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Perché il Sud è rimasto indietro? Il ruolo delle politiche. Contributo al
dibattito a partire da un saggio di Emanuele Felice, in «Rivista Economica
del Mezzogiorno», n. 4, 2014
di Giuseppe L.C. Provenzano*
L’articolo prende le mosse da una critica ragionata al volume di Felice (Perché il Sud è
rimasto indietro, il Mulino, 2013) sull’interpretazione delle cause dell’andamento del divario
tra Nord e Sud e dal dibattito scientifico e pubblicistico in cui si è inserito e che ne è scaturito.
La ricostruzione critica di questa letteratura consente di avanzare e sviluppare una tesi
interpretativa erroneamente marginalizzata: il ruolo delle politiche pubbliche, della loro
implementazione e dei loro effetti, sulle dinamiche di convergenza e di divergenza tra le
macroaree del Paese. A partire da lì, si offre una ricostruzione che si sofferma in particolare
sui primi due decenni successivi al secondo dopoguerra e che arriva all’oggi: si evidenziano
gli effetti sullo sviluppo del Mezzogiorno delle politiche note come «intervento straordinario»
prima della loro “degenerazione” e si segnala come l’arretramento del Mezzogiorno
nell’ultimo decennio sia legato ai limiti della cd. Nuova Programmazione e agli effetti
asimmetrici delle politiche europee e nazionali, perseguite o mancate, all’indomani della crisi
del 2008. Si evidenzia infine il nesso tra le politiche e la politica e, in riferimento critico a
Felice, si mostrano le responsabilità delle classi dirigenti nazionali, accanto e oltre a quelle
locali. In conclusione, si ridiscutono, con riferimento a queste due diverse stagioni di politiche
meridionaliste, le categorie di modernizzazione attiva e passiva del Mezzogiorno.
Why has the South fallen behind? The role of policies. A contribution to this debate
starting from Emanuele Felice’s volume
This paper starts with a critical review of Felice’s volume (Perché il Sud è rimasto indietro, Il
Mulino, 2013) on the interpretation of the reasons of the gap between North and South, as
well as with the scientific debate dealing with public law where it is inserted and that has
followed. The critical reconstruction of this literature allows to develop a mistakenly
marginalized interpretative thesis, that is the role of public policies, their implementation and
their effects on the dynamics of convergence and divergence between the macro areas of the
Country. Starting from there, it offers a reconstruction that focuses in particolar on the first
two decades following the Second World War and that spreads until today: the effects on the
development of southern Italy of policies known as «extraordinary intervention» before their
«degeneration» are highlighted and it is noted how the moving back of the South over the past
decade is related to the limits of the so-called New Programming and to the asymmetric
impact of national and European policies, whether pursued or missed, in the aftermath of the
2008 crisis. The link between policy and politics is also pointed out and, in critical reference
to Felice’s, the responsibilities of national leadership, alongside and in addition to the local
ones, are shown. In conclusion, with reference to these two different seasons of policies
focusing on southern Italy, the categories of active and passive modernization of the South are
brought into question again.
JEL Classification: H50, N14, O20, R11, R58
Keywords: Southern Italy; History of modern Italy; Regional Convergence; Regional policy;
Cohesion policy; Crisis
2
1. Mezzogiorno: un dibattito da proseguire e rilanciare
Periodicamente, dopo anni di silenzi e abbandoni, la questione meridionale torna al centro
della attenzione pubblica. Quando accadeva, negli ultimi tempi, il modo quasi offendeva: era
ridotta a questione criminale o alle cronache di malcostume o ancora, nel migliore dei casi,
richiamata – per “etichetta” – nei dibattiti sulla ben più presente “questione settentrionale”.
Ora, se un libro di uno studioso è capace di alimentare un dibattito non scontato sul Sud, è
proprio questo il primo merito da riconoscergli.
La discussione era partita a seguito del successo mediatico del libro di un giornalista, Pino
Aprile, Terroni1, in cui si rilanciavano tesi neoborboniche a cui la comunità scientifica aveva
cercato di reagire senza significativi effetti nell’opinione pubblica. È stato Emanuele Felice2,
con un libro che già dal titolo – Perché il Sud è rimasto indietro – tradisce una grande
ambizione, anche grazie a una bella scrittura partecipe e comunicativa e a una tesi
esplicitamente contrapponibile, a rilanciare – con una vasta eco e con serietà e competenza –
la discussione. Che non è rimasta confinata, come quasi sempre accade alle riflessioni – anche
interessanti e innovative – sul Mezzogiorno, nelle colonne dei quotidiani regionali o negli
spazi ancora più in ombra delle (poche) riviste specialistiche. Ha guadagnato sessioni intere di
importanti Riviste, le colonne di quotidiani nazionali attirando l’attenzione di qualche illustre
firma. Tutto questo, è bene ricordarlo, intorno ad un lavoro scientifico, per giunta di carattere
“storico”, in un Paese ammalato dal “presentismo” e ormai quasi allergico a tutto ciò che solo
può evocare il problema del Sud. È una discussione che, se pure non convince per un eccesso
di semplificazione, non può che essere salutata positivamente per chi ha a cuore le sorti del
Sud. Liquidarla con sprezzo come mera “pubblicistica”, come hanno fatto i principali
antagonisti della successiva contesa3, non aiuta certo a proseguire e rilanciare un dibatto che,
dopo anni di “nordismo” imperante, noi riteniamo necessario e fecondo.
Va detto, invero, che alla pubblicistica è arrivata la lettura più “interessata” del libro di Felice,
un’interpretazione un po’ schematica delle questioni che vi sono poste. Va pure detto che in
qualche passaggio polemico, nei punti in cui il libro dalla scienza volge alla politica, Felice si
presta alla strumentalizzazione: il ritardo del Sud sarebbe interamente addebitabile, nel corso
della storia “lunga” unitaria, alle sue classi dirigenti4. Soprattutto, su quei giornali che già
avevano rimosso il Mezzogiorno (al di là delle cronache giudiziarie, s’intende), è arrivata –
* L’Autore desidera ringraziare Leandra D’Antone e Paolo Zoppi per i preziosi suggerimenti.
1
P. Aprile, Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali, Edizioni
Piemme, Milano 2010. Per una rapida panoramica sopra l’atteggiamento attuale della storiografia accademica
rispetto al preoccupante e non più trascurabile fenomeno dell’«affermazione mediatica e popolare
dell’antirisorgimento», si veda il quadro generale tracciato da Carmine Pinto, Crisi globale e conflitti civili.
Nuove ricerche e prospettive storiografiche, in «Meridiana», 78, 2013, pp. 25-30. 2 E. Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, il Mulino, 2013.
3 V. Daniele, P. Malanima, Perché il Sud è rimasto indietro? Il Mezzogiorno fra storia e pubblicistica, in
«Rivista di Storia Economica», n. 1, 2014. 4 La letteratura meridionalistica sul tema è sconfinata e ci torneremo nel corso di questo lavoro. Sul tema delle
classi dirigenti, è utile un rimando al volume di P. Macry, Unità e Mezzogiorno. Come l’Italia ha messo assieme
i pezzi, il Mulino, 2012, che è un riferimento costante nella ricostruzione e nell’interpretazione di Felice. In
generale, da una diversa prospettiva storica, per una ricostruzione del rapporto tra Mezzogiorno e Risorgimento,
per noi è stato illuminante l’agile volume di S. Lupo, L’Unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra
civile, Donzelli, 2011.
3
con un’indebita attualizzazione – la conseguenza non necessaria – e anzi esplicitamente
negata – dell’analisi del volume: se è colpa delle classi dirigenti meridionali, allora è colpa dei
meridionali stessi che li eleggono (siamo in democrazia, bellezza!), e dunque, la questione
meridionale è una questione dei meridionali. Se non è proprio un “teorema”5, è qualcosa di
molto simile. E comunque, è quello l’assunto per cui può tornare ad essere derubricata: “se la
risolvano loro”.
Il libro di Felice forse meritava migliori lodatori, perché – questa è la nostra opinione di fondo
– è un bel libro. È un lavoro che trasuda scienza e passione civile, e questa quasi mai fa velo a
quella, che è sviluppata con gli strumenti più avanzati della storia economica nell’ambito di
una robusta letteratura internazionale. Dunque, la discussione intorno ad esso va riportata sui
giusti binari. Anche e soprattutto la discussione “critica”.
Quell’ambizione non nascosta - «iniziare a costruire e forse restituire, all’Italia tutta, quel
racconto veritiero della questione meridionale e sui divari regionali che attualmente manca»6
- non poteva non andare incontro ad una critica severa. Così è stato. Ampiamente dibattuto,
sia in sede scientifica che in sede nella pubblicistica, criticato o lodato sia da “destra” che da
“sinistra”, il libro è stato scandagliato nelle sue diverse parti: la prima, di ricostruzione storica
del divario all’Unità, in aperta polemica con le analisi di Daniele e Malanima7; la seconda, di
ricostruzione dell’andamento del divario di uno sviluppo inquadrato sotto le categorie di
«modernizzazione attiva» per il Centro-Nord e «modernizzazione passiva» per il
Mezzogiorno; la terza e ultima, di interpretazione delle analisi condotte e di polemica con le
principali in campo.
È sugli aspetti di interpretazione, alla luce del dibattito all’interno del quale si colloca il libro
e di quello che esso stesso ha suscitato, che si concentrerà questo contributo, il cui scopo è
riportare se non nella massima, almeno nella giusta considerazione, un’interpretazione
cruciale e ampiamente trascurata non solo nel libro di Felice, ma anche nel dibattito che ne è
scaturito: l’importanza delle politiche pubbliche. Sulle interpretazioni, dunque, concentreremo
la nostra attenzione: è qui, infatti, secondo quanto affermato dalla stesso Autore, che il libro
offre la principale novità «rispetto a quanto è stato scritto e si continua a produrre su questi
temi»; sull’altra novità enunciata, la considerazione «massima» per le nuove fonti e
metodologie statistiche e le più aggiornate ricostruzioni che ne scaturiscono, poco ci
soffermeremo, privi come siamo delle armi della contesa, e cioè i più raffinati strumenti
statistici per la costruzione di serie storiche.
5 Il riferimento è al «teorema meridionale» formulato da G. Viesti, Il Sud vive sulle spalle dell’Italia che
produce. Falso!, Laterza, 2013 e, da ultimo, in G. Viesti, La crisi, il Mezzogiorno e i difetti di interpretazione, in
«Meridiana», n. 79, 2014: «Secondo questa interpretazione, senza il Sud l’Italia sarebbe più ricca e crescerebbe
di più; il Sud cresce infatti meno nonostante assorba un enorme flusso di risorse pubbliche; ciò accade perché
queste risorse (sottratte all’Italia che produce) vengono sprecate, finiscono nelle mani di politici corrotti e
organizzazioni criminali, senza alcun risultato; perché le fallimentari classi dirigenti del Mezzogiorno sono
espressione diretta della mancanza di cultura e di capitale sociale dei meridionali. Importante corollario del
teorema meridionale è che le politiche pubbliche sono il problema e non la soluzione» (p. 23). 6 E. Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, cit., p. 8, corsivo mio.
7 V. Daniele e P. Malanima, Il divario Nord-Sud in Italia. 1861-2011, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011.
Confronta anche, degli stessi autori, Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004), in
«Rivista di Politica Economica», 97, 2007.
4
2. Il meridionalismo secondo Felice e i meriti del suo lavoro
Sulle interpretazioni, Felice parte affrontando gli stereotipi e sintetizzando quali siano, a suo
avviso, le risposte – «facili e sbagliate», precisa polemicamente – «alla domanda: perché il
Sud è rimato indietro per centocinquant’anni»? È uno sforzo “tassonomico” importante, certo
non l’unico8, che vorremmo accogliere con qualche essenziale precisazione.
Felice definisce il primo genere di risposte, di natura accusatoria: l’accusa del ritardo è
rivolta, cioè, nei confronti dei meridionali stessi. Ne individua una variante forte, che si
concentrerebbe sulla presunta diversità genetica dei meridionali stessi, “inferiori”, come
vorrebbe una tradizione “razzista” che risale all’antropologia criminale di Lombroso e che ha
tra i suoi alfieri, per un non raro paradosso, meridionali stessi come Niceforo9: una versione
periodicamente rinverdita, con malcelato razzismo, anche di recente da “studiosi” come
l’inglese Lynn10
nonché – va detto – da letture giornalistiche e banalizzanti delle indagini
periodiche internazionali sui rendimenti degli studenti che rilevano ritardi del Sud rispetto al
resto del Paese. L’accusa ha anche una versione, per così dire, debole: e si fonda sul filone
sempre più calcato che partendo dalla discutibile (ma fortunatissima) categoria del “familismo
amorale” di Banfield, e passando per gli studi già più seri di Putnam sulla civicness, ha
trovato nel capitale sociale – nella sua mancanza o insufficienza al Sud – la “causa” (ma qui,
come vedremo, è il punto dirimente, nel rapporto causa-effetto) del ritardo di sviluppo del
Mezzogiorno.
Vi sarebbe poi una seconda tipologie di risposte, quelle assolutorie dei meridionali. Nelle
versioni forti, sono risposte che risalgono alla letteratura marxista del modello “coloniale” di
sfruttamento – una teoria, quella dello sfruttamento, a cui F. riconduce arditamente le tesi di
Rosario Romeo o perfino quelle di Francesco Saverio Nitti. Ancora più forte e sbagliata – il
vero riferimento polemico del libro, sia nella parte di ricostruzione storica che in quella di
polemica politica – la versione “neoborbonica” di accusa nei confronti dell’Unificazione, «la
cui punta più chiacchierata» è il libro di Aprile, che «ha incontrato il favore del grande
pubblico» e il cui argomentare trova «riverberi oggi persino nella più ristretta comunità
scientifica» (e qui il riferimento11
è alle stime storiche di Daniele e Malanima, assunte a
8 In particolare, chi scrive ha molto apprezzato la ricostruzione di F. Cassano, Tre modi di vedere il Sud, il
Mulino, 2009. 9 Per un inquadramento storico di queste tesi, e di quelle coeve e contrapposte, cfr. G. Galasso, Il pensiero
meridionalistico dall’Unità d’Italia al Fascismo, in Il Mezzogiorno da “questione” a “problema aperto”,
Lacaita, 2005, spec. p. 51 ss. Cfr. anche, per una lettura polemica, M. Demarco, Bassa Italia.
L'antimeridionalismo della sinistra meridionale, Guida, 2009. 10
Tale professor Richard Lynn, In Italy, north–south differences in IQ predict differences in income, education,
infant mortality, stature, and literacy, in «Intelligence», 38-1, gennaio-febbraio 2010, interpreta alcuni dati come
prova del QI mediamente più basso dei meridionali rispetto ai residenti nell’Italia settentrionale e ciò
spiegherebbe la questione meridionale, data la correlazione del QI con il reddito e altri indici significativi. Non
soddisfatto, si spinge poi fino a spiegare come le origini di tale differenziazione tra Nord e Sud siano dovute
nient’altro che alla storica mescolanza genetica degli italiani meridionali con le popolazioni del Nord Africa e
del Medio Oriente. Per una critica approfondita, cfr. S. Beraldo, Il Mezzogiorno e la (mala) scienza, 2010,
consultabile su www.economiaepolitica.it; cfr. anche, sulla stessa rivista, la risposta critica di E. Felice e F.
Giugliano, Myth and reality: A response to Lynn on the determinants of Italy’s North-South imbalances, in
«Intelligence», 39, 2011, pp. 1-6. 11
Un riferimento improprio, in verità, perché sono stati Daniele e Malanima, con ogni evidenza, ad essere
“strumentalizzati” nell’interpretazione di Aprile, e non viceversa. Il riferimento a Daniele e Malanima , qui e
5
supporto delle tesi di Aprile, ma che hanno in verità trovato larga accoglienza nella comunità
scientifica12
, e a cui Felice contrappone le sue). Vi sono poi le varianti deboli della versione
assolutoria, dall’interpretazione “geografica” dello sviluppo, sia con riferimento alle
caratteristiche “interne” dell’area sia rispetto alla collocazione geopolitica di “lontananza”
rispetto ai grandi mercati e al cuore dello sviluppo capitalistico: che dalle «ascendenze nobili»
di Montesquieu e degli “annalisti” francesi arriva a Diamond; ovvero, in un’ottica alquanto
diversa, i contributi della «nuova geografia economica» di Krugman o il contributo
Williamson sugli andamenti delle disuguaglianze regionali, ripresi per il caso del
Mezzogiorno dai già citati Daniele e Malanima. Nell’ambito della versione assolutoria, per
quanto debole, possono ricondursi le interpretazioni che attribuiscono pure un ruolo
determinante alle scelte politiche unitarie, giudicate tuttavia come necessitate – non criticabili,
insomma, se non con il senno del poi.
Alle varianti deboli di entrambe le versioni, sia accusatoria sia assolutoria, Felice riconosce
«qualche punto di verità». Ma non la verità, che va ricercata come fa lui, con
un’interpretazione “socio-istituzionale” che guarda «all’interno del Sud Italia»13
e accusa le
classi dirigenti meridionali «non di colpa, ma di un reato più grave, il dolo», avendo
«deliberatamente ritardato lo sviluppo economico e civile del Sud Italia, a vantaggio dei
propri interessi» – interessi di una minoranza di privilegiati al mantenimento di rendite
maturate nel generale sottosviluppo sociale ed economico. Questo delle classi dirigenti14
, in
verità, è un tema antico del meridionalismo, a partire da Salvemini, Gramsci e, specialmente,
Dorso (autori a cui Felice attinge molto), ma che è ben presente pressoché in tutti i filoni di
riflessione sul Sud – pur da premesse e da prospettive ben diverse. Felice la attualizza
attingendo alla teoria istituzionalista – e non è il solo, in verità – di Daron Acemoglu e James
Robinson15
sulle istituzioni (politiche ed economiche) estrattive contrapposte a quelle
inclusive che favoriscono lo sviluppo civile ed economico. Un approccio che Felice integra
con un’analisi – su cui torneremo – della disuguaglianza interna alle aree, «come presupposto
storico che condiziona i differenti percorsi istituzionali» e di sviluppo. Da lì, lo spunto per una
coda polemica contro un “classico recente” (si lasci passare questa espressione) del
meridionalismo, quel “pensiero meridiano” di Franco Cassano16
, a cui imputa vizi – come
altrove nel volume di Felice, ha dato il via a un crescendo polemico di repliche e controrepliche, dopo l’uscita
del volume, con toni francamente sempre meno comprensibili. Dopo V. Daniele, P. Malanima, Perché il Sud è
rimasto indietro? Il Mezzogiorno fra storia e pubblicistica, cit., vi è stato E. Felice, Il Mezzogiorno fra storia e
pubblicistica. Una replica a Daniele e Malanima, in «Rivista di Storia Economica», n. 2, 2014, e ancora V.
Daniele e P. Malanima, Due commenti finali, in Rivista di Storia Economica», n. 2, 2014. 12
Ricordiamo, tra gli altri, che anche la SVIMEZ ha adottato fino al 1951 le stime dei due autori per la
ricostruzione delle serie storiche in occasione del Centocinquantenario dell’Unità. Dal 1951, i dati sono quelli
elaborati dall’Associazione. Le serie di statistiche economiche, sociali e istituzionali, sono confluite in un
ponderoso volume: SVIMEZ, 150 anni di statistiche italiane: Nord e sud 1961-2011, il Mulino, 2011. 13
Precisa E. Felice, Perché il Sud, cit. a p. 11: «la distinzione da fare non è quella fra meridionali e settentrionali,
ma fra quanti, dentro la società meridionale, hanno migliorato la loro posizione godendo di rendite e privilegi, e
quanti invece, la grande maggioranza, si sono ritrovati vittime dell’iniquo assetto socio-istituzionale del
Mezzogiorno». 14
Su cui si concentra anche Carlo Trigilia, in un approccio che, come vedremo, a noi pare più convincente
rispetto a quello di Felice. Cfr. anche C. Trigilia, Non c’è Nord senza Sud. Perché la crescita dell’Italia si decide
nel Mezzogiorno, il Mulino, 2012 15
D. Acemoglu e J. A. Robinson, Perché le nazioni falliscono. Alle origini di potenza, prosperità, e povertà, il
Saggiatore, Milano, 2013 (ed. or. 2012). 16
F. Cassano, Il Pensiero meridiano, Laterza, 1996.
6
quello di rivendicare l’«alterità della Mediterranée rispetto allo sviluppo capitalistico» e in
definitiva di difesa del Sud così com’è – in verità abbastanza estranei a Cassano17
e che si
riscontrano forse in letture superficiali del suo pensiero sempre fecondo e mai scontato.
Come anticipato, e ne parleremo ancora più avanti, da questa ricostruzione pur stimolante di
Felice, manca pressoché completamente un filone, quello che si concentra sul ruolo essenziale
nei processi di sviluppo, di convergenza o divergenza, delle politiche pubbliche poste in
essere, che si può far risalire a Nitti e, dopo, alla ispirazione di fondo del “neo
meridionalismo” – proseguita, con costanti attualizzazioni, all’interno della SVIMEZ – ma
anche più recentemente, su basi alquanto differenti rispetto a quest’ultimo, dalla «Nuova
programmazione» di Barca e Ciampi18
fino agli approfondimenti sul tema della Banca
d’Italia19
.
Prima di passare ad esaminare questo punto critico dirimente, insieme ad altri su cui il libro a
nostro avviso si presta a gravi equivoci, vorremmo richiamare i diversi meriti del volume di
Felice definito, nella foga polemica dei suoi principali antagonisti, ingiustamente
“modesto”20
. Ma sulla interpretazione dell’evoluzione del divario torneremo, la cui tesi di
fondo – il ruolo delle classi dirigenti – è stata discussa in sede di ricostruzione storica da
Leandra D’Antone a cui rimandiamo 21
, che analizza proprio il ruolo di quelle meridionali
nella formazione e costruzione dello Stato italiano e nella modernizzazione del Paese.
È l’altro corno della spiegazione del ritardo del Sud in Felice, e cioè il ruolo della
disuguaglianza interna – tanto da definire non soltanto “istituzionale” la sua tesi ma “socio-
istituzionale”- che a noi pare quello più meritorio e anche innovativo sul piano dell’indagine
scientifica, collocandosi in un filone storico-economico che, recentissimamente, ha
conosciuto con le ricerche di Piketty (non citato da Felice) sfociate in una monumentale
opera22
, un successo che va molto oltre la comunità scientifica in cui pure è stato accolto con
17
Come si può vedere, Cassano in Tre modi di vedere il Sud, cit. si sofferma in chiusura sulla questione dello
sviluppo “autonomo” e non dipendente, come prospettiva da perseguire, ma non certamente in chiave
antimoderma. Sulla questione dipendenza nello sviluppo, che può essere “fisiologica” e (in una certa misura, in
una fase iniziale dello sviluppo, anche virtuosa), o invece “patologica” e dunque viziosa, si cfr. A. Giannola,
Dipendenza, sviluppo, crescita. Profili, concetti, evidenze, in «Meridiana», n.69, 2010, pp. 201 ss. e, da ultimo,
in un suo prezioso pamphlet, A. Giannola, Sud d’Italia. Una risorsa per la ripresa, Salerno editrice, 2015, spec.
p. 43 ss. 18
F. Barca, La nuova programmazione e il Mezzogiorno, Donzelli, 2009. A questo filone, potremmo ricondurre
la riflessione di Gianfranco Viesti, pur con le evoluzioni che vanno da Abolire il Mezzogiorno, Laterza, 2003 a
Mezzogiorno a tradimento, Laterza, 2009, fino a F. Prota, G. Viesti, Senza Cassa. Le politiche di sviluppo del
Mezzogiorno dopo l’intervento straordinario, il Mulino, 2012. 19
Cfr. specialmente Banca d’Italia, Il Mezzogiorno e la politica economica dell’Italia, «Seminari e Convegni»,
n.4, Roma, 2010. Sulla stessa linea, un saggio che di inquadramento molto acuto di L. Cannari, M. Magnani e G.
Pellegrini, Critica della ragione meridionale. Il Sud e le politiche pubbliche, Laterza, 2010. 20
V. Daniele e P. Malanima, Due commenti finali, cit., mentre gli autori, pur nella forte (eccessiva)
contrapposizione analitica e interpretativa, ritengono “buona” la replica di E. Felice, Il Mezzogiorno fra storia e
pubblicistica, cit. 21
Il riferimento è all’intervento di D’Antone, nel confronto con Michele Salvati, Giovanni Federico, Renato
Giannetti e Pier Angelo Toninelli sulla Rivista de il Mulino, intorno al volume di Felice. Cfr. L. D’Antone, Sul
perché il Sud è rimasto indietro, in «il Mulino», n.4, 2014, spec. p. 606 ss. In proposito, si ricordino figure
chiave quali Nitti, Beneduce, Menichella, Giordani, Mattioli, tra gli italiani meridionali che hanno rivestito un
ruolo di primario rilievo nella storia dello sviluppo economico italiano e del Mezzogiorno. 22
Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, 2014 (ed. or. 2013).
7
grandissima considerazione. È un pezzo della tesi del libro del tutto trascurato nella
discussione che ne è scaturita, sia a livello scientifico che giornalistico, e che invece andava
maggiormente discusso.
Felice non si limita – e qui è il pregio e l’accuratezza analitica del suo lavoro – a
un’evidenziazione dei differenziali di reddito, che pure dicono qualcosa, ma opera un
«confronto incrociato» con alcuni indicatori sociali significativi. Da questa operazione emerge
che, intorno all’Unità, se pure il divario dei redditi medi era contenuto, la presenza al Sud (o
meglio, nelle sue regioni: le differenze regionali all’epoca andavano ben oltre le “macroaree”)
di una massa molto maggior di poveri (stimata ad es. sulla base di indici di povertà alimentare
e totale23
) indica precisamente il grado di disuguaglianza interna molto superiore: al di là della
misurazione di questa con un indice sintetico come l’indice di Gini), si dimostra ampiamente
la maggiore sperequazione della ricchezza al Sud rispetto al resto del Paese.
Nel corso del lavoro, F. utilizza altri indicatori di sviluppo e benessere, di «modernità», per
analizzare le diverse dimensioni del divario. Oltre il reddito, l’istruzione e la sanità diventano
cruciali, perché si combinano in una misura che sintetizza le tre dimensioni della modernità,
risorse, conoscenza e longevità, l’indice di sviluppo umano (Human Development Index24
)
ispirato ai lavori di Amartya Sen, ma via via opportunamente riformulato25
, per provare a
superare i limiti del PIL. Anche qui, al di là dello schema interpretativo di Felice (la
modernizzazione attiva o passiva, su cui torneremo), l’evidenza è che il divario nello
“sviluppo umano” (stimato, ovviamente) è pressoché interamente imputabile alle risorse
disponibili – i differenziali di conoscenza, come ampiamente dimostrato, sempre a fattori
socio-economici sono correlati – e dunque al reddito26
. La disuguaglianza nei redditi,
insomma, risulta dal lavoro di Felice come essenziale spiegazione del divario di sviluppo: una
nuova dimostrazione della antica tesi della debolezza delle classi medie e di una borghesia
che fosse motrice di un processo di sviluppo e modernizzazione.
Il tema disuguaglianza interna benché sia, con ogni evidenza, legato a quello delle classi
dirigenti locali, avrebbe forse meritato un approfondimento anche interpretativo maggiore
(anche come elemento per la lettura delle policies), ma nel corso della trattazione a imporsi è
pressoché esclusivamente il tema delle classi dirigenti locali, il cui “fallimento” Felice
23
Cfr. N. Amendola, F. Salsano e G. Vecchi, Povertà, in Giovanni Vecchi, In ricchezza e in povertà. Il
benessere degli italiani dall’Unità a oggi, il Mulino, 2011. 24
Ai fini dell’elaborazione di un indicatore che andasse oltre il Pil pro capite e tenesse conto di fattori differenti
(come l'alfabetizzazione e la speranza di vita) si cominciò a lavorare sul concetto di “sviluppo umano”,
nell’ambito del programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP), per superare ed ampliare l’accezione
tradizionale di sviluppo incentrata solo sulla crescita economica. A partire dall’Indice di sviluppo umano (HDI,
Human Development Index), l’indicatore di sviluppo macroeconomico realizzato dal “visionario” economista
pakistano Mahbub ul Haq nel 1990, e a cui a lungo ha lavorato Amartya Sen, si è pervenuti nel 2010 all’ultima
formulazione dell’indice, con risultati sempre più apprezzati dall’intera comunità scientifica. Cfr. UNDP, Human
Development Report 2010, The Real Wealth of Nations: Pathways to Human Development, 4 novembre 2010. Il
testo è consultabile su http://hdr.undp.org/en/media/HDR_2010_EN_Complete_reprint.pdf. Cfr. anche S. Anand,
A. Sen, Human Development Index: Methodology and Measurement, in S. Fukuda-Parr, A.K.S. Kumar (eds.),
Readings in Human Development. Concepts, Measures and Policies for a Development Paradigm, Oxford,
Oxford University Press, September, 2004. 25
Come ricostruisce E. Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, cit., spec. pp. 136-38. 26
Sia consentito un rimando a L. Bianchi e G. Provenzano, Capitale umano e sviluppo: il dilemma meridionale,
in «Rivista Economica del Mezzogiorno», ed. il Mulino, n. 1-2/2012 e ivi rif. bibliografici.
8
riassume nella categoria “interpretativa” della «modernizzazione passiva». Esamineremo
criticamente, più avanti, questa categoria. Ma la richiamiamo intanto per riconoscere un altro
merito all’impostazione di Felice: l’aver rivendicato la modernità, come orizzonte economico,
civile e politico a cui il Sud deve tendere – ed in particolare, in linea con quanto affermavamo
poc’anzi, la modernizzazione delle istituzioni e del sistema economico e produttivo.
Su quest’ultimo aspetto, in particolare, pur sbagliando a nostro avviso il bersaglio della sua
polemica, Felice ricusa tutta una letteratura di second’ordine, espressione della crisi del
meridionalismo, che ad esempio ha vissuto il processo di deindustrializzazione27
del
Mezzogiorno non come un drammatico problema, ma quasi come un traguardo agognato, la
giusta fine della vituperata e “fallimentare” industrializzazione di Stato. Una lunga teoria di
pubblicazioni ideologiche che, nel corso di un paio di decenni, hanno contribuito a diffondere
l’illusione che potesse esistere una prospettiva di sviluppo anche senza una robusta trama
industriale. Si scorge qui un riflesso “antimoderno” che è stato il migliore alleato del pensiero
dominante neoliberista che ha contribuito allo smantellamento di ogni politica industriale.
Mentre il punto, per perseguire una piena «modernizzazione» economica, senza
necessariamente replicare modelli altrui, sarebbe quello piuttosto di discutere di cosa e di
come produrre, di pensare a politiche industriali nuove28
, che puntino alla modifica del
modello di specializzazione, verso produzioni innovative e sostenibili, nella prospettiva di uno
sviluppo durevole e integrato col vasto mondo.
Perché chi, dopo una decrescita “felice”29
– fin qui, sia detto, abbiamo conosciuto una
decrescita “amarissima” – auspica un Sud deindustrializzato, che ritorni magari a una
idealizzata vocazione rurale e marinara, spesso nella versione naif dei saperi e sapori locali, a
un’economia di sussistenza da esporre nelle rustiche vetrine, o tra le rovine di un mondo
antico per sofisticati viaggiatori, non fa i conti con un tema di modernità, che la post-
modernità sembrava aver rimosso: la questione sociale che è tornata al centro della nostra
contemporaneità. In questo quadro, l’idea di fare del Sud tutto un luogo di vacanza, una
versione risibile dei grand tours dell’epoca che fu, alla ricerca “esotica” di un gusto antico, il
fascino delle rovine greche (magari sguarnite di servizi adeguati) o dei capperi e muretti a
secco, non è solo insostenibile socialmente ed economicamente, è l’altra faccia di un
capitalismo aggressivo e di un individualismo remissivo. È una “vacanza dalla modernità”,
che evade dalle responsabilità pubbliche nel governo di un territorio a cui dare una prospettiva
demografica e sociale sostenibile.
Nel suo accento “modernizzatore”, così sensibile al tema sociale, il “meridionalismo” di
Felice, a parere di chi scrive, si inserisce in un solco che necessita di essere ancora alimentato.
27
Su cui da tempo la SVIMEZ lancia l’allarme nei suoi Rapporti annuali sull’economia del Mezzogiorno. 28
Cfr. M. Mazzucato, Lo Stato innovatore, Laterza, 2014. Da una prospettiva meridionalista, cfr. R. Padovani,
G. Servidio, L. Cappellani, Una politica industriale per il riposizionamento competitivo e lo sviluppo del Sud.
Obiettivi e strumenti, in «Rivista Economica del Mezzogiorno», n.4, 2013, pp. 887 ss. Cfr. anche G. Viesti, La
riscoperta della politica industriale. Per tornare a crescere,
in «Economia Italiana», n. 3, 2013. 29
Cfr. ad es., per l’Italia, M. Pallante, La decrescita felice, Roma 2011.
9
3. Il divario e le sue interpretazioni. Il ruolo delle politiche
Non può stupire, a questo punto, che a nostro avviso rappresenti un altro fondamentale punto
di forza dell’analisi Felice, l’aver ricostruito le differenze tra Sud e Centro-Nord intorno
all’Unità d’Italia, non solo e non tanto in termini di reddito pro-capite (argomento che peraltro
resta centrale nel libro) ma soprattutto per quello che riguarda le precondizioni dello sviluppo
e le condizioni di vita in quel Regno delle Due Sicilie passato alla storia, foss’anche con
qualche esagerazione, col giudizio implacabile (e interessato) di quel Lord inglese: «la
negazione di Dio eretta a sistema di governo»30
.
Ed è una lettura – supportata, ripetiamo, da dati socio-economici e dalla migliore storiografia
– di cui si sentiva la necessità, perché offre un quadro sintetico da opporre alla propaganda
neoborbonica che si è diffusa, anche tra le classi dirigenti periferiche del Mezzogiorno, a
seguito del successo del famoso libro di Pino Aprile31
. Ci sarebbe da discutere molto – non lo
fa Felice, e qualcosa proveremo a dire più avanti – sulle ragioni attuali di un successo che non
può essere considerato un accidente. Sicuramente, la comunità scientifica degli storici,
sottovalutando le conseguenze nella discussione meridionalistica della divulgazione di tesi di
un revisionismo a dir poco deteriore, ha sbagliato a non offrire delle repliche compiute e
spendibili nel dibattito32
. Il lettore di cose del Sud, che non fa lo storico di professione ma che
subisce, come tutti, l’uso politico della storia, credo dunque che possa essere rinfrancato dalla
lettura di Felice su quel passaggio fondamentale della costruzione dello Stato italiano.
Nell’ambito di questa ricostruzione, trovano spazio le pagine su cui si è specialmente
concentrata la polemica, in ambito scientifico, intorno al libro di Felice: e sono le pagine in
cui si ricostruisce il divario di reddito tra Sud e Nord intorno all’Unità. Come detto, non
abbiamo gli strumenti per intervenire nello scontro acceso sulla ricostruzione storico-
economica del divario (stimato) in termini di PIL pro capite tra le aree33
. Al di là della
interessante discussione sulle differenti metodologie utilizzate, sulla loro solidità scientifica, a
noi, come crediamo a qualsiasi lettore non specialista, questa polemica, i cui toni talvolta sono
davvero incomprensibili, può apparire eccessiva per diverse ragioni: a partire dal fatto che
30
L’attacco del parlamentare britannico William Gladstone è del 1851. 31
L’antirisorgimento popolare e populista che ormai dilaga nel Mezzogiorno è stato alimentato nel corso degli
ultimi anni da svariate pubblicazioni (di risonanza mediatica nazionale più o meno ampia) prima e dopo P.
Aprile, Terroni, cit. Carmine Pinto nell’articolo citato supra ne fa un elenco (ma se ne potrebbero citare tanti
altri): su tutti, ad es., L. Del Boca, Indietro Savoia. Storia controcorrente del Risorgimento, Piemme, 2003; G.
Di Fiore, Contro storia dell’unità d’Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento, Rizzoli, Milano 2010 e Id., Gli
ultimi giorni di Gaeta, Rizzoli, Milano 2011. 32
Anche gli storici accademici sono oggi ben consapevoli dell’estensione e della facile presa del fenomeno
revisionista risorgimentale (tra gli altri revisionismi, peraltro). E ogni tanto c’è un redde rationem, come con A.
Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle, Laterza, Roma-Bari, 2012,
esasperato più di altri suoi colleghi dalle «miserie della storiografia» al tempo degli storici-giornalisti dilettanti.
In generale, si cfr. la lettura di S. Lupo, L’Unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, cit. 33
Tra Daniele e Malanima e Felice (dello stesso autore cfr. anche l’apprezzato lavoro: E. Felice, I divari
regionali in Italia sulla base degli indicatori sociali (1871-2001), in «Rivista di Politica Economica», III-IV,
2007). Cfr. anche SVIMEZ, 150 anni di statistiche, cit.; G. Iuzzolino, G. Pellegrini e G. Viesti, Convergence
among Italian Regions, 1861-2011, in «Banca d’Italia, Quaderni di storia economica», n. 22, Roma, 2011. V.,
infine, soprattutto per altri indicatori economico-sociali, G. Vecchi, In ricchezza e in povertà, cit.
10
occorrerebbe avere sempre il buon senso di ricordare, per dirla con Salvatore Lupo, che ci
stiamo misurando con un’epoca “prestatistica”34
.
A nostro avviso, trattandosi di stime con dichiarati “ampi” margini di errore, davvero non
sembrano così rilevanti le differenze: se insomma, il divario all’Unità sia stimabile intorno al
20%, come scrive Felice, o intorno al 10%, come sono pronti ad ammettere Daniele e
Malanima, o fra il 15 e il 25%, come riteneva plausibile il “classico” Eckaus35
(peraltro privo
dei loro sofisticati strumenti statistici), è davvero così dirimente? Assai più interessante è
andare a vedere qual sia stato, nei centocinquant’anni e oltre di storia unitaria, l’andamento
del divario di sviluppo. E in questa ricostruzione dell’evoluzione della distanza tra il Nord e
Sud – che dovrebbe rappresentare a nostro avviso la questione centrale – le differenze tra i
principali lavori sono “trascurabili”, come riconoscono gli stessi autori.
In entrambe le ricostruzioni l’evidenza principale è, in estrema sintesi, che il divario
economico, stimato o calcolato sul PIL, era modesto a ridosso dell’Unità e fino all’avvio dello
sviluppo industriale, comincia a crescere (con lo sviluppo) nell’ultimo decennio
dell’Ottocento, si allarga considerevolmente nel Novecento tra le due guerre e in particolare
sotto il Fascismo, si riduce sensibilmente, grazie ad un importante processo di convergenza
(su cui torneremo diffusamente) tra i primi anni Cinquanta e i primi anni Settanta, da allora,
per i decenni che seguono, salvo modeste oscillazioni, rimane stazionario, per declinare
nuovamente nel corso degli ultimi anni, collocandosi su valori non dissimili da quelli del
secondo Dopoguerra36
.
La verità, come spesso accade a certe polemiche tra storici, è che lo scontro sui fatti è
rivelatore di altro, di un più importante scontro sulle interpretazioni. E, a nostro avviso,
entrambe quelle che accompagnano la lettura del divario in Felice e in Daniele e Malanima,
per quanto convincenti in molti aspetti, ci paiono inadeguate e incomplete. L’inadeguatezza
principale deriva dall’ambizione di poter fornire un’unica interpretazione che valga per un
periodo tanto lungo (oltre centocinquant’anni), senza le opportune periodizzazioni: la ragione
dell’arretramento dello sviluppo del Sud sotto il Fascismo può essere differente da quella
all’indomani dell’Unità o da quella che spiega la fine della convergenza dopo la metà degli
anni Settanta del Novecento. L’incompletezza, invece, deriva come accennato dalla
secondaria (o addirittura trascurabile) importanza che l’uno e gli altri attribuiscono al ruolo
delle politiche pubbliche nella determinazione dei processi di sviluppo, di modernizzazione
sia economica che istituzionale: e di più, nel determinare anche le risposte opportune alle 34
È l’avvertenza di S. Lupo, L’economia del Mezzogiorno postunitario. Ancora su dualismo e sviluppo, in
«Meridiana», n.69, 2010, spec. 227-228, dove anche afferma: «Centocinquant’anni rappresentano poi un tempo
troppo lungo per costruirci sopra discorsi sobri e sorvegliati». 35
R.S. Eckaus, L’esistenza di differenze economiche tra Nord e Sud al tempo dell’unificazione, in «Moneta e
Credito», n. 51, 1960, pp. 3-27. Cfr. anche G. Pescosolido, Unità nazionale e sviluppo economico, 1750-1913,
Laterza, 1998. 36
Per gli ultimi dati disponibili, cfr. SVIMEZ, Rapporto 2014 sull’economia del Mezzogiorno, il Mulino, 2014. In
generale, sull’andamento del divario e l’evoluzione socio-economica e istituzionale delle regioni italiane e delle
macroaree nel corso della storia unitaria, la SVIMEZ ha organizzato una Giornata di Studi, il 30 maggio 2011,
presso la Camera dei Deputati, che ha visto il confronto, a partire dai dati presentati nel volume 150 anni di
statistiche italiane, cit., tra i più autorevoli studiosi ed esperti. Relazioni, interventi e memorie sono raccolti in
SVIMEZ, Nord e Sud a 150 anni dall’Unità d’Italia, Quaderni Svimez, Roma, 2012. Cfr. spec. nella prima
sessione, dedicata agli andamenti economici e alle politiche, oltre alle relazioni di base, gli interventi di P.
Ciocca, G. Pescosolido e G. Viesti.
11
questioni che rispettivamente sollevano, e cioè la qualità delle classi dirigenti da un lato e le
opportunità o gli svantaggi della geografia dello sviluppo, dall’altro.
È un ruolo, invece, quello delle politiche, essenziale – non solo nell’opinione di chi scrive – a
spiegare alcune dinamiche economiche, specialmente nel momento in cui le stesse si
infittiscono e diventano anche “regionali”, e cioè dal secondo Dopoguerra a oggi. Un periodo
assai fervido – e da Felice un po’ trascurato – per chi voglia guardare in una prospettiva
storica il tema dello sviluppo (incompiuto o mancato) del nostro Mezzogiorno.
Non riprendiamo le critiche, anche convincenti, che le due tesi si rivolgono vicendevolmente.
E in particolare, vi sarebbe da discutere, da un lato, sulla difficoltà di «adattare» a istituzioni
locali nel corso della lunga storia nazionale, con le conseguenti diversità di peso, ruolo e
funzione che tali istituzioni hanno svolto nei centocinquant’anni, il pur potente schema
interpretativo di Robinson e Acemoglu sulle istituzioni “estrattive” o “inclusive”; dall’altro,
per fare un solo esempio, una lettura “geografica” dei processi di sviluppo, che pure si colloca
oggi sulla frontiera dei cosiddetti core-periphery models da Krugman37
in poi, si scontra con
l’evidenza degli andamenti, di lungo periodo, di una regione non così “periferica” come ad
esempio la Campania (quella che nei centocinquant’anni, si può dire, mostra la performance
economica in assoluto più negativa).
È proprio la scansione temporale dell’evoluzione del divario, che smentisce in un senso e
nell’altro il luogo comune della sua immutabilità, a suggerire a nostro avviso di verificare il
ruolo che le politiche concretamente messe in campo hanno potuto avere nelle varie fasi, nella
convinzione che queste non siano affatto indipendenti dalle scelte (compiute o mancate) di
politica economica (nazionale) e che questa non sia certo “neutrale” sul piano delle ricadute.
Attenzione, parlando di studiosi di grande valore e qualità, è difficile trovare brani dei lavori
citati in cui si nega il ruolo delle politiche, e anzi, sia Felice che Daniele e Malanima, in
diversi passaggi, vi fanno riferimento, riconoscendone l’importanza. E tuttavia, nell’ambito
della interpretazione “socio-istituzionale” dell’uno e nell’ambito di quella “geografica” degli
altri, l’analisi degli effetti delle politiche subisce una progressiva marginalizzazione.
Riteniamo, invece, che proprio una comprensione attenta di questo tema sia tanto più decisiva
in un tempo in cui, il diffuso luogo comune sulla prodigalità di decenni di politiche (e risorse)
pubbliche impiegate al Sud, ha portato larga parte dell’opinione pubblica e delle classi
dirigenti meno accorte, con la complicità più o meno colpevole di alcune élite intellettuali, a
ritenerle tutte inutili, o addirittura dannose.
Dalla messa a fuoco di questo tema, possono derivare conseguenze interpretative rilevanti. Ad
esempio, se Felice punta l’indice contro le classi dirigenti meridionali, con diverse ragioni,
occorre ricordare che nei decenni di storia unitaria che precedono la formazione della
Repubblica, le politiche che influirono sul modello (e la dinamica) di sviluppo del
Mezzogiorno potrebbero essenzialmente essere definite, secondo un lessico corrente,
37
P. Krugman, Increasing returns and economic geography, in «Journal of Political Economy», 99, 1991, pp.
483-499. Cfr. anche P. Krugman, A. Venables, Globalisation and inequality of nations, in «Quarterly Journal of
Economics», 110, 1995, pp. 857-880.
12
“politiche generali nazionali”38
. Dunque – ed è questo il nostro punto di distinzione da F. sul
tema della classi dirigenti – non si può e deve trascurare la responsabilità, in diversi frangenti
anche maggiore, delle classi dirigenti nazionali che, dopo l’Unità, avrebbero dovuto darsi tra i
compiti primari il superamento della «questione meridionale», nascente o risalente che fosse.
E invece, quelle politiche nazionali, a partire dall’introduzione della tariffa piemontese, dal
passaggio al protezionismo industriale e dall’introduzione dei dazi sul grano, ebbero senza
dubbio effetti marcati sui diversi destini di sviluppo delle due macroaree del Paese39
, e
contribuirono a rafforzare sul piano locale le “vecchie” classi dirigenti meridionali. O, d’altro
canto, pure riconoscendo come determinante il tema della concentrazione geografica nel Nord
Italia dello sviluppo industriale per la presenza di vantaggi comparati territorialmente specifici
(risorse naturali, topografia, e un sistema sociale più “adatto”)40
, è comunque fuor di dubbio
che quelle politiche – “nazionali”, ribadiamo – non solo non contrastarono, ma contribuirono
ad allargare il nascente divario e a consolidare l’emergente dualismo economico. Tra le due
Guerre, con il Fascismo, nel periodo di maggiore allargamento del divario, furono le politiche
protezionistiche (che avvantaggiavano le rendite) e l’autarchia ad avere risvolti sociali pesanti
al Sud, mentre le politiche di “ricostruzione industriale” furono orientate all’esistente, e
dunque al Nord: un complesso di scelte (certo non locali…) che penalizzarono l’avvio di uno
sviluppo capitalistico nel Mezzogiorno41
.
Ma è soprattutto guardando alla storia repubblicana che la sottovalutazione del ruolo delle
politiche pubbliche nei processi di convergenza e divergenza42
risulta ancora maggiore.
Questa sottovalutazione, per aprire una breve parentesi, è paradossalmente un punto in
comune con l’altra teoria interpretativa sui divari, andata molto di moda negli ultimi anni, e
38
Cfr. L.Bianchi, D.Miotti, R.Padovani, G.Pellegrini, G.Provenzano, 150 anni di crescita, 150 anni di divari:
sviluppo, trasformazioni, politiche, in «Rivista Economica del Mezzogiorno», ed. il Mulino, n. 3/2011, pp. 449
ss.: «Come noto, pur in presenza di una forte e crescente consapevolezza della emergente questione meridionale
(testimoniate dalle famose inchieste parlamentari e dall’attenzione pubblica alla tempestiva “voce” di denuncia
dei meridionalisti “classici”), pressoché le uniche politiche specificatamente indirizzate a contrastare
l’emergenza furono le leggi speciali dei primi del Novecento, soprattutto per Napoli e la Basilicata». Le politiche
generali nazionali, invece, non ebbero allora quella attenzione “meridionalistica” che sarebbe stata necessaria ad
invertire il processo di divergenza. Vedi più ampiamente infra. 39
Una breve ma densa ricostruzione delle vicende economiche e politiche delle macroaree si legga ora in A.
Giannola, Sud d’Italia. Una risorsa per la ripresa, cit. Sull’influenza delle vicende fiscali e doganali, e la teoria
dell’«accumulazione originaria», il riferimento è ovviamente a R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, Laterza,
1959. Cfr. in generale anche P. Ciocca, Ricchi per sempre? Una storia economica d'Italia (1796-2005), Bollati
Boringhieri, 2007; P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale. Dall’Ottocento a oggi, Donzelli, 1996; V.
Castronovo, Storia economica d’Italia dall’Ottocento ai nostri giorni, Einaudi, 1995. 40
Cfr. su questo ampiamente Daniele e Malanima, Il divario Nord-Sud in Italia, cit. e degli stessi autori, Perché
il Sud è rimasto indietro?, cit. Cfr. anche L.Bianchi, D.Miotti, R.Padovani, G.Pellegrini, G.Provenzano, 150 anni
di crescita, 150 anni di divari, cit.: «Tali vantaggi si sono poi progressivamente ampliati attraverso meccanismi
di causazione circolare e cumulativa ben descritti in Krugman (1995), fenomeno usuale in quasi tutti i processi
di sviluppo economico». 41
La letteratura, su quei passaggi, è sterminata. La riflessione storica e meridionalistica vi si è misurata
ampiamente, in particolare all’indomani della Seconda guerra mondiale. Per un quadro generale e per i
riferimenti bibliografici, rimandiamo ancora agli atti del convegno SVIMEZ in occasione del Centocinquantenario
dell’Unità (Nord e Sud a 150 anni dall’Unità d’Italia, cit.). 42
Una critica sul punto è rivolta a Daniele e Malanima in questa Rivista da G. Pellegrini, in una recensione a Il
divario Nord-Sud in Italia, contenuta nel n.4 del 2011, 1129 ss. Scrive Pellegrini: «Questa […] tesi appare però
condivisibile solo in parte: a mio parere molte sono le scelte di politica economica che hanno determinato sia la
lentezza di processi di convergenza del Sud, sia la loro brusca interruzione dalla metà degli anni ’70».
13
cioè quella sulle dotazioni di «capitale sociale»43
. Una teoria criticata sia da Felice che
Daniele e Malanima, sia pure con accenti diversi. Ma che, a nostro avviso, è criticabile44
- tra
gli altri decisivi motivi – proprio perché, nel considerare i fattori “culturali” e “relazionali”
che determinano lo sviluppo come persistenti (se non addirittura immutevoli) nel tempo, nulla
dice sugli strumenti di policy efficaci (e non inficiati a loro volta dal deficit di cultura civica)
per modificare questa dotazione e innescare una dinamica di convergenza e riduzione dei
divari. Al di là dell’indagine sul nesso di causalità tra capitale sociale e sviluppo, e sulle molte
evidenze di “causalità inversa” rispetto alla tesi dominante, il rischio più grosso è di arrivare,
per questa via “socio-culturale”, a negare l’utilità della stragrande maggioranza degli
strumenti di intervento per la creazione di un ambiente favorevole allo sviluppo: le politiche
di sviluppo, nell’ambito di questa teoria, rischiano infatti di diventare un’arma spuntata. Del
resto, non si può dire che la riflessione sul “capitale sociale” come causa determinante sia
estranea alla temperie culturale, che ha dominato il pensiero economico negli ultimi decenni,
e che mostra estrema insofferenza alle politiche pubbliche, e tanto più a un intervento
pubblico in economia mirato alla riduzione delle disuguaglianze e alla attivazione del capitale
“sottoutilizzato”.
4. La centralità delle politiche pubbliche negli anni della Repubblica. Una breve
ricostruzione.
Occorre dunque andare a vedere meglio, dal secondo Dopoguerra ad oggi, questo rapporto tra
andamenti e politiche per la convergenza. Non può far desistere, da questa analisi, la
costatazione che oggi, a più di sessant’anni di distanza dalla fine degli anni Quaranta, quando
il divario in termini di PIL pro capite tra Centro-Nord e Sud raggiunge il suo apice, le
proporzioni siano ancora quelle: un abitante del Mezzogiorno ha in media un reddito pro
capite pari a poco più della metà di quello nel resto del Paese. Vi è stata una stagione, legata a
scelte politiche ben precise, in cui l’andamento del divario si è invertito e si sono innescate
dinamiche di interdipendenza e di convergenza virtuose.
43
Com’è noto, intorno al concetto si è sviluppata una amplissima controversia, a partire dall’esigenza di una
definizione che si sottraesse a un’eccessiva “vaghezza” che spesso ha caratterizzato le varie posizioni e
interpretazioni: basti pensare alla definizione, la più fortunata e controversa, di Robert Putnam (cfr. R. Putnam,
R. Leonardi e R.Y. Nanetti, La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano, Mondadori, 1997): «Per capitale
sociale intendiamo qui la fiducia, le norme che regolano la convivenza, le reti di associazionismo civico,
elementi che migliorano l’efficienza dell’organizzazione sociale promuovendo iniziative prese di comune
accordo». Per provare a chiarire cosa sia e cosa spieghi il capitale sociale si rimanda a una raccolta di saggi
introdotta e curata dagli studiosi di Banca d’Italia, Guido de Blasio e Paolo Sestito, Il capitale sociale. Che cos’è
e che cosa spiega, Donzelli, 2011, in cui figurano numerosi importanti contributi, con uno spirito «pluralista»,
utili non solo e non tanto per dar conto dei diversi punti di vista e dell’ampio dibattito scientifico, ma soprattutto
per gli spunti critici – talvolta “radicali”, ché toccano la radice stessa del concetto – assai fecondi che
comprende (vorremmo segnalare in particolare il contributo di L. D’Antone e P. Casavola e quello di C.
Trigilia). Per una lettura critica del “capitale sociale” nel corso della storia unitaria, si vedano le relazioni di L.
Costabile (Capitale sociale: ruolo economico e persistenza) e A. La Spina (Giustizia, criminalità e sicurezza),
nella sessione dedicata del Convegno SVIMEZ del 2011 (cfr. SVIMEZ, Nord e Sud a 150 anni dall’Unità d’Italia,
cit.). 44
Lo abbiamo fatto, a partire dall’evidenza dai rapporti di “causalità inversa” rispetto alla teoria dominante, in
un’ampia recensione critica al volume cit. di de Blasio e Sestito, contenuta del n. 1-2, 2012, di questa Rivista, pp.
269 ss.
14
Come accennato, erano state diverse le difficoltà che il Mezzogiorno aveva dovuto affrontare:
lo squilibrio nello sviluppo delle reti infrastrutturali, specie quella della produzione elettrica;
le politiche protezionistiche, che avvantaggiarono l’industria nascente al Nord e penalizzarono
la modernizzazione nell’agricoltura (favorendo invece la rendita degli “agrari”) come spinta
allo sviluppo capitalistico; gli scandali bancari e finanziari, i cui ripianamenti rappresentarono
«una forma grandiosa di finanziamento pubblico, sia pure a posteriori, di una espansione
industriale localizzata soprattutto al Nord»45
. A tutto questo si aggiunsero i disastri causati
dalla guerra: le distruzioni e le dislocazioni colpirono prevalentemente il Sud46
, mentre la
conversione delle industrie belliche e lo stravolgimento dei prezzi relativi, in particolare
tramite l’azzeramento dei valori monetari (titoli pubblici e depositi bancari), favorirono
l’industria e gli industriali del Centro-Nord. La «questione meridionale», insomma, si
presentava in tutta la sua drammatica evidenza. La frattura territoriale del Paese, del resto, era
stata definitivamente marcata dalla storia nei pressi della “linea Gustav”, con il diverso
processo di liberazione dalla dittatura e dall’occupazione tra il Sud e il Centro-Nord.
Il Costituente ebbe piena consapevolezza dei rischi per la tenuta – per la «coesione politica
economica e sociale», oggi si potrebbe dire – di un Paese diviso, da ricostruire47
. Nella sua
straordinaria lungimiranza, capì che il superamento del divario non poteva essere affidato
soltanto all’operatività del principio di «uguaglianza sostanziale» sancito all’art.3, secondo
comma, Cost. e che perciò bisognava dare “copertura” costituzionale a un intervento che
agisse con modalità diversa dalla mera “redistribuzione” – dalla mera “perequazione”,
verrebbe da dire, con il lessico allora di là da venire del “federalismo fiscale”. La Costituente
affrontò la questione, ponendola nei termini positivi di un’azione – “auspicabilmente
transitoria”, fu detto – che favorisse un processo di convergenza tra le regioni meridionali e il
resto del Paese48
. Il distillato di quell’ampio dibattito fu raccolto dal terzo comma del
“vecchio” art. 119 che sanciva: «per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per
valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna per legge a singole Regioni contributi
45
Nella letteratura sul divario di sviluppo all’indomani della seconda guerra mondiale, la ricostruzione “a caldo”
– che conserva piena validità – e a cui facciamo riferimento è quella dei “neomeridionalisti” e, su tutti, gli scritti
di Pasquale Saraceno. La citazione riportata è di P. Saraceno, La mancata unificazione economica italiana a
cento anni dall’unificazione politica, Giuffrè, 1961. In generale, per le politiche dal Dopoguerra a oggi, abbiamo
seguito la ricostruzione di S. Cafiero, La politica per l’unificazione economica dell’ultimo cinquantennio e i
problemi di oggi, in, L’Unificazione economica dell’Italia, il Mulino, 1997, e poi S. Cafiero, Storia
dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, Manduria, Lacaita, 2000. Cfr. anche F. Barca (a cura di), Storia del
capitalismo italiano. Dal dopoguerra ad oggi, Roma, Donzelli, 1997; S. Rossi, La politica economica italiana
1968-2000, Laterza, 2001. 46
Cfr. R. Padovani, Le scelte della ricostruzione nel Sud d’Italia, in G. Mori (a cura di), La cultura economica
nel periodo della ricostruzione, il Mulino, 1980. 47
Proprio le dimensioni del divario Nord-Sud – come emergeva già durante i lavori dell’Assemblea Costituente
– rappresentarono a lungo un argomento decisivo per l’ostilità verso l’attuazione del principio autonomistico. Il
dibattito sul Mezzogiorno all’Assemblea Costituente fu imperniato, in primo luogo, su una riflessione sulla
scelta regionalistica nella prospettiva della crescita di una nuova classe dirigente meridionale; in secondo luogo,
sul problema del latifondo, tipico dell’agricoltura del Meridione italiano; in terzo luogo, sull’autonomia
finanziaria regionale e sulla opportunità di una redistribuzione territoriale della spesa statale, a cui si
contrapponeva la proposta di contributi speciali da parte dello Stato per la valorizzazione del Mezzogiorno e
delle Isole: quest’ultimo fu l’orientamento che prevalse, e fu sancito dall’art. 119, c. 3 Cost. Tutti gli interventi
sul Mezzogiorno all’Assemblea Costituente sono in P. Barucci (a cura di), Il Mezzogiorno alla Costituente,
Giuffrè, 1975. 48
Si vedano in particolare le Conclusioni di Meuccio Ruini nel dibattito in Assemblea sull’art. 119 in Il
Mezzogiorno alla Costituente, cit., 280.
15
speciali»49
. La riforma costituzionale avvenuta con la legge cost. n. 3 del 2001 avrebbe
riformulato l’articolo, facendo salvo il principio ma “abolendo” il Mezzogiorno50
.
Bisognerà aspettare qualche anno affinché quel principio si inverasse nell’avvio di una
politica speciale per il Mezzogiorno, secondo l’impostazione voluta dai cosiddetti «neo
meridionalisti»51
. Fu solo nel 1950, infatti, che partirono una serie di politiche
meridionaliste52
- anche, lo ripeteremo più avanti, come risposta alle profonde agitazioni
sociali che interessarono il Mezzogiorno nel Dopoguerra e all’insorgervi per la prima volta
nella storia di un vasto movimento politicamente organizzato di contadini. La riforma
agraria53
, infatti, avrebbe interessato il Mezzogiorno per circa i quattro quinti delle terre
espropriate. L’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno – per la realizzazione di un piano
decennale di «complessi organici di opere straordinarie», con un finanziamento di mille
miliardi di lire di allora – fu una vera e propria “svolta”54
.
L’assetto “istituzionale” di questa politica – che sarebbe stato chiamato intervento
straordinario per il Mezzogiorno – si presentava come sui generis rispetto all’impianto
generale delle politiche pubbliche55
: fin dal suo esordio era caratterizzato per una politica
49
Corsivo nostro. Questa disposizione è stata riconosciuta dalla dottrina una sorta di «diritto sociale territoriale»,
al fine di promuovere lo sviluppo economico e la coesione sociale nell'area meridionale. Cfr. T.E. Frosini,
Federalismo e riforma costituzionale, in «Rivista giuridica del Mezzogiorno», n.1 del 2004, 93 ss. 50
Il riferimento è a G. Viesti, Abolire il Mezzogiorno, cit. 51
Che guidati da Morandi, Menichella e Saraceno a metà anni Quaranta si raccoglievano intorno alla SVIMEZ, di
cui Rodolfo Morandi (allora Ministro dell’industria) fu il primo Presidente e Pasquale Saraceno (l’economista
proveniente dall’IRI) il primo Segretario generale. I “neo meridionalisti” erano convinti che la ricostruzione potesse
rappresentare l’occasione decisiva per dare avvio all’industrializzazione del Sud. Tale convinzione fu espressa
ufficialmente nel 1947 nel programma dell’Associazione. Cfr. R. Morandi, La ricostruzione italiana e lo
sviluppo dell’economia industriale del Mezzogiorno, Roma, 1947, pubblicato in AA.VV. II Mezzogiorno nelle
ricerche della SVIMEZ, Roma, Giuffré, 1968, 1 ss. Secondo Sergio Zoppi, le personalità che animarono la
SVIMEZ in quei primissimi anni avvertivano con forza l’esigenza «di una celere crescita economica e produttiva
del Mezzogiorno, attraverso la loro esperienza di tecnici e di responsabili di imprese o di impianti dislocati nel
Sud del Paese», spesso anche, in quanto meridionali di nascita, «in virtù della conoscenza diretta della società e
delle condizioni di vita in quelle Regioni» (S. Zoppi, Il Mezzogiorno di De Gasperi e Sturzo (1944-1959),
Rubbettino, 1998, 11). 52
Cfr. anche M. Annesi, Legislazione per il Mezzogiorno, in Enciclopedia del Diritto, Milano, Giuffrè, 1976. 53
Cfr. G. Mottura, Caratteristiche dell’intervento pubblico in agricoltura tra il 1943 e il primo centro-sinistra,
in AA.VV., Stato e agricoltura in Italia, 1945-1970, Editori riuniti, 1980, 315 ss. Su latifondo, riforma agraria
ed economia agricola a sostegno della sovrappopolata area meridionale, si cfr. ancora Il Mezzogiorno alla
Costituente, cit., spec. 21 e 171. In generale, cfr. E. Zagari, Mezzogiorno e agricoltura, Giuffrè, 1977 e
l’antologia di Manlio Rossi-Doria, La polpa e l’osso. Agricoltura risorse naturali e ambiente, a cura di M.
Gorgoni, l’ancora del Mediterraneo, 2005. 54
Anche «rispetto alla tradizione di uniformità amministrativa dello Stato unitario e alla concezione, fino allora
dominante, della questione meridionale come problema da avviare a soluzione essenzialmente sulla base di un
corretto funzionamento dell’amministrazione ordinaria». Cfr. S. Cafiero, La politica per l’unificazione
economica dell’ultimo, cit., 12. 55
Cfr. sulla“diversità” dell’intervento nel contesto dell’amministrazione dello Stato, in generale, S. Cassese, Il
sistema amministrativo italiano, il Mulino, 1983 (e, in particolare, Id., Questione amministrativa e questione
meridionale, Giuffrè, 1977; e ancor prima Id., Amministrazione speciale e amministrazione ordinaria per lo
sviluppo del Mezzogiorno, Milano, Giuffrè, 1965). Cfr. in generale G. Melis, Storia dell’amministrazione
italiana (1861-1993), il Mulino, 1996 e L. D’Antone, Straordinarietà e Stato ordinario, in F. Barca (a cura di),
Storia del capitalismo italiano, cit., e ivi riferimenti bibliografici. Cfr. anche P. Graziano, Europeizzazione e
politiche pubbliche italiane. Coesione e lavoro a confronto, il Mulino, 2004, spec. 73. Occorre sottolineare che,
nel corso dell’iter della legge n. 646/1950, la natura giuridica della Cassa costituì argomento di disputa
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formulata dal Parlamento e dal Governo e attuata, con larghissimi margini di autonomia
gestionale e finanziaria, da un ente istituito ad hoc (la Cassa, appunto)56
. Questo assetto
istituzionale caratterizzava l’intervento anche come aggiuntivo rispetto agli interventi
dell’amministrazione ordinaria, il cui coordinamento con l’azione della Cassa sarebbe stato
compito di un Comitato dei ministri, concepito come organo di governo politico del sistema
unitario dell’insieme degli interventi di sviluppo destinati all’intera area meridionale.
Non è questa la sede per una dettagliata ricostruzione della fasi dell’intervento, inizialmente
volto alla cosiddetta “preindustrializzazione”57
(alla creazione, cioè, delle condizioni
ambientali per l’esercizio di un’industria competitiva) mentre l’impegno di industrializzazione
era rinviato ad un «secondo tempo»58
, quando la politica avviata avrebbe conseguito i primi
risultati in termini di miglioramento del contesto e dei livelli di reddito59
.
dottrinaria. Prevalse l’incertezza, e nella definizione della natura della Cassa il legislatore si limitò ad attribuirle
personalità giuridica. Sulla questione, si cfr. C. Riviello, Dalla Cassa per il Mezzogiorno al nuovo intervento
straordinario, Il Mulino, 1988, 21 ss. Per un’ampia disamina su funzione e natura giuridica della Cassa, cfr. G.
Melis, Amministrazioni speciali e Mezzogiorno nell’esperienza dello Stato Liberale, in M. Annesi (a cura di),
L’efficienza delle strutture e delle procedure dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, SVIMEZ-CNR,
1993,19 ss. La polemica politica sulla questione, è invece compresa nel famoso intervento contrario alla Camera
dei Deputati sulla legge istitutiva della Cassa, di G. Amendola, Contro la istituzione di una Cassa per il
Mezzogiorno, in La democrazia nel Mezzogiorno, Editori Riuniti,1957, pp. 294-299. 56
S. Cafiero, Storia dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, cit., 22 ss., ricorda che l’idea di un ente
autonomo responsabile dell’intervento era emersa a metà degli anni ‘40 negli ambienti della Banca
Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS) e successivamente la stessa Banca mondiale manifestò
l’esigenza di rapportarsi, piuttosto che con diversi ministeri, con un solo ente, come ricorda anche D. Menichella,
Scritti e discorsi scelti. 1933-1966, Roma, 1986, 282. Su questi “legami” internazionali torneremo diffusamente
infra. Qui preme sottolineare che Menichella, allora direttore generale della Banca d’Italia, artefice principale
dell’operazione, con la preziosa sponda nel governo di Ezio Vanoni che molto si prodigò con De Gasperi per la
“svolta”, predispose il disegno di legge (cfr. P. Barucci, Ricostruzione, Pianificazione, Mezzogiorno, Bologna, Il
Mulino, 1978), con l’idea originaria di qualificare la Cassa come un «ente di diritto pubblico», proprio per
rafforzarne l’autonomia finanziaria e gestionale rispetto al Governo. L’iter governativo e parlamentare poi,
ridusse fortemente le garanzie di autonomia con l’introduzione di un comitato dei ministri per l’approvazione dei
programmi e facendo cadere la qualifica di «ente di diritto pubblico». Tuttavia, com’è noto, la “prima” Cassa
riuscì a ritagliarsi «un’autonomia considerevole, soprattutto se messa a confronto con quella che caratterizzerà le
fasi successive». Così, P. Graziano, Europeizzazione e politiche pubbliche italiane, cit., 73. Cfr. anche M.
Annesi, L’intervento straordinario: diversificazione o uniformità organizzativa?, in La nuova disciplina
dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, Bologna, Il Mulino, Collana SVIMEZ, 1990. 57
Gli ambiti di intervento, previsti nel disegno originario, erano infatti indirizzati in particolare verso la bonifica,
l’irrigazione, la trasformazione agraria, la sistemazione di bacini montani, la viabilità minore, gli acquedotti e le
fognature, gli impianti per la valorizzazione dei prodotti agricoli, e le opere di interesse turistico. Nella prima
fase, alla trasformazione dell’agricoltura era destinato il 70% della dotazione finanziaria, mentre ad opere di
infrastrutturazione civile il restante 30%. 58
Così, S. Cafiero, R. Padovani, Grande e piccola impresa nello sviluppo economico del Mezzogiorno, in Rivista
economica del Mezzogiorno, n. 3 del 1989, 436. 59
L’obiettivo di rendere conveniente l’investimento industriale, con una politica limitata alle opere pubbliche e
alla agricoltura, era destinato a non ottenere i risultati sperati, anche per la denunciata – già allora! – sostitutività
degli interventi aggiuntivi rispetto a quelli ordinari delle pubbliche amministrazioni: l’andamento tutto sommato
stabile del divario negli anni Cinquanta lo conferma. D’altro canto, la maggiore domanda nel Mezzogiorno
dovuta alle realizzazione delle opere e alla spesa pubblica fu soddisfatta soprattutto dall’industria settentrionale
che ne ricavò un ulteriore stimolo alla sua espansione. Solo una modifica strutturale dell’economia meridionale
attraverso un peso maggiore dell’industria avrebbe consentito, secondo la dottrina dei «neo meridionalisti», il
conseguimento di significati effetti di sviluppo. Così, nel 1957, (che prorogò fino al 1965 l’attività della Cassa
raddoppiandone la dotazione finanziaria) partì la vera politica di industrializzazione, in un contesto in cui – a
fronte delle posizioni ben note dei meridionalisti – la linea di pensiero dominante (dagli einaudiani alla
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Ai fini di questa ricostruzione, invece, è più opportuno evidenziare che la natura e
l’operatività dell’«intervento straordinario» si caratterizzavano per una decisa vocazione
all’«ingegneria sociale» (e alla «tecnologia sociale») che rappresentava una delle cifre più
autentiche del periodo60
, insieme alla generalmente avvertita priorità di un imponente
intervento pubblico (statale) nell’economia61
.
La natura “tecnico-ingegneristica” dello strumento della Cassa, almeno nella prima fase di
intervento, distinse la politica speciale per il Mezzogiorno da tutti gli altri ambiti decisionali
in cui il «dominio» dei partiti di governo (e dei gruppi di pressione che su di essi esercitavano
grande influenza riuscendo ad orientarne le scelte parlamentari) era molto accentuato62
. Al di
là della difficile e controversa valutazione (per mancanza di evidenze empiriche) della reale
influenza politica esercitata dal principale partito di governo (in quel primo periodo guidato
da una classe dirigente nazionale per cui “la competenza valeva più della tessera”63
), fu
l’impianto originario della Cassa che la rese a lungo immune da ingiustificate torsioni
“politico-burocratiche”64
. In particolare, mantenendo un approccio «top down»65
nella
definizione delle scelte e delle modalità gestionali, rendendola immune delle interferenze
delle classi dirigenti locali, che certo non brillavano per “inclusività”, per stare alla
terminologia odierna, essendo del resto ben nota la lezione dei classici del meridionalismo.
Ovviamente, altri fattori avrebbero determinato il successo di quella stagione66
. Ai primi
segnali positivi che venivano dal Sud, venne colta l’esigenza, secondo un’impostazione che
Confindustria) era largamente ostile alla “forzatura” insustrialista per il Mezzogiorno. Cfr. ancora L. Bianchi et
al., 150 anni di crescita, 150 anni di divari, cit. 60
I cui fondamenti politico-ideologici accomunano tutti i paesi europei del secondo dopoguerra, cfr. C.S. Maier,
I fondamenti politici del dopoguerra, in Storia d’Europa, vol.I, “L’Europa oggi”, Einaudi, Torino, 1993, 313 ss. 61
I numerosi riferimenti teorici di quella stagione sono ricostruiti ora in A. Giannola, Sud d’Italia, cit. Cfr. anche
R. Vernon (a cura di), L’intervento pubblico nell’industria: un’analisi comparata, il Mulino, Bologna, 1976. 62
Così P. Graziano, Europeizzazione e politiche pubbliche italiane, cit., 76. 63
La frase è attribuita a De Gasperi, cfr. S. Zoppi, Una nuova classe dirigente. Insegnamenti e scelte da Nitti a
De Gasperi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009. 64
Com’è stato riconosciuto in autorevole sede storica, si trattava di «un modello istituzionale capace di difendere
l’intervento pubblico sia dalle lentezze burocratiche che dalle interferenze politiche, un pericolo nettamente
percepito di fronte al vasto programma di spesa». Così L. D’Antone, L’«interesse straordinario» per il
Mezzogiorno (1943-60), in «Meridiana», n. 24, 1995 (anche in Radici storiche ed esperienza dell’intervento
straordinario nel Mezzogiorno, a cura di Leandra D’Antone, Roma, Bibliopolis, 1996). Sulla storia della Cassa,
si rimanda alla testimonianza lucida e critica di G. Pescatore, La “Cassa per il Mezzogiorno”. Un’esperienza
italiana per lo sviluppo, il Mulino, 2008. Occorre precisare che non fu soltanto la proverbiale elevata
qualificazione del personale di vertice della “prima” Cassa a rendere tanto diversa per performance e capacità di
resistenza alle ingerenze politiche la sua azione, ma le sue regole di funzionamento. Tanto che la situazione
degenerò proprio mentre le garanzie istituzionali di autonomia vennero di fatto meno. Da notare come gli aspetti
relativi all’importanza della burocrazia di vertice tornarono decisivi negli anni Novanta, con l’avvio della cd.
Nuova programmazione, e come ancora una volta determinanti sarebbero risultati la combinazione tra
competenza tecnica e sistema di regole in contesto di attuazione “complessa” (che si sarebbe detto, nel tempo, di
governance). 65
Cfr. F. Prota, G. Viesti, Le nuove politiche regionali dell'unione europea, il Mulino, 2004, 90. 66
È una stagione, quella che va dagli anni Cinquanta fino ai primi anni Settanta, in cui prende avvio
l’infittimento della matrice produttiva meridionale. Cfr. A. Del Monte, A. Giannola, Il Mezzogiorno
nell’economia italiana, il Mulino, 1978; A. Giannola, Il Mezzogiorno nell’economia italiana. Nord e Sud a 150
anni dall’Unità, in «Rivista Economia del Mezzogiorno», n. 3 del 2010), con la quota crescente di investimenti
industriali e una forte crescita del tasso di accumulazione. La quota degli investimenti industriali meridionali, sul
18
risaliva allo «Schema Vanoni»67
, di una politica economica nazionale generale che, in ogni
sua articolazione, si ponesse l’obiettivo del superamento del divario di sviluppo68
. La forte
politica dell’offerta che corse sulle gambe dell’intervento infrastrutturale e della politica
“attiva” di industrializzazione innescò un forte processo di convergenza che la storia italiana
non aveva mai conosciuto né più conobbe.
Questo processo fu bruscamente interrotto nei primi anni Settanta, dagli shock negativi
(salariali, energetici e della finanza pubblica) di origine internazionale, che ridussero
fortemente il tasso di crescita del Paese negli anni successivi, mantenutosi poi lento per tutti
gli anni Ottanta. Si trattò del passaggio ad una vera e propria nuova “fase storica”
dell’economia mondiale, che poneva in termini radicalmente nuovi, e assai più problematici,
la questione delle condizioni in cui «sarebbero continuati i processi di industrializzazione
ancora lontani dal compimento»69
. Ma non fu solo il contesto a determinare la perdita di
efficacia delle politiche di intervento straordinario. Esse furono segnate da diversi altri
fattori70
ma soprattutto da limiti “interni”, e in particolare dalla difficoltà a rendere
compatibile l’impostazione e la natura “tecnica” dell’azione della Cassa con il “mutamento
istituzionale” determinato dall’avvio del regionalismo italiano e con i peculiari equilibri
politici nazionali degli anni Settanta. Alcuni mutamenti regolativi, risalivano già alla metà
degli anni Sessanta: tra questi, ricordiamo l’attribuzione (nel 1965) di alcune funzioni cruciali
al Ministro per gli interventi straordinari (chiamato a presiedere il Comitato per il
Mezzogiorno) che segnarono una tappa decisiva verso l’inquinamento dei meccanismi
operativi della Cassa attraverso l’esercizio di una discrezionalità politica che l’avrebbe
definitivamente allontanata dalle intenzioni originarie71
, facendo ad esempio venir meno, agli
totale nazionale, mediamente pari a meno del 15% negli anni Cinquanta, salì al 24% negli anni Sessanta, e ad
oltre il 33% tra il 1971 e 1975. I dati si trovano in SVIMEZ, 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud, cit. 67
Lo Schema di sviluppo della occupazione e del reddito del decennio 1955-1964, più noto come «Schema
Vanoni», predisposto a metà degli anni Cinquanta, offrì un contributo fondamentale nel ridefinire le linee della
politica economica del governo e porre le premesse per l’avvio della stagione della programmazione e anche, in
particolare, le linee dell’intervento straordinario dopo i primi anni di attività. Cfr. P. Saraceno, Gli anni dello
schema Vanoni, 1953-1959, a cura e con introduzione di P. Barucci, Giuffrè, Milano,1982. 68
Dopo i primi risultati confortanti dell’azione meridionalista, superando alcune resistenze di carattere
ideologico, nel 1965, con la legge n. 717 (con cui viene prorogata la Cassa del Mezzogiorno, e stabilito il
principio della concentrazione territoriale dell’intervento per massimizzarne l’effetto propulsivo) – che risentiva
fortemente dell’impostazione dei documenti di programmazione, a partire dalla «Nota aggiuntiva» del 1962 – si
tentò di collocare l’intervento straordinario all’interno della «politica di Piano» (la crisi di quest’ultima finì
inevitabilmente per avere delle ripercussioni negative sull’intervento meridionalistico). Cfr. M. Carabba (a cura
di), Mezzogiorno e programmazione, 1954-1971, SVIMEZ – collana Rodolfo Morandi, Giuffrè, Milano,1980. 69
Così, P. Saraceno, “Introduzione” a SVIMEZ, Rapporto 1980 sull’economia del Mezzogiorno, Giuffrè, 1980.
Cfr. anche R. Padovani, Aspetti della struttura industriale del Mezzogiorno, in «Nord e Sud», 1979. 70
L’attenuazione della selettività e la generalizzazione degli accessi agli incentivi, il dirottamento verso il
Centro-Nord (in pieno processo di ristrutturazione) delle agevolazioni e il progressivo depotenziamento di quelle
per il Sud, l’eccessiva proliferazione di aree di intervento che ne mina la concentrazione territoriale: sono alcuni
dei fattori richiamati in L. Bianchi et al., 150 anni di crescita, 150 anni di divari, cit. 71
«Il ministro aveva il compito di approvare, oltre ai programmi e ai bilanci annuali, anche le disposizioni
relative al personale, di vigilare sulla sua attività, e deteneva il potere di proposta sulla nomina del presidente e
del Consiglio di amministrazione ». P. Graziano, Europeizzazione e politiche pubbliche italiane, cit., 80.
Secondo Salvatore Cafiero, un’altra innovazione che incise profondamente, «oltre che sugli indirizzi
dell'industrializzazione meridionale, sulla natura dei rapporti tra politica e imprese» contribuendo alla
«politicizzazione», fu il cd. “parere di conformità”: «sarebbe stato il ministro a decidere l'ammissibilità delle
iniziative al credito agevolato attraverso l'emissione dei “pareri di conformità” ai criteri definiti nel Piano di
coordinamento». S. Cafiero, Storia dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, cit., 84.
19
occhi degli stessi ispiratori di quel modello di intervento, «il carattere automatico e non
discrezionale dei finanziamenti»72
.
Furono mutamenti – determinati da scelte politiche delle classi dirigenti “nazionali”, prima di
tutto: le pressioni locali non mancavano nemmeno nell’immediato dopoguerra – che minarono
il peculiare (e vincente) modello istituzionale rappresentato dalla “prima” Cassa,
determinando quelle torsioni politico-burocratico-clientelare da cui all’inizio la Cassa era
immune e che si sarebbero realizzate nei decenni successivi, quando la difesa dell’autonomia
tecnico-organizzativa non seppe resistere alle pressioni dei partiti governativi73
.
Negli anni Ottanta vi fu il definitivo indebolimento dell’intervento straordinario74
, che si
intrecciò con un mutato clima culturale75
e politico76
. Già allora si verificò il problema della
sostitutività, poiché molte di quelle risorse venivano utilizzate per finanziarie la spesa
ordinaria77
. Ma la crisi del modello tuttavia si era già consumata: al di là di casi eclatanti, che
pure in quegli anni cominciavano a palesarsi, di sprechi e malversazioni, la larga
degenerazione dell’intervento fu dovuta ad una deriva “particolarista”, che ebbe luogo proprio
per la scarsa chiarezza dei suoi obiettivi e dei criteri di verifica delle scelte78
. Così, strumenti
come la Cassa e le partecipazioni statali, protagonisti indiscussi del “boom” dello sviluppo
nel dopoguerra, furono trasfigurati dall’esercizio di un potere sempre più inefficace e
inefficiente, che comportò la sottrazione «per effetto dell’invadenza dei partiti e delle correnti,
di autonomia e di responsabilità decisionale agli enti dell’intervento straordinario, che hanno
finito con l’essere considerati sempre meno strumenti tecnici politicamente neutrali di azione
pubblica, da giudicarsi in base ai risultati conseguiti, e sempre più strumenti il cui controllo
72
Scrive Donato Menichella: «il ruolo dei partiti aumentò notevolmente in questo periodo, che si caratterizzò
vieppiù per la crescita della loro influenza non solo nella scelta del ministro per il Mezzogiorno bensì nella
determinazione del “parere di conformità” [cfr. nota precedente] necessario per lo sblocco dei finanziamenti
agevolati; infine, poiché un ruolo maggiore era giocato dalla burocrazia ministeriale nella predisposizione dei
documenti che il ministro avrebbe dovuto vagliare ai fini dell'emissione del parere di conformità, il carattere
automatico e non discrezionale dei finanziamenti venne meno», cit. in Graziano, op. ult. cit. 73
Tra i molti che affrontano il problema, si rimanda alle diverse prospettive di C. Trigilia, Sviluppo senza
autonomia. Effetti perversi delle politiche nel Mezzogiorno, il Mulino, Bologna,1992, che rileva la nota
fisionomia clientelare e ad alto potenziale di corruzione politica e illegalità dell’intervento pubblico, e di S.
Cafiero, Questione meridionale e unità nazionale, La Nuova Italia Scientifica, 1996. Ancora prima, si cfr. la
lucidissima analisi critica di G. Marongiu, La "straordinarietà" del nuovo intervento straordinario nel
Mezzogiorno, in «Rivista giuridica del Mezzogiorno», n. 1, 1987. 74
È l’impegno generale del Paese verso l’unificazione economica che in quegli anni segna un progressivo
indebolimento. La dimensione finanziaria dell’intervento addizionale per il Mezzogiorno a partire dalla fine
degli anni Settanta comincia a declinare. La percentuale sul PIL della spesa dell’intervento straordinario,
risultata negli anni ’50 e ’60 mediamente dello 0,7%, dopo aver raggiunto in tutti gli anni ’70 lo 0,9%, è scesa
nel periodo 1981-86 allo 0,65%, per poi far segnare negli anni successivi periodi 1987-93 (ancora di intervento
straordinario) e 1994-98 (già di intervento ordinario) rispettivamente lo 0,57% e lo 0,49%. Cfr. L. Bianchi et al.,
150 anni di crescita, 150 anni di divari, cit. 75
Si cfr. G. De Rita, Nuovi termini della questione meridionale, Relazione al Convegno su Regioni e politica
industriale per il Mezzogiorno, Cosenza, 1979. 76
Di cui si ha dimostrazione significativa nell’impianto del primo piano triennale, cfr. Ministro per gli interventi
straordinari per il Mezzogiorno, Programma triennale d’intervento 1985-1987 (legge 1/12/1983, n. 651), Roma,
1985. 77
Cfr. anche F. Prota, G. Viesti, Le nuove politiche regionali dell'unione europea, cit., 90. 78
È l’opinione di F. Barca, Storia del capitalismo italiano, cit. (in particolare nel capitolo di inquadramento e in
quello sulle partecipazioni statali), poi richiamata anche in Id., II ruolo del Dipartimento per le Politiche di
Sviluppo e di Coesione, in Le istituzioni del federalismo, XXII, 2/2001, spec. 420.
20
avrebbe potuto assicurare vantaggi nella competizione tra fazioni e gruppi di potere politico-
economico, e da giudicarsi, quindi, dall’entità di quei vantaggi»79
.
Intanto, vi era stata la ridefinizione complessiva della politica meridionalistica, che passava
dalle politiche “attive” dell’offerta verso un’azione rivolta prevalentemente alla domanda80
,
anche attraverso il sostegno ai redditi delle imprese operanti nell’area, con l’esplosione del
sistema di fiscalizzazione degli oneri sociali e contributivi, originariamente introdotto nel
1968 per compensare l’abolizione delle “gabbie salariali”. Questa forma di intervento,
divenuta generalizzata e permanente, finì rapidamente con il perdere la funzione originaria di
promozione dello sviluppo industriale, per trasformarsi di fatto in un sussidio generalizzato
alle imprese81
.
La deriva localista, particolarista e domandista dell’intervento straordinario – che
moltiplicava le lentezze attuative e gli spazi distorsivi nell’utilizzo delle risorse di
«intermediazione impropria»82
dei ceti politico-burocratici – si sarebbe rivelata incapace, nel
nuovo contesto dell’economia internazionale, di rispondere alla crescente necessità
modificare qualitativamente le condizioni ambientali di convenienza all’insediamento
produttivo, che diventavano sempre più sfavorevoli al Mezzogiorno. D’altra parte, l’illusione
che la fine di un intervento marcatamente nazionale meglio rispondesse alla necessità di
“liberare” le formidabili capacità produttive locali “soffocate” fino ad allora dalle politiche
“dall’alto”, era ragionevolmente destinata a fallire in un contesto caratterizzato da una pesante
ristrutturazione dell’economia nazionale e dal difficile adeguamento strutturale a cui era
chiamato il sistema industriale meridionale, in conseguenza della gravità con cui la crisi colpì
proprio i settori che nella fase precedente avevano maggiormente contribuito
all’industrializzazione dell’area. Il risultato fu un intenso processo di deindustrializzazione83
,
che portò negli anni Ottanta l’economia meridionale ad accrescere il suo grado di dipendenza
“patologica” 84
dai trasferimenti pubblici.
Il dramma principale del sostanziale fallimento, dopo i primi anni Settanta, dell’«intervento
straordinario»85
fu di trascinare con sé l’intera immagine pubblica del Mezzogiorno: la perdita 79
Così SVIMEZ, Rapporto 1996 sull’economia del Mezzogiorno, Il Mulino, Bologna, 1996, 14-15. 80
Cfr. A. Giannola, Il Mezzogiorno nell’economia italiana. Nord e Sud a 150 anni dall’Unità, cit. e A. Giannola,
C. Petraglia, Politiche dell’offerta, della domanda e programmazione dello sviluppo. Il dualismo “dimenticato”,
in «Rivista Economica del Mezzogiorno», 1, 2007, pp. 13 ss. 81
L’incidenza sul PIL della misura, in rapidissima ascesa dallo 0,13% nel periodo della sua introduzione, dagli
anni Ottanta fino alla chiusura dell’intervento straordinario, raggiunge una quota dello 0,55% del PIL, pressoché
equivalente all’incidenza sul PIL della spesa dell’intero intervento straordinario destinata alle infrastrutture e agli
incentivi agli investimenti. 82
Il riferimento è a P. Barucci, Mezzogiorno e intermediazione “impropria”, Bologna, Il Mulino, 2008. 83
Sulla struttura industriale, cfr. R. Padovani, S. Prezioso, Gli andamenti dell’industria manifatturiera
meridionale negli anni ’80 e ’90, in CER-SVIMEZ, Rapporto sull’industria meridionale e sulle politiche di
industrializzazione, a cura di A. Aronica, E. Flaccadoro, R. Padovani, il Mulino, 1998, pp. 141 ss. Cfr. anche,
con una prospettiva temporale più ampia, S. Prezioso e G. Servidio, Industria meridionale e politica industriale
dall’Unità d’Italia ad oggi, in SVIMEZ, Nord e Sud a 150 anni dall’Unità d’Italia, cit., pp. 233 ss. 84
Come richiamato,così la definisce Giannola distinguendola da quella “fisiologica” (cfr. da ultimo A. Giannola,
Sud d’Italia. Una risorsa per la ripresa, cit.). Da una prospettiva fortemente critica sull’intervento straordinario,
v. C. Trigilia, Sviluppo senza autonomia, cit. Cfr. anche G. Bodo, G. Viesti, La grande svolta. Il Mezzogiorno
nell’Italia degli anni novanta, Donzelli, Roma, 1997. 85
Successi e fallimenti della Cassa rivendicati e analizzati da G. Pescatore, La “Cassa per il Mezzogiorno”, cit.,
a cui si rimanda ancora per una lettura penetrante di quella lunga vicenda.
21
di efficacia degli interventi porterà a parlare solo di degenerazione e a puntare l’attenzione
solo sulle malversazioni; e il Sud non solo perderà la centralità acquisita nel ventennio della
convergenza, ma verrà «gradualmente identificato come il luogo fisico (sistema sociale e
cultura) dove hanno origine, si sedimentano e si concentrano storture e vizi capitali della
società italiana: sprechi, inefficienza, clientelismo, criminalità»86
. D’altra parte, gli effetti più
negativi sulla sua “credibilità” furono amplificati dal clima “ideologico” degli anni Ottanta, in
cui «il dibattito teorico si incentra sulla critica al ruolo attivo dello Stato nell’economia,
indicando, come alternativa, la strada della liberalizzazione, della deregulation e della
privatizzazione»87
. Fu con quei “sentimenti” di ostilità o sfiducia che si giunse – sotto la
minaccia referendaria88
– alla affrettata chiusura dell’intervento straordinario nel 1992. Gli
anni che seguirono89
, per il Sud, furono anni di “solitudine”90
.
5. Dalla “Nuova programmazione” alle scelte antimeridionaliste nella crisi. Il ‘rompicapo’
della coesione91
Come è stato lapidariamente scritto, «tassi di sviluppo industriale tra i più bassi di Europa e
tassi di disoccupazione tra i più elevati: è questa la condizione del Mezzogiorno alla vigilia
dell’unificazione monetaria»92
. Da allora, proseguirono anni di peggior andamento
economico, paradossalmente sottovalutato in ragione dell’entusiasmo per i nuovi meccanismi
di “sviluppo locale”93
che lasciavano grande spazio alle “rinnovate” classi dirigenti 86
Come lamenta ancora A. Giannola, Il Mezzogiorno nell’economia italiana, cit. 87
Così F. Prota, G. Viesti, Le nuove politiche regionali dell'unione europea, cit., 91, che ricordano: «Uno dei
risultati dei processi di privatizzazione di quegli anni è il superamento delle imprese pubbliche come strumento
di politica regionale». In generale, sull’argomento delle privatizzazioni, si rimanda alla lettura critica che viene
offerta in E. Barucci, F. Pierobon, Le privatizzazioni in Italia, Carocci, 2007 e nel successivo E. Barucci, F.
Pierobon, Stato e mercato nella Seconda Repubblica. Dalle privatizzazioni alla crisi finanziaria, il Mulino,
Bologna, 2010. 88
Sulla vicenda, da una precisa prospettiva, M. Annesi, Il referendum abrogativo delle principali disposizioni
della disciplina organica dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno. Le ragioni del ‘no’, in Rivista giuridica
del Mezzogiorno, n. 1/1992, 7 ss. 89
Una valutazione generale sugli anni successivi alla chiusura dell’intervento “straordinario” in favore
dell’intervento “ordinario” per il Mezzogiorno si legga in A. La Spina, La politica per il Mezzogiorno, Bologna,
il Mulino, 2003, 255 ss. 90
Per usare l’efficace formula di Pino Soriero nel suo interessante volume sugli anni successivi alla chiusura
dell’intervento straordinario in connessione con le vicende della Seconda Repubblica. Cfr. G. Soriero, Sud,
vent’anni di solitudine, Donzelli, 2014. È la solitudine da cui, con fatica, ha cercato di uscire anche la SVIMEZ,
non solo tenendo alta l’attenzione, con i suoi approfondimenti analitici e i suoi Rapporti annuali, sulle condizioni
dell’economia e della società del Mezzogiorno e i limiti delle politiche messe in campo per determinare
dinamiche di divergenza, ma anche, a partire specialmente dalla recente crisi, rilanciando e sistematizzando un
orizzonte di possibili risposte di policy (ad es. individuando alcuni drivers dello sviluppo), a cui molti autori si
sono via via richiamati. 91
In questo paragrafo sono approfondite e sviluppate le tesi riassunte in un precedente articolo, G. Provenzano, Il
rompicapo della coesione e lo specchio della politica, in ItalianiEuropei, n.1/2015, 24-32. 92
Così riassumono S. Cafiero, G. Ruffolo, Introduzione a CER-SVIMEZ, Rapporto sull’industria meridionale e
sulle politiche di industrializzazione, cit. 93
Il “clima culturale” di quegli anni era ancora segnato dalle teorie – già forti negli anni Ottanta – di sviluppo
“endogeno” legato ai sistemi locali e ai distretti industriali (applicando forse impropriamente le teorie di G.
Becattini, Distretti industriali e Made in Italy. Le basi socioculturali del nostro sviluppo economico, Bollati
Boringhieri, 1988) e dagli studi sulla “Terza Italia” di A. Bagnasco, La costruzione sociale del mercato. Studi
sullo sviluppo della piccola impresa in Italia, il Mulino, 1988. Giuseppe De Rita, altro grande esponente di
questo mutamento di clima, con una delle sue soluzioni immaginifiche, da esponente principale del CENSIS e da
presidente del CNEL poi, teorizzava in quegli stessi anni lo sviluppo “autocentrato” che ispirò in parte anche
22
meridionali (erano gli anni, soprattutto al Sud, delle cosiddette “Primavere dei sindaci”),
consegnavano un quadro difficile e un’impresa ardua alla nuova stagione di meridionalismo
che si aprì nel 1998.
Fu essenzialmente questo il contesto in cui maturò, sotto la guida dell’allora Ministro del
Tesoro Carlo Azeglio Ciampi e di Fabrizio Barca (chiamato a dirigere il nuovo Dipartimento
per le politiche di sviluppo), l’esperienza della cosiddetta «Nuova Programmazione».
Un’esperienza che, come ricordato, per un breve momento, sembrò ricreare nel Paese – su
basi ovviamente assai diverse rispetto al secondo Dopoguerra – quello spirito di “missione”
verso l’unificazione economica che l’Italia sembrava avere del tutto smarrito nei venticinque
anni precedenti. Sono anni di “europeizzazione” della politica regionale in Italia, in cui si
combinarono nuova tensione meridionalistica e nuova vocazione europeistica94
, condensate
nella nuova politica europea dei “Fondi strutturali” che segnò un «radicale mutamento»95
,
rispetto all’intervento straordinario, tanto degli strumenti quanto degli obiettivi del riequilibrio
territoriale nel nostro Paese.
Sono oltre quindici anni che ci separano dall’inizio e dall’operatività della Nuova
Programmazione, un tempo che consente una qualche valutazione dei suoi effetti. L’apparato
informativo è ampio, e tuttavia si presta ad interpretazioni ancora controverse96
. E però, ciò
non impedisce la presa d’atto del macroscopico fallimento nel suo rendimento economico.
Salvo il breve periodo di lieve convergenza a fine anni Novanta (dovuto in larga misura a un
ripresa, a lungo ignorata, dei flussi migratori interni dal Sud al Nord), i numeri sembrano
impietosi: dal 2001 al 2013 la variazione cumulata del PIL è stata del -7,2% al Sud e del +2%
al Centro-Nord; e non ha pesato soltanto l’andamento nella crisi (tra il 2008 e il 2013, il -
13,3% contro il -7%) ma già nel periodo precedente, nelle regioni meridionali, la crescita
media è stata pari a poco più della metà di quella del Centro-Nord (0,6% contro l’1%)97
. Non
si era mai registrato dal dopoguerra un periodo tanto lungo di sviluppo inferiore del
Mezzogiorno rispetto alla (già debole) media italiana.
l’intervento “ordinario” nel Mezzogiorno nel dopo Cassa. Per il Mezzogiorno, vedi M. D’Antonio (a cura di), Il
Mezzogiorno degli anni ’80: dallo sviluppo imitativo allo sviluppo autocentrato, Franco Angeli, 1985. Cfr.
anche G. Bodo, G. Viesti, La grande svolta,cit. Più di recente, F. Prota, G. Viesti, Senza Cassa. Le politiche di
sviluppo del Mezzogiorno dopo l’intervento straordinario, cit., p. 59 ss. hanno ricostruito le “basi teoriche” delle
Nuova Programmazione, riconducendola alla “nuova geografia economica” e offrendo un quadro di obiettivi di
policy non riconducibili ben più ampio delle prospettive di sviluppo locale. L’applicazione, poi, è un altro
discorso, come cercheremo di argomentare. Anche a fronte dei limiti di implementazione della politica, una
revisione dell’impianto generale della coesione a livello europeo è contenuta nell’importante documento di F.
Barca, An Agenda for a Reformed Cohesion Policy. A Place-based approach to meeting European Union
challenges and expectations. Independent Report, prepared at the request of D. Hubner, Commissioner for
Regional Policy, April 2009. 94
Sia consentito su questo aspetto un rimando a L. Bianchi, G. Provenzano, Ma il cielo è sempre più?
L’emigrazione meridionale ai tempi di Termini Imerese, Castelvecchi, Roma, 2010, 71 ss. 95
Così A. Claroni, Le politiche di coesione, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Milano,
Giuffrè, 2000, 2907 ss. 96
Cfr. per una rassegna critica delle posizioni C. Petraglia, Il Mezzogiorno nella letteratura economica del 2011¸
in «Rivista Economica del Mezzogiorno», n. 4, 2011, pp. 1083 ss. 97
Facciamo riferimento, non a caso, ai dati del periodo che ha preceduto la crisi. Cfr. SVIMEZ, Rapporto 2009
sull’economia del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna, 2009, spec. cap. 1.
23
Ora, l’assenza di risultati soddisfacenti in termini di crescita e di convergenza del
Mezzogiorno ha cause complesse che rimandano in larga parte al generale prolungato ristagno
dell’economia nazionale rispetto al resto d’Europa. Indubbiamente, però, al peggior
andamento del Mezzogiorno ha concorso anche la ridotta efficacia della politica regionale di
sviluppo, nazionale e comunitaria.
Il giudizio sulle nuove politiche regionali nel Mezzogiorno, negli ultimi anni, si è fatto assai
più critico, anche grazie ad analisi economiche accurate98
che prescindono da un dibattito
pubblico e politico che è stato a lungo “bipolare”, in cui da un eccesso di fiducia sulle
possibilità della politica regionale ai fini della crescita, si è passati ad un eccesso di sfiducia,
con una critica che troppo a lungo non ha portato a considerare con tempestività il
superamento dei limiti attraverso una riforma “interna” della programmazione, ma alla
negazione della sua importanza o addirittura a dichiararne l’inutilità99
.
Va innanzitutto evidenziato che la considerazione dei risultati delle politiche “speciali” per il
Sud devono necessariamente tener conto della rilevanza degli effetti delle politiche nazionali
ordinarie sull’economia meridionale100
: hanno pesato, sulla mancata convergenza, i gravi
effetti di un “disegno debole” di politiche generali nazionali che, in campi assai rilevanti per
lo sviluppo, hanno costantemente mancato di adattare intensità e strumenti di intervento in
funzione dei divari intercorrenti tra la macroarea debole e quella forte del Paese. Del resto, la
politica regionale di sviluppo deve aggiungersi alle politiche generali nazionali, volte a
fornire i beni collettivi essenziali e ad assicurare il normale funzionamento dei servizi
pubblici. Ed è proprio in questo ambito, infatti, legato all’azione “ordinaria” della Pubblica
Amministrazione, che è venuto a consolidarsi negli ultimi decenni, ed anzi in molti casi a
radicalizzarsi, il divario del Sud rispetto al resto del Paese.
In generale, di questo nesso decisivo, ordinario-aggiuntivo, si tende a parlare molto poco. Del
resto, dopo la fine dell’intervento straordinario, la politica di coesione europea ha
rappresentato l’unico ancoraggio stabile per il Sud, altrimenti abbandonato da ogni politica.
Di qui, l’importanza di questo strumento di policy, cresciuta negli anni, e specialmente nella
crisi, in misura inversamente proporzionale al lungo declino degli investimenti pubblici,
98
Cfr., ad esempio, M. Franzini, A. Giunta, Ripensare le politiche per il Mezzogiorno, in «Meridiana», n. 61,
2008, 189 ss. 99
Può valere la pena di ricordare le prese di posizione di Roberto Perotti, un economista che è diventato
recentemente consigliere del Presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Cfr. R. Perotti, F. Teoldi, Il disastro dei
fondi strutturali europei, Luglio 2014, consultabile su www.lavoce.info. 100
Il tema delle politiche nazionali per la dinamica economica del Mezzogiorno (e per i risultati della politica
regionale stessa) è stato posto con forza al centro della riflessione di Banca d’Italia. Va richiamata
un’affermazione dell’allora Governatore Mario Draghi, con una formula che non si presta a equivoci: «ogni
qualvolta si disegni un intervento pubblico nell’economia o nella società, occorre avere ben presenti i divari
potenziali di applicazione nei diversi territori e predisporre ex ante adeguati correttivi». Insomma, la proposta,
ben al di là degli interventi riconducibili alla politica regionale di sviluppo, è di svolgere politiche ordinarie
nazionali «di intensità differenziata a seconda della distribuzione territoriale dei problemi da affrontare». Cfr.
Banca d’Italia, Mezzogiorno e politiche regionali, Roma, n. 2, novembre 2009. Si può ricordare, però, che già
negli anni ‘80 Salvatore Cafiero, allora direttore della SVIMEZ, con lucidissima sintesi, esprimeva questo
concetto cruciale: «se l’intervento nell’area meridionale – ordinario o straordinario – resta, come è ovvio,
importante, non meno importante è la caratterizzazione meridionalistica che occorrerebbe conferire anche alle
politiche [nazionali] i cui obiettivi non sono specificamente meridionalistici». Cfr. S. Cafiero, Tradizione e
attualità del meridionalismo, il Mulino, 1989, 211.
24
consumatosi a danno del Sud. Ma questa importanza – va detto con altrettanta chiarezza – è
per molti aspetti “patologica”: le risorse europee – per loro “statuto” e in ossequio alla
Costituzione – avrebbero dovuto rappresentare soltanto una parte dell’insieme di risorse
destinate alla coesione territoriale, un “tassello aggiuntivo” – fondamentale, ma non esaustivo
– di una più generale strategia, da finanziarie anche attraverso risorse ordinarie, di riequilibrio
territoriale nel nostro Paese101
.
A guardar i numeri, in effetti, si scopre che il “peso” di queste risorse è alquanto relativo102
,
per nulla corrispondente alla loro rappresentazione “mediatica”, indotta dalla “suggestione” di
cifre che rimbalzavano continuamente nel dibattito pubblico: i “100 miliardi di fondi per il
Sud”… Sempre gli stessi dal 2007, e per la verità mai stati tanti, perché – ben oltre la scarsa
capacità di assorbimento delle risorse europee, erano quelle nazionali a venire costantemente
erose o “dirottate” verso altri obiettivi e territori. Eppure, quelle cifre hanno alimentato il
luogo comune di un Sud “inondato” da un fiume di risorse pubbliche103
, destinate ad
alimentare sprechi o malaffare (visto che i risultati in termini di convergenza non arrivavano).
Una falsa retorica che è servita – soprattutto durante i governi berlusconiani a trazione
nordista – a preparare la più grande operazione di redistribuzione alla rovescia di risorse della
nostra storia repubblicana, mentre tutta una letteratura ci raccontava la questione
settentrionale e il “sacco del Nord”104
.
La crisi, che pure ha arrestato una deriva “punitiva” per il Sud dell’attuazione del cd.
“federalismo fiscale”105
, è stata l’alibi formidabile per mettere in campo politiche
“antimeridionaliste”: e non solo per lo “smantellamento” della politica di coesione unitaria106
,
ma anche per gli effetti “asimmetrici” delle manovre di consolidamento della finanza pubblica
imposte dalla cieca austerità107
, o ancora per alcune politiche generali settoriali che, in nome
101
Di “ghettizzazione” del Sud nella “riserva” dei fondi europei e di “esternalizzazione” del problema
meridionale parla con toni di critica radicale, A. Giannola, Sud d’Italia, cit. 102
In base agli ultimi dati disponibili, cfr. SVIMEZ, Rapporto 2014, cit., la spesa in conto capitale (largamente
destinata a investimenti, alla formazione del capitale produttivo) nel 2012 è stata di 48,5 miliardi, pari al 3,1%
del PIL, a fronte di una spesa corrente che vale oltre 750 miliardi di euro. La quota riservata al Mezzogiorno è
stata di appena 17,4 miliardi di euro, pari all’1,1% del PIL. All’interno di questa cifra, tutte le risorse
“aggiuntive” (europee e nazionali) per la coesione valevano 6,9 miliardi, e quelle europee soltanto 2,4 (erano 3,7
nel 2007 e 4 miliardi nel 2001, anno di maggiore livello di assorbimento oltre che di ineguagliato impegno
finanziario complessivo nel Mezzogiorno). Un bel paradosso, quello di un’importanza crescente a fronte di un
“peso” finanziario assai modesto e addirittura decrescente, che si spiega con il fatto, drammatico, che nel
frattempo venivano meno le risorse nazionali: del FSC (il già famigerato FAS) nel 2012 si sono spesi appena 2,9
miliardi, prima della crisi se ne spendevano intorno ai 5. 103
Cfr., per un’evidente smentita, oltre ai Rapporti annuali della SVIMEZ, anche G. Viesti, Il Sud vive sulle spalle
dell’Italia che produce. Falso!, cit. 104
Il riferimento è al discutibile saggio, che addirittura vorrebbe rendere “giustizia territoriale” ai territori
“ricchi” del Nord e “sfruttati” dal Sud, di L. Ricolfi, Il sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale, Guerini
e Associati, 2010. 105
Sia consentito un rimando a G. Provenzano, Le risorse aggiuntive e gli interventi speciali nell’attuazione del
federalismo fiscale: il principio del riequilibrio territoriale e i fondamenti della politica di coesione nazionale,
in «Rivista Giuridica del Mezzogiorno», ed. il Mulino, n. 1-2/2012. 106
Con il “saccheggio” del FAS-FSC e la “riduzione” del cofinanziamento nazionale (v. infra). 107
Come via via emerso dai rapporti previsionali degli ultimi anni sulla base del modello SVIMEZ -Irpet. Cfr. ad
es. SVIMEZ-Irpet, Rapporto di previsione territoriale, Roma, n.1, 2013.
25
di una malintesa efficienza del sistema, hanno avuto effetti territoriali opposti rispetto
all’obiettivo del riequilibrio108
.
La scarsità di risorse nella crisi è seguita a un decennio di “crescita zero” in cui,
nell’invarianza del divario del Sud, l’intero Paese (compresa la “locomotiva” delle regioni del
Nord) ha perso posizioni nelle graduatorie europee e mondiali. A ciascuno il suo declino. Ma
è stato proprio quello settentrionale a far riesumare, dopo anni di rimozione, la questione
meridionale come grande causa di tutti i fallimenti nazionali e il Sud è tornato ad essere il
luogo comune di ogni vizio e camorra. La lotta per l’accaparramento delle risorse,
specialmente quando si fanno scarse, e dopo anni di “secessione strisciante”, non avrebbe
potuto essere meno feroce.
È questo il contesto – ed è un errore trascurarlo, come fa Felice – in cui si sviluppa una vera
reazione nel Mezzogiorno ad un sostanziale abbandono, in cui all’ostilità del racconto falso di
«un Sud all’ingrasso» si sviluppa una speculare ostilità, condita dei suoi miti peggiori, a
partire dal neoborbonismo, e il meridionalismo degenera, con qualche argomento, nel
“rivendicazionismo” di risorse negate. Questo abbandono è testimoniato dalla quantità di
risorse pubbliche per abitante. Non tutto dicono i numeri, certo. Ma qualcosa sì: la spesa
consolidata complessiva della P.A. per abitante109
al Sud negli anni 2007-2012 è oscillata tra
l’82 e l’85% di quanto destinato al Centro-Nord. Uno squilibrio certo non compensato dalla
previsione e, ancor meno, dall’assorbimento dei «fondi strutturali». Stupisce che uno studioso
attento come Felice, che vorrebbe condurre un «racconto veritiero» sui divari, affermi,
basandosi su fonti assai discutibili110
, che «ai giorni nostri […] sono maggiori le spese totali
dello stato per abitante, in tutte le regioni del Sud, di norma di 20-30 punti percentuali sulla
media italiana»111
. Ripetere una bugia cento volte – se non per dolo, per distrazione – non può
ancora farla diventare una verità.
Ma il tema della sostitutività delle politiche regionali, in ogni caso, si colloca in una
dimensione che trascende gli aspetti “quantitativi” e risale alla “natura” della politiche,
minandone le possibilità di efficacia, per così dire, ab origine, iuxta propria principia.
Durante la crisi, questo tema si è accentuato. E la VI Relazione sulla Coesione della
Commissione europea112
, mostra con evidenza quanto in tutta Europa la politica di coesione
abbia contenuto il crollo generale della spesa pubblica di investimento nella crisi. Più che
rivendicare per questo un risibile primato, la Commissione si dovrebbe preoccupare del fatto
108
È il caso delle politiche per l’università e la ricerca degli ultimi anni. Cfr. M. Fiorentino, Relazione del
Rettore per l’inaugurazione dell’anno accademico 2013/2014 dell’Università degli Studi della Basilicata, in
«Rivista Economica del Mezzogiorno», n. 3, 2013, pp. 739 ss. Cfr. anche, F. Sinopoli, La crisi (pianificata)
dell’università si vede meglio da Sud, in ItalianiEuropei, n. 1, 2015, 44 ss. 109
Cfr. SVIMEZ, Rapporto 2014, cit. p. 363. 110
Viene citato, ad es., un volume assai approssimativo di P. Falasca, C. Lottieri, Come il federalismo fiscale
può salvare il Mezzogiorno, Rubbettino, 2008, con stime del 2005. 111
Così E. Felice, Perché il Sud, cit., p. 211. Felice ha avuto poi modo di chiarire che in quel passaggio,
rispondendo alla teoria dello “sfruttamento coloniale”, si riferiva alla spesa in rapporto al PIL prodotto nell’area.
Questo aprirebbe la polemica sulla famosa questione dei “residui fiscali”, una contabilità a nostro avviso da
ricusare alla radice, e non è questa la sede per farlo. Non dubitiamo delle intenzioni di Felice, tuttavia l’aver
espresso questo concetto confusamente, su una questione tanto delicata (e mistificata) qual è quella delle risorse,
non fa altro che alimentare luoghi comuni e contrapposizioni. 112
Per la versione in italiano, cfr. Commissione europea, Investimenti per l’occupazione e la crescita. Sesta
relazione sulla coesione economica, sociale e territoriale, Bruxelles, Luglio, 2014.
26
che, la mancanza generale di addizionalità, muta di fatto la natura stessa della politica. E se la
politica di coesione diventa “sostitutiva” di mancate politiche generali, e se per tale motivo ad
essa si fa fare un po’ tutto (comprese politiche per l’innovazione in aree forti, come nel ciclo
2014-2020), allora il rischio è che essa non solo non produca convergenza, ma addirittura
possa alimentare la divergenza e gli squilibri.
Ma la discussione sulle politiche di coesione, come sempre nelle cose di Sud, tende a ignorare
questi dati di fatto, a trascinare luoghi comuni, ad avvitarsi in contrapposizioni ideologiche, a
rinchiudersi in recinti specialistici o “ghetti” pubblicistici, per diventare alla fine un
rompicapo. Due domande permangono, si alternano e più spesso si sommano: perché i fondi
europei non vengono spesi? E perché, se spesi, non hanno un grande impatto? La prima
domanda, a onor di verità, andrebbe riformulata: nel ciclo precedente (2000-2006) sono stati
largamente assorbiti, è nel ciclo attuale che si sta procedendo molto a rilento esponendo alcuni
programmi al rischio disimpegno. La seconda domanda, invece, è malposta: se l’impatto
desiderato dovrebbe essere la convergenza, è evidente che, per natura e struttura, questo esito
non può essere delegato soltanto ai fondi europei.
Se volessimo sintetizzare113
, nel caso italiano e meridionale, le ragioni della insufficiente
performance delle politiche di coesione, dovremmo fare riferimento a due ordini di fattori:
quantitativi e qualitativi.
Per quanto riguarda le quantità, nel 2007-2013 i famosi 100 miliardi per il Sud non sono stati
tali: i tagli o i “dirottamenti” delle risorse dell’ex FAS, secondo il Servizio Studi della
Camera, sono valsi complessivamente circa 32 miliardi (un dimezzamento); la riduzione del
cofinanziamento per oltre 11 miliardi, ottenuta da Fabrizio Barca in via emergenziale a partire
dal 2012 e confluita in una programmazione “parallela” (il Piano di Azione Coesione) con lo
stesso vincolo territoriale, a causa dell’estrema lentezza nell’attuazione, si è tradotta in una
netta riduzione dell’impegno finanziario al Sud, sancita anche dall’ultimo governo che ne ha
“dirottato” 3,5 miliardi per le agevolazioni alle assunzioni a tempo indeterminato (causa
nobile, rispetto ai tempi in cui Tremonti e Bossi pagavano col FAS le multe sulle “quote latte”
degli allevatori del Nord: ma l’effetto è di una forte redistribuzione territoriale alla rovescia).
L’ammontare di risorse disponibili, già gravemente decrescente nel momento in cui il Sud ne
avrebbe avuto maggiormente bisogno, è stato in definitiva doppiamente sostitutivo, come
dimostrano i Rapporti della SVIMEZ degli ultimi anni: ha (parzialmente) coperto non solo la
mancata spesa ordinaria in conto capitale ma, spesso, l’insufficienza di risorse per spese
correnti. Molti bilanci pubblici regionali, al Sud, in conseguenza dell’applicazione bieca
dell’austerità spacciata per spending review, hanno attinto – con la “benedizione” della
Ragioneria dello Stato – alle spese di investimento per coprire trasporti pubblici locali,
disavanzi sanitari, eccetera114
. D’altra parte, il vincolo capestro del Patto di stabilità interno –
rilevante per il cofinanziamento e i fondi nazionali per la coesione – rappresenta un 113
Sia consentito cit G. Provenzano, Cohesion policy in Southern Italy: weaknesses and opportunities, in Open
Days 2014 Master Class – Book of papers EC-RSA-CoR, Bruxelles, 2014, 64-69. 114
Sulle politiche di bilancio, costrette dalla “necessità” a scelte tanto obbligate quanto improprie, andrebbe
aperta una riflessione profonda, che qui rimane confinata a una parentesi: un’interpretazione un po’ troppo
generosa di questo momento politico italiano - e del ruolo che vi ricopre il PD – parla di un ritorno del “primato
della politica”; ecco, non vi sarà alcun primato della politica se questa non si riapproprierà di “libere” scelte sui
bilanci pubblici, strette nell’alternativa tragica tra smantellamento del welfare e rinuncia alle politiche di
sviluppo.
27
“condizionamento” molto forte alla capacità di assorbimento dei fondi strutturali europei, che
agisce sulle amministrazioni prima di poter definire il ricorso a “deroghe” recentemente
previste.
E tuttavia, questi elementi non devono far passare in secondo piano le ragioni qualitative
nell’attuazione delle politiche. Anche in questo ambito – o meglio, per gli ultimi anni,
soprattutto in questo ambito – la discussione tende a concentrarsi sui limiti delle classi
dirigenti locali. Che ci sono, con ogni evidenza. Ma forse bisognerebbe tener conto anche di
questioni trascurate, e invece per noi decisive, come la stessa qualità dei programmi. I
documenti programmatori, infatti, nonostante i recenti sforzi di “concretezza” (come la
previsione dei risultati attesi e quantificati), sono caratterizzati da un approccio troppo astratto
e metodologico, e i piani operativi che ne discendono si preoccupano più di un’adesione
formale agli schemi generali che a definire un piano di interventi coerente. Manca una lettura
approfondita della realtà meridionale, dei bisogni e delle vocazioni dei “luoghi” all’interno di
un disegno complessivo, gli stessi percorsi partenariali si sono rivelati appuntamenti rituali: in
una parola, in questi documenti, manca la buona politica. Manca al livello locale o a quello
centrale? È il gioco a rimpiattino delle responsabilità, mentre cresce quella frammentazione
degli interventi che ha caratterizzato tutti i cicli, e che nemmeno le riprogrammazioni recenti
hanno saputo superare. Anzi, per evitare il rischio di “disimpegno” delle risorse europee, le
amministrazioni regionali hanno spesso riprogrammato ricorrendo a delle vere e proprie “liste
della spesa” di opere immediatamente attivabili, senza alcun disegno coerente (e spesso senza
significativo impatto): la fine della programmazione.
La letteratura si è misurata da tempo col tema della capacità amministrativa. Nel nostro caso,
a fronte di un meccanismo in verità molto complesso, e non privo di inutili appesantimenti
burocratici, vi è in primo luogo un problema di struttura, legato alla mancanza (a cui si
dovrebbe ovviare con l’Agenzia per la Coesione da poco istituita) di un centro di
coordinamento strategico e di responsabilità ultima nell’attuazione delle politiche. Alle
inefficienze e incapacità diffuse, le autorità centrali hanno preferito rispondere non con un
effettivo potere sostitutivo, ma con la sanzione del definanziamento (dirottando altrove le
“appetibili” risorse): a farne le spese sono stati doppiamente i cittadini del Sud. Accanto a
questo, però, vi è soprattutto un problema di risorse umane. Un po’ per i vincoli di finanza
pubblica, un po’ per il modello di amministrazione, un po’ anche per la generale perdita di
prestigio (se non proprio denigrazione) delle carriere pubbliche, le porte di accesso alle nuove
generazioni e competenze, specialmente ai livelli dirigenziali, sono di fatto sbarrate. È una
questione che attiene all’idea di Stato115
, costretto a esternalizzare (privatizzare) funzioni che
dovrebbero essergli proprie. Nel campo della coesione, i deficit vengono affrontati non di
rado con il sistema privatistico delle assistenze tecniche che, al di là dei casi più opachi, si è
comunque rivelato non particolarmente efficiente. Al potenziamento della capacità
amministrativa sono state riservate numerose risorse europee: ma il funzionamento della
macchina pubblica non dovrebbe essere per lo Stato un tema da affrontare in via ordinaria e
prioritaria?
Avremmo avuto bisogno di una forte discontinuità, nell’avvio del nuovo ciclo di
programmazione 2014-2020. Pure proclamata, non pare sufficiente. Sembrano ripetersi alcuni 115
Su questo aspetto del capitale umano e delle competenze negli apparati pubblici, con riferimento al modello
di Stato, cfr., da ultimo, M. Mazzucato, Lo Stato innovatore, cit.
28
errori. Sul piano quantitativo, il nuovo FSC (ridotto di oltre 20 miliardi rispetto al precedente
ciclo) non è ancora programmato116
, e questo rischia di agevolare le prassi nefaste conosciute
col vecchio FAS. La riduzione del cofinanziamento dei Programmi operativi (in particolare di
Campania, Sicilia e Calabria, dal 50 al 25%, per un valore di circa 12 miliardi), in analogia a
quanto effettuato con il PAC, la cui attuazione, come detto, è sconfortante (nel primo anno,
appena l’8% di spesa effettuata). Se nel 2012 comunque l’esigenza era evitare di perdere
risorse europee, è preoccupante che si discuta di questa ipotesi prima dell’avvio del ciclo di
programmazione, paradossalmente proprio quando è stata manifestata un’apertura in Europa
per escludere il cofinanziamento dal computo del deficit. Si trasforma così un meccanismo da
emergenziale in strutturale, rivelando nei fatti la rinuncia a riformare la politica superando i
vincoli, i limiti e le inefficienze che rendono debole l’avanzamento della spesa. Nel merito,
poi, l’Accordo di Partenariato (il documento strategico fondamentale del nuovo ciclo),
nonostante gli sforzi di orientamento verso la crescita e l’occupazione, non sembra offrire
significative innovazioni sul piano della qualità della programmazione: non emergono chiare
strategie di sviluppo per i territori, le azioni per perseguirle restano ancora caratterizzate da
una forte frammentarietà. Su tale scenario, in verità poco soddisfacente, avrebbe dovuto
intervenire la nuova governance delle politiche, con l’istituzione dell’Agenzia per la Coesione
territoriale, su cui tanto si è puntato – anche in fase di negoziato con Bruxelles – per
imprimere quella necessaria discontinuità. Al di là dei problemi di definizione dei compiti, di
sovrapposizione con altri soggetti (su tutti, Invitalia), c’è un tema enorme che attiene alla
compatibilità tra gli obiettivi che si pone l’Agenzia e le risorse strumentali all’espletamento
delle funzioni che è chiamata a svolgere. In ogni caso, l’Agenzia non è ancora operativa, ed è
un grave danno, in questo passaggio cruciale del 2014-2015, segnato dalla coda della vecchia
programmazione e dall’avvio della nuova: il rischio è che alla dispersione delle passate risorse
si sommi un troppo ritardato avvio delle nuovo ciclo.
Ma il più grande limite della politica di coesione, anche nel nuovo ciclo, è non essere inserita
in una strategia di politica di sviluppo più ampia. È stato già detto, ma ciò è ancora più vero a
livello europeo, dove la politica di coesione vive in una “splendida solitudine”, essendo
completamente sconnessa dalla governance economica complessiva. E quando c’è qualche
connessione, questa è assai discutibile: è il caso delle nuove regole europee della coesione che
introducono le condizionalità macroeconomiche. Nei fatti, queste finirebbero per sanzionare
proprio le aree che, a causa del ritardo di sviluppo (per la riduzione del quale le politiche di
coesione sarebbero pensate), possono far registrare performance economiche e di finanza
pubblica più problematiche. Più in generale, la non ottimalità dell’Area euro117
, accentuata dai
vincoli derivanti dal Fiscal compact, rappresenta un meccanismo di divergenza molto più
potente e pervasivo del potenziale di convergenza attivabile con i fondi strutturali (i quali,
116
I commi da 703 a 706 dell’art. 1 della legge 23 dicembre 2014, n. 190 (legge di stabilità 2015) prevedono una
nuova disciplina relativa alle modalità di utilizzo del Fondo per lo sviluppo e la coesione (FSC), con una
tempistica rinnovata che dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – assucira la programmazione del fondo entro il
2015. 117
Su questi aspetti, cfr. Introduzione e sintesi a SVIMEZ, Rapporto 2014 sull’economia del Mezzogiorno, il
Mulino, 2014. Cfr. anche C. Petraglia, F. Purificato, Moneta unica e vincoli sovranazionali alle politiche fiscali
nell’Eurozona alla prova della crisi, in «Rivista Economica del Mezzogiorno», n. 4, 2013, pp. 1065 ss. Sugli
effetti dell’unificazione monetaria, con riferimento specifico alla Riunificazione della Germania, ma con
riferimenti storici all’Unità d’Italia e, oggi, con corrispondenze importanti con l’Area Euro, si cfr. l’interessante
e originale volume di V. Giacché, Anschluss. L'annessione. L'unificazione della Germania e il futuro
dell'Europa, Imprimatur, 2013.
29
peraltro, nel 2014-2020, finanziano copiosamente le regioni più sviluppate, con politiche che
a loro volta rischiano di aumentare i divari tra le aree). Il paradosso è che gli squilibri
economici regionali, tra le cause della crisi dell’Eurozona, nella crisi si accentuano118
. Nella
bella mappa geografica, la frontiera meridionale si colora di rosso. Il Sud avrà pure limiti tutti
suoi nell’implementazione delle politiche; ma come si fa fronte allo specifico svantaggio
competitivo delle nostre aree deboli rispetto a paesi, come ad esempio la Polonia, destinataria
di una mole enorme di fondi europei, che possono utilizzare politiche fiscali meno vincolanti,
tassi di cambio più facilmente manovrabili, e più in generale politiche monetarie meno
restrittive rispetto ai Paesi che hanno adottato l’Euro? Per quanto ancora sarà sostenibile
l’Unione monetaria, proprio dalla prospettiva delle aree deboli, in assenza di correttivi e di
politiche comuni in grado davvero di innescare quella convergenza che non può essere
delegata esclusivamente ai fondi strutturali? Su questi temi, essenziali per definire l’impianto
di una politica di coesione, si discute molto poco e ci torneremo in conclusione119
.
6. Dalle politiche alla politica: la “corresponsabilità” delle classi dirigenti
La questione delle classi dirigenti è tema antico nel dibattito meridionalistico, e tra i più
fecondi. Solo che ora sembra davvero avvitato in opposti schieramenti: è colpa dei
meridionali (delle sue classi dirigenti, e in definitiva dei cittadini che le eleggono), è colpa
degli altri (dell’Unificazione, del Governo, e da ultimo dell’Europa). E proprio dalle evidenze
recenti delle criticità sui fondi per la coesione, gli uni e gli altri traggono le loro (parziali)
ragioni: i primi, rinverdiscono la questione antica delle classi dirigenti locali con la manifesta
incapacità di spesa dei fondi europei (trascurando l’insieme delle cause); i secondi,
denunciano il venir meno dell’impegno finanziario al Sud degli anni Duemila, se non le
politiche squisitamente antimeridionaliste, non di rado tracimando in una preoccupante
deriva, che di fronte al “nemico esterno” nordista diventa cieca rispetto ai tanti “nemici
interni” al Mezzogiorno di vizio e malaffare. Siamo alla “territorializzazione della ragione”,
direbbe Franco Cassano, ed è difficile tornare a ragionare.
Abbiamo provato, nei paragrafi precedenti, a ricostruire quanto le politiche – o meglio, il
complesso delle politiche, nazionali e regionali, ordinarie e aggiuntive – abbiano avuto effetti
determinanti, dal dopoguerra a oggi, nello sviluppo dei territori e, dunque, nelle dinamiche di
convergenza, proprio per provare a fornire elementi per una riflessione più seria e ragionata,
su questo tema centrale. Proveremo a mettere a fuoco adesso un aspetto che ci pare decisivo: e
cioè il nesso stringente tra la politica e le politiche. Un nesso che rende ancora più
manchevole la sottovalutazione di questo ruolo delle politiche in chi, come Felice, pone
l’accento sulla questione delle classi dirigenti (meridionali), in primo luogo politiche.
È certamente vero che una certa politica può influenzare le performance delle politiche (in
parte, lo abbiamo visto nel corso di questa trattazione). Ma è altrettanto vero, e forse più, che 118
Sia consentito un rimando a G. Provenzano, Scommettere sulla frontiera meridionale della Ue, in Tamtam
democratico, marzo 2012. Si cfr. anche le Introduzione e sintesi ai Rapporti annuali della SVIMEZ dal 2012 al
2014. Cfr. ancora G. Viesti, Nord-Sud: una nuova lettura europea, in «il Mulino», n. 5, 2013, pp. 753 ss. 119
A porre questi temi, da una prospettiva meridionalistica, è da qualche tempo A. Giannola, che ora sintetizza
questo ragionamento nel saggio recente più volte citato, Sud d’Italia, spec. pp. 88 ss., offrendo un contributo
“radicalmente innovativo”, come lo definisce Leandra D’Antone in una Recensione pubblicata in questo stesso
numero della Rivista. Per una rassegna della letteratura, cfr. C. Petraglia, F. Purificato, Moneta unica e vincoli
sovranazionali alle politiche fiscali nell’Eurozona alla prova della crisi, cit.
30
possono essere le politiche stesse a “plasmare” natura e modalità di condotta della politica.
Una importante letteratura politologica non solo ci ricorda che la bassa qualità di una classe
politica è anche il risultato delle regole del gioco democratico (a partire dai sistemi elettorali e
dalla legislazione sui partiti) che facilitano ad esempio una selezione negativa, “alla rovescia”,
delle classi dirigenti o incentivano fenomeni corruttivi, in sede di rappresentanza prima ancora
che nella formulazione delle politiche. Ma soprattutto ha ormai da tempo inaugurato120
un
profilo di indagine che inverte il nesso di causalità tra politica (gli attori politici) e le politiche
pubbliche, affermando che (a loro volta anche) "le politiche pubbliche determinano la
politica", nel senso che le politiche pubbliche differiscono tra loro per caratteristiche
intrinseche, come le procedure di decision-making oppure le modalità di implementazione, e
queste caratteristiche influenzano gli esiti finali delle politiche stesse e l’opera degli attori
politici121
.
Quest’ultimo verso del problema vale soprattutto per la politica locale (su cui si concentra la
lettura di Felice e di altri), a fronte di forti e decise azioni della politica “nazionale”. E su
questo aspetto vorremo concentrarci, in quanto, un punto di distinzione rispetto alla
ricostruzione delle responsabilità delle classi dirigenti meridionali – e, in definitiva, “locali”,
poiché legate in quel tipo di interpretazione alle istituzioni territoriali – è il non chiamare “in
correità” le classi dirigenti nazionali, a cui in primo luogo, almeno dalla Costituzione in poi,
spetta la responsabilità primaria della “vera” unificazione nazionale. E non è un caso che
quella lettura incontri il favore di pezzi di classi dirigenti nazionali (espresso da un grande
giornale come il Corriere della Sera), perché suona effettivamente come “assolutoria” nei suoi
confronti.
A nostro avviso, proprio perché ben nota la (scarsa) qualità delle classi dirigenti meridionali e
locali, una responsabilità maggiore avrebbero dovuta averla le classi dirigenti nazionali. Così
è stato, ci pare di poter dire, nel bene e nel male, nel corso di questa storia repubblicana, in cui
la questione del Mezzogiorno si è costantemente intrecciata con il tema più generale del nesso
politica-politiche.
Se partiamo dal Dopoguerra, bisogna convenire che furono scelte di politica nazionale, senza
distinzione di provenienza geografica (settentrionali o meridionali che fossero122
), a mettere al
centro della ricostruzione – e delle sfide dello sviluppo dell’intero Paese – il Mezzogiorno.
Sull’onda del pensiero dei “neo meridionalisti” ma non solo, della discussione che scaturì nei
grandi partiti (con meridionali quali grandi protagonisti e portatori di una visione generale)
intorno alle agitazioni sociali del Sud, furono le classi dirigenti nazionali, in un contesto
internazionale che favorì determinate scelte, a individuare una politica che avviasse lo
sviluppo e la modernizzazione, e che si imponesse – questo è il punto – anche sulle “vecchie”
120
Il riferimento teorico di questa impostazione è Theodore J. Lowi, Four Systems of Policy, Politics, and
Choice, in Public Administration Review, Vol. 32, No. 4. (Jul. - Aug., 1972), pp. 298-310. 121
Interessanti evidenze di questo nesso si riscontrano nella letteratura sui fenomeni corruttivi, si veda in
particolare A. Vannucci, L’evoluzione della corruzione in Italia: evidenza empirica, fattori facilitanti, politiche
di contrasto, in La corruzione amministrativa. Cause, prevenzione e rimedi, a cura di F. Merloni e L. Vandelli,
Passigli, 2010, pp. 37-68. In generale, aspetti di questo nesso si ricavano dalla lettura, sul caso delle politiche
per il Mezzogiorno, anche in V. Fargion, L. Morlino, S. Profeti (a cura di), Europeizzazione e rappresentanza
territoriale. Il caso italiano, il Mulino, Bologna, 2006. 122
Una bellissima antologia ragionata dei non meridionali impegnati per lo sviluppo economico, sociale e civile
del Mezzogiorno è offerta dal volume di S. Zoppi, Diciotto voci per l’Italia unita, il Mulino, 2011.
31
classi dirigenti locali legate alle rendite e ad antichi privilegi. Perché, se pure la formazione di
nuove classi dirigenti è un «frutto misterioso della storia», per dirla con Dorso, certamente lo
sviluppo, una prospettiva di sviluppo – nella sua dimensione anche economica – che introduce
quegli elementi di modernità in grado, ad esempio, di liberare fasce sempre più ampie della
popolazione da condizione di bisogno e dunque, dal condizionamento, dei poteri “estrattivi”
locali (per dirla con la terminologia in voga), ne è una premessa essenziale. La
sottovalutazione del ruolo che le buone politiche possono svolgere nel plasmare una politica
nuova è in fondo la stessa che ebbe il PCI quando, per difetti essenzialmente ideologici legati
agli interessi di classe e a una lettura forse troppo rigida delle tesi gramsciane sulle classi
dirigenti, si oppose alla strategia del governo (e anche dei neo meridionalisti)123
.
Quell’esperienza funzionò, come ricostruito sopra, finché non si verificarono mutamenti di
assetto delle politiche – decisi dalle classi dirigenti nazionali – che, sia sul versante “interno”
all’intervento straordinario, sia sul contesto istituzionale (con il regionalismo, la cui crisi
meriterebbe un discorso a parte124
), aumentarono il potere di interferenza e di intermediazione
politico-burocratica, in un rapporto di scambio sempre più vizioso coi “notabilati” locali. Un
processo degenerativo che vede il riemergere dell’estrattività della politica locale e che ha
inizio proprio quando mutano politiche che invece stavano producendo effetti.
Da quel momento, la storia del Mezzogiorno e dei suoi fallimenti è tornata ad essere una
vicenda opaca di classi dirigenti inadeguate che, intermediando sui bisogni e i diritti,
manipolando l’accesso al mercato del lavoro, stabilendo collusioni crimonose nelle pieghe di
un’amministrazione inefficiente125
, hanno plasmato a propria immagine le società che
avrebbero dovuto guidare ed emancipare. Ma, a quel punto, chi avrebbe dovuto affrontare la
questione del governo di una società arretrata? Chi doveva capire che un’amministrazione
pubblica diventata l’indispensabile ammortizzatore sociale per mancanza di un welfare
universalistico crea queste degenerazioni? Non è sulle classi dirigenti nazionali che ricade la
responsabilità prima e ultima del superamento dei divari e degli squilibri di sviluppo?
È stata l’apatia meridionalista della classi dirigenti nazionali, nel corso della cd. Seconda
Repubblica, frutto di una certa “frigidità” alle questioni sociali che riesplodevano, a lasciare
proliferare oligarchie locali – nel frattempo, destinatarie di un trasferimento di potere
considerevole, con il consolidarsi di un decentramento che ha visto, a un tempo,
l’affermazione del primato delle Regioni e la moltiplicazione dei livelli di governo – con cui
le dirigenze centrali hanno stabilito nel migliore dei casi rapporti di reciproca e nefasta non
interferenza. Perché, nel peggiore dei casi, al Sud si sono garantiti compromessi scadenti in
nome di equilibri nazionali. Ovunque, poi, le classi dirigenti locali sono state lasciate in balia
123
Il rimando obbligato è al già citato G. Amendola, La democrazia nel Mezzogiorno, cit. Cfr. anche, su questo
aspetto, G. Barone, La Cassa e la «ricostruzione» del territorio meridionale, in Radici storiche ed esperienza
dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, cit., p. 236. 124
Pur da una prospettiva non certo “centralista” è utile la lettura di S. Mangiameli, Le Regioni italiane tra crisi
globale e neocentralismo, Giuffrè, 2013. 125
La centralità del tema delle mafie nelle dinamiche di sviluppo la letteratura è sterminata. Vi si concentra
anche E. Felice, Perché il Sud, cit. (spec. nella prima e nella seconda parte, in cui prova a rispondere alle
domande: «Perché nasce la mafia?»; «Perché la mafia non è stata sconfitta?»). Un rimando generale è d’obbligo
a S. Lupo, Storia della mafia, Donzelli, 2004, e per venire all’oggi, R. Sciarrone (a cura di), Alleanze nell’ombra,
Donzelli, 2012. Per ricusare tuttavia le riduzioni “Sud-mafia” e “mafia-sottosviluppo” che pure permangono nel
dibattito, si v. sempre di R. Sciarrone (a cura di), Mafie al Nord, Donzelli, 2014.
32
di un processo di personalizzazione della politica, favorito anche da legislazioni elettorali (dai
vizi troppo a lungo ignorati) che, sommate al rachitismo dell’organizzazione dei partiti, hanno
esposto gli eletti all’insostenibile ricatto dei potentati economici locali. Nel cortocircuito
democratico, poi, si sono consolidati comportamenti a fianco e fuori delle regole,
nell’amministrazione così come nella gestione dei partiti: e non può stupire che in qualche
caso siano sconfinati nella violazione di leggi penali.
In quest’ottica di “corresponsabilità” centrale e locale sul mancato sviluppo del Sud, è molto
interessante la “parabola” della Nuova programmazione. Come ricordato, questa nuova
politica nasceva all’interno di una rinnovata fiducia per le classi dirigenti locali. Ma questa
fiducia, accentuata fino all’eccesso a causa della temperie ideologica dello “sviluppo locale”,
si è trasformata in delega pressoché totale. Gli stessi teorici della Nuova Programmazione, a
partire da Fabrizio Barca, hanno colto questo limite di fondo puntando126
, in una lettura critica
dell’esperienza degli anni Duemila, sulla necessità, per l’efficacia della politica di coesione, di
una tensione “politica” e di un “blocco politico di consenso” tra policy makers centrali e locali
intorno agli obiettivi dello sviluppo regionale. Uno dei limiti di fondo della Nuova
Programmazione, forse, è consistito proprio nella sottovalutazione di questo elemento
“esogeno” alla politica regionale, che in termini quantitativi si potrebbe tradurre nella
garanzia dell’addizionalità, in termini qualitativi nell’esercizio del coordinamento, nella
garanzia di concentrazione degli interventi, eccetera. Tuttavia, davvero il vincolo del
consenso politico ad un’azione decisa di riequilibrio territoriale e di crescita a partire
dall’attivazione delle risorse “sottoutilizzate”, può essere considerato un aspetto “esogeno”
all’impianto della nuova programmazione? O piuttosto, quell’impianto – così fortemente
incentrato su modelli fiduciari e relazionali, che forse ha peccato di un “volontarismo dal
basso”, speculare a quello di cui sono stati accusati i nuovi meridionalisti con il loro
approccio “dall’alto” – non finiva per assumere implicitamente come un elemento proprio e
caratterizzante del “blocco politico di consenso” che avrebbe dovuto accompagnare e
implementare la politica regionale, i rinnovati livelli locali di governo e la loro “autonomia”?
Se quel fattore “consenso”, dopo una brevissima stagione, è venuto meno per mutamenti
soprattutto locali (ma anche centrali, ci pare), forse andava considerato come un limite
dell’impianto che su di esso fece tanto affidamento, e non solo una responsabilità “esterna”,
un problema “esogeno”127
.
E allora, le politiche di coesione rappresentano lo specchio perfetto che restituisce le
responsabilità delle classi dirigenti sul mancato sviluppo del Mezzogiorno in questi anni.
Delle classi dirigenti locali, ovviamente; ma anche delle classi dirigenti nazionali128
. I fondi
strutturali hanno garantito quell’equilibrio di “non interferenza” tra centro e periferia a cui
accennavamo. Sono diventati l’alibi per le classi dirigenti nazionali (con poche eccezioni) per
non mettere in campo nessun altra politica verso il Sud (comprese quelle generali e ordinarie,
come i servizi della scuola e della giustizia, su cui si scontano divari non tutti imputabili alle
126
Già Fabrizio Barca (in Italia frenata. Paradossi e lezioni della politica per lo sviluppo, Donzelli, 2006), il
protagonista indiscusso di questa politiche in Italia, esamina criticamente il ruolo del “centro”, parla di necessità
di “condivisione nazionale”, eccetera (cfr. spec. pp. 104, 110). 127
Devo questo spunto critico al confronto con Luca Bianchi, accennato nel nostro Ma il cielo è sempre più su,
cit. 128
Su questa duplice responsabilità insiste anche I. Sales, Napoli non è Berlino. Ascesa e declino di Bassolino e
del sogno del riscatto del Sud, Dalai editore, 2012.
33
autorità locali), facendo venir meno il necessario carattere di aggiuntività a tali interventi.
D’altro canto, le classi dirigenti locali custodivano gelosamente le loro prerogative su queste
risorse, e con la colpevole illusione di risolverci tutti i loro problemi hanno finito per
polverizzarle in una miriade di interventi rispondenti a istanze particolaristiche e
“distributive”. In questo modo, se non sono state sempre “sprecate” – non più che altrove, si
direbbe: ma lo spreco è un’infamia maggiore in un Sud che resta della sua fame – comunque
hanno perso ogni strategicità e efficacia, e buona parte del loro potenziale impatto.
Ma, negli ultimi anni, non è stata responsabilità delle classi dirigenti nazionali far pagare
“asimmetricamente” al Sud il costo della manovre di consolidamento della finanza pubblica?
Non è sulle classi dirigenti nazionali che grava la colpa di aver scaricato sul Sud i tagli alla
spesa in conto capitale complessiva? Non è una responsabilità del centro non aver garantito i
livelli essenziali delle prestazioni sui diritti civili e sociali in tutto il territorio nazionale? Non
è al centro, per tornare al tema precipuo della coesione, che è mancato quel presidio strategico
di coordinamento, non è nelle amministrazioni centrali che si sono fatti registrare ritardi di
gestione non minori che in periferia? Non è il centro che avrebbe dovuto operare attraverso
“poteri sostitutivi” per non far pagare sui cittadini i costi delle inefficienze o delle
malversazioni della periferia?
Ma questo punto di vista è completamente rimosso, e liquidandolo come “rivendicazionismo
sudista” (un indistinto in voga nella pubblicistica), è stato delegato largamente al
“terronismo”129
. Questa rimozione è dovuta, a nostro avviso, alla sopravvivenza, oltre i suoi
stessi fallimenti, di una visione ideologica, subalterna al liberismo di cui, come ha rilevato
acutamente Cassano, ha rappresentato una versione “sociale” a partire dalla centralità della
dimensione locale e comunitaria. È il liberismo comunitario, il cui imperativo dominante è
contare sulle proprie forze, e ha incrociato, in questo, il “titanismo” di classi dirigenti locali
che gestivano sempre più sia le politiche ordinarie (con il federalismo) sia quelle aggiuntive
(con la torsione localistica delle politiche di coesione). Questa nuova versione del
meridionalismo, partendo dalla considerazione (peraltro ovvia) che il Mezzogiorno non fosse
affatto uniforme (e perciò andasse “abolito”), puntava sul fatto che le diversità marcate tra
territori avrebbero potuto comportare uno scatto della dimensione locale, innescando
comportamenti virtuosi di competizione, e dunque dinamiche di modernizzazione e di
sviluppo “autopropulsivo”. Per questa via, però, persino al di là delle intenzioni dei
propugnatori, il seme liberista prende il sopravvento su quello comunitario, avendo spostato il
tema della competizione dall’individuo al territorio, trascurando il grande tema del
superamento delle disuguaglianze, ché anzi in questa versione vengono in qualche misura
postulate, e finisce per accentuare l’altro elemento caratterizzante di questo filone di pensiero:
il localismo130
. Pur partendo dalla considerazione, condivisibile, che uno “sviluppo senza
autonomia” (per usare il titolo fortunato di Trigilia131
) dei territori non riesce mai a creare
129
Il riferimento qui è M. Demarco, Terronismo. Perché l'orgoglio (sudista) e il pregiudizio (nordista) stanno
spaccando l'Italia in due, Rizzoli, 2011. 130
Sulla deriva “localistica” si cfr. anche L. Bianchi, G. Provenzano, Il Mezzogiorno nel gioco delle secessioni,
in Tamtam democratico, giugno 2011. La polemica contro il “localismo” è stata portata avanti, nell’ambito della
Svimez, con toni anche molto aspri, da N. Novacco negli anni della sua presidenza. Cfr. N. Novacco (a cura di),
Per il Mezzogiorno e per l’Italia. Un sogno ed un impegno che dura da 60 anni, il Mulino, 2007. 131
Per Cassano è proprio C. Trigilia di Sviluppo senza autonomia, cit. il capostipite di questo “modo di vedere il
Sud”. Occorre riconoscere invece a Trigilia sempre grande accuratezza ed equilibrio nel portare avanti le sue
tesi. Un equilibrio che rende ad es. ben più convincente di quella di Felice la sua interpretazione sul ruolo delle
34
un’etica pubblica in grado di ribaltare gli effetti perversi della dipendenza meridionale, il
localismo finisce per «trasferire sulle spalle della sola volontà delle classi dirigenti locali del
Mezzogiorno tutto il peso della riduzione degli scarti strutturali, abbandonando a priori come
inutile e dannosa qualsiasi prospettiva geopolitica e geoeconomica».
Continuare a portare avanti una tesi, come fa Felice, per cui la (mancata) crescita del PIL o il
gap di “sviluppo umano” (che però dalla questione delle risorse, come visto, è essenzialmente
determinato) sia determinata, stavolta in negativo, dalla qualità delle classi dirigenti locali,
può esser utile per la polemica politica (pur opportuna) contro il “vecchio” che si annida nei
territori covando rendite e privilegi grandi e piccoli, ma non solo solleva altri attori da
responsabilità forse maggiori, soprattutto ci dice poco delle sfide per lo sviluppo, finendo
forse al di là delle proprie intenzione per farsi portatrice dello stesso difetto “localistico”.
D’altra parte, basterebbe spostare di poco il punto di vista analitico, per scoprire che accanto
all’offerta di “cattiva” politica vi è anche una domanda di cattiva politica, combinate in un
circolo vizioso inestricabile. Una «domanda particolaristica»132
certo determinata non da
diversità antropologiche o addirittura morali, ma dal debole sviluppo, dall’urgenza dei bisogni
insoddisfatti, in quel complesso nesso di causa-effetto con la debolezza di capitale sociale.
Se vi è una responsabilità delle classi dirigenti meridionali, in questi ultimi vent’anni, è stata
allora quella di aver lasciato che il Sud diventasse sempre più “demoralizzato” per un vuoto di
progetto, per la mancanza di una visione forte e condivisa del governo, nazionale e locale, di
una società meno sviluppata. Una visione politica che andasse al di là della buona
amministrazione (quando c’è stata), ma che fosse capace di dare agli attori sociali dello
sviluppo un orizzonte lungo, una meta da perseguire con coerenza, alzando lo sguardo oltre il
proprio campanile. E sarà forse solo rilanciando un grande dibattito pubblico – partecipato e
consapevole, non relegato al Mezzogiorno ma nazionale – sul progetto di Sud (e, dunque, di
Italia) da realizzare che le classi dirigenti potranno rinnovarsi (nel personale e nell’approccio
– locale e nazionale – al Mezzogiorno) e svolgere un ruolo virtuoso di sviluppo. Solo così, i
politici locali potranno «reggere all’assedio di chi domanda posti e sussidi»133
.
Solo con una visione dello sviluppo del Sud – che non può essere delegata soltanto ai fondi
strutturali ma a un complesso di politiche e di investimenti pubblici per uscire dalla crisi
peggiore della nostra storia, e che non può vivere nelle carte e nelle procedure ma deve
diventare senso comune di alcune grandi missioni a cui informare l’intera azione pubblica134
– classi dirigenti nel divario: «Sarebbe però fuorviante attribuire tutte le responsabilità alla classe politica locale. I
governi nazionali hanno a loro volta un ruolo non trascurabile». Così C. Trigilia, Non c’è Nord senza Sud, cit.,
110 (corsivo mio). Del resto, nella sua breve esperienza da Ministro per la coesione territoriale, Carlo Trigilia ha
compiuto scelte che non potevano certo essere etichettate come ispirate al localismo. 132
Così ancora C. Trigilia, Non c’è Nord senza Sud, cit. 115. 133
La metafora dell’assedio e la citazione è di Michele Salvati, A chi conviene l’assedio del Meridione,
«Corriere della Sera», 26 novembre 2009. Abbiamo voluto ricordare Salvati proprio perché è stato tra i più
“entusiasti” sostenitori delle tesi di Emanuele Felice, concentrandosi con Felice quasi esclusivamente
sull’«offerta» politica e trascurando le ragioni complesse, interne ed esterne al Mezzogiorno, di una certa
«domanda». A partire dalle categorie di “struttura” e di “visione” un discorso molto acuto su questi stessi aspetti
è portato avanti da O. Romano, Qual è la direzione? Per una critica non moralistica delle classi dirigenti
meridionali, in Italianieuropei, n. 1, 2015, pp. 66 ss. 134
Il riferimento è agli investimenti “mission oriented” e un più generale approccio “mission oriented” degli
apparati pubblici, di cui parla M. Mazzucato, Lo stato innovatore, cit.
35
si possono coinvolgere e riattivare le forze vive dalla società. Insomma, senza grandi riforme
delle politiche, per favorire il lavoro produttivo, un sussulto di etica pubblica o un profondo
rinnovamento (come accaduto in passato con le “fugaci” primavere) non basteranno a
cambiare la politica (soprattutto locale): ogni amministratore meridionale potrà subire
quell’assedio e riprodurre quella deformazione da tempo denunciata.
7. Per la modernizzazione «attiva» del Sud
Vorremmo concludere questo contributo facendo riferimento ad un’altra categoria centrale
nella ricostruzione di Emanuele Felice sul ritardo del Mezzogiorno e che anche a noi appare
feconda: la modernizzazione attiva o passiva.
Riprendendo, sviluppando e discostandosi sensibilmente da una tesi di Luciano Cafagna135
,
Felice attribuisce i progressi che pure il Sud ha conosciuto nel corso della storia unitaria a una
«modernizzazione senza che un “blocco storico” vi eserciti il ruolo di guida», «come risultato
di un approccio adattivo», «conseguenza della presenza di istituzioni politiche ed economiche
di tipo “estrattivo”», senza che «l’ideale della modernità [venga] assunto nell’orizzonte
culturale dell’intera collettività» ma che «promana dall’esterno, come un qualche cosa di
estraneo alla società locale, e tale tende a rimanere»136
.
L’«attitudine passiva delle élite e della società meridionale verso la modernità – per Felice –
nacque all’epoca della rivoluzione francese»; del resto, la “similitudine” modernizzazione-
rivoluzione è ricavata da Eric Hobsbawm137
. Nella categoria di modernizzazione passiva si
sente dunque tutta l’eco di quella rivoluzione “passiva” di cui parlò Vincenzo Cuoco a
proposito della rivoluzione napoletana del 1799, una formula ripresa e ripensata da Antonio
Gramsci negli scritti sul Risorgimento, a cui si deve anche la categoria di “blocco storico”.
Mentre Cafagna insiste sul fatto che la categoria di modernizzazione attiva non può essere
riferita a un’area regionale – perché «mancano essenzialmente, ove si assuma un’area
regionale, i requisiti politici di un processo di modernizzazione»138
– Felice ritiene invece che
questo sia possibile e cita, a supporto della sua tesi, il ruolo crescente delle istituzioni locali
(le Regioni) nel secondo Novecento e le teorie “localiste” sul ruolo delle élite locali nella
crescita del Centro-Nord139
.
Tuttavia Felice, come è stato detto, nella sua ricostruzione trascura ampiamente le vicende che
partono dal secondo Dopoguerra e completamente gli ultimi decenni di politiche nel
Mezzogiorno. Ciò nonostante, porta ad esempio della modernizzazione passiva del Sud
essenzialmente le vicende connesse all’«intervento straordinario»140
. Al di là delle avvertenze
generali di Cafagna sull’utilizzo della categoria, ci pare di poter dire, al contrario, che quello –
almeno in una fase iniziale – fu un esempio di «modernizzazione attiva» del Mezzogiorno e
nel Mezzogiorno. Si riscontrano, infatti, sicuramente nella fase di avvio dell’intervento (delle
135
Cfr. L. Cafagna, Modernizzazione attiva e modernizzazione passiva, in «Meridiana», n.2, 1988. 136
Le citazioni di E. Felice, Perché il Sud, cit. sono alle pp. 96-98. 137
E. Hobsbawm, L’età della Rivoluzione, 1789-1848, Rizzoli, 1999 (ed. or. The Age of Revolutions, London,
1962). 138
Così L. Cafagna, Modernizzazione attiva e modernizzazione passiva, cit. p. 237. 139
In particolare, il già richiamato A. Bagnasco, La costruzione sociale del mercato, cit. 140
Di cui peraltro Felice fa una ricostruzione condivisibile, in op. cit., spec. 109 e 113.
36
degenerazioni abbiamo già detto), diversi di quegli elementi qualificanti della categoria in
questione.
Nel Dopoguerra, nel Mezzogiorno, si può registrare la presenza di un blocco “storico” che
vuole la modernizzazione. Guidata da élite rinnovate nei partiti e nei sindacati che si
ricostruivano, la società meridionale fu il teatro di grandi lotte per lo sviluppo nelle
campagne, di liberazione dalla mafia e dai residui di “feudalità”. Il movimento dei contadini
sfociato nell’occupazione delle terre incolte era stato preceduto da una vasta opera culturale e
politica realizzata in esperienze importanti come il Movimento per la Rinascita del
Mezzogiorno in cui si confrontavano e organizzavano le élite politiche non solo della sinistra
socialcomunista, ma anche della borghesia laica e progressista. Pur con tutte le contraddizioni
di allora (anche drammatiche, si pensi alle repressioni), fu il comando politico del governo a
raccogliere la sfida, attraverso una svolta impressa da De Gasperi alle politiche fino ad allora
seguite, promuovendo anche un cambiamento nelle istituzioni (dalla riforma agraria
all’intervento straordinario) che andava nella direzione dello sviluppo e della
modernizzazione, seguendo in questo il “verbo” di quella élite tecnico-politica dei «neo
meridionalisti» ma nell’ottica di rispondere anche a quella domanda delle masse popolari.
Se è vero che la sinistra politica, principale guida di quei movimenti popolari che
conducevano nel Sud una grande lotta sociale, si oppose a quelle politiche di intervento
pubblico nell’economia141
, è vero anche che quell’impianto rispondeva alle sue stesse istanze,
almeno quelle più “riformiste” e meno ideologiche. Il punto forse più avanzato di tutta quella
stagione, per quanto riguarda la proposta meridionalistica, era contenuto nel Piano del lavoro
del 1949 di Di Vittorio che, con le sue direttrici generali sull’energia, le bonifiche e
l’agricoltura, l’edilizia, avrà riverberi nell’azione del Governo nei mesi successivi, con la
riforma agraria e l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno142
. Un’istituzione che, non a caso,
Di Vittorio – subendo una feroce polemica all’interno del suo partito attardato su un
approccio un po’ troppo schematicamente gramsciano – sentiva un po’ anche come frutto
degli sforzi straordinari, sul piano del rilancio dell’azione sindacale, dei contadini e dei
lavoratori meridionali verso l’individuazione di prospettive di sviluppo di interesse
generale143
.
141
Sbagliando, ma con argomenti, attenzione, che pure avevano un fondamento. In particolare, Giorgio
Amendola, nel suo famoso discorso già citato, oltre alla contrarietà tutta ideologica all’utilizzo della categoria
dell’«area depressa», in realtà poneva questioni che poi sarebbero esplose: la possibilità di deriva clientelare
dell’intervento governato da una “specialità” (di qui la critica all’«ente speciale») che fosse estranea al controllo
del Parlamento (ma la storia mostrerà come questa deriva non sarebbe discesa dalla natura “tecnica” della Cassa,
bensì dal momento in cui comincia il “controllo” della politica); il carattere sostitutivo dell’intervento per la
mancanza di garanzie di finanziamento nel medio-lungo periodo; e infine l’esplicita esclusione (nel 1950)
dall’intervento di politiche di industrializzazione. Sull’aspro dibattito interno al PCI in quel passaggio, cfr. tra gli
altri G. Barone, La Cassa e la «ricostruzione», cit., spec. p. 235. Un’analisi critica dell’apporto del
meridionalismo comunista, si legga anche in G. Galasso, Il Mezzogiorno da “questione” a “problema aperto”,
cit., spec. 95 ss. 142
Cfr. P. Craveri, Il significato storico e politico del Piano del lavoro di Giuseppe Di Vittorio, in Crisi,
rinascita, ricostruzione. Giuseppe Di Vittorio e il Piano del lavoro (1949-1950), Donzelli, 2012. Sul significato
generale e meridionalistico del Piano del lavoro di Di Vittorio, si cfr. anche Il Piano del lavoro e il Mezzogiorno,
a cura di A. Gianfagna, Ediesse, 2008. 143
Cfr. ancora G. Barone, La Cassa e la «ricostruzione», cit. Una testimonianza di questo rapporto tra Piano del
lavoro e intervento straordinario, come avvertito da Di Vittorio, è la sua partecipazione, anche stavolta molto
37
Quelle istituzioni, d’altra parte, non furono certo partorite per le contingenze politiche di
calmierare la tensione sociale o dalla mente illuminata dei «neo meridionalisti» (raccolti,
come ricordato, nel “pensatoio” della SVIMEZ di Saraceno e Menichella), ma si inserivano in
una temperie culturale – una vera e propria egemonia (per usare un altro elemento che
contraddistingue la modernizzazione attiva) – frutto di uno “spirito del tempo” che
trascendeva i confini nazionali, fondato sulle teorie keynesiane (in senso lato144
) e su varie
esperienze che si erano già altrove sviluppate o che si stavano avviando145
. Vi era, infine, un
contesto internazionale che consentì a quella classe dirigente di giocare la partita dello
sviluppo del Sud. Quel contesto, peraltro ricostruito come un «interesse straordinario» per il
Mezzogiorno, fu reso possibile dal ruolo che ebbero alcuni organismi internazionali (come la
Word Bank e, in particolare, la International Bank of Reconstruction and Development) nel
preparare e plasmare le istituzioni dell’intervento straordinario146
. Va rimarcato, però, che in
quel contesto vi agivano da protagonisti uomini che erano espressione di quelle classi
dirigenti nazionali a cui si deve l’intervento147
.
L’insieme di questi elementi configura, con ogni evidenza, le premesse per un processo di
«modernizzazione attiva» non solo del Mezzogiorno ma, a partire dal Mezzogiorno,
dell’intero Paese. Un processo che, come abbiamo visto, si interruppe già prima della crisi
degli anni Settanta per il venir meno proprio di alcuni di questi elementi decisivi. In ogni
caso, il Mezzogiorno diventò per un quindicennio protagonista dello sviluppo economico
nazionale e partecipò a pieno titolo alla golden age: «a metà degli Settanta il Mezzogiorno
può considerarsi un sistema industriale in via di consolidamento con molti tratti di fragilità e
anche macroscopiche inefficienze, ma con una base identificata di vocazioni e di
potenzialità»148
.
A conferma di questa tesi, va richiamato un passaggio decisivo. Nel 1957 (che è anche, e non
per coincidenza149
, l’anno dell’avvio del cd. “secondo tempo” dell’intervento straordinario,
contrasta all’interno del PCI, al Convegno della Cassa organizzato a Napoli nel 1953. Cfr. Casmez, Atti del
secondo congresso di Napoli (4-5 novembre 1953), Roma, 1954. 144
L’intervento straordinario mirando come ricordato alla politica dell’offerta superava un approccio
strettamente keynesiano. Cfr. P. Saraceno, Keynes e la politica italiana di piena occupazione, Comunicazione al
Convegno nazionale sul tema «Keynes in Italia», in «Studi SVIMEZ», n. 7-8, 1983. Vedi anche, Id., Politica
keynesiana e Mezzogiorno, in «Informazioni SVIMEZ», 1976. 145
Era consolidata l’esperienza americana della Tennesse Valley Authority (del 1933, che fu, secondo i più, il
vero modello di riferimento della Cassa, cfr. M. Carabba, A. Claroni, La legislazione per il Mezzogiorno e
l’intervento straordinario, cit.) per avviare lo sviluppo e la modernizzazione di una regione in ritardo e
gravemente colpita dalla Grande Depressione; vi erano le esperienze britanniche degli anni ‘40 per il recupero di
aree in declino industriale; e negli stessi anni ‘50 in cui prese avvio l’intervento straordinario per il Mezzogiorno,
anche Germania e Francia avviano programmi di sostegno allo sviluppo delle aree depresse. 146
A ricostruire il contesto è L. D’Antone, nel saggio appunto intitolato, L'«interesse straordinario» per il
Mezzogiorno, cit. Cfr. anche le testimonianze di D. Menichella, Scritti e discorsi scelti, cit. Sul ruolo degli
organismi internazionali, cfr. poi M. Alecevich, The World Bank loans to Italy and the history of postwar
development policies, working paper, Columbia University, New York, 2009 e A. Lepore, La Cassa per il
Mezzogiorno e la Banca mondiale: un modello di sviluppo economico italiano, Quaderni SVIMEZ, Roma, 2012
(nuova edizione, Rubbettino, 2013). 147
Sulla figura di F. Giordani, dirigente della Banca mondiale come “inviato” di Menichella, cfr. ancora L.
D’Antone, L'«interesse straordinario», cit., spec. pp. 80 ss. 148
Così, A. Giannola, Il Mezzogiorno nell’economia italiana, cit. 149
Come ricostruisce ancora A. Giannola, da ultimo in Sud d’Italia, cit.
38
con la politica di industrializzazione), durante la stipula dei Trattati di Roma, una classe
dirigente accorta e responsabile si peritò di far approvare un protocollo aggiuntivo
esplicitamente riferito al Mezzogiorno, ispirato (e scritto) da Saraceno e La Malfa, che non
solo rendesse compatibile l’applicazione delle disposizioni della nascente Comunità con
l’«intervento straordinario», ma impegnasse le istituzioni comunitarie a promuovere e
agevolare lo sforzo di superamento del divario150
. Significativamente, è proprio da lì che
l’Europa “mercatista” dapprima non si mostra insensibile e poi istituisce una propria politica
per lo sviluppo regionale e il riequilibrio151
: la politica di coesione che, per una certa fase, può
essere definita la più “influente”152
politica europea.
Ed è da quel passaggio che arriviamo all’oggi: o meglio, a prima della crisi quando, dopo la
chiusura dell’intervento straordinario, partì con qualche ritardo una nuova politica per il Sud
fondata essenzialmente sulla politica di coesione europea. Alla fine di questa stagione, ci pare,
le cose stiano in maniera alquanto diversa e persino capovolta rispetto a quel 1957.
Dall’Europa si guarda al Mezzogiorno come un «unicum» di inefficacia e inefficienza della
coesione; le regioni meridionali vivono la peggiore crisi di sempre e un arretramento marcato
nelle condizioni economiche e sociali.
Forse, la ragione andrebbe ricercata proprio nel fatto che, questa nuova stagione di politica
per il Sud, non fu di modernizzazione attiva: malgrado vi fosse la parvenza di un nuovo
“blocco storico” (segue infatti gli anni delle “primavere dei Sindaci”, delle rivolte antimafia
e, con il 1996, una nuova fase della cd. Seconda Repubblica), il comando (e il consenso)
politico fu effimero per la mancanza di partiti in grado di dare continuità ai processi
istituzionali e per i “limiti” interni a quelle politiche sopra ricordati. Ma è l’egemonia
culturale e il contesto internazionale che soprattutto andavano in realtà contro le politiche di
riequilibrio territoriale e di riduzione delle disuguaglianze153
.
150
«LE ALTE PARTI CONTRAENTI […] PRENDONO ATTO del fatto che il Governo italiano è impegnato
nell'esecuzione di un programma decennale di espansione economica che mira a sanare gli squilibri strutturali
dell'economia italiana, in particolare grazie all’attrezzatura delle zone meno sviluppate nel Mezzogiorno e nelle
Isole e alla creazione di nuovi posti di lavoro per eliminare la disoccupazione; […] RICONOSCONO che il
raggiungimento degli obiettivi del programma italiano risponde al loro interesse comune; […] RITENGONO che
le istituzioni della Comunità debbano considerare, ai fini dell'applicazione del Trattato, lo sforzo che l’economia
italiana dovrà sostenere nei prossimi anni e l'opportunità di evitare che insorgano pericolose tensioni, in
particolare per quanto riguarda la bilancia dei pagamenti o il livello dell’occupazione, tensioni che potrebbero
compromettere l’applicazione del Trattato in Italia […]». Il testo del protocollo aggiuntivo è assai significativo
per la ricostruzione della visione originaria della Comunità sul tema: il riequilibrio territoriale rientra nell’ambito
della competenza nazionale, ma è già forte l’interesse comune (in nuce, vi si legge un elemento caratteristico del
successivo sistema della politica di coesione, ovvero la sovrapposizione di responsabilità nazionali comunitarie.
Cfr. F. Martines, La politica di coesione economica, sociale e territoriale ed il modello di integrazione europea,
in G. Colombini (a cura di), Politiche di coesione e integrazione europea. Una riforma difficile ma possibile,
Jovene, Napoli, 2011, 84. 151
La nascita e l’evoluzione della politica di coesione è ricostruita in G.P. Manzella, Una politica influente.
Vicende, dinamiche e prospettive dell’intervento regionale europeo, Collana della Svimez, il Mulino, 2011. 152
La politica di coesione è definita «the most influential lever at the Community’s disposal» Tony Judt,
Postwar, Heinemann, London, 2005, 530. La citazione del brano è posta in esergo e dà appunto il titolo al libro
di G.P. Manzella, Una politica influente, cit. 153
Per la crisi europea assai interessante è la lettura di un opuscolo del sociologo tedesco U. Beck, L’Europa
tedesca. La nuova geografia del potere, Laterza, 2013. Più in generale, tra le letture che ci spingono a tali
considerazioni, vorremmo richiamare alcuni libri e pamphlet pubblicati nel corso della grave crisi e
tempestivamente proposti al pubblico italiano,: T. Judt, Ill Fares the Land, Penguin Press, 2010, trad. it. Guasto
39
La governance economica europea – da Maastricht all’Euro senza un governo politico (delle
politiche fiscali e sociali), per finire al vincolo “capestro” del cd. Fiscal compact come
risposta paradossale alla crisi – ha determinato (insieme, ovviamente, a ragioni tutte interne)
l’impossibilità di mettere in campo politiche di sviluppo in grado di innescare una
convergenza tra le aree e di invertire il lungo declino dell’intera economia nazionale154
. Le
accentuazioni delle asimmetrie e degli squilibri regionali che si sono verificate in questi anni,
alla base della recente crisi dell’Eurozona, non potevano certo essere corrette da una politica
di coesione che, come ripete Adriano Giannola155
, a fronte dell’impianto macroeconomico
complessivo e del declino (largamente “imposto” da questo stesso impianto) delle politiche
nazionali di riequilibrio, diventava uno strumento sempre più “debole”.
La teoria del “vincolo esterno” 156
dell’Europa per la modernizzazione del Paese, che si
diffuse anche nelle migliori classi dirigenti all’inizio degli anni Novanta, si è rivelata
fallimentare proprio per questa ragione: aver rappresentato una versione – volendo usare
questa categoria suggestiva – della modernizzazione passiva. Un “vincolo esterno” che ai
giorni nostri è scaduto nella formula imbarazzante del “fare i compiti a casa” e del “ce lo
chiede l’Europa”, ma che già allora ha determinato un’adesione acritica al pensiero dominante
di quegli anni, privando la prospettiva europea – pur decisiva – di un apporto di pensiero e
battaglia politica anche critica e conflittuale che avrebbe potuto correggere gli errori che oggi
tutti sono pronti a riconoscere e che non avrebbe determinato, nel bel mezzo della crisi, il
“trionfo delle idee fallite” (per usare l’efficace formula di Paul Krugman).
Anche la politica dei fondi strutturali europei non è sfuggita a questo approccio. È stata a
lungo vissuta come un beneficio che discendeva dal “vincolo esterno”, e dunque da accettare
acriticamente – anche nei suoi barocchismi, anche nelle sue rigidità – perché avrebbe
naturaliter prodotto quei vantaggi derivanti dalla modernizzazione europea. È questo
atteggiamento di “adesione passiva” delle élite nazionali e locali ad aver privato questa
cruciale politica – al di là dell’inefficienze e delle inadeguatezze nell’implementazione che
pure vi sono state – dell’apporto di idee, anche conflittuali, per superare i suoi limiti interni.
Soprattutto, è stato questo atteggiamento di modernizzazione passiva ad aver fatto smarrire il
è il mondo, Laterza, Roma-Bari, 2011; J. Stiglitz, Freefall. America, Free Markets, and the Sinking of the World
Economy, W. W. Norton & Company, New York-London, 2010, trad. It., Bancarotta. L’economia mondiale in
caduta libera¸ Einaudi, Torino, 2010; e l’importante volume di D. Rodrick, The Globalization Paradox:
Democracy and the Future of the World Economy, W. W. Norton & Company, New York-London, 2011, trad.
it. La globalizzazione intelligente, Laterza, Roma-Bari, 2011. Numerose osservazioni critiche, d’altra parte,
erano ben presenti prima della crisi in D. Harvey, A Brief History of Neoliberalism, Oxford University Press,
Oxford, 2005, trad. it. Breve storia del neoliberismo, il Saggiatore, Milano, 2007 e in P. Krugman, The
Conscience of a Liberal, W. W. Norton & Company, New York-London, 2009, trad. it., La coscienza di un
liberal, Laterza, Roma-Bari, 2009. Infine, alle stesse considerazioni ci porta il ponderoso saggio di A. Sen, The
Idea of Justice, Penguins Bookd, 2009, trad. it. L’idea di giustizia, Mondadori, Milano, 2010. Da ultimo, con una
visione del capitalismo di fondo, ben oltre le crisi, arriva T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, cit. 154
Non si contano le considerazioni critiche e autocritiche su un certo impianto di politica economica. Da ultimo,
un po’ paradigmaticamente si può citare O. Blanchard, D. Leigh, Growth Forecast Errors and Fiscal
Multipliers, IMF Working paper, n.13/1, 2013. 155
Cfr. ancora A. Giannola, Sud d’Italia, cit., pp. 90 ss. 156
Enunciata dal suo maggiore interprete, G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza, 1996, la sua
autobiografia redatta con la collaborazione di Paolo Peluffo e con in appendice gli interventi di Mario Arcelli,
Pierluigi Ciocca, Mario Monti, Guido Rey.
40
contesto anche internazionale avverso alle politiche di sviluppo e di riequilibrio per il quale
prospettare soluzioni alternative157
. È un discorso che certamente andrebbe approfondito, e
non può essere certo questa la sede per farlo.
A conclusione del nostro contributo al dibattito, vorremmo ancora sottolineare che,
riprendendo la carta geografica dell’Europa, si capisce bene come – senza cadere in una
“assolutoria” interpretazione geografica, ma proprio per le ideologie e le regole di questi anni
– ancora permanga un problema di assetti e modelli di sviluppo che crea disuguaglianze
profonde, sociali e territoriali, e che le mancate politiche per correggerlo e indirizzarlo (ad
ogni livello) sono alla base della trappola in cui siamo caduti, che alimenta anche un circolo
vizioso di mancato sviluppo economico e sociale che sta minando le basi della tenuta
democratica nelle aree che più ne soffrono. È la frontiera meridionale dell’Europa l’epicentro
di una crisi da cui non ci tirerà fuori l’aggancio a una qualche ripresa.
Dopo una crisi che è stata paragonata per effetti a una guerra, specialmente nel
Mezzogiorno158
, l’aver richiamato la Ricostruzione, l’«interesse» straordinario ancor prima
che l’«intervento» per il Mezzogiorno, non è certo mosso dalla volontà di replicarne,
schematicamente, teorie e pratiche, formule e soluzioni specifiche. Non è una tradizione a cui
tornare, semmai un’ispirazione per la capacità di guardare avanti. Oggi, come allora, forse più
di allora, il tema del nostro tempo è come rilanciare lo sviluppo, nella sostenibilità sociale e
ambientale, e di costruire istituzioni e politiche adatte alla missione, mobilitando le forze vive
della società e le classi dirigenti più adeguate a portare avanti il progetto. È un tema in cui il
Mezzogiorno può tornare protagonista, nell’orizzonte delle grandi trasformazioni
dell’economia e delle società globali, collocato al centro della cornice internazionale
rappresentata dall’opzione mediterranea.
Questa prospettiva è un compito delle classi dirigenti meridionali? Certo, ma con ogni
evidenza, queste non possono bastare. Quale altro compito storico, una nuova classe dirigente
nazionale degna di questo nome, meridionale e non, dovrebbe porsi se non quello di superare
il divario di sviluppo, “liberare” il potenziale di crescita economica, sociale e civile del Sud,
per tirarci fuori dalla peggiore crisi della nostra storia nazionale?
Se la storia può dividere – ed è un bene, lo ripetiamo, confrontarsi o anche scontrarsi sulle
interpretazioni, a patto di non perdere di vista i fatti – l’urgenza di questo presente dovrebbe
unire tutti coloro che sono animati da un sincero slancio meridionalista, in cui nessuno debba
sentirsi “straniero”159
, e ciascuno possa mettere a disposizione quei pezzi di “verità” che
157
A porre con forza questo tema, oltre a Svimez e Giannola nei volumi più recenti citati, è stato anche P.
Guerrieri, Il rilancio dello sviluppo del Mezzogiorno è legato ad una rinnovata presenza internazionale del
sistema produttivo meridionale, in SVIMEZ, Nord e Sud a 150 anni dall’Unità d’Italia, cit., pp. 275 ss. 158
Un bilancio della crisi, paragonata per durata alla Grande Depressione del ’29, è contenuto nell’ultimo
rapporto della SVIMEZ, Rapporto 2014 sull’economia del Mezzogiorno, cit. (si veda spec. l’Introduzione e
sintesi). Si cfr. anche G. Viesti, La crisi, il Mezzogiorno e i difetti di interpretazione, cit. 159
È il riferimento a Camus di E. Felice, Perché il Sud, cit., in un passaggio assai suggestivo: «Lo straniero dice
sempre la verità, in ciò sta il suo essere diverso. Assomiglia, questo personaggio, alla coscienza civile del
Mezzogiorno, quale si è “incarnata” di volta in volta nel corso della sua storia. È il cittadino che vuole cambiare
le cose a partire dall’analisi razionale della società, ma che si ritrova inesorabilmente isolato: l’illuminista che
cerca di riformare le istituzioni borboniche ma viene fermato dai baroni, il giacobino massacrato dal sanfedismo,
il patriota vittima della gendarmeria di re Ferdinando, Pisacane ucciso dai contadini che vorrebbe emancipare;
41
pongano le premesse – di pensiero, azione e organizzazione – per una nuova stagione di
modernizzazione attiva del Sud e, a partire da Sud, dell’intero Paese.
l’intellettuale del meridionalismo classico, vox clamantis in deserto, che inutilmente invoca la riforma agraria; il
neomeridionalista che sogna l’industria moderna, ma si ritrova con l’economia assistita; il giudice palermitano
che lotta contro la mafia fra l’ostilità dei colleghi e la diffidenza delle istituzioni (salvo diventare un eroe una
volta che la mafia l’ha ammazzato, e la verità non può più dirla)» (p. 245).
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