P R O F . A V V . S A B I N O F O R T U N A T OORDINARIO DI DIRITTO COMMERCIALE PRESSO L’UNIVERSITÀ DI ROMA TRE
Sabino FORTUNATO
Le valutazioni per il bilancio
1. Prima di affrontare più direttamente l’argomento
vorrei compiere alcune osservazioni preliminari sul
concetto di “valutazione” e quindi di valutazione
“per il bilancio d’esercizio”.
Non par dubbio che il termine “valutazione” è
ambivalente. Può designare da un canto il processo
valutativo, l’iter procedimentale del valutare; ma può,
d’altro canto, indicare anche il valore attribuito ad
un bene, il risultato finale del processo valutativo.
A ciò si aggiunga che ogni valutazione, sia come
valore che come procedimento, ha sempre un duplice
profilo: quello qualitativo che coinvolge la
finalità, lo scopo della valutazione; quello
quantitativo che evoca la misurazione del valore e le
relative tecniche di misurazione.
Le valutazioni di bilancio o per il bilancio non
sfuggono all’esigenza di chiarificazione degli
aspetti sin qui rapidamente delineati. Innanzitutto
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precisiamo che ci occupiamo di bilancio d’esercizio,
di valutazioni dunque che hanno ad oggetto un
complesso aziendale in funzionamento, cioè un
complesso di beni organizzati per produrre nuova
ricchezza, caratterizzato dal going concern. E analoga
osservazione riguarda il bilancio consolidato, salva
la precisazione che qui il complesso di beni
interessa un gruppo di imprese in esercizio.
Il rilievo segnala che le valutazioni di bilancio
hanno per un verso un oggetto i cui beni si integrano
in un complesso produttivo e che per altro verso
perseguono uno scopo diverso da quello in cui
l’attribuzione di valore si inquadra in una vicenda
in senso ampio di scambio, come appaiono le ipotesi
riassumibili nella espressione “operazioni
straordinarie”, dalla valutazione dei conferimenti in
natura agli aumenti di capitale sino al recesso e
alle fusioni, operazioni in cui si tratta di misurare
un trasferimento di ricchezza e spesso su basi negoziali. Le
valutazioni di bilancio sono diverse dalle
valutazioni per lo scambio, perché mirano a misurare
l’incremento o decremento di ricchezza in sé, prodotto
dall’esercizio dell’attività nel medesimo complesso
aziendale e tramite il complesso aziendale.
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E allora cosa rileva giuridicamente in tema di
bilancio d’esercizio? Il processo valutativo o il
valore-risultato? Ovviamente dipende… Se si tratta di
giudicare il comportamento diligente del valutatore,
certo la correttezza del procedimento valutativo ha
il suo peso, benchè la correttezza/attendibilità del
valore-risultato può fungere da esimente, per la
semplice ragione che fa venir meno l’evento lesivo.
E’ chiaro, però, che la sanzione potrebbe operare su
un altro piano, sul piano personale della revoca
dell’incarico. Se si tratta di giudicare il dato
informativo in sé, allora il processo valutativo
potrebbe passare in secondo piano, e ciò che rileva è
il valore-risultato veicolato dall’atto/documento
informativo. Si passa così dal profilo soggettivo del
comportamento al profilo oggettivo dell’atto e della
sua validità. Nella misura in cui il valore-risultato
contrasta con un modello imperativo, posto a tutela
di interessi generali e indisponibili, l’atto è
affetto da nullità. E nel bilancio d’esercizio non
emerge un momento negoziale, ma una mera
dichiarazione di scienza/verità, un atto giuridico in senso
stretto che può essere a sua volta presupposto di
effetti legali vincolanti, facendo così emergere la
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cd. funzione organizzativa del bilancio all’interno e
all’esterno dell’operazione societaria.
Questa dimensione più strettamente giuridica non
può, tuttavia, prescindere dalla selezione dei
criteri o del criterio valutativo congruo allo scopo.
E qui il tema si confonde con le opzioni tecniche,
meglio ancora si apre un possibile versante di
“discrezionalità tecnica” che deve confrontarsi con
le regole dell’arte, nel nostro caso le regole
aziendalistiche e ragioneristiche, spesso tendenti
alla standardizzazione. Può qui valere il richiamo
alla disciplina dell’arbitratore ex art. 1349 c.c.
che ha peraltro una caratterizzazione decisamente
negoziale? La valutazione di bilancio, in altre
parole, è da considerare nulla e revocabile solo
quando appaia “manifestamente iniqua od erronea” o
questo criterio-limite di validità è inidoneo per la
sua natura sostanzialmente negoziale ove applicato in
sede di redazione del bilancio? E’ vero che in alcune
decisioni relative alla regola fissata dall’art. 1349
c.c. la “manifesta” iniquità od erroneità non è
riferita al quivis de populo ma all’esperto del settore;
ma è altresì vero che in materia di valutazioni di
bilancio il criterio è perlopiù riferito alla
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“ragionevolezza” della stima e soprattutto agli
“standard” valutativi generalmente accettati, ormai
tradotti nei cd. principi contabili nazionali o
internazionali. Tutto ciò non significa che le
valutazioni di bilancio non offrano margini di
discrezionalità, ma quel margine probabilmente si
colloca entro limiti più ristretti della “manifesta
iniquità o erroneità” che trova la sua radice
nell’origine negoziale della stima demandata al
terzo. Più che di manifesta iniquità.
2. Compiute queste osservazioni preliminari, vorrei
ora soffermarmi sulle novità più significative, a
vari livelli e a stadi di maturazione differenziati,
presenti in materia di valutazioni per il bilancio
d’esercizio e consolidato nel quadro normativo e nei
principi contabili nazionali e internazionali.
A livello di UE assistiamo alla recente adozione
di una nuova direttiva contabile (la direttiva n.
2013/34/UE del 26 giugno 2013) destinata ad essere
recepita negli ordinamenti nazionali entro il 20
luglio 2015 e che dovrà interessare la redazione dei
bilanci individuali e consolidati a partire
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dall’esercizio 2016 per tutte le società non-IAS
compliance.
Questa direttiva sostituirà integralmente la IV e
la VII direttiva societaria e non è priva di novità
in materia di valutazioni, soprattutto di
immobilizzazioni e di strumenti finanziari.
In tale ambito va segnalata comunque la sentenza
ultima della Corte di Giustizia Europea, secondo cui
la clausola generale della true and fair vue (o della
“rappresentazione veritiera e corretta”) non
giustifica di per sé la rivalutazione in bilancio di
cespiti rispetto al loro costo di acquisto (o di
produzione) anche se il loro valore effettivo,
comprovato da una successiva rivendita, è di gran
lunga superiore, fermi ovviamente gli obblighi
informativi.
A livello di principi contabili internazionali da
un canto lo IASB ha pubblicato sin dal 12 maggio 2011
l’IFRS 13 “Fair Value Measurement”, che è stato
omologato con Reg. UE n. 1255/2012 della Commissione
l’11 dicembre 2012 (in GUCE L 360/78 del 29 dicembre
2012) e che trova applicazione alle società IAS
compliance dagli esercizi a far data dal 1° gennaio
2013; d’altro canto lo IASB ha ripreso da solo la
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rielaborazione del Conceptual Framework, dapprima
avviata sin dal 2004 congiuntamente al FASB
statunitense, di poi interrotta in concomitanza dello
scoppio della grande crisi. La ripresa ha portato
alla pubblicazione di un Discussion Paper nel luglio 2013
sottoposto a “Comment letters” sino al 14 gennaio
2014. Si tratta di un corposo documento di 239
pagine, che contiene una “Section 6” dedicata alla
tematica del “Measurement”.
Dunque, l’informazione di bilancio continua a
procedere su due binari diversi, ma non senza
reciproche interferenze: da un canto il mondo non-IAS
compliance e dall’altro lato il mondo IAS compliance.
Il che solleva problemi di “confine”, ma
soprattutto problemi di “senso”: che accade quando
una società IAS compliance si trovi ad essere per così
dire declassata a società non–IAS compliance? Ma
soprattutto i tentativi di ibridazione fra i due
sistemi, cui spesso si assiste, sono idonei ad
offrire un quadro coerente di informazione per i
molteplici utilizzatori del bilancio? E che senso ha
una informazione contabile così disomogenea a livello
comparativo per le esigenze del mercato e più in
generale per le esigenze macroeconomiche?
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Ma procediamo per gradi.
3. La nuova direttiva contabile si preoccupa
soprattutto di armonizzare due possibili interventi
in materia da parte degli Stati membri:
a) un intervento di semplificazione degli obblighi
informativi, che tenga conto del profilo dimensionale
della singola impresa obbligata alla redazione del
bilancio d’esercizio o del gruppo la cui impresa
madre sia obbligata alla redazione del bilancio
consolidato;
b) un intervento derogatorio rispetto al ribadito
“principio generale” di rilevazione e valutazione
delle voci di bilancio secondo il “prezzo di acquisto
o del costo di produzione”, intervento derogatorio
che può avere ad oggetto le immobilizzazioni con il
metodo della “rideterminazione dei valori” ovvero gli
strumenti finanziari o anche “determinate categorie di
attività” ulteriori secondo il criterio del “valore netto”,
diciamo pure del fair value.
In questa sede non importa tanto soffermarsi sul
primo possibile intervento, se non per segnalare il
marcato interesse dei Paesi membri – sostenuto dalle
istituzioni comunitarie – a “Pensare anzitutto in
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piccolo” (è il titolo di una Comunicazione della
Commissione UE di giugno 2008 e rivista nel febbraio
2011), ad adeguare - nel nostro caso - le
informazioni contabili obbligatorie alle esigenze
proprie delle PMI, tenendo conto altresì dei costi-
benefici che ne possono derivare, anche in
considerazione della circostanza che tale tipologia
dimensionale supera il 90% del tessuto
imprenditoriale dell’economia europea. Di qui la
distinzione fra quattro categorie di imprese ai fini
delle semplificazioni nella redazione e pubblicità
del bilancio d’esercizio (microimprese, piccole,
medie e grandi imprese) e fra tre categorie di gruppi
per la redazione e pubblicità del bilancio
consolidato (piccoli, medi e grandi gruppi).
E’ probabilmente prematuro stabilire se il nostro
legislatore si orienterà verso il recepimento di
tutte queste categorie; mi preme segnalare che sino
ad oggi esso si è mostrato restio ad introdurre
eccessive semplificazioni che avrebbero ridotto
notevolmente la portata informativa dei conti
annuali.
Di maggior interesse per il tema che ci occupa è
l’eventuale adozione dei sistemi di “valutazione
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alternativa”, rispetto al tradizionale principio del
costo storico, per talune voci dell’attivo, fra cui
le “immobilizzazioni” - alle quali potrebbe
applicarsi il “metodo della rideterminazione dei
valori” - e gli “strumenti finanziari”, ma anche
“altre categorie di attività” non meglio precisate,
ma che potrebbero riguardare pur sempre immobilizzazioni
materiali (“Immobili impianti e macchinari” come nello
IAS 16) o anche immobilizzazioni immateriali (gli
“intangible assets” come nello IAS 38) - e alle quali
potrebbe applicarsi il criterio del fair value -.
E’ importante precisare che la direttiva ribadisce
la centralità del principio valutativo del “costo
storico” in termini di “prezzo di acquisto o del
costo di produzione”, collocandolo non più
separatamente, alla stregua di un criterio base delle
valutazioni specificate nelle regole dedicate alle
singole voci1, ma come “principio generale di
bilancio” nella elencazione (cfr. art. 6 nuova
direttiva) che ricomprende i postulati della
1 L’art. 32 IV direttiva recita: “La valutazionedelle voci dei conti annuali è effettuata secondogli articoli da 34 a 42 che sono basati sulprincipio del prezzo di acquisizione o del costo diproduzione”.
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“continuità aziendale”, della “continuità dei
principi contabili e criteri valutativi applicati”,
della “prudenza” (nelle sue varie declinazioni),
della “competenza”, della “coincidenza fra stato
patrimoniale di apertura e stato patrimoniale di
chiusura del precedente esercizio”, della “separata
valutazione degli elementi delle voci di attivo e
passivo”, del “divieto di compensazione” di partite,
della “prevalenza della sostanza sulla forma”, della
“rilevanza” o materiality.
Preme comunque evidenziare che la iniziale
rilevazione a “costo storico” deve poi adeguarsi alle
“rettifiche di valore”, sia per le immobilizzazioni
sia per l’attivo circolante, specificate nelle
disposizioni relative alle singole voci dello stato
patrimoniale (cfr. art. 12 nuova direttiva), ciò che
qualifica il principio valutativo generale, piuttosto
che come “costo storico” tout court, come “costo storico
recuperabile” (Recoverable Historical Cost)2.
Il principio del costo storico – come è noto – si
2 Vedi già questo rilievo in altro mio lavoro (Dalcosto storico al “fair value”: al di là della rivoluzione contabile, inA.V., IAS/IFRS. La modernizzazione del diritto contabile in Italia,Milano 2077, p. 365 nota 39), poi ripreso anche daMatteo Caratozzolo.
– 12 –
sposa con il principio di prudenza (o conservatism
principle), che nei considerando della nuova direttiva
viene letteralmente accostato alla clausola generale
della “rappresentazione veritiera e corretta”3. La
prudenza si esprime nell’asimmetria valutativa di
attività e passività, di rilevazione degli utili e
delle perdite (cfr. art. 6, par. 1 lett. c nuova
direttiva); ed il costo storico tende ad impedire la
rilevazione di plusvalenze da valutazione consentendo
solo la rilevazione di plusvalenze da realizzo,
mentre esige – come si è già evidenziato – la
rilevazione di rettifiche di valore verso il basso.
L’incidenza di questo sistema sulla true and fair view
è ribadito dalla recente sentenza della Corte di Giustizia
Europea del 3 ottobre 2013, in una controversia che vedeva
contrapposti lo Stato belga e una SA, in merito al
trattamento contabile dell’acquisto di quote sociali
avvenuto a fine novembre 1998 che, un mese dopo nel
gennaio 1999, venivano rivendute ad un prezzo 3.400
volte superiore a quello di acquisto. Nella specie lo3 Il Considerando n. 9 si apre in questi termini:“I bilanci d’esercizio dovrebbero essere preparatiin maniera prudente e fornire una rappresentazioneveritiera e corretta della situazione patrimonialee finanziaria dell’impresa nonché del risultatoeconomico dell’esercizio”.
– 13 –
Stato belga, per ragioni fiscali, sosteneva che
nell’esercizio 1998 le quote andavano iscritte non al
costo di acquisto ma al valore effettivo rivelatosi
tale in forza della sostanzialmente immediata
successiva rivendita, pur collocata nell’esercizio
successivo. E tanto in applicazione del principio del
“quadro fedele”, che in casi eccezionali, come quello
in cui il prezzo di acquisto di un elemento
dell’attivo sia “manifestamente inferiore al suo
valore effettivo”, impone di derogare al criterio del
costo onde non dare “un quadro falsato della
situazione finanziaria dell’impresa”.
La Corte di Giustizia Europea riconosce che il
rispetto del principio del “quadro fedele”
costituisce “obiettivo primordiale” della IV
direttiva (richiamando due precedenti sentenze del 27
giugno 1996 e del 14 settembre 19994), ma ribadisce
che “l’applicazione del principio del quadro fedele
deve ispirarsi, per quanto possibile, ai principi
generali contenuti nell’art. 31 della quarta
direttiva, fra i quali riveste una particolare
4 CGE, V sez., 27 giugno 1996, Tomberger, C-234/94,Racc. pag. I-3145 ss.; CGE, V sez., 14 settembre1999, DE+ES Bauunternehmung, C-275/97, Racc. pag.I-5347 ss.
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importanza il principio della prudenza…”. Non solo,
ma “il principio del quadro fedele deve inoltre
essere interpretato alla luce del principio sancito
dall’articolo 32 della quarta direttiva, ai sensi del
quale la valutazione delle voci dei conti annuali si
basa sul prezzo di acquisto o sul costo di produzione
degli elementi dell’attivo”. Ne consegue che “la
sottostima di elementi dell’attivo nei conti della
società non può, di per sé, costituire un ‘caso
eccezionale’ ai sensi dell’art. 2, paragrafo 5, della
quarta direttiva”, poiché essa costituisce il “mero
corollario” della scelta legislativa a favore del
costo storico ed “è conforme al principio della
prudenza”.
4. Ciononostante, le spinte derogatorie – e non solo
fondate sui rari “casi eccezionali” che si riducono
perlopiù, secondo l’interpretazione più accreditata,
alle ipotesi di mutamento oggettivo della natura
economica del cespite da valutare – premono e il
legislatore comunitario tende a riconsiderarle nella
nuova direttiva.
L’art. 7 consente di autorizzare o prescrivere che
tutte o alcune categorie di imprese adottino il
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“metodo di rideterminazione dei valori” delle
immobilizzazioni, evidentemente di ogni tipo di
immobilizzazione, e nei Considerando (n. 18) si
spiega che il costo storico, certo, garantisce
“l’affidabilità delle informazioni contenute nei
bilanci”, ma che bisognerebbe permettere o
prescrivere alle imprese di “rivalutare le
immobilizzazioni, al fine di consentire l’indicazione
di informazioni più rilevanti agli utilizzatori dei
bilanci”.
In verità la possibilità di legittimare
“rivalutazioni” delle immobilizzazioni in deroga al
costo storico è già previsto nella IV direttiva (cfr.
art. 33, par. 1, lett. c), mentre non sono più
riprese le disposizioni che legittimano la
valutazione delle immobilizzazioni materiali al
valore di sostituzione e di tutte le voci secondo
criteri che tengano conto dell’inflazione. Semmai si
ribadisce che la rivalutazione delle immobilizzazioni
deve accompagnarsi alla iscrizione di una “riserva di
rivalutazione” a patrimonio netto, convertibile in
capitale, e comunque indistribuibile “a meno che non
corrisponda ad una plusvalenza realizzata”. La
riserva non potrà essere ridotta se non per il
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passaggio a capitale, o per successive eventuali
svalutazioni o ancora per le rettifiche di valore.
Bisogna, peraltro, ricordare che il nostro
legislatore non ha mai ritenuto di poter introdurre
nel sistema tradizionale un meccanismo generalizzato
di rivalutazione, sia pure limitato alle
immobilizzazioni, e non si vede perchè questa volta
ci si dovrebbe orientare diversamente.
Diversa è la deroga prevista soprattutto per gli
“strumenti finanziari”, compresi i “derivati”, che
secondo l’art. 8 possono o devono essere valutati al
“valore netto”, espressione con cui in un primo
momento si era inteso tradurre la corrispondente
espressione inglese fair value e che nella successiva
correzione pubblicata in GUCE L 215 10.08.2013 è
stata rettificata con l’ormai più nota espressione
“valore equo”. Nel Considerando n. 19 la deroga viene
giustificata da un canto per la maggior
“rilevanza” dell’informazione che ne consegue a
vantaggio degli “utilizzatori dei bilanci” e d’altro
canto – e stranamente - per favorire la
“comparabilità dell’informativa di bilancio
nell’Unione”. Dico stranamente, perché la deroga non
dà luogo necessariamente ad un regime valutativo
– 17 –
vincolante e generalizzato, posto che sono possibili
molteplici opzioni: gli Stati membri possono decidere
di “consentire” o meno l’adozione di tale criterio
valutativo; in caso positivo estenderlo a tutte o
solo ad alcune categorie di imprese; renderlo
applicabile per la redazione tanto dei bilanci
d’esercizio quanto dei bilanci consolidati ma anche
solo dei bilanci consolidati; estenderlo al di là
della valutazione degli strumenti finanziari, anche a
non meglio precisate “attività diverse”. Tutto ciò,
ovviamente, con buona pace della pretesa esigenza di
“comparabilità” dell’informativa di bilancio
nell’Unione.
Peraltro la valutazione a fair value è esclusa per
molte categorie di strumenti finanziari: quelli non
derivati detenuti fino a scadenza; i prestiti e
crediti originati dall’impresa e non detenuti a scopo
di negoziazione; le partecipazioni in imprese
controllate, collegate e in joint venture; gli strumenti
di capitale emessi dall’impresa; i contratti che
prevedono un corrispettivo potenziale in operazioni
di aggregazione aziendale; altri strumenti finanziari
che abbiano caratteristiche tali da esigere una
contabilizzazione secondo criteri differenti.
– 18 –
La nozione di fair value rilevante è ovviamente del
tutto vicina a quella che si è andata affermando
nell’ambito IAS-IFRS e secondo la gerarchia delineata
nell’IFRS 13: (i) essa coincide innanzitutto con il
valore di mercato dello strumento laddove esista un
suo “mercato attendibile” e facilmente individuabile;
(ii) in mancanza con il valore di mercato
“derivabile” da quello individuabile per i suoi
componenti o per uno strumento analogo; (iii) in
mancanza di qualsiasi mercato attendibile, con il
valore risultante da “modelli e tecniche di
valutazione generalmente accettati”, purchè
assicurino una “ragionevole approssimazione al valore
di mercato”.
Ove neppure tali modelli e tecniche sussistano, il
criterio di valutazione torna ad essere il “costo
storico” (prezzo di acquisto o costo di produzione),
nella misura in cui sia possibile effettuare tale
valutazione.
Peraltro, anziché dettare una specifica
regolamentazione secondo le linee sopra indicate, gli
Stati membri possono limitarsi ad effettuare un
rinvio ricettizio agli IAS-IFRS omologati dall’UE in
merito a rilevazione, valutazione e informativa degli
– 19 –
strumenti finanziari.
E’ importante attirare l’attenzione sul
trattamento contabile delle “variazioni” di valore,
successive alla prima iscrizione a fair value dello
strumento finanziario o anche dell’attività diversa.
In via di principio tali variazioni sono registrate a
Conto economico, e dunque incidono sul risultato di
esercizio. Le possibili eccezioni, che invece
legittimano l’iscrizione delle variazioni in una
“riserva di fair value” a patrimonio netto, sono
costituite da variazioni concernenti: (i) strumenti
di copertura che per loro natura consentono di non
iscrivere a conto economico tutta o parte della
variazione; (ii) differenze di cambio di un elemento
monetario parte di un investimento netto dell’impresa
ina una entità estera; (iii) attività finanziarie
disponibili per la vendita (AFS) diverse da derivati.
Attualmente il nostro ordinamento relega le
“informazioni relative al fair value degli strumenti
finanziari” in nota integrativa secondo il dettato
dell’art. 2427-bis c.c., con dati più o meno
equivalenti a quelli desumibili dall’art. 8 della
nuova direttiva contabile, se non fosse per il
riferimento a più dettagliate casistiche presenti
– 20 –
nella direttiva e al riferimento al “mercato attivo”
nella norma civilistica piuttosto che al “mercato
attendibile”. Ovviamente, la valutazione a fair value
riportata in nota integrativa non incide sulla
rappresentazione veritiera e corretta di stato
patrimoniale e conto economico; e se la direttiva
contabile dovesse trovare attuazione nel nostro
ordinamento, ciò si rifletterebbe in termini
significativi su quella rappresentazione. Lo
stravolgimento del principio del costo storico,
specie se l’estensione del fair value andasse oltre la
valutazione degli strumenti finanziari e investisse
anche altre attività (come immobilizzazioni materiali
costituite da immobili, impianti e macchinari; o
anche le immobilizzazioni immateriali per le quali
sussista un mercato attivo; o ancora gli investimenti
immobiliari e le attività biologiche e prodotti
agricoli, come accade negli IAS-IFRS), diverrebbe
pervasivo, riproponendo in buona parte le
problematiche che già furono in qualche modo agitate
a proposito del recepimentodella cd. direttiva di
modernizzazione delle direttive contabili, la n. 51
del 2003 (su cui cfr. il mio contributo in….), che
faceva un tentativo di avvicinamento del mondo non-
– 21 –
IAS compliance al mondo IAS compliance. Quel
tentativo, com’è noto, che pure si era tradotto in un
progetto dell’OIC, non trovò sbocco definitivo in un
mutamento legislativo, in forza di molteplici
obiezioni che furono allora mosse e che non si vede
come oggi dovrebbero considerarsi superate. Ricordo
che quella direttiva si divideva in due parti: una di
carattere vincolante e l’altra di carattere opzionale
per gli Stati membri; e che la parte non recepita fu
appunto questa seconda opzionale. Oggi la situazione
non è mutata, considerata l’ampia facoltà rimessa
dalla nuova direttiva contabile agli Stati membri.
Riassumo le obiezioni verso un recepimento di tale
disciplina nell’ambito degli schemi contabili di
bilancio: (i) lo sforzo di avvicinamento appare
sostanzialmente inutile sia perché il d.lgs. n.
38/2005, con cui si è provveduto a definire l’ambito
soggettivo di applicazione diretta degli IAS-IFRS,
prevede l’estensione dei principi contabili
internazionali a quasi tutte le società, ad alcune in
via obbligatoria e ad altre – molte delle quali
riconducibili al cd. “mondo non-IAS” – in via
facoltativa, restandone escluse solo le società che
redigono il bilancio in forma abbreviata; sia perché
– 22 –
lo stesso IASB, rendendosi conto della non integrale
adeguatezza e spesso eccessiva dispendiosità per le
piccole e medie imprese (PMI) della integrale
applicazione degli IAS-IFRS a tale tipologia di
imprese, ha adottato un set specifico di standard per le
PMI, allo stato peraltro senza molto successo; (ii)
ma soprattutto, oltre che inutile, la cd.
modernizzazione del diritto contabile locale appare
anche teoricamente inaccettabile, poiché finisce per dar
vita ad una sorta di “monstrum”, che non risponde né
alla logica tradizionale del costo storico, né alla
logica innovativa del “fair value”, traducendosi in
una soluzione ibrida che non sa né di carne né di pesce.
5. Si è detto all’inizio di queste note che sul
versante dei Principi contabili internazionali il
tema delle valutazioni per il bilancio si è
arricchito di un nuovo Standard, l’IFRS 13, ma anche
di una ripresa del dibattito sulla rielaborazione del
“Quadro Concettuale” (Conceptual Framework) per la
revisione o redazione degli stessi IFRS, e in questo
ambito anche per le questioni di “Measurement” (cfr.
Section 6 del Discussion Paper di luglio 2013).
L’IFRS 13 è una sorta di superstandard, nel senso
– 23 –
che esso offre una definizione univoca del fair value ed
un unico quadro di riferimento per la relativa
valutazione, da applicare in tutti gli standard
specifici ove il criterio è richiamato, a meno che
non sussista una espressa esclusione. Ne è conseguita
la modifica di numerosi standard (IAS 39 e IFRS 9,
IAS 16, IAS 40, IAS 41 e IAS 19) per adeguarli alle
linee guida recepite nell’IFRS 13.
Il principio contabile sottolinea che il fair value è
un “criterio di valutazione di mercato, non specifico
dell’entità”, e ciò al fine di sottolinearne la portata
oggettiva. In questo senso devono essere massimizzati –
anche nelle tecniche valutative che non utilizzano
dati disponibili di mercato – input osservabili rilevanti,
riducendo al minimo l’utilizzo di input non osservabili.
Anche ove non dovessero essere disponibili
transazioni o informazioni di mercato “osservabili”
per una data attività o passività, la finalità è
sempre quella di “stimare il prezzo al quale una
regolare operazione per la vendita dell’attività o il
trasferimento della passività avrebbe luogo tra gli
operatori di mercato alla data di valutazione alle
condizioni di mercato correnti (ossia un prezzo di
chiusura alla data di valutazione dal punto di vista
– 24 –
dell’operatore di mercato che detiene l’attività o la
passività)”.
A fronte della consueta normale definizione di fair
value utilizzata in precedenza dagli standard (pur con
qualche oscillazione), che si esprimeva in termini di
“importo al quale una attività potrebbe essere
scambiata o una passività estinta fra parti
consapevoli e motivate in una normale transazione”,
l’IFRS 13 pone l’accento su alcuni elementi che
evidenziano il carattere utile dell’informazione per
le decisioni di una specifica categoria di
utilizzatori: gli investitori. Esso infatti si fonda
sull’exit price (piuttosto che sull’entry price), di cui è
aspetto particolare il trasferimento (piuttosto che la
generica estinzione) della passività; valorizza la
nozione di “operatori di mercato” e di “mercato
principale” o – in seconda battuta – di “mercato più
vantaggioso” accessibile, volendo con ciò da un lato
rinviare alle “assunzioni che gli operatori di
mercato utilizzerebbero nella determinazione del
prezzo dell’attività o passività, presumendo che gli
operatori di mercato agiscano per soddisfare nel modo
migliore il proprio interesse economico” (ivi
comprese le assunzioni sul rischio) e d’altro canto
– 25 –
al mercato che presenta il più alto volume di scambi
e livello di attività per la specifica attività o
passività dell’entità o, in mancanza, il mercato che
massimizza l’ammontare derivante dalla vendita
dell’attività e minimizza l’ammontare da pagare per
trasferire la passività.
Quando poi si tratti di valutare “attività non
finanziarie”, deve farsi ricorso al criterio dell’
highest and best use, considerando cioè “la capacità di un
operatore di mercato di generare benefici economici
impiegando l’attività nel suo massimo e migliore utilizzo
o vendendola a un altro operatore di mercato che la
impiegherebbe nel suo massimo e miglior utilizzo”.
Sempre guidato dallo sforzo di oggettività, l’IFRS
13 delinea la nota “gerarchia” delle tecniche
valutative del fair value che classifica gli input
utilizzabili in tre livelli: il primo livello si
riferisce a “prezzi quotati (non rettificati) in
mercati attivi per attività o passività identiche a
cui l’entità può accedere alla data di valutazione”;
il secondo livello comprende “(a) prezzi quotati per
attività o passività similari in mercati attivi; (b)
prezzi quotati per attività o passività identiche o
similari in mercati non attivi; (c) dati diversi dai
– 26 –
prezzi quotati osservabili per l’attività o
passività, per esempio: (i) tassi di interesse e
curve dei rendimenti osservabili a intervalli
comunemente quotati; (ii) volatilità implicite; e
(iii) spread creditizi; (d) input corroborati dal mercato”; il
terzo livello si riferisce a “input non osservabili per
l’attività o per la passività”, compresi i dati
propri dell’entità.
Infine è importante evidenziare l’enfasi sulle
“informazioni integrative” che dovranno essere
fornite nelle note di bilancio in modo tale da
aiutare gli utilizzatori di bilancio a valutare in
particolare: “(a) per le attività e le passività
valutate al fair value su base ricorrente o non
ricorrente nel prospetto della situazione
patrimoniale-finanziaria dopo la rilevazione
iniziale, le tecniche di valutazione e gli input
utilizzati per elaborare tali valutazioni; (b) per
valutazioni ricorrenti del fair value attraverso
l’utilizzo di input non osservabili significativi
(Livello 3), l’effetto delle valutazioni sull’utile
(perdita) di esercizio o sulle altre componenti di
conto economico complessivo per quell’esercizio”.
Non v’è dubbio che l’IFRS 13 rappresenta un
– 27 –
notevole miglioramento sullo stato dell’arte relativo
alla definizione e alle tecniche valutative del
criterio del fair value, in buona parte tuttavia
tributarie delle elaborazioni ricavabili dal FAS 157
statunitense. E per quanto ci si sforzi di rendere
più oggettivo il processo valutativo, non v’è dubbio
che in presenza di mercati non attivi o anche poco
liquidi o ancora volatili e turbolenti, si
inseriscono inevitabili elementi di arbitrarietà che
rendono poco affidabile (reliable) la stima, benchè il
pregio che si tende a riconoscere al criterio
consista nella sua maggior rilevanza (relevance) sul piano
informativo dei destinatari rispetto al criterio del
costo storico. Ma non mancano critiche anche sul
versante della rilevanza, poiché si è sostenuto che:
(i) il management tende a rifiutare valutazioni che
si fondano sul presupposto che alla data di bilancio
tutto l’attivo e tutto il passivo sia in vendita;
(ii) la separata valutazione dei cespiti in termini
di fair value è in contrasto con la vendita di business
unit (azienda o rami d’azienda); (iii) prezzi di
mercato e modelli valutativi possono incorporare
“noisy information” che riducono fortemente la
significatività dei valori espressi; (iv) il fair value
– 28 –
rende più volatili i risultati da esercizio a
esercizio spesso per effetto di stime disturbate o
manipolate dai manager; (v) non è detto che le
informazioni sul fair value siano più utili ove
incorporate nei prospetti contabili piuttosto che
nelle sole note di bilancio; (vi) il ruolo di
rendicontazione del bilancio può risultare
pregiudicato da stime che incorporano aspettative
future piuttosto che risultati storici.
6. Il Discussion Paper dello IASB CF di luglio 2013
contiene una sezione 6 dedicata alla tematica della
“valutazione”, intesa come processo di misurazione
quantitativa delle voci di bilancio; ed esso fa
seguito ad un dibattito sugli obiettivi della
valutazione promosso dallo IASB già con altro DP
predisposto dallo standard setter canadese e pubblicato
nel novembre 2005 dal titolo “Measurement Bases for
Financial Accounting: Measurement on Initial
Recognition”. Al di là delle critiche mosse a quel
documento, che in realtà si limitava alla
individuazione del criterio valutativo di prima
iscrizione senza approfondire il profilo della
successiva valutazione (re-measurement) e non si
– 29 –
occupava della iscrizione dei costi e ricavi, esso
puntava sostanzialmente ad una decisa prevalenza del
fair value quale criterio base di prima iscrizione per
la maggior parte delle attività e passività,
ritenendo tale informazione più rilevante ai fini del
processo decisionale degli utilizzatori di bilancio.
In un precedente documento di lavoro dello Staff
dello IASB di settembre 2004 si riconosce che tanto
il CF dello IASB quanto quello del FASB dedicano
scarso spazio al tema delle valutazioni di bilancio,
dedicandosi ad elencare i criteri piuttosti numerosi
utilizzati in pratica (dal costo storico, al costo
corrente, dal valore lordo o netto realizzabile al
valore di mercato corrente sino al present value).
La posizione dello IASB nel DP del 2013 sembra
contenere significative aperture. Da un canto si
sottolinea l’esigenza di semplificazione, attraverso la
riduzione dei numerosi differenti criteri valutativi
per selezionare quelli davvero necessari a rendere
una “informazione rilevante”; d’altro canto si
ribadisce l’opportunità di applicare il test costi-benefici
per gli utilizzatori di bilancio nello scegliere uno
specifico criterio valutativo. Nel contempo,
tuttavia, si esprime l’opinione preliminare che:
– 30 –
a) lo scopo della valutazione è quello di
contribuire alla rappresentazione fedele di una
informazione rilevanti in merito a (i) le
risorse di una entità, le pretese avverso la
stessa e le variazioni di tali risorse e
pretese; (ii) quanto efficientemente ed
efficacemente management e c.d.a. dell’entità
abbiano assolto alle proprie responsabilità
nell’utilizzo delle risorse dell’entità. Insomma
lo IASB sembra ribadire la duplice finalità,
informativa sulla true and fair view di attivo e
passivo (ma intesi come risorse e altrui
pretese) e di rendicontazione della gestione;
b) un singolo principio valutativo per tutte le
attività e passività potrebbe non fornire la più
rilevante informazione per gli utilizzatori del
bilancio. E qui lo IASB sembra schierarsi contro
coloro che invocano l’unicità del criterio base
per le valutazioni;
c) quando lo IASB procede a selezionare il criterio
valutativo per una specifica voce di bilancio,
dovrebbe considerare quale informazione quel
criterio produce sia nello stato patrimoniale
sia nel conto economico o nell’OCI (Other
– 31 –
Comprehensive Income);
d) la rilevanza di uno specifico criterio
valutativo dipenderà dal modo in cui
investitori, creditori e altri finanziatori
dell’entità sono indotti a valutare in che modo
una attività o una passività di quel tipo
contribuirà al futuro cash flows. Conseguentemente
la scelta del criterio valutativo (i) per una
specifica attività dovrebbe dipendere dal modo
in cui quell’attivo contribuisce al futuro cash
flow; e (ii) per una specifica passività dovrebbe
dipendere dal modo in cui l’entità estinguerà o
adempirà quella passività.
Il principio guida nella selezione del criterio
valutativo, che peraltro il DP riduce a tre
fondamentali criteri base (il costo storico, il
prezzo corrente di mercato incluso il fair value, e le
valutazioni basate sui flussi di cassa), è costruito
sul contributo positivo o negativo che l’attività o
la passività è in grado di fornire ai futuri flussi
di cassa (ampiamente intesi) dell’entità. In sede
applicativa ciò porta a privilegiare il criterio del costo
per la valutazione (i) delle attività che forniscono
solo un contributo indiretto al futuro cash flow,
– 32 –
tramite l’utilizzo nel processo produttivo anche in
combinazione con altri attivi, o anche (ii) delle
attività detenute in deposito e il cui cash flow
negoziale è soggetto a variazioni insignificanti; a
privilegiare invece il prezzo corrente di vendita (exit price)
per (iii) le attività che offrono invece un
contributo diretto al cash flow attraverso la loro
vendita. Il che sembra ripetere la distinzione a noi
più nota fra immobilizzazioni e circolante, propria
dei bilanci non-IAS compliance. Quanto alla valutazione
delle passività, si distingue fra (i) le passività
non soggette a scadenza o termini prestabiliti
(obbligazioni da illeciti, etc), da valutare in base
all’uscita attesa di cash flow, (ii) le passività da
estinguere alla loro scadenza o derivanti da
obbligazioni per servizi, soggette a valutazione al
costo, e (iii) le passività da cedere, soggette a
valutazione secondo il prezzo corrente di mercato.
L’impressione d’insieme che si ricava è quella di
un notevole ridimensionamento del principio del fair
value e di una sorta di riavvicinamento al principio
di prudenza proprio delle direttive contabili
comunitarie. Certo non mi nascondo che il principio
guida è dato dal contributo del cespite da valutare
– 33 –
ai futuri flussi di cassa attesi in positivo o in
negativo, nell’ottica dei finanziatori a vario titolo
della entità, principio guida che tende a guardare a
dati previsionali piuttosto che a dati storici. E’
tuttavia curioso che quel principio non si traduca in
una generalizzata applicazione del fair value, come
alcuni avevano preteso, ma in una proposta
differenziata di applicazione dei tre principali
criteri indicati nel Discussion Paper, con un tentativo
di accorciare le distanze fra mondo IAS e mondo non-
IAS.
Ovviamente non va dimenticato che si tratta solo
di un DP avente ad oggetto inoltre non uno standard ma
il Conceptual Framework, che com’è noto non ha lo status
vincolante di un principio contabile né è
sovraordinato ai singoli specifici principi
contabili. Affinchè i principi valutativi degli IAS-
IFRS raggiungano un apprezzabile livello di coerenza
sistematica vi è ancora molta strada da percorrere.
7. La difficoltà di dialogo, anche solo in termini di
comparabile conversione, fra mondo IAS e mondo non-
IAS è attestata non solo dal non agevole esercizio
della first time adoption degli IAS-IFRS, pur regolata da
– 34 –
apposito standard (IFRS 1), ma anche dalla ipotesi
inversa, allorchè sia pure in casi eccezionali è
consentito o è doveroso revocare la scelta di una
adozione facoltativa dei principi contabili
internazionali nella redazione del bilancio
d’esercizio e/o consolidato (artt. 3, co. 3, e 4,
co.7, d.lgs. n. 38/2005). Per questa fattispecie
l’OIC ha predisposto ormai dal 30 ottobre 2012 un
progetto di principio contabile nazionale (non ancora
finalizzato), considerato che l’IFRS 1 nulla dispone
in caso di successiva disapplicazione degli IAS-IFRS e
di ritorno ai principi locali. In particolare non è
affatto chiaro come si determinino i valori dello
stato patrimoniale di apertura del primo esercizio in
cui si torni ad applicare la disciplina nazionale e
come debbano rappresentarsi gli effetti della revoca.
Correttamente, a mio avviso, la bozza del
principio nazionale dispone che “le voci di apertura
del primo bilancio redatto secondo i principi
contabili nazionali sono determinate applicando
retroattivamente tali principi”, salve talune
eccezioni in cui la ricostruzione a ritroso dei
valori - come se si fossero da sempre applicati i
principi contabili nazionali - possa risultare
– 35 –
“eccessivamente onerosa” (cioè impossibile o
sproporzionatamente costosa rispetto al beneficio
ricavabile). E questa ricostruzione dovrà riguardare
sia il primo bilancio redatto secondo i principi
locali sia il bilancio dell’esercizio precedente con
funzione comparativa. Dico correttamente, poiché
trova così applicazione analogica il principio
sancito dalla first time adoption dei principi
internazionali. Ma l’esercizio è lungi dall’essere
agevole; soprattutto se si pensa alla disciplina
applicabile alle riserve imputate a patrimonio netto
(al netto degli effetti fiscali) quale saldo
patrimoniale che può discendere dalla operazione di
conversione retroattiva.
La convivenza di bilanci d’esercizio redatti
secondo le regole civilistiche e di bilanci redatti
secondo le regole dei principi contabili
internazionali è particolarmente problematica se si
pensa alla difficoltà di comparazione dei risultati
anche solo sul piano informativo e ancor più sul
piano della funzione organizzativa. Ciò è tanto vero
che fra i Paesi di maggior peso dell’Unione Europea,
l’Italia si trova isolata – rispetto a Francia,
Germania, Inghilterra – nella estensione degli IAS-
– 36 –
IFRS dal solo bilancio consolidato anche al bilancio
separato. Il risultato prodotto e probabilmente il
risultato distribuibile (consumabile) assume
dimensioni differenziate in base alla diversità dei
regimi di standard applicabili. La nostra soluzione
ordinamentale di conciliazione è passata attraverso
il tentativo di neutralizzare la quota parte di
plusvalenza da fair value attraverso la creazione di
apposite “riserve da fair value” indistribuibili, ma
forse non del tutto indisponibili, così cercando di
salvaguardare sotto altro profilo il principio di
prudenza nella declinazione della rilevazione
dell’utile realizzato. Ma a parte che alcune poste da
fair value partecipano al conto economico, quella
neutralizzazione non è sempre agevolmente operabile.
E’ necessario che in sede IASB si avvii una seria
riflessione sull’adeguamento dei principi contabili
internazionali, concepiti di per sé per i soli
bilanci consolidati destinati ad assolvere mera
funzione informativa, ai bilanci d’esercizio (o
separati) che assolvono più complesse funzioni, da
quella informativa a quella organizzativa e non
ultima a quella di rendiconto (sia pure sui generis)
della gestione del management e degli amministratori.
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