Aiyanar, il Signore, di Giancarlo Mauri

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Giancarlo Mauri SCRITTI SULL’INDIA MONOGRAFIE DI GCM

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Giancarlo Mauri

SCRITTI

SULL’INDIA

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© 2013 MONOGRAFIE DI GCM

In copertina: Trikona.

ALTRE PUBBLICAZIONI DELL’AUTORE

1976 : Escursioni nelle Grigne Tamari Editori in Bologna 1980 : Escursioni nelle Grigne. II ediz. Ampliata Tamari Editori in Bologna 1983 : Il Sistema Operativo Unix Dataconsyst, Segrate 1985 : Il Sistema Operativo Unix e la Sicurezza Bancaria - Dataconsyst, Segrate 1988 : Le Grigne. I sentieri e l’Alta Via Tamari Editori, Padova

MONOGRAFIE DI GCM

2003 : La vita è un pellegrinaggio 2004 : I cammini di Santiago 2004 : Scritti di montagna 2004 : Val Codera 2004 : Yoginī (riedizioni : 2007, 2008, 2013) 2005 : Kinner Kailasa parikrama 2005 : Arrampicare ai Corni 2006 : India_2006 (riedizione : 2013) 2007 : India viva (tre ristampe) 2007 : La guerra Italo-Austriaca 1915-1918 2008 : Monte Priaforà e Monte Novegno 2012 : La Valsássina di Leonardo 2012 : S’io fossi stato fermo alla spelunca. Niccolò Stenone 2013 : Jicà 2013 : Scritti sull’India 2013 : India_2000

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13.2

Bruce Chatwin era venuto in Sudafrica per incontrare Bob (Robert) Brain, paleontologo, dopo averne letto il libro The Hunters or the Hunted? […] l’ormai classica opera di Brain sul modo di vivere dei nostri più lontani antenati, derivata da quindici anni di scavi nella caverna di Swartkrans, nei pressi di Johannesburg. In base all’esame delle ossa fossili Brain aveva ipotizzato che i primi uomini non fossero dei selvaggi cannibali come generalmente si ritiene, ma la preda preferita di uno dei grandi felini con cui dividevano le vaste praterie africane. Attorno a 1.200.000 anni prima di Cristo, quando l’homo erectus aveva cominciato ad avere la meglio sul suo predatore, il dinofelis o tigre dai denti a sciabola, le parti si erano invertite. Che cosa aveva messo l’uomo in posizione di superiorità? «Tutto si collega alla padronanza del fuoco» dichiara Brain. […] Bruce si valse delle scoperte di Brain per suffragare la sua convinzione che l’essere umano «non è poi così cattivo» e che l’istinto rapace non è insito nella sua natura. Se quel grande felino dotato di zanne faceva stragi tra i nostri antenati, allora in origine l’uomo non era necessariamente aggressivo. Viveva nella paura sapendo che il dinofelis era in agguato nel buio. Bruce - che chiamava quel felino «Il Principe delle Tenebre» - divertiva il paleontologo. Nelle parole di Brain: «Sentiva il “Principe delle Tenebre” come una necessità psicologica. Secondo lui eravamo vissuti così a lungo nelle vicinanze di minacciosi predatori notturni che essi sono diventati parte della nostra struttura mentale. Quando questi animali non sono più stati fisicamente presenti, noi abbiamo inventato i draghi e gli eroi che andavano a combatterli». Per Chatwin, ad esempio, il san Giorgio che trafigge il drago nel dipinto di Paolo Uccello era l’illustrazione di un fatto realmente avvenuto.

Nicholas SHAKESPEARE Bruce Chatwin

Baldini&Castoldi 1999, pp. 19-21

AIYANAR, IL SIGNORE

Dal 1968 il nome Tamil Nadu1 indica la parte dell’ex Presidenza britannica di Madras2 dove si parla il tamil, la lingua dravidica3 supportata da una letteratura così antica da perdersi nella leggenda.4 Col passare dei secoli questa regione ha sviluppato una delle più originali civiltà dell’India, tramandataci sia dalla letteratura del shangam, sia dai costruttori dei suoi celeberrimi santuari, autentiche città nella città. Ed è soprattutto in queste costruzioni che ancor oggi si intravede la forza dei Dravida, in netto contrasto con le culture sviluppatesi nell’area gangetica, più profondamente segnate dalle migrazioni straniere e dall’Islam. Nel tardo periodo del shangam era consuetudine che dotti e “santi” uomini si recassero periodicamente nei villaggi per divulgare il pensiero dei poeti e dei filosofi, gettando le basi di una vasta cultura popolare - e sarà questa ricchezza a permettere al popolo tamil di mantenere una sua compatta identità di fronte ai successivi tentativi di invasione ideologica, riuscendo a tutelare i propri valori originari.

1 Letteralmente: Paese tamil. 2 La città è ora chiamata Chennai. 3 Il termine “dravidico” deriva da Dravida, il nome di un popolo di probabile origine

mediterranea giunto in India 12.000 anni orsono. In seguito, da Dravida derivò il termine moderno Tamil o Tamul.

4 Aggiunge Alvaro Enterría [in] L’India. Una guida culturale per il viaggiatore, Ibis edizioni 2011, p. 437: «Il tamil, la lingua del Tamil Nadu, è l’unica, a parte il sanscrito, la cui letteratura è molto antica. È una letteratura ricca e ha circa duecento autori classici in un periodo di venti secoli. Nei primi secoli, prima e dopo l’era cristiana, si sviluppò la letteratura chiamata del śangam. La grammatica Tolkappiyam, il libro di precetti Tirukkural, l’epica Shilappadikaram costituiscono i principi di una letteratura di alto livello, che continuerà poi con la prima poesia devozionale dell’India.»

Il termine shangam (“scuola poetica”) identifica la mitica fucina di letteratura storica, religiosa e scientifica che la tradizione orale vuole sia stata fondata nell’anno 9999 a.e.c. per concludersi nel 50 e.c.

LA SEPARAZIONE DELLE CASTE. Il sistema vedico di separare gli umani in quattro caste e in miriadi di sottocaste ha influenzato anche l’India meridionale.1 I suoi numerosi villaggi sono ancor oggi essenzialmente abitati dai vellalar,2 la principale sottocasta contadina, mentre sono rari i brahmana,3 gli appartenenti alla casta sacerdotale. Il terzo posto4 è occupato dalla casta degli artigiani, rappresentati da fabbri, carpentieri, falegnami, tessitori e vasai. Molto più in basso, ormai dalit (fuoricasta), si trovano gli addetti ai lavori impuri, quali i barbieri, i toddy-tappers5 e le lavandaie. A raschiare il fondo del pentolone della gerarchia sociale vi sono gli adi-dravida, l’epiteto dato agli infimi, gli intoccabili, gente destinata a lavorare per poche rupìe alla costruzione e al mantenimento delle strade, aiutare i contadini nel periodo del raccolto, pulire i rigagnoli del liquame organico oppure tingere il pellame. In pratica, una forma di schiavitù legalizzata. In tempi recenti, nel rigido sistema delle caste ha avuto inizio un graduale collasso, grazie ai sempre più frequenti matrimoni misti, alle cariche istituzionali in campo politico e all’uso di partecipare a cerimonie di culto collettivo dedicate ai devata, nome generico che include la miriade di genius loci preposti alla tutela delle case, dei campi e del bestiame. Il tabù della contaminazione resta invece ben vivo all’interno del culto ortodosso, dove ancor oggi i brahmana richiedono forti somme di denaro per accettare i dalit nei loro templi, dichiarando che dopo il loro passaggio sono necessari speciali riti di riconsacrazione, il cui esoso costo è ovviamente a carico del “contaminatore”. Tradotto in linguaggio politicamente scorretto, dunque non ipocrita, la realtà si traduce così: è ben noto che la casta sacerdotale, detentrice della purezza razziale hindu, non vuole avere a che fare con i poveri - che essendo tali mai lasceranno ricche donazioni o conferiranno privilegi esentasse. Ma se il dalit “ha fatto carriera” nell’industria o nel commercio - meglio ancora: in politica o nell’Amministrazione, grazie alle laiche leggi statali - e quindi può permettersi di pagare la “riconsacrazione” del tempio, ben vengano i suoi soldi. Pecunia non olent si dice abbia detto l’inventore dei vespasiani. Un esempio per tutti è lo scritto di M. G. Radhakrishnan per India Today del 2 ottobre 2000:

1 Per approfondimenti, si veda Le Leggi di Manu, a cura di Wendy Doniger con la collaborazione

di Brian K. Smith, Adelphi edizioni 1996. 2 Tribù dravidica che prende il nome dai Vel, capi locali ridotti allo stato di vassallaggio da

Karikala Chola (II secolo). Tutti agricoltori, costituiscono un gruppo sociale ben definito, imparentato con quelli dei Kallar e dei Palli.

3 Brahmino, in hindi: il sacerdote sacrificatore. 4 Il secondo è occupato dai ksatriya, i re-guerrieri (che in origine erano al primo, poi usurpato

dal clero). 5 Gli incaricati della preparazione del vino di palma.

Temple Tattle Was it religion or caste that led to a purification rite after a wedding?

It’s a wedding that has generated much heat. Shortly after Ravikrishnan, son of Congress MP Vayalar Ravi, was married in a ceremony at the Guruvayoor Temple last fortnight, the thantri (temple head priest) ordered a puniaham (purification rite) and directed a relative of the bride to pay Rs 1,500 towards the cost. Ravi, a former Kerala Pradesh Congress Committee president and an Ezhava (OBC) by caste, has now decided move court against what he thinks is the temple authorities’ attempt to bring back untouchability in the temple. Other organisations have joined the clamour. The Kerala Dalit Panthers described the purification rites as an attempt to bring back ‘Brahmin hegemony’. Even the Vishwa Hindu Parishad has questioned the thantri’s decision, with Organising Secretary Kummanam Rajasekharan calling for a probe, ‘the purification rites were unwarranted’, he says. But the thantri, 71-year-old Chennas Divakaran Namboodiri, says he ordered the purification because he was not sure if Ravi’s son was a Hindu. Ravi’s wife Mercy is a Christian. Temple rules forbid non-Hindus from entering its precincts and even singer Yesudas was denied entry some years ago. Namboodiri justified his action saying, ‘if the son of Ravi and Mercy is a Hindu there is no restriction on his entering the temple. But the onus of proving that his son is a Hindu lies with Ravi’. This statement has further angered Ravi, ‘all his records show my son is a Hindu. The thantri has asked for the puniaham not because my son is a non-Hindu but because he is a backward-caste Hindu’, says Ravi. The Sree Narayan Dharma Pariapala Yogam, the powerful organisation of the Ezhavas, has lambasted the Left Democratic Front (LDF) Government in the state for having allowed such a ‘regressive custom’ to continue in the temple. The temple’s board has nominees from all parties in the LDF. The incident has also brought considerable embarrassment to the Janata Dal, which claims to be the votary of backward castes. Temple Administrative Committee Chairman M. Venugopala Kurup, a Janata Dal nominee, expressed helplessness saying that by law the thantri has the final say in all matters related to rituals and customs to be followed in the temple.

GRAMADEVATA, LE DÈE DI VILLAGGIO. Col termine gramadevata si identificano le divinità tutelari tipiche di ogni villaggio,1 il cui culto, risalente al periodo predravidico, è certamente una delle più antiche forme di religiosità dell’India. Divinità di rango inferiore, le gramadevata rappresentano la realtà della vita di un villaggio contadino, lontana dai grandi avvenimenti storici e pertanto mai connesse con le grandi forze cosmiche ma unicamente con gli avvenimenti legati

1 Genius loci di “quel” villaggio; ma anche di “quella” casa, di “quella” famiglia, di “quella”

persona.

alla sopravvivenza umana, quali l’esito di un raccolto o le epidemie, sia umane sia del bestiame. Genericamente collegate alle Dee Madri, le gramadevata sono presenti in tutte le comunità rurali dell’India, soprattutto in quelle del meridione, dove si ritiene che esse siano felicemente installate sulle bocche di ogni vaso, brocca e giara - i classici recipienti collegabili al vaso generativo femminile1 - nonché intorno ad ogni vasca d’acqua. Se all’interno delle abitazioni le gramadevata sono facilmente localizzabili in ogni contenitore, all’esterno la presenza del loro culto si rivela sotto forme diverse. A volte questo può essere rivelato da una semplice piattaforma all’ombra degli alberi, oppure da una lastra di pietra con incisa una figura femminile in parte stilizzata, più sovente dalla raffigurazione della yoni, l’organo genitale femminile, simbolo dell’energia (shakti) procreativa divina.2 Per queste divinità sono costruiti dei piccoli templi a ridosso degli alberi, in modo che possano facilmente nascondersi nel tronco all’avvicinarsi di ogni essere umano. Periodicamente, gli abitanti del villaggio sacrificano loro del bestiame domestico quali capre, pollame e bufali.3 Il sangue delle vittime è poi sparso - puro o misto a riso - sopra ogni linea di confine, quali le strade periferiche del villaggio o gli stipiti delle porte della casa o della stalla.4 Infine, la stretta connessione delle divinità femminili con i liquidi fa sì che al loro culto aderiscano anche le comunità che trovano sostentamento nelle acque, quali i pescatori (mina) e i barcaioli.

1 In particolar modo nell’argha (l’orlo esterno della yoni), la coppa o il cerchio su cui si erge

l’itifallico lingam. 2 Il disegno più classico è il trikona - triangolo con la punta rivolta verso il basso -, simbolo

della yoni della dea. 3 Che sia offerto ad una dea oppure a un dio, ogni animale sacrificale deve essere di sesso

maschile. Ancora una volta, il “sacro” si mescola col più pragmatico “profano”: le femmine figliano e producono uova o latte; all’opposto, i maschi, esaurito il loro compito riproduttivo (ne bastano pochi ma buoni esemplari), sono un costo inutile se non addirittura un concorrente alimentare. Si veda il caso del maiale, grande concorrente degli umani, dunque animale “proibito” in ambienti aridi, dove si privilegiano le capre mangiatrici di sterpi.

4 Un rito questo della “consacrazione” dei confini del villaggio che è stato ripreso nel mondo cristiano con le rogazioni, processioni dove il sacerdote, seguito dai suoi fedeli, “consacra” il territorio a lui soggetto effettuando un giro circolare: lo stesso rito del parikrama indiano. Ricordo che le nostrane rogazioni hanno avuto inizio quando la Chiesa cattolica, in periodo medievale, definì “una parrocchia” il mero territorio racchiuso nello spazio che poteva essere percorso in una giornata di cammino a piedi. Altre informazioni sono reperibili nel saggio di Jonathan Sumption Monaci Santuari Pellegrini. La religione nel Medioevo, Editori Riuniti 1981.

AIYANAR, IL SIGNORE. Rara eccezione maschile in questo universo di femmine è la presenza di Aiyanar, potente divinità di rango superiore tipica del pantheon autoctono delle comunità contadine del Sud. Probabile evoluzione del primordiale Dio Nero,1 la figura di Aiyanar si caratterizza per la capacità di inglobare in un unico corpo sia le funzioni tipiche di una divinità maschile (difesa) che quelle femminili (fertilità). Egli è, infatti, visto dai tamil quale complemento della Signora - la personificazione dell’insieme di tutte le dèe tutelari del villaggio - che assimila nella sua figura, sintesi della massima espressione dell’energia creativa. Reso potente da questa dualità, agli occhi del suo popolo egli non può essere altro che “il Signore” per eccellenza, il dio puro che comanda sugli dèi impuri. Una grande invenzione, questa: perché disperdere soldi ed energie in molti riti quanti sono gli dèi malevoli, quando si ha a disposizione il loro Signore, il Dio supremo degli dèi? Se sostanziosi, i riti e le donazioni a lui fatte basteranno per convincerlo a eseguire al meglio il suo lavoro, tenendo a bada i sottoposti.2 Secondo l’antica tradizione tamil, Aiyanar trarrebbe le sue origini dalla naturale evoluzione fisiologica dello sperma ritualmente deposto dai contadini sul bordo delle pozze d’acqua utilizzate per l’irrigazione dei campi, concreto simbolo di fertilità.3 Poi, con l’avvento della filosofia shaiva, lo sperma divenne quello

1 Nero (kali in hindi, kala in sanscrito) è il colore che riporta al sasso sporcato dal fuoco, la cui

padronanza, in unione alla parola, elevò l’homo erectus al di sopra degli altri animali. In tempi a noi più vicini il sasso annerito dal fuoco e dal fumo del sacrificio (cfr.: il turibolo con l’incenso) assumerà la forma antropomorfa del “divino”. Mentre in Occidente il clero ha poi provveduto a sostituire i tribali sassi neri con le Madonne nere, figure prese dal pantheon egiziano, nell’India dravidica il ruolo di Dio Nero che fu di Karuppan, l’arcaico Signore degli spiriti della notte, è stato affidato ai pey, gli effimeri spiriti maligni non soggetti a riti devozionali.

2 Seppur con altri intenti, l’atto politico di rivolgersi ad un capo piuttosto che sprecare energie a dar retta al popolo intero mi ha fatto ricordare quanto scritto da Catherine MACARTNEY nel suo Chini Bagh. Una lady inglese nel Turkestan cinese, Giano Editore 2004: «Benché siano confuciani, i cinesi evitano ogni interferenza nella vita sociale e religiosa dei nativi, e gli unici contatti che l’amban [governatore] cinese ha con i suoi sudditi passano attraverso i capi locali. Non vi è dubbio che costoro esercitano impunemente una certa oppressione sui contadini e, finché questa non supera un limite insopportabile, i cinesi chiudono un occhio. C’è un modo di governare che essi sembrano comprendere meglio di noi, vale a dire: se vuoi mantenere il paese tranquillo è meno vantaggioso avere la gente contenta ed è meglio semmai avere coloro che contano dalla tua parte; in altri termini, preoccupati di piacere al pastore e non alle pecore, perché queste sono mute!»

3 Estraggo dal mio inedito Glossario orientale: «Ferro : Nell’India dravidica ancor oggi i contadini usano praticare ai bordi delle pozze d’acqua un buco nella terra e poi, straiandovisi sopra, copulare con essa fino all’eiaculazione. Per creare il buco è d’obbligo l’impiego di un ficcone di ferro. Inoltre, nei siti più arcaici, Aiyanar appare sempre circondato da una fitta serie di lance di tale materiale, che creano attorno al sasso nero - la sua rappresentazione antropomorfa - una sorta di gabbia protettiva. Interessante è il paragone con i nostrani culti volutamente fatti dimenticare. A pag. 17 del saggio I fuochi dei Sette Fratelli. Ricerche etno - antropologiche su tradizioni, culti e magia in Valcavargna e in Valsassina (Lombardia), Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano,

spiritualmente deposto da Shiva nelle vesti di yogin erotico.1 Mai rinchiuso all’interno di un tempio, Aiyanar è solitamente raffigurato per mezzo di una statua di terracotta posta nelle vicinanze delle pozze d’acqua, in piedi o seduto, talvolta affiancato dalle sue due mogli - una di carnagione chiara, l’altra scura -

1982, si legge: [Valsassina. Casa d’abitazione di tipo tradizionale] Elementi della facciata: i portoni erano assai robusti, e tenuti insieme mediante grossi chiodi di ferro a capocchia in forma di piramide a base quadrata; interessante il fatto che l’informatore Aldo Mainetti abbia affermato “tenevano lontano l’orso”; la figura misteriosa dell’orso e l’idea che un oggetto di ferro possa tenerlo lontano, sembrano derivare direttamente dalla preistoria e dai suoi culti; che sia rimasta nella gente della valle una più che vaga coscienza dei “poteri” del ferro e dell’aura di sacralità che lo ha circondato, è incontestabile e risulta dalle parole dei vari informatori; Mainetti dice: “i chiodi pungevano, rinforzavano il portone, ma forse era proprio il ferro che aveva la forza di scacciare l’orso…”; Piatti Anna Maria dà una versione cristianizzata del potere dei chiodi di ferro, ammettendo però con questo che tale potere rientra nella sfera del sacro: “I chiodi di ferro erano una sicurezza contro ogni cattivo influsso perché erano quelli dei portoni delle chiese…».

Aggiungo: non a caso l’evoluzione del mito cristiano ha imposto la crocifissione di Gesù con 3 chiodi di ferro anziché coi legacci di corda (metodo riservato ai due “ladroni” utili per formare il numero 3 sul Golgotha). Per ulteriori approfondimenti sul tabù del ferro rinvio alle varie ristampe dell’edizione abriged del 1922 de Il ramo d’oro di James George FRAZER; dalla sua edizione Newton & Compton 1992, pp. 266-7, estraggo: «Ma l’antipatia che il ferro suscita negli dèi e nei loro ministri, presenta anche un altro aspetto. La loro avversione nei confronti di questo metallo offre agli uomini un’arma che, in caso di bisogno, può essere rivolta contro gli spiriti. Si ritiene, infatti, che essi provino una tale ripugnanza verso il ferro da non accostarsi a persone o cose protette dall’aborrito metallo; che, naturalmente, può servire - e spesso serve - da amuleto per scacciare spettri e altri spiriti pericolosi. Per esempio, negli Highlands scozzesi, la migliore difesa contro elfi e folletti è il ferro o, meglio ancora, l’acciaio; sotto ogni forma - spada, coltello, canna di fucile, o quel che sia - è infallibile per questo scopo. [...] Basterà tenere in tasca un temperino o un chiodo, e le fate non vi porteranno via di notte. [...] In Marocco, il ferro è considerato un’efficace protezione contro i dèmoni e, per questo motivo, spesso si pone un coltello o un pugnale sotto il guanciale di un malato. [...] Sulla Costa degli Schiavi, una donna che vede suo figlio deperire, pensa subito che un dèmone sia entrato in lui [...] Per attirare lo spirito maligno fuori dal bambino, offre in sacrificio del cibo; e, mentre il dèmone si sta ingozzando, attacca dei cerchietti di ferro e dei campanellini alle caviglie del piccolo, e gli mette delle catenine di ferro al collo. Il tintinnio del ferro e delle campanelle dovrebbe impedire al dèmone, ormai sazio, di rientrare nel corpo. Infatti, in questa zona dell’Africa, si incontrano spesso bambini carichi di monili di ferro.»

In realtà, i nostri progenitori avevano una sacrale considerazione per il ferro, tanto da farne il metallo divino per eccellenza. Ancor oggi all’esterno degli arcaici templi dell’India (ma non solo) - strutture rigorosamente costruite col legno “sacro” del cedro e mai con la “profana” muratura - penzolano delle cordicelle con tante lamine metalliche che il vento provvede a far tintinnare. Il loro scopo è di ricordare agli spiriti maligni (in particolar modo quelli notturni, i più temuti) della presenza di un deota protettore del territorio, tenedoli lontani. Oggi la stessa funzione viene svolta dai tubetti metallici che molti occidentali appendono fuori di casa: conviviamo ogni giorno coi miti e i riti ereditati dalla preistoria, senza averne coscienza.

1 Si veda il mio scritto Shiva.

da un elefante e da un leone, antichi elementi simbolici nella cosmologia dell’acqua ma anche terrestri segni di potere, ricchezza e sovranità. Portamento severo, enormi baffi, denti prominenti e spada sguainata, Aiyanar - diversamente dalle altre divinità maschili, che hanno un ruolo subordinato alle Dee Madri - svolge una funzione fondamentale, essendo incaricato di proteggere l’intero territorio del villaggio dai pericolosi spiriti della notte, compito che assolve con l’aiuto dei viran - nome inglesizzato in veeran, gli “eroici” spiriti fedeli che l’accompagnano e lo proteggono - e di Karuppan,1 il suo alter-ego negativo. Nei tempi arcaici si riteneva che Aiyanar usasse pattugliare il territorio del villaggio affidatogli cavalcando un toro2 o un elefante - cavalcature che dopo le invasioni del settentrione dell’India si sono mutate nel più veloce e guerresco cavallo3 - trascinandosi appresso le orde degli Spiriti Neri, distogliendo così la loro attenzione dal villaggio.

1 Quale dio “nero” e carnivoro, Karuppan divenne per i brahmana il simbolo delle caste

intermedie, gerarchicamente sottoposte a quelle vegetariane. 2 In seguito, nei templi shaiva il toro è stato onorato come Nandi, cavalcatura di Shiva.

Soprattutto nell’India del Sud, il toro annesso al tempio e investito della funzione riproduttiva vive in libertà e può capitare che attacchi chi si trova sulla sua strada. Commentando questi attacchi di collera, gli abitanti del villaggio chiamano il suo autore Shivan, identificando così il toro col dio. É noto che nel Tamil d’altri tempi si praticava la jalli-kattu, una corsa di tori a carattere profano, simile alla corsa con la coccarda in uso nella Provenza. Meno nota, e segnalata solo a Tanjore, è la erudu-kattu (“legare il toro”). Alquanto differente dalla prima, era paragonabile alla corsa provenzale con la corda detta “à la bourgine”: dedicata al dio Aiyanar, si svolgeva presso il suo tempio il giorno seguente l’erezione dei cavalli di terracotta. Una corda enorme, intrecciata dagli intoccabili, era legata per un capo al collo del toro; quando questi veniva sciolto, l’altro capo della corda strisciava sul terreno dietro di lui e i giovani tentavano, afferrandola, di domare la bestia. In questo modo si facevano correre, uno dietro l’altro, i tori dei notabili in ordine gerarchico. Finita la festa, la corda restava appesa a un albero presso il tempio.

3 «Sul bordo di destra due rozze figure di animali, un cavallo ed un elefante. [...] Ma il vedervi qui appaiate le figure del cavallo e dell’elefante mi fa pensare agli altri due, cioè al leone e al bue che secondo alcune concezioni cosmografiche buddhiche stanno ai quattro lati del lago Anavatapta e dalla cui bocca scaturiscono i quattro grandi fiumi del Jambudvipa, cioè la Ganga dal bue verso oriente; il Sindhu (noto come la Sutlej nel Kinnaur) dall’elefante a sud; il Vaksu (o Paksu) dal cavallo ad occidente; la Sita dal leone a nord. Queste credenze cosmografiche che i buddhisti hanno conservato e che presuppongono una divisione quadripartita del mondo, originata forse in una civiltà svoltasi lontano dal mare ma lungo grandi fiumi, sono probabilmente da mettersi in relazione con la dottrina dei quattro imperatori fra cui una tradizione indiana, raccolta più tardi anche dai viaggiatori musulmani, vorrebbe diviso il mondo. Esse hanno certo origini molto antiche. I quattro animali da cui scaturiscono i quattro fiumi, secondo la leggenda sopra accennata, già simboleggiano i quattro punti cardinali sui capitelli di Sarnatha e non è improbabile che il loro prototipo sia da ricercarsi in miti cosmografici antichi di cui, all’infuori di sporadici accenni nella letteratura buddhica, si sono perdute le tracce: non è da escludersi che credenze consimili abbiano ispirato un famoso sigillo ritrovato a Mohenjodaro in cui la divinità centrale è circondata appunto da quattro animali, elefante, tigre, bufalo, rinoceronte: la sostituzione del rinoceronte col cavallo può bene spiegarsi con il diffondersi delle comunità indo-

Per agevolargli il lavoro notturno, i tamil usano circondare l’effigie di Aiyanar con i kudarai, i cavalli costruiti con un impasto di acqua, paglia e terra prelevata dall’area di culto, alti fino a dieci metri. Dopo la cottura, i cavalli sono vivacemente dipinti e capricciosamente bardati con specchietti, campanelli e figure di màkara, il mitico pesce-coccodrillo simbolo delle profondità insondabili delle acque.1 SIMBOLISMO DEI KUDARAI, I CAVALLI DI TERRACOTTA. I cavalli di terracotta sono la divina riflessione del potere di Aiyanar, colui che protegge il villaggio e ne assicura il benessere. Questi animali, stranieri del Tamil Nadu, sono strettamente connessi ai condottieri e ai sovrani che un tempo dominavano su questa regione. La forza, la potenza e il valore di questi eroi venne poi trasferita in Aiyanar. Per svolgere al meglio il suo compito, gli indigeni fornirono ad Aiyanar i più efficienti mezzi di protezione che vedevano utilizzare dai loro condottieri: il cavallo e la spada. Per i contadini delle epoche più recenti, il cavallo rappresentava la velocità, la manovrabilità e la potenza con cui gli antichi re intervenivano in difesa dei villaggi ed attaccavano i territori altrui, dando alle loro imprese un alone di leggenda.2

iraniche, che introdussero in India il cavallo. Ad ogni modo questa quadruplice serie di animali, di cui l’eco è giunto anche in Cosma-Indicopleuste e che ricorre pure nella monetazione buddhica, mi sembra abbia piuttosto origini e connessioni cosmografiche anziché valore simbolico di momenti speciali della vita di Shakyamuni, e cioè: elefante = concezione; toro = mese di Vaishaka (aprile-maggio) in cui egli nacque; cavallo = abhiniskraramana o abbandono della vita mondana per quella dell’ascesi; leone = predicazione della legge detta simhanada, ruggito del leone, così come Shakyamuni è chiamato anche Shakyasimha, il leone della stirpe degli Shakya. Ciò non toglie tuttavia che, come spesso succede in India, i due simbolismi si siano col tempo sovrapposti l’uno all’altro.» Giuseppe TUCCI, Indo-Tibetica. Reale Accademia d’Italia, Roma 1932, vol. I, pp. 80-81.

1 In un viaggio tra le comunità tamil della Malaysia (1999), mi è capitato di trovare Aiyanar rinchiuso in appositi templi a lui dedicati - solitamente messi a protezione delle spianate utilizzate dai pescatori per seccare i pesci al sole - talvolta inseriti all’interno dei grandi templi dedicati a Mariamma, la dea madre per eccellenza dei Dravida (e tra le Sette sorelle - o Sette vergini - che presiedono alle malattie è quella che protegge dal vaiolo).

2 La presenza del cavallo farebbe di Aiyanar una divinità recente. In realtà non è così, essendo provata l’esistenza in passato di altre sue immagini in terracotta su di un toro o di un elefante, primitivi mezzi di trasporto. Quando il cavallo arriverà in India con gli “invasori Aryan” e dimostrerà di essere un ben più efficiente veicolo, sarà prontamente fornito ad Aiyanar per migliorarne le prestazioni. Interessante è il fatto che nessuno dei primitivi modelli di cavalli di terracotta è fisicamente rassomigliante all’animale rappresentato, e questo farebbe supporre che l’artigiano costruiva il cavallo per sentito dire, senza averne mai visto uno.

È evidente come nelle suddette raffigurazioni affiorino sia il concetto della caccia selvaggia che il ruolo svolto dagli antichi re guerrieri, garanti, con le loro armate, della sicurezza del popolo contadino, a cui si chiedeva di essere pacifico, laborioso e sottomesso - per tramite del clero - al potere del sovrano. In quest’ottica, Aiyanar è identificato come massimo protettore del villaggio, ricambiato dal popolo con adeguate cerimonie di consacrazione, la più importante delle quali è l’abhiseka, il rito dell’unzione o aspersione eseguito con l’acqua. In quest’occasione la statua del dio è dapprima lavata, poi cosparsa sulla fronte e sulle vesti di un impasto fatto con olio di zenzero, succo di cedro, latte e pasta di legno di sandalo. Alla cerimonia dell’unzione seguono le offerte rituali, a base di noci di cocco e di betel, banane e paysam, il budino di riso dolce. Infine, dopo aver bruciato incenso e canfora,1 il cibo offerto alla divinità è ritornato al popolo per essere consumato. Attualmente, la dualità del dio e quindi dei riti a lui dedicati richiede la presenza sia di un brahmana, per il rito connesso al lato vegetariano del dio, sia di altri officianti di bassa casta per il sacrificio di animali ai suoi viran, le cui immagini sono poste a distanza dalla divinità principale e per l’occasione nascosti dietro un sipario.

1 La fusione tra incenso e canfora coniugano in un solo corpo solido tre proprietà simboliche:

l’aspetto purificatore del fuoco sacro, la salita verso l’alto del fumo e il profumo sottile che cancella gli odori profani, e tutti e tre, a modo loro, accompagnano le preghiere fino al cospetto degli dèi. Per analogia, ricordo che anche i cinesi ritengono che ogni corso o pozza d’acqua abbia il suo Re Drago e per questa ragione a fianco di ogni pozzo vi è sempre un minuscolo tempio a cui offrire in sacrificio tre bastoncini d’incenso. Esempi del tutto identici sono ben visibili anche tra i cristiani, che accendono candele (la fiamma, il fumo e il profumo della cera che si fonde sono tre proprietà assimilabili a quelle dell’incenso e della canfora) davanti alle immagini dei santi prediletti affinché intercedano per loro presso il Divino.

Oltre che nel Tamil Nadu, il simbolismo dei cavalli di terracotta lo troviamo anche nelle aree tribali del Gujarat, da dove proviene l’immagine qui a lato. Si tratta di un cavallo con due teste e recante sul dorso due tipi di bhoot (spiriti) - lo scuro tapio (caldo, maschio) e il chiaro vetri (freddo, femmina) - oggetto “magico” sovente utilizzato dagli sciamani per “purgare” il paziente dalle malattie. In questo esempio, la predominanza del colore scuro sul chiaro ci ricorda che in origine queste terre erano abitate dai neri Adivasi, con i bianchi Arya nel ruolo degli invasori. HARIHARA, METÀ MASCHIO E METÀ FEMMINA. Verso i secoli VII-VIII dell’era corrente (e.c.), l’importanza filosofica del duplice ruolo svolto dalla singola figura di Aiyanar indusse i brahmana ad inglobare nel mondo delle loro divinità una rappresentazione similare, in altre parole Ardhanari, detto anche Harihara, in seguito “perfezionato” come Shiva Ardhanarishvara. La storia della sua origine è fatta perdere nella notte dei tempi, quando gli dèi non erano ancora immortali. Grazie a Visnu, che si mutò nella tartaruga1 capace di sostenere il peso del monte Mandara, e al serpente Vasuki che si prestò ad essere utilizzato come corda, le opposte forze della Natura poterono unirsi per rimestare con forza le acque dell’Oceano primordiale (simbologia del cosmo immanifesto) e trarne da esso l’amrita, la bevanda dell’immortalità. Mentre le forze positive festeggiavano il fausto evento, le forze a loro ostili si aggiravano con fare sospetto attorno alla brocca contenente il potente liquido, cercando il momento opportuno per trangugiarlo a danno dei rivali.2 Intuito ciò, Visnu subito si mutò nelle femminili forme di Mohini (“concupiscenza”), riuscendo a sedurre i demoni e ad impossessarsi dell’ambrosia, che subito portò ai suoi colleghi affinché la bevessero. Ma al suo apparire, il sanguigno Shiva venne

1 Akupara è il nome della tartaruga cosmica; immersa nelle acque porta la Terra sul suo dorso. 2 Nei testi post-vedici questo ruolo toccò alle tribù indigene che si opponevano

all’espansionismo politico e religioso degli “indo-aryan”. Nelle lingue dell’India il termine arya non ha una connotazione razziale. Designa a volte l’insieme degli uomini che appartengono al mondo nel quale i precetti della Rivelazione (shruti) vedica e della Memoria (smriti) sono rispettati, a volte gli uomini perbene, i generosi. Arya è anche il termine sovente utilizzato per qualificare una dottrina elevata, come le quattro nobili verità (ciatvari arya-satyani) del buddhismo, o un “aristocratico” dello spirito.

attratto da quel sensualissimo corpo di donna e senza lasciare il tempo a Visnu di rivelarsi, la prese e l’’ingravidò, generando Harihara. Personalità sfuggente, Harihara ben si prestava alle più disparate interpretazioni, di cui la più faziosa ne faceva il simbolo della vittoria della filosofia shaiva su quella vaisnava. In realtà, ad una più critica interpretazione appare chiaro che egli è soltanto la rappresentazione “fisica” della tentata fusione tra le due differenti correnti di pensiero al fine di creare una terza e nuova scuola dottrinale. D’altronde, la semplicità mentale degli abitanti dei villaggi mal tollerava questa nuova “filosofia” tipicamente clericale, causa di non pochi problemi comportamentali. Infatti, la componente di Harihara collegata a Shiva richiede sia il sacrificio animale celebrato da sotto-caste, che l’erezione presso ogni suo tempio di un lingam, problema risolto seppellendo un itifallo sotto la statua di Aiyanar: c’è ma non si vede. All’opposto, l’aspetto originario di Aiyanar era quello di una divinità vegetariana, usa a cerimonie incruente celebrate da caste superiori. Onde rispettare la dualità presente nella sua raffigurazione - concetto delle opposte filosofie che unite in un unico corpo divengono complementari - si prese l’abitudine di stendere un telo davanti l’immagine di Aiyanar durante i sacrifici richiesti dalla sua componente cruenta. Per onore della verità, va pur detto che questa duplicità già esisteva nei miti predravidici, laddove si delegava Aiyanar alla protezione della componente vegetariana del villaggio, quindi onorato con riti a base di fiori e di frutti, relegando Karuppan, il suo alter-ego di rango inferiore, a rappresentare i mangiatori di carne e da questi venerato con riti di sangue. AIYAPPAN E SABARIMALA. Per completare il complesso quadro delle divinità poste a protezione del singolo villaggio, si deve prendere in considerazione un nuovo personaggio di sesso maschile, ovvero Dharma Shasta (“sovrano del dharma”), antica e popolare divinità posta a protezione dei cacciatori e dei boscaioli del Kerala, divenuta prominente tra i secoli VI e VIII, periodo in cui i brahmana tramutarono anche questa figura locale nel simbolo della fusione tra shaivismo e visnaismo, mutandone il nome primitivo in quello di Aiyappan. Per rafforzare la presenza del nuovo dio, sue iscrizioni e immagini iconografiche sono fatte apparire tra i secoli VIII e IX in ogni parte del Kerala meridionale. Sebbene la natura del culto di Aiyappan sia diversa da quella di Aiyanar, la similitudine dei nomi e del ruolo ne indica una probabile origine comune. Attualmente, Aiyappan è venerato soprattutto nel tempio di Sabarimala, meta di un importante pellegrinaggio divenuto popolare a partire dal secolo scorso.

Sull’origine di questo culto esistono molte versioni locali. Una di queste ci informa che un giorno il re e la regina di Pandalam, sul cui territorio vi è Sabarimala, andando a caccia nella vallata del fiume Pampa trovarono abbandonato nella foresta un bellissimo neonato, che adottarono quale loro figlio. Siccome aveva delle macchie blu e diamante attorno alla gola, al piccolo venne imposto il nome di Manikanta. Crescendo, il ragazzo dimostrò di possedere grandi doti intellettive, imparando in brevissimo tempo tutto quello che vi era da sapere sulle arti e sulla scienza. Nel frattempo la regina partorì il suo primo figlio, che il re considerò cadetto lasciando il ruolo di primogenito al trovatello. Questo non piacque alla moglie, che prese ad odiare Manikanta, organizzando contro di lui numerosi complotti, ovviamente tutti andati falliti. L’occasione propizia per sbarazzarsene le fu offerta dal medico di corte, a cui necessitava del latte di tigre per preparare una potente pozione. A Manikanta fu dato l’ordine di partire per l’impresa, completamente solo; come cibo, ricevette soltanto un fagotto di noci di cocco. Girovagando nella foresta, il giovane si imbatté in Indra, il re degli dèi, a quel tempo disturbato da Mahisa,1 che qui, nei miti del meridione, era un perfido asura dalle forme di bufalo, il quale aveva accumulato tanta potenza da essere in grado di distruggere tutte le divinità. Una profezia voleva che Indra sarebbe ritornato nelle grazie di Brahma solo se il figlio di Shiva e Visnu l’avessero aiutato ad uccidere Mahisa. Su richiesta di Indra, Manikanta combatté contro il deota-bufalo, decapitandolo. Riuscendo in questa difficilissima prova, il trovatello si rivelò non essere un semplice umano ma nientemeno che Dharma Shasta, la creatura a suo tempo nata dalle forze congiunte di Shiva e Visnu. In cambio della morte di Mahisa, Indra diede al giovane eroe il potere sulle belve della foresta, dono che subito utilizzò per rientrare a palazzo scortato dal suo nuovo esercito, le tigri della foresta, che fecero a gara per fornirgli il latte richiesto. Allo sbalordito re, Dharma Shasta rivelò la sua origine divina, dichiarando di desiderare da lui la costruzione di un

1 “Bufalo”. Il nome di un asura (dèmone) che aveva acquisito tanta potenza da sconfiggere gli

dèi e insediarsi in cielo. I divini presero allora a vagare sconsolati per il mondo, finché Visnu e Shiva non consigliarono loro di concentrare le proprie energie; queste si mostrarono sotto la forma di getti di fiamme e da esse emerse Camundi, l’aspetto terrificante di Durga. Cavalcando un leone e brandendo le armi ricevute dagli dèi, la dea si lanciò contro Mahisa, ma il dèmone mutava continuamente d’aspetto e solo quando commise l’errore di apparire sotto forma di bufalo Durga poté ucciderlo (perché un animale). Mahisa cercò allora di sfuggire dalla carcassa inanimata, ma la dea lo prevenne mozzandogli la testa con la sua spada divina: da qui l’epiteto di Mahisasuramardini, “la schiantatrice dell’asura Mahisa”. La testa mozzata di Mahisa bloccò l’entrata alla regione dei Kuru settentrionali: il cielo era tornato agli dèi. - La mitologia hindu, canonizzata dal Mahabharata, indica Skanda quale uccisore di Mahisa.

tempio nella foresta, luogo dove potersi ritirare e da lì governare i suoi sudditi felini.1 Nacque così Sabarimala, mèta di un arduo pellegrinaggio che trova la sua apoteosi in tre grandi giorni: Mandala Puja e Makara Vilakku (nel periodo tra dicembre e gennaio) e Visnu Puja in aprile. I pellegrini che vogliono partecipare al Mandala Puja, il massimo evento, devono assoggettarsi a rigide regole. Per tutti i 41 giorni che precedono la salita al tempio i partecipanti devono vestire abiti di colore nero o blu scuro, dormire sulla nuda terra, praticare il digiuno e l’astinenza sessuale. Durante il viaggio (da fare di corsa, in gruppo e sotto la guida di un guru) ai devoti è concesso di portare soltanto l’irumudi (“due nodi”), bagaglio diviso in due sacche, l’una contenente gli articoli di devozione (una noce di cocco riempita di burro, il riso e la canfora), l’altra gli effetti personali. Entrambe le sacche devono essere chiuse da una corda annodata, creando i due nodi che danno il nome al fardello. Quando si incontrano, i gruppi di pellegrini si salutano gridando Swami saranam, “Signore io ti appartengo”. Sintetizzando, l’ascensione al tempio di Sabarimala è il retaggio di un arcaico rito collettivo che porta le popolazioni locali, essenzialmente contadini e boscaioli, a salire fino al palazzo del Signore delle belve per intercedere la sua protezione contro gli assalti dei felini (ormai rari) e di ogni altro animale notturno. MADURAI-VIRAN, SPOSO DI MINAKSHI. La terza divinità maschile associabile ad Aiyanar è Madurai-viran.2 Una vecchia leggenda locale narra che la figlia di Nayak Pandya, re di Madurai, andò sposa ad un suddito di suo padre, un soldato che era emerso sopra gli altri per il suo innato istinto al comando e per il valore dimostrato in battaglia. Non avendo il re Nayak generato figli maschi altrettanto validi, alla sua morte il trono dei Pandya di Madurai fu occupato dal genero, che si prodigò a combattere contro ogni invasore delle proprietà ereditate, divenendo di fatto il difensore unico delle comunità agricole e dei villaggi dei pescatori a lui sottomessi. In seguito la credenza popolare attribuì a questa mitica coppia reale poteri taumaturgici e il culto di Madurai-viran e Minakshi3 assunse dimensioni importanti, con ingenti folle di pellegrini in perenne visita al tempio a loro dedicato. Questo fatto non poteva sfuggire ai brahmana depositari dell’unico e vero credo ufficiale, i quali, come ogni religione moderna insegna, non esitarono

1 Alcuni, ritenendo che gli antichi miti di Shasta e di Aiyanar contengano elementi buddhisti o

jaina, propongono una diversa versione: per loro fu Agastya il re che fece costruire il tempio e che iniziò la pratica del pellegrinaggio.

2 “Eroe di Madurai” (o Madura), la Mathura del meridione. 3 “Dagli occhi di pesce”, la dea tutelare di Madurai. Per alcune scuole hindu è moglie di

Himavat e madre di Parvati e Uma, per altre è una moglie di Shiva.

ad inglobare nel loro pantheon anche queste arcaiche divinità locali, modificandone i nomi in Shiva Sundareshvara1 e Parvati. Iconograficamente parlando, nei villaggi dei pescatori Madurai-viran è sempre rappresentato seduto su di un pesce, simbolo sia di sua moglie sia della dinastia dei Pandya di Madurai. All’opposto, nelle comunità rurali Madurai-viran è raffigurato a cavallo di un destriero, attorniato dal fido attendente Muniyandi, con una o due mogli sedute di fronte a lui. Tra i contadini, la cattiva fama del suo carattere ne fa una divinità inferiore, al servizio di Mariyamma, la temibile dea del vaiolo, una divinità il cui rito cultuale (associato a quello di Kaliyamma e di Muniyandi) richiede sacrifici di animali e l’assunzione del toddy, il vino di palma, e di arrack, bevanda alcolica derivata dalla fermentazione dei cereali. Oggi queste divinità cruente sono rimaste a sorvegliare le tenebre dei villaggi abitati da caste basse, dove sono venerati più in spirito di paura che di felicità. L’UNIONE DELLE FORZE OPPOSTE.2 Concludendo, si possono indicare le figure gemelle di Aiyanar, di Aiyappa e di Madurai-viran quali espressioni delle paure e speranze dei semplici contadini, i quali finanziano l’erezione di gigantesche statue per favorire un buon raccolto e la felicità domestica. In questo modo, ciò che è

1 “Il Bel Signore”. Epiteto di Shiva come sposo di Minakshi. Sundari è il titolo classico con cui

ci si rivolge ad una signora nei drammi in sanscrito, mentre Sundara è l’epiteto del bell’asceta itinerante.

2 Sebbene camuffata dalle rivisitazioni teologiche, la presenza dell’arcaico “uomo nero” qual’è Aiyanar - forse la prima idea di un “divino” antropomorfizzata in essere umano - si ritrova ovunque nei testi “sacri”, raccolte di miti antichi riveduti e corretti ad uso delle masse ed imposti anche attraverso l’arte “sacra”. In ogni tempio del mondo ne sono chiari esempi le figure scolpite ai lati e/o sopra i portali, ma anche la presenza all’ingresso di mostri (in Oriente) o di leoni (in Occidente; laddove queste belve sbranano un essere umano si è di fronte alla tarasca importata dalla pagana Gallia), figure che in passato avevano il compito di impedire la contaminazione del tempio da parte degli spiriti del male che inevitabilmente accompagnano il fedele peccatore. Questo paganesimo visibile ma non recepito lo si ritrova anche nell’ambito civile: per difendere le proprietà dagli “spiriti maligni della notte” non si sono lesinati nani o mostri sui muri di recinzione delle ville, precauzione integrata da facce mostruose o omenoni sopra ogni porta e ogni finestra. Ancora : «Sempre di impronta tipicamente medioevale è la concezione soggiacente al culto delle reliquie custodite nelle basiliche presso o al di fuori delle mura: i santi infatti sono considerati protettori o baluardi della città, la vera difesa dagli attacchi nemici ed insieme garanzie di prosperità economica e di stabilità politica.» [in] Storia religiosa della Lombardia. Diocesi di Milano (1° parte). A cura di A. Caprioli, A. Rimoldi, L. Vaccaro. Editrice La Scuola, , Brescia 1990, p. 96.

Per approfondimenti su queste mie osservazioni - ma anche sui simboli della dualità maschile-femminile, tra i molti libri disponibili indico Arte dei numeri. Letture iconografiche, di Fernando RIGON, Skira 2006, da affiancare alla lettura del fondamentale Le Imagini de i Dei de gli Antichi di Vincenzo CARTARI, opera pubblicata per la prima volta nel 1556 e ristampata più volte tra il 1987 e il 2004. Per la figura della tarasca (da cui prende il nome la città di Tarascon): La Tarasque par Louis DUMONT. Éditions Gallimard 1951 (nouvelle édition 1987).

stato dedicato ad Aiyanar (il villaggio, la famiglia) è da lui protetto dal pericolo notturno. Ma anche: queste divinità sono il punto d’unione tra la duplice componente delle comunità agricole, formate da gruppi vegetariani (con un pandaram, una sorta di sotto-brahmana, quale guida spirituale) e quelli onnivori, il cui sacerdote è lo stesso figurinaio incaricato della costruzione dei cavalli votivi. Connessione tra le forze note e le forze sconosciute, capace di integrare in un unico corpo sia i ruoli tipicamente maschili che quelli femminili, Aiyanar è sempre stato considerato dal popolo tamil “il Signore” per eccellenza, l’unica figura in grado di rappresentare nella minuta scala delle comunità rurali tutte le duplici componenti della vita e della natura (positivo e negativo, maschio e femmina, nascita e morte, salute e malattia, pioggia e siccità, eccetera), da lui magnificamente sintetizzate in un tutt’uno, divenendo l’esempio della neutralità e della perfetta unione delle forze opposte e contrarie. Ed è questa sintesi perfetta, unita alla sua forza e al suo vigore, che consente ad Aiyanar di proiettarsi con successo verso il pericoloso mondo delle forze sinistre che esiste oltre lo spazio chiuso delle capacità umane.

Nove pietre nere ricordano le nove vergini Dee Madri primordiali (e le nove lunazioni della gravidanza delle donne)

A partire da Aiyanar la pietra nera assume figura umana

Karuppan, tra il vaso generativo e il cane psicopompo

Altri simbolismi arcaici : Aiyanar, il quadrato, le 9 pietre nere

Il toro, l’elefante e il cavallo : l’evoluzione dei mezzi di locomozione (vahana) di Ayianar e dei suoi viran

Aiyanar, le sue due mogli e i kudarai

Un viran in groppa al suo vahana

Il destino degli déi arcaici: l’hinduizzato Madurai-viran sovrasta il tribale Aiyanar.

Ai lati vi sono due cani,uno bianco (l’alba), l’altro nero (la notte)