Neoliberalismo e femminismi
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JURA GENTIUM Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale
Journal of Philosophy of International Law and Global Politics
Vol. XII, n. 1, Anno 2015
JURA GENTIUM Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale
Journal of Philosophy of International Law and Global Politics
JURA GENTIUM
Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale
Journal of Philosophy of International Law and Global Politics
http://www.juragentium.org
ISSN 1826-8269
Vol. XII, n. 1, Anno 2015
Fondatore
Danilo Zolo
Redazione
Luca Baccelli, Nicolò Bellanca, Orsetta Giolo, Leonardo Marchettoni (Segretario di redazione),
Stefano Pietropaoli (Vicedirettore), Katia Poneti, Ilaria Possenti, Lucia Re (Direttrice), Filippo
Ruschi, Emilio Santoro, Silvia Vida
Comitato scientifico
Margot Badran, Raja Bahlul, Étienne Balibar, Richard Bellamy, Franco Cassano, Alessandro
Colombo, Giovanni Andrea Cornia, Pietro Costa, Alessandro Dal Lago, Alessandra Facchi,
Richard Falk, Luigi Ferrajoli, Gustavo Gozzi, Ali El Kenz, Predrag Matvejević, Tecla Mazzarese,
Abdullahi Ahmed An-Na‘im, Giuseppe Palmisano, Geminello Preterossi, Eduardo Rabenhorst,
Hamadi Redissi, Marco Revelli, Armando Salvatore, Giuseppe Tosi, Wang Zhenmin
La rivista è espressione di Jura Gentium – Centro di filosofia del diritto internazionale e della politica globale
Comitato direttivo
Luca Baccelli (Presidente), Leonardo Marchettoni, Stefano Pietropaoli (Segretario), Katia Poneti,
Lucia Re, Filippo Ruschi (Vicepresidente), Emilio Santoro
Indice SAGGI 5 LA SOVRANITÀ COME “FUNZIONE” DELLO STATO 7
GIAN PAOLO TRIFONE
NEOLIBERALISMO E FEMMINISMI 31
BRUNELLA CASALINI
EL “DIÁLOGO” DE LOS JURISTAS ARGENTINOS CON LUIGI FERRAJOLI 66
PABLO D. EIROA
LETTURE 135 FORTUNA E IRONIA IN POLITICA 137
GIUSEPPE PERCONTE LICATESE
G.P. Trifone, “La sovranità come ‘funzione’ dello Stato”,
Jura Gentium, ISSN 1826-8269, XII, 2015, 1 , pp. 7-30
La sovranità come “funzione” dello Stato
Una critica di Alfredo Codacci-Pisanelli al dogmatismo volontaristico
Gian Paolo Trifone
Abstract: According to the theory of A. Codacci-Pisanelli, sovereignty, far from being an
expression of voluntary policy, results as a potestative manifestation of the State-person to
which it belongs. To this extent, it is functional to a ‘purpose’ and it is subject to the limits
imposed by public law. This approach has also an impact on the redevelopment of the
legislative, executive, and judiciary powers in an organic dimension.
[Keywords: State, Power, Sovereignity, Voluntarism]
Se il diritto internazionale, tradizionalmente, parte dall’assunto groziano per cui, in ogni
paradigma relazionale, l’esperienza umana si muove secondo regole generali, in
prospettiva di una “sistemazione delle condotte”1, la sovranità è la “razionalizzazione
giuridica” del potere inteso come criterio gerarchizzante2, dunque ordinante delle
diverse funzioni nell’ambito dello Stato, che del sistema giuridico internazionale è
struttura primaria. In via principiale, la ricerca dell’ordine in seno ad una comunità
giuridicamente determinata riguarda entrambe le organizzazioni, sia pure con le
opportune connotazioni.
Questo scritto contribuisce a mettere in risalto l’esigenza della legittimazione
dell’autorità tra Otto e Novecento, per cercare dove veramente risiede “quel potere
ultimo di decisione, che, nel momento in cui acquistò consapevolezza di sé, si definì
sovrano”3.
Nel 1891, i Tipi T. Nistri e C. di Pisa danno alle stampe Il dogma della sovranità
popolare4 di Alfredo Codacci-Pisanelli5. Si tratta del testo letto dal giuspubblicista in
1 I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’Età moderna, Torino,
Giappichelli, 2002, p. 162.
2 D. Quaglioni, La sovranità, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 4.
3 N. Matteucci, voce “Sovranità” in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (a cura di), Dizionario di
politica, Roma, Istituto Geografico De Agostini, 3, 2006, p. 469.
4 Successivamente in A. Codacci-Pisanelli, Scritti di diritto pubblico, Città di Castello, Tip. Lapi,
1900, p. 122 ss.
5 Sulla vita e le opere del giurista e politico fiorentino, le voci “Codacci-Pisanelli, Alfredo”, a cura di
A. Sandulli, in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), Bologna, I, Il Mulino, pp. 556-
557 e “Codacci-Pisanelli, Alfredo”, a cura di F. Socrate, in Dizionario biografico degli italiani Treccani,
26 (1982), <http://www.treccani.it/enciclopedia/alfredo-codacci-pisanelli_(Dizionario-Biografico)/>.
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occasione dell’inaugurazione di quell’anno accademico presso l’Ateneo pisano che,
come di consuetudine, affidava la prolusione al più giovane dei docenti incardinati.
La formazione culturale di Codacci-Pisanelli è di indirizzo germanista6; il principio
che ispira la sua opera è quello giusformalistico; Pietro Chimienti lo annovera tra gli
aderenti all’indirizzo scientifico orlandiano insieme, fra gli altri, ad Arangio Ruiz,
Brusa, Brondi, Cammeo, Donati, Forti, Santi Romano. Su Vittorio Emanuele Orlando
ed il ‘metodo giuridico’ non è il caso di soffermarsi7. Resta solo opportuno, in questa
sede, il richiamo al concetto di “presenza storica concreta dello Stato giuridico” che,
con Orlando, diventa il “nucleo fondamentale di quella realtà giuridica che era ritenuta
capace di vincolare la stessa soggettività del potere politico”, la quale – come è stato
autorevolmente osservato – diventa “razionalmente agente secondo modalità
giuridicamente calcolabili”8.
Codacci-Pisanelli si allinea su tali posizioni, tra coloro i quali sostengono che “se
[…] diritto costituzionale e politica non vanno confusi, è pur vero che questa gravita
accanto a quello e fornisce la spiegazione di alcuni rapporti e fenomeni della vita
dell’ordinamento statuale”. Il primo tra i meriti del giurista deve ritenersi la
“comprensione storica”. Il giovane giuspubblicista fiorentino è dell’idea per cui “il
diritto pubblico vive bensì accanto alla politica ma non deve essere politica”. Pertanto,
6 Ossia “delle prime affermazioni del modello pandettistico che al principio del nuovo secolo diverrà
comune a tutte le branche del diritto, della prevalenza nella didattica dell’indirizzo teorico e scientifico su
quello professionale, della nascita dei nuovi saperi specialistici disciplinari e delle nuove figure di
professori universitari ‘alla tedesca’, istituzionalmente dediti all’attività di ricerca all’interno delle
Università” (G. Cianferotti, Storia della letteratura amministrativistica italiana, I, Milano, Giuffrè, 1998,
p. 685 ss.).
7 Mi sia consentito rinviare a G.P. Trifone, Il diritto al cospetto della politica. Miceli, Rossi, Siotto
Pintòr e la crisi della rappresentanza liberale, Napoli, ESI, 2010, p. 18 ss. Su V.E. Orlando la
bibliografia è vastissima. Mi limito a citare A. Volpicelli, “Vittorio Emanuele Orlando”, Nuovi studi di
diritto, economia e politica, 1, (1927-28); G. Cianferotti, Il pensiero di V.E. Orlando e la
giuspubblicistica italiana fra Ottocento e Novecento, Milano, Giuffrè, 1980; A. Mazzacane, I giuristi e la
crisi dello stato liberale in Italia fra otto e novecento, Napoli, Jovene, 1986; L. Ferrajoli, La cultura
giuridica nell’Italia del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1999; M. Fioravanti, La vicenda intellettuale del
giovane Orlando (1881-1897), Firenze, Eurografica, 1979; Id., “Popolo e Stato negli scritti giovanili di
Vittorio Emanuele Orlando”, in Id., La scienza del diritto pubblico. Dottrine dello Stato e della
Costituzione tra Otto e Novecento, I, Milano, Giuffrè, 2001; A. Schiavone, Stato e cultura giuridica in
Italia dall’Unità alla Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1990; D. Quaglioni, “Ordine giuridico e ordine
politico in Vittorio Emanuele Orlando”, Le carte e la storia, 1 (2007), pp. 17-26.
8 M. Fioravanti, “La scienza italiana del diritto pubblico”, Ius Commune, X (1983), Frankfurt am
Main, V. Klostermann, p. 223.
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l’indagine scientifica non dovrebbe tendere alla giustificazione di alcune “situazioni
storiche e politiche”, a supporto di esse9.
Il medesimo orientamento emerge anche da un’altra prolusione, che il giurista aveva
tenuto qualche anno prima presso l’Università di Pavia. Affrontando, da un lato, la
distinzione tra diritto amministrativo e diritto costituzionale, e tra diritto amministrativo
e scienza dell’amministrazione dall’altro, egli concludeva che si tratta di parti del
medesimo diritto pubblico, nel cui ambito il diritto costituzionale costituisce
l’ordinamento fondamentale e il diritto amministrativo “la disciplina che studia
l’insieme organico delle norme, delle leggi, degli atti e delle istituzioni che mirano ad
ordinare le funzioni dello Stato, politicamente già costituito”10. In questa prospettiva, la
politica è fattore caratterizzante del diritto pubblico; ma quest’ultimo vive nella sua
espressione come tecnica ordinamentale, che non deve rischiare di essere confusa col
suo elemento sostanziale, pena l’incomprensione della “struttura giuridica degli
istituti”11.
Storicizzare equivale a collocare il fenomeno giuridico nel suo precipuo contesto,
contro ogni astrattismo. Rimane dunque, nel giurista fiorentino, sempre viva
l’attenzione per i “fatti”, secondo un angolo di osservazione realistico continuamente
rimarcato nel corso della sua trattazione sulla sovranità popolare.
Il lavoro di Alfredo Codacci-Pisanelli si colloca all’interno di un più ampio progetto
di revisione del concetto di sovranità da parte dei giuristi formalisti12, che mette su un
piano secondario la accezione filosofico-politica a favore del “momento dell’effettivo
potere e del suo esercizio”13 quale espressione della “capacità giuridica” dello Stato,
9 Errore che veniva imputato ad alcuni giuristi tedeschi coevi, come Paul Laband, il quale “sostiene
tesi politiche nell’interesse dell’equilibrio delle forze tradizionali dei componenti l’impero creato nel
1870, anche quando, come i legisti medievali, la sua tecnica e l’arte sua di giurista sono al servizio della
politica di Bismarck” (P. Chimienti, “Le istituzioni politiche ed il diritto costituzionale”, in Id., Saggi,
Diritto costituzionale e politica, Napoli, Perrella, I, 1914, pp. V ss. e 78).
10 A. Codacci-Pisanelli, Come il diritto amministrativo si distingua dal costituzionale e cosa sia la
scienza dell’amministrazione, Pavia, L. Vallardi, 1887. Cfr. anche A. Sandulli, op. cit., p. 556.
11 G. Cianferotti, Il pensiero di V.E. Orlando, cit., p. 272.
12 Il passaggio dalla dottrina italiana del 1848 – cosiddetta di fondazione costituzionale e improntata ai
principi di “libertà e Stato” - agli anni della scuola ‘orlandiana’ – impegnata nella riconsiderazione della
“libertà dello Stato” -, è messo in evidenza da L. Borsi, Nazione democrazia Stato. Zanichelli e Arangio-
Ruiz, Milano, Giuffrè, 2009, p. 399 ss.
13 A. Majorana, Il sistema dello Stato giuridico, Roma, Loescher, 1889, p. 123.
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secondo il principio per cui la capacità giuridica di un soggetto “comprende tutti i diritti
di esso”14. Diversamente dalla dottrina costituzionalistica – che vede la sovranità in
capo alla nazione “quale ente collettivo di ragione esprimente principi universali, i quali
rinviavano alla personalità umana”15; la realistica – che interpreta la sovranità come
mero dato di fatto16; e la sociologica – che muove dalla società quale plesso organico17,
la dottrina formalistica considera la sovranità “originaria esplicazione della personalità
dello Stato nella sua capacità di comandare autocraticamente entro un dato territorio”18.
Se la sovranità può dirsi sottoposta a dei limiti19, essi sono “giuridici” nella misura in
cui sono imposti dallo Stato a sé stesso. Limiti sociali e politici non sono effettivamente
concepibili dal momento che il “comando assoluto” dello Stato “è la forma politica
della sua stessa convivenza”. In questo senso, lo Stato vive attraverso il suo diritto, che
del primo è dichiarazione imperativa, “sempre accompagnata da una serie di regole a
mezzo delle quali, in caso di controllo o di controversia, si possa pervenire ad un
comando obbligatorio, sicché il circolo si richiude sempre con una manifestazione di
14 “Così la sovranità, affermazione della capacità giuridica dello Stato, comprende tutti i diritti
pubblici o, con espressione sintetica, essa stessa è il diritto dello Stato” (V.E. Orlando, Principi di diritto
costituzionale, Firenze, Barbera, 1889, p. 59).
15 L. Borsi, Nazione, cit., p. 291. È il caso di menzionare almeno A. Brunialti (“Il diritto costituzionale
e la politica nella scienza delle istituzioni”, in Id. (ed.), Biblioteca di Scienze Politiche e Amministrative,
sr. II, vol. VII, pt. I, torino 1896, pp. 3-990, e vol. VII, pt. II, torino 1900, pp. 1-1025), F.P. Contuzzi
(Trattato di diritto costituzionale. Manuale ad uso degli studenti delle università e degli Istituti superiori
e degli aspiranti alle Carriere amministrativa e giudiziaria, Torino, Unione Tipografico-editrice, 1895, p.
138 ss.), G. Arcoleo (Diritto costituzionale, Napoli, Jovene, 1907, p. 89 ss.).
16 Cfr. tra gli altri, M. Siotto Pintòr, I capisaldi della dottrina dello Stato, Roma, F.lli Bocca, 1901; Id.,
“Per la concezione realistica della norma giuridica”, Università degli Studi in Perugia. Annali della
Facoltà di Giurisprudenza, 4 (1906), pp. 133-159; A. Ferracciu, “Il Diritto costituzionale e le sue zone
grigie”, Università degli Studi in Perugia. Annali della Facoltà di Giurisprudenza, 3 (1905), pp. 83-126;
U. Forti, Il realismo nel diritto pubblico. A proposito di un libro recente, Camerino, Tip. Savini, 1903
(con riferimento al volume di Leon Duguit L’Etat, le droit objectif et la loi positive del 1901).
17 Cfr. V. Miceli, La forza obbligatoria della consuetudine considerata nelle sue basi sociologiche e
giuridiche, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1899; Id., Il saggio di una nuova teoria della
sovranità, Firenze, Loescher, 1884-87; A. Bartolomei, “Diritto pubblico e teoria della conoscenza, II, Per
la determinazione giuridica dello Stato”, Università degli Studi in Perugia. Annali della Facoltà di
Giurisprudenza, 1 (1903), pp. 169-186; F. Racioppi, Forme di Stato e forme di governo, Firenze, Società
Ed. Dante Alighieri, 1898.
18 G. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto costituzionale italiano, Roma, F.lli Bocca, 1913, p. 17.
19 Ma c’è anche chi, come E. Presutti, non esita a sostenere la illimitatezza della sovranità, in quanto
non configurabile come un diritto; al contrario, diritti sono quelli in capo agli organi dello Stato, perché
“facoltà limitate da norme giuridiche” (Istituzioni di diritto amministrativo. Parte generale, Napoli,
Tocco, 1904, p. 28).
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volontà assoluta”20. Si potrebbe addirittura rappresentare un “volontarismo
istituzionale”, per cui la sovranità consisterebbe nell’“esercizio supremo di volere da
parte dello Stato per il raggiungimento dei propri scopi, produttivo di conseguenze
coattive sui sudditi”, seppure nei “limiti delle facoltà giuridiche spettanti allo Stato, in
base al diritto esistente”. Quello che emerge, in buona forma, è la prospettiva
soggettivistica che attribuisce allo Stato in via esclusiva l’esercizio dell’imperium
attraverso l’atto amministrativo. Fino a configurare una vera e propria “onnipotenza”
dello Stato medesimo: “la sovranità è quella somma facoltà di volere dello Stato, fatto
attivo per il raggiungimento dei propri interessi, protetta e riconosciuta decisiva dal
diritto obiettivo, secondo la quale lo Stato può volere e raggiungere coattivamente ciò
che vuole”21.
Da parte sua, nel fissare il concetto di sovranità, Codacci-Pisanelli ne esclude ogni
connotato personalistico. Non appartenendo ad un soggetto o ad un organo particolare
dello Stato, la sovranità diventa una “funzione” attinente all’organizzazione dello Stato
stesso22. Più precisamente, essa viene ravvisata in un “complesso di facoltà e diritti […]
designati come potestà di organizzazione, di comando e di divieto”23, risultando una
“manifestazione”, da parte di organi diversi e assumente forme differenti, volgente “in
20 G. Arangio Ruiz, Istituzioni, cit., p. 21. Si tratta evidentemente della recezione delle teorie di Gerber
(Grundzuge des deutschen Staatsrechts, Lipsia, Tauchnitz, 1865). Una critica al giurista tedesco arriva da
parte di G. Grasso: “lo Stato avendo una capacità di volere tutta sua, consistente nella facoltà di
comandare, ossia di manifestare, per l’adempimento dei compiti suoi, una volontà obbligante tutto il
popolo, Gerber trovava in questo contenuto della volontà statuale il carattere specifico e differenziale
della personalità dello Stato di fronte alle persone giuridiche del diritto privato”. Ma “se non vediamo che
un soggetto, lo Stato, e dei sudditi oggetti della sua dominazione, questo sarà un fatto, non un diritto. E
siccome l’essere persona vuol dire essere soggetto di diritti e non solo portatore ed arbitro di una forza –
così il disconoscimento della personalità dei cittadini nel campo del diritto pubblico conduce al diniego
della personalità dello Stato, cioè all’eliminazione del presupposto necessario di ogni costruzione
giuridica del diritto statuale” (I presupposti giuridici del diritto costituzionale e il rapporto fra lo Stato e
il cittadino, Genova, Tip. R. Istituto sordo-muti, 1898, pp. 99 e 102).
21 L. Raggi, La teoria della sovranità. Contributo storico e ricostruttivo alla dogmatica del diritto
pubblico, Genova, A. Donath, 1908, p. 257.
22 Sugli schemi di rappresentazione della sovranità nella giuspubblicistica otto-novecentesca a partire
dai poli, rispettivamente, sociale e statuale, cfr. P. Costa, Lo Stato immaginario. Metafore e paradigmi
nella cultura giuridica italiana fra Ottocento e Novecento, Milano, Giuffrè, 1986, p. 238 ss. e Id., “Il
modello giuridico della sovranità: considerazioni di metodo ed ipotesi di ricerca”, Filosofia politica, 1,
(1991), p. 51 ss.; A. Carrino (a cura di), Sovranità e Costituzione nella crisi dello Stato moderno, Torino,
Giappichelli, 1998.
23 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 60.
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più direzioni e sfere che variano col mutare dei fini pubblici”. Se il criterio della
sovranità non coincide più con quello tradizionale di “potere” di tipo verticistico, viene
scartata automaticamente l’opzione del legislativo come potere supremo. In una
dimensione organica, “il decreto governativo e la sentenza giudiziaria sono, come la
legge, manifestazioni della sovranità, in quanto contengono comandi o divieti ai quali
coloro cui sono rivolti debbono uniformarsi”24.
Affermata la centralità dell’organizzazione, la sovranità risulta da una
“coordinazione non di poteri, ma di autorità spesso cooperanti e talora controllantisi
nell’esercizio delle attribuzioni, non in base a uno schema prestabilito, ma secondo i
fatti e i bisogni pratici”25. Codacci-Pisanelli è perentorio nell’escludere una gerarchia tra
legislativo, esecutivo e giudiziario. Il diritto pubblico, nell’atto di regolare l’esercizio
della “potestà sovrana”, pone in essere un “sistema” ordinamentale, per cui vincola “non
meno le autorità che i cittadini, con norme certe, sicure e stabili”. All’interno di tale
sistema vanno definiti i “fini” da perseguire, che costituiscono “la parte più stabile del
potere sovrano” e per la cui realizzazione è previsto un esercizio in certa misura elastico
delle diverse competenze, sebbene entro “limiti” prestabiliti dalle leggi fondamentali26.
Che poi certe limitazioni siano realmente efficaci, è motivo di discussione. Giorgio
Arcoleo – in consonanza con Codacci-Pisanelli sulla unicità della sovranità “nella sua
essenza” e sulla diversità di aspetti relativi al suo esercizio, “pur serbando identico
principio e scopo” – sostiene che ciascun potere ha “rispetto all’altro, un rapporto di
autonomia, in quanto ha esistenza propria: - di coordinazione, in quanto concorre al
medesimo scopo di attuare la sovranità dello Stato: - di sindacato, in quanto può
vigilare e resistere agli abusi ed eccessi dell’altro potere”27. E tuttavia lo sviluppo delle
attività statali ha ben presto complicato i rapporti tra le funzioni legislativa, esecutiva e
giudiziaria. Pertanto, nella prospettiva di un coordinamento tra l’esercizio della
24 Ibid., p. 7.
25 Ibid., pp. 42-43.
26 È dentro i limiti segnati da queste norme che può e deve svolgersi così l’autorità pubblica, come la
libertà sociale, poiché le norme mirano a un duplice intento. Comandando o vietando ai cittadini, sotto
sanzioni assicuranti l’ubbidienza, degli atti determinati, esse danno forza ed efficacia all’autorità. E
tracciando a questa dei limiti che non può varcare, tutelano la libertà della sfera d’azione, riconosciuta ad
ogni individuo e ad ogni personalità vivente nello Stato” (Ibid., p. 57).
27 G. Arcoleo, Diritto costituzionale, cit., p. 89.
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sovranità dello Stato e la tutela della libertà dei cittadini, il costituzionalista distingue
potere e diritto, “attribuendo un carattere obbligatorio al diritto, facoltativo al potere”.
Perché detta “facoltà discrezionale” non diventi “arbitraria”, il potere dev’essere
“compreso in una sfera d’azione”, ovverosia regolato da una norma, che lo renda
legittimo. Senonché, a tale “analogia di rapporto col diritto” rischia di sfuggire il
governo, per la sua natura politica di “forza imperante, che trova la sua ragion d’essere
nella necessità di una direzione e di un comando”. Una legittimazione di fatto,
insomma: “presumendosi come strumento della vita stessa dello Stato, [detto potere]
assume nella iniziativa e nei mezzi una parvenza di legittimità, che gli sgombra la via e
costringe il funzionario ad eseguire, i cittadini ad obbedire”28. Va aggiunto che tale
discorso, portato alle estreme conseguenze, non escluderebbe neanche la natura
“politica” della legge come espressione della volontà popolare.
Come si pone Codacci-Pisanelli di fronte al suddetto “rapporto di differenza tra
diritto e potere”29 ? Secondo lui, la sovranità è allo stesso tempo forma ed espressione
dello “Stato-persona” – le cui manifestazioni ed effetti “ci fan certi della sua non
materiale, ma pur reale, esistenza” – e consta di due elementi: quello stabile, costituito
dalla norma “più o meno precisa”; e quello mutevole “rappresentato dall’energia, più o
meno libera, dell’autorità chiamata ad agire”. In questo senso, la definizione di Orlando,
per cui la sovranità è affermazione della personalità dello Stato come capacità di
volere30, è esemplare. In ogni caso, garante del sistema è il “diritto nazionale” nella sua
vocazione “ordinante”. Esso “vincola il parlamento come ogni altra autorità quando
governa o controlla e lo vincola anche quando legifera; poiché le nuove leggi debbono
coordinarsi a quelle esistenti”. È questo principio della coordinazione, insomma, che
costituisce i limiti sostanziali del potere politico lato sensu. Contro la sua pretesa
onnipotenza, esiste un argine prestabilito anche rispetto alla carta costituzionale, che,
peraltro, è flessibile e dunque modificabile per legge ordinaria. Se quest’ultima non
mina le fondamenta dell’ordinamento è perché il parlamento riconosce il suo ruolo
28 Ibid., p. 92.
29 L’espressione è sempre di Arcoleo, ivi.
30 V.E. Orlando, Introduzione al Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, I, Milano,
Società Editrice Libraria, 1900, p. 22.
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all’interno di una costituzione innanzitutto materiale: “nessun parlamento, che capisca il
suo ufficio, imprenderà mai ad un tratto la demolizione di un intero sistema giuridico
vigente per ricostruirlo di pianta; né farà leggi contrarie ad altre in vigore, delle quali
non s’abbia in vista la riforma”31.
Quanto al governo, come già accennato, esso non è mero esecutore “d’un indefinito e
indefinibile volere altrui”, ma si presenta come un’autorità il cui esercizio non si arresta
alla pedissequa applicazione delle leggi. Queste, tuttavia, ne definiscono la sfera di
azione; in caso di eccedenze, il governo è sottoposto a sindacato giudiziario,
amministrativo e parlamentare, secondo un preciso sistema di controlli. Ciò che conta è
che “le norme restano semplici limiti al di là dei quali non è lecito andare; ma entro i
quali rimane, tuttavia, una più o meno ampia sfera discrezionale. Ond’è che la
determinazione della volontà politica non si esaurisce nella determinazione delle
regole”. È la vita stessa, secondo Codacci-Pisanelli, a presentarsi refrattaria agli schemi
prestabiliti, e il diritto deve adeguarsi al suo processo dinamico. Se quindi “la relazione
tra la legge e il governo ha più il carattere negativo di limitazione che quello positivo di
determinazione”, ciò avviene in varia misura in ciascun settore: “in ogni ramo e in ogni
grado dell’amministrazione le norme lasciano una maggiore o minore libertà d’azione”.
A ben vedere, sostiene il giuspubblicista, anche l’operato dei “più umili agenti” si
presenta “non come mera esecuzione di un ordine generale o speciale”; l’esercizio di
una funzione, insomma, implica una certa elasticità relativamente al fatto che è
compiuta da uomini in riferimento a esigenze concrete: “ricercare le cautele che ne
assicurino il corretto esercizio sarà il compito d’ogni pubblicista”32. Nel negare “potere”
agli organi legislativo, esecutivo e giudiziario, il giurista fiorentino non è isolato: la
sovranità non spetta “a qualche organo particolarmente [bensì] allo Stato nella sua piena
31 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 59.
32 Ibid., pp. 41-42. Nel saggio “Legge e regolamento” (Napoli 1888, ora in Id., Scritti di diritto
pubblico, cit., p. 3-74), Codacci-Pisanelli aveva già sostenuto la teoria della “differenza formale ed
identità sostanziale tra legge e regolamento” (p. 35). In quest’opera il giurista aveva anche definito i
lineamenti della teoria dello Stato come persona giuridica titolare della sovranità, manifestantesi
nell’attività degli organi di governo, la quale non può ridursi “ad una mera esecuzione di norme”, data la
varietà di situazioni particolari e la complessità dell’ente. In base a tali asserzioni, veniva infine confutato
il concetto di sovranità popolare e la sua filiazione nella “meccanica tripartizione dei poteri” (cfr. G.
Cianferotti, Storia della letteratura amministrativistica italiana, cit., pp. 687-690).
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personalità”33. Il principio è ampiamente condiviso: “l’unità dello Stato importa che il
potere supremo è uno, come una è la sovranità”; quello che si scinde è il suo
“esercizio”, attraverso “il complesso delle svariate funzioni”34.
Si tratta di riconoscere l’immanenza del diritto nazionale di fronte alla contingenza
del provvedimento normativo; ovvero, che “il diritto debba considerarsi come avente
un’esistenza indipendente e superiore all’organo che nella esplicazione concreta della
sovranità è destinato alla dichiarazione del diritto”35. La sovranità – come anche è stato
di recente osservato36 – non può essere oggetto di disposizioni attraverso un privato atto
di autorità, bensì si svolge “secondo la volontà dello Stato, manifestata nella legge”37.
La sublimazione del soggetto politico nell’ente giuridico si compie dal momento che
“gli atti della sovranità conservano piena efficacia, anche quando venga meno la
persona del principe che li ha emanati […], perché essi sono atti dello Stato persona
collettiva”38. E dunque, supporre che il diritto esista per legge è da reputarsi “un errore
costituzionalmente inammissibile”; mentre è vero il contrario: “che la legge esiste per il
diritto”39.
Alla luce delle precedenti osservazioni, il popolo viene addirittura esautorato da ogni
esercizio politico: esso è considerato mero “destinatario” della sovranità, poi che viene
“assunto nell’organizzazione dello Stato”. E persino dopo il passaggio al “regime
democratico”, la natura istituzionale rimane immutata, sicché il popolo, una volta
“ammesso” all’esercizio della sovranità, prende a sua volta “la posizione di organo dello
33 L. Minguzzi, “Alcune osservazioni sul concetto di sovranità”, Archivio di diritto pubblico, 2 (1892),
p. 39.
34 F.P. Contuzzi, Manuale di diritto costituzionale, Torino, Unione tipografico-editrice, 1895, p. 145 e
passim, p. 148 ss. Nonché E. Presutti: “solo alcune funzioni possono delegarsi ad appositi organi […]. Per
quanto ampi siano i poteri di costringimento attribuitigli, nessun organo dello Stato è sovrano: la
sovranità compete unicamente allo Stato” (Istituzioni, cit., p. 24).
35 A. Longo, “Della consuetudine come fonte del diritto pubblico (costituzionale e amministrativo)”,
Archivio di diritto pubblico, 2 (1892), 2, p. 252.
36 A. Luongo, Lo “Stato moderno” in trasformazione. Momenti del pensiero giuridico italiano del
primo Novecento, Torino, Giappichelli, 2013, p. 89 ss.
37 D. Donati, “La persona reale dello Stato”, Rivista di diritto pubblico e della pubblica
amministrazione: la giustizia amministrativa, (1921), p. 22.
38 Ivi.
39 A. Longo, “Della consuetudine”, cit., p. 253.
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Stato”40. Ciò per dire che il potere politico è soltanto una particolare conformazione
dell’ente giuridico cui fa capo.
Nondimeno secondo un indirizzo sociologico, la sovranità dello Stato è la
“determinazione dell’ordine giuridico”41, tanto da riguardare il momento organizzativo
della compagine sociale in forma di mera concessione. Essa “non è un diritto”42, ma si
esprime attraverso il diritto in termini di “organizzazione della costrizione sociale”43. In
questa visuale, quello che emerge è l’inevitabile “rapporto di forza” tra “il potere
sovrano e i suoi subordinati”, al di fuori del quale è vano ragionare di volontarismo
democratico. Anche la democrazia – e persino il socialismo –, come sistema
ordinamentale, rientrerebbe nella “necessità oggettiva” del “momento di signorìa”, pena
“l’anarchismo che negando nella sua forma stessa l’ordine giuridico, [e che] vorrebbe
quell’elemento evitare, non può costituire il principio di nessuna organizzazione
sociale”44. Per sintetizzare, ogni diritto ed ogni potere risultano come “permessi” dallo
Stato. Ciò, peraltro, esclude qualsiasi digressione in merito alla presunta autonomia dei
poteri legislativo ed esecutivo. Ancora una volta, solo lo Stato ha “reale autonomia
perché solo questo ha sovranità”45.
Ma la sociologia ammette diversi punti di osservazione: pur stabilito che “come non
vi ha Stato senza diritto, così non vi è diritto senza Stato”, la “norma” può ben diventare
misura del “rapporto armonico” tra gli scopi dei singoli e gli scopi comuni: in
quest’ottica, la “moltitudine vivente in un dato territorio” non potrebbe esistere se non
“ordinata a vita comune”46, nella concezione che riconosce una specifica comunità in
relazione allo “spirito di popolo”, ossia “un determinato carattere del popolo, diverso
dallo spirito e carattere degli individui, di cui è solo la risultante armonica”47. Pertanto,
40 D. Donati, “La persona”, cit., p. 22.
41 A. Bartolomei, Lineamenti di una teoria del giusto e del diritto con riguardo delle quistioni
metodologiche odierne, Roma, F.lli Bocca, 1901,
42 Cfr. E. Presutti, Istituzioni, cit., p. 28.
43 A. Bartolomei, Lineamenti, cit., p. 182 ss.
44 Ivi.
45 Ivi.
46 G. Grasso, I presupposti, cit., p. 122.
47 F.P. Contuzzi, Manuale, cit., p. 136.
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quando si fa riferimento alla “vita vissuta dalle singole forze individuali e sociali
esistenti nel seno di uno Stato” in relazione all’esplicazione della sovranità, essa va
intesa quale “vita unitaria, complessiva”, che è quella propria delle società umane
organizzate giuridicamente48. Senza vulnerare l’assioma che “la sovranità compete allo
Stato” come potere “astrattamente, in principio, illimitato”49. Ne consegue che tra Stato
e diritto non c’è un elemento primario rispetto all’altro, ma necessaria coincidenza: “lo
Stato è organo del diritto, il diritto è una delle funzioni, la funzione specifica dello
Stato”. In quest’altra prospettiva, l’elemento autoritativo non è più determinante: “lo
Stato non può essere trasformato in un animale, né ridotto a un mero rapporto di
comando e di ubbidienza”50. Il diritto è riconosciuto spontaneamente da parte dei
consociati in forza del “principio di autorità politica, o Sovranità propriamente detta”,
che spetta esclusivamente allo Stato quale “mezzo alla conservazione sociale”51.
Codacci-Pisanelli non è indifferente a certe suggestioni, ma tiene distinta la sovranità
come “concetto giuridico formale”, per cui essa “non è illimitata, come non è
indivisibile, né indelegabile”. Il diritto pubblico, nella sua dimensione razionale, la
limita e la ripartisce in ragione degli obiettivi sostanziali dello Stato. Il che, si torni a
dire, non esclude il campo di esame sociologico, che tende a stabilire “quali elementi
sociali si fanno, nei diversi casi, valere in quella forma giuridica che è lo Stato”; né
quello politico, che ricerca “per un dato paese il miglior modo di distribuzione della
sovranità”52. Ad ogni buon conto, l’indagine giuridica conduce alla negazione della
concentrazione del potere ed alla distribuzione delle facoltà a diverse autorità coordinate
tra loro.
In questa visuale, la sovranità popolare è valutata in senso critico. Già Orlando aveva
evidenziato l’errore di “intendere il rapporto fra popolo e Stato come rapporto fra un
48 Beninteso: “quella società a base territoriale, munita di appositi organi, che ha sugl’individui e sui
gruppi sociali, anche se a base territoriale, che esistono sul suo territorio, un potere di costringimento
astrattamente illimitato. Questo potere di costringimento astrattamente illimitato si chiama sovranità” (E.
Presutti, Istituzioni, cit., pp. 17).
49 Ivi.
50 G. Grasso, I presupposti, cit., p. 122 ss.
51 F.P. Contuzzi, Manuale, cit., p. 137.
52 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 63.
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soggetto portatore di volontà e un mezzo funzionale alla realizzazione di questa”53 .
Giudicando il diritto pubblico “nel modo stesso che il diritto privato, come un
complesso di principi giuridici sistematicamente considerati”, il fondamento della
sovranità come diritto dello Stato “non potrà essere sostanzialmente diverso dal
generale fondamento di ogni diritto”; secondo tale schema, la fonte del diritto sovrano
ha certamente a che fare col popolo, ma non nel senso “rousseauviano” del complesso
dei singoli individui. Analogamente, anche per la dottrina organicistica “una volta che
gl’individui non solo esistono, ma altresì coesistono, e debbono necessariamente
coesistere per la forza di attrazione che li raggruppa nel corpo sociale, non può
l’individuo essere la fonte della sovranità”54. Siamo a un punto di convergenza: la
“coscienza collettiva del popolo” qualifica l’“indole giuridica” del diritto di uno Stato,
secondo i suoi “precedenti storici”55.
È invece il richiamo alla costituzione formale come “più alta espressione della
volontà generale” a diventare fuorviante, laddove riporta la sovranità in capo al “corpo
sociale” incarnato nella nazione56. Il rischio è di confondere la nozione giuridica della
capacità statuale col suo contenuto politico, quest’ultimo espresso dalla volontà
popolare attraverso la rappresentanza. Il popolo è soggetto politico mutevole; lo Stato è
persona giuridica immanente. Ma “la sovranità, in quanto esplica la capacità dello Stato,
non può derivare che da un concetto giuridico, il quale si può legare ad una persona
morale, non mai al popolo, che in nessun tempo e in nessuna parte del mondo ha potuto
e potrà mai assumere personalità ai fini del diritto”57.
Bisogna aggiungere che il tentativo di Codacci-Pisanelli è piuttosto quello di
chiudere definitivamente la discussione ideologico-politica e ripartire dal presupposto
giuridico: essendo la presenza dello Stato ineccepibile, il problema del suo fondamento
53 V.E. Orlando, “Del fondamento giuridico della rappresentanza politica”, in Id., Diritto pubblico
generale, Scritti vari (1881-1940), Milano, Giuffrè, 1954.
54 F.P. Contuzzi, Manuale, cit., p. 138.
55 Cfr. D. Quaglioni, Ordine, cit., p. 13.
56 Nel caso di Contuzzi, gli artt. 1 delle rispettive costituzioni francesi del 1791 e del 1848 (cfr. op.
cit., pp. 139-140).
57 G. Arangio Ruiz, Istituzioni, cit., p. 24.
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non ha più ragione di porsi58. Il che, per converso, si può dire anche del diritto: “ove si
guardi alla natura del diritto come funzione, e funzione essenziale, dello Stato, esso non
appare che come una manifestazione di volontà dello Stato stesso […]. Ed è
perfettamente indifferente per costruire la teorica di questa manifestazione di volontà,
una volta formatasi, il considerarla volontà necessaria o volontà libera”59. Stato e popolo
non possono coincidere nella titolarità del potere sovrano, perché questo è un insieme di
manifestazioni giuridicamente configurabili60. Il principio democratico, dunque, deve
essere analizzato a partire dal significato di “potere del popolo”, al di là di posizioni
ideologiche61.
Muovendo dall’osservazione della democrazia come forma di governo praticabile,
Codacci-Pisanelli si interroga sulla compatibilità delle istanze della sovranità popolare
con i principi alla base dell’“ordine obiettivo”62; in altre parole: “se sia possibile dare
seguito a quelle istanze mediante i pilastri concettuali delle costituzioni”63, oppure se il
“sistema giuridico-politico”, per come impostato, non impedisca la realizzazione di
quelle istanze.
La supposizione della “volontà” popolare mette in discussione il concetto di
sovranità come funzione e, di conseguenza, destabilizza la forma-Stato, dato il principio
per cui l’unica configurabile nello “Stato moderno libero” è la volontà “del popolo
ordinato ad unità, e che come tale si distingue dalle individualità dei suoi membri, è
58 Estremizzando, L. Minguzzi parla di “tautologia”, laddove la sovranità, essendo insita nella nozione
di Stato, è “un concetto di cui non vi è necessità logica”, dato che “essere Stato ed affermarsi come
persona giuridica sono una cosa sola; quindi la sovranità non è distinta, ma incarnata nell’idea dello
Stato” (“Alcune osservazioni”, cit., pp. 38 e 42).
59 F. Cammeo, “Della manifestazione della volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo”,
in V.E. Orlando (a cura di), Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, III, Milano,
Società Editrice Libraria, 1901, pp. 13-14.
60 Sul punto anche L. Minguzzi, “Alcune osservazioni”, p. 26; G. Arcoleo, Diritto costituzionale, cit.,
p. 77 ss.; G. Arangio Ruiz, Istituzioni, cit., p. 22.
61 Che pure sono quelle del liberale antiegualitario ma incline alle riforme sociali, come dimostrato nel
corso della sua successiva carriera politica. Cfr. A. Sandulli, op. cit.
62 Prendo in prestito l’espressione di Maurizio Fioravanti che, riferendosi all’interpretazione
orlandiana di Savigny, formula il concetto di costituzione materiale come ordine obiettivo che è dato
nell’esperienza: “è proprio quell’ordine a conferire alla legge, che di esso medesimo è espressione, la sua
forza sovrana” (“La crisi dello Stato liberale di diritto”, Ars interpretandi, Annuario di ermeneutica
giuridica, Roma, Carocci, XVI, (2011), p. 84).
63 G. Duso, “Per una critica della democrazia”, in L. Bazzicalupo e R. Esposito (a cura di), Politica
della vita, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 57.
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indipendente da essi, si contrappone ad essi e su di essi si manifesta come potere”; che è
potere legittimo in quanto “trova il suo riconoscimento e la sua norma nell’ordine
giuridico esistente nello Stato”64. Nella misura in cui lo Stato è comunità necessaria, nel
senso che l’uomo non può fare a meno di viverci, quest’ultimo non può nemmeno
sottrarsi al suo potere di imperio, che è originario, cioè non derivato “da altra forza o
volontà superiore o precedente”. Il che esclude, da parte del popolo, qualsiasi decisione
di aderirvi o meno65.
Ma pur volendo fermarsi alla prospettiva del buon governo, l’elemento quantitativo
già di per sé si presenta come fomite di disordine e tendente all’anarchia. Ciò che
Codacci-Pisanelli trova pericoloso è il passaggio dall’assolutizzazione del soggetto
collettivo “Stato” al soggetto collettivo “popolo”, quest’ultimo incondizionabile e
quindi dispotico. La prima vittima della sovranità popolare è, infatti, la libertà, una volta
messo in crisi lo spazio politico come insieme di relazioni ordinate a sistema. Se,
insomma, la sovranità non è l’attributo di un organo, ma la connotazione dell’organismo
nella sua complessità, riferirla a un soggetto particolare aprirebbe la strada al
dispotismo. Come il Nostro osserva a proposito di Rousseau e dell’illimitatezza della
sovranità66: “quando il popolo sovrano si riunisce, ogni legge tace, ogni altra potestà
cessa. Allorché appare il creatore e padrone, la creatura ed il servo si tirin di canto”67.
Come detto, il giuspubblicista fiorentino identifica società e Stato nelle coordinate
dell’organizzazione giuridica; al contrario, la volontà popolare non può accettare regole
e limiti, essendo sottoposta unicamente a sé stessa: “se avesse una norma qualsiasi da
rispettare, l’assemblea non rappresenterebbe più tutto il volere dello Stato e quindi non
sarebbe più sovrana”68. Per tale motivo egli non può condividere le teorie
giusnaturaliste: “l’ipotesi dello stato di natura e del contratto si rivela falsa e funesta.
64 O. Ranelletti, Principii di diritto amministrativo, I, Napoli, L. Pierro, 1912, p. 119.
65 “Lo Stato adunque, come la società, non può trovare il suo fondamento e la sua giustificazione nella
libera, cosciente volontà individuale di assenso alla sua formazione o al suo perdurare. Il contratto, come
prodotto libero, cosciente e contingente della volontà individuale, non può essere posto all’origine dello
Stato, per spiegarne o giustificarne la formazione” (Ibid., p. 130).
66 J.J. Rousseau, Il contratto sociale (Amsterdam 1762), Milano, RCS Libri, 2010, Lib. II, Cap. 4, p.
31 ss.
67 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 56.
68 Ivi.
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Falsa, poiché, contro ogni esperienza, eleva a causa unica dei fenomeni politici la
volontà degli individui”; ma l’aspetto peggiore è l’instabilità a cui questa idea conduce,
“perché fatale conseguenza di essa […] è che un popolo possa e debba considerarsi
sempre allo stato di natura; cioè autorizzato ad infrangere, da un momento all’altro, e
senza rispettare nulla, quell’ordine giuridico che è condizione indispensabile del
benessere, e del progresso sociale”69.
A parere di Codacci-Pisanelli, i principi giusnaturalisti sono talmente astratti che i
loro stessi teorici sono talvolta costretti a ridimensionarli. Riferendosi a Grozio, il
nostro giurista non lo fa così irresponsabile da non accorgersi che fondare lo Stato sulla
sola volontà dei consociati “ferisce ogni ordinamento politico”. Ma, nel tentativo di
salvare il salvabile, il filosofo olandese diventa incoerente, laddove giustifica
l’assoggettamento del popolo a un principe e nega l’opzione della ribellione; fino a
ritenere plausibile che il consenso del popolo al contratto possa essere “tacito o
presunto”, a dispetto dell’affermazione per cui “il patto di una generazione non può
vincolare in alcun modo le successive”70.
In ogni caso, il giurista confuta il dogmatismo fin dalle sue origini. In risposta alla
domanda: “a chi spetti e d’onde venga la potestà sovrana”, sono analizzate tre teorie: la
teocratica, la democratica e la giuridico-politica.
Partendo dalla prima, Codacci-Pisanelli compie una ricognizione che dai tempi più
remoti, attraverso la dottrina medievale “delle due spade”, fino alla scuola teologica
dopo la Rivoluzione francese, presenta il dato comune per cui chi governa
“riannodandosi personalmente al cielo, acquista prestigio e incute timore ai suoi sudditi;
i quali tanto più volentieri s’acquetano all’altrui dominio, quanto più ne reputano alta e
misteriosa la causa”71. Il vizio, insomma, è quello di confondere la “vita religiosa” con
la “vita civile” – ossia occultare il principio della laicizzazione del diritto consistente
nella liberazione da ogni crisma non soltanto sacro, ma più ampiamente ideologico –
69 Ibid., p. 26.
70 Ibid., pp. 28-29. Sul punto, A. Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa, Milano, Giuffrè,
1982, p. 325 ss; D. Quaglioni, La giustizia nel Medioevo e nella prima Età Moderna, Bologna, Mulino,
2004, p. 100 ss.; L. Nocentini, “Autonomia della ragione e diritto (La comunità politica)”, Bollettino
telematico di filosofia politica, <http://btfp.sp.unipi.it/dida/nocent/index.htm>.
71 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 8.
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ponendo a giustificazione dell’ordinamento “la rivelazione” e, per l’appunto, il
“dogma”.
Capovolto il punto di osservazione, si tratta del medesimo strumento di
legittimazione della teoria democratica attraverso il concetto di “sovranità popolare”,
che, rispetto all’epoca moderna, trova – a detta di Codacci-Pisanelli – la sua origine
nella lotta tra papato e impero72. Sia dai guelfi, sostenitori dell’origine immediata del
potere papale da Dio; sia dai ghibellini, per cui “viene direttamente da Dio anche la
spada temporale, in nulla, perciò, all’altra inferiore”73, il popolo era sempre chiamato a
testimone dell’autorità dell’una o dell’altra parte74. Ma, realisticamente, il concetto di
“popolo” è mal formulabile75, ammesso che non si faccia riferimento alle masse, sempre
strumentalizzate da parte di fazioni politiche che, facendo appello al “diritto” che quelle
avevano di giudicarle, cercavano di delegittimarsi a vicenda.
Allo stesso modo, in seguito alla riforma, i protestanti avrebbero stabilito che “la
comunanza dei cristiani avesse, per diritto divino, una potestà suprema nelle questioni
religiose, e riconoscendo così una specie di sovranità popolare in fatto di fede, estese
presto, appena la lotta lo richiese, questo principio anche alla sfera politica”76,
inducendo i cattolici a fare altrettanto. Di conseguenza, il diritto di sollevare il
“tiranno”, per non aver rispettato il suo dovere di governare secondo il mandato divino
quale custode della sovranità in vece del popolo, diventava un principio “sempre
asserito e non mai dimostrato”, a beneficio di chi se ne sapesse servire. Per tutti i casi
descritti, il problema è comune. Trasferire la sovranità dal sistema istituzionale a titolari
72 Sulla teorica gregoriana dell’unicità della ecclesia sotto il pontefice, e della funzione temporale
come commessa; nonché sulla legittimazione del potere imperiale da parte dei legisti, E. Crosa, Il
principio della sovranità popolare dal Medioevo alla Rivoluzione francese, Milano Torino Roma, F.lli
Bocca, 1915, p. 10 ss.
73 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 12.
74 La trasmissione di potere dal populus al princeps è un topos di tutta la tradizione giuspubblicistica
medievale. Per una esegesi dei numerosissimi brani, E. Cortese, Il problema della sovranità nel pensiero
giuridico medievale, Roma, Bulzoni, 1966.
75 Il populus “è la simbolizzazione non tanto di un dato reale […] quanto di un modello quasi sovra-
temporale”. Esso risulta un archetipo “dentro il linguaggio del processo valido del potere al punto di fare
di quel simbolo uno dei principali supporti della validità” (P. Costa, Iurisdictio. Semantica del potere
politico nella pubblicistica medievale (1100-1433), Milano, Giuffrè, 1969, pp. 227-229).
76 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 20. Per una disamina delle dottrine di Calvino, Lutero e e
Melantone ed il loro rapporto con l’evoluzione della teoria nazionalistica degli Stati, cfr. E. Crosa, op.
cit., p. 118 ss.
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del tutto imprecisati può condurre solo alla sovversione: “il concetto di sovranità, per
natura sua necessariamente giuridico-politico, diventa un non senso […] quand’è
scompaginato da quel fatto dell’organizzazione politica che lo determina”77.
Insomma, l’affermazione per cui “l’idea democratica è tenuta a battesimo dalla
teocratica”78 può essere smentita dall’osservazione realistica per cui il governo, inteso
come attività pratica, verrebbe addirittura “prima della legislazione, concepita come
complesso di norme che regolano o limitano quell’attività”. Soprattutto, la legislazione
non va confusa con la sovranità per quanto già osservato, ossia che al legislatore
spetterebbe soltanto “una delle funzioni sovrane”79, non potendo l’assemblea popolare
dettare all’esecutivo regole o disposizioni talmente esaurienti da richiederne
semplicemente l’applicazione.
Né sarebbe sostenibile la legittimazione della democrazia secondo la “legge
naturale” per cui potrebbe esistere un popolo senza principe, ma non un principe senza
popolo80. Un’altra astrazione, dato che manca l’idea del popolo come “grandezza
costituente”81. Ma anche una volta fissato il concetto di popolo come corpo
77 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 16.
78 Portata avanti sin dal Trecento, con particolare riferimento a Marsilio da Padova. Con l’asserzione
per cui sovrano è il legislatore, ossia la “universitas civium, aut eius pars valentior, quae totam
universitatem repraesentat” (R. Scholz (a cura di), Marsilius De Padua, Defensor Pacis, Hannover,
Hansche Buchhandlung, 1932, Dictio I, XII, 3), Codacci-Pisanelli attribuisce a Marsilio due errori
fondamentali: la delegazione di potere e la subordinazione del governo alla volontà del popolo. Dopo aver
infatti stabilito la sovranità in capo all’universitas civium, si afferma che il principe, a cui rimane una
sorta di potere subordinato, è “secundaria, instrumentalis, seu executiva pars”. Sulla vita e l’opera di
Marsilio, tra gli altri, B. Labanca, Marsilio di Padova riformatore politico e religioso del secolo XIV,
Padova, F.lli Salmin, 1882; F. Battaglia, Marsilio da Padova e la filosofia politica del Medioevo, Firenze,
Le Monnier, 1928; G. Capograssi, “Intorno a Marsilio da Padova”, Rivista internazionale di Filosofia del
Diritto, X, (1930); A. Passerin d’Entrèves, “Rileggendo il Defensor Pacis”, Rivista storica Italiana, LI,
(1934); A. Checchini e N. Bobbio (a cura di), Marsilio da Padova. Studi raccolti nel VI centenario della
morte, Padova, CEDAM, 1942; C. Vasoli, Introduzione a Marsilio da Padova, Il difensore della pace,
Torino, UTET, 1960.
79 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., pp. 17-19.
80 Secondo la lex regia de imperio, la potestas suprema viene concessa dal populus al princeps che,
solo in virtù di tale attribuzione, può attribuire vigorem a quod ei placuit (Ibid., p. 23). Per Pietro Costa,
che si riferisce al contesto imperator-lex regia secondo i passi del Corpus iuris (D. I, 4, I, C. I, 17, I, 7,
Inst. I, 2, 6), qui il populus funziona da strumento di validazione, ossia “di attribuzione all’imperatore
della pienezza dei poteri”; insomma: “il populus è, di per sé, un simbolo di legittimazione”, ma “nessuno
dubitava che il processo di potere valido discendesse dall’imperatore e soltanto da lui” (Iurisdictio, cit., p.
191 ss.).
81 A ben vedere, il concetto di populus come universitas e non come “bellua multorum capitum” è
presente in Buchanan, Boucher e nelle Vindiciae contra tyrannos, mentre in Althusius il concetto
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rappresentativo ed il rapporto di legittimazione tra esso e la costituzione82, ci si sarebbe
trovati comunque in presenza di un dualismo tra il rappresentato e il rappresentante, tale
da “impedire al cittadino una effettiva partecipazione al potere”83.
Se invece si ragionasse in termini di democrazia diretta, la sublimazione dell’idea
democratica condurrebbe al cesarismo. Esempi recenti si ricavano dai plebisciti
napoleonici: “gli antitirannici citano […] gli imperatori bizantini con quella stessa
ingenuità con cui i democratici d’oggi citano più fondatamente gli ultimi due imperatori
francesi. E chi più e meglio dei cesari, antichi e moderni, potrebbe fare l’apologia di
questo comodo e eterno istrumento di tirannide?”84. Il bersaglio è ancora Rousseau;
come accennato, il forte individualismo che il ginevrino sostiene si trasforma
inevitabilmente nel dispotismo della maggioranza, complicando, invece che risolvendo,
il rapporto tra potere e libertà. A riguardo, anche Grasso: “la barriera che il diritto
naturale aveva innalzato contro la volontà assoluta del monarca, e che dal campo delle
dottrine era stata tradotta nel campo dei fatti in legge solenne colle dichiarazioni dei
diritti dell’uomo, veniva abbattuta virtualmente coll’assoluto impero riconosciuto alla
volontà della massa dei cittadini o della maggioranza di essi”85. Ciò, non ostante
Rousseau avesse avuto il merito di considerare il legame tra i cittadini nello Stato,
anziché come un rapporto di soggezione, come un “vinculum juris”, ossia nei termini di
un rapporto giuridico. E tuttavia, questa grande intuizione ha subito sofferto il “difetto
logico” di stimare quel vinculum juris come “anteriore allo Stato, e quindi anche al
federativo è espressamente formulato in chiave anti-individualistica (cfr. E. Crosa, op. cit., p. 131 ss.). Di
fatto, nella sua critica ai monarcomachi, Codacci-Pisanelli non mette in discussione la mancanza del
concetto di collettività, quanto la sua indeterminatezza. Su tale problema, G. Duso, “Per una critica”, cit.,
pp. 61 ss. e Id., (a cura di), Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Roma, Carocci, 1999
(in particolare, i saggi dell’A. “Il governo e l’ordine delle consociazioni: la Politica di Althusius”, pp. 77-
95 e “Rivoluzione e costituzione del potere”, pp. 203-213).
82 Quale insieme di regole per la gestione dello spazio comune e degli equilibri che ne risultano, prima
ancora che in forma scritta (cfr. M. Fioravanti, Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali,
Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 9 ss.).
83 “La rappresentanza infatti, che con la nascita delle costituzioni moderne è legata strettamente
all’elezione […], non realizza, come spesso si immagina, una trasmissione di volontà […]. Piuttosto una
forma di autorizzazione del rappresentante a esprimere la volontà comune che si fa legge […]. Tale
fondazione dal basso è funzionale al fatto che la volontà del soggetto collettivo è espressa dall’alto e
senza rapporto con il concreto essere dei cittadini” (G. Duso, “Per una critica”, cit., pp. 61-62).
84 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 22.
85 G. Grasso, I presupposti giuridici, cit., p. 48.
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diritto”86. Mentre invece tali ultimi due lemmi sono inseparabili, com’è vieppiù evidente
in rapporto ai diritti soggettivi: “formato uno Stato, costituito il diritto, riconosciuto
l’uomo come soggetto possibile di diritti, la volontà del singolo ha efficacia giuridica ed
obbligante, in quanto alla espressione di essa lo Stato e il diritto connettono determinati
effetti, che si ottengono coll’esercizio di un’azione”87. La conclusione è che la libertà
dell’individuo, al di fuori dello Stato, è inconcepibile; essa è possibile solo nei termini
di una libertà giuridica, entro i limiti tracciati dal diritto dello Stato.
Anche per il suddetto motivo, il popolo, come totalità indifferenziata dei cittadini,
risulta una grandezza ideale che occorre rappresentare88. Con buona pace di Rousseau,
che partendo dall’indelegabilità del potere sovrano mette in discussione il sistema
parlamentare89, per cui “il proposito di secondare le tendenze degli elettori non è e non
può essere sempre il solo impulso determinante” da parte degli eletti. Secondo una
posizione analoga, Luigi Rossi avrebbe accusato Rousseau di “anarchia feudale”,
conseguentemente alla assurda pretesa per cui “l’obbedienza politica da[rebbe] diritto
[ai cittadini] di richiedere come controprestazione da parte dello Stato, che esso si
modelli e governi secondo la volontà individuale”90. Contrario al principio della
rappresentanza secondo mandato imperativo, Rossi ravvisa nel filosofo la
contraddizione fondamentale della delega della sovranità da parte del popolo a favore di
fiduciari. Sullo stesso tono, Codacci-Pisanelli: la componente elettiva del Parlamento
non porta avanti gli interessi di una parte, seppure maggioritaria, ma pone in essere “una
rappresentanza complessiva della società”91.
Fin qui le affinità. Le opinioni dei due giuristi finiscono invece per divergere a
proposito della posizione del Parlamento: “cerniera” tra Stato e popolo, secondo Rossi,
86 Ibid., p. 45.
87 Ibid., p. 46.
88 Sul bipolarismo sovranità/rappresentazione, P. Viola, “Seminario su rappresentare il sovrano e il
popolo nell’Europa moderna”, Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, XIX, 4, serie III, Pisa
1989.
89 J.J. Rousseau, op. cit., Lib. III, cap. 15, p. 89 ss.
90 L. Rossi, Introduzione ai principi generali della rappresentanza politica, Bologna, Fava e
Garagnani, 1894, p. 20.
91 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 54.
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che riconosce la sovranità in capo all’Assemblea rappresentativa92; mentre Codacci-
Pisanelli, a sua volta contrario alle idee di delega e di mandato, attribuisce alla Camera
una mera funzione all’interno dello Stato sovrano, secondo un principio condiviso,
peraltro, anche da giuristi non proprio in linea con la corrente formalista. Il ‘realista’
Chimienti parte dalla osservazione dell’istituto rappresentativo “in rapporto con l’azione
degli altri organi costituzionali della sovranità dello Stato”93, ritenendo opportuna la
“ricostruzione giuridica” della rappresentanza, cioè non sociologica o politica; si tratti
però di “ricerca giuridica che non si perda e svanisca in un vuoto schematico di formule,
avulso affatto da ogni contatto con la realtà”94. Attenzione per l’elemento sociale,
dunque, ma nella consapevolezza della “tendenza costante della società ad avvicinarsi
allo Stato”95. Tutto sommato non lontano dalle conclusioni di Codacci-Pisanelli,
Chimienti considera le rappresentanze “organi costituzionali dello Stato, con funzioni di
Stato”. In altri termini, la funzione del Parlamento è una delle manifestazioni della
sovranità, che rimane espressione della suprema istituzione: “non contrasta con il nostro
concetto di sovranità, la formazione di un organo dello Stato in seno alla società, il
quale si affermi in collaborazione con gli altri organi della sovranità”96.
Ciò detto, a non venir messo in discussione è il principio della rappresentanza dei
capaci. Secondo Chimienti, la rappresentanza, “politica” “dal punto di vista della
formazione o composizione dell’organo medesimo”, entra nel campo del diritto “come
scelta di capaci, e come tale è regolata e disciplinata dal Diritto costituzionale”97; Rossi
ne fa un fatto di misura e di gerarchia, per cui l’elezione “sia proporzionata secondo le
diverse classi […] ma non ugualmente, bensì secondo il vario grado di intelligenza, di
cultura, di moralità”98. Infine, per Codacci-Pisanelli “l’elezione politica non è una
92 Cfr. G.P. Trifone, Il diritto, cit., p. 124 ss.
93 P. Chimienti, “Il principio rappresentativo nel Diritto costituzionale moderno”, in Id., Saggi. Diritto
costituzionale e politica, Napoli, F. Perrella, 1915, p. 208.
94 Ibid., p. 207.
95 Ibid., p. 209.
96 Ibid., p. 223.
97 Ivi.
98 L. Rossi, I Principi fondamentali della rappresentanza politica, I. Il rapporto rappresentativo,
Bologna, Fava e Garagnani, 1894, p. 120.
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delegazione, ma una funzione di scelta; mercé la quale coloro cui si riconosce capacità o
facoltà di scegliere, cioè gli elettori, designano quelli ritenuti più capaci e quindi più atti
a legiferare”99. Il che appare come espressione di una gerarchia naturale in seno alla
società. Entro questi termini, non si esclude che la gestione della cosa pubblica possa
essere approvata “dai più”; ma è impossibile una deliberazione comune, se non in
maniera tale che “uno o più la propongono e gli altri, unanimi o a maggioranza, vi
consentono”100.
Ad ogni buon conto, quello che viene posto in risalto è ancora e sempre l’errore di
identificare potere legislativo e potere sovrano, attribuito anche a Montesquieu, la cui
teoria dei poteri101, secondo Codacci-Pisanelli, è una “filiazione storica” della sovranità
popolare. Alla ricerca di una garanzia della libertà politica come assolutamente
negativa, la divisione delle funzioni pubbliche riduce lo Stato a un “congegno”,
provocandone lo “smembramento”. Quale il nesso tra separazione dei poteri e sovranità
popolare? Codacci-Pisanelli fa riferimento a due criteri di distinzione; il primo, tra
regola e applicazione; il secondo, tra volontà e azione, che risultano speculari, allorché
regola e volontà da una parte – applicazione a azione dall’altra, hanno significati
analoghi. A rigore del primo binomio, il potere legislativo – consistente
nell’emanazione delle norme – è rappresentativo della volontà, mentre al governo –
applicazione, quindi azione – spetterebbe la mera funzione di esecuzione di essa.
Pertanto, rispettivamente al sintagma “volontà sovrana”, solo il legislativo potrebbe
definirsi potere. Se non che – afferma Codacci-Pisanelli – “la determinazione della
volontà politica non si esaurisce nella determinazione delle regole”. In questa
prospettiva, è più opportuno riferirsi alla distinzione tra i due aspetti materiale e formale
degli atti di sovranità, espressa anche da Cammeo: “se una separazione meccanica ed
assoluta delle tre funzioni in tre organi non è desiderabile, né possibile, […] è certo che,
nello Stato costituzionale, a ciascun organo è attribuita in prevalenza una determinata
99 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 54. L. Rossi, Introduzione, cit., p. 32 ss. Su un confronto tra
Rossi e Majorana a proposito della rappresentanza dei capaci, G.P. Trifone, Il diritto, cit., p. 133 ss.
100 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 55.
101 Cfr. C. de Montesquieu, Lo spirito delle leggi (a cura di S. Cotta), I, Torino, UTET, 1956, p. 66 ss.
Sul tema, S. Mastellone, Storia della democrazia in Europa. Dal XVIII al XX secolo, Torino, UTET,
2010, p. 5 ss. e N. Bobbio, “Introduzione” in ivi, p. XI.
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funzione alla quale gli altri due subordinatamente cooperano”102. Una separazione della
volontà dall’azione è improbabile in ragione della componente discrezionale che ogni
funzione, all’interno del sistema, opportunamente mantiene. Pertanto, “ogni atto dello
stato può essere considerato sotto un duplice aspetto: sotto l’aspetto formale e
subbiettivo che dir si voglia, dell’organo da cui è emanato: sotto l’aspetto materiale ed
obbiettivo del suo contenuto intrinseco, rispondente ad una delle funzioni dello Stato
sopra distinte”103. Infatti, un regime in cui al popolo spettasse la suprema – quindi
incontrollata – determinazione “delle norme più minute” paralizzerebbe l’azione
giudiziaria, costringendola alla pedissequa applicazione del dettato normativo; ma
contemporaneamente le lascerebbe arbitrio assoluto in caso di lacune, ossia “tutto ciò su
cui, pur non essendovi regole da applicare, o avendosi norme insufficienti, si dovesse in
via particolare statuire”104. In altre parole, “alla male intesa ed eccessiva teoria della
sovranità popolare in tanto si fa colpa di costruire un regime antigiuridico ed
antiliberale, in quanto in base ad essa si pretendono accentrare ad un solo organo
(popolo o suoi rappresentanti diretti) le tre funzioni”105. Tecnicamente, identificare la
sovranità popolare con l’organo legislativo condurrebbe a confondere la sovranità
originaria – ossia “in sé stessa […] concepita come la fonte di tutti i poteri pubblici, la
sintesi di tutti i diritti dello Stato”106 – e la sovranità derivata – “considerata nella sua
attuazione”, vale a dire “l’autorità concreta che questi poteri esercita, o, con più corretta
102 F. Cammeo, Della manifestazione, cit., in cui peraltro è fatto riferimento a Codacci-Pisanelli,
“Legge e regolamento”, cit., p. 1 ss.
103 Ivi.
104 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., pp. 34-40. Dalla legge 30 ventoso anno XII, art. 7, sul metodo
dell’esegesi per evitare “come aveva sostenuto Maleville, di abbandonarsi all’arbitrio de giudici per
un’infinità di questioni”; al ripensamento dei giuristi ottocenteschi sul mito della completezza dei codici
in riferimento all’ufficio del giudice di far fronte alle situazioni giuridiche continuamente emergenti, il
dibattito è proficuo di suggestioni. Cfr., tra tutti, U. Petronio, La lotta per la codificazione, Torino,
Giappichelli, 2002, p. 124 ss. e P. Grossi, Introduzione al Novecento giuridico, Roma-Bari, Laterza,
2012, p. 14 ss. (Sul pensiero di Grossi, mi sia consentito rinviare a G.P. Trifone, “Pluralismo e fattualità.
Il contributo di Paolo Grossi”, in A. Tucci (a cura di), Disaggregazioni. Forme e spazi di governance,
Milano – Udine, Mimesis, 2013, pp. 109-120).
105 F. Cammeo, Della manifestazione, cit., p. 11. Sulla teoria della separazione dei poteri limitata, in
ordine alla formazione dei diritti subbiettivi pubblici, cfr. S. Romano, “La teoria dei diritti pubblici
subbiettivi”, in V.E. Orlando, Primo trattato, cit., I, pp. 118 e 162.
106 A. Longo, “Della consuetudine”, cit., p. 246.
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espressione, gli organi che della sovranità sono investiti”107. Ma anche da una
prospettiva “organicistica”, le conclusioni sono analoghe: sostenere la primazia del
Parlamento significherebbe “sovrapporre un organo dello Stato al sistema di cui è
parte”, il che ne farebbe “un insieme instabile, contingente e provvisorio di rapporti
giuridici”; mentre invece si è al cospetto di un “sistema giuridico determinato e fisso,
nel quale ciascuna parte ha la propria ragione d’essere”108.
È oltremodo inappropriato, da parte di Montesquieu, l’esempio del sistema
ordinamentale inglese a sostegno delle sue teorie. Lungi da una divisione rigida, “il
parlamento inglese partecipava alla statuizione di singoli provvedimenti e il governo
dettava anch’esso da solo delle norme nei limiti del diritto nazionale. In Inghilterra non
s’era pur anco avuta, come mai s’ebbe neanche poi, quella divisione della giurisdizione
civile e penale dall’amministrazione, che sul continente era già da un pezzo avviata”109.
Il diritto inglese è eminentemente “fattuale”, modellato sui bisogni reali del Paese e
improntato al bilanciamento delle funzioni, piuttosto che alla divisione dei poteri110. Ma
soprattutto, custodito da un re la cui funzione di veto, malintesa da chi ne rileva la sola
efficacia negativa, consiste nel garantire la forma di governo equilibrata nel rispetto dei
limiti costituzionali: il che concerne la maggior parte delle leggi, votate ad iniziativa del
governo, “che ne presenta i progetti e ne accetta le modificazioni sulla base degli
accordi presi con la corona”; nonché i progetti di iniziativa parlamentare, che richiedono
il vaglio dell’esecutivo in accordo col re. Dunque, “il re non può, nei casi ordinari,
negare il suo assenso a ciò che si fa e si vota sapendo già, per mezzo dei suoi ministri,
che egli vi consente”. Per non dire delle crisi di governo, la cui soluzione spetta sempre
al Capo dello Stato. In definitiva, conclude Codacci-Pisanelli, anche per quanto
concerne il sistema di gabinetto, “il principio fondamentale dello Stato libero moderno
resta quello che nessun atto acquista incondizionato valore di legge e virtù di alterare il
107 Ibid., p. 247.
108 L. Minguzzi, “Alcune osservazioni”, cit., pp. 45-46.
109 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 42.
110 Sul profilo costituzionale del diritto anglosassone la bibliografia è vastissima. Mi limito a Ch.
McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno (1947), Bologna, Mulino, 1990; M. Fioravanti, Stato e
Costituzione, Torino, Giappichelli, 1999, p. 119 ss.; L. D’Avack, Costituzione e rivoluzione. La
controversia sulla sovranità legale nell’Inghilterra del ‘600, Milano, Giuffrè, 2000.
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30
diritto nazionale senza il consenso di tutte le parti costituenti l’autorità legislativa” e, in
primis – in Inghilterra come in Italia – al “re in Parlamento”111.
Addivenendo alle conclusioni, cura principale di Codacci-Pisanelli è la stabilità del
diritto pubblico nazionale. Quella che il popolo sovrano non può garantire, anzi
minaccia di sovvertire, perché, “se avesse una norma da rispettare […] non sarebbe più
sovrano”. L’arbitrio governativo, come quello individuale, hanno bisogno di argini:
“l’individuo, il collegio o l’assemblea chiamati a governare, finché hanno una regola da
seguire o un limite da rispettare, non possono, facilmente e impunemente, sostituire il
proprio capriccio a quello che dev’essere nel dato caso il potere sovrano”, che non
consiste nel volere del giudice, né è l’effetto della norma, che da sola rimarrebbe astratta
e inefficace: “quell’atto è dello Stato e il volere sovrano in questo […] consta”112.
111 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., pp. 30-31.
112 Ibid., pp. 57-58.
B. Casalini, “Neoliberalismo e femminismi”,
Jura Gentium, ISSN 1826-8269, XII, 2015, 1 , pp. 31-65
Neoliberalismo e femminismi
Brunella Casalini
Abstract: The paper describes different conceptions of neoliberalism and feminism and
highlights some of the key issues facing women today in our neoliberal societies.
[Keywords: Neoliberalism, Feminism, MacRobbie, Fraser, Wacquant]
1. Introduzione
In The Future of Feminism (2011), Sylvia Walby ha offerto una visione
complessivamente ottimistica dell’avvenire del femminismo. Meno visibile, perché non
più espresso nelle forme del movimento di protesta, il pensiero femminista sarebbe ora,
però, in grado di agire all’interno delle istituzioni grazie a donne che occupano posizioni
decisionali come professioniste esperte in questioni di genere o capaci di muoversi tra le
maglie di reti che estendono la loro influenza fino ai luoghi in cui si assumono le
decisioni politiche e si determinano le politiche pubbliche. Molte sono le conquiste
ottenute negli ultimi decenni dalle donne mediante il metodo del gender mainstreaming,
ovvero l’impegno, assunto ormai anche da varie organizzazioni internazionali quali la
Banca Mondiale, le Nazioni Unite, l’ILO e l’Ue, di adottare politiche che abbiano un
impatto equo su uomini e donne e di monitorarne costantemente i risultati. In sostanza,
secondo Walby, è vero che il neoliberalismo rappresenta una sfida, soprattutto da un
punto di vista di genere, ma le donne, sebbene in inferiorità numerica rispetto agli
uomini, sono presenti ora all’interno della maggior parte delle sedi decisionali e
dispongono di nuove forme di fare politica aperte a un continuo scambio tra Stato e
società civile e a nuove alleanze. Sebbene numerosi siano gli attacchi che il
femminismo ha subito in anni recenti, non vi sono dati, secondo Walby, che possano far
pensare a quella presunta cooptazione del femminismo all’interno del neoliberalismo di
cui parlano autrici quali Nancy Fraser e Hester Eisenstein1. Al contrario, se non ci si
ferma ad una generica analisi socio-culturale, ma si guarda ai progetti in cui le
istituzioni europee in particolare, ma anche più in generale le Nazioni Unite e i singoli
1 Cfr. S. Walby, The Future of Feminism, Cambridge (UK), Polity Press, 2011, pp. 21-24.
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32
paesi sono oggi impegnati, si vede che molte risorse sono state mobilitate per
raggiungere obiettivi tradizionalmente considerati femministi: tra i tanti esempi elencati
e illustrati da Sylvia Walby si possono ricordare le azioni intraprese a livello globale e
locale contro la violenza sulle donne. All’interno di queste istituzioni e su questi temi le
donne spesso sono ascoltate come specialiste di questioni di genere, come componenti
di “comunità epistemiche”2 ovvero in quanto appartenenti “a reti di professionisti che
hanno riconosciuta competenza e expertise in un particolare ambito”3 e per questo
possono vantare il possesso di conoscenze utili ai fini delle politiche che si devono
intraprendere. Insomma, le femministe devono solo sfruttare la loro presenza nelle
istituzioni per difendere il welfare state e i valori socialdemocratici dagli attacchi del
neoliberalismo, che, comunque, secondo Walby, riguardano meno l’Europa rispetto agli
Stati Uniti. Questo femminismo top-down, incentrato su espertocrazie di genere, non è
privo di problematicità, ma Walby sembra considerarlo semplicemente inevitabile nella
modernità e legato al crescente valore che in essa assume la conoscenza scientifica4.
Un quadro a tinte molto diverse – come vedremo – emerge nei lavori di altre autrici
contemporanee che qui esaminerò e che vedono piuttosto il femminismo, o meglio una
parte di esso, complice, sedotto e incorporato in modo parziale e strumentale all’interno
della vita istituzionale e politica dalla forza travolgente del neoliberalismo oppure
soggetto ad un duro attacco frontale che vuole annullarne la forza critica. Da questo
punto di vista il gender mainstreaming5, ovvero l’integrazione della prospettiva di
2 Cit. in op. cit., p. 63.
3 Ibidem.
4 Cfr. Ibidem. Una delle critiche più dure contro questo femminismo top-down è venuta da Spivak che,
descrivendo la burocrazia delle esperte femministe operanti all’interno delle istituzioni internazionali, ha
scritto: “We are witnessing the proliferation of feminist apparatchiks who identify conference organizing
with activism as such, who cannot successfully imagine the lineaments of the space of existence of the
Southern grassroots. They have no idea of the vast difference between the actual bottom and the layer
above, of, say, the rural fieldworkers. They often assume that altogether salutary debate in the conference
will have necessary consequences in the lifeworld of oppressed and super-exploited women” (G.C.
Spivak, “‘Woman’ as Theatre. United Nations Conference on Women, Beijing 1995”, Radical
Philosophy, 75 (1996), pp. 1-4: <http://www.radicalphilosophy.com/commentary/woman-as-theatre>
(ultimo accesso: 15 giugno 2014).
5 La discussione sul gender mainstreaming nell’ambito del femminismo è accesa e aperta. Per alcune
autrici questo strumento costituisce necessariamente una sfida per il neoliberalismo perché afferma la
necessità di un intervento positivo dello Stato. Se si vede, però, il neoliberalismo non come una mera
forma di laissez faire, e quindi di deregolamentazione, ma come una forma di nuova regolamentazione si
arriva a diverse conclusioni – come fanno, per fare solo un esempio, Carol Bacchi e Joan Eveline (cfr. C.
JURA GENTIUM, XII, 2015, 1
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genere in ogni stadio del processo di decisione delle politiche pubbliche, così come altri
strumenti, quali il diversity management o il microcredito, appaiono strategie
tecnocratico-manageriali grazie alle quali le istituzioni possono affermare di aver tenuto
conto degli interessi delle donne anche senza averle veramente ascoltate e aver dato loro
voce. Secondo questa impostazione, per esempio, l’attuale formulazione delle politiche
gender mainstreaming è servita ad assecondare a livello globale politiche neoliberali,
quali l’aumento del capitale produttivo femminile utile ai fini della crescita,
l’eliminazione di rigidità nel mercato del lavoro o le politiche di attivazione, più che a
contrastarle o a contrapporre ad esse una prospettiva critica6. Queste preoccupazioni
hanno avuto una forte eco nel dibattito contemporaneo grazie ad opere quali Feminism
Seduced (2009) di Hester Eisenstein, The Aftermath of Feminism (2009) di Angela
McRobbie, Fortunes of Feminism (2013) di Nancy Fraser, senza dimenticare gli scritti
di Rosi Braidotti7. Sebbene le interpretazioni di queste autrici siano tutt’altro che
concordi, sia relativamente alla misura reale della complicità del femminismo con il
neoliberalismo e delle sue responsabilità nel rendere possibile questa appropriazione, sia
rispetto alle soluzioni e vie d’uscita possibili, i loro lavori sembrano accomunati da una
qualche forma di nostalgia per il legame che un tempo aveva unito il femminismo della
Bacchi, J. Eveline,“Mainstreaming and neoliberalism: A contested relationship”, in Ead. (a cura di),
Mainstreaming Politics: Gendering Practices and Feminist Theory, Adelaide, The University of Adelaide
Press, 2010, pp. 39-60: <http://www.adelaide.edu.au/press/titles/mainstreaming/Mainstreaming-Ebook-
final.pdf>, ultima consultazione: 15 giugno 2014). Secondo queste ultime autrici, la diffusione del gender
mainstreaming si deve alla facilità con cui è stato possibile conciliarlo con la logica del new public
management adottata dallo Stato neoliberale. Ciò non significa negare che queste politiche siano
impiegate con le migliori intenzioni femministe, ma significa piuttosto affermare che esse sono oggi
piegate a facilitare le attività economiche e a minimizzare il bisogno di interventi di carattere strutturale.
Finché l’approccio mainstreaming sarà adottato come metodo ex post per valutare come determinate
politiche pubbliche possano essere introdotte minimizzandone l’impatto negativo sulle donne, il loro
potenziale di riforma rischia di essere neutralizzato. Per Bacchi ed Eveline sarebbe necessario adottare un
approccio ex ante, volto a discutere gli obiettivi stessi delle politiche e il tipo di soggettività che certe
scelte pubbliche producono.
6 Cfr. R. Simon-Kumar, “The Analytics of ‘Gendering’ the Post-neoliberal State”, Social Politics, 18,
3 (2011), pp. 441-468.
7 Cfr., per esempio, R. Braidotti, “A Critical Cartography of Feminist Post-postmodernism”,
Australian Feminist Studies, 20 (2005), 47: <http://wiki.medialab-prado.es/images/9/9c/Cartography.pdf>
(ultima consultazione: 15 giugno 2014) e “On Crisis, Capital and Austerity - Interview by Andrea Mura”,
Open Democracy, 2014: <https://www.youtube.com/watch?v=rED58-zKGAI> (ultima consultazione: 15
giugno 2014).
JURA GENTIUM, XII, 2015, 1
34
seconda ondata e la sinistra, oltre che dal desiderio di ridare vigore a un movimento che
ai loro occhi è lontano dall’aver esaurito la sua ragione d’essere.
Come osserva Janet Newman8, a rendere complessa la questione, tuttavia, è la natura
sfuggente degli stessi termini “femminismo” e “neoliberalismo”. Nel corso del lavoro
vedremo all’opera diverse interpretazioni del neoliberalismo e del femminismo9. Fraser
e Eisenstein, in particolare, guardano all’eredità del femminismo della seconda ondata,
descrivendo il movimento femminista come una sorta di agente collettivo con una
traiettoria globale, che è andato nel tempo perdendo la propria unità e coerenza
interna10. Per McRobbie, come per Braidotti, invece, non si deve colpevolizzare il
femminismo e la sua storia recente. Il problema è piuttosto il post-femminismo: un
“falso femminismo” che assume l’eguaglianza delle donne come un dato ormai
acquisito e lascia spazio ad una femminilità che riduce la libertà alla dimensione della
scelta consumistica.
Nelle pagine che seguono mi soffermerò sulle posizioni di Nancy Fraser e Angela
McRobbie e cercherò di illustrarle nel dettaglio, mettendole a confronto. Sosterrò qui
che alla base delle loro analisi non vi è solo una diversa lettura del femminismo e della
sua traiettoria evolutiva, ma anche un’interpretazione alternativa del neoliberalismo. Se,
infatti, Fraser si muove lungo una linea interpretativa neo-marxista per molti versi
vicina ai lavori di David Harvey, McRobbie predilige una chiave teorica foucaultiana.
Sia gli occhiali neo-marxisti di Fraser che quelli foucaultiani di McRobbie offrono uno
spaccato molto interessante della contemporaneità neoliberale in una prospettiva di
genere; in entrambi i casi tuttavia si tratta di visioni parziali. Seguendo i suggerimenti
provenienti da una parte della letteratura contemporanea sul neoliberalismo, che punta
8 Cfr. J. Newman, Working the Spaces of Power. Activism, Neoliberalism and Gendered Labour, New
York, Bloosmbury, 2012 e Ead., “Spaces of Power: Feminism, Neoliberalism and Gendered Labor”,
Social Politics, 20, 2 (2013), pp. 200-221.
9 Questo articolo è stato terminato prima dell’uscita del volume a cura di Tristana Dini e Cristiana
Tarantino, Femminismo e neoliberalismo. Libertà femminile versus imprenditorialità di sé e precarietà,
Napoli, Natan edizioni, 2014. Si rimanda a un futuro lavoro il confronto con questo testo di cui qui non si
è potuto tener conto.
10 C. Eschle, B. Maiguashca, “Reclaiming Feminist Futures: Co-opted and Progressive Politics in a
Neo-Liberal Age”, Political Studies, (2013), pp. 1-18; in particolare, p. 4.
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35
ad un’integrazione dei due approcci11, nell’ultima parte del lavoro farò riferimento
all’opera di Loïc Wacquant nel tentativo di mettere insieme alcuni importanti elementi
presenti nelle analisi di Fraser e McRobbie e ampliare la riflessione, includendovi anche
le trasformazioni proprie dello Stato nell’epoca neo-liberale e le conseguenze della
riforma del welfare per la condizione delle donne. In quest’ultima parte sottolineerò le
significative continuità tra neoliberalismo e social investment state nel cancellare dal
discorso politico la questione dell’eguaglianza di genere.
2. Nancy Fraser e la necessità di un ritorno alla critica del capitalismo
A cominciare dalla pubblicazione di “Feminism, Capitalism and the Cunning of
History”12, in sintonia con gli scritti di Hester Eisenstein13, Nancy Fraser ha più volte
ribadito una tesi scomoda: le potenzialità trasformative del movimento femminista sono
state imbrigliate dalla svolta culturalista del femminismo contemporaneo che ha favorito
il delinearsi di una sorta di imbarazzante complicità tra femminismo e neoliberalismo14.
Nel recente Fortunes of Feminism, la storia del movimento femminista viene
rappresentata come “un dramma in tre atti”. Secondo Fraser, oggi, si può dire, con il
senno di poi, che il movimento di liberazione delle donne, sorto in un’epoca in cui era
ancora in corso quel cambiamento epocale che avrebbe portato alla nascita del
neoliberalismo e ad una nuova forma di capitalismo, puntasse contemporaneamente
11 Cfr. S. Springer, “Neoliberalism as Discourse: Between Foucauldian Political Economy and
Marxian Poststructuralism”, Critical Discourse Studies, 9, 2 (2012), pp. 133-147; E. Bernstein, J. R.
Jakobsen, “Introduction”, in Gender, Justice, and Neoliberal Transformations, S&F Online, (2012/2013):
<http://sfonline.barnard.edu/gender-justice-and-neoliberal-transformations/introduction/> (ultima
consultazione: 15 giugno 2014); L. Duggan, M. Joseph, S. Cheng, E. Bernstein, D. Spade, S. K. Soto, T.
Gowan, A. Amuchástegui, “What is Neoliberalism?”, in ivi: <http://sfonline.barnard.edu/gender-justice-
and-neoliberal-transformations/what-is-neoliberalism/#sthash.2ECqJAIr.dpuf> (ultima consultazione: 15
giugno 2014).
12 N. Fraser ,“Feminism, Capitalism and the Cunning of History”, New Left Review, 56 (2009), pp. 97-
117.
13 In particolare v. H. Eisenstein, “A Dangerous Liason? Feminism and Corporate Globalization”,
Science and Society, 69, 3 (2005), pp. 487-518 ed Ead., Feminism Seduced. How Global Elites use
women’s labor and ideas to exploit the world, Boulder-London, Paradigm Publishers, 2009.
14 Cfr. Fortunes of Feminism. From State-managed Capitalism to Neoliberal Crisis, London-New
York, Verso, 2013; Ead., “Feminism’s two Legacies: A Tale of Ambivalence”, in L. Bieger, C. Lammert (a
cura di), Revisiting the Sixties: Interdisciplinary Perspective on America’s Longest Decade, Frankfurt am
Main, Campus Verlag, 2013, pp. 95-109; e Ead., Between Marketization and Social Protection:
Ambivalences of Feminism in the Context of Capitalist Crisis, Wilson Center, 27 settembre 2013:
<https://www.youtube.com/watch?v=XYCQdl1QtNY> (ultima consultazione: 15 giugno 2014).
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36
verso due futuri possibili, tra loro in tensione: se, da una parte, l’obiettivo
dell’emancipazione doveva andare di pari passo con l’affermazione di una maggiore
solidarietà sociale e di una democrazia partecipativa, dall’altra, la liberazione poteva
trovare concreta attuazione in una più ampia libertà di scelta e autonomia individuale.
Più tardi le energie rivoluzionarie del movimento si sarebbero indebolite in seguito
all’abbandono del paradigma redistributivo e all’adozione del paradigma del
riconoscimento15: la svolta culturalista, secondo Fraser, ha spuntato le armi critiche del
femminismo nei confronti delle ingiustizie economiche e sociali proprio nel momento in
cui il neoliberalismo si affacciava sulla scena politica. Riadattando un argomento
proposto da Luc Boltanski e Eve Chiapello, nell’opera Le nouvel esprit du capitalisme
(1999), Fraser sottolinea come in questa fase il capitalismo abbia saputo acquisire una
nuova forma di legittimità, una sorta di nuova giustificazione etica, fornendo agli attori
sociali delle ragioni individuali e collettive per aderire alla sua logica, grazie anche alla
sua capacità di recuperare alcune delle critiche al sistema capitalista provenienti proprio
dai suoi avversari. Secondo Boltanski e Chiapello, il nuovo managerialismo ha attinto
dalla critica al sistema gerarchico delle organizzazioni industriali fordiste che era
emersa negli anni sessanta all’interno delle avanguardie artistiche, recuperando il
lessico della creatività, dei gruppi di lavoro orizzontali in reti flessibili. Come ha ripreso
alcune delle idee della critica artistica al capitalismo di Stato emerso dalla seconda
guerra mondiale, il nuovo “spirito” del capitalismo, aggiunge Fraser integrando l’analisi
di Boltanski e Chiapello, ha analogamente saputo piegare ai propri fini anche la critica
femminista nei confronti del family wage e dello statalismo welfarista.
Con l’epoca neoliberale si è diffuso il c.d. two earner model: le donne sono entrate in
massa nel mondo del lavoro come professioniste della classe media o come lavoratrici
del settore dei servizi, ma lo hanno fatto per lo più con bassi salari e contratti precari.
L’affermazione del modello familiare incentrato sulle figure dei due coniugi che
lavorano è avvenuta in contemporanea con l’abbassamento generale dei livelli salariali,
15 Com’è noto, Fraser ha a lungo lavorato per superare questo dualismo tra paradigma del
riconoscimento e paradigma redistributivo mediante la proposta di un dualismo di prospettiva, all’interno
del quale il paradigma del riconoscimento viene riformulato in termini deontologici (cfr. N. Fraser e A.
Honneth, Umverteilung oder Anerkennung?, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2003; trad. it. di E. Morelli
e M. Bocchiola, Redistribuzione o riconoscimento? Una controversia politico-filosofica, Roma, Meltemi,
2007).
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37
lo smantellamento del welfare, la precarizzazione del lavoro, l’aumento del numero
delle famiglie monogenitoriali, la conseguente crescita della povertà femminile e
l’aggravarsi del problema della “doppia presenza” (double shift), ovvero del sommarsi
del tempo dedicato al lavoro remunerato con quello del lavoro domestico e di cura non
remunerato16. Anche la critica femminista allo statalismo è stata ripresa ed è soggetta ad
un processo di “risignificazione” nell’ambito del neoliberalismo, con un effetto oggi
molto discusso in relazione alla situazione delle donne nel terzo mondo, ovvero al
proliferare della presenza di organizzazioni non governative, che – come sottolinea
anche Eisenstein nel suo Feminism Seduced – non ha aiutato a contrastare il ritrarsi
dello Stato dall’offerta di servizi pubblici ed è servito piuttosto a depoliticizzare i
movimenti di base, piegandoli ad assecondare agende politiche dettate dai finanziatori
del primo mondo17. Eisenstein e Fraser sono concordi nel sottolineare come l’azione
delle organizzazioni non governative e gli esperimenti di micro-credito siano avvenuti
in coincidenza con l’abbandono da parte degli Stati del terzo mondo di processi di
trasformazione strutturale, divenendo di fatto strumenti di governo della società
piuttosto che di riforma.
Per Fraser, da questa ricostruzione del passato si può trarre una lezione importante, e
cioè che bisogna riconoscere il terreno inedito sul quale il neoliberalismo costringe il
femminismo a muoversi. Il confronto tra idee neoliberali e femministe è complesso per
un’affinità che le porta a convergere sulla critica all’autorità fondata sulla tradizione:
“In the current moment, – scrive Fraser – these two critiques of traditional authority, the
one feminist, the other neoliberal, appear to converge”18. Il femminismo non deve
abbandonare l’istanza emancipazionista di critica dell’autorità tradizionale, ma deve
cercare di distinguerla da quella neoliberale, esercitando le sue capacità critiche al fine
di denunciare le forme di dominio che possono risultare dalle dinamiche di mercato.
Con questo intento, Fraser propone di tornare ad una “grand theory” che aggiorni e
corregga tanto l’analisi del capitalismo proposta in Das Kapital da Marx, quanto la
lettura della crisi del sistema capitalista proposta da Karl Polanyi in The Great
16 N. Fraser, “Feminism’s two Legacies: A Tale of Ambivalence”, cit., p. 220.
17 Cfr. ivi, p. 221.
18 Ivi, p. 225.
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38
Transformation (1944)19. In questa direzione, seguendo alcune tracce che appaiono
ispirate, almeno nella loro iniziale elaborazione, dal lavoro di David Harvey, Fraser
recupera il concetto marxiano di accumulazione primitiva20, riformulandolo, però – così
come prima di lei hanno fatto Maria Mies, David Harvey e Nancy Hartsock – alla luce
del contributo teorico di Rosa Luxemburg21.
Che cos’è l’accumulazione primitiva per Marx? Nel Capitale si legge che essa è:
“Un’accumulazione originaria (“previous accumulation” presso Adam Smith) che vien
prima dell’accumulazione capitalistica, accumulazione che non è il risultato del modo di
produzione capitalista, bensì il suo punto di partenza”22. L’accumulazione primitiva o
originaria è caratteristica della fase storica che ha preceduto e reso possibile la nascita
del capitalismo. Nell’economia politica essa ha “una parte pressoché identica a quella
del peccato originale nella teologia”23: nella versione classica borghese di Locke e
Smith, infatti, il passaggio dal feudalesimo al capitalismo è descritto come un
passaggio storico pacifico e graduale, in cui l’estrema povertà dei più e la grande
ricchezza dei pochi è attribuita alla colpa originaria di un’umanità costituita da una
maggioranza di persone oziose e spendaccione che doveva inevitabilmente finire col
non avere altro da vendere che la loro pelle e da una minoranza industriosa e diligente
che non poteva non accrescere col tempo la propria ricchezza. Diversamente da come la
storia di questa transizione è stata raccontata dagli economisti borghesi, per Marx non si
è trattato di un passaggio graduale e inevitabile: la massa della popolazione è infatti
19 Su questa recentissima direzione intrapresa dagli studi di Fraser, v.: N. Fraser, “A Triple Movement?
Parsing the Politics of Crisis after Polanyi”, New Left Review, 81 (2013), pp. 119-132; Ead., Can societies
be commodities all the way down?, Helsinski Collegium, 11 giugno:
https://www.youtube.com/watch?v=V-3q3zvT1Os (ultima consultazione: 15 giugno 2014); Ead., Between
Marketization and Social Protection: Ambivalences of Feminism in the Context of Capitalist Crisis, cit.;
Ead., The Significance of Rosa Luxemburg for Contemporary Theory, Luxemburg Stiftung,12
marzo:<https://www.youtube.com/watch?v=zk2VJAW_jHw> (ultima consultazione: 15 giugno 2014);
Ead., “Behind Marx’s Hidden Abode”, New Left Review, 86 (2014), pp. 55-72.
20 Cfr. N. Fraser, The Significance of Rosa Luxemburg for Contemporary Theory, cit., e Ead., Behind
Marx’s Hidden Abode, cit.
21 Per una riflessione sulla rilevanza del tema dell’accumulazione originaria nel dibattito
contemporaneo, cfr. J. Glassman, “Primitive Accumulation, Accumulation by dispossession,
Accumulation by ‘Extra Economic’ Means”, Prog.Hum. Geogr., 30 (2006), pp. 608-625.
22 K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Okonomie, 1867; trad. it. Il capitale. Critica
dell’economia politica, a cura di Eugenio Sbardella, Roma, Newton Compton, 2007 (I 1975), p. 514.
23 Ibidem.
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39
stata privata dei mezzi di produzione attraverso la violenza, la spoliazione e lo
sfruttamento – basti pensare alle modalità con cui è avvenuto il processo di recinzione
delle terre in Inghilterra tra Cinque e Seicento –, una violenza che si è espressa anche
con la complicità dello Stato e del diritto, attraverso le leggi sul vagabondaggio e sulla
povertà, i processi di appropriazione coloniali, la tratta degli schiavi, il sistema del
debito nazionale e il sistema del credito.
L’intuizione fondamentale di Rosa Luxemburg, che ha lavorato su questo tema in
relazione all’espansione imperiale dell’Occidente in L’accumulazione del capitale
(1913), è che il fenomeno descritto nel Capitale non vada circoscritto al momento
aurorale del capitalismo, ma rappresenti una costante nel suo processo storico-
evolutivo: il capitalismo ha avuto bisogno, durante il suo sviluppo, di poter contare, nei
momenti di crisi da sovrapproduzione, su risorse appartenenti a spazi esterni al sistema,
muovendosi perennemente in una logica interno/esterno. David Harvey riprende
quest’idea di Luxemburg e parla, piuttosto che di accumulazione primitiva, di
“accumulazione per espropriazione”24. Alcuni dei meccanismi di accumulazione
primitiva analizzati da Marx non solo sono ancora attivi, ma negli ultimi decenni sono
stati perfezionati, basti pensare al modo in cui funzionano il sistema creditizio e il
sistema finanziario in genere; oppure hanno ricevuto un’accelerazione, come nel caso
dello “sradicamento delle popolazioni rurali e [della] formazione di un proletariato
senza terra”25, mentre altri meccanismi totalmente nuovi hanno fatto nel frattempo la
loro comparsa sulla scena: si pensi ai diritti sulla proprietà intellettuale e al sistema dei
brevetti sul materiale genetico e in generale alla c.d. bioeconomia. Insomma, il sistema
capitalista sembra risolvere periodicamente, secondo Harvey, le sue crisi di
sovraccumulazione mediante il ricorso a movimenti di enclosures che creano nuove
occasioni di investimento redditizio mediante l’appropriazione a basso costo di risorse
che sono state prodotte al di fuori del sistema economico. Questi movimenti di
enclosures non riguardano solo il sud del mondo, non hanno bisogno – come pensava
24 Cfr. D. Harvey, The New Imperialism, Oxford, Oxford University Press, 2003; trad. it. La guerra
perpetua. Analisi del nuovo capitalismo, Milano, il Saggiatore, 2006.
25 Op. cit., p. 122.
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40
Luxemburg26 – di un “fuori”, di paesi e gruppi non capitalisti, ma avvengono anche
all’interno dello stesso nord del mondo mediante i nuovi processi di accumulazione per
espropriazione, sia legali che illegali, inventati dal capitalismo contemporaneo27.
Piuttosto che parlare di interno/esterno come faceva Luxemburg, Fraser preferisce
utilizzare la metafora del primo piano (foreground) e dello sfondo (background): il
capitalismo avrebbe una storia ufficiale, che è quella dello sfruttamento del lavoro
salariato, e una storia rimasta per lo più non raccontata che fa riferimento a quegli
elementi di sfondo che hanno reso possibile e continuano a rendere possibile il
funzionamento del sistema economico, come ad esempio lo sfruttamento delle risorse
naturali e del lavoro di riproduzione sociale, che oggi viene anche definito lavoro di
cura o lavoro affettivo. Con un’analisi per certi versi simile a quella sviluppata da
Nancy Hartsock, Fraser sostiene che il processo di accumulazione per espropriazione
non deve considerarsi neutro rispetto al genere: le donne risultano toccate da questo
processo in modo molto più consistente degli uomini, come è evidente nei processi
contemporanei di femminilizzazione del lavoro e delle migrazioni. Ciò è, in qualche
misura, anche inevitabile finché saranno le donne ad essere le più coinvolte nell’ambito
delle relazioni non-economiche del consumo e della riproduzione sociale28. Gli elementi
di sfondo dimostrano come il dominio di genere fosse in qualche modo fin dall’inizio
implicito nelle condizioni stesse che hanno consentito la nascita del capitalismo – come
già avevano teorizzato all’inizio degli anni settanta Selma James e Mariarosa Dalla
Costa e successivamente Silvia Federici29. Essi non rappresentano un esterno, un fuori,
26 Cfr. op. cit., cap. IV. Non è questo l’unico punto su cui Harvey si distacca dall’interpretazione della
Luxemburg; un altro aspetto problematico dell’analisi luxemburghiana è rappresentato, secondo lui, dal
ricondurre l’origine delle crisi che cercano soluzione mediante la riattivazione di processi di
accumulazione per espropriazione a crisi legate al crollo dei consumi. Su questo punto concorda anche N.
Hartsock, “Globalization and Primitive Accumulation”, in N. Castree, G. Derek (a cura di), David
Harvey: A Critical Reader, London, Blackwell Publishing, 2006, p. 184.
27 Che la fase attuale dello sviluppo capitalistico abbia reinventato meccanismi di accumulazione
primitiva è sostenuto anche da Saskia Sassen nel suo Expulsions. Brutality and Complexity in the Global
Economy, Cambridge (Mass.)-London (UK), The Belknap Press of Harvard University press, 2014.
28 N. Hartsock, “Globalization and Primitive Accumulation”, cit., p. 183.
29 Cfr. M. Dalla Costa, S. James, The Power of Women and the Subversion of the Community, Bristol,
Falling Wall Press Ltd, 1973 (I 1972) e S. Federici, Caliban and the Witch. Women, the Body and
Primitive Accumulation, New York, Autonomedia, 2004. Negli anni Ottanta del secolo scorso l’opera di
Maria Mies segna un’altra importante tappa teorica nell’analisi del rapporto tra sfera produttiva e
riproduttiva all’interno del sistema capitalista: la questione viene, infatti, ora inserita nel quadro dei
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41
ma una condizione di sfondo in quanto sono un prodotto contemporaneo alla nascita
stessa del sistema capitalista, che ha lavorato all’origine della modernità al fine di
innalzare barriere di separazione tra lavoro produttivo e riproduttivo, tra umano e
naturale, tra politico ed economico30.
Gli spazi di sfondo sono stati asserviti al sistema ma, sostiene Fraser, essi funzionano
secondo una normatività non-economica che nulla ha a che fare con quella
individualista, competitiva e meritocratica del mercato. Da tali spazi, per questo, nei
momenti in cui più forte diviene la necessità predatoria del sistema, come accade
particolarmente nei periodi di crisi – quale quello attuale – sorgono le forze di
resistenza, come mostrano oggi i movimenti ecologisti, i movimenti anticapitalisti, i
teorici del ritorno ai commons o a un’economia solidaristica e della decrescita. Le lotte
politiche nascono dalla necessità di ridefinire e rifissare i confini tra l’economico e il
non economico. Sbagliano però, secondo Fraser, quei movimenti che nella lotta al
rapporti tra Nord e Sud del mondo. L’ideologia della “casalinghitudine” viene legata ad una gerarchia del
lavoro differenziata sulla base non solo del genere e della classe, ma anche della razza. La sociologa
tedesca, autrice di alcuni testi importanti che hanno esercitato una notevole influenza sul femminismo
postcoloniale, sarà una delle prime a denunciare come la crescita delle economie occidentali sia stata
alimentata, e continui ad alimentarsi, anche nel periodo successivo alle lotte di indipendenza e quindi
dopo la fine del colonialismo, attraverso il libero sfruttamento non solo delle risorse naturali ma anche
delle risorse umane del terzo mondo. Nell’analisi pionieristica della Mies, attenta al nesso tra lavoro
produttivo e ri-produttivo all’interno del sistema economico globale, il lavoro delle donne appare oggetto
di forme di sfruttamento rese spesso invisibili dal mantenimento di visioni tradizionali – come mostra il
caso delle merlettaie di Narsapur, studiate da Maria Mies nel 1982, che illustra come donne di una realtà
ancora prevalentemente contadina e tribale siano state “integrate” all’interno della divisione globale del
lavoro e del sistema di accumulazione capitalista, in modi che ne consentono lo sfruttamento. L’ideologia
della casalinga e della domesticità, che definisce la posizione della donna in relazione alla famiglia, al
matrimonio e all’eterosessualità, e il fatto che il lavoro delle merlettaie si svolga a domicilio, fanno sì che
la contraddizione tra questi due momenti renda invisibile l’attività produttiva delle donne (ridotta ad
attività secondaria o hobby, il che, per altro, giustifica salari bassi) e mantenga la finzione del male
breadwinner. Di Maria Mies, si vedano in particolare: Lace Makers of Narsapur: Indian Housewives
Produce for the World Market, London, Zed Books, 1982; Patriarchy and Accumulation On A World
Scale: Women in the International Division of Labour, London, Zed Books,1986. Il caso delle merlettaie
di Narsapur, come quelli delle lavoratrici a domicilio della Sillicon Valley, impiegate nel settore
dell’elettronica, delle lavoratrici domestiche del Bangladesh nelle sartorie industriali delle Middlelands
occidentali inglesi e delle donne Gujarati impiegate nell’indotto dei maglifici industriali delle
Middlelands orientali – analizzati da Mohanty nel saggio Lavoratrici e politica della solidarietà –
mostrano le forme di sfruttamento e di dominio di un patriarcalismo pubblico alleato al vecchio
patriarcalismo privato, oggi esercitato dalle grandi corporations con la complicità degli Stati (cfr. C.T.
Mohanty, Feminism without Borders: Decolonizing Theory, Practicing Solidarity, New York, Duke
University Press, 2003; trad. it. a cura di R. Baritono, Femminismo senza frontiere, Verona, Ombre corte,
2012).
30 Cfr. N. Fraser, The Significance of Rosa Luxemburg for Contemporary Theory, cit., Ead., Behind
Marx’s Hidden Abode, cit.
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42
sistema capitalista idealizzano la natura, il lavoro di cura gratuito, l’autogoverno, come
se essi fossero buoni a priori in quanto esterni al sistema. Ognuna di queste pratiche,
secondo l’autrice, non è concepibile se non insieme al suo doppio: naturale/umano,
riproduttivo/produttivo ed economico/politico. Queste coppie nascono
contemporaneamente all’affermarsi del sistema capitalista: non ne sono un fuori, ma
una condizione che rende possibile la stessa creazione del sistema capitalista. Una
critica efficace del sistema capitalista dovrebbe andare non in direzione di quel “double
mouvement” che vede come risposta al mercato la reazione protettiva e difensiva della
società di cui parlava Polanyi, ma di un “triple mouvement” che tenga conto del bisogno
di emancipazione che ha portato ad accettare le spinte radicali del mercato e la sua forza
dissolvente nei confronti di una società che può essere conservatrice e poco attenta al
desiderio di libertà degli individui. Pur con questa riserva, Fraser ritiene tuttavia che
dalla lettura di Polanyi possano oggi venire utili indicazioni sulla natura
multidimensionale delle crisi del sistema capitalista, compresa l’attuale che è
simultaneamente una crisi del lavoro di riproduzione sociale, una crisi ecologica e una
crisi finanziaria31.
Su questi temi Nancy Fraser sta ancora lavorando con l’obiettivo di arrivare ad una
nuova aggiornata critica del sistema capitalista, partendo dalla convinzione che la svolta
poststrutturalista degli anni ottanta e novanta sia stata in parte responsabile
dell’indebolimento del femminismo socialista. Guardando indietro, a Polanyi, a
Luxemburg e a Marx, tuttavia, non diversamente da David Harvey32, Fraser sembra far
poco i conti con la questione della novità del neoliberalismo: il neoliberalismo rischia di
apparire infatti “semplicemente” come una intensificazione delle forme di sfruttamento
da sempre proprie del sistema capitalista33. In questo modo, ad essere messa in secondo
31 Cfr., in particolare, N. Fraser, Fortunes of feminism. From state-managed capitalism to neoliberal
crisis, cit.; Ead., A Triple Movement? Parsing the Politics of Crisis after Polanyi, cit; ed Ead., Can
societies be commodities all the way down?, cit.
32 L’interesse di tornare a leggere La grande trasformazione di Polanyi è sostenuto anche da David
Harvey nel suo A Brief History of Neoliberalism, New York, Oxford University Press, 2005; trad. it. di
Pietro Meneghelli, Breve storia del neoliberalismo, Milano, il Saggiatore, 2007.
33 Che questo tipo di interpretazioni non riescano a cogliere del tutto la novità del neoliberalismo è
sostenuto anche da Dardot e Laval (cfr. P. Dardot, C. Laval, La nouvelle raison du monde. Essays sur la
société néolibéral, Paris, Edition la découverte, 2009; tr. it. di R. Antonucci, M. Lapenna, La nuova
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43
piano è la questione della specificità della razionalità o governamentalità neoliberale e
delle trasformazioni antropologiche che essa ha prodotto, che riguardano di nuovo in un
modo del tutto peculiare la soggettività femminile34. In quest’ultima direzione di ricerca
si sviluppa, invece, come vedremo, il lavoro di Angela McRobbie in The Aftermath of
Feminism.
3. Angela McRobbie: il postfemminismo e il trionfo della femminilità imprenditoriale
A partire da un’analisi della cultura di massa che si è affermata nel mondo anglosassone
alla fine degli anni Novanta (nel periodo 1997-2007, che viene definito “decennio
postfemminista”), McRobbie evidenzia come il femminismo e le femministe della
seconda ondata siano state sempre più caricaturizzate e descritte dai mass media come
qualcosa di vecchio e superato35. Nelle rappresentazioni più consuete e diffuse le
femministe sono “killjoys” – secondo l’efficace descrizione che ne dà Sara Ahmed36 –
sono donne scorbutiche, prive di umorismo, arrabbiate e infelici, capaci di rovinare la
propria e l’altrui felicità. La loro infelicità è legata al loro stesso mettere in discussione
le immagini pubbliche dei luoghi e dei ruoli in cui piacere e felicità dovrebbero trovarsi,
a cominciare dallo spazio domestico. Alle vecchie femministe rompiscatole, cinema,
televisione e pubblicità contrappongono un modello di giovane donna molto diverso:
una donna individualista, competitiva, sessualmente libera, che esalta l’idea del merito e
insegue ideali di bellezza e perfezione. Un modello che presuppone da parte del
soggetto femminile una sempre maggiore capacità di controllo del proprio corpo e delle
proprie scelte, che porta, da un lato, ad un acuirsi di vecchie patologie femminili, quali
l’anoressia, dall’altro alla stigmatizzazione di quante falliscono, prime tra tutte le
adolescenti che incorrono in una maternità non desiderata.
ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, Prefazione di Paolo Napoli, Roma, Derive
Approdi, 2013, pp. 12-18).
34 Su questo punto si veda anche J. Oksala, “Feminism and Neoliberal Governmentality”, Foucault
Studies, 16 (2013), pp. 32-53.
35 Cfr., in particolare: A. McRobbie, “Top Girls? Young Women and the Post-feminist Sexual
Contract”, Cultural Studies, 21, 4-5 (2007), pp. 718-737; Ead., The Aftermath of Feminism. Gender,
Culture and Social Change, Los Angeles, London, New Delhi, 2009, Singapore, Washington D.C, Sage,
2009 ed Ead, “Beyond Post-feminism”, Public Policy Research, 18, 3 (2011), pp. 179-184.
36 S. Ahmed, The Promise of Happiness, London, Duke University Press, 2010.
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44
Attraverso una selezione e incorporazione parziale dei valori femministi, i mass
media e il mondo della moda, in particolare, propongono un’idea di femminilità
perfettamente funzionale alle istituzioni economiche e sociali neoliberali: la donna dei
rotocalchi di moda, di cui si esalta la bianchezza e l’eterosessualità; la giovane che
grazie all’istruzione e, quindi, al merito entra con successo nella competizione del
mercato del lavoro; la “ragazza fallica” (the phallic girl), come la definisce McRobbie,
che vive in modo libero la propria sessualità, preferendo relazioni sessuali prive del
coinvolgimento emotivo. Sulla base di un calcolo costi-benefici, infatti, la ragazza
fallica dà priorità all’investimento sulla propria formazione piuttosto che alle relazioni
sentimentali, evita gravidanze che possano ostacolarne la futura carriera e guarda al
matrimonio come qualcosa che può attendere37. Insomma, elementi del pensiero
femminista, secondo McRobbie, senza la complicità del femminismo – come sembrano
piuttosto pensare Eisenstein e Fraser – sono stati ripresi, dopo un processo di
disfacimento e smembramento, e inseriti in un contesto individualista, caratterizzato da
un lessico in cui dominano parole quali choice ed empowerment. Contrariamente a
Fraser, dunque, McRobbie non crede che si sia verificata una convergenza o si sia creato
un legame inatteso e pericoloso tra femminismo e neoliberalismo; c’è stata piuttosto una
vera e propria decostruzione, se non vero e proprio “annullamento” e una “disfatta”
(l’autrice parla di “feminism undone”, usando un’espressione che richiama l’undoing
gender di Judith Butler38), del femminismo con la creazione di un nuovo regime di
genere che ha agito direttamente sui corpi e sull’immaginario femminile. C’è infatti
un’inestricabile connessione, secondo la sociologa inglese, tra le immagini trasmesse
37 Particolarmente eloquente è una recente ricerca condotta presso l’Università della Pennsylvania a
proposito della vita sessuale delle ragazze del Campus (cfr. K. Taylor, “Sex on Campus: She Play that
Game, too”, The New York Times, (2013): http://www.nytimes.com/2013/07/14/fashion/sex-on-campus-
she-can-play-that-game-too.html?pagewanted=all&_r=0; ultima consultazione: 15 giugno 2014), dalla
quale emerge come le relazioni sessuali senza coinvolgimento emotivo, un tempo ritenute prerogativa
maschile, siano sempre più ricercate oggi anche dalle ragazze, che vi vedono un investimento che
comporta ad un tempo “un basso rischio e un basso costo” (cfr. ivi). Hanna Rosin, nel suo The End of
Men: And the Rise of Women (2012), sostiene che questo tipo di comportamento è diffuso tra le giovani
donne ambiziose che non vogliono distogliere le loro energie dal lavoro accademico, ma al tempo stesso
desiderano godere il piacere del sesso. Su questo fenomeno, v. anche C. Rottenberg, “The Rise of
Neoliberal Feminism”, Cultural Studies, 28, 3 (2014), pp. 418-437; in particolare, p. 430.
38 Sulle difficoltà della traduzione italiana dell’espressione undoing gender usata da Butler, si veda: O.
Guaraldo, “Prefazione. La disfatta del genere e la questione dell’umano”, in J. Butler, La disfatta del
genere, trad. it. di Patrizia Maffezzoli, Roma, Meltemi, 2004, p. 8.
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45
dai mass media e la cultura economica neoliberale; è attraverso questo intreccio tra
cultura di massa, politica ed economia che il discorso femminista è stato sostituito da un
individualismo femminile che ha premiato le donne della classe media piuttosto che
delle classi più basse. Tra donne di classi diverse le distanze sociali ed economiche si
sono ampliate: le donne delle classi basse, infatti, risultano impiegate oggi
prevalentemente nel mercato dei servizi con contratti precari e bassi salari che non
danno loro alcuna indipendenza e sicurezza sul piano economico39. Il caso più noto, che
ha suscitato maggiore scalpore e scandalo, è quello delle impiegate dell’azienda
multinazionale Walmart il più grande distributore al dettaglio a livello globale. Negli
Stati Uniti le dipendenti della Walmart sono pagate così poco che per vivere sono
costrette a rivolgersi ai servizi sociali: risultano oggi infatti il gruppo più numeroso tra
gli utenti di Medicaid40.
Legato all’allargarsi del gap tra donne della classe medio-alta e donne delle classi
basse è oggi anche il fenomeno del c.d. “femminismo neoliberale”, che trova
espressione in testi quali Lean in: Women, Work and the Will to Lead di Sheryl
Sandberg41. Un bestseller, già tradotto in numerose lingue, e un lavoro che, secondo
Rottenberg42, deve considerarsi femminista nella misura in cui risulta consapevole delle
attuali disuguaglianze tra uomini e donne, ma è al tempo stesso chiaramente neoliberale.
In che senso? È neoliberale perché, da un lato, dimentica le forze sociali ed economiche
39 Se le donne guadagnano meno degli uomini tuttavia non è solo questione di scelta lavorativa. In un
articolo del 2012, Naomi Klein riportava i seguenti dati relativi agli Stati Uniti: “[...] a full-time working
woman is paid an average of 77 cents for each dollar earned by a white male in the United States. The
situation is even worse for African-American and Hispanic women, who earn 62 and 54 cents
respectively for every white male dollar”. Nel 2009 la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha
approvato un disegno di legge sull’equità salariale, che l’anno successivo è stato però respinto dal Senato.
Perché il Senato si è opposto? La risposta della Klein è semplice: “Because an unspoken driver of profits
for corporate America is… the ability to pay women less with impunity” (N. Klein, “The Paycheck
Fairness Act’s Realpolitik”, The Guardian, (2012):
<http://www.theguardian.com/commentisfree/2012/jun/08/paycheck-fairness-act-realpolitik>).
40 Cfr. B. Ehrenreich, Nickel and Dimed. On not Getting by in America, New York, Henry Holt and
Company, 2001; trad. it. di A. Bottini, Una paga da fame. Come (non) arrivare a fine mese nel paese più
ricco del mondo, Milano, Feltrinelli, 2004.
41 S. Sandberg, Lean in: Women, Work and the Will to Lead, New York, W. H. Allen; trad. it. di S.
Crimi e L. Tasso, Facciamoci avanti. Le donne, il lavoro e la voglia di riuscire, Milano, Mondadori,
2013.
42 Cfr. C. Rottenberg, “Hijacking Feminism”, Al Jazeera, 25 marzo 2013:
<http://www.aljazeera.com/indepth/opinion/2013/03/201332510121757700.html> (ultima consultazione:
15 giugno 2014) ed Ead., The Rise of Neoliberal Feminism, cit.
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che producono le disuguaglianze ancora esistenti tra uomini e donne e, dall’altro,
accetta l’idea che per risolvere queste diseguaglianze le donne debbano lavorare su di
sé, sulla propria autostima, sulla propria capacità di trovare una felice soluzione alla
questione della conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare43. Il messaggio di
Sandberg, che è stato oggetto di critiche molto accese da parte di femministe quali bell
hooks44 e della stessa Angela McRobbie45, ruota intorno a poche semplici idee: 1) più
donne assumeranno posizioni dirigenziali e di comando, migliori saranno le prospettive
per le altre, quasi per una sorta di trickle-down theory, che al momento risulta, però, ben
poco confermata dai fatti; 2) ogni donna deve cercare la felicità che viene dalla giusta
conciliazione tra lavoro e vita privata; 3) le donne, che ormai hanno raggiunto
l’eguaglianza dal punto di vista giuridico, devono ora soltanto “interiorizzare la
rivoluzione”, che significa lavorare sulla loro autostima e non continuare a tirarsi
indietro quando si trovano di fronte alla possibilità di assumere posizioni di potere. Gli
ostacoli maggiori che ancora rimangono loro dinanzi, infatti, sono “internal obstacles”.
La direzione in cui le donne sono invitate a muoversi è, dunque, quella di un controllo
interiore che dia loro la possibilità di raggiungere l’obiettivo dell’autorealizzazione e
della metamorfosi del sé, in perfetta sintonia con la visione neoliberale che vede il
processo di individualizzazione della soggettività femminile come portatore di per sé di
un aumento positivo degli spazi di libertà e di scelta.
È questa una visione del sé riflessivo tardomoderno cui hanno fornito legittimazione,
come ricorda McRobbie, le opere di influenti sociologi contemporanei, quali Anthony
Giddens e Ulrich Beck, attraverso una lettura dell’individualismo contemporaneo in cui
il genere sembra non avere alcuna rilevanza46. Nella realtà, tuttavia, i messaggi veicolati
da popolari format televisivi, incentrati sulle tecniche per reinventare l’aspetto esteriore,
l’abbigliamento e lo stile di vita del soggetto, ripropongono modelli normativi in cui si
43 Cfr. C. Rottenberg, The Rise of Neoliberal Feminism, cit., p. 420.
44 b. hooks, “Dig Deep: Beyond Lean In”, Feministwire, 28 ottobre 2013:
<http://thefeministwire.com/2013/10/17973/> (ultima consultazione: 15 giugno 2014).
45 A. McRobbie, “Wir erleben einen feministischen Frühling”, Spiegel Online Kultur, intervista di
Hannah Pilarczyk, 18 maggio 2013: <http://www.spiegel.de/kultur/gesellschaft/angela-mcrobbie-ueber-
sexismus-feminismus-sheryl-sandberg-a-900448.html> (ultima consultazione: 15 giugno 2014).
46 Cfr. A. McRobbie, The Aftermath of Feminism. Gender, Culture and Social Change, cit., pp. 44-45.
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47
ribadiscono non solo le differenze di genere, ma anche, attraverso la stigmatizzazione di
certi stili di vita, le differenze di classe. Chi viene invitato a sottoporsi al processo di
trasformazione di sé, infatti, se non accetta questa metamorfosi, è implicitamente
accusato di mancanza di gusto, di un fallimento nelle proprie scelte, della mancanza di
un adeguato capitale sociale e culturale. Format televisivi quali What not to Wear o
Extreme Makeover raccontano della necessità di una spesa su di sé e sul proprio corpo
che non è volta al consumo per il consumo, ma intesa come investimento su se stessi: il
ritocco al proprio look equivale qui, infatti, ad una vera e propria operazione di
rivalutazione del valore nominale del proprio capitale umano47. Il messaggio potente e
illusorio veicolato da queste trasmissioni televisive è che la differenza di classe non è
una questione di reddito, ma una questione di stile.
Nell’articolare questa riflessione, come anticipato all’inizio del lavoro, diversamente
da Fraser, McRobbie trova un sostegno teorico fondamentale nell’opera di Foucault, in
particolare nelle lezioni sulla nascita della biopolitica che quest’ultimo tenne tra il 1978
e il 1979 al Collège de France48. Per Foucault, il neoliberalismo, che vede le sue prime
formulazioni in Germania negli anni trenta tra i teorici dell’Ordoliberalismo e,
successivamente, tra gli economisti della scuola di Chicago, corrisponde ad un
particolare tipo di razionalità politica, che ha tratti inediti rispetto all’idea di libero
mercato che può farsi risalire ad Adam Smith. Il mercato non è più inteso, infatti, come
una realtà naturale, dotata di leggi proprie che il governo deve rispettare; il mercato
piuttosto è visto come necessitante di un continuo intervento politico volto ad
assicurarne la competitività. Il governo stesso diventa una sorta di impresa atta a
universalizzare la competizione ed è esso stesso sottoposto al costante giudizio del
tribunale del mercato. Nella visione neoliberale, più delle dimensioni dello Stato, è
rilevante la ridefinizione del suo ruolo e, quindi, delle sue funzioni rispetto all’economia
– questo spiega, per altro, perché alcuni considerano la terza via e il c.d. social
investment state, che si afferma con Blair e Clinton nella seconda metà degli anni
47 Cfr. ivi.
48 M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au College de Frances, 1978-1979, Paris, Seuil,
2004; trad. it. di M. Bertani e V. Zini, La nascita della biopolitica, Milano, Feltrinelli, 2005.
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48
Novanta, “a neoliberal wolf in lamb’s clothes”49, piuttosto che un paradigma del tutto
nuovo rispetto al passato. Il dogma della crescita economica diventa il banco di prova
indiscusso e apparentemente indiscutibile, il tribunale permanente, di fronte al quale
viene giudicato l’operato degli Stati e dei governi.
La razionalità di mercato, la logica costi-benefici vengono estese a tutte le istituzioni
e all’intero mondo sociale, che ne risulta così depoliticizzato: spazi di autonomia, che
un tempo venivano considerati aperti all’esercizio della scelta morale, sono neutralizzati
e ridotti a terreno di esercizio di competenze di natura tecnica50. L’individuo stesso – ed
è questo il punto che ha particolare rilevanza ai fini del mio discorso – è invitato a
pensarsi come individuo imprenditore, homo entrepreneur. Il salario derivante dal
lavoro è infatti il reddito di una particolare forma di capitale: il capitale umano. Quali
sono le componenti del capitale umano? Per Gary Becker, il capitale umano è composto
di elementi innati, ereditari, genetici, e di elementi acquisiti. Foucault si rende conto che
proprio il patrimonio genetico è suscettibile di divenire un futuro campo di
investimento, qualora – in un avvenire per lui ancora lontano, ma non impossibile da
immaginare e per noi pienamente dispiegato – si prefigurino possibilità di intervento per
la sua correzione o il suo potenziamento. Oggi, d’altra parte, nell’epoca delle
neuroscienze e del passaggio da soggetto molare a quello molecolare51, in cui siamo
chiamati a immaginarci come “sé neuronali”, questo capitale umano coincide anche con
il potenziamento delle capacità cerebrali52. L’enhancement delle nostre funzioni
cognitive e fisiche, l’allenamento del corpo, la nutrizione, il makeup, ogni aspetto del
nostro corpo, in ogni sua molecola, diventano potenziale oggetto di investimento. Il
49 W. McKeen, “The National Children’s Agenda: A Neoliberal Wolf in Lamb’s Clothing”, Studies in
Political Economy, 80 (2007), pp. 151-173.
50 Sugli effetti di democratizzazione e depoliticizzazione prodotti dall’avvento della razionalità
neoliberale, sempre sulla scia dell’interpretazione foucaultiana, insiste anche Wendy Brown (cfr. W.
Brown, “Neo-liberalism and the End of Liberal Democracy”, Theory and Event, 1, 7 (2003), pp. 1-25 ed
Ead., “American Nightmare: Neoliberalism, Neoconservatism, and De-Democratization”, Political
Theory, 34, 6 (2006), pp. 690-714).
51 Cfr. N. Rose, The Politics of Life Itself: Biomedicine, Power, and Subjectivity in the Twenty-first
Century, Princeton, Princeton University Press, 2006; trad. it. di M. Marchetti e G. Pipitone, La politica
della vita, Torino, Einaudi, 2008.
52 Cfr. N. Rose e J. M. Abi-Rached, Neuro. The New Brain Science and the Management of the Mind,
Princeton and Oxford, Princeton University Press, 2013.
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49
concetto di capitale umano copre tutto ciò che facciamo: da quanto mangiamo, alle
nostre attività ricreative, alla nostra vita sessuale, fino all’ambiente sociale, all’influenza
della famiglia, delle cure e delle attenzioni ricevute, a tutto ciò che ci accade o che si
eredita. Il concetto di capitale umano fa saltare il confine tra sfera produttiva e
riproduttiva, tra l’economico e il sociale, tra produzione e consumo, nel senso che il
calcolo costo-benefici viene esteso e disseminato a tutte le pratiche sociali; non ne
rimane immune la famiglia. Ciò, insieme all’ingresso nel mondo del lavoro delle donne,
fa sì che ora il soggetto imprenditore possa immaginarsi privo di genere: anche la donna
è invitata a comportarsi come imprenditrice di sé, ad assumere rischi53, dopo aver
attentamente valutato costi e benefici54.
Processi di personal branding e outsourcing riguardano donne e uomini – come
illustra il lavoro recente di Hochschild55. Il soggetto – come si trattasse di un’azienda –
è invitato a focalizzare le proprie energie sul proprio core business per valorizzarlo, nel
caso del personal branding, e al tempo stesso per esternalizzare, ovvero delegare
all’esterno, al mercato, tutte quelle attività che possono consentire una riduzione dei
suoi costi operativi e garantirne la competitività56. Ciò ha portato a una rapida
mercificazione della sfera privata con l’emergere di una nuova configurazione delle
forme in cui si manifesta la divisione tra lavoro riproduttivo e lavoro produttivo, che in
qualche misura risultano sempre più difficilmente distinguibili.
53 Osserva De Majo: “La retorica neoliberale poggia proprio su questa capacità di rischiare e
scommettere costantemente su di sé e sugli altri. Il rischio stesso viene strettamente connesso alla libertà
o, più specificamente, alla sua forma illusoria. Se apparentemente la società del rischio è una società che
deve produrre spazi di libertà proprio perché il rischio assuma una forma sempre più estrema e radicale,
in realtà questa libertà dell’iniziativa economica e finanziaria produce margini inediti di controllo e
irreggimentazione entro parametri quantitativi. Il gioco d’azzardo su di sé e sugli altri, a cui si viene
educati fin dalla giovane età, sancisce la messa al bando di qualsiasi relazione fondata su orizzontalità e
disinteresse, in funzione della possibilità di profitto che si cela dietro ogni singolarità” (E. De Majo, Una
partita a poker. Neoliberismo e cittadinanza economica secondo differenza, in IAPh Italia, Annuario
2013-2014, Roma, 2014, p. 28).
54 J. Oksala, Feminism and Neoliberal Governmentality, cit.
55 A. Russell Hochschild, The Outsourced Self. What Happens When We Pay Others to Live Our Lives
for Us, New York, Henry Holt and Company, 2012.
56 Come mostra nei suoi recenti lavori Hochschild, che però non cita Focault, questa concezione
imprenditoriale del sé affermatasi con l’avanzare del neoliberalismo consente di concepire come
prestazione di lavoro, o servizio, persino attività come quelle della madre surrogata (cfr. ivi).
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50
Per capire meglio le implicazioni di questa trasformazione della soggettività può
essere utile – sulle orme di Michel Feher – distinguere il paradigma del lavoratore libero
da quello del capitale umano. Il primo presuppone un sé diviso, costituito da una
soggettività autentica e inalienabile e da una forza lavoro che può essere ceduta: “è
diviso tra la riproduzione della società di lavoratori liberi (ovvero, la sua riproduzione
biologica, sociale, culturale e morale) e la produzione, la circolazione e il consumo di
merci. Infine, è diviso tra le aspirazioni spirituali e il perseguimento dei suoi interessi
materiali”57. Per pensarsi come libero il lavoratore deve immaginare se stesso e parti
della propria vita come non alienabili, ovvero deve immaginarsi come proprietario di sé
e del proprio lavoro – secondo il modello di self-ownership inaugurato da Locke. Nel
paradigma del capitale umano questa separazione viene meno e l’individuo non
corrisponde più al modello dell’individualismo proprietario: i soggetti sono piuttosto
visti come “manager di un portfolio di condotte che riguardano i vari aspetti della vita”
e il problema è decidere cosa includere e cosa escludere dal portfolio per valutare se
stessi di più. La relazione tra il soggetto neoliberale e il suo capitale umano è – dice
Feher – “speculative, in every sense of the word”58 e non proprietaria. Salute, istruzione,
cultura sono tutte possibili investimenti e non condizioni esterne per la riproduzione del
lavoratore59.
Al di là del lessico neutrale che tende a caratterizzare tanto il discorso sul
neoliberalismo che quello sul social investment state, che alcuni definiscono
postneoliberalismo o liberalismo inclusivo, nell’ottica dell’investimento il modello
imprenditoriale si estende anche alle donne e in particolare – come anche Foucault
aveva intuito – alla madre. La figura materna diventa una particolare figura di
imprenditrice, in quanto viene caricata della responsabilità di gestire e rendere
57 M. Feher, “Self-appreciation; or, the Aspiration of Human Capital”, Public Culture, 21, 1 (2009),
pp. 21-41; in particolare, p. 29, trad. it. mia.
58 Ivi, p. 34.
59 Feher sostiene che la sinistra potrebbe piegare questo modello dell’autovalorizzazione del sé ai suoi
fini, provocando diverse conseguenze politiche a partire da una serie di interrogativi su cosa sia richiesto
in termini quantitativi e qualitativi per aiutare qualcuno ad aiutare se stesso, come la socialdemocrazia in
passato ha fatto con il modello del lavoratore libero, originariamente proposto dal versante liberale, ma
poi fatto proprio dai sindacati nelle loro battaglie (cfr. ivi).
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51
produttivo, secondo una rigorosa logica costi-benefici, quel capitale umano in
formazione che è il minore.
Già alla fine degli anni settanta, Foucault sottolineava come, in questo nuovo
modello economico, la produzione di bambini si presenti come un terreno privilegiato di
investimento per un individuo imprenditore il cui orientamento è necessariamente volto
al futuro60. Si legge nelle sue lezioni sulla nascita della biopolitica:
E se vorrete avere un figlio con un capitale umano elevato, inteso semplicemente in termini
di elementi innati e di elementi ereditari, vedete bene che sarà necessario effettuare tutto un
investimento, il che significa aver lavorato a sufficienza, avere redditi sufficienti, avere uno
status sociale che vi consentirà di prendere come congiunto o come co-produttore di questo
futuro capitale umano, qualcuno il cui capitale sarà a sua volta di una certa rilevanza. Tutte
queste cose di cui parlo non sono affatto uno scherzo; si tratta di una forma di pensiero o di
un tipo di problematica attualmente in corso di elaborazione61
.
In questo modo la sfera domestica, come osserva McRobbie62, diventa il terreno di
una nuova lotta di classe. Il modello della madre o dei genitori investitori, responsabili
dell’investimento del capitale umano del figlio, che oggi sempre più le neuroscienze
individuano nelle potenzialità di sviluppo del cervello nei primi tre anni di vita, impone
standard molto esigenti che sembrano ritagliati per la classe media63. Insieme alla fatica
fisica e mentale, derivante da una perenne ansia da prestazione, crescono, infatti, le
spese che, secondo questo ideale familiare, i genitori devono sostenere per la cura e
l’educazione del minore prescolare, a cominciare dalla spesa destinata all’acquisto di
giochi intelligenti (come i Baby Einstein Toys, i Baby Mozart o i Brainy Babies),
accuratamente pensati per genitori cui servono istruzioni precise e possibilmente veloci
60 Su questo v. anche S. Forti e O. Guaraldo, “Rinforzare la specie. Il corpo femminile tra biopolitica e
religione materna”, Filosofia politica, 1 (2006), pp. 57-78.
61 M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 189.
62 A. McRobbie, Feminism, Neoliberalism and Family: Human Capital at Home, CIBC Hall
(McMaster campus), (2012): <http://www.youtube.com/watch?v=bv8a4V8CE6c> (ultima consultazione:
15 giugno 2014) ed Ead., “Feminism and the New ‘Mediated’ Maternalism: Human Capital at Home”,
Feministische Studien, 31,1 (2013), pp. 136-143.
63 Mi permetto di rimandare qui a B. Casalini, “Cittadini fatti a macchina: neuroscienza, mito e
politica”, Bollettino telematico di filosofia politica, (2013):
<http://commentbfp.sp.unipi.it/?page_id=724> ed Ead. “Dal seno al cervello. La corsa alla mamma
eccellente”, InGenere, (15 agosto 2013): <http://ingenere.it/finestre/dal-seno-al-cervello-la-corsa-alla-
mamma-eccellente>
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52
e sicure su cosa fare al fine di offrire le corrette stimolazioni sul piano emozionale e
cognitivo al proprio bambino64. Quando entrambi i genitori lavorano, la ricerca del
migliore nido e della migliore scuola materna (i curricula formativi in età prescolare
sono oggetto di sempre più numerose sperimentazioni) comporta spesso un grosso
impegno economico e di tempo65. Una maternità all’altezza dell’aspirazione di “avere
un figlio con un capitale umano elevato” è riservata di fatto alle madri benestanti, che
nell’immaginario delle pubblicità di rotocalchi e televisione sono anche attive, atletiche
e ambiziose. A questo prototipo di mamma perfetta ed efficiente viene sempre più
spesso contrapposta, quale modello negativo – come sottolinea McRobbie66 – la madre
dell’underclass, e in genere le madri sole dipendenti dal welfare, donne che vengono
non di rado rappresentate dai mass media come trasandate, grasse e disfatte, insomma
con un’apparenza che “nell’universo morale odierno implica inefficienza, promiscuità e
una genitorialità inadeguata”67. Attraverso queste rappresentazioni la dismissione del
welfare, ormai in atto da tempo, trova una legittimazione mediante la conferma
dell’esistenza residuale di un’umanità abietta per la quale è inutile destinare la spesa
sociale.
L’altra faccia della medaglia di una società meritocratica, che si vuole “senza classi”,
in cui ogni individuo che investa saggiamente su se stesso e calcoli prudentemente i
rischi può farcela a salire i gradini della scala sociale, che esalta i valori
dell’individualismo, della scelta e della libertà, è, dunque, la costruzione sociale di “vite
di scarto”68, di “rifiuti” o di quella che Loïc Wacquant – come vedremo tra breve –
chiama “marginalità avanzata”. A quest’ultimo autore è utile guardare per approfondire
il modo in cui funziona questo processo di costruzione della marginalità nell’epoca
64M. H. Nadesan, “Engeneering the Entrepreneurial Infant: Brain Science, Infant Development Toys,
and Governmentality”, Cultural Studies, 16, 3 (2002), pp. 401-432.
65 Cfr. G. Wall, “Is your Child’s Brain Potential Maximized?: Mothering in an Age of New Brain
Research”, Atlantis, 28, 2 (2004), pp. 41-50 ed Ead., “Mothers’ Experience with Intensive Parenting and
Brain Development Discourse”, Women’s Studies International Forum, 33 (2010), pp. 253-263.
66 Cfr. A. McRobbie, Feminism, Neoliberalism and Family: Human Capital at Home, cit. ed Ead.,
“Feminism and the New ‘Mediated’ Maternalism: Human Capital at Home”, cit.
67 Op. cit., p. 125.
68 Z. Bauman, Wasted lives. Modernity and its Outcasts, Cambridge, Polity Press, 2004; trad. it. Vite di
scarto, Bari, Laterza, 2004.
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53
neoliberale e per integrare, come ho anticipato nell’introduzione, le visioni proposte da
Fraser e McRobbie.
4. La violenza simbolica e materiale dello Stato neoliberale e la creazione della marginalità avanzata
Secondo Wacquant, se l’interpretazione neo-marxista finisce per eguagliare
neoliberalismo con libero mercato, vedendolo come il risultato della
deregolamentazione, della privatizzazione e del ritrarsi dello Stato dalle tradizionale
aree di intervento del welfare state keynesiano, e dandone quindi una visione coerente e
monolitica, quella foucaultiana propone invece un quadro “confuso”69, nel quale si
abbandona la discussione sul ruolo dello Stato per analizzare piuttosto i processi di
governo, ovvero una razionalità globale e una normatività generalizzata, che “‘tende a
strutturare e organizzare, non solo le azioni dei governanti, ma anche la condotta dei
governati stessi’ e persino la loro concezione di sé secondo i principi della
competizione, dell’efficienza e dell’utilità”70. Manca in entrambe queste interpretazioni
un elemento centrale della visione neoliberale, così come viene formulata fino al suo
primo apparire durante il Colloquio Lippmann che si tenne a Parigi nel 193871, ovvero
l’analisi del cuore istituzionale del progetto neoliberale che consiste in “un’articolazione
del rapporto Stato, mercato e cittadinanza che imbriglia (utilizza) il primo affinché il
secondo metta il proprio marchio sulla terza. Tutt’e tre le istituzioni – scrive Wacquant –
devono quindi essere sottoposte ad analisi”72. A differenza che nella visione neo-
marxista il neoliberalismo si configura dunque qui come un progetto politico, prima
69 Cfr. L. Wacquant, “Three Steps to a Historical Anthropology of Actually Existing Neoliberalism”,
Social Anthropology, 20, 1 (2010), pp. 66-79.
70Ivi, p. 70.
71 Il Colloquio Lippmann si tenne il 26 agosto del 1938 a Parigi ed è da molti – a cominciare da
Foucault – considerato l’atto di nascita del neoliberalismo. Il Colloquio fu organizzato in occasione della
traduzione in francese dell’opera The Good Society (1937) di Walter Lippmann, approfittando della
presenza di quest’ultimo a Parigi. Si concluse con una dichiarazione in cui ci si impegnava a costruire un
centro internazionale di studi per il rinnovamento del liberalismo. La creazione nel 1947 della Società di
Monte Pellegrino è spesso considerata un prolungamento di quella prima iniziativa. Per una ricostruzione,
non sempre concorde, della storia del neoliberalismo, cfr. P. Dardot e C. Laval, La nuova ragione del
mondo. Critica della razionalità neoliberista, cit., e S. Augier, Néo-libéralisme(s). Une archeologie
intellectuelle, Paris, Grasset, 2012.
72 L. Wacquant, “Three Steps to a Historical Anthropology of Actually Existing Neoliberalism”, cit., p.
71.
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54
ancora che economico, che si concentra non sulle tecnologie governamentali – come
l’approccio foucaultiano73 – ma sulla ridefinizione e sul reengineering del ruolo dello
Stato. In particolare, Wacquant lo definisce come un progetto politico transnazionale,
perché portato avanti da una nuova classe di governo in formazione, composta di capi di
aziende transnazionali, politici di alto rango, manager di Stato e funzionari di alto grado
di organizzazioni multinazionali, quali OECD, WTO, IMF, World Bank e Unione
Europea, e comunità epistemiche che collaborano o operano all’interno di queste
organizzazioni.
L’analisi della nuova ingegneria statuale inaugurata con l’avvento del neoliberalismo
è al centro di una trilogia, a cui Wacquant ha lavorato per più di un decennio, che ruota
intorno alla relazione tra povertà/etnicità, Stato sociale e Stato penale nell’era del
neoliberalismo trionfante e, come scrive l’autore stesso, è volta a “svelare il nesso
triangolare tra trasformazioni di classe, divisione etnico-razziale e ritorno dello Stato
nell’era dell’egemonia neoliberale”74. Nel primo volume della trilogia, Urban Outcasts
(2008), si diagnostica l’emergere di un nuovo regime della povertà urbana, distinto dal
regime dell’epoca keynesiana-fordista prevalso fino agli anni Settanta. Questo nuovo
regime viene chiamato dall’autore della “marginalità avanzata”, perché non si tratta né
di una marginalità residuale né di una marginalità ciclica: è piuttosto una marginalità
iscritta nel futuro delle società avanzate, soggette alle tensioni della deregolamentazione
capitalista. La marginalità avanzata è il prodotto di sei fattori: 1) la flessibilizzazione e
73 La visione di Wacquant si distacca da quella di Foucault anche per quanto riguarda l’analisi del
sistema penitenziario. Se Foucault era arrivato alla fine degli anni settanta ad annunciare il declino del
penitenziario, Wacquant mette in luce nei suoi lavori il carattere errato di questa diagnosi: “penal
confinement has made a stunning come back and reaffirmed itself among the central missions of
Leviathan just as Foucault and his followers were forecasting its demise”. Non solo la prigione continua
ad essere una presenza importante, ma essa non ha più quella funzione di dressage che le attribuiva
Focault: “In lieu of the dressage (“training” or “taming”) intended to fashion “docile and productive
bodies” postulated by Foucault, the contemporary prison is geared toward brute neutralization, rote
retribution, and simple warehousing – by default if not by design”. Le tecniche di normalizzazione
disciplinare, nate nel carcere, per certi versi si sono diffuse all’interno di tutta società; mentre continua ad
essere fortemente diversificato il trattamento riservato alle classi basse da quello riservato alle classi alte.
Contrariamente alle previsioni di Foucault si assiste oggi ad una “law and order pornography” attraverso i
media commerciali e il discorso politico in generale (cfr. L. Wacquant, Crafting the Neoliberal State:
Workfare, Prisonfare, and Social Security, cit., pp. 205-206).
74 L. Wacquant,“The Wedding of Workfare and Prisonfare in the 21st Century: Responses to Critics
and Commentators”, in Squires, Peter; Lea, John (a cura di), Criminalisation and advanced marginality:
Critically Exploring the Work of Loïc Wacquant, London, Polity Press, 2012, pp. 243-257.
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55
frammentazione del lavoro salariato, che produce insicurezza e disintegrazione sociale;
2) la disconnessione funzionale della marginalità rispetto ai trend dell’economia
globale, per cui le chance delle popolazioni marginali rimangono invariate anche in fasi
di crescita economica; 3) la segregazione e stigmatizzazione territoriale; 4) la
dissoluzione di legami e appartenenze e la trasformazione dello spazio comunitario in
uno spazio alienato e indifferente, di mera sopravvivenza; 5) la perdita del retroterra,
ovvero di quelle possibilità di protezione e sostegno che un tempo venivano fornite
dalle istituzioni locali, dalla rete familiare e di vicinato; 6) e infine dal venir meno di
possibilità concrete di azione, di resistenza e di rappresentanza collettiva che deriva
dalla frammentazione sociale, dalla crisi dei sindacati e dalla loro difficoltà ad operare
al di fuori dei luoghi di lavoro75. In Punishing the Poor (2009)76, il secondo volume
della trilogia, Wacquant spiega come lo Stato cerchi di assicurarsi l’accettazione sociale
di questa situazione, da esso stesso creata con la deregolamentazione del mercato del
lavoro, attraverso l’invenzione di un nuovo governo dell’insicurezza sociale che
coniuga la disciplina del workfare con un ipertrofico apparato penale. Ciò significa che
se si vuole capire la nuova regolazione del problema della povertà oggi bisogna tenere
in considerazione contemporaneamente l’agire congiunto della mano sinistra (il
versante materno dello Stato, impegnato nello svolgimento di funzioni sociali, relative
all’educazione pubblica, alla casa, al diritto del lavoro, alla sanità, al welfare) e della
mano destra dello Stato (il versante maschile, che si incarica di far valere la nuova
disciplina economica mediante tagli alla spesa sociale e il ricorso alla politica penale)77:
75 Cfr. L. Wacquant, Urban Outcasts. A Comparative Sociology of Advanced Marginality, Cambridge
(UK), Polity Press, 2008, cap. 8. Sulla questione della marginalità contemporanea, v. anche: L. Wacquant,
Advanced Marginality, Ethnoracial Divisions, Neoliberalism and the Strategies of the State, 20 gennaio
2012, Göteborg: <https://www.youtube.com/watch?v=iaIz32fUJkg> (ultima consultazione 15 giugno
2014) e Id., Urban Marginality and the State, Paris, 20-21 giugno 2012:
<https://www.youtube.com/watch?v=3JPAguOSA2E> (ultima consultazione: 15 giugno 2014).
76 L. Wacquant, Punir les pauvres. Le nouveau guovernment de l’insécurité sociale, 2004; trad. it.
Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale, Roma, DeriveApprodi, 2006.
77 Cfr. L. Wacquant, “Crafting the Neoliberal State: Workfare, Prisonfare, and Social Security”,
Sociological Forum, 25, 2 (2010), pp. 197-220; in particolare, p. 201. Per analizzare l’evoluzione delle
politiche penali e di quelle sociali all’interno dello stesso schema teorico Wacquant utilizza il concetto di
“campo burocratico” tratto dalla sociologia di Bourdieu. Il ricorso alla nozione di campo burocratico
consente a Wacquant di vedere il cambiamento della natura dello Stato in epoca neoliberale come un
prodotto di un mix di internazionalità, prove ed errori, logiche burocratiche ed elettorali, piuttosto che il
frutto di un piano deliberato secondo una visione cospiratoria della storia. Riprendendo la nozione di
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56
nello Stato neoliberale, a differenza di quanto è accaduto negli anni del compromesso
fordista-keynesiano, politica sociale e politica penale vengono ad essere due facce della
stessa medaglia78. Esse convergono nel presupporre la stessa filosofia behaviorista, la
stessa nozione di contratto e di responsabilità individuale, gli stessi meccanismi di
sorveglianza, gli stessi rituali di degradazione e la stessa stigmatizzazione territoriale. Il
terzo volume, che in realtà spiega l’autore è stato pubblicato per primo (in francese, nel
1999) per ragioni di urgenza politica, si intitola Prisons of poverty.
Il nuovo Stato liberale ha la natura di un centauro: se governa sugli individui delle
classi medio-alte attraverso la libertà, esso agisce in modo pesante, autoritario e
paternalistico, quando si tratta delle classi più basse, ovvero quelle classi che subiscono
più direttamente le conseguenze distruttive della deregolamentazione economica79.
Quest’azione autoritaria, mediante il regime di workfare e un invasivo apparato penale e
di polizia, si rivela necessaria al fine di contenere, controllare e reprimere le resistenze
che la disciplina di mercato incontra tra le classi più povere che si trovano a dover
affrontare una diffusa instabilità e insicurezza sociale. Non a caso, sottolinea Wacquant,
il profilo dei destinatari delle azioni delle due mani dello Stato, ovvero degli utenti del
sistema penitenziario e dei servizi sociali, è identico per provenienza sociale, etnica,
razziale e di classe; differisce per un unico tratto fondamentale: il genere (il 90 % tra gli
utenti dei servizi negli Stati Uniti sono madri – sottolinea Wacquant). L’azione penale
infatti si rivolge principalmente alla popolazione povera maschile, mentre i servizi
sociali hanno un’utenza prevalentemente femminile. Workfare e prisonfare agiscono
congiuntamente e svolgono sia una funzione materiale che una funzione simbolico-
espressiva.
La tesi di Wacquant è che ci sia stata in anni recenti una “rimascolinizzazione” dello
Stato: sempre più fondi sono stati sottratti al welfare e destinati al sistema penitenziario
al fine di controllare e imbrigliare la resistenza di mariti, fidanzati e figli, spesso
“campo burocratico” di Bourdieu, Wacquant ne corregge alcuni elementi; in particolare aggiunge alla
mano destra dello Stato, oltre al ministero dell’economia e del bilancio, la polizia, le corti e il sistema
carcerario (cfr. ivi, p. 201).
78 Su questo v. anche L. Wacquant, Neoliberalismo e criminalizzazione della povertà negli Stati Uniti,
Verona, ombre corte, 2013.
79 L. Wacquant, “The Wedding of Workfare and Prisonfare in the 21st Century: Responses to Critics
and Commentators”, cit., p. 252.
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rinchiusi in prigioni che hanno totalmente perso la loro funzione rieducativa e sembrano
avere ora due sole finalità principali: da un lato, il deposito di persone considerate
“scarti umani” non recuperabili e, dall’altro, una sorta di ‘pornografia penale’, che ha
l’obiettivo di rassicurare le classi medio-alte, più che di reprimere il crimine. Mentre i
maschi poveri (che, nel caso degli Stati Uniti sono per lo più afro-americani abitanti
degli iperghetti, sorti dopo la fine della segregazione degli anni settanta e l’implosione
del ghetto classico) finiscono nella rete del prisonfare, le loro donne sono le destinatarie
privilegiate del sistema di workfare e vengono chiamate in causa, spesso in modo
contraddittorio, sia nel loro ruolo di lavoratrici sia nella loro funzione riproduttrice e di
cura, come target fondamentale del nuovo governo del sociale. Sull’analisi che
Wacquant propone circa le mutazioni del welfare in una prospettiva di genere
convergono molte analisi femministe dedicate alle trasformazioni dello Stato sociale
contemporaneo80.
Cosa si intende con workfare e quali principi lo ispirano? Il principio del workfare
viene sposato dalla terza via di Clinton e Blair e informerà il loro tentativo di
ridisegnare le funzioni dello Stato e del welfare, recependo alcune delle critiche
fondamentali che erano venute dalla destra e dall’impostazione neoliberista. La terza
via, infatti, dà ragione ai neoliberisti su un punto: è preoccupante il numero di persone
che vivono alla spalle dello Stato sociale, e deve essere scongiurata l’eventualità che i
benefici sociali concessi dallo Stato possano favorire il fenomeno dell’azzardo morale e
anche della frode. Il problema non è quindi soltanto che il welfare crei una mentalità
della dipendenza, ma che esso produca comportamenti opportunistici sulla base di un
calcolo di convenienza; in altri termini, il welfare keynesiano utilizzerebbe incentivi
sbagliati che producono effetti opposti a quelli desiderati, non disincentivando stili di
vita devianti. È sulla base di queste spinte di riforma che matura alla fine degli anni
Novanta la filosofia del social investment state ed emerge un nuovo lessico delle
politiche sociali: compaiono ora termini come politiche di attivazione, workfare,
inclusione ed esclusione sociale, capitale umano, capitale sociale, formazione continua.
80 Cfr. A.-M. Hancock, The Politics of Disgust, The Public Identity of the Welfare Queen, New York-
London, New York University Press, 2004 e A M. Smith, Welfare Reform and Sexual Regulation,
Cambridge-New York, Cambridge University Press, 2007 ed Ead., “Neoliberalism, Welfare Policy and
Feminist Theories of Social Justice”, Feminist Theory, 9, 2 (2008), pp. 131-144.
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58
Un lessico che ci è familiare e che dal 2000 ispira anche l’indirizzo che l’Ue suggerisce
in materia di politiche sociali ai singoli stati. Alla base di questa nuova concezione del
ruolo sociale dello Stato vi è un forte richiamo alla responsabilità individuale. Un
richiamo che sembra avere facile presa sull’opinione pubblica: non è semplicemente
giusto che la gente sia responsabile delle proprie scelte e delle conseguenze che ne
derivano? Può sembrare accettabile, infatti, che una società si chieda in quale misura lo
svantaggio materiale relativo di una persona sia conseguenza delle scelte che ha fatto e
in quale misura derivi da circostanze fuori dal suo controllo. La giustizia sembra
richiedere una rettificazione degli svantaggi derivanti dalle circostanze, ma non di quelli
derivanti dalla scelta. Le ineguaglianze derivanti dalle scelte individuali, in questa
prospettiva, possono apparire giustificate. Questo presupposto, apparentemente pacifico,
nella realtà è estremamente problematico: basti pensare alla difficoltà di tracciare una
chiara distinzione tra circostanze e scelta. Da quest’impostazione e da questo tipo di
ragionamento, tuttavia, sono derivati un cruciale slittamento del discorso pubblico dalla
responsabilità collettiva alla responsabilità individuale, dalla giustizia della struttura
sociale o anche soltanto della struttura di base della società, alle scelte dei singoli, ai
loro stili di vita81, e una concezione condizionale dei diritti sociali, per cui requisiti di
reddito non sono ora più sufficienti per poter accedere all’aiuto dello Stato, bisogna
dimostrare la volontà di cambiare il proprio “stile di vita”, la volontà di inserirsi nel
mercato del lavoro, di seguire corsi di formazione, di controllare la propria capacità
riproduttiva, ecc. Il nuovo utente dei servizi, per essere aiutato, deve dimostrare di saper
aiutare se stesso; e questo nel caso delle donne significa soprattutto dimostrare non solo
di voler lavorare, ma anche di essere buone madri. Basti pensare in proposito che negli
Stati Uniti d’America il Personal Responsibility and Work Opportunity and
Reconciliation Act del 1996 ha consentito ad alcuni Stati di introdurre nelle scuole dei
corsi di astinenza sessuale e di richiedere agli utenti dei servizi sociali di frequentare
corsi di assistenza al matrimonio; ha lasciato agli Stati la possibilità di togliere
l’assistenza a quelle madri sole che si rifiutavano di fare il nome del padre del loro
bambino, anche quando il comportamento della donna era giustificato dalla paura che
81 Cfr. I. M. Young, Responsibility for Justice, with a Foreword by Martha Nussbaum, Oxford, Oxford
University Press, 2011.
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fare il nome del padre potesse creare un pericolo per lei e per suo figlio82. Che simili
misure possano essere state concepite e adottate si spiega con l’idea ancora molto
diffusa negli Stati Uniti, ma non solo, che una madre sola sia un essere immorale o
quanto meno irresponsabile e incosciente e una sorta di pericolo sociale che giustifica
per questo uno stretto controllo da parte dei servizi sociali83.
La sorveglianza dello Stato e il carattere disciplinare del suo intervento sociale nei
confronti delle madri povere si sono rafforzati anche per effetto della diffusione delle
nuove conoscenze offerte dalle neuroscienze non solo intorno alle condizioni per la
“produzione efficiente” dei futuri lavoratori della conoscenza, ma anche per la
prevenzione dei nuovi rischi sociali84. Un maggiore impegno dello Stato in questa
direzione è stato avallato anche dal pensiero di autorevoli economisti, come il professor
James J. Heckman dell’università di Chicago, il quale da tempo sostiene, rifacendosi
proprio ai risultati delle neuroscienze85, che l’investimento precoce sui minori in età
prescolare, in particolare sui minori che vivono in famiglie svantaggiate, ridurrà la spesa
sociale futura e produrrà notevoli profitti sociali ed economici. I bambini che crescono
in condizioni di povertà sono più a rischio di abbandono scolastico e di devianze nella
loro vita da adulti: criminalità, dipendenza da sostanze stupefacenti, alcolismo,
maternità in età adolescenziale sono alcuni dei fenomeni sociali che possono essere
prevenuti grazie ad un intervento precoce sui minori delle famiglie svantaggiate. Anche
di recente, il premio Nobel per l’economia, commentando lo State of the Union Address,
pronunciato da Obama all’inizio del 2013, col quale il Presidente americano si
impegnava a realizzare un piano federale per garantire a tutti i bambini in età prescolare
educazione e cura, ha ricordato la sua ‘formula magica’: “Every dollar invested in
quality early childhood development for disadvantaged children produces a 7 percent to
82 Cfr. A. M. Smith, Welfare Reform and Sexual Regulation, cit.
83 L. Wacquant, Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale, cit., p. 96.
84 M. Vandenbroeck, R. Roose, M. De Bie, “Governing Families in the Social Investment State”,
International Critical Childhood Policy Studies, 4, 1 (2011), pp. 69-85.
85 Per una critica molto forte e decisa alle interpretazioni e agli usi che delle scoperte delle
neuroscienze fa la politica contemporanea, cfr. J. Bruer, The Myth of the First Three Years: A New
Understanding of Early Brain Development and Lifelong Learning, New York, The Free Press, 2002.
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10 percent return, per child, per year”86. Secondo i calcoli di Heckman, insomma, lo
Stato ha un ottimo motivo per investire sui minori: la prospettiva di un ritorno annuo
pari al 7-10% della spesa!
In alcune realtà l’intervento sui minori, sostenuto da un costante richiamo alle
evidenze provenienti dalle neuroscienze sull’importanza dei primi anni di vita, si è
tradotto in politiche sociali indirizzate ai poveri e fortemente intrusive nella vita delle
famiglie svantaggiate. Basti pensare ai programmi Head start ed Early Head Start, ora
gestiti a livello locale, negli Stati Uniti, e al programma Sure Start nel Regno Unito. Su
questa strada si è mosso da tempo anche il governo australiano, che nel 2011 ha
annunciato la decisione di finanziare un programma rivolto alle famiglie con minori in
difficoltà, che ha come destinatari i genitori e prevede che per due anni questi seguano a
casa propria dei corsi di sostegno alla genitorialità. Quando, in un programma quale
Sure Start o nei piani del governo australiano, si parla di “sostegno” (support) non ci si
riferisce ad un sostegno di natura economica, ma a un sostegno di natura principalmente
pedagogico-educativa87. Attraverso un programma quale il Triple P-positive Parenting
Programme, nato in Australia nel 1996 e ormai diffuso in tutto il mondo88, si insegnano
ai genitori (quasi sempre, in realtà – come molti studi hanno rilevato – si tratta delle
madri89) tecniche derivate dalle scienze cognitivo-comportamentali che possano renderli
efficienti nella gestione della crescita dei figli. Crescere un figlio in modo efficace
equivale a programmarne correttamente il comportamento secondo standard
socialmente accettabili e desiderabili. Queste tecniche, consistenti nell’individuazione di
regole e obiettivi, nella programmazione di attività secondo un preciso calendario e
nell’assegnazione di premi e punizioni, sono state rese popolari da programmi televisivi
quali Supernanny (in Italia, S.O.S. Tata), ma sono applicate nel Regno Unito anche nei
86 J. Heckman, “Lasting Economic and Social Benefit”, The New York Times, 21 febbraio 2013:
<http://www.nytimes.com/roomfordebate/2013/02/25/is-public-preschool-a-smart-investment/the-
presidents-early-childhood-plan-makes-great-sense> (ultima consultazione: 15 giugno 2014).
87 Cfr. V. Gillies, “Raising the ‘Meritocracy’: Parenting and Individualization of Social Class”,
Sociology, 39, 5 (2005), pp. 835-853; in particolare, p. 839.
88 R. M. Sanders, K. M. T. Turner, e C. Markie-Dadds, “The Development and Dissemination of the
Triple P—Positive Parenting Program: A Multilevel, Evidence-Based System of Parenting and Family
Support”, Prevention Science, 3, 3 (2002), pp. 173-189.
89 Cfr. E. Peters, “I Blame the Mother: Educating Parents and the Gendered Nature of Parenting
Orders”, Gender and education, 24, 1 (2002), pp. 119-130.
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corsi che i genitori sono costretti a seguire in base ai parenting orders previsti dal Crime
and Disorder Act del 1998, nel caso in cui il minore si macchi di un reato o, sulla base
dell’Anti-social behavioral act del 2003, nel caso in cui il minore sia espulso da scuola
per cattiva condotta90.
L’obiettivo di questi corsi è evidentemente quello di sopperire alle presunte
mancanze e carenze dei genitori, considerate come causa originaria della cattiva
condotta dei figli, mediante il sostegno e la guida di esperti. Lo Stato sembra ora
ritenere che non sia mai troppo presto per intervenire nella vita dei bambini per
compensare i deficit dei genitori e i futuri effetti negativi, e conseguenti costi sociali,
che da essi deriveranno91. Ad un problema sociale come la povertà che richiederebbe
interventi strutturali e politiche redistributive si trova così una facile soluzione che
rimanda alla responsabilità individuale e si affida ad un intervento di tipo pedagogico:
cambiare lo stile di vita dei genitori poveri e insegnare loro come ridurre i rischi per i
loro bambini e, al tempo stesso, programmare il minore, ancora plasmabile, innocente e
lontano da percorsi devianti, mediante progetti educativi precoci che ne sviluppino le
potenzialità al fine di renderlo domani un individuo produttivo. In una prospettiva di
genere non si può non osservare con inquietudine che nel momento in cui la cura del
minore in età prescolare viene ad essere tematizzata come una questione pubblica ciò
avvenga all’interno di una logica neoliberista o, come alcuni preferiscono definirla,
post-neoliberale, come quella del social investment state, con un effetto di ulteriore
controllo e moralizzazione dei genitori, e soprattutto delle madri, delle classi povere,
logica derivante dalla tendenza a spiegare ogni male sociale in termini di un presunto
parental deficit.
Come ricorda Wacquant, lo Stato legittima la propria azione prima di tutto
individuando il suo ambito di intervento e quindi definendo i termini in cui ritiene
90 In caso di mancato rispetto del parenting order il genitore può incorrere in una sanzione pecuniaria,
nella perdita dell’assistenza sociale o anche nella prigione.
91 F. Furedi, Nanny state has no business muscling mums and dads out of the way. Australia’s Early
Years Learning Framework is based on the assumption that government can never intercede early enough
in children’s lives to compensate for the incompetence of their parents (pubblicato originariamente su
“The Australian”, 5 novembre 2011): <http://www.frankfuredi.com/site/article/511/> e Id., 2012, Parental
determinism: a most harmful prejudice. David Cameron’s proposed parenting classes are built on the
bizarre and destructive idea that parenting determines society’s fortunes, 2012:
<http://www.frankfuredi.com/site/article/553/> (ultima consultazione: 15 giugno 2014).
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efficace rispondere al problema individuato. Ad una questione come quella della
povertà, per esempio, si può rispondere in modi diversi: la si può affrontare attraverso il
discorso penale; si può tematizzarla come una questione sociale che richiede
l’assunzione di una responsabilità collettiva o si può ricondurla ad una patologia
individuale, quindi darne una spiegazione sul piano medico. Nessuna di queste strade è
obbligata e tutte presuppongono una precisa scelta politica. L’ipotesi che lo sviluppo
cognitivo del bambino sia strettamente legato alla qualità delle cure materne e parentali
nei primissimi mesi di vita e il tentativo di fondare scientificamente questa ipotesi
attraverso il riferimento alle scoperte delle neuroscienze testimoniano una chiara
volontà dello Stato di ricondurre nell’ambito di un discorso medico il riprodursi del
ciclo della povertà. Presupposto tacito di questa impostazione è che altre determinanti,
quali il capitale sociale ed economico, non siano altrettanto fondamentali e il destino
possa immaginarsi come legato a scelte e condizioni individuali92: in particolare, il
genitore risulta ora come il principale responsabile dei risultati che il figlio sarà in grado
di raggiungere; dalle sue scelte nei primi anni di vita del bambino dipenderanno i suoi
successi così come i suoi possibili fallimenti sociali93.
5. Qualche considerazione conclusiva
C’è un punto, centrale in una prospettiva di genere, sul quale le tre interpretazioni del
neoliberalismo qui proposte sembrano convergere, nonostante la loro distanza, ed è la
capacità del neoliberalismo di giocare con le differenze e di asservirle alla sua logica.
Come sostiene Rosi Braidotti, il capitalismo sembra operare come una macchina per
produrre differenze molteplici e trasformarle in merci, vampirizzandole94. Se nella
prospettiva femminista delle origini la differenza (di genere, di orientamento sessuale,
92 V. Gillies, “Raising the ‘meritocracy’: Parenting and individualization of social class”, cit., p. 838.
93 Su queste basi nel 2007, nell’ambito del Respect Action Plan, il governo di Tony Blair ha stanziato
30 milioni di sterline per la costituzione di una National Academy for parenting practitioners. Nel
documento sopracitato, Blair scriveva: “Parents have a critical role in helping their children develop good
values and behaviour. Conversely, poor parenting increases the risks of involvement in anti-social
behaviour. We will develop parenting services nationally and focus help on those parents who need it
most. We will expand national parenting provision and establish a new National Parenting Academy for
front line staff” (Prime Minister’s Foreword, in Respect Action Plan:
http://news.bbc.co.uk/2/shared/bsp/hi/pdfs/10_01_06_respect.pdf ).
94 Cfr. R. Braidotti, A Critical Cartography of Feminist Post-postmodernism, cit., p. 3.
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di razza, ecc.) conteneva in sé un’aspettativa politica circa la sua capacità di “fare la
differenza”95, questa stessa capacità è fortemente compromessa – ma non annullata –
dalle tendenze vampirizzanti del neoliberalismo.
La visione del “sé imprenditore”, illustrata da Foucault come una delle invenzioni
centrali della scuola di Chicago, mette in luce l’operazione di valorizzazione delle
differenze individuali di cui il neoliberalismo è stato capace, mediante una retorica che
alimenta – come bene sottolinea McRobbie – l’illusione di una società senza classi. La
società neoliberale foucaultiana non è una società dei consumi o una società massificata,
perché il sé imprenditore è spinto ad una spesa concepita non come consumo, ma come
investimento e, quindi, fortemente individualizzata – una spesa in linea con il passaggio
nel frattempo avvenuto nel settore produttivo dal modello fordista a quello toyotista.
La critica neomarxista sottolinea il perenne sfruttamento da parte del sistema
capitalista delle differenze spaziali e temporali, tra centro e periferia, tra pubblico e
privato, economico e non economico, nonché delle differenze di genere, razza e classe.
Nell’analisi di Fraser, il capitalismo ha avuto nella sua storia la perenne necessità di uno
sfondo da cui sottrarre energie e risorse che non sono state prodotte secondo la logica
individualista della concorrenza. Una delle componenti fondamentali di questo
background, necessario quanto reso invisibile, è stata da sempre la famiglia.
Ricordiamoci delle parole della Thatcher: “And, you know, there is no such thing as
society. There are individual men and women, and there are families”96. La società non
esiste; esistono solo individui e... famiglie. Persino la madre del neoliberalismo
implicitamente riconosceva la necessità di uno spazio sociale che non funzionasse
secondo una razionalità strumentale, economica e massimizzante.
Il lavoro di Wacquant e quello delle autrici che hanno lavorato sulle trasformazioni
del welfare contemporaneo, infine, è particolarmente efficace non solo nell’evidenziare
il nesso tra classificazione, differenziazione e gerarchizzazione, ma anche nel mostrare
il ruolo fondamentale che lo Stato contemporaneo ha nella loro creazione e
95 Cfr. R. Braidotti, On Crisis, Capital and Austerity, cit.
96 M. Thatcher, Interview for Woman’s Own ("no such thing as society"), 23 settembre 1987:
<http://www.margaretthatcher.org/document/106689> (ultima consultazione: 15 giugno 2014). Su questo
punto richiama l’attenzione anche A. McRobbie, “Feminism, Neoliberalism and Family: Human Capital
at Home”, cit.
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64
legittimazione. Anche sulla base di pressioni transnazionali, spesso provenienti da
comunità epistemiche che lavorano presso organizzazioni internazionali non soggette ad
alcun tipo di controllo democratico, lo Stato determina e legittima sul piano materiale e
simbolico, e alla fine, sulla scorta della lezione di Bourdieu, “naturalizza” le gerarchie
sociali, anche mediante il loro collegamento a stati affettivi – basti pensare a come
opera il disgusto nella determinazione dei corpi abietti e marginalizzati97.
In una prospettiva femminista, quello che emerge dall’analisi che ho proposto mi
pare sia la centralità dell’attenzione che si dovrebbe oggi prestare alle divisioni di
classe, etnia e razza, nonché alle forme di soggettività dominanti, per sottolineare ogni
volta le dinamiche di potere che le strutturano e il conflitto di prospettive che
necessariamente ne deriva. Le divisioni sociali appena ricordate sono simboliche e
culturali, ma – come ci insegnano il femminismo nero, la teoria dell’intersezionalità e il
femminismo postcoloniale – producono precisi effetti materiali, giustificano
diseguaglianze e gerarchie sociali e mostrano che, nella loro formazione, un ruolo
fondamentale è svolto dalle istituzioni, dalle leggi e, oggi, anche dalle comunità
epistemiche transnazionali – come del resto hanno mostrato precocemente teorie della
giustizia femministe come quella di Iris Marion Young, nella quale è impossibile
separare le richieste di riconoscimento da quelle di una maggiore giustizia sociale98.
Il femminismo trova nel neoliberalismo un avversario temibile: la retorica
dell’indipendenza, la centralità assegnata al lavoro come strada per realizzare
l’autonomia economica e l’indipendenza e la stessa attenzione posta sull’infanzia come
terreno privilegiato di investimento, presente nel social investment state, sono tutti
elementi che possono risuonare positivamente e apparire promettenti anche dal punto di
vista delle donne. È anche vero, tuttavia, che proprio dagli studi femministi sono venute
in questi anni le critiche più convincenti al mito dell’individuo indipendente, al “mito
97 Su questo v. I. Tylor, “‘Chav Mum Chav Scum’, Class Disgust in Contemporary Britain”, Feminist
Media Studies, 8, 1 (2008), pp. 17.34 e Ead., Revolting Subjects. Social Abjection and Resistance in
Neoliberal Britain, London-New York, Zed books, 2013.
98 Per una critica all’accusa generalizzata rivolta dalla Fraser a tutte le teorie del riconoscimento di
non prestare sufficiente attenzione all’economia e alle disuguaglianze materiali, v.: I. M.Young,
“Categorie ribelli: una critica della teoria dei due sistemi di Nancy Fraser”, in N. Fraser, Il danno e la
beffa. Un dibattito su redistribuzione, riconoscimento, partecipazione, Bari, Pensa Multimedia, 2002, pp.
105-122 e J. Butler, “Meramente culturali”, in N. Fraser, Il danno e la beffa, cit., pp. 61-74.
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dell’autonomia” (come lo ha anche definito Martha Fineman in un suo importante
lavoro99), su cui si è fondato lo smantellamento del welfare e la cultura di un cittadino
visto sempre più nei soli panni di consumatore, tanto più libero quanto più ampio è il
ventaglio delle sue possibili scelte. La strada intrapresa da tutte quelle autrici che da
tempo insistono sui temi della vulnerabilità, della dipendenza, dell’interdipendenza e di
un ripensamento dell’umano alla luce della nostra animalità è una strada importante per
contrastare gli effetti socialmente devastanti del neoliberalismo. Penso in primo luogo
alle teoriche dell’etica della cura, ma non solo, penso ancora ai lavori per molti aspetti
diversi di Judith Butler, Martha Nussbaum, Donna Haraway e alla teoria della
vulnerabilità della filosofa del diritto Martha Fineman e agli studi di tante studiose di
politica sociale, quali Ruth Lister, Fiona Williams, Jane Jenson. Tuttavia, come
sottolinea, a mio avviso giustamente, Fraser, bisogna al tempo stesso stare attenti a non
ricadere in visioni oblative della cura, in un’idealizzazione dell’autogoverno e di una
cooperazione improntata alla gratuità. Il ruolo che gli Stati hanno avuto
nell’affermazione dell’attuale ordine economico neoliberale, nella crescita delle
diseguaglianze e nello smantellamento del welfare deve, piuttosto, essere ribadito per
chiamare la politica ad un’inversione di tendenza che rimetta al centro una cooperazione
sostenibile e quindi non disgiunta dall’importanza della responsabilità collettiva.
99 Cfr. M. Fineman, The Autonomy Myth, New York-London, The New Press, 2004.
P.D. Eiroa, “El “diálogo” de los juristas argentinos con Luigi Ferrajoli”,
Jura Gentium, ISSN 1826-8269, XII, 2015, 1, pp. 66-134
El “diálogo” de los juristas argentinos con Luigi Ferrajoli
Derecho penal mínimo y la democracia sustancial
Pablo D. Eiroa
Abstract: This work aims at assessing some relevant aspects of the concepts of “minimal
criminal law” and “substantial democracy” within Luigi Ferrajoli’s legal and political
theory, and at highlighting the critical responses of its argentine commentators. In this vein,
several issues are discussed: (i) whether the reality of imprisonment in Latin America has
refuted the conception of criminal law as a means for limiting power; (ii) whether the
alternatives to criminal law outlined by Ferrajoli lack empirical grounds; (iii) whether
Ferrajoli’s conceptions of substantial democracy and fundamental rights disregard popular
will; (iv) whether a formal definition of fundamental rights is admissible; and finally (v)
whether Ferrajoli’s theory of democracy implies a system of elite government contrasting
with deliberative models.
[Keywords: Luigi Ferrajoli; Minimal Criminal Law; Substantial Democracy; Fundamental
Rights; Constitutional Review]
1. Introducción
La obra de Luigi Ferrajoli puede considerarse en la actualidad un punto de referencia
obligado para los estudiosos de la teoría del derecho y de la política latinoamericanos.
La repercusión inusitada que ha tenido en nuestro continente ubica a Ferrajoli entre
aquellos pensadores con los que se puede acordar o disentir, pero nunca ignorar1.
En Argentina Ferrajoli es, además, el autor italiano que más ha cautivado la atención
de los penalistas en los últimos veinte años. Creo que ello se debe, especialmente, a la
fascinación que causó su ensayo Derecho y razón. Teoría del garantismo penal, cuya
traducción en español apareció en 19952. Tan es así que, apenas dos años después, en
1997, la Universidad de Buenos Aires le otorgaba el título de doctor honoris causa, y
1 Cfr. J.S. Pegoraro, “Fundamentación para otorgar el título de doctor honoris causa de la Universidad
Nacional de Lomas de Zamora al Profesor Luigi Ferrajoli”, en Cuadernos de doctrina y jurisprudencia
penal. Criminología, V-VI (2007), 4, pp. 163-166; D. Erbetta, “Laudatio”, en L. Ferrajoli, Paradigmas de
la democracia constitucional, Ediar, Buenos Aires, 2009, pp. 9-30.
2 Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale (1989), Laterza, Roma, 201110. La traducción en
español, publicada por la editorial Trotta de Madrid, estuvo a cargo de P.A. Ibañez, A. Ruíz Miguel, J.C.
Bayón Mohino, J. Terradillos Basoco y R. Cantarero Bandrés.
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justamente la laudatio de Ferrajoli estaría a cargo del más reconocido exponente de la
cultura penalista argentina desde el regreso de la democracia: Eugenio Raúl Zaffaroni.
Con el mismo título distinguirían a Ferrajoli las Universidades Nacionales de La Plata y
Lomas de Zamora, en 2005, de Rosario, en 2009, y del Litoral, en 2010. Y en todos esos
casos los penalistas y, más ampliamente, los estudiosos de la cuestión penal, tendrían un
rol protagónico para que esos homenajes se llevaran a cabo3.
La obra de Ferrajoli también ha tenido una influencia muy significativa en la
jurisprudencia penal argentina. Se trata del autor italiano más citado por la Corte
Suprema de Justicia de la Nación a partir de 1998, por encima de los clásicos de la
ilustración penal como Beccaria y Carrara4.
3 Baste recordar que nuevamente Zaffaroni estaría a cargo de su laudatio en La Plata, mientras que
Juan Pegoraro y Daniel Erbetta lo estarían, respectivamente, en Lomas de Zamora y Rosario. Pegoraro,
abogado y doctor en sociología, es profesor titular de “Delito y sociedad: sociología del sistema penal” en
la carrera de Sociología de la Facultad de Ciencias Sociales de la Universidad de Buenos Aires, además
de Investigador y Director del Programa de Estudios del Control Social en el Instituto Gino Germani de la
Universidad de Buenos Aires, y Director de la revista “Delito y sociedad. Revista de Ciencias Sociales”.
Erbetta es profesor titular de Derecho Penal, Director del Departamento de Derecho Penal y Criminología
y Director de la carrera de Posgrado de especialización en Derecho Penal de la Universidad Nacional de
Rosario, además de juez de la Corte Suprema de Justicia de la provincia de Santa Fe.
4 Cfr. T. 114, XXXIII, “Tabarez, Roberto Germán s/ delito de homicidio agravado por alevosía –causa
n° 232-”, sentencia de 17 de marzo de 1998, considerando 8° del voto de los jueces Fayt y Petracchi, con
cita de Derecho y razón, p. 56 ss.; C. 1757, XL, “Casal, Matías Eugenio y otro s/ robo simple en grado de
tentativa -causa N° 1681-”, sentencia de 20 de septiembre de 2005, considerandos 26 del voto que lidera
el acuerdo y 8 del voto del juez Fayt, con cita del mismo pasaje de Derecho y razón transcripto en el fallo
“Tabarez”; A. 102, XXXVII, “Alvarez, Santiago Aníbal s/ lesiones culposas”, sentencia de 30 de
septiembre de 2003, considerando 11 de la disidencia de los jueces Vázquez y Maqueda, con cita de
Derecho y razón, cit., p. 581 ss.; Q. 162, XXXVIII, “Quiroga, Edgardo Oscar s/ causa N° 4302”,
sentencia de 23 de diciembre de 2004, considerando 15 del voto de los jueces Petracchi y Highton de
Nolasco, con cita de Derecho y razón, p. 564 ss., y considerando 17 del voto del juez Maqueda, el que se
remitió a su opinión en el precedente “Alvarez”; L. 486, XXXVI, “Llerena, Horacio Luis s/ abuso de
armas y lesiones - arts. 104 y 89 del Código Penal -causa N° 3221-”, sentencia de 17 de mayo de 2005,
considerandos 10 del voto de los jueces Zaffaroni y Highton de Nolasco, 14 del voto del juez Petracchi y
13 del voto del juez Maqueda, con cita de Derecho y razón, cit., p. 581 ss.; S. 1767, XXXVIII, “Simón,
Julio Héctor y otros s/ privación ilegítima de la libertad, etc. -causa N° 17.768-, de 14 de junio de 2005,
considerandos 31 del voto del juez Maqueda y 18 del voto del juez Lorenzetti, con citas de Derechos y
garantías. La ley del más débil, Trotta, Madrid, 1999, p. 145, y “El tribunal penal internacional: una
decisión histórica para la cual nosotros también hemos trabajado”, en Nueva Doctrina Penal, 2002/B
(ahora en Ferrajoli, Escritos sobre derecho penal. Nacimiento, evolución y estado actual del garantismo
penal, t. 1, Hammurabi, Buenos Aires, 2014, pp. 361-374); M. 2333, XLII y otros, “Mazzeo, Julio Lilo y
otros s/ rec. de casación e inconstitucionalidad”, sentencia de 13 de julio de 2007, considerando 11 del
voto de la mayoría, con cita de Derechos y garantías. La ley del más débil, cit., p. 145, y considerando 40
de la disidencia del juez Fayt, con citas de Derecho y razón, cit., pp. 540 ss. y 59 ss.; S. 219. XLIV,
“Sandoval, David Andrés s/ homicidio agravado por ensañamiento -3 víctimas-, Sandoval, Javier Orlando
s/encubrimiento -causa n° 21.923/02”, sentencia de 31 de agosto de 2010, considerando 25 de la
disidencia del juez Zaffaroni, con citas de Derecho y razón, cit., p. 540 ss.; A. 2450, XXXVIII, “Antiñir,
Omar Manuel - Antiñir, Nestor Isidro - Parra Sánchez, Miguel Alex s/homicidio en riña y lesiones leves
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Sin embargo, Ferrajoli no es penalista de formación. Él es, en rigor, un filósofo del
derecho5, que ha dedicado particular atención al derecho penal a raíz de una convicción
declarada: “siempre he pensado que entre ciencia penal y filosofía jurídica existe –o,
mejor, debería existir– una relación esencial para ambas. Porque el derecho penal, o
bien cumple con la exigencia de dotarse de una cimentación axiológica, y por ello
filosófico-política, o bien corre el riesgo de quedar reducido a una pura técnica de
control social y policial. Del mismo modo que, a la inversa, o bien la filosofía jurídica
se compromete con los grandes temas de las libertades y de la fundamentación y la
crítica ético-política del derecho y de las instituciones existentes, comenzando por las
instituciones represivas del derecho penal y procesal, o bien está condenada a quedar en
una estéril evasión académica”6. Eso parece explicar por qué Ferrajoli gestó su teoría
del garantismo en el marco de la reflexión acerca del derecho penal, para proyectarla
recién después sobre la teoría general del derecho y de la democracia7.
En síntesis, el garantismo de Ferrajoli constituye un esfuerzo formidable de
reconstrucción y perfeccionamiento del pensamiento penal liberal en indisoluble
conexión con la teoría política; es, en otras palabras, la propuesta de un esquema lógico
de sistema de normas que sólo puede existir, según lo afirmado por el autor, en un
Estado democrático de derecho y que, por lo tanto, se presenta como impermeable e
impenetrable para los autoritarismos. Ferrajoli sostiene, dicho de otro modo, que existe
una relación de implicancia teórica entre su concepción normativa del derecho penal
(que él llama “derecho penal mínimo”) y su concepción normativa de la democracia
(que él llama “democracia sustancial”).
en riña y en conc. real”, sentencia de 4 de julio de 2006, considerando 5° de la disidencia del juez Fayt,
con citas de Derecho y razón, cit., pp. 490 y 549; P. 762, XXXVII, “Podestá, Arturo Jorge y López de
Belva, Carlos A. y otros s/ defraudación en grado de tentativa y prevaricato”, sentencia de 7 de marzo de
2006, considerando 4 del voto del juez Lorenzetti y del conjuez Poclava Lafuente, con cita de Derecho y
razón, cit., p. 544.
5 Tal como él mismo lo aclara en “Sobre el papel cívico y político de la ciencia penal en el Estado de
constitucional de derecho”, en Crimen y castigo. Cuaderno del Departamento de Derecho Penal y
Criminología de la Facultad de Derecho – UBA”, 1 (2001), 1, esp. p. 20.
6 Ferrajoli, ibídem.
7 Con posterioridad a Derecho y razón. Teoría del garantismo penal, el libro más importante de
Ferrajoli, que constituye, en rigor, su obra cúlmine, es Principia iuris. Teoria del diritto e della
democrazia, 3 tomos, Roma-Bari, Laterza, 2007; trad. esp: Principia iuris. Teoría del derecho y de la
democracia, 3 tomos, Madrid, Trotta, 2011.
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Sin embargo, en la doctrina argentina se le ha objetado tanto que el minimalismo
penal puede contribuir a la peor opresión, como que conduce a la inutilización o, peor
aún, a la abolición del derecho penal, y que la tesis de la democracia sustancial se apoya
en una filosofía política de raíces elitistas. Por lo tanto, al poner en crisis bases
esenciales de la teoría jurídica de Ferrajoli, creo que esas críticas pueden servir no sólo
como banco de prueba de esta teoría, sino también como instrumento para su mejor
comprensión.
En este trabajo buscaré entonces reconstruir los aspectos más salientes del “diálogo”
que a ese respecto han mantenido los juristas argentinos con Luigi Ferrajoli. No me
referiré a la doctrina argentina que, en general, concuerda con él, sino a aquella que
expresa importantes desacuerdos, los cuales, como veremos, residen principalmente en
la fundamentación axiológica o legitimación externa del derecho penal, en la definición
de los derechos fundamentales y en la concepción de la democracia.
2. Lineamientos generales del derecho penal mínimo
En la obra de Ferrajoli, el derecho penal mínimo es esencialmente dos cosas: “un
paradigma metateórico de justificación del derecho penal y un paradigma teórico y
normativo de derecho penal”8. El primer paradigma designa las razones o fundamentos
del derecho penal (axiología) y el segundo, las razones o fundamentos de derecho penal
(teoría). Brevemente, en lo que respecta al primer paradigma, para Ferrajoli un
ordenamiento penal está justificado si y sólo si es capaz de realizar dos fines: la
prevención o, al menos, la minimización de las ofensas a bienes y derechos
fundamentales (o sea, la prevención de delitos), y la prevención de los castigos
arbitrarios. El segundo paradigma define al sistema de garantías penales y procesales
idóneo para satisfacer estos dos fines9.
En su conjunto, el derecho penal mínimo se encamina a la prevención de la violencia
arbitraria, constituida en un caso por el delito y en el otro por la reacción frente al delito,
ya sea pública o privada. La primera finalidad –la de prevenir delitos– marca el límite
mínimo de la reacción estatal, mientras que la segunda –la de prevenir puniciones
8 Ferrajoli, Principia iuris, ob. cit., t. 2, Teoría de la democracia, p. 348.
9 Ferrajoli ha desarrollado los dos paradigmas en su obra Derecho y razón, cit., caps. II y III.
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arbitrarias y desproporcionadas–, marca su límite máximo, que nunca podría exceder la
gravedad de este tipo de puniciones para no perder su razón de ser. Y bajo ambos
aspectos la ley penal se justifica en tanto que ley o tutela del más débil, que en el
momento del delito es la víctima, durante el proceso es el imputado y en la ejecución
penal, el condenado10.
Ahora bien, sólo el segundo fin preventivo –la prevención de la reacción informal al
delito– es necesario y suficiente para fundamentar un modelo de derecho penal mínimo
pues, sobre todo, sirve para distinguir este modelo de otros sistemas de control social
máximo, como el de tipo policial o el disciplinario, que de un modo más expeditivo y
probablemente más eficiente –reconoce Ferrajoli– serían capaces de satisfacer su único
fin justificador, es decir, el fin de la defensa social de los intereses constituidos contra la
amenaza representada por los delitos11.
La sanción penal, en la doctrina de Ferrajoli, es entonces la primera garantía del
derecho penal. “En realidad –insiste el autor italiano– una doble garantía: no sólo frente
a los delitos, sino también frente a las venganzas y las reacciones arbitrarias,
desmesuradas o excesivas, esto es, inspiradas en la lógica de la guerra de la que aquélla
es negación.”12 Tan es así que, para él, en el debilitamiento de esa doble función que
justifica al derecho penal puede hallarse su crisis degenerativa, que “consiste en la
impunidad de los delitos y/o en el afirmarse de técnicas punitivas informadas en la
arbitrariedad y el abuso; en la crisis de las funciones de prevención de los delitos y de
tutela de los perjudicados por ellos, [y] en la de las funciones de prevención de castigos
arbitrarios y de tutela de los imputados...”13. La pena, en resumen, se dirige a minimizar
la violencia en la sociedad, al prevenir la razón de la fuerza manifestada en los delitos y
en las venganzas u otras posibles reacciones informales14.
10 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 331-337; Principia iuris, t. 2, cit., pp. 346-351.
11 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 334.
12 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit. p. 348.
13 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 349.
14 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 335-336.
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3. Las penas actuales y el vínculo entre pena y venganza
Esa doctrina de Ferrajoli fue criticada por autores abolicionistas desde tres flancos: (i) la
funcionalidad de toda justificación axiológica del derecho penal, (ii) la brutalidad actual
del ejercicio del poder punitivo, al menos en América Latina, y (iii) el vínculo entre
pena y venganza.
Acerca de las dos primeras cuestiones, Zaffaroni sostuvo que si bien Ferrajoli “nos
devuelve el derecho penal liberal, con la imagen más refinada que de éste se haya
construido en el siglo actual”15, “las teorías de la pena siempre han sido falaces
‘semillas del mal’, incluso cuando fueron enunciadas por los viejos autores liberales,
porque también éstas fueron teorizaciones de la ‘defensa social’. El gran riesgo de un
regreso al derecho penal liberal –concluye– es volver a olvidar estos gérmenes que
contenía; y eso no lo debemos hacer”16.
Por lo tanto, para Zaffaroni “es necesario reafirmar que no hay teoría de la pena que
pueda legitimar el poder punitivo tal como hoy se lo ejerce. Quizás desde la perspectiva
europea esto no sea visto tan claramente como desde la nuestra –agrega–, porque la
violencia de este poder en América Latina es increíble”. Pero desde esta perspectiva,
“[l]as penas de hoy no tienen legitimidad, al menos en el mayor número de casos”17.
Cabe preguntarse, entonces, qué deben hacer los jueces y los juristas. Zaffaroni
responde que el juez puede ejercer un poder de control y garantía, al reducir el ejercicio
del poder de las agencias administrativas burocráticas, que son, en sustancia, las que
tienen el poder de castigar. Y el jurista no debe hacer otra cosa que una programación
racional de las decisiones judiciales. La dogmática, en consecuencia, tiene para
Zaffaroni la función de legitimar el poder de los jueces, no el poder de penar, por lo que
encuentra razonable ser juez y profesor de derecho penal sin una “teoría de la pena”18.
15 E.R. Zaffaroni, “La rinascita del diritto penale liberale o la ‘Croce Rossa’ giudiziaria”, en L.
Gianformaggio (editora), Le ragioni del garantismo. Discutendo con Luigi Ferrajoli, Giappichelli,
Torino, 1993; trad. esp: “El renacimiento del derecho penal liberal o la ‘Cruz Roja’ judicial”, en Las
razones del garantismo. Discutiendo con Luigi Ferrajoli, Temis, Bogotá, 2008, esp. p. 392.
16 Zaffaroni, ob. cit. ult., p. 395.
17 Zaffaroni, ob. cit. ult., pp. 395 y 402.
18 Zaffaroni, ob. cit. ult., pp. 401-402.
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Por su lado, Roberto Gargarella ha escrito: “No objeto a Ferrajoli por ir demasiado
lejos con su propuesta garantista-minimalista, sino, en todo caso, por no ir lo
suficientemente lejos. Considero que si el mundo penal reviste las características
opresivas que hoy le reconocemos, y tales características implican la imposición de
penas brutales e injustificables, luego es difícil ver […] por qué se opta por la salida del
minimalismo penal y no, en cambio, por formas de reproche alternativas, más
plenamente justificadas, o aun –directamente– por estrategias abolicionistas.”19
Y se pregunta “cómo y de qué modo se puede hacer una utilización ‘limitadora’ del
derecho penal, cuando el mismo viene sirviendo inexorablemente, desde su nacimiento,
a propósitos sistemáticamente opuestos […] cuál puede ser, ya que no la encuentro, la
justificación del minimalismo penal […] de qué manera, en los hechos, nuestros
operadores penales más distinguidos están sirviendo a la causa del minimalismo penal, a
la luz de la población creciente y crecientemente empobrecida que abarrota nuestras
cárceles. Me pregunto –concluye– si el minimalismo penal es un propósito concebible
en este contexto, o si el mismo termina ayudando, de manera decisiva (y contra lo que
muchos de sus defensores quisieran) para que sigan girando, aceitadamente, las ruedas
de la peor opresión penal.”20
Además, en relación con la cuestión (iii), señala que “Ferrajoli en ningún momento
nos ofrece una evidencia empírica (o referencias a ella) que sea capaz de fundar la
conexión causal que establece entre ausencia de penas –que no es lo mismo que
ausencia de reproche estatal– y venganza privada.”21 Por lo cual la premisa mayor en la
que se apoya la doctrina de Ferrajoli –el derecho penal está justificado en cuanto
minimiza la violencia– resulta dogmática. Además, según Gargarella, “si lo que se
quiere es evitar los riesgos de la venganza privada, ¿por qué no diseñar entonces
estrategias de protección sobre los acusados o responsables de ciertas ofensas, en lugar
de encerrar a estos últimos, privándolos de sus libertades más básicas?”22. Y afirma, por
19 R. Gargarella, “Cuatro temas y cuatro problemas en la teoría jurídica de Luigi Ferrajoli”, en Revista
de derecho penal y procesal penal, (2010), 2, esp. p. 205.
20 Gargarella, “Justicia penal-injusticia social. Respuesta a Anitua-Gaitán”, en Id., De la injusticia
penal a la justicia social, Siglo XXI-Universidad de los Andes, Bogotá, 2008, esp. pp. 326-327.
21 Gargarella, “Cuatro temas y cuatro problemas en la teoría jurídica de Luigi Ferrajoli”, cit., p. 206.
22 Gargarella, ibídem.
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73
último, que ni siquiera se ocupa de criticar el fin de la prevención general negativa que
Ferrajoli le atribuye a la amenaza legal de punición, ya que este autor reconoce que “es
dudosa la idoneidad del derecho penal para satisfacer[lo] eficazmente”23.
En el mismo sentido, Maximiliano Postay critica la falta de apoyo empírico en la
obra de Ferrajoli al cuestionar las premisas que sostienen la fundamentación externa del
derecho penal mínimo. En cuanto a la prevención general negativa, afirma que la
“flaqueza” de la tesis es reconocida en Derecho y razón, al admitirse la imposibilidad de
asegurar su verosimilitud y/o efectividad, aunque ello, en la teoría del derecho penal
mínimo, no merma su relevancia, “ya que su verdadera importancia se observa al
erigirse en límite mínimo de las penas…”24. Por otro lado –señala Postay–, la tesis de
que la pena previene castigos arbitrarios, por lo que su “inexistencia generaría un estado
total de ‘anarquía’ punitiva”, parte de la concepción de un ser humano naturalmente
malo, que ante la agresión constituida por un delito sólo puede reaccionar mediante más
violencia revanchista, lo que excluye cualquier escenario donde las víctimas “pretendan
la solución del conflicto que las tuvo como protagonistas o la reparación del daño por
ellas padecido”. Sin embargo, el jurista argentino no entiende por qué Ferrajoli afirma
que el estado de naturaleza rousseauniano es mítico, al criticar la “ilusa creencia” de los
abolicionistas en un ser humano naturalmente bueno, mientras que el estado de
naturaleza hobbesiano, al que él adhiere, no lo es25.
4. ¿Una doctrina en contra del derecho penal?
Otros autores han criticado la doctrina de Ferrajoli no ya por entender que puede
legitimar un derecho penal injustificado o injustificable, sino porque, en su opinión,
atenta contra la eficacia del derecho penal o bien contra su existencia.
23 Gargarella, ob. cit. ult., nota 10, con cita de Derecho y razón, cit., p. 334.
24 M.A. Postay, “De Luigi Ferrajoli: la ‘falacia’ del abolicionismo penal o de cómo, ante ciertos
postulados, la lógica y el statu quo constituyen un matrimonio perfecto”, en Cuadernos de doctrina y
jurisprudencia penal. Criminología, VII (2009/2010), 7/8, esp. p. 414.
25 M.A. Postay, ob. cit. ult., pp. 414-415.
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74
Ricardo Guibourg se refiere a tres puntos en los que el garantismo de Ferrajoli
“podría conspirar contra sí mismo”26.
En primer lugar, sostiene que los dos fines del derecho penal mínimo, en rigor, se
hallan vinculados a la misma prevención. Luego de aceptar como verdadera la tesis de
que “[d]etrás de la venganza aparece normalmente el propósito de evitar, mediante un
castigo ejemplar y terrible, que el transgresor u otros que pudieran imitarlo osen en el
futuro ofender al vengador o a las personas que éste considera bajo su protección”27,
afirma que “si se prevé que la falta de sanción traería consigo la aplicación de medidas
punitivas informales y arbitrarias, es porque se tiene en cuenta que las personas en
general […] asignan a la venganza individual o colectiva cierta eficacia para prevenir
futuras ofensas”. De allí concluye que si se admite, a la vez, que esa eficacia no existe,
“asignar a la sanción el objetivo de evitar castigos arbitrarios [como lo hace Ferrajoli]
valdría tanto como convalidar una tendencia social irracional”28.
En segundo lugar, sostiene que la cuantía de la pena a aplicar en concreto no debe
quedar desvinculada de la función de prevenir futuros delitos, pues sólo se puede
justificar el derecho penal si se acepta su capacidad preventiva y se considera
moralmente admisible imponer las penas necesarias para su actuación efectiva. Es
criticable, entonces, que Ferrajoli asocie la pena –afirma Guibourg– con su eficacia
sustitutiva de la venganza antes que con su eficacia preventiva.
En ese sentido, el autor sugiere un sistema de fijación de penas que, a su modo de
ver, es distinto al que propone Ferrajoli. La norma, en su opinión, debería establecer
como umbral mínimo absoluto la pena necesaria para producir efectos preventivos, y
como umbral máximo el mínimo de respeto debido a cualquier ser humano. Y “[d]entro
de esa escala –señala– para cada conducta desviada puede haber un punto de equilibrio,
en el que la gravedad de la pena, unida a la probabilidad de su aplicación, ejerza una
26 Cfr. R. Guibourg, “Luigi Ferrajoli y el utilitarismo penal reformado”, en Analisi e diritto 1998.
Ricerche di giurisprudenza analítica, al cuidado de P. Comanducci y R. Guastini, 1999, esp. p. 129.
27 Cfr. R. Guibourg, ob. cit. ult., pp. 125-126.
28 Cfr. R. Guibourg, ob. cit. ult., p. 126.
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75
disuasión tal que las conductas desviadas, sin llegar a desaparecer, se reduzcan a una
proporción compatible con la capacidad de tolerancia de la comunidad”29.
Sin embargo, advierte que ese punto de equilibrio es función de variables
extrapenales, entre las que se encuentran las circunstancias socioeconómicas y
culturales, y que si estas circunstancias son prolongadamente desfavorables, como
ocurre en nuestros días, la capacidad de tolerancia social se satura y tiende a bajar.
Entonces “la eficacia disuasiva de las penas también disminuye, superada por las
necesidades y la disgregación cultural y disuelta en el creciente número de delitos”, y el
punto de equilibrio tiende a elevarse por encima del dintel de los derechos humanos, lo
que produce la quiebra del garantismo30.
De esa reflexión el autor argentino extrae su última crítica. Se pregunta si el derecho
penal aséptico que, desde su punto de vista, pretende Ferrajoli al separar el derecho de
la moral, es empíricamente viable como modelo de influencia en las conductas. Afirma
que “si las prohibiciones penales debieran renunciar a la internalización y confiar sólo
en las decisiones individuales que los ciudadanos ejercen caso por caso, es probable que
su eficacia preventiva, ya escasa, disminuyera todavía más”31.
Por su lado, Felipe Fucito sostiene que Derecho y razón descalifica cualquier teoría
del derecho penal operativamente punitiva, y que el garantismo allí propuesto, entonces,
equivale al abolicionismo32.
En efecto, critica la tesis de Ferrajoli que, apoyada en la dignidad humana y el
derecho a la libertad moral de los ciudadanos, excluye cualquier sentido retributivo de la
pena así como todo tratamiento resocializador. Advierte que, para el autor italiano, la
sociedad deberá dejar que el delincuente, sea cual fuere su delito, siga pensando que su
acción es valiosa, pues no hay derecho alguno a creer que los valores sustentados en las
leyes son dignos de ser defendidos. Hay legitimidad para Ferrajoli, afirma Fucito, no
sólo en la disidencia, sino en la hostilidad contra el Estado, que en todo caso debe al
29 Cfr. R. Guibourg, ob. cit. ult., p. 128.
30 Cfr. R. Guibourg, ob. cit. ult., pp. 128-129.
31 Cfr. R. Guibourg, ob. cit. ult., p. 129.
32 Cfr. F. Fucito, “El garantismo penal de Luigi Ferrajoli desde la sociología jurídica”, en Anuario de
Filosofía Jurídica y Social, 2000, esp. p. 239.
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disidente la tutela de su identidad, incluso desviada. Es más, observa que en la doctrina
de Ferrajoli sólo los jueces y funcionarios están obligados moralmente a cumplir la ley
de modo incondicional, lo que equivale a sostener, a su modo de ver, que la sociedad
debe tolerar no sólo el delito común o marginal, sino la acción de grupos racistas, sectas
fanáticas, políticos corruptos y de cuanto grupo “disidente” exista o pueda existir,
aunque se pongan en juego todas las condiciones de su existencia33.
En el marco de esa doctrina, penalizar es inútil, según el autor argentino, porque “si
no se puede intentar alterar las condiciones personales del [delincuente], no sólo se está
legitimando su actuar en virtud de su ‘libertad’ (de delinquir), sino dejando que […]
siga siendo lo que es, porque tiene absoluto derecho a serlo”. Luego, se liquidan por
igualmente autoritarios desde los modelos lombrosianos y los basados en la teoría de la
peligrosidad, hasta los funcionalistas y cualquier intento de escolarizar al penado,
brindarle un tratamiento antidroga o asistir psiquiátricamente a un violador o asesino
serial34.
Además, lo que parece surgir de la propuesta penal de Ferrajoli es un modelo
anárquico, en el cual –escribe Fucito– “todos los valores y sus contravalores tienen
igual peso”, y esto difícilmente pueda garantizar la convivencia, pues toda sociedad,
más o menos tolerante, fija pautas y sanciones. No parece haber alternativas desde la
perspectiva sociológica –añade–, en cuanto a que si se rechaza la posibilidad de
defender a la sociedad de manera organizada y democrática, firme pero mesurada, en el
marco de la ley, el resultado es o bien la entrega del Estado a la organización política
corrupta, a la secta o al grupo terrorista, guerrillero, paramilitar, del narcotráfico o de la
mafia, o bien el empleo del terrorismo de Estado para controlarlos35.
Ferrajoli no opta por el abolicionismo porque considera que las penas sirven para
sustituir las reacciones informales, arbitrarias y más violentas que se ejercerían contra el
delincuente a falta de aquéllas. Esto es correcto, según Fucito, aunque sostiene que el
autor italiano olvida que “el sistema judicial, para impedir tales excesos, no puede ser
percibido como una burla hecha desde los criterios punitivos prevalecientes en la
33 Cfr. F. Fucito, ob. cit., pp. 246-250.
34 Cfr. F. Fucito, ob. cit., pp. 247-248.
35 Cfr. F. Fucito, ob. cit., pp. 252-253 y 261.
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sociedad, sustentados […] por los ‘ciudadanos’ comunes”36. Penas poco más que
simbólicas, como propone Ferrajoli, y un sistema penal que, en definitiva, está pensado
en beneficio de los acusados y condenados, y que sólo a ellos puede satisfacer, sólo
generará descrédito para ese sistema y los jueces, “y un clamor de mayor rigor penal,
este sí, desordenado y probablemente más fuerte que el que se quiere evitar”37. El
modelo normativo de Ferrajoli, en suma, “dudosamente satisface condiciones de
razonabilidad social, aun democrática, y menos los intereses mayoritarios, que han sido
deliberadamente marginados de tal proyecto” pues, como se afirma en Derecho y razón,
garantismo significa precisamente tutela de aquellos valores o derechos fundamentales
cuya satisfacción, aun contra los intereses de la mayoría, es el fin justificador del
derecho penal38.
También Hernández sostiene que el derecho penal mínimo es, en rigor, una doctrina
abolicionista, y critica a Ferrajoli por no reconocerlo y, sin embargo, definir al derecho
penal como un poder intrínsecamente brutal, pues si esto es verdad, la única alternativa
coherente es el abolicionismo. Además, Hernández observa que Ferrajoli se presenta
como abolicionista sólo de la cárcel, pero propone alternativas ya conocidas, como el
arresto domiciliario, la reclusión de fin de semana, la similibertad, la libertad vigilada y
otras semejantes, que no son penas. Tan es así que, en su opinión, el mismo autor
italiano admite que “las medidas alternativas son percibidas por los presos como
graciosos y providentes beneficios”39.
Añade que, según su lectura de Derecho y razón, Ferrajoli pretende que la
prevención general negativa se persiga únicamente mediante la conminación de penas y
no mediante su aplicación, ya que ese fin se lo atribuye sólo a aquélla. Por eso –
concluye– no pueden buscarse los objetivos de proteger a la comunidad y de evitar
reacciones informales al delito mediante “penas en el papel o de papel”40.
36 Cfr. F. Fucito, ob. cit., p. 256.
37 Cfr. F. Fucito, ob. cit., p. 257.
38 Cfr. F. Fucito, ob. cit., pp. 258-259.
39 Cfr. H.H. Hernández, “Sentido común y fines de la pena en Ferrajoli (el retributivo)”, en Id.
(director), Fines de la pena. Abolicionismo. Impunidad, Cáthera Jurídica, Buenos Aires, 2010, esp. pp.
479-481 y 489-490.
40 Cfr. H.H. Hernández, ob. cit., pp. 496-498.
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En el mismo sentido, cuestiona la propuesta de Ferrajoli pues la considera inútil
como pauta de determinación de las penas. A este respecto, sostiene que si el derecho
penal mínimo es una doctrina que se dirige a los legisladores, ellos deberían efectuar
estudios sociológicos para verificar cuánta violencia suscita cada delito y recién
entonces establecer las penas legítimas, ya que éstas deben representar una violencia
inferior. Por el contrario, si la doctrina se dirige a los jueces, Hernández cree que su
vaguedad alejaría “toda idea de legalidad, de igualdad, de seguridad jurídica y de
división de poderes…”41.
Por otro lado, el autor argentino señala que el derecho penal mínimo es una doctrina
que no está concebida para aplicarse también a los “crímenes del poder”. Funda este
argumento con cita de un artículo periodístico del que se desprendería que Ferrajoli
afirma que el derecho penal tiene un fuerte efecto respecto de esos crímenes y que la
impunidad es un factor criminógeno que permite su reiteración. Por ello, Hernández
apunta que “Ferrajoli olvida su artillería contra el mal efecto de las prisiones, omite su
tesis de que ellas son criminógenas, y de que con ellas los Estados continuarían su negro
raid delictivo histórico, así como toda la batería crítica presentada como supuesta
argumentación objetiva al respecto”. Entiende, en suma, que Ferrajoli propugna la
aplicación de una suerte de “doble vara”, que abre camino al “derecho penal del
enemigo”42.
41 Cfr. H.H. Hernández, ob. cit., pp. 531-533.
42 Cfr. H.H. Hernández, ob. cit., pp. 529-541. En este trabajo se efectúan otras críticas a la doctrina de
Ferrajoli que no son tenidas en cuenta aquí, pues, a mi modo de ver, dependen de la convicción del autor
argentino acerca de la existencia de un derecho natural (por ej., Hernández define al delito como
“catástrofe moral y jurídica, que hace nacer, por una exigencia que se ve casi intuitivamente, la necesidad
de retribuir, y no por un deber ser metajurídico, sino ético jurídico empíricamente evidente, algo
necesario y debido”; y, en esa misma línea de pensamiento, entiende que “los ciudadanos son substancias
racionales, espirituales, personas, llamadas para su plenitud o felicidad a participar desde sus entrañas
[…] de bienes comunes, que se persiguen en grupos, que son reales, algunos naturales como la familia y
otros más o menos de libre creación, como por ejemplo los clubes, en cuya coronación está el Estado”,
que es natural al hombre y, en consecuencia, un bien, al igual que las penas que aplica, exigidas por la
“noble justicia” [pp. 479, 486 y 514-515]), que no es posible refutar ni verificar, sino sólo compartir o no
desde el mismo plano (la fe o la moral), o bien se basan en una lectura que tergiversa claramente las tesis
de Ferrajoli (por ej., Hernández sostiene que en Derecho y razón la defensa de la sociedad es adjudicada
al terrorismo penal [pp. 502-504], tras citar un pasaje de ese libro (p. 334, último párrafo) del que no se
desprende eso, sino que la tutela del inocente y la minimización de la reacción al delito distinguen al
derecho penal de otros sistemas de control social –de tipo policial, disciplinario o incluso terrorista– que
de un modo más expeditivo y probablemente más eficiente serían capaces de satisfacer el fin de la
defensa social, por lo que justamente se define al derecho penal como un costo o un lujo propio de
sociedades evolucionadas, que optan por esa menor eficiencia en pos de la seguridad de los derechos
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5. El derecho penal mínimo como doctrina o “deber ser” del derecho penal
Al volver ahora a las tesis de Ferrajoli, me referiré en primer lugar a las críticas de los
abolicionistas. Ante todo, se debe precisar que el autor italiano comparte la severa
apreciación de esos juristas sobre la realidad de las penas actuales y la historia del
derecho penal, pero no acepta que se vaya más allá y se niegue toda doctrina de
justificación de la sanción penal43. Aclara que el derecho penal mínimo no es una teoría
de la pena, es decir, una explicación de la realidad, sino una doctrina normativa sobre
los límites o condiciones de validez de la pena, y que con base en él no es la pena la que
está “legitimada” por el derecho, sino solamente su control y limitación44. Y esta
doctrina o modelo de justificación puede operar, en consecuencia, como herramienta no
sólo de legitimación, sino también de deslegitimación ético-política del derecho penal.
Esto es, por lo demás, lo que diferencia a una doctrina o modelo de justificación, que
permite la crítica externa o metajurídica, de una ideología de justificación, que no
admite esa crítica45.
No creo, por lo tanto, que se pueda cuestionar la doctrina del minimalismo penal de
Ferrajoli con base en la historia y la realidad actual de las penas, pues ello implicaría
confundir el plano del “deber ser” con el del “ser” del análisis, o bien, dicho de otro
modo, implicaría sostener que dado que un cierto derecho penal en concreto, como por
ejemplo el de nuestro país, no cumple en los hechos las funciones que le atribuye el
minimalismo penal al derecho penal en abstracto, entonces el minimalismo penal es
imposible y/o, contrariamente a sus intenciones, sirve para legitimar los efectos
opuestos que el derecho penal produce en la realidad.
A ese respecto, afirma Ferrajoli: “mi modelo de justificación escapa explícitamente a
esta falacia, pues satisface, entre los requisitos metaéticos de la justificación que
fundamentales de todos frente al poder coercitivo del Estado [en este sentido, cfr., también en Derecho y
razón, pp. 335-345]).
43 Cfr. Ferrajoli, “Notas críticas y autocríticas en torno a la discusión sobre ‘Derecho y razón’”, en L.
Gianformaggio (editora), Las razones del garantismo. Discutiendo con Luigi Ferrajoli, cit., esp. pp. 519-
521.
44 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 521.
45 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 327.
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establecí preventivamente, justamente el de la distinción –por pertenecer a niveles de
discurso distintos– entre las doctrinas de justificación, que son discursos normativos
sobre la justificación, es decir, sobre los fines justificantes del derecho penal, y las
justificaciones (y las no-justificaciones) concretamente formuladas con base en aquellas,
que son, en cambio, discursos posteriores en torno a la satisfacción (o a la carencia de
satisfacción) de los fines justificantes, es decir, a la correspondencia (o ausencia de
correspondencia) con ellos de las efectivas prácticas penales. Y como he dicho –
concluye Ferrajoli– se configura, por tanto, aquel esquema de deslegitimación –más que
de legitimación– de los sistemas penales concretos y, por ende, de sus normas, institutos
y prácticas”46.
Por eso entiendo que tampoco se podría asumir que el minimalismo penal esté
ayudando a la subsistencia de la peor opresión penal, ni que pueda ser considerado otra
“semilla del mal”, tal como Zaffaroni define a todo intento teórico de justificación de la
pena. Por el contrario, Ferrajoli se preocupa por destacar que “[l]o importante es que
quede claro que se trata de un modelo-límite […] sobre cuya base ningún derecho penal
está íntegramente y de una vez por todas justificado, a causa de la diferencia que
siempre subsiste entre deber ser y ser del y en el derecho, y que la ciencia jurídica […]
tiene la misión (científica, y no sólo civil y política) de explicitar y no de ocultar”. Por
lo demás, esta tarea crítica de la ciencia jurídica es su primera tarea, según Ferrajoli, por
lo que considera que su modelo puede valer como instrumento de análisis crítico del
derecho penal sobre todo para países como los de América Latina, en los cuales, como
recuerdan Zaffaroni y Gargarella, la violencia del poder punitivo es brutal y, en
consecuencia, es más dramática –añade Ferrajoli– la divergencia entre principios y
prácticas47.
Coherentemente con esa posición, Ferrajoli se pronuncia a favor de la abolición de la
cárcel. Ésta es –escribe– “una institución al mismo tiempo antiliberal, desigual […]
lesiva para la dignidad de las personas, penosa e inútilmente aflictiva. Por eso resulta
tan justificada la superación o, al menos, una drástica reducción de [su] duración…”48.
46 Ferrajoli, “Notas críticas y autocríticas en torno a la discusión sobre ‘Derecho y razón’”, cit., p. 520.
47 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 521.
48 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 413.
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Por lo que propone, en lo inmediato, un límite máximo de diez años de cárcel y, en
perspectiva futura, su abolición49. Para él, la cárcel podría ser reemplazada por las
actuales medidas alternativas (arresto domiciliario, reclusión de fin de semana,
semilibertad, libertad vigilada, residencia obligatoria, etc.) y por otras penas privativas
de aquellos derechos que, contrariamente a la vida y la libertad, son disponibles y
permiten, en consecuencia, formas más variadas y tolerables de privación o
delimitación50.
En síntesis, para Ferrajoli la utopía no es la abolición del derecho penal, que
equivale, en su opinión, a un retorno a la ley del más fuerte, sino el derecho penal
mínimo o garantista. Y aquí paso a referirme a la crítica, también formulada por los
autores abolicionistas, referida al nexo entre pena y venganza. ¿No hay en Ferrajoli ni
siquiera referencias a evidencia empírica que permita fundar el nexo entre ausencia de
derecho penal y ley del más fuerte?
6. Cuatro alternativas a la abolición del derecho penal
Ante todo, habría que aclarar que el autor italiano no sostiene que la única alternativa al
derecho penal es la venganza privada, entendida como reacción violenta contra el
agresor de parte de las víctimas y de los particulares que se solidaricen con ellas, como
sugiere Gargarella. La tesis de Ferrajoli es más compleja.
El fin de prevenir o minimizar las violentas reacciones informales a los delitos, se
articula, a su vez, en dos finalidades: la ya mencionada de prevenir la venganza privada,
pero también –y sobre todo– la prevención general de la venganza pública, que –dice el
49 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 412-420. Actualmente Ferrajoli propone un máximo no de diez, sino de
quince años, al tener en cuenta que ésa es la pena máxima en “muchos países avanzados y, de hecho,
también en Italia, gracias a los beneficios previstos por las leyes vigentes”. Cfr. Id., Principia iuris, t. 2,
cit., p. 368 y nota 150. También en Derecho y razón Ferrajoli tenía en cuenta que “en Italia, tras la
reciente ley de 1986, la pena de cadena perpetua ha desaparecido de hecho, al ser posible su conmutación
después de quince años por la medida de semilibertad y poco después por la libertad condicional; y lo
mismo puede decirse de la mayor parte de los países europeos…” (p. 415). En cualquier caso, creo que la
diferencia se debe a que la propuesta de un máximo de pena privativa de la libertad es aproximativa en las
dos obras citadas, es decir, no pretende establecer un límite preciso, sino un marco de referencia.
50 Ferrajoli, ibídem.
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autor italiano– “en ausencia de derecho penal, llevarían a cabo poderes soberanos de
tipo absoluto y despótico no regulados ni limitados por normas y garantías”51.
Respecto del primer sistema punitivo –la venganza privada, individual y colectiva–
Ferrajoli escribe que “pertenece a una fase primigenia de nuestra historia, si bien no hay
que olvidar su resurgimiento en fenómenos modernos como las policías privadas, las
cuadrillas de vigilantes, las justicias penales domésticas y en general la relativa anarquía
y autonomía punitiva presentes en las zonas sociales marginadas y periféricas aun de los
países desarrollados”52.
Respecto del segundo, afirma que “es fácil comprobar que la historia de las penas y
de los procesos en su conjunto ha sido más infamante para la humanidad que la historia
de los delitos; que siempre –en demasiados casos, incluso en las democracias
avanzadas– la violencia de los abusos policiales y punitivos supera en brutalidad a la
violencia de los delitos; que, en suma, la seguridad y las libertades fundamentales
resultan a menudo tan amenazadas por los aparatos represivos como por la criminalidad
[…] Piénsese –ejemplifica Ferrajoli– no sólo en los horrores de la inquisición medieval
y en los de los regímenes totalitarios, sino también en muchos crímenes contra la
humanidad perpetrados en todo el mundo bajo forma de represión penal. En las
ejecuciones sumarias y en los miles de abusos policiales en China, Irak e Irán, o en las
privaciones de libertad arbitrarias y las torturas a presos en países de antiguas
democracias, como Estados Unidos y Gran Bretaña. En todos estos casos –concluye– el
fracaso del derecho penal se manifiesta dramáticamente, en su abdicación y
claudicación ante la lógica de la guerra”53.
Esas dos alternativas al derecho penal son las que Ferrajoli define como “sociedad
salvaje” (la reacción al delito librada a la discrecionalidad de los particulares) y “Estado
salvaje” (la reacción estatal al delito regida por la arbitrariedad de los gobiernos de
turno). En comparación con ellas, el derecho penal mínimo, con su sistema de garantías
penales y procesales, se justifica como técnica de control que, de un modo compatible
51 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 340.
52 Ferrajoli, ibídem.
53 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., p. 349.
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con la libertad, maximiza la seguridad general, incluida la de los acusados y
condenados54.
Pero Ferrajoli identifica también otras dos alternativas a la ausencia de derecho
penal: la “sociedad disciplinaria” y el “Estado disciplinario”. La primera se refiere a las
“comunidades fuertemente moralizantes e ideologizadas, sujetas a la acción de rígidos
conformismos que operan en forma de autocensura así como a las presiones de ojos
colectivos, policías morales, panoptismos sociales difusos, linchamientos de opinión,
ostracismos y demonizaciones públicas”; la segunda, un “producto típicamente
moderno” para Ferrajoli, se caracteriza por “el desarrollo de las funciones preventivas
de seguridad pública mediante técnicas de vigilancia total, como las que hace posible el
espionaje de los ciudadanos por parte de poderosas policías secretas, así como a través
de los actuales sistemas informáticos de fichado generalizado y control audiovisual”. En
comparación con estas dos alternativas, el derecho penal mínimo se justifica como
técnica de control que maximiza la libertad de todos; la libertad moral o subjetiva,
impedida por la “sociedad disciplinaria”, y la libertad física, impedida por el “Estado
disciplinario”55.
Y esos cuatro sistemas de control no son sólo las alternativas posibles a la abolición
del derecho penal, sino que, como se desprende de lo expuesto, para Ferrajoli “conviven
siempre en alguna medida con todo derecho penal positivo, precisamente en la medida
en que esté ausente en el plano normativo y/o se viole en el plano operativo el conjunto
de garantías que definen y justifican sus formas mínimas para la tutela de los derechos
fundamentales”56. Para demostrarlo, Ferrajoli no se conforma con la mención somera de
los ejemplos antes recordados, sino que analiza pormenorizadamente las normas y
prácticas efectivas del sistema penal italiano que de modos diferentes reflejan aquellos
sistemas de control salvaje o disciplinario, en violación a los derechos fundamentales
previstos en la constitución57.
54 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 340.
55 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 338-340.
56 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 341.
57 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., parte IV: “Fenomenología. La falta de efectividad de las garantías
en el derecho penal italiano”, pp. 695-848.
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Me parece, entonces, que habría que reconsiderar la crítica según la cual Ferrajoli en
ningún momento nos ofrece evidencia empírica, ni siquiera referencias a ella, que sea
capaz de fundar la conexión causal que establece entre ausencia de derecho penal
(mínimo) y violencia informal intolerable, sobre todo a partir de la aclaración de que el
autor italiano no sostiene que la única alternativa al derecho penal es la venganza
privada, sino que identifica cuatro sistemas posibles de represión y control, igualmente
inadmisibles para él, como alternativas a aquel derecho. En síntesis, la crítica de
Gargarella, en mi opinión, parte de esa premisa equivocada, y por lo tanto exige que
Ferrajoli pruebe algo que no sostiene, o sea, que la abolición del derecho penal
necesariamente abriría paso a la sociedad salvaje.
Me pregunto si y en qué medida la alternativa republicana al derecho penal propuesta
por Gargarella no constituya una confirmación de la tesis de Ferrajoli, en cuanto a que,
según el profesor italiano, uno de los modelos posibles de control tras la abolición de
aquel derecho, sería el modelo de la sociedad disciplinaria, es decir, una sociedad
“pacificada y totalizante, en la que los conflictos son controlados y resueltos o, peor
aún, prevenidos, mediante mecanismos éticos-pedagógicos de interiorización del
orden…”, y donde no queda lugar, por consiguiente, para la libertad moral o subjetiva
de sus miembros58.
Me hago esa pregunta porque la alternativa al derecho penal que propone Gargarella
está encaminada a la “integración social”59 mediante la “forja” del carácter y la
“educación moral” de los ciudadanos, lo que importa “dejar de lado la imagen del
Estado pasivo en materia moral. Implica, para decirlo en términos filosóficamente más
interesantes, dejar de lado el principio liberal de la neutralidad moral del Estado”60.
El sistema penal debería reemplazarse, entonces, por un método de persuasión moral
racional, mediante el cual se buscara entablar un diálogo moral con el ofensor, a fin de
comunicarle el reproche social hacia lo que hizo61. “Tratar a alguien correctamente –
58 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 251 y 339.
59 Gargarella, “Los desafíos republicanos a la represión penal”, en Id., De la injusticia penal a la
justicia social, cit., pp. 149-162, esp. p. 152.
60 Gargarella, ob. cit. ult., p. 158.
61 Gargarella, “Mano dura contra el castigo (II). Autogobierno y comunidad”, en Id., De la injusticia
penal a la justicia social, cit., pp. 53-76, esp. p. 68.
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escribe Gargarella– es dirigirse a él o ella como un agente moral y no, simplemente,
como un actor racional que debería ser manipulado o motivado en determinado sentido,
a través de premios y castigos”62.
En síntesis, tal “visión comunicativa” de la justicia, que no podría llamarse penal –
por lo menos en el sentido de que no hay en ella penas o castigos, sino reproche social–
exige dejar de lado “el ideal liberal conforme al cual los derechos representan barreras
infranqueables para la autoridad pública –‘cartas de triunfo’ en manos de los
individuos–. En este caso, ciertos derechos tradicionalmente protegidos por el
pensamiento liberal (i.e., el de escoger con absoluta libertad el modelo de vida que uno
prefiere, incorporado, por ejemplo, en el art. 19 de la Constitución Nacional argentina),
perdería parte de su fuerza, lo que para muchos liberales representaría, sin dudas, la
directa desvirtuación del derecho a vivir autónomamente”63.
Es interesante notar que las distintas concepciones de Ferrajoli y Gargarella acerca
de la respuesta correcta que el Estado debería brindar a los delitos, no tienen como
correlato, sin embargo, propuestas tan diferentes en lo concreto. Dicho más claramente,
los autores conciben de manera distinta esa respuesta (“pena” para Ferrajoli, “reproche
social” para Gargarella, con la consecuente divergencia en la finalidad que le atribuyen),
pero no difieren igualmente al mencionar qué medidas coercitivas se deberían adoptar
como tal. Ya se dijo que tanto Ferrajoli como Gargarella son abolicionistas de la cárcel.
Para reemplazarla, ambos proponen algunas de las actuales medidas alternativas, como
la probation y la libertad condicional64. Seguramente este acercamiento de sus
posiciones se debe, al menos, a una preocupación que los une: disminuir la violencia en
la sociedad, empezando por la violencia del poder estatal.
7. El ofendido como titular de la acción penal
Por otro lado, creo que la crítica de Gargarella y Postay consistente en que Ferrajoli no
demuestra el nexo causal entre pena y venganza, resultaría más eficaz si se la entendiera
62 Gargarella, ob. cit. ult., p. 69.
63 Gargarella, “Los desafíos republicanos a la represión penal”, cit., p. 151.
64 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 418-420; Principia iuris, t. 2, cit., p. 368; Gargarella, “Mano
dura contra el castigo (II). Autogobierno y comunidad”, cit., p. 68.
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como encaminada no a deslegitimar en abstracto al derecho penal y, en consecuencia, a
propugnar su abolición, sino a sostener que en ciertas ocasiones se podría considerar la
pena innecesaria o, incluso, inconveniente para alcanzar el fin político que le atribuye el
filósofo italiano, es decir, disminuir la violencia.
Es posible, en efecto, que los afectados por un delito deseen optar por una respuesta
menos violenta que la prevista por el derecho penal, como por ejemplo la composición
del conflicto creado por aquél. Tal como lo han demostrado varios estudios, cuando la
opinión pública es informada adecuadamente acerca de la cuestión criminal, penal y
penitenciaria, suele expresarse como muy favorable a la despenalización de conductas,
al desarrollo de un sistema de penas alternativas a la detención y a la sustitución del
proceso penal tradicional por formas de mediación penal65.
A su vez, la historia demuestra que no todas las sociedades, incluso ante situaciones
extraordinarias provocadas por la comisión masiva durante años de los crímenes más
terribles, decidieron recurrir al derecho penal como sola ratio. Quizás el caso más
reciente y conocido sea el de Sudáfrica, donde la mayoría de las víctimas del apartheid,
con Nelson Mandela a la cabeza, optó por darle prioridad a una concepción restaurativa
de la justicia, para lo cual aceptó que se cambiara verdad por inmunidad penal, de modo
que cada individuo que confesara públicamente sus crímenes y todo lo que supiera
acerca de lo ocurrido, no sería perseguido penalmente, aun cuando fuera uno de los
máximos responsables. Como es notorio, esa decisión no generó que Sudáfrica se
convirtiera en un país sumido en la guerra interna, ni en un riesgo para la paz mundial,
sino que, por el contrario, las instituciones democráticas sudafricanas, al menos hasta
65 Cfr., con relación a la opinión pública europea, L. Re, Carcere e globalizzazione. Il boom
penitenziario negli Stati Uniti e in Europa, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 137 (hay traducción española:
Cárcel y globalización. El boom penitenciario en Estados Unidos y Europa, Ad-Hoc, Buenos Aires,
2008); en el mismo sentido, con relación a la opinión pública norteamericana y española, B. del Rosal
Blasco, “¿Hacia el derecho penal de la postmodernidad?”, en Revista electrónica de ciencia penal y
criminología, 11 (2009), 8, esp. nota 6; respecto del desarrollo de la llamada “justicia restaurativa”, R.
Gargarella, “Mano dura contra el castigo (II). Autogobierno y comunidad”, cit., p. 67; J. Braithwaite,
“Restorative Justice: Assessing Optimistic and Pessimistic Accounts”, en Crime and Justice, 25 (1999),
pp. 1-197; un panorama a nivel mundial puede obtenerse a partir de los documentos publicados en la
página de Internet de Restorative Justice online: http://www.restorativejustice.org.
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hoy, gozan de buena salud y el país no ha vuelto a caer en aquel flagelo tras veinte años
del final del régimen segregacionista66.
En síntesis, creo que es un error asumir que individuos que manifiestan una
pluralidad de valores y afiliaciones sociales muchas veces en conflicto entre sí, como
suele observarse en las sociedades occidentales contemporáneas, se alineen tras de una
sola visión acerca de la respuesta que corresponde dar al crimen67. Y mucho menos que
lo hagan sociedades políticas tan diversas y complejas, como las que integran los países
de los cinco continentes68. Si ello es así, el derecho penal debería considerarse entonces
como ultima ratio, tanto a nivel local como a nivel internacional, incluso en aquellos
casos previstos como penalmente relevantes. Por lo que podría sugerirse que un sistema
penal concreto que operara dentro del marco de justificación propuesto por Ferrajoli, es
decir, que la imposición del castigo sólo sería legítima si (y sólo si) se reduce a un mal
menor respecto de la venganza pública y privada, debería verificar empíricamente el
cumplimiento de ese fin, y una manera de hacerlo podría ser “otorgar a la víctima la
titularidad de la acción penal”69.
En ese sentido, me parece interesante destacar que Ferrajoli propugna, dentro de su
modelo de derecho penal, que todos los delitos que afecten bienes disponibles, como la
propiedad privada, sean calificados como delitos dependientes de instancia privada, ya
que, así como en buena medida ocurre con la prescripción, “el transcurso del tiempo sin
que nadie haya ejercitado la acusación indica[ría], en efecto, la pérdida de utilidad de las
66 En otros trabajos he estudiado con mayor detalle la experiencia sudafricana: Políticas del castigo y
derecho internacional. Para una concepción minimalista de la justicia penal, Ad-Hoc, Buenos Aires,
2009, esp. pp. 269-344; “Memoria y justicia en la experiencia de la Comisión Sudafricana para la Verdad
y la Reconciliación”, en P.D. Eiroa, J.M. Otero (comps.), Memoria y Derecho Penal, colección ¿Más
Derecho?, (2007), 3, pp. 403-453.
67 Sobre los conceptos de diversidad y complejidad de las sociedades postindustriales, remito a D.
Zolo, Democracy and Complexity. A realist approach, Polity Press, Cambridge, 1992; trad. esp.,
Democracia y complejidad. Un enfoque realista, Ediciones Nueva Visión, Buenos Aires, 1994.
68 En un artículo anterior he intentado sostener que ni siquiera la firma del Estatuto de la Corte Penal
Internacional constituye una prueba incontrovertible de la voluntad de juzgar y castigar en todos los casos
y sin tener en cuenta otras alternativas de solución de los conflictos creados por los crímenes allí
previstos. Cfr. “La ‘lucha contra la impunidad’ y el ‘interés de la justicia’ en el Estatuto de la Corte Penal
Internacional: una propuesta de interpretación democrática”, en N. Barbero (coord.), Derecho Penal
Internacional, número extraordinario de la Revista de Derecho Penal, 2012, pp. 366-399.
69 Cfr., en un sentido similar, A. Bovino, “La víctima como sujeto público y el Estado como sujeto sin
derechos”, en Lecciones y Ensayos, Revista de la Facultad de Derecho de la UBA, (1994), 59, esp. pp. 28-
29.
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penas por la pérdida de toda su función preventiva y, en particular, de la función
primaria, que es evitar que los perjudicados se tomen la justicia por su mano”70. Me
pregunto, entonces, por qué no debería aplicarse el mismo criterio para los delitos que
afecten bienes indisponibles.
8. Derecho penal mínimo y defensa de la sociedad
Al considerar las críticas de Guibourg, Fucito y Hernández a la doctrina de Ferrajoli,
creo importante reiterar que el derecho penal mínimo prescribe como uno de sus fines
legitimadores la defensa de la sociedad contra el delito, y que este fin está presente y
condiciona toda la construcción de esa doctrina.
En ese sentido, Ferrajoli es claro al afirmar que la prevención general de los delitos
es un fin “esencial” del derecho penal, el que asume, sin embargo, también otro, no
menos esencial, que es el de la prevención general de las penas arbitrarias o
desproporcionadas. Y eso no es contradicho en absoluto por la aclaración ulterior de que
sólo el segundo fin, es decir, la tutela del inocente y la minimización de la reacción al
delito, sirva para distinguir al derecho penal de otros sistemas de control social
probablemente más eficaces para alcanzar el primer fin, como el de tipo policial,
disciplinario o terrorista. Pues, en todo caso, un sistema penal está justificado “sólo si la
suma de las violencias –delitos, venganzas y castigos arbitrarios– que está en
condiciones de prevenir es superior a la de las violencias constituidas por los delitos no
prevenidos y por las penas establecidas para éstos”71.
En síntesis, entre esas dos funciones no existe ninguna oposición. “Tanto las
funciones de defensa social a través de la prevención de los delitos como las de garantía
individual mediante la prevención de las penas arbitrarias y excesivas sirven para
garantizar lo mismo la seguridad de los derechos fundamentales de los perjudicados,
que son las víctimas de los delitos, y de los imputados, que, a su vez, pueden ser
víctimas del arbitrio punitivo”. Además, añade Ferrajoli, ambas funciones están
conectadas aunque sea porque la primera supone lógicamente la segunda, en tanto “el
castigo del inocente equivale siempre a un fracaso del derecho penal en sus dos
70 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 574.
71 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 334-336. En el mismo sentido, cfr. Principia iuris, t. 2, cit., pp. 346-351.
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fundamentos axiológicos y en sus fines justificativos; del segundo fin, es decir, de la
prevención de castigos injustos, pero también del primero, esto es, de la prevención de
las ofensas injustas, ya que cuando aquél se da no sólo se pena a un inocente, sino que
se deja sin castigo a un culpable”72.
De esto último se desprende que, contrariamente a lo que parecen suponer Guibourg,
Fucito y Hernández, Ferrajoli no descarta a la disuasión como fin de la aplicación de la
pena, aunque entienda que su razón primordial es evitar o disminuir la violencia
arbitraria a la que se vería sometido el sospechoso o el condenado en ausencia del
derecho penal. En efecto, afirma que “[…] la pena no sirve sólo para prevenir los
injustos delitos, sino también los castigos injustos; que no se amenaza con ella y se la
impone sólo ne peccetur, sino también ne punietur; que no tutela sólo a la persona
ofendida por el delito, sino también al delincuente frente a las reacciones informales,
públicas o privadas”73.
Por lo tanto, entiendo que la observación de Guibourg acerca de que ambas
finalidades se encaminan a la misma prevención (la de los delitos), es equivocada. A
este respecto, Ferrajoli ha aclarado que “el derecho penal no está justificado como
sustituto más eficaz que la venganza, sino como alternativa y negación de la anarquía
punitiva”74, por lo cual, en el marco del derecho penal mínimo, la pena no convalida,
como sugiere Guibourg, una tendencia social irracional a vengarse para prevenir futuras
agresiones, sino que la deslegitima, en tanto protección del condenado contra ella. Por
eso tiene sentido, además, el derecho penal mínimo entendido como sistema de límites y
vínculos impuestos a los individuos y al Estado para minimizar la violencia en la
sociedad, ya que si la única finalidad fuera la prevención de los delitos sólo cabría dar
rienda suelta al poder punitivo que, como ya se ha dicho, bajo las formas del Estado
policial, disciplinario o incluso terrorista, sería muy probablemente más idóneo para
alcanzarla.
72 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., pp. 349-350.
73 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 332.
74 Ferrajoli, “Notas críticas y autocríticas en torno a la discusión sobre ‘Derecho y razón’”, cit., p. 518.
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9. Las penas y su medida
Por otro lado, no advierto la diferencia entre los sistemas de determinación de la pena
propuestos por ambos autores. La norma, según Guibourg, debería establecer como
umbral mínimo absoluto la pena necesaria para producir efectos preventivos, y como
umbral máximo el mínimo de respeto debido a cualquier ser humano. Ferrajoli sugiere
exactamente el mismo criterio para establecer el mínimo de la pena. En cuanto al
máximo, aclara, ante todo, que su límite está dado por la dignidad humana, lo que exige
que nadie sea tratado como un medio, sino como un fin. Este argumento –añade– tiene
carácter moral pero también político: el Estado es legítimo únicamente si tutela la vida y
los restantes derechos fundamentales, por lo que si mata, tortura o humilla a un
ciudadano contradice su razón de ser, pierde su legitimidad y se pone a la altura de los
delincuentes. En esa perspectiva, el segundo fin que Ferrajoli atribuye al derecho penal
(y a la pena en particular) resulta, a su modo de ver, “decisivo e incondicionado a favor
de la humanidad de las penas, en el sentido de que toda pena cualitativa y
cuantitativamente (superflua por ser) mayor que la suficiente para frenar reacciones
informales más aflictivas para el reo puede ser considerada lesiva para la dignidad de la
persona”. Ése es, entonces, el límite máximo no superable “sin que el reo sea reducido a
condición de cosa y sacrificado a finalidades ajenas”75.
Fucito y Hernández han objetado que penas como las que propone Ferrajoli no
podrían alcanzar ese segundo fin, pues no satisfarían a la víctima y/o a quienes se
solidarizaran con ella, y serían entonces inútiles para prevenir la venganza. Sin
embargo, en esa objeción se manifiesta nuevamente un error conceptual, dado que se
confunden los dos fines del derecho penal y se reduce su función a la prevención de
otros delitos.
Ya se ha dicho que la pena, en el marco del derecho penal mínimo, no es el
reemplazo de la venganza, sino su negación. Agréguese ahora que, como explica
Ferrajoli, la prevención de la venganza y las reacciones estatales informales y excesivas,
a diferencia de la prevención de los delitos, “está determinada no tanto por la medición
de la pena –pues esta debería variar para los diversos tipos de delitos, según su
75 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 395-396.
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91
previsible grado de violencia–, sino, antes bien –como he escrito tantas veces–, por la
simple existencia del derecho penal”76.
Cuando Fucito y Hernández sugieren, entonces, que las penas deberían ser más
rigurosas para evitar esas reacciones informales, no están teniendo en cuenta el interés
del imputado o condenado, es decir, no están haciendo referencia a la pena como castigo
alternativo, sino que piensan en el autor de la posible reacción, en el delito que éste
cometería y en la necesidad de prevenirlo como cualquier otro. Y justamente porque
Ferrajoli considera, dentro del marco de su doctrina, que las reacciones informales y
desproporcionadas son un sistema de control social alternativo al derecho penal, pues si
éste existe esas reacciones son un delito como cualquier otro, el límite máximo de la
pena puede ser contenido en una medida ampliamente superior a la carga de sufrimiento
producida por la anarquía punitiva, y al mismo tiempo limitar fuertemente la tendencia
al derecho penal máximo, incentivada por el simple fin de la prevención de los delitos77.
Creo importante reiterar cuáles son, concretamente, esas penas que propone Ferrajoli.
En lo inmediato –afirma– las penas privativas de la libertad deberían reducirse en la
misma medida en que hoy se las puede reducir caso por caso mediante la aplicación de
las medidas alternativas. En su opinión, esta flexibilidad de las penas es inadmisible, en
tanto las medidas alternativas están basadas en una también inadmisible estrategia
correccionalista, contradicen los principios de legalidad, certeza, igualdad y, en general,
todas las garantías de la pena, y confieren un amplio arbitrio extra-legal a los
funcionarios administrativos encargados de la ejecución penal, pues de ellos depende en
gran parte su concesión. Además, si las medidas alternativas encuentran su fundamento
en argumentos humanitarios que, en suma, se oponen al encarcelamiento perpetuo o tan
prolongado que imposibilite la reinserción social, mejor sería reducir legislativamente
las penas, es decir, reducirlas para todos, y no permitir su arbitraria limitación para
algunos78. Desde esta perspectiva, cabe rechazar la idea de que Ferrajoli propone “penas
de papel”, a menos que se sostenga que son tales las penas carcelarias que actualmente
se cumplen en los hechos.
76 Ferrajoli, “Notas críticas y autocríticas en torno a la discusión sobre ‘Derecho y razón’”, cit., p. 514.
77 Ferrajoli, ibídem.
78 Cfr. Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 414-416 y Principia iuris, t. 2, cit., pp. 368-369.
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92
Es cierto, sin embargo, que el autor italiano propugna, en perspectiva futura, la
abolición de la cárcel, lo que “no podrá ser sino el fruto de un proceso gradual, ligado al
progreso cultural y a la reducción de las bases sociales de la violencia”79. Pero ello no lo
lleva a proponer sanciones alternativas que nieguen el carácter de “mal” para el
condenado que, en su opinión, debe tener toda pena si no se quiere convertirla en una
tasa80.
En ese sentido, sugiere que las actuales medidas alternativas podrían reemplazar a la
cárcel como penas principales, por lo cual, al hacer esta propuesta, Ferrajoli ya no las
considera medidas, como afirma equivocadamente Hernández, mucho menos “graciosos
y providentes beneficios”, que sí resultan, de acuerdo con el autor italiano, cuando, dado
el derecho penal actual en Italia y muchos otros países, se las concede para paliar penas
que se consideran injustificables por exceso o por resultar contraproducentes81.
Las penas alternativas en las que piensa Ferrajoli son aquellas ya experimentadas
(como penas o medidas) en el derecho penal italiano: arresto domiciliario, reclusión de
fin de semana, similibertad, libertad condicional, probation, confinamiento y destierro,
en lo que se refiere a la privación de la libertad ambulatoria, e inhabilitación, en lo que
se refiere a la privación de otros derechos. Descarta la pena de multa porque, a
diferencia de la cárcel, resulta desproporcionada por defecto, al estar por debajo del
límite mínimo que justifica la imposición de una pena, es decir, sostiene que resulta
inútil para disuadir. Además, a su modo de ver, es una pena impersonal, porque puede
pagarla cualquiera, y desigual, pues su grado de aflicción depende del patrimonio del
condenado82.
Esas penas alternativas, a su vez, no deberían ser modificadas si no es por hechos
sobrevinientes y taxativamente preestablecidos por la ley, como, por ej., los relativos a
la salud del condenado. Y siempre deberían consistir en la privación de un derecho
sufrida pasivamente83.
79 Cfr. Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 414.
80 Cfr. Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 394-400.
81 Cfr. Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 409 y 411 y Principia iuris, t. 2, cit., p. 368.
82 Cfr. Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 416 y Principia iuris, t. 2, cit., p. 368.
83 Cfr. Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 420.
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93
En la óptica de Ferrajoli, la función disuasiva de la pena depende más de su certeza e
infalibilidad que de su dureza: “La certidumbre del castigo, aunque moderado –afirma
con cita de Beccaria–, hará siempre mayor impresión que el temor de otro más terrible,
unido con la esperanza de la impunidad”84.
En suma, Ferrajoli propone, en lo inmediato, la reducción a nivel legislativo de las
penas privativas de la libertad en la misma medida en que hoy se cumplen en los
hechos, a raíz de la aplicación de las medidas alternativas, y la supresión de la multa,
considerada por él una “pena de papel” e injusta. En perspectiva futura, propone en
cambio el establecimiento de las actuales medidas alternativas y penas accesorias como
penas principales y la supresión de la cárcel, tras hacerse eco de las conocidas críticas a
esta institución, que muy pocos parecen defender en la actualidad a raíz de las enormes
dificultades que existen para justificarla frente a la exigencia de humanidad de las
penas, su discutida idoneidad para prevenir nuevos delitos y su fuerte carácter
criminógeno.
Creo entonces que los críticos de Ferrajoli deberían explicar, para darle un contenido
más preciso a su objeción acerca de las supuestas penas irrisorias a las que llevaría el
derecho penal mínimo, qué sanciones proponen, qué medida deberían tener y cuáles son
los fundamentos para justificarlas.
En lo que respecta a la crítica de Hernández a los criterios de determinación de la
pena en la doctrina del derecho penal mínimo, ya se han brindado argumentos que
niegan que, si se siguieran sus lineamientos, el legislador debería efectuar estudios
sociológicos para verificar cuánta violencia suscita cada delito y recién entonces
establecer las penas legítimas, como sugiere el autor argentino. Añádase ahora que el
límite mínimo y el máximo establecidos en esa doctrina son parámetros dirigidos al
legislador85, por lo que no merecen atención las apreciaciones de Hernández acerca de
la inutilidad de esos parámetros para la determinación judicial de la pena.
De todos modos, cabe mencionar que Ferrajoli no desconoce que esos límites pueden
servir sólo como orientación de las valoraciones del legislador, y no como criterio
preciso para una exacta cuantificación de las penas. En ese sentido, admite el fracaso de
84 Cfr. Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 410 y Principia iuris, t. 2, cit., p. 369.
85 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 399-402.
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94
todos los esfuerzos realizados para comparar la gravedad de los delitos, tanto en lo
referido al daño como a la culpabilidad, y la de las penas pues, en su opinión, si éstas
son cuantificables, no lo son los delitos86.
Su objetivo principal no ha sido, sin embargo, cuantificar esos límites, sino
señalarlos, en respuesta a las dos principales objeciones que en este plano se suelen
dirigir al utilitarismo: la objeción kantiana de que ninguna persona puede ser tratada
como medio para fines no propios, y la objeción abolicionista acerca de los costos y los
sufrimientos penales, en tanto el derecho penal, en la doctrina de Ferrajoli, resulta
justificado sólo si minimiza la violencia de los delitos y las puniciones87.
En suma, en cuanto al límite máximo, le basta con proponer un criterio que, a su
modo de ver, es más consistente que el formulado por Bentham y retomado por Hart,
según el cual la pena no debe producir sufrimientos mayores que los producidos por los
delitos que pretende evitar, ya que estos sufrimientos resultan incomparables por
referirse a sujetos distintos, mientras que es posible la comparación entre la aflicción de
la pena y la de las reacciones punitivas informales, en tanto se refieren ambas a la
misma persona.
En cuanto al límite mínimo, Ferrajoli precisó ulteriormente sus tesis con
posterioridad a la publicación de Derecho y razón, a raíz de ciertas críticas que se le
formularon. Si bien en esa obra adhirió al criterio clásico de que el mínimo necesario de
la pena debe determinarse mediante la medición de la desventaja de la pena en
comparación con la ventaja del delito, admitió luego que es difícil conciliar ese criterio
con el de la proporcionalidad de la pena respecto de la gravedad del delito, que no
depende de aquella ventaja sino del sufrimiento de la víctima. Por lo que sostuvo que la
fórmula original debe ser invertida: la ofensa del delito debe corresponder al daño de la
pena, es decir, determinar su medida, la cual, por supuesto, no debe reducirse a una
tasa88.
86 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 399.
87 Ferrajoli, “Notas críticas y autocríticas en torno a la discusión sobre ‘Derecho y razón’”, cit., p. 522.
88 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 523-524.
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10. La eficiencia del derecho penal mínimo como sistema de defensa social contra el delito
Me parece evidente que en las críticas de Guibourg y, sobre todo, en las de Fucito y
Hernández se encuentra la preocupación por la eficiencia del derecho penal como
sistema de defensa social contra el delito, que, desde la perspectiva de estos autores,
resulta seriamente amenazada por la doctrina de Ferrajoli.
Esa cuestión tampoco ha sida obviada por el autor italiano, el que ha definido como
un “contrasentido” la antinomia entre garantismo y eficiencia, a la que suelen recurrir
las campañas de emergencia en seguridad que señalan al exceso de garantías a favor del
imputado como la causa de la ineficiencia de la administración de justicia. Por el
contrario, según Ferrajoli, las causas de ese fenómeno son otras y, a la vez, las mismas
del quiebre de las garantías y del fracaso de los dos fines que justifican al derecho penal
mínimo. Ellas se refieren a la “cuestión criminal”, es decir, a las formas económicas,
sociales y políticas, en gran parte nuevas, de la más perniciosa criminalidad actual; a la
“cuestión penal”, es decir, a las formas de intervención punitiva, en gran parte viejas e
inapropiadas frente a la nueva criminalidad, y a las razones de la impunidad de ésta89.
Para Ferrajoli, la criminalidad del poder es la que más amenaza en la actualidad a los
derechos, la democracia, la paz y al futuro mismo de nuestro planeta. Por un lado, los
crímenes de los poderes económicos privados, como las estafas financieras en perjuicio
de millones de ahorristas y la corrupción activa en pos de favorecer condiciones de
explotación laboral, apropiación de recursos naturales y depredación del medio
ambiente, y de los poderes públicos, como la corrupción pasiva en esos mismos casos y,
aún más graves, los de lesa humanidad llevados a cabo por las fuerzas estatales, generan
más sufrimientos y muertes –afirma– que todos los crímenes comunes juntos. Además,
los poderes criminales, como la mafia y el terrorismo, dominan y explotan, directa o
indirectamente, a quienes llevan a cabo los crímenes que llama “de subsistencia”90, es
89 Cfr. Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., pp. 350-352, y “Derecho penal y Estado de derecho”, en
Revista Nueva Doctrina Penal, 2008-B, ahora en Id., Escritos sobre derecho penal. Nacimiento,
evolución y estado actual del garantismo penal, t. 2, Hammurabi, Buenos Aires, 2014, esp. pp. 214-217.
90 Cfr. Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., pp. 352-356, y “Derecho penal y Estado de derecho”, cit., pp.
217-220.
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96
decir, los crímenes de menor proporción en cuanto a sus alcances que cometen los
marginados, inmigrantes, desempleados, pobres.
Pese a ello, la legislación penal de los países occidentales no se ha encaminado a
concentrar las energías y los recursos en la persecución de la criminalidad organizada,
sino que ha aumentado exponencialmente, al abarcar cada vez más comportamientos
inofensivos para derechos fundamentales de terceros, con el resultado de llevar al borde
del colapso a los aparatos judiciales y generar, en consecuencia, la descalificación del
derecho penal por su ineficiencia, la burocratización de la actividad judicial, la
ampliación de sus espacios de discrecionalidad, el favorecimiento de las distintas
formas de procesos abreviados, incompatibles con las garantías sustanciales del debido
proceso, a comenzar por el valor de verdad que requiere la legitimidad de toda sentencia
penal, y la imposibilidad fáctica de aplicar el principio de obligatoriedad de la acción.
La inflación penal es tal –sostiene Ferrajoli– que si todos los delitos cometidos fueran
descubiertos y debieran ser investigados, es probable que la mayor parte de la población
resultara imputada, y quizás encarcelada, o al menos implicada en algún proceso penal.
En Italia –recuerda amargamente– se ha llegado a prever como delito, punible con pena
de prisión, incluso la fotocopia de algunas páginas de un libro91.
Al mismo tiempo, la función estatal de represión del delito, enfatizada por la prensa
y la televisión, se orienta cada vez más hacia la “criminalidad de subsistencia”, en
particular, los robos con violencia producidos en las calles y los domicilios y la venta de
drogas al menudeo, de los que resultan responsables los sujetos marginados,
identificados como las únicas “clases peligrosas”. Lo que favorece, a su modo de ver, la
ilusoria creencia de que el derecho penal puede acabar con la microdelincuencia, la
progresiva exclusión del horizonte de la política de las medidas sociales de inclusión, el
reforzamiento del papel represivo del Estado, tanto hacia su interior como su exterior,
en desmedro de sus funciones de garante de los derechos sociales, y la percepción de la
delincuencia “de cuello blanco” como ajena a los estereotipos del criminal y, en
consecuencia, su naturalización y aceptación social como fenómeno propio del actual
sistema político y económico de gobierno. Delincuencia que se ve muy beneficiada –
91 Cfr. Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., pp. 356-358, y “Derecho penal y Estado de derecho”, cit., pp.
220-222.
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97
añade– por las condiciones en que debe funcionar el aparato judicial y por las costosas
defensas que está en condiciones de pagar92.
“De este modo se está produciendo en medida todavía más masiva que en el pasado,
una duplicación del derecho penal: derecho mínimo y dúctil para los ricos y los
poderosos; derecho máximo e inflexible para los pobres y marginados”93. Unos sacan
provecho de la incapacitada maquinaria judicial y logran paralizar fácilmente los raros
procesos a los que son sometidos, y los otros, sin medios para defenderse
adecuadamente, son por lo general juzgados y condenados mediante procedimientos
sumarios o abreviados. De ello se desprende la inversión de los dos fines que, en la
doctrina de Ferrajoli, justifican al derecho penal como técnica de tutela del más débil, en
tanto los perseguidos penalmente, en su gran mayoría, están privados de las garantías
individuales frente a los excesos y las arbitrariedades punitivas, mientras que la
capacidad de prevención del derecho penal, que es máxima, según Ferrajoli, en relación
con los crímenes de los poderosos, dado que temen perder sus privilegios y, entonces,
delinquen en la medida de su impunidad, resulta por el contrario mínima frente a la
criminalidad de subsistencia, la cual, a diferencia de aquella, se origina en la miseria, la
drogadicción y, en síntesis, en la precariedad de las condiciones de vida, por lo que las
penas tienen a lo sumo un valor simbólico para sus responsables, menor en todo caso
que el de las políticas sociales de inclusión para intentar reducirla94.
En la visión del autor italiano, la intrínseca ineficiencia de ese derecho penal actual
tiene como único efecto incrementar el malestar social y la desconfianza en el derecho y
las instituciones. Por eso, sostiene que es necesario refundar el sistema penal en su
conjunto, con miras a recuperar su eficiencia y las garantías del modelo normativo del
derecho penal mínimo, sobre todo a partir del restablecimiento del principio de
legalidad95.
92 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., pp. 361-365.
93 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 364.
94 Ferrajoli, ibídem.
95 A este respecto, cfr. D.R. Pastor, Recodificación penal y principio de reserva de código, Ad-Hoc,
Buenos Aires, 2005. En esta obra, tal como lo explica su autor, se siguen “las lúcidas ideas de Luigi
Ferrajoli acerca de la situación premoderna y desordenada del derecho punitivo en la actualidad, acerca
de la necesidad de devolverle protagonismo al principio de legalidad penal (nullum crimen), acerca de la
conexión entre este principio, el constitucionalismo y la codificación, y acerca, por último, de la
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98
En efecto, entiende que se deben reducir los delitos a aquellos que afecten los bienes
fundamentales y sea posible juzgar, desde una perspectiva realista, de conformidad con
las garantías del debido proceso. Esto implica imponer un riguroso respeto del principio
de estricta legalidad, reformulado como regla semántica de formación del lenguaje legal
que obligue al legislador a usar términos precisos, que hagan posible la verificabilidad y
refutabilidad empírica de las hipótesis acusatorias, y agrupar todos los delitos en un
nuevo código, de modo de excluir las leyes especiales y terminar con el caos legislativo
que impera en la actualidad. Y, en el mismo sentido, prever el principio de lesividad,
entendido como apreciabilidad, en abstracto y en concreto, del daño y el peligro corrido
como elementos constitutivos del delito, para replantear toda la escala de bienes
merecedores de protección, al poner en el vértice los bienes y derechos fundamentales –
vida, integridad física, libertad, bienes públicos y comunes, y el correcto ejercicio de la
función pública–, lesionados y amenazados sobre todo por la criminalidad del poder, y
excluir a los bienes que no tengan rango constitucional y a los delitos de peligro
abstracto, que constituyen la amenaza más insidiosa para las clásicas garantías penales y
procesales, y cuya protección debería confiarse al derecho civil o administrativo96.
En suma, Ferrajoli considera que es evidente el nexo indisoluble entre derecho penal
mínimo, garantismo y eficiencia, en tanto “[s]ólo un derecho penal desburocratizado,
limitado como extrema ratio únicamente a las ofensas a los derechos y a los bienes más
fundamentales, puede de hecho asegurar el respeto de todas las garantías y a la vez el
funcionamiento y la credibilidad de la maquinaria judicial. Y sólo un sistema penal y
procesal y una reorganización de la policía judicial encaminados al empleo de medios,
de recursos y de capacidades investigadoras para enfrentar, mucho más que a la pequeña
criminalidad callejera o los delitos menores, el crimen organizado y sus infinitas
colusiones con los poderes políticos y con los grandes poderes económicos, pueden hoy
necesidad de brindar garantías para una indispensable recodificación de la legislación penal y procesal
penal (principio de reserva de código)” (p. 11).
96 Cfr. Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., pp. 366-371 y “Derecho penal y Estado de derecho”, cit., pp.
222-227.
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99
conjugar garantismo y eficiencia, defensa del Estado de derecho y éxito en la lucha a las
organizaciones criminales”97.
Además, sostiene que el derecho penal mínimo, al ser un sistema de garantías no sólo
de libertad, sino también de verdad, realiza la única eficiencia penal que puede
perseguirse con sensatez, pues la arbitrariedad que las reemplaza en nombre de la
emergencia no sólo es inútil para defender a la sociedad del delito y, en definitiva, a la
democracia, sino que mina sus fundamentos. En este sentido, señala que sólo el sistema
garantista, encaminado a asegurar un esquema epistemológico de identificación de la
desviación penal basado en el carácter cognoscitivo del juicio penal, es decir, en la
verdad, y la defensa de los derechos fundamentales incluso de la minoría desviada,
puede servir para descalificar y aislar a los poderes criminales y diferenciar de ellos al
Estado98.
En conclusión, creo que con esto también se demuestra que es equivocada la tesis de
Hernández de que Ferrajoli no habría concebido el derecho penal mínimo para enfrentar
a los crímenes del poder, en tanto admitiría a su respecto un derecho penal máximo.
11. Obligación jurídica y libertad moral de obedecer las leyes
También creo que de lo expuesto supra, en particular en los puntos 8, 9 y 10, surge
nítidamente que la doctrina de Ferrajoli es incompatible con un orden anárquico en el
cual, a raíz del deber de tolerancia, no exista ninguna posibilidad de defender a la
sociedad contra el delito, ni siquiera de manera organizada y democrática, es decir,
mediante el derecho penal mínimo. En consecuencia, las críticas de Fucito en este
sentido resultan infundadas.
Por el contrario, ese autor tiene razón cuando advierte que el deber de tolerancia en
una sociedad democrática, según la doctrina de Ferrajoli, deslegitima toda pretensión
estatal de modificar coercitivamente la personalidad de quien ha delinquido, exige que
el Estado acepte la disidencia moral de los ciudadanos aun respecto de sus normas más
elementales e importa que sólo los jueces y funcionarios estén obligados moralmente
97 Ferrajoli, “Criminalita’ organizzata e democrazia”, en Studi sulla questione criminale, V (2010), 3,
trad. esp: “Criminalidad organizada y democracia”, ahora en Id., Escritos sobre derecho penal, t. 2, cit.,
esp. p. 371.
98 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., p. 350.
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100
(no sólo jurídicamente) a la observancia de las leyes. Pero esto no quiere decir, como
parece concluir Fucito, que la sociedad deba tolerar el delito, pues si así fuera no tendría
sentido la propuesta del derecho penal mínimo. Tolerar la disidencia moral es distinto,
en la doctrina de Ferrajoli, a tolerar el delito, a punto tal que se puede afirmar que lo
primero es una obligación y lo segundo está prohibido en el Estado liberal y
democrático de derecho que concibe el autor italiano. Resulta oportuno entonces repasar
el alcance de sus tesis a este respecto.
Según Ferrajoli, el primer requisito de la democracia liberal es la inmunidad de las
personas frente a constricciones o prescripciones jurídicas de tipo ideológico o jurídico,
lo cual importa la separación entre derecho y moral, o entre Estado y religión, para la
tutela de las libertades de conciencia y pensamiento. Ello no quiere decir –aclara,
aunque lo considera obvio– “que el derecho no tenga, o peor aún que no deba tener,
contenidos morales socialmente compartidos lo más que sea posible. Ésta sería una tesis
carente de sentido, dado que todo sistema de normas jurídicas tiene contenidos morales,
o sea, valorables como morales o inmorales”99.
Por el contrario, señala que el primer significado de esa separación es un corolario
del positivismo jurídico, es decir, la afirmación del principio de legalidad como norma
de reconocimiento del derecho vigente, y la consiguiente autonomía de éste respecto de
la moral y viceversa. Su segundo significado es, en cambio, un corolario del liberalismo
político y del utilitarismo jurídico, es decir, la idea de que el Estado y el derecho no son
fines en sí mismos, no encarnan valores morales ni tienen el deber de afirmar, sostener o
reforzar una determinada moral, religión o cultura, sino que son instrumentos artificiales
cuyo único cometido es tutelar los derechos vitales. De este segundo significado se
desprende, para Ferrajoli, el principio penal de lesividad, conforme al cual no son
punibles los pensamientos, los vicios ni los actos contra uno mismo, la religión o las
buenas costumbres, sino sólo comportamientos exteriores concretamente dañosos para
99 Cfr. Ferrajoli, “Diritti fondamentali e bioetica. La questione dell’embrione”, en S. Rodota’ y P. Zatti
(comps.), Trattato di Biodiritto, t. I, Ambito e fonti del Biodiritto, Giuffrè, Milán, 2010; trad. esp:
“Derechos fundamentales y bioética”, ahora en Ferrajoli, Escritos sobre derecho penal, t. 2, cit., esp. p.
380; en el mismo sentido, “Stato laico ed etica laica. Lacita’ e diritto penale”, en S. Canestrari y L.
Stortoni (comps.), Valori e secolarizzazione nel diritto penale, Bologna University Press, Bologna, 2009;
trad. esp: “Estado laico y ética laica. Laicidad y derecho penal”, en Id., Escritos sobre derecho penal, t. 2,
cit., esp. p. 252.
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101
personas de carne y hueso100. Por lo tanto, dentro de ese modelo se advierte fácilmente
la distinción entre disidencia moral y delito, y la consiguiente posibilidad de diferenciar
entre obligación de tolerar la primera y de reprimir, mediante el derecho penal mínimo,
el segundo.
Esos dos significados de la separación entre derecho y moral, que definen, en
definitiva, al Estado laico, hacen posible el reconocimiento y el respeto de todas las
diferencias ligadas a la identidad de las personas pues, al estar vigentes los principios
mencionados, Ferrajoli entiende que ninguna moral, religión o cultura podría intentar
imponerse sobre las demás mediante el uso del Estado y el derecho. En suma,
podríamos decir que el Estado laico, en Ferrajoli, es un “Estado sin verdad”, en la
medida en que se admita que los valores en que se funda, como tales, no son
verificables ni demostrables, es decir, son fundantes mas no fundados, y que no deben
imponerse coactivamente a las conciencias morales, si el Estado laico no quiere negarse
a sí mismo y negar a la democracia101. En efecto, si sus valores fundantes fueran
concebidos como el reflejo de una ontología de la moral, es decir, una moral con
verdad, porque proviene de una entidad trascendente, como Dios, o porque está
inscripta en la naturaleza, ello equivaldría a un sistema objetivo de normas que excluiría
la autonomía de las conciencias y la libertad de pensamiento, lo cual es inconciliable
con el valor de la tolerancia102.
Desde esa perspectiva, me parece coherente que no resulte admisible ninguna
concepción retribucionista ni correccionalista de la pena, en tanto se refieran, las del
primer tipo, al valor axiológico intrínseco de la pena y, las del segundo, a la reforma del
condenado como sus fundamentos teleológicos103, pues, como afirma Ferrajoli, si bien
el ciudadano está obligado jurídicamente a no cometer hechos delictivos, tiene el
derecho de ser interiormente malvado y de seguir siendo lo que es, en virtud de la
100 Cfr. Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 464-467; Principia iuris, t. 2, cit., pp. 303-307; “Estado
laico y ética laica”, cit., pp. 262-265.
101 Cfr. Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 925-926; Principia iuris, t. 2, cit., p. 306; “Estado laico y
ética laica”, cit., pp. 256-261.
102 Ferrajoli, “Estado laico y ética laica”, cit., p. 258.
103 Cfr. Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 253-258 y 264-274.
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102
autonomía de su moral que no permite que se lo obligue a pensar de otro modo104. Por
lo tanto, la pena debe estar dirigida, únicamente, a disuadir de aquellos
comportamientos que ponen en riesgo los derechos vitales de todos y, especialmente, a
tutelar al condenado contra reacciones informales y arbitrarias. Así se defiende, según
Ferrajoli, tanto a la sociedad (la mayoría no desviada) como al condenado (la minoría
desviada).
Sin embargo, cabe hacer algunas precisiones en relación con las críticas de Guibourg
y Fucito a ese respecto, en particular en cuanto a sus observaciones que, según creo,
sugieren que es impensable que el derecho penal tenga eficacia preventiva si no se
apunta a modificar la personalidad (al atribuirle a la pena un contenido retributivo o
mediante tratamientos terapéuticos, educativos u otros encaminados, en definitiva, a la
internalización de las normas) y/o las condiciones socioeconómicas de vida de quienes
delinquen.
Ferrajoli admite –creo que nadie, por lo demás, podría negarlo– que, para poder
funcionar, todo ordenamiento necesita la adhesión de la mayoría de aquellos a quienes
está dirigido, pero de esto no se sigue que esa adhesión sea moral. No hay que confundir
–sostiene– “la adhesión espontánea, que puede ser acrítica y aproblemática, con la
adhesión moral y menos con el sentimiento de obligatoriedad moral”105. Para él,
entonces, la tesis de la necesidad de la adhesión moral para garantizar la eficacia de las
normas penales es empíricamente discutible. De todos modos, si fuera cierto que esas
normas resultan eficaces en la misma medida en que los individuos adhieren
moralmente a ellas, lo único que se podría derivar legítimamente de ello en una
democracia liberal es que la norma que dejara de tener eficacia debería perder su
vigencia, dado que la inmoralidad de la conducta es una condición necesaria, aunque no
suficiente, de toda norma penal, así como su eficacia disuasiva es presupuesto de la
necesidad que la legitima106. De aquí se desprende un riesgo o una debilidad de una
104 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 223.
105 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 928.
106 Cfr. Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 473; “Estado laico y ética laica”, cit., p. 262.
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democracia liberal: el Estado no sólo no puede, sino que no debe garantizar sus propios
fundamentos ético-políticos107.
Por otro lado, los tratamientos terapéuticos y educativos y toda medida dirigida a
modificar las condiciones socioeconómicas de vida de quienes delinquen, resultan
inadmisibles como medidas coercitivas en el marco de la ejecución penal en tanto,
entendidos de esa manera, afectan la autonomía moral y el derecho a la
autodeterminación del individuo. Pero de ello no se sigue que el Estado, en la doctrina
de Ferrajoli, no deba garantizar los derechos sociales a la salud, a la educación y a
condiciones socioeconómicas dignas de vida.
Por el contrario, el autor italiano señala la existencia de una relación de
complementariedad y convergencia entre “garantismo liberal y garantismo social; entre
garantías de los derechos de inmunidad –a la seguridad de los potenciales perjudicados
de los delitos y al justo proceso de los potenciales imputados– y garantías de los
derechos sociales; entre seguridad penal y seguridad social. Precisamente –añade– la
causa principal de la que he llamado ‘criminalidad de subsistencia’ está en la ausencia
de garantías sociales del empleo y de la subsistencia. Por eso la prevención de tal tipo
de delincuencia requiere políticas sociales más que políticas penales, políticas de
inclusión más que políticas de exclusión. Exige el desarrollo de efectivas garantías del
trabajo, la educación, la previsión social y, más en general, una política dirigida a
‘destruir’ lo que Marx llamó ‘las raíces antisociales del crimen’ y a ‘dar a cada uno el
margen social necesario para exteriorizar de un modo esencial su vida’. Una política
social capaz de sanear ‘los antisociales lugares de nacimiento del delito’ –concluye– es
también la política penal más eficaz en materia de seguridad”108.
En conclusión, creo que debería reformularse la tesis de Fucito según la cual el
criterio de libertad y tutela de los derechos de la persona en Ferrajoli impide “intentar
alterar las condiciones personales del que [ha delinquido]”, lo que incluiría que no se le
suministren de modo alguno recursos personales, “ya que esto es reeducar”109. En rigor,
107 Ferrajoli, “Estado laico y ética laica”, cit., p. 258.
108 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., p. 365. Cfr. también la nota 142, donde Ferrajoli se refiere
específicamente a la objeción que a este respecto le dirigió Guibourg. Sobre el garantismo social y la
democracia social, cfr. Parte cuarta, cap. XV, punto IV, del mismo libro.
109 Fucito, ob. cit., p. 247.
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debería afirmarse que en la doctrina del autor italiano el Estado no debe imponer esos
recursos, sino garantizarlos, es decir, que nadie tiene la obligación, sino el derecho de
valerse de ellos.
Resta precisar por qué en la doctrina de Ferrajoli, contrariamente a lo que parece
concluir Fucito, la tesis de que los ciudadanos no están obligados moralmente al
cumplimiento de las normas y tienen incluso un derecho de resistencia contra el Estado,
es totalmente ajena a la idea de que la sociedad deba tolerar el delito, incluso la
corrupción de los poderes públicos y la acción de grupos terroristas que afecten las
bases de su existencia.
Esa tesis está conectada con el tercer significado del garantismo en Ferrajoli, que
“designa una doctrina filosófico-política que permite la crítica y la deslegitimación
externa de las instituciones jurídicas positivas, conforme a la rígida separación entre
derecho y moral, o entre validez y justicia, o entre punto de vista jurídico o interno y
punto de vista ético-político o externo al ordenamiento”110, y a la primacía de este punto
de vista sobre aquél. “Con esta fórmula quise hacer referencia –aclara el autor– a la
autonomía crítica y proyectiva de la política y de la moral relacionada con el derecho
positivo y con los valores extra o metajurídicos expresados por ellas. También, quise
hacer referencia a la idea básica del positivismo jurídico según el cual el derecho es
realizado, proyectado, defendido o criticado por los hombres en función de sus
intereses, valores y finalidades, y que por ende no es él valor o fin en sí mismo, sino
instrumento para fines y valores externos a él”111.
A esa fórmula se conectan las tesis de la inexistencia o inconsistencia lógica de una
“obligación política” (y no meramente jurídica) de obedecer las leyes, y del punto de
vista externo como motor de la lucha por el derecho y de la transformación jurídica en
los distintos niveles del ordenamiento. La primacía práctica de la moral y la justicia
sobre el derecho justifica la desobediencia civil contra el derecho injusto, que si bien
Ferrajoli considera un “deber moral”, constituye en todo caso un comportamiento
antijurídico, que debe ser reprimido desde el punto de vista interno al ordenamiento. Por
110 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 880.
111 Ferrajoli, “Notas críticas y autocríticas en torno a la discusión sobre ‘Derecho y razón’”, cit., pp.
535-536.
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eso, el que desobedece –sostiene Ferrajoli– asume la responsabilidad para poner en
evidencia la injusticia, es decir, se expone a sanciones que están predispuestas por el
derecho.
La desobediencia civil no es considerada sólo un deber moral frente al derecho
injusto, sino también un factor imprescindible, en opinión de Ferrajoli, para permitir la
transformación de la sociedad mediante la defensa de derechos fundamentales ya
reconocidos o la afirmación de otros, en tanto estos derechos siempre fueron obtenidos
y garantizados a través de revoluciones y rupturas, al precio de transgresiones,
represiones, sacrificios y sufrimientos112.
Sólo los jueces y los demás funcionarios designados para la aplicación de la ley
tienen la obligación moral, además de jurídica, de obedecerla, dado que la han aceptado
libremente al asumir esas funciones. “Es una cuestión de conciencia de los jueces y de
los funcionarios –escribe Ferrajoli– elegir la personificación de tales funciones de poder
y aceptar hacerlo en un ordenamiento democrático y liberal o en uno totalitario; pero,
una vez realizada esta opción, aplicar o no aplicar exactamente las leyes, deja de ser una
cuestión de conciencia, al menos en un estado de derecho caracterizado por vínculos de
estricta legalidad”113.
12. El derecho penal mínimo como atributo propio del Estado de derecho
El modelo del derecho penal mínimo puede ser identificado con el del Estado de
derecho, en cuanto entendamos a éste como “un tipo de ordenamiento en que el poder
público, y específicamente el penal, está rígidamente limitado y vinculado a la ley en el
plano sustancial (o de los contenidos penalmente relevantes) y bajo el procesal (o de las
formas procesalmente vinculantes)”114.
Vale la pena recordar que el modelo del derecho penal mínimo de Ferrajoli presenta
diez condiciones, límites o prohibiciones que el autor llama “garantías del ciudadano
contra el arbitrio o el error penal: según este modelo, no se admite ninguna imposición
112 Cfr. Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 942-946; y Principia iuris, t. 2, cit., pp. 96-101.
113 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 925.
114 Ferrajoli, ob. cit. ult, p. 104.
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de pena sin que se produzca la comisión de un delito, su previsión por la ley como
delito, la necesidad de su prohibición y punición, sus efectos lesivos para terceros, el
carácter exterior o material de la acción criminosa, la imputabilidad y la culpabilidad de
su autor y, además, su prueba empírica llevada por una acusación ante un juez imparcial
en un proceso público y contradictorio con la defensa y mediante procedimientos
preestablecidos”115.
Por el contrario, los modelos autoritarios de derecho penal se caracterizan, en la
óptica de Ferrajoli, por la debilidad o ausencia de alguno o algunos de tales límites a la
intervención punitiva, y sirven, por lo tanto, para “configurar sistemas de control penal
propios del estado absoluto o totalitario: entendiendo por tales expresiones cualquier
ordenamiento donde los poderes públicos son legibus soluti o ‘totales’, es decir, no
disciplinados por la ley y, por tanto, carentes de límites y condiciones”116.
Por supuesto que entre los dos extremos (el derecho penal mínimo, propio del Estado
de derecho, y el derecho penal máximo, propio de un Estado autoritario), hay diversos
sistemas intermedios, “hasta el punto de que deberá hablarse –afirma el autor italiano–
más propiamente, a propósito de las instituciones y los ordenamientos concretos, de
tendencia al derecho penal mínimo o de tendencia al derecho penal máximo”117.
13. Derecho penal mínimo y democracia sustancial: los derechos contra los poderes
Ferrajoli sostiene que “[a]sí como la función utilitarista y garantista del derecho penal es
la minimización de la violencia, tanto privada como pública, la función garantista del
derecho en general consiste en la minimización del poder, de otro modo absoluto: de los
poderes privados, tal y como se manifiestan en el uso de la fuerza física, en la
explotación y en las infinitas formas de opresión familiar, de dominio económico y de
abuso interpersonal; de los poderes públicos, tal y como se expresan en las
arbitrariedades políticas y en los abusos de poder policiales y administrativos”. En lo
que respecta a la técnica de esa minimización, dice que consiste en la igual garantía y
115 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 103-104.
116 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 104.
117 Ferrajoli, ibídem.
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107
maximización de los derechos fundamentales mediante la correlativa limitación e
instrumentalización a ese fin de las situaciones jurídicas de poder118.
En la doctrina del derecho penal mínimo, las dos finalidades preventivas del derecho
penal son las que legitiman su necesidad política como instrumento de protección de los
derechos fundamentales, los que marcan normativamente los ámbitos y los límites del
poder punitivo, es decir, indican cuáles son los bienes que no está justificado lesionar ni
con los delitos ni con las penas. Y esta legitimidad –afirma polémicamente el autor
italiano– “no es ‘democrática’, en el sentido de que no proviene del consentimiento de
la mayoría”. Por el contrario –añade– esa legitimidad es “garantista” y “reside en los
vínculos impuestos por la ley a la función punitiva para la tutela de los derechos de
todos”119. En otras palabras, no es el consenso lo que legitima al derecho penal mínimo,
sino su función de proteger los derechos no de una mayoría, sino de cada persona, aun
de aquellas que integraran la última minoría.
“Garantismo”, en Ferrajoli, “significa precisamente tutela de aquellos valores o
derechos fundamentales cuya satisfacción, aun contra los intereses de la mayoría, es el
fin justificador del derecho penal: la inmunidad de los ciudadanos contra la arbitrariedad
de las prohibiciones y de los castigos, la defensa de los débiles mediante reglas del
juego iguales para todos, la dignidad de la persona del imputado y por consiguiente la
garantía de su libertad mediante el respeto también de su verdad. Es precisamente la
garantía de estos derechos fundamentales lo que hace aceptable para todos, incluida la
minoría de los reos y los imputados, al derecho penal…”120, y no la voluntad
mayoritaria, pues ni siquiera por mayoría se podría prescindir de esa función de
garantía.
Además, el garantismo es la base de la democracia sustancial, en cuanto la
democracia exige, justamente, la protección de los intereses y las necesidades vitales de
todos, más allá de la voluntad de las contingentes mayorías y los poderes públicos y
privados. Ferrajoli sostiene que, como técnica de limitación y regulación de esos
poderes, el garantismo puede ser considerado el rasgo más característico de la
118 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 931.
119 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 335.
120 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 335-336.
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108
democracia, pues “las garantías, tanto liberales como sociales, expresan […] los
derechos fundamentales de los ciudadanos frente a los poderes del estado, los intereses
de los débiles respecto a los de los fuertes, la tutela de las minorías marginadas o
discrepantes respecto a las mayorías integradas, las razones de los de abajo respecto a
las de los de arriba”121. Razones que están positivizadas en los derechos fundamentales
reconocidos en nuestras Constituciones rígidas, y que marcan los ámbitos de lo que el
Estado no puede decidir, lo que requiere las garantías de libertad, y de lo que el Estado
no puede dejar de decidir, lo que requiere, en cambio, las garantías sociales.
14. Democracia sustancial vs. democracia formal
Podemos afirmar que, para Ferrajoli, los derechos constitucionalmente establecidos son
los “fundamentos” constitucionales de la democracia, la que debe ser entendida en
sentido sustancial.
Para distinguir la democracia sustancial de la formal, Ferrajoli diferencia los
derechos fundamentales que llama “primarios”, de aquellos que llama “secundarios”, y
nos dice que los primarios designan las finalidades que constituyen la razón de ser de la
democracia, mientras que los secundarios designan, en cambio, los poderes cuyo
ejercicio fundamenta y activa un sistema democrático. En otras palabras, la legitimación
sustancial se refiere a los límites y los vínculos impuestos a los contenidos de la
producción jurídica (qué no puede ser decidido y qué no puede dejar de ser decidido,
para tutela de todos). La legitimación formal, en cambio, se refiere a los sujetos y
procedimientos de la actividad de producción jurídica, ya sea privada (regulada por los
derechos civiles) o pública (regulada por los derechos políticos)122.
En síntesis, en la doctrina de Ferrajoli el concepto de democracia coincide con el de
democracia sustancial, mientras que una definición sólo formal de democracia presenta,
al menos, cuatro aporías123.
La primera consiste en la falta de alcance empírico y de capacidad explicativa de una
definición sólo formal de democracia, pues no está en condiciones de dar cuenta de las
121 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 864.
122 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., pp. 27-28.
123 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 10-13.
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109
actuales democracias constitucionales, donde no sobre todo se puede decidir ni dejar de
decidir, ni siquiera por mayoría.
La segunda consiste en la escasa consistencia técnica de una noción sólo formal de
democracia, pues para la supervivencia de cualquier democracia es necesario algún
límite sustancial. Al menos habría que reconocer –dice el autor italiano– que “en línea
de principio, siempre es posible que con métodos democráticos se supriman los propios
métodos democráticos”124.
La tercera, estrictamente vinculada con la anterior, consiste en el nexo indisoluble
entre soberanía popular y los derechos fundamentales primarios, y, en particular, entre
democracia y los derechos de libertad, pues la voluntad popular se expresa
auténticamente sólo si puede expresarse libremente. Y para expresarse libremente, el
pueblo no sólo necesita derecho de voto (derecho fundamental secundario) sino también
libertades fundamentales para todos y cada uno, como la de pensamiento, la de prensa,
la de información, reunión y asociación (o sea, derechos fundamentales primarios).
Finalmente, la cuarta aporía de una definición sólo formal de democracia: si
aceptamos que ésta se refiere a una caracterización de la democracia como
“autonomía”, “autogobierno” o “autodeterminación popular”, y que el pueblo es un
sujeto colectivo que decide por mayoría, en general, por medio de sus representantes
electos, y que no tiene una voluntad propia unitaria, debería reconocerse, junto a John
Stuart Mill, que “frases como ‘poder sobre sí mismos’ y el ‘poder de los pueblos sobre
sí mismos’ no expresan la verdadera situación de las cosas; el ‘pueblo’ que ejerce el
poder no siempre es el mismo pueblo sobre el cual es ejercido; y el ‘autogobierno’ de
que se habla, no es el gobierno de cada uno por sí mismo sino de cada uno por todos los
demás”125. En el mismo sentido, cabe observar que ninguna mayoría puede decidir
sobre lo que no le pertenece, es decir, sobre la supresión o la restricción de los derechos
fundamentales que, en rigor, le pertenecen a todos y cada uno de sus destinatarios y
titulares.
124 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 11.
125 Ferrajoli cita la obra Essay on liberty (1858), trad. esp., Sobre la libertad, Alianza, Madrid, 19792,
esp. Introducción, pp. 58-59. Cfr. Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 112-113, nota 14.
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110
15. Soberanía popular y democracia sustancial
Parece claro que la propuesta de Ferrajoli puede resultar polémica, ya que exige volver
a pensar la relación entre pueblo y democracia que deriva de la concepción tradicional
de soberanía popular, a la que se ha aludido como libertad positiva del pueblo de no
estar sujeto a límites o vínculos preestablecidos. En la definición de democracia que
propone Ferrajoli, esa concepción de soberanía popular es abandonada, y se la
reemplaza por la de común titularidad de la constitución, es decir, por la titularidad en
cabeza de todos de los derechos fundamentales reconocidos en ella.
Democracia, en Ferrajoli, es entonces “poder del pueblo”, sí, pero no ya en el único
sentido de que le corresponden a los ciudadanos los derechos políticos y, por lo tanto, el
autogobierno, sino también, y sobre todo, en el sentido de que les corresponden al
pueblo y a cada individuo que lo compone, el conjunto de todos los poderes activos, que
son los derechos constitucionales secundarios de los que se deriva todo poder
constituido, y de todos los contrapoderes pasivos, que son los derechos constitucionales
primarios a los que están subordinados y encaminados los poderes, y que, por esto
último, constituyen su razón de ser126. De aquí, además, su natural rigidez: “[s]i tienen
por destinatarios a los poderes constituidos por ellos, no puede ser modificados,
derogados o debilitados por esos mismos poderes, sino sólo ampliados y reforzados […]
porque son de todos y cada uno, no son suprimibles ni reducibles por la mayoría, la cual
no puede disponer de lo que no le pertenece”127.
Es sólo de este modo que, para Ferrajoli, se logra una concepción utilitarista e
ilustrada del Estado como “instrumento” para fines que no son suyos. Todos los poderes
públicos que lo componen, en otras palabras, encuentran su legitimación en la garantía
de los derechos fundamentales primarios, que son sus fines externos o, lo que es igual,
su razón social. Y es en esta relación de medios a fines, y en la consiguiente primacía de
los derechos fundamentales (fines) sobre los poderes públicos (medios), es decir, de las
personas físicas y de sus necesidades y voluntades sobre cualquier posible razón de
126 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 47-48.
127 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 47.
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111
Estado, “donde residen –escribe Ferrajoli– el significado profundo de la democracia y el
papel profundo de las constituciones democráticas como pactos de convivencia”128.
¿Qué sentido tendría una constitución democrática si no existiese el riesgo, siempre
latente, de que los más fuertes intentaran oprimir a los más débiles, de que las mayorías
intentaran someter a las minorías? Reconocer la naturaleza convencional de toda
constitución democrática equivale a identificar su fundamento axiológico no ya en la
común identidad política, cultural o nacional de los asociados, sino en su diversidad y
en su virtual conflictualidad. La constitución democrática, entonces, no sirve para
representar orgánicamente la común voluntad de un pueblo, ni para expresar ninguna
homogeneidad social, identidad colectiva o sentir común de pertenencia. Sirve más bien
para garantizar los derechos de todos, incluso contra las mayorías, y por eso para
asegurar la convivencia pacífica entre sujetos e intereses diversos y virtualmente en
conflicto129.
Es obvio que una constitución funciona sólo si tiene un cierto grado de adhesión,
necesario, por lo demás, para hacer posible su sanción. Pero esta adhesión, por un lado,
es una circunstancia de hecho, capaz de condicionar la efectividad de la constitución,
que también es una cuestión de hecho, y no su legitimidad, que es una cuestión de
valor130. Por otro lado, la cohesión social es posterior a la constitución, pues –afirma
Ferrajoli– “es sobre la igualdad en los derechos, como garantía de todas las diferencias
de identidad personal, donde madura la percepción de los asociados como iguales; y es
sobre la garantía de los propios derechos fundamentales como derechos iguales donde
se desarrollan el sentido de pertenencia e identidad de una comunidad política”131.
Podría afirmarse, en síntesis, que si las constituciones fueran el reflejo de la común
voluntad e identidad de todos, para Ferrajoli “se podría tranquilamente prescindir de
ellas”132.
128 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 48.
129 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 53-54.
130 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 55.
131 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 53.
132 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 54.
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112
16. Democracia, ciudadanía y derechos: ¿tres debilidades en la teoría de Ferrajoli?
Gargarella sostiene que la visión de la democracia que brinda Ferrajoli es vulnerable
tanto desde el punto de vista descriptivo como desde el normativo.
En relación con el primer punto de vista, afirma que parece haber en el pensamiento
del autor italiano “una asentada idea según la cual la democracia conduce
necesariamente a la opresión de las minorías por parte de las mayorías”133, por lo que el
escenario que presenta es el más “ominoso y pesimista”134. En efecto, el profesor
argentino entiende que la postura de Ferrajoli “simplemente imputa a la ciudadanía
acciones y decisiones sobre las cuales ella en muchos casos ni ha intervenido, y sobre
las que carece de control real”. Y agrega que “en un marco institucional marcado por la
crisis de representatividad, la ciudadanía es menos protagonista que víctima de las
decisiones del poder público”135. Por lo cual –concluye– “[l]a postura descriptiva
propuesta por Ferrajoli […] parece encontrarse en problemas que él no se ocupa de
discutir, ni de rebatir a partir de alguna evidencia empírica”136.
En cuanto a la filosofía política de Ferrajoli, o bien su punto de vista normativo,
Gargarella afirma que “opta por la línea más conservadora, relacionada con una visión
más bien elitista de la democracia. Según esta visión –continúa– no es conveniente
alentar la intervención ciudadana en los asuntos públicos, dados las pulsiones opresivas
y los rasgos de irracionalidad que caracterizan su accionar colectivo”137.
También critica Gargarella la concepción de los derechos fundamentales de Ferrajoli.
“Se trata nuevamente –nos dice– de una lectura elitista […] Conforme a esta visión, que
marcó al pensamiento iluminista moderno, existen ciertos derechos naturales, que
resultan, a su vez, autoevidentes”, por lo que la misión principal de un gobierno es
protegerlos138. Sin embargo, lo cierto, para Gargarella, es que la teoría de Ferrajoli “no
133 Gargarella, “Cuatro temas y cuatro problemas en la teoría jurídica de Luigi Ferrajoli”, cit., p. 199.
134 Gargarella, ob. cit. ult., p. 203.
135 Gargarella, ibídem.
136 Gargarella, ibídem.
137 Gargarella, ibídem.
138 Gargarella, ob. cit. ult., p. 204.
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113
nos deja en claro cuáles son esos derechos, ni cómo y quiénes tienen la capacidad para
definirlos, ni de qué modo. Tampoco resulta claro, en tal sentido, el porqué de esa
ansiedad opresiva de las mayorías, ni las razones que tenemos para pensar que algún
grupo, dentro de la sociedad, va a tener la tranquilidad y la capacidad necesarias como
para sobreponerse a las pasiones de los demás, y dar custodia a aquello que las mayorías
quieren arrasar”139.
En la misma línea, critica la fundamentación del control judicial de
constitucionalidad que, en su opinión, se desprende de la doctrina de Ferrajoli.
Gargarella entiende que, según el autor italiano, son los jueces, y no los ciudadanos
democráticamente, los que deben efectuar ese control, dado que las mayorías tienden a
actuar irracionalmente. Además, según Gargarella, para Ferrajoli los derechos
fundamentales tienen un contenido definido y más o menos transparente, por lo que un
cuerpo técnico, independiente de las presiones mayoritarias, bien puede cumplir el
cometido. Sin embargo, objeta que esas tendencias irracionales, determinadas por
pasiones o intereses sectoriales, también pueden caracterizar la actuación de los jueces,
claramente sesgados, de acuerdo con datos sociológicos, en términos de raza, religión,
género y clase. Y las cosas se complican aún más –afirma– al reconocer que la tarea
judicial, sobre todo cuando se trata de pronunciarse sobre derechos fundamentales, no
consiste sólo en contrastar evidencia empírica para encontrar la verdad, sino que los
jueces deben involucrarse en la interpretación de los derechos “para definir sus
contornos, alcances, contenidos”140.
Por su parte, Carlos Massini Correas sostiene que Ferrajoli pretende brindar una
fundamentación finalista de los derechos fundamentales, diferenciada tajantemente de
sus contenidos axiológicos, al afirmar el nexo instrumental entre su definición teórica de
éstos como derechos universales y los fines y valores perseguidos mediante su
estipulación positiva. En otras palabras, según Massini Correas, Ferrajoli considera que
la forma universal de los derechos fundamentales que identifica su definición teórica de
ellos, es el medio o la técnica normativa racionalmente idónea para alcanzar los fines y
valores que una sociedad ha establecido políticamente como tales. Sin embargo, el autor
139 Gargarella, ibídem.
140 Gargarella, ob. cit. ult., pp. 204-205.
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114
argentino se pregunta cuál es la utilidad de esa fundamentación finalista si, como afirma
Ferrajoli, está elaborada desde una perspectiva o plano (el de la teoría del derecho, que,
como tal, busca sólo denotar y explicar las formas y estructuras de los derechos
fundamentales) completamente ajeno al axiológico (que busca establecer cuáles deben
ser esos derechos de acuerdo con criterios morales o de justicia), al de la ciencia del
derecho (que busca determinar empíricamente cuáles son los derechos fundamentales en
un determinado ordenamiento) y al sociológico (que buscar determinar cuáles son, en
los hechos, los derechos fundamentales, independientemente de lo establecido en
determinadas normas positivas), pues de esa manera “no fundamenta propiamente
nada”141. En efecto, entiende que si existiera ilación lógica entre los valores defendidos
y la noción y concreción positiva de los derechos, se estaría en presencia de una
fundamentación o justificación racional, aunque en ese caso el razonamiento se
encontraría inevitablemente en el ámbito del iusnaturalismo puro y duro, lo que
Ferrajoli rechaza.
Por otro lado, la definición de este autor, según Massini Correas, priva de toda su
fuerza deóntica a los derechos fundamentales para constituirse en cuanto tales, dado que
para esto no basta el relativismo-subjetivista que, desde su punto de vista, propone
Ferrajoli, sino que es preciso establecer primero y principalmente, de modo racional, su
exigibilidad deóntica. Los planos que Ferrajoli pretende separar, entonces, tienen una
comunicación evidente para el autor argentino, incluso porque “el modo de
fundamentación depende del concepto que se tenga de los derechos fundamentales, el
contenido de la normatividad positiva a ese respecto se vincula con ese mismo concepto
y con los valores que se pretende realizar, los valores no están desvinculados de la
índole de la realidad a valorar, la vigencia efectiva depende en gran medida de la
positividad normativa…”142.
141 C.I. Massini Correas, “El fundamento de los derechos humanos en la propuesta positivista-
relativista de Luigi Ferrajoli”, en Derecho y persona, 61 (2009), esp. pp. 232-233 y 236-237 (el mismo
texto aparece publicado con el título “Luigi Ferrajoli y el fundamento de los derechos humanos”, en La
Ley, t. 2014-D).
142 Massini Correas, ob. cit. ult., pp. 238-240.
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115
En suma, Massini Correas advierte que la doctrina de Ferrajoli presenta el riesgo, ya
señalado –admite– por Anna Pintore143, de dejar librados los derechos a los frágiles e
imprevisibles itinerarios de la historia, o bien a la voluntad decisionista de las
ocasionales asambleas constitucionales, en tanto, a pesar de que propone un positivismo
de nivel constitucional en vez de legal, el contenido de las constituciones no tiene
límites éticos ni jurídicos objetivos en el marco de esa doctrina jurídico-política144.
17. Ciudadanía y democracia sustancial
En mi opinión, el autor italiano no afirma, como sugiere Gargarella, que la opresión de
las minorías en las democracias contemporáneas se debe a las decisiones irracionales de
las mayorías, y que la solución pasaría entonces por restringir la participación ciudadana
en la toma de decisiones. De hecho, Ferrajoli no ignora, como parece entender
Gargarella, que “la correspondencia entre los pueblos y sus gobiernos representativos
[…] es cada vez menos atendible en un mundo como el actual”145.
Lo que Ferrajoli rechaza, en rigor, no es la participación popular en la toma de
decisiones, sino que se admita la existencia en democracia de algún poder absoluto, es
decir, de un poder no limitado ni vinculado por el derecho, pues, para él, todo poder, sea
quien fuere el que lo posee, tiende al despotismo. Por lo tanto, el derecho, que se
configura en su modelo de democracia sustancial como ley del más débil contra la ley
del más fuerte, está encaminado a limitar y canalizar el poder “de quien es más fuerte
físicamente, como en el estado de naturaleza hobbesiano; de quien es más fuerte
económicamente, como en el mercado capitalista; de quien es más fuerte políticamente,
porque posee los poderes de gobierno; de quien es más fuerte militarmente, como en la
comunidad internacional”146.
143 Cfr. “Diritti insaziabili”, en L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, con
intervenciones de diversos autores compiladas por E. Vitale, Laterza, Roma-Bari, 2001, trad. esp:
“Derechos insaciables”, en Los fundamentos de los derechos fundamentales, edición española a cargo de
A. de Cabo y G. Pisarello, Trotta, Madrid, 20094, pp. 243-265.
144 Massini Correas, ob. cit., pp. 240-245.
145 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., p. 13. En esta obra Ferrajoli se ocupa de estudiar el asunto, en
particular, en las pp. 171-191 y 512-521.
146 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 45.
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116
Como ya se ha dicho, para Ferrajoli “la función garantista del derecho en general
consiste en la minimización del poder, de otro modo absoluto”, en el marco de
sociedades basadas en relaciones de poder privado –familiar, social, económico, laboral,
etc.–, que determinan las desigualdades sociales o sustanciales, y público –penal,
constitucional, administrativo, etc.–, que determinan las desigualdades jurídicas o
formales147, pero también en el marco de las relaciones entre los Estados, no sólo para
garantizar la seguridad de los más débiles, sino también la supervivencia de la
humanidad, al considerar los riesgos de las guerras y de las demás catástrofes, como las
ambientales, que pueden derivar de su acción incontrolada148.
Creo además que una visión elitista de la democracia, en el sentido que Gargarella le
atribuye a esta expresión, no es conciliable con la idea de democracia que desarrolla
Ferrajoli. “Obviamente pueden existir, y de hecho históricamente han existido –explica
el autor italiano– sistemas políticos y estados de derecho dotados de derechos civiles y/o
de libertad y/o sociales, pero no de derechos políticos atribuidos a todos los ciudadanos:
basta pensar en las viejas monarquías constitucionales y, más en general, en la mayor
parte de nuestros ordenamientos antes de la introducción del sufragio universal. Pero es
claro que en todos estos supuestos –concluye– se podrá hablar de ‘estado de derecho’
liberal y/o social y acaso constitucional, pero no en verdad de ‘democracia’,
requiriéndose para ello en todo caso, como condición necesaria aunque no suficiente,
el fundamento popular de las decisiones legislativas y de gobierno”149.
De manera coherente, Ferrajoli admite que “[e]l modelo ideal de la democracia
política […] es el autogobierno del pueblo, esto es, la coincidencia entre gobernantes y
gobernados”150. Sin embargo, también sostiene que esa imagen, por un lado, es irreal
pues, como se ha dicho, el pueblo no tiene una voluntad unitaria, por lo cual, al decidir
por mayoría, quien ejerce el poder no siempre coincide con aquel sobre el que ese poder
es ejercido; por otro lado, aquella imagen es irrealizable, salvo en el caso de decisiones
concretas mediante referendos, en cuanto es “impensable que todo el pueblo decida
147 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 931-936.
148 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 936-940.
149 Ferrajoli, Principia iuris, cit., t. 1, Teoría del derecho, p. 883 (la bastardilla no está en el original).
150 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., p. 165.
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siempre sobre todo”151. Por lo tanto, es necesario que el principio de la
autodeterminación sea regulado y limitado, tanto en sus formas como en sus contenidos.
En lo que respecta a las formas, Ferrajoli señala que la primera norma de
reconocimiento de la democracia política es la democracia representativa, “débil
subrogado de la democracia directa”152, pero, en su opinión, “la mejor regla que se haya
pensado nunca para asegurar un fundamento en sentido amplio ‘democrático’ a las
funciones de gobierno”, porque, entre otras razones, “es la regla que con más
aproximación que cualquier otra, hecha excepción de los referendos y de la
representación con mandato imperativo, permite, si se acompaña del sufragio universal,
que las funciones de gobierno respeten, además del principio de igualdad, la voluntad y
los intereses, si no de todo el pueblo, de su mayoría”153.
Y en vez de desalentar la intervención ciudadana en los asuntos públicos, Ferrajoli
propone como garantía de representatividad de los partidos políticos, entre otras, la
publicidad de todas las decisiones y de las discusiones que las preceden, la participación
en ellas del mayor número de afiliados, la máxima apertura a formas de participación
también de no afiliados, la publicidad de las opiniones disidentes, de los procedimientos
decisorios y de las decisiones adoptadas, la máxima responsabilización de los dirigentes
por sus afiliados a través de procedimientos que faciliten la revocación de su mandato, y
la prohibición de su perpetuación. También propone que se introduzcan elementos de
democracia directa en la vida de los partidos, como las decisiones en las asambleas de
los afiliados o simpatizantes, los referendos internos sobre las decisiones de fondo e
incluso el envío de delegados con mandato imperativo de las organizaciones periféricas
a los órganos de decisión centrales. Es más, sugiere que la mayoría de los miembros de
los órganos de decisión de los partidos sean elegidos y delegados en cada ocasión por
las distintas organizaciones periféricas, con mandato imperativo, a la vista del orden del
día de cada reunión154.
151 Ferrajoli, ibídem.
152 Ferrajoli, ibídem.
153 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 166.
154 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 187-188.
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Para terminar de desechar, en mi opinión, cualquier tendencia a concebir de manera
elitista la democracia y los derechos fundamentales, afirma el autor italiano que
“‘democracia representativa’ y ‘democracia directa’ no constituyen dos modelos
alternativos de democracia, sino que son más bien una el soporte de la otra”155. Pues –
especifica– las luchas por los derechos no son solamente una garantía de efectividad de
la democracia, sino también una forma de democracia política, paralela a la institucional
y representativa, ya que al consistir en la práctica organizada y colectiva de los derechos
de libertad, realizan paso a paso formas de poder o, si se quiere, de contrapoder social,
bajo forma de democracia directa156.
En conclusión, la democracia, para ser tal, debe legitimar y valorizar por igual todos
los puntos de vista y las dinámicas sociales que los expresan, de modo que de ellos
provengan los cambios progresivos en la esfera del derecho positivo, gracias a su
capacidad de cambiar o influenciar la legislación, la jurisdicción, el gobierno y la
administración. No sólo la democracia –sintetiza Ferrajoli– garantiza las luchas por los
derechos, sino que éstas garantizan a su vez la democracia: una ofrece a las otras los
espacios y los instrumentos jurídicos y las otras aseguran a los derechos y a la
democracia los instrumentos sociales de tutela efectiva y alimentan su desarrollo y su
realización157.
Si esta lectura que he intentado exponer de las tesis de Ferrajoli es correcta, me
atrevería entonces a preguntar: ¿hay mucha distancia entre su concepción de la
democracia política y la deliberativa defendida por Gargarella?
Para una concepción deliberativa –dice el autor argentino– “la vida pública debería
estar regulada por normas surgidas de procesos de discusión pública inclusivos,
celebrados entre ciudadanos situados en pie de igualdad […] La idea es que en una
sociedad de iguales ningún individuo o caudillo, ningún grupo o familia, ninguna elite –
tampoco la elite judicial, por caso– merece arrogarse la razón, ni el derecho de decidir
en nombre de los demás […] todo el andamiaje institucional defendido por quienes
sostienen visiones deliberativas de la democracia se orienta justamente […] a tornar
155 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 947-948.
156 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 947.
157 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 946-947.
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cognoscibles las ‘quejas’ de quienes se sienten maltratados por el sistema institucional,
y a favorecer la corrección de las decisiones públicas, de modo tal de tornarlas cada vez
más imparciales. La idea es, en definitiva, que cada persona sea tratada como un
igual”158. Por lo cual, además, la existencia de desacuerdos sobre los significados de los
derechos fundamentales y la necesidad de y la vocación por alcanzar acuerdos al
respecto, no resulta problemática159. Creo, en definitiva, que esta idea encaja sin
problemas en el pensamiento de Ferrajoli, según lo expuesto anteriormente.
Sin embargo, nada de todo lo dicho implica, como se ha expuesto, que el pueblo,
para Ferrajoli, sea soberano en una democracia, es decir, que no esté sometido él
también a límites y vínculos, que son precisamente los derechos fundamentales. Y éstos,
contrariamente a lo sugerido por Gargarella, nada tienen que ver, en la doctrina de
Ferrajoli, con derechos naturales, autoevidentes o de carácter ontológico.
18. Los fundamentos de los derechos fundamentales
El autor italiano propone una definición “formal” de derechos fundamentales, que nos
dice qué son esos derechos y no, en cambio, cuáles son ni cuáles deberían ser. En
efecto, denomina derechos fundamentales a “todos aquellos derechos que corresponden
universalmente a ‘todos’ en cuanto ‘personas naturales’, en cuanto ‘ciudadanos’, en
cuanto personas naturales ‘capaces de obrar’ o en cuanto ‘ciudadanos capaces de
obrar’”160. Y puesto que son derechos universales, relativamente a las clases de sujetos
mencionadas, son también indisponibles e inalienables, ya que, si no lo fueran,
perderían aquella condición.
Las preguntas acerca de cuáles son los derechos fundamentales o cuáles deberían ser,
deben responderlas, respectivamente, la sociología jurídica y la historiografía del
derecho, por un lado, y la filosofía moral, política o de la justicia, por el otro, pero no la
teoría del derecho, que es la disciplina en la que se ubica Ferrajoli y que, en su opinión,
puede sólo “estipular una definición del concepto de ‘derechos fundamentales’ que sea
lo más clara y precisa posible”, es decir, una definición que sirva para “identificar los
158 Gargarella, “Cuatro temas y cuatro problemas en la teoría jurídica de Luigi Ferrajoli”, cit., p. 203.
159 Gargarella, ob. cit. ult., p. 204.
160 Ferrajoli, Principia iuris, t. 1, p. 686.
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120
rasgos formales y estructurales merced a los que son (o es justo que sean) tuteladas
aquellas expectativas y aquellos intereses que el derecho positivo reconoce y establece
como fundamentales”161.
Hay entonces cuatro significados del término “fundamento” que Ferrajoli distingue
en relación con las posibles respuestas a la pregunta “qué son los derechos
fundamentales”: “a) la razón o fundamento teórico; b) la fuente o fundamento jurídico;
c) la justificación o fundamento axiológico; d) el origen o fundamento histórico y
sociológico”162.
Es obvio –aclara Ferrajoli– que todos los que creemos en la democracia compartimos
el valor ético-político de la igualdad, las libertades fundamentales y los derechos
sociales, pero ese valor no puede formar parte de la definición de derechos
fundamentales sin comprometer su alcance empírico y su capacidad explicativa. Por
ejemplo, es muy probable que un conservador norteamericano no comparta el valor de
la asistencia sanitaria pública y gratuita; un católico integrista seguramente no estará de
acuerdo con considerar un valor el principio de la autodeterminación al evaluar la
posibilidad de que un paciente rechace un tratamiento sanitario que pueda salvarle la
vida; probablemente muchos considerarán criminógeno el derecho de tener y portar
armas, establecido en la segunda enmienda de la Constitución de Estados Unidos; sin
embargo, ninguno de esos juicios morales impedirá considerar fundamentales los
derechos involucrados, en la medida en que estén previstos constitucionalmente como
tales. Así, se confirma la utilidad de una definición sólo formal de derechos
fundamentales, propia de la teoría del derecho, tal como las de otros conceptos de esta
disciplina, como norma jurídica, obligación, prohibición, derecho subjetivo, validez u
ordenamiento, cuya utilidad nadie pone en duda. Además, esa definición formal permite
evidenciar y conceptualizar la dimensión sustancial de la democracia constitucional y,
en definitiva, el paradigma constitucional, cuyo rasgo teórico distintivo es precisamente
su carácter formal, es decir, la estipulación de lo que no puede ser decidido y de lo que
161 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 685.
162 Ferrajoli, “Los fundamentos de los derechos fundamentales”, cit., p. 314.
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121
no puede ser no decidido, en garantía de lo establecido como fundamental por el pacto
constitucional163.
Es sumamente clara en Ferrajoli, entonces, su orientación positivista.
Coherentemente, sostiene que si en el plano de las formas se puede responder a priori
acerca de qué son los derechos fundamentales, “en el plano de los contenidos –o sea,
qué intereses son o deben ser protegidos como fundamentales– se puede responder sólo
a posteriori: cuando se quiere garantizar una necesidad o un interés como fundamental,
se lo sustrae tanto al mercado como a las decisiones de la mayoría estipulándolo como
universal […] Ningún contrato, ya se ha dicho, puede disponer del derecho a la vida.
Ninguna mayoría puede disponer de los derechos fundamentales, decidiendo por
ejemplo que una persona sea condenada sin pruebas, o privada de su libertad personal o
de los derechos civiles o políticos o, incluso, dejada morir sin asistencia o en la
indigencia”164.
Y el origen de tales derechos no debe buscarse en ninguna ontología. La historia del
constitucionalismo es, para el autor italiano, la historia de la progresiva ampliación de
los derechos fundamentales. “Una historia no teórica –afirma–, sino social y política,
dado que ninguno de estos derechos jamás ha caído del cielo, sino que todos han sido
conquistados por movimientos revolucionarios: las grandes revoluciones americana y
francesa, después los movimientos decimonónicos por las constituciones, en fin, las
luchas obreras, feministas, ecologistas y pacifistas del pasado siglo. Bien podemos decir
que las distintas generaciones de derechos equivalen todas ellas a otras tantas
generaciones de movimientos revolucionarios: de las primeras revoluciones contra el
absolutismo real a las constituciones modernas, como la italiana y la alemana, nacidas
del repudio al fascismo y al nacionalsocialismo como pactos fundadores de la
democracia constitucional”165.
En lo que hace a los significados de tales derechos, Ferrajoli recuerda que “no están
dados de una vez y para siempre, sino que cambian con la mutación de las culturas, de
163 Ferrajoli, La democrazia attraverso i diritti, Laterza, Roma-Bari, 2013; trad. esp: La democracia a
través de los derechos, Trotta, Madrid, 2014, pp. 91-95.
164 Ferrajoli, Principia iuris, t. 1, cit., p. 774.
165 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 776-777.
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122
la fuerza y de la conciencia de los actores sociales que son al mismo tiempo intérpretes,
críticos y productores del derecho”166. Lo demuestra, en su opinión, el hecho de que la
percepción de que se está violando un derecho es siempre un fenómeno social: una
percepción –dice Ferrajoli– “en un primer momento minoritaria incluso para quienes
son víctimas de una cierta desigualdad, después compartida por la mayoría de ellos y
finalmente destinada con el desarrollo y el éxito de sus luchas a generalizarse y a
convertirse en opinión común”167. De este modo se explican –continúa el autor italiano–
“las progresivas ampliaciones del significado extensional del principio de igualdad
provocadas por tantas luchas que, en el curso de los dos últimos siglos, han iluminado y
combatido otras tantas violaciones: de las luchas de los trabajadores a las de liberación
de los pueblos, de las luchas contra la segregación de los negros en los Estados Unidos
y en África del Sur a las batallas de las mujeres y las experiencias que les dieron
soporte.”168 Y ciertamente –concluye– “desigualdades y discriminaciones que hoy no
aparecen, o cuando menos no son percibidas como intolerables, comenzando por las que
generan las leyes contra los inmigrantes que separan ciudadanos y no-ciudadanos,
aparecerán y reclamarán ser eliminadas mañana”169.
En síntesis, los derechos fundamentales nacen, se expanden y mutan su significado
desde abajo hacia arriba. Para Ferrajoli son, como se ha dicho, “fruto de conflictos, a
veces seculares, y han sido conquistados con revoluciones y rupturas, al precio de
transgresiones, represiones, sacrificios y sufrimientos […] Hay un sentido en el que los
derechos fundamentales no son ‘universales’ –aclara el autor–: no son reconocidos y
reivindicados ni en todos los tiempos ni en todos los lugares. Al contrario, son el fruto
de opciones y la expresión de necesidades históricas determinadas y, sobre todo, el
resultado de luchas y procesos largos, disputados y trabajosos”170.
Entonces, tiene razón Massini Correas cuando afirma que la teoría de Ferrajoli deja
librados los derechos fundamentales a los frágiles e imprevisibles itinerarios de la
166 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 756.
167 Ferrajoli, ibídem.
168 Ferrajoli, ibídem.
169 Ferrajoli, ibídem.
170 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 945.
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123
historia, de lo cual el autor italiano es absolutamente consciente, pues esa es una
consecuencia que debe admitir todo aquel que “no comparta una fundamentación ético-
cognoscitivista de los mismos”171. Sin embargo, creo que no es correcto desprender de
esto que los derechos fundamentales ya positivizados en las constituciones rígidas
quedan sometidos a la voluntad decisionista de las ocasionales asambleas
constitucionales, a raíz de la falta de límites éticos o jurídicos objetivos, pues, como se
ha dicho, los derechos fundamentales no les pertenecen a las mayorías, las cuales, por lo
tanto, no pueden disponer de ellos, es decir, no pueden restringirlos ni mucho menos
suprimirlos, sino sólo ampliarlos o reforzarlos.
Se pregunta Massini Correas para qué sirve la definición puramente formal de
derechos fundamentales que propone Ferrajoli, por lo que cabe recordar que cimienta
dos tesis: por un lado, la tesis de la radical diferencia de estructura entre los derechos
fundamentales, concernientes a enteras categorías de sujetos, y los derechos
patrimoniales, concernientes, por el contrario, a cada uno de sus titulares con exclusión
de todos los demás, y, por otro lado, la tesis de que los derechos fundamentales, al
corresponder a intereses y expectativas de todos, forman el fundamento y el parámetro
de la igualdad jurídica y, por ello, de la dimensión sustancial de la democracia172.
Además, esa definición, junto a otras tesis de la teoría, como las definiciones de
constitución, derechos de la persona y del ciudadano, y garantías, sirve para echar luz
sobre las diferencias de estructura que median entre las diversas subclases en las cuales
pueden distinguirse los derechos fundamentales, según las expectativas –negativas o
positivas– en que consisten; para identificar los distintos tipos de límites y vínculos
sustanciales que constituyen los diversos derechos fundamentales para la esfera pública
del Estado y la privada del mercado; para sugerir –como se verá en el próximo punto–
los diversos criterios de solución de las lagunas y antinomias que suponen sus
violaciones, y, por último, para analizar los distintos tipos de garantías primarias que
esos derechos exigen según sus estructuras, y las garantías secundarias capaces de
171 Ferrajoli, “Los fundamentos de los derechos fundamentales”, cit., pp. 324-325.
172 Ferrajoli, “Derechos fundamentales”, en Id., Los fundamentos de los derechos fundamentales, cit.,
pp. 25-26; “Los fundamentos de los derechos fundamentales”, en Ibídem, esp. pp. 330-332.
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124
asegurar la efectividad de las primarias y, como reflejo, de los derechos garantizados
por éstas173.
Por último, la opinión de Massini Correas en cuanto a que la definición puramente
formal de Ferrajoli priva de toda su fuerza deóntica a los derechos fundamentales para
constituirse en cuanto tales, dado que para esto no basta su relativismo-subjetivista, ha
sido contestada por el autor italiano en su discusión con otros críticos174, y ya se ha
aludido a este asunto supra, punto 11, al hacer referencia a la relación entre derecho,
moral y efectividad. Baste con agregar que el autor argentino parece ubicarse entre
aquellos que sostienen la posibilidad de identificar una moral objetiva, todavía incierta,
y que, según Ferrajoli, es falsa la idea de que las normas sobre derechos fundamentales
suponen de hecho que son compartidos moralmente, si no por todos, al menos por la
mayoría, lo que parece estar en la base de la crítica en cuestión. Por ejemplo, la libertad
religiosa –recuerda Ferrajoli– surgió como conquista del liberalismo, pero no era de
modo alguno compartida por la cultura católica mayoritaria, que se le opuso
fuertemente; es más, el liberalismo figuró en el index de la iglesia católica hasta el siglo
pasado; por otro lado, si hubiera sido sometida a referéndum, seguramente habría
fracasado la aprobación de la Declaración de derechos de 1789, y es de temer –
concluye– el resultado de un actual referéndum sobre las garantías penales y
procesales175.
19. Control judicial de constitucionalidad*
Como se ha dicho, Gargarella critica las tesis de Ferrajoli en lo referido al rol que deben
tener los jueces en el control de constitucionalidad de las leyes, al entender que el autor
italiano pretende excluir la participación popular en la definición de tales derechos,
cuyo significado constitucional es, desde su punto de vista, vago e indeterminado, y
atribuir esa tarea exclusivamente a una elite, la de los jueces, los que pasarían entonces
173 Ferrajoli, “Los derechos fundamentales en la teoría del derecho”, en Ibídem, esp. pp. 150-151.
174 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 362-371.
175 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 365-366.
* Agradezco a Juan L. Finkelstein Nappi por las valiosas indicaciones bibliográficas sobre la obra de
Gargarella referida a este punto.
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a “concentrar en sus manos un enorme poder de decisión”. Por ejemplo –sostiene– “en
situaciones tan ajetreadas y conflictivas como la referida al aborto”, la mayoría de las
constituciones no dice absolutamente nada, por lo que los jueces asumen –en ese caso,
como en tantos otros– “la tarea de ‘desentrañar’ posibles respuestas a tales dilemas,
residentes en los intersticios de la Constitución”, por lo cual, en definitiva, la minoría de
los jueces decide, en nombre y en lugar de la ciudadanía, qué es lo que debe hacerse en
materia de política abortista.
Sin embargo, si la jurisdicción constitucional tuviera una facultad semejante (definir,
como escribe Gargarella, los contornos, alcances y contenidos de los derechos
fundamentales), resultaría irremediablemente ilegítima en el marco de la teoría de
Ferrajoli, tal como intentaré explicar a continuación, al efectuar algunas precisiones
acerca de lo que entiende este autor por control judicial de constitucionalidad.
Antes de ello, me parece oportuno señalar que la circunstancia de que los derechos
fundamentales estén definidos de forma vaga e indeterminada, es simplemente un dato
fáctico, que revela un déficit de técnica legislativa y que, como tal, no resulta decisivo
para conmover la postura de Ferrajoli. Como se advierte sin dificultades, otra vez la
crítica se apoya en una superposición de dos planos de análisis que deberían mantenerse
diferenciados: el del ser y el del deber ser del derecho. Concluir que dado que las
normas son vagas e indeterminadas, entonces la realidad legislativa no puede ser de otra
manera, importa incurrir en una “falacia normativista”176.
En ese sentido, cabe recordar la polémica de Ferrajoli con los partidarios de lo que
define como “neoconstitucionalismo” o “constitucionalismo principialista”. A su modo
de ver, esta corriente, integrada por autores como Jürgen Habermas, Robert Alexy y
Ronald Dworkin, postula que existe una moral objetiva, la cual se identifica con el
conjunto o con la mayor parte de los valores reconocidos actualmente por las
constituciones democráticas, por lo que los derechos fundamentales no resultan
simplemente valores de justicia compartidos y defendidos firmemente por los que
creemos en ellos, sino principios y contenidos de justicia “verdaderos” y, en algún
sentido incierto de la palabra, “objetivos”.
176 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 219-222 y 323-325, Principia iuris, t. 1, cit., pp. 8-11 y 141.
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126
Por otro lado, esa corriente, para el autor italiano, sostiene la tesis de que los
derechos fundamentales son (sólo) principios y no (también) reglas, objeto de
ponderación y no de aplicación por los jueces, por lo que debilita la normatividad de las
constituciones, favorece una impropia autonomía de la jurisdicción más allá del juego
de lo opinable en sus actividades de interpretación y contradice, en suma, los dos
fundamentos estructurales del Estado de derecho, como lo son, por un lado, la jerarquía
de las fuentes y la ubicación de la constitución en su cúspide como conjunto de normas
vinculantes para todos los poderes constituidos y, por el otro, la separación de poderes y
la sujeción de los jueces sólo a la ley, oscurecidas por el papel creativo de derecho
asignado a la función judicial177.
Ferrajoli ha opuesto a esa corriente que, en lugar de asumir como inevitables la
indeterminación del lenguaje constitucional y los conflictos entre derechos, y quizás
complacerse de ambas cosas en apoyo del activismo judicial, sería oportuno que
promoviera el desarrollo de un lenguaje legislativo y constitucional lo más preciso y
riguroso posible. Es que, según lo entiende, “la oscuridad, la vaguedad y la
indeterminación del lenguaje judicial, aun cuando en alguna medida ineliminables, no
son simples defectos de la legislación”, sino un vicio jurídico de ésta, precisamente
porque violan los principios mencionados y, por ello, “comprometen el mantenimiento
del edificio del Estado de Derecho en su totalidad”178.
Por eso insiste en el desarrollo de una ciencia de la legislación, tal como la
proyectaron Gaetano Filangieri y Jeremy Bentham, capaz de reducir todo lo posible la
vaguedad, las incoherencias, la oscuridad, los laberintos normativos y la deriva
inflacionista que está en la base de la actual crisis de la ley179.
Además, Ferrajoli se ha ocupado de desarrollar el significado de una específica
garantía, central en su modelo prescriptivo, para posibilitar el ejercicio legítimo de la
177 Ferrajoli, La democracia a través de los derechos, cit., pp. 99-100 y 118.
178 Ferrajoli, “Costituzionalismo principialista e costituzionalismo garantista”, en Giurisprudenza
costituzionale, 55 (2010), 3; trad. esp: “Constitucionalismo principialista y constitucionalismo garantista”,
en Doxa. Cuadernos de filosofía del derecho, 34 (2011), esp. pp. 50-51.
179 Ferrajoli, “Constitucionalismo principialista y constitucionalismo garantista”, cit., pp. 51-52; La
democracia a través de los derechos, cit., p. 194.
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127
jurisdicción, cuya única fuente legitimadora es, como se ha dicho, no el consenso de la
mayoría, sino la sujeción a la ley y sólo a ella.
En efecto, la estricta legalidad en Ferrajoli constituye un criterio rector al que deben
ajustarse los legisladores al producir las normas, una “regla semántica meta-legal de
formación del lenguaje legislativo”, a fin de garantizar un presupuesto epistemológico
indispensable de la verdad procesal, como lo es que las normas definan su campo de
aplicación de manera exhaustiva y exclusiva, para permitir juicios tan cognoscitivos
como sea posible de los hechos y tan re-conognoscitivos como sea posible del derecho,
es decir, juicios que, contrariamente a la función legislativa (y a las funciones de
gobierno en general), son legítimos en la medida en que pueda predicarse de ellos su
verdad (veritas, non auctoritas facit iudicium)180.
“Las condiciones de la verificabilidad y la refutabilidad, es decir, del uso de los
términos ‘verdadero’ o ‘falso’ a propósito de una aserción [jurisdiccional] –concluye
Ferrajoli– depende, pues, de la semántica del lenguaje legislativo […] del hecho de que
sabemos exactamente a qué nos referimos con las palabras que utilizamos en ella”181.
Por supuesto que Ferrajoli no desconoce la imposibilidad de asegurar la plena certeza
del significado de las leyes, al existir límites intrínsecos del lenguaje a los que siempre
vamos a asociar las inevitables “zonas de penumbra”182. Por eso también identifica una
intrínseca ilegitimidad en el ejercicio de la jurisdicción, cuya medida resulta
directamente proporcional a la de esas zonas de penumbra; cuanto más impreciso e
indeterminado sea el lenguaje normativo, cuanto más oscuro sea el significado de las
normas, mayor será el ámbito de discrecionalidad de los jueces y, en consecuencia, la
ilegitimidad de sus decisiones.
Sin embargo, ello no debe entenderse como una suerte de derrota del positivismo
jurídico que lleve a la necesidad de suscribir las tesis del “constitucionalismo
principialista”, referidas a que las normas constitucionales que establecen derechos
180 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 95-97, 117-129, 166-178 y passim; Principia iuris, t. 1, cit., pp.
412-415, 822-836 y passim; t. 2, cit., pp. 70-80, 359 y passim; “Le fonti di legittimazione della
giurisdizione”, trad. esp: “Las fuentes de legitimación de la jurisdicción”, ahora en Escritos sobre derecho
penal, t. 2, cit., pp. 342-361; La democracia a través de los derechos, cit., p. 59 y passim.
181 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 118.
182 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 122.
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128
fundamentales no son reglas en las que se puedan subsumir hechos, sino principios que
deben ser ponderados para optar por el de mayor peso según el caso, y que el derecho,
en consecuencia, se debe concebir como práctica social confiada, esencialmente, a la
actividad creadora de los jueces, sobre todo a la jurisprudencia constitucional, que
deviene entonces la fuente principal del derecho183. Estas ideas son totalmente
contrarias al modelo constitucional garantista de Ferrajoli.
En efecto, en ese modelo la normatividad constitucional es “fuerte”, de tipo
regulativo, en cuanto se entiende que la mayor parte de los principios constitucionales y,
en particular, los derechos fundamentales son reglas, al implicar la existencia o exigir la
introducción de normas consistentes en las prohibiciones de lesión u obligaciones de
prestación que son sus respectivas garantías. Está claro que las constituciones expresan
e incorporan valores como cualquier otra ley, pero se diferencian en que esos valores
son formulados en normas positivas que se encuentran en un nivel normativo superior al
de la legislación ordinaria y que, por ello, la limitan y vinculan.
La existencia de diversos niveles normativos en el constitucionalismo garantista
permite efectuar una primera precisión en lo que se refiere específicamente al control de
constitucionalidad. Dado que las normas constitucionales son límites y vínculos para la
legislación ordinaria, en ese modelo de constitucionalismo resultan centrales los
conceptos de lagunas y antinomias, o bien lo que Ferrajoli llama, respectivamente,
vicios por omisión (indebida inexistencia de una norma a cuya sanción obliga una
norma superior) o vicios por comisión (indebida existencia de una norma por
encontrarse en contradicción con una superior).
Como se observa, la definición de lagunas y antinomias que propone Ferrajoli es más
restringida que la tradicional, pues “sólo procede hablar de antinomias y lagunas en
183 Pietro Sanchís ha sugerido cierto origen de estas tesis. Según ese autor, en algunas doctrinas
neoconstitucionalistas se sostiene de modo explícito que las constituciones no son como las leyes, sobre
todo en un sentido morfológico o estructural que afecta a su propia forma de ser. Pues mientras que las
leyes son expresión de un momento político unitario o monolítico, las constituciones, en particular las que
rigen hoy en Europa, expresan la coexistencia de proyectos políticos posibles que se traduce en una
simultaneidad de principios plurales y tendencialmente contradictorios. No hay, entonces, mandato ni
contrato, pues no existe una voluntad constituyente que pueda ser tratada como intención del legislador.
Lo que hay son principios universales, uno junto a otro según las pretensiones de las partes, cuya colisión
debe ser resuelta, en ausencia de legislación específica, mediante ponderación judicial, de acuerdo con los
casos. Cfr. L. Pietro Sanchís, “Principia iuris: una teoría del derecho no (neo)constitucionalista para el
Estado constitucional”, en Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho, 31 (2008), esp. pp. 340-342.
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129
referencia a la inobservancia, por acción u omisión, de las normas sustantivas sobre la
producción normativa”184. No se trata entonces de fenómenos que generan un problema
más de aplicación del derecho, sino de problemas irresolubles sin una reforma del
ordenamiento. “Antinomias y lagunas en el sentido aquí definido –explica Ferrajoli– no
son inmediatamente solventables por el intérprete, a quien no compete la alteración del
derecho vigente aplicable aun cuando ilegítimo. Requieren, en efecto, para ser
removidas, la intervención de específicos actos decisionales: precisamente, la anulación
de las decisiones inválidas o la introducción de las decisiones que faltan”185.
Por lo tanto, y al tener en cuenta también que el autor italiano define a la función
judicial como “la garantía secundaria de la anulabilidad de los actos inválidos y de la
responsabilidad por los actos ilícitos, o sea, […] la obligación atribuida a los jueces de
pronunciar la nulidad de los primeros y la condena por los segundos”186, parece que el
control jurisdiccional de constitucionalidad de las leyes resulta bastante restringido.
Por un lado, en el marco del constitucionalismo garantista, no les corresponde a los
jueces remediar las lagunas, pues ellas requieren la introducción de una norma de
actuación. Pero eso no quiere decir que en ningún caso los jueces puedan aplicar
directamente las normas constitucionales. Está claro que en ausencia de un tipo penal
necesario para garantizar un derecho constitucional, el juez no podría crearlo, ni decidir
quién tiene la obligación de enseñar, por poner otro ejemplo, en ausencia de una ley
pública que regule el derecho constitucional a la educación. Pero sí podría, en cambio,
anular el despido de un huelguista con apoyo en el derecho constitucional de huelga, en
caso de que no existiera la ley que regule la materia, al tratarse de una decisión que tiene
efectos singulares negativos y no importa, en consecuencia, colmar la laguna en el
ordenamiento187. Ella, por lo tanto, seguiría existiendo, así como la obligación del
legislador de sancionar la norma debida.
En lo que se refiere a las antinomias, los jueces adquirirían mayor protagonismo, en
tanto tendrían la función de anular la norma inválida, de acuerdo con el modelo de
184 Ferrajoli, Principia iuris, t. 1, cit., p. 857.
185 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 647.
186 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 831.
187 Cfr. L. Prieto Sanchís, ob. cit., pp. 336-337.
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130
control de constitucionalidad concentrado, de matriz continental europea, preferido por
Ferrajoli al modelo norteamericano de control difuso, basado en la jurisprudencia de
principios188. Esa opción revela “las fuertes reservas del constitucionalismo garantista
hacia la deriva judicialista propia del neoconstitucionalismo”189, pues la desaplicación
que deja vigente una norma inválida debilita la efectividad del Estado de derecho y
promueve la regresión a un “derecho jurisprudencial de tipo premoderno, que tiene el
riesgo de trastocar todo el orden de la democracia”190, dado que son los jueces, en
efecto, los que deben resolver la antinomia en cada caso. En suma, Ferrajoli sostiene
que los jueces sólo deberían tener la facultad de anular la norma inválida, con base en el
principio de la jerarquía, y no la de resolver antinomias mediante interpretación o
ponderación.
Un problema más complejo es el de los conflictos entre los derechos fundamentales,
pues aquí la ponderación parece ser inevitable y, entonces, el protagonismo de los
jueces resultaría mayor. Pero Ferrajoli entiende que no hay que “dramatizar”, ni mucho
menos “enfatizar” y “generalizar” la existencia de esos conflictos, tal como lo hacen, a
su modo de ver, los partidarios del constitucionalismo principialista.
Por un lado, señala que hay que distinguir entre los distintos tipos de derechos y la
posibilidad y magnitud del conflicto entre ellos. A ese respecto, afirma que los derechos
de libertad-inmunidad, como la libertad de conciencia o la inmunidad de torturas, al
comportar sólo la expectativa de su no lesión, no pueden encontrar límites en otros
derechos fundamentales, sino que, únicamente, son ellos un límite al ejercicio de los
demás; por ejemplo, el derecho (de libertad-inmunidad) a la propia reputación –refiere
Ferrajoli– constituye un límite para el derecho (de libertad activa) a la libertad de
información.
Ese ejemplo introduce a la segunda categoría de derechos identificada por el autor
italiano: los derechos de libertad activa, que ciertamente pueden entrar en conflicto con
otros derechos fundamentales, tal como en el caso apenas mencionado o en el del
derecho de huelga del personal sanitario y el derecho a la salud. Pero estos posibles
188 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., p. 91 y notas 106 y 107.
189 L. Prieto Sanchís, ob. cit., p. 339.
190 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., pp. 78-79.
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131
conflictos suelen estar resueltos, no casualmente, por las mismas constituciones. Así
ocurre, por ejemplo, en la constitución italiana y la española, las cuales –señala
Ferrajoli– establecen que el derecho de huelga se ejerce en el ámbito de las leyes que lo
regulan para asegurar el mantenimiento de los servicios esenciales, y recuerda también
que la italiana prevé la tipificación de los delitos de injurias y difamación como límites
a la libertad de información.
En cuanto a los supuestos conflictos entre derechos sociales y otros derechos
fundamentales, sostiene que los costos económicos y las dificultades fácticas para
satisfacer a los primeros no representan la base de un conflicto entre derechos, sino el
objeto de las inevitables opciones de preferencia política respecto de la prioridad y
medida de su satisfacción.
Por último, se refiere detenidamente a los supuestos conflictos entre los derechos
(primarios) sociales y de libertad, por un lado, y los derechos (secundarios) civiles y
políticos, por el otro, o bien entre (derechos de) libertad y (poderes de) autonomía o
entre derechos fundamentales, por un lado, y Estado y mercado, por el otro. En este
caso, considera que los primeros deben prevalecer sobre los segundos, ya que el
ejercicio de éstos consiste en actos negociales o legislativos de grado subordinado al
nivel normativo al que pertenecen, al igual que todos los demás derechos
fundamentales, por lo que se encuentran en relación no ya de conflicto sino de
subordinación. En otras palabras, dado que los derechos de autonomía son poderes
jurídicos, en tanto su ejercicio consiste en actos que producen efectos en la esfera
jurídica de los demás, deben estar sometidos, como todos los demás poderes en el
Estado constitucional de derecho, a los límites (derechos fundamentales) que impiden
su ejercicio legibus solutus191.
En síntesis, Ferrajoli sostiene que la intuición general de que los derechos colisionan
y tienen un “espacio moral” limitado por los demás, debe ser redimensionada y, en
consecuencia, “desdramatizada” mediante una distinción analítica de los distintos tipos
de derechos fundamentales: (i) “derechos-inmunidad” ilimitados, dado que su garantía
191 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., pp. 70-75; “Los fundamentos de los derechos fundamentales”, en
Id., Los fundamentos de los derechos fundamentales, cit., esp. pp. 351-353; La democracia a través de los
derechos, cit., pp. 120-121.
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132
no interfiere con la de otros; (ii) “derechos de libertad” (distintos de las simples
libertades, que no son derechos, sino espacios no regulados pues no producen efectos en
la esfera jurídica de terceros), que encuentran límites impuestos para permitir su
convivencia con los demás; (iii) derechos sociales, cuyos límites no son los otros
derechos fundamentales, sino sólo los costos de su satisfacción (recuérdese que los
derechos patrimoniales no son fundamentales en la doctrina de Ferrajoli192); y (iv) los
“derechos-poder”, que constituyen la “democracia formal”, sea política o civil,
subordinada al conjunto de derechos, de libertad y sociales, en los que se basa la
“democracia sustancial”, por lo que aquí no podría hablarse de conflicto entre derechos
o de espacios recíprocamente limitados, como si se presentase el dilema de optar por
unos u otros, ya que siempre deben prevalecer los primarios, es decir, los de libertad y
los sociales193.
El legislador, entonces, debería concentrarse en fijar lo más claramente posible, en
particular, los límites (por ejemplo, la prohibición de injuria y difamación respecto de la
libertad de información o la prohibición de reuniones armadas respecto de la libertad de
reunión, como ocurre en la legislación italiana) y las posibles restricciones (por ejemplo,
bajo forma de penas limitativas de la libertad personal) de los derechos de libertad, que
son aquellos que pueden entrar en conflicto con los demás derechos fundamentales.
En conclusión, me parece que no se puede negar la fuerte disminución del ámbito de
posibles conflictos normativos, y del consiguiente espacio de discrecionalidad de los
jueces, que provoca el constitucionalismo garantista. Además, ese poder de los jueces, a
diferencia de la discrecionalidad política, que se manifiesta en las decisiones legislativas
y administrativas que producen nuevo derecho, genera sí decisiones interpretativas,
referidas al significado de las normas aplicables194, pero únicamente singulares o, en
192 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 908-915; “Derechos fundamentales”, cit., pp. 29-35; Principia
iuris, t. 1, cit., pp. 717-729.
193 Ferrajoli, “Los fundamentos de los derechos fundamentales”, cit., pp. 353-354.
194 Por eso Ferrajoli aclara que su posición no desprecia la importancia de una teoría de la
argumentación, como la desarrollada ejemplarmente, en su opinión, por Robert Alexy y Manuel Atienza,
dirigida a fundar la racionalidad del ejercicio discrecional del poder judicial. Antes bien, Ferrajoli critica
la excesiva ampliación del rol de la ponderación en la interpretación judicial de las normas
constitucionales, que ha terminado por designar –afirma– “las formas más desenvueltas de vaciamiento y
de inaplicación de las normas constitucionales”, tal como ha ocurrido en Brasil, donde la jurisprudencia
ha creado un “increíble inventario de principios” carentes de todo anclaje en el texto constitucional, como
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133
todo caso, siempre negativas, en tanto sólo pueden anular una norma inválida o un acto
inválido contrario a una norma de nivel superior. Los jueces constitucionales no tienen
facultades, entonces, para decidir la “política abortista” del Estado, como sugiere
Gargarella, ni ninguna otra política, sino que sólo pueden remediar una antinomia,
mediante anulación de la norma inválida, lo que tendría el efecto de reenviar la cuestión
al Parlamento para que, luego de una reconsideración del asunto, sea éste el que colme
la eventual laguna. “Eso debería bastar –señala Ferrajoli– para ahuyentar el espantajo
del llamado ‘gobierno de los jueces’, que obsesiona a una parte de la filosofía jurídica y
política y, obviamente, al estamento político”195.
Sentadas así las bases del pensamiento de Ferrajoli en cuanto al control de
constitucionalidad de las leyes, con todas las imprecisiones propias de una necesaria
síntesis, me atrevo a afirmar que tampoco advierto una diferencia muy significativa
entre esa propuesta y la efectuada sobre el mismo asunto por Gargarella.
Si no me equivoco, este autor sostiene, por un lado, que los jueces, en términos
institucionales, se encuentran en una excelente posición para favorecer la deliberación
democrática –por la que brega en todos sus trabajos–, pues reciben demandas de quienes
sienten que han sido tratados indebidamente en el proceso político de toma de
decisiones, y, a su vez, están obligados a escuchar a todas las partes del conflicto. Por
otro lado, tienen amplias posibilidades de actuar de manera respetuosa hacia la
autoridad popular, al poseer suficientes técnicas y medios procedimentales a su alcance
el “principio de precaución” contra las posibles decisiones que pueden causar daños no calculados o el
“principio de la no sorpresa”, en garantía de la seguridad del ciudadano contra decisiones demasiado
inesperadas. Cfr. Ferrajoli, “Constitucionalismo principialista y constitucionalismo garantista”, cit., pp.
43-45. Este desmedido activismo judicial, basado en ideas afines al neoconstitucionalismo, parece haber
caracterizado también cierta jurisprudencia de la Corte Interamericana de Derechos Humanos, ilustrada
con lujo de detalles por E. Malarino, “Activismo judicial, punitivización y nacionalización: tendencias
antidemocráticas y antiliberales de la CIDH”, en D.R. Pastor (Director), El sistema penal en las
sentencias recientes de los órganos interamericanos de protección de los derechos humanos, Ad-Hoc,
Buenos Aires, 2009, pp. 21-61, y también en K. Ambos, E. Malarino y G. Elsner (coords.), Sistema
interamericano de protección de los derechos humanos y derecho penal internacional, Konrad-Adenuer-
Stiftung, Montevideo, 2010, pp. 25-61 (http://www.kas.de/wf/doc/kas_23685-1522-4-
30.pdf?121011221909). Malarino recuerda que un ex presidente de ese tribunal internacional, además de
una de sus figuras más prominentes, afirmaba que la Convención Americana no era otra cosa que lo que
la Corte decía, con lo que reflejaba una concepción bien clara de la función jurisdiccional que tiene para
él este tribunal, inspirada en una vertiente del realismo jurídico norteamericano, según la cual sus jueces
no están sujetos a reglas.
195 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., p. 75.
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134
para actuar en consecuencia. En ese sentido, refiere concretamente que ellos pueden
“bloquear la aplicación de una cierta norma y devolverla al Congreso, forzándolo a
repensarla; pueden declarar que algún derecho fue violado, sin imponer a los
legisladores una solución concreta; pueden establecer que una violación de derechos
debe corregirse en un tiempo límite, sin ocupar el lugar del legislador ni decidir cuál
remedio particular debería ser aprobado; pueden sugerir al legislador una serie de
soluciones alternativas, dejando la decisión final en manos del último”196.
En suma, si es cierto que en el constitucionalismo garantista de Ferrajoli las lagunas
y las antinomias en sentido estructural, como las define ese autor, son las únicas que
pueden dar lugar a un vicio de constitucionalidad, y que las primeras sólo pueden ser
resueltas por el Parlamento, mientras que las segundas sólo pueden originar una
decisión jurisdiccional que anule la norma inválida, no observo en qué aspecto la
propuesta de Gargarella resulta inconciliable con esta postura.
196 Cfr. Gargarella, “¿Democracia deliberativa y judicialización de los derechos sociales?”, en Perfiles
latinoamericanos, (2006), 28, esp. pp. 21-22. El tema también es abordado por Gargarella en La justicia
frente al gobierno. Sobre el carácter contramayoritario del poder judicial, Ariel, Barcelona, 1996, esp.
pp. 174-177; y en “La dificultad de defender el control judicial de las leyes”, en Isonomía, (1997), 6, pp.
55-70, entre otros de sus trabajos.
G. Perconte Licatese, “Fortuna e ironia in politica”,
Jura Gentium, ISSN 1826-8269, XII, 2015, 1, pp. 137-145
Fortuna e ironia in politica
Giuseppe Perconte Licatese
Se alla scienza politica e al diritto internazionale è richiesto, come ci è capitato di
leggere recentemente1, di saper dire qualcosa di costruttivo ai policymakers sui quali
grava il compito di “guidare gli eventi” (steering global processes); e se – tanto oggi
che Fortuna e ironia in politica, opera inedita di Martin Wight, è stata pubblicata,2
quanto nel 1957, quando essa fu concepita nella sua prima versione per una serie di
lezioni tenute da Wight a Chicago su invito di Hans Morgenthau – la teoria è chiamata a
giustificarsi dimostrando la sua applicabilità, allora il disorientamento indotto da questo
testo non può essere meno che completo, e forte la tentazione di relegare nel letterario i
suoi insegnamenti. Fortuna e ironia in politica, apparso per la cura di Michele
Chiaruzzi in italiano ancor prima che in inglese, emerge dagli archivi londinesi di Wight
come voce di un passato storico e disciplinare di nuovo al centro dell’attenzione,
nell’inesauribile confronto che la teoria svolge coi suoi “classici”, e come tale è un
documento prezioso di una precisa stagione. Al tempo stesso, l’intatta pertinenza dei
suoi assunti fondamentali nell’attuale fase della società internazionale, nel tempo nostro,
lo qualifica nella sua “classicità”, intesa proprio come irriducibilità a “documento”, a
pezzo d’archivio.
La ricchezza di materiali e di suggestioni che Wight raduna in questo saggio è
veramente grande, e il recensore deve partire dal contesto e dal termine polemico da cui
esso dipende: l’ascesa del comportamentismo nella teoria delle relazioni internazionali
nord-americana, con la sua teorizzazione “completamente astorica”, mirante a ridurre
“le relazioni internazionali a un sistema di proposizioni teoriche con funzione
predittiva” (in questi termini denunciata da Morgenthau, citato da Chiaruzzi a p. xxiv).
Si può immaginare il compiacimento del professore della Chicago University nel
portare di fronte ai suoi alunni un conferenziere dal linguaggio e dai riferimenti così
1 D. J. Levine e A. D. Barder, “The Closing of the American Mind: ‘American School’ International
Relations and the State of Grand Theory”, European Journal of International Relations, 20 (2014), 4, p.
865.
2 M. Wight, Fortuna e ironia in politica, a cura di Michele Chiaruzzi, Soveria Mannelli, Rubbettino
2014.
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138
stranianti per il lessico della social science: non solo la “fortuna” e l’ “ironia” del titolo,
ma anche gli “arcana” o i “dilemmi”, altre parole significative che dovevano suonare
unscientific, e le citazioni non diciamo di Cesare o Machiavelli, ma di figure come
Pallada di Alessandria o il marxista Plechanov – né Wight trascura i coevi: in queste
pagine mostra infatti di aver letto attentamente, tra gli altri, Strauss, Oakeshott, Kennan,
Niebuhr. Contro il paradigma conoscitivo che, ulteriore derivato della fede ottocentesca
nel progresso, voleva tradurre la virtù politica – nel testo è definita “arte necessaria” (p.
41) – in tecnica di previsione e controllo, Wight parte dalla fondamentale e costante
“esperienza” della Fortuna che l’uomo fa in politica e dalla “candida quantificazione”
(qui forse un’allusione allo stesso probabilismo scientifico) che Machiavelli fece, a
contrario, di quella “metà, o presso” che è in potere agli uomini (p. 3). Una porzione
concessa alla virtù, questa, soggetta all’azione di molteplici forze erosive: Wight pone a
oggetto del suo studio ciò che dall’antichità a oggi è stato detto Tyche, necessità, caso,
sorte, destino, provvidenza, in tutte le sue forme concorrendo a relativizzare il potere
degli uomini sulla propria esistenza collettiva, sia nel senso di una frustrazione del
bisogno di sicurezze e certezze (la Fortuna del poeta Dryden, “proud of her office to
destroy”, p. 15), che nel senso di un potere che ordina i contrasti umani in un superiore
disegno, tale che, come disse una volta Lincoln, “Dio soltanto può rivendicarlo” (citato
a p. 31). Scopo di questa rassegna è per Wight mostrare l’angustia dell’osservazione
volta a individuare i nessi di causa ed effetto delle azioni politiche: ancor più che
angusta in senso quantitativo, perché ignora quel residuo di fattori semplicemente
inconoscibili, detta osservazione manca di autentico senso storico. Ciò che “in
retrospettiva” lo scienziato vuole vedere come “parte dell’intatta ragnatela di causa ed
effetto” era avvertito, da chi agiva, come “accidente”, “contingente”, “imprevedibile”
(p. 21), e proprio a questa esperienza puntuale del tempo Wight vuole tornare, alla sua
natura fluida, indeterminata, al momento in cui la situazione politica sta sospesa tra
riuscita e insuccesso oppure si protrae indecisa. La critica radicale qui sottesa è che non
si può dare scienza politica che sia troppo astratta dalla scena dell’azione, con i suoi
vincoli e incertezze contingenti (che poi avvicinandosi al suo oggetto essa perda lo
statuto di scienza è altra questione). L’elemento più potente e suggestivo evocato da
Wight è quello della “peripezia” (la peripèteia, già meccanismo drammatico del teatro
secondo un altro maestro di realismo, Aristotele); peripezia sottolineata quale “regolare,
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139
ripetuta, si è tentati di dire fondamentale, esperienza della politica internazionale”, in
due pagine (pp. 52-53) dove sono ripercorsi a precipizio tutti i rovesci di alleanze, i
tradimenti della parola data, i cambiamenti radicali di valutazione politica e i disastri
scampati che hanno scandito la storia mondiale dal 1933 fino al momento in cui Wight
scrive: ovvero gli stessi fatti che certa teoria coeva avrebbe spiegato con il “dilemma
della sicurezza”, spogliandoli però del senso di confusione, angoscia, irrazionalità che
l’autore sa rendere, e che sono loro propri.
Ci è gradito, a questo punto, cogliere l’occasione di saldare questi risultati con quelli
già esposti dal curatore Chiaruzzi nel suo precedente studio sull’autore3 e sottolineare
come nella lezione di Wight sulla storia debba riconoscersi la posizione di un realista
cristiano. Non solo la riflessione qui in considerazione è, vinta la tentazione di una fuga
dal tempo implicita nella fase del suo giovanile pacifismo, l’assunzione senza riserve
della storia e dell’agire in essa – “dopotutto, il nostro vero compito”4 – quale
dimensione necessaria della vita (e della fede) del cristiano; ma proprio l’anti-
determinismo, “l’agnosticismo” storico di Wight, il concepire cioè la storia come una
linea spezzata di peripezie, è il risultato, per sottrazione potremmo dire, di una retta
teologia della storia: come l’autore aveva scritto altrove: “la storia secolare è la
sequenza empirica degli eventi nel tempo senza significato in sé; la storia sacra è la
teleologia della sequenza”5. Così vanno di pari passo la contemplazione del mistero
della storia – e del modo, ruvido con cui la sua verità “trionfa sulla formule” degli
uomini (Carlyle citato da Wight a p. 59) – e lo scetticismo nei confronti delle ideologie
del progresso. In quegli stessi anni, anche due pensatori per formazione e orientamento
diversi da Wight come Carl Schmitt e Julien Freund salutavano la vittoria della storia
reale, col suo andamento incerto e con la sua interna dynamis dialettica, su tutte le
filosofie della storia che “prescrivono all’uomo un’origine mitica e una fine utopica”6.
3 M. Chiaruzzi, Politica di potenza nell’età del Leviatano. La teoria internazionale di Martin Wight,
Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 77-90.
4 Ivi, p. 90.
5 Ivi, p. 81.
6 Si vedano C. Schmitt, “Die Einheit der Welt” (1951), nella raccolta Frieden oder Pazifismus (Berlin,
Duncker & Humblot, 2005), p. 852, e la corrispondenza tra Freund e Schmitt in P. Tommissen (a cura di),
Schmittiana. Beiträge zu Leben und Werk Carl Schmitts, vol. I, Brussel, Economische Hogeschool Sint-
Aloysius, 1988, in particolare la lettera del 18.9.1959, p. 37.
JURA GENTIUM, XII, 2015, 1
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Non sappiamo dire quanto una meditazione sulla storia universale (quel “kind of
rumination about human destiny”, per dirla con il Wight di un altro famoso saggio7)
abbia diritto di cittadinanza nell’attuale discorso politologico e internazionalistico; certo
è che non mancano oggi come allora teorie che hanno almeno implicita una filosofia
della storia, progressista come talune prospettive sull’integrazione regionale o – è il
caso più ambizioso che ci viene in mente – teleologica, come la tesi di Alexander Wendt
sull’inevitabilità di uno Stato mondiale8. Ciò che in modo forse meno contestabile fa del
saggio di Wight un contributo prezioso alla teoria attuale è l’invito ad aderire al piano
delle percezioni e delle motivazioni degli uomini di governo, a rivolgersi alla loro
esperienza qualificata come a una fonte indispensabile di orientamento e di
comprensione. Per lunghe pagine Wight fa scorrere davanti al lettore una teoria di
personaggi storici con i loro tratti psicologici, le idee-guida, i giudizi a posteriori,
attingendo sia dai documenti storiografici (Bolingbroke, Napoleone, Donoso Cortes,
Cavour, Bismarck, Saburov, Lloyd George, Hitler, Mussolini, Churchill, Roosevelt,
Adenauer, Stimson, Dulles, De Gaulle) sia, con libertà sicura di sé, dal genere del
romanzo storico e del teatro (Cesare, Tamerlano, Giovanna d’Arco, Wallenstein). Ciò
suscita nel lettore l’impressione che la politica internazionale sia, più che un dominio di
leggi e di forze, un testimone passato di mano in mano da statisti e diplomatici. Una
permanenza del passato nel presente, questa, ambivalente, in quanto implica –
richiamiamo qui intuizioni espresse da Wight altrove – il frustrante dominio di
“ricorrenza e ripetizione” negli affari internazionali, ma anche la confortante prospettiva
“che i medesimi problemi e le medesime risposte intellettuali sono già state esplorate in
passato”9. È utile qui ricordare inoltre il titolo originario del draft wightiano, Necessity
and Chance in International Relations (p. xiii). Non solo quel titolo colloca
espressamente l’attore nella politica internazionale, rispetto alla quale Wight fa sua –
provvisoriamente e a patto di richiamare la visione esattamente rovesciata di Burke (p.
7 M. Wight, “Why Is There No International Theory”, International Relations, 2 (1960), 1, p. 48.
8 A. Wendt, “Why a World State is Inevitable”, European Journal of International Relations, 9 (2003),
4.
9 M. Wight, “Why Is There No International Theory”, cit., p. 43, e International Theory: The Three
Traditions, London, Leicester University Press, 1996, p. 6 (trad. it. Teoria internazionale: le tre
tradizioni, a cura di M. Chiaruzzi, Bologna, Il Ponte, 2011).
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141
13) – la posizione di Machiavelli e prima di lui di Polibio, che in essa vede la fortuna
“regina” rispetto a una relativa prevedibilità del dominio interno; esso pone altresì i due
termini entro i quali si dispiegano le possibilità dell’attore: da un lato la necessità, intesa
come “esperienza soggettiva della coercizione degli eventi” (p. 19), dall’altro
l’occasione favorevole nel tempo, che la si chiami chance, kairos, o, più modestamente
o cinicamente, opportunità. Lo sfondo rimane quel terreno d’azione sommamente
insicuro, instabile, dove statisticamente prevalgono i “tempi difficili” su quelli
“pacifici”, e quindi ha miglior gioco il caso che non gli uomini (la distinzione è dello
Strauss commentatore di Machiavelli, citato a p. 20). Errori e perplessità segnano il
registro di questa parte del saggio e Wight è ben lontano dall’estremo di chi soggiace
all’illusione del proprio potere sugli eventi – giudizio questo di nuovo, forse, alla radice,
teologico, suggerendo Wight in un punto che della “dottrina” del volontarismo, per cui è
Dio la causa ultima dell’accadere, sia versione degradata la “credenza” che in politica
tale causa ultima possa essere la volontà umana (p. 24). Eppure, il passaggio dal quadro
generale alla prospettiva particolare era avvenuto come con un rovesciamento dalla
difesa all’attacco: alla fortuna si può strappare “il cinquanta, forse il cinquantacinque
per cento” del campo conteso (p. 23) e nel processo storico, oggettivamente superiore
agli agenti, comunque “[è lasciato spazio] alla causazione umana, all’azione, alla
prudenza e all’arte” (ancora lo Strauss citato a p. 20). “E’ lasciato spazio”: Wight è
attento a tenere sempre aperta la porta delle possibilità, e il suo percorso attraverso i
grandi e piccoli attori della scena europea degli ultimi due secoli ha il senso di
sottolineare il ruolo della personalità negli affari internazionali. Non a caso, in due
luoghi rilevanti (pp. 36, 60), egli fa intervenire il maestro della diplomazia della guerra
fredda, Kennan, con la metafora dei politici “giardinieri” e con la sua negazione di ogni
fatalismo storico. All’autore, più profondamente, sta a cuore salvaguardare i margini di
manovra, di intelligenza, di responsabilità dell’uomo, tornando così al Machiavelli
citato all’inizio: “perché il nostro libero arbitrio non sia spento” (p. 3).
Fortuna e ironia in politica indica allora, da questo punto di vista, la feconda
possibilità di integrare lo studio con i materiali che vengono dall’esperienza e dalla
riflessione degli attori della diplomazia, secondo un approccio che sia più che uno
studio della singola politica estera nazionale e aspiri a ricostruire la teoria di chi
concretamente si muove sui confini e nei peculiari spazi della mediazione nella società
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internazionale. Ciò vuol dire declinare la international theory come diplomatic theory,
già definita, proprio in consonanza con Wight che considerava la diplomazia
l’istituzione sovrana (master-institution) della società internazionale, “reflective in
character, permanently indebted to historical reasoning, and unfailingly ethical in
inspiration”10.
Il tema dell’ironia è sviluppato nella parte conclusiva del saggio (pp. 47-61). Sono
queste ancora pagine dense di riferimenti, in una certa misura discontinue, nel loro
soppesare argomenti diversi e procedere a passi misurati verso una chiusa in cui alla
riflessione sulla storia sembra sovrapporsi quella sul destino del singolo uomo e
dell’autore stesso. Se la fortuna è, in senso avalutativo, la struttura empirica degli
eventi, l’ironia è una possibile categoria di interpretazione, anzi la migliore, in quanto la
storia è miglior oggetto per la critica letteraria che non per la scienza delle cause e degli
effetti. Wight caldeggia questo approccio: l’‘ironico’ è una funzione di tutte le lingue
europee (p. 56) e, denotando un’esperienza comune, rende possibile comunicare ciò che
nella vita politica appare incongruenza tra le affermazioni e il loro contesto, tra le
motivazioni e i mezzi, tra le intenzioni e gli esiti. A un livello meno immediatamente
concettualizzabile, essa dice la misura di inconsapevolezza sempre presente in chi
agisce, e l’opaca “legge di retribuzione” che opera negli affari umani, sempre
conducendo a un esito moralmente significativo e rivelatore (la politica, scrive alla fine
della sua introduzione Chiaruzzi intuendo qualcosa che è normalmente negato
dall’opinione comune, “è vicenda di verità”, p. LX).
Può qui essere utile indicare al lettore che l’interesse di Wight per l’ironia scaturisce
dal confronto con un topos non secondario del realismo novecentesco, quello della
tragedia come categoria d’interpretazione della politica di potenza. Esso arriva a Wight
innanzitutto attraverso Niebuhr: Chiaruzzi ha opportunamente ricostruito l’invenzione
da parte dell’autore, in uno scritto coevo a questo, del suo concetto di ‘ironico’ proprio
in opposizione a quello di ‘tragico’ del teologo nord-americano (rimandiamo il lettore
10 G. R. Berridge, M. Keens-Soper, T. G. Otte (a cura di), Diplomatic Theory from Machiavelli to
Kissinger, New York, Palgrave, 2001, p. 4.
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alle pp. xxxi-xliii11). Il limite di una concezione tragica della scelta politica, per Wight,
consiste nel fatto che essa sottostima le possibilità alternative e, peggio, segnala in chi la
usa una qualche illusione di trascendimento e di catarsi rispetto alla realtà in cui si è
ancora coinvolti e che si può ancora condizionare. Il tema è di grande pertinenza per la
comprensione dello stesso realismo politico, e non è inedito: una comparabile critica del
‘tragico’ fu svolta da Oakeshott, quando in una recensione del 1947 rimproverò a
Morgenthau di avere trasferito quel concetto dal dominio dell’arte a quello della ragione
pratica12; e anche a Schmitt, in una poco nota recensione del 1926 a Meinecke, l’idea
della “colpa tragica” dell’uomo di Stato costretto a fare il male apparve un indebito
“passaggio all’estetico”, con cui non era possibile dare una risposta autenticamente
morale ai problemi politici13. Non sono certo casuali queste convergenze, ma mirano a
qualcosa di essenziale nel superamento delle antitesi tra le quali il pensiero realista
cerca di trovare la sua forma14.
Vogliamo in conclusione rilevare ancora i pregi del lavoro del curatore. Chiaruzzi ha
tradotto e sostenuto il testo con le sue note sapendo di muoversi, tanto più nel caso di un
inedito incompiuto, tra immedesimazione e interpretazione (si veda la nota sulla
11 L’opera di Niebuhr è R. Niebuhr, The Irony of American History (New York, Scribner’s and Sons,
1952; trad. it. Lʼironia della storia americana, a cura di Alessandro Aresu, Milano, Bompiani, 2012), cui
Wight risponde nella sua lezione su Machiavelli in Four Seminal Thinkers in International Theory,
Oxford, Oxford University Press, 2005.
12 Si veda N. Rengger, “Realism, Tragedy, and the Anti-Pelagian Imagination in International Political
Thought”, in M. C. Williams (a cura di), Realism Reconsidered. The Legacy of Hans J. Morgenthau in
International Relations, Oxford, Oxford University Press, 2007, pp. 118-136.
13 C. Schmitt, “Sull’Idea di Ragion di Stato di Friedrich Meinecke” (1925), nella raccolta Posizioni e
concetti in lotta con Weimar-Ginevra-Versailles, Milano, Giuffré, 2007, p. 78. Schmitt sarà più tardi
contrariato dal tentativo di Walter Benjamin di vedere qualcosa di autenticamente cristiano nella
posizione tragica e malinconica di Amleto (“Sul carattere barbarico del dramma shakespeariano”, in
Amleto o Ecuba, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 109-116). Per due giudizi storici che ci sembrano assai
vicini allo spirito del Wight qui recensito si veda ancora C. Schmitt, Posizioni e concetti, cit., p. 125
(sull’eccezionalità della Prussia) e p. 153 (sull’improbabilità dell’unificazione tedesca), e inoltre
l’intervista del 1972 in cui egli rievoca gli intricati eventi del 1933 tradotta in C. Schmitt, Imperium,
Macerata, Quodlibet, 2015.
14 D’altra parte, l’interpretazione dei fatti storici espone sempre l’interprete al rischio di svelare più
qualcosa di sé che non una trama oggettiva: è di Niebuhr la similitudine dello storico con il paziente
sottoposto al test di Rorschach, da cui si traggono giudizi non sulla reale configurazione dei punti
osservati, ma sulla mente del soggetto che li osserva (cfr. R. Niebuhr, The Irony of American History, cit.,
p. 151). Riferita all’osservatore della politica, l’ironia è auto-ironia, come nel Donoso Cortés scrittore di
dispacci diplomatici che, nota Wight, a un certo punto si interrompe e, come per arginare le sue stesse
previsioni, accentua l’imprevedibilità degli sviluppi futuri (nel testo qui recensito a p. 5).
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traduzione a p. LXI). Nella lunga introduzione al saggio, il curatore pensa con Wight “la
complessità morale e causale della politica” (fatta di cause note e ignote, interdipendenti
o indipendenti, effetti intenzionali e soprattutto inintenzionali); fa dialogare le posizioni
del testo con la critica all’ideologia di Bobbio, la teoria dell’azione di Panebianco, le
teorie del disordine di Boudon e di Morin; accumula materiali e spunti ulteriori di
riflessione (la morte dell’agente Calipari, la rivoluzione khomeinista, le guerre
americane in Medio Oriente). La materia esige da chi voglia studiarla di seguire i
problemi nelle loro più minute articolazioni interne e il quadro, ricordandoci l’immagine
di Clausewitz del “gioco di possibilità, probabilità, fortuna e sfortuna che si dipanano
lungo tutti i fili grandi e piccoli del suo tessuto”15, conferma ai nostri occhi la latente
affinità della politica internazionale con la guerra e qualifica una volta di più quella
wightiana come un’ontologia realista. Tuttavia, Wight e Chiaruzzi indicano
un’epistemologia in fondo positiva: è “progresso della conoscenza”, non solo e non
tanto “dissipare le ombre dell’incertezza e dell’aleatorio”, bensì proprio “illuminarne la
presenza” (p. XLI). In tale prospettiva, che weberianamente attrae anche lo studioso
nell’etica della responsabilità, c’è alleanza, c’è empatia tra quest’ultimo e “chi attende
di agire nella penombra di un futuro inospitale a previsioni e desideri” (il diplomatico
secondo Chiaruzzi, p. LIX). Se spazi anche ampi di intelligibilità possono aprirsi, ma
solo dopo che la dinamica politica è definitivamente maturata in fatto storico, l’azione è
sempre in anticipo sulla teoria e chi agisce non può rimanere assorto nello studio delle
costanti del passato, né confidare troppo nella probabilità di una traiettoria futura.
Politico e scienziato politico sono in fondo, dando l’ultima parola a Wight, entrambi
“dalla parte del fortuito contro il necessario perché [vivono] l’esperienza di essere [essi
stessi] una contingenza” (p. 23). Questa contrazione della visuale sul presente può
venire fraintesa come occasionalismo e persino romantico può apparire celebrare
“l’incerto” come l’elemento in cui la politica si muove (ancora Clausewitz), ma il senso
15 C. von Clausewitz, Della guerra, a cura di G. E. Rusconi, Torino, Einaudi, 2000, p. 35.
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è qui riaffermare, con il poeta Eliot caro al maestro della English School, che è alla
portata dell’uomo solo “il tentare”16, non il resto.
16 La poesia di Eliot cui si fa riferimento è “East Coker” (1940), uno dei Quattro quartetti citato da M.
Wight in Teoria internazionale, cit., p. 81. Ringrazio qui Filippo Ruschi per l’invito a scrivere questa
recensione e per l’attenta lettura, e mio padre Renato per avermi suggerito soluzioni più felici nello stile.