismos) o si era rotta nella fase in cui le linee delle falangi opposte si incontravano. Combattere con scudo e lancia richiedeva coraggio, resistenza e capacità di premere contro le linee nemiche. Una volta che le due linee avevano perso l’ordine, le lance erano gettate e venivano sfoderate le spade per il duello corpo a corpo, che assumeva la forma di scontri individuali in condizioni di disordine, quando le due linee compatte di scudi si erano ormai rotte. Nella sua Vita di Timoleonte (XXVIII,1), che descrive la battaglia di Crimiso combattuta nel 341 a.C. contro i Cartaginesi, Plutarco afferma che gli opliti della falange cartaginese combatterono contro i greci siciliani del generale corinzio Timoleonte, finchè nel combattimento giunse il momento di usare le spada e ciò richiese abilità non meno che resistenza. In un altro passaggio della sua Vita di Pirro (VII, 5), Plutarco descrive un duello tra il Re Pirro dell’Epiro e Pantauco, generale di Demetrio Poliorcete, nel 288 a.C. Prima i due avversari lanciarono le loro lance e poi, venendo a contatto ravvicinato, si affrontarono con le spade con coraggio ed abilità. Pirro fu ferito ma riuscì a sua volta a ferire Pantauco al collo, l’unico punto vulnerabile tra elmo e scudo. Paradossalmente, sebbene il combattimento con la spada non era insegnato nell’addestramento, esso richiedeva maggior abilità e allenamento che non quello con lancia e scudo. Per questo sorse una domanda crescente per l’insegnamento privato dell’arte della scherma. Le famiglie con fondi sufficienti spendevano molto per questo genere di istruzione extra: la compattezza della falange era evidentemente tutt’altro che certa e saper maneggiare la spada a stretta misura poteva rappresentare la salvezza dei giovani rampolli. Istruttori, noti con il nome di hoplomàchoi (uomini in armi) sono menzionati per la prima volta nelle fonti letterarie afferenti all’ultimo quarto del V secolo a.C. Di cinque holpomàchoi di questo periodo sappiamo anche il nome: Stesìleos, fratello di Euthydémos e Dionysodòros di Chio, Phàlinos di Stymphàlos (che poi servì come consigliere militare del generale Persiano Tissaferne nella battaglia di Cunaxa del 401 a.C.) e Diòmilos di Andro. Gli oplomàchoi non limitavano la loro opera all’insegnamento dell’arte della scherma; si professavano capaci di insegnare tutte le branche dell’arte militare, inclusa la capacità di comandare su altri uomini. Per questa ragione le fonti sono per lo più ostili alla professione degli olpomàchi. Senofonte, nei suoi Memorabilia (III, 1),descrive come Dionysodòros arrivò in Atene ad

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annunciare che intendeva insegnare l’arte del comando sul campo di battaglia. Le fonti sono dunque molto critiche circa questi personaggi, indicandoli spesso alla stregua di ciarlatani. Tuttavia essi colmavano una vera lacuna nell’addestramento del soldato greco, che fu rimediata ufficialmente solo ad Atene nel 335 a.C. quando la riforma di Licurgo migliorò il sistema di addestramento degli opliti, tra le altre cose, mettendo sotto contratto statale istruttori specialisti nella scherma. Anche Platone, uno dei più severi critici degli olpomàchoi, ammette attraverso le parole che pone in bocca al generale Ateniese Nicia (Lacedemoni 182 A), che questo genere di allenamento è di gran vantaggio quando le fila sono rotte e gli opliti devono combattere uomo a uomo in combattimenti individuali con la spada, o quando devono inseguire un nemico che cerca di sfuggire all’attacco, o, ancora, quando si devono difendere essi stessi nel corso di una ritirata.

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Capitolo 5

Armi e attrezzature L’evoluzione tecnica delle attrezzature schermistiche

Le spade greche dell’età del Bronzo

La daga larga (lunghezza 13.4 cm) rappresenta il tipo maggiormente usato durante il terzo millennio a.C. dagli abitanti delle isole Cicladi, un gruppo delle isole dell’Egeo che ha sviluppato una cultura

distintiva nella prima età del Bronzo. Molte daghe di questo tipo sono state

rinvenute nell’area

cicladica, benchè alcune siano state trovate

anche a Creta e nella Grecia continentale. Presenta una lama lavorata con semplici increspature, che sarebbe stata fissata ad un’impugnatura d’osso o legno attraverso quattro fori ancora visibili. Il largo bordo superiore del manico era originariamente a forma di cuore. La larghezza del manico probabilmente ha impedito il relativo uso come coltello ordinario da taglio, ma come arma da stoccata sarebbe stata abbastanza efficace. La daga più stretta (lunghezza: cm 12,4) proviene da Cipro, dove una civilità differente fiorì nell'età del Bronzo. Data al 2300-1500 a.C. e può essere paragonata facilmente alla daga cicladica. Una differenza

importante è, all'estremità

superiore, la nuova linguetta che è stata inserita nel manico: proprio

Figura 15 - daga cicladica

Figura 16 - daga cipriota, manico ricostruito

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con il grande foro nella linguetta e gli altri due nelle spalle della lama, essa sarebbe stata fissata più saldamente all’elsa. A giudicare dall'acutezza della punta e dalla resistenza della lama con cui erano state progettate, queste daghe popolari erano probabilmente ugualmente utili per i colpi di punta e per quelli di taglio. Le spade o spadini, anch’essi provenienti da Cipro ma di maggior lunghezza (da cm 46,6), datano un poco più tardi (ca. 1550-1400 a.C.). Questo tipo è stato chiamato "a coda di topo", a causa della forma caratteristica della linguetta stretta che doveva presentare la punta ripiegata all’indietro per assicurarla all’elsa. Spade simili erano state prodotte prima della metà del XVI secolo a.C., ma una forma standard è stata sviluppata soltanto al tempo in cui si iniziarono ad usare due stampi per la fusione del metallo nel corso della forgiatura. Gli esemplari di questo tipo sono stati rinvenuti in Anatolia così come a Cipro, ma non erano molto comuni e presto scomparvero. Per concludere, una testa di lancia, proveniente da Cipro (lunghezza: cm 35,2) che doveva certamente appartenere ad una lancia da

stocco, che data circa tra il 1400 e 1150 a.C. Presenta una stretta lama a forma di foglia con un’ampia nervatura rinforzata verso il centro. Il codolo tubolare è stato realizzato battendo il metallo intorno ad un mandrino, in modo da farlo aderire perfettamente all’asta lignea che costituiva il manico. C’è una lunga fessura nel lato del codolo, in modo da permettere il fissaggio. La parte superiore era fissata da

un anello di bronzo, decorato con due piccole creste, appena sotto al quale si vedono due fori nei lati del codolo, che avrebbero contenuto un chiodo passante attraverso il manico. I frammenti di legno rinvenuti all'interno del codolo sono stati riconosciuti provenire da un albero della pianura, forse un Leccio. Lance simili a questa di Cipro sono inoltre in uso nello stesso periodo in tutto l’Egeo.

Le spade lunghe e le sciabole del periodo classico

Il museo di Shefton conserva importanti e rari esemplari di armi usate dall’oplite greco. In figura si osserva una testa di lancia (lunghezza: cm 38). La lancia era solitamente realizzata in ferro, ma il bronzo, che non arrugginisce, era usato per l'estremità che

Figura 17 - testa di lancia, restauro moderno

Figura 18 - testa di lancia, particolare dell’incisione

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avrebbe spesso dovuto essere piantata nella terra. È un’arma da lancio(14) molto pesante, anche se la parte metallica è vuota sin quasi alla punta. Il manico in legno, che non si è conservato, era progettato chiaramente come contrappeso alla testa: se si fosse rotto in battaglia, l'estremità avrebbe potuto, naturalmente, anche servire da arma da stocco, come fosse una spada priva di elsa. La forma costruttiva riflette di fatto un metodo di manifattura primitivo, avendo ancora uno spesso anello di bronzo vicino al centro, necessario per fissare alle rispettive estremità il manico di legno e la testa della lancia in ferro. All'interno di questo esemplare ci sono tracce dei rivetti usati per fissare il manico. Durante un restauro nel 1977 fu scoperta un'iscrizione nera sulla parte superiore, sotto gli strati di corrosione superficiali. Fra due

fasce strette vi sono le lettere Μ Α Κ, che devono certamente essere una forma abbreviata della parola "Mac(edone)". Dallo stile di queste lettere è stata suggerita per l’ intero pezzo una datazione di massima intorno alla fine del IV secolo a.C., in conformità con le caratteristiche generali della manifattura. Le spade greche maggiormente usate nel periodo classico avevano una lama dritta, affilata sui due tagli, forgiata in ferro, con sezione che si allargava verso la punta e con impugnatura cruciforme. I riferimenti alle spade Calcidesi nelle fonti antiche, così come in un frammento del poeta di Lesbo Alceo, suggeriscono che le migliori e più raffinate spade greche fossero prodotte nella città di Calcide, in Eubea. L’Archeologo Anthony Snodgrass, invece, afferma nel suo libro Arms and Armour of the Greeks -che fu pubblicato per la prima volta nel 1967 ma che è ancora il testo di riferimento più dettagliato siull’argomento(15)- che Calcide divenne un eccezionale centro di produzione in Grecia solo per la forgiatura di lame in ferro, come Toledo lo divenne per le lame d’acciaio nell’Europa medievale, ma non per la produzione di spade complete di guardia. Evidentemente le lame venivano acquistate in Eubea per poi essere

Figura 19 - spada greca dritta, ricostruzione

Figura 20 - spada greca diritta

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montate e rifinite dalle committenze locali e dai loro artigiani. La spada con la lama sagomata a forma di foglia poteva essere usata di taglio o di punta, ma è evidente dalle rappresentazioni che era usata principalmente dall’alto verso il basso, di taglio. Abbiamo infatti pochi ma dettagliati indizi sul modo di utilizzarla: primo tra tutti, un interessante vaso conservato nel British Museum, raffigurante un duello tra Achille ed Ettore. Achille, sulla sinistra, continua a combattere con la lancia, ma Ettore ha perso la sua e si appresta a lanciare un violento attacco con la sua spada corta, che è del consueto tipo con il ferro a forma di foglia. Egli ha caricato il braccio con la spada impugnata nella destra e si appresta a correre verso Achille. Nella corsa verso di lui agiterà la spada in avanti ed in alto e poi sopra la propria spalla destra, piegando il gomito e mantenendo il busto e le spalle il più possibile in alto, per sferrare il colpo davanti a sè con la massima forza possibile. E’ interessante notare che il pittore, forse per errore, ha fornito Ettore di una seconda spada tenuta nel fodero. L’allargarsi del ferro, sia in larghezza sia in spessore, fin lungo la punta, che conferisce alle lame

greche la peculiare forma a foglia. fu presumibilmente studiato per spostare il centro di gravità del ferro verso la punta e il più lontano possibile dall’impugnatura, per massimizzare la forza del fendente menato dall’alto vero il basso(16). La maggior maneggevolezza possibile dell’arma doveva essere mirata alla possibilità di sferrare colpi verso il basso ed è per questo che, con il passare del tempo, troviamo che i Greci usavano anche altri due tipi di spade: queste erano curve ed affilate su un solo taglio, disegnate per massimizzare al massimo la forza dei fendenti verticali. Le armi con la lama ricurva erano più rare: tra esse la kòpis, simile alla machàira, ma con la parte del taglio posta sulla parte convessa del ferro, simile alla falcata o al kukri moderno. La machàira invece era una specie di grosso coltello da guerra, affilato su un solo lato e appuntito. Il suo ferro era pesante, curvo e largo abbastanza da farne

Figura 21 - spada greca diritta con fodero, ricostruzione

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l’arma ideale anche per la cavalleria. Anche l’harpé è un tipo di arma greca ricurva, la cui caratteristica è il largo sperone sul lato concavo e tagliente della lama. I Romani l’avrebbero chiamata ensis hamatus o ensis falcatus(17).

Il primo tipo è meglio descritto come sciabola ricurva. Di forma simile ad un gurkha kukri o ad una yataghan [lunga sciabola ricurva dei mussulmani], il dorso della lama era curvato in avanti e il peso

dell’arma

bilanciato verso la punta. Il taglio si trovava dalla parte

concava del ferro; l’elsa terminava in genere a forma di testa di animale, comunemente d’uccello, o assumeva una curvatura all’indietro, terminando a forma di un pugno serrato. Le illustrazioni mostrano che questo genere di arma veniva usata comunemente per sferrare colpi di rovescio, a rientrare -considerando che il taglio si trovava sul lato concavo della lama- o anche montanti dal basso verso l’alto. Un buon esempio dell’uso di questa arma ricurva è raffigurato sul vaso di Bologna che rappresenta un’ Amazzone che brandisce una sciabola ricurva, caricando il braccio all’ indietro verso la propria spalla sinistra: ella sta per sferrare un fendente diagonale alla propria destra, anteriormente. Le sciabole ricurve sono storicamente molto comuni nella penisola iberica, ma tutti i reperti attestati per quest’area sembrano essere posteriori ed è possibile che rappresentino un successivo diffondersi dell’uso di quest’arma verso occidente, al di fuori del mondo greco. I Greci usavano un terzo tipo di spada, precedentemente non distinto dalla sciabola ricurva da parte degli archeologi, che, comparata con la terminologia usata per le armi del medioevo, potremmo denominare falchion (falcata); un’altra denominazione appropriata potrebbe essere pallasch. Anche essa aveva un pesante ferro affilato su un solo lato, il cui dorso era dritto o leggermente concavo, ma non ricurvo come nella sciabola detta sopra, mentre il taglio presentava una pronunciata curva convessa e si allargava molto verso la punta. Come la sciabola ricurva, il falchion entrò in uso verso la fine del VI secolo a.C. Il falchion è raffigurato solo su un numero molto limitato di vasi e la sua popolarità non sembra aver superato il V secolo.

Figura 22 - kòpis con fodero, ricostruzione

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Sciabole ricurve e falchion raffigurate nei vasi fanno sempre parte della dotazione di personaggi con le caratteristiche dei soldati delle truppe achemenidi. Ciò suggerisce che entrambe le armi dovevano avere origini orientali prima che il loro uso si diffondesse in Grecia, forse a causa dei contatti commerciali che i Greci intrattenevano nelle aree ioniche dell’Asia Minore. Tuttavia non esistono esempi completi che attestino che le sciabole ricurve sopravvissero anche in contesti achemenidi. Solo un esempio di una coppia di decorazioni da applicare all’elsa fu rinvenuto negli scavi di Persepoli, nei quartieri un tempo occupati dalla guardia di palazzo: tali applicazioni provengono forse da un falchion piuttosto che da una sciabola ricurva. Evidentemente l’elsa dell’arma cui appartenevano consisteva in un disco centrale di ferro, una sorta di prolungamento della lama, al quale su entrambi i lati era fissato un disco non metallico. Gli esempi dei reperti degli scavi di Persepoli sono costituiti di una pasta blu di materiali compositi, ad imitazione della preziosa pietra del

lapislazzulo. Evidentemente provengono da un esemplare di bassa qualità usato da una delle guardie. Altri esemplari di minor pregio avevano un’elsa decorata probabilmente in osso o in legno. Nella sua Ciropedia (I, 2, 9), Senofonte descrive l’equipaggiamento usato dal soldato di fanteria persiano al primo inizio del IV secolo a.C., composto da arco e faretra, da uno scudo di vimini, due lance e un’ascia da battaglia o da una spada. Senofonte si riferisce evidentemente alla sciabola ricurva o al falchion e usa la parola kòpis (spada) per descriverla. Tale parola letteramente significa mannaia e in molti loca letterari è usata per descrivere il grande coltello del macellaio e, laddove questi coltelli sono raffigurati sui vasi dipinti, essi richiamano la forma del falchion o della sciabola ricurva miltare. Similarmente, la medesima parola kòpis è usata per descrivere i pugnali sacerdotali utilizzati nei sacrifici religiosi e anche in questo caso, laddove ci siano figure di sacerdoti, essi impugnano coltelli che imitano la forma della sciabola ricurva. Di conseguenza possiamo ragionevolmente essere certi che, quando la parola kòpis è usata in un contesto militare, essa è si riferisce alla sciabola ricurva o al falchion. I greci usavano altri due termini per indicare la spada:

Figura 23 - machàira con fodero e coltello da cucina, ricostruzioni

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machàira e xìphos. Nell’ultimo paragrafo del suo manuale sulla cavalleria militare (XII, 11), Senofonte raccomanda che il cavaliere usi una machàira piuttosto che una xìphos, perchè dalla sua postazione elevata sarà capace di sferrare colpi con più forza usando una kòpis piuttosto che una xìphos. Evidentemente in questo brano l’autore usa il termine machàira come sinonimo di kòpis e in contrasto con xìphos. Il nome machàira è dato alla sciabola ricurva o anche al falchion. Euripide, nel suo dramma satiresco Il Ciclope (241 a.C.), usa entrambi i termini come sinonimi. Gli studiosi moderni usano correntemente il termine machàira per descrivere il falchion o la sciabola greca ricurva, ma quest’uso non è propriamente corretto. Nel suo senso originale, nel greco antico, la parola machàira significava infatti coltello e questo nome era attribuito ai coltelli da cucina usati nella vita quotidiana e anche -in forma di diminutivo- per i coltelli del chirurgo; inoltre la parola greca per indicare un fabbricante di coltelli è appunto machairopòios. Per questa ragione non possiamo essere certi che ogni qualvolta la parola machàira sia usata nei testi antichi per descrivere una spada, essa si riferisca al falchion o alla sciabola ricurva. Nei testi degli storici è usata spesso, per esempio, per descrivere la spada lacedemone a lama dritta. Similmente sembra che la parola xìphos sia usata tanto in senso generale, per riferirsi alla spada, quanto in senso specifico, per intendere la spada standard da fendente dei Greci, con la sua caratteristica lama a forma di foglia e l’elsa cruciforme. Tutti questi tipi di spada usati nel primo periodo classico soffrivano di un problema strutturale: la forma delle lame di tutte e tre le tipologie presentava un punto di rottura sul codolo della lama, vicino all’elsa. Con il tempo anche le migliori lame potevano indebolirsi e rompersi; questo certamente accadde durante la fase finale della battaglia delle Termopili nel 480 a.C. Erodoto (VII, 224-5) descrive come 300 Lacedemoni comandati da Leonida combatterono armati solo con le loro spade (machàirai) -quelli che ancora le avevano- quando le loro lance si furono rotte e, poi, quando anche queste si ruppero, continuarono a combattere anche solo con le loro mani nude e con i denti.

La spada corta lacedemone

Spade del tutto differenti apparvero in uso verso la fine del V secolo, ma la loro introduzione è più riconducibile alle nuove tattiche e concezioni della battaglia sviluppate dai Lacedemoni piuttosto che al

miglioramento dei difetti strutturali di quelle in uso fino ad allora. Nessun

Figura 24 - spada corta lacedemone, ricostruzione

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esempio di queste nuove spade più corte, note con il nome di spada corta lacedemone, è sopravvissuto. Tuttavia, un modellino di spada attualmente conservato al British Museum, comprato da un privato a Creta nel 1898 e poi acquisito dal museo, forse era la copia di una di queste, realizzata a scopo votivo: misura 32,3 centimetri ed è costruita soltanto in solido bronzo. Il peso raggiunge i 780 grammi. L’elsa non sembra essere stata forgiata separatamente dalla lama, ma non è immediatamente evidente se sia stata saldata o piuttosto se la spada sia stata forgiata in un sol pezzo: non c’è traccia sul metallo dei consueti segni della saldatura intorno all’elsa, ma sul bordo destro della stessa, appena sopra la guardia, c’è un disco di metallo lisciato, forse nel punto in cui la colata è stata rotta e pareggiata in fase di lavorazione. Nonostante il taglio sia molto rovinato, come si è detto, questo esemplare di spada fu forse forgiato per uno scopo non militare: probabilmente come offerta votiva o come ornamento di una statua, eretta da una delle città di Creta per onorare un re o un generale spartano. Nondimeno, in tutta probabilità, esso riprende la forma della spada corta lacedemone: la lama ha una forma a foglia e risulta piuttosto tarchiata, la base della guardia ha invece una forma ovoidale, mentre il pomolo è circolare e presenta una rifinitura alquanto grezza. Un passaggio letterario che menziona le spade corte lacedemoni è nei Moralia (217 E) di Plutarco, che tramandano una famosa sentenza del generale Antalcida. In risposta ad un uomo che gli chiedeva perchè gli Spartani usassero spade corte, Antalcida si ritiene abbia risposto “perchè combattiamo più vicini al nemico”. Antalcida fu attivo dal 390 fino al 360 a.C.: giocò un ruolo fondamentale nelle campagne militari spartane in Asia Minore, che ebbero termine nel 387 a.C. con la famosa Pace di Antalcida, che egli in prima persona collaborò a negoziare. Molto probabilmente questo passaggio può essere riferito a qualche fatto avvenuto durante questa campagna. Tuttavia è evidente, dalla chiarezza di alcune rappresentazioni pittoriche che confermano l’attendibilità della frase riportata da Plutarco, che la spada corta entrò nell’uso molto prima, forse in qualche momento del secondo quarto del V secolo. Altrove, sempre nei Moralia (232 E), Plutarco attribuisce un’affermazione molto simile a un Lacedemone non meglio identificato, che afferma che gli Spartani possono avvicinarsi al nemico grazie alle proprie spade corte. Non è certo se questi due passaggi tramandino affermazioni originali di due individui distinti tra loro o se la seconda citazione sia una versione abbreviata e distorta della risposta di Antalcida. E’ significativo che, in questi e in altri passaggi, l’uso della spada corta sia evidentemente visto come una pratica tipicamente lacedemone, almeno all’inizio. E’ pure significativo notare che, in entrambi i passaggi, tale tipo di spada corta sia chiamata con il nome encheirìdion (daga), piuttosto che con uno dei termini più usuali per indicare la spada.

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La ragione per il passaggio dalle precedenti spade lunghe a quella più corta è chiarita dagli aneddoti citati: esse permettevano maggior agilità di combattimento sotto misura. Le prime spade greche erano multifunzionali ed erano progettate per l’uso di taglio e di punta in duelli contro un solo nemico, dopo il rompersi delle righe della falange. I Lacedemoni erano superiori nel combattimento ravvicinato rispetto agli altri eserciti oplitici greci, così come erano meglio addestrati a formare falangi dalle fila serratissime e molto strette. Marciando nelle fila della falange, essi avrebbero potuto mantenere il loro ordine per tutta la battaglia, ma se un oplite si vedeva rotta la propria lancia in battaglia non avrebbe avuto lo spazio per portare la spada lunga, il falchion o la sciabola sopra al gomito e caricare il colpo: esse erano troppo lunghe per essere usate facilmente per portare colpi da distanze molto ravvicinate(18). Ma questo era esattamente ciò per cui erano disegnate le spade corte, che venivano meglio impiegate di punta. L’oplite lacedemone poteva colpire il tronco del suo nemico o il fianco, sia girando attorno all’avversario per trovare una posizione favorevole, sia usando il proprio scudo per farsi strada attraverso il muro di scudi della falange nemica. Quando fosse riuscito ad aprirsi un varco, non gli sarebbe stato difficile cavarsela nella mischia. Gli Spartani ed i loro imitatori usavano le spade corte in ripetuti colpi portati di punta: il loro modo di combattere può essere comparato con il modo in cui i legionari romani usavano le loro daghe spagnole con grande efficacia. Una spada corta di questo tipo, sebbene un poco più piccola nelle dimensioni di quanto doveva essere in realtà, è mostrata in una scultura conservata al Metropolitan Museum of Art di New York nell’atto di essere usata: la scultura in marmo pentelico proviene dagli scavi del monte Pentelikon, in Attica. Sappiamo che il marmo attico era esportato per essere usato nei laboratori degli scultori dei paesi limitrofi, sebbene sulla base del confronto stilistico si ritiene che questa stele possa essere attribuita di certo ad un atelliér attico. Tuttavia, è ragionevole presumere che la stele fosse stata originariamente commissionata come una stele funebre dalla famiglia di un soldato ateniese morto in battaglia, forse durante le guerre del Peloponneso, essendo stato possibile datare la scultura al tardo V secolo in base alle peculiarità stilistiche ed epigrafiche. La stele, rotta nella parte superiore, mostra il defunto nelle vesti di un oplite ateniese trionfante, in procinto di sferrare un colpo fatale ad un soldato nemico riverso ai suoi piedi, con un colpo di lancia verso il basso. Presumibilmente la stele simbolizza la vittoria ottenuta pur nella morte: sembra infatti che il soldato a terra sia a sua volta in procinto di sferrare il colpo che uccise l’ateniese, una puntata dal basso verso l’alto, menata con la sua spada corta(19). La scultura dimostra chiaramente il modo in cui queste spade erano usate per sferrare stoccate a stretta misura. L’oplite caduto a terra, sebbene ferito, riesce a difendersi con l’uso della sola spada: egli indossa un elmo di

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Pilo, e potrebbe essere identificato come spartano, anche se non porta i consueti lunghi riccioli e la barba che, nelle raffigurazioni, caratterizzavano in genere i soldati spartani. Comunque potrebbe essere un mercenario dei Lacedemoni od un oplite arruolato tra gli Iloti spartani o tra i servi; dunque la pertinenza ad un contesto spartano non è in discussione. Va detto comunque che l’uso della spada corta si diffuse anche in altri eserciti greci, sebbene al di fuori di quello lacedemone non rimpiazzò mai completamente l’uso delle più tradizionali spade greche lunghe. Gli Spartani erano certo all’avanguardia per quanto concerne le tecnologie militari e le innovazioni introdotte nell’uso della spada dovevano far parte di un complesso generale di progressi nell’arte della scherma, che coinvolgeva senza dubbio anche capacità tattiche e strategiche nell’affrontare l’avversario individualmente. L’esercito lacedemone era il meglio organizzato tra quelli Greci e l’equipaggiamento di cui faceva uso era più uniforme di quello degli eserciti di altre poléis. Esiste anche qualche testimonianza circa l’intervento statale nella dotazione dell’equipaggiamento militare: in altre città-stato sembra che le tipologie di armi portate dai cittadini-soldati potessero variare nell’ambito di una gamma piuttosto ampia, in base alle preferenze personali, pur entro le linee guida che nella legislazione statale indicavano quali armi i cittadini dovessero portare in qualità di opliti. In altri eserciti, il tipo di spada portata dagli opliti poteva quindi variare entro una significativa percentuale di tipologie diverse. Non di meno in alcune aree, e il processo si riconosce chiaramente in Beozia, la spada corta sembra essere entrata nell’uso comune nel primo quarto del IV secolo a.C. Un consistente numero di rappresentazioni di opliti della Beozia ce li mostra nella posizione di guardia, corpo proteso, il busto eretto, con la gamba sinistra in avanti, che spingono innnanzi lo scudo per far perdere l’equilibrio al nemico, mentre la mano destra è bilanciata all’indietro per sferrare una puntata mortale con la spada corta di tipo lacedemone. I Lacedemoni continuarono ad usare le loro spade corte e le stesse tecniche schermistiche, influenzando anche gli altri eserciti greci, fino all’età di Filippo e Alessandro il Macedone, momento dal quale non furono più in uso, soppiantate da un modo di combattere completamente diverso. Plutarco, nella sua Vita di Licurgo (XIX, 2), riporta un altro aneddoto interessante: quando un ateniese si fece burla della spada lacedemone (machàira) per l’essere tanto corta che i giocolieri sul palcoscenico potevano facilmente inghiottirla, un certo re Agide gli rispose “E anche così continueremo a raggiungere i nostri nemici con queste spade (encheirìdia)”. Qui Plutarco mette la parola machàira, spesso usata, come abbiamo visto, per indicare la sciabola, in bocca all’ateniese e quella encheirìdion in bocca allo spartano Agide. Un passaggio parallello nei Moralia di Plutarco (191 E) identifica il monarca in questione con Agide III -che regnò dal 338

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al 331 a.C.- e l’ateniese con l’oratore e politico Demade. Qui la parola xìphos, il termine comune per i Greci per indicare la spada, è usata per indicare la spada corta spartana, come in un secondo passaggio dei Moralia (241 F), dove, secondo Plutarco, una madre lacedemone avrebbe risposto a suo figlio, quando questi si lamentava che la sua spada era troppo corta, che “avrebbe dovuto aggiungerle un passo avanti in più”. Il modo in cui la parola encheirìdion, machàira e xìphos sono intercambiabili in questi passaggi, relativamente alla spada corta lacedemone -pur ammettendo qualche inaccuratezza nella trasmissione dalla fonte originale alla mano di Plutarco- dimostra come i diversi termini del greco antico per indicare la spada siano usati in modo alquanto irregolare. Tuttavia, come abbiamo visto, le pitture vascolari, le sculture e altri ritrovamenti archeologici chiariscono le differenze tra i tre tipi di spada e aggiungono maggior luce sulla evoluzione della spada corta, maggiormente usata, nella xìphos lacedemone.

Evoluzione dell’elmo greco in epoca classica

La tendenza all’uso di attrezzature sempre più leggere si coglie facilmente nell’evoluzione degli elmi greci di epoca classica. I primi comparvero all’inizio del tardo settimo secolo a.C. ed erano di un tipo denominato “di Corinto”, dal nome della città in cui erano probabilmente stati sviluppati un secolo prima. Un livello elevato di abilità tecnologica era richiesto per modellare questo tipo di elmo, realizzato a partire da un singolo foglio di metallo pesante. Inoltre, recentemente, si è dimostrato che il fabbricante d’armi greco sapeva variare il grado di durezza del suo metallo per soddisfare esigenze particolari. Per gli elmi di questo tipo, lo spessore del metallo era tale da poter resistere ad un colpo senza creparsi. Il rivestimento interno contribuiva ad assorbire l'effetto dei fendenti. L’elmo corinzio era perfettamente aderente, essendo modellato attorno al cranio con estrema precisione e presentava soltanto piccole aperture, lasciate per gli occhi, le narici e la bocca. Deve aver rappresentato una vista terrificante per il nemico. Questi elmi spesso erano adornati con una cresta e un lungo pennacchio di crine di cavallo, ma non sembra essercene traccia su alcuni

Figura 26 - elmo corinzio, museo di Shefton

Figura 28 - particolare della decorazione dell'elmo precedente

Figura 25 - elmo corinzio, museo di Shefton

Figura 27 - elmo corinzio con pennacchio, ricostruzione

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esemplari, almeno a giudicare dalla mancanza della saldatura usata per fissarli. Intorno al bordo inferiore fu lavorato un semplice ma artisticamente pregevole motivo di linguette e spirali. Gli elmi corinzi, particolarmente quelli del primo periodo, avranno limitato la vista e l’udito di chi l’indossava(20), ma poi, venendo ulteriormente sviluppati, questi

svantaggi furono eliminati. L’elmo corinzio “del gruppo di Myros” è così perfetto dal punto di vista funzionale da rappresentare uno dei successi supremi dell'arte degli armieri greci, sia dal punto di vista estetico sia sotto il profilo funzionale. Questo elmo, probabilmente, proviene da un santuario: infatti i copri guancia erano stati ripiegati esternamente per rendere l’elmo inoffensivo prima di dedicarlo nel recinto sacro. Sul copri guancia di destra

vi è il segno del restauro e la guanciera di sinistra è una reintegrazione aggiunta in tempi moderni. Inoltre vi è un grande foro per

alloggiare un chiodo, vicino al bordo posteriore, attraverso cui questo esemplare sarebbe stato fissato ad un albero, forse per l’esposizione pubblica o per qualche rito che ci è ignoto. Il secondo elmo comunemente usato era il tipo illirico(21) , derivato da un altro tipo tradizionale e costituito originariamente di parecchie sezioni rivettate insieme. Questo esemplare data non prima del tardo VI secolo a.C., periodo in cui il metodo della fabbricazione era stato assimilato a quello degli elmi corinzi ed è per tale motivo che questi elmi risultavano già essere forgiati in un unico pezzo. Come caratteristica peculiare del tipo illirico, si individuano due creste rilevate -ricavate a sbalzo nel metallo e che corrono lungo la parte superiore- destinate a deviare i colpi dalla giuntura verso il centro, nel punto in cui, almeno negli esempi iniziali di questo tipo, le giunture di destra e di sinistra dell’elmo si riunivano. Anche le tre linee leggermente incise fra le due creste seguono le linee guida lungo cui questa giuntura si univa originariamente: esse sono state mantenute come componente dell'apparenza tradizionale dell’elmo, anche dopo che cessarono di avere uno scopo, parte forse di una sorta di esattezza magica necessaria a soddisfare i clienti, specialmente quelli esterni al mondo greco. La cresta si poneva fra queste tre linee, fissata ad un perno nella parte anteriore e ad un occhiello metallico nella parte posteriore. Entrambi mancano da questo esemplare, benchè il foro per la giunzione possa essere visto sulla fronte dell’elmo. Il tipo illirico probabilmente è originario del Peloponneso, ma, dopo che cessò di essere comunemente usato, divenne popolare fra i capi guerrieri al nord, oltre i confini greci, tra la moderna

Figura 30 - elmo illirico, museo di Shefton

Figura 29 - elmo corinzio, ricostruzione di archeologia sperimentale

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Albania e la ex-Jugoslavia, cioè nell’antica Illiria (da cui il relativo nome convenzionale), ma anche in Bulgaria ed in Romania. Furono certamente importati da queste parti dalle maestranze greche nel corso di scambi commerciali. L’esemplare di elmo in figura si ritiene - abbastanza plausibilmente- essere stato rinvenuto nella regione di Tessalonica, quando le forze armate inglesi vi scavarono trincee durante la prima guerra mondiale. Come il corinzio, l’elmo illirco era molto aderente e garantiva una buona copertura alla fronte ed alle guance. Tuttavia, il collo di chi lo indossava rimaneva troppo esposto, benchè questo inconveniente sia stato spesso risolto aggiungendo una parte speciale che formava una sorta di gorgiera di metallo. Non vi era alcuna protezione per il naso ed inoltre l’elmo era eccessivamente pesante a causa della robustezza delle sue spesse pareti. Il bordo inferiore era decorato ancora semplicemente con un motivo di creste e di puntini. Una cinghia di cuoio probabilmente attraversava i fori nelle guanciere per fissare l’elmo sotto il mento. L'ultimo elmo più comunemente usato era il tipo calcidico, che data al primo V secolo a.C.: esso era notevolmente più sottile e leggero dei due precedenti. Molti esemplari di questo tipo non erano di fabbricazione greca, ma venivano realizzati in Italia del Sud da artigiani locali, certamente sotto l’influenza di modelli greci. Il termine "calcidico" è convenzionale e deriva dal fatto che, in un recente passato, si riteneva che questi elmi provenissero dalla città greca di Calcide, in Eubea. Questa tipologia di elmi presenta una protezione per il naso, ornata e decorata, ed una protezione per il collo molto aggettante. Purtroppo nei pochi esemplari conservati, laddove un tempo le due guanciere mobili erano fissate, rimangono soltanto le cerniere. Queste possono aver assunto la forma di teste d’ariete lavorate a sbalzo, simili a quelle che sono incise sopra gli orecchi alle estremità del doppio pattern lavorato. Le estremità inferiori, durante l’azione, erano probabilmente tenute insieme tramite una cinghia che passava sotto il mento. Questi elmi erano decorati artisticamente con motivi floreali e serpenti marini intorno alla parte superiore e alle sopraciglia, al di sopra dei fori per gli occhi. I fori lungo il bordo erano usati per cucire un rivestimento di cuoio; comunque alcuni di quelli più grandi avrebbero potuto anche contribuire ad assicurare le guanciere una volta sollevate. I segni della saldatura sulla parte superiore, in molti esemplari conservati, forniscono la prova della presenza di una cresta. Si è già detto che l’elmo corinzio sembra permettere la buona visione laterale una volta indossato, mentre l'indossatore del casco illirico doveva sentirsi piuttosto come un cavallo che entra in battaglia coperto dal paraocchi. Soltanto il casco calcidico aveva una grande apertura intorno all'orecchio, ma quello illirico, con la sua fessura, e il corinzio con le sue tacche e la sue curvature verso l’esterno all’altezza dell’orecchio, mostrano un certo tentativo del progettista di

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permettere all'indossatore di sentire più facilmente. Tuttavia, qualunque soldato che portasse un elmo bronzeo riempito, specie in un clima caldo, era certamente stato addestrato per soffrire un disagio considerevole, sebbene le guanciere mobili ed il peso più leggero dell’elmo calcidico dovessero rendergli la vita più facile.

A giudicare dalle rappresentazioni figurative, un tipo di elmo leggero, chiamato pìlos, era indossato nel corso degli spostamenti delle truppe e durante i turni di guardia nell’accampamento. Alcuni studiosi negano che fosse in bronzo, assimilandolo al cappello in cuoio che alcune classi sociali dei Greci portavano nella vita quotidiana, detto appunto pìlos. Vi è però ragione di credere, indipendentemente dal nome che gli si voglia attribuire, che un elmo a forma di cono, più leggero ma pur sempre in bronzo, doveva effettivamente far parte della dotazione dell’oplite, almeno a Sparta.

Evoluzione dell’armatura in epoca classica

Inizialmente i Greci fabbricavano molte parti delle loro armature in bronzo pesante, per proteggere meglio il corpo. Gradualmente, tuttavia, poichè si realizzò che la capacità di muoversi rapidamente era importante almeno quanto la protezione totale, furono impiegati metalli più sottili e leggeri(22) ed il numero minimo di parti che

componevano l’armatura è stato diminuito. L'armatura di bronzo generalmente era imbottita di tela o cuoio per comodità e protezione supplementare. Così come l’elmo, un oplite portava infatti anche una corazza di bronzo o di tela per proteggere la cassa toracica e la schiena. Gli

esemplari in figura sono una piastra anteriore di bronzo e una piastra posteriore: non

provengono dalla Grecia continentale, ma sono rari reperti dell’Italia del Sud, risalenti al V secolo a.C. E’ immediatamente evidente che le due piastre sono molto piccole (altezza 40 centimetri), destinate a proteggere la

Figura 32 - corazza, piastre anteriore e posteriore

Figura 33- corazza lavorata a sbalzo

Figura 31 - possibile ricostruzine di pilos bronzeo

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parte centrale del tronco soltanto. Tuttavia, l’armiere italiota fu sufficientemente influenzato dall'idea greca di una corazza bronzea modellata sulla forma della cassa toracica e della schiena, con sbalzati anche i particolari anatomici, muscoli dorsali e pettorali , l'ombelico, ecc. Queste piastre erano completate da protezioni per il fianco e per la spalla, che non sono sopravvissute. Rimangono, tuttavia, tracce delle cerniere e degli attacchi di ferro che le fissavano insieme. Vi era già una lunga tradizione in Italia centrale e del sud nella costruzione di piccoli dischi di metallo, fissati ad una protezione di cuoio, per proteggere il centro della cassa toracica; così, queste due piastre mostrano caratteristiche adottate nella fabbricazione di corazze sia dai tipi greci sia da quelli del sud dell’Italia.

Secondo alcuni studiosi, spesso era utilizzata anche una corazza in lino, chiamata linothorax, il cui pregio principale sarebbe evidentemente stato il peso assai contenuto. Tuttavia questo genere di corazza risultava meno protettivo rispetto a quelle metalliche, e questa fu la ragione per cui non ebbe mai un grande successo tra le truppe greche. Tuttavia è incerto se la funzione di questo corpettto in lino fosse effettivamente quello di sostituire una corazza o piuttosto rappresentasse un’ulteriore protezione da indossare sotto ad essa, come sembra invece più plausibile.

Un altro pezzo che completa l'armatura greca sono gli schinieri: quella in figura è una coppia di schinieri di

bronzo, probabilmente dell’inizio del V secolo a.C. Sono stati modellati con attenzione per adattarsi alla forma della gamba e dovevano servire come protezione a partire dalla parte superiore del piede fin sopra al ginocchio. Il relativo proprietario -in base alle ipotesi ricavabili dall’analisi antropometrica a partire dalla presunta lunghezza della tibia- doveva essere alto non più di 1 metro e 65 cm. I fori intorno ai bordi erano usati per fissare il rivestimento interno di cuoio o forse anche per qualche forma di legatura per il fissaggio alla gamba; sembra però più probabile che non vi fosse alcun espediente per fissare gli schinieri, poichè il bronzo doveva essere abbastanza flessibile per essere fatto ruotare attorno alla gamba e poi incurvato fino a fissarlo ad essa.

Figura 34 -linothòrax, ricostruzione moderna

Figura 35 - schinieri, museo di Shefton

Figura 36 - schiniere

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Capitolo 6

I fondamentali della scherma Ricostruzione delle tecniche schermistiche

Il contributo delle arti figurative

Oltre ai reperti di armi e armature che gli scavi archeologici hanno riportato alla luce, vi sono anche molte testimonianze nell’arte figurativa che mostrano guerrieri in lotta: in particolare vi sono molti vasi ateniesi sui quali le rappresentazioni di opliti ci forniscono ulteriori particolari circa l’attrezzatura e il modo di usarla. Questi vasi dipinti sono tuttavia anche una fonte importante per lo studio delle tecniche e delle tattiche schermistiche utilizzate, proprio perché nelle loro sequenze pittoriche ci mostrano le armi nell’atto di essere usate. Gli artisti del periodo classico erano ancora fortemente influenzati dall’ideale della guerra eroica dei poemi epici, in cui i diversi campioni degli eserciti contrapposti venivano a contatto per combattere duelli individuali. Ciò è confermato dalla scena di battaglia, composta con molta cura e dovizia di particolari, intorno ad un dìnos, una piccola ciotola per

mescolare vino ed acqua, da un artista ateniese, il pittore di Altamura, circa nel 450 a.C. La scena rappresenta un arciere che impugna un arco scita, sulla destra, e un oplite, a sinistra, che porta una sorta di gonna di cuoio, fissata allo

scudo, per proteggere le gambe dalle frecce. Sulla sinistra si intravede un carro

Figura 37 – dìnos a figure rosse, museo di Shefton

Figura 38 - dìnos, particolare

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da combattimento, condotto da due guerrieri, che avanza a gran velocità – si noti la posizione del carro nell’urto contro un nemico che sta cadendo: la scena intera si svolge con forza e movimento, il che indica che l’artista deve aver improntato al massimo realismo anche i dettagli relativi all’uso delle armi. Sulla destra, gli opliti sono organizzati in un gruppo di quattro e combattono due diversi duelli individuali. Questa tipologia di schieramento delle unità ed il carro ambientano chiaramente la scena nel passato del mito eroico(23) e non del periodo della falange del V secolo a.C. L'attrezzatura rappresentata include gli elmi sia del tipo tracico sia del tipo calcidico. L’elmo della Tracia, con il suo pennacchio e un ampio

grado di visibilità, era popolare soprattutto tra i cavalieri. Le corazze erano del tipo di tela e cuoio, cui a volte venivano aggiunte inserzioni di bronzo. Queste corazze erano flessibili e molto più confortevoli di quelle realizzate interamente in bronzo in epoca classica. Gli scudi rotondi degli opliti appaiono di legno, riempiti di cuoio e ricoperti di bronzo; come sappiamo, la loro caratteristica di distinzione era il doppio sistema di presa all’interno; il braccio di sinistra era infilato in una fascia al centro dello scudo, distogliendo così il peso dal polso della mano sinistra che reggeva, invece, una seconda cinghia fissata all'orlo. I guerrieri raffigurati stanno utilizzando lunghe lance da

stocco e corte spade.. Alcune di queste sono del tipo diritto da puntata, altre sono curvate ed erano usate per colpi di taglio portati con forza sopra alla testa del nemico. Questa immagine intorno al dìnos è peculiare per il modo in cui è costruita la scena di battaglia: il punto di partenza della sequenza può essere visto laddove due figure, un oplite e un arciere, stanno in piedi, schiena contro schiena. Per osservare la battaglia nell'ordine corretto, si deve girare il dìnos in senso orario. La stessa attrezzatura dell’oplite può essere osservata su un vaso molto più recente, un collo di anfora ateniese dipinto a figure nere, collocabile appena prima della metà del VI secolo a.C., di cui un

Figura 40 - dinos, particolare

Figura 39 - dìnos, particolare

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dettaglio illustra un soldato Lapite, barbuto, che conficca in profondità la punta della sua lancia nel petto di un Centauro, il quale cerca riparo dietro ad una

roccia. Quella dei Lapiti era una tribù leggendaria, che si supponeva vivere ai margini settentrionali del mondo greco, come del resto leggendarie erano le figure dei Centauri. Il Lapite porta un elmo del tipo corinzio, con un'alta cresta che si erge sopra una montatura lavorata, indossa una corazza bronzea, sopra una corta tunica rossa e schinieri del medesimo colore; il bordo inciso su questi

ultimi, probabilmente, rappresenta il rivestimento interno in cuoio. La sua spada

corta si proietta all’indietro, pendendo dalla cinta che gli attraversa il busto e, retta dal suo braccio di sinistra disteso, vediamo la parte interna dello scudo con la relativa doppia-presa.

Un’anfora del tipo di Nola, databile all’incirca al 440 a.C., fornisce ulteriori particolari sull’attrezzatura dell’oplite. Questa volta l'artista, che gli studiosi hanno chiamato “pittore di Achille”, non ha scelto di rappresentare la violenza del campo di battaglia degli eroi, ma la quiete della casa contemporanea, dove un giovane oplite si appresta a lasciare la moglie per affrontare una battaglia od una qualche campagna militare. Un'attrezzatura da oplite si intravvede negli ambienti della casa. L’oplite già impugna la sua lancia, lunga circa due metri e la donna sta per dargli nelle

mani l’elmo di tipo tracico e lo scudo, il quale reca a sbalzo l’immagine di Pegaso, il mitico cavallo alato.

Su un altro vaso decorato a figure rosse, una piccola boccetta per l’olio (àskos, diametro: 7,2 cm) risalente all’inizio del V secolo a.C., sono raffigurati due elmi, uno del tipo corinzio (a sinistra), di una forma tarda, ed uno del tipo attico, con protezione per il naso, a

Figura 41 – anfora, museo di Shefton

Figura 42 - anfora, particolare

Figura 43 - àskos, museo di Shefton

Figura 44 - àskos, particolari

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destra. Sull'altro lato del vaso, che non è stato rinvenuto, probabilmente ne erano dipinti altri due. Per concludere, osserviamo in figura un frammento molto fine di un loutrophòros da battaglia, un vaso di forma speciale usato tipicamente nel corso dei funerali di coloro che erano caduti sul

campo di battaglia. Fu dipinto nel 430 a.C. circa, da un artista di cui lo stile è vicino a quello del pittore di Cleofone. Mostra la testa e le spalle di un guerriero, sofficemente avvolto in un tunica colorata: porta una lancia ed uno scudo ed indossa un tipo tardo di elmo, denominato pìlos, che potrebbe essere semplicemente un morbido cappello, di feltro o di cuoio; ma sappiamo che, entro il IV secolo, una foggia simile era usata anche per gli elmi di bronzo. La vernice bianca usata per raffigurarlo su questo vaso suggerisce proprio questa ipotesi. Alla destra vi è parte di un nastro rosso, che può aver

rappresentato qualche forma di ornamento della tomba. L’utilità delle arti figurative nello studio delle tecniche schermistiche antiche deriva essenzialmente dal fatto che, proprio grazie alle rappresentazioni pittoriche e scultoree, ci è possibile vedere “all’opera” i soldati delle diverse epoche e le loro armi, osservandone la posizione di guardia e il modo di portare i colpi. Nella metopa di Delfi in figura, ad esempio, nonostante le lacune, possiamo intuire

Figura 45 - loutrophòros, museo di Shefton

Figura 46 - Tesoro degli A teniesi di Delfi. Metopa nord, Eracle e Cileno, Museo di Delfi

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che il soldato sulla destra stia per sferrare un colpo dall’alto verso il basso, forse usando una spada corta. Non si può infatti trattare che di questo genere di arma, visto che una lancia sarebbe stata troppo lunga per essere usata alla distanza raffigurata e, inoltre, non sarebbe potuta essere contenuta nella cornice superiore del fregio. L’angolo che si forma tra le gambe, poi, ci fa pensare sicuramente ad una posizione del bacino piuttosto avanzata, con il busto che si protende in avanti e la gamba posteriore che si distende, come in una sorta di affondo, per conferire tutta la forza possibile al colpo che, evidentemente, doveva essere una puntata al petto, dall’alto verso il basso, con il pugno di prima -un tipo di colpo che ebbe un certo successo anche nel Rinascimento- e questo esclude anche l’utilizzo di una sciabola ricurva. Del resto, se il colpo fosse stato una sciabolata alla testa non si spiegherebbe perché il soldato alla sinistra tenti di evitarlo, sottraendo il bersaglio, con lo spostamento del busto all’indietro. Per parare un colpo di taglio, infatti, avrebbe rischiato di meno alzando lo scudo sopra la testa.

Figura 47 - Pittore di Nettos, Anfora. Particolare del collo, Eracle e Nesso, Museo Nazionale di Atene

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Nell’anfora del pittore di Nettos, osserviamo come Eracle colpisca un Centauro con una daga cicladica, di punta, caricando il colpo con il braccio. Le gambe e le braccia vengono usate come vere e proprie armi: la mano sinistra afferra la testa del centauro, mentre la gamba spinge sul suo petto. Si trattava evidentemente di una presa atta ad immobilizzare l’avversario. Il pittore -detto “di Cleofrade”- dipinge una tecnica simile. Aiace afferra la testa di Cassandra con la mano sinistra, prima di sferrarle una puntata al petto, con la sua spada lunga. In questo caso Aiace è in perfetta posizione di guardia, peso distribuito sulle due gambe, la sinistra avanzata, i piedi sulla direttrice.

Figura 48 - Pittore di Cleofrade, Idria. Aiace e Cassandra, Museo Nazionale di Napoli

Figura 49 - Pittore del gruppo di Leagro, Idria. Contesa di eroi, British Museum

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Il pittore di Leagro ci mostra invece una scena di combattimento piuttosto confusa. Al centro, un guerriero, trattenuto ai fianchi da un nemico, sta per scagliarsi contro l’avversario che si trova di fronte a lui, sferrandogli un colpo con la spada che impugna nella mano destra, mentre ha già colpito un altro avversario con la spada che tiene nella sinistra. Si tratta, nel primo caso, di una puntata al petto, caricando il braccio all’indietro come sappiamo esser stata consuetudine. Il colpo tirato di mancino, invece, è dall’alto verso il basso: non c’è rotazione del pugno, il guerriero impugna l’arma come fosse un pugnale, ma direttamente dalla base della lama. Non è plausibile che tale tecnica fosse realmente d’uso comune, salvo voler ipotizzare che l’eroe in questione si sia trovato in difficoltà in mezzo alla mischia e abbia provveduto come meglio poteva. In realtà è più facile ipotizzare una difficoltà compositiva da parte del pittore: in epoca arcaica l’arte ancora non riusciva a raffigurare correttamente tutti i dettagli anatomici, e dipingere un pugno ruotato in prima posizione non doveva essere certo facile. Quello a cui mira il pittore, in questo caso, è trasmettere il senso della scena, più che i dettagli.

Nella Tazza del pittore Epitteto, è raffigurato uno dei pochi casi di mancinismo: Teseo è in una posizione di mezzo tra guardia e affondo, con la gamba destra avanzata, il busto proteso ma il peso ancora equilibrato. Egli impugna una lunga spada con la mano sinistra. Particolare interessante è il ferro, quasi nascosto dietro alla gamba sinistra, come a voler confondere l’avversario circa il lato sul quale difendersi.

Figura 50- Epitteto, Tazza. Teseo e il Minotauro, British Museum

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Figura 51 – Armodio e Aristogitone, Museo Nazionale di Atene

Figura 52 - Pittore di Niobidi, Cratere. Particolare, combattimento tra un Greco ed un'amazzone, Museo Nazionale di Atene

Figura 53 - Sarcofago dipinto da Tarquinia. Combattimento. Museo di Firenze

Figura 54 - Mosaico da Pella

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Nella pagina precedente si possono osservare quattro casi di uso della sciabola ricurva. Il braccio è sempre caricato all’indietro, prima di sferrare una sciabolata alla testa (fig 51 e fig. 54) o una sciabolata orizzontale o diagonale al bersaglio esterno - evidentemente dopo aver ruotato il polso in quarta posizione, come dimostrano le figure 52 e 53 nelle quali gli avversari si difendono opponendo il loro scudo alla propria sinistra, all’altezza del busto e cercano di evitare proprio un colpo che proviene da quella parte. Nella figura 52, poi, è evidente la rotazione del polso del guerriero. Confrontando le immagini che ci mostrano l’uso delle armi ricurve, machàirai o kòpidoi che siano, con quelle che ci fanno vedere guerrieri che usano spade dritte, possiamo trarre una importante conclusione circa la posizione di guardia. Infatti si può notare che la guardia destra, cioè con la gamba corrispondente al braccio armato, è associata proprio all’uso dell’arma ricurva, mentre la guardia inversa, cioè con la gamba opposta al braccio armato portata in posizione anteriore, è sempre associata all’uso dell’arma a ferro dritto. Volendo trarre una conclusione di carattere generale, potremmo anche affermare che i Greci ritenevano che la guardia più adatta per i colpi di taglio fosse quella con la gamba destra in avanti, mentre preferivano ruotare il busto e mettere avanti la sinistra per sferrare colpi di punta: sappiamo infatti che le spade dritte erano prevalentemente usate di punta, mentre le sciabole ricurve quasi esclusivamente di taglio. La posizione di guardia con la sinistra avanzata -che abbiamo detto essere usata per le puntate- permetteva infatti di caricare meglio il colpo, con una rotazione del bacino. Per confronto con le epoche successive, possiamo ritenere che il colpo terminasse con un affondo mediante lo spostamento della gamba destra in avanti e la rotazione inversa del bacino.

Nelle figure che seguono, tutte risalenti al IV-III secolo a.C., osserviamo due casi di combattimento molto ravvicinato, a misura più stretta che l’usuale: potremmo definirla misura di corpo a corpo. Rispetto alle figure precedenti, di epoca classica, ed in particolare alla numero 48, dove la misura adottata sembra persino troppo lunga se non addirittura sbagliata, abbiamo qui la conferma che in epoca ellenistica la misura di combattimento si era fatta più ravvicinata. L’uso della spada corta lacedemone aveva ormai una tradizione di almeno un secolo e le tecniche di combattimento erano certamente mutate anche in ragione di questa innovazione. Nella figura 55, colmando le lacune, possiamo vedere un soldato che, caduto sferra una puntata al petto dal basso verso l’alto, dopo essersi abbassato in una sorta di passata sotto a misura molto stretta. Non si tratta di una semplice caduta, giacchè questa sarebbe avvenuta più facilmente all’indietro, mentre il corpo di chi cercava di evitare un colpo si sbilanciava per sottrarre il bersaglio. Qui, invece, il soldato è in una posizione che ci fa più pensare ad una scelta volontaria di abbassarsi

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per uscire in tempo, piuttosto che ad una caduta: vediamo infatti le sue gambe ancora piene di forza e il piede destro appoggiarsi a terra con decisione.

Figura 55 - Mausoleo di Alicarnasso. Combattimento, British Museum

Figura 56 - Grande Altare di Pergamo. Particolare, gigantomachia, British Museum

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Nella figura 56, un cerchio rosso evidenzia come il braccio del soldato, che doveva impugnare una spada corta, sia ancora molto arretrato al momento in cui compie il suo affondo: la gamba destra è infatti avanzata, a differenza, come abbiamo visto, della posizione di guardia e la sinistra completamente distesa. Il fatto che il braccio armato sia ancora più indietro rispetto al busto, ci fa pensare che l’avversario doveva essere ancora piuttosto vicino. In effetti potrebbe trattarsi anche diun secondo colpo, tirato dopo una parata del nemico, facilmente effettuata con lo scudo. E’ un’ipotesi tanto più suggestiva, quanto più ci sarebbe facile concepire il passaggio dal colpo parato al colpo portato come finta per ingannare l’avversario, magari anticipando le gambe in un falso affondo per mandarlo a coprire un bersaglio e colpirne poi uno diverso. Si tratta però, almeno in questo caso, di un’ipotesi che non trova riscontri di certezza: le arti figurative, per quanto utili, si limitano ad immortalare un momento dl combattimento, in genere quello che precede la morte, poiché la cultura greca non amava la rappresentazione del sangue. Non ci sono quindi le testimonianze -che ci sarebbero tanto utili- di colpi nell’atto di raggiungere il bersaglio ed ogni ipotesi in merito non può essere suffragata scientificamente. Tuttavia la ricerca sperimentale, si è visto, è in grado oggi di colmare almeno una parte di queste lacune informative, permettendoci di raggiungere un certo livello della conoscenza delle tecniche della scherma antica. Quando poi il caso ci permette, quasi fortuitamente, di incrociare i dati delle fonti figurate con quelli ottenibili dalle fonti letterarie, il nostro livello di conoscenza aumenta ulteriormente.

Ricostruzione letteraria di un duello ellenistico

Luciano di Samosata (circa 120-190 D.C.), nato a Samosta sull’Eufrate, fu un attento osservatore del periodo in cui visse. Viaggiò in Italia e conobbe Atene e l’Egitto. In un suo passaggio letterario, inedito nella letteratura schermistica italiana, egli ci rende indirettamente conto delle tecniche e delle tattiche del maneggio della spada nell’antichità classica, dimostrando anche che tali sistemi, già all’origine, non erano inferiori a quelli rinascimentali che comunemente riteniamo più evoluti. Nonostante le nostre scarse conoscenze in merito alle tecniche di combattimento del periodo ellenstico, potremmo ritenere quasi per certo che si trattasse esclusivamente di combattimenti individuali(24). Nel dialogo di Luciano Toxaris, due amici sciti, i cui nomi sono Toxaris e Sisinna, stanno per intraprendere un viaggio dalla Crimea fino ad Atene, nell’ambito della moda dei tour culturali tanto diffusi nel II secolo d.C. La nave che li trasporta fa scalo ad Amastre, un porto

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sul Mar Nero, in Asia Minore. I due compagni vengono qui derubati e restano privi dei soldi necessari per proseguire il viaggio. Sisinne incontra sulla strada una processione di giovani uomini, diretti al foro della città, ingaggiati da un procacciatore di spettacoli per combattere duelli individuali, da tenersi il giorno appresso. Sisinna decide di voler competere per cercare di ottenere il premio in palio, permettendo così a lui ed al suo amico di continuare il viaggio. Il giorno seguente, nel foro, i monomàchoi (gladiatori) entrano in scena e l’araldo, presentando un giovane alto e robusto, invita chiunque voglia misurarsi con quel campione a farsi avanti: la borsa per l’incontro era fissata in 10000 dracme. Sisinna si fa avanti e accetta il combattimento, chiedendo che gli siano date delle armi e convincendo l’amico a seppellirlo se fosse morto. Gli viene così data un’armatura, ma Sisinna rifiuta di indossare l’elmo. Luciano descrive così lo svolgersi del duello: già al primo inizio del combattimento Sisinna riceve la prima ferita, causata da un colpo portato dal basso verso l’alto, con una sciabola ricurva, che lo colpisce nella parte posteriore della coscia. Egli resta fermo nella posizione in cui si trova, attende finchè il suo avversario non gli corre incontro per finirlo, mostrando troppa sicurezza di sè. Così Sisinna può colpirlo al petto con un colpo di punta e poi trapassarlo, facendolo cadere ai suoi piedi morto all'istante. Luciano descrive la sciabola dell’avversario di Sisinna usando il termine kàmpulos, che indicava un’arma prevalentemente da taglio, con la lama ricurva. Il fatto che Luciano sottolinei le caratteristiche dell’arma dell’avversario, può significare che Sisinna, invece, impugnasse una più comune spada dritta, la classica phàsganon o xìphos, armi standard nella grecia classica, usate sia di taglio che di punta. La cultura mediterranea nel II secolo d.C. non può dirsi nè completamente greca nè già del tutto romana. In particolare l'Asia Minore, dove è ambientata la vicenda narrata da Luciano, era in questo periodo un vero creocevia di culture. Questo genere di spettacoli gladiatori, che erano tipici di Roma e della penisola italica, non avevano alcuna tradizione in Grecia. Amastre, nel Ponto Eusino, era certamente una città di tradizioni greche, ma aveva finito per assimilarsi alla cultura romana una volta entrata a far parte del territorio dell'Impero. Anche le armi usate dai gladiatori di Amastre potevano quindi essere di impronta romana più che greca. Inoltre, i due protagonisti del racconto di Luciano sono sciti, cioè provengono dal territorio della attuale Russia meridionale. La spada giocava un ruolo importante nella religione di quelle terre; in una parte precedente del testo, l’amico di Sisinna, Toxaris, giura “per il vento e per la spada”, l’una come fonte di vita, l’altro come fonte di

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morte. Erodoto riporta che, nelle zone degli Sciti, vi erano culti che coinvolgevano la spada e descrive aree sacre nelle quali veniva piantata una spada sopra piramidi di legno livellate alla sommità. Sacrifici annuali di molte vittime animali venivano rivolti alla spada in quei luoghi. La spada caratteristica degli Sciti era l’akinàkes, tipologia predominante nell’Asia centrale dal VII al II secolo a.C., spesso rappresentata dalle arti figurative achemenidi e persiane. La sua impugnatura aveva una caratteristica forma a P e la sua lunghezza era fissata in 34.45 cm: A partire dal II secolo a.C., essa fu rimpiazzata da versioni più lunghe, di provenienza sarmata. Sisinna rifiuta di indossare l'elmo e questo fa sì che la sua testa sia il bersaglio più facile da colpire per l’avversario che, nell’azione descritta, avrà forse fintato alla testa, incontrando lo scudo alzato da Sisinna per difendersi, e avrà poi richiamato all’indietro la spada, ruotando il pugno e portando un colpo dal basso verso l’alto, passando circolarmente il ferro vicino alla propria gamba sinistra. Infatti la ferita descritta da Luciano è provocata da un colpo menato dal basso verso l’alto, che raggiunge la parte posteriore della coscia. La ferita non poteva constare di un semplice taglio -poiché Luciano asserisce che il sangue sgorgava copioso da essa-, ma piuttosto di uno squarcio o di una profonda lacerazione, resa plausibile se l’avversario avesse impugnato una kòpis o un harpé. Un colpo di questo tipo, quantunque potesse essere aiutato dall’angolo della lama della kòpis, era una manovra complessa che richiedeva assoluto controllo del ferro, velocità e scelta di tempo, così come una buona padronanza dell’equilibrio dell’arma e la conoscenza dei punti mortali. I muscoli sul retro della coscia (ignuan, in Luciano) erano un bersaglio fondamentale: essi sono il biceps femoris, il semitendinosus e il semimembranosus, che unisce la zona pelvica e la gamba, senza attaccarsi al femore. Tali muscoli sono coinvolti nel movimento di distensione della gamba, di rotazione dell’anca e nel piegarsi del ginocchio. Un colpo ad uno di essi può paralizzare la gamba temporaneamente, specie se coinvolge il nervo ischiaticus. Solo in rare condizioni si cercava questo bersaglio che, benchè potesse comunque produrre il collasso dell’avversario, era estremamente difficile da raggiungere, a causa della sua posizione posteriore rispetto alla guardia dell’avversario. Secondo il racconto di Luciano, Sisinna non cade subito, quindi rimane ferito solo leggermente, per quanto certamente non potesse muoversi per qualche istante. Certo non può spostarsi per evitare un secondo attacco, nè sottrarre il bersaglio con un passo indietro. Forse si sarà retto sulla gamba ancora buona, che doveva essere la destra, e avrà evitato il secondo colpo ritraendo il busto: ciò significa che l’avversario gli avrà tirato un fendente alla testa piuttosto che un colpo diagonale o orizzontale, che Sisinna non avrebbe potuto evitare. La manovra di sottrazione del

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bersaglio riesce ed è evidentemente sufficiente per mandare fuori equilibrio l’avversario per qualche decisivo istante –un’ulteriore conferma quanto al fatto che il secondo colpo di quest’ultimo viene tirato con tutta la forza alla testa, verticalmente-: mancato il bersaglio, infatti, la lama del gladiatore procede per inerzia verso la linea bassa, con il risultato di far sì che egli si scopra, permettendo a Sisinna di colpirlo con la punta in linea. Luciano differenzia nel racconto due tempi per l’azione che risolve l’incontro: il momento passivo dell’attacco, forse eseguito solo distendendo il ferro in linea, che risulta in un colpo di punta al petto, e l’attacco vero e proprio, eseguito trapassando l’avversario, forse con un affondo o con lo spostamento in avanti del peso del corpo. Se l’avversario muore all’istante, come dice Luciano, Sisinna deve aver colpito inizialmente un organo vitale, forse il cuore o un arteria, per poi distruggerla completamente trapassandola. La varietà ed il numero di colpi era, lo si è visto, piuttosto limitato(25). Normalmente si è stimato che si morisse in una o due semplici azioni: un fendente alla testa era il colpo più usuale, cui ne seguiva un altro al corpo se l’avversario aveva schivato il primo. I colpi di punta servivano per finire il nemico, dopo averlo reso inabile con un taglio che ne comprometteva le possibilità di movimento. Comprensibilmente vi era poca tattica e il duello si risolveva per lo più con azioni di prima intenzione, eseguite spesso correndo a tutta velocità verso l’avversario.

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Capitolo 7

Appendice Elementi di studio e approfondimento

Le spade come oggetti d’arte

Con poche eccezioni, armi ed armature di tutti i periodi storici e delle diverse culture di tutto il mondo sono state decorate come veri e propri oggetti artistici: il desiderio di abbellire gli oggetti d’uso quotidiano si è esteso naturalmente a quelli che avevano scopi di

particolare importanza nella società. I Greci, come la maggior parte dei popoli antichi, ritenevano le armi e le armature segni distintivi del rango sociale e della condizione economica, oltre che, naturalmente, simboli tradizionali del guerriero e della sua forza, nonché della regalità degli individui. Tuttavia, era l'uso e la funzione specifica dell'arma o dell'armatura che determinava come ed in quale misura un oggetto veniva decorato. Mentre l'attrezzatura degli uomini comuni era

spesso non decorata o, comunque, la decorazione era ristretta ad un minimo, le armi appartenenti ad individui di spicco della società -nobili, comandanti militari e guerrieri di élite- venivano cospicuamente ornate con decorazioni assai costose. Nel periodo dell’età del Bronzo, quando ancora le capacità economiche dell’individuo erano strettamente legate alle sue capacità alimentari, il grado di decorazione era tanto più elevato quanto lo era la condizione del proprietario dell’arma ed era indicativo del valore e del potere che egli ricopriva socialmente. Tuttavia, armi ed armature progettate per l’uso

Figura 57 - armi greche, British Museum

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pratico, destinate al campo di battaglia, erano decorate senza sminuirne la praticità e la robustezza. Soltanto le attrezzature particolarmente studiate per l’uso cerimoniale venivano decorate, a volte così generosamente che l'importanza della decorazione diveniva superiore alla funzione stessa dell'oggetto. Una varietà di decorazioni particolare era quella legata ai simboli religiosi, per creare una sorta di aurea di autorevolezza sia intorno all’oggetto sia al relativo proprietario, attribuendogli qualità magiche ed apotropaiche. In Grecia, la tradizione dell'armatura e delle spade decorate iniziò nell'età del Bronzo; in epoca classica, anche gli esemplari destinati ad un uso normale possiedono spesso una bellezza scultorea eccellente, e molte parti dell’attrezzatura militare, particolarmente gli elmi, erano decorati frequentemente con incisioni e goffrature. I Greci decoravano principalmente gli elmi, le corazze e gli schinieri con fogli di bronzo martellati a sbalzo, mentre altre parti dell’armatura erano lasciate senza decori e venivano semplicemente modellati molto attentamente attorno allla conformazione del corpo: la piastra anteriore della corazza spesso veniva decorata ad imitazione dell'anatomia della muscolatura della cassa toracica. Molti elmi erano incisi con semplici modelli geometrici lungo i bordi, ma qualche esemplare presenta anche decorazioni figurate. Le testimonianze, fornite dai vasi dipinti, rivelano che molti guerrieri andavano in battaglia con elmi e corazze pregevolmente decorate e con grandi scudi elaborati e verniciati con modelli geometrici, teste di animali o scene mitologiche. Le tecniche per la decorazione delle armi e delle armature possono essere studiate anche per confronto con le epoche successive, oltre che con le comtemporanee arti di decorazione dei metalli. La vasta gamma dei materiali utilizzati nella creazione di questi oggetti è stata fondamentale per l’aggiunta di qualità estetiche a quelli che dovevano essere, prima di tutto, articoli funzionali, per l’uso quotidiano o cerimoniale. Una forma frequente di decorazione è la pittura di determinate zone o dell'intera superficie dell’oggetto, per mezzo di vernici o lacche vegetali. Le superficie ed i componenti, fatti di ferro o di bronzo, potevano anche essere patinati, attraverso le variazioni di calore o chimicamente, come pure tramite il processo noto come “doratura”. I metalli, scaldandosi, nelle varie fasi della forgiatura assumono una colorazione superficiale che cambia dal giallo alla porpora, fino all'azzurro profondo man mano che il calore aumenta. Una volta assunto dal fuoco ad una temperatura particolare, il metallo mantiene questo colore anche dopo essersi raffreddato. Una considerevole abilità era richiesta agli artigiani per realizzare colorazioni costanti su ampie superfici, come per esempio su una piastra di una corazza, o su interi gruppi di oggetti o su armature complete. Il colore favorito per le spade era l’azzurro e il processo adottato per decorarle è noto

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con il nome di brunitura. Una gamma diversa di colori poteva essere anche prodotta chimicamente, usando varietà di metalli differenti per luogo di estrazione e purezza. Oltre ad essere decorative, queste tecniche avevano anche una funzione pratica, poiché inibivano la comparsa di ruggine sulla superficie del metallo. In Grecia, la tecnica di decorazione con vernice era certamente conosciuta già nell'antichità, anche se nessun reperto di tale tipo è stato conservato sino ai nostri giorni. E’ ipotizzabile, per confronto con epoche successive, che esistesse anche un terzo tipo di decorazione, almeno per le else e le impugnature delle spade: la copertura mediante tessuti, cuoio colorato, o pelli lavorate finemente e rivettate sulla superficie da ricoprire. Un procedimento decorativo noto anche nell’antico Egitto, ma certamente già in uso anche in epoche più remote, specie nelle regioni orientali, di cui tuttavia non ci sono pervenuti esempi di contesto greco. Anche l'applicazione di oro e di argento alla superficie dell'oggetto, conosciuta generalmente come doratura, era una forma alternativa di colorazione impiegata certamente per le spade. Il processo implicava tradizionalmente l'applicazione di un foglio molto sottile di oro o di argento alla superficie dell’elsa, con l'aiuto di un collante a base di olio o acqua o, diversamente, l'applicazione di metallo in polvere sospeso in un mezzo adeguato (vernice o lacca d'oro). Un metodo più durevole però era la doratura a fuoco ed era usato comunemente soprattutto sulle lame delle spade da cerimonia: l’oro, ridotto in polvere fine, veniva unito con il mercurio al metallo già in fase di lavorazione ed era riscaldato fino all’evaporazione del mercurio stesso, lasciando l'oro legato alla superficie del metallo della lama. La doratura era un processo impiegato soprattutto dagli armaioli dell’Asia Minore, dunque si può ritenere che fosse un processo che i Greci conobbero da artigiani orientali. L’ intarsio era un’altra tecnica comune per la decorazione, applicata spesso sui manici di legno e anche sulle superficie di metallo dell’elsa. Scanalature o veri e propri disegni venivano intagliati od incisi sulle superficie lignee e, poi, riempite dello stesso materiale ricavato dall’intarsiatura. Le superfici del metallo erano intarsiate solitamente con altri metalli, quali oro, argento, o leghe di rame. Possiamo supporre che fossero in uso anche tecniche di intarsio con avorio, osso e ambra. Mentre il materiale organico poteva essere tenuto in loco con l’uso di colla o di chiodi, l'intarsio del metallo richiedeva una tecnica differente. In primo luogo, i lati delle cavità che dovevano alloggiare l’intarsio erano tagliati in un profilo a coda di rondine; poi, materiali più fluidi, come oro o argento liquidi, venivano colati nella cavità e il calore provvedeva a fonderli insieme con i lati della concavità. Questa tecnica d'intarsio è oggi nota con il nome di damascatura lineare, un termine che allude alla città di Damasco, in Siria, e tradisce le origini orientali di questo processo, certamente noto già nel periodo ellenistico. Una tecnica più facile e meno costosa di intarsio era la legatura dell'argento, nota come falsa damascatura. In entrambe il

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metallo generalmente è brunito a livello della superficie; quando invece grandi quantità d'argento o d'oro sono lasciate deliberatamente sporgere in rilievo sopra la superficie dell'oggetto, la decorazione è denominata incrostazione. Questa tecnica di decorazione è certamente conosciuta già durante il periodo miceneo e lungo tutta l’età del ferro, anche se fu poi soppiantata in epoca classica dalla tecnica della colorazione. Con il termine smaltatura ci riferiamo invece a diversi processi di utilizzo di colle di vetro fuso. Gli incavi ricavati su una superficie metallica (cloisonné) o i tagli e le scanalature della lavorazione (champlevé) venivano in questo caso riempiti di colla di vetro colorata. L'oggetto era poi infornato in modo che la colla in polvere si fondesse e legasse con la base del metallo; infine, la superficie dell'oggetto veniva lisciata e lucidata. Metodi rudimentali di smaltatura sembrano essere conosciuti fin dal II secolo a.C., anche se, a causa del loro elevato costo, non erano usati spesso. La goffratura era il processo usato su una piastra di metallo per sbalzare dalla parte interna decorazioni e semplici motivi geometrici, in modo che il disegno comparisse in rilievo sulla parte esterna (repoussé). Questi disegni potevano variare da semplici creste a scanalature e modelli geometrici, e, più raramente, a disegni figurati molto elaborati, di qualità scultorea. Gli oggetti di cuoio o ricoperti in cuoio, quali gli scudi o le stesse impgnature delle spade, potevano essere decorati usando la stessa tecnica, ma disegni simili potevano anche essere “timbrati” o premuti nella superficie usando appositi stampi. La tecnica dello sbalzo dall’interno, inoltre, è stata applicata spesso ai fogli d’oro o di argento, che poi venivano usati nella doratura. Il disegno a sbalzo poteva essere rifinito dettagliando il motivo dalla parte esterna con uno scalpello. Nota in Europa dall'età del Bronzo, questa era una tecnica molto usata in Grecia nel periodo classico ed ellenistico, ma, stranamente, divenne estremamente rara durante le epoche successive, fino a scomparire quasi del tutto nel Medioevo per poi rinascere nel XIV secolo. L’ incisione era un’altra tecnica tipica del mondo greco, in cui i modelli o le iscrizioni decorative venivano tagliate sulla superficie del metallo con un attrezzo aguzzo, anch’esso di metallo indurito (burin). Quando la decorazione è costituita da un modello di puntini perforati nella superficie, il processo è conosciuto con il nome di pointillé . L’incisione è probabilmente una tra le più antiche forme di decorazione in assoluto e può essere trovata tanto sulle armi dell’età del Bronzo quanto su quelle dell neolitico. Esempi di decorazione incisa compaiono spesso sulle lamierine delle else delle spade greche, anche se la tecnica poteva in effetti essere molto più vecchia. La scultura e la cesellatura, infine, erano forme di decorazione altrettanto antiche: le parti in avorio o in legno delle armi, quali l’elsa della spada o il manico della lancia, potevano essere intagliate a basso o alto rilievo, ma non mancano casi di tutto tondo scultoreo.

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Sull'armatura questo procedimento decorativo è raro Quando la tecnica di scultura è applicata al metallo, ci si riferisce solitamente ad essa come alla tecnica del ferro tagliato o ferro cesellato. La cesellatura del metallo e la tecnica della damascatura, della quale abbiamo già detto, sono spesso confuse dagli studiosi, sebbene fossero metodi di decorazione diversi.

La dieta dell’oplite

Sembra utile, per concludere questa trattazione, fornire qualche elemento per la comprensione del mondo della vita quotidiana dell’oplite. Tra le tante informazioni che possediamo dalle fonti letterarie, si è voluto trattare l’argomento dell’alimentazione, poiché, rispetto ad altri, ha maggiori implicazioni nella resa fisica e, quindi, in qualche modo influenza, seppur indirettamente, tecniche e tattiche di combattimento. Molti ingredienti della attuale dieta mediterranea, quali pomodori e patate, sarebbero stati importati in Grecia solo molto dopo l’epoca di cui qui si tratta. Le arance ed i limoni dell'India, inoltre, comparvero nel Mediterraneo orientale solamente nei periodi Bizantino ed imperiale. La dieta greca antica era sostanzialmente differente da quella della Grecia moderna. L'orzo era il cibo base mangiato dall'uomo comune, trasformato in pane azimo, o mangiato come alphìta: un genere di pastella semifluida ottenuta dall’ orzo sbucciato, macinato e bollito. Dunque, fondamentalmente, l’alimentazione era basata sulle proteine vegetali, ricavate sia dall’orzo sia dalle leguminose, consumate altrettanto in abbondanza. Il fabbisogno di carboidrati era soddisfatto, nel mondo greco, prevalentemente grazie al consumo di fichi freschi o secchi. L’apporto calorico di un pasto era quotidianamente integrato con frutta o verdure stagionali, quando erano disponibili, che garantivano una discreta quantità di vitamine. I fichi e l'uva erano consumati in abbondanza, ma anche mele, pere, gelsi e datteri. I fichi, in particolare, sarebbero stati spesso accompagnati con i cereali.Il pesce, fresco se possibile o, altrimenti, conservato sotto sale, doveva essere un’altra fonte molto importante di proteine, mentre la carne era consumata solo occasionalmente. Il pesce sotto sale, denominato tàrichos, era importato nelle città della Grecia in quantità enormi, particolarmente dal Mar Nero, assai generoso di tonni. Recenti studi dimostrano che il pesce conservato in questo modo rimane commestibile per circa un anno, benchè soffra una perdita di peso del 50% e di una perdita del 15% di proteine, nonché del 50% di vitamina B.

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Erano indubbiamente poco costosi questi cibi che costituivano comunemente il rancio dell' oplite greco, come ci viene confermato dalla commedia di Aristofane, Acarnesi, del 425 a.C. In un passaggio del testo (versi 1097-1101), Aristofane descrive come il generale ateniese Lamaco imballa del sale mescolato con timo, cipolle e tarichòi, avvolti in foglie di fico, nel suo gùlion, un paniere di vimini per il trasporto delle razioni dell'oplite. Aristofane non accenna ai chicchi d'orzo che la maggior parte degli opliti consumavano sul campo, ma certamente conferma indirettamente che cipolle e tarichòi sono la specie di derrate alimentari non deteriorabili che l'oplite greco preparava più di frequente per intraprendere la campagna. Il sale mescolato con timo, cui accenna l’autore, era usato come un condimento per aggiungere gusto a questi alimenti, altrimenti piuttosto insipidi, forse quando cominciavano a decomporsi e l'oplite era costretto a mangiarli comunque durante la campagna; tuttavia l’autore latino Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia (XXI, 157), dice anche che il timo mescolato al sale poteva servire come efficace metodo per far perdere l'appetito. Al contrario, Senofonte, nella Ciropaedia (VI,. 2.31), suggeriva che le carni dovessero essere alquanto salate, per stimolare l'appetito oltre che per renderle più durevoli. Nella famiglia greca poteva essere preparata una vasta gamma di salse per dare a questa dieta, per la verità piuttosto fondamentale e monotona, un certo gusto; ma, per l'oplite greco sul campo, sarebbe stato improbabile avere il tempo o l'occasione per effettuare cotture complicate.

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Note

1 - Competizioni atletiche si svolgevano anche in occasione di celebrazioni religiose e culti di eroi, o in onore di defunti, ecisti –in genere eponimi di colonie- o personalità della vita pubblica. L’agone funebre era regolato da leggi proprie e non riteniamo appartenesse appieno ad un concetto di sport. Tuttavia è necessario almeno notare come la mentalità greca fosse improntata al confronto ed alla gara con intenti celebrativi, quasi che l’onore del defunto fosse accresciuto dalla fatica agonistica dei vivi; era questo un retaggio dell’epoca dei palazzi, che divennero, nell’evo arcaico e classico, vere e proprie mete di culto (Argo, Micene), sulla scia della diffusione dei poemi omerici e dell’epica in generale. L’agone sportivo affondava effettivamente le sue radici nell’epoca micenea e anche i poemi omerici ne delineano l’esistenza in quell’epoca, al di là di ogni dubbio di contaminazione storica. Il canto XIII dell’Iliade ne è un esempio:

[…]Surto in piedi allor disse: Atride, Argivi,

gioventù bellicosa, a voi dinanzi ecco i premii che attendono nel circo degli aurighi il valor. S'altra cagione questi ludi eccitasse, i primi onori

miei per certo sarìan, ché la prestezza de' miei destrieri non ha pari, e voi

lo vi sapete: perocché son essi immortali, e donolli il re Nettunno

al mio padre Pelèo, che a me li cesse. Queto io dunque starommi, e queti insieme

i miei cavalli. I miseri perduto hanno il lor forte condottiero e mite, che lavarne solea le belle chiome alla chiara corrente, ed irrorarle

di liquid'olio rilucente; ed ora piangonlo immoti, colle meste giubbe

al suol diffuse, e il cor di doglia oppresso.[…] L’occasione per l’agone è la celebrazione funebre in onore di Patroclo ed Achille è, in questo caso, il giudice unico della gara che vede opposti i migliori tra gli Achei. 2 - Naturalmente è possibile che, nella descrizione della vestizione, la ragione per cui si cita prima la spada possa essere più semplicemente dovuta al fatto che, per sospenderla all'omero, bisognava indossare il relativo fornimento prima dell'elmo e delle altre parti dell’armatura. 3 - I colpi portati all’elmo servivano piuttosto a percuotere il capo dell’avversario che non per rompere l’elmo stesso. Per analogia possiamo osservare che, anche nel Medioevo, difficilmente le pesanti armature dei cavalieri venivano perforate di punta o di taglio (le analisi paleo-patologiche sui resti ossei di molti caduti in battaglie campali e scontri di cavalleria avvenuti nell’antichità, dimostrano che la morte interveniva principalmente per trauma cranico e frattura dell’osso parietale, quasi mai per traumi lacero-contusi o ascrivibili a perforazione).

4 - Anche le spade cosiddette lunghe, usate nell’epoca del bronzo, o quantomeno considerate più lunghe rispetto agli altri esemplari che vengono comunemente definiti spade corte lacedemoni, di epoca tardo classica, non venivano usate a due mani. Tutte le raffigurazioni pittoriche e le descrizioni letterarie ci mostrano guerrieri che impugnano l’arma con una sola mano, e nell’altra, semmai, tengono uno scudo.

5 - L’uso della mano sinistra non è descritto in relazione all’uso della spada o di altre armi né nelle fonti letterarie né tanto meno in quelle iconografiche. E’ logico supporre che ciò sia dovuto ad una semplificazione ricercata dai pittori di vasi e ad una sostanziale disattenzione al problema delle tecniche schermistiche da parte degli autori contemporanei; tuttavia è anche possibile ritenere che la mano destra fosse considerata più pura della sinistra e quindi più adatta a maneggiare l’arma quale simbolo di giustizia. Nella disposizione della falange, inoltre, un guerriero mancino non avrebbe trovato

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agevolmente posto, poiché avrebbe ostacolato il compagno al fianco. Inoltre bisogna ricordare che, nella falange, l’oplite teneva lo scudo con la mano sinistra, proteggendo con esso non il proprio corpo, ma quello dell’oplite disposto al suo fianco.

6 - Lico, in effetti, colpisce sì Peneléo -che non avrebbe certo potuto schivare un fendente alla testa semplicemente abbassandosi-, ma la lama della sua spada si frange contro l’elmo dell’avversario. Penelèo, che verosimilmente doveva aver comunque subito una spinta verso il basso a seguito del colpo che lo raggiunge alla testa –fortunatamente per lui fermato dall’elmo-, colpisce Lico con un colpo portato dal basso verso l’alto, trovandosi in una posizione simile a quella finale della passata sotto contemporanea, quasi certamente in equilibrio precario e forse anche con una mano poggiata al suolo. 7 - Si tratta di una deduzione che deriva dall’osservazione iconografica: tutte le armi appese all’omero, sia nei vasi attici di VI secolo sia in quello corinzi coevi, sono spade corte. 8 - Dall’analisi delle fonti letterarie, anche nelle descrizioni di duelli abbastanza elaborati, si può notare che lo scontro si risolve nello scambio di pochi colpi e raramente si cita l’uso dello scudo per parare, il che è giustificato nel testo da una sorta di licenza poetica che faceva della spettacolarità del duello la chiave della sintesi mnemonica dell’aedo che declamava il passo; se i nostri eroi avessero parato ogni colpo, il duello si sarebbe allungato oltre i tempi consentiti dalla poesia. Al di là della semplificazione operata dai poeti, la capacità di usare gli scudi non era certo spinta al massimo e questo sostanzialmente per due motivi. Il primo e più ovvio consiste nel peso degli stessi, peso per il quale non era facile -dopo aver parato per esempio un colpo alla testa-, portare rapidamente lo scudo a difesa del fianco o dell’addome. Scudi più leggeri furono inventati solo a metà del VI secolo, in concomitanza con l’introduzione di diversi sistemi di imbracatura e di impugnatura degli stessi. La seconda dimostrazione del fatto che i guerrieri omerici non erano granché bravi nell’uso dello scudo è data dalla quantità di ferite al petto e all’addome citate nei diversi passi e raffigurate dalla iconografia anche di epoca classica. 9 - Usando il database del Perseus e ricercando la parola spada (nelle varie forme greche) si rinviene a proposito dell’uso della spada solo questo passo; molte altre ricorrenze del termine sono usate in forme del tipo “portava la lunga spada al fianco” etc., ma non ne descrivono l’uso. Più frequenti invece i passi in merito all’uso di lancia ed arco (Odùsseos era un arciere, non uno schermitore, molto più simile a Robin Hood, la cui leggenda, nel momento della gara che gli permette di vincere la propria amata ha dei tratti che assomigliano molto alla gara vinta da Odisseo prima della strage dei Proci). 10 - In effetti, fino all’età pre-classica non vi era una vera distinzione: cioè tanto era importante il duello, tanto lo era il combattimento individuale in guerra, che si svolgeva più che altro come duello tra i capi degli schieramenti opposti. Vi era coincidenza sociale tra i campioni che si sfidavano in guerra e chi, nella società, detenendo il potere delle armi, deteneva anche una maggior forza politico-sociale-economica. Con l’epoca arcaica, ed ancor di più in quella classica, vi è un mutamento di valori sostanziale: il duello non esiste più e il combattimento individuale è cosa di tutte le classi sociali, benché la collettività sia il valore primo. 11 - Il duello inteso come insieme ordinato e regolato di azioni schermistiche tra due avversari d’”onore” in effetti non esisteva; esiste qualche testimonianza letteraria (orazioni di Lisia in particolare, ma si renderebbe necessario verificare tutte le occorrenze con una ricerca specifica) di uccisioni per vendicare un torto subito, e anche testimonianze di processi intentati a persone che avevano ucciso con le armi qualcun altro. Se nella società post-micenea (un po’ come nel nostro Medioevo, e le analogie non finiscono qui, tanto da meritare per i secoli XII-IX il nome di Medioevo Ellenico) saper usare la spada, quindi possedere tecniche schermistiche, poteva salvare quotidianamente la vita, in epoca classica, con il subentrare di una società di leggi, il ruolo attribuito alle armi venne a deteriorarsi: era più importante saper parlare nell’agorà che non saper usare le armi. Ora far approvare una legge o farsi cedere il passo per la strada era divenuta una questione di parole; non che non esistessero più gli scontri armati (vedi tra i tanti esempi lo scontro tra Edipo e il padre Laio nell’Edipo Re di Sofocle), ma si trattava di omicidi condannati dalla legge (sociale e/o morale), proprio come per noi oggi anche lo sparare ad un individuo che ci sta derubando può essere un reato, mentre nella Sicilia di fine ‘700 o

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nella California del ‘800 non lo era: in questo senso possiamo dire che oggi saper usare o meno una pistola non è fondamentale per la nostra vita sociale e non crea una vera distinzione di classe, proprio come circa l’uso delle armi bianche nella Grecia classica.

12 - Il disegno mostra solo la prima linea di ciascuna delle falangi contrapposte: disegnando anche la seconda linea sarebbe più chiaro che piccoli gruppi di ciascuna falange, diciamo segmenti delle varie linee, si contrapponevano a segmenti delle altre. In pratica le due falangi si compenetravano capillarmente. La falange che riusciva a mantenere le varie linee il più possibile estese orizzontalmente avrebbe vinto (come nel gioco della dama), ma questo probabilmente succedeva di rado: dopo i primi contatti la situazione diveniva confusa; i Greci non lo apprezzavano di certo e forse ritenevano che da quel punto in poi il combattimento divenisse qualcosa di “sporco”, perché fondavano sulla compattezza della falange una vera e propria etica sociale oltre che di guerra. Anche da questo si può ipotizzare il poco amore per la spada, l’unica arma utile a quella distanza, perché usare la spada significava che la falange si era ormai disunita e lo scontro si era fatto disorganizzato.

13 - Bisogna fare un distinguo tra lancia dell’oplite, lancia del guerriero dell’età del bronzo (omerici) e giavellotto. La lancia dell’oplite era un’arma che serviva per sfondare le linee: veniva tenuta sottomano in posizione orizzontale, al fianco dell’oplite, che si proteggeva il corpo con lo scudo. La prima linea di una falange doveva apparire come una compatta massa di scudi da cui usciva una quantità di punte di lancia ed era con questa configurazione che si preparava all’impatto. L’oplite non scagliava praticamente mai la lancia: sarebbe morto in fretta se l’avesse lanciata troppo da lontano e una volta avvicinatosi al nemico sarebbe dovuto ricorrere alla spada. Inoltre le fila erano troppo compatte per gestire quasi due metri di lancia, caricare e lanciare efficacemente: teniamo presente che tra due compagni di falange dovevano esserci meno di 40 cm, e dal compagno che stava nella fila innanzi o in quella dietro meno di 50 cm (non era considerato onorevole rompere troppo le fila). Per contro, nell’età del bronzo esisteva una dotazione di armi più variegata (non c’era ancora stata la standardizzazione che interverrà con la falange) e non ancora del tutto precisata dal punto di vista archeologico. Certamente esistevano lance brevi, che però dovremmo meglio chiamare “giavellotti”, poiché appositamente studiati per essere lanciati. Quanto alla scarsa preferenza che i Greci avrebbero accordato all’uso della spada, esso rientra forse in una concezione di vero e proprio orrore per il “ferro” che si attestò in età classica. Anche quando si poterono costruire lame più resistenti, non ci fu mai un vero boom dell’uso della spada e mai una produzione di carattere pre-industriale. La lama, come del resto il sangue, era vista con una certa ostilità dalla cultura greca: si pensi che ad Atene, in epoca classica, si istruivano veri e propri processi con tanto di collegio di giudici, che dopo i sacrifici animali in occasione di alcune feste religiose (Panatenee e altre) si riunivano per giudicare ritualmente la colpevolezza del coltello che era stato usato per sgozzare l’animale e, condannatolo, provvedevano a gettarlo dalla Acropoli o dall’Areopago, fuori dalle mura sacre della città. 14 - Nelle battaglie oplitiche del periodo classico la lancia era più spesso usata per colpi di stocco e veniva portata sottomano dagli opliti delle prime tre fila della falange, che cercavano di trovare per le loro lance un varco tra gli scudi dello schieramento opposto. A distanza più ravvicinata, ma non ancora abbastanza da rendere utile l’uso della spada, le lance venivano invece portate sopramano e i colpi erano scagliati dall’alto verso il basso.

15 – Converrà affrontare qui il tema della cronica mancanza di studi specifici relativi alle armi dei Greci. A parte rari interventi, di cui il testo di Snodgrass è un esempio tra i più significativi, sembra delinearsi un vuoto relativo all’evoluzione ed alla cronologia specifica delle attrezzature belliche dall’epoca arcaica a quella ellenistica. In verità, storici ed archeologi, in questo senso, ci forniscono una cronologia a maglie ancora piuttosto larghe, che ci permette di stabilire soltanto a grandi linee l’evoluzione di spade, corazze, elmi e scudi. Gi storici come Victor Davis Hanson e William Pritchett hanno preferito affrontare l’argomento della guerra dei Greci sotto il profilo sociologico, politico e tattico, arrivando a descrivere con molta precisione, sulla base delle fonti letterarie, lo scontro delle falangi; al contrario il lavoro di Snodgrass si concentra sull’analisi delle armi in se stesse, ma non è in grado di elevarsi a studio definitivo sull’argomento a causa della mancanza di un collegamento davvero profondo tra le evidenze archeologiche e la tipologia cronologica delle armi in questione. Se autori come Donlan e Thompson, a metà degli anni ’70, hanno studiato gli eventi di Maratona con i più moderni mezzi messi a disposizione dall’Archeologia sperimentale e dalle scienze moderne, la maggior parte degli archeologi non si cura

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invece di analizzare il problema specifico dell’evoluzione degli armamenti. Gli scavi nella piana di Maratona, che hanno portato in luce una certa quantità di armi relative alla famosa battaglia del 490 a.C. e gli scavi di Salamina, Termopili, Cheronea, parimenti ricchi di reperti provenienti da sepolture di massa dei caduti nelle relative battaglie, meriterebbero una revisione volta ad evidenziare una cronologia più dettagliata e che tenga in maggior conto le differenze che si possono riscontrare anche tra armi del medesimo tipo: la tipologia archeologica di per sé non dispone infatti degli strumenti necessari per valutare i minimi dettagli di un’arma dal punto di vista dell’utilizzatore (contenute variazioni di peso, punto di equilibrio, diverse conformazioni dell’impugnatura) ed è in grado di evidenziare soltanto le differenze macroscopiche tra le armi (ad esempio distinguere tra una sciabola ricurva ed una spada dritta). 16 – L’ispessirsi del ferro verso la punta poteva anche migliorare la capacità di penetrazione nelle solide corazze di bronzo.

17 – Le differenze tra i diversi tipi di sciabola ricurva sono esposte dagli studiosi in termini molto divergenti; in realtà il materiale a nostra disposizione non è ancora stato del tutto organicamente analizzato e le stesse fonti letterarie non sempre sono chiare nel definire le differenze tra un’arma e l’altra, usando termini generici per descriverle. Anche oggi, nel linguaggio comune, sciabola e fioretto vengono spesso impropriamente definiti “spada”; così doveva accadere anche per gli storici greci, che non padroneggiavano un linguaggio specifico. Bisogna però notare che Erodoto, Tucidide e Senofonte, per citare solo gli storici più noti, avevano tutti prestato servizio militare e partecipato alle battaglie oplitiche in prima persona; questo ci induce a pensare che l’inadeguatezza del linguaggio specifico rimandi più che altro ad un disinteresse degli stessi antichi verso le caratteristiche tecniche delle armi. L’oplita sceglieva la propria arma, o ne veniva dotato dalla città stato, senza grande perizia e non era forse del tutto consapevole della specificità di ciascuna. Tuttavia i Greci si dimostrarono pronti nell’accogliere armamenti migliori provenienti dall’Oriente e nell’evolvere la dotazione dell’oplite. Dobbiamo, quindi, forse pensare a figure di tecnici specializzati che si applicavano alla ricerca di nuove soluzioni, anche se le fonti contemporanee tacciono in proposito, lasciando aperto un interrogativo circa la reale portata dell’interesse dei Greci per il proprio armamento bellico. Se è vero, come riporta Erodoto, che i Greci sconfissero il temibile esercito Persiano con la superiorità del proprio spirito di corpo e con l’unione della falange, è pur vero che una vittoria così schiacciante non sarebbe stata possibile in assenza di un armamento veramente superiore a quello del nemico, sebbene questo fatto passi pressoché inosservato agli storici contemporanei a questi fatti.

18 – Si trattava di un problema duplice: per prima cosa la necessità di poter usare un ferro corto al momento del combattimento ravvicinato, il che implicava certamente una maggior rapidità ed agilità sotto misura; vi è poi da considerare che, marciando a ranghi stretti e volendo tenere unita la falange il più a lungo possibile, l’uso di armi a ferro troppo lungo non sarebbe stato affatto comodo, risultando anzi pericoloso per il compagno di fila. La spada corta era portata sottomano, anche a stretta misura, come dimostrano le evidenze figurative provenienti da numerosi bassorilievi e ceramiche e richiedeva una particolare posizione di guardia (gamba sinistra avanzata, busto leggermente arretrato), attestata dalla documentazione iconografica proprio in relazione a questa tipologia di arma. Se è opinabile l’affermazione di Hanson secondo cui, rotta l’unione della falange, il combattimento che ne seguiva con la spada lunga si risolveva nel menar colpi alla cieca senza alcuna perizia tecnica, è certo, al contrario, che dopo l’introduzione della spada corta si possono ravvisare nei combattimenti dell’oplita greco tutti e tre i principi fondamentali della scherma: tempo, velocità e misura. Un ferro corto richiedeva infatti una maggior capacità di controllo da parte dell’oplite e, in certa misura, rendeva certamente più ampia la varietà di colpi a sua disposizione.

19 – Lo svolgersi dell’azione diventa meglio comprensibile nell’ipotesi che il colpo portato dall’oplite spartano caduto a terra sia indirizzato verso l’inguine del nemico, ancora in piedi davanti a lui. Diversamente la morte di entrambi non sarebbe stata un evento probabile: se lo spartano avesse preso il tempo all’ateniese, questi, con la sua lancia lunga, sarebbe passato oltre al bersaglio, mancandolo; al contrario se lo spartano caduto a terra avesse cercato di colpire l’ateniese al petto con la sua spada corta, non avrebbe certo potuto raggiungerlo contemporaneamente o addirittura prima che egli avesse sferrato il colpo verso il basso con la sua lunga lancia. L’inguine, come il collo, era uno dei bersagli preferiti, poiché le corazze dell’epoca classica lasciavano scoperti questi punti del corpo, permettendo più facilmente di raggiungerli con un colpo.

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20 – Gli elmi in bronzo ritrovati arrivano a pesare sino a 1 Kg, senza contare che, sotto il sole dell’estate greca, dovevano procurare una fastidiosa sensazione di calura e di soffocamento. Per questo alcuni studiosi ritengono che gli opliti indossassero l’elmo solo appena prima dello scontro tra le falangi e sostengono questa ipotesi sulla base delle numerose raffigurazioni che ci mostrano opliti con l’elmo alzato sopra la nuca. In effetti è alquanto improbabile che, negli ultimi 200 metri di avvicinamento alla falange nemica, lanciati in corsa ad una velocità che è stata valutata da Donlan e Thompson in 10 km/h e stretti a circa 30 cm l’uno dall’altro, reggendo la lancia con la mano destra e lo scudo con la sinistra, in posizione di combattimento, gli opliti avessero il tempo di abbassare l’elmo sul viso pochi istanti prima dell’urto con la prima linea del nemico. Certamente però, nei momenti di riposo o anche per parlare tra loro o ricevere gli ordini dovevano sollevare l’elmo sul capo, un gesto istintivo che anche lo schermitore moderno, la cui maschera pesa fino a 8 volte meno dell’elmo antico, sente spesso il bisogno di compiere.

21 – La tipologia e la denominazione degli elmi qui adottata è quella più comunemente usata dagli archeologi; per una trattazione più dettagliata e per una disquisizione sulle diverse controversie circa la corretta denominazione delle diverse varianti di elmo si rimanda al lavoro di Snodgrass.

22 – Il peso di una corazza raggiungeva anche i 35 Kg, e sommando il peso dello scudo, degli schinieri e dell’elmo al peso corporeo di un uomo greco di media corporatura, il peso complessivo dell’oplite superava i 100 Kg (Donlan e Thompson, The Charge at Marathon, Classical Journal LXXI, 1976).

23 – La formazione a quattro è rappresentata in numerosi vasi dipinti: si tratta certo di una semplificazione del pittore, che non poteva rappresentare un’intera falange (composta in media da 8 fila e anche fino a 50 colonne); tuttavia alcuni studiosi ritengono di poter ravvisare in quest’uso un retaggio dell’epoca omerica, fonte primaria di ispirazione anche per gli artisti dell’epoca classica e dunque ritengono possibile che primi esperimenti di falange con un numero ridotto di uomini fossero già stati attuati tra i secoli X e VIII.

24 – In effetti facciamo qui riferimento ad una scarsità di conoscenze che per alcuni studiosi è opinabile, così come opinabile sarebbe il fatto che i combattimenti in epoca ellenistica sarebbero stati individuali. Leggendo Snodgrass si potrebbe ricavare la convinzione opposta, ma resta il fatto che a partire dal IV secolo a.C. nuove tattiche e nuove armi resero profondamente diverso il modo di combattere dei Greci. La falange macedone, pur analoga nei principi, era molto dissimile da quella del periodo classico e a Cheronea, nel 338 a.C. mostrò tutta la sua superiorità nella battaglia che vide il trionfo di Filippo il Macedone sulla coalizione spartano-ateniese. La sarìssa, nuova arma da lancio, costituì un’innovazione importante ed il ricorso alla cavalleria ed a gruppi di soldati armati alla leggera, impegnati in compiti di ricognizione e disturbo, ci portano nel quadro di una guerra tatticamente molto più moderna. Il figlio di Filippo, Alessandro Magno, completò il processo di sperimentazione bellica iniziato dal padre. Alla sua morte, nel 323 a.C., con l’inizio del periodo ellenistico, il modo di fare guerra dei Greci era ormai già sostanzialmente diverso. L’unità tipo di fanteria era rappresentata da un soldato armato alla leggera, privo di corazza o dotato di una corazza di solo lino e cuoio, senza scudo o con uno scudo molto piccolo, simile alla rotella medievale o al boccoliere. La spada dovette assumere un’importanza maggiore, perché questo genere di fante non era adatto al combattimento nelle fila di una falange, e comunque l’idea stessa che stava alla base della falange di epoca classica, quella cioè della forza d’urto e della coesione dello schieramento, aveva ormai lasciato spazio ad un concetto di guerra diverso. Per questo motivo possiamo affermare che lo scontro tra gli opliti era ormai un fatto individuale. Sopravvivere o morire dipendeva in misura molto maggiore dalla propria perizia nel maneggio dell’arma e molto meno dalla vicinanza con i compagni d’armi. Dunque la battaglia si presentava come la somma di molteplici scontri individuali, non certo intesi nel senso eroico della battaglia dei campioni o nel senso del più moderno duello d’onore, ma comunque pur sempre scontri schermistici veri e propri combattuti tra due avversari.

25 – Si è cercato di rimanere il più aderenti possibili alle fonti; letterarie, scultoree o pittoriche che siano, esse ci mostrano una certa semplicità nel combattimento. La realtà, tuttavia, poteva non essere tale e indizi in questo senso sono l’uso di armi a ferro corto, il disuso generale delle corazze sul campo di battaglia, che rendeva maggiore la varietà di bersagli raggiungibili ed un generale senso di progresso che permea il concetto di guerra in epoca ellenistica. Certamente non possiamo che intravedere la punta dell’ice-berg di un complesso di conoscenze storico-archeologiche che debbono essere approfondite e,

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soprattutto, corredate da dati ed evidenze scientifiche incontrovertibili. L’augurio che possiamo qui formulare è che, in un prossimo futuro, nuovi scavi e nuove indagini filologiche portino alla luce manuali e testi dell’epoca, che certamente dovevano esistere e che, se ritrovati, potrebbero dare un senso al materiale archeologico sinora recuperato. Del manuale di Enea il Tattico ci è pervenuto solo il capitolo relativo all’arte dell’assedio delle città, ma molto ancora resta da scoprire sui precetti della scherma greca e sulle modalità di insegnamento degli stessi. L’esigenza di studi specifici è, in questo senso, una necessità ormai divenuta incontrovertibile.

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Bibliografia

Opere e testi Letteratura essenziale in merito agli argomenti trattati

Opere di carattere generale

Charbonneaux, Martin, Villard. La Grecia arcaica. Milano : Rizzoli Editore, 1969 Charbonneaux, Martin, Villard. La Grecia classica. Milano : Rizzoli Editore, 1969 Charbonneaux, Martin, Villard. La Grecia ellenistica. Milano : Rizzoli Editore, 1969 Boardman. Athenian Black Figure Vases. London: Thames & Hudson, Ltd, 1997. Boardman. Athenian Red Figure Vases. The Archaic Period. London: Thames & Hudson, 1996. Boardman. Athenian Red Figure Vases. The Classical Period. London: Thames & Hudson, 1989. Mossè, Schnapp-Gourbeillon. Storia dei Greci. Roma: Carocci Editore, 1997 Daverio. Città Stato e Stati Federali nella Grecia Classica. Milano: LED, 1993

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Opere sulle tecniche militari

Anderson. Military Theory and Practice in the Age of Xenophon. Berkeley: University of California Press, 1970. Bettalli. Enea Tattico e l'insegnamento dell'arte militare. Siena: AFLS, 1986 Bettalli. Enea Tattico, La difesa di una città assediata. Siena: AFLS, 1990 Connolly. Greece and Rome at War. London: Greenhill Books, 1998. Connolly. The Greek Armies. London: MacDonald Educational, 1977. Hanson. The Western Way of War. New York: Oxford University Press, 1989. Oakeshott. The Archaeology of Weapons: Arms and Armour from Prehistory to the Age of Chivalry. Dover: Dover Publications, 1996 Sekunda. The Ancient Greeks. Osprey Élite Series #7. London: Osprey Publishing, 1986. Sekunda. Greek Hoplite, 480-323 BC. Osprey Warrior Series #27. Oxford: Osprey Publishing, 2000. Sekunda. The Spartan Army. Osprey Élite Series #66. London: Osprey Publishing, 1998. Snodgrass. Arms and Armour of the Greeks. London: Thames and Hudson, 1967 Warry. Warfare in the Classical World. New York: St. Martin's Press, 1980.

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Opere sullo sport nel mondo greco

Bernardini. Lo sport in Grecia. Bari: La Terza Editore, 1988 Blacklock, Kennett. Olympia, Warrior Athletes of Ancient Greece. New York: Walker and Co., 2000 Gardiner. Athletic sports and festivals in ancient Greece. London, 1910 Middleton. Ancient Olympic Games. Chicago: Heinemann Library, 2000

Wilkinson. Governing élites. Studies in training and selection. New York , 1969

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Indice

Indice degli argomenti

Premessa. .......................................................................................................... 3

La scherma nel tempo..................................................................................... 4

I Greci ed il loro apporto culturale................................................................. 6

Lo stato dell’arte nella ricerca........................................................................ 7

La scherma greca ed il concetto di sport .................................................... 9

Il quadro storico e le testimonianze archeologiche................................. 13

Il ruolo del guerriero nelle fonti omeriche ................................................. 16

La nascita delle poléis: dagli eroi agli opliti .............................................. 25

L’oplite e le tecniche sul campo .................................................................. 28

Le tecniche di combattimento individuale................................................. 33

Le spade greche dell’età del Bronzo .......................................................... 35

Le spade lunghe e le sciabole del periodo classico................................ 36

La spada corta lacedemone ......................................................................... 41

Evoluzione dell’elmo greco in epoca classica.......................................... 45

Evoluzione dell’armatura in epoca classica.............................................. 48

Il contributo delle arti figurative................................................................... 50

Ricostruzione letteraria di un duello ellenistico ....................................... 60

Le spade come oggetti d’arte ...................................................................... 64

La dieta dell’oplite .......................................................................................... 68

Opere di carattere generale.......................................................................... 76

Opere sulle tecniche militari......................................................................... 77

Opere sullo sport nel mondo greco............................................................ 78

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Gallarate

Agosto – Dicembre 2004

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