"Un angelo migliore" di Chris ADRIAN (Trad. di Giulia Boringhieri. Torino: Einaudi, 2015). ALIAS...

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di TOMMASO PINCIO Se mai si tentasse un censi- mento delle ipotesi più esplorate dalla letteratura ucronica, al primo posto figurerebbe probabilmente, se non certamente, quella propo- sta da Sarban in un suo breve ro- manzo, Il richiamo del corno (Adel- phi «Fabula», traduzione di Rober- to Colajanni, pp. 191, e 18,00), vale a dire l’ipotesi di un mondo più o meno avveniristico sul quale anco- ra imperversa una Germania nazi- sta uscita vincitrice dalla guerra ov- vero risorta dalle ceneri della scon- fitta. Le ragioni sono ovvie solo in apparenza o, per meglio dire, la lo- ro apparente ovvietà spiega soltan- to in parte la fascinazione di un Terzo Reich non domo, di un Hit- ler scampato alla morte o clonato in decine di esemplari. Immaginare scenari alternativi è pratica antichissima. Le speculazio- ni di Erodoto sulle conseguenze di un’eventuale vittoria dei Persiani a Maratona o quelle di Tito Livio su Alessandro Magno nella sua Storia di Roma non sono che due esempi di un modo di ragionare perdurato fino all’Ottocento, quando la storio- grafia, diventata più scientifica, la- sciò che a occuparsi di ipotesi ozio- se e non verificabili fossero perlo- più i romanzieri. In quanto genere strettamente letterario, la storia al- ternativa, o fantastoria che dir si vo- glia, è dunque relativamente giova- ne. Deve il suo nome a Uchronie, romanzo di Charles Renouvier pubblicato nel 1876. Ciò significa che precede di mezzo secolo la na- scita del termine science fiction, an- che se ha poi finito per esistere all’ombra di quest’ultimo, quasi sia una declinazione della fanta- scienza anziché un genere a sé. E in effetti, pur speculando sul passa- to, l’ucronia guarda spesso al futu- ro, il che dice molto sulla speciale predilezione per il più traumatico fra gli snodi della storia recente. Molto ma non tutto. Alla memoria ancora viva di quei tragici eventi va aggiunto un altro aspetto, forse perfino più im- portante sul piano della suggestio- ne fantascientifica. Il nazismo non si contentava di dominare in pa- tria; voleva soggiogare il mondo per riforgiarlo a sua immagine e so- miglianza, eliminando l’inemenda- bile. In questo folle disegno la scienza e il progresso tecnologico erano macchine da guerra impre- scindibili, strumenti al servizio di una concezione perversamente estetizzante della Storia. Un mira- bile esempio in questo senso è rap- presentato dalle immagini che Hu- go Jaeger scattò dal 1936 al 1945. Ja- eger non fu soltanto il fotografo personale di Hitler, fu anche uno dei pochissimi fotografi dell’epoca a lavorare con pellicole a colori. Le sue foto sono giunte a noi in modo avventuroso. Al termine della guer- ra, passarono inosservate a un gruppo di soldati americani per- ché la valigia in cui erano nascoste conteneva anche una bottiglia di cognac. Furono quindi messe in una dozzina di barattoli di vetro e sepolte nei pressi di Monaco, dove restarono per un decennio, quan- do Jaeger le riesumò per trasferirle in un caveau. Trascorso un altro de- cennio vennero vendute alla rivi- sta «Life», che le ha pubblicate solo pochi anni fa, nel 2009. Le abbiamo perciò scoperte e os- servate con la memoria ormai pie- na di immagini in bianco e nero o ritoccate. Non conoscendo la loro storia, sarebbe facile scambiarle per falsi. La qualità cromatica così strabiliante, così simile alle patine antichizzanti degli odierni disposi- tivi digitali, sembra strappare que- ste immagini impavesate di svasti- che al passato cui in effetti appar- tengono, consegnandole allo stes- so non-tempo ambiguo in cui abi- ta l’ucronia. E se le foto di Jaeger non bastassero, si pensi a Swastika Night, romanzo dell’inglese Kathe- rine Burdekin ambientato in un fu- turistico anno del Signore Hitler 720 in cui il Reich e l’Impero giap- ponese si sono spartiti il pianeta, e le donne, considerate un errore di natura, vivono segregate in ghetti e hanno contatti col sesso maschile soltanto per essere fecondate. Es- sendo stato scritto nel 1935 e pub- blicato due anni dopo, quando il Führer era ancora al potere, non può essere considerato un’ucro- nia, ma somiglia moltissimo, per te- mi e atmosfere, agli scenari alterna- tivi immaginati nella seconda me- tà del Novecento. Se le previsioni di Swastika Night si sono rivelate fortunatamente errate, in compen- so hanno anticipato un genere; l’autrice non preconizzò la Storia ma il modo in cui sarebbe stata ri- pensata, un po’ come le immagini di Jaeger sembrano anticipare la fa- cilità con oggi chiunque può ritoc- care una foto. Il primo romanzo cui Burdekin offrì un testimone è proprio quello di Sarban. Nel società separata di Swastika Night, la sola forma amo- re concessa a una donna è assimila- bile alla devozione che un cane ha per il suo padrone, una regressio- ne a uno stato animalesco che ri- corda da vicino Il richiamo del cor- no. Molto è scritto già nel titolo. Pro- viene da una vecchia e famosa can- zone inglese, e rievoca la caccia alla volpe, i cui fasti crudeli ben si atta- gliano al futuro di prede e cacciatori che il protagonista del romanzo, l’ufficiale di marina Alan Querdil- lon, ha la sventura di visitare. La sua fuga da un campo di prigionia tede- sco lo porta ad attraversare una non meglio precisata barriera che separa il tempo in cui vive il nostro eroe, l’anno di guerra 1943, dall’an- no centoduesimo del primo millen- nio germanico fissato dallo spirito immortale del Germanesimo: Adolf Hitler, ovviamente. Il tutto si svolge in un’area ri- stretta, una tenuta governata da una versione medievaleggiante del maresciallo Goering, un Gran Maestro delle Foreste che intrattie- ne i suoi ospiti con cacce a donne mascherate da cervi o uccelli. Cat- turate vive, le prede vengono servi- te al termine di un banchetto su enormi vassoi d’argento, in un ma- niero «splendidamente illumina- to» da aste lucenti sorrette da «fan- ciulle il cui corpo era interamente ri- coperto di una vernice d’argento o inguainato in una pellicola di un materiale così liscio e aderente che ognuna di loro, pur essendo viva, si- mulava alla perfezione una lucci- cante statua nuda». Basterebbe que- sto breve passo per farsi un’idea tan- to dell’uso cui è soggetto il corpo (a cominciare da quello femminile, s’intende), quanto delle descrizioni voyeuristiche che costituiscono il piatto forte del romanzo. Nella brillante nota che correda la nuova edizione italiana, Matteo Codignola ricostruisce la bizzarra parabola esistenziale e letteraria dell’uomo che si nascondeva die- tro lo pseudonimo di Sarban, un diplomatico inglese di nome John William Wall, che trascorse buona parte della sua vita lontano dalla madre patria. Durante la seconda guerra mondiale fu di stanza al Ca- iro e lì rimase fino al 1952, anno in cui Il richiamo del corno vide le sue prime stampe. La carriera let- teraria di Wall conobbe una ribal- ta a dir poco breve, soprattutto per via di una produzione esigua, a sua volta frutto, stando al diretto interessato, di una grande pigri- zia. A parte due smilzi volumi di racconti, di Sarban resta soltanto questo «capolavoro minore», fi- glio della distopia di Swastika Ni- ght e primo di una lunga schiera di ucronie che vede nell’Uomo nell’alto castello di Philip K. Dick il romanzo più rappresentativo, se non il più riuscito. Per quanto, costringerlo in una simile tradizione è forse errato e ri- duttivo. Kingsley Amis, che del ro- manzo fu estimatore, considerò a ragione che Il richiamo del corno ha pochissimo, se non nulla, della logica che solitamente sostiene la fantascienza, e moltissimo, se non tutto, della «fantasia che fa appel- lo agli istinti più profondi e oscu- ri». Il racconto non esce mai dai confini di un sogno oscuro e il suo narratore si rivela inattendibile, prima ancora che per l’inverosimi- glianza dei fatti riferita, per l’incer- tezza con cui li censura. D’altro canto, il pregio migliore del libro consiste nel suo rischio peggiore, in quell’irrisolvibile ambiguità che è propria di ogni racconto dell’orro- re, l’ambiguità di non poter dirsi davvero immuni dal fascino del carnefice. NOORDA BASILICO BRERA ADRIAN CAPEK DUBUS III SPY STORIES INGLESI KAPLAN PRETA RECALCATI MOSTRE: SERODINE A RANCATE SARBAN, INCUBO COME UCRONIA IL TERZO REICH DOMINA IL MONDO E HITLER È UNO SPIRITO IMMORTALE: «IL RICHIAMO DEL CORNO», ADELPHI, BREVE ROMANZO HORROR PUBBLICATO DA UN DIPLOMATICO INGLESE AL CAIRO NEL 1952

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di TOMMASO PINCIO

Se mai si tentasse un censi-mento delle ipotesi più esploratedalla letteratura ucronica, al primoposto figurerebbe probabilmente,se non certamente, quella propo-sta da Sarban in un suo breve ro-manzo, Il richiamo del corno (Adel-phi «Fabula», traduzione di Rober-to Colajanni, pp. 191, e 18,00), valea dire l’ipotesi di un mondo più omeno avveniristico sul quale anco-ra imperversa una Germania nazi-sta uscita vincitrice dalla guerra ov-vero risorta dalle ceneri della scon-fitta. Le ragioni sono ovvie solo inapparenza o, per meglio dire, la lo-ro apparente ovvietà spiega soltan-to in parte la fascinazione di unTerzo Reich non domo, di un Hit-ler scampato alla morte o clonatoin decine di esemplari.

Immaginare scenari alternativi èpratica antichissima. Le speculazio-ni di Erodoto sulle conseguenze diun’eventuale vittoria dei Persiani aMaratona o quelle di Tito Livio suAlessandro Magno nella sua Storiadi Roma non sono che due esempidi unmodo di ragionare perduratofino all’Ottocento, quando la storio-grafia, diventata più scientifica, la-sciò che a occuparsi di ipotesi ozio-se e non verificabili fossero perlo-più i romanzieri. In quanto generestrettamente letterario, la storia al-ternativa, o fantastoria che dir si vo-glia, è dunque relativamente giova-ne. Deve il suo nome a Uchronie,

romanzo di Charles Renouvierpubblicato nel 1876. Ciò significache precede di mezzo secolo la na-scita del termine science fiction, an-che se ha poi finito per esistereall’ombra di quest’ultimo, quasisia una declinazione della fanta-scienza anziché un genere a sé. Ein effetti, pur speculando sul passa-to, l’ucronia guarda spesso al futu-ro, il che dice molto sulla specialepredilezione per il più traumaticofra gli snodi della storia recente.Molto ma non tutto.

Alla memoria ancora viva diquei tragici eventi va aggiunto unaltro aspetto, forse perfino più im-portante sul piano della suggestio-ne fantascientifica. Il nazismo nonsi contentava di dominare in pa-tria; voleva soggiogare il mondoper riforgiarlo a sua immagine e so-

miglianza, eliminando l’inemenda-bile. In questo folle disegno lascienza e il progresso tecnologicoerano macchine da guerra impre-scindibili, strumenti al servizio diuna concezione perversamenteestetizzante della Storia. Un mira-bile esempio in questo senso è rap-presentato dalle immagini cheHu-go Jaeger scattò dal 1936 al 1945. Ja-eger non fu soltanto il fotografopersonale di Hitler, fu anche unodei pochissimi fotografi dell’epocaa lavorare con pellicole a colori. Lesue foto sono giunte a noi in modoavventuroso. Al termine della guer-ra, passarono inosservate a ungruppo di soldati americani per-ché la valigia in cui erano nascosteconteneva anche una bottiglia dicognac. Furono quindi messe inuna dozzina di barattoli di vetro esepolte nei pressi di Monaco, doverestarono per un decennio, quan-do Jaeger le riesumò per trasferirlein uncaveau. Trascorso unaltro de-cennio vennero vendute alla rivi-sta «Life», che le ha pubblicate solopochi anni fa, nel 2009.

Le abbiamoperciò scoperte e os-servate con la memoria ormai pie-na di immagini in bianco e nero oritoccate. Non conoscendo la lorostoria, sarebbe facile scambiarleper falsi. La qualità cromatica cosìstrabiliante, così simile alle patineantichizzanti degli odierni disposi-tivi digitali, sembra strappare que-ste immagini impavesate di svasti-che al passato cui in effetti appar-tengono, consegnandole allo stes-so non-tempo ambiguo in cui abi-ta l’ucronia. E se le foto di Jaeger

non bastassero, si pensi a SwastikaNight, romanzo dell’inglese Kathe-rine Burdekin ambientato in un fu-turistico anno del Signore Hitler720 in cui il Reich e l’Impero giap-ponese si sono spartiti il pianeta, ele donne, considerate un errore dinatura, vivono segregate in ghetti ehanno contatti col sesso maschilesoltanto per essere fecondate. Es-sendo stato scritto nel 1935 e pub-blicato due anni dopo, quando ilFührer era ancora al potere, nonpuò essere considerato un’ucro-nia,ma somigliamoltissimo, per te-mi e atmosfere, agli scenari alterna-tivi immaginati nella seconda me-tà del Novecento. Se le previsionidi Swastika Night si sono rivelatefortunatamente errate, in compen-so hanno anticipato un genere;l’autrice non preconizzò la Storiama il modo in cui sarebbe stata ri-pensata, un po’ come le immaginidi Jaeger sembrano anticipare la fa-cilità con oggi chiunque può ritoc-care una foto.

Il primo romanzo cui Burdekinoffrì un testimone è proprio quellodi Sarban. Nel società separata diSwastika Night, la sola forma amo-re concessa a unadonna è assimila-bile alla devozione che un cane haper il suo padrone, una regressio-ne a uno stato animalesco che ri-corda da vicino Il richiamo del cor-no.Molto è scritto giànel titolo. Pro-viene da una vecchia e famosa can-zone inglese, e rievoca la caccia allavolpe, i cui fasti crudeli ben si atta-glianoal futurodi prede e cacciatoriche il protagonista del romanzo,l’ufficiale di marina Alan Querdil-

lon, ha la sventura di visitare. La suafugadauncampodi prigionia tede-sco lo porta ad attraversare unanon meglio precisata barriera chesepara il tempo in cui vive il nostroeroe, l’anno di guerra 1943, dall’an-no centoduesimodel primomillen-nio germanico fissato dallo spiritoimmortale del Germanesimo:Adolf Hitler, ovviamente.

Il tutto si svolge in un’area ri-stretta, una tenuta governata dauna versione medievaleggiantedel maresciallo Goering, un GranMaestro delle Foreste che intrattie-ne i suoi ospiti con cacce a donnemascherate da cervi o uccelli. Cat-turate vive, le prede vengono servi-te al termine di un banchetto suenormi vassoi d’argento, in unma-niero «splendidamente illumina-to» da aste lucenti sorrette da «fan-ciulle il cui corpoera interamente ri-coperto di una vernice d’argento oinguainato in una pellicola di unmateriale così liscio e aderente cheognunadi loro, pur essendoviva, si-mulava alla perfezione una lucci-cante statuanuda».Basterebbeque-stobrevepassoper farsi un’idea tan-to dell’uso cui è soggetto il corpo (acominciare da quello femminile,s’intende), quanto delle descrizionivoyeuristiche che costituiscono ilpiatto forte del romanzo.

Nella brillante nota che corredala nuova edizione italiana, MatteoCodignola ricostruisce la bizzarraparabola esistenziale e letterariadell’uomo che si nascondeva die-tro lo pseudonimo di Sarban, undiplomatico inglese di nome JohnWilliam Wall, che trascorse buona

parte della sua vita lontano dallamadre patria. Durante la secondaguerramondiale fu di stanza al Ca-iro e lì rimase fino al 1952, anno incui Il richiamo del corno vide lesue prime stampe. La carriera let-teraria di Wall conobbe una ribal-ta a dir poco breve, soprattuttoper via di una produzione esigua,a sua volta frutto, stando al direttointeressato, di una grande pigri-zia. A parte due smilzi volumi diracconti, di Sarban resta soltantoquesto «capolavoro minore», fi-glio della distopia di Swastika Ni-ght e primo di una lunga schieradi ucronie che vede nell’Uomonell’alto castello di Philip K. Dick ilromanzo più rappresentativo, senon il più riuscito.

Per quanto, costringerlo in unasimile tradizione è forse errato e ri-duttivo. Kingsley Amis, che del ro-manzo fu estimatore, considerò aragione che Il richiamo del cornoha pochissimo, se non nulla, dellalogica che solitamente sostiene lafantascienza, e moltissimo, se nontutto, della «fantasia che fa appel-lo agli istinti più profondi e oscu-ri». Il racconto non esce mai daiconfini di un sogno oscuro e il suonarratore si rivela inattendibile,prima ancora che per l’inverosimi-glianza dei fatti riferita, per l’incer-tezza con cui li censura. D’altrocanto, il pregio migliore del libroconsiste nel suo rischio peggiore,in quell’irrisolvibile ambiguità cheèpropria di ogni raccontodell’orro-re, l’ambiguità di non poter dirsidavvero immuni dal fascino delcarnefice.

NOORDA • BASILICO • BRERA • ADRIAN • CAPEK •DUBUS III • SPY STORIES INGLESI • KAPLAN • PRETA• RECALCATI • MOSTRE: SERODINE A RANCATE

SARBAN, INCUBOCOME UCRONIA

IL TERZO REICH DOMINAIL MONDO E HITLERÈ UNO SPIRITO IMMORTALE:«IL RICHIAMO DEL CORNO»,ADELPHI, BREVE ROMANZOHORROR PUBBLICATODA UN DIPLOMATICOINGLESE AL CAIRO NEL 1952

(2) ALIAS DOMENICA19 LUGLIO 2015

Quando a Milanofuroreggiavanoil design e lo stile

di MAURIZIO GIUFRÈ

C’è stato un tempo, tra gli an-ni cinquanta e settanta, in cuiMila-no svolgevauna vera egemonia cul-turale senza avere bisogno dell’effi-mero festivaliero di saloni, passerel-le ed expo, ma solo pesando per laqualità delle idee e l’ingegno chesapeva mettere in circolo tra socie-tà e industria, tra le sfere della poli-tica e della cultura. A conferma deldinamismo di quella stagione è in-dicativo quanto disse Bob Noorda,designer di talento raffinato e schi-vo come pochi, in una delle sue ul-time interviste: «A quel tempo, tranoi girava voce che a Milano si re-spirasse un’aria molto stimolante,Milano era la città della Triennale,la città dove stava nascendo il gran-de design». Lo ribadì con la stessaconvinzioneun altro olandese, il fo-tografo Arno Hammacher: «Comeera Milano quando ci sono arriva-to nel 1956? Era, come tutta l’Italia,in un fermento di cui si sentival’eco all’estero». Giudizi netti aiquali se ne potrebbero aggiungerealtri dello stesso tono.

Soffermiamoci però su Noorda,il personaggio che meglio di ognialtro ha saputo configurare conmetodo e creatività l’«immagine dicittà» di Milano prima che la corsaall’universale estetizzazione delmondo vi giungesse amodificare ir-reparabilmente ogni cosa. Lo spun-to lo offre la recente monografiaBob Noorda Design (24Ore Cultura,pp. 397, e 35,00), curata da MarioPiazza, che racconta la vita profes-sionale del designer olandese, daisuoi esordi, sullo sfondo di una cit-tà alle prese con le radicali trasfor-mazioni urbane del dopoguerra, fi-no alle soglie del nuovo millennio,quando Milano devia verso i mo-delli speculativi della densificazio-ne urbana nel centro e dellosprawl nell’hinterland. Il design,specchio dei processi di modifica-zione della città e della società, inNoorda trova un’eccellente occa-sione di verifica; in particolare que-stamonografia, ideata da lui stessoe uscita postuma, aiuta a compren-dere in modo critico l’involuzioneculturale di discipline come il desi-gn e l’architettura, per le quali la cit-tà lombarda deteneva il primatoper originalità di ricerca e realizza-zioni. Quando vi giunge nel 1954,Noorda è messo subito alla prova:prima il restyling del marchio deibiscotti Pavesini, poi alla Pirelli co-meart director (freelance). Pragma-tismo ed efficienza sono le doti ri-

chieste dalla comunicazione azien-dale di società pubbliche e privateche nell’immagine coordinata, inaltre parole nello stile aziendale, in-dividuano il migliore strumentoper pubblicizzare, confezionare evendere il loro brand e non più so-lo i loro prodotti o servizi. Noordaè tra i migliori a soddisfare questadomanda mettendo a frutto l’inse-gnamento avuto dai docenti forma-ti secondo i canoni Bauhaus all’Isti-tuto di Arti Applicate (IvKNO) diAmsterdam: direttori prima MartStamm, poi Gerrit Rietveld.

La monografia segue un ordinerigorosamente cronologico: dalla«prima sperimentazione laborato-riale», come ha definito GiovanniBaule gli esordi con i «nuovi alfabe-ti» per Pirelli, Dreher, Mondadori,Feltrinelli e Metropolitana Milane-se, fino alle «variazioni di alta scuo-la» degli anni duemila con i proget-ti per la comunicazione editorialedi Tea, Longanesi eGarzanti e la se-gnaletica visiva per il Castello Sfor-zesco, Brera e la Galleria Sabauda.Scorrendo le pagine del volume sicomprende in modo chiaro il prin-cipio che ha ispirato i suoi lavori.«Un buon progetto di design – hadettoNoorda – non deve essere in-fluenzato dalle mode ma deve du-rare il più possibile». Ciò non vuoldire, come ha fatto notare Giovan-ni Anceschi in catalogo, che «il piùpossibile» significhi «in eterno».Non bisogna avere timori di essereout of look, anche se ogni progettodi corporate identity deve essereatemporale affinché – come spes-so Noorda ricordava –, questo nonsia confuso con la pubblicità. Cin-que sono le regole da seguire pernon sbagliare: sintesi, semplicità,riproducibilità, memoria e conti-nuità. Regole essenziali a fonda-mentodi ciò che si chiamabasic de-sign e che ha avuto origine nella ri-cerca formale di Josef Albers e di

LászlóMoholy-Nagy, migrata nelladidattica bauhausiana (Grun-dkurs) e da lì, nel dopoguerra, neicorsi della Hochschule für Gestal-tung di Ulm di Max Bill e TomásMaldonado. In Noorda le regoleuniversali del basic design sono ap-plicate con un tale rigore che varisuoi progetti sonodiventati deimo-delli di riferimento. È il caso adesempio della segnaletica dellame-tropolitana milanese. Nel 1962, in-sieme a Franco Albini e FrancaHelg, è incaricato dell’arredo dellestazioni: un raro caso di condivisio-ne di soluzioni tra architettura e vi-sual design. La scelta di renderlescure con fascioni opachi e pavi-menti in gomma nera permise dinascondere i molti difetti delle su-perfici in cemento armato, e l’unifi-cazione di corrimani, accessi, illu-minazione e segnaletica è la provache standardizzazione non è sino-nimo di impoverimento degli spa-zi; al contrario, il sistema comuni-cativo, integrato con percorsi, ban-chine e aree di sosta, è «cultura epoetica dell’accoglienza» (Baule),che si replicherà alla fine degli an-ni sessanta nelle metropolitane diNew York e di San Paulo. Un verodisastro la decisione dell’aziendamunicipalizzatamilanese di ristrut-turare radicalmente qualche annofa alcune stazioni, contravvenendoa qualsiasi principio estetico e fun-zionale, illuminandole con pavi-menti chiari e ridicole sedute inmetallo multicolorato. Inutili le ri-mostranze di Noorda, scontratosisia con l’assoluta indifferenza deipoteri pubblici sia con la reticenzadi chi avrebbe dovuto tutelare il va-lore della nostra «modernità», inve-ce bellamente se ne disinteressò.

Nel 1965 Noorda insieme a Ral-ph Eckerstrom e Massimo Vignelli,costituiscono la società UnimarkInternational con la quale nel ’72egli ottiene l’incarico – forse il più

importante – per la progettazionedel sistema visivo di Agip: dal mar-chio, utilizzando il cane a sei zam-pe (possibile creazione dell’artistaLuigi Broggini), al programma dipittogrammiper le stazioni di servi-zio, fino al loro lay-out funzionale.Un’esperienza che anche in que-sto caso è stata replicata per le sta-zioni della Total e che solo la crisipetrolifera degli anni settanta nonpermise che continuasse con quel-le della Oxy del petroliere america-no Hammer. Oggi il logotipo diAgip, modificato in Eni, non è piùquello firmato da Noorda, ma hasubito un restyling che inmodoba-nale ha sostituito i caratteri e il rap-porto tra figura-cornice-fondo delmarchio. La crisi di una disciplinaèpossibilemisurarla anche da que-sti piccoli dettagli; o dalla distanzache ormai ci separa dal manuale digrafica di Armin Hofmann o dalle«nuove tipografie» diWolfangWin-gart,DanFredmanoKatherineMc-Coy. Il designer olandese ha inse-

gnato che tutto è modificabile neltempo, ma occorre capacità nonsolo per creare, ma soprattutto perrinnovare l’immagine coordinatadi un brand. Per i supermercati Co-op, ad esempio, egli mise mano allogotipo disegnato da Albe Steinercon lievi modifiche che non nehanno alterato la qualità iconica,anzi con l’introduzione di fascecolorate ha migliorato la comuni-cazione per gli utenti e l’esposi-zione dei prodotti. Noorda è sta-to definito un «progettista civile»per la dimensione pubblica chela sua azione di designer ha avutonel misurarsi con lo spazio collet-tivo: infrastrutture, luoghi delcommercio, istituzioni culturali.Lo spazio pubblico sarà ancoraper il prossimo futuro il tema piùimportante sul quale dovrannoconfrontarsi le politiche di gover-no delle città: la lezione di rigoreemetodo di un grandemaestro co-me Noorda potrà rilevarsi, in que-sto, di grandissimo aiuto.

di MASSIMO RAFFAELI

Per il paradosso che un filosofoassegnava all’astuzia della Storia, èprobabile che il nome di Gianni Bre-ra oggi resista nel senso comune piùper la qualità della scrittura che nonper la fama, un tempo enorme, digiornalista sportivo e di teorico delcalcio all’italiana. Scomparso nel di-cembre del ’92, i suoi apici verbali(l’epiteto di «abatino» affibbiato a Ri-vera, quello di «Rombo di tuono» de-dicato a Luigi Riva, o neologismi qua-li «catenaccio», «melina») sono staticosì profondamente metabolizzatida rendersi, oramai, anonimi e persi-no stereotipi. Ma c’è un Brera, ap-punto, che gli appassionati e i lettorifedelissimi (Il Giorno impennava nel-le tirature il lunedì, la Repubblica sipuò dire abbia inaugurato per lui ilsettimo numero) avevano già alloraintravisto o indovinato nelle scrittu-re a latere in cui si squadernaval’ampiezza sorprendente dei suoi in-teressi e delle sue cognizioni: nonsolo le altre discipline sportive (l’at-letica leggera, suo amore primordia-le, la boxe, il ciclismo cui avrebbe ri-servato i libri più compiuti, Addio bi-cicletta, ’64, e Coppi e il diavolo, ’81)ma anche la storia patria della fintroppo amata Lombardia, la cacciae la pesca nonché l’universo enoga-stronomico di cui è testimonianzaun libro singolare, La pacciada («Laspanciata», ’73), scritto a quattroma-ni con Luigi Veronelli, penna antipo-de alla sua, cioè magra e affilata.

Di un tale scibile non solo ridonda-vano gli articoli della domenica e dellunedì, ma specialmente il martedì(«Guerin Sportivo», lenzuolo verdeprofumato di piombo) la rubrica diposta intitolata L’Arcimatto da cui ilsuo attento biografo, lo scrittore lodi-giano Andrea Maietti, avrebbe trattodue volumi antologici per Baldini &Castoldi. Quanto a ciò, Brera in per-sona aveva fornito la prova e contra-rio del suo livello di scrittore ostinan-dosi a scrivere romanzi (Il corpo del-la ragassa, ’69 Naso bugiardo, ’77, Ilmio vescovo e le animalesse, ’83) dicaratura modestissima, insommadei bozzetti in cui smoriva l’ereditàdei Bertolazzi, dei De Marchi e degliscapigliati: qualcuno doveva averglisuggerito, e lui l’aveva certamente in-troiettato, che in Italia per essere ri-conosciuti scrittori bisogna pubblica-re dei romanzi. Non era lì ma era in-vece nelle partiture disperse e appa-rentemente sciamannate l’autoreche un paio di anni fa (al convegnodella Fondazione Arnoldo e AlbertoMondadori per l’acquisizione del

suo archivio) un filologo del rango diFranco Contorbia definiva senz’altroun classico del nostro Novecento.Dunque non un Gadda spiegato alpopolo, per il suo stile ibrido/mesci-dato ai limiti dell’espressionismo, co-me lo volle a suo tempoun improvvi-do Umberto Eco ma, semmai, «unsaggista, un costruttore di pure inven-zioni, di squisiti arbitrii di intelligen-za» come invece lo volle Cesare Gar-boli in uno smagliante contributo(Gli impulsi distruttivi di Gianni Bre-ra, «Paragone-Letteratura», 18, 1966)purtroppomai ripreso in volume. Chioggi legga, a tanta distanza di tempo,i libri che a cura di Paolo Brera vienerieditando la BookTime di Milano ne

ha la piena e riposata conferma, peral-tro propiziata da una antologia, Il prin-cipe della zollaGrandi partite, corse inbicicletta, nebbie padane. Cin-quant’anni di giornalismo (presenta-zione di Paolo Brera, Il Saggiatore,«La Cultura», pp. 299, e 19.00), cheuscì vent’anni fa, e oggi opportuna-mente riproposta, a cura di GianniMura (cui si deve l’aver definito la no-stra condizione postuma come quel-la dei senzabrera).

Il lungo sottotitolo della antologiane perimetra la capienza, il libero as-sortimento dei testi, senza preoccu-pazioni di cronologia e di raccordi te-matici, asseconda la ampiezza deldiorama breriano. Mura asserisce diavere scelto d’acchito e in base allamemoria personale di lettore e dicomplice in un lungo sodalizio ma,in realtà, non sbaglia un colpo e sem-bra aver rammemorato una seriecontinua di clic spitzeriani, vale a di-re porzioni testuali (una sessantinafra cronache, ritratti, memorie, epini-ci, vere e proprie expertises) capaci

volta a volta di restituire, proprio nel-la loro costitutiva parzialità, una tota-lità d’autore. Il taglio sincronico, inquesto, recupera la disseminazionediacronica e sottolinea i tratti sia del-lo stile sia dell’inventiva breriana. Adapertura di pagina, se ne possonoisolare i fotogrammi capitali: il Po(padre Po) e l’atavica umiltà dellaBassa in cui è nato e cui sempre haguardato con affetto struggente; imaestri (Manzoni, cui è dedicato unintero pannello biografico, Don Li-sander, e l’odiosamato Gadda); i vol-ti incontrati nella lunga vicenda dicronista sportivo (il ciclista Pavesi, ildiscobolo Consolini, un Pelé rilettoalla luce lunare di Leopardi); gli even-ti raccontati dal vivo e per lo più scrit-ti a braccio (un antico Vasas-Inter daBudapest, il leggendario Italia-Ger-mania del ’70 da Città del Messico);infine le passioni e i vizi di una esi-stenza dominata dal lavoro eppuredi continuo reinventata alla streguadi una dilettazione morosa (col sen-so della commensalità, gli amici, lacucina, il vino, il fumo).

C’è un genere però che riassume estilizza la letteratura breriana, il ne-crologio, dove si combinano l’artedel ritratto in tondo e il flusso ritmi-co della rimembranza. Nel Principedella zolla se ne contano diversi, rela-tivi sia ai sodali del football (Giusep-

pe Meazza, l’eroe eponimo, NereoRocco, braccio secolare della filoso-fia difensivista) sia ai colleghi giorna-listi (splendido, arreso a una istintivacommozione, quello scritto per Emi-lio Violanti, critico raffinato dellaGazzetta dello Sport, troppo prestoperduto). Magari non ci aspetterem-mo il necrologio di un poeta, eppureè stato Gianni Brera a dettare le paro-le più equanimi, più vivide, nel giu-gno 1968, per la scomparsa di Salvato-reQuasimodo: «Eraun arabo che can-tava da greco. Il profilo da uccello pa-lustre, due baffi secenteschi per ridur-re, penso, l’imperiosa imponenza delbecco. Dicevano tanto male di lui co-me uomo che doveva essere moltobuono e grande. Questa è l’Italia do-ve i poeti gobbi e disperati muoionodi intossicazione da sorbetto. Insigni-to delNobel, si disse che era statome-rito di Nordhal, calciatore del Milan.Si scrisse che a caval donato non siguarda in bocca. Partenope Sera tene-va per Montale che avrebbe volutocantare da baritono». Tale è l’attitudi-ne all’epinicio che Brera arriva a scri-verne uno neanche per la fine di unaesistenzama per il drammatico inter-rompersi della vita sportiva di un atle-ta prediletto, ormeggiando il più cele-bre fra i testi funebri di Garcia Lorca;così comincia infatti il suo Lamentoper Riva, del ’76: «La notizia del graveincidente occorso a Luigi Rivami è di-scesa nell’anima a tradimento, comeun’amara colata di assenzio. Istintiva-mente ho riudito i lamenti di Lorca(que no me dejas veerlo) per il suoamico Ignacio riverso nell’arena.Egli stesso, con voce roca ma ferma,si è raccomandato che non ne faces-simo un dramma. Era però Luis Rival’atleta grande e famoso che avevapudore di mostrarsi, per una volta,debole come gli altri, lui che della vi-ta ha il concetto tragico di chi ha do-vuto forzare il destino». Ecco, forse èlo stigma rinvenuto nei gesti del cam-pione più grande, forse proprio il pu-dore è la cifra che caratterizza sotto-traccia la pagina, ogni pagina, di Gian-ni Brera, il segreto di una scrittura percinquant’anni così sovranamentesperperata.

di SABRINA RAGUCCI

L’asfalto, un camion e un autobus che s’incrocianonel traffico cittadino della modernità, e poi lo sguardo sale,verso il grattacielo Pirelli, e quando giunge in alto, non puòche discendere lentamente, fotogramma dopofotogramma, celebrando qualcosa di maestoso e quindi unpo’ infantile, tanto che l’edificio sembra un’enorme barradi cioccolato scartata dall’inquadratura, dalla sequenza.Finestra dopo finestra, il grattacielo diventa metaforafotografica. E dalle vette della Milano dei primi annisessanta, dalla discesa che pare senza fine, quale miglioreatterraggio di un ospedale, con lo stacco nella stanza di unmalato grave, steso sotto lenzuola di un bianco accecante?Lo spazio contro l’alienazione del tempo. I film diMichelangelo Antonioni sono stati un punto di riferimentoimprescindibile per la generazione dei fotografi italiani natinegli anni quaranta del Novecento: la Ravenna industriale,della produzione e degli scarti, della natura domata esuperstite di Deserto rosso ha fatto di Guido Guidi ciò che è;il vertiginoso incipit de La notte (e il film intero, con ildispiegarsi di Milano dal verticale all’orizzontale, dal centrocittà diurno e brulicante agli spazi della villa brianzoladurante il party notturno) è stato un punto di riferimentonell’opera di Gabriele Basilico. A due anni dalla morteContrasto gli dedica un volume – BasilicoMilano (pp. 204, e55,00), curato da Giovanna Calvenzi – che riunisce più di

duecento fotografie, a partire dai primi lavori fino al 2012. Illibro si apre con una lettera che il fotografo ha rivolto aMilano nel 1999. «Questa città mi appartiene e io leappartengo, quasi un frammento fluttuante nel suoimmenso corpo. (…) La città mi investe e mi abita». Ineffetti Basilico ha trovato riparo e protezione dentro diessa. Si è inserito nel flusso di desiderio metropolitano,ineludibile prassi per cercare di amare, ed essere amato.Ha fotografato il mondo intero come un atto diriconoscenza verso la città che lo ha generato, allevato. Hafotografato Milano ‘in ogni parte del mondo’. Anni fa mi haimpressionato paragonare alcune immagini di Basilico –Beirut colpita dalla guerra – alla Milano sventrata dagliappalti. In quelle voragini c’è il processo di ogni creazioneartistica. Una trasmutazione della materia ordinaria dipartenza e la conferma dell’esistenza del vuoto, il vuotodell’inizio, il trauma di ogni origine, che sta lì, e perrendercelo sopportabile prende una forma rarefatta, comese il visibile fosse una dimenticanza di ciò che solo sipercepisce, e che compone qualche parte terrorizzante, anoi ormai ignota, o volutamente rimossa. Il lavoro diBasilico è l’alternanza di una pacatezza – quasi unapacificazione con se stesso, con il paesaggio milanese chelo costituisce nel profondo – e l’accenno diun’inquietudine lieve, e quindi a volte ancora piùansiogena. In molte immagini scattate dall’alto, dai ponti,dai ponteggi, dai terrazzi, dalle scale, Basilico sembra aver

abbracciato il vedutismo di Gaspar van Wittel o diCanaletto, trasferendo la tranquilla quotidianitàsettecentesca di Roma e Venezia nella Milano delNovecento: edifici, fabbriche, strade, piazze, incroci,parcheggi. Ma questa serenità derivante dall’aver trovatol’amore per il proprio soggetto fotografico dura poco, el’ossessione per la composizione, per l’esattezza formalerivela proprio l’urgenza di un ordine, necessario percombattere il tracollo psichico, l’inquietudine da paesaggiourbano di Sironi, spesso presente nell’opera di Basilico,non solo nei notturni, ma anche nella solarità di un giornoqualsiasi. Nella coesistenza di «veduta e visione» (con unapreponderanza della prima), per dirla con le paroledell’indimenticato Paolo Costantini, c’è la cifra del suolavoro. Ma proprio un accumulo esasperante di veduta,come dice Giorgio Falco, crea la visione, e rende il lavoro diBasilico qualcosa di più di una interpretazione storica dellatrasformazione paesaggistica milanese. E inoltre, adifferenza dei vedutisti, nella sua opera gli esseri umanisono quasi sempre assenti dalla scena, sottintesi nellarelazione con l’esistente urbanizzato, che impregna tutte leimmagini. Anche in questo volume convivono lamonumentalità dei paesaggi metropolitani più noti con ipaesaggi minori, delle vie decentrate, scostatedall’abitudine dello sguardo. La riproposizione dellefotografie da Ritratti di fabbriche è quanto mai necessaria:luoghi produttivi e piccoli capannoni novecenteschi

sembrano còlti di sorpresa, non tanto dalla cura delfotografo, quanto dall’improvviso mutamento economico,che li relega a fossili, destinati, forse, a un nuovo sensodopo la dismissione. La versione opposta di quei ritrattiperiferici è la visione notturna di piazza della Scala, isemafori lampeggianti, il pulsare dell’immagine, checelebra l’horror del sublime, di ciò che possiamo guardaresenza conseguenze spiacevoli. Quella parte di città,restituita in modo convincente da Basilico, pochi annidopo è diventata il regno del valico elettronico, il fortinoinespugnabile da valorizzare soltanto dal punto di vistaimmobiliare, dei commerci.

A distanza di due anni dalla morte, è immancabilepensare cosa Basilico avrebbe detto dell’Expo 2015, comeavrebbe fotografato ciò che è nato dalla bulimia patologica.E tuttavia le fotografie in grande formato di Basilico sonobulimia di grazia, di abbraccio alla città, di fuga dallamediocrità, da contrapporre alla voracità del reale, deicantieri infiniti, degli appalti, dei subappalti. Ci resta unvuoto. L’auspicio è che sia sorgivo, come nella fotografiadel piazzale antistante lo stadio di San Siro, in una giornatadi luce, forse a metà settimana, o d’estate, «a fine luglio»,direbbe Vittorio Sereni, «quando trasecola il gran catinovuoto / a specchio del tempo sperperato»: è per questo cheguardiamo sempre con affetto i pali della luce, ildispiegamento dei fili elettrici, che resuscitano l’energiadegli esseri umani assenti.

GERENZA

NOORDA BRERA

Il libro che sdoganòin via definitivaGianni Breracome scrittore:Gianni Mura isolaqui, attraversouna sessantinadi clic «spitzeriani»,il suo meglio

I Pavesini e la Pirelli, il sistema visivo dell’Agipe le stazioni metro... Formatosi al canone Bauhausdi Amsterdam, il designer olandese, raffinatoe schivo, sbarcò da noi nel ’54 lasciando il segno

IL SAGGIATORE RIPROPONE, DOPO VENT’ANNI, «IL PRINCIPE DELLA ZOLLA»«BOB NOORDA DESIGN», UNA MONOGRAFIA D’AUTORE PER 24ORE CULTURA

FOTOGRAFIA

Tutte le Milanodi Basilico,dai ritrattidi fabbricheal piazzaledi San Siro

Un’antologia totaledal Po ai necrologi

In copertina di «Alias-D»:una delle immaginidi Hugo Jaeger, fotografopersonale di Hitler,salvatesi fortunosamentee pubblicate da «Life»nel 2009

Bob Noorda a Milano,Piazza del Duomo, 1954;sotto, Pirelli, copertinadi opuscolo, 1955,© Archivio Noorda, Milano

Gianni Brera alla scrivania in redazione,con alle spalle la macchina per scrivereOlivetti

Una delle vedute milanesi di Basilico, dal libro Contrasto: Piazza Missori,1996 © Studio Gabriele Basilico, Milano

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(3)ALIAS DOMENICA19 LUGLIO 2015

Quando a Milanofuroreggiavanoil design e lo stile

di MAURIZIO GIUFRÈ

C’è stato un tempo, tra gli an-ni cinquanta e settanta, in cuiMila-no svolgevauna vera egemonia cul-turale senza avere bisogno dell’effi-mero festivaliero di saloni, passerel-le ed expo, ma solo pesando per laqualità delle idee e l’ingegno chesapeva mettere in circolo tra socie-tà e industria, tra le sfere della poli-tica e della cultura. A conferma deldinamismo di quella stagione è in-dicativo quanto disse Bob Noorda,designer di talento raffinato e schi-vo come pochi, in una delle sue ul-time interviste: «A quel tempo, tranoi girava voce che a Milano si re-spirasse un’aria molto stimolante,Milano era la città della Triennale,la città dove stava nascendo il gran-de design». Lo ribadì con la stessaconvinzioneun altro olandese, il fo-tografo Arno Hammacher: «Comeera Milano quando ci sono arriva-to nel 1956? Era, come tutta l’Italia,in un fermento di cui si sentival’eco all’estero». Giudizi netti aiquali se ne potrebbero aggiungerealtri dello stesso tono.

Soffermiamoci però su Noorda,il personaggio che meglio di ognialtro ha saputo configurare conmetodo e creatività l’«immagine dicittà» di Milano prima che la corsaall’universale estetizzazione delmondo vi giungesse amodificare ir-reparabilmente ogni cosa. Lo spun-to lo offre la recente monografiaBob Noorda Design (24Ore Cultura,pp. 397, e 35,00), curata da MarioPiazza, che racconta la vita profes-sionale del designer olandese, daisuoi esordi, sullo sfondo di una cit-tà alle prese con le radicali trasfor-mazioni urbane del dopoguerra, fi-no alle soglie del nuovo millennio,quando Milano devia verso i mo-delli speculativi della densificazio-ne urbana nel centro e dellosprawl nell’hinterland. Il design,specchio dei processi di modifica-zione della città e della società, inNoorda trova un’eccellente occa-sione di verifica; in particolare que-stamonografia, ideata da lui stessoe uscita postuma, aiuta a compren-dere in modo critico l’involuzioneculturale di discipline come il desi-gn e l’architettura, per le quali la cit-tà lombarda deteneva il primatoper originalità di ricerca e realizza-zioni. Quando vi giunge nel 1954,Noorda è messo subito alla prova:prima il restyling del marchio deibiscotti Pavesini, poi alla Pirelli co-meart director (freelance). Pragma-tismo ed efficienza sono le doti ri-

chieste dalla comunicazione azien-dale di società pubbliche e privateche nell’immagine coordinata, inaltre parole nello stile aziendale, in-dividuano il migliore strumentoper pubblicizzare, confezionare evendere il loro brand e non più so-lo i loro prodotti o servizi. Noordaè tra i migliori a soddisfare questadomanda mettendo a frutto l’inse-gnamento avuto dai docenti forma-ti secondo i canoni Bauhaus all’Isti-tuto di Arti Applicate (IvKNO) diAmsterdam: direttori prima MartStamm, poi Gerrit Rietveld.

La monografia segue un ordinerigorosamente cronologico: dalla«prima sperimentazione laborato-riale», come ha definito GiovanniBaule gli esordi con i «nuovi alfabe-ti» per Pirelli, Dreher, Mondadori,Feltrinelli e Metropolitana Milane-se, fino alle «variazioni di alta scuo-la» degli anni duemila con i proget-ti per la comunicazione editorialedi Tea, Longanesi eGarzanti e la se-gnaletica visiva per il Castello Sfor-zesco, Brera e la Galleria Sabauda.Scorrendo le pagine del volume sicomprende in modo chiaro il prin-cipio che ha ispirato i suoi lavori.«Un buon progetto di design – hadettoNoorda – non deve essere in-fluenzato dalle mode ma deve du-rare il più possibile». Ciò non vuoldire, come ha fatto notare Giovan-ni Anceschi in catalogo, che «il piùpossibile» significhi «in eterno».Non bisogna avere timori di essereout of look, anche se ogni progettodi corporate identity deve essereatemporale affinché – come spes-so Noorda ricordava –, questo nonsia confuso con la pubblicità. Cin-que sono le regole da seguire pernon sbagliare: sintesi, semplicità,riproducibilità, memoria e conti-nuità. Regole essenziali a fonda-mentodi ciò che si chiamabasic de-sign e che ha avuto origine nella ri-cerca formale di Josef Albers e di

LászlóMoholy-Nagy, migrata nelladidattica bauhausiana (Grun-dkurs) e da lì, nel dopoguerra, neicorsi della Hochschule für Gestal-tung di Ulm di Max Bill e TomásMaldonado. In Noorda le regoleuniversali del basic design sono ap-plicate con un tale rigore che varisuoi progetti sonodiventati deimo-delli di riferimento. È il caso adesempio della segnaletica dellame-tropolitana milanese. Nel 1962, in-sieme a Franco Albini e FrancaHelg, è incaricato dell’arredo dellestazioni: un raro caso di condivisio-ne di soluzioni tra architettura e vi-sual design. La scelta di renderlescure con fascioni opachi e pavi-menti in gomma nera permise dinascondere i molti difetti delle su-perfici in cemento armato, e l’unifi-cazione di corrimani, accessi, illu-minazione e segnaletica è la provache standardizzazione non è sino-nimo di impoverimento degli spa-zi; al contrario, il sistema comuni-cativo, integrato con percorsi, ban-chine e aree di sosta, è «cultura epoetica dell’accoglienza» (Baule),che si replicherà alla fine degli an-ni sessanta nelle metropolitane diNew York e di San Paulo. Un verodisastro la decisione dell’aziendamunicipalizzatamilanese di ristrut-turare radicalmente qualche annofa alcune stazioni, contravvenendoa qualsiasi principio estetico e fun-zionale, illuminandole con pavi-menti chiari e ridicole sedute inmetallo multicolorato. Inutili le ri-mostranze di Noorda, scontratosisia con l’assoluta indifferenza deipoteri pubblici sia con la reticenzadi chi avrebbe dovuto tutelare il va-lore della nostra «modernità», inve-ce bellamente se ne disinteressò.

Nel 1965 Noorda insieme a Ral-ph Eckerstrom e Massimo Vignelli,costituiscono la società UnimarkInternational con la quale nel ’72egli ottiene l’incarico – forse il più

importante – per la progettazionedel sistema visivo di Agip: dal mar-chio, utilizzando il cane a sei zam-pe (possibile creazione dell’artistaLuigi Broggini), al programma dipittogrammiper le stazioni di servi-zio, fino al loro lay-out funzionale.Un’esperienza che anche in que-sto caso è stata replicata per le sta-zioni della Total e che solo la crisipetrolifera degli anni settanta nonpermise che continuasse con quel-le della Oxy del petroliere america-no Hammer. Oggi il logotipo diAgip, modificato in Eni, non è piùquello firmato da Noorda, ma hasubito un restyling che inmodoba-nale ha sostituito i caratteri e il rap-porto tra figura-cornice-fondo delmarchio. La crisi di una disciplinaèpossibilemisurarla anche da que-sti piccoli dettagli; o dalla distanzache ormai ci separa dal manuale digrafica di Armin Hofmann o dalle«nuove tipografie» diWolfangWin-gart,DanFredmanoKatherineMc-Coy. Il designer olandese ha inse-

gnato che tutto è modificabile neltempo, ma occorre capacità nonsolo per creare, ma soprattutto perrinnovare l’immagine coordinatadi un brand. Per i supermercati Co-op, ad esempio, egli mise mano allogotipo disegnato da Albe Steinercon lievi modifiche che non nehanno alterato la qualità iconica,anzi con l’introduzione di fascecolorate ha migliorato la comuni-cazione per gli utenti e l’esposi-zione dei prodotti. Noorda è sta-to definito un «progettista civile»per la dimensione pubblica chela sua azione di designer ha avutonel misurarsi con lo spazio collet-tivo: infrastrutture, luoghi delcommercio, istituzioni culturali.Lo spazio pubblico sarà ancoraper il prossimo futuro il tema piùimportante sul quale dovrannoconfrontarsi le politiche di gover-no delle città: la lezione di rigoreemetodo di un grandemaestro co-me Noorda potrà rilevarsi, in que-sto, di grandissimo aiuto.

di MASSIMO RAFFAELI

Per il paradosso che un filosofoassegnava all’astuzia della Storia, èprobabile che il nome di Gianni Bre-ra oggi resista nel senso comune piùper la qualità della scrittura che nonper la fama, un tempo enorme, digiornalista sportivo e di teorico delcalcio all’italiana. Scomparso nel di-cembre del ’92, i suoi apici verbali(l’epiteto di «abatino» affibbiato a Ri-vera, quello di «Rombo di tuono» de-dicato a Luigi Riva, o neologismi qua-li «catenaccio», «melina») sono staticosì profondamente metabolizzatida rendersi, oramai, anonimi e persi-no stereotipi. Ma c’è un Brera, ap-punto, che gli appassionati e i lettorifedelissimi (Il Giorno impennava nel-le tirature il lunedì, la Repubblica sipuò dire abbia inaugurato per lui ilsettimo numero) avevano già alloraintravisto o indovinato nelle scrittu-re a latere in cui si squadernaval’ampiezza sorprendente dei suoi in-teressi e delle sue cognizioni: nonsolo le altre discipline sportive (l’at-letica leggera, suo amore primordia-le, la boxe, il ciclismo cui avrebbe ri-servato i libri più compiuti, Addio bi-cicletta, ’64, e Coppi e il diavolo, ’81)ma anche la storia patria della fintroppo amata Lombardia, la cacciae la pesca nonché l’universo enoga-stronomico di cui è testimonianzaun libro singolare, La pacciada («Laspanciata», ’73), scritto a quattroma-ni con Luigi Veronelli, penna antipo-de alla sua, cioè magra e affilata.

Di un tale scibile non solo ridonda-vano gli articoli della domenica e dellunedì, ma specialmente il martedì(«Guerin Sportivo», lenzuolo verdeprofumato di piombo) la rubrica diposta intitolata L’Arcimatto da cui ilsuo attento biografo, lo scrittore lodi-giano Andrea Maietti, avrebbe trattodue volumi antologici per Baldini &Castoldi. Quanto a ciò, Brera in per-sona aveva fornito la prova e contra-rio del suo livello di scrittore ostinan-dosi a scrivere romanzi (Il corpo del-la ragassa, ’69 Naso bugiardo, ’77, Ilmio vescovo e le animalesse, ’83) dicaratura modestissima, insommadei bozzetti in cui smoriva l’ereditàdei Bertolazzi, dei De Marchi e degliscapigliati: qualcuno doveva averglisuggerito, e lui l’aveva certamente in-troiettato, che in Italia per essere ri-conosciuti scrittori bisogna pubblica-re dei romanzi. Non era lì ma era in-vece nelle partiture disperse e appa-rentemente sciamannate l’autoreche un paio di anni fa (al convegnodella Fondazione Arnoldo e AlbertoMondadori per l’acquisizione del

suo archivio) un filologo del rango diFranco Contorbia definiva senz’altroun classico del nostro Novecento.Dunque non un Gadda spiegato alpopolo, per il suo stile ibrido/mesci-dato ai limiti dell’espressionismo, co-me lo volle a suo tempoun improvvi-do Umberto Eco ma, semmai, «unsaggista, un costruttore di pure inven-zioni, di squisiti arbitrii di intelligen-za» come invece lo volle Cesare Gar-boli in uno smagliante contributo(Gli impulsi distruttivi di Gianni Bre-ra, «Paragone-Letteratura», 18, 1966)purtroppomai ripreso in volume. Chioggi legga, a tanta distanza di tempo,i libri che a cura di Paolo Brera vienerieditando la BookTime di Milano ne

ha la piena e riposata conferma, peral-tro propiziata da una antologia, Il prin-cipe della zollaGrandi partite, corse inbicicletta, nebbie padane. Cin-quant’anni di giornalismo (presenta-zione di Paolo Brera, Il Saggiatore,«La Cultura», pp. 299, e 19.00), cheuscì vent’anni fa, e oggi opportuna-mente riproposta, a cura di GianniMura (cui si deve l’aver definito la no-stra condizione postuma come quel-la dei senzabrera).

Il lungo sottotitolo della antologiane perimetra la capienza, il libero as-sortimento dei testi, senza preoccu-pazioni di cronologia e di raccordi te-matici, asseconda la ampiezza deldiorama breriano. Mura asserisce diavere scelto d’acchito e in base allamemoria personale di lettore e dicomplice in un lungo sodalizio ma,in realtà, non sbaglia un colpo e sem-bra aver rammemorato una seriecontinua di clic spitzeriani, vale a di-re porzioni testuali (una sessantinafra cronache, ritratti, memorie, epini-ci, vere e proprie expertises) capaci

volta a volta di restituire, proprio nel-la loro costitutiva parzialità, una tota-lità d’autore. Il taglio sincronico, inquesto, recupera la disseminazionediacronica e sottolinea i tratti sia del-lo stile sia dell’inventiva breriana. Adapertura di pagina, se ne possonoisolare i fotogrammi capitali: il Po(padre Po) e l’atavica umiltà dellaBassa in cui è nato e cui sempre haguardato con affetto struggente; imaestri (Manzoni, cui è dedicato unintero pannello biografico, Don Li-sander, e l’odiosamato Gadda); i vol-ti incontrati nella lunga vicenda dicronista sportivo (il ciclista Pavesi, ildiscobolo Consolini, un Pelé rilettoalla luce lunare di Leopardi); gli even-ti raccontati dal vivo e per lo più scrit-ti a braccio (un antico Vasas-Inter daBudapest, il leggendario Italia-Ger-mania del ’70 da Città del Messico);infine le passioni e i vizi di una esi-stenza dominata dal lavoro eppuredi continuo reinventata alla streguadi una dilettazione morosa (col sen-so della commensalità, gli amici, lacucina, il vino, il fumo).

C’è un genere però che riassume estilizza la letteratura breriana, il ne-crologio, dove si combinano l’artedel ritratto in tondo e il flusso ritmi-co della rimembranza. Nel Principedella zolla se ne contano diversi, rela-tivi sia ai sodali del football (Giusep-

pe Meazza, l’eroe eponimo, NereoRocco, braccio secolare della filoso-fia difensivista) sia ai colleghi giorna-listi (splendido, arreso a una istintivacommozione, quello scritto per Emi-lio Violanti, critico raffinato dellaGazzetta dello Sport, troppo prestoperduto). Magari non ci aspetterem-mo il necrologio di un poeta, eppureè stato Gianni Brera a dettare le paro-le più equanimi, più vivide, nel giu-gno 1968, per la scomparsa di Salvato-reQuasimodo: «Eraun arabo che can-tava da greco. Il profilo da uccello pa-lustre, due baffi secenteschi per ridur-re, penso, l’imperiosa imponenza delbecco. Dicevano tanto male di lui co-me uomo che doveva essere moltobuono e grande. Questa è l’Italia do-ve i poeti gobbi e disperati muoionodi intossicazione da sorbetto. Insigni-to delNobel, si disse che era statome-rito di Nordhal, calciatore del Milan.Si scrisse che a caval donato non siguarda in bocca. Partenope Sera tene-va per Montale che avrebbe volutocantare da baritono». Tale è l’attitudi-ne all’epinicio che Brera arriva a scri-verne uno neanche per la fine di unaesistenzama per il drammatico inter-rompersi della vita sportiva di un atle-ta prediletto, ormeggiando il più cele-bre fra i testi funebri di Garcia Lorca;così comincia infatti il suo Lamentoper Riva, del ’76: «La notizia del graveincidente occorso a Luigi Rivami è di-scesa nell’anima a tradimento, comeun’amara colata di assenzio. Istintiva-mente ho riudito i lamenti di Lorca(que no me dejas veerlo) per il suoamico Ignacio riverso nell’arena.Egli stesso, con voce roca ma ferma,si è raccomandato che non ne faces-simo un dramma. Era però Luis Rival’atleta grande e famoso che avevapudore di mostrarsi, per una volta,debole come gli altri, lui che della vi-ta ha il concetto tragico di chi ha do-vuto forzare il destino». Ecco, forse èlo stigma rinvenuto nei gesti del cam-pione più grande, forse proprio il pu-dore è la cifra che caratterizza sotto-traccia la pagina, ogni pagina, di Gian-ni Brera, il segreto di una scrittura percinquant’anni così sovranamentesperperata.

di SABRINA RAGUCCI

L’asfalto, un camion e un autobus che s’incrocianonel traffico cittadino della modernità, e poi lo sguardo sale,verso il grattacielo Pirelli, e quando giunge in alto, non puòche discendere lentamente, fotogramma dopofotogramma, celebrando qualcosa di maestoso e quindi unpo’ infantile, tanto che l’edificio sembra un’enorme barradi cioccolato scartata dall’inquadratura, dalla sequenza.Finestra dopo finestra, il grattacielo diventa metaforafotografica. E dalle vette della Milano dei primi annisessanta, dalla discesa che pare senza fine, quale miglioreatterraggio di un ospedale, con lo stacco nella stanza di unmalato grave, steso sotto lenzuola di un bianco accecante?Lo spazio contro l’alienazione del tempo. I film diMichelangelo Antonioni sono stati un punto di riferimentoimprescindibile per la generazione dei fotografi italiani natinegli anni quaranta del Novecento: la Ravenna industriale,della produzione e degli scarti, della natura domata esuperstite di Deserto rosso ha fatto di Guido Guidi ciò che è;il vertiginoso incipit de La notte (e il film intero, con ildispiegarsi di Milano dal verticale all’orizzontale, dal centrocittà diurno e brulicante agli spazi della villa brianzoladurante il party notturno) è stato un punto di riferimentonell’opera di Gabriele Basilico. A due anni dalla morteContrasto gli dedica un volume – BasilicoMilano (pp. 204, e55,00), curato da Giovanna Calvenzi – che riunisce più di

duecento fotografie, a partire dai primi lavori fino al 2012. Illibro si apre con una lettera che il fotografo ha rivolto aMilano nel 1999. «Questa città mi appartiene e io leappartengo, quasi un frammento fluttuante nel suoimmenso corpo. (…) La città mi investe e mi abita». Ineffetti Basilico ha trovato riparo e protezione dentro diessa. Si è inserito nel flusso di desiderio metropolitano,ineludibile prassi per cercare di amare, ed essere amato.Ha fotografato il mondo intero come un atto diriconoscenza verso la città che lo ha generato, allevato. Hafotografato Milano ‘in ogni parte del mondo’. Anni fa mi haimpressionato paragonare alcune immagini di Basilico –Beirut colpita dalla guerra – alla Milano sventrata dagliappalti. In quelle voragini c’è il processo di ogni creazioneartistica. Una trasmutazione della materia ordinaria dipartenza e la conferma dell’esistenza del vuoto, il vuotodell’inizio, il trauma di ogni origine, che sta lì, e perrendercelo sopportabile prende una forma rarefatta, comese il visibile fosse una dimenticanza di ciò che solo sipercepisce, e che compone qualche parte terrorizzante, anoi ormai ignota, o volutamente rimossa. Il lavoro diBasilico è l’alternanza di una pacatezza – quasi unapacificazione con se stesso, con il paesaggio milanese chelo costituisce nel profondo – e l’accenno diun’inquietudine lieve, e quindi a volte ancora piùansiogena. In molte immagini scattate dall’alto, dai ponti,dai ponteggi, dai terrazzi, dalle scale, Basilico sembra aver

abbracciato il vedutismo di Gaspar van Wittel o diCanaletto, trasferendo la tranquilla quotidianitàsettecentesca di Roma e Venezia nella Milano delNovecento: edifici, fabbriche, strade, piazze, incroci,parcheggi. Ma questa serenità derivante dall’aver trovatol’amore per il proprio soggetto fotografico dura poco, el’ossessione per la composizione, per l’esattezza formalerivela proprio l’urgenza di un ordine, necessario percombattere il tracollo psichico, l’inquietudine da paesaggiourbano di Sironi, spesso presente nell’opera di Basilico,non solo nei notturni, ma anche nella solarità di un giornoqualsiasi. Nella coesistenza di «veduta e visione» (con unapreponderanza della prima), per dirla con le paroledell’indimenticato Paolo Costantini, c’è la cifra del suolavoro. Ma proprio un accumulo esasperante di veduta,come dice Giorgio Falco, crea la visione, e rende il lavoro diBasilico qualcosa di più di una interpretazione storica dellatrasformazione paesaggistica milanese. E inoltre, adifferenza dei vedutisti, nella sua opera gli esseri umanisono quasi sempre assenti dalla scena, sottintesi nellarelazione con l’esistente urbanizzato, che impregna tutte leimmagini. Anche in questo volume convivono lamonumentalità dei paesaggi metropolitani più noti con ipaesaggi minori, delle vie decentrate, scostatedall’abitudine dello sguardo. La riproposizione dellefotografie da Ritratti di fabbriche è quanto mai necessaria:luoghi produttivi e piccoli capannoni novecenteschi

sembrano còlti di sorpresa, non tanto dalla cura delfotografo, quanto dall’improvviso mutamento economico,che li relega a fossili, destinati, forse, a un nuovo sensodopo la dismissione. La versione opposta di quei ritrattiperiferici è la visione notturna di piazza della Scala, isemafori lampeggianti, il pulsare dell’immagine, checelebra l’horror del sublime, di ciò che possiamo guardaresenza conseguenze spiacevoli. Quella parte di città,restituita in modo convincente da Basilico, pochi annidopo è diventata il regno del valico elettronico, il fortinoinespugnabile da valorizzare soltanto dal punto di vistaimmobiliare, dei commerci.

A distanza di due anni dalla morte, è immancabilepensare cosa Basilico avrebbe detto dell’Expo 2015, comeavrebbe fotografato ciò che è nato dalla bulimia patologica.E tuttavia le fotografie in grande formato di Basilico sonobulimia di grazia, di abbraccio alla città, di fuga dallamediocrità, da contrapporre alla voracità del reale, deicantieri infiniti, degli appalti, dei subappalti. Ci resta unvuoto. L’auspicio è che sia sorgivo, come nella fotografiadel piazzale antistante lo stadio di San Siro, in una giornatadi luce, forse a metà settimana, o d’estate, «a fine luglio»,direbbe Vittorio Sereni, «quando trasecola il gran catinovuoto / a specchio del tempo sperperato»: è per questo cheguardiamo sempre con affetto i pali della luce, ildispiegamento dei fili elettrici, che resuscitano l’energiadegli esseri umani assenti.

GERENZA

NOORDA BRERA

Il libro che sdoganòin via definitivaGianni Breracome scrittore:Gianni Mura isolaqui, attraversouna sessantinadi clic «spitzeriani»,il suo meglio

I Pavesini e la Pirelli, il sistema visivo dell’Agipe le stazioni metro... Formatosi al canone Bauhausdi Amsterdam, il designer olandese, raffinatoe schivo, sbarcò da noi nel ’54 lasciando il segno

IL SAGGIATORE RIPROPONE, DOPO VENT’ANNI, «IL PRINCIPE DELLA ZOLLA»«BOB NOORDA DESIGN», UNA MONOGRAFIA D’AUTORE PER 24ORE CULTURA

FOTOGRAFIA

Tutte le Milanodi Basilico,dai ritrattidi fabbricheal piazzaledi San Siro

Un’antologia totaledal Po ai necrologi

In copertina di «Alias-D»:una delle immaginidi Hugo Jaeger, fotografopersonale di Hitler,salvatesi fortunosamentee pubblicate da «Life»nel 2009

Bob Noorda a Milano,Piazza del Duomo, 1954;sotto, Pirelli, copertinadi opuscolo, 1955,© Archivio Noorda, Milano

Gianni Brera alla scrivania in redazione,con alle spalle la macchina per scrivereOlivetti

Una delle vedute milanesi di Basilico, dal libro Contrasto: Piazza Missori,1996 © Studio Gabriele Basilico, Milano

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(4) ALIAS DOMENICA19 LUGLIO 2015

Il male e la colpanel mondo straniatodi un pediatra

Amori middle-classtra fratture e crisi

di DANIELA FARGIONE

Varcando l’entrata principaledel Children’s Hospital di Boston,il migliore ospedale pediatrico de-gli Stati Uniti, ci si imbatte in unenorme acquario. È davanti aquell’incanto che genitori di bam-bini malati, spesso terminali, in-gannano il tempo dell’attesa in-trattenendo sorelline e fratellini ir-requieti che sembrano finalmenteplacarsi davanti alla maestositàdei pesci angelo. Sono questi, in-fatti, gli esemplari più numerosiche vi sono ospitati. Tra gli abitan-ti più appariscenti della barrieracorallina, si aggirano in moltitudi-ni ma sono animali tendenzial-mente solitari e gelosissimi delproprio territorio, che salvaguar-dano dagli sconfinamenti delle al-tre specie con una strategia deter-rente: se si sentono minacciati,scoraggiano gli intrusi emettendo«voci», suoni secchi e acuti comeschiocchi di frusta. E altrettantofanno gli angeli della nuova raccol-ta di racconti di Chris Adrian, Unangelo migliore, che Einaudi pub-blica nella vivace traduzione diGiulia Boringhieri (pp. 234, e

18,00).C’è da chiedersi se anche lo

scrittore-pediatra, nelle pause daisuoi turni di tirocinante proprioall’Ospedale pediatrico di Boston,si sia servito di quell’acquario co-me di un analgesico per blandirele proprie fissazioni. Non è co-munque da escludere che per lomeno vi abbia trovato una qualcheispirazione per le sue creature ap-pariscenti dalle ali flosce e sgualci-te, per nulla divine ma divinamen-te umane nelle loro goffaggini einadeguatezze. Ce le aveva già pro-poste nel suo secondo ambiziosoromanzo, The Children’s Hospital(2006, non ancora tradotto in italia-no), la storia apocalittica diun’inondazione che risparmia mi-racolosamente un ospedale-arca, isuoi settecentocinquanta pazientie una studentessa dimedicina, tut-ti alle prese con angeli meschini(nella duplice accezione del termi-ne), verisimilmente fuggiti da unatela visionaria di Bosch.

Nel nuovo libro, angeli e demo-ni coesistono con pazienti inguari-bili, medici inadeguati e specializ-zandi spesso in lacrime. Il raccon-to centrale, una piccola gemmache dà anche il titolo alla raccolta,è la storia di un medico drogato eimpostore che sin dall’età di seianni è affiancato da un angelo cu-stode dotato di ampie ali che glipermettono di viaggiare «alla velo-cità della colpa». Quando il prota-gonista gli domanda se avere unangelo sia condizione comune atutti i bambini, lui risponde di no,che occorre «essere eccezionali ofare cose eccezionali», e gli riservauna prova per lui «straordinaria»:prendersi cura del padre ospeda-lizzato e «alleviare la sua pena conun piccolo gesto di umanità».

Immaginazione sfrenata e alle-goria, soprannaturale e satira, in-cubi e follia sono tra gli ingredien-ti necessari per costruire tutto uncatalogo della crudeltà: la malattiache trasforma i corpi dei bambini,il dolore che non nobilita ma tro-va provvisoria consolazione nellafantasia, il senso di impotenza dimedici pugnaci costretti, loro mal-grado, a rassegnarsi all’inevitabili-tà del male. Ed è indubbio chequel male Chris Adrian lo conoscafin nelle sue pieghe più sottili. Do-po aver frequentato il prestigiosolaboratorio di scrittura creativadell’Università dell’Iowa e dopo lerisposte lusinghiere alle sue primepubblicazioni, si iscrive alla facol-tà di medicina e poco più tardi aquella di teologia di Harvard, con-seguendo entrambe le lauree. Lascrittura, perciò, non è fonte di so-stentamento, né temporaneo sol-lievo dalla frequentazione dellesofferenze altrui; semmai è il suoacquario personale, l’unico spaziofluido possibile in cui potersi im-mergere nelle proprie ossessioni,una sorta di autoflagellazione persedare i sensi di colpa. Intanto peressere sopravvissuto a un fratello

più giovane, morto a ventidue an-ni in un incidente stradale.

Scriverne equivale a compiereun rito esorcistico e al contempoa inoltrarsi nell’ingiustizia dellamorte, nella necessaria arrendevo-lezza alle atrocità della vita che,inesorabili, non mancano di sosti-tuirsi all’incanto. Accade peresempio nel primo racconto, A fol-le velocità, il cui incipit palesa giàil disagio del protagonista: «Nelnovembre di cui parlo ho nove an-ni e rubo… papà è morto da novemesi. Il mio fratellino è matto» e si

è rifugiato in una fantasia: «trequinti di Burroughs, un quinto diDr Seuss, e un quinto di cacateche si inventa da solo». Ma lamae-stra riconosce in lui «uno stronzet-to arrabbiato», e non solo perchéla madre dimentica per l’ennesi-ma volta il suo compleanno e im-plora il perdono con un «regalotemporaneo» (fagioli neri, una lat-tina di riso e del pollo surgelato),ma soprattutto perché non riescea scendere a patti con i fantasmiche continuano a tormentarlo. Eallora «basta guidare a folle veloci-

tà per lasciare tutto alle spalle»,suggerisce la maestra invitandoloa guidare la sua Volvo, «li senti ituoi problemi che stramazzano al-le nostre spalle?». Ma se in questoracconto è l’imperizia degli adultia essere posta a giudizio lasciandoquasi intatta l’innocenza del prota-gonista, nell’ultimo (Perché l’Anti-cristo?), idealmente appaiato al pri-mo, la rassegnazione del bambinodi fronte al male lo rende quasicomplice di una cattiveria controse stesso. Durante una festadell’amica Cindy il cui papà èmor-

to al World Trade Center, si mettein comunicazione con lo spiritodel proprio padre attraverso una ta-voletta Ouija. Ciò che scopre è unaverità innegabile per tutti tranneche per lui: è «figlio di Lucifero,l’Anticristo».Qualunque cosa ciò si-gnifichi, finirà per crederci.

In questo come in altri racconti,quali La visione di Peter Damien oIl bambino scambiato, riverberal’immagine delle torri gemelle edegli angeli caduti da un cielo infiamme. E se una malattia conta-giosa, un grave «scombussolamen-to del sangue», procura a Peter Da-mien visioni inimmaginabili e unadisfunzione uditiva per cui la vocedi chiunque gli parli risulta altera-ta, Carl entra in uno stato psicoti-co, si esprime al plurale e parla perquelle 2998 entità arse nel fuocodella torre. Finirà per essere ricono-sciuto comeun changeling, il bam-bino scambiato nella culla della tra-dizione nordica, che da tutti, spe-cie dal padre, si aspetta gesti irripe-tibili: la mutilazione del corpo nonè che una delle tante espiazionipossibili e indispensabili.

E poi c’è un’altra Cindy (Diariodellamalattia e dellamorte di unabambina), una ragazzina affettada sindrome dell’intestino corto,che si è invaghita di un medicogay, il dottor Chandra, per il qualescrive storie di animali agonizzan-ti, raccogliendole in un diario chepotrebbe persino diventare un li-bro. «Pensi che lo comprerà qual-cuno?» le domanda il medico. «Esi-ste un libro che parla solo dicacca… Perché non dovrebbe es-sercene uno che parla solo di ma-lattia e morte? Tutti fanno la po-pò. Tutti soffrono. Tutti muoio-no». E allora le storie, anche le piùspietate, acquistano valore se con-divise. Alla stessa conclusione eragiunto Alexandar Hemon con ilsuo straziante resoconto del can-cro al cervello di Isabel, la figliolet-ta morta a due anni («L’acquario»in Il libro delle mie vite, Einaudi2013). Hemon scrive di avere avu-to, in quei giorni, «la precisa sensa-zione fisica di essere dentro un ac-quario» e che di tante banalità chegli toccava ascoltare la più insop-portabile consisteva nella convin-zione che «mancano le parole» perraccontarne l’orrore. Tanto valereinventarle, pare rispondere ChrisAdrian, e assegnare a creature piùche umane il compito di usarle.Del resto, afferma lo scrittore, «an-che la medicina è piena di stranez-ze e misteri».

di CATERINA RICCIARDI

Dopo la San Francisco del be-stseller mondiale La casa di sabbiae nebbia (1999), da cui è stato trattol’omonimo film candidato a tre pre-mi Oscar, con L’Amore sporco (Nu-trimenti, trad. Giovanni Greco, pp.333, e 19,00) Andre Dubus III, clas-se 1959, ci propone un ritorno almondo della provincia americana,la più antica e a lui più familiare, cir-coscritta a un’area del New En-gland, compresa fra il New Hamp-shire e il Massachusetts, a nord diBoston e lungo la foce del fiumeMerrimack. È una regione che ri-manda a storie canoniche e patriot-tiche della letteratura degli StatiUniti. Eppure nelle pagine di Du-bus III non c’è più nulla, se non ilnome dei luoghi, che ricordi la glo-ria delle origini della nazione ol’operosità industriale otto-nove-centesca: l’immagine delle fabbri-che tessili chiuse e in rovina, untempo fonte di ricchezza di questecontee (celebri le «mills» di Lawren-ce odi Lowell), ricorrononella topo-grafia di L’amore sporco a evocaresolo lo spettro del passato.

Quello rappresentato qui è un pa-esaggio stanco, usurato dal tempo,ecologicamente inquinato, storica-mente destituito e decaduto nelma-lessere sociale di una contempora-neità volgare e scardinata. DubusIII ferma lo sguardo su una midd-le-class mediocre, afflitta da frattu-re generazionali, matrimoni in crisi,adulti irresponsabili e adolescentiinquieti alle prese con le sfide di unfuturo incerto attraverso le vie dellamusica rap, dell’alcol, del ritorno alfumoe soprattutto di una sessualitànonpiù ‘liberata’, come fu nel risve-glio degli anni cinquanta e sessan-ta, ma sprecata e giocata gratuita-mente e virtualmente anche lungo icanali del chat e i portali dei socialnetwork del sesso (c’è un Fuckbookche fa da companion a Facebook).Ciò che è andato perduto in questaprovincia non sono solo i «valori»(come ai tempi di John Cheever, diRichard Yates o di Andre Dubus pa-dre) ma la stessa capacità di amare.

Eppure, questo per Dubus III è il‘paese dell’anima’. Qui, tra le frangepiù proletarie, egli è cresciuto, quiinsegna (a Lowell, Massachusetts),qui ha rifondato la sua famiglia e,soprattutto, qui si è consumato ilsuo dramma personale, originatonell’adolescenza dall’abbandonodella famiglia da parte del padre.Dubus III conosce i traumi della fa-miglia che saranno al centrodell’Amore sporco. Ne parla nell’au-tobiografico I pugni nella testa(2010), in cui, attraverso l’atto catar-tico della scrittura, egli cerca, e tro-va infine, un risanamento postumodel suo rapporto conflittuale con lascomoda figura paterna: il più rino-mato Andre Dubus, autore di otti-mi racconti, che, sul piano della vi-ta privata, seppe sottrarsi a impre-scindibili responsabilità. Sembra dicapire che solo attraverso il rito dipassaggio salvifico percorso in I pu-gni nella testa ora il figlio riesca adapprodare alla «nera speranza» che,pur a prezzo di un panorama uma-namente e socialmente sconsolan-te, balugina nel finale di ciascunadelle corpose quattro storie checompongono L’amore sporco.

La campionatura delle versionidell’amore è scelta e anatomizzatacon accuratezza e sapienza narrati-va, grazie al sostegno di una scrittu-ra lucida emisurata (anche in tradu-zione), spesso giostrata su un fluidomescolamento di piani temporali,di ininterrotta tensione fra eventofratturante e le sue conseguenze, edi un consonante rispecchiamentofra esterni e interni, interni anchementali. Le quattro storie – indipen-denti eppure intimamente legatenon solo dalla geografia e dal sapo-re amaro ma dalle entrate e uscitedi alcuni personaggi che da compar-se in una storia si guadagnano ilruolo di protagonisti in un’altra –sdipanano quattro versioni genera-zionali dell’amore. In Ascoltate at-

tentamente perché sono cambiate lenostre opzioni è una coppia collau-data a subire il trauma dell’adulte-rio commesso da lei (nonostante ilresponsabile sia lui), stanca di vive-re un matrimonio che il marito ge-stisce allo stesso modo in cui gesti-sce la sua azienda. Una crisi matri-moniale della mezza età come tan-te altre.Maqui sono i dettagli del vi-deo scottante da lui commissionatoa un detective, e ossessivamenteguardato e riguardato per tre mesi,

a dominare la scena dell’ultimogiorno del dramma, quando la cop-pia si ricongiungerà per provare a ri-cominciare una vita insieme, con«il cuore» di lui «una volta ancoradentro la testa perché di nuovo nonsa se è all’altezza di tutto questo,questo cambiamento del cambia-mento, mentre la porta si apre ver-so l’interno e lui si sistema e il visodi sua moglie, bello e sorpreso e inattesa».

Un porta che si apre e lascia alle

spalle l’«amore sporco»: le chiuse diDubus III sonomagistrali. Così è an-che in Marla, dedicato a una nonpiù giovanissima impiegata di ban-ca, obesa e malata di solitudine, incerca di un compagno di vita. Lotrova in Dennis, un ingegnere elet-tronico, in sovrappeso come lei:due corpi gemelli che tuttavia devo-no imparare a sincronizzare, con icorpi, le emozioni e i ritmi delle ri-spettive vite da single per farli con-fluire in un’armonia di coppia. An-

che qui il finale risanatore inscenaun interno: «Entrò nell’ingresso cal-do. Aveva la fronte sudata. Sentì laporta chiudersi alle sue spalle e lagrossa mano di lui sulla schiena. Laciocca di capelli le cadde di nuovo.Allungò la mano e la sistemò salda-mente al suo posto, poi salì le scaleuna alla volta e giunse dov’erano lealtre coppie, tutte quelle altre cop-pie sorridenti e felici». Il barman èRobert Doucette, un figlio di conta-dini che aspira a diventare poeta al-

la Robert Frost. Le poesie che nonscrive e di cui si vanta sono la sua ar-ma per conquiste di amori facili, fi-no all’incontro con Althea che spo-sa, solo perché in lei riconosce lasua musa. L’autore dell’adulterio inquesto caso è lui. Dubus III sa cala-re la sonda con violenza brutale nel-le viscere delle tragedie per poi riav-volgerla e far rilucere alla fine deltunnel l’ombra del riscatto che perRobert si affida agli occhi della mo-glie: «quelli che aveva ricevuto in do-no grazie a una poesia mai scritta eche, ora lo sapeva, probabilmentenon avrebbe mai scritto, occhi chenon meritava, ma che sperava diguadagnarsi un giorno – occhi di ne-ra speranza».

Se la «nera speranza» è un buontalismano per rimettere in gioco lecarte della vita, più arduo è il com-promesso salvifico per i due prota-gonisti dell’ultimo racconto, L’amo-re sporco, il più poetico. Con l’anzia-no Fancis e la giovane nipote De-von, vittima di una disavventurapornografica postata su Facebook,il lettore matura la verità di fondoche sedimenta come fondiglio nelmondo rappresentato da Dubus III:la disarmante «percezione che sia-mo tutti orribili e che la bellezza èuna tregua e l’innocenza èunamen-zogna». Più difficile, questa volta,sembra l’uscita dal tunnel dei risvol-ti più oscuri dell’amore.

«L’AMORE SPORCO» DI ANDRE DUBUS III DA NUTRIMENTI

di LUCA SCARLINI

Il mito dell’automa è connaturato alleavanguardie storiche, che esplorarono, conterrore o piacere, la tradizione romantica dellecreature artefatte, realizzate in laboratorio.Uno dei contributi maggiori a questa saga è ilnotevolissimo testo teatrale R.U.R. Rossum’sUniversal Robots di Karel Capek (nuovatraduzione e cure di Alessandro Catalano,Marsilio, pp. 169, e 15,00). Il testo, edito nel1920, venne rappresentato con clamore aPraga nel ’21, e ottenne presto una larga eco inGermania e poi a Parigi. In questa opera sitrova per la prima volta il termine robot, chederiva dal lemma ceco robota (ossiasfacchinata o corvée), suggerito dal fratellodello scrittore, il pittore Josef, il cui curiosoautoritratto Io, me stesso adorna la copertina.La suggestione che ha originato il testo è statanarrata dallo stesso Capek: «i robot sono ilrisultato di un viaggio in tram. Un giorno sonodovuto andare a Praga con un tram di periferiaincredibilmente pieno. L’idea che lecondizioni moderne abbiano reso gli uominiinsensibili alle più semplici comodità della vita

mi ha atterrito, (...) Ho iniziato allora a pensareagli uomini non come individui, ma comemacchine». Una visione devastante, con ilritratto notevole del professor Rossum (ilcognome allude a «ragione»), il quale «aspiravasolo a fornire la prova che non c’è bisogno delPadreterno. Per questo si era ficcato in testa dicreare un uomo identico a noi fino all’ultimocapello». Creatore di sinistri homunculi, avevalasciato poi il posto a un nipote, il qualeconvertì l’idea prometeica in una strepitosamacchina per fare soldi, fornendo al mondomanodopera a basso costo, semplificando dimolto i progetti originari. Nella fabbrica,ordinato e spettrale regno dei robot, giungeHelena Glory, figlia del proprietariodell’impresa, animata da una volontà diriforma morale di questo gioco letale con ilcreatore. Il suo primo incontro, quello con gliautomi Mario e Silla, produce una vertiginetremenda, primo atto di una vera e propriaescalation di violenza, finché i robot prendonoil sopravvento, in un disperato e letaletentativo di insurrezione rivoluzionaria, che hacome scopo quello di impadronirsi dellacondizione umana. Capek tematizzava così la

secolare tradizione della figura del Golem, cosìradicata nel folklore praghese, a cui GustavMeyrink aveva dato forma definitiva nel suoromanzo del 1913, poi immortalato al cinemanel film di Carl Boese e Paul Wegener (1920).L’eredità «magica» della corte dell’imperatoremelanconico Rodolfo II d’Asburgo si è diffusa,in forme diverse, fino all’attualità. A questo filosi aggiunge la visione crudele di unaossessione a cui Capek dedica pagine digrande forza: quella della massa che, divenutamacchina di morte, uccide senza pensare lapropria e altrui umanità. In Italia RUR sedussenegli anni venti Massimo Bontempelli (che locita nella sua notevole pièce Minnie lacandida) e i futuristi: nel 1971, come notaall’edizione Einaudi, Angelo Maria Ripellinoscrisse un magnifico saggio (in cui ripercorrevale suggestioni del testo, avanzando paragonicon Jules Verne e H. P. Lovecraft), che siconclude con una visione sinistra: «I robot,cupi come un dies irae, feticcidell’aggrondata civiltà tecnologica, sonoseccume manageriale, superciliose figure diQuadragesima, campioni di un macchinismoche spegne l’umore e la fantasia».

KARL CAPEK

Il robotcome figurapraghese:torna «R.U.R»,in nuovatraduzione

DUBUS III

di STEFANO GALLERANI

Nel volume che apre la trilogia Febbre elancia, il protagonista di questa bizzarra storiadi spie firmata da Javier Marías cerca uno deiprimi indizi della vicenda in cui si troveràcoinvolto nella biblioteca privata di Sir PeterWheeler, suo vecchio maestro e collega diOxford: tra numerosi romanzi di «Stout,Gardner e Dickson, MacDonald (Philip) eMacDonald (Ross), Iles e Tey e Buchan eAmbler» la risposta lo attende in un volume diIan Fleming, il padre di James Bond. Legata afilo doppio alla cultura anglosassone, nel corsodel Novecento la letteratura spionistica èpassata dal ruolo di ancella della narrativamaggiore a serbatoio di alcuni dei piùimportanti romanzi di lingua inglese. Di questocostante progress dal puro intrattenimentoall’highbrow rende oggi conto Paolo Bertinettiin Agenti segreti I maestri della spy story inglese(prefazione di Goffredo Fofi, Edizioni dell’asino,pp. 203, e 12,00). Partendo dalle origini delgenere – che in epoca moderna risalgonoall’americanissimo James Fenimore Cooper, ilquale nel 1821 pubblicò The Spy, ambientato al

tempo della Guerra di Indipendenza – Bertinettiattraversa tanto agilmente quantoapprofonditamente decine e decine di operericostruendo, da allora ai giorni nostri,l’evoluzione della spy story con dovizia diparticolari e connessioni illuminanti circal’apporto di elementi eterogenei allacostituzione di un canone dello spionaggio inletteratura (si veda, per tutti, il caso Philby).Scorrendo le sue pagine, dunque, scopriamocome, agli albori, imprescindibili fossero lapresenza di un’elementare ideologia politica(l’Impero contro la minaccia di invasione daparte di forze straniere), eroi dilettanti egalantuomini alle prese con improbabili intrighiinternazionali e una buona dose di avventurosoesotismo. Trascurando il profilo strettamenteletterario, gli autori di questo primo periodo(John Buchan o Herman Cyril McNeile) hannoperò avuto il merito di gettare, appunto, le basisulle quali avrebbero lavorato, spesso acontrario, i loro figli o nipoti: ecco pertantocome, grazie a W.S. Maugham (con Ashenden.L’agente inglese), Eric Ambler (La maschera diDimitrios o Viaggio nella paura) e GrahamGreene (Missione confidenziale, Il terzo uomo o

Quinta colonna), tra anni trenta e quaranta ilmagnifico dilettante e il suo temibilissimoantagonista, «una specie di superuomo a suomodo degno di ammirazione», hanno lasciato ilposto a figure più ordinarie e credibili («personag-gi a tutto tondo», scrive Bertinetti citando E.M. For-ster) consentendo, sulla pagina, un deciso innalza-mento del gradiente psicologico insieme a una piùfedele ricostruzione degli scenari politici alla basedelle trame. Se si esclude il fenomeno Fleming,artefice, negli anni cinquanta, di una sorta di ibri-do tra vecchia e nuova scuola, questo processo disviluppo ha raggiunto il suo culmine in piena Guer-ra Fredda con Len Deighton (La pratica Ipcress) e,soprattutto, John Le Carré (La spia che venne dalfreddo e La talpa), per McEwan «uno dei maggioriromanzieri inglesi degli ultimi sessant’anni». Sonoloro i campioni degli Spyng Sixties, seguiti, maniente affatto oscurati, nei decenni successivi daFrederick Forsyth e Ken Follett, i cui titoli miglioriBertinetti riporta nella playlist che chiude Agentisegreti insieme all’auspicio che, per gli scrittori dispy fiction di oggi, «almeno in qualche caso, la sto-ria inventata si traduca in un vero romanzo sullarealtà del mondo contemporaneo e sui segretidell’animo umano».

SPY STORIES

Da Buchana Ken Follett:Bertinettie l’evoluzionedell’agentesegreto inglese

CHRIS ADRIAN, «UN ANGELO MIGLIORE», EINAUDI

ADRIANLoretta Lux, «Hopper», 2005, ilfochrome print, courtesydell’artista e della Yossi Milo Gallery, New York City

Una foto di Annelies Štrbra, trattada «Aya», Scalo, 2002; sopra, lo scrittoreamericano Andre Dubus III

Angeli custodi e demoni, piccoli pazienti inguaribili, mediciinadeguati e specializzandi in lacrime: catalogo di crudeltàche prende corpo in una «scrittura creativa» targata Iowa University

Porte che si apronosu paesaggi usuratie interni pornografici:quattro storie traumatiche,quattro versioni dell’amore,dall’autore di Lowellnel Massachusetts

(5)ALIAS DOMENICA19 LUGLIO 2015

Il male e la colpanel mondo straniatodi un pediatra

Amori middle-classtra fratture e crisi

di DANIELA FARGIONE

Varcando l’entrata principaledel Children’s Hospital di Boston,il migliore ospedale pediatrico de-gli Stati Uniti, ci si imbatte in unenorme acquario. È davanti aquell’incanto che genitori di bam-bini malati, spesso terminali, in-gannano il tempo dell’attesa in-trattenendo sorelline e fratellini ir-requieti che sembrano finalmenteplacarsi davanti alla maestositàdei pesci angelo. Sono questi, in-fatti, gli esemplari più numerosiche vi sono ospitati. Tra gli abitan-ti più appariscenti della barrieracorallina, si aggirano in moltitudi-ni ma sono animali tendenzial-mente solitari e gelosissimi delproprio territorio, che salvaguar-dano dagli sconfinamenti delle al-tre specie con una strategia deter-rente: se si sentono minacciati,scoraggiano gli intrusi emettendo«voci», suoni secchi e acuti comeschiocchi di frusta. E altrettantofanno gli angeli della nuova raccol-ta di racconti di Chris Adrian, Unangelo migliore, che Einaudi pub-blica nella vivace traduzione diGiulia Boringhieri (pp. 234, e

18,00).C’è da chiedersi se anche lo

scrittore-pediatra, nelle pause daisuoi turni di tirocinante proprioall’Ospedale pediatrico di Boston,si sia servito di quell’acquario co-me di un analgesico per blandirele proprie fissazioni. Non è co-munque da escludere che per lomeno vi abbia trovato una qualcheispirazione per le sue creature ap-pariscenti dalle ali flosce e sgualci-te, per nulla divine ma divinamen-te umane nelle loro goffaggini einadeguatezze. Ce le aveva già pro-poste nel suo secondo ambiziosoromanzo, The Children’s Hospital(2006, non ancora tradotto in italia-no), la storia apocalittica diun’inondazione che risparmia mi-racolosamente un ospedale-arca, isuoi settecentocinquanta pazientie una studentessa dimedicina, tut-ti alle prese con angeli meschini(nella duplice accezione del termi-ne), verisimilmente fuggiti da unatela visionaria di Bosch.

Nel nuovo libro, angeli e demo-ni coesistono con pazienti inguari-bili, medici inadeguati e specializ-zandi spesso in lacrime. Il raccon-to centrale, una piccola gemmache dà anche il titolo alla raccolta,è la storia di un medico drogato eimpostore che sin dall’età di seianni è affiancato da un angelo cu-stode dotato di ampie ali che glipermettono di viaggiare «alla velo-cità della colpa». Quando il prota-gonista gli domanda se avere unangelo sia condizione comune atutti i bambini, lui risponde di no,che occorre «essere eccezionali ofare cose eccezionali», e gli riservauna prova per lui «straordinaria»:prendersi cura del padre ospeda-lizzato e «alleviare la sua pena conun piccolo gesto di umanità».

Immaginazione sfrenata e alle-goria, soprannaturale e satira, in-cubi e follia sono tra gli ingredien-ti necessari per costruire tutto uncatalogo della crudeltà: la malattiache trasforma i corpi dei bambini,il dolore che non nobilita ma tro-va provvisoria consolazione nellafantasia, il senso di impotenza dimedici pugnaci costretti, loro mal-grado, a rassegnarsi all’inevitabili-tà del male. Ed è indubbio chequel male Chris Adrian lo conoscafin nelle sue pieghe più sottili. Do-po aver frequentato il prestigiosolaboratorio di scrittura creativadell’Università dell’Iowa e dopo lerisposte lusinghiere alle sue primepubblicazioni, si iscrive alla facol-tà di medicina e poco più tardi aquella di teologia di Harvard, con-seguendo entrambe le lauree. Lascrittura, perciò, non è fonte di so-stentamento, né temporaneo sol-lievo dalla frequentazione dellesofferenze altrui; semmai è il suoacquario personale, l’unico spaziofluido possibile in cui potersi im-mergere nelle proprie ossessioni,una sorta di autoflagellazione persedare i sensi di colpa. Intanto peressere sopravvissuto a un fratello

più giovane, morto a ventidue an-ni in un incidente stradale.

Scriverne equivale a compiereun rito esorcistico e al contempoa inoltrarsi nell’ingiustizia dellamorte, nella necessaria arrendevo-lezza alle atrocità della vita che,inesorabili, non mancano di sosti-tuirsi all’incanto. Accade peresempio nel primo racconto, A fol-le velocità, il cui incipit palesa giàil disagio del protagonista: «Nelnovembre di cui parlo ho nove an-ni e rubo… papà è morto da novemesi. Il mio fratellino è matto» e si

è rifugiato in una fantasia: «trequinti di Burroughs, un quinto diDr Seuss, e un quinto di cacateche si inventa da solo». Ma lamae-stra riconosce in lui «uno stronzet-to arrabbiato», e non solo perchéla madre dimentica per l’ennesi-ma volta il suo compleanno e im-plora il perdono con un «regalotemporaneo» (fagioli neri, una lat-tina di riso e del pollo surgelato),ma soprattutto perché non riescea scendere a patti con i fantasmiche continuano a tormentarlo. Eallora «basta guidare a folle veloci-

tà per lasciare tutto alle spalle»,suggerisce la maestra invitandoloa guidare la sua Volvo, «li senti ituoi problemi che stramazzano al-le nostre spalle?». Ma se in questoracconto è l’imperizia degli adultia essere posta a giudizio lasciandoquasi intatta l’innocenza del prota-gonista, nell’ultimo (Perché l’Anti-cristo?), idealmente appaiato al pri-mo, la rassegnazione del bambinodi fronte al male lo rende quasicomplice di una cattiveria controse stesso. Durante una festadell’amica Cindy il cui papà èmor-

to al World Trade Center, si mettein comunicazione con lo spiritodel proprio padre attraverso una ta-voletta Ouija. Ciò che scopre è unaverità innegabile per tutti tranneche per lui: è «figlio di Lucifero,l’Anticristo».Qualunque cosa ciò si-gnifichi, finirà per crederci.

In questo come in altri racconti,quali La visione di Peter Damien oIl bambino scambiato, riverberal’immagine delle torri gemelle edegli angeli caduti da un cielo infiamme. E se una malattia conta-giosa, un grave «scombussolamen-to del sangue», procura a Peter Da-mien visioni inimmaginabili e unadisfunzione uditiva per cui la vocedi chiunque gli parli risulta altera-ta, Carl entra in uno stato psicoti-co, si esprime al plurale e parla perquelle 2998 entità arse nel fuocodella torre. Finirà per essere ricono-sciuto comeun changeling, il bam-bino scambiato nella culla della tra-dizione nordica, che da tutti, spe-cie dal padre, si aspetta gesti irripe-tibili: la mutilazione del corpo nonè che una delle tante espiazionipossibili e indispensabili.

E poi c’è un’altra Cindy (Diariodellamalattia e dellamorte di unabambina), una ragazzina affettada sindrome dell’intestino corto,che si è invaghita di un medicogay, il dottor Chandra, per il qualescrive storie di animali agonizzan-ti, raccogliendole in un diario chepotrebbe persino diventare un li-bro. «Pensi che lo comprerà qual-cuno?» le domanda il medico. «Esi-ste un libro che parla solo dicacca… Perché non dovrebbe es-sercene uno che parla solo di ma-lattia e morte? Tutti fanno la po-pò. Tutti soffrono. Tutti muoio-no». E allora le storie, anche le piùspietate, acquistano valore se con-divise. Alla stessa conclusione eragiunto Alexandar Hemon con ilsuo straziante resoconto del can-cro al cervello di Isabel, la figliolet-ta morta a due anni («L’acquario»in Il libro delle mie vite, Einaudi2013). Hemon scrive di avere avu-to, in quei giorni, «la precisa sensa-zione fisica di essere dentro un ac-quario» e che di tante banalità chegli toccava ascoltare la più insop-portabile consisteva nella convin-zione che «mancano le parole» perraccontarne l’orrore. Tanto valereinventarle, pare rispondere ChrisAdrian, e assegnare a creature piùche umane il compito di usarle.Del resto, afferma lo scrittore, «an-che la medicina è piena di stranez-ze e misteri».

di CATERINA RICCIARDI

Dopo la San Francisco del be-stseller mondiale La casa di sabbiae nebbia (1999), da cui è stato trattol’omonimo film candidato a tre pre-mi Oscar, con L’Amore sporco (Nu-trimenti, trad. Giovanni Greco, pp.333, e 19,00) Andre Dubus III, clas-se 1959, ci propone un ritorno almondo della provincia americana,la più antica e a lui più familiare, cir-coscritta a un’area del New En-gland, compresa fra il New Hamp-shire e il Massachusetts, a nord diBoston e lungo la foce del fiumeMerrimack. È una regione che ri-manda a storie canoniche e patriot-tiche della letteratura degli StatiUniti. Eppure nelle pagine di Du-bus III non c’è più nulla, se non ilnome dei luoghi, che ricordi la glo-ria delle origini della nazione ol’operosità industriale otto-nove-centesca: l’immagine delle fabbri-che tessili chiuse e in rovina, untempo fonte di ricchezza di questecontee (celebri le «mills» di Lawren-ce odi Lowell), ricorrononella topo-grafia di L’amore sporco a evocaresolo lo spettro del passato.

Quello rappresentato qui è un pa-esaggio stanco, usurato dal tempo,ecologicamente inquinato, storica-mente destituito e decaduto nelma-lessere sociale di una contempora-neità volgare e scardinata. DubusIII ferma lo sguardo su una midd-le-class mediocre, afflitta da frattu-re generazionali, matrimoni in crisi,adulti irresponsabili e adolescentiinquieti alle prese con le sfide di unfuturo incerto attraverso le vie dellamusica rap, dell’alcol, del ritorno alfumoe soprattutto di una sessualitànonpiù ‘liberata’, come fu nel risve-glio degli anni cinquanta e sessan-ta, ma sprecata e giocata gratuita-mente e virtualmente anche lungo icanali del chat e i portali dei socialnetwork del sesso (c’è un Fuckbookche fa da companion a Facebook).Ciò che è andato perduto in questaprovincia non sono solo i «valori»(come ai tempi di John Cheever, diRichard Yates o di Andre Dubus pa-dre) ma la stessa capacità di amare.

Eppure, questo per Dubus III è il‘paese dell’anima’. Qui, tra le frangepiù proletarie, egli è cresciuto, quiinsegna (a Lowell, Massachusetts),qui ha rifondato la sua famiglia e,soprattutto, qui si è consumato ilsuo dramma personale, originatonell’adolescenza dall’abbandonodella famiglia da parte del padre.Dubus III conosce i traumi della fa-miglia che saranno al centrodell’Amore sporco. Ne parla nell’au-tobiografico I pugni nella testa(2010), in cui, attraverso l’atto catar-tico della scrittura, egli cerca, e tro-va infine, un risanamento postumodel suo rapporto conflittuale con lascomoda figura paterna: il più rino-mato Andre Dubus, autore di otti-mi racconti, che, sul piano della vi-ta privata, seppe sottrarsi a impre-scindibili responsabilità. Sembra dicapire che solo attraverso il rito dipassaggio salvifico percorso in I pu-gni nella testa ora il figlio riesca adapprodare alla «nera speranza» che,pur a prezzo di un panorama uma-namente e socialmente sconsolan-te, balugina nel finale di ciascunadelle corpose quattro storie checompongono L’amore sporco.

La campionatura delle versionidell’amore è scelta e anatomizzatacon accuratezza e sapienza narrati-va, grazie al sostegno di una scrittu-ra lucida emisurata (anche in tradu-zione), spesso giostrata su un fluidomescolamento di piani temporali,di ininterrotta tensione fra eventofratturante e le sue conseguenze, edi un consonante rispecchiamentofra esterni e interni, interni anchementali. Le quattro storie – indipen-denti eppure intimamente legatenon solo dalla geografia e dal sapo-re amaro ma dalle entrate e uscitedi alcuni personaggi che da compar-se in una storia si guadagnano ilruolo di protagonisti in un’altra –sdipanano quattro versioni genera-zionali dell’amore. In Ascoltate at-

tentamente perché sono cambiate lenostre opzioni è una coppia collau-data a subire il trauma dell’adulte-rio commesso da lei (nonostante ilresponsabile sia lui), stanca di vive-re un matrimonio che il marito ge-stisce allo stesso modo in cui gesti-sce la sua azienda. Una crisi matri-moniale della mezza età come tan-te altre.Maqui sono i dettagli del vi-deo scottante da lui commissionatoa un detective, e ossessivamenteguardato e riguardato per tre mesi,

a dominare la scena dell’ultimogiorno del dramma, quando la cop-pia si ricongiungerà per provare a ri-cominciare una vita insieme, con«il cuore» di lui «una volta ancoradentro la testa perché di nuovo nonsa se è all’altezza di tutto questo,questo cambiamento del cambia-mento, mentre la porta si apre ver-so l’interno e lui si sistema e il visodi sua moglie, bello e sorpreso e inattesa».

Un porta che si apre e lascia alle

spalle l’«amore sporco»: le chiuse diDubus III sonomagistrali. Così è an-che in Marla, dedicato a una nonpiù giovanissima impiegata di ban-ca, obesa e malata di solitudine, incerca di un compagno di vita. Lotrova in Dennis, un ingegnere elet-tronico, in sovrappeso come lei:due corpi gemelli che tuttavia devo-no imparare a sincronizzare, con icorpi, le emozioni e i ritmi delle ri-spettive vite da single per farli con-fluire in un’armonia di coppia. An-

che qui il finale risanatore inscenaun interno: «Entrò nell’ingresso cal-do. Aveva la fronte sudata. Sentì laporta chiudersi alle sue spalle e lagrossa mano di lui sulla schiena. Laciocca di capelli le cadde di nuovo.Allungò la mano e la sistemò salda-mente al suo posto, poi salì le scaleuna alla volta e giunse dov’erano lealtre coppie, tutte quelle altre cop-pie sorridenti e felici». Il barman èRobert Doucette, un figlio di conta-dini che aspira a diventare poeta al-

la Robert Frost. Le poesie che nonscrive e di cui si vanta sono la sua ar-ma per conquiste di amori facili, fi-no all’incontro con Althea che spo-sa, solo perché in lei riconosce lasua musa. L’autore dell’adulterio inquesto caso è lui. Dubus III sa cala-re la sonda con violenza brutale nel-le viscere delle tragedie per poi riav-volgerla e far rilucere alla fine deltunnel l’ombra del riscatto che perRobert si affida agli occhi della mo-glie: «quelli che aveva ricevuto in do-no grazie a una poesia mai scritta eche, ora lo sapeva, probabilmentenon avrebbe mai scritto, occhi chenon meritava, ma che sperava diguadagnarsi un giorno – occhi di ne-ra speranza».

Se la «nera speranza» è un buontalismano per rimettere in gioco lecarte della vita, più arduo è il com-promesso salvifico per i due prota-gonisti dell’ultimo racconto, L’amo-re sporco, il più poetico. Con l’anzia-no Fancis e la giovane nipote De-von, vittima di una disavventurapornografica postata su Facebook,il lettore matura la verità di fondoche sedimenta come fondiglio nelmondo rappresentato da Dubus III:la disarmante «percezione che sia-mo tutti orribili e che la bellezza èuna tregua e l’innocenza èunamen-zogna». Più difficile, questa volta,sembra l’uscita dal tunnel dei risvol-ti più oscuri dell’amore.

«L’AMORE SPORCO» DI ANDRE DUBUS III DA NUTRIMENTI

di LUCA SCARLINI

Il mito dell’automa è connaturato alleavanguardie storiche, che esplorarono, conterrore o piacere, la tradizione romantica dellecreature artefatte, realizzate in laboratorio.Uno dei contributi maggiori a questa saga è ilnotevolissimo testo teatrale R.U.R. Rossum’sUniversal Robots di Karel Capek (nuovatraduzione e cure di Alessandro Catalano,Marsilio, pp. 169, e 15,00). Il testo, edito nel1920, venne rappresentato con clamore aPraga nel ’21, e ottenne presto una larga eco inGermania e poi a Parigi. In questa opera sitrova per la prima volta il termine robot, chederiva dal lemma ceco robota (ossiasfacchinata o corvée), suggerito dal fratellodello scrittore, il pittore Josef, il cui curiosoautoritratto Io, me stesso adorna la copertina.La suggestione che ha originato il testo è statanarrata dallo stesso Capek: «i robot sono ilrisultato di un viaggio in tram. Un giorno sonodovuto andare a Praga con un tram di periferiaincredibilmente pieno. L’idea che lecondizioni moderne abbiano reso gli uominiinsensibili alle più semplici comodità della vita

mi ha atterrito, (...) Ho iniziato allora a pensareagli uomini non come individui, ma comemacchine». Una visione devastante, con ilritratto notevole del professor Rossum (ilcognome allude a «ragione»), il quale «aspiravasolo a fornire la prova che non c’è bisogno delPadreterno. Per questo si era ficcato in testa dicreare un uomo identico a noi fino all’ultimocapello». Creatore di sinistri homunculi, avevalasciato poi il posto a un nipote, il qualeconvertì l’idea prometeica in una strepitosamacchina per fare soldi, fornendo al mondomanodopera a basso costo, semplificando dimolto i progetti originari. Nella fabbrica,ordinato e spettrale regno dei robot, giungeHelena Glory, figlia del proprietariodell’impresa, animata da una volontà diriforma morale di questo gioco letale con ilcreatore. Il suo primo incontro, quello con gliautomi Mario e Silla, produce una vertiginetremenda, primo atto di una vera e propriaescalation di violenza, finché i robot prendonoil sopravvento, in un disperato e letaletentativo di insurrezione rivoluzionaria, che hacome scopo quello di impadronirsi dellacondizione umana. Capek tematizzava così la

secolare tradizione della figura del Golem, cosìradicata nel folklore praghese, a cui GustavMeyrink aveva dato forma definitiva nel suoromanzo del 1913, poi immortalato al cinemanel film di Carl Boese e Paul Wegener (1920).L’eredità «magica» della corte dell’imperatoremelanconico Rodolfo II d’Asburgo si è diffusa,in forme diverse, fino all’attualità. A questo filosi aggiunge la visione crudele di unaossessione a cui Capek dedica pagine digrande forza: quella della massa che, divenutamacchina di morte, uccide senza pensare lapropria e altrui umanità. In Italia RUR sedussenegli anni venti Massimo Bontempelli (che locita nella sua notevole pièce Minnie lacandida) e i futuristi: nel 1971, come notaall’edizione Einaudi, Angelo Maria Ripellinoscrisse un magnifico saggio (in cui ripercorrevale suggestioni del testo, avanzando paragonicon Jules Verne e H. P. Lovecraft), che siconclude con una visione sinistra: «I robot,cupi come un dies irae, feticcidell’aggrondata civiltà tecnologica, sonoseccume manageriale, superciliose figure diQuadragesima, campioni di un macchinismoche spegne l’umore e la fantasia».

KARL CAPEK

Il robotcome figurapraghese:torna «R.U.R»,in nuovatraduzione

DUBUS III

di STEFANO GALLERANI

Nel volume che apre la trilogia Febbre elancia, il protagonista di questa bizzarra storiadi spie firmata da Javier Marías cerca uno deiprimi indizi della vicenda in cui si troveràcoinvolto nella biblioteca privata di Sir PeterWheeler, suo vecchio maestro e collega diOxford: tra numerosi romanzi di «Stout,Gardner e Dickson, MacDonald (Philip) eMacDonald (Ross), Iles e Tey e Buchan eAmbler» la risposta lo attende in un volume diIan Fleming, il padre di James Bond. Legata afilo doppio alla cultura anglosassone, nel corsodel Novecento la letteratura spionistica èpassata dal ruolo di ancella della narrativamaggiore a serbatoio di alcuni dei piùimportanti romanzi di lingua inglese. Di questocostante progress dal puro intrattenimentoall’highbrow rende oggi conto Paolo Bertinettiin Agenti segreti I maestri della spy story inglese(prefazione di Goffredo Fofi, Edizioni dell’asino,pp. 203, e 12,00). Partendo dalle origini delgenere – che in epoca moderna risalgonoall’americanissimo James Fenimore Cooper, ilquale nel 1821 pubblicò The Spy, ambientato al

tempo della Guerra di Indipendenza – Bertinettiattraversa tanto agilmente quantoapprofonditamente decine e decine di operericostruendo, da allora ai giorni nostri,l’evoluzione della spy story con dovizia diparticolari e connessioni illuminanti circal’apporto di elementi eterogenei allacostituzione di un canone dello spionaggio inletteratura (si veda, per tutti, il caso Philby).Scorrendo le sue pagine, dunque, scopriamocome, agli albori, imprescindibili fossero lapresenza di un’elementare ideologia politica(l’Impero contro la minaccia di invasione daparte di forze straniere), eroi dilettanti egalantuomini alle prese con improbabili intrighiinternazionali e una buona dose di avventurosoesotismo. Trascurando il profilo strettamenteletterario, gli autori di questo primo periodo(John Buchan o Herman Cyril McNeile) hannoperò avuto il merito di gettare, appunto, le basisulle quali avrebbero lavorato, spesso acontrario, i loro figli o nipoti: ecco pertantocome, grazie a W.S. Maugham (con Ashenden.L’agente inglese), Eric Ambler (La maschera diDimitrios o Viaggio nella paura) e GrahamGreene (Missione confidenziale, Il terzo uomo o

Quinta colonna), tra anni trenta e quaranta ilmagnifico dilettante e il suo temibilissimoantagonista, «una specie di superuomo a suomodo degno di ammirazione», hanno lasciato ilposto a figure più ordinarie e credibili («personag-gi a tutto tondo», scrive Bertinetti citando E.M. For-ster) consentendo, sulla pagina, un deciso innalza-mento del gradiente psicologico insieme a una piùfedele ricostruzione degli scenari politici alla basedelle trame. Se si esclude il fenomeno Fleming,artefice, negli anni cinquanta, di una sorta di ibri-do tra vecchia e nuova scuola, questo processo disviluppo ha raggiunto il suo culmine in piena Guer-ra Fredda con Len Deighton (La pratica Ipcress) e,soprattutto, John Le Carré (La spia che venne dalfreddo e La talpa), per McEwan «uno dei maggioriromanzieri inglesi degli ultimi sessant’anni». Sonoloro i campioni degli Spyng Sixties, seguiti, maniente affatto oscurati, nei decenni successivi daFrederick Forsyth e Ken Follett, i cui titoli miglioriBertinetti riporta nella playlist che chiude Agentisegreti insieme all’auspicio che, per gli scrittori dispy fiction di oggi, «almeno in qualche caso, la sto-ria inventata si traduca in un vero romanzo sullarealtà del mondo contemporaneo e sui segretidell’animo umano».

SPY STORIES

Da Buchana Ken Follett:Bertinettie l’evoluzionedell’agentesegreto inglese

CHRIS ADRIAN, «UN ANGELO MIGLIORE», EINAUDI

ADRIANLoretta Lux, «Hopper», 2005, ilfochrome print, courtesydell’artista e della Yossi Milo Gallery, New York City

Una foto di Annelies Štrbra, trattada «Aya», Scalo, 2002; sopra, lo scrittoreamericano Andre Dubus III

Angeli custodi e demoni, piccoli pazienti inguaribili, mediciinadeguati e specializzandi in lacrime: catalogo di crudeltàche prende corpo in una «scrittura creativa» targata Iowa University

Porte che si apronosu paesaggi usuratie interni pornografici:quattro storie traumatiche,quattro versioni dell’amore,dall’autore di Lowellnel Massachusetts

(6) ALIAS DOMENICA19 LUGLIO 2015

Non frutto di genibensì del desiderio

Deviazioni strategichenella interpretazionedella femminilità

di FRANCO LOLLI

L’opinione che la perversio-ne coincida con la presenza dicomportamenti cosiddetti «aber-ranti» è il frutto di un pregiudiziodiffuso e di un radicato malintesoculturale che ha ingiustificatamen-te individuato nel perverso un sog-getto compulsivamente dedito apratiche sessuali devianti e moral-mente riprovevoli: non che tuttociò sia escluso. Ma la sovrapposi-zione di questa psicopatologia aun genere specifico di comporta-menti sessuali rappresenta solouna delle molteplici manifestazio-ni della perversione. Ci sono volutidecenni perché la psicoanalisi siscrollasse di dosso questa corri-spondenza ritenuta necessarianon tanto e non solo in virtù dellepionieristiche catalogazioni diKrafft-Ebing e dei primi sessuologiinteressati alla questione, quanto –e soprattutto – in considerazionedella teorizzazione freudiane.

In diversi passaggi della sua ope-ra, infatti, Freud aveva legato il con-cetto di perversione all’idea del su-peramentodi una soglia di «norma-lità» relativa ai costumi sessuali,stigmatizzando, perciò, pratiche disoddisfacimento pulsionale che,all’epoca, apparivano «contronatu-ra». In questo senso, ad esempio, ilfatto di avere iscritto l’omosessuali-tà (a quel tempo, considerata unamalattia o una depravazione) nellacategoria della perversione, avevarivelato una discutibile porositàdel pensiero freudiano rispetto allospirito del tempo, l’appartenenza auna visione delmondo chiaramen-te condizionata dalle convenzionisociali e, soprattutto, la difficoltà diprovata da Freud nello smarcarsidefinitivamente dall’idea di una te-leologia pulsionale, di un finalismolibidico che (come, poi, alcuni suoiseguaci teorizzeranno) avrebbe do-vuto puntare a una genitalitàmatu-ra, depurata dalle scorie del godi-mento proprio alle precedenti fasievolutive.

È come se, in questo risvolto del-la sua indagine, Freud non avesseavuto la forza di portare fino alleestreme conseguenze la scopertaper cui era diventato famoso: chela sessualità umana è, in fondo efin dalla sua origine,perversa (e po-limorfa). In altri termini, che la ra-dice ultimadell’atto sessuale affon-da in una vena perversa (nel sensoche la soddisfazione a cui tende

può essere raggiunta nelle modali-tà ‘meno convenzionali’ e più stra-vaganti). Ammettere che la sessua-lità umana è, in sé, strutturalmenteperversa e che tracce di questo suopassato si trovano nelle fantasie (enon solo) dell’età adulta, vuol dire,in sostanza, affermare come possi-bile il fatto che la normalità si in-trecci alla bizzarria, alla paradossa-lità e alla stranezza di pratiche digodimento inconsuete.

Se dunquenon è sul piano esclu-sivo della sessualità (ovvero, dellesue eventuali deviazioni) che la per-versione può essere individuata,qual è il tratto specifico che la iden-tifica, qual è il carattere che segna-la la messa in funzione della logica

perversa? Il libro di Louise J. Ka-plan, Le perversioni femminili Le ten-tazioni di Emma Bovary, apparsoin America nel 1991 e recentemen-te ripubblicato da Raffaello Corti-na (pp. 346, e 25,00) è un tentativodi rispondere a questi interrogativie di situare la questione della per-

versione all’interno di unorizzontepiù ampio, svincolato dai claustro-fobici riferimenti ‘fallocentrici’ delmagistero freudiano: già la sceltadi occuparsi delle perversioni fem-minili indica, infatti, la condivisibi-le ambizione dell’autrice di smar-carsi dalle considerazioni freudia-

ne sulla perversione che, com’è no-to, essendo state elaborate a parti-re dalla pur straordinaria analisidel feticismo, si rivelarono capacidi intercettare il solo punto di vistamaschile sulla questione.

Daquesta prospettiva, il rinnega-mento della castrazione maternada parte del bambino (e il conse-guente allontanamento psichicodella minaccia relativa alla propriacastrazione) è considerato il fulcrodifensivo della logica perversa, chepunta alla messa in atto di unanuova realtà (quella del feticcio èla più celebre) da affiancare alla in-sopportabile percezione di una ca-strazione già avvenuta. Detto altri-menti, la perversione presupponeun atto difensivo dell’individuo difronte alla minaccia di una perditache, in questomodo, viene ripudia-ta: una minaccia che riguardereb-be la possibile perdita dell’organogenitale.

È facilmente intuibile come unatale eziopatogenesi sia calibratasulla psicologia maschile e quanto,di conseguenza, lasci aperto l’inter-rogativo sull’esistenza (o meno)della perversione nell’universofemminile, dove l’eventuale strate-gia perversa non avrebbe ragionedi svilupparsi dal momento chemanca la causaprima del suo inne-sco, ovvero il timore di perdere il

prezioso genitale (di cui, per l’ap-punto, il corpo della bambina èstrutturalmente sprovvisto).

Dunque, se non è l’organo geni-tale l’oggetto della perdita, qualeesperienza di perdita è necessariaa una donna perché reagisca rinne-gandola e strutturando quella spe-cifica modalità di relazione con ilmondo che qualifica la perversio-ne? Louise J. Kaplanpropone aque-sto riguardo un’ipotesi assai inte-ressante. La perdita ripudiata me-diante la strategia perversa è quel-la che la cultura fa valere per ogniessere umano forzandolo allaschiavitù di ruoli sessuali e di gene-re definiti dalle convenzioni socia-li. Per questo motivo – spiega l’au-trice – «di fatto le donne sono per-verse tanto quanto gli uomini».

Se questa è la prospettiva, allorale perversioni femminili si configu-rano come manifestazioni di com-portamenti che enfatizzano (finoalla caricatura) l’ideale femminiledi genere e che, patologicamente,assumono l’aspetto dell’ossessio-ne per la pulizia, dell’anelito all’in-nocenza, alla purezza e alla spiri-tualità e della docilità alla sottomis-sione. Automutilazioni, reiterati fal-limenti sentimentali, amplificazio-ni esasperate dell’identificazionealla donna-oggetto, rifiuto anores-sico del cibo, perdita del controlloe della propria autonomia, clepto-mania, utilizzo feticistico del bam-bino, sindrome della moglie ince-stuosa, sono tutte espressioni dellaperversione femminile intesa,nell’ottica della psicoanalista statu-nitense, come disperata fissazionea comportamenti la cui rigida ritua-lità – alla quale il soggetto non puòsottrarsi – è finalizzata a esorcizza-re l’angoscia sottostante.

Louise J. Kaplan spiega, a questoproposito, che la bambina (futuraperversa) è colei che, per attenuarelamortificazione narcisistica impo-sta dal modello sociale, finisce conl’accentuare determinati trattidell’ideale femminile dominanteesasperandoli fino al parossismogrottesco che caratterizza la teatra-lità perversa. Far credere di essereindifesa, ingenua, passiva, sofferen-te, rassegnata fino all’autodistruzio-ne diventa, così, l’inconsapevolestrategia perversa della donna checamuffa, con una talemessa in sce-na, la forza del desiderio inverso didominare, di penetrare, di prende-re il comando.

È evidente come l’analisi di Ka-plan intenda stabilire una strettaconnessione tra la psicopatologiafemminile e l’ordine sociale nelquale essa si sviluppa; una prospet-tiva che supera quella freudiana,con l’indubbio merito di sganciareil concetto di perversione dal riferi-mento esclusivo all’atto sessuale‘trasgressivo’; tuttavia, rileggendoil libro a più di vent’anni dalla suapubblicazione, in alcuni passagginon sembrapiù troppo convincen-te. Certo è che, come l’autrice la-scia intendere, le perversioni fem-minili si annidano nella rinuncia atrovare una risposta singolare, per-sonale, originale all’enigma intrin-seco all’essere una donna. E, dicontro, prevedonoun adeguamen-to allo stereotipo culturale che esi-ge conformismoe adattamento de-soggettivante: false soluzioni diiper-identificazione ai ruoli di fi-glia-madre-moglie che permetto-no di evitare il faticoso percorso diassunzionedella propria femminili-tà cui ogni donna è chiamata, nellapiù completa solitudine.

MATERNITÀ«LE MANI DELLA MADRE», L’ULTIMO SAGGIO DI MASSIMO RECALCATI PER FELTRINELLI

Cagnaccio di San Pietro, «Dopo l’orgia», 1928

di FRANCESCA BORRELLI

Da sempre la psicoanalisi hausato i suoi strumentiinterpretativi (spesso a mo’ digrimaldelli) per forzarel’emersione in superficie di veritànascoste in un testo letterario, opiù genericamente artistico; maquasi mai queste aperture diinteresse si sono riverberate suisuoi confini interni,contaminando l’autoreferenzialitàdel lessico che le è proprio ealterando significativamente i suoiorizzonti, a volte paradossalmentestretti. Proprio perciò, lasingolarità di un testo comequello scritto da Lorena Preta perMimesis, La brutalità delle coseTrasformazioni psichiche dellarealtà (pp. 133, e 14,00) ha uneffetto sorprendente: perchésembra procedere perassociazioni mentali e depositarlein un contenitore che, a sua volta,potrebbe agire come spaziogenerativo di decine di altri testi, e

la cui lettura si offre a prospettivepotenzialmente infinite: nonperché eviti di prendere posizioniincontrovertibili, né perché siindirizzi verso deriveermeneutiche incontrollate.Piuttosto, perché la suaintenzione di cogliere letrasformazioni in attonell’umanità del XXI secolo, e altempo stesso di provocarne altreoffrendo materiali in movimentoverso una loro definizione,consegna al libro il carattere diuna fabbrica di non finiti: informa di pensieri, frasi, azioniinterpretative in attesa di nuovialimenti, a nutrire il potenzialeesplicativo di una realtà sfuggente.Una realtà per la quale è statospesso invocato il carattere dellamutazione antropologica –categoria per la verità fuori luogofintantoché i requisititrascendentali della natura umananon vengono investiti – e che trale pagine di questo libro oscillapiuttosto verso la registrazione di

cambiamenti culturali importantie non ancora del tutto decifrati.Ciò che Lorena Preta si propone –lei che è una psicoanalista dadecenni impegnata nel convocare,in convegni scientifici e sullepagine della bellissima rivista«Psiche» che ha a lungo diretto, iprotagonisti più interessanti didiverse discipline – è un uso dellapsicoanalisi finalizzato a«attraversare il resto del mondo»;il che implica, prima di tutto,sottrarla al ruolo di oggetto didiscorsi contingenti, per farne unsoggetto attivo nella produzione dipensiero: «uno strumento perincontrare l’alterità». È tutt’altroche un caso, dunque, se il titolodel libro prende di peso le paroledi Francis Bacon in una delleinterviste che David Sylvester glifece tra il 1962 e il 1986. Nonsoltanto gli intenti trasformativi diquanto passa al vaglio della retina,ma l’intenzione dichiarata daBacon di «intrappolare la realtà inqualcosa di veramente arbitrario»,

funzionano per Lorena Preta datraccia ideale di una ricercaintenzionata a cogliere lepotenzialità trasformative deglistrumenti analitici, mentre simettono in moto. Tuttavia, iritratti di Bacon, e in generale glioggetti della sua pittura, puressendo il risultato di un «agiredeformativo», offrono anche unche di resistente, qualcosa che sioppone – in quanto inemendabile– al soggetto della pittura,esibendo un nucleo di realtà, dalquale il quadro si è generato, chesi propone come autonomamenteparlante. In modo analogo, lapsicoanalisi non è in grado, né èintenzionata a trasformare lasostanza che si offre al suo agireinterpretativo, ma può favorire«passaggi di stato», mentre altempo stesso prende atto dialterità non addomesticabili. Inquesta prospettiva, ciò a cuiconviene tendere – scrive LorenaPreta – è un lavoro su quelletrasformazioni che in analisi

consentono il passaggiodall’emozione al pensiero eviceversa, registrando lemutazioni in atto non comeconseguenze ma come condizionidi un atto trasformativo. Èevidente che alla psicoanalisi glioggetti interessano solo nella lororielaborazione da parte delsoggetto, perché ciò che è in giocoriguarda la ricerca del significato enon la ratifica dell’esistente.Questione che, peraltro, aprirebbeun capitolo – appena accennatonel libro e subito abbandonato, inquanto oggetto di fin troppespeculazioni – sulla distanza traverità narrativa e verità storica,distinzione già al centro di unfamoso saggio, datato 1982, diDonald Spence. La lettura cheLorena Preta propone dellosguardo analitico, mentre mettein guardia dalle tentazioni diassimilarlo a qualcosa diineffabile, ne mette in luce ilcarattere di «ascolto che sostanziale immagini e che allo stesso

tempo, facendo parlare l’invisibile,gli dà forma». Dunque, la brutalitàdelle cose evocata nel titolo dellibro va intesa non come allusionealla statica immutabilità delmateriale che si offre all’arte oall’analisi, ma come tensione chesi genera fra la resistenza dellecose e le sollecitazionitrasformative intriseche alprocesso pittorico, così come aquello psicanalitico. Ilpresupposto, in qualche modofoucaultiano, dal quale LorenaPreta avvia le sua considerazioni.vede «la nostra umanità» comeuna «costruzione»; e dunquecome qualcosa che dipende piùdai condizionamentistorico-sociali che dai suoirequisiti trascendentali: unaumanità che per giungere alla suaspecificazione ha bisogno«dell’incontro con un ambiente».Della singolarità del libro diLorena Preta fa anche parte laconvocazione, del tutto naturale(come volesse restituire la fluidità

che è propria dei passaggi delpensiero) di inserti a caratterenarrativo, tratti da casi clinici: unoparticolarmente interessanteriguarda sequenze di associazionimentali sulla maternità. Da unaparte l’analista, già incinta manon ancora in modo manifesto,dall’altra parte pazienti che sannopiù di quanto non vedono. Come«aruspici» in grado di leggere dapiccoli indizi ciò che si svolgenelle viscere dell’analista primache queste stesse viscere sigonfino e testimonino di unagravidanza iniziata, le pazientitraggono dallo scambio dicomunicazioni inconsce favoritedal setting ciò che la parolaancora tace. Di pagina in pagina,fra esempi presi da tutte le artiche sono state compagne familiarial percorso di vita dell’autrice,molte questioni vengono appenaevocate: fra queste, laresponsabilità dell’analista difronte al compito di mettere afrutto il tempo della allenza

terapeutica. Perché èfondamentale che l’analizzato sisenta non avvolto in una bolla chepoco ha a che fare con la vitavera, ma immerso in una trama dipensieri, suoi e dell’analista, che avolte si annodano altre volteslegano, direbbe André Green,matasse nevrotiche renitenti alprocesso trasformativo chel’analisi dovrebbe mettere inmoto. E, naturalmente, ilconfronto della psicoanalisi conl’accelerazione indotta dall’eratecnologica, impone nuove messea registro della nostra idea deltempo, che da una parte appare«divorato dal futuro», dall’altra«trattenuto dal passato». Unprocesso, questo, che hadeterminato già da molti anni,trasformazioni del disagiopsichico nelle quali si evidenzia il«decadimento della nostracapacità di simbolizzazione» avantaggio della tendenzacompulsiva a passare dal pensieroall’azione, dalla organizzazione

metaforica del sintomo alladisorganizzazione pulsionale.Individui sempre più oppressidalla drammatica percezionedella insensatezza intrinseca allaloro esistenza, marciano per lenostra strade a volte mascheratidietro quegli eccessi diadattamento sui quali si era giàconcentrata la psicoanalistaneozelandese Joyce McDougallquando affrontò il problema dellepersone che chiamònormopatiche, o ipernormali.Perché è questa (appenasorvolata dal libro di LorenaPreta, che evoca più di quantonon intenda didascalizzare) lafigura tipicamente ipermodernadell’individuo: uomini e donnepressati dagli appelli della societàtardocapitalista, che si rifugianonell’indifferenza emotiva e sinegano all’identificazione con glialtri, perché vedono nel propriopossibile coinvolgimento unintralcio alla loro capacitàperformativa.

di ROCCO RONCHI

Con il suo ultimo libro, Le ma-ni della madre Desiderio, fantasmied eredità del materno (Feltrinellipp. 90 e 16,00), Massimo Recalcatirisponde a una domanda che, comeracconta lui stesso, gli è stata soven-te rivolta in occasione dei tanti suoiinterventi pubblici dedicati al tema.La questione, come è noto, è quelladella progressiva «evaporazione delpadre» nell’epoca segnata dal domi-nio incondizionato del «discorso delcapitalista». Inevitabile, la domandanon poteva che riguardare il ruolo ela funzione della madre. Se del pa-dre resta infatti poco, quando lacompulsione al godimento illimita-to prende il posto della Legge, paro-diandola e corrompendola, cosa re-sta, nel nostro tempo, della madre?

Il paesaggio materno descritto dalclinico Recalcati è infatti per lo piùdesolante. L’immagine patriarcaledella madre votata al sacrificio e allarinuncia incondizionata, immaginecara alla cultura cattolica, ne risultascossa. Il suo tramonto segna l’asce-sa dimadri-coccodrillo che divoranoil figlio soffocandolo con un eccessodi cura, un eccesso che è solo il trave-stimento del godimento perverso eincestuoso;proliferanomadrinarcisi-stiche, generate dal ’68 e, soprattuttodal ’77 antiedipico, che alla rappre-sentazione patriarcale dellamaterni-tàhanno reagito conunprogramma-ticodisinvestimento libidiconei con-fronti dei figli, vissuti come ostacolialla loro realizzazione; e ci sono poile madri perennemente in fuga dallamaternità e lemadri-Medee che radi-calizzano questa fuga fino alla nega-zione violenta del figlio in nomedell’assolutezza del proprio deside-rio femminile.

Anche il desiderio ipermodernodi una maternità ottenuta fuoritempo massimo o coadiuvata tec-nologicamente non ne esce affattobene. Recalcati mette in luce quan-to c’è di oscuramente «proprieta-rio» nel «volere avere un figlio» atutti i costi, quasi che il tempo, l’at-tesa e, finanche la frustrazione,non fossero gli elementi strutturan-ti il desiderio materno.

Eppure, questo libro così durocon la versione ipermoderna dellamadre (e per niente tenero con lasua versione patriarcale) è ancheun tentativo di rendere giustizia al-lemadri. Il clinico Recalcati cede al-lora la parola al filosofo: alla feno-menologia della madre ipermoder-na subentra una metafisica dellamaternità: proprio questioni dime-tafisica sono intrinseche, infatti, al-la definizione di «una» madre. Nondella madre. La madre è infatti ilfantasma patriarcale che ha osses-sionato un tempo ormai fortunata-mente tramontato, quando si tratta-va di esorcizzare il desiderio femmi-nile in quanto ha di irriducibileall’ordine fallocratico. Recalcatinon è affatto indulgente con que-sta operazione, di cui percepiscetutta la violenza.

Unamadre è piuttosto ciò che re-sta dellamadre, dopo chequel fanta-sma è stato congedato e dissolto dal-la critica moderna. Ma il modello diquestamadre residuale èmolto anti-co. Una madre è Maria, la madre diGesù, che in ogni momento dellasua esistenza, dall’annunciazione al-la veglia ai piedi della Croce, esponeper simboli potentissimi ciò cheogni maternità è: il mistero di una

trascendenza assoluta che si coniu-ga inmodoparadossale conuna im-manenza altrettanto assoluta. Piùche Lacan, è Lévinas a fornire il filorosso per l’analisi che Recalcati pro-pone della maternità. In Totalità einfinito (del 1961), Emmanuel Lévi-nas aveva infatti colto nellamaterni-tà, che contrapponeva, unpo’mora-listicamente, alla frivolezza dell’ero-tico, il farsi carne di una trascenden-za senza ritorno.

Trascendenza significa accoglien-za dentro di sé di una alterità inassi-milabile: significa donare quello chenon si possiede e possedere quelloche eccede la nostra capacità di sop-portare. Ora, il desiderio di una ma-dre, quando non è guastato dalle pa-tologie ipermoderne, è – secondoRe-calcati – il desiderio di un altro persempre altro, il desiderio del figlio,appunto. Vale a dire di un essere chesi dà solonell’orizzonte della suaper-dita. Il figlio, infatti per definizione,cresce, si allontana, lascia la casa deigenitori. Il figlio desiderato è la pre-senza di un’assenza. Unamadre «sa-na» lo sa. Sa che lamancanza è l’aro-ma e la ragione del suo desiderio. Losapeva Maria che della maternità èl’icona. Non a caso, un grande temaiconografico della pittura occidenta-le è stato la raffigurazione di questosapere inconscio nel volto della Ma-donna che tiene tra le braccia il suobambinello. Un compito gravosissi-mo per il pittore devoto: il volto dellaMadre di Gesù doveva infatti essereassolutamente sereno e al tempostesso velato da una malinconia chenondoveva contraddire la sua sereni-tà di madre, semmai identificarsicon essa (!)

Il desiderio si fa propriamenteumano, scrive Recalcati, nascendonella distanza e nella distanza pre-servandosi. Ogni attentato portatoalla mancanza, ogni tentativo diriempirla con oggetti feticcio (ancheil figlio puòdiventarlo), è unaminac-cia al desiderio stesso, una sua per-versa rinaturalizzazione. Per Recal-cati lamaternità non è un fatto dellanatura.Di essa animali e piante nul-la sanno. Nella natura c’è riprodu-zione, c’è trasmissione di geni. Ilsenso dellamaternità umana è inve-ce sovrannaturale o metafisico. Per-tiene all’ordine simbolico e al pianodel linguaggio. Per questo Recalcati,nelle pagine forse più intense delsuo saggio, lascia trapelare l’ideache la maternità, in quanto faccen-da squisitamente umana e spiritua-le, sia sempre in ultima analisiun’adozione, che consiste in unpas-so fuori dalla necessità della naturae si risolve in una elezione – in undesiderio –– che si fa (almeno nellastragrande maggioranza dei casi)con imezzi della riproduzione natu-rale («il reale del sesso»)ma non vi siesaurisce. Ed è proprio su questopunto che si registra la massima di-stanza tra l’ipotesi ipercristianaavanzata da Recalcati in questo li-bro e la bioetica cattolica. Per il bioe-ticista cattolico, la vita che andreb-be difesa a priori da qualsiasi interfe-renza umana, si identifica con ilprincipio vitale stesso. Per lui la ma-ternità è sacra perché coincide conla riproduzione sessuata senza resi-dui di sorta. Per quanto questo pos-sa suonare strano, la metafisica cat-tolica della vita è unametafisica sfre-natamente materialista. Un grumodi cellule è la vita, la funzione ripro-duttiva è la madre. Di contro unamadre, per Recalcati è fenomeno es-senzialmente spirituale. Anzi, essa èl’ambito in cui lo spirito si generadalla natura: trascendenza nell’im-manenza. La domanda che si do-vrebbeporre a Recalcati – e che, for-se, le donne per prime dovrebberoporgli – riguarda allora questa alter-nativa: spiritualismo giudaico-cri-stiano / materialismo cattolico.

Ciò che resta della madre,nell’epoca del «discorso del capitali-sta», si esaurisce in questo dilem-ma? Non c’è per la madre, per ladonna, per il godimento femminile,un’altra interpretazione possibile,che sia immanente e materialistica,senza essere sacrale e ideologica?

RIEDITO A DISTANZA DI UN QUARTO DI SECOLO, IL SAGGIO DI LOUISE J. KAPLAN, «LE PERVERSIONI FEMMINILI»

PSICOANALISI

«La brutalitàdelle cose»:da Lorena Pretaipotesitrasformativesulle traccedi Francis Bacon

PERVERSIONIJulia Krahn, «Mutter», 2009

Iscritta nell’ordinedel linguaggio,la maternitàanalizzatada Recalcatiè riconducibile,più che a Lacan,al pensierodi Lévinas

Una prospettiva che superaquella freudiana, con il meritodi sganciare la perversionedal riferimento esclusivo al sesso

(7)ALIAS DOMENICA19 LUGLIO 2015

Non frutto di genibensì del desiderio

Deviazioni strategichenella interpretazionedella femminilità

di FRANCO LOLLI

L’opinione che la perversio-ne coincida con la presenza dicomportamenti cosiddetti «aber-ranti» è il frutto di un pregiudiziodiffuso e di un radicato malintesoculturale che ha ingiustificatamen-te individuato nel perverso un sog-getto compulsivamente dedito apratiche sessuali devianti e moral-mente riprovevoli: non che tuttociò sia escluso. Ma la sovrapposi-zione di questa psicopatologia aun genere specifico di comporta-menti sessuali rappresenta solouna delle molteplici manifestazio-ni della perversione. Ci sono volutidecenni perché la psicoanalisi siscrollasse di dosso questa corri-spondenza ritenuta necessarianon tanto e non solo in virtù dellepionieristiche catalogazioni diKrafft-Ebing e dei primi sessuologiinteressati alla questione, quanto –e soprattutto – in considerazionedella teorizzazione freudiane.

In diversi passaggi della sua ope-ra, infatti, Freud aveva legato il con-cetto di perversione all’idea del su-peramentodi una soglia di «norma-lità» relativa ai costumi sessuali,stigmatizzando, perciò, pratiche disoddisfacimento pulsionale che,all’epoca, apparivano «contronatu-ra». In questo senso, ad esempio, ilfatto di avere iscritto l’omosessuali-tà (a quel tempo, considerata unamalattia o una depravazione) nellacategoria della perversione, avevarivelato una discutibile porositàdel pensiero freudiano rispetto allospirito del tempo, l’appartenenza auna visione delmondo chiaramen-te condizionata dalle convenzionisociali e, soprattutto, la difficoltà diprovata da Freud nello smarcarsidefinitivamente dall’idea di una te-leologia pulsionale, di un finalismolibidico che (come, poi, alcuni suoiseguaci teorizzeranno) avrebbe do-vuto puntare a una genitalitàmatu-ra, depurata dalle scorie del godi-mento proprio alle precedenti fasievolutive.

È come se, in questo risvolto del-la sua indagine, Freud non avesseavuto la forza di portare fino alleestreme conseguenze la scopertaper cui era diventato famoso: chela sessualità umana è, in fondo efin dalla sua origine,perversa (e po-limorfa). In altri termini, che la ra-dice ultimadell’atto sessuale affon-da in una vena perversa (nel sensoche la soddisfazione a cui tende

può essere raggiunta nelle modali-tà ‘meno convenzionali’ e più stra-vaganti). Ammettere che la sessua-lità umana è, in sé, strutturalmenteperversa e che tracce di questo suopassato si trovano nelle fantasie (enon solo) dell’età adulta, vuol dire,in sostanza, affermare come possi-bile il fatto che la normalità si in-trecci alla bizzarria, alla paradossa-lità e alla stranezza di pratiche digodimento inconsuete.

Se dunquenon è sul piano esclu-sivo della sessualità (ovvero, dellesue eventuali deviazioni) che la per-versione può essere individuata,qual è il tratto specifico che la iden-tifica, qual è il carattere che segna-la la messa in funzione della logica

perversa? Il libro di Louise J. Ka-plan, Le perversioni femminili Le ten-tazioni di Emma Bovary, apparsoin America nel 1991 e recentemen-te ripubblicato da Raffaello Corti-na (pp. 346, e 25,00) è un tentativodi rispondere a questi interrogativie di situare la questione della per-

versione all’interno di unorizzontepiù ampio, svincolato dai claustro-fobici riferimenti ‘fallocentrici’ delmagistero freudiano: già la sceltadi occuparsi delle perversioni fem-minili indica, infatti, la condivisibi-le ambizione dell’autrice di smar-carsi dalle considerazioni freudia-

ne sulla perversione che, com’è no-to, essendo state elaborate a parti-re dalla pur straordinaria analisidel feticismo, si rivelarono capacidi intercettare il solo punto di vistamaschile sulla questione.

Daquesta prospettiva, il rinnega-mento della castrazione maternada parte del bambino (e il conse-guente allontanamento psichicodella minaccia relativa alla propriacastrazione) è considerato il fulcrodifensivo della logica perversa, chepunta alla messa in atto di unanuova realtà (quella del feticcio èla più celebre) da affiancare alla in-sopportabile percezione di una ca-strazione già avvenuta. Detto altri-menti, la perversione presupponeun atto difensivo dell’individuo difronte alla minaccia di una perditache, in questomodo, viene ripudia-ta: una minaccia che riguardereb-be la possibile perdita dell’organogenitale.

È facilmente intuibile come unatale eziopatogenesi sia calibratasulla psicologia maschile e quanto,di conseguenza, lasci aperto l’inter-rogativo sull’esistenza (o meno)della perversione nell’universofemminile, dove l’eventuale strate-gia perversa non avrebbe ragionedi svilupparsi dal momento chemanca la causaprima del suo inne-sco, ovvero il timore di perdere il

prezioso genitale (di cui, per l’ap-punto, il corpo della bambina èstrutturalmente sprovvisto).

Dunque, se non è l’organo geni-tale l’oggetto della perdita, qualeesperienza di perdita è necessariaa una donna perché reagisca rinne-gandola e strutturando quella spe-cifica modalità di relazione con ilmondo che qualifica la perversio-ne? Louise J. Kaplanpropone aque-sto riguardo un’ipotesi assai inte-ressante. La perdita ripudiata me-diante la strategia perversa è quel-la che la cultura fa valere per ogniessere umano forzandolo allaschiavitù di ruoli sessuali e di gene-re definiti dalle convenzioni socia-li. Per questo motivo – spiega l’au-trice – «di fatto le donne sono per-verse tanto quanto gli uomini».

Se questa è la prospettiva, allorale perversioni femminili si configu-rano come manifestazioni di com-portamenti che enfatizzano (finoalla caricatura) l’ideale femminiledi genere e che, patologicamente,assumono l’aspetto dell’ossessio-ne per la pulizia, dell’anelito all’in-nocenza, alla purezza e alla spiri-tualità e della docilità alla sottomis-sione. Automutilazioni, reiterati fal-limenti sentimentali, amplificazio-ni esasperate dell’identificazionealla donna-oggetto, rifiuto anores-sico del cibo, perdita del controlloe della propria autonomia, clepto-mania, utilizzo feticistico del bam-bino, sindrome della moglie ince-stuosa, sono tutte espressioni dellaperversione femminile intesa,nell’ottica della psicoanalista statu-nitense, come disperata fissazionea comportamenti la cui rigida ritua-lità – alla quale il soggetto non puòsottrarsi – è finalizzata a esorcizza-re l’angoscia sottostante.

Louise J. Kaplan spiega, a questoproposito, che la bambina (futuraperversa) è colei che, per attenuarelamortificazione narcisistica impo-sta dal modello sociale, finisce conl’accentuare determinati trattidell’ideale femminile dominanteesasperandoli fino al parossismogrottesco che caratterizza la teatra-lità perversa. Far credere di essereindifesa, ingenua, passiva, sofferen-te, rassegnata fino all’autodistruzio-ne diventa, così, l’inconsapevolestrategia perversa della donna checamuffa, con una talemessa in sce-na, la forza del desiderio inverso didominare, di penetrare, di prende-re il comando.

È evidente come l’analisi di Ka-plan intenda stabilire una strettaconnessione tra la psicopatologiafemminile e l’ordine sociale nelquale essa si sviluppa; una prospet-tiva che supera quella freudiana,con l’indubbio merito di sganciareil concetto di perversione dal riferi-mento esclusivo all’atto sessuale‘trasgressivo’; tuttavia, rileggendoil libro a più di vent’anni dalla suapubblicazione, in alcuni passagginon sembrapiù troppo convincen-te. Certo è che, come l’autrice la-scia intendere, le perversioni fem-minili si annidano nella rinuncia atrovare una risposta singolare, per-sonale, originale all’enigma intrin-seco all’essere una donna. E, dicontro, prevedonoun adeguamen-to allo stereotipo culturale che esi-ge conformismoe adattamento de-soggettivante: false soluzioni diiper-identificazione ai ruoli di fi-glia-madre-moglie che permetto-no di evitare il faticoso percorso diassunzionedella propria femminili-tà cui ogni donna è chiamata, nellapiù completa solitudine.

MATERNITÀ«LE MANI DELLA MADRE», L’ULTIMO SAGGIO DI MASSIMO RECALCATI PER FELTRINELLI

Cagnaccio di San Pietro, «Dopo l’orgia», 1928

di FRANCESCA BORRELLI

Da sempre la psicoanalisi hausato i suoi strumentiinterpretativi (spesso a mo’ digrimaldelli) per forzarel’emersione in superficie di veritànascoste in un testo letterario, opiù genericamente artistico; maquasi mai queste aperture diinteresse si sono riverberate suisuoi confini interni,contaminando l’autoreferenzialitàdel lessico che le è proprio ealterando significativamente i suoiorizzonti, a volte paradossalmentestretti. Proprio perciò, lasingolarità di un testo comequello scritto da Lorena Preta perMimesis, La brutalità delle coseTrasformazioni psichiche dellarealtà (pp. 133, e 14,00) ha uneffetto sorprendente: perchésembra procedere perassociazioni mentali e depositarlein un contenitore che, a sua volta,potrebbe agire come spaziogenerativo di decine di altri testi, e

la cui lettura si offre a prospettivepotenzialmente infinite: nonperché eviti di prendere posizioniincontrovertibili, né perché siindirizzi verso deriveermeneutiche incontrollate.Piuttosto, perché la suaintenzione di cogliere letrasformazioni in attonell’umanità del XXI secolo, e altempo stesso di provocarne altreoffrendo materiali in movimentoverso una loro definizione,consegna al libro il carattere diuna fabbrica di non finiti: informa di pensieri, frasi, azioniinterpretative in attesa di nuovialimenti, a nutrire il potenzialeesplicativo di una realtà sfuggente.Una realtà per la quale è statospesso invocato il carattere dellamutazione antropologica –categoria per la verità fuori luogofintantoché i requisititrascendentali della natura umananon vengono investiti – e che trale pagine di questo libro oscillapiuttosto verso la registrazione di

cambiamenti culturali importantie non ancora del tutto decifrati.Ciò che Lorena Preta si propone –lei che è una psicoanalista dadecenni impegnata nel convocare,in convegni scientifici e sullepagine della bellissima rivista«Psiche» che ha a lungo diretto, iprotagonisti più interessanti didiverse discipline – è un uso dellapsicoanalisi finalizzato a«attraversare il resto del mondo»;il che implica, prima di tutto,sottrarla al ruolo di oggetto didiscorsi contingenti, per farne unsoggetto attivo nella produzione dipensiero: «uno strumento perincontrare l’alterità». È tutt’altroche un caso, dunque, se il titolodel libro prende di peso le paroledi Francis Bacon in una delleinterviste che David Sylvester glifece tra il 1962 e il 1986. Nonsoltanto gli intenti trasformativi diquanto passa al vaglio della retina,ma l’intenzione dichiarata daBacon di «intrappolare la realtà inqualcosa di veramente arbitrario»,

funzionano per Lorena Preta datraccia ideale di una ricercaintenzionata a cogliere lepotenzialità trasformative deglistrumenti analitici, mentre simettono in moto. Tuttavia, iritratti di Bacon, e in generale glioggetti della sua pittura, puressendo il risultato di un «agiredeformativo», offrono anche unche di resistente, qualcosa che sioppone – in quanto inemendabile– al soggetto della pittura,esibendo un nucleo di realtà, dalquale il quadro si è generato, chesi propone come autonomamenteparlante. In modo analogo, lapsicoanalisi non è in grado, né èintenzionata a trasformare lasostanza che si offre al suo agireinterpretativo, ma può favorire«passaggi di stato», mentre altempo stesso prende atto dialterità non addomesticabili. Inquesta prospettiva, ciò a cuiconviene tendere – scrive LorenaPreta – è un lavoro su quelletrasformazioni che in analisi

consentono il passaggiodall’emozione al pensiero eviceversa, registrando lemutazioni in atto non comeconseguenze ma come condizionidi un atto trasformativo. Èevidente che alla psicoanalisi glioggetti interessano solo nella lororielaborazione da parte delsoggetto, perché ciò che è in giocoriguarda la ricerca del significato enon la ratifica dell’esistente.Questione che, peraltro, aprirebbeun capitolo – appena accennatonel libro e subito abbandonato, inquanto oggetto di fin troppespeculazioni – sulla distanza traverità narrativa e verità storica,distinzione già al centro di unfamoso saggio, datato 1982, diDonald Spence. La lettura cheLorena Preta propone dellosguardo analitico, mentre mettein guardia dalle tentazioni diassimilarlo a qualcosa diineffabile, ne mette in luce ilcarattere di «ascolto che sostanziale immagini e che allo stesso

tempo, facendo parlare l’invisibile,gli dà forma». Dunque, la brutalitàdelle cose evocata nel titolo dellibro va intesa non come allusionealla statica immutabilità delmateriale che si offre all’arte oall’analisi, ma come tensione chesi genera fra la resistenza dellecose e le sollecitazionitrasformative intriseche alprocesso pittorico, così come aquello psicanalitico. Ilpresupposto, in qualche modofoucaultiano, dal quale LorenaPreta avvia le sua considerazioni.vede «la nostra umanità» comeuna «costruzione»; e dunquecome qualcosa che dipende piùdai condizionamentistorico-sociali che dai suoirequisiti trascendentali: unaumanità che per giungere alla suaspecificazione ha bisogno«dell’incontro con un ambiente».Della singolarità del libro diLorena Preta fa anche parte laconvocazione, del tutto naturale(come volesse restituire la fluidità

che è propria dei passaggi delpensiero) di inserti a caratterenarrativo, tratti da casi clinici: unoparticolarmente interessanteriguarda sequenze di associazionimentali sulla maternità. Da unaparte l’analista, già incinta manon ancora in modo manifesto,dall’altra parte pazienti che sannopiù di quanto non vedono. Come«aruspici» in grado di leggere dapiccoli indizi ciò che si svolgenelle viscere dell’analista primache queste stesse viscere sigonfino e testimonino di unagravidanza iniziata, le pazientitraggono dallo scambio dicomunicazioni inconsce favoritedal setting ciò che la parolaancora tace. Di pagina in pagina,fra esempi presi da tutte le artiche sono state compagne familiarial percorso di vita dell’autrice,molte questioni vengono appenaevocate: fra queste, laresponsabilità dell’analista difronte al compito di mettere afrutto il tempo della allenza

terapeutica. Perché èfondamentale che l’analizzato sisenta non avvolto in una bolla chepoco ha a che fare con la vitavera, ma immerso in una trama dipensieri, suoi e dell’analista, che avolte si annodano altre volteslegano, direbbe André Green,matasse nevrotiche renitenti alprocesso trasformativo chel’analisi dovrebbe mettere inmoto. E, naturalmente, ilconfronto della psicoanalisi conl’accelerazione indotta dall’eratecnologica, impone nuove messea registro della nostra idea deltempo, che da una parte appare«divorato dal futuro», dall’altra«trattenuto dal passato». Unprocesso, questo, che hadeterminato già da molti anni,trasformazioni del disagiopsichico nelle quali si evidenzia il«decadimento della nostracapacità di simbolizzazione» avantaggio della tendenzacompulsiva a passare dal pensieroall’azione, dalla organizzazione

metaforica del sintomo alladisorganizzazione pulsionale.Individui sempre più oppressidalla drammatica percezionedella insensatezza intrinseca allaloro esistenza, marciano per lenostra strade a volte mascheratidietro quegli eccessi diadattamento sui quali si era giàconcentrata la psicoanalistaneozelandese Joyce McDougallquando affrontò il problema dellepersone che chiamònormopatiche, o ipernormali.Perché è questa (appenasorvolata dal libro di LorenaPreta, che evoca più di quantonon intenda didascalizzare) lafigura tipicamente ipermodernadell’individuo: uomini e donnepressati dagli appelli della societàtardocapitalista, che si rifugianonell’indifferenza emotiva e sinegano all’identificazione con glialtri, perché vedono nel propriopossibile coinvolgimento unintralcio alla loro capacitàperformativa.

di ROCCO RONCHI

Con il suo ultimo libro, Le ma-ni della madre Desiderio, fantasmied eredità del materno (Feltrinellipp. 90 e 16,00), Massimo Recalcatirisponde a una domanda che, comeracconta lui stesso, gli è stata soven-te rivolta in occasione dei tanti suoiinterventi pubblici dedicati al tema.La questione, come è noto, è quelladella progressiva «evaporazione delpadre» nell’epoca segnata dal domi-nio incondizionato del «discorso delcapitalista». Inevitabile, la domandanon poteva che riguardare il ruolo ela funzione della madre. Se del pa-dre resta infatti poco, quando lacompulsione al godimento illimita-to prende il posto della Legge, paro-diandola e corrompendola, cosa re-sta, nel nostro tempo, della madre?

Il paesaggio materno descritto dalclinico Recalcati è infatti per lo piùdesolante. L’immagine patriarcaledella madre votata al sacrificio e allarinuncia incondizionata, immaginecara alla cultura cattolica, ne risultascossa. Il suo tramonto segna l’asce-sa dimadri-coccodrillo che divoranoil figlio soffocandolo con un eccessodi cura, un eccesso che è solo il trave-stimento del godimento perverso eincestuoso;proliferanomadrinarcisi-stiche, generate dal ’68 e, soprattuttodal ’77 antiedipico, che alla rappre-sentazione patriarcale dellamaterni-tàhanno reagito conunprogramma-ticodisinvestimento libidiconei con-fronti dei figli, vissuti come ostacolialla loro realizzazione; e ci sono poile madri perennemente in fuga dallamaternità e lemadri-Medee che radi-calizzano questa fuga fino alla nega-zione violenta del figlio in nomedell’assolutezza del proprio deside-rio femminile.

Anche il desiderio ipermodernodi una maternità ottenuta fuoritempo massimo o coadiuvata tec-nologicamente non ne esce affattobene. Recalcati mette in luce quan-to c’è di oscuramente «proprieta-rio» nel «volere avere un figlio» atutti i costi, quasi che il tempo, l’at-tesa e, finanche la frustrazione,non fossero gli elementi strutturan-ti il desiderio materno.

Eppure, questo libro così durocon la versione ipermoderna dellamadre (e per niente tenero con lasua versione patriarcale) è ancheun tentativo di rendere giustizia al-lemadri. Il clinico Recalcati cede al-lora la parola al filosofo: alla feno-menologia della madre ipermoder-na subentra una metafisica dellamaternità: proprio questioni dime-tafisica sono intrinseche, infatti, al-la definizione di «una» madre. Nondella madre. La madre è infatti ilfantasma patriarcale che ha osses-sionato un tempo ormai fortunata-mente tramontato, quando si tratta-va di esorcizzare il desiderio femmi-nile in quanto ha di irriducibileall’ordine fallocratico. Recalcatinon è affatto indulgente con que-sta operazione, di cui percepiscetutta la violenza.

Unamadre è piuttosto ciò che re-sta dellamadre, dopo chequel fanta-sma è stato congedato e dissolto dal-la critica moderna. Ma il modello diquestamadre residuale èmolto anti-co. Una madre è Maria, la madre diGesù, che in ogni momento dellasua esistenza, dall’annunciazione al-la veglia ai piedi della Croce, esponeper simboli potentissimi ciò cheogni maternità è: il mistero di una

trascendenza assoluta che si coniu-ga inmodoparadossale conuna im-manenza altrettanto assoluta. Piùche Lacan, è Lévinas a fornire il filorosso per l’analisi che Recalcati pro-pone della maternità. In Totalità einfinito (del 1961), Emmanuel Lévi-nas aveva infatti colto nellamaterni-tà, che contrapponeva, unpo’mora-listicamente, alla frivolezza dell’ero-tico, il farsi carne di una trascenden-za senza ritorno.

Trascendenza significa accoglien-za dentro di sé di una alterità inassi-milabile: significa donare quello chenon si possiede e possedere quelloche eccede la nostra capacità di sop-portare. Ora, il desiderio di una ma-dre, quando non è guastato dalle pa-tologie ipermoderne, è – secondoRe-calcati – il desiderio di un altro persempre altro, il desiderio del figlio,appunto. Vale a dire di un essere chesi dà solonell’orizzonte della suaper-dita. Il figlio, infatti per definizione,cresce, si allontana, lascia la casa deigenitori. Il figlio desiderato è la pre-senza di un’assenza. Unamadre «sa-na» lo sa. Sa che lamancanza è l’aro-ma e la ragione del suo desiderio. Losapeva Maria che della maternità èl’icona. Non a caso, un grande temaiconografico della pittura occidenta-le è stato la raffigurazione di questosapere inconscio nel volto della Ma-donna che tiene tra le braccia il suobambinello. Un compito gravosissi-mo per il pittore devoto: il volto dellaMadre di Gesù doveva infatti essereassolutamente sereno e al tempostesso velato da una malinconia chenondoveva contraddire la sua sereni-tà di madre, semmai identificarsicon essa (!)

Il desiderio si fa propriamenteumano, scrive Recalcati, nascendonella distanza e nella distanza pre-servandosi. Ogni attentato portatoalla mancanza, ogni tentativo diriempirla con oggetti feticcio (ancheil figlio puòdiventarlo), è unaminac-cia al desiderio stesso, una sua per-versa rinaturalizzazione. Per Recal-cati lamaternità non è un fatto dellanatura.Di essa animali e piante nul-la sanno. Nella natura c’è riprodu-zione, c’è trasmissione di geni. Ilsenso dellamaternità umana è inve-ce sovrannaturale o metafisico. Per-tiene all’ordine simbolico e al pianodel linguaggio. Per questo Recalcati,nelle pagine forse più intense delsuo saggio, lascia trapelare l’ideache la maternità, in quanto faccen-da squisitamente umana e spiritua-le, sia sempre in ultima analisiun’adozione, che consiste in unpas-so fuori dalla necessità della naturae si risolve in una elezione – in undesiderio –– che si fa (almeno nellastragrande maggioranza dei casi)con imezzi della riproduzione natu-rale («il reale del sesso»)ma non vi siesaurisce. Ed è proprio su questopunto che si registra la massima di-stanza tra l’ipotesi ipercristianaavanzata da Recalcati in questo li-bro e la bioetica cattolica. Per il bioe-ticista cattolico, la vita che andreb-be difesa a priori da qualsiasi interfe-renza umana, si identifica con ilprincipio vitale stesso. Per lui la ma-ternità è sacra perché coincide conla riproduzione sessuata senza resi-dui di sorta. Per quanto questo pos-sa suonare strano, la metafisica cat-tolica della vita è unametafisica sfre-natamente materialista. Un grumodi cellule è la vita, la funzione ripro-duttiva è la madre. Di contro unamadre, per Recalcati è fenomeno es-senzialmente spirituale. Anzi, essa èl’ambito in cui lo spirito si generadalla natura: trascendenza nell’im-manenza. La domanda che si do-vrebbeporre a Recalcati – e che, for-se, le donne per prime dovrebberoporgli – riguarda allora questa alter-nativa: spiritualismo giudaico-cri-stiano / materialismo cattolico.

Ciò che resta della madre,nell’epoca del «discorso del capitali-sta», si esaurisce in questo dilem-ma? Non c’è per la madre, per ladonna, per il godimento femminile,un’altra interpretazione possibile,che sia immanente e materialistica,senza essere sacrale e ideologica?

RIEDITO A DISTANZA DI UN QUARTO DI SECOLO, IL SAGGIO DI LOUISE J. KAPLAN, «LE PERVERSIONI FEMMINILI»

PSICOANALISI

«La brutalitàdelle cose»:da Lorena Pretaipotesitrasformativesulle traccedi Francis Bacon

PERVERSIONIJulia Krahn, «Mutter», 2009

Iscritta nell’ordinedel linguaggio,la maternitàanalizzatada Recalcatiè riconducibile,più che a Lacan,al pensierodi Lévinas

Una prospettiva che superaquella freudiana, con il meritodi sganciare la perversionedal riferimento esclusivo al sesso

(8) ALIAS DOMENICA19 LUGLIO 2015

di GIUSEPPE FRANGIRANCATE

Isole di Brissago, 1950; Locar-no, 1987; Roma, 1987; Rancate,1993; Rancate, 2012. E ora Rancate2015.Nessun artista della compagi-ne caravaggesca è stato investitoda una simile compulsività esposi-tiva quanto Giovanni Serodine. Alpunto che, con un filo di autoiro-nia, i due curatori della mostraaperta alla Pinacoteca Züst di Ran-cate, Giovanni Agosti e JacopoStoppa, hanno titolato il loro sag-gio di catalogo «Un’altra mostra diSerodine». Da dove nasce l’idea ditornare sull’artista ticinese ad appe-na tre anni dalla mostra che nellastessa sede aveva curato RobertoContini? Nasce da una circostanzadel tutto occasionale: causa i lavorinella Parrocchiale di Ascona, lagrande pala con l’Incoronazionedella Vergine, capolavoro del Sero-dine, richiedeva un rifugio tempo-raneo. Che è stato trovato opportu-namente nella grande sala al pianoterra della Pinacoteca progettatadall’architetto ticinese Tita Carlo-ni. Una volta trovatasi in casa que-sta straordinaria tela, la direttricedella Pinacoteca,Mariangela Aglia-ti Ruggia, ha pensato che fosse op-portuno scovare qualche idea perdar rilievo a quella presenza. Cosìsi è rivolta alla «premiata ditta»Agosti-Stoppa che a Rancate avevagià curato la mostra sul Rinasci-mento ticinese, per avere qualchesuggerimento. E il suggerimento èandato nella direzione di fare la co-sapiù semplice e anchemeno «pre-suntuosa»: radunare tutte le operedel Serodine custodite nel Ticino afar da corona alla grande Pala asco-nese.Di qui lamostra che ha nel ti-tolo, come viene sottolineato in ca-talogo, solo un nome proprio euno stato in luogo: Serodine nel Ti-cino (sino al 4 ottobre).

Niente aggettivi, niente sottotito-li, niente enfatizzazioni, per unamostra che nel suo piccolo vuoleessere un po’ anche una sfida dimetodo, dalla campagna fotografi-ca realizzata ad hoc da ununico fo-tografo, Roberto Pellegrini, per ga-rantire riproduzioni nuove, di qua-lità e in particolare omogenee tradi loro; all’allestimento, realizzato(pro bono) da un’archistar comeStefano Boeri, sino al catalogo, digrande e affascinante sfogliabilità,pensato per esaltare l’impatto chela pittura di Serodine garantisce, etenuto aprezzi popolari. Perché sa-rebbe bello, ha detto la direttricedel museo alla conferenza di pre-sentazione, «che in ogni casa ticine-se ne entrasse una copia» (OfficinaLibraria,e 29,00). Nel catalogo, gra-zie anche al limitato numero diopere, trova giusto spazio il lavorodi schedatura, che si offre come uncompletissimo punto riepilogativoper quanto riguarda la storia e lastoria critica dei dipinti.

Unamostra quindi che non vuo-le essere altro che «una delocazio-ne temporanea in gradodi stimola-re a scrutinii ravvicinati». In questaprospettiva la scelta allestitiva hagiocato una funzione decisiva: leopere sono state tutte raccolte nel-la sala grande al piano terra, l’uni-ca in grado di accogliere i quattrometri della Pala di Ascona, e sonostate appese a pari altezza: così en-trandonell’ambiente, i cuimuri so-no stati tutti dipinti di nero, ci si

trova (finalmente…) a tu per tucon i fantastici santi che stanno aipiedi dell’Incoronazione, mentresi vedono «volare» le altre opere se-rodiniane. Salendo sul soppalcoche taglia a metà la sala, ci si trovainvece «immersi in un lago di Sero-dine» (Agosti e Stoppa nel saggio),con le opere che non solo avvolgo-no lo sguardo da ogni parte,ma so-prattutto si sono «abbassate» tuttea livello d’occhio, quasi invitando-ci a entrare nel loro spazio, o traci-mando con la loro pittura così im-pulsiva verso di noi. L’effetto èquello di una vera «installazione»

che esalta la pittura di Serodineche, come scrisse Longhi con unadelle sue intuizioni geniali e auda-ci, a volte produce l’effetto di «unacapsula di dinamite gettata in unfornello». Verrebbe da sostenereche è proprio questo effetto, que-sta natura un po’ incendiaria dellapittura di Serodine a tenere vivo eacceso tanto interesse sudi lui. Il te-ma non è quello di vederne antici-pazioni o parallelismi con artistiche stannobenoltre il suo tempo. Iltema piuttosto è quello di seguirecome Serodine abbia saputo usciredall’osservanza caravaggesca, tro-

vando una strada tutta sua, capacedi conciliare libertà e intimismo.

La biografia dell’artista ticinese èuna biografia piana, che non offrecolpi di scena. Il fattore che la con-trassegna è semmai opposto: un le-game forte con la famiglia, da cuiGiovanni non si stacca mai e cheseguepuntualmente inquesto con-tinuo pendolarismo tra Ascona eRoma. A Roma il padre Cristoforolavora nel campo dell’ospitalità edella ristorazione, e tiene in casacon sé i figli che pur si occupanod’altro. Quando nel 1625 muoionolamadre Caterina e il fratello Barto-lomeo, l’unico che seguiva il me-stiere del padre, i rapporti di Gio-vanni con il resto della famiglia sirinsaldano, in particolare con Lu-cia, la cognata rimasta vedova, dacui Serodine avrebbe avuto ancheun bambino, quel Giovan Battistache nel 1630 nominò erede di tuttisuoibeni. La famiglia entra conmol-tanaturalezzanel sistema iconogra-fico di Serodine. Non c’è solo il me-

raviglioso Ritratto del padre, cheGiuseppeRaimondi lesse come«ve-ra poesia del cuore» sulla via diCourbet, e in cui Roberto Longhicolse «una potente nostalgia dei la-ghi e dellemontagne lombarde» (inrealtà il quadro venne dipinto adAscona, come evidenzia l’indirizzodella lettera sulla sinistra della tela).C’è anche quella Sacra Famiglia, incui il padre, più giovane, posa co-me san Giuseppe, la cognata Luciapresta il volto aMaria,mentre il Ge-sù Bambino sarebbe proprio Gio-vanBattista, nato dalla relazione traGiovanni e la stessa Lucia.

Del resto questa mostra ha il sa-pore di un «ritorno a casa» di Sero-dine, non certo nel senso di una ri-vendicazione identitaria, che sareb-be davvero difficile immaginareper un artista che avevametaboliz-zato senza problemi l’universali-smo romano, ma semmai nel sen-so di un recupero su un piano sen-timentale. Non a caso una dellesorprese della mostra consiste inquel dettaglio scelto per una delledue copertine del catalogo (l’altracopertina è con la testa di quel bi-blico san Paolo della pala ascone-se, che ha la capigliatura spazzatadal vento: al visitatore sta la scel-ta). Vi si vede un dettaglio di pae-saggio della stessa pala, che sfug-ge, perché «bruciato» da tutta quel-la pittura al fulmicotone che lo cir-conda: è il dettaglio del Maggiache sembra adagiarsi nelle acquebludel LagoMaggiore, sottoun cie-lo intorpidito da nubi fuligginose.È come un fotogramma privatoche si incunea conmolta naturalez-

za all’interno di un contesto icono-grafico pienamente pubblico.

Che il rapporto tra Serodine e ilsuo territorio continui a funziona-re, lo dimostrano anche i due casicritici più interessanti proposti dal-la mostra. Il primo è il Cristo deriso,che è statodonatodaMirella Vivan-te Bernasconi alla Pinacoteca, pro-prio in occasione di questa mostra;il secondoè laTestadiRagazzo, pas-sata in asta aNewYork a gennaio diquest’annoe lasciata indeposito al-laPinacotecadal suoacquirente (ve-di articolo di Lea Vergine in questapagina). Sono due casi critici digrande interesse perché il loro rife-rimento a Serodine fa comprende-re meglio il profilo di un artista chenon si chiude mai dentro una solu-zione stilistica comecifradel suodi-pingere. La suauscita dall’osservan-za caravaggesca si consumaall’inse-gnadi una libertà e di un sperimen-talismo, che, come ha notato Ales-sandroBagnoli, hauna ricaduta an-chenelle soluzioni tecniche a cui ri-corre. Serodine infatti si prendevamolte licenze in materia. A volte ri-nunciavaallamestica, lapreparazio-ne gessosa sulla quale vengono ste-si i colori (come nel caso dell’Ele-mosina di San Lorenzo di Casama-ri). A volte invece la pittura è diuna consistenza aggressiva e quasiincendiaria, come accadenelmera-viglioso San Pietro che legge, che faparte delle raccolte della Pinacote-ca Züst. Sono dettagli che induco-no alla tentazione di farsi un filmsulla figura di Serodine, un irregola-re, un po’ dinamitardo, rimasto si-no all’ultimo sotto il tetto di papà.

IL GRANDE CARAVAGGESCO IN MOSTRA A RANCATE A CURA DI AGOSTI E STOPPA

DAL TICINO

di LEA VERGINE

Da quando Fabrizio Dentice, il prezioso collaboratore per lacultura de La Repubblica, mi portò a vedere la Pala di Ascona, e dopoaver letto la sua paginona sapida e appassionata su Serodine, questonome e questo dipingere mi rimasero in mente. Erano i primi anninovanta e la recensione – rarità sui nostri quotidiani, fu il primo eforse l’unico! – è rintracciabile in un piccolo libro edito da Archintonel 2009. Sono andata a vedere la mostra di Giovanni Agosti eJacopo Stoppa su Giovanni Serodine. Cerco solo, qui, di elencare ciòche mi ha più impressionato. Innanzitutto l’ombra di angoscia chespezia lo splendore di tante prelibatezze coloristiche. Lucentezzesoffocate e bagliori corruschi quando gli stralci di luci e di ombre siappigliano a un pezzo di carta o di muro o di stoffa o di peli dellebarbe o di una candela o di una gorgiera… È incredibile come unsegno pittorico intenso passi, spesso senza rompersi, dalla profonditàdegli scuri alla forza delle luci. La concretezza della forma è alterata dalcolore delle carni. Nella violenza dei contrasti, in quel reciprocourtarsi e ricomporsi nello spazio, è dato di vedere la forteanticipazione della personalità e della psicologia di Serodine. C’è ancheuna componente umana insolita e commovente: il tropismo per unanatura e per le figure dei santi, delle comparse, degli sgherri, dellaplebe attraverso un’esperienza di dolore. Ogni ritratto include unincantesimo e una tensione temeraria. Ci si chiede se davanti al Ritrattodi giovane disegnatore chi fosse veramente Serodine; e cosa dicesse alsuo amico Antiveduto Gramatica, ci si chiede che sentimenti nutrisseverso il padre… Scriveva Dentice: «La pittura di Giovanni era unpugno nello stomaco per gli amanti sia del decoro artistico che dellatradizione devota, e un impertinenza per il ceto ecclesiastico che,dispensando le commesse, pretendeva l’ottemperanza ai canonirassicuranti prescritti all’arte della Controriforma… infatti, non soloancor più del Caravaggio degradava i santi a barboni e personaggi dataverna, e la storia sacra a un florilegio di incontri fra poveri diavoli inambienti di ordinario squallore; ma vi aggiungeva di suo unaconcitazione, una violenza, una furia pittorica che sconcertavano».

L’occasione è il restaurodell’«Incoronazione» di Ascona,intorno a cui Stefano Boerirealizza un audace allestimento

Giovanni Serodine: «San Pietro che legge» (part.),Rancate, Pinacoteca Züst; in alto, dettagliodell’«Incoronazione della Vergine», Ascona, Parrocchiale

UN «IRREGOLARE» IN COMPAGNIA DI DENTICE

Le sue lucentezze soffocate:chi era davvero Serodine?

Volare con Serodinebuono e incendiario