Alla ricerca del sentiero perduto - CAI Gorizia

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TRIMESTRALE DELLA SEZIONE DI GORIZIA DEL CLUB ALPINO ITALIANO, FONDATA NEL 1883 ANNO XLVI - N. 2 - APRILE-GIUGNO 2012 “Poste Italiane Spa - Spedizione in abbonamento Postale - 70% - DCB/Gorizia” In caso di mancato recapito restituire a CAI Gorizia, Via Rossini 13, 34170 Gorizia Trento Film Festival Alla ricerca del sentiero perduto di MARKO MOSETTI Cima de lis Codis (Jôf Fuart) dall’alta Spragna (ovest), a destra la Forcella Mosè. C orreva l'anno 2002, dieci anni fa. L'indice delle Borse era costan- temente positivo e l'ipotesi del contrario appariva come una bla- sfemia; il PIL continuava a crescere come se il pianeta sul quale viviamo non fosse un corpo solido e finito nello spazio ma un'entità in espansione e con disponibi- lità di risorse infinite; l'euforia generata dal denaro, che veniva facilmente molti- plicato, immateriali, intangibili, inafferra- bili ci stava trascinando in un incubo di onnipotenza. Lo stesso mondo della montagna apparentemente così legato ai valori della tradizione, alla ben misu- rabile durezza della roccia e degli ele- menti, a saldi e saggi principi di legge- rezza, frugalità, sobrietà, veniva percorso da questa atmosfera, e non si capiva se era l'aria sottile o gas esilarante. Un piccolo film mi colpì più di altri in quell'edizione del Trento Film Festival, e lasciò un segno anche nella Giuria che lo insignì di una menzione speciale nella giuria dei giornalisti. Il guardiano dei se- gni di Renato Morelli raccontava di Gian- luigi Rocca, docente della cattedra di Di- segno all'Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, che durante l'estate si trasfor- mava in pastore e malgaro sulle monta- gne del Trentino. Un apologo che all'e- poca, ai più, appariva come la strava- ganza di un eccentrico ma che oggi, alla luce dei tempi che stiamo vivendo, non più abbagliati da quella luminosità tanto intensa quanto innaturale di un decennio fa, assume invece un significato molto di- verso, più reale: riappropriarsi del lavoro materiale, dell'uso delle mani, sporcarle, produrre per vivere, non sprecare, ri- spettare la natura, la terra sulla quale vi- viamo, vivere con lei. Era, descritta e rac- contata con semplici immagini ed una magnifica colonna sonora, una grande e profonda lezione di vita che oggi appare in tutto il suo pieno significato. Il vento oggi spira in senso contrario nel mondo e, ovviamente, anche nell'ovattato mondo della montagna. Sarà per questo motivo, per la memoria di quel lontano film, che l'immagine ufficiale, il manifesto dell'edizione numero 60 del Trento Film Festival è stato affidato a Gianluigi Rocca? Questa composizione d'antan a molti non è piaciuta, un richiamo troppo espli- cito e smaccato ad una tradizione che sperienza di ieri e dell'altroieri servirà si- curamente domani. Oltre al manifesto che è una procla- mazione di intenti ma che ciascuno di noi può leggere e interpretare in maniera dif- ferente, il nucleo, la vita, lo scopo del Film Festival dovrebbero essere i film. Più di tutto l'ambaradan che nel corso degli anni si è stratificato attorno. Mo- menti e situazioni piacevoli, interessanti, approfondimenti necessari, doverosi a volte, altre meno. Ma è soprattutto di ci- nema che devo e voglio parlare, in prima battuta, e di come le immagini e le storie viste a Trento possono dare una linea, uno sviluppo, o solamente gettare il seme di un'idea che andrà coltivato per avere buoni frutti nell'anno o negli anni prossimi venturi. La crisi mostra il suo ghigno anche sugli schermi del Film Festival, e non po- trebbe essere altrimenti. Si manifesta in un'atmosfera di generale sbandamento e nell'incertezza delle strade da intrapren- dere, nella generale e brusca frenata della rincorsa continua che ha contrad- distinto gli ultimi anni. Un momento di so- sta, di ripensamento, per decidere il da farsi: come procedere, con quale ritmo, in che direzione, portandosi appresso quali valori? Tutte domande, assieme ad un'infi- nità di altre, che non hanno trovato ri- sposte certe e univoche ma solamente balbettii. Il buco in cui stiamo precipi- tando non è ancora diventato la tana del Bianconiglio che si apre a continue sor- prese, stranezze, meraviglie. Forse ac- cadrà prossimamente. Per ora attorno a noi c'è solo l'uniformità del buio spezzata da sprazzi occasionali di idee, speranze, emozioni. LE GENZIANE Ristretto, in questa edizione, il nu- mero dei film selezionati per concorrere all'assegnazione delle Genziane, ma ciò nonostante almeno 5 o 6 tra questi am- messi in maniera forse eccessivamente benevola. La Giuria Internazionale, l'alpi- nista polacca Eliza Kubarska (la ricor- diamo lo scorso anno nel premiato What happened on Pam Island), il documenta- rista inglese Hugh Purcell, lo svizzero Mario Casella giornalista, scrittore, regi- sta e guida alpina, la giornalista nepalese Ramyata Limbu e l'esploratore e scien- puzza troppo di conformismo. Forse. An- che. Io invece voglio leggervi un ritorno (coatto sicuro, ma non sottilizziamo troppo!) alla sobrietà. Almeno ci rimane una speranza. I vecchi scarponi, usurati, sformati, ma solidi e sicuri che non si scolleranno improvvisamente nel bel mezzo della sa- lita (come troppe volte mi è capitato di vedere in questi ultimi anni con queste sempre nuove, comode, coloratissime, ultratecnologiche e fragili babbucce), la piccozza pesante ma che diventa all'oc- correnza un appoggio ulteriore sul quale rifiatare, quel vetusto e oramai scomodo zaino che forse non usi più ma che, a dif- ferenza di quelli sempre nuovi che con- tinui a cambiare, è così pieno di ricordi, esperienze, storie che è doveroso e giu- sto che non vadano disperse, buttate, dimenticate, perché, in fondo, le storie in montagna continuano a ripetersi e l'e-

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TRIMESTRALE DELLA SEZIONE DI GORIZIADEL CLUB ALPINO ITALIANO, FONDATA NEL 1883

ANNO XLVI - N. 2 - APRILE-GIUGNO 2012

“Poste Italiane Spa - Spedizione in abbonamento Postale - 70% - DCB/Gorizia”

In caso di mancato recapito restituire a CAI Gorizia, Via Rossini 13, 34170 Gorizia

Trento Film Festival

Alla ricerca del sentiero perdutodi MARKO MOSETTI

Cima de lis Codis (Jôf Fuart) dall’alta Spragna (ovest), a destra la Forcella Mosè.

C orreva l'anno 2002, dieci anni fa.L'indice delle Borse era costan-temente positivo e l'ipotesi delcontrario appariva come una bla-

sfemia; il PIL continuava a crescere comese il pianeta sul quale viviamo non fosseun corpo solido e finito nello spazio maun'entità in espansione e con disponibi-lità di risorse infinite; l'euforia generatadal denaro, che veniva facilmente molti-plicato, immateriali, intangibili, inafferra-bili ci stava trascinando in un incubo dionnipotenza. Lo stesso mondo dellamontagna apparentemente così legatoai valori della tradizione, alla ben misu-rabile durezza della roccia e degli ele-menti, a saldi e saggi principi di legge-rezza, frugalità, sobrietà, veniva percorsoda questa atmosfera, e non si capiva seera l'aria sottile o gas esilarante.

Un piccolo film mi colpì più di altri inquell'edizione del Trento Film Festival, elasciò un segno anche nella Giuria che loinsignì di una menzione speciale nellagiuria dei giornalisti. Il guardiano dei se-gni di Renato Morelli raccontava di Gian-luigi Rocca, docente della cattedra di Di-segno all'Accademia di Belle Arti di Breraa Milano, che durante l'estate si trasfor-mava in pastore e malgaro sulle monta-gne del Trentino. Un apologo che all'e-poca, ai più, appariva come la strava-ganza di un eccentrico ma che oggi, allaluce dei tempi che stiamo vivendo, nonpiù abbagliati da quella luminosità tantointensa quanto innaturale di un decenniofa, assume invece un significato molto di-verso, più reale: riappropriarsi del lavoromateriale, dell'uso delle mani, sporcarle,produrre per vivere, non sprecare, ri-spettare la natura, la terra sulla quale vi-viamo, vivere con lei. Era, descritta e rac-contata con semplici immagini ed unamagnifica colonna sonora, una grande eprofonda lezione di vita che oggi apparein tutto il suo pieno significato. Il ventooggi spira in senso contrario nel mondoe, ovviamente, anche nell'ovattatomondo della montagna. Sarà per questomotivo, per la memoria di quel lontanofilm, che l'immagine ufficiale, il manifestodell'edizione numero 60 del Trento FilmFestival è stato affidato a GianluigiRocca?

Questa composizione d'antan amoltinon è piaciuta, un richiamo troppo espli-cito e smaccato ad una tradizione che

sperienza di ieri e dell'altroieri servirà si-curamente domani.

Oltre al manifesto che è una procla-mazione di intenti ma che ciascuno di noipuò leggere e interpretare in maniera dif-ferente, il nucleo, la vita, lo scopo delFilm Festival dovrebbero essere i film.Più di tutto l'ambaradan che nel corsodegli anni si è stratificato attorno. Mo-menti e situazioni piacevoli, interessanti,approfondimenti necessari, doverosi avolte, altre meno. Ma è soprattutto di ci-nema che devo e voglio parlare, in primabattuta, e di come le immagini e le storieviste a Trento possono dare una linea,uno sviluppo, o solamente gettare ilseme di un'idea che andrà coltivato peravere buoni frutti nell'anno o negli anniprossimi venturi.

La crisi mostra il suo ghigno anchesugli schermi del Film Festival, e non po-trebbe essere altrimenti. Si manifesta inun'atmosfera di generale sbandamento enell'incertezza delle strade da intrapren-dere, nella generale e brusca frenatadella rincorsa continua che ha contrad-distinto gli ultimi anni. Unmomento di so-sta, di ripensamento, per decidere il dafarsi: come procedere, con quale ritmo,in che direzione, portandosi appressoquali valori?

Tutte domande, assieme ad un'infi-nità di altre, che non hanno trovato ri-sposte certe e univoche ma solamentebalbettii. Il buco in cui stiamo precipi-tando non è ancora diventato la tana delBianconiglio che si apre a continue sor-prese, stranezze, meraviglie. Forse ac-cadrà prossimamente. Per ora attorno anoi c'è solo l'uniformità del buio spezzatada sprazzi occasionali di idee, speranze,emozioni.

LLEE GGEENNZZIIAANNEE

Ristretto, in questa edizione, il nu-mero dei film selezionati per concorrereall'assegnazione delle Genziane, ma ciònonostante almeno 5 o 6 tra questi am-messi in maniera forse eccessivamentebenevola. La Giuria Internazionale, l'alpi-nista polacca Eliza Kubarska (la ricor-diamo lo scorso anno nel premiato Whathappened on Pam Island), il documenta-rista inglese Hugh Purcell, lo svizzeroMario Casella giornalista, scrittore, regi-sta e guida alpina, la giornalista nepaleseRamyata Limbu e l'esploratore e scien-

puzza troppo di conformismo. Forse. An-che. Io invece voglio leggervi un ritorno(coatto sicuro, ma non sottilizziamotroppo!) alla sobrietà. Almeno ci rimaneuna speranza.

I vecchi scarponi, usurati, sformati,ma solidi e sicuri che non si scollerannoimprovvisamente nel bel mezzo della sa-lita (come troppe volte mi è capitato divedere in questi ultimi anni con questesempre nuove, comode, coloratissime,

ultratecnologiche e fragili babbucce), lapiccozza pesante ma che diventa all'oc-correnza un appoggio ulteriore sul qualerifiatare, quel vetusto e oramai scomodozaino che forse non usi più ma che, a dif-ferenza di quelli sempre nuovi che con-tinui a cambiare, è così pieno di ricordi,esperienze, storie che è doveroso e giu-sto che non vadano disperse, buttate,dimenticate, perché, in fondo, le storie inmontagna continuano a ripetersi e l'e-

2 Alpinismo goriziano - 2/2012

ziato russo Victor Boyarsky, giustamenteli hanno ignorati, assegnando la Gen-ziana d'oro del Gran Premio "Città diTrento" per il miglior film a ¡Vivan LasAntipodas!. Produzione germanica, olan-dese, cilena e argentina, per la regia diVictor Kossakowski. L'idea, notano i giu-rati, è ingegnosa e la sua realizzazione èpiena di qualità artistiche, tecnicamentebrillanti. Questo, unito all'evidente omag-gio alla Madre Terra nella sua antichità,maestosità e diversità è sufficiente permeritare il Gran Premio. A me, spettatorecomune e, fortunatamente, non giurato,lascia dentro un senso di incompiuto, diinsoddisfatto, la convinzione che con co-tanto dispiegamento di idee brillanti eingegnosità tecnica il film avrebbe potuto(dovuto?) fare un ulteriore passo e rag-giungere un livello di efficacia maggiore.Ritengo, probabilmente sbagliando, chenon siano questi i tempi per il bell’eser-cizio di stile a supporto di un messaggioche troppi oggi fanno fatica a decifrare.

Più facilmente giustificabile la Gen-ziana d'oro Premio CAI al miglior film dialpinismo o montagna assegnata a Ver-ticalmente démodé, cortometraggio di18' di Davide Carrari incentrato sulla fi-gura di Manolo e sul come nasce, si so-gna, si progetta, si prepara e si realizzauna nuova linea di scalata. La prove-nienza del regista dal mondo della foto-grafia pubblicitaria professionale è evi-dente. Carrari ha lavorato con le maggioriagenzie pubblicitarie italiane e ha pro-dotto immagini per le campagne di moltegrandi aziende. La fotografia ed il mon-taggio del film sono raffinatissimi, moltocurati e, senza farsi notare troppo, ed èquesto il pregio, colpiscono con estremaefficacia. Un buonissimo prodotto che"vende" efficacemente l'idea del freeclimbing, ne evidenzia non solamentel'aspetto sportivo ma ne fa emergere an-che quello artistico e creativo. Questovideo ha colpito anche le giurie dei premi"Mario Bello" e "Città di Imola" per il mi-glior film italiano, facendone così l'operapiù premiata di questa 60esima edizionedel Trento Film Festival.

Doverosa e scontata la Genzianad'oro Premio "Città di Bolzano" al mi-glior film d'esplorazione e avventura aLa nuit nomade della regista ed etno-loga Marianne Chaud, premiata per ilterzo anno consecutivo con uno deipremi maggiori della rassegna. Dopoaver documentato la vita delle donne equella di un monaco-bambino, è la voltaora di un gruppo di nomadi che vive sul-l'altipiano del Ladakh a 4500 metri diquota. Con la già nota grazia e natura-lezza la Chaud ritrae anche questa co-munità che di anno in anno diventa sem-pre più ristretta. Le difficili condizioni divita spingono sempre più famiglie a ven-dere il bestiame, il loro unico mezzo disostentamento, e a trasferirsi nei suburbidi Leh abbandonando la vita nomade,nella speranza di trovare un lavoro comebraccianti. È una lotta di resistenza di-sperata, quella dei rimasti, che vede distagione in stagione assottigliarsi sempredi più le loro file. Una vita e una culturache scompaiono, anche sull'altopiano ti-betano. È un film che può portare alle la-crime. Di disperazione, d'impotenza, dirabbia. Le stesse che ci salgono di frontead un ghiacciaio che scompare, un terri-torio selvaggio devastato dallo sfrutta-mento, una fabbrica che chiude.

È un segnale che dovrebbe esseremeditato il fatto che gli altri premi asse-gnati dalla Giuria Internazionale sianoandati quasi esclusivamente a opere dialpinismo o d'arrampicata. Praticamentequasi tutti i film di questo genere am-messi al concorso hanno ricevuto un ri-conoscimento. Unica eccezione la Gen-ziana d'argento per il miglior contributotecnico-artistico al francese La vie auLoin, una riflessione sulla annunciata

de Fer dello slovacco Pavol Bàrabaø, unregista che non delude mai con i suoiracconti sempre al limite e sovente ancheoltre. Stavolta è di turno il canyoning inuno dei luoghi più inaccessibili del pia-neta, la voragine vulcanica Trou de Fersull'isola della Reunion. Immagini e nar-razione nel loro scorrere sullo schermodiventano sempre più cupe, claustrofo-

culturale, sociale, politica. Da proiettarenelle scuole ma anche nei circoli dei par-titi (?) politici. Sempre che tra un po' que-sti ultimi esistano ancora.

LL''AABBIITTOO SSTTAAVVOOLLTTAA FFAA IILL MMOONNAACCOO

Molto ben rappresentato quest'annoil filone fiction con alcune opere vera-mente notevoli. Diversi i film cinesi giunti

prossima scomparsa di un altro pezzo divita e di cultura di montagna, su unasierra nel nord del Portogallo. Dimostra-zione che anche oggi non è necessariosalire nelle valli himalayane o del Tibet,né andare a cercare questi drammi finsulle Ande. Situazioni analoghe le ritro-viamo praticamente identiche, con la me-desima drammaticità umana e sociale,

anche dietro casa. Il primo mondo che siillude ancora di essere alfiere di pro-gresso, benessere, ricchezza generaliz-zata, ha saputo invece generare gli stessimali dai quali proclamava (proclama!) divoler fuggire. Guardiamo con un misto dipena, tristezza, dolore e rabbia alle sto-rie che arrivano da luoghi lontanissimi,remoti e che ci propongono una societàdi stampo feudale, medioevale, e chiu-diamo gli occhi sul neofeudalesimo cheavanza in casa nostra, illusi che Face-book e strade butterate di rotonde signi-fichino il futuro luminoso di benessere,democrazia e libertà che speravamo. Siveda anche il breve, apparentementeleggero, amaramente divertente Salutida Sar Planina dell'italo-olandese ErikFusco, che queste situazioni ha regi-strato tra le montagne del Kosovo.

La salvezza non arriverà certamentedall'alpinismo ma almeno un momento diserenità riusciremo a scavarcelo, dimen-ticando forse, per il tempo di un'ascen-sione o di un'escursione i problemi e idrammi che inesorabili ci attendono avalle.

Non è un film storico La voie Bonattidel francese Bruno Peyronnet. Delgrande alpinista si vedono solamente po-che storiche immagini. In compenso tuttii 54 minuti del video sono fortementepervasi del suo spirito. Nell'autunno del2010 due giovani alpinisti francesi con-catenano in stile alpino e senza alcunappoggio e aiuto esterni alcune delle piùgrandi e significative vie di Bonatti nelmassiccio del Monte Bianco. Sono seigiorni di scalate all'insegna della serenitàe dell'allegria, senza alcuna presunzione,sebbene anche una sola di queste vie sianei sogni di ogni alpinista. L'etica dellascalata diventa anche etica delle riprese:non è stato utilizzato elicottero per larealizzazione del film. Anche gli sposta-menti nel fondovalle tra una via e l'altrasono stati fatti a piedi o in bicicletta. Pre-miato con la Genziana d'argento per ilmiglior mediometraggio, diventa la provavisiva che, come dice la Giuria, lo spiritodi Bonatti è fondamentale, anche oggiche possiamo contare su attrezzatureavanzate, per raggiungere la vetta.

La Genziana d'argento al miglior cor-tometraggio è andata a Cold del registastatunitense Anson Fogel che ha utiliz-zato le riprese effettuate dall'alpinistaCory Richards che nel febbraio 2011 haraggiunto in prima invernale la vetta del

Gasherbrum II assieme a Simone Moro eDenis Urubko. Le immagini di questobreve film hanno un'efficacia rara: rie-scono a trasmettere in maniera viva edrammatica l'autentica sofferenza e lalotta per la sopravvivenza, coinvolgendototalmente lo spettatore al punto da far-gli percepire il gelo delle temperatureestreme (fino a -50°) che i tre alpinisti sisono trovati ad affrontare. Unite alle im-magini, le riflessioni molto personali di Ri-chards durante l'ascesa danno al videoun ulteriore carattere di drammaticitàsenza tuttavia diventare scontato, ba-nale, pomposo. Forse, proprio per que-sto, avrebbe meritato qualcosa di più.

L'ungherese Strong di Andras HovatKollmann è stato insignito del Premiodella Giuria. Storia difficile e controversaquella dell'alpinista magiaro Zsolt Erössche dopo aver raggiunto 8 dei 14 otto-mila rimane vittima di una valanga che gliprocura fratture gravissime a entrambe legambe. Per accelerare i tempi di riabili-tazione viene decisa l'amputazione diuna delle gambe, quella più compro-messa. Così cinque mesi dopo l'inci-dente Zsolt è nuovamente in Himalaya atentare il Cho Oyu senza tuttavia rag-giungere la vetta. L'anno dopo, nel 2011,è sulla cima del Lhotse, il suo nono otto-mila. La Giuria ha ritenuto che questastoria potesse essere un motivo d'ispi-razione e, al contempo, un tributo allospirito dell'uomo.

C'è stato lo spazio anche per unamenzione speciale per il contributo tec-nico. Die Huberbaum di Jens Monath se-gna l'ingresso del 3D nel cinema di mon-tagna. In realtà i 42 minuti del video sonola sagra del già visto, salvati dai primi 3o 4 minuti ironici, dissacranti, divertenti,e dai titoli di coda che svelano il makingoff delle riprese effettuate anche permezzo di droni radiocomandati. Virtuosi-smi tecnici che portano come non mai lospettatore in parete accanto ai celebrifratelli. È valida giustificazione il nostrofiato sospeso?

GGLLII AALLTTRRII PPRREEMMII

Caso più unico che raro negli oramaimolti anni che seguo il Film Festival: pra-ticamente quasi tutti i film a mio giudiziopiù significativi e interessanti sono statiinsigniti di un qualche riconoscimento.Un segnale che potremmo leggere peròanche con un senso di preoccupazione,potrebbe significare che il livello com-plessivo delle opere in visione non eracosì elevato come in altre occasioni. Trai pochi non premiati che salvo c'è Trou

bie angoscianti. Un racconto teso, dagrande maestro.

Altro personaggio che non deludemai con i suoi filmati è Fulvio Marianiche in quest'occasione in accoppiatacon Mario Casella, presenta Vite tra i vul-cani. Concepito come primo capitolo diuna trilogia che dovrebbe percorrerescialpinisticamente la dorsale montuosaparallela alla Via della seta dalla Turchiaalla Cina, si svolge interamente in Iran, traquelle montagne di origine vulcanica, inalcuni casi ancora in attività, che si esten-dono dal confine turco fino a quello af-gano. In realtà la spedizione diventa an-che il pretesto per entrare in contattocon le popolazioni locali, sia rurali checittadine, sondarne e registrarne gliumori, le fibrillazioni, le possibili e pro-babili nuove scosse ed eruzioni sociali,culturali e politiche. Film leggibile a più li-velli, che potrà essere apprezzato daglisportivi ma anche da chi è più interessatoalle vicende sociali e politiche interna-zionali. Giustamente insignito del Pre-mio"Spirito outdoor IOG".

Difficile da ignorare e impossibile dadimenticare è Piccola terra prodotto dal-l'Università di Padova e diretto da Mi-chele Trentini. Film che si aggiudica ilPremio "Lenzi-Zandonai-Zortea" asse-gnato al miglior reportage televisivo e ilPremio della stampa "Bruno Cagol". Par-tendo dai piccoli terrazzamenti di terracoltivabile strappati con grande fatica aifianchi della montagna in Valstagna, Val-sugana, Canale di Brenta, fino a nontroppi decenni fa e ora quasi totalmenteabbandonati e inselvatichiti, Trentini favedere il declino e l'abbandono delleterre alte e l'emigrazione, anche con l'au-silio di filmati storici. Pochissimi sono i ri-masti a curare i vecchi poderi, ostinati eorgogliosi resistenti. A questi si affian-cano pian piano gli emigranti di ritorno,magari quegli stessi che anni primahanno abbandonato la stessa terra perun lavoro in fabbrica o in cava. Oppuresono i loro figli. Ma c'è anche l'immigratomarocchino che, sposato con una ra-gazza ceca, gestisce una pizzeria e, in-seguendo l'integrazione per i suoi figli, hal'intuizione di coltivare la menta maroc-china su alcuni di quei terrazzamenti.Film dal messaggio attualissimo e uni-versale: alternativa e speranza non sola-mente per le aree marginali della monta-gna ma per ogni zona dove la terra èstata dimenticata, abbandonata, è di-ventata invisibile. Cura del territorio e ri-torno ad una produzione sana, reale,vera. Produzione materiale ma anche

Foto: archivio Trento Film Festival.

Alpinismo goriziano - 2/2012 3

Foto: archivio Trento Film Festival.

a Trento attraverso una nuova collabo-razione del Film Festival con il Far EastFilm Festival di Udine. Tra questi mi piacesegnalare One Mile Above di Du Jiayi,commovente film on the road a cavallo dibicicletta tra Yunnan e Lhasa, con le millee drammatiche avversità della vita af-frontate sempre con incrollabile spe-ranza.

Altra storia è quella che racconta YuGuangyi in Bachelor Mountain: protago-nista è uno dei molti boscaioli scapoli econ il lavoro sempre più precario a causadello scriteriato sfruttamento delle fore-ste ai confini tra Russia e Mongolia in-terna, innamorato senza speranza del-l'unica donna non sposata del villaggio.Solitudine e disperazione.

Di tutt'altro tenore il britannico A Lo-nely Place to Die, adrenalinico thrillerambientato tra le montagne scozzesi; unpo' Dario Argento e molto John Boormandi Un tranquillo week-end di paura.

Il pezzo forte della rassegna è statoperò L'Enfant d'en Haut che è da pocouscito nelle sale italiane con il titolo di Si-ster.

La regista franco-svizzera UrsulaMeier si era già fatta notare al festival diCannes nel 2008 alla Semaine de la cri-tique con il suo primo lungometraggioHome che l'aveva fatta definire "la pro-messa del nuovo cinema europeo". Conquesto L'Enfant d'en Haut - Sister si èaggiudicata l'Orso d'oro al Festival diBerlino di quest'anno. Storia forte conprotagonisti due adolescenti, fratello esorella, alle prese con le difficoltà dellasopravvivenza, della disoccupazione edello scontro sociale tra il sottoproleta-riato e il mondo finto e dorato dei turistialpini. Seppur con scarse speranze con-tiamo in una buona diffusione nelle saleitaliane di modo che possa deliziare ilpubblico oltre che la critica e la giuria delFestival trentino che gli ha assegnato ilPremio "Luciano Emmer".

Quale casualità avrà fatto arrivaresugli schermi di Trento contemporanea-mente due film sull'arrampicata femmi-nile? Cortometraggio il primo, Outsidethe Box-A Female Tale diretto da Stefa-nie Brockhaus. Protagoniste tre figure divalore assoluto nel mondo dell'arrampi-cata: Anna Stör campionessa mondialedi boulder e Juliane Wurm terza nellastessa classifica, che si ritrovano per laprima volta ad affrontare difficoltàestreme di arrampicata in fessura in am-biente, guidate dall'icona Lynn Hill. Purdeclinato al femminile il video riproponeil solito schema indifferente ai generi.

Più interessante risulta essere il la-voro di Gerard Montero Coromines En-cordades, riflessione sull'evoluzione del-l'alpinismo e dell'attività outdoor femmi-nile nella società spagnola, dagli anni '40ad oggi. Si va dai lontani tormenti e dallelotte ai pregiudizi di società e ambientealpinisti per l'affermazione di una pas-sione, alle stesse passioni vissute oggicon leggerezza ma con la consapevo-lezza della storia passata. Il film è un rac-conto-incontro delle diverse generazionidi sportive e di innamorate della monta-gna che testimoniano come con impe-gno comune, solidarietà femminile, pas-sione le difficoltà, le costrizioni, i pregiu-dizi siano stati superati.

Generalmente non ho mai datotroppo peso al Premio "Museo usi e co-stumi della gente trentina", colpevol-mente. Quest'anno mi è impossibileignorarlo. Stoff der Heimat di OthmarSchmiderer è un documentario che col-pisce per l'indagine e l'analisi che fa e perle qualità tecniche. L'analisi del costumetradizionale della zona alpina germanica(Sud Tirolo, Svizzera, Austria, Baviera),del tipo di tessuto, dei codici dell'abbi-gliamento, di singoli e comunità, del si-gnificato culturale e politico e socialedell'abbigliamento, gli stili di vita che im-

capire quel che significa oggi nelle vallialpine e non solo l'indossare l'abito dellatradizione, o il reindossarlo.

Nessun film di produzione regionaleera presente quest'anno così come, an-cora una volta, si è potuta notare l'as-senza della cinematografia slovena. Ep-pure al Premio "Alpi Giulie Cinema" diTrieste nel marzo scorso avevamo potutogodere di Sfinga, al quale la giuria di quelconcorso ha attribuito il premio "Scabiosatrenta" al miglior film. Sfinga, per la regiadi Vojko Anzeljœ, racconta in maniera di-vertente, ironica e tecnicamente brillantedelle due salite alla stessa via sulla paretenord del Triglav, a distanza di cin-quant'anni. L'apertura in artificiale neglianni '60 e la prima salita in libera un paiodi anni fa. Le due salite vengono fatte ri-vivere in maniera originale, facendo so-vrapporre e incrociare i piani temporalidelle due salite con effetti curiosi, diver-tenti, a volte esilaranti. La dimostrazioneche raccontare in maniera originale unascalata si può, ancora. Per la cronaca,nello stesso concorso triestino il premiodedicato alla miglior sceneggiatura è inti-tolato allo storico direttore di Alpinismogoriziano Luigi Medeot, ed è stato asse-gnato al video di Giorgio Gregorio Ro-sandra Principessa della Valle.

RRIICCCCOO CCOONNTTOORRNNOO

Il vostro fedele cronista si è sempreposto come primo obiettivo al Film Fe-stival di seguire la manifestazione cine-matografica. Tempi ristretti e offerta smi-surata rendono arduo se non impossibileadempiere fino in fondo i buoni propositi.Se poi ci aggiungiamo le innumerevolitentazioni delle manifestazioni di con-torno allora si corre il rischio di perdere latesta, ingolfarsi di stimoli e informazionie, in ultima analisi, di girare a vuoto.

austro-ungarica tra gli anni 1872-74 chescoprì la Terra di Francesco Giuseppe.Comandante delle operazioni a terra erail tenente Julius Payer. I marinai che cosìben si comportarono tra i ghiacci del MarArtico erano tutti dalmati, istriani, trie-stini.

Per rimanere in qualche maniera vi-cini a noi, è da rimarcare il notevole inte-resse suscitato dalla presentazione delvolume promosso dalla sezione gorizianadel CAI, curato da Melania Lunazzi, Bel-sazar Hacquet-Dal Tricorno alle Dolo-miti. Un viaggiatore del Settecento. Conla curatrice ne ha dialogato con la con-sueta verve un Mauro Corona ingiac-chettato. Alla fine però il folto pubblico,accorso numeroso forse più richiamatodall'uomo di legno, ha scoperto e ap-prezzato il piccolo avventuriero francesesenza il quale probabilmente nonavremmo avuto la poesia montana di Ju-lius Kugy.

Marcello Manzoni e Mirella Tenderinihanno invece presentato Zingari in An-tartide, il racconto dell'avventura dell'al-lora giovanissimo autore, Manzoni, conIgnazio Piussi, tra le vette e i ghiacci delPolo Sud.

Ricca di attrattive e tentazioni, comesempre, la mostra di Montagnalibri con lenovità editoriali, libri e riviste, di argo-mento montano provenienti da tutto ilmondo. Il Premio ITAS del Libro di Mon-tagna, un'istituzione, giunto a doppiare le40 edizioni, decide il rinnovamento: si ri-parte con l'edizione 2013 con l'aggiuntadella categoria "giovani" che avrà ca-denza biennale. Presidente della giuriadel premio, prende il posto del grandeMario Rigoni Stern, Enrico Brizzi.

Dove il Film Festival mostra un po' lacorda è nelle "serate evento". L'aperturadella manifestazione è affidata da annialla proiezione di una pellicola storicamuta, accompagnata dal vivo in sala da

gruppi musicali. Quest'anno è toccato aThe Great White Silence, del 1924, do-cumentazione della spedizione polare diScott accompagnato dalle musiche ese-guite dagli archi dell'Elisia Quartet. Sequesto ha una sua ragione d'essere euna giustificazione spettacolare, meno èl'insistere sui soliti noti, su una oramaitanto consolidata quanto scontata com-pagnia di giro che, probabilmente, faràfelice il cassiere ma oramai non riescepiù a spostare di una virgola quello chepotrebbe e dovrebbe essere il nostro al-pinismo o, semplicemente, il contattocon l'ambiente culturale.

Anche la serata che ha visto prota-gonista l'alpinista statunitense SteveHouse è risultata di molto inferiore alleaspettative che il personaggio, il suo cur-riculum, il suo modo di intendere l'alpini-smo, facevano presupporre. Probabil-mente hanno avuto ragione quelli chehanno scelto, in contemporanea, l'in-contro con l'astrofisica Margherita Hackche si è rivelato più interessante, vivo epartecipato del previsto. Come è risultatointeressante l'incontro con l'apprendistastregone Adam Ondra (vedi intervista inaltra parte del giornale).

IINNDDIIZZII,, SSEEGGNNAALLII,, SSPPEERRAANNZZEE??

In conclusione come ricorderemoquest'edizione del Trento Film Festival?Forse sarà a causa della mesta atmo-sfera generale ma fanno certamente piùimpressione le numerose ombre e gli in-terrogativi inevasi che lascia. Di conversoperò le luci, che non mancano, appaionoforse ancor più luminose. Segnali che,nell'uno e nell'altro caso, non vanno tra-scurati né sopravvalutati ma tenuti inmolta attenzione.

Il messaggio più forte, a mio avviso,quello che rimane sopra tutti gli altri cla-mori, è ancora una volta un richiamod'aiuto e una denuncia. Lo ritroviamoespresso da molti ospiti e da alcuni film,due sopra gli altri: Schnee e Peak. Do-cumentari entrambi germanici che illu-strano i diversi aspetti dello stravolgi-mento climatico in atto focalizzandosisul turismo invernale nelle Alpi. Le spe-ranze degli albergatori, la lotta per acca-parrarsi il turista, i costi dell'innevamentoartificiale, lo stravolgimento che il de-naro del turismo invernale ha portatonella vita delle comunità alpine che oradipendono sempre di più, totalmente oquasi, dalla neve che non c'è, sono i temiillustrati, assieme alla modificazione fi-sica del territorio e del paesaggio proprioin funzione della produzione della cosid-detta "neve programmata". I tanti perso-naggi che passano sullo schermo nonsono altro che piccoli pezzi d'ingranag-gio di una macchina sempre più masto-dontica e vorace, pronta, ed è questo ilsegnale inquietante, a portare lo stessomodello di sviluppo (? sic!) e di sfrutta-mento su montagne remote, lontane, di-verse e ancora intatte. Lo stesso identicomodello adottato sulle Alpi: disastroso efallimentare!

La montagna lavorata e vissuta dallegenti alpine nel rispetto della natura tra-sformata in circo, puro fenomeno com-merciale da sfruttare a discapito di tuttoe di tutti, mero fondale e, infine, nem-meno più quello. Illuminante l'ultima se-quenza di Schnee: primo piano sullepunte di un paio di sci che danzano suuna levigata superficie bianca. Quandol'inquadratura si allarga scopriamo chenon si tratta di neve ma di una discesaartificiale e, macchina ancora indietro,non siamo nemmeno tra le montagne matra i bagnanti di una affollata spiaggiadella riviera adriatica.

Senza ulteriori commenti.

plica, il simbolismo che accompagna l'a-bito, sono i temi del film. Che tuttavianon si ferma qua, alla fotografia della tra-dizione ma si spinge oltre, avanti, fino adaffrontare le contaminazioni generatedall'apertura al mondo, dalla moda, dal-l'evoluzione dei gusti, e si inoltra nelcampo minato delle ingombranti valenzeideologiche. Siamo sicuri che si tratti so-lamente di abito? Il regista ci suggerisceche sotto il vestito c'è un'identità cultu-rale, sociale, politica, c'è la costruzione ela difesa del concetto di heimat (focolaredomestico) e, per derivazione, di Patria.Illuminante su molti aspetti che superfi-cialmente siamo portati ad archiviarecome innocuo folklore, senza rinunciarealla sagacia e all'ironia. Un documentoindispensabile per chi vuole cercare di

Tra le numerose mostre bellissimaquella fotografica sulla Dancalia. Splen-dide le immagini di Paolo Ronc accom-pagnate dalle parole di Andrea Semplici,distillato in poche righe di quello che c'èdietro, attorno, dentro le foto.

Interessante, curiosa, ricca quella cu-rata dal Museo Nazionale della Montagnadi Torino: L'impressione del colore-Mon-tagne in fotocromia 1890-1910. Un girodel mondo fotografico attraverso vec-chie immagini in bianco e nero trattatecon la tecnica fotocromatica che per-mise, negli anni a cavallo tra il XIX e XXsecolo di ottenere delle stampe a colori.

Mi piace segnalare per l'interesse eper il legame con le nostre terre Dalle Alpiall'Artico a 140 anni dalla spedizione alFranz Joseph Land. Spedizione polare

4 Alpinismo goriziano - 2/2012

C eeccoo.. DDiicciiaannnnoovveennnnee.. UUnn ffuuoorriiccllaasssseeddeellll’’aarrrraammppiiccaattaa cchhee ddiimmoossttrraaccoommee uunnaa ffoorrttee ddeetteerrmmiinnaazziioonnee eeuunnaa ppaassssiioonnee ssmmiissuurraattaa ppoossssoonnoo

ccoonnttrraassttaarree llaa ffoorrzzaa ddii ggrraavviittàà ee rreennddeerreeppoossssiibbiillee ll’’aarrrraammppiiccaattaa ssuu vviiee ddii rroocccciiaa ddiiddiiffffiiccoollttàà eessttrreemmaa..

Mi trovo nell'atrio del Cankarjev dome non riesco a stare ferma. Continuo acontrollare l’orologio. Non è puntuale. Eraa cena con i suoi genitori e la sua ragazzae ha accumulato più di un’ora di ritardo.Appena lo intravedo in lontananza gli ac-cenno con la mano un gesto di disappro-vazione. Lui mi sorride con disinvoltura.Naturale, chi potrebbe rimproverarlo? Hapassato tutta la giornata ad arrampicarenella falesia di Koteœnik, la più grande euna delle le più impegnative della Slove-nia, nascosta nei boschi sopra Liboje. Aprima vista appare come una persona ti-mida. È alto e magro. Per una statura di180 cm pesa appena 60 kg. “So cosapensi, ma non ho mai seguito una dieta!Per fortuna ho un ottimo metabolismo eposso mangiare quanto voglio. Beh, sì,evito gli hamburger e le patatine fritte.Cerco di nutrirmi con cibi sani e non di-giuno mai,” afferma in un inglese quasiperfetto.

In arrampicata il peso è importante.Maggiore è il tuo peso e più ne devi solle-vare sulla roccia. Come in tutte le cose c’èperò un limite. “Scendendo sotto questolimite non arrampichi meglio.” La pelle deisuoi polpastrelli è indurita dal continuocontatto con la roccia. Ha i capelli neri ericci e le ciglia folte. Adesso capisco per-ché lo chiamano l’Harry Potter dell’arram-picata. Non gradisce questo soprannome.“Non sono la copia di nessuno e sono l’o-riginale! Per fortuna finora nessuno si è an-cora rivolto a me dicendomi: Ciao Harry,come va?”

Adam Ondra, il diciannovenne ceco, èun fenomeno dell’arrampicata sportiva. Èuno dei migliori arrampicatori del mondo elo ha dimostrato salendo molte vie di dif-ficoltà estrema. Il suo curriculum è im-pressionante: ha già scalato più di 950 viecon difficoltà dal 8a al 9b e tra queste piùdi 440 a vista. È più o meno il doppio dellevie salite da un altro arrampicatore ecce-zionale, un altro ragazzo d’oro, il califor-niano Chris Sharma. Nell’arrampicatasportiva esiste una netta distinzione tra idiversi modi di salire una via. Qualitativa-mente l’arrampicata a vista è consideratail massimo. Significa salire una via consuccesso al primo tentativo e senza infor-mazioni su come affrontare i passaggi piùdifficili. “Adam Ondra e Chris Sharma sonoi guerrieri ninja della roccia, i maestri diuna nobile arte che rasenta la perfezione,”afferma il leggendario arrampicatore bri-tannico Steve Haston, che non nascondeil suo entusiasmo per il ragazzo prodigiodella Repubblica Ceca. “Io un suo fan?Dannazione, certo!” Qual è il segreto del-l’abilità di Ondra? Haston risponde: unavolontà d’acciaio, che ultimamente non èmolto di moda. La passione è sicuramenteimportante, ma senza il duro lavoro non siottengono risultati di questo livello.

Ondra vive con i genitori a Brno, se-conda città della Repubblica Ceca, dovel’arrampicata è uno sport popolare. “Lafalesia è vicina alla città e nei fine setti-

conto della sua eccezionale bravura, ma èrimasto molto umile: se gli si fanno troppicomplimenti sul suo stile di arrampicatas’imbarazza facilmente.

Nell’ambiente viene trattato come unacelebrità hollywoodiana. Gli dà fastidio ri-spondere alle innumerevoli domande deigiornalisti e concedere autografi? “Questonon è il lato migliore della notorietà, ma misono abituato. Mi rendo conto che esserefamosi implica tutta una serie di impegnicome le interviste, le serate ecc., ma perfortuna posso sempre rifugiarmi in qual-che falesia dove rimango solo per tutto ilgiorno e non c’è nessuno che mi chieda unautografo. In ogni caso dedicare alcunigiorni all’anno ai media non è un prezzocosì alto da pagare, se mi permetterà direalizzare il mio sogno di diventare un ar-rampicatore professionista.”

Si allena soprattutto arrampicando.“Fino all’anno scorso non riuscivo a fareneanche una trazione mono braccio. Lamia forza muscolare è inferiore a quella ditanti arrampicatori, ma proprio questa ca-renza mi costringe ad arrampicare con piùprecisione.” Solo ultimamente ha iniziatocon esercizi mirati al potenziamento mu-scolare come trazioni, flessioni e solleva-mento pesi. “La più grande differenza chenoto è che adesso sugli appigli anche sololeggermente più grandi posso riposare,mentre prima la mia tattica era di arrivarealla fine della via il più velocemente pos-sibile. Le mani non riuscivano più a strin-gere non perché non fossi capace di ese-guire il movimento, ma perché ero troppolento. Logicamente questo mi costringevaad aumentare la velocità. Adesso riescosfruttare meglio i riposi e di conseguenzaposso controllare con più tranquillità laprogressione. La bellezza dell’arrampicataè proprio nel fatto che non devi essereveramente forte per essere bravo. Quasitutto dipende dalla tua tecnica, dal tuosenso dell’equilibrio e dal corretto uso deipiedi.”

Definisce l’arrampicata su vie estre-mamente difficili come un’esperienza ex-tracorporea. “Quando arrampico su vieveramente difficili sono in uno stato parti-colare. Non penso a nulla e lascio che imiei movimenti siano guidati dalla miaesperienza e dall’intuizione. In queste si-tuazioni mi trovo veramente al limite dellemie capacità. Mentre arrampichi deviprendere delle decisioni all'istante e seesiti sprechi energie preziose. Devi ancheelaborare in anticipo i tuoi movimenti suc-cessivi, altrimenti rischi di non arrivare finoalla fine della via.”

Dallo scorso autunno si dedica prin-cipalmente al bouldering, che è l’arrampi-cata sui massi. “Mi attira per la sua es-senzialità. La preparazione per le gare diboulder è meno pesante della prepara-zione per le gare di difficoltà. Mi piaceperché non ti alleni quasi mai da solo, main compagnia e spesso in ambiente natu-rale. Nel bouldering devi risolvere un sin-golo problema molto difficile e non una se-rie di passaggi, dove la difficoltà è dataprincipalmente dalla continuità. Questotipo di allenamento è puro divertimento.”Comunque la passione rimane l’arrampi-cata in falesia. “Ogni tanto devo sentire ilvuoto sotto i piedi.” Da dove gli arriva l’e-nergia che lo spinge a non fermarsi mai?“Non mi sono mai chiesto da dove pro-viene la mia motivazione. C’è e basta. Am-metto che ogni tanto mi sento stanco, madipende dai lunghi spostamenti e dallenotti passate a dormire in automobile. Miassilla molto anche il ritorno a scuola dopoun periodo di assenza prolungata e devosostenere i test che ho saltato.” È abi-tuato a studiare durante il tragitto verso lafalesia o la sera tardi, quando ritorna acasa. Tra poco terminerà la scuola supe-riore. Poi pensa di dedicarsi per un intero

Foto: archivio Trento Film Festival.

Adam Ondra, profilo di un arrampicatoredi URØA MARN

mana molti miei concittadini la frequen-tano. Non è una delle più belle e le viesono già molto unte, ma è sempre megliodi niente. In ogni caso è vicina a casa eposso andarci quando voglio, prima discuola o a lezioni finite. Non è nemmenol’ideale per l’allenamento, ma, se sei ab-bastanza motivato, non hai bisogno ditanto allenamento.” Ondra convive conl’arrampicata da sempre. Specificare chei suoi genitori sono arrampicatori e che an-che sua sorella Kristina è bravissima è su-perfluo.

“I miei genitori mi portavano con loro

in falesia quando ero in pratica un neonato.Non ho mai riflettuto se l’arrampicata fossedivertente o meno, arrampicavo e basta,come del resto facevano tutti quelli cheavevo intorno.” La sua carriera è iniziataquando aveva appena tre anni. “In quelperiodo più che arrampicare mi piacevadondolare sulla corda.” All’età di sei anniha iniziato ad allenarsi seriamente riu-scendo subito a salire a Rovinj la sua primavia di grado 6a. Contemporaneamente hapartecipato alla sua prima gara classifi-candosi terzo. A nove anni ha già chiuso avista un 7c+ e a dodici il primo 8b.

Chi sulla scena internazionale dell’ar-rampicata continuava a dubitare del suopotenziale, ha dovuto ricredersi quandonel 2006 Ondra ha chiuso a Miøja peœ lavia Martin Krpan, che è un 9a. A quattor-dici anni ha vinto i campionati mondialigiovanili. A sedici è diventato vice cam-pione mondiale nella difficoltà e si è piaz-zato primo nella classifica generale dicoppa del mondo. Neanche due fuori-classe come lo Spagnolo Patxi Usobiagae il Giapponese Sachi Ama hanno potutotenergli testa. Diciassettenne, ha vinto lacoppa del mondo nel boulder diventandoil primo arrampicatore di sempre capacedi vincere in entrambe le specialità.“Prendo molto sul serio l’arrampicata. Nonaccetto facilmente le sconfitte e perdere èfrustrante. In ogni caso vivo l’arrampicatacome un gioco meraviglioso e come purodivertimento. Semplicemente, amo l’ar-rampicata e tutto quello che ci gira in-torno.”

Negli ultimi due anni ha ridotto la sua

ciale, invece, non ci sono tante possibilitàdi ricupero ed è necessaria una notevoleforza e resistenza. Per eseguire una lungaserie di movimenti senza avere neancheuna singola occasione di rilassare almenoun po’ le mani, devi avere una resistenzada cavallo.”

Per lui l’arrampicata non è solo unosport. È il senso e uno stile di vita. Qual-cosa di cui ha bisogno come dell’aria. Ar-rampica cinque volte alla settimana. “Seproprio non potessi più arrampicare cer-cherei di fare altro. Non riesco a oziare suldivano e non sono felice se non sono inmovimento. Sicuramente però la mia vitasarebbe più vuota se non potessi più ar-rampicare.”

Il merito maggiore del suo successoappartiene ai suoi genitori che hanno sa-puto riconoscere il suo grande dono ehanno sacrificato molto tempo e proba-bilmente anche molto denaro per portarlonelle migliori falesie europee. Spesso nelleinterviste esprime la sua gratitudine neiloro confronti. “Tra i miei coetanei ci sonotanti arrampicatori con i quali potrei an-dare in giro, ma di solito vanno in postidove sono già stato e non mi interessa tor-narci. I miei genitori sono sempre entu-siasti di condurmi in qualche localitànuova, anche se questo li costringe a sa-crificare il loro tempo libero.” Ha arrampi-cato in tutta l’Europa, in Madagascar e inSudafrica, ma non è mai stato negli StatiUniti. “Ogni cosa a suo tempo,” dice. È unottimo conoscitore della storia dell’arram-picata e parla con molto rispetto dei suc-cessi dei suoi predecessori. Si rende

partecipazione alle gare. Dice di essersistufato degli allenamenti in parete artifi-ciale e di preferire l’arrampicata in falesia,dove infatti il suo talento si esprime almassimo. Il suo innato senso del movi-mento e il suo incredibile intuito gli per-mettono di salire vie estreme che sonoalla portata di pochissimi arrampicatori almondo.

“Le gare sono decisamente più impe-gnative dell’arrampicata su roccia. I singolipassaggi su roccia sono di solito più dif-ficili, ma poi seguono sempre dei buonipunti di riposo. Sulle vie in parete artifi-

Alpinismo goriziano - 2/2012 5

Il monumento all’11° Bersaglieri con l’epigrafe del 1924 (foto: Renato Timeus).

fratello di Ruggero "Fauro"- ha traman-dato l'immagine del bel monumento all'11°Reggimento Bersaglieri che stava alleporte di Jamiano, il quale rievocava contoni di servile piaggeria il ferimento delduce sulla vicina quota 144. Quando Mus-solini l'ebbe letta ordinò che la scrittafosse sostituita con una che ricordassetutti i caduti di questa zona, dove il suoreggimento aveva rotto il fronte nemiconel maggio 1917.

In tempi vicini ai nostri è comparsauna nuova categoria di devastatori, quelladei predatori di ogni tipo di cimeli belliciasportabili, e ad essi si sono uniti pocodopo soggetti animati da spirito vandalico.Secondo notizie recenti provenienti dallecolline sopra Monfalcone, ignoti idiotihanno martellato le poche lapidi super-stiti e segato persino i due alti pili porta-bandiera. Sul poco che è rimasto continuaa lavorare un nemico subdolo ed infrena-bile, il tempo evocato dal poeta latino. Ilsuo è un ritmo inavvertibile che non siferma mai e per rendersi conto dei suoi ef-fetti si vada a vedere lo stato attuale del-

nel ferroviario in cui una potente defla-grazione di munizioni e benzina carbo-nizzò tutti coloro che vi si erano rifugiatidurante il contrattacco nemico. In unadelle tre epigrafi erano ricordati i nomi deisette ufficiali e del cappellano don Cic-coni. Nella cupa stagione del 1944 anchequest'opera fu minata. Undici anni dopo leSezioni Mantovane dell'Istituto Nazionaledel Nastro Azzurro e dell'Unione Ufficiali incongedo la ricostruirono. Trovarla non èfacile e quello che si può ancora distin-guere sono solo poche lettere delle iscri-zioni, mentre tutto il resto è stato dilavatodalla dissoluzione della pietra.

Il 7 marzo 2001 è stata promulgata laLegge n° 78 per il restauro, la conserva-zione e la tutela delle vestigia della PrimaGuerra Mondiale e uno dei nove articoliprevedeva lo stanziamento immediato diun miliardo di lire e di 330 milioni per glianni successivi, delegando alle Regioniinteressate la gestione degli interventi ma,come spesso accade, la legge non è statafinanziata e almeno qui da noi nulla è statofatto.

L'anno scorso si è sentito parlare del-l'arrivo di parecchi milioni di provenienzacomunitaria in vista delle celebrazioni delcentenario di entrata in guerra dell'Italia,buona parte dei quali dovrebbe essereassegnata alla Provincia di Gorizia, sul cuiterritorio insistono le più importanti operemilitari e vari monumenti rievocativi. Perquanto riguarda la Provincia di Trieste levestigia meritevoli d'essere prese in con-siderazione non sono molte: oltre ai duecippi sopra citati vi sono alcune grotte na-turali adattate dagli Imperiali e in partico-lare la Grotta Azzurra di Samatorza con ilsuo esclusivo impianto per la raccolta del-l'acqua di stillicidio, firmato dal progettistae dai due muratori che lo realizzarono nel1917.

Per fare le cose seriamente dovrebbepartire adesso il censimento volto ad in-dividuare l'ordine prioritario delle cose darestaurare e numerosi cultori della GrandeGuerra sono già in fibrillazione e si dannoda fare nel timore d'esser esclusi dallapartecipazione all'evento, che sembrasarà anticipato al 2014.

Restando in tema di monumenti ab-bandonati a se stessi, allorché nella Romaimperiale veniva deposto nel famedio chinon lasciava discendenti, sulla tomba siscriveva: HOC MONVMENTVM HEREDESNON SEQVETVR, a giustificare il futurodeperimento del manufatto. O lungimi-ranza degli antichi padri!

In chiusura è da ricordare la lodevoleiniziativa con la quale l'Associazione Mit-teleuropa di Trieste ha ricostruito nel 2002il monumento sopra la Baia di Sistiana,eretto nel 1916 in onore dei fucilieri vo-lontari dei Distretti di Abbazia e Voloscaimpegnati sul fronte dell'Isonzo. Non c'èpiù l'aquila bicipite e al posto dei proiettid'artiglieria è stata messa una Madonnina,ma almeno si è rimediato ad uno dei moltiatti insulsi con i quali degli stolti si sono il-lusi d'aver cancellato a colpi di tritolo certepagine di storia, la quale sempre ritorna abollare i responsabili.

Infine la notazione più triste: da alcuniloculi del Sacrario di Redipuglia oramaisconnessi spuntano le ossa dei morti, an-ch'essi privi d'eredi.

U na volta tornata alle proprie case,la maggior parte dei reduci dellaGrande Guerra volle cancellare su-bito dalla mente quella dolorosa

parentesi della loro esistenza e il ricordodegli orrori visti e vissuti in luoghi di cuinon avrebbero saputo indicare l'ubica-zione geografica. Nei contadini e nei pa-stori del Meridione si era però formata laconsapevolezza di appartenere ad unpaese nato già da quasi sessant'anni. Nelpensiero di altre persone sensibili e ro-mantiche si fece strada il dovere di ono-rare in qualche modo chi era caduto esorsero così le associazioni delle variearmi che, come prima iniziativa, si pre-sero cura delle centinaia di cimiteri im-provvisati sparsi lungo il fronte. I campi dibattaglia erano percorsi da mesti pelle-grinaggi e dai congiunti dei dispersi allavana ricerca dei loro resti, guidati da qual-che vaga indicazione sull'ultima presenzadel loro caro. Sul terreno calcinato dalleesplosioni giacevano innumerevoli ordi-gni e vi affioravano macabri frammentiumani non identificabili. A chi girava suqueste plaghe desolate ed anecumenichesembrava incredibile che tanti uomini fos-sero morti per conquistarle, ma là in fondoal golfo c'era Trieste a dare un senso al sa-crificio.

Cominciarono a vedersi qua e là deisegni di pietà: piccoli cippi, qualche mo-desta lapide o anche soltanto una crocecon un nome. La collocazione di questimanufatti era quasi sempre del tutto ca-suale, come è avvenuto per i cippi dei duevolontari trentini Vois e Rippa, celebratisull'Ermada e caduti da tutt'altra parte.

Qualche anno dopo fu il governo fa-scista ad assumere la regia delle rimem-branze e risale a quel periodo l'erezionedei monumenti più significativi e la crea-zione della Zona Sacra del Monte San Mi-chele. Leggendo oggi le iscrizioni conce-pite allora in un linguaggio intriso di ma-gniloquente retorica si ha la precisa sen-sazione che con esse s'intendeva risarcirechi era stato mandato a morire in attacchisenza alcuna speranza di successo, tuttieroi, la cui memoria sarebbe stata imperi-tura. Duemila anni prima Virgilio avevafatto presente con distaccato realismoche il tempo divora ogni cosa e per esten-sione anche le memorie, le quali si estin-guono assieme a chi ne è il depositario.

Nessuno poteva prevedere che menodi trent'anni dopo molte di queste operesarebbero state distrutte per mano deglieredi di coloro che quella guerra l'ave-vano perduta e i primi a sparire furono nel1943 i tre lupi della Brigata "Toscana", in-visi ai soldati di origine austriaca militantinell'esercito tedesco. Nel vuoto istituzio-nale dell'anno seguente i loro oppositorifecero saltare quanto era stato realizzatonei luoghi delle dodici Battaglie dell'I-sonzo, eccetto lo svettante obelisco de-dicato a Filippo Corridoni, sodale di Mus-solini ma anche socialista.

Un'inedita foto di Renato Timeus -

l'Ara che la Terza Armata ha eretto amonte delle risorgive del Timavo, su cui unsolenne ammonimento invita a rispettare"il campo della morte e della gloria". Le la-stre di pietra che recano le grandi letteresi stanno sfaldando e la zona industriale diMonfalcone ha occupato la piana sotto-stante dove la nostra avanzata è stata de-finitivamente arrestata.

Un altro esempio di quanto sia dele-teria l'azione delle piogge acidificate dallacentrale a carbone lo si riscontra sui duemonumenti ad essa vicini. Il 30 ottobre1919 gli ex combattenti della Brigata "Val-tellina" collocarono un piccolo cippo nelluogo dove essa ebbe nel solo giorno 4settembre 1917 ben 2900 perdite. L'epi-grafe, da tempo scomparsa, recitava: IL65° REGGIMENTO FANTERIA GUAR-DANDO CON ANIMO FORTE AI FRATELLICADUTI POSE SUL CAMPO FULGIDO DIFEDE VIGILATO DALLA GLORIA.

L'omaggio dovette sembrare prestoinadeguato al tragico fatto d'arme, perchétre anni dopo venne posto a poca distanzaun vero monumento, proprio sopra il tun-

Memorie alla derivadi DARIO MARINI, GISM

anno esclusivamente all’arrampicata. Edopo? “Continuerò con gli studi. Forse miiscriverò a economia. Questa facoltà mipermetterebbe di assentarmi anche perperiodi relativamente lunghi. Nel caso de-cidessi di studiare altro, per esempio me-dicina, appena terminata la facoltà dovreiper forza iniziare subito a lavorare. Dopoeconomia non sarà obbligatorio.”

Finora è riuscito a salire quasi tutte lepiù difficili vie sportive al mondo. Ma esi-

ste ancora qualcosa che gli rappresentiuna sfida? “Le sfide si trovano sempre.Non è mia intenzione chiudere tutte le vieal mondo gradate 9. Ultimamente quelloche più mi interessa è attrezzare vienuove. Per Natale i miei genitori mi hannoregalato un trapano e non vedo l’ora chearrivino le vacanze per dedicarmi a tempopieno a questa attività. Una nuova via ècome un figlio. Ti stimola a continuare an-che quando sei stanco.”

Non è un ragazzo tipico. Non ha amiciche gravitino al di fuori dell’ambiente del-l’arrampicata e la televisione e la musicanon lo interessano. Preferisce leggere libri,se gli rimane del tempo libero. Non gli di-spiacerebbe frequentare l’alta montagna,ma dice che potrà farlo anche quandosarà più vecchio. “Per adesso non mi at-tira, neanche se si trattasse di scalare unottomila. Sarebbe, secondo me, più unacamminata che un’arrampicata.”

© Mladina 2012

Adam Ondra è stato uno degli ospitid’onore al festival internazionale del ci-nema di montagna, che si è svolto a Lju-bljana e Domæale nel mese di aprile diquest’anno e l’articolo è stato pubblicatoil 26/04/2012 sul numero 17 del settima-nale sloveno Mladina.

Traduzione dallo sloveno di Marko Humar

NNeellllaa GGrroottttaa ddeell MMiittrreeoo ((ffoottoo:: aarrcchhiivviioo CCaanndduussssii))..

6 Alpinismo goriziano - 2/2012

C i sono luoghi che nel passatohanno acquisito una importanzastorica o culturale o economica,ma che col tempo l’hanno per-

duta; altri luoghi erano insignificanti nelpassato, ma hanno acquisito tale rilievosolo di recente e lo mantengono.

Altri luoghi infine conservano da se-coli, se non da millenni, questa aura ma-gica, immutabile nel tempo, col mutaredelle condizioni storiche, politiche, eco-nomiche. Uno di questi è il territorio dipochi kmq che gravita intorno alle risor-give del Timavo, in località San Giovannidel Timavo appunto.

Un luogo di confine, di mille confini,tra est e ovest, tra Occidente ed Oriente;confine geografico tra la pianura Padanae lo sbarramento del Carso triestino, al dilà del quale si apre la pianura slava edanubiana. Confine meteorologico per-ché i fronti temporaleschi provenientida ovest spesso vengono bloccati dallabora che vi si oppone da nord-est, lastessa bora che ferma le nebbie autun-nali padane sull'Isonzo o sul Taglia-mento. Confine geologico tra la pianuramorenica ed il Carso calcareo. Confineambientale tra le sabbie e la laguna diGrado da un lato e le coste rocciose eprofonde della costiera triestina. Confineidrografico tra il bacino dell'Isonzo a norde ad ovest e quello del Timavo ad est.

Confine etnico con le popolazioni inprevalenza latine ad ovest (a parte le vallidel Natisone ed il Carso isontino) e quelleprevalentemente slave ad est (a partel'enclave triestina e gli ex possedimentiveneziani sulle coste istriane e dalmate).Confine politico ai tempi dell'Aquileia ro-mana (posto proprio in corrispondenzadel ponte della strada statale sul fiumeMoschenizza), ai tempi del patriarcato diAquileia, ai tempi della Repubblica Ve-neta con l'Impero Austriaco... fino aigiorni nostri confine tra Italia e “Zona A”(1947-54), tra le provincie di Gorizia eTrieste (dal 1954 in poi).

Possiamo immaginare la magia chepoteva avere il luogo non solo durante lapreistoria, ma anche all'epoca di Aquileiaromana; quando c'era il mare al postodella cartiera ed al posto della zona in-dustriale del Lisert; quando a poche de-cine di metri dalla costa sgorgava mi-steriosa una copiosa sorgente di acquadolce e potabile: una materia prima, unarisorsa alimentare di fondamentale im-portanza per la vita umana ed animale.Altre risorgive, anche se di portata moltoinferiore, c'erano (e ci sono anche oggi)in vari punti sotto il mare, vicino al Vil-laggio del Pescatore e nella zona dei Fil-tri di Aurisina verso est. Poco più adovest sono presenti anche le risorgivedel Sardos e della Moschenizza che sonoutilizzate da oltre un secolo per alimen-tare l'acquedotto di Trieste. Proprio perl'abbondanza di acqua dolce anche lavegetazione è unica, completamente di-versa dal paesaggio semi-brullo della co-stiera triestina e dalle sabbie o paludidella foce dell'Isonzo e della laguna diGrado. Arrivando via mare con il kayak cisi immerge in una vegetazione fittissima,con alberi crollati a pelo d'acqua, ce-spugli carichi di more da rovo, anatreselvatiche... pare quasi una forestaamazzonica.

Nella zona delle risorgive del Timavola storia ha lasciato numerosissimi segni;anzi da molto prima dell'arrivo dell'uomo,come testimonia il dinosauro “Antonio”del Villaggio del Pescatore, scoperto nel1994. I segni di epoca romana sono pre-senti nei resti della villa all'interno del-l'acquedotto Randaccio, ma sono visibilianche nei solchi della via Gemina che,ancorché sepolti tra erba ed arbusti, si

possono scoprire qua e là alle spalle delVillaggio del Pescatore e nel bosco dellaCernizza, per poi proseguire sul Carsotriestino.

Non lontano, nei primi secoli dopoCristo, ai piedi del monte Ermada c'erauna grotta (scoperta solo nel 1963) dovesi adorava il dio Mitra, di provenienzaorientale, che si poneva in competizionereligiosa (e politica) col crescente cri-stianesimo.

Da quelle parti (oltre che dalla valledel Vipacco) scesero le varie ondate di

barbari: si parla della “castello di Attila”nella zona del Villaggio del Pescatore.

Da quelle parti si insediò la dinastiadei Torre-Tasso, costruendovi il castellodi Duino, prima quello vecchio e diroc-cato, poi quello nuovo, attuale.

Durante la prima guerra mondialeproprio lì, alle falde del monte Ermada,fino in riva al mare, si fermò l'avanzatadell'esercito italiano. Al termine della se-conda guerra mondiale proprio lì, difronte alla cartiera, c'era il confine tra l'I-

talia ed il “Territorio Libero di Trieste”. Poco oltre invece, negli anni Cin-

quanta del secolo scorso è stato creatodal nulla il Villaggio del Pescatore, perospitare una parte degli esuli italiani pro-venienti dall'Istria.

Un efficace riassunto di tutte questestorie è presente nel piccolo museo delVillaggio del Pescatore, gestito dalgruppo speleologico Flondar.

Per assaporare questo affascinanteterritorio occorre gironzolare tra Duino eil monte Ermada, nel bosco della Cer-nizza fino al Villaggio, ma soprattutto av-venturarsi col kayak, scivolando placi-damente nella boscaglia selvaggia deitre rami del Timavo... con andatura “slowtrekking by kayak” appunto oppure“slow trekking on foot”, cioè a piedi. An-che se accanto a questo gioiello dall'ac-qua si vedono spuntare le fabbriche delLisert e le numerose marine, che ospi-tano centinaia di barche di tutte le foggee dimensioni... ma per andare dove???

Emblema di questa storia può es-sere considerata la chiesa di S.Giovanniin Tuba, accanto alle risorgive del Ti-mavo; chiesa di origini antichissime, apartire dalla basilica paleocristiana diepoca romana, fu più volte distrutta edepredata (ad es. durante le invasionidegli Avari) e più volte ricostruita. Chiesaa lungo chiusa al pubblico per motivi direstauro ed oggetto di saltuari scavi, oggiè aperta e conserva la testimonianza delDio Timavo.

Magia delle risorgive del Timavo traconfini mobili e vicende storichedi ELIO CANDUSSI

Un meritato riconoscimento

Il Presidente Generale del Club Alpino Italiano Umberto Martini, presente a San Vito al Tagliamento sabato 10 marzo 2012in occasione dell'Assemblea dei Delegati delle Sezioni del CAI del Friuli Venezia Giulia ha consegnato al nostro consocioCARLO TAVAGNUTTI il diploma di benemerenza del CAI per la sua instancabile passione alpina, sempre dedicata alle mi-gliori fortune del Sodalizio. Lo hanno applaudito e festeggiato i numerosi presenti ed una scelta rappresentanza di sezioni edi goriziani, parenti e amici. Congratulazioni Carletto!

Alpinismo goriziano - 2/2012 7

Abeti in Val Visdende.

Su una cima inviolata in Val Visdendedi MARCELLO BULFONI

È l'alba del 23 giugno 1963 e i primiraggi di sole riscaldano legger-mente l'aria frizzante. A bordo diuna Volkswagen bianca con

targa germanica percorriamo la Val De-gano. Al posto di guida siede ToniRoeckl di Monaco di Baviera, il mastrobirraio della "Birreria Moretti", un tipoun po’ strano, come del resto tutti quelliche frequentano la montagna: alla suadestra ci sono io, mentre comodamenteadagiata sui sedili posteriori siede MariaPia, una delle poche donne che assiemea Ottavina faceva all'epoca la storia del-l'alpinismo femminile sulle nostre mon-tagne. Con Maria Pia avevo già fatto di-verse salite, mentre con Toni avevo fattosolamente delle uscite nelle palestre diProsecco e del Glemine.

Giunti a Sappada facciamo unabreve sosta per un caffè prima di prose-guire verso la Val Visdende.

Prima della galleria nei pressi dellasegheria la svolta a destra, un tratto distrada in terra battuta ripido e disse-stato e siamo all'ingresso della valle.Dentro di me provo subito una forte sen-sazione di pace e tranquillità che nessunaltro luogo riesce a darmi. Dopo qualcheminuto di religiosa contemplazione ri-partiamo in direzione della Valle diLondo che dopo pochi kilometri si pre-senta ai nostri occhi in tutta la sua in-cantevole bellezza. I dubbi di Toni sullapresenza di pareti da scalare, poichéfino ad ora ha potuto vedere solamenteverdi pascoli, vengono subito fugati nelmomento in cui si addentra nella valle edavanti ai suoi occhi si stagliano in tuttala loro superba bellezza i torrioni deiLongerin, dai dorati colori del nuovogiorno. Estasiato da questa visione, ri-mane muto per un breve tempo. Ancorauna breve sosta e poi nuovamente incammino verso la base del VI° Torrione,ancora inviolato.

Inizio subito a imbragarmi e predi-spongo le due corde alle quali lego Ma-ria Pia e Toni. Un ultimo veloce controlloa nodi e attrezzatura e inizio la scalata.Superata una gola, eccomi alla base diuno spigolo nero e verticale che si in-nalza sopra di me. La roccia è abba-stanza buona nonostante che sia co-perta per una buona parte da detriti.Questo comunque non mi impedisce ditrovare un terrazzino dove faccio sosta ericupero i compagni. La roccia ben ap-pigliata mi permette di salire, in pienaesposizione, senza problemi. Superatequeste difficoltà salgo ancora, per diedrie canalini, fino a quando sento il gridoche mi avvisa della fine della corda. Mimetto allora in sicurezza e inizio il ricu-pero, uno alla volta, fino a quando siamonuovamente riuniti. Caricato dall'ecce-zionale forma, sia fisica che mentale,parto per il tiro successivo. Supero unospigolo esposto, ben appigliato e conroccia solida con una tale armonia dimovimenti e sicurezza che ancora unavolta mi stupisco di come riesco a su-perare tutte le difficoltà con naturalezza,quasi senza indugiare a osservare e leg-gere la parete. Salgo leggero e sicuro.Tutto intorno a me tace, un silenzio quasiirreale, rotto solamente dai lontani rin-tocchi dei campanacci delle mucche alpascolo. Da questo piacevole stato, chea dire il vero un po’ di concentrazione mitoglieva, mi riprendo subito. La respon-sabilità che ho nei confronti dei mieicompagni di cordata è forte, perdipiù

Forcella Mediana dalla quale poi scen-diamo fino alla casera di Val di Londo epoi verso casa.

8 Settembre 1996. Sono nuova-mente in Val Visdende, questa volta dasolo, non più in compagnia dei cari amiciMaria Pia e Toni. Mancavo da 31 anni,troppi, e sentivo un forte bisogno di ve-dere nuovamente le bianche e frasta-gliate crode dei Longerin. Giunto all'im-bocco della Val di Londo, in sella alla in-separabile Moto Guzzi 500, all'altezzadi una costruzione dedicata al culto, chemal si inserisce nel contesto ambien-tale, vedo un cartello che indica un par-cheggio con, a fianco, un evidente se-gnale di divieto di transito. Lo ignoro eproseguo la mia corsa, come ai vecchitempi, sfrecciando davanti alla casetta dilegno del custode, ansioso di raggiun-gere al più presto la malga.

Sono appena transitato davanti allacasetta quando, con la coda dell'occhiovedo un omino che esce di corsa e sisbraccia in maniera esagerata, cerca dirichiamare la mia attenzione e di inter-rompere la mia corsa. Proseguo deciso.

A metà del tragitto, purtroppo, unapattuglia della Guardia Forestale ponefine alla mia corsa. Mi bloccano e mi in-vitano con tono garbato ma fermo a esi-bire i documenti per l'identificazione. Ilpiù anziano dei due, che conoscevabene quelle montagne, compresi gli al-pinisti che sulle cime attorno avevanoaperto molte vie, dopo aver letto le miegeneralità mi domanda se sono lo stessoautore della monografia sul gruppo deiLongerin. Senza pronunciar parola, conun cenno che voleva significar conferma,allargo le braccia. Dopo essersi congra-tulati con me mi autorizzano a prose-guire non prima di avermi strappato l'im-pegno a ritrovarci, una volta sceso avalle, presso la trattoria "Buone Arie".Locale che conoscevo molto bene peressermici fermato innumerevoli volte e,soprattutto, perché il figlio del titolare,Maurizio, quando era ancora tredicennemi seguiva spesso in occasione di rico-gnizioni in quelle zone.

La Malga Londo adesso è stata ri-strutturata e messa a nuovo. È monticatae non resisto alla voglia di farci una visita.Ottenuto dal malgaro il permesso, ritornonel locale dove nel lontano autunno del1959 ero solito trascorrere le notti cheprecedevano importanti salite. Con unleggero sentimento di rimpianto lascioalle spalle questo luogo a me molto caroche mi riporta alla memoria tanti strug-genti ricordi. Dopo un breve ma intensosaluto al malgaro mi allontano veloce-mente. Salendo verso il Passo, lo sguardocorre spesso sulla dentellata cresta deiLongerin, fino a quando raggiungo lacima del Palombino, dove mi fermo alungo a contemplare lo spettacolare pa-norama che si apre tutt'attorno. Unsguardo all'orologio mi avverte che è oradi scendere, anche perché non vogliomancare all'appuntamento con le Guar-die Forestali e, prima ancora, devo salu-tare nuovamente il malgaro.

L'incontro con i Forestali è piace-vole, molto cordiale, e tra di noi nasceuna particolare e piacevole atmosfera.Alla domanda su cosa ho trovato dicambiato rispetto agli anni '50/'60 ri-spondo che a quell'epoca non si senti-vano i fischi delle marmotte e non esi-stevano certe costruzioni scriteriate. Traracconti e rievocazioni delle mie salitel'incontro prosegue piacevole.

Una forte stretta di mano ai Fore-stali, alla gestrice della trattoria, a Mau-rizio, con la promessa di rivederci pre-sto, pone fine a questa mia giornata in-dimenticabile tra le montagne della ValVisdende i cui ricordi custodisco congelosia in un angolino del mio cuore.

considerando che sto aprendo una vianuova ed è mia intenzione, ovviamente,portarla a termine senza problemi.

Nel superare brevi salti di roccia misoffermo ad osservare l'imponente pa-rete che mi sovrasta. Abbiamo già rag-giunto un'altezza considerevole. Prose-guo veloce e sicuro. Ancora una volta ungrido mi avverte della fine della corda.Cerco allora un buon punto dove fare lasosta. Trovatolo, effettuo il ricupero, pro-vando un’ennesima soddisfazione nelmomento in cui ci si riunisce in mezzo almucchio di anelli di corda. Salgo ancoraper diedri e pareti, spostandomi legger-mente verso sinistra. Arrivo nuovamentesu uno spigolo. Lo supero e dopo al-cuni metri trovo un comodo terrazzino,l'ideale per una sosta e il ricupero deimiei compagni. Assieme a loro studioalla mia destra la fessura che dovrò su-perare per compiere il tiro successivo.Mi muovo con circospezione perché laroccia è poco sicura in questo tratto e,con molta attenzione, metro dopo metro,arrivo ad un'esile cengia dove per mag-gior sicurezza mi assicuro ad un chiodoche uso anche per il ricupero. Il diedroverticale alla mia sinistra è molto impe-gnativo e mi rendo conto che mi trovodavanti al tiro di corda più difficile dellasalita. Mi alzo lento e concentrato. Tradifficoltà crescenti e appigli che sem-pre più si diradano trovo un terrazzinodove sostare. I segni della fatica sonoevidenziati dalle gocce di sudore cheimperlano copiose la mia fronte, masono soddisfatto di come le cose pro-cedono, così come lo sono ogni qualvolta ci ritroviamo tutti assieme alla so-sta perché significa che l'ascesa pro-cede senza problemi e in sicurezza. Pro-seguo e porto a termine gli ultimi due tiridi corda che si sviluppano su roccia bencompatta e appigliata.

L'aver raggiunto la cima per una vianuova, aperta da primo di cordata, mi dà

una gioia intensa, la stessa che leggonegli occhi dei compagni di corda. Su-perati alcuni attimi di autentica emo-zione, dopo gli abbracci e il classico sa-luto montano di rito, decidiamo di bat-tezzare la cima che per primi abbiamoraggiunto "Torre Pia", in nome della caracompagna di corda, prima donna a sa-lire sui Longerin.

La tensione accumulata nel corsodella salita ora lascia il posto a uno statodi rilassamento completo che mi per-mette di godermi lo scenario che mi cir-conda: sullo sfondo vedo il Peralba conil suo spallone ovest che si allunga versodestra, il gruppo del Rinaldo, le bianchecreste dei Longerin, il Palombino e, lon-tano, il fondo della valle, di un verde cosìintenso da togliere il fiato. Non ricordoquanto tempo mi sono fermato a go-dere, incantato, della superba bellezzadella Val Visdende, messa ancora di piùin risalto da un gioco di luci e di ombreche le donava un fascino particolare, maad un certo punto il richiamo degli amicimi ha riportato alla realtà dalla quale miero completamente astratto. Con ram-marico devo interrompere la contem-plazione che mi aveva rapito.

Erigiamo il classico ometto di cimae, dopo un ultimo sguardo per meglioimprimere nella memoria ciò che i nostriocchi hanno davanti, iniziamo la discesa.Naturalmente dopo aver adottato tutte lesicurezze.

Scendiamo dapprima un lungo estretto camino che ci conduce su salti diroccia e brevi paretine. Quindi la logicadiscesa ci porta verso sinistra a una se-rie di canalini che incidono la parete, su-perando in seguito senza difficoltà qual-che salto. Dopo un’ora ci ritroviamo allabase della Torre, al punto dal quale era-vamo partiti. Adesso la soddisfazionedella salita all'inviolata Torre è completa.Riordinata tutta l'attrezzatura negli zaini,lentamente ci incamminiamo verso la

8 Alpinismo goriziano - 2/2012

Il racconto

I Brentdi VITTORINO MASON

S i era preso un anno sabbatico Ni-cola, ma la crisi economica gli rubòotto mesi. Da imprenditore lavo-rava più che un dipendente, non

riusciva a far vivere i propri sogni, a tro-vare spazio e tempo da dedicare a sestesso e alla sua famiglia. Sposatosi eavuto il primo figlio, aveva deciso di farevuoto, fermarsi, raccogliersi e pensarenuovi percorsi.

Credendolo ancora libero da impe-gni, un giorno di gennaio lo invitai a ve-nire con me ai Brent de l’Art. Per postaelettronica mi disse di sì. Erano anni cheavevo in mente di andarci d’inverno,quando quel corso d’acqua diventa unasorta di pista ghiacciata, strada del saledello Zanskar. Torrente in piena d’estate,lastra pattinata in inverno quando famolto freddo; questi erano i Brent. Unavolta, agli inizi di maggio mi ci ero incu-neato sia da una parte che dall’altra,senza però mai percorrerli interamente.

Il fascino e l’ebbrezza nell’insinuarsiin quel budello di rocce scavate, lavatee lavorate dall’acqua era così forte che,esplorarle e percorrerle a ramponi pian-tati nel ghiaccio, mi emozionava solo apensarci. Amici che ci erano già stati miavevano parlato di un mondo da favola,di un’esperienza indimenticabile: un po-sto unico, magico, imperdibile per unappassionato di natura e montagna.

Ma c’era sempre un’incognita: tro-vare tutta la coltre ghiacciata e di unospessore tale da sopportare il peso di uncorpo adulto, consentire il passaggio insicurezza, senza il rischio di sprofon-dare nell’acqua gelata. Ma non tutti glianni gela da copione, come se lo ricor-davano i vecchi montanari. Ci vuole uninverno davvero rigido ed almeno diecigiorni di termometro ben sotto lo zero.

La settimana precedente aveva fattodavvero freddo: per cinque giorni la pia-nura diventò un acquerello soffuso dibrina che attutiva rumori e orizzonti;quasi si stava bene in quella dimensioneche nascondeva mancanze e brutture.Ma poi, tre giorni prima della nostrauscita, la temperatura si era alzata e nonsapevo come avremmo trovato i Brent.Quel canyon lungo il corso dell’Ardoadesso me lo immaginavo un mondo dighiaccio e i solchi profondi scavati nellerocce carbonatiche, solo delle appa-renze, quasi impercettibili, chiuse, na-scoste, prigioniere sotto uno spesso ve-tro d’acqua.

Considerata la brevità del percorso,quel giorno ce la prendemmo comoda,andavamo verso le montagne a ses-santa, settanta all’ora. Da qualche meseNicola aveva acquistato un fuoristrada diseconda mano che aveva un grandecassone posteriore scoperto per cari-carci materiale, ma soprattutto per gua-dare l’Ardo. Sì, perché lui e suo fratello,proprio vicino ai Brent, avevano acqui-stato i ruderi di una casa con annessiterreni e bosco. Un investimento per so-gnare più che una banca dove mettere alsicuro i risparmi. Nicola ci teneva inmodo particolare a conoscere la zona diquella che sarebbe diventata la suanuova terra.

Tra le chiacchiere e quel lento pro-cedere nella bella giornata, trovammo iltempo per fare colazione in un bar lungola strada. Lui mi raccontava dei suoi pro-getti, del suo sbaragliare la crisi econo-mica ripensando un modo diverso del vi-vere, cercando vicino piuttosto che lon-tano; rimpatriando, riqualificando e ri-compattando la sua famiglia, intendendocon questa, non solo quella che avevaformato, ma anche quella dalla qualeera provenuto: i genitori, il fratello, la so-rella. Era questo il progresso, questa lagioia, la conquista. Il resto, se c’è ancoraqualcosa, veniva dopo.

hai un pezzo di carta che lo documenta,ma perché senti di appartenergli. Nel loroimmaginario quel luogo doveva diventarela fabbrica dei sogni, pulpito nel qualeinoltrare lo sguardo verso un orizzonteche profumava di resina e muschio, dipaesaggio, erba, silenzio, canti…

Al parcheggio ci infilammo gli im-brachi che per scrupolo, non sapendocosa avremmo trovato, avevo pensato diportare, assieme ad una corda, la pic-cozza e i ramponi. Nicola non aveva il; ti-pico imbraco da arrampicata, ma uno diquelli che usano le squadre di lavoro perassicurarsi sopra impalcature o tetti.Non riuscì a capire come andava indos-sato e alla fine decise di lasciarlo nelcassone dell’auto.

Attraverso un sentierino scendemmofino al ponte. Erano già le dieci e la lucegiusta entrava nei Brent illuminando ilghiaccio e giocando con le zone in om-bra investendole di sguincio. Verso sudil solco del torrente era una linguabianca, quasi uniforme e abbacinata dalsole. Qua e là una spaccatura, delle frat-ture, buchi dove si intravedevano le in-crespature delle acque andare verso il

sempre più in là lo sguardo ad intuire ildopo che man mano si restringeva econtorceva accentuando ancor più lastretta nei punti dove le cascate s’eranoinspessite formando delle pance.

La forra sembrava essere stata mo-dellata dal passaggio sinuoso di grossiserpenti ai tempi del Giurassico, ed in-vece chissà quante piene, quanta po-tenza d’acqua in quelle brentane chesquassavano e spazzavano via ognicosa lungo la corsa. I buchi sul ghiaccio,che con molta attenzione dribblavamo,ricordavano quelli che gli eschimesiusano fare nelle calotte glaciali dell’Ar-tico per procacciarsi del pesce o cac-ciare con gli arpioni le foche.

Davanti a noi le sembianze di una fi-gura antropomorfa, un elfo a sbarrarci lastrada: no, solo un grande tronco d’al-bero strappato alla terra, percosso, me-nato e incastratosi sfinito nella curva diquesto esofago di rocce rosse. Partedel suo corpo affogava nelle acque,parte era proprietà dei ghiacci, parte re-spirava ancora quell’ebbrezza d’aria.Scheletro ammutolito arrancava con leradici puntate come tentacoli che si di-

nord i Brent fanno una prima curva, con-statai che il pavimento di ghiaccio nonera compatto, anzi, presentava dei larghibuchi dove l’acqua gorgogliava e cor-reva come se avesse fretta di uscire daquella morsa pressante, indifferente diquei piedi che la calpestavano. Il sensodi quell’andare in direzione del Piave,verso la madre di tutte le guerre per-dute, s’intrecciava al canto delle cince apunzecchiare fra i rami, forse increduledi una stagione così mite.

«Che si fa?» domandai a Nicola. «Ri-schiamo?»

Fidandosi della mia esperienza, ma,forse più eccitato dalla curiosità e dal-l’avventura che aspettava, propose diandare e caso senza mai tornare indietroqualora fosse stato troppo pericolosoavanzare. L’imbocco era rassicurante,solo le stalattiti di ghiaccio penzolanti,appuntite e minacciose sopra le nostreteste, incutevano un certo timore. Speciea me che, imprudente, non avevo pen-sato di portare il caschetto. Le basse pa-reti erano in gran parte coperte da lastree in certi punti si presentavano con dellevere cascate di ghiaccio: colate che

Foto Vittorino Mason.

La casa nel bosco dei Brent l’ave-vano comperata non perché avevanosoldi in più da investire in una secondacasa da sfoggiare davanti ad amici e pa-renti durante grigliate e feste domenicali,ma per avere un luogo appartato dove ri-trovare un senso del vivere in pace con sestessi e in armonia con la natura. Quellequattro mura cadenti volevano ritirarle supiano piano, nel tempo, a braccia, conl’aiuto dei loro figli; fargli capire il valoredella condivisione e della fatica, far loroapprendere l’uso delle mani e gioire diqualcosa che non diventa tuo solo perché

nord come salmoni controcorrente, at-taccati alle origini. Era come se l’acquaimprigionata lottasse per ritrovare la lucee si facesse risucchiare dal sole.

Com’era diverso il posto rispetto aquando lo vidi la prima volta. Calzai iramponi e, dubbioso sulla consistenza ecopertura del ghiaccio, andai in perlu-strazione camminando lungo una cor-nice di quelle bellissime stratificazionidi Scaglia rossa e cinerea che lungo laforra si alternano sovrapposte come unasorta di sandwich al pomodoro. Unaventina di metri dal ponte, là, dove a

scendevano dall’alto a formare untutt’uno col fondo, imprigionando roccee piante, trasformandosi in grandi pro-boscidi, canne d’organo, cavolfiori gi-ganti, ali sospese in un effimero aggrap-parsi ad un appiglio di precaria resi-stenza. Tutto convergeva verso di noi inquel budello d’acqua liquida e solida cherimandava a un viaggio di Jules Verne oal più realistico e conosciuto ritorno alventre materno, in quella placenta, nel-l’embrione della vita nostra che per pochimesi ci aveva cullato nei fluidi amorosi diuna madre prima di catapultarci in unmondo in divenire.

Constatato subito che la piccozzanon era indispensabile, come neppurela corda, riponevo il di più nello zaino ecosì procedemmo con le mani libere chefotografavano infreddolite ogni angolo,porzione, prospettiva, particolare di quelcanyon magico. Procedevamo lenta-mente tastando con le punte dei ramponila consistenza della lastra e spingendo

Alpinismo goriziano - 2/2012 9

giungevano i rintocchi di mezzogiorno.Nicola riprese a raccontarmi del perchélui e suo fratello avessero voluto acqui-stare quei ruderi, di quanto significas-sero. In quel luogo appartato volevanosognare e far sognare figli, amici e vian-danti. Quella terra rappresentava il ritro-vamento di un paesaggio in cui poterspaziare con lo sguardo nel divenire diorizzonti ogni giorno diversi: albe, tra-monti, cieli, temporali, bufere, stagioni,profumo di bosco e il selvatico degli ani-mali.

In fondo acquistando quella pro-prietà aveva già reso felice il tipo chegliel’aveva venduta che, con il ricavato,aveva deciso di dare una svolta alla suavita; a cinquant’anni suonati, solo e spe-cializzato in svuotare bottiglie di vino,aveva deciso di dare un taglio all’alcoole di andare a cercare amore in Brasile,una donna che forse avrebbe saputoamarlo e dargli un senso del vivere, sep-pure lontano dalla sua terra. Nicola esuo fratello erano contenti anche soloper questo, volevano sognare lontanidalla pianura, dagli impegni gravosi dellavoro, pensare ad altro, pensare alto.

Quella casa, quelle rovine che untempo erano state sinonimo di vitagrama per molte famiglie che in autono-mia strappavano alla terra tutto ciò chesi poteva ricavarne per sopravvivere: le-gno, latte, carne, frutta, qualche cerealee ortaggio, soprattutto patate, volevanoristrutturarla pietra su pietra facendopartecipi i propri figli, renderli complici diuna ricostruzione, di una rinascita, partedi quel luogo.

Nei sogni di Nicola, che non cono-scevano limiti, c’era la visione di un agri-turismo gestito dalla sorella, laureata datempo e in cerca di occupazione. Si po-tevano così usare prodotti locali, a “chi-lometro zero”, dando lavoro alla gentedel posto. Voleva creare degli spazi perospitare famiglie con bambini disabili,fare didattica ambientale con i ragazzi,giochi e attività all’aperto. Sopra gli alberi,neanche fossimo diventati tutti degli uc-celli, vedeva casette di legno abitabili.«Come, casette sugli alberi?» obiettai.

Mi spiegò che già in molte parti delmondo ce n’erano: alcune dei veri ca-pricci per ricchi, altre pensate con la fi-nalità di far vivere alle persone un’espe-rienza davvero intima col bosco. Instal-late o costruite su alberi di particolariforme, adatti ad ospitare un piano, veni-vano alzate intaccando la pianta il menopossibile. Sospese fra i rami comegrandi nidi d’uccello, fungono da rifugiospartano nella quale sperimentare unadimensione profonda, quasi spiritualecon il silenzio, le forme, le voci, gli abi-tanti e i colori del bosco.

Nel suo intento c’era il desiderio e lavolontà di offrire a tutti quelli che nonavevano più terra per vivere e giocare,soprattutto i bambini e gli abitanti dellecittà, di poter stare lassù ad ascoltare lapioggia, il silenzio e il canto degli uc-celli, imparando il profumo del bosco eil nome delle stelle. Farli sentire comedegli aquilotti in procinto di spiccare ilvolo: dibattuti fra le paure e il richiamoforte dell’aria, della sospensione, delvolo. Nicola sognava di far volare le per-sone, staccarle dalla prigionia terrena,come se la terra non fosse più elementodi appartenenza, ma l’aria.

Il suo racconto aveva fatto ceneredella legna sul fuoco, ma la giornataaveva ancora ore di luce e, adesso chesi era asciugato per bene, potevamo an-dare a camminare ancora. Gli proposi ungiro lì attorno disegnando con l’indice ilpercorso. Non conoscevo bene la zona,ma per vecchi sentieri o attraverso il bo-sco, in qualche modo, avremmo fattocerchio.

(continua)

menavano disperati verso appigli di li-bertà. Stava lì a gelare e patire in quel-l’ombra dimenticata, attendendo unapiena che lo strappasse e portasse via.Neppure quando gli alberi perdevano lefoglie e il sole passava basso come unvolo di civetta riceveva il calore di cuisentiva grande bisogno.

In quel punto faceva davvero freddo,si sentiva e giustificava tutto quel ghiac-cio. Solo all’uscita e all’inizio, dove il te-pore del sole lo lavorava ai fianchi, ilcanyon era un’altra cosa. Pochi metri piùavanti trovammo la sorpresa; ormai fuoridel corridoio ci trovammo di fronte unostacolo ostico: uno strato di ghiaccio in-consistente anticipava le radici di un al-bero, per metà fuori dell’acqua, che fa-cevano da barriera, scudo e avviso allapozza profonda che seguiva. L’unicapossibilità per passare era quella di pren-dersi dei rischi facendo affidamento alleradici, afferrandosi con la mano e il piedesinistro e cercando tacche sulla lisciaparete di destra. Tre metri circa dove cisi poteva giocare una polmonite.

Giunti fin là, l’idea di tornare sui no-stri passi non ci passava per la mente,così decisi di andare per primo. Le puntedei ramponi s’impiantarono nel legno dauna parte e in una lista di ghiaccio dal-l’altra. Le mani potevano solo accompa-gnare lo spostamento quasi febbrile delcorpo: non c’era nulla da afferrare, strin-gere, tutto liscio scivola in basso. Lavo-rare di gambe e accompagnare l’avan-zamento con la mano destra solo d’ap-poggio, come in arrampicata.

Quando in spaccata dovetti richia-mare la tranquilla posizione del sinistro,conficcato nelle carni del tronco, per ar-rischiarlo sulla liscia curva della roccia ecaricargli tutto il peso del corpo senzapiù avere una presa sicura, lungo laschiena mi corse un brivido più gelido diquello che faceva suo quel canyon. Unbalzo, passai l’ansa di roccia, saltai al dilà, senza dubbi: il colore bianco delghiaccio, piuttosto di quello grigio dellaroccia, era una garanzia di tenuta. Tiraiun sospiro di sollievo, ormai le corsie discaglia rossa-cinerea digradavano am-morbidendosi in flessuose curve addo-mesticate dall’acqua. Il greto dell’Ardoera lì: approdo ad un’osteria sotto unapergola d’estate. Già s’intravedevano iraggi che brillavano e danzavano lungole friabilissime pareti di fronte.

Ora toccava a Nicola. Volto concen-trato, lo sguardo più vitreo di ciò che gliscarponi pestavano. Un guerriero da-vanti al nemico, nessuna possibilità disbagliare: vita o morte. Rimanere feritiera un lusso che non veniva concesso.Si alzò imitando le mie mosse.

«Stai attento, mi raccomando».Al momento del passaggio chiave,

quello più impegnativo, quando avrebbedovuto richiamare il piede sinistro versole stratificazioni di destra, le gambe co-minciarono a tremargli, ma non per ilfreddo, per la paura, per l’eccesso diacido lattico che la posizione scomodainevitabilmente gli procurava.

«Dai, vieni, il piede lì – indicandogliuna tacca curva, liscia, ma obbligata – esei fuori». Non mi guardò neppure, tantoera concentrato. Le sue gambe sembra-vano due alberelli percossi dal vento, gliocchi due siluri spenti dall’acqua e il cuoreun tamburo che andava al ritmo delleonde che scrosciavano sotto i suoi piedi.

«Dai Nicola, vie…» neppure il tempodi un ultimo incoraggiamento, le puntedei rampone sinistro cercarono terraferma, approdo in quell’angolo di roccedove i Brent si facevano insenatura,curva, punto di svolta, costringendo ilcorpo ad un atletico, se non funambo-lico, slancio. Le punte graffiarono la roc-cia rossa, sembravano artigli d’aquila suuna preda mancata, la mano sinistra sci-

Lì l’aria era tiepida, si stava bene, maNicola, inzuppato fin sotto al ginocchio,non vedeva che i ruderi della sua ca-sèra, un fuoco, il sangue del piede chetornava a circolare. L’ultimo brandellodi quella forra ghiacciata era ormai allenostre spalle, ma il corso dell’Art, sep-pure con un livello d’acqua non supe-riore ai venti centimetri, proseguiva largoe in gran parte ghiacciato.

Alla nostra sinistra una frangia di bo-sco sparigliata, a destra quella paretefranante, in precario equilibrio, destinataa scendere, farsi letto di torrente; tuttalastre, scaglie, sassi, in parte già disse-

gno mangiata dal tarlo e dai topi, dellebottiglie d’acqua minerale, qualche at-trezzo ed utensile, una motosega e altrioggetti, appartenuti ai vecchi proprie-tari, lasciati lì dov’erano sempre stati.

Uscimmo, io accesi il fuoco mentreNicola si tolse scarpone e calza e siasciugò con una maglietta di riserva. Se-duti a gambe incrociati e, laddove il soleci raggiungeva, ci gustammo il caloredelle fiamme e un buon tè caldo. A Ni-cola non ci volle molto per riacquistare lacircolazione.

A far da sottofondo alle nostre parole,dal vicino paesino di S. Antonio Tortal

Foto Vittorino Mason.

volò lungo la perpendicolare, la facciasfiorò la roccia, sbatté col caschetto soloin un punto, il piede sinistro sprofondònell’acqua, mentre il destro trovò unaprovvisoria lista di ghiaccio, sbilanciatostava per ricadere e affondare nellapozza, gli afferrai la mano destra e lo ti-rai a me con forza. «Huauu…» gridò con-tento con una smorfia di sorriso stam-pato in quella faccia sbiancata dallapaura o dal formicolio che già percepivanel piede bagnato.

Non c’era tempo da perdere, biso-gnava uscire fuori al più presto da queltunnel, ma con circospezione. Biso-gnava correre a far asciugare il piede,ma allo stesso tempo non fare passi falsie sprofondare di nuovo nell’acqua. Unavolta lasciati gli ultimi scansi rocciosi,dove le corse furibonde delle brentaneavevano disegnato arabeschi, model-lato ad anca, schiena, pancia quellemarne di rosso cinereo, fummo investitidalla luce che rimbalzava di ramo inramo dove gocce congelate non vede-vano l’ora di prendere il volo.

minati sul fondo. Sul ciglio in alto alcunialberi temerari, come sul punto di tuf-farsi, trovare in basso terra stabile.Quando passai la prima volta, lì in altoavevo visto la nidificazione di unapoiana.

Intirizzito, Nicola seguiva i miei passiche cauti cercavano il ghiaccio buono ole rocce affioranti dove andare a bal-zelli. Dopo circa un chilometro incro-ciammo la stradina che conduceva allasua proprietà. Durante l’estate lui e lasua famiglia ci avevano messo mano la-vorando di sega, forbici, falcetti ed asce,per ripulire il terreno da sterpaglie, rovi,arbusti e piante non autoctone. Girò lachiave nel lucchetto, aprì la porta chedava alla vecchia cucina, l’unica stanzaancora conservata dell’intera costru-zione, e cercò nella catasta di legna deipezzetti piccoli per accendere un fuoco.In un angolo, vicino ai resti del cami-netto, da una catena penzolava una cal-diera, la pentola con la quale un temposi faceva la polenta. Non c’era granchéin quell’interno buio: una mensola di le-

10 Alpinismo goriziano - 2/2012

stesso non solamente come sforzo pra-tico e descrittivo ma anche e soprattut-to in senso emotivo. Lo si percepiscenettamente nello svolgersi della lettura.D'altra parte non poteva che esserecosì, dopo un quarto di secolo di gite,battute, scoperte, impegni lungo questistessi sentieri in compagnia del gruppodegli Amici del Mercoledì che giusta-mente l'Autore ricorda nella dedica.

Alla meticolosità descrittiva, al grannumero di informazioni vanno aggiuntele innumerevoli fotografie e, soprattut-to, una sterminata bibliografia, punto diapprodo e di ripartenza per ulteriorifantastiche gite tra quei boschi, bru-ghiere, valli e borghi, oggi sicuramenteun po’ più vicini e meno misteriosi mainvariabilmente contornati da un alonedi selvaggia e intatta bellezza. (M.M.)

Nel giardino di casaAnnunciato un anno fa nell'occasio-

ne del primo centenario della SocietàAlpina Slovena di Gorizia-Slovenskoplaninsko druøtvo Gorica, vede ora laluce GO 3D - Il Goriziano: a piedi, in bi-cicletta e in kayak - Goriøka: peø, s ko-lesom in s kajakom, agile guida allepossibilità outdoor degli immediati din-torni della città.

Volutamente gli autori, tutti socidella SPD Gorica, si sono dati dei con-fini territoriali ristretti per far scoprire ipercorsi prossimi a Gorizia che a voltesono proprio i meno noti a molti dei loropossibili fruitori e frequentatori, proprioperché costantemente sott'occhio etroppo facilmente a portata di mano.

La guida, pur rivolgendosi a tutti ifrequentatori dell'ambiente naturale, èindirizzata principalmente alle famiglie,soprattutto per quel che riguarda la se-zione dei percorsi a piedi. 7 Itinerari dalmonte Quarin al carsico Kremenjak,passando per Sabotino, il monte deigoriziani, Økabriel, Mali Golak, anello diVitovlje e Trstelj.

Più impegno, sia fisico che tecnico,richiedono gli itinerari da percorrersi inmountain bike. Tre le proposte: Koradae Sabotino, Vodice e altopiano dellaBainsizza, Carso goriziano.

Tre sono anche le discese in kajak,i due tratti dell'Isonzo, da Salcano aPiedimonte e dal quartiere fieristico aSavogna d'Isonzo, e il Vipacco daRenœe alla confluenza nell'Isonzo.

Testo perfettamente bilingue emolto curato e preciso a compendio dicartine topografiche essenziali machiare e precise. Da notare che, in per-fetto spirito europeo, dalle carte è statoeliminato il tracciato del confine distato, vecchio arnese del passato mil-lennio, che comunque gli escursionistigoriziani di una parte e dell'altra già daun bel pezzo bellamente ignoravano.

Fin troppo curate le descrizionidelle proposte ciclistiche, arricchite daprofilo altimetrico e roadbook con lachicca delle coordinate GPS.

Ricco di foto, interamente a colori,non può né deve mancare nello scaffa-le ma meglio ancora nello zainetto onella tasca della giacca a vento dichiunque ami questa città e il suo terri-torio e desideri conoscere e scoprireanche gli angoli e gli aspetti più segretie nascosti. Anche chi crede di cono-scerlo già perfettamente avrà modo difarsi sorprendere. Se non dalla guidadal territorio sicuramente. (M.M.)

Per non perdersi nullaPuntuale, per il nono anno conse-

cutivo, è arrivato nelle edicole e nelle li-brerie UP-Annuario di alpinismo euro-peo. Formato rivista ma dalle caratteri-stiche strutturali che lo rendono ben ar-chiviabile, anche questo numero si pro-pone di fare il punto su tutto quello checoncerne arrampicata e alpinismo inEuropa nell'anno appena trascorso. Loschema è quello collaudato degli an-nuari precedenti. In apertura quattrolunghe interviste con altrettanti prota-gonisti della scena arrampicatoria eu-ropea. Si inizia con il 24enne ma già af-fermato boulderista finlandese NalleHukkataival. Per proseguire con i fran-cesi Nicolas Kalisz, che abbiamo trova-to nella salita al Salto Angel (vedi A.g.3/2011, Mille metri di emozioni), eChristophe Dumarest protagonista as-sieme a Yann Borgnet del film La voieBonatti appena premiato al Trento FilmFestival. A chiudere un mito dell'arram-picata britannica, quello schivo DaveBirkett che nel film Set in Stone (2005)

venne definito come "probabilmentel'arrampicatore trad più forte almondo".

Si passa poi alle vie, storiche enuove realizzazioni, raccontate, de-scritte, fatte rivivere attraverso le vicen-de, le foto, le parole dei protagonistiche ne hanno fatto la storia. In aperturaKarma, uno dei blocchi più ambiti diquella specie di paradiso del boulderche è la foresta di Fontainebleau. Poi il9a+ di Siurana, in Spagna, La Rambla,attrezzata nel 1994 da Alex Huber.

Tre sono i luoghi e le vie scelte perl'Italia: Oceano irrazionale al Precipiziodegli Asteroidi, mitica via in Val diMello; la Via dei Fachiri a Cima Scotoni,capolavoro di Enzo Cozzolino e FlavioGhio dei quali l'autrice dell'articoloOrietta Bonaldo traccia un bel ritratto;Hotel Supramonte nelle Gole diGorroppu in Sardegna raccontata daMaurizio Oviglia, uno dei primi salitori eanima della redazione di UP.

A chiudere questa parte Orbayn viaaperta nel 2009 dai fratelli Iker e EnekoPou sul Naranjo de Bulnes, nei Picos deEuropa, Pirenei.

Il numero è completato dalle agen-de delle realizzazioni del 2011, giornoper giorno, nelle varie specialità: alpini-smo e ghiaccio, falesia, bouldering.

Infine una corposa serie di relazionie proposte divise tra Italia ed Europa divie lunghe, ghiaccio e misto.

Da leggere e archiviare. (M.M.)

Storie del Mondo di Sotto / 2

Con puntualità rara tra gli scrittori dicose alpine, Dario Marini de Canedoloregala la seconda e ultima parte del suo“Le Grotte del Carso Triestino”, velocecommentario di un archivio tecnico. Larecensione del primo volume si trova inA.G. 2/2011, e a questa rimando tutto-ra; seguo e partecipo con piacere aquesta rubrica del giornale per cui mipiace spiegare adesso come mai “allaprima”, benché richiesto, mi sia esenta-to da un compito per altro degnamenteassolto da altri. Presentare un libro sot-tintende “comprenderlo”, ed esistonotesti inafferrabili e libri che non è quasinecessario leggere, di cui basta laprima impressione conseguente alla

Orizzonti viciniDopo il Monte Nanos e La Selva di

Tarnova Ettore Tomasi chiude la trilogiacarsica montana con Ciceria e MonteMaggiore-L'Istria Bianca dalla Carsia alQuarnero. Se i primi due volumi descri-vevano zone ben note e molto frequen-tate, anche se l'Autore non mancava discovare e proporre angoli nascosti e iti-nerari inusuali, con questo nuovo lavo-ro veniamo condotti lungo tracce, so-prattutto quando si entra nella Ciceria,assai meno battute e, ai più anche dallenostre parti, sconosciute.

Ci aveva già provato più di vent'an-ni fa Tomasi, forte già allora di una fre-quentazione assidua del territorio, asvelare la traversata dal Taiano(Slavnik) al Monte Maggiore (Uœka)lungo il sentiero alpinistico istriano(Istarski Planinarski Put) anche agliescursionisti italiani, con una piccola,essenziale, tascabile guida edita daTamari. La traversata allora era com-pletamente e comodamente percorribi-le svolgendosi interamente entro i con-fini di un unico stato, la Jugoslavia.Passarono solamente un paio d'anni el'indipendenza di Slovenia e Croaziaprodusse un confine che ne impediva ene impedisce tuttora la percorrenza ori-ginale. Egualmente però quel librino ciaiutò e ci spinse a cercare orizzontitanto vicini quanto nuovi, poco o nienteaffatto conosciuti.

Adesso Tomasi è ritornato sulluogo del "misfatto" e attorno a quellasingola traccia ha scovato, percorso,descritto una ragnatela di sentieri che,muovendosi dalle porte di Trieste,Monte Carso e Val Rosandra, ci portaattraverso quella dorsale che chiudel'Istria, fino all'Uœka e al fiordo diPlomin (Fianona). Territorio ancora mi-sterioso e selvaggio, di una bellezzad'altri tempi, primordiale, intatta, dallebrughiere della Æbevnica alle foreste difaggi e castagni dell'Uœka, con i sensi ei sentimenti costantemente contesi trale vastità continentali dell'est e la dol-cezza e i profumi dell'Adriatico, a sud,sempre visibile dalle cime più alte o,comunque, in qualche maniera presen-te. Tomasi, curioso e puntigliosocom'è, raccoglie e trasmette le innume-revoli ricchezze e particolarità che simanifestano lungo gli itinerari proposti,dalla varietà floristica alla notevole bio-diversità, fenomeni geologici, uno sututti la "Valle delle Meraviglie", alle te-stimonianze artistiche e storiche, al gla-golitico, l'alfabeto paleosavo introdottodai santi Cirillo e Metodio prima dell'an-no mille e del quale sono rilevabili ora-mai rare tracce.

Volume denso e corposo nel qualel'autore forse ha dato il meglio di se

Novità in libreria

Dal Carso all’Antartidedi GIORGIO CAPORAL, PAOLO GEOTTI, MARKO MOSETTI

Alpinismo goriziano - 2/2012 11

Ettore Tomasi - CCIICCEERRIIAA EE MMOONNTTEEMMAAGGGGIIOORREE -- LL''IIssttrriiaa BBiiaannccaa ddaallllaaCCaarrssiiaa aall QQuuaarrnneerroo--IIttiinneerraarrii,, nnaattuurraa eessttoorriiaa ttrraa ii MMoonnttii ddeellllaa VVeennaa ee ii MMoonnttiiCCaallddiieerraa - ed. Transalpina - pag. 327 - €27,00.

AA.VV. - GGOO 33DD -- GGoorriiøøkkaa:: ppeeøø,, ss kkoollee--ssoomm iinn ss kkaajjaakkoomm -- IIll GGoorriizziiaannoo:: aa ppiieeddii,,iinn bbiicciicclleettttaa ee iinn kkaajjaakk - ed. Transmedia- pag. 117 - € 15,00.

AA.VV. - UUPP--AAnnnnuuaarriioo ddii aallppiinniissmmoo eeuurroo--ppeeoo - ed. Versante sud - pag. 150 - €13,50.

Dario Marini de Conedolo - LLEE GGRROOTTTTEEDDEELL CCAARRSSOO TTRRIIEESSTTIINNOO -- DDaallllaa pprreeiissttoo--rriiaa aaii ggiioorrnnii nnoossttrrii - Volume secondo -ed. Gruppo Speleologico Flondar - pag.182 - Sip.

Marcello Manzoni - ZZIINNGGAARRII IINN AANNTTAARR--TTIIDDEE - ed. Alpine Studio – pag. 226 - €14,00.

Fulvio Scotto - SSCCAARRAASSOONN - ed.Versante sud - pag. 343 - XVI tavole difoto - € 19,00.

sono pochi. Congratulandosi per que-sto, ci si sappia anche regolare, cercan-do del Gruppo Speleologico Flondar, alVillaggio del Pescatore (TS). (G.C.)

Due diari e una tendinaCon la pubblicazione dell'opera

Zingari in Antartide, Marcello Manzoniha il grande merito di aver raccontato,

“sensibilità del contesto”, condizioneche in Marini è sempre molto alta e pre-gnante. Solo in seconda battuta siguarda alla tessitura, tanto per capiredove si va a parare, e poi riferirne:poco lavoro quindi, e pure non ero ingrado di arrivarvi, non riuscivo a “mol-lare”! Le “Grotte triestine/1” mi prese-ro la mano in una lettura disorganica,frammentaria ed estenuante, un glo-rioso inanellamento di esplorazionispaziali e mentali solo agganciate alconcreto di una “progressione in grot-ta” scandita nell’ Archivio. Non ne usci-vo più, incapace di mollare le pagine,preso nel labirinto della lettura, e maga-ri all’uscita della grotta “ennesima”l’autore mi chiamava a contemplare unalbero, ma molto speciale, che mi pare-va di conoscere. La traccia mentale delmio commento si dissolse prima chepotessi fissarla, impossibile in questoimbroglio metter giù due righe nei“tempi” del giornale, impossibile ogniconfronto con l’originale, l’Archiviomentale dell’autore, già “DuemilaGrotte”, ex Catasto della C.G.E.Boegan, ora Archivio Regionale e fi-nalmente disponibile in “rete”. Secondolibro dunque dove l’Archivio si allungama poi termina, e posso scappare dallepagine per riferire, per confrontare.Dico subito che allo scopo sarebbe me-glio recuperare le parole di presenta-zione di Don Giorgio Giannini, paroleche assieme ad altri amici ho potutoascoltare al Villaggio del Pescatore il 28aprile scorso; ho visto i foglietti e certecose non vanno buttate. Credo solo didover sottolineare quanto sia stata vin-cente l’idea di togliere ad un elenco diqualche interesse la polvere degli annie di rinfrescarne l’aria nel rinnovo del ri-cordo, metodo con cui ogni singolo“numero VG”, in qualunque modo “vis-suto”, può essere ricollegato all’univer-so mondo - inteso come combinazionespaziotemporale. Situazione (spazio-tempo) che, per il solo fatto di esser ac-caduta a qualcuno, continua per lui edin lui ad esistere. Siamo ciò che siamostati, siamo in ogni momento i nostri in-contri, dalla nascita alla … scopertadella personale “Grotta Impossibile”,ovunque sia. Questo modo di procede-re, di raccontarsi, non è da tutti e nonraggiunge tutti; incappa nell’irrazionale,in pericolose evocazioni e, girando pa-gina, è necessario a volte proteggersi econservare l’aplomb del ragno nelvuoto, il filo d’Arianna, la luce a carbu-ro. Quante storie! ho avuto fortuna quae là, vivendo in parallelo alla paginaun’irrecuperabile osteria di Grozzana, iltavolo in fondo, il mezzo litro regalato alterzetto canoro, e insieme chi ce lo pa-gava, con le lacrime in tasca, “perchécusì starè un poco ziti”. Oh, poveraRosetaaa! Storie dell’altro mondo, nel-l’altro secolo, quello in cui i treni arriva-no in orario e la monocorda un sogno.

Dicevo che, in letteratura, la facoltàdi far ciò è rara: il socio Dario Marini,“profugo triestino”, già nel 2007 ha ac-quisito la dignità di scrittore “GISM”anche per intervento autorevole dellaSezione che ora gli augura di mantene-re a lungo il punto. Ognuno di noi lasciaun labile segno, non sempre sulla carta,non solo sulla roccia: ognuno di noisente in sé quanto quel segno sia meri-tato. E poco male se uno scrittore“perde la cappa” o la voglia (tra l’altrotra noi e non è mai successo). Lungavita felice auguro quindi amichevol-mente anch’io, ma solo perché sono uninsaziabile lettore di storie ... dell’altromondo. Come per molte cose utili manon necessarie, (l’archivio tecnico, l’as-sociazionismo) i libri sulle grotte esisto-no in funzione del contributo pubblicoche li sostiene, sono distribuiti gratis e

ora sono sparsi sull'immensa calottadel sud della terra. E a quelle cime dainomi di dei dell'Olimpo dei greci, E.Lettra, Dido, Aeolus, Hercules e a quel-le con i nomi degli eroi nordici Thor,Odin, Bald. In mezzo alle due catenemontuose il monte St:Paulus alto oltre2450 m., il più alto dei dintorni, scalatoper la prima volta da ambedue i prota-gonisti alla mezzanotte del 17 dicem-bre 1968.

E sempre il freddo, glaciale e as-soluto e la nebbia della bufera antarti-ca, con la neve che non è quella soffi-ce e calma delle nostre latitudini, mache scende con raffiche orizzontali diun vento cosmico trasformata in aghi epolvere di ghiaccio. Anche il sole,certo, ma blando sollievo solo per lospirito di uomini coraggiosi, peraltro in-differente all'alternarsi di giorno enotte, muto testimone delle vicissitudi-ni dei viventi.

Le lunghe ore passate in tenda,stretti nei piumini a scaldarsi una mine-strina, hanno poi concesso un'esplora-zione anche delle rispettive intimità,stampando ricordi indelebili nel cervel-lo e nel cuore. Marcello poi in partico-lare ha potuto partecipare ai pensieri eai ricordi di Ignazio Piussi, quel gran-dissimo alpinista che purtroppo ci halasciati tre anni fa ed il cui ricordo restaimperituro in coloro che lo hanno co-nosciuto. (P.C.)

Fulvio Scotto, alpinista savonese,membro dell'Accademico, del GISM edell'Alpine Club britannico, forte deltrentennale legame con questa parete,è l'autore della quarta salita nel 1982 edi due vie nuove nel 1987 e nel 2011, leha dedicato una avvincente monografiastorico-alpinistica, Scarason.

In oltre 300 pagine ne ripercorre levicende e quelle dei suoi protagonisti,dai primi tentativi, nel 1956, fino ai gior-ni nostri, proprio con la sua prima dellavia La tana del Drago nel luglio 2011.

Pur trattando di una parete semi-sconosciuta, lontana dalle luci e dall'at-tenzione mediatica del grande alpini-smo, di quelle cime e di quelle vie sullabocca di tutti, riesce con una scritturacoinvolgente e dando spesso la parolaai vari protagonisti delle salite e dei ten-tativi, pochi nomi per tutti oltre al già ci-tato Gogna, Gianni Comino, MarcoBernardi, Stephane Benoist, YannickGraziani, Patrick Bérhault, PatrickGabarrou, Philippe Magnin, a far parte-cipare il lettore alle emozioni degli alpi-nisti.

Forse non entrerà nella storia delgrande alpinismo lo Scarason maegualmente questo racconto non hanulla da invidiare a vicende e avventurevissute e raccontate su cime e paretipiù celebri. Le emozioni sono fortiegualmente, con in più il bonus dellavera esplorazione, con l’isolamento e lasensazione, ancora oggi, di essere deiveri pionieri. (M.M.)

IInn AAnnttaarrttiiddee:: ttrraa mmaarree ee mmoonnttii ((ffoottoo:: PPaaoolloo VVaalleenntt))..

in modo puntuale e coinvolgente, unafulgida impresa esplorativa ed alpini-stica di oltre quarant'anni fa, propo-nendoci la cronaca della loro, di lui e diIgnazio Piussi e nostra del Club AlpinoItaliano, impresa tra i ghiacci del pode-roso continente antartico.

Un'avventura che, percorrendoluoghi ancora sconosciuti e salendocime inaccesse, appassiona oltremodoil lettore proprio per il racconto di taliluoghi nuovi, dei panorami di assolutapurezza, diversi e stupefacenti quantoimmobili sin dalle prime origini delmondo.

La catena Transantartica percorsadai due componenti della spedizioneCAI-CNR a cavallo degli anni 1968/69,pur nella problematicità del clima enelle difficoltà incontrate, tra crepaccie scivoli gelati, sfasciumi rocciosi epiatte distese vallive, ha mostrato loroaspetti di straordinario interesse scien-tifico e alpinistico. Basti pensare allaforesta pietrificata riconosciuta daiblocchi di roccia che una volta eranoalberi, cresciuti lungo un fiume e che

Forti emozioniScarason, un nome che ai più dice

poco o nulla. Solamente a qualche in-guaribile lettore di cose alpine farà tor-nare alla mente un adrenalinico capito-lo di Un alpinismo di ricerca (Dall'Oglio,1975) fondamentale opera diAlessandro Gogna, lettura quasi obbli-gata in quegli anni. Il fatto è che loScarason è una cima delle AlpiMarittime di quota relativamente mode-sta, 2352 metri, senza particolari attrat-tive se non nel fatto che la sua paretenord, nel 1967 risultava, caso più unicoche raro sulle Alpi, ancora inviolata. Atutt'oggi il numero delle salite non arri-va a trenta. Ascensioni che per controhanno visto protagonisti, negli anni, imigliori interpreti dell'arrampicata suroccia delle Alpi occidentali con i piùbei nomi dell'alpinismo francese, nono-stante che, o forse proprio per questo,la fama della parete sia fatta oltre cheda difficoltà tecniche elevate e continueda roccia non sana e passaggi da brivi-do su muri d'erba verticali.

12 Alpinismo goriziano - 2/2012

Lettera ai Soci

Cultura, chi è costei?di MAURIZIO QUAGLIA

Un ricordo

L a tradizione popolare fa di noiitaliani un popoli di poeti, santi enavigatori. La frase esatta chedescrive il popolo italiano è stata

scolpita sul palazzo dell’EUR a Roma edice così: “Un popolo di poeti, di arti-sti, di eroi, di santi, di pensatori, discienziati, di navigatori, di trasmiga-tori”. Questo nel 1935. Nel XXI secolosicuramente i tempi son cambiati e la-scio a voi modificare le parole.

Probabilmente facendo il gioco diabbinare ad ogni singola parola dellafrase soprascritta altri “mestieri” piùmoderni, non so se poi alla fine farem-mo una bella figura. In questa frase amio avviso si evince che una volta simangiava “pane e cultura”. Quantoscritto non è da intendere come se ilpassato fosse un “Eldorado” da con-trapporre al presente, piuttosto lo siconsideri uno spunto dal quale trarrealcune conclusioni sull’attualità, so-prattutto sezionale. Vi domanderete:perché un inizio così?

Diciamo subito che queste righe lescrivo all’indomani di una serata cul-turale con una presenza di soci al disotto delle aspettative. Purtroppo lascarsa affluenza alle serate culturali èuna costante che fa riflettere il consi-glio direttivo. In effetti la scelta delmercoledì come giornata dedicata allapresentazione dei video, libri e confe-renze forse è stata infausta, in quantodobbiamo contrastare il calcio, le garealla ricerca del prossimo talento dellatelevisione e varie ed eventuali.Sicuramente di motivazioni i nostrisoci ne hanno, come si diceva unavolta con termine arcano, “a bizzeffe”,ma vorrei che comprendiate che il la-voro del Consiglio direttivo non è soloorganizzare i corsi, le gite, ma, anchee soprattutto, per una sezione come lanostra storicamente propensa dasempre ad implementare la sua atti-vità a livello culturale, che ha pubbli-cato libri e vi porta a casa questo gior-

nale, apprezzato anche al di fuoridella sezione stessa, accrescere laconoscenza dell’ambiente montanodal punto di vista “culturale”. Si discu-te su che cos’è la cultura in sensolato; essendo anch’io un “navigatoretelematico”, sui tanti forum che si tro-vano in internet ho trovato questa de-finizione che mi è piaciuta: la cultura èuna valigia che ci portiamo dietro nelviaggio della vita, che in teoria do-vrebbe sempre aumentare di nuovaconoscenza e non impoverirsi.

Ecco, e qui chiudo la mia arringain difesa delle serate culturali, mi sem-bra che sia passata la ”curiosità” disapere, di vedere e, perché no, di so-gnare nel guardare, nell’ascoltare ciòche il relatore di turno racconta conl’entusiasmo di chi ha vissuto un’e-sperienza fantastica e qualche voltainvidiata. Persone come Beltrame, Ivee la signora Metzeltin hanno racconta-to e le persone presenti di certo non sisono impoverite.

Riferendomi poi al Consiglio diret-tivo, alla frase storica di cui sopra ag-giungerei la parola “entusiasti”: entu-siasti in quanto lavoriamo per dare aisoci il meglio che la sezione può offri-re, soprattutto in questo momento diristrettezze economiche che ci sononella vita reale, dal punto di vista siasportivo sia culturale. Gli sforzi che ilConsiglio direttivo sta facendo, nonmi sto riferendo soltanto all’organiz-zazione ma anche all’impegno econo-mico, meriterebbero una miglior ri-sposta da parte dei soci, nell’avvici-narsi maggiormente alla sezione fre-quentando al mercoledì, al giovedì edanche partecipando alle varie attivitàche si dipanano durante l’anno e nonmi riferisco solo alle gite sociali.Questa mia lettera, forse sembraun’accusa ai soci, ma non lo è; è soloun accorato invito in più a partecipa-re……

AAllppiinniissmmoo ggoorriizziiaannooEEddiittoorree:: Club Alpino Italiano, Sezione diGorizia, Via Rossini 13, 34170 Gorizia.Fax: 0481.82505Cod. fisc.: 80000410318 - P. IVA 00339680316E-mail: [email protected]

DDiirreettttoorree RReessppoonnssaabbiillee:: Fulvio Mosetti.

SSeerrvviizzii ffoottooggrraaffiiccii:: Carlo Tavagnutti - GISM.

SSttaammppaa:: Grafica Goriziana - Gorizia 2012.

Autorizzazione del Tribunale di Gorizia n. 102 del 24-2-1975.

LLAA RRIIPPRROODDUUZZIIOONNEE DDII QQUUAALLSSIIAASSII AARRTTIICCOOLLOO ÈÈ CCOONN--SSEENNTTIITTAA,, SSEENNZZAA NNEECCEESSSSIITTÀÀ DDII AAUUTTOORRIIZZZZAAZZIIOONNEE,,CCIITTAANNDDOO LL’’AAUUTTOORREE EE LLAA RRIIVVIISSTTAA..

VVIIEETTAATTAA LLAA RRIIPPRROODDUUZZIIOONNEE DDEELLLLEE IIMMMMAAGGIINNII SSEENNZZAALL’’AAUUTTOORRIIZZZZAAZZIIOONNEE DDEELLLL’’AAUUTTOORREE..

U n anno è già trascorso daquell’infausto 26 giugno 2011in cui mio cugino David, tra-dito da quella montagna che

amava tanto, perdeva il dono preziosodella vita nella zona del Vallone di Rio-bianco e del Sentiero del Centenario.Tra quelle Alpi Giulie da lui percorse inlungo e in largo, o meglio dal basso inalto, prediligendo le cime italiane aquelle della vicina Slovenia. Insiemeeravamo stati sul Prisojnik, facendola ferrata dell’Okno, e la possentemontagna che domina il passo delVrøiœ era stata una delle poche ascen-sioni da lui fatte nella vicina repub-blica. Insieme anche sul Mangart, sulCanin, sullo Jôf Fuart, lui sempre conla macchina fotografica e addossoquei pantaloncini da ciclista rosashocking e gli inseparabili Ray Ban agoccia con foro centrale che oramaiportavano solo lui e Antonello Ven-ditti. L’alpinismo era parte integrantedella sua vita, una passione coltivatada sempre con grande impegno e de-dizione, con scrupolo e con sicurezzadei propri mezzi, una sicurezza fortifi-cata in anni di arrampicate e vie fer-rate, sin dal servizio militare negli Al-pini. Giulie sì, ma anche Dolomiti, Ci-vetta, Mesules, Tomaselli, sempre congrande ardore e scioltezza. E il sa-pere, quella domenica sera, che la di-sgrazia era avvenuta non tra spigoli diroccia e vie strapiombanti ma su unsemplice sentiero di avvicinamento,ha reso la perdita ancora più stra-ziante. Anche perché significava per-dere una persona dall’animo sereno,un amico pronto sempre al servizio,un padre e un marito che sicuramenteGiovanni, Anna, Pietro ed Alessandraadoravano proprio per questi suoi va-lori di onestà e impegno. Così cometutte le persone che l’avevano cono-

sciuto sui sentieri di montagna e suquelli della vita, partendo dall’asso-ciazionismo giovanile, che tanta parteavrebbe avuto nella sua e nella miaformazione, i compagni di scuola,tutta la comunità di S. Ignazio di cui dalunghi anni era membro al servizio ditutti, stimato e rispettato. E se noiamici dei campi estivi ci siamo ritrovatiquasi trent’anni dopo, questo è meritodi David che, anche da lassù, ci parlae ci guida chiedendoci di continuareancora, per lui ed assieme a lui,quanto condiviso e maturato nelpezzo di strada percorso fianco afianco.

Ai concerti o quando sento“Signore delle Cime” il groppo in golami viene sempre: il giorno del funera-le di David non c’era fazzoletto chetenesse le mie lacrime. Perché non sitrattava più solo di una vibrante can-zone di montagna: avevamo davverotutti perso un nostro amico, un no-stro fratello.

Stefano Cassani

Mercoledi 28 marzo 2012 - In apertura della serata dedicata alla proiezionedel filmato Ritorno in Antartide realizzato da Paolo Valent, con una berve cerimo-nia il Sindaco Ettore Romoli ha consegnato al nostro socio una targa commemo-rativa donata dal Comune che recita: A Paolo Valent per aver portato il nome dellacittà di Gorizia agli estremi confini del mondo.