Una visita al Museo

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Una visita al Museo

Eravamo nel Chiostro Grande della Certosa. C’erano molti visitatori. Due visite guidate di turisti intruppati in fila fanno un bel casino. Anche se lo spazio del Chiostro Grande può accogliere questo e altro.

Ma io non sopporto la folla. Avevo perciò lasciato mia moglie Antonia a fare compagnia ai nostri due amici francesi in visita a Napoli. Si erano avviati verso la sagrestia. Ci saremmo visti dopo.

Volevo visitare la sezione dedicata a Napoli, alla cartografia e alla pittura seicentesca che illustra la città. Una sezione che m’interessava molto visti i miei recenti studi sul Vicereame, la rivolta di Masaniello, la peste del 1656.

Non avevo mai visto dal vero quei quadri. Solo in riproduzione. Feticismo e internet a parte, vedere un dipinto dal vero dà sempre una forte emozione. Ci tenevo a vedere soprattutto i dipinti di Domenico Gargiulo.

Ma il destino, quella mattina, aveva per me altri piani.Entrai e lo vidi. Don Pedro de Toledo, intendo.

Don Pedro de Toledo (Museo di San Martino Napoli)

Del suo volto tra il bovino e il vizioso, colpisce soprattutto lo sguardo.

Nel dipinto gli occhi sono piccoli rispetto al viso e alla lunga barba, il naso è sottile, adunco e le sopracciglia altezzose, incurvate, predisposte alla severità inappellabile dell’espressione. Le palpebre si abbassano lente e indolenti sugli occhi, tagliando le pupille in alto, con alterigia e superbia. Le mani, molli, non abituate al lavoro, le dita

pigre e flaccide, l’anello con una piccola pietra nera accentuano l’impressione che ho detto. E’ un uomo cattivo. Non c’è dubbio. Lo lasciai perdere.

Mi mossi per entrare nella stanza successiva. Si passava di là per raggiungere le opere di Gargiulo.

Ho un’istintiva simpatia per questo pittore. E’ soprannominato Micco Spadaro, “spadaro” perché suo padre fabbricava spade e lame. Io avevo pensato ad altro. Ma era una fantasia che si può scrivere in un romanzo, ipotizzare che fosse un ottimo spadaccino.

I quadri di Micco Spadaro erano nelle stanze più in fondo. Ma, al varco, vidi un cordone. A impedire l’accesso.

Mi girai verso il custode. Era seduto, applicato a leggere il giornale.

«Scusi. Ma non si può vedere il resto?» chiesi.Alzò lo sguardo. Scosse la testa.Mi avvicinai. Fu gentile, garbato. Ma inflessibile. Mi disse

che dal suo posto non si poteva muovere e non poteva farmi andare da solo. Feci per replicare. M’interruppe.

«Mi dispiace. Si vede che siete un appassionato. Ma il personale, da qualche tempo, è stato dimezzato…».

Confuso, incazzato e deluso mi ero allontanato maledicendo i tagli, l’austerità, la spending review e i morti loro.

Me n’ero andato di fronte nella sezione dedicata al teatro. Una vera delusione. Un posticcio per turisti. Me ne andai in fretta.

Scendendo la scala passai di nuovo davanti alla sezione cartografica.

Non c’era nessuno all’ingresso. M’infilai dentro. Il guardiano non c’era. La sedia era vuota. La tentazione fu forte. A volte le cose si fanno e basta. Senza pensare.

E senza pensare passai di là dal cordone.E lì, di fronte a me, il quadro della Peste del 1656. Era

grande, monumentale. Prendeva quasi un’intera parete. Scuro, tenebroso, vermicante di corpi riannodati e dolenti. Membra ignude che strisciavano su una terra vecchia, sporca, infetta. Un cielo di piombo riversava luci livide su quell’umanità morente, circondata da mura alte e fredde.

La peste al Largo del Mercatello (1656), di Domenico Gargiulo

«Vi spaventano quei corpi che soffrono?».La voce era alle mie spalle. Ero rimasto tanto assorto nella

contemplazione da vicino della perizia nelle minuzie di Spadaro che mi ero dimenticato del mondo attorno a me. Ero fottuto, scoperto. Ora dovevo vedermela con un custode incazzato.

Mi girai di scatto.Mi sorrideva. Non era quello di prima. Era un giovane dai

lineamenti gentili. Gli occhi neri neri. Il cappello della divisa gli sembrava stare un po’ largo sulla testa. Mi sorrise ancora.

«Vi spaventano?» disse di nuovo.«Chi?» risposi un po’ frastornato. «No… no, non mi

spaventano. Ma sono così confusi e legati gli uni sugli altri… Mi danno l’idea di un mare…».

«…di sofferenza» aggiunse lui.Il sorriso si era spento in un’espressione amara.«La peste del ’56 fu terribile. Peggio anche della

rivoluzione» aggiunse.Rimase in silenzio. Seguiva i suoi pensieri. Ero fortunato,

pensai. Magari sapeva cose che io non avrei trovato nei libri.«La rivoluzione, perché?» chiesi.«Nella rivoluzione c’era un senso, una ricerca di riscatto.

La peste spegneva tutto. Inesorabile. Un destino senza appello».

«Ma la rivoluzione fallì».«Perché Masaniello fu tradito» disse con sguardo nel

vuoto. Si levò il cappello di testa. Mosse i capelli con la

mano, a prendere aria, come a chiarire i pensieri.Lo guardavo stupito e affascinato. Lui sapeva, ne ero

certo.«Come fate a dirlo?» chiesi.«C’è la certezza storica. I documenti lo dicono. Fu

avvelenato».«Nessuno storico ha mai trovato prove. Si tratta solo di

una diceria popolare».«Ma voi l’avete scritto» disse lui guardandomi negli occhi.«L’ho inventato. Ma … avete letto il mio libro?».Ignorò la mia domanda.«Fu avvelenato. Bacche di belladonna. Solatro, veleno che

turba l’anima. Mistura che gli spagnoli conoscevano. Meglio della spada. Il veleno colpisce e nessuno sa».

«Allora la pazzia…».«Fu il veleno. Per allontanarlo dal popolo e dai suoi

seguaci» disse il ragazzo, come se avesse visto gli avvenimenti con gli occhi suoi.

«Il viceré, a Posillipo, gli fece bere l’acqua gelata» aggiunse, «piena di solatro e…».

«Ma il solatro puzza di zoccola morta» dissi, «Non se ne accorse?».

«Foglie di menta. Si neutralizza l’odore».«Così, … addio rivoluzione».«Vedete quel quadretto?» disse indicando un presunto

ritratto di Masaniello, famosissimo. Attribuito a Micco Spadaro.

«Sì lo conosco».Ci avvicinammo.

Presunto ritratto di Masaniello di Micco Spadaro (Museo di San Martino, Napoli)

«Avevano poco tempo. Mimmo disegnò questo ritratto di getto. E’ tale e quale a Masaniello» disse lui.

Non mi venne in mente di chiedergli come facesse a essere così sicuro. E poi “Mimmo”. Nessuno chiama così Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro. Aveva le sue informazioni evidentemente.

«Micco, volete dire?».

«No, Mimmo» disse perentorio.Cambiai discorso.«Aveva questi baffetti così allegri» dissi. Mi pentii subito

di questa mia osservazione veramente stupida. Che significa baffetti allegri? E poi guardai il dipinto. Ma dove li avevo visti i baffetti se non ce li aveva? Mi resi conto d'aver confuso, nella mia immaginazione, due dipinti diversi, sovrapponendoli.

Lui rise. Gli era piaciuta la mia uscita. Fece finta di non accorgersi del mio errore.

«Sì, era allegro, lui. Un ragazzo sveglio, vivace, intelligente. Mimì e Salvatore dovettero penare non poco per farlo stare in posa. Si muoveva. Non riusciva a stare fermo un minuto. Sembrava morso dalla tarantola. I pittori facevano un’arte a pregarlo di starsene buono. “Ma che me ne fotte dei quadri. Chi volarria arricordarsi di me?” diceva lui».

«L’avesse dovuto sape’» dissi io.Mi prese per il braccio e mi condusse di fronte.C’era il quadretto che rappresentava la morte di Peppe

Carafa. Piccolissimo. L’avrei creduto enorme. Si stentava a vedere la testa di Don Peppe issata in alto sulla picca.

L’uccisione di Giuseppe Carafa di Micco Spadaro

«Lo acchiapparono fuori dal Cerriglio. Nei pressi di Santa Maria la Nova» disse.

Si fermò. Poi riprese.«Tentava di raggiungere il Mandracco. Alla barca per

Procida e poi a Ischia. Masaniello lo scovò. Si era mascherato da prete. Ma da sotto il saio usciva la punta della spada».

«Mi sembra un film di Stanlio e Ollio. Farsi acchiappare per la spada» mi venne da ridere. Il ragazzo inventava. Era chiaro.

«Va bè» dissi, «Mi sa che state inventando. Come fossi un turista credulone …».

«Se vi mostrassi i documenti, dove c’è tutto scritto?».«E dove sarebbero questi documenti?…».Fece per rispondere. Una risata risuonò nella stanza

accanto. Delle voci. Le sue parole si gelarono.«Chi è?» dissi, trasalendo.«Non vi date pensiero» rispose «sono due bravi cristiani.

Uno dei due è quello che non vi ha fatto entrare perché doveva andare a colazione. Ma mo’ che è tornato, se lo pregate…» disse con un sorriso furbetto.

«Tutti uguali eh? E a voi vi devo qualcosa? E i documenti? Dove stanno?».

«Il piacere della vostra compagnia e di aver parlato con uno che ne capisce è la migliore ricompensa» mi rispose.

I passi erano vicinissimi. Stavano entrando.Apparve il custode che conoscevo sottobraccio a un tizio

in completo grigio, molto elegante. Mi vide. Si accigliò.«Scusate, e voi come avete fatto a entrare? Non vi avevo

detto che questa sezione è chiusa?» disse.I due mi guardavano meravigliati e incazzati.«Vi chiedo scusa. Non mi sarei... Ma il vostro collega è

stato così gentile…».I due si guardarono negli occhi. Poi guardarono me,

stralunati.«Collega? Ma di quale collega parlate? Qua ci siamo solo

noi» disse il custode.Mi girai. Il ragazzo era sparito.«E aro’ è ghiuto a fernì? Era qui fino a che entraste dalla

porta. Ci ho parlato fino a qualche attimo fa…» dissi sconcertato.

«Ma di chi parlate? In questa sezione oltre a me non c’è nessuno. Ma che volete prenderci per i fondelli? Devo condurvi dalla direttrice?» disse il custode con fare minaccioso.

Non mi conveniva insistere e fare la figura del visionario. Feci buon viso a cattivo gioco.

«Perdonate, sto un po' confuso. Sarà il caldo…» dissi. Si rabbonirono.Mille pensieri mi giravano in testa. Con chi avevo parlato?

Chi era quello che mi aveva raccontato di Micco Spadaro e Masaniello? Dov’era finito?

Mi sentii chiamare. Era Antonia all’ingresso, alla porta che menava al cortile.

Ringraziai i due. Feci una specie d’inchino. Scappai e la raggiunsi.

«Guarda che cosa ho comprato. Un catalogo interessantissimo. Ci sono tutti i quadri della sezione cartografica» mi disse, « Ma dove sei stato finora?».

Balbettai qualche scusa, raccontai della mia visita. Non dissi nulla dell’accaduto. Ero frastornato.

Ci avviammo nel porticato del chiostro grande.Era vuoto adesso.Sfogliai il catalogo. Belle immagini. Vidi che c’era anche

un ritratto di Salvator Rosa raffigurante Micco Spadaro. Uguale al ragazzo misteriosamente sparito.

Mi sono dimenticato di dire che, mentre ero alle prese a giustificarmi con i due custodi, una voce mi era risuonata

alle spalle, vicina vicina e flebile, come un soffio, come mi parlasse all'orecchio.

«Spataro non perché mio padre faceva le spade, ma perché io e Salvator Rosa eravamo grandi spadaccini. Uommini ‘e spada, curtiello e ferraiuoli! E facevamo fuori gli spagnoli la notte. Infizzati uno a uno, per rappresaglia. Eravamo alleati di Masaniello. Nella Compagnia della Morte. Avete ragione professò, avete pensato bene. E il mio nome è Mimì, non Micco. Un’altra palla del De Dominici. Aveva trovato un documento dove il nome era puntato M. Spadaro, e l’aveva tradotto, a capa sua, in Micco. Chissà perché».

Mimì! Buona questa. Dunque era Mimì Spadaro. Ma infatti che significava quel “Micco”? Mi ricordava Totò quando dice “E io micco, che me l'ero creduto”, per dire “Quanto so stato fesso!”.

Che straordinaria scoperta, la mia! Bernardo De Dominici aveva colpito ancora con una delle sue “invenzioni”. Ma i documenti? Li avrei mai trovati? Chi mi avrebbe mai prestato fede, senza uno straccio di prova? Allora credete pure che questa storia sia una mia invenzione.

Ma ho sentito dire che la sezione cartografica sia chiusa perché, di notte, c’è un fantasma che si aggira. Sembra che il custode notturno abbia visto un’ombra che, indovinate un po’ che fa? Passa le ore del mattino a tirare di scherma. E pare che sia veramente bravo!

Allora hanno deciso di vederci chiaro. E nel frattempo hanno chiuso l’accesso. Fosse per paura?

Fantasma o non fantasma, a me Mimì è stato assai simpatico…