numero 17 gennaio-febbraio 2014 - Artribune

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INCHIESTA SUGLI ISTITUTI ITALIANI DI CULTURA GALLERISTI AL MICROFONO LA FAMIGLIA BONOMO AVANTI C’È POSTO REPORTAGE DA BROOKLYN ARDUINO STORIA DI UN’ECCELLENZA PRADA SBARCA IN QATAR TUTTO SUL CURATE AWARD CRITICA E FILOSOFIA PARLA BORIS GROYS GIAPPONE 2020 OLIMPIADI SOSTENIBILI MENSILE - POSTE ITALIANE S.P.A. SPED. IN A.P. 70% - ROMA - COPIA EURO 0,001 ISSN 2280-8817 numero 17 gennaio-febbraio 2014 anno iv

Transcript of numero 17 gennaio-febbraio 2014 - Artribune

INCHIESTA SUGLI ISTITUTIITALIANI DI CULTURA

GALLERISTI AL MICROFONOLA FAMIGLIA BONOMO

AVANTI C’È POSTOREPORTAGE DA BROOKLYN

ARDUINOSTORIA DI UN’ECCELLENZA

PRADA SBARCA IN QATARTUTTO SUL CURATE AWARD

CRITICA E FILOSOFIAPARLA BORIS GROYS

GIAPPONE 2020OLIMPIADI SOSTENIBILI

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ISSN 2280-8817

numero 17 gennaio-febbraio 2014anno iv

ei momenti di grande o piccola transizione - come appare essere questo nel nostro Paese e non solo - lo stimolo è far partire il cambiamento su un’ampia batteria di partite. E, in ciascuna, su un altrettanto ampio spettro di problemi e, a cascata, di progetti. Si tratta invece, in questa fase, di fare il contrario: con-centrare le energie, rifuggire dalla tentazione di voler cambiare tutto e di mettere a posto tutto (benché ve ne sia un’immensa necessità): non mettere insomma troppa carne al fuoco. Focalizzarsi su poche cose, pochi progetti. Fatti bene. Che poi, in una fase immediatamente successiva, fungano da esempio, da modello, da caso di studio subito replicabile. La logica del finanziamento a pioggia, dell’accontentare tutti, delle clientele politiche, del campanilismo culturale, ha costi immensi a fronte di risultati che non solo sono scadenti, ma sono esposti ai venti delle crisi: negli Anni Zero abbiamo aperto una dozzina di centri d’arte contemporanea in Italia e negli Anni Dieci li abbiamo quasi tutti chiusi. Se ci fossimo concentrati su due o tre modelli al massimo, oggi forse non avremmo avuto luoghi cruciali per la narrazione culturale del Paese come il Centro Pecci o il Castello di Rivoli letteral-mente boccheggianti. Se si esce (?) da un periodo di grande crisi economica e si entra (?) in una fase di grande cambiamento con una nuova generazione alle leve di comando del Paese, non può sfuggire l’occasione per cambiare radicalmente l’approccio alla risoluzione dei tanti problemi. L’idea è di puntare, in ogni ambito culturale (la tutela e l’arte contemporanea, lo spettacolo dal vivo e le biblioteche, la nuova architettura e il paesaggio, il turismo e la tec-nologia, il design e l’artigianato), a uno o due progetti e cercare di portarli a dama in un’ottica di legislatura. Fare poche cose, farle bene e soprattutto farle fino in fondo, chiudendo i cicli e rendendo i progetti operativi. Così il nuovo Ministero della Cultura che verrà fuori dalle elezioni del 2015 (o magari del 2014) potrebbe essere un Ministero a progetto. Un luogo dove captare le migliori buone pratiche internazionali (sia a livello progettuale che a livello normativo) e calarle non su tutto il nostro sistema, ma su alcuni (pochi) progetti per ogni settore. Su due musei d’arte contemporanea, su due progetti di arte pubblica, su due teatri classici, su due teatri di ricerca, su due biblioteche, su due grandi progetti di sistema come, ad esempio, una grande riforma del sistema delle Soprintendenze. Se oggi il Paese è in crisi, infatti, non è dovuto a chissà quale ma-ledizione interplanetaria, ma spesso è a causa di noi stessi. E la cultura, oltre a essere vittima della situazione, è ed è stata anche carnefice attraverso questi mostruosi centri di potere chiamati Soprintendenze. Leggi assurde e personaggi assurdi hanno contribuito a trasformare l’Italia in un posto dove è suicida investire: disoccupazione, abbandono, degrado e abusivismo sono stati i risultati di questa “tutela” tutta particolare. Una situazione inaccettabile, un suicidio in piena regola.Forse questa è la prima delle poche, pochissime riforme da fare e da fare bene. Il neosegretario del partito di maggioranza e del partito favorito dai sondaggi appare essere su questa linea. È l’ultima occasione, si tratta di non sciuparla.

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4 EDITORIALE

ello scorcio finale del 2013, il “popolo di Facebook” si è inventato l’ennesimo giochino a catena, un po’ radical e un po’ chic, per dimostrare a se stessi e ai numerosi “amici” meno colti o meno informati quell’infarinatura sufficientemente superiore alla media necessaria a guadagnarsi l’ammirazione planetaria di chi, coinvolto in qualcosa di “culturale”, possa sentirsi a posto con la coscienza e passare a commentare il post successivo. “Questo è un gioco per mantenere viva l’Arte. Clicca ‘Mi piace’, e io ti assegnerò un Artista. Non importa se non conosci le sue opere, cerca su Internet, scegli quella che ti piace di più e pubblicala su FB. Mario Rossi ha scelto per me Pablo Picasso e condivido con gioia ‘Les Demoiselles d’Avignon’ (1907)”. Così recitava l’in-vito a partecipare al gioco che in tanti ci siamo visti postare in bacheca. “Per mantenere viva l’Arte”… Ma via, cari amici di Facebook, proprio noi destinati a morire e a marcire, perché mai dovremmo fingere di mantenere viva una cosa che ci precede di cinquecento, mille, diecimila anni, e per altrettanti ci sopravvivrà? Cui prodest? A quelli che in una Capitale straniera tipo Amsterdam consultano nella guida l’indirizzo dei coffee shop e se proprio avvertono l’impellenza di visitare un museo si infilano al van Gogh (gettonatissimo su Face-book) ma nemmeno si sognano di metter piede al Rijksmuseum o allo Stedelijk? A quelli che nella loro città di residenza non sarebbero in grado di riferire chi sia o a che periodo appartenga l’autore della pala sull’altare maggiore della chiesa dove da bambini fecero comunione e cresima, e dove magari si sono anche sposati? A quelli che dicono “Adoro Caravaggio!” e non si perdono una notte bianca in fila per ore al freddo e al gelo per entrare venti risicati minuti in una pinacoteca sovraffollata alle tre del mattino, considerando saldato fino all’anno successivo il proprio debito con l’arte? O forse a quelli che, per risultare più fighi, morettianamente si interrogano: “Mi si nota di più se posto un manierista toscano minore o un simbolista svizzero tra le due guerre?”. Gli organizzatori delle cosiddette “mostre-evento” ci sguazzano, e con esposizioni del tipo Da Cimabue a Monet riempiono con migliaia di visitatori e allestimenti in cartongesso le sale a pianterreno di palazzi e castelli che al secondo piano custodiscono magari una madonnina di Crivelli sboccante di squisitezza, o una serie di piccole e misteriose tele del Mastelletta, che nessuno sale a vedere, e che nemmeno sono inserite nel percorso di visita, tra gli immancabili caffetteria e bookshop. Internet, veicolo benedetto di tutto quell’umano scibile che un tempo dovevi andarti a reperire almeno in biblioteca, oggi rintracciabile invece senza muoversi da casa, rivela con sempre maggiore evidenza quanto il problema della disinformazione non sia ormai né a monte né a valle, come si diceva una volta. Il sogno della cultura alla portata di tutti, che come un vaso di Pandora pieno zeppo la Rete avrebbe tutti i numeri per realizzare, si infrange contro il muro, anzi la bacheca di Facebook, dove pubblicare il jpeg di un Odilon Redon, di un gattino o di un paio di tette, o “il video più commovente del momento”, può procurarti l’identica, lusinghiera vagonata di Mi Piace. Siamo fermi al medium/messaggio di McLuhan, senza alcuna intenzione di progredire. Fortunatamente l’arte non solo è viva, ma possiede il segreto di quell’eternità che noi possiamo sognarci. Pensateci: un’opera d’arte esiste anche se nessuno la guarda. Più viva di così…

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5L’ALTRO EDITORIALE

La cultura che crea sviluppo spesso è quella che riesce a get-

tare un ponte tra domini di senso che fino a un momento prima apparivano difficili da collegare. Quando questo approccio diventa una strategia di sistema, può pro-durre cambiamenti permanenti, come dimostrato dalle esperienze più riusci-

te delle Capitali Europee della Cultura. È quello che sta provando a fare con la sua candidatura Siena, che ha deciso - in colla-borazione con la Fondazione Ermanno Casoli - di ospitare appunto nel territorio senese l’edizione in corso del Premio Casoli, assegnato a Da-nilo Correale. Il progetto - che coinvolge tre aziende del distretto produttivo della Valdelsa: ColleVilca, PR Industrial e Tri-gano - consiste nell’esplorare l’interazione dei meccanismi della cooperazione e della competizione, proponendo ai dipendenti di giocare una partita di calcio a tre porte; un’idea originariamente lanciata da Asger Jorn, che qui trova una riproposizione in-teressante. Nel lavoro di Correale c’è un senso quasi taoista di transizione fluida tra stati di cose, che nello svolgersi di un’azio-ne agonistica viene visualizzata in modo diretto, ma presenta una profondità di let-tura sorprendente e a suo modo disarman-te. Il progetto illustra come la dimensione concettuale della pratica artistica sia capa-ce di indagare il senso di fenomeni socio-culturali complessi attraverso la messa in opera di dispositivi che possono sembrare immediati dal punto di vista ideativo, ma che richiedono una straordinaria capaci-tà di sintesi. L’intervento rappresenta un segnale chiaro che il progetto Siena 2019 vuole dare con riferimento a un percorso che deve passare dall’innovazione radicale, dal coraggio di esplorare territori non fa-miliari, dalla fiducia nella capacità dell’ar-te di vedere oltre gli apparenti vicoli ciechi della realtà contingente. È uno spunto di riflessione per tutto il nostro Paese. Un impegno come quello della Fondazione Casoli, che nasce da un’azienda che opera tutti i giorni su mercati internazionali for-temente concorrenziali, nei quali l’inno-vazione è una necessità di sopravvivenza, è qui per dimostrarci che si può fare impre-sa senza rinunciare a dare un contributo concreto e puntuale alla rinascita culturale italiana, agendo in una logica imprendito-riale piuttosto che mecenatistica.

docente di economia della cultura università iulm di milano

direttore di candidatura siena 2019

L’ARTE DELLA CRISI

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Le politiche pubbliche sono alla base di qualsiasi società civile.

Ancor di più nel settore cultura-le, dove la maggior parte dei beni sono pubblici e i prestatori d’ope-ra dipendenti pubblici o imprese la cui sopravvivenza economica dipende dalla finanza pubblica. Detto così, sembrerebbe un setto-re economico distorto. E infatti lo

è. Dopo Valore cultura (L.112/2013), che nella sua ottima azione inno-vatrice introduceva l’esigen-za di istituire una direzio-ne generale per Pompei che possa proce-dere in deroga a ogni norma (ma perché?), adesso il Mi-nistro - ancora prodigo di istinto riformatore, e pressa-to dalla spending review - ha avviato un ripensamento del ministero. Colpisce il punto di partenza e sconvol-ge il punto di arrivo. Lo Stato chiede di ridurre i dirigenti. Ma perché? Secondo quale principio i dirigenti sono il male, e quindi la loro numerosità, e non i processi o ancor più la loro qualità? Qual è la pro-posta? Esternata per lo più da una eteroge-nea e nutrita compagine di persone dalle estrazioni più diverse, consiste fra l’altro nel creare una direzione per i sistemi in-formativi e di accorpare le attuali direzio-ni per temi: patrimonio, spettacolo, istitu-zioni, archivi e biblioteche. Perché queste ultime non stanno con i musei (dentro “istituzioni”)? Inoltre “patrimonio” pare significhi “tutela e valorizzazione”. Il resto si autovalorizza? Secondo me sì, ma, se lo specificano, forse si ritiene che non ne ne-cessitino. Soprattutto colpisce, nel 2013, la creazione di una direzione dedicata alla tecnologia digitale. Cosa oggi non è di-gitale? È uno strumento e un ambiente, niente e nessuno ne è scevro ormai. Perché si può ritenere di relegare i servizi infor-mativi (come li chiama la commissione) in una funzione trasversale che aiuta tutti? Finirà come per la direzione valorizzazio-ne, risultata vana e vacua. La verità è che di tagli lineari (come la spending review) ne abbiamo avuto abbastanza. Ha fatto si-curamente del bene levare un po’ di pane dalla bocca a chi continuava. È ora però di iniziare a capire di che si parla. Non ser-vono meno dirigenti in assoluto. Servono persone che capiscano ciò di cui si occu-pano, che abbiano visione, che sappiano essere leader, in grado di maneggiare con onestà i soldi pubblici.

project manager dell’osservatorio sulla culturauniversità la sapienza e swg

TUTTA COLPA DEI DIRIGENTI?f

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Le città italiane (al di fuori dei centri storici) rimango-

no chiuse a interventi di forte impegno culturale che ne mo-difichino la tetra e tradizionale natura di “dormitori urbani”. In un incontro al Macro di Roma fra varie associazioni che lavorano

sulla Public Art si sono confrontate idee interessanti che si sviluppano però con fatica estrema: il Parco d’Arte Mobile di Corviale, un Graffiti Festival a Bologna, un Progetto Diogene a Torino che ha come sede un tram e molti altri ancora. Le ini-ziative sono sparse fra Roma e il Nord e recuperano l’impegno sempli-ce, diretto e generoso dell’animazione culturale degli Anni Settanta (Passatore, Scabia e tanti altri), passando da un’arte relazionale a un’arte parteci-pativa. Target: trasformare la città in una rete relazionale. Stranamente i linguaggi della comunicazione per eccellenza uti-lizzati nell’arte digitale sono quasi assenti. Siamo all’elettricità della manifestazio-ne di Torino Luci d’artista, ma non si fa uso di tecnologie più complesse. Pure vi sono molteplici esempi di uso del digita-le in tutto l’Occidente: si va dagli scher-mi giganteschi nelle piazze alle strategie di relazione e contatto a distanza via Internet, utilizzando i diversi strumenti possibili per trasmettere e ricevere. Ma i progetti non mancano, molte sono le idee che circolano in campo digitale an-che in Italia. Il duo Art is Open Source (Salvatore Iaconesi e Oriana Persico) lavo-ra su Metafilosofie delle città, progetto che vuole coinvolgere personaggi della cultura e dell’arte, ascoltare il brusio delle comu-nicazioni dei social network e raccogliere dati e giudizi, attingere alle grandi quan-tità d’informazioni che circolano nelle reti digitali. Ma la lista è lunga: in un progetto inglese il GPS era utilizzato per seguire i movimenti di attori nella città, compo-nendo movimenti teatrali a livello urbano. Altri gruppi come i Knowbotic Research misurano i flussi economici fra città e città per trasformarli in segno e suono. L’uso delle proiezioni in mapping cambia il rap-porto con la città di notte, con le forme dell’architettura e oggi vengono utilizzati da vj come Vj Miko (aka Michele Cirulli), che al centro sociale Intifada di Roma organizza notti di linguaggi digitali, live media e mapping. Le dinamiche del digi-tale sono particolarmente adatte a una ri-messa in discussione dello spazio urbano. Quando se ne accorgeranno coloro che della città si occupano?

critico di arte e media docente di architetturauniversità la sapienza di roma

ARTE PUBBLICA D’ANTAN

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6 COLUMNIST

Il 2012 è stato un anno infausto per la gran parte dei musei di

arte contemporanea italiani, e il 2013, con le polemiche destatesi attorno al Maxxi e al Castello di Rivoli o le difficoltà del Macro, è corso via tra mille accidenti. La “crisi” rimanda a una flessione glo-bale di autorevolezza e prestigio

del contemporaneo. Evitiamo lagnanze corporative. Proviamo invece a suggerire spunti di riforma. Quali politiche cultu-rali per i musei di arte con-temporanea? Le politiche di austerità incidono. Il modello Krens-Gug-genheim di mu-seo corporate è fallito assieme alle entusiastiche narrazioni neoliberiste sulla globaliz-zazione. Può sembrare discu-tibile destinare ingenti somme di denaro pubblico a musei che sembrano aver smarrito un ruolo civile per diventa-re concessionarie di gallerie e architettu-re da noleggio. Se provassimo a definire in modo allargato ciò che è riconosciuto come “arte contemporanea”? Proviamo a situarci nel punto di intersezione tra pra-tiche estetiche e politiche della cittadi-nanza, addirittura sul piano delle inizia-tive per la legalità, il lavoro qualificato, la difesa dell’ambiente, l’impresa sociale, la produzione distribuita. La produzione di oggetti voluminosi, luccicanti e dispen-diosi non è criterio vincolante. Intreccia-re competenze umanistiche e competen-ze scientifico-tecnologiche è una priorità nazionale. Il ruolo pubblico del museo di arte contemporanea può rilanciarsi a par-tire da dipartimenti educativi e di ricer-ca a elevata specializzazione che occorre costituire ex novo. Immagino un’agen-da politico-culturale mirata a produrre pensiero critico, inclusione e opportuni-tà di impiego a elevata specializzazione. Occorre attrarre, orientare, connettere e professionalizzare le culture wiki che emergono dal territorio. Un’istituzio-ne culturale dedicata al contemporaneo giustifica costi sostenuti dalla collettività se colma lacune didattiche delle istitu-zioni di alta formazione e contribuisce a produrre mobilità sociale. Il punto ha formidabile rilievo: occorre introdurre maggiore concorrenza in un’economia (quella italiana) che va sì terziarizzandosi, ma in senso regressivo. Cioè attraverso la creazione di nicchie protette, rendite di posizione e oligopoli locali proprio nel settore (tanto decantato ma sprovvisto di un qualsiasi progetto istituzionale) del-l’“industria creativa”.

editorialista e saggistadocente di storia dell’arte contemporaneauniversità del piemonte orientale

RIPENSARE IL MUSEO

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e non un artigiano o un dilet-tante della domenica? Quale strata-gemma produce questa attribuzione di valore aggiunto dopo la disattesa affermazione di Beuys secondo cui “ogni uomo è un artista”? Sappiamo come stavano le cose ieri. Ma oggi? Si potrebbe rispondere a queste do-mande con una domanda diame-

tralmente opposta: cosa accadrebbe alle opere d’arte se non fossero più firmate? In altre parole: cosa accadrebbe se le “opere” non fossero più accompagnate da un mar-chio depositato che è il nome dell’autore? Di fronte a una tale eventualità anche una certa produzione critica sbanderebbe, per-ché gli occorre un marchio depositato per avviare la produzione di senso. E, ancora, fino a che punto questo mon-do ha bisogno di un’arte autoreferenziale? D’altra parte, come non nota-re che oggi la “re-altà” non ha più bisogno di interme-diari per comprender-la? Tanto ci cade addosso spiegandosi da sé. È come se tutto ciò che passa per “contemporaneo” fosse già sempre superato dalla realtà. Pa-radossalmente, il “contemporaneo” non è contemporaneo di nulla. Anzi, a volte a guardare certe mostre sale da esse un sapo-re stantio, come di una bestia putrefatta. Lo stupidario linguistico che inficia l’arte arriva pure a considerare “datati” artisti la cui opera è senza tempo. È il cieco sto-ricismo di alcuni degli “addetti ai lavori” ossessionati dalle mode. È in questa even-tuale catastrofe temporale fra l’artista e il mondo che il feticcio della firma diviene la sola garanzia che legittima l’opera in un mondo (il sistema dell’arte) separa-to da tutto il resto. Dal punto di vista di Duchamp (1967) è solo il curriculum che differenzia un “artista” da un uomo qualsiasi, altrimenti non si spiegherebbe il fatto che i musei d’arte contemporanea siano pieni di mediocrità. Quando Hirst confessa che le sue scatole di farmacia sono soltanto vessilli vuoti - “È solo packa-ging, cazzo!” - a cui galleristi e pubblicisti credono fermamente scambiandoli per oggetti drammatici, tocchiamo con mano questa verità del banale. I “vuoti a perde-re” nell’arte, non avendo contenuti, li si confeziona ad hoc. Ma a questo punto si profila una vendetta della cosa qualunque sull’arte, e questo è il cinismo del bana-le, che è quello della merce. Non occorre dunque più alcuna spiegazione dell’opera: come la merce, gli serve solo la pubblici-tà, ossia farsi effetto speciale. Ultimo atto della rappresentazione.

saggista e redattore di cyberzone

In visita ad Amman, non posso fare a meno di osservare gli ubi-

qui ritratti del re e della regina. La Giordania è una nazione pacifica, ma la coppia reale composta da Abdullah II, laureato a Washing-ton, e dalla bellissima Rania, di origini palestinesi, ha comunque il suo bel da fare. Sono davvero complicati gli equilibri tra pale-

stinesi e iracheni, i nuovi rifugiati siriani e un numero sempre maggiore di asiatici che convivono nella capitale. La presen-za americana è ancora fortissima, ma ora questo stato privo di risorse riceve aiuti anche da russi e cinesi e ospita una gran quantità di servant filippini (!). Il primo incontro con le foto dei reali lo faccio subito sul taxi che dall’aeroporto mi porta in città. Sul retro del sedile di guida, sei immagini: due della Madonna e quattro dei rea-li. Per il taxista, un modo per far conoscere la sua doppia fede: in Cristo (cosa rara, visto che qui i musulmani sono il 90%) e nella Giordania. Sopra Abdullah II in divisa mimetica e basco nero, sotto a sinistra il padre Hussein bin Talal (camicia bianca, giacca e cravatta blu), al centro di nuovo Abdullah II (camicia bianca, giacca blu e cravatta di un tono più chiaro), a destra il principe ereditario Hussein (ca-micia bianca, giacca blu, cravatta grana-ta). Anche Hussein studia a Washington, e difatti lo si ritrova spesso sulle pareti dei McDonald’s, insieme all’altro fratello, alle sorelle, al re e alla regina: in questo caso sono tutti in abbigliamento frydway, fo-tografati su un divano da interno ma con uno sfondo di giardino con prato all’in-glese. A essere onnipresente è comunque Abdullah II. Sulla facciata di ogni mini-stero o edificio o arco o porta pubblica in giacca e cravatta, sulle pareti dell’Uni-versità con una stola rossa da accademi-co, a Petra, sui posti biblici meta di tanti pellegrini, o tra le rovine romane (simboli dell’orgoglio giordano) in alta uniforme: casacca bianca, pantaloni neri berretto ri-gido e medaglie. Come non pensare a quel che dice Hans Belting ne Il culto delle im-magini ? Che qualcuno lo abbia letto an-che qui? Magari le foto che li ritraggono tecnicamente non sono un granché, ma l’ufficio marketing della dinastia hashemi-ta sa il fatto suo.

trend forecasterdirettore di tar magazine

VUOTI A PERDERE ICONOSTASI GIORDANAm

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In questa intervista, Daniele Querci presenta It@rt, le t-shirt d’artista - nel centenario della t-shirt - ecosostenibili. Non solo, sostengono pure il WWF contro la deforestazione in Amazzonia, grazie all’immagine di Emilio Isgrò. Ad Arte Fiera a Bolo-gna le incontrate allo stand di Artribune.

Ci racconti la storia di  It@rt? Obiettivi, mission, aneddoti…It@rt è nata dalla volontà di realizzare un mio desi-derio: esprimere qualcosa di artistico che contem-plasse l’arte, naturalmente, e un’esperienza 25en-nale nel campo dell’abbigliamento. E inoltre creare qualcosa che potesse, nelle sue componenti, riva-lutare il made in Italy. La mia esperienza svolta con l’attività di buying-office ha colto negli Anni Ottan-ta-Novanta il boom del made in Italy, periodo nel quale bastava contattare qualsiasi cliente straniero per fargli visionare le collezioni di fornitori italiani. Oggi purtroppo non è più così: quel grande valo-re aggiunto che era il fashion italiano insieme al made in Italy si è perso. Ecco perché ho pensato di dare un valore aggiunto a un capo di abbigliamento

trasferendo con la stampa un’opera d’arte e facen-do certificare la stessa con un’autentica firmata a mano dallo stesso artista (o dagli eredi). Con que-sto documento il capo può essere tranquillamente indossato in quanto, essendo un’opera d’arte, non passerà mai di moda e il certificato farà rimanere il valore nel tempo. La frase di Oscar Wilde, “O si è un’opera d’arte o la si indossa”, esprime perfetta-mente il concetto del mio progetto.

Come avviene la selezione degli artisti che parte-cipano al progetto e disegnano le t-shirt?It@rt compie in questo periodo un anno di attività. La selezione è stata fatta in un primo momento par-tendo da artisti toscani (essendo la nostra attività a Prato). Successivamente ho scelto di aprire il progetto a livello nazionale. Ho scelto, per la storia dell’arte, il grande futurista Depero, che per me è stato colui che più ha contribuito a cambiare l’arte, rendendola accessibile al di là del suo contesto: è stato il primo, infatti, a utilizzarla per la pubblici-tà industriale, definendo le proprie opere “Quadri pubblicitari - non cartelli”. Poi ho voluto entrare

nella fotografia, poiché questa ha una caratteristica per me unica, ovvero quella di “fermare l’istante”. Ho chiesto ai fotografi di darmi quei lavori che ri-tenevano adatti al progetto e a tutti ho suggerito di esprimere un messaggio scritto che identificasse anche il loro carattere. Così alcuni di loro hanno aderito con una frase. Mi piace ricordare quella più famosa, utilizzata da Art Basel come leitmotiv per due anni: “L’arte rende visibile l’invisibile”, ideata dal grande maestro Franco Fontana.

In occasione di Arte Fiera Bologna avete presen-tato presso lo stand di Artribune un progetto di arte e responsabilità sociale. Ce lo racconti?In questo momento penso, visti anche gli ultimi eventi climatici (le alluvioni nelle Filippine, nella nostra amata Sardegna, nel Nordeuropa), che la questione ecologica e la difesa della natura siano temi molto importanti, per cui ho deciso di aderi-re al progetto Amazzonia che in primavera verrà promosso dal  WWF. Con l’occasione, a Bologna, verranno presentate anche le t-shirt esclusive di-segnate e firmate da Emilio Isgrò: acquistarle si-

IT@RT: INDOSSARE UN’OPERA

PER DOVERE DI CRONACA

UN MONDO CHE DEVE CAMBIARECi eravamo lasciati il numero scorso parlando della Biennale e del Palazzo Enciclopedico, utopia univer-salistica di Marino Auriti da Guardiagrele emigrato in America e del sogno monetario tentato a Guar-diagrele dal suo discendente Giacinto Auriti, nel tentativo di aggiungere informazioni ed estendere la proposta della Biennale e della famiglia Auriti. Mi preme quindi riprendere il discorso e sottolineare come questa filiera diretta e indiretta fra utopia co-struttiva e monetaria sia presente anche in diversi contesti e artisti dell’arte contemporanea. Infat-ti, l’esperimento di cui sopra non è certo un caso isolato, in quanto esistono vari tentativi nel mondo dell’arte e non, reale e virtuale, di creare moneta alternativa. Che in un mondo dominato dai soldi vuol dire proporre una nuova idea di società e che, in un momento di dura crisi economica in cui siamo pre-

cipitati, si mostrano come microsoluzioni. Tant’è che - sempre in Abruzzo, ad Avezzano - sta per partire l’esperimento del Marso, “moneta ‘conia-ta’ dal Comune a beneficio dei propri cittadini”, scri-ve Magdi Cristiano Allam sul Corriere della Sera. Si tratta di una moneta dell’arcipelago dello SCEC, di cui fanno parte il Tau (Toscana), il Thyrus (Terni), il Kro (Calabria), mentre in Val di Sole e Val di Non del Trentino troviamo il Nauno e nel Principato ligure di Seborga abbiamo pure il Luigino, fino alla virtualità dei crediti digitali Sardex, per non dire della moneta virtuale bitcoin creata da Satoshi Nakamoto per un mondo alternativo di Stati reali e virtuali, formate soprattutto da micronazioni che aspirano a essere libere nazioni e che, volendo, mantiene pure questa Biennale nell’orbita dell’utopia anarco-naturista di Monte Verità dell’inizio del secolo scorso.

Non a caso, il fenomeno delle micronazioni, chiama-to anche il Quinto Mondo, è prodotto in parte da ar-tisti e gruppi di artisti in varie parti del mondo come NSK in Slovenia, il Principato di Ladonia in Svezia, la Repubblica di Kugelmugel a Vienna, il Regno di Elgaland-Vargaland tra gli interstizi degli Stati già esistenti, nonché lo Stato virtuale di Lizbekistan. E in un mondo in cui la finanza, come poetava già Pound (“con usura non v’è chiesa con affreschi di pa-radiso / harpes et luz / e l’Annunciazione dell’Angelo / con le aureole sbalzate, / con usura / nessuno vede dei Gonzaga eredi e concubine / non si dipinge per tenersi arte / in casa, ma per vendere e vendere”), continua a fare il bello e cattivo tempo, gestendo i destini dell’umanità, questi tentativi di utopia mone-taria e di nazione sono anch’esse segni di un mondo che ha voglia e deve cambiare.

di GIACINTO DI PIETRANTONIO

Un’opera di 550 metri sul Tevere. William Kentridge progetta a Roma il suo intervento pubblico più imponente, ma non mancano politici e funzionari disfattisti e ignoranti che tentano il sabotaggioA Roma è di scena la grande arte pubblica. Non un fatto ricorrente per la Capitale, e in genere per le città italiane, poco avvezze alle connessioni fra arte e architettura contempo-ranee e i centri urbani densi di memorie stori-che e archeologiche. Un progetto di dimensioni colossali, pensato proprio in sinergia con l’anima monumentale della città, nel segno del rispetto, dell’integrazione, della valorizzazione e insieme della ricerca, arriva grazie all’impegno di Tevereterno Onlus. Un’associazione che ha lo scopo di restituire alla Città Eterna vita, bellezza e centralità del fiume Tevere, costruendogli

intorno eventi capaci di favorire la partecipazione di turisti e cittadini. Per il 2014 il progetto presen-tato è Triumphs and Laments, ideato da William Kentridge. Il grande artista sudafricano realizzerà un’opera lunga 550 metri sui muraglioni del Tevere

compresi tra ponte Sisto e ponte Mazzini: at-traverso la pulitura selettiva della patina

di smog e della pellicola biologica accumulatasi sulle superfici,

emergeranno più di novanta grandi figure, alte fino a

nove metri, protagoniste di un racconto epico in cui prendono forma i trionfi e le sconfitte dell’umanità, dall’età del mito fino alle vicende del presente. La tecnica - ideata e utilizzata dall’artista statunitense

Kristin Jones nello stesso luogo già nel 2005 - consente

di non alterare le caratteristiche chimico-fisiche del travertino, es-

sendo perfettamente compatibile con la tutela dei monumenti storici. Un’opera,

dunque, destinata a una progressiva scomparsa: negli anni i nuovi strati di smog e di materia bio-logica si accumuleranno sui muraglioni, lasciando sbiadire le immagini. A curare il tutto, l’associazio-

ne stessa, sotto la direzione artistica della fondatrice Kristin Jones, insieme a una squadra internazionale di artisti, architetti, urbanisti e professionisti della cultura. Il budget? Interamente messo a disposi-zione da gallerie e sponsor privati. Eppure, non saremmo in Italia se anche progetti del genere non incontrassero ostacoli: la stampa ha infatti parlato di strane “latitanze” della Direzione Regionale per i Beni Culturali, e anche il sottosegretario Borletti Buitoni ha voluto - inopinatamente - dire la sua, parlando di arte di strada (?) che dovrebbe essere re-legata soltanto nelle periferie (?). La speranza è che si tratti di incomprensioni destinate ad appianarsi. HELGA MARSALA

www.tevereterno.it

La Gioconda a Firenze? Ve la scordate. La Francia nega il prestito per una mostra temporanea: spostamento rischioso, e poi il Louvre non può deludere i suoi visitatori“Il trasferimento avrebbe molti problemi tecnici, e inoltre all’opera sono troppo legate l’immagine e la reputazione internazionale del Museo del Louvre, i tanti visitatori mal digerirebbero di non trovarla al suo posto”. Risultato: Lisa Gherardini non torna a

8 NEWS

gnifica portarsi a casa un multiplo d’artista da in-dossare, 100% cotone e solo materiali naturali. Ma acquistarle significa anche fare qualcosa di più: ho infatti deciso di devolvere parte del ricavato dalla vendita (che avviene solamente online) delle t-shirt al WWF e in particolare all’impegno che l’associa-zione svolge in Amazzonia contro la deforestazione e per uno sviluppo sostenibile. Un piccolo contri-buto che il mondo dell’arte ha voluto dare al WWF e alla tutela del grande polmone verde del pianeta. Inoltre, chi acquisterà le t-shirt dedicate all’Amaz-zonia sarà Socio WWF per un anno nella modalità “Paperfree”, interamente digitale e a impatto zero, evitando la produzione di materiali cartacei.

Un progetto che ti piacerebbe realizzare in futu-ro?Nel corso del 2013 abbiamo già lavorato molto. E quest’anno dovrò perfezionare e consolidare quan-to costruito fino ad oggi, cercando anche i giusti posizionamenti di mercato, dando una priorità al campo dell’abbigliamento, dove vorrei collocare la complementarietà del messaggio artistico propo-nendo le 130 t-shirt che lo scorso anno abbiamo

offerto proprio nell’anno del centenario della na-scita della t-shirt. Tutte queste opere saranno ven-dute fino a esaurimento con un marchio stampa-to nell’etichetta che ricorderà l’evento 1913-2013 Cento anni di t-shirt: un ulteriore valore aggiunto. Inoltre lavorerò sul progetto della pubblicità in-dustriale di Depero e sul grande evento dei cin-quant’anni della Poesia Visiva. Infine ho intenzione di avviare altri progetti di collaborazione con alcune istituzioni, non ultimo un’iniziativa in studio con la Facoltà di Architettura e Design dell’Università di Firenze. Vorrei che la mia opera/t-shirt potesse penetrare a vari livelli nella vita quotidiana delle persone, stimolando e ricordando una riflessione, ovvero che nel nostro Dna c’è uno straordinario percorso artistico che ci portiamo dall’antichità. Vorrei che il made in Italy identificasse una cultura e uno stile di vita, non solo una tendenza di moda.

SANTA NASTRO

www.itart.it

IT@RT: INDOSSARE UN’OPERA

casa. Ovvero, la Francia nega a Firenze il prestito della Gioconda. Questo è quanto comunicato da Silvano Vinceti, presidente del Comitato nazionale per la valorizzazione dei beni storici culturali e am-bientali, che ha riferito le parole di Vincent Berjot, direttore generale del Patrimonio del Ministero della Cultura francese. Il capolavoro di Leonardo da Vinci era stato richiesto per essere esposto tem-poraneamente in Italia, e a questo scopo il comitato presieduto da Vinceti aveva raccolto 150mila firme a sostegno. Spesso la Monna Lisa viene errone-amente citata ad esempio delle spoliazioni di opere d’arte attua-te in Italia, ef-fettivamente molto massicce con Napoleone. Ma in realtà il dipinto, realizzato tra il 1503 e il 1519, fu regolarmente acquistato dal re di Fran-cia Francesco I. Per vederlo, dunque, gli italiani dovranno continuare a ingrossare le lunghe file che fanno del Louvre il museo più visitato al mondo…

www.louvre.fr

Ancora arte alla tv: da febbraio su Rai 3 Achille Bonito Oliva “eredita” l’orario di Philippe Daverio, con un ciclo di trasmissioni sul contemporaneo la domenica all’ora di pranzoL’orario è ostico, eppure gode di precedenti e di un’aura per niente male: è infatti lo stesso, la domenica alle 13.30 su Rai 3, occupato per anni da Passepartout di Philippe Daverio, pioniera - e ancora apprezzata, se è vero che Rai 5 tiene ancora in onda repliche più che decennali - esperienza di arte-alla-tv. Dal prossimo 16 febbraio quella col-locazione sarà ereditata da un nuovo conduttore, Achille Bonito Oliva, con una trasmissione sull’arte contemporanea intitolata Fuori quadro. Puntate monografiche dedicate a temi come i musei, il collezionismo, il sistema dell’arte, ha spiegato Abo: con ospiti che andranno da Jan Fabre a Massimilia-no Gioni, da Francesco Clemente a Vicente Todolí a Jimmie Durham.

Little Big Italy a New York. Mentre il Guggenheim celebrerà il Futurismo, a Soho aprirà il Center for Italian Modern Art: alla guida la collezionista figlia d’arte Laura MattioliAnnata a forte impronta tricolore sulla scena new-yorchese, quella che si è appena aperta. In conco-mitanza con la grande retrospettiva sul movimento

futurista che si terrà al Guggenheim (Italian Futurism, 1909-1944: Reconstructing

the Universe), il 22 febbraio aprirà i battenti a Soho il CIMA - Center

for Italian Modern Art con una mostra incentrata sulla figura di Fortunato Depero. L’artista ebbe intensi rapporti con la Grande Mela, dove si trasferì nel 1928 con la moglie Ro-setta, tentando di esportare l’idea della Casa d’arte futurista sulla 23rd street a Manhattan,

con il nome di Depero’s Futurist House. A New York tenne mostre

di pittura, realizzò pubblicità, pro-gettò ambientazioni di ristoranti, creò

scenografie di costumi e coreografie per il teatro, disegnò copertine di riviste, fino a lavora-

re per il teatro e la pubblicità, pubblicando su ma-gazine americani come il New Yorker, Vanity Fair, Vogue, Sparks, The New Auto Atlas, Dance Magazine e Movie Makers. Depero lavorò persino per Macy’s, creando una réclame per il grande magazzino della 34th Street. L’esperienza americana costituì per l’ar-tista un grosso vantaggio rispetto ai colleghi, grazie alla quale si “sprovincializzò” potendo godere di un punto di vista più ampio. Con l’avvenire della recessione economica, l’artista lasciò gli Usa per tornare in Italia nel 1930. La Fondazione CIMA presenterà cosi al pubblico americano una cinquan-tina di pezzi di varia natura (tra dipinti, sculture, arazzi, collage, disegni e copertine di riviste) prove-nienti dalla collezione di Gianni Mattioli a opera della figlia Laura, curatrice, storica dell’arte e a sua volta collezionista, che ha fondato lo spazio con l’intento di animare all’estero una nuova di-scussione intorno all’arte italiana del XX secolo. Heather Ewig, direttore di CIMA, ha affermato:

“L’Italia è tenuta in gran conto per la moda, il design e le arti culinarie, ma l’arte italiana moderna e con-temporanea non è apprezzata per quel che merita”. Probabilmente anche a causa di rigide regolamen-tazioni governative in materia di esportazione delle opere d’arte dall’Italia. In concomitanza con l’apertura della fondazione, il CIMA ospiterà il 21 febbraio una giornata di studi su Depero, con una serie di lezioni accademiche, presentazioni, gruppi di discussione e visite guidate. DIANA DI NUZZO

Senatori che mantengono le promesse? Almeno uno c’è: Renzo Piano assume sei architetti finanziati dal suo stipendio di senatore a vita. E lo fa in silenzioDetto fatto. Ha mantenuto le promesse, Renzo Piano, che devolverà il suo stipendio da senatore a sei giovani progettisti selezionati tramite un bando anonimo su Internet. Per evitare troppo clamore e mantenere un profilo basso - tipico dell’architetto genovese - il concorso non faceva trapelare un tale esito. Una sorpresa svelata nella sede della Fonda-zione Renzo Piano a Vesima, dove a fine dicembre si è tenuta la prima riunione del gruppo di lavoro chiamato G124, in riferimento al numero della stanza del senatore a vita a Palazzo Giustiniani, e dove i sei hanno firmato i contratti annuali finan-ziati dallo stipendio di Piano. Tra oltre 600 can-didati sono stati scelti sei architetti, tutti rigorosa-mente under 40, tre donne e tre uomini provenien-ti da tutta Italia. Sono Francesco Giuliano Corbia di Alghero, Eloisa Susanna da Cosenza, Michele Bondanelli di Argenta (FE), Federica Ravazzi da Alessandria, Francesco Lorenzi di Roma e Roberta Pastore da Salerno. Lavoreranno su progetti di recupero e rivitalizzazione delle periferie italiane e saranno coordinati da tre tutor, l’ingegnere Mauri-zio Milan e gli architetti Mario Cucinella e Massi-mo Alvisi, che con Renzo Piano hanno un trascorso

di collaborazioni. Un’occasione unica, da un lato per giovani progettisti di lavorare su temi

concreti e avere così una chance per crescere e mostrare il proprio talento.

E dall’altra per la politica di impe-gnarsi, finalmente, e prendere in considerazione proposte e idee che, per ora solo potenzialmen-te, potrebbero ridare dignità alle nostre periferie. ZAIRA MAGLIOZZI

www.fondazionerenzopiano.org

9NEWS

ALLA RICERCA DELL’INDIVIDUALE COLLETTIVO

GESTIONALIA di IRENE SANESI

Prendiamo nota: il decreto Valore cultura introduce le erogazioni liberali supersemplificate fino a 10mila euro. Con la finalità di stimolare il cittadino a “sentirsi parte” e a “prendersi cura” del patri-monio culturale. Ma fermiamoci a riflettere: gli incentivi fiscali possono essere uno strumento ne-cessario per raggiungere il suddetto obiettivo? E sufficiente? Quanti conoscono, fra enti beneficiari e soggetti donanti (privati, imprese, altro), il già articolato sistema di detraibilità e deduzioni a favore della cultura: contributi, erogazioni, sponsorizzazioni, in denaro e in natura, con tetti o free, vincolati o meno da comunicazioni pre o post, da rendiconti? Il sistema è complesso, lo sappiamo, ma non per questo carente, tant’è che nel tempo si è gra-dualmente perfezionato, andando (come nel caso delle donazioni in natura) a colmare una serie di vuoti, pur penalizzando la semplicità d’insieme della formulazione. Addirittura quando nel 2000 uscì l’art. 38, che promuoveva l’integrale deducibilità per le imprese di erogazioni per mostre ed eventi culturali, si pensò di mettere un tetto oltre il quale l’ente culturale avrebbe dovuto restituire il 37% (cioè l’imposta Irpeg, ad oggi non più esistente) del differenziale. Quasi temendo che ci sarebbe stata una “gara” fra mecenati, con il “rischio” per lo Stato dello sforamento, senza contare che un ente culturale avrebbe saputo - a posteriori - se la somma effettivamente utilizzabile era quella che aveva ricevuto. Rischio purtroppo sventato, e sono passati già tredici anni. La storia ci racconta dunque come la leva fiscale, da sola, non sia sufficiente a stimolare la partecipazione diretta, e immaginiamo che la recente normativa non riesca a innescare - in un contesto di grave crisi economica - un’in-versione di tendenza. Ma se non è sufficiente, è almeno necessaria? Oppure il contribuente sa che le tasse pagate pro-ducono servizi collettivi, fra cui la tutela e la promozione del patrimonio, e mette a tacere la propria coscienza? E in ogni caso, esiste nel singolo la consapevolezza che la sua contribuzione in termini di imposte dirette (Ires, Irpef, Irap) neppure sfiora le realtà locali, meno conosciute certo, ma pur sempre ossatura del distretto culturale in termini di genius loci, produzioni identitarie, memoria ci-vica, economie di atmosfera per la comunità? Ecco allora che, insieme a una chiara e consapevole informazione riguardo alla tassazione diretta (il contribuente ha diritto di conoscere quanta parte delle sue tasse è finalizzata ai beni e attività culturali), è significativo promuovere strumenti di defi-scalizzazione da estendere non tanto nel quantum, quanto nella tipologia, aprendosi per esempio alla membership, che rimane il mezzo insostituibile per coinvolgere e fidelizzare tutti e ciascuno nella costruzione dell’“individuale collettivo”. Questo percorso educativo non potrà infine trascurare il coinvolgimento delle professioni intellettuali (commercialisti, avvocati, notai in primis) attraverso la costruzione di percorsi formativi mirati per far conoscere la “nicchia” culturale anche come opportunità di lavoro per i giovani e creare occasioni di incontro strutturali fra il mondo professionale e quello culturale.

Totti è il Picasso del pallone? Allora lo mettiamo al museo. A febbraio alla Pelanda la grande mostra dedicata all’AS Roma: nessuno scandalo, ma qual è la strategia?La prima reazione, d’istinto, può anche essere di stupore: come, un museo, che nell’immaginario diffuso è luogo riservato al sapere, invaso dal mon-do del calcio? Ma poi si riflette che l’immagine del “museo” olografica e un po’ ottocentesca oggi è lontanissima, e il Guggenheim di New York spes-sissimo stizzisce i visitatori privandoli dell’“arte” per propinargli - facciamo i casi più eclatanti della sto-ria recente - mostre di motociclette o di abiti com-merciali. Perché questo preambolo? Perché a Roma adesso la fattispecie si ripropone - siamo pur in Italia! - con una squadra di calcio: con l’AS Roma, alla cui storia sarà dedicata una grande mostra negli spazi di Factory Pelanda, presso l’ex Mattatoio di Testaccio. Ma in questo caso gli interrogativi sono di tenore diverso: il Guggenheim lascia sì spazio periodicamente a progetti “extrasettoriali” - sempre, e non è cosa da poco, assai remunerativi -, ma poi “ripaga” il pubblico con mostre memorabili, di altissimo rigore scientifico e critico. A Roma pare invece che questo aspetto sia attualmente assai più trascurato: le vicende della direzione del Macro sono solo l’ultimo segnale di una realtà museale e artistico-culturale alquanto allo sbando, priva di una strategia moderna, anzi priva proprio di qual-siasi strategia. Ed ecco allora che la mostra della squadra assume contorni un po’ diversi, quasi bef-fardi: sostenuta dall’assessorato alle politiche giova-nili di Roma Capitale, sarà - assicurano i promotori - “non una semplice mostra dedicata a una squadra, ma un evento che avrà un altissimo livello culturale e artistico: per la prima volta verranno infatti applicati al calcio i canoni dell’arte”. In Roma Ti Amo – La Mostra si potranno ad esempio trovare i volti roma-nisti, celebri e non, catturati nei mesi precedenti

in appositi set fotografici che verranno allestiti allo stadio. E poi molte installazioni sensazionali, che coniugheranno grandi scenografie con la storia del club. “Basti pensare al calcio balilla di 20 metri che i visitatori si troveranno a vivere, con “omìni” alti oltre 2 metri anziché pochi centimetri”. Certo, se il tutto si fosse fatto in era Alemanno, metà dell’intel-lighenzia nazionale avrebbe gridato al sacrilegio. E invece sembra passare tutto liscio. MASSIMO MATTIOLI

www.asroma.it

L’asta del secolo da Christie’s New York. Il totale di venduto più alto della storia: Bacon record a 142 milioni di dollari, Koons record per artista vivente a 58 milioni. E primato anche per Lucio Fontana691,5 milioni di dollari: il totale più alto nella storia per una vendita all’asta. 142,4 milioni, l’aggiudicazione più alta di sempre, quella per il trittico di Bacon, che ha schiacciato così i 119 mi-lioni dell’Urlo di Munch di maggio 2012. Infine, 58,4 milioni per Jeff Koons, divenuto il prezzo più alto mai battuto per un artista vivente, superando di oltre 20 milioni il precedente record detenuto da Richter. La Evening Sale di Post-War and Contemporary Art del 12 novembre 2013 di Christie’s New York verrà ricordata come la sera dei record. Percentua-li di venduto del 98% per valore e 91% per lotto, 56

lotti oltre il milione di dollari, di cui 27 oltre i 10 milioni e 3 oltre i 50 milioni. 10 record d’artista, tra cui Willem de Kooning, Donald Judd, Ad Rein-hardt, Lucio Fontana, Christopher Wool, Wade Guyton e Wayne Thiebaud. Protagonista assoluto Francis Bacon, con un trittico dedicato all’amico Lucian Freud, riunito anni fa da un anonimo colle-zionista romano e affidato ad alcuni investitori per la vendita. Altro grande protagonista il 58enne Jeff Koons, la cui scultura Balloon Dog (Orange) è ora l’opera più costosa per un artista vivente mai battu-ta in asta. Solo sei mesi fa, sempre chez Christie’s, si era raggiunto il totale più alto per una vendita all’a-sta: a maggio, 495 milioni di dollari sembravano un limite insuperabile, ma sono bastati pochi mesi per lasciarselo alle spalle. MARTINA GAMBILLARA

www.christies.com

Il tesoro d’arte di Adolf Hitler era a Monaco di Baviera. 1.500 capolavori di proprietà nazista, da Klee a Kokoschka, da Kirchner a Nolde. Tutto come in un film (di George Clooney)La versione della “Truman Show Society” è que-sta: un perfetto spot per l’ultimo film di George Clooney. Così i dietrologi più esasperati, quelli che non temono di sfiorare la fantapolitica, hanno letto la notizia: il ritrovamento, in un appartamento dell’hinterland di Monaco di Baviera, del tesoro di Hitler. 1.500 opere d’arte accantonate dai nazisti, in parte perché trafugate a collezionisti ebrei, in parte perché appartenenti a quell’“arte degenerata” tanto osteggiata dal regime. Ma perché lo spot al bel George? Perché The Monuments Men, l’ultimo colossal di Clooney, si incentra proprio su questa vicenda, su un nucleo di opere d’arte sparite negli Anni Trenta che un manipolo di critici e diretto-ri di musei cerca di recuperare in Germania. Se non una manovra organizzata, certamente un bel colpo di fortuna. Anche perché di nuovo non c’è nulla: le vicende oggi venute alla luce risalgono al 2010/2011 ed erano tenute riservate dagli inqui-renti. Si sapeva di questo personaggio d’altri tempi, l’ottantenne Cornelius Gurlitt, nullafacente scono-sciuto al fisco tedesco, privo di pensione e persino di assistenza sanitaria: un fantasma, che però un giorno viene beccato su un treno con 9mila euro in contanti, di cui non sa spiegare l’origine. Da lì - siamo nel 2010 - le indagini, la perquisizione della casa di Schwabing, sobborgo di Monaco di Baviera, e la scoperta del tesoro. Si entra in quella che pare a sua volta la trama di un film: dietro a una parete costruita da cibo in scatola, ammassati fra sporcizia e polvere, la finanza scopre i 1.500 capolavori, ope-re di Beckmann, Chagall, Dix, Klee, Kokoschka, Liebermann, Kirchner, Marc, Matisse, Nolde, Picasso. Valore totale stimato: un miliardo di euro. Non c’è The Lion Tamer, di Max Beckmann, che Gurlitt – bisogna pur mangiare – aveva venduto tramite la casa d’aste Lempertz a Colonia per circa 900mila euro. L’inchiesta riconduce al padre di Gurlitt, Hildebrand, un ex direttore di museo inca-ricato dai nazisti di vendere le opere all’estero, che invece riuscì a farle sparire, dichiarando in seguito alle truppe alleate che tutta la sua collezione era stata distrutta nel bombardamento di Dresda.

Fondazione Molise Cultura. Un nuovo centro culturale nasce

a Campobasso: dopo il recupero, inaugurati gli spazi del Palazzo della ex GIL“I nuovi spazi espositivi, recu-perati nel progetto di restauro, rappresentano il punto di forza

10 NEWS

DEUTSCHE BANK. ARTE AL CENTROA fine 2013, il gruppo bancario tedesco ha aperto al pubblico le porte della nuova sede milanese di via Turati. Per un solo giorno, tra vetri oscurati e uffi-ci ad alte prestazioni energetiche, un centinaio di disegni e fotografie incorporano il concetto di “Art Works”. Abbiamo colto l’occasione per intervistare il Global Head of Art della collezione DB, Friedhelm Hütte.

Da quanti anni ha preso avvio la DB Collection in Italia? La prima sezione della Deutsche Bank Collection è stata inaugurata nel maggio 2007 nel palazzo della Direzione Generale della Banca a Milano Bicocca. Nel 2012 la collezione è cresciuta con l’apertura del-la nuova sede dell’Istituto in via Turati a Milano, per il quale sono state acquisite nuove opere.

Percentualmente, quanti artisti e opera d’arte ita-liani sono state scelte da DB rispetto ad altre na-zionalità? La Collezione in Italia è composta da circa 680 ope-re d’arte, tra cui sei lavori commissionati dalla Ban-ca ad artisti italiani. Il filo conduttore della collezione milanese è Immagini dell’Italia, cioè è rappresentato dalle suggestioni che l’Italia e il suo contesto socio-culturale hanno introdotto e introducono nella visio-ne personale di artisti italiani e stranieri. In linea con questo concetto, possiamo dire che l’80% dei lavori esposti sia opera di artisti italiani.

Di quali budget dispone annualmente DB in Italia per pianificare le acquisizioni? Esiste un team di art dealer che consiglia? Le acquisizioni vengono decise da una speciale commissione all’interno della Banca, supportata dalla consulenza di curatori esterni e sotto il co-ordinamento degli esperti del Global Art Team di Deutsche Bank.

Le opere d’arte selezionate per entrare nella DB Collection in Italia vengono poi mostrate anche in altre sedi in Europa? Sì, questo è possibile ma avviene prevalentemente in musei o spazi d’arte. Come accade normalmen-te nel mondo dell’arte, anche noi diamo in prestito le nostre opere per le mostre: ad esempio, un’ope-ra che è esposta nella collezione italiana potrebbe

essere concessa per un’esposizione a Londra. Allo stesso tempo, organizziamo mostre con i lavori del-la nostra collezione, per esempio il prossimo anno abbiamo in programma di realizzare un progetto iti-nerante di arte fotografica che verrà portato in tutta l’Asia. In questa occasione potrebbe essere esposta proprio una delle fantastiche fotografie che sta am-mirando in questo momento nella sede di via Turati.

Che cosa si intende con la filosofia “Art works”? Quali gli obiettivi da raggiungere e quelli raggiunti negli anni? “Art Works” è il concetto guida di tutta la Collezione Deutsche Bank. L’arte porta idee innovative e, spe-cialmente quella contemporanea, può essere vista come un serbatoio di nuovi pensieri. “Art Works” significa dunque l’arte che vive nel luogo di lavoro e favorisce il dialogo tra dipendenti, clienti e ospiti della banca. Anche le opere su carta presenti negli uffici dell’Istituto a Milano interagiscono con l’archi-tettura dei palazzi che le ospitano, dove la traspa-renza, l’innovazione e il dinamismo delle strutture sono specchio dei valori di Deutsche Bank.

Che cosa rappresenta il palazzo di Ermenegildo ed Eugenio Soncini e il suo recente restauro per il Gruppo DB? Quali sono le sue caratteristiche in-trinseche che lo rendono una sede allestitiva per l’arte? Il nuovo palazzo di Deutsche Bank in via Turati è stato inaugurato nel 2012, dopo importanti lavori di restauro, con due obiettivi fondamentali: in primo luogo alla base del progetto c’è stata la volontà di sfruttare in modo più incisivo le potenzialità di col-laborazione tra le varie unità di business; il secondo pilastro è stata la ricerca di una maggiore efficienza nell’occupazione degli spazi ufficio, grazie all’alto livello d’eccellenza delle soluzione architettoniche implementate. Dopo Bicocca, anche l’edificio di Tu-rati ospita dunque opere della DB Collection. Arredi moderni e flessibili sono in linea con la collezione d’arte contemporanea della Banca, nella quale opere di artisti emergenti trovano spazio accanto a quelle di esponenti già affermati del mondo dell’arte, se-condo il principio “Art Works”.

Quali caratteristiche hanno in comune le 50 opere della sede di via Turati? Brevemente potrebbe ci-

tarne alcune, le più rappresentative? Le opere d’arte della DB Collection in Turati pre-sentano le principali caratteristiche della Collezione in Italia. In primo luogo, anche in Turati, il filo con-duttore della collezione è Immagini dell’Italia, che si riferisce – come già spiegato – alle suggestioni che l’Italia e il suo contesto creano nella visione dell’ar-tista. Pensiamo per esempio alla straordinaria opera di Vincenzo Castella esposta all’ingresso e commis-sionata appositamente dalla banca: una fotografia di Milano che è anche omaggio dell’artista alla sua città natale. Pensiamo inoltre alle foto di Candida Höfer, Luigi Ghirri e Adrian Paci e al loro stretto legame con il territorio italiano. Inoltre si tratta sempre di lavori su carta, mezzo espressivo prevalente nella collezione Deutsche Bank perché capace di riflet-tere il carattere progettuale del processo creativo. Tra tutti i media riteniamo che la carta sia la più adatta a registrare e comunicare le prime idee, gli esperimenti, i concetti e gli schizzi dell’artista. Infine tutte le opere d’arte anche in Turati sono esposte secondo il principio “Art Works”

Quale augurio formulare per la crescita qualitativa e quantitativa della collezione DB in Italia? Il nostro obiettivo è ottimizzare costantemente la collezione esistente portando all’interno della DB Collection in tutto il mondo proposte sempre nuove e promettenti.

GINEVRA BRIA

www.db.com/italia

LUCIANO PIVOTTO14 DICEMBRE 1951 - 19 NOVEMBRE 2013 GÜNTHER FÖRG5 DICEMBRE 1952 - 5 DICEMBRE 2013 GIANCARLO CAZZANIGA20 SETTEMBRE 1930 - 5 DICEMBRE 2013 KATE BARRY8 APRILE 1967 - 11 DICEMBRE 2013

PINO CASAGRANDE2 AGOSTO 1939 - 12 DICEMBRE 2013 ARNOLDO FOÀ24 GENNAIO 1916 - 11 GENNAIO 2014

NECROLOGY

di questa rinascita: la Galleria Civica che accoglierà piccole ma significative esposizioni, personali, progetti didattici, e la grande Area Espositiva sottostante, predisposta per accogliere grandi mostre ed eventi cul-turali di rilievo”. Con queste parole Sandro Arco, direttore della Fondazione Molise Cultura, presenta il nuovo centro culturale realizzato a Campobasso con il recupero del palazzo dell’ex GIL, realizzato negli anni 1936/1938 su progetto dall’architetto Domenico Filippone, l’unico esempio di architettu-ra razionalista nel capoluogo molisano. Per i nuovi spazi, che ospiteranno anche la stessa Fondazione Molise Cultura e le strutture regionali dedicate alla cultura e al turismo, oltre a un auditorium da 260 posti, l’appuntamento che li ha inaugurati, una grande mostra dedicata a Gino Marotta, rappresen-ta solo un inizio: anche se i dettagli organizzativi e di governance non sono ancora definiti, ci sarà un’attività espositiva strutturata con attenzione ad artisti legati alla Regione - si vocifera già di un omaggio ad Achille Pace - e del panorama nazionale ed internazionale. MASSIMO MATTIOLI

www.fondazionecultura.it

Cagliari, Siena, Ravenna, Matera, Perugia, Lecce. Capitale Europea della Cultura 2019, sono queste le città candidate che superano la selezioneSono Cagliari, Siena, Ravenna, Matera, Perugia e Lecce le città che passano il turno per la compe-

tizione verso la designazione a Capitale Europea della Cultura 2019. Questo quanto emerso dalle decisioni della giuria composta da tre candidati italiani - tra cui Francesco Manacorda e Alessandro Hinna - più quattro europei, dopo una serie di audizioni cominciate a Roma lo scorso novembre. Un giudizio molto equilibrato, che ha voluto con la shortlist offrire una rappresentanza esaustiva del territorio nazionale, ma anche premiare la solidità dei percorsi di candidatura. SANTA NASTRO

www.capitalicultura.beniculturali.it

Cino Zucchi curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Architettura di Venezia. Bray chiama l’architetto milanese, già favorito nel toto-direttoreSarà Cino Zucchi il curatore del Padiglione Italia alla 14. Biennale di Architettura di Venezia. Qual-cuno alla sua nomina ha ricordato quanto accaduto nel 2008, quando proprio Zucchi si sfilò dalla shortlist - che poi avrebbe portato all’incari-co a Francesco Garofalo - per “impegni pregressi”. Zucchi era comunque uno dei nomi ricor-renti nel toto-curatore, assieme a Stefano Boeri. Docente al Politecnico di Milano e Visiting Professor ad Harvard, Zucchi vanta progetti importanti come il ridisegno dell’area ex Junghans, proprio a Venezia, l’amplia-mento del Museo Nazionale dell’Automobile a Torino, il masterplan per l’area di Keski Pasila a Helsinki, il nuovo centro direzionale Lavazza, solo per citarne alcuni. Alla Biennale di Venezia non è certo nuovo, avendo esposto alla sesta, ottava, dodicesima e tre-dicesima edizione, ricevendo la menzione speciale della giuria nel 2012 per l’installazione Copycat. Empathy and Envy as Form-makers.

www.labiennale.org

11NEWS

RAPECerto, l’erotismo è vissuto da ciascuno in maniera di-versa; e non sempre gioiosamente, come potrebbe e dovrebbe essere. La pulsione sessuale induce a volte, e neppure tanto di rado, a prevaricare sulla personalità del partner, fino a sfociare in episodi di violenza. E chi resta vittima di sopruso sessuale difficilmente potrà ri-accostarsi ad affrontare situazioni erotiche con animo disteso e propenso a un raggiante godimento. Tale è per molte persone la dura e incoercibile realtà, già difficile da affrontare e poi difficile da smaltire e dimenticare. Addirittura in molti casi, come insegna la statistica, il dolore originario resta indissolubilmente intrecciato al piacere che si proverà in seguito, dando origine a mi-scugli agroamari di sensazioni comunque potenti.Anche la giovane artista israeliana Zohar Fraiman (Gerusalemme, 1987) custodisce nel proprio passato qualcosa di oscuro con cui sta facendo i conti. L’i-dea dell’amore fisico le crea evidentemente qualche problema. Di fatto, i soggetti figurativi principali dei suoi dipinti, tradizionalissimi oli su tela anche di dimensioni rilevanti, sono giovani donne in condi-zioni di sofferenza psicofisica. Situazioni più fre-quenti: in un interno spoglio, una ragazza, vestita o

no, siede evidenziando un sentimento di solitudine e disagio psicologico del tutto percepibile a livello posturale, come se si vergognasse del proprio corpo; quando la giovane non è sola con le proprie angosce, altre donne la osservano, considerandola con ogni evidenza non positivamente; e anzi, molto spesso alle sue spalle sta un’altra figura femminile, più adulta, dall’incongrua apparenza materna, che le stringe le mani intorno al collo come per strozzarla.Il fantasma ingombrante della mamma yiddish, evidentemente, non infesta solo l’inconscio ebraico maschile. Motivi religiosi, familiari, sociali accatastano i loro pesi sulla psiche anche femminile. Per quanto domestici e confidenziali possano essere tali rapporti, non di meno restano brutali. E non tanto tra uomo e donna, da maschio a femmina, come si può immaginare banalmente; ma come accade in Rape (2011 [nella foto]) e in dipinti similari – dove gli stupratori della donna, maschi e femmine alleati, nella frenesia costruiscono tuttavia eleganti composizioni coreografiche asimmetri-camente stellari – appunto pure direttamente tra donna e donna, tra femmina forte e femmina debole, tra dominatrice e dominata, le quali così interpretano il valore dell’amore (materno/filiale) in modi perlomeno problematici.L’estetica di quest’arte metaforica è tiepida: calda per i contenuti, fredda per le forme. I volti si chiudono in se stessi, i colori sfumano e si abbassano nelle ombre, i gesti si rapprendono quasi in disperante pudicizia. La pittura della giovane Fraiman - la quale, oltre che in Israele, si è formata a Boston e in Umbria - rivela una cultura cosmopolita che le permette di citare Giotto e Balthus come almeno due generazioni di Wyeth con una certa contorta disinvoltura. La contraddizione in termini (il nome Zohar in ebraico significa ‘splendore’), sì, fa al caso suo.

www.zoharfraiman.com

OPERA SEXY di FERRUCCIO GIROMINI

Uno stalker in Norvegia. Breve resoconto di Bergen Assembly, in attesa della prossima edizioneUn viaggio nel tempo e nello spazio. Monday Be-gins on Saturday è il titolo della prima edizione di Bergen Assembly, appun-tamento triennale che si è concluso a fine ottobre a Bergen in Norvegia. Ekaterina Degot e David Riff, i curatori della mostra, hanno scelto come punto di riferimento un romanzo di fantascienza, dall’omonimo titolo, scritto nel 1964, in piena Guerra Fredda, dai fratelli Arkady e Boris Strugatsky, dal cui romanzo più noto, Roadside Picnic, Andrei Tarkovsky ha tratto il film Stalker. Il ro-manzo narrava di un istituto di ricerca in cui scienziati e ricercatori cercavano di individuare e risolvere il problema del difficile raggiungimento della felicità, vista la presenza dell’opprimente e onni-presente burocrazia statalista sovietica, attraverso la magia e altri metodi parascientifici. I curatori hanno ideato per Bergen Assembly un arcipelago di istituti di ricerca fittizi (come accade nel romanzo), ospitati in undici diversi spazi espositivi presenti

in città, che creavano un montaggio di lavori nuovi e materiali storici di 50 artisti, intervallati da fram-menti letterari e annotazioni curatoriali, anch’esse fittizie. Un assemblaggio che presentava il risultato di ricerche artistiche e sociali riguardanti le con-traddizioni e ingiustizie del nostro tempo. Epoca

piena di sollevazioni e rivolte mancate, con-tinuamente riprese e sorvegliate, in cui

il futuro è appannaggio della sola classe agiata, mentre per i co-

muni mortali l’instabilità e la precarietà regnano sovrane. Esempi? Istitute for Disap-pearing Future presentava i film di Pelin Tan e Anton Vidokle ambientati in un futuro distopico, accanto a film di fantascienza e foto-

grafie sovietiche degli Anni Sessanta e Settanta, e a Icarus

13 di Kiluanji Kia Henda, che documentava un progetto aero-

spaziale dell’Angola mai realizzato. Andreas Siekmann e Alice Creischer, in

Institute of Perpetual Accumulation, hanno presen-tato invece le aggressive dinamiche economiche postcoloniali, e Inti Guerrero con Institute of Tropi-cal Fascism si è occupato di cospiratori e angeli del male. LORENZA PIGNATTI

www.bergenassembly.no

Sarà Adam Szymczyk il curatore di Documenta 14. Quasi quattro anni a disposizione per l’attuale direttore della Kunsthalle Basel, con la kermesse al via a Kassel il 10 giugno 2017Se non avete ancora rielaborato la dOCUMENTA (13) di Carolyn Christov-Barkargiev, sappiate che la kermesse ha già nominato il suo nuovo diret-tore. Sarà infatti Adam Szymczyk, direttore della Kunsthalle di Basel, a tenere in mano le redini dell’appuntamento numero 14 che si terrà a Kassel nel 2017, come annunciato dal Ceo, Bernd Leifeld. Com’è avvenuta la selezione? Una commissione for-mata da otto esperti provenienti da tutto il mondo ha contattato una shortlist di sei candidati, invitan-

doli a presentare i propri concept, poi

discussi con i mem-bri della “commissione

ricerca”. Szymczyk ha trionfato su una seconda shortlist di tre candidati. C’è anche una data, il 10 giugno, per l’inaugurazione della manifestazio-

ne quinquennale che avvicinerà, non

solo geograficamente, Kassel e Basel in occasione

del cosiddetto “grand tour”. Che quell’anno sarà ulteriormente arricchito - come accadde nel 2007 - dallo Skulptur Projekte di Münster, evento decennale che terrà la sua quinta edizione. SANTA NASTRO

www.documenta.de

Inaugurate le Grandi Gallerie dell’Accademia. A Venezia spazi più che raddoppiati, con interventi e dotazioni che portano le Gallerie nel rango dei grandi musei internazionaliTrenta nuove sale di diverse dimensioni, con spazi espositivi che passano dagli attuali 6mila a oltre 12mila mq. Con nuovi e moderni servizi di ac-coglienza per i visitatori, una caffetteria, una sala conferenze, un’ala dedicata alle mostre temporanee. Il tutto con la benedizione più importante, quella di Andrea Palladio. Venezia trova come regalo per il nuovo anno le Grandi Gallerie dell’Accademia: dopo otto anni di lavori si sono infatti conclusi gli interventi di restauro, adeguamento funzionale e ampliamento del grande complesso di Santa Maria della Carità, occupati in passato dall’Accademia di Belle Arti, e il museo è stato inaugurato in persona dal Ministro dei Beni Culturali Massimo Bray. Per il momento si tratta di un’apertura che riguarda gli spazi architettonici: un progetto dell’architetto Tobia Scarpa, interamente finanziato dal Ministero con oltre 26 milioni di euro. Poi si passerà agli allestimenti, con l’armonica distribuzione delle collezioni nelle nuove straordinarie sale. Spazi più che raddoppiati, dunque, con interventi e dotazioni che portano ancora più le Gallerie dell’Accademia nel rango dei grandi musei internazionali. Di per-tinenza del museo sarà anche l’ampia corte interna dove Palladio, tra il 1561 e il 1563, costruì “un bellissimo edificio che declina gli ordini architettonici dorico, ionico e corinzio sovrapposti su tre livelli, così come rappresentato nel suo trattato ‘I Quattro Libri dell’Architettura’. Nell’ala palladiana, anticamente riservata ai canonici Lateranensi, si trovano anche il Tablino e la famosa scala ovata di cui Goethe nel 1786, disse che è ‘la più bella scala a chiocciola del mondo’”. MASSIMO MATTIOLI

www.gallerieaccademia.org

12 NEWS

OBIETTIVO FOTOMANIAGadget e oggetti curiosi per gli amanti della fotografia. Da usare, indossare e persino mangiare. Dai cuscini a forma di obiettivo alle fotografie di Instagram stampate su morbide caramelle, ecco come la mania dello scatto incontra il product design.

UN OBIETTIVO GIGA(NTE) Una pen drive da 4 oppure 8 Gi-gabyte si nasconde in questa micro riproduzione di una macchina fotografica Nikon. Comoda e di-vertente, la Camera USB Drive è composta da un tappo-corpo e da una pennetta-obiettivo. Per trasfe-rire con stile i vostri scatti da un computer all’altro. www.photojojo.com

METTI A FUOCO IL CAFFÈ Sembra un costoso obiettivo, con tanto di zoom, ma è in realtà una comoda tazza da viaggio. Il coperchio, poi, può essere utilizzato per contenere snack o biscotti. La Camera Lens Cup, divertente ed elegante, è uno dei gadget più popolari su Internet. www.red5.co.uk

FOTO-COCCOLE Siete dei veri feticisti dell’obiettivo? Portate la vostra macchina fotogra-fica ovunque, persino nel letto? Al-lora i Camera Lens Pillows sono l’ac-cessorio d’arredamento che fa per voi. Tanti diversi cuscinoni a forma di obiettivo, tutti da abbracciare. www.plushtography.com

SCATTI A DISTANZA Più aumenta la qualità degli obiettivi e dei software inclusi negli smartphone, meno si sente il bisogno di portare con sé una macchina fotografica. Ci sono momenti, però, in cui tenere il telefono in mano e contemporaneamente premere il pulsante risulta impossibile. Per questo c’è Shuttr, il telecomando per scattare a distanza. www.photojojo.com

ISTANTANEE DELIZIOSE Instagram è uno dei social network più utilizzati per la condivisione delle immagini. Collegando il proprio account al sito di Boomf è oggi possibile stampare le proprie fotografie direttamente sulla superficie di deliziosi marshmallows. Per gustare, letteralmente, i propri momenti più belli.www.boomf.com

MATTONCINI ALLA RISCOSSA Sembra (ed è) un giocattolo, ma questa minimacchina costruita con i mattoncini Lego scatta fotografie vere e gira anche brevi video. La Nanoblock Digital Camera può van-tare una risoluzione di 2 Megapixel e 16 Gigabyte di memoria. Inoltre, contiene 28 mattoncini extra, per dare all’oggetto qualsiasi forma si desideri. www.fourcornerstore.com

STAMPA IGIENICA Mentre la Polaroid si mette al passo con i tempi lanciando la Socialmatic Camera, una macchina fotografica che scatta le foto, le stampa e le condivide sui social network, lo studio di design Doiy prende a prestito la sua versione vintage per farne un accessorio da bagno. Si chiama Polaroll ed eroga carta igienica. www.doiydesign.com

CAMERE MOBILI L’ispirazione è inconfondibile, sono i celebri mobile di Alexander Calder. Il tema però è esclusivamente fotografico: ai bracci sono appese silhouette in carta che riproducono cinque diverse macchinette vintage. Le decorazioni sono fatte a mano negli States dall’utente di Etsy SaltyandSweet. www.saltyandsweetdesign.com

di VALENTINA TANNI

LENTI PER LA PELLE I Lens Bracelets sono stati inventati nel 2010 dal fotografo Adam Elmakias, che li usava come originali biglietti da visita. Con il passare dei mesi, tuttavia, la loro popolarità crebbe a tal punto da spingere Elmakias ad aprire uno store online, dove tuttora ne vende di ogni foggia e misura. www.lensbracelet.com

GIOCHIAMO A PHOTOPOLY?Tutti conoscono il Monopoli, il gioco da tavolo più famoso del mondo. Ora ne esiste una versione “fotografica”, che permette di perso-nalizzare tutte le tappe sul tabellone utilizzando la propria personale col-lezione di fotografie. Basta armarsi di forbici, colla, dadi e… via!www.amazon.com

14 CONSIGLI

HAVE A NICE TRIPSi parla tanto di globe trotting quando si pensa ad appassionati e professionisti dell’artworld, sempre alle prese con biennali e fiere e grandi mostre in giro per il mondo. Ma l’arte e la sua critica talora sa far viaggiare anche stando comodamente seduti sul divano. Lungo secoli e Paesi distanti.

di MARCO ENRICO GIACOMELLI

IL MET E I TOMBAROLISi dice spesso: “Questo libro si legge come un romanzo”. A parte che molti romanzi non si possono leggere, in questo caso lo slogan è calzante. Perché la vicenda auto-biografica dell’ex direttore del Met, Thomas Hoving, ha dell’incredibi-le. Per non dire dei racconti relativi alle acquisizioni ben poco ortodosse di beni italiani.Thomas Hoving Il Re dei Confessori - Nutrimenti

IL CAROSELLO DI PASCALIÈ morto a 33 anni per un incidente motociclistico. Era il 1968 e a Venezia le sue opere erano esposte alla Biennale. È quindi una storia breve quella di Pino Pascali, ma in-tensa, profonda, e allo stesso tempo scanzonata, dotata di una leggerezza calviniana. A raccontarla, tre scritti di Brandi Rubiu, e una prefazione di Fabio Sargentini.Vittorio Brandi Rubiu Vita eroica di Pascali - Castelvecchi

IN VIAGGIO CON IL DITOAvete presente quei giochi in scato-la in cui l’età consigliata dei gioca-tori va dai 3 ai 99? Ecco, le Mappe ideate e disegnate dalla coppia Aleksandra Mizielinska & Daniel Mizielinski sono di quel genere. Informano correttamente ma non sono cataloghi di nozioni fredde. E ci si perde - anzi, ci si guadagna - delle ore a percorrerle.Aleksandra Mizielinska & Daniel Mizielinski - Mappe - Electa

DITTATURA CINESEAvrà anche operato aperture im-portanti dal punto di vista politico e sociale. E Ai Weiwei avrà pure “sfruttato” a vantaggio della propria popolarità le vicende giudiziarie che lo hanno coinvolto. Ma sta di fatto che l’allucinante viaggio nelle pri-gioni cinesi del celeberrimo artista dimostra quanto ci sia ancora da fare in quel Paese.Barnaby Martin Hanging Man - il Saggiatore

GRA: NON SOLO IN CODAIl film girato da Gianfranco Rosi, è noto, ha vinto il Leone d’oro. Meno noto il fatto che il progetto Sacro Gra, ideato dal paesaggista Nicolò Bassetti, comprende anche un sito web, una mostra e un libro. Quest’ultimo racconta il viaggio lungo 300 chilometri intorno al Raccordo Anulare. Fra carnevali tedeschi e orti carcerari.Nicolò Bassetti & Sapo Matteucci Sacro romano Gra - Quodlibet/Humboldt

THE FIRST SEX DOLLQuinto volume di Camilleri pub-blicato nella collana Narrativa di Skira. Questa volta il cantastorie siciliano romanza la storia appas-sionata di Oskar Kokoschka e Alma Mahler, vedova del compositore Gustav. Storia la cui turbolenza sfocia, fra l’altro, nella realizzazione della prima bambola erotica della storia.Andrea Camilleri La creatura del desiderio - Skira

HORRIBILE DICTUMadre castrante, Medusa è, per dirla con i Pink Floyd, the dark side of the moon. Estetica e psicoanalisi non possono che unirsi per scan-dagliare quel gusto per l’orrido che insieme attira e repelle. Uno dei migliori saggi di Jean Clair, quando - era il 1989 - ancora non si limita-va ai pamphlet biliosi. In punta di fioretto, per ventotto secoli.Jean Clair - Medusa - Abscondita

GRAFIA DUPLICECuratela affidata a Goffredo Fofi, con una mossa che assicura la corretta strumentazione culturale e didattica per compiere un itine-rario di confine. Il volume Scrittori affianca infatti autori più classica-mente legati alla grafia con quelli che scrivono con la luce. Per goder-si chicche come lo scatto di Picasso ad Apollinaire.Scrittori - Contrasto

15PER GLI ACQUISTI

DURALEX di RAFFAELLA PELLEGRINO

LE CONTRADDIZIONI DEL DIRITTO DI SEGUITOSi torna a parlare di diritto di seguito e delle contraddizioni che caratterizzano questo discusso diritto degli autori. Il diritto di seguito è il diritto riconosciuto all’autore di un’opera d’arte di percepire un com-penso percentuale sul prezzo di ogni vendita dell’opera successiva alla prima cessione da parte dell’au-tore. In Italia il soggetto deputato a incassare tale compenso è la SIAE, alla quale devono essere inviate le dichiarazioni di vendita.Navigando sul sito della SIAE ci si accorge che molti autori non rivendicano gli importi incassati, con la conseguenza che l’ente non può ripartire e pagare gli aventi diritto. Per ottenere il pagamento del diritto di seguito gli autori, o gli eredi, devono attivare la semplice procedura di riconoscimento, che consiste nel compilare alcuni moduli disponibili sul sito della SIAE, attraverso i quali rendono note le proprie ge-neralità. Decorsi cinque anni, le somme non rivendicate sono devolute all’Ente nazionale di previdenza e assistenza per i pittori e scultori, musicisti scrittori ed autori drammatici. Una semplice e legittima opportunità di guadagnare dal frutto del proprio lavoro intellettuale che viene distrattamente sprecata.Tuttavia, se alcuni autori trascurano di rivendicare i propri diritti, le società di collecting si fanno promo-trici di una petizione per il riconoscimento internazionale del diritto di seguito.La petizione è promossa da EVA - European Visual Artists, un’organizzazione europea che rappresenta gli interessi di 25 società di gestione collettiva (fra le quali anche la SIAE) dei diritti degli autori di opere figurative. Lo scopo di tale petizione è portare all’attenzione dell’OMPI - Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale e dei ministri della cultura dei diversi Paesi la necessità di un riconoscimento internazionale del diritto di seguito, anche in quei Paesi che attualmente non lo prevedono. Difatti, se a livello comunitario il diritto di seguito è ormai riconosciuto in modo armonico grazie alla Direttiva 2001/84/CE, a livello di extracomunitario ci sono vuoti normativi, ad esempio negli Stati Uniti o in Sviz-zera, dove tale diritto non è riconosciuto. Nell’ottica di una efficace applicazione del diritto di seguito, è importante il riconoscimento internaziona-le di tale diritto per colmare i vuoti normativi, ma è altrettanto importante che gli autori diventino soggetti responsabili che rivendicano attivamente i propri diritti. Solo così sarà pienamente soddisfatta la nobile ratio legis che impone agli operatori un ulteriore esborso economico negli scambi commerciali.

E dove se non a Lugano poteva nascere una galleria che tratta le opere come obbligazioni? Rendimento garantito per tre anni, anche in caso di vendita anticipata. Ne abbia-mo parlato con l’ideatore, Igor Ricci.

Com’è nata l’idea di aprire questa nuova galleria? Da quali esigenze, da quali istanze, da quali punti di par-tenza?Lugano è innanzitutto una piazza finanziaria, e accoglie collezionisti e galleristi di fama. Ci sembra una natura-le conseguenza che vi nasca anche un modo inedito di fare collezionismo, anzi, rivoluzionario. In una città che è il ponte ideale tra Milano e metropoli d’arte come Basilea e Zurigo, la Five Gallery propone di collezionare e di fare un investimento a prezzi accessibili. Five Gallery offre a chi investe in una sua opera un bonus (simile a un rendimen-to) del 5% per tre anni, ogni anno. È una formula molto si-mile a un’obbligazione, e vale anche se l’opera viene ven-duta prima dei tre anni di durata del rendimento garantito.

Chi c’è dietro l’iniziativa? Da dove venite, cosa avete fatto prima di questo?Il sottoscritto, Igor Rucci, con esperienza ventennale nella finanza internazionale, rappresenta e coordina un grup-po di collezionisti, finanzieri conosciuti, esperti, critici di

lungo corso, tutti con esperienze in aziende, banche, enti pubblici, quindi con il vantaggio competitivo di comprendere e collegare le diverse esigenze del collezionista e dell’artista, ma anche dell’investitore e del mondo “corporate”. Viaggiamo di continuo negli Stati Uniti, a Londra, a Madrid, in Malesia, Mesopota-mia, Thailandia, Marocco, Russia, ma anche in Spagna, Italia, Svizzera e non da ultimo in Canton Ticino, per individuare linee d’ispirazione e opere innovative e soprattutto esteticamente valide di artisti non necessariamente già presenti, con quotazioni troppo alte, nel solito meccanismo commerciale dell’arte.

Su quale tipologia di pubblico e di clientela puntate? E su quale rapporto con il vostro territorio?I collezionisti cui si rivolge Five Gallery sono giovani, ma non solo, e soprattutto intraprendenti, che dopo aver frequentato le gallerie di tendenza stanno cercando il loro prossimo oggetto del desiderio che vada oltre al solito, al già stabilito. Per coltivare una passione non è obbligatorio acquistare a sei zeri sui mer-cati più tradizionali dell’arte, ma lanciamo un nuovo trend in artisti che abbiano due caratteristiche ben precise: una produzione che piace e un curriculum che ne dimostri la professionalità.

Un cenno ai vostri spazi espositivi. Anche la formula espositiva di Five Gallery è insolita: un elegante appartamento d’epoca che offre il vantaggio di presentare le opere come appariranno in un’abitazione, e non immerse nel solito loft, garage o capannone senza anima e inabitabile.

FIVE LUGANONUOVOSPAZIO

Via Canova 7+41 (0)91 [email protected] - www.fivegallery.ch

I due uomini che salveranno Pompei. Un generale dei carabinieri e un dirigente regionale: ecco le nomine, dopo mesi di standby. Manager del turismo e della cultura? Non pervenutiQualcosa si muove, in quel di Pompei. Lo scorso agosto il governo Letta aveva approvato il famoso decreto Valore Cultura, che tra i vari punti di un programma senza infamie e senza lodi - certo non ambizioso né rivoluzionario, ma nemmeno del tutto lacunoso - prevedeva anche la nomina di un direttore generale del Grande Progetto Pompei, una figura con pieni poteri, necessaria “per gestire le emergenze, assicurare lo svolgimento delle gare, migliorare la gestione del sito e delle spese”. Con un portafoglio di 105 milioni di euro stanziati dalla Comunità Europea. Alla fine i nomi sono arrivati: direttore generale del Progetto Pompei è il generale dell’arma dei Carabinieri Giovanni Nistri, già alla guida del comando carabinieri Tutela patrimonio culturale dal 2007 al 2010; mentre il ruolo di vicedirettore va a Fabrizio Magani, direttore regio-nale dei Beni culturali e paesaggistici d’Abruzzo e responsabile del progetto L’Aquila. Motivazioni? Il primo si è distinto come responsabile di uno dei più prestigiosi nuclei di tutela del patrimonio storico artistico del Paese, “dimostrando sensibilità e determinazione nel contrasto delle forme di illegalità dei beni culturali”; l’altro ha coordinato il piano di restauro del centro storico colpito dal sisma del 2009, “gestendo con puntualità i progetti del Ministero che hanno come scopo principale quello di restituire i beni culturali della città ai suoi abitanti”. Il lavoro sarà complesso: urge la messa in sicurezza e la riqualificazione del sito archeologico, tra i più importanti al mondo, nel tentativo di trasformarlo in uno dei poli di attrazione di punta del turismo italiano. Un solo punto di domanda: un generale dei Carabinieri e un dirigente regionale, al netto di meriti e virtù, saranno figure sufficienti per ottenere qualcosa che è da sempre, per l’intero territorio nazionale - e per il centro-sud in particolare -, una specie di utopia? La cura, la difesa, la valorizzazione e la promozione dei beni storico-artistici, con tanto di ricadute felici sull’indotto, sono per l’Italia un vulnus irrisolto. E la storia di Pompei brucia, con particolare rabbia. Un pool di manager del turismo e della cultura, in grado di ridare impulso alla ge-stione del sito e di coordinare i vari comparti della gestione, con strategie innovative e grande rigore, è quello che servirebbe e che magari, più in là, verrà individuato. Intanto si attendono le prime mosse dei due nuovi responsabili. Sperando che si accele-ri, prima di un nuovo crollo. HELGA MARSALA

Verona riavrà la Galleria d’Arte Moderna Achille Forti a Palazzo della Ragione. Alla guida ci sarà Luca Massimo BarberoIl futuro del Palazzo della Ragione di Verona è quello di nuova sede della Galleria d’Arte Moder-na Achille Forti. I lettori di Artribune Magazine avevano già avuto ampia anticipazione sul numero 15 direttamente dalla penna di Luca Massimo Barbero, che ne sarà il direttore artistico: ora però il progetto ha assunto i connotati dell’ufficialità, con l’impegno formale di aprire per la primavera 2014. Il frutto di una importante sinergia tra il Comune di Verona, la Fondazione Cariverona e la sua altra realtà legata alla cultura e alle arti, la Fondazione Domus. Le importanti opere della Galleria, uni-tamente a quelle delle due Fondazioni, verranno

16 NEWS

QUANDO IL FESTIVAL È SOCIAL. IL PUNTO SU NEW GENERATIONSSi è tenuta a Milano a fine novembre la prima edizione del New Generations Festival, con oltre quaranta studi di architettura under 36 con base in Italia, Spagna, Olanda, Grecia, Portogallo, Ro-mania, Svezia e Turchia. Che hanno partecipato a workshop, conferenze, mostre, tavole rotonde. Un festival nato, vissuto e cresciuto sui social net-work, Facebook in primis, con cui ha in comune quei concetti di network e condivisione diventati oggi imprescindibili nel lavoro dei giovani studi. Ne abbiamo parlato con gli ideatori, Giampiero Ventu-rini e Carlo Venegoni.

Com’è nata l’idea del festival?Tutto è partito da una ricerca iniziata due anni fa: le videointerviste a giovani studi europei. Nel corso del primo anno abbiamo ricevuto i primi patrocini dall’ordine degli architetti di Roma e Milano. La no-stra intenzione era di creare un grande workshop di discussione. Da qui l’idea è stata di gettare il cuore oltre l’ostacolo e di coinvolgere il numero più alto possibile di studi per avere un confronto sull’i-dea del lavorare in network.

Come avete selezionato gli studi?Due anni fa ne abbiamo selezionati circa un cen-tinaio attraverso amicizie in comune e dopo aver visto il loro lavoro sui social network, soprattutto Facebook. L’idea era guardare a quegli studi che non avevano una grande visibilità nei media tra-dizionali.

Cosa li accomuna? Secondo noi è più importante capire cosa li dis-ac-

comuna. Abbiamo pro-vato a riunire gli studi dalle caratteristiche più diverse: il collettivo, lo studio singolo piuttosto che lo studio che lavora solo su un determinato tema. Abbiamo cercato di dare una visione più varia possibile di quel-lo che sta succedendo nel mondo dei giovani studi.

Se doveste scegliere tre tematiche venute fuori al festival? Una molto ricorrente è sta-ta “crisi”...È difficile dirlo in tre parole. La crisi secondo noi non è proprio un tema. Parliamo sempre di network e collaborazione, pa-role molto utilizzate per cui ci criticano spesso. Quello di cui ci sentiamo fieri è di aver creato le condizioni per fare network, metterlo in pratica e portare a Milano molte persone. In tutte le attività facciamo confrontare persone completamente di-verse tra loro. Il tutto è avvenuto in un unico spazio [La Fabbrica del Vapore, N.d.R.] dove diverse atti-vità si sono susseguite e in cui ognuno ha parteci-pato liberamente, come un laboratorio.

Pensate a una seconda edizione?Assolutamente sì. La continuità ci viene assicurata

dalle persone che stanno credendo al progetto e alla piattaforma in Europa. Ad esempio in Romania una nostra collega a gennaio comincerà il progetto delle videointerviste a una serie di giovani studi lo-cali promettenti. E poi continueremo in Portogallo, in Belgio, c’è quindi un capitale potenziale. Il pro-getto è europeo e pensando alla seconda edizione del festival questa potrebbe essere a Milano, come a Roma o Barcellona, o magari Bucarest.

ZAIRA MAGLIOZZI

www.newgenerationsweb.com

quindi esposte per la prima volta in questa fase di apertura, in una selezione che rappresenta le raccol-te cittadine dal 1840 al 1940. Sarà interessante, ha anticipato Barbero, “scoprire il grande ed enigmatico

Risorgimento veronese attraverso la Meditazione di Francesco Hayez o ritrovare emblemi della città

come il bronzo del Dante di Ugo Zannoni che rimanda direttamente alla storia di Verona. Altrettanto straordinario sarà quindi salu-tare la nascita del XX secolo attraverso ‘Le Bagnanti’ di Giorgio Morandi o l’arrivo di Felice Casorati a Verona con l’entusiasmo della città per le secessioni veneziane”.

www.palazzodellaragioneverona.it

Andrea Lissoni alla Tate Modern, che lo chiama come Film and International Art Curator. Il mandato parte con la prossima primavera, prevedibile nel 2015 l’addio definitivo all’Hangar BicoccaTanto va la gatta al lardo. Che Andrea Lissoni cam-minasse su quel filo sempre più sottile che separa - o unisce: fate voi - cinema e videoarte era chiaro a chi ha seguito il suo percorso di curatore dell’Han-gar Bicocca, cominciato nel 2011. Le dimostrazioni più recenti di una spiccata sensibilità nei confron-ti del genere arrivano con le mostre di Ragnar Kjartansson, Apichatpong Weerasethakul e Mike Kelley. Il curriculum internazionale c’è, l’esperienza sul campo anche, il profilo è insomma più che sufficiente per essere accolto a braccia aperte da una delle più importanti istituzioni d’Europa (e dunque del mondo). Lissoni entra nella crew della Tate Modern di Londra come Film and International Art Curator: una chiamata frutto di una se-lezione operata su una serie di application arrivate al museo negli ultimi mesi. L’incari-co parte il prossimo mese di marzo, il contratto è

a tempo indeterminato: dettaglio che lascia presa-gire come le strade di Lissoni e quelle dello spazio milanese siano destinate prima o poi a separarsi. Non subito, si affrettano a precisare dall’Hangar: il curatore proseguirà il suo impegno a Milano fino al 2015. Su ciò che accadrà alla naturale conclusione del rapporto di lavoro si può supporre quello che i diretti interessati non dicono: se la Tate chiama, si risponde presente a tempo pieno, mica part-time. Si fa fitto dunque l’asse di scambio tra Londra e Milano, con l’Hangar sempre al centro delle tratta-tive di mercato: ieri in entrata con l’arrivo Vicente Todolí, oggi in uscita. E si rimpolpa la schiera dei curatori italiani che tentano la via dell’estero: vedi, oltre il giramondo Massimiliano Gioni, le nomine Andrea Bellini al CAC di Ginevra, Mario Codo-gnato al Museo del Belvedere di Vienna, Lorenzo Benedetti al MARTa di Herford, Fabio Cavallucci al Castello Ujazdowski di Varsavia, Alfredo Crame-rotti al MOSTYN, Francesco Manacorda ancora alla Tate ma a Liverpool, e via dicendo… FRANCESCO SALA

www.tate.org.uk

Venezia e l’arte contemporanea raccontata a bambini, famiglie, studenti. Da Palazzo Grassi a Punta della Dogana, un fitto calendario di incontri e laboratoriIl triangolo virtuoso veneziano targato Pinault, formato dai tre fulcri strategici di Punta della Do-gana, del Teatrino e di Palazzo Grassi, continua nel suo lavoro di promozione culturale, offrendo

alla città programmi espositivi e di appro-fondimento. Occasioni preziose per

il pubblico generico, per quello di settore e per quello giova-

nissimo. Riparte così anche quest’anno il fortunato ciclo L’opera parla, giunto alla sua quinta edizione: ogni mercoledì pomeriggio

alle 17, a Punta della Dogana, un appuntamento organizzato in collaborazione con i tre atenei vene-ziani (Ca’ Foscari, Iuav e Accademia di Belle Arti), un viaggio a puntate pensato come piattaforma di scambio interdisciplinare fra studenti e i docenti, fra università e città. Tanti i temi e gli ospiti fino al 26 marzo, da Cornelia Lauf con Arte e manualità ad Angela Mengoni con Shoot! Genealogia del colpo di fucile: Burden, Manet, Goya, da Giulio Alessandri con Riproduzione, rappresentazione e copia nell’opera di Stingel, Parreno, Sturtevant e Fischer a Ivana Pa-doan con Costruire legami nell’“epoca delle passioni tristi”. Torna anche il fitto programma didattico di St_Art Per Tutti, rivolto ai più piccoli e alle famiglie, organizzato negli spazi di Palazzo Grassi. Tre i macrotemi che strutturano il palin-sesto, fino a marzo: Il tappeto volante, viaggio verso nuovi mondi, seduti in-torno ad un tappeto magico, partendo alla volta di paesi vi-cini e lontani a cavallo di fiabe e leggende; Focus on, atelier dedicati agli artisti e le opere della mostra in corso presso Punta della Dogana; Ascoltare con gli occhi – Riunione di famiglia, attività studiate per adulti e piccini, utili a visitare il museo da una prospettiva diversa, affinando i sensi e giocando. Infine, nel Teatrino di Palazzo Grassi si tiene per il sesto anno consecutivo il ciclo Art Conversation, incontri con artisti inter-nazionali della collezione Pinault: il primo vede a fianco Philippe Parreno e Carlos Basualdo, alle 18 di giovedì 6 febbraio. HELGA MARSALA

www.palazzograssi.it

17NEWS

BRAIN DRAIN

FRANCESCO STOCCHI | ROMA ROTTERDAMDa due anni curatore di successo nel dipartimento di arte moderna e contem-poranea del Museo Boijmans van Beuningen di Rotterdam, unico italiano, dove è stato nominato su chiamata per arricchire lo staff di una delle istituzioni di rif-erimento del Paese. Ancora un talento del nostro sistema dell’arte che ci siamo fatti scappare.

Quali sono le maggiori differenze rispetto a come lavoravi in Italia?Come curatore indipendente, In Italia non lavoravo per una sola istituzione, ma per una pluralità di organizzazioni. Questo significa mantenere da esterno relazioni completamente diverse. Quello che noto in una cultura decisamente pragmatica come quella olandese è che una risposta affermativa rimane un sì, mentre una risposta negativa un no. C’è una chiarezza e una trasparenza dif-ferenti. In Italia è difficile avere un quadro chiaro. Però è vero che questa fluidità rende possibile anche ciò che sembra impossibile.

Cosa offre il sistema dell’arte olandese?Negli ultimi quarant’anni la cultura del welfare olandese si è resa più strutturata in termini operativi. La presenza dello Stato negli ambiti culturali ha permes-so lo sviluppo di interscambi, inducendo molti artisti internazionali a guardare all’Olanda come un luogo dove venire a lavorare. Il sostegno dello Stato ha anche permesso la realizzazione di progetti importanti per le arti visive. Molti artisti ne hanno beneficiato, aprendo i propri studi e realizzando le proprie idee e opere, altri invece si sono impigriti e hanno perso lo spirito della ricerca, adagiandosi sugli aiuti e i finanziamenti che venivano erogati dalla comunità. La sostenibilità di questo modello è oggi in discussione. Io sono curioso di veri-ficarne gli esiti, secondo me interessanti per il sistema dell’arte.

Cosa le manca dell’Italia in termini professionali?Sono in continuo dialogo con l’Italia per il mio lavoro, così come con altri Paesi. Dunque non posso dire che mi manchi realmente o che rimpianga un deter-minato aspetto. La mostra che verra inaugurata l’8 febbraio al Boijmans van Beuningen, dal titolo Brancusi, Rosso, Man Ray. Framing Sculpture, è un esempio di come il mio trasferimento non abbia comportato un allontanamento da una ricerca estetica che guarda anche all’Italia. La mostra è un’indagine intorno alle interdipendenze di tre artisti molto diversi fra loro, ma accomunati dall’approccio interdisciplinare che ha messo in relazione scultura e fotografia. Forse quello che mi manca dell’Italia è un certo gusto dell’avventura.

Quali differenze nella visione e strategia culturale fra Italia e Olanda?Sono modelli completamente diversi. L’Italia è un Paese feudale, l’Olanda una monarchia parlamentare. In Italia ci sono 60 milioni di abitanti, mentre in Olanda solo 6 milioni. Questo comporta una facilitazione nella pianificazione culturale, nonché una maggiore coesione nelle decisioni. Tutto ciò determina anche un controllo idoneo e puntuale sull’operato delle iniziative culturali.

Tornerai in Italia? A quali condizioni?Sicuramente, ma non si tratta di condizioni. Sono decisioni personali.

Ti senti di contribuire al dibattito italiano sull’arte e la cultura, o ne hai preso le distanze?Credo che il discorso sull’arte debba essere sempre preso su un piano internazionale.

Il prossimo cervello in fuga sarà Luigi Fassi.

di NEVE MAZZOLENI

Noi scriviamo Roma, ma è soltanto un punto di partenza. Perché Elisabetta Giovagnoni, dopo sette anni di attività galleristica e altret-tanti di interruzione, ora riapre. In location sempre diverse, e nella Capitale si inizia, ma senza sapere dove si approderà.

Sette anni di galleria (dal 2000 con 9 Via della Vetrina Contemporanea) e poi sette anni di stop. Ora il ritorno. Come mai? Non pensavo che ci sarei ricascata. Pensa-vo, anzi, di mettermi a fare tutt’altro. Poi in vari spostamenti sull’asse Roma-Berlino mi è tornata la voglia. Prima di organizzare mo-stre, senza pensare a qualcosa di mio, poi ricominciando dopo un po’ di gravidanze a frequentare gli spazi degli artisti, è tornata anche la voglia di un involucro.

Che questa volta però non avrà sede fissa. Perché?Per una serie di ragioni, non solo economiche. Il mio contesto famigliare e i figli da seguire non mi permettono di star dietro a una galleria. Non voglio dire che sia una formula superata e ripetitiva, tuttavia credo che, in questa fase di crisi, il pubblico si aspetti anche qualcosa d’altro e voglia essere rassicurato. Ecco dunque l’idea delle mostre in casa.

In casa di chi? In casa tua? In casa di altri?No, non in casa mia. Sempre in una casa diversa, cercando ogni volta un nuovo domicilio per una nuova mostra. Cucendogliela addosso. Così stimoliamo i proprietari (che magari sono in difficoltà in questo periodo a vendere o a affittare dimore di prestigio e così possono farle vedere sotto un occhio nuovo a potenziali compratori), stimoliamo gli artisti e stimoliamo il pubblico. Compresa la sua curio-sità e il suo voyeurismo. E poi ci sarà l’effetto sorpresa: ogni volta una mostra in una casa diversa in zone diverse della città.

Perché dici “città”? Per come la presenti, è una formula replicabile.Ci ho pensato. Sarà facile portarlo a Milano, a Torino, magari all’estero. Con lo stesso format. Oppure farlo vivere durante le grandi fiere, come evento collaterale.

Quale sarà la prima mostra?Iniziamo a febbraio in via Stoppani 10, nel quartiere dei Parioli a Roma, con una collettiva dove ci saranno gli artisti che hanno sempre lavorato con me nei sette anni di galleria: Francesco Cervelli e India Evans, Marzia Gandini e Eva Jospin, Julie Polidoro e Alberto Vannetti, Luigi Billi, Maria Martinelli e Paolo Laudisia.

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ARTE E ALTRO ROMANUOVOSPAZIO

Okwui Enwezor è il direttore della Biennale Arte di Venezia 2015. Quella che si farà “assieme” all’Expo di Milano. Il presidente Baratta mette a segno un altro colpo da maestro

Sarà Okwui Enwezor il direttore del Settore Arti Visive per il 2015. Personaggio indiscusso e indi-scutibile, forse attualmente quello che possiede skill più robuste per dirigere una biennale globale: grazie anche alla ricchissima esperienza “sul campo”, già in passato alla guida della Johannesburg Biennale (1996-1998), di Documenta 11 a Kassel (2002), della Bienal de Arte Contemporáneo di Siviglia (2005-2007), della Gwangju Biennale (2008) e del-la Triennal d’Art Contemporaine di Parigi (2012). Nigeriano, classe 1963, Enwezor è direttore della Haus der Kunst di Monaco di Baviera dal 2011: “Nessuna manifestazione o mostra d’arte contempora-nea è esistita in maniera così continuativa, al centro di così tanti cambiamenti storici nel campo dell’arte, della politica, della tecnologia e dell’economia, come la Biennale di Venezia”, ha dichiarato a caldo. “La Biennale è il luogo ideale per esplorare tutti questi campi dialettici di riferimento, e la stessa istituzione Biennale è fonte di ispirazione per la progettazione della Mostra”. Un possibile approccio, il suo, com-plementare con il lavoro di Gioni: che all’apertura mentale e operativa introdotta dall’italiano può aggiungere una ulteriore apertura “geopolitica”. Sul piano nazionale, una nomina che potrebbe raffor-zare il link che fra due anni la Biennale si troverà a strutturare con l’Expo di Milano: un’attenzione testimoniata anche dalle date della rassegna lagu-nare, fortissimamente anticipate fino al 9 maggio. E in questo, centrale potrà essere il ruolo del cura-tore africano - anche questa una prima assoluta -, protagonista in prospettiva sulla scena meneghina come curatore incaricato della futura Città delle Culture all’ex Ansaldo. La Biennale si conferma in questo momento l’entità culturale probabilmente più importante al mondo, unica nel suo genere. Una fondazione italiana che, per quanto riguarda le arti plastiche - al netto dunque del Cinema e del Teatro, che fa partita a sé - ha come direttori perso-nalità come Enwezor per l’arte e Koolhaas per l’ar-chitettura (in programma per il 2014). Una signora

18 NEWS

DISEGNARE NELLO SPAZIO. INCONTRO CON TATIANA TROUVÉDa Benjamin a Boetti, passando per Le Corbusier e Pessoa. Artribune in conversazione con un’ar-tista lucida e meticolosa, tanto nel lavoro quanto nei riferimenti teorici e culturali. Tatiana Trouvé [nella foto di J.B. Mondino] è stata recentemente in mostra a Roma, da Gagosian. L’abbiamo intervi-stata e qui trovate un estratto del testo pubblicato su artribune.com.

In un’intervista citavi il concetto di “micro-even-to” formulato da Walter Benjamin. In effetti, molte tue installazioni sembrano ricreare la dimensione sospesa dei sopralluoghi, in cui tracce di eventi anche minimi possono rivelarsi cruciali. È in que-sta chiave che costruisci le tue visioni?Parlando di “micro-eventi” mi riferivo al titolo di un mio lavoro in cui indicavo un’ora e un luogo spe-cifici, ma non segnalavo quale fosse l’evento, né chi fosse il protagonista dell’evento in questione. Mi piaceva quest’idea perché penso che una parte della nostra storia, relativa a effetti anche impor-tanti che si sono prodotti, si sia determinata a par-tire da incidenti, atti involontari o decisioni assunte da persone che non avevano il potere di decidere. In questo senso, evidentemente il mio lavoro è fat-to anche di indizi che – come lo descrivi tu – apro-no a differenti interpretazioni della realtà.Ad esempio, nella mostra che ho fatto sempre da Gagosian, a New York, c’era un’installazione, nella prima sala, composta da radiatori sotto i quali era-no poggiate delle scarpe. Un gruppo di visitatori, avendo notato quelle scarpe – che in realtà era-no in bronzo, mentre i radiatori erano in cemento –, ha pensato di dover visitare la mostra toglien-dosi le proprie scarpe. Contemporaneamente, un altro gruppo stava invece visitando la mostra con le scarpe indosso. A un certo punto i due gruppi si sono guardati vicendevolmente, in modo molto strano: entrambi si stavano interrogando sul modo corretto di fruizione dell’installazione. Quello che mi è piaciuto in questa storia è che, mentre per alcuni bisognava aderire a una richiesta partita dall’opera, per altre persone c’era un vero distac-co. Si è creata così una sorta di performance; un “micro-evento” che non mi aspettavo per niente, e che ha arricchito di senso l’opera.

Sei stata definita “creatrice di spazi criptici” e in relazione al tuo lavoro sono stati usati i termini “sinistro” e “perturbante”. Ti dà fastidio essere percepita come ideatrice di atmosfere di questo tipo? Lo trovi fuorviante rispetto alle intenzioni della tua ricerca?Non cerco di creare atmosfere; con il mio lavo-ro penso piuttosto di creare delle dimensioni, dei mondi composti da diverse temporalità e diversi spazi. Quello che mi interessa è la percezione di un universo.

Che funzione assolve nei tuoi lavori la dominante cromatica del nero? 

Sono in nero anzitutto gli elementi in bronzo, che costituiscono parti disegnate nello spazio. Ma ci sono anche sculture in altri materiali con dei colori: in cera, in cemento eccetera. In più c’è il rame, che è lasciato così com’è: è un conduttore e in genere rilega diversi punti delle installazioni ambientali. L’utilizzo del nero non è legato a un effetto di sti-le: per me il nero è inchiostro; è disegnare nello spazio.

Nelle tue visioni è presente anche il modernismo. Ma non si avverte – come spesso accade – un eccesso di fascinazione rispetto ad esso.Nel mio lavoro la spazialità è importante, perciò non potevo fare finta che non esistesse il moder-nismo. Per me il modernismo rappresenta l’ultimo momento in cui si è davvero disegnato lo spazio, proprio con la matita intendo. Se osservi le ar-chitetture di oggi, vedi immediatamente che sono state concepite lavorando al computer. Invece, guardando certe architetture di Le Corbusier ca-pisci chiaramente che sono state ideate disegnan-do. Ritengo che si faccia così spesso riferimento al modernismo analizzando il mio lavoro per via dell’importanza che ha in esso il disegno.

Coltivi amicizie con intellettuali o artisti di altre discipline? Oltre all’arte visiva quali ambiti nutro-no la tua sensibilità e il tuo immaginario? Sono legata ad alcuni filosofi e critici con cui ho delle belle amicizie artistiche, tra cui Christophe Kihm, Robert Storr, Richard Shusterman, Elie Du-ring, Gianni Motti. La lista è lunga, senza contare coloro che non ci sono più, con i quali lo scambio è continuo. Vedi, tutte le persone che fanno del-le cose importanti lasciano comunque dei mondi, nei quali si possono sempre di nuovo incontrare. In questi giorni ad esempio sto rileggendo  Il libro dell’inquietudine  di Pessoa. Pessoa è morto da un po’, ma per me è completamente vivo, visto che ogni sera ho un appuntamento con lui.

Parliamo di estetica. Ritengo personalmente che il paradigma della bellezza come incontro tra elementi incongrui – risalente a Lautréamont e propugnato da Breton e dai surrealisti, e in altri termini da Duchamp – sia un riferimento tuttora centrale nell’arte visiva, tanto è vero che spesso non si fa che formalizzare delle ambivalenze. Sei d’accordo? Tanto lo choc ingenerato dalla presenza di elementi eterogenei quanto l’indagine sulla frontiera tra arte e non arte compiuta da Duchamp costituiscono principi poetici della modernità. Bisogna capire in quali condizioni questi principi reimpiegati oggi hanno ancora un senso. Penso però che si tratti di un’arma a doppio taglio per gli artisti.

Il rischio di una deriva manierista c’è…Sì, assolutamente. D’altro canto, penso anche che se ci si limita a leggere il lavoro solo su un piano

formale il rischio di rinvenire del manierismo ci sia sempre. Nel mio caso, ogni opera ha un contenuto che gli è proprio; si tratta di ricerche ogni volta ben distinte, e non di declinazioni formali di un certo stile. Che poi ci siano anche una continuità e una riconoscibilità formale, credo sia normale.

Cosa può insegnare l’arte visiva? Un tipo di per-cezione forse?In tema di percezione mi viene in mente una fra-se di Antoni Muntadas (“Attenzione! La percezione richiede impegno”) che ho incollato nel mio studio. Cerco sempre di considerare la questione della percezione. Ciò vale anche per me, per il modo in cui lavoro: ogni mia installazione ha una gestazio-ne complessa, che si esaurisce solo nello spazio espositivo, per cui è sempre diversa da come do-veva essere presentata, e se parli coi tecnici te lo confermeranno. Questo perché arrivando in un po-sto lo percepisci in modo diverso; ci sono cose che richiamano il tuo sguardo e che ti fanno pensare: “Ok, ci sono altre cose darivelare”. Io non credo che l’arte possa davvero  insegnare  qualcosa, a parte forse un tipo particolare di percezione. Il bello – e la forza – dell’arte è che ha il valore che voglia-mo dargli; per questo purtroppo è anche vittima di ogni tipo di speculazione. Forse bisogna impara-re ad accettare il fatto che non ci può essere – e d’altronde non c’è mai stato – un modo univoco o “giusto”  di percepirla, ma un modo plurale con cui riferirsi ad essa. Ciò che è davvero triste è voler rendere l’arte tematica e accessibile in modo così universale da ridurla a un puro spettacolo.

PERICLE GUAGLIANONE

www.gagosian.com

di 118 anni in smagliante forma. E in smaccata controtendenza con l’affannato e pasticcione Paese che la ospita.

www.labiennale.org

Il valore aggiunto della cultura? Il doppio delle telecomunicazioni, sette volte quello dell’industria automobilistica. Se ne accorge la Francia, che prepara strategie comuni cultura-economiaIl termine ‘cultura’, è bene chiarirlo subito, in que-sto caso abbraccia un ampio spettro di attività, dal-lo spettacolo dal vivo al patrimonio, dalle arti visive alla stampa, editoria, audiovisivi, pubblicità, archi-tettura, cinema, industria dell’immagine e del suo-no. Eppure non possono non far riflettere i risultati

dello studio congiunto promosso dai ministeri della cultura e dell’economia in Francia. Obiettivo: ana-lizzare un settore produttivo in cui lo Stato ha inve-stito nel 2012 - ultimo dato disponibile - quasi 14 miliardi di euro. Il dato più eclatante? Tutte queste attività in un anno presentano un valore aggiunto di 57,8 miliardi di euro, il doppio delle telecomunicazioni (25,5 miliardi), sette volte quello dell’industria automobilistica (8,6 mi-liardi di euro). Ed ecco le dichiarazioni del ministro della Cultu-ra, Aurélie Filippetti, che faranno sdegnare i soliti spiriti belli italici, quelli del

denaro cacca del diavolo, del “con la cultura non si mangia”: “Un approccio comune tra i due reparti, con base statistica incontestabile, è sembrato molto importante per riconoscere l’importanza economica della cultura”. Nel campo della cultura e comu-nicazione nel 2012 lo Stato francese ha investito

13,9 miliardi di euro (11,6 miliardi di bilancio, 1,4 miliardi di spese fiscali

e 0,9 miliardi assegnati a diversi organismi tasse redistributive),

ai quali - capillarità, forza dei transalpini - gli enti locali

hanno aggiunto circa 7,6 miliardi. “Prospettive? È fondamentale sviluppare gli strumenti della politica culturale nell’era digita-le”, dice la Filippetti.

19NEWS

ARTTWO50 È il cugino naïf di Artsy, ma alla portata di tutti, come nelle intenzioni dei creatori, un gruppo di pro-fessionisti di San Francisco stanchi di girare a vuoto per gallerie per acquistare arte. Vengono mostrati quadri tradizionali o stampe di foto, tutti al prezzo di 250 dollari. Dell’opera selezionata, grazie alle fun-zioni più avanzate dell’augmented reality, è possibile vedere “l’effetto che fa” su quella parete del salot-to buono della vostra casa, e procedere all’acqui-sto. Nei 250 $ sono incluse le spese di spedizione ed eventuali resi o cambi. La app si propone anche come valido supporto agli artisti, dichiarando di pa-gare loro almeno il 10-30% in più di quanto gua-dagnerebbero se si affidassero a una galleria tradi-zionale. Agli artisti infatti viene riconosciuto l’80% del prezzo dell’opera, con i costi di trasporto per la vendita inclusi.

www.arttwo50.comcosto: gratispiattaforme: iPad

BRUSHES Cosa farò quando andrò in pensione? Giocherò con l’iPad. Non ha dubbi David Hockney, che dal 2009 ha iniziato una nuova ricerca grazie alle new technologies. Scaricando l’app Brushes ha iniziato a mandare ai suoi amici centinaia di ritratti, nature morte e ambienti, e a esporre le proprie opere della serie Fleurs fraîches sia alla Fondation Pierre Bergé di Parigi che al Royal Ontario Museum di Toronto; alla fine del 2011 ha deciso di fare un giro al parco Yosemite per dipingerlo con il suo dispositivo e ne-gli ultimi anni ha partecipato a Vienna al progetto Museum in Progress. Con queste referenze Brushes è sicuramente “la” app per disegnare, minimale ma piena di funzioni da scoprire. Ed è open source, permettendo così agli sviluppatori di correggerla e implementarla continuamente (ad esempio, la sua “gemella” Inkpad usa il disegno vettoriale).

www.brushesapp.comcosto: gratispiattaforme: iPhone, iPod Touch, iPad

ITALIA IN MINIATURAIn Italia esistono luoghi magici, e l’Italia in Miniatura è uno di quelli. Tutti conoscono quella ricostruzione d’Italia “a misura di bambino”, dove possiamo sen-tirci un po’ Gulliver nel paese dei lillipuziani e dove l’intento di realizzare attrazioni non si è mai fermato. La app dell’Italia in Miniatura è ben studiata, puntuale e divertente. Permette di poter avere una guida per la visita in loco per ognuna delle 239 ricostruzioni, ma anche di guardare dal divano di casa propria le miniature, e contenuti aggiuntivi come immagini, vi-deo e audio dedicati al Patrimonio della nostra peni-sola, informazioni storiche e architettoniche, aned-doti divertenti e curiosità. Localizzata in italiano e russo, dispone anche una app nella app che consen-te di scattarsi una foto “da dentro” le miniature più famose del parco, senza dover scavalcare recinzioni

www.italiainminiatura.comcosto: 1,79 ¤piattaforme: iPhone, iPod Touch, iPad

APPROPOSITO di SIMONA CARACENI

Il Bray versione Saccomanni è servito. L’acquisto della Reggia di Carditello entusiasma l’ambiente: benissimo, ma poi con che risorse sarà gestita?Panem et circenses. Sarà brutale, ma questa è la prima riflessione - provocatoria, ma fino a un certo punto - che sorge spontanea alla notizia dell’acqui-sto della Reggia di Carditello da parte del Mini-stero per i Beni Culturali. È del tutto evidente che l’acquisizione di un bene tanto importante come la reggia borbonica al patrimonio collettivo è una no-tizia da lodare. Però, ci sono diversi però. Perché la frase appena pronunciata dovrebbe contenere anche l’inciso “per sottrarlo al degrado e all’incuria e per va-lorizzarlo”, quel bene. E qui arriva il primo, pesante inciampo. Perché sappiamo tutti che attualmente la nostra amministrazione dei beni culturali non è in grado di preservare e valorizzare i beni “già” annessi al patrimonio collettivo, figurarsi le nuove acqui-sizioni. 11 milioni e mezzo di euro - tanto costa l’operazione Carditel-lo - non sono pochi, per i budget correnti: e poi che accadrà? Cosa diventerà? In quale con-testo sarà valorizzata? E qui veniamo al rovescio della medaglia. Già, perché nel frattempo i problemi strutturali che appesantiscono il ministero di Massimo Bray, inficiando per certi versi operazioni lodevoli come questa, restano irrisolti e non si affacciano politiche volte a risolverli. Non si vedono proposte che invertano un trend insostenibile che vede un ministero impiegare qualcosa come l’80% delle sue risorse per pagare (male, malissi-mo) il personale. Non si delineano progetti seri di marketing (non è una bestemmia) che comincino a pensare ai beni culturali come a qualcosa che sia

anche redditizio, e di conseguenza fornisca risorse per valorizzare anche Carditello (e il cerchio si chiuderebbe). Attendiamo Bray su questa frontiera: speriamo di sbagliarci e che non si tratti dell’enne-simo acquisto simbolico coi soldi del contribuente ma che dietro ci sia un progetto, un’analisi costi/benefici, un piano di business, uno sviluppo con ricadute positive in campo turistico, economico, occupazionale. Prontissimi, se e quando la sua azione non sembrerà solo di facciata, ad aggiunger-ci al coro dei peana… MASSIMO MATTIOLI

www.beniculturali.it

Debutta a Torino Amiex: a marzo gli operatori della cultura si incontrano per condividere buone pratiche, in una due giorni che avvicina le aziende del settore agli enti pubblici

Cultura d’impresa e imprese culturali: scam-bio reciproco quello in scena a Torino

l’11 e 12 marzo per la prima edizio-ne di AMIEX – Art&Museum In-

ternational Exhibition Xchange, piattaforma che intende met-tere a sistema i flussi operativi che regolano i rapporti tra le diverse anime del comparto. Nella cornice del Centro Congressi del Lingotto va in scena un’intensa due giorni di incontri e confronti

attorno al tema dell’ideazione e costruzione di eventi culturali

di successo: riflettori puntati sul capitolo “grandi mostre”, con la

condivisione di case history e il dialogo diretto tra operatori del settore, enti pubblici

e privati. In agenda workshop e conferenze; ma anche fasi di business matching che si propongo-no di trovare una sintesi efficace tra le necessità dei diversi attori in campo. In un ambito che, a

dispetto della crisi, macina numeri importanti: lo dimostrano i dati raccolti da Amiex, che parlano di più di 10mila mostre, in Italia, solo nel 2012. Con oltre la metà degli eventi (in crescita del 2,5% rispetto all’anno precedente) accolti in spazi privati. FRANCESCO SALA

www.artmuseumex.com

Patente, libretto e… comunicato stampa. L’Arabia Saudita introduce il controllo di polizia sui contenuti delle mostre d’arte: “Vogliamo evitare attacchi contro i simboli politici e religiosi”Ma l’Arabia Saudita un tempo non era il più mo-derno e “liberale” dei Paesi mediorientali? Non van-tava una monarchia di moderne vedute e rapporti privilegiati con gli Usa, portabandiera delle libertà individuali? Va bene che, se la Cina ancora multa di 1,2 milioni di dollari Zhang Yimou, colpevole di aver messo al mondo tre figli invece dell’unico consentito, la definizione stessa della parola ‘liber-tà’ forse andrebbe aggiornata rispetto ai mutevoli equilibri geopolitici, ma questa ancora non si era mai vista. Il controllo di polizia sui contenuti delle mostre d’arte: esatto, non sugli aspetti logistici, di sicurezza e di afflusso dei visitatori, proprio sui contenuti. L’ha introdotto proprio l’Arabia Saudi-ta, stando a quanto scrive il quotidiano Al Hayat: un’autorizzazione preventiva su “mostre artistiche e fotografiche”, al fine di evitare “insinuazioni di carat-tere sessuale o attacchi contro i simboli politici e reli-giosi”. Al confronto l’Ovra di memoria fascista era - un secolo fa - una banda di buontemponi. Il Mi-nistero degli Interni esigerà una formale approva-zione delle autorità competenti per la realizzazione di qualsiasi mostra, e la verifica dell’“ammissibilità” delle opere avverrà sotto la supervisione del Mini-stero della Cultura e dell’Informazione. Ai trasgres-sori saranno imposte sanzioni e restrizioni. “Alcuni potrebbero vederle come un abuso”, ha ipotizzato Saud al Shiji, un funzionario ministeriale. Sempre a pensar male… MASSIMO MATTIOLI

20 NEWS

Non è una Regione dal punto di vista amministrativo e politico ma, come spesso capita in Italia, è un territorio dalle spiccate

peculiarità. Un percorso in Salento per scoprire la rinascita nella rinascita. Grazie soprattutto a decine di associazioni culturali.

www.artribune.com

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direzioneMarco Enrico Giacomelli (vice)

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in copertinaJacopo Rinaldi

Fabbrica Rosa, ex archivio Harald Szeemann - 2013

fotografiacourtesy Ingeborg Lüscher

e Una Szeemann(l’intervista a Rinaldi è a p. 78)

Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011

Chiuso in redazione il 15 gennaio 2014

numero 17anno iii

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70Sono scomparsi negli Anni Ottanta e non hanno più fatto ritorno sui nostri grandi schermi. Parliamo

dei poveri nel cinema italiano. Una rimozione iniziata subito dopo Brutti sporchi e cattivi di Ettore Scola nel 1976.

Tokyo è al lavoro in vista del 2020, quando ospiterà i Giochi Olimpici. Pochi i progetti faraonici di architettura, perché laggiù si pensa soprattutto a rifunzionalizzare l’esistente.

Ma se di mezzo ci si mette Zaha Hadid, la querelle è assicurata. E infatti…

La domanda da un milione di dollari: è possibile insegnare non tanto l’arte, quanto a diventare artisti? Le pagine educational affrontano la vexata quaestio seguendo le opinioni mutevoli di Louise Bourgeois e le indicazioni di Yves Michaud.

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occhiali per la visione 3d, forse per riuscire a stare in sella. Immagini che ricordano la cartellonistica del Marlboro Man. E poi ritratti in interni che non hanno didascalie ma QR. Per il miniportfolio di fotografia, doppia pagina dedicata a The Cool Couple.

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Dodici anni di mandato e qualcosa come 40mila - quarantamila, non è un refuso! - grattacieli costruiti a New York. Questo era il sindaco Michael

Bloomberg. E ora cosa farà de Blasio? Siamo andati nella zona calda di Brooklyn.

È copromosso dalla Fondazione Prada, lo presentano in Naba: c’è parecchia Italia al Curate Award. Che però ha un’anima - e ovviamente anche denari - che vengono dal

Qatar. E allora siamo andati in viaggio a Doha per vedere cosa sta succedendo.

68Probabilmente la prima immagine che viene in mente quando si pensa ai musei d’impresa è costituita da vecchi attrezzi in disuso, tra il fané e il nostalgico. Le potenzialità di queste strutture sono però enormi per il futuro del made in Italy. Se ne parla nel talk show con chi le fonda, dirige, studia.

La parola d’ordine è riuso. Ovvero: per le Olimpiadi del 2020, riadattare il più possibile quel che fu costruito per l’edizione del 1964. E per quanto riguarda le nuove costruzioni, far sì che non muoiano dopo i Giochi. In architettura il Giappone guarda al passato per preservare il futuro.

L’anti-filosofia di Boris Groys spiegata da lui medesimo in una intervista esclusiva con il

docente della New York University. E poi Tiziana Andina che recensisce l’ultimo libro di Demetrio Paparoni e uno sguardo alla seconda

edizione del monumentale Arte dal 1900.

Pasciuta cittadina emiliana, benestante e tranquilla. Poi venne il crack di Parmalat e da allora una serie

di amministrazioni sempre più inqualificabili. Fino all’inattesa ascesa di Federico Pizzarotti a sindaco. Ora non sono tutte

rose e fiori, ma Parma - il distretto di questo mese - sembra proprio tornare ad alzare il capo.

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Nel nostro Paese è stata Editalia a riportarlo in auge con il progetto Arte Moltiplicata. Ma anche altrove è un momento aureo per il multiplo: vuoi per i costi contenuti, vuoi per la nuova linfa permessa dagli strumenti di vendita e diffusione online. Una nicchia di mercato che merita attenzione.

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Due temi urgenti si affiancano nella rubrica inpratica. Christian Caliandro analizza quell’attitudine tutta italiana che sintetizza nell’espressione “gloria del fallimento”, che non è autocommiserazione ma guizzo sull’orlo del baratro. Mentre Luca Rossi - ancora lui! - riflette sullo stato dell’arte di critica e pubblico.

Tutto ha inizio in Texas. Ma la vera storia della famiglia Bonomo ha il suo fulcro a Bari, dove Marilena si trasforma da collezionista a gallerista. E in Puglia (ma anche a Spoleto) arriva il Concettuale. Una vicenda che continua anche grazie alle figlie Alessandra e Valentina, a Roma però.

Il sindaco Marino sta provando a far ripartire il gemellaggio fra Roma e Parigi. Uno dei fulcri che potrebbe tenere insieme l’operazione è rappresentato dalla moda. Ma da noi, a differenza che in Francia, è un ambito guardato con sufficienza dagli ambienti culturali. E intanto nella Ville Lumière si fanno mostre ed eventi di altissimo lignaggio.

Tutto ruota intorno a Cristoforo Colombo, laggiù a Siviglia: dalla tomba nella splendida cattedrale al Museo d’arte contemporanea ambientato in un monastero dove il navigatore viveva sulla terraferma. Reportage dall’Andalusia in quattro scatti.

Fra poco diventerà maggiorenne, il progetto fiorentino Base: nato nel 1998 su iniziativa di un gruppo di artisti, prosegue alacremente le proprie attività con un collettivo che si rinnova di continuo. Mantenendo saldi i princìpi e mutevole la composizione. Il racconto del nostro - anzi, del loro - focus.

78Prende ispirazione da Fabio Mauri e Bruce Nauman, ma poi lavora sulle falle di Google Street View. E la stessa apertura mentale la applica nell’utilizzo dei più diversi mezzi espressivi. Il talento di questo numero è Jacopo Rinaldi, che per la copertina del magazine è andato a visitare l’Archivio Harald Szeemann.

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Martina AdamiTiziana AndinaArianna ApicellaLuca ArnaudoMercedes AuteriValia BarrielloBase / Progetti per l’arteMaria Cristina BastanteElisabetta BiestroAlessandro BolloMarilena BonomoElisa Bortoluzzi DubachGinevra BriaChristian CaliandroAdele CappelliSimona CaraceniStefano CastelliIlde CavaterraThe Cool CoupleMatteo CremonesiAlessandro CrociataGiulio DalvitMichele DantiniAlessio de’ Navasques

Luca DiffuseGiacinto Di PietrantonioDiana Di NuzzoMarcello FaletraFabrizio FedericiSimone FrangiVittorio GalleseMartina GambillaraValentina GasperiniMarco Enrico GiacomelliDiana GianquittoClaudia GiraudFerruccio GirominiLucia GrassicciaPericle GuaglianoneFriedhelm HütteMatteo InnocentiVeronica LiottiMartina LiveraniAngela MadesaniZaira MagliozziHelga MarsalaMassimo MattioliNeve Mazzoleni

Alberto MeomartiniMaria Marzia MinelliMarina MojanaStefano MontiGiulia MuraSanta NastroSonia PedrazziniRaffaella PellegrinoDaniele PerraGiulia PezzoliLorenza PignattiGino PisapiaFederico PolettiAldo PremoliLuigi Prestinenza PuglisiGiovanna ProcacciniDomenico QuarantaDaniele QuerciStefania RicciJacopo RinaldiIrene Roberti VittoryClara RosenbergLuca RossiChiara Rusconi

Federica RussoPier Luigi SaccoFrancesco SalaGabriele SalvaterraIrene SanesiMarta SantacatterinaVincenzo SantarcangeloCatterina SeiaMarco SenaldiFabio SeverinoSofia SilvaMaria Rosa SossaiLorenzo TaiutiValentina TanniAntonello TolveMassimiliano TonelliClara Tosi PamphiliMichele TrimarchiTatiana TrouvéMarta VeltriCarlo Venegoni Giampiero VenturiniC. Sylvia WeberGiulia Zappa

QUESTO NUMERO È STATO FATTO DA:

D’accordo, c’erano i luoghi a loro dedicati e menu pensati appositamente. Ma questo avveniva quando erano

pochi e malvisti. Ora invece vegetariani e affini hanno fatto breccia, con ristoranti stellati meatless e personaggi come Beyoncé che pensano al buonvivere.

Sono sparsi in tutto il globo e diffondono il verbo del

made in Italy, anche se la situazione finanziaria - per loro

e per il Paese - non è certo rosea. Parliamo degli Istituti Italiani di Cultura. Siamo andati a visitarne una mezza dozzina.

Non lo paragonate a un banale rottamatore. È vero, spesso polemizza con Salvatore Settis, ma un programma lui ce l’ha ben chiaro. E lo ha esposto nel suo ultimo libro. La rubrica editoria indaga il pensiero di Luca Nannipieri.

Alle spalle c’è l’esperienza proverbiale della Olivetti, a fianco quella meno spumeggiante di Telecom. Al centro un signore che di nome fa Massimo Banzi, che ha inventato una piattaforma hardware e software dandole il nome di un bar. Il design rivoluzionato da Arduino.

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74Capitasse in Italia, ci sarebbe l’opinionista mediatico di turno a consigliare vivamente un Trattamento Sanitario

Obbligatorio. Ma se capita in Giappone, gli hikikomori possono stare relativamente tranquilli. Fenomeni da nuovo millennio raccontati dalle pagine di new media.

Il fascino dell’italiano risiede nell’attitudine ironica (e autoi-ronica) nei confronti della realtà. Un’attitudine che non ha nulla a che vedere con il ridicolo in cui questo Paese si è immerso con voluttà e pervicacia nel corso degli ultimi trent’anni (“È lui o non è lui, è lui o non è lui? Cerrrto che è lui!!!”, recita Ezio Greggio quan-do, nella scena finale di Yuppies - I giovani di successo, a Cortina appare in cielo l’elicottero dell’Avvocato) e che invece rappresenta l’eredità diretta dell’ironia rinascimentale, fortemente connessa con l’idea della fine e con la critica dell’esistente. È il discendente legittimo degli italiani che seducevano e che se-ducono gli altri e il mondo con il loro fare sornione; che conside-rano seriamente gli eventi e il loro rapporto di causa-effetto senza mai prendersi troppo sul serio: Marcello che invidia l’intellettuale Steiner e che, mentre sente di fallire nel suo essere romanziere, sta componendo con la sua esistenza il più grande romanzo ita-liano sul fallimento; Marcello-Guido che, in 8½ [nella foto, una immagine tratta dal film del 1963], cercando di sfuggire alle proprie responsabilità “narrative” si inoltra in una forma di nar-razione altra, diversa e sconosciuta; Nino Manfredi in Operazione San Gennaro, Per grazia ricevuta, C’eravamo tanto amati e Spaghetti House; Vittorio De Sica che gestisce la difficile relazione tra Neo-realismo e melodramma, tra se stesso e il gioco d’azzardo.Il modello identitario è quello dell’italiano che, con strumenti molto spesso scarsi e inadeguati, riesce ad approntare un’indagi-ne sorprendente per profondità, per acume dolce e implacabile, perché si nutre di amore per la vita e per l’esperienza. Ennio Flaiano alle prese con la sceneggiatura-assemblaggio de La dolce vita. Cesare Zavattini e il racconto della sua Luzzara in Un paese. Curzio Malaparte e la cornice “pestilenziale” di Kaputt. Mario Bava e la costruzione di un intero pianeta, durante le ripre-se di Terrore nello spazio, praticamente con un’unica roccia di poli-stirolo spostata a mano e inquadrata da mille diverse angolazioni. Sergio Leone e la creazione di un West alternativo che riflette e mima epicamente la Resistenza italiana contro l’occupazione na-zista in Giù la testa. E proprio quando sembra che questo italiano spericolato, furbo e chiacchierone stia per perdere definitivamente l’equilibrio e crolla-re, precipitando nel buco nero del disastro e dell’autocommisera-zione, ecco che ridacchiando assesta un colpo da maestro al cuore stesso della realtà. Nella storia d’Italia degli ultimi otto-nove secoli ci sono stati in-numerevoli momenti di crisi, devastazione, declino, smarrimento; anzi, se proprio la vogliamo dire tutta, sono i momenti “ricostrut-tivi” (e propositivi: Rinascimento, Risorgimento, Neorealismo) a costituire le eccezioni alla regola. Ma la nostra regola è trovarci in un disastro che ogni volta sembra senza precedenti e irrimediabi-le. Il nostro è il posto più devastato della storia, materialmente e psichicamente. Il Manierismo e il Barocco nascono da traumi collettivi gigan-teschi (1527). Due mesi fa sono entrato dopo tantissimo tempo a Sant’Ivo alla Sapienza e mi sono accorto - o penso di essermi accorto - di una cosa che non avevo mai colto. Sant’Ivo (forse la più bella architettura di tutti i tempi) dall’esterno, dalla strada non lascia sospettare nulla di ciò che c’è dentro. Noi ci troviamo da-vanti a un muro rossastro, piatto, anonimo, il più anonimo che si possa immaginare; all’interno, Borromini ha costruito questo spa-zio fantastico, questo spettacolo, questa incredibile simulazione di pietra. Che rivela una sorta di “gloria del fallimen-to” molto italiana, che non ha assolutamen-te nulla a che vedere con il compiacimento del declino e con l’autocommiserazione. Una gloria che attraversa i secoli, gli stili e le forme espressive (è la stessa di 8½, per intenderci): “Quello è lo spazio pubblico, lo spazio della strada, lo spazio della politica in cui io artista non posso intervenire (perché so quello che mi succederà se lo faccio, conosco le conseguenze); però, all’interno di questo spazio separato, di questa sorta di eteroto-pia che è lo spazio della cultura e dell’arte, accetto le condizioni del fallimento e vi faccio vedere quello che è possibile costruire per voi”. In questo c’è una parte importante, segreta e costante dell’identità italiana, da cui dovremmo ripartire.

La gloria del fallimentoÈ una propensione al guizzo, al colpo di coda risoluto che segna tutta la nostra storia. Che è fatta di crisi continue, con qualche sprazzo propositivo.

di CHRISTIAN CALIANDRO

24 INPRATICA

Quando ci si addentra nel capire lo stato della critica d’arte in Italia o se per esempio esista un pubblico vero, oltre ai soliti addetti ai lavori, anche questi iniziano ad ammutolirsi. In fondo le prove del funzionamento di un sistema sono spesso difficili da definire e sfuggenti. Il sistema dell’arte è importante perché le sue dinamiche e i suoi andamenti influenzano il contenuto delle opere, la formazione de-gli artisti e l’economia che ruota attorno al sistema stesso. Un si-stema poco meritocratico ed eccessivamente basato sulle pubbliche relazioni disincentiva la ricerca e favorisce la fuga di cervelli, non tanto all’estero quanto verso altri ambiti. Inol-tre l’Italia proviene da anni in cui la scuola d’arte è stata consigliata agli studenti meno brillanti. Al di là del fatto che qualche volta quelli considerati meno brillanti non sono tali, si può ben capire di quale status abbia goduto la parola ‘arte’ negli ultimi cinquant’an-ni italiani. Ma se è importante parlare di sistema, perché è importante parlare di arte, quindi di sistema dell’arte? Dopo un secolo come il No-vecento e il suo strascico Anni Novanta, è ormai chiaro che l’arte presiede a ogni ambito umano. La frase “con la cultura non si man-gia” è errata perché tutto è cultura; ancora meglio, tutto è arte. Se prendiamo qualsiasi fenomeno contemporaneo, possiamo eviden-ziare una pratica artistica che nel corso del XX secolo è stata anti-cipata da qualche artista. Come non vedere una forte componente artistica in progetti di successo come Apple, Google o Facebook? Non è forse Facebook lo strumento per avere i quindici minuti di celebrità di cui parlava Andy Warhol negli Anni Sessanta? E se pensiamo all’operazione di Beppe Grillo, non vediamo forse un’interpretazione del pensiero di Joseph Beuys, il quale sostene-va che l’artista dovesse attivarsi per poter modificare e plasmare la società? Ma anche se pensiamo al nostro privato, non serve forse una forte dose di creatività e ingegno per mantenere viva una re-lazione sentimentale? O anche solo una famiglia completa ai tem-pi della crisi? L’arte presiede il nostro micro-quotidiano quanto il nostro macro. Due elementi fondamentali di un sistema dell’arte sono la critica e il pubblico. La critica non serve a distruggere l’artista di turno, quanto ad argomentare le differenze; in una situazione in cui assi-stiamo a una sovrapproduzione di progetti e opere, diventa fonda-mentale poter riconoscere le differenze. Il rischio è che tutto venga messo sullo stesso piano e si differenzi solo in ragione del curri-culum o delle migliori (pubbliche) relazioni. Quindi: critica d’arte come capacità di argomentare le luci e le ombre di un’opera; una critica d’arte vi-tale, oltre a essere un prezioso stimolo, aiu-terebbe a ricaricare la parola ‘arte’ del valore sociale che merita. Allo stesso tempo, è molto importante che esista un pubblico vero e appassionato, formato non dai soli addetti ai lavori (collezioni-sti compresi). In questo momento l’arte contemporanea italiana è come un cinema dove in platea troviamo solo attori, registi, sce-neggiatori, cameraman e altri operatori. Per verificare questo dato basta intervistare le persone che vanno alle mostre o anche solo scattare una foto durante qualsiasi opening. Allo stesso tempo permane una grande incapacità di divulgazione dell’arte contemporanea: è come se questa dovesse essere, a diffe-renza di qualsiasi altra disciplina, una materia “democratica” che deve arrivare subito allo spettatore in modo chiaro e diretto. Non è così, perché non è così per nessuna materia e disciplina umana. Approfondire quello che vediamo fa paura, perché argomentare un’opera o una mostra significa ridimensionarla, mettendo in di-scussione il dispositivo retorico che giustifica e legittima gli stessi addetti ai lavori. Ed ecco che il problema-pubblico si collega al problema-critica: molto meglio non pensare, non argomentare, e giustificare una vendita o una mostra mostrando il curriculum de-gli individui coinvolti.

Dove sono critica e pubblico?

di LUCA ROSSI

Alcuni giovani artisti emigrati lo definiscono una “pozzanghera”. Altri ritengono il termine ‘sistema’ vetusto. Qual è oggi la funzione del sistema dell’arte?

25INPRATICA

Che ruolo hanno oggi i “musei d’impresa”? In un momento di rarefazione delle risorse economiche, che valore assume per un’azienda investire in cultura? Queste sono le domande che abbiamo posto ai protagonisti del talk show di questo numero. Le risposte sono diverse ma accomunate da una costante: l’atteggiamento propositivo e curioso, che fa ben sperare in un futuro caratterizzato da nuove sinergie tra impresa e cultura, oltre che tra pubblico e privato. (a cura di Santa Nastro)

PRESENTE E FUTURO

CATTERINA SEIA CULTURAL PROJECT MANAGER E PRESIDENTE SUSACULTURE, SUSA

Nel nostro Paese il modello dei musei d’impresa andrebbe rivisto in una logica esperienziale, di interazio-ne, partecipativa, per stimolare la lettura della cultura industriale in ottica “po-litecnica”, unendo scienza e umanesimo. Una logica che superi l’approccio prevalente tradizionale, descrittivo-narrativo, che ha origine dagli archivi, collettori della storia aziendale, in cui è domi-nante la ricerca. Il museo Ferrari è tra le eccezioni. Vero e proprio culto, nel 2012 ha superato i 250mila visitatori. Anche Campari va in questa direzione: “Un laboratorio di immagini ed emozioni”, un red passion lab, carpet, tavolo-archivio multimediale, videowall, time travel con le tappe della storia. Accattivante e suggestivo. Non sono ancora stata al Mast, della straordinaria imprenditrice Isabella Seragnoli, che è molto di più. È un progetto politico, che mette l’impresa nel cuore della comunità.

ALESSANDRO CROCIATA RICERCATORE IN ECONOMIA DELLA CULTURA, UNIVERSITÀ DI PESCARA

I musei d’impresa sono un fenomeno non più emergente, ma una realtà che si va progressivamen-te affermando nel nostro Paese, al punto da alimen-tare riflessioni e dibattiti sulla loro valenza. Che tali espressioni museali siano un utile strumento di valorizzazione della cultura d’impresa è indubbio. Materiali iconografici, prodotti e macchinari sono messi a servizio della comunità per raccontare, dandone prova materiale, quegli “animal spirits” che hanno portato un’i-dea imprenditoriale al successo. Il processo comunicativo che l’impresa opera con i suoi pubblici di riferimento, tuttavia, non è solo uno stru-mento di fidelizzazione o una possibilità di valorizzazione del suo brand. Il tema da affrontare, dunque, non è tanto la conservazione o la diffusione del capitale culturale a disposizione, quanto la natura del media utilizzato, vale a dire il museo. In quanto bene culturale, il museo rappresenta un’emer-genza in grado di generare effetti immateriali e indiretti, definibili come esternalità positive. Sono effetti che solo l’infungibilità di un’esperienza culturale può generare. In tal senso, l’effetto che contraddistingue questa particolare forma espressiva dell’impresa riguarda la possibilità di generare impatti cognitivi. Recenti verifiche empiriche dimostrano che il consumo di determinati prodotti culturali, e tra questi la visita a musei/mostre, amplifica il modello mentale degli individui. La sensibilizzazione ai comportamenti pro-ambientali, la diminuzione del tasso di ospedalizzazione per patologie depressive, la ca-pacità di aumentare il pensiero creativo e a cascata l’innovazione sono solo alcune delle dimensioni per misurare la portata di questi effetti. Il museo d’impresa, in questo senso, diventa un dispositivo in grado di facilitare l’apertura mentale dei suoi visitatori e, dunque, uno strumento a disposi-zione per lo sviluppo sostenibile di un territorio.

ELISA BORTOLUZZI DUBACH ESPERTA DI SPONSORING E FILANTROPIA, ZURIGO

Il museo d’impresa non esiste. O meglio esiste, ma in diverse declinazioni. Un museo d’impresa può essere il luogo dove l’azienda custodisce e raccoglie testimonianze della sua storia e della sua evoluzione, ed è in questo senso parte integrante della sua iden-tità. Ma può essere anche un luogo di riflessione, raccoglimento, formazio-ne. Molti imprenditori pensano che anche attraverso la media-zione e la riflessione sull’arte si possa influenzare in modo positivo la capacità di innovazione e la qualità di produzione di un’azienda, e dovrebbero essere clonati. Il museo d’impresa infine può essere una vetrina svuotata di una filosofia autentica, senza radicamento nella storia di un’azienda, un luogo che serve a produrre e lanciare mostre “brillanti” che si pongono come alternativa a quelle prodotte dalle istituzioni. Quest’ultima espressione, senza dubbio utile al marketing aziendale, in un momento di rarefazione delle risorse economiche pubbliche è soggetta a molte critiche. A torto?

CHIARA RUSCONI CULTURAL PROJECT MANAGER DI ANTINORI FAMILIAE MUSEUM, FIRENZE

Antinori Familiae Museum è il nome che caratte-rizza la prima fase del progetto Antinori per l’Arte. L’esperienza del patrimonio artistico della famiglia, vinattieri dal 1385, e il suo dialogo con la contem-poraneità, avvengono nel luogo della produzione, senza l’obiettivo di celebrarne i meccanismi. È un luogo dove antico e contemporaneo si incontrano per testimoniare l’impegno di Antinori nel sostenere le arti e il legame profondo con la cultura iniziato nel XIV secolo. È uno spazio che non ha una collocazione temporale esatta: l’avanguardia dialoga con la tradizione e gli artisti contemporanei sono chiamati a in-teragire, osservare e ripercorrere in diverse modalità le tracce del secolare mecenatismo fiorentino. Costituire un museo d’impresa, sponsorizzare mostre, sostenere restauri è oggi un’operazione di grande intelligenza da parte di un privato, sia se alla base della sua scelta vi siano motivazioni di ordine culturale ed etico, sia se vi siano invece ragioni essenzialmente imprenditoriali di qualificazio-ne dell’immagine dell’azienda. Anzi, l’operazione intelligente si basa proprio sulla coesistenza di entrambi gli aspetti, facendo in modo che quello economico e quello filantropico-culturale si alimentino vicen-devolmente in una visione lungimirante che porta a un’ulteriore cre-scita dell’azienda sia in termini di fatturato che d’immagine. La crescita di risorse necessarie a consentire la fruizione della cultura impone la necessità di costruire una sinergia tra risorse pubbliche e risorse private e di passare da una visione limitata e individualistica a una visione in cui industria, isti-tuzioni e mondo culturale possano finalmente collaborare in modo efficace per creare una nuova economia della cultura e del turismo.

DEI MUSEI D’IMPRESA

26 TALK SHOW

C. SYLVIA WEBER DIRETTRICE DELLA COLLEZIONE WÜRTH, CAPENA

Reinhold Würth ebbe già nella metà degli Anni Ottanta l’originale idea di fondare un museo nella propria azienda. Così nel 1991 con l’apertura del Museo Würth per l’arte contemporanea e l’allesti-mento del museo storico-tecnico della vite e del filetto nella sede centrale del Gruppo Würth a Künzelsau nella Germania meridionale, fu inaugurato il primo dei quindici musei e spazi espositivi del Gruppo Würth. Le attività museali hanno per noi ragione d’im-magine, motivazione ed effetto sul pubblico, che giovano sia all’impresa che ai collaboratori. Ma non si tratta solo di questo: dato che la collezione aziendale è per lo più ac-cessibile gratuitamente, come ad esempio nell’Art Forum Würth Capena, Würth aspira anche a un impegno sociale. Tutte le nostre mostre, che pun-tano a una qualità museale, sono accompagnate da un vivace programma collaterale, che si rivolge a un pubblico di tutte le età, alle scuole di ogni ordine e grado e a chiunque sia interessato. Riuscire a proseguire tali atti-vità proprio in un momento storico caratterizzato da una crisi economica rappresenta per noi un importante proposito.

MICHELE TRIMARCHI DOCENTE DI ECONOMIA DELLA CULTURA, UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

Nati lungo la parabola discendente del paradig-ma manifatturiero, i musei d’impresa coprono un ventaglio di ruoli piuttosto variegato, cosa del tutto comprensibile in un quadro statico: l’impresa cer-ca di perpetuare una valenza in discussione e usa il modello decisamente obsoleto del museo per rappresentarsi all’esterno. Non può durare troppo a lungo.Le cose cambiano rapidamente, e per molti versi in modo inaspettato. L’impresa dei prossimi anni non è più un ammasso organizzato di ferra-glia, e tende a diventare uno snodo sinergico di talenti e prassi capace di dialogare con una società multiculturale. Il museo del futuro sposta in avanti lo sguardo di Mnemosyne, ma-dre delle muse e dea della memoria: non basta conservare oggetti memorabili, ma è necessario creare cose che possano attivare la memoria del futuro. L’impresa è un crogiolo di esperienze e di visioni, raccontarle con un approccio ipertestuale e cross-mediale può attivare un’incisiva rappresentazione del sé, tanto per rafforzare la consapevolezza interna quanto per consolidare le connessioni esterne.

ALBERTO MEOMARTINI PRESIDENTE DI MUSEIMPRESA, MILANO

I musei d’impresa rivestono un ruolo fondamentale per la promozione della cultura d’impresa. Pensia-mo a ciò che in essi è contenuto: sicuramente la memoria aziendale, ma anche la storia dell’evoluzio-ne tecnologica, dei progressi scientifici e dei cam-biamenti nei costumi della società italiana, tutti argomenti che raramente trovano spazio all’interno dei musei tradizionali. In questo senso i musei d’impresa sono testimoni d’eccezione di queste trasformazioni e diventano uno strumento di dialogo e di condivisione tra l’azienda e il territorio, raccontando gran parte di ciò che compone l’immaginario collettivo di una società. Investire in un museo d’impresa significa investi-re nella conservazione della memoria, ma anche valorizzare ciò che la storia può rappresentare per il futuro. Pochi sanno che questi musei sono fucine di idee, laborato-ri all’interno dei quali nascono nuovi prodotti traendo ispirazione da ciò che è stato fatto; all’interno dei musei d’impresa vengono inoltre elaborate nuove strategie di marketing che indirizzano l’azienda verso percorsi in-novativi di sviluppo. Questi musei non sono da interpretare quindi come luoghi di celebrazione del passato, ma come officine orientate al futuro.

STEFANIA RICCI DIRETTRICE DEL MUSEO SALVATORE FERRAGAMO, FIRENZE

Il Museo Salvatore Ferragamo è nato quasi vent’an-ni fa, dopo un lavoro decennale di preparazione. Allora i musei d’impresa quasi non esistevano. Era tutto da fare, da costruire. Il lavoro è stato faticoso, la strada spesso in salita. Fin dagli inizi del nostro percorso è stato fondamentale far capire all’azienda che l’archivio e il mu-seo hanno le potenzialità per diventare un efficace strumento di comuni-cazione della capacità produttiva dell’azienda e dei suoi contenuti, e che costituiscono un potente veicolo per la propagazione della sua immagine. In un momento di crisi è fondamentale dimostra-re che un’azienda ha una storia. È una garanzia di solidità e di coerenza in un momento di in-sicurezza. L’archivio e il museo sono inoltre elementi indispensabili di interazione con il territorio, come centri di promozione del dibattito culturale e come elementi dinamici per la formazione esterna e interna. Il museo è anche uno strumento importante per creare un senso di ap-partenenza all’azienda in chi lavora all’interno di essa, per le loro famiglie, per gli amici. In una società sempre più impersonale, costruire uno spazio di cui ognuno può vantare di essere stato in qualche modo protagonista diretto o indiretto, rappresenta un valore positivo, con un enorme pote-re aggregante. In un momento di rarefazione delle risorse economiche, il museo d’impresa esprime la concretezza di quell’impresa, la sua cultura, i suoi valori, che sono i soli elementi che contano se si vuole avere un futuro.

MARINA MOJANA DIRETTORE ARTISTICO DI GALLERIA CAMPARI, SESTO SAN GIOVANNI

Il presente di un’azienda è il compiersi di una sto-ria, che nel tempo conserva ciò che vale e abbando-na ciò che non serve al cammino, alla sua crescita, al suo successo. Galleria Campari, nata nel 2010 – nell’anno in cui si celebravano i 150 anni dell’a-zienda – è l’espressione di una storia, è un luogo vitale la cui funzione è ricordare; un fare memoria non come qualcosa di nostalgico, ma per dare significato al presente. Non a caso abbiamo scelto di chiamarci Galleria e non Museo. Il ruolo del nostro museo è indipendente dalle contingenze economiche, più o meno felici. Diverso è invece il modo in cui Campari investe sul suo progetto. Le risorse variano a seconda dei momenti storici, ma Galle-ria Campari resta uno strumento formidabile di fidelizzazione del cliente (mostre, conferenze, serate teatrali o musicali), di riconoscimento della community dei “Campari Friends” attraverso i valori culturali che durano più a lungo del sorso di un aperitivo, ma anche di dialogo con il territorio e in particolare con l’assessorato alla Cultura del Comune di Sesto San Giovanni.

ALESSANDRO BOLLO COORDINATORE DELL’AREA DI RICERCA DELLA FONDAZIONE FITZCARRALDO, TORINO

Il concetto di museo d’impresa è sempre più diffi-cile da imbrigliare. Questo tipo di museo nasce per difendere dall’oblio, testimoniare, rappresentare e celebrare i sogni, le storie, le intraprese, le persone, le idee, le culture, gli oggetti, i prodotti, la natura profonda delle imprese e dei loro prodotti. Questo è il Dna dei musei d’impresa. Dal punto di vista delle funzioni ci troviamo di fronte a soluzioni che spesso ibridano la natura e il modello del museo canonico. A cavallo tra l’archivio della memoria, il museo esperienziale, lo spazio di esposizione, il polo di produzione culturale e creativa con una spiccata predilezione per la sperimentazione contemporanea (e forse non potrebbe essere altrimenti se si ritorna alla matrice pionieristica e avanguardistica dei protagonisti di questi musei) e lo strumento di branding aziendale. Si tratta di luoghi, a volte magici, in cui fare esperienza di un prodotto, di una “marca”, coglierne l’essenza e la profondità, diventandone ambasciatori e testimonial qualificati. Da questo punto di vista il museo si traduce in un pregiatissimo “emporio semantico” per dare aura e valore a prodotti e progetti in mercati sempre più competitivi e globalizzati.

27TALK SHOW

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30 REPORTAGE

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31REPORTAGE

CROSSOVER FIORENTINOdi BASE

Un progetto collettivo che prosegue dal 1998. Siamo a Firenze, dove ha base Base. Negli anni c’è chi è partito e chi è arrivato, ma lo spirito resta quello: “praticare quotidianamente l’utopia”. Come sempre nel nostro focus, sono i diretti interessati a parlare del proprio lavoro.

BASE / Progetti per l’arte è uno spazio non profit fondato nel 1998 a Firenze, in via San Niccolò 18r, da un collettivo di artisti che, partendo da un’idea comune dell’arte, deside-ravano creare un luogo di incontro in cui riflettere sui linguaggi della contemporaneità, coinvolgendo e invitando altri artisti attivi sulla scena internaziona-le. Hanno esposto a Base, tra gli altri, Maurizio Mo-chetti, Lawrence Weiner, Rirkrit T i r a v a n i j a , François Morel-let, Liam Gillick, Heimo Zobernig, Robert Barry, Sol LeWitt, Rainer Ganahl, Oli-vier Mosset, Jan Vercruysse, Franz West, Car-sten Nicolai, Jonathan Monk, Pe-dro Cabrita Reis, Nedko Solakov, Luca Vitone, Eva Marisaldi, Olaf Nicolai, Piero Golia, John Nixon & Marco Fusinato.Il nucleo di artisti fondatori era composto, in origine, da Antonio Catelani, Carlo Guaita, Paolo Masi, Massimo Nannucci, Mauri-

zio Nannucci e Paolo Parisi. Suc-cessivamente, nel corso degli anni, hanno partecipato diversi altri artisti residenti in Toscana, fino ad arrivare, dal 2000, all’attuale squadra: Mario Airò, Marco Bagnoli, Massimo Bartolini, Paolo Masi, Paolo Parisi, Massimo Nannucci, Maurizio Nan-

nucci, Remo Salvadori. Il co-ordinamento delle attivi-

tà espositive è invece affidato a Lorenzo

Bruni.La peculiarità di questo spazio è testimoniata dalla convi-venza di artisti

che usano mezzi espressivi e mo-

dalità diverse e che appartengono a tre ge-

nerazioni differenti. Maurizio Nannucci lavora con i mezzi della comunicazione e sulla loro natura dalla fine degli Anni Sessanta men-tre Paolo Masi, sempre dagli Anni Sessanta, pratica con coerenza i limi-ti dell’astrazione geometrica di tipo gestaltico. Dai primi Anni Settanta, Massimo Nannucci lavora sul con-cetto di vero/falso e di mimesi tra og-getti d’arte e oggetti del quotidiano;

La peculiarità di questo spazio

è testimoniata dalla convivenza di artisti che

appartengono a tre generazioni differenti

UNA STORIA DI BASEGli artisti che hanno esposto a Base sono differenti tra loro per generazione e genesi artistica. Nel 2008, con il progetto Instead of allowing some thing to rise up to your face dancing Bruce and Dan and other things, Tino Sehgal sviluppò una riflessione sul senso di ciò che può essere considerato opera d’arte: attraverso un performer che si muoveva riverso sul pavimento, come una medusa, il tentativo era di perimetrare lo spazio che conteneva l’azione. Un modo per riprendere le ricerche degli Anni Settanta, coinvolgendo lo spettatore - più o meno consapevole - nel processo di decodifica del gesto artistico e di relazione con lo spazio. Nel 2004 Rirkrit Tiravanija con il suo progetto qualsiasi tv ha posto la stessa questione rivolgendosi direttamente alle per-sone del quartiere e trasformando lo spazio di Base nella sede di una street tv: qui le persone potevano realizzare i propri programmi o trasmettere materiali video. L’opera d’arte non era più un oggetto da osservare ma una maniera per rendere evidente il processo di coesistenza e di relazione tra le persone coinvolte. L’opera, in questo caso, è intesa come interro-gazione su cosa renda uno spazio un luogo d’arte.Nello stesso anno, la mostra di Matt Mullican si interrogava sul linguaggio dell’arte e sul rapporto con lo spazio fisico e la sua immagine: due grandi bandiere e una serie di animazioni di computer grafica ponevano l’attenzione sulla natura dei segni e sulla loro interpretazione rispetto al contesto in cui si manifestano. Molti anni prima, nel 1999, Niele Toroni, con il segno del pennello n. 50, rifletteva sulla natura della pittura, concretizzandone il grado zero nella sua autorappresentazione, così che la struttura architettonica dello spazio si manifestasse attraverso le variazioni di forme geometriche disegnate sulle pareti. E ancora, l’opera Diagonal space (2006) di Jeppe Hein permetteva una misurazione visiva del luogo attraverso una struttura zigzagante di metallo, che si sviluppava dalla profondità dello spazio verso l’entrata, e su cui scorreva dell’acqua dando vita a una fontana. A tratti una linea di fuoco (alcool infiammato) prendeva il posto dell’acqua, creando, attraverso il calore e la luce, un coinvolgimento fisico - oltre che immaginativo - dello spettatore. Ancora una via per stimolare una riflessione sulla percezione dello spazio. Ma è forse il lavoro di Antonio Muntadas (2000) ad apparire come sintesi del significato di Base. L’intervento consiste-va in una pellicola rossa che, rivestendo la porta finestra e la finestra, trasformava lo spazio in un lightbox inaccessibile. Avvicinandosi a questo diaframma monocromo, i passanti potevano osservare lo spazio illuminato all’interno, attraverso una serie di lettere ritagliate sulla superficie rossa che, se viste nel loro insieme, affermavano: “La percezione richiede partecipazione”.

32 FOCUS

SGUARDO AL FUTUROL’obiettivo e la modalità di Base rimane costante anche dopo sedici anni di attività: uno spazio di con-fronto democratico e orizzontale sul ruolo e la pratica dell’arte, il cui dibattito è alimentato, di volta in volta, dai singoli progetti proposti dagli artisti invitati. La particolarità di questo spazio non profit sta nel voler condividere a livello pubblico il bagaglio di confronti e rapporti internazionali propri dei singoli artisti del collettivo. Per questo, più che di nuovi progetti Base può parlare di nuove soluzioni e prospettive al dibattito culturale a cui giunge per mezzo dei singoli contributi dei singoli artisti. Con la mostra dal titolo col tempo, di Franco Vaccari, Base ha inaugurato a gennaio 2014 la nuova programmazione. Un progetto importante, che evidenzia come la lunga e proficua ricerca di Vaccari attorno al potere dell’immagine e della sua diffusione tecnologica non abbia mai puntato a individuare uno “spazio di esposizione” o “di azione”, ma piuttosto un “luogo della relazione” tra segno e spet-tatore, tra opera e contenitore, tra memoria personale e collettiva.L’ambiente che ha creato Vaccari per Base destabilizza l’aspettativa dello spettatore, che si trova a fare i conti con diversi elementi, apparentemente in contrasto tra loro: tra questi, un codice per la lettura elettronica posto su una parete, con un messaggio fruibile solo tramite uno scatto fotografico per mezzo di un cellulare. L’attenzione è così rivolta non all’immagine osservata ma alla relazione tra i fruitori e un istante specifico di condivisione.Un’attitudine, questa, che appartiene a tutti gli artisti di Base, sempre nell’ottica del dialogo tra artisti e spettatori, ma anche tra le diverse figure e istituzioni che animano il territorio. Un dialogo che verrà approfondito nel corso del 2014 tramite il programma di BaseTalks (!), strutturato attraverso piccoli workshop e incontro con spazi non profit attivi a livello europeo. Ulteriore spazio sarà dato ai progetti di condivisione di materiale di archivio, con l’autoproduzione di un giornale e una serie di documen-tazioni video, da distribuire in Rete.In programma, a breve, anche la presentazione del volume Alla maniera d’oggi, che raccoglie l’e-sperienza della mostra omonima coordinata dal Museo Pecci di Prato, in occasione dei dieci anni di attività dello spazio, evento che vide protagonisti gli artisti del collettivo, per la prima volta in campo con le loro stesse opere, collocate in alcuni spazi storici della città.

Remo Salvadori sull’idea di incontro e di dare nuova vita ai materiali inor-ganici, come il piombo e la materia/colore; Marco Bagnoli riflette sull’i-dea di sapere, mettendo a confronto scienza e natura. Mario Airò e Mas-simo Bartolini, appartenenti alla ge-nerazione emersa alla fine degli Anni Ottanta, attraverso installazio-ni immateriali e ambien-tali lavorano sull’idea di crossover tra dif-ferenti discipline, per creare una dimensione di stupore in cui lo spazio fisico è direttamente messo a con-fronto con quello immaginato. Paolo Parisi dagli inizi degli Anni Novanta realizza una riflessione sul punto di vista dello spettatore attraverso una pratica del concetto del monocromo in pittura, confrontando lo spazio della rappre-sentazione con quello esperibile.Tra i giovani artisti che si sono for-mati all’interno di questo fruttuoso dialogo vi sono Enrico Vezzi, Vit-torio Cavallini, Yuki Ichihashi e Irina Kholodnaya.

Base è un’utopia praticata giornal-mente, che si interroga costante-mente su qual è e quale dovrebbe essere il ruolo dell’artista rispetto alla società e su cosa, oggi, possia-mo considerare arte e perché. Spazio aperto alla conoscenza e all’informa-zione, Base, attraverso una dialettica

di segni e linguaggi, concorre a tenere aperto un con-

fronto di idee sulla contemporaneità. Gli artisti che ne fanno parte si av-vicendano nella conduzione del-le attività, coin-volgendo, in una

forma di parteci-pazione e supporto

attiva, un numero sempre più vasto di artisti, studio-

si, collezionisti, amici. Da ben quin-dici anni lo spazio presenta mostre, progetti site specific, confronti e dialoghi, proponendo differenti let-ture e prospettive su quanto di più interessante accade nell’arte italiana e internazionale e nei suoi territori limitrofi.

www.baseitaly.org

Base è un’utopia praticata

giornalmente, che si interroga su qual è e

quale dovrebbe essere il ruolo dell’artista

nella società

33FOCUS

36 BONOMO UNA E TRINA. MADRE E FIGLIE GALLERISTE40 BROOKLYN: LA GENTRIFICAZIONE TARGATA DE BLASIO44 LA SCEICCA E LA STILISTA. VIAGGIO A DOHA CON MIUCCIA50 ISTITUTI ITALIANI DI CULTURA. CHI SONO E COSA FANNO54 GROYS GROYS GROYS. I’M LOOKING FOR A GOOD ART

Il suo è un esordio americano. Quindi gli sviluppi, che la vedranno poi scoprire tanti giovani talenti Usa, erano già scritti

Andai a lavorare con il Fine Arts Museum di Dallas, vicina a mio marito che era in Texas per perfe-zionare studi in medicina. Il museo aveva un’attività piuttosto ampia, con diverse attività culturali, anche musicali. Io collaboravo con diver-si settori, anche grazie alla lingua italiana. Quindi le mie prime espe-rienze con il mondo dell’arte furono nell’ambito museale.

Per questo la mostra d’esordio della galleria, nel 1971, aveva un così forte colorito americano?Dopo l’esperienza americana, tornai in Italia e mi laureai in filosofia, ma ormai i miei interessi erano tutti per l’arte. Conoscevo già molti artisti, anche nel ruolo di collezionista, con mio marito: prima di tutti Lucio Fontana, poi ricordo Kounellis, che

ci aveva impressionati per la gran-de novità che portava con la sue opere, e Giulio Paolini, che forse è stato il primo artista concettuale al mondo. Dal mio rientro all’apertura della galleria sono passati cinque o sei anni in cui ho seguito il mon-do dell’arte, soprattutto a Roma e Milano, dove ho conosciuto di-versi galleristi, in quel momento ancora nel mio ruolo di col-lezionista. Per esempio Toselli a Milano, e poi Pio Monti, un gal-lerista molto intel-ligente e coin-volgente. Sì, la prima mostra, una collettiva, aveva diversi artisti americani allora qua-si sconosciuti: c’erano Barry, Mel Bochner, Boetti, Buren, Darboven, Dibbets, Fabro, Huebler, Lewitt, Paolini, Ryman, Weiner.

Un programma dirompente, in quel momento. Come reagì l’am-biente?La risposta di Bari e della Puglia fu quella della curiosità: la gente era attratta da qualcosa di diverso, e quando vedevano che una parete

era occupata solo da una linea, o da pochi se-

gni, pochi colori, si domandavano cosa stesse succe-dendo. Fu molto difficile conqui-stare l’adesione dell’ambiente, e comunque il

mio lavoro era con collezionisti nazio-

nali e internazionali. A Bari fino a quel momento

arrivavano solo galleristi che tratta-vano arte italiana, sempre figurati-va. Quindi ci fu sorpresa per questi nomi nuovi, anche se in America erano già conosciuti. Per me quella di Bari fu una scelta naturale, visto

che vivevo qui: del resto a me inte-ressava l’idea di aprire una galleria, non mi interessava il luogo, l’avrei fatto dovunque.

La galleria divenne presto meta di grandi personaggi in visita in Pu-glia. Ci ricorda qualche episodio?La grande musicista e cantante rock Laurie Anderson, poi compagna di Lou Reed, arrivò in galleria tornan-do dalla Grecia e ci mostrò una spe-cie di installazione con il suo violino ed alcune registrazioni audio. Un al-tro episodio che ricordo spesso è le-gato ad Alighiero Boetti, personag-gio immenso, non serve dire perché. Da noi conobbe e lavorò insieme a un giovane artista, Biagio Caldarelli. Una volta questi gli chiese quale fos-se l’aspetto magico del suo lavoro, e Boetti rispose una cosa che resta impressa nella mia mente: “Sono le felici coincidenze”.

In quegli anni com’era il panorama italiano? Dominava l’Arte Povera…

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LE FELICI COINCIDENZE DI MARILENA BONOMO

36 ATTUALITÀ

Sì, ma non era così evidente. Esiste-va, ma era ancora una nicchia nella scena dell’arte. La realtà è che, in quel momento, l’arte che si vende-va in Italia era quella dei “maestri” del Novecento - ad esempio Carrà o Morandi - mentre altri non erano riconosciuti, come Licini, tuttora ignorato ma di maggiore importan-za, in prospettiva.

Quali erano le gallerie d’arte di ri-ferimento in quel momento?Gian Enzo Sperone, ovviamente, a Torino, e sempre a Torino Christian Stein, fondamentale per l’Arte Po-vera. Sargentini a Roma. A Milano ce n’erano molte, ma non molto d’avanguardia: penso al Milione, al Naviglio di Cardazzo, ma erano gal-lerie più storiche. A Genova molto centrale era la Samangallery di Ida Gianelli, che allora era la compagna di Germano Celant, che aveva già grandi contatti con artisti america-ni. Quando noi aprimmo, nel ‘71, avevamo spesso rapporti con loro:

gli artisti che passavano da noi, poi esponevano a Genova, e viceversa.

Poi c’è il fervido rapporto con Na-poli e con Lucio Amelio. Un gallerista che è scomparso pre-sto, e non ce ne sarà più uno uguale. Una vivacità, un’intelligen-za e un gusto straordi-nari. Lo abbiamo conosciuto prima da collezionisti: noi spesso anda-vamo a Napoli e passavamo il fine settimana con lui, che era una fonte ine-sauribile di infor-mazioni, oltre che un grande amico. Poi, quando aprimmo la galleria, anche lui veni-va spesso a Bari, ed è stato uno dei personaggi di riferimento per tante nostre scelte. Anche se lui segui-va artisti diversi. Lui non amava il Concettuale, al di là del rapporto

con Beuys, ma seguiva più Warhol e in genere la Pop Art. Ha fatto anche mostre di Buren, di LeWitt, di Bo-etti, ma le sue preferenze, il suo oc-chio erano verso altri generi, nomi come Gerhard Richter…

Il suo rapporto con l’ar-te americana passò

da quello con Sol LeWitt.Io ho aperto la galleria nel 1971 e in quello stesso anno ho cono-sciuto LeWitt,

che venne a Bari e fu ospite nostro.

Lui rientrava dalla Jugoslavia, dove aveva vinto un

premio per la grafica: sapeva che a Bari c’erano questi collezionisti, così interessati alla scena dell’arte, anche americana, e venne a trovarci. Si creò un rapporto di simpatia e di adesione intellettuale: fu una figura

molto influente per me, mi presentò i più grandi galleristi internazionali, e molti personaggi poi fondamentali per la mia attività.

Il vostro è stato un rapporto mol-to intenso: ci racconta qualche aneddoto?Beh, mi viene in mente questo: lui non amava, anzi odiava farsi foto-grafare. Venne Lisa Ponti, che voleva fare una pagina su di lui per Domus, e lui non si fece ritrarre. Però realiz-zò per lei una specie di autobiogra-fia con tante Polaroid dedicate alla sua vita, ai suoi oggetti, alle matite che adoperava, alla strada che per-correva, alle pietre che incontrava. Era una persona dal pensiero mol-to profondo, ma isolata, non ama-va la società “mondana”: preferiva osservare i dettagli delle cose. Poi ci fu quella volta che venne in gal-leria per allestire la sua personale, e mi sorprese perché tutto il proget-to era contenuto in un piccolo fo-glietto: c’erano solo i numeri 1, 2,

L’arte che si vendeva in Italia era

quella dei “maestri” del Novecento mentre altri non eranoriconosciuti,

come Licini

La prima domanda, pronta per questa intervista, voleva lambire la sociologia applicata. Qualcosa del tipo: “In questo ciclo di incontri con i grandi galleristi italiani, abbiamo intervistato finora due donne, ed entrambe del sud Italia. Perché? C’è qualcosa nella donna del sud che la porta a indagare, rischiare, investire?”. Ma lei la smonta subito: “La mia formazione in realtà inizia in America, dove sono andata giovanissima a lavorare in un museo a Dallas, Texas”. Lei è Marilena Bonomo, una signora elegante e sempre entusiasta che più di quarant’anni fa lancia una sfida che i suoi stessi amici definivano folle: aprire una galleria d’arte contemporanea di ricerca internazionale a Bari.

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37ATTUALITÀ

3 e 4, corrispondenti ai colori base. Sovrapponendo questi colori, otte-neva tutta la gamma delle tonalità che desiderava: per esempio 1+1+3 poteva essere il viola, 1+2+4 ma-gari l’arancio. Quando, durante il mese che passò con noi, andammo a Spoleto, dove io ho una casa, lui volle arrivare ad Arezzo per vedere gli affreschi di Piero della Francesca: studiava attentamente quella pittu-ra, diceva che la sua sintonia con i colori si basava molto sulle affinità con quelle pitture murali.

Spoleto è molto legata anche alla sua attività con gli artisti. Come nasce il rapporto con questa realtà?Noi abbiamo una casa in un eremo a Monteluco, l’altura che domina Spoleto, dove si trova anche la casa dell’artista Domenico Gnoli, che è sepolto in un piccolo cimitero vici-no. Una casa legata alla mia fami-glia materna, per cui l’estate spesso passavamo dei periodi in Umbria. E proprio su quelle pareti ci sono – tuttora! – i primi esempi di wall dra-wing di Sol LeWitt, disegni che lui

realizzava ancora da solo a matita. E in casa c’erano anche opere murali di altri artisti, come il newyorchese Mel Bochner.

Ma le mostre dove si tenevano?Più tardi abbiamo individuato la Torre Civica, proprio nel centro di Spoleto, l’abbiamo restau-rata e abbiamo iniziato una serie di mostre, inaugurata da Ri-chard Nonas. La seconda fu proprio di Sol LeWitt, che fece un lavoro molto particolare, wall drawing realizzati però con scritture che tracciavano linee e forme geometriche; la mostra successiva fu invece di Pao-lini, un progetto basato sulle ore del giorno che era in dialogo con quello precedente di LeWitt. Tutte queste opere sono tuttora visibili, dopo più di trenta anni, nella torre di Spoleto.

Nella sua attività ha stretto rappor-ti anche con collezionisti storici Pensare di fare una galleria d’arte d’avanguardia a Bari in quel mo-mento era una follia, è normale che ci fosse un forte collegamento con l’ambiente internazionale. Cruciale per me è stato per esempio il rap-

porto con il conte Panza di Biumo: lui, quando

si interessava a un artista, poi non comprava qual-che opera, ma tutta la mostra in blocco. Lui, come noi, vo-leva scoprire gli

artisti all’inizio, prima che questi

diventassero famosi: una volta dichiarò pubbli-

camente che i suoi riferimenti, in Italia, erano Sperone e Bonomo, a Bari. Per gli artisti, entrare nella sua collezione significava un “lasciapas-sare” a tutti i livelli. Uno di questi fu Richard Nonas: era già attivo in America, ma ottenne il successo

solo quando entrò nella collezione Panza di Biumo. Lui tramite noi ac-quistò opere di molti americani, da David Tremlett ad Anne Darboven.

Bari non è solo la città che ha ospi-tato la sua galleria. Lei ha spesso cercato rapporti con l’ambiente e il territorio, anche con progetti di arte pubblica.Sì, al fianco dell’attività privata, quella della galleria, nel tempo si è sviluppato questo desiderio di con-tribuire a una crescita più allargata della sensibilità verso l’arte contem-poranea. La città non aveva, almeno agli inizi, informazioni aggiornate: l’arte veniva intesa in senso “classi-co”, tradizionale, arrivavano a vol-te gallerie da fuori, ma con mostre sempre di arte italiana. Ho propo-sto mostre, cercando di inserire una maggiore apertura internazionale: una si intitolava Sculture da camera, con opere di piccole dimensioni ma di grandissimi nomi, che ebbe un grande successo. Dopo Bari, si spo-stò a Utrecht, Ginevra, Los Angeles, Atene, Madrid

Il conte Panza di Biumo, quando si

interessava a un artista, poi non comprava qualche

opera, ma tutta la mostra in blocco

Sol LeWitt odiava farsi fotografare. Venne Lisa Ponti, che voleva fare una pagina su di lui per Domus, e lui non si fece ritrarre. Però realizzò per lei una specie di autobiografia con tante Polaroid

Una volta Biagio Caldarelli chiese a Boetti quale fosse l’aspetto magico del suo lavoro, e lui rispose una cosa che resta impressa nella mia mente: “Sono le felici coincidenze”

La risposta di Bari e della Puglia fu quella della curiosità: la gente era attratta da qualcosa di diverso

Per me quella di Bari fu una scelta naturale, visto che vivevo qui: del resto a me interessava l’idea di aprire una galleria, non mi interessava il luogo, l’avrei fatto dovunque

Ricordo Kounellis, che ci aveva impressionati per la grande novità che portava con la sue opere, e Giulio Paolini, che forse è stato il primo artista concettuale al mondo

Lucio Amelio: un gallerista che è scomparso presto, e non ce ne sarà più uno uguale. Una vivacità, un’intelligenza e un gusto straordinari

Pensare di fare una galleria d’arte d’avanguardia a Bari in quel momento era una follia,è normale che ci fosse un forte collegamento con l’ambiente internazionale

La mia collezione privata è fatta dagli invenduti! Un gallerista non può essere anche collezionista

“… but, where is Bari?”, rispondevano, incuriositi, grandi artisti e collezionisti quando li invitavo in Puglia

38 ATTUALITÀ

Poi organizzaste alcune mostre site specific alla Sala Murat.Sì, questo qualche anno più tardi. Assessore alla cultura era Pinuc-cio Tatarella [l’ideatore di Alleanza Nazionale, scomparso nel 1999, N.d.R.], una persona di grande sensibilità culturale, il quale diceva sempre che Bari non aveva biso-gno di pane, ma di cultura. Lui ha sempre incoraggiato molto la nostra attività: con lui organizzammo un progetto allo Stadio della Vittoria, che aveva ospitato i profughi alba-nesi che arrivavano con le famose carrette del mare, e ne uscì distrutto; poi venne restaurato, e in quell’oc-casione presentammo una mostra molto importante, intitolata Arena Puglia, inaugurata dal Presiden-te della Repubblica, che allora era Scalfaro. Quando Tatarella morì, le mostre continuarono con la moglie Angiola, che era diventata lei as-sessore al Comune di Bari: mostre alla Sala Murat e al Castello Svevo. Iniziammo con Chen Zhen e Mar-co Nereo Rotelli, poi fu la volta di Sol LeWitt - che realizzò una grande

opera sulla parete della Sala Murat, che purtroppo non è stata capita e molto rovinata - e Mimmo Paladi-no, che al castello presentò I dor-mienti.

Oggi ci sono progetti molto ambi-ziosi a Bari per il contemporaneo, come il BAC al Teatro Mar-gherita. Come giudica queste iniziative?Io non li giudi-co, perché non sono entrata nello spirito della cosa. Non conoscevo chi oggi sta pro-muovendo questi progetti, non sono soggetti noti nel mon-do dell’arte: Bonito Oliva è stato coinvolto, ma non è lui che promuove questi progetti, ci sono istituzioni emerse ora, in questa occasione. Anche a livello politico non ci sono stati altri assessori vicini alle questioni dell’arte: c’è stato sì il sindaco Emiliano, attento a certe

sensibilità, ma non essendo esperto di arte, si è sempre affidato ad altri delegati.

Tornando al lavoro della galleria: qual è il suo rapporto con le fie-re d’arte? Lei è stata spesso coin-volta, come espositrice ma anche

come organizzatrice.Partecipai per la prima

volta ad Art Basel assieme a una gal-lerista di Zurigo, dividendo uno stand che pre-sentava opere di un artista tratta-

to da entrambe, Robert Mangold.

Ero andata alla fiera su indicazione di Lucio Amelio,

che allora faceva parte del comitato di selezione. Poi sì, alla fine degli Anni Settanta fui coinvolta con l’esperienza di Expo Arte, nell’organizzazione artistica della fiera. L’iniziativa era di Stefano Romanazzi, presidente della Fiera

del Levante e anche collezionista: grazie ai nostri contatti arrivarono a Bari giganti dell’arte internaziona-le, gallerie come Leo Castelli, Ilea-na Sonnabend, Marian Goodman, Yvon Lambert, e le migliori italiane, da Sperone a Guido Le Noci, Ame-lio, Toselli.

Lei avrà una ricca collezione pri-vata. Cosa ci farà?Mah, direi che la mia collezione privata è fatta dagli invenduti! Un gallerista non può essere anche col-lezionista: la nostra raccolta è stata creata più che mai da mio marito, ma è una cosa distinta dalla galleria. Non credo che comunque pensere-mo di esporre la collezione al pub-blico: non sentiamo interesse in questo senso. Ci fu una donazione della Cassa di Risparmio di Bari, di un’opera di LeWitt, ma fu destinata alla sede di Foggia. Ci sono altri casi isolati: per esempio Stephen Anto-nakos, morto lo scorso anno, che realizzò un’opera sul muro esterno della Sala Murat, e poi una grande opera neon all’aeroporto di Bari.

Il sindaco Emiliano è attento

a certe sensibilità, ma non essendo esperto di arte, si è sempre

affidato ad altri delegati

GALLERIA BONOMO, UNA E TRINA“Loro fin da piccole hanno fre-quentato il mondo dell’arte. Gli artisti spesso soggiornavano da noi anche per lunghi periodi per lavorare, e le bambine li conob-bero e frequentarono per anni, da Richard Tuttle a Pat Steir”. Loro – nelle parole di Marilena Bono-mo – sono le figlie Valentina e Alessandra, che da anni ormai ricalcano il percorso della madre, della quale hanno esportato la vo-cazione e la passione sulla scena romana. “LeWitt per loro era come un parente, e oggi sono rimaste in ottimi rapporti con la moglie e le figlie. Poi si interessarono alla galleria: Valentina lavorò proprio a Bari per un periodo, mentre Alessandra aprì il primo spazio a Roma, inaugurando con una mostra di Mario Schifano, seguita da una di Boetti”. Siamo nel 1986, a Trastevere: un’attività che integra fin da subito giovani artisti italiani e inter-nazionali - spesso alla loro prima mostra in Italia - con artisti più consolidati. Per la galleria pas-sano nomi come Twombly, Fischli & Weiss, Peter Schuyff, Ugo Rondinone, Hiroshi Sugimoto, Shirin Neshat, Douglas Gordon, Sol LeWitt, Richard Tuttle. Uno spazio poi portato avanti in tandem dalle due sorelle, dopo che agli inizi degli anni Novanta anche Valentina approda a Roma, accompagnando l’impegno in galleria con un’attività curatoriale indipendente. L’anno della svolta è il 2002: finisce l’esperienza a Trastevere e le due “figlie d’arte” aprono due distinte gallerie. Alessandra approda in pieno centro di Roma, in via del Gesù, fra il Pantheon e piazza Venezia: uno spazio dove mantiene un carattere “aperto”, spingendo però l’acceleratore su artisti internazionali di nuova generazione, spesso in collaborazione con critici come Achille Bonito Oliva, Mariuccia Casadio, Vincent Katz. Qualche nome? Lida Abdul, Barry McGee, Adam McEwen, Elger Esser, Marc Quinn, Joan Jonas, Hamish Fulton. Valentina inaugura nell’aprile 2002 il suo spazio situato nel Ghetto, a pochi passi dalle vestigia romane del Portico d’Ottavia e del Teatro di Marcello, e di fronte alla Sinagoga. La mostra d’apertura, di Mimmo Paladino, tradisce una certa predilezione per la Transavanguardia, comprovata anche per lei dalla collabo-razione con Achille Bonito Oliva e dalla mostra immediatamente successiva di Enzo Cucchi. A queste negli anni affianca collaborazioni e mostre con artisti come Liliana Moro, Carla Accardi, Stephan Balkenhol, Julian Opie, Luca Trevisani, Glen Rubsamen, Shahzia Sikander, Dayanita Singh.

MASSIMO MATTIOLI

www.galleriabonomo.comwww.bonomogallery.com

39ATTUALITÀ

A Manhattan si sta assi-stendo al rezoning di Midtown West e Har-lem (anche se la fara-onica riqualificazione

dell’area intorno alla Grand Cen-tral Station è stata bloccata, con il plauso del neosindaco di New York, Bill de Blasio) e nel Queens sta nascendo un nuovo polo d’arte e musei. Ma è nella Brooklyn mas-sicciamente gentrificata dall’effetto Bloomberg che, proprio nel suo bo-rough, de Blasio potrebbe giocarsi la partita appena iniziata. Tutto è cominciato con il Down-town Brooklyn Redevelopment Plan del 2004 e il rezoning di Wil-liamsburg e Greenpoint nel 2005. Da Dumbo a Boerum Hill, da Williamsburg a Prospect Heights, le mirabolanti trasformazioni urba-

nistiche stanno rapidamente ridise-gnando il tessuto urbano di Brook-lyn: potenziamenti infrastrutturali, aree verdi (una su tutte, il magnifico Brooklyn Bridge Park), zone pedonali e piste ciclabili in nome della sostenibi-lità tanto cara all’ex sindaco, ma anche al-loggi di lusso e catene commer-ciali. Il risultato si mi-sura in crescita economica e diminuzione della criminalità, al costo però di un boom speculativo che ha agevolato i costruttori e gli operatori immobiliari, ma non la

classe medio-bassa e le piccole im-prese, costrette a traslocare altrove. Da qui aspri conflitti con le co-

munità e un variegato fiorire di contestazioni, anche

creative: ipotesi pro-gettuali alternati-

ve (Tate with a twist), spettaco-li di videomap-ping (a cura di The Illumina-tor, collettivo

artistico emerso da Occupy Wall

Street), mostre, dj set, documentari di

denuncia (My Brooklyn, The Vanishing City, The Domino Effect, Battle for Brooklyn). Sono le voci della creative class locale, che non restano a guardare impotenti l’ag-

gressione, da parte di una gentri-fication sempre più schiacciante, della diversità culturale, razziale ed economica di Brooklyn. A Downtown Brooklyn, oltre allo sviluppo del già vivace Cultural Di-strict (che includerà musei, scuole di danza, gallerie, teatri, sale con-certo, atelier e centri d’arte), sono in costruzione gli Atlantic Yards firmati dagli Shop Architects - “il più denso sviluppo immobiliare nella storia degli Stati Uniti”, ma anche “un imbroglio per i contribuenti” e “un completo fallimento della de-mocrazia” - e il controverso City Point: entrambi i progetti sono al centro di polemiche per gli espropri selvaggi, le promesse occupazionali non mantenute e gli alloggi abbor-dabili, sovvenzionati da agevolazio-ni fiscali, non realizzati.

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Il boom speculativo

ha agevolato i costruttori e gli

operatori immobiliari, ma non la classe medio-bassa e le piccole imprese

BROOKLYN GENTRIFICATION DA BLOOMBERG A DE BLASIO

40 ATTUALITÀ

BROOKLYN GENTRIFICATION DA BLOOMBERG A DE BLASIO

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Il neosindaco della Grande Mela, Bill de Blasio, sta raccogliendo un’eredità urbanistica impegnativa. L’era Bloomberg ha infatti lasciato un’impronta indelebile sul paesaggio urbano newyorchese, con il rezoning del 40% del territorio metropolitano e la costruzione, in dodici anni di mandato, di 40mila nuovi grattacieli che hanno reso New York un immenso e frastornante cantiere a cielo aperto. Al pari delle più frenetiche megalopoli asiatiche.

DOMINO SUGAR FACTORYIl progetto di riqualificazione della raffineria di zucchero Domino, storica icona in-dustriale di Williamsburg (l’edificio risale al 1882), è da anni al centro di contro-versie. Fin da quando, nel 2005, The New Domino, il primo progetto affidato a Ra-fael Viñoly Architects (11,2 ettari di grattacieli residenziali con un mix di alloggi a prezzi accessibili, uffici, spazi commerciali e 4 ettari di spazio pubblico aperto), fu fortemente osteggiato dalla comunità e ritirato. Il progetto attuale (firmato da Shop Architects + James Corner Field Operations) è composto di cinque grattacieli, con più di 2.000 appartamenti, quasi 80mila mq di spazi commerciali ai piani terra e 630mila mq di uffici. Nonostante l’altezza degli edifici - tengono a precisare da Two Trees Management - grandi aperture consentiranno all’aria e alla luce di penetrare attraverso il sito, fino al quartiere retrostante. Per andare incontro alla comunità locale, le altezze saranno compensate da un vasto spazio pubblico aperto con una serie di parchi, giardini e campi sportivi che rivaleggerà - in quanto a dimensioni - con il Nelson Rockefeller Park a Battery Park City. BROOKLYN TECH TRIANGLE

Presentato nel giugno scorso, il Brooklyn Tech Triangle Strategic Plan (elaborato da WXY Architecture + Urban Design) è il piano di massima che propone il modello di sviluppo di quello che diventerà il più grande centro di attività tecnologiche al di fuori di Manhattan, nella zona tra Brooklyn Navy yard, Dumbo e Downtown Brooklyn. Il piano strategico è focalizzato in cinque “sfide”: la realizzazione di spazi adatti alle attività tecnologiche, la creazione di un nuovo sistema tecnologico con azioni di supporto agli scambi tra imprese tecnologiche e università, il potenzia-mento dei trasporti, una progettazione urbana mirata e l’impostazione di una copertura wifi in tutta la zona. Sono 500 le aziende attualmente presenti sul territorio, e impiegano circa 9.600 persone; nel corso dei prossimi due anni, secondo i promotori, la zona creerà 18mila posti di lavoro diretti, 43mila indiretti e 4 milioni di mq di spazi tecnologici per aziende creative. L’American Planning Association ha recentemente premiato il BTT con il Meritorius Achievement per la scala ambiziosa del progetto come modello di sviluppo economico dei centri urbani.

ATLANTIC YARDSInizialmente affidato a Frank Gehry, il complesso da quasi 5 miliardi dollari comprende 16 grattacieli a uso residenziale e commerciale, e ruoterà attorno al nuovo stadio del Barclays Center, aperto a pubblico nel settembre del 2012 con un concerto di Jay Z. La torre B2, il prossimo edificio a essere inaugurato, sarà il grattacielo prefabbricato più alto del mondo, costituito da 930 sagome modulari combinate tra loro: il 60% della torre sarà costru-ito fuori opera, nel Brooklyn Navy Yard, poi trasportato e assemblato alla struttura; tutto questo per abbattere i costi e i consumi energetici. Posto in uno degli incroci urbani più trafficati di New York, leggibile a più scale e con accessi facili e accomodanti, il complesso di Ellerbe Becket + Shop Architects - il cui completamento è previsto per il 2015 - è stato definito dal New Yorker una “presenza aliena”, dal New York Times “un’isola e un promemoria di ciò che manca”, mentre per il New York Magazine è “geniale e aggressivo allo stesso tempo”.

EAST RIVER

LOWERMANHATTAN

NEW JERSEY

BROOKLYN

STATEN ISLAND

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Brooklyn Queens Expy.Flatbush Avenue extension

Lafayette Avenue

Flushing Avenue

Williamsburg Bridge

41ATTUALITÀ

A Williamsburg, sull’East River, gli scintillanti grattacieli a uso misto del Domino Sugar Factory Ma-sterplan Development, progetto di riqualificazione della raffineria di zucchero Domino, diventeranno il biglietto da visita di Brooklyn per il mondo intero. I progettisti sono ancora gli Shop Architects, que-sta volta con James Corner Field Operations - i creatori dell’High Line - e Two Trees Management Co., la società immobiliare che ha trasformato la vicina Dumbo da zona ex industriale ad ambitissimo quartiere di creativi e start up tec-nologiche. Il progetto è stato modi-ficato più volte per andare incontro alla comunità locale, imbufalita per l’eccessiva densità abitativa che ne deriverebbe e per le ripercussioni economiche sui cittadini in termini di potenziamento delle infrastrut-ture e dei trasporti. Ma qui si tratta

di un’icona industriale di Brooklyn e del quartiere più cool della città: ecco allora che lo studio Indamine Architecture propone Tate with a Twist, centro culturale po-lifunzionale ispirato alla Tate Modern di Herzog & de Meuron e alla c o n v e r s i o n e dell’ex Banksi-de Power Sta-tion, rispetto-se dell’integrità storica della fabbrica e del quartiere. Il pro-getto è una delle pri-me grandi opere a iniziare il processo di approvazione sotto l’amministrazione Bloomberg e a terminare con un nuovo sindaco e un consiglio comunale radicalmen-te diverso.

In un momento in cui il settore della tecnologia vive a New York un forte incremento - qui Facebo-ok ha aperto nuovi uffici e la Cor-

nell University realizzerà un campus tecnologico

a Roosevelt Island - Brooklyn sfida pure la Silicon Valley con il Brooklyn Tech Triangle, che propone un modello di svi-

luppo di un’area già in forte ascesa

sul piano tecno-logico, quella compresa tra

la Brooklyn Navy Yard, Dumbo e Downtown Brooklyn. Il piano strategico, sviluppato da WXY Architecture + Urban Design, ha un’impostazione progettuale per lo

più culturale: creare le basi per un una comunità condivisa, dove le persone possano vivere bene e non solo lavorare, e si inserisce in un trend più generale seguito dalle im-prese tecnologiche, ovvero allonta-narsi dalla cultura suburbana verso i più compatti luoghi urbani. E in tutto ciò come si colloca de Blasio? Come consigliere comunale è stato un forte sostenitore dei pia-ni di Bloomberg e ha ricevuto con-tributi elettorali dalla Forest City Rater (costruttori degli Atlantic Yards), ma ha anche basato la cam-pagna elettorale sulla “storia delle due città”, quella dei ricchi e quella di chi non ce la fa ad arrivare a fine mese. La sfida per lui è questa: ri-durre le diseguaglianze, garantendo a tutti una casa, e convincere i co-struttori a realizzare anche alloggi abbordabili, senza fermare la cresci-ta o rilanciare la criminalità.

Il progetto è stato modificato

più volte per andare incontro alla comunità locale, imbufalita per l’eccessiva densità

abitativa

DOWNTOWN CULTURAL DISTRICT MASTERPLANNon solo grattacieli per uffici e residenze, spazi verdi e centri commerciali. La riconversione del-la nuova Brooklyn passa anche e soprattutto per l’arte con il Down-town Cultural District Masterplan. Il soggetto principale, promotore dell’iniziativa, è Forest City Rat-ner Companies, uno dei principali proprietari e gestori immobiliari di New York. Un investimento di oltre 100 milioni di dollari per realizzare nuove sedi artistiche, spazi pub-blici e alloggi a prezzi accessibili, includendo anche la conversione di siti sottoutilizzati di proprietà pubblica in spazi per le numerose comunità artistiche non profit (arti visive, teatrali, performance art) presenti nella zona come la Bro-oklyn Academy of Music, il Brook-lyn Museum e la Brooklyn Public Library, che la rendono una delle scene culturali più dinamiche del Paese. Nel 2004, la prima fase dello svi-

luppo del Cultural District ha riguardato il rinnovamento di 80 Arts - James E. Davis Arts Building e la creazione dell’Irondale Center for Theater, Education, and Outreach, mentre nel 2012 sono stati aperti gli spazi performa-tivi Issue Project Room e Bam Fisher. Nell’ottobre 2013 sono state inaugurate diverse location culturali come il Polonsky Shakespeare Center, teatro e centro di ricerca, nonché sede permanente del Theatre for a New Au-dience, mentre le fasi future includono lo sviluppo di spazi pubblici con una programmazione culturale all’aperto. Già nel dicembre 2012 l’allora sindaco di New York, Michael Bloomberg, annunciava ulteriori tappe per rafforza-re la comunità culturale. La prima: approvazione della Two Trees Management, ossia 50mila mq di nuovi spazi ricreativi e culturali presso il South Side tra Flatbush Avenue e Lafayette Street. La seconda: la torre residenziale di 32 piani a uso misto con 402 unità abitative progettata da Ed Enrique Norton, dello studio messicano Ten Arquitectos. Infine, l’approvazione del progetto da 135 milioni di dollari per aumentare il numero di unità a prezzi accessibili. A completare il quadro, dopo diversi anni di ritardo, il New York City Department of Housing Preser-vation and Development ha pubblicato un bando per l’ultima area disponibile di sviluppo di proprietà pubblica nel quartiere, che prevede 100mila mq di spazi residenziali, comunitari e/o commerciali, con 15mila mq dedicati a spazi culturali e artistici. Si tratta di interventi frutto di molti anni di collaborazione fra la Downtown Brooklyn Partnership, ente non profit per lo sviluppo locale, l’amministrazione Bloomberg e gli attori locali, per facilitare gli sviluppi a uso misto per la collocazione di Downtown Brooklyn come importante polo culturale e ricreativo. E ora, con de Blasio [nella foto tratta dal Daily Mail, insieme alla sua famiglia], come cambierà la situazione? Il nuovo sindaco, residente a Brooklyn nel quartiere liberale di Park Slope, durante la campagna elettorale ha affidato alla cultura un ruolo predominante, definendola un importante contributo alla creazione di una città più giusta ed equa. Se seguirà questo trend, porterà a termine il masterplan iniziato dal suo predecessore.

ZAIRA MAGLIOZZI e MARTA VELTRI

42 ATTUALITÀ

A partire dal 2005, siste-maticamente a estate avviata - a conclusione delle attività di batti-tura da part delle case

d’aste di maggior prestigio - gli os-servatori puntano i fari su Doha in qualità di capitale politica ma so-prattutto culturale del Qatar.Non è un caso infatti che a luglio del 2011 il chairman di Christie’s, Edward Dolman, abbia rassegnato le dimissioni per diventare advisor della QMA - Qatar’s Museum Au-thority, e che a distanza di due anni una sola vendita a un’asta di So-theby’s Contemporary Art a Doha abbia raggiunto un totale di quasi 16 milioni di dollari, diventando il prezzo più alto mai pagato all’in-canto in Medio Oriente. Statistiche americane rivelano che da luglio 2005 a luglio 2011 le esportazioni culturali verso il Qatar hanno tota-lizzato 428,162 milioni di dollari,

registrando picchi nel 2007 e nel 2011. Il Qatar è una monarchia assoluta che si estende per 11mila kmq; è uno Stato che ha rifiutato di diventare parte dell’A-rabia Saudita o de-gli Emirati Arabi Uniti e che anco-ra oggi deve fare a f f i d a m e n t o quasi comple-tamente sulle importazioni, in quanto la su-perficie messa a coltura è ridottis-sima e l’acqua molto scarsa. Eppure, grazie a giacimenti di gas e petrolio, nel 2012 il Pil nominale del Paese è stato di 192.402 milioni di dollari, corrispondente a 104.756 dollari pro capite, secondo al mon-do dopo il Lussemburgo. Da sotto-

lineare infine la presenza, nel 2022, dei Mondiali di Calcio, controverso evento che sta spingendo l’emirato a formare collezioni d’arte che fun-

gano da attrattori culturali agli occhi di qualsiasi abitan-

te del pianeta. Gli esperti ritengono

che i musei del Qatar dispon-gano di circa 1 miliardo di dol-lari l’anno di budget, dedica-

ti a nomi come Koons, Lichten-

stein, Sarah Lucas, Fischli & Weiss, Ry-

man, Reinhardt, Morandi, Serra e anche Fontana (memorabile il dipinto “ceduto burocraticamente” dal Pompidou per 50 milioni di dol-lari).Emissari autorevoli come, tra i più recenti, il Guardian (Qatar becomes

world’s biggest buyer of contemporary art, luglio 2011), il Telegraph (Mu-seum of Islamic Art in Doha, marzo 2013) e il New York Times (Qatari Riches Are Buying Art World Influen-ce, luglio 2013) continuano a indi-care la città di Doha come la capitale con la più alta concentrazione di he-avy buyer d’arte contemporanea glo-bale di tutti i tempi. Le materie pri-me che il Qatar comincerà a espor-tare, al di là dei propri giacimenti ipogei, sono l’arte e la conoscenza. L’obiettivo è diventare un model-lo culturale universale, e i partner sono molteplici: dalla Serpentine alla Royal Academy di Londra, dal Tribeca Film Fest allo Shakespeare’s Globe.Promotore di questa trasformazione è lo sceicco Hassan bin Mohammad bin Ali Al Thani, vicepresidente di QMA e, in primis la trentenne Sheikha Al Mayassa Bint Hamad Bin Khalifa Al-Thani, presidente di

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I musei del Qatar dispongono di circa 1

miliardo di dollari l’anno di budget

DOHAEPICENTRO QATAR

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QMA e definita dall’Economist “la donna più potente nel mondo dell’ar-te”. Entrambi hanno cominciato ad attirare l’attenzione mondiale nel 2007, quando hanno acquisito un White Center (Yellow, Pink and La-vender on Rose) di Rothko stimato in 70 milioni di dollari. Mentre la famiglia reale ha investito in capo-lavori di Warhol (The Men in Her Life, 1962, per 63.4 milioni), Bacon e Hirst (Lullaby Spring per oltre 20 milioni). A seguire, a livello istituzionale, l’A-rab Museum of Modern Art, inau-gurato nel 2010, che ha seguito di appena due anni l’apertura del Mu-seum of Islamic Art, progettato da I. M. Pei (il quasi centenario archi-tetto sino-americano, celeberrimo per la piramide di vetro al Louvre). C’è poi il Museo Nazionale del Qatar, un edificio futuristico che Jean Nouvel ha immaginato come una rosa del deserto nei pressi del-

la Corniche e che non ospiterà solo arte moderna e contemporanea, ma anche sezioni dedicate alla storia e alla cultura del Qatar.. Per quanto riguarda il Mathaf, QMA e Qatar Foundation han-no dato una sede stabile al museo scegliendo uno degli istituti della Educa-tion City. La raccolta di oltre 6.000 opere d’arte che il Mathaf conser-va esemplifica le principali tendenze e scuole dell’arte moderna e contemporanea del mondo arabo, dagli Anni Quaranta dell’Ottocento ai giorni nostri. Un’oasi di pietra sul mare che nel 2011 ha visto transi-tare nelle proprie sale i Giocatori di carte di Cézanne, acquisito per 250

milioni di dollari.Intanto il quotidiano francese Le Figaro (giugno 2013) ha anticipato il debutto, che sarebbe previsto per

quest’anno, di una Biennale del Medio Oriente con la

quale il Qatar inten-derebbe contrastare

l’unica concorren-te nell’area del Golfo Persico, ovvero la Bien-nale di Sharjah. Ma quando arte

contemporanea e lusso si incontrano a Doha, non può

che risuonare il nome di un’al-

tra presidente dell’arte, Miuccia Prada. In agosto Prada ha infatti aperto il suo primo flagship store nel centro della capitale e, parallela-mente, la Fondazione a nome della stilista ha annunciato il bando del

Curate Award promosso insieme a QMA: un concorso internazionale che si propone di individuare nuovi talenti in campo curatoriale attraver-so la realizzazione di un progetto dal linguaggio innovativo e intercultu-rale, sotto forma di travelling exhibi-tion fra l’Italia e il Qatar. A ottobre, invece, un evento di due giorni nel deserto, intitolato Prada Oasis and Damien Hirst’s Pharmacy Juice Bar. L’opera si è sviluppata su due livelli: da un lato l’artista ha reinterpretato tra le dune il suo leggendario Phar-macy Restaurant, locale concepito a Londra nel 1998; dall’altro Prada ha allestito la perfetta replica di uno dei suoi negozi all’interno di una tradi-zionale bayat shaar, la tipica tenda in lana di pecora, al cui interno sono state esposto le borse Entomology in edizione limitata disegnate da Prada e Hirst e ispirate alle metamorfosi kafkiane, replicando in parte il Prada Marfa di Elmgreen & Dragset.

Il Museo Nazionale del Qatar è un edificio

futuristico che Nouvel ha immaginato come una

rosa del deserto

La capitale del Qatar si sta aggiudicando capolavori dell’arte moderna e contemporanea per miliardi di dollari. Da Sotheby’s a Christie’s, da Koons a Rothko, da Prada alla Fifa World Cup del 2022, qui il deserto promette di avverare qualsiasi sogno. Ma non mancano ombre minacciose, se si arriva a parlare addirittura di schiavitù quando si citano i lavoratori che costruiscono gli stadi. Una situazione complessa, come già nel 2009 avevano mostrato Francesco Jodice e Saverio Pesapane al riguardo della vicina Dubai. Abbiamo approfondito il progetto del Curate Award, che coinvolge la Fondazione Prada e la Naba.

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LEGAMI BISILLABICI: DOHA A NABAPrada ha scelto Naba per presentare in grande stile, il 10 ottobre scorso, il Curate Award. Sono intervenuti Astrid Welter, project director della Fondazione Prada, Ab-dellah Karroum, direttore del Mathaf, e Marco Scotini, direttore del dipartimento di Arti Visive, Performative e Multimediali dell’Accademia. A quest’ultimo abbiamo rivolto tre domande.

In base alla tua esperienza, come ritieni si stia muovendo la città di Doha nei con-fronti della cultura del contemporaneo?Dopo la novità del fenomeno Art Dubai arriva ora quella di Doha con il Mathaf - Arab Museum of Modern Art. L’emersione di queste due realtà nel Medio Oriente è in-dubbiamente uno degli aspetti più interessanti della scena artistica contemporanea, visto il carattere faraonico con cui si propongono. Entrambi hanno pochi anni di vita: Art Dubai risale al 2007 mentre il Mathaf al 2010, uno negli Emirati Arabi e l’altro in Qatar. Anche se inizialmente questi due fenomeni non avevano un contenuto proprio e particolarmente specifico, dipendendo piuttosto dai modelli occidentali, l’aspetto ge-opolitico del loro insediamento mi pare il carattere più interessante e significativo. Sicuramente al momento si tratta di realtà che stanno importando molto dal nostro sistema (artisti, curatori, modi e tratti specifici dei mercati occidentali) ma nello stesso tempo aprono anche a realtà artistiche e culturali come il Medio Oriente, il Nord Africa e l’Asia del Sud. Al di là di figure come Damien Hirst, Adel Abdessemed e curatori come Francesco Bonami e Pier Luigi Tazzi, la collezione del permanente ha un ca-rattere locale. Dunque, se è vero che al momento queste realtà sembrano riassorbire nell’arte il surplus di capitale del settore petrolifero, vedremo in seguito cosa succede-rà. Di fatto questi centri hanno come carattere costitutivo quello di essere decentrati.

In un certo senso, è possibile affermare che Naba, attraverso il Curate Award, si sia fatta promotrice di una voce d’Oriente in Occidente?Per Naba è stato importante ospitare il lancio di Curate Award in rapporto a entrambi i partner che lo hanno promosso (Fondazione Prada e Mathaf) e per la proposta im-plicita nella competizione. Naturalmente faccio riferimento alla Scuola di Arti Visive e Studi Curatoriali che dirigo dal 2006 e al Corso avanzato di Contemporary Art Markets che abbiamo attivato nel 2012. Per il Dipartimento, oltre alla collaborazione con rico-nosciuti e autorevoli visiting professor internazionali, è importante tracciare un ampio campo di applicazione e ricerca che possa avere sbocchi per l’attività degli studenti anche al di fuori della didattica. Trovo sia molto interessante costruire una piattaforma formativa come osservatorio privilegiato di fenomeni nuovissimi che stanno emer-gendo nell’arte contemporanea, dal nuovo distretto Prada a Milano al museo Mathaf a Doha. Il format del premio, nonostante la struttura aperta e forse aleatoria, mi sembra metta assolutamente in evidenza una serie di questioni sul ruolo del curatore oggi. Certo sarebbe stato vantaggioso se fosse venuto da ambiti più strettamente legati alla ricerca, evidentemente ostaggio di una chiusura accademica ormai irreversibile.

Ritieni che in futuro anche Naba possa promuovere scambi e progetti creativi con la città di Doha?Da anni Naba ha sviluppato proficui rapporti con istituzioni come il MIT di Boston e il Van Abbemuseum di Eindhoven. Quindi sarebbe auspicabile una futura collaborazione non solo con il Mathaf di Doha, ma anche con la Fondazione Prada.

www.naba.it

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MATHAF Mathaf in arabo significa “museo”. L’istituzione qatariana per eccellenza, l’Arab Museum of Modern Art, ha aperto al pubblico nel 2010. La collezione permanente è straordinaria e le attività tempo-ranee stanno trovando nuovo impulso grazie al nuovo direttore Abdellah Karroum, la cui intervista è in queste pagine.www.mathaf.org.qa

SIDRA Di fronte al Medical and Research Center in questione, in ottobre stazionavano 14 misteriose strutture a forma di pallone. Illuminate all’interno da luci porpora e accompagnate dalla colonna sonora del battito del cuore, si sono aperte rivelando 14 sculture bronzee che rappresentano un neonato all’interno dell’utero materno nelle diverse fasi della gestazione. Il progetto è firmato Damien Hirst è il ciclo The Miraculous Journey si conclude con una statua di 14 metri di un bambino colto nel momento di uscire dalla placenta.www.sidra.org

KATARAUn “cultural village” costruito dal nulla a bordo mare. Katara ospita istitu-zioni radicate come il Doha Film Institute, l’Orchestra Filarmonica del Qatar, il Museo dei Francobolli e l’indipendente Katara Art Center. L’obiettivo è farlo diventare un distretto per gallerie e studi di creativi, con ristoranti e uffici. E la spiaggia a pochi passi è un fattore di attrattiva da non sottovalutare.www.katara.net

MUSEUM OF ISLAMIC ARTFiore all’occhiello e punto iniziale della corniche di Doha, benché si trovi su un’isola artificiale fatta costruire appositamente da I. M. Pei, il Museo di Arte Islamica - aperto a novembre 2008 - rischia di essere noto soprattutto per il mastodontico 7 di Richard Serra allestito nel park e alto quasi 25 metri. Ma possiede una collezione di tutto rispetto alloggiata nelle gallerie pensate da un altro mega studio: Wilmotte & Associés, gli stessi che hanno affiancato Pei al Louvre.www.mia.org.qa

HIGHLIGHT QATARIOTI

GOLFO PERSICO

B ring rd.

SheratonPark

MIA Park

Salata Park

Aspire Park

NorthwesternUniversityin Qatar

C ring rd.

F ring rd.

D ring rd.

Salwa rd.

Doha Expy

E ring rd.

Katara Beach

Al Safiyaisland

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MUSEO IN QATAR SI DICE MATHAFAbdellah Karroum, marocchino classe 1970, da giugno 2013 è il nuovo direttore del Mathaf. Il suo compito è fornire allo spazio una guida curatoriale e gestionale, presie-dendo al controllo delle attività quotidiane del museo. L’obiettivo è ideare una program-mazione che esplori e celebri l’arte attraverso i suoi protagonisti arabi, offrendo però anche un’apertura estetica e nuove prospettive sulle tendenze moderne e contempora-nee di livello internazionale.

Come è avvenuta la selezione e per quanto tempo durerà il tuo incarico? Ho accettato con grande piacere la responsabilità di direttore di un’istituzione su larga scala che si trova in fase di crescita. Sono fortunato a trovare proprio a Doha il supporto della QMA, che sa esattamente cosa significhi portare un museo come il Mathaf a un livello che ne rispetti la statura culturale. Mi sento fortunato anche perché ho trovato un team dinamico e una volontà di promuovere investimenti importanti da parte della Sheikha Al Mayassa e di Sheikh Hassan, mecenati con i quali coltiviamo la necessaria prossimità di pensiero in merito a quel che un museo nel XXI secolo dovrebbe rappre-sentare nel mondo. Sono stato invitato a Doha dopo anni di progetti creati e condivisi nel campo dell’arte. Quando fui selezionato, quasi per coincidenza, stavo seguendo da vicino le trasformazioni che stavano avvenendo in Qatar, proprio nel periodo in cui i de-cision maker qatariani stavano osservando il mio lavoro sviluppato soprattutto in Africa.

A quanto ammonta il tuo budget annuale e come è ripartito secondo le diverse atti-vità? Il Mathaf è supportato da fondi statali o anche da privati? Il museo fa parte della QMA, l’organizzazione che connette tutti i musei del Qatar. Noi beneficiamo direttamente da questo ente di tutto il supporto necessario e di strumenti professionali come tecnologie, know how e management. Per il momento non posso rivelare nulla a proposito del budget, ma le nostre attività sono bilanciate in modo da offrire i migliori servizi all’audience, attraverso l’utilizzo delle nostre collezioni, le mostre temporanee e le attività educative. Questo dipartimento, ad esempio, ha la reputazione migliore di tutta la regione. La lunga visione degli investimenti promossi dal QMA nel settore dell’arte è molto importante per determinare il grado di cre-atività che la programmazione del Mathaf può raggiungere.

Il Mathaf possiede un comitato scientifico oppure, in qualità di direttore artistico, hai pieni poteri in merito ad argomenti e artisti da approfondire? Il Mathaf è nato per rispondere alla necessità di dare una spinta culturale alla passione e alla visione di persone che ritengono l’arte e l’educazione fondamentali per il Paese, una nazione posta di fronte al mondo, in dialogo con diverse civiltà. La collezione del Mathaf è stata assemblata in oltre venticinque anni da parte dello Sheikh Hassan e sta continuando a crescere ancora oggi grazie alle acquisizioni della QMA, specialmente grazie a nuovi lavori commissionati e prodotti a Doha, progetti di artisti emergenti locali e nomi maggiormente internazionali. Fanno parte del museo dipartimenti di rilievo che lavorano in sinergia, intrecciando la ricerca, la curatela, le mostre e infine l’educazione. Noi promuoviamo contatti costanti con ricercatori e professionisti per poter mantenere discussioni attive che coinvolgano anche con il nostro team interno. I programmi del Mathaf sono stati definiti per la città di Doha così come per il contesto regionale e per quello internazionale. Tra i miei progetti, come direttore del Mathaf c’è quello di costruire, all’interno del programma del Mathaf, relazioni stabili fra l’attività di ricerca e l’esperienza del museo, unendo i mondi accademici a quelli espositivi.

Esistono a Doha tematiche, argomenti o concetti particolarmente delicati? Ai giorni nostri, in tutto il mondo, stiamo vivendo un periodo caratterizzato da un particolare libero accesso all’informazione e alle diver-se forme espressive. La nozione di locale si è modificata ovunque, modulandosi nei diversi lavori che assolutizzano il comportamento umano. Così, ad esempio, qualcuno confinato in un piccolo Paese dell’Asia può sentirsi responsabile per un evento accaduto in America Latina o in Arabia. Il mondo è interconnesso e ultra-connesso. Premesso questo, il Mathaf non innalza barriere, al contrario cerchiamo di costruire ponti tra diversi campi e geografie. Noi ascoltiamo artisti che considerano il pianeta Terra un palcoscenico e creano i loro progetti per far sì che la gente rifletta sul mondo.

Quali sono i tuoi progetti per implementare una sorta di consapevolezza verso l’arte contemporanea da parte dei diversi pubblici di Mathaf? Che tipologia di pubblico ha il Mathaf? Il Mathaf si trova all’interno di un edificio che un tempo era adibito a scuola: credo che questo sia un ottimo simbolo per rappresentare il nostro obiettivo, quello di diventare guide, educatori culturali. Una grande fetta della nostra audience è determinata dai giovani in età scolare. Ma molte famiglie, spontaneamente, passano parecchio tempo nei nostri spazi.

Secondo la tua opinione, com’è cambiata Doha negli ultimi otto anni? Cosa significa l’arte per il tessuto urbano di Doha? E in che modo l’arte ha aperto le visioni degli abitanti di Doha? La città di Doha è situata al centro del mondo di oggi. Ogni osservatore sta guardando a Doha sotto i punti di vista politico e artistico. Il tessuto urbano che tu menzioni è ancora in itinere verso una sorta di città del futuro e attualmente sta producendo strumenti, materiali e contenuti che costruiscono la fondamenta del paesaggio culturale di domani. In Qatar si stanno costruendo università e musei prestando allo stesso tempo e attenzione a sviluppare programmi di qualità. Doha è un laboratorio che ha fissato obiettivi dalla produttività e dalla fattività immediata. Essere un operatore culturale a Doha significa essere connessi a mondi di culture diverse pur rimanendo immersi nella vita quotidiana. Il dialogo tra le differenze oggi può essere effettuato attraverso la vicinanza tanto quanto i contrasti. Il Mathaf è situato nella Education City, che in Qatar è un’area fondativa. Questo quartiere diventerà una parte centrale della città in pochi anni.

In che modo il Mathaf supporterà il Curate Award? Appoggiamo e sosteniamo il Curate Award tanto al Mathaf quanto nei campus di Doha. Incoraggiamo il nostro giovane pubblico a uti-lizzare l’arte come uno strumento per riflettere sulla vita. Il museo organizza anche una competizione annuale per studenti e offriamo spazi espositivi per esporre lavori di artisti emergenti, di artisti non-professionisti che entrambi possono partecipare a workshop e attività. Il Curate Award è un’iniziativa che spinge le giovani generazioni aiutandole a creare. Le pratiche curatoriali sperimentali sotto-lineano la presenza di pensieri in nuce, pronti a mettere in discussione qualsiasi concetto ci circondi.

Qualche anticipazioni sui programmi futuri del Mathaf? Mathaf sta per produrre e patrocinare un programma molto ambizioso composto da mostre, laboratori e pubblicazioni. Fino a maggio abbiamo una personale di Mona Hatoum, stiamo lavorando sulla collezione permanente e abbiamo appena aperto un project space con Magdi Mostafa. Ogni progetto è accompagnato da pubblicazioni e workshop, rendendo il nostro museo un’ottima risorsa in connessione sia con l’arte locale che con la scena globale. Quest’anno Doha ospiterà l’annuale conferenza del CIMAM, e questa è una sorta di rico-gnizione di riguardo del nostro lavoro e un grande incoraggiamento.

Potresti esprimere un augurio in merito al futuro di Doha nell’arte? Il museo e l’organizzazione della QMA avranno pieno successo quando i nostri musei verranno ritenuti una elemento portante nella vita di tutti i giorni da parte degli abitanti del Qatar. Mi auguro che il mio contributo alla scena dell’arte a Doha sia utile anche per le prossime generazioni.

www.mathaf.org.qa

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Una cosa è certa ed è il primo punto dolente. Come ci vedono gli altri non corrisponde a come ci consideriamo

noi stessi. La maggior parte dei no-stri connazionali ritiene, infatti, che “fuori funzioni meglio che da noi” e che all’estero la nostra reputazione stia vacillando notevolmente. Il che ci porta in una sfera psicologica ini-bitoria, che ci congela nell’immobi-lismo culturale (e non solo) in cui spesso ci crogioliamo, lasciando che le lancette dell’orologio continuino a camminare per il resto del mondo. Ora, con questo non si vuole fare nessun richiamo a un nuovo nazio-nalismo e a un amor di patria che avrebbe peraltro un sapore che in Italia ha natali tutt’altro che illustri, né fingere che non esistano le note

problematiche che tutti noi quoti-dianamente affrontiamo. Tutt’al-tro. Con questo articolo vogliamo raccontare le “altre Italie”. Quelle delle comunità dei nostri concit-tadini di prima, seconda, terza generazione che sono emigra-ti all’estero, o quelle – come li chiama Ma-rina Valensise, direttore dell’Isti-tuto Italiano di Cultura di Parigi - degli “‘italianisants’, che spesso l’amano più degli italiani”. L’Italia, per tutte queste persone, è rimasta la stessa che hanno lasciato quando si sono

trasferiti, la stessa che hanno visi-tato quando sono venuti da turisti. La chiave di interpretazione del no-

stro Paese che tutti loro han-no, da lontano, è la cul-

tura, ed è per questo che è fondamenta-

le il ruolo che gli Istituti di Cul-tura svolgono in tutto il mondo. Ma di cosa si tratta esattamen-

te? Sono enti pre-posti dal Ministero

degli Affari Esteri per la promozione della nostra

cultura e a sostegno della coopera-zione in campo culturale fra l’Italia e i diversi Paesi nel mondo. Ope-rano in molti settori, dalla musica alle scienze e tecnologie, dalla dif-

fusione della lingua al cinema, dalla letteratura all’archeologia, dall’arte al design, dall’architettura al teatro, tutto “rigorosamente made in Italy”, ci spiega Maria Luisa Scolari, ad-detto culturale a Istanbul. Il target di questi centri è molto va-rio. Si rivolgono a coloro che hanno una tradizione culturale italiana, spesso hanno intorno una comunità molto forte che ha origini nostrane, ma anche di molti semplici appas-sionati provenienti dai Paesi di rife-rimento, che frequentano l’Istituto per essere più vicini a noi. Tutto ciò ha a che vedere in maniera impor-tante con la percezione della cultu-ra italiana all’estero che, malgrado quanto si pensi da noi, è ancora molto solida e attrae sentimenti positivi. “L’Italia”, spiega Riccardo Viale, direttore a New York, “è sugli

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Appassionati provenienti dai

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l’Istituto per essere più vicini a noi

ISTITUTI ITALIANI DI CULTURAIL NETWORK DEL MADE IN ITALY

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scudi degli americani di New York. È il Paese considerato più simpatico d’Europa e i prodotti italiani sono i più apprezzati”. Da Parigi la Valen-sise commenta: “L’Italia è una gran-de potenza culturale inconsapevole. La cultura italiana è considerata in Francia la matrice originaria della civiltà europea e francese in partico-lare. È un privilegio storico del quale spesso noi stessi non abbiamo consa-pevolezza. Il nostro compito è di ri-acquistarla e farla riacquistare a chi l’ha persa”. Da Londra, il direttore Caterina Cardona racconta: “L’Italia qui è, molto semplicemente, amatissima”. Anche a Madrid [nella foto, una veduta della mostra di Paolo Gras-sino] la nostra reputazione sembra non essere in pericolo, secondo il direttore Carmelo Di Gennaro:

“Nonostante l’incertezza a livello po-litico, dovuta a fattori contingenti che non sta a me analizzare, rimane alta - perlomeno in Spagna - la stima per il nostro Pae-se, soprattutto per le sue risapute quali-tà, di inventiva, di creatività, di intraprendenza; continua a essere molto amato il ‘prodotto’ Italia, ossia il suo de-sign, la sua moda, la sua enogastronomia. L’Italia, come si dice con un termine forse poco elegante, è un brand che ancora tira molto forte”. Da Istanbul, Scolari continua: “L’I-talia rappresenta ancora un punto di riferimento per molti settori”. Chiu-

de il cerchio, da Toronto, Adriana Frisenna, acting director: “L’Italia, grazie al grande apporto degli italia-

ni immigrati qui nelle due ondate del primo e del

secondo Novecento, è molto apprezzata per la sua grande eredità artistica, per le sue eccel-lenze nei settori della moda, del

design, dell’eno-gastronomia. Sicu-

ramente l’Italia non gode di buona stampa all’estero

e innegabilmente sta vivendo un mo-mento di grande difficoltà. Tuttavia questo non incide in modo apparente sul nostro lavoro. La partecipazione e l’interesse del pubblico che frequenta

i corsi di lingua italiana o le manife-stazioni organizzati dall’Istituto non sono venuti meno”. Crisi? No, “non vi è ancora alcun rapporto causale fra la crisi del Paese e la percezione del brand Italia”, continua Viale da New York. “Forse ciò potrà avveni-re in futuro se la crisi porterà a una riduzione della qualità del prodotto italiano”.Nonostante questi commenti rin-francanti, il pericolo è dietro l’an-golo, ed è un pericolo che conoscia-mo molto bene. Il rischio, infatti, è quello che l’Italia sia nota, amata e conosciuta per una dimensione che non c’è più e che appartiene più che altro al passato. Qui da noi è un ar-gomento di discussione ben noto. Il tema sacrosanto e inderogabile della conservazione è il vessillo che vie-ne agitato ogni qualvolta il nostro

L’Italia, come si dice con un termine forse poco elegante, è un

brand che ancora tira molto forte

L’Italia vista da Parigi, New York, Istanbul, Toronto, Londra e Madrid. Abbiamo parlato con i direttori degli Istituti Italiani di Cultura per capire “come ci comportiamo all’estero”, come ci vedono gli altri e qual è lo stato dell’arte... per l’arte.

LA SITUAZIONE FINANZIARIACome si sostengono gli Istituti Italiani di Cultura? Quali sono le modalità con cui portano avanti le proprie atti-vità? Tutti percepiscono una dotazione finanziaria dal Ministero per svolgere l’attività di promozione e coprire i costi di funzionamento. Ci sono poi gli utili dei corsi di lingua e collaborazioni, sponsorizzazioni dirette o in-dirette. “Per quanto riguarda Istanbul”, spiega Scolari, “per riassumere e semplificare, ma anche per offrire un quadro accessibile ai non addetti ai lavori e di immedia-ta comprensione, con riferimento ai dati del 2012, si può affermare che, grazie all’utile dei corsi di lingua e ad al-cune sponsorizzazioni dirette, l’Istituto Italiano di Cultura ha autofinanziato la realizzazione di circa il 90% delle proprie manifestazioni culturali”. Valensise da Parigi racconta che il suo Istituto funziona grazie a “risorse proprie, per il 60% maturate grazie ai corsi di lingua ita-liana che hanno registrato un aumento del 7% nell’ulti-mo anno, e un 40% di risorse pubbliche, assegnate sul bilancio del Ministero degli Esteri. Ci diamo da fare per ottenere contributi privati, da mecenati, singoli sostenito-ri, aziende amiche. Nel corso della mia direzione, dodici aziende italiane di eccellenza (Irinox, Smeg, Viabizzuno, Zanotta, Lema, Modulnova, Bialetti Industrie, Bitossi Home, Coltellerie Berti, Staff, Marmi Salvatori, Colo-robbia Yalosker, Fortuny) hanno messo a disposizione i loro prodotti, contribuendo direttamente al rinnovamento dell’Istituto Italiano di Cultura. Meritano il ringraziamento di tutti gli italiani”. Ma non tutto è rose e fiori, come conferma da Madrid, uno degli Istituti più conosciuti e vivaci, il direttore Di Gennaro: “Questo naturalmente è il punctum dolens dell’intera questione. Le dotazioni ministeriali, per ovvi motivi, si vanno riducendo vieppiù, ragion per cui è ob-bligatorio cercare fonti alternative di finanziamento, leg-gi sponsor. L’Istituto che dirigo è riuscito piuttosto bene, considerata anche la violenta crisi economica che ha colpito la Spagna, a reperire fondi privati, però il settore che soffre di più è proprio quello dell’arte contemporanea; infatti, a parte il piccolo finanziamento di una banca per la mostra di Patrick Tuttofuoco [nella foto a pagina 35], non siamo riusciti per il momento a trovare altre risorse. Io credo non sia un caso: l’arte contemporanea rimane un settore ‘difficile’ per gli sponsor, a meno che non si tratti ovviamente di appoggiare grandi istituzioni museali. Su questo punto, tanto noi gestori culturali come gli artisti dobbiamo lavorare di più, evidentemente, pena la cronica mancanza di fondi”.

51ATTUALITÀ

Paese cerca di vivere nel presente. Non possiamo andare avanti, non possiamo fare ricerca (se non scien-tifica), non possiamo continuare a creare, lavorare, produrre perché dobbiamo pensare esclusivamen-te al nostro passato, in questa vita “a passo di gambero”, per dirla alla Umberto Eco. Tuttavia, anche in questo caso gli Istituti di Cultura svolgono un compito di mediazione e ci regalano spaccati quasi inediti, come quello offerto dalla Scolari: “È interesse del nostro Paese promuovere un’immagine moderna e aggiornata dell’Italia, sostenendo i giovani ta-lenti poiché, accanto alla tradizione e all’eredità di un passato sublime e straordinario, abbiamo per il futuro ancora molto da dire e da proporre”. E l’arte contemporanea, in tal senso, svolge un ruolo cruciale. Sono ben noti, infatti, a New York il Gotham

Prize, dedicato all’arte emergente, e il New York Prize. A Parigi, invece, creatura dell’attuale direttore è il programma di residenze d’artista Le promesse dell’arte, che prevede ogni mese la permanenza di un giovane talento italiano, sele-zionato da una giuria di esperti nominati a rota-zione per rappre-sentare le singole arti, con il compito di realizzare un’o-pera che sarà poi esposta al termine del soggiorno parigino. A Toronto è prevista ogni anno una mostra d’arte contemporanea (il 2013 è stato l’anno di Angelo Filo-meno, nel 2014 toccherà a Mimmo

Paladino). Istanbul ha fatto parlare di sé grazie alla straordinaria parte-cipazione italiana alla Biennale del-

le arti visive, culminata con l’ac-quisizione da parte del

Maxxi dell’opera di Margherita Mo-

scardini Istanbul City Hills. On the Natural Hi-story of Disper-sion and States of Aggregation.

Da Londra, la Cardona conti-

nua: “Londra è la città del contemporaneo

più innovativo, più genia-le, più pregnante: quando il nostro contemporaneo vi si misura, noi sia-mo sempre presenti”. Da Madrid Di Gennaro dice: “L’arte contempora-nea gioca un fattore chiave nel nostro

programma di rinnovamento dell’im-magine dell’Italia, tant’è che su questo settore abbiamo puntato moltissimo, sia in termini di risorse, sia in ter-mini di lavoro e promozione a mezzo stampa”. Ma la sfida è grande: “Nel nostro Paese c’è un grandissimo nume-ro di artisti mid-career che meritano una maggior diffusione all’estero; in Spagna, per esempio, eccettuato il caso di Maurizio Cattelan e pochi al-tri (come i ‘grandi vecchi’ Pistoletto, Kounnelis ecc.) gli artisti italiani non godono della considerazione che inve-ce meritano. Basta citare un semplice dato: negli ultimi cinque anni, nes-sun artista italiano ha avuto l’onore di una mostra al Reina Sofía, nel re-sto della Spagna solo la Tabacalera di Murcia ha dedicato una personale a Francesco Vezzoli, mentre il CAC di Malaga lo ha fatto con Monica Bon-vicini”.

Un semplice dato: negli ultimi cinque

anni, nessun artista italiano ha avuto l’onore

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Professor Groys, nei suoi testi parla di anti-filosofia: ce ne può dare una breve definizione? Quale relazione inter-

corre fra anti-filosofia e anti-arte?Per molto tempo l’arte è stata consi-derata una manifestazione dell’idea eterna di Bellezza, mentre la filosofia era considerata una manifestazione della Ragione universale. Ma in se-guito l’arte (in quanto anti-arte) ha iniziato a occuparsi di desiderio, sofferenza, distruzione, dinamismo, ma anche di vita quotidiana e noia ordinaria. Ugualmente il discorso filosofico ha cominciato a includere l’élan vital, il desiderio di morte, la noia profonda, l’estasi sacra, le strut-ture linguistiche, le forze produttive e altre cose simili. Questi sviluppi hanno implicato una critica delle tradizionali nozioni di filosofia e

arte, ma hanno anche portato a un ampliamento degli ambiti artistico e filosofico.

Si definirebbe un anti-filosofo? Sinceramente no. Commento deter-minati sviluppi in arte e in filo-sofia, ma non prendo necessa-riamente posi-zione all’interno del campo filosofi-co o artistico.

Che rapporto c’è per lei tra arte e filosofia? Spes-so, leggendo i suoi testi, si ha l’im-pressione che lei non usi la filoso-fia per spiegare l’arte, ma l’esatto contrario.

Penso che la relazione tra filosofia e arte sia analoga alla relazione tra scienze teoretiche e sperimentali. L’arte prende determinate posizio-

ni filosofiche, ideologiche, politiche, e mostra

cosa significhi non solo pensare in accordo a tali posizioni, ma anche vivere con e per mezzo delle medesime.

In questo senso l’arte offre lezioni

interessanti per il pensiero filosofico.

Che cos’è, secondo lei, la critica d’arte contemporanea? In rappor-to all’anti-filosofia, c’è una diffe-renza sostanziale tra filosofia este-tica e critica d’arte in senso stret-

to? È possibile circoscrivere oggi un “campo” della critica d’arte?Non credo che oggi tutte queste differenze e distinzioni siano dav-vero rilevanti. Operando in ambito artistico e discorsivo si possono scri-vere testi filosofici, teoretici oppure di critica d’arte; si può essere cura-tori, scrittori o artisti. La scelta del medium e del contesto dipende da quello che si vuole dire e come, e dal destinatario cui si intende rivolgersi.

Quale funzione spetta oggi al cri-tico d’arte e quali obiettivi può e dovrebbe porsi in relazione al si-stema dell’arte? La critica d’arte può influenzare il mercato?No, non penso che la critica d’arte possa influenzare il mercato. E poi l’arte non esiste né funziona esclu-sivamente nel contesto del mercato. L’arte si insegna nelle università e

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L’arte non esiste né funziona esclusivamentenel contesto del

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ARTE E FILOSOFIA SECONDO BORIS GROYS

54 ATTUALITÀ

Dopo la pubblicazione dell’edizione tedesca nel 2009, è uscito per Mimesis Introduzione all’antifilosofia, una selezione di saggi del filosofo e teorico dei media Boris Groys, annoverato tra le cento personalità più influenti dell’arte contemporanea mondiale dalla classifica di Art Review del 2013. Stimolati dalla lettura del volume, in cui la riflessione sull’arte contemporanea diventa strumento per indagare e presentare sotto una luce nuova il pensiero di alcuni tra i maggiori filosofi e pensatori - da Heidegger a Benjamin, da Kierkegaard a Jünger, da McLuhan a Derrida, solo per citarne alcuni -, abbiamo chiesto all’autore di rispondere ad alcune domande.

nelle accademie. Gli artisti metto-no in campo specifiche strategie e prendono determinate posizioni politiche e ideologiche all’interno dello spazio pubblico. Qui il discorso artistico, nelle sue varie for-me, diventa im-portante.

E che cosa pensa del ruo-lo del curato-re? Il ruolo del cura-tore è senza dubbio cruciale nel mondo dell’arte contemporanea. Al giorno d’oggi, le opere sono esposte principalmente nell’ambito di mostre definite da specifici pro-getti curatoriali. Dunque, per un artista è importante trovare un cu-

ratore che possa essere “un’anima gemella” e viceversa.

Crede possa esistere una storia dell’arte contemporanea?

O è un ossimoro? Sì, certamente può

esistere una storia dell’arte contem-poranea, così come può esi-stere il museo di arte contempo-

ranea. L’arte con-temporanea accade

nel tempo e può quindi essere storicizzata.

Seguendo questa considerazione, quale scopo dovrebbe perseguire un museo di arte contemporanea?Il museo di arte contemporanea fa

L’arte contemporanea

accade nel tempo e può quindi essere

storicizzata

WESTERN ARTIl bello, il buono e il cattivo, ricchissimo libro di Demetrio Paparoni appena uscito per Ponte alle Grazie (pagg. 320, ¤ 15,80), è costruito attorno a un’idea precisa: non pos-siamo capire l’arte, nella sua dimensione più intima e pro-fonda, se non comprendiamo i suoi legami con il potere in generale e con il potere politi-co in particolare. Il Novecento è stato il secolo che per ec-cellenza ha indagato i mille rivoli del potere, le sue forme e le sue dinamiche. In qualche modo l’arte e gli artisti dell’e-poca post-storica sembrano avere preso le distanze da questa dimensione concet-tuale a cui, però, Paparoni ci richiama con più di qualche buona ragione.La centralità del rapporto tra arte e potere era già stata colta benissimo da Platone che, non a caso, ne La Repubblica, un libro essenzialmente politico, bandiva, con editto durissimo, l’arte e gli artisti dal suo progetto utopico di stato ideale. La ragione? Platone, da politico accorto, non la esplicita del tutto, ma è senz’altro fondato ritenere che tanta durezza fos-se dovuta a una qualità che egli riconosceva all’arte: la capacità di inci-dere sulla vita delle persone e dunque, conseguentemente, l’enorme peso che essa può avere sotto il profilo politico. Diversamente dalla filosofia, l’arte ha molto a che fare con le emozioni; dunque con una delle sfere più sensibili della vita. Riuscire a entrare in modo significativo in quella sfera vuole dire avere la possibilità di incidere, indirettamente, anche sulla dimensione politica.Oltre a essere un critico d’arte attento, Paparoni è un intellettuale che ha sempre avvertito con molta sensibilità la direzione delle tendenze cultu-rali (significativa in questa direzione è anche la recente curatela per la Rivista di Estetica, “Paladino e la filosofia”, Rosenberg & Sellier 2014). In questo senso, Il bello, il buono e il cattivo è un viaggio molto ben narrato e ben documentato che ripercorre le ragioni etiche, e dunque politiche, che hanno portato le avanguardie novecentesche a rinnovare i propri lin-guaggi in modi tanto radicali: “Considerare malata l’arte delle avanguar-die equivaleva a ritenerla ‘degenerata’. E poiché la guerra alle avanguardie aveva come principale obiettivo demonizzare Picasso nel 1942, Vladimir Vlaminck ingaggiò una a polemica contro di lui […] accusandolo di aver con-dotto il Cubismo francese in una situazione di stallo”. L’obiettivo di Paparo-ni è allora mostrare, mettendo in sequenza una serie di fatti la più parte oramai oggetto di riflessione storica, che se le avanguardie hanno avuto un senso, certamente questo senso non può essere inteso prescindendo dai fascismi e dai nazionalismi che hanno violentato e mortificato l’Eu-ropa a partire dagli Anni Trenta del Novecento. Per comprendere l’arte del Novecento continuando a scrivere la storia del nostro secolo, è allora necessario rileggere la storia di quel secolo ripercorrendo le vicende e le scelte intellettuali degli artisti da un lato, e riflettendo sui modi in cui il potere si è relazionato con l’arte, cosa che, per esempio, è avvenuta diversamente in Italia e in Germania. L’elemento piuttosto inquietante che Paparoni non manca di evidenziare raccontando una quantità di fatti e aneddoti è la particolare situazione ita-liana. Sin dagli Anni Trenta la politica culturale italiana si è contraddistinta per una drammatica e straordinaria sottovalutazione dell’importanza poli-tica dell’arte. Evidentemente né Mussolini né i suoi gerarchi si erano mai letti Platone, sottovalutando un dato essenziale: l’arte non è solo parte attiva della produzione di ricchezza di uno Stato, ma soprattutto la politica culturale è un elemento determinante per la strategia della formazione e del mantenimento del potere politico di uno stato. Se non si intende questo - e gli italiani non l’hanno mai veramente inteso, a differenza dei tedeschi e degli americani - non si capisce davvero nulla. In fondo, come suggerisce Paparoni interpretando con molta efficacia The Triumph of the New York School (1984) di Mark Tansey, la leadership americana del dopoguerra fu resa possibile anche dalla costruzione di una leadership autorevole nel campo delle arti. L’Espressionismo Astratto fu per molti versi l’espressione di questa presa di consapevolezza.Per parafrasare ancora Hegel, in fondo questo libro altro non è che una ricchissima e illuminante fenomenologia del potere moderno svolta attra-verso la storia dell’arte: la sua lettura aiuta davvero a comprendere meglio tanto le forme del potere moderno, quanto l’identità profonda dell’arte.

TIZIANA ANDINA

55ATTUALITÀ

sì che l’arte contemporanea acca-da. L’arte contemporanea non può essere prodotta senza il museo di arte contemporanea. Gli artisti con-temporanei realizzano performance, mostre temporanee, allestimenti, installazioni sonore e video ecc. Tutto ciò ha bisogno di un palcosce-nico pubblico per essere prodotto e mostrato. La produzione dell’arte contemporanea coincide con l’espo-sizione dell’arte, ecco perché l’arte è contemporanea.

Secondo lei che cos’è oggi l’Art Power? Non pensa forse che il sistema delle mega-gallerie, dei collezionisti ecc. abbia distrutto la possibilità per l’arte di essere rivoluzionaria? No, non credo. Le gallerie, i col-

lezionisti ecc. collezionano ogget-ti d’arte. E va bene così. Ma l’arte rivoluzionaria ha sempre prodotto eventi artistici e questi non si pos-sono collezionare. L’arte non è un fenome-no unitario. L’arte al suo interno è profondamente frammentata.

Che cosa pen-sa dell’oppo-sizione tra arte impegnata e arte kantianamente disinteressata? Non credo esi-sta una simile opposizione. Kant si chiedeva che cosa fare dei resti della cultura aristocratica distrutta

dalla Rivoluzione francese. Propose perciò non tanto di eliminare, ma semplicemente di defunzionalizzare

questa cultura, interpretandone le manifestazioni (chiese,

oggetti religiosi, palaz-zi, status symbol)

come forme pure, “neutre”, belle, insomma come arte. Ovvia-mente un simi-le suggerimento

presuppose de-terminate scelte

politiche: l’accetta-zione della Rivoluzione

francese e dei suoi risultati, l’interesse a consentire l’accesso del-la borghesia ai residui della cultura aristocratica ecc.

Quanto la scena concettuale rus-sa storica influenza la situazione artistica attuale nel Paese e qual è la sua opinione sui recenti fatti di censura di cui le Pussy Riot sono forse l’esempio più clamoroso?Gli artisti russi contemporanei con-siderano gli artisti del Concettuali-smo moscovita come la generazione dei loro padri, ossia con un misto di rispetto e complesso edipico. Oggi le politiche culturali russe ufficiali diventano sempre più conservatrici e restrittive. Sì, la saga delle Pussy Riot è un buon esempio di questo andazzo.

ha collaborato Marco Enrico Giacomellitraduzione di Veronica Liotti

L’arte rivoluzionaria ha sempre prodotto

eventi artistici e questi non si possono

collezionare

STORIA MILITANTE DELL’ARTENonostante le apparenze, Arte dal 1900 (Zanichelli, pagg. 816, ¤ 79) non è un’enciclopedia né un manuale classicamen-te inteso. È una storia dell’arte dal XX secolo a oggi impostata metodicamente, ma anche mili-tante, trasversale, inconsueta. E perciò più significativa dei soliti volumi. Il gruppo di autori (Rosalind Krauss, Benjamin Buchloch, Hal Foster, Yve-Alain Bois) rappre-senta il gotha della critica intesa nel senso più alto del termine: quella che legge l’arte come un fenomeno sfaccettato, niente affatto slegato dalla cultura in senso ampio e dalla filosofia, e tantomeno slegato dalle istanze storiche e sociali. Ai quattro si

aggiunge in questa nuova edizione David Joselit, erede del loro lavoro decen-nale, attivissimo sulle pagine di October e Artforum. Il sottotitolo è significativo: “Modernismo, Antimodernismo, Postmodernismo”. E gli argomenti delle introduzioni, con cui i quattro autori principali dichiarano il tratto saliente del loro approccio, danno già il tono dell’intero volume. Foster parla dell’influenza della psicoanalisi sull’arte, Buchloch della lettura sociale

dell’arte, Bois di formalismo e strutturalismo, la Krauss di poststrutturalismo e decostruzione. La struttura portante prevede poi un capitolo (o più d’uno) per ogni anno dal 1900 al 2010, basato su un fatto, una mostra, una piccola o grande rivoluzione artistica avvenuti in quella data. Si incontrano momenti decisivi più o meno noti, come l’incontro tra Matisse e Rodin (1900), Duchamp che dipinge Tu m’ (1918), Bataille che recensisce L’arte primitiva in Documents (1930), le mostre This is tomorrow (1956), When attitudes become form (1969) e Les magiciens de la terre (1989), la demolizione della Casa di Rachel Whiteread (1993). Nelle pagine aggiuntive di questa seconda edizione, pubblicata sette anni dopo la prima, gli argomenti trattati sono dei più pregnanti: la storia dell’ultimo de-cennio è raccontata con capitoli su Christian Marclay, Harun Farocki, Claire Fontaine, Tania Bruguera e il suo Capitalismo geometrico, la mostra Unmonu-mental e l’affermazione di assemblaggio e accumulazione, l’installazione di Ai Weiwei alla Tate. Una selezione di argomenti più che rappresentativa, e questo è un merito ancora maggiore, dato che il periodo di cui si parla vede l’impos-sibilità definitiva di raggrupparsi in correnti, movimenti, filoni univoci o visioni falsamente emancipatrici (il postmoderno - per quanto messo in discussione - vede il compimento generalizzato delle sue premesse). L’importanza del libro nel suo complesso risiede nella dimostrazione di come si possa fare critica e storia dell’arte contemporanea senza scadere nella com-pilazione, nella cronaca o nel lirismo. E senza affidarsi a una teleologia ormai impossibile, ma tracciando un filo di connessioni che non concepisce l’arte come sfera separata, ma dialetticamente all’opera nel mondo. Peccato soltanto per qualche incertezza nella traduzione.

STEFANO CASTELLI

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QUAL È IL CRITICO/CURATORE CHE HA MAGGIORMENTE INFLUENZATOIL MONDO DELL’ARTE DOPO LA CADUTA DEL MURO DI BERLINO?

il sondaggio fra i lettori di artribune.com

56 ATTUALITÀ

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60.MERCATO L’AURA E L’UNICITÀ DELL’OPERA. SCONFESSATE DAL MULTIPLO62.EDITORIA COMUNITÀ E BENI CULTURALI. LA PROPOSTA DI LUCA NANNIPIERI64.DESIGN DAL NOME AL PACKAGING: STORIA DI ARDUINO66.ARCHITETTURA IL GIAPPONE GUARDA AL 2020. CON OLIMPIADI SOSTENIBILI70.CINEMA LA RIMOZIONE DELLA POVERTÀ. NUOVO CINEMA ITALIANO72.MODA ROMA-PARIGI: UN GEMELLAGGIO CHE NECESSITA IMPEGNO74.NEW MEDIA HIKIKOMORI E HENTAI. VIAGGIO NEL PROFONDO DELLA RETE76.EDUCATIONAL L’ARTE NON SI INSEGNA, ANZI SÌ. PAROLE DI LOUISE BOURGEOIS78.TALENTI LA CURATELA IN UN’IMMAGINE. INTERVISTA CON JACOPO RINALDI80.FOTOGRAFIA MEGLIO IL QR DELLA DIDASCALIA. IL PORTFOLIO DI THE COOL COUPLE82.BUONVIVERE CARNIVORI SIETE OUT. LA NOUVELLE VAGUE VEGETARIANA84.PERCORSI IL TACCO E SOLTANTO IL TACCO. VIAGGIO IN SALENTO

UNICITÀ DEL MULTIPLO

Le edizioni d’artista spopolano nel mercato dell’arte contemporanea. Non parliamo però delle riproduzioni in tiratura limitata di opere concepite con altri mezzi espressivi, ma di lavori pensati espressamente per essere non-unici. Dalle aste agli store aperti dagli stessi artisti, dalle fiere ai siti, tutto quello che avreste voluto sapere per diventare collezionisti senza avere il portafogli di un emiro.

Il mercato delle edizioni e dei multipli d’arte è in continua crescita. A questo sviluppo contribuiscono sia le molteplici e rapide possibilità di produzione degli artisti che le numerose e facili opportunità di acquisto proposte a collezionisti e appassionati. L’interesse e la forza di questo segmento di mercato è tale che le principali case d’asta internazionali hanno moltiplicato gli appuntamenti specifici, sempre più seguiti, sia sul mercato europeo che americano. Considerato il trend, non poteva mancare la fiera di riferimento, Multiplied Art Fair, nata a Londra nel 2010, in concomitanza con Frieze.Sia chiaro: non ci riferiamo a riproduzioni ma a opere originali, ideate appositamente per essere realizzate in ampia tira-tura, forse inizialmente ispirate dalla ricerca di un’arte più democratica, ma che vedono ora lievitare sempre più i risultati in asta. Ovviamente quel che attrae dei multipli è la possibilità di possedere qualcosa di simile a ciò che è custodito nelle collezioni museali, ma a un prezzo decisamente inferiore. Artisti come Jeff Koons, Yayoi Kusama, Takashi Murakami, Damien Hirst devono sicuramente ringraziare la loro produzione di multipli, fondamentale riferimento nei volumi di vendita. Il piccolo Balloon Dog di Koons, dal diametro di 26 centimetri e realizzato nel 1995 in 2.300 pezzi, ha un prezzo costante di 10.000 dollari circa a copia; lo scorso novembre, però, uno è stato battuto alla cifra record di 52.000. Un risultato eccezionale per un’edi-zione, ma ancor più strabiliante è pensare che il prezzo “base” di 10.000 dollari, moltiplicato per il numero di esemplari prodotti, porti a un totale di 23 milioni. I multipli determinano anche nuove strategie di vendita. Già nel 1986, infatti, Keith Haring apre il suo Pop Shop a Manhattan, negozio in cui abbigliamento e articoli da regalo sono decorati con il suo tipico segno, rendendo quindi la sua arte realmente accessibile a tutti. Lo spazio viene chiuso nel 2005, ma in Rete è possibile acquistare ogni tipo di oggetto, fabbricato a tiratura letteralmente illimitata e reso quanto mai un prodotto di consumo di massa. The Shop di Tracey Emin e Sarah Lucas, uno spazio preso in affitto nell’East London negli Anni Novanta, in cui si vendevano tazze e t-shirt stampate, è durato sei mesi. La stessa tipologia di produzione è però oggi presente nello shop online della stessa

di MARTINA GAMBILLARA

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EMER-GENTE di MARTINA GAMBILLARA

TAG PECHINESI

DALL’ETIOPIA CON FUROREJulie Mehretu, rappresentata da White Cube e Marian Goodman, è una vera star etiope. Classe 1970, vive e lavora a New York, ma è nata ad Addis Abeba. La sua è una car-riera luminosa, che la vede fin da-gli anni della formazione coinvolta in numerose e importanti mostre. Il suo lavoro, che si concentra sui medium della pittura e del disegno, è stato infatti esposto, fra l’altro, al Drawing Center e al New Museum di New York, alla Barbican Galle-ry di Londra, al Palais de Tokyo di Parigi, alla Biennale di Istanbul, al Whitney e alla sua biennale. Nel 2009 è stata protagonista di una personale al Deutsche Guggenheim, ospitata nel 2010 anche dal So-lomon R. Guggenheim Museum. Un curriculum eccellente, che si conferma con risultati sorprendenti in asta, dove (dati 2012) è una delle dieci artiste più ricercate, insieme a nomi eccellenti come Cindy Sherman e Marlene Dumas, per citarne un paio. La sua astrazione segnica, gestuale, in cui i codici si intrecciano come in un inedito “linguaggio” o come se l’artista stesse tracciando nuove, vorticose mappe, ha conquistato, nel Rapporto Artprice 2012/2013, il 33esimo posto nella classifica dei 500 top artist contemporanei, con appena 7 lotti venduti e un fattu-rato totale di ¤ 5.370.980. La Mehretu ha comunque avuto ottimi risultati fin dal 2010, anno in cui il suo Untitled I, tra le opere della collezione Lehman Brothers – due anni dopo il settembre degli scatoloni –, viene battuto per oltre un milione di dollari, contro i 400mila del precedente record. A confermare il trend, la straordinaria asta di aprile 2013 a Doha, in Qatar. Il suo Retopistics: A Renegade Excavation del 2001 [nella foto] viene aggiudicato per oltre 3 milioni di euro (stima ¤ 1.078.420-1.386.540), pare a un collezionista americano. Una curiosità: sebbene il suo lavoro abbia viaggiato in tutto il mondo, in Italia si è vista solo due volte. La prima nel 2003, in occasione di The Moderns, presso il Castello di Rivoli; la seconda nel 2011 a Punta della Dogana, nella mostra Elogio del dubbio.

www.whitecube.com/artists/julie_mehretuwww.mariangoodman.com/artists/julie-mehretu

Emin, lo Emin International Shop.Com’è facile intuire, Internet ha cambiato anche il modo di acquistare arte e di avvi-cinarsi al suo segmento più “economico”, ovvero la produzione seriale. Sul mercato online, infatti, sono sempre più numerosi i portali di acquisto dei multipli, soprattutto ad ampia tiratura. Vengono così a sviluppar-si continuamente nuove sinergie fra arte e design: dai tavolini di Josef Albers disegnati nel 1926 alle sdraio di Damien Hirst del 2008. A confermare questo trend, recenti studi hanno mostrato che sarà proprio il segmento dei multipli e delle edizioni a trainare la crescita delle vendite d’arte online nei prossimi cinque anni, con un aumento previsto del 19%. Oltre ai siti tradizionali di vendita di edizio-ni, come Artnet, Artsy, AmazonArt, 1stDibs, esistono interessanti modelli di collaborazio-ne con artisti e istituzioni per la creazione di oggetti ed edizioni limitate. Sono realtà che presentano modelli di business freschi e innovativi, e che inoltre sviluppano con-tenuti editoriali ad hoc per il prodotto del momento. In Italia c’è l’esempio storico di Editalia, che poco più di un anno fa ha lanciato il progetto Arte Moltiplicata. Dopo le opere progettate ad hoc da Mimmo Paladino, Carla Accardi, Jannis Kounellis e Joe Tilson, nel corso dell’ultima edizione di Artissima è stata presentata quella di Emi-lio Isgrò.Estremizzazione delle potenzialità digitali, Sedition permette invece di collezionare edizioni limitate in formato digitale e di fruirne in ogni momento direttamente dal proprio dispositivo. I prezzi sono a partire dai 5 dollari e ogni opera è corredata da un certificato di autenticità. Tra i più originali, Artware Editions comprende Marina Abra-movic, Louise Bourgeois, Dan Colen e tanti altri, collaborando direttamente con loro nella creazione di oggetti a prezzi molto contenuti. Grey Area è uno spazio non definito fra arte e design, dove quest’ultima viene resa fun-zionale. E gli artisti - tra loro anche Ryan McGinness, Piero Golia, Cecily Brown, Bosco Sodi - possono esplorare nuovi con-fini, sia attraverso la vendita online sia con pop-up event per vendite lampo in location occasionali. Co-fondato da Damien Hirst, Other Criteria vende i multipli dell’artista ma anche quelli di Banksy, Jasper Johns, Mat Collishaw... In vendita anche opere uniche: fra le più costose, Loving Feeling dello stesso Hirst a 189.000 sterline. Spe-cializzato in sculture da esterno, Cumulus Studios è nato nel 2009 con una collezione di oggetti per il giardino e acquatici. Tra gli artisti: Liam Gillick, Allan McCollum, Rob Pruitt, Ugo Rondinone. Bravin Lee Editions è invece specializzato in tappeti, collaborando con artisti come Chuck Close e Christopher Wool, in edizioni limitate di 15 esemplari. Infine, Fuse Works attinge tra chi, per lo più emergente, ha già all’interno del suo discorso estetico l’utilizzo del mul-tiplo.

In alcune zone del Medioriente e dell’Africa settentrionale, colpite da guerre e guidate da regimi mi-litari, i giovani trovano nella Street Art la possibilità di far sentire la propria voce e di denunciare le ingiustizie sociali e politiche. In un Paese come la Cina, invece, la Street Art è costretta a rinunciare ai contenuti politici e di protesta, evitati anche dai writer più attivi e impegnati, a causa di pesanti sanzioni e punizioni talvolta arbi-trarie. A Beijing, città che conta oltre venti milioni di abitanti, solo qua-ranta writer si riconoscono come tali e, tra questi, appena una deci-na è realmente attiva illegalmente negli spazi pubblici, taggandosi molto raramente. Addirittura minore è il numero di chi usa i graffiti per esprimere apertamente il proprio pensiero politico. Escludendo quindi i riferimenti più espliciti, i writer ritraggono perlopiù la realtà della società cinese sconvolta dai rapidis-simi cambiamenti, cercando di stimolare l’introspezione di chi osserva i loro pezzi e, allo stesso tempo, usando il colore per riappropriarsi degli spazi grigi delle enormi città [nella foto, un lavoro di A Niu]. A disinnescare la carica polemica e di denuncia della Street Art e dei graffiti cinesi contribuisce, oltre al controllo politico, anche la crescente ricchezza. Se, infatti, da una parte il governo concede spazi pubblici ai writer, come avviene in alcuni edifici dell’area 798, in cambio del controllo su ciò che viene realizzato, dall’altra la generazione di nuovi ricchi dai gusti sempre più occidentali segue la forte propo-sta galleristica di Street Art e la trasforma quindi in un fenomeno di moda, decorando i lussuosi attici e cercando atmosfere newyorchesi.

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61MERCATO

IL CONSILIARISMO SALVERÀ LA CULTURA

di MARCO ENRICO GIACOMELLI

Gli ambienti politici in cui si tende a incasellare Luca Nannipieri - quando non lo si bolla sbrigativamente come “polemista” - sono quelli di una destra liberista colta ma in fondo serva di un capitalismo che ha ormai mostrato tutti i suoi limiti. Ma, a guardar bene, le sue proposte vanno in una direzione ben diversa. Al di là dei commons, in un solco che rimanda al comunitarismo e oltre.

Si intitola Libertà di cultura. Meno Stato e più comunità per arte e ricerca (Rubbettino, pagg. 158, € 10) il libro forse letteralmente più fondamentale della già copiosa produzione intellettuale di Luca Nannipieri. Il volume comincia in media res, ribadendo come la Costituzione - la nostra, come qualsiasi altro testo basilare per una comunità - sia il luogo del conflitto e quindi della libertà; un “detonatore di possibilità”. Ragion per cui non bisogna trattarlo come se fosse un oggetto intoccabile e quindi inutilizzabile. Ad esempio, l’articolo 9, quello che recita “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il pae-saggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, miscela in maniera interessante tradizione e innovazione. Li miscela ma non indica le quantità, e perciò non ha senso rifarsi ad esso per difendere a spada tratta solo il primo termine della questione. È il medesimo problema che discende in una dicitura lessicale corrente, ovvero ‘bene culturale’, la quale instilla la convinzione che “quel bene sia bene per sempre. Cioè che il tempo e gli uomi-ni passino e che il suo valore invece rimanga immutabile”.Ed è qui che entriamo a piè pari in un campo minato. Perché si scontrano la cultura del patrimonio da sal-vaguardare in una direzione tendenziale che porta alla “presepizzazione” del territorio (più o meno antropizzato, più o meno abitato) e quella sostenuta da Nannipieri, il quale si permette di parlare di valore d’uso dello stesso patrimonio: “La bellezza di un luogo la si accende quando la si consuma, perché la bellezza, come il patrimonio storico-artistico, non è u un idolo da tributa-re, da onorare mettendolo a riparo da tutti: al contrario è una presenza da erodere con la nostra stessa esperienza”.

62 EDITORIA

STRALCIO DI PROVA

È nato a Bologna nel 1976, Tommaso G.M. Nicolao, poi però ha studiato a Venezia arte e design, si è trasferito a New York e infine - almeno per ora - è approdato a Parigi. Senza titolo (inchiostro su carta 11,5x19,5 cm) (Robin, pagg. 274, ¤ 14) è il suo esordio nella narrativa che si svolge, dunque non a caso, proprio fra queste tre città. Senza titolo è un thriller pienamente e consapevolmente calato nel mondo dell’arte contemporanea e dei suoi in-trighi o intrallazzi. Nella maggior parte dei casi, luoghi e persone hanno nomi e cognomi, in altri è evidente che sia-no frutto della fantasia dell’autore, e in una terza categoria rientrano coloro che, per motivi talora oscuri (forse alcuni piccoli indovinelli piazzati qui e là per solleticare l’ego del lettore?), vedono il loro nome cambiato, ma in cambio di descrizioni particolareggiate. Ad esempio, come non rico-noscere Terry Richardson in queste righe? “Prima ancora di salutarli li bombarda di scatti con una macchinetta foto-grafica da quattro soldi. Ha un paio di baffoni da tagliagole irlandese e le basette lunghissime. Porta una canottiera attillata bianca, sfoggiando tatuaggi di tutti i tipi sugli avam-bracci muscolosi”.Fortunatamente, l’obiettivo del romanzo non è fare sociolo-gia dell’artworld sotto mentite spoglie: il plot è ben studiato, i personaggi hanno una loro tridimensionalità e le descri-zioni non si piegano alla stereotipia tanto spesso incontrata

in opere prime, per di più così caratterizzate nel tema e nell’ambiente.Protagonista del turbinio di avvenimenti non è un artista, come capita nella stragrande maggioranza dei casi quando si affronta narrativamente questo mondo, bensì un gallerista, Frank Croce. Il suo “spazio” è a Parigi, nel Marais, proprio dove impazza Yvon Lambert, ma anche lui si difende bene. Anzi, le sue quotazioni stanno salendo rapidamente, grazie a un giovane artista della sua scuderia che pare assai dotato. L’azione passa però rapidamente a Venezia, dove Frank si reca per i giorni del vernissage della Biennale. Ed è lì che viene raggiunto dalla telefonata di un collezionista, uno di quelli a cui non si può dire di no, che lo invita fermamente a mollare il bicchiere del drink e a prendere un aereo per New York. Tutto il resto è spoiler (ma alla fine del romanzo capirete il titolo di questo articolo).

FEDEX

L’OMICIDA E IL SEGREGATO

DUE VOLTE BEST

E ciò vale, come si diceva, anche nel caso del paesaggio, che “non è un belvedere, non è uno scenario da cartolina. È un sentire partecipato. È un esserci, più che una realtà che ti sta di fronte e che è distinta da te”.Si pensi all’esempio di Venezia, consumata dal turismo di massa mordi-e-fuggi. Si dirà: pro-prio attraverso un uso così indiscriminato di un bene storico-artistico-culturale, quello stes-so bene lo si sta distruggendo. Ma in realtà la questione può (deve?) essere vista da un’altra prospettiva: è la cartolinizzazione di Venezia che ha condotto la città a cessare di essere tale, a trasformarsi lentamente e inesorabilmente in un parco a tema; in altre parole, proprio il fatto che non fosse più usata dai propri abi-tanti, espulsi dalla logica del bene intoccabile, l’ha condotta a essere preda di un turismo sel-vaggio e - questo sì - distruttivo. La soluzione sta forse nel chiudere definitivamente Venezia, proporre un contingentamento delle visite, o magari metterla sottovuoto e costruirne accan-to una copia fedele, come a Lascaux?Vivere il patrimonio significa invece, ad esem-pio, porre un freno alla circolazione indefessa delle opere (come sostiene da tempo Tomaso Montanari) e ricominciare a valorizzare i con-testi in cui esse nascono. Ma anche in questo caso Nannipieri porta alle estreme conseguen-ze il ragionamento, arrivando a contestare la forma-museo (“struttura storica transitoria”) o almeno la sua accettazione supina: “Si tutelava la vita di queste opere asportandole dalla loro naturale collocazione e proteggendole dentro una vetrina, nella quale erano sì fisicamente più pre-servate, ma il loro senso perduto”. È quella che efficacemente definisce una “tutela carceriera”.E quindi, che fare? La proposta di Nannipieri per certi versi pare accogliere la riflessione sui beni comuni portata recentemente alla ribalta da Ugo Mattei, e che risale al concetto di comunità teorizzato e praticato da La Pira e Olivetti. Comunità come superamento della dicotomia fra pubblico e privato, fra Stato e individuo, dove “l’importante non è la proprie-tà, ma è l’uso”. Significa perciò riavvici-nare la cultura, in tutte le sue estrinsecazioni, alla comunità che le appartiene, reimmettendo vita-lità e giustizia in un sistema - quello della tu-tela statale, ma è solo una fattispecie - “autori-tario, rigido, escludente.”. Un sistema nel quale, va da sé, le soprintendenze diventano, al netto della competenza eventuale dei professionisti che ci lavorano, “uffici verticistici che, di fatto, staccano le comunità dal loro patrimonio”.Ciò che propone Nannipieri è dunque di ri-mettere nelle mani degli enti locali “il potere legislativo sul patrimonio di loro competenza, di comune accordo con le istituzioni autonome e indipendenti, le associazioni, le cooperative, che andranno di concerto a preservare, gestire, curare e render vivo il patrimonio che sentono tale”. Innescando in tal modo un circolo virtuoso che riporti alla comunità l’interesse per le “proprie” opere. Utopistica? Forse. Rischiosa? Indubbiamente. Ma almeno è una proposta concreta e argo-mentata, che fa discendere il “problema” della gestione del nostro patrimonio culturale da una filosofia politica limpida e lineare.

di MARCO ENRICO GIACOMELLI

di MARCO ENRICO GIACOMELLI

Nei primi giorni dell’anno, su artribune.com ab-biamo pubblicato una dibattutissima (in redazio-ne e coi lettori) classifica dei “best of” del 2013. Il nome di Mike Kelley ricorre due volte: come “miglior artista affermato” e come “miglior mo-stra” in riferimento all’evento prodotto e ospitato dall’Hangar Bicocca a Milano. Quest’ultima ras-segna è stata la prima a essere allestita dopo la morte dell’autore, dunque ha un tale triste prima-to, ma soprattutto ha avuto il merito di raccontare un lato probabilmente meno noto dell’artista di Detroit. Per conoscerne invece in maniera per così dire enciclopedica l’opera, vi segnaliamo una mostra e un libro a essa collegato. Si tratta della grande retrospettiva, che almeno in parte Kelley è riusci-to a supervisionare, nata allo Stedelijk Museum di Amsterdam (dicembre 2012-aprile 2013) grazie alla tenacia di Eva Meyer-Hermann e che poi ha circolato al Centre Pompidou di Parigi (maggio-agosto 2013), al MoMA PS1 di New York (ottobre 2013-febbraio 2014) e infine giungerà al MOCA

di Los Angeles (marzo-luglio 2014). Il volume che la accompagna, edito dalla casa editrice tedesca Prestel (pagg. 400, $ 85) e curato dalla stesso Meyer-Hermann e da Lisa Gabrielle Mark, è senza ombra di dubbio il più completo stam-pato finora su Mike Kelley. A livello di saggi, gli interventi sono pochi ma ben calibrati, comprendendo un testo introduttivo di John C. Welchman (il critico che ha seguito con maggior continuità l’opera di Kelley, benché forse non ne sia stato il miglior interprete) e, dopo il corpus iconografico, interventi più estesi a firma di Branden W. Joseph (Fake Rock: Mike Kelley’s Music), dello stesso Welchman (Mike Kelley and the Comedic), di George Baker (Mike Kelley: Sublevel) e, per chiudere, una intervi-sta - l’ultima, almeno di questa portata - dell’artista con la curatrice. Preziosa anche la sezione dei cosiddetti “apparati”, non tanto per la bibliografia (perché debba essere “selezionata” in un volume del genere non è affatto chiaro) quanto per la catalogazione di performance, reading, “other events”, videografia e discografia.Ma è in mezzo che risiede la parte migliore, fra l’introduzione e il resto dei saggi: 300 pagine tonde tonde di opere commentate da brevi testi emersi dalla discussione con l’artista, che coprono un arco di tempo che va dal 1974 al 2012. E dentro c’è tutto, o quasi, ha fatto Mike Kelley in quasi quarant’anni di lavoro. Non un catalogo generale, certo, ma un passo importante in quella direzione.

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63EDITORIA

di GIULIA ZAPPA

Altro che Silicon Valley. Siamo a Ivrea, patria della Olivetti, dove nel 2005 un docente di nome Massimo Banzi inventa l’hardware che nel giro di qualche anno spopolerà in tutto il mondo. Quando l’eccellenza italiana nasce in provincia e diventa globale.

“The walls between art and engineering exist only in our minds”, dice in uno spot della BMW Theo Jansen, padre pu-tativo delle sculture cinetiche Strandbeest. La storia insegna che abbattere muri è sempre stato un atto rivoluzionario, ma se la recentissima ossessione per la condivisione ha già significato qualcosa, cultura dell’open source e divulgazione tecnologica potrebbero presto ambire a gesti così epici.A mettere insieme codice e bellezza ci ha infatti pensato il protagonista - tutto italiano - della rivoluzione dell’Internet delle cose, Arduino. Perché è naturalmente di “lui” che stiamo parlando: vede la luce nel 2005 tra le mura dell’Interac-tion Design Institute di Ivrea, spin off di Telecom nato dalle ceneri della Olivetti. Qui un docente allora sconosciuto, Massimo Banzi, progetta una nuova piattaforma hardware e software con l’obiettivo di facilitare i suoi studenti nella realizzazione di piccoli progetti di elettronica: la programmazione del microcontrollore, vero e proprio cervello che analizza e processa le informazioni che i sensori captano dall’ambiente esterno, diventa per la prima volta intuitiva e semanticamente vicina al nostro linguaggio naturale. Il suo nome? Italica-mente, ha qualcosa della cultura del bar: deriva dall’omonimo caffè di Ivrea dove il team di sviluppo - oltre a Banzi, David Cuartielles, Tom Igoe, Gianluca Martino e Davide Mellissi - si ritrovava occasionalmente. Dal Canavese al resto del mondo il passo è breve. L’effettiva accessibilità della programmazione, l’utilizzo di una li-cenza Creative Commons di tipo “Attribution Share Alike”, il basso costo della scheda e il rapido costituirsi di una community mondiale hanno di fatto trasformato Arduino in uno standard internazionale, oramai declinato tra venti schede disponibili (fino all’ultima Galileo realizzata in collaborazione con Intel) sviluppate per andare incontro a cam-

ARDUINO, ELETTRONICA DA BAR

64 DESIGN

PICK-A-PACK

È rassicurante scoprire che anche l’immaterialità del software ha bisogno della concretezza del packaging. La schedina elettronica Arduino è uno dei nostri migliori simboli di tecno-democrazia. Il suo successo è dovuto al concetto molto contemporaneo di “software libero e condiviso”, quell’idea di open source che paradossalmente si afferma quanto più si cerca di monopolizzare il grande mercato globale. Ma qui parliamo più prosaicamente di imballaggi e, quindi, torniamo a noi. Arduino è una piattaforma hardware e come tale - essendo distribuita in versione pre-assemblata, acquistabile su Internet o in negozi specializzati - deve essere appropriatamente imballata e protetta. Se il concetto che sta alla base di Arduino, per chi non è un nativo digitale, non è semplice da capire, al contrario il suo packaging possiede qualcosa di spensierato e leggero: sembra la confezione di un Meccano 2.0. La comunicazione è precisa, sintetica e intuitiva; la grafica colorata e giocosa come quella delle emoticon. La scatola che contiene Arduino è stata disegnata dallo studio ToDo di Torino, un laboratorio di design “di nuova generazione” che sviluppa consulenze e strategie digitali mixando creatività, interazione e tecnologia. Giorgio Olivero, il responsabile del progetto, ci ha raccontato che dopo l’inatteso, enorme successo di Arduino e la sua repentina diffusione, c’era la necessità di realizzare un sistema di imballaggi che fosse flessibile, accessibile, “friendly” come Arduino stesso; scatole adattabili alle diverse tipologie di schede, che fossero abbastanza economiche, facilmente producibili e velocemente ristampabili anche in grandi quantitativi. Per la grafica si è scelto di usare solo il linguaggio iconografico; per dare rilevanza a un oggetto il cui destino non sarà mai più quello di esser celato entro grigie scocche, la scheda stessa è diventata anche un supporto grafico per la comunicazione di importanti informazioni e indicazioni “scritte” proprio sul circuito stampato, una vera rivoluzione nel settore dell’hardware. Per la stampa solo cinque colori pantone, per i contenuti un font “instant classic”, come si dice in gergo, al di fuori di connotazioni temporali, proprio come il segno di infinito (con un - e un + mutuati dall’elettronica) che caratterizza il marchio Arduino, un progetto idealmente in eterna espansione. Che non invecchierà mai, che è già un classico contemporaneo.

www.todo.to.it

L’AZIENDA

Vanta natali illustri la piattaforma hardware Arduino, sviluppata presso l’Interaction Design Institute di Ivrea, scuola post laurea fondata dalla sinergia tra Olivetti e Telecom Italia. Sviluppato da programmatori e insegnanti, il microprocessore è stato ideato con scopi didattici, per fornire agli studenti uno strumento di programmazione. Il 2005, anno della nascita di Arduino, coincide con la chiusura dell’istituto per volontà di Telecom Italia che, come unico finanziatore, decide di tagliare i fondi alla ricerca. L’ultimo atto della scuola è però diventato in poco tempo un successo mondiale destinato a rivoluzionare il mondo dell’elettronica e del design. Per ironia della sorte, o meglio per la classica incapacità tutta italiana di scommettere sul futuro, Arduino ha fatto il giro del mondo prima di poter essere apprezzato anche in Italia, dove è stato inventato.Dato il successo e la grande richiesta del microcontrollore, Arduino continua a essere realizzato, sempre a Ivrea, con l’appoggio di diverse unità di produzione, tra cui Smart Project, che si occupa della creazione e del disegno, e System Elettronica, che stampa i circuiti. Ciò che ha contribuito al successo di Arduino è il suo essere trattato come un vero e proprio prodotto di design finito, non come un meccanismo o un componente. Arduino ha un logo, un’immagine coordinata, un colore e persino un packaging che lo rendono riconoscibile. Sull’onda dello sviluppo è nata anche l’azienda Officine Arduino [nella foto di Pietro Leoni], che a Torino sviluppa progetti open source e ospita anche il FabLab locale.Ripercorrendo la storia di questa piccola scheda ci accorgiamo che non è un caso che Arduino sia nato proprio a Ivrea, grazie alla lungimiranza di Franco De Benedetti, per anni vicepresidente dell’Olivetti, che ha fondato l’Interaction Design Institute. E non è nemmeno un caso il fatto che Arduino sia stato prodotto fra le stesse mura blu del vecchio stabile Olivetti progettato dall’architetto Edoardo Vittoria per Adriano Olivetti e riprogettato infine da Ettore Sottsass.Un “semplice” microcontrollore ha dimostrato come il made in Italy, nonostante i pochi fondi, sappia riconvertirsi e gettare solide basi per lo sviluppo del futuro.

www.arduino.cc

BANZI IN THE BOX

DA OLIVETTI AD ARDUINO

pi di applicazione specifici. A proliferare, però, sono stati soprattutto i prototipi che ormai si contano in migliaia di esempla-ri: dall’abbigliamento ai gadget, fino alle installazioni multimediali, non c’è settore che sia stato risparmiato dall’investitura DIY di questo protagonista intelligente del nuovo bricolage.Il bello, però, viene adesso. Perché se programmare il software può in fondo rivelarsi un gioco da ragazzi, più difficile è trasformare l’interazione in qualcosa di più di un semplice esercizio geek: luci interatti-ve per l’albero di Natale o termometri per misurare l’umidità delle piante, niente di tutto questo è destinato a cambiare il no-stro orizzonte quotidiano, né a trasformar-si in un potenziale economico con voca-zione d’impresa. Andare oltre il solipsistico virtuosismo da smanettoni, però, si può, e sono tre i settori che più di altri ci hanno regalato applicazioni promettenti. Cominciamo dal mondo della tecnologia, e in particolare da quello delle stampanti 3d: sono proprio quelle più celebri, come Rep Rap e Makerbot, a utilizzare Arduino. Ed è ancora un altro campo tipicamente maker a farla da padrone: in ArduPilot, come dice il nome stesso, è ancora Ardu-ino che controlla il volo dei droni dome-stici. Molti poi sono i progetti in divenire che stanno cercando finanziamento. Li scopriamo su Kickstarter, dove abbiamo trovato Lenzhound, un sistema di controllo remoto per le lenti delle telecamere.Cambiando orizzonte, è il campo delle wearable techno-logies che si sta rivelando particolarmente fertile. Qui la scheda Lilypad, la più “femminile” nella famiglia Arduino, si innesta tra le maglie del tessuto per regalarci un mondo fatto di led che si accendono e di colori che cam-biano al variare del nostro umore. Senza precludere soluzioni di manifesta utilità: l’italianissima Plug’n’Wear, leader negli smart fabrics con applicazioni nel campo medicale e nei tessuti tecnici, ha progettato il Wearable Technology Kit in vendita sullo store online di Arduino. Grazie ai suoi sensori e attuatori indossabili, lo studio di soluzioni personalizzate nel campo del design interattivo indossabile diventa alla portata di (quasi) tutti.Ma l’ambito che forse più degli altri ha da guadagnare dall’applicazione della piattaforma è proprio quello dell’arte con-temporanea. Ne sa qualcosa l’artista Julian Koschwitz: la sua opera On Journalism #2, Typewriter filtra dalla Rete informazioni su giornalisti oggetto di aggressione nel mon-do, e grazie ad Arduino ne rielabora i dati stampandoli, alla maniera di nuove storie generative, su un rullo di carta. E il design? Paradossale pensare che sia ancora alla ricerca delle sue potenzialità re-sponsive. A volte, però, è riuscito a trovare la sua strada: ad esempio nei progetti inte-rattivi di Studio Habit(s), che ha demo-craticamente rilasciato le istruzioni per la costruzione della propria lampada Ticker-kit [nella foto], una veste di legno e luce per un cervello comandato da Arduino.

di SONIA PEDRAZZINI

di VALIA BARRIELLO

65DESIGN

L’OLIMPO IN GIAPPONEdi ZAIRA MAGLIOZZI

Per le Olimpiadi del 2020 il Giappone è di fronte a un bivio: affidarsi ai grandi progettisti del panorama internazionale o rimanere fedeli alla propria cultura architettonica, senza per questo rinunciare a dar forma al proprio futuro. La vicenda dello stadio olimpico disegnato da Zaha Hadid è emblematica per capire dove sta andando una delle più importanti potenze mondiali, sempre in bilico fra tradizione e innovazione.

Gli aggettivi più usati per descrivere il nuovo stadio olimpico di Tokyo 2020 sono: enorme, fuo-ri scala, invasivo, irrispettoso. L’hanno già soprannominato “l’astronave”. I numeri parlano chiaro: 290mila mq per 80mila persone e un budget di 1,3 bilioni di dollari. Di fatto, il più grande stadio nel-la storia delle Olimpiadi [nelle foto in alto e a pagina 59]. Ma quando nel 2012 Zaha Hadid vinse il concorso, mai avrebbe immaginato di sollevare un tale polverone. Il Giappone era in corsa con Istan-bul e Madrid per l’assegnazione dei Giochi e il progetto era la punta di diamante della candidatura. L’anglo-irachena era arrivata prima tra dieci illustri finalisti, tra cui Sanaa e Toyo Ito. Il diretto antagonista di questi ultimi due, Tadao Ando, era nella commissione giudicatrice e aveva ac-colto l’idea progettuale con positiva convinzione: “Il progetto, dinamico e futuristico, incarna il messaggio che il Giappone vuole trasmettere al resto del mondo”. Un concetto su cui si sono sollevate posizioni con-trastanti. Molti in Giappone soffrono l’invasione delle archistar interna-zionali, che spesso vedono i Paesi orientali come tele bianche su cui sperimentare le forme più ardite. Ma questo è il Sol Levante, la patria del complesso monumentale Hōryū-ji, la più antica costruzione in legno esistente al mondo, patrimonio Unesco. Il Paese che ha dato i natali ad alcuni dei più importanti architetti a livello mondiale come Kenzo Tange, Tadao Ando e Kengo Kuma, dove la coscienza critica è molto sviluppata.A dare corpo al malcontento, subito dopo la nomina di Tokyo a ospitare le Olimpiadi del 2020, è stato Fumihiko Maki, noto architetto giapponese classe 1928, vincitore del Pritzker Prize nel ’93. Una pro-

66 ARCHITETTURA

testa pacifica ma mirata, a cui hanno aderito centinaia di architetti, tra cui Sou Fujimoto e Kengo Kuma. La principale critica mossa nei con-fronti del nuovo stadio è la dimensione eccessiva, fuori scala rispetto al conte-sto. Il progetto della Hadid si inserisce infatti nel quartiere centrale Shibuya dove si trova lo stadio di Kenzo Tan-ge, icona delle Olimpiadi del 1964, considerato un monumento storico. Eppure la Hadid aveva affermato: “Lo stadio diventerà una parte integrante del tessuto urbano di Tokyo. La nostra ricerca sull’architettura e l’urbanistica giappone-se, che portiamo avanti da trent’anni, è evidente in questo progetto”. Parole che sembrano voler giustificare un design effettivamente massivo e schiacciante. Gli architetti giapponesi non ci stanno e propongono un ridimensionamento del progetto per meglio adattarlo al contesto.Risultato? A poche settimane dall’inizio delle proteste, che hanno invaso il web e la carta stampata, le autorità fanno un passo indietro e annunciano che, a causa della lievitazione dei costi, il progetto verrà ridimensionato ma il concept rimarrà il medesimo.È la prima volta che una decisione del genere sol-leva una tale eco. Ed è chiaro che tutto sia scatu-rito dalle pressioni dagli architetti locali. Il progetto è infatti del 2012, ma prima delle pro-teste nulla era stato fatto. La certezza di ospitare le Olimpiadi, la visibilità e l’esposizione mediatica che ne deriva hanno costretto le autorità a essere più accorti, ad ascoltare il parere dei locali per iniziare l’avventura senza sconve-nienti malumori. Una vicenda che lascia emergere un’al-tra questione oggi molto dibattuta. Le Olimpiadi sono l’occasione per dare forma al futuro di una città, di un Paese. E l’architettura ha un ruolo determinante in questa configurazio-ne. Il dilemma è se affidare o meno i nuovi progetti a quel gruppo elitario di architetti, noti al grande pubblico, che portano con sé una grande risonanza internazionale. Il rischio? Un’eccessiva commercializzazione e spettacolarizza-zione dell’operazione, con l’inevitabile risultato di avere città senza identità, tutte uguali fra loro.Il Giappone, per ora, decide di rallen-tare la corsa. Non rinuncia al suo futu-ro ma ci obbliga a riflettere su questo processo che sta colpendo le megalopo-li in Oriente. Che sia la strada giusta? Il cantiere inizierà quest’anno e il nuovo stadio olimpico sarà pronto nel 2018. Tutto il tempo per capire se sia la stra-da giusta.

ARCHITECTURE PLAYLIST di LUCA DIFFUSE

PRESTINENZA.IT di LUIGI PRESTINENZA PUGLISI

Chi si è recato alla mostra Energy. Architettura e reti del petrolio e del post-petrolio al Maxxi avrà notato il plastico sferico di un pro-mettente giapponese: Sou Fujimoto. Promettente per due motivi: perché l’edificio, invece di essere ancorato a terra, era appeso al soffitto attraverso fili quasi invisibili; perché nell’eterea costruzione erano stati inseriti alberi ad alto fusto, senza prevedere che questi ultimi, per poter sopravvivere, avrebbero richiesto profonde va-sche, certo inestetiche, per ospitarne le radici. Si dirà: si trattava di un concept poetico che faceva vagamente pen-sare a un’opera giovanile di Frederick Kiesler, altrettanto flottante nell’aria, che nella metà degli Anni Venti aveva suscitato l’ammi-razione e insieme l’ira di Le Corbusier. E in effetti, datagli un’oc-casione concreta quale il padiglione della Serpentine Gallery, Sou Fujimoto è riuscito a realizzare una struttura reticolare non meno leggera ed eterea di quella esposta al Maxxi, ma questa volta facen-dola stare in piedi. Così come stanno in piedi la maggior parte delle costruzioni realizzate dalla nuova generazione di architetti giappo-nesi, che vogliono andare oltre il quasi nulla teorizzato da Mies van der Rohe per perseguire una poetica di trasparenza e leggerezza. Anche se, a dire il vero, si racconta che l’installazione di un altro giapponese, Junya Ishigami, dall’emblematico titolo Architecture as air: Study for château la coste, realizzata in occasione della Biennale di Architettura di Venezia diretta dalla Seijma, crollò in fase di esecuzione quando la sera un gatto entrò nel piccolo cantiere e si mise a giocare con i fili che la facevano stare in piedi. Sou Fujimoto e Junya Ishigami sono legati alla raffinatissima scuola di Kazuyo Sejima e quest’ultima a Toyo Ito, uno dei due maestri dell’architettura giapponese degli ultimi trent’anni (l’altro è l’insopportabile Tadao Ando, chiuso nel suo monumentalismo sempre più autoritario e retorico). Incarnano una condizione di males-sere tipica della società contemporanea: dover vivere in un mondo fatto da troppi oggetti, occupato da infinite cose, pieno di orpelli e inutili decorazioni. A questo eccesso, i discepoli di Ito oppongono la rinuncia formale, l’idealismo, la ricerca della purezza e la dematerializzazione che porta a realizzare pareti spesse un paio di centimetri. Pur apparendo come il frutto di un’estetica della rinuncia, l’iperminimalismo richiede tecnologie sofisticate e comporta costi notevoli. Come sa qualsiasi architetto che abbia provato a fare finestre di solo vetro o porte che sembrano scomparire nei muri. Non c’è da stupirsi allora che questi giapponesi, abituati al lusso di un’estetica della privazione, abbiano trovato esagerato e forse disgustoso il progetto dello stadio della Hadid. Come può essere per un anoressico il dover vivere in compagnia di un bulimico.

PESO E NATURA IN GIAPPONE

ANORESSIA E BULIMIA ARCHITETTONICA

Nel 1995 il terremoto di Kobe orienta il Giappone a una differen-te idea di sviluppo, rivelata dal dibattito sullo spostamento della capitale da Tokyo a Gifu. Un evento che fa da sfondo all’ap-parizione di “un tipo nuovo di architetto”. È Toyo Ito a definire così Kazuyo Sejima, la musa dei suoi Dwellings for a Tokyo Nomad Woman, quando allestirà una reazione estetica al ter-remoto nel padiglione giapponese alla Biennale di Venezia del 2000, ospitando i lavori di Kosuke Tsumura, Hellen van Meene, Yayoi Deki.Tsumura disegna abiti-guscio, avvertendo la necessità di ridu-zione dell’esistenza ai soli ambienti rassicuranti, espressa da più di un milione di hikikomori che vivono autoisolandosi. Hellen van Meene e Yayoi Deki guardano alle adolescenti cariche di bigiotteria che, indicando un nuovo oggetto del desiderio, ridac-chiano la parola ‘kawaiii!’. Un gesto superficiale ma collegato con una capacità velocissima di identificare la bellezza.Facile concentrarsi sulla magrezza della recente architettura giapponese ed essere cinici verso processi di assunzione di responsabilità, soprattutto in Italia, dove la reazione alla distru-zione naturale e poi amministrativa de L’Aquila è stata quella ridicola di una temporanea indignazione collettiva. Stabilire un’armonia col pianeta è un obiettivo sul quale in Italia si esercita una grassa ironia. Sejima è indifferente alle questioni di peso. Direttrice della Biennale di Venezia nel 2010, selezionando la quota italiana sceglie Luisa Lambri [nella foto: Casa das Canoas 2, 2003] e Lina Bo Bardi, due immaginari luminosi ma supportati da una certa concretezza.Nel 2012 il padiglione giapponese ospita un’altra reazione post-catastrofe (terremoto e tsunami di Sendai) quando molti dei progettisti in mostra erano nel frattempo passati per SANAA. Queste Relations - titolo del libro di Florian Idenburg sui rapporti tra Sejima e altre generazioni di architetti - indicano come il modo esile di Sejima non sia un apparato formale scontato, quanto una intuitiva interpretazione della contemporaneità. La versione affinata del kawaiii!Se pure Ishigami vince un Leone d’oro con un progetto aereo che nessuno vede perché distrutto nottetempo da un gatto, Fujimoto, Hogan, Elding Oscarson, Idenburg declinano la loro esperienza presso SANAA in modo differente. Proprio Idenburg lo precisa rispondendomi nel 2010 per Klat Magazine: “I grew up in Calvinistic Holland, I think we need to leave the world in a better state then we find it. In that sense I am moralistic, and I see some sort of soft moralism in the work of SANAA. Why I was interested in the work was it’s incredible sense of positivity. For me this was a breath of fresh air after an era of Koolhaasian cynicism, and relativism. I do not think we can continue this project in a similar way, as it I am not a Japanese woman, but a dutch guy”.

67ARCHITETTURA

LUNGIMIRANTE TOKYOdi FEDERICA RUSSO

Riuso del patrimonio, strutture temporanee da dismettere dopo i Giochi, nuovi edifici a meno di otto chilometri dal villaggio olimpico per ridurre gli spostamenti. Questa la strategia sostenibile che ha contribuito alla vittoria di Tokyo per i Giochi Olimpici 2020. 15 delle 37 location previste sono edifici esistenti: una mossa astuta e al passo con i tempi di crisi e inquinamento. Il Giappone insegna ancora una volta a guardare al futuro, come fece per le Olimpiadi del ’64. Con edifici che restano icone funzionalmente perfette.

Sumida

Tokyo Bay Zone

Chuo

Koto

INTERNATIONAL FORUM È dal 1996 che l’International Forum troneggia nel cuore fi-nanziario di Tokyo, abbracciando nella sua pelle trasparente

le migliori performance culturali e i più importanti eventi della capitale. Situato all’incrocio dei due distretti finanziari Marunochi e Otemachi, di quattro linee metro e di due tra le più importanti stazioni ferrovia-rie, l’edificio attrae di per sé quattro milioni di visitatori annuali ed è considerato ormai un centro civico, grazie anche alla piazza pubblica che si estende sotto gli spazi espo-sitivi. In occasione delle Olimpiadi ospiterà il sollevamento pesi. Biz-zarra location, che dimostra quanto la politica di riuso del patrimonio

esistente non abbia limite. Al momento l’edificio comprende la magnifica hall centrale, due semiellissi in acciaio e vetro che abbracciano uno spazio a tutta altezza, sette piani fuori terra e tre interrati che ospitano numerose sale conferenze e tea-trali - tra cui la più grande a Tokyo, con 5mila posti -, uffici, ristoranti e caffè.

Project: Rafael Viñoly ArchitectsYear: 1996Location: AriakeStatus: completed

OLYMPIC VILLAGE70 ettari di acqua e terra sull’Harumi Pier ospite-ranno il Villaggio Olimpico, che godrà di una delle

migliori viste sulla Tokyo Bay. Con-cettualmente e ge-ograficamente nel cuore dei Giochi, sarà infatti situato dove si intersecano la Heritage Zone e la Tokyo Bay Zone, così da garantire una distanza di

otto chilometri da 28 delle 33 location. L’87% degli atleti impiegherà meno di venti minuti per raggiun-gere le sedi di gara e ciò aumenterà l’efficienza e la qualità della già rinomata ospitalità giapponese.

Project: to be definedYear: 2020Location: Harumi PierStatus: on going

YOYOGI NATIONAL STADIUM Niente di più lontano dall’idea di obsolescenza in ar-chitettura dello stadio Yoyogi. Costruito durante le Olimpiadi del ‘64, è una delle opere che ha consacrato

Kenzo Tange al gran-de pubblico, uno dei monumenti nazionali più visitati di Tokyo e ospiterà la pallama-no nel 2020. La co-pertura che s’innalza dal landscape come un’enorme pagoda, influenzata dal Philip’s

Pavilion di Le Corbusier e dallo stadio di hockey a Yale di Eero Saarinen, è stata anche ispirazione per l’arena dei giochi olimpici di Monaco di Frei Otto. L’edifi-cio fu all’epoca il più grande tetto sospeso del mondo. Un’icona giovane e dalle mille vite: nata per le gare di nuoto, tuffi e basket, diventata poi impianto polivalen-te, ha ospitato pallavolo, pallacanestro, arti marziali, oltre a concerti per il grande pubblico.

Project: Kenzo TangeYear: 1964Location: ShibuyaStatus: completed

68 ARCHITETTURA

ARCH.TIPS di GIULIA MURA

Giochi Olimipici del 2020: una data importante che, se compa-rata all’orizzonte europeo, richia-ma subito alla mente la strategia del “20-20-20”, ovvero la ridu-zione del 20% delle emissioni di anidride carbonica entro il 2020. La metropoli asiatica è sicura-mente tra le città più smart, sotto il profilo dell’utilizzo di tecnologie digitali e web all’avanguardia, ma presenta anche numerosissimi problemi di traffico, alti livelli di emissioni inquinanti e scarsità di spazi destinati a verde pubblico e aree libere.Il Governo Metropolitano ha varato nel 2002 il programma Tokyo Initiative per favorire l’edilizia green, il risparmio energetico e l’uso di energie rinnovabili. La città aveva però già adottato strategie verdi tra gli Anni Sessanta e Settanta: quando il Giappone stava vi-vendo il boom economico, Tokyo è stata una delle prime municipalità a proporre soluzioni per risolvere il problema dell’inquinamento derivante dalla crescita urbana incontrollata. Nel 2006 è entrata a far parte del progetto internazionale C40 Cities, che promuove mo-delli di sviluppo urbano rispettosi dell’ambiente: lo scorso settembre è stata premiata con l’importante riconoscimento del City Climate Leadership Awards grazie all’attuazione del programma di riduzione delle emissioni per edifici terziari e commerciali.Uno dei più importanti progetti di città intelligenti del mondo si trova inoltre proprio nella zona di Tokyo. Si tratta del Kashiwanoha Campus City a Kashiwa [nella foto]: un megapro-getto in divenire, che dovrebbe concludersi nel 2030 e che ospiterà quasi 30mila abitanti, con l’intento di dar vita a una nuova città completamente sostenibile, attraverso l’adozione di criteri di pianificazione urbana basati sul concetto di valorizzazione e coesistenza con la natura.I cittadini della nuova smart city possono monitorare i propri consumi energetici, così da promuovere al massimo il risparmio e ottimizzare l’utilizzo di energie rinnovabili. Le unità residenziali, in parte già realizzate, sono esclusivamente green building, così come viene incentivata la produzione a km0 attraverso la realizzazione di parchi agricoli. Kashiwanoha si trova a soli trenta chilometri da Tokyo, alla quale è collegata attraverso un servizio di trasporto metropolitano ultrarapido.

www.mitsuifudosan.co.jp

TRIUMPH TREEHOUSE

KASHIWA SOSTENIBILE

In un Paese come il Giappone, periodi-camente squassato da catastrofi natu-rali, la necessità di elaborare strategie abitative alternative è un tema attua-lissimo. Lo è stato anche, ad esempio, alla scorsa Biennale di Venezia, quando Toyo Ito, curatore del padiglione nazio-nale [nella foto], propose - vincendo - il tema Home-for-all in seguito allo tsuna-mi che si era abbattuto nel marzo 2011. Il progetto non solo investigava il ruolo dell’architettura contemporanea di fron-te all’emergenza, ma lo faceva usando la natura (anche se ferita) come punto di riscatto e partenza.Medesimo tema, seppure con velleità molto meno nobili, è quello sviluppato dalla Triumph Treehouse Competition per la creazione di una casa-rifugio sull’al-bero. Sogno di ogni bambino che ami l’avventura, la casa sull’albero rappresenta la visione archetipica della fuga dalla città e dal suo baccano. Proprio questo si chiede ai partecipanti (deadline fine aprile): creare un nido capace di rispondere a nuovi bisogni. I risultati saranno poi comunicati a metà maggio e i vincitori - il contest è aperto sia a studenti che a professionisti, singoli o in team con massimo quattro partecipanti - ri-ceveranno un premio in denaro e la pubblicazione su testate specializzate, oltre che la partecipazione gratuita al workshop Summer Treehouse Project 2015. Uniche richieste a cui attenersi: che la capsula non superi una superficie interna di 20 mq, che sia sopraelevata a 2,5 metri da terra, che sia ben chiaro il sistema tecnico d’ancoraggio al fusto e che si trovino modalità alternative ed ecosostenibili per l’acqua e l’energia. Ma, soprattutto, che il legame con l’ambiente, con il paesaggio e con gli elementi naturali circostanti sia strettissimo e profondo.

www.archtriumph.com

ARCH.ECO di ELISABETTA BIESTRO

IBC/MPCCon i suoi 143mila mq, il Tokyo Big Sight è il più grande complesso espositivo e centro congressi del Giappone. L’edi-ficio fu realizzato, su commissione del Tokyo Metropolitan

Government’s Bureau of Finance, da otto compa-gnie di costruzione e si sviluppa tra spazi interni ed esterni sulla magnifi-ca Tokyo Bay. È un’opera mastodontica, realizzata in acciaio e cemento rinforza-to, che comprende la più nota torre conferenze (otto piani per 58 m di altezza)

e le due hall espositive. La torre si erge su quattro zampe e si distingue per imponenza, più che per eleganza, nel paesaggio della baia. Per i Giochi si prevede un’addizione di altri 44mila mq sul lato sud dell’ala espositiva West. Un edificio perfetto per ospitare l’intero apparato dell’International Broadcasting Cen-ter e il quartier generale della stampa. Rimarrà in funzione 24 ore su 24 ospitando milioni di persone e un’attività frenetica e sarà il ponte tra il Giappone e il resto del mondo.

Project: Tokyo Metropolitan GovernmentYear: 1995Location: AriakeStatus: completed

OLYMPIC AQUATIC CENTRENella Tokyo Bay, situato fra l’Ariake Arena e il Dream Island Stadium, sorgerà il nuovo complesso sportivo dedicato agli

sport acquatici. Il landscape e la vista sulla baia avranno un ruolo fondamentale nel-la definizione del progetto, in linea con lo sviluppo del waterfront. Non ci sono ancora anticipazioni per quanto riguarda l’architet-tura e le immagini indivi-duano solo la volumetria generale dell’opera. A li-

vello funzionale il progetto comprenderà l’Aquatic Centre e la Waterpolo Arena. Il primo edificio avrà una capacità di 20mila posti e, sempre secondo la logica della flessibilità e del riuso, sarà progettato per essere ridotto successivamente a 5mila posti e diventerà un centro per il nuoto. La Waterpolo Arena invece ospiterà 6.500 persone ma sarà progettata come edificio tempo-raneo e completamente smantellata alla fine dei Giochi.

Project: to be definedYear: 2020Location: KotoStatus: on going

ARIAKE ARENAIn quel lembo di terra ancora semi-vergine nella zona di Ariake, al confine con Shinonome, sorgerà l’Arena che ospiterà la pal-lavolo. Dopo i Giochi anche questa venue rimarrà attiva e sarà

utilizzata per ospitare com-petizioni internazionali e nazionali. L’area assegnata è, ad oggi, una striscia di terra verde sulla Tokyo Bay. Sorgeranno, in linea con l’Arena, l’Olympic BMX Course, il Velodromo e il Gymnastic Centre, e que-sta operazione cambierà definitivamente il volto della zona, ora nota solo

come sede del Tokyo Big Sight, trasformandola in un polo sportivo. L’intervento, sponsorizzato dal Tokyo Metropolitan Government, è infatti parte della Waterfront Sport Area iden-tificata nella Tokyo Vision 2020 e include anche la costruzione dell’Ariake Tennis Park, del Tokyo Tatsumi International Swim-ming Centre e dell’Olympic Aquatics Centre. Per tutte queste location, i bandi di concorso che verranno annunciati in tan-dem con lo sviluppo del waterfront.

Project: to be definedYear: 2020Location: AriakeStatus: on going

69ARCHITETTURA

È possibile addirittura tracciare un’intera storia - non tanto alternativa - del cinema italiano attraverso il ritratto dei poveri fino a una soglia storica precisa: quella metà degli Anni Settanta segnata dalla morte di Pier Paolo Pasolini, il massimo cantore nazionale di questo specialissimo canone, massacrato proprio in uno di questi topoi, la spiaggia dell’idroscalo di Ostia, “turpe brughiera suburbana gremita di sozzi relitti” (come la definì Gianfranco Contini). Si tratta dunque della rappresentazione insistita e della esibizione di un’intera fetta di società oggi rimossa. Dei comportamenti, delle abitudini, degli oggetti e del linguaggio di questa società, innestata in maniera solo apparentemente pa-radossale nell’epoca del boom, in pieno miracolo economico: “I miracoli veri sono quando si moltiplicano pani e pesci e pile di vino, e la gente mangia gratis tutta insieme, e beve […] I miracoli veri sono sempre stati questi. E invece ora sembra che tutti ci credano, a quest’altro miracolo balordo: quelli che lo dicono già compiuto e anche gli altri, quelli che affermano che non è vero, ma lasciate fare a noi e il miracolo ve lo montiamo sul serio, noi” (Lu-ciano Bianciardi, La vita agra, 1962).Tutto questo significa banalmente che la rappresentazione, quando evita la rimozione della realtà, spinge radicalmente l’immaginario culturale. Questa storia particolare inizia, ovviamente, con il Neorealismo. In Roma città aperta (Roberto Rossellini 1946), Ladri di biclette e Umberto D. (Vittorio De Sica 1948 e 1952), la povertà immediatamente postbellica degli spazi urbani - una povertà fatta di macerie materiali che riflettono quelle immateriali e morali - si concentra in dettagli specifici e a volte molto ravvicinati: palazzoni di periferia, androni squallidi, scale interne dissestate, cucinini male in arnese e luride camere ammobiliate. In una fase successiva, il realismo espressionista di Pasolini - reduce dal successo scandaloso dei due romanzi

I POVERI NEL CINEMA ITALIANO, 1945-1976

di CHRISTIAN CALIANDRO

Diseredati, ultimi, precari ante litteram: il cinema italiano tra Anni Quaranta e Settanta è incredibilmente ricco di rappresentazioni della povertà e di luoghi poveri che diventano luoghi iconici. Poi, più nulla.

70 CINEMA

L.I.P. - LOST IN PROJECTION di GIULIA PEZZOLI

Madrid e Londra, Juan e Mia. A migliaia di chilo-metri di distanza, due bambini vengono persegui-tati dalla stessa inquietante presenza. Un uomo senza volto si nasconde negli angoli oscuri delle loro stanze e ogni notte tenta di rapirli e portar-li via. Preoccupati per i rispettivi figli, i genitori dell’una e la madre dell’altro cercano disperata-mente conforto affidandosi alla psicologia infan-tile e alla religione finché, increduli e attoniti, non diventeranno anche loro testimoni delle terribili apparizioni del mostro. Le due storie viaggiano autonome e parallele fino alla fine per poi riunirsi in un colpo di scena che recupera solo in parte la mancanza di coerenza complessiva dell’opera.Ci ha abituati bene Juan Carlos Fresnadillo. Con 28 settimane dopo (sequel di 28 giorni dopo) e Intacto, il regista spagnolo ha già dimostrato di saper produrre lavori interessanti ed è per que-sto che, come horror soprannaturale (un po’ alla Guillermo Del Toro, per intenderci), Intruders ci colpisce ma allo stesso tempo non ci convince fino in fondo. Forse è troppo complicata la sceneggiatura dei due connazionali: lo scrittore Nicolás Casariego e il regista Jaime Marques che tentano di orchestrare una doppia traccia complicatissima, muovendosi tra ghost story, thriller e dramma psicoanalitico e cadendo in improvvisi momenti di incoerenza. Bisogna tuttavia riconoscere l’astuzia di una regia che si adatta con intelligenza alla situazione, non cerca l’unione o la coerenza, anzi aggiunge alla “distanza” letteraria dei due tronconi narrativi una distanza stilistica forte, un’autonomia salvifica, governata da un comune sottofondo di suspense e tensione psicologica. Cambi improvvisi di inquadrature, una colonna sonora ben gestita e attori dalle indubbie capacità permettono alla pel-licola di Fresnadillo di mantenere l’atmosfera inquietante di un horror che esplora le paure e i disagi del mondo infantile, mescolando elementi da thriller psicologico a reminiscenze da fiaba noir.

INTRUDERS

Ragazzi di vita (1955) e Una vita vio-lenta (1959) - costruisce integralmente l’immaginario, l’universo narrativo delle “borgate” romane in film come Accattone (1961), Mamma Roma (1962), Uccellac-ci e uccellini (1965) e nei cortometraggi La ricotta (1963) e La Terra vista dalla Luna (1967). È un mondo simbolico e metaforico fortemente e violentemente ancorato a strade e angoli che prima non esistevano nel territorio della rappresen-tazione culturale.Ma, come dimostra già con larghissimo anticipo Vita da cani (1950) di Mario Monicelli e Steno, sarà la commedia italiana a incaricarsi di portare avanti e sviluppare il “tema fondamentale del ne-orealismo, il commento-denuncia dei mali della società contemporanea” (Masolino D’Amico, Il cinema comico in Italia dal 1945 al 1975, 1985).Così troviamo Nino Manfredi e Mario Adorf in A cavallo della tigre (Luigi Comencini 1961) alle prese con un’e-vasione rocambolesca e con l’emergente malessere sociale; Alberto Sordi-Guido Tersilli che all’inizio incerto della sua lu-minosa carriera ne Il medico della mutua (Luigi Zampa 1968) visita i suoi pazien-ti addentrandosi con la Lambretta nei viottoli fangosi della baraccopoli; Mar-cello Mastroianni e Monica Vitti che in Dramma della gelosia – Tutti i particolari in cronaca (Ettore Scola 1970) si amano perdutamente su una spiaggia sporca e inquinata molto pasoliniana, “una specie di discarica a cielo aperto, cosparsa di fer-raglia arrugginita, preservativi, materassi putrescenti, siringhe abbandonate dai tossici, mucchi di piastrelle ed altri scarti di cantieri edili” (Emanuele Trevi, Qual-cosa di scritto, 2012).E ancora, Alberto Sordi e Silvana Man-gano che ne Lo scopone scientifico (Luigi Comencini 1972) vivono nella miseria nera ma fisicamente si trasferiscono, grazie al gioco delle carte, nel mondo brillante del sogno economico; Ugo To-gnazzi in Romanzo popolare (Mario Mo-nicelli 1974) la cui illusione d’amore con Ornella Muti nella periferia industriale di Milano si infrange contro la durezza della realtà. Il sottoproletariato urbano dell’Italia Anni Settanta trova il suo api-ce - e insieme il suo canto del cigno - in Brutti sporchi e cattivi (Ettore Scola 1976 [nella foto]), vero e proprio manifesto di un’epoca, apologo amarissimo su una realtà sociale altra e parallela rispetto a quella ufficiale, istituzionale.Di lì a poco, i poveri scompariranno del tutto dagli schermi. Per essere sostituiti dai giovani bene-stanti e spensierati di Sapore di sale (1983), Yuppies-I giovani di successo e Via Montenapoleone (1986). Ritratti non a caso - nell’epoca nuova che inizia e si configura - proprio dai figli di Stefano Vanzina: in arte, Steno.

Spagna, 2011 | horror | 100’ | regia: Juan Carlos Fresnadillo In Italia il film è uscito solamente per il mercato homevideo il 20 giugno 2012.

di FRANCESCO SALASERIAL VIEWER

THE AMERICANSLi hanno presi poco più che ragazzi, entrambi feroce-mente e ciecamente motivati al sacrificio, e li hanno sottoposti a un addestramento terrificante, costringen-doli a privazioni, mortificazioni, violenze psicologiche e fisiche. Li hanno spogliati del loro nome, del loro passato e anche del loro futuro, imponendo nuove identità, spe-dendoli all’altro capo del mondo. Dietro le linee nemi-che. Li hanno costretti a frequentarsi, rispettarsi, persi-no amarsi; ne hanno fatto marionette di carne e sangue disposte a ogni nefandezza pur di sostenere il proprio Paese. Ma la fede, a un certo punto, prende a vacillare. Stephen King l’ha definita “la migliore serie del 2013”: prende spunto da una pagina oscura della storia recente degli Stati Uniti The Americans, lanciata via cavo da FX a gennaio 2013 (3 milioni e 200mila spettatori per il pi-lota, prossimo al record di rete) e prontamente arrivata in Italia – lo scorso autunno – su Fox. A ideare il plot Joe Weisberg, ex agente CIA passato alla scrittura televisiva, già al lavoro su Falling Skies e Damage, che in quest’occasione fruga nell’armadio dei “cugini” dell’FBI e ri-spolvera lo scheletro di un’indagine che effettivamente molto concede alla fiction. Si vociferava della presenza di spie sovietiche infiltrate nell’apparentemente innocuo tessuto sociale americano: famiglie fittizie ma in tutto e per tutto plausibili, chiamate a raccogliere informazioni il più utili possibili a sgretolare l’imperialismo a stelle e strisce. The Americans segue la doppia vita di una di queste coppie, interpretata da una malinconica Keri Russell e da Matthew Rhys (il fratello gay di Calista Flockhart in Brothers & Sisters); progressivamente dilaniata dal senso del dovere nei confronti di una patria sempre più distante e la fascinazione per un sistema e un codice valoriale tremendamente seducenti. Partono duri e puri, si scoprono di puntata in puntata sempre più vulnerabili; un pro-cesso di crescita epifanico per i due personaggi, tessuto con sapienza lungo il duplice binario della redenzione e della dannazione. Perché non è detto che l’empatia, l’avvicinamento e l’eventuale cedimento alle lusinghe dell’Occidente siano la chiave per appropriarsi di una libertà forse irrimediabilmente perduta, nell’ormai classi-ca confusione di ruoli tra eroe e antieroe; nel mix di lecito e illecito, possibile e irreale. Costruzione intrigante per la serie, che sembra fare proprie alcune strategie narrative codificate con successo da Breaking Bad: come l’inizio in medias res e la tornitura dei personaggi affidata a frequenti incisi in forma di flashback; per cui si aggiungono stratagemmi visuali improntati su un citazionismo “d’atmosfera”: la vicenda è ambientata nei primi Anni Ottanta e dunque via a certe sporcature dell’immagine che a tratti evocano l’idea del vintage, ma soprattutto ecco in alcune scelte di regia l’omaggio ai serial polizieschi vecchia scuola. Quando un’auto sfreccia e inchioda a quel modo potrà anche essere guidata da un agente del KGB, ma non sarebbe uno scandalo scoprire al volante Magnum P.I. o David Starsky.

71CINEMA

Torna alla ribalta l’ipotesi di un gemellaggio fra le Capitali francese e italiana. E la moda potrebbe essere un trait d’union formidabile. Se solo Roma riuscisse a valorizzare le proprie potenzialità, in particolare elaborando progetti espositivi degni di tal nome.

Parigi è la città della Moda con la M maiuscola, quella che incute soggezione e non consente troppe variazioni, anche sperimentali, sul tema. È la città dove per sfilare serve il rispetto di regole precise, dove la solidità di un marchio deve dimostrare una struttura portante, fatta di numeri di impiegati oltre che di storia del marchio stesso. Non basta la forza economica per pagarsi una sfilata spettacolare, bisogna saper realizzare abiti degni di essere definiti “di alta moda”: asole, rifiniture e ricami fatti a mano sono imprescindibili. Roma è rientrata in campo da qualche anno grazie allo spazio dato ai giovani talenti; quelli che poi, magari, arriveranno a Parigi. Non può però permettersi altrettanto rigore nella selezione dei calendari durante le settimane della moda, soprat-tutto perché ciò che offre di contorno risente della sfiducia delle istituzioni e, quindi, di sponsor per iniziative collaterali. Si è però assistito recentemente a una crescente attenzione per l’artigianato, il cui prodotto è apprezzato anche dai creativi italiani emergenti.Il progetto di gemellaggio fra le due capitali è ripreso nelle ultime settimane, dopo la pausa durante la gestione Aleman-no, e la moda costituirebbe un ponte naturale per il passaggio creativo fra le due città. Ma ciò comporta una verifica delle due stazioni di transito. Se il sistema delle sfilate potrebbe funzionare, il vero problema sta nella produzione di mostre tematiche. La cultura del prodotto ci vede infatti in una posizione decisamente ina-deguata rispetto alla Francia, Paese nel quale alla moda si è sempre attribuita una importanza politica, economica e culturale, oltre che estetica.

ROMA E PARIGIGEMELLE DIVERSE

di CLARA TOSI PAMPHILI

72 MODA

FASHIONEW

Alla sua prima collezione, la giovane desi-gner milanese Beatrice Bongiasca ci tra-sporta nel suo Western Orient. Dopo il di-ploma alla Central Saint Martins di Londra e una lunga esperienza da Delfina Delettrez, la Bongiasca ha deciso di intraprendere la carriera da designer di gioielli. I suoi pezzi, a metà fra artigianalità e tecnologia, raccon-tano un incredibile viaggio nell’immaginario pop-kitsch della cultura orientale, attraverso un originale crossover di linguaggi e mezzi di comunicazione. “La mia collezione nasce come la cultura ka-waii con un’idea di evasione dalla realtà, cer-cando un’armonia di colori e materiali che permetta di far dimenticare tutto ciò che è brutto. Al tempo stesso, però, dietro la poe-sia e la delicatezza di certi colori si cela una critica sociale contro il dilagante consumismo dell’Occidente, che è ormai parte della quoti-dianità orientale”, afferma Beatrice Bongia-sca. Come un vero e proprio progetto arti-stico, ogni gioiello affronta un diverso tema della comunicazione: dal linguaggio del fu-metto e del manga all’oroscopo, fino all’iconografia pop del dollaro e della Coca Cola. Oggetti di luce, fatti di smalti colorati, pietre iridescenti e perle barocche raccontano di un mondo che avanza in maniera prorompente verso di noi. L’influenza reciproca fra mondo asiatico e cultura europea, le derive estetiche e semiotiche di questo processo, sono al centro della sua ricerca. Ogni elemento decorativo diventa me-moria di un viaggio o di uno dei lunghi periodi trascorsi in Corea, Giappone e Cina. Questo melting pot culturale in chiave ironica e surreale, reso ancor più esplicito da una serie di divertenti scatti di Giovanni Gastel, rende la collezione Western Orient tra le più interessanti e attuali del panorama contemporaneo del gioiello.

www.beatricebongiasca.com

FASHIONOTES

DISORIENTARE L’ORIENTE

LA PRIMA DI JEAN-PAUL LESPAGNARD

di ALESSIO DE’ NAVASQUES

di FEDERICO POLETTI

In Italia sono anni che si tenta di stabilire una relazio-ne fra arte e moda che non sia soltanto citazionismo reciproco, ma non esiste un sistema che supporti tale unione. Ci siamo resi conto, solo perché spinti dalla crisi, dell’importanza dell’artigianato come forma d’arte, e così siamo diventati tutti artigiani. Generan-do una confusione di ruoli, cercando il consenso di chi guarda al made in Italy come risorsa creativa del futuro, ma senza mai perdere quei complessi che ci rendono incapaci di nobilitare realmente certe profes-sioni: come dire che il lato artigiano c’è, ma sta vicino a qualcosa di più serio. L’unico settore che è riuscito a riqualificare l’immagine del “lavoro semplice” è quello enogastronomico: grazie a film, a bellissime immagini di cucina e ad altri prodotti complessi e contempora-nei, cuoco, cameriere e sommelier ci sembrano pro-fessioni allettanti. Intanto a Parigi vanno in scena mostre ed eventi me-morabili. Innanzitutto Eternity Dress, secondo appun-tamento della collaborazione fra il Musée de la mode al Palais Galliera e Tilda Swinton. Nell’anfiteatro dell’École des beaux-arts, a fine novembre l’attrice e Olivier Saillard - direttore del museo - hanno costru-ito l’abito dell’eternità, “une robe, une seule”. Con il sostegno di Chloé, nel quadro del Festival d’automne, la performance ha raccontato come si confeziona un abito; quell’abito simbolico che non faremo mai, tanto è minimale e contrario alle continue evoluzio-ni della moda. Come celebrando un rito, Saillard prendeva le misure del corpo dell’attrice e insieme percorrevano le tappe che portano alla costruzione del modello su carta e poi su stoffa. La musica accom-pagnava perfettamente i movimenti e la voce della Swinton, la quale scandiva i numeri delle misure del proprio corpo, i diversi tipi di colletto e poi i nomi dei couturier che hanno fatto la storia della moda. Un racconto del lavoro artigianale che eleva la professione del sarto a quella dell’artista, che ogni volta replica le proprie capacità, usando l’esperienza per raggiungere la per-fezione della semplicità. All’opposto di questa concettuale celebrazione del lavoro artigianale, un altro esempio: meno potente come costruzione ma stupefacente per le qualità divulgative, per la capacità di unire le forze dell’arte moderna e di quella contemporanea grazie al nome di Christian Dior. Al Grand Palais, l’esposizione Miss Dior ha raccontato il rapporto del couturier più famo-so del mondo con i movimenti culturali coevi, culmi-nando con il lavoro di quindici artisti contemporanei ispirati dagli elementi fondamentali che caratteriz-zano il suo stile. Le opere degli amici - da Dubuffet a Dalí, da Picasso a Man Ray -, le illustrazioni di René Gruau insieme alle immagini degli atelier di avenue Montaigne, e ancora lo studio dei flaconi del profumo Miss Dior introducevano all’accoppiamento tra gli abiti storici e i lavori degli artisti. Così il pied-de-poule ha ispirato Polly Apfelbaum per l’installa-zione di un megatappeto realizzato a mano in Mes-sico secondo le tecniche tradizionali della tessitura di Oaxaca; mentre un segno forte lo lascia il video di Shirin Neshat con Nathalie Portman, testimonial del profumo, a cui viene tolta tutta l’immagine glamour rivalutando la sua bellezza interiore. La mostra era a ingresso gratuito e la lunghissima fila era eterogenea come non accade in Italia: raramente da noi si vedono, agli eventi di moda, bambini e an-ziani, uomini apparentemente non del settore e ragaz-zi vestiti magari senza particolare cura. Insomma, è ancora da costruire quel patrimonio di creatività che potremmo “scambiare” con Parigi.

Fino al 5 aprile 2014 la Galerie des Galeri-es - spazio espositivo di Lafayette - ospita la prima personale dello stilista belga Jean-Paul Lespagnard. Una scelta interessante, quella del format “mostra”, che rivela come sia sempre più importante l’esigenza di tro-vare formule più originali del classico fashion show per comunicare la moda. E questo vale a maggior ragione per i nuovi talenti. Classe 1979, Lespagnard manifesta una cre-atività precoce: dagli pneumatici del padre, ad esempio, riesce a ricavare corsetti per le sorelle. Curioso e affascinato dal Surreali-smo, studia arti visive e fashion design pres-so l’IFAPME a Liegi. Si forma poi con Anna Sui per due stagioni, per diventare in seguito assistente di Annemie Verbeke. La svolta av-viene nel 2008, quando partecipa alla 23esi-ma edizione del Festival International de Mode et de Photographie di Hyères, vincendo ben due premi. Grazie al noto concorso ha la possibilità di produrre e presentare una sua capsule collection, che riscuote subito gran-de interesse. Affascinato dall’arte in tutte le sue manifestazioni, pop e surreale ma anche urbana, collabora con Villa Noailles, con la cantante francese Yelle e con i coreografi Meg Stuart, Pierre Droulers e Gilles Jobin.Difficile definire il lavoro di Lespagnard con una sola espressione: è uno stilista dall’imma-ginario barocco, che riesce a fondere i riferimenti più disparati, dallo sport alla cultura po-polare, fino alla musica classica. La mostra di Parigi prende spunto e nome dalla collezione primavera/estate 2014, Till We Drop: un percorso che esplora i paradisi artificiali del Messico, come l’Hotel Riviera Maya con i suoi turisti e i colori sgargianti. Una rassegna che svela ai visitatori il mondo colorato ed eccentrico di questo giovane talento e il suo processo creativo attraverso disegni e visual della sua instancabile immaginazione. Filo conduttore è lo spicca-to sense of humour, un’ironia fantasiosa che percorre tutte le sue creazioni.

www.jeanpaullespagnard.com

73MODA

di MATTEO CREMONESI

Un’immersione nei luoghi più oscuri della Rete. Tra passioni, ossessioni e ricerca dell’infinito. Giovani segregati in piccole stanze, da soli di fronte a un computer, circondati solo dai detriti della propria personalità. Un videoclip firmato dall’artista canadese Jon Rafman racconta la vertigine di chi è sempre connesso.

FISSANDO L’ETERNITÀ

Dal punto di vista tecnico, Still Life (betamale) non è un progetto web-based, ma un semplice vi-deoclip realizzato per il lancio di un brano estratto dall’ultimo disco di un musicista sperimentale di Brooklyn. Eppure questo video tratta una serie di questioni profondamente legate al web, o meglio, a uno stile di vita in cui il web ha un ruolo centrale, totalizzante. Un fenomeno i cui protagonisti vengono chiamati Neet o con il termine giapponese hikikomori. Giovani dominati da un sentimento di inettitudine che scelgono di trascorrere le vita rin-chiusi nella propria stanza, incollati a un monitor, perennemente attivi online ma completamente asociali e incapaci di sostenere rapporti interpersonali dal vivo, di avere una vita staccata dalla tastiera del computer. Il tema è posto al centro dell’attenzione fin dalla scelta del titolo, in cui il termine still life evoca un soggetto inerte, immobile e privo di vita quale è quello della natura morta. L’espressione betamale rimanda invece a un genere di uomo con un deficit di carisma e forza fisica, incapace di imporsi nella società e per questo rassegnato e privo di iniziativa, l’opposto insomma del maschio alpha. Il video realizzato da Jon Rafman per la musica di Daniel Lopatin aka Oneohtrix Point Never è un lavoro di incredibile intensità, sia concettuale che emotiva, in grado di suggerire in modo estre-

74 NEW MEDIA

LABORATORI

Per un’organizzazione non profit, opera-re in Italia può essere molto difficile; farlo con una mission focalizzata sulla ricer-ca, la cooperazione e l’esplorazione del rapporto tra arte e nuove tecnologie può esserlo ancora di più; farlo nel contesto socio-economico che chiamiamo Mezzo-giorno può rendere la missione impossi-bile. Sudlab lo fa, da circa quattro anni, dal suo grande e ben attrezzato spazio di Portici, grazie all’impegno del suo presi-dente Antonio Perna, di un piccolo staff e di numerose collaborazioni esterne. Molte le operazioni al suo attivo, fra cui nume-rosi workshop, residenze d’artista - come quella che, tra luglio e novembre 2013, ha ospitato l’australiano Alexander Jackson Wyatt e la polacca Paulina Semkowicz -, progetti per il territorio, produzioni - come l’installazione audiovisiva The Decelerator, presentata a dicembre - e collaborazioni prestigiose, dalla University of Design, Media and Arts di Karlsruhe all’Interna-tional Design Festival di Berlino, a Iain Chambers, che nel 2011 ha curato il seminario Mediterraneo | Migrazione | Musica, coinvolgendo personalità tra cui Anri Sala. A gennaio Sudlab presenta Tactical Glitches, una mostra sull’uso creativo degli errori di visualizzazio-ne nelle tecnologie digitali: un uso tattico, e non solo estetico, in cui l’errore è sfruttato come potente demistificatore di contenuti, piattaforme (come nel lavoro di Glitchr, che interviene sull’interfaccia funzionale di Facebook [nella foto]), dispositivi e false aspettative. L’evento è curato dall’olandese Rosa Menkman e dall’americano Nick Briz, artisti e animatori del festival itinerante GLI.TC/H.

www.sudlab.com

SURFING BITS

Uno degli aspetti più discussi dell’arte di-gitale è, da sempre, il suo statuto immate-riale. Il dibattito si fa ancora più acceso nel caso della Net Art, il più delle volte pensata per essere fruita esclusivamente tramite Internet, una scelta che crea non pochi problemi al mercato dell’arte, legato per tradizione all’oggetto fisico, meglio ancora se a tiratura limitata. Una risposta sarcastica viene dal francese Fabien Mousse, che ha deciso di fare arte “con” Internet e non “per” Internet. Tramite il suo sito web è infatti possibile acquista-re un piccolo computer di gommapiuma su cui campeggia la scritta “Real Internet Art”, al modico prezzo di 30 euro. L’oggetto, già ironico di per sé, arriva a casa in una sca-tola di cartone, avvolto in tanti riccioli di polistirolo e accompagnato da un regolare certificato di autenticità, come ogni opera d’arte che si rispetti. L’artista, poi, invita gli acquirenti a filmare il mo-mento dell’apertura del pacco, secondo una tradizione specifica della Rete e molto cara agli utenti di You Tube, l’unboxing, che consiste nell’aprire di fronte alla telecamera i propri gadget preferiti, per immortalare il momento più emozionante e condividerlo con gli altri appassionati. Sul sito ci sono già numerosi video che mostrano l’apertura della scatola, molti dei quali realizzati da artisti e curatori appassionati di Net Art e Post Internet Art (categoria usata per definire un multiforme movimento di artisti influenzati dalla cultura della Rete, ma non necessariamente attivi soltanto nell’ambiente immateriale del web). Secondo le dichiarazioni dell’artista, il progetto non soltanto ironizza sui tanti tentativi, più o meno riusciti, di “materializzare” e commercializzare la Net Art, ma se la prende anche con la Net Art più frivola (quella delle “eye-candy web pages”, come la definisce Mousse) che sotto una finta patina con-cettuale nasconde invece un approccio decisamente superficiale. Una rinnovata invettiva di stampo duchampiano contro l’arte retinica, aggiornata ai tempi della Rete.

www.fabien-mousse.fr

mamente puntuale una tragica condizione esistenziale, immergendosi completamente nel contesto che intende descrivere ed evocando un immaginario visivo precisissimo. Così immagini che ritraggono stanze e postazioni da computer si mescolano e sovrappongono a scene surreali e di finzione. Una sequenza di fotografie ci mostra tastiere ricolme di sporci-zia e avanzi al centro di stanze invase da rifiuti di ogni genere, schermi circondati da conte-nitori per cibo a domicilio, cumuli di lattine e bottiglie di birra. Oppure, all’opposto, tuguri vuoti e desolati dove tra quattro mura spoglie e ammuffite campeggiano unicamente sofisti-cate quanto improbabili strutture di materassi e monitor. Immagini di una vita passata di fronte a un computer, segretata e insalubre, alle quali si alternano senza soluzione di con-tinuità scene chiaramente riferibili al mondo digitale frequentato da queste persone, altret-tanto estremo e perverso. Ciò che ne risulta è la descrizione di un humus sociale e culturale in cui è ormai impossibile, e forse inutile, cercare di stabilire quale sia la causa e quale l’effetto. Un ruolo da protagoniste è riservato a scene chiaramente riconducibili al mondo hentai, genere di anime giapponesi dal carattere fortemente pornogra-fico con risvolti di masochi-smo, violenza, omicidi e sui-cidi. Ad essi si alternano video a soggetto furry in cui persone reali indossano costumi da animali antropomorfi. Emblematico in questo senso è un video mostrato a più riprese in cui una persona che indossa un costume da volpe sprofonda lentamente ma inesorabilmente nel-le sabbie mobili. La scena acquista un valore simbolico estremamente forte, rimanendo ben impressa nella mente proprio perché capace di riassumere meglio di ogni altra immagine una condizione non solo fisica ma anche esi-stenziale. In questo scenario risulta evidente il riferimento al mondo di 4chan, luogo della rete che ha offerto uno spazio di scambio e di ritrovo agli utenti interessati in questo genere di contenuti, contribuendo così al formarsi di una vera e propria comunità di riferimento. Non a caso i due artisti hanno deciso di pub-blicare questo lavoro direttamente su 4chan.org, ritenendolo il luogo naturale per il lancio del video.Il finale è caratterizzato da una breve sequenza hentai in cui in primo piano campeggiano le gambe divaricate e nude di una donna, una mano ne sposta le mutandine dietro le quali si cela un intero universo che permette al nostro sguardo di perdersi e sprofondare verso l’infi-nito. Il video si conclude quindi proponendo una scena che ancora una volta evoca l’irri-solvibile contraddizione di una auto-imposta segregazione fisica vissuta nell’illusione di poter godere di una finestra attraverso la quale affacciarsi su un mondo infinito e senza tempo. Una suggestione che ci fa risuonare in testa l’interrogativo con il quale il brano si era aperto e che torna più volte come una sorta di refrain: mentre non si riesce a distogliere lo sguardo dallo schermo di un computer, è pos-sibile convincersi che si stia guardando verso l’eternità?

di DOMENICO QUARANTA

di VALENTINA TANNI

MEZZOGIORNO TATTICO

SCARTANDO LA NET ART

75NEW MEDIA

Prendendo spunto da due interventi di Louis Bourgeois, proviamo a ragionare su una domanda che molti - specie in ambito formativo - considerano scontata nella sua risposta. Se la retorica del genio romantico è priva di fondamenti, come si può trasmettere l’esigenza di una espressione creativa?

In un breve ma incisivo intervento degli anni Novanta, Insegnare l’arte, Louis Bourgeois – artista tra le più eleganti del secondo Novecento [nella foto di Jeremy Pollard] – affronta la problematica scottante dell’educazione per evidenziare, con durezza e intransigenza, l’impossibilità di insegnare a diventare artisti. L’artista ha un Talento innato (1994), avvisa Bourgeois, “come lo si può insegnare? Non è possibile diventare artisti, si può solo accettare o rifiutare questo dono. Non è un mio potere, né è mia respon-sabilità, o tanto meno mia intenzione, perseguire l’impossibile obiettivo di insegnare a qualcuno a diventare artista”. Del resto, soltanto “l’opera può insegnare qual-cosa, non l’artista” (“un buon numero di artisti sono molto stupidi”). Anche perché, sono sempre parole di Bourgeois, “nascere artisti è” solo ed esclusivamente “un privilegio”, “una maledizione”, una sensibilità, una gentilezza (Gentilezza è la disciplina che Heinrich Böll propone di insegnare nel progetto beuysiano di Li-bera Università Internazionale per la creatività e la ricerca interdisciplinare), una raffinatezza interiore.“Penso che la brama rabbiosa di capire”, avverte Bourgeois, “derivi dal fatto che si sbaglia la domanda. Non troverai mai la risposta giusta se la domanda è impropria: è come provare ad aprire una porta con la chiave sba-gliata. Non c’è niente che non vada nella chiave e tanto meno nella porta. Ci sono domande cui è troppo doloroso

SI PUÒ INSEGNARE A DIVENTARE ARTISTI?

di ANTONELLO TOLVE

76 EDUCATIONAL

LETTERE DA UNA PROF

Questa lettera è indirizzata a tutti gli studenti: a chi ha occupato, a chi è stato in autogestione e a chi faceva regolarmente lezione.

Cari studenti,il periodo che precede le vacanze di Natale, si sa, è un momen-to particolare dell’anno scolastico, perché da anni coincide con le occupazioni delle scuole o con le autogestioni. Come ogni anno, mi confronto con voi cercando di non esprimere giudizi e dicendo a me stessa che quello che conta è la vostra intenzione di cambiamento e partecipazione, che nella maggior parte dei casi è sincera, anche se apparentemente sembra che tutto si ripeta uguale: cambiano i volti ma non le situazioni, gli intenti, i contenuti. Credo fermamente che questi momenti di confusione e prote-sta siano l’occasione per riflettere sui principi di democrazia e condivisione che dovrebbero regolare le attività all’interno della comunità scolastica, dove vivete gran parte della giornata. Quando finirete la scuola sarà difficile ritrovare occasioni simili, quindi è bene farlo ora. Avete spesso chiesto la mia opinione a riguardo e vi ho risposto che credo nell’autogestione, anzi sogno una scuola autogestita da coloro che ne sono protagonisti. Mi avete guardato con meraviglia e allora la fantasia ci ha preso la mano, abbiamo iniziato a immaginare come sarebbe la vostra scuola, abbiamo sti-lato un progetto ed ecco i risultati: sicuramente sarebbe obbligatorio lo studio delle materie di indirizzo, tre lingue straniere e la lingua italiana. Tutte le altre materie a scelta; alcuni di voi vorrebbero fare teatro - naturalmente in lingua straniera, dato che frequentate un liceo linguistico -, altri invece preferirebbero studiare cinema, altri ancora seguire un corso di poesia o un corso di musica, filosofia e tante ancora. Era meraviglioso vedere come nelle vostre voci si accendeva l’entusiasmo per un progetto che era frutto delle vostre menti. Abolireste i compiti a casa perché diventerebbero attività pomeridiane da svolgersi a scuola insieme ai professori. Vorreste invitare a parlare delle persone esterne che potrebbero trattare ar-gomenti che normalmente non fanno parte del curriculum ma che ritenete altrettanto importanti per apri-re un dialogo con la realtà esterna. Metodologicamente lavorereste in gruppi e in assetto laboratoriale. Personalmente ho sottolineato l’importanza di avviare dei workshop con artisti che possono aiutarvi a sviluppare le vostre attitudini e le vostre potenzialità creative. E sicuramente sarebbero aboliti le inter-rogazioni e i giudizi: ogni studente sarebbe responsabile del proprio percorso di formazione. Il ruolo dei docenti non sarebbe più quello di giudicare e valutare ma di educare e accompagnarvi lungo il cammi-no. A fine anno ognuno di voi, insieme ai docenti e agli altri studenti, sarebbe in grado di quantificare la maturazione raggiunta e le conoscenze acquisite. Al posto delle bocciature ci sarebbero dei corsi di recupero e potenziamento. Dopo l’elaborazione di questa fantastica rivoluzione, eravamo tutti consapevoli che era solo un sogno, ma ci sentivamo bene perché avevamo esercitato la libertà di pensiero. Non è forse così che si inizia a cambiare il mondo?

RETI DIDATTICHE

AUTUNNO AUTOGESTITO

RAI EDU E LA CACCIA AL TESORO

di MARIA ROSA SOSSAI

di ADELE CAPPELLI

rispondere. E altre ancora cui è impossibile ri-spondere”. È impossibile, dunque, rispondere a una domanda generica e banale (è possibile insegnare a diventare artisti?) che perde di vista alcuni nuclei, di natura intellettuale e mate-riale, legati all’apprendimento, alla pratica, alla produzione. A tre modalità – tanto essenziali quanto diffuse della relazione con ogni attività umana – che permettono di dominare e gover-nare le procedure e i metodi che possiamo in seguito applicare.A distanza di tempo, ammorbidendo il tiro e ripensando alle proprie riflessioni sulla condi-zione interiore dell’artista, Bourgeois esprime un nuovo concetto legato, questa volta, non solo alla creatività umana in generale, ma anche – e soprattutto – al fare, all’agire, all’at-tività manuale. A una manualità mentale, più precisamente. Il “fare è”, rileva Bourgeois, “uno stato attivo”, una “affermazione positiva” che permette, attraverso l’esercizio continuo (e la continua verifica degli strumenti dell’arte), di raggiungere vette tecniche, controlli utili a modellare la materia del mondo per procedere “verso uno scopo o una speranza o un desiderio”. Detto in altri termini, l’artista, in quanto educatore, può offrire un beneficio di natura essenzialmente pratica e teorica. Può fornire all’allievo un orientamento fra le tecniche e i materiali dell’arte. Può trasmettere nozioni utili a costruire e raffinare un gusto, a erigere un’armatura in grado di parare i colpi dei fattoidi e a spingere lo sguardo verso i sentieri limpidi della veritas. Quello che si può fare è, allora, per Bourgeois, trasmettere la disciplina progettuale (l’elasticità del politecnicismo), la consapevolezza della direzione, la determi-nazione della posizione, la propensione, la tendenza, l’attitudine che si fa forma. E al-lenare lo studente (lo studente che sceglie una scuola d’arte), infine, a un sapere metodologico che sia, prima di tutto, saper collocare se stesso e il proprio lavoro nel mondo. A questo stesso discorso, da un’angolazione simile, Yves Michaud ha dedicato, nel 1993, proprio nel bel mezzo della sua direzione alla Académie Nationale Supérieure des Beaux Art de Paris (1989-1996), una serie di analyses et réflexions sur les écoles d’art per orientare lo studente nell’olimpo dei linguaggi artistici e avanzare l’idea di concepire una scuola (“de-stinata a formare artisti”) aperta a una serie di percorsi in cui pratica e teoria, appunto, compartecipano alla creazione di una riforma che mira a “sostenere il ritmo dei cambiamenti”, a costruire una formazione permanente e conti-nua, a riprendere in mano le funzioni primarie dell’educazione per ritornare alle tecniche, alle abilità pratiche, alle conoscenze mentali e manuali. A un viale progettuale che è, per Michaud (al quale dedicheremo il prossimo appuntamento), il primum movens dal quale nuovamente partire per rifondare, nel migliore dei modi, lo spazio scolastico legato all’arte.

L’arte in Rai TV fece il suo ingresso con una puntata su Giambattista Tiepolo il 13 aprile del 1954, nel programma Avventure dell’Arte, con una sintassi specifica per divulga-re contenuti complessi. Negli Anni Settanta, poi, l’ingresso delle telecamere negli studi degli artisti viventi. Sul sito Rai Edu Arte&Design - bisogna cercare con un po’ di pazienza - qualche piccola rarità tirata fuori dalle Teche Rai e dagli archivi video dell’epoca fa riflettere sulla qualità sperimentale del servizio culturale di allora. Sulla homepage è possibile trovare notizie su eventi e mostre, un po’ per tutti i gusti, con focus su quanto c’è da vedere in alcuni musei italiani, con un occhio anche al design e all’ar-chitettura. Le informazioni, sempre accompagnate da brevi video, evidenziano le tipologie delle mostre sottolineando i temi con interventi di curatori, direttori dei musei e persona-lità note nei diversi settori della cultura, non solo artistica. Tra l’omaggio agli ottantuno anni di Giosetta Fioroni e i disegni di Vanvitelli, della collezione della Biblioteca Nazionale di Roma, scorrendo tra le pa-gine, sotto la voce artisti, è possibile imbattersi nelle azioni di Jan Fabre come anche, attraverso rimandi alla letteratura, nei racconti di Andrea Zanzotto, in una intervista tratta dagli archivi di Rai Educational. Così, seppur tra filmati non sempre interessanti, escono piccoli, rari e preziosi documenti, stralci d’in-terviste di qualche decina di anni fa ad artisti oggi celeberrimi. Fra gli “artisti al lavoro”, Burri nel suo studio tra fuoco e plastica, tratto da Burri: la plastica diventa arte. Sempre dagli archivi Rai, un filmato del 1981 tratto da Variety, in cui Warhol e Beuys con Lucio Amelio mostrano la loro Napoli come New York tra pescatori e mercatini. Come in una caccia al tesoro, nella sezione autoritratti si scova un imbronciato de Chirico che, nel 1973, si presta a rispondere alle domande senza alzare lo sguardo dall’opera alla quale sta lavorando; e poi ecco Banksy, De Dominicis e pure Enrico Castellani in una vecchia intervista realizzata per la serie Il filo del lavoro: pittori e scultori italiani; o ancora il punto di vista di Mario Merz sui linguaggi artistici degli Anni Settanta. La storia ancora nelle parole di Leo Castelli e nell’incontro-documentato, in un video del 1992-93, tra il gallerista e Roy Lichtenstein nello studio dell’artista [nella foto di Ugo Mulas: Roy Lichtenstein e Leo Castelli nella sala di Lichtenstein alla Biennale di Venezia nel 1966 - © Eredi Mulas]. Nella se-zione universi, al capitolo videoarte, notizie e filmati da Nam June Paik a Kutlug Ataman.

www.arte.rai.it

77EDUCATIONAL

Che libri hai letto di recente e che musica ascolti?Mal d’Archivio di Derrida, L’amicizia di Bataille, Nudi e crudi di Bennett. Sono legato ai Velvet Underground, agli sviluppi da solisti di Nico e Lou Reed, alla scena di Manchester di fine Anni Settanta.

I luoghi che ti affascinano.Gli interni abitati.

Le pellicole più amate.L’Angelo sterminatore di Buñuel, Il posto di Olmi, Mysterious Skin di Araky.

Artisti guida. Walter De Maria, Félix González-Torres e Franco Vaccari.

Residenze, workshop, collaborazioni con spazi non profit o realtà edi-toriali, persino uno stage a dOCUMENTA (13). Cosa ti è rimasto?Tanto materiale e una RAM da formattare.

Affermi che la tua ricerca si sviluppa in una dinamica di tensione fra contesto socio-ambientale e medium utilizzato e che produci oggetti

Romano, classe 1988, triennio all’Accademia di Belle Arti di Roma e biennio specialistico alla NABA di Milano, Jacopo Rinaldi nel suo curriculum vanta residenze, workshop e collaborazioni con pubblicazioni e spazi non profit. Un percorso nell’approfondimento delle pratiche installative e curatoriali che l’ha portato a impiegare tanti mezzi senza privilegiarne alcuno. L’urgenza è captare il rapporto che quegli stessi mezzi instaurano col contesto sociale e ambientale. L’opera per lui non è un oggetto statico, ma un attivatore di connessioni, un “luogo” d’indagine.

JACOPO RINALDIdi DANIELE PERRA

incompleti, tracce o frammenti soggetti a una dipendenza dinamica con lo spazio (a volte il fuori campo) e la soggettività. Si tratta di un patteggiamento o di un compromesso. Ho l’impressione che i miei lavori più efficaci siano quelli in cui il mio intervento è minimo. Credo si tratti di una forma di pigrizia, ma permette ai lavori di adattarsi al contesto e di funzionare fuori dalla mia guida.

Non prediligi alcun mezzo. Impieghi con disinvoltura fotografia, vi-deo, disegno, cartografia, Google Street View e dispositivi vari, come i light meter che si trovano nelle chiese per illuminare a comando i capolavori. C’è qualche elemento che accomuna tutti questi mezzi?Non credo esista un elemento strutturale che accomuni diversi media. L’elemento comune è il contesto mediale. La mia ricerca è tesa a far con-vergere mezzi differenti e mi permette di lavorare sulle caratteristiche, sul-le funzioni, e sulla politica di un mezzo in un ambito intermediale. Per questo mi capita di utilizzare la fotografia per la registrazione sonora o di lavorare sullo statuto di un documento attraverso un mezzo ambiguo come il disegno.

La memoria sembra avere un ruolo rilevante, sia quella storica e collet-

78 TALENTI

tiva sia quella riferita al tuo vissuto personale. Penso all’opera ispirata a Fabio Mauri o al video scaturito dalla tua residenza alla Fondazione Spinola Banna.Il lavoro su Mauri è forse un contatto tra queste due memorie, sog-gettiva e collettiva. Il progetto è nato dal dialogo con Lara Vinca Masini. In questo periodo sta mettendo mano ai documenti raccolti nella sua vita in previsione della futura donazione del suo archivio. È stato quasi inevitabile che il lavoro riguardasse la memoria e il suo racconto. Con il video di Spinola Banna la memoria aveva un peso molto diverso: riguardava l’esperienza comune di residenza in un arco temporale ristretto. Attraverso questi lavori mi sono reso conto che il mio interesse non riguarda l’atto affermativo della memoria, ma la relativa produzione di uno scarto, o di un rimosso.

Oltre a Mauri, ti sei anche ispirato a un’opera del 1968 di Bruce Nauman. Si tratta di un ibrido tra la chiocciola di Internet e una “A” anar-chica, cerchiata. Il titolo è preso dall’insegna a spirale di Nauman, posta fra la strada e lo spazio del suo atelier. Mi interessa indagare la dimensione contemporanea di spazio pubblico, online e offline.

Utilizzando Google Street View hai lavorato sulla città di Vene-zia, cercando di mostrare i potenziali limiti della cartografia. In che modo?Quei limiti sono stati superati con una recente operazione di Go-ogle. La mappatura Street View avviene su gomma e la percorri-bilità virtuale di Venezia ha avuto un ritardo di sei anni. Il mio lavoro, Venezia in abisso, traeva origine dalla resistenza della città a una scansione Street View. Il fuoricampo prodotto da Google mi ha permesso di lavorare sui limiti informatici e sulle relazioni tra i centri e le periferie urbane.

Sei particolarmente legato a un lavoro fotografico che ruota in-torno a Lee Miller, scattata da Man Ray durante la loro relazio-ne. Cosa lo rende speciale?Una scoperta: quella di un riflesso sulla sinistra della pupilla di Lee Miller che si ripete in otto fotografie frontali scattate da Man Ray nell’arco di tre anni. Ho sovrapposto questi otto ritratti utilizzando il riflesso come un cardine, un centro che si ripete mentre intorno tutto cambia.

Com’è nata l’immagine inedita per la copertina di questo numero?Dal sopralluogo per un mio prossimo lavoro sull’archivio di Harald Szeemann.

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ULTIME DA VIAFARINI DOCVA a cura di SIMONE FRANGI

RACHELE MAISTRELLONata a Vittorio Veneto nel 1986, vive a Venezia

Nuovi usi per vecchie forme. Le strategie dello scatto posato e del ritratto come catalizzatori e occasioni di conoscenza per radunare un immagi-nario trasversale parcellizzato negli individui. Alle battute finali della residenza annuale alla Bevilac-qua La Masa, Rachele Maistrello piega il pretesto fotografico alle sue implicazioni relazionali e co-munitarie.

Mafalda nell’ufficio dell’amministratore delegato, 2013 inkjet print, cm 155x110courtesy l’artista e coll. Stonefly

PASQUALE GADALETANato a Ruvo di Puglia nel 1988, vive a Milano

Quattro mesi di studi condivisi a Viafarini e una vocazione pittorica gemmante portata a esplo-sione. Grandi dimensioni, quadri lavorati per layer, secondo un procedimento di ritocco e dettagliatura potenzialmente infinito. In bilico tra l’esercizio ossessivo e la realtà immersiva, Gadaleta riadatta in versione “acida” una pittura atmosferica quasi turneriana e il puro piacere del colore.

Olio su tela, 2013 (dettaglio)olio su carta, cm 500x360

NOW

Uno spazio polifunzionale aperto a qualsia-si forma di espressione, un habitat prezioso che esplora le relazioni (e le interconnessioni) tra i vari linguaggi dell’arte, una palestra che muove dal desiderio di dare spazio al nuovo, di costruire un discorso visivo, un intervento estetico (ed etico) di ampio respiro. Nata a To-rino nell’ottobre 2011 con la personale di Gior-gio Cacciatori (classe 1984), la Galleria Moitre (un’area di 130 mq, di cui 110 riservati alla se-zione espositiva) si presenta come un luogo luminoso e vivace, disponibile a gusti diversi e aperta a un pubblico attivo della cultura. Dinamica e piacevolmente versatile, la Galleria propone nei suoi ambienti – grazie a uno staff composto da Alessio Moitre (diretto-re), Viola Invernizzi (curatore), Elisa Campanella (collaboratore) e Marzia Ianniello (collaboratore) – un modello culturale volto a costruire sinergie con il territorio, a edificare passerelle, a creare rapporti di partecipazione con i poli culturali del Pie-monte. Dopo l’esperienza di Zefiro (un progetto d’arte contemporanea che spinge la creatività al di là dei luoghi deputati) e accanto a un personale viaggio nel mondo della letteratura, Alessio Moitre mette in campo, così, un nuovo arsenale di idee, un brano vincente che tende a lavorare su un presente pulsante, su una serie di temi che intrecciano il mondo della vita a quello dell’arte del XXI secolo.Con uno sguardo che setaccia le manovre creative di artisti nati negli Anni Ottanta, la galleria propone, infatti, una scuderia formata da giovani e giovanissime figure dell’arte – Alessandro Gioiello (Savigliano, 1982), Anna Ippolito (Torino, 1984), Art-siom Parchynski (Polotsk, 1985), Chen Li (Beijing, 1988), Cristina Marasini (Bre-scia, 1989) ed Eleni Kolliopoulou (Atene, 1980) – che rappresentano il nucleo di un discorso in progress volto a descrivere il paesaggio attuale attraverso alcune delle sue presenze più vitali. Accanto al palinsesto di mostre – tra queste vale la pena ricordare Nina’s Drag Queen School di Valentina Bianchi (2011), Ogni anno le foglie cadono dall’albero per-ché l’infinito non può conoscere sé stesso di Artsiom Parchynski (2012) e la collettiva Altre Visioni (2013) disegnata dalle opere di Roberto Fanari, Anna Ippolito, Alice Musi, Ilenia Spanò e Nadir Valente – una serie di incontri vivacizzano, dal 2012, il percorso della galleria per puntare l’indice su una nuova repubblica delle arti, su un carattere che attraversa le ultime tendenze e lo stato attuale delle cose. L’arte è una cosa strana, giunto al terzo appuntamento, rappresenta uno dei grumi di questo lavoro che, grazie a una passione positiva, mira a coniugare l’arte con la necessaria riflessione sull’oggi.

di ANTONELLO TOLVE

ALESSIO MOITRETORINO

Via Santa Giulia 37bis - Torino340 [email protected]

MATTEO MAINONato a Seriate nel 1990, vive a Bergamo

Recluta di Academy Awards 2013, Matteo Maino cerca di trovare il giusto bilanciamento tra principi fisici, dispositivi installativi e intuizioni scenogra-fiche. Mediando tra rigore scultoreo e storytelling scientifico, in un’ottica produttiva che sfiora il Mi-nimalismo e una giusta economia di mezzi, il suo lavoro svela sottilmente contenuti extra-artistici densi e vene di ricerca sottopelle.

Danza. Prosciuga. Collidi, 2013schermi in tessuto nero, proiettore, dati, cm 30x90

79TALENTI

a cura di ANGELA MADESANI

THE COOL COUPLE

The Cool Couple è il duo fondato dai veneti Niccolò Be-netton (1986) e Simone Santilli (1987) nel novembre 2012. Entrambi hanno frequentato il Master in Fotografia di For-ma a Milano, in seguito al quale hanno deciso di unire le proprie ricerche individuali, che nascono da percorsi di ma-trice semiotica e filosofica. Gli elementi centrali della loro produzione derivano da una doppia riflessione sul linguaggio dei dispositivi audiovisivi e sulla cultura visuale, intesa nel rapporto quotidiano delle persone con le forme di rappresentazione. Lo sviluppo dei progetti di The Cool Couple prende av-vio da un’attenta e cospicua fase di ricerca, alla quale se-gue un’indagine sui codici che si prestano a formalizzarne il contenuto. Unendo registri e tecniche diverse, si muovono lungo il confine tra le eredità storiche e i temi caldi dell’oggi.

in questa pagina in alto

Approximation to the West, Senza titolo, Arta Terme #003, 2013stampa a pigmenti su carta fine art, cm 110x220

a sinistraApproximation to the West, Senza titolo #3D, 2013

stampa a pigmenti su carta fine art, cm 25x40

a destraApproximation to the West, Sella cosacca, Arta Terme #001, 2013

stampa a pigmenti su carta fine art, cm 130x110

80 FOTOGRAFIA

81FOTOGRAFIA

di MARTINA LIVERANI

Migliaia di persone arrivano da tutta l’Asia per trascorrere nove giorni a Phuket. Numeri simili a New York e Toronto, e gli esempi potrebbe continuare a lungo. Parliamo non di concerti né eventi sportivi, bensì di festival meat free. Perché ora essere vegetariani - e magari pure vegani - è diventato cool. Se non ci credete, chiedetelo a Beyoncé.

Da quando il cibo è diventato lifestyle, anche i vegetariani non sono più quelli di una volta. Fino a qualche anno fa, trovare nel gruppo di amici a cena un vegetariano era cosa talmente rara ed esotica che veniva spontaneo chiedere spiegazioni sulla sua scelta di vita al soggetto in questione che immancabil-mente si dilungava con interessanti provocazioni, simpatici tentativi di proselitismo, scatenando un friz-zante dibattito. Oggi, in un gruppo è quasi scontato che vi sia almeno un vegetariano. Secondo i dati Eurispes, infatti, i vegetariani in Italia nel 2013 erano il 4,9% della popolazione, mentre la percentuale dei vegani si attestava intorno all’1,1. Sei italiani su 100, quindi, non mangiano carne, quasi il doppio rispetto al 2012, quando la somma di vegetariani e vegani arrivava al 3,1% della popolazione. Si tratta perlopiù di donne (70%), da sempre più sensibili ai temi etici e ambientali, e sostanzialmente giovani, tra i 24 e i 35 anni. E se qualche anno fa te li immaginavi tutti fricchettoni e alternativi (persone fuori dal tempo, insom-ma), oggi essere vegetariani è cool. Anzi, è hipster. Non che sia una moda, perlomeno non solo, ma sicuramente è un’espressione del contemporaneo, non certo dell’essere fuori dal mondo. Basta farsi un

VEGETARIANO CONTEMPORANEO

82 BUONVIVERE

CONCIERGE

Nel cuore della campagna siciliana, gli architetti Antonio Iraci e Carla Maugeri hanno trasforma-to un’antica magione - che appartiene alla fami-glia di Carla dagli Anni Trenta - in un raffinato boutique hotel, già insignito del Premio Interna-zionale Ischia di Architettura e del Premio del Touring Club Stanze Italiane nel settembre 2013.Situato fra il vulcano Etna, che fa da sfondo, e lo splendore del mar Ionio, Zash è un buen retiro in cui la tradizione colonica della casa convive perfettamente con l’intervento di recupero, che ha trasformato la destinazione d’uso di alcuni degli ambienti antichi e che ha “aperto” ampie vetrate sulla facciata dell’edificio principale.Delle nove stanze, quattro sono situate all’inter-no della casa, tre negli spazi austeri della can-tina, dove un tempo si conservava il vino, e due - completamente vetrate - offrono agli ospiti la bellezza inattesa di risvegliarsi in mezzo a un agrumeto. La grand suite (100 mq, due camere da letto ognuna con il proprio bagno) è l’attico della casa colonica e affaccia sul Golfo di Taormina; la suite più piccola offre invece lo scorcio imponente del vulcano, replicato all’interno degli ambienti da un sapiente gioco di specchi. Gli arredi sono ovunque essenziali: pochi pezzi scelti del grande design italiano, doghe in legno di rovere per i pavimenti, rivestimenti in pietra lavica - il materiale locale per eccellenza - spezzano il candore minimale degli ambienti.Tra le facilities: piscina e area fitness in mezzo alla natura, spazio per meeting ed eventi, una spa in prossi-ma apertura, il giardino circostante con le coltivazioni tipiche della zona (aranceti, oliveti e vigneti). E poi, il “cuore” Zash, lo spazio denominato palmento: dedicato un tempo alla pigiatura dell’uva, con enormi vasconi e travi monumentali, sembra essere rimasto intatto a dispetto del trascorrere del tempo. Adesso ospita il ristorante e il lounge bar. L’ambiente è austero, di grande suggestione, con la pietra scura, ancora grezza, a contrasto con gli arredi bianchi.

SERVIZIO AGGIUNTIVO

Quest’anno ne abbiamo parlato tantissimo di questo museo. Nei nostri approfondimenti su Marsi-glia (che ha approfittato della no-mina a Capitale Europea della Cul-tura 2013 per trasformare il suo lungomare in una mecca di nuove architetture), nella nostra lista dei “best of” del 2013 e in molte altre occasioni. Ma c’è una cosa a cui non abbiamo accennato riguar-do al Mucem nella seconda città francese: il ristorante. Anzi, detto più in generale, la ristorazione. Il museo non è grandissimo, ma l’offerta si modula in più formule, addirittura cinque. C’è il ristorante gourmet tovagliato e con cristalli, affacciato sul porto, nell’angolo dell’ultimo piano dell’edificio di Rudy Ricciotti; c’è il bistrot mediterraneo (ma anche il bar) nella parte antica della fortezza, con un bellissimo dehors; c’è il piccolo chiosco con panini e bibite al rez-de-chaussée al fianco delle biglietterie; e infine c’è la formula più curiosa: un autentico self service che scimmiotta la ristorazione veloce che noi diremmo “da Autogrill”, cercando di modularla con un approccio espresso e di qualità: cibo pronto solo apparentemente, in realtà elaborato subito dietro da una enorme cucina a vista. I contenuti? Rigorosamente imperniati su quelli del Museo delle Culture del Mediterraneo, dunque una cu-cina che definiremmo, semplificando, “fusion” e che mescola Francia, Mare Nostrum e suggestioni arabo-nordafricane. Il tutto (ma proprio tutto) sotto la supervisione di un unico chef: monsieur Gérald Passédat. Il quale, incidentalmente, ha anche, nella periferia chic di Marsiglia un ristorante tristellato dal nome La Petit Nice. Questo per dire che a Marsiglia hanno fatto le cose in grande e per gestire la ristorazione del nuovo importante museo hanno scelto lo chef più importante e riconosciuto della città. Risultato: le file ai ristoranti museali di Passédat sono superiori alle pur lunghe file alle biglietterie del museo.

L’ALBERGO NEL PALMENTO

MARSIGLIA CAPITALE DEL GUSTO

di MARIA CRISTINA BASTANTE

DI MASSIMILIANO TONELLI

Strada Provinciale 2/I-II n. 60 - Archi - Riposto (CT)095 [email protected] da 140 a 550 euro

1, esplanade du J4 - Marsigliawww.passedat.fr

giro in libreria per vedere quanti volumi di cucina vegetariana e vegana vengono pubblicati ogni anno; ma basta anche farsi un giro nelle food street delle capitali più ricettive per veder nascere proposte vege-tariane che allettano i palati anche degli onnivori (a Londra, per esempio, val la pena fermarsi a cena da Food for Thought a Covent Garden, dove sul menu variato ogni giorno si possono scegliere piatti vegetariani, vegani, wheat & gluten free). Vegetariano e ancor di più vegano sono un modo di essere, non solo di mangiare. Per questo motivo sono così frequentati gli eventi gastronomici off limit per i car-nivori, come il New York City Vegetarian Food Fest (al Metropolitan Pavilion l’1 e 2 marzo), il Vegetarian Food Festival di Toronto (che a settembre festeggerà il suo 30esimo compleanno) o il Vegetarian Festival di Phucket (nove giorni durante il nono mese lunare del calendario cinese, ovvero ottobre). Ed è così irresistibile esse-re (o dirsi) vegetariani che si accetta pure di farlo part-time, il lunedì per esempio. Il Meatless Monday, “lunedì senza carne”, è un movimento globale che annovera fra i propri testimonial/sostenitori anche l’ex-Beatles Paul McCartney e la figlia stilista Stella. La campagna dei lunedì senza carne è già diventata un potente movimento d’o-pinione nel mondo anglo-sassone, coinvolgendo star del calibro di Gwyneth Paltrow, Yoko Ono, Kevin Spacey, Twiggy, Vivienne Westwood, Bryan Adams, Alec Baldwin. Spostandoci nell’ambito strettamente gourmet, anche i grandi – grandissimi – chef pendono verso un futuro vegetale. René Redzepi (chef del ristorante Noma di Copenhagen) prevede una cucina del domani orientata a trattare i vegetali come alimenti preziosi che nulla hanno da invi-diare alle carni o ai pesci più pregiati. In un top restaurant come il suo, in effetti, l’80% delle materie prime utilizzate è di origine vegetale. E questa tendenza conta-gia gli chef più evoluti di tutto il mondo, sempre meno preoccupati di proporre ingredienti di lusso importati da Paesi lon-tani (prodotti resi ancor più preziosi dalla loro scarsità), i quali optano invece per cibi alla loro portata, magari coinvolgendo gli agricoltori locali e creando una cucina più personale e con una qualità unica. Valoriz-zare una carota tanto quanto una bistecca è dunque il pensiero della moderna cucina d’autore. Ma quel che fa davvero pensare che i ve-getali siano il cibo del momento, la moda del periodo, è una notizia tremendamente saliente per il nostro tema: Beyoncé e il fidanzato Jay Z [nella foto] hanno seguito una dieta vegana per 22 giorni, postando ogni pietanza mangiata su Instagram e coinvolgendo milioni di follower nella loro scelta alimentare. Qualcuno oltreoceano ha detto: “Veggie is the New Gangsta”. Ed è così che il vegetariano, da fricchettone alternativo, è diventato pop. Chi l’avrebbe mai detto…

83BUONVIVERE

di SANTA NASTRO

Non cercatelo solo per il mare e per la natura un po’ wild. Per chi ama la cultura, il Salento è una terra piena di sorprese. E di spazi indipendenti. Arte, teatro, cinema, musica e cibo gourmet sono i connotati di questo luogo ricco di imprevisti.

SALENTO INDIPENDENTE

Per chi ama le lunghe estati al mare, in luoghi selvaggi, su spiagge bianche e in acque coralline, il Salento è la terra ideale. Ma vi stupireste, invece, nell’apprendere che questo luogo, dal clima mite e dal territorio generoso, ha molto da offrire anche nel corso delle altre stagioni. Innanzitutto, grazie alla bellezza delle sue città più celebri: Lecce, culla di un Barocco mozzafiato, oggi soggetta a molte trasformazioni, anche in ambito culturale. O Brindisi, che Salvatore Morelli, scrittore e giornalista del XIX secolo, così descrisse: “Posto al termine dell’Italia signoreggia le azzurre acque Adrìatiche, le quali in varii seni dividendosi, formano dalla costa Orientale un porto illustre, per cui si rese favorita residenza de’ Romani e de’ Greci”. Lo dimostra la qualità dell’ospitalità, sia per il food sia per il pernottamento, che vi gratificherà se vi fermerete alla Masseria Torre Coccaro, a Savelleteri di Fasano, e alla gemella Torre Maizza: tradizione a 5 stelle con golf club, spa da capogiro, food a chilometro zero dello chef Vito Giannuzzi e, con l’arrivo della bella stagione, spiagge meravigliose. Per poi ripartire a caccia di luoghi dedicati all’arte, di iniziative di carattere culturale - dove la musica e il teatro la fanno da padroni -, nate innanzitutto dalla esigenza dei cittadini e dei numerosi turisti.

L’ALLOGGIOMasseria Torre CoccaroMasseria Torre MaizzaContrada Coccaro080 4829310080 4827838www.masseriatorrecoccaro.comwww.masseriatorremaizza.com

LA LETTERATURASalvatore MorelliMazziniano della prima ora, Morelli trascorse parecchi anni della sua vita nelle carceri borboniche. È ricordato innanzitutto per il suo precocissimo impegno contro la discriminazione di genere, simboleggiato dal saggio La donna e la scienza del 1861.

IL MUSEOMuStVia degli Ammirati 110832 682988www.mustlecce.it

IL FESTIVALSalento International Film Festivaldal 21 al 28 giugnowww.salentofilmfestival.com

savelleteridi fasano

san vitodei normanni

lecce

lequilegallipoli

tricase

brindisimesagne

francavillafontana

L’ASSOCIAZIONEManifatture Knos Via Vecchia Frigole 360832 394873www.manifattureknos.org

L’ASSOCIAZIONEKm97Via della Ferrandina 5329 6115941www.km97.it

L’ASSOCIAZIONEExFaddaVia Brindisi0831 986314www.exfadda.it

L’ASSOCIAZIONEAmmirato Culture HouseVia di Pettorano 3393 2785565www.ammiratoculturehouse.org

L’ASSOCIAZIONEDopolavoro Piazza Crispi 38www.facebook.com/pages/Dopolavoro/

L’ASSOCIAZIONESalento Sun Park Via Udine377 4418364www.facebook.com/salentofunpark

L’ASSOCIAZIONELiberal’arte Riviera Nazario Sauro 131a0833 261844www.liberalarte-gallipoli.it

L’ASSOCIAZIONEFabbrica Paladini Piazza Europa 2393 1504998www.facebook.com/fabbrica.paladini

L’ASSOCIAZIONEInpuntadipiedi Via per Villa Castelli392 9012460www.facebook.com/inpuntadipiedi.lab

84 PERCORSI

MO(N)STRE

La Puglia ha fatto molto, negli ulti-mi anni, per accreditarsi come meta turistica, con iniziative più o meno riuscite. Tra le seconde rientra la campagna We are in Puglia, che nell’estate del 2013 ha tappezzato stazioni della metro e fiancate di autobus delle capitali di mezza Eu-ropa. Sia per lo stile (colori saturi e luci artificiali) che per le situazioni scelte (improbabili pranzi fra i trul-li e festini in capanne sul mare), le fotografie non centrano l’obiettivo, anzi: danno l’idea di un mondo pla-sticoso, destinato a turisti poco cu-riosi, all’insegna del solito binomio sole e mare. Fortunatamente, lo sappiamo, la realtà pugliese è lontana da questa rappresentazione: un ter-ritorio autentico e (con poche eccezioni) non patinato, in cui è bello lanciarsi all’avventura, alla scoperta di tesori inaspettati. Un esempio per tutti: i marmi policromi di Ascoli Satriano, l’antica Ausculum, in provincia di Foggia. I motivi d’interesse di questo corredo funebre della seconda metà del IV secolo a.C. sono legati non solo alla sua eccezionale bellezza, ma anche alle vicen-de dei due reperti più importanti, dai complicati nomi di trapezophoros e podanipter: ovvero un sostegno di mensa e un bacino, illegalmente approdati al Getty Museum e nel 2007 restituiti all’Italia. Presentati in varie mostre a Roma e a Firenze nel corso del triennio successivo, i pezzi sono infine giunti alla loro sede definitiva, il polo museale della cittadina pugliese, in maniera simile a quanto accaduto ad altri capolavori restituiti dagli Usa o dal mare (la Venere di Morgantina, il Satiro danzante), sistemati, dopo un tour espositivo, in piccoli musei di provincia di cui costi-tuiscono il vanto principale. Certo, al Getty i marmi avrebbero beneficiato di ben altra visibilità; poca cosa, tuttavia, in confronto a una comunità che si ritrova e si stringe intorno ai suoi beni più preziosi e grazie ad essi organizza il racconto della sua storia millenaria.

L’ALTRO TURISMO

Non mancano le presenze istituzionali, come il MuSt - Museo Storico Città di Lecce, un pro-getto nato nel 2012, aperto al pubblico dopo un importante intervento di restauro per raccontare innanzitutto la storia della città e del suo territorio attraverso una notevole collezione archeologica. Ma anche per dialogare con il presente, ponendosi come centro culturale grazie a iniziative a-sinottiche, a cavallo tra più epoche. Ciò che però costituisce la nota più sorprendente di questo terri-torio ricchissimo sono le iniziative indipendenti, una rete fittissima di centri culturali spesso autogestiti e voluti proprio dagli artisti, alcuni dei quali nati grazie al programma regionale Bollenti Spiriti, che costrui-scono - talvolta di concerto - una trama vivacissima con una importante offerta culturale che si rivolge a tutti e continua per l’intero arco annuale. E so-prattutto dove si intersecano argomenti di carattere ambientale, sociale e culturale, con un’attenzione particolare al tema della formazione. A Brindisi, ad esempio, è di recentissima apertura Dopolavoro. Voluto dall’Associazione Cose su Cose nell’ex Cinema Universal, è dedicato all’arte, al sociale e alla formazione. Sempre qui nasce il più “storico” ExFadda. Creato da una cordata di orga-nizzazioni locali in un ex stabilimento enologico, è un vulcano di iniziative e progetti che riguardano inoltre il cibo sostenibile, che presto si evolverà in uno spazio food a chilometri zero, e la fotografia, con la realizzazione della divisione Xfoto. A Lecce, da non perdere è Manifatture Knos, negli splendidi spazi di una scuola di formazione per operai me-talmeccanici di proprietà della Provincia e oggi in gestione all’Associazione Culturale Sud Est, inserita in vasto network di spazi internazionali consimili e sede del Cineporto di Lecce promosso dalla Apulia Film Commission. Nella stessa città, inoltre, ci sono Km97, ex casello ferroviario, spazio espositivo, ar-chivio letterario, luogo per la musica; e Ammirato Culture House, nata nel 2012 coinvolgendo attori culturali del territorio, associazioni stesse, con l’in-tento - tra gli altri - di incrementare la progettazione condivisa, e avente sede in uno splendido palazzo della città, spesso residenza per artisti. E potremmo andare avanti ancora per molto, ci-tando il Salento Fun Park di Mesagne, museo a cielo aperto per tutti gli amanti della Street Art, Inpuntadipiedi, Laboratorio Urbano di Francavilla Fontana, Sum Project di Novoli (che ha sede al Km97), la Fabbrica Paladini di Lequile, Liberal’arte di Gallipoli e, in un percorso che fuoriesce (di poco) dai confini del Salento e arriva fino alla provincia di Taranto, il ThuLab a Palagiano, per la promozione degli artisti visivi emergenti. Se ancora non vi è bastato, non vi resta che aspetta-re giugno per il Salento International Film Festival, l’appuntamento per la diffusione e la conoscenza del cinema indipendente che si terrà a Tricase dal 21 al 28, ma che accompagna i visitatori verso la ma-nifestazione promuovendo regolarmente rassegne e appuntamenti. A fine gennaio, ad esempio, si parla del cinema asiatico, a febbraio del regista coreano Hong Sang-soo. Tra aprile e maggio si va invece a Hong Kong, all’Istituto Italiano di Cultura, per un festival che dura tutto l’anno e che porta il Salento nel mondo.

WE ARE IN AUSCULUM

PUGLIA: TUTTA UN’ALTRA STORIA

di FABRIZIO FEDERICI

di STEFANO MONTI

La Puglia è una regione che negli ultimi anni ha saputo reinventare se stessa, individuando nel turismo e nella cultura i fondamentali driver di sviluppo economico. E i risulta-ti non si sono fatti attendere. 3,2 milioni di arrivi e circa 13,5 milioni di presenze turistiche: sono le cifre ufficiali registrate dall’Osservatorio Regionale sul Turismo nel 2012. Ma non solo. L’ente non manca di por-re in evidenza un dato già noto ai più attenti osservatori: il progres-sivo diffondersi di una percezione positiva e l’aumento della notorietà della destinazione Puglia, sia pres-so il mercato italiano, sia presso quello internazionale. Il segreto del successo è tutto nella coralità del racconto del territorio che, con un’abile strategia, è stato orchestrato dall’Agenzia Puglia Promozione, soggetto isti-tuzionale deputato allo sviluppo e alla valorizzazione della destinazione pugliese. Svolgendo un’intensa attività di ascolto e coinvolgimento dei soggetti pubblici, degli enti territoriali, degli operatori turistici, delle associazioni e dei cittadini, invitati a partecipare attivamente alla defini-zione delle strategie di comunicazione, è stato intrapreso un interessante percorso di sviluppo turistico ed economico, in cui la messa in rete e la valorizzazione delle risorse umane e impren-ditoriali si è andata sempre più coniugando con quella del tangibile e dell’intangibile che rendono questa regione unica. Inoltre, l’apertura internazionale del dibattito sullo sviluppo regionale e la previsione di servizi di destination management a favore degli operatori locali intenzionati a guardare ai mercati esteri hanno consentito alla regione di acquisire terreno e notorietà anche fuori dall’Italia. L’identità forte di una popolazione dalle antiche tradizioni contadine, da fattore di potenziale chiusura è così divenuta un elemento di ricchezza da comunicare e condividere all’esterno e l’ospitalità dif-fusa delle masserie pugliesi il simbolo della volontà di accogliere il turista come in casa propria.

85PERCORSI

1.Park Hotel PacchiosiSiamo sulla rive gauche locale, l’Oltre-torrente. Qui ha aperto un cinque stelle extralusso che… ha sede in una ex strut-tura ospedaliera (dopo più di qualche restauro, ne siamo certi), la Reale Clini-ca Chirurgica. All’esterno, un parco da 10mila metri quadri, all’interno, gusto neo-rinascimentale. strada del quartiere 4www.parkhotelpacchiosi.it

2. Casa del FormaggioNemo propheta in patria. E allora qui i parmensi vengono ad acquistare olio salentino e prosciutto iberico, formaggi d’oltralpe e altri esotismi. Ma la gestio-ne femminile di questa boutique non si è lasciata trasportare troppo oltre. Se volete riempire la borsa di prosciutto e parmigiano, troverete di che sbizzarrirvi.strada nino bixio 1060521 230243

4.Il Castello dei BurattiniA Parma ha operato per tutto il Nove-cento la famiglia Ferrari, il cui capostipi-te Giordano ha raccolto per sessant’anni oltre 1.500 oggetti: marionette e copio-ni, foto di scena e manifesti. Un fondo che col tempo ha attratto donazioni consimili e che ha permesso di attivare anche un centro studi specializzato di alto profilo.via melloni 3awww.castellodeiburattini.it

3.Pilotta In poche centinaia di metri quadri, un distretto nel distretto. Con musei e mo-numenti come la Galleria Nazionale, il Teatro Farnese, la Biblioteca Palatina, il Museo Archeologico e il Museo Bodo-niano. Per fare indigestione di cultura, a Parma non è necessario sgranchirsi trop-po le gambe.piazza della pilottawww.gallerianazionaleparma.it

Gita a Parma ne ll’era PizzarottiAlla fine l’inceneritore l’hanno attivato, ma per ora il Parmigiano alla diossinaParma ha bisogno di rilustrare i propri gioielli. Che ci sono, eccome, e vanno

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PARCODUCALE

TEATROREGIO

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viale Vittoria

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Gita a Parma ne ll’era Pizzarotti

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5.Un_TypeÈ un hub di coworking, dove ci si occu-pa di grafica e si organizzano con regola-rità piccole mostre di artisti interessanti che fino a poco tempo fa ruotavano at-torno alla libreria Grapefruit, ora deso-latamente chiusa. Qualche nome: James Kalinda, Signora K, Simona Costanzo, Jacopo Emiliani…strada san nicolò 7www.untype.it

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6.Meet Pure Parma si dota del posto giusto dove mangiare hamburger gourmet, con pro-dotti bio e a chilometro zero. Materie prime che ovviamente sono sottopo-ste a rigorosa ricerca, birra Baladin per accompagnamento e alcuni side dishes stuzzicanti come il guanciale croccante e le alici Rizzoli in salsa piccante.via xx settembre 8www.meetburgourmet.com

7.Ass. Remo GaibazziFondata nel 2001, l’associazione è nata per valorizzare l’opera del pittore par-mense e curarne l’archivio. Ma le attivi-tà “collaterali” sono ancora più interes-santi: dal ciclo di incontri - che ormai ha cinque anni - intitolato Il mestiere dell’intellettuale alle microrassegne di musica jazz, passando per le performan-ce di danza.borgo scacchini 3www.remogaibazzi.net

8.Ristorante ParizziCi sono anche 13 suites&studio targate Panizzi, ma noi vi segnaliamo soprattut-to il ristorante, rinnovato nel 2006 da Andrea Meirana. In cucina c’è Marco Parizzi, col quale potete gestire un mix tradizione/innovazione che porta dal culatello di Zibello alla gelatina di zi-bibbo.strada repubblica 71www.ristoranteparizzi.it

PARCOERIDANIA

PARCOFACONE E BORSELLINO

(copyright Beppe Grillo) ancora non è stato avvistato. E meno male, perchében oltre i pregevoli crudo & culatello.

TEATROREGIO

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via Dalmazia

via XX Settembre

viale Mentana

viale Mentana

viale Tanara

borgo Guazzo

via Mazzini

strada della Repubblica

87DISTRETTI

Ha fatto centro, Alfredo Jaar (Santiago del Cile, 1956), col suo progetto per la Fondazio-ne Merz. Una mostra che, al netto di immagini e topoi diffusi - macerie, utopie, rivoluzioni -, ha trovato la giusta dimensione. Varcata la porta, subito un inabissamento: camminare su un tappeto di pezzi di vetro, lungo tutto l’am-biente. Nelle orecchie un rumore ruvido, sotto le suole l’idea del pericolo, da sfidare. Tutt’in-torno frammenti di Boetti, Gramsci, Pasolini, Klein, Penone, Kosuth. Le opere degli altri

come le proprie, nei termini di un’appropriazione sentimentale e concettuale. E poi Pinochet, la guerriglia sandinista, l’arte come sovversione, l’avventura dello spirito e la libertà del popolo.In una stanza c’è un lago d’inchiostro nero petrolio, su cui si specchiano parole a neon. Sciopero generale azione politica relativa proclamata relativamente all’arte (1970): guardarci dentro per ritrovare Mario Merz, capovolto. Qui la scultura si fa riflesso, perdendo peso in nome dell’essenza volatile della parola. Laggiù, nell’illu-sione di un nero senza misura, si mira all’origine: della storia, del conflitto, del linguaggio.Ma questo viaggio tra ricordi e accumulazioni altro non è che una riflessione sul rapporto tra passato e presente, sotto l’effigie malinconica del-la rivoluzione. Il grande neon bianco e rosso, che riporta il titolo di un libro di Cohn-Bendit, riapre questioni mai sopite. Abbiamo amato tanto la rivo-luzione. Che ne è della sete di cambiamento che ci guidò, che ci raccontò, che ci fece sognatori e militanti? Jaar, col suo bagaglio di artista combattente tra gli Anni Settanta e Ottanta, combina il senso di sconfitta con la voglia di crederci ancora. Per le nuove generazioni, che oggi calpestano quei cocci, l’impatto è differente. Portatrici insane di disimpegno, spettatrici di una caduta progressiva - morale, politica, culturale -, procedono a tentoni, alla fine del tempo. E la rivoluzione, nel mentre, è bella che andata. Con le sue degenerazioni ideologiche, ma anche con le sue impalcature ideali.In questa scatola delle utopie, Jaar ci ha messo anche dei versi. Bianchi, accesi, come un sussurro o un sussulto. M’illumino d’immenso. Ungaretti la scrisse nel 1917. C’era la guerra. E lui partoriva questa microscopica magnificenza, che in una riga ha tutta la luce del mondo, di Dio, del futuro. Abbacinante. Poesia che salva, agganciandosi a un’attualità disperata che è in cerca di un’inversione. Non più sulle orme di una rivoluzione, ma forse all’alba di un tempo ribelle. La dissidenza, dopo la fine della fine. Chissà.

Helga Marsala

Ci si può sedere e bere una birra o del vino all’Economy Bar. Tra il solito chiacchiericcio dei visitatori, spesso scettici sulla portata arti-stica di una birra, arte e vita si fondono come il cioccolato che, un po’ più in là, circonda i nani da giardino in Coquillen-Zwerge. Accanto, Solo Szenes, 131 monitor che riprendono una tranche de vie dell’artista, introduce da subito un’attitudine diaristica sugli attimi più stinti dell’esistenza quotidiana, tanto che Szeemann la definì “l’ultima grande autorappresentazione

antieroica del nostro secolo”. Pur avendo amici come Spoerri, Arnulf Rainer o Richard Hamilton, Dieter Roth (Hannover, 1930 - Basilea, 1998) non aderì mai a una corrente artistica precisa: le opere, infatti, si riempiono di sperimentalismi grafici, musicali, fotografici, per-formativi, perfettamente contestualizzati nell’arte del Novecento, ma che tagliano decenni e correnti come la scia di un meteorite.L’allestimento, magistralmente pulito, aiuta - è vero - a mettere un po’ di ordine ma, andando al di là della prima impressione, si ca-pisce che in questo universo artistico, fatto di esperi-menti isolati ma interconnessi, il caos è solo apparente: ovunque regna una lotta archivistica contro il tempo, un’ordinata ossessione della vita contro la morte, una necessità di riaffermare giorno per giorno la propria presenza. Si conserva ogni scontrino o pacco postale, il pavimento dove si cammina, i tappeti pasticciati dal nipote ancora bambino; persino le feci vengono giorno per giorno fotografate su bei piatti da cucina. E sembra di sentire nelle narici odori turpi come quelli delle valigie di formaggio abbandonate a imputridire davanti alla Eugenia Butler Gallery nel 1970, finché la polizia non chiuse la mostra. Oggi sono nel deserto, come le scorie radioattive, abbandonate chissà dove da Jim Butler.La ricerca ossessiva di superare la morte e il tempo attraverso l’arte, la donchisciot-tesca lotta contro l’oblio, è fallimentare a livello individuale. Tuttavia, dallo sforzo di questo scontro estenuante deriva una potentissima carica aurale che permea la mostra; al di là della dimensione delle opere, la si percepisce anche tra le pieghe dei libri poggiati sugli scaffali, tra le matite ammonticchiate sui tavoli da lavoro.Contro il consumarsi degli istanti della vita, forse l’uomo trova uno scampo nella trasmissione del sapere ai propri figli: l’eterna, malinconica battaglia del genere umano contro il tempo e la morte, persa nei destini individuali, vinta (?) nei destini dell’umanità.

giulio Dalvit

Poema per una rivoluzione mancata1 L’isola di Dieter (e figli)2

fino al 9 marzo a cura di Claudia GioiaFONDAZIONE MERZVia Limone 24 - Torino011 [email protected]

fino al 9 febbraioHANGARBICOCCAVia Chiese 2 - Milano02 [email protected]

Arte concettuale da Guido Costa3

La ricerca di Peter Friedl (Oberneukirchen, 1960) è imperniata su certe questioni che, come le mattonelle di un pavimento, ne costituiscono la cifra: modulo, icona, copia; relazione tra il sé, gli affetti e la società; potere gerarchico, politica ed estetica. Così,

la concisa retrospettiva Dénouement riesce a cogliere il per-corso artistico dell’autore in quattro sole opere: Rehousing, modellini di case dall’importanza storica, personale o so-ciale; Schneeglockchen, dove l’immagine dell’erbario curato dalla madre di Friedl durante la guerra scaglia una pietra in favore alla vita; The Dramatist, grosse marionette in cui la moglie di Gramsci, Henry Ford o il primo uomo nero psicoanalizzato rappresentano le dinamiche sociopolitiche del gioco di ruolo che è il teatrino del mondo. La mostra si conclude con la maschera mortuaria dell’artista, costituendo l’apice di un climax che va dal generale (la Storia) al particolare (il Soggetto-Artista).

Clara rosenberg

Tenero è il legno5 Una sacra triade abita gli spazi della galleria nei corpi lignei di Stephan Balkenhol (Hessen, 1957). Frau, Madonna dal tubino nero, Man with red bow, Cristo imberbe e Male head, testa decollata del Battista. Il piatto d’argento su cui lo schiavo offre a Salomè la testa del profeta è scomparso: ha preso il suo posto un

poliedro nerissimo; dalla perfidia del lussurioso vassoio all’implacabile determinazione della geometria. È caduto anche il velo che cinge i fianchi del Cristo nel Battesimo di Perugino, ed ecco comparire uno sgargiante fiocco rosso. Balkenhol compie un miracolo delicato; riprende dall’antico la pittura su legno, materiale vivo e fin com-movente. Nei dipinti di Marie Rosen (Bruxelles, 1984) alberga un borgesiano gioco di spec-chi, immagini riflesse e rifratte. Gli umani si sdoppiano, osservandosi da dietro i veli e i vetri della geometria, in raffinati illusionismi ottici.

sofia silva

fino al 15 febbraioGUIDO COSTAVia Mazzini 24 - Torino011 [email protected]

fino al 22 febbraioMONICA DE CARDENASVia Francesco Viganò 4 - Milano02 [email protected] www.monicadecardenas.com

L’alba di un nuovo inizio4

Il senso della mostra, intitolata The Cock-Crow, è tutto qui: nella condi-visione di un percorso portato avanti da nove artisti di una galleria ro-mana, nel suo trasferimento in un’altra città. Realizzato dai più - tranne Giulio Delvè (Napoli, 1984) presente con uno still da Dumbo e Mike Ruiz (Victoria,

1984) con un remix della Gioconda - attraverso lavori site speci-fic. Come nel caso di Ettore Favini (Cremona, 1974), con la sua opera-manifesto, esplicitamente riferita al titolo della collettiva torinese. Ilja Karilampi (Göteborg, 1983) si affida alla poesia degli slogan, scritti a spray su un muro illuminato da una lam-pada di Wood, mentre due sculture di Helena Hladilova (Kro-meriz, 1983) dialogano con tre dipinti dell’artista storico della galleria, Gianni Politi (Roma, 1986). Infine, le opere di Andrea Dojmi (Roma, 1973), Samara Scott (Londra, 1985) e Jesse Wine (Chester, 1983), a segnare il passaggio nella nuova sede di Torino. Nel segno della continuità.

ClauDia girauD

CO2Via Arnaldo da Brescia 39 - [email protected]

Alle origini di Disneyland6

L’opera di André Butzer (Stoccarda, 1973) è caratterizzata dalla lettera N. N come Nasaheim, neologismo che deriva dalla combinazione di Nasa e Anaheim (città di origine di Disneyland): “Un posto immaginario dove sono custoditi tutti i colori e dove

la creazione troverà il suo compimento”. Dopo la mostra N-Leben del 2006, Giò Marconi ospita due nuove serie di lavori dell’artista tedesco: i dipinti-N e i dipinti Post-N. Da un lato, astrazione, geometrie, variazioni formali e materiche su un tema caratterizzato dal rapporto tra bianco/nero e orizzontale/verticale; dall’altro, figure dalle cromie forzate che ricordano inquietanti personaggi dei cartoni animati. Lavori diametralmente opposti che, pur perseguendo lo stesso obiettivo - la celebrazione dell’autonomia del mezzo pittorico -, creano tensioni e disorientamenti nello spazio e nel visitatore di Milano, ma certo non in quello di Nasaheim.

Maria Marzia Minelli

fino al 1o febbraio 2014GIÒ MARCONIVia Tadino 15 - Milano02 [email protected]

88 RECENSIONI

Villa Panza si trasforma impercettibilmente. Nessun cambiamento ad arredi, suppellettili, facciate, saloni, decori, stanze e neppure alla consistenza della Collezione, che per lei è nata. L’allestimento di Aisthesis. All’origine delle sen-sazioni, infatti, riporta nella dimora storica due soggetti familiari, due tramiti assoluti della ricerca estetica di Giuseppe Panza di Biumo: Robert Irwin (Long Beach, 1928; vive a San Diego) e James Turrell (Los Angeles, 1943; vive a New York e Flagstaff). E la temperatura

della luce, a Villa Panza, modifica la percezione di ogni interstizio, di ogni inter-vallo tra un lavoro e l’altro. Il percorso, curato da Michael Govan, realizzato in collaborazione con il Los An-geles County Museum of Art (LACMA), il Solomon R. Guggenheim Museum di New York, il Getty Research Institute di Los Angeles e l’Archivio Panza di Mendri-sio, intende documentare la ricerca e la poetica dei due artisti americani, caratteriz-zata dalla sintetizzazione, dalla rifrazione della luce, trasformata in materia architettonica e percettiva. I progetti di Irwin e Turrell, grazie a un’intesa profon-da con il Conte, sono entrati strutturalmente nella collezione della Villa sin dai primi Anni Settanta. Ma oggi, all’interno di Aisthesis, è possibile osservare un ampliamento dei loro percorsi formali così come una progressione della conoscenza estetica sui diversi fenomeni fisici indagati dai due artisti, entrambi cre-sciuti nella luce del sole della California.La mostra, estremamente curata fin dal suo inizio, nel dispensare contenuti storio-grafici inerenti agli approcci di Irwin e Turrel, si riserva di diventare - via via che l’allestimento dei venti lavori selezionati si dipana tra salotti e sale con vista sul parco - rarefatta, sottocutanea. La luce come sentimento dello spazio, in Wallen (White) (1976) di Turrell, rifrange, a qualche decina di metri di distanza, nella colonna prismatica di Irwin, Untitled (Column), del 2011, passando attraverso un bianchissimo, inavvicinabile Untitled (Dot Painting, One of a Serie of 10 each uni-que) (1963-65). Da non perdere, infine, al termine di Aisthesis, a piano terra, nella scuderia grande, l’ultimo Ganzfeld di Turrel, ambiente percettivo totale in cui la sofisticazione della luce, in uno spazio apparentemente vuoto, impedisce agli occhi di aderire a qual-siasi confine. Accanto, Robert Irwin allestisce invece una nuova installazione dal titolo Varese scrim 2013, dove lo spazio grigio sezionato dalla luce naturale e da un velario disegna geometrie di limiti e possibilità.

ginevra bria

Da un lato c’è la Sammlung Goetz di Mona-co; dall’altro il Museion di Bolzano e il Neues Museum di Norimberga. Capita così che i di-rettori dei due musei (rispettivamente Letizia Ragaglia e Angelika Nollert) coinvolgano colle-zionista (Ingvild Goetz) e curatore della colle-zione (Karsten Löckemann) per un’operazione che ha il pregio di posare uno sguardo fresco e inedito su una importante raccolta europea. E “scoprirne” un fil rouge minimale che la stessa collezionista non aveva considerato. Non che a Monaco non si siano accorti di possedere

un importante nucleo di opere firmate dai protagonisti di quel “settore” dell’arte americana degli Anni Sessanta; no, l’operazione è semplice ma differente, ovvero mostrare come alcuni artisti contemporanei - certuni “insospettabili” - siano eredi di quelle riflessioni formali e concettuali. E se è vero che ogni erede, per rendere omaggio all’autore del lascito, ha il dovere di far fruttare l’eredità stessa, allora gli artisti qui considerati sono in grandissima parte ottimi prosecutori del Mini-malismo, poiché adottano “modalità intellettuali dall’accento ludico” e dunque evitano l’epigonalità lavorando su “leggerezza, libertà e, non da ultimo, assenza di rigore”.Il primo a rispondere a questa descrizione che smussa il calvinismo minimale delle origini è Gerwald Rockenschaub, artista che espone le proprie opere in questa mostra ma ne cura anche l’allestimento, “decorando” - che colpo al cuore per i suoi padri! - le sale dei due musei. E poi ci sono i suddetti insospettabili: Ai Weiwei con il Tea Cube (2007), un Dan Flavin da spiaggia nell’interpretazione di Martin Boyce, i leggerissimi parallelepipedi non-bronzei di Fischli and Weiss, il ritorno alla personalizzazione in Mona Hatoum, fino ad arrivare ai non-ready-made di Haim Steinbach e ai moduli abitabili di Andrea Zittel. Mentre per chi fosse colto da ortodossia, ci sono rifugi più o meno sicuri presso Daniel Buren, Alan Charlton, Peter Halley, per citarne alcuni.La project room merita senz’altro una visita. Qui Diego Perrone (Asti, 1970), collaborando con Vetroricerca, presenta (fino al 26 gennaio) tre ritratti che, per giungere alla forma visibile allo spettatore - fusione a pasta di vetro - sono passati attraverso la fotografia, il disegno, la scultura in cera. Volti sfaccettati, s-figurati nella materia, deformi come le maschere dei servi astuti che titolano la brevissima personale. Uno sketch assai ben riuscito, la cui sedimentazione richiede tempi lun-ghi come la sua gestazione: e la ricezione ricapitola la produzione.

MarCo enriCo giaCoMelli

Strategie d’osservazione7 Il Minimalismo, oggi8

fino al 2 novembrea cura di Michael GovanVILLA PANZAPiazza Litta 1 - Varese0332 [email protected]

fino al 5 ottobrea cura di Karsten Löckemann, Angelika Nollert e Letizia RagagliaMUSEIONVia Dante 6 - Bolzano0471 [email protected]

Senza perdere la tenerezza11 La cultura ceca le ha insegnato che la vera libertà è possibile solo nell’im-maginazione. Per questo, l’arte di Jana Sterbak (Praga, 1955) sposta i confini del consentito e radicalizza il gusto per l’assurdo. I lavori in mostra offrono una panoramica

sui topoi della sua ricerca, sempre in bilico tra forti con-trasti concettuali e stringenti dicotomie estetiche. Gli strambi oggetti e i nocivi marchingegni del suo reper-torio provocano attrazione e al contempo repulsione, ricordando, grazie a un raffinato linguaggio metaforico, quanto la nostra esistenza dipenda dalle ambiguità, co-strizioni e disfuzionalità del corpo, innate, indotte dal potere o autoimposte. Nell’allestimento, opere molto esplicite sul piano visivo perdono tut-tavia la loro aggressività e risultano delicatamente poetiche.

veroniCa liotti

Un Prince che brilla di luce riflessa10

Con l’attuale mostra, che inaugura la stagione di Le Case d’Arte, con-tro ogni aspettativa Richard Prince (Panama, 1949) torna nella prima galleria italiana che espose negli Anni Ottanta i suoi lavori. La pa-rete dirimpetto all’ingresso dello spazio ospita senza mediazioni la

porzione più cospicua della mostra, tratteggiata dalle Bands, organizzate direttamente in galleria dall’arti-sta: sottili fasce di gomma elastica nera che coprono ritagli di giornali appena visibili, determinando forme irregolari prossime alle stelle, così come si è soliti di-segnarle. Le bands sembrano fare il verso al Minimali-smo degli Anni Settanta. Alla parete di fronte si trova un poster special edition, dove i codici a barre offuscano le immagini pubblicitarie, e alcune foto e locandine di cui Prince, come la sua firma richiede, si appropria.

luCia grassiCCia

Le soglie di De Pascale12 Si entra nella galleria e si riconosce lo stesso paesaggio urbano che in questi anni fa mostra di sé nei centri storici italiani. Serrande abbassa-te, spazi vuoti, cartelli “affittasi”. Antonio De Pascale (Crispano, 1953) dispone all’ingresso due saracinesche abbassate dipinte a

grandezza naturale, che raddoppiano la realtà ester-na e fanno entrare il visitatore nell’opera con effetto trompe l’oeil. In questa mostra l’artista conferma il suo utilizzo della pittura come strumento di denuncia e mezzo per parlare di attualità. Alla parte dedicata agli spazi commerciali sfitti si aggiunge la serie Quo vadis?, tele sagomate a foggia di zainetto contenenti le “vergogne d’Italia”. Dal naufragio della Con-cordia al terremoto de L’Aquila, De Pascale si confronta con i lati oscuri della società italiana, chiedendosi cosa ci riserva il futuro.

gabriele salvaterra

Matematica pittorica9 Per la seconda volta, Kaufmann Repetto ospita Thea Djordjadze (Tiblisi, 1971), con una personale in cui l’artista si relaziona con gli spazi della galleria come fossero immense tele a tre dimensioni, tradendo la sua formazione pittorica. Un’installazione e alcune sculture

create ad hoc compongono la mostra con la quale l’artista contraddice le regole della proprietà commutativa dell’algebra, presentando opere in cui, sovvertendo l’ordine degli addendi, dà vita a risultati differenti. Da un lato, ciò che solitamente è celato viene portato alla luce, e così un interno che potrebbe ricordare un salotto si riduce a un insieme di strutture metalliche e gommapiuma. Dall’altro, la destrutturazione dell’addizione conduce a risultati complessi: oggetti che, a dispetto di un’esibita e a tratti forzata materialità, acquisiscono una dimensione effimera, intessendo tra loro un dialogo che rende totalizzante l’esperienza dello spazio.

Maria Marzia Minelli

fino al 1o febbraioKAUFMANN REPETTOVia di Porta Tenaglia 7 - Milano02 [email protected]

fino all’8 febbraioRAFFAELLA CORTESEVia Stradella 7 - Milano02 2043555info@galleriaraffaellacortese.comwww.galleriaraffaellacortese.com

fino al 12 marzoLE CASE D’ARTECorso di Porta Ticinese 87 - Milano02 [email protected]

a cura di Christian CaliandroPAOLO MARIA DEANESIVia San Giovanni Bosco 9 - Rovereto0464 [email protected]

89RECENSIONI

La Strozzina conferma quel carattere che dagli inizi è venuto distinguendosi per la concentra-zione sulle dinamiche sociali, economiche e culturali, vale a dire sul complesso sistema di relazioni e mutamenti della geopolitica globa-le. Territori instabili assume a centro un fattore d’importanza fondamentale, considerando che proprio dalla ricerca sull’identità, soggetta di necessità a continui processi definitori, deriva-no nazione e confine, idee che si nutrono della contraddizione tra convenzione e trasgressione:

tanto la prima ha bisogno d’individuare pericoli e nemici al di fuori, per rafforzare il sentimento e l’ideologia della coesione interna, quanto il secondo richiede che avvenga una sua violazione per venire percepito come demarcazione concreta e fattore di contenimento.Un senso di provvisorietà e incertezza accomuna i dieci artisti della collettiva; il percorso risulta robusto e puntuale, riuscendo a evitare i rischi del didascalismo. Tra i punti più alti, The Enclave di Richard Mosse - invitato a rappresentare l’Ir-landa alla Biennale di Venezia -, video potente che sa compenetrare documentazione e rappresentazione dello scenario bellico congolese (ne è divenuto simbo-lo la colorimetria accesa e surreale della pellicola su-per 16mm a infrarossi) e la serie fotografica As Terras do Fim do Mundo di Jo Ractliffe sulla Border War in Angola, testimonianza desolante che giunge a noi quando tutto è già avvenuto e anche gli effetti si sono ridotti a una visibilità lieve. Risaltano per un certo grado di originalità e per il coinvolgimento fisico che hanno implicato, le due azioni filmate di Sigalit Landau, di cui una ha per soggetto un hula hoop di filo spinato in movimento sul corpo dell’artista, davanti al mare a sud di Tel Aviv, e i reportage critici e ironici insieme che Paulo Nazareth realizza durante i suoi viaggi pedestri, per esempio dal Brasile agli Stati Uniti.Qualche perplessità invece si genera per la prossimità formale a scelte trascorse. Ad esempio l’installazione interna Apnea di Tadashi Kawamata suggerisce corri-spondenze con quella presentata da Chiharu Shiota per la mostra ispirata a Francis Bacon, oppure Loophole for All di Paolo Cirio con TheyRule.net di Josh On in occasione di Arte, Prezzo e Valore. Si rivela in ciò la forza e il rischio della Strozzina: da una parte la capacità di selezione degli artisti e di costruzione di un discorso sti-molante, a cui non è estranea un’attitudine divulgativa; dall’altra l’eventualità che le tematiche e le modalità propositive arrivino a generare ripetizione.

Matteo innoCenti

Visitare una mostra di Giosetta Fioroni (Roma, 1932) significa immergersi in un uni-verso metareale, femminile e delicato, senti-mentale e nostalgico. Figlia di artisti - il padre è scultore e la madre dipingeva, oltre a essere ma-rionettista -, Fioroni risente della loro influenza estetica e creativa. Presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna sono allestite due mostre che ripercorrono gran parte della lunga attività di una delle artiste romane più affermate, anche in ambito internazionale. Attraversando le sale della mostra su Duchamp

e gli artisti italiani che sono stati influenzati dal grande maestro, si passa per la stanza che propone il riallestimento di un curioso lavoro della Fioroni: La spia ottica, un’opera presentata presso la Galleria La Tartaruga di Roma nel 1968 e che porterà alla seguente realizzazione di una serie di lavori a forma di casetta che si basano sullo stesso principio. Questo il background per giungere alle due mostre che si trovano appena dopo.L’una, l’Argento - a cura di Claire Gilman e organizzata in collaborazione con il Drawing Center di New York - raccon-ta il percorso dell’artista dagli esordi agli Anni Settanta attraverso disegni, dipinti, film, modelli teatrali e illustra-zioni, evidenziando l’estetica sviluppa-ta dall’artista, che predilige l’uso dello smalto d’argento e soggetti principal-mente femminili. L’altra, più piccola, intitolata Faïence (a cura di Angelandreina Rorro) è invece dedicata ai lavori in ceramica, realizzati tra 1993 e il 2013 grazie alla frequentazio-ne della Bottega Gatti di Faenza. I Teatrini e i Vestiti sono lavori di rara bellezza, tra pittura e scultura e dai colori brillanti. Gli uni seguono i temi della coeva ricerca pittorica attraverso una speciale spazialità. Gli atri sono abiti privi di struttura e prendono le sembianze di eroine o donne celebri, i cui caratteri sono dati tramite le forme e i colori modellati nella materia. Si viene a creare così un unico percorso quasi completo e fluido, dove il disegno costituisce il nucleo principale del lavoro della Fioroni. Molti simboli ritornano (come i cuori e le casette) e grande è il potere seduttivo dell’universo poetico e onirico dell’artista.Inoltre, in occasione della mostra è stato pubblicato da Corraini il volume My Story / La mia storia, concepito come un libro d’artista. Un diario (un collage con fotografie, disegni, dipinti e sculture) attraverso il quale l’artista si racconta e ci racconta il suo lato personale e creativo dagli Anni Sessanta a oggi.

Martina aDaMi

Forza e debolezza della Strozzina13 Il mondo onirico di Giosetta Fioroni14

CCCSPiazza Strozzi - Firenze055 [email protected]

a cura di Claire Gilman e Angelandreina RorroCatalogo CorrainiGNAMViale delle Belle Arti 131 - Roma06 [email protected]

L’alfabeto visivo di Baruchello15 La mostra di Gianfranco Baruchello (Livorno, 1924) ruota attorno a una selezione di opere che raccontano l’approccio critico dell’artista verso la vita e il suo personalissimo modo di fare arte. Intellettuale, politico, sperimentale e sofisticato, il suo lavoro dimostra una

lucida inventiva, caratteristica che ha contribuito a creare un fil rouge che si snoda tuttora attraverso le sue recenti produ-zioni. La dimensione intima della galleria consente di esplo-rare gli elementi che inevitabilmente si legano alle esperienze artistiche europee in linea col Nouveau Réalisme e il Neo-Dada, passando per i combine paintings che Rauschenberg realizzava negli stessi anni. Gli assemblaggi, i plexiglas, le pitture su tela e i modellini in carta configurano un percorso che invita lo spettatore a un’intensa riflessione sulla storia presente, costruita però su un passato che si attualizza con “prepotente visio-narietà”. Integra e completa la mostra un prezioso catalogo “in folio”.

gino PisaPia

Polvere di stelle17

Silvia Iorio (Roma, 1977) è la prima artista in residenza allo smART. Nel-le sale sono esposti grandi lavori su carta, realizzati per l’occasione, una scultura marmorea, un’installazione che combina frammenti di codici e meteoriti, piccoli acquerelli realizzati con lacrime (d’artista). L’artista esplora nel

suo processo di ricerca visiva l’introduzione di un linguaggio estetico-scientifico che trae origine dagli studi in biologia mole-colare. Come una formula che cerca di descrivere un fenomeno naturale, così il lavoro di Iorio, pur prendendo il là da un’attiva indagine di natura scientifica, incentrata sulle categorie univer-sali dello Spazio e del Tempo, rende la casualità la vera protago-nista ultima della sua opera. Come per la magia dell’universo e il mistero che lo avvolge, anche l’arte per Iorio ha l’obiettivo di esplorare per fare esperienza, scatenando l’istinto di percorrere lo spazio e il tempo in continuum infinito.

valentina gasPerini

L’azione in potenza16

Crepe che infrangono superfici monocromatiche come improvvisi ter-remoti. Linee tese che si incrociano e allontanano, ora trattenendo ora sfogando l’energia rimasta inespressa nelle viscere del mondo. È in questa altalena di stasi e movimento che si colloca la ricerca di Roberto Pietro-

santi (L’Aquila, 1967). Se il bianco e il nero segnalano l’inappagante impossibilità di una conciliazione, ecco che il rosso – in tutta la sua sprezzante vitalità – rappresenta l’utopia, divenuta esistenza artistica, della loro fusione. La ricerca, però, non è conchiusa nei margini delle cornici: il dubbio che qualcosa sia rimasto (e, forse, debba rimanere) irraggiungibile, permane nelle guglie spinose della materia scomposta, fratture contemporanee dell’armonia classica.

irene roberti vittory

L’archivio personale di Alice Pasquini18 Un mondo al femminile raccontato attraverso lo sguardo di bambine arrabbiate e curiose, donne indipendenti che sono fotografie di una so-cietà. Diario di viaggio continuo, che delinea un percorso di ricerca e sviluppo. Assemblaggi di giornali, cartoline, insegne

autostradali, objet trouvé su cui l’artista inter-viene riconfigurando lo spazio e dettando nuovo senso estetico a forme usuali. Gli sketchbook svelano il lato più intimo, popolato di colori cal-di e vivaci. Così Alice Pasquini (Roma, 1980), street artist riconosciuta a livello internazionale, incanta mettendosi a nudo. L’artista espone per la prima volta opere su carta: sketch, basi operative, estetiche e insieme strutture portanti dei lavori su muro. Un archivio personale nella giovanissima galleria Varsi.

ilDe Cavaterra

a cura di Andrea Alibrandi IL PONTEVia di Mezzo 42b - Firenze055 [email protected]

fino al 1o marzo 2014 SMART Piazza Crati 6/7 - Roma 06 64781676 [email protected] www.smartroma.org

fino al 15 febbraioa cura di Marco MeneguzzoSANTO FICARAVia Ghibellina 164r - Firenze055 [email protected]

GALLERIA VARSI Via di San Salvatore in Campo 51 - Roma06 [email protected]

90 RECENSIONI

La relazione dell’artista con le proprie opere è uno dei temi da sempre centrali nel percorso artistico di Giulio Paolini (Genova, 1940; vive a Torino), tanto da divenire perno della personale in corso al Macro di Roma. Attra-verso una selezione di quattordici lavori, scelti in un arco temporale che va dal 1987 al 2013, lo spettatore è chiamato a trovare la presenza dell’autore ricomponendo “le tracce e gli indi-zi” sparsi nel percorso espositivo. Essere o non essere, a cura di Bartolomeo Pie-

tromarchi, è il titolo della mostra commutato dall’Amleto shakespeariano, oltre che il titolo di una delle opere esposte. Simile a una scacchiera, l’installazione è composta da diverse tele poste a terra e rievoca, grazie alle linee rosse a “X”, l’opera Disegno geometrico (1960), lavoro chiave della dimensione concettuale della poetica paoliniana. Le messe in scena di Paolini, calibrate ed eleganti, scandiscono il percorso. Si tratta di lavori che, come di consueto, presentano una fitta trama di rimandi con punti di vista molteplici. Massiccio l’uso del plexiglas applicato sia per scandire lo spazio che per co-struirlo. Le scenografiche installazioni sono in penombra, a ognuna è dedicata una luce calibra-ta per far sì che si possa coglierne l’essenza. In apertura l’enigmatico autoritratto Delfo IV (1997), dove avviene un ribaltamento della pro-fondità dell’immagine che svela fin da subito il gioco del doppio e dei suoi riferimenti. Un gioco che continua lungo tutta l’esposizione. Big Bang (1997-98), come spiega lo stesso Paolini, è un lavoro che parla del ruolo dell’artista che “tende a fissare l’istante ini-ziale, assoluto, del tentativo di avvistare l’immagine inafferrabile di un’opera”. Conclude la mostra L’autore che credeva di esistere (sipario: buio in sala). Quasi una dichiarazione d’intenti: si presenta la vita intima dell’artista, nello studio al momento della creazione, anche tramite l’uso di proiezioni video. Paolini crede fermamente, come ben rimarcano le sue opere, che l’artista sia colui in grado di riconoscere e rilevare un dato pre-esistente: “la verità dell’opera”. Potremmo con-siderare questo pensiero in sintonia con Michelangelo Buonarroti, il quale credeva che l’immagine sussistesse già all’interno del blocco di marmo e suo era il compito di togliere il superfluo.Segnaliamo, che da luglio 2014 la mostra sarà allestita (in versione ampliata) presso la Whitechapel Gallery di Londra.

Martina aDaMi

La mostra palermitana di Francesco Clemen-te (Napoli, 1952; vive a New York e Madras) costituisce un’occasione significativa per fare il punto sulla traiettoria complessiva sin qui se-guita dall’artista, aiutati in tale esercizio dallo spirito del luogo. Mentre si percorrono i saloni sontuosi della mostra, in effetti, non è possi-bile dimenticare la bellezza disarmante e in disarmo della città intorno, Palermo, che nella sua eccedenza meridiana risuona con le origini napoletane dell’artista. Di luoghi del genere si

nutre l’opera di Clemente - vedi il suo ulteriore rilancio sull’India – sfruttandone le stratificazioni culturali e visive per definire un proprio sincretismo, genuinamente opportunista. Nel testo in catalogo di Francesco Gallo Mazzeo si legge che nella sua maniera cre-ativa “tutto si tiene, come in una lunga teoria che può anche concedersi delle soste, ma non smette di cercare”. Ecco, proprio questo tenere tutto - la teosofia col Barocco, Egon Schiele con la ritrattistica tardo-egizia, le miniature indiane con la Pop Art americana, Khrisna e San Gennaro - è ciò che sopraffà, prima ancora che indisporre, in Cle-mente. Non si tratta di un giudizio di condan-na, piuttosto della presa d’atto che un simile assemblaggio è effettivamente possibile, sem-pre in bilico tra sovrana leggerezza e superfi-cialità, fusione e confusione: non pare un caso, del resto, che una sua serie di pitture s’intitoli Tandoori Satori, quasi una risposta giocosa al ben più introverso shaman/showman dell’amico Alighiero Boetti. Quanto al profilo operativo, Clemente conta su una paletta di colori assolutamente personale, dai contrasti spesso azzardati ma che di nuovo non di rado mirabilmente “funzionano”, in particolare quando sostenuti da una più confortevole matericità di supporti e pigmenti. Difficile, in conclusione, trarre conclusioni: di fatto, una parabola artistica come quella di Clemente non pare fatta per raggiungere o farsi concentrare in un pun-to definitivo, proseguendo piuttosto lungo un’infinita, edonistica accumulazione d’immagini e piaceri visivi (esemplare, in tal senso, l’opera-rete Captive pleasures scelta per la comunicazione dell’evento palermitano). Molto suggestivo, e questo è almeno un dato acquisito della visita, il dialogo instaurato da alcune opere più labi-rintiche con i vecchi pavimenti in ceramica di Palazzo Sant’Elia, fra l’altro piacevol-mente rieccheggiante l’intervento Ab Ovo di qualche anno fa al Madre di Napoli.

luCa arnauDo

Riflessioni sul ruolo dell’autore19 Clemente, valichi e frontiere20

fino al 9 marzoa cura di Bartolomeo PietromarchiMACRO Via Nizza 138 - Roma 06 671070400 [email protected] www.museomacro.org

fino al 2 marzo a cura di Achille Bonito OlivaPALAZZO SANT’ELIAVia Maqueda 81 - Palermo091 [email protected]

Rimanere “fuori dal tempo”21

Raccontare il presente è inattuale: Addo Trinci (Pistoia, 1956) crede sia il caso di rimanere Fuori dal tempo, per raggiungere uno sguardo più distaccato sul contemporaneo. Lo fa viaggiando attraverso oggetti e mondi in bilico, che strappa alla bidimensionalità della fotogra-fia e imprime su carta abrasiva.

Lo aiuta la geometria dell’architettura e il sapore dei luoghi, dei quali coglie profili, ombre, materia che, scolpiti da luce e spazio, incastona in una dimensione sospesa. I vuoti metafisici, emancipati dal contesto, si fanno vivi e palpabili, trovando nell’essenza pittorica una nuova identità. La fotografia è, in questo caso, “come il riflettersi di uno specchio in un altro specchio che gli sta di fronte”, citando Henry Corbin. Un passo dopo, scultura modulare in tessere di vetro, gioca con la tridimensionalità e la percezione materica.

Marta veltri

L’abbandono al colore23 Henrik Olai Kaarstein (Oslo, 1989) sta collezionando un gran nu-mero di presenze nella scena dell’arte contemporanea. Coinvolgente e deciso nel dar vita al colore su supporti normalmente appartenenti alla quotidianità e che, sottratti dal venire a contatto con la pelle, coinvolgono la sfe-ra emozionale, la cui connessione viene

istantaneamente attivata attraverso la vista. Proiezioni casuali di una pittura rarefatta, astrazioni soffici assorbite dai tessu-ti. Riconvertendo il ruolo dei materiali, viene riscritta la loro stessa funzione ultima. Dapprima il corpo umano, fisicamente inteso, era il destinatario finale; lo spazio bianco viene succes-sivamente trasformato e inondato dal colore che a sua volta investe lo sguardo, inglobandolo in una percezione ampliata e totalmente restia a una qualsiasi razionalizzazione. È possibile riscontrare delle immagini, ma rappresentano la realtà di chi e la rappresentazione di cosa?

arianna aPiCella

La gelida luce del declino22 Non sbaglia un colpo, Jota Castro (Lima, 1965). Alla sua terza perso-nale partenopea, conferma l’esattezza di uno stile comunicazionale so-brio ma potente, che trova nella stringente, focalizzata, asciutta congruenza di significante e si-gnificato, materiale e tema, il

propellente del meccanismo di funzionamento esteti-co. L’autodistruzione dell’Europa, il suo farsi schiava di consumismo, sistemi tradizionali e morale: come apparizioni evocate da crudi riflettori nell’oscurità - focalizzante, ma non teatrale - dell’allestimento, simboli-opere incontrano lo sguardo, come fantasmi di un Natale dickensiano sordo agli avvertimenti. Prima di assistere alla nostra morte siamo ancora in tempo per capire, come in Jugaad mostrano le 15mila spille incastrate - con dedi-zione quasi mistica e rituale - le une alle altre, che o si vince insieme o si perde tutti?

Diana gianquitto

Teotino’s Extended Play24

L’illusione di realtà che aleggia intorno all’immagine fotografica viene smentita da Lamberto Teotino (Napoli, 1974; vive a Roma). C’è sem-pre, un disturbo nella visione che riporta con i piedi per ter-ra, a interrogarsi sugli inganni

della percezione. I filoni di ricerca aperti sono più d’uno. Nell’installazione The image of what we are prevails over what we are è la pallina che prevale sull’identità del tennista, cancellandone il volto con il suo tocco. Nessuna delle foto è scattata dall’arti-sta, ma sono frutto di precise ricerche all’interno di non ben svelati archivi. La manipolazione digitale è dichiarata, ma è talmente realistica da sembrare reale. Come fare a non credere che Mr and Mrs Smithee, i due arcieri che si puntano a vicenda, siano realmente esistiti?

giovanna ProCaCCini

a cura di Ludovico PratesiERICA FIORENTINI Via Margutta 17 - Roma06 3219968 [email protected]

T293Via Tribunali 293 - Napoli081 [email protected]

fino al 22 febbraio 2014UMBERTO DI MARINO Via Alabardieri 1 - Napoli 081 0609318 [email protected] www.galleriaumbertodimarino.com

fino al 15 febbraioa cura di Chiara PirozziDINO MORRAVico Belledonne a Chiaia 6 - Napoli392 [email protected]

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Potenza o im-potenza di un’immagine? Qui i due ragazzi stan-no proprio trasportando… “Un Warhol!”, diranno subito i miei intelligenti lettori. Eh no, ragazzi, avete sbagliato. I Flowers

che vedete non sono di Warhol. “Ah, ma nel senso che Warhol aveva preso l’immagine dei fiori da una foto che era stata scattata da Patricia Caulfield?”. Complimenti, però no, non in quel senso. “Allora nel senso che non sono stati materialmente realizzati da lui, ma dai suoi assistenti, che all’epoca lo aiutavano a produrre le seri-grafie?”. No, non è nemmeno questo: si tratta proprio dell’opera di un altro artista, che però è identica a quella di Warhol. “Beh, ma negli Anni Ottanta tutti hanno rifatto tutto, e le gallerie da allora sono piene di ‘Not Warhol’, ‘After Duchamp’, ‘Omaggio a Picasso’ e via dicendo… Niente di meno originale della non-originalità!”. Esat-to, esatto. Gli Anni Ottanta sono proprio stati l’epoca d’oro della simulazione. Il problema è che questi Flowers sono… del 1965, praticamente sei mesi dopo che Warhol aveva realizzato i propri.Un mistero che però si spiega facilmente col nome di Elaine Stur-tevant, o più brevemente Sturtevant, come l’artista, oggi ultra-ottantenne, ama farsi chiamare. Come molti ormai sanno, il suo lavoro artistico consiste nella “ripetizione” (più che rifacimento, citazione, appropriazione ecc.) di opere altrui. Ma è un’idea ini-ziata “insieme” all’arte contemporanea stessa che lei “copiava”: nella prima mostra personale del 1965, in galleria campeggiavano diversi Flowers di Warhol e una serie di altri quadri, tra cui una Flag di Jasper Johns, e inoltre Lichtenstein, Rauschenberg, Stel-la, Oldenburg, Segal, Rosenquist, tutti esposti poco prima. Ogni lavoro era stato realizzato dalla Sturtevant, ripetendo scrupolosa-mente le diverse tecniche pittoriche di ogni autore: l’encausto per Johns, i dots per Lichtenstein, il calco in gesso per Segal, e via dicendo. Per i Flowers, Sturtevant aveva addirittura usato il telaio serigrafico originale di Warhol: lei glielo aveva chiesto, e lui glielo aveva prestato. In un’intervista, interrogato sul senso dei Flowers, pare che Andy abbia mormorato: “I don’t know. Ask Elaine”. Ciò che è meno noto è che la tiepida benevolenza con cui inizial-

mente i pop artisti avevano guardato al lavoro della Sturtevant si trasformò in breve tempo in aperto risentimento. Anzi, per usare le parole di Sturtevant in un’intervista a Peter Halley, verso la sua opera cominciò a montare una “horrendous hostility” da parte di tutto il mondo dell’arte, il che la costrinse a interrompere l’attività per oltre un decennio, fino appunto agli Anni Ottanta, in cui il suo lavoro fu (superficialmente) assimilato al simulazionismo post-moderno. Ma chiaramente non ne fa parte: lungi dall’essere un elegante gioco di citazioni a distanza (storica e mentale), l’opera-zione della Sturtevant è piuttosto una “seconda volta” dell’opera, un disturbante sdoppiamento dello sguardo che ci mette sull’av-viso e ci spinge alla fatale domanda su “cosa stiamo veramente guardando?”. Quando guardiamo un Flower di Warhol possiamo pensare al consumo delle immagini, alla cultura di massa, alla perdita di senso della Natura ecc. ecc., ma quando guardiamo un Flower (identico) e tuttavia “sappiamo” che non è di Warhol , cosa stiamo effettivamente guardando, se non la “differenza” come tale, l’impossibile scarto, ossia il “senso” di una cosa simile o, in altre parole, il senso dell’arte-in-quanto-tale? È per questo che, col tempo, gli interessi della Sturtevant sono divenuti sempre più filosofici (ha anche “ripetuto” la serie televisiva Abécedaire di De-leuze) e ha sempre più insistito sul fatto che la vera funzione delle sue opere non consiste in un piacere visivo, ma nello “shifting mental structures”, nello scardinare le nostre strutture mentali.In un mondo in cui trasgressioni e perversioni sono moneta ar-tistica corrente, e bene accetta, dovremmo essere grati a quegli artisti che sono riusciti a “provocare” davvero il sistema dell’arte; ovvero, per citare un passo da Meno di Niente (Ponte alle Grazie, 2013), l’ultima fatica di Slavoj Zizek, inaspettatamente adeguata a questo contesto: “Cos’è mai l’effetto disturbante” di una perver-sione banalmente sessuale-sociale “in cui i membri di una fami-glia si defecano in bocca l’un l’altro in confronto a quello provocato da un autentico rovesciamento dialettico?”.

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