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febbraio 19, 2013
Caro Federico Gon,
ecco il layout definitivo. La prego di rileggere tutto accuratamente. Sono tutti
i dettagli tipografici corretti? Come sono le separazioni di parole alla fine
delle righe?
Ed è corretto:
“per facilitare la comprensione della veste musicale, l’Allegro è stato
evidenziato in carattere normale, l‟Andante in lettere spaziate ed il recitativo
è sottolineato: “ ???
E poi, ho bisogno di una piccola biografia.
2
Il finale centrale de La clemenza di Tito:
ipotesi per un percorso interpretativo
Federico Gon Se accusarmi il mondo
vuol pur di qualche errore,
m'accusi di pietà,
non di rigore
(Atto II, scena 10)
Da sempre La clemenza di Tito presenta una serie di problematiche tra loro
correlate, quali la cronologia di composizione dei vari numeri1, l’effettivo
protagonismo di Tito2 ed il particolare impianto tonale ideato da Mozart.
3
Non ultimo vi è una vexata quaestio di ordine drammaturgico relativa al
finale centrale “Deh conservate, o dei” (n. 12) che presenta evidenti ripercus-
sioni sulle scelte registiche e scenografiche: la collocazione spaziale del coro
che fa da contraltare al quintetto di voci soliste. Tale disposizione è assai
delicata e della massima importanza, essendo questo il punto di maggior
pathos dell’intero lavoro, con l’incendio del Campidoglio ed il presunto
assassinio di Tito.
La scena è appena cambiata, non si è più nel Ritiro Imperiale sul Colle
Palatino: la didascalia recita Parte del Foro Romano magnificamente ador-
nato d‟archi, obelischi e trofei; in faccia, aspetto esteriore del Campidoglio,
e magnifica strada, per cui si ascende.4 Siamo perciò in presenza di una
________________
Il presente studio nasce nell’ambito del seminario mozartiano curato dalla Scuola di Dottorato in
Beni artistici, musicali e dello spettacolo dell’ Università di Padova (2011), presentato poi al
XIX Convegno della Società Italiana di Musicologia (Milano, 2012). A latere, un personale
ringraziamento va a Cristina Bernardi per aver condiviso alcuni suoi interessanti spunti di
riflessione. 1 Si veda Alan Tyson, La Clemenza di Tito and Its Chronology in: Musical Times 115,
1975, pp. 221-227; Sergio Durante, The Chronology of Mozart's „La clemenza di Tito‟ Recon-
sidered, in: Music and Letters, 80, 1999, pp. 560-593.
2 Sul peso delle “convenienze teatrali” di Tito e Vitellia (quest’ultima a fregiarsi addirittura
del vero pezzo di bravura dell’opera, il rondò “Non più di fiori”, n. 23) connesso alle vicissitu-
dini compositive (la parte di Tito in origine avrebbe dovuto essere affidata ad un musico, poi
riservata a Sesto) si veda l’introduzione musicologica al facsimile della partitura, a cura di
Sergio Durante (nota 4).
3 Daniel Heartz, Mozart‟s Ouverture to Tius as Dramatic Argument, in: Musical Quarterly
64, n. 1, 1978, p. 29-49
4 Tanto per il libretto quanto per la partitura si è fatto riferimento a La Clemenza di Tito:
K.621, facsimile of the autograph score. Introductory essay by Joachim Kreuzter; musicological
introduction by Sergio Durante. Los Altos, The Packard Humanities Institute, 2008, nonché
all’edizione critica curata da Franz Giegling per la Neue Mozart-Ausgabe (1994).
3
cosiddetta “scena lunga”5 che impegna il palcoscenico nella sua massima
profondità. Vi entra solingo Sesto, preso da mille dubbi sulla propria condotta
morale (ha infatti fomentato i rivoltosi contro Tito, su consiglio di Vitellia).
Egli, dopo aver incontrato l’amico Annio, esce di scena per cercare di fer-
mare la rivolta. Nel frattempo giungono prima Servilia (che narra di aver
appena visto il Campidoglio in fiamme), indi Publio (che teme per
l’incolumità di Tito) e la stessa Vitellia (colta dai rimorsi per aver ordito la
rivolta nei confronti di colui che – ma lei lo è venuta a sapere solo dopo – l’ha
nominata sua Consorte Augusta). Si odono le grida del popolo romano che è
partecipe del disastroso incendio; Sesto ritorna e racconta che Tito,
l’amatissimo imperatore, è stato ucciso, ma sul punto di confessare viene
fermato da Vitellia, per paura che egli ne riveli il ruolo di mandante. Sia i
personaggi che il coro compiangono – su un geniale diminuendo acustico –
l’amara sorte di Roma e del sovrano.
Mozart affida ad un recitativo accompagnato le iniziali ansie di Sesto
(recitativo a sé, segnato col numero 11)6, organizzando poi l’ultimo numero
in un “Quintetto con Coro” bipartito, Allegro ed Andante, entrambi interpolati
da alcuni brani di recitativo accompagnato. Si riporta di seguito il testo del
libretto; per facilitare la comprensione della veste musicale, l’Allegro è stato
evidenziato in carattere normale, l‟Andante in lettere spaziate ed il recitativo
è sottolineato:
No. 12 - Quintetto con coro
SESTO
Deh, conservate, oh Dei,
A Roma il suo splendor,
Oh almeno i giorni miei
Coi suoi troncate ancor.
ANNIO
Amico, dove vai?
SESTO
Io vado... lo saprai
Oh Dio, per mio rossor.
Ascende frettoloso nel Campidoglio.
________________
5 Per un discorso più ampio si veda Mercedes Viale Ferrero, Gli allestimenti scenici delle
opere in musica composte da Mozart o viste da Mozart in Italia, in Atti del XIV congresso della
Società Internazionale di Musicologia, Bologna, 1987: Trasmissione e recezione delle forme di
cultura musicale. Vol. 3. Torino, EDT, 1990, pp. 293-306.
6 Tale numerazione è quella attuata dalla NMA, diversa da quella dell’autografo:
nell’originale, il presente recitativo (come tutti gli altri dell’opera) non ha numero, mentre il
quintetto che segue (“Deh conservate o dei”) ha il n. 9 e non il 12.
4
SCENA XI
ANNIO
lo Sesto non intendo...
Ma qui Servilia viene.
SERVILIA
Ah, che tumulto orrendo!
ANNIO
Fuggi di qua mio bene.
SERVILIA
Si teme che l'incendio
Non sia dal caso nato,
Ma con peggior disegno
Ad arte suscitato.
CORO
in distanza
Ah!...
PUBLIO
V'è in Roma una congiura,
Per Tito ahimè pavento;
Di questo tradimento
Chi mai sarà l'autor.
CORO
Ah!...
SERVILIA, ANNIO, PUBLIO
Le grida ahimè ch'io sento ...
CORO
Ah!...
SERVILIA, ANNIO, PUBLIO
... Mi fan gelar d'orror.
Vitellia entra
CORO
Ah!...
SCENA XII
VITELLIA
Chi per pietade oh Dio!
M'addita dov' è Sesto?
(In odio a me son'io
Ed ho di me terror.)
SERVILIA, ANNIO, PUBLIO
Dì questo tradimento
Chi mai sarà l'autor.
CORO
Ah!... ah!...
5
VITELLIA, SERVILIA, ANNIO, PUBLIO
Le grida ahimè ch'io sento
Mi fan gelar d'orror.
CORO
Ah!... ah!...
Sesto scendé dal Campidoglio
SCENA XIII
SESTO
(Ah, dove mai m'ascondo?
Apriti, oh terra, inghiottimi,
E nel tuo sen profondo
Rinserra un traditor.)
VITELLIA
Sesto!
SESTO
Da me che vuoi?
VITELLIA
Quai sguardi vibri intorno?
SESTO
Mi fa terror il giorno.
VITELLIA
Tito?...
SESTO
La nobil alma
versò dal sen trafitto.
SERVILIA, ANNIO, PUBLIO
Q u a l d e s t r a r e a m a c c h i a r s i
P o t é d ' u n t a l d e l i t t o ?
SESTO
F u l ' u o m p i ù s c e l l e r a t o ,
L ' o r r o r d e l l a n a t u r a ,
F u . . .
VITELLIA
Taci forsennato,
Deh, non ti palesar.
VITELLIA, SERVILIA, SESTO, ANNIO, PUBLIO
A h d u n q u e l ' a s t r o è s p e n t o ,
D i p a c e a p p o r t a t o r .
TUTTI e CORO
O h n e r o t r a d i m e n t o ,
O h g i o r n o d i d o l o r !
6
La dinamica dell’azione le rispettive sortite e posizioni dei personaggi sono
chiare; il coro viene definito sull’autografo “Coro in distanza” (b. 47), poi
semplicemente “Coro”, inteso ragionevolmente sempre e comunque “in
distanza”, anche perché a b.112 (alla ripresa dell’Andante sulle parole “Ah
dunque l’astro è spento”) lo si definisce “Coro in Lontananza”.7 Il libretto
della prima non fa di queste distinzioni, limitandosi a definirlo “Coro in
distanza” sul primo degli “Ah!”, o genericamente “Coro”. In mancanza di
ulteriori indicazioni è ragionevole immaginare che esso sia fuori scena
nell’Allegro e vi entri, a corollario del quintetto, all’inizio dell’Andante.
Gli “Ah!” peraltro non rientrano in alcuna logica metrica: il verso in questo
punto del dramma è settenario, ed anche qualora si volesse considerare il
metro dei versi spezzati (regolare ad esempio in “Fu…| taci forsennato), gli
“Ah!” non rientrerebbero in questa metrica; se ne potrebbe dedurre che, pur
essendo l’intera scena invenzione di Mazzolà – abile a ricucire assieme dei
versi che in Metastasio imbastivano un semplice recitativo – le esclamazioni
del coro siano farina del sacco di Mozart 8.
L’ambiguità di questa pagina e le relative non troppo convincenti soluzioni
sceniche via via adottate sono state oggetto delle indagini della maggior parte
di coloro che si sono avvicinati criticamente all’ultima fatica melodrammatica
mozartiana; Edward Dent9 e John Rice ritengono ad esempio che il coro
________________
7 La NMA della Clemenza di Tito (curata da Franz Giegling) omette – a torto – questa
seconda definizione, qualificandola come ridondante ed incorretta, cfr. Sergio Durante, Musico-
logical Introduction 2008, cit. p. 23.
8 Tesi avvalorata dall’uso che Mozart stesso ne fa al termine del presente Quintetto con
coro: alle bb. 158 e 160, le ultime parole di Vitellia (“Di dolor”) vengono sostenute dal coro, il
quale canta un “Oh” sommesso e commovente che, così isolato,è del tutto assente nel libretto (la
chiara origine è nell’incipit dei versi “Oh nero tradimento / Oh giorno di dolor”). Sull’ar-
gomento, Manfred Hermann Schmid, The Choral Settings in Mozart's La clemenza di Tito, in:
D‟une scène à l‟autre. L‟operéra italien en Europe, 2 volumes,a cura di Damien Colas e Ales-
sandro di Profio. Wavre, Mardaga, 2009, vol. 2, p. 141-151. L’ipotesi – condivisibile – di
Schmid è che il libretto della prima praghese riporti gli “Ah!” poiché tratto non dal libretto
originale manoscritto, bensì dalla partitura d’uso per l’orchestra.
9 Il testo merita di essere proposto quasi interamente, in virtù di alcune considerazioni che
torneranno utili nel prosieguo dell’indagine: “Questo finale è assai importante poiché è il primo
in cui Mozart abbia combinato in un grande brano d’insieme voci solistiche e coro. […] Qui il
coro è un elemento del dramma. Si comincia con l’angosciata perplessità dei personaggi princi-
pali; improvvisamente il grido, ancora in lontananza, del popolo terrorizzato fa capire a noi e ai
protagonisti, che Roma è in fiamme. Quest’idea è senza dubbio un’invenzione di Mozart, poiché
il popolo non ha null’altro da dire se non quell’ Ah! Tremendamente drammatico. […]
Quest’ultimo [il coro] non è però introdotto con lo scopo di rafforzare il volume sonoro. Non si
potrebbe neppure dire, a rigore, che venga introdotto: rimane costantemente “in lontananza” pur
avvicinandosi progressivamente. Il coro canta in antifona col gruppo dei solisti, e Mozart fa sì,
con la massima attenzione, che i secondi non vengano mai sopraffatti dal primo” (Edward J.
Dent, Mozart‟s Operas, London, Chatto & Windus, 1913; trad. it. Il teatro di Mozart, a cura di
Paolo Isotta, Milano, Rusconi, 1994, pp. 302-303).
7
debba rimanere sempre in quinta, data appunto l’assenza sull’autografo di
specifiche direttive a proposito;10
al contrario Stefan Kunze11
o Sergio Du-
rante12
(quest’ ultimo basandosi anche sul libretto della prima viennese del
1795, in forma di concerto)13
, ipotizzano che il coro, nell’Allegro, sia ben
visibile sul fondo della scena, e si sposti gradualmente verso il proscenio
nell’Andante, escludendo categoricamente che possa rimanere per tutta la
durata del numero dietro le quinte.
Un diverso punto di vista coinvolge tuttavia altri aspetti, di ordine dram-
maturgico; tutta la scena, dall’entrata dell’irrequieto Sesto fino al breve reci-
tativo accompagnato di Vitellia (“Taci forsennato”) segue i ritmi del tempo
reale ossia, per dirla con Carl Dahlhaus, il “tempo della narrazione” e il
“tempo della rappresentazione”14
coincidono, risultano sincroni: i personaggi
entrano a turno e comunicano – tra loro ed a noi – chi il suo sbigottimento
(Annio), chi la cronaca degli avvenimenti a noi invisibili in scena (Servilia e
Publio, usando l’espediente della ticoscopia)15
, chi i suoi timori (Sesto e
Vitellia); l’uso stesso della formula del recitativo accompagnato è indice che
ciò che accade sia effettivamente una porzione di tempo reale16
, lamenti del
coro compresi.
Il discorso cambia per l’Andante conclusivo. È pur vero che esso è seman-
ticamente ed espressivamente la diretta conseguenza della notizia della morte
di Tito rivelata da Sesto; tuttavia non bisogna dimenticare che questa notizia ________________
10 John A. Rice, W. A. Mozart, La clemenza di Tito, Cambridge, Cambridge University
Press, 1991, p. 129.
11 Stefan Kunze, Il teatro di Mozart: dalla Finta semplice al Flauto magico. Venezia, Mar-
silio, 1990, p. 669 e ss.
12 Sergio Durante, Le Scenographie di Pietro Travaglia per “La clemenza di Tito” (Praga,
1791). Problemi di Identificazioni ed Implicazioni, in: MJb 1994, pp. 157-169.
13 Tale libretto – stampato da Schönfeld – definisce gli “Ah!” come “Gridi del populo [sic]
tra le fiamme”, cfr. Sergio Durante, Le Schenographie di Pietro Travaglia 1994, p. 166.
14 Carl Dahlhaus, Le strutture temporali nel teatro d‟opera, in La drammaturgia musicale, a
cura di Lorenzo Bianconi, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 183-193.
15 Si noti che nell’originale metastasiano, tutta la presente scena non è agita, ma più sempli-
cemente riferita in ticoscopia da Publio; per un confronto tra le versioni Metastasio e Mazzolà
nonché per un excursus storico sul plot della vicenda di Tito Vespasiano si vedano i seguenti
testi: Franz Giegling, Metastasios Oper 'La clemenza di Tito' in der Bearbeitung durch Maz-
zolà, in: MJb 1968/70, pp. 88-94; Robert Moberly, The influence of French classical drama on
Mozart's 'La clemenza di Tito', in: Music and letters 55, 1974, pp. 286-98; Helga Lühning,
Titus-Vertonungen im 18. Jahrhundert. Untersuchungen zu Tradition der Opera Seria von
Hasse bis Mozart. Regensburg, 1983; Don Neville, La clemenza di Tito and Metastasian opera
seria, Ph.D. dissertation, Cambridge University, 1986; Wilhelm Seidel, Seneca – Corneille –
Mozart. Questioni di storia delle idee e dei generi nella “Clemenza di Tito”, in: Mozart, a cura
di S. Durante, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 345-366; Sergio Durante, Mozart and the Idea of
“Vera opera”: A Study of La clemenza di Tito, Ph.D, dissertation, Harvard University, 1993.
16 “[…] nel recitativo il tempo della forma musicale coincide suppergiù col tempo dei con-
tenuti reali rappresentati” (Carl Dahlhaus, Le strutture temporali 1986, p. 183).
8
non corrisponde a realtà (Sesto ha accoltellato l’uomo sbagliato) e l’uditorio
lo sa benissimo: trattandosi di opera encomiastica, il sovrano difficilmente
potrebbe perirvi. La prova è che l’atto si conclude sulla tonalità di Mi
bemolle maggiore17
(e non con una funebre tonalità minore, alla stregua del
drammatico Do minore del recitativo accompagnato di Sesto che precede la
scena ultima), chiaro segnale retorico – musicale, quasi il compositore tenda a
sdrammatizzare la situazione e sottolineare la non avvenuta morte di Tito. A
questo si aggiunga che il “tempo della rappresentazione” e quello “della
narrazione” perdono nell’Andante finale quella sincronicità che avevano
nell’Allegro: il reale minutaggio della scena ingigantisce un istante di com-
pianto che nella realtà fisica durerebbe non più di pochi secondi, una sorta di
sospensione temporale alla quale gli insiemi ed i concertati delle opere del
Sette-Ottocento ci hanno ben abituati18
, con i personaggi che smettono di
essere parte della narrazione e si trasformano in attonite vittime o esegeti
della stessa.19
A suffragio di tale lettura vi è anche la fondamentale questione percettiva
dell’incendio: mentre nell’Allegro esso si palesa distintamente – grazie non
solo alle parole di Servilia “Si teme che l’incendio, etc…” ma anche alla reto-
rica musicale 20
– nell’Andante sembra essersi del tutto spento, cosa incredi-
bile qualora si leggesse la scena con gli occhi di una verosimiglianza aderente
al “tempo della narrazione”. Ergo, sia i commenti del quintetto che del coro
dovrebbero essere letti con la consapevolezza che essi appartengono ad un
livello narrativo superiore, slegato dall’aderente corrispondenza con quanto
starebbe effettivamente accadendo al Campidoglio; la stessa semplice ierati-
cità degli “Ah!” fa pensare ad un idea quasi contenuta di clamore, difficile da
________________
17 Stessa tonalità della precedente entrata trionfante di Tito in scena, (Marcia e Coro “Ser-
bate, oh Dei, Custodi”, NMA nn. 4 -5).
18 Sull’argomento Lorenzo Bianconi, “Confusi e stupidi”: di uno stupefacente (e banalis-
simo) dispositivo metrico, in: Gioachino Rossini. Il testo e la scena, 1792-1992, Atti del Con-
vegno internazionale di studi, Pesaro, 25-28 giugno 1992, a cura di P. Fabbri, Pesaro, Fonda-
zione Rossini, 1994, pp. 129-161; Marco Beghelli, La retorica del rituale nel melodramma
ottocentesco, Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, 2003; Paolo Russo, Largo al Con-
certato! Alle origini del “quadro di stupore”, in: Il Saggiatore musicale, 15/1, 2008, pp. 33-66.
19 Distacco che investe anche il campo semantico: infatti il coro, sulle parole “di dolor” del
quintetto, si produce in un generico “Oh!” che è invenzione mozartiana (il libretto non lo pre-
scrive se non nell’incipit del testo – ma senza punto esclamativo, perciò non inteso come escla-
mazione a sé – di “Oh nero tradimento”).
20 Ossia l’uso di tonalità minore, tremoli degli archi, rapide scale e arpeggi, strappate dei
bassi; tutto ciò concorre sin dall’incipit strumentale del recitativo accompagnato di Sesto
all’idea di un fuoco che si sviluppa pian piano fino a deflagrare (secondo una mimesi che
Mattheson nel Vollkommener Kapellmeister,1739, avrebbe definito locus descriptionis, visto
l’utilizzo della figura retorica chiamata hypotiposis, cfr. Hans-Heinrich Unger, Musica e reto-
rica fra 16. e 18. secolo, Firenze, Alinea, 2003, pp. 82; 134).
9
correlare al terrore di una folla che, sullo sfondo, si agita perché a rischio di
carbonizzazione.
Di conseguenza, mentre il quintetto reagisce indiscutibilmente alla notizia
ferale portata da Sesto (il riferimento a Tito è chiarissimo ne “Ah dunque
l’astro è spento”), potrebbe essere che il coro non faccia altrettanto, con quel
“Oh nero tradimento, o giorno di dolor” riferito non alla morte di Tito ma ad
un’idea generica e superiore di calamità in atto, tant’è ad es. che la parola
“tradimento” (riconducibile effettivamente all’assassinio) viene usata anche
da Publio per designare la situazione ben prima di sapere della morte di Tito,
perciò riferita senza dubbi al tumulto in sé.
Questa situazione drammaturgica potrebbe avvalorare la tesi che il coro
non compaia mai in scena, in qualsivoglia ottica lo si veda, aderenza scenico-
narrativa compresa; se decidessimo che esso sia in ogni caso partecipe di un
qualche cosa che avviene all’esterno – e che noi non vediamo – il coro
dovrebbe comunque essere il primo a sapere che non Tito ma Léntulo è stato
ferito: il quintetto invece, che è all’interno del Foro, deve fidarsi dell’inesatto
reportage di Sesto. Volendo perseguire la strada della verisimiglianza, se il
popolo in effetti piange qualcosa che ha visto e non si limita genericamente
ad echeggiare lo strazio del quintetto, questo qualcosa sono l’incendio e la
sommossa, giammai il regicidio. E se il quintetto – né più e né meno di
quanto farebbe lo spettatore in sala – avesse la possibilità di vedere il popolo
che sul fondo scena si agita “tra le fiamme”, avrebbe senso la ticoscopia di
Servilia?
L’idea centrale è quella di uno spazio ipotetico diviso nettamente in due,
con il coro che resta sempre invisibile allo spettatore (perciò all’esterno dello
spazio scenico) mentre il quintetto viene inserito in una sorta di spazio chiuso
più psicologico che reale21
, giacché si è comunque nella pubblicità del Foro.
Inoltre dietro (Travaglia docet) il Campidoglio lo si intravede ed è un cosid-
detto praticabile, tant’è che – da didascalia – Sesto vi “ascende frettoloso”.
La solitudine drammatica del quintetto rispetto all’azione viene sottolineata
– oltre che dalla ticoscopia di Servilia e dal racconto di Sesto – da altri parti-
colari, quali il riferirsi ai tumulti come “le grida ahimé ch’io sento” (e non a
qualcosa di visibile), o le parole di Sesto “mi fa terror il giorno”, come se si
fosse defilato dallo spazio aperto del tumulto per cercare di trovar pace in un
luogo meno esposto.22
________________
21 “Mozart ha ingegnosamente innestato l’una nell’altra e nel contempo ha tenuto distinte le
due sfere: l’azione dei personaggi sul palcoscenico e la fatale catastrofe sullo sfondo” (Stefan
Kunze, Il teatro di Mozart 1990, p. 670).
22 Una visione basata sul rango degli attanti imporrebbe inoltre una certa distanza tra il coro
(che si suppone formato dalla plebe dell’Urbe) e il quintetto (formato da patrizi vicini
all’Imperatore).
10
Questa particolare lettura drammaturgica è in linea con alcune circostanze
sceniche ed acustiche che traspaiono dalla partitura; le grida del popolo
nell’Allegro iniziale sono secche, improvvise e cantate a volumi piuttosto alti
(l’autografo non prescrive un’intensità precisa, ma la “distanza”, il punto
esclamativo degli “Ah!” e la drammaticità della scena fanno propendere per il
f ).23
Il coro che invece interviene nell’Andante ha volumi diametralmente
opposti: anche qui manca un’indicazione precisa, ma l’orchestra, suonando in
p fornisce la soluzione su quale sia l’intensità necessaria. Il popolo però non
si limita solo a cantare in p: sulle parole “Tradimento” si produce in un f che,
visto il generale tenore sommesso della scena, sortisce un raro e sottile ef-
fetto, doloroso e straniante assieme.
Il dubbio tuttavia sorge: se effettivamente il coro è da considerarsi in scena
ma “in lontananza”, non avrebbe avuto alcun problema a cantare gli “Ah!” e i
“Tradimento”, che sono in f; ma le frasi in p, che prevedono – seppur in tono
sommesso – l’uso di tutta l’orchestra al completo ed in alcuni punti il so-
vrapporsi del quintetto vocale?24
Il palco del Teatro Nazionale praghese
(luogo deputato alla prima esecuzione) doveva essere di dimensioni eccezio-
nalmente grandi estendendosi in profondità quanto la platea stessa (20 m di
profondità con sette ordini di quinte)25
col solo proscenio a misurare più di
120 mq:26
un coro che posto nel fondo scena avesse cantato in p avrebbe
avuto serie difficoltà a farsi udire persino dalle prime file, problema estraneo
al quintetto solista, che in questa circostanza si posiziona solitamente in
prossimità del pubblico in platea.
Si deve dunque ipotizzare che, mentre nell’Allegro il coro possa essere
effettivamente collocato invisibile sul fondo scena (o comunque dietro la
scenografia assai voluminosa del Campidoglio “praticabile”), esso cambi
posizione per l’Andante. Ciò significa il ritorno all’idea originaria di un
popolo che, a questo punto, entra fisicamente in scena?
________________
23 Soluzione dinamica adottata dalla NMA e dalla totalità degli allestimenti teatrali.
24 Come giustamente sottolinea Hermann Abert, “la differenza con un finale buffo balza
subito agli occhi, giacchè non si tratta qui di un vario e continuo procedere dell’azione, ma di
un’unica situazione variamente lumeggiata […] Particolarmente sottile è la differenziazione
sonora dei due gruppi vocali, il procedere solenne e misurato del coro di contro alla maggiore
mobilità espressiva del gruppo dei personaggi. […] Anche l’orchestra è divisa: il coro viene
accompagnato da corni, tombe e timpani, i solisti sono invece appoggiati dai rimanenti fiati e
dagli archi ” (Hermann Abert, Mozart, Leipzig 1921; versione italiana: Milano, Il Saggiatore,
1985, vol. II, pp. 634-636). 25 Sergio Durante, Le Scenographie di Pietro Travaglia 1994, p.166.
26 “The stage was a big one, extending back almost as far as the length of the auditorium.
The proscenium was almost square: about eleven meters both in width and height” (John A.
Rice, W. A. Mozart, La clemenza di Tito 1991, p. 62).
11
Figura 1: Filip e Franz Heger, Il teatro delle Nazioni di Praga (1791)
Avallandola, sorgerebbero degli inconvenienti tecnici oltre che dramma-
turgici; tra l’ultimo intervento del coro nell’Allegro e il primo intervento
nell’Andante vi sono circa 40 battute delle quali 8 di recitativo accompa-
gnato. Nelle moderne edizioni dell’opera questo passaggio si dipana in un
tempo pari a circa un minuto e trenta/quaranta secondi, con la scena presa
totalmente dai personaggi agenti: Sesto ritorna sconvolto ed auspicandosi la
morte, Vitellia lo vede e gli parla ma lui la schernisce, rivelando poi l’amara
sorte di Tito cui fa seguito la domanda di Publio Annio e Servilia su chi sia
stato ad ucciderlo, con Vitellia che qui interrompe il quasi reo confesso Sesto;
segue l’inizio del commiato generale del quintetto, al quale si aggiunge a b. 5
dell’Andante anche il popolo. Dove prevederne l’entrata in scena – viste le
notevoli dimensioni del coro27
– in una situazione così fortemente connotata
dallo scontro tra le individualità dei solisti? Né troppo presto (lo sgomento ed
il rimorso del rientrante Sesto devono per forza svolgersi nel vuoto e
nell’assenza di input scenici estranei) né a metà (vi sono i recitativi) né troppo
tardi (il coro deve spostarsi in tempo per cantare “Oh nero tradimento”),
senza contare che tutte le suddette 40 battute sono suonate pressoché in p,
volume non certo adatto a mascherare gli ovvi ed inevitabili rumori che una
massa di persone produce spostandosi sulla scena. La troppa farraginosità che
ne consegue sottende probabilmente al fatto che nemmeno qui sia prevista la ________________
27 Come dimostra l’aggiunta della Marcia (NMA n. 4, senza numero nell’autografo), inserita
probabilmente a lavoro ultimato per far si che l’intera massa corale possa effettivamente disporsi
convenientemente in scena per cantare “Serbate oh dei custodi ” (NMA n. 5).
12
Fig. 2: Pietro Travaglia, bozzetto per le scene 4-5 dell‟Atto I (1791)
sua epifania; rimane allora il dubbio su come faccia un coro che, per questioni
estetiche, drammaturgiche e logistiche non dev’essere mai visibile, a farsi
sentire mentre canta le frazioni in p dell’Andante.
Una delle ipotesi – ovviamente non suffragata da alcuna indicazione mozar-
tiana, come del resto nessun’altra – potrebbe essere quella di un coro che
nell’Allegro rimane comodamente sul fondo scena a cantare in f, ma che poi
si sposta dietro le quinte durante le 40 battute di gap e si va a collocare in un
punto più vicino al proscenio (sempre restando nascosto) alfine di cogliere
due piccioni con una fava, l’espediente dell’invisibilità ed una maggior udibi-
lità da parte del pubblico. Tale combinazione si realizzerebbe facilmente
13
sistemando il coro nelle quinte laterali, ipotesi che potrebbe trovare conferma
negli stessi bozzetti di Travaglia per la scena del Campidoglio28
, i quali
mostrano una scenografia che si curva verso il proscenio – un colonnato
sormontato da una sorta di frontone – luogo ideale per nascondervi due ali di
coro che possano cantare in p. Idem per la ripresa di Francoforte del 1799 con
le scenografie di Giorgio Fuentes, ispirate probabilmente all’allestimento di
Travaglia.29
Figura 3: Giorgio Fuentes, scenografia per il Tito (Francoforte, 1799)
La divisione in due cori laterali rientrerebbe così in un’ottica atta a sotto-
lineare in maniera ancora più soffusa le angosce che colgono il quintetto
solista, quasi il popolo pur non venendone a contatto, si avvolgesse col pro-
prio dolore attorno a quello dei protagonisti; sebbene esso sia trattato comun-
que omofonicamente (non sfruttando la presunta policoralità implicita in tale
divisione) potrebbe far parte del medesimo disegno estetico, propendendo per
l’ipotesi che la massa corale possa essere divisa non in donne vs uomini,
bensì in due distinti gruppi misti ma omofonici, donne+uomini a destra vs ________________
28 Conservati a Budapest, presso la Biblioteca Nazionale Szécheényi – Album Travaglia – e
reperibili in Sergio Durante, Le Scenographie di Pietro Travaglia 1994, p.163.
29 Per una panoramica sugli allestimenti e la ricezione dell’opera, Emanuele Senici, La
clemenza di Tito di Mozart: i primi trent'anni (1791-1821), Turnhout, Brepols, 1997.
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donne+uomini a sinistra. Non bisogna dimenticare che, proprio a causa
dell’eccezionalità dell’evento, scenografo librettista e compositore lavorarono
a stretto contatto in quei giorni praghesi30
, opportunità allora più unica che
rara per dare corpo – anche scenicamente – alle nuove esigenze drammatiche
mozartiane.
Figura 4: Alessandro Sanquirico, scenografia per il Campidoglio
(Milano, Teatro alla Scala, 1818)
La concezione spaziale di Travaglia pare funzionasse, tanto che in un una
ripresa di qualche anno successiva alla Scala di Milano (1819), lo scenografo
Sanquirico manterrà la stessa idea originale già ripresa da Fuentes (di cui fu
allievo), con in primo piano un colonnato che si estende alle quinte laterali,
ed il Campidoglio visibilissimo sullo sfondo.
Come ogni interpretazione anche la presente, se da un lato cerca di risol-
vere delle problematiche, dall’altro ne apre di ulteriori: perché Mozart non ha
prescritto questi movimenti e divisioni del coro? E ancora: come può la prassi
dell’epoca concepire un’opera seria – peraltro riservata all’encomio di un
sovrano – con un finale d’atto senza lo sfarzo sonoro della massa corale in
scena?
________________
30 Come ha ben illustrato Howard Chandler Robbins Landon, Mozart‟s last year: 1791,
London, Thames & Hudson, 1989.
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Mozart nei suoi autografi è restio ad esprimersi con indicazioni precise
riguardo al posizionamento o i movimenti del coro. Nel Don Giovanni ad
esempio, a conclusione della terribile apparizione del Commendatore (n. 26),
le voci infernali cantano “Tutto a tue colpe è poco” subito prima che le
fiamme inghiottano il protagonista. Ebbene, non una riga ci dice che questi
spiriti (anche questa definizione non la si trova da nessuna parte
nell’autografo)31
debbano cantare fuori scena; solo il libretto prescrive di
sotterra, con voci cupe, intendendone il posizionamento sotto al palcoscenico
quale mimesi degli inferi.
Similmente, nel Flauto magico, la voce che intima a Tamino “Zurück!”
(n. 8) è indicata da Schikaneder nel libretto la prima volta come Eine Stimme
von fern, (una voce da lontano) e la seconda come Eine Stimme von innen
(una voce dall’interno), due indicazioni in apparente contraddizione: nell’
autografo, Mozart precisa solamente la prima volta che la voce proviene von
fern (da lontano), intendendo implicitamente che anche la seconda voce possa
provenire da lontano. Poco dopo, le voci che rivelano a Tamino che Pamina è
viva sono indicate nel libretto come einige Stimmen (alcune voci) e
nell’autografo come von innen (dall’interno). È da escludere che il coro di
voci fosse collocato in scena e fosse visibile o entrasse in scena in quel mo-
mento, anche se il libretto non specifica che le voci provengono dall’interno,
e lo stesso dicasi per il personaggio che ripete “Zurück!”, nonostante
l’indicazione von fern del libretto e dell’autografo. Si converrà che ciò non
aiuta certo la comprensione della dinamica, e ricorda la confusione lessicale e
spaziale presente nella Clemenza (coro “in distanza” vs “in lontananza”).32
È altresì vero che, nella prassi dell’epoca, il genere dell’opera seria preveda
dei finali che abbiano la partecipazione del coro: tra gli esempi più vicini si
possono citare Europa riconosciuta di Verazi-Salieri (1778), Pirro di De
Gamerra-Paisiello (1787)33
o Axur re d‟Ormuz di Da Ponte-Salieri (1788). ________________
31 Don Giovanni, K. 527. Facsimile of the Autograph Score. Mozart Operas in Facsimile, 4.
Los Altos, The Packard Humanities Institute, 2009.
32 Tale ambiguità di posizionamento coglie anche eventuali strumenti fuori scena, sulla cui
disposizione Mozart non lascia alcuna prescrizione: nel Finale primo della Zauberflöte (n. 8),il
libretto prescrive che allo zufolare di Papageno, Tamino antwortet von innen auf seiner Flöte il
che implica che un flautista dell’orchestra si vada a posizionare in quinta nel frattempo, cosa che
nell’autografo non è specificata.
33 Il Pirro è tra le prime opere serie (assieme all’Olimpiade di Cimarosa, 1784) che, alla
stregua dell’opera buffa, inserisce dei concertati a chiusura degli atti (soprattutto intermedi) in
luogo delle arie o dei cori di stampo metastasiano. In una nota lettera Paisiello ne ascrive erro-
neamente a sé stesso l’invenzione, proprio nel Pirro; sull’argomento Daniel Heartz, Mozart and
his Italian Contemporaries: “La clemenza di Tito”, in: MJb 1978–79, pp. 275-93 Agostino
Ziino, La dissertazione sullo stato attuale della musica in Italia (venezia, 1811) di Agostino
Perotti ed una lettera inedita di Giovanni Paisiello, in: Quadrivium 22/1, 1981, p. 201-213;
Francesco Paolo Russo, Il Pirro di De Gamerra e Paisiello e il rinnovamento operistico tardo-
settecentesco, in: Nuovi Studi Livornesi 1997, V, pp. 173-191.
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Non bisogna altresì dimenticare che La clemenza di Tito è una sorta di rilet-
tura dell’originale metastasiano in tre atti (senza finali corali eccetto l’ultimo,
nemmeno questo articolato su più scene)34
compresso in due atti da Caterino
Mazzolà per probabile volontà di Mozart stesso, nel tentativo di renderla
“vera opera”:35
ciò ha portato la sostituzione dell’originale staticità con un
certo grado di azione drammatica, seguendo per la conclusione dell’Atto I qui
discussa quel sacrosanto principio dapontiano secondo il quale il finale
dev’essere un “picciol dramma a sè”.36
Parimenti, non bisogna dimenticare che qui il coro a tutti gli effetti c’è, e
che siamo in presenza di un compositore connotato da forte sperimentalismo,
un autore che ormai, grazie anche ai trascorsi con Da Ponte, ha acquisito
dimestichezza e lucidità tali da poter creare dei meccanismi perfetti sia sul
piano del dramma che su quello della musica. È alla luce di ciò che si deve
considerare l’ovvia revisione di un testo risalente a più di mezzo secolo
prima, nella difficoltà a voler e poter rinunciare ad un livello espressivo ormai
personalissimo: “il finale primo e molte pagine della Clemenza di Tito dimo-
strano che il suo presunto “ritorno all’ordine” nei vecchi recinti dell’opera
seria metastasiana non rinnega affatto le conquiste drammaturgiche delle
precedenti commedie umane”.37
Niente di più vero, visto l’esempio del coro nascosto già proficuamente
sperimentato nel Don Giovanni, che peraltro novità assoluta non era: lo ave-
vano usato – con espressività e tempistiche straordinariamente simili a quelle
della Clemenza – proprio Da Ponte e Salieri nel citato Axur. Nel duetto Atar-
Aspasia, “Per te solo, amato bene” (I, 1)38
, le gioiose effusioni dei due amanti
vengono infatti interrotte da degli “Ah!” del coro fuori scena, tragici e iera-
tici, su perentori accordi di settima di enorme pathos:
ATAR
Per te solo, amato bene,
respirar io sento l'alma;
per te sol novella calma
splender veggio a questo cor
________________
34 Vedi nota 14.
35 Mozart’s Thematic Catalogue. A Facsimile, ed. by Albi Rosenthal and Alan Tyson, Lon-
don 1990, f. 28v (p. 141).
36 Lorenzo D Ponte, Memorie di Lorenzo Da Ponte da Ceneda scritte da esso. Nuova Jorca
[sic], John Gray & co. vol. I, p 12.
37 Giovanni Carli Ballola, Rossini: l‟uomo, la musica. Milano, Bompiani, 2009, p. 292.
38 AXUS, RE D’ ORMUS | Dramma Tragicomico in cinque Atti | da Rappresentarsi Nel Teatro
della Corte per le | Nozze di Sua Altezza Reale l'arciduca Francesco D'Austria | l'anno 1788 | La
Poesia e Dell'ab. da Ponte | la Musica del Sig. Antonio Salieri | In Vienna: Presso Giuseppe Nob.
De Kurzbek. (Napoli, Biblioteca del Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella: Rari 15.9/5).
17
ASPASIA
Se tu m'ami o mio tesoro,
se di me tu sei contento,
io non so cos'è tormento,
io non so cos'è timor. A 2
Ah scacciam, ben mio dal petto
ogni affanno, ogni sospetto,
ed apprenda e terra, e cielo
a gioir del nostro amor. CORO (di dentro)
Ah! Ah! ATAR
Che grido è questo? CORO (di dentro)
Atar, Atar! ATAR
Oh cielo! Al nostro albergo
foco orribil s'apprese: ah, un solo istante
fermati dove sei... ASPASIA
Salvatemi lo sposo eterni dèi!
Si noti come qui il discorso sugli “Ah!” si possa intendere in maniera dia-
metralmente opposta rispetto al caso di Mazzolà – Mozart, dato che le escla-
mazioni del coro sono facilmente riconducibili al metro che regna in questa
scena, l’ottonario: “Ah! Che grido è questo? Atar!”, presupponendo perciò
che siano un’idea originale di Da Ponte e non un espediente drammatico
introdotto motu proprio da Salieri.39
Pur non essendo in posizione centrale ma all’inizio dell’opera, questa
pagina costituisce un innegabile precedente estetico per il quintetto della
Clemenza di Tito. Ragionando sulla cronologia e sulla geografia dell’ultimo
Mozart, un elemento sembra in relazione con quanto accade nella Clemenza;
anche il Don Giovanni fu scritto per il medesimo teatro praghese (29 ottobre
1787) e l’entusiastica accoglienza riservata a questo lavoro avrebbe potuto
indurre il compositore a ripetere l’artifizio di un finale con coro nascosto.
Seguendo il fil rouge che a distanza di quattro anni riportò Mozart ad operare
a Praga, non è fuori luogo ipotizzarlo; essendo la Clemenza la sua ultima
opera, non si può certo prevedere quali sarebbero state le successive inclina- ________________
39 Ringrazio Manfred Herman Schmid per avermi fornito questa riflessione.
18
zioni drammaturgiche, ma se ne possono intravvederne le linee guida, una
delle quali è l’espediente della voce nascosta, peraltro non nuovo nel suo
teatro da Idomeneo alla Zauberflöte, passando per Don Giovanni.40
Il fatto poi che Mozart non lo chiami “Finale” (come nella trilogia dapon-
tiana o nel Flauto Magico – che è un Singspiel, e non necessiterebbe di una
tale articolazione)41
ma “Quintetto con coro” la dice lunga sul carattere ibrido
del brano:42
ciò ha suggerito a taluni studiosi che in origine potesse non essere
stato concepito come nodo centrale del dramma, bensì come insieme da inse-
rire in un altro punto dell’opera;43
eppure la scelta finale è un’ illuminante e
lineare mediazione tra esigenze dell’opera seria metastasiana (senza coro nei
finali intermedi, di solito liquidati con un’aria) ed una più moderna dramma-
turgia che il coro, invece, lo prevede eccome, e che qui c’è ma non si vede. È
pacifico che in allestimenti successivi – dopo la morte del compositore – si
sia optato per soluzioni registiche più tradizionali (pur ricorrendo a sceno-
grafie realizzate sul modello di Travaglia), nelle quali rientrano anche le
“grida del populo tra le fiamme” della ripresa viennese di quattro anni poste-
riore. Eseguendo l’opera in forma oratoriale e non drammatica, appare ovvia
la necessità del pubblico di poter usufruire di didascalie sostitutive
all’apparato scenografico per comprendere quanto accade nello spartito; altra
cosa è ritenere che tali specifiche possano in qualche maniera essere messe in
relazione con le idee dell’allestimento originale del 1791, presenti Mazzolà,
Mozart e Travaglia in loco.
________________
40 Non si dimentichino La Voce dell’Oracolo di Nettuno in Idomeneo (n. 28 e la scena del
cimitero in Don Giovanni (II, 12) colla voce del Commendatore che ammonisce i due ribaldi; di
Tamino et affini si è già detto.
41 Tant’è che risulta assente ad es. nel Ratto dal serraglio.
42 Mozart, per ovvie esigenze “accumulative” tipiche dei finali d’atto che, dopo la trilogia
dapontiana, ha l’abitudine di organizzare, tratta gli ultimi tre numeri dell’Atto I come parti di un
vero e proprio finale, senza recitativi secchi ad interromperne l’azione, a cominciare dal terzetto
“Vengo…aspettate…Sesto! passando per il recitativo accompagnato “Oh dei, che smania è
questa” e giungendo al quintetto con coro conclusivo. L’assoluta unicità (anche tassonomica) di
questa pagina è espressa egregiamente dalle parole di Stefan Kunze: “[il quintetto] è unico, non
si può confrontare con nessuno dei concertati che Mozart compose per le sue opere buffe” (Il
teatro di Mozart 1990, p 670).
43 “Specialmente il quintetto con coro, il cosiddetto “Finale” del primo atto, è un pezzo
irripetibile, insuperabile: si pensi alla scena solistica di Sesto, deciso al delitto, al suo affannoso
dibattersi fra disperazione e rimorso su richiami da lontano del coro” (Bernard Paumgartner,
Mozart, trad. it. di Carlo Pinelli, Torino, Einaudi, 1956, p. 475). In nota a margine: “Ritengo che
il pezzo con la soprascritta di Mozart “Quintetto con coro” (e non Finale) venisse ultimato molto
presto, a Vienna, e non fosse originariamente destinato a Finale”. Su problemi relativi alla
cronologia, cfr. nota 1. Ciò non toglie che la presenza del recitativo a spezzare il continuum
musicale avrebbe reso stravagante la struttura di questo Quintetto con coro anche qualora
Mozart l’avesse destinato ad un punto meno cruciale di un finale d’atto.
19
Che la Clemenza di Tito non sia un lavoro concepito secondo un canone
prestabilito e presenti delle difficoltà di impatto immediato sull’uditorio è
testimoniato dalla nota opinione di Maria Luisa di Borbone, consorte del
monarca per la cui incoronazione l’opera venne composta (Leopoldo II)44
,
che la definì una “porcheria tedesca in lingua italiana”. In realtà è da leggersi
come l’estremo atto creativo di un operista ormai più che maturo e consape-
vole nella capacità di controllare tutti i parametri della creazione musicale, in
possesso di un’irrinunciabile ed originale cifra stilistica, faticosamente con-
quistata in anni di sudata carriera a suon di capolavori.
Alla luce di queste riflessioni, il finale intermedio della Clemenza di Tito
appare come uno sfaccettato problem solved che ha visto Mozart abilissimo
nell’intraprendere un tortuoso cammino tra convenzione ed innovazione,
necessità logistiche ed estetiche, equilibri drammaturgici e soluzioni sceniche,
senza intaccare l’importante e peculiare apparato scenico-retorico che un
opera seria – e per di più encomiastica – doveva possedere ancora nel 1791.
________________
44 Sul contratto tra l’impresario Guardasoni e gli Stati boemi, nonché le vicissitudini in fase
di realizzazione, si veda: Tomislav Volek, Über den Ursprung von Mozarts Oper “La clemenza
di Tito”, in: MJb 1959, p. 274-286.