Neoliberalismo e femminismi

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JURA GENTIUM Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale Journal of Philosophy of International Law and Global Politics Vol. XII, n. 1, Anno 2015

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JURA GENTIUM Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale

Journal of Philosophy of International Law and Global Politics

Vol. XII, n. 1, Anno 2015

JURA GENTIUM Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale

Journal of Philosophy of International Law and Global Politics

JURA GENTIUM

Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale

Journal of Philosophy of International Law and Global Politics

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ISSN 1826-8269

Vol. XII, n. 1, Anno 2015

Fondatore

Danilo Zolo

Redazione

Luca Baccelli, Nicolò Bellanca, Orsetta Giolo, Leonardo Marchettoni (Segretario di redazione),

Stefano Pietropaoli (Vicedirettore), Katia Poneti, Ilaria Possenti, Lucia Re (Direttrice), Filippo

Ruschi, Emilio Santoro, Silvia Vida

Comitato scientifico

Margot Badran, Raja Bahlul, Étienne Balibar, Richard Bellamy, Franco Cassano, Alessandro

Colombo, Giovanni Andrea Cornia, Pietro Costa, Alessandro Dal Lago, Alessandra Facchi,

Richard Falk, Luigi Ferrajoli, Gustavo Gozzi, Ali El Kenz, Predrag Matvejević, Tecla Mazzarese,

Abdullahi Ahmed An-Na‘im, Giuseppe Palmisano, Geminello Preterossi, Eduardo Rabenhorst,

Hamadi Redissi, Marco Revelli, Armando Salvatore, Giuseppe Tosi, Wang Zhenmin

La rivista è espressione di Jura Gentium – Centro di filosofia del diritto internazionale e della politica globale

Comitato direttivo

Luca Baccelli (Presidente), Leonardo Marchettoni, Stefano Pietropaoli (Segretario), Katia Poneti,

Lucia Re, Filippo Ruschi (Vicepresidente), Emilio Santoro

Indice SAGGI 5 LA SOVRANITÀ COME “FUNZIONE” DELLO STATO 7

GIAN PAOLO TRIFONE

NEOLIBERALISMO E FEMMINISMI 31

BRUNELLA CASALINI

EL “DIÁLOGO” DE LOS JURISTAS ARGENTINOS CON LUIGI FERRAJOLI 66

PABLO D. EIROA

LETTURE 135 FORTUNA E IRONIA IN POLITICA 137

GIUSEPPE PERCONTE LICATESE

SAGGI

G.P. Trifone, “La sovranità come ‘funzione’ dello Stato”,

Jura Gentium, ISSN 1826-8269, XII, 2015, 1 , pp. 7-30

La sovranità come “funzione” dello Stato

Una critica di Alfredo Codacci-Pisanelli al dogmatismo volontaristico

Gian Paolo Trifone

Abstract: According to the theory of A. Codacci-Pisanelli, sovereignty, far from being an

expression of voluntary policy, results as a potestative manifestation of the State-person to

which it belongs. To this extent, it is functional to a ‘purpose’ and it is subject to the limits

imposed by public law. This approach has also an impact on the redevelopment of the

legislative, executive, and judiciary powers in an organic dimension.

[Keywords: State, Power, Sovereignity, Voluntarism]

Se il diritto internazionale, tradizionalmente, parte dall’assunto groziano per cui, in ogni

paradigma relazionale, l’esperienza umana si muove secondo regole generali, in

prospettiva di una “sistemazione delle condotte”1, la sovranità è la “razionalizzazione

giuridica” del potere inteso come criterio gerarchizzante2, dunque ordinante delle

diverse funzioni nell’ambito dello Stato, che del sistema giuridico internazionale è

struttura primaria. In via principiale, la ricerca dell’ordine in seno ad una comunità

giuridicamente determinata riguarda entrambe le organizzazioni, sia pure con le

opportune connotazioni.

Questo scritto contribuisce a mettere in risalto l’esigenza della legittimazione

dell’autorità tra Otto e Novecento, per cercare dove veramente risiede “quel potere

ultimo di decisione, che, nel momento in cui acquistò consapevolezza di sé, si definì

sovrano”3.

Nel 1891, i Tipi T. Nistri e C. di Pisa danno alle stampe Il dogma della sovranità

popolare4 di Alfredo Codacci-Pisanelli5. Si tratta del testo letto dal giuspubblicista in

1 I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’Età moderna, Torino,

Giappichelli, 2002, p. 162.

2 D. Quaglioni, La sovranità, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 4.

3 N. Matteucci, voce “Sovranità” in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (a cura di), Dizionario di

politica, Roma, Istituto Geografico De Agostini, 3, 2006, p. 469.

4 Successivamente in A. Codacci-Pisanelli, Scritti di diritto pubblico, Città di Castello, Tip. Lapi,

1900, p. 122 ss.

5 Sulla vita e le opere del giurista e politico fiorentino, le voci “Codacci-Pisanelli, Alfredo”, a cura di

A. Sandulli, in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), Bologna, I, Il Mulino, pp. 556-

557 e “Codacci-Pisanelli, Alfredo”, a cura di F. Socrate, in Dizionario biografico degli italiani Treccani,

26 (1982), <http://www.treccani.it/enciclopedia/alfredo-codacci-pisanelli_(Dizionario-Biografico)/>.

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occasione dell’inaugurazione di quell’anno accademico presso l’Ateneo pisano che,

come di consuetudine, affidava la prolusione al più giovane dei docenti incardinati.

La formazione culturale di Codacci-Pisanelli è di indirizzo germanista6; il principio

che ispira la sua opera è quello giusformalistico; Pietro Chimienti lo annovera tra gli

aderenti all’indirizzo scientifico orlandiano insieme, fra gli altri, ad Arangio Ruiz,

Brusa, Brondi, Cammeo, Donati, Forti, Santi Romano. Su Vittorio Emanuele Orlando

ed il ‘metodo giuridico’ non è il caso di soffermarsi7. Resta solo opportuno, in questa

sede, il richiamo al concetto di “presenza storica concreta dello Stato giuridico” che,

con Orlando, diventa il “nucleo fondamentale di quella realtà giuridica che era ritenuta

capace di vincolare la stessa soggettività del potere politico”, la quale – come è stato

autorevolmente osservato – diventa “razionalmente agente secondo modalità

giuridicamente calcolabili”8.

Codacci-Pisanelli si allinea su tali posizioni, tra coloro i quali sostengono che “se

[…] diritto costituzionale e politica non vanno confusi, è pur vero che questa gravita

accanto a quello e fornisce la spiegazione di alcuni rapporti e fenomeni della vita

dell’ordinamento statuale”. Il primo tra i meriti del giurista deve ritenersi la

“comprensione storica”. Il giovane giuspubblicista fiorentino è dell’idea per cui “il

diritto pubblico vive bensì accanto alla politica ma non deve essere politica”. Pertanto,

6 Ossia “delle prime affermazioni del modello pandettistico che al principio del nuovo secolo diverrà

comune a tutte le branche del diritto, della prevalenza nella didattica dell’indirizzo teorico e scientifico su

quello professionale, della nascita dei nuovi saperi specialistici disciplinari e delle nuove figure di

professori universitari ‘alla tedesca’, istituzionalmente dediti all’attività di ricerca all’interno delle

Università” (G. Cianferotti, Storia della letteratura amministrativistica italiana, I, Milano, Giuffrè, 1998,

p. 685 ss.).

7 Mi sia consentito rinviare a G.P. Trifone, Il diritto al cospetto della politica. Miceli, Rossi, Siotto

Pintòr e la crisi della rappresentanza liberale, Napoli, ESI, 2010, p. 18 ss. Su V.E. Orlando la

bibliografia è vastissima. Mi limito a citare A. Volpicelli, “Vittorio Emanuele Orlando”, Nuovi studi di

diritto, economia e politica, 1, (1927-28); G. Cianferotti, Il pensiero di V.E. Orlando e la

giuspubblicistica italiana fra Ottocento e Novecento, Milano, Giuffrè, 1980; A. Mazzacane, I giuristi e la

crisi dello stato liberale in Italia fra otto e novecento, Napoli, Jovene, 1986; L. Ferrajoli, La cultura

giuridica nell’Italia del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1999; M. Fioravanti, La vicenda intellettuale del

giovane Orlando (1881-1897), Firenze, Eurografica, 1979; Id., “Popolo e Stato negli scritti giovanili di

Vittorio Emanuele Orlando”, in Id., La scienza del diritto pubblico. Dottrine dello Stato e della

Costituzione tra Otto e Novecento, I, Milano, Giuffrè, 2001; A. Schiavone, Stato e cultura giuridica in

Italia dall’Unità alla Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1990; D. Quaglioni, “Ordine giuridico e ordine

politico in Vittorio Emanuele Orlando”, Le carte e la storia, 1 (2007), pp. 17-26.

8 M. Fioravanti, “La scienza italiana del diritto pubblico”, Ius Commune, X (1983), Frankfurt am

Main, V. Klostermann, p. 223.

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l’indagine scientifica non dovrebbe tendere alla giustificazione di alcune “situazioni

storiche e politiche”, a supporto di esse9.

Il medesimo orientamento emerge anche da un’altra prolusione, che il giurista aveva

tenuto qualche anno prima presso l’Università di Pavia. Affrontando, da un lato, la

distinzione tra diritto amministrativo e diritto costituzionale, e tra diritto amministrativo

e scienza dell’amministrazione dall’altro, egli concludeva che si tratta di parti del

medesimo diritto pubblico, nel cui ambito il diritto costituzionale costituisce

l’ordinamento fondamentale e il diritto amministrativo “la disciplina che studia

l’insieme organico delle norme, delle leggi, degli atti e delle istituzioni che mirano ad

ordinare le funzioni dello Stato, politicamente già costituito”10. In questa prospettiva, la

politica è fattore caratterizzante del diritto pubblico; ma quest’ultimo vive nella sua

espressione come tecnica ordinamentale, che non deve rischiare di essere confusa col

suo elemento sostanziale, pena l’incomprensione della “struttura giuridica degli

istituti”11.

Storicizzare equivale a collocare il fenomeno giuridico nel suo precipuo contesto,

contro ogni astrattismo. Rimane dunque, nel giurista fiorentino, sempre viva

l’attenzione per i “fatti”, secondo un angolo di osservazione realistico continuamente

rimarcato nel corso della sua trattazione sulla sovranità popolare.

Il lavoro di Alfredo Codacci-Pisanelli si colloca all’interno di un più ampio progetto

di revisione del concetto di sovranità da parte dei giuristi formalisti12, che mette su un

piano secondario la accezione filosofico-politica a favore del “momento dell’effettivo

potere e del suo esercizio”13 quale espressione della “capacità giuridica” dello Stato,

9 Errore che veniva imputato ad alcuni giuristi tedeschi coevi, come Paul Laband, il quale “sostiene

tesi politiche nell’interesse dell’equilibrio delle forze tradizionali dei componenti l’impero creato nel

1870, anche quando, come i legisti medievali, la sua tecnica e l’arte sua di giurista sono al servizio della

politica di Bismarck” (P. Chimienti, “Le istituzioni politiche ed il diritto costituzionale”, in Id., Saggi,

Diritto costituzionale e politica, Napoli, Perrella, I, 1914, pp. V ss. e 78).

10 A. Codacci-Pisanelli, Come il diritto amministrativo si distingua dal costituzionale e cosa sia la

scienza dell’amministrazione, Pavia, L. Vallardi, 1887. Cfr. anche A. Sandulli, op. cit., p. 556.

11 G. Cianferotti, Il pensiero di V.E. Orlando, cit., p. 272.

12 Il passaggio dalla dottrina italiana del 1848 – cosiddetta di fondazione costituzionale e improntata ai

principi di “libertà e Stato” - agli anni della scuola ‘orlandiana’ – impegnata nella riconsiderazione della

“libertà dello Stato” -, è messo in evidenza da L. Borsi, Nazione democrazia Stato. Zanichelli e Arangio-

Ruiz, Milano, Giuffrè, 2009, p. 399 ss.

13 A. Majorana, Il sistema dello Stato giuridico, Roma, Loescher, 1889, p. 123.

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secondo il principio per cui la capacità giuridica di un soggetto “comprende tutti i diritti

di esso”14. Diversamente dalla dottrina costituzionalistica – che vede la sovranità in

capo alla nazione “quale ente collettivo di ragione esprimente principi universali, i quali

rinviavano alla personalità umana”15; la realistica – che interpreta la sovranità come

mero dato di fatto16; e la sociologica – che muove dalla società quale plesso organico17,

la dottrina formalistica considera la sovranità “originaria esplicazione della personalità

dello Stato nella sua capacità di comandare autocraticamente entro un dato territorio”18.

Se la sovranità può dirsi sottoposta a dei limiti19, essi sono “giuridici” nella misura in

cui sono imposti dallo Stato a sé stesso. Limiti sociali e politici non sono effettivamente

concepibili dal momento che il “comando assoluto” dello Stato “è la forma politica

della sua stessa convivenza”. In questo senso, lo Stato vive attraverso il suo diritto, che

del primo è dichiarazione imperativa, “sempre accompagnata da una serie di regole a

mezzo delle quali, in caso di controllo o di controversia, si possa pervenire ad un

comando obbligatorio, sicché il circolo si richiude sempre con una manifestazione di

14 “Così la sovranità, affermazione della capacità giuridica dello Stato, comprende tutti i diritti

pubblici o, con espressione sintetica, essa stessa è il diritto dello Stato” (V.E. Orlando, Principi di diritto

costituzionale, Firenze, Barbera, 1889, p. 59).

15 L. Borsi, Nazione, cit., p. 291. È il caso di menzionare almeno A. Brunialti (“Il diritto costituzionale

e la politica nella scienza delle istituzioni”, in Id. (ed.), Biblioteca di Scienze Politiche e Amministrative,

sr. II, vol. VII, pt. I, torino 1896, pp. 3-990, e vol. VII, pt. II, torino 1900, pp. 1-1025), F.P. Contuzzi

(Trattato di diritto costituzionale. Manuale ad uso degli studenti delle università e degli Istituti superiori

e degli aspiranti alle Carriere amministrativa e giudiziaria, Torino, Unione Tipografico-editrice, 1895, p.

138 ss.), G. Arcoleo (Diritto costituzionale, Napoli, Jovene, 1907, p. 89 ss.).

16 Cfr. tra gli altri, M. Siotto Pintòr, I capisaldi della dottrina dello Stato, Roma, F.lli Bocca, 1901; Id.,

“Per la concezione realistica della norma giuridica”, Università degli Studi in Perugia. Annali della

Facoltà di Giurisprudenza, 4 (1906), pp. 133-159; A. Ferracciu, “Il Diritto costituzionale e le sue zone

grigie”, Università degli Studi in Perugia. Annali della Facoltà di Giurisprudenza, 3 (1905), pp. 83-126;

U. Forti, Il realismo nel diritto pubblico. A proposito di un libro recente, Camerino, Tip. Savini, 1903

(con riferimento al volume di Leon Duguit L’Etat, le droit objectif et la loi positive del 1901).

17 Cfr. V. Miceli, La forza obbligatoria della consuetudine considerata nelle sue basi sociologiche e

giuridiche, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1899; Id., Il saggio di una nuova teoria della

sovranità, Firenze, Loescher, 1884-87; A. Bartolomei, “Diritto pubblico e teoria della conoscenza, II, Per

la determinazione giuridica dello Stato”, Università degli Studi in Perugia. Annali della Facoltà di

Giurisprudenza, 1 (1903), pp. 169-186; F. Racioppi, Forme di Stato e forme di governo, Firenze, Società

Ed. Dante Alighieri, 1898.

18 G. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto costituzionale italiano, Roma, F.lli Bocca, 1913, p. 17.

19 Ma c’è anche chi, come E. Presutti, non esita a sostenere la illimitatezza della sovranità, in quanto

non configurabile come un diritto; al contrario, diritti sono quelli in capo agli organi dello Stato, perché

“facoltà limitate da norme giuridiche” (Istituzioni di diritto amministrativo. Parte generale, Napoli,

Tocco, 1904, p. 28).

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volontà assoluta”20. Si potrebbe addirittura rappresentare un “volontarismo

istituzionale”, per cui la sovranità consisterebbe nell’“esercizio supremo di volere da

parte dello Stato per il raggiungimento dei propri scopi, produttivo di conseguenze

coattive sui sudditi”, seppure nei “limiti delle facoltà giuridiche spettanti allo Stato, in

base al diritto esistente”. Quello che emerge, in buona forma, è la prospettiva

soggettivistica che attribuisce allo Stato in via esclusiva l’esercizio dell’imperium

attraverso l’atto amministrativo. Fino a configurare una vera e propria “onnipotenza”

dello Stato medesimo: “la sovranità è quella somma facoltà di volere dello Stato, fatto

attivo per il raggiungimento dei propri interessi, protetta e riconosciuta decisiva dal

diritto obiettivo, secondo la quale lo Stato può volere e raggiungere coattivamente ciò

che vuole”21.

Da parte sua, nel fissare il concetto di sovranità, Codacci-Pisanelli ne esclude ogni

connotato personalistico. Non appartenendo ad un soggetto o ad un organo particolare

dello Stato, la sovranità diventa una “funzione” attinente all’organizzazione dello Stato

stesso22. Più precisamente, essa viene ravvisata in un “complesso di facoltà e diritti […]

designati come potestà di organizzazione, di comando e di divieto”23, risultando una

“manifestazione”, da parte di organi diversi e assumente forme differenti, volgente “in

20 G. Arangio Ruiz, Istituzioni, cit., p. 21. Si tratta evidentemente della recezione delle teorie di Gerber

(Grundzuge des deutschen Staatsrechts, Lipsia, Tauchnitz, 1865). Una critica al giurista tedesco arriva da

parte di G. Grasso: “lo Stato avendo una capacità di volere tutta sua, consistente nella facoltà di

comandare, ossia di manifestare, per l’adempimento dei compiti suoi, una volontà obbligante tutto il

popolo, Gerber trovava in questo contenuto della volontà statuale il carattere specifico e differenziale

della personalità dello Stato di fronte alle persone giuridiche del diritto privato”. Ma “se non vediamo che

un soggetto, lo Stato, e dei sudditi oggetti della sua dominazione, questo sarà un fatto, non un diritto. E

siccome l’essere persona vuol dire essere soggetto di diritti e non solo portatore ed arbitro di una forza –

così il disconoscimento della personalità dei cittadini nel campo del diritto pubblico conduce al diniego

della personalità dello Stato, cioè all’eliminazione del presupposto necessario di ogni costruzione

giuridica del diritto statuale” (I presupposti giuridici del diritto costituzionale e il rapporto fra lo Stato e

il cittadino, Genova, Tip. R. Istituto sordo-muti, 1898, pp. 99 e 102).

21 L. Raggi, La teoria della sovranità. Contributo storico e ricostruttivo alla dogmatica del diritto

pubblico, Genova, A. Donath, 1908, p. 257.

22 Sugli schemi di rappresentazione della sovranità nella giuspubblicistica otto-novecentesca a partire

dai poli, rispettivamente, sociale e statuale, cfr. P. Costa, Lo Stato immaginario. Metafore e paradigmi

nella cultura giuridica italiana fra Ottocento e Novecento, Milano, Giuffrè, 1986, p. 238 ss. e Id., “Il

modello giuridico della sovranità: considerazioni di metodo ed ipotesi di ricerca”, Filosofia politica, 1,

(1991), p. 51 ss.; A. Carrino (a cura di), Sovranità e Costituzione nella crisi dello Stato moderno, Torino,

Giappichelli, 1998.

23 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 60.

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più direzioni e sfere che variano col mutare dei fini pubblici”. Se il criterio della

sovranità non coincide più con quello tradizionale di “potere” di tipo verticistico, viene

scartata automaticamente l’opzione del legislativo come potere supremo. In una

dimensione organica, “il decreto governativo e la sentenza giudiziaria sono, come la

legge, manifestazioni della sovranità, in quanto contengono comandi o divieti ai quali

coloro cui sono rivolti debbono uniformarsi”24.

Affermata la centralità dell’organizzazione, la sovranità risulta da una

“coordinazione non di poteri, ma di autorità spesso cooperanti e talora controllantisi

nell’esercizio delle attribuzioni, non in base a uno schema prestabilito, ma secondo i

fatti e i bisogni pratici”25. Codacci-Pisanelli è perentorio nell’escludere una gerarchia tra

legislativo, esecutivo e giudiziario. Il diritto pubblico, nell’atto di regolare l’esercizio

della “potestà sovrana”, pone in essere un “sistema” ordinamentale, per cui vincola “non

meno le autorità che i cittadini, con norme certe, sicure e stabili”. All’interno di tale

sistema vanno definiti i “fini” da perseguire, che costituiscono “la parte più stabile del

potere sovrano” e per la cui realizzazione è previsto un esercizio in certa misura elastico

delle diverse competenze, sebbene entro “limiti” prestabiliti dalle leggi fondamentali26.

Che poi certe limitazioni siano realmente efficaci, è motivo di discussione. Giorgio

Arcoleo – in consonanza con Codacci-Pisanelli sulla unicità della sovranità “nella sua

essenza” e sulla diversità di aspetti relativi al suo esercizio, “pur serbando identico

principio e scopo” – sostiene che ciascun potere ha “rispetto all’altro, un rapporto di

autonomia, in quanto ha esistenza propria: - di coordinazione, in quanto concorre al

medesimo scopo di attuare la sovranità dello Stato: - di sindacato, in quanto può

vigilare e resistere agli abusi ed eccessi dell’altro potere”27. E tuttavia lo sviluppo delle

attività statali ha ben presto complicato i rapporti tra le funzioni legislativa, esecutiva e

giudiziaria. Pertanto, nella prospettiva di un coordinamento tra l’esercizio della

24 Ibid., p. 7.

25 Ibid., pp. 42-43.

26 È dentro i limiti segnati da queste norme che può e deve svolgersi così l’autorità pubblica, come la

libertà sociale, poiché le norme mirano a un duplice intento. Comandando o vietando ai cittadini, sotto

sanzioni assicuranti l’ubbidienza, degli atti determinati, esse danno forza ed efficacia all’autorità. E

tracciando a questa dei limiti che non può varcare, tutelano la libertà della sfera d’azione, riconosciuta ad

ogni individuo e ad ogni personalità vivente nello Stato” (Ibid., p. 57).

27 G. Arcoleo, Diritto costituzionale, cit., p. 89.

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sovranità dello Stato e la tutela della libertà dei cittadini, il costituzionalista distingue

potere e diritto, “attribuendo un carattere obbligatorio al diritto, facoltativo al potere”.

Perché detta “facoltà discrezionale” non diventi “arbitraria”, il potere dev’essere

“compreso in una sfera d’azione”, ovverosia regolato da una norma, che lo renda

legittimo. Senonché, a tale “analogia di rapporto col diritto” rischia di sfuggire il

governo, per la sua natura politica di “forza imperante, che trova la sua ragion d’essere

nella necessità di una direzione e di un comando”. Una legittimazione di fatto,

insomma: “presumendosi come strumento della vita stessa dello Stato, [detto potere]

assume nella iniziativa e nei mezzi una parvenza di legittimità, che gli sgombra la via e

costringe il funzionario ad eseguire, i cittadini ad obbedire”28. Va aggiunto che tale

discorso, portato alle estreme conseguenze, non escluderebbe neanche la natura

“politica” della legge come espressione della volontà popolare.

Come si pone Codacci-Pisanelli di fronte al suddetto “rapporto di differenza tra

diritto e potere”29 ? Secondo lui, la sovranità è allo stesso tempo forma ed espressione

dello “Stato-persona” – le cui manifestazioni ed effetti “ci fan certi della sua non

materiale, ma pur reale, esistenza” – e consta di due elementi: quello stabile, costituito

dalla norma “più o meno precisa”; e quello mutevole “rappresentato dall’energia, più o

meno libera, dell’autorità chiamata ad agire”. In questo senso, la definizione di Orlando,

per cui la sovranità è affermazione della personalità dello Stato come capacità di

volere30, è esemplare. In ogni caso, garante del sistema è il “diritto nazionale” nella sua

vocazione “ordinante”. Esso “vincola il parlamento come ogni altra autorità quando

governa o controlla e lo vincola anche quando legifera; poiché le nuove leggi debbono

coordinarsi a quelle esistenti”. È questo principio della coordinazione, insomma, che

costituisce i limiti sostanziali del potere politico lato sensu. Contro la sua pretesa

onnipotenza, esiste un argine prestabilito anche rispetto alla carta costituzionale, che,

peraltro, è flessibile e dunque modificabile per legge ordinaria. Se quest’ultima non

mina le fondamenta dell’ordinamento è perché il parlamento riconosce il suo ruolo

28 Ibid., p. 92.

29 L’espressione è sempre di Arcoleo, ivi.

30 V.E. Orlando, Introduzione al Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, I, Milano,

Società Editrice Libraria, 1900, p. 22.

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all’interno di una costituzione innanzitutto materiale: “nessun parlamento, che capisca il

suo ufficio, imprenderà mai ad un tratto la demolizione di un intero sistema giuridico

vigente per ricostruirlo di pianta; né farà leggi contrarie ad altre in vigore, delle quali

non s’abbia in vista la riforma”31.

Quanto al governo, come già accennato, esso non è mero esecutore “d’un indefinito e

indefinibile volere altrui”, ma si presenta come un’autorità il cui esercizio non si arresta

alla pedissequa applicazione delle leggi. Queste, tuttavia, ne definiscono la sfera di

azione; in caso di eccedenze, il governo è sottoposto a sindacato giudiziario,

amministrativo e parlamentare, secondo un preciso sistema di controlli. Ciò che conta è

che “le norme restano semplici limiti al di là dei quali non è lecito andare; ma entro i

quali rimane, tuttavia, una più o meno ampia sfera discrezionale. Ond’è che la

determinazione della volontà politica non si esaurisce nella determinazione delle

regole”. È la vita stessa, secondo Codacci-Pisanelli, a presentarsi refrattaria agli schemi

prestabiliti, e il diritto deve adeguarsi al suo processo dinamico. Se quindi “la relazione

tra la legge e il governo ha più il carattere negativo di limitazione che quello positivo di

determinazione”, ciò avviene in varia misura in ciascun settore: “in ogni ramo e in ogni

grado dell’amministrazione le norme lasciano una maggiore o minore libertà d’azione”.

A ben vedere, sostiene il giuspubblicista, anche l’operato dei “più umili agenti” si

presenta “non come mera esecuzione di un ordine generale o speciale”; l’esercizio di

una funzione, insomma, implica una certa elasticità relativamente al fatto che è

compiuta da uomini in riferimento a esigenze concrete: “ricercare le cautele che ne

assicurino il corretto esercizio sarà il compito d’ogni pubblicista”32. Nel negare “potere”

agli organi legislativo, esecutivo e giudiziario, il giurista fiorentino non è isolato: la

sovranità non spetta “a qualche organo particolarmente [bensì] allo Stato nella sua piena

31 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 59.

32 Ibid., pp. 41-42. Nel saggio “Legge e regolamento” (Napoli 1888, ora in Id., Scritti di diritto

pubblico, cit., p. 3-74), Codacci-Pisanelli aveva già sostenuto la teoria della “differenza formale ed

identità sostanziale tra legge e regolamento” (p. 35). In quest’opera il giurista aveva anche definito i

lineamenti della teoria dello Stato come persona giuridica titolare della sovranità, manifestantesi

nell’attività degli organi di governo, la quale non può ridursi “ad una mera esecuzione di norme”, data la

varietà di situazioni particolari e la complessità dell’ente. In base a tali asserzioni, veniva infine confutato

il concetto di sovranità popolare e la sua filiazione nella “meccanica tripartizione dei poteri” (cfr. G.

Cianferotti, Storia della letteratura amministrativistica italiana, cit., pp. 687-690).

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personalità”33. Il principio è ampiamente condiviso: “l’unità dello Stato importa che il

potere supremo è uno, come una è la sovranità”; quello che si scinde è il suo

“esercizio”, attraverso “il complesso delle svariate funzioni”34.

Si tratta di riconoscere l’immanenza del diritto nazionale di fronte alla contingenza

del provvedimento normativo; ovvero, che “il diritto debba considerarsi come avente

un’esistenza indipendente e superiore all’organo che nella esplicazione concreta della

sovranità è destinato alla dichiarazione del diritto”35. La sovranità – come anche è stato

di recente osservato36 – non può essere oggetto di disposizioni attraverso un privato atto

di autorità, bensì si svolge “secondo la volontà dello Stato, manifestata nella legge”37.

La sublimazione del soggetto politico nell’ente giuridico si compie dal momento che

“gli atti della sovranità conservano piena efficacia, anche quando venga meno la

persona del principe che li ha emanati […], perché essi sono atti dello Stato persona

collettiva”38. E dunque, supporre che il diritto esista per legge è da reputarsi “un errore

costituzionalmente inammissibile”; mentre è vero il contrario: “che la legge esiste per il

diritto”39.

Alla luce delle precedenti osservazioni, il popolo viene addirittura esautorato da ogni

esercizio politico: esso è considerato mero “destinatario” della sovranità, poi che viene

“assunto nell’organizzazione dello Stato”. E persino dopo il passaggio al “regime

democratico”, la natura istituzionale rimane immutata, sicché il popolo, una volta

“ammesso” all’esercizio della sovranità, prende a sua volta “la posizione di organo dello

33 L. Minguzzi, “Alcune osservazioni sul concetto di sovranità”, Archivio di diritto pubblico, 2 (1892),

p. 39.

34 F.P. Contuzzi, Manuale di diritto costituzionale, Torino, Unione tipografico-editrice, 1895, p. 145 e

passim, p. 148 ss. Nonché E. Presutti: “solo alcune funzioni possono delegarsi ad appositi organi […]. Per

quanto ampi siano i poteri di costringimento attribuitigli, nessun organo dello Stato è sovrano: la

sovranità compete unicamente allo Stato” (Istituzioni, cit., p. 24).

35 A. Longo, “Della consuetudine come fonte del diritto pubblico (costituzionale e amministrativo)”,

Archivio di diritto pubblico, 2 (1892), 2, p. 252.

36 A. Luongo, Lo “Stato moderno” in trasformazione. Momenti del pensiero giuridico italiano del

primo Novecento, Torino, Giappichelli, 2013, p. 89 ss.

37 D. Donati, “La persona reale dello Stato”, Rivista di diritto pubblico e della pubblica

amministrazione: la giustizia amministrativa, (1921), p. 22.

38 Ivi.

39 A. Longo, “Della consuetudine”, cit., p. 253.

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Stato”40. Ciò per dire che il potere politico è soltanto una particolare conformazione

dell’ente giuridico cui fa capo.

Nondimeno secondo un indirizzo sociologico, la sovranità dello Stato è la

“determinazione dell’ordine giuridico”41, tanto da riguardare il momento organizzativo

della compagine sociale in forma di mera concessione. Essa “non è un diritto”42, ma si

esprime attraverso il diritto in termini di “organizzazione della costrizione sociale”43. In

questa visuale, quello che emerge è l’inevitabile “rapporto di forza” tra “il potere

sovrano e i suoi subordinati”, al di fuori del quale è vano ragionare di volontarismo

democratico. Anche la democrazia – e persino il socialismo –, come sistema

ordinamentale, rientrerebbe nella “necessità oggettiva” del “momento di signorìa”, pena

“l’anarchismo che negando nella sua forma stessa l’ordine giuridico, [e che] vorrebbe

quell’elemento evitare, non può costituire il principio di nessuna organizzazione

sociale”44. Per sintetizzare, ogni diritto ed ogni potere risultano come “permessi” dallo

Stato. Ciò, peraltro, esclude qualsiasi digressione in merito alla presunta autonomia dei

poteri legislativo ed esecutivo. Ancora una volta, solo lo Stato ha “reale autonomia

perché solo questo ha sovranità”45.

Ma la sociologia ammette diversi punti di osservazione: pur stabilito che “come non

vi ha Stato senza diritto, così non vi è diritto senza Stato”, la “norma” può ben diventare

misura del “rapporto armonico” tra gli scopi dei singoli e gli scopi comuni: in

quest’ottica, la “moltitudine vivente in un dato territorio” non potrebbe esistere se non

“ordinata a vita comune”46, nella concezione che riconosce una specifica comunità in

relazione allo “spirito di popolo”, ossia “un determinato carattere del popolo, diverso

dallo spirito e carattere degli individui, di cui è solo la risultante armonica”47. Pertanto,

40 D. Donati, “La persona”, cit., p. 22.

41 A. Bartolomei, Lineamenti di una teoria del giusto e del diritto con riguardo delle quistioni

metodologiche odierne, Roma, F.lli Bocca, 1901,

42 Cfr. E. Presutti, Istituzioni, cit., p. 28.

43 A. Bartolomei, Lineamenti, cit., p. 182 ss.

44 Ivi.

45 Ivi.

46 G. Grasso, I presupposti, cit., p. 122.

47 F.P. Contuzzi, Manuale, cit., p. 136.

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quando si fa riferimento alla “vita vissuta dalle singole forze individuali e sociali

esistenti nel seno di uno Stato” in relazione all’esplicazione della sovranità, essa va

intesa quale “vita unitaria, complessiva”, che è quella propria delle società umane

organizzate giuridicamente48. Senza vulnerare l’assioma che “la sovranità compete allo

Stato” come potere “astrattamente, in principio, illimitato”49. Ne consegue che tra Stato

e diritto non c’è un elemento primario rispetto all’altro, ma necessaria coincidenza: “lo

Stato è organo del diritto, il diritto è una delle funzioni, la funzione specifica dello

Stato”. In quest’altra prospettiva, l’elemento autoritativo non è più determinante: “lo

Stato non può essere trasformato in un animale, né ridotto a un mero rapporto di

comando e di ubbidienza”50. Il diritto è riconosciuto spontaneamente da parte dei

consociati in forza del “principio di autorità politica, o Sovranità propriamente detta”,

che spetta esclusivamente allo Stato quale “mezzo alla conservazione sociale”51.

Codacci-Pisanelli non è indifferente a certe suggestioni, ma tiene distinta la sovranità

come “concetto giuridico formale”, per cui essa “non è illimitata, come non è

indivisibile, né indelegabile”. Il diritto pubblico, nella sua dimensione razionale, la

limita e la ripartisce in ragione degli obiettivi sostanziali dello Stato. Il che, si torni a

dire, non esclude il campo di esame sociologico, che tende a stabilire “quali elementi

sociali si fanno, nei diversi casi, valere in quella forma giuridica che è lo Stato”; né

quello politico, che ricerca “per un dato paese il miglior modo di distribuzione della

sovranità”52. Ad ogni buon conto, l’indagine giuridica conduce alla negazione della

concentrazione del potere ed alla distribuzione delle facoltà a diverse autorità coordinate

tra loro.

In questa visuale, la sovranità popolare è valutata in senso critico. Già Orlando aveva

evidenziato l’errore di “intendere il rapporto fra popolo e Stato come rapporto fra un

48 Beninteso: “quella società a base territoriale, munita di appositi organi, che ha sugl’individui e sui

gruppi sociali, anche se a base territoriale, che esistono sul suo territorio, un potere di costringimento

astrattamente illimitato. Questo potere di costringimento astrattamente illimitato si chiama sovranità” (E.

Presutti, Istituzioni, cit., pp. 17).

49 Ivi.

50 G. Grasso, I presupposti, cit., p. 122 ss.

51 F.P. Contuzzi, Manuale, cit., p. 137.

52 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 63.

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soggetto portatore di volontà e un mezzo funzionale alla realizzazione di questa”53 .

Giudicando il diritto pubblico “nel modo stesso che il diritto privato, come un

complesso di principi giuridici sistematicamente considerati”, il fondamento della

sovranità come diritto dello Stato “non potrà essere sostanzialmente diverso dal

generale fondamento di ogni diritto”; secondo tale schema, la fonte del diritto sovrano

ha certamente a che fare col popolo, ma non nel senso “rousseauviano” del complesso

dei singoli individui. Analogamente, anche per la dottrina organicistica “una volta che

gl’individui non solo esistono, ma altresì coesistono, e debbono necessariamente

coesistere per la forza di attrazione che li raggruppa nel corpo sociale, non può

l’individuo essere la fonte della sovranità”54. Siamo a un punto di convergenza: la

“coscienza collettiva del popolo” qualifica l’“indole giuridica” del diritto di uno Stato,

secondo i suoi “precedenti storici”55.

È invece il richiamo alla costituzione formale come “più alta espressione della

volontà generale” a diventare fuorviante, laddove riporta la sovranità in capo al “corpo

sociale” incarnato nella nazione56. Il rischio è di confondere la nozione giuridica della

capacità statuale col suo contenuto politico, quest’ultimo espresso dalla volontà

popolare attraverso la rappresentanza. Il popolo è soggetto politico mutevole; lo Stato è

persona giuridica immanente. Ma “la sovranità, in quanto esplica la capacità dello Stato,

non può derivare che da un concetto giuridico, il quale si può legare ad una persona

morale, non mai al popolo, che in nessun tempo e in nessuna parte del mondo ha potuto

e potrà mai assumere personalità ai fini del diritto”57.

Bisogna aggiungere che il tentativo di Codacci-Pisanelli è piuttosto quello di

chiudere definitivamente la discussione ideologico-politica e ripartire dal presupposto

giuridico: essendo la presenza dello Stato ineccepibile, il problema del suo fondamento

53 V.E. Orlando, “Del fondamento giuridico della rappresentanza politica”, in Id., Diritto pubblico

generale, Scritti vari (1881-1940), Milano, Giuffrè, 1954.

54 F.P. Contuzzi, Manuale, cit., p. 138.

55 Cfr. D. Quaglioni, Ordine, cit., p. 13.

56 Nel caso di Contuzzi, gli artt. 1 delle rispettive costituzioni francesi del 1791 e del 1848 (cfr. op.

cit., pp. 139-140).

57 G. Arangio Ruiz, Istituzioni, cit., p. 24.

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non ha più ragione di porsi58. Il che, per converso, si può dire anche del diritto: “ove si

guardi alla natura del diritto come funzione, e funzione essenziale, dello Stato, esso non

appare che come una manifestazione di volontà dello Stato stesso […]. Ed è

perfettamente indifferente per costruire la teorica di questa manifestazione di volontà,

una volta formatasi, il considerarla volontà necessaria o volontà libera”59. Stato e popolo

non possono coincidere nella titolarità del potere sovrano, perché questo è un insieme di

manifestazioni giuridicamente configurabili60. Il principio democratico, dunque, deve

essere analizzato a partire dal significato di “potere del popolo”, al di là di posizioni

ideologiche61.

Muovendo dall’osservazione della democrazia come forma di governo praticabile,

Codacci-Pisanelli si interroga sulla compatibilità delle istanze della sovranità popolare

con i principi alla base dell’“ordine obiettivo”62; in altre parole: “se sia possibile dare

seguito a quelle istanze mediante i pilastri concettuali delle costituzioni”63, oppure se il

“sistema giuridico-politico”, per come impostato, non impedisca la realizzazione di

quelle istanze.

La supposizione della “volontà” popolare mette in discussione il concetto di

sovranità come funzione e, di conseguenza, destabilizza la forma-Stato, dato il principio

per cui l’unica configurabile nello “Stato moderno libero” è la volontà “del popolo

ordinato ad unità, e che come tale si distingue dalle individualità dei suoi membri, è

58 Estremizzando, L. Minguzzi parla di “tautologia”, laddove la sovranità, essendo insita nella nozione

di Stato, è “un concetto di cui non vi è necessità logica”, dato che “essere Stato ed affermarsi come

persona giuridica sono una cosa sola; quindi la sovranità non è distinta, ma incarnata nell’idea dello

Stato” (“Alcune osservazioni”, cit., pp. 38 e 42).

59 F. Cammeo, “Della manifestazione della volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo”,

in V.E. Orlando (a cura di), Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, III, Milano,

Società Editrice Libraria, 1901, pp. 13-14.

60 Sul punto anche L. Minguzzi, “Alcune osservazioni”, p. 26; G. Arcoleo, Diritto costituzionale, cit.,

p. 77 ss.; G. Arangio Ruiz, Istituzioni, cit., p. 22.

61 Che pure sono quelle del liberale antiegualitario ma incline alle riforme sociali, come dimostrato nel

corso della sua successiva carriera politica. Cfr. A. Sandulli, op. cit.

62 Prendo in prestito l’espressione di Maurizio Fioravanti che, riferendosi all’interpretazione

orlandiana di Savigny, formula il concetto di costituzione materiale come ordine obiettivo che è dato

nell’esperienza: “è proprio quell’ordine a conferire alla legge, che di esso medesimo è espressione, la sua

forza sovrana” (“La crisi dello Stato liberale di diritto”, Ars interpretandi, Annuario di ermeneutica

giuridica, Roma, Carocci, XVI, (2011), p. 84).

63 G. Duso, “Per una critica della democrazia”, in L. Bazzicalupo e R. Esposito (a cura di), Politica

della vita, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 57.

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indipendente da essi, si contrappone ad essi e su di essi si manifesta come potere”; che è

potere legittimo in quanto “trova il suo riconoscimento e la sua norma nell’ordine

giuridico esistente nello Stato”64. Nella misura in cui lo Stato è comunità necessaria, nel

senso che l’uomo non può fare a meno di viverci, quest’ultimo non può nemmeno

sottrarsi al suo potere di imperio, che è originario, cioè non derivato “da altra forza o

volontà superiore o precedente”. Il che esclude, da parte del popolo, qualsiasi decisione

di aderirvi o meno65.

Ma pur volendo fermarsi alla prospettiva del buon governo, l’elemento quantitativo

già di per sé si presenta come fomite di disordine e tendente all’anarchia. Ciò che

Codacci-Pisanelli trova pericoloso è il passaggio dall’assolutizzazione del soggetto

collettivo “Stato” al soggetto collettivo “popolo”, quest’ultimo incondizionabile e

quindi dispotico. La prima vittima della sovranità popolare è, infatti, la libertà, una volta

messo in crisi lo spazio politico come insieme di relazioni ordinate a sistema. Se,

insomma, la sovranità non è l’attributo di un organo, ma la connotazione dell’organismo

nella sua complessità, riferirla a un soggetto particolare aprirebbe la strada al

dispotismo. Come il Nostro osserva a proposito di Rousseau e dell’illimitatezza della

sovranità66: “quando il popolo sovrano si riunisce, ogni legge tace, ogni altra potestà

cessa. Allorché appare il creatore e padrone, la creatura ed il servo si tirin di canto”67.

Come detto, il giuspubblicista fiorentino identifica società e Stato nelle coordinate

dell’organizzazione giuridica; al contrario, la volontà popolare non può accettare regole

e limiti, essendo sottoposta unicamente a sé stessa: “se avesse una norma qualsiasi da

rispettare, l’assemblea non rappresenterebbe più tutto il volere dello Stato e quindi non

sarebbe più sovrana”68. Per tale motivo egli non può condividere le teorie

giusnaturaliste: “l’ipotesi dello stato di natura e del contratto si rivela falsa e funesta.

64 O. Ranelletti, Principii di diritto amministrativo, I, Napoli, L. Pierro, 1912, p. 119.

65 “Lo Stato adunque, come la società, non può trovare il suo fondamento e la sua giustificazione nella

libera, cosciente volontà individuale di assenso alla sua formazione o al suo perdurare. Il contratto, come

prodotto libero, cosciente e contingente della volontà individuale, non può essere posto all’origine dello

Stato, per spiegarne o giustificarne la formazione” (Ibid., p. 130).

66 J.J. Rousseau, Il contratto sociale (Amsterdam 1762), Milano, RCS Libri, 2010, Lib. II, Cap. 4, p.

31 ss.

67 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 56.

68 Ivi.

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Falsa, poiché, contro ogni esperienza, eleva a causa unica dei fenomeni politici la

volontà degli individui”; ma l’aspetto peggiore è l’instabilità a cui questa idea conduce,

“perché fatale conseguenza di essa […] è che un popolo possa e debba considerarsi

sempre allo stato di natura; cioè autorizzato ad infrangere, da un momento all’altro, e

senza rispettare nulla, quell’ordine giuridico che è condizione indispensabile del

benessere, e del progresso sociale”69.

A parere di Codacci-Pisanelli, i principi giusnaturalisti sono talmente astratti che i

loro stessi teorici sono talvolta costretti a ridimensionarli. Riferendosi a Grozio, il

nostro giurista non lo fa così irresponsabile da non accorgersi che fondare lo Stato sulla

sola volontà dei consociati “ferisce ogni ordinamento politico”. Ma, nel tentativo di

salvare il salvabile, il filosofo olandese diventa incoerente, laddove giustifica

l’assoggettamento del popolo a un principe e nega l’opzione della ribellione; fino a

ritenere plausibile che il consenso del popolo al contratto possa essere “tacito o

presunto”, a dispetto dell’affermazione per cui “il patto di una generazione non può

vincolare in alcun modo le successive”70.

In ogni caso, il giurista confuta il dogmatismo fin dalle sue origini. In risposta alla

domanda: “a chi spetti e d’onde venga la potestà sovrana”, sono analizzate tre teorie: la

teocratica, la democratica e la giuridico-politica.

Partendo dalla prima, Codacci-Pisanelli compie una ricognizione che dai tempi più

remoti, attraverso la dottrina medievale “delle due spade”, fino alla scuola teologica

dopo la Rivoluzione francese, presenta il dato comune per cui chi governa

“riannodandosi personalmente al cielo, acquista prestigio e incute timore ai suoi sudditi;

i quali tanto più volentieri s’acquetano all’altrui dominio, quanto più ne reputano alta e

misteriosa la causa”71. Il vizio, insomma, è quello di confondere la “vita religiosa” con

la “vita civile” – ossia occultare il principio della laicizzazione del diritto consistente

nella liberazione da ogni crisma non soltanto sacro, ma più ampiamente ideologico –

69 Ibid., p. 26.

70 Ibid., pp. 28-29. Sul punto, A. Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa, Milano, Giuffrè,

1982, p. 325 ss; D. Quaglioni, La giustizia nel Medioevo e nella prima Età Moderna, Bologna, Mulino,

2004, p. 100 ss.; L. Nocentini, “Autonomia della ragione e diritto (La comunità politica)”, Bollettino

telematico di filosofia politica, <http://btfp.sp.unipi.it/dida/nocent/index.htm>.

71 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 8.

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ponendo a giustificazione dell’ordinamento “la rivelazione” e, per l’appunto, il

“dogma”.

Capovolto il punto di osservazione, si tratta del medesimo strumento di

legittimazione della teoria democratica attraverso il concetto di “sovranità popolare”,

che, rispetto all’epoca moderna, trova – a detta di Codacci-Pisanelli – la sua origine

nella lotta tra papato e impero72. Sia dai guelfi, sostenitori dell’origine immediata del

potere papale da Dio; sia dai ghibellini, per cui “viene direttamente da Dio anche la

spada temporale, in nulla, perciò, all’altra inferiore”73, il popolo era sempre chiamato a

testimone dell’autorità dell’una o dell’altra parte74. Ma, realisticamente, il concetto di

“popolo” è mal formulabile75, ammesso che non si faccia riferimento alle masse, sempre

strumentalizzate da parte di fazioni politiche che, facendo appello al “diritto” che quelle

avevano di giudicarle, cercavano di delegittimarsi a vicenda.

Allo stesso modo, in seguito alla riforma, i protestanti avrebbero stabilito che “la

comunanza dei cristiani avesse, per diritto divino, una potestà suprema nelle questioni

religiose, e riconoscendo così una specie di sovranità popolare in fatto di fede, estese

presto, appena la lotta lo richiese, questo principio anche alla sfera politica”76,

inducendo i cattolici a fare altrettanto. Di conseguenza, il diritto di sollevare il

“tiranno”, per non aver rispettato il suo dovere di governare secondo il mandato divino

quale custode della sovranità in vece del popolo, diventava un principio “sempre

asserito e non mai dimostrato”, a beneficio di chi se ne sapesse servire. Per tutti i casi

descritti, il problema è comune. Trasferire la sovranità dal sistema istituzionale a titolari

72 Sulla teorica gregoriana dell’unicità della ecclesia sotto il pontefice, e della funzione temporale

come commessa; nonché sulla legittimazione del potere imperiale da parte dei legisti, E. Crosa, Il

principio della sovranità popolare dal Medioevo alla Rivoluzione francese, Milano Torino Roma, F.lli

Bocca, 1915, p. 10 ss.

73 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 12.

74 La trasmissione di potere dal populus al princeps è un topos di tutta la tradizione giuspubblicistica

medievale. Per una esegesi dei numerosissimi brani, E. Cortese, Il problema della sovranità nel pensiero

giuridico medievale, Roma, Bulzoni, 1966.

75 Il populus “è la simbolizzazione non tanto di un dato reale […] quanto di un modello quasi sovra-

temporale”. Esso risulta un archetipo “dentro il linguaggio del processo valido del potere al punto di fare

di quel simbolo uno dei principali supporti della validità” (P. Costa, Iurisdictio. Semantica del potere

politico nella pubblicistica medievale (1100-1433), Milano, Giuffrè, 1969, pp. 227-229).

76 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 20. Per una disamina delle dottrine di Calvino, Lutero e e

Melantone ed il loro rapporto con l’evoluzione della teoria nazionalistica degli Stati, cfr. E. Crosa, op.

cit., p. 118 ss.

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del tutto imprecisati può condurre solo alla sovversione: “il concetto di sovranità, per

natura sua necessariamente giuridico-politico, diventa un non senso […] quand’è

scompaginato da quel fatto dell’organizzazione politica che lo determina”77.

Insomma, l’affermazione per cui “l’idea democratica è tenuta a battesimo dalla

teocratica”78 può essere smentita dall’osservazione realistica per cui il governo, inteso

come attività pratica, verrebbe addirittura “prima della legislazione, concepita come

complesso di norme che regolano o limitano quell’attività”. Soprattutto, la legislazione

non va confusa con la sovranità per quanto già osservato, ossia che al legislatore

spetterebbe soltanto “una delle funzioni sovrane”79, non potendo l’assemblea popolare

dettare all’esecutivo regole o disposizioni talmente esaurienti da richiederne

semplicemente l’applicazione.

Né sarebbe sostenibile la legittimazione della democrazia secondo la “legge

naturale” per cui potrebbe esistere un popolo senza principe, ma non un principe senza

popolo80. Un’altra astrazione, dato che manca l’idea del popolo come “grandezza

costituente”81. Ma anche una volta fissato il concetto di popolo come corpo

77 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 16.

78 Portata avanti sin dal Trecento, con particolare riferimento a Marsilio da Padova. Con l’asserzione

per cui sovrano è il legislatore, ossia la “universitas civium, aut eius pars valentior, quae totam

universitatem repraesentat” (R. Scholz (a cura di), Marsilius De Padua, Defensor Pacis, Hannover,

Hansche Buchhandlung, 1932, Dictio I, XII, 3), Codacci-Pisanelli attribuisce a Marsilio due errori

fondamentali: la delegazione di potere e la subordinazione del governo alla volontà del popolo. Dopo aver

infatti stabilito la sovranità in capo all’universitas civium, si afferma che il principe, a cui rimane una

sorta di potere subordinato, è “secundaria, instrumentalis, seu executiva pars”. Sulla vita e l’opera di

Marsilio, tra gli altri, B. Labanca, Marsilio di Padova riformatore politico e religioso del secolo XIV,

Padova, F.lli Salmin, 1882; F. Battaglia, Marsilio da Padova e la filosofia politica del Medioevo, Firenze,

Le Monnier, 1928; G. Capograssi, “Intorno a Marsilio da Padova”, Rivista internazionale di Filosofia del

Diritto, X, (1930); A. Passerin d’Entrèves, “Rileggendo il Defensor Pacis”, Rivista storica Italiana, LI,

(1934); A. Checchini e N. Bobbio (a cura di), Marsilio da Padova. Studi raccolti nel VI centenario della

morte, Padova, CEDAM, 1942; C. Vasoli, Introduzione a Marsilio da Padova, Il difensore della pace,

Torino, UTET, 1960.

79 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., pp. 17-19.

80 Secondo la lex regia de imperio, la potestas suprema viene concessa dal populus al princeps che,

solo in virtù di tale attribuzione, può attribuire vigorem a quod ei placuit (Ibid., p. 23). Per Pietro Costa,

che si riferisce al contesto imperator-lex regia secondo i passi del Corpus iuris (D. I, 4, I, C. I, 17, I, 7,

Inst. I, 2, 6), qui il populus funziona da strumento di validazione, ossia “di attribuzione all’imperatore

della pienezza dei poteri”; insomma: “il populus è, di per sé, un simbolo di legittimazione”, ma “nessuno

dubitava che il processo di potere valido discendesse dall’imperatore e soltanto da lui” (Iurisdictio, cit., p.

191 ss.).

81 A ben vedere, il concetto di populus come universitas e non come “bellua multorum capitum” è

presente in Buchanan, Boucher e nelle Vindiciae contra tyrannos, mentre in Althusius il concetto

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rappresentativo ed il rapporto di legittimazione tra esso e la costituzione82, ci si sarebbe

trovati comunque in presenza di un dualismo tra il rappresentato e il rappresentante, tale

da “impedire al cittadino una effettiva partecipazione al potere”83.

Se invece si ragionasse in termini di democrazia diretta, la sublimazione dell’idea

democratica condurrebbe al cesarismo. Esempi recenti si ricavano dai plebisciti

napoleonici: “gli antitirannici citano […] gli imperatori bizantini con quella stessa

ingenuità con cui i democratici d’oggi citano più fondatamente gli ultimi due imperatori

francesi. E chi più e meglio dei cesari, antichi e moderni, potrebbe fare l’apologia di

questo comodo e eterno istrumento di tirannide?”84. Il bersaglio è ancora Rousseau;

come accennato, il forte individualismo che il ginevrino sostiene si trasforma

inevitabilmente nel dispotismo della maggioranza, complicando, invece che risolvendo,

il rapporto tra potere e libertà. A riguardo, anche Grasso: “la barriera che il diritto

naturale aveva innalzato contro la volontà assoluta del monarca, e che dal campo delle

dottrine era stata tradotta nel campo dei fatti in legge solenne colle dichiarazioni dei

diritti dell’uomo, veniva abbattuta virtualmente coll’assoluto impero riconosciuto alla

volontà della massa dei cittadini o della maggioranza di essi”85. Ciò, non ostante

Rousseau avesse avuto il merito di considerare il legame tra i cittadini nello Stato,

anziché come un rapporto di soggezione, come un “vinculum juris”, ossia nei termini di

un rapporto giuridico. E tuttavia, questa grande intuizione ha subito sofferto il “difetto

logico” di stimare quel vinculum juris come “anteriore allo Stato, e quindi anche al

federativo è espressamente formulato in chiave anti-individualistica (cfr. E. Crosa, op. cit., p. 131 ss.). Di

fatto, nella sua critica ai monarcomachi, Codacci-Pisanelli non mette in discussione la mancanza del

concetto di collettività, quanto la sua indeterminatezza. Su tale problema, G. Duso, “Per una critica”, cit.,

pp. 61 ss. e Id., (a cura di), Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Roma, Carocci, 1999

(in particolare, i saggi dell’A. “Il governo e l’ordine delle consociazioni: la Politica di Althusius”, pp. 77-

95 e “Rivoluzione e costituzione del potere”, pp. 203-213).

82 Quale insieme di regole per la gestione dello spazio comune e degli equilibri che ne risultano, prima

ancora che in forma scritta (cfr. M. Fioravanti, Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali,

Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 9 ss.).

83 “La rappresentanza infatti, che con la nascita delle costituzioni moderne è legata strettamente

all’elezione […], non realizza, come spesso si immagina, una trasmissione di volontà […]. Piuttosto una

forma di autorizzazione del rappresentante a esprimere la volontà comune che si fa legge […]. Tale

fondazione dal basso è funzionale al fatto che la volontà del soggetto collettivo è espressa dall’alto e

senza rapporto con il concreto essere dei cittadini” (G. Duso, “Per una critica”, cit., pp. 61-62).

84 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 22.

85 G. Grasso, I presupposti giuridici, cit., p. 48.

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diritto”86. Mentre invece tali ultimi due lemmi sono inseparabili, com’è vieppiù evidente

in rapporto ai diritti soggettivi: “formato uno Stato, costituito il diritto, riconosciuto

l’uomo come soggetto possibile di diritti, la volontà del singolo ha efficacia giuridica ed

obbligante, in quanto alla espressione di essa lo Stato e il diritto connettono determinati

effetti, che si ottengono coll’esercizio di un’azione”87. La conclusione è che la libertà

dell’individuo, al di fuori dello Stato, è inconcepibile; essa è possibile solo nei termini

di una libertà giuridica, entro i limiti tracciati dal diritto dello Stato.

Anche per il suddetto motivo, il popolo, come totalità indifferenziata dei cittadini,

risulta una grandezza ideale che occorre rappresentare88. Con buona pace di Rousseau,

che partendo dall’indelegabilità del potere sovrano mette in discussione il sistema

parlamentare89, per cui “il proposito di secondare le tendenze degli elettori non è e non

può essere sempre il solo impulso determinante” da parte degli eletti. Secondo una

posizione analoga, Luigi Rossi avrebbe accusato Rousseau di “anarchia feudale”,

conseguentemente alla assurda pretesa per cui “l’obbedienza politica da[rebbe] diritto

[ai cittadini] di richiedere come controprestazione da parte dello Stato, che esso si

modelli e governi secondo la volontà individuale”90. Contrario al principio della

rappresentanza secondo mandato imperativo, Rossi ravvisa nel filosofo la

contraddizione fondamentale della delega della sovranità da parte del popolo a favore di

fiduciari. Sullo stesso tono, Codacci-Pisanelli: la componente elettiva del Parlamento

non porta avanti gli interessi di una parte, seppure maggioritaria, ma pone in essere “una

rappresentanza complessiva della società”91.

Fin qui le affinità. Le opinioni dei due giuristi finiscono invece per divergere a

proposito della posizione del Parlamento: “cerniera” tra Stato e popolo, secondo Rossi,

86 Ibid., p. 45.

87 Ibid., p. 46.

88 Sul bipolarismo sovranità/rappresentazione, P. Viola, “Seminario su rappresentare il sovrano e il

popolo nell’Europa moderna”, Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, XIX, 4, serie III, Pisa

1989.

89 J.J. Rousseau, op. cit., Lib. III, cap. 15, p. 89 ss.

90 L. Rossi, Introduzione ai principi generali della rappresentanza politica, Bologna, Fava e

Garagnani, 1894, p. 20.

91 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 54.

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che riconosce la sovranità in capo all’Assemblea rappresentativa92; mentre Codacci-

Pisanelli, a sua volta contrario alle idee di delega e di mandato, attribuisce alla Camera

una mera funzione all’interno dello Stato sovrano, secondo un principio condiviso,

peraltro, anche da giuristi non proprio in linea con la corrente formalista. Il ‘realista’

Chimienti parte dalla osservazione dell’istituto rappresentativo “in rapporto con l’azione

degli altri organi costituzionali della sovranità dello Stato”93, ritenendo opportuna la

“ricostruzione giuridica” della rappresentanza, cioè non sociologica o politica; si tratti

però di “ricerca giuridica che non si perda e svanisca in un vuoto schematico di formule,

avulso affatto da ogni contatto con la realtà”94. Attenzione per l’elemento sociale,

dunque, ma nella consapevolezza della “tendenza costante della società ad avvicinarsi

allo Stato”95. Tutto sommato non lontano dalle conclusioni di Codacci-Pisanelli,

Chimienti considera le rappresentanze “organi costituzionali dello Stato, con funzioni di

Stato”. In altri termini, la funzione del Parlamento è una delle manifestazioni della

sovranità, che rimane espressione della suprema istituzione: “non contrasta con il nostro

concetto di sovranità, la formazione di un organo dello Stato in seno alla società, il

quale si affermi in collaborazione con gli altri organi della sovranità”96.

Ciò detto, a non venir messo in discussione è il principio della rappresentanza dei

capaci. Secondo Chimienti, la rappresentanza, “politica” “dal punto di vista della

formazione o composizione dell’organo medesimo”, entra nel campo del diritto “come

scelta di capaci, e come tale è regolata e disciplinata dal Diritto costituzionale”97; Rossi

ne fa un fatto di misura e di gerarchia, per cui l’elezione “sia proporzionata secondo le

diverse classi […] ma non ugualmente, bensì secondo il vario grado di intelligenza, di

cultura, di moralità”98. Infine, per Codacci-Pisanelli “l’elezione politica non è una

92 Cfr. G.P. Trifone, Il diritto, cit., p. 124 ss.

93 P. Chimienti, “Il principio rappresentativo nel Diritto costituzionale moderno”, in Id., Saggi. Diritto

costituzionale e politica, Napoli, F. Perrella, 1915, p. 208.

94 Ibid., p. 207.

95 Ibid., p. 209.

96 Ibid., p. 223.

97 Ivi.

98 L. Rossi, I Principi fondamentali della rappresentanza politica, I. Il rapporto rappresentativo,

Bologna, Fava e Garagnani, 1894, p. 120.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

27

delegazione, ma una funzione di scelta; mercé la quale coloro cui si riconosce capacità o

facoltà di scegliere, cioè gli elettori, designano quelli ritenuti più capaci e quindi più atti

a legiferare”99. Il che appare come espressione di una gerarchia naturale in seno alla

società. Entro questi termini, non si esclude che la gestione della cosa pubblica possa

essere approvata “dai più”; ma è impossibile una deliberazione comune, se non in

maniera tale che “uno o più la propongono e gli altri, unanimi o a maggioranza, vi

consentono”100.

Ad ogni buon conto, quello che viene posto in risalto è ancora e sempre l’errore di

identificare potere legislativo e potere sovrano, attribuito anche a Montesquieu, la cui

teoria dei poteri101, secondo Codacci-Pisanelli, è una “filiazione storica” della sovranità

popolare. Alla ricerca di una garanzia della libertà politica come assolutamente

negativa, la divisione delle funzioni pubbliche riduce lo Stato a un “congegno”,

provocandone lo “smembramento”. Quale il nesso tra separazione dei poteri e sovranità

popolare? Codacci-Pisanelli fa riferimento a due criteri di distinzione; il primo, tra

regola e applicazione; il secondo, tra volontà e azione, che risultano speculari, allorché

regola e volontà da una parte – applicazione a azione dall’altra, hanno significati

analoghi. A rigore del primo binomio, il potere legislativo – consistente

nell’emanazione delle norme – è rappresentativo della volontà, mentre al governo –

applicazione, quindi azione – spetterebbe la mera funzione di esecuzione di essa.

Pertanto, rispettivamente al sintagma “volontà sovrana”, solo il legislativo potrebbe

definirsi potere. Se non che – afferma Codacci-Pisanelli – “la determinazione della

volontà politica non si esaurisce nella determinazione delle regole”. In questa

prospettiva, è più opportuno riferirsi alla distinzione tra i due aspetti materiale e formale

degli atti di sovranità, espressa anche da Cammeo: “se una separazione meccanica ed

assoluta delle tre funzioni in tre organi non è desiderabile, né possibile, […] è certo che,

nello Stato costituzionale, a ciascun organo è attribuita in prevalenza una determinata

99 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 54. L. Rossi, Introduzione, cit., p. 32 ss. Su un confronto tra

Rossi e Majorana a proposito della rappresentanza dei capaci, G.P. Trifone, Il diritto, cit., p. 133 ss.

100 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 55.

101 Cfr. C. de Montesquieu, Lo spirito delle leggi (a cura di S. Cotta), I, Torino, UTET, 1956, p. 66 ss.

Sul tema, S. Mastellone, Storia della democrazia in Europa. Dal XVIII al XX secolo, Torino, UTET,

2010, p. 5 ss. e N. Bobbio, “Introduzione” in ivi, p. XI.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

28

funzione alla quale gli altri due subordinatamente cooperano”102. Una separazione della

volontà dall’azione è improbabile in ragione della componente discrezionale che ogni

funzione, all’interno del sistema, opportunamente mantiene. Pertanto, “ogni atto dello

stato può essere considerato sotto un duplice aspetto: sotto l’aspetto formale e

subbiettivo che dir si voglia, dell’organo da cui è emanato: sotto l’aspetto materiale ed

obbiettivo del suo contenuto intrinseco, rispondente ad una delle funzioni dello Stato

sopra distinte”103. Infatti, un regime in cui al popolo spettasse la suprema – quindi

incontrollata – determinazione “delle norme più minute” paralizzerebbe l’azione

giudiziaria, costringendola alla pedissequa applicazione del dettato normativo; ma

contemporaneamente le lascerebbe arbitrio assoluto in caso di lacune, ossia “tutto ciò su

cui, pur non essendovi regole da applicare, o avendosi norme insufficienti, si dovesse in

via particolare statuire”104. In altre parole, “alla male intesa ed eccessiva teoria della

sovranità popolare in tanto si fa colpa di costruire un regime antigiuridico ed

antiliberale, in quanto in base ad essa si pretendono accentrare ad un solo organo

(popolo o suoi rappresentanti diretti) le tre funzioni”105. Tecnicamente, identificare la

sovranità popolare con l’organo legislativo condurrebbe a confondere la sovranità

originaria – ossia “in sé stessa […] concepita come la fonte di tutti i poteri pubblici, la

sintesi di tutti i diritti dello Stato”106 – e la sovranità derivata – “considerata nella sua

attuazione”, vale a dire “l’autorità concreta che questi poteri esercita, o, con più corretta

102 F. Cammeo, Della manifestazione, cit., in cui peraltro è fatto riferimento a Codacci-Pisanelli,

“Legge e regolamento”, cit., p. 1 ss.

103 Ivi.

104 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., pp. 34-40. Dalla legge 30 ventoso anno XII, art. 7, sul metodo

dell’esegesi per evitare “come aveva sostenuto Maleville, di abbandonarsi all’arbitrio de giudici per

un’infinità di questioni”; al ripensamento dei giuristi ottocenteschi sul mito della completezza dei codici

in riferimento all’ufficio del giudice di far fronte alle situazioni giuridiche continuamente emergenti, il

dibattito è proficuo di suggestioni. Cfr., tra tutti, U. Petronio, La lotta per la codificazione, Torino,

Giappichelli, 2002, p. 124 ss. e P. Grossi, Introduzione al Novecento giuridico, Roma-Bari, Laterza,

2012, p. 14 ss. (Sul pensiero di Grossi, mi sia consentito rinviare a G.P. Trifone, “Pluralismo e fattualità.

Il contributo di Paolo Grossi”, in A. Tucci (a cura di), Disaggregazioni. Forme e spazi di governance,

Milano – Udine, Mimesis, 2013, pp. 109-120).

105 F. Cammeo, Della manifestazione, cit., p. 11. Sulla teoria della separazione dei poteri limitata, in

ordine alla formazione dei diritti subbiettivi pubblici, cfr. S. Romano, “La teoria dei diritti pubblici

subbiettivi”, in V.E. Orlando, Primo trattato, cit., I, pp. 118 e 162.

106 A. Longo, “Della consuetudine”, cit., p. 246.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

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espressione, gli organi che della sovranità sono investiti”107. Ma anche da una

prospettiva “organicistica”, le conclusioni sono analoghe: sostenere la primazia del

Parlamento significherebbe “sovrapporre un organo dello Stato al sistema di cui è

parte”, il che ne farebbe “un insieme instabile, contingente e provvisorio di rapporti

giuridici”; mentre invece si è al cospetto di un “sistema giuridico determinato e fisso,

nel quale ciascuna parte ha la propria ragione d’essere”108.

È oltremodo inappropriato, da parte di Montesquieu, l’esempio del sistema

ordinamentale inglese a sostegno delle sue teorie. Lungi da una divisione rigida, “il

parlamento inglese partecipava alla statuizione di singoli provvedimenti e il governo

dettava anch’esso da solo delle norme nei limiti del diritto nazionale. In Inghilterra non

s’era pur anco avuta, come mai s’ebbe neanche poi, quella divisione della giurisdizione

civile e penale dall’amministrazione, che sul continente era già da un pezzo avviata”109.

Il diritto inglese è eminentemente “fattuale”, modellato sui bisogni reali del Paese e

improntato al bilanciamento delle funzioni, piuttosto che alla divisione dei poteri110. Ma

soprattutto, custodito da un re la cui funzione di veto, malintesa da chi ne rileva la sola

efficacia negativa, consiste nel garantire la forma di governo equilibrata nel rispetto dei

limiti costituzionali: il che concerne la maggior parte delle leggi, votate ad iniziativa del

governo, “che ne presenta i progetti e ne accetta le modificazioni sulla base degli

accordi presi con la corona”; nonché i progetti di iniziativa parlamentare, che richiedono

il vaglio dell’esecutivo in accordo col re. Dunque, “il re non può, nei casi ordinari,

negare il suo assenso a ciò che si fa e si vota sapendo già, per mezzo dei suoi ministri,

che egli vi consente”. Per non dire delle crisi di governo, la cui soluzione spetta sempre

al Capo dello Stato. In definitiva, conclude Codacci-Pisanelli, anche per quanto

concerne il sistema di gabinetto, “il principio fondamentale dello Stato libero moderno

resta quello che nessun atto acquista incondizionato valore di legge e virtù di alterare il

107 Ibid., p. 247.

108 L. Minguzzi, “Alcune osservazioni”, cit., pp. 45-46.

109 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., p. 42.

110 Sul profilo costituzionale del diritto anglosassone la bibliografia è vastissima. Mi limito a Ch.

McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno (1947), Bologna, Mulino, 1990; M. Fioravanti, Stato e

Costituzione, Torino, Giappichelli, 1999, p. 119 ss.; L. D’Avack, Costituzione e rivoluzione. La

controversia sulla sovranità legale nell’Inghilterra del ‘600, Milano, Giuffrè, 2000.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

30

diritto nazionale senza il consenso di tutte le parti costituenti l’autorità legislativa” e, in

primis – in Inghilterra come in Italia – al “re in Parlamento”111.

Addivenendo alle conclusioni, cura principale di Codacci-Pisanelli è la stabilità del

diritto pubblico nazionale. Quella che il popolo sovrano non può garantire, anzi

minaccia di sovvertire, perché, “se avesse una norma da rispettare […] non sarebbe più

sovrano”. L’arbitrio governativo, come quello individuale, hanno bisogno di argini:

“l’individuo, il collegio o l’assemblea chiamati a governare, finché hanno una regola da

seguire o un limite da rispettare, non possono, facilmente e impunemente, sostituire il

proprio capriccio a quello che dev’essere nel dato caso il potere sovrano”, che non

consiste nel volere del giudice, né è l’effetto della norma, che da sola rimarrebbe astratta

e inefficace: “quell’atto è dello Stato e il volere sovrano in questo […] consta”112.

111 A. Codacci-Pisanelli, Il dogma, cit., pp. 30-31.

112 Ibid., pp. 57-58.

B. Casalini, “Neoliberalismo e femminismi”,

Jura Gentium, ISSN 1826-8269, XII, 2015, 1 , pp. 31-65

Neoliberalismo e femminismi

Brunella Casalini

Abstract: The paper describes different conceptions of neoliberalism and feminism and

highlights some of the key issues facing women today in our neoliberal societies.

[Keywords: Neoliberalism, Feminism, MacRobbie, Fraser, Wacquant]

1. Introduzione

In The Future of Feminism (2011), Sylvia Walby ha offerto una visione

complessivamente ottimistica dell’avvenire del femminismo. Meno visibile, perché non

più espresso nelle forme del movimento di protesta, il pensiero femminista sarebbe ora,

però, in grado di agire all’interno delle istituzioni grazie a donne che occupano posizioni

decisionali come professioniste esperte in questioni di genere o capaci di muoversi tra le

maglie di reti che estendono la loro influenza fino ai luoghi in cui si assumono le

decisioni politiche e si determinano le politiche pubbliche. Molte sono le conquiste

ottenute negli ultimi decenni dalle donne mediante il metodo del gender mainstreaming,

ovvero l’impegno, assunto ormai anche da varie organizzazioni internazionali quali la

Banca Mondiale, le Nazioni Unite, l’ILO e l’Ue, di adottare politiche che abbiano un

impatto equo su uomini e donne e di monitorarne costantemente i risultati. In sostanza,

secondo Walby, è vero che il neoliberalismo rappresenta una sfida, soprattutto da un

punto di vista di genere, ma le donne, sebbene in inferiorità numerica rispetto agli

uomini, sono presenti ora all’interno della maggior parte delle sedi decisionali e

dispongono di nuove forme di fare politica aperte a un continuo scambio tra Stato e

società civile e a nuove alleanze. Sebbene numerosi siano gli attacchi che il

femminismo ha subito in anni recenti, non vi sono dati, secondo Walby, che possano far

pensare a quella presunta cooptazione del femminismo all’interno del neoliberalismo di

cui parlano autrici quali Nancy Fraser e Hester Eisenstein1. Al contrario, se non ci si

ferma ad una generica analisi socio-culturale, ma si guarda ai progetti in cui le

istituzioni europee in particolare, ma anche più in generale le Nazioni Unite e i singoli

1 Cfr. S. Walby, The Future of Feminism, Cambridge (UK), Polity Press, 2011, pp. 21-24.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

32

paesi sono oggi impegnati, si vede che molte risorse sono state mobilitate per

raggiungere obiettivi tradizionalmente considerati femministi: tra i tanti esempi elencati

e illustrati da Sylvia Walby si possono ricordare le azioni intraprese a livello globale e

locale contro la violenza sulle donne. All’interno di queste istituzioni e su questi temi le

donne spesso sono ascoltate come specialiste di questioni di genere, come componenti

di “comunità epistemiche”2 ovvero in quanto appartenenti “a reti di professionisti che

hanno riconosciuta competenza e expertise in un particolare ambito”3 e per questo

possono vantare il possesso di conoscenze utili ai fini delle politiche che si devono

intraprendere. Insomma, le femministe devono solo sfruttare la loro presenza nelle

istituzioni per difendere il welfare state e i valori socialdemocratici dagli attacchi del

neoliberalismo, che, comunque, secondo Walby, riguardano meno l’Europa rispetto agli

Stati Uniti. Questo femminismo top-down, incentrato su espertocrazie di genere, non è

privo di problematicità, ma Walby sembra considerarlo semplicemente inevitabile nella

modernità e legato al crescente valore che in essa assume la conoscenza scientifica4.

Un quadro a tinte molto diverse – come vedremo – emerge nei lavori di altre autrici

contemporanee che qui esaminerò e che vedono piuttosto il femminismo, o meglio una

parte di esso, complice, sedotto e incorporato in modo parziale e strumentale all’interno

della vita istituzionale e politica dalla forza travolgente del neoliberalismo oppure

soggetto ad un duro attacco frontale che vuole annullarne la forza critica. Da questo

punto di vista il gender mainstreaming5, ovvero l’integrazione della prospettiva di

2 Cit. in op. cit., p. 63.

3 Ibidem.

4 Cfr. Ibidem. Una delle critiche più dure contro questo femminismo top-down è venuta da Spivak che,

descrivendo la burocrazia delle esperte femministe operanti all’interno delle istituzioni internazionali, ha

scritto: “We are witnessing the proliferation of feminist apparatchiks who identify conference organizing

with activism as such, who cannot successfully imagine the lineaments of the space of existence of the

Southern grassroots. They have no idea of the vast difference between the actual bottom and the layer

above, of, say, the rural fieldworkers. They often assume that altogether salutary debate in the conference

will have necessary consequences in the lifeworld of oppressed and super-exploited women” (G.C.

Spivak, “‘Woman’ as Theatre. United Nations Conference on Women, Beijing 1995”, Radical

Philosophy, 75 (1996), pp. 1-4: <http://www.radicalphilosophy.com/commentary/woman-as-theatre>

(ultimo accesso: 15 giugno 2014).

5 La discussione sul gender mainstreaming nell’ambito del femminismo è accesa e aperta. Per alcune

autrici questo strumento costituisce necessariamente una sfida per il neoliberalismo perché afferma la

necessità di un intervento positivo dello Stato. Se si vede, però, il neoliberalismo non come una mera

forma di laissez faire, e quindi di deregolamentazione, ma come una forma di nuova regolamentazione si

arriva a diverse conclusioni – come fanno, per fare solo un esempio, Carol Bacchi e Joan Eveline (cfr. C.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

33

genere in ogni stadio del processo di decisione delle politiche pubbliche, così come altri

strumenti, quali il diversity management o il microcredito, appaiono strategie

tecnocratico-manageriali grazie alle quali le istituzioni possono affermare di aver tenuto

conto degli interessi delle donne anche senza averle veramente ascoltate e aver dato loro

voce. Secondo questa impostazione, per esempio, l’attuale formulazione delle politiche

gender mainstreaming è servita ad assecondare a livello globale politiche neoliberali,

quali l’aumento del capitale produttivo femminile utile ai fini della crescita,

l’eliminazione di rigidità nel mercato del lavoro o le politiche di attivazione, più che a

contrastarle o a contrapporre ad esse una prospettiva critica6. Queste preoccupazioni

hanno avuto una forte eco nel dibattito contemporaneo grazie ad opere quali Feminism

Seduced (2009) di Hester Eisenstein, The Aftermath of Feminism (2009) di Angela

McRobbie, Fortunes of Feminism (2013) di Nancy Fraser, senza dimenticare gli scritti

di Rosi Braidotti7. Sebbene le interpretazioni di queste autrici siano tutt’altro che

concordi, sia relativamente alla misura reale della complicità del femminismo con il

neoliberalismo e delle sue responsabilità nel rendere possibile questa appropriazione, sia

rispetto alle soluzioni e vie d’uscita possibili, i loro lavori sembrano accomunati da una

qualche forma di nostalgia per il legame che un tempo aveva unito il femminismo della

Bacchi, J. Eveline,“Mainstreaming and neoliberalism: A contested relationship”, in Ead. (a cura di),

Mainstreaming Politics: Gendering Practices and Feminist Theory, Adelaide, The University of Adelaide

Press, 2010, pp. 39-60: <http://www.adelaide.edu.au/press/titles/mainstreaming/Mainstreaming-Ebook-

final.pdf>, ultima consultazione: 15 giugno 2014). Secondo queste ultime autrici, la diffusione del gender

mainstreaming si deve alla facilità con cui è stato possibile conciliarlo con la logica del new public

management adottata dallo Stato neoliberale. Ciò non significa negare che queste politiche siano

impiegate con le migliori intenzioni femministe, ma significa piuttosto affermare che esse sono oggi

piegate a facilitare le attività economiche e a minimizzare il bisogno di interventi di carattere strutturale.

Finché l’approccio mainstreaming sarà adottato come metodo ex post per valutare come determinate

politiche pubbliche possano essere introdotte minimizzandone l’impatto negativo sulle donne, il loro

potenziale di riforma rischia di essere neutralizzato. Per Bacchi ed Eveline sarebbe necessario adottare un

approccio ex ante, volto a discutere gli obiettivi stessi delle politiche e il tipo di soggettività che certe

scelte pubbliche producono.

6 Cfr. R. Simon-Kumar, “The Analytics of ‘Gendering’ the Post-neoliberal State”, Social Politics, 18,

3 (2011), pp. 441-468.

7 Cfr., per esempio, R. Braidotti, “A Critical Cartography of Feminist Post-postmodernism”,

Australian Feminist Studies, 20 (2005), 47: <http://wiki.medialab-prado.es/images/9/9c/Cartography.pdf>

(ultima consultazione: 15 giugno 2014) e “On Crisis, Capital and Austerity - Interview by Andrea Mura”,

Open Democracy, 2014: <https://www.youtube.com/watch?v=rED58-zKGAI> (ultima consultazione: 15

giugno 2014).

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

34

seconda ondata e la sinistra, oltre che dal desiderio di ridare vigore a un movimento che

ai loro occhi è lontano dall’aver esaurito la sua ragione d’essere.

Come osserva Janet Newman8, a rendere complessa la questione, tuttavia, è la natura

sfuggente degli stessi termini “femminismo” e “neoliberalismo”. Nel corso del lavoro

vedremo all’opera diverse interpretazioni del neoliberalismo e del femminismo9. Fraser

e Eisenstein, in particolare, guardano all’eredità del femminismo della seconda ondata,

descrivendo il movimento femminista come una sorta di agente collettivo con una

traiettoria globale, che è andato nel tempo perdendo la propria unità e coerenza

interna10. Per McRobbie, come per Braidotti, invece, non si deve colpevolizzare il

femminismo e la sua storia recente. Il problema è piuttosto il post-femminismo: un

“falso femminismo” che assume l’eguaglianza delle donne come un dato ormai

acquisito e lascia spazio ad una femminilità che riduce la libertà alla dimensione della

scelta consumistica.

Nelle pagine che seguono mi soffermerò sulle posizioni di Nancy Fraser e Angela

McRobbie e cercherò di illustrarle nel dettaglio, mettendole a confronto. Sosterrò qui

che alla base delle loro analisi non vi è solo una diversa lettura del femminismo e della

sua traiettoria evolutiva, ma anche un’interpretazione alternativa del neoliberalismo. Se,

infatti, Fraser si muove lungo una linea interpretativa neo-marxista per molti versi

vicina ai lavori di David Harvey, McRobbie predilige una chiave teorica foucaultiana.

Sia gli occhiali neo-marxisti di Fraser che quelli foucaultiani di McRobbie offrono uno

spaccato molto interessante della contemporaneità neoliberale in una prospettiva di

genere; in entrambi i casi tuttavia si tratta di visioni parziali. Seguendo i suggerimenti

provenienti da una parte della letteratura contemporanea sul neoliberalismo, che punta

8 Cfr. J. Newman, Working the Spaces of Power. Activism, Neoliberalism and Gendered Labour, New

York, Bloosmbury, 2012 e Ead., “Spaces of Power: Feminism, Neoliberalism and Gendered Labor”,

Social Politics, 20, 2 (2013), pp. 200-221.

9 Questo articolo è stato terminato prima dell’uscita del volume a cura di Tristana Dini e Cristiana

Tarantino, Femminismo e neoliberalismo. Libertà femminile versus imprenditorialità di sé e precarietà,

Napoli, Natan edizioni, 2014. Si rimanda a un futuro lavoro il confronto con questo testo di cui qui non si

è potuto tener conto.

10 C. Eschle, B. Maiguashca, “Reclaiming Feminist Futures: Co-opted and Progressive Politics in a

Neo-Liberal Age”, Political Studies, (2013), pp. 1-18; in particolare, p. 4.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

35

ad un’integrazione dei due approcci11, nell’ultima parte del lavoro farò riferimento

all’opera di Loïc Wacquant nel tentativo di mettere insieme alcuni importanti elementi

presenti nelle analisi di Fraser e McRobbie e ampliare la riflessione, includendovi anche

le trasformazioni proprie dello Stato nell’epoca neo-liberale e le conseguenze della

riforma del welfare per la condizione delle donne. In quest’ultima parte sottolineerò le

significative continuità tra neoliberalismo e social investment state nel cancellare dal

discorso politico la questione dell’eguaglianza di genere.

2. Nancy Fraser e la necessità di un ritorno alla critica del capitalismo

A cominciare dalla pubblicazione di “Feminism, Capitalism and the Cunning of

History”12, in sintonia con gli scritti di Hester Eisenstein13, Nancy Fraser ha più volte

ribadito una tesi scomoda: le potenzialità trasformative del movimento femminista sono

state imbrigliate dalla svolta culturalista del femminismo contemporaneo che ha favorito

il delinearsi di una sorta di imbarazzante complicità tra femminismo e neoliberalismo14.

Nel recente Fortunes of Feminism, la storia del movimento femminista viene

rappresentata come “un dramma in tre atti”. Secondo Fraser, oggi, si può dire, con il

senno di poi, che il movimento di liberazione delle donne, sorto in un’epoca in cui era

ancora in corso quel cambiamento epocale che avrebbe portato alla nascita del

neoliberalismo e ad una nuova forma di capitalismo, puntasse contemporaneamente

11 Cfr. S. Springer, “Neoliberalism as Discourse: Between Foucauldian Political Economy and

Marxian Poststructuralism”, Critical Discourse Studies, 9, 2 (2012), pp. 133-147; E. Bernstein, J. R.

Jakobsen, “Introduction”, in Gender, Justice, and Neoliberal Transformations, S&F Online, (2012/2013):

<http://sfonline.barnard.edu/gender-justice-and-neoliberal-transformations/introduction/> (ultima

consultazione: 15 giugno 2014); L. Duggan, M. Joseph, S. Cheng, E. Bernstein, D. Spade, S. K. Soto, T.

Gowan, A. Amuchástegui, “What is Neoliberalism?”, in ivi: <http://sfonline.barnard.edu/gender-justice-

and-neoliberal-transformations/what-is-neoliberalism/#sthash.2ECqJAIr.dpuf> (ultima consultazione: 15

giugno 2014).

12 N. Fraser ,“Feminism, Capitalism and the Cunning of History”, New Left Review, 56 (2009), pp. 97-

117.

13 In particolare v. H. Eisenstein, “A Dangerous Liason? Feminism and Corporate Globalization”,

Science and Society, 69, 3 (2005), pp. 487-518 ed Ead., Feminism Seduced. How Global Elites use

women’s labor and ideas to exploit the world, Boulder-London, Paradigm Publishers, 2009.

14 Cfr. Fortunes of Feminism. From State-managed Capitalism to Neoliberal Crisis, London-New

York, Verso, 2013; Ead., “Feminism’s two Legacies: A Tale of Ambivalence”, in L. Bieger, C. Lammert (a

cura di), Revisiting the Sixties: Interdisciplinary Perspective on America’s Longest Decade, Frankfurt am

Main, Campus Verlag, 2013, pp. 95-109; e Ead., Between Marketization and Social Protection:

Ambivalences of Feminism in the Context of Capitalist Crisis, Wilson Center, 27 settembre 2013:

<https://www.youtube.com/watch?v=XYCQdl1QtNY> (ultima consultazione: 15 giugno 2014).

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

36

verso due futuri possibili, tra loro in tensione: se, da una parte, l’obiettivo

dell’emancipazione doveva andare di pari passo con l’affermazione di una maggiore

solidarietà sociale e di una democrazia partecipativa, dall’altra, la liberazione poteva

trovare concreta attuazione in una più ampia libertà di scelta e autonomia individuale.

Più tardi le energie rivoluzionarie del movimento si sarebbero indebolite in seguito

all’abbandono del paradigma redistributivo e all’adozione del paradigma del

riconoscimento15: la svolta culturalista, secondo Fraser, ha spuntato le armi critiche del

femminismo nei confronti delle ingiustizie economiche e sociali proprio nel momento in

cui il neoliberalismo si affacciava sulla scena politica. Riadattando un argomento

proposto da Luc Boltanski e Eve Chiapello, nell’opera Le nouvel esprit du capitalisme

(1999), Fraser sottolinea come in questa fase il capitalismo abbia saputo acquisire una

nuova forma di legittimità, una sorta di nuova giustificazione etica, fornendo agli attori

sociali delle ragioni individuali e collettive per aderire alla sua logica, grazie anche alla

sua capacità di recuperare alcune delle critiche al sistema capitalista provenienti proprio

dai suoi avversari. Secondo Boltanski e Chiapello, il nuovo managerialismo ha attinto

dalla critica al sistema gerarchico delle organizzazioni industriali fordiste che era

emersa negli anni sessanta all’interno delle avanguardie artistiche, recuperando il

lessico della creatività, dei gruppi di lavoro orizzontali in reti flessibili. Come ha ripreso

alcune delle idee della critica artistica al capitalismo di Stato emerso dalla seconda

guerra mondiale, il nuovo “spirito” del capitalismo, aggiunge Fraser integrando l’analisi

di Boltanski e Chiapello, ha analogamente saputo piegare ai propri fini anche la critica

femminista nei confronti del family wage e dello statalismo welfarista.

Con l’epoca neoliberale si è diffuso il c.d. two earner model: le donne sono entrate in

massa nel mondo del lavoro come professioniste della classe media o come lavoratrici

del settore dei servizi, ma lo hanno fatto per lo più con bassi salari e contratti precari.

L’affermazione del modello familiare incentrato sulle figure dei due coniugi che

lavorano è avvenuta in contemporanea con l’abbassamento generale dei livelli salariali,

15 Com’è noto, Fraser ha a lungo lavorato per superare questo dualismo tra paradigma del

riconoscimento e paradigma redistributivo mediante la proposta di un dualismo di prospettiva, all’interno

del quale il paradigma del riconoscimento viene riformulato in termini deontologici (cfr. N. Fraser e A.

Honneth, Umverteilung oder Anerkennung?, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2003; trad. it. di E. Morelli

e M. Bocchiola, Redistribuzione o riconoscimento? Una controversia politico-filosofica, Roma, Meltemi,

2007).

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

37

lo smantellamento del welfare, la precarizzazione del lavoro, l’aumento del numero

delle famiglie monogenitoriali, la conseguente crescita della povertà femminile e

l’aggravarsi del problema della “doppia presenza” (double shift), ovvero del sommarsi

del tempo dedicato al lavoro remunerato con quello del lavoro domestico e di cura non

remunerato16. Anche la critica femminista allo statalismo è stata ripresa ed è soggetta ad

un processo di “risignificazione” nell’ambito del neoliberalismo, con un effetto oggi

molto discusso in relazione alla situazione delle donne nel terzo mondo, ovvero al

proliferare della presenza di organizzazioni non governative, che – come sottolinea

anche Eisenstein nel suo Feminism Seduced – non ha aiutato a contrastare il ritrarsi

dello Stato dall’offerta di servizi pubblici ed è servito piuttosto a depoliticizzare i

movimenti di base, piegandoli ad assecondare agende politiche dettate dai finanziatori

del primo mondo17. Eisenstein e Fraser sono concordi nel sottolineare come l’azione

delle organizzazioni non governative e gli esperimenti di micro-credito siano avvenuti

in coincidenza con l’abbandono da parte degli Stati del terzo mondo di processi di

trasformazione strutturale, divenendo di fatto strumenti di governo della società

piuttosto che di riforma.

Per Fraser, da questa ricostruzione del passato si può trarre una lezione importante, e

cioè che bisogna riconoscere il terreno inedito sul quale il neoliberalismo costringe il

femminismo a muoversi. Il confronto tra idee neoliberali e femministe è complesso per

un’affinità che le porta a convergere sulla critica all’autorità fondata sulla tradizione:

“In the current moment, – scrive Fraser – these two critiques of traditional authority, the

one feminist, the other neoliberal, appear to converge”18. Il femminismo non deve

abbandonare l’istanza emancipazionista di critica dell’autorità tradizionale, ma deve

cercare di distinguerla da quella neoliberale, esercitando le sue capacità critiche al fine

di denunciare le forme di dominio che possono risultare dalle dinamiche di mercato.

Con questo intento, Fraser propone di tornare ad una “grand theory” che aggiorni e

corregga tanto l’analisi del capitalismo proposta in Das Kapital da Marx, quanto la

lettura della crisi del sistema capitalista proposta da Karl Polanyi in The Great

16 N. Fraser, “Feminism’s two Legacies: A Tale of Ambivalence”, cit., p. 220.

17 Cfr. ivi, p. 221.

18 Ivi, p. 225.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

38

Transformation (1944)19. In questa direzione, seguendo alcune tracce che appaiono

ispirate, almeno nella loro iniziale elaborazione, dal lavoro di David Harvey, Fraser

recupera il concetto marxiano di accumulazione primitiva20, riformulandolo, però – così

come prima di lei hanno fatto Maria Mies, David Harvey e Nancy Hartsock – alla luce

del contributo teorico di Rosa Luxemburg21.

Che cos’è l’accumulazione primitiva per Marx? Nel Capitale si legge che essa è:

“Un’accumulazione originaria (“previous accumulation” presso Adam Smith) che vien

prima dell’accumulazione capitalistica, accumulazione che non è il risultato del modo di

produzione capitalista, bensì il suo punto di partenza”22. L’accumulazione primitiva o

originaria è caratteristica della fase storica che ha preceduto e reso possibile la nascita

del capitalismo. Nell’economia politica essa ha “una parte pressoché identica a quella

del peccato originale nella teologia”23: nella versione classica borghese di Locke e

Smith, infatti, il passaggio dal feudalesimo al capitalismo è descritto come un

passaggio storico pacifico e graduale, in cui l’estrema povertà dei più e la grande

ricchezza dei pochi è attribuita alla colpa originaria di un’umanità costituita da una

maggioranza di persone oziose e spendaccione che doveva inevitabilmente finire col

non avere altro da vendere che la loro pelle e da una minoranza industriosa e diligente

che non poteva non accrescere col tempo la propria ricchezza. Diversamente da come la

storia di questa transizione è stata raccontata dagli economisti borghesi, per Marx non si

è trattato di un passaggio graduale e inevitabile: la massa della popolazione è infatti

19 Su questa recentissima direzione intrapresa dagli studi di Fraser, v.: N. Fraser, “A Triple Movement?

Parsing the Politics of Crisis after Polanyi”, New Left Review, 81 (2013), pp. 119-132; Ead., Can societies

be commodities all the way down?, Helsinski Collegium, 11 giugno:

https://www.youtube.com/watch?v=V-3q3zvT1Os (ultima consultazione: 15 giugno 2014); Ead., Between

Marketization and Social Protection: Ambivalences of Feminism in the Context of Capitalist Crisis, cit.;

Ead., The Significance of Rosa Luxemburg for Contemporary Theory, Luxemburg Stiftung,12

marzo:<https://www.youtube.com/watch?v=zk2VJAW_jHw> (ultima consultazione: 15 giugno 2014);

Ead., “Behind Marx’s Hidden Abode”, New Left Review, 86 (2014), pp. 55-72.

20 Cfr. N. Fraser, The Significance of Rosa Luxemburg for Contemporary Theory, cit., e Ead., Behind

Marx’s Hidden Abode, cit.

21 Per una riflessione sulla rilevanza del tema dell’accumulazione originaria nel dibattito

contemporaneo, cfr. J. Glassman, “Primitive Accumulation, Accumulation by dispossession,

Accumulation by ‘Extra Economic’ Means”, Prog.Hum. Geogr., 30 (2006), pp. 608-625.

22 K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Okonomie, 1867; trad. it. Il capitale. Critica

dell’economia politica, a cura di Eugenio Sbardella, Roma, Newton Compton, 2007 (I 1975), p. 514.

23 Ibidem.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

39

stata privata dei mezzi di produzione attraverso la violenza, la spoliazione e lo

sfruttamento – basti pensare alle modalità con cui è avvenuto il processo di recinzione

delle terre in Inghilterra tra Cinque e Seicento –, una violenza che si è espressa anche

con la complicità dello Stato e del diritto, attraverso le leggi sul vagabondaggio e sulla

povertà, i processi di appropriazione coloniali, la tratta degli schiavi, il sistema del

debito nazionale e il sistema del credito.

L’intuizione fondamentale di Rosa Luxemburg, che ha lavorato su questo tema in

relazione all’espansione imperiale dell’Occidente in L’accumulazione del capitale

(1913), è che il fenomeno descritto nel Capitale non vada circoscritto al momento

aurorale del capitalismo, ma rappresenti una costante nel suo processo storico-

evolutivo: il capitalismo ha avuto bisogno, durante il suo sviluppo, di poter contare, nei

momenti di crisi da sovrapproduzione, su risorse appartenenti a spazi esterni al sistema,

muovendosi perennemente in una logica interno/esterno. David Harvey riprende

quest’idea di Luxemburg e parla, piuttosto che di accumulazione primitiva, di

“accumulazione per espropriazione”24. Alcuni dei meccanismi di accumulazione

primitiva analizzati da Marx non solo sono ancora attivi, ma negli ultimi decenni sono

stati perfezionati, basti pensare al modo in cui funzionano il sistema creditizio e il

sistema finanziario in genere; oppure hanno ricevuto un’accelerazione, come nel caso

dello “sradicamento delle popolazioni rurali e [della] formazione di un proletariato

senza terra”25, mentre altri meccanismi totalmente nuovi hanno fatto nel frattempo la

loro comparsa sulla scena: si pensi ai diritti sulla proprietà intellettuale e al sistema dei

brevetti sul materiale genetico e in generale alla c.d. bioeconomia. Insomma, il sistema

capitalista sembra risolvere periodicamente, secondo Harvey, le sue crisi di

sovraccumulazione mediante il ricorso a movimenti di enclosures che creano nuove

occasioni di investimento redditizio mediante l’appropriazione a basso costo di risorse

che sono state prodotte al di fuori del sistema economico. Questi movimenti di

enclosures non riguardano solo il sud del mondo, non hanno bisogno – come pensava

24 Cfr. D. Harvey, The New Imperialism, Oxford, Oxford University Press, 2003; trad. it. La guerra

perpetua. Analisi del nuovo capitalismo, Milano, il Saggiatore, 2006.

25 Op. cit., p. 122.

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40

Luxemburg26 – di un “fuori”, di paesi e gruppi non capitalisti, ma avvengono anche

all’interno dello stesso nord del mondo mediante i nuovi processi di accumulazione per

espropriazione, sia legali che illegali, inventati dal capitalismo contemporaneo27.

Piuttosto che parlare di interno/esterno come faceva Luxemburg, Fraser preferisce

utilizzare la metafora del primo piano (foreground) e dello sfondo (background): il

capitalismo avrebbe una storia ufficiale, che è quella dello sfruttamento del lavoro

salariato, e una storia rimasta per lo più non raccontata che fa riferimento a quegli

elementi di sfondo che hanno reso possibile e continuano a rendere possibile il

funzionamento del sistema economico, come ad esempio lo sfruttamento delle risorse

naturali e del lavoro di riproduzione sociale, che oggi viene anche definito lavoro di

cura o lavoro affettivo. Con un’analisi per certi versi simile a quella sviluppata da

Nancy Hartsock, Fraser sostiene che il processo di accumulazione per espropriazione

non deve considerarsi neutro rispetto al genere: le donne risultano toccate da questo

processo in modo molto più consistente degli uomini, come è evidente nei processi

contemporanei di femminilizzazione del lavoro e delle migrazioni. Ciò è, in qualche

misura, anche inevitabile finché saranno le donne ad essere le più coinvolte nell’ambito

delle relazioni non-economiche del consumo e della riproduzione sociale28. Gli elementi

di sfondo dimostrano come il dominio di genere fosse in qualche modo fin dall’inizio

implicito nelle condizioni stesse che hanno consentito la nascita del capitalismo – come

già avevano teorizzato all’inizio degli anni settanta Selma James e Mariarosa Dalla

Costa e successivamente Silvia Federici29. Essi non rappresentano un esterno, un fuori,

26 Cfr. op. cit., cap. IV. Non è questo l’unico punto su cui Harvey si distacca dall’interpretazione della

Luxemburg; un altro aspetto problematico dell’analisi luxemburghiana è rappresentato, secondo lui, dal

ricondurre l’origine delle crisi che cercano soluzione mediante la riattivazione di processi di

accumulazione per espropriazione a crisi legate al crollo dei consumi. Su questo punto concorda anche N.

Hartsock, “Globalization and Primitive Accumulation”, in N. Castree, G. Derek (a cura di), David

Harvey: A Critical Reader, London, Blackwell Publishing, 2006, p. 184.

27 Che la fase attuale dello sviluppo capitalistico abbia reinventato meccanismi di accumulazione

primitiva è sostenuto anche da Saskia Sassen nel suo Expulsions. Brutality and Complexity in the Global

Economy, Cambridge (Mass.)-London (UK), The Belknap Press of Harvard University press, 2014.

28 N. Hartsock, “Globalization and Primitive Accumulation”, cit., p. 183.

29 Cfr. M. Dalla Costa, S. James, The Power of Women and the Subversion of the Community, Bristol,

Falling Wall Press Ltd, 1973 (I 1972) e S. Federici, Caliban and the Witch. Women, the Body and

Primitive Accumulation, New York, Autonomedia, 2004. Negli anni Ottanta del secolo scorso l’opera di

Maria Mies segna un’altra importante tappa teorica nell’analisi del rapporto tra sfera produttiva e

riproduttiva all’interno del sistema capitalista: la questione viene, infatti, ora inserita nel quadro dei

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41

ma una condizione di sfondo in quanto sono un prodotto contemporaneo alla nascita

stessa del sistema capitalista, che ha lavorato all’origine della modernità al fine di

innalzare barriere di separazione tra lavoro produttivo e riproduttivo, tra umano e

naturale, tra politico ed economico30.

Gli spazi di sfondo sono stati asserviti al sistema ma, sostiene Fraser, essi funzionano

secondo una normatività non-economica che nulla ha a che fare con quella

individualista, competitiva e meritocratica del mercato. Da tali spazi, per questo, nei

momenti in cui più forte diviene la necessità predatoria del sistema, come accade

particolarmente nei periodi di crisi – quale quello attuale – sorgono le forze di

resistenza, come mostrano oggi i movimenti ecologisti, i movimenti anticapitalisti, i

teorici del ritorno ai commons o a un’economia solidaristica e della decrescita. Le lotte

politiche nascono dalla necessità di ridefinire e rifissare i confini tra l’economico e il

non economico. Sbagliano però, secondo Fraser, quei movimenti che nella lotta al

rapporti tra Nord e Sud del mondo. L’ideologia della “casalinghitudine” viene legata ad una gerarchia del

lavoro differenziata sulla base non solo del genere e della classe, ma anche della razza. La sociologa

tedesca, autrice di alcuni testi importanti che hanno esercitato una notevole influenza sul femminismo

postcoloniale, sarà una delle prime a denunciare come la crescita delle economie occidentali sia stata

alimentata, e continui ad alimentarsi, anche nel periodo successivo alle lotte di indipendenza e quindi

dopo la fine del colonialismo, attraverso il libero sfruttamento non solo delle risorse naturali ma anche

delle risorse umane del terzo mondo. Nell’analisi pionieristica della Mies, attenta al nesso tra lavoro

produttivo e ri-produttivo all’interno del sistema economico globale, il lavoro delle donne appare oggetto

di forme di sfruttamento rese spesso invisibili dal mantenimento di visioni tradizionali – come mostra il

caso delle merlettaie di Narsapur, studiate da Maria Mies nel 1982, che illustra come donne di una realtà

ancora prevalentemente contadina e tribale siano state “integrate” all’interno della divisione globale del

lavoro e del sistema di accumulazione capitalista, in modi che ne consentono lo sfruttamento. L’ideologia

della casalinga e della domesticità, che definisce la posizione della donna in relazione alla famiglia, al

matrimonio e all’eterosessualità, e il fatto che il lavoro delle merlettaie si svolga a domicilio, fanno sì che

la contraddizione tra questi due momenti renda invisibile l’attività produttiva delle donne (ridotta ad

attività secondaria o hobby, il che, per altro, giustifica salari bassi) e mantenga la finzione del male

breadwinner. Di Maria Mies, si vedano in particolare: Lace Makers of Narsapur: Indian Housewives

Produce for the World Market, London, Zed Books, 1982; Patriarchy and Accumulation On A World

Scale: Women in the International Division of Labour, London, Zed Books,1986. Il caso delle merlettaie

di Narsapur, come quelli delle lavoratrici a domicilio della Sillicon Valley, impiegate nel settore

dell’elettronica, delle lavoratrici domestiche del Bangladesh nelle sartorie industriali delle Middlelands

occidentali inglesi e delle donne Gujarati impiegate nell’indotto dei maglifici industriali delle

Middlelands orientali – analizzati da Mohanty nel saggio Lavoratrici e politica della solidarietà –

mostrano le forme di sfruttamento e di dominio di un patriarcalismo pubblico alleato al vecchio

patriarcalismo privato, oggi esercitato dalle grandi corporations con la complicità degli Stati (cfr. C.T.

Mohanty, Feminism without Borders: Decolonizing Theory, Practicing Solidarity, New York, Duke

University Press, 2003; trad. it. a cura di R. Baritono, Femminismo senza frontiere, Verona, Ombre corte,

2012).

30 Cfr. N. Fraser, The Significance of Rosa Luxemburg for Contemporary Theory, cit., Ead., Behind

Marx’s Hidden Abode, cit.

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42

sistema capitalista idealizzano la natura, il lavoro di cura gratuito, l’autogoverno, come

se essi fossero buoni a priori in quanto esterni al sistema. Ognuna di queste pratiche,

secondo l’autrice, non è concepibile se non insieme al suo doppio: naturale/umano,

riproduttivo/produttivo ed economico/politico. Queste coppie nascono

contemporaneamente all’affermarsi del sistema capitalista: non ne sono un fuori, ma

una condizione che rende possibile la stessa creazione del sistema capitalista. Una

critica efficace del sistema capitalista dovrebbe andare non in direzione di quel “double

mouvement” che vede come risposta al mercato la reazione protettiva e difensiva della

società di cui parlava Polanyi, ma di un “triple mouvement” che tenga conto del bisogno

di emancipazione che ha portato ad accettare le spinte radicali del mercato e la sua forza

dissolvente nei confronti di una società che può essere conservatrice e poco attenta al

desiderio di libertà degli individui. Pur con questa riserva, Fraser ritiene tuttavia che

dalla lettura di Polanyi possano oggi venire utili indicazioni sulla natura

multidimensionale delle crisi del sistema capitalista, compresa l’attuale che è

simultaneamente una crisi del lavoro di riproduzione sociale, una crisi ecologica e una

crisi finanziaria31.

Su questi temi Nancy Fraser sta ancora lavorando con l’obiettivo di arrivare ad una

nuova aggiornata critica del sistema capitalista, partendo dalla convinzione che la svolta

poststrutturalista degli anni ottanta e novanta sia stata in parte responsabile

dell’indebolimento del femminismo socialista. Guardando indietro, a Polanyi, a

Luxemburg e a Marx, tuttavia, non diversamente da David Harvey32, Fraser sembra far

poco i conti con la questione della novità del neoliberalismo: il neoliberalismo rischia di

apparire infatti “semplicemente” come una intensificazione delle forme di sfruttamento

da sempre proprie del sistema capitalista33. In questo modo, ad essere messa in secondo

31 Cfr., in particolare, N. Fraser, Fortunes of feminism. From state-managed capitalism to neoliberal

crisis, cit.; Ead., A Triple Movement? Parsing the Politics of Crisis after Polanyi, cit; ed Ead., Can

societies be commodities all the way down?, cit.

32 L’interesse di tornare a leggere La grande trasformazione di Polanyi è sostenuto anche da David

Harvey nel suo A Brief History of Neoliberalism, New York, Oxford University Press, 2005; trad. it. di

Pietro Meneghelli, Breve storia del neoliberalismo, Milano, il Saggiatore, 2007.

33 Che questo tipo di interpretazioni non riescano a cogliere del tutto la novità del neoliberalismo è

sostenuto anche da Dardot e Laval (cfr. P. Dardot, C. Laval, La nouvelle raison du monde. Essays sur la

société néolibéral, Paris, Edition la découverte, 2009; tr. it. di R. Antonucci, M. Lapenna, La nuova

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43

piano è la questione della specificità della razionalità o governamentalità neoliberale e

delle trasformazioni antropologiche che essa ha prodotto, che riguardano di nuovo in un

modo del tutto peculiare la soggettività femminile34. In quest’ultima direzione di ricerca

si sviluppa, invece, come vedremo, il lavoro di Angela McRobbie in The Aftermath of

Feminism.

3. Angela McRobbie: il postfemminismo e il trionfo della femminilità imprenditoriale

A partire da un’analisi della cultura di massa che si è affermata nel mondo anglosassone

alla fine degli anni Novanta (nel periodo 1997-2007, che viene definito “decennio

postfemminista”), McRobbie evidenzia come il femminismo e le femministe della

seconda ondata siano state sempre più caricaturizzate e descritte dai mass media come

qualcosa di vecchio e superato35. Nelle rappresentazioni più consuete e diffuse le

femministe sono “killjoys” – secondo l’efficace descrizione che ne dà Sara Ahmed36 –

sono donne scorbutiche, prive di umorismo, arrabbiate e infelici, capaci di rovinare la

propria e l’altrui felicità. La loro infelicità è legata al loro stesso mettere in discussione

le immagini pubbliche dei luoghi e dei ruoli in cui piacere e felicità dovrebbero trovarsi,

a cominciare dallo spazio domestico. Alle vecchie femministe rompiscatole, cinema,

televisione e pubblicità contrappongono un modello di giovane donna molto diverso:

una donna individualista, competitiva, sessualmente libera, che esalta l’idea del merito e

insegue ideali di bellezza e perfezione. Un modello che presuppone da parte del

soggetto femminile una sempre maggiore capacità di controllo del proprio corpo e delle

proprie scelte, che porta, da un lato, ad un acuirsi di vecchie patologie femminili, quali

l’anoressia, dall’altro alla stigmatizzazione di quante falliscono, prime tra tutte le

adolescenti che incorrono in una maternità non desiderata.

ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, Prefazione di Paolo Napoli, Roma, Derive

Approdi, 2013, pp. 12-18).

34 Su questo punto si veda anche J. Oksala, “Feminism and Neoliberal Governmentality”, Foucault

Studies, 16 (2013), pp. 32-53.

35 Cfr., in particolare: A. McRobbie, “Top Girls? Young Women and the Post-feminist Sexual

Contract”, Cultural Studies, 21, 4-5 (2007), pp. 718-737; Ead., The Aftermath of Feminism. Gender,

Culture and Social Change, Los Angeles, London, New Delhi, 2009, Singapore, Washington D.C, Sage,

2009 ed Ead, “Beyond Post-feminism”, Public Policy Research, 18, 3 (2011), pp. 179-184.

36 S. Ahmed, The Promise of Happiness, London, Duke University Press, 2010.

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44

Attraverso una selezione e incorporazione parziale dei valori femministi, i mass

media e il mondo della moda, in particolare, propongono un’idea di femminilità

perfettamente funzionale alle istituzioni economiche e sociali neoliberali: la donna dei

rotocalchi di moda, di cui si esalta la bianchezza e l’eterosessualità; la giovane che

grazie all’istruzione e, quindi, al merito entra con successo nella competizione del

mercato del lavoro; la “ragazza fallica” (the phallic girl), come la definisce McRobbie,

che vive in modo libero la propria sessualità, preferendo relazioni sessuali prive del

coinvolgimento emotivo. Sulla base di un calcolo costi-benefici, infatti, la ragazza

fallica dà priorità all’investimento sulla propria formazione piuttosto che alle relazioni

sentimentali, evita gravidanze che possano ostacolarne la futura carriera e guarda al

matrimonio come qualcosa che può attendere37. Insomma, elementi del pensiero

femminista, secondo McRobbie, senza la complicità del femminismo – come sembrano

piuttosto pensare Eisenstein e Fraser – sono stati ripresi, dopo un processo di

disfacimento e smembramento, e inseriti in un contesto individualista, caratterizzato da

un lessico in cui dominano parole quali choice ed empowerment. Contrariamente a

Fraser, dunque, McRobbie non crede che si sia verificata una convergenza o si sia creato

un legame inatteso e pericoloso tra femminismo e neoliberalismo; c’è stata piuttosto una

vera e propria decostruzione, se non vero e proprio “annullamento” e una “disfatta”

(l’autrice parla di “feminism undone”, usando un’espressione che richiama l’undoing

gender di Judith Butler38), del femminismo con la creazione di un nuovo regime di

genere che ha agito direttamente sui corpi e sull’immaginario femminile. C’è infatti

un’inestricabile connessione, secondo la sociologa inglese, tra le immagini trasmesse

37 Particolarmente eloquente è una recente ricerca condotta presso l’Università della Pennsylvania a

proposito della vita sessuale delle ragazze del Campus (cfr. K. Taylor, “Sex on Campus: She Play that

Game, too”, The New York Times, (2013): http://www.nytimes.com/2013/07/14/fashion/sex-on-campus-

she-can-play-that-game-too.html?pagewanted=all&_r=0; ultima consultazione: 15 giugno 2014), dalla

quale emerge come le relazioni sessuali senza coinvolgimento emotivo, un tempo ritenute prerogativa

maschile, siano sempre più ricercate oggi anche dalle ragazze, che vi vedono un investimento che

comporta ad un tempo “un basso rischio e un basso costo” (cfr. ivi). Hanna Rosin, nel suo The End of

Men: And the Rise of Women (2012), sostiene che questo tipo di comportamento è diffuso tra le giovani

donne ambiziose che non vogliono distogliere le loro energie dal lavoro accademico, ma al tempo stesso

desiderano godere il piacere del sesso. Su questo fenomeno, v. anche C. Rottenberg, “The Rise of

Neoliberal Feminism”, Cultural Studies, 28, 3 (2014), pp. 418-437; in particolare, p. 430.

38 Sulle difficoltà della traduzione italiana dell’espressione undoing gender usata da Butler, si veda: O.

Guaraldo, “Prefazione. La disfatta del genere e la questione dell’umano”, in J. Butler, La disfatta del

genere, trad. it. di Patrizia Maffezzoli, Roma, Meltemi, 2004, p. 8.

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45

dai mass media e la cultura economica neoliberale; è attraverso questo intreccio tra

cultura di massa, politica ed economia che il discorso femminista è stato sostituito da un

individualismo femminile che ha premiato le donne della classe media piuttosto che

delle classi più basse. Tra donne di classi diverse le distanze sociali ed economiche si

sono ampliate: le donne delle classi basse, infatti, risultano impiegate oggi

prevalentemente nel mercato dei servizi con contratti precari e bassi salari che non

danno loro alcuna indipendenza e sicurezza sul piano economico39. Il caso più noto, che

ha suscitato maggiore scalpore e scandalo, è quello delle impiegate dell’azienda

multinazionale Walmart il più grande distributore al dettaglio a livello globale. Negli

Stati Uniti le dipendenti della Walmart sono pagate così poco che per vivere sono

costrette a rivolgersi ai servizi sociali: risultano oggi infatti il gruppo più numeroso tra

gli utenti di Medicaid40.

Legato all’allargarsi del gap tra donne della classe medio-alta e donne delle classi

basse è oggi anche il fenomeno del c.d. “femminismo neoliberale”, che trova

espressione in testi quali Lean in: Women, Work and the Will to Lead di Sheryl

Sandberg41. Un bestseller, già tradotto in numerose lingue, e un lavoro che, secondo

Rottenberg42, deve considerarsi femminista nella misura in cui risulta consapevole delle

attuali disuguaglianze tra uomini e donne, ma è al tempo stesso chiaramente neoliberale.

In che senso? È neoliberale perché, da un lato, dimentica le forze sociali ed economiche

39 Se le donne guadagnano meno degli uomini tuttavia non è solo questione di scelta lavorativa. In un

articolo del 2012, Naomi Klein riportava i seguenti dati relativi agli Stati Uniti: “[...] a full-time working

woman is paid an average of 77 cents for each dollar earned by a white male in the United States. The

situation is even worse for African-American and Hispanic women, who earn 62 and 54 cents

respectively for every white male dollar”. Nel 2009 la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha

approvato un disegno di legge sull’equità salariale, che l’anno successivo è stato però respinto dal Senato.

Perché il Senato si è opposto? La risposta della Klein è semplice: “Because an unspoken driver of profits

for corporate America is… the ability to pay women less with impunity” (N. Klein, “The Paycheck

Fairness Act’s Realpolitik”, The Guardian, (2012):

<http://www.theguardian.com/commentisfree/2012/jun/08/paycheck-fairness-act-realpolitik>).

40 Cfr. B. Ehrenreich, Nickel and Dimed. On not Getting by in America, New York, Henry Holt and

Company, 2001; trad. it. di A. Bottini, Una paga da fame. Come (non) arrivare a fine mese nel paese più

ricco del mondo, Milano, Feltrinelli, 2004.

41 S. Sandberg, Lean in: Women, Work and the Will to Lead, New York, W. H. Allen; trad. it. di S.

Crimi e L. Tasso, Facciamoci avanti. Le donne, il lavoro e la voglia di riuscire, Milano, Mondadori,

2013.

42 Cfr. C. Rottenberg, “Hijacking Feminism”, Al Jazeera, 25 marzo 2013:

<http://www.aljazeera.com/indepth/opinion/2013/03/201332510121757700.html> (ultima consultazione:

15 giugno 2014) ed Ead., The Rise of Neoliberal Feminism, cit.

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46

che producono le disuguaglianze ancora esistenti tra uomini e donne e, dall’altro,

accetta l’idea che per risolvere queste diseguaglianze le donne debbano lavorare su di

sé, sulla propria autostima, sulla propria capacità di trovare una felice soluzione alla

questione della conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare43. Il messaggio di

Sandberg, che è stato oggetto di critiche molto accese da parte di femministe quali bell

hooks44 e della stessa Angela McRobbie45, ruota intorno a poche semplici idee: 1) più

donne assumeranno posizioni dirigenziali e di comando, migliori saranno le prospettive

per le altre, quasi per una sorta di trickle-down theory, che al momento risulta, però, ben

poco confermata dai fatti; 2) ogni donna deve cercare la felicità che viene dalla giusta

conciliazione tra lavoro e vita privata; 3) le donne, che ormai hanno raggiunto

l’eguaglianza dal punto di vista giuridico, devono ora soltanto “interiorizzare la

rivoluzione”, che significa lavorare sulla loro autostima e non continuare a tirarsi

indietro quando si trovano di fronte alla possibilità di assumere posizioni di potere. Gli

ostacoli maggiori che ancora rimangono loro dinanzi, infatti, sono “internal obstacles”.

La direzione in cui le donne sono invitate a muoversi è, dunque, quella di un controllo

interiore che dia loro la possibilità di raggiungere l’obiettivo dell’autorealizzazione e

della metamorfosi del sé, in perfetta sintonia con la visione neoliberale che vede il

processo di individualizzazione della soggettività femminile come portatore di per sé di

un aumento positivo degli spazi di libertà e di scelta.

È questa una visione del sé riflessivo tardomoderno cui hanno fornito legittimazione,

come ricorda McRobbie, le opere di influenti sociologi contemporanei, quali Anthony

Giddens e Ulrich Beck, attraverso una lettura dell’individualismo contemporaneo in cui

il genere sembra non avere alcuna rilevanza46. Nella realtà, tuttavia, i messaggi veicolati

da popolari format televisivi, incentrati sulle tecniche per reinventare l’aspetto esteriore,

l’abbigliamento e lo stile di vita del soggetto, ripropongono modelli normativi in cui si

43 Cfr. C. Rottenberg, The Rise of Neoliberal Feminism, cit., p. 420.

44 b. hooks, “Dig Deep: Beyond Lean In”, Feministwire, 28 ottobre 2013:

<http://thefeministwire.com/2013/10/17973/> (ultima consultazione: 15 giugno 2014).

45 A. McRobbie, “Wir erleben einen feministischen Frühling”, Spiegel Online Kultur, intervista di

Hannah Pilarczyk, 18 maggio 2013: <http://www.spiegel.de/kultur/gesellschaft/angela-mcrobbie-ueber-

sexismus-feminismus-sheryl-sandberg-a-900448.html> (ultima consultazione: 15 giugno 2014).

46 Cfr. A. McRobbie, The Aftermath of Feminism. Gender, Culture and Social Change, cit., pp. 44-45.

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47

ribadiscono non solo le differenze di genere, ma anche, attraverso la stigmatizzazione di

certi stili di vita, le differenze di classe. Chi viene invitato a sottoporsi al processo di

trasformazione di sé, infatti, se non accetta questa metamorfosi, è implicitamente

accusato di mancanza di gusto, di un fallimento nelle proprie scelte, della mancanza di

un adeguato capitale sociale e culturale. Format televisivi quali What not to Wear o

Extreme Makeover raccontano della necessità di una spesa su di sé e sul proprio corpo

che non è volta al consumo per il consumo, ma intesa come investimento su se stessi: il

ritocco al proprio look equivale qui, infatti, ad una vera e propria operazione di

rivalutazione del valore nominale del proprio capitale umano47. Il messaggio potente e

illusorio veicolato da queste trasmissioni televisive è che la differenza di classe non è

una questione di reddito, ma una questione di stile.

Nell’articolare questa riflessione, come anticipato all’inizio del lavoro, diversamente

da Fraser, McRobbie trova un sostegno teorico fondamentale nell’opera di Foucault, in

particolare nelle lezioni sulla nascita della biopolitica che quest’ultimo tenne tra il 1978

e il 1979 al Collège de France48. Per Foucault, il neoliberalismo, che vede le sue prime

formulazioni in Germania negli anni trenta tra i teorici dell’Ordoliberalismo e,

successivamente, tra gli economisti della scuola di Chicago, corrisponde ad un

particolare tipo di razionalità politica, che ha tratti inediti rispetto all’idea di libero

mercato che può farsi risalire ad Adam Smith. Il mercato non è più inteso, infatti, come

una realtà naturale, dotata di leggi proprie che il governo deve rispettare; il mercato

piuttosto è visto come necessitante di un continuo intervento politico volto ad

assicurarne la competitività. Il governo stesso diventa una sorta di impresa atta a

universalizzare la competizione ed è esso stesso sottoposto al costante giudizio del

tribunale del mercato. Nella visione neoliberale, più delle dimensioni dello Stato, è

rilevante la ridefinizione del suo ruolo e, quindi, delle sue funzioni rispetto all’economia

– questo spiega, per altro, perché alcuni considerano la terza via e il c.d. social

investment state, che si afferma con Blair e Clinton nella seconda metà degli anni

47 Cfr. ivi.

48 M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au College de Frances, 1978-1979, Paris, Seuil,

2004; trad. it. di M. Bertani e V. Zini, La nascita della biopolitica, Milano, Feltrinelli, 2005.

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48

Novanta, “a neoliberal wolf in lamb’s clothes”49, piuttosto che un paradigma del tutto

nuovo rispetto al passato. Il dogma della crescita economica diventa il banco di prova

indiscusso e apparentemente indiscutibile, il tribunale permanente, di fronte al quale

viene giudicato l’operato degli Stati e dei governi.

La razionalità di mercato, la logica costi-benefici vengono estese a tutte le istituzioni

e all’intero mondo sociale, che ne risulta così depoliticizzato: spazi di autonomia, che

un tempo venivano considerati aperti all’esercizio della scelta morale, sono neutralizzati

e ridotti a terreno di esercizio di competenze di natura tecnica50. L’individuo stesso – ed

è questo il punto che ha particolare rilevanza ai fini del mio discorso – è invitato a

pensarsi come individuo imprenditore, homo entrepreneur. Il salario derivante dal

lavoro è infatti il reddito di una particolare forma di capitale: il capitale umano. Quali

sono le componenti del capitale umano? Per Gary Becker, il capitale umano è composto

di elementi innati, ereditari, genetici, e di elementi acquisiti. Foucault si rende conto che

proprio il patrimonio genetico è suscettibile di divenire un futuro campo di

investimento, qualora – in un avvenire per lui ancora lontano, ma non impossibile da

immaginare e per noi pienamente dispiegato – si prefigurino possibilità di intervento per

la sua correzione o il suo potenziamento. Oggi, d’altra parte, nell’epoca delle

neuroscienze e del passaggio da soggetto molare a quello molecolare51, in cui siamo

chiamati a immaginarci come “sé neuronali”, questo capitale umano coincide anche con

il potenziamento delle capacità cerebrali52. L’enhancement delle nostre funzioni

cognitive e fisiche, l’allenamento del corpo, la nutrizione, il makeup, ogni aspetto del

nostro corpo, in ogni sua molecola, diventano potenziale oggetto di investimento. Il

49 W. McKeen, “The National Children’s Agenda: A Neoliberal Wolf in Lamb’s Clothing”, Studies in

Political Economy, 80 (2007), pp. 151-173.

50 Sugli effetti di democratizzazione e depoliticizzazione prodotti dall’avvento della razionalità

neoliberale, sempre sulla scia dell’interpretazione foucaultiana, insiste anche Wendy Brown (cfr. W.

Brown, “Neo-liberalism and the End of Liberal Democracy”, Theory and Event, 1, 7 (2003), pp. 1-25 ed

Ead., “American Nightmare: Neoliberalism, Neoconservatism, and De-Democratization”, Political

Theory, 34, 6 (2006), pp. 690-714).

51 Cfr. N. Rose, The Politics of Life Itself: Biomedicine, Power, and Subjectivity in the Twenty-first

Century, Princeton, Princeton University Press, 2006; trad. it. di M. Marchetti e G. Pipitone, La politica

della vita, Torino, Einaudi, 2008.

52 Cfr. N. Rose e J. M. Abi-Rached, Neuro. The New Brain Science and the Management of the Mind,

Princeton and Oxford, Princeton University Press, 2013.

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49

concetto di capitale umano copre tutto ciò che facciamo: da quanto mangiamo, alle

nostre attività ricreative, alla nostra vita sessuale, fino all’ambiente sociale, all’influenza

della famiglia, delle cure e delle attenzioni ricevute, a tutto ciò che ci accade o che si

eredita. Il concetto di capitale umano fa saltare il confine tra sfera produttiva e

riproduttiva, tra l’economico e il sociale, tra produzione e consumo, nel senso che il

calcolo costo-benefici viene esteso e disseminato a tutte le pratiche sociali; non ne

rimane immune la famiglia. Ciò, insieme all’ingresso nel mondo del lavoro delle donne,

fa sì che ora il soggetto imprenditore possa immaginarsi privo di genere: anche la donna

è invitata a comportarsi come imprenditrice di sé, ad assumere rischi53, dopo aver

attentamente valutato costi e benefici54.

Processi di personal branding e outsourcing riguardano donne e uomini – come

illustra il lavoro recente di Hochschild55. Il soggetto – come si trattasse di un’azienda –

è invitato a focalizzare le proprie energie sul proprio core business per valorizzarlo, nel

caso del personal branding, e al tempo stesso per esternalizzare, ovvero delegare

all’esterno, al mercato, tutte quelle attività che possono consentire una riduzione dei

suoi costi operativi e garantirne la competitività56. Ciò ha portato a una rapida

mercificazione della sfera privata con l’emergere di una nuova configurazione delle

forme in cui si manifesta la divisione tra lavoro riproduttivo e lavoro produttivo, che in

qualche misura risultano sempre più difficilmente distinguibili.

53 Osserva De Majo: “La retorica neoliberale poggia proprio su questa capacità di rischiare e

scommettere costantemente su di sé e sugli altri. Il rischio stesso viene strettamente connesso alla libertà

o, più specificamente, alla sua forma illusoria. Se apparentemente la società del rischio è una società che

deve produrre spazi di libertà proprio perché il rischio assuma una forma sempre più estrema e radicale,

in realtà questa libertà dell’iniziativa economica e finanziaria produce margini inediti di controllo e

irreggimentazione entro parametri quantitativi. Il gioco d’azzardo su di sé e sugli altri, a cui si viene

educati fin dalla giovane età, sancisce la messa al bando di qualsiasi relazione fondata su orizzontalità e

disinteresse, in funzione della possibilità di profitto che si cela dietro ogni singolarità” (E. De Majo, Una

partita a poker. Neoliberismo e cittadinanza economica secondo differenza, in IAPh Italia, Annuario

2013-2014, Roma, 2014, p. 28).

54 J. Oksala, Feminism and Neoliberal Governmentality, cit.

55 A. Russell Hochschild, The Outsourced Self. What Happens When We Pay Others to Live Our Lives

for Us, New York, Henry Holt and Company, 2012.

56 Come mostra nei suoi recenti lavori Hochschild, che però non cita Focault, questa concezione

imprenditoriale del sé affermatasi con l’avanzare del neoliberalismo consente di concepire come

prestazione di lavoro, o servizio, persino attività come quelle della madre surrogata (cfr. ivi).

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50

Per capire meglio le implicazioni di questa trasformazione della soggettività può

essere utile – sulle orme di Michel Feher – distinguere il paradigma del lavoratore libero

da quello del capitale umano. Il primo presuppone un sé diviso, costituito da una

soggettività autentica e inalienabile e da una forza lavoro che può essere ceduta: “è

diviso tra la riproduzione della società di lavoratori liberi (ovvero, la sua riproduzione

biologica, sociale, culturale e morale) e la produzione, la circolazione e il consumo di

merci. Infine, è diviso tra le aspirazioni spirituali e il perseguimento dei suoi interessi

materiali”57. Per pensarsi come libero il lavoratore deve immaginare se stesso e parti

della propria vita come non alienabili, ovvero deve immaginarsi come proprietario di sé

e del proprio lavoro – secondo il modello di self-ownership inaugurato da Locke. Nel

paradigma del capitale umano questa separazione viene meno e l’individuo non

corrisponde più al modello dell’individualismo proprietario: i soggetti sono piuttosto

visti come “manager di un portfolio di condotte che riguardano i vari aspetti della vita”

e il problema è decidere cosa includere e cosa escludere dal portfolio per valutare se

stessi di più. La relazione tra il soggetto neoliberale e il suo capitale umano è – dice

Feher – “speculative, in every sense of the word”58 e non proprietaria. Salute, istruzione,

cultura sono tutte possibili investimenti e non condizioni esterne per la riproduzione del

lavoratore59.

Al di là del lessico neutrale che tende a caratterizzare tanto il discorso sul

neoliberalismo che quello sul social investment state, che alcuni definiscono

postneoliberalismo o liberalismo inclusivo, nell’ottica dell’investimento il modello

imprenditoriale si estende anche alle donne e in particolare – come anche Foucault

aveva intuito – alla madre. La figura materna diventa una particolare figura di

imprenditrice, in quanto viene caricata della responsabilità di gestire e rendere

57 M. Feher, “Self-appreciation; or, the Aspiration of Human Capital”, Public Culture, 21, 1 (2009),

pp. 21-41; in particolare, p. 29, trad. it. mia.

58 Ivi, p. 34.

59 Feher sostiene che la sinistra potrebbe piegare questo modello dell’autovalorizzazione del sé ai suoi

fini, provocando diverse conseguenze politiche a partire da una serie di interrogativi su cosa sia richiesto

in termini quantitativi e qualitativi per aiutare qualcuno ad aiutare se stesso, come la socialdemocrazia in

passato ha fatto con il modello del lavoratore libero, originariamente proposto dal versante liberale, ma

poi fatto proprio dai sindacati nelle loro battaglie (cfr. ivi).

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51

produttivo, secondo una rigorosa logica costi-benefici, quel capitale umano in

formazione che è il minore.

Già alla fine degli anni settanta, Foucault sottolineava come, in questo nuovo

modello economico, la produzione di bambini si presenti come un terreno privilegiato di

investimento per un individuo imprenditore il cui orientamento è necessariamente volto

al futuro60. Si legge nelle sue lezioni sulla nascita della biopolitica:

E se vorrete avere un figlio con un capitale umano elevato, inteso semplicemente in termini

di elementi innati e di elementi ereditari, vedete bene che sarà necessario effettuare tutto un

investimento, il che significa aver lavorato a sufficienza, avere redditi sufficienti, avere uno

status sociale che vi consentirà di prendere come congiunto o come co-produttore di questo

futuro capitale umano, qualcuno il cui capitale sarà a sua volta di una certa rilevanza. Tutte

queste cose di cui parlo non sono affatto uno scherzo; si tratta di una forma di pensiero o di

un tipo di problematica attualmente in corso di elaborazione61

.

In questo modo la sfera domestica, come osserva McRobbie62, diventa il terreno di

una nuova lotta di classe. Il modello della madre o dei genitori investitori, responsabili

dell’investimento del capitale umano del figlio, che oggi sempre più le neuroscienze

individuano nelle potenzialità di sviluppo del cervello nei primi tre anni di vita, impone

standard molto esigenti che sembrano ritagliati per la classe media63. Insieme alla fatica

fisica e mentale, derivante da una perenne ansia da prestazione, crescono, infatti, le

spese che, secondo questo ideale familiare, i genitori devono sostenere per la cura e

l’educazione del minore prescolare, a cominciare dalla spesa destinata all’acquisto di

giochi intelligenti (come i Baby Einstein Toys, i Baby Mozart o i Brainy Babies),

accuratamente pensati per genitori cui servono istruzioni precise e possibilmente veloci

60 Su questo v. anche S. Forti e O. Guaraldo, “Rinforzare la specie. Il corpo femminile tra biopolitica e

religione materna”, Filosofia politica, 1 (2006), pp. 57-78.

61 M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 189.

62 A. McRobbie, Feminism, Neoliberalism and Family: Human Capital at Home, CIBC Hall

(McMaster campus), (2012): <http://www.youtube.com/watch?v=bv8a4V8CE6c> (ultima consultazione:

15 giugno 2014) ed Ead., “Feminism and the New ‘Mediated’ Maternalism: Human Capital at Home”,

Feministische Studien, 31,1 (2013), pp. 136-143.

63 Mi permetto di rimandare qui a B. Casalini, “Cittadini fatti a macchina: neuroscienza, mito e

politica”, Bollettino telematico di filosofia politica, (2013):

<http://commentbfp.sp.unipi.it/?page_id=724> ed Ead. “Dal seno al cervello. La corsa alla mamma

eccellente”, InGenere, (15 agosto 2013): <http://ingenere.it/finestre/dal-seno-al-cervello-la-corsa-alla-

mamma-eccellente>

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

52

e sicure su cosa fare al fine di offrire le corrette stimolazioni sul piano emozionale e

cognitivo al proprio bambino64. Quando entrambi i genitori lavorano, la ricerca del

migliore nido e della migliore scuola materna (i curricula formativi in età prescolare

sono oggetto di sempre più numerose sperimentazioni) comporta spesso un grosso

impegno economico e di tempo65. Una maternità all’altezza dell’aspirazione di “avere

un figlio con un capitale umano elevato” è riservata di fatto alle madri benestanti, che

nell’immaginario delle pubblicità di rotocalchi e televisione sono anche attive, atletiche

e ambiziose. A questo prototipo di mamma perfetta ed efficiente viene sempre più

spesso contrapposta, quale modello negativo – come sottolinea McRobbie66 – la madre

dell’underclass, e in genere le madri sole dipendenti dal welfare, donne che vengono

non di rado rappresentate dai mass media come trasandate, grasse e disfatte, insomma

con un’apparenza che “nell’universo morale odierno implica inefficienza, promiscuità e

una genitorialità inadeguata”67. Attraverso queste rappresentazioni la dismissione del

welfare, ormai in atto da tempo, trova una legittimazione mediante la conferma

dell’esistenza residuale di un’umanità abietta per la quale è inutile destinare la spesa

sociale.

L’altra faccia della medaglia di una società meritocratica, che si vuole “senza classi”,

in cui ogni individuo che investa saggiamente su se stesso e calcoli prudentemente i

rischi può farcela a salire i gradini della scala sociale, che esalta i valori

dell’individualismo, della scelta e della libertà, è, dunque, la costruzione sociale di “vite

di scarto”68, di “rifiuti” o di quella che Loïc Wacquant – come vedremo tra breve –

chiama “marginalità avanzata”. A quest’ultimo autore è utile guardare per approfondire

il modo in cui funziona questo processo di costruzione della marginalità nell’epoca

64M. H. Nadesan, “Engeneering the Entrepreneurial Infant: Brain Science, Infant Development Toys,

and Governmentality”, Cultural Studies, 16, 3 (2002), pp. 401-432.

65 Cfr. G. Wall, “Is your Child’s Brain Potential Maximized?: Mothering in an Age of New Brain

Research”, Atlantis, 28, 2 (2004), pp. 41-50 ed Ead., “Mothers’ Experience with Intensive Parenting and

Brain Development Discourse”, Women’s Studies International Forum, 33 (2010), pp. 253-263.

66 Cfr. A. McRobbie, Feminism, Neoliberalism and Family: Human Capital at Home, cit. ed Ead.,

“Feminism and the New ‘Mediated’ Maternalism: Human Capital at Home”, cit.

67 Op. cit., p. 125.

68 Z. Bauman, Wasted lives. Modernity and its Outcasts, Cambridge, Polity Press, 2004; trad. it. Vite di

scarto, Bari, Laterza, 2004.

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53

neoliberale e per integrare, come ho anticipato nell’introduzione, le visioni proposte da

Fraser e McRobbie.

4. La violenza simbolica e materiale dello Stato neoliberale e la creazione della marginalità avanzata

Secondo Wacquant, se l’interpretazione neo-marxista finisce per eguagliare

neoliberalismo con libero mercato, vedendolo come il risultato della

deregolamentazione, della privatizzazione e del ritrarsi dello Stato dalle tradizionale

aree di intervento del welfare state keynesiano, e dandone quindi una visione coerente e

monolitica, quella foucaultiana propone invece un quadro “confuso”69, nel quale si

abbandona la discussione sul ruolo dello Stato per analizzare piuttosto i processi di

governo, ovvero una razionalità globale e una normatività generalizzata, che “‘tende a

strutturare e organizzare, non solo le azioni dei governanti, ma anche la condotta dei

governati stessi’ e persino la loro concezione di sé secondo i principi della

competizione, dell’efficienza e dell’utilità”70. Manca in entrambe queste interpretazioni

un elemento centrale della visione neoliberale, così come viene formulata fino al suo

primo apparire durante il Colloquio Lippmann che si tenne a Parigi nel 193871, ovvero

l’analisi del cuore istituzionale del progetto neoliberale che consiste in “un’articolazione

del rapporto Stato, mercato e cittadinanza che imbriglia (utilizza) il primo affinché il

secondo metta il proprio marchio sulla terza. Tutt’e tre le istituzioni – scrive Wacquant –

devono quindi essere sottoposte ad analisi”72. A differenza che nella visione neo-

marxista il neoliberalismo si configura dunque qui come un progetto politico, prima

69 Cfr. L. Wacquant, “Three Steps to a Historical Anthropology of Actually Existing Neoliberalism”,

Social Anthropology, 20, 1 (2010), pp. 66-79.

70Ivi, p. 70.

71 Il Colloquio Lippmann si tenne il 26 agosto del 1938 a Parigi ed è da molti – a cominciare da

Foucault – considerato l’atto di nascita del neoliberalismo. Il Colloquio fu organizzato in occasione della

traduzione in francese dell’opera The Good Society (1937) di Walter Lippmann, approfittando della

presenza di quest’ultimo a Parigi. Si concluse con una dichiarazione in cui ci si impegnava a costruire un

centro internazionale di studi per il rinnovamento del liberalismo. La creazione nel 1947 della Società di

Monte Pellegrino è spesso considerata un prolungamento di quella prima iniziativa. Per una ricostruzione,

non sempre concorde, della storia del neoliberalismo, cfr. P. Dardot e C. Laval, La nuova ragione del

mondo. Critica della razionalità neoliberista, cit., e S. Augier, Néo-libéralisme(s). Une archeologie

intellectuelle, Paris, Grasset, 2012.

72 L. Wacquant, “Three Steps to a Historical Anthropology of Actually Existing Neoliberalism”, cit., p.

71.

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54

ancora che economico, che si concentra non sulle tecnologie governamentali – come

l’approccio foucaultiano73 – ma sulla ridefinizione e sul reengineering del ruolo dello

Stato. In particolare, Wacquant lo definisce come un progetto politico transnazionale,

perché portato avanti da una nuova classe di governo in formazione, composta di capi di

aziende transnazionali, politici di alto rango, manager di Stato e funzionari di alto grado

di organizzazioni multinazionali, quali OECD, WTO, IMF, World Bank e Unione

Europea, e comunità epistemiche che collaborano o operano all’interno di queste

organizzazioni.

L’analisi della nuova ingegneria statuale inaugurata con l’avvento del neoliberalismo

è al centro di una trilogia, a cui Wacquant ha lavorato per più di un decennio, che ruota

intorno alla relazione tra povertà/etnicità, Stato sociale e Stato penale nell’era del

neoliberalismo trionfante e, come scrive l’autore stesso, è volta a “svelare il nesso

triangolare tra trasformazioni di classe, divisione etnico-razziale e ritorno dello Stato

nell’era dell’egemonia neoliberale”74. Nel primo volume della trilogia, Urban Outcasts

(2008), si diagnostica l’emergere di un nuovo regime della povertà urbana, distinto dal

regime dell’epoca keynesiana-fordista prevalso fino agli anni Settanta. Questo nuovo

regime viene chiamato dall’autore della “marginalità avanzata”, perché non si tratta né

di una marginalità residuale né di una marginalità ciclica: è piuttosto una marginalità

iscritta nel futuro delle società avanzate, soggette alle tensioni della deregolamentazione

capitalista. La marginalità avanzata è il prodotto di sei fattori: 1) la flessibilizzazione e

73 La visione di Wacquant si distacca da quella di Foucault anche per quanto riguarda l’analisi del

sistema penitenziario. Se Foucault era arrivato alla fine degli anni settanta ad annunciare il declino del

penitenziario, Wacquant mette in luce nei suoi lavori il carattere errato di questa diagnosi: “penal

confinement has made a stunning come back and reaffirmed itself among the central missions of

Leviathan just as Foucault and his followers were forecasting its demise”. Non solo la prigione continua

ad essere una presenza importante, ma essa non ha più quella funzione di dressage che le attribuiva

Focault: “In lieu of the dressage (“training” or “taming”) intended to fashion “docile and productive

bodies” postulated by Foucault, the contemporary prison is geared toward brute neutralization, rote

retribution, and simple warehousing – by default if not by design”. Le tecniche di normalizzazione

disciplinare, nate nel carcere, per certi versi si sono diffuse all’interno di tutta società; mentre continua ad

essere fortemente diversificato il trattamento riservato alle classi basse da quello riservato alle classi alte.

Contrariamente alle previsioni di Foucault si assiste oggi ad una “law and order pornography” attraverso i

media commerciali e il discorso politico in generale (cfr. L. Wacquant, Crafting the Neoliberal State:

Workfare, Prisonfare, and Social Security, cit., pp. 205-206).

74 L. Wacquant,“The Wedding of Workfare and Prisonfare in the 21st Century: Responses to Critics

and Commentators”, in Squires, Peter; Lea, John (a cura di), Criminalisation and advanced marginality:

Critically Exploring the Work of Loïc Wacquant, London, Polity Press, 2012, pp. 243-257.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

55

frammentazione del lavoro salariato, che produce insicurezza e disintegrazione sociale;

2) la disconnessione funzionale della marginalità rispetto ai trend dell’economia

globale, per cui le chance delle popolazioni marginali rimangono invariate anche in fasi

di crescita economica; 3) la segregazione e stigmatizzazione territoriale; 4) la

dissoluzione di legami e appartenenze e la trasformazione dello spazio comunitario in

uno spazio alienato e indifferente, di mera sopravvivenza; 5) la perdita del retroterra,

ovvero di quelle possibilità di protezione e sostegno che un tempo venivano fornite

dalle istituzioni locali, dalla rete familiare e di vicinato; 6) e infine dal venir meno di

possibilità concrete di azione, di resistenza e di rappresentanza collettiva che deriva

dalla frammentazione sociale, dalla crisi dei sindacati e dalla loro difficoltà ad operare

al di fuori dei luoghi di lavoro75. In Punishing the Poor (2009)76, il secondo volume

della trilogia, Wacquant spiega come lo Stato cerchi di assicurarsi l’accettazione sociale

di questa situazione, da esso stesso creata con la deregolamentazione del mercato del

lavoro, attraverso l’invenzione di un nuovo governo dell’insicurezza sociale che

coniuga la disciplina del workfare con un ipertrofico apparato penale. Ciò significa che

se si vuole capire la nuova regolazione del problema della povertà oggi bisogna tenere

in considerazione contemporaneamente l’agire congiunto della mano sinistra (il

versante materno dello Stato, impegnato nello svolgimento di funzioni sociali, relative

all’educazione pubblica, alla casa, al diritto del lavoro, alla sanità, al welfare) e della

mano destra dello Stato (il versante maschile, che si incarica di far valere la nuova

disciplina economica mediante tagli alla spesa sociale e il ricorso alla politica penale)77:

75 Cfr. L. Wacquant, Urban Outcasts. A Comparative Sociology of Advanced Marginality, Cambridge

(UK), Polity Press, 2008, cap. 8. Sulla questione della marginalità contemporanea, v. anche: L. Wacquant,

Advanced Marginality, Ethnoracial Divisions, Neoliberalism and the Strategies of the State, 20 gennaio

2012, Göteborg: <https://www.youtube.com/watch?v=iaIz32fUJkg> (ultima consultazione 15 giugno

2014) e Id., Urban Marginality and the State, Paris, 20-21 giugno 2012:

<https://www.youtube.com/watch?v=3JPAguOSA2E> (ultima consultazione: 15 giugno 2014).

76 L. Wacquant, Punir les pauvres. Le nouveau guovernment de l’insécurité sociale, 2004; trad. it.

Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale, Roma, DeriveApprodi, 2006.

77 Cfr. L. Wacquant, “Crafting the Neoliberal State: Workfare, Prisonfare, and Social Security”,

Sociological Forum, 25, 2 (2010), pp. 197-220; in particolare, p. 201. Per analizzare l’evoluzione delle

politiche penali e di quelle sociali all’interno dello stesso schema teorico Wacquant utilizza il concetto di

“campo burocratico” tratto dalla sociologia di Bourdieu. Il ricorso alla nozione di campo burocratico

consente a Wacquant di vedere il cambiamento della natura dello Stato in epoca neoliberale come un

prodotto di un mix di internazionalità, prove ed errori, logiche burocratiche ed elettorali, piuttosto che il

frutto di un piano deliberato secondo una visione cospiratoria della storia. Riprendendo la nozione di

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

56

nello Stato neoliberale, a differenza di quanto è accaduto negli anni del compromesso

fordista-keynesiano, politica sociale e politica penale vengono ad essere due facce della

stessa medaglia78. Esse convergono nel presupporre la stessa filosofia behaviorista, la

stessa nozione di contratto e di responsabilità individuale, gli stessi meccanismi di

sorveglianza, gli stessi rituali di degradazione e la stessa stigmatizzazione territoriale. Il

terzo volume, che in realtà spiega l’autore è stato pubblicato per primo (in francese, nel

1999) per ragioni di urgenza politica, si intitola Prisons of poverty.

Il nuovo Stato liberale ha la natura di un centauro: se governa sugli individui delle

classi medio-alte attraverso la libertà, esso agisce in modo pesante, autoritario e

paternalistico, quando si tratta delle classi più basse, ovvero quelle classi che subiscono

più direttamente le conseguenze distruttive della deregolamentazione economica79.

Quest’azione autoritaria, mediante il regime di workfare e un invasivo apparato penale e

di polizia, si rivela necessaria al fine di contenere, controllare e reprimere le resistenze

che la disciplina di mercato incontra tra le classi più povere che si trovano a dover

affrontare una diffusa instabilità e insicurezza sociale. Non a caso, sottolinea Wacquant,

il profilo dei destinatari delle azioni delle due mani dello Stato, ovvero degli utenti del

sistema penitenziario e dei servizi sociali, è identico per provenienza sociale, etnica,

razziale e di classe; differisce per un unico tratto fondamentale: il genere (il 90 % tra gli

utenti dei servizi negli Stati Uniti sono madri – sottolinea Wacquant). L’azione penale

infatti si rivolge principalmente alla popolazione povera maschile, mentre i servizi

sociali hanno un’utenza prevalentemente femminile. Workfare e prisonfare agiscono

congiuntamente e svolgono sia una funzione materiale che una funzione simbolico-

espressiva.

La tesi di Wacquant è che ci sia stata in anni recenti una “rimascolinizzazione” dello

Stato: sempre più fondi sono stati sottratti al welfare e destinati al sistema penitenziario

al fine di controllare e imbrigliare la resistenza di mariti, fidanzati e figli, spesso

“campo burocratico” di Bourdieu, Wacquant ne corregge alcuni elementi; in particolare aggiunge alla

mano destra dello Stato, oltre al ministero dell’economia e del bilancio, la polizia, le corti e il sistema

carcerario (cfr. ivi, p. 201).

78 Su questo v. anche L. Wacquant, Neoliberalismo e criminalizzazione della povertà negli Stati Uniti,

Verona, ombre corte, 2013.

79 L. Wacquant, “The Wedding of Workfare and Prisonfare in the 21st Century: Responses to Critics

and Commentators”, cit., p. 252.

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57

rinchiusi in prigioni che hanno totalmente perso la loro funzione rieducativa e sembrano

avere ora due sole finalità principali: da un lato, il deposito di persone considerate

“scarti umani” non recuperabili e, dall’altro, una sorta di ‘pornografia penale’, che ha

l’obiettivo di rassicurare le classi medio-alte, più che di reprimere il crimine. Mentre i

maschi poveri (che, nel caso degli Stati Uniti sono per lo più afro-americani abitanti

degli iperghetti, sorti dopo la fine della segregazione degli anni settanta e l’implosione

del ghetto classico) finiscono nella rete del prisonfare, le loro donne sono le destinatarie

privilegiate del sistema di workfare e vengono chiamate in causa, spesso in modo

contraddittorio, sia nel loro ruolo di lavoratrici sia nella loro funzione riproduttrice e di

cura, come target fondamentale del nuovo governo del sociale. Sull’analisi che

Wacquant propone circa le mutazioni del welfare in una prospettiva di genere

convergono molte analisi femministe dedicate alle trasformazioni dello Stato sociale

contemporaneo80.

Cosa si intende con workfare e quali principi lo ispirano? Il principio del workfare

viene sposato dalla terza via di Clinton e Blair e informerà il loro tentativo di

ridisegnare le funzioni dello Stato e del welfare, recependo alcune delle critiche

fondamentali che erano venute dalla destra e dall’impostazione neoliberista. La terza

via, infatti, dà ragione ai neoliberisti su un punto: è preoccupante il numero di persone

che vivono alla spalle dello Stato sociale, e deve essere scongiurata l’eventualità che i

benefici sociali concessi dallo Stato possano favorire il fenomeno dell’azzardo morale e

anche della frode. Il problema non è quindi soltanto che il welfare crei una mentalità

della dipendenza, ma che esso produca comportamenti opportunistici sulla base di un

calcolo di convenienza; in altri termini, il welfare keynesiano utilizzerebbe incentivi

sbagliati che producono effetti opposti a quelli desiderati, non disincentivando stili di

vita devianti. È sulla base di queste spinte di riforma che matura alla fine degli anni

Novanta la filosofia del social investment state ed emerge un nuovo lessico delle

politiche sociali: compaiono ora termini come politiche di attivazione, workfare,

inclusione ed esclusione sociale, capitale umano, capitale sociale, formazione continua.

80 Cfr. A.-M. Hancock, The Politics of Disgust, The Public Identity of the Welfare Queen, New York-

London, New York University Press, 2004 e A M. Smith, Welfare Reform and Sexual Regulation,

Cambridge-New York, Cambridge University Press, 2007 ed Ead., “Neoliberalism, Welfare Policy and

Feminist Theories of Social Justice”, Feminist Theory, 9, 2 (2008), pp. 131-144.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

58

Un lessico che ci è familiare e che dal 2000 ispira anche l’indirizzo che l’Ue suggerisce

in materia di politiche sociali ai singoli stati. Alla base di questa nuova concezione del

ruolo sociale dello Stato vi è un forte richiamo alla responsabilità individuale. Un

richiamo che sembra avere facile presa sull’opinione pubblica: non è semplicemente

giusto che la gente sia responsabile delle proprie scelte e delle conseguenze che ne

derivano? Può sembrare accettabile, infatti, che una società si chieda in quale misura lo

svantaggio materiale relativo di una persona sia conseguenza delle scelte che ha fatto e

in quale misura derivi da circostanze fuori dal suo controllo. La giustizia sembra

richiedere una rettificazione degli svantaggi derivanti dalle circostanze, ma non di quelli

derivanti dalla scelta. Le ineguaglianze derivanti dalle scelte individuali, in questa

prospettiva, possono apparire giustificate. Questo presupposto, apparentemente pacifico,

nella realtà è estremamente problematico: basti pensare alla difficoltà di tracciare una

chiara distinzione tra circostanze e scelta. Da quest’impostazione e da questo tipo di

ragionamento, tuttavia, sono derivati un cruciale slittamento del discorso pubblico dalla

responsabilità collettiva alla responsabilità individuale, dalla giustizia della struttura

sociale o anche soltanto della struttura di base della società, alle scelte dei singoli, ai

loro stili di vita81, e una concezione condizionale dei diritti sociali, per cui requisiti di

reddito non sono ora più sufficienti per poter accedere all’aiuto dello Stato, bisogna

dimostrare la volontà di cambiare il proprio “stile di vita”, la volontà di inserirsi nel

mercato del lavoro, di seguire corsi di formazione, di controllare la propria capacità

riproduttiva, ecc. Il nuovo utente dei servizi, per essere aiutato, deve dimostrare di saper

aiutare se stesso; e questo nel caso delle donne significa soprattutto dimostrare non solo

di voler lavorare, ma anche di essere buone madri. Basti pensare in proposito che negli

Stati Uniti d’America il Personal Responsibility and Work Opportunity and

Reconciliation Act del 1996 ha consentito ad alcuni Stati di introdurre nelle scuole dei

corsi di astinenza sessuale e di richiedere agli utenti dei servizi sociali di frequentare

corsi di assistenza al matrimonio; ha lasciato agli Stati la possibilità di togliere

l’assistenza a quelle madri sole che si rifiutavano di fare il nome del padre del loro

bambino, anche quando il comportamento della donna era giustificato dalla paura che

81 Cfr. I. M. Young, Responsibility for Justice, with a Foreword by Martha Nussbaum, Oxford, Oxford

University Press, 2011.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

59

fare il nome del padre potesse creare un pericolo per lei e per suo figlio82. Che simili

misure possano essere state concepite e adottate si spiega con l’idea ancora molto

diffusa negli Stati Uniti, ma non solo, che una madre sola sia un essere immorale o

quanto meno irresponsabile e incosciente e una sorta di pericolo sociale che giustifica

per questo uno stretto controllo da parte dei servizi sociali83.

La sorveglianza dello Stato e il carattere disciplinare del suo intervento sociale nei

confronti delle madri povere si sono rafforzati anche per effetto della diffusione delle

nuove conoscenze offerte dalle neuroscienze non solo intorno alle condizioni per la

“produzione efficiente” dei futuri lavoratori della conoscenza, ma anche per la

prevenzione dei nuovi rischi sociali84. Un maggiore impegno dello Stato in questa

direzione è stato avallato anche dal pensiero di autorevoli economisti, come il professor

James J. Heckman dell’università di Chicago, il quale da tempo sostiene, rifacendosi

proprio ai risultati delle neuroscienze85, che l’investimento precoce sui minori in età

prescolare, in particolare sui minori che vivono in famiglie svantaggiate, ridurrà la spesa

sociale futura e produrrà notevoli profitti sociali ed economici. I bambini che crescono

in condizioni di povertà sono più a rischio di abbandono scolastico e di devianze nella

loro vita da adulti: criminalità, dipendenza da sostanze stupefacenti, alcolismo,

maternità in età adolescenziale sono alcuni dei fenomeni sociali che possono essere

prevenuti grazie ad un intervento precoce sui minori delle famiglie svantaggiate. Anche

di recente, il premio Nobel per l’economia, commentando lo State of the Union Address,

pronunciato da Obama all’inizio del 2013, col quale il Presidente americano si

impegnava a realizzare un piano federale per garantire a tutti i bambini in età prescolare

educazione e cura, ha ricordato la sua ‘formula magica’: “Every dollar invested in

quality early childhood development for disadvantaged children produces a 7 percent to

82 Cfr. A. M. Smith, Welfare Reform and Sexual Regulation, cit.

83 L. Wacquant, Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale, cit., p. 96.

84 M. Vandenbroeck, R. Roose, M. De Bie, “Governing Families in the Social Investment State”,

International Critical Childhood Policy Studies, 4, 1 (2011), pp. 69-85.

85 Per una critica molto forte e decisa alle interpretazioni e agli usi che delle scoperte delle

neuroscienze fa la politica contemporanea, cfr. J. Bruer, The Myth of the First Three Years: A New

Understanding of Early Brain Development and Lifelong Learning, New York, The Free Press, 2002.

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10 percent return, per child, per year”86. Secondo i calcoli di Heckman, insomma, lo

Stato ha un ottimo motivo per investire sui minori: la prospettiva di un ritorno annuo

pari al 7-10% della spesa!

In alcune realtà l’intervento sui minori, sostenuto da un costante richiamo alle

evidenze provenienti dalle neuroscienze sull’importanza dei primi anni di vita, si è

tradotto in politiche sociali indirizzate ai poveri e fortemente intrusive nella vita delle

famiglie svantaggiate. Basti pensare ai programmi Head start ed Early Head Start, ora

gestiti a livello locale, negli Stati Uniti, e al programma Sure Start nel Regno Unito. Su

questa strada si è mosso da tempo anche il governo australiano, che nel 2011 ha

annunciato la decisione di finanziare un programma rivolto alle famiglie con minori in

difficoltà, che ha come destinatari i genitori e prevede che per due anni questi seguano a

casa propria dei corsi di sostegno alla genitorialità. Quando, in un programma quale

Sure Start o nei piani del governo australiano, si parla di “sostegno” (support) non ci si

riferisce ad un sostegno di natura economica, ma a un sostegno di natura principalmente

pedagogico-educativa87. Attraverso un programma quale il Triple P-positive Parenting

Programme, nato in Australia nel 1996 e ormai diffuso in tutto il mondo88, si insegnano

ai genitori (quasi sempre, in realtà – come molti studi hanno rilevato – si tratta delle

madri89) tecniche derivate dalle scienze cognitivo-comportamentali che possano renderli

efficienti nella gestione della crescita dei figli. Crescere un figlio in modo efficace

equivale a programmarne correttamente il comportamento secondo standard

socialmente accettabili e desiderabili. Queste tecniche, consistenti nell’individuazione di

regole e obiettivi, nella programmazione di attività secondo un preciso calendario e

nell’assegnazione di premi e punizioni, sono state rese popolari da programmi televisivi

quali Supernanny (in Italia, S.O.S. Tata), ma sono applicate nel Regno Unito anche nei

86 J. Heckman, “Lasting Economic and Social Benefit”, The New York Times, 21 febbraio 2013:

<http://www.nytimes.com/roomfordebate/2013/02/25/is-public-preschool-a-smart-investment/the-

presidents-early-childhood-plan-makes-great-sense> (ultima consultazione: 15 giugno 2014).

87 Cfr. V. Gillies, “Raising the ‘Meritocracy’: Parenting and Individualization of Social Class”,

Sociology, 39, 5 (2005), pp. 835-853; in particolare, p. 839.

88 R. M. Sanders, K. M. T. Turner, e C. Markie-Dadds, “The Development and Dissemination of the

Triple P—Positive Parenting Program: A Multilevel, Evidence-Based System of Parenting and Family

Support”, Prevention Science, 3, 3 (2002), pp. 173-189.

89 Cfr. E. Peters, “I Blame the Mother: Educating Parents and the Gendered Nature of Parenting

Orders”, Gender and education, 24, 1 (2002), pp. 119-130.

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corsi che i genitori sono costretti a seguire in base ai parenting orders previsti dal Crime

and Disorder Act del 1998, nel caso in cui il minore si macchi di un reato o, sulla base

dell’Anti-social behavioral act del 2003, nel caso in cui il minore sia espulso da scuola

per cattiva condotta90.

L’obiettivo di questi corsi è evidentemente quello di sopperire alle presunte

mancanze e carenze dei genitori, considerate come causa originaria della cattiva

condotta dei figli, mediante il sostegno e la guida di esperti. Lo Stato sembra ora

ritenere che non sia mai troppo presto per intervenire nella vita dei bambini per

compensare i deficit dei genitori e i futuri effetti negativi, e conseguenti costi sociali,

che da essi deriveranno91. Ad un problema sociale come la povertà che richiederebbe

interventi strutturali e politiche redistributive si trova così una facile soluzione che

rimanda alla responsabilità individuale e si affida ad un intervento di tipo pedagogico:

cambiare lo stile di vita dei genitori poveri e insegnare loro come ridurre i rischi per i

loro bambini e, al tempo stesso, programmare il minore, ancora plasmabile, innocente e

lontano da percorsi devianti, mediante progetti educativi precoci che ne sviluppino le

potenzialità al fine di renderlo domani un individuo produttivo. In una prospettiva di

genere non si può non osservare con inquietudine che nel momento in cui la cura del

minore in età prescolare viene ad essere tematizzata come una questione pubblica ciò

avvenga all’interno di una logica neoliberista o, come alcuni preferiscono definirla,

post-neoliberale, come quella del social investment state, con un effetto di ulteriore

controllo e moralizzazione dei genitori, e soprattutto delle madri, delle classi povere,

logica derivante dalla tendenza a spiegare ogni male sociale in termini di un presunto

parental deficit.

Come ricorda Wacquant, lo Stato legittima la propria azione prima di tutto

individuando il suo ambito di intervento e quindi definendo i termini in cui ritiene

90 In caso di mancato rispetto del parenting order il genitore può incorrere in una sanzione pecuniaria,

nella perdita dell’assistenza sociale o anche nella prigione.

91 F. Furedi, Nanny state has no business muscling mums and dads out of the way. Australia’s Early

Years Learning Framework is based on the assumption that government can never intercede early enough

in children’s lives to compensate for the incompetence of their parents (pubblicato originariamente su

“The Australian”, 5 novembre 2011): <http://www.frankfuredi.com/site/article/511/> e Id., 2012, Parental

determinism: a most harmful prejudice. David Cameron’s proposed parenting classes are built on the

bizarre and destructive idea that parenting determines society’s fortunes, 2012:

<http://www.frankfuredi.com/site/article/553/> (ultima consultazione: 15 giugno 2014).

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

62

efficace rispondere al problema individuato. Ad una questione come quella della

povertà, per esempio, si può rispondere in modi diversi: la si può affrontare attraverso il

discorso penale; si può tematizzarla come una questione sociale che richiede

l’assunzione di una responsabilità collettiva o si può ricondurla ad una patologia

individuale, quindi darne una spiegazione sul piano medico. Nessuna di queste strade è

obbligata e tutte presuppongono una precisa scelta politica. L’ipotesi che lo sviluppo

cognitivo del bambino sia strettamente legato alla qualità delle cure materne e parentali

nei primissimi mesi di vita e il tentativo di fondare scientificamente questa ipotesi

attraverso il riferimento alle scoperte delle neuroscienze testimoniano una chiara

volontà dello Stato di ricondurre nell’ambito di un discorso medico il riprodursi del

ciclo della povertà. Presupposto tacito di questa impostazione è che altre determinanti,

quali il capitale sociale ed economico, non siano altrettanto fondamentali e il destino

possa immaginarsi come legato a scelte e condizioni individuali92: in particolare, il

genitore risulta ora come il principale responsabile dei risultati che il figlio sarà in grado

di raggiungere; dalle sue scelte nei primi anni di vita del bambino dipenderanno i suoi

successi così come i suoi possibili fallimenti sociali93.

5. Qualche considerazione conclusiva

C’è un punto, centrale in una prospettiva di genere, sul quale le tre interpretazioni del

neoliberalismo qui proposte sembrano convergere, nonostante la loro distanza, ed è la

capacità del neoliberalismo di giocare con le differenze e di asservirle alla sua logica.

Come sostiene Rosi Braidotti, il capitalismo sembra operare come una macchina per

produrre differenze molteplici e trasformarle in merci, vampirizzandole94. Se nella

prospettiva femminista delle origini la differenza (di genere, di orientamento sessuale,

92 V. Gillies, “Raising the ‘meritocracy’: Parenting and individualization of social class”, cit., p. 838.

93 Su queste basi nel 2007, nell’ambito del Respect Action Plan, il governo di Tony Blair ha stanziato

30 milioni di sterline per la costituzione di una National Academy for parenting practitioners. Nel

documento sopracitato, Blair scriveva: “Parents have a critical role in helping their children develop good

values and behaviour. Conversely, poor parenting increases the risks of involvement in anti-social

behaviour. We will develop parenting services nationally and focus help on those parents who need it

most. We will expand national parenting provision and establish a new National Parenting Academy for

front line staff” (Prime Minister’s Foreword, in Respect Action Plan:

http://news.bbc.co.uk/2/shared/bsp/hi/pdfs/10_01_06_respect.pdf ).

94 Cfr. R. Braidotti, A Critical Cartography of Feminist Post-postmodernism, cit., p. 3.

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63

di razza, ecc.) conteneva in sé un’aspettativa politica circa la sua capacità di “fare la

differenza”95, questa stessa capacità è fortemente compromessa – ma non annullata –

dalle tendenze vampirizzanti del neoliberalismo.

La visione del “sé imprenditore”, illustrata da Foucault come una delle invenzioni

centrali della scuola di Chicago, mette in luce l’operazione di valorizzazione delle

differenze individuali di cui il neoliberalismo è stato capace, mediante una retorica che

alimenta – come bene sottolinea McRobbie – l’illusione di una società senza classi. La

società neoliberale foucaultiana non è una società dei consumi o una società massificata,

perché il sé imprenditore è spinto ad una spesa concepita non come consumo, ma come

investimento e, quindi, fortemente individualizzata – una spesa in linea con il passaggio

nel frattempo avvenuto nel settore produttivo dal modello fordista a quello toyotista.

La critica neomarxista sottolinea il perenne sfruttamento da parte del sistema

capitalista delle differenze spaziali e temporali, tra centro e periferia, tra pubblico e

privato, economico e non economico, nonché delle differenze di genere, razza e classe.

Nell’analisi di Fraser, il capitalismo ha avuto nella sua storia la perenne necessità di uno

sfondo da cui sottrarre energie e risorse che non sono state prodotte secondo la logica

individualista della concorrenza. Una delle componenti fondamentali di questo

background, necessario quanto reso invisibile, è stata da sempre la famiglia.

Ricordiamoci delle parole della Thatcher: “And, you know, there is no such thing as

society. There are individual men and women, and there are families”96. La società non

esiste; esistono solo individui e... famiglie. Persino la madre del neoliberalismo

implicitamente riconosceva la necessità di uno spazio sociale che non funzionasse

secondo una razionalità strumentale, economica e massimizzante.

Il lavoro di Wacquant e quello delle autrici che hanno lavorato sulle trasformazioni

del welfare contemporaneo, infine, è particolarmente efficace non solo nell’evidenziare

il nesso tra classificazione, differenziazione e gerarchizzazione, ma anche nel mostrare

il ruolo fondamentale che lo Stato contemporaneo ha nella loro creazione e

95 Cfr. R. Braidotti, On Crisis, Capital and Austerity, cit.

96 M. Thatcher, Interview for Woman’s Own ("no such thing as society"), 23 settembre 1987:

<http://www.margaretthatcher.org/document/106689> (ultima consultazione: 15 giugno 2014). Su questo

punto richiama l’attenzione anche A. McRobbie, “Feminism, Neoliberalism and Family: Human Capital

at Home”, cit.

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64

legittimazione. Anche sulla base di pressioni transnazionali, spesso provenienti da

comunità epistemiche che lavorano presso organizzazioni internazionali non soggette ad

alcun tipo di controllo democratico, lo Stato determina e legittima sul piano materiale e

simbolico, e alla fine, sulla scorta della lezione di Bourdieu, “naturalizza” le gerarchie

sociali, anche mediante il loro collegamento a stati affettivi – basti pensare a come

opera il disgusto nella determinazione dei corpi abietti e marginalizzati97.

In una prospettiva femminista, quello che emerge dall’analisi che ho proposto mi

pare sia la centralità dell’attenzione che si dovrebbe oggi prestare alle divisioni di

classe, etnia e razza, nonché alle forme di soggettività dominanti, per sottolineare ogni

volta le dinamiche di potere che le strutturano e il conflitto di prospettive che

necessariamente ne deriva. Le divisioni sociali appena ricordate sono simboliche e

culturali, ma – come ci insegnano il femminismo nero, la teoria dell’intersezionalità e il

femminismo postcoloniale – producono precisi effetti materiali, giustificano

diseguaglianze e gerarchie sociali e mostrano che, nella loro formazione, un ruolo

fondamentale è svolto dalle istituzioni, dalle leggi e, oggi, anche dalle comunità

epistemiche transnazionali – come del resto hanno mostrato precocemente teorie della

giustizia femministe come quella di Iris Marion Young, nella quale è impossibile

separare le richieste di riconoscimento da quelle di una maggiore giustizia sociale98.

Il femminismo trova nel neoliberalismo un avversario temibile: la retorica

dell’indipendenza, la centralità assegnata al lavoro come strada per realizzare

l’autonomia economica e l’indipendenza e la stessa attenzione posta sull’infanzia come

terreno privilegiato di investimento, presente nel social investment state, sono tutti

elementi che possono risuonare positivamente e apparire promettenti anche dal punto di

vista delle donne. È anche vero, tuttavia, che proprio dagli studi femministi sono venute

in questi anni le critiche più convincenti al mito dell’individuo indipendente, al “mito

97 Su questo v. I. Tylor, “‘Chav Mum Chav Scum’, Class Disgust in Contemporary Britain”, Feminist

Media Studies, 8, 1 (2008), pp. 17.34 e Ead., Revolting Subjects. Social Abjection and Resistance in

Neoliberal Britain, London-New York, Zed books, 2013.

98 Per una critica all’accusa generalizzata rivolta dalla Fraser a tutte le teorie del riconoscimento di

non prestare sufficiente attenzione all’economia e alle disuguaglianze materiali, v.: I. M.Young,

“Categorie ribelli: una critica della teoria dei due sistemi di Nancy Fraser”, in N. Fraser, Il danno e la

beffa. Un dibattito su redistribuzione, riconoscimento, partecipazione, Bari, Pensa Multimedia, 2002, pp.

105-122 e J. Butler, “Meramente culturali”, in N. Fraser, Il danno e la beffa, cit., pp. 61-74.

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65

dell’autonomia” (come lo ha anche definito Martha Fineman in un suo importante

lavoro99), su cui si è fondato lo smantellamento del welfare e la cultura di un cittadino

visto sempre più nei soli panni di consumatore, tanto più libero quanto più ampio è il

ventaglio delle sue possibili scelte. La strada intrapresa da tutte quelle autrici che da

tempo insistono sui temi della vulnerabilità, della dipendenza, dell’interdipendenza e di

un ripensamento dell’umano alla luce della nostra animalità è una strada importante per

contrastare gli effetti socialmente devastanti del neoliberalismo. Penso in primo luogo

alle teoriche dell’etica della cura, ma non solo, penso ancora ai lavori per molti aspetti

diversi di Judith Butler, Martha Nussbaum, Donna Haraway e alla teoria della

vulnerabilità della filosofa del diritto Martha Fineman e agli studi di tante studiose di

politica sociale, quali Ruth Lister, Fiona Williams, Jane Jenson. Tuttavia, come

sottolinea, a mio avviso giustamente, Fraser, bisogna al tempo stesso stare attenti a non

ricadere in visioni oblative della cura, in un’idealizzazione dell’autogoverno e di una

cooperazione improntata alla gratuità. Il ruolo che gli Stati hanno avuto

nell’affermazione dell’attuale ordine economico neoliberale, nella crescita delle

diseguaglianze e nello smantellamento del welfare deve, piuttosto, essere ribadito per

chiamare la politica ad un’inversione di tendenza che rimetta al centro una cooperazione

sostenibile e quindi non disgiunta dall’importanza della responsabilità collettiva.

99 Cfr. M. Fineman, The Autonomy Myth, New York-London, The New Press, 2004.

P.D. Eiroa, “El “diálogo” de los juristas argentinos con Luigi Ferrajoli”,

Jura Gentium, ISSN 1826-8269, XII, 2015, 1, pp. 66-134

El “diálogo” de los juristas argentinos con Luigi Ferrajoli

Derecho penal mínimo y la democracia sustancial

Pablo D. Eiroa

Abstract: This work aims at assessing some relevant aspects of the concepts of “minimal

criminal law” and “substantial democracy” within Luigi Ferrajoli’s legal and political

theory, and at highlighting the critical responses of its argentine commentators. In this vein,

several issues are discussed: (i) whether the reality of imprisonment in Latin America has

refuted the conception of criminal law as a means for limiting power; (ii) whether the

alternatives to criminal law outlined by Ferrajoli lack empirical grounds; (iii) whether

Ferrajoli’s conceptions of substantial democracy and fundamental rights disregard popular

will; (iv) whether a formal definition of fundamental rights is admissible; and finally (v)

whether Ferrajoli’s theory of democracy implies a system of elite government contrasting

with deliberative models.

[Keywords: Luigi Ferrajoli; Minimal Criminal Law; Substantial Democracy; Fundamental

Rights; Constitutional Review]

1. Introducción

La obra de Luigi Ferrajoli puede considerarse en la actualidad un punto de referencia

obligado para los estudiosos de la teoría del derecho y de la política latinoamericanos.

La repercusión inusitada que ha tenido en nuestro continente ubica a Ferrajoli entre

aquellos pensadores con los que se puede acordar o disentir, pero nunca ignorar1.

En Argentina Ferrajoli es, además, el autor italiano que más ha cautivado la atención

de los penalistas en los últimos veinte años. Creo que ello se debe, especialmente, a la

fascinación que causó su ensayo Derecho y razón. Teoría del garantismo penal, cuya

traducción en español apareció en 19952. Tan es así que, apenas dos años después, en

1997, la Universidad de Buenos Aires le otorgaba el título de doctor honoris causa, y

1 Cfr. J.S. Pegoraro, “Fundamentación para otorgar el título de doctor honoris causa de la Universidad

Nacional de Lomas de Zamora al Profesor Luigi Ferrajoli”, en Cuadernos de doctrina y jurisprudencia

penal. Criminología, V-VI (2007), 4, pp. 163-166; D. Erbetta, “Laudatio”, en L. Ferrajoli, Paradigmas de

la democracia constitucional, Ediar, Buenos Aires, 2009, pp. 9-30.

2 Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale (1989), Laterza, Roma, 201110. La traducción en

español, publicada por la editorial Trotta de Madrid, estuvo a cargo de P.A. Ibañez, A. Ruíz Miguel, J.C.

Bayón Mohino, J. Terradillos Basoco y R. Cantarero Bandrés.

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67

justamente la laudatio de Ferrajoli estaría a cargo del más reconocido exponente de la

cultura penalista argentina desde el regreso de la democracia: Eugenio Raúl Zaffaroni.

Con el mismo título distinguirían a Ferrajoli las Universidades Nacionales de La Plata y

Lomas de Zamora, en 2005, de Rosario, en 2009, y del Litoral, en 2010. Y en todos esos

casos los penalistas y, más ampliamente, los estudiosos de la cuestión penal, tendrían un

rol protagónico para que esos homenajes se llevaran a cabo3.

La obra de Ferrajoli también ha tenido una influencia muy significativa en la

jurisprudencia penal argentina. Se trata del autor italiano más citado por la Corte

Suprema de Justicia de la Nación a partir de 1998, por encima de los clásicos de la

ilustración penal como Beccaria y Carrara4.

3 Baste recordar que nuevamente Zaffaroni estaría a cargo de su laudatio en La Plata, mientras que

Juan Pegoraro y Daniel Erbetta lo estarían, respectivamente, en Lomas de Zamora y Rosario. Pegoraro,

abogado y doctor en sociología, es profesor titular de “Delito y sociedad: sociología del sistema penal” en

la carrera de Sociología de la Facultad de Ciencias Sociales de la Universidad de Buenos Aires, además

de Investigador y Director del Programa de Estudios del Control Social en el Instituto Gino Germani de la

Universidad de Buenos Aires, y Director de la revista “Delito y sociedad. Revista de Ciencias Sociales”.

Erbetta es profesor titular de Derecho Penal, Director del Departamento de Derecho Penal y Criminología

y Director de la carrera de Posgrado de especialización en Derecho Penal de la Universidad Nacional de

Rosario, además de juez de la Corte Suprema de Justicia de la provincia de Santa Fe.

4 Cfr. T. 114, XXXIII, “Tabarez, Roberto Germán s/ delito de homicidio agravado por alevosía –causa

n° 232-”, sentencia de 17 de marzo de 1998, considerando 8° del voto de los jueces Fayt y Petracchi, con

cita de Derecho y razón, p. 56 ss.; C. 1757, XL, “Casal, Matías Eugenio y otro s/ robo simple en grado de

tentativa -causa N° 1681-”, sentencia de 20 de septiembre de 2005, considerandos 26 del voto que lidera

el acuerdo y 8 del voto del juez Fayt, con cita del mismo pasaje de Derecho y razón transcripto en el fallo

“Tabarez”; A. 102, XXXVII, “Alvarez, Santiago Aníbal s/ lesiones culposas”, sentencia de 30 de

septiembre de 2003, considerando 11 de la disidencia de los jueces Vázquez y Maqueda, con cita de

Derecho y razón, cit., p. 581 ss.; Q. 162, XXXVIII, “Quiroga, Edgardo Oscar s/ causa N° 4302”,

sentencia de 23 de diciembre de 2004, considerando 15 del voto de los jueces Petracchi y Highton de

Nolasco, con cita de Derecho y razón, p. 564 ss., y considerando 17 del voto del juez Maqueda, el que se

remitió a su opinión en el precedente “Alvarez”; L. 486, XXXVI, “Llerena, Horacio Luis s/ abuso de

armas y lesiones - arts. 104 y 89 del Código Penal -causa N° 3221-”, sentencia de 17 de mayo de 2005,

considerandos 10 del voto de los jueces Zaffaroni y Highton de Nolasco, 14 del voto del juez Petracchi y

13 del voto del juez Maqueda, con cita de Derecho y razón, cit., p. 581 ss.; S. 1767, XXXVIII, “Simón,

Julio Héctor y otros s/ privación ilegítima de la libertad, etc. -causa N° 17.768-, de 14 de junio de 2005,

considerandos 31 del voto del juez Maqueda y 18 del voto del juez Lorenzetti, con citas de Derechos y

garantías. La ley del más débil, Trotta, Madrid, 1999, p. 145, y “El tribunal penal internacional: una

decisión histórica para la cual nosotros también hemos trabajado”, en Nueva Doctrina Penal, 2002/B

(ahora en Ferrajoli, Escritos sobre derecho penal. Nacimiento, evolución y estado actual del garantismo

penal, t. 1, Hammurabi, Buenos Aires, 2014, pp. 361-374); M. 2333, XLII y otros, “Mazzeo, Julio Lilo y

otros s/ rec. de casación e inconstitucionalidad”, sentencia de 13 de julio de 2007, considerando 11 del

voto de la mayoría, con cita de Derechos y garantías. La ley del más débil, cit., p. 145, y considerando 40

de la disidencia del juez Fayt, con citas de Derecho y razón, cit., pp. 540 ss. y 59 ss.; S. 219. XLIV,

“Sandoval, David Andrés s/ homicidio agravado por ensañamiento -3 víctimas-, Sandoval, Javier Orlando

s/encubrimiento -causa n° 21.923/02”, sentencia de 31 de agosto de 2010, considerando 25 de la

disidencia del juez Zaffaroni, con citas de Derecho y razón, cit., p. 540 ss.; A. 2450, XXXVIII, “Antiñir,

Omar Manuel - Antiñir, Nestor Isidro - Parra Sánchez, Miguel Alex s/homicidio en riña y lesiones leves

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68

Sin embargo, Ferrajoli no es penalista de formación. Él es, en rigor, un filósofo del

derecho5, que ha dedicado particular atención al derecho penal a raíz de una convicción

declarada: “siempre he pensado que entre ciencia penal y filosofía jurídica existe –o,

mejor, debería existir– una relación esencial para ambas. Porque el derecho penal, o

bien cumple con la exigencia de dotarse de una cimentación axiológica, y por ello

filosófico-política, o bien corre el riesgo de quedar reducido a una pura técnica de

control social y policial. Del mismo modo que, a la inversa, o bien la filosofía jurídica

se compromete con los grandes temas de las libertades y de la fundamentación y la

crítica ético-política del derecho y de las instituciones existentes, comenzando por las

instituciones represivas del derecho penal y procesal, o bien está condenada a quedar en

una estéril evasión académica”6. Eso parece explicar por qué Ferrajoli gestó su teoría

del garantismo en el marco de la reflexión acerca del derecho penal, para proyectarla

recién después sobre la teoría general del derecho y de la democracia7.

En síntesis, el garantismo de Ferrajoli constituye un esfuerzo formidable de

reconstrucción y perfeccionamiento del pensamiento penal liberal en indisoluble

conexión con la teoría política; es, en otras palabras, la propuesta de un esquema lógico

de sistema de normas que sólo puede existir, según lo afirmado por el autor, en un

Estado democrático de derecho y que, por lo tanto, se presenta como impermeable e

impenetrable para los autoritarismos. Ferrajoli sostiene, dicho de otro modo, que existe

una relación de implicancia teórica entre su concepción normativa del derecho penal

(que él llama “derecho penal mínimo”) y su concepción normativa de la democracia

(que él llama “democracia sustancial”).

en riña y en conc. real”, sentencia de 4 de julio de 2006, considerando 5° de la disidencia del juez Fayt,

con citas de Derecho y razón, cit., pp. 490 y 549; P. 762, XXXVII, “Podestá, Arturo Jorge y López de

Belva, Carlos A. y otros s/ defraudación en grado de tentativa y prevaricato”, sentencia de 7 de marzo de

2006, considerando 4 del voto del juez Lorenzetti y del conjuez Poclava Lafuente, con cita de Derecho y

razón, cit., p. 544.

5 Tal como él mismo lo aclara en “Sobre el papel cívico y político de la ciencia penal en el Estado de

constitucional de derecho”, en Crimen y castigo. Cuaderno del Departamento de Derecho Penal y

Criminología de la Facultad de Derecho – UBA”, 1 (2001), 1, esp. p. 20.

6 Ferrajoli, ibídem.

7 Con posterioridad a Derecho y razón. Teoría del garantismo penal, el libro más importante de

Ferrajoli, que constituye, en rigor, su obra cúlmine, es Principia iuris. Teoria del diritto e della

democrazia, 3 tomos, Roma-Bari, Laterza, 2007; trad. esp: Principia iuris. Teoría del derecho y de la

democracia, 3 tomos, Madrid, Trotta, 2011.

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69

Sin embargo, en la doctrina argentina se le ha objetado tanto que el minimalismo

penal puede contribuir a la peor opresión, como que conduce a la inutilización o, peor

aún, a la abolición del derecho penal, y que la tesis de la democracia sustancial se apoya

en una filosofía política de raíces elitistas. Por lo tanto, al poner en crisis bases

esenciales de la teoría jurídica de Ferrajoli, creo que esas críticas pueden servir no sólo

como banco de prueba de esta teoría, sino también como instrumento para su mejor

comprensión.

En este trabajo buscaré entonces reconstruir los aspectos más salientes del “diálogo”

que a ese respecto han mantenido los juristas argentinos con Luigi Ferrajoli. No me

referiré a la doctrina argentina que, en general, concuerda con él, sino a aquella que

expresa importantes desacuerdos, los cuales, como veremos, residen principalmente en

la fundamentación axiológica o legitimación externa del derecho penal, en la definición

de los derechos fundamentales y en la concepción de la democracia.

2. Lineamientos generales del derecho penal mínimo

En la obra de Ferrajoli, el derecho penal mínimo es esencialmente dos cosas: “un

paradigma metateórico de justificación del derecho penal y un paradigma teórico y

normativo de derecho penal”8. El primer paradigma designa las razones o fundamentos

del derecho penal (axiología) y el segundo, las razones o fundamentos de derecho penal

(teoría). Brevemente, en lo que respecta al primer paradigma, para Ferrajoli un

ordenamiento penal está justificado si y sólo si es capaz de realizar dos fines: la

prevención o, al menos, la minimización de las ofensas a bienes y derechos

fundamentales (o sea, la prevención de delitos), y la prevención de los castigos

arbitrarios. El segundo paradigma define al sistema de garantías penales y procesales

idóneo para satisfacer estos dos fines9.

En su conjunto, el derecho penal mínimo se encamina a la prevención de la violencia

arbitraria, constituida en un caso por el delito y en el otro por la reacción frente al delito,

ya sea pública o privada. La primera finalidad –la de prevenir delitos– marca el límite

mínimo de la reacción estatal, mientras que la segunda –la de prevenir puniciones

8 Ferrajoli, Principia iuris, ob. cit., t. 2, Teoría de la democracia, p. 348.

9 Ferrajoli ha desarrollado los dos paradigmas en su obra Derecho y razón, cit., caps. II y III.

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arbitrarias y desproporcionadas–, marca su límite máximo, que nunca podría exceder la

gravedad de este tipo de puniciones para no perder su razón de ser. Y bajo ambos

aspectos la ley penal se justifica en tanto que ley o tutela del más débil, que en el

momento del delito es la víctima, durante el proceso es el imputado y en la ejecución

penal, el condenado10.

Ahora bien, sólo el segundo fin preventivo –la prevención de la reacción informal al

delito– es necesario y suficiente para fundamentar un modelo de derecho penal mínimo

pues, sobre todo, sirve para distinguir este modelo de otros sistemas de control social

máximo, como el de tipo policial o el disciplinario, que de un modo más expeditivo y

probablemente más eficiente –reconoce Ferrajoli– serían capaces de satisfacer su único

fin justificador, es decir, el fin de la defensa social de los intereses constituidos contra la

amenaza representada por los delitos11.

La sanción penal, en la doctrina de Ferrajoli, es entonces la primera garantía del

derecho penal. “En realidad –insiste el autor italiano– una doble garantía: no sólo frente

a los delitos, sino también frente a las venganzas y las reacciones arbitrarias,

desmesuradas o excesivas, esto es, inspiradas en la lógica de la guerra de la que aquélla

es negación.”12 Tan es así que, para él, en el debilitamiento de esa doble función que

justifica al derecho penal puede hallarse su crisis degenerativa, que “consiste en la

impunidad de los delitos y/o en el afirmarse de técnicas punitivas informadas en la

arbitrariedad y el abuso; en la crisis de las funciones de prevención de los delitos y de

tutela de los perjudicados por ellos, [y] en la de las funciones de prevención de castigos

arbitrarios y de tutela de los imputados...”13. La pena, en resumen, se dirige a minimizar

la violencia en la sociedad, al prevenir la razón de la fuerza manifestada en los delitos y

en las venganzas u otras posibles reacciones informales14.

10 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 331-337; Principia iuris, t. 2, cit., pp. 346-351.

11 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 334.

12 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit. p. 348.

13 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 349.

14 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 335-336.

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71

3. Las penas actuales y el vínculo entre pena y venganza

Esa doctrina de Ferrajoli fue criticada por autores abolicionistas desde tres flancos: (i) la

funcionalidad de toda justificación axiológica del derecho penal, (ii) la brutalidad actual

del ejercicio del poder punitivo, al menos en América Latina, y (iii) el vínculo entre

pena y venganza.

Acerca de las dos primeras cuestiones, Zaffaroni sostuvo que si bien Ferrajoli “nos

devuelve el derecho penal liberal, con la imagen más refinada que de éste se haya

construido en el siglo actual”15, “las teorías de la pena siempre han sido falaces

‘semillas del mal’, incluso cuando fueron enunciadas por los viejos autores liberales,

porque también éstas fueron teorizaciones de la ‘defensa social’. El gran riesgo de un

regreso al derecho penal liberal –concluye– es volver a olvidar estos gérmenes que

contenía; y eso no lo debemos hacer”16.

Por lo tanto, para Zaffaroni “es necesario reafirmar que no hay teoría de la pena que

pueda legitimar el poder punitivo tal como hoy se lo ejerce. Quizás desde la perspectiva

europea esto no sea visto tan claramente como desde la nuestra –agrega–, porque la

violencia de este poder en América Latina es increíble”. Pero desde esta perspectiva,

“[l]as penas de hoy no tienen legitimidad, al menos en el mayor número de casos”17.

Cabe preguntarse, entonces, qué deben hacer los jueces y los juristas. Zaffaroni

responde que el juez puede ejercer un poder de control y garantía, al reducir el ejercicio

del poder de las agencias administrativas burocráticas, que son, en sustancia, las que

tienen el poder de castigar. Y el jurista no debe hacer otra cosa que una programación

racional de las decisiones judiciales. La dogmática, en consecuencia, tiene para

Zaffaroni la función de legitimar el poder de los jueces, no el poder de penar, por lo que

encuentra razonable ser juez y profesor de derecho penal sin una “teoría de la pena”18.

15 E.R. Zaffaroni, “La rinascita del diritto penale liberale o la ‘Croce Rossa’ giudiziaria”, en L.

Gianformaggio (editora), Le ragioni del garantismo. Discutendo con Luigi Ferrajoli, Giappichelli,

Torino, 1993; trad. esp: “El renacimiento del derecho penal liberal o la ‘Cruz Roja’ judicial”, en Las

razones del garantismo. Discutiendo con Luigi Ferrajoli, Temis, Bogotá, 2008, esp. p. 392.

16 Zaffaroni, ob. cit. ult., p. 395.

17 Zaffaroni, ob. cit. ult., pp. 395 y 402.

18 Zaffaroni, ob. cit. ult., pp. 401-402.

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72

Por su lado, Roberto Gargarella ha escrito: “No objeto a Ferrajoli por ir demasiado

lejos con su propuesta garantista-minimalista, sino, en todo caso, por no ir lo

suficientemente lejos. Considero que si el mundo penal reviste las características

opresivas que hoy le reconocemos, y tales características implican la imposición de

penas brutales e injustificables, luego es difícil ver […] por qué se opta por la salida del

minimalismo penal y no, en cambio, por formas de reproche alternativas, más

plenamente justificadas, o aun –directamente– por estrategias abolicionistas.”19

Y se pregunta “cómo y de qué modo se puede hacer una utilización ‘limitadora’ del

derecho penal, cuando el mismo viene sirviendo inexorablemente, desde su nacimiento,

a propósitos sistemáticamente opuestos […] cuál puede ser, ya que no la encuentro, la

justificación del minimalismo penal […] de qué manera, en los hechos, nuestros

operadores penales más distinguidos están sirviendo a la causa del minimalismo penal, a

la luz de la población creciente y crecientemente empobrecida que abarrota nuestras

cárceles. Me pregunto –concluye– si el minimalismo penal es un propósito concebible

en este contexto, o si el mismo termina ayudando, de manera decisiva (y contra lo que

muchos de sus defensores quisieran) para que sigan girando, aceitadamente, las ruedas

de la peor opresión penal.”20

Además, en relación con la cuestión (iii), señala que “Ferrajoli en ningún momento

nos ofrece una evidencia empírica (o referencias a ella) que sea capaz de fundar la

conexión causal que establece entre ausencia de penas –que no es lo mismo que

ausencia de reproche estatal– y venganza privada.”21 Por lo cual la premisa mayor en la

que se apoya la doctrina de Ferrajoli –el derecho penal está justificado en cuanto

minimiza la violencia– resulta dogmática. Además, según Gargarella, “si lo que se

quiere es evitar los riesgos de la venganza privada, ¿por qué no diseñar entonces

estrategias de protección sobre los acusados o responsables de ciertas ofensas, en lugar

de encerrar a estos últimos, privándolos de sus libertades más básicas?”22. Y afirma, por

19 R. Gargarella, “Cuatro temas y cuatro problemas en la teoría jurídica de Luigi Ferrajoli”, en Revista

de derecho penal y procesal penal, (2010), 2, esp. p. 205.

20 Gargarella, “Justicia penal-injusticia social. Respuesta a Anitua-Gaitán”, en Id., De la injusticia

penal a la justicia social, Siglo XXI-Universidad de los Andes, Bogotá, 2008, esp. pp. 326-327.

21 Gargarella, “Cuatro temas y cuatro problemas en la teoría jurídica de Luigi Ferrajoli”, cit., p. 206.

22 Gargarella, ibídem.

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73

último, que ni siquiera se ocupa de criticar el fin de la prevención general negativa que

Ferrajoli le atribuye a la amenaza legal de punición, ya que este autor reconoce que “es

dudosa la idoneidad del derecho penal para satisfacer[lo] eficazmente”23.

En el mismo sentido, Maximiliano Postay critica la falta de apoyo empírico en la

obra de Ferrajoli al cuestionar las premisas que sostienen la fundamentación externa del

derecho penal mínimo. En cuanto a la prevención general negativa, afirma que la

“flaqueza” de la tesis es reconocida en Derecho y razón, al admitirse la imposibilidad de

asegurar su verosimilitud y/o efectividad, aunque ello, en la teoría del derecho penal

mínimo, no merma su relevancia, “ya que su verdadera importancia se observa al

erigirse en límite mínimo de las penas…”24. Por otro lado –señala Postay–, la tesis de

que la pena previene castigos arbitrarios, por lo que su “inexistencia generaría un estado

total de ‘anarquía’ punitiva”, parte de la concepción de un ser humano naturalmente

malo, que ante la agresión constituida por un delito sólo puede reaccionar mediante más

violencia revanchista, lo que excluye cualquier escenario donde las víctimas “pretendan

la solución del conflicto que las tuvo como protagonistas o la reparación del daño por

ellas padecido”. Sin embargo, el jurista argentino no entiende por qué Ferrajoli afirma

que el estado de naturaleza rousseauniano es mítico, al criticar la “ilusa creencia” de los

abolicionistas en un ser humano naturalmente bueno, mientras que el estado de

naturaleza hobbesiano, al que él adhiere, no lo es25.

4. ¿Una doctrina en contra del derecho penal?

Otros autores han criticado la doctrina de Ferrajoli no ya por entender que puede

legitimar un derecho penal injustificado o injustificable, sino porque, en su opinión,

atenta contra la eficacia del derecho penal o bien contra su existencia.

23 Gargarella, ob. cit. ult., nota 10, con cita de Derecho y razón, cit., p. 334.

24 M.A. Postay, “De Luigi Ferrajoli: la ‘falacia’ del abolicionismo penal o de cómo, ante ciertos

postulados, la lógica y el statu quo constituyen un matrimonio perfecto”, en Cuadernos de doctrina y

jurisprudencia penal. Criminología, VII (2009/2010), 7/8, esp. p. 414.

25 M.A. Postay, ob. cit. ult., pp. 414-415.

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74

Ricardo Guibourg se refiere a tres puntos en los que el garantismo de Ferrajoli

“podría conspirar contra sí mismo”26.

En primer lugar, sostiene que los dos fines del derecho penal mínimo, en rigor, se

hallan vinculados a la misma prevención. Luego de aceptar como verdadera la tesis de

que “[d]etrás de la venganza aparece normalmente el propósito de evitar, mediante un

castigo ejemplar y terrible, que el transgresor u otros que pudieran imitarlo osen en el

futuro ofender al vengador o a las personas que éste considera bajo su protección”27,

afirma que “si se prevé que la falta de sanción traería consigo la aplicación de medidas

punitivas informales y arbitrarias, es porque se tiene en cuenta que las personas en

general […] asignan a la venganza individual o colectiva cierta eficacia para prevenir

futuras ofensas”. De allí concluye que si se admite, a la vez, que esa eficacia no existe,

“asignar a la sanción el objetivo de evitar castigos arbitrarios [como lo hace Ferrajoli]

valdría tanto como convalidar una tendencia social irracional”28.

En segundo lugar, sostiene que la cuantía de la pena a aplicar en concreto no debe

quedar desvinculada de la función de prevenir futuros delitos, pues sólo se puede

justificar el derecho penal si se acepta su capacidad preventiva y se considera

moralmente admisible imponer las penas necesarias para su actuación efectiva. Es

criticable, entonces, que Ferrajoli asocie la pena –afirma Guibourg– con su eficacia

sustitutiva de la venganza antes que con su eficacia preventiva.

En ese sentido, el autor sugiere un sistema de fijación de penas que, a su modo de

ver, es distinto al que propone Ferrajoli. La norma, en su opinión, debería establecer

como umbral mínimo absoluto la pena necesaria para producir efectos preventivos, y

como umbral máximo el mínimo de respeto debido a cualquier ser humano. Y “[d]entro

de esa escala –señala– para cada conducta desviada puede haber un punto de equilibrio,

en el que la gravedad de la pena, unida a la probabilidad de su aplicación, ejerza una

26 Cfr. R. Guibourg, “Luigi Ferrajoli y el utilitarismo penal reformado”, en Analisi e diritto 1998.

Ricerche di giurisprudenza analítica, al cuidado de P. Comanducci y R. Guastini, 1999, esp. p. 129.

27 Cfr. R. Guibourg, ob. cit. ult., pp. 125-126.

28 Cfr. R. Guibourg, ob. cit. ult., p. 126.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

75

disuasión tal que las conductas desviadas, sin llegar a desaparecer, se reduzcan a una

proporción compatible con la capacidad de tolerancia de la comunidad”29.

Sin embargo, advierte que ese punto de equilibrio es función de variables

extrapenales, entre las que se encuentran las circunstancias socioeconómicas y

culturales, y que si estas circunstancias son prolongadamente desfavorables, como

ocurre en nuestros días, la capacidad de tolerancia social se satura y tiende a bajar.

Entonces “la eficacia disuasiva de las penas también disminuye, superada por las

necesidades y la disgregación cultural y disuelta en el creciente número de delitos”, y el

punto de equilibrio tiende a elevarse por encima del dintel de los derechos humanos, lo

que produce la quiebra del garantismo30.

De esa reflexión el autor argentino extrae su última crítica. Se pregunta si el derecho

penal aséptico que, desde su punto de vista, pretende Ferrajoli al separar el derecho de

la moral, es empíricamente viable como modelo de influencia en las conductas. Afirma

que “si las prohibiciones penales debieran renunciar a la internalización y confiar sólo

en las decisiones individuales que los ciudadanos ejercen caso por caso, es probable que

su eficacia preventiva, ya escasa, disminuyera todavía más”31.

Por su lado, Felipe Fucito sostiene que Derecho y razón descalifica cualquier teoría

del derecho penal operativamente punitiva, y que el garantismo allí propuesto, entonces,

equivale al abolicionismo32.

En efecto, critica la tesis de Ferrajoli que, apoyada en la dignidad humana y el

derecho a la libertad moral de los ciudadanos, excluye cualquier sentido retributivo de la

pena así como todo tratamiento resocializador. Advierte que, para el autor italiano, la

sociedad deberá dejar que el delincuente, sea cual fuere su delito, siga pensando que su

acción es valiosa, pues no hay derecho alguno a creer que los valores sustentados en las

leyes son dignos de ser defendidos. Hay legitimidad para Ferrajoli, afirma Fucito, no

sólo en la disidencia, sino en la hostilidad contra el Estado, que en todo caso debe al

29 Cfr. R. Guibourg, ob. cit. ult., p. 128.

30 Cfr. R. Guibourg, ob. cit. ult., pp. 128-129.

31 Cfr. R. Guibourg, ob. cit. ult., p. 129.

32 Cfr. F. Fucito, “El garantismo penal de Luigi Ferrajoli desde la sociología jurídica”, en Anuario de

Filosofía Jurídica y Social, 2000, esp. p. 239.

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disidente la tutela de su identidad, incluso desviada. Es más, observa que en la doctrina

de Ferrajoli sólo los jueces y funcionarios están obligados moralmente a cumplir la ley

de modo incondicional, lo que equivale a sostener, a su modo de ver, que la sociedad

debe tolerar no sólo el delito común o marginal, sino la acción de grupos racistas, sectas

fanáticas, políticos corruptos y de cuanto grupo “disidente” exista o pueda existir,

aunque se pongan en juego todas las condiciones de su existencia33.

En el marco de esa doctrina, penalizar es inútil, según el autor argentino, porque “si

no se puede intentar alterar las condiciones personales del [delincuente], no sólo se está

legitimando su actuar en virtud de su ‘libertad’ (de delinquir), sino dejando que […]

siga siendo lo que es, porque tiene absoluto derecho a serlo”. Luego, se liquidan por

igualmente autoritarios desde los modelos lombrosianos y los basados en la teoría de la

peligrosidad, hasta los funcionalistas y cualquier intento de escolarizar al penado,

brindarle un tratamiento antidroga o asistir psiquiátricamente a un violador o asesino

serial34.

Además, lo que parece surgir de la propuesta penal de Ferrajoli es un modelo

anárquico, en el cual –escribe Fucito– “todos los valores y sus contravalores tienen

igual peso”, y esto difícilmente pueda garantizar la convivencia, pues toda sociedad,

más o menos tolerante, fija pautas y sanciones. No parece haber alternativas desde la

perspectiva sociológica –añade–, en cuanto a que si se rechaza la posibilidad de

defender a la sociedad de manera organizada y democrática, firme pero mesurada, en el

marco de la ley, el resultado es o bien la entrega del Estado a la organización política

corrupta, a la secta o al grupo terrorista, guerrillero, paramilitar, del narcotráfico o de la

mafia, o bien el empleo del terrorismo de Estado para controlarlos35.

Ferrajoli no opta por el abolicionismo porque considera que las penas sirven para

sustituir las reacciones informales, arbitrarias y más violentas que se ejercerían contra el

delincuente a falta de aquéllas. Esto es correcto, según Fucito, aunque sostiene que el

autor italiano olvida que “el sistema judicial, para impedir tales excesos, no puede ser

percibido como una burla hecha desde los criterios punitivos prevalecientes en la

33 Cfr. F. Fucito, ob. cit., pp. 246-250.

34 Cfr. F. Fucito, ob. cit., pp. 247-248.

35 Cfr. F. Fucito, ob. cit., pp. 252-253 y 261.

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sociedad, sustentados […] por los ‘ciudadanos’ comunes”36. Penas poco más que

simbólicas, como propone Ferrajoli, y un sistema penal que, en definitiva, está pensado

en beneficio de los acusados y condenados, y que sólo a ellos puede satisfacer, sólo

generará descrédito para ese sistema y los jueces, “y un clamor de mayor rigor penal,

este sí, desordenado y probablemente más fuerte que el que se quiere evitar”37. El

modelo normativo de Ferrajoli, en suma, “dudosamente satisface condiciones de

razonabilidad social, aun democrática, y menos los intereses mayoritarios, que han sido

deliberadamente marginados de tal proyecto” pues, como se afirma en Derecho y razón,

garantismo significa precisamente tutela de aquellos valores o derechos fundamentales

cuya satisfacción, aun contra los intereses de la mayoría, es el fin justificador del

derecho penal38.

También Hernández sostiene que el derecho penal mínimo es, en rigor, una doctrina

abolicionista, y critica a Ferrajoli por no reconocerlo y, sin embargo, definir al derecho

penal como un poder intrínsecamente brutal, pues si esto es verdad, la única alternativa

coherente es el abolicionismo. Además, Hernández observa que Ferrajoli se presenta

como abolicionista sólo de la cárcel, pero propone alternativas ya conocidas, como el

arresto domiciliario, la reclusión de fin de semana, la similibertad, la libertad vigilada y

otras semejantes, que no son penas. Tan es así que, en su opinión, el mismo autor

italiano admite que “las medidas alternativas son percibidas por los presos como

graciosos y providentes beneficios”39.

Añade que, según su lectura de Derecho y razón, Ferrajoli pretende que la

prevención general negativa se persiga únicamente mediante la conminación de penas y

no mediante su aplicación, ya que ese fin se lo atribuye sólo a aquélla. Por eso –

concluye– no pueden buscarse los objetivos de proteger a la comunidad y de evitar

reacciones informales al delito mediante “penas en el papel o de papel”40.

36 Cfr. F. Fucito, ob. cit., p. 256.

37 Cfr. F. Fucito, ob. cit., p. 257.

38 Cfr. F. Fucito, ob. cit., pp. 258-259.

39 Cfr. H.H. Hernández, “Sentido común y fines de la pena en Ferrajoli (el retributivo)”, en Id.

(director), Fines de la pena. Abolicionismo. Impunidad, Cáthera Jurídica, Buenos Aires, 2010, esp. pp.

479-481 y 489-490.

40 Cfr. H.H. Hernández, ob. cit., pp. 496-498.

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78

En el mismo sentido, cuestiona la propuesta de Ferrajoli pues la considera inútil

como pauta de determinación de las penas. A este respecto, sostiene que si el derecho

penal mínimo es una doctrina que se dirige a los legisladores, ellos deberían efectuar

estudios sociológicos para verificar cuánta violencia suscita cada delito y recién

entonces establecer las penas legítimas, ya que éstas deben representar una violencia

inferior. Por el contrario, si la doctrina se dirige a los jueces, Hernández cree que su

vaguedad alejaría “toda idea de legalidad, de igualdad, de seguridad jurídica y de

división de poderes…”41.

Por otro lado, el autor argentino señala que el derecho penal mínimo es una doctrina

que no está concebida para aplicarse también a los “crímenes del poder”. Funda este

argumento con cita de un artículo periodístico del que se desprendería que Ferrajoli

afirma que el derecho penal tiene un fuerte efecto respecto de esos crímenes y que la

impunidad es un factor criminógeno que permite su reiteración. Por ello, Hernández

apunta que “Ferrajoli olvida su artillería contra el mal efecto de las prisiones, omite su

tesis de que ellas son criminógenas, y de que con ellas los Estados continuarían su negro

raid delictivo histórico, así como toda la batería crítica presentada como supuesta

argumentación objetiva al respecto”. Entiende, en suma, que Ferrajoli propugna la

aplicación de una suerte de “doble vara”, que abre camino al “derecho penal del

enemigo”42.

41 Cfr. H.H. Hernández, ob. cit., pp. 531-533.

42 Cfr. H.H. Hernández, ob. cit., pp. 529-541. En este trabajo se efectúan otras críticas a la doctrina de

Ferrajoli que no son tenidas en cuenta aquí, pues, a mi modo de ver, dependen de la convicción del autor

argentino acerca de la existencia de un derecho natural (por ej., Hernández define al delito como

“catástrofe moral y jurídica, que hace nacer, por una exigencia que se ve casi intuitivamente, la necesidad

de retribuir, y no por un deber ser metajurídico, sino ético jurídico empíricamente evidente, algo

necesario y debido”; y, en esa misma línea de pensamiento, entiende que “los ciudadanos son substancias

racionales, espirituales, personas, llamadas para su plenitud o felicidad a participar desde sus entrañas

[…] de bienes comunes, que se persiguen en grupos, que son reales, algunos naturales como la familia y

otros más o menos de libre creación, como por ejemplo los clubes, en cuya coronación está el Estado”,

que es natural al hombre y, en consecuencia, un bien, al igual que las penas que aplica, exigidas por la

“noble justicia” [pp. 479, 486 y 514-515]), que no es posible refutar ni verificar, sino sólo compartir o no

desde el mismo plano (la fe o la moral), o bien se basan en una lectura que tergiversa claramente las tesis

de Ferrajoli (por ej., Hernández sostiene que en Derecho y razón la defensa de la sociedad es adjudicada

al terrorismo penal [pp. 502-504], tras citar un pasaje de ese libro (p. 334, último párrafo) del que no se

desprende eso, sino que la tutela del inocente y la minimización de la reacción al delito distinguen al

derecho penal de otros sistemas de control social –de tipo policial, disciplinario o incluso terrorista– que

de un modo más expeditivo y probablemente más eficiente serían capaces de satisfacer el fin de la

defensa social, por lo que justamente se define al derecho penal como un costo o un lujo propio de

sociedades evolucionadas, que optan por esa menor eficiencia en pos de la seguridad de los derechos

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

79

5. El derecho penal mínimo como doctrina o “deber ser” del derecho penal

Al volver ahora a las tesis de Ferrajoli, me referiré en primer lugar a las críticas de los

abolicionistas. Ante todo, se debe precisar que el autor italiano comparte la severa

apreciación de esos juristas sobre la realidad de las penas actuales y la historia del

derecho penal, pero no acepta que se vaya más allá y se niegue toda doctrina de

justificación de la sanción penal43. Aclara que el derecho penal mínimo no es una teoría

de la pena, es decir, una explicación de la realidad, sino una doctrina normativa sobre

los límites o condiciones de validez de la pena, y que con base en él no es la pena la que

está “legitimada” por el derecho, sino solamente su control y limitación44. Y esta

doctrina o modelo de justificación puede operar, en consecuencia, como herramienta no

sólo de legitimación, sino también de deslegitimación ético-política del derecho penal.

Esto es, por lo demás, lo que diferencia a una doctrina o modelo de justificación, que

permite la crítica externa o metajurídica, de una ideología de justificación, que no

admite esa crítica45.

No creo, por lo tanto, que se pueda cuestionar la doctrina del minimalismo penal de

Ferrajoli con base en la historia y la realidad actual de las penas, pues ello implicaría

confundir el plano del “deber ser” con el del “ser” del análisis, o bien, dicho de otro

modo, implicaría sostener que dado que un cierto derecho penal en concreto, como por

ejemplo el de nuestro país, no cumple en los hechos las funciones que le atribuye el

minimalismo penal al derecho penal en abstracto, entonces el minimalismo penal es

imposible y/o, contrariamente a sus intenciones, sirve para legitimar los efectos

opuestos que el derecho penal produce en la realidad.

A ese respecto, afirma Ferrajoli: “mi modelo de justificación escapa explícitamente a

esta falacia, pues satisface, entre los requisitos metaéticos de la justificación que

fundamentales de todos frente al poder coercitivo del Estado [en este sentido, cfr., también en Derecho y

razón, pp. 335-345]).

43 Cfr. Ferrajoli, “Notas críticas y autocríticas en torno a la discusión sobre ‘Derecho y razón’”, en L.

Gianformaggio (editora), Las razones del garantismo. Discutiendo con Luigi Ferrajoli, cit., esp. pp. 519-

521.

44 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 521.

45 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 327.

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80

establecí preventivamente, justamente el de la distinción –por pertenecer a niveles de

discurso distintos– entre las doctrinas de justificación, que son discursos normativos

sobre la justificación, es decir, sobre los fines justificantes del derecho penal, y las

justificaciones (y las no-justificaciones) concretamente formuladas con base en aquellas,

que son, en cambio, discursos posteriores en torno a la satisfacción (o a la carencia de

satisfacción) de los fines justificantes, es decir, a la correspondencia (o ausencia de

correspondencia) con ellos de las efectivas prácticas penales. Y como he dicho –

concluye Ferrajoli– se configura, por tanto, aquel esquema de deslegitimación –más que

de legitimación– de los sistemas penales concretos y, por ende, de sus normas, institutos

y prácticas”46.

Por eso entiendo que tampoco se podría asumir que el minimalismo penal esté

ayudando a la subsistencia de la peor opresión penal, ni que pueda ser considerado otra

“semilla del mal”, tal como Zaffaroni define a todo intento teórico de justificación de la

pena. Por el contrario, Ferrajoli se preocupa por destacar que “[l]o importante es que

quede claro que se trata de un modelo-límite […] sobre cuya base ningún derecho penal

está íntegramente y de una vez por todas justificado, a causa de la diferencia que

siempre subsiste entre deber ser y ser del y en el derecho, y que la ciencia jurídica […]

tiene la misión (científica, y no sólo civil y política) de explicitar y no de ocultar”. Por

lo demás, esta tarea crítica de la ciencia jurídica es su primera tarea, según Ferrajoli, por

lo que considera que su modelo puede valer como instrumento de análisis crítico del

derecho penal sobre todo para países como los de América Latina, en los cuales, como

recuerdan Zaffaroni y Gargarella, la violencia del poder punitivo es brutal y, en

consecuencia, es más dramática –añade Ferrajoli– la divergencia entre principios y

prácticas47.

Coherentemente con esa posición, Ferrajoli se pronuncia a favor de la abolición de la

cárcel. Ésta es –escribe– “una institución al mismo tiempo antiliberal, desigual […]

lesiva para la dignidad de las personas, penosa e inútilmente aflictiva. Por eso resulta

tan justificada la superación o, al menos, una drástica reducción de [su] duración…”48.

46 Ferrajoli, “Notas críticas y autocríticas en torno a la discusión sobre ‘Derecho y razón’”, cit., p. 520.

47 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 521.

48 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 413.

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Por lo que propone, en lo inmediato, un límite máximo de diez años de cárcel y, en

perspectiva futura, su abolición49. Para él, la cárcel podría ser reemplazada por las

actuales medidas alternativas (arresto domiciliario, reclusión de fin de semana,

semilibertad, libertad vigilada, residencia obligatoria, etc.) y por otras penas privativas

de aquellos derechos que, contrariamente a la vida y la libertad, son disponibles y

permiten, en consecuencia, formas más variadas y tolerables de privación o

delimitación50.

En síntesis, para Ferrajoli la utopía no es la abolición del derecho penal, que

equivale, en su opinión, a un retorno a la ley del más fuerte, sino el derecho penal

mínimo o garantista. Y aquí paso a referirme a la crítica, también formulada por los

autores abolicionistas, referida al nexo entre pena y venganza. ¿No hay en Ferrajoli ni

siquiera referencias a evidencia empírica que permita fundar el nexo entre ausencia de

derecho penal y ley del más fuerte?

6. Cuatro alternativas a la abolición del derecho penal

Ante todo, habría que aclarar que el autor italiano no sostiene que la única alternativa al

derecho penal es la venganza privada, entendida como reacción violenta contra el

agresor de parte de las víctimas y de los particulares que se solidaricen con ellas, como

sugiere Gargarella. La tesis de Ferrajoli es más compleja.

El fin de prevenir o minimizar las violentas reacciones informales a los delitos, se

articula, a su vez, en dos finalidades: la ya mencionada de prevenir la venganza privada,

pero también –y sobre todo– la prevención general de la venganza pública, que –dice el

49 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 412-420. Actualmente Ferrajoli propone un máximo no de diez, sino de

quince años, al tener en cuenta que ésa es la pena máxima en “muchos países avanzados y, de hecho,

también en Italia, gracias a los beneficios previstos por las leyes vigentes”. Cfr. Id., Principia iuris, t. 2,

cit., p. 368 y nota 150. También en Derecho y razón Ferrajoli tenía en cuenta que “en Italia, tras la

reciente ley de 1986, la pena de cadena perpetua ha desaparecido de hecho, al ser posible su conmutación

después de quince años por la medida de semilibertad y poco después por la libertad condicional; y lo

mismo puede decirse de la mayor parte de los países europeos…” (p. 415). En cualquier caso, creo que la

diferencia se debe a que la propuesta de un máximo de pena privativa de la libertad es aproximativa en las

dos obras citadas, es decir, no pretende establecer un límite preciso, sino un marco de referencia.

50 Ferrajoli, ibídem.

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82

autor italiano– “en ausencia de derecho penal, llevarían a cabo poderes soberanos de

tipo absoluto y despótico no regulados ni limitados por normas y garantías”51.

Respecto del primer sistema punitivo –la venganza privada, individual y colectiva–

Ferrajoli escribe que “pertenece a una fase primigenia de nuestra historia, si bien no hay

que olvidar su resurgimiento en fenómenos modernos como las policías privadas, las

cuadrillas de vigilantes, las justicias penales domésticas y en general la relativa anarquía

y autonomía punitiva presentes en las zonas sociales marginadas y periféricas aun de los

países desarrollados”52.

Respecto del segundo, afirma que “es fácil comprobar que la historia de las penas y

de los procesos en su conjunto ha sido más infamante para la humanidad que la historia

de los delitos; que siempre –en demasiados casos, incluso en las democracias

avanzadas– la violencia de los abusos policiales y punitivos supera en brutalidad a la

violencia de los delitos; que, en suma, la seguridad y las libertades fundamentales

resultan a menudo tan amenazadas por los aparatos represivos como por la criminalidad

[…] Piénsese –ejemplifica Ferrajoli– no sólo en los horrores de la inquisición medieval

y en los de los regímenes totalitarios, sino también en muchos crímenes contra la

humanidad perpetrados en todo el mundo bajo forma de represión penal. En las

ejecuciones sumarias y en los miles de abusos policiales en China, Irak e Irán, o en las

privaciones de libertad arbitrarias y las torturas a presos en países de antiguas

democracias, como Estados Unidos y Gran Bretaña. En todos estos casos –concluye– el

fracaso del derecho penal se manifiesta dramáticamente, en su abdicación y

claudicación ante la lógica de la guerra”53.

Esas dos alternativas al derecho penal son las que Ferrajoli define como “sociedad

salvaje” (la reacción al delito librada a la discrecionalidad de los particulares) y “Estado

salvaje” (la reacción estatal al delito regida por la arbitrariedad de los gobiernos de

turno). En comparación con ellas, el derecho penal mínimo, con su sistema de garantías

penales y procesales, se justifica como técnica de control que, de un modo compatible

51 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 340.

52 Ferrajoli, ibídem.

53 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., p. 349.

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con la libertad, maximiza la seguridad general, incluida la de los acusados y

condenados54.

Pero Ferrajoli identifica también otras dos alternativas a la ausencia de derecho

penal: la “sociedad disciplinaria” y el “Estado disciplinario”. La primera se refiere a las

“comunidades fuertemente moralizantes e ideologizadas, sujetas a la acción de rígidos

conformismos que operan en forma de autocensura así como a las presiones de ojos

colectivos, policías morales, panoptismos sociales difusos, linchamientos de opinión,

ostracismos y demonizaciones públicas”; la segunda, un “producto típicamente

moderno” para Ferrajoli, se caracteriza por “el desarrollo de las funciones preventivas

de seguridad pública mediante técnicas de vigilancia total, como las que hace posible el

espionaje de los ciudadanos por parte de poderosas policías secretas, así como a través

de los actuales sistemas informáticos de fichado generalizado y control audiovisual”. En

comparación con estas dos alternativas, el derecho penal mínimo se justifica como

técnica de control que maximiza la libertad de todos; la libertad moral o subjetiva,

impedida por la “sociedad disciplinaria”, y la libertad física, impedida por el “Estado

disciplinario”55.

Y esos cuatro sistemas de control no son sólo las alternativas posibles a la abolición

del derecho penal, sino que, como se desprende de lo expuesto, para Ferrajoli “conviven

siempre en alguna medida con todo derecho penal positivo, precisamente en la medida

en que esté ausente en el plano normativo y/o se viole en el plano operativo el conjunto

de garantías que definen y justifican sus formas mínimas para la tutela de los derechos

fundamentales”56. Para demostrarlo, Ferrajoli no se conforma con la mención somera de

los ejemplos antes recordados, sino que analiza pormenorizadamente las normas y

prácticas efectivas del sistema penal italiano que de modos diferentes reflejan aquellos

sistemas de control salvaje o disciplinario, en violación a los derechos fundamentales

previstos en la constitución57.

54 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 340.

55 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 338-340.

56 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 341.

57 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., parte IV: “Fenomenología. La falta de efectividad de las garantías

en el derecho penal italiano”, pp. 695-848.

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84

Me parece, entonces, que habría que reconsiderar la crítica según la cual Ferrajoli en

ningún momento nos ofrece evidencia empírica, ni siquiera referencias a ella, que sea

capaz de fundar la conexión causal que establece entre ausencia de derecho penal

(mínimo) y violencia informal intolerable, sobre todo a partir de la aclaración de que el

autor italiano no sostiene que la única alternativa al derecho penal es la venganza

privada, sino que identifica cuatro sistemas posibles de represión y control, igualmente

inadmisibles para él, como alternativas a aquel derecho. En síntesis, la crítica de

Gargarella, en mi opinión, parte de esa premisa equivocada, y por lo tanto exige que

Ferrajoli pruebe algo que no sostiene, o sea, que la abolición del derecho penal

necesariamente abriría paso a la sociedad salvaje.

Me pregunto si y en qué medida la alternativa republicana al derecho penal propuesta

por Gargarella no constituya una confirmación de la tesis de Ferrajoli, en cuanto a que,

según el profesor italiano, uno de los modelos posibles de control tras la abolición de

aquel derecho, sería el modelo de la sociedad disciplinaria, es decir, una sociedad

“pacificada y totalizante, en la que los conflictos son controlados y resueltos o, peor

aún, prevenidos, mediante mecanismos éticos-pedagógicos de interiorización del

orden…”, y donde no queda lugar, por consiguiente, para la libertad moral o subjetiva

de sus miembros58.

Me hago esa pregunta porque la alternativa al derecho penal que propone Gargarella

está encaminada a la “integración social”59 mediante la “forja” del carácter y la

“educación moral” de los ciudadanos, lo que importa “dejar de lado la imagen del

Estado pasivo en materia moral. Implica, para decirlo en términos filosóficamente más

interesantes, dejar de lado el principio liberal de la neutralidad moral del Estado”60.

El sistema penal debería reemplazarse, entonces, por un método de persuasión moral

racional, mediante el cual se buscara entablar un diálogo moral con el ofensor, a fin de

comunicarle el reproche social hacia lo que hizo61. “Tratar a alguien correctamente –

58 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 251 y 339.

59 Gargarella, “Los desafíos republicanos a la represión penal”, en Id., De la injusticia penal a la

justicia social, cit., pp. 149-162, esp. p. 152.

60 Gargarella, ob. cit. ult., p. 158.

61 Gargarella, “Mano dura contra el castigo (II). Autogobierno y comunidad”, en Id., De la injusticia

penal a la justicia social, cit., pp. 53-76, esp. p. 68.

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escribe Gargarella– es dirigirse a él o ella como un agente moral y no, simplemente,

como un actor racional que debería ser manipulado o motivado en determinado sentido,

a través de premios y castigos”62.

En síntesis, tal “visión comunicativa” de la justicia, que no podría llamarse penal –

por lo menos en el sentido de que no hay en ella penas o castigos, sino reproche social–

exige dejar de lado “el ideal liberal conforme al cual los derechos representan barreras

infranqueables para la autoridad pública –‘cartas de triunfo’ en manos de los

individuos–. En este caso, ciertos derechos tradicionalmente protegidos por el

pensamiento liberal (i.e., el de escoger con absoluta libertad el modelo de vida que uno

prefiere, incorporado, por ejemplo, en el art. 19 de la Constitución Nacional argentina),

perdería parte de su fuerza, lo que para muchos liberales representaría, sin dudas, la

directa desvirtuación del derecho a vivir autónomamente”63.

Es interesante notar que las distintas concepciones de Ferrajoli y Gargarella acerca

de la respuesta correcta que el Estado debería brindar a los delitos, no tienen como

correlato, sin embargo, propuestas tan diferentes en lo concreto. Dicho más claramente,

los autores conciben de manera distinta esa respuesta (“pena” para Ferrajoli, “reproche

social” para Gargarella, con la consecuente divergencia en la finalidad que le atribuyen),

pero no difieren igualmente al mencionar qué medidas coercitivas se deberían adoptar

como tal. Ya se dijo que tanto Ferrajoli como Gargarella son abolicionistas de la cárcel.

Para reemplazarla, ambos proponen algunas de las actuales medidas alternativas, como

la probation y la libertad condicional64. Seguramente este acercamiento de sus

posiciones se debe, al menos, a una preocupación que los une: disminuir la violencia en

la sociedad, empezando por la violencia del poder estatal.

7. El ofendido como titular de la acción penal

Por otro lado, creo que la crítica de Gargarella y Postay consistente en que Ferrajoli no

demuestra el nexo causal entre pena y venganza, resultaría más eficaz si se la entendiera

62 Gargarella, ob. cit. ult., p. 69.

63 Gargarella, “Los desafíos republicanos a la represión penal”, cit., p. 151.

64 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 418-420; Principia iuris, t. 2, cit., p. 368; Gargarella, “Mano

dura contra el castigo (II). Autogobierno y comunidad”, cit., p. 68.

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como encaminada no a deslegitimar en abstracto al derecho penal y, en consecuencia, a

propugnar su abolición, sino a sostener que en ciertas ocasiones se podría considerar la

pena innecesaria o, incluso, inconveniente para alcanzar el fin político que le atribuye el

filósofo italiano, es decir, disminuir la violencia.

Es posible, en efecto, que los afectados por un delito deseen optar por una respuesta

menos violenta que la prevista por el derecho penal, como por ejemplo la composición

del conflicto creado por aquél. Tal como lo han demostrado varios estudios, cuando la

opinión pública es informada adecuadamente acerca de la cuestión criminal, penal y

penitenciaria, suele expresarse como muy favorable a la despenalización de conductas,

al desarrollo de un sistema de penas alternativas a la detención y a la sustitución del

proceso penal tradicional por formas de mediación penal65.

A su vez, la historia demuestra que no todas las sociedades, incluso ante situaciones

extraordinarias provocadas por la comisión masiva durante años de los crímenes más

terribles, decidieron recurrir al derecho penal como sola ratio. Quizás el caso más

reciente y conocido sea el de Sudáfrica, donde la mayoría de las víctimas del apartheid,

con Nelson Mandela a la cabeza, optó por darle prioridad a una concepción restaurativa

de la justicia, para lo cual aceptó que se cambiara verdad por inmunidad penal, de modo

que cada individuo que confesara públicamente sus crímenes y todo lo que supiera

acerca de lo ocurrido, no sería perseguido penalmente, aun cuando fuera uno de los

máximos responsables. Como es notorio, esa decisión no generó que Sudáfrica se

convirtiera en un país sumido en la guerra interna, ni en un riesgo para la paz mundial,

sino que, por el contrario, las instituciones democráticas sudafricanas, al menos hasta

65 Cfr., con relación a la opinión pública europea, L. Re, Carcere e globalizzazione. Il boom

penitenziario negli Stati Uniti e in Europa, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 137 (hay traducción española:

Cárcel y globalización. El boom penitenciario en Estados Unidos y Europa, Ad-Hoc, Buenos Aires,

2008); en el mismo sentido, con relación a la opinión pública norteamericana y española, B. del Rosal

Blasco, “¿Hacia el derecho penal de la postmodernidad?”, en Revista electrónica de ciencia penal y

criminología, 11 (2009), 8, esp. nota 6; respecto del desarrollo de la llamada “justicia restaurativa”, R.

Gargarella, “Mano dura contra el castigo (II). Autogobierno y comunidad”, cit., p. 67; J. Braithwaite,

“Restorative Justice: Assessing Optimistic and Pessimistic Accounts”, en Crime and Justice, 25 (1999),

pp. 1-197; un panorama a nivel mundial puede obtenerse a partir de los documentos publicados en la

página de Internet de Restorative Justice online: http://www.restorativejustice.org.

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hoy, gozan de buena salud y el país no ha vuelto a caer en aquel flagelo tras veinte años

del final del régimen segregacionista66.

En síntesis, creo que es un error asumir que individuos que manifiestan una

pluralidad de valores y afiliaciones sociales muchas veces en conflicto entre sí, como

suele observarse en las sociedades occidentales contemporáneas, se alineen tras de una

sola visión acerca de la respuesta que corresponde dar al crimen67. Y mucho menos que

lo hagan sociedades políticas tan diversas y complejas, como las que integran los países

de los cinco continentes68. Si ello es así, el derecho penal debería considerarse entonces

como ultima ratio, tanto a nivel local como a nivel internacional, incluso en aquellos

casos previstos como penalmente relevantes. Por lo que podría sugerirse que un sistema

penal concreto que operara dentro del marco de justificación propuesto por Ferrajoli, es

decir, que la imposición del castigo sólo sería legítima si (y sólo si) se reduce a un mal

menor respecto de la venganza pública y privada, debería verificar empíricamente el

cumplimiento de ese fin, y una manera de hacerlo podría ser “otorgar a la víctima la

titularidad de la acción penal”69.

En ese sentido, me parece interesante destacar que Ferrajoli propugna, dentro de su

modelo de derecho penal, que todos los delitos que afecten bienes disponibles, como la

propiedad privada, sean calificados como delitos dependientes de instancia privada, ya

que, así como en buena medida ocurre con la prescripción, “el transcurso del tiempo sin

que nadie haya ejercitado la acusación indica[ría], en efecto, la pérdida de utilidad de las

66 En otros trabajos he estudiado con mayor detalle la experiencia sudafricana: Políticas del castigo y

derecho internacional. Para una concepción minimalista de la justicia penal, Ad-Hoc, Buenos Aires,

2009, esp. pp. 269-344; “Memoria y justicia en la experiencia de la Comisión Sudafricana para la Verdad

y la Reconciliación”, en P.D. Eiroa, J.M. Otero (comps.), Memoria y Derecho Penal, colección ¿Más

Derecho?, (2007), 3, pp. 403-453.

67 Sobre los conceptos de diversidad y complejidad de las sociedades postindustriales, remito a D.

Zolo, Democracy and Complexity. A realist approach, Polity Press, Cambridge, 1992; trad. esp.,

Democracia y complejidad. Un enfoque realista, Ediciones Nueva Visión, Buenos Aires, 1994.

68 En un artículo anterior he intentado sostener que ni siquiera la firma del Estatuto de la Corte Penal

Internacional constituye una prueba incontrovertible de la voluntad de juzgar y castigar en todos los casos

y sin tener en cuenta otras alternativas de solución de los conflictos creados por los crímenes allí

previstos. Cfr. “La ‘lucha contra la impunidad’ y el ‘interés de la justicia’ en el Estatuto de la Corte Penal

Internacional: una propuesta de interpretación democrática”, en N. Barbero (coord.), Derecho Penal

Internacional, número extraordinario de la Revista de Derecho Penal, 2012, pp. 366-399.

69 Cfr., en un sentido similar, A. Bovino, “La víctima como sujeto público y el Estado como sujeto sin

derechos”, en Lecciones y Ensayos, Revista de la Facultad de Derecho de la UBA, (1994), 59, esp. pp. 28-

29.

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penas por la pérdida de toda su función preventiva y, en particular, de la función

primaria, que es evitar que los perjudicados se tomen la justicia por su mano”70. Me

pregunto, entonces, por qué no debería aplicarse el mismo criterio para los delitos que

afecten bienes indisponibles.

8. Derecho penal mínimo y defensa de la sociedad

Al considerar las críticas de Guibourg, Fucito y Hernández a la doctrina de Ferrajoli,

creo importante reiterar que el derecho penal mínimo prescribe como uno de sus fines

legitimadores la defensa de la sociedad contra el delito, y que este fin está presente y

condiciona toda la construcción de esa doctrina.

En ese sentido, Ferrajoli es claro al afirmar que la prevención general de los delitos

es un fin “esencial” del derecho penal, el que asume, sin embargo, también otro, no

menos esencial, que es el de la prevención general de las penas arbitrarias o

desproporcionadas. Y eso no es contradicho en absoluto por la aclaración ulterior de que

sólo el segundo fin, es decir, la tutela del inocente y la minimización de la reacción al

delito, sirva para distinguir al derecho penal de otros sistemas de control social

probablemente más eficaces para alcanzar el primer fin, como el de tipo policial,

disciplinario o terrorista. Pues, en todo caso, un sistema penal está justificado “sólo si la

suma de las violencias –delitos, venganzas y castigos arbitrarios– que está en

condiciones de prevenir es superior a la de las violencias constituidas por los delitos no

prevenidos y por las penas establecidas para éstos”71.

En síntesis, entre esas dos funciones no existe ninguna oposición. “Tanto las

funciones de defensa social a través de la prevención de los delitos como las de garantía

individual mediante la prevención de las penas arbitrarias y excesivas sirven para

garantizar lo mismo la seguridad de los derechos fundamentales de los perjudicados,

que son las víctimas de los delitos, y de los imputados, que, a su vez, pueden ser

víctimas del arbitrio punitivo”. Además, añade Ferrajoli, ambas funciones están

conectadas aunque sea porque la primera supone lógicamente la segunda, en tanto “el

castigo del inocente equivale siempre a un fracaso del derecho penal en sus dos

70 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 574.

71 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 334-336. En el mismo sentido, cfr. Principia iuris, t. 2, cit., pp. 346-351.

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fundamentos axiológicos y en sus fines justificativos; del segundo fin, es decir, de la

prevención de castigos injustos, pero también del primero, esto es, de la prevención de

las ofensas injustas, ya que cuando aquél se da no sólo se pena a un inocente, sino que

se deja sin castigo a un culpable”72.

De esto último se desprende que, contrariamente a lo que parecen suponer Guibourg,

Fucito y Hernández, Ferrajoli no descarta a la disuasión como fin de la aplicación de la

pena, aunque entienda que su razón primordial es evitar o disminuir la violencia

arbitraria a la que se vería sometido el sospechoso o el condenado en ausencia del

derecho penal. En efecto, afirma que “[…] la pena no sirve sólo para prevenir los

injustos delitos, sino también los castigos injustos; que no se amenaza con ella y se la

impone sólo ne peccetur, sino también ne punietur; que no tutela sólo a la persona

ofendida por el delito, sino también al delincuente frente a las reacciones informales,

públicas o privadas”73.

Por lo tanto, entiendo que la observación de Guibourg acerca de que ambas

finalidades se encaminan a la misma prevención (la de los delitos), es equivocada. A

este respecto, Ferrajoli ha aclarado que “el derecho penal no está justificado como

sustituto más eficaz que la venganza, sino como alternativa y negación de la anarquía

punitiva”74, por lo cual, en el marco del derecho penal mínimo, la pena no convalida,

como sugiere Guibourg, una tendencia social irracional a vengarse para prevenir futuras

agresiones, sino que la deslegitima, en tanto protección del condenado contra ella. Por

eso tiene sentido, además, el derecho penal mínimo entendido como sistema de límites y

vínculos impuestos a los individuos y al Estado para minimizar la violencia en la

sociedad, ya que si la única finalidad fuera la prevención de los delitos sólo cabría dar

rienda suelta al poder punitivo que, como ya se ha dicho, bajo las formas del Estado

policial, disciplinario o incluso terrorista, sería muy probablemente más idóneo para

alcanzarla.

72 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., pp. 349-350.

73 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 332.

74 Ferrajoli, “Notas críticas y autocríticas en torno a la discusión sobre ‘Derecho y razón’”, cit., p. 518.

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90

9. Las penas y su medida

Por otro lado, no advierto la diferencia entre los sistemas de determinación de la pena

propuestos por ambos autores. La norma, según Guibourg, debería establecer como

umbral mínimo absoluto la pena necesaria para producir efectos preventivos, y como

umbral máximo el mínimo de respeto debido a cualquier ser humano. Ferrajoli sugiere

exactamente el mismo criterio para establecer el mínimo de la pena. En cuanto al

máximo, aclara, ante todo, que su límite está dado por la dignidad humana, lo que exige

que nadie sea tratado como un medio, sino como un fin. Este argumento –añade– tiene

carácter moral pero también político: el Estado es legítimo únicamente si tutela la vida y

los restantes derechos fundamentales, por lo que si mata, tortura o humilla a un

ciudadano contradice su razón de ser, pierde su legitimidad y se pone a la altura de los

delincuentes. En esa perspectiva, el segundo fin que Ferrajoli atribuye al derecho penal

(y a la pena en particular) resulta, a su modo de ver, “decisivo e incondicionado a favor

de la humanidad de las penas, en el sentido de que toda pena cualitativa y

cuantitativamente (superflua por ser) mayor que la suficiente para frenar reacciones

informales más aflictivas para el reo puede ser considerada lesiva para la dignidad de la

persona”. Ése es, entonces, el límite máximo no superable “sin que el reo sea reducido a

condición de cosa y sacrificado a finalidades ajenas”75.

Fucito y Hernández han objetado que penas como las que propone Ferrajoli no

podrían alcanzar ese segundo fin, pues no satisfarían a la víctima y/o a quienes se

solidarizaran con ella, y serían entonces inútiles para prevenir la venganza. Sin

embargo, en esa objeción se manifiesta nuevamente un error conceptual, dado que se

confunden los dos fines del derecho penal y se reduce su función a la prevención de

otros delitos.

Ya se ha dicho que la pena, en el marco del derecho penal mínimo, no es el

reemplazo de la venganza, sino su negación. Agréguese ahora que, como explica

Ferrajoli, la prevención de la venganza y las reacciones estatales informales y excesivas,

a diferencia de la prevención de los delitos, “está determinada no tanto por la medición

de la pena –pues esta debería variar para los diversos tipos de delitos, según su

75 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 395-396.

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91

previsible grado de violencia–, sino, antes bien –como he escrito tantas veces–, por la

simple existencia del derecho penal”76.

Cuando Fucito y Hernández sugieren, entonces, que las penas deberían ser más

rigurosas para evitar esas reacciones informales, no están teniendo en cuenta el interés

del imputado o condenado, es decir, no están haciendo referencia a la pena como castigo

alternativo, sino que piensan en el autor de la posible reacción, en el delito que éste

cometería y en la necesidad de prevenirlo como cualquier otro. Y justamente porque

Ferrajoli considera, dentro del marco de su doctrina, que las reacciones informales y

desproporcionadas son un sistema de control social alternativo al derecho penal, pues si

éste existe esas reacciones son un delito como cualquier otro, el límite máximo de la

pena puede ser contenido en una medida ampliamente superior a la carga de sufrimiento

producida por la anarquía punitiva, y al mismo tiempo limitar fuertemente la tendencia

al derecho penal máximo, incentivada por el simple fin de la prevención de los delitos77.

Creo importante reiterar cuáles son, concretamente, esas penas que propone Ferrajoli.

En lo inmediato –afirma– las penas privativas de la libertad deberían reducirse en la

misma medida en que hoy se las puede reducir caso por caso mediante la aplicación de

las medidas alternativas. En su opinión, esta flexibilidad de las penas es inadmisible, en

tanto las medidas alternativas están basadas en una también inadmisible estrategia

correccionalista, contradicen los principios de legalidad, certeza, igualdad y, en general,

todas las garantías de la pena, y confieren un amplio arbitrio extra-legal a los

funcionarios administrativos encargados de la ejecución penal, pues de ellos depende en

gran parte su concesión. Además, si las medidas alternativas encuentran su fundamento

en argumentos humanitarios que, en suma, se oponen al encarcelamiento perpetuo o tan

prolongado que imposibilite la reinserción social, mejor sería reducir legislativamente

las penas, es decir, reducirlas para todos, y no permitir su arbitraria limitación para

algunos78. Desde esta perspectiva, cabe rechazar la idea de que Ferrajoli propone “penas

de papel”, a menos que se sostenga que son tales las penas carcelarias que actualmente

se cumplen en los hechos.

76 Ferrajoli, “Notas críticas y autocríticas en torno a la discusión sobre ‘Derecho y razón’”, cit., p. 514.

77 Ferrajoli, ibídem.

78 Cfr. Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 414-416 y Principia iuris, t. 2, cit., pp. 368-369.

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92

Es cierto, sin embargo, que el autor italiano propugna, en perspectiva futura, la

abolición de la cárcel, lo que “no podrá ser sino el fruto de un proceso gradual, ligado al

progreso cultural y a la reducción de las bases sociales de la violencia”79. Pero ello no lo

lleva a proponer sanciones alternativas que nieguen el carácter de “mal” para el

condenado que, en su opinión, debe tener toda pena si no se quiere convertirla en una

tasa80.

En ese sentido, sugiere que las actuales medidas alternativas podrían reemplazar a la

cárcel como penas principales, por lo cual, al hacer esta propuesta, Ferrajoli ya no las

considera medidas, como afirma equivocadamente Hernández, mucho menos “graciosos

y providentes beneficios”, que sí resultan, de acuerdo con el autor italiano, cuando, dado

el derecho penal actual en Italia y muchos otros países, se las concede para paliar penas

que se consideran injustificables por exceso o por resultar contraproducentes81.

Las penas alternativas en las que piensa Ferrajoli son aquellas ya experimentadas

(como penas o medidas) en el derecho penal italiano: arresto domiciliario, reclusión de

fin de semana, similibertad, libertad condicional, probation, confinamiento y destierro,

en lo que se refiere a la privación de la libertad ambulatoria, e inhabilitación, en lo que

se refiere a la privación de otros derechos. Descarta la pena de multa porque, a

diferencia de la cárcel, resulta desproporcionada por defecto, al estar por debajo del

límite mínimo que justifica la imposición de una pena, es decir, sostiene que resulta

inútil para disuadir. Además, a su modo de ver, es una pena impersonal, porque puede

pagarla cualquiera, y desigual, pues su grado de aflicción depende del patrimonio del

condenado82.

Esas penas alternativas, a su vez, no deberían ser modificadas si no es por hechos

sobrevinientes y taxativamente preestablecidos por la ley, como, por ej., los relativos a

la salud del condenado. Y siempre deberían consistir en la privación de un derecho

sufrida pasivamente83.

79 Cfr. Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 414.

80 Cfr. Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 394-400.

81 Cfr. Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 409 y 411 y Principia iuris, t. 2, cit., p. 368.

82 Cfr. Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 416 y Principia iuris, t. 2, cit., p. 368.

83 Cfr. Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 420.

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93

En la óptica de Ferrajoli, la función disuasiva de la pena depende más de su certeza e

infalibilidad que de su dureza: “La certidumbre del castigo, aunque moderado –afirma

con cita de Beccaria–, hará siempre mayor impresión que el temor de otro más terrible,

unido con la esperanza de la impunidad”84.

En suma, Ferrajoli propone, en lo inmediato, la reducción a nivel legislativo de las

penas privativas de la libertad en la misma medida en que hoy se cumplen en los

hechos, a raíz de la aplicación de las medidas alternativas, y la supresión de la multa,

considerada por él una “pena de papel” e injusta. En perspectiva futura, propone en

cambio el establecimiento de las actuales medidas alternativas y penas accesorias como

penas principales y la supresión de la cárcel, tras hacerse eco de las conocidas críticas a

esta institución, que muy pocos parecen defender en la actualidad a raíz de las enormes

dificultades que existen para justificarla frente a la exigencia de humanidad de las

penas, su discutida idoneidad para prevenir nuevos delitos y su fuerte carácter

criminógeno.

Creo entonces que los críticos de Ferrajoli deberían explicar, para darle un contenido

más preciso a su objeción acerca de las supuestas penas irrisorias a las que llevaría el

derecho penal mínimo, qué sanciones proponen, qué medida deberían tener y cuáles son

los fundamentos para justificarlas.

En lo que respecta a la crítica de Hernández a los criterios de determinación de la

pena en la doctrina del derecho penal mínimo, ya se han brindado argumentos que

niegan que, si se siguieran sus lineamientos, el legislador debería efectuar estudios

sociológicos para verificar cuánta violencia suscita cada delito y recién entonces

establecer las penas legítimas, como sugiere el autor argentino. Añádase ahora que el

límite mínimo y el máximo establecidos en esa doctrina son parámetros dirigidos al

legislador85, por lo que no merecen atención las apreciaciones de Hernández acerca de

la inutilidad de esos parámetros para la determinación judicial de la pena.

De todos modos, cabe mencionar que Ferrajoli no desconoce que esos límites pueden

servir sólo como orientación de las valoraciones del legislador, y no como criterio

preciso para una exacta cuantificación de las penas. En ese sentido, admite el fracaso de

84 Cfr. Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 410 y Principia iuris, t. 2, cit., p. 369.

85 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 399-402.

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94

todos los esfuerzos realizados para comparar la gravedad de los delitos, tanto en lo

referido al daño como a la culpabilidad, y la de las penas pues, en su opinión, si éstas

son cuantificables, no lo son los delitos86.

Su objetivo principal no ha sido, sin embargo, cuantificar esos límites, sino

señalarlos, en respuesta a las dos principales objeciones que en este plano se suelen

dirigir al utilitarismo: la objeción kantiana de que ninguna persona puede ser tratada

como medio para fines no propios, y la objeción abolicionista acerca de los costos y los

sufrimientos penales, en tanto el derecho penal, en la doctrina de Ferrajoli, resulta

justificado sólo si minimiza la violencia de los delitos y las puniciones87.

En suma, en cuanto al límite máximo, le basta con proponer un criterio que, a su

modo de ver, es más consistente que el formulado por Bentham y retomado por Hart,

según el cual la pena no debe producir sufrimientos mayores que los producidos por los

delitos que pretende evitar, ya que estos sufrimientos resultan incomparables por

referirse a sujetos distintos, mientras que es posible la comparación entre la aflicción de

la pena y la de las reacciones punitivas informales, en tanto se refieren ambas a la

misma persona.

En cuanto al límite mínimo, Ferrajoli precisó ulteriormente sus tesis con

posterioridad a la publicación de Derecho y razón, a raíz de ciertas críticas que se le

formularon. Si bien en esa obra adhirió al criterio clásico de que el mínimo necesario de

la pena debe determinarse mediante la medición de la desventaja de la pena en

comparación con la ventaja del delito, admitió luego que es difícil conciliar ese criterio

con el de la proporcionalidad de la pena respecto de la gravedad del delito, que no

depende de aquella ventaja sino del sufrimiento de la víctima. Por lo que sostuvo que la

fórmula original debe ser invertida: la ofensa del delito debe corresponder al daño de la

pena, es decir, determinar su medida, la cual, por supuesto, no debe reducirse a una

tasa88.

86 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 399.

87 Ferrajoli, “Notas críticas y autocríticas en torno a la discusión sobre ‘Derecho y razón’”, cit., p. 522.

88 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 523-524.

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95

10. La eficiencia del derecho penal mínimo como sistema de defensa social contra el delito

Me parece evidente que en las críticas de Guibourg y, sobre todo, en las de Fucito y

Hernández se encuentra la preocupación por la eficiencia del derecho penal como

sistema de defensa social contra el delito, que, desde la perspectiva de estos autores,

resulta seriamente amenazada por la doctrina de Ferrajoli.

Esa cuestión tampoco ha sida obviada por el autor italiano, el que ha definido como

un “contrasentido” la antinomia entre garantismo y eficiencia, a la que suelen recurrir

las campañas de emergencia en seguridad que señalan al exceso de garantías a favor del

imputado como la causa de la ineficiencia de la administración de justicia. Por el

contrario, según Ferrajoli, las causas de ese fenómeno son otras y, a la vez, las mismas

del quiebre de las garantías y del fracaso de los dos fines que justifican al derecho penal

mínimo. Ellas se refieren a la “cuestión criminal”, es decir, a las formas económicas,

sociales y políticas, en gran parte nuevas, de la más perniciosa criminalidad actual; a la

“cuestión penal”, es decir, a las formas de intervención punitiva, en gran parte viejas e

inapropiadas frente a la nueva criminalidad, y a las razones de la impunidad de ésta89.

Para Ferrajoli, la criminalidad del poder es la que más amenaza en la actualidad a los

derechos, la democracia, la paz y al futuro mismo de nuestro planeta. Por un lado, los

crímenes de los poderes económicos privados, como las estafas financieras en perjuicio

de millones de ahorristas y la corrupción activa en pos de favorecer condiciones de

explotación laboral, apropiación de recursos naturales y depredación del medio

ambiente, y de los poderes públicos, como la corrupción pasiva en esos mismos casos y,

aún más graves, los de lesa humanidad llevados a cabo por las fuerzas estatales, generan

más sufrimientos y muertes –afirma– que todos los crímenes comunes juntos. Además,

los poderes criminales, como la mafia y el terrorismo, dominan y explotan, directa o

indirectamente, a quienes llevan a cabo los crímenes que llama “de subsistencia”90, es

89 Cfr. Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., pp. 350-352, y “Derecho penal y Estado de derecho”, en

Revista Nueva Doctrina Penal, 2008-B, ahora en Id., Escritos sobre derecho penal. Nacimiento,

evolución y estado actual del garantismo penal, t. 2, Hammurabi, Buenos Aires, 2014, esp. pp. 214-217.

90 Cfr. Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., pp. 352-356, y “Derecho penal y Estado de derecho”, cit., pp.

217-220.

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96

decir, los crímenes de menor proporción en cuanto a sus alcances que cometen los

marginados, inmigrantes, desempleados, pobres.

Pese a ello, la legislación penal de los países occidentales no se ha encaminado a

concentrar las energías y los recursos en la persecución de la criminalidad organizada,

sino que ha aumentado exponencialmente, al abarcar cada vez más comportamientos

inofensivos para derechos fundamentales de terceros, con el resultado de llevar al borde

del colapso a los aparatos judiciales y generar, en consecuencia, la descalificación del

derecho penal por su ineficiencia, la burocratización de la actividad judicial, la

ampliación de sus espacios de discrecionalidad, el favorecimiento de las distintas

formas de procesos abreviados, incompatibles con las garantías sustanciales del debido

proceso, a comenzar por el valor de verdad que requiere la legitimidad de toda sentencia

penal, y la imposibilidad fáctica de aplicar el principio de obligatoriedad de la acción.

La inflación penal es tal –sostiene Ferrajoli– que si todos los delitos cometidos fueran

descubiertos y debieran ser investigados, es probable que la mayor parte de la población

resultara imputada, y quizás encarcelada, o al menos implicada en algún proceso penal.

En Italia –recuerda amargamente– se ha llegado a prever como delito, punible con pena

de prisión, incluso la fotocopia de algunas páginas de un libro91.

Al mismo tiempo, la función estatal de represión del delito, enfatizada por la prensa

y la televisión, se orienta cada vez más hacia la “criminalidad de subsistencia”, en

particular, los robos con violencia producidos en las calles y los domicilios y la venta de

drogas al menudeo, de los que resultan responsables los sujetos marginados,

identificados como las únicas “clases peligrosas”. Lo que favorece, a su modo de ver, la

ilusoria creencia de que el derecho penal puede acabar con la microdelincuencia, la

progresiva exclusión del horizonte de la política de las medidas sociales de inclusión, el

reforzamiento del papel represivo del Estado, tanto hacia su interior como su exterior,

en desmedro de sus funciones de garante de los derechos sociales, y la percepción de la

delincuencia “de cuello blanco” como ajena a los estereotipos del criminal y, en

consecuencia, su naturalización y aceptación social como fenómeno propio del actual

sistema político y económico de gobierno. Delincuencia que se ve muy beneficiada –

91 Cfr. Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., pp. 356-358, y “Derecho penal y Estado de derecho”, cit., pp.

220-222.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

97

añade– por las condiciones en que debe funcionar el aparato judicial y por las costosas

defensas que está en condiciones de pagar92.

“De este modo se está produciendo en medida todavía más masiva que en el pasado,

una duplicación del derecho penal: derecho mínimo y dúctil para los ricos y los

poderosos; derecho máximo e inflexible para los pobres y marginados”93. Unos sacan

provecho de la incapacitada maquinaria judicial y logran paralizar fácilmente los raros

procesos a los que son sometidos, y los otros, sin medios para defenderse

adecuadamente, son por lo general juzgados y condenados mediante procedimientos

sumarios o abreviados. De ello se desprende la inversión de los dos fines que, en la

doctrina de Ferrajoli, justifican al derecho penal como técnica de tutela del más débil, en

tanto los perseguidos penalmente, en su gran mayoría, están privados de las garantías

individuales frente a los excesos y las arbitrariedades punitivas, mientras que la

capacidad de prevención del derecho penal, que es máxima, según Ferrajoli, en relación

con los crímenes de los poderosos, dado que temen perder sus privilegios y, entonces,

delinquen en la medida de su impunidad, resulta por el contrario mínima frente a la

criminalidad de subsistencia, la cual, a diferencia de aquella, se origina en la miseria, la

drogadicción y, en síntesis, en la precariedad de las condiciones de vida, por lo que las

penas tienen a lo sumo un valor simbólico para sus responsables, menor en todo caso

que el de las políticas sociales de inclusión para intentar reducirla94.

En la visión del autor italiano, la intrínseca ineficiencia de ese derecho penal actual

tiene como único efecto incrementar el malestar social y la desconfianza en el derecho y

las instituciones. Por eso, sostiene que es necesario refundar el sistema penal en su

conjunto, con miras a recuperar su eficiencia y las garantías del modelo normativo del

derecho penal mínimo, sobre todo a partir del restablecimiento del principio de

legalidad95.

92 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., pp. 361-365.

93 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 364.

94 Ferrajoli, ibídem.

95 A este respecto, cfr. D.R. Pastor, Recodificación penal y principio de reserva de código, Ad-Hoc,

Buenos Aires, 2005. En esta obra, tal como lo explica su autor, se siguen “las lúcidas ideas de Luigi

Ferrajoli acerca de la situación premoderna y desordenada del derecho punitivo en la actualidad, acerca

de la necesidad de devolverle protagonismo al principio de legalidad penal (nullum crimen), acerca de la

conexión entre este principio, el constitucionalismo y la codificación, y acerca, por último, de la

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

98

En efecto, entiende que se deben reducir los delitos a aquellos que afecten los bienes

fundamentales y sea posible juzgar, desde una perspectiva realista, de conformidad con

las garantías del debido proceso. Esto implica imponer un riguroso respeto del principio

de estricta legalidad, reformulado como regla semántica de formación del lenguaje legal

que obligue al legislador a usar términos precisos, que hagan posible la verificabilidad y

refutabilidad empírica de las hipótesis acusatorias, y agrupar todos los delitos en un

nuevo código, de modo de excluir las leyes especiales y terminar con el caos legislativo

que impera en la actualidad. Y, en el mismo sentido, prever el principio de lesividad,

entendido como apreciabilidad, en abstracto y en concreto, del daño y el peligro corrido

como elementos constitutivos del delito, para replantear toda la escala de bienes

merecedores de protección, al poner en el vértice los bienes y derechos fundamentales –

vida, integridad física, libertad, bienes públicos y comunes, y el correcto ejercicio de la

función pública–, lesionados y amenazados sobre todo por la criminalidad del poder, y

excluir a los bienes que no tengan rango constitucional y a los delitos de peligro

abstracto, que constituyen la amenaza más insidiosa para las clásicas garantías penales y

procesales, y cuya protección debería confiarse al derecho civil o administrativo96.

En suma, Ferrajoli considera que es evidente el nexo indisoluble entre derecho penal

mínimo, garantismo y eficiencia, en tanto “[s]ólo un derecho penal desburocratizado,

limitado como extrema ratio únicamente a las ofensas a los derechos y a los bienes más

fundamentales, puede de hecho asegurar el respeto de todas las garantías y a la vez el

funcionamiento y la credibilidad de la maquinaria judicial. Y sólo un sistema penal y

procesal y una reorganización de la policía judicial encaminados al empleo de medios,

de recursos y de capacidades investigadoras para enfrentar, mucho más que a la pequeña

criminalidad callejera o los delitos menores, el crimen organizado y sus infinitas

colusiones con los poderes políticos y con los grandes poderes económicos, pueden hoy

necesidad de brindar garantías para una indispensable recodificación de la legislación penal y procesal

penal (principio de reserva de código)” (p. 11).

96 Cfr. Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., pp. 366-371 y “Derecho penal y Estado de derecho”, cit., pp.

222-227.

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99

conjugar garantismo y eficiencia, defensa del Estado de derecho y éxito en la lucha a las

organizaciones criminales”97.

Además, sostiene que el derecho penal mínimo, al ser un sistema de garantías no sólo

de libertad, sino también de verdad, realiza la única eficiencia penal que puede

perseguirse con sensatez, pues la arbitrariedad que las reemplaza en nombre de la

emergencia no sólo es inútil para defender a la sociedad del delito y, en definitiva, a la

democracia, sino que mina sus fundamentos. En este sentido, señala que sólo el sistema

garantista, encaminado a asegurar un esquema epistemológico de identificación de la

desviación penal basado en el carácter cognoscitivo del juicio penal, es decir, en la

verdad, y la defensa de los derechos fundamentales incluso de la minoría desviada,

puede servir para descalificar y aislar a los poderes criminales y diferenciar de ellos al

Estado98.

En conclusión, creo que con esto también se demuestra que es equivocada la tesis de

Hernández de que Ferrajoli no habría concebido el derecho penal mínimo para enfrentar

a los crímenes del poder, en tanto admitiría a su respecto un derecho penal máximo.

11. Obligación jurídica y libertad moral de obedecer las leyes

También creo que de lo expuesto supra, en particular en los puntos 8, 9 y 10, surge

nítidamente que la doctrina de Ferrajoli es incompatible con un orden anárquico en el

cual, a raíz del deber de tolerancia, no exista ninguna posibilidad de defender a la

sociedad contra el delito, ni siquiera de manera organizada y democrática, es decir,

mediante el derecho penal mínimo. En consecuencia, las críticas de Fucito en este

sentido resultan infundadas.

Por el contrario, ese autor tiene razón cuando advierte que el deber de tolerancia en

una sociedad democrática, según la doctrina de Ferrajoli, deslegitima toda pretensión

estatal de modificar coercitivamente la personalidad de quien ha delinquido, exige que

el Estado acepte la disidencia moral de los ciudadanos aun respecto de sus normas más

elementales e importa que sólo los jueces y funcionarios estén obligados moralmente

97 Ferrajoli, “Criminalita’ organizzata e democrazia”, en Studi sulla questione criminale, V (2010), 3,

trad. esp: “Criminalidad organizada y democracia”, ahora en Id., Escritos sobre derecho penal, t. 2, cit.,

esp. p. 371.

98 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., p. 350.

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100

(no sólo jurídicamente) a la observancia de las leyes. Pero esto no quiere decir, como

parece concluir Fucito, que la sociedad deba tolerar el delito, pues si así fuera no tendría

sentido la propuesta del derecho penal mínimo. Tolerar la disidencia moral es distinto,

en la doctrina de Ferrajoli, a tolerar el delito, a punto tal que se puede afirmar que lo

primero es una obligación y lo segundo está prohibido en el Estado liberal y

democrático de derecho que concibe el autor italiano. Resulta oportuno entonces repasar

el alcance de sus tesis a este respecto.

Según Ferrajoli, el primer requisito de la democracia liberal es la inmunidad de las

personas frente a constricciones o prescripciones jurídicas de tipo ideológico o jurídico,

lo cual importa la separación entre derecho y moral, o entre Estado y religión, para la

tutela de las libertades de conciencia y pensamiento. Ello no quiere decir –aclara,

aunque lo considera obvio– “que el derecho no tenga, o peor aún que no deba tener,

contenidos morales socialmente compartidos lo más que sea posible. Ésta sería una tesis

carente de sentido, dado que todo sistema de normas jurídicas tiene contenidos morales,

o sea, valorables como morales o inmorales”99.

Por el contrario, señala que el primer significado de esa separación es un corolario

del positivismo jurídico, es decir, la afirmación del principio de legalidad como norma

de reconocimiento del derecho vigente, y la consiguiente autonomía de éste respecto de

la moral y viceversa. Su segundo significado es, en cambio, un corolario del liberalismo

político y del utilitarismo jurídico, es decir, la idea de que el Estado y el derecho no son

fines en sí mismos, no encarnan valores morales ni tienen el deber de afirmar, sostener o

reforzar una determinada moral, religión o cultura, sino que son instrumentos artificiales

cuyo único cometido es tutelar los derechos vitales. De este segundo significado se

desprende, para Ferrajoli, el principio penal de lesividad, conforme al cual no son

punibles los pensamientos, los vicios ni los actos contra uno mismo, la religión o las

buenas costumbres, sino sólo comportamientos exteriores concretamente dañosos para

99 Cfr. Ferrajoli, “Diritti fondamentali e bioetica. La questione dell’embrione”, en S. Rodota’ y P. Zatti

(comps.), Trattato di Biodiritto, t. I, Ambito e fonti del Biodiritto, Giuffrè, Milán, 2010; trad. esp:

“Derechos fundamentales y bioética”, ahora en Ferrajoli, Escritos sobre derecho penal, t. 2, cit., esp. p.

380; en el mismo sentido, “Stato laico ed etica laica. Lacita’ e diritto penale”, en S. Canestrari y L.

Stortoni (comps.), Valori e secolarizzazione nel diritto penale, Bologna University Press, Bologna, 2009;

trad. esp: “Estado laico y ética laica. Laicidad y derecho penal”, en Id., Escritos sobre derecho penal, t. 2,

cit., esp. p. 252.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

101

personas de carne y hueso100. Por lo tanto, dentro de ese modelo se advierte fácilmente

la distinción entre disidencia moral y delito, y la consiguiente posibilidad de diferenciar

entre obligación de tolerar la primera y de reprimir, mediante el derecho penal mínimo,

el segundo.

Esos dos significados de la separación entre derecho y moral, que definen, en

definitiva, al Estado laico, hacen posible el reconocimiento y el respeto de todas las

diferencias ligadas a la identidad de las personas pues, al estar vigentes los principios

mencionados, Ferrajoli entiende que ninguna moral, religión o cultura podría intentar

imponerse sobre las demás mediante el uso del Estado y el derecho. En suma,

podríamos decir que el Estado laico, en Ferrajoli, es un “Estado sin verdad”, en la

medida en que se admita que los valores en que se funda, como tales, no son

verificables ni demostrables, es decir, son fundantes mas no fundados, y que no deben

imponerse coactivamente a las conciencias morales, si el Estado laico no quiere negarse

a sí mismo y negar a la democracia101. En efecto, si sus valores fundantes fueran

concebidos como el reflejo de una ontología de la moral, es decir, una moral con

verdad, porque proviene de una entidad trascendente, como Dios, o porque está

inscripta en la naturaleza, ello equivaldría a un sistema objetivo de normas que excluiría

la autonomía de las conciencias y la libertad de pensamiento, lo cual es inconciliable

con el valor de la tolerancia102.

Desde esa perspectiva, me parece coherente que no resulte admisible ninguna

concepción retribucionista ni correccionalista de la pena, en tanto se refieran, las del

primer tipo, al valor axiológico intrínseco de la pena y, las del segundo, a la reforma del

condenado como sus fundamentos teleológicos103, pues, como afirma Ferrajoli, si bien

el ciudadano está obligado jurídicamente a no cometer hechos delictivos, tiene el

derecho de ser interiormente malvado y de seguir siendo lo que es, en virtud de la

100 Cfr. Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 464-467; Principia iuris, t. 2, cit., pp. 303-307; “Estado

laico y ética laica”, cit., pp. 262-265.

101 Cfr. Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 925-926; Principia iuris, t. 2, cit., p. 306; “Estado laico y

ética laica”, cit., pp. 256-261.

102 Ferrajoli, “Estado laico y ética laica”, cit., p. 258.

103 Cfr. Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 253-258 y 264-274.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

102

autonomía de su moral que no permite que se lo obligue a pensar de otro modo104. Por

lo tanto, la pena debe estar dirigida, únicamente, a disuadir de aquellos

comportamientos que ponen en riesgo los derechos vitales de todos y, especialmente, a

tutelar al condenado contra reacciones informales y arbitrarias. Así se defiende, según

Ferrajoli, tanto a la sociedad (la mayoría no desviada) como al condenado (la minoría

desviada).

Sin embargo, cabe hacer algunas precisiones en relación con las críticas de Guibourg

y Fucito a ese respecto, en particular en cuanto a sus observaciones que, según creo,

sugieren que es impensable que el derecho penal tenga eficacia preventiva si no se

apunta a modificar la personalidad (al atribuirle a la pena un contenido retributivo o

mediante tratamientos terapéuticos, educativos u otros encaminados, en definitiva, a la

internalización de las normas) y/o las condiciones socioeconómicas de vida de quienes

delinquen.

Ferrajoli admite –creo que nadie, por lo demás, podría negarlo– que, para poder

funcionar, todo ordenamiento necesita la adhesión de la mayoría de aquellos a quienes

está dirigido, pero de esto no se sigue que esa adhesión sea moral. No hay que confundir

–sostiene– “la adhesión espontánea, que puede ser acrítica y aproblemática, con la

adhesión moral y menos con el sentimiento de obligatoriedad moral”105. Para él,

entonces, la tesis de la necesidad de la adhesión moral para garantizar la eficacia de las

normas penales es empíricamente discutible. De todos modos, si fuera cierto que esas

normas resultan eficaces en la misma medida en que los individuos adhieren

moralmente a ellas, lo único que se podría derivar legítimamente de ello en una

democracia liberal es que la norma que dejara de tener eficacia debería perder su

vigencia, dado que la inmoralidad de la conducta es una condición necesaria, aunque no

suficiente, de toda norma penal, así como su eficacia disuasiva es presupuesto de la

necesidad que la legitima106. De aquí se desprende un riesgo o una debilidad de una

104 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 223.

105 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 928.

106 Cfr. Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 473; “Estado laico y ética laica”, cit., p. 262.

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103

democracia liberal: el Estado no sólo no puede, sino que no debe garantizar sus propios

fundamentos ético-políticos107.

Por otro lado, los tratamientos terapéuticos y educativos y toda medida dirigida a

modificar las condiciones socioeconómicas de vida de quienes delinquen, resultan

inadmisibles como medidas coercitivas en el marco de la ejecución penal en tanto,

entendidos de esa manera, afectan la autonomía moral y el derecho a la

autodeterminación del individuo. Pero de ello no se sigue que el Estado, en la doctrina

de Ferrajoli, no deba garantizar los derechos sociales a la salud, a la educación y a

condiciones socioeconómicas dignas de vida.

Por el contrario, el autor italiano señala la existencia de una relación de

complementariedad y convergencia entre “garantismo liberal y garantismo social; entre

garantías de los derechos de inmunidad –a la seguridad de los potenciales perjudicados

de los delitos y al justo proceso de los potenciales imputados– y garantías de los

derechos sociales; entre seguridad penal y seguridad social. Precisamente –añade– la

causa principal de la que he llamado ‘criminalidad de subsistencia’ está en la ausencia

de garantías sociales del empleo y de la subsistencia. Por eso la prevención de tal tipo

de delincuencia requiere políticas sociales más que políticas penales, políticas de

inclusión más que políticas de exclusión. Exige el desarrollo de efectivas garantías del

trabajo, la educación, la previsión social y, más en general, una política dirigida a

‘destruir’ lo que Marx llamó ‘las raíces antisociales del crimen’ y a ‘dar a cada uno el

margen social necesario para exteriorizar de un modo esencial su vida’. Una política

social capaz de sanear ‘los antisociales lugares de nacimiento del delito’ –concluye– es

también la política penal más eficaz en materia de seguridad”108.

En conclusión, creo que debería reformularse la tesis de Fucito según la cual el

criterio de libertad y tutela de los derechos de la persona en Ferrajoli impide “intentar

alterar las condiciones personales del que [ha delinquido]”, lo que incluiría que no se le

suministren de modo alguno recursos personales, “ya que esto es reeducar”109. En rigor,

107 Ferrajoli, “Estado laico y ética laica”, cit., p. 258.

108 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., p. 365. Cfr. también la nota 142, donde Ferrajoli se refiere

específicamente a la objeción que a este respecto le dirigió Guibourg. Sobre el garantismo social y la

democracia social, cfr. Parte cuarta, cap. XV, punto IV, del mismo libro.

109 Fucito, ob. cit., p. 247.

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104

debería afirmarse que en la doctrina del autor italiano el Estado no debe imponer esos

recursos, sino garantizarlos, es decir, que nadie tiene la obligación, sino el derecho de

valerse de ellos.

Resta precisar por qué en la doctrina de Ferrajoli, contrariamente a lo que parece

concluir Fucito, la tesis de que los ciudadanos no están obligados moralmente al

cumplimiento de las normas y tienen incluso un derecho de resistencia contra el Estado,

es totalmente ajena a la idea de que la sociedad deba tolerar el delito, incluso la

corrupción de los poderes públicos y la acción de grupos terroristas que afecten las

bases de su existencia.

Esa tesis está conectada con el tercer significado del garantismo en Ferrajoli, que

“designa una doctrina filosófico-política que permite la crítica y la deslegitimación

externa de las instituciones jurídicas positivas, conforme a la rígida separación entre

derecho y moral, o entre validez y justicia, o entre punto de vista jurídico o interno y

punto de vista ético-político o externo al ordenamiento”110, y a la primacía de este punto

de vista sobre aquél. “Con esta fórmula quise hacer referencia –aclara el autor– a la

autonomía crítica y proyectiva de la política y de la moral relacionada con el derecho

positivo y con los valores extra o metajurídicos expresados por ellas. También, quise

hacer referencia a la idea básica del positivismo jurídico según el cual el derecho es

realizado, proyectado, defendido o criticado por los hombres en función de sus

intereses, valores y finalidades, y que por ende no es él valor o fin en sí mismo, sino

instrumento para fines y valores externos a él”111.

A esa fórmula se conectan las tesis de la inexistencia o inconsistencia lógica de una

“obligación política” (y no meramente jurídica) de obedecer las leyes, y del punto de

vista externo como motor de la lucha por el derecho y de la transformación jurídica en

los distintos niveles del ordenamiento. La primacía práctica de la moral y la justicia

sobre el derecho justifica la desobediencia civil contra el derecho injusto, que si bien

Ferrajoli considera un “deber moral”, constituye en todo caso un comportamiento

antijurídico, que debe ser reprimido desde el punto de vista interno al ordenamiento. Por

110 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 880.

111 Ferrajoli, “Notas críticas y autocríticas en torno a la discusión sobre ‘Derecho y razón’”, cit., pp.

535-536.

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105

eso, el que desobedece –sostiene Ferrajoli– asume la responsabilidad para poner en

evidencia la injusticia, es decir, se expone a sanciones que están predispuestas por el

derecho.

La desobediencia civil no es considerada sólo un deber moral frente al derecho

injusto, sino también un factor imprescindible, en opinión de Ferrajoli, para permitir la

transformación de la sociedad mediante la defensa de derechos fundamentales ya

reconocidos o la afirmación de otros, en tanto estos derechos siempre fueron obtenidos

y garantizados a través de revoluciones y rupturas, al precio de transgresiones,

represiones, sacrificios y sufrimientos112.

Sólo los jueces y los demás funcionarios designados para la aplicación de la ley

tienen la obligación moral, además de jurídica, de obedecerla, dado que la han aceptado

libremente al asumir esas funciones. “Es una cuestión de conciencia de los jueces y de

los funcionarios –escribe Ferrajoli– elegir la personificación de tales funciones de poder

y aceptar hacerlo en un ordenamiento democrático y liberal o en uno totalitario; pero,

una vez realizada esta opción, aplicar o no aplicar exactamente las leyes, deja de ser una

cuestión de conciencia, al menos en un estado de derecho caracterizado por vínculos de

estricta legalidad”113.

12. El derecho penal mínimo como atributo propio del Estado de derecho

El modelo del derecho penal mínimo puede ser identificado con el del Estado de

derecho, en cuanto entendamos a éste como “un tipo de ordenamiento en que el poder

público, y específicamente el penal, está rígidamente limitado y vinculado a la ley en el

plano sustancial (o de los contenidos penalmente relevantes) y bajo el procesal (o de las

formas procesalmente vinculantes)”114.

Vale la pena recordar que el modelo del derecho penal mínimo de Ferrajoli presenta

diez condiciones, límites o prohibiciones que el autor llama “garantías del ciudadano

contra el arbitrio o el error penal: según este modelo, no se admite ninguna imposición

112 Cfr. Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 942-946; y Principia iuris, t. 2, cit., pp. 96-101.

113 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 925.

114 Ferrajoli, ob. cit. ult, p. 104.

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106

de pena sin que se produzca la comisión de un delito, su previsión por la ley como

delito, la necesidad de su prohibición y punición, sus efectos lesivos para terceros, el

carácter exterior o material de la acción criminosa, la imputabilidad y la culpabilidad de

su autor y, además, su prueba empírica llevada por una acusación ante un juez imparcial

en un proceso público y contradictorio con la defensa y mediante procedimientos

preestablecidos”115.

Por el contrario, los modelos autoritarios de derecho penal se caracterizan, en la

óptica de Ferrajoli, por la debilidad o ausencia de alguno o algunos de tales límites a la

intervención punitiva, y sirven, por lo tanto, para “configurar sistemas de control penal

propios del estado absoluto o totalitario: entendiendo por tales expresiones cualquier

ordenamiento donde los poderes públicos son legibus soluti o ‘totales’, es decir, no

disciplinados por la ley y, por tanto, carentes de límites y condiciones”116.

Por supuesto que entre los dos extremos (el derecho penal mínimo, propio del Estado

de derecho, y el derecho penal máximo, propio de un Estado autoritario), hay diversos

sistemas intermedios, “hasta el punto de que deberá hablarse –afirma el autor italiano–

más propiamente, a propósito de las instituciones y los ordenamientos concretos, de

tendencia al derecho penal mínimo o de tendencia al derecho penal máximo”117.

13. Derecho penal mínimo y democracia sustancial: los derechos contra los poderes

Ferrajoli sostiene que “[a]sí como la función utilitarista y garantista del derecho penal es

la minimización de la violencia, tanto privada como pública, la función garantista del

derecho en general consiste en la minimización del poder, de otro modo absoluto: de los

poderes privados, tal y como se manifiestan en el uso de la fuerza física, en la

explotación y en las infinitas formas de opresión familiar, de dominio económico y de

abuso interpersonal; de los poderes públicos, tal y como se expresan en las

arbitrariedades políticas y en los abusos de poder policiales y administrativos”. En lo

que respecta a la técnica de esa minimización, dice que consiste en la igual garantía y

115 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 103-104.

116 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 104.

117 Ferrajoli, ibídem.

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107

maximización de los derechos fundamentales mediante la correlativa limitación e

instrumentalización a ese fin de las situaciones jurídicas de poder118.

En la doctrina del derecho penal mínimo, las dos finalidades preventivas del derecho

penal son las que legitiman su necesidad política como instrumento de protección de los

derechos fundamentales, los que marcan normativamente los ámbitos y los límites del

poder punitivo, es decir, indican cuáles son los bienes que no está justificado lesionar ni

con los delitos ni con las penas. Y esta legitimidad –afirma polémicamente el autor

italiano– “no es ‘democrática’, en el sentido de que no proviene del consentimiento de

la mayoría”. Por el contrario –añade– esa legitimidad es “garantista” y “reside en los

vínculos impuestos por la ley a la función punitiva para la tutela de los derechos de

todos”119. En otras palabras, no es el consenso lo que legitima al derecho penal mínimo,

sino su función de proteger los derechos no de una mayoría, sino de cada persona, aun

de aquellas que integraran la última minoría.

“Garantismo”, en Ferrajoli, “significa precisamente tutela de aquellos valores o

derechos fundamentales cuya satisfacción, aun contra los intereses de la mayoría, es el

fin justificador del derecho penal: la inmunidad de los ciudadanos contra la arbitrariedad

de las prohibiciones y de los castigos, la defensa de los débiles mediante reglas del

juego iguales para todos, la dignidad de la persona del imputado y por consiguiente la

garantía de su libertad mediante el respeto también de su verdad. Es precisamente la

garantía de estos derechos fundamentales lo que hace aceptable para todos, incluida la

minoría de los reos y los imputados, al derecho penal…”120, y no la voluntad

mayoritaria, pues ni siquiera por mayoría se podría prescindir de esa función de

garantía.

Además, el garantismo es la base de la democracia sustancial, en cuanto la

democracia exige, justamente, la protección de los intereses y las necesidades vitales de

todos, más allá de la voluntad de las contingentes mayorías y los poderes públicos y

privados. Ferrajoli sostiene que, como técnica de limitación y regulación de esos

poderes, el garantismo puede ser considerado el rasgo más característico de la

118 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 931.

119 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 335.

120 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 335-336.

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108

democracia, pues “las garantías, tanto liberales como sociales, expresan […] los

derechos fundamentales de los ciudadanos frente a los poderes del estado, los intereses

de los débiles respecto a los de los fuertes, la tutela de las minorías marginadas o

discrepantes respecto a las mayorías integradas, las razones de los de abajo respecto a

las de los de arriba”121. Razones que están positivizadas en los derechos fundamentales

reconocidos en nuestras Constituciones rígidas, y que marcan los ámbitos de lo que el

Estado no puede decidir, lo que requiere las garantías de libertad, y de lo que el Estado

no puede dejar de decidir, lo que requiere, en cambio, las garantías sociales.

14. Democracia sustancial vs. democracia formal

Podemos afirmar que, para Ferrajoli, los derechos constitucionalmente establecidos son

los “fundamentos” constitucionales de la democracia, la que debe ser entendida en

sentido sustancial.

Para distinguir la democracia sustancial de la formal, Ferrajoli diferencia los

derechos fundamentales que llama “primarios”, de aquellos que llama “secundarios”, y

nos dice que los primarios designan las finalidades que constituyen la razón de ser de la

democracia, mientras que los secundarios designan, en cambio, los poderes cuyo

ejercicio fundamenta y activa un sistema democrático. En otras palabras, la legitimación

sustancial se refiere a los límites y los vínculos impuestos a los contenidos de la

producción jurídica (qué no puede ser decidido y qué no puede dejar de ser decidido,

para tutela de todos). La legitimación formal, en cambio, se refiere a los sujetos y

procedimientos de la actividad de producción jurídica, ya sea privada (regulada por los

derechos civiles) o pública (regulada por los derechos políticos)122.

En síntesis, en la doctrina de Ferrajoli el concepto de democracia coincide con el de

democracia sustancial, mientras que una definición sólo formal de democracia presenta,

al menos, cuatro aporías123.

La primera consiste en la falta de alcance empírico y de capacidad explicativa de una

definición sólo formal de democracia, pues no está en condiciones de dar cuenta de las

121 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 864.

122 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., pp. 27-28.

123 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 10-13.

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109

actuales democracias constitucionales, donde no sobre todo se puede decidir ni dejar de

decidir, ni siquiera por mayoría.

La segunda consiste en la escasa consistencia técnica de una noción sólo formal de

democracia, pues para la supervivencia de cualquier democracia es necesario algún

límite sustancial. Al menos habría que reconocer –dice el autor italiano– que “en línea

de principio, siempre es posible que con métodos democráticos se supriman los propios

métodos democráticos”124.

La tercera, estrictamente vinculada con la anterior, consiste en el nexo indisoluble

entre soberanía popular y los derechos fundamentales primarios, y, en particular, entre

democracia y los derechos de libertad, pues la voluntad popular se expresa

auténticamente sólo si puede expresarse libremente. Y para expresarse libremente, el

pueblo no sólo necesita derecho de voto (derecho fundamental secundario) sino también

libertades fundamentales para todos y cada uno, como la de pensamiento, la de prensa,

la de información, reunión y asociación (o sea, derechos fundamentales primarios).

Finalmente, la cuarta aporía de una definición sólo formal de democracia: si

aceptamos que ésta se refiere a una caracterización de la democracia como

“autonomía”, “autogobierno” o “autodeterminación popular”, y que el pueblo es un

sujeto colectivo que decide por mayoría, en general, por medio de sus representantes

electos, y que no tiene una voluntad propia unitaria, debería reconocerse, junto a John

Stuart Mill, que “frases como ‘poder sobre sí mismos’ y el ‘poder de los pueblos sobre

sí mismos’ no expresan la verdadera situación de las cosas; el ‘pueblo’ que ejerce el

poder no siempre es el mismo pueblo sobre el cual es ejercido; y el ‘autogobierno’ de

que se habla, no es el gobierno de cada uno por sí mismo sino de cada uno por todos los

demás”125. En el mismo sentido, cabe observar que ninguna mayoría puede decidir

sobre lo que no le pertenece, es decir, sobre la supresión o la restricción de los derechos

fundamentales que, en rigor, le pertenecen a todos y cada uno de sus destinatarios y

titulares.

124 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 11.

125 Ferrajoli cita la obra Essay on liberty (1858), trad. esp., Sobre la libertad, Alianza, Madrid, 19792,

esp. Introducción, pp. 58-59. Cfr. Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 112-113, nota 14.

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110

15. Soberanía popular y democracia sustancial

Parece claro que la propuesta de Ferrajoli puede resultar polémica, ya que exige volver

a pensar la relación entre pueblo y democracia que deriva de la concepción tradicional

de soberanía popular, a la que se ha aludido como libertad positiva del pueblo de no

estar sujeto a límites o vínculos preestablecidos. En la definición de democracia que

propone Ferrajoli, esa concepción de soberanía popular es abandonada, y se la

reemplaza por la de común titularidad de la constitución, es decir, por la titularidad en

cabeza de todos de los derechos fundamentales reconocidos en ella.

Democracia, en Ferrajoli, es entonces “poder del pueblo”, sí, pero no ya en el único

sentido de que le corresponden a los ciudadanos los derechos políticos y, por lo tanto, el

autogobierno, sino también, y sobre todo, en el sentido de que les corresponden al

pueblo y a cada individuo que lo compone, el conjunto de todos los poderes activos, que

son los derechos constitucionales secundarios de los que se deriva todo poder

constituido, y de todos los contrapoderes pasivos, que son los derechos constitucionales

primarios a los que están subordinados y encaminados los poderes, y que, por esto

último, constituyen su razón de ser126. De aquí, además, su natural rigidez: “[s]i tienen

por destinatarios a los poderes constituidos por ellos, no puede ser modificados,

derogados o debilitados por esos mismos poderes, sino sólo ampliados y reforzados […]

porque son de todos y cada uno, no son suprimibles ni reducibles por la mayoría, la cual

no puede disponer de lo que no le pertenece”127.

Es sólo de este modo que, para Ferrajoli, se logra una concepción utilitarista e

ilustrada del Estado como “instrumento” para fines que no son suyos. Todos los poderes

públicos que lo componen, en otras palabras, encuentran su legitimación en la garantía

de los derechos fundamentales primarios, que son sus fines externos o, lo que es igual,

su razón social. Y es en esta relación de medios a fines, y en la consiguiente primacía de

los derechos fundamentales (fines) sobre los poderes públicos (medios), es decir, de las

personas físicas y de sus necesidades y voluntades sobre cualquier posible razón de

126 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 47-48.

127 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 47.

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111

Estado, “donde residen –escribe Ferrajoli– el significado profundo de la democracia y el

papel profundo de las constituciones democráticas como pactos de convivencia”128.

¿Qué sentido tendría una constitución democrática si no existiese el riesgo, siempre

latente, de que los más fuertes intentaran oprimir a los más débiles, de que las mayorías

intentaran someter a las minorías? Reconocer la naturaleza convencional de toda

constitución democrática equivale a identificar su fundamento axiológico no ya en la

común identidad política, cultural o nacional de los asociados, sino en su diversidad y

en su virtual conflictualidad. La constitución democrática, entonces, no sirve para

representar orgánicamente la común voluntad de un pueblo, ni para expresar ninguna

homogeneidad social, identidad colectiva o sentir común de pertenencia. Sirve más bien

para garantizar los derechos de todos, incluso contra las mayorías, y por eso para

asegurar la convivencia pacífica entre sujetos e intereses diversos y virtualmente en

conflicto129.

Es obvio que una constitución funciona sólo si tiene un cierto grado de adhesión,

necesario, por lo demás, para hacer posible su sanción. Pero esta adhesión, por un lado,

es una circunstancia de hecho, capaz de condicionar la efectividad de la constitución,

que también es una cuestión de hecho, y no su legitimidad, que es una cuestión de

valor130. Por otro lado, la cohesión social es posterior a la constitución, pues –afirma

Ferrajoli– “es sobre la igualdad en los derechos, como garantía de todas las diferencias

de identidad personal, donde madura la percepción de los asociados como iguales; y es

sobre la garantía de los propios derechos fundamentales como derechos iguales donde

se desarrollan el sentido de pertenencia e identidad de una comunidad política”131.

Podría afirmarse, en síntesis, que si las constituciones fueran el reflejo de la común

voluntad e identidad de todos, para Ferrajoli “se podría tranquilamente prescindir de

ellas”132.

128 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 48.

129 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 53-54.

130 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 55.

131 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 53.

132 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 54.

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112

16. Democracia, ciudadanía y derechos: ¿tres debilidades en la teoría de Ferrajoli?

Gargarella sostiene que la visión de la democracia que brinda Ferrajoli es vulnerable

tanto desde el punto de vista descriptivo como desde el normativo.

En relación con el primer punto de vista, afirma que parece haber en el pensamiento

del autor italiano “una asentada idea según la cual la democracia conduce

necesariamente a la opresión de las minorías por parte de las mayorías”133, por lo que el

escenario que presenta es el más “ominoso y pesimista”134. En efecto, el profesor

argentino entiende que la postura de Ferrajoli “simplemente imputa a la ciudadanía

acciones y decisiones sobre las cuales ella en muchos casos ni ha intervenido, y sobre

las que carece de control real”. Y agrega que “en un marco institucional marcado por la

crisis de representatividad, la ciudadanía es menos protagonista que víctima de las

decisiones del poder público”135. Por lo cual –concluye– “[l]a postura descriptiva

propuesta por Ferrajoli […] parece encontrarse en problemas que él no se ocupa de

discutir, ni de rebatir a partir de alguna evidencia empírica”136.

En cuanto a la filosofía política de Ferrajoli, o bien su punto de vista normativo,

Gargarella afirma que “opta por la línea más conservadora, relacionada con una visión

más bien elitista de la democracia. Según esta visión –continúa– no es conveniente

alentar la intervención ciudadana en los asuntos públicos, dados las pulsiones opresivas

y los rasgos de irracionalidad que caracterizan su accionar colectivo”137.

También critica Gargarella la concepción de los derechos fundamentales de Ferrajoli.

“Se trata nuevamente –nos dice– de una lectura elitista […] Conforme a esta visión, que

marcó al pensamiento iluminista moderno, existen ciertos derechos naturales, que

resultan, a su vez, autoevidentes”, por lo que la misión principal de un gobierno es

protegerlos138. Sin embargo, lo cierto, para Gargarella, es que la teoría de Ferrajoli “no

133 Gargarella, “Cuatro temas y cuatro problemas en la teoría jurídica de Luigi Ferrajoli”, cit., p. 199.

134 Gargarella, ob. cit. ult., p. 203.

135 Gargarella, ibídem.

136 Gargarella, ibídem.

137 Gargarella, ibídem.

138 Gargarella, ob. cit. ult., p. 204.

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113

nos deja en claro cuáles son esos derechos, ni cómo y quiénes tienen la capacidad para

definirlos, ni de qué modo. Tampoco resulta claro, en tal sentido, el porqué de esa

ansiedad opresiva de las mayorías, ni las razones que tenemos para pensar que algún

grupo, dentro de la sociedad, va a tener la tranquilidad y la capacidad necesarias como

para sobreponerse a las pasiones de los demás, y dar custodia a aquello que las mayorías

quieren arrasar”139.

En la misma línea, critica la fundamentación del control judicial de

constitucionalidad que, en su opinión, se desprende de la doctrina de Ferrajoli.

Gargarella entiende que, según el autor italiano, son los jueces, y no los ciudadanos

democráticamente, los que deben efectuar ese control, dado que las mayorías tienden a

actuar irracionalmente. Además, según Gargarella, para Ferrajoli los derechos

fundamentales tienen un contenido definido y más o menos transparente, por lo que un

cuerpo técnico, independiente de las presiones mayoritarias, bien puede cumplir el

cometido. Sin embargo, objeta que esas tendencias irracionales, determinadas por

pasiones o intereses sectoriales, también pueden caracterizar la actuación de los jueces,

claramente sesgados, de acuerdo con datos sociológicos, en términos de raza, religión,

género y clase. Y las cosas se complican aún más –afirma– al reconocer que la tarea

judicial, sobre todo cuando se trata de pronunciarse sobre derechos fundamentales, no

consiste sólo en contrastar evidencia empírica para encontrar la verdad, sino que los

jueces deben involucrarse en la interpretación de los derechos “para definir sus

contornos, alcances, contenidos”140.

Por su parte, Carlos Massini Correas sostiene que Ferrajoli pretende brindar una

fundamentación finalista de los derechos fundamentales, diferenciada tajantemente de

sus contenidos axiológicos, al afirmar el nexo instrumental entre su definición teórica de

éstos como derechos universales y los fines y valores perseguidos mediante su

estipulación positiva. En otras palabras, según Massini Correas, Ferrajoli considera que

la forma universal de los derechos fundamentales que identifica su definición teórica de

ellos, es el medio o la técnica normativa racionalmente idónea para alcanzar los fines y

valores que una sociedad ha establecido políticamente como tales. Sin embargo, el autor

139 Gargarella, ibídem.

140 Gargarella, ob. cit. ult., pp. 204-205.

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114

argentino se pregunta cuál es la utilidad de esa fundamentación finalista si, como afirma

Ferrajoli, está elaborada desde una perspectiva o plano (el de la teoría del derecho, que,

como tal, busca sólo denotar y explicar las formas y estructuras de los derechos

fundamentales) completamente ajeno al axiológico (que busca establecer cuáles deben

ser esos derechos de acuerdo con criterios morales o de justicia), al de la ciencia del

derecho (que busca determinar empíricamente cuáles son los derechos fundamentales en

un determinado ordenamiento) y al sociológico (que buscar determinar cuáles son, en

los hechos, los derechos fundamentales, independientemente de lo establecido en

determinadas normas positivas), pues de esa manera “no fundamenta propiamente

nada”141. En efecto, entiende que si existiera ilación lógica entre los valores defendidos

y la noción y concreción positiva de los derechos, se estaría en presencia de una

fundamentación o justificación racional, aunque en ese caso el razonamiento se

encontraría inevitablemente en el ámbito del iusnaturalismo puro y duro, lo que

Ferrajoli rechaza.

Por otro lado, la definición de este autor, según Massini Correas, priva de toda su

fuerza deóntica a los derechos fundamentales para constituirse en cuanto tales, dado que

para esto no basta el relativismo-subjetivista que, desde su punto de vista, propone

Ferrajoli, sino que es preciso establecer primero y principalmente, de modo racional, su

exigibilidad deóntica. Los planos que Ferrajoli pretende separar, entonces, tienen una

comunicación evidente para el autor argentino, incluso porque “el modo de

fundamentación depende del concepto que se tenga de los derechos fundamentales, el

contenido de la normatividad positiva a ese respecto se vincula con ese mismo concepto

y con los valores que se pretende realizar, los valores no están desvinculados de la

índole de la realidad a valorar, la vigencia efectiva depende en gran medida de la

positividad normativa…”142.

141 C.I. Massini Correas, “El fundamento de los derechos humanos en la propuesta positivista-

relativista de Luigi Ferrajoli”, en Derecho y persona, 61 (2009), esp. pp. 232-233 y 236-237 (el mismo

texto aparece publicado con el título “Luigi Ferrajoli y el fundamento de los derechos humanos”, en La

Ley, t. 2014-D).

142 Massini Correas, ob. cit. ult., pp. 238-240.

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115

En suma, Massini Correas advierte que la doctrina de Ferrajoli presenta el riesgo, ya

señalado –admite– por Anna Pintore143, de dejar librados los derechos a los frágiles e

imprevisibles itinerarios de la historia, o bien a la voluntad decisionista de las

ocasionales asambleas constitucionales, en tanto, a pesar de que propone un positivismo

de nivel constitucional en vez de legal, el contenido de las constituciones no tiene

límites éticos ni jurídicos objetivos en el marco de esa doctrina jurídico-política144.

17. Ciudadanía y democracia sustancial

En mi opinión, el autor italiano no afirma, como sugiere Gargarella, que la opresión de

las minorías en las democracias contemporáneas se debe a las decisiones irracionales de

las mayorías, y que la solución pasaría entonces por restringir la participación ciudadana

en la toma de decisiones. De hecho, Ferrajoli no ignora, como parece entender

Gargarella, que “la correspondencia entre los pueblos y sus gobiernos representativos

[…] es cada vez menos atendible en un mundo como el actual”145.

Lo que Ferrajoli rechaza, en rigor, no es la participación popular en la toma de

decisiones, sino que se admita la existencia en democracia de algún poder absoluto, es

decir, de un poder no limitado ni vinculado por el derecho, pues, para él, todo poder, sea

quien fuere el que lo posee, tiende al despotismo. Por lo tanto, el derecho, que se

configura en su modelo de democracia sustancial como ley del más débil contra la ley

del más fuerte, está encaminado a limitar y canalizar el poder “de quien es más fuerte

físicamente, como en el estado de naturaleza hobbesiano; de quien es más fuerte

económicamente, como en el mercado capitalista; de quien es más fuerte políticamente,

porque posee los poderes de gobierno; de quien es más fuerte militarmente, como en la

comunidad internacional”146.

143 Cfr. “Diritti insaziabili”, en L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, con

intervenciones de diversos autores compiladas por E. Vitale, Laterza, Roma-Bari, 2001, trad. esp:

“Derechos insaciables”, en Los fundamentos de los derechos fundamentales, edición española a cargo de

A. de Cabo y G. Pisarello, Trotta, Madrid, 20094, pp. 243-265.

144 Massini Correas, ob. cit., pp. 240-245.

145 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., p. 13. En esta obra Ferrajoli se ocupa de estudiar el asunto, en

particular, en las pp. 171-191 y 512-521.

146 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 45.

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116

Como ya se ha dicho, para Ferrajoli “la función garantista del derecho en general

consiste en la minimización del poder, de otro modo absoluto”, en el marco de

sociedades basadas en relaciones de poder privado –familiar, social, económico, laboral,

etc.–, que determinan las desigualdades sociales o sustanciales, y público –penal,

constitucional, administrativo, etc.–, que determinan las desigualdades jurídicas o

formales147, pero también en el marco de las relaciones entre los Estados, no sólo para

garantizar la seguridad de los más débiles, sino también la supervivencia de la

humanidad, al considerar los riesgos de las guerras y de las demás catástrofes, como las

ambientales, que pueden derivar de su acción incontrolada148.

Creo además que una visión elitista de la democracia, en el sentido que Gargarella le

atribuye a esta expresión, no es conciliable con la idea de democracia que desarrolla

Ferrajoli. “Obviamente pueden existir, y de hecho históricamente han existido –explica

el autor italiano– sistemas políticos y estados de derecho dotados de derechos civiles y/o

de libertad y/o sociales, pero no de derechos políticos atribuidos a todos los ciudadanos:

basta pensar en las viejas monarquías constitucionales y, más en general, en la mayor

parte de nuestros ordenamientos antes de la introducción del sufragio universal. Pero es

claro que en todos estos supuestos –concluye– se podrá hablar de ‘estado de derecho’

liberal y/o social y acaso constitucional, pero no en verdad de ‘democracia’,

requiriéndose para ello en todo caso, como condición necesaria aunque no suficiente,

el fundamento popular de las decisiones legislativas y de gobierno”149.

De manera coherente, Ferrajoli admite que “[e]l modelo ideal de la democracia

política […] es el autogobierno del pueblo, esto es, la coincidencia entre gobernantes y

gobernados”150. Sin embargo, también sostiene que esa imagen, por un lado, es irreal

pues, como se ha dicho, el pueblo no tiene una voluntad unitaria, por lo cual, al decidir

por mayoría, quien ejerce el poder no siempre coincide con aquel sobre el que ese poder

es ejercido; por otro lado, aquella imagen es irrealizable, salvo en el caso de decisiones

concretas mediante referendos, en cuanto es “impensable que todo el pueblo decida

147 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 931-936.

148 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 936-940.

149 Ferrajoli, Principia iuris, cit., t. 1, Teoría del derecho, p. 883 (la bastardilla no está en el original).

150 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., p. 165.

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117

siempre sobre todo”151. Por lo tanto, es necesario que el principio de la

autodeterminación sea regulado y limitado, tanto en sus formas como en sus contenidos.

En lo que respecta a las formas, Ferrajoli señala que la primera norma de

reconocimiento de la democracia política es la democracia representativa, “débil

subrogado de la democracia directa”152, pero, en su opinión, “la mejor regla que se haya

pensado nunca para asegurar un fundamento en sentido amplio ‘democrático’ a las

funciones de gobierno”, porque, entre otras razones, “es la regla que con más

aproximación que cualquier otra, hecha excepción de los referendos y de la

representación con mandato imperativo, permite, si se acompaña del sufragio universal,

que las funciones de gobierno respeten, además del principio de igualdad, la voluntad y

los intereses, si no de todo el pueblo, de su mayoría”153.

Y en vez de desalentar la intervención ciudadana en los asuntos públicos, Ferrajoli

propone como garantía de representatividad de los partidos políticos, entre otras, la

publicidad de todas las decisiones y de las discusiones que las preceden, la participación

en ellas del mayor número de afiliados, la máxima apertura a formas de participación

también de no afiliados, la publicidad de las opiniones disidentes, de los procedimientos

decisorios y de las decisiones adoptadas, la máxima responsabilización de los dirigentes

por sus afiliados a través de procedimientos que faciliten la revocación de su mandato, y

la prohibición de su perpetuación. También propone que se introduzcan elementos de

democracia directa en la vida de los partidos, como las decisiones en las asambleas de

los afiliados o simpatizantes, los referendos internos sobre las decisiones de fondo e

incluso el envío de delegados con mandato imperativo de las organizaciones periféricas

a los órganos de decisión centrales. Es más, sugiere que la mayoría de los miembros de

los órganos de decisión de los partidos sean elegidos y delegados en cada ocasión por

las distintas organizaciones periféricas, con mandato imperativo, a la vista del orden del

día de cada reunión154.

151 Ferrajoli, ibídem.

152 Ferrajoli, ibídem.

153 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 166.

154 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 187-188.

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118

Para terminar de desechar, en mi opinión, cualquier tendencia a concebir de manera

elitista la democracia y los derechos fundamentales, afirma el autor italiano que

“‘democracia representativa’ y ‘democracia directa’ no constituyen dos modelos

alternativos de democracia, sino que son más bien una el soporte de la otra”155. Pues –

especifica– las luchas por los derechos no son solamente una garantía de efectividad de

la democracia, sino también una forma de democracia política, paralela a la institucional

y representativa, ya que al consistir en la práctica organizada y colectiva de los derechos

de libertad, realizan paso a paso formas de poder o, si se quiere, de contrapoder social,

bajo forma de democracia directa156.

En conclusión, la democracia, para ser tal, debe legitimar y valorizar por igual todos

los puntos de vista y las dinámicas sociales que los expresan, de modo que de ellos

provengan los cambios progresivos en la esfera del derecho positivo, gracias a su

capacidad de cambiar o influenciar la legislación, la jurisdicción, el gobierno y la

administración. No sólo la democracia –sintetiza Ferrajoli– garantiza las luchas por los

derechos, sino que éstas garantizan a su vez la democracia: una ofrece a las otras los

espacios y los instrumentos jurídicos y las otras aseguran a los derechos y a la

democracia los instrumentos sociales de tutela efectiva y alimentan su desarrollo y su

realización157.

Si esta lectura que he intentado exponer de las tesis de Ferrajoli es correcta, me

atrevería entonces a preguntar: ¿hay mucha distancia entre su concepción de la

democracia política y la deliberativa defendida por Gargarella?

Para una concepción deliberativa –dice el autor argentino– “la vida pública debería

estar regulada por normas surgidas de procesos de discusión pública inclusivos,

celebrados entre ciudadanos situados en pie de igualdad […] La idea es que en una

sociedad de iguales ningún individuo o caudillo, ningún grupo o familia, ninguna elite –

tampoco la elite judicial, por caso– merece arrogarse la razón, ni el derecho de decidir

en nombre de los demás […] todo el andamiaje institucional defendido por quienes

sostienen visiones deliberativas de la democracia se orienta justamente […] a tornar

155 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 947-948.

156 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 947.

157 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 946-947.

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119

cognoscibles las ‘quejas’ de quienes se sienten maltratados por el sistema institucional,

y a favorecer la corrección de las decisiones públicas, de modo tal de tornarlas cada vez

más imparciales. La idea es, en definitiva, que cada persona sea tratada como un

igual”158. Por lo cual, además, la existencia de desacuerdos sobre los significados de los

derechos fundamentales y la necesidad de y la vocación por alcanzar acuerdos al

respecto, no resulta problemática159. Creo, en definitiva, que esta idea encaja sin

problemas en el pensamiento de Ferrajoli, según lo expuesto anteriormente.

Sin embargo, nada de todo lo dicho implica, como se ha expuesto, que el pueblo,

para Ferrajoli, sea soberano en una democracia, es decir, que no esté sometido él

también a límites y vínculos, que son precisamente los derechos fundamentales. Y éstos,

contrariamente a lo sugerido por Gargarella, nada tienen que ver, en la doctrina de

Ferrajoli, con derechos naturales, autoevidentes o de carácter ontológico.

18. Los fundamentos de los derechos fundamentales

El autor italiano propone una definición “formal” de derechos fundamentales, que nos

dice qué son esos derechos y no, en cambio, cuáles son ni cuáles deberían ser. En

efecto, denomina derechos fundamentales a “todos aquellos derechos que corresponden

universalmente a ‘todos’ en cuanto ‘personas naturales’, en cuanto ‘ciudadanos’, en

cuanto personas naturales ‘capaces de obrar’ o en cuanto ‘ciudadanos capaces de

obrar’”160. Y puesto que son derechos universales, relativamente a las clases de sujetos

mencionadas, son también indisponibles e inalienables, ya que, si no lo fueran,

perderían aquella condición.

Las preguntas acerca de cuáles son los derechos fundamentales o cuáles deberían ser,

deben responderlas, respectivamente, la sociología jurídica y la historiografía del

derecho, por un lado, y la filosofía moral, política o de la justicia, por el otro, pero no la

teoría del derecho, que es la disciplina en la que se ubica Ferrajoli y que, en su opinión,

puede sólo “estipular una definición del concepto de ‘derechos fundamentales’ que sea

lo más clara y precisa posible”, es decir, una definición que sirva para “identificar los

158 Gargarella, “Cuatro temas y cuatro problemas en la teoría jurídica de Luigi Ferrajoli”, cit., p. 203.

159 Gargarella, ob. cit. ult., p. 204.

160 Ferrajoli, Principia iuris, t. 1, p. 686.

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120

rasgos formales y estructurales merced a los que son (o es justo que sean) tuteladas

aquellas expectativas y aquellos intereses que el derecho positivo reconoce y establece

como fundamentales”161.

Hay entonces cuatro significados del término “fundamento” que Ferrajoli distingue

en relación con las posibles respuestas a la pregunta “qué son los derechos

fundamentales”: “a) la razón o fundamento teórico; b) la fuente o fundamento jurídico;

c) la justificación o fundamento axiológico; d) el origen o fundamento histórico y

sociológico”162.

Es obvio –aclara Ferrajoli– que todos los que creemos en la democracia compartimos

el valor ético-político de la igualdad, las libertades fundamentales y los derechos

sociales, pero ese valor no puede formar parte de la definición de derechos

fundamentales sin comprometer su alcance empírico y su capacidad explicativa. Por

ejemplo, es muy probable que un conservador norteamericano no comparta el valor de

la asistencia sanitaria pública y gratuita; un católico integrista seguramente no estará de

acuerdo con considerar un valor el principio de la autodeterminación al evaluar la

posibilidad de que un paciente rechace un tratamiento sanitario que pueda salvarle la

vida; probablemente muchos considerarán criminógeno el derecho de tener y portar

armas, establecido en la segunda enmienda de la Constitución de Estados Unidos; sin

embargo, ninguno de esos juicios morales impedirá considerar fundamentales los

derechos involucrados, en la medida en que estén previstos constitucionalmente como

tales. Así, se confirma la utilidad de una definición sólo formal de derechos

fundamentales, propia de la teoría del derecho, tal como las de otros conceptos de esta

disciplina, como norma jurídica, obligación, prohibición, derecho subjetivo, validez u

ordenamiento, cuya utilidad nadie pone en duda. Además, esa definición formal permite

evidenciar y conceptualizar la dimensión sustancial de la democracia constitucional y,

en definitiva, el paradigma constitucional, cuyo rasgo teórico distintivo es precisamente

su carácter formal, es decir, la estipulación de lo que no puede ser decidido y de lo que

161 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 685.

162 Ferrajoli, “Los fundamentos de los derechos fundamentales”, cit., p. 314.

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121

no puede ser no decidido, en garantía de lo establecido como fundamental por el pacto

constitucional163.

Es sumamente clara en Ferrajoli, entonces, su orientación positivista.

Coherentemente, sostiene que si en el plano de las formas se puede responder a priori

acerca de qué son los derechos fundamentales, “en el plano de los contenidos –o sea,

qué intereses son o deben ser protegidos como fundamentales– se puede responder sólo

a posteriori: cuando se quiere garantizar una necesidad o un interés como fundamental,

se lo sustrae tanto al mercado como a las decisiones de la mayoría estipulándolo como

universal […] Ningún contrato, ya se ha dicho, puede disponer del derecho a la vida.

Ninguna mayoría puede disponer de los derechos fundamentales, decidiendo por

ejemplo que una persona sea condenada sin pruebas, o privada de su libertad personal o

de los derechos civiles o políticos o, incluso, dejada morir sin asistencia o en la

indigencia”164.

Y el origen de tales derechos no debe buscarse en ninguna ontología. La historia del

constitucionalismo es, para el autor italiano, la historia de la progresiva ampliación de

los derechos fundamentales. “Una historia no teórica –afirma–, sino social y política,

dado que ninguno de estos derechos jamás ha caído del cielo, sino que todos han sido

conquistados por movimientos revolucionarios: las grandes revoluciones americana y

francesa, después los movimientos decimonónicos por las constituciones, en fin, las

luchas obreras, feministas, ecologistas y pacifistas del pasado siglo. Bien podemos decir

que las distintas generaciones de derechos equivalen todas ellas a otras tantas

generaciones de movimientos revolucionarios: de las primeras revoluciones contra el

absolutismo real a las constituciones modernas, como la italiana y la alemana, nacidas

del repudio al fascismo y al nacionalsocialismo como pactos fundadores de la

democracia constitucional”165.

En lo que hace a los significados de tales derechos, Ferrajoli recuerda que “no están

dados de una vez y para siempre, sino que cambian con la mutación de las culturas, de

163 Ferrajoli, La democrazia attraverso i diritti, Laterza, Roma-Bari, 2013; trad. esp: La democracia a

través de los derechos, Trotta, Madrid, 2014, pp. 91-95.

164 Ferrajoli, Principia iuris, t. 1, cit., p. 774.

165 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 776-777.

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122

la fuerza y de la conciencia de los actores sociales que son al mismo tiempo intérpretes,

críticos y productores del derecho”166. Lo demuestra, en su opinión, el hecho de que la

percepción de que se está violando un derecho es siempre un fenómeno social: una

percepción –dice Ferrajoli– “en un primer momento minoritaria incluso para quienes

son víctimas de una cierta desigualdad, después compartida por la mayoría de ellos y

finalmente destinada con el desarrollo y el éxito de sus luchas a generalizarse y a

convertirse en opinión común”167. De este modo se explican –continúa el autor italiano–

“las progresivas ampliaciones del significado extensional del principio de igualdad

provocadas por tantas luchas que, en el curso de los dos últimos siglos, han iluminado y

combatido otras tantas violaciones: de las luchas de los trabajadores a las de liberación

de los pueblos, de las luchas contra la segregación de los negros en los Estados Unidos

y en África del Sur a las batallas de las mujeres y las experiencias que les dieron

soporte.”168 Y ciertamente –concluye– “desigualdades y discriminaciones que hoy no

aparecen, o cuando menos no son percibidas como intolerables, comenzando por las que

generan las leyes contra los inmigrantes que separan ciudadanos y no-ciudadanos,

aparecerán y reclamarán ser eliminadas mañana”169.

En síntesis, los derechos fundamentales nacen, se expanden y mutan su significado

desde abajo hacia arriba. Para Ferrajoli son, como se ha dicho, “fruto de conflictos, a

veces seculares, y han sido conquistados con revoluciones y rupturas, al precio de

transgresiones, represiones, sacrificios y sufrimientos […] Hay un sentido en el que los

derechos fundamentales no son ‘universales’ –aclara el autor–: no son reconocidos y

reivindicados ni en todos los tiempos ni en todos los lugares. Al contrario, son el fruto

de opciones y la expresión de necesidades históricas determinadas y, sobre todo, el

resultado de luchas y procesos largos, disputados y trabajosos”170.

Entonces, tiene razón Massini Correas cuando afirma que la teoría de Ferrajoli deja

librados los derechos fundamentales a los frágiles e imprevisibles itinerarios de la

166 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 756.

167 Ferrajoli, ibídem.

168 Ferrajoli, ibídem.

169 Ferrajoli, ibídem.

170 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 945.

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123

historia, de lo cual el autor italiano es absolutamente consciente, pues esa es una

consecuencia que debe admitir todo aquel que “no comparta una fundamentación ético-

cognoscitivista de los mismos”171. Sin embargo, creo que no es correcto desprender de

esto que los derechos fundamentales ya positivizados en las constituciones rígidas

quedan sometidos a la voluntad decisionista de las ocasionales asambleas

constitucionales, a raíz de la falta de límites éticos o jurídicos objetivos, pues, como se

ha dicho, los derechos fundamentales no les pertenecen a las mayorías, las cuales, por lo

tanto, no pueden disponer de ellos, es decir, no pueden restringirlos ni mucho menos

suprimirlos, sino sólo ampliarlos o reforzarlos.

Se pregunta Massini Correas para qué sirve la definición puramente formal de

derechos fundamentales que propone Ferrajoli, por lo que cabe recordar que cimienta

dos tesis: por un lado, la tesis de la radical diferencia de estructura entre los derechos

fundamentales, concernientes a enteras categorías de sujetos, y los derechos

patrimoniales, concernientes, por el contrario, a cada uno de sus titulares con exclusión

de todos los demás, y, por otro lado, la tesis de que los derechos fundamentales, al

corresponder a intereses y expectativas de todos, forman el fundamento y el parámetro

de la igualdad jurídica y, por ello, de la dimensión sustancial de la democracia172.

Además, esa definición, junto a otras tesis de la teoría, como las definiciones de

constitución, derechos de la persona y del ciudadano, y garantías, sirve para echar luz

sobre las diferencias de estructura que median entre las diversas subclases en las cuales

pueden distinguirse los derechos fundamentales, según las expectativas –negativas o

positivas– en que consisten; para identificar los distintos tipos de límites y vínculos

sustanciales que constituyen los diversos derechos fundamentales para la esfera pública

del Estado y la privada del mercado; para sugerir –como se verá en el próximo punto–

los diversos criterios de solución de las lagunas y antinomias que suponen sus

violaciones, y, por último, para analizar los distintos tipos de garantías primarias que

esos derechos exigen según sus estructuras, y las garantías secundarias capaces de

171 Ferrajoli, “Los fundamentos de los derechos fundamentales”, cit., pp. 324-325.

172 Ferrajoli, “Derechos fundamentales”, en Id., Los fundamentos de los derechos fundamentales, cit.,

pp. 25-26; “Los fundamentos de los derechos fundamentales”, en Ibídem, esp. pp. 330-332.

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124

asegurar la efectividad de las primarias y, como reflejo, de los derechos garantizados

por éstas173.

Por último, la opinión de Massini Correas en cuanto a que la definición puramente

formal de Ferrajoli priva de toda su fuerza deóntica a los derechos fundamentales para

constituirse en cuanto tales, dado que para esto no basta su relativismo-subjetivista, ha

sido contestada por el autor italiano en su discusión con otros críticos174, y ya se ha

aludido a este asunto supra, punto 11, al hacer referencia a la relación entre derecho,

moral y efectividad. Baste con agregar que el autor argentino parece ubicarse entre

aquellos que sostienen la posibilidad de identificar una moral objetiva, todavía incierta,

y que, según Ferrajoli, es falsa la idea de que las normas sobre derechos fundamentales

suponen de hecho que son compartidos moralmente, si no por todos, al menos por la

mayoría, lo que parece estar en la base de la crítica en cuestión. Por ejemplo, la libertad

religiosa –recuerda Ferrajoli– surgió como conquista del liberalismo, pero no era de

modo alguno compartida por la cultura católica mayoritaria, que se le opuso

fuertemente; es más, el liberalismo figuró en el index de la iglesia católica hasta el siglo

pasado; por otro lado, si hubiera sido sometida a referéndum, seguramente habría

fracasado la aprobación de la Declaración de derechos de 1789, y es de temer –

concluye– el resultado de un actual referéndum sobre las garantías penales y

procesales175.

19. Control judicial de constitucionalidad*

Como se ha dicho, Gargarella critica las tesis de Ferrajoli en lo referido al rol que deben

tener los jueces en el control de constitucionalidad de las leyes, al entender que el autor

italiano pretende excluir la participación popular en la definición de tales derechos,

cuyo significado constitucional es, desde su punto de vista, vago e indeterminado, y

atribuir esa tarea exclusivamente a una elite, la de los jueces, los que pasarían entonces

173 Ferrajoli, “Los derechos fundamentales en la teoría del derecho”, en Ibídem, esp. pp. 150-151.

174 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 362-371.

175 Ferrajoli, ob. cit. ult., pp. 365-366.

* Agradezco a Juan L. Finkelstein Nappi por las valiosas indicaciones bibliográficas sobre la obra de

Gargarella referida a este punto.

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125

a “concentrar en sus manos un enorme poder de decisión”. Por ejemplo –sostiene– “en

situaciones tan ajetreadas y conflictivas como la referida al aborto”, la mayoría de las

constituciones no dice absolutamente nada, por lo que los jueces asumen –en ese caso,

como en tantos otros– “la tarea de ‘desentrañar’ posibles respuestas a tales dilemas,

residentes en los intersticios de la Constitución”, por lo cual, en definitiva, la minoría de

los jueces decide, en nombre y en lugar de la ciudadanía, qué es lo que debe hacerse en

materia de política abortista.

Sin embargo, si la jurisdicción constitucional tuviera una facultad semejante (definir,

como escribe Gargarella, los contornos, alcances y contenidos de los derechos

fundamentales), resultaría irremediablemente ilegítima en el marco de la teoría de

Ferrajoli, tal como intentaré explicar a continuación, al efectuar algunas precisiones

acerca de lo que entiende este autor por control judicial de constitucionalidad.

Antes de ello, me parece oportuno señalar que la circunstancia de que los derechos

fundamentales estén definidos de forma vaga e indeterminada, es simplemente un dato

fáctico, que revela un déficit de técnica legislativa y que, como tal, no resulta decisivo

para conmover la postura de Ferrajoli. Como se advierte sin dificultades, otra vez la

crítica se apoya en una superposición de dos planos de análisis que deberían mantenerse

diferenciados: el del ser y el del deber ser del derecho. Concluir que dado que las

normas son vagas e indeterminadas, entonces la realidad legislativa no puede ser de otra

manera, importa incurrir en una “falacia normativista”176.

En ese sentido, cabe recordar la polémica de Ferrajoli con los partidarios de lo que

define como “neoconstitucionalismo” o “constitucionalismo principialista”. A su modo

de ver, esta corriente, integrada por autores como Jürgen Habermas, Robert Alexy y

Ronald Dworkin, postula que existe una moral objetiva, la cual se identifica con el

conjunto o con la mayor parte de los valores reconocidos actualmente por las

constituciones democráticas, por lo que los derechos fundamentales no resultan

simplemente valores de justicia compartidos y defendidos firmemente por los que

creemos en ellos, sino principios y contenidos de justicia “verdaderos” y, en algún

sentido incierto de la palabra, “objetivos”.

176 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 219-222 y 323-325, Principia iuris, t. 1, cit., pp. 8-11 y 141.

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126

Por otro lado, esa corriente, para el autor italiano, sostiene la tesis de que los

derechos fundamentales son (sólo) principios y no (también) reglas, objeto de

ponderación y no de aplicación por los jueces, por lo que debilita la normatividad de las

constituciones, favorece una impropia autonomía de la jurisdicción más allá del juego

de lo opinable en sus actividades de interpretación y contradice, en suma, los dos

fundamentos estructurales del Estado de derecho, como lo son, por un lado, la jerarquía

de las fuentes y la ubicación de la constitución en su cúspide como conjunto de normas

vinculantes para todos los poderes constituidos y, por el otro, la separación de poderes y

la sujeción de los jueces sólo a la ley, oscurecidas por el papel creativo de derecho

asignado a la función judicial177.

Ferrajoli ha opuesto a esa corriente que, en lugar de asumir como inevitables la

indeterminación del lenguaje constitucional y los conflictos entre derechos, y quizás

complacerse de ambas cosas en apoyo del activismo judicial, sería oportuno que

promoviera el desarrollo de un lenguaje legislativo y constitucional lo más preciso y

riguroso posible. Es que, según lo entiende, “la oscuridad, la vaguedad y la

indeterminación del lenguaje judicial, aun cuando en alguna medida ineliminables, no

son simples defectos de la legislación”, sino un vicio jurídico de ésta, precisamente

porque violan los principios mencionados y, por ello, “comprometen el mantenimiento

del edificio del Estado de Derecho en su totalidad”178.

Por eso insiste en el desarrollo de una ciencia de la legislación, tal como la

proyectaron Gaetano Filangieri y Jeremy Bentham, capaz de reducir todo lo posible la

vaguedad, las incoherencias, la oscuridad, los laberintos normativos y la deriva

inflacionista que está en la base de la actual crisis de la ley179.

Además, Ferrajoli se ha ocupado de desarrollar el significado de una específica

garantía, central en su modelo prescriptivo, para posibilitar el ejercicio legítimo de la

177 Ferrajoli, La democracia a través de los derechos, cit., pp. 99-100 y 118.

178 Ferrajoli, “Costituzionalismo principialista e costituzionalismo garantista”, en Giurisprudenza

costituzionale, 55 (2010), 3; trad. esp: “Constitucionalismo principialista y constitucionalismo garantista”,

en Doxa. Cuadernos de filosofía del derecho, 34 (2011), esp. pp. 50-51.

179 Ferrajoli, “Constitucionalismo principialista y constitucionalismo garantista”, cit., pp. 51-52; La

democracia a través de los derechos, cit., p. 194.

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127

jurisdicción, cuya única fuente legitimadora es, como se ha dicho, no el consenso de la

mayoría, sino la sujeción a la ley y sólo a ella.

En efecto, la estricta legalidad en Ferrajoli constituye un criterio rector al que deben

ajustarse los legisladores al producir las normas, una “regla semántica meta-legal de

formación del lenguaje legislativo”, a fin de garantizar un presupuesto epistemológico

indispensable de la verdad procesal, como lo es que las normas definan su campo de

aplicación de manera exhaustiva y exclusiva, para permitir juicios tan cognoscitivos

como sea posible de los hechos y tan re-conognoscitivos como sea posible del derecho,

es decir, juicios que, contrariamente a la función legislativa (y a las funciones de

gobierno en general), son legítimos en la medida en que pueda predicarse de ellos su

verdad (veritas, non auctoritas facit iudicium)180.

“Las condiciones de la verificabilidad y la refutabilidad, es decir, del uso de los

términos ‘verdadero’ o ‘falso’ a propósito de una aserción [jurisdiccional] –concluye

Ferrajoli– depende, pues, de la semántica del lenguaje legislativo […] del hecho de que

sabemos exactamente a qué nos referimos con las palabras que utilizamos en ella”181.

Por supuesto que Ferrajoli no desconoce la imposibilidad de asegurar la plena certeza

del significado de las leyes, al existir límites intrínsecos del lenguaje a los que siempre

vamos a asociar las inevitables “zonas de penumbra”182. Por eso también identifica una

intrínseca ilegitimidad en el ejercicio de la jurisdicción, cuya medida resulta

directamente proporcional a la de esas zonas de penumbra; cuanto más impreciso e

indeterminado sea el lenguaje normativo, cuanto más oscuro sea el significado de las

normas, mayor será el ámbito de discrecionalidad de los jueces y, en consecuencia, la

ilegitimidad de sus decisiones.

Sin embargo, ello no debe entenderse como una suerte de derrota del positivismo

jurídico que lleve a la necesidad de suscribir las tesis del “constitucionalismo

principialista”, referidas a que las normas constitucionales que establecen derechos

180 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 95-97, 117-129, 166-178 y passim; Principia iuris, t. 1, cit., pp.

412-415, 822-836 y passim; t. 2, cit., pp. 70-80, 359 y passim; “Le fonti di legittimazione della

giurisdizione”, trad. esp: “Las fuentes de legitimación de la jurisdicción”, ahora en Escritos sobre derecho

penal, t. 2, cit., pp. 342-361; La democracia a través de los derechos, cit., p. 59 y passim.

181 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., p. 118.

182 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 122.

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128

fundamentales no son reglas en las que se puedan subsumir hechos, sino principios que

deben ser ponderados para optar por el de mayor peso según el caso, y que el derecho,

en consecuencia, se debe concebir como práctica social confiada, esencialmente, a la

actividad creadora de los jueces, sobre todo a la jurisprudencia constitucional, que

deviene entonces la fuente principal del derecho183. Estas ideas son totalmente

contrarias al modelo constitucional garantista de Ferrajoli.

En efecto, en ese modelo la normatividad constitucional es “fuerte”, de tipo

regulativo, en cuanto se entiende que la mayor parte de los principios constitucionales y,

en particular, los derechos fundamentales son reglas, al implicar la existencia o exigir la

introducción de normas consistentes en las prohibiciones de lesión u obligaciones de

prestación que son sus respectivas garantías. Está claro que las constituciones expresan

e incorporan valores como cualquier otra ley, pero se diferencian en que esos valores

son formulados en normas positivas que se encuentran en un nivel normativo superior al

de la legislación ordinaria y que, por ello, la limitan y vinculan.

La existencia de diversos niveles normativos en el constitucionalismo garantista

permite efectuar una primera precisión en lo que se refiere específicamente al control de

constitucionalidad. Dado que las normas constitucionales son límites y vínculos para la

legislación ordinaria, en ese modelo de constitucionalismo resultan centrales los

conceptos de lagunas y antinomias, o bien lo que Ferrajoli llama, respectivamente,

vicios por omisión (indebida inexistencia de una norma a cuya sanción obliga una

norma superior) o vicios por comisión (indebida existencia de una norma por

encontrarse en contradicción con una superior).

Como se observa, la definición de lagunas y antinomias que propone Ferrajoli es más

restringida que la tradicional, pues “sólo procede hablar de antinomias y lagunas en

183 Pietro Sanchís ha sugerido cierto origen de estas tesis. Según ese autor, en algunas doctrinas

neoconstitucionalistas se sostiene de modo explícito que las constituciones no son como las leyes, sobre

todo en un sentido morfológico o estructural que afecta a su propia forma de ser. Pues mientras que las

leyes son expresión de un momento político unitario o monolítico, las constituciones, en particular las que

rigen hoy en Europa, expresan la coexistencia de proyectos políticos posibles que se traduce en una

simultaneidad de principios plurales y tendencialmente contradictorios. No hay, entonces, mandato ni

contrato, pues no existe una voluntad constituyente que pueda ser tratada como intención del legislador.

Lo que hay son principios universales, uno junto a otro según las pretensiones de las partes, cuya colisión

debe ser resuelta, en ausencia de legislación específica, mediante ponderación judicial, de acuerdo con los

casos. Cfr. L. Pietro Sanchís, “Principia iuris: una teoría del derecho no (neo)constitucionalista para el

Estado constitucional”, en Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho, 31 (2008), esp. pp. 340-342.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

129

referencia a la inobservancia, por acción u omisión, de las normas sustantivas sobre la

producción normativa”184. No se trata entonces de fenómenos que generan un problema

más de aplicación del derecho, sino de problemas irresolubles sin una reforma del

ordenamiento. “Antinomias y lagunas en el sentido aquí definido –explica Ferrajoli– no

son inmediatamente solventables por el intérprete, a quien no compete la alteración del

derecho vigente aplicable aun cuando ilegítimo. Requieren, en efecto, para ser

removidas, la intervención de específicos actos decisionales: precisamente, la anulación

de las decisiones inválidas o la introducción de las decisiones que faltan”185.

Por lo tanto, y al tener en cuenta también que el autor italiano define a la función

judicial como “la garantía secundaria de la anulabilidad de los actos inválidos y de la

responsabilidad por los actos ilícitos, o sea, […] la obligación atribuida a los jueces de

pronunciar la nulidad de los primeros y la condena por los segundos”186, parece que el

control jurisdiccional de constitucionalidad de las leyes resulta bastante restringido.

Por un lado, en el marco del constitucionalismo garantista, no les corresponde a los

jueces remediar las lagunas, pues ellas requieren la introducción de una norma de

actuación. Pero eso no quiere decir que en ningún caso los jueces puedan aplicar

directamente las normas constitucionales. Está claro que en ausencia de un tipo penal

necesario para garantizar un derecho constitucional, el juez no podría crearlo, ni decidir

quién tiene la obligación de enseñar, por poner otro ejemplo, en ausencia de una ley

pública que regule el derecho constitucional a la educación. Pero sí podría, en cambio,

anular el despido de un huelguista con apoyo en el derecho constitucional de huelga, en

caso de que no existiera la ley que regule la materia, al tratarse de una decisión que tiene

efectos singulares negativos y no importa, en consecuencia, colmar la laguna en el

ordenamiento187. Ella, por lo tanto, seguiría existiendo, así como la obligación del

legislador de sancionar la norma debida.

En lo que se refiere a las antinomias, los jueces adquirirían mayor protagonismo, en

tanto tendrían la función de anular la norma inválida, de acuerdo con el modelo de

184 Ferrajoli, Principia iuris, t. 1, cit., p. 857.

185 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 647.

186 Ferrajoli, ob. cit. ult., p. 831.

187 Cfr. L. Prieto Sanchís, ob. cit., pp. 336-337.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

130

control de constitucionalidad concentrado, de matriz continental europea, preferido por

Ferrajoli al modelo norteamericano de control difuso, basado en la jurisprudencia de

principios188. Esa opción revela “las fuertes reservas del constitucionalismo garantista

hacia la deriva judicialista propia del neoconstitucionalismo”189, pues la desaplicación

que deja vigente una norma inválida debilita la efectividad del Estado de derecho y

promueve la regresión a un “derecho jurisprudencial de tipo premoderno, que tiene el

riesgo de trastocar todo el orden de la democracia”190, dado que son los jueces, en

efecto, los que deben resolver la antinomia en cada caso. En suma, Ferrajoli sostiene

que los jueces sólo deberían tener la facultad de anular la norma inválida, con base en el

principio de la jerarquía, y no la de resolver antinomias mediante interpretación o

ponderación.

Un problema más complejo es el de los conflictos entre los derechos fundamentales,

pues aquí la ponderación parece ser inevitable y, entonces, el protagonismo de los

jueces resultaría mayor. Pero Ferrajoli entiende que no hay que “dramatizar”, ni mucho

menos “enfatizar” y “generalizar” la existencia de esos conflictos, tal como lo hacen, a

su modo de ver, los partidarios del constitucionalismo principialista.

Por un lado, señala que hay que distinguir entre los distintos tipos de derechos y la

posibilidad y magnitud del conflicto entre ellos. A ese respecto, afirma que los derechos

de libertad-inmunidad, como la libertad de conciencia o la inmunidad de torturas, al

comportar sólo la expectativa de su no lesión, no pueden encontrar límites en otros

derechos fundamentales, sino que, únicamente, son ellos un límite al ejercicio de los

demás; por ejemplo, el derecho (de libertad-inmunidad) a la propia reputación –refiere

Ferrajoli– constituye un límite para el derecho (de libertad activa) a la libertad de

información.

Ese ejemplo introduce a la segunda categoría de derechos identificada por el autor

italiano: los derechos de libertad activa, que ciertamente pueden entrar en conflicto con

otros derechos fundamentales, tal como en el caso apenas mencionado o en el del

derecho de huelga del personal sanitario y el derecho a la salud. Pero estos posibles

188 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., p. 91 y notas 106 y 107.

189 L. Prieto Sanchís, ob. cit., p. 339.

190 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., pp. 78-79.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

131

conflictos suelen estar resueltos, no casualmente, por las mismas constituciones. Así

ocurre, por ejemplo, en la constitución italiana y la española, las cuales –señala

Ferrajoli– establecen que el derecho de huelga se ejerce en el ámbito de las leyes que lo

regulan para asegurar el mantenimiento de los servicios esenciales, y recuerda también

que la italiana prevé la tipificación de los delitos de injurias y difamación como límites

a la libertad de información.

En cuanto a los supuestos conflictos entre derechos sociales y otros derechos

fundamentales, sostiene que los costos económicos y las dificultades fácticas para

satisfacer a los primeros no representan la base de un conflicto entre derechos, sino el

objeto de las inevitables opciones de preferencia política respecto de la prioridad y

medida de su satisfacción.

Por último, se refiere detenidamente a los supuestos conflictos entre los derechos

(primarios) sociales y de libertad, por un lado, y los derechos (secundarios) civiles y

políticos, por el otro, o bien entre (derechos de) libertad y (poderes de) autonomía o

entre derechos fundamentales, por un lado, y Estado y mercado, por el otro. En este

caso, considera que los primeros deben prevalecer sobre los segundos, ya que el

ejercicio de éstos consiste en actos negociales o legislativos de grado subordinado al

nivel normativo al que pertenecen, al igual que todos los demás derechos

fundamentales, por lo que se encuentran en relación no ya de conflicto sino de

subordinación. En otras palabras, dado que los derechos de autonomía son poderes

jurídicos, en tanto su ejercicio consiste en actos que producen efectos en la esfera

jurídica de los demás, deben estar sometidos, como todos los demás poderes en el

Estado constitucional de derecho, a los límites (derechos fundamentales) que impiden

su ejercicio legibus solutus191.

En síntesis, Ferrajoli sostiene que la intuición general de que los derechos colisionan

y tienen un “espacio moral” limitado por los demás, debe ser redimensionada y, en

consecuencia, “desdramatizada” mediante una distinción analítica de los distintos tipos

de derechos fundamentales: (i) “derechos-inmunidad” ilimitados, dado que su garantía

191 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., pp. 70-75; “Los fundamentos de los derechos fundamentales”, en

Id., Los fundamentos de los derechos fundamentales, cit., esp. pp. 351-353; La democracia a través de los

derechos, cit., pp. 120-121.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

132

no interfiere con la de otros; (ii) “derechos de libertad” (distintos de las simples

libertades, que no son derechos, sino espacios no regulados pues no producen efectos en

la esfera jurídica de terceros), que encuentran límites impuestos para permitir su

convivencia con los demás; (iii) derechos sociales, cuyos límites no son los otros

derechos fundamentales, sino sólo los costos de su satisfacción (recuérdese que los

derechos patrimoniales no son fundamentales en la doctrina de Ferrajoli192); y (iv) los

“derechos-poder”, que constituyen la “democracia formal”, sea política o civil,

subordinada al conjunto de derechos, de libertad y sociales, en los que se basa la

“democracia sustancial”, por lo que aquí no podría hablarse de conflicto entre derechos

o de espacios recíprocamente limitados, como si se presentase el dilema de optar por

unos u otros, ya que siempre deben prevalecer los primarios, es decir, los de libertad y

los sociales193.

El legislador, entonces, debería concentrarse en fijar lo más claramente posible, en

particular, los límites (por ejemplo, la prohibición de injuria y difamación respecto de la

libertad de información o la prohibición de reuniones armadas respecto de la libertad de

reunión, como ocurre en la legislación italiana) y las posibles restricciones (por ejemplo,

bajo forma de penas limitativas de la libertad personal) de los derechos de libertad, que

son aquellos que pueden entrar en conflicto con los demás derechos fundamentales.

En conclusión, me parece que no se puede negar la fuerte disminución del ámbito de

posibles conflictos normativos, y del consiguiente espacio de discrecionalidad de los

jueces, que provoca el constitucionalismo garantista. Además, ese poder de los jueces, a

diferencia de la discrecionalidad política, que se manifiesta en las decisiones legislativas

y administrativas que producen nuevo derecho, genera sí decisiones interpretativas,

referidas al significado de las normas aplicables194, pero únicamente singulares o, en

192 Ferrajoli, Derecho y razón, cit., pp. 908-915; “Derechos fundamentales”, cit., pp. 29-35; Principia

iuris, t. 1, cit., pp. 717-729.

193 Ferrajoli, “Los fundamentos de los derechos fundamentales”, cit., pp. 353-354.

194 Por eso Ferrajoli aclara que su posición no desprecia la importancia de una teoría de la

argumentación, como la desarrollada ejemplarmente, en su opinión, por Robert Alexy y Manuel Atienza,

dirigida a fundar la racionalidad del ejercicio discrecional del poder judicial. Antes bien, Ferrajoli critica

la excesiva ampliación del rol de la ponderación en la interpretación judicial de las normas

constitucionales, que ha terminado por designar –afirma– “las formas más desenvueltas de vaciamiento y

de inaplicación de las normas constitucionales”, tal como ha ocurrido en Brasil, donde la jurisprudencia

ha creado un “increíble inventario de principios” carentes de todo anclaje en el texto constitucional, como

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

133

todo caso, siempre negativas, en tanto sólo pueden anular una norma inválida o un acto

inválido contrario a una norma de nivel superior. Los jueces constitucionales no tienen

facultades, entonces, para decidir la “política abortista” del Estado, como sugiere

Gargarella, ni ninguna otra política, sino que sólo pueden remediar una antinomia,

mediante anulación de la norma inválida, lo que tendría el efecto de reenviar la cuestión

al Parlamento para que, luego de una reconsideración del asunto, sea éste el que colme

la eventual laguna. “Eso debería bastar –señala Ferrajoli– para ahuyentar el espantajo

del llamado ‘gobierno de los jueces’, que obsesiona a una parte de la filosofía jurídica y

política y, obviamente, al estamento político”195.

Sentadas así las bases del pensamiento de Ferrajoli en cuanto al control de

constitucionalidad de las leyes, con todas las imprecisiones propias de una necesaria

síntesis, me atrevo a afirmar que tampoco advierto una diferencia muy significativa

entre esa propuesta y la efectuada sobre el mismo asunto por Gargarella.

Si no me equivoco, este autor sostiene, por un lado, que los jueces, en términos

institucionales, se encuentran en una excelente posición para favorecer la deliberación

democrática –por la que brega en todos sus trabajos–, pues reciben demandas de quienes

sienten que han sido tratados indebidamente en el proceso político de toma de

decisiones, y, a su vez, están obligados a escuchar a todas las partes del conflicto. Por

otro lado, tienen amplias posibilidades de actuar de manera respetuosa hacia la

autoridad popular, al poseer suficientes técnicas y medios procedimentales a su alcance

el “principio de precaución” contra las posibles decisiones que pueden causar daños no calculados o el

“principio de la no sorpresa”, en garantía de la seguridad del ciudadano contra decisiones demasiado

inesperadas. Cfr. Ferrajoli, “Constitucionalismo principialista y constitucionalismo garantista”, cit., pp.

43-45. Este desmedido activismo judicial, basado en ideas afines al neoconstitucionalismo, parece haber

caracterizado también cierta jurisprudencia de la Corte Interamericana de Derechos Humanos, ilustrada

con lujo de detalles por E. Malarino, “Activismo judicial, punitivización y nacionalización: tendencias

antidemocráticas y antiliberales de la CIDH”, en D.R. Pastor (Director), El sistema penal en las

sentencias recientes de los órganos interamericanos de protección de los derechos humanos, Ad-Hoc,

Buenos Aires, 2009, pp. 21-61, y también en K. Ambos, E. Malarino y G. Elsner (coords.), Sistema

interamericano de protección de los derechos humanos y derecho penal internacional, Konrad-Adenuer-

Stiftung, Montevideo, 2010, pp. 25-61 (http://www.kas.de/wf/doc/kas_23685-1522-4-

30.pdf?121011221909). Malarino recuerda que un ex presidente de ese tribunal internacional, además de

una de sus figuras más prominentes, afirmaba que la Convención Americana no era otra cosa que lo que

la Corte decía, con lo que reflejaba una concepción bien clara de la función jurisdiccional que tiene para

él este tribunal, inspirada en una vertiente del realismo jurídico norteamericano, según la cual sus jueces

no están sujetos a reglas.

195 Ferrajoli, Principia iuris, t. 2, cit., p. 75.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

134

para actuar en consecuencia. En ese sentido, refiere concretamente que ellos pueden

“bloquear la aplicación de una cierta norma y devolverla al Congreso, forzándolo a

repensarla; pueden declarar que algún derecho fue violado, sin imponer a los

legisladores una solución concreta; pueden establecer que una violación de derechos

debe corregirse en un tiempo límite, sin ocupar el lugar del legislador ni decidir cuál

remedio particular debería ser aprobado; pueden sugerir al legislador una serie de

soluciones alternativas, dejando la decisión final en manos del último”196.

En suma, si es cierto que en el constitucionalismo garantista de Ferrajoli las lagunas

y las antinomias en sentido estructural, como las define ese autor, son las únicas que

pueden dar lugar a un vicio de constitucionalidad, y que las primeras sólo pueden ser

resueltas por el Parlamento, mientras que las segundas sólo pueden originar una

decisión jurisdiccional que anule la norma inválida, no observo en qué aspecto la

propuesta de Gargarella resulta inconciliable con esta postura.

196 Cfr. Gargarella, “¿Democracia deliberativa y judicialización de los derechos sociales?”, en Perfiles

latinoamericanos, (2006), 28, esp. pp. 21-22. El tema también es abordado por Gargarella en La justicia

frente al gobierno. Sobre el carácter contramayoritario del poder judicial, Ariel, Barcelona, 1996, esp.

pp. 174-177; y en “La dificultad de defender el control judicial de las leyes”, en Isonomía, (1997), 6, pp.

55-70, entre otros de sus trabajos.

Letture

G. Perconte Licatese, “Fortuna e ironia in politica”,

Jura Gentium, ISSN 1826-8269, XII, 2015, 1, pp. 137-145

Fortuna e ironia in politica

Giuseppe Perconte Licatese

Se alla scienza politica e al diritto internazionale è richiesto, come ci è capitato di

leggere recentemente1, di saper dire qualcosa di costruttivo ai policymakers sui quali

grava il compito di “guidare gli eventi” (steering global processes); e se – tanto oggi

che Fortuna e ironia in politica, opera inedita di Martin Wight, è stata pubblicata,2

quanto nel 1957, quando essa fu concepita nella sua prima versione per una serie di

lezioni tenute da Wight a Chicago su invito di Hans Morgenthau – la teoria è chiamata a

giustificarsi dimostrando la sua applicabilità, allora il disorientamento indotto da questo

testo non può essere meno che completo, e forte la tentazione di relegare nel letterario i

suoi insegnamenti. Fortuna e ironia in politica, apparso per la cura di Michele

Chiaruzzi in italiano ancor prima che in inglese, emerge dagli archivi londinesi di Wight

come voce di un passato storico e disciplinare di nuovo al centro dell’attenzione,

nell’inesauribile confronto che la teoria svolge coi suoi “classici”, e come tale è un

documento prezioso di una precisa stagione. Al tempo stesso, l’intatta pertinenza dei

suoi assunti fondamentali nell’attuale fase della società internazionale, nel tempo nostro,

lo qualifica nella sua “classicità”, intesa proprio come irriducibilità a “documento”, a

pezzo d’archivio.

La ricchezza di materiali e di suggestioni che Wight raduna in questo saggio è

veramente grande, e il recensore deve partire dal contesto e dal termine polemico da cui

esso dipende: l’ascesa del comportamentismo nella teoria delle relazioni internazionali

nord-americana, con la sua teorizzazione “completamente astorica”, mirante a ridurre

“le relazioni internazionali a un sistema di proposizioni teoriche con funzione

predittiva” (in questi termini denunciata da Morgenthau, citato da Chiaruzzi a p. xxiv).

Si può immaginare il compiacimento del professore della Chicago University nel

portare di fronte ai suoi alunni un conferenziere dal linguaggio e dai riferimenti così

1 D. J. Levine e A. D. Barder, “The Closing of the American Mind: ‘American School’ International

Relations and the State of Grand Theory”, European Journal of International Relations, 20 (2014), 4, p.

865.

2 M. Wight, Fortuna e ironia in politica, a cura di Michele Chiaruzzi, Soveria Mannelli, Rubbettino

2014.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

138

stranianti per il lessico della social science: non solo la “fortuna” e l’ “ironia” del titolo,

ma anche gli “arcana” o i “dilemmi”, altre parole significative che dovevano suonare

unscientific, e le citazioni non diciamo di Cesare o Machiavelli, ma di figure come

Pallada di Alessandria o il marxista Plechanov – né Wight trascura i coevi: in queste

pagine mostra infatti di aver letto attentamente, tra gli altri, Strauss, Oakeshott, Kennan,

Niebuhr. Contro il paradigma conoscitivo che, ulteriore derivato della fede ottocentesca

nel progresso, voleva tradurre la virtù politica – nel testo è definita “arte necessaria” (p.

41) – in tecnica di previsione e controllo, Wight parte dalla fondamentale e costante

“esperienza” della Fortuna che l’uomo fa in politica e dalla “candida quantificazione”

(qui forse un’allusione allo stesso probabilismo scientifico) che Machiavelli fece, a

contrario, di quella “metà, o presso” che è in potere agli uomini (p. 3). Una porzione

concessa alla virtù, questa, soggetta all’azione di molteplici forze erosive: Wight pone a

oggetto del suo studio ciò che dall’antichità a oggi è stato detto Tyche, necessità, caso,

sorte, destino, provvidenza, in tutte le sue forme concorrendo a relativizzare il potere

degli uomini sulla propria esistenza collettiva, sia nel senso di una frustrazione del

bisogno di sicurezze e certezze (la Fortuna del poeta Dryden, “proud of her office to

destroy”, p. 15), che nel senso di un potere che ordina i contrasti umani in un superiore

disegno, tale che, come disse una volta Lincoln, “Dio soltanto può rivendicarlo” (citato

a p. 31). Scopo di questa rassegna è per Wight mostrare l’angustia dell’osservazione

volta a individuare i nessi di causa ed effetto delle azioni politiche: ancor più che

angusta in senso quantitativo, perché ignora quel residuo di fattori semplicemente

inconoscibili, detta osservazione manca di autentico senso storico. Ciò che “in

retrospettiva” lo scienziato vuole vedere come “parte dell’intatta ragnatela di causa ed

effetto” era avvertito, da chi agiva, come “accidente”, “contingente”, “imprevedibile”

(p. 21), e proprio a questa esperienza puntuale del tempo Wight vuole tornare, alla sua

natura fluida, indeterminata, al momento in cui la situazione politica sta sospesa tra

riuscita e insuccesso oppure si protrae indecisa. La critica radicale qui sottesa è che non

si può dare scienza politica che sia troppo astratta dalla scena dell’azione, con i suoi

vincoli e incertezze contingenti (che poi avvicinandosi al suo oggetto essa perda lo

statuto di scienza è altra questione). L’elemento più potente e suggestivo evocato da

Wight è quello della “peripezia” (la peripèteia, già meccanismo drammatico del teatro

secondo un altro maestro di realismo, Aristotele); peripezia sottolineata quale “regolare,

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

139

ripetuta, si è tentati di dire fondamentale, esperienza della politica internazionale”, in

due pagine (pp. 52-53) dove sono ripercorsi a precipizio tutti i rovesci di alleanze, i

tradimenti della parola data, i cambiamenti radicali di valutazione politica e i disastri

scampati che hanno scandito la storia mondiale dal 1933 fino al momento in cui Wight

scrive: ovvero gli stessi fatti che certa teoria coeva avrebbe spiegato con il “dilemma

della sicurezza”, spogliandoli però del senso di confusione, angoscia, irrazionalità che

l’autore sa rendere, e che sono loro propri.

Ci è gradito, a questo punto, cogliere l’occasione di saldare questi risultati con quelli

già esposti dal curatore Chiaruzzi nel suo precedente studio sull’autore3 e sottolineare

come nella lezione di Wight sulla storia debba riconoscersi la posizione di un realista

cristiano. Non solo la riflessione qui in considerazione è, vinta la tentazione di una fuga

dal tempo implicita nella fase del suo giovanile pacifismo, l’assunzione senza riserve

della storia e dell’agire in essa – “dopotutto, il nostro vero compito”4 – quale

dimensione necessaria della vita (e della fede) del cristiano; ma proprio l’anti-

determinismo, “l’agnosticismo” storico di Wight, il concepire cioè la storia come una

linea spezzata di peripezie, è il risultato, per sottrazione potremmo dire, di una retta

teologia della storia: come l’autore aveva scritto altrove: “la storia secolare è la

sequenza empirica degli eventi nel tempo senza significato in sé; la storia sacra è la

teleologia della sequenza”5. Così vanno di pari passo la contemplazione del mistero

della storia – e del modo, ruvido con cui la sua verità “trionfa sulla formule” degli

uomini (Carlyle citato da Wight a p. 59) – e lo scetticismo nei confronti delle ideologie

del progresso. In quegli stessi anni, anche due pensatori per formazione e orientamento

diversi da Wight come Carl Schmitt e Julien Freund salutavano la vittoria della storia

reale, col suo andamento incerto e con la sua interna dynamis dialettica, su tutte le

filosofie della storia che “prescrivono all’uomo un’origine mitica e una fine utopica”6.

3 M. Chiaruzzi, Politica di potenza nell’età del Leviatano. La teoria internazionale di Martin Wight,

Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 77-90.

4 Ivi, p. 90.

5 Ivi, p. 81.

6 Si vedano C. Schmitt, “Die Einheit der Welt” (1951), nella raccolta Frieden oder Pazifismus (Berlin,

Duncker & Humblot, 2005), p. 852, e la corrispondenza tra Freund e Schmitt in P. Tommissen (a cura di),

Schmittiana. Beiträge zu Leben und Werk Carl Schmitts, vol. I, Brussel, Economische Hogeschool Sint-

Aloysius, 1988, in particolare la lettera del 18.9.1959, p. 37.

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

140

Non sappiamo dire quanto una meditazione sulla storia universale (quel “kind of

rumination about human destiny”, per dirla con il Wight di un altro famoso saggio7)

abbia diritto di cittadinanza nell’attuale discorso politologico e internazionalistico; certo

è che non mancano oggi come allora teorie che hanno almeno implicita una filosofia

della storia, progressista come talune prospettive sull’integrazione regionale o – è il

caso più ambizioso che ci viene in mente – teleologica, come la tesi di Alexander Wendt

sull’inevitabilità di uno Stato mondiale8. Ciò che in modo forse meno contestabile fa del

saggio di Wight un contributo prezioso alla teoria attuale è l’invito ad aderire al piano

delle percezioni e delle motivazioni degli uomini di governo, a rivolgersi alla loro

esperienza qualificata come a una fonte indispensabile di orientamento e di

comprensione. Per lunghe pagine Wight fa scorrere davanti al lettore una teoria di

personaggi storici con i loro tratti psicologici, le idee-guida, i giudizi a posteriori,

attingendo sia dai documenti storiografici (Bolingbroke, Napoleone, Donoso Cortes,

Cavour, Bismarck, Saburov, Lloyd George, Hitler, Mussolini, Churchill, Roosevelt,

Adenauer, Stimson, Dulles, De Gaulle) sia, con libertà sicura di sé, dal genere del

romanzo storico e del teatro (Cesare, Tamerlano, Giovanna d’Arco, Wallenstein). Ciò

suscita nel lettore l’impressione che la politica internazionale sia, più che un dominio di

leggi e di forze, un testimone passato di mano in mano da statisti e diplomatici. Una

permanenza del passato nel presente, questa, ambivalente, in quanto implica –

richiamiamo qui intuizioni espresse da Wight altrove – il frustrante dominio di

“ricorrenza e ripetizione” negli affari internazionali, ma anche la confortante prospettiva

“che i medesimi problemi e le medesime risposte intellettuali sono già state esplorate in

passato”9. È utile qui ricordare inoltre il titolo originario del draft wightiano, Necessity

and Chance in International Relations (p. xiii). Non solo quel titolo colloca

espressamente l’attore nella politica internazionale, rispetto alla quale Wight fa sua –

provvisoriamente e a patto di richiamare la visione esattamente rovesciata di Burke (p.

7 M. Wight, “Why Is There No International Theory”, International Relations, 2 (1960), 1, p. 48.

8 A. Wendt, “Why a World State is Inevitable”, European Journal of International Relations, 9 (2003),

4.

9 M. Wight, “Why Is There No International Theory”, cit., p. 43, e International Theory: The Three

Traditions, London, Leicester University Press, 1996, p. 6 (trad. it. Teoria internazionale: le tre

tradizioni, a cura di M. Chiaruzzi, Bologna, Il Ponte, 2011).

JURA GENTIUM, XII, 2015, 1

141

13) – la posizione di Machiavelli e prima di lui di Polibio, che in essa vede la fortuna

“regina” rispetto a una relativa prevedibilità del dominio interno; esso pone altresì i due

termini entro i quali si dispiegano le possibilità dell’attore: da un lato la necessità, intesa

come “esperienza soggettiva della coercizione degli eventi” (p. 19), dall’altro

l’occasione favorevole nel tempo, che la si chiami chance, kairos, o, più modestamente

o cinicamente, opportunità. Lo sfondo rimane quel terreno d’azione sommamente

insicuro, instabile, dove statisticamente prevalgono i “tempi difficili” su quelli

“pacifici”, e quindi ha miglior gioco il caso che non gli uomini (la distinzione è dello

Strauss commentatore di Machiavelli, citato a p. 20). Errori e perplessità segnano il

registro di questa parte del saggio e Wight è ben lontano dall’estremo di chi soggiace

all’illusione del proprio potere sugli eventi – giudizio questo di nuovo, forse, alla radice,

teologico, suggerendo Wight in un punto che della “dottrina” del volontarismo, per cui è

Dio la causa ultima dell’accadere, sia versione degradata la “credenza” che in politica

tale causa ultima possa essere la volontà umana (p. 24). Eppure, il passaggio dal quadro

generale alla prospettiva particolare era avvenuto come con un rovesciamento dalla

difesa all’attacco: alla fortuna si può strappare “il cinquanta, forse il cinquantacinque

per cento” del campo conteso (p. 23) e nel processo storico, oggettivamente superiore

agli agenti, comunque “[è lasciato spazio] alla causazione umana, all’azione, alla

prudenza e all’arte” (ancora lo Strauss citato a p. 20). “E’ lasciato spazio”: Wight è

attento a tenere sempre aperta la porta delle possibilità, e il suo percorso attraverso i

grandi e piccoli attori della scena europea degli ultimi due secoli ha il senso di

sottolineare il ruolo della personalità negli affari internazionali. Non a caso, in due

luoghi rilevanti (pp. 36, 60), egli fa intervenire il maestro della diplomazia della guerra

fredda, Kennan, con la metafora dei politici “giardinieri” e con la sua negazione di ogni

fatalismo storico. All’autore, più profondamente, sta a cuore salvaguardare i margini di

manovra, di intelligenza, di responsabilità dell’uomo, tornando così al Machiavelli

citato all’inizio: “perché il nostro libero arbitrio non sia spento” (p. 3).

Fortuna e ironia in politica indica allora, da questo punto di vista, la feconda

possibilità di integrare lo studio con i materiali che vengono dall’esperienza e dalla

riflessione degli attori della diplomazia, secondo un approccio che sia più che uno

studio della singola politica estera nazionale e aspiri a ricostruire la teoria di chi

concretamente si muove sui confini e nei peculiari spazi della mediazione nella società

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internazionale. Ciò vuol dire declinare la international theory come diplomatic theory,

già definita, proprio in consonanza con Wight che considerava la diplomazia

l’istituzione sovrana (master-institution) della società internazionale, “reflective in

character, permanently indebted to historical reasoning, and unfailingly ethical in

inspiration”10.

Il tema dell’ironia è sviluppato nella parte conclusiva del saggio (pp. 47-61). Sono

queste ancora pagine dense di riferimenti, in una certa misura discontinue, nel loro

soppesare argomenti diversi e procedere a passi misurati verso una chiusa in cui alla

riflessione sulla storia sembra sovrapporsi quella sul destino del singolo uomo e

dell’autore stesso. Se la fortuna è, in senso avalutativo, la struttura empirica degli

eventi, l’ironia è una possibile categoria di interpretazione, anzi la migliore, in quanto la

storia è miglior oggetto per la critica letteraria che non per la scienza delle cause e degli

effetti. Wight caldeggia questo approccio: l’‘ironico’ è una funzione di tutte le lingue

europee (p. 56) e, denotando un’esperienza comune, rende possibile comunicare ciò che

nella vita politica appare incongruenza tra le affermazioni e il loro contesto, tra le

motivazioni e i mezzi, tra le intenzioni e gli esiti. A un livello meno immediatamente

concettualizzabile, essa dice la misura di inconsapevolezza sempre presente in chi

agisce, e l’opaca “legge di retribuzione” che opera negli affari umani, sempre

conducendo a un esito moralmente significativo e rivelatore (la politica, scrive alla fine

della sua introduzione Chiaruzzi intuendo qualcosa che è normalmente negato

dall’opinione comune, “è vicenda di verità”, p. LX).

Può qui essere utile indicare al lettore che l’interesse di Wight per l’ironia scaturisce

dal confronto con un topos non secondario del realismo novecentesco, quello della

tragedia come categoria d’interpretazione della politica di potenza. Esso arriva a Wight

innanzitutto attraverso Niebuhr: Chiaruzzi ha opportunamente ricostruito l’invenzione

da parte dell’autore, in uno scritto coevo a questo, del suo concetto di ‘ironico’ proprio

in opposizione a quello di ‘tragico’ del teologo nord-americano (rimandiamo il lettore

10 G. R. Berridge, M. Keens-Soper, T. G. Otte (a cura di), Diplomatic Theory from Machiavelli to

Kissinger, New York, Palgrave, 2001, p. 4.

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alle pp. xxxi-xliii11). Il limite di una concezione tragica della scelta politica, per Wight,

consiste nel fatto che essa sottostima le possibilità alternative e, peggio, segnala in chi la

usa una qualche illusione di trascendimento e di catarsi rispetto alla realtà in cui si è

ancora coinvolti e che si può ancora condizionare. Il tema è di grande pertinenza per la

comprensione dello stesso realismo politico, e non è inedito: una comparabile critica del

‘tragico’ fu svolta da Oakeshott, quando in una recensione del 1947 rimproverò a

Morgenthau di avere trasferito quel concetto dal dominio dell’arte a quello della ragione

pratica12; e anche a Schmitt, in una poco nota recensione del 1926 a Meinecke, l’idea

della “colpa tragica” dell’uomo di Stato costretto a fare il male apparve un indebito

“passaggio all’estetico”, con cui non era possibile dare una risposta autenticamente

morale ai problemi politici13. Non sono certo casuali queste convergenze, ma mirano a

qualcosa di essenziale nel superamento delle antitesi tra le quali il pensiero realista

cerca di trovare la sua forma14.

Vogliamo in conclusione rilevare ancora i pregi del lavoro del curatore. Chiaruzzi ha

tradotto e sostenuto il testo con le sue note sapendo di muoversi, tanto più nel caso di un

inedito incompiuto, tra immedesimazione e interpretazione (si veda la nota sulla

11 L’opera di Niebuhr è R. Niebuhr, The Irony of American History (New York, Scribner’s and Sons,

1952; trad. it. Lʼironia della storia americana, a cura di Alessandro Aresu, Milano, Bompiani, 2012), cui

Wight risponde nella sua lezione su Machiavelli in Four Seminal Thinkers in International Theory,

Oxford, Oxford University Press, 2005.

12 Si veda N. Rengger, “Realism, Tragedy, and the Anti-Pelagian Imagination in International Political

Thought”, in M. C. Williams (a cura di), Realism Reconsidered. The Legacy of Hans J. Morgenthau in

International Relations, Oxford, Oxford University Press, 2007, pp. 118-136.

13 C. Schmitt, “Sull’Idea di Ragion di Stato di Friedrich Meinecke” (1925), nella raccolta Posizioni e

concetti in lotta con Weimar-Ginevra-Versailles, Milano, Giuffré, 2007, p. 78. Schmitt sarà più tardi

contrariato dal tentativo di Walter Benjamin di vedere qualcosa di autenticamente cristiano nella

posizione tragica e malinconica di Amleto (“Sul carattere barbarico del dramma shakespeariano”, in

Amleto o Ecuba, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 109-116). Per due giudizi storici che ci sembrano assai

vicini allo spirito del Wight qui recensito si veda ancora C. Schmitt, Posizioni e concetti, cit., p. 125

(sull’eccezionalità della Prussia) e p. 153 (sull’improbabilità dell’unificazione tedesca), e inoltre

l’intervista del 1972 in cui egli rievoca gli intricati eventi del 1933 tradotta in C. Schmitt, Imperium,

Macerata, Quodlibet, 2015.

14 D’altra parte, l’interpretazione dei fatti storici espone sempre l’interprete al rischio di svelare più

qualcosa di sé che non una trama oggettiva: è di Niebuhr la similitudine dello storico con il paziente

sottoposto al test di Rorschach, da cui si traggono giudizi non sulla reale configurazione dei punti

osservati, ma sulla mente del soggetto che li osserva (cfr. R. Niebuhr, The Irony of American History, cit.,

p. 151). Riferita all’osservatore della politica, l’ironia è auto-ironia, come nel Donoso Cortés scrittore di

dispacci diplomatici che, nota Wight, a un certo punto si interrompe e, come per arginare le sue stesse

previsioni, accentua l’imprevedibilità degli sviluppi futuri (nel testo qui recensito a p. 5).

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traduzione a p. LXI). Nella lunga introduzione al saggio, il curatore pensa con Wight “la

complessità morale e causale della politica” (fatta di cause note e ignote, interdipendenti

o indipendenti, effetti intenzionali e soprattutto inintenzionali); fa dialogare le posizioni

del testo con la critica all’ideologia di Bobbio, la teoria dell’azione di Panebianco, le

teorie del disordine di Boudon e di Morin; accumula materiali e spunti ulteriori di

riflessione (la morte dell’agente Calipari, la rivoluzione khomeinista, le guerre

americane in Medio Oriente). La materia esige da chi voglia studiarla di seguire i

problemi nelle loro più minute articolazioni interne e il quadro, ricordandoci l’immagine

di Clausewitz del “gioco di possibilità, probabilità, fortuna e sfortuna che si dipanano

lungo tutti i fili grandi e piccoli del suo tessuto”15, conferma ai nostri occhi la latente

affinità della politica internazionale con la guerra e qualifica una volta di più quella

wightiana come un’ontologia realista. Tuttavia, Wight e Chiaruzzi indicano

un’epistemologia in fondo positiva: è “progresso della conoscenza”, non solo e non

tanto “dissipare le ombre dell’incertezza e dell’aleatorio”, bensì proprio “illuminarne la

presenza” (p. XLI). In tale prospettiva, che weberianamente attrae anche lo studioso

nell’etica della responsabilità, c’è alleanza, c’è empatia tra quest’ultimo e “chi attende

di agire nella penombra di un futuro inospitale a previsioni e desideri” (il diplomatico

secondo Chiaruzzi, p. LIX). Se spazi anche ampi di intelligibilità possono aprirsi, ma

solo dopo che la dinamica politica è definitivamente maturata in fatto storico, l’azione è

sempre in anticipo sulla teoria e chi agisce non può rimanere assorto nello studio delle

costanti del passato, né confidare troppo nella probabilità di una traiettoria futura.

Politico e scienziato politico sono in fondo, dando l’ultima parola a Wight, entrambi

“dalla parte del fortuito contro il necessario perché [vivono] l’esperienza di essere [essi

stessi] una contingenza” (p. 23). Questa contrazione della visuale sul presente può

venire fraintesa come occasionalismo e persino romantico può apparire celebrare

“l’incerto” come l’elemento in cui la politica si muove (ancora Clausewitz), ma il senso

15 C. von Clausewitz, Della guerra, a cura di G. E. Rusconi, Torino, Einaudi, 2000, p. 35.

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è qui riaffermare, con il poeta Eliot caro al maestro della English School, che è alla

portata dell’uomo solo “il tentare”16, non il resto.

16 La poesia di Eliot cui si fa riferimento è “East Coker” (1940), uno dei Quattro quartetti citato da M.

Wight in Teoria internazionale, cit., p. 81. Ringrazio qui Filippo Ruschi per l’invito a scrivere questa

recensione e per l’attenta lettura, e mio padre Renato per avermi suggerito soluzioni più felici nello stile.

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