Anticipazione sui processi matrimoniali conservati nell'Archivio Storico Diocesano di Milano,...
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1
Francesca Terraccia
ANTICIPAZIONI SUI PROCESSI MATRIMONIALI CONSERVATI
NELL’ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI MILANO.
( FONDO FORO ECCLESIASTICO )
L’idea di scrivere un saggio sui processi matrimoniali presenti nell’Archivio
Storico Diocesano nasce dal desiderio di delineare alcune osservazioni, elaborate
durante lo spoglio di circa un centinaio di processi, conservati nel Fondo Foro
Ecclesiastico, da me eseguito e comunicato al settimo seminario della serie: « I
processi matrimoniali degli archivi ecclesiastici italiani » (Trento, 12-23 dicembre
2000).1
Tra la documentazione conservata non vi è un fondo che raccolga esclusivamente
incartamenti di cause matrimoniali;2 è quindi utile precisare che i processi
matrimoniali che si ritrovano si possono reperire nel Foro Ecclesiastico, suddiviso
in “Foro Criminale” e “Foro Civile” 3.
L’inventariazione di questo ricchissimo fondo, al fine di rendere possibile la
consultazione, è stata avviata da poco tempo; le tipologie processuali matrimoniali
sono solo uno dei filoni di studio che possono essere intrapresi dall’analisi degli
incartamenti conservati.
L’ esposizione in questo saggio di singoli casi, discussi in Foro Criminale,
esemplificativi delle categorie ritrovate, avrà lo scopo di porre attenzione su
esperienze di vita quotidiana e sull’interpretazione di tali esperienze, avvalorando
una concezione della storia, ormai consolidata che, accanto alle strutture sociali
portanti, affianchi la storia dei singoli in quanto prezioso fattore interpretativo,
1 Le discussioni sul progetto di ricerca « I processi matrimoniali degli archivi ecclesiastici italiani
» si sono svolte in otto seminari dal 1998 al 2001, seguiti da un convegno internazionale, e hanno
prodotto al momento due volumi a cura di Silvana Seidel Menchi e Diego Quaglioni: Coniugi
nemici. La separazione in Italia dal XII al XVIII secolo, Annali dell’Istituto storico italo -
germanico in Trento, Quaderni 53, Bologna 2000 e Matrimoni in dubbio. Unioni controverse e
nozze clandestine in Italia dal XIV al XVIII secolo, Annali dell’Istituto storico italo - germanico in
Trento, Quaderni 57, Bologna 2001. 2E’ presente un fondo denominato “Matrimonialia” che conserva documentazione relativa alle
pubblicazioni matrimoniali, comunemente definite processetti, che ha come estremi cronologici
1652-1899. 3 Il fondo di circa 2000 faldoni non è inventariato quindi non è accessibile alla consultazione.
Attualmente si sta però lavorando ad una regestazione sommaria per poter rendere il materiale
fruibile il più presto possibile agli studiosi.
L’analisi ha interessato in maniera provvisoria, se pur completa, la sezione “Foro Criminale”
mentre è ancora in corso e, presumo che il lavoro sarà molto lungo, per la sezione “Foro Civile”.
Alla luce di questa puntualizzazione si giustifica la scelta di trattare in questo saggio solo cause
discusse in foro Criminale. Gli incartamenti di cause conservate tra la documentazione del foro
Criminale e del foro Civile spesso hanno la stessa tipologia, sorge spontanea la necessità di fare
chiarezza e di capire quali erano le motivazioni che inducevano ad appellarsi ad un foro piuttosto
che all’altro. Non essendoci distinzione di sfere di competenza, diverso era l’approccio alla causa.
Nelle cause criminali il processo era aperto dallo stesso giudice, sollecitato dall’opinione pubblica
e non dalla parte lesa; mutava quindi anche la concezione della pena, non più privata, finalizzata al
risarcimento di un’offesa ma afflittiva (bando o carcere) o pecuniaria, comminata dall’interesse
generale.
2
contestualizzando l’individuo (microcosmo) e identificandolo come significativo
riflesso socio-culturale di un’epoca (macrocosmo).4
Dal punto di vista metodologico la scelta del ritratto individuale è un effetto della
convinzione che il caso particolare, abbia valore rappresentativo e conferisca alla
trattazione maggiore concretezza che non un discorso impersonale; dal punto di
vista comunicativo la scelta del caso individuale ha l’effetto di attivare la
componente narrativa5.
1. CAUSE MATRIMONIALI DISCUSSE IN FORO CRIMINALE DOPO IL CONCILIO DI
TRENTO: COMMENTO DI ALCUNE TIPOLOGIE PROCESSUALI.
Il Concilio di Trento aveva segnato una data essenziale nel rendere il matrimonio
un contratto solenne, mettendo in discussione la teoria puramente consensualistica
precedente. I padri conciliari mirarono ad ostacolare caparbiamente i matrimoni
clandestini.
“Tametsi dubitandum non est, clandestina matrimonia, libero
contrahentium consensu facta, rata et vera esse matrimonia, quamdiu ecclesia ea
irrita non fecit, et proinde iure damnandi sint illi, ut eos sancta synodus
anathemate damnat, qui ea vera ac rata esse negant quique falso affirmant
matrimonia, a filiis familias sine consensu parentum contracta, irrita esse, et
parentes ea rata vel irrita facere posse: nihilominus sancta Dei ecclesia ex
iustissimis causis illa semper detestata est atque prohibuit”6.
Con il decreto Tametsi si stabilì che il consenso degli sposi non era più sufficiente
a garantire la validità del matrimonio; affinché lo fosse, erano necessarie le
pubblicazioni di bandi in chiesa per tre giorni festivi consecutivi e la celebrazione
alla presenza del parroco e di almeno due testimoni.
La scena del matrimonio cambia: da atto privato, concluso all’interno della casa,
diviene cerimonia pubblica svolta in chiesa, da azione prettamente laicale diviene
clericale, da insieme di gesti a carattere quasi esclusivamente profano, assume
carattere sacro. Le nuove norme di celebrazione del matrimonio hanno come
effetto immediato la clericalizzazione e la sacralizzazione dell’atto. La normativa
tridentina mira a reprimere le violazioni quali il matrimonio clandestino e il
concubinato7. L’esclusiva competenza al giudizio delle cause matrimoniali è
dell’autorità ecclesiastica8.
4 Nuovi filoni storiografici a questo proposito si delineano in R. BIZZOCCHI, Sentimenti e
documenti, in «Studi storici » 40, 1999, pp. 471-486. 5 S. SEIDEL MENCHI, A titolo di introduzione, in Tempi e spazi di vita femminile tra medioevo
ed età moderna, (a cura di) S. SEIDEL MENCHI – A. JACOBSON SCHUTTE – T. KUEHN
Annali dell’istituto storico italo – germanico in Trento, Quaderni 51, Bologna 1999, p. 18. 6 G. ALBERIGO, G. L. DOSSETTI, P. P. JOANNOU, C. LEONARDI, P. PRODI (a cura di),
Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Sessione XXIV, 11 novembre 1563, Canones super
reformatione circa matrimonium, Bologna 1973, p. 755. 7 G. ZARRI, Il matrimonio tridentino, in Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età
moderna, Bologna 2000, p. 227. 8 A. C. JEMOLO, Il matrimonio nel diritto canonico. Dal Concilio di Trento al Codice del 1917,
Bologna 1993, J. GAUDEMENT, Il matrimonio in occidente, Torino 1989, titolo originale Le
marriage en Occident, Parigi 1987, D. LOMBARDI, Fidanzamenti e matrimoni dal Concilio di
Trento al ‘700, in M. DE GIORGIO - C. KLAPISH-ZUBER (a cura di) Storia del matrimonio,
Bari 1996.
3
Il processo di adeguamento ai nuovi dettami conciliari fu lento e faticoso, sia nei
primi anni di attuazione che nei secoli successivi, come le cause qui analizzate
dimostrano.
Il primo periodo post - conciliare a Milano fu segnato dell’episcopato di Carlo
Borromeo. Egli sin dal suo ingresso in diocesi nel 1565, fu animato dalla volontà
di dare avvio ad una profonda azione di rinnovamento religioso, secondo le linee
tracciate a Trento e rivendicò il libero e pieno esercizio dei poteri giurisdizionali e
coercitivi che gli competevano9. L’attuazione di un simile programma incontrò
l’opposizione dell’autorità civile per il tentativo di esercitare giurisdizione anche
sui laici, oltre le già consolidate sfere di competenza del tribunale ecclesiastico,
che gestiva le cause matrimoniali, mere spirituales,10 le causae ecclesiasticae
spiritalibus annexae, come quelle beneficiali e di giuspatronato, i delicta mere
ecclesiastica, quali eresia, scisma ma anche la fornicazione e il concubinato,
nonché i delicta mixta, bestemmia, sacrilegio, omicidio, adulterio, bigamia e
usura, che erano di competenza di ambedue le giurisdizioni.11
Nonostante una prima vigorosa sferzata, la ricchezza di dibattimenti processuali
riscontrabili lungo l’arco di più secoli, ad oggi rinvenuti, attesta come fu difficile
realizzare i progetti di riforma e regolamentazione dell’istituto matrimoniale.
Non è possibile avere una completa ed esauriente informazione circa l’esercizio
della giustizia ecclesiastica nella Diocesi di Milano. Il tribunale ecclesiastico si
occupava di cause selezionate, annoverate tra le categorie di competenza del foro
civile e del foro criminale; tra queste in virtù dei suaccennati dettami post-
conciliari c’erano le cause matrimoniali. Il vescovo, supremo giudice, esercitava
per mano del vicario generale rappresentato, a sua volta dal vicario criminale e da
quello civile12.
Le tipologie processuali riscontrate tra la documentazione del Foro Criminale
sono riconducibili a quattro:
separazione
stupro
adulterio, molestie e tentato omicidio
9 Nicolò Ormaneto, protonotario apostolico e vicario generale del cardinale Carlo Borromeo presso
la Curia Arcivescovile di Milano, il 29 luglio 1564 pubblica e impartisce immediata attuazione dei
canoni tridentini per la riforma del matrimonio. Acta Ecclesiae Mediolanensis, vol. III, coll. XV-
XVII. I dettami del Concilio di Trento vengono postulati in tutti i Concilii Provinciali e nei Sinodi
Diocesani convocati successivamente come testimoniano tutte le pubblicazioni che sono state fatte
negli Acta Ecclesiae Mediolanensis. 10 A. BORROMEO, Le controversie giurisdizionali tra potere laico e potere ecclesiastico nella
Milano spagnola sul finire del Cinquecento, «Atti dell’Accademia di S. Carlo», Milano 1981,
p.46. 11 L. PROSDOCIMI, Il diritto ecclesiastico dello stato di Milano dall’inizio della signoria
viscontea al periodo tridentino(sec. XIII – XVI) Milano 1941, ristampa anastatica, Milano 1973, p.
291, n. 18. 12 Negli Acta Ecclesiae Mediolanensis, vol. III, col. 1151 Additamentum primum è possibile
confrontare la tabella dei Ministri Tribunalis sanctae Ecclesiae Mediolanensis – la quale riporta:
- Genaraliter ad omnes causas, praesertim matrimoniales, beneficiales, iurispatronatus,
iurisdictionis, et libertatis ecclesiasticae- Vicarius Generalis
- Ad causas civiles – Vicarius Civilis
- Ad causas criminales - Vicarius Criminalis.
4
matrimonio clandestino
Sembrerebbe che tutte le cause, indipendentemente dalla tipologia e dalla diocesi
nella quale venivano discusse seguissero un iter processuale ben definito.13
Una procedura unica regolava i processi sia davanti ai tribunali laici che
ecclesiastici: una parte introduttiva e preparatoria, la lite vera e propria e la
conclusione.
Per intentare una causa bisognava rivolgersi al giudice competente, quello del
domicilio dell’accusato, e dichiarare di voler intentare un’azione contro un’altra
persona. Previa esposizione orale il giudice riformulava le motivazioni presentate
dall’accusatore. Seguiva la citazione dell’accusato, che doveva comparire entro
tre giorni (esclusi i festivi). La citazione poteva essere formulata per tre volte; se
ignorate si procedeva alla scomunica.
Capitava che l’accusato o il suo procuratore presentandosi ponessero delle
exceptiones, che a volte diventavano propri strumenti di dilazione. Il dibattimento
era il momento pregnante del processo. Parte attrice e comparente venivano messi
a confronto e ciascuno presentava la propria versione dei fatti. Già nel tardo
medioevo però la contestazione verbale si trasformava in scritta: la narrazione dei
fatti da parte dell’attore veniva redatta nelle positiones e il convenuto era tenuto a
rispondere sotto giuramento alla formula credit non credit. Le positiones credute
erano date per provate, solo quelle negate venivano poste alla prova testimoniale,
venendo poi riformulate come articoli o capitoli.
Le positiones sono un affascinante e curioso strumento di analisi dei
comportamenti, anche se non è da dimenticare che venivano compilate dai
procuratori, incaricati di vergare gli atti processuali, e quindi non voce diretta
delle parti in causa.
I testimoni sono elementi singolari non tanto per la comprensione dei fatti quanto
per la descrizione delle dinamiche comportamentali rispecchianti contesto storico,
sesso e ceto.
Gli interrogatori venivano condotti dal notaio o attuario, raramente dal giudice, e
si svolgevano al di fuori del tribunale, senza la presenza delle parti per evitare
qualsiasi rischio di intimidazione.
Le domande erano scritte dall’attuario in latino, seguiva risposta in volgare; la
trascrizione era poi resa pubblica per consentire di produrre i propri testimoni.
Sulla base delle trascrizioni il giudice esprimeva infine il proprio giudizio.
L’abilità dell’attuario stava quindi nel riportare fedelmente le risposte date. La
parte convenuta dopo aver sentito le testimonianze dell’accusatore poteva
produrre delle proprie prove: prove scritte come accordi patrimoniali oppure
scritture private exempli gratia lettere d’amore, che a volte denotavano da parte di
due giovani reciproco impegno a sposarsi spesso in contrasto con le volontà
familiari.
13 A questo proposito si veda l’esauriente trattazione di D. LOMBARDI, Matrimoni di antico
regime, Annali dell’istituto storico italo - germanico in Trento, Monografie 34, Bologna 2001, pp.
144-164. Tipologie riscontabili nei De stilis, ritibus, et consuetudinibus fori archiepiscopalis S.
Ecclesiae Mediolanensis ac de modo procedendi in causis, ordini del cardinale Federico Borromeo
nel 1621 in Acta Ecclesiae Mediolanensis, vol. IV, coll. 778-802.
5
I documenti scritti si infittiscono nel Settecento. Ciò probabilmente è dovuto
anche al fatto che aumenta il tasso di alfabetizzazione tra i ceti medio bassi; non è
comunque detto che queste prove scritte fossero veritiere: spesso erano falsi.
Infine il giudice, generalmente il vicario del vescovo, pronunciava la sentenza: a
volte si trovano elencati i singoli atti processuali presi in esame prima di
formulare un giudizio. Le sentenze raramente venivano motivate.
La documentazione dei processi criminali analizzati riguarda per lo più verbali di
interrogatori piuttosto che fascicoli processuali, le cause si aprono spesso con la
deposizione davanti ad un giudice dalla quale si ascolta direttamente la voce dei
protagonisti, condizione favorevole che limita la possibilità di condizionamento.
1.1. I CASI14.CAUSA DI SEPARAZIONE - MARIANNA ZAMPAROLI CONTRO GIUSEPPE
ANTONIO TESTORE DI ALESSANDRIA15
In genere erano le donne a volere la separazione16, come riscontrabile nel caso
analizzato. Le motivazioni più frequenti erano le sevizie e l’adulterio commesso
dal marito. La documentazione si presenta con un primo incartamento datato 6
marzo 1781: è la sentenza emessa dal vicario generale S.A. Chenna della Curia
Vescovile di Alessandria17 che impone a Marianna Zamparoli entro 5 giorni dalla
data di emissione di ritornare a coabitare con il marito. Siamo di fronte alla
soluzione del contenzioso, ci si profila immediatamente che le argomentazioni
presentate dalla parte attrice furono ignorate.
Marianna Zamparoli, parlando per bocca del suo procuratore Pietro Archini,
dichiara di essersi ritirata presso il padre per giusto motivo in quanto il marito era
venuto meno ai patti stabiliti prima del matrimonio, senza i quali la cerimonia a
suo dir non si sarebbe svolta18. Si riscontra una separazione di fatto, che sovente
14 Un’attenta lettura della storia attraverso casi ingenera un’analisi che si avvale di un possibile
ventaglio di tematiche tra cui i reati interpretabili come specchi di contesti relazionali complessi.
Si veda E. GRENDI, Premessa a Fonti Criminali e storia sociale, in «Quaderni storici» 66, 1987,
pp. 695-700. 15 Archivio Storico Diocesano di Milano, d’ora in poi ASDMi, Foro Ecclesiastico, Criminale, Y
6015. 16 Sulla separazione, G. Di Renzo Villata, Separazione personale (storia) in Enciclopedia del
diritto italiano, XLI, Milano 1989, pp.1362-1366.
La separazione è intesa come separazione fisica degli sposi, i quali però dal punto di vista
sacramentale rimangono legati. Il diritto canonico si pronunciava su due tipi di separazione: quoad
thorum et divortium, quoad thorum et mensam che prevedeva l’interruzione di convivenza e il
mantenimento del vincolo matrimoniale per cui non poteva esserci passaggio ad altre nozze, da
distinguersi dal divortium quoad vinculum che rendeva nullo il legame e restituiva a contraenti la
facoltà di risposarsi. I motivi canonicamente validi per la separazione fisica erano: l’adulterio,
ovvero la fornicatio carnalis, l’apostasia o l’eresia, fornicatio spiritualis, infine la violenza fisica
grave, saevitia o nimia saevitia.
J. GAUDEMET, Il matrimonio in occidente, cit. p. 235. 17 Il caso interessa la Curia vescovile di Alessandria perché il giudice competente in materia è
quello del domicilio dell’accusato. 18 Non siamo a conoscenza del ceto di appartenenza dei due coniugi, è noto però che la facilità con
la quale, coloro che decidevano di intentare una causa, riuscivano ad ottenere l’assegnazione di un
6
precedeva il ricorso giudiziale, ammessa poi nelle testimonianze. Dato che la
controparte cercava sempre di addossare colpe a chi esigeva la rottura del vincolo,
grande importanza si identificava nel luogo dove il coniuge si trasferiva dopo aver
abbandonato il tetto coniugale.19
Il 4 settembre 1780 Giuseppe Antonio Testore in una deposizione aveva
dichiarato che la moglie Marianna, a seguito di vari dissapori, si era rifugiata a
casa del padre Pietro, senza una valida motivazione.20 Disdicevole da ritenersi
anche l’atteggiamento del suocero nel tollerare la separazione dei coniugi. Egli
quindi si opponeva fermamente alla rottura e chiedeva al giudice che venisse
imposta la coabitazione.
Accusava inoltre un certo Giacomo Antonio Calliani di frequentare assiduamente
Marianna e di condurla a spasso in città e in campagna, trattenendosi a volte per
giorni come accaduto alla vigilia di S. Bartolomeo.
Il suaccennato Calliani aveva finanche dichiarato di avere delle obbligazioni nei
confronti di Marianna.
Ora si rendeva necessario che lei chiarisse l’accaduto. Le viene chiesto di
comparire il 4 settembre 1780 per replicare il provvedimento.
Marianna risponde di essere stata ingannata dal marito prima del matrimonio:
utilizza i termini “subito un grave danno e pregiudizio seguito al patto”, per cui
non si sarebbero a dir suo celebrate le nozze, dichiara di convivere con i genitori e
di non essere al corrente di obbligazioni nei suoi confronti da parte di Calliani,
chiede quindi di essere assolta dalle accuse che le sono state rivolte.
Testore non ricorda patti stipulati, né obblighi coniugali disattesi. Riconosce di
aver vissuto per un certo periodo a casa del padre, con il consenso della moglie,
per l’eccessiva distanza dell’abitazione dalla bottega di lavoro; del resto lei non
gli aveva mai prestato aiuto.
Poi sottolinea come frequenti fossero le visite di Calliani prima della separazione
e innegabile l’attuale relazione.
Le deposizioni dei testimoni prodotti sono estremamente contraddittorie e
ovviamente integralmente a difesa dell’una o dell’altra parte. Testore segnala a
suo favore il vicino di casa Carlo Antonio Alessi. I vicini avevano un ruolo
fondamentale nell’interpretazione e nel giudizio dei comportamenti tra marito e
moglie. Pettegolezzi e dicerie avevano grave peso nelle cause matrimoniali.
Il 12 settembre 1780, interpellato, l’Alessi afferma che l'armonia matrimoniale tra
i due coniugi era durata solo 4 mesi; Marianna non aiutando il marito in bottega
frequentava liberamente la casa di Calliani, rimanendo sola intere giornate con lui.
Probabilmente dopo una lite era addirittura scappata di casa e aveva dormito una
notte dall’amico. Dal momento della separazione quest’ultimo disponeva di lei
come fosse padre e padrone. Tutti erano a conoscenza che i due avevano
trascorso una vacanza in campagna insieme.
procuratore d’ufficio permetteva anche a individui di ceto non elevato di essere parti attive in
cause matrimoniali. 19 A questo proposito si veda P. RASI, La separatio thori e le norme del Concilio di Trento, in «
Rivista di storia del diritto italiano » XXI, 1948. 20 I casi di separazione vedono una prevalente percentuale di iniziativa femminile e una costante
opposizione da parte dei mariti. A questo proposito: S. CAVALLO, Fidanzamenti e divorzi in
Ancien Régime: la diocesi di Torino, in «Miscellanea storica ligure» IX, 1977, pp. 39.
7
Nell’immaginario comune c’erano dei luoghi considerati comodi, quindi idonei,
per abbandonarsi a manifestazioni licenziose; per provare un adulterio non era
necessario essere colti in flagrante. La chiara denuncia dei testimoni era che
l’allontanamento dal marito non sottendesse una situazione coniugale
insostenibile, ma il desiderio di concedersi ad un altro uomo.
Il 14 settembre il giovane ventenne Pietro Baccalà sostiene fermamente che
Giacomo Antonio Calliani e Marianna Zamparoli abbiano una relazione
clandestina, associata ad una frequentazione assidua, commentata con scandalo e
mormorazione del pubblico, addirittura precedente alla celebrazione del
matrimonio.
Marianna non aveva mai prestato aiuto al marito nella bottega di tintore da lui
posseduta, stava a casa, distolta dagli affari domestici dalle continue visite di colui
che l’aveva completamente soggiogata: un uomo in grado di imporle l’abbandono
del tetto coniugale, al tempo stesso di ritornarvici a sua discrezione.
La donna additata di malaffare, assistita dal procuratore Salvatore Predazzi
sostituto del causidico Cristoforo Balbi, obietta che non meritino considerazione
le testimonianze di Pietro Baccalà, figlio di una lavandaia, e di Carlo Antonio
Alessi, ciabattino di professione: mere interpretazioni personali prive di
fondamento e dettate da odio nei suoi confronti. Cerca quindi di dare credibilità
alla sua replica sottolineando la differenza di ceto. L’appartenenza ad un ceto
superiore avrebbe dovuto garantire rispettabilità, oppure l’insinuazione velata, era
che le persone di umile origine potessero essere circuite e convinte a deporre in
favore di chi forse avrebbe potuto garantire favori o considerazione agli occhi
della società.
A difesa della sua buona e onesta condotta chiama quindi i parroci di S. Martino e
di S. Siro: quale sostegno migliore di due ecclesiastici che possano dichiarare,
garantiti dalle confessioni di foro interno, la sua integrità ?
A giustificazione della sua richiesta di separazione Marianna accusa Testore di
essere reo d’adulterio, affetto da morbo venereo e di pestilenziale allito di fettere
insoffribile. Produce una dichiarazione del chirurgo del reggimento di Saluzzo da
cui si deduce che sia recidivo d’adulterio per ritorno del morbo, inevitabile effetto
di una precedente condotta licenziosa. Implora il beneficio dei sacri Canoni e
specialmente “del capo IV e V extra de divortiis” e richiede infine le sue ragioni
dotali.
Dopo aver ascoltato queste dichiarazioni il cancelliere vescovile Chiara il 2
ottobre intima a Marianna di ritornare dal marito, nonostante le prove esibite e la
reticenza.
L’8 ottobre, con ratifica giudiziale e giurata di 4 giorni successiva, Alessi rilascia
una dichiarazione al notaio Pochettino nella quale si cerca di provare che
Marianna Zamparoli abbia lasciato il tetto coniugale, non per le motivazioni
esibite, ma a causa di un’amicizia estranea.
Marianna audacemente replica che il marito dopo il matrimonio aveva trascorso
l’inverno con lei e poi aveva incominciato a trascurarla, trasferendosi a casa del
padre, perché alloggiato vicino alla bottega da tintore da lui posseduta
(dichiarazione confermata per altro da Testore stesso).
L’assenza del coniuge è addotta come giusta causa per ottenere la separazione. E’
difficile però avere lucida opinione su chi dei due coniugi esercitasse in realtà una
condotta immorale e quali fossero le false dichiarazioni. Marianna arguisce che
8
solo un mese dopo le nozze, recandosi all’osteria del Capelverde con un cugino, il
marito si fosse appestato sino agli occhi, onde fu costretta a dirli di non volere
più dormire con lui. L’allusione ad una probabile malattia venerea e il timore del
contagio scusano l’allontanamento della donna.21 Tale osservazione, se
comprovata, poteva inesorabilmente infangare la reputazione del consorte. Un
uomo dalla condotta irreprensibile non avrebbe mai potuto contrarre un così
vergognoso male.
Si presentano quindi testimonianze per inficiare le affermazioni della donna, come
la deposizione dell’ottobre e la successiva dichiarazione giudiziale del dicembre
di Giuseppe Antonio Aiazza, giovane praticante chirurgo e soldato al servizio del
reggimento di Saluzzo. Accerta di aver curato Giuseppe Antonio Testore per una
semplice scolazione, ossia scaldamento nelle parti che non può riconoscersi come
male venereo e di non aver riscontrato alito cattivo.
I chirurghi Cosseto del reggimento Ciablese e Cordaro del reggimento di Saluzzo
concordarono nel dichiarare che Testore non fosse affetto da malattie né da alito
cattivo. Mentre Gianfranco Cardano anch’egli medico parla di una gonorrea
celtica curata da un anno dalla quale si poteva accertare fosse completamente
guarito.22
Utilizzando gli stessi strumenti della controparte, Testore si avvale delle
certificazioni di ecclesiastici per difendere la sua buona condotta, nelle persone
del parroco di S. Martino di Zambolò, dei curati di S. Siro, di S. Maria del
Carmine e S. Pietro e Dalmazio.
Il vicario generale della Diocesi di Alessandria, Chenna, il 23 gennaio 1781
impone a Marianna di tornare a coabitare con il marito, non servendo, a
giustificazione della sua richiesta, gli elementi esibiti nel contraddittorio
processuale svoltosi in varie fasi. Ella decide di presentare nuove motivazioni a
suo dire valevoli, ma non ritenute tali dalla Curia vescovile di Alessandria che
dopo aver asserito: non comportare d’alcuna ragione o motivo legittimo e
sufficiente per cui possa detta Marianna Zamparoli lecitamente non coabitare con
detto Giuseppe Antonio suo marito dal quale si è separata, regetta l’istanza fatta
per parte medesima e il 9 febbraio 1781 sentenzia: non constare de legittima
causa separationis thori.
Le autorità ecclesiastiche ritengono valide le prove addotte dall’uomo sebbene
manchi una palese propensione a suo favore23.
21 La malattia venerea, comunemente denominata malfrancese, aveva un decorso particolarmente
violento e tumultuoso e si accaniva con particolare predilezione sulla pelle, sulle membrane
mucose e sul sistema scheletrico; comparivano manifestazioni cutanee diffuse accompagnate da
malessere generale. Al di là delle sofferenze fisiche la malattia era piuttosto un marchio
vergognoso espressione di un comportamento lascivo. Su questo tema si veda: A. TOSTI, Storie
all’ombra del malfrancese, Palermo 1992. 22 Sul ruolo della perizia medica nei dibattimenti processuali si veda A. PASTORE, Il medico in
tribunale. La perizia medica nella procedura penale d’antico regime (secoli XVI- XVIII),
Bellinzona 1998. 23 Tra la documentazione si trova indicazione delle spese processuali sostenute Nota di quanto è
stato operato e speso per la signora Marianna Zamparoli nella causa contro Giuseppe Antonio
Testore suo marito visione di scritture (lire 7) dettato di preventiva comparizione (lire 3) copie due
(lire 1,10) dettato di letture inibitoriali (lire 2,10) copie 4 (lire 4) segnatura (lire 4) copie di
produzione (lire 2) per un totale di 24 lire. Non ci sono purtroppo accenni circa il compenso del
procuratore.
9
Inevitabile è l’impatto con la spinosa questione di valutare la veridicità e
l’interpretazione delle testimonianze; paradossalmente la difficoltà sta, non tanto
nella valutazione delle fonti, quanto delle testimonianze riportate dalle fonti.
Le riflessioni possono essere molteplici; è possibile ritenere che le motivazioni
addotte fossero realmente incomplete, artificiose e insostenibili, oppure leggendo
gli incartamenti dei tribunali matrimoniali come storia delle donne, come
ipotizzabile per la causa in questione, sull’ondata dell’interesse internazionale per
questa corrente d’indagine, è possibile considerare il foro, come istituzione che
contribuiva a configurare e a fissare la gerarchia di genere e a cementare
l’asimmetria di potere radicata nella dialettica maschile /femminile.24
Dubbi e perplessità scaturiscono dalla lettura di queste carte. Troviamo
fedelmente ritratti lo stereotipo femminile (donne leggere e fastidiose) e quello
maschile (uomo frequentatore di meretrici e capace di violenze sia fisiche che
morali ), ma la domanda che sorge è riuscire a capire se è possibile giungere ad un
approccio veritiero della realtà nascosta sotto il velo della rappresentazione. Il
processo è un contesto nel quale si dibatte di verità presunta e possibile.
I fascicoli di questi contenziosi non possono ritenersi realtà di fatto, attendibili
canali di trasmissione. Spetta allo storico decidere come porsi di fronte a vicende
come quella sopra presentata, se seguire una linea ermeneutica fiduciosa o
guardinga25. Lo sguardo rigidamente posizionato in una direzione poteva
caratterizzare l’orientamento dell’apparato giudiziario di antico regime ma non
l’interpretazione attuale di queste problematiche.26
Il cardinal Monti, per mano del canonico ordinario e cancelliere arcivescovile il 14 ottobre 1645
impartisce gli Ordini da osservarsi nel tribunale et cancellaria archiepiscopale criminale di
Milano nei quali viene imposto ad ogni notaio criminale di scrivere in libro minutamente anco le
particelle minute de denar, che ricevano, notando causa, persona, quantità e tempo, altrimenti se
mancheranno, siano multati nella perdita della contingente portione, e ciascun notaro ogni
settimana sia obbligato, cioè la sera del sabbato consegnare ad depositario, che sarà da Noi
deputato, intieramente tutt’il denaro gli sarà pervenuto alle mani per occasione dell’officio.
In Acta Ecclesiae Mediolanensis, vol. IV, col. 955. 24 Spunto interpretativo suggerito da S. SEIDEL MENCHI, Introduzione a Coniugi nemici, cit. p.
43. 25 S. SEIDEL MENCHI, Introduzione a Coniugi nemici, cit. p. 65. 26 La causa qui analizzata è dibattuta in un contesto temporale di transizione. E’ doveroso
segnalare a questo proposito, anche se questa precisazione sarà solo un accenno, che nella
Lombardia Austriaca, gli anni ottanta del Settecento segnarono una svolta legislativa di grande
portata. La costituzione Giuseppina del 1784 sul matrimonio assegnò ai regi tribunali la
giurisdizione sulle cause matrimoniali, fino ad allora di stretta competenza delle curie vescovili.
La riforma poggiava sul postulato giuridico secondo il quale nel matrimonio la natura contrattuale,
regolamentata da leggi civili, si distingue dalla natura sacramentale che rimane soggetta alla
giurisdizione della Chiesa. La competenza delle cause matrimoniali che dal 1784 al 1786 era stata
affidata al Senato, dal 1786 passò ai nuovi tribunali civili di prima istanza. Un recente studio
analizza documentazione in merito: E. PAGANO, Mogli in tribunale nella Milano di Giuseppe II,
in «Archivio Storico Lombardo» anno CXXVII, 2001, pp. 61-105. Da segnalare di estrema
importanza per la riforma legislativa invece: C. A. VIANELLO, La legislazione matrimoniale in
Lombardia da Giuseppe II a Napoleone, in Atti e memorie del secondo congresso storico
lombardo, (Bergamo 18-20 maggio 1937) Milano 1937, pp. 327-362 – C. TOSI, Giuseppinismo e
legislazione matrimoniale in Lombardia. La costituzione del 1784, in «Critica Storica», XXVII, 2,
1990, pp. 235-301.
10
1.2. Stupro. Processo per stupro dietro promessa di matrimonio- Tommaso
Monasteri contro Giovanni Battista Ferrari accusato di aver stuprato la figlia
Marta27
Con il capo d’accusa di stupro non si intendeva inquisire un’azione violenta
secondo l’odierna accezione, associata a tale parola: si definiva stupro non la
violenza carnale nei confronti di una donna, ma la seduzione di una giovane
nubile o di una vedova casta, alla quale seguiva copula carnale, generalmente
dietro promessa di matrimonio. Tra la documentazione rinvenuta si utilizza la
categoria stupro anche per le promesse non mantenute o i rapporti
prematrimoniali a cui spesso seguivano gravidanze 28. La violenza è poco
presente; ecco perché è abbastanza inverosimile pensare che una donna vittima di
un abuso efferato, fisico e psicologico, potesse intentare una causa tesa al
mantenimento di una promessa o al conseguimento della dote, per recuperare
l’onore perduto e reinserirsi nel mercato matrimoniale29. Bastava che l’uomo
pronunciasse rassicuranti parole e si impegnasse a concludere al più presto il
matrimonio perché la relazione sessuale avesse avvio. Le denunce per violenza
carnale seguivano tutte questo cliché.
Nella causa qui presentata l’attenzione si sposta in uno spazio temporale di poco
successivo alla chiusura del Concilio di Trento. L’incartamento è molto
voluminoso: consiste in 140 carte vergate con una calligrafia chiara a lettere
grosse e ben distanziate. Veniamo a conoscenza che il giorno 8 gennaio 1593
comparve e, con grave querela espose, Tommaso Monasteri figlio del defunto
Giovanni, abitante a Milano nella parrocchia di S. Gottardo fuori Porta Ticinese,
contro Giovanni Battista Ferrari milanese anch’egli residente in Porta Ticinese
nella parrocchia di S. Vito al Carrobbio.
In antico regime i sacramenti quali battesimo, matrimonio ed estrema unzione,
erano riti religiosi e riti di passaggio ma anche atti di stato civile. Questa doppia
efficacia li rendeva quindi «riti di definizione di stato». Avvalorando queste
osservazioni le parrocchie si possono identificare come circoscrizioni di natura
territoriale. Si apparteneva ad una parrocchia come oggi ad un comune, per
nascita o per residenza. Il parroco, con la compilazione dello stato delle anime
censiva i suoi “abitanti”: in sostanza la parrocchia era il comune anagrafico.30
Queste considerazioni si possono impiegare per motivare la presenza costante
negli incartamenti processuali di indicazioni relative alle parrocchie di residenza.
Le parti in causa e i testimoni prodotti venivano schedati indicando nome, età,
professione e provenienza parrocchiale.
27 ASDMi, Foro Ecclesiastico, Criminale, Y 6250. 28 Lo stupro, l’adulterio, il concubinato e la sodomia erano reati di misto foro e potevano essere
giudicati anche dai tribunali secolari. Nello stato fiorentino fin dal primo Seicento lo stupro
diventò di esclusiva competenza del foro secolare; per la realtà milanese non è al momento
possibile fare delle affermazioni in merito. D. LOMBARDI, Matrimoni di antico regime, cit. p. 13
– 18. 29 A questo proposito si veda: S. CAVALLO – S. CERRUTI, Onore femminile e controllo sociale
della riproduzione in Piemonte tra Sei e Settecento, in «Quaderni storici» 44, 1980, pp.346-383. 30 E. BRAMBILLA, Alle origini del Sant’Uffizio. Penitenza, confessione e giustizia spirituale dal
medioevo al XVI secolo, Bologna 2000, pp. 39-42.
11
Nella denuncia esposta31 si affermava che il 4 novembre 1592, Marta figlia
legittima e naturale del querelante di anni quattordici (età da marito) e vergine si
trovava nella cucina al piano inferiore della casa abitata dai Monasteri e filava oro
in compagnia della sorella Paola, quando giunse l’accusato Giovanni Battista
Ferrari che già faceva l’amore con Marta.
Presentata è qui nelle primissime battute della testimonianza un’importante
asserzione che fa presumere come generalmente l’utilizzo dello stupro come
tipologia processuale, in realtà fosse un tentativo di rivendicare una promessa
negata. Il fatto che i giovani in questione già si conoscessero e avessero rapporti
fa presumere che la causa nasca della necessità e dal desiderio di veder adempiuta
la promessa matrimoniale che precedeva la seduzione di una giovane. Procedendo
con l’analisi delle carte è utile cercare di appurare se vi fu violenza corporea
effettiva.
Egli con animo e intenzione di deflorare essa Marta entrò nella cucina, la giovane
vedendolo e temendo che volesse usar qualche insolentia nella cucina corse in
una camera del piano superiore.
Due possono essere le interpretazioni di questo gesto: Marta scappa perché vuole
inscenare una schermaglia amorosa, (la cucina non è un luogo adatto per
incontrare l’amato), oppure vuole sottrarsi all’incontro, teme le intenzioni del
giovane.
Raggiunge la stanza e chiude a chiave la porta, al punto che il Ferrari pur di
entrare, gittò a terra l’uscio della camera da letto dei genitori comunicante con
quella nella quale si era rifugiata Marta ed intrato di fatto et violentemente et
contro la volontà et consenso di essa putta gittandola sopra un letto quale era in
detta camera la sforzò et usò con lei carnalmente et cridando essa putta gli mise
uno fazzoletto in bocha talmente che finalmente esso querellato hebbe il suo
contento.
La visita dell’accusato era avvenuta, secondo il parere di Monasteri, approfittando
di un suo viaggio sul lago Maggiore e dell’assenza della moglie. Non contento
della violenza consumata, pare che cercasse poi di diffamare pubblicamente Marta
dicendo che era una puttana e si fa chiavare da preti e frati. Accuse meschine e
infondate, a parere del padre che, ovviamente sostiene l’irreprensibile condotta
della figlia.
Le testimonianze prodotte in data 11 gennaio 1593 sono quelle di Marta ossia la
parte offesa, di Paola sua sorella, di un certo Giovanni Battista Monza, della
moglie Isabella e della fantesca Ippolita.
Convocata Marta per replicare sotto giuramento di informazione e verità dei fatti
dichiarò che il contenuto della querela letta (presentata dal padre) corrispondeva
al vero, che il Ferrari sotto colore di volerla pigliar per moglie si era introdotto
nella casa dei genitori conscio della loro assenza e le aveva usato violenza. Suo
desiderio era che fosse castigato come merita. E’ singolare che, se pur sia
disinteressata alla celebrazione di un matrimonio riparatore, invochi una
punizione e non pretenda un risarcimento come la corresponsione della dote,
richiesta comunemente presentata per contenziosi di questo tipo.32
31 I verbali molto dettagliati degli interrogatori fatti alla parte attrice e ai testimoni sono riportati in
terza persona dal notaio. 32 Il matrimonio per la donna e il pagamento di una somma a metà, tra dote e prezzo della sposa,
per il padre-custode apparivano una misura adeguata a cancellare nel corpo sociale l’offesa
12
Marta ripete fedelmente i fatti esposti dal padre usando le stesse parole,
aggiungendo a volte dei particolari, come l’utilizzo di un pugnale per aprire la
serratura della porta comunicante con la stanza nella quale si era rifugiata. La
descrizione della violenza avviene in questi termini:
cominciò abbrazzarme e basciarme dicendo che dovessi lassarlo fare poi che mi
voleva tuor per sua moglie et io dicendo che non voleva et resistendo a mio potere
a simili atti et cridando io non posso fare quello che voglio non sete voi mia
moglie, et io dicendo che non erano adempiti l’ordini della chiesa et altre
circostanze in simili cose che non poteva sicuramente dir che fossi sua moglie,
finalmente esso querelato, perseverando con la cominciata violentia di volermi
sverginare et usare con me carnalmente et io continuamente cridando, mi misse
uno fazoletto in bocha, acciocchè non potessi cridare e poi mi venne adosso et
usò carnalmente con me, consumando l’atto carnale come fanno li mariti con le
mogli, contro ogni mio volere et nonostante ogni mia renitentia et forza de non
permettere l’effetto di simil cosa.
La sua dichiarazione è molto analitica, pare che Ferrari avesse incominciato ad
avvicinarla il giorno del venerdì santo facendole pronunciare, e a sua volta
ribadendo, di volerla pigliar per moglie. Nel mese di agosto, precisamente il
giorno della festività di S. Rocco, l’aveva benedetta in giardino, alla presenza del
parroco di S. Gottardo enunciando di volerla sposare ma mai le aveva detto cosa
alcuna.
Che significato ha quest’ultima affermazione? Siamo di fronte a sponsali, ad una
promessa per verba de futuro, la cui finalità vera e propria, di fatto si era poi
ridotta alla mera seduzione della giovane, non al mantenimento della parola data.
La giovane dichiara di essere stata insidiata a seguito di una promessa di
matrimonio, si può presupporre quindi che fosse consenziente e non violata. Ella
dichiara che prima della violenza non aveva mai avuto rapporti con uomini e non
sapeva cosa fosse homo ne simil negotio. A parer suo la motivazione per cui
Ferrari non aveva mantenuto la promessa dopo l’inganno era la mancata
approvazione del padre alla celebrazione del matrimonio.
Marta confessa di aver mandato una giovane amica di nome Margherita, figlia di
una certa vedova Elisabetta, affinché chiarisse le sue intenzioni ed intercedesse
per lei. La risposta era stata negativa perché Ferrari a seguito di voci giuntegli su
sue presunte relazioni con preti e frati aveva ottenuto veto alle nozze da parte del
padre. Marta riteneva quindi di essere stata ingannata dal triste e subdolo
querelato che insinuava inoltre avesse una relazione con il suo procuratore
Giovanni Mazza. La giovane aggiunge di appartenere ad una famiglia onorata e di
non aver bisogno di quello di altri.
Anche la parte comparente si riteneva raggirata, forse allo scopo del
conseguimento di uno status sociale superiore, dalla giovane dal presunto
comportamento licenzioso.
Marta chiedeva quindi punizione e condanna per colui che aveva abusato di lei.
La seconda testimone prodotta è Paola Monasteri, sorella di Marta, la quale
conferma e sostiene il contenuto della querela che le viene letta. Asserisce di
essere certa dell’accaduto perché, a seguito dell’arrivo di Giovanni Battista, Marta
arrecata dalla violazione di una vergine. G. ALESSI, Il gioco degli scambi: seduzione e
risarcimento nella casistica cattolica del XVI e XVII secolo, in «Quaderni storici» 75, 1990, p.
806.
13
era corsa al piano superiore e aveva incominciato a gridare. A Paola sopraggiunta
per accertare cosa stesse accadendo si parò l’immagine della sorella gittata sopra
il letto che haveva li panni ravvoltati in viso e mostrava ogni cosa et il detto
querellato gli era addosso et haveva giù le calze et gli vidi anche il querellato che
aveva il membro nella natura di mia sorella, perché me li fece tanto apresso che
videva facilmente ogni cosa mentre che gli stava adosso come ho detto, detta mia
sorella cridava dicendo che dovesse andar da li et che non voleva et esso
querellato diceva che poteva fare quello che voleva perché era sua moglie e detta
mia sorella rispondendo, che ancora non era sua moglie sin che non li havesse
sposata con li ordini della chiesa et finalmente vidi, che dappoi che esso
querellato habbi fatto il fatto suo, si levò da dosso de essa mia sorella.
Paola conclude la testimonianza riferendo che ben sapeva che il padre non era
favorevole all’unione matrimoniale tra i due giovani.
Ippolita, giovane lavorante al servizio di Giovanni Battista Monza, vicino di casa
della famiglia Monasteri racconta come la sera dell’accaduto, tornando a casa
all’ora di cena, dopo aver svolto alcune commissioni avesse sentito un gran
fracasso e cridare riconoscendo chiaramente la voce di Marta per la familiarità
che aveva con la giovane e i componenti della casa. Il rumore disturbava il sonno
della sua padrona, a letto perché malata, ella quindi era accorsa ad accertarsi cosa
stesse accadendo – si notava l’uscio abbattuto e si percepivano chiaramente grida
insistenti che chiedevano a Ferrari di andarsene. Udì quindi ma non vide e quanto
accadde le venne raccontato. Ippolita era persuasa che Marta fosse vergine
effettualmente e persona dabbene, così come gli altri componenti della sua
famiglia.
La giovane inserviente essendo una teste prodotta dalla parte attrice biasima
l’atteggiamento deplorevole di Ferrari e discolpa Marta.
Giovanni Battista Monza conferma di aver intimato alla giovane cameriera
Ippolita di verificare cosa stesse accadendo presso la casa dei vicini. Ella gli aveva
raccontato di aver visto un pugnale nel cinturino di Ferrari appoggiato sopra la
finestra di un camerino di casa Monasteri. Monza conosceva il querelato perché
più volte l’aveva visto frequentare la casa dei vicini, ma dal giorno del “fracasso”
non si era più visto da quelle parti. Avendolo incontrato per caso presso la Zecca
cittadina gli aveva chiesto spiegazioni di quanto si vociferava. I genitori di Marta
avevano riferito al vicino dell’increscioso episodio di cui era stata vittima la figlia
e di come la sua reputazione fosse ulteriormente infamata da falsi racconti circa
presunte relazioni con preti e frati, ma egli aveva negato e inoltre dichiarato di
non voler sposare Marta. Monza è convinto dell’integrità morale e della sincerità
di Marta e di tutta la famiglia in virtù di una conoscenza accertata ormai da sei
anni. Dubita invece dell’onestà di Ferrari, incarcerato su istanza del podestà di
Milano per aver derubato alcuni soldati.
Convocata anche Isabella Bassi, moglie di Giovanni Battista Monza, conferma
quanto già riferito dalla fantesca e dal marito. Rammenta che il rumore era tale
che pareva si volesse demolire una porta e che le grida erano molto fastidiose, per
lei a letto malata con un doloroso mal di testa. Ella a conoscenza dell’accaduto per
quanto le è stato riferito, in ogni caso sostiene l’innocenza e la purezza di Marta.
Ippolita de Santo Nazaro commater pubblica, ossia levatrice viene interpellata per
verificare lo stato di verginità di Marta o l’eventualità di precedenti gravidanze e
informa: avendo usato le debite diligentie et circostanze in simili cose necessarie
14
et diligentemente il tratto considerato dico essere la verità che detta putta da
marito è stata sverginata ma però non ha le qualità che si ricercano di haver fatto
figlioli havendo trovato in lei strettezza tale la quale mi fa pensare et giudicare
così. La levatrice non ottiene risposta da Marta quando le chiede il nome di chi le
ha usato violenza.33
Questa perizia è un elemento di prova importante quanto manipolabile: attesta la
non verginità della giovane ma non chiarifica se è uno stato precedente
l’aggressione o causato da essa; questa ambiguità può ridurre il livello di
responsabilità dell’imputato.
I reati consumati contro il corpo femminile sollecitano un’indagine affidata allo
sguardo e al tatto di altre donne. Alle ostetriche veniva riconosciuto un livello di
capacità e di valutazione non inferiore a quello di un fisico o di chirurgo
nell’intervento sul corpo femminile.34
Vengono interrogati anche altri vicini e parrocchiani di S. Gottardo i quali
unanimemente sostengono la virtù e la buona fede di Marta
La registrazione di questi atti processuali è compilata per mano del notaio
Giovanni Battista Mauri a servizio del capitano di giustizia.
Giovanni Battista Ferrari viene denunciato presso l’ufficio criminale della Curia
Arcivescovile di Milano e gli è intimata la carcerazione. Assume come difensore
Giovanni Colombo. Purtroppo non è rimasta traccia delle sue deposizioni. La
responsabilità per stupro semplice comportava una serie ampia di possibili
riparazioni, che andavano da pene come il bando e la carcerazione, spesso
minacciate allo scopo di conseguire matrimonio o dote, o semplice compenso
pecuniario. Le sedotte reclamavano di aver perso l’onore e pretendevano la
punizione del colpevole e la dote o il matrimonio e la proclamazione della propria
verginità.35
Optando per la reclusione il giudice aveva ritenuto valide le istanze presentate
dalla giovane donna e dalla sua famiglia.
1.3. Accuse di Molestie e tentato omicidio per coprire un adulterio. Ippolita
Moroni milanese denuncia il marito Giovanni Andriani valtellinese per tentato
omicidio36
Le vicende narrate in questi incartamenti sono molto movimentate, si susseguono
in maniera avvincente accuse di violenza, adulterio ed imprigionamenti37.
In data 5 luglio 1611 Ippolita Moroni figlia di Giovanni, milanese, abitante a
Bergamo nella contrada di S. Bartolomeo in prato, rilascia una deposizione.
Il marito senza causa alcuna la notte precedente alle ore 3 aveva tentato di segarle
le canne della gola con un coltello. Era riuscita a scappare correndo per le scale in
33 Prima del concilio di Trento l’approccio nei confronti della sessualità consumata dentro o al di
fuori del matrimonio acquistava tratti leggeri, in epoca post-conciliare i rapporti prematrimoniali
sono severamente incriminati. Per giustificare quindi la seduzione a scopo di matrimonio è
necessario dimostrare l’avvenuta copula carnale. 34 A. PASTORE, Il medico in tribunale, cit. pp. 51-53. 35 G. ALESSI, Il gioco degli scambi: seduzione e risarcimento nella casistica cattolica del XVI e
XVII secolo, cit. p. 814. 36 ASDMi, Foro Ecclesiastico, Criminale, Y 1415. 37 L’adulterio è un reato contemplato solo dal diritto civile non da quello canonico, quindi non
perseguibile.
15
camicia da notte e si era rifugiata da alcuni vicini mentre il consorte la rincorreva
per le scale con l’intento di ammazzarla, come per altro aveva tentato di fare in
passato.
Aggiunge che era già stata vittima di violenze, aveva subito una prima
aggressione per mezzo di una cintura con fibbia che le aveva procurato ematomi
al punto di aver tutta la carne negra, e una seconda, avvenuta durante il primo
anno di matrimonio a casa di Simone fratello del marito, nella quale aveva cercato
di strangolarla ed essendo gravida di pochi mesi si disperse costretta poi inferma a
letto per 15 giorni.
Per il tentato omicidio della sera precedente Ippolita chiama a testimoniare coloro
che l’hanno soccorsa: Giacomo Palazzolo e suo figlio e un tale Reverendo di cui
non sa il nome
Testimoni per le prime due aggressioni sono invece i vicini nel primo caso e i
parenti nel secondo, i quali però non avrebbero mai accusato Giovanni Andriani.
A seguito delle deprecabili vicissitudini precedenti ella aveva deciso di ritornare a
Milano, al punto che il marito aveva dovuto garantire una sicurtà, impegnandosi a
non offenderla in alcun modo per ottenere il permesso di ricondurla con sé a
Bergamo.38
L’attuario che la esamina chiede se ci sono motivi che possono aver spinto l’uomo
a ricadere nella spirale di violenza; lei nega e suppone egli paventasse di essere
nuovamente abbandonato.
Il giudice al termine della testimonianza intima che Giovanni Andriani venga
condotto in prigione, quindi crede in prima istanza alle dichiarazioni di Ippolita
Moroni e ordina la reclusione dell’uomo.
Si procede all’esame dei testimoni prodotti da Ippolita.
Salvario Carminati figlio di Giuseppe – proprietario della casa nella quale hanno
vissuto in affitto i coniugi a Bergamo per due anni – dichiara di conoscerli, rende
noto che Andriani fa il cuoco presso l’ospedale Maggiore S. Marco. Non è in
grado di testimoniare che tipo di rapporti intercorressero tra i due e non ha mai
avuto possibilità di testare i racconti delle violenze subite da parte di Ippolita,
della quale ella scrupolosamente gli riferiva. E’ a conoscenza di un trasferimento
a Milano ma non sa se a causa di un’offesa subita. I fatti di cui è a conoscenza
quindi gli sono stati riportati dalla donna.
Pare che Ippolita Moroni avesse già fatto imprigionare a Milano il marito con
l’accusa di eresia; al rilascio egli aveva dovuto sottoscrivere una sorta di garanzia
nella quale si impegnava a non usarle più violenza affinché tornasse a vivere con
lui. L’eresia era una della cause riconosciute per lo scioglimento di un vincolo
coniugale. Una prima considerazione induce ad ipotizzare che lo scopo delle
credibilmente false accuse di violenza fosse di ottenere una separazione dal
marito, tentata in prima istanza, muovendo delle insinuazioni su dubbie credenze
religiose.39
38 La prestazione di una determinata garanzia agevolava il ritorno del coniuge deciso ad
interrompere la coabitazione . P. RASI, La separatio thori e le norme del concilio di Trento, cit.
242. 39 Sevizie e maltrattamenti sono argomentazioni più che valide per ottenere una separazione. Si
confonti un caso simile G. MINUCCI, «An mulier verberari possit». Una «quaestio disputata» di
argomento matrimoniale, in Coniugi nemici.La separazione in Italia dal XII al XVIII secolo, cit.
pp. 491- 499.
16
Si passa poi alla descrizione di quanto accaduto la notte dell’ultima aggressione
della quale si possono appurare solo gli effetti, ossia la richiesta di aiuto della
donna in abiti discinti nel cuore della notte.
Da questa prima testimonianza non abbiamo la possibilità di verificare la
veridicità dei racconti di Ippolita; tutto ciò che il teste conosce gli è stato riportato.
Margherita moglie di Battista Terzi indoratore dichiara di non aver mai visto
Andriani usare violenza alla moglie; racconta di aver saputo del tentativo di
strangolamento presso la casa di Simone, fratello dell’accusato, nella contrada di
S. Michele al pozzo, per il quale si era dispersa.
Afferma però di avere delle perplessità riguardo alla presunta aggressione, perché
Ippolita non aveva segni visibili di violenza sul collo ed era stata a letto per così
poco tempo che a parer suo se fosse stato vero non si sarebbe ripresa così
velocemente sia fisicamente che psicologicamente dalla perdita di un figlio. Non
ricorda bene i tempi di guarigione di Ippolita perché trascorsi ormai 5 anni, però
ribadisce che è convinta fossero invenzioni.
Madonna Giovannina, residente in casa di Antonio Bocolorio nella contrada di S.
Andrea dentro la porta, riferisce che, durante il periodo in cui i coniugi abitavano
nella casa di Cicoli, Giovanni era premuroso nei confronti della moglie; spesso
l’aveva anzi chiamata perché l’aiutasse ad accudirla quando era malata. Anche lei
aveva ricevuto le confidenze di Ippolita nelle quali costei le aveva le rivelato del
tentativo di strangolamento degenerato in aborto.
Tutti i testimoni escussi sono a conoscenza delle presunte violenze subite da
Ippolita solo per sua voce e non per esperienza diretta.
Il 13 luglio 1611 il luogotenente del capitano di Campagna fa arrestare Giovanni
Andriani presso il prato dove si svolgono le fiere e lo consegna al capitano delle
prigioni.
Seguono deposizioni a favore dell’accusato.
Giovanni Giacomo Mazzi, originario di Palosco, che vive nella stessa casa,
conosce la professione di Giovanni e pensa che Ippolita sia una donna perbene.
Espone gli ultimi fatti accaduti: Ippolita, urlante nel cuore della notte, chiedeva
aiuto ed era stata raggiunta dal marito, che supponeva stesse sognando. L’uomo
non aveva armi in mano e non la minacciava cercava solo di ricondurla a casa.
Erano stati testimoni dell’accaduto anche i figli Giovanni Maria e Giovanni
Francesco.
E’ chiamata a deporre la parte comparente. Giovanni Andriani del fu Maffeo,
Valtellinese, dichiara di lavorare all’ospedale maggiore di Bergamo; definisce la
moglie scellerata in virtù delle ripetute fughe.
In passato dopo essersi rifugiata presso un monastero milanese per il sospetto che
egli volesse accusarla di aver commesso adulterio con un certo Giacomo Filippo
Negri, cieco, ne era fuggita riparando a casa dell’amante.
Andriani precisa di essersi recato presso Isabella Negri detta Trombona, madre di
questi- invocando aiuto affinché convincesse la consorte a ritornare con lui.
Isabella invece pensò bene di farlo arrestare per il tentato omicidio di Ippolita.
Riconosciuta poi la sua innocenza era stato scarcerato. Era ritornato a Bergamo e
aveva trovato lavoro presso l’ospedale.
17
Durante la confessione annuale il sacerdote l’aveva convinto a cercare di
riconciliarsi con la moglie40; si era quindi recato a Milano e aveva incontrato i
genitori della donna. Ippolita nel frattempo viveva con il giovane amante cieco.
Di fronte all’ennesimo rifiuto li aveva fatti imprigionare entrambi
nell’Arcivescovado di Milano41, per poi nuovamente supplicarla di tornare a
vivere con lui.
Ippolita aveva accettato a patto di ottenere una sicurtà garantita dal conte Pietro
Corbelloni e aveva fatto ritorno a Bergamo. I buoni propositi non avevano avuto
lunga durata; ora la fuga si motivava con un’accusa di tentato omicidio nei
confronti del consorte.
Andriani cerca di discolparsi presentando la donna come sonnambula: Ippolita si
era svegliata di notte ed era uscita di casa; egli si era accorto e l’aveva richiamata,
lei aveva pertanto incominciato a correre in camicia da notte per le scale, dicendo
che non voleva più vivere con lui e ritornare a Milano. Interrogato sulle due
aggressioni precedenti negava tutto compresa la gravidanza.
Il giudice, dopo aver valutato le attestazioni presentate, dispone la scarcerazione
di Giovanni Andriani dietro sicurtà di scudi 300.
Alcuni testimoni commentano i capitoli presentati in difesa di Giovanni Andriani.
Una vicina testimonia che Ippolita aveva chiesto di consegnare per lei una missiva
in un luogo non specificato perché voleva lasciare nuovamente il marito e tornare
a Milano.
Andrea Carrari, proprietario di una bottega, dichiara di averla vista discorrere
sommessamente con uno sconosciuto il giorno di S. Elisabetta, giorno in cui tra
l’altro ella gli aveva chiesto di accertarsi presso il gestore dell’osteria dell’Orso in
borgo S. Leonardo se vi alloggiavano dei milanesi e se tra questi ci fosse un cieco,
presumibilmente Giacomo Filippo Negri.
Fermo Terzi rivela che in occasione della sua richiesta di confezionare calzette
alla gugia, Ippolita aveva preteso la stesura di una lettera da spedire al fratello, a
suo dire molto potente, nella quale lo supplicava di andarla a prendere e di
condurla a Milano perché il marito le faceva cattiva compagnia. La lettera era
indirizzata all’osteria del Popolo.
Giovanni Battista, figlio del maestro Martino Solari, informa che il giorno di S.
Elisabetta si trovava all’osteria dell’Orso, gestita dal cognato, situata nel borgo S.
Leonardo, quando arrivarono due uomini a cavallo, uno dei quali era cieco.
Dicevano di essere milanesi e chiedevano di essere condotti alla chiesa di S.
Bartolomeo, avevano poi fatto recapitare un messaggio al parroco della parrocchia
40 La confessione era uno degli strumenti attraverso i quali si esercitava la giustizia ecclesiastica,
ora l’aver ottenuto la remissione dei peccati, comprovava in sede testimoniale la sua buona fede e
la sua innocenza e invalidava le accuse di violenza nei confronti della moglie. Sul ruolo della
confessione si veda: G. ROMEO, Esorcisti, confessori e sessualità femminile nell’Italia della
Controriforma, Firenze 1998, A. PROSPERI; Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori,
missionari, Torino 1996. 41 In una lettera indirizzata all’Arcivescovo, Giovanni Andriani narra l’accaduto e chiede la
reclusione dei due giovani. Le sue istanze vengono ritenute valide, ne è prova una lettera scritta da
Eleuterio Eleuteri (difensore di Giacomo Filippo Negri) a Mamurio Lancillotto vicario criminale
della Curia arcivescovile nella quale chiede la scarcerazione dell’assistito perché cieco, povero e in
obbligo verso la madre più che settantenne.
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suddetta, il quale poco dopo si era recato personalmente all’osteria intrattenendosi
a lungo con i due ospiti.
Il prete, interpellato a deporre, ricusa la conoscenza dei due uomini: ammette di
aver notato un uomo sconosciuto in compagnia di Ippolita nella ricorrenza di S.
Elisabetta e di averlo poi rivisto intrattenersi con altri uomini all’osteria dell’Orso
lo stesso giorno.
Il 3 agosto 1611 Bartolomeo Zucchi, notaio bergamasco, assolve Giovanni
Andriani, mentre Ippolita Moroni viene richiusa nelle carceri arcivescovili di
Milano. Le lunghe deposizioni convalidano la sentenza del giudice e inducono
ragionevolmente a ritenere che la giovane donna avesse inscenato un tentativo di
omicidio per liberarsi di un uomo con il quale la convivenza era divenuta molto
scomoda e fastidiosa.
Anche se al cospetto di un tribunale l’adulterio femminile e quello maschile
avevano esattamente lo stesso valore, per il codice d’onore vigente il primo è
enormemente più grave.42
Riflettendo sui comportamenti di questa giovane donna non si trova traccia di
passività e sottomissione che dovrebbero essere peculiarità femminili. Ippolita è
una donna intraprendente e coraggiosa, esempio di un comportamento deviante e
autonomo rispetto alle rigide assegnazioni di ruolo. L’abbandono del tetto
coniugale è da intendersi come una doppia violazione al comune senso della
morale e alle limitazioni che il ruolo di sposa impone. Ippolita è ingannatrice e
cerca di strumentalizzare a suo favore l’esposizione dei fatti dipingendo il
consorte come prepotente e violento.
1.4 Matrimonio clandestino 43.Atti del processo per matrimonio clandestino tra
Giovanni Battista Airoldi vedovo della parrocchia di S. Andrea alla Pusterla e
Teresa Cheren della parrocchia di S. Bartolomeo.44
Il Settecento è un secolo nel quale incomincia a consolidarsi l’ affettività: i
matrimoni clandestini, dilaganti nelle aule giudiziarie, avvenivano per ostacolare
imposizioni di divieto nei confronti di un’unione. Il rifiuto di una rigorosa
disciplina matrimoniale era sostenuto da una concezione individualistica del
matrimonio, come fatto strettamente privato e pertanto contraibile nel modo che
più era gradito.45 Si era sviluppata un’opposizione feroce nei confronti
dell’esogamia con l’intento di preservare l’endogamia patrimoniale ed evitare
unioni impari. Imperversava quindi una accanita criminalizzazione di questi
eventi.46
42 L. FERRANTE, Il matrimonio disciplinato: processi matrimoniali a Bologna nel Cinquecento,
in P. PRODI (a cura di), Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra
medioevo ed età moderna, Annali dell’Istituto storico italo – germanico, Bologna 1994, p. 911. 43 Riguardo ai matrimoni clandestini si rimanda alle specifiche trattazioni di casi in Matrimoni in
dubbio, opera citata. 44 ASDMi, Foro Ecclesiastico, Criminale, Y 6471. 45 A questo proposito è da segnalare di G. COZZI, Padri figli e matrimoni clandestini, in «La
Cultura» XIV, 1976, pp. 194-196. 46 Per una descrizione sulle strategia matrimoniali si rimanda a: G. DELILLE, Strategie di
alleanza e demografia del matrimonio, in Storia del matrimonio, cit. p. 283-303.
19
Il matrimonio si inseriva in una strategia familiare avente come fine la buona
collocazione delle proprie risorse riproduttive, produttive e simboliche.
Il 15 aprile 1770 Giovanni Battista Rizzi, attuario criminale della Curia
Arcivescovile di Milano al servizio di Paolo Manzoni, pro vicario generale,
deposita, con valore di atto processuale, una relazione che gli è stata mandata dal
curato di S. Andrea alla Pusterla (datata 14 aprile 1770) nella quale si racconta del
matrimonio clandestino contratto, alla presenza del parroco in questione, la notte
tra venerdì e sabato santo, tra il conte Giovanni Battista Airoldi suo parrocchiano
e Teresa Cheren cameriera al suo servizio. Il parroco per i fatti accaduti si trova a
letto indisposto a causa di una ferita alla testa.
Il conte e Teresa Cheren in seguito al matrimonio clandestino si erano recati ad
Olginate come appurato dal prevosto del luogo Gianbattista Cavalli, sperando che
grazie all’allontanamento si riuscisse ad ottenere il riconoscimento dell’unione.
Ritenuto che fosse inopportuno coabitare nella stessa casa, non essendo stata
riconosciuta l’unione, viene intimata loro la separazione per posta, che ricevono
sia all’indirizzo milanese che ad Olginate, (con notifica al podestà di Lecco e
all’Ufficio Pretorio di Lecco del 16 aprile 1770).47
Da quanto deducibile dal memoriale consegnato si può supporre che il parroco in
questione potesse avere qualche colpa per l’atteggiamento tenuto e per aver
ricevuto denaro.
Il 2 aprile 1770 nella Cancelleria Criminale della Curia Arcivescovile di Milano
viene convocato Bernardo Ruffinoni parroco di S. Andrea alla Pusterla in Milano
da 33 anni.48
Deve rendere conto del matrimonio clandestino svoltosi tra Giovanni Battista
Airoldi (figlio del conte Marcellino) suo parrocchiano, vedovo della contessina
Sormani morta da due mesi e Teresa Cheren, figlia di un servitore la quale prestò
cure personali alla defunta contessina per 4 anni, licenziata poi alla morte di
costei. Nella notte tra il venerdì e il sabato santo mentre dormiva era stato
svegliato da una vicina di casa che lo sollecitava ad accorrere al capezzale del
conte Marcellino Airoldi per un incidente improvviso di cui era stato vittima. Il
conte 86ienne è il padre di Gian Battista.
Il curato accorre in fretta verso la dimora nobiliare, accompagnato dal lacchè del
conte Gian Battista. Nelle vicinanze della chiesa vede avvicinarsi delle persone,
intimorito pensando fossero ladri, perde l’equilibrio e cade per terra battendo la
testa. Lungo disteso sente una voce che riconosce come quella del conte Gian
Battista che pronuncia questa frase “questa è mia moglie” – pensa ad un gesto
momentaneo di follia da parte di un uomo da poco rimasto vedovo ma poco dopo
ode le stesse parole pronunciate da voce femminile e alzando lo sguardo riconosce
Teresa Cheren, cameriera personale della defunta contessina Sormani. I due erano
accompagnati dai testimoni giunti all’uopo per rendere valida l’unione nelle
persone del padre di Teresa e del lacchè del conte. È facile individuare un
matrimonio a sorpresa di cui Manzoni ci ha trasmesso una viva descrizione,
47 Nei canoni enunciati nella sezione XXIV del Concilio di Trento: “Canones super reformatione
circa matrimonium” cap. I si esortano gli sposi a non coabitare nella stessa casa prima della
benedizione del sacerdote da riceversi in chiesa. Conciliorum Oecomenicorum Decreta, cit. p. 756. 48 Il confronto tra fonti e nella fattispecie Milano Sacro, per l’anno interessato rivela la fondatezza
dell’affermazione.
20
espediente utilizzato tra sei e settecento per sfuggire all’opposizione delle
famiglie.
Il sacerdote riferisce di aver rimproverato il conte per avergli procurato una
rovinosa caduta. Il conte porgendo scuse si giustifica menzionando il veto posto
dal padre (nihil transeat) alla nuova unione. In tutti gli ambienti sociali raramente
i genitori rimanevano fuori dagli accordi matrimoniali, quindi ponevano veti
soprattutto in casi di disparità di ceto. La straordinaria autorità, esercitata in
particolar modo dal padre, la preminenza di interessi familiari o di lignaggio, non
ammettevano sentimenti individuali. Da parte dei giovani si incrementavano
manifestazioni diffuse di insofferenza.49
Il conte, vedendolo grondante sangue, l’aveva poi accompagnato a casa dove la
serva gli aveva portato pane che, inzuppato nel vino, era servito a medicare la
ferita. Gli aveva poi chiesto perdono appellandosi ai poveri della città per cui il
sacerdote aveva temuto che, a sua insaputa potesse aver messo nella tasca della
veste del denaro da destinare agli indigenti per sopperire all’incidente causato, ma
non ne aveva trovato traccia; indi il conte se ne era andato e la cameriera aveva
chiamato il barbiere per praticare un salasso.
Il provicario generale, esaminato il curato, ritiene che questi abbia taciuto sulla
possibile offerta ricevuta dal conte, di cui invece parla nella lettera inviata ai
novelli coniugi per invalidare il matrimonio clandestino. Ruffinoni sicuramente
vuole nascondere di aver ricevuto denaro dal conte Airoldi, quindi si dispone un
ulteriore consulto.
Riesaminato sostiene di aver ricevuto una lettera dal conte il martedì dopo Pasqua
nella quale gli riporta come dopo la fuga ad Olginate siano stati arrestati da
gendarmi e condotti al pretorio di Lecco e lo prega di recare conforto al padre per
il gesto compiuto e le disastrose conseguenze50. La figura del parroco mediatore
di conflitti familiari è una tipica figura settecentesca che si inserisce in un contesto
di crisi profonda dell’aristocrazia, minacciata dal declino demografico ed
economico e preoccupata di non disperdere i patrimoni.51
Ruffinoni si reca quindi dal conte Marcellino e lo trova in compagnia del
marchese Federico Aliprandi prevosto di S. Nazaro maggiore52. Dalla
conversazione tra i due si viene a conoscenza che era stato proprio il conte padre
49 Avvalorano queste considerazioni la diffusione nel contesto europeo del XVIII di contratti
matrimoniali al fine di garantire salvaguardia di ceto e patrimonio. A questo proposito si veda: G.
BARTH - SCALMANI, Contratti matrimoniali nel XVIII secolo: un’analisi tra la storia del
diritto e quella di genere, in S. SEIDEL MENCHI – A. JACOBSON SCHUTTE – T. KUEHN (a
cura di) Tempi e spazi di vita femminile tra medioevo ed età moderna, Annali dell’istituto storico
italo – germanico in Trento. Quaderni 51, Bologna 1999, pp. 525-553. 50 Nell’incartamento processuale si conserva l’originale della lettera. Giovanni Battista Airoldi
nella missiva sostiene che il matrimonio sia valido e validissimo e niente mancante…il tutto detto
ad alta voce e replicato per ben due volte. Legittimità confermata anche dal consenso del parroco
che si era pronunciato in questi termini ben bene o’ non occor altro ed aveva inoltre ricevuto
un’elemosina.
Le scritture private compaiono sovente negli incartamenti processuali settecenteschi, come
sostenuto da D. LOMBARDI in Matrimoni di antico regime, cit. p. 153. 51 D: LOMBARDI, Fidanzamenti e matrimoni dal Concilio di Trento al ‘700, cit. p. 242. A questo
proposito si segnala anche: L. ALLEGRA, Il parroco: un mediatore fra alta e bassa cultura, in C.
VIVANTI (ed) Intellettuali e potere (Storia d’Italia Annali, 4 )Torino 1981, pp. 895 – 947. 52 La veridicità dell’informazione qui riportata si riscontra anche in Milano Sacro, per l’anno
interessato.
21
ad ordinare l’ arresto e il successivo trasferimento sino a periodo da destinarsi nel
castello di Trezzo53; per Teresa Cheren sarebbe stata adeguata la reclusione in un
monastero milanese.
La parità della condizione sociale ed economica era uno dei requisiti fondamentali
su cui i padri non transigevano, tanto da arrivare a far imprigionare i figli che
sposavano donne ritenute indegne della famiglia, come sopra dimostrato.54
A quanto pare l’intercessione del prelato non era servita a placare le ire del
vecchio uomo. Egli si sentiva additato come colpevole della divulgazione della
notizia del matrimonio, per cui aveva deciso di scrivere una lettera al conte
giovane. La risposta immediata del prigioniero lo sgravava da sensi di colpa e
chiedeva invece intercessione presso il padre per il rilascio e il riconoscimento del
matrimonio con dispensa, che aveva già provveduto a richiedere al provicario
generale55. Nel frattempo era avvenuto il trasferimento nel castello di Trezzo.56
Ruffinoni confessa che nella prima lettera scritta al conte Gian Battista l’intento
era di discolparsi specificando di non aver pubblicato notizia del matrimonio e
adducendo colpe ai vicini affacciati alle finestre che avevano assistito alla scena.
Cercava di rincuorarlo anche riguardo alla scomunica ricevuta57, infatti come si
desume dall’estremamente analitica e riassuntiva dei concili e sinodi precedenti,
Tabula censurarum, et casuum reservatorum, datata 1584, comprensiva di 93
casi, al matrimonio clandestino seguiva la scomunica58.
Il 27 aprile del 1770 il provicario generale dopo aver riascoltato don Bernardo
Ruffinoni decide di esaminare i due testimoni alle nozze: Domenico Marconi e
Giovanni Cheren, rispettivamente lacchè del conte e padre della giovane donna.
Domenico Marconi era stato arrestato e condotto alla casa di correzione vicino la
parrocchia di S. Bartolomeo in P. N.
Egli è figlio di Felice Marconi, orfano dall’età di 11 anni, nativo di Stradella,
lacchè al servizio del conte Airoldi. Esercita la professione da 4 anni: aveva
servito presso alcune famiglie nobili a Pavia e poi si era trasferito a Milano, dove
dal dicembre 1769 era alle dipendenze del conte Airoldi.
Gli viene chiesto se conosce la motivazione del suo arresto; egli presume sia a
causa del matrimonio tra il conte a la signora Cheren. La vicenda si era svolta in
questo modo: la notte del venerdì santo aveva accompagnato il conte a casa di
Teresa Cheren verso mezzanotte, verso le due l’aveva ricondotto a casa e aveva
saputo dell’intenzione di sposare Teresa il giorno dopo. Secondo quanto già
53 Il castello di Trezzo era una fortificazione adibita a prigione sin dal 1200. Si veda C.
MARCORA, Una corsa attraverso le vicende del castello di Trezzo d’Adda, Milano 1970. 54 L. FERRANTE, Il matrimonio disciplinato: processi matrimoniali a Bologna nel Cinquecento,
cit. p. 920. 55 Sulle dispense si veda A. C. JEMOLO, Il matrimonio nel diritto canonico, cit. pp.244-260. 56 Le norme emanate dopo il Concilio di Trento riconoscevano valido il matrimonio celebrato al
cospetto di un sacerdote, alla presenza di due o tre testimoni, preceduto da bandi di pubblicazione.
Il consenso paterno che aveva avuto notevole importanza in epoca pre conciliare non rientrò tra le
cause indispensabili alla validità di un’unione. Nel Settecento ci fu una nuova svolta spinta dalla
necessità di contrastare matrimoni diseguali, venne reintrodotta l’obbligatorietà del consenso
paterno, al momento della promessa, che rappresentava il momento cruciale delle trattative
familiari. Cfr, D. LOMBARDI, Matrimoni di antico regime, cit p. 21. 57 E’ possibile consultare l’originale di questa lettera nella quale il parroco aveva cercato di
rincuorare il conte affermando che l’Arcivescovo l’avrebbe assolto dalla scomunica e avrebbe
convalidato il matrimonio. 58 Acta Ecclesiae Mediolanensis, vol. III, coll. 415-432.
22
riferito dal curato, era andato a chiamare il sacerdote, con la scusa di accorrere al
capezzale del conte padre improvvisamente ammalato e poi tutto si era svolto
come già noto.
Il conte però, dopo aver accompagnato il curato ferito a casa, aveva riferito al
servitore di avergli dato uno zecchino in elemosina per la chiesa. Prontamente
confermato è quindi il dubbio del Provicario riguardo al denaro ricevuto e negato
dal sacerdote.
Il trasferimento ad Olginate - presso una dimora del nobile ribelle - era avvenuto
di notte, attraversando Monza e Cazzaniga. Il sabato i fuggiaschi erano stati
prelevati e condotti al pretorio di Lecco; il conte venne condotto poi al Castello di
Trezzo e Teresa al monastero di S. Zeno a Milano59.
Il lacchè riferisce di una conversazione intercorsa a Olginate tra Teresa e il conte
nella quale la donna riponeva fiducia nel curato che, dopo aver ricevuto il denaro,
aveva promesso che avrebbe cercato di ottenere l’approvazione anche del padre,
notoriamente contrario alle nozze.
Marconi conferma che il conte aveva ricevuto due lettere scritte dal curato quando
rinchiuso nel pretorio di Lecco.
L’iter processuale segue il suo corso e si procede all’interrogatorio di Teresa
Cheren, rinchiusa nel conservatorio di S. Zeno. Ella dichiara di essere figlia di
Giovanni Cheren, staffiere presso il consigliere Rotinger, nata a Milano sotto la
cura di S. Nazaro e di età d’anni 16/17, di professione cameriera. Era entrata in
casa Airoldi al servizio personale della contessina Teresa Sormani, vi era rimasta
per 5 anni, licenziata, era stata richiamata poco dopo ad accudirla perché malata.
Una malattia di mal di petto che in 9 giorni aveva condotto alla morte la giovane
donna.
Riguardo al matrimonio contratto con il conte, ella dichiara di aver fedelmente
servito la giovane contessina e di aver prestato molta attenzione affinché nessun
inconveniente potesse compromettere la sua professione. Confessa che il conte le
aveva sempre dimostrato attenzione “senza però … che immaginasse mai che
avesse qualche intenzione di matrimonio”. Dopo la morte della giovane moglie le
aveva mandato sei lettere ed era andato a trovarla a casa otto volte, sino a
59Carlo Borromeo fonda nel 1579 la casa o deposito di S. Maria Maddalena, poi S. Zenone “nella
quale si da sicuro albergo e ricapito con la debità carità alle donne, che desiderano uscir del
peccato e risorgere alla luce della divina grazia…però ben dice il Savio, stà lontano dalla donna
dishonesta, e non ti approssimare alla porta della casa sua, e non la riguardare, accioche non
resti intricato ne i lacci suoi: hor essendo questa nuova casa cagion di tanto bene poichè per il
suo mezzo si liberano dalla bocca del Lupo infernale le pecorelle redente col precioso sangue del
figliuol di Dio…L’habbiamo dunque eretta oggi nel giorno della festa di santa Maddalena sopra
la protettione di questa gloriosa santa e sotto l’infrascritte regole, nel nome del Signore. (XXII
luglio MDLXXIX)
La casa è retta da uomini timorati di Dio che habbino esperienza di simili maneggi…i sopradetti
uomini non passeranno il numero de dodici. Tra essi è bene che ci siano due sacerdoti e un
confessore, i quali dovranno rendere conto del loro operato direttamente all’Arcivescovo. Le
giovani devono vivere separate affinché l’inferma pecora non corrompi tutto il gregge. Le regole
per il governo della casa vengono stampate a Milano per Pac. Pontio nel 1593. In ASDMi, sez.
XIII, vol. 36, fasc. 2.
Sul conservatorio di S. Zeno si veda inoltre: S. D’AMICO, Sta’ lontano dalla donna disonesta. Il
deposito di S. Zeno a Milano, in «Nuova Rivista Storica», 73, 1989, pp. 395-424. Si veda anche S.
BIFFI, Sulle antiche carceri di Milano e del Ducato Milanese, Milano 1884, (ristampa anastatica
Milano 1972).
23
chiederla in sposa, confessandole però che solo la morte del padre avrebbe reso
possibile la loro unione.
E’ singolare il fatto che Teresa si mostri sorpresa delle attenzioni del conte e al
tempo stesso ricordi così precisamente i suoi approcci amorosi
Pare le avesse promesso fedeltà per iscritto (siamo di fronte a sponsali per verba
de futuro) e le avesse confessato di essersi recato dall’Arcivescovo a chiedere il
permesso; ottenuto diniego, aveva fatto appello ai padri oblati di Rho. Ella cerca
verosimilmente di dimostrare che non fu seduttrice bensì preda. La differenza di
ceto e l’ambizione di raggiungere una posizione di prestigio avrebbe spinto
chiunque nelle sue condizioni a cercare di consolare un uomo vedovo e ricco.
La sera del venerdì santo Giovanni Battista le aveva comunicato che temeva che il
padre fosse a conoscenza del suo desiderio di sposarla e avesse intenzione di far
rinchiudere lei in monastero e lui in un castello, quindi l’unica soluzione era
sposarsi in segreto. Si sarebbero recati dal curato di S. Andrea con due testimoni e
avrebbero pronunciato la loro promessa. In tal modo alla presenza dei testimoni il
matrimonio sarebbe stato valido.
I fatti si erano svolti secondo i fedeli racconti degli altri testimoni. Pare che dopo
il pronunciamento il curato abbia detto: “non occor altro” e poi abbia ricevuto per
mano del conte del denaro per la chiesa, rispondendo grazie. Il provicario le
rivolge ripetutamente domande riguardo al denaro consegnato e ottiene sempre la
stessa risposta.
La testimonianza della donna è l’unica nella quale si sottolinea la complicità e la
certezza dell’assenso da parte del parroco; è difficile sapere se fu effettivamente
così o se ovviamente, essendo la donna l’unica a rimetterci seriamente dalla
perdita della libertà e dall’annullamento del matrimonio, tenti in tutti i modi di
agire affinché non avvenga.
La giovane ammette di aver avuto rapporti sessuali con il conte, descrivendoli
minuziosamente, e di non aver mai conosciuto uomo prima d’allora. Teresa cerca
di dimostrare la sua sincerità e la sua buona fede. Il riconoscimento dell’avvenuta
copula carnale, a suggello della loro unione, avrebbe dovuto ufficialmente
convalidarla.
Si passa quindi alla deposizione del padre della giovane: Giovanni Cheren è di
origine tedesca, risiede a Milano da 11 anni e da 2 anni lavora in qualità di
staffiere presso il consigliere Rotinger; sposato con Marianna Frigerio, con la
quale non vive perché anche lei presta servizio presso una casa. Confessa di avere
una figlia di nome Teresa che a dir suo si è da poco sposata con il conte Giovan
Battista Airoldi - segue il racconto del matrimonio – non vi aggiunge particolari
che discordino o arricchiscano le deposizioni precedenti. Ritiene che il
matrimonio sia valido perché celebrato al cospetto di un prete alla presenza di due
testimoni con pronuncia della frase per due volte. Sostiene che il curato abbia
detto “è bene non occorre altro” e che abbia ricevuto un’elemosina per
l’incomodo, alla quale era seguito un ringraziamento. Sottolinea ripetutamente
che il parroco aveva avuto un atteggiamento accondiscendente. E’ a conoscenza
del viaggio ad Olginate, della cattura dei due e dello spiacevole trasferimento
della figlia al monastero di S. Zeno: luogo a parere suo dove vivono persone di
mala qualità, non adatto per sua figlia, giovane da bene e onorata.
Segue altro interrogatorio al curato perché ammetta di aver ricevuto l’elemosina,
ma egli ostinatamente nega e ripetutamente riferisce di aver intimato al conte di
24
chiedere perdono a Dio per il peccato commesso contraendo matrimonio
clandestino.
Il vicario generale Valentino60, per mano di Giovanni Battista Rizzi, notaio
attuario criminale, li assolve, liberandoli da scomunica o altra pena, imponendo la
separazione ed esigendo dal conte Airoldi il pagamento di una somma di lire 100
imperiali entro l’anno da destinarsi per il matrimonio di qualche nubile figlia della
parrocchia di S. Andrea alla Pusterla.
Avevano ricevuto da parte della Curia Arcivescovile la monitoriale (firmata da
monsignor Valentino, vicario generale e datata 9 giugno 1770) che ingiungeva la
separazione che era stata preceduta da una quietanza del conte padre per il rilascio
e l’assoluzione da qualsiasi censura ecclesiastica.61
60 I nominativi dei vicari generali della Diocesi di Milano sono riportati in C. MARCORA, Serie
cronologica dei Vicari Generali della Diocesi di Milano (dal 1210 al 1930), in «Memorie storiche
della Diocesi di Milano», VI, 1959, pp. 252-282. 61 Le spese processuali sostenute ammontarono a lire 177.
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CONCLUSIONI
Il commento di queste cause matrimoniali non ha certo pretese di esaustività in
merito all’argomento: si sono voluti presentare degli esempi scelti tra una
documentazione quantitativamente ingente e qualitativamente preziosa, per lungo
tempo ignorata e ora giustamente valorizzata.
La riforma dell’istituto del matrimonio dopo il Concilio di Trento ha contribuito
alla formazione della coscienza moderna attraverso l’azione di controllo della
coppia e della sessualità da parte della chiesa, incentrata sul disciplinamento dei
tribunali ecclesiastici
Sulla scia di un nuovo interesse storiografico, ormai consolidato in Europa e
soprattutto negli Stati Uniti, io aderirei ad uno dei filoni interpretativi suggeriti da
Silvana Seidel Menchi nel suo saggio introduttivo al primo volume pubblicato sui
processi matrimoniali conservati negli archivi ecclesiastici italiani62, frutto del
progetto di ricerca dal quale, questa breve comunicazione sulla realtà diocesana
milanese, non può prescindere e in cui si inserisce.
Le cause matrimoniali possono essere considerate come fonti per la storia delle
donne, offrendo così uno scorcio da un’angolatura differente, utile a focalizzare il
ruolo della donna nella età moderna.
Come facilmente riscontrabile, erano prevalentemente donne che intentavano
cause per i più svariati motivi. I contenziosi approfonditi in questa sede
interessano tematiche con diverse finalità; per la separazione, lo stupro, la
violenza e l’adulterio, l’intento era ottenere la rottura di un vincolo o la punizione
per un reato, mentre per il matrimonio clandestino, si agiva per il riconoscimento
di un nuovo status e l’affermazione di un diritto.
Le donne sono quindi protagoniste: donne notoriamente sottomesse all’autorità
maschile in quanto madri, mogli, figlie o sorelle, fanno ora sentire la loro voce;
non più soggiogate, si ribellano e rivendicano diritti, come il risarcimento
dell’onore perduto, la possibilità di recidere un vincolo dannoso o pericoloso per
la loro salute fisica o mentale.
Testimoniano e combattono per il riconoscimento di un legame matrimoniale
contrastato per disparità di ceto e per voce loro, o per mano dei procuratori, si
impongono, dibattono, forse ingannano perché spesso le loro testimonianze e le
loro rivendicazioni sono frutto di calcolo e si incentrano sull’ espediente per il
conseguimento di un obiettivo: la libertà d’azione. Non è raro che le scelte
individuali confinino in una dimensione trasgressiva e trovino legittimazione solo
nel contenzioso.
I processi non svelano la realtà dei fatti ma evidenziano solo alcuni elementi
chiave sui quali si imposta la controversia, certamente forniscono la singolare
possibilità di addentrarsi nella questione dell’identità di genere femminile 63.
62 S. SEIDEL MENCHI, I processi matrimoniali come fonte storica, in Coniugi nemici. La
separazione in Italia dal XII al XVIII secolo, cit. pp. 43 – 44. 63 Da segnalare in merito a questo nuovo filone storiografico: «Memoria. Rivista di storia delle
donne», I, 1981, J. W. SCOTT, Gender: A useful category of Historical Analysis, in «American
Historical review», 91, 1986, pp. 1053-1075. G. ZARRI, La memoria di lei. Storia delle donne,
storia di genere, Torino 1996.
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Le donne non solo compaiono all’interno di un nuovo panorama storiografico, ma
in questo contesto agiscono in qualità di attrici e si collocano nella storia del
diritto.
Grazie anche ai pochi esempi analizzati si può segnalare il tramonto della
storiografia vittimista. Il concetto di oppressione non è più il comun denominatore
delle esperienze storiche e delle prove storiografiche delle donne. Al concetto di
“oppressione” come chiave di interpretazione del passato femminile che dominò
la storiografia negli anni Settanta e negli anni Ottanta è subentrato il concetto,
avvalorato dalla documentazione conservata, di “autonomia e iniziativa” ovvero
di autonomia e intraprendenza. Si è cioè sostituita una visione attiva e dinamica
del ruolo svolto dalle donne nelle società occidentali64.
64 S. SEIDEL MENCHI, A titolo di introduzione, in Tempi e spazi di vita femminile tra medioevo
ed età moderna, cit. p. 14.