Anticipazione sui processi matrimoniali conservati nell'Archivio Storico Diocesano di Milano,...

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1 Francesca Terraccia ANTICIPAZIONI SUI PROCESSI MATRIMONIALI CONSERVATI NELL’ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI MILANO. ( FONDO FORO ECCLESIASTICO ) L’idea di scrivere un saggio sui processi matrimoniali presenti nell’Archivio Storico Diocesano nasce dal desiderio di delineare alcune osservazioni, elaborate durante lo spoglio di circa un centinaio di processi, conservati nel Fondo Foro Ecclesiastico, da me eseguito e comunicato al settimo seminario della serie: « I processi matrimoniali degli archivi ecclesiastici italiani » (Trento, 12-23 dicembre 2000). 1 Tra la documentazione conservata non vi è un fondo che raccolga esclusivamente incartamenti di cause matrimoniali; 2 è quindi utile precisare che i processi matrimoniali che si ritrovano si possono reperire nel Foro Ecclesiastico, suddiviso in “Foro Criminale” e “Foro Civile” 3 . L’inventariazione di questo ricchissimo fondo, al fine di rendere possibile la consultazione, è stata avviata da poco tempo; le tipologie processuali matrimoniali sono solo uno dei filoni di studio che possono essere intrapresi dall’analisi degli incartamenti conservati. L’ esposizione in questo saggio di singoli casi, discussi in Foro Criminale, esemplificativi delle categorie ritrovate, avrà lo scopo di porre attenzione su esperienze di vita quotidiana e sull’interpretazione di tali esperienze, avvalorando una concezione della storia, ormai consolidata che, accanto alle strutture sociali portanti, affianchi la storia dei singoli in quanto prezioso fattore interpretativo, 1 Le discussioni sul progetto di ricerca « I processi matrimoniali degli archivi ecclesiastici italiani » si sono svolte in otto seminari dal 1998 al 2001, seguiti da un convegno internazionale, e hanno prodotto al momento due volumi a cura di Silvana Seidel Menchi e Diego Quaglioni: Coniugi nemici. La separazione in Italia dal XII al XVIII secolo, Annali dell’Istituto storico italo - germanico in Trento, Quaderni 53, Bologna 2000 e Matrimoni in dubbio. Unioni controverse e nozze clandestine in Italia dal XIV al XVIII secolo, Annali dell’Istituto storico italo - germanico in Trento, Quaderni 57, Bologna 2001. 2 E’ presente un fondo denominato “Matrimonialia” che conserva documentazione relativa alle pubblicazioni matrimoniali, comunemente definite processetti, che ha come estremi cronologici 1652-1899. 3 Il fondo di circa 2000 faldoni non è inventariato quindi non è accessibile alla consultazione. Attualmente si sta però lavorando ad una regestazione sommaria per poter rendere il materiale fruibile il più presto possibile agli studiosi. L’analisi ha interessato in maniera provvisoria, se pur completa, la sezione “Foro Criminale” mentre è ancora in corso e, presumo che il lavoro sarà molto lungo, per la sezione “Foro Civile”. Alla luce di questa puntualizzazione si giustifica la scelta di trattare in questo saggio solo cause discusse in foro Criminale. Gli incartamenti di cause conservate tra la documentazione del foro Criminale e del foro Civile spesso hanno la stessa tipologia, sorge spontanea la necessità di fare chiarezza e di capire quali erano le motivazioni che inducevano ad appellarsi ad un foro piuttosto che all’altro. Non essendoci distinzione di sfere di competenza, diverso era l’approccio alla causa. Nelle cause criminali il processo era aperto dallo stesso giudice, sollecitato dall’opinione pubblica e non dalla parte lesa; mutava quindi anche la concezione della pena, non più privata, finalizzata al risarcimento di un’offesa ma afflittiva (bando o carcere) o pecuniaria, comminata dall’interesse generale.

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Francesca Terraccia

ANTICIPAZIONI SUI PROCESSI MATRIMONIALI CONSERVATI

NELL’ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI MILANO.

( FONDO FORO ECCLESIASTICO )

L’idea di scrivere un saggio sui processi matrimoniali presenti nell’Archivio

Storico Diocesano nasce dal desiderio di delineare alcune osservazioni, elaborate

durante lo spoglio di circa un centinaio di processi, conservati nel Fondo Foro

Ecclesiastico, da me eseguito e comunicato al settimo seminario della serie: « I

processi matrimoniali degli archivi ecclesiastici italiani » (Trento, 12-23 dicembre

2000).1

Tra la documentazione conservata non vi è un fondo che raccolga esclusivamente

incartamenti di cause matrimoniali;2 è quindi utile precisare che i processi

matrimoniali che si ritrovano si possono reperire nel Foro Ecclesiastico, suddiviso

in “Foro Criminale” e “Foro Civile” 3.

L’inventariazione di questo ricchissimo fondo, al fine di rendere possibile la

consultazione, è stata avviata da poco tempo; le tipologie processuali matrimoniali

sono solo uno dei filoni di studio che possono essere intrapresi dall’analisi degli

incartamenti conservati.

L’ esposizione in questo saggio di singoli casi, discussi in Foro Criminale,

esemplificativi delle categorie ritrovate, avrà lo scopo di porre attenzione su

esperienze di vita quotidiana e sull’interpretazione di tali esperienze, avvalorando

una concezione della storia, ormai consolidata che, accanto alle strutture sociali

portanti, affianchi la storia dei singoli in quanto prezioso fattore interpretativo,

1 Le discussioni sul progetto di ricerca « I processi matrimoniali degli archivi ecclesiastici italiani

» si sono svolte in otto seminari dal 1998 al 2001, seguiti da un convegno internazionale, e hanno

prodotto al momento due volumi a cura di Silvana Seidel Menchi e Diego Quaglioni: Coniugi

nemici. La separazione in Italia dal XII al XVIII secolo, Annali dell’Istituto storico italo -

germanico in Trento, Quaderni 53, Bologna 2000 e Matrimoni in dubbio. Unioni controverse e

nozze clandestine in Italia dal XIV al XVIII secolo, Annali dell’Istituto storico italo - germanico in

Trento, Quaderni 57, Bologna 2001. 2E’ presente un fondo denominato “Matrimonialia” che conserva documentazione relativa alle

pubblicazioni matrimoniali, comunemente definite processetti, che ha come estremi cronologici

1652-1899. 3 Il fondo di circa 2000 faldoni non è inventariato quindi non è accessibile alla consultazione.

Attualmente si sta però lavorando ad una regestazione sommaria per poter rendere il materiale

fruibile il più presto possibile agli studiosi.

L’analisi ha interessato in maniera provvisoria, se pur completa, la sezione “Foro Criminale”

mentre è ancora in corso e, presumo che il lavoro sarà molto lungo, per la sezione “Foro Civile”.

Alla luce di questa puntualizzazione si giustifica la scelta di trattare in questo saggio solo cause

discusse in foro Criminale. Gli incartamenti di cause conservate tra la documentazione del foro

Criminale e del foro Civile spesso hanno la stessa tipologia, sorge spontanea la necessità di fare

chiarezza e di capire quali erano le motivazioni che inducevano ad appellarsi ad un foro piuttosto

che all’altro. Non essendoci distinzione di sfere di competenza, diverso era l’approccio alla causa.

Nelle cause criminali il processo era aperto dallo stesso giudice, sollecitato dall’opinione pubblica

e non dalla parte lesa; mutava quindi anche la concezione della pena, non più privata, finalizzata al

risarcimento di un’offesa ma afflittiva (bando o carcere) o pecuniaria, comminata dall’interesse

generale.

2

contestualizzando l’individuo (microcosmo) e identificandolo come significativo

riflesso socio-culturale di un’epoca (macrocosmo).4

Dal punto di vista metodologico la scelta del ritratto individuale è un effetto della

convinzione che il caso particolare, abbia valore rappresentativo e conferisca alla

trattazione maggiore concretezza che non un discorso impersonale; dal punto di

vista comunicativo la scelta del caso individuale ha l’effetto di attivare la

componente narrativa5.

1. CAUSE MATRIMONIALI DISCUSSE IN FORO CRIMINALE DOPO IL CONCILIO DI

TRENTO: COMMENTO DI ALCUNE TIPOLOGIE PROCESSUALI.

Il Concilio di Trento aveva segnato una data essenziale nel rendere il matrimonio

un contratto solenne, mettendo in discussione la teoria puramente consensualistica

precedente. I padri conciliari mirarono ad ostacolare caparbiamente i matrimoni

clandestini.

“Tametsi dubitandum non est, clandestina matrimonia, libero

contrahentium consensu facta, rata et vera esse matrimonia, quamdiu ecclesia ea

irrita non fecit, et proinde iure damnandi sint illi, ut eos sancta synodus

anathemate damnat, qui ea vera ac rata esse negant quique falso affirmant

matrimonia, a filiis familias sine consensu parentum contracta, irrita esse, et

parentes ea rata vel irrita facere posse: nihilominus sancta Dei ecclesia ex

iustissimis causis illa semper detestata est atque prohibuit”6.

Con il decreto Tametsi si stabilì che il consenso degli sposi non era più sufficiente

a garantire la validità del matrimonio; affinché lo fosse, erano necessarie le

pubblicazioni di bandi in chiesa per tre giorni festivi consecutivi e la celebrazione

alla presenza del parroco e di almeno due testimoni.

La scena del matrimonio cambia: da atto privato, concluso all’interno della casa,

diviene cerimonia pubblica svolta in chiesa, da azione prettamente laicale diviene

clericale, da insieme di gesti a carattere quasi esclusivamente profano, assume

carattere sacro. Le nuove norme di celebrazione del matrimonio hanno come

effetto immediato la clericalizzazione e la sacralizzazione dell’atto. La normativa

tridentina mira a reprimere le violazioni quali il matrimonio clandestino e il

concubinato7. L’esclusiva competenza al giudizio delle cause matrimoniali è

dell’autorità ecclesiastica8.

4 Nuovi filoni storiografici a questo proposito si delineano in R. BIZZOCCHI, Sentimenti e

documenti, in «Studi storici » 40, 1999, pp. 471-486. 5 S. SEIDEL MENCHI, A titolo di introduzione, in Tempi e spazi di vita femminile tra medioevo

ed età moderna, (a cura di) S. SEIDEL MENCHI – A. JACOBSON SCHUTTE – T. KUEHN

Annali dell’istituto storico italo – germanico in Trento, Quaderni 51, Bologna 1999, p. 18. 6 G. ALBERIGO, G. L. DOSSETTI, P. P. JOANNOU, C. LEONARDI, P. PRODI (a cura di),

Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Sessione XXIV, 11 novembre 1563, Canones super

reformatione circa matrimonium, Bologna 1973, p. 755. 7 G. ZARRI, Il matrimonio tridentino, in Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età

moderna, Bologna 2000, p. 227. 8 A. C. JEMOLO, Il matrimonio nel diritto canonico. Dal Concilio di Trento al Codice del 1917,

Bologna 1993, J. GAUDEMENT, Il matrimonio in occidente, Torino 1989, titolo originale Le

marriage en Occident, Parigi 1987, D. LOMBARDI, Fidanzamenti e matrimoni dal Concilio di

Trento al ‘700, in M. DE GIORGIO - C. KLAPISH-ZUBER (a cura di) Storia del matrimonio,

Bari 1996.

3

Il processo di adeguamento ai nuovi dettami conciliari fu lento e faticoso, sia nei

primi anni di attuazione che nei secoli successivi, come le cause qui analizzate

dimostrano.

Il primo periodo post - conciliare a Milano fu segnato dell’episcopato di Carlo

Borromeo. Egli sin dal suo ingresso in diocesi nel 1565, fu animato dalla volontà

di dare avvio ad una profonda azione di rinnovamento religioso, secondo le linee

tracciate a Trento e rivendicò il libero e pieno esercizio dei poteri giurisdizionali e

coercitivi che gli competevano9. L’attuazione di un simile programma incontrò

l’opposizione dell’autorità civile per il tentativo di esercitare giurisdizione anche

sui laici, oltre le già consolidate sfere di competenza del tribunale ecclesiastico,

che gestiva le cause matrimoniali, mere spirituales,10 le causae ecclesiasticae

spiritalibus annexae, come quelle beneficiali e di giuspatronato, i delicta mere

ecclesiastica, quali eresia, scisma ma anche la fornicazione e il concubinato,

nonché i delicta mixta, bestemmia, sacrilegio, omicidio, adulterio, bigamia e

usura, che erano di competenza di ambedue le giurisdizioni.11

Nonostante una prima vigorosa sferzata, la ricchezza di dibattimenti processuali

riscontrabili lungo l’arco di più secoli, ad oggi rinvenuti, attesta come fu difficile

realizzare i progetti di riforma e regolamentazione dell’istituto matrimoniale.

Non è possibile avere una completa ed esauriente informazione circa l’esercizio

della giustizia ecclesiastica nella Diocesi di Milano. Il tribunale ecclesiastico si

occupava di cause selezionate, annoverate tra le categorie di competenza del foro

civile e del foro criminale; tra queste in virtù dei suaccennati dettami post-

conciliari c’erano le cause matrimoniali. Il vescovo, supremo giudice, esercitava

per mano del vicario generale rappresentato, a sua volta dal vicario criminale e da

quello civile12.

Le tipologie processuali riscontrate tra la documentazione del Foro Criminale

sono riconducibili a quattro:

separazione

stupro

adulterio, molestie e tentato omicidio

9 Nicolò Ormaneto, protonotario apostolico e vicario generale del cardinale Carlo Borromeo presso

la Curia Arcivescovile di Milano, il 29 luglio 1564 pubblica e impartisce immediata attuazione dei

canoni tridentini per la riforma del matrimonio. Acta Ecclesiae Mediolanensis, vol. III, coll. XV-

XVII. I dettami del Concilio di Trento vengono postulati in tutti i Concilii Provinciali e nei Sinodi

Diocesani convocati successivamente come testimoniano tutte le pubblicazioni che sono state fatte

negli Acta Ecclesiae Mediolanensis. 10 A. BORROMEO, Le controversie giurisdizionali tra potere laico e potere ecclesiastico nella

Milano spagnola sul finire del Cinquecento, «Atti dell’Accademia di S. Carlo», Milano 1981,

p.46. 11 L. PROSDOCIMI, Il diritto ecclesiastico dello stato di Milano dall’inizio della signoria

viscontea al periodo tridentino(sec. XIII – XVI) Milano 1941, ristampa anastatica, Milano 1973, p.

291, n. 18. 12 Negli Acta Ecclesiae Mediolanensis, vol. III, col. 1151 Additamentum primum è possibile

confrontare la tabella dei Ministri Tribunalis sanctae Ecclesiae Mediolanensis – la quale riporta:

- Genaraliter ad omnes causas, praesertim matrimoniales, beneficiales, iurispatronatus,

iurisdictionis, et libertatis ecclesiasticae- Vicarius Generalis

- Ad causas civiles – Vicarius Civilis

- Ad causas criminales - Vicarius Criminalis.

4

matrimonio clandestino

Sembrerebbe che tutte le cause, indipendentemente dalla tipologia e dalla diocesi

nella quale venivano discusse seguissero un iter processuale ben definito.13

Una procedura unica regolava i processi sia davanti ai tribunali laici che

ecclesiastici: una parte introduttiva e preparatoria, la lite vera e propria e la

conclusione.

Per intentare una causa bisognava rivolgersi al giudice competente, quello del

domicilio dell’accusato, e dichiarare di voler intentare un’azione contro un’altra

persona. Previa esposizione orale il giudice riformulava le motivazioni presentate

dall’accusatore. Seguiva la citazione dell’accusato, che doveva comparire entro

tre giorni (esclusi i festivi). La citazione poteva essere formulata per tre volte; se

ignorate si procedeva alla scomunica.

Capitava che l’accusato o il suo procuratore presentandosi ponessero delle

exceptiones, che a volte diventavano propri strumenti di dilazione. Il dibattimento

era il momento pregnante del processo. Parte attrice e comparente venivano messi

a confronto e ciascuno presentava la propria versione dei fatti. Già nel tardo

medioevo però la contestazione verbale si trasformava in scritta: la narrazione dei

fatti da parte dell’attore veniva redatta nelle positiones e il convenuto era tenuto a

rispondere sotto giuramento alla formula credit non credit. Le positiones credute

erano date per provate, solo quelle negate venivano poste alla prova testimoniale,

venendo poi riformulate come articoli o capitoli.

Le positiones sono un affascinante e curioso strumento di analisi dei

comportamenti, anche se non è da dimenticare che venivano compilate dai

procuratori, incaricati di vergare gli atti processuali, e quindi non voce diretta

delle parti in causa.

I testimoni sono elementi singolari non tanto per la comprensione dei fatti quanto

per la descrizione delle dinamiche comportamentali rispecchianti contesto storico,

sesso e ceto.

Gli interrogatori venivano condotti dal notaio o attuario, raramente dal giudice, e

si svolgevano al di fuori del tribunale, senza la presenza delle parti per evitare

qualsiasi rischio di intimidazione.

Le domande erano scritte dall’attuario in latino, seguiva risposta in volgare; la

trascrizione era poi resa pubblica per consentire di produrre i propri testimoni.

Sulla base delle trascrizioni il giudice esprimeva infine il proprio giudizio.

L’abilità dell’attuario stava quindi nel riportare fedelmente le risposte date. La

parte convenuta dopo aver sentito le testimonianze dell’accusatore poteva

produrre delle proprie prove: prove scritte come accordi patrimoniali oppure

scritture private exempli gratia lettere d’amore, che a volte denotavano da parte di

due giovani reciproco impegno a sposarsi spesso in contrasto con le volontà

familiari.

13 A questo proposito si veda l’esauriente trattazione di D. LOMBARDI, Matrimoni di antico

regime, Annali dell’istituto storico italo - germanico in Trento, Monografie 34, Bologna 2001, pp.

144-164. Tipologie riscontabili nei De stilis, ritibus, et consuetudinibus fori archiepiscopalis S.

Ecclesiae Mediolanensis ac de modo procedendi in causis, ordini del cardinale Federico Borromeo

nel 1621 in Acta Ecclesiae Mediolanensis, vol. IV, coll. 778-802.

5

I documenti scritti si infittiscono nel Settecento. Ciò probabilmente è dovuto

anche al fatto che aumenta il tasso di alfabetizzazione tra i ceti medio bassi; non è

comunque detto che queste prove scritte fossero veritiere: spesso erano falsi.

Infine il giudice, generalmente il vicario del vescovo, pronunciava la sentenza: a

volte si trovano elencati i singoli atti processuali presi in esame prima di

formulare un giudizio. Le sentenze raramente venivano motivate.

La documentazione dei processi criminali analizzati riguarda per lo più verbali di

interrogatori piuttosto che fascicoli processuali, le cause si aprono spesso con la

deposizione davanti ad un giudice dalla quale si ascolta direttamente la voce dei

protagonisti, condizione favorevole che limita la possibilità di condizionamento.

1.1. I CASI14.CAUSA DI SEPARAZIONE - MARIANNA ZAMPAROLI CONTRO GIUSEPPE

ANTONIO TESTORE DI ALESSANDRIA15

In genere erano le donne a volere la separazione16, come riscontrabile nel caso

analizzato. Le motivazioni più frequenti erano le sevizie e l’adulterio commesso

dal marito. La documentazione si presenta con un primo incartamento datato 6

marzo 1781: è la sentenza emessa dal vicario generale S.A. Chenna della Curia

Vescovile di Alessandria17 che impone a Marianna Zamparoli entro 5 giorni dalla

data di emissione di ritornare a coabitare con il marito. Siamo di fronte alla

soluzione del contenzioso, ci si profila immediatamente che le argomentazioni

presentate dalla parte attrice furono ignorate.

Marianna Zamparoli, parlando per bocca del suo procuratore Pietro Archini,

dichiara di essersi ritirata presso il padre per giusto motivo in quanto il marito era

venuto meno ai patti stabiliti prima del matrimonio, senza i quali la cerimonia a

suo dir non si sarebbe svolta18. Si riscontra una separazione di fatto, che sovente

14 Un’attenta lettura della storia attraverso casi ingenera un’analisi che si avvale di un possibile

ventaglio di tematiche tra cui i reati interpretabili come specchi di contesti relazionali complessi.

Si veda E. GRENDI, Premessa a Fonti Criminali e storia sociale, in «Quaderni storici» 66, 1987,

pp. 695-700. 15 Archivio Storico Diocesano di Milano, d’ora in poi ASDMi, Foro Ecclesiastico, Criminale, Y

6015. 16 Sulla separazione, G. Di Renzo Villata, Separazione personale (storia) in Enciclopedia del

diritto italiano, XLI, Milano 1989, pp.1362-1366.

La separazione è intesa come separazione fisica degli sposi, i quali però dal punto di vista

sacramentale rimangono legati. Il diritto canonico si pronunciava su due tipi di separazione: quoad

thorum et divortium, quoad thorum et mensam che prevedeva l’interruzione di convivenza e il

mantenimento del vincolo matrimoniale per cui non poteva esserci passaggio ad altre nozze, da

distinguersi dal divortium quoad vinculum che rendeva nullo il legame e restituiva a contraenti la

facoltà di risposarsi. I motivi canonicamente validi per la separazione fisica erano: l’adulterio,

ovvero la fornicatio carnalis, l’apostasia o l’eresia, fornicatio spiritualis, infine la violenza fisica

grave, saevitia o nimia saevitia.

J. GAUDEMET, Il matrimonio in occidente, cit. p. 235. 17 Il caso interessa la Curia vescovile di Alessandria perché il giudice competente in materia è

quello del domicilio dell’accusato. 18 Non siamo a conoscenza del ceto di appartenenza dei due coniugi, è noto però che la facilità con

la quale, coloro che decidevano di intentare una causa, riuscivano ad ottenere l’assegnazione di un

6

precedeva il ricorso giudiziale, ammessa poi nelle testimonianze. Dato che la

controparte cercava sempre di addossare colpe a chi esigeva la rottura del vincolo,

grande importanza si identificava nel luogo dove il coniuge si trasferiva dopo aver

abbandonato il tetto coniugale.19

Il 4 settembre 1780 Giuseppe Antonio Testore in una deposizione aveva

dichiarato che la moglie Marianna, a seguito di vari dissapori, si era rifugiata a

casa del padre Pietro, senza una valida motivazione.20 Disdicevole da ritenersi

anche l’atteggiamento del suocero nel tollerare la separazione dei coniugi. Egli

quindi si opponeva fermamente alla rottura e chiedeva al giudice che venisse

imposta la coabitazione.

Accusava inoltre un certo Giacomo Antonio Calliani di frequentare assiduamente

Marianna e di condurla a spasso in città e in campagna, trattenendosi a volte per

giorni come accaduto alla vigilia di S. Bartolomeo.

Il suaccennato Calliani aveva finanche dichiarato di avere delle obbligazioni nei

confronti di Marianna.

Ora si rendeva necessario che lei chiarisse l’accaduto. Le viene chiesto di

comparire il 4 settembre 1780 per replicare il provvedimento.

Marianna risponde di essere stata ingannata dal marito prima del matrimonio:

utilizza i termini “subito un grave danno e pregiudizio seguito al patto”, per cui

non si sarebbero a dir suo celebrate le nozze, dichiara di convivere con i genitori e

di non essere al corrente di obbligazioni nei suoi confronti da parte di Calliani,

chiede quindi di essere assolta dalle accuse che le sono state rivolte.

Testore non ricorda patti stipulati, né obblighi coniugali disattesi. Riconosce di

aver vissuto per un certo periodo a casa del padre, con il consenso della moglie,

per l’eccessiva distanza dell’abitazione dalla bottega di lavoro; del resto lei non

gli aveva mai prestato aiuto.

Poi sottolinea come frequenti fossero le visite di Calliani prima della separazione

e innegabile l’attuale relazione.

Le deposizioni dei testimoni prodotti sono estremamente contraddittorie e

ovviamente integralmente a difesa dell’una o dell’altra parte. Testore segnala a

suo favore il vicino di casa Carlo Antonio Alessi. I vicini avevano un ruolo

fondamentale nell’interpretazione e nel giudizio dei comportamenti tra marito e

moglie. Pettegolezzi e dicerie avevano grave peso nelle cause matrimoniali.

Il 12 settembre 1780, interpellato, l’Alessi afferma che l'armonia matrimoniale tra

i due coniugi era durata solo 4 mesi; Marianna non aiutando il marito in bottega

frequentava liberamente la casa di Calliani, rimanendo sola intere giornate con lui.

Probabilmente dopo una lite era addirittura scappata di casa e aveva dormito una

notte dall’amico. Dal momento della separazione quest’ultimo disponeva di lei

come fosse padre e padrone. Tutti erano a conoscenza che i due avevano

trascorso una vacanza in campagna insieme.

procuratore d’ufficio permetteva anche a individui di ceto non elevato di essere parti attive in

cause matrimoniali. 19 A questo proposito si veda P. RASI, La separatio thori e le norme del Concilio di Trento, in «

Rivista di storia del diritto italiano » XXI, 1948. 20 I casi di separazione vedono una prevalente percentuale di iniziativa femminile e una costante

opposizione da parte dei mariti. A questo proposito: S. CAVALLO, Fidanzamenti e divorzi in

Ancien Régime: la diocesi di Torino, in «Miscellanea storica ligure» IX, 1977, pp. 39.

7

Nell’immaginario comune c’erano dei luoghi considerati comodi, quindi idonei,

per abbandonarsi a manifestazioni licenziose; per provare un adulterio non era

necessario essere colti in flagrante. La chiara denuncia dei testimoni era che

l’allontanamento dal marito non sottendesse una situazione coniugale

insostenibile, ma il desiderio di concedersi ad un altro uomo.

Il 14 settembre il giovane ventenne Pietro Baccalà sostiene fermamente che

Giacomo Antonio Calliani e Marianna Zamparoli abbiano una relazione

clandestina, associata ad una frequentazione assidua, commentata con scandalo e

mormorazione del pubblico, addirittura precedente alla celebrazione del

matrimonio.

Marianna non aveva mai prestato aiuto al marito nella bottega di tintore da lui

posseduta, stava a casa, distolta dagli affari domestici dalle continue visite di colui

che l’aveva completamente soggiogata: un uomo in grado di imporle l’abbandono

del tetto coniugale, al tempo stesso di ritornarvici a sua discrezione.

La donna additata di malaffare, assistita dal procuratore Salvatore Predazzi

sostituto del causidico Cristoforo Balbi, obietta che non meritino considerazione

le testimonianze di Pietro Baccalà, figlio di una lavandaia, e di Carlo Antonio

Alessi, ciabattino di professione: mere interpretazioni personali prive di

fondamento e dettate da odio nei suoi confronti. Cerca quindi di dare credibilità

alla sua replica sottolineando la differenza di ceto. L’appartenenza ad un ceto

superiore avrebbe dovuto garantire rispettabilità, oppure l’insinuazione velata, era

che le persone di umile origine potessero essere circuite e convinte a deporre in

favore di chi forse avrebbe potuto garantire favori o considerazione agli occhi

della società.

A difesa della sua buona e onesta condotta chiama quindi i parroci di S. Martino e

di S. Siro: quale sostegno migliore di due ecclesiastici che possano dichiarare,

garantiti dalle confessioni di foro interno, la sua integrità ?

A giustificazione della sua richiesta di separazione Marianna accusa Testore di

essere reo d’adulterio, affetto da morbo venereo e di pestilenziale allito di fettere

insoffribile. Produce una dichiarazione del chirurgo del reggimento di Saluzzo da

cui si deduce che sia recidivo d’adulterio per ritorno del morbo, inevitabile effetto

di una precedente condotta licenziosa. Implora il beneficio dei sacri Canoni e

specialmente “del capo IV e V extra de divortiis” e richiede infine le sue ragioni

dotali.

Dopo aver ascoltato queste dichiarazioni il cancelliere vescovile Chiara il 2

ottobre intima a Marianna di ritornare dal marito, nonostante le prove esibite e la

reticenza.

L’8 ottobre, con ratifica giudiziale e giurata di 4 giorni successiva, Alessi rilascia

una dichiarazione al notaio Pochettino nella quale si cerca di provare che

Marianna Zamparoli abbia lasciato il tetto coniugale, non per le motivazioni

esibite, ma a causa di un’amicizia estranea.

Marianna audacemente replica che il marito dopo il matrimonio aveva trascorso

l’inverno con lei e poi aveva incominciato a trascurarla, trasferendosi a casa del

padre, perché alloggiato vicino alla bottega da tintore da lui posseduta

(dichiarazione confermata per altro da Testore stesso).

L’assenza del coniuge è addotta come giusta causa per ottenere la separazione. E’

difficile però avere lucida opinione su chi dei due coniugi esercitasse in realtà una

condotta immorale e quali fossero le false dichiarazioni. Marianna arguisce che

8

solo un mese dopo le nozze, recandosi all’osteria del Capelverde con un cugino, il

marito si fosse appestato sino agli occhi, onde fu costretta a dirli di non volere

più dormire con lui. L’allusione ad una probabile malattia venerea e il timore del

contagio scusano l’allontanamento della donna.21 Tale osservazione, se

comprovata, poteva inesorabilmente infangare la reputazione del consorte. Un

uomo dalla condotta irreprensibile non avrebbe mai potuto contrarre un così

vergognoso male.

Si presentano quindi testimonianze per inficiare le affermazioni della donna, come

la deposizione dell’ottobre e la successiva dichiarazione giudiziale del dicembre

di Giuseppe Antonio Aiazza, giovane praticante chirurgo e soldato al servizio del

reggimento di Saluzzo. Accerta di aver curato Giuseppe Antonio Testore per una

semplice scolazione, ossia scaldamento nelle parti che non può riconoscersi come

male venereo e di non aver riscontrato alito cattivo.

I chirurghi Cosseto del reggimento Ciablese e Cordaro del reggimento di Saluzzo

concordarono nel dichiarare che Testore non fosse affetto da malattie né da alito

cattivo. Mentre Gianfranco Cardano anch’egli medico parla di una gonorrea

celtica curata da un anno dalla quale si poteva accertare fosse completamente

guarito.22

Utilizzando gli stessi strumenti della controparte, Testore si avvale delle

certificazioni di ecclesiastici per difendere la sua buona condotta, nelle persone

del parroco di S. Martino di Zambolò, dei curati di S. Siro, di S. Maria del

Carmine e S. Pietro e Dalmazio.

Il vicario generale della Diocesi di Alessandria, Chenna, il 23 gennaio 1781

impone a Marianna di tornare a coabitare con il marito, non servendo, a

giustificazione della sua richiesta, gli elementi esibiti nel contraddittorio

processuale svoltosi in varie fasi. Ella decide di presentare nuove motivazioni a

suo dire valevoli, ma non ritenute tali dalla Curia vescovile di Alessandria che

dopo aver asserito: non comportare d’alcuna ragione o motivo legittimo e

sufficiente per cui possa detta Marianna Zamparoli lecitamente non coabitare con

detto Giuseppe Antonio suo marito dal quale si è separata, regetta l’istanza fatta

per parte medesima e il 9 febbraio 1781 sentenzia: non constare de legittima

causa separationis thori.

Le autorità ecclesiastiche ritengono valide le prove addotte dall’uomo sebbene

manchi una palese propensione a suo favore23.

21 La malattia venerea, comunemente denominata malfrancese, aveva un decorso particolarmente

violento e tumultuoso e si accaniva con particolare predilezione sulla pelle, sulle membrane

mucose e sul sistema scheletrico; comparivano manifestazioni cutanee diffuse accompagnate da

malessere generale. Al di là delle sofferenze fisiche la malattia era piuttosto un marchio

vergognoso espressione di un comportamento lascivo. Su questo tema si veda: A. TOSTI, Storie

all’ombra del malfrancese, Palermo 1992. 22 Sul ruolo della perizia medica nei dibattimenti processuali si veda A. PASTORE, Il medico in

tribunale. La perizia medica nella procedura penale d’antico regime (secoli XVI- XVIII),

Bellinzona 1998. 23 Tra la documentazione si trova indicazione delle spese processuali sostenute Nota di quanto è

stato operato e speso per la signora Marianna Zamparoli nella causa contro Giuseppe Antonio

Testore suo marito visione di scritture (lire 7) dettato di preventiva comparizione (lire 3) copie due

(lire 1,10) dettato di letture inibitoriali (lire 2,10) copie 4 (lire 4) segnatura (lire 4) copie di

produzione (lire 2) per un totale di 24 lire. Non ci sono purtroppo accenni circa il compenso del

procuratore.

9

Inevitabile è l’impatto con la spinosa questione di valutare la veridicità e

l’interpretazione delle testimonianze; paradossalmente la difficoltà sta, non tanto

nella valutazione delle fonti, quanto delle testimonianze riportate dalle fonti.

Le riflessioni possono essere molteplici; è possibile ritenere che le motivazioni

addotte fossero realmente incomplete, artificiose e insostenibili, oppure leggendo

gli incartamenti dei tribunali matrimoniali come storia delle donne, come

ipotizzabile per la causa in questione, sull’ondata dell’interesse internazionale per

questa corrente d’indagine, è possibile considerare il foro, come istituzione che

contribuiva a configurare e a fissare la gerarchia di genere e a cementare

l’asimmetria di potere radicata nella dialettica maschile /femminile.24

Dubbi e perplessità scaturiscono dalla lettura di queste carte. Troviamo

fedelmente ritratti lo stereotipo femminile (donne leggere e fastidiose) e quello

maschile (uomo frequentatore di meretrici e capace di violenze sia fisiche che

morali ), ma la domanda che sorge è riuscire a capire se è possibile giungere ad un

approccio veritiero della realtà nascosta sotto il velo della rappresentazione. Il

processo è un contesto nel quale si dibatte di verità presunta e possibile.

I fascicoli di questi contenziosi non possono ritenersi realtà di fatto, attendibili

canali di trasmissione. Spetta allo storico decidere come porsi di fronte a vicende

come quella sopra presentata, se seguire una linea ermeneutica fiduciosa o

guardinga25. Lo sguardo rigidamente posizionato in una direzione poteva

caratterizzare l’orientamento dell’apparato giudiziario di antico regime ma non

l’interpretazione attuale di queste problematiche.26

Il cardinal Monti, per mano del canonico ordinario e cancelliere arcivescovile il 14 ottobre 1645

impartisce gli Ordini da osservarsi nel tribunale et cancellaria archiepiscopale criminale di

Milano nei quali viene imposto ad ogni notaio criminale di scrivere in libro minutamente anco le

particelle minute de denar, che ricevano, notando causa, persona, quantità e tempo, altrimenti se

mancheranno, siano multati nella perdita della contingente portione, e ciascun notaro ogni

settimana sia obbligato, cioè la sera del sabbato consegnare ad depositario, che sarà da Noi

deputato, intieramente tutt’il denaro gli sarà pervenuto alle mani per occasione dell’officio.

In Acta Ecclesiae Mediolanensis, vol. IV, col. 955. 24 Spunto interpretativo suggerito da S. SEIDEL MENCHI, Introduzione a Coniugi nemici, cit. p.

43. 25 S. SEIDEL MENCHI, Introduzione a Coniugi nemici, cit. p. 65. 26 La causa qui analizzata è dibattuta in un contesto temporale di transizione. E’ doveroso

segnalare a questo proposito, anche se questa precisazione sarà solo un accenno, che nella

Lombardia Austriaca, gli anni ottanta del Settecento segnarono una svolta legislativa di grande

portata. La costituzione Giuseppina del 1784 sul matrimonio assegnò ai regi tribunali la

giurisdizione sulle cause matrimoniali, fino ad allora di stretta competenza delle curie vescovili.

La riforma poggiava sul postulato giuridico secondo il quale nel matrimonio la natura contrattuale,

regolamentata da leggi civili, si distingue dalla natura sacramentale che rimane soggetta alla

giurisdizione della Chiesa. La competenza delle cause matrimoniali che dal 1784 al 1786 era stata

affidata al Senato, dal 1786 passò ai nuovi tribunali civili di prima istanza. Un recente studio

analizza documentazione in merito: E. PAGANO, Mogli in tribunale nella Milano di Giuseppe II,

in «Archivio Storico Lombardo» anno CXXVII, 2001, pp. 61-105. Da segnalare di estrema

importanza per la riforma legislativa invece: C. A. VIANELLO, La legislazione matrimoniale in

Lombardia da Giuseppe II a Napoleone, in Atti e memorie del secondo congresso storico

lombardo, (Bergamo 18-20 maggio 1937) Milano 1937, pp. 327-362 – C. TOSI, Giuseppinismo e

legislazione matrimoniale in Lombardia. La costituzione del 1784, in «Critica Storica», XXVII, 2,

1990, pp. 235-301.

10

1.2. Stupro. Processo per stupro dietro promessa di matrimonio- Tommaso

Monasteri contro Giovanni Battista Ferrari accusato di aver stuprato la figlia

Marta27

Con il capo d’accusa di stupro non si intendeva inquisire un’azione violenta

secondo l’odierna accezione, associata a tale parola: si definiva stupro non la

violenza carnale nei confronti di una donna, ma la seduzione di una giovane

nubile o di una vedova casta, alla quale seguiva copula carnale, generalmente

dietro promessa di matrimonio. Tra la documentazione rinvenuta si utilizza la

categoria stupro anche per le promesse non mantenute o i rapporti

prematrimoniali a cui spesso seguivano gravidanze 28. La violenza è poco

presente; ecco perché è abbastanza inverosimile pensare che una donna vittima di

un abuso efferato, fisico e psicologico, potesse intentare una causa tesa al

mantenimento di una promessa o al conseguimento della dote, per recuperare

l’onore perduto e reinserirsi nel mercato matrimoniale29. Bastava che l’uomo

pronunciasse rassicuranti parole e si impegnasse a concludere al più presto il

matrimonio perché la relazione sessuale avesse avvio. Le denunce per violenza

carnale seguivano tutte questo cliché.

Nella causa qui presentata l’attenzione si sposta in uno spazio temporale di poco

successivo alla chiusura del Concilio di Trento. L’incartamento è molto

voluminoso: consiste in 140 carte vergate con una calligrafia chiara a lettere

grosse e ben distanziate. Veniamo a conoscenza che il giorno 8 gennaio 1593

comparve e, con grave querela espose, Tommaso Monasteri figlio del defunto

Giovanni, abitante a Milano nella parrocchia di S. Gottardo fuori Porta Ticinese,

contro Giovanni Battista Ferrari milanese anch’egli residente in Porta Ticinese

nella parrocchia di S. Vito al Carrobbio.

In antico regime i sacramenti quali battesimo, matrimonio ed estrema unzione,

erano riti religiosi e riti di passaggio ma anche atti di stato civile. Questa doppia

efficacia li rendeva quindi «riti di definizione di stato». Avvalorando queste

osservazioni le parrocchie si possono identificare come circoscrizioni di natura

territoriale. Si apparteneva ad una parrocchia come oggi ad un comune, per

nascita o per residenza. Il parroco, con la compilazione dello stato delle anime

censiva i suoi “abitanti”: in sostanza la parrocchia era il comune anagrafico.30

Queste considerazioni si possono impiegare per motivare la presenza costante

negli incartamenti processuali di indicazioni relative alle parrocchie di residenza.

Le parti in causa e i testimoni prodotti venivano schedati indicando nome, età,

professione e provenienza parrocchiale.

27 ASDMi, Foro Ecclesiastico, Criminale, Y 6250. 28 Lo stupro, l’adulterio, il concubinato e la sodomia erano reati di misto foro e potevano essere

giudicati anche dai tribunali secolari. Nello stato fiorentino fin dal primo Seicento lo stupro

diventò di esclusiva competenza del foro secolare; per la realtà milanese non è al momento

possibile fare delle affermazioni in merito. D. LOMBARDI, Matrimoni di antico regime, cit. p. 13

– 18. 29 A questo proposito si veda: S. CAVALLO – S. CERRUTI, Onore femminile e controllo sociale

della riproduzione in Piemonte tra Sei e Settecento, in «Quaderni storici» 44, 1980, pp.346-383. 30 E. BRAMBILLA, Alle origini del Sant’Uffizio. Penitenza, confessione e giustizia spirituale dal

medioevo al XVI secolo, Bologna 2000, pp. 39-42.

11

Nella denuncia esposta31 si affermava che il 4 novembre 1592, Marta figlia

legittima e naturale del querelante di anni quattordici (età da marito) e vergine si

trovava nella cucina al piano inferiore della casa abitata dai Monasteri e filava oro

in compagnia della sorella Paola, quando giunse l’accusato Giovanni Battista

Ferrari che già faceva l’amore con Marta.

Presentata è qui nelle primissime battute della testimonianza un’importante

asserzione che fa presumere come generalmente l’utilizzo dello stupro come

tipologia processuale, in realtà fosse un tentativo di rivendicare una promessa

negata. Il fatto che i giovani in questione già si conoscessero e avessero rapporti

fa presumere che la causa nasca della necessità e dal desiderio di veder adempiuta

la promessa matrimoniale che precedeva la seduzione di una giovane. Procedendo

con l’analisi delle carte è utile cercare di appurare se vi fu violenza corporea

effettiva.

Egli con animo e intenzione di deflorare essa Marta entrò nella cucina, la giovane

vedendolo e temendo che volesse usar qualche insolentia nella cucina corse in

una camera del piano superiore.

Due possono essere le interpretazioni di questo gesto: Marta scappa perché vuole

inscenare una schermaglia amorosa, (la cucina non è un luogo adatto per

incontrare l’amato), oppure vuole sottrarsi all’incontro, teme le intenzioni del

giovane.

Raggiunge la stanza e chiude a chiave la porta, al punto che il Ferrari pur di

entrare, gittò a terra l’uscio della camera da letto dei genitori comunicante con

quella nella quale si era rifugiata Marta ed intrato di fatto et violentemente et

contro la volontà et consenso di essa putta gittandola sopra un letto quale era in

detta camera la sforzò et usò con lei carnalmente et cridando essa putta gli mise

uno fazzoletto in bocha talmente che finalmente esso querellato hebbe il suo

contento.

La visita dell’accusato era avvenuta, secondo il parere di Monasteri, approfittando

di un suo viaggio sul lago Maggiore e dell’assenza della moglie. Non contento

della violenza consumata, pare che cercasse poi di diffamare pubblicamente Marta

dicendo che era una puttana e si fa chiavare da preti e frati. Accuse meschine e

infondate, a parere del padre che, ovviamente sostiene l’irreprensibile condotta

della figlia.

Le testimonianze prodotte in data 11 gennaio 1593 sono quelle di Marta ossia la

parte offesa, di Paola sua sorella, di un certo Giovanni Battista Monza, della

moglie Isabella e della fantesca Ippolita.

Convocata Marta per replicare sotto giuramento di informazione e verità dei fatti

dichiarò che il contenuto della querela letta (presentata dal padre) corrispondeva

al vero, che il Ferrari sotto colore di volerla pigliar per moglie si era introdotto

nella casa dei genitori conscio della loro assenza e le aveva usato violenza. Suo

desiderio era che fosse castigato come merita. E’ singolare che, se pur sia

disinteressata alla celebrazione di un matrimonio riparatore, invochi una

punizione e non pretenda un risarcimento come la corresponsione della dote,

richiesta comunemente presentata per contenziosi di questo tipo.32

31 I verbali molto dettagliati degli interrogatori fatti alla parte attrice e ai testimoni sono riportati in

terza persona dal notaio. 32 Il matrimonio per la donna e il pagamento di una somma a metà, tra dote e prezzo della sposa,

per il padre-custode apparivano una misura adeguata a cancellare nel corpo sociale l’offesa

12

Marta ripete fedelmente i fatti esposti dal padre usando le stesse parole,

aggiungendo a volte dei particolari, come l’utilizzo di un pugnale per aprire la

serratura della porta comunicante con la stanza nella quale si era rifugiata. La

descrizione della violenza avviene in questi termini:

cominciò abbrazzarme e basciarme dicendo che dovessi lassarlo fare poi che mi

voleva tuor per sua moglie et io dicendo che non voleva et resistendo a mio potere

a simili atti et cridando io non posso fare quello che voglio non sete voi mia

moglie, et io dicendo che non erano adempiti l’ordini della chiesa et altre

circostanze in simili cose che non poteva sicuramente dir che fossi sua moglie,

finalmente esso querelato, perseverando con la cominciata violentia di volermi

sverginare et usare con me carnalmente et io continuamente cridando, mi misse

uno fazoletto in bocha, acciocchè non potessi cridare e poi mi venne adosso et

usò carnalmente con me, consumando l’atto carnale come fanno li mariti con le

mogli, contro ogni mio volere et nonostante ogni mia renitentia et forza de non

permettere l’effetto di simil cosa.

La sua dichiarazione è molto analitica, pare che Ferrari avesse incominciato ad

avvicinarla il giorno del venerdì santo facendole pronunciare, e a sua volta

ribadendo, di volerla pigliar per moglie. Nel mese di agosto, precisamente il

giorno della festività di S. Rocco, l’aveva benedetta in giardino, alla presenza del

parroco di S. Gottardo enunciando di volerla sposare ma mai le aveva detto cosa

alcuna.

Che significato ha quest’ultima affermazione? Siamo di fronte a sponsali, ad una

promessa per verba de futuro, la cui finalità vera e propria, di fatto si era poi

ridotta alla mera seduzione della giovane, non al mantenimento della parola data.

La giovane dichiara di essere stata insidiata a seguito di una promessa di

matrimonio, si può presupporre quindi che fosse consenziente e non violata. Ella

dichiara che prima della violenza non aveva mai avuto rapporti con uomini e non

sapeva cosa fosse homo ne simil negotio. A parer suo la motivazione per cui

Ferrari non aveva mantenuto la promessa dopo l’inganno era la mancata

approvazione del padre alla celebrazione del matrimonio.

Marta confessa di aver mandato una giovane amica di nome Margherita, figlia di

una certa vedova Elisabetta, affinché chiarisse le sue intenzioni ed intercedesse

per lei. La risposta era stata negativa perché Ferrari a seguito di voci giuntegli su

sue presunte relazioni con preti e frati aveva ottenuto veto alle nozze da parte del

padre. Marta riteneva quindi di essere stata ingannata dal triste e subdolo

querelato che insinuava inoltre avesse una relazione con il suo procuratore

Giovanni Mazza. La giovane aggiunge di appartenere ad una famiglia onorata e di

non aver bisogno di quello di altri.

Anche la parte comparente si riteneva raggirata, forse allo scopo del

conseguimento di uno status sociale superiore, dalla giovane dal presunto

comportamento licenzioso.

Marta chiedeva quindi punizione e condanna per colui che aveva abusato di lei.

La seconda testimone prodotta è Paola Monasteri, sorella di Marta, la quale

conferma e sostiene il contenuto della querela che le viene letta. Asserisce di

essere certa dell’accaduto perché, a seguito dell’arrivo di Giovanni Battista, Marta

arrecata dalla violazione di una vergine. G. ALESSI, Il gioco degli scambi: seduzione e

risarcimento nella casistica cattolica del XVI e XVII secolo, in «Quaderni storici» 75, 1990, p.

806.

13

era corsa al piano superiore e aveva incominciato a gridare. A Paola sopraggiunta

per accertare cosa stesse accadendo si parò l’immagine della sorella gittata sopra

il letto che haveva li panni ravvoltati in viso e mostrava ogni cosa et il detto

querellato gli era addosso et haveva giù le calze et gli vidi anche il querellato che

aveva il membro nella natura di mia sorella, perché me li fece tanto apresso che

videva facilmente ogni cosa mentre che gli stava adosso come ho detto, detta mia

sorella cridava dicendo che dovesse andar da li et che non voleva et esso

querellato diceva che poteva fare quello che voleva perché era sua moglie e detta

mia sorella rispondendo, che ancora non era sua moglie sin che non li havesse

sposata con li ordini della chiesa et finalmente vidi, che dappoi che esso

querellato habbi fatto il fatto suo, si levò da dosso de essa mia sorella.

Paola conclude la testimonianza riferendo che ben sapeva che il padre non era

favorevole all’unione matrimoniale tra i due giovani.

Ippolita, giovane lavorante al servizio di Giovanni Battista Monza, vicino di casa

della famiglia Monasteri racconta come la sera dell’accaduto, tornando a casa

all’ora di cena, dopo aver svolto alcune commissioni avesse sentito un gran

fracasso e cridare riconoscendo chiaramente la voce di Marta per la familiarità

che aveva con la giovane e i componenti della casa. Il rumore disturbava il sonno

della sua padrona, a letto perché malata, ella quindi era accorsa ad accertarsi cosa

stesse accadendo – si notava l’uscio abbattuto e si percepivano chiaramente grida

insistenti che chiedevano a Ferrari di andarsene. Udì quindi ma non vide e quanto

accadde le venne raccontato. Ippolita era persuasa che Marta fosse vergine

effettualmente e persona dabbene, così come gli altri componenti della sua

famiglia.

La giovane inserviente essendo una teste prodotta dalla parte attrice biasima

l’atteggiamento deplorevole di Ferrari e discolpa Marta.

Giovanni Battista Monza conferma di aver intimato alla giovane cameriera

Ippolita di verificare cosa stesse accadendo presso la casa dei vicini. Ella gli aveva

raccontato di aver visto un pugnale nel cinturino di Ferrari appoggiato sopra la

finestra di un camerino di casa Monasteri. Monza conosceva il querelato perché

più volte l’aveva visto frequentare la casa dei vicini, ma dal giorno del “fracasso”

non si era più visto da quelle parti. Avendolo incontrato per caso presso la Zecca

cittadina gli aveva chiesto spiegazioni di quanto si vociferava. I genitori di Marta

avevano riferito al vicino dell’increscioso episodio di cui era stata vittima la figlia

e di come la sua reputazione fosse ulteriormente infamata da falsi racconti circa

presunte relazioni con preti e frati, ma egli aveva negato e inoltre dichiarato di

non voler sposare Marta. Monza è convinto dell’integrità morale e della sincerità

di Marta e di tutta la famiglia in virtù di una conoscenza accertata ormai da sei

anni. Dubita invece dell’onestà di Ferrari, incarcerato su istanza del podestà di

Milano per aver derubato alcuni soldati.

Convocata anche Isabella Bassi, moglie di Giovanni Battista Monza, conferma

quanto già riferito dalla fantesca e dal marito. Rammenta che il rumore era tale

che pareva si volesse demolire una porta e che le grida erano molto fastidiose, per

lei a letto malata con un doloroso mal di testa. Ella a conoscenza dell’accaduto per

quanto le è stato riferito, in ogni caso sostiene l’innocenza e la purezza di Marta.

Ippolita de Santo Nazaro commater pubblica, ossia levatrice viene interpellata per

verificare lo stato di verginità di Marta o l’eventualità di precedenti gravidanze e

informa: avendo usato le debite diligentie et circostanze in simili cose necessarie

14

et diligentemente il tratto considerato dico essere la verità che detta putta da

marito è stata sverginata ma però non ha le qualità che si ricercano di haver fatto

figlioli havendo trovato in lei strettezza tale la quale mi fa pensare et giudicare

così. La levatrice non ottiene risposta da Marta quando le chiede il nome di chi le

ha usato violenza.33

Questa perizia è un elemento di prova importante quanto manipolabile: attesta la

non verginità della giovane ma non chiarifica se è uno stato precedente

l’aggressione o causato da essa; questa ambiguità può ridurre il livello di

responsabilità dell’imputato.

I reati consumati contro il corpo femminile sollecitano un’indagine affidata allo

sguardo e al tatto di altre donne. Alle ostetriche veniva riconosciuto un livello di

capacità e di valutazione non inferiore a quello di un fisico o di chirurgo

nell’intervento sul corpo femminile.34

Vengono interrogati anche altri vicini e parrocchiani di S. Gottardo i quali

unanimemente sostengono la virtù e la buona fede di Marta

La registrazione di questi atti processuali è compilata per mano del notaio

Giovanni Battista Mauri a servizio del capitano di giustizia.

Giovanni Battista Ferrari viene denunciato presso l’ufficio criminale della Curia

Arcivescovile di Milano e gli è intimata la carcerazione. Assume come difensore

Giovanni Colombo. Purtroppo non è rimasta traccia delle sue deposizioni. La

responsabilità per stupro semplice comportava una serie ampia di possibili

riparazioni, che andavano da pene come il bando e la carcerazione, spesso

minacciate allo scopo di conseguire matrimonio o dote, o semplice compenso

pecuniario. Le sedotte reclamavano di aver perso l’onore e pretendevano la

punizione del colpevole e la dote o il matrimonio e la proclamazione della propria

verginità.35

Optando per la reclusione il giudice aveva ritenuto valide le istanze presentate

dalla giovane donna e dalla sua famiglia.

1.3. Accuse di Molestie e tentato omicidio per coprire un adulterio. Ippolita

Moroni milanese denuncia il marito Giovanni Andriani valtellinese per tentato

omicidio36

Le vicende narrate in questi incartamenti sono molto movimentate, si susseguono

in maniera avvincente accuse di violenza, adulterio ed imprigionamenti37.

In data 5 luglio 1611 Ippolita Moroni figlia di Giovanni, milanese, abitante a

Bergamo nella contrada di S. Bartolomeo in prato, rilascia una deposizione.

Il marito senza causa alcuna la notte precedente alle ore 3 aveva tentato di segarle

le canne della gola con un coltello. Era riuscita a scappare correndo per le scale in

33 Prima del concilio di Trento l’approccio nei confronti della sessualità consumata dentro o al di

fuori del matrimonio acquistava tratti leggeri, in epoca post-conciliare i rapporti prematrimoniali

sono severamente incriminati. Per giustificare quindi la seduzione a scopo di matrimonio è

necessario dimostrare l’avvenuta copula carnale. 34 A. PASTORE, Il medico in tribunale, cit. pp. 51-53. 35 G. ALESSI, Il gioco degli scambi: seduzione e risarcimento nella casistica cattolica del XVI e

XVII secolo, cit. p. 814. 36 ASDMi, Foro Ecclesiastico, Criminale, Y 1415. 37 L’adulterio è un reato contemplato solo dal diritto civile non da quello canonico, quindi non

perseguibile.

15

camicia da notte e si era rifugiata da alcuni vicini mentre il consorte la rincorreva

per le scale con l’intento di ammazzarla, come per altro aveva tentato di fare in

passato.

Aggiunge che era già stata vittima di violenze, aveva subito una prima

aggressione per mezzo di una cintura con fibbia che le aveva procurato ematomi

al punto di aver tutta la carne negra, e una seconda, avvenuta durante il primo

anno di matrimonio a casa di Simone fratello del marito, nella quale aveva cercato

di strangolarla ed essendo gravida di pochi mesi si disperse costretta poi inferma a

letto per 15 giorni.

Per il tentato omicidio della sera precedente Ippolita chiama a testimoniare coloro

che l’hanno soccorsa: Giacomo Palazzolo e suo figlio e un tale Reverendo di cui

non sa il nome

Testimoni per le prime due aggressioni sono invece i vicini nel primo caso e i

parenti nel secondo, i quali però non avrebbero mai accusato Giovanni Andriani.

A seguito delle deprecabili vicissitudini precedenti ella aveva deciso di ritornare a

Milano, al punto che il marito aveva dovuto garantire una sicurtà, impegnandosi a

non offenderla in alcun modo per ottenere il permesso di ricondurla con sé a

Bergamo.38

L’attuario che la esamina chiede se ci sono motivi che possono aver spinto l’uomo

a ricadere nella spirale di violenza; lei nega e suppone egli paventasse di essere

nuovamente abbandonato.

Il giudice al termine della testimonianza intima che Giovanni Andriani venga

condotto in prigione, quindi crede in prima istanza alle dichiarazioni di Ippolita

Moroni e ordina la reclusione dell’uomo.

Si procede all’esame dei testimoni prodotti da Ippolita.

Salvario Carminati figlio di Giuseppe – proprietario della casa nella quale hanno

vissuto in affitto i coniugi a Bergamo per due anni – dichiara di conoscerli, rende

noto che Andriani fa il cuoco presso l’ospedale Maggiore S. Marco. Non è in

grado di testimoniare che tipo di rapporti intercorressero tra i due e non ha mai

avuto possibilità di testare i racconti delle violenze subite da parte di Ippolita,

della quale ella scrupolosamente gli riferiva. E’ a conoscenza di un trasferimento

a Milano ma non sa se a causa di un’offesa subita. I fatti di cui è a conoscenza

quindi gli sono stati riportati dalla donna.

Pare che Ippolita Moroni avesse già fatto imprigionare a Milano il marito con

l’accusa di eresia; al rilascio egli aveva dovuto sottoscrivere una sorta di garanzia

nella quale si impegnava a non usarle più violenza affinché tornasse a vivere con

lui. L’eresia era una della cause riconosciute per lo scioglimento di un vincolo

coniugale. Una prima considerazione induce ad ipotizzare che lo scopo delle

credibilmente false accuse di violenza fosse di ottenere una separazione dal

marito, tentata in prima istanza, muovendo delle insinuazioni su dubbie credenze

religiose.39

38 La prestazione di una determinata garanzia agevolava il ritorno del coniuge deciso ad

interrompere la coabitazione . P. RASI, La separatio thori e le norme del concilio di Trento, cit.

242. 39 Sevizie e maltrattamenti sono argomentazioni più che valide per ottenere una separazione. Si

confonti un caso simile G. MINUCCI, «An mulier verberari possit». Una «quaestio disputata» di

argomento matrimoniale, in Coniugi nemici.La separazione in Italia dal XII al XVIII secolo, cit.

pp. 491- 499.

16

Si passa poi alla descrizione di quanto accaduto la notte dell’ultima aggressione

della quale si possono appurare solo gli effetti, ossia la richiesta di aiuto della

donna in abiti discinti nel cuore della notte.

Da questa prima testimonianza non abbiamo la possibilità di verificare la

veridicità dei racconti di Ippolita; tutto ciò che il teste conosce gli è stato riportato.

Margherita moglie di Battista Terzi indoratore dichiara di non aver mai visto

Andriani usare violenza alla moglie; racconta di aver saputo del tentativo di

strangolamento presso la casa di Simone, fratello dell’accusato, nella contrada di

S. Michele al pozzo, per il quale si era dispersa.

Afferma però di avere delle perplessità riguardo alla presunta aggressione, perché

Ippolita non aveva segni visibili di violenza sul collo ed era stata a letto per così

poco tempo che a parer suo se fosse stato vero non si sarebbe ripresa così

velocemente sia fisicamente che psicologicamente dalla perdita di un figlio. Non

ricorda bene i tempi di guarigione di Ippolita perché trascorsi ormai 5 anni, però

ribadisce che è convinta fossero invenzioni.

Madonna Giovannina, residente in casa di Antonio Bocolorio nella contrada di S.

Andrea dentro la porta, riferisce che, durante il periodo in cui i coniugi abitavano

nella casa di Cicoli, Giovanni era premuroso nei confronti della moglie; spesso

l’aveva anzi chiamata perché l’aiutasse ad accudirla quando era malata. Anche lei

aveva ricevuto le confidenze di Ippolita nelle quali costei le aveva le rivelato del

tentativo di strangolamento degenerato in aborto.

Tutti i testimoni escussi sono a conoscenza delle presunte violenze subite da

Ippolita solo per sua voce e non per esperienza diretta.

Il 13 luglio 1611 il luogotenente del capitano di Campagna fa arrestare Giovanni

Andriani presso il prato dove si svolgono le fiere e lo consegna al capitano delle

prigioni.

Seguono deposizioni a favore dell’accusato.

Giovanni Giacomo Mazzi, originario di Palosco, che vive nella stessa casa,

conosce la professione di Giovanni e pensa che Ippolita sia una donna perbene.

Espone gli ultimi fatti accaduti: Ippolita, urlante nel cuore della notte, chiedeva

aiuto ed era stata raggiunta dal marito, che supponeva stesse sognando. L’uomo

non aveva armi in mano e non la minacciava cercava solo di ricondurla a casa.

Erano stati testimoni dell’accaduto anche i figli Giovanni Maria e Giovanni

Francesco.

E’ chiamata a deporre la parte comparente. Giovanni Andriani del fu Maffeo,

Valtellinese, dichiara di lavorare all’ospedale maggiore di Bergamo; definisce la

moglie scellerata in virtù delle ripetute fughe.

In passato dopo essersi rifugiata presso un monastero milanese per il sospetto che

egli volesse accusarla di aver commesso adulterio con un certo Giacomo Filippo

Negri, cieco, ne era fuggita riparando a casa dell’amante.

Andriani precisa di essersi recato presso Isabella Negri detta Trombona, madre di

questi- invocando aiuto affinché convincesse la consorte a ritornare con lui.

Isabella invece pensò bene di farlo arrestare per il tentato omicidio di Ippolita.

Riconosciuta poi la sua innocenza era stato scarcerato. Era ritornato a Bergamo e

aveva trovato lavoro presso l’ospedale.

17

Durante la confessione annuale il sacerdote l’aveva convinto a cercare di

riconciliarsi con la moglie40; si era quindi recato a Milano e aveva incontrato i

genitori della donna. Ippolita nel frattempo viveva con il giovane amante cieco.

Di fronte all’ennesimo rifiuto li aveva fatti imprigionare entrambi

nell’Arcivescovado di Milano41, per poi nuovamente supplicarla di tornare a

vivere con lui.

Ippolita aveva accettato a patto di ottenere una sicurtà garantita dal conte Pietro

Corbelloni e aveva fatto ritorno a Bergamo. I buoni propositi non avevano avuto

lunga durata; ora la fuga si motivava con un’accusa di tentato omicidio nei

confronti del consorte.

Andriani cerca di discolparsi presentando la donna come sonnambula: Ippolita si

era svegliata di notte ed era uscita di casa; egli si era accorto e l’aveva richiamata,

lei aveva pertanto incominciato a correre in camicia da notte per le scale, dicendo

che non voleva più vivere con lui e ritornare a Milano. Interrogato sulle due

aggressioni precedenti negava tutto compresa la gravidanza.

Il giudice, dopo aver valutato le attestazioni presentate, dispone la scarcerazione

di Giovanni Andriani dietro sicurtà di scudi 300.

Alcuni testimoni commentano i capitoli presentati in difesa di Giovanni Andriani.

Una vicina testimonia che Ippolita aveva chiesto di consegnare per lei una missiva

in un luogo non specificato perché voleva lasciare nuovamente il marito e tornare

a Milano.

Andrea Carrari, proprietario di una bottega, dichiara di averla vista discorrere

sommessamente con uno sconosciuto il giorno di S. Elisabetta, giorno in cui tra

l’altro ella gli aveva chiesto di accertarsi presso il gestore dell’osteria dell’Orso in

borgo S. Leonardo se vi alloggiavano dei milanesi e se tra questi ci fosse un cieco,

presumibilmente Giacomo Filippo Negri.

Fermo Terzi rivela che in occasione della sua richiesta di confezionare calzette

alla gugia, Ippolita aveva preteso la stesura di una lettera da spedire al fratello, a

suo dire molto potente, nella quale lo supplicava di andarla a prendere e di

condurla a Milano perché il marito le faceva cattiva compagnia. La lettera era

indirizzata all’osteria del Popolo.

Giovanni Battista, figlio del maestro Martino Solari, informa che il giorno di S.

Elisabetta si trovava all’osteria dell’Orso, gestita dal cognato, situata nel borgo S.

Leonardo, quando arrivarono due uomini a cavallo, uno dei quali era cieco.

Dicevano di essere milanesi e chiedevano di essere condotti alla chiesa di S.

Bartolomeo, avevano poi fatto recapitare un messaggio al parroco della parrocchia

40 La confessione era uno degli strumenti attraverso i quali si esercitava la giustizia ecclesiastica,

ora l’aver ottenuto la remissione dei peccati, comprovava in sede testimoniale la sua buona fede e

la sua innocenza e invalidava le accuse di violenza nei confronti della moglie. Sul ruolo della

confessione si veda: G. ROMEO, Esorcisti, confessori e sessualità femminile nell’Italia della

Controriforma, Firenze 1998, A. PROSPERI; Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori,

missionari, Torino 1996. 41 In una lettera indirizzata all’Arcivescovo, Giovanni Andriani narra l’accaduto e chiede la

reclusione dei due giovani. Le sue istanze vengono ritenute valide, ne è prova una lettera scritta da

Eleuterio Eleuteri (difensore di Giacomo Filippo Negri) a Mamurio Lancillotto vicario criminale

della Curia arcivescovile nella quale chiede la scarcerazione dell’assistito perché cieco, povero e in

obbligo verso la madre più che settantenne.

18

suddetta, il quale poco dopo si era recato personalmente all’osteria intrattenendosi

a lungo con i due ospiti.

Il prete, interpellato a deporre, ricusa la conoscenza dei due uomini: ammette di

aver notato un uomo sconosciuto in compagnia di Ippolita nella ricorrenza di S.

Elisabetta e di averlo poi rivisto intrattenersi con altri uomini all’osteria dell’Orso

lo stesso giorno.

Il 3 agosto 1611 Bartolomeo Zucchi, notaio bergamasco, assolve Giovanni

Andriani, mentre Ippolita Moroni viene richiusa nelle carceri arcivescovili di

Milano. Le lunghe deposizioni convalidano la sentenza del giudice e inducono

ragionevolmente a ritenere che la giovane donna avesse inscenato un tentativo di

omicidio per liberarsi di un uomo con il quale la convivenza era divenuta molto

scomoda e fastidiosa.

Anche se al cospetto di un tribunale l’adulterio femminile e quello maschile

avevano esattamente lo stesso valore, per il codice d’onore vigente il primo è

enormemente più grave.42

Riflettendo sui comportamenti di questa giovane donna non si trova traccia di

passività e sottomissione che dovrebbero essere peculiarità femminili. Ippolita è

una donna intraprendente e coraggiosa, esempio di un comportamento deviante e

autonomo rispetto alle rigide assegnazioni di ruolo. L’abbandono del tetto

coniugale è da intendersi come una doppia violazione al comune senso della

morale e alle limitazioni che il ruolo di sposa impone. Ippolita è ingannatrice e

cerca di strumentalizzare a suo favore l’esposizione dei fatti dipingendo il

consorte come prepotente e violento.

1.4 Matrimonio clandestino 43.Atti del processo per matrimonio clandestino tra

Giovanni Battista Airoldi vedovo della parrocchia di S. Andrea alla Pusterla e

Teresa Cheren della parrocchia di S. Bartolomeo.44

Il Settecento è un secolo nel quale incomincia a consolidarsi l’ affettività: i

matrimoni clandestini, dilaganti nelle aule giudiziarie, avvenivano per ostacolare

imposizioni di divieto nei confronti di un’unione. Il rifiuto di una rigorosa

disciplina matrimoniale era sostenuto da una concezione individualistica del

matrimonio, come fatto strettamente privato e pertanto contraibile nel modo che

più era gradito.45 Si era sviluppata un’opposizione feroce nei confronti

dell’esogamia con l’intento di preservare l’endogamia patrimoniale ed evitare

unioni impari. Imperversava quindi una accanita criminalizzazione di questi

eventi.46

42 L. FERRANTE, Il matrimonio disciplinato: processi matrimoniali a Bologna nel Cinquecento,

in P. PRODI (a cura di), Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra

medioevo ed età moderna, Annali dell’Istituto storico italo – germanico, Bologna 1994, p. 911. 43 Riguardo ai matrimoni clandestini si rimanda alle specifiche trattazioni di casi in Matrimoni in

dubbio, opera citata. 44 ASDMi, Foro Ecclesiastico, Criminale, Y 6471. 45 A questo proposito è da segnalare di G. COZZI, Padri figli e matrimoni clandestini, in «La

Cultura» XIV, 1976, pp. 194-196. 46 Per una descrizione sulle strategia matrimoniali si rimanda a: G. DELILLE, Strategie di

alleanza e demografia del matrimonio, in Storia del matrimonio, cit. p. 283-303.

19

Il matrimonio si inseriva in una strategia familiare avente come fine la buona

collocazione delle proprie risorse riproduttive, produttive e simboliche.

Il 15 aprile 1770 Giovanni Battista Rizzi, attuario criminale della Curia

Arcivescovile di Milano al servizio di Paolo Manzoni, pro vicario generale,

deposita, con valore di atto processuale, una relazione che gli è stata mandata dal

curato di S. Andrea alla Pusterla (datata 14 aprile 1770) nella quale si racconta del

matrimonio clandestino contratto, alla presenza del parroco in questione, la notte

tra venerdì e sabato santo, tra il conte Giovanni Battista Airoldi suo parrocchiano

e Teresa Cheren cameriera al suo servizio. Il parroco per i fatti accaduti si trova a

letto indisposto a causa di una ferita alla testa.

Il conte e Teresa Cheren in seguito al matrimonio clandestino si erano recati ad

Olginate come appurato dal prevosto del luogo Gianbattista Cavalli, sperando che

grazie all’allontanamento si riuscisse ad ottenere il riconoscimento dell’unione.

Ritenuto che fosse inopportuno coabitare nella stessa casa, non essendo stata

riconosciuta l’unione, viene intimata loro la separazione per posta, che ricevono

sia all’indirizzo milanese che ad Olginate, (con notifica al podestà di Lecco e

all’Ufficio Pretorio di Lecco del 16 aprile 1770).47

Da quanto deducibile dal memoriale consegnato si può supporre che il parroco in

questione potesse avere qualche colpa per l’atteggiamento tenuto e per aver

ricevuto denaro.

Il 2 aprile 1770 nella Cancelleria Criminale della Curia Arcivescovile di Milano

viene convocato Bernardo Ruffinoni parroco di S. Andrea alla Pusterla in Milano

da 33 anni.48

Deve rendere conto del matrimonio clandestino svoltosi tra Giovanni Battista

Airoldi (figlio del conte Marcellino) suo parrocchiano, vedovo della contessina

Sormani morta da due mesi e Teresa Cheren, figlia di un servitore la quale prestò

cure personali alla defunta contessina per 4 anni, licenziata poi alla morte di

costei. Nella notte tra il venerdì e il sabato santo mentre dormiva era stato

svegliato da una vicina di casa che lo sollecitava ad accorrere al capezzale del

conte Marcellino Airoldi per un incidente improvviso di cui era stato vittima. Il

conte 86ienne è il padre di Gian Battista.

Il curato accorre in fretta verso la dimora nobiliare, accompagnato dal lacchè del

conte Gian Battista. Nelle vicinanze della chiesa vede avvicinarsi delle persone,

intimorito pensando fossero ladri, perde l’equilibrio e cade per terra battendo la

testa. Lungo disteso sente una voce che riconosce come quella del conte Gian

Battista che pronuncia questa frase “questa è mia moglie” – pensa ad un gesto

momentaneo di follia da parte di un uomo da poco rimasto vedovo ma poco dopo

ode le stesse parole pronunciate da voce femminile e alzando lo sguardo riconosce

Teresa Cheren, cameriera personale della defunta contessina Sormani. I due erano

accompagnati dai testimoni giunti all’uopo per rendere valida l’unione nelle

persone del padre di Teresa e del lacchè del conte. È facile individuare un

matrimonio a sorpresa di cui Manzoni ci ha trasmesso una viva descrizione,

47 Nei canoni enunciati nella sezione XXIV del Concilio di Trento: “Canones super reformatione

circa matrimonium” cap. I si esortano gli sposi a non coabitare nella stessa casa prima della

benedizione del sacerdote da riceversi in chiesa. Conciliorum Oecomenicorum Decreta, cit. p. 756. 48 Il confronto tra fonti e nella fattispecie Milano Sacro, per l’anno interessato rivela la fondatezza

dell’affermazione.

20

espediente utilizzato tra sei e settecento per sfuggire all’opposizione delle

famiglie.

Il sacerdote riferisce di aver rimproverato il conte per avergli procurato una

rovinosa caduta. Il conte porgendo scuse si giustifica menzionando il veto posto

dal padre (nihil transeat) alla nuova unione. In tutti gli ambienti sociali raramente

i genitori rimanevano fuori dagli accordi matrimoniali, quindi ponevano veti

soprattutto in casi di disparità di ceto. La straordinaria autorità, esercitata in

particolar modo dal padre, la preminenza di interessi familiari o di lignaggio, non

ammettevano sentimenti individuali. Da parte dei giovani si incrementavano

manifestazioni diffuse di insofferenza.49

Il conte, vedendolo grondante sangue, l’aveva poi accompagnato a casa dove la

serva gli aveva portato pane che, inzuppato nel vino, era servito a medicare la

ferita. Gli aveva poi chiesto perdono appellandosi ai poveri della città per cui il

sacerdote aveva temuto che, a sua insaputa potesse aver messo nella tasca della

veste del denaro da destinare agli indigenti per sopperire all’incidente causato, ma

non ne aveva trovato traccia; indi il conte se ne era andato e la cameriera aveva

chiamato il barbiere per praticare un salasso.

Il provicario generale, esaminato il curato, ritiene che questi abbia taciuto sulla

possibile offerta ricevuta dal conte, di cui invece parla nella lettera inviata ai

novelli coniugi per invalidare il matrimonio clandestino. Ruffinoni sicuramente

vuole nascondere di aver ricevuto denaro dal conte Airoldi, quindi si dispone un

ulteriore consulto.

Riesaminato sostiene di aver ricevuto una lettera dal conte il martedì dopo Pasqua

nella quale gli riporta come dopo la fuga ad Olginate siano stati arrestati da

gendarmi e condotti al pretorio di Lecco e lo prega di recare conforto al padre per

il gesto compiuto e le disastrose conseguenze50. La figura del parroco mediatore

di conflitti familiari è una tipica figura settecentesca che si inserisce in un contesto

di crisi profonda dell’aristocrazia, minacciata dal declino demografico ed

economico e preoccupata di non disperdere i patrimoni.51

Ruffinoni si reca quindi dal conte Marcellino e lo trova in compagnia del

marchese Federico Aliprandi prevosto di S. Nazaro maggiore52. Dalla

conversazione tra i due si viene a conoscenza che era stato proprio il conte padre

49 Avvalorano queste considerazioni la diffusione nel contesto europeo del XVIII di contratti

matrimoniali al fine di garantire salvaguardia di ceto e patrimonio. A questo proposito si veda: G.

BARTH - SCALMANI, Contratti matrimoniali nel XVIII secolo: un’analisi tra la storia del

diritto e quella di genere, in S. SEIDEL MENCHI – A. JACOBSON SCHUTTE – T. KUEHN (a

cura di) Tempi e spazi di vita femminile tra medioevo ed età moderna, Annali dell’istituto storico

italo – germanico in Trento. Quaderni 51, Bologna 1999, pp. 525-553. 50 Nell’incartamento processuale si conserva l’originale della lettera. Giovanni Battista Airoldi

nella missiva sostiene che il matrimonio sia valido e validissimo e niente mancante…il tutto detto

ad alta voce e replicato per ben due volte. Legittimità confermata anche dal consenso del parroco

che si era pronunciato in questi termini ben bene o’ non occor altro ed aveva inoltre ricevuto

un’elemosina.

Le scritture private compaiono sovente negli incartamenti processuali settecenteschi, come

sostenuto da D. LOMBARDI in Matrimoni di antico regime, cit. p. 153. 51 D: LOMBARDI, Fidanzamenti e matrimoni dal Concilio di Trento al ‘700, cit. p. 242. A questo

proposito si segnala anche: L. ALLEGRA, Il parroco: un mediatore fra alta e bassa cultura, in C.

VIVANTI (ed) Intellettuali e potere (Storia d’Italia Annali, 4 )Torino 1981, pp. 895 – 947. 52 La veridicità dell’informazione qui riportata si riscontra anche in Milano Sacro, per l’anno

interessato.

21

ad ordinare l’ arresto e il successivo trasferimento sino a periodo da destinarsi nel

castello di Trezzo53; per Teresa Cheren sarebbe stata adeguata la reclusione in un

monastero milanese.

La parità della condizione sociale ed economica era uno dei requisiti fondamentali

su cui i padri non transigevano, tanto da arrivare a far imprigionare i figli che

sposavano donne ritenute indegne della famiglia, come sopra dimostrato.54

A quanto pare l’intercessione del prelato non era servita a placare le ire del

vecchio uomo. Egli si sentiva additato come colpevole della divulgazione della

notizia del matrimonio, per cui aveva deciso di scrivere una lettera al conte

giovane. La risposta immediata del prigioniero lo sgravava da sensi di colpa e

chiedeva invece intercessione presso il padre per il rilascio e il riconoscimento del

matrimonio con dispensa, che aveva già provveduto a richiedere al provicario

generale55. Nel frattempo era avvenuto il trasferimento nel castello di Trezzo.56

Ruffinoni confessa che nella prima lettera scritta al conte Gian Battista l’intento

era di discolparsi specificando di non aver pubblicato notizia del matrimonio e

adducendo colpe ai vicini affacciati alle finestre che avevano assistito alla scena.

Cercava di rincuorarlo anche riguardo alla scomunica ricevuta57, infatti come si

desume dall’estremamente analitica e riassuntiva dei concili e sinodi precedenti,

Tabula censurarum, et casuum reservatorum, datata 1584, comprensiva di 93

casi, al matrimonio clandestino seguiva la scomunica58.

Il 27 aprile del 1770 il provicario generale dopo aver riascoltato don Bernardo

Ruffinoni decide di esaminare i due testimoni alle nozze: Domenico Marconi e

Giovanni Cheren, rispettivamente lacchè del conte e padre della giovane donna.

Domenico Marconi era stato arrestato e condotto alla casa di correzione vicino la

parrocchia di S. Bartolomeo in P. N.

Egli è figlio di Felice Marconi, orfano dall’età di 11 anni, nativo di Stradella,

lacchè al servizio del conte Airoldi. Esercita la professione da 4 anni: aveva

servito presso alcune famiglie nobili a Pavia e poi si era trasferito a Milano, dove

dal dicembre 1769 era alle dipendenze del conte Airoldi.

Gli viene chiesto se conosce la motivazione del suo arresto; egli presume sia a

causa del matrimonio tra il conte a la signora Cheren. La vicenda si era svolta in

questo modo: la notte del venerdì santo aveva accompagnato il conte a casa di

Teresa Cheren verso mezzanotte, verso le due l’aveva ricondotto a casa e aveva

saputo dell’intenzione di sposare Teresa il giorno dopo. Secondo quanto già

53 Il castello di Trezzo era una fortificazione adibita a prigione sin dal 1200. Si veda C.

MARCORA, Una corsa attraverso le vicende del castello di Trezzo d’Adda, Milano 1970. 54 L. FERRANTE, Il matrimonio disciplinato: processi matrimoniali a Bologna nel Cinquecento,

cit. p. 920. 55 Sulle dispense si veda A. C. JEMOLO, Il matrimonio nel diritto canonico, cit. pp.244-260. 56 Le norme emanate dopo il Concilio di Trento riconoscevano valido il matrimonio celebrato al

cospetto di un sacerdote, alla presenza di due o tre testimoni, preceduto da bandi di pubblicazione.

Il consenso paterno che aveva avuto notevole importanza in epoca pre conciliare non rientrò tra le

cause indispensabili alla validità di un’unione. Nel Settecento ci fu una nuova svolta spinta dalla

necessità di contrastare matrimoni diseguali, venne reintrodotta l’obbligatorietà del consenso

paterno, al momento della promessa, che rappresentava il momento cruciale delle trattative

familiari. Cfr, D. LOMBARDI, Matrimoni di antico regime, cit p. 21. 57 E’ possibile consultare l’originale di questa lettera nella quale il parroco aveva cercato di

rincuorare il conte affermando che l’Arcivescovo l’avrebbe assolto dalla scomunica e avrebbe

convalidato il matrimonio. 58 Acta Ecclesiae Mediolanensis, vol. III, coll. 415-432.

22

riferito dal curato, era andato a chiamare il sacerdote, con la scusa di accorrere al

capezzale del conte padre improvvisamente ammalato e poi tutto si era svolto

come già noto.

Il conte però, dopo aver accompagnato il curato ferito a casa, aveva riferito al

servitore di avergli dato uno zecchino in elemosina per la chiesa. Prontamente

confermato è quindi il dubbio del Provicario riguardo al denaro ricevuto e negato

dal sacerdote.

Il trasferimento ad Olginate - presso una dimora del nobile ribelle - era avvenuto

di notte, attraversando Monza e Cazzaniga. Il sabato i fuggiaschi erano stati

prelevati e condotti al pretorio di Lecco; il conte venne condotto poi al Castello di

Trezzo e Teresa al monastero di S. Zeno a Milano59.

Il lacchè riferisce di una conversazione intercorsa a Olginate tra Teresa e il conte

nella quale la donna riponeva fiducia nel curato che, dopo aver ricevuto il denaro,

aveva promesso che avrebbe cercato di ottenere l’approvazione anche del padre,

notoriamente contrario alle nozze.

Marconi conferma che il conte aveva ricevuto due lettere scritte dal curato quando

rinchiuso nel pretorio di Lecco.

L’iter processuale segue il suo corso e si procede all’interrogatorio di Teresa

Cheren, rinchiusa nel conservatorio di S. Zeno. Ella dichiara di essere figlia di

Giovanni Cheren, staffiere presso il consigliere Rotinger, nata a Milano sotto la

cura di S. Nazaro e di età d’anni 16/17, di professione cameriera. Era entrata in

casa Airoldi al servizio personale della contessina Teresa Sormani, vi era rimasta

per 5 anni, licenziata, era stata richiamata poco dopo ad accudirla perché malata.

Una malattia di mal di petto che in 9 giorni aveva condotto alla morte la giovane

donna.

Riguardo al matrimonio contratto con il conte, ella dichiara di aver fedelmente

servito la giovane contessina e di aver prestato molta attenzione affinché nessun

inconveniente potesse compromettere la sua professione. Confessa che il conte le

aveva sempre dimostrato attenzione “senza però … che immaginasse mai che

avesse qualche intenzione di matrimonio”. Dopo la morte della giovane moglie le

aveva mandato sei lettere ed era andato a trovarla a casa otto volte, sino a

59Carlo Borromeo fonda nel 1579 la casa o deposito di S. Maria Maddalena, poi S. Zenone “nella

quale si da sicuro albergo e ricapito con la debità carità alle donne, che desiderano uscir del

peccato e risorgere alla luce della divina grazia…però ben dice il Savio, stà lontano dalla donna

dishonesta, e non ti approssimare alla porta della casa sua, e non la riguardare, accioche non

resti intricato ne i lacci suoi: hor essendo questa nuova casa cagion di tanto bene poichè per il

suo mezzo si liberano dalla bocca del Lupo infernale le pecorelle redente col precioso sangue del

figliuol di Dio…L’habbiamo dunque eretta oggi nel giorno della festa di santa Maddalena sopra

la protettione di questa gloriosa santa e sotto l’infrascritte regole, nel nome del Signore. (XXII

luglio MDLXXIX)

La casa è retta da uomini timorati di Dio che habbino esperienza di simili maneggi…i sopradetti

uomini non passeranno il numero de dodici. Tra essi è bene che ci siano due sacerdoti e un

confessore, i quali dovranno rendere conto del loro operato direttamente all’Arcivescovo. Le

giovani devono vivere separate affinché l’inferma pecora non corrompi tutto il gregge. Le regole

per il governo della casa vengono stampate a Milano per Pac. Pontio nel 1593. In ASDMi, sez.

XIII, vol. 36, fasc. 2.

Sul conservatorio di S. Zeno si veda inoltre: S. D’AMICO, Sta’ lontano dalla donna disonesta. Il

deposito di S. Zeno a Milano, in «Nuova Rivista Storica», 73, 1989, pp. 395-424. Si veda anche S.

BIFFI, Sulle antiche carceri di Milano e del Ducato Milanese, Milano 1884, (ristampa anastatica

Milano 1972).

23

chiederla in sposa, confessandole però che solo la morte del padre avrebbe reso

possibile la loro unione.

E’ singolare il fatto che Teresa si mostri sorpresa delle attenzioni del conte e al

tempo stesso ricordi così precisamente i suoi approcci amorosi

Pare le avesse promesso fedeltà per iscritto (siamo di fronte a sponsali per verba

de futuro) e le avesse confessato di essersi recato dall’Arcivescovo a chiedere il

permesso; ottenuto diniego, aveva fatto appello ai padri oblati di Rho. Ella cerca

verosimilmente di dimostrare che non fu seduttrice bensì preda. La differenza di

ceto e l’ambizione di raggiungere una posizione di prestigio avrebbe spinto

chiunque nelle sue condizioni a cercare di consolare un uomo vedovo e ricco.

La sera del venerdì santo Giovanni Battista le aveva comunicato che temeva che il

padre fosse a conoscenza del suo desiderio di sposarla e avesse intenzione di far

rinchiudere lei in monastero e lui in un castello, quindi l’unica soluzione era

sposarsi in segreto. Si sarebbero recati dal curato di S. Andrea con due testimoni e

avrebbero pronunciato la loro promessa. In tal modo alla presenza dei testimoni il

matrimonio sarebbe stato valido.

I fatti si erano svolti secondo i fedeli racconti degli altri testimoni. Pare che dopo

il pronunciamento il curato abbia detto: “non occor altro” e poi abbia ricevuto per

mano del conte del denaro per la chiesa, rispondendo grazie. Il provicario le

rivolge ripetutamente domande riguardo al denaro consegnato e ottiene sempre la

stessa risposta.

La testimonianza della donna è l’unica nella quale si sottolinea la complicità e la

certezza dell’assenso da parte del parroco; è difficile sapere se fu effettivamente

così o se ovviamente, essendo la donna l’unica a rimetterci seriamente dalla

perdita della libertà e dall’annullamento del matrimonio, tenti in tutti i modi di

agire affinché non avvenga.

La giovane ammette di aver avuto rapporti sessuali con il conte, descrivendoli

minuziosamente, e di non aver mai conosciuto uomo prima d’allora. Teresa cerca

di dimostrare la sua sincerità e la sua buona fede. Il riconoscimento dell’avvenuta

copula carnale, a suggello della loro unione, avrebbe dovuto ufficialmente

convalidarla.

Si passa quindi alla deposizione del padre della giovane: Giovanni Cheren è di

origine tedesca, risiede a Milano da 11 anni e da 2 anni lavora in qualità di

staffiere presso il consigliere Rotinger; sposato con Marianna Frigerio, con la

quale non vive perché anche lei presta servizio presso una casa. Confessa di avere

una figlia di nome Teresa che a dir suo si è da poco sposata con il conte Giovan

Battista Airoldi - segue il racconto del matrimonio – non vi aggiunge particolari

che discordino o arricchiscano le deposizioni precedenti. Ritiene che il

matrimonio sia valido perché celebrato al cospetto di un prete alla presenza di due

testimoni con pronuncia della frase per due volte. Sostiene che il curato abbia

detto “è bene non occorre altro” e che abbia ricevuto un’elemosina per

l’incomodo, alla quale era seguito un ringraziamento. Sottolinea ripetutamente

che il parroco aveva avuto un atteggiamento accondiscendente. E’ a conoscenza

del viaggio ad Olginate, della cattura dei due e dello spiacevole trasferimento

della figlia al monastero di S. Zeno: luogo a parere suo dove vivono persone di

mala qualità, non adatto per sua figlia, giovane da bene e onorata.

Segue altro interrogatorio al curato perché ammetta di aver ricevuto l’elemosina,

ma egli ostinatamente nega e ripetutamente riferisce di aver intimato al conte di

24

chiedere perdono a Dio per il peccato commesso contraendo matrimonio

clandestino.

Il vicario generale Valentino60, per mano di Giovanni Battista Rizzi, notaio

attuario criminale, li assolve, liberandoli da scomunica o altra pena, imponendo la

separazione ed esigendo dal conte Airoldi il pagamento di una somma di lire 100

imperiali entro l’anno da destinarsi per il matrimonio di qualche nubile figlia della

parrocchia di S. Andrea alla Pusterla.

Avevano ricevuto da parte della Curia Arcivescovile la monitoriale (firmata da

monsignor Valentino, vicario generale e datata 9 giugno 1770) che ingiungeva la

separazione che era stata preceduta da una quietanza del conte padre per il rilascio

e l’assoluzione da qualsiasi censura ecclesiastica.61

60 I nominativi dei vicari generali della Diocesi di Milano sono riportati in C. MARCORA, Serie

cronologica dei Vicari Generali della Diocesi di Milano (dal 1210 al 1930), in «Memorie storiche

della Diocesi di Milano», VI, 1959, pp. 252-282. 61 Le spese processuali sostenute ammontarono a lire 177.

25

CONCLUSIONI

Il commento di queste cause matrimoniali non ha certo pretese di esaustività in

merito all’argomento: si sono voluti presentare degli esempi scelti tra una

documentazione quantitativamente ingente e qualitativamente preziosa, per lungo

tempo ignorata e ora giustamente valorizzata.

La riforma dell’istituto del matrimonio dopo il Concilio di Trento ha contribuito

alla formazione della coscienza moderna attraverso l’azione di controllo della

coppia e della sessualità da parte della chiesa, incentrata sul disciplinamento dei

tribunali ecclesiastici

Sulla scia di un nuovo interesse storiografico, ormai consolidato in Europa e

soprattutto negli Stati Uniti, io aderirei ad uno dei filoni interpretativi suggeriti da

Silvana Seidel Menchi nel suo saggio introduttivo al primo volume pubblicato sui

processi matrimoniali conservati negli archivi ecclesiastici italiani62, frutto del

progetto di ricerca dal quale, questa breve comunicazione sulla realtà diocesana

milanese, non può prescindere e in cui si inserisce.

Le cause matrimoniali possono essere considerate come fonti per la storia delle

donne, offrendo così uno scorcio da un’angolatura differente, utile a focalizzare il

ruolo della donna nella età moderna.

Come facilmente riscontrabile, erano prevalentemente donne che intentavano

cause per i più svariati motivi. I contenziosi approfonditi in questa sede

interessano tematiche con diverse finalità; per la separazione, lo stupro, la

violenza e l’adulterio, l’intento era ottenere la rottura di un vincolo o la punizione

per un reato, mentre per il matrimonio clandestino, si agiva per il riconoscimento

di un nuovo status e l’affermazione di un diritto.

Le donne sono quindi protagoniste: donne notoriamente sottomesse all’autorità

maschile in quanto madri, mogli, figlie o sorelle, fanno ora sentire la loro voce;

non più soggiogate, si ribellano e rivendicano diritti, come il risarcimento

dell’onore perduto, la possibilità di recidere un vincolo dannoso o pericoloso per

la loro salute fisica o mentale.

Testimoniano e combattono per il riconoscimento di un legame matrimoniale

contrastato per disparità di ceto e per voce loro, o per mano dei procuratori, si

impongono, dibattono, forse ingannano perché spesso le loro testimonianze e le

loro rivendicazioni sono frutto di calcolo e si incentrano sull’ espediente per il

conseguimento di un obiettivo: la libertà d’azione. Non è raro che le scelte

individuali confinino in una dimensione trasgressiva e trovino legittimazione solo

nel contenzioso.

I processi non svelano la realtà dei fatti ma evidenziano solo alcuni elementi

chiave sui quali si imposta la controversia, certamente forniscono la singolare

possibilità di addentrarsi nella questione dell’identità di genere femminile 63.

62 S. SEIDEL MENCHI, I processi matrimoniali come fonte storica, in Coniugi nemici. La

separazione in Italia dal XII al XVIII secolo, cit. pp. 43 – 44. 63 Da segnalare in merito a questo nuovo filone storiografico: «Memoria. Rivista di storia delle

donne», I, 1981, J. W. SCOTT, Gender: A useful category of Historical Analysis, in «American

Historical review», 91, 1986, pp. 1053-1075. G. ZARRI, La memoria di lei. Storia delle donne,

storia di genere, Torino 1996.

26

Le donne non solo compaiono all’interno di un nuovo panorama storiografico, ma

in questo contesto agiscono in qualità di attrici e si collocano nella storia del

diritto.

Grazie anche ai pochi esempi analizzati si può segnalare il tramonto della

storiografia vittimista. Il concetto di oppressione non è più il comun denominatore

delle esperienze storiche e delle prove storiografiche delle donne. Al concetto di

“oppressione” come chiave di interpretazione del passato femminile che dominò

la storiografia negli anni Settanta e negli anni Ottanta è subentrato il concetto,

avvalorato dalla documentazione conservata, di “autonomia e iniziativa” ovvero

di autonomia e intraprendenza. Si è cioè sostituita una visione attiva e dinamica

del ruolo svolto dalle donne nelle società occidentali64.

64 S. SEIDEL MENCHI, A titolo di introduzione, in Tempi e spazi di vita femminile tra medioevo

ed età moderna, cit. p. 14.