(2002) Sante Marie degli alberi. Culti mariani arborei in Abruzzo, Andromeda, Colledara (TE)

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NELLA STESSA COLLANA:

1Gabriella Marucci - Ernesto Di Renzo

FRATELLI IN GROTTAUN RITUALE MASCHILE DI SOLIDARIETÀ

(1999)

2Gabriella Marucci (a cura di)

IL VIAGGIO SACROCULTI PELLEGRINALI E SANTUARI IN ABRUZZO

(2000)

ABRUZZO RITUALE

collana diretta da GABRIELLA MARUCCI

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SANTE MARIEDEGLI ALBERICULTI MARIANI ARBOREI

IN ABRUZZO

ANDROMEDA EDITRICE

RITA SALVATORE

ISBN 88-86728-85-9© Copyright 2002Tutti i diritti riservati

ANDROMEDA EDITRICE

64042 COLLEDARA (TE)TEL. 0861.699014 FAX 0861.699000e-mail: [email protected]

Direttore EditorialeDOMENICO VERDONE

Coordinamento EditorialeA. RITA MAGAZZENI

StampaGRAFICHE D.V. - ROMA

Foto documentarie diGIANFRANCO PILATI

Raccolta e gestione datiIRDEA (Istituto per la Ricercae la Documentazione Etno-Antropologica)

INDICE

INTRODUZIONE di Gabriella Marucci pag. 9

PARTE IMADONNE E ALBERI TRA LUOGHI E IDENTITÀ CULTURALI

MADONNE ARBOREE. DEFINIZIONE DI UNA TIPOLOGIA ” 19La ierofania arborea ” 22Sistemazione spaziale (reale e/o leggendaria) dell’albero sacro ” 23Pratiche rituali connesse all’elemento arboreo ” 24Rappresentazione iconografica ” 26

TEMPI E LUOGHI DELLE IEROFANIE ARBOREE ” 29I boschi sacri abruzzesi ” 39Cristianizzazione dei culti arborei ” 42

SANTA MARIA DELL’ALBERO COME DEA LOCI.TERRITORIALIZZAZIONE DEL CULTO MARIANO ” 45

Ierofania come sacralizzazione del territorio ” 47Ambiente, culto, cultura ” 49Il mito a fondamento del processo antropico-cultuale ” 52

UNA MARIA, UN “VILLAGGIO”, UN POPOLO ” 55Marie glocali ” 57

PARTE IICASI DI STUDIO

LA RICERCA ” 65

MADONNA DELL’ALNO ” 69Il contesto storico-ambientale ” 69La leggenda di fondazione ” 71Il luogo di culto ” 74I rituali ” 76Ideografia dell’albero ” 80Da oltreoceano ” 82

MADONNA DEL CARPINE pag. 85Il contesto storico-ambientale ” 85La leggenda di fondazione ” 90Il luogo di culto ” 92I rituali ” 94Ideografia dell’albero ” 98Il culto ed il suo omologo oltreoceanico ” 100

MADONNA DEL CROGNALE ” 103Il contesto storico-ambientale ” 103La leggenda di fondazione ” 105Il luogo di culto ” 109I rituali ” 113Ideografia dell’albero ” 116

MADONNA DELL’ELCINA ” 119Il contesto storico-ambientale ” 119La leggenda di fondazione ” 120Il luogo di culto ” 123I rituali ” 126Ideografia dell’albero ” 129Il culto ed il suo omologo oltreoceanico ” 131

MADONNA DELLA QUERCIA ” 133Il contesto storico-ambientale ” 133La leggenda di fondazione ” 134Il luogo di culto ” 137I rituali ” 141Ideografia dell’albero ” 146Il culto ed il suo omologo oltreoceanico ” 148

MADONNA DELLO SPLENDORE ” 151Il contesto storico-ambientale ” 151La leggenda di fondazione ” 154 Il luogo di culto ” 156I rituali ” 162Ideografia dell’albero ” 168

APPENDICE ” 171 Repertorio delle madonne arboree abruzzesi ” 173Elenco di alcune madonne arboree in Italia ” 174

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO ” 179

Gli Esseri soprannaturali sono il frutto nobile di una delle atti-vità dell’uomo più creative e affascinanti: l’immaginario. Nellalunga storia dell’umanità, l’immaginario, assecondando numeroseesigenze di base, ha prodotto una folla di Esseri potenti in grado dispiegare eventi o dare volti comprensibili a fenomeni naturali dalcarattere troppo spesso capriccioso e casuale.

Ma al di là del comprensibile desiderio di avere dei compagniforti che motivino ciò di cui si ha timore, che proteggano e soccor-rano, il soprannaturale e il connesso senso del sacro costituisconouna categoria che gli uomini hanno sempre sperimentato e di cuihanno avuto, o ritenuto di avere, la percezione ogni volta chehanno alzato gli occhi verso la volta celeste o che si sono sofferma-ti a riflettere sul loro “esserci”; ponendosi domande inevitabili einquietanti, sotto lo stimolo di idee e di sentimenti che vanno oltrela ragione e che sembrano irrompere più liberamente quando ilprofano non basta; quando, ad esempio, ci si imbatte nella morte oin vicende che possono provocarla, e quando ogni tentativo dirazionalizzazione viene superato dal timore e dal dolore.

L’immaginario è frutto dell’irrazionale e il sacro è un territorioin cui esso può esprimersi con la massima libertà e ricchezza.

Tutti i popoli della Terra, nessuno escluso, hanno concepito per-sonaggi divini, metafisici, pronti, se opportunamente sollecitati, adintervenire, a concedere, a soccorrere, a guarire, a punire, a vendi-care, a fare giustizia.

Il grande puzzle dei numina composto pezzo su pezzo nel corso

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INTRODUZIONE

dei millenni è molto complesso, perché costituito da migliaia diFigure diverse aventi le più disparate attribuzioni, caratteristiche,corredi mitici e apparati rituali. Eppure, se si immaginasse di sor-volare quel puzzle, si riuscirebbe a scorgere delle linee e delle ten-denze costanti, dovute non solo e non sempre a processi di diffu-sione, bensì al fatto che quelle Figure testimoniano l’esistenza dipaure, esigenze, speranze, insicurezze condivise pressoché univer-salmente, sebbene espresse secondo diverse modalità iconografi-che e rituali, funzionali ai diversi contesti socio-ambientali.

Probabilmente, pochissimi Esseri sono o sono stati assoluta-mente nuovi, totalmente diversi da quelli che li hanno preceduti,veramente unici, originali. Attraverso i secoli e le distanze geogra-fiche si possono infatti riscontrare somiglianze profonde, dovutesia al corrispondere di quei numina agli universali e livellanti sen-timenti di inadeguatezza e di insicurezza nei mezzi “naturalmen-te” disponibili, sia al loro essere quasi sempre il risultato di percor-si storici e culturali molto lunghi e spesso intersecantisi.

Nell’universo cristiano, che costituisce l’ambito di riferimento diquesto saggio, le antiche eredità emergono continuamente, espri-mendosi in Esseri numinosi sincretici. I vari strati, sovrapponen-dosi l’uno all’altro coerentemente sulla base di obiettive somiglian-ze e analogie, hanno costruito nel corso dei secoli, talvolta dei mil-lenni, personaggi credibili e congruenti.

Il cristianesimo del Tardo Antico fu impegnato in un articolatoprocesso di selezione, per il quale, pur nel totale rifiuto del paga-nesimo politeista, moltissime credenze si travasarono nella nuovafede, trasformandosi, adattandosi, acquisendo nuove denomina-zioni e nuovi riferimenti. L’accettazione e l’integrazione di pratichee di tradizioni pre-cristiane indubbiamente favorirono l’attecchi-mento e il diffondersi della giovane religione, ma al tempo stessoconsentirono di preservare e di far giungere fino ai giorni attualielementi di un passato talvolta così remoto da non essere definibi-le con esattezza.

Sono numerosissime le sante, sconosciute ai calendari liturgicima beneficiarie di fervidi culti locali, frutto di sintesi felici con

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ninfe silvane connesse alle acque, alle grotte, agli alberi. Per citaresolo un caso, Margherita, santa eremita titolare di un santuariorupestre situato nei pressi di Pettorano sul Gizio (AQ), appartienea questa tipologia. Insieme a molte altre eredi delle divinità fem-minili pre-romane e romane custodi dei luci, i boschi sacri, e ad unafolla di martiri, di santi e di epiclesi mariane, nel cui nome vengo-no celebrati rogazioni, culti primiziali, riti idro-litoiatrici, pellegri-naggi e processioni contrassegnati da arcaici simbolismi.

Frutto di ben più complessi concatenamenti e di ripetute opera-zioni sincretiche è, per restare in tema, uno dei più famosi santi delcristianesimo: san Michele arcangelo. Già erede del dio solare vedi-co-iraniano Mitra, l’angelo guerriero esordì nelle Scritture vetero-testamentarie. Con l’avvento del cristianesimo, scivolò quasi inav-vertito nella nuova religione, divenendo destinatario in tutta l’areamedio-orientale di culti incentrati sulle acque e sulle rocce.Arrivato in Puglia grazie agli intensi rapporti commerciali dellaDaunia con l’Impero bizantino, Michele si “impadronì” in brevissi-mo tempo dei preesistenti culti di origine greca, enfatizzando alcu-ne sue caratteristiche pastorali e divenendo il titolare dell’ormaicelebre santuario garganico. Penetrato in Abruzzo attraverso i trat-turi e il favore dei pastori transumanti, il culto si diffuse in tuttal’Italia e, tramite l’attivo sostegno dei Longobardi, che ne enfatiz-zarono l’impronta bellica, in tutta l’Europa. In Abruzzo, come inaltre regioni dotate di un’economia a carattere prevalentementepastorale, l’angelo si sovrappose totalmente alla più lungamentecultuata divinità italica, Ercole, assumendone patrocini, atteggia-menti iconografici, località santuariali.

La figura della Madonna, cui l’arcangelo è spesso associato inleggende, in culti e in effigi, costituisce un ulteriore, calzante esem-pio della continuità e della persistenza di idee e credenze di origi-ne molto remota, continuamente riadattate e rifunzionalizzate, peressere infine accolte nell’alveo del cristianesimo e trovarvi nuovoslancio e nuova linfa.

Popolarissima, notissima anche fra i non cattolici, la Madonnaè un Essere poliedrico e polifunzionale, che proprio nella inesauri-

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bile molteplicità dei suoi aspetti rivela il lungo percorso che l’hapreceduta e preparata.

Tutti i motivi e i temi mitici attribuitile anche dogmaticamenteprovengono dall’Oriente neolitico e post-neolitico, con la più anti-ca divinità che si conosca, la Grande Dea o Dea Madre, nelle suetante manifestazioni locali, a loro volta eredi di culti molto più anti-chi, diffusi nell’intero mondo antico, dall’Asia Minore al Nilo, dallaGrecia alla valle dell’Indo.

In Europa, la Grande Dea preistorica è stata l’incarnazione dellafertilità: pura e immacolata, creava la vita da se stessa, compiendoincessantemente il miracolo di far nascere fiori, piante, boschi, difar zampillare sorgenti e fiumi. Uomini e animali si nutrivano diLei, così come i defunti venivano custoditi in Lei. Molte GrandiMadri furono partenogenetiche e tali restarono per tutto ilPaleolitico, il Neolitico e, in tutto il mondo mediterraneo, per granparte dell’Età del Bronzo. Poi, sotto l’influsso delle culture indo-europee e in risposta alle mutate condizioni socio-politiche, si tra-sformarono in spose e figlie di divinità maschili uraniche.

Ma il culto della Dea sopravvisse tenacemente fino agli inizi delcristianesimo, con i culti misterici che nel mondo greco-romano simantennero incentrati su numerose figure femminili.

Dal 431 d.C., con la proclamazione di Maria Madre di Dio(Theotokos) e la soppressione in tutto l’Impero romano delle religio-ni pagane, le Grandi Dee si fusero nella Madonna, unica erede ditutti i loro nomi e di tutte le loro forme. Per avere un’idea di quan-to profondo sia questo radicamento dell’una nelle altre, può esseresufficiente scorrere le litanie o sfogliare gli annuari di una qualsia-si diocesi cattolica, per “scoprire” le decine di nomi e appellativiriconosciutile. Tuttora, a Torino, una famosa chiesa dedicata allaMadonna, è nota col nome di “Chiesa della Gran Madre”, e all’in-terno della sua mole tondeggiante custodisce le ossa di 5000 solda-ti della I Guerra Mondiale.

Ma questa straordinaria sintesi divina esprimeva una novità:Maria era, è, una donna, del tutto comune, sebbene prescelta (nonse ne conoscono i motivi, i Vangeli non vi fanno alcun cenno) per

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diventare la madre-vergine dell’uomo-Dio secondo modalità nonproprie della natura umana. Come contraria alla natura umana è lasua non-morte, che ha portato, sia pure dopo molti secoli di rifles-sione, al dogma dell’Assunta.

Particolare importantissimo quest’ultimo, perché è grazie al suocorpo materiale che Maria si mostra tangibilmente agli uomini.

Ogni apparizione mariana o ciclo di apparizioni ha propostofigure e modelli diversi: madre tenera o severa, guerriera, depulsordemonii, veggente, ecc... La stessa iconografia non è costante, iden-tificandosi di volta in volta nel modello estetico di chi la raffigura:Maria viene descritta o effigiata bionda con gli occhi azzurri, oppu-re scura di pelle come un’india, o con gli occhi a mandorla e lunghicapelli lisci e neri. Ogni momento e contesto storico e geografico hadato e dà la propria lettura di questa versatile figura divina.Giustamente osserva Victor Turner che se un antropologo prove-niente da un altro pianeta analizzasse i culti mariani di NostraSignora di Chartres e della messicana Vergine di Guadalupe, rice-verebbe l’impressione di due diversissime divinità locali aventi benpoco in comune fra di loro.

I risultati di questi particolari processi di rielaborazione, osser-vabili in un grandissimo numero di rituali e culti mariani, si evi-denziano con maggiore forza nei culti locali regionali, caratterizza-ti da un ridotto bacino di utenza e ancora collegati al ciclo stagio-nale lavorativo agro-pastorale.

Su questo argomento tanto accattivante quanto complesso edelicato si è scritto moltissimo. Sono migliaia i culti e i santuarimariani descritti e studiati da antropologi e da studiosi di scienzedelle religioni. Ciononostante, questo libro si allontana dal coro, inquanto tratta di uno specifico, particolare settore del culto, quellodelle Madonne cosiddette “arboree”, che collegano Maria ad unsimbolo molto antico: l’albero, metafora non solo di vita, di germi-nazione, di rigenerazione, di ricchezza viva della natura, ma diintermediazione. Con le sue radici sprofondate nella terra e la chio-ma che si apre nel cielo, l’albero appartiene a due mondi opposti

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che mette in comunicazione. Nello stesso modo in cui Maria,donna e Madonna, è il tramite per eccellenza fra gli uomini e Dio.

Le Madonne arboree, pur costituendo una parte tanto rilevantee tanto interessante dei culti mariani, sono poco conosciute e solosaltuariamente studiate. La loro singolarità consiste nel costituiredei veri e propri sostituti delle apparizioni. Si tratta, in poche paro-le, di effigi che “si lasciano” trovare alla base di alberi o impigliatenei loro rami o dipinte sul loro tronco. Generalmente, le leggendelocali narrano che, trasportato nella chiesa del paese privilegiatodal prodigio, il simulacro, scolpito o dipinto che sia, se ne “allonta-na”, per essere successivamente ritrovato nei pressi dell’albero diriferimento. L’evento viene interpretato come evidente manifesta-zione della volontà della Madonna di avere un suo santuariocostruito esattamente in quel luogo. Naturalmente, il desideriodivino viene prontamente assecondato con l’edificazione di unluogo di culto, destinato a divenire meta di pellegrinaggi.

In tutto il mondo cristiano si praticano culti a Madonne arboree;l’Abruzzo, regione lussureggiante di boschi e di selve, ne ha moltie molto interessanti. Su di essi si soffermerà la seconda parte diquesto libro, con una serie di “ritratti” schematici ma accurati eproblematizzati, arricchiti da una grafica originale, che invita il let-tore a “cliccare” su alcuni argomenti paralleli e curiosi, racchiusi inbox.

La parte introduttiva, più problematica e di carattere generale, èinvece incentrata sul tema dell’albero e sui molti significati simbo-lici, rituali, eco-ambientali che lo connettono alle divinità femmini-li e in particolare a Maria. L’Autrice, ponendo infatti alla base dellasua interpretazione un collegamento diretto tra ambiente, società eculto, cerca di dimostrare come ogni singolo culto arboreo siariconducibile ad un determinato ambiente naturale e quindi ad unaspecifica specie vegetale. Questo tipo di lettura di un fenomenoreligioso prende in considerazione il processo cosiddetto di antro-pizzazione del territorio, tramite il quale una collettività si “impa-dronisce” di un luogo naturale, sacralizzandone una porzione e, diconseguenza, inserendolo in una serie di comportamenti cultural-

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mente costruiti. Una particolare grotta, una sorgente, un alberovengono fatti slittare dalla sfera della Natura, cui appartengono,alla sfera della Cultura, provocando lo spostamento dell’elementonaturale sul piano dell’ordine morale.

Questo metodo, nel chiamare in gioco ambiente eco-geografico,storia, credenze, ritualità, consente di ottenere un’interpretazione“tridimensionale” dei fenomeni studiati e descritti, favorendoneuna più completa ed esauriente comprensione.

Gabriella Marucci

INTRODUZIONE 15

PARTE I

MADONNE E ALBERI TRA LUOGHI E IDENTITÀ CULTURALI

Quello delle madonne arboree rappresenta un fenomeno reli-gioso tanto diffuso quanto poco definito, ispiratore di una vasta let-teratura devozionale non sempre controbilanciata da visioni d’in-sieme e da riscontri a carattere demo-etno-antropologico. Per avereuna prima indicazione riguardo l’ampiezza di questo panoramabasta pensare che l’Italia conta più di un centinaio di figure maria-ne legate all’elemento arboreo e che solo nella regione abruzzesesono tutt’oggi attivi almeno una ventina di culti intitolati ad unaSanta Maria dell’Albero.1

D’altra parte, non serve volgere lo sguardo verso località margi-nali del mondo rurale, considerando che almeno due dei più notipellegrinaggi mariani rimandano ad una ierofania vegetale. Loretoe Fatima: contesti lontani nello spazio, nel tempo, nelle manifesta-zioni devozionali, tuttavia accomunati dal nome della Vergine edalla componente arborea. Loreto 1294: la Santa Casa di Nazarethviene prodigiosamente rinvenuta in un bosco (Lauretum, appun-to); Fatima 1917: una donna “ammantata di splendore” appare aLucia posandosi su una quercia. E così, passando per la Spagna,dove almeno un quinto dei culti mariani rivela una matrice den-drologica,2 non si può non ammettere che quello che ad un primoapproccio potrebbe sembrare un tema di esclusiva origine locale ed

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MADONNE ARBOREE DEFINIZIONE DI UNA TIPOLOGIA

1. Per maggiori dettagli al riguardo si rimanda alla lettura delle appendici di fondo.2. W.A. CHRISTIAN JR., The delimitation of sacred space and the visions of Ezquioga, in S.BOESCH GAJANO, L. SCARAFFA (a cura di), Luoghi sacri e spazi della santità, Torino,Rosenberg & Sellier, 1990, p. 85.

indigena si mostra invece condiviso a livello “globale” nell’univer-so cattolico.3

Proprio al contesto iberico è da ricollegare l’ampia diffusione dileggende mariane narranti prodigiosi ritrovamenti di immaginisacre sugli alberi, sotto terra e all’interno di grotte da parte dipastori. Come suggerisce Victor Turner nel suo studio sul pellegri-naggio, molti dei culti mariani spagnoli e sud-americani apparter-rebbero a quel ciclo narrativo che lo studioso Vicente De La Fuentedefinì, appunto, come «el ciclo de los pastores».4 I racconti afferenti aquesto genere, pur nella loro differenza di dettagli, mostrerebberocomunque una tematica uniforme di base che li rende del tuttosimili a quelli moltiplicatisi anche in Italia.

Stabilire con esattezza scientifica se le leggende di matrice ita-liana siano filiazione diretta di quelle spagnole è un’operazione cherichiederebbe approfondite analisi storico-filologiche non contem-plate dalla ricerca che ha portato a questo saggio. Tuttavia, le vicen-de storiche che hanno avuto luogo sul suolo italiano sembrerebbe-ro lasciar spazio a condizioni di possibile influenza. Infatti, se «ilciclo dei pastori» - come afferma lo stesso Victor Turner5 - visse ilsuo periodo di più ampia diffusione tra il IX ed il XIII secolo e sel’Italia conobbe «l’impetuoso sviluppo» della parcellizzazionedella figura mariana dopo il secolo XV,6 allora non risulta del tuttoperegrina l’ipotesi secondo la quale la dominazione spagnola, ani-mata dallo spirito cattolico dei monarchi aragonesi, avrebbe inco-raggiato la localizzazione delle devozioni anche in Italia, un pro-cesso che in questo territorio si era già in parte avviato durante ilMedioevo.

SANTE MARIE DEGLI ALBERI20

3. Secondo un censimento dei pellegrinaggi europei elaborato da M.L. Nolan e da S.Nolan non meno del 22% dei santuari sarebbe connesso alla presenza di un albero sacro(M.L. NOLAN, S. NOLAN, Regional Variations in Europe’s Roman Catholic PilgrimageTraditions, in R. STODDARD, A. MORINIS, Sacred Places, Sacred Spaces. The Geography ofPilgrimages, Los Angeles, Louisiana State University, 1997, pp. 84-85).4. Cfr. V. TURNER, E. TURNER, Il pellegrinaggio, Lecce, Argo, 1997, pp. 87-88.5. Ibidem.6. Cfr. T. SEPPILLI, Le Madonne arboree: note introduttive, in T. GIANI GALLINO (a cura di), LeGrandi Madri, Milano, Feltrinelli, 1989, p. 103.

Restringendo il punto d’osservazione sull’Abruzzo, il rapportocon i regnanti spagnoli si fece più stretto in virtù della presenza diuna potente famiglia feudale, gli Acquaviva, direttamente coinvoltinella diffusione del culto mariano e nella lotta contro gli “infedeli”.7

Dopo questa breve ma necessaria digressione sull’ampiezza delfenomeno preso in esame, tentiamo ora di definirne i contorni,sulla base del contributo offerto da Tullio Seppilli.8 Quali dunquegli elementi e i caratteri di fondo che conferiscono autonomia diclassificazione a queste Vergini?

In primo luogo, come nel caso del «ciclo dei pastori», l’affer-marsi del fenomeno attraverso alcune leggende di fondazione9 chefanno dell’elemento arboreo un asse simbolico attorno al qualeruota un intero sistema cultuale; dalla ierofania, alla sistemazione spa-ziale (reale o leggendaria) dell’albero sacro, alle pratiche rituali, alla rap-presentazione iconografica della Madonna. Passiamo quindi ad ana-

DEFINIZIONE DI UNA TIPOLOGIA 21

7. L’importante legame tra gli Acquaviva e gli Aragonesi venne suggellato nel 1478 daun riconoscimento concesso a Giulio Antonio Acquaviva da parte di Ferdinando diAragona, in base al quale la nobile famiglia atriana aggiungeva al proprio cognomeanche quello reale di Aragona (cfr. AA.VV., Gli Acquaviva d’Aragona. Duchi di Atri e Contidi San Flaviano, Atti del VI Convegno, Teramo, Edigrafital, 1989, Vol. III, p. 9). Per quan-to riguarda il loro impegno in ambito religioso può essere importante ricordare che lapotente casata, oltre a numerosi cardinali, annoverava tra i suoi discendenti: GiovanGirolamo I, il quale prese parte alla battaglia navale di Lepanto (1571) contro i Turchi;il Cardinale Troiano, ministro del Re di Spagna; Ottaviano, cardinale e arcivescovo diNapoli, direttamente impegnato nella disputa sul dogma della Immacolata Concezione(M.A. PAVONE, Santa Maria di Propezzano. Un’annunciazione e scene relative alla fondazionedella basilica, in AA.VV., La valle del medio e basso Vomano, Teramo, TERCAS, 1986, p. 426).Ma il dato più significativo in termini di diffusione del patrimonio cultuale è sicura-mente costituito dall’alto grado di popolarità che il pellegrinaggio in direzione diSantiago de Compostela raggiunse durante il predominio aragonese, dato riscontrabileanche presso la cattedrale di Atri che contiene un veneratissimo dipinto della Verginedel Pilar (cfr. P.Z. ULISSE, L’Abside degli Acquaviva della Cattedrale di Atri, in, AA.VV., GliAcquaviva d’Aragona, cit., p. 57).8. T. SEPPILLI, cit., pp. 101-117.9. Per leggende di fondazione si intendono particolari «narrazioni di avvenimenti pro-digiosi, verificatisi in località più o meno determinate, i quali diedero avvio alla costru-zione di un edificio sacro e quindi alla instaurazione di un culto» (G. PROFETA, Le leg-gende di fondazione dei santuari. Avvio ad un’analisi morfologica, in “LARES”, XXXVI, fasc.III-IV, p. 245).

lizzare singolarmente ognuna di queste componenti, sulla basedella ricerca empirica condotta nel territorio abruzzese.

La ierofania arborea

Laddove con ierofania - termine mutuato dal greco attraversol’unione dell’aggettivo ieros (sacro) con il verbo phaino (mostro) - siintende la manifestazione dell’entità sacra agli uomini, l’aggettivoarboreo ne specifica l’ambientazione vegetale.

La definizione di “madonna arborea”, perciò, si fonda in primoluogo sul fatto che la Vergine si mostri ai suoi interlocutori (quasisempre rappresentanti dell’universo agro-pastorale) in questo par-ticolare contesto ambientale, sancendo così l’avvio di un nuovoculto che farà di uno specifico albero la primissima sede delladevozione.

In alcuni casi, il riferimento a questo simbolo può manifestarsiin modo così esplicito da conferire alla figura numinosa l’epitetostesso. Di qui le numerose Madonne della Quercia, dell’Olmo, delCarpine, del Pioppo, del Leccio etc.

A questo punto, sarebbe necessario soffermarsi brevemente sul-l’uso della terminologia adottata; la scelta del sostantivo “ierofa-nia” in luogo di quello di “apparizione”, forse più comune, non èinfatti da considerarsi casuale. Se con “apparizione” siamo solitiriferirci a contesti in cui giovani pastori divengono protagonisti diuna «visione soprannaturale corporea e visibile»10 della Vergine che,nell’interezza della sua fisicità, comunica loro numerosi e reiteratimessaggi escatologici, volgendoci al panorama dei culti qui esami-nati, non possiamo che riscontrare di essere in presenza di manife-stazioni ben diverse da quelle delle suddette “apparizioni”.

Nei casi di studio analizzati in questo saggio, la “presenza cor-porea” della Vergine non sempre costituisce il fulcro dell’eventoprodigioso, quanto semmai la fase iniziale di un incontro sopran-

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10. V. TURNER, E. TURNER, op. cit., p. 224.

naturale che solitamente si conclude e si risolve con il ritrovamen-to di una statua o di un dipinto.

Conseguentemente, la devozione tende a concentrarsi sull’og-getto rinvenuto, che si traduce esso stesso in signum tangibile dellapresenza numinosa, della manifestazione del sacro. Iero-fania,appunto.

Filtrata attraverso questa chiave di lettura, la visione mariana,spesso annunciata e accompagnata da ulteriori signa, come lucisoprannaturali, rumori improvvisi o comportamenti anomali daparte di animali, diventa altro da sé, facendosi “indizio” della pre-senza di una sacra effigie da cultuare e, pertanto, necessitante di unnuovo tempio.

Sistemazione spaziale (reale e/o leggendaria) dell’albero sacro

Dopo esser stato testimone di un evento straordinario, il prota-gonista del racconto di fondazione adempie alla richiesta dellaVergine e riporta l’accaduto al resto della collettività. Da questomomento in poi, la devozione travalica la condizione privata ini-ziale e raggiunge un livello pubblico, attraverso un primo pellegri-naggio da parte dei nativi verso l’albero ierofanico.

Sarà questo il luogo dove convergeranno i primi devoti, questala sede dove essi depositeranno i loro ex-voto, questo lo spaziosacro intorno al quale sorgerà il nuovo santuario richiesto dallaVergine. La sede dell’albero è dunque interpretata come epicentrodella sacralità, come luogo particolarmente predisposto ad accoglie-re il nuovo tempio. Ma quale sarà il destino dell’albero nel proces-so di sistemazione del culto e nel corso dell’edificazione del san-tuario definitivo? Le soluzioni possono essere svariate, ma riserve-ranno sempre “degna” collocazione all’elemento arboreo.

In alcuni casi, la chiesa viene costruita nell’area immediatamen-te contigua alla pianta, in modo tale da lasciare quest’ultima cometestimonianza sempre vivente dei prodigi accaduti. La sua vita,infatti, continuerà a perpetuarsi simbolicamente anche al termine

DEFINIZIONE DI UNA TIPOLOGIA 23

del naturale corso biologico, quando un’altra giovane pianta verràadditata dal gruppo come sua sostituta.

In altri casi, l’albero viene incorporato all’interno del santuariostesso e posto simbolicamente alla base dell’altare maggiore.Tuttavia, il risultato di questa operazione è riscontrabile empirica-mente in circostanze isolate: in Abruzzo, ad esempio, soltanto ilculto della Madonna dell’Elcina presenta in modo visibile il troncodi un albero incastonato in una nicchia. In tutti gli altri contesti, iresti dell’albero sacro non sono direttamente osservabili, perché(ritenuti) murati all’interno della struttura architettonica, come tra-mandano le varianti narrative delle leggende.

Dopo tutto, la verifica empirica non ha alcun valore nell’econo-mia di un culto interamente basato su processi di tipo simbolico.Ciò che importa è che l’albero sia ritenuto essere lì, custodito all’in-terno dell’altare, elemento che più di ogni altro si presta a divenire- proprio come la sua controparte vegetale - ricettacolo della divi-nità, in quanto luogo in cui l’essenza sacra si concentra al massimodella sua effusione.11

In altri casi ancora, laddove non sia stata conseguita alcuna siste-mazione (reale o leggendaria) dell’albero, si racconta che esso siastato ridotto in pezzi e distribuito tra i devoti con il valore di reliquia.

Pratiche rituali connesse all’elemento arboreo

Se il valore simbolico dell’albero fosse circoscritto al fatto diessere stato ricettacolo della divinità, esso assolverebbe esclusiva-mente ad una funzione narrativa, trovando collocazione nell’ambi-to dei culti soltanto in qualità di elemento mitico.

SANTE MARIE DEGLI ALBERI24

11. «Microcosm and catalyst of holiness, ritual and architectural centrepiece, the altar reprodu-ces on a small scale the entire temple and the universe itself. It is the place in which the mostpowerful distillation of holiness, since on or near is the place of sacrifice, that is to say ofsomething which makes holy. For this reason it is raised (altum) above its surroundings» (J.CHEVALIER, A. GHEERBRANT, A Dictionary of Symbols, London, Penguin, 1996, p. 18).

Di fatto, invece, la componente arborea in alcuni contesti si cari-ca di altre valenze che ne accentuano il «significato operazionale».12

La pianta ierofanica, in altre parole, può svolgere una funzione“operativa” nell’ambito dei sistemi rituali, divenendo sacra di persé e ricevendo da parte dei devoti un trattamento analogo a quelloriservato agli altri oggetti di culto. Infatti, può accadere che lasacralità e la taumaturgia attribuite a immagini e/o statue ricada-no “per contagio” anche sulla sede del loro originario rinvenimen-to. È così che i rami, le foglie, la resina, le radici e gli ultimi resti del-l’albero possono acquisire poteri taumaturgici in virtù dei qualiessi vengono prelevati e conservati da parte dei devoti, a scopopreventivo e curativo.

Visti nell’economia globale del culto, i comportamenti appenadescritti risultano comunque secondari e “di corredo” rispetto alleprincipali celebrazioni che solitamente ruotano attorno ai corteiprocessionali con simulacri e/o dipinti. Tuttavia, anche se in casiisolati, il livello “operativo” del simbolo arboreo può emergere conmaggiore sostanzialità, al punto tale da rivestire un ruolo di primoordine nella stessa configurazione dei processi rituali. Un esempiodel genere è riscontrabile nei riti di circumambulazione all’internodel luogo di culto (comprendenti nel loro itinerario anche l’altaremaggiore che si ritiene conservi il tronco sacro), riti che potrebberorichiamare alla mente antiche pratiche di matrice pre-cristiana notecome “girate” e consistenti in ripetuti giri intorno all’albero sacro.13

Al giorno d’oggi, questa “operatività” della componente arbo-rea è andata complessivamente edulcorandosi e nella maggiorparte dei casi ha perso quasi del tutto il suo carattere sacrale, rima-nendo viva esclusivamente nella leggenda come un lontano “ricor-do ancestrale”, di non sempre chiara ed univoca rappresentabilità.

DEFINIZIONE DI UNA TIPOLOGIA 25

12. «Il “significato operativo” - dice Turner - riguarda non quello che le persone diconosu di un simbolo, ma come esse agiscono in riferimento a esso» (V. TURNER, E. TURNER,op. cit., p. 195).13. Cfr. T. SEPPILLI, cit., p. 107. Per un esempio sulla continuità di tali pratiche, reiterate-si nel tempo a livello inconscio, si rimanda alla lettura della sezione riservata allaMadonna del Crognale, nella seconda parte del saggio (pp. 113-115).

Spesso i devoti non hanno affatto conoscenza empirica della speciebotanica menzionata nel culto (fattore quest’ultimo probabilmenteconnesso all’uso di termini dialettali caduti ormai in abbandono)ed associano il fitonimo esclusivamente all’epiteto della loro pro-tettrice, limitandosi ad indicare, quale sede degli eventi leggenda-ri, piante di più comune distribuzione territoriale.

Rappresentazione iconografica

L’aver riservato un’ultima posizione a questa componente nonsignifica affatto che essa sia di secondario interesse. Al contrario,nel panorama cultuale mariano, la rappresentazione iconograficaoccupa un ruolo di primissimo piano al pari del racconto eziologi-co, del quale, si potrebbe affermare, essa costituisce l’alter ego inimmagini. Nella maggior parte dei culti, infatti, quadri, statue,affreschi e santini ripropongono costantemente la scenografia del-l’evento ierofanico.

Nei dipinti, la Vergine viene sempre raffigurata adagiata sullafolta chioma dell’albero, a volte seduta, a volte eretta. Soprattuttoin quest’ultima rappresentazione, appare con chiarezza come tra ilcorpo della Madonna e la conformazione dell’esemplare vegetaleesista un rapporto di quasi completa omologazione che, se da unlato mette in risalto l’antropomorfia dell’albero, dall’altro suggeri-sce una corrispondenza corpo femminile-pianta:

La Madonna […] è rappresentata come la naturale estensione deltronco, circondata dai rami. Non sappiamo quale divinità possaessere: per noi è una Madonna che si insedia dentro la linfa arborea,fra le sue radici, nella terra.14

Questo modello iconografico viene riproposto anche in presen-za dei simulacri, alla base dei quali può spesso trovarsi una scultu-ra raffigurante l’albero. Ogni rappresentazione, pertanto, viene

SANTE MARIE DEGLI ALBERI26

14. F. ROMANO, Madonne che piangono. Visioni e miracoli di fine millennio, Roma, Meltemi,1997, p. 19.

modellata sulla base della leggenda, ma non tutte le icone rivesto-no uno stesso ruolo nell’ambito della devozione, né possiedono lostesso grado di sacralità. Solo una di esse si delinea come “reale”,come prototipo da cui tutte le altre derivano e assolve alla duplicefunzione di materializzazione e di costante riattualizzazione dellaierofania. Si tratta solitamente dell’effigie ritenuta essere oggettodel ritrovamento. In essa l’identificazione con la Vergine è totale;un legame speciale unisce la divinità alla sua rappresentazione,legame costantemente confermato dall’accadere di eventi prodi-giosi, di fronte ai quali l’uomo non può che rilevare l’inconsistenzadella sua volontà.

Interpretata attraverso il suo «significato esegetico»,15 l’iconapulsa di vita propria; decide da sé dove essere collocata e lo fa conperentoria determinazione. Se i devoti provano a rimuoverla, essadiventerà pesante oltre misura fino a divenire intrasportabile,oppure tornerà da sola al “proprio” posto. Se si allontana dalla suanicchia, lo fa senza intervento umano, magari allo scopo di proteg-gere il “suo” popolo da un potenziale nemico.

Questo tipo di immagini contiene in sé parte dell’essenza numi-nosa e nell’ambito del culto mariano (non basato su un corpo davenerare) è divenuto quello che le reliquie rappresentano nel pano-rama delle devozioni riservate ai santi martiri.

In fondo, è da ricondurre sicuramente a questa causa il fatto che«il marianismo [sia] diventato nella pratica rituale cristiana l’epito-me della iconicità».16

DEFINIZIONE DI UNA TIPOLOGIA 27

15. Il significato esegetico riguarda l’interpretazione del simbolo fornita dai locali, ossiada coloro che in prima persona partecipano del culto e prendono parte ai rituali. (Cfr.V. TURNER, E. TURNER, op. cit., p. 299).16. Ibidem, p. 287.

Prima di addentrarci nell’esame dei significati e delle implica-zioni di carattere antropologico che questi particolari culti conti-nuano a rivestire nell’ambito delle devozioni locali contempora-nee, può essere utile compiere un passo indietro ed aprire una fine-stra sul passato, nel tentativo di rintracciare alcune delle influenzeche possono aver contribuito a modellare questo fenomeno cosìcome oggi ci appare: un tuffo nella storia alla ricerca di quella chia-ve che possa in qualche modo facilitare l’accesso a ciò che attual-mente possediamo.

Da quanto descritto ed analizzato nel corso della precedentesezione, infatti, è emerso come il panorama delle madonne arboree,nonostante la sua ampiezza, riveli una unitarietà di fondo che per-mette a queste figure di essere definite secondo una tipologia chia-ramente distinguibile nell’ambito delle rappresentazioni mariane.Ora, di fronte al coniugarsi di queste due condizioni (vastità di dif-fusione da un lato, coerenza tipologica dall’altra) lo stesso TullioSeppilli non può non intravedere, alla base del fenomeno, unatrama di riscontri ben più ampi, sedimentati su «più antiche eprofonde radici»17 che rinviano ad un passato lontano e sommerso,ma ancora in parte vivo nel codice genetico dei culti contemporanei.Con ciò si è assolutamente lontani dall’ipotizzare che le nostre“Sante Marie degli Alberi” siano l’esatta riproposizione di arcaicherealtà, ma si intende soltanto riflettere sulle possibili strade percor-

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TEMPI E LUOGHI DELLE IEROFANIE ARBOREE

17. T. SEPPILLI, cit., p. 108.

se dai processi di configurazione degli immaginari collettivi.Questi ultimi, infatti, non risultano del tutto autonomi e spesso si

mostrano estremamente permeabili, al punto tale che quanto oggipertiene ai patrimoni culturali locali spesso può rivelarsi come ilrisultato di secolari incontri e di continui scambi tra culture diverse,lontane nel tempo e nello spazio. Spiega sempre Tullio Seppilli:

Ciò non significa con evidenza che ogni singolo culto a una Madonnacon riferimenti arborei debba derivare necessariamente […] da unpreesistente culto locale arboreo precristiano […] si vuole soltantosottolineare come probabilmente dietro a queste figure […] giochicomunque la reiterazione di alcuni schemi culturali e comportamen-tali: la cui persistenza […] si potrebbe rapportare almeno in certamisura al mantenersi - nelle campagne europee fino a un’epoca abba-stanza recente - di alcuni essenziali elementi dello stile di vita e delquadro esistenziale che avevano caratterizzato le società rurali.18

È così che guardando con attenzione al DNA delle madonne arbo-ree si scopre che l’epifania di una divinità in un albero è stato unmotivo ricorrente su tutto il territorio mesopotamico-egiziano-egeo, nonché su quello europeo.

L’albero sacro mesopotamicoL’antica Sumer fu culla di una delle divinità mesopotamichepiù venerate durante l’era del Bronzo: Inanna, altresì nota conil nome di Ishtar. Protagonista insieme al suo paredro Dumuzidi miti cosmogonici connessi ai processi procreativi, questadea assurse a rappresentazione divina della vita, in tutte le sueforme.19 Nelle vesti di “Regina della Terra”, presiedeva ai cicli

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18. Ibidem, p. 109.19. Il ciclo mitologico che narra le vicende di Inanna risale al II millennio a.C. ed è statotramandato da tavolette in cuneiforme sumerico (cfr. S. HUSAIN, La Dea, Torino, E.D.T.,1999, p. 77). Proprio nell’ambito del culto intitolato ad Inanna si registrano - probabil-mente per la prima volta nel contesto mediterraneo - rituali collegati a forme di iero-dulia (cfr. Ibidem, pp. 98-101; A. BARING, J. CASHFORD, The myth of the Goddess. Evolutionof an Image, London, Penguin, 1991, pp. 197-199) A questo tipo di pratiche si richiame-rebbe anche quanto indicato nella legge sacra di Rapino, della quale si avrà modo diparlare nel corso della seconda parte di questo saggio, nella sezione riservata allaMadonna del Carpine (p. 86).

vegetali inerenti soprattutto le produzioni di grano e di vino, eproprio perché qualsiasi essere vivente era considerato parteintegrante della sua essenza divina, venne spesso associataall’albero, quale sede preferenziale delle sue epifanie.Coerentemente al territorio in cui i suoi devoti vivevano, lemanifestazioni arboree potevano far riferimento ad un sico-moro, ad una palma da dattero, ad un cedro, ad un melo o adun ulivo; in ogni caso, ognuno di questi alberi poteva divenirel’emblema della sua presenza, se collocato - come di soventeaccadeva - nelle vicinanze di un suo tempio.20

Anche la cultura assiro-babilonese espresse questa stessa ideadella fertilità attraverso un albero sacro, identificato con ilkiskanu che si ergeva nel centro di Eridu. Ricettacolo dellaGrande Madre Bau, divinità dell’abbondanza e regina dellegreggi, quest’albero era ritenuto esercitare poteri taumaturgiciin virtù delle sue profondissime radici che si riteneva arrivas-sero fino al mondo sotterraneo.21

I boschi cananeiAnche la regione del Canaan conobbe, a partire dal II millen-nio a.C., una divinità femminile legata a contesti arborei. Sitratta della dea Ashera, il cui culto, menzionato per la primavolta in un’iscrizione sumerica del 1750 a.C., perdurò nellaparte settentrionale di Israele per altri mille anni. Il suo nomeavrebbe avuto originariamente il significato di “utero”, termi-ne riconducibile ad una dea della fertilità, strettamente con-nessa ai cicli riproduttivi.22 Alla luce di questa sua tipizzazio-ne, risulta chiaro come una ierofania vegetale non potesse cheenfatizzare il suo aspetto di “datrice di vita”. I suoi luoghi diculto erano perciò rappresentati principalmente da boschi,sacralizzati attraverso la presenza di un qualche asherim: scul-ture lignee ritraenti la dea e ricavate dalla lavorazione deglialberi ierofanici.23 Questa devozione si sarebbe affermata in

TEMPI E LUOGHI DELLE IEROFANIE ARBOREE 31

20. A. BARING, J. CASHFORD, op. cit., pp. 195-196.21. Cfr. J. BROSSE, Mitologia degli alberi, Milano, Rizzoli, 1991, p. 23; A.M. DI NOLA, Albero,erbe, piante, in “Enciclopedia delle Religioni”, Firenze, Vallecchi, 1970, pp. 130-131.22. Cfr. S. HUSAIN, op. cit., pp. 38-39.23. Cfr. A. BARING, J. CASHFORD, op. cit., p. 454.

modo tale che quasi ogni colle cananeo avrebbe custodito sullasua sommità una di quelle icone. E d’altra parte, l’identifica-zione della divinità con l’ambientazione silvestre non può cheessere stata totale, se anche la Bibbia, riferendosi ad Ashera, ladefinisce come «quella del boschetto».

L’albero della vita nell’antico EgittoNel contesto dell’antico Egitto, l’elemento arboreo si caricò diulteriori valenze che lo assimilarono a quella particolare rap-presentazione indicata solitamente come “Albero della Vita”.24

In questo caso, infatti, l’albero non era soltanto sede epifanica,ma in virtù dell’intervento divino, si faceva esso stesso veico-lo di vita e di sostentamento, strumento attraverso il quale laDea poteva continuare a nutrire i suoi uomini anche post mor-tem. Con tale configurazione appariva il sicomoro egiziano,attraverso le cui fronde sembrava quasi “mimetizzarsi” la deaHathor - dea dell’amore e della fecondità femminile - in pro-cinto di accogliere i defunti nell’aldilà, dispensando loro cibo ebevande. In virtù di questo modello iconografico, l’antica divi-nità egiziana veniva anche a ricoprire - oltre a quello di “VaccaDivina” - anche l’epiteto di “Signora del Sicomoro meridiona-le”. In maniera molto simile, il sicomoro è stato omologatoanche ad Iside, a volte rappresentata come dendromorfa, inatto di allattare il faraone attraverso il fogliame dell’albero.25

La Grande Madre cretese: signora degli alberiSituata al centro degli importanti scambi che vedevano coin-volte tutte le antiche popolazioni mediterranee, Creta divenneil luogo in cui il culto della Grande Madre trovò la sua più vivaespressione.26 Sebbene i primi segni di questa forma religiosa

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24. R. COOK, L’albero della vita. Le radici del cosmo, Como, Edizioni red., 1987; A.M. DI

NOLA, cit., pp. 129-132.25. A.M. DI NOLA, cit., p. 130.26. Secondo la lettura fornita da E.O. James, fu proprio da questa isola che il culto dellaGrande Madre penetrò nell’Occidente. Il ritrovamento in territorio iberico di numerosestatue con forme molto vicine a quelle rinvenute presso il Mediterraneo Orientale, sug-gerirebbe che i primi popoli neolitici stanziatisi nel continente fossero familiari con iculti orientali di divinità femminili (E.O. JAMES, The Cult of the Mother Goddess, London,Thames & Hudson, 1959, p. 44).

risalgano al IV millennio a.C., fu solo nel periodo mediominoico (2100-1700 a.C.) - che coincise con un rafforzamentodei rapporti commerciali con l’Asia Minore - che la Dea iniziòad emergere come un numen dai contorni ben definiti, nellasua triplice connotazione di Madre-Terra, di Signora degliAlberi, e di Signora degli Animali.27 Per quanto riguarda l’a-spetto che in questa sede ci interessa maggiormente, è da sot-tolineare come anche in questo contesto la divinità, qui identi-ficata come Britomarte o Dictunna, si manifestasse soprattuttoattraverso epifanie arboree, solitamente connesse alla quercia.Va aggiunto, inoltre, che in territorio cretese il riferimentoarboreo risulta piuttosto enfatizzato, soprattutto in termini dioperatività rituale. Il carattere sacro delle cerimonie, infatti, siconcentrava non solo sulla divinità ma anche sugli alberi stes-si; il che motiverebbe l’uso del termine «dendrolatria» utiliz-zato da alcuni studiosi per descrivere il culto minoico.28 Quelliintitolati alla Grande Madre erano rituali riservati esclusiva-mente alle donne, le quali non si limitavano ad adorare la deama divenivano protagoniste di complesse pratiche propiziato-rie caratterizzate dalla centralità riservata agli alberi.29

Quando la civiltà cretese tramontò per cedere il passo a quellaellenica, i numerosi attributi e funzioni della Grande Madreandarono fondendosi con elementi indoeuropei e vennerosuddivisi tra diverse divinità.

L’albero sacro nel contesto ellenicoNel nutrito pantheon delle divinità femminili elleniche,Rea/Hera rappresenta quella che più di ogni altra è giudicatarivelare chiare origini minoiche. Tale derivazione sarebbe inparte riconducibile proprio al ruolo che la dea occupava nel-

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27. Ibidem, p. 129.28. Cfr. J. BROSSE, op. cit., p. 91 e segg.29. «Tale dendrolatria […] non era unicamente un rito di adorazione, ma si concretiz-zava in danze estatiche destinate a provocare l’accrescimento delle piante, in annaffia-menti magici il cui scopo era quello di far cadere la pioggia fecondatrice e infine nellosradicamento dell’albero sacro. Questa cerimonia celebrava la morte annua della vege-tazione […] ma anche […] le si attribuiva l’effetto di far sprigionare l’energia contenu-ta nell’albero, energia della quale avrebbero usufruito gli alberi e le piante che sarebbe-ro rinati in primavera» (Ibidem).

l’ambito di culti arborei.30 Era lei, infatti, la figura numinosache con il nome di Dione e in qualità di consorte di Zeussovrintendeva all’oracolo di Dodona, località dell’Epiro pressocui, a partire dal VII secolo a.C., si andarono affermando pra-tiche rituali legate alla dendromanzia. Qui gli Elleni si recava-no allo scopo di consultare le Pleiadi, profetesse esperte neltrarre auspici attraverso il fruscio emanato dal fogliame di unaquercia sacra a Zeus. Ebbene, secondo la ricostruzione delculto elaborata da Brosse, la presenza del dio maschile andreb-be collocata su un secondo piano e deriverebbe dalla sovrap-posizione di un elemento indoeuropeo su un culto preesisten-te, esclusivamente intitolato ad una divinità femminile.31

Infatti, «nel culto dell’albero sacro - così afferma lo studioso -la vera divinità dell’albero è sempre una dea, la GrandeMadre, la Terra, la Signora della vegetazione».32

Accanto a Dione, altre figure divine condivisero il legame conil contesto religioso cretese; è il caso di Artemide, attraverso lacui identità gli elementi costitutivi della Grande Madre minoi-ca vennero proiettati nella cultura greca classica.33 Venerataanch’essa al centro di foreste e di boschi, Artemide venne arappresentare «the immanent presence of the whole of nature as asacred reality»,34 divinità custode della natura selvaggia, deiluoghi inviolati, degli animali indomati, tutrice della vita intutte le sue forme. Per queste sue caratteristiche, divenne ladea più venerata nelle regioni rurali della Grecia, invocatasoprattutto dalle donne gravide, dalle partorienti e dallepuerpere.35

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30. Ibidem, p. 69.31. Ibidem, pp. 59-70.32. Ibidem, p. 68.33. E.O. JAMES, op. cit., p. 150.34. A. BARING, J. CASHFORD, op. cit., p. 322: «La presenza immanente della interezza dellanatura in qualità di realtà sacra». [Trad. dell’A.]35. È importante precisare che Artemide, nonostante questo particolare patrocinio, non fuuna Dea Madre, ma una dea casta che rappresentò spesso la vergine inviolata, assurgen-do contemporaneamente a protettrice delle donne nubili. Non a caso veniva preferibil-mente accompagnata da bambine in età pre-puberale (cfr. Ibidem, p. 326). Questo ruolo diprotettrice della fertilità risultava molto accentuato nella versione efesina del suo culto.Nel tempio di Efeso, infatti, la divinità era raffigurata da una enorme statua con numero-sissimi seni oviformi distribuiti sull’intero busto e definita per questo polumastos. L’effigie

Gli alberi sacri nell’Italia pre-cristianaPer effetto dell’ellenismo, i culti delle divinità elleniche si pro-pagarono in modo più o meno omogeneo su tutto il mondomediterraneo, trasformando a loro immagine le forme preesi-stenti, ma rimanendone a loro volta influenzati. Era il risulta-to di un atteggiamento profondamente sincretistico, che mira-va a ridurre la distanza culturale tra le popolazioni entrate incontatto, accentuando i tratti simili e le analogie e minimiz-zando le differenze.Un modus operandi assunto e perorato in seguito dalla Romarepubblicana, che fece dell’Italia il palcoscenico preferenzialedi importanti incontri tra culture. Il panorama religioso risen-tiva in particolare di questa politica e trovava la sua identità inuna eterogeneità di fondo, frutto di influenze ellenistiche, ita-liche, nonché celtiche e germaniche.Restringendo il campo sui culti di matrice arborea, è sorpren-dente notare come molte di quelle rappresentazioni osservatesul suolo ellenico si ritrovarono quasi intatte anche a Roma,per effetto di quel processo di “adozione” conosciuto comeinterpretatio latina.I colli romani erano ricchi di querceti sacri a Giunone, e sulCampidoglio, proprio nelle vicinanze di una quercia secolare,sorgeva un importante tempio di Giove. È noto come questoluogo fosse meta sia di generali e di imperatori vittoriosi - che visi recavano cingendosi il capo con corone di foglie di quercia -sia di nobili matrone romane, solite portarvisi in pellegrinaggioin periodi di particolare siccità. Al pari del Campidoglio, ancheil Celio - altresì noto come “monte del bosco di querce”- custo-diva un tempio intitolato al Padre degli dei.Accanto a Zeus ed Era, il pantheon romano “importò” anche ilculto ellenico di Artemide che continuò ad essere venerata incontesti silvestri con il nome di Diana.36 Non a caso, riferendo-

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era ritenuta sacra, perché, secondo una leggenda locale, era giunta dal cielo e mandataagli uomini direttamente dagli dei. La città di Efeso, inoltre, era stata già culla del cultointitolato alla Grande Dea anatolica Cibele, e nel 431 d.C. (a distanza di circa mille annidall’affermarsi del culto ellenico) divenne sede di quell’importante Concilio, nel corsodel quale Maria fu ufficialmente riconosciuta come Madre di Dio.36. Tra i numerosi boschi intitolati a Diana, il più noto alla letteratura storico-religiosaè sicuramente quello di Nemi, di frazeriana memoria.

si a questa divinità il poeta cristiano Commodiano usa l’epi-teto di Nemoriensis (quella del bosco); il rapporto tra la com-ponente arborea e la dea era così ravvicinato che semplicirami o tronchi potevano divenire oggetto di culto in qualità disuoi ricettacoli.37

Come già accennato, i culti con riferimenti vegetali attestati sulsuolo italiano non erano unicamente riconducibili alle influen-ze mediterraneo-orientali, ma rinviavano anche al complessodelle valenze sacre attribuite agli alberi da parte delle popola-zioni europee, in particolar modo celtiche.38

Benché non si abbiano notizie pienamente attendibili circa lareligione di queste etnie,39 risulta come dato generalmenteacquisito quello che riconosce nel nemeton (bosco di quercesacre) il santuario celtico per antonomasia. D’altronde, quanto ilculto della quercia fosse affermato tra queste popolazioni sareb-be suggerito dall’errore in cui incorse lo stesso Plinio, il quale,profondo conoscitore delle loro cerimonie officiate in connessio-ne con questa specie arborea, considerò il termine druida comederivazione dal greco drus (quercia).40 Più propriamente, invece,il sostantivo con il quale si indicavano i sacerdoti celtici era diorigine prettamente indoeuropea e sarebbe derivato da *dru-wid, ossia “quello di grandissimo sapere”.41

Determinare con certezza quale divinità si celi dietro la venera-zione celtica della quercia non è semplice, ma potrebbe essere cer-cata dietro quei numina che Giulio Cesare filtrò attraverso la let-tura latina: Mercurio, Apollo, Marte, Giove e Minerva.Comunque, «qualunque possa essere stato lo Zeus adorato daiCelti sotto forma di quercia, presso quel popolo il culto di que-st’albero era molto antico. I Celti lo avevano portato con sé duran-te la loro lunga migrazione».42 Va inoltre aggiunto che nel mondo

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37. Cfr. R. GRAVES, La Dea Bianca. Grammatica storica del mito poetico, Milano, Adelphi,1992, p. 296.38. Cfr. T. SEPPILLI, cit., pp. 108-110.39. La quasi totalità delle fonti sulle popolazioni celtiche è di matrice greca, latina emedievale e nella maggiorparte dei casi risulta influenzata da letture etnocentriche.(AA.VV., Dizionario delle religioni, Torino, Einaudi, 1993, p. 136).40. Cfr. J. BROSSE, op. cit., p. 84.41. Cfr. AA.VV., Dizionario delle religioni, cit., p. 211.42. J. BROSSE, op. cit., p. 83. I Celti furono una popolazione di origine indoeuropea che

celtico, il simbolo arboreo si carica di altre valenze che oltrepas-sano il contesto puramente religioso; i loro boschi, infatti, eranosede non solo di rituali sacri ma anche di assemblee a caratterecivile, e nulla sembrerebbe più appropriato dell’affermazionesecondo cui «il culto della quercia per un druido era analogo alculto della propria casa, del suo tempio e del proprio paese».43

Durante la trattazione di questo breve e sommario excursus nelmondo dei culti arborei che hanno permeato il panorama delle reli-gioni antiche, è emerso come, tra tutte le specie vegetali distribuitein area mediterranea ed europea, una in particolare sia assurta adalbero sacro per antonomasia: la quercia. Da Creta a Dodona, dallaGallia a Roma, abbiamo osservato come la devozione riservata aquesta categoria vegetale fosse un fenomeno antichissimo riscon-trabile in numerosi santuari.

Se per un verso scambi commerciali, guerre colonialistiche eridefinizione dei confini tra diverse culture contribuirono sicura-mente a diffondere l’idea che particolari alberi potessero esseresede privilegiata di entità numinose, per un altro è pur vero che laloro sacralizzazione era anche rapportabile a fattori “ontologici”,ovvero alle loro caratteristiche botaniche, nonché al loro utilizzomateriale da parte degli uomini. Per quanto riguarda la quercia inparticolare, la sua robustezza, la resistenza del suo legname, la suaparticolare longevità,44 accanto alla sua vasta distribuzione territo-

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fece la sua prima comparsa nei pressi delle sorgenti del Danubio e del Rodano intornoal I millennio a.C. Vissero la loro massima espansione tra il V ed il III secolo a. C., quan-do arrivarono a insediarsi su gran parte del Mediterraneo e dell’Europa. Per quantoriguarda il panorama italiano, furono presenti su tutta la vallata del Po, in Puglia e inSicilia; a Oriente raggiunsero la Grecia e l’Asia Minore; a Occidente la Francia, laSpagna, il Portogallo; i territori sui quali la loro cultura permase più a lungo furonol’Irlanda e la Gran Bretagna. Nell’economia di questo saggio, inoltre, potrebbe essereutile considerare che tracce della presenza celtica sarebbero state rilevate anche inAbruzzo, soprattutto per quanto riguarda il panorama delle necropoli (Cfr. a propositoG. SGATTONI, L’Abruzzo antico, Lanciano (CH), Carabba, 1979, pp. 233-236).43. A. DE GUBERNATIS, Un’antica madre: la quercia, in http://utenti.tripod.it/ studipoli-teisti/quercia.htm, p. 4.44. Relativamente a questi suoi tratti distintivi, potrebbe essere importante notare come

riale, ne hanno fatto un sinonimo di regalità, di maestà, di potenza,di protezione. Oltre alle molteplici peculiarità appena elencate, laquercia ha il potere di attirare e di annientare il fulmine; grazie atale aspetto - in virtù del quale essa venne associata al dio uranicoper eccellenza, Zeus/Giove - protegge dai pericoli associati ai tem-porali, ma nello stesso tempo è ritenuta essere, per estensione sim-bolica, apportatrice di piogge.45

L’importanza che questo albero ha rivestito per l’uomo in ter-mini di “risoluzione del rischio”, appare ancora più evidente se siprendono in considerazione i due prodotti naturali intimamenteconnessi al suo ciclo vegetativo: le ghiande e il vischio. In meritoalle prime, è noto come queste - non a caso giudicate dai greci comel’alimento primordiale degli uomini - in periodi di particolare care-stia siano riuscite a compensare, almeno in parte, la mancanza dicibo. Fino al XVIII secolo, infatti, in seguito a processi di essicca-zione e di macinazione, furono utilizzate in tutta Europa comesostitute del grano per la produzione di farina.46 Per quanto riguar-da il vischio, invece, al di là della sua riconosciuta componentesacra, era ritenuto avere utilissime proprietà officinali e stupefa-centi qualità magiche.

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l’omologazione tra l’albero e l’idea di potenza ritorni frequentemente anche sul pianosemantico, con connessione ai più diffusi tipi di quercia. Laddove il tipo “rovere” deri-va direttamente dal latino vis, roboris (forza, vigore), il tipo “cerro” mostrerebbe piùprofonde valenze che vedrebbero la quercia omologata alla pietra. Il termine latino cer-rus, infatti, deriverebbe dalla radice indoeuropea *kar (duro), dalla quale trarrebbe ori-gine anche carra (pietra). (Cfr. R. CAVALLARO, La pietra, la quercia e i cavalieri. San Biagiotra folklore e mito, Roma, SEAM, 1996, pp. 76-78). L’unità semantica sembra inoltre con-fermata in allusioni avanzate da autori come Esiodo e Omero, i quali, con l’espressione«discorrere della quercia e della roccia», riconoscono tanto alla quercia quanto alla pie-tra uguale potere antropogonico. (Cfr. J. BROSSE, op. cit., p. 14) Quercia e pietra, dunque,come sedi omologhe dell’origine dell’uomo e per questo ricettacoli della divinità mater-na. Non è casuale, infatti, che la Grande Madre riconosca quale sede preferenziale dellesue epifanie sia il contesto arboreo che quello litico.45. Cfr. in proposito A. DE GUBERNATIS, cit., pp. 1-2.46. J. BROSSE, op. cit., p. 78.

I boschi sacri abruzzesi

Non diversamente dai contesti esaminati, anche l’anticoAbruzzo condivise realtà cultuali in ambienti silvestri, e tutto il ter-ritorio fu soggetto a continui e complessi processi di sacralizzazio-ne che hanno lasciato un profondo segno nelle culture locali, segnoin parte riscontrabile nel contemporaneo atteggiamento ecologistamanifestato dalle collettività.

In questa regione, la presenza di boschi sacri intimamente con-giunti a divinità femminili sarebbe antecedente alla romanizzazio-ne e andrebbe rintracciata in fenomeni religiosi di matrice italica.Infatti, come sembrerebbero dimostrare gli scavi archeologici con-dotti nel corso del secolo passato, alcuni templi, pur essendosi svi-luppati ed ampliati sotto l’influsso greco-romano, mostrano chiareorigini autoctone rapportabili alla venerazione di numina locali incontesti boschivi.47

È il caso ad esempio della dea Feronia, divinità di probabile ori-gine sabina, cultuata, oltre che nei noti santuari laziali (Capena,Fiano Romano, Terracina, Palestrina) anche in alcune localitàabruzzesi.48 Come chiaramente suggerisce il suo nome - evidentederivazione dall’aggettivo latino ferus, a, um - il ruolo fondamenta-le rivestito da questo nume era quello di “addomesticare” le forzeselvagge della natura e di piegarle al servizio degli uomini. Risulta

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47. «La religiosità italica non era stata in origine legata a luoghi di culto, ma alla natu-ra nei cui ambiti era immanente la divinità, tanto che i primi santuari [...] non dovette-ro essere altro che semplici altari all’aperto. Questi primi luoghi di culto […] andaronolentamente consolidandosi nei loro rapporti con le tipiche forme sparse dell’abitato ita-lico […] Gli stretti legami con Roma avviatisi dalla fine del IV sec. a.C. e poi la pro-gressiva diffusione di influssi ellenistici nelle aree della media Italia adriatica con il IIsec. a.C. non mancarono di costituire un forte stimolo alla progressiva sistemazione epoi monumentalizzazione dei luoghi di culto» (A.R. STAFFA - a cura di -, Loreto Aprutinoed il suo territorio dalla Preistoria al Medioevo, Pescara, Carsa, 1998, p. 42).48. Tracce del culto intitolato a Feronia sono state rinvenute presso le località diPoggioragone di Loreto Aprutino (PE), di Amiterno (AQ), di Civita di Bagno (AQ) (cfr.Ibidem, p. 54). Secondo il Palma, un tempio dedicato a questa dea si sarebbe trovatoanche nella campagna ad Occidente del fosso del Gesso, a due miglia da Teramo. (Cit.in G. SGATTONI, op. cit., p. 279).

del tutto coerente, perciò, il fatto che fosse venerata all’interno o inprossimità di boschi. L’identificazione tra questa dea ed il contestosilvestre è talmente ricorrente che nella maggior parte dei culti ilnome Feronia appare indissolubilmente legato a quello di lucus.Bosco sacro, dunque, come unica realtà adeguata a farsi ricettaco-lo dell’essenza divina: questo il senso espresso dal racconto secon-do cui

talmente importante era il rapporto del culto con il bosco che,essendosi incendiato il bosco che esisteva presso il santuario diTerracina, e volendo gli abitanti asportarne le statue, narra la leg-genda che la dea facesse rifiorire subitaneamente il bosco bruciato,piuttosto che accettare il mutamento di sede.49

Dopo il II secolo a.C. accanto alla figura di Feronia andò affer-mandosi - per effetto della romanizzazione dei popoli italici e peril conseguente diffondersi della cultura ellenistica -50 quella deltutto similare della potnia theròn, la Signora degli Animali identifi-cata con Artemide/Diana.

Oltre a Feronia, anche un’altra divinità italica era congiunta agliambiti arborei. Si tratta della marsa Angizia, il cui tempio - intornoal quale si sviluppò la città di Anxa-Angitia -51 sorgeva a ridosso diun bosco sacro che ha dato nome all’attuale cittadina di Luco deiMarsi (AQ). Anche nel culto di questa dea risulta evidente il rap-

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49. Ibidem, p. 53.50. In questo periodo, diversi esponenti delle grandi famiglie italiche più vicine all’am-biente romano iniziarono a dedicarsi in maniera più costante al commercio, favorendola comparsa di grandi porti sulle coste orientali del Mediterraneo. Un esempio è rap-presentato dalla fama di cui iniziò a godere il porto di Delo, che si configurò come unodei maggiori centri diffusori dei culti legati alla figura della Grande Madre. (Cfr. M.J.STRAZZULLA, Per un quadro dell’Ellenismo nell’Abruzzo Meridionale, in A. CAMPANELLI, A.FAUSTOFERRI - a cura di -, I luoghi degli dei. Sacro e natura nell’Abruzzo italico, Pescara,Carsa, 1997, pp. 29-31). D’altra parte, i rapporti delle popolazioni italiche con il mondogreco erano già stati intrapresi nei secoli precedenti e almeno a partire dal VI-V secoloa.C., quando i Piceni si dedicarono con più assiduità alla navigazione (G. SGATTONI, op.cit., pp. 282-283). Per notizie più circostanziate e approfondite su questi popoli si riman-da a AA.VV., I Piceni, popolo d’Europa, Roma, De Luca, 1999.51. Questa città, una delle più importanti del mondo italico, ricoprì un ruolo di primis-simo piano sia nella formazione dell’identità etnica marsa sia durante il processo di

porto con il mondo agricolo, ma i suoi elementi più propriamentedistintivi la associano al contesto funerario e al mondo dei morti.Tanto è vero che nell’ambito della religione romana repubblicananon venne associata a Diana, ma a Proserpina.

L’esistenza di un bosco sacro sembrerebbe attestata anche pres-so la località di Secinaro (AQ), sulle pendici del Monte Sirente, nelluogo dove ora sorge il santuario della Madonna dellaConsolazione.52 Qui era venerata Pelina, eponima dei Peligni e abi-tante dei boschi, in qualità di dea della natura incontaminata.Secondo la tradizione orale, in onore di questa divinità si sarebbe-ro svolte fino ai primi secoli d.C. delle danze a carattere estaticodenominate Sicinnidi, molto vicine ai rituali di tipo dionisiaco. Ora,sempre secondo la stessa leggenda locale,53 a causa di tali pratiche«sacrileghe», l’intera popolazione sarebbe sprofondata in una tristecondizione di peccato e di sofferenze. Un giorno, però, durante unadi queste cerimonie, la dea del bosco irruppe più impetuosamentedel solito dall’ombra, volteggiando tra le querce e recando con séun fuoco che avvolse tutti i presenti. Come sempre, i devoti siabbandonarono, seppur involontariamente, a danze frenetiche e acanti lascivi, senza riuscire a trattenersi. Poi, all’improvviso, il cielooscuro e tenebroso si illuminò di una luce intensa, che al pari diuna meteora si faceva sempre più vicina alla terra; al suo approssi-marsi «le foglie delle querce rabbrividirono, si strinsero, si accar-tocciarono. Il bosco perse la sua linfa. Il Sirente tremò. In un boatotremendo la statua della dea sprofondò in un’improvvisa voragi-ne» dissolvendosi per sempre e al suo posto, con “nuovo” splen-dore, comparve prodigiosamente una statua della Madonna con inbraccio il Bambino, adagiata su un trono di luce. «La mamma di

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romanizzazione dell’Abruzzo, perché fu la prima ad entrare in contatto con Roma; aqueste motivazioni sarebbe da addurre il fatto di essere stata ricordata da Virgilionell’Eneide. (G. GROSSI, Luco dei Marsi. Storia, ambiente, archeologia, Luco dei Marsi,Aleph, 1999, pp. 15, 29).52. Cfr. E. RICCI, Il bosco sacro del Sirente tra Sicinnide e leggenda, Sulmona (AQ), “LaModerna”, 1989.53. Ibidem, pp. 60-62.

Dio, portata dagli angeli alati attraverso le vie del cielo, era venutaa svellere il peccato» e a portare conforto a tutti i peccatori. Per que-sto fu chiamata Santa Maria della Consolazione.

Questo racconto, seppur filtrato attraverso il codice mitico-leg-gendario, mostra chiaramente come spesso il cristianesimo si siaandato sostituendo ai culti pre-esistenti, anche in termini spaziali.Un tema, questo della continuità/discontinuità cultuale, che ciproietta nel vivo delle argomentazioni trattate nel paragrafo chesegue.

Cristianizzazione dei culti arborei

Quando il cristianesimo cominciò a muovere i suoi primi passi,si trovò di fronte ad uno sconfinato panorama di divinità pagane,molte delle quali ricevevano il loro tributo da parte dei devoti insantuari silvestri o presso alberi secolari. Di fatto, l’idea di ierofaniearboree era così radicata e diffusa nelle tradizioni locali che in alcu-ne circostanze i primi missionari intrapresero una vera e proprialotta contro il culto degli alberi, lotta spesso combattuta material-mente a colpi di scure, con l’abbattimento di interi boschi. Taleavversione fu molto accentuata soprattutto in Francia (l’anticaGallia) dove tra il V ed il VI secolo si moltiplicarono i concili pro-vinciali finalizzati a mettere in guardia i fedeli contro le “supersti-zioni” connesse agli elementi naturali. Inoltre, per tutto ilMedioevo, i parroci durante le loro prediche non mancarono diinveire pubblicamente contro tali “idolatrie”.54

Tuttavia, in alcuni casi l’irritazione dei devoti contro la distruzionedegli alberi sacri era così incontenibile che il Cristianesimo si videspesso costretto ad aggirare l’ostacolo, cercando di annientare isimboli pagani dal loro interno, attraverso una rifunzionalizzazio-

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54. Nel 452 il Concilio di Arles legiferò contro il culto degli alberi, delle fontane e dellepietre; nel 567 e nel 568 i Concili di Tour e di Nantes definirono i rituali svolti in pros-simità di boschi come veri e propri sacrilegi (J. BROSSE, op. cit., p. 156).

ne dei luoghi di culto. Fu così che ben presto monaci e missionariiniziarono a stabilirsi all’interno dei boschi, “esorcizzando” l’idola-tria pre-cristiana con la loro stessa presenza. Perciò, laddove primasorgevano santuari silvestri furono innalzati i primi monasteri; lostesso monachesimo benedettino prese avvio dalla rifunzionalizza-zione cristiana del nemeton situato sulle pendici del MonteCassino,55 e alcuni dei primi templi mariani vennero innalzati pro-prio nei pressi di boschi sacri. Basti citare a tal proposito alcuniesempi, come il santuario di Nostra Signora di Le Puy - sede di unantico culto celtico, poi rintitolato a Giove dai Romani - considera-to da Turner «un magnifico esempio di come i centri di pellegri-naggio arcaici innestino i nuovi pellegrinaggi nei vecchi, come pol-loni sui fusti»;56 o come la meravigliosa cattedrale di Nostra Signoradi Chartres, sorta nel mezzo di un querceto druidico.57

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55. Ibidem, p. 185.56. E. TURNER, V. TURNER, op. cit., p. 251.57. J.T. CONNELL, Il messaggio di Maria, Milano, Sperling & Kupfer, 1996, p. 24.

Lungo le linee di un excursus che dalla Mesopotamia ha condot-to fino all’Abruzzo paleo-cristiano, nel tentativo senz’altro ambi-zioso di attraversare i tempi e i luoghi delle ierofanie che via viahanno potuto contribuire allo sviluppo degli immaginari collettivi,si è cercato di far luce sull’origine del fenomeno delle madonnearboree, rintracciando le rappresentazioni più remote che in qual-che aspetto potrebbero ricordare queste particolari manifestazioninuminose. Si è tentato, in altri termini, di ricalcare il percorso di quellungo apprendimento - in larga misura implicito ed inconscio - invirtù del quale le popolazioni locali si sono trovate a modellareconoscenze, idee, gesti e comportamenti riguardo al loro rapportocon il sacro. Tali ricostruzioni, poiché rimandanti ad un passatolontano, tuttavia, non bastano da sole a spiegare il perdurare diqueste forme cultuali fino ai nostri tempi e potrebbero rimanererelegate nel mondo delle “realtà morte” e dei “fossili” se non ade-guatamente affiancate da altre visioni parallele, da altre letturecalate nel panorama socio-ambientale delle singole culture di rife-rimento.

Quale dunque la funzione in termini culturali del simbolo arbo-reo nel contesto a noi più vicino? Quale il significato rivestito daquesti culti mariani sul territorio abruzzese? Quali infine le moti-vazioni e le ragioni che hanno portato alla loro affermazione e alloro perpetrarsi?

Il diffondersi del culto mariano e il “successo” rivestito da que-sta persona numinosa in termini di identificazione con le collettività

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SANTA MARIA DELL’ALBERO COME “DEA LOCI”.LA TERRITORIALIZZAZIONE DEL CULTO MARIANO

è da ricollegarsi in primo luogo ai fenomeni della parcellizzazionee della frantumazione della sua figura in una miriade di rappre-sentazioni locali.

Intorno all’immagine della Madonna, infatti, si è andato via viamodellando - a partire dal Medioevo - un lungo ed eterogeneo pro-cesso di ipostatizzazione;58 ogni epifania, ogni visione si è caricata divalenze uniche, singolari, frutto della cultura del luogo, dando vitaa vere e proprie ipostasi di Maria, concedendo cioè, piena autono-mia di rappresentatività alle singole manifestazioni sacre, e creandosulla base di quest’ultime, tante e diverse figure divine. Tali dina-miche pongono di fronte ad un paradosso tanto evidente quantoinevitabile: la Madre di Dio, pur mantenendo la sua unità teologica,diventa nello stesso tempo molteplice. È una, eppure veste gli abitidi numerose divinità locali, si mostra in un’infinità di aspetti e recaun’altrettanta infinità di denominazioni. Dunque, da Santa Maria aSante Marie: per l’imporsi di una divinità che è una et aliae.

Questa apparente contraddizione non sembra affatto destareimbarazzo o perplessità nei devoti, i quali appellandosi unicamen-te alla straordinarietà dei fatti, non possono che confermare ancoraoggi l’orgoglio di essere stati “prescelti” e di avere una Madonnatutta “loro”.

D’altra parte, quando letto in chiave antropologica, il meccani-smo dell’ipostatizzazione instaura un processo perfettamente coe-rente con i sistemi culturali che lo hanno prodotto.

Nel tentativo di rintracciare le spiegazioni che soggiacciono allamoltiplicazione delle Marie e le spinte sociali cui essa risponde,può essere interessante tornare ancora una volta a riflettere sulle

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58. Prendendo spunto dal fenomeno pellegrinale abruzzese delle Sette Madonne Sorelle,Giuseppe Profeta riflette sul processo di ipostatizzazione affermando che: «le varieMadonne create dalla suddetta operazione sono “altre” e sono la “stessa” (aliae et eadem),sono differenti e sono identiche, perché, tutto sommato, sono un aspetto denominato edipostatizzato dello stesso personaggio sacro, e stanno in bilico, a seconda degli stati dicoscienza, tra unicità e molteplicità» (G. PROFETA, I sistemi di tutela sacrale del territorio e i san-tuari mariani delle “sette Sorelle”, in “Abruzzo”, Chieti, Vecchio Faggio, XXX, 1992, p. 250).Questo fenomeno di “atomizzazione” del culto mariano visse un momento di particolareintensità nei secoli XV-XVII, diffondendosi capillarmente su tutto il territorio europeo.

ierofanie arboree e, ruotando il nostro caleidoscopio, a guardarlenuovamente attraverso una diversa angolazione.

Ierofania come sacralizzazione del territorio

Se calata nel panorama dei culti locali, l’ipostatizzazione si con-figura come il procedimento simbolico attraverso cui la figuramariana riesce a radicarsi nella realtà concreta dei contesti territo-riali. Ogni Maria parla il linguaggio della sua comunità, ma soprat-tutto “abita” i luoghi vissuti dai suoi devoti. E non a caso quellodella scelta del luogo sembra emergere come il topos leggendario alquale viene riservata maggiore attenzione di descrizione e in meri-to al quale la volontà numinosa sembra divenire perentoria. Lospazio sul quale si ritiene si sia manifestata la divinità non è casua-le ed indefinito, ma circoscritto, spesso definito attraverso dettaglie indicato con toponimi ancora oggi in uso.59 In quel preciso puntodel territorio la divinità si rivela agli uomini, lì essa desidera rice-vere un nuovo luogo di culto, lì compie miracoli, lì ritornano i suoioggetti di culto, quando volontariamente spostati dai fedeli.60

Nell’ambito di tali dinamiche del sacro (solo simbolicamentecondizionate dalla volontà divina) l’albero non riveste affatto unruolo secondario; al contrario, esso assume una considerevole cen-tralità, poiché è proprio in virtù della sua presenza fisica che l’inte-ra narrazione può essere “ancorata” materialmente al territorio erisultare, così, più credibile e verosimile. Nessuna immagine piùdell’albero, infatti, può veicolare al meglio l’idea di «rootedness»,ossia di stretta “radicalizzazione” ad un determinato “suolo”: «theimage of the tree and, by extension, the land, becomes the means by whichone’s place in the social landscape is “rooted” in a material historicity».61

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59. Tali dettagli possono essere chiaramente rintracciati anche nelle leggende di fonda-zione relative ai culti presi in esame nella seconda parte di questo volume. 60. Cfr. T. SEPPILLI, cit., p. 106.61. F. DE BOECK, The Rootedness of Trees, in N. LOVELL (a cura di), Locality and Belonging,London, Routledge, 1998, p. 25: «L’immagine dell’albero, e per estensione quella del

Perciò, il riferimento non rimanda ad un albero qualsiasi, quan-to piuttosto ad un esemplare ben individuabile dai destinatari delculto, non solo nella posizione spaziale ma anche nella specie bota-nica, spesso indicata attraverso denominazioni vernacolari (peresempio, come in Abruzzo si riscontrano i fitonimi di Elcina, Alno,Crognale, e in Emilia Romagna quelli di Pioppa, Cerqua, in Messicosi trova quello di Ocote).62 E così non deve destare stupore il fattoche nel culto messicano della Vergine di Guadalupe la sede vege-tale ierofanica sia rappresentata da un cactus!63

In virtù della presenza dell’elemento arboreo, che potrebbe esseredefinito come l’“asse vegetale” intorno a cui ruota il culto, tutto l’am-biente circostante viene investito di sacralità e da “spazio anonimo”,diviene luogo denso di significato,64 palcoscenico dell’incontro trauomini e divinità, «centro» della vita rituale e sociale di un gruppo.65

La Madonna assurge così a dea loci, a numen tutelare di uno spe-cifico territorio, di quella particolare frazione di mondo vissuto dalla

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territorio, diventano i mezzi attraverso cui un luogo del paesaggio sociale viene “radi-cato” in una dimensione storica fisica e materiale» [Trad. dell’A.].62. Nella città messicana di Tlaxala ocote sarebbe il fitonimo locale usato per indicare untipo di pino. A questa specie vegetale sarebbe da ricollegare anche la denominazionedella Nostra Signora di Ocotlàn, divinità tutelare della città, e titolare di uno dei piùnoti pellegrinaggi messicani. (E. TURNER, V. TURNER, op. cit., pp. 103-109).63. Ibidem, p. 110.64. Come giustamente afferma la Lovell, un paesaggio è trasformato in luogo soltantoattraverso l’azione culturale dell’uomo: «Landscapes are turned into places by humanaction, and specific places are notionally extracted out of undifferentiated space by becomingimbued with particular meaning by, and for, human sociality ad identity» (N. LOVELL, op.cit., p. 6).65. Gli elementi dell’ambiente, in virtù della loro inclusione in un sistema cultuale,divengono altro da sé, si permeano di valenze che vanno oltre le loro caratteristiche“naturali”, entrano a far parte dell’universo segnico di una cultura. Come afferma H. D.Duncan, «as we symbolize nature we make it a scene or stage upon which we enact our dramaof social order. Thus, the environment of man is a symbolic environment. He acts in and throu-gh symbolization of his physical and biological environment». (Cit. in E.G. ERICKSEN, TheTerritorial Experience. Human Ecology as Symbolic Interaction, University of Texas, 1980, p.23). Perciò nel rapporto con il suo territorio, l’uomo ne seleziona alcune parti significa-tive, in grado, anche se a livello simbolico, di rispondere a quelle che sono le sue esi-genze biologico-sociali: «we must accept the premise that human beings act in and throughtheir physical world much of the time. The person is a selector of stimuli that will supply theresponses needed (or believed to be needed) to achieve order in her or his relations» (Ibidem). Per

collettività, e perciò «caric[a] della sua storia, dei suoi dolori, dellasua volontà di esserci».66

Proprio nel caso delle madonne arboree, quindi, emerge conmaggiore evidenza come la definizione dello spazio sacro sia unprocesso intimamente e immanentemente connesso con l’interosistema sociale, che, nel suo configurarsi non può fare a meno dipartire proprio da una lettura (in termini sacrali e culturali insieme)del territorio circostante.67 Il modo attraverso cui questi particolariculti si impongono localmente è dunque un chiaro esempio dicome il paesaggio possa costituire il tramite attraverso cui alcunesezioni vengono “sottratte” dalla Natura per entrare a far parte deldominio della Cultura.

Ambiente, culto, cultura

Il mutuo posizionamento degli uomini all’interno della natura edella natura all’interno della società, riscontrabile nei processi difondazione dei culti presi in esame, rientra chiaramente in quelloche potrebbe essere definito come processo di “appropriazione cul-turale” del territorio. A riprova di ciò basta guardare dall’alto ilpanorama cultuale abruzzese; in una regione così ricca di manife-stazioni divine arboree, esiste una porzione di territorio quasi deltutto estranea a questo fenomeno. Si tratta, e non è solo una coinci-denza, di quella parte della provincia dell’Aquila nota come«Abruzzo forte», perché caratterizzata prevalentemente da rilievirocciosi e piuttosto povera dal punto di vista vegetativo.

68Se consi-

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quanto concerne la nozione antropologica di “centro” si rimanda alla letturadell’Introduzione curata da Francesco Remotti in F. REMOTTI, P. SCARDUELLI, U.FABIETTI, Centri, Ritualità, Potere. Significati antropologici dello spazio, Bologna, Il Mulino,1989, pp. 11-44.66. F. ROMANO, op. cit., p. 35.67. «It is clear […] that landscape may be a convenient metaphorical starting point but is soonmade less relevant in the face of indigenous categories which merge, often imperceptibly, the so-called natural, social and cultural» (D. PARKIN, Foreword, in N. LOVELL, op. cit., p. XI).68. Un dato importante da conoscere nell’ambito di questo discorso, può essere quello

deriamo le ierofanie come una sorta di lettura simbolica del terri-torio, allora non deve stupire che in quest’area la Madonna si mani-festi per lo più in contesti litici.69

Ciò dimostra come gli uomini cerchino sempre di collocare sestessi nel loro paesaggio, interpretando i segni della loro “terra” e«cristallizza[ndo] al suolo valori socialmente prodotti e diffusa-mente condivisi».70 Il territorio, infatti, oltre ad essere una realtàfisica è in secondo luogo una «rappresentazione» culturale e, inquanto tale, cambia configurazione a seconda dei suoi interpreti edel loro contesto storico-sociale-economico.71

Torniamo di nuovo all’albero: è chiaro che visto in quest’ottica,esso non può assolutamente caricarsi di valori simbolici universalie archetipici. Al contrario, come si avrà modo di approfondire nelcorso delle pagine seguenti, il significato di questo simbolo nonsolo cambia da ambiente ad ambiente, da cultura a cultura, ma nonè neanche dato una volta per tutte. Contingenze storiche, comepure cambiamenti nel rapporto con il territorio e modifiche dellestrutture economiche di un gruppo, trasformano costantementeogni «rappresentazione». Così, se nel passato «ideologie a caratte-re coltivatorio» potevano attrarre sull’immagine dell’albero (e delladivinità in esso manifestatasi), idee e concetti riguardanti la fertilitàagricola e, per estensione, la fecondità umana,72 ora i sentimenti col-

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rilevato dalla De Matteis, secondo cui, nella provincia aquilana, bel il 58% del territorioè costituito da superficie montuosa (A. DE MATTEIS, “Terra di mandre e di emigranti”.L’economia dell’aquilano nell’Ottocento, Napoli, Giannini, 1993, p. 131).69. Molti dei culti mariani locali della provincia aquilana rimandano a ierofanie litiche;per citarne alcuni basta ricordare la Madonna Fore (nella frazione di Collebrincioni),la Madonna d’Appari (nella frazione di Paganica), la Madonna del Canale (nel comu-ne di Bagno).70. A. TURCO, Semiotica del territorio: congetture, esplorazioni, progetti in E. FIORANI, L.GAFFURI (a cura di), Le rappresentazioni dello spazio, Milano, FrancoAngeli, 2000, p. 1271. «Il territorio è anzitutto un oggetto di rappresentazioni. Da questo specifico punto divista il rapporto tra l’uomo e il suo ambiente è problematizzato come un lungo proces-so, la territorializzazione, attraverso cui i gruppi umani, le collettività, costruiscono terri-torio rendendo dialettico il loro rapporto con la natura. Ciò significa che se da un latol’ambiente è certamente qualcosa di naturale, dall’altro lato esso è soprattutto unacostruzione sociale» (L. GAFFURI, Territorio: in fondo, tutti noi viviamo qui, in, Ibidem, p. 51) 72. A.M. DI NOLA, cit., pp. 126-127.

lettivi in merito risultano in gran parte trasformati e i culti - con leloro connotazioni locali - possono assurgere a modelli di un’iden-tità “perduta da recuperare”.

Ma oggi, come ieri, il processo che conduce a queste dinamicherimane generalmente invariato, in virtù della “forza” del territoriopoiché, come giustamente afferma Ericksen

as long as there are individuals there will be groups, and as longas there are groups there will be differences. But many of these dif-ferences are conditioned by their territorial dimensions.73

Alla luce di queste riflessioni, si potrebbe concludere ipotizzandoche il potere comunicativo espresso dal fenomeno delle madonnearboree (ancora oggi denso di efficacia) risieda proprio nel connubiotra immaginario e paesaggio, tra retaggio culturale e contingenzaterritoriale, connubio che in queste manifestazioni cultuali emergecon un’evidenza senza uguali. Al punto che ancora nella nostra con-temporaneità, laddove si presentano particolari condizioni socio-economiche e ambientali, senza soluzione di continuità, ierofanie eapparizioni continuano ad essere collocate in contesti paesaggistici,«come se non fossero passati secoli da quando nelle montagne e neiboschi [la Madonna] appariva a pastori e contadini».74

Proprio dal panorama cultuale abruzzese emerge un caso rappre-sentativo di quanto si è andato finora sostenendo. Si tratta, appun-to, di una recentissima ierofania arborea intorno alla quale si valentamente istituzionalizzando un nuovo culto; l’episodio è avve-nuto nel marzo del 1999 presso la frazione di Roccacinquemiglia diCastel di Sangro (AQ), e ha per protagonisti due operai campani(visione contemporanea dei pastori?) i quali, per motivi di lavoro sirecavano quotidianamente nel piccolo borgo sangrino. Una sera, di

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73. E.G. ERICKSEN, op.cit., p. 115: «Fino a quando ci saranno individui, ci saranno grup-pi e fino a quando ci saranno gruppi, ci saranno differenze. Ma molte di queste conti-nueranno ad essere influenzate dalla loro dimensione territoriale» [Trad. dell’A.].74. F. ROMANO, op. cit., p. 61.

ritorno nel loro paese - così hanno raccontato gli stessi -75 furonosorpresi da una presenza femminile nel mezzo della strada provin-ciale che da Roccacinquemiglia conduce a Castel di Sangro.Fermata l’automobile, si voltarono verso il luogo dell’apparizione,ma al posto della Madonna in persona, trovarono la sua immagine,incisa nella corteccia di un salice situato non lontano dal ciglio stra-dale. Da quel giorno, l’albero e tutto l’ambiente circostante sonodivenuti dapprima meta di pellegrinaggi individuali, poi coltempo hanno ricevuto il riconoscimento dell’intera collettività diRoccacinquemiglia.76 Grazie alla collaborazione volontaria dell’in-tera popolazione, l’area circostante alla sede ierofanica è stata risa-nata e rivalutata attraverso ripetuti interventi: nei pressi del salice(risollevato con un terrapieno dalla piccola scarpata nella quale erasituato) è stata eretta una piccola e rudimentale cappella costruitacon i sassi raccolti sul luogo e tutto intorno è stato disposto unnuovo manto erboso. Dal 2001, inoltre, il luogo è stato inserito nelpercorso processionale delle feste patronali.

Forse è ancora troppo presto per stabilire se mai in quel luogosorgerà un santuario, ma gli elementi narrativi (perfettamente cal-zanti tutti i racconti eziologici rilevati nel corso della presente ricer-ca) ne giustificherebbero la previsione.

Il mito a fondamento del processo antropico-cultuale

Se - come si è già affermato - la localizzazione di un culto spes-so si attua attraverso una lettura simbolica del territorio, va altresìaggiunto che il ruolo di raccordare e di saldare insieme ambiente,culto e cultura in un’unica cornice, spetta al racconto mitologico,

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75. R. ROSATI, «Abbiamo visto la Madonna», “Il Tempo”, 26 Marzo 1999.76. Quello della territorializzazione, infatti, è un processo lungo che non può non avve-nire senza il consensus dell’intera collettività: «territoriality is a construction process bywhich diverse groups and individuals arrive at agreements and disagreements about the mea-ning of a place» (E.G. ERICKSEN, op. cit., p. 95).

che si configura come ultima, ma fondamentale tappa del lungo ecomplesso processo di antropizzazione.

L’atto narrativo […] reitera e ricostituisce costantemente […], nelmezzo delle altre relazioni, anche quelle con lo spazio sia quellonaturale che quello costituito dal lavoro umano [perciò] la relazio-ne tra lo spazio naturale e lo spazio costituito o prodotto dall’atti-vità umana non discorsiva è mediata dall’attività discorsiva e nar-rativa.77

Quando inserito nel contesto di queste dinamiche, il mito appa-re totalmente investito da una «trasposizione topografica»;78 ognievento viene dunque fissato su un determinato punto del territo-rio. Ecco allora che alberi, grotte, sorgenti, pietre, e più in generalei paesaggi circostanti i luoghi di culto, emergono dall’universo ano-nimo della Natura e vanno a confluire in quella sorta di “atlante delsacro” su cui l’intera collettività può leggere le vicende considera-te all’origine del suo rapporto ravvicinato con la divinità. Le leg-gende di fondazione dunque fondano l’esistenza di una nuovadimensione sacra, ma nello stesso tempo la fissano in un determi-nato spazio che solo in seguito alla diffusione della narrazionedegli eventi lì accaduti, sarà “ufficialmente” riconosciuto dal grup-po come luogo sacro.

Alla luce di queste considerazioni, il racconto eziologico si con-figura come una costruzione sociale basata sul consensus da partedel gruppo, come frutto di un processo collettivo, in grado di darefondamento a credenze, usi e valori già socialmente riconosciuti.D’altra parte: «si tenga presente […] il fatto che un racconto nonentra a far parte d’una tradizione folklorica se non quando riceval’approvazione della comunità sociale».79

Nel corso della ricerca empirica, questo carattere “edificante”

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77. M. GNERRE, Lo spazio del mito, in B. FIORE (a cura di), Antropologia dello spazio, “LaRicerca Folklorica”, n. 11, Brescia, Grafo, 1985, p. 33.78. N. LOVELL, op. cit., p. 10.79. G. FERRARO, Il linguaggio del mito. Valori simbolici e realtà sociale nelle mitologie primiti-ve, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 16.

delle narrazioni orali inerenti le origini dei luoghi di culto, in alcu-ni casi è risultato più evidente che in altri. Si fa riferimento a quel-le particolari circostanze in cui il reperimento di fonti documenta-rie ha mostrato come tra la datazione tramandata dal racconto equella della effettiva edificazione venga a interporsi un gap tempo-rale, per cui al tempo della diffusione mitologica il santuario risul-tava già esistente. In questi casi la leggenda di fondazione, inne-standosi probabilmente su un culto pre-esistente, può assolvere,nei confronti di quest’ultimo, diverse funzioni:- conferire un “ufficiale riconoscimento”definitivo, laddove questo

iniziava ad affermarsi, o laddove veniva ad istallarsi (come nelcaso della fondazione di Giulianova) su un nuovo territorio;

- contribuire a “ri-denominarlo”, nel caso in cui la devozionemariana sia andata primeggiando rispetto ad un precedente cultointitolato ad un altro numen;

- “ri-affermarlo” localmente in periodi di particolare decadimento.In ognuna di queste possibilità, l’impianto mitico continua ad

apparire come «ordinatore centrale dell’intero sistema religioso»;80

e, sebbene collocato e ancorato in illo tempore, raramente vive unariduzione tale da essere marginalizzato nel mondo delle “fantasieleggendarie folkloriche”. In ogni occasione festiva, in ogni rappre-sentazione iconografica, in ogni variante narrativa riportata daidevoti, ancora oggi i racconti continuano ad essere testimonianze“vive” e a rinnovarsi costantemente attraverso l’attenta ripetizione.In conclusione, si potrebbe riassumere quanto si è andato affer-mando interpretando i miti come

modi per scrivere nello spazio tratti di storia, per lasciare nel pae-saggio tracce di un passato che, se per un verso appare irreversibil-mente tramontato, […] per l’altro continua a parlare e a influire sulpresente e sul futuro.81

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80. Cfr. a tal proposito la definizione di “mito” proposta in AA.VV., Dizionario delleReligioni, cit., pp. 492-494.81. F. REMOTTI, Introduzione, in F. REMOTTI, P. SCARDUELLI, U. FABIETTI, op. cit., p. 37.

I culti esaminati in questo lavoro, essendo costruiti sulla base diuna lettura sacralizzata dell’ambiente circostante e quindi intima-mente aderenti alle realtà locali, divengono espressione caratteriz-zata e caratterizzante la cultura di una specifica collettività; sonofrutto di un sistema di valori che contribuisce ad alimentare edinfluenzare i processi di costruzione identitaria. Perciò Maria, inqualità di titolare numinoso di complessi apparati mitico-rituali,assurge ad “asse simbolico” della dimensione di “villaggio”, aperno intorno al quale i gruppi instaurano, confermano e ridefini-scono il consenso collettivo e l’appartenenza territoriale; in breve,l’identità culturale.

In altri termini, per il tramite di una Vergine che si fa “abitante”privilegiata del loro territorio, gli uomini assorbono dal passato icodici dell’appartenenza socio-culturale e li trasmettono alle nuovegenerazioni attraverso l’azione rituale, proiettandoli contemporanea-mente sul paesaggio. Il contesto ambientale - con al suo centro l’al-bero e il luogo sacro - diviene quindi quel medium sempre attuale,quel ponte spazio-temporale, attraverso cui l’esperienza presente siricollega alla storia passata per protendersi verso dinamiche future.82

È pur vero che simboli, credenze, leggende e forme rituali atten-gono al mondo della tradizione e, in quanto tali, passano da unaprogenie all’altra come porzione fondamentale dell’intero patrimo-

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UNA MARIA, UN “VILLAGGIO”, UN POPOLO

82. H. MORPHY, Landscape and the Reproduction of the Ancestral Past, in E. HIRSCH, M.O’HANLON, The Anthropology of Landscape. Perspective on Place and Space, Oxford,Clarendon Press, 1995, pp. 204-205.

nio culturale. Tale “testamento”, tuttavia, non viene sottoscrittotout court; al contrario, il passaggio risulta sempre associato a rivi-sitazioni, modifiche, selezioni;83 ogni manifestazione culturale,infatti, rappresenta una “struttura vivente” che, assoggettata alledinamiche storiche, non può non passare attraverso continui eprofondi fenomeni di trasformazione, tanto degli usi quanto deisignificati.84 E così il culto locale viene a configurarsi come unasorta di contenitore polifunzionale, pronto a svuotarsi e a riempir-si di istanze sempre rinnovate.

Quali, allora, i significati espressi da queste rappresentazionimariane nel contesto attuale? Nel tentativo di rispondere a questofondamentale quesito, siamo nuovamente portati a guardare alpanorama culturale odierno come ad una proiezione del binomio(forse già abusato) tra globale e locale, e ad interpretare il rinnova-to ancoraggio a questi «mondi locali» come conseguenza dell’im-porsi, sempre più marcato, di un «mondo globale».85

Alcuni, facendosi interpreti della lezione massmediologica diMarshall McLuhan, hanno voluto intravedere nell’evoluzione acce-lerata in corso […] una sorta di prefigurazione di un villaggio glo-bale; progressivamente uniformizzato sul modello degli Stati Uniti,omettendo così le dimensioni della singolarità e dell’individualità.Altri, invece, […] hanno voluto insistere fortemente sull’ampiezzadelle rivendicazioni culturali particolari, sulle identità, ossia suquella che potremo definire la polifonia culturale delle specificità.In pratica, sui tanti “villaggi locali”. Del resto, non si può misurare

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83. Il carattere dinamico insito nei processi di trasmissione della tradizione era già evi-dente nella definizione di “tradizione popolare” fornita dal Toschi nel 1959 (cfr. P.TOSCHI, Tradizioni popolari italiane, Torino, ERI, 1967, pp. 5 e segg.).84. A.M. DI NOLA, Le serpi invise alla chiesa, in “Il Centro” del 4 maggio 1995, cit. in L.GIANCRISTOFARO, Cultura Popolare abruzzese. Storia, letteratura, metodologia della ricerca,Regione Abruzzo, Lanciano (CH), 1999, p. 123.85. C. GEERTZ, Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo,Bologna, Il Mulino, 1999. La situazione culturale contemporanea influenza soprattuttoi processi di costruzione delle identità; è noto, infatti, come queste ultime inizino a rive-stire un’importanza assoluta soprattutto in momenti in cui si sentano particolarmentemesse in discussione. Ebbene, la globalizzazione va evidentemente configurandosicome una di quelle congiunture, dal momento che, minacciando di sradicare le impor-

e comprendere l’ampiezza di ognuno di questi movimenti se nonconsiderando che fanno parte di uno stesso e articolato fenomenocomplesso. I rapidi cambiamenti nelle società complesse ai qualistiamo assistendo operano essenzialmente su due livelli: da un lato,esiste una crescente internazionalizzazione, ma al contempo si regi-stra il dato circa la ricerca di radici specifiche e di mantenimentodelle differenze socio-culturali.86

Marie glocali

Contrariamente alle pessimistiche previsioni avanzate qualchedecennio fa - in base alle quali le manifestazioni culturali localisembravano irrimediabilmente volte verso un definitivo tramonto- oggi si assiste ad un fenomeno del tutto inverso che fa del patri-monio tradizionale un’inesauribile fonte di risorse identitarie. Ciòsignifica che i processi di globalizzazione hanno di fatto sviluppa-to dinamiche contrarie rispetto a quelle immaginate: la cultura nonè stata livellata e omologata sulla base di un modello unico, gliuomini non sono divenuti gli Uni “identitici” agli Altri, e molti vil-laggi, molti popoli continuano ad essere diversi da quelli a loro piùvicini. Tale diversità, tuttavia, si afferma secondo modalità che nonsono più quelle del passato.

Se da un lato culti, riti, leggende, feste riguadagnano rilevanza,è pur vero che questo processo di «rivitalizzazione»87 non si attuacome recupero a-critico, dal momento che una manifestazione cul-

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tanti differenze culturali, ha innescato - più o meno automaticamente - meccanismi dicontro-risposta sotto forma di movimenti tradizionalisti, a volte anche estremizzati(T.H. ERIKSEN, Small Places, Large Issues. An Introduction to Social and CulturalAnthropology, London, Pluto Press, 2001, p. 309).86. M. AUGÉ, Introduzione, in I. GERMANO, Il villaggio glocale. Le politiche della differenzacomunicativa, Roma, SEAM, 1999, pp. 12-13.87. Per «rivitalizzazione» l’antropologo T.H. Eriksen intende il risveglio della culturatradizionale in ambito moderno: «That “reawakening” of traditional culture in a moderncontext, which seems necessary for indigenous people to survive, is often spoken of in more gene-ral terms as ethnic revitalisation. […] the concept of revitalisation literally means that culturalsymbols and practises which have lain dormant for a while regain their lost relevance» (T.H.ERIKSEN, op. cit., p. 289). In questa sede con il concetto di rivitalizzazione si intende far

turale “rivitalizzata” risulta - a volte al di là delle apparenze e dellaconsapevolezza degli stessi protagonisti - diversa da come si pre-sentava nel passato. Le realtà locali, infatti, non possono essere piùconsiderate come “nicchie isolate”, come universi a sé, estraniatidalla realtà ed esenti da influenze.88 La relazione che intercorre trail sistema-mondo da un lato e l’ambiente localizzato dall’altro èdivenuto un argomento di imprescindibile interesse, non più sotto-valutabile, che deve condurre a vedere la “particolarità etnica” e la“omogeneità modernista” non come due argomenti separati, dueopposte visioni di ciò che sta accadendo, ma come due tendenzecostituenti la stessa realtà.89 È il globale che compenetrandosi nellocale dà vita al glocale, neologismo usato per indicare l’attuale«modernizzazione della indigeneità» o, se vogliamo, l’attuale«indigenizzazione della modernità».90

È chiaro, dunque, che anche il discorso sui processi identitari,frutto delle dinamiche religiose locali, possa essere interpretato allaluce del fenomeno della «glocalità», poiché, pur se riferito e circo-scritto ad un territorio e ad un gruppo in particolare, continua adipendere da un discorso globale sulla cultura.

SANTE MARIE DEGLI ALBERI58

riferimento non solo alle attività di «recupero nativista» rivolte dalle collettività versole proprie tradizioni locali dimenticate, ma anche alle manifestazioni di “vitalità” e diattuale persistenza delle stesse (cfr. V. LANTERNARI, Folklore e dinamica culturale, Napoli,Liguori, 1976, pp. 32 e segg.).88. Con ciò non si intende assolutamente affermare che in passato le società siano state“fredde” o “immobili”, ovvero che la loro “mobilità” attiene soltanto alla contempora-neità. Al contrario, è possibile trovare evidenza nel fatto che cambiamenti drasticiabbiano contraddistinto anche le realtà storiche a noi più lontane, e che tra i popoli cisia sempre stata una regolare ed estensiva comunicazione. Basti pensare che ilMedioevo ha conosciuto importanti città cosmopolite come Bisanzio e Timbuctu. Allostesso tempo, però, va ricordato che, durante le ultime decadi, il flusso di persone, diidee, di merci, di immagini e quant’altro è stato soggetto ad un’evidente intensificazio-ne, frutto di un’accelerazione tecnologica che ha portato ad innovazioni particolarmen-te agevolanti l’incontro tra culture: dal jet alla televisione satellitare, ai GSM, a Internet.(T.H. ERIKSEN, op. cit., pp. 294 e segg.).89. Ibidem, p. 307.90. Ibidem, p. 308.

L’Abruzzo, in particolare, si va delineando come scenario di ine-quivocabili e profonde istanze identitarie, risultate dalle vicendestorico-socio-economiche che hanno contraddistinto l’ultimo seco-lo del passato millennio. Questa regione ha infatti risentito (inmodo forse più determinante rispetto ad altre) di ripetute ondatemigratorie che nella maggior parte dei casi hanno avviato drasticidepauperamenti demografici, nonché processi di più o meno acutadeculturazione territoriale.

Le cause scatenanti di quello che può essere definito come unmutamento “radicale” si delinearono con più chiarezza di contornogià dalla fine dell’Ottocento, quando sulla già povera economiaabruzzese iniziarono a gravare diversi fattori che contribuirono arimodellare totalmente l’aspetto socio-culturale delle collettivitàlocali. Da un lato la crisi del sistema transumante, con il conseguen-te impoverimento di un sistema agro-silvo-pastorale non contraddi-stinto da capacità espansive, dall’altro l’allargamento del sistemanazionale e il processo di modernizzazione spinsero dapprima gliindividui maschili, poi intere famiglie, a rivolgere le speranze dibenessere verso altri lidi.91 Così, da questo periodo fino a tutto ilsecondo dopoguerra ed oltre, alcune centinaia di migliaia di abruz-zesi lasciarono i loro paesi d’origine per riversarsi verso le grandicittà o verso realtà extra-oceaniche dalle economie più promettenti.

L’allontanamento dal proprio contesto nativo, tuttavia, non si èmai tradotto in totale decostruzione culturale; nel bagaglio dell’e-migrante, accanto ai beni materiali, ha sempre trovato posto anchela memoria dei valori tradizionali, che hanno continuato ad ali-mentare e modellare il suo senso di appartenenza, seppur a distan-za di migliaia di chilometri. Spesso, sulla base di questo patrimo-nio, lungo il cordone ombelicale che conduce alla terra d’origine,gli emigrati hanno ricostruito sul territorio di destinazione le“dimensioni di villaggio”, tentando di re-impostare i meccanismidi affermazione delle identità culturali attraverso gli strumenti for-niti dall’associazionismo etnico.

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91. A. DE MATTEIS, op. cit., p. 218.

Sull’intero territorio americano, e a partire dalla seconda metàdel Novecento, si è dunque assistito al moltiplicarsi delle“Associazioni degli Abruzzesi all’Estero”, le quali, spesso contrad-distinte dai toponimi delle località madri (come per esempiol’Associazione dei Rapinesi di Ottawa) si sono configurate comecentri propulsivi di promozione e di valorizzazione culturali delletradizioni “di casa nostra”. In questo processo di “affiliazione” unruolo importante è stato rivestito proprio dai culti mariani locali,non di rado riprodotti (quasi fossero dei cloni) al di làdell’Atlantico. In queste loro ri-contestualizzazioni le “Sante Mariedei luoghi” sono assurte a simboli condivisi socialmente, intorno aiquali si sono andati affermando collettivamente credenze, senti-menti, nuovi spazi.92

In questi casi, l’emigrazione ha rafforzato l’identificazione conun luogo e con le sue manifestazioni culturali, grazie all’interventodi generazioni di emigrati, spesso trasformatisi in fautori di pro-getti di valorizzazione culturale ed economica, pur vivendo dal-l’altra parte dell’oceano.

A questo punto è però necessario riflettere ancora una volta suiconcetti di “luogo” e di “appartenenza”; da un tale contesto(proiettato all’unisono sul mondo e sul villaggio) è evidente cometali quadri interpretativi non vadano identificati in modo univococon un punto fissato sul territorio; i concetti acquisiscono fluiditàed il “paese” si trasforma dinamicamente in una rete articolata, conpunti nodali nella località d’origine, in America e dovunque. Perqueste ragioni, oggi più che in passato, non si può parlare di un’i-dentità linearmente definita, perché l’individuo è cittadino di un“villaggio” che corrisponde, nello stesso tempo, tanto con la “fra-zione” fisicamente collocata nello spazio, quanto con il mondo.93

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92. Le modalità e i tempi attraverso cui questo fenomeno di “esportazione cultuale” hapreso forma vengono analizzati più in dettaglio nel corso della seconda parte di que-sto volume, all’interno dei singoli casi di studio.93. G. DI CRISTOFARO LONGO, Identità e cultura. Per un’antropologia della reciprocità, Roma, Edizioni Studium, 1993, p. 241.

Identity can thus also appear deterritorialised, located between placesrather than being bound to particular homelands […] the lived experienceof migration […] may uproot settled locality, but it is not in itself a con-dition in between, since meaning is derived in situ from dislocation itself.In addition, memories of settlement, of particular belonging to a highlylocalised place, may act to counterbalance the dislocation and displacementfelt at particular junctures in history. Locality in this sense becomes mul-tivocal, and belonging itself can be viewed as a multifaced, multilayeredprocess which mobilises loyalty to different communities simultaneously.94

Questa particolare percezione non riguarda solo coloro che hannodovuto, o hanno voluto, impiantare altrove le loro esistenze: l’as-senza, la nostalgia, il senso di spaesamento (inteso come fuoriusci-ta dalla dimensione di “paese”),95 «l’essere qui e altrove», infatti,sono tratti antropologici che hanno accompagnato, e in parte anco-ra accompagnano gli abruzzesi di oggi, anche quelli rimasti inpatria, in paesi demograficamente impoveriti e forse, per ciò stes-so, più tenacemente legati alle loro radici.

In un universo sparso, senza centro, gli abitanti provenienti dadiversi paesi, gli emigrati e i rimasti, sono impegnati in operazionidi costruzione d’identità, hanno necessità di fare “mente locale”.96

Ecco allora che tanto in terra straniera quanto nelle località d’origi-ne, è proprio attorno al patrimonio tradizionale di una collettività

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94. N. LOVELL, Introduction, in N. LOVELL (a cura di), op. cit., p. 5. «L’identità può perciòapparire come deterritorializzata, situata tra luoghi diversi, piuttosto che circoscrittaad una particolare località d’origine. L’esperienza dell’emigrazione può sradicare ilprocesso di localizzazione, ma non è una condizione di per sé liminare, poiché traesignificato in situ proprio dal fatto di essere dislocata. Va inoltre aggiunto che le memo-rie del villaggio e quelle riguardanti la particolare appartenenza ad uno spazio profon-damente localizzato, possono agire in modo tale da controbilanciare la dislocazione ela perdita di luogo avvertite in particolari congiunture storiche. È in questo senso cheil concetto di località può divenire multivocale, e l’appartenenza stessa può essere vistacome un processo poliedrico, multistratificato in grado di rendere mobile la fedeltà adiverse comunità in modo simultaneo» [Trad. dell’A.].95. E. FIORANI, Nuove territorialità tra il locale ed il globale, in E. FIORANI, L. GAFFURI (a curadi), op. cit., p. 27.96. F. FERLAINO, La Madonna di Porto. Itinerari d’uomini e teorie di miti, in L.M. LOMBARDI

SATRIANI (a cura di), Madonne, pellegrini e santi. Itinerari antropologico-religiosi nellaCalabria di fine millennio, Roma, Meltemi, 2000, p. 149.

che vengono a plasmarsi operazioni ri-socializzanti, in rispostaimplicita ad una condizione socio-culturale disgregante e di fronteal dominio di una cultura globale ritenuta «massificatrice e livella-trice».97 La memoria storica, i luoghi, il territorio possono tradursidi conseguenza in varianti lungo le quali si attua la riappropriazio-ne di quelle che si ritiene siano le “origini perdute”. Intorno a talerecupero, che vede uniti in un solo intento giovani adulti ed anzia-ni, emigrati e nativi, i gruppi rinnovano occasioni di intensa e cora-le partecipazione, riconoscendosi come entità coesive unite nelnome della loro “Madre glocale”.

SANTE MARIE DEGLI ALBERI62

97. V. LANTERNARI, op. cit., p. 123.

PARTE II

CASI DI STUDIO

La seconda parte di questo volume analizza in modo particola-reggiato sei casi, oggetto privilegiato di una lunga ricerca riguar-dante i culti mariani abruzzesi iniziata nel 1998, nell’ambito di unmacro-progetto inerente il fenomeno dei pellegrinaggi, promosso ediretto dalla Prof. Gabriella Marucci (docente di discipline Demo-Etno-Antropologiche presso l’Università degli Studi dell’Aquila),in collaborazione con l’IRDEA (Istituto per la Ricerca e laDocumentazione Etno-Antropologica).1

Il presente lavoro, perciò, va considerato come risultato di uniter di ricerca distinto in più fasi autonome, ma tra loro propedeu-tiche:- I fase della ricerca: gli obiettivi e le finalità di questo percorso ini-

ziale hanno implicato, oltre che lo studio del ruolo rivestito dallafigura mariana all’interno della più vasta cornice pellegrinale,anche la ricostruzione delle varie tipologie di madonne presentisul territorio abruzzese.

- II fase della ricerca: una volta individuati i principali tipi di rap-presentazioni numinose riconducibili alla Vergine, sulla base dialcuni tratti distintivi (per esempio “madonne nere”, “madonnemeteoriche”, “madonne litiche”, “madonne guerriere”, “madon-ne arboree”),2 l’indagine ha seguito un suo percorso indipenden-

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LA RICERCA

1. I risultati di tale progetto di ricerca sono contenuti nel secondo volume di questastessa collana: G. MARUCCI (a cura di), Il viaggio sacro. Culti pellegrinali e santuari inAbruzzo, Colledara (TE), Andromeda, 2000. 2. R. SALVATORE, “Forte e gentile”. Polivalenza dei culti mariani, in, Ibidem, pp. 105-136.

te, focalizzandosi unicamente sulle manifestazioni arboree. Tuttii culti afferenti a questa tipologia presenti sul territorio abruzze-se (all’incirca venti), sono stati quindi esaminati “indirettamen-te”, cioè “a tavolino”, attraverso la consultazione di fonti biblio-grafiche di natura prevalentemente storico-devozionale.

- III fase della ricerca: solo in seguito alla mappatura (forse noncompletamente esaustiva) dei culti mariani arborei ancora attivinella regione si è proceduto con l’applicazione di un metodoselettivo che, ponendo l’accento sui tratti particolarmente distin-tivi di questa tipologia, ha estrapolato dal contesto i casi piùsignificativi del fenomeno, dove per significatività si è inteso ilpresentarsi di alcune variabili con un più o meno evidente valo-re simbolico.

Ebbene: nei sei casi di seguito presentati, le suddette variabili sonotutte espresse a pieno e risultano spesso compresenti. In particolare:- l’elemento arboreo appare ancora unito alla denominazione della

figura divina; (l’unica eccezione in tal senso è rappresentata dallaMadonna dello Splendore, culto comunque inserito nel saggioper varie ragioni da addurre principalmente alla sua significati-vità in termini di dinamiche territoriali e al suo vasto bacino diutenza);

- in tutti i culti l’albero continua ad occupare una centralità nellaiconografia e nell’immaginario relativo ad aspetti leggendari.

L’analisi di questi casi rappresentativi (a differenza degli altri) èproceduta attraverso un’osservazione “diretta” sul campo.L’indagine empirica si è andata quindi configurando come percor-so-guida, come unico strumento in grado di orientare i discorsi daapprofondire. Ha quindi permesso:- di ripercorrere, seppur sommariamente, l’iter degli immaginari

collettivi che hanno portato all’affermazione di queste manifesta-zioni come pure alla loro costante riplasmazione storica;

- di rintracciare il ruolo giocato da queste forme devozionali nel-l’ambito dell’affermazione delle identità locali;

- di indagare su istanze antropologiche di più ampio respiro, da

SANTE MARIE DEGLI ALBERI66

ricondurre ad una condizione “globale” della cultura contem-poranea.

Le tecniche di indagine applicate sul terreno hanno previsto:- l’osservazione partecipante, finalizzata a ricostruire il panoramasimbolico-rituale e dei comportamenti;- le interviste in profondità somministrate ad “informatori privile-giati”, cioè ad individui più direttamente coinvolti nella gestionedei culti.Tutti i dati rilevati (solo in parte riportati in questa sede) sono statiaccuratamente riordinati e organizzati all’interno degli archiviinformatico e cartaceo dell’IRDEA. Per ovvie ragioni di riservatez-za, si premette che tutti i contributi degli informatori ripresi neltesto recheranno soltanto le loro iniziali.La ricerca sul terreno ha anche consentito di raccogliere una vastitàdi materiale documentativo di non sempre facile reperimento. A talproposito desidero ringraziare, per la loro preziosissima collabora-zione, tutte le persone che a vario livello hanno contribuito alla rea-lizzazione del presente lavoro. In particolare: tutti i soci IRDEAimpegnati nella rilevazione sul campo (Maria Fiorentini, MariaCristina Petrella, Maria Carmen Ciccarini e Marco Vaccarelli); iresidenti di Rapino (in particolare le Sig.re Giulia Ferrante eAnnacamilla De Nardis); i residenti di Abbateggio (in particolare laSig.ra Iolanda Iezzi e l’Ing. Gabriele Di Pierdomenico); i residentidi Casacanditella (in particolare l’Associazione pro-loco nella per-sona della maestra Cristina Serafini); i residenti di Canzano (in par-ticolare l’Associazione pro-loco nelle persone di Angelandrea DeMartinis e del maestro Benito Marsilii); i residenti di Morro d’Oro(in particolare il Dott. Mario Martella); la Dott.ssa AmaliaBianchetto; i parroci Don Daniele Di Sipio, Don Nicola Maraini,Don Graziano Gagliano, Don Antonio Santoleri e Padre PaolinoPotalivo.

LA RICERCA 67

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Il contesto storico-ambientale

Il culto della Madonna dell’Alno trae origine da una ierofaniaarborea collegata ad un Populus Alba e avvenuta nei pressi diCanzano, piccolo comune della provincia teramana.

Situata sulla sommità di una collina a metri 463 s.l.m., questalocalità ha da sempre goduto di una felice collocazione ambientale,al confluire delle due verdeggianti vallate del Vomano e del Tordino.Tant’è vero che ancora oggi l’agricoltura, tradotta in agri-turismo,continua a rappresentare un’importante risorsa economica.1

In merito alle origini del luogo non si hanno notizie certe e sonostate avanzate soltanto alcune ipotesi. Secondo il Palma, importantestoriografo delle vicende teramane, Canzano sarebbe da far risalire allapresenza sul territorio della Gens Attia, in epoca romana. Il toponimosarebbe dunque risultato da un originario Campo Attiano.2

MADONNA DELL’ALNO

1. La discreta diffusione di agri-turismi sul territorio è in parte frutto della notorietà incampo nazionale ed internazionale della gastronomia locale. Oggi, la tradizionale ricet-ta del “tacchino alla canzanese” costituisce un importante elemento della identità cul-turale, in virtù del quale la collettività si presenta sul palcoscenico del mondo globa-lizzato con l’orgoglio del campanile. Ha ormai già acquisito tutti i caratteri della leg-genda l’episodio che, proprio per la presenza di una porzione di tacchinella tra i viveridell’equipaggio, collegò Canzano al primo storico allunaggio.2. Cfr. N. PALMA, Storia della città e diocesi di Teramo, Cassa di Risparmio dellaProvincia di Teramo, Teramo, 1980, vol. I, p. 105. Di tutt’altra opinione è invece il DeGiovanni. L’Autore, infatti, ricollegherebbe il toponimo Canzano al cosiddetto «filoneprandiale», rappresentato da tutta quella toponimia fondiaria che tramanda in formasostantivata originarie denominazioni aggettivali connesse al nome proprio del pro-

A partire dal XII secolo, la documentazione storica sembra inve-ce essere ricchissima.3 E ciò potrebbe essere indicativo dell’impor-tanza politico-economica rivestita da questo borgo, nonché dellavasta trama di rapporti che lo legavano ad altre realtà.

Le prime fonti risalgono al 1150 e rimandano alla neo-costitu-zione del Regno di Napoli; in occasione della riorganizzazioneamministrativa dei suoi beni, Ruggero assegnava a Mactaleonus ilfeudo canzanese, che allora contava circa 360 abitanti. Una deter-minante fase della storia locale iniziò a fine del XIII secolo e coinci-se con il dominio degli Acquaviva. A questa famiglia e alle vicendedel loro ducato di Atri, tra i più importanti del regno, saranno col-legate anche le future sorti di Canzano.

Con l’avvento di Carlo V sul trono di Napoli, il feudo risentìdirettamente dei primi influssi spagnoli, passando nelle mani diDon Ferrante Alarcòn y Mendoza, fidato generale del re. Nel 1574,il territorio tornava di nuovo tra i possedimenti dei duchi di Atri, iquali, però, si videro costretti a condividerne il diritto di patronatocon la famiglia degli Alarcòn y Mendoza, divenuti nel frattempomarchesi della Valle Siciliana. A distanza di quasi un secolo, le duepotenti casate risolvevano le annose liti con un compromesso, inbase al quale il patronato sulla Pievania di Canzano sarebbe statoesercitato a periodi alterni. Il dominio degli Acquaviva terminavanel 1752, in seguito alla morte del Cardinale Francesco.

Con la totale disfatta del ducato di Atri, anche Canzano si inde-bolì e fu costretta a capitolare in favore delle truppe francesi.

All’inizio del XIX secolo, il luogo risultava come aggregato aTeramo e contava più di 1800 abitanti. Il biennio 1815-1817 subì il gra-voso peso di dure carestie, al punto tale che solo nel mese di maggio1817 si segnalarono quasi 200 morti per inedia. Di lì a qualche decen-nio, le sorti economiche del paese si risollevarono grazie allo svilup-

SANTE MARIE DEGLI ALBERI70

prietario. Canzano sarebbe quindi da ricondurre a Cantius. (Cfr. M. DE GIOVANNI,Per la storia linguistica dell’Italia centromeridionale, Chieti, Vecchio Faggio, 1986, pp.168-169).3. Tutte le notizie storiche riportate in breve sono state tratte da G. DI NICOLA, Canzano.Storia, Folclore, Turismo, S. Gabriele (TE), Edizioni Eco, 1979, pp. 16-50.

po della bachicoltura, destinata comunque a totale soppressione subi-to dopo il secondo conflitto mondiale.

L’antica ricchezza dei secoli passati ha lasciato la sua improntanella storia, nelle tradizioni, negli edifici sacri, ma soprattutto nei son-tuosi palazzi nobiliari che tuttora valorizzano l’architettura locale.

Per ciò che concerne la demografia, Canzano ha risentito solo inparte dei flussi migratori che hanno caratterizzato l’intera regioneAbruzzo e conta oggi 1804 abitanti.

La leggenda di fondazione

Benché molti canzanesi rac-contino di un antico manoscrit-to coevo all’accaduto, il raccon-to eziologico del culto è statotramandato fino a noi in formaorale, anche se più volte tra-scritto, a partire dal secoloXIX.4 Si riporta in questa sedela versione fornita da un giova-ne canzanese (A.D.M.), anche atestimonianza del recente erinato interesse da parte dellegenerazioni più giovani neiriguardi della storia locale e diquelle che vengono considerate le proprie “radici culturali”.

Anche in questo caso, come nella maggior parte delle narrazionimitiche, l’evento viene storicizzato attraverso dei riferimenti detta-gliati e precisi; data, ora, luogo e protagonisti vengono identificati

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4. La trascrizione più autorevole, alla quale poi tutte le successive fanno riferimento, èquella del Palma e risale al 1832. Cfr. N. PALMA, op. cit., vol. 2, pp. 389-394. Per le suc-cessive, cfr. B. DE MARTINIS, Memoria storica e novena di Maria SS. dell’Alno, venerata inCanzano di teramo, Teramo, “La Fiorita”, 1923; T. CIMINI, Sacre preghiere e novene di MariaSS. dell’Alno e S. Biagio, Teramo, Edigrafital, 1997.

con la massima esattezza, mai lasciati alla libertà narrativa e imma-ginativa di chi racconta. Ancora adesso, la leggenda, come pure irituali ripetono esattamente ciò che accadde nei giorni di queglieventi straordinari, ripercorrendo gli stessi passi dei primi testimoni.

La Madonna apparve ad un contadino di nome Floro il giorno18 maggio 1480, nel primo pomeriggio, in una località appena fuoril’abitato, attualmente nota come “Perdono”.5 Era adagiata sullachioma frondosa di un pioppo bianco.

Ancora prima di accorgersi della miracolosa apparizione, ilpastore fu sorpreso dal vedere i suoi buoi inginocchiarsi.Voltandosi, distinse tra le fronde dell’albero, contornata da un’im-mensa luce,6 la Vergine, la quale gli chiese espressamente di recar-si a Canzano e di far edificare una chiesa in suo onore. Floro, però,«era un bifolco, quindi molto povero, rozzo ed ignorante» e teme-va che, raccontando l’accaduto potesse essere deriso dalla ricca enobile popolazione canzanese.7 E così di fatto accadde.

Il giorno successivo (19 maggio) il contadino stava arando i suoicampi, quando d’improvviso l’apparizione si rinnovò. Questavolta, però, il luogo della visione si spostò di qualche metro rispet-to al giorno precedente e Maria abbandonò il pioppo per toccareterra. Floro si apprestò a raccontarle l’accaduto, ma Ella, senza pro-ferire parola alcuna, scomparve.

Il 20 maggio l’episodio si ripeté per la terza volta: in questa cir-costanza Maria chiese all’uomo di portare a termine un compito

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5. Per quanto riguarda il nome del protagonista, il Palma, con approccio storico, ne for-nisce anche il cognome: Di Giovanni (cfr. N. PALMA, op. cit., p. 389). In merito all’ora del-l’apparizione, invece, le “ore diciotto” testimoniate dal suddetto storico, vengono inter-pretate come mezzodì dal Di Nicola: «Ricordiamo che fino al principio del secolo scor-so era in vigore l’orario Italiano, che cominciava il conto delle ore dal suono dell’AveMaria serotina, o meglio da circa le ore sei pomeridiane (in qualche parrocchia forseancora si suona ventunora alle ore tre del pomeriggio) È così che la Madonna apparvealle ore diciotto, e cioè sul mezzogiorno» (G. DI NICOLA, op. cit., p. 168, nota 13).6. Il particolare della luce è una variante narrativa ignorata dal racconto del Palma.7. «Il popolo canzanese - racconta A.D.M. - era molto aristocratico, quindi compostosoltanto da ricchi signori e per la vita di lusso che vi si conduceva, il paese era statoribattezzato “la Piccola Parigi”. I contadini vivevano al di fuori del centro abitato, nellecampagne e spesso venivano beffeggiati da questi ricchi proprietari».

veramente arduo, comeprova dei prodigi che stava-no avvenendo in quei giorni:recarsi dalla nobile famigliadei De Montibus ed esprime-re la volontà di poter cavalca-re il loro “indomito e feroce”cavallo. L’animale, aggiunsela Madonna, si sarebbelasciato cavalcare e si sarebbeinfine inginocchiato; su quel-lo stesso luogo i canzanesiavrebbero dovuto costruire ilnuovo santuario. Fiduciosonella Madonna ed in-coraggiato dalle visioni, Flo-ro si recò di nuovo nel paesee, a dispetto dell’incredulitàdei presenti nonché dellareticenza degli stessi DeMontibus, impauriti perquanto sarebbe potuto acca-dere, riuscì ad avvicinare l’a-nimale e a cavalcarlo conestrema facilità.

A documentazione dellaindomabilità di questo equi-no (nonché della sua esisten-za storica!) viene oggi addita-ta un’antica botola esistente in paese, dalla quale - si dice - i DeMontibus, con dovuta distanza, gli gettassero il fieno.

Tornando al racconto: il cavallo, giunto in prossimità del luogonoto come Piano del Castellano, umilmente si inginocchiò, nonprima di aver eseguito tre cerchi sul luogo. Portato brillantementeil suo compito a termine, Floro, davanti all’incredulità di tutti gli

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L’animale e il mitoUno dei topoi più frequenti nelleleggende di fondazione mariane èlo stretto legame che intercorre trala divinità e alcune specie animali.Per comunicare la sua volontà inmodo “naturale” e sovrannaturaleinsieme, la Vergine offre alla visibi-lità, anche dei più increduli, deisegni cratofanici, e nel farlo, predi-lige l’intervento di intermediari“non umani”. Poco o niente è dun-que lasciato alla deliberazione del-l’uomo, al quale rimane soltanto ilcompito di interpretare. Ecco allorache intere collettività assistono riu-nite all’inconfondibile interventonuminoso: spesso i buoi (o altrianimali utilizzati per il lavoro)giunti su un determinato punto delterritorio, si inginocchieranno, altrevolte si rifiuteranno di proseguire ilcammino, altre ancora (come inquesto caso) deambuleranno inmodo anomalo e rituale. Su quelluogo, prescelto dal numen, indica-to dall’animale e soltanto “scoper-to” dall’uomo dovrà sorgere unnuovo luogo di culto. A questadinamica narrativa, e al processomitico-simbolico che essa sottin-tende, Mircea Eliade ha dato com-prensibilmente la denominazionedi orientatio. (M. ELIADE, Trattato distoria delle religioni, Torino, Borin-ghieri, 1976, p. 270).

astanti, scese da cavallo e baciò il suolo. Contemporaneamente,come si fosse spezzato un incantesimo, l’animale tornò ad essereindomito. E - segue il racconto - furono impiegate ore ed ore perricondurlo in stalla.

Davanti a tale prodigio, la collettività non poté che credere alracconto del contadino ed adempiere alla richiesta della Vergine. Ilavori per la costruzione del nuovo santuario iniziarono subito etutta la popolazione al completo si vide coinvolta nell’impresa.

Si racconta che durante la edificazione della chiesa le pietre fosserodiventate leggere. Perché tutti quanti, anche la donna più miserache non aveva un cavallo, un asino, o un paio di buoi portava sullatesta queste pietre.8

Il luogo di culto

Il santuario intitolato allaMadonna SS.ma dell’Alnosorge in area periurbana, appe-na fuori le antiche mura dicinta. La sua prima edificazio-ne seguì immediatamente glieventi prodigiosi e quindi risa-lirebbe alla fine del secolo XV.Tale datazione, comprovataanche da relative fonti d’archi-vio, non esclude che il riccostile barocco, che tutt’oggi con-traddistingue l’edificio, sia ilfrutto di ricostruzioni avvenutenei secoli successivi.9 Un primoampliamento - come documen-

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8. Testimonianza rilasciata da B.M.9. Per quanto riguarda le notizie storiche relative a questo luogo di culto si rimanda aG. DI NICOLA, op. cit., pp. 164-171.

tato da un’iscrizione sull’archi-trave della porta - sarebbe dafar risalire al 1592, per inter-vento della Confraternita delRosario che aveva la sua sedenella chiesa.

Ogni elemento architettoni-co mostra come nei ripetutiinterventi sia prevalso unorientamento stilistico tipica-mente barocco e perciò inclinead enfatizzare tanto gli aspettipuramente decorativi, nel ri-spetto di un gusto esclusiva-mente estetico, quanto il carat-tere devozionale delle singolerappresentazioni artistiche, cherimandano costantemente aitopoi del culto locale. Gli episodi relativi alla ierofania e alla fonda-zione del santuario sono rappresentati in più occasioni e in contestidiversi: due affreschi sulla volta riproducono gli eventi che videroper protagonista Floro [vedi foto p. 71]; il quadro posto sull’altaremaggiore ritrae il momento dell’apparizione [vedi foto], così comela statua processionale di recente fattura, esposta durante l’interoarco dell’anno su un baldacchino al lato destro dell’altare.L’immagine della Madonna contornata da foglie di alno è inoltreriproposta in un’altra effigie, denominata “pellegrina” e conservatain una nicchia a destra dell’altare, unitamente ad alcuni ex-voto.10

Una tale ricchezza di raffigurazioni è anche testimonianza dicome il culto sia andato affermandosi nel corso dei secoli, al punto

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10. Questa statua viene utilizzata a scopi processionali in momenti di particolare diffi-coltà o crisi. In tali circostanze, infatti, diviene protagonista di lunghe peregrinationesche coinvolgono l’intero abitato. L’ultima è stata compiuta nel mese di settembre 2001,subito dopo gli attentati di New York, per invocare la pace.

da primeggiare su tutte le altre devozioni locali. Questo dato vieneulteriormente confermato se si considera che all’inizio del secoloXIX, a causa delle pessime condizioni strutturali della chiesa di SanBiagio, si decise di trasferire il titolo di parrocchia al santuario dellaMadonna dell’Alno, già pievania, in quanto luogo sacro extra-moe-nia da cui dipendevano altre chiese rurali.

Il culto di questa “santa Maria del pioppo bianco”, inoltre, nonè rimasto circoscritto al Piano del Castellano, ma ha attribuito unprofondo valore mitico-simbolico anche ai luoghi delle primeapparizioni. Qui, infatti, in un periodo ancora non ben definito,sorse con il nome di “Perdono” una piccola chiesa rurale, ugual-mente intitolata alla Madonna dell’Alno.11 Questo luogo di culto fucorredato anche da due piccole cappelle, situate sui medesimipunti dove la Vergine si manifestò nei due giorni successivi al 18maggio, all’interno delle quali sono conservati due dipinti ad olioraffiguranti le ierofanie. Sull’altare maggiore del Perdono, invece, ècustodita un’altra tela raffigurante anch’essa il momento dell’ap-parizione; reca la firma di Giacinto Rufini e la data del 1889.

I rituali

La gestione del culto e l’organizzazione delle celebrazioni fuaffidata fin dagli ultimi decenni del secolo XIX ad un comitatostrutturato ad hoc e per questo denominato “Deputazione di MariaSS. dell’Alno”. I deputati, (quattro in totale) sono per norma solo

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11. Riguardo l’origine di questo secondo luogo di culto G. DI NICOLA afferma: «Nonsappiamo quando venne eretto la prima volta, si pensa all’anno 1617 dato che lacostruzione portava segnato questo anno, nell’interno, al di sopra dell’altare; ma nulladi certo. Sappiamo che venne ricostruita nel 1788 […] ma il terreno su cui sorgevano lechiesette ripetutamente rifatte era troppo soggetto a frane, per cui nel 1935 la fabbricaera di nuovo in gravissimo pericolo, e di fatti ben presto rovinò ancora nello smotta-mento causato da una frana. Fu ricostruita con più solide fondamenta negli anni 1959-1961, quantunque più piccola di dimensioni» (op. cit., p. 87).

uomini e, proprio come Floro, risiedono solitamente nella contra-da del Perdono, limitrofa al paese e prettamente rurale.Rimangono in carica per due anni e, prima di terminare il manda-to, hanno il compito di nominare i loro successori, scegliendo i piùidonei tra tutti i volontari. È interessante segnalare che, contraria-mente a quanto si sarebbe portati a credere, attualmente i membridella deputazione sono so-prattutto giovani, motivatiquanto gli adulti a tener vivele tradizioni locali.

Lo svolgimento Nonostante le trasforma-

zioni del sistema socio-eco-nomico del territorio, gliaccresciuti impegni lavorati-vi e i differenti ritmi di vita, icanzanesi hanno sempremantenuto le date del 18, 19 e20 maggio come le uniche dariservare alle celebrazioni,anche quando queste coinci-dessero con giornate feriali.In nessuna occasione, pertan-to, e per nessuna ragione,sembra essersi dissolto quelforte legame che unisce l’e-vento mitico e i rituali.

L’inizio delle celebrazioniè dunque avvenuto “da sem-pre” nella giornata del 18maggio. Dopo la recitazionedi una messa mattutina, ifedeli sfilano in processione econducono la statua della

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L’evento mitico e i ritualiQuando analizzato alla luce deglieventi mitici, il panorama ritualeacquista profondo significato echiara rilevanza simbolica. Ognisua fase, infatti, è ripetizione diquanto accaduto illo tempore, e icanzanesi di oggi non fanno chereiterare esattamente quanto fon-dato miticamente dall’antenatoFloro. Così, nella storia si rinnovaciclicamente quanto accaduto aborigine, con l’affermarsi di quel«mito dell’eterno ritorno» di elia-diana memoria (cfr. M. ELIADE, Ilmito dell’eterno ritorno, Milano,Rusconi, 1972, pp. 13-57). A suavolta, però, il racconto leggendario,al momento della sua prima com-posizione, non faceva che proietta-re in una cornice divina il quadro diuna realtà storico-sociale. PertantoFloro assurge ad eroe esemplare diuna lunghissima generazione dicontadini che, nell’ambito di unprocesso economico-produttivo,ripetevano costantemente il per-corso Perdono-Canzano. Laddovela località di partenza, prettamenterurale, era la sede della fase pro-duttiva, quella di arrivo, in quantoarea urbana riservata alla residen-za dei “Signori” (emblematicamen-te rappresentati dai De Montibus)rappresentava la meta finale dellungo lavoro agricolo.

Madonna presso la chiesettadel Perdono. Questo, infatti, inquanto area sacralizzata dalleapparizioni mariane, è il luogoin direzione del quale conver-gono la moltitudine di canza-nesi e qualche centinaio di pel-legrini provenienti dalle loca-lità limitrofe.

Il simulacro della Vergine[vedi foto] rimane esposto pertutta la durata dei festeggia-menti. I devoti iniziano a giun-gere già nelle prime ore delmattino per assistere alla litur-gia delle 10.30, con cui si sanci-sce l’apertura al pubblico dellachiesetta e l’inizio delle “visitealla Madonna”. Molti dei pel-

legrini si trattengono anche per la veglia notturna.Nella giornata del 19, alla celebrazione di altre messe si alternano

momenti di preghiera presso i due sacelli, situati lungo il sentieroantistante il piccolo santuario. Non mancano momenti ludico-profani.

Le celebrazioni più considerevoli vengono riservate alla giorna-ta del 20 maggio, quando in pompa magna la statua viene ricondot-ta nella sua abituale dimora, dopo aver percorso in processione levie dell’abitato. In questa occasione il “viaggio” della Madonna indirezione di Canzano ripete simbolicamente quello di Floro, che siconcluse con l’edificazione del santuario.

Il tono di questa ultima giornata di festa - raccontano i canzane-si - non è mai diminuito in intensità, anche se in passato i ritualiprendevano la forma dello sfarzo realmente “extra-ordinario”.

le fonti dicono che in passato, ma anche fino agli anni ‘20, la festaassumeva toni veramente grandi. Venivano bande, mongolfiere…

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A quell’epoca la festa era molto sentita; tutti i contadini lasciavanodi lavorare e facevano festa. Oggi il tono è minore anche perchéspesso capita in un giorno feriale, e non tutti possono smettere dilavorare.12

La cornice e le origini agrarie di questi rituali, come pure la lorovalenza propiziatoria, erano sicuramente evidenti e manifeste inpassato, quando alla Madonna dell’Alno era collegato anche unintero ciclo festivo annuale che ripercorreva le fasi del lavoro con-tadino.

In particolare, si ricordano la “Festa del Mosto”, celebrata a finevendemmia e la “Festa del Manoppio” o “del Ringraziamento”,che coincideva con la fine dei lavori di trebbiatura. In occasionedella prima, il mosto, raccolto durante un periodo di questua, veni-va ridistribuito tra la popolazione e consumato collettivamente.Qualcosa di analogo accadeva anche nell’altra circostanza festiva:ogni famiglia si impegnava a lasciare delle oblazioni in grano allaMadonna in segno, appunto, di ringraziamento. I covoni raccoltivenivano poi ridistribuiti tra la popolazione più bisognosa.

Queste celebrazioni hanno seguito il naturale corso degli eventi,scomparendo congiuntamen-te al declino e alla riorganiz-zazione tecnica dei sistemiche le avevano prodotte.Negli ultimi anni, tuttavia,per interesse del comitatofeste, la Festa del Manoppio stavivendo una nuova fase direviviscenza che la ha inqualche modo “riesumata”.

Durante la mattinata diuna domenica estiva (di soli-to l’ultima di luglio o la pri-

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12. Testimonianza rilasciata da A.D.M.

ReviviscenzaContrariamente a tutte le nefasteprevisioni avanzate nell’immediatodopoguerra in merito alla certa edimminente deculturazione totaledelle realtà locali, assistiamo daqualche decennio ad una loro riaf-fermazione. Se molte tradizioni etanti saperi hanno vissuto un natu-rale declino perché soppiantati dainuovi sistemi di vita, molti altrihanno continuato a perpetuarsi,pur se alimentati da nuove istanze.Altri ancora, e questo è il caso can-zanese, sono stati appunto rein-

ma di agosto), l’intera collet-tività assiste pubblicamentealla rievocazione della tradi-zionale trebbiatura da partedi alcuni agricoltori dispostia rivestire il ruolo di attori.Poi, il grano raccolto vienetrasportato sulla piazza anti-stante il santuario e benedet-to dal parroco in presenza

della statua della Madonna; seguono fuochi d’artificio e abbon-danti banchetti. Da qualche anno, l’atmosfera rievocativa è stataarricchita dall’allestimento di una mostra espositiva inerente gliantichi strumenti del lavoro contadino.

Ideografia dell’albero

Come già accennato, la specie arborea sede dell’epifania canza-nese è il popolus alba, o pioppo bianco. Tuttavia, la denominazionelocale di alno ha fatto spesso assimilare l’albero dell’apparizioneall’ontano, scientificamente classificato come alnus.

Ora: benché quest’ultima associazione possa risultare d’impattopiù ovvia, alcune riflessioni di approfondimento convergono piut-tosto a far interpretare l’alno come pioppo bianco piuttosto checome ontano.- In primo luogo, gli epiteti riportati nella documentazione storica

denominano la divinità tutelare come S. Maria di Albano, o diAlvano, o dell’Albero; tutti linguisticamente più vicini al latino albache non ad alnus.

- In secondo luogo, l’attuale presenza di alcuni esemplari di popo-lus nei pressi della chiesetta del Perdono suggerisce facilmenteche ce ne siano stati anche in passato.

- In terzo luogo, la riproduzione di foglie «a margine grossolana-mente dentato» sia nella statua processionale che in quella pellegri-

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ventati, ossia inventati ex-novosulla base di un antico substrato. Citroviamo dunque di fronte ad uno«spontaneo recupero nativista», invirtù del quale la collettività espri-me il bisogno di ritrovare se stessa,di riconoscersi come «entità coesi-va» intorno alla bandiera dellamemoria (cfr. V. LANTERNARI, Folk-lore e dinamica culturale, Napoli,Liguori, 1976, pp. 32-36).

na, lascia pensare che gli artisti si siano ispirati al pioppo bianco.- In ultimo, la distribuzione regionale dell’alnus non sembrereb-

be interessare il territorio canzanese e risulterebbe di «dubbioindigenato» anche nelle altre aree abruzzesi dove se ne rileva lapresenza.13

Al di là dell’esattezza scientifica, queste problematiche, pur nonessendo motivo di particolare interessamento da parte della collet-tività, sono indice della curiosa sintesi che si opera in alcuni casi.Alla richiesta di informazioni circa la particolarità della speciearborea, è stato risposto: «questo albero qua è un pioppo bianco,cioè un ontano. È una specie che sta scomparendo, ma dalle nostreparti ce ne sono ancora tanti».14

Classificazioni a parte, l’albero mariano canzanese rappresentaun simbolo quasi interamente privato del suo «carattere operazio-nale»,15 non costituendo ele-mento attivo nell’economia cul-tuale. Persiste, però, il suorisvolto mitico, ancora oggiriscontrabile nell’iconografia;tutte le immagini relative alculto, come statue, dipinti, san-tini ed ex-voto, anche recenti,continuano a rappresentare unaMadonna mai disgiunta dall’e-vento epifanico-arboreo.

Nonostante la reiterazione diquesto topos, del pioppo origina-rio, ricettacolo mitico della divi-nità, oggi non rimane alcunatraccia tangibile. Perdura, pe-

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13. Cfr. G. PIRONE, Alberi, arbusti e liane d’Abruzzo, Penne (PE), COGECSTRE, 1995, pp.108-109.14. Testimonianza rilasciata da B.M.15. Cfr. a tal proposito la prima parte di questo volume (p. 25).

rò, la memoria della sua esatta collocazione: su quello stesso puntosi innalza oggi un altro giovane esemplare [vedi foto p. preceden-te, in posizione retrostante la chiesetta del Perdono]. Continuano araccontarsi il mito e i racconti, in particolare quelli sul suo anticopotere taumaturgico.

Quando si innalzava presso la chiesetta del Perdono, la piantaoriginaria era così carica di sacralità che, al pari di una vera reli-quia, era ritenuta possedere facoltà miracolose. Si racconta che ilsuo vecchio tronco secernesse un olio che, se frizionato sulle partimalate del corpo, produceva effetti taumaturgici. Secondo alcuni,l’improvvisa scomparsa del prodigioso fluido è da ricondurre aduna sorta di punizione divina, derivata dalla profanazione del suouso. L’olio, infatti, smise di sgorgare allorquando un uomo se neservì per curare il proprio cane. Forse, in quanto animale “inutile”all’uomo non era abbastanza idoneo a ricevere le particolari curenuminose? O, più probabilmente, il racconto riflette un’antica posi-zione della religione cristiana riguardo agli animali?

Da oltreoceano.

Pur se in misura quantitativamente inferiore rispetto ad altrerealtà abruzzesi, Canzano ha ugualmente vissuto una fase diabbandono da parte dei suoi abitanti. A partire dall’inizio del XXsecolo, alcune centinaia di canzanesi, alimentati dalla speranza dicostruire un futuro migliore, hanno inseguito il “sogno americano”e si sono trasferiti negli Stati Uniti.

Lontani dal luogo d’origine e su un territorio in parte scono-sciuto, hanno per lungo tempo mantenuto un forte ancoraggio conCanzano, nel nome soprattutto di quel numen dell’alno che «dasempre» aveva riservato un “trattamento speciale” al loro paese.Per molti decenni, lungo quel “cordone ombelicale” che lega gliemigrati alla loro terra madre, hanno continuato a scorrere i senti-menti dell’identità, spesso materializzati nelle ingenti offerte indenaro da riservare alla Madonna.

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E così, grazie anche ai loro interventi pecuniari, è stato possibilerestaurare la chiesetta del Perdono e realizzare quel fastoso trono sucui la statua della madonna è esposta e trasportata. Quest’ultimaofferta in particolare acquista un valore altamente simbolico, inquanto relativa al principale oggetto di culto. Soprattutto nei giornidella festa, il simulacro, troneggiando sulla folla in processione erimanendo esposto all’attenzione di tutti i devoti, diviene l’oggettoin virtù del quale gli “assenti” possono ancora affermare la loro pre-senza, tanto devozionale quanto sociale.

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Il contesto storico-ambientale

La località sede del culto della Madonna del Carpine, o diCarpineto, è Rapino, piccolo comune della provincia chietina situatoalle falde della Maiella orientale. Alla particolare ubicazione dell’ag-glomerato urbano, distribuito su pendici collinari solcate dal corso dinumerosi torrenti confluenti nel fiume Foro, sarebbero da ricondur-re anche le origini etimologiche del toponimo. Rapino sarebbe per-ciò da considerarsi come “retroderivazione” del verbo rapio, nell’ac-cezione di «trascinare con sé rapidamente», da cui il termine latinorapina e quello romanzo ravin (valanga, torrente, burrone).1

Il territorio, come indicano anche le numerose fonti archeologi-che, vanta un’origine antichissima, con testimonianze che rimande-rebbero al paleolitico. A questo periodo, infatti, andrebbe riferita laprima frequentazione di una cavità ipogea situata non distante dal-l’agglomerato urbano e denominata “Grotta del Colle”.2 Questoluogo, dapprima adottato come ricovero da parte dei cacciatoripaleolitici, si affermò in epoca italica come importante santuario,dando luogo ad una lunga frequentazione cultuale destinata a pro-trarsi fino al pieno Medioevo grazie a ripetute reinterpretazioni esovrapposizioni.3

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1. Cfr. M. DE GIOVANNI, Elementi di storia linguistica, in U. DE LUCA (a cura di), Chieti e lasua provincia, Chieti, Amministrazione provinciale, 1990, Vol. I, p. 46.2. V. D’ERCOLE, V. ORFANELLI, P. RICCITELLI, La grotta del colle di Rapino, in A. CAMPANELLI,A. FAUSTOFERRI (a cura di), op. cit., p. 58.3. Il santuario sorgeva all’ingresso della grotta e parzialmente al suo interno. Esso fu

La grotta è altresì nota aglistudiosi per gli importantireperti archeologici in essarinvenuti; in primo luogo laTabula Rapiniensis, unicodocumento in dialetto mar-rucino nel quale appare piùvolte menzionata quella im-portante realtà sociale de-scritta come Touta Marouca.

In quest’ultima denomi-nazione i due termini, dariferirsi rispettivamente allares publica (touta) e all’etnico(marouca), alludono adun’importante ed influenteistituzione nella quale trova-rono identificazione le variecollettività marrucine stan-ziatesi sul territorio maielle-se. La Touta Marouca rappre-sentava infatti un elementounificante, «un’unità giuridi-ca di tipo etno-tribale», orga-nizzata secondo la distribu-

zione paganica-vicana di singoli centri fortificati.4 Lo sviluppo diquesto sistema insediativo (che coinvolgeva gran parte del territo-rio rapinese) si configurò come prevalente polo politico-ammini-strativo della gente marrucina, almeno fino al II sec. a.C., periodo

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sede di un culto italico prima, ellenistico poi. Con l’avvento del cristianesimo si tra-sformò in piccola chiesa intitolata all’Arcangelo Michele (Ecclesia Sancti Angeli adCriptas), e passò sotto la giurisdizione di San Salvatore a Maiella come Sancta Maria deCriptis. (Cfr. L. TULIPANI, Note di archeologia medievale, in AA.VV., Terra di confine traMarrucini e Carricini, Torrevecchia Teatina (CH), Creative, 2001, pp. 95-96).4. Cfr. G. PIRRO, La storia e le istituzioni dal IV secolo a.C. all’età imperiale, in U. DE LUCA

(a cura di), op. cit., vol. I, pp. 168-169.

Tabula RapiniensisQuesta denominazione fu attribuitaad una tavola bronzea rinvenutapresso la Grotta del Colle nel 1846.Il documento, che risalirebbe al IIIsec. a.C., descrive una lex sacrainerente il culto praticato nel san-tuario ipogeo. Il primo articolo dellalegge fa riferimento alla “vendita”delle ancelle di Giove, mentre ilsecondo indica le modalità e gliscopi di suddetto mercato: le ancel-le saranno guidate dalla “ReginaIovia” e destineranno il ricavato altesoro di Cerere. In questo docu-mento si sarebbero stabilite non lenorme di una normale “vendita” dischiave, ma della “prostituzionesacra” finalizzata ad accrescere lericchezze del tempio, intitolate alladivinità femminile «Cerie Iovia»,identificata con Cerere. Il culto tri-butato a questa divinità, in coppiacon Venere, era già diffuso in ambi-to peligno e fu documentato, con lestesse modalità rituali, anche aTeate, a partire dal II sec. a.C. (A.LA REGINA, Legge del popolo marru-cino, in A. CAMPANELLI, A. FAUSTOFERRI- a cura di -, I luoghi degli dei, Pe-scara, Carsa, 1997, pp. 62-63).

in cui la Touta Marouca venne offuscata dalla nuova Teate.Nell’ambito di una tale organizzazione,

un ruolo di estrema importanza spetta al santuario, cui toccavasvolgere una serie di funzioni, nei confronti della touta, dei pagi edei vici di competenza . […] Nel sistema pagano-vicanico i santua-ri accentravano al loro interno anche una serie di attività di caratte-re civile […] di carattere economico, amministrativo e della vitapolitica e militare.5

Il luogo di culto diveniva in questo modo non solo il palcosce-nico della ritualità religiosa, ma espletava una reale azione cen-tripeta, facendosi fulcro di attività miranti a rinsaldare l’apparte-nenza etnica e a riconfermare l’identità sociale. In ambiente mar-rucino questa funzione accentratrice era rivestita proprio dal tem-pio della Grotta del Colle, assurto a luogo sacro comune di tuttal’etnia.

Ma un secondo reperto archeologico di pari rilevanza mostracome nell’ambito del culto marrucino fosse proprio una divi-nità femminile a rivestire il ruolo più saliente. Si tratta di unapiccola statua bronzea, rinvenuta anch’essa presso la Grotta delColle, raffigurante una donna che reca tra le mani un disco contre spighe (probabilmente una focaccia), identificata dagli stu-diosi con la Cerie Iovia menzionata nella sacra lex della tavolabronzea.6

Se ne può dedurre che già in età precristiana le popolazionilocali tributavano un culto ad una «divinità della fertilità, dispen-satrice delle messi e quindi della vita […]dea legata alla terra e aicicli della vita vegetale».7 Alla luce delle sue rappresentazioni cto-nie, il rinvenimento della effigie presso la grotta si carica di ulte-riori valenze e motivazioni. La caverna-tempio si impone nell’im-maginario come simbolo uterino, grembo della madre Terra, della

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5. M.J. STRAZZULLA, cit., p. 29.6. V. D’ERCOLE, V. ORFANELLI, P. RICCITELLI, La grotta del colle di Rapino, in, Ibidem, p. 59.7. Ibidem.

Montagna Madre (la Ma-iella), dalla quale la vita sca-turisce e alla quale la vitaritorna.

La particolare predisposi-zione di questa parte d’A-bruzzo a percepire la “sacra-lità” (predisposizione in par-te riconducibile alla suaconformazione orografica) fusicuramente avvertita daiBenedettini, che scelsero lependici della Maiella comedimora perfettamente confa-cente alle loro necessità diritiro e di preghiera. Neisecoli VIII-IX infatti, quest’a-rea fu protagonista di un

processo di colonizzazione monastica che fece dell’abbazia di SanSalvatore il principale centro di irradiazione della loro opera evan-gelizzatrice e sotto la cui giurisdizione ricadde anche Rapino.

In seguito alla decadenza del complesso abbaziale, tutto il territoriofu feudalizzato, divenendo possesso della famiglia degli Orsini prima(sec. XV), dei Colonna poi.8

Sin dalle primissime fasi del suo insediamento in questo territo-rio, la collettività rapinese ha sviluppato strutture socio-economi-che basate su un sistema agro-pastorale che continua a rappresen-tare il settore tradizionale di impiego, nonostante il notevole decli-no subito nel corso del XX secolo. La testimonianza di quanto lapastorizia fosse affermata in tutta l’area è riscontrabile in una fittarete di piccoli tratturi collegati in parte al “tratturo regio”, la piùimportante “via d’erba” lungo la quale si è articolato il secolaresistema della transumanza abruzzo-pugliese.

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8. U. DE LUCA (a cura di), op. cit., vol. II, pp. 243-244.

La MaiellaNel territorio abruzzese la Maiellarappresenta la montagna sacra perantonomasia, in quanto sede privi-legiata della Grande Madre. Non acaso, il patrimonio leggendario chetrova ambientazione in questaparte d’Appennino è sconfinato;ogni località che sorge sui diversiversanti del rilievo ha creato unproprio corpus mitico che riunisce inun’unica dimensione ieratica divi-nità, eroi, paladini, giganti. Questocarattere di sacralità sarebbe sug-gerito dallo stesso oronimo, spessoricondotto alla divinità ctonia Maia eprobabile evoluzione della radiceindoeuropea *mag, esprimentegrandezza, forza, sviluppo. (F.VERLENGIA, Tradizioni e leggende sa-cre abruzzesi, Pescara, “Attraversol’Abruzzo”, 1958, p. 65).

Il complesso viario, insieme a quello degli scambi commerciali,ricevette un notevole impulso in epoca romana, grazie al consoli-darsi della via Claudia Valeria che, attraversando l’intero territoriomarrucino, favorì lo sviluppo economico di queste aree.9

Il settore agricolo, invece, non si è mai imposto in modo consi-derevole ed è sempre rimasto circoscritto ad una dimensione diautosufficienza. I motivi di questa condizione vanno in primo luogorintracciati nei fattori ambientali e nella conformazione orograficadel territorio. Le uniche zone sottoposte a colture infatti sono sem-pre state quelle collinari, dove oggi prevale la olivicoltura.

Ma se per un verso la natura del luogo si tradusse in limitazio-ne per l’agricoltura, per un altro essa costituì, grazie all’abbondan-te presenza di argilla, la condizione primaria per l’imporsi di unalunga tradizione artigianale legata alla produzione di ceramiche.Questa lavorazione, come testimoniano anche i numerosi repertifittili rinvenuti in prossimità della Grotta del Colle, è attestata findal neolitico.10 Tuttavia, il suo consolidamento in termini di impie-go professionale avvenne solo nel corso del XVIII secolo, quandoiniziarono a nascere le prime botteghe artigiane.

Nel corso dell’Ottocento, inoltre, l’arte dei maiolicari rapinesi siimpose sul mercato nazionale grazie alle attività della famigliaCappelletti. Originari di Castelli (comune in provincia di Teramo,noto in ambito extra-nazionale per la produzione di ceramiche arti-gianali), i Cappelletti si stabilirono a Rapino e, passando per Torrede’ Passeri e Pretoro, traslarono lo stile castellano dal Gran Sassoalla Maiella.11

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9. Cfr. E. FABBRICOTTI, Il territorio nell’antichità, in, Ibidem, vol. I, pp. 126-127. 10. Di notevole interesse possono essere considerati i galletti fittili, non solo perché raf-figuranti l’animale spesso associato a divinità femminili ctonie come Demetra e Cibele(cfr. C. MORELLI, Dalla devozione popolare alla “follia terapeutica”: le terrecotte votive, in, A.CAMPANELLI, A. FAUSTOFERRI, op. cit., p. 91) ma anche perché quello del gallo costituisceancora oggi il motivo scultoreo più caro all’arte rapinese. Molto diffusi, soprattutto inpassato, erano dei fischietti raffiguranti questo volatile, utilizzati soprattutto dai bambi-ni come giocattoli. Per maggiori dettagli su questa particolare lavorazione si rimandaalla lettura di V. GIOVANNELLI, I galletti con il fischio delle botteghe di Rapino, Rapino, 1994.11. A. D’ANNIBALE, La terra cotta e fiorita, in “Pagine d’Abruzzo”, XIV, n. 53, 2001, pp.24-25.

Tutte queste attività risentirono fortemente delle crisi economi-che post-belliche che provocarono il lento ma costante depaupera-mento demografico del paese. Le ondate emigratorie più conside-revoli si registrarono nel corso degli anni Cinquanta; il fenomenorappresentava sicuramente l’effetto delle limitatezze nel settoreagricolo, ma nello stesso tempo diveniva causa del quasi totaledisuso dei sistemi produttivi tradizionali.

Nel corso dell’ultimo decennio questa tendenza ha subito un’in-versione, tanto che si sta verificando un sistematico recupero delleeconomie locali, nonché l’inaspettato ritorno di qualche emigrato.Alla conformazione di questo nuovo panorama hanno contribuitodiversi fattori: in primo luogo la generale tendenza verso un sem-pre più ricercato “recupero delle origini”, in secondo, il consolidar-si dell’eco-turismo, o turismo verde, qui favorito dalla presenza delParco Nazionale della Maiella.

La leggenda di fondazione

Il culto della Madonna del Car-pine affonda le sue radici in un rac-conto leggendario che una tradizio-ne rigorosamente orale fa risalire trail XII ed il XIII secolo.

La versione qui riportata è statafornita dalla signora G.F., residentea Rapino.

La leggenda ruota attorno aduna visione mariana avvenuta in uncaldo pomeriggio di primavera dimolti secoli fa. Era il maggio di unanno imprecisato ed un pastorelloattendeva al suo gregge nei pressidi un boschetto di querce e di carpi-ni, attraversato da un ruscello. Il

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giovane, dopo essersi disteso a riposare sotto l’ombra di un carpine,fu improvvisamente destato da un fruscio di foglie: fra i rami del-l’albero si era posata la Vergine, che gli parlò, incaricandolo di recar-si in paese e di riferire della sua venuta al resto della popolazione.

Il pastore si recò immediatamente a Rapino per annunciare ilprodigioso evento e per guidare tutti i compaesani sul luogo del-l’apparizione. Giunti presso il carpine, però, i rapinesi non trova-rono la Madonna “in persona”, bensì una sua effigie. Interpretandocomunque quel ritrovamento come il segno di un dono divino, pre-levarono la statua dall’albero e la condussero in processione finoalla chiesa madre del paese.

Tuttavia all’indomani furono testimoni di un altro prodigio: ilsimulacro era scomparso, senza che nessuno lo avesse rimosso.Quel giorno, per una congiunzione di fattori atmosferici del tutto“inconsueta”, aveva nevicato e sulla neve fresca erano chiaramen-te visibili piccole orme che conducevano fino al sito della visione.«La Madonna aveva deciso di tornarsene da sola al suo carpine!»

Questo ulteriore avvenimento straordinario non poteva cheessere letto come un signum della volontà numinosa: ricevere unnuovo luogo di culto a Lei dedicato, in quel medesimo spazio cheLei stessa aveva prescelto. La collettività rapinese pose subitomano all’opera e proprio in quel boschetto di querce e di carpinifondò un nuovo santuario. Al suo interno, sull’altare maggiore, fucreata una sontuosa nicchia da riservare alla statua protagonistadegli eventi prodigiosi. Da qui essa, afferma la tradizione, non potépiù essere rimossa, tale era la “perentorietà numinosa” di rimane-re nel luogo prescelto, perentorietà confermata da altri signa.

Il carattere di inamovibilità attribuito al simulacro troverebbeinfatti motivazione e fondamento in un’altra leggenda, secondo laquale l’unico tentativo approntato per portarla in processione sirisolse in un “inevitabile” fallimento. Si racconta che “tanto tempofa” i rapinesi decisero di prelevare la statua per una celebrazione,ma che, giunti sulla soglia del santuario, furono costretti a recede-re: il cielo si era annerito minacciosamente e il simulacro era diven-tato talmente pesante da risultare intrasportabile.

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Fu in quella circostanza che si decise di costruire un’altra statuada utilizzare durante le processioni celebrative e da conservarepresso la chiesa parrocchiale di San Lorenzo.

Il luogo di culto

Il santuario intitolato alla Madonna di Carpineto è situato in areaperiurbana, su quello stesso luogo presso cui la tradizione colloca laierofania, nella vicinanze di un’antica quercia e di un ruscello.

Della primitiva struttura, probabilmente risalente al XIII secolo,non rimangono oggi evidenti tracce e l’intero edificio risulta frutto

di numerose ricostruzionieffettuate nel corso deglianni. L’intervento più signifi-cativo porta la data del 1810e fu voluto dall’arcipreterapinese Don Nicola Amo-roso, in segno di ringrazia-mento per il “miracolo dellapioggia” che la collettivitàattribuì all’intervento dellaVergine del Carpine.12

Si racconta che nel corsodella primavera del 1794sulla popolazione di Rapinogravasse il peso di una diffi-cile carestia causata da unaprolungata siccità. Sotto-messi ai loro limiti umanipoiché impotenti di fronte

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Miracolo della pioggiaTra i molteplici patrocini attribuitialla Vergine, quello sugli eventinaturali è forse il più diffuso inambito rurale; a tal punto che su diesso è possibile tracciare i contornidi un’ulteriore tipologia di figuremariane definibili come “madonnemeteoriche”. A loro gli uomini sirivolgono con particolare intensitàdevozionale quando minacciati dasiccità o, al contrario, da tempestee alluvioni. L’immediata risoluzionedella situazione calamitosa vieneinterpretata come un segno dell’in-tervento divino. In Abruzzo, capo-fila di questo gruppo di figurenuminose può essere consideratala Madonna di Pietracquaria, assur-ta a protettrice di Avezzano peravere liberato la città dalla siccitàprima, e da piogge alluvionali inuna seconda occasione.

12. Questa data sarebbe stata attestata da un’iscrizione che un tempo giaceva all’inter-no del santuario e che ora sembra essere scomparsa (Cfr F. VERLENGIA, Tradizioni e leg-gende sacre abruzzesi, Pescara, “Attraverso l’Abruzzo”, 1958, p. 102).

alle arbitrarietà della Natura, irapinesi, implorato l’aiuto delloro principale referente numi-noso e di tutti i loro altri patro-nes – condotti tutti insieme inperegrinatio - si recarono in pro-cessione presso il piccolo san-tuario. Non appena il corteogiunse davanti alla sacra effigiedi Maria, il cielo d’improvvisosi caricò di nuvole ed unaprovvidenziale pioggia ridiedevita ai campi. Tutti gli abitantidei paesi vicini, non avendobeneficiato in prima persona diquelle precipitazioni salvifiche,cadute esclusivamente sul ter-ritorio rapinese, non poteronoche riconoscere in quell’eventoun miracolo da attribuire alla Madonna del Carpine. Così da quelmomento la devozione si estese anche a tutte le località limitrofe.Era l’otto maggio.

Alla commemorazione di questa data furono indirizzate tutte lesuccessive celebrazioni intitolate alla Madonna di Carpineto, senzamai apportare cambiamenti o slittamenti alla domenica più vicina,dettati da istanze di più comoda fruibilità da parte dei devoti. Inseguito al “miracolo meteorologico”, il culto mariano rapinesevisse dunque una sorta di ri-fondazione e si impose su tutto il ter-ritorio circostante, con un notevole aumento dei pellegrini.

Il santuario venne perciò ingrandito e arricchito di nuove imma-gini che documentavano il particolare privilegio riservato dallaVergine al suo popolo. Nel corso del Novecento, inoltre, la chiesa hasubito altri interventi in parte riferibili ai ripetuti e sostanziosi con-tributi pecuniari offerti dagli emigrati, che mai hanno dimenticatodi rendere omaggio alla loro Vergine di Carpineto.

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Molti sono i miracoli e le grazie attribuiti alla Madonna e nesono viva testimonianza i numerosi ex-voto esposti ai lati dell’alta-re maggiore, sulla cui nicchia è ancora gelosamente custodita l’an-tica statua.

Ad una prima rilevazione non sembrano esistere documenti atte-stanti la datazione di suddetto simulacro, ma la tradizione affermache sia quello originariamente trovato dai devoti di Rapino, subitodopo e al posto della apparizione, in “sostituzione” della Vergine.L’antichità della statua sarebbe in parte comprovata dallo stile chela contraddistingue; tuttavia questo solo elemento risulta insuffi-ciente per una determinazione più precisa.

La statua consiste soltanto in un mezzo busto di legno policro-mo montato su una struttura coperta da sontuose vesti. L’ultimovestito della Madonna è stato fatto confezionare in un atelier roma-no nel 1994, in occasione del bicentenario del miracolo della piog-gia e il suo costo, sostenuto in parte dagli emigranti, ha già assun-to toni leggendari.

I rituali

Il culto della Vergine del Carpine si articola attraverso rituali chehanno il loro fulcro nelle celebrazioni dell’otto maggio (rievocazio-ne del miracolo della pioggia) e, nello specifico, in un singolare cor-teo sacro, più noto al lettore abruzzese come la “processione delleverginelle”. È questo il contesto rituale che accompagna la statuaprocessionale dalla chiesa parrocchiale di San Lorenzo al santuarioperiurbano della Madonna di Carpineto, è questo il percorso che irapinesi, dal centro del loro paese, devono compiere per re-immer-gersi nella dimensione di sacralità che solo quel “luogo di natura”circoscritto da querce è in grado di restituire.

Festa dell’otto maggio, quindi, come rinnovamento del contattocon l’ambiente, come inno alla vita che ritorna; idee comunicate alpieno della loro forza simbolica proprio attraverso la figura dellegiovanissime verginelle.

Protagoniste di questo rituale processionale sono delle bambine

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di età compresa tra i 6 ed i 12 anni, e comunque in condizione pre-puberale, raffiguranti quella particolare fase della crescita durantela quale non si è più nell’infanzia ma non si è ancora acquisita lapubertà. In altre parole, personificanti quel delicato momento dellavita che porta le bambine a divenire donne.

Quanto la rappresentazione di questa particolarissima condizio-ne biologica sia rilevante in termini simbolici, emerge anche daaltre testimonianze raccolte sul campo, nello specifico da quellerelative al momento della vestizione delle verginelle. In modo per-tinente ad ogni contesto iniziatico - dove accanto alla figura del/llanovizio/a è sempre presente, in funzione di testimone del passag-gio, quella del padrino/madrina adulto/a - questo compito spettaad alcune donne del paese vicine all’ambiente parrocchiale.Parlando dell’età che si addice ad una verginella, una delle “madri-ne” informa del fatto che per poter sfilare in processione non ètanto importante il dato anagrafico, quanto piuttosto l’aspetto fisi-co, che deve propendere più verso l’infanzia che verso l’età adulta.

In alcuni casi, infatti, quando le bambine interessate a ricoprireil ruolo rituale mostrano i chiari segni di una femminilità piena-mente conseguita, viene loro fasciato il torace, in modo che prendaun aspetto infantile. L’intendimento di base, dunque, è che la ver-ginella non si collochi troppo precisamente in una classe di età, masi ponga in una fase di liminalità, in una condizione di “passag-gio”, che la mostri come soggetto momentaneamente “diverso”,pronto solo in potenza a farsi latore di vita.

Essere verginelle significa rendere pubblico un fragile ma altempo stesso promettente momento biologico ed esistenziale, invirtù del quale si passa da una fase di vita, per così dire, “cultural-mente asessuata” ad una in cui il genere è in primissimo luogo sta-bilito dal ruolo che si riveste nel processo procreativo.Rappresentando questo status, esse risultano particolarmente pre-disposte a simboleggiare il numen che la collettività si accinge acelebrare.

Coerentemente con questo universo metaforico, la statua pro-cessionale [vedi foto p. seg.] sotto la quale le bambine sfilano è stata

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scolpita in modo da porrediscretamente in risalto la zonadel ventre, così da ricordareuno stato di gravidanza. Dun-que, verginità che, come nelcaso di Maria, assurge ad apo-logia della vita. Questo caratte-re propiziatorio del culto, comedel rito, viene molto enfatizza-to e costantemente sottolinea-to, sia nell’aspetto fisico delleverginelle, che nel loro abbi-gliamento e in altre praticherituali di loro pertinenza.

L’abito cerimoniale è carat-terizzato da una singolare ric-

chezza di adornamenti: si compone di un vestito solitamente colorrosa, detto greca, vistosamente arricchito di gioielli in oro.

Le verginelle portano tantissimo oro, che di solito appartiene allafamiglia, ma che spesso viene anche dato in prestito dagli altri rapi-nesi in segno di devozione. Infatti fare indossare l’oro alle verginel-le porta bene. I gioielli sono talmente pesanti e numerosi che biso-gna fissarli con il filo per non rischiare di perderli.13

Una sorta di ostentazione della ricchezza che, al di là del valoresimbolico che l’oro rappresenta, si traduce in pratica propiziatoriase vista nell’ambito di un contesto rurale del passato e nel rispetto“filologico” di una tradizione locale oggi.14

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13. Testimonianza rilasciata da G.F.14. «Da qualche anno il parroco ha voluto rimettere un po’ di ordine alla processione.Perché negli ultimi anni, per far partecipare tutte le bambine che richiedevano di farele verginelle e anche quelle più grandi, nella processione si era creato un altro gruppo:quello delle “Figlie di Maria”, che col passare del tempo stavano quasi sostituendocompletamente quello delle verginelle. Le figlie di Maria, però, non avevano gli abititradizionali: indossavano i vestiti della comunione, senza ori. Allora si è deciso di abo-lire le “Figlie di Maria” e si è tornati alla tradizione» (G.F.).

Così, adesso come allora,le verginelle vengono accura-tamente vestite per la primavolta nel giorno di vigilia. Lefasi preparatorie della festa,infatti, prevedono che le gio-vani, ancora prima di vivereil momento pubblico dellaprocessione, si facciano pro-tagoniste di un piccolo corteodurante il quale distribuisco-no a tutte le abitazioni delpaese alcuni pani devoziona-li appositamente preparatidalle donne rapinesi. In que-sta pratica, più che nellealtre, emerge con chiara evi-denza quel livello agrarioche giace alla base del culto,nato evidentemente comeespressione di una societàagricola che non poteva immaginare un proprio referente sacrale senon come garante di vita e, in quanto tale, “datore di messi”.

In passato, il passaggio dalla dimensione profana della quoti-dianità a quella sacra del contatto con la Madre-Natura del Carpineera più enfatizzato rispetto ad oggi e tendeva ad essere ripetuto,soprattutto dalle donne, per tutta la fase preparatoria della festa,durante la quale le stesse si recavano quotidianamente presso ilsantuario agreste per la recitazione della novena:

In passato per arrivare al santuario, invece che passare all’internodel paese, percorrevamo una stradina di campagna che era un po’più faticosa, ma era tanto più bella. Attraversavamo un boschetto diquerce, poi il ruscello e poi attraverso una piccola salitella arrivava-

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L’oroQuesto metallo, contraddistinto dapregio e valore unici derivati dallasua rarità, nelle culture mediterra-nee è tradizionalmente considera-to come la pietra “perfetta”, rap-presentante una natura solare ereale insieme, nonché divina. Nona caso gli antichi egiziani pensava-no che la carne dei faraoni fossecostituita d’oro, e non a caso lostile bizantino caricava di decora-zioni dorate le icone al fine diriprodurre una luce paradisiaca.Nella tradizione greca, come inquella cristiana, l’idea dell’ororichiama quella del sole e tutto ilpatrimonio simbolico legato allanostra stella (fertilità, benessere,calore, generosità, luce e cono-scenza) divenendo materializza-zione del potere di procreazione(J. CHEVALIER, A. GHEERBRANT, ADictionary of symbols, London,Penguin, 1996, pp.439-442).

mo al santuario. Mi ricordo che era bellissimo, perché era maggio. Irami delle querce si toccavano tra di loro sulla chioma, quasi a for-mare una galleria.15

Una sorta di ciclica ed annuale reimmersione in una naturapronta a rinascere dopo la lunga stasi invernale. Un delicato edintenso momento di risveglio, simbolicamente ravvisabile proprionel periodo stagionale riservato ai festeggiamenti: spesso infatti,facendo riferimento a questo particolare momento dell’anno siparla di “costa di maggio”, a denotare quel passaggio critico chedalla stagione invernale conduce a quella estiva.

Un’idea di rinnovamento ricorrente che non poteva non trova-re proiezione anche nel mito, come dimostra l’episodio leggenda-rio del miracolo rigeneratore della pioggia. Miracolo che, a dettadei rapinesi, sembra rinnovarsi tutti gli anni, seppur attraversoqualche rada goccia piovana: «il giorno della processione piovesempre! Un po’ di pioggia non manca mai! Anche se dopo escesempre il sole!»

Ideografia dell’albero

Nell’ambito del culto rapinese, l’elemento arboreo ha ricopertoe continua a ricoprire un ruolo fondamentale, pur essendo statosoggetto a inevitabili contraddizioni che nel corso del tempo hannoassimilato il “carpine” ierofanico alla quercia, specie forse piùcomune.

A testimonianza di quell’antico evento straordinario, infatti,viene oggi additato non un carpinus betulus ma un esemplare diquercus, situato nel piazzale antistante la chiesa e noto alla colletti-vità locale come “Quercia della Madonna” [vedi foto], perché rite-nuto sorgere su quella stessa porzione di territorio dove laMadonna volle mostrarsi all’antenato leggendario. Questa eviden-te incompatibilità tra quanto tramandato dal racconto e quanto è

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15. Testionianza rilasciata da G.F.

attualmente riscontrabile non sembra affatto preoccupare i rapine-si, per i quali, in fondo, carpine e quercia «sono più o meno la stes-sa cosa».

Di fatto, immaginario collettivo e classificazione scientifica per-corrono strade parallele, sollecitati come sono da interessi del tuttoantitetici; ciò che importa in termini di patrimonio culturale localeè che ancora ai nostri giorni possa essere individuato materialmentee concretamente nello spazio un centro, un sito dove “tanto tempo fa”la Madre di Dio lasciò qualcosa di sé, divenendo la Madonna diCarpineto e dei rapinesi.

L’associazione tra le due specie arboree, d’altra parte, non risul-terebbe neanche del tutto peregrina in termini botanici, se si consi-dera che in Abruzzo risulta alquanto diffusa l’alleanza Carpinion,che comprende, appunto, «boschi mesofili» di querce e di carpini.16

Alla luce di queste considerazioni si potrebbe identificare in mododel tutto lecito il luogo della ierofania come un querco-carpineto,dato in parte confermato dalla denominazione della divinità. La

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16. Cfr. G. PIRONE, op. cit., p. 113.

presenza della quercia al posto del carpine, invece, potrebbe deri-vare dal fatto che la prima specie vegetale sia molto più longevadella seconda che, al contrario, raramente supera il secolo di vita.17

In modo del tutto coerente al panorama dei culti mariani arbo-rei, anche la tradizione rapinese non ha dimenticato di “lasciaretestimonianza” circa il destino occorso all’albero originario.Secondo varianti leggendarie, ora in parte assopite, il tronco diquel carpine sarebbe stato rimosso illo tempore dalla sua collocazio-ne “naturale” per essere posto alla base del simulacro prodigiosa-mente rinvenuto. Nessuno, però, afferma la tradizione, potevavederlo, perché ricoperto dalle vesti della Vergine.

All’episodio del ritrovamento nei pressi di un carpine fa riferi-mento anche un’antica iscrizione, collocata tra gli ex voto e recantei versi:

Perché tra folti carpini trovataDa semplice pastor, di Carpineto

Questa Madre di Dio fu intitolata

Questa terzina, testimone di quanto sia stretto il legame tra spe-cie arborea e denominazione e di quanto il riferimento all’alberopossa essere ancora importante in termini di territorializzazionedel culto, costituisce parte integrante delle attuali immagini devo-zionali di divulgazione ed è stata riportata anche nei santini.

Il culto e il suo omologo oltreoceanico

Come già accennato, il popolo dei “rapinesi all’estero” nonha mai dimenticato il paese delle origini e lo stretto legame chelega questo alla Grande Madre del Carpine, figura divina sem-pre presente nella loro storia locale, in termini tanto devoziona-li quanto culturali, con radici che, come abbiamo visto, affonda-

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17. Ibidem, p. 112, p. 139.

no nella natura stessa del luogo.Se nei primi anni del dopoguerra gli interventi degli emigrati

si limitavano all’invio di offerte, con il passare degli anni il lorotributo alla Madonna di Carpineto è andato rinforzandosi, forsealimentato da una possibilità di ritorno, o forse al contrario det-tato da un desiderio di radici da costruire sulle basi di una iden-tità ormai del tutto transoceanica, ma che dentro di sé rechianche qualche goccia di “rapinesità”. E così “il frutto puro” forsesarà “impazzito”, ma pur nella sua accezione di prodotto cultu-rale “ibrido” continua a farsi veicolo di importanti istanze iden-titarie.18

Ecco allora che una “grande” Ottawa ha potuto contenere in séanche una piccola porzione di Rapino, dando vita ad un luogonuovo che si è fatto uno spazio intorno al quale una comunità haricostruito nel tempo nuovi meccanismi identitari e nuove solida-rietà in nome della divinità “da sempre” onorata.

I “rapinesi di Ottawa”, per potersi riconoscere come tali, nonsolo si sono riuniti in associazione, ma hanno ricreato il culto dellaMadonna di Carpineto anche nella città canadese, con la fondazio-ne di un piccolo santuario a Lei intitolato. La Vergine rapinese hacosì avuto il suo omologo oltreoceanico, facendo sì che tra la comu-nità degli emigrati e la sua “cellula madre” continuasse a perpe-tuarsi, proprio in nome di un referente sacrale comune, un legameidentitario, seppur frutto di nuove congiunture.

Se da parte loro i “rapinesi-ottawesi” continuano sempre a man-dare offerte, doni ed ex-voti alla Madonna e a ritornare essi stessiin occasione delle celebrazioni, i “rapinesi d’Abruzzo” hanno ini-ziato a contraccambiare “il favore” recandosi essi stessi di làdall’Atlantico per far visita a parenti ed amici. Questo gemellaggiocultuale fu avviato qualche decennio fa dallo stesso parroco diRapino Don Pietro Amelia, il quale in prima persona volle impar-tire la benedizione sul nuovo luogo di culto intitolato alla sua

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18. J. CLIFFORD, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX,Torino, Boringhieri, 1993.

Maria. (Il quadro nella fotorappresenta un’oblazione daparte dell’Associazione cana-dese).

La Madonna di Carpineto,oltre all’ipostasi canadese, hadato vita ad un processo analo-go anche a Buenos Aires,metropoli che ha visto al suointerno il costituirsi di un’altraassociazione di rapinesi. Anchein questo caso l’otto maggiocostituisce una data che mai sidimentica di commemorare,sia con l’invio di offerte alcomitato organizzatore delpaese d’origine, sia con festeg-giamenti in terra argentina.

Ovunque essi siano, siano essi rapinesi d’Abruzzo, canadesi oargentini, pur connotandosi come diversi gli uni dagli altri, si rico-noscono affini non solo per le comuni origini, ma per la devozioneche li lega tutti alla Madonna di Carpineto.

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Il contesto storico-ambientale

Nel vasto panorama cultuale abruzzese, la Madonna delCrognale è forse più nota con la denominazione di Santa Maria diPropezzano, che le deriva dal sito presso cui la tradizione collocaun’antichissima ierofania.

La località di Propezzano, dalle origini incerte,1 è frazione delcomune teramano di Morro d’Oro ed è situata sulla sommità di unrilievo collinare tra le due vallate del Vomano e del Tordino. Nonpresenta un proprio nucleo urbano, se non isolate abitazioni, ed èesclusivamente legata alla presenza del complesso abbaziale.

“Da sempre” quindi, questo territorio si è configurato come“terra di confine” come “spazio di passaggio”, non predisposto adivenire palcoscenico di attività quotidiane e ordinarie, ma, al paridi molti altri crocevia, unicamente dedito agli incontri. Incontri tra

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1. Molte sono state le ipotesi avanzate circa la ricostruzione etimologica di questa fra-zione: secondo il De Giovanni, Propezzano sarebbe da ricondurre al filone prediale,risultando come derivazione del nome proprio romano Pontius (M. DE GIOVANNI, op.cit., p. 170). Secondo il Vescovo Nanni, invece, l’attuale toponimo sarebbe trasforma-zione di un originario Praetutianum, adducibile alla sua collocazione su territorio pre-tuziano (cit. in M. MARTELLA, Morro d’Oro. Memorie - Luoghi - Persone, Morro d’Oro(TE), 1988, p. 105). Altri ancora fanno derivare Propetianum da Prope Juanum, cioèluogo sito in prossimità di un tempio dedicato a Giano (Ibidem, p. 106, nota n. 5).Accanto a queste ricostruzioni esistono considerazioni vagliate dalla tradizione devo-zionale, secondo cui Propezzano andrebbe invece associato direttamente alla divinità,in qualità di Madonna “Propiziatrice”.

pellegrini, giunti numerosi per l’ottenimento di indulgenze, maanche incontri tra commercianti e viandanti, giunti in occasione diqualche importante fiera.2

D’altra parte, tale configurazione risulta alquanto remota etrova datazione in epoca romana, ai tempi in cui queste vallate,attraversate dalla via Cecilia, erano tra le più trafficate dell’impero,poiché importante ponte di congiunzione tra il versante internodella Salaria e quello costiero.3

Questa felice ubicazione insieme alla presenza di terreni moltofertili, si sono spesso tradotte per le collettività locali in benessereeconomico, nonché in ricchezza culturale. E così, al centro di untale contesto, la società morrese è sempre stata favorevole a svol-gere una vasta tipologia di attività economiche volte verso sistemidi scambio anche extra-locali. È il caso della risicoltura che, a par-tire dal 1500 e a seguire per oltre tre secoli, costituì una risorsamolto importante;4 come pure di tutte le altre colture (soprattuttofrutteti, vigneti, uliveti) incrementatesi dall’inizio del XIX secolo, edella lavorazione di fibre naturali come lino e seta, protrattasi finoai primi decenni del Novecento.

Dopo il secondo dopo-guerra, alcune di queste produzioni agri-cole hanno subito una riconversione in termini di innovazione tec-nica, permettendo alla popolazione locale di continuare a goderedelle risorse territoriali, senza vedersi costretti ad emigrare in cercadi nuove occupazioni. Oggi Morro D’Oro conta circa 3000 abitanti.

Uscendo dal contesto strettamente economico ed immergendocinelle vicende storico-politiche che si sono alternate in questo terri-torio, si nota che il comune di Morro d’Oro, con la sua Propezzano,

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2. A tal proposito così afferma il Martella: «detto convento amministrava vasti posse-dimenti di terreni e costituiva […] da tempi antichissimi, notevole centro di raccolta edi scambi per i paesi circonvicini» (Ibidem, p. 220).3. Ibidem, p. 29.4. Questa coltura si diffuse su tutto il territorio circostante il fiume Vomano, ma neiprimi decenni dell’Ottocento un’ordinanza proibì la semina del riso in seguito al sor-gere di gravi problemi igienico-sanitari. (Cfr. Ibidem, pp. 56-57).

è stato al centro di importanti dinamiche riconducibili in largaparte all’influenza degli Acquaviva, che iniziarono ad operare inqueste zone fin dall’inizio del XIII secolo. Anche il feudo di Morro,infatti, unitamente a molte altre compagini teramane, divenne pos-sedimento della potente famiglia atriana nella seconda metà delDuecento, come ricompensa per aver combattuto in favore di Carlod’Angiò contro Re Manfredi.5 Il loro predominio era destinato aprotrarsi per circa mezzo millennio, fino a quando il paese fu devo-luto al Regio Demanio, in assenza di ereditari.

Morro d’Oro divenne comune autonomo nel 1808, in seguito aduna petizione inoltrata al re, nella quale la cittadinanza vantavacondizioni sufficienti per un autogoverno. Il nuovo comune conta-va 1217 abitanti.6

La leggenda di fondazione

Anche nell’ambito di questoculto, la fondazione del tempiorimanda ad un racconto leg-gendario legato ad eventi pro-digiosi che la tradizione collocanel 715.

La leggenda, a distanza dicosì lunghi secoli, è giunta a noinon solo per mezzo delle fontiorali, ma anche attraverso untesto latino, cui fa riferimentoun affresco in caratteri goticiall’esterno del santuario, nellaporzione di muro sovrastante ilportale maggiore. In seguito

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5. Ibidem, p. 38.6. Ibidem, pp. 65-66.

alla caduta di pezzi di intonaco,questo documento è rimastolacunoso in alcune sue parti el’unica versione integrale innostro possesso è quella tra-scritta dal Palma, il quale, defi-nendolo «conforme a grossaiscrizione in pergamena» loriportò in modo completo, cor-redandolo di relativa traduzio-ne:

questo documento ti spiega leorigini di questo tempio. FuDio ad indicare dove andavacostruito. Difatti tre tedeschi sierano allontanati dalla loropatria e facevano questa via.Stanchi di molte fatiche, si

riposarono all’ombra dell’albero. Erano pellegrini, importanti arci-vescovi, reduci dal S. Sepolcro, che andavano miti come agnelli.L’albero sotto il quale si erano fermati era il corniolo. Avevano lega-to i cavalli ai suoi rami, perché questi erano solidi; e proprio lì appe-sero le bisacce con le reliquie, che con grande pietà religiosa si eranoportati via. Sedevano essi da poco, quando il corniolo, con le bisac-ce appese, comincia ad ingrossarsi e a crescere verso l’alto. Ciò vistoi tre tesero i bastoni, ma non riuscivano a toccare le bisacce e neebbero gran timore: e pregarono devotamente Dio di spiegare loroil miracolo. All’improvviso il sonno li coglie ed appare loro unsegno del Cielo: la Santa Madre di Cristo mostrò questa Chiesa eordinò loro di costruirla in quel punto. Immediatamente quei san-tuomini diedero inizio a questa costruzione ed innalzarono l’altaresulla base del corniolo. Così il corniolo prima si abbassò per resti-tuire le bisacce e poi tornò a crescere. La notizia viene riferita aRoma, a Papa Gregorio II. Egli lascia tutto, viaggia anche di notte earriva qui. E vedendo la basilica, devotamente vi celebrò, conce-dendo grandi indulgenze per tutte le colpe capitali e veniali e con-sacrò l’altare e aggiunse all’edificio un terzo corpo. Ciò avvennenell’anno 715 del signore e la dedicazione ebbe luogo il 10 di mag-

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gio. Acquista per la vita eternachi qui si confessa, com’è scrit-to nel privilegio. Era in queltempo imperatore l’invittoTeodosio. Le parole di questapoesia sono tratte da esso. Fu ilpapa col collegio suo a consa-crare la Chiesa alla Vergine. Lealtre indulgenze che si conce-dono in questa Chiesa sonoampiamente enumerate nelbreve privilegio.7

I numerosi dettagli presentinel racconto rispondono alladoppia funzione di dotare diuna cornice “storica” episodicronologicamente lontani e distemperare la loro straordina-rietà attraverso l’espedientedella veridicità. Se questi accorgimenti narrativi corrispondevano aparticolari esigenze devozionali di mediare il divino con l’umano,d’altra parte essi non potevano non incontrare la critica da partedegli storici più attenti, finendo per procurare l’effetto contrario;proprio in presenza di rimandi precisi a nomi e date non si è potu-to evitare di ritenere il racconto come un evidente falso, «architet-tato assai più tardi degli avvenimenti che vi sono riferiti».8 Già ilPalma pone l’accento su più di una discrepanza:- Gregorio II fu eletto pontefice nove giorni dopo la data traman-

data dal racconto- Teodosio, a sua volta, fu imperatore dal 716 al 717.

Quelli che potrebbero apparire soltanto come minimi slittamentidi tempi, diventano gap inconciliabili laddove il testo dell’epigrafesi richiama ad un sistema devozionale come quello delle indulgen-

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7. N. PALMA, op. cit., vol. IV, pp. 444-445.8. Ibidem, p. 447.

ze. Questa pratica, infatti, si affermò soltanto a partire dal XI seco-lo (perciò a distanza di oltre tre secoli). In corrispondenza dellaPrima Crociata, infatti, e per la prima volta nella storia dellaChiesa, Papa Urbano II prospettava ai cristiani la possibilità divedersi “rimessi i peccati” ante mortem, a condizione che essi com-battessero per la fede.9

Al di là del dovere di precisione storica, l’intervallo temporaleemerso dal racconto offre nuovi spunti per riflettere sui processi diaffermazione di alcuni culti a livello locale. Quale la necessità di“diffondere” a posteriori una leggenda che motivi la fondazione diun tempio già esistente? È lo stesso Palma a fornirci un perché:

Perché alla Storia, specialmente patria, giova conoscere anche i fattisvisati e gli errori, se abbiano data causa a cose e ad usanze tuttaviaesistenti delle quali si ama l’origine, qualunque essa sia.10

E ancor di più poteva giovare riferirsi a quella data, se essa pote-va avvicinarsi, seppur minimamente, a quella “storica”, come difatto faceva e come di fatto le analisi dell’organismo architettoniconon mancheranno di confermare. Ma di ciò si parlerà più detta-gliatamente nel paragrafo che segue.

La leggenda visse un periodo di profonda e crescente rivaluta-zione nei secoli XV e XVI. Nel 1499, gli eventi prodigiosi vennerorappresentati figurativamente attraverso una serie di cinque affre-schi corredati da brevi didascalie in volgare, tuttora visibili su unarco sovrastante il lato sinistro della navata centrale. Attraversol’immediatezza delle immagini e l’ausilio di un testo reso più sem-plice e più comprensibile rispetto al latino dell’”originale”, si ten-tava di restituire una versione meno “colta”, in grado di far presasull’immaginario collettivo di tutti i fruitori, anche di quella fettanon alfabetizzata, verosimilmente allora molto ampia.

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9. Cfr. F. ACETO, Santa Maria di Propezzano. L’architettura e la decorazione scultorea, in AA.VV., La Valle del medio e basso Vomano, Teramo, TERCAS, 1986, p. 354-355; R. BARBER,Pellegrinaggi. I luoghi delle grandi religioni, Genova, ECIG, 1991, pp. 68-69.10. N. PALMA, op. cit., Vol. IV, p. 448.

Questa volontà di richiamarsi alle origini locali del culto e allaloro antichissima collocazione “storica” emergeva in modo piùesplicito a distanza di un secolo, quando nel refettorio dell’annessomonastero un ulteriore intervento pittorico [vedi foto pp. 105-107]riproponeva con maggiore dovizia di particolari l’episodio ierofani-co collegato alla fondazione del tempio. In questa circostanza, piùche in altre, era evidente come l’enfasi riservata alla eziologia delculto non fosse affatto casuale, quanto, piuttosto, conseguenza di unclima epocale. Nel pieno del contesto controriformista, infatti, la rie-sposizione della leggenda non può che essere letta come un chiaroesempio di quei «deliberati ritorni devozionali […] agli archetipifigurativi della religiosità delle origini medievali»,11 utilizzati comeantidoto agli effetti dilaganti della Riforma.

Il barocco cattolico, infatti, in risposta alla iconoclastia riformistaproponeva con nuovo slancio un passo indietro, in direzione di quel-la iconodulia che aveva contraddistinto il cristianesimo delle origini.Immagini, reliquie e oggetti sacri si riconfermavano come il canalepreferenziale di comunicazione tra Dio e l’uomo, tra la Vergine e i“suoi figli”, e lo facevano con «rinnovato vigore».12

Il luogo di culto

Nell’ambito del patrimonio architettonico sacro abruzzese, l’ab-bazia di Santa Maria di Propezzano costituisce oggi uno degli edifi-ci di maggior pregio storico-artistico, il cui valore è in parte ricon-ducibile alla sua antichissima fondazione. Una volta riconosciutacome pura convenzione leggendaria la data del 715, le origini stori-che della primitiva edificazione rimangono sospese nel vuoto pro-vocato dalla totale mancanza di fonti documentarie in merito.

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11. F. BOLOGNA, Santa Maria di Propezzano. La Madonna del “Crognale”, in AA.VV., La Valledel medio e basso Vomano, cit., p. 404.12. Cfr. M. WARNER, Sola fra le donne. Mito e culto di Maria Vergine, Palermo, Sellerio,1980, pp. 338-340.

Pertanto, gli unici dati in possesso degli studiosi del settore perdeterminarne la datazione, sono quelli forniti dall’analisi dell’orga-nismo architettonico. Le ipotesi formulate sono state molte e diver-sificate, anche se tutte sembrerebbero concordare sulla “reale” esi-stenza di un edificio sacro nel territorio di Propezzano durante l’VIIIsecolo. Se già il Palma giudicava la chiesa più antica del 715, il Bindida parte sua non escludeva la possibilità che essa fosse sorta comerifunzionalizzazione di un antico tempio pre-cristiano.13 Anche lerilevazioni sul campo condotte dallo studioso Francesco Aceto neiprimi anni Ottanta hanno ritenuta come pertinente la datazionealto-medievale; ne sarebbe testimonianza la presenza di alcuniframmenti scultorei reimpiegati come materiale da costruzione nelprospetto dell’edificio attuale.14

L’affermazione della chiesa come importante luogo di culto,inserito lungo le grandi vie di comunicazione del litorale adriatico,è da attribuire all’opera evangelica dei benedettini, che nel secolo XI

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13. Cfr. F. ACETO, cit., p. 354.14. Ibidem, p. 356 e segg.

decisero di annettervi un monastero. In virtù della loro presenza, illuogo divenne ben presto meta di ininterrotti pellegrinaggi, nonchésicuro ricovero per i viandanti. Questa connotazione di luogo di“passaggio”, d’altra parte, è ben esplicita anche nella leggenda difondazione che, non a caso, fa proprio di tre pellegrini (viaggiatoriper antonomasia) i protagonisti dell’incontro con la Vergine.

Per ragioni taciute dalle fonti, tra la fine del 1300 e l’inizio del1400, la famiglia monastica si ridusse a poche unità; fu allora chealcuni esponenti degli Acquaviva iniziarono a rivendicare la pro-prietà del complesso.

È lo stesso Palma che, trovando citato il nome di Andrea MatteoAcquaviva in un messale datato 1396, sospetta che la famiglia atria-na già a quei tempi avesse tentato di «stendere la mano sopra diPropezzano. Ma - continua lo storico - se non se ne avea ancor egliappropriato il patronato, se lo appropriarono certamente i suoi suc-cessori».15 Nel 1463, infatti, Giosia d’Acquaviva rivendicava aper-tamente il patronato sulla chiesa e riusciva ad ottenerlo formal-mente a distanza di un quindicennio, per mezzo di un accordoformale che scavalcava totalmente la Diocesi Teramana, sotto lacui giurisdizione ricadeva il territorio.

Di fatto, anche la ricostruzione quattrocentesca del santuario(quella che diede l’attuale conformazione strutturale all’edificio)avvenne nel pieno segno acquaviviano:16 a questo interventorisalirebbero sia la sistemazione dello stemma di casata nella fac-ciata sia gli affreschi riproducenti i due pontefici Bonifacio IX eMartino V, i quali vollero beneficiare l’abbazia con la concessio-ne di indulgenze. Sempre l’Aceto, afferma che tra gli Acquavivae Papa Bonifacio IX «dovette intercorrere un vero e proprio

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15. N. PALMA, op. cit., p. 446.16. Alcuni studiosi fanno risalire la ricostruzione al 1285. In questa sede, invece, sisostiene l’ipotesi avanzata dall’Aceto il quale, sulle orme del Balzano, interpreta la datatrascritta a testimonianza della fine dei lavori di ristrutturazione sull’architrave, come1466. Per maggiori dettagli in merito si rimanda alla lettura integrale del suo interven-to (cfr. F. ACETO, cit., pp. 353-400).

accordo».17 Se infatti il 21 aprile 1393 il Papa emanava la bolla,qualche mese a seguire Andrea Matteo Acquaviva sposava lanipote dello stesso Pontefice. «Una concomitanza di circostanzeche impone di considerare la concessione un’operazione promo-zionale gestita dagli Acquaviva».18

Vista in quest’ottica, la ricostruzione quattrocentesca era ilsegno di un accresciuto prestigio da parte dell’abbazia, nonché delruolo più rilevante che essa andava rivestendo. Congiuntamente,gli interventi dei pontefici rivolti a valorizzare con ripetuti privile-gi questa sede adriatica del culto mariano, segnavano le tappe delcrescente interesse verso il complesso monastico posto dagliAcquaviva sotto la loro giurisdizione.

All’inizio del XVI secolo, la potente casata, proprio in virtù dellesolide relazioni con la Chiesa centrale, diveniva padrona de factodell’abbazia. Tanto è vero, che verso la fine di quel secolo, Ottaviod’Acquaviva (divenuto più tardi cardinale) si trovò nel pieno deipoteri per poter donare il complesso monastico a Fra Giovanni daCalascio, dei frati Osservanti.

Questa operazione, pur convalidata dall’approvazione pontifi-cia, si scontrava evidentemente con i diritti di giurisdizione godu-ti dalla Diocesi di Teramo ed innescò, a partire dal 1583, una lungaserie di appelli da parte del Vescovo, volti a sanare la situazione ea vedere riconosciuto il suo esercizio. Nella maggior parte dei casi,le controversie furono vinte de jure dalla Diocesi, ma mai applicatein pratica, poiché contro i Prelati e i Cardinali Acquaviva «durumfuit calcitrare».19

La situazione rimase invariata fino al 1799, quando, in seguitoalla morte del Cardinale Pasquale Acquaviva, l’abbazia si ritrovòsenza patronato. La situazione si aggravò a distanza di un decen-nio, in seguito alla soppressione degli ordini monastici da parte diGioacchino Murat. Santa Maria di Propezzano rimase anche senza

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17. Ibidem, p. 382.18. Ibidem.19. M. MARTELLA, op. cit., p. 116.

custodi. Nel 1812, il Marchese Rinaldo De Sterlich acquistava daldemanio dello Stato il convento, ma non la chiesa, perché riservataal culto. Dopo sessanta anni, gli eredi De Sterlich rivendevano laproprietà ai Savini.

Attualmente la chiesa rimane sotto la giurisdizione della dioce-si teramana, mentre il convento è ancora possesso privato deiSavini.

I rituali

La frequentazione del luogo di culto da parte dei pellegrini èconnessa a due circostanze, durante le quali è possibile lucrareindulgenze: il 10 maggio, data commemorativa della dedicatio deltempio e il giorno di Ascensione, relativo ai benefici concessi daBonifacio IX prima (sec. XIV) e da Martino V poi (sec. XV).

Con il passare dei secoli, gli eventi collegati al 10 maggio sonoandati scemando di importanza, mentre il clima celebrativo si èandato concentrando intorno alla festività dell’Ascensione.

In questa occasione si segnala la presenza di numerosi devoti,provenienti non solo dalle località limitrofe ma anche dal restodelle realtà costiere. In seguito alla soppressione degli ordini e allasempre più difficile gestione del luogo di culto da parte del clero,la media numerica dei pellegrini è andata notevolmente riducen-dosi, mentre sembra essere aumentata quella dei fruitori “profani”interessati sia all’aspetto storico-artistico del tempio, sia a quellopiù strettamente ludico-consumistico connesso alla fiera campio-naria che si svolge in contemporaneità con le celebrazioni sacre.

La presenza di particolari pratiche simbolico-rituali, alcunedelle quali tuttora persistenti, portano a considerare non del tuttoperegrina l’ipotesi delle radici pre-cristiane del santuario. Si fa rife-rimento in particolare ad alcune forme di incubatio e al rituale dellepassate.

In merito alle prime, si apprende che in passato i pellegrini fos-

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sero soliti giungere presso il santuario nel giorno di vigilia e chemolti di loro vi trascorressero l’intera notte, dormendo sul pavi-mento della chiesa. Questa consuetudine ha radici plurisecolari edè stata molto diffusa in Abruzzo fino al secondo dopoguerra, sug-gerita dalla credenza che quella particolare modalità di riposopotesse procurare sogni premonitori o effetti curativi benefici deri-vanti dalla carica sacrale e taumaturgica insita nelle pareti delluogo sacro.20

In seguito, da un lato i ripetuti divieti inoltrati dal clero, dall’al-tro le diverse modalità di frequentazione dei santuari (i pellegrinigiungono in automobile e non si trattengono per più di un giorno)

hanno fatto sì che la praticacadesse in totale disuso, aPropezzano come nel restodell’Abruzzo.

Con il termine di passata, ilocali sono soliti riferirsi aduna particolare circumambu-latio che avviene durante lecelebrazioni di vigilia dell’A-scensione. Nel corso di que-sto rito processionale, tantobreve quanto sentito, un cor-teo guidato dal parroco pre-leva la statua collocata sulretro dell’altare maggiore e,uscendo dalla piccola portadi sinistra, percorre lo spazioesterno della chiesa, passan-do dietro la croce che si trova

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Circumambulatio«La circumambulazione del luogosacro rappresenta uno degli atti didevozione più universalmente dif-fusi nel quadro della ritualità con-nessa alla fenomenologia pellegri-nale […] Sia che si tratti di unamontagna o di un edificio ritenutisacri - si pensi al monte Tsa-ri inTibet o alla Ka’ba presso La Mecca- che si tratti di un simulacrooppure di spoglie mortali miracolo-samente o artificialmente conser-vate, il pellegrinaggio prevede,dunque, che in seno al suo svolgi-mento e in corrispondenza delsantuario si compiano spesso ritiprocessionali tesi a circoscrivere lospazio cultuale, a riconoscerne “sapuissance sacrale” e ad acquisirneun padroneggiamento completo»(G. MARUCCI, E. DI RENZO, Fratelli ingrotta. Un rituale maschile di soli-darietà, Colledara (TE), Androme-da, 1999, pp. 54-55).

20. Per maggiori dettagli sulla diffusione di questa pratica in Abruzzo si rimanda a G.MARUCCI, Le pietre taumaturgiche, in “Storia, antropologia e scienze del linguaggio”, XV,1-2, 2000, pp. 64-65.

nel piazzale antistante l’edifi-cio. Questo simbolo spazialerappresenta infatti il confinetra spazio sacro e spazio profa-no e viene utilizzato dalla pro-cessione come tappa ultima delsuo itinerario. Dalla croce ilcorteo fa ritorno, rientrandodalla “Porta Santa” [vedi foto]e lasciando circoscritta dietrodi sé l’intera area sacra esterna.Prima di fare rientro nel san-tuario, il sacerdote, per mezzodi un piccolo crocifisso, batteritualmente tre colpi sullaporta, gridando «Viva Maria!». Quindi permette al resto del corteodi “passare” oltre la soglia. Una volta rientrati in modo così solen-ne, i fedeli continuano a camminare e a recitare litanie, circoscri-vendo ritualmente lo spazio interno del santuario. L’intera cerimo-nia è chiusa dalla celebrazione di una messa.

Tale pratica non può non richiamare alla mente quella del tuttoanaloga delle “girate”, descritta da Tullio Seppilli proprio in riferi-mento ai culti di alcune madonne arboree del centro-nord italiano.21

Il rito consisterebbe di alcune circumambulationes che si svolgonoattorno agli alberi ritenuti sede delle ierofanie mariane, alberi sucui vengono spesso collocati simulacri sacri. Le “girate” sarebberotuttora molto diffuse, anche se spesso si sono trasformate in per-corsi circolari attorno allo spazio interno del santuario, con itinera-ri che includono l’altare maggiore in quanto sede di “reliquie”arboree. Sarebbe proprio in presenza di simili pratiche - spiega ilnoto antropologo - che «il riferimento arboreo […] lascia intrave-dere radici che affondano negli universi magico-religiosi precristiani».22

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21. T. SEPPILLI, cit., p. 107.22. Ibidem.

Questa ultima riflessione ciporta nel vivo di un argomentomolto complesso, riguardantequelle che potremmo chiamarele elaborazioni dell’immagina-rio collettivo su un soggettoapparentemente tanto comunecome l’albero, in questo caso ilcorniolo, inaspettato ispiratoredi suggestioni, miti, fantasie.

Ideografia dell’albero

Crognale è il nome dialettalecon il quale viene spesso indi-cato il “corniolo”, specie arbo-rea alquanto diffusa nell’areadel teramano (come dimostra iltoponimo Crognaleto) che può

manifestarsi sia come arbusto sia come piccolo albero.Verosimilmente, le popolazioni locali hanno dovuto conoscere

molto bene questa specie vegetale, e non solo a causa della suaampia distribuzione. I suoi frutti, infatti, noti come corniole e costi-tuiti da drupe di color rosso vivo, erano utilizzati sia a scopo offi-cinale che alimentare, perché oltre ad essere dissetanti, hanno pro-prietà astringenti e antipiretiche.23

Quanto siano stati noti (albero e frutto) è dimostrato anche dal-l’affresco sito sulla lunetta della Porta Santa, raffigurante, appun-to, la Vergine del Crognale, ma così definita non in virtù dellapianta, bensì della corniola. In questa immagine, infatti, l’icono-grafia si allontana dal modello classico delle madonne arboree,solitamente rappresentate sulla chioma degli alberi, ma raffigura

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23. Cfr. G. PIRONE, op. cit., pp. 410-413.

una Vergine a mezzo busto che reca in braccio il Bambino e sostie-ne con l’altra mano un frutto rosso, chiaramente una bacca di cor-nus.24 Lo stesso simbolo, nota Ferdinando Bologna, ritorna in altredue rappresentazioni iconografiche all’interno del santuario: unaè inserita nella serie dei cinque affreschi del 1499, l’altra è un pic-colo bassorilievo scolpito su un pilastro della navata e non poste-riore alla fine del XVI secolo.25 Nel primo è il Bambino a recare inmano il pomo rosso frutto del corniolo, anch’esso raffigurato nel-l’affresco, nel secondo invece è di nuovo la Madonna a recare ilsimbolo.

È interessante osservare come l’elemento arboreo in sé si siaespresso nell’immaginario e, di conseguenza, nell’iconografia.

In primo luogo: quale fu il destino di quell’originario crognale?Secondo la leggenda, l’albero prodigioso assolse alla fondamentalefunzione di servire come base per la costruzione dell’altare mag-giore: «Sanctique viri subite hanc domum inceperunt, Et altare super sti-pite cornus nempe fixerunt».

Posizione quest’ultima sempre rispettata, al punto che in tutti isuccessivi interventi di restauro e di rifacimento, l’unico elementoritenuto inamovibile e intoccabile sarebbe stato proprio l’altare.26

Tuttavia, suddetto legame tra ara sacra e albero sarebbe statomolto più evidente e manifesto in passato che ora. Si racconta,infatti, che almeno fino alla fine del secolo XIX, il tronco fosse per-fettamente visibile attraverso due fori esistenti ai lati dello stessoaltare.27 In seguito, come spesso accade in simili contesti cultuali,anche quest’ultima “prova” della “reale” esistenza dell’albero

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24. A causa della sua posizione così centrale nell’impianto architettonico, l’affresco sipotrebbe configurare come “titulus” del luogo di culto. Ciò lascia supporre che gli ele-menti iconografici siano da ricollegare al tema centrale del mito. «Dunque l’attributospecifico della “Madonna del Crognale” è l’emblema, per così dire, in epigrafe di tuttala leggenda». (Cfr. F. BOLOGNA, Santa Maria di Propezzano. La Madonna del “Crognale”, inAA.VV., La Valle del medio e basso Vomano, cit., pp. 401 e segg.).25. Ibidem.26. Cfr. F. ACETO, cit., p. 370.27. Cfr. S. DE MARTINIS, Tre gemme mariane della Diocesi Aprutina, Teramo, Casa EditriceTipografica, 1945, p. 25.

sarebbe stata rimossa, dopo che i fori furono “erroneamente”richiusi.

E veniamo ai riferimenti arborei odierni, sicuramente edulcora-ti rispetto al passato. Oggi, infatti, quella antica e affermata fami-liarità con il crognale sembra essere scemata, come del resto sembraessersi affievolita la densità di fruizione di questo luogo (sia in ter-mini sacri che profani).28

La situazione di apparente estraneità con la specie vegetale delcorniolo è riscontrabile in modo particolare negli elementi rappre-sentativi del simulacro della Vergine. La statua odierna è di recen-te fattura ed ha sostituito una ben più antica statua scomparsa, oforse rubata, in circostanze sconosciute. L’effigie, di stile moderno,è stata posizionata su un tronco di materiale sintetico, al quale sonostate applicate delle foglie di ulivo. Nulla di più lontano dall’im-magine di un corniolo! D’altra parte, statua ed albero si trovanoattualmente in posizione arretrata rispetto all’altare maggiore; per-tanto, durante il rito delle passate i devoti – non proprio casual-mente - includono nel loro percorso anulare anche l’altare maggio-re, contenente appunto, i “presunti” resti del secolare crognale.Ecco allora che accanto alla passata si verrebbe ad effettuare anchela girata.

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28. Da un lato la soppressione degli ordini monastici, con il conseguente abbandonodel convento da parte dei religiosi, dall’altro i determinanti cambiamenti nelle moda-lità di scambio economico, con il successivo affermarsi di nuove vie di comunicazione,hanno causato una derubricazione del culto e hanno privato il luogo di quella sua con-notazione di importante “crocevia”.

Il contesto storico-ambientale

La Madonna dell’Elcina è il numen tutelare di Abbateggio, pic-colo centro dell’entroterra pescarese, ricadente nel territorio delParco Nazionale della Maiella.

Il suo agglomerato urbano, composto da una popolazione dicirca 530 abitanti, sorge su uno sperone roccioso, alle pendici nord-occidentali del Colle di Cinta e ad un’altezza di 450 metri sul livel-lo del mare. Sull’ambiente circostante, ricoperto di boschi di faggie di querce, si affacciano, a ridosso dei massicci della Maiella e delMorrone, le valli Giumentina, del Leio e dell’Orfento. In posizionesud-ovest, il fiume Lavino segna il confine con il vicino comune diRoccamorice.

Le origini del borgo sono fatte risalire dal Giustiniani all’866,periodo della fondazione di San Clemente a Casauria, e collegatealla concessione di qualche abate del suddetto monastero.1 Non acaso, alcuni studiosi rintracciano proprio in questa dipendenzacasauriense l’origine del toponimo, sviluppatosi da un ipoteticoAbate-Gio(vanni).2 Sempre relativamente all’etimologia, gliAngioini descrissero il luogo come Castrum Abbatiggii/Albatigii,mentre gli Aragonesi come Batium.3 La più antica fonte documen-

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MADONNA DELL’ELCINA

1. Per le notizie storiche cfr. L. MARTELLI, Abbateggio, Pescara, Multimedia, 1997, pp. 49-56; G. DI NICOLA, Uomini, fatti e paesi d’Abruzzo, in “Il Mezzogiorno”, 1 agosto 1973, p. 3.2. Ibidem.3. L. MARTELLI, op. cit., p. 50.

taria in cui viene citata la località risale al 1269 ed è costituita dauna lettera di Carlo I D’Angiò con la quale il sovrano cedeva ilfeudo a Bertrando Del Balzo. Tra le altre famiglie che dominaronoil territorio vengono annoverati gli Acquaviva, i Trogisio, gliOrsini, i Farnese. Risale al 1927 il passaggio dalla provincia diChieti a quella di Pescara, mentre il raggiungimento dell’autono-mia comunale avvenne nel 1946.

Abbateggio conobbe un periodo di florida economia sotto ilregno di Margherita d’Austria, durante il quale si impose sul territo-rio come centro di produzione della seta e dell’allevamento di trote.

Oltre a queste attività specifiche, anche altri sistemi produttivihanno conosciuto discreta rilevanza: in particolare l’agricolturapedemontana e l’allevamento, sia stanziale che transumante. Ancoraoggi, lungo i tratturi che costeggiano l’abitato, è possibile osservarealcune costruzioni a tholos, usate in passato dai pastori come ricove-ro ed ora vanto del patrimonio storico-architettonico locale.

L’economia locale è andata via via indebolendosi nel corso del-l’ultimo secolo, anche a causa della notevole crisi demografica cheha caratterizzato la storia di queste aree pedemontane. Negli ulti-mi anni, tuttavia, anche in virtù della presenza di un ente parco, ilterritorio si sta avviando, seppur lentamente, verso un processo dirivalutazione, per affermarsi nell’ambito del cosiddetto “turismoverde”.

La leggenda di fondazione

Come per la maggior parte dei racconti legati a questo genereletterario-narrativo, anche di questa leggenda di fondazione nonesiste un documento scritto, ma soltanto versioni orali e alcune tra-scrizioni piuttosto recenti.4 La mancanza di fonti storiche come

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4. Cfr. a tal proposito F. VERLENGIA, op. cit., Pescara, “Attraverso l’Abruzzo”, 1958,Volume I, pp. 115-116; Pro-loco di Abbateggio (a cura di), 70° Anniversario. Ricostruzionesantuario Madonna dell’Elcina di Abbateggio, Abbateggio (PE), 1996.

pure di dettagli mitico-leggendari rende più complesso il processodi datazione del culto mariano locale, fatto risalire approssimativa-mente al periodo tra il secolo XV ed il secolo XVI.

La stessa leggenda, contraddistinta da oralità, è stata arricchitanel corso dei secoli da un’ampia serie di varianti, dalle quali non èsempre facile isolare in modo chiaro un nucleo narrativo.

La versione che viene trascritta in questa sede è il frutto del rac-conto riportato da una devota di Abbateggio (I.I.) la quale, riba-dendo il carattere prettamente tradizionale della narrazione, tienea premettere: «…questo io non l’ho visto, ma me lo ha raccontatomia nonna, così come glielo aveva raccontato sua nonna». A lonta-ni e indefiniti predecessori, dunque, l’incerta testimonianza.

Si racconta che un giorno due pastorelli muti, mentre pascolava-no il loro gregge, videro seduta su un’elcina5 una «Signora» che,tenendo in braccio un Bambino, formulò una ben precisa richiesta,affinché la riferissero alla loromadre: costruire in quel luogouna «casa» dedicata a Lei, eoffrirle in dono due pecorelle.6

Ascoltate quelle parole, i duefratelli accorsero dalla loromadre e, riuscendo prodigiosa-mente a parlare, le riportaronol’accaduto. La donna gridòsubito al miracolo e, seguita daicompaesani, si precipitò sulluogo. Giunta nei pressi dell’al-bero, la folla non vide alcunaSignora, ma al suo posto trovòun quadro che la rappresentava(ritenuto essere quello riprodot-to in foto, attualmente custodito

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5. Elcina, o lecina per metatesi, è la denominazione locale per indicare il leccio.6. Secondo alcune varianti narrative, la Madonna rinnovò la sua richiesta per tre volte.

in banca). Fu allora che i due pastorelli, riconoscendo nell’immaginela donna dell’apparizione, ripeterono il messaggio. Gli abbateggiani,convocato il parroco e preso atto del duplice prodigio avvenuto (ilritorno della parola nei due fanciulli e la successiva ierofania)costruirono intorno all’albero una piccola cappella contenente lasacra icona.7

A questo primo nucleo narrativo seguono altre varianti il cuivalore mitico-simbolico è quello di ricollegare il culto locale ad uncontesto territoriale che sacro lo è per antonomasia: la Majella.

Si racconta che, contemporaneamente agli eventi epifanici, unmonaco che aveva il non casuale nome di Celestino (secondo altridi Mariano), trovandosi presso il convento di Santo Spirito, all’im-provviso venne sollecitato da un’intensa luce proveniente dal colledi Abbateggio. A conferma dell’insolita visione, chiamò un compa-gno il quale affermò invece di non vedere nulla, fino a quando,ponendo il suo piede su quello di Celestino, divenne partecipedella visione numinosa. Gli eremiti, guidati da quello splendore, sidiressero verso il paese e, trovata l’immagine fonte della luce, deci-sero di farla propria e di condurla al loro convento. Questa, però,tornò prodigiosamente al suo albero. Lo stesso episodio si rinnovòper tre volte.

Preso atto del profondo desiderio da parte dei religiosi di ospi-tare la presenza divina, ma nello stesso tempo dell’obbligo a rispet-tare la volontà della Vergine di rimanere ad Abbateggio, gli abitan-ti del piccolo borgo decisero di costruire un luogo di culto sulla col-lina dell’apparizione, ma in modo tale che la facciata, così comel’immagine sacra, fossero rivolte verso Santo Spirito.

Così fu, e così è tuttora.

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7. Altre varianti raccontano che la cappella sul colle dell’Elcina fu costruita soltanto inseguito ad un altro evento prodigioso: gli abitanti di Abbateggio, infatti, tentarono perben tre volte di trasportare presso la chiesa parrocchiale di San Lorenzo l’immagine,ma questa, per intervento divino, tornò puntualmente ai piedi dell’albero.

Il luogo di culto

Il santuario della Madonnadell’Elcina è situato su un collein area periurbana e, lasciandodietro di sé l’intero centro abi-tato, volge la propria facciataverso i monti della Maiella. Daquesta particolare ubicazione,che include in una panorami-ca di 360° anche il massicciodel Gran Sasso e il MareAdriatico, il luogo di cultosovrasta l’intera vallata, come

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Ubicazione del luogo di cultoL’ubicazione dei santuari in areaextra e peri-urbana è una peculia-rità molto ricorrente nell’universodei fenomeni pellegrinali. Bastipensare che nell’Europa continen-tale, tre quarti degli edifici religiosimeta di pellegrinaggio sono situatiin località distanti dai centri abitati.(M.L. NOLAN, Shrine Locations, in S.BOESCH GAJANO, L. SCARAFFA, Luoghisacri e spazi della santità, Torino,Rosenberg & Sellier, 1990, p. 77).Nella lontananza spaziale, tradottain distacco dalla “contaminazioneprofaneggiante” della vita di ognigiorno, risiederebbe infatti quelvalore aggiunto in grado di conferi-

a custodia e sorveglianza delpiccolo borgo.

La sua attuale configura-zione architettonica è il risul-tato di una totale ristruttura-zione operata nel 1927 su unnucleo preesistente e di anti-ca fondazione. Non esistonoad oggi degli elementi ade-guati a ricostruire una preci-sa datazione della strutturaoriginaria, che viene fattarisalire approssimativamen-te ad un periodo antecedenteal 1696, data del documentopiù antico in cui il santuariovenga citato.8

Nonostante la mancanza di dettagli inerenti la sua ricostruzionestorica, la devozione per la Madonna dell’Elcina ha certamente unapersistenza secolare. Tuttavia, dai racconti dei nativi si evince comel’intervento del 1927 sia stato vissuto al pari di una reale ri-fonda-zione e di un momento di ri-conferma sociale del culto; non è unacoincidenza il fatto che ogni episodio verificatosi in quelle circostan-ze, filtrato attraverso i racconti e la memoria collettivi degli abbateg-giani, vada già acquisendo il tono edificante della leggenda .

Si racconta che la popolazione al completo volle contribuireall’opera di ricostruzione. Tutti, inclusi donne e bambini, traspor-tarono pietre e mattoni per l’edificazione. La cerimonia di “posadella prima pietra” (appositamente prelevata dal santuario origi-nario per il nuovo luogo di culto e tutt’ora contraddistinta da targamarmorea rievocante l’evento) si configurò come vero rituale sim-

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8. Questa data fa riferimento ad uno dei documenti notarili del Notaio Berardino Siricodi Musellaro. La notizia, come le altre in nostro possesso, è il frutto di una lunga edapprofondita ricerca storica svolta dall’Ing. Gabriele Di Pierdomenico, residente adAbbateggio.

re al luogo l’adeguata dimensioneieratica. Lì dove la topografia loconsente, è proprio la sommità dicolline ad essere eletta come spazioconsono ad ospitare la divinità. El’Abruzzo, in virtù della accentuataorografia del suo territorio, si pre-sta in modo particolare ad una talearticolazione del sistema santuaria-le. Accade spesso che dall’altezza diun luogo di culto ne sia visibile unaltro, da questo un altro ancora, alpunto da formare una sorta di “cir-cuito ieratico” in grado di far ritene-re che nessuna porzione di territo-rio possa rimanere scoperta dallatutela numinosa. (Cfr. G. PROFETA, Isistemi di tutela sacrale del territo-rio e i santuari mariani delle “SetteSorelle”, in “Abruzzo”, 1992, XXX,pp. 235-286).

bolico di ridentificazione collettiva. E come il risultato di una rinno-vata ierofania fu interpretato il ritrovamento di un antichissimo qua-dro ritraente la Madonna sull’albero [vedi foto p. 121], verificatosiquando si rimosse il simulacro della Vergine dall’antico altare.

Avvolta e custodita all’interno di un “tubo”, la tela venne subitoassociata a quella apparsa ai piedi dell’elcina. Perizie storico-artisti-che la reputarono invece posteriore e databile come opera del XVIIsecolo. Dopo il 1927, la sacra icona venne collocata nella navata late-rale e mai più rimossa, se non per ragioni di sicurezza.

A metà degli anni Ottanta, essa fu vittima di un tentativo di furto,fallito - credono molti devoti - grazie all’intervento della Vergine. Siracconta che i malviventi non riuscirono a rimuovere l’icona dalmuro in nessun modo e per questo rivolsero le loro mire verso un’al-tra tela presente nella chiesa. Quest’ultima, di origini settecentesche,veniva utilizzata nei cortei processionali come sostituta di quellaritenuta miracolosa. In seguito a questo episodio, gli abbateggiani,nell’intento di preservare l’im-magine sacra da altri tentativi difurto, decisero di custodirla inbanca e di esporla nel santuariosoltanto nei giorni delle celebra-zioni. Solo a loro, esclusivicustodi investiti dalla volontàdivina e perciò unici possibilidetentori, fu riservata la facoltàdi rimuoverla. Così ai tempi delmito e così nel corso della storia.

Un altro oggetto di cultoall’interno del santuario è rap-presentato da una seicentescastatua policroma in terracottadella Madonna, [vedi foto]custodita in un’edicola sopral’altare maggiore e da lì inamo-vibile, come impone la tradi-

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zione. Sempre nel 1927, il simulacro fu collocato (come a sostituirela chioma stessa dell’albero) in posizione esattamente superiorerispetto ad un tronco di leccio incastonato alla base dell’altare. Illinguaggio iconografico interno al luogo di culto è stato dunqueappositamente ri-costruito in modo tale da rendere visibile, seppursimbolicamente, la scenografia epifanica.

I rituali

I rituali riservati alla Madonna dell’Elcina sono al centro di unatriade festiva che dal 7 al 9 settembre celebra anche gli altri patroneslocali (la Beata Vergine del Carmelo e san Lorenzo) cui sono intito-lati i rimanenti due luoghi di culto presenti nel borgo. In queste tregiornate, la popolazione locale, come pure i numerosi pellegriniprovenienti dalle località limitrofe, si vedono coinvolti in una seriedi cortei processionali che, recando le insegne e gli oggetti di culto,percorrono più volte le vie principali dell’abitato.

I vari itinerari segnati dalle processioni formano degli assi spa-ziali di congiunzione tra le chiese situate su tre diversi punti cardi-nali dell’abitato e si configurano, per questo, come percorsi spazio-sacrali finalizzati a distribuire simbolicamente il potere tutelare deinumina sulla totalità del tessuto urbano.

La vigiliaTutte le fasi rituali gravitano attorno ad una tela processionale di

recente esecuzione, copia di quella settecentesca derubata neglianni Ottanta e, al pari di questa, sostituta dell’immagine prodigio-sa inamovibile.

Nella serata di vigilia, l’inizio dei festeggiamenti avviene conuna processione che trasferisce l’icona dalla chiesa della Madonnadell’Elcina a quella parrocchiale di San Lorenzo. Questo itinerarioè stato contraddistinto fino all’anno 2000 da un particolare ritualeche, prendendo nome dai bracci lignei del baldacchino utilizzatoper trasportare il quadro, era conosciuto come la Stanga. Durante il

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percorso avveniva una vera e propria asta [vedi box p. seg.] tra idevoti, i quali in cambio di un’offerta in denaro, tentavano diaggiudicarsi una delle stanghe per «rientrare la Madonna» nellaparrocchia.

Il momento topico del rituale si raggiungeva nella piazza anti-stante la chiesa di San Lorenzo, a conclusione del tragitto proces-sionale. Qui un banditore dava il via alla fase conclusiva dell’asta edattribuiva pubblicamente le quattro stanghe ai “migliori offerenti”.

Tutti i devoti interessati si affrettavano a toccare uno dei quattrobracci, dichiarando e versando comunque la propria offerta in uncanestro, anche se il privilegio di trasportare il quadro dalla piazzafino all’altare maggiore ricadeva soltanto su quei fedeli che aveva-no rilasciato le oblazioni più cospicue. Tutte le somme esibite veni-vano raccolte e utilizzate come contributo per le spese festive.

Sullo svolgimento di questo momento celebrativo, sicuramentemolto rilevante da una prospettiva socio-antropologica, lo scorsoanno è stato rinnovato un divieto vescovile, motivato - tutto som-mato comprensibilmente - dal ritenerlo una «forma di devozionepagana ormai superata».

Oggi il buon senso comune, nonché un livello di solidarietà con-sono ai tempi extra-ordinari della festa hanno sostituito l’anticaquerelle ritualizzata, con un continuo alternarsi casuale e pacificodei devoti durante l’intero percorso. La sosta sulla piazza è stataabolita e il privilegio di “rientrare la Madonna” è invece ricadutosu quattro rappresentanti del comitato-feste, come stabilito da uncomune accordo intercorso tra il parroco e la popolazione locale.

Il giorno della festaLe celebrazioni dell’8 settembre sono caratterizzate da un’altra

processione che, percorrendo l’itinerario della vigilia in senso con-trario, riconduce il quadro dalla parrocchia di San Lorenzo al san-tuario della Madonna dell’Elcina.

Questo secondo corteo viene definito delle Conche, perché carat-terizzato dalla presenza di alcune donne in abito tradizionale, recan-ti i tipici recipienti in rame abruzzesi, ornati con spighe di grano e

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con fiori. Ovviamente, la processione ha subito nel corso degli anniuna rifunzionalizzazione rituale in termini di contenuti simbolici,contemporaneamente al cambiamento dei sistemi produttivi. LeConche di oggi, infatti, potrebbero essere definite come una sorta diforma residuale e “folcloristica” delle antiche oblazioni in grano.

Delle feste settembrine di un tempo gli abbateggiani ricordanoin particolare l’ostentazione e l’abbondanza di beni alimentari, rac-colti durante un lungo periodo di questua. I deputati (così erano

definiti i questuanti) inizia-vano la loro attività subitodopo la nomina ufficiale cheavveniva il 24 giugno e nonterminavano la raccolta finoal giorno stesso della festa.Nelle migliori annate - cosìraccontano - si poteva rag-giungere anche la somma didue quintali di grano.

Ma, come è noto, il ritoinsegue la storia. A voltescomparendo, ma quasi sem-pre trasformandosi in qualco-sa di simile, anche se la somi-glianza può essere solo appa-rente. Gli eventi cerimonialipossono mantenere la stessastruttura e continuare adapparire in forme analoghe,ma il loro contenuto cambianel tempo e con il tempo.

Così, parallelamente allacrisi del settore cerealicolo,per secoli risorsa primaria diquesto territorio, anche que-ste espressioni cultuali si

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Questua e astaQuestua e asta, pur configurandosicome azioni rituali distinte e dinatura diversa, potrebbero en-trambe essere accomunate dalladefinizione di «meccanismi di pro-duzione [e di ridistribuzione] socia-le dell’abbondanza» (F. GIALLOM-BARDO, Festa, orgia e società, Pa-lermo, Flaccovio, 1990, p. 29). Laloro comune funzione sarebbeinfatti quella di accumulare ric-chezza da condividere collettiva-mente nel contesto festivo. Tut-tavia, se nella prima la lunga ope-razione di raccolta itinerante ha ilcarattere della collettività, nellaseconda ad emergere è invece ilpiano individuale; in quest’ultimocontesto, infatti, le offerte vengonodichiarate da un solo devoto, an-che se poi sancite pubblicamentedall’intera collettività riunita. Per ilsoggetto offerente questa esposi-zione può tradursi in acquisizionedi prestigio o di affermazione distatus. Vista attraverso una pro-spettiva emica, l’asta costituisce ilgiusto prezzo da pagare per otte-nere un alto privilegio. “Rientrarela Madonna” ha il valore di un qual-siasi altro ex-voto: è ciò che si ri-dà alla divinità in cambio di unagrazia chiesta o ricevuta.

sono fatte contenitrici di altri significati. «Oggi - afferma I.I. - le con-che si fanno solo per bellezza! […] Prima si passava tutta l’estate araccogliere manoppi,9 ma oggi ci stanno più soldi e non serve più faretutta questa fatica».

Giunta presso il santuario, la folla dei fedeli assiste ad unamessa, quindi si rimette in cammino per condurre nuovamente ilquadro “processionale” in parrocchia. Qui esso rimarrà ancora unagiornata, quindi, scortato da un altro corteo, tornerà nella sua sedeabituale dove rimarrà fino ai nuovi festeggiamenti.

Ideografia dell’albero

L’elcina presente nell’epiteto mariano del culto di Abbateggioaltro non è che la denominazione locale per indicare la specie arbo-rea scientificamente classificata come Quercus ilex, o leccio. Questoalbero, alto fino a 20-25 metri presenta una chioma ampia e densasu un tronco massiccio ed appartiene alla famiglia delle querce.Anche in questo caso, protagonista dell’incontro con Maria fu l’al-bero sacro per antonomasia.

Di quell’antico leccio sede dell’epifania rimarrebbe oggi soltan-to il tronco, incastonato non a caso nelle pietre, alla base dell’altaremaggiore.10 Si ritiene che questa sezione lignea sia stata prelevatadalla pianta originaria della leggenda; quando si decise di amplia-re il santuario, l’albero, allora esterno, venne incorporato nellastruttura. La decisione di tagliarlo (apparentemente insolita se siconsidera la sacralità dell’albero!) viene motivata con il pericoloche la crescita delle sue radici avrebbe potuto rivestire in termini diresistenza strutturale dell’edificio.

Di fatto, attualmente non sembra esserci memoria storica in grado

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9. Vocabolo dialettale con il quale vengono definiti i covoni di grano.10. Anche in questo culto, come in quello della Madonna della Quercia, analizzato nellepagine seguenti, torna a manifestarsi quell’identificazione tra pietra e quercia di cui siè parlato nella prima parte del volume (pp. 37-38, nota 44).

di ricostruire un esattoricordo di questa piantaal suo stato “naturale” enella sua collocazioneall’esterno del santuario.La circonferenza, inoltre,non sembrerebbe ampiaal punto tale da poter farpensare che si tratti di unesemplare secolare.Oppure: se si trattasseveramente di un lecciocinque-seicentesco, quel-lo posto alla base dell’al-tare forse potrebbe essereun semplice ramo e non iltronco.

In ogni modo, tuttequeste riflessioni dal sapo-re pseudo-investigativolasciano il tempo che tro-vano e non hanno alcunarilevanza nell’economiacultuale. Sono state enun-ciate soltanto allo scopo dienfatizzare il valore mitico

attualmente rivestito da quella sezione lignea. Ricostruire con periziastorica l’esistenza di un elemento ontologicamente mitico risulterebbeun’operazione inutile; la mitopoiesi è per definizione acritica e non siinteressa di queste disquisizioni. Il «si dice che» trascende la storia e,pertanto, non richiede di essere suffragato.

«Come sia questa elcina io neanche lo so. Non so di che pianta sitratta perché io questo albero non l’ho mai visto!» afferma qualcu-no ad Abbateggio. Non è importante sapere da dove quel tronco siastato prelevato per credere che esso sia quello dell’apparizione.

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Tutti i devoti hanno potuto riscontrare il fatto che esso sia, se nondel tutto miracoloso, senz’altro sospeso dal rispetto delle leggi bio-logico-naturali; ne sarebbero testimonianza la sua perfetta integritàe la sua mancata decomposizione, nonostante i lunghi anni tra-scorsi dalla sua recisione.

Qualcuno ricorda di aver visto pezzi delle sue radici, accurata-mente conservate dalle persone anziane tra le “cose care”, ma allostato attuale nessuno sembra possederne.

L’elcina non ha una parte “attiva” nell’ambito del culto e forsenon l’ha mai avuta. Non viene coinvolta nei rituali, non è oggettodi venerazione; nonostante ciò, riveste una profonda valenza miti-co-simbolica e non a caso è stata collocata in quella precisa ubica-zione. Tra le pietre del santuario e alla base dell’altare, quel tronco,in quanto elemento essenziale al racconto leggendario, rappresen-ta oggi in termini tanto simbolici quanto iconografici le fondamen-ta del culto stesso, nonché la sede della potenza numinosa.

Il culto e il suo omologo oltreoceanico

Anche il territorio abbateggiano ha conosciuto durante il secolopassato alcune ondate migratorie che hanno visto parte della popo-lazione rivolgere oltreoceano i sogni di una vita migliore. Pur lon-tani dal paese d’origine, questi emigrati hanno comunque tentatodi ricostruire una micro comunità come se fosse quella lasciata interra italiana. Questa volontà di portare con sé quanto di più intan-gibile ci fosse, come la dimensione sociale, non poteva che avveni-re nel nome di quel numen sotto le cui insegne, anno dopo anno,tutta la popolazione si trovava a riconfermare la propria identità.

È così che, anche nella nuova residenza, gli abbateggiani hannocontinuato a rendere culto alla loro “Maria dell’albero”, e non soloattraverso l’invio di ingenti somme di denaro in occasione deifesteggiamenti. La devozione verso la protettrice divina, come pureverso il proprio paese d’origine, si è infatti tradotta in tentativo diriproduzione extra territoriale.

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Il culto della Madonna dell’Elcina ha quindi dato vita ad un“clone” canadese, che nel settembre del 2001 ha celebrato il suo 25°anniversario di fondazione. È trascorso un quarto di secolo daquando, per iniziativa congiunta di due famiglie abbateggiane, siiniziò a celebrare la Vergine del leccio anche a Toronto.11 Il contattocon un territorio diverso, l’immersione in una realtà completamen-te altra rispetto a quella lontana, hanno riplasmato il culto dotan-dolo di forme e contenuti meglio rispondenti la nuova esistenza.

Ogni anno partecipa ai festeggiamenti qualche centinaio di per-sone di origine non solo abbateggiana ma italiana in genere. Losvolgimento delle celebrazioni liturgiche avviene all’interno di unmodernissimo luogo di culto e sono officiate, da oltre un venten-nio, sempre dallo stesso parroco di nazionalità italiana e legato daparentela ad una famiglia di Abbateggio residente negli Stati Uniti.

Costituisce oggetto di devozione una tela di recente esecuzione,la cui immagine riproduce fedelmente quella degli attuali santinidistribuiti nel paese d’origine. Subito dopo la celebrazione di unamessa, il gruppo sfila in processione per le strade vicine alla chie-sa, recando, oltre che l’icona, la bandiera italiana al fianco di quel-la canadese. E così, nella città di Toronto, la Madre di Abbateggiodiventa oggi custode di una “sincresi identitaria” che vede l’italia-nità fusa con il senso di appartenenza all’universo canadese.

A conclusione dei rituali sacri, tutti i partecipanti si trattengonoin ristorante per un abbondante banchetto con il consumo della tra-dizionale porchetta, rinnovando anche in terre lontane, quelladimensione di “orgia alimentare”, sempre presente nelle feste di“casa nostra”.

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11. Anche la città canadese di Amherstburg è sede di un’altra riproduzione del cultoabbateggiano. Qui le celebrazioni gravitano attorno ad una foto della statua seicente-sca e vedono la partecipazione di diversi emigranti, originari anche delle altre localitàdell’entroterra pescarese, come Lettomanoppello e Roccamorice.

Il contesto storico-ambientale

Il culto della Vergine Assunta come Madonna della Quercia haavuto origine e si è sviluppato in una località della provincia chieti-na denominata Casacanditella. Come suggeriscono il toponimo, dichiare origini latine (composto dall’aggettivo candidus e dal sostan-tivo casa) e il ritrovamento di alcuni reperti archeologici, il borgopotrebbe affondare le sue radici in un antico insediamento romano.1

Nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, il borgo fu più voltecolpito e saccheggiato dalle truppe tedesche, riportando notevolidanni che non hanno risparmiato il piccolo santuario e la querciasacra. Ciò in parte potrebbe spiegare la mancanza di fonti docu-mentarie.

Pochissime e frammentarie dunque le notizie storiche, comepure le fonti d’archivio, sempre rinvianti all’esistenza del santua-rio. Fin da tempi lontani, Casacanditella appare intimamente lega-ta alla “sua Maria protettrice”; infatti, in uno dei documenti piùantichi attestante il toponimo (1173), quest’ultimo viene associatoalla chiesa, appunto “Ecclesia Sanctae Mariae de CasaCanditellae”. Nel sec. XIV la località viene nuovamente menziona-ta nelle Rationes Decimarum Italiae per l’esistenza delle chiese di S.Marie e di S. Gregori in Casacanedella.

Altri sporadici cenni storici ricordano il centro come feudo deiDe Letto, quindi come signoria dei Valignani di Chieti.

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MADONNA DELLA QUERCIA

1. Cfr. U. DE LUCA (a cura di), op. cit., vol. II, pp. 45-47.

L’attuale agglomerato urbano sorge su un colle che si eleva, perun’altezza di circa 400 metri sul livello del mare, al confluire di duevallate: quella del fiume Foro da un versante, quella del torrenteDendalo dall’altro. La sua posizione geografica, equidistante dallacosta Adriatica e dalle propaggini della Maiella, ha creato condi-zioni ottimali per un discreto sviluppo del settore primario. Comein altre realtà abruzzesi collinari, anche qui il sistema economico ditipo agricolo ha costituito nel corso dei secoli l’unica fonte di benes-sere, almeno fino agli inizi del XX secolo, quando iniziò la sua irri-ducibile crisi, aggravatasi nel secondo dopo guerra con lo sviluppodel secondario e del terziario nei centri cittadini più vicini.

Come prevedibile, la risposta immediata a tali problematiche fulo sviluppo di una forte spinta emigratoria che causò un notevoledepauperamento demografico del territorio. La popolazione, infat-ti, che agli inizi degli anni ‘50 contava circa 2200 abitanti, è oggiridotta a circa 1500 unità.

La leggenda di fondazione2

L’origine del culto della Vergine Assunta di Casacanditellaaffonda le sue radici in una antica leggenda, giunta a noi soltantograzie alla forza della tradizione orale che l’ha tramandata da unagenerazione all’altra. Pur non corroborata da fonti scritte, essa èricca di riferimenti molto dettagliati. In primo luogo la data: nonincerta e approssimativa o rimandante ad un “ipotetico” periodo,ma definita attraverso le coordinate di giorno, mese, anno, ora.

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2. Per quanto riguarda le informazioni inerenti il culto in oggetto, le fonti sono soprat-tutto orali. Esistono inoltre alcune pubblicazioni locali curate dal parroco e dalle asso-ciazioni pro-loco, ci si riferisce in particolare a: P. VENANZIO DA CASACANDITELLA, Allavergine Assunta venerata in Casacanditella nel IX centenario della Sua gloriosa Apparizione,Pescara, Stamperia d’Arte Nicola D’Arcangelo, 1958; P. VENANZIO DA CASACANDITELLA,Solenne incoronazione del santo Simulacro dell’Assunta venerato in Casacanditella, L’Aquila,Tipolito Bastide, 1973. Tutte le citazioni in questo paragrafo sono tratte dalla pubblica-zione del 1958.

D’altra parte, la tendenza aparticolareggiare tempi, luo-ghi, e persino parole, non èrara in questo genere dellaletteratura cosiddetta “po-polare”. Piccoli accorgimentie dettagli narrativi arricchi-scono il racconto, lo rendonopiù veridico, ma soprattuttocontribuiscono a donare unacornice storica ad un eventotanto lontano quanto mera-viglioso.

15 agosto 1058, mezzo-giorno: fu in questa congiun-tura temporale che Dome-nico, «pio contadino delluogo», si ritrovò protagoni-sta del prodigioso incontro conMaria.

Si racconta che in quelgiorno, l’uomo, subito dopola celebrazione della santamessa in occasione dellafesta dell’Assunzione, fosseandato a riposare in compa-gnia del suo gregge all’om-bra di una quercia, in unalocalità chiamata Pietragran-de,3 appena fuori il centroabitato. Improvvisamente, fu

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Festa dell’AssunzioneNella storia del culto mariano, l’e-pisodio biografico collegato all’as-sunzione è stato al centro di unevidente paradosso. Infatti, se perun verso esso fu il primo ad otte-nere un riconoscimento da partedel popolo in termini celebrativi,per un altro dovette trascorrerepiù di un millennio e mezzo dalConcilio di Efeso (431 d.C.) per-ché potesse essere dichiarato uffi-ciale da parte della Chiesa eassurgere a dogma. Alla base del-l’assunzione vi è la credenza se-

3. Il toponimo potrebbe essere una ulteriore conferma a quanto già affermato nellaprima parte del volume, relativamente al rapporto che intercorre tra quercia e simbo-logia litica. Pietragrande = quercia grande? (Cfr. pp. 37-38, nota 44).

destato da un’immensa luceche, «più splendida di quelladel sole», aveva avvolto l’in-tera chioma dell’albero.4

Rivoltosi verso quel bagliore,Domenico scorse le fattezzedi una donna sorridente, laquale, posata sulla chiomaarborea «quasi su un tronoregale» teneva fra le braccia ilBambino. Il contadino, rico-noscendo nella figura splen-dente la Madonna, si ingi-nocchiò ai piedi della quer-cia, imitato prodigiosamentedall’intero suo gregge.

Secondo il racconto, inquesta sua apparizione laMadonna, dopo essersi pre-sentata come “Vergine del-l’Assunta”, avrebbe parlato aDomenico, chiedendogli dicomunicare una sua richiestaa tutta la popolazione: erige-re ai piedi della quercia unacappella dedicata alla suaAssunzione. Proferito il mes-saggio, la Vergine scomparvee con lei si affievolì e si spen-se anche il bagliore che laaveva accompagnata.

Il contadino, destandosi

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condo cui Maria, anticipando ilgiudizio universale, sarebbe statatrasportata dagli angeli nei Cieli,non solo con l’anima ma anchenell’interezza della sua essenzafisica. Ora: malgrado nei Vangelinon si faccia il minimo cenno altrapasso di Maria, fin dal II secolod.C. l’episodio iniziò ad esserenarrato in una ampia serie di leg-gende orientali scritte in latino,greco, siriaco, copto, che presto sidiffusero in tutto l’Occidente e chenarravano il “transito” (non lamorte), insieme fisico e spiritualedella Vergine in Paradiso.Componente quest’ultima di nonpoco conto in termini cultuali edevozionali! La mancanza di uncorpo da venerare e l’assenza direliquie da poter toccare ritarda-rono in qualche modo l’ufficializ-zazione del culto, perché, contra-riamente a quanto avveniva per imartiri cristiani, non era possibileerigerle un santuario dove adorar-la “fisicamente” e “da vicino”.D’altra parte, però, ben presto ini-ziò a farsi strada la credenza cheMaria potesse realmente rivelarsiattraverso apparizioni, o lasciaresegni “fisici” della sua presenza.Come dire: se il suo corpo erascomparso dal mondo perché“transitato” nel Paradiso, in qua-lunque momento ella avrebbepotuto riapparire nella sua inte-rezza, in qualunque momentoavrebbe potuto agire “concreta-mente”: magari spostando imma-gini a suo volere, magari lascian-do impronte sulla roccia, onascondendo suoi simulacri sotto-

4. Per quanto concerne la simbologia della luce associata alla figura mariana cfr. piùavanti le pagine dedicate alla Madonna dello Splendore.

dalla visione, si accostò inatteggiamento riverente allaquercia, «divenuta ormaisacra dal contatto con Mariae ne baciò fervorosamente iltronco». Quindi si apprestòa riportare l’accaduto aicompaesani, i quali, vintal’incredulità di un primomomento, si dedicarono allacostruzione del piccolo san-tuario, non prima di essersirecati in processione pressol’albero sacro, nell’intento direndere esplicito un primosegno di riconosciuta sacra-lità a quel luogo.

E così, segue la leggenda,da quel “fatidico” giorno legrazie cominciarono a pioverecopiose su quanti, provenientida tutto il circondario, siapprestavano a rendere omag-gio alla Vergine Assunta.

Il luogo di culto

L’antichità del culto della Madonna della Quercia, al di là dellefonti leggendarie, sembra essere confermata anche da un docu-mento datato 28 settembre 1173. In questo giorno, Papa AlessandroIII nella sua bolla “In Eminenti” veniva a convalidare l’episodiodella apparizione avvenuta un secolo prima e confermato dallaedificazione della “Ecclesia Sanctae Mariae de Casa Canditellae”.

Da quel momento, raccontano i casacanditellesi, tutto è rimasto

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terra, o apparendo in sogno, oancora lasciando messaggi bendettagliati. E il tutto in modo moltopiù “concreto” «di quanto nonpossa fare un santo il cui corpo siarimasto sepolto e le cui reliquie siritiene siano sparse in diversi luo-ghi». (E. TURNER, V. TURNER, Il pel-legrinaggio, Lecce, Argo, 1997, p.203).Tornando alla storia dell’assunzio-ne come festività, siamo rimanda-ti al 600 d. C., anno in cui l’impe-ratore Maurizio stabilì che la“scomparsa” di Maria venisse cele-brata in tutto l’impero d’Orientenella giornata del 15 agosto. Cosìfacendo, egli operò un chiarogesto sincretico con il quale ripla-smava una celebrazione paganavoluta da Ottaviano Augusto nel18 a.C. - le Feriae Augusti - attra-verso la fede cristiana. Da quelladata dovrà trascorrere più di unmillennio perché la Chiesa possariconoscere l’assunzione comedogma cristiano. Fu infatti solo nel1950 che, per volere di Pio XII, sene ebbe la definitiva sanzione nellacostituzione apostolica Munificen-tissimus Deus.

intatto; la piccola chiesa è ancora lì, così come la quercia, ritenutaessere la stessa dell’apparizione. Il corso della storia e lo sviluppourbanistico dell’abitato hanno in qualche modo ridotto le distanzee quello che in passato si configurava come luogo di culto extra-urbano immerso nei pascoli, è oggi distante dal centro abitatomeno di un chilometro.

Come già accennato, il piccolo santuario della Vergine Assuntasubì svariati danni durante la seconda guerra mondiale e fu sog-getto ad occupazione da parte di truppe militari tedesche. A questieventi è collegato un episodio miracolistico che, interpretato comeintervento protettivo da parte dell’Assunta riservato ai soli casa-canditellesi, riuscì a dare ulteriore conferma alla devozione dellapopolazione locale in momenti veramente difficili. Il miracolo èdegno di essere riportato in questa sede, seppur brevemente,soprattutto per le implicazioni che sembrano collegarlo alla figuradi Maria come novella Atena, “piena di grazie” per i “suoi” fedeli,ma forte e minacciosa contro tutti i nemici del suo “popolo eletto”.

A tal proposito un’informatrice ricorda:

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Durante la seconda guerra mondiale un gruppo di soldati tedeschiaveva installato vicino al santuario una mitragliera antiaerea. Inquei giorni, perciò, i militari usarono la chiesa come abitazione,senza curarsi mai della pulizia. Ma una notte apparve la Madonnae disse: “Pulite e andate via!”. I soldati cercarono di fuggire, ma tro-varono le porte chiuse. Impauriti, si misero subito a pulire la chiesausando persino le loro divise. Quando finirono, le porte si aprironoe essi scapparono via.5

Il santuario è dunque ricettacolo esclusivo della divinità e a nes-suno può essere permesso di profanarlo, tantomeno ad un Altro; l’a-zione protettiva e tutelare della sua “divina custode” si esplica pro-porzionalmente alla venerazione e alla cura profuse dai fedeli. E inativi mai sembrano aver violato questa legge del do ut des!

In virtù del costante intervento da parte dei singoli privati, dellaassociazione pro-loco, ma anche deinumerosi casacanditellesi emigrati, que-sta chiesa, importante tassello storicodella loro identità sociale, è stata soggettaa tutti i restauri del caso, tanto da mostra-re ancora oggi una discreta condizionestrutturale.

Al suo interno, sull’altare maggiorerimane custodito il preminente oggetto diculto: un’antica statua lignea policromaraffigurante la Vergine [vedi foto].Anche questa effigie, al pari del santua-rio, parla in qualche modo il linguaggiodelle origini. Risalente con tutta proba-bilità al XIII secolo, si ritiene riproducala Madonna così come apparve a Dome-nico: nella stessa posizione seduta, con ilBambino sulle ginocchia.

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5. Il racconto è tratto da una ricerca inedita, accuratamente svolta dagli alunni dellaScuola Elementare “G. D’Annunzio” di Casacanditella nell’anno scolastico 1997/1998.

Ciò che contraddistingue il simulacro è il carattere di inamovi-bilità: su di esso la tradizione ha fissato un’inviolabile prescrizione,secondo cui non può essere allontanato dal luogo sacro né essererimosso dalla sua nicchia, se non per essere esposto ai fedeli davan-ti l’altare, in occasione delle celebrazioni. Come dire: se è lì chel’Assunta apparve, sulla quercia di Pietragrande e non in un altroluogo, fu perché quella era la sua volontà, fu perché era in quel pre-ciso luogo che voleva essere venerata. E come potrebbe l’uomorimuovere ciò che è invece stato sancito da “decisione celeste”?

Questo atteggiamento, diffuso in tutto l’universo cristiano, e nonsolo cristiano, si fonda sull’idea che l’opporsi delle azioni umane suquelle ritenute divine possa tradursi irreparabilmente in perditadella tutela numinosa, conseguentemente in predisposizione a rice-vere le più minacciose calamità. Simulacro = Maria: materializza-zione simbolica della epifania, reale ricettacolo della divinità.

A questo punto viene da chiedersi se non risiedano proprio allabase di questo immaginario le ragioni di un così procrastinato edifficile restauro; non potrebbe forse essere interpretata comeoltraggio allo stesso volere di Maria anche un’operazione di talsorta? Forse sì, se si considera che il progetto, già predisposto qual-che decennio prima, prese avvio soltanto nel 1973, quando si riuscìad ottenere che i lavori venissero eseguiti in loco.

L’intervento cambiò notevolmente l’aspetto della statua, ma glirestituì fattezze simili al suo stile originario, riportando a nudo lapolicromia e la struttura lignea che per lunghi decenni erano rima-ste coperte da sontuose vesti.

Del resto, l’anno 1973 andava segnando una data storica per ilculto: la fine del restauro coincise non solo con il settimo centenariodella Bolla papale “In Eminenti” ma anche con la solenne incorona-zione dell’effigie.

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I rituali

Fase preparatoriaLe celebrazioni del 15

agosto sono precedute dauna intensa fase preparatoriache dura nove giorni (dal 5 al13 agosto) ma che esula dalleconsuete novene precedentimolte altre festività abruzze-si. I rituali caratterizzantiquesto periodo pre-festivosono indicati come “le VivaMarie” e vedono la parteci-pazione di gran parte dellapopolazione, in predominan-za donne.

Al sopraggiungere delleprime ore serali, di solitoverso le 21.00, un gruppo dipersone, dopo essersi raccoltopresso la chiesa madre di SanGregorio Magno, inizia unlento percorso a piedi chetende a circoscrivere l’interotessuto urbano e che, se-guendo un itinerario fissatodalla tradizione, giunge finoal santuario dell’Assunta.

Ciò che caratterizza que-sto corteo è l’alternarsi dialcune giaculatorie, inneg-gianti “Viva Maria”. L’iterrituale prevede diverse tap-pe in diversi punti del peri-

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Viva Maria!Questo grido, inneggiante laMadre di Dio, ha conosciuto gran-de centralità nei fatti storici checaratterizzarono il triennio giacobi-no in Italia. Fu in quei tempi chedalle aree rurali di alcune regionicentrosettentrionali italiane gruppidi sanfedisti reazionari, conosciutiappunto come "I Viva Maria",spesso capeggiati dai parroci eguidati dai labari delle loro santeMarie, tentarono di reagire all'im-posizione di governi filo-giacobinisui loro territori. Le «madonne dicampagna» vivevano così unasorta di riscatto dal secolare allon-tanamento imposto dal clero cen-trale che fino ad allora aveva inte-so relegare nelle aree rurali tuttele «forme sospette della vita reli-giosa» (A. PROSPERI, Madonne dicittà e Madonne di campagna. in S.BOESCH GAJANO, L. SEBASTIANI, Cultodei santi, istituzioni e classi socialiin età preindustriale, L'Aquila,Iapadre, 1984, p. 617). Allora,come ancora adesso, esse simostravano nel loro aspetto di"regine di popoli", "madri tutelari",e, non in ultimo, referenti numino-si delle identità locali.E così, seppur lontani storicamen-te e geograficamente dal contestoappena raffigurato, è tuttaviaancora pertinente leggere i ritualicasacanditellesi delle "Viva Marie"come sistema per la sacralizzazio-ne e la tutela del territorio. L'interopercorso - segnato da una "diver-sificazione caratterizzante" cheinveste i canti (ad ogni luogo cor-risponde un canto diverso), lenumerose tappe in punti specificidel perimetro urbano, la formazio-ne di gruppi di persone (afferenti

metro cittadino e ognuna diqueste è contraddistinta dalcanto di preghiere diversifi-cate. Tutte le giaculatoriesono tradizionali, non sonomai state trascritte ed hannopertanto il carattere dell’ora-lità, tramandate in dialetto digenerazione in generazione.

Giunto al santuario, ilgruppo indugia in preghiera:anche all’interno del luogo diculto i canti sono diversifica-ti a seconda del punto in cuivengono recitati, distinguen-dosi in “canti di entrata” e“canti di uscita”. Attenti anon porgere mai le spalle al

simulacro, e adottando quindi comportamenti fuori dall’ordinarioe più confacenti uno spazio-tempo sacro, i fedeli escono dal san-tuario camminando all’indietro.

Il percorso di ritorno è leggermente diverso da quello di andataed include una sosta presso la chiesetta rurale di San Rocco, appe-na fuori il centro urbano.

Fino a qualche decennio fa, a diversificare “le Viva Marie” con-tribuiva un ulteriore elemento, ora scomparso: l’appartenenza ter-ritoriale dei protagonisti. Infatti, la partecipazione a questi ritualidi “preparazione spirituale” prevedeva raggruppamenti diversi aseconda della provenienza dalle diverse contrade. Poi, causa lospopolamento dell’area, i gruppi si sono andati riducendo edattualmente le “Viva Marie” si configurano come corteo unico.

La vigiliaL’inizio dei festeggiamenti è sancito dalla esposizione della

sacra effigie. Verso le ore 19.00, i fedeli giunti presso il santuario

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alla diverse contrade) - viene aconfigurarsi come una sorta di col-lage di micro-elementi convergen-ti verso un unico centro simbolicodi aggregazione: il santuario. Lastruttura del rituale è infatti uro-borica: termina al ricongiungersicol punto di partenza. L'itinerariosi apre e si chiude presso la chiesaparrocchiale, e i canti ricalcano ilcammino:

Affetti e pensieri dell'anima mia,lodate Maria e chi la creò.

Evviva Maria,Maria Evviva

Questi i versi di apertura del ritua-le, questi i versi di chiusura. Al canto di «Evviva Maria», puntodopo punto, il cerchio si chiude: alsuo interno Casacanditella, al suocentro l'Assunta.

assistono dunque ad un rinnovamento annuale dell’episodio leg-gendario, anche se in forma simbolico-rituale. La statua, ricopertada numerosissimi gioielli in oro, da nastri e da banconote (indos-sando quindi l’abito della festa) viene posta su un piedistallodavanti l’altare maggiore e resta velata dietro un tendaggio azzur-ro fino a quando la chiesa non sarà gremita di gente. Il momento incui il simulacro appare alla vista - sostengono i casacanditellesi - èil più “intenso e commovente” delle intere celebrazioni. Il manife-starsi del simulacro si configura quindi come vera epifania, e, riat-tualizzando l’evento dell’apparizione, rende collettiva l’esperienzadel visionario leggendario.

Dopo l’esposizione, i devoti si avvicendano a posare un baciosulla statua della Madonna e si trattengono presso il santuario,vegliando l’intera notte.6 Da circa dieci anni, l’impianto rituale èstato arricchito da una suggestiva fiaccolata notturna che dalla pic-cola chiesa di San Rocco, percorrendo il viale che separa i due luo-ghi di culto, giunge al santuario.

15 agosto.L’apoteosi festiva si raggiunge nella giornata della ricorrenza e

vede le celebrazioni gravitare attorno ad una sontuosa e comples-sa processione ricca di riferimenti simbolici.7

Il corteo, aperto da carri addobbati, si ordina davanti la chiesaparrocchiale di San Gregorio, all’interno della quale viene celebra-ta una messa, denominata, appunto, “Messa dei Carri”; da qui sfilaper le vie dell’abitato in direzione del santuario, dove i devoti assi-stono ad un’altra celebrazione solenne. Conclusa la funzione, laprocessione ripercorre lo stesso tragitto in senso contrario, per scio-gliersi laddove si era composta.

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6. La veglia notturna presso il santuario non può non ricordarci l’antichissima praticadell’incubatio, presente, fino a qualche decennio fa, anche in molti luoghi di culto abruz-zesi. Questo argomento è già stato trattato nelle pagine precedenti (cfr. pp. 113-114).7. Della processione dei carri rimane una descrizione datata 1899 e pubblicata da“l’Illustrazione Italiana”, anno XXVI, 2 aprile 1899 n. 14, p. 231, riprodotta in P.VENANZIO DA CASACANDITELLA (1973), op. cit., pp. 20-21.

La componente più visto-sa nel corpus processionale èrappresentata proprio daicarri, riccamente e tradizio-nalmente ornati a festa conelementi, per lo più naturali,della cui primigenia valenzasimbolica sembra oggi esser-si persa memoria. È notocome l’evolversi degli eventistorici da una parte, le tra-sformazioni dell’assetto so-ciale dall’altra, rendano icontenuti e le forme dellacultura dinamici, variabili, avolte contraddittori, spessoindefinibili. E i rituali, si sa,sono specchio diretto dellacultura, importante ponte trapassato e presente.

I carri ci sono ancora, pro-tagonisti degli eventi del 15agosto, ma il loro aspetto hasubito i ritocchi del tempo;manca oggi quel carattereoblativo e altamente propi-ziatorio reso manifesto inpassato dalla presenza diofferte in grano, e soprattuttomancano i buoi adornati afesta. Resta comunque l’ab-bondanza di ornamenti.

L’esposizione di taralli(pani a forma di scala e di pupe, e ciambelle unite insieme da nastricolorati) compensa la assenza degli antichi doni cerealicoli; più

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I buoiIn termini ampiamente generici, laspecie bovina, in quanto prepostaalla produzione di latte, è stataspesso associata alla Madre/Terrae per estensione a molte delledivinità femminili. Risalgono alneolitico le prime statuette votiveraffiguranti buoi, rinvenute pressoi più importanti siti archeologici delMediterraneo connessi al cultodella Grande Madre. La deaHathor, alter ego della Iside egizia-na, ad esempio viene raffigurataessa stessa con corna bovine, eassimilata per questo elementoiconografico alle divinità lunari,racchiudendo in sé i valori dellafertilità, della rinascita, del benes-sere. Anche quando si intraprendeun’indagine volta a documentarel’utilizzo di questi animali in camporituale si giunge ai culti dellaGrande Madre. La presenza di buoiornati a festa si ritrova, infatti,nella variante romana delle cele-brazioni intitolate a Cibele e colle-gate all’equinozio di primavera.Per questa occasione veniva alle-stita una processione di carri orna-ti con fiori e trainati da buoi: sitrattava del corteo che sontuosa-mente accompagnava la statuaargentea della dea presso il fiumeAlmo per le rituali abluzioni del 27marzo. Sempre nell’ambito dellostesso complesso festivo, alcunibuoi addobbati divenivano prota-gonisti e vittime sacrificali in occa-sione della cerimonia iniziaticanota come taurobolium.

moderni trattori sostituisco-no gli animali da traino. Unacostante nel tempo è invecerappresentata dalla presenzadi fronde di alloro, considera-to comunque un ornamentosussidiario. Immagini sacre ebambole di porcellana anti-che e moderne arricchisconoulteriormente l’eterogeneopanorama ornamentale.

Ricostruire la funzionerituale assolta dai carri nel-l’economia cultuale risultaoperazione piuttosto com-plessa: anche gli stessi casa-canditellesi, se interrogati inmerito, si limitano a propor-re alcune interpretazioni piùo meno soggettive, avallate egarantite dalla premessa del«si dice che…».

Da parte loro, la spiega-zione più comune è quellasecondo cui l’odierna processione rappresenterebbe una formaresiduale dell’antica sfilata di calessi, carichi di pellegrini e diammalati, che giungevano a Casacanditella per chiedere graziaall’Assunta.

Ma un’altra presenza, oltre quella dei carri, attira l’attenzionedell’osservatore “profano”: le verginelle, ossia giovanissime adole-scenti, abbigliate in vesti bianche, arricchite di monili in oro.8

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Le pupeLa produzione di pani votivi èstrettamente collegata alla simbo-logia dell’universo cerealicolo edassume perciò una valenza propi-ziatoria. La loro esposizione nel-l’ambito delle feste tradizionaliabruzzesi è pratica alquanto diffu-sa. Spesso, come in questo caso,ai taralli viene fatta assumere que-sta forma femminile, ovviamentecollegata alla fertilità e chiaramen-te connessa alla divinità titolaredel culto. L’esposizione delle bam-bole ne è una conferma e nellostesso tempo una enfatizzazione.

L’alloroAnche l’alloro è collegato alla sim-bologia vegetazionale che permeail culto dell’Assunta. I Greci lo col-legarono ad Apollo e l’arbustodivenne la materializzazione arbo-rea del dio; il semplice tocco pote-va trasmettere al neofita le qualitàdivine, poteva permettere di con-dividerne il potere, poteva assicu-rare la sua protezione.

8. Questo particolare ricorda Rapino e la processione dell’otto maggio intitolata allaMadonna di Carpineto. Stabilire quale dei due cortei sia antecedente o posteriore all’al-tro, o affermare che essi siano contemporanei, non è affatto argomento di netta defini-zione. Tuttavia, la contingenza territoriale delle due località, come pure le altre profon-

Dietro di loro, a chiudere la sontuosa sfilata, la statua processiona-le della Vergine, sostituta dell’antico simulacro inamovibile, custo-dita durante l’intero arco dell’anno presso la parrocchia di SanGregorio.

Ideografia dell’albero

La specie arborea interessata dal culto dell’Assunta diCasacanditella è la quercia che, come abbiamo avuto modo di ana-lizzare nella prima parte del volume si è andata configurando nelcorso dei secoli come albero sacro per antonomasia.9

Ma quale il ruolo rivestito dalla quercia nel panorama cultuale?Il suo carattere è strettamente mitico o piuttosto detiene un qualchecarattere operazionale?

Un’osservazione attenta, rivolta ai racconti, alle varianti dellaleggenda, agli episodi prodigiosi, all’iconografia, nonché all’attua-le condizione della pianta nell’area sacra circostante il santuario,lascia dedurre che essa assuma tutt’oggi una posizione “attiva”nell’ambito del culto. In altre parole, in quanto albero dell’appari-zione, essa non rappresenta soltanto un elemento mitico esclusiva-mente funzionale al racconto leggendario. Tutt’altro: diviene essastessa oggetto di devozione, in quanto manifestazione viventedella presenza numinosa. È in questo senso che definirei la presen-za arborea casacanditellese come componente tutt’ora carica divalenza sacra.

L’identificazione tra Maria e l’albero dell’apparizione è perciònetta. Al punto tale che, persino il germogliare di un nuovo esem-plare, se inserito in un determinato contesto simbolico-rituale, puòrisuonare come rinnovata epifania. E infatti se non del tutto mira-

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de concordanze mitico-leggendarie esistenti tra i due culti, lasciano supporre che ci siastato un fenomeno di diffusione. Per spiegazioni riguardo alla loro funzione simboli-co-rituale si rimanda alla lettura della sezione dedicata alla Madonna del Carpine.9. Questo argomento è già stato trattato nella prima parte del volume (pp. 37-38).

colosa, senz’altro estranea ad accadimenti “naturali” fu considera-ta la nascita di una piccola quercia sul timpano del santuario nel1973, in congiuntura con la solenne incoronazione. Sempre in quel-la occasione, inoltre, la sacralità dell’albero e il suo strettissimolegame con la Vergine fu riconfermato: quercia ed effigie furono alcentro di un corteo forse unico nella storia del culto. Che la memo-ria collettiva locale possa ricordare, infatti, questa fu la sola occa-sione in cui la statua originaria venne portata in processione; appe-na incoronata, essa venne fatta sfilare lungo il breve viale antistan-te il santuario e «con opportuna deviazione» fatta passare sotto lapianta sacra, come a rinnovare l’evento mitico.10

Alla luce di quanto appena affermato, non dovrebbe apparirecome una scelta di carattere puramente estetico e stilistico quella direalizzare, da parte dell’associazione pro-loco, un pieghevole infor-mativo che riproduce in copertina un fotomontaggio di albero e

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10. P. VENANZIO DA CASACANDITELLA (1973), op. cit., p. 14.

simulacro! E non dovrebbe altresì presentarsi come una volontàesclusivamente ornamentale quella di collocare alcuni rami diquercia alla base della statua, in occasione della sua incoronazione!

Anche da gesti apparentemente incondizionati come questiemerge come la quercia continui ad essere al centro dell’immagi-nario collettivo e come essa non sia affatto dissociabile dal com-plesso cultuale.

Infatti, al pari del santuario e della sacra effigie, anche l’alberoè stato oggetto di numerosi interventi di mantenimento, tesi a rin-viarne la naturale morte. L’area circostante, inoltre, è stata recin-tata da una siepe e al suo interno è stato innalzato un altare.Sarebbe forse errato definire uno spazio così costituito come “san-tuario all’aria aperta”? Dopotutto, fu proprio in direzione dellaquercia, racconta la leggenda di fondazione, che si svolsero i primipellegrinaggi.

Da quegli eventi pare siano trascorsi 950 anni, ma la quasi tota-lità dei casacanditellesi giurerebbe che la pianta presente sul luogodi culto sia proprio quella dell’apparizione. Ne sarebbe testimo-nianza la sua vetustà, testimonianza, a sua volta, della «degnazio-ne e benignità della sovrana dell’universo».11

Oggi la quercia, nei suoi rami secchi e spogli, sorretta soltantoda una colonna di cemento innalzata ad hoc, assumerebbe un aspet-to davvero spettrale, se non fosse per una giovane pianta spuntatadalle sue stesse radici. Essa dunque, a dispetto del tempo, deglieventi e delle leggi naturali continua quasi prodigiosamente amostrare la forza vitale della sua linfa, considerata eterna e pos-sente come chi volle mostrarsi in essa.

Il culto e il suo omologo oltreoceanico

Come già accennato, Casacanditella, causa la crisi del settoreprimario, ha visto molti dei suoi abitanti lasciare il paese d’origine

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11. P. VENANZIO DA CASACANDITELLA (1958), op. cit., p. 8.

per cercare fortuna all’estero e in special modo nelle Americhe. Ma,come altresì anticipato, il legame che ha unito i nativi alla loroMadre divina è stato “da sempre” caratterizzato da una forzaindissolubile. «È impossibile dissociare Casacanditella dall’Assunta,particolarmente dal giorno in cui la Regina del Cielo volle dare alnostro paese un segno tangibile della sua predilezione».12

Di fatto, per i molti emigranti lasciare questa località si è tradot-to anche in allontanamento dalla loro protettrice divina. Come com-pensare la duplice perdita? In primo luogo, attraverso la costituzio-ne di una comunità etnica, in secondo con l’importazione del culto.Ed è stato così che la città di Binghamton, nello stato di New York,ha visto ricostruire al suo interno una piccola Casacanditella ameri-cana. Una prima associazione si formò già alla fine degli anni ‘30, equando sorse la necessità di intitolare un nuovo luogo di culto cri-stiano, la scelta ricadde, ovviamente, sulla SS.ma Annunziata.

Ma la testimonianza dell’inscindibile rapporto che lega gli emi-grati al loro luogo d’origine come all’elemento che più di ogni altrolo rappresenta (cioè la Vergine della Quercia), è rilevabile anche inaltri numerosi segni: nelle ingenti somme di denaro che essi tuttorainviano alla pro-loco per i festeggiamenti; negli ex-voto; nella ripro-duzione delle celebrazioni.

Anche la parrocchia newyorkese nei giorni del 14 e del 15 ago-sto viene coinvolta dai festeggiamenti dell’Assunzione, seppurattraverso rituali che si distanziano dagli originali. Assenti le “VivaMarie”, assenti i carri, assente la processione. (Non avrebberocomunque modo di assolvere alla loro funzione su un territoriopercepito come altro!)

Rimane, invece, un lontano richiamo al corteo delle verginelle.La liturgia si svolge esclusivamente all’interno del luogo sacro; quii fedeli svolgono alcune circumambulationes al canto di inni e lodi,quindi conducono la statua sull’altare maggiore, dove divienemeta di una breve sfilata di giovanissime rappresentanti della

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12. P. VENANZIO DA CASACANDITELLA (1973), op. cit., p. 14.

comunità abruzzese. Tra queste, una viene prescelta per imperso-nare “The Queen”. A lei spetterà il compito rituale di incoronare lastatua della vergine con una ghirlanda di fiori.

Al termine della liturgia, le celebrazioni continuano all’esternodel santuario secondo modalità “più profane”: e così la festadell’Assunta si trasforma in occasione per consumare cibo italiano,per cantare canzoni popolari, per bere birra e soda, per organizza-re lotterie. In altre parole: per stare insieme come se si stesse in“terra propria”.

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Il contesto storico-ambientale

L’epiteto mariano “dello Splendore” è riservato al culto affer-matosi nella città teramana di Giulianova, situata nella Valle delTordino, a confine con la regione Marche. Questa località, per la suaparticolare ubicazione geografica, ha sempre rappresentato unimportante ponte di comunicazione tra le realtà dell’entroterrarurale teramano e quelle costiere adriatiche. E d’altra parte i van-taggi che potevano derivare da una tale posizione, in termini distrategia politico-economica, furono ben noti ai Romani che nel 290a.C. vi impiantarono una loro colonia (Castrum Novum). Il nuovoinsediamento, posto com’era al centro delle più importanti vie dicomunicazione romane, divenne subito per l’Impero un fonda-mentale luogo di scambi, congiuntamente alla vicina Hatria (l’at-tuale Atri), sorta soltanto un anno prima.1

La fondamentale cooperazione tra queste due realtà della bassae media valle dell’Aterno era destinata a consolidarsi con regola-rità, soprattutto a distanza di alcuni secoli, quando gli Acquaviva,dopo aver ottenuto il ducato di Atri, vennero nominati anche contidi San Flaviano. A quest’ultimo feudo, sviluppatosi nel Medioevosui resti della romana Castrum Novum, sono particolarmente legatele sorti della attuale Giulianova.

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1. Castrum Novum, attraversata marginalmente dalla via Salaria, era il luogo inizialedella via romana litoranea che giungeva fino ad Aternum (l’attuale Pescara) per poiriallacciarsi alla via Frentana. (Cfr. W. DEL VILLANO, Z. DI TILLIO, Abruzzo nel tempo,Pescara, Didattica Costantini, 1979, p. 45).

Castel San Flaviano, situato sulla riva sinistra del Tordino, eraun possedimento che gli Acquaviva iniziarono a gestire nel 1382,per volere di Carlo III d’Angiò. Nell’anno 1461 l’insediamento, giàsegnato dal peso di una grave epidemia malarica, venne distruttonel corso di una violenta battaglia. Fu allora che Giulio Antoniod’Acquaviva decise di edificare una città ex-novo, ma in un luogopiù elevato, lontano dalle zone palustri e in una posizione miglio-re sotto il profilo sanitario e della difensiva.2 Dallo stesso nome dibattesimo del fondatore nasceva quindi Giulia Nova, che ripropo-neva nella sua struttura urbanistica l’impianto tipico degli altripossedimenti acquaviviani. Al pari di Mosciano, Atri, Montefino,Canzano e Ripattoni anche la nuova città si configurava infatticome «borgo murato e turrito»; il palazzo ducale ne rimanevaall’interno ed includeva, nella sua facciata rivolta verso il mare,anche una delle otto torri murarie.3 L’area centrale dell’agglomera-to veniva invece riservata all’edificazione del monumento-simbolodel rapporto con le “radici passate”: il duomo intitolato a SanFlaviano, all’interno del quale, in evidente rispetto con la tradizio-ne cultuale, venivano trasferite anche le sacre reliquie del patronoe gli altri oggetti di culto che avevano adornato i templi distrutti.

I due secoli successivi alla sua fondazione, seppure gravati da

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2. «[Giulio Antonio d’Acquaviva] non decise di restaurare Castel S. Flaviano ma dicostruire ex novo una cittadina in luogo più salubre, ma anche più difensibile sia perla posizione sia per i criteri moderni che si potevano adottare. Detta cittadina dovevaavere la funzione di controllare la strada adriatica, e, pur trovandosi ad una comodadistanza da essa, doveva apparire agli invasori come primo baluardo aragonese»(AA.VV., Giulianova 86, Giulianova, La Rapida, 1986, p. 61). Grazie agli interventi diquesto importante esponente della casata acquaviviana, i legami con i sovrani trovaro-no nuova conferma: «[egli] fu uno dei capitani più famosi ed illustri del suo tempo,amato da Ferdinando di Aragona, che lo insignì del reale ordine dell’Ermellino […] egli concesse, con diploma del 30 Aprile 1479, l’altissimo onere di poter aggiungere ilcognome reale di Aragona a quello di Acquaviva». (Ibidem, p. 65).3. Per gli aspetti storico-architettonici relativi agli edifici acquaviviani, si rimanda a R.CERULLI, Le dimore degli Acquaviva in Atri e Giulianova, in AA.VV., Gli Acquavivad’Aragona… cit, vol. I, pp. 91-127; mentre per le notizie riguardanti il processo di inca-stellamento in questo territorio ci si riferisce a L. RONGAI, I sistemi difensivi e di controllodella costa e dell’entroterra teramano, in, Ibidem, pp. 137-147.

ripetute epidemie di peste, rappresentarono per Giulia Nova annidi notevole ricchezza economica, raggiunta in virtù di un saggiosviluppo degli scali portuali litoranei. In particolare, dopo lacostruzione delle due torri di avvistamento del Tordino e delMazzaufo, all’inizio del XVII secolo, il suo litorale si affermò comeimportante fulcro commerciale dell’Adriatico.4

Durante il Seicento, gli Acquaviva conobbero invece periodi didifficile gestione economica, tanto che, sotto il peso delle ripetutepressioni da parte dei loro creditori, rischiarono di perdereGiulianova. Il loro dominio durò comunque fino all’inizio delXVIII secolo e terminò soltanto dopo la morte senza eredi dell’ulti-mo esponente del ramo atriano.

Nel corso dell’Ottocento, in virtù di un fruttuoso connubio tra leattività marittime e quelle agricole dell’entroterra, la cittadina con-tinuò comunque a svilupparsi e a crescere demograficamente.L’abitato cominciò ad estendersi anche extra moenia e le vie dicomunicazione con il litorale crebbero d’importanza. D’altra parte,lo stesso lido iniziava a conoscere le nuove potenzialità offerte dalturismo e andava distinguendosi come uno tra i più frequentaticentri balneari della riviera. Ma la grande innovazione di questosecolo, in termini di rapporti con le realtà esterne, fu sicuramenterappresentata dall’apertura dello scalo ferroviario.

All’inizio del XX secolo, l’economia e la società giuliesi ricevet-tero un nuovo impulso, in seguito allo sviluppo delle attività dipesca e al potenziamento degli scambi portuali. Così, mentre nelresto dell’Abruzzo si registravano pesanti cali demografici, causatida ripetute ondate emigratorie, qui la popolazione andava costan-temente aumentando, al punto da raggiungere punte di incremen-to del 40%.5

Nei decenni recenti, infine, il comune, e in particolare la sua fra-zione di Giulianova Lido, ha conosciuto un ulteriore sviluppo delsettore turistico, con il notevole aumento delle strutture alberghie-

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4. AA.VV., Giulianova 86, cit., p. 63.5. W. DEL VILLANO, Z. DI TILLIO, op. cit., pp. 259-260.

re. Anche il settore agricolo è stato incrementato, al punto che anco-ra oggi i sistemi produttivi continuano a rappresentare un’impor-tante risorsa per parte degli attuali 22.253 abitanti.

La leggenda di fondazione

In modo del tutto ecceziona-le e quasi anomalo rispetto alcorpus leggendario mariano inAbruzzo, contraddistinto per-lopiù da tradizione orale, ilmito relativo al culto dellaMadonna dello Splendore èstato tramandato nel tempo daun documento ufficiale, redat-to a distanza di un secolo daipresunti eventi.

Nel periodo compreso tra il1657 ed il 1674, il priore DonPietro Capullo, di origini aqui-lane, si dedicò alla redazione diuna cronaca del santuario,riportando in modo dettagliatole vicende storiche e i fenomeni

miracolosi verificatisi presso quel luogo sacro nell’arco di un seco-lo, a partire cioè da quel 22 aprile 1557, data a cui egli faceva risa-lire l’evento ierofanico fondante.6

Protagonista dell’incontro con la Vergine fu anche in questa cir-costanza un uomo «di semplici costumi». Secondo alcune varianti,Bertolino (questo il nome del visionario) era originario della vicina

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6. Per quanto riguarda il racconto documentato dal cronista aquilano Padre PietroCapullo, in questa sede si fa riferimento alla versione riprodotta dal Palma (cfr. N.PALMA, op. cit., vol. III, pp. 77-81).

frazione di Cologna ed era solito recarsi sulla collina di Giulianovaper raccogliere legna. Quel lontano 22 aprile, però, la sua attivitàquotidiana fu improvvisamente sovvertita da un evento del tuttoinaspettato; immersa in un accecante bagliore e posata sulla chio-ma frondosa di un olmo, gli apparve la Vergine che gli comunicò ilsuo desiderio di essere venerata in quel preciso luogo.

Su Bertolino ricadeva dunque il gravoso compito di comunicareal resto della collettività giuliese quella perentoria volontà. Ma,come accade in tante analoghe narrazioni, l’uomo venne derisopubblicamente ed accusato di essere un folle visionario. Sconsolato,tornò sui suoi passi e, giunto nuovamente presso l’olmo, riportòl’accaduto alla madre celeste, che lo invitò a ripetere l’ambasciata.

L’esito di questo secondo viaggio, tuttavia, non era destinato adessere diverso dal primo. Seguì una terza richiesta, ma questa voltala Vergine riassicurò l’uomo, garantendogli il successo della suamissione. Così, il “Capitano” ed i “Signori del Reggimento” radu-nati a corte per un qualche «pubblico interesse», presenziarono perla terza volta alla visita del taglialegna. Uno dei “reggitori” diGiulianova, particolarmente annoiato da quell’ostinazione, replicòcon violenza e malmenò il vecchio contadino. Quest’ultima reazio-ne non rimase tuttavia impunita e provocò un’immediata rispostada parte della Vergine, che lasciò l’uomo senza voce e completa-mente immobilizzato. Soltanto di fronte ad un segno numinoso cosìdeterminato, i governatori decisero di dar credito a Bertolino.Informato dell’accaduto, il clero ordinò subito che tutta la popola-zione si componesse in corteo processionale per essere guidata sulluogo designato dal visionario.

Qui, tutti gli astanti furono resi testimoni oculari di un tripliceprodigio: la presenza dellaVergine ammantata di splen-dore sulla chioma dell’olmo;l’improvviso zampillare diuna sorgente dal tronco del-l’albero e l’immediata guari-gione del governatore prece-

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Splendore«Fiat lux» recita la Genesi, san-cendo con queste parole l’iniziodella vita e l’instaurarsi dell’ordinecosmico come risoluzione del caosprimordiale, identificato invececon le tenebre. Nel cristianesimoluce e splendore, in quanto forze

dentemente punito. L’interocorteo si prostrò a terra,manifestando «il primo pub-blico omaggio che siasi ren-duto a Maria in quel luogo».7

Il luogo di culto

Il santuario della Madon-na dello Splendore, nella suaattuale configurazione, è ilrisultato di numerosi e reite-rati interventi, frutto a lorovolta, delle complesse eincerte vicende politico-

sociali che ne hanno contraddistinto la storia.A partire dalla definizione delle origini, si riscontra un primo

gap temporale tra quanto affermato dalla leggenda e la documen-tazione storica; infatti, approfondite e circostanziate ricerche d’ar-chivio condotte dallo storico giuliese Riccardo Cerulli hanno dimo-strato in modo inconfutabile che l’edificazione è antecedente al1557, quindi preesistente rispetto alla diffusione del racconto.Inoltre, perché il santuario possa aver ottenuto il titolo di prioratonel 1552 (come indicato nei documenti suddetti), sicuramente essodoveva essere il risultato di un’opera intrapresa almeno un cin-quantennio prima.8

Tali constatazioni, al di là dell’esattezza del dato storico, forni-

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emanate dal cielo e dal sole, mani-festano il potere vitale e diventanoper questo simboli frequenti di fer-tilità, allo stesso modo in cui l’ac-qua sorgiva diviene portatrice divita attraverso la terra. L’icono-grafia cristiana, come pure quellaislamica e di altre professioni, sirichiama continuamente alla lucein quanto signum della presenzanuminosa. La colomba dello Spi-rito Santo posatasi sulla Vergine èrappresentata come emanantefasci di luce, e le stesse immaginimariane fanno dello splendore ilfondamentale elemento descritti-vo; fedele alla sua natura mater-na, la Vergine non può che diveni-re generatrice e portatrice di luce.

7. N. PALMA, op. cit., vol. III, p. 78.8. Il santuario viene menzionato in due documenti, datati rispettivamente 1547 e 1552.Nel primo caso, “Santa Maria dello Splendore” viene annoverata tra i Monasteri dellaProvincia Ultra Piscariam all’interno delle “Costituzioni” relative all’ordine dei Celestini;nel secondo caso, invece, al n. 106 degli Articoli e brevi dei monaci celestini, si fa riferi-mento alla figura del “Prior Sanctae Mariae Splendoris extra Juliam Novam”. «Il 1557 -afferma il Cerulli - è dunque nient’altro che il millesimo dell’iscrizione esistita sopra la

scono spunto per ulterioririflessioni che fanno luce suiprocessi di territorializzazionedei culti e sul valore fondantedelle leggende. Ora: comeaffermato anche dallo stessoCerulli, la più ovvia conclusio-ne in termini di datazionesarebbe che l’edificazione delsantuario di Santa Maria delloSplendore sia fatta coinciderecon la stessa fondazione diGiulia Nova. In quella specialecongiuntura storico-politica,l’intervento “diretto” dellaVergine toglieva fedeli edamministratori dall’impasse della titolazione per la nuova chiesamaggiore. Da un lato l’accresciuta devozione per la Vergine (a leitributata già nel distrutto tempio di Santa Maria in Platea) dall’al-tro l’“obbligo” cultuale di rispettare il santo patrono, la cui devo-zione, seppur degna di essere perorata, era forse stata collocata insecondo piano,9 posero la collettività di fronte ad una difficile scel-ta. L’apparizione si traduceva in invito a costruire (o forse ne giu-

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porta della primitiva chiesa […] Rivolgeva ai fedeli l’invito a entrare, per venerare laMadre di Dio […] dopo aver scosso la polvere dai piedi a scopo di purificazione.“Anno a mundi liberate 1557” [e] non richiamava alcun fatto memorabile» (R. CERULLI,La data del miracolo. Particolarità della festa, in S. GALANTINI - a cura di - , Il cerchio incon-chiuso. Momenti di storia giuliese attraverso le pagine della rivista “La Madonna delloSplendore” (1982-1995), Teramo, Demian, 1995, pp. 22-24). 9. L’accrescere o il diminuire in intensità di una devozione è un processo alquantocomune, spesso connesso al contesto storico e alla struttura socio-economica di unacollettività. Soprattutto tra il XV ed il XVII secolo, periodo contraddistinto in Abruzzoda ripetute pestilenze, il culto per Maria, assurta al ruolo di depulsor pestilentiae, tesesovente a derubricare quelli preesistenti, intitolati ai patrones. Anche la tradizione giu-liese condivide questo contesto e attribuisce all’intervento della Vergine il mancatocontagio della sua popolazione in più di una circostanza.

stificava a posteriori la costruzione?) un tempio ex-novo. In questomodo San Flaviano, acquisendo l’intitolazione del duomo, avrebbecontinuato a ricevere la legittima devozione (o meglio, poteva sim-bolicamente assurgere a trait d’union tra l’antico e il nuovo nucleourbano); nello stesso tempo, la Madre divina non avrebbe sicura-mente “disdegnato” un tempio tutto per sé. «E Giulianova ebbedue protettori».10

Una tale interpretazione circa le origini e l’affermazione delculto, troverebbe conferma anche nelle analoghe problematiche chehanno coinvolto il principale oggetto di culto: il simulacro dellaVergine, attualmente conservato in una nicchia sull’altare maggio-re. Anche in questo caso, infatti, tra quanto perpetuato dalla tradi-zione e quanto documentato dai critici, verrebbe nuovamente adinterporsi un gap temporale. Ebbene, mentre la letteratura devo-zionale indica il simulacro come frutto di un rinvenimento da partedello stesso Bertolino durante le sue visioni (creando così una stra-na ambiguità che fa coincidere Vergine ed effigie attraverso varian-ti narrative tanto curiose quanto comuni)11 le analisi critiche lareputano opera ben più antica, risalente al XIV secolo.12

Tutto ciò sembrerebbe dimostrare il fatto che un culto marianogiuliese fosse preesistente sia alla fondazione del santuario che allafondazione della stessa città. Attraverso la leggenda locale, tradot-ta in miracolo, si sacralizzava (quindi si antropizzava) un territorionuovo, uno spazio altro sul quale, per la prima volta, andava adinstallarsi una realtà urbana. La Madre Celeste degli uomini silegava al territorio per divenire la Madonna dello Splendore deinuovi giuliesi.

Tornando ora al luogo di culto, dalla cronaca del Palma si

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10. R. CERULLI, I celesti patroni di Giulia, in S. GALANTINI (a cura di), op. cit., p. 45.11. Cfr. a tal proposito quanto affermato nella prima parte di questo saggio (pp. 22-23).12. Secondo l’approccio storico di Padre Candido Donatelli, è del tutto probabile chel’antica statua, precedentemente appartenuta ad una chiesa di San Flaviano (forse quel-la di Santa Maria in Platea) fosse stata trasferita nella Chiesa Madre di Giulia Nova, con-giuntamente alle altre reliquie, al momento della sua fondazione. (Cfr. P.C. DONATELLI,La festa dello Splendore a Giulianova, in S. GALANTINI - a cura di -, op. cit., p. 13).

apprende che la sua gestione venne affidata ai padri Celestini, iquali vi costituirono una grangia, aggregata al Monasterodell’Abbazia di Sant’Onofrio di Campli.13 Ma quando nel 1653 unabolla di Papa Innocenzo X ordinava che tutti i monaci afferenti allegrange si trasferissero nei monasteri dai quali dipendevano, il san-tuario giuliese rischiò di rimanere senza custodia. Grazie peròall’intervento del XIV Duca di Atri Giosia Acquaviva - particolar-mente devoto alla Vergine dello Splendore, al pari di molti altrimembri della sua famiglia14 - il santuario, in seguito all’annessionedelle due grange di Montone e di Atri, fu trasformato in priorato,rimanendo quindi esonerato dalle disposizioni papali. La tradizio-ne vuole che in seguito a tali risoluzioni il duca in persona si ado-perasse affinché la chiesa fosse ingrandita, finanziando l’amplia-mento e ponendo lui stesso la prima pietra di questa prima ristrut-turazione.15

Nel 1807 il priorato dei celestini venne comunque soppresso pereffetto delle leggi murattiane e tutti i monaci furono costretti adabbandonare il convento. Vi rimase in qualità di custode un solosacerdote che però morì nel 1824. Di fronte al rischio di un totaleabbandono del luogo sacro e di un conseguente declino del culto,la collettività dei fedeli si impegnò nell’istituzione di unaConfraternita laicale che si prendesse cura del tempio, soprattuttonei giorni festivi. Nacque così la “Congrega di Maria Santissimadello Splendore”, aperta ad entrambi i sessi; il sodalizio, però eradestinato ad avere vita breve e terminò il proprio mandato adistanza di soli venti anni. Nel 1846, infatti, dietro istanza presen-tata dal Municipio di Giulianova, il governo reale di Napoli stabilì

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13. Il termine grangia era usato nel Medioevo per indicare un complesso di edifici e diterreni tenuti dai Cistercensi. Cfr. ASSOCIAZIONE CULTURALE “MARIA SANTISSIMA DELLO

SPLENDORE” (a cura di), Giulianova e il santuario Maria Santissima dello Splendore dalle ori-gini ai nostri giorni, Giulianova (TE), 1988, p. 19.14. Cfr. FF.MM. CAPPUCCINI (a cura di), Madonna dello Splendore, Giulianova (TE), 2001,p. 58; N. PALMA, op. cit., Vol. III, p. 79.15. RR. PP. CAPPUCCINI (a cura di), Brevi notizie del culto che si presta in Giulianova a MariaSS. dello Splendore, Sulmona (AQ), Tipografia Antonio Damiani, 1907, p. 12.

che il santuario e l’annesso convento venissero ceduti all’Ordinedei Frati Minori Cappuccini, che tuttora vi risiedono.

All’intervento di questi ultimi vanno ricollegate tutte le futureoperazioni di ristrutturazione dentro e fuori il luogo di culto: lachiesa venne ampliata nel 1937, perché troppo piccola per contene-re il sempre più elevato numero di pellegrini.16 Mentre, agli anni ‘80del secolo appena trascorso risale l’inizio di alcuni importanti lavo-ri esterni, come il ripristino degli antichi bagni di raccolta dell’ac-qua taumaturgica e l’allestimento di una lunga via crucis che colle-ga il santuario al litorale.

Un discorso a parte va riservato agli oggetti sacri del culto, inparticolare i due simulacri raffiguranti la Vergine. La devozione dei

fedeli si concentra soprattuttosul più antico - cui si è giàaccennato - ritenuto come realematerializzazione della divi-nità e, per questo, inamovibile[vedi foto]. La venerabilità diquesta effigie è stata conferma-ta nel corso dei secoli da nume-rosi episodi leggendari cheriguardano in particolare lasua origine e provenienza. Sealcune varianti fanno coincide-re la statua con l’immagineapparsa a Bertolino, altre ladichiarano proveniente dall’O-riente, mentre altre ancora, evi-tando di ricostruirne le ipoteti-che vicissitudini, si limitano adaffermare che: «Se non è dal

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16. All’inizio del ventesimo secolo, il santuario della Madonna dello Splendore venneannoverato tra i santuari più frequentati d’Italia. (Cfr. P.C. DONATELLI, La festa dellaMadonna dello Splendore a Giulianova, in S. GALANTINI - a cura di -, op. cit., p. 9).

Ciel discesa, è certamente a noi venuta per ordine del Cielo».17

Anche a questa statua, al pari di molte altre immagini marianereperibili nell’intero territorio abruzzese, viene attribuita la facoltàdi muoversi e spostarsi deliberatamente, senza alcun interventoumano. D’altra parte, è attraverso modelli narrativi come questiche la sua totale identificazione con la divinità può essere più voltericonfermata.

Uno dei molti racconti in proposito vide protagonista uno deivicari avvicendatosi nella custodia del santuario. Si narra che que-sti, accingendosi a recitare gli uffici divini, si accorse che la sacrastatua non era più collocata sull’altare:

onde sorpreso e sbigottito ché qualche perverso avesse rubato l’im-magine uscì di chiesa e corse a darne l’annunzio in Città. Ma nonaveva fatto molti passi che vide sulla porta della Città […] una luceabbagliante in mezzo alla quale scorgevasi la statua della granmadre dello Splendore. […] Pregata la Vergine perché non desse alui e ai suoi confratelli il dolore d’un così inspiegabile allontana-mento, n’ebbe per risposta che pria del far del giorno sarebbe tor-nata sull’altare, e che non per altro si era allontanata che per pro-teggere più visibilmente la sua [corsivo nostro] cara città.18

Quindi, la nicchia dell’altare (perché ritenuta essere il sito dellaoriginaria apparizione) si configura come una sorta di “baricentrosacrale”, spazio fisico e mitico insieme, “prescelto” dalla divinitàcome propria dimora.

Tale assioma, se tradotto in linguaggio mitico-simbolico, rap-presenta il chiaro presupposto su cui la tradizione ha fondato laprescrizione di inamovibilità del simulacro da parte dell’uomo e,conseguentemente, la necessità di realizzare una seconda statua dautilizzare a scopo rituale.

L’attuale effigie “processionale” è stata infatti scolpita da alcuni

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17. Questa asserzione è riportata da una delle più antiche preghiere del novenario. (Cfr.P.C. DONATELLI, Il simulacro miracoloso della Madonna dello Splendore a Giulianova, in S.GALANTINI - a cura di -, op. cit., p. 19).18. RR.PP. CAPPUCCINI (a cura di), op. cit., pp. 11-12.

artisti di Ortisei negli anni Sessanta, sulla base del modello antico,che in quella circostanza fu arricchito da elementi decorativi edescrittivi miranti a ricostruire la scenografia leggendaria. Sonofrutto di questo intervento: il tronco alla cui base sgorga la sorgen-te taumaturgica; la sontuosa raggiera dorata che contorna laVergine; la piccola statua di Bertolino collocata ai suoi piedi.

I rituali

Il susseguirsi delle vicende storiche, nonché la presenza sul ter-ritorio di una potente famiglia come quella degli Acquaviva con laloro viva devozione per la Madonna dello Splendore, non sono fat-tori che rimangono estranei al culto, anzi ne modellano tanto l’ori-gine (come è stato in parte già accennato) quanto le successiveriplasmazioni rituali.

Una prima coincidenza con i fatti della storia, e nello specificocon l’assetto economico-sociale del tempo, emerge già da una rilet-tura approfondita del mito di fondazione. La narrazione, comemolte altre della stessa tipologia, riflette la coesistenza di duediversi e distanti universi locali: quello rurale-contadino e quellocittadino-aristocratico, congiunti e legati ad una stessa figura divi-na, riferimento ideologico-sacrale di enrtambi.

Pertanto, laddove Bertolino assurge ad esponente emblematicodella società agricola, “il Capitano” (dietro la cui figura potrebbecelarsi un esponente acquaviviano) gli fa da controparte, in qualitàdi massimo rappresentante dell’autorità politica; laddove Cologna,in quanto frazione rurale, rappresenta il bacino di produzione,Giulianova, con il suo palazzo ducale, ne costituisce l’alter ego civi-co e politico; laddove l’uomo “di semplici costumi” è il presceltodalla divinità per divenire testimone della sua presenza, le massi-me autorità recitano il ruolo di giudici (solo in virtù del loro con-sensus, infatti, il prodigio ottiene riconoscimento e affermazionepubblici). Sinteticamente queste le coppie antitetiche che contrad-distinguono l’intreccio narrativo: Bertolino = contadino/ Capitano

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= feudatario; Cologna = latifondo / Giulianova = città; contadino =prescelto / feudatario = giudice.

Le dinamiche del mito vengono annualmente riattualizzatenello svolgimento dei rituali, che costituiscono una sorta di «eter-no ritorno» degli eventi leggendari, pur essendo soggetti a conti-nue riplasmazioni.

Così, se nei primi secoli del culto gli itinerari processionali rical-cavano i passi di quel primo corteo leggendario e includevanoanche il palazzo ducale, nella necessità di rispondere a specificheesigenze dettate dal riconoscimento di un prestigio politico-econo-mico,19 oggi essi rispecchiano situazioni diverse e nuovi sviluppiterritoriali. In particolare, lo svolgimento delle odierne celebrazio-ni lascia intravedere una doppia tendenza che appare centrifuganelle fasi di preparazione e di conclusione dei rituali, per poi inver-tirsi e divenire centripeta, nella giornata del 22 aprile.

A partire dalla settimana antecedente questa data, per termina-re con quella successiva, la statua della Vergine è protagonista diuna serie di peregrinationes che toccano luoghi periferici (sia sacrisia profani) non implicati nell’itinerario più solenne. La prima metadi questo percorso è rappresentata dal monastero benedettino delSanto Volto; il simulacro vi rimane fino al giorno di vigilia, peressere poi scortato fino al duomo di San Flaviano, punto di parten-za del corteo più solenne. I rituali si concludono ufficialmente ladomenica posteriore al 22 aprile, giorno riservato alla visita dellaVergine presso l’ospedale a Lei recentemente intitolato. Nel piaz-zale antistante a questo edificio viene officiata una messa; quindi,accompagnata da una fiaccolata, l’effigie rientra al suo santuario.

L’evento centrale è comunque rappresentato dal corteo del 22aprile che, come appena accennato, risponde invece a spinte centri-pete che fanno del corso storico l’arteria principale del coinvolgi-mento collettivo. La processione esce dal duomo di San Flaviano ed

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19. Per quanto concerne l’itinerario coinvolto dalla processione e le trasformazioni chelo stesso ha subito nel corso del tempo si rimanda all’articolo di R. CERULLI, La proces-sione, in S. GALANTINI (a cura di), op. cit., pp. 35-38.

è tradizionalmente aperta dauna croce astile con ai lati dueaccoliti. Seguono: la statua pro-cessionale della Vergine [vedifoto], la collettività giuliese e igruppi di pellegrini.20 Tra lafolla sono facilmente distingui-bili alcuni partecipanti: indossa-no un camice bianco adornatoda una mozzetta azzurra e rap-presentano simbolicamente illegame con il passato. Sono ciòche rimane della ormai discioltaConfraternita di SS. Maria delloSplendore, l’istituzione laicaleche nel XIX secolo colmò ilvuoto gestionale causato dallasoppressione degli ordini.

Il compito di scortare laMadonna è invece affidato ai

membri di un comitato, autogestito e rinnovabile annualmente, chesovrintende all’organizzazione delle celebrazioni.

Anch’essi si richiamano a degli antenati storici: rappresentanoinfatti le antiche figure, descritte anche dal cronista seicentescoCapullo, del “Capitano” (di nomina feudale, sorteggiato tra i per-sonaggi più autorevoli e incaricato di organizzare, oltre ai rituali,anche gare ludiche e banchetti) dell’”Alfiere” (delegato a seguirela processione in un luogo diverso dal Capitano) e del “Maestro diFiera” (addetto a ricevere i pellegrini e a provveder loro acco-glienza).

Nel corso della processione il tempo è fastosamente scandito da

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20. La media dei pellegrini che presenzia agli eventi celebrativi è di qualche centinaiadi migliaia. Essi provengono, oltre che dalle località limitrofe a Giulianova, anche dalleregioni di Marche, Molise e Puglia.

due bande musicali che, situate su diversi punti del lungo corteo, sialternano con continuità nelle esecuzioni. Dopo la celebrazione diuna messa sul belvedere giuliese, tradizionalmente officiata dalvescovo della diocesi teramana, la processione fa rientro nel duomo.

Ma, se gli itinerari hanno subito nel tempo continue rivisitazioni,dettate da rinnovate esigenze territoriali che implicano una diversari-distribuzione del potere sacrale, nello svolgimento dei rituali vacomunque annotata una costante: la partecipazione degli abitanti diCologna. Un gemellaggio questo, fondato socialmente su scambieconomici, sancito dal mito e reiterato attraverso il pellegrinaggioannuale.21 Ancora oggi, come in passato, la fase centrale dei festeg-giamenti è innescata dal loro arrivo presso il duomo, e senza la loropresenza non è concesso dareavvio al corteo processionale.Tra i giuliesi permane vivo ilricordo dei cerimoniali di saluticon i quali venivano accolte lecompagnie dopo un duro cam-mino affrontato spesso a piedinudi.

Per tutta la durata del perio-do festivo, il santuario, e so-prattutto i bagni [vedi foto],diventano meta di nutriti grup-pi di devoti, spesso malati,spinti dalla speranza di ottene-re grazie e di guarigioni. LaMadonna dello Splendore,infatti, conta una fenomenolo-

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21. La partecipazione dei colognesi al culto pellegrinale è stata rafforzata da un’ulte-riore variante leggendaria che li vuole cotestimoni oculari dello splendore che si mani-festò a Bertolino quel lontano 22 aprile.

gia miracolistica tanto lungaquanto densa,22 soprattuttoriconducibile al potere tau-maturgico dell’acqua.

Secondo la tradizione, lasorgente sgorgata ai piedidell’olmo dimostrò “dasubito” di avere proprietàterapeutiche, avendo resti-tuito “la favella” all’aggres-sore di Bertolino; fu per que-sto motivo che si decise dierigervi tutt’intorno il san-tuario. Dall’altare maggioreil flusso sorgivo, attraversoun canale sotterraneo, anda-va a riversarsi prima in unpozzo all’interno dellasagrestia, quindi in un ter-minale esterno al luogo diculto. Grazie all’interessa-

mento dei Padri Cappuccini, il pozzo, come pure l’antica fontana,sono stati restaurati e l’acqua è stata convogliata in sei cannelle aflusso continuo. Dalle vasche di raccolta essa fluisce poi in unapiccola piscina, destinata alle abluzioni curative.

I rituali idroiatrici sono multiformi e variano a seconda della gra-vità e della tipologia della malattia. Alcuni devoti si limitano a berel’acqua, altri la utilizzano per aspergere le parti malate del corpo,altri ancora ne riempiono delle bottiglie da conservare a scopo pre-ventivo e apotropaico. Alla Madonna dello Splendore non si attri-buiscono altri patrocini e la sua acqua costituisce una sorta di pana-

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L’acquaL’acqua costituisce sicuramentel’elemento naturale che più di ognialtro ha avuto rappresentativitàsacra nell’ambito di moltissimereligioni. Nell’universo cattolicoessa è stata di sovente associata,oltre che a Cristo, alla figura diMaria. Lourdes rappresenta sicura-mente il contesto più noto in meri-to, tuttavia culti mariani legati alpotere taumaturgico dell’acquasono diffusi in tutta Europa e sonoaltresì numerosi nella nostraregione. Molto spesso, inoltre, lasorgente accompagna l’albero per-ché al pari di quest’ultimo apparecome un «miracolo letificante […]L’acqua della vita stimola la cre-scenza e la fecondità […] dispensavita eterna, produce miracoli esorprendenti effetti, e sbocca allafine nella comunione divina» (G.VAN DER LEEW, Fenomenologia dellareligione, Torino, Boringhieri,1975, p. 39).

22. Già il Capullo, nella sua cronaca, annovera numerosi miracoli, alcuni dei quali coin-volgenti anche esponenti acquaviviani. (Cfr. N. PALMA, op. cit., vol. III, pp. 79-81). Lafenomenologia miracolistica è riportata in modo dettagliato in RR. PP. CAPPUCCINI (acura di), op. cit., pp. 16-27.

cea. Tuttavia, fino agli inizidegli anni ‘90, la sorgente eranota per essere meta di nume-rosi indemoniati, che presso ilsantuario potevano sottoporsia rituali esorcistici.23

Accanto alle cerimonieliturgiche curative, il com-plesso festivo-rituale preve-de “da sempre” anche svaria-ti momenti dedicati agliintrattenimenti ludici.

Ancora una volta dallacronaca del Capullo, siapprende che già nel XVIsecolo al Capitano spettaval’onere di provvedere all’or-ganizzazione di tre seguitis-simi eventi: una corsa diuomini in costume adamiti-co, una lotta e una corsa dicavalli “barbari”. Di tuttequelle manifestazioni diforza e coraggio virili, è rima-sto solo un torneo ippico deicui significati ed origini si èdiscusso molto.24

MADONNA DELLO SPLENDORE 167

23. Una imponente statua bronzea di san Michele in atto di schiacciare il demonio,recante l’iscrizione: «All’arcangelo Michele, terrore dei demoni col sublime aiuto dellaVergine», sembrerebbe confermare questo aspetto cultuale.24. Non appare del tutto chiaro se la denominazione “barbari” sia da attribuire alla par-ticolare razza equina dei cavalli che potevano partecipare al torneo o alla presunta pro-venienza dei cavalieri. In quest’ultimo caso, alcuni giuliesi associano l’aggettivo al fattoche gli uomini impegnati nella corsa fossero nudi, sovrapponendo, però, due diversieventi. Per ulteriori interpretazioni in merito si rimanda a R. CERULLI, La corsa dei caval-li, in S. GALANTINI (a cura di), op. cit., pp. 29-31.

Il torneoTornei, giostre, quintane, palii ealtre competizioni similari chehanno luogo durante molte situa-zioni festive italiane possono esse-re considerati come forme coreo-grafiche da ricondurre alla cavalle-ria. Istituzione che, affondando leproprie radici nel mondo medieva-le, passò ad indicare gruppi diuomini (soprattutto cadetti esclusidal privilegio delle eredità) cheimpugnarono le armi e si strinserointorno a qualche signore, vinco-landosi a lui attraverso obblighietici e militari assunti attraversorituali iniziatici di investitura.Durante i periodi più bui delMedioevo, i cavalieri si fecero pro-tagonisti di azioni belliche inscena-te ad hoc (i tornei, appunto) che,riducendo il potenziale distruttivodella guerra nell’ambito di un con-testo ritualizzato, assolvevano aduna funzione “protettiva”: in que-sti scontri l’azione bellica veniva,infatti, teatralizzata e, terminandocon un verdetto pubblico, era ingrado di ristabilire la giustiziasenza eccessivi spargimenti disangue. Col tramonto dei sistemifeudali, la cavalleria perse tutte lesue funzioni agonistico-militari,per essere assorbita nella corniceludico-spettacolare delle cerimonie

Il percorso di questa gara,in virtù di quella tendenzacentripeta che sembra con-trassegnare le giornate com-memorative, viene predispo-sto lungo le arterie centralidel centro storico cittadino.Ciò, ovviamente, può darluogo a delle problematichedi carattere logistico e dipubblica sicurezza. Proble-matiche che, in alcune occa-sioni, hanno portato a so-spenderne l’organizzazione.

Ideografia dell’albero

L’ideografia arborea inerente al culto della Madonna delloSplendore non risulta di chiara configurazione, al contrario essamostra continue rivisitazioni, a volte frutto della tradizione elegate ai mutamenti degli aspetti simbolico-rituali, altre volte pro-dotte da ricostruzioni “arbitrarie” che sarebbero interessanteoggetto di approfondimento.

Analizzando il rapporto che intercorre tra elemento arboreo eimpianto cultuale emerge con evidenza come il primo non trovipiù alcuna collocazione nel secondo, se non in termini mitici ed ico-nografici. Infatti, per quanto concerne il livello simbolico-sacrale, lacollettività sembra aver del tutto accantonato il ricordo della com-ponente vegetale per dare invece centralità all’elemento idrico.

L’oblio ricaduto sull’albero troverebbe motivazione in un’ul-teriore leggenda, secondo la quale i suoi rami sarebbero statispezzati e suddivisi tra i fedeli come reliquie; solo il tronco sareb-be stato conservato, per poi essere murato all’interno dell’altaremaggiore e di conseguenza anch’esso “scomparso”. Dunque un

SANTE MARIE DEGLI ALBERI168

di corte. Soprattutto nei contestirinascimentale e barocco, questispettacoli miravano ad accrescerela magnificenza del signore ed ilsuo potere gerarchico, nel quadrodel recupero di valori “eroici”, frut-to della rifeudalizzazione verifica-tasi in Europa dalla fine delCinquecento. Il torneo usciva daicircuiti ad esso predisposti perarticolarsi lungo l’intero tessutourbano, dando vita a ricche coreo-grafie in grado di svolgere lanuova funzione di «intermezzoludico» delle cerimonie sacre. (E.RAINERO, P. SCHULTZ, Festa di popo-li. Mille anni di tornei in Italia,Firenze, SARIN, 1990, pp. 85-94).

tentativo di ridistribuzione sacrale cui consegue, paradossal-mente, la totale rimozione dell’elemento arboreo. Che rimaneoggi di quell’antico e mitico albero? Nulla. Se non l’acqua che nesgorgò.

Anche in termini di identificazione della sua specie, il proces-so esegetico risulta alquanto contraddittorio. Se da un lato trovia-mo una lunga tradizione che, partendo dal cronista Capullo, asso-cia l’albero della ierofania all’olmo, alcune ricostruzioni “critiche”operate dai Cappuccini concludono piuttosto curiosamente che,essendo il territorio privo di questa varietà, sicuramente avrebbedovuto trattarsi di un ulivo, specie che sarebbe invece alquantocomune. Tuttavia, la carenza attuale di ulmacee da sola non bastaa far proiettare la stessa situazione nel passato, soprattutto se siconsidera il fatto che l’ulmus minor è tutt’oggi molto diffuso sullearee collinari regionali e in particolare nelle località litoraneeadriatiche.25

Sulla base delle loro pur imprecise considerazioni, i custodi delluogo sacro hanno voluto ricostruire, nei recenti anni, la scenogra-fia epifanica nell’area antistante i bagni. Ne è protagonista una sta-tua bronzea di Bertolino, genuflesso, circondato da numerosi esem-plari di ulivo, [vedi foto p. 154] la cui disposizione non può nonrichiamare alla mente quella collina di Evangelica memoria.

È dunque legittimo chiedersi se non sarebbe più confacente leg-gere in questo rinnovato interesse un tentativo di “cristologizzare”questo aspetto del culto, sottacendo l’elemento arboreo originario,indubbiamente connesso a credenze e ritualità pre-cristiane, ine-renti i culti di divinità femminili.

MADONNA DELLO SPLENDORE 169

25. Cfr. G. PIRONE, op. cit., pp. 150-152.

APPENDICE

APPENDICE 173

Denominazione Località Specie arborea Data delladel numen sede del culto ierofanica leggenda

fondazione

Madonna dei Miracoli Casalbordino (CH) Quercia 11 giugno 1576Madonna del Colle Molina Aterno (AQ) Mandorlo Non definitaMadonna del Crognale Propezzano Corniolo 10 maggio 751

di Morro d’Oro (TE)Madonna dell’Alno Canzano (TE) Pioppo bianco 18 maggio 1480Madonna dell’Assunta Casacanditella (CH) Quercia 15 agosto 1058Madonna dell’Elcina Abbateggio (PE) Leccio XV-XVI secoloMadonna della Lanna Villavallelonga (AQ) Acero Non definitaMadonna della Mazza Pretoro (CH) Abete XIV-XV secoloMadonna della Strada Scerni (CH) Fico XIV-XV secoloMadonna della Valle Taranta Peligna (CH) Quercia XV secoloMadonna delle Grazie Ari (CH) Fico XVI-XVII secoloMadonna dello Splendore Giulianova (TE) Olmo 22 aprile 1557Madonna di Carpineto Rapino (CH) Carpino XII-XIII secoloMadonna di Castellana Castellana Non definita IX secolo

di Pianella (PE)Madonna sull’Altare Palena (CH) Quercia XIV-XV secoloMater Domini Fraine (CH) Quercia 31 maggio

(sec. XIII?) S.ma Maria del Carmine Tornareccio (CH) Non definita XVI secoloSanta Maria in Basilica Villa Santa Maria (AQ) Non definita VIII secolo

REPERTORIO DELLE MADONNE ARBOREE ABRUZZESI

SANTE MARIE DEGLI ALBERI174

ELENCO DI ALCUNE MADONNE ARBOREE IN ITALIA

SPECIE ARBOREA INTERESSATA DAL CULTO: NON SPECIFICATA

Denominazione del numen Località sede del culto Regione

Madonna del Bosco Montemilone (PZ) BasilicataMadonna dei Boschi Monghidoro (BO) Emilia RomagnaMadonna del Bosco Fornò (FO) Emilia RomagnaMadonna del Boschetto Camogli (GE) Liguria Madonna del Bosco Pannesi di Lumarzo (GE) LiguriaBeata Vergine del Bosco Calvenzano (BG) LombardiaBeata Vergine del Bosco Imbersago (CO) LombardiaMadonna de Boschetto Castelmella (BS) Lombardia Madonna del Bosco Spino d’Adda (CR) LombardiaMadonna dell’Albero Gorla Minore (MI) LombardiaMadonna del Boschetto Arborio (VC) PiemonteMadonna dei Boschi Boves (CN) PiemonteMadonna dei Boschi Peveragno (CN) PiemonteMadonna dei Boschi Vezza d’Alba (CN) PiemonteMadonna del Bosco Ozegna (TO) PiemonteMadonna del Bosco Spinazzola (BA) PugliaSanta Maria del Bosco Panni (FG) PugliaMadonna del Bosco Sassari SardegnaMadonna del Bosco Buscemi (SR) SiciliaMadonna del Bosco Contessa Entellina (PA) SiciliaSanta Maria del Bosco Niscemi (CL) SiciliaMadonna del Bosco San Romano (LU) Toscana

SPECIE ARBOREA INTERESSATA DAL CULTO: ACERO

Denominazione del numen Località sede del culto Regione

Madonna dell’Acero Lizzano in Belvedere (BO) Emilia RomagnaMadonna dell’Acero Fanano (MO) Emilia RomagnaMadonna dell’Acero Monticello di Pievelago (BO) Emilia Romagna

APPENDICE 175

SPECIE ARBOREA INTERESSATA DAL CULTO: BIANCOSPINO

DENOMINAZIONE DEL NUMEN LOCALITÀ SEDE DEL CULTO REGIONE

Madonna della Verrecchia Zocca (MO) Emilia Romagna

SPECIE ARBOREA INTERESSATA DAL CULTO: FAGGIO

Denominazione del numen Località sede del culto Regione

Beata Vergine delle Grazie Verica di Pavullo (MO) Emilia RomagnaMadonna del Faggio Castelluccio (BO) Emilia RomagnaMadonna del Faggio Porretta (BO) Emilia RomagnaMadonna del Faggio Monte Carpegna (PS) Marche

SPECIE ARBOREA INTERESSATA DAL CULTO: CARPINE

DENOMINAZIONE DEL NUMEN LOCALITÀ SEDE DEL CULTO REGIONE

Madonna di Carpineto Pieve Torina (MC) Marche

SPECIE ARBOREA INTERESSATA DAL CULTO: FRASSINO

Denominazione del numen Località sede del culto Regione

Madonna del Frassino Oneta (BG) Lombardia Madonna del Frassino Ornica (BG) Lombardia Madonna del Frassino Peschiera del Garda (VR) Veneto

SPECIE ARBOREA INTERESSATA DAL CULTO: OLMO

Denominazione del numen Località sede del culto Regione

Santa Maria dell’Olmo Cava de’ Tirreni (SA) CampaniaBeata Vergine dell’Olmo Montecchio (RE) Emilia RomagnaMadonna dell’Olmo Budrio (BO) Emilia RomagnaMadonna dell’Olmo Piumazzo di Castelfranco (MO) Emilia RomagnaBeata Vergine dell’Olmo Verdellino (BG) LombardiaMadonna dell’Olmo Madonna dell’Olmo (CN) PiemonteMadonna dell’Olmitello Deliceto (FG) PugliaMadonna dell’Olmo Casacastalda (PE) UmbriaMadonna dell’Olmo Thiene (VI) Veneto

SANTE MARIE DEGLI ALBERI176

SPECIE ARBOREA INTERESSATA DAL CULTO: PINO

DENOMINAZIONE DEL NUMEN LOCALITÀ SEDE DEL CULTO REGIONE

Madonna del Pino Cervia (RA) Emilia Romagna

SPECIE ARBOREA INTERESSATA DAL CULTO: PIOPPO

Denominazione del numen Località sede del culto Regione

Madonna della Pioppa Ospitale di Bondeno (FE) Emilia Romagna Madonna della Pioppa Castel Guelfo (BO) Emilia Romagna

SPECIE ARBOREA INTERESSATA DAL CULTO: QUERCIA

Denominazione del numen Località sede del culto Regione

Madonna della Quercia San Fele (PZ) BasilicataMadonna della Quercia Conflenti (CZ) CalabriaQuercia di Maria Benevento CampaniaMadonna del Ghiandolino Imola (BO) Emilia RomagnaMadonna della Guardia Montarsolo di Corte Brugnatella (PC) Emilia RomagnaMadonna della Quercia Bettola (PC) Emilia RomagnaMadonna della Quercia Morrovalle (MC) Emilia RomagnaMadonna della Rovere Nonantola (MO) Emilia RomagnaMadonna della Sassola Campogalliano (MO) Emilia RomagnaMadonna della Quercia Marano Equo (RM) LazioMadonna della Quercia Nerola (RM) LazioMadonna della Quercia Poggio Moiano (RI) LazioMadonna della Quercia Viterbo LazioMadonna delle Cese Collepardo di Frosinone LazioMadonna della Rovere San Bartolomeo al Mare (IM) LiguriaMadonna del Cerro Sassoferrato (AN) MarcheMadonna della Cerqua Cese di Montefortino (AP) MarcheMadonna della Quercia Mondovalle (MC) MarcheMadonna della Quercia Ripalta (AN) MarcheMadonna della Venza Cerreto d’Esi (AN) MarcheSanta Maria della Quercia Mondavio (PS) Marche Madonna della Quercia Trivento (CB) Molise

APPENDICE 177

Denominazione del numen Località sede del culto Regione

Madonna della Rovere Cossano Belbo (CN) PiemonteMadonna dell’Incoronata Foggia PugliaMadonna della Quercia Abbondanza (BA) PugliaMadonna della Quercia Fucecchio di Altopasso (FI) ToscanaMadonna delle Querce Castiglione d’Orcia (SI) ToscanaSanta Maria delle Querce Lucignano (AR) ToscanaMadonna dei Bagni Deruta (PG) UmbriaMadonna del Bagno Casalina (PG) UmbriaMadonna del Cerqueto Campi di Norcia (PG) UmbriaMadonna del Cerro Rotondo (PG) UmbriaMadonna della Quercia Allerona (TR) UmbriaMadonna della Quercia Monteleone di Spoleto (PG) UmbriaMadonna della Quercia Narni (TR) UmbriaMadonna della Quercia Norcia (PG) Umbria

SPECIE ARBOREA INTERESSATA DAL CULTO: SALICE

DENOMINAZIONE DEL NUMEN LOCALITÀ SEDE DEL CULTO REGIONE

Santa Maria del Salice Alberone (FE) Emilia Romagna

SPECIE ARBOREA INTERESSATA DAL CULTO: TIGLIO

DENOMINAZIONE DEL NUMEN LOCALITÀ SEDE DEL CULTO REGIONE

Santa Maria del Tiglio Gravedona (CO) Lombardia

SPECIE ARBOREA INTERESSATA DAL CULTO: ULIVO

Denominazione del numen Località sede del culto Regione

Madonna della Olivella S. Elia Fiume Rapido (FR) LazioMadonna dell’Olivello Veroli (RM) LazioMadonna dell’Ulivo Bacezza di Chiavari (GE) LiguriaNostra Signora delle Olivette Arenzano (GE) LiguriaNostra Signora dell’Ulivo Brugnato (SP) Liguria

179

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NEL MESE DI NOVEMBRE 2002PER CONTO DI ANDROMEDA EDITRICE SRL, COLLEDARA (TE)