Ancora sui rapporti tra letteratura dialettale riflessa e toscano: una dedicatoria di G. C. Cortese...

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ANDREA LAZZARINI ANCORA SUI RAPPORTI TRA LETTERATURA DIALETTALE RIFLESSA E TOSCANO: UNA DEDICATORIA DI G.C. CORTESE A G.B. BASILE ESTRATTO da STUDI SECENTESCHI VOL. LVII (2016) Diretta da Davide Conrieri

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ANDREA LAZZARINI

ANCORA SUI RAPPORTI TRA LETTERATURADIALETTALE RIFLESSA E TOSCANO: UNA

DEDICATORIA DI G.C. CORTESE A G.B. BASILE

ESTRATTOda

STUDI SECENTESCHI VOL. LVII (2016)

Diretta da Davide Conrieri

LEO S.OLSCHKI

B.A.R. I

Vol. 452

STUDI SECENTESCHIR I V I S TA A N N UA L E

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CARMINE JANNACO E UBERTO LIMENTANIDIRETTA DA

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Vol. LVII - 2016

BIBLIOTECA DELL’ «ARCHIVUM ROMANICUM»Serie I: Storia, Letteratura, Paleografia

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già diretta daMARTINO CAPUCCI (1981-2013)

e ora diretta daDAVIDE CONRIERISegretario di redazione

ANDREA LAZZARINI

Vol. LVII

S O M M A R I O

Parte ICritica Letteraria

Pietro Giulio Riga, La poesia lirica a Napoli nel pieno e tardo Seicento. Un itinerario di ricerca. –– Jean- François Lattarico, «Questo è il gusto di Genova» À propos des drammi per musica de Giovanni Andrea Spinola. –– Giuseppe Alonzo, Un letterato milanese a Roma: Brunoro Taverna fra Spagnoli e Borromei, Umoristi e Lincei. ––Stefania Buccini, Il Primo di Agosto, Celebrato da alcune Giovani ad una Fonte di Francesco Pona. –– Simona Santacroce, An peccatum Luciferi fuit circa unionem hypostaticam. Ap-punti sulle fonti teologiche nascoste dell’Adamo di Andreini. –– Alessandro e Mirco Gallenzi, Nuovi dati sulla vita e le opere di Peresio. –– Andrea Lazzarini, Ancora sui rapporti tra letteratura dialettale rif lessa e toscano: una dedicatoria di G.C. Cortese a G.B. Basile. –– Antonia Deias, La venganza en los agravios y visperas sicilianas dei tres ingenios e il 1640. Una Commedia del risentimento e del rancore.

Parte IIVita e Cultura

Liliana de Venuto, Il passaggio dell’Infanta di Spagna nel principato vescovile di Trento: immagine dell’età barocca al suo culmine. –– Franco Paliaga, Una famiglia di mercanti, agenti e collezionisti d’arte al servizio dei Medici nel Seicento: i Guasconi, da Amsterdam a Venezia

Parte IIIBibliografia e Documentazioni

Silvia Apollonio, Intorno ad un codice inedito di lettere familiari di Giovanni Ciampoli. –– Alfonso Mirto, Lettere di Sertorio Orsato a Carlo Roberto Dati e ad Antonio Magliabechi. –– Schede secentesche (LVIII-LXII) [LVIII – Clizia Carminati, L’autografo della lettera del Marino al Duca di Savoia intorno all’attentato del Murtola; LIX – Carlo Alberto Girotto, Un’edizione sconosciuta dei Sensi di divozione di Giovan Francesco Loredan; LX – Andrea Lazzarini, Due esemplari ignoti delle Opere burlesche di Giulio Cesare Cortese]; LXI – Vincenzo Palmisciano, Precisazioni su alcuni passi di danza antichi («Dainetta», «Scorsa»); LXII – Vincenzo Palmisciano, Girolamo Borgia il Giovane e l’Accademia dei Fulminanti di Napoli]

Indice dei nomi e delle cose notevoli (a cura di Davide Conrieri e Andrea Lazzarini).

Si prega di inviare i manoscritti all’indirizzo mail della rivista:[email protected]

I contributi dovranno pervenire entro il mese di febbraioper poter essere pubblicati nel volume dell’anno successivo.

ANCORA SUI RAPPORTI TRA LETTERATURA DIALETTALE RIFLESSA E TOSCANO: UNA DEDICATORIA DI G.C. CORTESE A G.B. BASILE 1

Per chi si avvicini all’opera di Giulio Cesare Cortese non è difficile (né, immagino, particolarmente sorprendente) imbattersi in passi critici nei confronti del toscano. Molti dati attestano però l’esistenza di un rapporto stretto e solo apparentemente paradossale che legava il padre della lettera-tura dialettale napoletana alla corte medicea e alla Crusca.

A una ventina d’anni dall’uscita del più aggiornato profilo biografico e letterario dell’autore – frutto delle instancabili ricerche di Giorgio Ful-co – vorrei tornare a riflettere su alcuni aspetti centrali della produzione di Cortese, e in particolar modo sulla questione del rapporto tra dialetto e lingua letteraria.2

Nell’Appendice è proposta l’edizione della lettera con la quale Cortese, formulando una divertita rivendicazione di superiorità del napoletano sul «toscanese», dedicava a Giovan Battista Basile la princeps dei Travagliuse am-mure de Ciullo e Perna (1614): l’unico esemplare noto del volume è conserva-to a Firenze, nel fondo Magliabechi della Biblioteca Nazionale Centrale e la dedicatoria, spesso citata ma mai integralmente edita, è assente da tutte le stampe seriori.3

1 Ringrazio per la paziente lettura di queste pagine e per i preziosi suggerimenti Maria Cristina Cabani, Roberta Cella, Davide Conrieri, Luca D’Onghia, Francesco Giancane, Anto-nio Vinciguerra.

2 Giorgio Fulco, La letteratura dialettale napoletana. Giulio Cesare Cortese e Giovan Battista Basile. Pompeo Sarnelli, in Storia della letteratura italiana, diretta da Enrico Malato, Vol. V, La fine del Cinquecento e il Seicento, Roma, Salerno, 1997, pp. 813-867.

3 Parti del testo sono citate da G. Fulco, La letteratura, cit., pp. 833-834 e, più di recente, da Adriana Mauriello, Viaggio intorno a un paese: ‘Li travagliuse ammure de Ciullo e Perna’ di Giulio Cesare Cortese, in Per civile conversazione. Con Amedeo Quondam, a cura di Beatrice Alfonzet-ti, Guido Baldassarri, Eraldo Bellini, Simona Costa, Marco Santagata, 2 voll., Roma, Bulzoni, 2014, II, pp. 749-760: 749-750; un’edizione parziale e di servizio è stata procurata da Leonardo Sebastio nel suo Manuale di storia della lingua italiana. Prontuario per gli studenti di Scienze della formazione (URL http://www.sebastio.uniba.it/dati/Manualedistoriadellalingua.pdf ), pp. 111-112. Si vedano le considerazioni di Nicola De Blasi in N. De Blasi – Franco Fanciullo, La

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1. Cortese accademico ‘della Crusca’ e Incauto.

Anche se il suo nome non compare in alcun documento ufficiale del so-dalizio fiorentino, Giulio Cesare Cortese amava definirsi «accademico della Crusca».4 Come tale egli si presentò per la prima volta in un madrigale d’accompagnamento alle Avventurose disavventure di Giovan Battista Basile (1611), nel quale elogiava, assieme all’autore dell’opera, il suo dedicatario, Luigi Carafa.5 Nuovamente «accademico della Crusca» si dice Cortese nel 1614, premettendo un altro madrigale alla versione italiana della Celeste Fi-sionomia che Salvatore Scarano indirizzò a Bartolomé de Argensola, poeta e cappellano del viceré Pedro de Castro, conte di Lemos.6 Scarano – che avrebbe in seguito svolto il cruciale ruolo di editore delle prime due gior-nate del Cunto de li Cunti – ricordava Cortese anche nella lettera di dedica: 7 dietro a questa significativa menzione è facile intravedere lo sforzo com-piuto in quegli anni dal poeta per trovare o mantenere protezioni illustri.8

Campania, in I dialetti italiani. Storia, struttura, uso, a cura di Manlio Cortelazzo, Carla Marcato, N. De Blasi, Gianrenzo P. Clivio, Torino, UTET, 2002, pp. 28-678: 655-656; dello stesso si veda Profilo linguistico della Campania, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 139-144. Cfr. anche Michelan-gelo Picone, La Cornice novellistica dal Decameron al Pentamerone, «Modern Philology», CI, 2003, pp. 297-315: 297.

4 Salvatore Silvano Nigro, Ritratto di Giulio Cesare Cortese. (Problematica bio-bibliografica), «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari», XVI, 1973, pp. 461-562: 486.

5 Giovan Battista Basile, Le avventurose disavventure, favola maritima di G. B. B. il Pigro accademico Stravagante di Creta, In Napoli, Nella stampa di Gio[van] Battista Gragnano e Lucre-zio Nucci, 1611. La dedica è dell’8 luglio 1610. I versi di Cortese sono a p. 8, e si leggono ora, assieme a quelli delle altre composizioni italiane qui ricordate, in Giulio Cesare Cortese, Opere poetiche. […], a cura di Enrico Malato, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1967, pp. 501-504.

6 Giovan Battista Della Porta, Della celeste fisionomia […] libri sei. Al molto Illustre e Reve-rendo Signore, il Signor D. Bartolomeo Leonardo d’Argensola, […], In Napoli, Per Lazzaro Scorrig-gio, 1614.

7 Sul conto di Salvatore Scarano, noto soprattutto come editore e traduttore di opere dellaportiane, ancora troppo poco si sa. Scarano, sulla base di una semplice consultazione dell’OPAC SBN, risulta attivo tra 1607 e 1634 (data probabile della sua scomparsa). Nel Tarda-cino, Bartolomeo Zito dice di aver ricevuto da lui il manoscritto con le accuse mosse contro la Vaiasseide dagli accademici Scatenati, confermando la centralità della sua figura nell’ambito della Napoli letteraria del Seicento (Bartolomeo Zito, Lo Tardacino overo defennemiento de la Vaiasseida, poemma eroico de Giulio Cesare Cortese ditto lo Pastor Sebbeto contra la Cenzura dell’Acca-demmece Scatenate, pp. 91-92 annesso, a Giulio Cesare Cortese, La Vaiasseida poema eroico di G. C. C. […], In Napoli, Appresso Ottavio Beltrano, 1628). Sullo Scarano si veda anche Benedetto Croce, Giambattista Basile e il “Cunto de li cunti”, in Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 1911, pp. 1-122: 48-49.

8 G.B. Della Porta, Della celeste fisionomia, cit., cc. [3r]-[4v] (la poesia di Cortese è edita a c. [5r]): «Laonde quasi fatali a questo regno e di somma felicità senza dubio i Leonardi avendo conosciuto, di ardentissimo desiderio di vederle e di servirli avvampando, riputavano il darsi per servidori a persona di tanto merito a somma gloria, dall’essempio de’ quali io parimente acceso e spronato eziandio dal Signor Giulio Cesare Cortese, giamai non sazio di predicare il

161UNA DEDICATORIA DI G.C. CORTESE A G.B. BASILE

Ambizione, questa, che lascia tracce anche nel ms. Ferrajoli 487 della Bi-blioteca Apostolica Vaticana, nel quale si leggono componimenti dedicati ad altri due Argensola (Lupercio e Gabriel) e, soprattutto, al Lemos e a suo fratello, Francisco de Castro.9

L’ultima volta che Cortese si attribuì il titolo di cruscante fu nel 1623, in versi d’occasione inclusi nel Teatro delle Glorie dedicato ad Adriana Basile, sorella di Giovan Battista.10 È poi lo stesso Basile ad evocare la Crusca quan-do, nel 1627, ricorda nelle proprie Ode l’amico ormai ‘defunto’ – o, meglio, latitante.11

Difficile stabilire se tanta insistenza potesse essere dovuta a una forma di millanteria spesa a fini autopromozionali, oppure se Cortese godesse re-almente di un’«autorizzazione scherzosa nata in seno alla corte medicea»: 12 ad ogni modo, l’usuale riservatezza di Cortese, l’assoluta serietà dei con-testi e il bisogno che si immagina bruciante di protettori porterebbero a scartare l’ipotesi di un atteggiamento anche solo sottilmente provocatorio o giocoso.

Il poeta, come è noto, soggiornò a Firenze sullo scorcio del Cinque-cento e fu al servizio dei Medici, per conto dei quali si recò in Spagna; offrì inoltre a Maria Maddalena d’Austria, in occasione del suo matrimonio con Cosimo II (1608), un Mazzetto di fiori presentato […] dal Pastor Sebeto Giulio Cesare Cortese, plaquette impressa dai Giunti e al momento irreperibile: 13

loro incomparabile valore, anzi da una occulta forza grato disposi in tutto a sì nobilissima casa e di tutte le virtù chiarissimo nido di dedicarmi». La dedicatoria di Scarano e la poesia di Cor-tese si leggono anche in Giovan Battista Della Porta, Celestis Physiognomonia, e in appendice Della celeste fisionomia, a cura di Alfonso Paolella, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996, pp. 185-186, 187.

9 Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ferrajoli 487. I componimenti indiriz-zati a Lemos e consorte occupano la maggior parte del manoscritto, e si trovano alle cc. 7r-10r; 15r-16v; 18r-21r. Per le poesie a Gabriel vedi cc. 24v-25v; per quelle a Lupercio, cc. 31v-32v.

10 Teatro delle Glorie della Signora Adriana Basile […], In Venezia, Per Evangelista Deuchino, 1623, p. 73.

11 G. Fulco, La letteratura, cit., p. 822: «la presenza di firme autografe di Cortese in do-cumenti vari fino al 1638 e in testimonianze epistolari e letterarie, costringe a prendere atto che, nonostante la ‘commemorazione’ di Basile […] Cortese non è morto, come si è a lungo ritenuto, prima di quest’ultima data, sopravvivendo, come attestano le registrazioni dei banchi, almeno fino ai primi del 1640: silenzioso e probabilmente complice spettatore della propria ‘morte’». Giovan Battista Basile, Ode del Cavalier Gio[van] Battista Basile, Conte di Torone […], In Napoli, Per Gio[van] D[ome]nico Roncagliolo, 1627, p. 57-58: 57: «Il più caro, il più onorato amico dell’autore, che le sacre e sante leggi dell’amicizia intatte serbar sapesse fu Giulio Cesare Cortese, Accademico della Crusca […]».

12 G. Fulco, La letteratura, cit., p. 823. Il nome di Cortese è assente anche dal Catalogo degli Accademici dalla fondazione [dell’Accademia della Crusca], a cura di Severina Parodi, Firenze, [Accademia della Crusca], 1983.

13 La notizia è stata rintracciata da G. Fulco (La letteratura, cit., p. 823) negli appunti ma-noscritti di Bernardo Chiocchiarello in preparazione del suo repertorio bio-bibliografico

162 ANDREA LAZZARINI

qualche traccia della produzione encomiastica per i Medici è leggibile nel già citato ms. Ferrajoli.14

Cortese non ebbe però la fiorente carriera politica e cortigiana cui gli esordi fiorentini sembravano avviarlo; rientrato in patria, ottenne solo un incarico da assessore a Trani per volontà di Fernando Ruiz de Castro (1599) e, in seguito, quello di luogotenente di Lagonegro sotto il viceré Benavente (1606). Va a questo proposito ricordato che alla produzione in dialetto – for-se poco spendibile a fini carrieristici – Cortese non riuscì mai ad affiancare composizioni italiane di comparabile qualità.15

Il poeta (fatto sino ad oggi ignoto agli studi cortesiani) non fu estraneo alla vita accademica napoletana: egli fu infatti membro del sodalizio degli Incauti, fondato da Orazio Comite nel 1621. Il legame tra Comite e Cortese risaliva almeno al 1609, data in cui l’autore della Vaiasseide aveva dedicato all’amico un madrigale da accompagnare alla Rete amorosa:

Di Giulio Cesare Cortese Pastor Sabeto 16 All’autore.

Traggi pur la tua rete felice pescatore, dal mar d’invidia al lito de l’onore, ch’a’ tuoi dolci concenti, non già de’ muti armenti, ne verrà colma l’argentata riva, ma di loquace gloria altera e diva.17

sugli scrittori del regno di Napoli De illustribus scriptoribus […], conservati presso la Biblioteca Nazionale di Napoli (XIV G 19). Il Mazzetto sarebbe stato stampato presso i Giunti, «per ordine di sua altezza».

14 Ms. Ferrajoli 487, cit., cc. 6v-7r: «Al Ser[enissi]mo Granduca di Toscana per la giostra | fatta da S[ua] A[ltezza] nelle sue reali nozze»; c. 17r-v: «Nel parto della Ser[enissim]a Granduchessa di Toscana».

15 La vena dialettale e burlesca di Cortese potrebbe aver inciso negativamente sulla sua fama a corte, come farebbe pensare un aneddoto riportato nel ms. Barberiniano Latino 4000 (c. 242r). Il poeta è qui ritratto in atteggiamenti buffoneschi mentre passeggia su una preziosa tovaglia, accompagnando con il «chitarrino» dame intente a cantare la sua famosa canzone Le figliole che n’hanno ammore. Per il ms. Barb. Lat. 4000 vedi Enrico Malato, Nuovi documenti cor-tese-sgruttendiani, «Filologia e Critica», II, 1977, pp. 417-443: 443. Un rapido accenno alla fortuna della canzone di Cortese e a una testimonianza manoscritta del testo è in Andrea Lazzarini, Una polemica attorno al Pastor fido in lingua napolitana di Domenico Basile, «Studi secenteschi», LIV, 2013, pp. 187-203: 195 e nota 25.

16 Lo pseudonimo di Cortese è solitamente «Pastor Sebeto», dal nome del fiume che at-traversava l’antica Neapolis. Non è da escludere che si possa trattare di un errore tipografico.

17 Orazio Comite, La rete amorosa. Tragicommedia Pescatoria […], [In Napoli, per Gio[van] Domenico Roncagliolo, 1609], c. [3r] (Esemplare consultato Biblioteca Apostolica Vaticana, Ferrajoli VI. 667). L’esistenza del componimento è stata per la prima volta segnalata da G.

163UNA DEDICATORIA DI G.C. CORTESE A G.B. BASILE

A darci preziosa notizia dell’ascrizione di Cortese agli Incauti è un’ora-zione recitata di fronte ai membri dell’accademia il 16 luglio 1624 dal predi-catore carmelitano Filocalo Caputo (‘l’Estatico’) nel suo Parnasso trasferito nel Monte Carmelo:

[Apollo] ammirò l’opere di loro in così breve spazio di tempo esposte alle stampe con dottissimi discorsi di teologia e di astrologia, maravigliosi componi-menti di tragedie, tragicommedie, orazioni, poemi, ed altre opere insigne, e se ne rallegrò registrandole nella biblioteca Delfica, inghirlandò il nostro principe Ora-zio Comite d’eterni allori, e volle che fra’ primi poeti sedesse Annibalo Brancac-cio, Francesco Ladro, Filippo Finelli, Marc’Antonio Perillo ed altri degni di grandi onori; volle però che sopra ogn’altra composizione se coronassero d’edere e mirti, e collocate fussero sulla porta della libreria di poeti burleschi al destro corno della macaronica di Merlin Cuccai, l’opere de l’Arcincauto Giulio Cesare Cortese; e che le sentenze della Vaiassedia, le bravure di Micco Passaro, Gli travagliusi ammuri di Ciullo e Perna, il Viaggio di Parnasso, la Rosa, le Lettere, ed altre composizioni se registrassero ad perpetuam rei memoriam con intaglio di marmo, essendo di più onori degne che le composizioni di Giulio Cesare Caporali, che con tanto fausto 18 furono ricevute in quel monte dopo il viaggio dell’autore.19

Attribuendogli il titolo di ‘Arcincauto’, Caputo assegna a Cortese – il più anziano tra gli accademici citati – un ruolo di prima importanza nel sodali-zio, ponendolo di fatto sullo stesso piano del fondatore e principe Comite.20

Fulco, La letteratura, cit., p. 823; vedi anche Monica Brindicci, Libri in scena. Editoria e teatro a Napoli nel secolo XVII, Napoli, Libreria Dante & Descartes, 2007, p. 159. Un sonetto dedicato da Comite a Cortese è in Orazio Comite, Rime, In Napoli, per Gio[van] Iacomo Carlino, 1615, p. 9: «al signor Giulio Cesare Cortese, il quale disse che erano molto grate le sue rime» (si veda Pino Fasano, La questione Sgruttendio, «Giornale storico della letteratura italiana», LXXXVIII, 1971, pp. 49-81: 79 nota 134). Sul Comite si veda ora Stella Castellaneta, Tradizione, eterodos-sia, militanza nel teatro di Filippo Finella e Orazio Comite, in Partenope in scena. Studi sul teatro me-ridionale tra Seicento e Ottocento, prefazione di Francesco Tateo, presentazione e cura di Grazia Distaso, Bari, Cacucci, 2007, pp. 41-81.

18 Sull’ispanismo fausto ‘fasto, splendore’ (Salvatore Battaglia e Giorgio Bàrberi Squa-rotti (diretto da), Grande dizionario della lingua italiana, Torino, UTET, 21 voll., 1961-2004, V, p. 741) vedi Paolo Bongrani, «La pompa e ’l fausto di Lodovico». Note per un ispanismo quattro-cinque-centesco, «Lingua Nostra», LI, 1990, pp. 33-40.

19 Filocalo Caputo, Il Parnasso trasferito nel Monte Carmelo. Orazione del M. R. P. M. Filocalo Caputo Carmelitano de’ Padri Teologi dell’Illustrissimo Signore Cardinale Carafa Arcivescovo di Napoli uno dei deputati, et Academico Incauto detto l’Estatico. Recitata nel dì festivo di N. S. del Carmine nell’Academia degli Incauti, Napoli, Domenico Rocagliolo, 1624, pp. 25-26. Il passo è citato an-che da S. Castellaneta, Tradizione, cit., p. 52. Sulla figura di Caputo si veda da ultimo Davide Conrieri in D. Conrieri – Salomé García Vuelta, Le Esequie poetiche per Lope de Vega. Bilancio e prospettive, in Forme e occasioni dell’Encomio tra Cinque e Seicento. Formes et occasions de la louange entre XVIe et XVIIe siècle, a cura di Danielle Boillet e Liliana Grassi, Lucca, Pacini Fazzi, 2011, pp. 313-344: 339-340.

20 L’autore non fu dunque membro dell’‘Accademia degli Arcincauti’, come sostenuto senza esibizione di fonti da Lorenza Gianfrancesco, Accademie, scienze e celebrazioni a Napoli

164 ANDREA LAZZARINI

L’estensione e il rilievo dell’encomio di Cortese nell’orazione di Caputo sono notevoli, ed inferiori solo a quelli degli elogi di Giovan Battista Marino (celebrato come principe degli Oziosi recentemente eletto) e di Torquato Tasso. Nessuna menzione fa il carmelitano di Giovan Battista Basile, e il suo silenzio diviene ancor più significativo quando si consideri la successiva collaborazione tra i due nel Compendio della vita, della morte e dei miracoli di S. Andrea Corsini (1629), opera di Caputo che Basile corredò con argomenti e anagrammi: 21 se ne trae un dato a favore del sospetto, già di Fulco, che Basile non sia mai stato membro dell’accademia (o, quantomeno, che vi sia entrato solo dopo il luglio del 1624).22

L’avvicinamento di Cortese agli Incauti non è privo di rilevanti conse-guenze: il processo di «accademizzazione dell’esercizio dialettale», postu-lato da Fulco a proposito del sodalizio solo a partire dagli anni ’30 risulta infatti anticipato.23

2. Firenze e gli esordi letterari in dialetto di Cortese.

Non abbiamo, al momento, notizie se non indirette della produzione dialettale di Cortese prima del 1612. Una testimonianza di Bartolomeo Zito situerebbe la pubblicazione della Vaiasseide nel 1604.24

nel primo Seicento, «Quaderni di Symbolon», V, 2010, pp. 175-209: 186. L’autrice fa inoltre di Cortese un membro dei Sileni – nonostante le considerazioni di G. Fulco, La letteratura, pp. 823-824: nota 25 – e degli Svegliati, oltre che fondatore di una non meglio definita accademia dialettale (forse travisando alcune considerazioni di Benedetto Croce, Introduzione a Giovan Battista Basile, Lo cunto de li cunti (il Pentamerone). Testo conforme alla prima stampa del 1634-’36, con introduzione e note di B. Croce, Napoli, [A spese dell’autore], 1891, p. lxxvi: «Il Cortese l’intitolava il Pastor Sebeto. Questo non pare che fosse titolo accademico; ma, a ogni modo, tutto fa supporre che si formasse a quel tempo come un’accademia di cultori del patrio dia-letto». Il passo fu eliminato nelle successive riproposizioni del saggio). Svegliato, col nome accademico di ‘Attonito’, non fu Giulio Cesare Cortese, bensì Giulio Cortese, morto nel 1598. Anche Orazio Comite – ‘Sprovveduto principe degli Incauti’ (cfr. S. Castellaneta, Tradizione, cit., p. 49)  – si f regiò del titolo di ‘Arcincauto’: basti consultare il Database of Italian Acade-mies – URL: http://www.bl.uk/catalogues/ItalianAcademies/. Vedi anche Vincenzo Palmi-sciano, Un ritrovamento per Domenico Basile e due per Girolamo Fontanella, «Studi secenteschi», LVI, 2015, pp. 417-420: 417-418, 420.

21 F. Caputo, Il compendio della vita, della morte e de’ miracoli di S. Andrea Corsini […] Con gli argomenti a ciascun capo di Gio[van] Battista Basile […] e suoi anagrammi, in Napoli, appresso Lazaro Scoriggio, 1629.

22 Vedi G. Fulco, La letteratura, cit., p. 842, nota 48: lo studioso nota che non si trovano attestazioni dell’appartenenza di Basile agli Incauti precedenti a quella del Minieri Riccio.

23 Ivi, pp. 842.24 Sulla data della princeps vedi B. Zito, Lo Tardacino, cit., pp. 91-92: «Pocca da lo 1604 che

lo Cortese la deze a le stampe pe fi’ a chisto present’anno 1628 s’èie stampata sidece vote». Si veda anche il commento di Zito a Vaiasseide, I, 1, v. 2 («So’ le vaiasse de chiesta cetate») in G.C. Cortese, La Vaiasseida, cit., p. 61: «Chisto verbo so’ èie ’ndecativo de lo tiempo presente, zoè

165UNA DEDICATORIA DI G.C. CORTESE A G.B. BASILE

Il 17 dicembre 1612 Cortese inviava a Cosimo II de’ Medici una copia della prima edizione nota della Vaiasseide (l’esemplare è, con ogni probabi-lità, quello conservato presso il fondo Magliabechiano della BNCF, Misc. 1293-14) accompagnandola a una lettera recentemente scoperta e edita da Teresa Megale:

Ser[enissim]o Sig[no]reL’infenite grazie ricevute dalla A[ltezza] V[ostra] S[erenissima] non solo nel

tempo ch’io dimorai nel suo real servizio ma anco nelle sue feliciss[im]e nozze, e l’aver sempre veduto V[ostra] A[ltezza] affezionato a’ miei componimenti napo-letani, mi fanno ardito presentarli l’incluso poema, il quale forsi per il suo genere e per essere accompagnato dalle opere di Gio[van] Batt[ist]a Basile piacerà alla A[ltezza] V[ostra], alla quale supp[li]co si degni accettarlo con quella stessa real benignità con la quale me stesso accettorno i suoi gran genitori, quando me li diedi per quel fedelissimo servitore che ancora li sono e sarò mentre vivo; faccia-mi grazia l’A[ltezza] V[ostra] di non segnarlo,25 ch’io facendoli le debite riverenze prego N[ostro] S[ignore] Iddio li conceda ogni compiuta felicità. Da Napoli, il dì 17 Xbre 1612.26

Il documento attesta il precoce esercizio – già presso la corte fiorenti-na – della poesia napoletana da parte di Cortese, e lascia intuire una grati-ficazione ricevuta dai Medici in occasione delle nozze di Cosimo e Maria Maddalena (forse per l’invio del Mazzetto di fiori). Cortese menziona inoltre Basile, per la prima volta sciogliendo al sovrano l’anagramma con il quale il futuro autore del Cunto aveva deciso di presentarsi al suo debutto dialettale. A colpire nella missiva a Cosimo è però soprattutto il fatto che l’edizione della Vaiasseide inviata da Cortese non sia la mai ritrovata princeps del 1604, bensì la più antica stampa nota, la Longo del 1612.

Immaginare che Cortese possa aver atteso ben otto anni prima di spe-dire l’opera al vecchio protettore pone difficoltà. Non sono state esibite, almeno per il momento, prove particolarmente stringenti a favore di una

de quanno lo poeta se posse a componere lo poemma suio, che fo l’anno 1604». Nell’edizione Longo 1612 della Vaiasseide le lettere d’accompagnamento sono tutte esplicitamente attribuite proprio al 1604 salvo la prima, datata «Mille e seiciento e zero co no chilleto», perifrasi certa-mente non incompatibile con il 1604 – cfr. S. S. Nigro, Ritratto, cit., p. 493. La datazione diviene «1614» in tutte le edizioni successive del poema cortesiano: sulla questione si veda Fulco, La letteratura, cit., p. 826.

25 Non è facile comprendere quale sia l’accezione del verbo segnare («facciami grazia l’A[l-tezza] V[ostra] di non segnarlo») qui impiegata da Cortese. Cfr. forse segnare ‘marchiare con un titolo d’infamia, additare al pubblico disprezzo’ – S. Battaglia – G. Bàrberi Squarotti, Grande dizionario, cit., XVIII, p. 470.

26 Teresa Megale, Un dittico epistolare inedito: G.C. Cortese e G.D. Chiaiese corrispondenti di Cosimo II de’ Medici, «Filologia e Critica», XXIV, 1999, pp. 83-89: 85-86. Il documento (che ho nuovamente riscontrato sull’originale) è conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze, Medi-ceo del Principato, filza 4152, cc. non numerate e disposte in ordine cronologico.

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gestazione ‘lunga’ del poema, e dunque non è possibile escludere che esso sia stato composto nei primi anni ’10: 27 anche se il formato ridotto e la scel-ta dialettale facevano delle opere di Cortese un prodotto ricercato dal vasto pubblico e facilmente deperibile, la lettera a Cosimo getta ulteriori ombre sull’effettiva esistenza di una princeps del 1604.28

È sempre il fondo Magliabechiano della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze a restituire tracce di un interesse per la produzione di Cortese in seno alla capitale medicea e in cerchie non lontane dall’Accademia della Crusca: oltre alla prima edizione della Vaiasseide sono infatti lì conservate una copia (l’unica nota) della princeps del romanzo Li travagliuse ammure de Ciullo e Perna (1614) e una dell’edizione Longo 1615 della Vaiasseide do-nate da Orazio Tempi a Simone Berti (1589-1659).29 Berti, cruscante dal 2 settembre 1608 col nome di ‘Smunto’, divenne Segretario dell’Accademia nel 1650 e restò in carica sino alla morte.30 Anche se membro della Crusca solo a partire dal 31 maggio 1611, Tempi era più vecchio di Berti; alcuni ‘polizzini’ di sua mano lo dicono tra i redattori della seconda edizione del Vocabolario (1623).31 Il testo dei Travagliuse ammure e quello delle prose finali

27 Sulla questione si è espresso Salvatore Silvano Nigro, Genesi della ‘Vaiasseide’ di G. C. Cortese, «Siculorum gymnasium», XXIII, 1970, pp. 129-157, poi corretto da Bruno Porcelli, Alle prese con la lingua di autori napoletani del Seicento, «Studi e problemi di critica testuale», XV, 1977, pp. 104-143: 129-131. Nigro sosteneva che la gestazione dell’opera fosse durata molti anni (da prima del 1604, data di pubblicazione di un’edizione parziale, al 1612), fondando la propria argomentazione sui primi due versi di un sonetto d’accompagnamento alla quinta giornata del Cunto de li cunti («Tornatenne, Cortese, e scaca priesto | zò che de le baiasse avisse scritto»). Nigro interpretava il passo come un invito a ultimare (scacare) la Vaiasseide. Porcelli dimostra invece che il verbo va inteso nell’accezione di ‘ricusare’, e che il passo chiede scherzosamente a Cortese di prendere le distanze dalla propria opera.

28 Sulle ragioni della scomparsa libraria si veda Neil Harris, La sopravvivenza del libro, ossia appunti per una lista della lavandaia, «Ecdotica», IV, 2007, pp. 24-65. Oltre all’unica copia conservata della princeps dei Travaliuse ammure de Ciullo e Perna e della prima edizione nota della Vaiasseide, rarissime anche le Opere burlesche in lingua napoletana di Giulio Cesare Cortese […], in Napoli, per Domenico di Ferrante Maccarano, ad istanza di Fabrizio di Fusco, 1621, delle qua-li si conosceva un solo esemplare conservato presso la Österreichische Nationalbibliothek di Vienna, a cui si possono ora aggiungere quello di Pisa, Fondo Garin della Biblioteca della Scuo-la Normale Superiore, segnatura XXVII C828 e quello conservato presso la Biblioteca Central da Marinha di Lisbona, segnato Rbf3-01.

29 Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Misc. 1293-12 e 13 rispettivamente. Per il se-condo volume si veda la descrizione che ne dà Malato in Cortese, Opere, cit., II, pp. 5-6.

30 Sul Berti, si veda anche Catalogo degli accademici, cit., p. 126; Salvino Salvini, Fasti con-solari dell’Accademia Fiorentina di S. S. consolo della medesima e Rettore Generale dello Studio di Fi-renze, all’altezza reale del Serenissimo Gio[van] Gastone Gran Principe di Toscana, In Firenze, Nella stamperia di S. A. R. per Gio[van] Gaetano Tartini e Santi Franchi, 1717, pp. 474-476. Piero Innocenti, La dispersione della biblioteca Berti a Firenze, «Studi di filologia italiana», XXXV, 1977, pp. 97-190: 99-108.

31 Cfr. Catalogo degli accademici, cit., p. 54; Gli atti del primo vocabolario, editi da Severina Parodi, Firenze, Sansoni, 1974, p. 69 n. 8; della stessa Parodi, si veda Quattro secoli di Crusca, Firenze, presso l’Accademia, 1983, p. 46. Tempi si dice «molto più stato in questo mondo di

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accluse alla Vaiasseide riportano interventi a penna – solitamente sulla pun-teggiatura – forse di mano del Berti. La Biblioteca Nazionale conserva inol-tre una copia della Rosa nell’ed. Maccarano 1621 appartenuta – dal 1624 – a Vincenzio Bruni, Maestro dei Chierici della Cattedrale di Firenze.32

Quella delle opere di Cortese nella Firenze del Seicento fu una ricezio-ne precoce e ricercata dallo stesso autore – come lascerebbero intendere, oltre alla lettera a Cosimo II, i f requenti elogi tributati ai fiorentini e al loro signore negli stessi testi cortesiani: nei Travagliuse ammure è proprio il Granduca a garantire, dimostrando la propria magnanimità, un lieto fine alle vicende di Ciullo e Perna.

Anche Gianvincenzo Gravina dovette intuire un’affinità tra la produ-zione di Cortese e quella della più importante accademia fiorentina. Nel secondo libro della Ragion poetica, egli accostò la Rosa alla Tancia di Miche-langelo Buonarroti il Giovane, indicando in esse i due modelli di eccellenza per la resa dei «caratteri contadineschi» nel genere pastorale.33 Il parallelo tra Rosa e Tancia formulato da Gravina mette in risalto lo stretto nesso che lega le scelte stilistiche e linguistiche di Cortese alla tradizione della rusticale fiorentina, e in particolar modo (anche se con rilevanti differenze) all’opera del cruscante Buonarroti, la cui produzione è del resto «sul piano linguistico una paradossale estensione della dialettalità al toscano, anzi al fiorentino».34

È nota l’esistenza di una sinergia solo in apparenza paradossale tra pro-duzione in dialetto e interessi linguistici cruscanti nel corso del Seicento: si pensi, anche se si tratta di esempi seriori, allo scambio epistolare tra Fran-cesco Redi e Gabriele Fasano (traduttore napoletano della Liberata), o alla riscrittura di parti del Cunto di Basile operata da una figura vicina all’acca-demia, Lorenzo Lippi, nel Malmantile racquistato.35

Lei» nel carteggio con Carlo di Tommaso Strozzi (1587-1671) – vedi Isidoro Del Lungo, Pagine letterarie e ricordi, Firenze, Sansoni, 1893, pp. 107-127: 124.

32 Immagino si tratti dello stesso Vincenzio Bruni «professore di lettere latine e greche» ricordato da Benedetto Fioretti nella lettera ai lettori dei Proginnasmi poetici di Udeno Nisiely da Vernio […], Volume Primo, In Firenze, Appresso Zanobi Pignoni, 1620, p. 12; Bruni fu il precettore nelle lingue classiche e nel toscano di Braccio Manetti (vedi Stefano Calonaci, voce Manetti, Braccio del Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, LXVII, 2007, pp. 610-611: 611).

33 Gianvincenzo Gravina, Della ragion poetica, a cura di Giuseppe Izzi, Roma, Archivio Guido Izzi, 1991, pp. 125-126: 126: «niuno meglio che ’l Cortese nella napolitana Rosa, e ’l Buo-narroti nella Tancia ha saputo rappresentare i caratteri contadineschi e rendere al vivo i costumi e le passioni di simil gente nell’orditura di un dramma».

34 Gianfranco Contini, La poesia rusticale come caso di bilinguismo (1969), in Ultimi esercizî ed elzeviri, Torino, Einaudi, 1988, pp. 5-21. Non a caso la Tancia conobbe anche traduzioni dia-lettali, come quella in bolognese, di difficile attribuzione, titolata La Togna. Commedia rusticale tradotta dal Timido Accademico Dubbioso […], In Bologna, per Giacomo Monti, 1654.

35 Si vedano a questo proposito le considerazioni di Ivano Paccagnella, La prima lessico-

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Nell’importante Ragionamento dell’Accademico Aldeano (1634), Niccolò Villani – che pure non fu mai membro della Crusca – si rivela sensibile alle opere dialettali prodotte in tutta la Penisola, e di esse stila un ricchissimo catalogo, nel quale compaiono anche i lavori Cortese; l’elenco delle opere cortesiane è contiguo, si noti, a quello dei poeti in lingua toscana «mera» e «semplice» – come il Lorenzo de’ Medici dei Canti carnascialeschi e della Nencia da Barberino, il Pulci della Beca da Dicomano, oltre a Berni, Varchi, Molza, Caporali, Doni, Franco, Caro, Dolce, Aretino e la loro produzione burlesca.36

Alla luce di questi dati, il significato storico e linguistico della scelta del dialetto da parte di Cortese e Basile parrebbe da valutare nel quadro di una produzione rivendicatamente letteraria, pensata per proiettarsi immedia-tamente su uno scenario colto, non localistico e già italiano: 37 difficile im-maginare, dunque, che l’uso del vernacolo potesse, per simili personalità, essere inteso in funzione contestativa degli idoli accademici.38

Anche dati esterni alla produzione di Cortese invitano a guardare con cautela alla ‘popolarità’ della sua musa. Penso ad esempio alla polemica scoppiata dopo la pubblicazione del Pastor fido in lingua napolitana di Do-menico Basile (1628): molti a Napoli dovevano pensare che un portiere se-micolto del Tribunale della Vicaria, poeta e attore per diletto, avrebbe fatto meglio a tenere per sé le proprie fatiche letterarie, e a non tentare improv-vidamente, con la propria scialba traduzione della pastorale di Guarini, la strada inaugurata dalla Rosa di Cortese.39

grafia dialettale e il Veneto, fra Crusca e Patriarchi (e Boerio), in Languages of Italy – Histories and Dictionaries, edited by Anna Laura Lepschy and Arturo Tosi, Ravenna, Longo, 2007, pp. 211-232: 211: «È peraltro assodato dalla nostra storiografia linguistica che una vera esplosione delle letterature dialettali […] non solo non mette in crisi l’organismo della lingua comune, ma sem-mai finisce per rinvigorire un interesse non marginale della stessa Accademia della Crusca […] per la letteratura popolaresca e ribobolaia toscana, ben rappresentata dal Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi». Sul rapporto fra Redi e Fasano si veda Andrea Dardi, Fra Napoli e Firenze: Magalotti e Redi consulenti di Gabriele Fasano, «Lingua Nostra», XXXVIII, pp. 65-76; vedi anche Francesco Redi, Bacco in Toscana. Con una scelta delle Annotazioni, a cura di Gabriele Bucchi, Roma-Padova, Antenore, 2005, pp. 12, 75-76 (e ad indicem, s.v. Fasano).

36 [Niccolò Villani], Ragionamento dell’Accademico Aldeano sopra la poesia giocosa de’ Greci, de’ Latini e de’ Toscani […], In Venezia, Appresso Gio[van] Pietro Pinelli, 1634, pp. 72-79.

37 Cfr. Benedetto Croce, La letteratura dialettale rif lessa, la sua origine nel Seicento e il suo ufficio storico, «La Critica», XXIV, 1926, pp. 334-343 poi incluso in Uomini e cose della vecchia Italia. Serie prima, Bari, Laterza, 1927, pp. 225-234 e infine, col titolo, La letteratura dialettale rif lessa, in Filosofia, poesia, storia. Pagine tratte da tutte le opere a cura dell’autore, Milano-Napoli, Ricciardi, 1951, pp. 355-364 (da cui si cita). Si veda, in particolar modo, p. 360, laddove Croce parla signi-ficativamente di un «processo di unificazione» della cultura nazionale attraverso le letterature dialettali rif lesse.

38 Cfr. G. Fulco, La letteratura, cit., p. 824.39 Ho cercato di ricostruire la vicenda in A. Lazzarini, Una polemica, cit., pp. 187-203. Su

Domenico Basile si veda ora V. Palmisciano, Un ritrovamento, cit., pp. 417-418. Sull’ambigua

169UNA DEDICATORIA DI G.C. CORTESE A G.B. BASILE

3. La lettera di Giulio Cesare Cortese a Giovan Battista Basile.

Premessa alla princeps dei Travagliuse ammure de Ciullo e Perna (1614) è una lettera dedicatoria di Giulio Cesare Cortese a Giovan Battista Basile: essa potrebbe essere apparentata alle molte dichiarazioni di eccellenza dei dialetti sul toscano, tipologia testuale particolarmente diffusa nel Seicento.40

Come già detto, la lettera è riportata dall’unico esemplare noto della princeps, conservato presso la BNCF, e assente in tutte le edizioni successive.

Il registro della dedicatoria (un pezzo di bravura che esalta al massimo grado le potenzialità espressive del napoletano) è segnato da un’ambiguità tonale che è tratto costitutivo delle opere di Cortese e Basile: in tale amal-gama la componente seria è contaminata, e di fatto ridotta all’inazione, dall’elemento burlesco. Si prenda ad esempio il par. 4 e l’impiego della me-tafora continuata della botte di vino (la lingua napoletana) fatta inacetire dal concorso di popolazioni barbariche che, come nel caso degli Scoti, non giunsero mai in Italia, e sono menzionate al solo fine di consentire un gioco di parole sulla proverbiale propensione al bere dei popoli nordici. Oppure si noti, al par. 5, la serie di voci – basse e per lo più cacofoniche – a cui Cor-tese affiderebbe la dimostrazione delle nobili origini greche della lingua del volgo («chiafeo, pacchiano, vastaso, catamelle, cato, àstraco, scafutare, sciglio, ie-nimma»). Si direbbe che la prassi del confronto col greco – che aveva trovato in Italia il suo più illustre difensore in Ascanio Persio, e che nel 1634 sarebbe stata applicata seriamente al napoletano da Capaccio nel Forastiero – sia qui di fatto parodiata da Cortese.41

Il tema del ‘paragone’ tra napoletano e italiano aveva raggiunto una connotazione topica: 42 un confronto volto al rilievo di analogie e differen-

‘popolarità’ di Cortese, si vedano anche B. Croce, La letteratura, cit., pp. 358 e 360 e Franco Vazzoler, Il carnevale alla rovescia. Genesi e ideologia del genere eroicomico in Giulio Cesare Cortese: la Vaiasseide e il Micco Passaro, «L’Immagine rif lessa», III, 1979, pp. 321-336 (Vazzoler ha a mio avviso giustamente parlato delle opere di Cortese come esempio di una «‘carnevalizzazione’ alla rovescia» di fatto tesa alla conferma degli ideali dominanti).

40 Un bilancio è offerto da Maurizio Vitale, Di alcune rivendicazioni secentesche della ‘eccel-lenza’ dei dialetti, in, dello stesso, La veneranda favella. Studi di storia della lingua italiana, Napoli, Morano, 1988, pp. 305-323. Si veda inoltre Ugo Vignuzzi – Patrizia Bertini Malgarini, L’alter-nativa regionale e dialettale, in Storia della letteratura italiana, cit., pp. 771-812.

41 Sulla questione delle teorie linguistiche enfatizzanti, nell’origine del volgare, la com-ponente greca vedi Mirko Tavoni, La linguistica rinascimentale, in Storia della linguistica, a cura di Giulio C. Lepschy, Bologna, Il Mulino, 1990, vol. II, pp. 222-224. Giulio Cesare Capaccio, Il forastiero. Dialogi di G. C. Capaccio Academico Ozioso […], In Napoli, Per Gio[van] Domenico Roncagliolo, 1634, pp. 19-22.

42 Come del resto avviene anche nel caso del tòpos delle «parole chiantute», studiato da Nicola De Blasi, Notizie sulla variazione diastratica a Napoli tra il ’500 e il 2000, «Bollettino lingui-stico campano», I, 2002, pp. 89-129: 95-99.

170 ANDREA LAZZARINI

ze può essere stabilito tra la lettera cortesiana e l’opera dell’autore teatrale Silvio Fiorillo. Si prenda ad esempio un testo la cui importanza nel quadro della nascita della poesia dialettale napoletana è stata già sottolineata da Giorgio Fulco, il Prologo dell’Amor giusto (1604):e non penzassevo Segnure de vedere ascire da sti vuosche, vallune, montagne e grotte quacche pastore de chiste toscanielle ’ntonate, spantecate e pompuse co li cauzune de tiffetaffe, shioshiale ca volano, non toccare ca è ciammellotto; [co] <no> no sputare tunno, co no parlare quatro: lince, quince, lei, lui, adesso, quan-tunque, ho desinato, olippe, caviggia, faggiane, pernice di Paffagl[o]nia che avevano tre cuori, pippioni, olà ponete in ordine la carroffia, e cava fuori quei animali quadrupedi, perché voglio andare a Beccofalcone; sì sì, va’ ca state f rische se aspettate de sentire chesto; vuie sentarrite, la primma e prencepalemente cosa, Segnure miei belle – che ve mantenga Apollo, disse Scannapapara – cierte 43 parole grosse, grasse e chiatte, a doie sole e tonne comme a bàllane, ’nfornate de lo medesemo, commo sarria a dicere: vuoime ca te voglio, ca nce manno, ca te piglio; craie, pescraie, pescrigne o pescozze, ca lo dico a tata, a mamma, a zia, a sorema, ed a cainatemo, e se li parienti tuoi non me te vonno dare, le sgorgio, le sbufaro, le smafaro, le scervecchio, le stelleco, le spaparanzo, le smedollo, le smerzo e le ’ntrono; ed autre parole chiù sostanziose de cheste pesate co lo chiummo e lo compasso, ca vale chiù na scarpa cacata de no napoletano (co leverenzia de sse facce vostre) che quanta toscanicchie se trovano pe lo munno.44

Le voci ed espressioni napoletane messe a reagire con quelle toscaneg-gianti nel prologo di Fiorillo sono basse, e il tentativo di rovesciare la ge-rarchia dei generi, privilegiandovi il ‘realismo’ di «parole grosse, grasse e chiatte, a doie sole e tonne comme a bàllane», non ha in realtà alcuna pre-tesa sovversiva.

43 Sulla forma f. pl. cierte, dovuta probabilmente a conguaglio sulla forma maschile me-tafonizzata (anche se non si può escludere l’uso di i iperdiacritica), cfr. le considerazioni di Michela Russo, La metafonia napoletana. Evoluzione e funzionamento sincronico, Bern, Peter Lang, 2007, pp. 135-137: 136-137.

44 Silvio Fiorillo, L’amor giusto. Egloga pastorale in napolitana e toscana lingua di S. F. da Capua […], In Napoli, Nella Stamperia di Felice Stigliola a Porta Reale, ad istanza de Gioanne Roardo, 1604, pp. 15-17. Vedi Fulco, La letteratura, cit., pp. 824-825. Inutile ricordare la frequen-za di elencazioni verbali simili a quella del prologo di Fiorillo nelle opere di Cortese e Basile (basti, ad esempio, confrontarlo con la lunga serie di termini relativi al dare percosse presente in G.C. Cortese – G.B. Basile, Lettere, IV, A l’Uneco Shiammeggiante, in G.B. Basile, Lo cunto de li cunti: ovvero, lo trattenemiento de peccerille, Le muse napolitane e Le Lettere, a cura di Mario Petrini, Bari, Laterza, 1976, p. 599, rr. 3 sgg). Una meno felice canzonatura dell’impiego dell’italiano letterario da parte di un popolano può essere letta anche alle ott. I, 9-10 della Vaiasseide (G.C. Cortese, Opere, cit., I, pp. 27-28): «[…] | e pe le fare onore fu cantata | da no vecino lloro, po-tecaro, | chesta canzona, ch’aveva accacciata | uno certo poeta de la Marca | non saccio se lo Dante o lo Petrarca: || “Bella cocchia gentile, quinci e linci, | pozzate goder anco unquanco lei, | pocca tu de bellizze passe e vinci | de lo Mercato tutti i semidei, | e tutto questo munno anco costrinci | ad auzarete chìllete e trofei: | tal che da Bacco a Tile p’accellenza | se canta: Viva Menechiello e Renza!”».

171UNA DEDICATORIA DI G.C. CORTESE A G.B. BASILE

Nella sua breve prosa, Fiorillo si fa beffe di una parlata italiana carica-turalmente ipercorretta – quella che possiamo immaginarci tipica di chi, nei ranghi medio-alti della società napoletana, affettasse una conoscenza del toscano. Leggendo il testo dell’ecloga si nota però che le parti in italia-no affidate alle ninfe Ardelia e Lagrimosa, inseguite da quattro rusticissimi pastori napoletani, sono caratterizzate da una parodia del toscano libresco raggiunta attraverso un virtuosistico innalzamento tonale (un procedimen-to del tutto opposto, insomma, a quello messo in atto nel Prologo, dove a creare un effetto comico è semmai l’umiltà delle voci scelte).45

Come spesso avviene in simili casi di mescidazione dei registri, è pro-prio la tendenziale compattezza stilistica verso l’aulico dell’italiano usato dalle ninfe a rendere più godibile lo scarto alto/basso esistente fra questo e le parti in dialetto. Inoltre, nell’Amor giusto, Fiorillo è costantemente im-pegnato a inanellare citazioni riconoscibili e precise da Petrarca e Dante, arrivando quasi al centone. L’attore doveva del resto essere interessato a le-gittimarsi culturalmente e socialmente: dimostrarsi in grado di impiegare con abilità la lingua della tradizione letteraria ‘alta’, anche se a fini comici, poteva certo rientrare in questo tentativo di autopromozione. Si noti, in-fine, l’uso del ‘blasone’ dialettale mediano e meridionale «craie, pescraie, pescrigne o pescozze» (‘domani, dopodomani, tra tre o quattro giorni’), già sfruttato nel Morgante del Pulci (XXVII, 55: «crai e poscrai e poscrigno e po-squacchera») per connotare linguisticamente i balli delle contadine romane; la serie più o meno completa trova poi attestazioni in Del Tufo e Della Porta.46

Se, insomma, nell’opera dell’attore napoletano un’opposizione fra il dialetto e l’italiano è patente, essa non può certo essere spiegata nei termini di una radicale contrapposizione, ma piuttosto nell’ottica di un controcan-

45 Si vedano a riguardo anche le osservazioni di Chiara De Caprio in Silvio Fiorillo, La ghirlanda, a cura di C. De Caprio, Napoli, Phoebus, 2006, p. 14: «È la lingua chiusa nel peri-metro del discorso di tono alto delle ninfe e delle divinità, con un lessico senza macchia tutto caratterizzato in senso aulico, che, nell’asfissia dei suoi elementi, diviene oggetto di parodia».

46 Per la spiegazione linguistica del passo pulciano, già oggetto di un acceso intervento di Leo Spitzer, Crai e poscrai o poscrilla e posquacchera again, or the crisis in modern linguistics, «Italica», XXI, 1944, pp. 154-169 (in risposta a Donato Internoscia, Misunderstood Neapolitan expressions in Pulci’s ‘Morgante’, ivi, XVIII, 1941, pp. 51-54 e Robert A. Hall Jr., It. mer. ‘pəskrái’, ‘pəskrille’ ecc., ivi, XX, 1943, pp. 198-200), si veda ora Francesco Avolio, ‘Crai’ ed espressioni affini nelle parlate centro-meridionali, «Studi Linguistici Italiani», XVII, 1991, pp. 83-127. Per i versi del Ritratto di Del Tufo (V, 845-50: «Così comunemente | dirà più prontamente | la nostra goffa gente | […] | “Ore [ma Oie], craie, piscrai, fin’a pescrillo”») e per quelli tratti dal Moro e dalla Ta-bernaria dellaportiani (dove è usata da popolani di modesta estrazione sociale – «ma fore d’oie, craie, pescraie, e poscrigno, iammoce quando buoi, core mio bello», «crai, poscrai, poscrigni o pi-scrotte allo chiù chiù, ca la vendegna ce la faccio brocioleare») vedi Luca D’Onghia, recensione a Giovan Battista Del Tufo, Ritratto o modello delle grandezze, delizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli, a cura di Olga Silvana Casale e Mariateresa Colotti, Roma, Salerno, 2007, «Studi linguistici italiani», XXV, 2009, pp. 123-139: 138-139.

172 ANDREA LAZZARINI

to scherzoso alla lingua letteraria; per paradosso, di una spassosa legittima-zione delle gerarchie di genere stabilite.

Ritornando a Cortese, egli sostituisce alla critica dei «toscanicchie» (pre-sente nel prologo di Fiorillo) una gara col «toscanese» e presenta una lista di voci che, pur avendo origine greca reale o supposta, appartengono – come in fondo tutte le parole dialettali – a un registro inesorabilmente troppo basso per competere in decorum con l’italiano e presentarsi come «la chiù bella lengua de ’Tàlia». La scelta cortesiana di servirsi del napoletano non più come strumento per caratterizzare rusticamente personaggi teatrali, ma (secondo la fortunata formulazione di Pino Fasano) come «lingua dello scrittore», complica ma non altera nella sostanza il rapporto che lega l’uso del dialetto a quello dell’italiano: è il maggior grado di letterarietà dell’o-pera di Cortese – segnata innanzitutto dalla scelta di riprendere, parodiare o riscrivere modelli ‘alti’ della tradizione italiana – a rendere superf luo il ricorso all’alternanza di napoletano e toscano che aveva caratterizzato l’A-mor giusto di Fiorillo.47

Li Travagliuse ammure sono la prima opera di ampio respiro in prosa napoletana a uscire a stampa, successiva solo ai brevi esercizi epistolari di Basile e Cortese annessi alla Vaiasseide. È pertanto molto rilevante che la lettera a Basile menzioni Boccaccio e il suo ruolo di fondatore di un canone per la prosa italiana.

Nel Disegno introduttivo alle Muse napoletane, anche Basile ricorre ad argomenti molto affini a quelli della lettera indirizzatagli dall’amico una quindicina di anni prima:[…] le Muse so’ chiamate zitelle zite perché so’ contente de lo decoro naturale senza cercare arteficie e marcangegne; e lo Poeta, avenno voluto a scrivere ste composte la semprece bellezza delle lengua napoletana, senza la ’nzalata ’nmesca-ta che semmenaro li Varvare e cogliettero li Toscanise, perzò l’è parzeto con gran ragione ’ntitularele Muse.48

Dalla metafora del vino usata da Cortese si passa qui a impieghi allusivi di insalata mista e composta – un ‘modo di conservare ortaggi (pomodori, cetrioli, ecc.) e funghi con olio e aceto’.49 La sostanza della rivendicazione è, ad ogni modo, sempre la medesima: il napoletano è una lingua ‘pura’, sulla quale i barbari hanno potuto poco. Sono in questo caso la persona-

47 Pino Fasano, Gli incunaboli della letteratura dialettale napoletana («chelle lettere che fecero cammarata co la Vaiasseida»), in Letteratura e critica. Studi in onore di Natalino Sapegno, Roma, Bulzoni, 1975, vol. II, pp. 443-488: 463. La formula è ripresa anche in Fulco, La letteratura, cit., p. 825.

48 G.B. Basile, Le Muse napoletane, a cura di Olga Silvana Casale, Roma, Benincasa, 1989, p. 12.

49 S. Battaglia, Grande dizionario, cit., III, p. 424.

173UNA DEDICATORIA DI G.C. CORTESE A G.B. BASILE

lità e la vicenda biografica di Basile – letterato ‘in lingua’ di grande fama, figura di spicco tra gli Accademici Oziosi, estremo ripropositore, in chiave decisamente conservatrice, del modello offerto dalla linea petrarchista cin-quecentesca Bembo-Casa-Tarsia – a confermare senza possibilità di frain-tendimento il tono burlesco della dichiarazione.50

La scelta di una poesia ‘popolare’ nelle voci non corrispondeva, insom-ma, alla volontà di un pieno riscatto del vernacolo, alla proposta di una lingua che potesse realmente competere col toscano o prenderne il posto. Non ci troviamo di fronte a opere antiaccademiche, ma piuttosto a diverti-menti letterari composti da accademici per accademici. Il fatto che si trat-tasse di prodotti accessibili al largo pubblico dei popolani alfabetizzati non deve, insomma, far postulare per questi scritti una natura irrealisticamente antielitaria.51

Andrea Lazzarini

50 Riguardo all’attardato petrarchismo di Basile e alle sue Osservazioni filologico-erudite su Bembo e Della Casa, cfr. Amedeo Quondam, La parola nel labirinto, Bari, Laterza, 1975, pp. 283-288: 285: «occorre tener ben presente che queste opere, assieme agli altri testi volgari po-etici, sono quelle che diedero al Basile fama e considerazione fra i contemporanei, per i quali molto lontana era l’immagine del Basile dialettale, peraltro tutta postuma: eppure, proprio dal-la considerazione di questo primario interesse linguistico può trovare organica interpretazione l’attività ‘napoletana’ del Basile (come sviluppo coerente delle premesse di curiosità aristocra-tica e poi filologica, per un patrimonio linguistico risolutamente ‘altro’ elaborate dal Corsuto e dal Del Tufo) che risulta in pieno luogo e in ogni caso risolutamente aliena da quelle inclina-zioni democratico-populistiche indiscriminatamente addebitate alla operazione della scrittura in dialetto: occorre infatti affermare che il napoletano è fondamentalmente una ‘sub-lingua’, proprio rispetto al secolare privilegiamento della lingua letteraria secondo l’elaborazione ch’e-gli stesso provvede a codificare con le sue Osservazioni».

51 Oltre alle parole di A. Quondam citate nella nota precedente, si consideri Gianfranco Contini, Introduzione alla “Cognizione del dolore” (1963), in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970, 601-619: pp. 612-613.

APPENDICE

Si propone qui l’edizione commentata e tradotta della lettera dedicatoria di Giulio Cesare Cortese a Giovan Battista Basile, contenuta alle cc. A2r-A3v (pp. 3-6) della princeps dell’opera. Se ne descrive l’unico esemplare noto:

Delli | TRAVAGLIVSE | AMMVRE | DE CIVLLO, | ET DE PERNA, | Libri otto, | DI GIULIO CESARE | Corteſe il Pastor | Sebeto | [fregio xilogr., mm. 10x6 ca] | In Napoli per Lazaro | Scoriggio. 1614. | [linea, mm. 32] | Con licenza de’ Superiori.

Formula collazionale: A-B12 C14. Pp. [1-2] 3-76 = 76.Non ci sono titoli correnti.Impronta: r-a- a-e- zaia maMa 1614 (A)

A1r] frontespizio. A1v] bianca. A2r (p. 3)]: AL MOLTO | ILLUSTRE SIG. | IL SIG. CAVALIERO | GIO. BATTISTA | Basile, Conte Palatino e | Gentiluo-mo del|l’Altezza di | Mantua A4r (p. 7)] DELLI TRAVAGLIVSE | AMMVRE DE CIVLLO | e de Perna. | Libro Primo. A8r (p. 15)] DELLI TRAVAGLIVSE | Ammure de Ciullo | e de Perna | Libro Secondo. A11v (p. 22)] DELLI TRAVA-GLIVSE | Ammure de Ciullo | e de Perna | Libro Terzo. B5v (p. 34)] DELLI TRAVAGLIVSE | Ammure de Ciullo | e de Perna | Libro Quarto. B8r (p. 39)] DELLI TRAVAGLIVSE | Ammure de Ciullo e de Perna | Libro Quinto. B12v (p. 48)] DELLI TRAVAGLIVSE | Ammure de Ciullo, | e de Perna | Libro Sesto. C4v (p. 56)] DELLI TRAVAGLIVSE | Ammure de Ciullo, | e de Perna | Libro Setti-mo. C12r (p. 71)] DELLI TRAVAGLIVSE | Ammure de Ciullo e de Perna | Libro Ottauo. C14v (p. 76)] Scompetura. | [linea mm. 52] | Imprimatur. | Petrus. Ant. Ghib. Vic. Gen. | M. Corn. Tirob. Præ. Ord. Cur. Theol.

Esemplare: BNCF, 1293.12. Dimensioni: cm 7,6x13 ca. Legatura moderna con pergamena all’antica. Segni di possesso, a carta A1r, nello spazio attorno alla xilografia: «Di Simone Berti | dono del | Sig.r Orazio Tempi». Molto frequenti tracce di correzione a penna, solitamente riguardanti la punteggiatura. Il volume è stato con ogni probabilità rifilato: lo dimostra l’unica correzione a margine (di-ceano >) decen[no], mancante della sillaba finale. A10r, p. 19. L’inchiostro (ampia-mente evanido) e la mano della nota di possesso sembrano compatibili con quelli delle correzioni.

175UNA DEDICATORIA DI G.C. CORTESE A G.B. BASILE

Bibliografia: Albert N. Mancini, Il romanzo del Seicento. Saggio di bibliografia. Parte I, «Studi secenteschi», IX, 1970, pp. 205-274: 256. Enrico Malato, Postilla cor-tesiana, «Studi e problemi di critica testuale», II, 1971, pp. 236-255: 241. G. Fulco, La letteratura, cit., pp. 828, 833-834. N. De Blasi – F. Fanciullo, La Campania, cit., pp. 655-656; N. De Blasi, Profilo linguistico della Campania, cit., pp. 139-144. L. Se-bastio, Manuale, cit., pp. 111-112; M. Picone, La Cornice, cit., p. 297; A. Mauriello, Viaggio, cit., pp. 749-750.

Criteri di edizione.

Sono stati adeguati all’uso moderno divisione delle parole, distinzione dei ca-ratteri, punteggiatura e diacritici (h inclusa). Il gruppo -ti- è stato reso con -zi- ove necessario. Si è separata graficamente dalla parola successiva la ’n preposizione (= ‘in’). Per le preposizioni articolate si è mantenuta la grafia analitica, si univerbano le forme avverbiali. Si conserva il digramma sh per la fricativa postalveolare sorda breve. Si è adottata in un caso la grafia uuocchie (< vuo-) a indicare una pronuncia semivocalica /wo/ (vedi commento al passo, par. 4). Il testo è stato diviso in para-grafi numerati.

Si è intervenuti per correggere un probabile refuso al par. 8: de ’nmezzare e se ’gnorante da ridere > de ’nmezzare a [s]se ’gnorante da ridere (cioè ‘insegnare a codesti ignoranti a ridere’, vedi commento).

[A2r, p. 3] AL MOLTO  | ILLUSTRE SIG.  | IL SIG[NOR] CAVALIERO  | GIO[VAN] BATTISTA | Basile, Conte Palatino e | Gentiluomo del|l’Altezza di | Mantua

[1] L’affezione grande che porto a V. S. e l’obreco che tengo de corresponne-re ’n vita ’ternale a li favore che me avite sempremaie fatto, me sforzano de fare testemonio a lo munno, co lo presente libro che le dedeco, de quanto desederio aggio de servireve.52

[2] Siate adonca contento de receverelo de buono anemo, né ve sia a nespia-

52 [1] Il grande affetto che provo nei confronti di V[ostra] S[ignoria] e l’obbligo che ho di corrispon-dere per l’eternità ai favori che mi avete sempre fatto, mi spingono a dare pubblico testimonio, col presente libro che vi dedico, di quanto desiderio abbia di servirvi.

obreco: cfr. it. obbligo ‘dovere di riconoscenza e di devozione verso una persona, che deriva dai benefici e dai favori ricevuti e dal desiderio di ricambiarli’, ‘debito di gratitudine’ – GDLI, XI, p. 720. ’n vita ’ternale: lett. ‘in vita eternale’, cioè ‘per l’eternità’ come in Cortese, Micco Passaro, VIII, 18, vv. 1-2, p. 206: «E se non fosse pe gabbare Micco | non ce tornava chiù ’n vita ’ternale»; Rosa, V, 12, p. 134: «io tengo a Fonzo n’obreco ’ternale». Cfr. la forma aferetica it. ant. ternale ‘eternale’  – GDLI, XX, p. 940. sempremaie: ‘continuamente’, ‘ininterrottamente’; it. sempremai – GDLI, XVIII, 613. fare testemmonio a lo munno: cfr. it. testimonio ‘manifestazione esplicita o esteriore, segno palese […] dei propri sentimenti per qualcuno’ – GDLI, XX, p. 1005. Cfr. Basile, Cunto, III, 2, 65, p. 500: «e facenno testemmonio a lo munno ca “non ha lo doce a caro | chi provato non ha ’mprimmo l’ammaro”».

176 ANDREA LAZZARINI

cere che a na persona che ha fatto acossì luongo studio alle lettere toscanese com-mo a V. S. venga io mo a dare n’opera ’n lengua napoletana: perché, se volimmo buono conziderare la lengua nostra, non have che ’nmediare alla shiorentina, né lo shummo d’Ar|[A2v, p. 4]no pò fare n’àccepe cappiello allo Sebeto nuostro; 53 [3] perché, se la lengua de Shiorenza oie è lo cuccopinto delli scritture, gran merzè allo Voccaccio che co la vocca d’urzo le ieze danno forma, la nostra se avesse aùto n’autro che l’avesse scergata co na còtena de lardo, fuorze sarria deventata chiù lustra e chiù bella de na cascia de noce, tanto chiù che la materia è cossì atta a re-cevere bella forma commo la shiorentina, e fuorze meglio.54 [4] Perché, levannoce

53 [2] Siate dunque contento di riceverlo di buon animo, né vi dispiaccia che a una persona che ha fatto così lungo studio delle lettere toscane come V[ostra] S[ignoria] venga io ora a dare un’opera in lingua napoletana: perché, se vogliamo ben considerare la nostra lingua, non ha di che invidiare alla fiorentina, né il fiume Arno può fare il superiore col nostro Sebeto.

nespiacere: ‘dispiacere’; della forma – forse riprefissata in analogia con negazioni quali non, né  – non trovo altre attestazioni. toscanese: la voce, che solitamente ha una connotazione negativa e scherzosa, si oppone a toscano ed è sovente usata dai poeti napoletani (soprattutto come sostantivo). Vedi ad esempio Cortese, Vaiasseide, I, 1, vv. 7-8, p. 26: «Ma non faccio li vier-ze ’n toscanese | azzò me ’ntenga onnuno a sto paese»; Micco Passaro, I, 39, vv. 1-4, p. 114: «Ne disse n’autra po’, pre vita mia, | pe quanto me decette no mannese, | che fo de vierze ’n prosa e ’n poesia, | de lengua sciorentina e toscanese». Basile, Muse, IX, vv. 127-130, p. 210: «Dov’è iuto lo omme | vuostro, dove la famma, o villanelle mei napoletane? | Ca mo cantate tutte ’n toscanese». Cfr. anche l’it. scherz. toscanese ‘idioma toscano’ – GDLI, XXI, p. 82 (con esempi tratti dalla Bucchereide di Lorenzo Bellini). àccepe cappiello: ‘modo di spregio che si faceva nelle dispute scolastiche’ (D’Ambra). «Nelle dispute scolastiche il vincitore riportava una corona o laurea mentre colui che perdeva prendeva il cappello e andava via, e gli si diceva: “Accipe pileum pro corona”» (Rocco, s.v. cappiello). Cfr. Cortese, Viaggio di Parnaso, IV, 33, v. 8, p. 328: «nego atque nego et àccepe cappiello»; Micco Passaro, IV, 21, vv. 5-6, p. 152: «ca se no n’averia, chesto perden-no, | co no gran scuorno n’àccepe cappiello»; Basile, Muse, IX, vv. 280-284, p. 222: «M’allecordo na vota avere ’ntiso | da cierte studïante | che facevano ad àccepe cappiello, a nego consequenza e peto copia | ca chisto munno è museca». Sebeto: torrente che anticamente attraversava Napo-li, elevato dagli scrittori partenopei a simbolo letterario della città. Lo pseudonimo di Cortese era, si ricordi, ‘Il Pastor Sebeto’.

54 [3] perché, se la lingua di Firenze oggi è il diletto degli scrittori, grazie soprattutto al Boccaccio che con bocca da orso le andò dando forma, la nostra se avesse avuto un altro che l’avesse strofinata con una cotenna di lardo, forse sarebbe diventata più lustra e più bella di una cassa di noce, a maggior ragione perché la materia è tanto adatta a ricevere bella forma quanto la fiorentina, e forse migliore.

cuccopinto: Coccopinto, cuccopinto, cuccopintolo ‘uovo dipinto, di che si fan presenti di Pasqua, graditissimi a’ bambini’; in senso trasl. ‘amorino, zuccherino, diletto’ (D’Ambra, s.v. coccopinto e cuccopinto). È spesso usato come malapropismo per Cupido, di qui la tendenza a considerarlo come nato da una storpiatura della voce colta (vedi D’Ambra, s.v. cuccopinto, Rocco, D’Ascoli); il significato traslato potrebbe invece essere avvicinato a quello dell’it. cucco ‘uovo’ e ‘la persona prediletta, il beniamino in una famiglia, in un gruppo, in una cerchia’, ‘l’attività prediletta, la cosa preferita’ – GDLI, III, p. 1029; cfr. anche pinto ‘dipinto’ e ‘bello’ – Cortese, Rosa, I, 1, p. 12: «una de lloro, la chiù penta e bella» (vedi anche, con lo stesso duplice significato, pintato: Basile, Cunto, I, 6, 35, p. 132: «fu cossì grande la corzeta che le cascaie no chianiello, che non se poteva vedere la chiù pentata cosa [= una cosa più bella]»; I, 7, 31, p. 150: «la chiù pentata creatura de sto paiese ha da essere ’nnorcata e gliottuta da no brutto anemale»); Cortese, Viaggio, I, 2, vv. 5-6, p. 256: «O de le Muse cuccopinto e gioia | ausoleia dall’a pe fi’ a la ’nzeta»; Basile, Cunto, I, 7, 18, p. 146: «a Dio shiore de le cetate, sfuorchio de la Talia, cuccopinto de l’Auropa, schiecco de lo mun-no, a Dio Napole no plus, dove ha puosto li termene la vertute e li confine la grazia!». Vedi anche Pino, Ragionamento, p. 109: «costui era l’uovo pinto di sua nanna Venerella». gran merzé: cfr. it.

177UNA DEDICATORIA DI G.C. CORTESE A G.B. BASILE

la passione dall’uuocchie, vedarimmo che, se ben sta votte della lengua napoleta-na – pe lo concurzo delli Lanze, Scotte e de tante aute barbare che bennero co li Gotte a ’Tàlia – ha pigliato no poco d’acito, tuttavota ancora se canoscie ch’è stata de grieco buono, ped esserence restato quarche rommasuglia de chello buono addore; 55 [5] e che sia lo vero, fi’ ad oie se sente pe bocca dello puopolo dicere chiafeo, pacchiano, vastaso, catamelle, cato, àstraco, scafutare, sciglio, ienimma, e ba’ descorrenno, che ponno servire da fede de credeto pe pigliare dallo banco della

gran mercé a o di qualcuno ‘grazie a loro, per merito loro’; – GDLI, X, p. 141. co la … forma: si tratta di una sorta di interpretatio nominis (Voccaccio / vocca d’urzo) che fa riferimento alla diffu-sissima credenza antica secondo la quale le orse davano forma ai propri cuccioli appena nati lec-candoli (Plinio, Naturalis historia, VIII, 126: «Hi sunt candida informisque caro, paulo muribus maior, sine oculis, sine pilo; ungues tantum prominent. Hanc lambendo paulatim figurant») Vedi Rodella, Prossimità; cfr. Guarini, Pastor fido, III, vv. 850-853, p. 174: «[…] come l’orsa suole | con la lingua dar forma | a l’informe suo parto, | che per sé fora inutilmente nato» e anche Basile, Pastor fido, III, vv. 855-859, pp. 150-151: «[…] comm’a l’orza face, | che co la len-gua lecca | chillo piezzo de carne c’ha fegliato, | leccanno le dà forma | tanto che po’ deventa n’orzachiello». Per il perfetto sigmatico ieze ‘andò’, cfr. Ledgeway, §10.3.2.1.3, p. 418. scer-gata: scergare ‘f regare’ (D’Ambra), cfr. cal. scirigari ‘strofinare’ < *exfricare, NDC. cotena de lardo: ‘cotenna di lardo’ (cotena ‘cotenna’ – D’Ambra), usata per la lucidatura di mobili in legno. Basile, Cunto, IV, 6, 20, p. 742: «Pigliato po’ na cotena de lardo scergaie de manera le casce de nuce e le fece accosì lustre che te nce specchiave». Sgruttendio, Tiorba, IX, 4, vv. 27-28, p 778: «È cchiù lustro e resbrannente | de na cotena te lardo».

55 [4] Perché, togliendoci la passione dagli occhi, vedremo che, sebbene questa botte della lingua napoletana – per il concorso dei Lanzi, Scoti, e di tanti altri barbari che vennero con i Goti in Italia – ha pigliato un po’ d’aceto, tuttavia ancora si capisce che è stata di buon greco, perché ci è restato qualche rimasuglio di quel buon odore;

levannoce … uuocchie: ‘togliendoci la passione dagli occhi’, cioè ‘giudicando in modo im-parziale, equo’. Per la grafia uuocchie (vu- nell’originale), diffusa in tutta la penisola e con atte-stazioni anche trecentesche vedi D’Onghia in Ruzante, Moschetta, p. 114 nota 35 («uuogi lusinti co’ i spegi») e rimandi a Formentin, Antico padovano, p. 18 nota 30, Ageno, Particolarità, pp. 179-180 e Petrucci, Anonimo, pp. 215-16, nota 10. Il fenomeno ha occorrenze anche nella princeps della Rosa: uuovo (I, 773 e V, 815); uuocchie (II, 151); uuoglio (II, 183 e III, 826). Lanze, Scotte … Gotte: Lanzo ‘lanzo, lanzichenecco’ (D’Ambra) ‘lanzichenecco’ – GDLI, VIII, p. 759; cfr. locuz. it. bere come un lanzo (ivi) e Sgruttendio, Tiorba, I, 15, v. 10, p. 526: «comm’a no lanzo carreco de vino»; vedi anche Fiorillo, L’amor giusto, III, 2, p. 71: «Zitto, ca vecco ccà li mariuole | e beneno li Lanze e li Franzise | e stannoce mescate li Spagnule». Scotte, vale scoto ‘che appartiene all’an-tica popolazione celtica, originaria dell’Irlanda, che nel IV sec. conquistò la Caledonia’ – GDLI, XVIII, p. 276, con gioco sul valore dell’it. scotto ‘prezzo pagato per il pasto o per l’alloggio all’osteria’ – ivi, p. 281. Gotte ‘Goti’ (per l’etnonimo cfr. it. ant. gotto, GDLI, VI, p. 991); usato in senso scherzoso con valore anfibologico gotte ‘bicchieri’, cfr. it. gotto ‘grosso bicchiere di vetro’ e, in senso generico, ‘bicchiere’ (ivi, p. 992). Questa serie di popoli è qui elencata da Cortese senza alcuna pretesa di storicità, ma solo per imbastire un gioco di parole teso a dipingere (secondo il diffusissimo stereotipo) le popolazioni del Nord Europa come dedite al vino. ha pigliato no poco de acito: pigliare d’acito ‘inacetire’ (Andreoli); cfr. it. pigliare d’aceto – LEI, I, c. 385, rr. 39-42. de grieco buono: ‘di buon vino greco’, grieco ‘vino greco’ (D’Ambra); cfr. it. (vino) greco ‘vino dolce che era importato dalla Grecia’ e, per estens. ‘denominazione di vari tipi di vini pregiati, rossi o bianchi, assai diffusi specialmente nell’Italia meridionale’ – GDLI, VII, p. 27. Cfr. Cortese, Viaggio di Parnaso, A li leieture, p. 253: «fi’ che la Musa mia torne da Smirna e da Mantova, dov’è ghiuta ad arrecogliere conciette, per farene n’autra composta co l’acito de grieco de Napole». rommasuglia: femm. sing., ‘la piccola e peggior parte di quel che avanza’, ‘rimasuglio’ (Puoti); ‘avanzi’ (D’Ambra).

178 ANDREA LAZZARINI

fama tanta grolia d’essere la chiù bella lengua de ’Tàlia.56 [6] Ma che dubeto? Io so’ chiù che securo ca no’ sdegnarite cose scritte a sta lengua, pocca alla greca, alla latina e alla toscana (delle quali si|[A3r, p. 5]te tanto cupiuso), avite voluto perzì agghiognere la napoletana, nella quale scrivite acosì graziosamente, parennove

56 [5] e difatti, persino oggi si sente per bocca del popolo dire chiafeo, pacchiano, vastaso, ca-tamelle, cato, àstraco, scafutare, sciglio, ienimma e via discorrendo, che possono servire da fede di credito per prendere dalla banca della fama tanta gloria da essere la più bella lingua d’Italia.

che sia lo vero: ‘difatti’, ‘per l’appunto’. L’espressione, lessicalizzata e non più avvertita come ellittica, trova attestazione anche in toscana, vedi ad es. Aretino, Cortigiana (’25), p. 7: «E che ’l sia el vero, un Messer Mario romanesco or ora m’è venuto a trovare»; Aretino, Talanta, Prologo, 2, p. 363: «e che sia il vero, ne l’accennare io, che sono il minimo de la compagnia, d’aprir la bocca, l’ho chiusa a tutti»; Fortini, Le piacevoli, I, p. 398: «E che sia il vero, quella non mai si concia a tutte le pelli quali s’hanno da conciare»; Cortese, Ciullo e Perna, p. 26: «ma puro chello poco che dormeno assaie lavorano, e che sia lo vero Perna se sonnaie ca veneva alla casa soia na bella guagnastra»; Viaggio di Parnaso, A li leieture, p. 253: «E che sia lo vero, corrano puro quanto se voglia ste fegliole dallo Gance a lo Nilo, e da li Nasamune ’n culo a lo munno»; Basile, Cunto, IV, 10, 29, p. 826: «Chi v’ha ditto che facite trasire, sta femmenella guitta drinto sta casa? non vedite a la cera ch’è na mariola? e che sia lo vero, mettitele mano a la sacca, ca trovarrite lo de-litto ’n genere!». chiafeo: ‘uomo da nulla’, l’etimologia non è realmente greca (nonostante le tradizionali proposte < γναφεύς, κναφεύς ‘cardatore, scardassatore’, già in Capaccio, Forastiero, p. 20: «chiafeo, un uomo sordido, ché gnapheus è tintore di panni»), ma probabilmente da acco-stare alle moltissime voci di insulto terminanti col suffissio -èo, tipico di alcuni nomi biblici vedi Migliorini, Dal nome proprio, p. 276. pacchiano: ‘villano’, ‘villico’, ‘rustico’ (D’Ambra), anche ‘zoticone’. Non soddisfa, secondo il DELI, la proposta < gr. παχύς ‘grosso’ del DEI. Nocentini propone < *patulare ‘pascolare’ (da cui l’it. pacchiare ‘maggiare abbondantemente, fare rumo-re con la bocca mangiando’ e pacchia ‘pasto abbondante’ – GDLI, XII, pp. 315-316), a sua volta da *patulum ‘luogo aperto’ < patulus ‘aperto’. vastaso: ‘facchino’ (cfr. it. bastagio), voce che effettivamente viene dal gr. βαστάζειν ‘portare’, ‘sopportare’ vedi Fanciullo, Facchino (l’etimo-logia è già proposta in Capaccio, Forestiero, p. 20). catamella: ‘midolla delle ossa’ (D’Ambra), da cfr. con umbro ncatamellare ‘guadagnare con le lusinghe’, ‘penetrare nelle midolla’ di origine incerta e forse riconducibile al gr. μυελός, in composizione con il prefisso κατα- (Valente, Son-daggi, p. 698). Della voce, con l’accezione di ‘parte interna’, si serve anche Marino nel suo Padre Naso (vedi Matt, Neologismi, p. 143). Cortese, Vaiasseide, A lo Re delli Viente, p. 11: «De cchiù, nui autre poeta iammo sempre ’n zenziglio, co li vestite comm’a rezza de pescature, e lo friddo nc’entra pe fi’ a le catamelle dell’ossa». cato: ‘secchio’ < cadus ‘recipiente per vino’, a sua volta dal gr. κάδος (Cortelazzo – Marcato); cfr. Capaccio, Forestiero, p. 20: «Cato ‘vaso da torre acqua dal pozzo, perché cato significa giù come ano su’». àstraco: ‘battuto sulla parte più alta della casa fatto di piccolissime pomici o lapilli’ (Rocco); < astracum ‘pavimento’, prestito dal gr. ὄστρακον ‘vaso di terracotta, coccio’ (Cortelazzo – Marcato). Cfr. it. lastrico (solare) ‘copertura piana di un edificio, che serve anche come terrazza’ – GDLI, VIII, p. 803. Cortese, Viaggio di Parnaso, Lo poeta a li leieture, p. 254: «e puro che lo Poeta saglia a trionfare ’ncoppa l’astreco de la Grolia». scafutare: ‘scavare’, ‘cavare’, ‘incavare’, ‘fare fondo’ (D’Ambra), ‘scavare’, ‘affossare’, ‘affondare’ (Andreoli) < *ex-cavitare, REW, 1792. sciglio: ‘lo strapparsi dei capelli’ – D’Am-bra; cfr. forse it. sciliare, scigliare ‘squarciare, stracciare, lacerare, fare a brandelli’, ‘estenuare’ – GDLI, XVIII, p. 37 (forma aferetica di esciliare ‘separare, strappare’ < fr. ant. essilier ‘esiliare, separare, tormentare, straziare’  – GDLI, V, p. 305). ienimma: ‘stirpe’, ‘schiatta’  – D’Ambra; cfr. it. genìa < gr. γενεά avvicinata agli astratti in –ìa (DELI) e, forse, in nap. fornita del suffisso denominale femminile –imma per il quale vedi Ledgeway, §4.4.2: p. 154. ba’ descorrendo: lett. ‘va’ discorrendo’, cioè ‘via discorrendo’, ‘eccetera’; cfr. e così va’, andate voi discorrendo, p. 578: «forme di dire usate da chi parla o scrive per non difundersi in cose che dalle premesse ognuno giù s’immagina da se’» – Gherardini, II, p. 578. Cfr. anche Cortese, Rosa, II, 6, p. 51: «[…] e va’ scorrenno». fede de credeto: ‘polizza bancale, cartelle di credito’ (D’Ambra), cfr. it. fede di

179UNA DEDICATORIA DI G.C. CORTESE A G.B. BASILE

che sì commo lo sole è tirato da quattro cavalle non potesse ire buono lo carro della luce vostra co tre solamente.57

[7] Pe chesto adonca con anemo de lione ve faccio sto presiento, e s’io potesse dareve cosa chiù grossa lo farria acossì de buono animo, commo lo dare a buie è dare a me stisso, mentreché – pe la forza de l’ammecizia ch’è fra nuie – l’arme nostre so’ na medesemo cosa.58 [8] Resta sulo che vuie aggiate da defenzareme non già da chi volesse mormoriare de st’opera, perché, si sarrà saputo, me darà causa de ’nmezzare a [s]se ’gnorante da ridere; pigliarite, dico, la defesa mia con-tro a lo viento, perché avennole dato parola de dedecarele ogne fatica mia, oie, perché le vengo manco, o me farrà ’nchire la casa de fummo, o me farrà cadere da coppa n’àstraco quarche ticolo ’n capo.59 [9] Vostra Segnoria adonca me faccia

credito ‘certificato di credito’ (ma cfr. anche l’accezione ovviamente seriore di ‘titolo di credito all’ordine, affine all’assegno circolare emesso dal Banco di Napoli e di Sicilia’) – GDLI, VII, p. 777. Valentino, La fuorfece, p. 30: «Fede de credeto è la pudecizia | semp’è sana, ’nzi’ tanto no la cagne». banco: ‘banco mercantile, pubblico o privato’  – Rocco, ‘banca’; ‘istituto di credito, banca’, in antico: ‘bottega del cambiavalute’, ‘deposito di crediti’ – GDLI, II, p. 36. Cfr., per l’uso del termine in un analogo contesto di difesa delle parole napoletane, Cortese, Viaggio di Parnaso, I, 24, vv. 5-8, p. 266: «Tanta patacche avesse ad ogne banco | quanta aggio vuce a Napole mia bella: | vuce chiantute de la maglia vecchia | c’hanno gran forza, ed énchieno l’aurecchia».

57 [6] Ma di che dubito? io sono più che sicuro che non sdegnerete cose scritte in questa lingua, poi-ché alla greca, alla latina e alla toscana (delle quali siete tanto copioso) avete voluto aggiungere persino la napoletana, nella quale scrivete così graziosamente, parendovi che così come il sole è tirato da quattro cavalli non potesse procedere bene il carro della vostra stella con tre cavalli soltanto.

copiuso: it. copioso ‘largamente provvisto’ e anche ‘dall’eloquio facile e concettoso, facon-do, eloquente’ – GDLI, III, p. 750. luce: ‘stella’ – GDLI, IX, p. 240.

58 [7] Per questo allora con fierezza vi faccio questo regalo, e se io potessi darvi cosa più grande lo farei parimenti di buon animo, poiché il dare a voi è dare a me stesso, dal momento che – per la forza dell’amicizia ch’è fra noi – le nostre anime sono una cosa medesima.

anemo de lione: lett. ‘con animo di leone’, cioè ‘con fierezza’. Vedi Cortese, Micco Passaro, I, 11, vv. 5-6, p. 104: «A lanzate, a piccate, a scoppettate | s’ha da stare, co n’armo de lione»; Zito, Lo Tardacino, p. 17: «pe vennecare accossì fatta ’ngiuria, se despose co n’armo de leone». commo: ‘siccome’, ‘poiché’, cong. causale – GDLI, III, p. 350. mentreché: ‘poiché’, ‘dal momento che’ – GDLI, X, p. 108. na medesemo cosa: cfr. LDT, p. 78: «quella medesmo nommo de Troya»; Cor-tese, Vaiasseide, III, 31, 66, p. 31: «Pocca ’n chella medesemo cantina». Medesimo è «rafforzativo indeclinabile dell’agg. possessivo» in De Rosa, Ricordi, I, p. 432. Vedi anche Basile, Pastor fido, II, v. 845, p. 102: «voglio ch’essa medesemo nce schiaffa | dinto l’arrore suio […]». Non si trovano tracce dell’indeclinabile nella produzione di G.B. Basile.

59 [8] Resta soltanto che voi dobbiate difendermi non già da chi volesse mormorare di quest’opera, perché, se si saprà, mi darà occasione di insegnare a ridere a quegli ignoranti; prenderete, dico, la mia difesa contro al vento, perché avendogli giurato di dedicargli ogni mia fatica, oggi, perché gli manco di parola, o mi farà riempire la casa di fumo, o mi farà cadere da un tetto qualche tegola in testa.

defenzareme: defenzare ‘difendere’, ‘sostenere le ragioni di qualcuno’ (D’Ambra); cfr. it. difensare ‘difendere, proteggere (da offese, pericoli, nemici)’, ‘sostenere le parti, la causa di qual-cuno’ – GDLI, IV, p. 373 (< lat. med. difensare). mormoriare: ‘mormorare’, ‘dir male’ cfr. it. mormorare ‘fare maldicenza contro qualcuno, criticandone, con velata ipocrisia e con maligne insinuazioni, gli atti, la condotta, le intenzioni’ – GDLI, X, p. 917 e cfr. anche it. mormoreggiare ‘brontolare’ – ivi, p. 920. Cfr. Basile, Lettere, IV, p. 521: «e storzellate l’uocchie commenzaie a brontoliare, regnoliare, vervesiare, gualiare, gorgottare e mormoriare, decenno la lista longa de filastoccole»; Cunto, I, 7, 3, p. 138: «li quale tutto a no tiempo ’ncagliaro comme si avessero visto lo lupo o comme scolaro che a lo meglio de lo mormoriare vede de ’mproviso trasire lo ma-

180 ANDREA LAZZARINI

spalla contra la forza soia, non essendo gran cosa che lo viento, ch’è instavile e senza fede, sia pagato della stessa moneta.60 [10] Saccio ch’a V. S. le sarrà facele de farelo, mentreché con tanta grolia l’ha levato da mano le fatiche soie nella corte de Mantova, la quale pretenneva usor|[A3v, p. 6]pareselle commo ha fatto dell’àute. E pe scompetura ve vaso le mano da Napole lo iuorno d’oie, 15 di settembre 1614.

Di V[ostra] S[ingoria] molto illustreservitore sbisciolatissimo,

Giulio Cesare Cortese.61

stro». me darà … da ridere: ‘mi darà cagione di insegnare a ridere a quegli ignoranti’; ’mmezza-re, ’nvezzare ‘ammaestrare’ – D’Ambra, ‘insegnare’ (ant. nap. *imbecczare ‘insegnare’ – De Rosa, Ricordi, II, p. 782), da cfr. con sic. ammizzari e cal. ambizzari, ‘educare, istruire, avvezzare’ < *in-vitiare (Cortelazzo-Marcato); per la costruzione ’nmezzare da + inf. ‘insegnare a’ cfr. Basile, Cunto, V, 7, 9, p. 936: «meglio t’avesse ’mmezzato da votare no filatorio». [s]se: lett. ‘codesti’: le forme, sso/ssa, propriamente ‘codesto/a’, corrispondono a chisso/chessa, di cui sono i corrispet-tivi non rafforzati da rif lessi di eccu (Ledgeway, Lo sviluppo, p. 71 e Ledgeway, § 5.1.4.2.2. pp. 200-205); solitamente si oppongono a sto/sta, chisto/chesto/chesta ‘questo’, ‘questa’, anche se «la sfera spazio-temporale di riferimento individuata da chisto può essere compresa per includere non solo il parlante ma anche l’ascoltatore, e in maniera analoga quella di chisso può essere compresa per includere non solo l’ascoltatore ma anche il parlante. La differenza tra i due ter-mini […] certo sottile, risiede perciò nel fatto che nel primo caso il centro di attenzione deittica viene a ricadere sul parlante, mentre nel secondo caso viene a coincidere con l’ascoltatore» (ivi, p. 200). avennole … fatica mia: si riferisce alla dedicatoria della Vaiasseide, A lo Re de li Viente, a firma di Gian Alesio Abbactutis (pseud. di Giovan Battista Basile), nella quale si diceva che l’autore dell’opera non avrebbe mai dedicato propri lavori ad altra persona. Vedi ad es. pp. 8-9: «Perzò sarria de parere che no’ stampasse mai, o si puro avisse da fare sto spreposeto saria de penziero che dedecasso a lo Viento». Fatica ‘il lavoro, l’opera compiuta’ – GDLI, V, p. 716. le vengo manco: ‘gli vengo meno’ cioè ‘gli manco di parola’, venire meno ‘mancare di parola’ – Puo-ti; cfr. anche GDLI, XXI, p. 741. da coppa: ‘da sopra’ (D’Ambra). ’nchire … fummo: ‘riempire la casa di fumo’. La presenza di vento può infatti impedire alla canna del camino di scaricare il fumo. àstraco: ‘tetto’, vedi sopra [5]. ticolo: tigolo ‘tegola’ – D’Ambra; cfr. it. tegolo ‘tegola usata per la copertura dei tetti’ – GDLI, XX, p. 800.

60 [9] Vostra Signoria mi aiuti dunque a restistere alla sua forza, non essendo una questione grave che il vento, che è instabile e senza fede, sia pagato della stessa moneta.

me faccia spalla: cfr. it. fare spalla ‘dare congruo aiuto’ (GDLI, XIX, p. 680); Basile, Cunto, II, 5, 20, p. 344: «la Notte ped avere fatto spalla a li mariuole have l’ausilio». gran cosa: cioè ‘una questione grave’ (come lo è solitamente il tradire una promessa). senza fede: cioè senza ‘lealtà, onore, disposizione […] a mantenere le promesse’ – gdli, V, p. 777.

61 [10] So che a Vostra Signoria sarà facile farlo, poiché con tanta gloria gli ha tolto di mano le sue fatiche nella corte di Mantova, la quale pretendeva usurparsele come ha fatto delle altre. E in fine vi bacio le mani da Napoli oggi, 15 settembre 1614. | Di Vostra Signoria Molto Illustre | Servitore svisce-ratissimo, | Giulio Cesare Cortese.

mentreché: vedi [7]. l’ha levato de mano le fatiche soie: è rovesciamento dell’it. gettar le fatiche al vento ‘agire, esprimersi inutilmente, vanamente, senza ottenere alcun risultato’ – GDLI, XXI, p. 750; cioè ‘ha scritto opere che non sono andate al vento, ma hanno conosciuto fortuna’. Per fatiche ‘opere letterarie’ vedi [8]. usorpareselle: cfr. it. usurpare ‘fare proprio […] un bene che appartiene legittimamente ad altri’ – GDLI, XXI, p. 699. Basile, Cunto, IV, 8, 46, pp. 784-786: «le decette ch’isso portava lo cienzo a lo Tiempo dell’affitto de la terra c’avea semmenato e che lo Tiempo era no tiranno che s’aveva usurpato tutte le cose de lo munno e voleva tributo da tutte e

TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE

Le opere di Cortese (eccezion fatta per i Travagluse ammure de Ciullo e Perna e la Rosa) e la Tiorba a Taccone dello Sgruttendio sono citate da Giulio Cesare Cor-tese, Opere Poetiche, a cura di E. Malato, 2 voll., Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1967.

Ageno, Particolarità = Franca Ageno, Particolarità grafiche di manoscritti volgari, «Italia me-dievale e umanistica», IV, 1961, pp. 175-180.

Andreoli = Raffaele Andreoli, Vocabolario Napoletano-Italiano, Torino-Roma-Milano-Fi-renze, Paravia, 1887 (Napoli, Berisio, 1966).

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Aretino, Talanta =Pietro Aretino, Talanta in P. Aretino, Teatro. Tomo II. Il marescalco. Lo ipocrito. Talanta, a cura di Giovanna Rabitti, Carmine Boccia, Enrico Garavelli, Roma, Salerno, 2010.

Basile, Cunto = Giovan Battista Basile, Lo cunto de li cunti, a cura di Carolina Stromboli, 2 tomi, Roma, Salerno, 2013.

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Capaccio, Forastiero = Giulio Cesare Capaccio, Il forastiero. Dialogi di G. C. Capaccio Acade-mico Ozioso […], In Napoli, Per Gio[van] Domenico Roncagliolo, 1634.

Cortese, Ciullo e Perna = vedi descrizione a inizio Appendice.Vedi descrizione a inizio Appendice.Cortese, Rosa = Giulio Cesare Cortese, La Rosa, favola di Giulio Cesare Cortese, In Napoli,

Per Domenico di Ferrante Maccarano, 1621.D’Ambra = Raffaele D’Ambra, Vocabolario napolitano-toscano domestico di arti e mestieri,

Napoli, 1873 (rist. an. Bologna, Forni, 1969).

particolaremente da uommene de l’età soia». commo … àute: ‘come ha fatto delle altre (sue fa-tiche)’, cioè gli obblighi di corte. pe scompetura: ‘per fine’, ‘infine’, scompetura ‘fine’, ‘termine’, ‘compimento’ (D’Ambra), da scómpere ‘compiere’, ‘completare’, ‘portare a termine’ (< ex+com-plēre). sbisciolatissimo: sbisciolato o anche svesciolato ‘sviscerato’ – D’Ambra; it. sviscerato ‘che mostra o dichiara amicizia, affetto o anche dedizione, fedeltà, ossequio sinceri e profondi (in partic., anche nella forma svisceratissimo, in espressioni di saluto o omaggio)’ – GDLI, XX, p. 631.

182 ANDREA LAZZARINI

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183UNA DEDICATORIA DI G.C. CORTESE A G.B. BASILE

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Zito, Lo Tardacino = Zito, Lo Tardacino overo defennemiento de la Vaiasseida, poemma eroico de Giulio Cesare Cortese ditto lo Pastor Sebbeto contra la Cenzura dell’Accademmece Scatenate, annesso a Giulio Cesare Cortese, La Vaiasseida poema eroico di G.C.C. […], In Napoli, Appresso Ottavio Beltrano, 1628.

INDICE GENERALE

PARTE ICritica Letteraria

Pietro Giulio Riga, La poesia lirica a Napoli nel pieno e tardo Seicento. Un itinerario di ricerca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 3

Jean-François Lattarico, «Questo è il gusto di Genova» À pro-pos des drammi per musica de Giovanni Andrea Spinola . . . . . . » 31

Giuseppe Alonzo, Un letterato milanese a Roma: Brunoro Taverna fra Spagnoli e Borromei, Umoristi e Lincei . . . . . . . . . . . . . . . . » 49

Stefania Buccini, Il Primo di Agosto, Celebrato da alcune Gio-vani ad una Fonte di Francesco Pona . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 85

Simona Santacroce, An peccatum Luciferi fuit circa unionem hypostaticam. Appunti sulle fonti teologiche nascoste dell’Ada-mo di Andreini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 109

Alessandro e Mirco Gallenzi, Nuovi dati sulla vita e le opere di Peresio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 119

Andrea Lazzarini, Ancora sui rapporti tra letteratura dialettale rif lessa e toscano: una dedicatoria di G.C. Cortese a G.B. Basile » 159

Antonia Deias, La venganza en los agravios y visperas sicilia-nas dei tres ingenios e il 1640. Una Commedia del risentimento e del rancore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 185

Parte IIVita e Cultura

Liliana de Venuto, Il passaggio dell’Infanta di Spagna nel principa-to vescovile di Trento: immagine dell’età barocca al suo culmine . . » 217

360 INDICE GENERALE

Franco Paliaga, Una famiglia di mercanti, agenti e collezionisti d’arte al servizio dei Medici nel Seicento: i Guasconi, da Amster-dam a Venezia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 237

PARTE IIIBibliografia e Documentazioni

Silvia Apollonio, Intorno ad un codice inedito di lettere familiari di Giovanni Ciampoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 269

Alfonso Mirto, Lettere di Sertorio Orsato a Carlo Roberto Dati e ad Antonio Magliabechi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 291

Schede secentesche (LVIII-LXII) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 317LVIII – Clizia Carminati, L’autografo della lettera del Marino al Duca di Savoia intorno all’attentato del Murtola . . . . . . . . . » 317LIX – Carlo Alberto Girotto, Un’edizione sconosciuta dei Sensi di divozione di Giovan Francesco Loredan . . . . . . . . . . . » 319LX – Andrea Lazzarini, Due esemplari ignoti delle Opere burlesche di Giulio Cesare Cortese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 324LXI – Vincenzo Palmisciano, Precisazioni su alcuni passi di danza antichi («Dainetta», «Scorsa») . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 334LXII – Vincenzo Palmisciano, Girolamo Borgia il Giovane e l’Accademia dei Fulminanti di Napoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 336

Indice dei nomi e delle cose notevoli (a cura di Davide Conrieri e Andrea Lazzarini). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 337

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I - V

OL.

LV

II -

2016

ISSN 0081-6248

ISBN 978 88 222 6454 1