Relazione La celebrazione tra corpo e trascendenza

15
1 Relazione La celebrazione tra corpo e trascendenza Prof. Giorgio BONACCORSO Istituto Liturgico-Pastorale di Santa Giustina, Padova Se vi è stata una sempre più marcata incomprensione della liturgia, ciò è dovuto anche al fatto che non si è più compreso lo stretto legame esistente tra il corpo e la trascendenza, tra le forme somatiche del rito e i contenuti teologici della fede. La trascendenza è universalmente riconosciuta come una dimensione inalienabile della fede, e, per altro verso, il corpo, soprattutto alla luce dell’incarnazione e della risurrezione, appare come una realtà tutt’altro che marginale per il cristianesimo. Ciò non toglie che per molti risulti difficile coniugare la trascendenza con la corporeità. E poiché il rito consiste fondamentalmente nel dire Dio attraverso la dimensione somatica nel suo complesso, per molte persone esso risulta decisamente problematico. Anche in un’epoca in cui si è insistito sul simbolo come l’unico linguaggio per esprimere la fede 1 , non si è sempre tenuto in dovuto conto il fatto che tale linguaggio è strettamente legato alla dimensione somatica così come viene vissuta nel rito. Non è facile, neppure per il credente di oggi, liberarsi da quella solida eredità che ha penalizzato il corpo, e implicitamente il rito: un’eredità che, per diverse vie, ha insistito sul fatto che l’accesso alla trascendenza, ossia l’accesso a Dio e agli altri, dovesse privilegiare i canali dell’anima e della mente. Una tale eredità, a mio avviso, ha prodotto una spiritualità debole, che finisce per promettere ciò che non è in grado di dare. Si può intraprendere una via diversa, tutt’altro che assente nella tradizione, recuperando le provocazioni del corpo, ossia le istanze verso la trascendenza che provengono dalla dimensione somatica dell’uomo. Sulla pista di queste provocazioni del corpo si possono rivedere le provocazioni del rito in ordine a una spiritualità effettivamente fondata sulla trascendenza, senza la quale non può esservi né amore a Dio né amore al prossimo. 1. UNA SPIRITUALITÀ DEBOLE La spiritualità che qui definisco debole è quella che si è andata costruendo sul primato della mente o dell’interiorità rispetto al corpo e all’esteriorità. Essa finisce per scivolare lentamente verso una chiusura immanentistica anche se continua a rivendicare un atteggiamento orientato alla trascendenza. La debolezza di tale spiritualità sta nel fatto che in essa si inscrivono due opposizioni: l’opposizione tra mente e corpo, e l’opposizione tra immanenza e trascendenza. 1 Tra i lavori più recenti si può vedere la monografia sull’opera teologica di L. Dupré: P.J. LEVESQUE, Symbols of Transcendence. Religious Expression in the Thought of Louis Dupré, Peeters Press, Leuven 1997.

Transcript of Relazione La celebrazione tra corpo e trascendenza

1

Relazione

La celebrazione tra corpo e trascendenza Prof. Giorgio BONACCORSO

Istituto Liturgico-Pastorale

di Santa Giustina, Padova

Se vi è stata una sempre più marcata incomprensione della liturgia, ciò è dovuto

anche al fatto che non si è più compreso lo stretto legame esistente tra il corpo e la

trascendenza, tra le forme somatiche del rito e i contenuti teologici della fede. La

trascendenza è universalmente riconosciuta come una dimensione inalienabile della

fede, e, per altro verso, il corpo, soprattutto alla luce dell’incarnazione e della

risurrezione, appare come una realtà tutt’altro che marginale per il cristianesimo. Ciò

non toglie che per molti risulti difficile coniugare la trascendenza con la corporeità. E

poiché il rito consiste fondamentalmente nel dire Dio attraverso la dimensione somatica

nel suo complesso, per molte persone esso risulta decisamente problematico. Anche in

un’epoca in cui si è insistito sul simbolo come l’unico linguaggio per esprimere la fede1,

non si è sempre tenuto in dovuto conto il fatto che tale linguaggio è strettamente legato

alla dimensione somatica così come viene vissuta nel rito. Non è facile, neppure per il

credente di oggi, liberarsi da quella solida eredità che ha penalizzato il corpo, e

implicitamente il rito: un’eredità che, per diverse vie, ha insistito sul fatto che l’accesso

alla trascendenza, ossia l’accesso a Dio e agli altri, dovesse privilegiare i canali

dell’anima e della mente. Una tale eredità, a mio avviso, ha prodotto una spiritualità

debole, che finisce per promettere ciò che non è in grado di dare. Si può intraprendere

una via diversa, tutt’altro che assente nella tradizione, recuperando le provocazioni del

corpo, ossia le istanze verso la trascendenza che provengono dalla dimensione somatica

dell’uomo. Sulla pista di queste provocazioni del corpo si possono rivedere le

provocazioni del rito in ordine a una spiritualità effettivamente fondata sulla

trascendenza, senza la quale non può esservi né amore a Dio né amore al prossimo.

1. UNA SPIRITUALITÀ DEBOLE

La spiritualità che qui definisco debole è quella che si è andata costruendo sul

primato della mente o dell’interiorità rispetto al corpo e all’esteriorità. Essa finisce per

scivolare lentamente verso una chiusura immanentistica anche se continua a rivendicare

un atteggiamento orientato alla trascendenza. La debolezza di tale spiritualità sta nel

fatto che in essa si inscrivono due opposizioni: l’opposizione tra mente e corpo, e

l’opposizione tra immanenza e trascendenza.

1 Tra i lavori più recenti si può vedere la monografia sull’opera teologica di L. Dupré: P.J. LEVESQUE,

Symbols of Transcendence. Religious Expression in the Thought of Louis Dupré, Peeters Press, Leuven

1997.

2

1.1. L’opposizione tra mente e corpo

L’antichità greca ci presenta filosofi molto sensibili alla realtà divina o all’ineffabile

“Uno” originario, e che hanno svalutato il mondo fisico e materiale. C’è, tra loro, chi,

come Plotino, si è anche vergognato di avere un corpo; per lui solo le realtà immutabili

della sfera ideale meritano la qualifica di “essere”, mentre la materia e il corpo

assomigliano di più al “non essere”2. Anche nell’ambito cristiano, nonostante la dottrina

dell’incarnazione e della risurrezione, la realtà somatica non ha goduto di molto

prestigio. «I corpi – scrive Agostino – non sono quello che noi siamo: dunque non si

deve nell’uomo cercare o desiderare il corpo»3. Ancora una volta siamo messi in

guardia dal congiungere troppo strettamente il corpo all’essere: i corpi non sono quello

che noi siamo4. L’aspetto più sorprendente è che, nonostante queste affermazioni, il

pensiero cristiano, nella sua lunga storia, ci presenta innumerevoli immagini fondate

sulla realtà corporea. Fin dalle origini e, in particolare, fin da Paolo, la stessa chiesa è

definita come corpo: il corpo di Cristo ricco di membra che collaborano alla sua

missione5. A ciò si deve aggiungere l’onore che la chiesa ha sempre riservato al corpo

dei defunti, specialmente a quello dei santi.

Come si spiega questo duplice atteggiamento che vede il corpo ora denigrato ora

onorato? La risposta sembra doversi ricercare nel fatto che il corpo viene preso in

considerazione sotto due prospettive molto diverse: a) come immagine o metafora; b)

come realtà fisicamente attiva. Quello che viene onorato ed esaltato è il corpo inteso

come immagine, come metafora per esprimere alcuni aspetti importanti della fede. In

molte società, oltre che nel cristianesimo, l’immaginario è costruito su simboli che

hanno un’attinenza più o meno stretta col corpo. In questi casi il primato è riservato al

pensiero che si serve del corpo per descrivere metaforicamente la realtà. Vi è, però, un

altro modo di intendere il corpo, e precisamente quello secondo cui esso, prima di essere

un’immagine di cui si serve la mente, è una realtà tangibile che svolge un ruolo decisivo

nelle relazioni intersoggettive, nelle istituzioni, nelle comunicazioni. Il corpo, cioè, è

soggetto attivo della convivenza umana6. Qui non è più in gioco l’immagine del corpo,

ma il corpo fisico nelle sue specifiche condizioni spazio-temporali; non è in gioco

neppure un corpo puramente passivo, oggetto di venerazione perché di un morto o di un

santo, ma del corpo attivo senza il quale non vi sarebbero né emozioni né

comportamenti. In altri termini, il corpo non è più solo un’immagine di cui si serve il

pensiero, ma un agente che condiziona il pensiero.

Questo duplice modo di riferirsi al corpo rende ragione della contraddizione

segnalata sopra. Può avvenire, infatti, che mentre si valorizza il corpo inteso come

immagine di cui si serve il pensiero, se ne sottovaluti la fisicità concreta, ritenendola

inferiore all’attività mentale. Il corpo, quindi, è accettabile solo quando è immagine

pensata della mente, ossia strumento iconico della conoscenza.

2 Cfr. PLOTIN, Ennéades, 3,6,6, ed. E. Brehier, Les Belles Lettres, Paris 1924-1967 (pp. 29-32).

3 AUGUSTINUS, De vera religione, 39,72, in Il maestro. La vera religione, tr. D. Bassi, SEI, Torino 1941.

4 Per una più ampia presentazione delle riflessioni filosofiche sul corpo cfr. B. HUISMAN - F. RIBES, Les

philosophes et le corps, Dunod, Paris 1992. 5 G. ROSÉ, Voi siete corpo di Cristo. Evoluzione storica: da san Paolo ai nostri tempi, Città Nuova, Roma

1986. 6 Cfr. D. LE BRETON, La sociologie du corps, Presses Universitaires de France, Paris 1994

2 (Que sais-

je?).

3

1.2. L’opposizione tra immanenza e trascendenza

Tutto quello che si è appena detto ha probabilmente una relazione profonda e

ambigua con la trascendenza. La trascendenza è l’attitudine ad andare verso ciò che è

altro da sé, vero l’al di là del proprio io; essa è il decentramento dell’ego, la

smobilitazione dell’egoismo. La tradizione ha spesso individuato nella conoscenza

quella specifica capacità umana che realizza il massimo dell’apertura all’altro: con

l’attività conoscitiva l’uomo si apre a tutto il mondo nelle sue più svariate dimensioni.

In tal modo l’anima e la mente, intese come sedi della conoscenza, assumono un ruolo

quanto mai centrale in ordine alla trascendenza. Basterebbe citare il procedimento

platonico che misura il cammino verso la realtà stabile che trascende questo mondo con

l’attenzione riservata all’anima.

Il pericolo da combattere, già in molti pensatori dell’antica Grecia, e soprattutto in

ambito cristiano, è l’immanenza, ossia l’attitudine a rimane entro questo mondo

fenomenico. Nel cristianesimo, inoltre, il pericolo dell’immanenza è anche quello di

rimanere chiusi in se stessi. L’immanenza è l’eliminazione dell’altro, in qualunque

forma esso si possa presentare. Da ciò deriva che i comandamenti fondamentali della

fede, l’amore a Dio e l’amore al prossimo, esigono l’attitudine alla trascendenza ed

escludono l’attitudine all’immanenza. Ma poiché la trascendenza è salvaguardata

soprattutto dall’anima e dalla mente, queste assumono un ruolo di primo piano nella

fede. La questione che, in tutta questa vicenda, rimane irrisolta è la reale capacità della

conoscenza, dell’anima o della mente di garantire la via della trascendenza.

Indubbiamente la conoscenza è l’apprendimento dell’altro; il pensiero è la condizione

grazie alla quale l’uomo può aprirsi a tutto ciò che lo circonda; l’anima è la cifra con cui

dire il respiro religioso del credente. Ma quando il pensiero e l’anima vengono intese

come sostanze autonome, il rischio è di fare gravitare tutto intono a esse; quasi senza

accorgersene si produce un nuovo tipo di immanenza. Se tutto ciò che esiste vale solo

come convalida del primato dell’anima, o come concetto partorito dalla mente,

l’attitudine alla trascendenza viene gravemente offuscato.

Non si può negare che la prevaricazione dell’anima sul resto dell’uomo appartenga a

una non piccola parte della tradizione cristiana; e non si può neppure negare che buona

parte della modernità abbia prodotto quel marcato razionalismo che ha posto la mente

come unica certezza, relegando tutto ciò che è esterno alla mente, compreso il corpo

umano, come realtà di cui si può sempre dubitare. Nell’ambito cristiano rimane

l’appello alla trascendenza divina, ma col rischio di ridurla a proiezione dell’anima e,

infine, della mente. In tutto ciò si sconta il peccato di avere abbandonato la materia e il

corpo. Quando tra l’anima e Dio si pretende di realizzare una relazione “troppo” diretta

e immediata, si finisce per giungere a un’identificazione piuttosto ambigua. Può trattarsi

di un’identificazione mistica, ma può anche rivelarsi come un supremo atto di ateismo,

in cui l’Altro, Dio, è totalmente assorbito dall’Io. Siamo, così, vicini a quel pensiero

moderno che tende a fare della res cogitans o dell’io penso il criterio unico a cui

sottoporre tutte le cose. Il pensiero, qui, è concentrato in se stesso: sicuro di se stesso,

dubita di tutto il resto. Esso non è più l’atto dell’apertura massima dell’uomo ma il

luogo in cui sostare prima di ogni contatto con l’esterno. Il pensiero diventa, così, la

condizione della massima immanenza.

In sintesi, l’insistenza sull’anima e sulla mente, intese come realtà sostanziali

autonome, può, sorprendentemente, favorire l’attitudine all’immanenza. Dico

4

sorprendentemente perché ciò che dovrebbe aprire l’uomo alla realtà nelle sue diverse

dimensione, si trasforma in un luogo isolato, anzi in un isolamento privo di luoghi. Il

percorso è allucinante: si sospetta della materia perché opposta allo spirito; si prendono

le distanze dal corpo come tentazione dell’anima; si percepiscono gli altri come

potenziali invasori della propria intimità. È difficile negare che vi sia uno stretto legame

tra il sospetto verso la corporeità e l’avanzare dell’individualismo: il corpo, infatti,

mantiene nell’orizzonte di quella trascendenza che valorizza l’individuo in rapporto con

gli altri.

Il corpo, però, chiede che venga preso in conto l’esteriorizzarsi come qualità positiva

dell’uomo. Nell’esteriorità si realizza l’attitudine alla trascendeza. L’interiorità, invece,

ha preso il sopravvento e l’attitudine all’immanenza si è fatta sempre più strada nel

cuore dell’uomo. Indubbiamente, almeno nell’ambito della spiritualità cristiana,

l’interiorità vorrebbe essere soprattutto quella del cuore, incentrata sull’amore e quindi

aperta all’altro nelle sue diverse forme. Il cuore e l’amore, però, vengono il più delle

volte ridotti alla dimensione etica che richiama l’uomo al principio di responsabilità

verso gli altri. A ben vedere, tutto nasce ancora una volta dalla mente che riconoscere

alcuni valori morali e li indica come norme di comportamento. Al centro è sempre l’io

penso che all’occorrenza si trasforma nell’io voglio. La spiritualità che ne nasce gravita

intorno all’io anche quando vorrebbe tendere all’altro. Per questo, a mio avviso, si tratta

di una “spiritualità debole”, che porta in grembo una contraddizione. Il fatto è che

l’interiorità dell’anima è troppo compromessa con l’autosufficienza della mente.

Occorre un’anima che, alimentandosi alle provocazioni del corpo, rimane aperta

all’altro e non smarrisce l’attitudine alla trascendenza.

2. LE PROVOCAZIONI DEL CORPO

La spiritualità che qui definisco forte è quella che evita di privilegiare l’anima, la

mente o la dimensione interiore, e volge l’attenzione al corpo e alla dimensione

esteriore, per riscoprire una via più sicura alla trascendenza, perché lontana dalle

contrapposizioni segnalate sopra, e attenta a quell’unità dell’uomo che non può smarrire

la dimensione somatica. L’importanza di non smarrire tale dimensione appare con

maggiore evidenza se si tiene presente che il corpo, in quanto materia, azione e

linguaggio, premunisce l’uomo dall’assorbimento nell’immanenza e lo abilita alla

trascendenza.

2.1. Il corpo come materia

Il primato accordato alla mente ci ha abituati a un altro primato: quello della

necessità logica e matematica. Se le realtà empiriche sono contingenti e mutevoli, i

concetti e i numeri elaborati astrattamente dalla mente sono immutabili e necessari: due

più due fa necessariamente quattro. Quando il mondo è letto esclusivamente in questa

prospettiva logica e matematica, appare come un meccanismo che funzione secondo

leggi rigide. Da ciò nasce quel meccanicismo che ha sequestrato le possibilità inedite

dell’universo e la stessa libertà dell’uomo. Il primato della necessità logica ha

5

impoverito le possibilità dell’esistenza. Il corpo, in quanto materia, riapre le porte a

queste possibilità e, contemporaneamente, decentra l’io inteso come mente.

2.1.1. La materia come possibilità del mondo

Una riflessione interessante sulla materia ci viene da E. Bloch7. Questo autore fa

osservare che quando la materia prende una qualche forma si ha una realtà definita,

come un albero, una roccia, un gatto. Un albero è una realtà definita perché non può

essere altro che un albero. Ma la materia che compone l’albero “potrebbe” comporre

altre cose, altre realtà. La materia è l’ambito o principio della possibilità, in cui la realtà

appare come il gioco tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. Così intesa la materia evita

la chiusura in un mondo già decifrato dalla mente, e avverte l’uomo che nel mondo

possono avvenire cose nuove, impreviste e imprevedibili. Grazie alla materia è data la

possibilità che avvenga qualcosa di veramente “altro”, di veramente “trascendente”,

rispetto a ciò che già esiste o meglio rispetto a ciò che si conosce già. È il divenire,

intrinseco alla materia, che dispone alla trascendenza.

2.1.2. La materia come decentramento dell’io

L’uomo esperimenta tutto questo nel proprio corpo. Il corpo, infatti, subisce le

dinamiche della materia, ossia è soggetto al divenire. Grazie al corpo l’uomo scopre in

se stesso quella dinamica della materia che dischiude le diverse possibilità del reale. Il

corpo, nel suo divenire, predispone l’uomo all’imprevedibile, e quindi a ciò che è

“altro” da ciò che pensava di essere e di avere. Grazie al corpo, l’uomo scopre l’alterità

in se stesso, scopre di non possedersi completamente e di non essere il centro

inamovibile dell’universo. L’io, in qualche modo, viene decentrato, perché si scorge

dipendente dal divenire della materia. L’evento in cui si mostra con più evidenza questo

decentramento dell’ego è la morte. Nella mortalità del corpo l’uomo si trova faccia a

faccia col non-essere, inteso come ciò che è radicalmente altro dall’io8. Non si tratta,

però, solo della morte. Qualsiasi evento che deve ancora accadere pone l’uomo nel

tempo, smobilitandolo dall’eterno e immutabile mondo ideale della mente. La cosa

decisiva è che in questo mondo ideale e immutabile l’uomo non potrebbe percepire il

tempo e, quindi, neppure l’“altro” che deve ancora venire; grazie al corpo, invece, il

tempo è reso possibile, e col tempo anche l’apertura all’altro, alla trascendenza. Così

come è reso possibile lo spazio, dato che il movimento nel tempo è sempre anche un

movimento nei luoghi e tra i luoghi. Possiamo, quindi, affermare che, grazie al corpo

come materia, l’uomo è condotto a decentrare il proprio io mentale e a dischiudersi a

quel tempo e a quello spazio nei quali incontra l’altro e la trascendenza.

2.2. Il corpo come azione

7 Cfr. E. BLOCH, Il principio speranza, 3 vol., Garzanti, Milano 1994. È noto il debito che alcuni teologi

hanno con questa prospettiva filosofica, cfr., soprattutto, J. MOLTMANN, Teologia della speranza.

Ricerche sui fondamenti e sulle implicazioni di una escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 1976; ID.,

L'avvento di Dio. Escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 1998. Si veda anche R. SCHAEFFLER,

Compimento del mondo o giudizio universale. Due rappresentazioni del fine della storia in religione e in

filosofia, in Apocalittica ed escatologia. Senso e fine della storia, ed. G. Canobbio, Morcelliana, Brescia

1992, pp. 104-112. 8 «Nella sua mortalità il corpo umano non si rapporta solo a una determinata terra e a un determinato

mondo, ma si rapporta anche al non-essere», cfr. D. VALLEGA-NEU, La questione del corpo nei “Beiträge

zur Philosophie”, in «Giornale di metafisica» 20 (1998) 235.

6

La materia ha evidenziato l’attitudine del corpo alla trascendenza, ma in un modo

che potremmo definire passivo. Vi è anche un modo attivo, ossia legato all’agire. Il

corpo percepisce la realtà che lo circonda e percepisce anche se stesso: in quanto

oggetto percepito, il corpo è ancora passivo, ma in quanto soggetto che percepisce esso

è, in qualche modo, già attivo. L’aspetto più rilevante, però, è che il corpo è attività in

un senso molto più ampio che il semplice percepire.

2.2.1. L’azione come apertura all’altro

Uno degli autori che hanno approfondito maggiormente il corpo come soggetto

percepente e agente è M. Merleau-Ponty9. Questo studioso fa osservare che il corpo

percepisce, non come uno strumento che riceve passivamente qualcosa della realtà, ma

come un attore che si muove verso la realtà. Il corpo percepisce agendo. L’azione è il

modo con cui il corpo percepisce. Fin da bambino, l’uomo è all’interno di questo

intreccio tra agire e percepire. Gli esperti parlano di combinazione senso-motoria10

che

condiziona il modo stesso con cui l’uomo conosce la realtà11

. L’uomo conosce la realtà

là dove fa l’esperienza dell’apertura, intesa come movimento e azione verso l’altro da

sé. Potremmo dire che nel corpo, sede del movimento e dell’azione, si consuma una

“trascendenza attiva”. Alla base di tale trascendenza attiva sta una duplice operazione

somatica.

La prima operazione somatica è la mimesis, l’imitazione della realtà; come è stato

osservato, «le cose vengono comprese “imitandole”, ma questo è possibile solo dopo

aver compiuto gli atti del vivente»12

. La seconda operazione somatica, è l’eros; l’amore

è per sua natura transitivo13

, ossia espone l’io al rapporto con l’altro da sé. La mimesis e

l’eros sono le azioni originarie con cui il corpo mostra la propria attitudine alla

trascendenza. Un’attitudine vissuta all’insegna non solo del sapere ma anche del potere.

Il corpo, agendo, svela che l’io è l’io-posso e non solo l’io-conosco: con le azioni

l’uomo non si limita a sapere ciò che esiste ma fa esistere ciò che ancora non è14

.

Inoltre, il corpo, imitando e amando, svela che l’io-posso non è prepotenza, ma

accoglienza e desiderio: con l’imitazione e l’amore l’uomo non manipola ciò che già

esiste ma collabora alla sua fecondità. In altri termini, se con la mente l’uomo può

sapere molte cose sulla vita, col corpo l’uomo può incrementare la vita. 9 Sul valore attivo del corpo nell’elaborazione dei significati ha scritto in modo geniale M. MERLEAU-

PONTY in Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965; La struttura del comportamento,

Bompiani, Milano 1963; Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano 1962; Segni, Il Saggiatore, Milano

1967. Per una panoramica del concetto di corpo nel pensiero filosofico moderno, cfr. W. SCHULZ, Le

nuove vie della filosofia contemporanea. III: Corporeità, Marietti, Genova 1988. Si vedano anche due

saggi illuminanti: U. GALIMBERTI, Il corpo, Feltrinelli, Milano 19892; S. SPINSANTI, Il corpo nella cultura

contemporanea, Queriniana, Brescia 19903.

10 Cfr. M. MERLEAU-PONTY, op. cit., p. 209.

11 Cfr. H. VON FOERSTER, Costruire una realtà, in La realtà inventata. Contributi al costruttivismo, ed. P.

Watzlawick, Feltrinelli, Milano 1988, p. 39. Il mondo non è semplicemente contemplato (oggettivismo)

né del tutto inventato (soggettivismo), ma conosciuto in una percezione attiva, ossia conosciuto in quanto

prodotto. Questa teoria gnoseologica, che supererebbe il cognitivismo classico in favore dell’enazione,

afferma due cose fondamentali: «(l) la percezione consiste in un’azione a sua volta guidata dalla

percezione e (2) le strutture cognitive emergono dagli schemi sensomotori ricorrenti che consentono

all’azione di essere guitata percettivamente», F.J. VARELA - E. THOMPSON - E. ROSCH, La via di mezzo

della conoscenza. Le scienze cognitive alla prova dell’esperienza, Feltrinelli, Milano 1992, p. 206. 12

A. ZHOK, Fenomenologia e genealogia della verità, Jaca Book, Milano 1998, p. 37. 13

Cfr. V. MELCHIORRE, Metacritica dell’eros, Vita e Pensiero, Milano 1977, p. 10. 14

Cfr. P. RICOEUR, Semantica dell’azione. Discorso e azione, Jaca Book, Milano 1986, pp. 63-64.

7

2.2.2. L’azione come avvento dell’altro

La trascendenza attiva, resa possibile dal corpo e dalle sue azioni, è

fondamentalmente un incontro, ossia il movimento col quale io mi faccio attivamente

presente all’altro. L’altro, però, a sua volta, è attivo, ossia si muove verso di me, mi

viene incontro. L’azione con cui io vado verso l’altro si congiunge con l’azione con cui

l’altro viene verso di me. Si realizza, così, quella inter-azione che qualifica la

trascendenza attiva non solo dal punto di vista dell’io ma anche dal punto di vista

dell’altro, come ha messo in evidenza E. Levinas15

. La trascendenza attiva dal punto di

vista dell’altro è fondamentale, perché consente all’io di cogliere la realtà come un

essere raggiunto dall’altro, come l’avvento dell’altro. L’incontro con ciò che è al di là

del mio io non dipende solo dalla percezione e azione del mio corpo ma anche

dall’azione del corpo dell’altro. L’esempio ormai classico è quello del volto: nel volto

l’altro è libero di proporre la propria identità al di là di quello che io posso attribuirgli.

Ciò porta a una conseguenza importante. Se il corpo attivo, ossia il corpo in quanto

azione, di cui si è trattato prima, evidenziava il valore del potere rispetto al sapere, ora

l’altro attivo, che viene a me con la libertà delle sue azioni, mi rivela che il potere non è

l’esclusiva del mio io. Viene così esclusa ulteriormente ogni via alla pre-potenza dell’io.

La pre-potenza è smentita dal fatto che l’io non pre-cede l’altro, ossia non può definire

l’altro prima che l’altro stesso si sia presentato nell’originalità e singolarità del suo volto

e delle sue azioni. L’azione, qui, non è solo potenza dell’io che si muove verso l’altro,

ma anche l’avvento dell’altro che si svela all’io. L’azione è inter-azione, ossia entrambe

le cose: movimento dell’io verso l’altro e movimento dell’altro verso l’io. Il corpo è il

luogo di tale interazione e quindi il luogo dell’apertura e dell’avvento insieme.

2.3. Il corpo come linguaggio

Il corpo, agendo, si esprime, ossia produce linguaggio, anzi produce molteplici

linguaggi nei quali è consegnato il significato delle azioni. All’inter-azione si

accompagna, così, lo scambio linguistico, ossia la comunicazione, in cui le azioni sono

portatrici di senso. Parlando, cantando, indicando, disegnando, il corpo consegna e

riceve senso dall’altro, rivelando la natura profonda dell’uomo.

2.3.1. Il linguaggio come comunicazione

Un autore, tempo fa, ha osservato che il corpo è sempre meno affidato alla natura e

sempre più alla medicina: «Più che mai, il corpo è un prodotto sociale!»16

. Il riferimento

alla medicina consente di mettere in evidenza un aspetto importante. Nei sintomi del

malato il corpo manifesta dei disagi a cui la medicina tenta di porre dei rimedi. Il corpo,

quindi, si esprime, invia dei segnali (dei sintomi), possiede un linguaggio; inoltre esso

risponde ai segnali (alle cure), comprende il linguaggio del medico che interviene

contro la malattia. Questo non stupisce se si tiene presente che qualsiasi forma

espressiva, qualsiasi tipo di linguaggio, è reso possibile dal corpo. Il linguaggio, infatti,

è il pensiero consegnato alla dimensione somatica dell’uomo. È questa consegna,

inoltre, che redime il pensiero dall’isolamento rendendolo comunicabile agli altri. Il

linguaggio, reso possibile dal corpo, costituisce l’unica via con cui i contenuti del mio

15

Cfr. E. LEVINAS, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1980. 16

L.-V. THOMAS, Gestione di vita, gestione di morte, in La morte oggi, Feltrinelli, Milano 1985, p. 127.

8

pensiero possono confrontarsi con i contenuti del pensiero degli altri. Ma vi è di più. Io

imparo a pensare proprio perché, grazie al linguaggio, gli altri (i genitori, i parenti, gli

amici, i colleghi, i mass media, ecc.) mi comunicano le trame del pensiero, così come

essi si danno in una determinata cultura e società. Il linguaggio e il corpo che lo rende

possibile diventano così il luogo della condizione sociale e culturale.

A questo punto, l’affermazione secondo cui il corpo è sempre più un “prodotto

sociale” deve essere ridimensionato con l’affermazione secondo cui la società è un

“prodotto del corpo”. Allo stesso modo, la convinzione, molto diffusa, secondo cui

l’uomo comprende gli altri perché è una mente pensante deve essere corretta col fatto

che l’uomo comprende perché è un corpo comunicante. E ciò non solo perché grazie al

linguaggio comunica il pensiero elaborato dalla mente, ma anche perché grazie al

linguaggio viene educato a pensare. In tal modo, nel linguaggio il pensiero si trascende,

e trascendendosi si ritrova. Se ci volessimo esprimere in un altro modo, potremmo dire

che il pensiero non esiste come mente solitaria, ma come comunicazione

intersoggettiva, come atto di trascendenza verso l’altro. Il linguaggio come

comunicazione, reso possibile dal corpo, mostra ancora una volta l’attitudine del corpo

alla trascendenza, e la mostra in un modo che potremmo definire policromatico. Vi

sono, infatti, molti tipi di linguaggi, verbali e non verbali, grazie ai quali l’atto di

trascendenza del corpo può percorrere molteplici strade e con diversa intensità.

2.3.2. Il linguaggio come rivelazione

Il pensiero, isolato in se stesso, tende indubbiamente a ciò che lo circonda, tende

all’altro da sé; ma è una tendenza incompiuta finché il corpo non gli consente di parlare,

di indicare, di cantare, di disegnare. Il pensiero può desiderare di trascendersi ma non

può compiere l’atto di trascendenza finché non si consegna al linguaggio. Il pensiero

può immaginare l’altro ma non può incontralo come è veramente finché l’altro non gli

dice se stesso. Il linguaggio, quindi, non è solo il modo con cui dire la realtà e

comunicare agli altri ciò che si pensa e ciò che si sente, le idee e i sentimenti. Il

linguaggio è anche ciò grazie a cui l’altro può dirsi, può svelarsi. Se con l’azione si ha

l’avvento dell’altro, di cui si è detto sopra, col linguaggio si ha la rivelazione dell’altro.

L’aspetto più importante, però, è dato dallo stretto legame che c’è tra l’esprimere,

che è la caratteristica di ogni linguaggio, e l’esistere. “Esprimere” (ex-primere), infatti,

significa “premere fuori”, manifestare ciò che è dentro portandolo all’esterno; ed

“esistere” (ex-sistere) significa “stare fuori”, uscire all’aperto, abbandonando il luogo

chiuso dello stare in se stesso. L’esistenza è un esodo, un trascendimento, e il

linguaggio, in quanto espressione, mi testimonia questa natura esodale dell’esistenza. Il

linguaggio non è solo il luogo di comunicazione con e dell’altro, ma anche il luogo di

rivelazione della natura profonda dell’esistenza. Se tutto questo è vero, il corpo,

condizione inalienabile del linguaggio, è luogo di rivelazione dell’esistenza, intesa come

esodo, come trascendenza. Appare, qui, un fatto troppe volte dimenticato, soprattutto

nel passato. Il fatto, cioè, che la trascendenza, anche nella forma della rivelazione, è

legata alla dimensione somatica: corpo e trascendenza sono quanto mai uniti nell’atto di

rivelazione dell’esistenza, ma anche nell’atto di rivelazione di Dio.

9

3. LE PROVOCAZIONI DEL RITO

L’incarnazione non è solo un contenuto della rivelazione divina ma il modo con cui

questa rivelazione può avvenire. Se la rivelazione di Dio è la manifestazione di

qualcuno che è “altro” da coloro a cui si manifesta, se la rivelazione di Dio è un atto di

trascendimento ossia di movimento di Dio verso l’uomo, e se, infine, la rivelazione di

Dio implica la fede dell’uomo che è a sua volta un atto di trascendimento ossia di

movimento dell’uomo verso Dio, allora la rivelazione di Dio e la fede dell’uomo

avvengono inevitabilmente nel corpo. Non nell’idea o nell’immagine (metaforica) del

corpo, ma nel corpo fisico reale, fatto di materia, di azioni e di linguaggi. A questo

punto, però, occorre fare un passo ulteriore. Il corpo è la condizione di qualsiasi

possibile trascendenza; ma perché tale trascendenza abbia le caratteristiche religiose di

una rivelazione divina, il corpo deve essere orientato. Qui interviene il rito che

organizza la materia, l’azione e il linguaggio in modo da orientarli a quella trascendenza

di tipo religioso che nella fede cristiana coincide col mistero del Dio rivelatosi in Gesù

di Nazaret. Lo stretto legame tra il rito e il corpo, tra la celebrazione liturgica e la

dimensione somatica17

, dischiude il cammino verso la trascendenza di tipo religioso e

cristiano. Poiché non si tratta di una trascendenza pensata ma vissuta, il termine, forse,

più indicato per esprimerla è la “vita”: una vita ricevuta nel rito che si riferisce al corpo

come materia (prospettiva ecologica); una vita trasmessa nel rito che si riferisce al

corpo come azione (prospettiva etologica); una vita espressa nel rito che si riferisce al

corpo come linguaggio (prospettiva semiologica).

3.1. Il rito e la materia: la vita ricevuta (prospettiva ecologica)

La celebrazione liturgica, ricorrendo alla materia e organizzandola ritualmente, si

muove sul presupposto che la fede non è, in primo luogo, un insieme di contenuti

dottrinari, ma un’esperienza religiosa all’interno della quale quei contenuti hanno

senso18

. L’esperienza di fede, però, non può essere puramente interiore, perché si muove

nell’orizzonte della testimonianza: l’esperienza del Dio di Gesù Cristo, l’esperienza

pasquale, non è data senza una qualche condivisione di ciò che è già avvenuto in altri

uomini che testimoniano la propria fede. L’interiorità della fede è inscindibile

dall’esteriorità della sua testimonianza. Per questo la liturgia ricorre all’esteriorità della

materia, all’esteriorità degli elementi naturali che compongono l’ambiente in cui l’uomo

può vivere19

.

3.1.1. L’ambiente rituale come appartenenza alla fede

Quando si parla di corpo non si può dimenticare che esso è una realtà situata in un

contesto particolare, in cui gli è data la possibilità di vivere. La vita è una possibilità: la

17

Cfr. J.-Y. HAMELINE, Le culte chrétien dans son espace de sensibilité, in «La Maison-Dieu» 187 (1991)

7-45; P. DE CLERCK, L’intelligenza della liturgia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, pp.

29-55. 18

«“L’esperienza religiosa viva come unico metodo legittimo per conoscere i dogmi”: ecco l’intento di

questo libro. [...] Solo attraverso l’esperienza immediata è possibile scorgere e valutare i tesori spirituali

della chiesa», P. FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento della verità, Rusconi, Milano 1998, p. 35. 19

Si vedano le interessanti considerazioni presenti in J. MOLTMANN, Dio nella creazione. Dottrina

ecologica della creazione, Queriniana, Brescia 1986.

10

possibilità di essere accolti dall’ambiente che ci circonda. Se si tiene presente che

nell’universo vi sono infiniti luoghi inabitabili, appare chiaro che la vita è

fondamentalmente una possibilità ambientale. L’antica tradizione ebraica ha fatto di

questa possibilità uno dei suoi temi centrali. Si pensi alla sua narrazione più importante

che vede il popolo eletto incamminato verso la terra promessa, verso una terra fertile

dove scorre latte e miele. La vita è una promessa che nasce, si sviluppa e si compie in

riferimento a una terra, a un ambiente. La liturgia mantiene fede a questa prospettiva,

ricorrendo ai diversi elementi naturali, all’acqua, al frumento, alla vite, al fuoco, ma

anche al sole e alle stagioni. Il battesimo non esiste senza acqua e l’eucaristia non esiste

senza frumento; né il natale e la pasqua esistono senza il sole e il ciclo annuale. In tal

modo la fede mantiene un contatto strettissimo con ciò che l’uomo sperimenta come

vita e, soprattutto, come vita garantita dall’ambiente, come vita ricevuta. Questo è

l’aspetto più evidente della prospettiva ecologica della liturgia: mantenere la fede

nell’orizzonte di una vita ricevuta dall’ambiente, ossia da ciò che si abita, da ciò a cui si

appartiene. La vita è un appartenere a qualcosa come la fede è un appartenere a

qualcuno. Il rito lega l’appartenenza vitale all’ambiente con l’appartenenza salvifica alla

fede, o, meglio, al Dio della fede.

3.1.2. L’ambiente rituale come presenza nella fede

Se l’appartenenza all’ambiente è qualcosa di vitale per l’uomo, allora l’ambiente

viene percepito come ciò che si prende cura dell’uomo, come ciò che è presente

all’uomo. Questo nella liturgia è particolarmente marcato, dato che gli elementi naturali

utilizzati sono tutti in funzione del bene dell’uomo. La presenza di cui qui si parla è

quella esistenziale: la presenza è ciò che si oppone all’indifferenza. Il cosmo, con le sue

componenti, non è indifferente all’esistenza umana; nel rito, il cosmo si occupa, si

interessa dell’uomo facendogli percepire la sua presenza vitale. In questa trama rituale

del prendersi cura e dell’essere presente l’uomo percepisce una simbologia sempre più

ampia in cui finisce per cogliersi come credente che vive alla presenza di colui in cui

crede. Nella celebrazione liturgica la presenza dell’ambiente all’uomo, consente al

credente di sperimentare la fede come presenza di Dio, e come presenza da cui si riceve

la vita. L’aspetto centrale è sempre quello del primato dell’esperienza sulla semplice

considerazione teorica e dottrinaria. La presenza di Dio come di colui da cui si riceve la

vita si mantiene nell’ordine dell’esperienza a condizione che i simboli da cui si parte per

dirla siano essi stessi fondati su un’esperienza, e precisamente sull’esperienza ecologica.

Potremmo affermare che il rito dischiude l’esperienza della trascendenza divina, sotto il

profilo della vita ricevuta, mantenendo il legame con la dimensione ecologica del corpo.

3.2. Il rito e l’azione: la vita trasmessa (prospettiva etologica)

Il corpo, nel suo processo vitale, non si limita a stare in un ambiente ma compie delle

azioni con le quali trasforma l’ambiente. La dimensione ambientale, o ecologica, si

incrocia con la prospettiva comportamentale, o etologica. È l’incrocio che, più di ogni

altro, è alla base dei riti religiosi e che consente ai medesimi di essere non solo luoghi in

cui si riceve la vita ma anche luoghi in cui si trasmette la vita.

11

3.2.1. L’azione rituale come efficacia della fede

Se riflettiamo sulle caratteristiche della vita ci accorgiamo immediatamente che essa

si configura come il movimento con cui il corpo passa da una condizione a un’altra:

bambino, adolescente, adulto, anziano, sono le fasi fondamentali dell’esistenza che

vengono aperte e chiuse da quei momenti altamente drammatici che sono la nascita e la

morte. Si tratta di fasi e momenti che il corpo in parte subisce ma in parte realizza,

perché costruisce ambienti per ripararsi, cuoce cibi per sfamarsi, procrea per non

estinguersi, si cura per non soccombere. La componente attiva del suo rapporto con la

vita, però, rimane sproporzionata rispetto a ciò che egli vede accadergli intorno: le sue

azioni non compensano gli eventi vitali e, soprattutto, quello finale della morte. Egli

ricorre, così, ad altre azioni, del tutto peculiari, che lo mettono in sintonia con gli eventi

vitali di cui non può disporre. Si tratta di azioni simboliche: in quanto azioni tendono a

compiere qualcosa e in quanto simboliche rimandano a eventi e azioni che l’uomo da

solo non può porre. Il rito è fatto di tali azioni simboliche. E proprio perché fatto di tali

azioni simboliche, il rito partecipa a ciò che solitamente trascende le capacità

dell’uomo, ossia a quella potenza che rende possibile la vita20

. Questa possibilità e

capacità del rito è ciò che lo rende efficace.

Nell’ambito del cristianesimo, la liturgia è sacramentalmente efficace. Grazie alla

celebrazione liturgica, infatti, la fede, come insegna Sacrosanctum Concilium (n. 6), non

è solo annuncio e condivisione degli eventi salvifici, ma anche attuazione di tali eventi.

Tutto ciò sarebbe irrealizzabile se il rito non coniugasse strettamente la fede al corpo.

La concentrazione sul corpo, quindi, evidenzia in modo del tutto particolare l’efficacia

rituale e sacramentaria, in cui non ci si affida solo all’“intenzione” della comunità

credente ma anche all’“azione” dell’assemblea celebrante21

. Gli eventi storico-salvifici,

20

Il termine che spesso si usa per indicare questa potenza sacra è il mana, mutuato dalla religione

melanesiana, cfr. K.O.L. BURRIDGE, Le religioni dell’Oceania, in Storia delle religioni. VI: I popoli senza

scrittura, ed. H.-C. Puech, Laterza, Roma-Bari 1978, p. 133. Per la nozione di forza o potenza sacra, cfr.

anche G. VAN DER LEEUW, Fenomenologia della religione, Boringhieri, Torino 1975, p. 8; G.

WIDENGREN, op. cit., p. 76; E. DAMMAN, L’Africa. Le religioni naturistiche: Mito, Totemismo, Riti di

passaggio, Culture, Arti. Ebraismo, Cristianesimo e Islamismo in Africa, Jaca Book, Milano 1985, pp.

10-14; S. MORENZ, Gli egizi, Jaca Book, Milano 1983, p. 15; A. HULTKRANTZ, Le religioni degli Indiani

d’America, in Storia delle religioni. VI: I popoli senza scrittura, ed. H.-C. Puech, Laterza, Roma-Bari

1978, pp. 166-170. Il senso della potenza sacra è presente anche nelle popolazioni dell’India, cfr. J.

GONDA, Le religioni dell’India. Veda e antico Induismo, Jaca Book, Milano 1981, p. 61. La religione

vedica, come quella induista in genere, è tutta concentrata sul brahman, inteso come potenza soprannatu-

rale e forza cosmogonica, cfr. F. VARENNE, La religione vedica, in Storia delle religioni. IV: India, Tibet

e sud-est asiatico, ed. H.-C. Puech, Laterza, Roma-Bari 1977, p. 43. E se il brahman è la potenza sacra

dell’universo, del macrocosmo, l’atman è la potenza sacra del microcosmo, dell’uomo, cfr. id., p. 44. Il

legame tra il brahman e l’atman è così stretto che i guru insegnano ai loro adepti il modo di abbandonare

le vecchie divinità e riconoscere che il proprio atman è identico al brahman, cfr. F. VARENNE, L’Induismo

contemporaneo, in Storia delle religioni. IV: India, Tibet e sud-est asiatico, ed. H.-C. Puech, Laterza,

Roma-Bari 1977, p. 173. L’antica religione cinese ci presenta il “dio del Cielo” come la potenza

regolatrice dell’universo, cfr. M. KALTENMARK, Religione della Cina antica, in Storia delle religioni. V:

Cina e Giappone, ed. H.-C. Puech, Laterza, Roma-Bari 1978, p. 22. Si pensi anche al kami della religione

giapponese più antica, cfr. H. O. ROTERMUND, Le credenze del Giappone antico, in Storia delle religioni.

V: Cina e Giappone, ed. H.-C. Puech, Laterza, Roma-Bari 1978, p. 248. Nelle grandi religioni monoteisti-

che quella potenza si identifica col Dio unico. Nel Corano, per es., Allah viene chiamato il Dio potente

per più di ottanta volte, cfr. T. FAHD, Islam e sette islamiche, in Storia delle religioni. II: Giudaismo,

Cristianesimo e Islam, ed. H.-C. Puech, Laterza, Roma-Bari 1977, p. 887. 21 La controprova di questa affermazione è costituita dallo stretto legame che, nelle diverse religioni,

viene stabilito tra l’effetto desiderato, ossia l’efficacia del rito, e la sua esatta esecuzione, cfr. G.R.

12

e in particolare la pasqua di Cristo, sono la vita divina che oltre a essere accolta viene

anche trasmessa.

3.2.2. L’azione rituale come comunitarietà della fede

L’efficacia rituale della liturgia e dei sacramenti non può prescindere dalle due

coordinate fondamentali che caratterizzano un rito: la differenza e la relazione. Un rito

non è tale se non si comporta in modo inedito rispetto agli altri comportamenti sociali:

la sua prima caratteristica è la sua radicale differenza, il suo porsi come “altro” rispetto a

ciò che lo circonda. Proprio perché è tanto differente da avere quasi qualcosa di strano

rispetto al vissuto quotidiano, il rito rimane aperto e apre alla più radicale delle

differenze: la differenza di Dio, che è quanto dire l’alterità, la trascendenza di Dio.

Come la parola di Dio non può essere omologata alle parole umane, così le azioni di

Dio non possono essere omologate alle azioni umane. Per questo esistono una “sacra

scrittura” e un’“azione rituale”, entrambe umane, in quanto scrittura e azione, ma

entrambe anche più che umane in quanto sacra e rituale. Le azioni assunte nella liturgia,

e quindi il corpo assunto nella liturgia, sono, così, strettamente connesse all’alterità e

trascendenza divina.

A questo punto occorre precisare che le azioni rituali sono aperte alla trascendenza

non solo per la loro differenza ma anche per la relazione che instaurano. Le azioni

rituali vengono compiute concretamente dai singoli membri dell’assemblea celebrante:

ora dal presbitero, ora da altri ministri, ora da tutti i singoli partecipanti. Si tratta di

azioni che ognuno compie non perché è sicuro di poterne verificare l’effetto in modo

tangibile: sebbene le azioni rituali siano tese all’ottenimento di un beneficio spirituale e

talvolta anche materiale, esse si continuano a compiere anche quando tali benefici non

vengono verificati e anche quando non sono verificabili. Nel rito, l’unica verifica

dell’azione che ognuno compie è l’azione dell’altro o degli altri. Nella liturgia ognuno

sa di poter contare sulla collaborazione dell’altro al di là delle verifiche sull’effetto che

tali azioni possono avere. L’efficacia del rito è anzitutto quella di istituire una comunità,

ossia un’assemblea di individui che misurano le proprie azioni non sugli effetti ma sulla

condivisione22

. Ed è per questo che la comunità riunita è il luogo in cui si trasmette

veramente la vita divina. Così viene a istituirsi quella situazione intersoggettiva e

interattiva che prende il nome di corpo mistico, di corpo di Cristo o corpo ecclesiale:

l’eucaristia è l’una e l’altra cosa insieme.

3.3. Il rito e il linguaggio: la vita espressa (prospettiva semiologica)

Le azioni che si compiono nella celebrazione liturgica non sono poste a caso né

occasionali. Esse si inquadrano in quella che potremmo chiamare una grande semiosi,

ossia una complessa rete e sequenza di segni che dischiudono un intero mondo di

significati. I segni o linguaggi presenti nella liturgia sono dei più diversi tipi: la rete

CASTELLINO, Introduzione, in Testi sumerici e accadici, UTET, Torino 1977, p. 25. Vedi anche J.-P.

LALEYE, op. cit., pp. 290-291; G. WIDENGREN, op. cit., pp. 331-333. 22

L’efficacia dei riti ha inevitabilmente una dimensione sociale, dato che essi, per lo più, declinano il

passaggio degli individui da una condizione a un’altra all’interno della comunità. Si vedano, su questo

argomento, alcune ricerche di V. TURNER: La foresta dei simboli. Aspetti del rituale Ndenbu, Morcelliana,

Brescia 1976, pp. 123-142; Il processo rituale. Struttura e anti-struttura, Morcelliana, Brescia 1972;

Simboli e momenti della comunità. Saggio di antropologia culturale, Morcelliana, Brescia 1975.

13

rituale in cui essi sono organizzati li rende disponibili a testimoniare la trascendenza di

Dio.

3.3.1. Il linguaggio rituale come accoglienza della fede

La prima osservazione riguarda il fatto che nella liturgia cristiana, come nei riti

religiosi in genere, intervengono quasi tutti o almeno i principali linguaggi umani.

Questo significa, anzitutto, che il corpo è preso in tutte le sue capacità espressive: la

parola e il gesto, la musica e il canto, lo spazio e il tempo, la raffigurazione e

l’abbigliamento, il tatto e l’odore. Nell’azione rituale il credente viene coinvolto in tutte

le sue dimensioni umane, e, quindi, la fede viene estesa a tutto l’uomo. E l’uomo è, per

così dire, colto di sorpresa: non può difendersi delegando la fede a una parte di se

stesso, per es. alla parola, e rifugiarsi in tempi, spazi o gesti indifferenti o estranei alla

fede. È tutto preso o tutto escluso dalla fede. Qui, nella liturgia, la trascendenza divina

non è negoziabile. È come descrivere una foresta ed essere nella foresta. Se elaboro

delle approfondite disquisizioni sulla foresta la mia vita non è in gioco, perché è

impegnata solo una parte di me: la parola. Ma se sono nella foresta, il coinvolgimento è

totale, e la mia vita è veramente in gioco. Nel rito è in gioco la propria vita con Dio e

non solo una forbita disquisizione su di Lui. Qui, nel rito, la fede non è argomentata o

negoziata ma semplicemente accolta con tutto il proprio essere.

Ritengo che questo sia un punto assolutamente nodale del rapporto dell’uomo con la

trascendenza. L’utilizzazione di uno o pochi linguaggi per esprimere la trascendenza

nasconde sempre il pericolo di ridurla a una pura rappresentazione. L’utilizzazione di

tutti o dei principali linguaggi, invece, implica l’impossibilità di sottrarsi a quanto ci

trascende, perché non rimane più nessun punto di appoggio, nessuna forma espressiva,

nessun linguaggio, in cui io posso cogliermi e dirmi indipendentemente da ciò che mi

trascende. In altri termini, nel coinvolgimento globale dei linguaggi, nel coinvolgimento

rituale di tutto il corpo, l’uomo è nella condizione, del tutto peculiare, non solo di

rappresentare ma anche di accogliere la fede e, quindi, la trascendenza divina.

3.3.2. Il linguaggio rituale come espressione della fede

La liturgia, come si è appena detto, coinvolge la complessità dei linguaggi umani.

Questa è la prima caratteristica. La seconda consiste nel fatto che alla liturgia interessa

soprattutto l’aspetto pragmatico dei medesimi linguaggi. Nel rito, la parola, la scrittura,

il canto, il gesto, l’abbigliamento, gli oggetti, la disposizione delle persone, gli spazi

architettonici, sono, direttamente o indirettamente, delle “azioni” relative allo scambio

ecclesiale della fede. In altri termini, prima di essere degli strumenti attraverso i quali

comunicare dei significati più o meno teologici, i linguaggi rituali sono dei significanti,

ossia degli elementi materiali e corporei che consentono di esprimere la fede nel

momento stesso in cui se ne fa esperienza.

A) La parola e la scrittura. I linguaggi verbali della liturgia, consegnati al lezionario

e all’eucologia, non sono, in primo luogo, dei contenitori di concetti, di principi o di

norme. Le preghiere e le letture bibliche sono dei suoni che si proclamano e si

ascoltano, sono dei testi scritti che si mostrano e si vedono. Ciò che vi è di più prezioso

in loro non è di contenere dei significati teologici o la dottrina della chiesa, ma di

esprimere delle esperienze teologali ed ecclesiali. Il valore delle preghiere e soprattutto

del lezionario sta nel loro legame con la Parola di Dio. Ma la Parola di Dio non può

essere un “contenuto” della mente umana, perché non può essere “contenuta” dall’uomo

14

né da qualsiasi creatura. Per questo stesso motivo la Bibbia non può essere ridotta a un

insieme di “contenuti”. Né la Scrittura, né l’uomo, né qualsiasi altra realtà creata, può

contenere la Parola di Dio, perché la principale caratteristica della Parola di Dio è

proprio quella di essere incontenibile. Essa trascende qualsiasi contenuto o recinto. Può

essere, invece, espressa, indicata dalla creazione, dall’uomo e, in modo del tutto

peculiare, dalla Sacra Scrittura. Può essere espressa e non contenuta. Nell’espressione

non viene persa la trascendenza perché non c’è alcuna pretesa di con-tenere.

Questo non significa che non vi siano anche dei contenuti, ma implica solo che

nessun contenuto, neppure tutti i contenuti della Bibbia già conosciuti possono

racchiudere la Parola di Dio. Ecco perché la tradizione, fin dall’antichità più remota, ci

presenta un canone fisso dei testi biblici a cui sono state date innumerevoli

interpretazioni. Ed ecco perché la liturgia non punta, innanzitutto, sui significati biblici

o eucologici, ma sui significanti, ossia sulla Scrittura e la preghiera come forme

espressive che non pretendono di contenere ma solo di invocare o di realizzare. Con

l’invocazione si testimonia la Parola ricevuta rendendo lode per il prezioso dono di Dio.

Con la realizzazione ci si dispone a lasciare che la Parola compia ciò per cui è venuta:

se il pane, il vino ma anche la comunità raccolta diventano il corpo di Cristo, non è

certo perché si possa comprendere tale mistero ma solo perché la Parola pronunciata

può compiere anche ciò che è incomprensibile23

.

B) Lo spazio, il gesto e il tempo. Nella liturgia la parola e la scrittura sono

strettamente connesse allo spazio e al gesto. Vi sono i luoghi specifici per la

proclamazione della scrittura, per la predicazione e per la preghiera. La parola, orale o

scritta, è sempre anche un luogo che, bene o male, interagisce con altri luoghi, per es.,

con quello della mensa e del sacrificio. In tal modo, il “qui” della scrittura è legato al

“qui” dell’eucaristia, il “qui” della parola al “qui” del sacramento. Vi è poi la

disposizione dei membri dell’assemblea, che costituisce il “qui” della chiesa. Nello

spazio rituale la parola non è indipendente dall’azione sacramentaria e dalla comunità

credente: non è un libro da leggere ma la parte di un evento complesso in cui si rende

presente il Signore. La parola allora è veramente la parola del Signore. Del resto,

quando si dice “questo è il mio corpo” non si può trascurare l’importanza dell’indicatore

spaziale “questo”. Il valore di tale indicatore non è relativo solo al pane, ma anche a

tutte le altre circostanze locali: non può esistere un qualsiasi “questo”

indipendentemente da un “luogo” fatto di confini, di abitanti, di cose. L’architettura del

tempio fa parte del “questo”, come pure la disposizione delle persone e degli oggetti.

“Questo è il mio corpo”, ossia il corpo del Cristo risorto, trascendente, è consegnato alla

comunità concretamente riunita in un luogo, in uno spazio.

Lo spazio occupato dall’uomo, però, è sempre l’esito di un gesto, e lo spazio

liturgico è anzitutto il gesto liturgico. Per questo motivo il valore architettonico di un

tempio è tutto relativo al gesto rituale che vi si svolge. Ma, soprattutto, per questo

motivo lo spazio non è anzitutto uno stare ma un divenire, e lo spazio liturgico non è

anzitutto una situazione ma una costruzione. Indubbiamente, stare in un luogo significa

essere situati; ma un luogo è, prima di tutto, uno spazio abitabile, ossia uno spazio

costruito in modo da essere abitabile. Lo spazio, allora, e solo allora, è connesso alla

vita e ai ritmi temporali della vita. Come gesto, lo spazio è strettamente legato al tempo.

23

Vi è in tutto ciò qualcosa della parola mitica che è “un suono creatore di realtà”, A. DI NOLA, Parola, in

Enciclopedia delle religioni, IV, Vallecchi, Firenze 1972, 1490. Ma vi è anche la coscienza ecclesiale che

la Parola di Dio non è un contenuto di pensiero, ma una persona che crea la realtà.

15

Come gesto, lo spazio è memoria e annuncio di chi lo abita. Come gesto, lo spazio

rituale è memoria e annuncio dell’evento che lo abita. “Questo è il mio corpo” diventa

“Fate questo in memoria di me”: il “questo” diventa la memoria, lo spazio diventa il

tempo, il corpo situato diventa l’evento annunciato.

C) La luce e l’ombra. Lo spazio viene percepito grazie al gioco cromatico della luce.

E poiché il movimento nello spazio è strettamente connesso al tempo, anche il tempo

dipende dal gioco cromatico della luce. Questa attraversa il mondo facendolo apparire

come spazio e tempo, come luogo e memoria. La luce è la rivelazione del mondo.

Velare, svelare, e rivelare sono giochi della luce, o, più precisamente, giochi tra luce e

ombra. Noi, probabilmente, non avremmo neppure l’idea di rivelazione e di

trascendenza senza l’esperienza dell’ombra, ossia di un corpo che interrompe la luce e

che, nello stesso tempo, è illuminato dalla luce. Nell’interruzione c’è il nascondimento,

l’essere velato tipico di una realtà che trascende la visione; e nell’illuminazione c’è

l’apparizione, l’essere svelato tipico di una realtà che viene alla visione. La rivelazione

è questo gioco tra una trascendenza nascosta e che pur rimanendo nascosta, ossia

trascendente, si manifesta all’uomo. Il Mistero divino rimane nascosto, trascendente,

anche nel momento in cui si rivela.

La liturgia si mantiene in questa prospettiva, esprimendo Dio col gioco della luce,

ossia con l’alternarsi del giorno e della notte, dell’alba e del tramonto. Nella liturgia

delle ore l’orario è forse più importante dei salmi. In quell’orario, infatti, è già implicita

una rivelazione che non si esaurisce nelle parole o nei concetti. Il Dio di Gesù Cristo

non è a disposizione delle nostre parole e dei nostri concetti, non è un pacchetto di

informazioni teologiche e morali con cui identificare la nostra fede. Il Dio di Gesù

Cristo sorprende l’uomo, anzi sorprende la stessa fede dell’uomo smobilitandola dal già

acquisito e scontato: è luce e ombra, giorno e notte, mattino e tramonto. E la preghiera

che si rivolge al Dio di Gesù Cristo è lodi e vespro, ora media e compieta. In questa

trama oraria vissuta dal corpo è la confessione della trascendenza del Dio rivelatosi in

Gesù Cristo.