Materiali per la storia della cultura artistica antica e moderna I

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Horti Hesperidum Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica Rivista telematica semestrale MATERIALI PER LA STORIA DELLA CULTURA ARTISTICA ANTICA E MODERNA a cura di FRANCESCO GRISOLIA Roma 2013, fascicolo I UniversItalia

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Horti Hesperidum, III, 2013, 1 1

Horti Hesperidum

Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica

Rivista telematica semestrale

MATERIALI PER LA STORIA DELLA CULTURA ARTISTICA

ANTICA E MODERNA

a cura di FRANCESCO GRISOLIA

Roma 2013, fascicolo I

UniversItalia

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I presenti due tomi riproducono i fascicoli I e II dell’anno 2013 della rivista telematica Horti Hesperidum. Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica.

Cura redazionale: Giorgia Altieri, Jessica Bernardini, Rossana Lorenza Besi, Ornella Caccavelli, Martina Fiore, Claudia Proserpio, Filippo Spatafora

Direttore responsabile: CARMELO OCCHIPINTI

Comitato scientifico: Barbara Agosti, Maria Beltramini, Claudio Castelletti, Valeria E. Genovese, Ingo Herklotz, Patrick Michel, Marco Mozzo, Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Ilaria Sforza

Autorizzazione del tribunale di Roma n. 315/2010 del 14 luglio 2010 Sito internet: www.horti-hesperidum.com

La rivista è pubblicata sotto il patrocinio e con il contributo di

Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Dipartimento

di Scienze storiche, filosofico-sociali, dei beni culturali e del territorio

Serie monografica: ISSN 2239-4133 Rivista Telematica: ISSN 2239-4141

Prima della pubblicazione gli articoli presentati a Horti Hesperidum sono sottoposti in forma anonima alla valutazione dei membri del comitato scientifico e di referee selezionati in base alla competenza sui temi trattati. Gli autori restano a disposizione degli aventi diritto per le fonti iconografiche non individuate. PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA © Copyright 2013 - UniversItalia – Roma

ISBN 978-88-6507-551-7 A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile è vietata la riproduzione di questo libro o parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilm, registrazioni o altro.

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INDICE

SIMONETTA PROSPERI VALENTI RODINÒ, Presentazione 7 FRANCESCO GRISOLIA, Editoriale 9

FASCICOLO I SIMONE CAPOCASA, Diffusione culturale fenicio-punica sulle coste dell’Africa atlantica. Ipotesi di confronto 13 MARCELLA PISANI, Sofistica e gioco sull’astragalo di Sotades. Socrate, le Charites e le Nuvole 55 ALESSIO DE CRISTOFARO, Baldassarre Peruzzi, Carlo V e la ninfa Egeria: il riuso rinascimentale del Ninfeo di Egeria nella valle della Caffarella 85

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ISABELLA ROSSI, L’ospedale e la chiesa di Santa Maria dei Raccomandati a Cittaducale: una ricostruzione storica tra fonti, visite pastorali e decorazioni ad affresco 139 MARCELLA MARONGIU, Tommaso de’ Cavalieri nella Roma di Clemente VII e Paolo III 257 LUCA PEZZUTO, La moglie di Cola dell’Amatrice. Appunti sulle fonti letterarie e sulla concezione della figura femminile in Vasari 321 FEDERICA BERTINI, Gli appartamenti di Paolo IV in Vaticano: documenti su Pirro Ligorio e Sallustio Peruzzi 343

FASCICOLO II

STEFANO SANTANGELO, L’ ‘affare’ del busto di Richelieu e la Madonna di St. Joseph des Carmes: Bernini nel carteggio del cardinale Antonio Barberini Junior 7 FEDERICO FISCHETTI, Francesco Ravenna e gli affreschi di Mola al Gesù 37 GIULIA BONARDI, Una perizia dimenticata di Sebastiano Resta sulla tavola della Madonna della Clemenza 63 MARTINA CASADIO, Bottari, Filippo Morghen e la ‘Raccolta di bassorilievi’ da Bandinelli 89 FRANCESCO GRISOLIA, «Nuovo Apelle, e nuovo Apollo». Domenico Maria Manni, Michelangelo e la filologia dell’arte 117 FRANCESCA DE TOMASI, Diplomazia e archeologia nella Roma di fine Ottocento 151

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CARLOTTA SYLOS CALÒ, Giulio Carlo Argan e la critica d'arte degli Anni Sessanta tra rivoluzione e contestazione 199 MARINA DEL DOTTORE, Percorsi della resilienza: omologazione, confutazione dei generi e legittimazione professionale femminile nell’autoritratto fotografico tra XIX secolo e Seconda Guerra Mondiale 229 DANIELE MINUTOLI, Giovanni Previtali: didattica militante a Messina 287

PRESENTAZIONE Ho il piacere di presentare questo fascicolo doppio di Horti Hesperidum, curato da un nostro dottore di ricerca in Storia dell’arte, Francesco Grisolia, già autore di vari contributi scientifici sulla cultura artistica e il collezionismo nel XVIII secolo, sulla grafica del tardo Manierismo romano e sulla connoisseurship del disegno. La specificità di questi due ricchi tomi miscellanei è quella di raccogliere contributi di varia cultura, erudizione e storiografia storico-artistica, tra età antica e moderna, tutti scritti da dottori di ricerca e dottorandi dell’Università di Roma “Tor Vergata”, a dimostrazione della vivacità e della varietà degli interessi che si coltivano in seno al dottorato di questo ateneo, che mira a valorizzare i migliori risultati di una ricerca approfondita, resa possibile grazie alla stretta collaborazione tra docenti e allievi. Ulteriore segno dell’interesse dell’Ateneo di Tor Vergata è il fatto che questi fascicoli sono stati generosamente finanziati dal Dipartimento di Scienze storiche, filosofico-sociali, dei beni culturali e del territorio: si ringrazia pertanto Franco Salvatori, direttore del dipartimento, che, pure in tempi così difficili per l’editoria scientifica umanistica, ci ha sostenuto con grande generosità ed incoraggiamento.

Simonetta Prosperi Valenti Rodinò

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EDITORIALE

Le più variegate declinazioni della ricerca storico-artistica prendono forma in questo doppio fascicolo della rivista telematica semestrale «Horti Hesperidum», giunta al suo terzo anno, grazie ai numerosi contributi dei più giovani studiosi, in gran parte dottorandi e dottori di ricerca, dell’Università di Roma “Tor Vergata”. Sul piano metodologico i saggi raccolti documentano l’eterogeneità degli approcci che contraddistingue la critica odierna nel tentativo di rivalutare le testimonianze più diverse del passato, utili a restituirci quei contesti culturali che, di epoca in epoca, si muovono attorno ai monumenti e alle opere d’arte. Dalla produzione dell’antichità, attraverso le testimonianze architettoniche, figurative e letterarie dell’età medievale e moderna, fino alle più proficue esperienze e riflessioni dei nostri contemporanei, è nell’intreccio di relazioni con il ‘contesto’ la strada percorribile verso qualsivoglia verità storica. Entità, ragioni e conseguenze di un’opera, di una personalità, di un

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fenomeno artistico e culturale, non possono prescindere dal dialogo tra più discipline e saperi ‘diversi’ ed è da tale convinzione che nasce questo numero. Finestra allargata sul mondo antico sono i due saggi di apertura del primo volume, dove si propongono: un’analisi del ruolo della cultura fenicio-punica nelle più antiche manifestazioni figurative in terra d’Africa, nel territorio dell’attuale Nigeria; una rilettura iconografica del vaso a forma di astragalo decorato a figure rosse dal ceramografo ateniese noto come Pittore di Sotades, databile alla metà del V sec. a.C. Dall’antico al pieno Rinascimento ci traghetta la ricostruzione, che attinge a molteplici settori e categorie documentarie, del riuso avvenuto nel XVI secolo del Ninfeo di Egeria nella valle romana della Caffarella. In modo similare, l’analisi a tutto tondo del complesso di Santa Maria dei Raccomandati a Cittaducale getta un ponte dal tardo Medioevo al Novecento, passando per le numerose vicende storiche, religiose, architettoniche e artistiche dell’età moderna. Quest’ultima trova illustrazione in contributi eterogenei, che spaziano tra analisi di fonti e connoisseurship, documenti, epistolari e letteratura artistica. Al Cinquecento si riferiscono: l’indagine sulla figura di Tommaso de’ Cavalieri, nella sua rete di relazioni e ben al di là dell’esclusivo legame con Michelangelo; l’esegesi di un passo della biografia del pittore abruzzese Cola dell’Amatrice nelle Vite di Giorgio Vasari, allo scopo di indagare la concezione della figura femminile da parte dell’artista-storiografo aretino; la comprensione, attraverso lo studio dei registri di spesa pontifici, delle fasi di cantiere degli appartamenti di papa Paolo IV in Vaticano e del ruolo degli architetti Sallustio Peruzzi e Pirro Ligorio. Personalità artistiche di spicco sono esplorate nei contributi relativi al Seicento: i rapporti tra Gian Lorenzo Bernini e il cardinale Antonio Barberini, approfonditi grazie allo studio di scambi epistolari, che gettano luce anche su opere e contatti del grande scultore; i problematici affreschi di Pier Francesco Mola nella chiesa del Gesù, indagati attraverso il filtro di committenza e testimonianze documentarie.

EDITORIALE

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Il Settecento ondeggia tra Roma e Firenze: l’analisi critica della perizia, redatta a inizio secolo dal conoscitore e mercante di disegni padre Sebastiano Resta, sull’antica icona della Clemenza in Santa Maria in Trastevere; il carteggio tra l’incisore Filippo Morghen e il monsignore di casa Corsini Giovanni Gaetano Bottari, che consente di assegnare al primo un anonimo volume di stampe ‘di traduzione’ da Baccio Bandinelli, documentando la fortuna critica della scultura cinquecentesca nella Toscana di pieno Settecento; il ruolo dell’erudito, letterato e archivista fiorentino Domenico Maria Manni nel percorso che porta all’applicazione del metodo filologico alla storia dell’arte, attraverso l’ininterrotta fortuna critica di Michelangelo e delle fonti a lui legate. La cultura contemporanea è presente sotto differenti aspetti: l’indagine su episodi e questioni che, nella Roma di fine Ottocento, intrecciano ricerche archeologiche e tutela del patrimonio culturale con i meccanismi della diplomazia internazionale e le sue figure; la lettura storico-critica del ruolo femminile nel genere dell’autoritratto fotografico tra il XIX secolo e l’inizio del XX. Per chiudere con due figure di spicco della storia e della critica d’arte del Novecento: Giulio Carlo Argan con il suo ricco contributo e percorso nella critica d’arte degli anni Sessanta; Giovanni Previtali attraverso il suo impegno didattico, sempre intimamente connesso a quello di studioso.

Grazie al web, evidente è l’ampiezza del pubblico a cui si rivolge l’insieme degli interventi. È un invito esplicito: è proprio nel dibattito storiografico e metodologico, nel confronto-scambio tra tipologie di approccio anche molto distanti, nella consapevole rinuncia ad una sola chiave di lettura, nella complessità di una più vasta visione della ricerca storico-artistica, non soffocata in uno spesso asfittico iperspecialismo, che si cela il sentiero verso la miglior comprensione possibile di culture e ‘storie’ dell’arte, tanto del nostro remoto passato, quanto del più immediato presente. Francesco Grisolia

DIFFUSIONE CULTURALE FENICIO-PUNICA SULLE COSTE DELL’AFRICA ATLANTICA.

IPOTESI DI CONFRONTO

SIMONE CAPOCASA L’area costiera dell’Africa occidentale è stata interessata nell’antichità da una complessa rete di commerci marittimi, la quale garantiva il regolare flusso di preziosi metalli dai lontani paesi africani verso le città mediterranee. La necessità di approvvigionamento delle materie prime spinse i Cartaginesi a dare l’iniziale impulso a questo genere di traffico con lo sfruttamento delle fonti minerarie a sud del Sahara1.

1 I geografi greci erano probabilmente bene informati circa i traffici e le

merci esportate dai Cartaginesi lungo i litorali dell’Africa occidentale ma avevano notizie inesatte intorno ai prodotti che ricevevano in cambio, eccezion fatta per l’oro. Erodoto (IV, 196) testimonia di un commercio silenzioso per l’approvvigionamento dell’oro che i Cartaginesi instaurarono con alcune popolazioni indigene dell’Africa. Palefato (PALEFATO 1902, XXXI) confermerebbe il commercio prettamente basato sul reperimento dell’oro nell’isola di Cerne, affermando che gli abitanti dell’isola al di là delle

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Le navigazioni compiute dai Cartaginesi lungo le coste dell’Africa atlantica, avviate già verso la fine del VI sec. a. C.2, avevano dunque come finalità principale quella di assicurare alla marina e allo stato di Cartagine le rotte verso le risorse minerarie della regione mauretana di Akjoujt3, del Senegal4, della Liberia5 e della Nigeria6, nel tentativo di aprire una nuova via commerciale in alternativa ai più difficoltosi percorsi carovanieri attraverso il Sudan. La presenza attiva dei navigatori Punici oltre lo Stretto di Gibilterra non si è limitata tuttavia ad isolati e temporanei sfruttamenti delle risorse fondamentali. Questi contatti

Colonne d’Ercole coltivavano la Libia vicino al fiume Annon ed erano coperti d’oro. 2 La convinzione che le rotte delle navigazioni cartaginesi siano giunte sulle

coste dell’Africa centrale vengono avvalorate dalle considerazioni espresse dal resoconto greco del Periplo d’Annone (Codice Pal. Grec. 398 di Heidelberg, risalente al X sec. d. C.). 3 Vicino Akjoujt nel sud-ovest della Mauretania, rame grezzo era scavato e

fuso dal V secolo a. C. Contatti con il nord Africa possono essere dimostrati archeologicamente, suggerendo che il centro aveva avuto influenze tecnologiche derivanti dal Mediterraneo. Appare così che l’avvento della metallurgia in queste aree dovrebbe essere datato intorno alla metà del primo millennio a. C. (RAMIN 1976, pp. 35-38). 4 Le regioni di Kayes e del Faleme, nella terra del Bambouk, sono

considerate ancora oggi territori ricchi di oro (cfr. anche PLINIO IL VECCHIO

1977, V, 10). 5 In Liberia l’intera regione dominata dal Monte Nimba, vetta principale

dell’Africa occidentale, situata al confine tra Costa d’Avorio, Guinea e Liberia, è ricca di miniere di ferro. Questo territorio è facilmente raggiungibile attraverso il percorso in risalita di fiumi navigabili che giungono direttamente nell’Oceano Atlantico (patrimonio mondiale dell’Unesco dal 1981). 6 Intorno ad Agazed in Niger fornaci con un piano allungato erano usate per

fondere rame nello stesso periodo della già citata Akjoujt. Inoltre testimonianze di prime lavorazioni del ferro, nelle immediate latitudini Sub-Sahariane, vengono da Jenne-Jeno, nell’entroterra del delta del Niger nel Mali, datate agli ultimi due secoli a. C., quando l’uso degli strumenti di metallo poteva aver facilitato il primo sfruttamento da parte delle popolazioni coltivatrici della pesante creta dell’entroterra e delle coltivazioni del riso africano (PHILLIPSON 1993, pp. 173-175).

DIFFUSIONE CULTURALE FENICIO-PUNICA

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marittimi hanno esercitato, in ambito specifico, una compenetrazione e una diffusione di fenomeni culturali nei confronti delle comunità abitanti le regioni della fascia costiera dell’Africa occidentale, rappresentando una funzione di stimolo alla circolazione d’informazioni e tecnologia7. Testimonianze archeologiche dimostrano la diffusione della metallurgia, nei territori Sub-Sahariani, tramite l’utilizzo di metodi di lavorazione dei minerali grezzi attraverso l’inequivocabile presenza di processi estrattivi e di elaborati trattamenti del rame e del ferro8. La complessità della lavorazione dei metalli, la quale prevede la costruzione di forni in argilla per il processo di riscaldamento dei materiali ad alte temperature, richiedeva lo sviluppo di una sperimentazione antecedente della quale non è stata trovata testimonianza sulle coste dell’Africa centrale precedentemente alle navigazioni fenicio-puniche dell’Atlantico (fig. 1). La conquista della metallurgia per le popolazioni dell’Africa centrale avvenuta tramite la dipendenza dai contatti commerciali marittimi, convalida oltremodo la possibilità che questa influenza possa aver riguardato anche altre manifestazioni artistiche9. Le campagne di scavo in siti archeologici della

7 A livello tecnico, il raggiungimento di località estremamente lontane, come

il Golfo di Guinea, le coste della Nigeria, il Camerun od il Gabon, può considerarsi possibile. La documentata esperienza dei navigatori Cartaginesi e le qualità nautiche dei bastimenti, sperimentate direttamente sulle ricostruzioni in repliche moderne, hanno dimostrato la possibilità di una navigazione verso luoghi spesso molto distanti dalla località di partenza (a tal proposito si vedano gli studi di AA.VV. 1988, pp. 72-77: BARTOLONI 1973; BRIZZI, MEDAS 1999, pp. 8-18; CASSON 1994; JANNI 1981; JANNI 1988; JANNI 1998; LONIS 1978, pp. 147-170; MEDAS 1997; MEDAS 1999, pp. 57-76; MEDAS 2000, pp. 75, 61-81, 206-261; POMEY 1997, pp. 33-35; PRONTERA 1992; ROUGÉ 1966, pp. 65-66; ROUGÉ 1987, pp. 152-154. 8 L’inizio della metallurgia ebbe un impatto decisivo sul sistema di vita

africano pari all’avvento dell’agricoltura. Specialmente nelle latitudini Sub-Sahariane la lavorazione del ferro prese avvio in concomitanza a quella del rame e dell’oro (PHILLIPSON 1993, pp. 158-159). 9 I Cartaginesi avevano le capacità tecniche che permisero loro di arrivare

sulle coste del golfo di Guinea. Inversamente le grandi difficoltà che i

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Nigeria (fig. 2) hanno permesso di collegare, difatti, la lavorazione del ferro e lo sfruttamento dei depositi alluvionali di stagno10 con le prime espressioni di una produzione artistica di terrecotte figurate dell’originaria cultura nigeriana11. L’importante area territoriale occupata attualmente dallo stato della Nigeria, è stata la sede della più antica manifestazione di arte africana. Nel periodo concomitante alle prime testimonianze della diffusione delle conoscenze tecniche

percorsi carovanieri avrebbero dovuto sostenere durante l’attraversamento del territorio compreso tra il Sahara ed il Sudan rimarranno insormontabili fino all’introduzione del cammello nel II sec. a. C. (ARKELL 1966; LAW 1967; RUPP, AMEJE, BREUNIG 2005). D’altronde l’ipotesi della diffusione dei concetti di lavorazione del ferro verso la Nigeria attraverso la città di Meroe, geograficamente collocata sull’alto Nilo, è stata pienamente confutata dalle testimonianze della ricerca archeologica, le quali dimostrano che nessun materiale di derivazione meroitica è stato mai trovato ad ovest del Nilo (PHILLIPSON 1993, pp. 166-173). La stessa Cartagine non avrebbe potuto affrontare le difficoltà di un attraversamento del deserto, nonostante le relazioni economiche con il popolo dei Garamanti, i quali come afferma ERODOTO (1912, IV, 173) tra l’altro non erano un popolo di commercianti. L’alternativa del più sicuro e diretto percorso marittimo è molto più convincente. 10 Lo stagno è fra i metalli meno diffusi sulla crosta terrestre. Non si rinviene

in natura in forma metallica; ad eccezione della cassiterite e della stannite. La cassiterite rappresenta comunque l’unica forma certamente conosciuta in antico di questo elemento. (GIARDINO 1998, pp. 133-134). La cassiterite alluvionale rinvenuta in Nigeria è di norma assai pura, giacché gli altri componenti sono depositati durante il trasporto, mentre l’aria e l’acqua trasformano i solfuri in solfati solubili, che sono poi finiti disciolti. I depositi di questo tipo devono essere stati i primi ad essere sfruttati; gli antichi cercatori ottenevano la cassiterite per lavaggio (panning), come facevano per l’oro, sfruttando l’alto peso specifico (GIARDINO 1998, p. 140). 11 In alcune siti meridionali della Nigeria, le prime evidenze di lavorazione

dei metalli sono lontanamente conosciute e associate con le più eleganti espressioni di arte fittile della cultura nigeriana trovata in una ristretta area nei meridionali e occidentali pendii dell’Altopiano di Jos e dei Monti Kwatakwashi in Nigeria oltre che nell’attuale Stato del Ghana (COULIBALY 1993, p. 337; DARLING 1984, pp. 15-33; DORAN 1977, pp. 89-98; EYO-EKPO, WILLETT 1980, p. 6; FAGG 1968, pp. 27-30; FAGG 1977, p. 39; PARIS, PERSON, QUECHON, SALIEGE 1992; PHILLIPSON 1993, p. 173; PRIDDY 1970; WILLETT 1984).

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metallurgiche, la documentazione di numerose statuette fittili rinvenute negli scavi sul territorio nigeriano attesta la chiara rivelazione di un momento espressivo nuovo12. Questi rinvenimenti pertinenti le terrecotte figurate della cultura Nok, potrebbero considerarsi in senso stretto come la trasmissione d’ideologie e di forme artistiche, le quali ricondurrebbero a un coinvolgimento diretto di questo territorio dell’Africa centrale con traffici commerciali attinenti sempre all’egemonia cartaginese nell’Atlantico13. I dati per la ricostruzione di eventuali comunicazioni, provengono dall’indagine dei metodi di produzione, delle conoscenze tecnologiche impiegate e dal confronto iconografico all’interno dell’area geografica della popolazione dei Nok, nella quale sono state attestate rilevanti testimonianze fittili risalenti al periodo classico (500 a. C. - 200 d. C.) 14.

12 La maggior concentrazione di testimonianze fittili è stata rinvenuta in

Nigeria nei depositi alluvionali in associazione con i minerali di stagno nell’area geografica che si estende da Katsina Ala nel sud-est, fino al territorio di Sokoto, località situata a nord-ovest, ma soprattutto in quelle aree intermedie più rappresentative delle scoperte tra Kuchamfa, Jemaa e Nok City (LAVACHERI 1954, pp. 24-25, 71; SWEENEY 1964; FAGG 1969-1970, p. 44; FAGG 1977, p. 17; DE GRUNNE 1998, pp. 16-18). 13 Le terrecotte Nok sono l’espressione di un’arte complessa e sofisticata, la

quale non può essere stata elaborata indipendentemente, senza una qualsiasi forma di evoluzione culturale precedente. Persino le sculture in terracotta più antiche, sono esteticamente sofisticate e create con grande maestria tecnica (ELISOFON 1958, p. 58; FAGG 1962, pp. 1-11; LEIRIS, DELANGE

1967, p. 35; LAUDE 1973, p. 38; DORAN 1977, pp. 89, 91-93, 95-98; EYO-EKPO, WILLETT 1980, pp. 3-7; PHILLIPSON 1993, pp. 176-177; FAGE 1995, pp. 17-18, 100-103). 14 Le prime cronologiche proposte sui 156 reperti in terracotta figurata della

cultura Nok, eseguite, tramite l’indagine al radiocarbonio, sul legno ritrovato negli strati in cui erano state rinvenute le sculture, testimoniano che la cultura Nok si sviluppò dal VI sec. a. C. al 200 d.C. (BARENDSEN, DEEVEY, GRALENSKI 1957, pp. 908-919; DE GRUNNE 1998, p. 16; EYO-EKPO, WILLETT 1980, pp. 3, 26; FAGG 1965; FAGG 1977, pp. 19-22; FAGG 2005; FLEMING, FAGG 1977, p. 55; JEMKOUR 1992, p. 69; MARCHAL 1992; RENFREW, BAHN 1995, pp. 127-8).

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La semplicità della produzione delle terrecotte figurate lasciava la possibilità ad un’ampia estensione di questa categoria artistica. L’influenza esercitata dai Punici deve aver avviato un veloce processo di assimilazione di tecniche artistiche in seguito sviluppate autonomamente dagli artisti locali15; queste cognizioni hanno influenzato l’aspetto tecnico e funzionale di tali tipologie, e solamente in parte l’aspetto iconografico, permettendo alla popolazione Nok di indicare il proprio stato sociale attraverso l’uso e l’ostentazione dei più raffinati prodotti fittili16. L’argilla, che necessita solo di un processo di depurazione e di cottura per ricavarne oggetti plastici eseguiti a mano o al tornio, costituì un elemento fondamentale adatto a rappresentare l’ideologia di queste comunità africane, le quali fino a quel momento avevano raffigurato la propria simbologia sociale attraverso materiale deperibile come il legno o difficilmente plasmabile come la pietra17. Tutte le testimonianze fittili della scultura Nok, eccetto qualche pendente in miniatura, erano modellate in forma cava, con una grande quantità di aperture. Questo trattamento avrebbe aiutato indubbiamente la creta ad asciugarsi completamente, e migliorare le operazioni di riscaldamento18. La loro origine è

15 L’ipotesi che avvalora l’apprendimento dei nativi nigeriani dei metodi

fondamentali della lavorazione delle figure fittili è sostenuta dalla teoria che ammette l’introduzione costiera delle tecniche metallurgiche attraverso installazioni di empori per ragioni economiche (DORAN 1977, p. 98). 16 Nel passato gli studiosi hanno connesso la diffusione di queste

manifestazioni artistiche con espansione delle popolazioni bantu, suggerendo l’esistenza di un linguaggio proto-bantu nella piana di Jos (FAGG 1956, p. 89; PHILLIPSON 1977; WILLIAMSON 1993). Tuttavia recenti ricerche hanno mostrato che i proto bantu non fondevano o utilizzavano il metallo (VANSINA 1995, p. 189). 17 Le figure fatte a mano sono costruite con creta locale mescolata a

materiale arenario fatto di roccia di ghiaia decomposta con piccoli inclusi di quarzo. Questo tipo di materiale risulta avere una resistenza straordinaria, precisamente la consistenza adeguata per le realizzazioni coroplastiche e per le operazioni di ingubbiatura (DE GRUNNE 1998, p. 20). 18 Le sculture fittili venivano riscaldate nelle fornaci ad una temperatura che

raramente superava gli ottocento gradi centigradi inserendo un semplice palo

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spesso ignota, ma verosimilmente adornavano templi, o altri luoghi sacri. Figure complete sono rare, i frammenti delle teste delle sculture Nok erano una volta parte di corpi interi. In diversi casi tuttavia è stato possibile valersi di rinvenimenti di testimonianze complete, le quali hanno dato l’opportunità di documentare le differenti posizioni adottate nella rappresentazione formale di tali reperti, ovvero erette in piedi, sedute, o in posizione inginocchiata19. Le teste delle terrecotte dei Nok sono proporzionalmente più grandi dei corpi; si cerca di spiegare questo apparente squilibrio attraverso un’enfasi attribuita alla testa nella tradizione del simbolismo dell’arte africana che dimostrerebbe il rispetto per l’intelligenza umana20. Questo canone dove l’altezza della testa era usata come una pietra di paragone standard ripetuta tre o quattro volte per il totale dell’altezza di alcune rappresentazioni umane viene stabilito concretamente dagli artisti Nok più di 2500 anni fa. L’elaborazione di regole prestabilite per la produzione artistica delle dimensioni delle statue, attraverso una serie di suddivisioni delle misure geometriche, moltiplicando e dividendo una singola unità fissa, raccoglie l’eredità dei caratteri artistici delle civiltà superiori mediterranee21. Il canone Nok

di legno ricoperto di erba, ramoscelli e foglie secche; l’arte ceramica era sempre pre-riscaldata per assicurarsi che la creta fosse completamente asciutta. Le sculture Nok di maggiori dimensioni erano costruite con una struttura interna di legno la quale veniva carbonizzata durante la cottura della creta. La struttura centrale doveva supportare l’intero torso con laterali proiezioni verso i lembi e la testa e doveva essere carbonizzata durante la fase di cottura (FAGG 1977, p. 21; EYO-EKPO, WILLETT 1980, p. 27). 19 DE GRUNNE 1998, pp. 20-22, e fig. a p. 25.

20 La produzione fittile dei Nok seguiva una normativa stilistica prestabilita.

Mentre nella natura, le oggettive proporzioni della testa rispetto all’intero corpo sono in un rapporto di uno a sette, nelle terrecotte Nok, esso è tra uno e tre ed uno e quattro. W. Fagg è il primo storico dell’arte dell’Africa Sub-Sahariana a chiamare questo canone «la proporzione dell’Africa» (ELISOFON 1958, pp. 18-25, 58; FAGG 1977, pp. VII-XX). 21 L’interesse religioso legato alla raffigurazione della testa dispone di un

percorso cronologico molto ampio anche in ambiente punico giungendo fino al periodo ellenistico. Uno degli argomenti più convincenti in favore

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appare come il primo ad essere stato stabilito nell’Africa centrale, dal momento che la sua semplicità ha permesso che questo fosse il più esteso ordinamento artistico usato in tutta la scultura africana, diffondendosi negli stili di molte culture dell’Africa occidentale e centrale22. La valutazione comparativa tra le terrecotte figurate fenicio-puniche e alcune delle tipologie di sculture Nok, rivela la presenza di alcune differenze iconografiche unita ad una chiara concordanza nelle conoscenze tecniche. In particolare una tipologia specifica sulla quale si pone l’attenzione è rappresentata da quelle figure in terracotta nigeriane del VI-III sec. a. C., le quali mostrano l’evidenza di essere state prodotte utilizzando una tecnica propria della ceramica vascolare23, presentando un corpo a pilastro lavorato probabilmente al tornio con orlo espanso in basso (figg. 3-4)24: l’interno dei reperti raramente risulta essere levigato, e spesso sopravvivono impronte digitali25. In queste sculture la testa è modellata come un pezzo solido separato e poi applicato all’interno del collo della figura cava (fig. 5)26. Le parti

dell’ispirazione punica del simbolismo della testa nella cultura Nok è legato alla specifica funzione che alcune tipologie coroplastiche assumono nel Mediterraneo occidentale e sul significato da attribuire loro: difatti, si può pensare che la riproduzione in terracotta di protomi e maschere puniche, in cui si ha una trasformazione in funzione votiva, abbia avuto alla base un’ideologia religiosa legata appunto al culto della testa (GARBINI 1980; AA. VV. 1988, pp. 358-369; CIASCA 1991, pp. 9-15). Le terrecotte figurate, le protomi e le maschere come espressioni artistico-simboliche di una società racchiudono numerose polivalenze, le quali vengono mantenute nel passaggio da un gruppo ad un altro (LEVI STRAUSS 2000, p. 41). 22 DE GRUNNE 1998, pp. 49-50.

23 Nell’arte del popolo Nok non si ravvisano necessariamente delle

differenze tecniche tra la lavorazione delle terrecotte e delle ceramiche (EYO-EKPO, WILLETT 1980, p. 27). 24 FAGG 1977, figg. 19, 108.

25 La selezione della tipologia adottata e la scelta dei caratteri utilizza come

tecnica principale la lavorazione al tornio con elementi aggiuntivi liberi modellati a mano (FAGG 1977, p. 21). 26 FAGG 1977, fig. 47.

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caratterizzanti, come i lembi, erano modellate separatamente mediante plasmatura a mano ed insieme con molti dei dettagli di superficie indicanti i riferimenti sessuali, come pene e seni, erano compiuti e poi adattati alla figura principale27. Le braccia, che costituiscono con le loro amplissime variazioni una caratteristica primaria di questa produzione, erano completamente libere dal corpo, aggiunte posteriormente venivano articolate in modo da indicare i punti fisici dove la malattia aveva sede, proponendo la teoria che le figurine fossero ex voto; dove queste sono state rotte, ci sono frequentemente indicazioni di segni o scanalature. Nelle terrecotte femminili spesso l’atteggiamento delle braccia che convergono verso il petto a sostegno di un bambino ripropongono un classico atteggiamento simboleggiante la richiesta di guarigione di un figlio, iconografia molto diffusa anche nel bacino del Mediterraneo (fig. 6). Questa tipologia di sculture in terracotta con corpo modellato in forma di pilastro testimonia l’esistenza in Nigeria, a partire dal VI sec. a. C. di una classe di figure fittili diffuse anche a Cartagine, a Mozia ma soprattutto ad Ibiza (figg. 7 e 8) durante lo stesso arco temporale, di cui sono evidenti gli archetipi palestinesi e ciprioti28 (fig. 9).

27 Esempi discriminanti notevoli sono rappresentati da quelle sculture fittili

rinvenute con i lembi separati dove la testa modellata come un pezzo solido era in seguito inserita nel collo della figura cava lavorata a spirale (FAGG

1977, fig. 47). In altri esempi provenienti da Kuchamfa il corpo umano era reso in una semplice maniera, nella forma di un semplice cilindro, qualche volta allargato verso la fine (DE GRUNNE 1998, pp. 52-57, figg. 15-17). 28 In ambito punico la Spagna occupa un posto del tutto singolare nello

sviluppo della coroplastica per la massiccia concentrazione della produzione, a partire dal VI sec. a. C. e fino a tutto il II, nell’isoletta di Ibiza ( AA. VV. 1988, pp. 328-353; BISI 1973; ACQUARO 1978, pp. 184-209). Si può affermare che nel centro delle Baleari sono rappresentate, con uno svariatissimo spettro di soluzioni originali dovute alla fervida inventiva dei coroplasti locali, tutte le principali tipologie correnti nel mondo punico. Provengono da Ibiza e Isla Plana gli ex voto dal corpo lavorato al tornio di età tardo arcaica (VI-V sec. a. C.), simili a quelli di Cartagine e Mozia (CIASCA 1964; CHERIF 1997). Le terrecotte figurate ibicenche sono rappresentate sia dal tipo a

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Più complessa ancora si presenta la lavorazione del viso. Alcuni elementi decorativi caratteristici presenti nelle sculture dell’arte Nok si possono perfettamente accostare a soluzioni tecniche e stilistiche proprie della coroplastica punica, la quale plausibilmente ha influenzato le peculiarità ornamentali delle opere prodotte dagli artisti nigeriani. Considerando attentamente il modo in cui sono trattati gli occhi nelle sculture Nok, si può notare come essi siano rappresentati attraverso l’applicazione di triangoli o segmenti di cerchio, mentre le sopracciglia arcuate controbilanciano la curva della palpebra inferiore, formando talvolta un cerchio completo: gli occhi, la bocca, ma soprattutto il naso sono forati, quest’ultimo probabilmente conservando quel gusto tipicamente punico per l’aggiunta di oggetti di abbellimento. Le orecchie sono collocate in modo antinaturalistico o accennate da semplici perforazioni all’angolo della mascella, o addirittura nella parte posteriore del cranio (fig. 10). Vi sono anche teste bifronti. L’incisione a stecca consente la profusione dei dettagli di abbellimento ornamentali attentamente eseguiti sui corpi delle figure. Le acconciature elaborate dei capelli permettono di dedurre la provenienza da una società ben strutturata e presumibilmente gerarchica, basata su un’agricoltura progredita, su un solido ordinamento e con un’arte evoluta. I lembi sono adornati liberalmente con braccialetti, collane, catenine da caviglia e cinture. Grappoli voluminosi di piccole perline o fibre intrecciate, drappeggiati come collane spesse sono particolarmente comuni. Grandi collane di rosari, specialmente di quarzo e altre pietre sono state trovate in associazione con le terrecotte nei depositi di estrazione. Alcuni dei braccialetti e

corpo campanato sia dal tipo a corpo ovoidale. Bisogna tuttavia considerare che una funzione importante nella trasmissione di queste categorie fenicie ai centri coloniali dell’occidente è svolta da Cipro, a partire dall’VIII sec. a. C. Quest’ultima mostra figure nude o vestite con le braccia poste sotto i seni o recanti un’offerta; ovvero di timpanistrie con lo strumento poggiato sul petto o sostenuto di lato nella variante di statuette con corpo al tornio ed i particolari aggiunti con plasticatura a mano (GUBEL 1991; SCHEURLEER 1991; SERWINT 1991; YON 1991).

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catenine da caviglia sembrano essere stati intrecciati ed alcune delle cinture presentano una forma torta, possibilmente fatte di cuoio o fibre. Anelli di solito semplici sono mostrati, sulle braccia e sulle gambe, in maniera sempre più elaborata. In sostanza una tecnica assai varia, che utilizza ogni possibile elemento differenziante e insiste su ogni possibile particolare29. L’applicazione di queste decorazioni sui corpi delle terrecotte figurate Nok rappresenta l’unico aspetto diverso rispetto alla produzione fittile nell’ambiente fenicio-punico, sia Occidentale che Orientale, la quale privilegia soprattutto la lavorazione della testa30 (figg. 11-12). Il gusto ornamentale eccessivo espresso sui corpi delle terrecotte Nok sembra invece derivare da un repertorio piuttosto stereotipato di un’altra tipologia artistica punica, dalla quale viene ripreso quel gusto per la realizzazione delle caratteristiche figurative generali. Sembra potersi

29 La cultura Nok attesta nella propria scultura in terracotta un uso di

caratteristiche ornamentali ed espressive che si dispiega in tutta la sua ampiezza nei complicati motivi decorativi incisi a stecca sui corpi, nell’applicazione sovrabbondante e barocca delle capigliature e degli elementi di adorno personale (FAGG 1977, p. 28, nota 22; MEEK 1925). Una varietà di tecniche è stata usata per evidenziare i dettagli nelle diverse sculture. Non solo c’erano teste e qualche volta lembi lavorati separatamente, ma anche molti degli ornamenti superficiali, trecce di capelli, perline, collane e braccialetti furono eseguiti e successivamente applicati alle figure principali. L’esame di queste sculture rivela procedimenti di realizzazione dei particolari figurativi delle terrecotte, attraverso libere lavorazioni a mano sull’argilla ancora cruda e morbida dell’oggetto. I ritocchi riguardavano i particolari di rifinitura fisici del volto o dell’acconciatura, apportando anche delle aggiunte a mezzo di applicazioni di listelli o piccoli nuclei di terracotta secondo la tecnica del pastillage. Nelle terrecotte figurate nigeriane inoltre non c’è nessun pezzo che possa dirsi uguale o strettamente analogo a un altro (DE GRUNNE

1998, p. 20; FAGG 1977, pp. 21-22). 30 Le sostanziali variazioni artigianali che si riscontrano con l’arte fenicio-

punica si ravvisano soprattutto nelle ornamentazioni del tronco del corpo lavorato al tornio, il quale in ambiente mediterraneo non risulta essere mai decorato a rilievo. Nelle terrecotte difatti le gambe non sono modellate, i piedi qualche volta appaiono all’estremità del cilindro e l’unica decorazione fisica riguarda gli organi sessuali. La sola parte che è pienamente modellata è la testa.

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ipotizzare un richiamo al tipo, documentato nell’ambito del Mediterraneo occidentale, della figura femminile modiata a stampo caratterizzata da un ampio velo a conchiglia, da una veste riccamente panneggiata e soprattutto da una collana a più file di granuli variamente configurati riscontrabili in ambiente siceliota ed iberico31. Nella maggioranza dei casi i dettagli delle sculture sono stati creati aggiungendo degli elementi alla struttura fondamentale, ma alcuni casi rari mostrano che gli artisti erano anche capaci di una scultura di riduzione, rimuovendo parti sostanziali di creta da una forma iniziale, mentre le caratteristiche di plasticità e di decorazione furono realizzate da incisioni relativamente profonde. Durante il corso dei secoli il deterioramento delle terrecotte Nok ha causato un decadimento della superficie ingubbiata, rivelando il loro aspetto granuloso esteriore che mostra la qualità grezza della creta di fondazione. La superficie finale liscia era realizzata con l’applicazione di una passata di ocra in una soluzione miscelata con ciottoli carbonizzati. Allo stato attuale delle ricerche non sembra attestato l’impiego della pittura. La seconda tipologia presa in considerazione è caratterizzata da figure in terracotta con corpo ovoidale. Queste sculture rispecchiano uno stile periferico dell’arte Nok, il quale ha un’esatta provenienza geografica dall’area nord-occidentale della Nigeria, ovvero Katsina, Sokoto, Yelwa (con testimonianze anche a Jemaa, Taruga), ed una precisa attestazione cronologica che scende fino al III sec. a. C.32 La figura umana di questo stile emerge sempre dalla cima dei vasi globulari, mentre i loro corpi sono appena modellati con dei piccoli lembi. Le statue complete

31 BISI 1973; BISI 1988; BLAZQUEZ 1973; MOSCATI 1990, pp. 50-57, 106-

127; UBERTI 1997, pp. 9-28. 32 Nei siti di Yelwa, Sokoto e Katsina sono state rinvenute oltre a figure con

corpo ovoidale anche delle terrecotte figurate con corpo campanato, sempre datate al III sec. a. C. (LEHUARD 1993, p. 59; SHAW 1978, p. 97; WILLETT 1997).

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mostrano un’identica posizione con le piccole gambe piegate e le mani stanti sulle teste delle ginocchia (figg. 13-15). Diversamente dalla complessità dei capelli documentati sulle figure provenienti dalla Nigeria centrale, le acconciature del tipo ovoidale sono sempre delle sferiche scatole craniche. Anche gli occhi sono trattati in una differente maniera, questi ultimi sono semplicemente una lunga fenditura orizzontale al di sopra delle palpebre. Si dovrebbe anche sottolineare l’assenza di ogni forma di lavorazione a stecca per le decorazioni ornamentali di collane o gioielli. L’economia delle figure, sia maschili che femminili, si mostra vincolata da problemi di proporzione e di naturalezza; gli artigiani sembrano curare soprattutto la fattezza del volto e la resa dei particolari anatomici degli organi genitali, trattati spesso con un gusto veristico. Il mezzo per realizzare queste soluzioni è il continuo ricorso alla plasmatura e all’applicazione di placche aggiuntive di argilla; la perforazione e la steccatura divengono espedienti integrativi, non sostitutivi di quelle, e comunque sempre secondari33. Anche queste botteghe nigeriane appartengono ad un ambiente che culturalmente potrebbe dipendere dalle correnti commerciali mediterranee. Le sculture Nok possono essere giustamente accostate, per quanto concerne le soluzioni tecniche e stilistiche, sia alle più antiche terrecotte figurate della Spagna (figg. 16-17) sia alle contemporanee testimonianze della Sardegna. In quest’ultimo caso in particolare i reperti della stipe votiva di Bitia (fig. 18-20), mostrano un notevole attardamento riguardo alla produzione di queste figure fittili rispetto al mondo punico, arrivando ad una datazione del III sec. a. C.,

33 In questi siti, sempre in concomitanza alle figure con corpo ovoidale, si

rinvengono quasi esclusivamente figurine maschili e femminili dai corpi campanati fatti a mano con le teste lavorate a parte che, nei tratti facciali e nella decorazione, si mostrano assai vicini ai prototipi punici (DE GRUNNE 1998, figg. 8, 56-57, 60-61).

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confermando l’eccezionale parallelismo con la produzione nigeriana34. Un aspetto rilevante riveste anche la trasmissione di alcuni motivi iconografici fortemente tradizionali. Notevole risulta l’omogeneità conservativa attraverso il tempo e lo spazio di alcune immagini, che costituiscono l’elemento distintivo meglio percettibile e più significante diffuso dai punici in ambiente nigeriano. Nella produzione fittile nigeriana appare un’immagine importantissima, la quale non lascia dubbi circa la sua provenienza: quella della figura femminile frontale con mani al petto nel semplice atto di stringersi i seni. L’immagine femminile descritta è una delle figure che compare in maniera più esplicita nell’iconografia delle terrecotte nigeriane. Esaminando gli esemplari rinvenuti a Taruga (figg. 21-22) e Kuchamfa (figg. 23-24)35 si rivela agevolmente l’identità

34 Il diffondersi di tali influenze è ampiamente documentato in occidente

dalla coroplastica cartaginese del III sec. a. C. proveniente dai tofet attestati in Sardegna. In questi ultimi si rinvengono quasi esclusivamente figure maschili e femminili dai corpi a profili campanati torniti come quelli di un vaso e dalle teste modellate a parte che si mostrano assai vicini alle testimonianze Nok. Ancor più notevole è l’importanza delle figurine al tornio trovate in particolar modo a Bitia, la quale è tra gli altri il centro notevolmente più ricco (occorre aggiungere altre figurine trovate a Nora, a Tharros, a Narbolia, a Monte Sirai, nonché conservate nel Museo di Oristano) dove sono documentate le due varietà di figure fittili a corpo campanato e a corpo ovoidale che ritroveremo ad Ibiza, ma rispetto a quest’ultimo centro la gamma di soluzioni tecniche e stilistiche offerte dai volti, plasmati a mano e integrati da ritocchi a stecca, e delle braccia atteggiate ad indicare le parti del corpo risanate o per le quali si implorava la guarigione, è enormemente più ampia (AA. VV. 1988, pp. 328-353; BISI

1973; ACQUARO 1978, pp. 150-184; MOSCATI 1972, pp. 335-359; UBERTI 1973, pp. 44-45; UBERTI 1997; TORE, GRAS 1976, pp. 89-90). 35 FAGG 1977, figg. 22-26; DE GRUNNE 1998, pp. 54-57. Altri due esemplari

di figurine in terracotta con corpo campanato e con mani appoggiate sui seni, sono state trovate nelle miniere nel corso di prospezioni per il ritrovamento dello stagno e della tantalite in una remota valle vicino al villaggio di Takushara, a circa trentaquattro miglia a sud est di Abuja. Taruga è situata approssimativamente nel centro della zona meridionale della

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iconografica con gli esemplari punici36, pur essendo il materiale nigeriano limitato ad un numero relativo di reperti. Le caratteristiche principali sono il trattamento pieno del viso, la bocca atteggiata ad un lieve sorriso, l’elaborata realizzazione delle acconciature, che in entrambe le culture delimitano lo spazio della fronte attraverso linee nette, ma soprattutto l’articolazione di entrambe le braccia che si distendono parallelamente ai corpi fino all’altezza dei gomiti per poi ripiegarsi con l’avambraccio e le mani verso i seni. Questa testimonianza dimostra di essere partecipe di un fenomeno che può definirsi come la diffusione di una «cultura d’immagine»37, capace di trasporre i motivi iconografici dalla lavorazione punica a stampo alla lavorazione a mano della cultura Nok, e considerarsi il riflesso di un artigianato colto. La dea della fecondità è un’immagine che affonda le sue radici formali e concettuali nella preistoria, si diffonde nell’ambito Vicino-Orientale della cultura fenicia e in seguito s’irradia in tutta l’area mediterranea (figg. 25-26). L’identità iconografica implica un’identità iconologica; dunque anche nel caso delle terrecotte

Guinea, nel gruppo di colline che sono tagliate dal fiume Takushara, il quale fluisce in direzione ovest verso il fiume Grana, un tributario del Niger (FAGG 1969-1970, p. 46; per ulteriori immagini cfr. anche fig. 8; FAGG 1977, fig. 42). Un esemplare, attentamente collegato al terzo strato, in seguito provvide a determinare una datazione al radiocarbonio del 280 a. C. (FAGG 1965; TITE 1966; SHAW 1967, pp. 175-194; KENDAL 1969-1970). 36 Si possono riscontrare in ambito punico numerose attestazioni di questa

simbologia artistica. Il miglior esemplare di questa iconografia si attesta su una statuetta stampata di Nora del tipo della dea stante, nuda, in atto di premersi i seni, recante sul capo un diadema e un manto che scende lungo la parte posteriore del corpo; la datazione viene posta al VI sec. a. C. Non v’è dubbio che questa iconografia si riporti a modelli orientali, come nell’esemplare di statuetta femminile sempre con mani ai seni di Akziv, datato all’VIII-VI sec. a. C. (AA. VV. 1988, pp. 328, 339; BISI 1988; MOSCATI

1972, pp. 335-359; MOSCATI 1990, pp. 104, 165). 37 Concetto espresso da S. Moscati per esprimere la diffusione iconografica

dell’immagine femminile dal Mediterraneo orientale a quello occidentale (MOSCATI 1990, pp. 101-103).

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Nok la natura divina dell’immagine è attestata dalla conoscenza delle testimonianze puniche. Nell’ambito dei motivi iconografici minori, altri aspetti caratteristici dell’iconografia punica si diffondono anche in alcune decorazioni maschili. In tale contesto un caso significativo è quello di un’iconografia che compare solo e secondariamente in area mediterranea, ovvero l’idolo a bottiglia, il quale potrebbe essere paragonato ad una tipologia di decorazioni virili molto attestata nella Nigeria antica, che viene documentata come pene foderato (fig. 27). Delle tre tipologie di pene presenti nelle sculture Nok una in particolare, quella riproducente la forma di un cono allargato nella parte bassa (fig. 28) sembra indicare un confronto dialettico tra iconismo ed aniconismo, ma difficilmente tale iconografia nigeriana si potrà attribuire a un’autonomia originaria locale. Laddove è verosimile che il paragone con la rappresentazione dell’idolo a bottiglia tipico della cultura punica si costituisca, si ipotizzerà l’incipiente simbolismo della fertilità derivato dalla geometrizzazione della donna, come già attestato in ambito punico38.

38 Le più antiche, ma anche le più grandi ed elaborate statue maschili

mostrano complessi peni foderati che probabilmente rappresentavano i simboli dell’importanza di capi o alti dignitari. In uno studio comparativo molto interessante sui peni foderati della cultura mondiale, lo storico dell’arte P. Ucko illustra tre tipologie di peni foderati della piana di Jos, che ora appartengono al Pitt Rivers Museum ad Oxford (UCKO 1969, pp. 27-61). I vari tipi rappresentati sono: il primo un cono allargato nella parte bassa, il secondo un semplice cilindro e il terzo un cilindro ristretto verso la fine (FAGG 1977, p. 30, nota 23; DE GRUNNE 1998, pp. 20-22; BOULLIER 1999, pp. 98-113). Le ricerche compiute da J. Baines congetturano qualche positiva connessione di queste simbologie nigeriane con il più antico ankh egiziano (BAINES 1975). Riferendosi al simbolo egiziano, lo studioso indica che la maggior parte degli esempi sono mostrati sulle divinità minori, figure della fecondità, ed enfatizza che anche i peni foderati non dovrebbero essere considerati una visualizzazione del significato sessuale ammesso esplicitamente, ma piuttosto come un simbolo di vita. Sempre verso una diffusione dalle aree nord africane si indirizzano altre ricerche, le quali riscontrano le più vicine rappresentazioni di questo tipo di abbigliamento in ambiente libico-egiziano (PHILLIPS 1995, fig. 1.22, p. 69).

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Una serie di osservazioni integrative, intese a chiarire aspetti particolari della cultura Nok, va fatta ancor prima delle valutazioni conclusive. Un’altra categoria distintiva dell’arte punica che sembra essere stata adottata in ambiente nigeriano è rappresentata dalla tipologia delle miniature. Questa categoria artistica a sua volta può essere suddivisa in due sottogruppi: quella dei pendenti e quella delle piccole statuette, entrambe essenzialmente rappresentazioni miniaturistiche in terracotta o in pietra lavorate a mano, di statue di grandezza maggiore. Gli amuleti pendenti presentano molto spesso un’iconografia omogenea di una miniatura di personaggio maschile generalmente perforata sul retro, sfruttando l’angolo che il braccio, sollevato verso l’alto, forma con la testa e con il corpo per il passaggio di un laccio probabilmente di cuoio (figg. 29-31). Diversamente l’elemento distintivo delle statuette è piuttosto riscontrabile nelle immagini che riproducono l’accostamento di due esemplari maschili ritratti in atteggiamento stante o seduto, simili all’aspetto di betili affiancati (fig. 32) o in singole fisionomie mostruose come le sfingi39 (fig. 33).

39 La giustapposizione di parti umane e animali nelle iconografie puniche è

un fenomeno largamente noto nella miniaturistica degli amuleti. La possibilità di combinare diversi elementi in un’unica iconografia attinge spesso negli amuleti di divinità totemiche zoomorfe ad una serie di valori figurativi, sia antropomorfi sia zoomorfi, che si integrano fra loro senza preclusione di ruoli e con libera interazione dall’una e dall’altra iconografia (AA.VV. 1988, pp. 394-403; ACQUARO 1978). Analoghe sono le commistioni zoomorfe che si verificano nella cultura Nok nel tipo della sfinge umanizzata. Questa straordinaria composizione creativa rappresenta l’evidente passaggio di elementi mitologici mediterranei nell’Atlantico. La statua in esame mostra un corpo leonino con una testa e collo umani; queste particolarità antropomorfe si osservano anche nelle zampe, le quali rivelano le fattezze di piedi con dita ben evidenziate. La testa umana di questa figura è semplicemente straordinaria: le caratteristiche facciali sono tipicamente Nok nello stile, specialmente nel trattamento di occhi, sopracciglia, naso e pettinatura (FAGG 1977, pp. 33-35; DE GRUNNE 1998, pp. 26-28).

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Entrambi questi oggetti erano probabilmente usati come feticci i quali venivano portati ed indossati durante i viaggi dai loro proprietari (fig. 34), rappresentando un altare portatile40. Un’altra congettura sull’uso di queste miniature potrebbe essere ammessa sostenendo l’ipotesi della funzione di modelli artistici che essi avrebbero adempiuto, ricoprendo il ruolo di prototipo per gli artigiani locali, sollecitando la diffusione artistica di alcune iconografie tradizionali41. L’esistenza di questi modelli può spiegare la larga distribuzione dello stile culturale Nok durante un migliaio di anni in tutto il territorio della Nigeria42. Concludendo si può sostenere che queste terrecotte africane potrebbero costituire esempi di trasmissioni di prerogative artistiche, ponendosi come testimonianze più qualificanti della diffusione della cultura fenicio-punica. È comprensivo dedurre che nel contatto tra due popolazioni la dipendenza e la soggezione culturale interesseranno soprattutto la civiltà secondaria; tuttavia nel momento del trasferimento di alcuni aspetti artistico-sociali, questi devono essere considerati come già alterati dall’influenza delle tradizioni che incontrano, divenendo quindi una combinazione di due culture e mai più identici a se stessi.

40 La ripresa e la rielaborazione delle tipologie amuletiche nella cultura

nigeriana sono l’espressione più significativa della capacità che l’arte punica ebbe di incidere con i suoi valori simbolici non solo nel Mediterraneo, ma anche nelle più remote regioni dell’Africa centrale. L’adozione delle miniature, sia nella sua valenza simbolica legata al culto religioso, sia nella sua funzione di modello artistico, individua la portata di questa influenza che manifesta le sue origini nell’ambiente siro-palestinese (MOSCATI 1972, pp. 371-380; BARTOLONI 1973). 41 EYO-EKPO, WILLETT 1980, p. 27.

42 Il frequente rinvenimento di amuleti pendenti e di piccole statuette nei siti

indagati della Nigeria, è il più evidente e notevole documento della diffusione che l’arte fenicio-punica potrebbe aver avuto sulla cultura Nok. Forme d’arte che per le loro caratteristiche di facile trasportabilità si prestano ad una maggior diffusione, la quale trova riscontro in oggetti d’imitazione locale africana (DE GRUNNE 1998, pp. 24, 66-67, figg. 24-25, pp. 84-89, figg. 41-47).

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La realistica possibilità di essere alla presenza di un significativo sistema d’interazione sociale instauratosi in queste estreme regioni del mondo in epoca classica, non deve tuttavia far presupporre di avere svelato l’esistenza di traffici commerciali organizzati attraverso un regime di ‘dominanza’ che i Punici adottarono nei confronti delle popolazioni dell’Africa centrale. La soluzione alternativa è quella di considerare la completa indipendenza delle popolazioni indigene africane: la quale, difatti, può essere constatata dall’indiscussa autonomia delle componenti simboliche, rintracciate nella documentazione fittile rinvenuta in Nigeria. L’analisi dettagliata di queste due tradizioni artistiche parallele può apparire diversa sotto molti aspetti, ma allo stesso tempo mostra l’innegabile condivisione di una comune forma di tecniche espressive. Al contempo l’ispirazione ai temi punici, per le culture nigeriane, non costituisce un elemento di rottura rispetto al passato, bensì un fattore di continuità con le connotazioni locali e la tradizione che si afferma come distintivo perché non compare ugualmente altrove.

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Didascalie Fig. 1. Principali siti dell’Africa Occidentale e Centrale con evidenze

delle prime manifestazioni dell’uso dei metalli (PHILLIPSON 1993, p. 180).

Fig. 2. Carta topografica dei siti di rinvenimento delle testimonianze appartenenti alla cultura Nok.

Fig. 3. Figura cava in terracotta, cultura Nok, da Kuchamfa, Nigeria, IV-III sec. a. C. (FAGG 1977, fig. 108).

Fig. 4. Figura cilindrica cava in terracotta con orlo espanso, cultura Nok, da Jemaa, Nigeria, V sec. a. C. (FAGG 1977, fig. 19).

Fig. 5. Statuetta con il corpo cavo, terracotta, cultura Nok, la quale mostra la lavorazione separata della testa dal resto del corpo. Provenienza incerta, VI-V sec. a. C. (FAGG 1977, fig. 47)

Fig. 6. Terracotta con corpo a pilastro, cultura Nok, Nigeria, provenienza incerta, VI-V sec. a. C. National Museum di Lagos. (EYO-EKPO, WILLETT 1980, p. 60, fig. 10).

Fig. 7. Statuetta campaniforme, terracotta, proveniente da Isla Plana, Ibiza, VI sec. a. C. Barcellona, Museo Arqueologico.

Fig. 8. Statuetta campaniforme, terracotta, proveniente da Ibiza, VI sec. a. C. Barcellona, Museo Arqueologico.

Fig. 9. Terracotta figurata con corpo pilastriforme, proveniente da Cipro, VIII sec. a. C. Parigi, Musée du Louvre.

Fig. 10. Statua femminile a pilastro, cultura Nok, proveniente da Kuchamfa, Nigeria, III sec. a. C. (DE GRUNNE 1998, p. 53, fig. 16).

Fig. 11. Statuetta femminile con disco, Proveniente da Amathus, Cipro, VII sec. a. C., Limassol, District Museum.

Fig. 12. Statuetta maschile, proveniente da Komissariato, Cipro, VI sec. a. C., Limassol, District Museum.

Fig. 13. Terracotta figurata con corpo campaniforme, cultura Nok, proveniente da Katsina, III-II sec. a. C. (DE GRUNNE 1998, p. 102, fig. 60).

Fig. 14. Terracotta figurata con corpo campaniforme, cultura Nok, proveniente da Katsina, III-II sec. a. C. (DE GRUNNE 1998, p. 103, fig. 61).

Fig. 15. Terracotta figurata con corpo campaniforme, cultura Nok, proveniente da Katsina, III-II sec. a. C. (DE GRUNNE 1998, p. 98, fig 56).

Fig. 16. Statuetta votiva ovoidale, terracotta, proveniente da Ibiza, VI sec. a. C. Barcellona, Museo Arqueologico.

Fig. 17. Statuetta votiva ovoidale, terracotta, proveniente da Ibiza, VI sec. a. C. Ibiza, Museo Arqueologico.

Fig. 18. Statuetta votiva campaniforme, terracotta, proveniente da Bitia, III-II sec. a. C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 19. Statuetta votiva campaniforme, terracotta, Proveniente da Bitia, II sec. a. C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

Fig. 20. Statuetta votiva campaniforme, terracotta, proveniente da Bitia, III-II sec. a. C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

Figg. 21-22. Figure femminili gemelle con corpo cavo, cultura Nok, entrambe provenienti da Toruga, Nigeria, IV-III sec. a. C. (FAGG 1977, fig. 22, 26).

Figg. 23-24. Statue femminili con mani al petto, cultura Nok, rinvenuta a Kuchamfa, Nigeria, III sec. a. C. (DE GRUNNE 1998, pp. 54-57, figg. 17-18).

Fig. 25. Statuetta femminile con mani ai seni, terracotta, proveniente da Akziv, VIII-VI sec. a. C. Parigi, Musée du Louvre.

Fig. 26. Placchetta femminile con mani ai seni, terracotta, proveniente da Nora, VI-V sec. a. C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

Fig. 27. Statua maschile con pene foderato, terracotta, cultura Nok, Nigeria (DE GRUNNE 1998, p. 23, fig. 1).

Fig. 28. Disegno di differenti tipi di peni foderati, cultura Nok, Nigeria (DE

GRUNNE 1998, p. 22). Fig. 29. Statuetta pendente accovacciata, cultura Nok, Nigeria, prov.

incerta, IV-III sec. a. C. (DE GRUNNE 1998, p. 66, fig. 24). Fig. 30. Statuetta pendente accovacciata, cultura Nok, Nigeria, prov.

incerta, datata al IV-III sec. a. C. (DE GRUNNE 1998, p. 85, fig. 41). Fig. 31. Statuetta pendente accovacciata, cultura Nok, Nigeria, prov.

incerta, IV-III sec. a. C. (DE GRUNNE 1998, p. 67, fig. 25). Fig. 32. Statuetta doppia in miniatura, cultura Nok, Nigeria, prov. incerta,

III sec. a. C. (DE GRUNNE 1998, p. 87, fig. 43). Fig. 33. Statuetta di sfinge antropomorfa, cultura Nok, Nigeria, prov.

incerta, III-II sec. a. C. (DE GRUNNE 1998, p. 92, fig. 7). Fig. 34. Statua con figura di amuleto sul torace, cultura Nok, Nigeria, prov.

incerta (DE GRUNNE 1998, p. 27, fig. 2). Fig. 35. Statuette in terracotta con corpo campaniforme lavorato a spirale,

cultura Nok, provenienti da Katsina e Sokoto, Nigeria, datata dalla Bortolot Daybreak Corp. tra il 500 a. C. ed il 200 d. C. Boston, Tim Hamill Gallery of African Art.

Fig. 36. Statuette in terracotta con corpo campaniforme lavorato a spirale, cultura Nok, provenienti da Jos Plateau e Sokoto, Nigeria, II sec. d. C. Ryann Willis Ancient Art - Parigi, Musée du Quai Branly de Louvre.

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SOFISTICA E GIOCO SULL’ASTRAGALO DI SOTADES.

SOCRATE, LE CHARITES E LE NUVOLE

MARCELLA PISANI

Nella letteratura specialistica esistono poche officine ceramiche greche di età classica che hanno ricevuto un’attenzione pari a quella di Sotades1. Il nome, iscritto su alcuni vasi attici, inquadrabili all’incirca nella metà del V sec. a.C., e seguito dal verbo epoiesen o epoie ha indotto gli studiosi a riconoscere in

Lo spunto per una rilettura dell’astragalo di Egina mi è stato fornito nel corso di una proficua discussione su Iadi e Pleiadi con la dott.ssa Consuelo Manetta, che ringrazio anche per l’incoraggiamento a mettere per iscritto le idee che andavo formulando. Nel corso della elaborazione ho usufruito di competenze specialistiche e di preziosi suggerimenti che devo alla prof.ssa Margherita Bonanno (scultura greca), alla dott.ssa Giulia Rocco (ceramica greca) e alla dott.ssa Cristina Pace (drammaturgia antica), pur restando interamente mia la responsabilità di quanto è scritto, soprattutto di eventuali errori o ingenuità riscontrabili. Per l’invito a pubblicare in questa sede sono grata al dott. Carmelo Occhipinti. La rielaborazione delle immagini è di Giampaolo Luglio. 1 Si citano di seguito solo gli studi principali: HAUSER 1909, pp. 181-184,

318; BUSCHOR 1919; CURTIUS 1923; BEAZLEY 1963, pp. 763-773; ROBERTSON 1992, pp. 185-190; HOFFMANN 1994; HOFFMANN 1997; WILLIAMS 2004.

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Sotades un ceramista ateniese di quegli anni e, probabilmente, lo stesso proprietario dell’atelier la cui attività e durata sembrano superare, di gran lunga, quella del suo stesso iniziatore. Un interesse analogo, se non maggiore, ha suscitato la mano del suo più fidato collaboratore2, il ceramografo al quale è stato assegnato il nome di Pittore di Sotades, e, dal momento in cui Friedrich Hauser, per primo, agli inizi del Novecento, li ha individuati, il novero dei prodotti attribuiti all’uno, all’altro o a entrambi, è cresciuto proporzionalmente alla loro fama. Nella scelta prediletta di alcune forme vascolari, che li rese specializzati nella produzione di rytha plastici e di phialai, così come di temi (per lo più menadi inseguite da satiri e lotte tra gigantesche gru e pigmei) si incontrano tuttavia due eccezioni. Da un lato, alcuni vasi del raffinato corredo confluito dapprima nella Collezione van Branteghem, da qui disperso in vari musei e solo di recente riassemblato grazie ad alcuni documenti che ne confermano la provenienza da un unico importante contesto funerario ateniese, la cosiddetta tomba di Sotades, appunto3. Dall’altro, il pezzo oggetto della breve disamina che si propone in questa sede. Si tratta di un vaso in forma di astragalo a figure rosse4, della metà del V sec. a.C. ca., acquisito nella collezione del British Museum di Londra5 e attribuito al pittore di Sotades da F. Hauser. La decorazione occupa i due lati lunghi, (A) (fig. 1) e (C) (fig. 2), uno dei lati corti, (B) (fig. 3), e il lato superiore, (D)

2 A meno che vasaio e pittore non siano la stessa persona. Sulla firma di

vasai e pittori e sull’identità degli artisti, si veda da ultimo PEVNICK 2010. 3 BURN 1985; TSINGARIDA 2003; WILLIAMS 2008 (con bibliografia

precedente e distinzione tra vasi dell’officina di Sotades e vasi di Hegesiboulos II). 4 Acquistato negli anni Trenta del 1800 dal Barone von Stackelberg ad Egina (STACKELBERG 1837, pp. 18-19, tav. XXIII), poi confluito nella collezione di George Hamilton Gordon, IV Conte di Aberdeen e donato nel 1860 al British Museum di Londra da George John James Gordon, V Conte di Aberdeen. 5 London, British Museum, GR 1860. 12-1.2; BMC Vases, E804, alt. 12,7 cm,

lungh. 16,51 cm, largh. 11,0 cm.

SOFISTICA E GIOCO SULL’ASTRAGALO DI SOTADES

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(fig. 4). Ad una estremità del lato principale (A) (fig. 1) vi è una larga apertura; accanto a questa, un uomo barbuto, vestito con una corta clamide che avvolge la parte inferiore del suo corpo, gesticola, rivolgendosi ad una fila di tre ragazze. Queste ultime si muovono incedendo verso di lui e prendendosi per mano. La prima gli rivolge lo sguardo, mentre la seconda si volge indietro verso la terza, visibile solo per metà, dal momento che il resto della sua figura non prosegue oltre il bordo arrotondato del lato. Gli altri personaggi, tutti femminili, sembrano fluttuare in aria, con la complicità della superficie irregolare e dello sfondo compatto e lucido della vernice nera, ma sono ritratti in atteggiamenti differenti. Quelli disposti rispettivamente in numero di tre su (D) (fig. 4) e di quattro, a fare da pendant al lato (A), sull’altro lato lungo (C) (fig. 2), procedono incolonnate da destra verso sinistra. Diversamente, le tre figure su (B) (fig. 3) interrompono tale direzione e, suggerendo in parte un ritmo opposto, convergono o si allontanano dalla fanciulla centrale. Contribuisce a differenziare i due gruppi anche l’abbigliamento. Le figure femminili sul lato (A) indossano un chitone di stoffa pesante e almeno due di loro (quelle dipinte per intero) portano, al di sopra di questo, anche un mantello fissato sulla spalla sinistra. Quasi tutte le altre, invece, sono vestite di un lungo chitone, per lo più cinto in vita, la cui stoffa sottile ne lascia intravedere i contorni e le forme del corpo nudo sottostante e accentua i gesti che le figure compiono mentre si librano in volo, aprendo le braccia verso l’esterno, o reggendo il lungo kolpos con una o entrambe le mani. Dall’insieme si distingue solo una fanciulla, sul lato (D), avviluppata in un lungo himation e non gesticolante come le altre, e questa sembra essere anche la prima figura nella visualizzazione della decorazione del vaso, se si procede in senso antiorario e dall’alto verso il basso o, meglio, l’ultima, se si tiene conto della direzione prevalente della rappresentazione. Tutti i personaggi sono scalzi e l’acconciatura di quelli femminili dispiega soluzioni assai varie, includendo capelli liberamente ricadenti all’altezza della nuca, raccolti entro un sakkos, una retina, una sphendone, o semplicemente cinti da un diadema. La seconda fanciulla su (C), inoltre, reca un lungo

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viticcio con estremità ricurve; alla sua sommità, secondo alcuni, si avvicinerebbe una piccola farfalla. La riprova delle difficoltà di esegesi iconografica ed iconologica che pone la rappresentazione è ben esemplificata dalla pluralità di proposte avanzate, nessuna delle quali, finora, è stata accolta dalla critica unanimemente6. Otto Stackelberg, il primo a pubblicare il vaso da lui acquistato a Egina (fig. 5), ha visto nelle figure femminili Iadi e Pleiadi. A Ninfe che inseguono una farfalla ha pensato Friedrich Hauser, e a personificazioni di Nuvole Ludwig Curtius, mentre, mettendo in relazione queste figure con quelle che appaiono sul monumento delle Nereidi a Xantos, Jan Six ha proposto di vedervi, piuttosto, delle Aurae. La decorazione, nella sua totalità, è stata di volta in volta ritenuta essere, quindi, una sorta di parodia di Eolo intento a dirigere la danza dei Venti di fronte alla Grotta omonima (Maximilian Meyer, citato da Hauser), o la descrizione della danza di costellazioni (Pleiadi e Iadi) e stagioni (Horai) accompagnate da un Sileno, oppure è stata letta, sulla scorta della commedia di Aristofane, con una rappresentazione di Socrate/Efesto – identificabile sulla base dell’abbigliamento da ‘artigiano’ indossato – che guida il choròs delle Nephelai (Curtius)7. A tali proposte, che sono state riportate con più o meno convinzione e molteplici combinazioni in vari contributi successivi, si è aggiunta quella di Herbert Hoffmann, che identifica questa sorta di thiasos con quello di fanciulle impegnate in un volo di levitazione mistica, guidato da una sorta di sciamano e probabilmente indotto da una sostanza

6 STACKELBERG 1837, pp. 18-19, tav. XXIII; SIX 1892-1893, pp. 131-136;

LAFAYE 1877-1919, p. 31, fig. 6742; BUSCHOR 1919, pp. 25-26, fig. 38; CURTIUS 1923, tav.1; CVA BRITISH MUSEUM, 4, III I c, tav. 26, 1a e 1b, tav. 27, 1a, 1b; HAUSER 1932, pp. 91-92, tav. 136, 2; BEAZLEY 1963, p. 765, n. 20; BEAZLEY 1971, p. 415; BURN, GLYNN 1982, p. 140; BOARDMAN 1989, pp. 39-40, fig.105; ROBERTSON 1992, pp. 189-190; TIVERIOS 1996, p. 40, fig. 147; HOFFMANN 1994, p. 78, fig. 4.12; HOFFMANN 1997, pp. 108-110, figg. 60-63; WILLIAMS 2008, p. 297; THOMSEN 2011, pp. 54-56, figg. 24a e 24b. 7 La tesi di L. Curtius è sostenuta anche da altri: PRUDHOMMEAU 1965, pp.

310-312, 460, figg. 353, 832.

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allucinogena8; rifacendosi, poi, alla teoria pitagorica della liberazione dell’anima dalla prigione del corpo, lo studioso specifica che si tratta della raffigurazione di un sacerdote/sciamano che assiste le psychai9, a prendere il volo dalla tomba (equiparata all’antro) del corpo, un tema che tradisce l’adesione del committente del vaso al pitagorismo. Anche Martin Robertson individua fasi alterne di una danza, terrena e celeste, con due gruppi di fanciulle delle quali dieci, eteree, sono in volo, mentre tre hanno appena fatto ritorno da esso raggiungendo una dimensione ‘mortale’ come, del resto, sembrerebbe evincersi dalla rappresentazione a metà della terza figura su (A), che ne starebbe a sottolineare l’arrivo da ‘un altro luogo’. Si tratterebbe, quindi, a suo parere, della rappresentazione del leggendario scultore Dedalo (assimilabile ad Efesto), capace di dar vita alle sue creature. Più di recente, l’astragalo da Egina è stato oggetto di una ipotesi di lettura diversa da parte di Gloria Ferrari10, che ha utilizzato questo documento per proporre una nuova interpretazione di un testo letterario per molti versi oscuro e assai dibattuto: il Partheneion di Alcmane del Louvre11. Riprendendo la teoria per la prima volta formulata da Stackelberg, che tutte le figure ritratte sul vaso siano identificabili con costellazioni, forse Iadi più che Pleiadi, e che si tratti di un choròs, come già proposto da F. Hauser, la studiosa ricollega la scena ad una danza cosmica, sottolineando anche il particolare legame tra la scuola pitagorica e la cosmologia greca e giungendo ad identificare il personaggio

8 HOFFMANN 1994, p. 78, fig. 4.12; HOFFMANN 1997, pp. 108-110, figg. 60-

63; seguito, se pure con qualche riserva, da THOMSEN 2011, pp. 54-56, figg. 24a e 24b. 9 Tra i presocratici Anassimene riteneva che l’anima fosse aer e anche

Diogene di Apollonia identificò l’anima con l’aria. La stretta relazione dell’anima con il cielo è credenza generale nella fisiologia ionica (VI-V sec. a.C.) 10 FERRARI 2008, in particolare pp. 2-5. Si veda anche STEINER 2011, pp.

316-317. 11 DAVIES 1991, Alcmane 1.

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maschile barbuto con lo stesso Pitagora. Come afferma l’Autrice, l’idea che le stelle si muovessero nel cielo notturno in passi di danza corale, producendo un suono armonioso, fa parte del pensiero greco e risulterebbe ben radicato nell’immaginario dei Greci12. In realtà, l’indubbia difficoltà che pone la comprensione della raffigurazione sembrerebbe essere stata complicata dal fatto che le proposte, di sovente, hanno privilegiato la lettura del motivo più inusuale: quello delle fanciulle in volo. L’ermeneutica di tali figure, priva com’è di confronti convincenti, non è da ritenersi definitiva e per la stessa ragione è difficile che venga accettata o confutata senza esprimere, comunque, delle riserve. Aurae, Nuvole, Pleiadi e Iadi non godono infatti di una tradizione iconografica consolidata, soprattutto nel panorama figurativo del V sec. a.C.13, e, in assenza di iscrizioni o indicazioni puntuali, il riconoscimento di queste entità, così come di altre personificazioni, sembra essere destinato a rimanere sub iudice. In generale, le diverse analisi formali, iconografiche e iconologiche compiute su questo pezzo hanno tenuto in vario grado di considerazione solo alcuni degli aspetti che affiorano dalla lettura del vaso, privilegiando ora l’uno, ora l’altro, e rinunciando a fornire, il più delle volte, una spiegazione esaustiva di tutti i suoi tratti salienti. Tali tratti consistono, in primo luogo, nella presenza di due soggetti, interrelati ma distinti: quello che compare sul lato (A) e il choròs delle flying girls. La sequenza continua di queste ultime, che ha inizio con il

12 Alle Pleiadi, sorelle delle Iadi, va riferita l’invenzione della pannykhis, la

danza svolta al tramonto, prima che Zeus le tramutasse in astri. La studiosa, poi, avalla a riprova della sua esegesi la teoria secondo la quale i Pitagorici erano fermamente convinti che il movimento delle stelle producesse un suono armonico. Lo stesso Platone, nelle sue opere ne dà notizia. Nel Timeo (PL. Tim, 40 c.) il filosofo descrive le stelle come impegnate in una danza che è tra le più magnificenti delle processioni corali, mentre altrove presenta il cosmo come una spirale con otto cerchi, ciascuno dei quali presieduto da una Sirena e corrispondente ad un suono della scala diatonica. 13 Sull’intercambiabilità delle immagini di figure femminili quali Menadi,

Ninfe, Nereidi, Horai ecc., si veda da ultimo SMITH 2011, p. 37.

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primo personaggio femminile del lato (B) e si chiude con l’ultimo ritratto sul lato (D), è assicurata da una serie di gesti e di sguardi incrociati tra la figura posta in prossimità del margine sinistro del lato (D) e l’ultima figura a destra del lato (C) e, ancora, tra la prima, opposta, di questa stessa faccia e l’ultima del lato adiacente (B), ma si raccorda al resto della rappresentazione sul lato (A) tramite l’espediente della raffigurazione ‘a metà’ dell’ultima figura. Lo stretto nesso tra tettonica e decorazione sottolinea anche l’unità semantica di quest’ultima. Che quella con l’uomo e le tre donne che lo fronteggiano sia la faccia principale è, tuttavia, comprovato anche dall’apertura, che, oltre a giocare un ruolo importante nella decorazione, condizionandone lo svolgimento, è da riconnettere alla stessa dibattuta funzione del vaso14. Jan Six aveva già sottolineato l’analogia di (A) con le scene raffiguranti Hermes, le Cariti e la Grotta di Pan. Il primo gruppo sembrerebbe rimandare, effettivamente, sulla base di alcuni dettagli iconografici, ad un choròs di Charites, le cui danze sono spesso menzionate nelle fonti letterarie. Si riconosce, in particolare, un confronto puntuale tra questa scena e quella restituita da uno dei pochi rilievi votivi nel quale è possibile identificare con sicurezza le fanciulle ritratte con delle Charites, per la presenza della dedica iscritta che le menziona. Nel rilievo (fig. 6), scoperto a Kos alla fine degli anni Sessanta15, e databile al 400 a.C. ca., infatti – così come nell’astragalo di Egina – le tre figure che incedono saldamente a terra e si tengono per mano, in atteggiamento riconducibile a figure corali, si dirigono verso un antro. Identica

14 Per l’ipotesi sull’utilizzo: STACKELBERG 1837, lucerna; NIELS 1992, p. 233,

fig. 13, contenitore di astragali (astragalotheke o phimos); a cui vanno aggiunte le considerazione espresse per alcune pissidi in bronzo equiparate a bussolotti per astragali in MEIRANO 2004. HOFFMANN 1997, p. 107, nota 2, ritiene che il vaso possa essere associato all’attività mantica connessa all’uso degli astragali. Per l’ipotesi di un utilizzo esclusivamente funerario dei vasi in forma di astragalo vedi KAROUZOU 1971, p. 138. 15 KONSTANTINOPOULOS 1970, pp. 249-251, fig. 1; KONSTANTINOPOULOS

2001, pp. 81-90.

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è la rappresentazione della figura centrale che volge la testa di tre quarti verso quella che la segue assecondando, probabilmente, esigenze di coreografia, e secondo un leit motiv che si ritrova anche in una rappresentazione arcaizzante che appare su un cratere marmoreo ateniese forse del I sec. a.C.16, ma che distingue in realtà, con la variante del busto e della testa della figura centrale posti frontalmente, la maggior parte delle raffigurazioni riconducibili alle Cariti. Di fronte ad esse è un uomo, che, come nel caso della figura maschile ritratta sul vaso, è parimenti avvolto in una exomis, che ne lascia libero il busto e solleva il braccio destro portandolo avanti, forse nel gesto di richiamare l’attenzione. Non Ermes, Dioniso o lo stesso Pan, dunque, solitamente conduttori della danza delle Charites, ma un uomo, dalle cui dimensioni si evince la natura mortale e che, interpretato dai più come un fedele, potrebbe ben essere anche un iniziato ai loro misteri e coincidere con il dedicante del rilievo. La presenza di Pan nel riquadro superiore assicura del fatto che si tratti di Ninfe, che l’iscrizione identifica con le Charites e, nel contempo, fornisce qualche indicazione supplementare sul luogo in cui si svolge l’azione. È verso l’antro di una grotta, infatti, che sembra dirigersi il coro delle Cariti. Nella simbologia cosmica, l’antro è luogo di morte e di rinascita iniziatica: è in esso che avviene appunto l’iniziazione, il passaggio dalla morte alla nascita, e la caverna è un’immagine archetipica della filosofia greca; inaccessibile ai profani ad essa accede solo l’iniziato dopo aver percorso il suo cammino17. Un culto ‘misterico’ legato alle Charites è menzionato da Pausania, proprio ad Atene. Il Periegeta (Paus. IX, 35, 7) riporta infatti la notizia secondo cui agalmata18 di Cariti, scolpite da

16 HARRISON 1986, pp. 191-203, p. 198, n. 35a.

17 SIMONINI 2010, p. 110.

18 Il plurale agalmata usato sia da Pausania (PAUS. IX, 35,7) che dallo scolio

ad Aristofane (SCHOL. AR., Nub., 773) ha indotto qualche studioso a ipotizzare delle sculture a tutto tondo (RIDGWAY 1970, pp. 119-120). Theodosia Stephanidou Tiveriou ha però richiamato l’attenzione sul fatto che lo scoliasta fa un riferimento esplicito alle Cariti, chiarendo che esse

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Socrate, figlio di Sofronisco, erano collocate insieme ad un’immagine di Hermes Propylaios all’ingresso dell’Acropoli (Paus. I, 22.8; IX. 35.3). E sulla realizzazione del gruppo scultoreo ad opera del filosofo Socrate riferiscono, più o meno succintamente, anche altri autori19. L’associazione ad Hermes sull’Acropoli ne rimarca anche la sfera di influenza sacra, volta a proteggere i sacri accessi e a garanzia del ‘passaggio’ di questi ultimi20. Quanto al punto esatto, l’ipotesi più accreditata è che tali immagini fossero collocate nelle nicchie situate tra il corpo centrale e le ali laterali dei Propilei, lungo il percorso che porta al tempietto di Athena Nike, certamente in uno spazio in prossimità del bastione (Pyrgos) dal momento che in epoca romana vennero associate al culto di Artemis Epipyrgidia, cioè Ecate, condividendone l’officiante21. Tale spazio sacro è stato identificato da Luigi Beschi in un piccolo recinto22, un luogo

erano scolpite sul muro dietro Athena (STEFANIDOU TIVERIOU 1979, pp. 143-144). 19 DIOG. LAERT. II, 18-19; PLIN. Hist. Nat., XXXXVI, 32; SCHOL. AR.,

Nub., 773. Per una raccolta completa delle fonti: BURNET 1924, pp. 50-51; POLLITT 1965, p. 87. Entrambi esprimono forti dubbi sull’attività di scultore di Socrate e sulla stessa identità di quest’ultimo nei passi menzionati. La loro tesi è stata però confutata, con validi argomenti, dalla maggior parte degli studiosi: RIDGWAY 1970, p. 120, nota 15; PALAGIA 1990, pp. 355-356. 20 Nella metropoli attica il culto delle Charites sembrerebbe aver avuto

diverse sedi. Insieme a Demos un loro culto, che alcune iscrizioni sembrerebbero rimandare a non prima del III sec. a.C., viene officiato appena fuori l’angolo nord-occidentale dell’Agora di Atene. I diversi studiosi che si sono occupati dell’argomento hanno, tuttavia, evidenziato il valore politico e culturale della sua istituzione, e la natura della sede volta a raccogliere espressioni di ringraziamento ufficiale alla città di Atene, da parte di benefattori stranieri, più che atti di generica devozione religiosa. Inoltre, è stato di recente sottolineato come anche nel giuramento pubblico degli efebi ateniesi ricorra il nome delle tre Charites, rendendo evidente quindi come a queste divinità venisse riconosciuto non solo il ruolo di sovrintendere alla crescita della vegetazione, ma anche a quella umana e politica, guidando i giovani nel loro passaggio di status nel mondo della polis (MONACO 2001, e bibliografia precedente). 21 IG II2, 5047.

22 BESCHI 1967-1968, pp. 535-536.

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che Olga Palagia definisce «the only convenient location»23 per lo svolgimento del culto a loro dedicato «in cui si celebrano misteri, la cui conoscenza è interdetta ai più»24. Ora, tra i vari rilievi provenienti dall’Acropoli o direttamente ad essa collegati, un nutrito gruppo di copie neo-attiche25 è stato ritenuto essere dipendente da un unico archetipo inquadrabile in età severa e identificato da più studiosi con i rilievi di Socrate menzionati nelle fonti26. Tale attribuzione, tuttavia, ha convinto gli stessi che l’attività di scultore, probabilmente svolta dal filosofo in gioventù, poggi su una tradizione letteraria ‘falsa’ o ‘viziata’, forse creata da Duride di Samo27 in età ellenistica, o erroneamente riportata nelle stesse fonti. Se, infatti, in tali rilievi va vista l’opera di Socrate28, questi non può essere il filosofo,

23 PALAGIA 1990, pp. 354-355.

24 MOGGI, OSANNA 2010, p. 171 (trad. it. di PAUS. IX, 35, 3).

25 Per l’elenco completo: HARRISON 1986, pp. 196-197, n. 25; MONACO

1999-2000. È significativo che in molti di questi rilievi ricorra lo stesso motivo (ovviamente in una versione più arcaizzante) della testa della seconda figura posta frontalmente o lievemente di tre quarti. Si veda ad esempio: il rilievo frammentario proveniente dalle pendici meridionali dell’Acropoli (Atene, Museo nazionale invv. 1341+2594, MONACO 1999-2000); il rilievo del Pireo (Museo del Pireo, inv. 2043, STEPHANIDOU TIVERIOU 1979, p. 90; e le più tarde copie di cui la prima ai Musei Vaticani, nota, appunto come Rilievo Chiaramonti (tra l’età repubblicana e il primo impero), cui si aggiunge anche il rilievo Giustiniani-Stroganoff, ora nella collezione privata Torno, a Milano. 26 L’identificazione si deve a BENNDORF 1869, pp. 55-62, seguito da molti

studiosi: RIDGWAY 1970, pp. 114-121, figg. 153-155; STEPHANIDOU

TIVERIOU 1979, pp. 138-145, tav. 46a; HARRISON 1986, pp. 196-197, n. 25; MONACO 1999-2000. 27 Le fonti più antiche sono Timone di Flio, 350-320 a.C. (DIELS 1901, fr.

25) e Duride di Samo (340-260 a.C.), il quale, riportato in DIOG. LAERT. II, 9, afferma che Socrate fu uno schiavo e uno scultore. 28 PALAGIA 2009, pp. 30-31 ha proposto, di recente, di identificare in essi

delle Ninfe, e tale lettura sembrerebbe essere supportata, a suo avviso, dal fatto che l’unico frammento il cui contesto di rinvenimento è noto con sicurezza proviene appunto dall’area delle pendici meridionali dell’Acropoli dove negli anni Cinquanta è stato scoperto un santuario delle Ninfe mentre gli altri rilievi frammentari potrebbero essere stati spostati nella zona dei

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figlio dello scultore Sofronisco, ma deve trattarsi dello scultore beota, Socrate di Tebe, attivo intorno al 470 a.C.29 L’importanza e la dimensione dei rilievi, il contesto di rinvenimento della maggior parte di essi, identico a quello riportato nelle fonti, e il lungo mantenimento dell’iconografia, che certamente dovette corrispondere ad una certa rinomanza dell’archetipo, hanno contribuito a porre in secondo piano altre ipotesi di identificazione dei rilievi delle Charites di Socrate, poggiate sulla presenza di tradizioni iconografiche diverse, ma altrettanto ben attestate. O. Palagia, nel discutere un gruppo di rilievi provenienti dall’Acropoli, tutti accomunati dalla raffigurazione a mezzo busto di tre divinità, probabilmente Cariti (Museo dell’Acropoli, invv. 2554-2556), ha visto in queste sculture adattamenti più tardi (IV sec. a.C.) di un archetipo della fine del V sec. a.C. nel quale, in maniera più plausibile – soprattutto in riferimento alla cronologia – la studiosa ritiene di identificare le Charites di Socrate30. Le stesse ragioni avevano condotto ancora prima Brunilde Sismondo Ridgway31 a vedere una ripresa dei rilievi di Socrate in un nutrito gruppo di documenti che sembrerebbe adombrare un modello realizzato, forse, in occasione del cantiere dei Propilei avviato da Mnesicle, sotto l’arcontato di Eutimene, nel 437 a.C.32. Oltre al rilievo di Kos precedentemente richiamato e la cui forte influenza attica è stata più volte sottolineata, è possibile far confluire in questo gruppo altri pezzi con raffigurazioni di fanciulle identificabili con Charites, Horai e Ninfe33. In questi ultimi le giovani divinità

Propilei solo agli inizi del Novecento, quando questi divennero una sorta di antiquarium delle antichità che si andavano mettendo in luce. 29 Come si deduce dalla notizia di Pausania sulla statua di Cibele che egli

realizzò per Pindaro (PAUS. IX, 25, 3) 30 PALAGIA 1990, p. 355; PALAGIA 2009, pp. 29-34.

31 RIDGWAY 1970, pp. 114-121.

32 Sulle fasi architettoniche del Pyrgos e dei Propilei pre-mnesiclei e sulla

ristrutturazione progettata da Mnesicle si veda: MONACO 2011 (con ricca e aggiornata bibliografia precedente). 33 Si veda ad esempio il rilievo con Pan e le Ninfe da Munichia (Atene,

Museo Nazionale, inv. 1447: FUCHS 1962, p. 243, tav. 65, 1); e il rilievo delle

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sono ritratte mentre incedono a passo veloce, tenendosi per mano e interagendo reciprocamente secondo uno schema che richiama da vicino anche l’iconografia esemplificata sull’astragalo di Egina. I tratti formali che distinguono le figure del lato (A), sia dai rilievi che riprendono lo stile degli inizi dell’età classica che da quelli inquadrabili nella tradizione figurativa dell’ultimo quarto del V sec. a.C.34, ben le collocano intorno alla metà del V sec. a.C. o poco dopo35, in linea quindi con la formazione di un pittore (e di uno scultore) del pieno periodo classico che, in questo modo, avrebbe reso le Charites danzanti. La danza, che del resto è tra le attività più ricorrenti attribuite loro dalle fonti, viene richiamata iconograficamente proprio dal gesto di procedere in fila o in cerchio tenendosi per mano. Gesto e ponderazione, oltre che l’abbigliamento, distinguono le Cariti dalle altre figure galleggianti nell’aria sul vaso, di cui è stata già sottolineata la singolarità e unicità della raffigurazione. A dispetto dell’ampio ventaglio di suggestioni proposte per queste ultime, tutti coloro i quali hanno tentato una lettura del vaso sono però concordi nel riconoscere al personaggio maschile un aspetto ‘rozzo’, interpretando tale resa o con la volontà del pittore di indicarne l’appartenenza ad una classe sociale, quella degli artigiani (e da qui l’identificazione con Efesto o Hermes), o di esprimere la sua natura ferina, equiparandolo alle semidivinità dei boschi: satiri e sileni. A tratti comici e ad un collegamento con il teatro ha pensato L. Curtius che nell’interpretazione della scena propone di vedere

Horai di età adrianea, ma risalente ad un archetipo della fine del V sec. a.C. (HARRISON 1977, pp. 267-270, fig. 4). È stato spesso notato come il nome di tre Charites, o di una diade nella quale confluisce spesso un’Hora (PAUS. IX, 35, 2), sembri rimarcare la somiglianza e prossimità tra queste figure, che si riflette anche sul piano iconografico. 34 Ad esempio Alkamenes (HARRISON 1977, pp. 267-270).

35 Il particolare delle vesti sottili, dalle quali emerge il rilievo e la nudità del

corpo, sembrerebbe puntare ad una datazione di circa un decennio più tarda.

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Socrate che guida il coro delle Nuvole, con un riferimento preciso, quindi, alla Commedia di Aristofane. In quest’ultima, come è noto, il vecchio Strepsiade è costretto ad iscriversi alla Scuola filosofica del Maestro per far fronte ai debiti di un figlio sciagurato, e incontrerà proprio lì il Coro delle Nuvole. È noto con quale sagacia Aristofane descriva le teorie filosofiche della scuola socratica e come la critichi all’interno dell’opera. La presentazione iniziale del Pensatoio della Scuola socratica, infatti, non depone certo a favore di una certa credibilità, con Socrate sospeso in una cesta, in mezzo ad allievi sporchi e nullafacenti, che osserva i fenomeni celesti. E le riserve e accuse del tragediografo nei confronti della setta diventano ancora più evidenti quando, avendo accolto il vecchio e ignorante Strepsiade, Socrate invoca quelli che egli ‘ritiene essere dèi’ (e che, quindi non lo erano per i suoi contemporanei!), cioè l’Aria, l’Etere e le Nuvole. L’entrata in scena del coro delle Nuvole (Ar. Nub., 310 sgg.) è particolarmente significativa. Strepsiade, infatti, non riconosce le Nuvole, né dal canto, né alla vista, tanto da affermare: «Per Zeus, ti supplico, o Socrate, dimmi: chi sono quelle che hanno intonato questo canto solenne? Eroine?» (Ar. Nub., 314-315), e poi, ancora, dopo che Socrate ha risposto alla sua domanda specificando: «No sono le Nuvole celesti, grandi divinità per gli intellettuali; esse ci danno idee, dialettica, intelligenza [...]» (Ar. Nub., 316-317), lo stesso Strepsiade chiarisce l’idea che i contemporanei (ad eccezione dei Sofisti) avevano di questi fenomeni metereologici: «[…] ritenevo che fossero nebbia, rugiada, fumo» (Ar. Nub., 330). Le perplessità del vecchio divengono ancora più forti subito dopo: (v. 340): «Dimmi: come mai, se sono davvero delle Nuvole, rassomigliano a donne mortali?» (Ar. Nub., 340-341)36. Il collegamento supposto da L. Curtius a Socrate e alle Nuvole di Aristofane, e la possibilità di vedere nel primo coro un riferimento alle Charites (o alle Horai/Ninfe), comunque a

36 MASTROMARCO 2006, pp. 354-357.

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divinità ‘tradizionali’, con un’accezione ‘misterica’ suggerita dall’apertura del vaso a forma di antro, rispetto alle altre proposte fino ad oggi formulate, sembrerebbe legare in maniera coerente tutti i tratti salienti della raffigurazione, precedentemente sottolineati, contribuendo a restituire unità al progetto decorativo; del resto, oltre ad essere in qualche modo comprovata dalle fonti letterarie e – con riferimento alle Cariti – anche iconografiche, spiega plausibilmente l’unicità della raffigurazione delle fanciulle in volo, che, in quanto personificazioni delle Nuvole, difficilmente, potranno usufruire, almeno per il periodo in questione, di una documentazione iconografica comparabile di supporto. Tale proposta si scontra, tuttavia, con una serie di problemi. In primo luogo di ordine cronologico. Il collegamento supposto con la commedia aristofanea, rappresentata per la prima volta in occasione delle Grandi Dionisie nel 423 a.C., segue di quasi un trentennio la datazione del vaso, da porre all’incirca nel 450 a.C. In secondo luogo, la scelta di raffigurare un soggetto teatrale, oltre che insolita, o assolutamente straordinaria, nel repertorio vascolare attico del V sec. a.C.37, contribuisce ad accrescere l’isolamento di questo vaso nel gruppo di quelli prodotti dall’officina di Sotades. Ad una lettura più approfondita, tuttavia, nessuna delle obiezioni che è possibile sollevare all’ipotesi di Curtius sembra costituire un problema, se si applica una prospettiva diversa. Più che un gusto comico e caricaturale, la critica, come sottolineato in precedenza, riconosce alla figura maschile una rozza apparenza, assimilabile a quella di un satiro o di un sileno; si direbbe che, pur non essendo perfettamente coincidente né con un satiro, né con un sileno, fisionomia, abbigliamento e gesto del personaggio richiamino, piuttosto, la dimensione ‘al limite’

37 «While A.D. Trendall, T. B. L. Webster and their successors have usefully

documented the relevance of vase paintings (especially those made in South Italy in the fifth-fourth centuries) to drama [...] there is as yet no evidence for the replication of actual theatrical scenes in Attic vase painting» (SMITH 2011, p. 22).

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tra la natura umana e quella bestiale di questi esseri ferini. Anche la figura di Socrate è connotata nella tradizione letteraria da un aspetto analogo; è noto, infatti, il passo riportato nel Simposio di Platone, nel quale Alcibiade, assimila il filosofo e i suoi discorsi non ad un uomo, ma a satiri e a sileni:

Si potrebbero dire, senza dubbio, molte altre cose per lodare Socrate e tutte da far meraviglia, ma mentre per ogni altro atteggiamento nella vita tali cose si potrebbero dire anche di altri, il fatto di non essere egli simile a nessuno degli uomini, né degli antichi, né di quelli di adesso, questa è cosa degna di ogni meraviglia. [...] Ma come è fatto quest’uomo, quanto a stranezza, lui e i suoi discorsi, neppure cercando si potrebbe trovare uno che gli si avvicini né tra gli uomini d’ora, né tra quelli di un tempo, a meno di metterlo a confronto con quelli che dico io, cioè non con

un uomo, ma con i sileni e i satiri, lui e i suoi discorsi38.

La critica è unanime nel riconoscere il valore ‘metaforico’ di questo passo, che è un riferimento non tanto alla ‘bruttezza o all’aspetto trasandato del filosofo’ (cui fanno riferimento, del resto, più autori) quanto al rovesciamento dell’ideale del kalòs kagathòs, dell’uomo ‘bello e virtuoso’ del periodo, della coincidenza delle qualità estetiche con quelle morali39. Il richiamo alla commedia di Aristofane, se non inteso come trasposizione di un allestimento scenografico, serve, insomma, a rimarcare il milieu culturale dal quale il commediografo attinge, confermando l’opinione che gli Ateniesi del periodo avevano

38 PL. Symp., 221.c.2 - 221.d.6, trad it. in NUCCI 2009.

39 Il paragone riceve, infatti, delle precisazioni altrove. Viene specificato che

egli somiglia, in particolare, ai Sileni fabbricati dagli scultori, e posti nelle loro botteghe. Questi Sileni scolpiti, quando vengono aperti in due, rivelano di contenere dentro immagini di dèi (PL. Symp., 215.a-b), così come grande è la temperanza (sophrosyne) del personaggio che si trova al suo interno (PL. Symp., 215.a-b)

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della filosofia socratica, e in generale della sofistica40, e offrendo nel contempo al lettore odierno un ricco vocabolario figurativo41, cui si ricollega anche il significato di fondo della raffigurazione sull’astragalo di Sotades. Come ha sottolineato di recente Pierre Brulé la Commedia antica offre il vantaggio di offrire una relazione dialettica con la società del periodo, tanto da essere letta in una prospettiva sociologica:

La comédie s’adresse directement à la cité. Pour qu’elle fonc-tionne, la dialectique du texte aux rires et retour nécessite de sa part une connivence avec les façons de penser, de dire, com-

munes. Le succés de l’auteur comique en dépend42. L’espediente comico della ‘umanizzazione’ delle Nuvole, che Aristofane sfrutta nell’opera, è stato letto, da diversi autori, in chiave di critica alla fisiologia di Anassagora, ancora prima che alla sofistica di Socrate, ma deve soprattutto presupporre che il pubblico conoscesse a fondo le tematiche sociali su cui il comico costruisce il suo soggetto. A tali tematiche sembrano attingere sia poeti che pittori e scultori, spesso reciprocamente influenzati43. In questo caso, quindi, non si tratterebbe di una parodia comica ma di una descrizione aderente alla filosofia e alla cultura “di moda” nei circoli aristocratici del periodo.

40 Sulla differenza tra il pensiero filosofico di Socrate che emerge in

Aristofane e quello che si evince dall’opera di Platone, si veda: NEUMANN 1969, pp. 201-214; TURATO 1972, p. 133. 41 TAILLARDAT 1965, pp. 467-470.

42 BRULÉ 2009, pp. 49-50.

43 A proposito delle strette analogie istituibili tra la commedia antica e la

cultura figurativa contemporanea, Amy Claire Smith (SMITH 2011, p. 19), ha di recente sottolineato: «[...] the similarities between old comedy and visual arts reflect the painters’ and poets’ engagement with contemporary culture. We can take it for granted that a vase painter who was interested in politicas ideas was well aware of the creations of contemporary writers of comedies, and a comic poet likewise might have paid attention to the images around him [...]».

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Se l’attribuzione del vaso a Sotades non va messa in dubbio, allora la cifra sotadea sembra emergere anche sul piano dell’iconografia e del significato di fondo. Hoffmann, infatti, ha notato come la maggior parte dei prodotti dell’officina ateniese, pur non essendo funzionalmente utilizzabile a scopi di carattere pratico, ma concepita per essere parte del corredo funerario, richiami la pratica del simposio. La migliore connotazione del simposio, quale agone oratorio e ritrovo di intellettuali e filosofi all’insegna della conversazione su temi disparati della natura e delle virtù umane, nell’Atene di età classica, è ben esemplificata proprio dalle opere omonime di Platone e di Senofonte. Si tratta di occasioni elitarie a cui prendono parte gli stessi individui per cui Hoffmann ha ipotizzato che venissero commissionati i vasi della bottega di Sotades: un’officina chiaramente al servizio di una clientela esigente e di committenze specifiche44. La lettura del vaso qui proposta non sminuisce l’approccio filosofico-religioso e il valore suggestivo dell’interpretazione di fondo della raffigurazione che schiudono, da un lato, gli studi di Herbert Hoffmann sull’esegesi dei temi prescelti dal Pittore di Sotades, dall’altro quello condotto da altri autorevoli specialisti, tra i quali Martin Robertson, sull’astragalo di Egina. Le considerazioni proposte da questi studiosi, contribuiscono, anzi, a chiarire alcuni dettagli dell’impaginato. Evidente, appare, cioè, che le figure femminili ritratte siano impegnate in danze corali, di cui la prima con fanciulle gradienti o danzanti, in fila e per mano, si muove saldamente ancorata a terra, a differenza della seconda che prevede, invece, figure fluttuanti in uno spazio etereo, suggerito dai lembi del vestito agitati e gonfiati dal vento. Altrettanto chiaro è che si tratti di un unicum nel panorama figurativo. A questa eccezionalità si è tentato di dare una risposta richiamando la simbologia cosmica e la numerologia

44 KAHIL 1972, p. 284.

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pitagorica, in virtù della ricorrenza di figure il cui numero non sembra casuale. I rimandi simbolici presenti nella decorazione vengono, infatti, ulteriormente amplificati da una chiave di interpretazione fino ad oggi trascurata o rigettata dalla maggior parte degli studiosi. Solo Jan Six infatti45 aveva notato come non potesse essere considerata una semplice coincidenza il fatto che le figure fossero 14, un particolare che lo studioso associava alla notizia più tarda, secondo la quale tale numero coincideva con il lancio degli astragali chiamato basilieus o jactus Veneris46. Quattordici è, infatti la somma che si ottiene da tutti i valori che compaiono sulle facce di un astragalo o che ad esse vengono associati. Oltre ad essere impiegato nella divinazione o mantica, l’astragalo è, innanzitutto, utilizzato a fini ludici. Il suo impiego è noto anche in un gioco equiparabile ai moderni dadi, con una differenza determinata dalla conformazione fisica dell’ossicino che prevedeva l’utilizzo di sole quattro facce, anziché sei. Dalle fonti sappiamo che a ognuna di queste quattro facce era attribuito un punteggio (fig. 7): una faccia laterale (Chion) con valore 1; una faccia superiore, larga e leggermente convessa (pranes) con valore 3; una faccia inferiore, larga e concava (hyptia), con valore 4, e l’altra faccia laterale, stretta e tortuosa (Choion), che, essendo la più instabile, era associata anche al valore più alto: 6. Ora, un aspetto curioso ma assolutamente interessante riguarda i valori dei lati quali emergono combinando la raffigurazione al supporto e tenendo conto del fatto che, non essendo concepito per essere ‘lanciato’ ma per essere apprezzato in tutte le sue vedute, il ceramografo non può utilizzare il lato inferiore, ma ne traspone i valori su altre facce, decorando, di contro, superfici che nella realtà del gioco, in virtù della loro configurazione, non

45 SIX 1892-1893, p. 13

46 Si tratta del lancio migliore, determinato dalla ricorrenza su quattro

astragali di tutte le facce e quindi ottenuto dalla somma di tutti i valori possibili: 1,3,4 e 6. Sul gioco dell’astragalo: LAFAYE 1873-1919, pp. 28-31; MAY 1991, pp. 100-103; DE NARDI 1991; CARÈ 2012 (con ricca bibliografia).

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Horti Hesperidum, III, 2013, 1 73

potevano essere sfruttate per l’assenza di stabilità dopo il lancio. In considerazione di tale ‘necessità’ e delle dimensioni del supporto non può allora essere ricondotto a pura casualità il numero complessivo delle figure, il fatto che sul primo lato (A), associato al valore uno, una (monas) è la figura maschile, che tre sono le figure femminili sulla faccia superiore (trias), quattro (tetras) le figure contrapposte sull’altro lato piatto (originariamente poste sulla faccia inferiore), mentre sei (hexas) è il numero che si ottiene sommando gli altri motivi che sfuggono, per diverse ragioni, all’equilibrio, alla simmetria e al perfetto dosaggio dei rimandi espresso sulle altre facce: le tre Charites e le figure del lato corto (C), solitamente inutilizzato. L’astragalo di Egina sembra offrire, insomma, una ricchezza di allusioni e rimandi simbolici da ricondurre prevalentemente ad una committenza elitaria, ma non è avulso dalla pratica ludica dell’astragalízein, che le fonti riportano come un’attività comune per gli adulti nei symposia o in momenti di aggregazione caratterizzati dall’uso del vino47. Si tratta di un oggetto raffinato ed eccezionale48 per il quale non si può proporre una coesistenza di temi puramente fortuita, né spiegare alcuni dettagli immaginando che essi siano un vuoto esercizio estetico o il capriccio di un vasaio e del suo pittore. Viceversa, tutti i particolari decorativi tradiscono una pianificazione puntuale nell’accostamento delle scene. L’identificazione del soggetto poggia tanto sulla sua unità di fondo quanto sulla scelta, non comune, del supporto, tradendo

47 Sul rapporto tra gli adulti e l’astragalo e il riferimento alle numerosi fonti

antiche si veda CARÈ 2012, p. 403, nota 3; HERMARY 2012. 48 Il numero dei vasi in forma di astragalo che presentano una decorazione è,

ad oggi, molto ridotto; oltre all’astragalo di Sotades, se ne annoverano altri tre: 1) HUBER 1999, p. 141, n. 784; 2) Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, inv. 866 (con iscrizione: Syrikos epoiesen): BEAZLEY 1963, p. 264, n. 67; BEAZLEY 1971, p. 351; BURN, GLYNN 1982, p. 102; 3) New York, Metropolitan Museum, inv. 40.11.12, BEAZLEY 1963, p. 965; BURN, GLYNN 1982, p. 150, e da ultimo HERMARY 2012, p. 420, fig. 2 a-d. Tutti appaiono, tuttavia, molto diversi dall’esemplare qui discusso, quanto a struttura, impaginato e decorazione.

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la volontà di trasmissione di un messaggio specifico che l’artista ha inteso consapevolmente esprimere.

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Didascalie Fig. 1. Lato (A) del vaso in forma di astragalo, accanto all’apertura,

un personaggio barbuto e tre fanciulle gradienti in passo di danza. London, British Museum GR 1860. 12-1.2 (da TIVERIOS 1996, p. 40, fig. 147).

Fig. 2. Lato (C) del vaso in forma di astragalo, con fanciulle in volo (da THOMSEN 2011, p. 55, fig. 24a).

Fig. 3. Lato (B) del vaso in forma di astragalo, personaggi femminili in volo (da HOFFMANN 1997, p. 110, fig. 60).

Fig. 4. Lato (D) del vaso in forma di astragalo, con personaggi femminili in volo (da HOFFMANN 1997, p. 109, fig. 61).

Fig. 5. Disegno del vaso in forma di astragalo e delle scene decorate, (da STACKELBERG 1837, tav. XXIII).

Fig. 6. Rilievo con le Charites da Kos (da HARRISON 1986, II, p. 153, n. 24).

Fig. 7. Restituzione grafica delle facce di un astragalo, con valori combinati (da MAY 1991, p. 100).

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BALDASSARE PERUZZI,

CARLO V E LA NINFA EGERIA: IL RIUSO RINASCIMENTALE DEL NINFEO DI EGERIA

NELLA VALLE DELLA CAFFARELLA

ALESSIO DE CRISTOFARO

We can do anything we want

Live it up! JLo

Agli inizi del Cinquecento il cosiddetto Ninfeo di Egeria nella valle della Caffarella è tra i monumenti più frequentati del suburbio1 (fig. 1). Lo stato di conservazione particolarmente

1 Lo studio che si presenta in questa sede costituisce l’approfondimento di

una parte della ricerca di Dottorato dedicata al Ninfeo di Egeria ed alla villa di Erode Attico sull’Appia svolta da chi scrive presso l’Università di Roma Tor Vergata negli anni 2001-2004. Al Prof. Antonio Giuliano, mio maestro di studi, devo lo stimolo ad interessarmi alla storia dell’archeologia e della cultura europea: interesse che mi ha portato a comprendere in modo più maturo e completo la vita ed i significati dei monumenti classici. Alla Prof.ssa Elena Ghisellini, tutor della ricerca, devo invece un caloroso ringraziamento per gli utili suggerimenti e gli aiuti forniti nel difficile lavoro di sistemazione dei dati. Il Prof. F. Negri Arnoldi, nel 2004, ha letto la prima versione di questa ricerca, dispensandomi importanti consigli ed incoraggiamenti, così come alcune preziose indicazioni in merito mi sono venute dal confronto con il Prof. F. Rausa. Un ringraziamento, poi, va ad Antonio Mucci, per la liberalità con cui ha autorizzato e favorito le mie

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buono, il suo aspetto di ombrosa grotta rinfrescata dallo scorrere perenne dell’acqua, attirano presto l’attenzione di molti artisti dell’epoca, suggestionati da quello che forse è il miglior esempio antico di grotta-ninfeo esistente a Roma. Il Ninfeo diviene così un punto di riferimento indispensabile, non solo per gli antiquari e gli artisti interessati allo studio e alla ricostruzione delle vestigia di Roma antica, ma anche per gli architetti maggiormente impegnati nella realizzazione di quelle ville suburbane con grandi giardini che sono tra le più importanti innovazioni nell’ambito dell’edilizia privata di età rinascimentale. Sempre agli stessi anni va riportata l’identificazione del monumento della Caffarella con la mitica fonte della ninfa Egeria, conosciuta fino ad allora solo sulla base dei riferimenti offerti dalle fonti letterarie classiche2; identificazione, oggi sappiamo errata3, che evidentemente matura e scaturisce dal sistematico interesse degli artisti e degli antiquari per il Ninfeo cui sopra si è accennato. Infine, il Cinquecento vede il monumento protagonista di un emblematico caso di riuso funzionale, rimasto finora completamente inedito, il cui studio è però di notevole

indagini al Ninfeo, e a Dora Cirone, compagna in questi anni di tante ricerche, comprese quelle nella valle della Caffarella. Un affettuoso grazie, infine, va all’amica Alessandra Piergrossi, che ha rivisto il testo aiutandomi non poco nella sua cura redazionale. Come noto, il Ninfeo di Egeria fa parte degli edifici afferenti al cosiddetto Triopio di Erode Attico, villa suburbana della media età imperiale dislocata tra il II ed il III miglio della via Appia. Sul monumento e il suo contesto topografico si vedano almeno: FEA 1816; LUGLI 1924, pp. 103-105; QUILICI 1968; KAMMERER-GROTHAUS, KOCS 1983; SPERA 1999, p. 300; DE

CRISTOFARO 2002; GALLI 2002, pp. 110-144; DE CRISTOFARO 2002; DE

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3 Il monumento, infatti, altro non è che uno specus aestivus facente parte del

più vasto complesso residenziale di proprietà di Annia Regilla e del marito Erode Attico sull’Appia: disamina critica del problema in DE CRISTOFARO

2005A; DE CRISTOFARO 2005B, pp. 10-11 e 50-69; risultati ora recepiti in LTURS 2008, in part. p. 195.

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interesse: l’edificio, infatti, viene adoperato come grotta-ninfeo per otia e banchetti, ed ospita uno dei momenti salienti del Trionfo romano dell’imperatore Carlo V. In questo contributo si ricostruiranno le vicende fin qui delineate utilizzando informazioni e documenti di natura e provenienza eterogenea: dati di scavo, disegni rinascimentali, notizie antiquarie, documenti storici. Il metodo impiegato nell’analisi dei dati ha spinto chi scrive a sconfinare talvolta in territori della ricerca a lui non sempre consueti: circostanza che forse potrà trasparire da alcuni passaggi della ricerca. Tuttavia, si tratta di un rischio necessario a chi si ponga l’obbiettivo di superare i limiti soffocanti che uno specialismo sempre più agguerrito pone alla ricerca archeologica e storico-artistica attuali. Solo così, infatti, è possibile ricostruire, in modo più organico ed attento ai particolari ed alle sfumature, le tante storie che monumenti dalla vita millenaria come il Ninfeo di Egeria possono ancora raccontarci. I Caffarelli e la valle dell’Almone A partire dal primo decennio del Cinquecento Giovan Pietro Caffarelli acquista una serie di vigne e terreni situati nella valle dell’Almone; l’unificazione di queste particelle di terreno porta, nel giro di circa settant’anni, alla costituzione di un grande fondo unitario che, da allora, sarà definito dal nome della famiglia La Caffarella, e che per traslato passerà ad indicare fino ad oggi tutta la valle, cristallizzandosi indelebilmente in toponimo4 (fig. 2). La speculazione terriera dei Caffarelli mira alla formazione di un grosso fondo produttivo extraurbano, a vocazione agricola e, soprattutto, pastorale. La tenuta viene così bonificata mediante canalizzazioni e dotata di una serie di moderne strutture di servizio alle attività agro-pastorali. Il cuore della tenuta è il

4 Le vicende relative alla nascita ed alla formazione di questa tenuta sono

riassunte in RANELLUCCI 1981, in part. p. 113.

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monumentale casale della Vaccareccia, oggi finalmente al centro di un importante programma di recupero5 (fig. 3). Una pur superficiale analisi della struttura mostra come l’edificio, andandosi ad impostare su una preesistente torre medievale, consti, oltre che delle strutture necessarie allo svolgimento delle attività produttive, di un settore padronale, connotato da una certa monumentalità di rappresentanza: nel portico della facciata di ingresso, infatti, si distingue chiaramente la presenza di colonne e capitelli antichi in posizione di reimpiego (fig. 4), mentre alcuni vani interni recano ancora tracce di decorazione ad affresco. La Vaccareccia dunque, oltre che struttura di produzione, fu anche temporanea residenza aristocratica nella campagna, venendo utilizzata dai Caffarelli come luogo di riposo dalla caotica vita urbana e come struttura di supporto alle attività di caccia, occupazione aristocratica per eccellenza nel corso del Cinquecento6. Ad ogni modo, la tenuta della Caffarella doveva servire principalmente come cerniera tra Roma ed i grandi possedimenti terrieri, eminentemente sfruttati per attività pastorali, che la famiglia aveva nei pressi di Ardea7,

5 L’edificio, dopo decenni di abbandono, è stato finalmente acquisito dal

Comune di Roma, che con fondi propri e della Regione Lazio sta in questi mesi procedendo ad un sistematico intervento di restauro. L’importanza storica della Vaccareccia è considerevole, non solo perché costituisce uno dei migliori esempi di casale cinquecentesco tra quelli tuttora esistenti nella Campagna Romana, ma anche per il fatto che esso ingloba importanti preesistenze, come una torre di controllo territoriale datata al XII-XIII secolo. Sulla Vaccareccia in termini riassuntivi cfr. SPERA 1999, p. 309, Unità Topografica (UT) 538 (con bibl. prec.); sulla torre inglobata nel casale cfr. DE ROSSI 1969, pp. 21-22. 6 Sulla caccia cfr. COFFIN 1979, pp. 131-144, con bibliografia. In molti suoi

aspetti, dunque, la Vaccareccia sembra echeggiare, nell’ambito delle strutture residenziali della Campagna Romana, il modello canonizzato dalla tardo-quattrocentesca tenuta papale della Magliana, monumentale complesso progettato come casino di caccia e residenza campestre, ma presto destinato anche alla produzione agricola: in proposito si vedano BIANCHI 1941 e COFFIN 1979, pp. 112-131. Sulla villa, da ultima CAVALLARO 2005. 7 La tenuta comprendeva Casa Lazzara, Campo del Fico, Tufello, Valla Lata,

Carraceto; cfr. RANELLUCCI 1981, p. 113.

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consentendo con la sua posizione strategica e le sue attrezzature una certa razionalizzazione dei processi produttivi8. Dei Caffarelli, purtroppo, non sappiamo moltissimo, soprattutto a causa della distruzione di gran parte dell’archivio di famiglia9. Tuttavia, a dispetto di questo naufragio, alcune

8 Il XVI secolo vede la Campagna Romana interessata da una profonda crisi:

il sistema produttivo, sviluppatosi già dall’età tardomedievale, basato sulla piccola e media proprietà rurale imperniata sulla struttura caratteristica del casale (in proposito si vedano COSTE 1969, COSTE 1971, MAIRE-VIGUEUR 1974, CORTONESI 1992) perde sempre più coerenza e capacità economica, perché non sostenuto da un’adeguata politica di investimenti; a questo si accompagna un progressivo spopolamento della campagna, impoverita demograficamente a vantaggio della città (PALERMO 2001, pp. 61-66), e un dilagare del latifondo nobiliare scarsamente produttivo. Si registra, così, un profondo scollamento tra le possibilità economiche ed il volume produttivo messo in moto dalle attività svolte dalla città, enormemente e velocemente accresciutasi a partire dalla metà del XV secolo, e la produzione offerta dalla Campagna Romana, non più in grado di sopperire integralmente alle necessità di beni agricoli primari del centro urbano e, per questo, progressivamente sostituita nelle sue funzioni tradizionali dalle importazioni di derrate agricole, in particolare grano, e dunque marginalizzata. Neppure i reiterati tentativi pontifici di rianimare la situazione con opportuni provvedimenti legislativi riescono ad arrestare il fenomeno: l’abbandono sempre più evidente di coltivazioni cerealicole ed intensive apre il campo al formarsi di vasti latifondi, principalmente destinati all’allevamento ed alle industrie legate al settore della pastorizia. Mandrie sempre più numerose attraversano una campagna via via più malsana e disabitata, dando origine a quel paesaggio che sarà caratteristico del suburbio romano fino ai primi decenni del XX secolo. La tenuta dei Caffarelli, allora, si inserisce bene e si comprende proprio alla luce di questo più vasto fenomeno economico, manifestandosi come tentativo da parte della nobile famiglia di fondare sui possessi fondiari e sul rendimento derivante dalle attività pastorali la propria sicurezza economica ed il proprio potere. Per un approfondito esame del quadro economico romano della prima età moderna fondamentali sono PALERMO 1997 (in particolare capp. V e VI) e PALERMO 2001; sulle importazioni di grano e il sistema annonario urbano nella seconda metà del XV secolo PALERMO 1994; per il sistema annonario nel XVI e XVII secolo REINHARDT 1991. 9 Sembra che l’archivio andò distrutto in seguito ad un incendio; in

proposito cfr. RANELLUCCI 1981; per notizie più generali sui Caffarelli cfr. CAFFARELLI 1959 e LOTTI 1971.

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notizie superstiti e lo studio dei monumenti di famiglia permettono di ricostruire un quadro sufficientemente caratterizzato della loro storia. Le più antiche attestazioni relative a membri della famiglia risalgono al tardo medioevo. Già dagli ultimi decenni del XV secolo, poi via via sempre più intensamente nel secolo seguente, i Caffarelli sono una delle famiglie di punta della nobiltà urbana, quella nobiltà locale legata alla città ed al potere municipale che costituisce una sorta di contrappunto complementare al potere del Papa e della corte pontificia. In questo gruppo sociale i Caffarelli hanno spesso un ruolo di primo piano: ricoprono incarichi importanti, riuscendo così ad influenzare e ad orientare, almeno parzialmente, le scelte politiche ed economiche della città. Ma, come noto, il Cinquecento è il secolo in cui definitivamente si consolida e si struttura in senso monarchico il potere pontificio, anzitutto a danno di questa nobiltà urbana che, già dalla seconda metà del Quattrocento, vede ridurre progressivamente il suo ruolo politico e la propria incidenza sulla vita della città10. Sempre più Roma e i territori ecclesiastici si trasformano in uno stato assolutistico, governato sotto quella forma costituzionale tutta particolare di monarchia elettiva di origine divina che è il papato moderno11. Niente illustra meglio questo processo di sottomissione e riorganizzazione del potere laico ed aristocratico della città da parte dei pontefici, del modo con cui, nel 1471, Sisto IV si appropria ideologicamente del Campidoglio, storica sede del potere municipale: un’autentica sostituzione di potere politico attuata in forme altamente simboliche e rappresentative attraverso il trasferimento di reliquie dell’antichità12. Proprio la

10 Sulla crisi delle istituzioni municipali si veda FRANCESCHINI 1996.

11 Sul tema è fondamentale PRODI 1982. Alcuni importanti contributi sul

Papato in età moderna in VISCEGLIA 2013. 12 Cfr. MIGLIO 1982; come noto, la donazione di Sisto IV consisteva in una

serie di statue bronzee che fino ad allora erano state in gran parte conservate presso il Laterano: per le statue cfr. almeno BUDDENSIEG 1983 e

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topografia rinascimentale del Campidoglio aiuta a definire meglio la politica dei Caffarelli, manifestamente filoimperiale: è qui infatti che, a Cinquecento inoltrato, Ascanio Caffarelli, su terreno che il padre Giovan Pietro, paggio imperiale, ha avuto in dono dall’imperatore Carlo V, fa edificare il sontuoso palazzo di famiglia, quasi a marcare visivamente, alle spalle del Palazzo dei Conservatori, il proprio tradizionale ruolo politico all’interno della nobiltà urbana13. Con la costituzione della Caffarella, numerosi sono i monumenti antichi ancora in buono stato di conservazione che entrano nelle disponibilità della famiglia14: tra questi rientra anche il cosiddetto Ninfeo di Egeria. Antonio da Sangallo il giovane e il Ninfeo di Egeria Tra i primi documenti attestanti il passaggio del Ninfeo di Egeria nelle proprietà Caffarelli è un disegno di Antonio da Sangallo il giovane oggi agli Uffizi, che, almeno per quanto noto a chi scrive, va considerato come la più antica testimonianza grafica esistente di questo monumento15 (fig. 5). Il disegno è di grande importanza, perché illustra con notevole precisione lo stato di conservazione del monumento negli anni precedenti i lavori di restauro operati sull’edificio dai Caffarelli, di cui si dirà più avanti. Il documento fa parte di una serie di disegni dall’antico in cui l’artista, con attenzione sistematica e scrupolosa, indagava molte delle fabbriche antiche ancora visibili ai suoi tempi a Roma e nella Penisola, in uno studio continuo che dall’architettura

NESSELRATH 1988. Da ultimo, un quadro di sintesi sulle arti a Roma durante il regno di Sisto IV in BENZI 2010 (con bibl. prec.). 13 Cfr. LOTTI 1971.

14 Sant’Urbano alla Caffarella (GROS 1969 e KAMMERER-GROTHAUS 1971),

il cosiddetto Tempio del Dio Redicolo (SPERA 1999, pp. 205-207), il cosiddetto Colombario Costantiniano (QUILICI 1993). 15 BARTOLI 1914, pp. 63-64, 74-75 e tav. CCXXXIII, fig. 403.

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antica traeva ammaestramenti e misura16. Il Sangallo, come noto, è a Roma dai primissimi anni del Cinquecento, al lavoro accanto a Bramante nella titanica impresa della nuova basilica vaticana17. Della cultura romana tra i pontificati di Giulio II e Leone X18, profondamente intrisa di interesse per l’Antico19, l’artista diviene in breve un indiscusso protagonista. Ben nota è l’acribia con cui, nei suoi disegni dall’Antico, il Sangallo annota piante, prospetti, soluzioni, particolari, misure20: metodo per lui necessario alla piena assimilazione delle

16 Su Antonio da Sangallo il Giovane cfr. il sempre valido GIOVANNONI

1956; più di recente alcune importanti indicazioni critiche sono state raccolte in SPAGNESI 1986. 17 Per un’utile sintesi sulla Basilica di San Pietro in Vaticano si veda PINELLI

2000. Da ultimo, importante raccolta di contributi in MORELLO 2012. 18 Della sterminata bibliografia relativa a questo periodo, si citano qui solo

alcuni tra i lavori più significativi relativi ai principali protagonisti: su Raffaello cfr. FROMMEL, RAY, TAFURI 1984; su Michelangelo: ACKERMANN 1968, CONTARDI, ARGAN 1990, una recente sintesi in MICHELANGELO 2009; su Bramante: BORSI 1989; sul mecenatismo di Giulio II e Leone X spunti notevoli in SHEARMAN 1995. Fondamentale la raccolta di saggi in FROMMEL 2003 (in particolare alle pp. 257- 315 per quanto concerne Raffaello e Antonio da Sangallo il giovane). 19 Impossibile citare in modo esaustivo la copiosa bibliografia relativa alla

fortuna dell’antico tra il pontificato di Giulio II ed il Sacco del 1527, data che segna la fine del cosiddetto Rinascimento maturo; tra i principali lavori si vedano DACOS 1969, DACOS 1986, e alcuni dei saggi raccolti in FAGIOLO

1985; sull’idea di Roma un utile quadro di sintesi in JACKS 1993, in particolare alle pp. 125-204; sul Cortile del Belvedere è fondamentale BELVEDERE 1998 (con bibl. prec.); ricco di spunti GIULIANO 2002, in part. pp. 222-239. Sull’attività antiquaria di Raffaello cfr. almeno SHEARMAN 1983, BURNS 1984, NESSELRATH 1984, PERINI 1994. Manifesto programmatico dell’utopia antiquaria del periodo è la celebre lettera del Castiglione a Leone X, la cui edizione fondamentale è DI TEODORO 1994. 20 Sensibilità che doveva essersi in primo luogo formata nella bottega di

famiglia, per poi affinarsi a Roma nel diretto contatto con i resti dell’antichità e nel lavoro a fianco al Bramante. Sui disegni dello zio Giuliano cfr. ad esempio BORSI 1985 e, più di recente, FROMMEL 2010; sui disegni architettonici e dall’Antico di Antonio cfr. anche ADAMS 1994.

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regole dell’architettura antica21, che rende oggi i suoi disegni quanto mai preziosi quali affidabili documenti per la ricostruzione delle storia edilizia post antica di molti monumenti romani. Il disegno del Ninfeo, realizzato a penna con una linea essenziale e sicura, rileva la pianta dell’edificio in un modo assai simile a quello reso noto dalla recente campagna di scavo22. Assumendo il rilievo in pianta più recente ed aggiornato del Ninfeo23 (fig. 6), gli unici scarti rispetto alla realtà archeologica rilevata sembrano essere le nicchie delle pareti lunghe dell’ambiente I, che il Sangallo disegna tutte a pianta semicircolare, e le nicchie che inquadrano gli archi di accesso alle ali dell’ambiente II, che l’artista tralascia di rilevare; fatta però eccezione per questi particolari, il disegno nel complesso è molto fedele. Gli elementi di primaria importanza che si possono ricavare dal documento sono essenzialmente due. Il primo è rappresentato dalla didascalia che accompagna il disegno24: da essa si apprende che l’edificio, al momento del rilevamento da parte dell’artista, è già entrato a far parte delle proprietà dei Caffarelli. Inoltre, e questo è un dato preziosissimo, nell’apporre la suddetta didascalia, l’artista non identifica ancora il monumento della Caffarella con la fonte della ninfa Egeria, come poi accadrà in tutti i disegni successivi, segnando così in questo modo una strana anomalia nella tradizione: anomalia tanto più sorprendente se si pensa che il disegno del Sangallo, come già detto, rappresenta il termine più antico di questa tradizione. È

21 Non si dimentichi che il Sangallo attenderà per lungo tempo ad

un’edizione del De architectura vitruviano, vero canone di riferimento per gli architetti rinascimentali, poi mai pubblicata. 22 Per i risultati degli scavi condotti nell’ambito del programma di restauri

finanziati con i fondi per il Giubileo del 2000 si vedano CIRONE 2001 e De CRISTOFARO 2002. 23 Pianta di scavo eseguita da Dora Cirone nel 1999 ed aggiornata dallo

scrivente con la collaborazione di M. Di Mento nel 2003. 24 Così il testo: «i(n) la vignia di Mes Japietro Cafarello».

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possibile trovare una spiegazione di ciò: o tenendo conto di una dimenticanza casuale dell’artista (cosa, d’altronde, difficile da immaginare, vista la sua scrupolosa precisione); oppure, più probabilmente, considerando che, al momento del rilievo, ancora non si fosse cristallizzata la tradizionale connessione dell’edificio con la sorgente della mitica ninfa. Il secondo elemento è rappresentato dalla raffigurazione dell’acquedotto di alimentazione del Ninfeo che, aggirando alle spalle l’edificio, sbocca in quest’ultimo solo attraverso la nicchia meridionale della parete est dell’ambiente I. La veridicità del particolare sangallesco è ampiamente provata dalla effettiva esistenza, ben visibile ancora oggi, di una breccia nella muratura della suddetta nicchia che dà accesso allo speco del condotto retrostante (fig. 7): si tratta di una breccia post antica praticata sulla struttura allo scopo di intercettare l’acqua per scopi di utilità, in un momento in cui il Ninfeo doveva aver cessato di essere utilizzato nella sua originaria funzione25. Attraverso questa breccia, ancora aperta e funzionante ai suoi tempi, il Sangallo si inoltra, per quanto possibile, all’interno dell’acquedotto, ispezionandolo e rilevandone in termini approssimativi un consistente tratto di percorso; percorso che gli ultimi rilievi hanno mostrato essere sostanzialmente esatto, ad ulteriore riprova della ‘scientificità’ dei disegni di Antonio. Nel disegno, poi, manca qualsiasi riferimento alla fontana con statua di fiume poggiata su mensole ricavata all’interno dell’abside di fondo dell’ambiente I, che tuttora costituisce la caratteristica decorativa più evidente del monumento (fig. 8). È impossibile pensare che un simile apparato possa essere sfuggito alla pungente intelligenza architettonica del Sangallo: la conclusione più ovvia è che, nel momento in cui l’artista riprese il Ninfeo, la fontana fluviale non esistesse e che l’acqua sgorgasse ancora e solamente dalla nicchia laterale, così come correttamente illustrato dal disegno. Come si vedrà tra poco,

25 La breccia è stata chiusa per motivi di sicurezza nel corso dei restauri

giubilari; sull’uso del Ninfeo quale fontana nel corso dell’età medievale si vada DE CRISTOFARO 2005B, pp. 120-122.

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anche lo studio archeologico concorda nel datare la fontana al XVI secolo, sulla base di elementi fondati sull’analisi delle stratificazioni delle murature. Da tutto questo si ricava che il disegno del Sangallo testimonia, quasi fotograficamente, lo stato del Ninfeo prima dell’intervento costruttivo che portò alla realizzazione della fontana fluviale: ma quando e perché fu realizzata allora questa fontana? Alla risoluzione di questo problema il documento sangallesco dà un notevole contributo, costituendo di fatto un solido terminus post quem cronologico. La data più verosimile per la redazione del disegno si colloca all’incirca nel secondo decennio del Cinquecento26. Altri due disegni rinascimentali, oggi sempre a Firenze, permettono invece di acquisire ulteriori elementi utili a definire con più precisione la questione. Due disegni di Sallustio Peruzzi a Firenze Due disegni conservati agli Uffizi mostrano il Ninfeo di Egeria in termini completamente diversi rispetto a quelli documentati da Antonio da Sangallo. Si tratta di due documenti grafici attribuiti al corpus dei disegni di Sallustio Peruzzi27, purtroppo non databili in modo puntuale. Pur essendo ambedue tratti dallo stesso monumento, i disegni mostrano tra loro una serie di discrepanze piuttosto significative. Distinguendo convenzionalmente i due documenti con le lettere A (fig. 9) e B (fig. 10), è possibile evidenziarne schematicamente le differenze nel modo che segue:

26 Pur non essendo datato, il disegno in esame può essere inquadrato grazie

ad un rilievo del vicino Circo di Massenzio eseguito dal Sangallo tra la fine del secondo ed il terzo decennio del XVI secolo, che verosimilmente dové essere eseguito nell’ambito di un campagna di rilevamento delle antichità di questo tratto di suburbio innervato sulla via Appia in cui era compreso anche il Ninfeo: cfr. BARTOLI 1914, p. 64. 27 Cfr. BARTOLI 1914, p. 114, tav. CCCLXXV, fig. 665 (disegno A) e p. 120,

tav. CCCLXXXVII, fig. 679 (disegno B). Su Sallustio ora: SEIDEL 2002 (non vidi).

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- ambedue i disegni mostrano l’esistenza della fontana con mensole e statua di fiume che, come si è visto, non esisteva ancora ai tempi del rilievo del Sangallo; da questa fontana sgorga l’acqua, che viene poi raccolta e condotta da due canalette attraverso il Ninfeo verso la sua fronte settentrionale. Per quanto visibile, sembra trattarsi di due condotti idrici a cielo aperto che, partendo e alimentandosi dalla fontana fluviale, distribuiscono l’acqua in tutta la struttura: la differenza di rilievo nei due documenti è che queste canalette hanno percorsi e caratterizzazioni grafiche diverse. - Il disegno A riporta una caratterizzazione della fronte settentrionale del Ninfeo completamente diversa dal disegno B: il primo sembra proporre una muratura continua di spessore ridotto a chiudere lo spazio tra le due ante murarie antiche; il secondo un diaframma aperto con due colonne. - Il disegno B presenta, oltre alle due colonne lungo il lato settentrionale dell’ambiente II, anche altre due coppie di colonne poste in asse con i muri lunghi dell’ambiente I; il disegno A non mostra colonne. - I due documenti, minuziosamente misurati, presentano valori discordanti. Una possibile soluzione a questa discrasia è ipotizzare che tali valori siano espressi con unità di misura diverse28, in relazione a fasi e scopi diversi dell’elaborazione progettuale. - Il disegno A presenta in posizione errata le nicchie relative alle due ali laterali dell’ambiente trasversale del Ninfeo; il disegno B, invece, le documenta correttamente. - Il disegno B è accompagnato da una articolata didascalia; il disegno A ne è privo, se si eccettuano i numeri relativi alle misure lineari rilevate.

28 Per le misure impiegate solitamente nei disegni del Peruzzi maggiore cfr.

WURM 1984, p. XV. Per una panoramica delle unità di misura nei disegni cinquecenteschi: LOTZ 1979. Ricco di interessanti spunti critici, soprattutto in merito al Ligorio e al Peiresc, è GASPAROTTO 1996.

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- Il solo disegno B mostra una visione prospettica della fontana con fiume, che costituisce un particolare esploso di quanto segnato in pianta con la lettera A. Messe così in rilievo le principali differenze tra i documenti, è necessario provare a comprendere la possibile origine dei documenti stessi e le motivazioni che possono giustificare simili scarti. Da un punto di vista formale, ambedue le opere mostrano una certa cura redazionale, che fa pensare a disegni sistemati e messi in pulito a tavolino a partire da schizzi presi dal vero29: operazione, dunque, eseguita in due tempi distinti sia tecnicamente che cronologicamente. È noto come il corpus dei disegni tradizionalmente attribuiti a Sallustio sia in gran parte costituito da disegni di seconda mano eseguiti in bottega, derivati cioè dalla risistemazione di originali presi a contatto diretto con i monumenti antichi30; si tratta quasi sempre di originali appartenenti alla bottega di famiglia ed in particolare alla gran mole di disegni di antichità ritratti da Baldassare. Anche nel caso in esame è possibile ipotizzare con buone probabilità la derivazione dei due documenti grafici da un originale disegno del Ninfeo di Egeria eseguito dal Peruzzi senior; lo suggerisce il fatto che nel corpus dei disegni di Baldassare si rintracciano tutti i più importanti monumenti della Caffarella e dell’area limitrofa, quasi a suggerire, da parte dell’artista, una campagna di rilievi organica delle antichità di questo tratto del suburbio romano; ed è difficile pensare che da un simile lavoro possa essere rimasto escluso il solo Ninfeo31.

29 Sui taccuini di disegni dall’antico fondamentali NESSELRATH 1986 e

NESSELRATH 1993. 30 In proposito cfr. BARTOLI 1914, vol. I, p. 115. Sul rapporto tra Baldassare

ed il figlio Sallustio cfr. ora RICCI 2002. 31 Cfr. WURM 1984, p. 15 (Sant’Urbano), p. 84 (cosiddetto Tempio del Dio

Redicolo), p. 468 (monumento dei Calventii), p. 469 (mausoleo di Caecilia Metella). Sui disegni di Baldassare cfr. WURM 1984, passim; da ultimo, un’importante raccolta di contributi sull’artista, con specifici

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Sembra più naturale credere che anche del Ninfeo esistesse uno schizzo preso dal vero di mano del Peruzzi padre, andato poi perduto o non ancora rintracciato, da cui sarebbero derivati i due disegni qui esaminati assegnati a Sallustio32. Ma in quale rapporto sono questi due disegni, con tutte le loro discrepanze e anomalie, rispetto al supposto originale? E come giustificare le tante differenze di questi rispetto alla situazione registrata dal disegno del Sangallo? Per una fortunata circostanza, i risultati dei nuovi scavi condotti nel Ninfeo con i fondi giubilari hanno fornito dati che permettono di districare meglio molti dei problemi posti dai documenti grafici fin qui esaminati, che altrimenti difficilmente avrebbero potuto trovare spiegazioni univoche. I risultati degli ultimi scavi al Ninfeo: la fase cinquecentesca La recente campagna di scavo condotta all’interno del Ninfeo ha permesso di verificare come le indicazioni dei documenti peruzziani riportino quasi fedelmente particolari architettonici effettivamente esistenti nel monumento nella prima metà del XVI secolo, poi in parte distrutti o obliterati. In primo luogo, sono state rinvenute tracce consistenti del sistema di canalette segnato nei due disegni del Peruzzi. In particolare, lungo le due pareti lunghe dell’ambiente I e lungo la fronte esterna del muro nord dell’ambiente II, sono stati individuati lacerti di canalette realizzate a cielo aperto in un sommario cocciopesto (fig. 11, uss. 67, 106). Tra i due documenti grafici, il disegno B sembra essere quello più vicino al percorso delle canalette documentato archeologicamente; che queste canalette siano da attribuire ad età post antica lo prova in modo inequivocabile il fatto che esse si impostano direttamente sul vespaio pavimentale di età massenziana, quando già il

approfondimenti anche sulla grafica ed il suo rapporto con l’Antico, in FROMMEL 2005. 32 Schizzo chiaramente da datare assieme agli altri precedentemente citati alla

nota n. 31.

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pavimento antico che su quest’ultimo poggiava era stato completamente spogliato33. La datazione per la realizzazione di queste canalette va posta tra la redazione del disegno del Sangallo, che non le riporta in quanto non ancora esistenti, e quella dei disegni del Peruzzi iuniore, che certo le conosce: in linea di massima, dunque, tra gli anni Venti circa e gli anni Trenta del XVI secolo. Oltre alle canalette, poi, l’altro fondamentale elemento reso leggibile dall’ultimo intervento di restauro è quello relativo alla fontana fluviale, la quale, come le canalette, non è riportata dal Sangallo in quanto non ancora realizzata, ed è invece dettagliatamente illustrata nel disegno B di Sallustio. La lettura corretta della stratificazione muraria del nicchione di fondo dell’ambiente I, infatti, dimostra definitivamente come la fontana sia stata realizzata in età moderna, certo contestualmente alle canalette. Le tre mensole che sorreggono la statua di divinità fluviale, infatti, sfondano irregolarmente la tessitura muraria antica, andandosi ad inserire nella nicchia con una toppa muraria realizzata con pezzame tufaceo e laterizio di mediocre fattura (figg. 12-13). Inoltre, allo scopo di realizzare la fontana, la stessa parete concava della nicchia viene in gran parte distrutta e ricucita, per consentire la captazione dell’acqua dal condotto retrostante mediante un dispositivo idrico funzionante con il meccanismo classico del ‘troppo pieno’ (fig. 14). La modernità della fontana è dimostrata, inoltre, dal fatto che la stessa statua fluviale, antica e con ogni probabilità personificazione del fiume Almone34, è più larga della stessa nicchia e dunque ad essa non pertinente, ma verosimilmente recuperata ad hoc nell’area limitrofa. Infine, l’analisi formale della fontana, non nel mutilato stato attuale, ma nel suo originario aspetto cinquecentesco35, completa cioè al di sotto delle mensole di una vasca costituita

33 Per le pavimentazioni ed i rivestimenti di età romana del Ninfeo si

rimanda a DE CRISTOFARO 2005B. 34 DE CRISTOFARO 2005B, pp. 233-236.

35 Ben illustrato dal disegno B del Peruzzi.

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da un sarcofago o vasca antica, permette di riconoscere la sua dipendenza da alcune celebri fontane del Belvedere Vaticano realizzate mediante l’accostamento di sculture e sarcofagi: la cosiddetta Cleopatra36 (fig. 15), che fu poi modello di ispirazione per innumerevoli fontane all’antica realizzate combinando sculture e materiale architettonico dal XVI secolo in poi, e soprattutto, per stretta affinità iconografica, le fontane del Nilo, del Tevere e dell’Arno37 (fig. 16). Infine, sempre a questa fase va ricondotta una sistemazione del piano di frequentazione del Ninfeo di cui sono stati rinvenuti alcuni lacerti: essa risultava composta da materiale di spoglio (frammenti di marmo, laterizi, peperino), allettato in terra e disposto con un ordine inteso a riprodurre l’aspetto di una pavimento vero e proprio38. Riassumendo allora i dati fin qui illustrati, è possibile enucleare per il Ninfeo di Egeria una vera e propria nuova fase costruttiva che, all’incirca tra gli anni Venti e gli anni Trenta del XVI secolo, segna un cambiamento d’uso del monumento ed un suo intenzionale riuso. Gli elementi raccolti indicano concordemente un vero e proprio ripristino dell’edificio funzionale al suo riutilizzo come grotta-ninfeo. Come noto, le grotte-ninfeo, ispirate da analoghi monumenti antichi, sono tra gli ambienti più rappresentativi dei sontuosi giardini delle ville suburbane del Rinascimento39. Questi ninfei sono luoghi

36 Sulla fortuna della statua HASKELL, PENNY 1981, pp. 184-187.

37 Sulle quali cfr. HASKELL, PENNY 1981 rispettivamente pp. 272-272, pp.

310-311. 38 Lo scavo non ha invece fornito alcun riscontro all’eventuale presenza di

colonne, quali quelle segnalate nel disegno B del Peruzzi. 39 Su questa classe di edifici si veda ALVAREZ 1981; più in generale sui

giardini cinquecenteschi ed i ninfei FAGIOLO, MADONNA 1990, COFFIN 1991; sulle statue di ‘ninfe’ poste in grotte artificiali nei giardini delle ville romane del Rinascimento cfr. BOBER 1977. Ricco di interessanti spunti soprattutto in merito alla genesi in ambito letterario del tipo architettonico della grotta ninfeo, LAPI BALLERINI, MEDRI 1999, in part. i contributi di P. Castelli (L’Antro delle Ninfe) e A. Pietrogrande (Una spelonca di dolci acque

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destinati agli otia sofisticati delle aristocratiche famiglie romane, deputati, con la loro ombra fresca e il loro comfort, ad ospitare banchetti, discussioni letterarie, feste e tutte quelle usanze di vita e quei costumi all’antica che la cultura umanistica a Roma nel primo Cinquecento eleva a massima forma di civiltà, frutto di una cultura che, attraverso la filologia e l’antiquaria, cerca di resuscitare i modi e le essenze del passato classico. Ad ispirare la realizzazione di queste strutture è in primo luogo un’assidua frequentazione delle epistole di Cicerone e Plinio il Giovane, soprattutto di quelle più incentrate sulle attività e le delizie della vita in villa, sulla bellezza e la tranquillità della vita agreste contrapposta alla caoticità e alle turbolenze della vita cittadina40. Il più compiuto esempio di questo genere di grotta-ninfeo è il celebre edificio affacciato sul Tevere costruito da Baldassare Peruzzi alla Farnesina, oggi purtroppo distrutto41, in cui, come sappiamo da fonti contemporanee, si svolgevano memorabili banchetti42; l’impatto che dové avere un simile edificio si misura dal fatto che ben presto molte delle ville patrizie si dotarono di strutture analoghe. Peraltro, questo aiuta a comprendere perché un monumento come il Ninfeo di Egeria catalizzasse l’interesse di artisti come Baldassare Peruzzi e Antonio da Sangallo il giovane, entrambi

amena. Grotta e ninfeo tra Umanesimo e Manierismo). Da ultimo vedi CASTELLETTI 2010. 40 Quelle stesse lettere, peraltro, che sono alla base della nascita e della

fortuna del più vasto fenomeno della villa moderna, di cui, come si è detto, questi ninfei, a partire da quest’epoca, costituiscono delle cellule indispensabili: sulle ville romane del Cinquecento fondamentale COFFIN 1979; per la genesi della villa in età umanistica e per i suoi più ampi significati storico-sociali e culturali nel corso del Cinquecento cfr. ACKERMANN 1992, in part. alle pp. 82-181. 41 Sulla villa della Farnesina cfr. FROMMEL 1961 e, per una visione di sintesi,

GERLINI 1999. 42 Cfr. COFFIN 1979, p. 91 e pp. 96-97; il documento che meglio illustra

l’eccezionalità del complesso ed in particolare del giardino è GALLO 1511; sul clima culturale ed i programmi voluti da Agostino Chigi per la sua villa suburbana resta ancora fondamentale per molti aspetti SAXL 1934.

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impegnati nella progettazione e nella realizzazione di ville: esso, infatti, era tra gli esempi di grotta-ninfeo antichi meglio conservati ed accessibili, rappresentando così un’importante pietra di paragone43. Rispetto alla classe delle grotte-ninfeo suburbane, però, il Ninfeo di Egeria è contraddistinto da particolarità che certamente lo rendono piuttosto singolare. Il Ninfeo, ad esempio, è un monumento antico adattato, non costruito ex novo come gli altri ninfei rinascimentali: e questo, almeno per quanto noto a chi scrive, sembra essere un caso piuttosto isolato nel dossier di questa classe di edifici. Non fa parte poi di una villa suburbana, ma di una vasta tenuta agricola che topograficamente si dispone intorno alla cinta delle vigne e delle residenze aristocratiche più prossime alla città, e quindi risulta essere più distante e meno facilmente raggiungibile di queste. È vero che, come si è visto, anche la tenuta della Caffarella era dotata di un edificio di rappresentanza utilizzato dai nobili proprietari in particolari circostanze, ma non si deve dimenticare come il Ninfeo disti diverse centinaia di metri da questa struttura. Per spiegare queste particolarità, dunque, è necessario andare al di là dei dati esclusivamente archeologici, ricostruendo il contesto storico che determinò la singolare scelta di reimpiegare proprio un monumento antico così fuori mano ed estraneo ai consueti contesti residenziali suburbani, oltre agli eventuali significati ideologici ad essa sottesi.

43 Nel caso del Sangallo, è possibile verificare concretamente l’influenza

derivante dallo studio del Ninfeo di Egeria: lo documenta ad esempio un suo disegno con un progetto per la sistemazione del giardino di Villa Madama, in cui la soluzione proposta, una fontana-ninfeo scenograficamente posta ad esedra, mostra nell’articolazione planimetrica un richiamo diretto al monumento della Caffarella. Cfr. COFFIN 1979, p. 253, fig. 154.

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Il restauro del Ninfeo: un progetto di Baldassare Peruzzi? Si è visto come i disegni attribuiti a Sallustio Peruzzi possano ragionevolmente essere considerati come rielaborazioni di uno o più disegni originari del Ninfeo di Baldassare. Le singolari coincidenze evidenziate tra alcuni particolari illustrati dai disegni ed i ritrovamenti archeologici relativi alla fase cinquecentesca dell’edificio si offrono allora ad almeno due possibili letture: o i disegni agli Uffizi mostrano già lo stato del Ninfeo di Egeria successivo alla sua ristrutturazione, o rappresentano la testimonianza di studi progettuali relativi ai suddetti restauri da parte del Peruzzi senior. Questa seconda ipotesi è da preferire per una serie concatenata di motivi. In primo luogo, molti dei particolari riportati nei due documenti grafici sembrano essere dettagli di progetto, piuttosto che semplici rilevazioni misurate di una realtà già esistente. La misurazione analitica dei singoli particolari architettonici dell’edificio, il prospetto della fontana fluviale nel disegno B, vera e propria guida alla sua messa in opera, l’attenta indicazione della funzione delle canalette mediante l’apposizione di esplicite didascalie, sono tutti elementi che meglio si comprendono interpretando i documenti grafici quali elaborazioni progettuali, basate chiaramente su un rilevamento effettivo del monumento antico. Anche le varie differenze tra i disegni A e B risultano più perspicue pensando a diverse fasi di uno studio progettuale piuttosto che a semplici disegni dall’antico, poiché in questo secondo caso gli scarti tra i due documenti sarebbero dovuti essere ridotti al minimo se non addirittura assenti. Ci sono poi una serie di circostanze, per così dire esterne, che supportano l’idea che i disegni agli Uffizi derivino da un progetto di restauro del Ninfeo ideato da Baldassare Peruzzi. Si è detto come il Peruzzi ebbe un ruolo fondamentale nella creazione del tipo architettonico della grotta-ninfeo rinascimentale. Sappiamo inoltre come non fosse nuovo alla progettazione e, in alcuni casi, alla realizzazione di fabbriche riutilizzando direttamente ed in modo consapevole alcuni

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monumenti antichi, in parte ancora in piedi e strutturalmente reimpiegabili44. Ma è soprattutto un fatto a rafforzare questa ipotesi. Il diretto coinvolgimento del Peruzzi in un evento effimero che, forse, fu la stessa causa del riallestimento rinascimentale del Ninfeo: il trionfo romano dell’imperatore Carlo V. Prima però di analizzare la documentazione oggi disponibile in merito, è necessario chiarire i motivi che portarono a scegliere proprio questo monumento quale significativo scenario per una delle tappe dello storico evento. Egeria, Numa Pompilio e l’identificazione della fonte alla Caffarella La ricerca dei motivi che hanno determinato la scelta di riutilizzare il Ninfeo di Egeria deve tenere conto di una molteplicità di fattori spesso correlati tra loro in modo inestricabile. Accanto ad elementi di carattere architettonico, come la presenza perenne dell’acqua nel monumento o la sua caratteristica e ben conservata struttura conformata a grotta, sono infatti una serie di motivi culturali e antiquari che hanno contribuito a dare nuova linfa all’edificio. Fissare puntualmente quando il Ninfeo della Caffarella è stato per la prima volta messo in relazione con la fonte della ninfa Egeria ricordata dalle fonti letterarie non è facile. Si è visto però come ai tempi di Antonio da Sangallo l’associazione non dovesse ancora essere stata canonizzata. Per avvicinare la soluzione può essere utile saggiare in via preliminare la fortuna delle figure di Egeria e di Numa Pompilio nella cultura rinascimentale, a partire già dal primo Umanesimo. I racconti mitici degli incontri tra la ninfa Egeria con il suo amante Numa Pompilio, come noto, sono narrati soprattutto da Livio e Plutarco, fonti la cui conoscenza e fortuna è sempre più

44 Sul Peruzzi, oltre ai lavori già citati alla nota n. 31, si vedano almeno

FAGIOLO, MADONNA 1987 e TASSARI 1995. In merito al suo riuso di monumenti antichi cfr. FANCELLI 1985, in particolare alle pp. 362-374.

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vasta e capillare nel corso del XV secolo45. Agli occhi degli umanisti, quello che più colpisce della vicenda è la misteriosa e devota religiosità che caratterizza gli incontri, quasi furtivi, che il re ha con la Ninfa presso la sua fonte vicino alla Porta Capena. Il più antico riferimento umanistico a questa fonte si trova in una lettera di Petrarca, al solito primo prospettore di tanti recuperi dall’antico46. Ma è nel Quattrocento che la documentazione si fa più corposa. Un passo di una lettera del Bracciolini47 dà bene l’idea di come il tema del mitico incontro fosse ormai divenuto un topos letterario della cultura umanistica, offrendo al tempo stesso alcuni spunti per capire perché, dopo molti decenni, il monumento antico della Caffarella fu trasformato in una grotta-ninfeo rinascimentale. Nell’epistola citata il grande umanista paragona la fonte di Egeria, luogo dei mistici convegni amorosi tra la ninfa ed il re, al giardino di Antonio Perroso a lui contemporaneo, sede di uno di quegli horti letterari della cultura del primo Umanesimo che, per molti aspetti, rappresentano i diretti antecedenti di quegli spazi ricreativi che poi furono le grotte-ninfeo rinascimentali. La metafora del Bracciolini allude chiaramente ad un’interpretazione tutta intellettualizzata e letteraria degli incontri tra Numa ed Egeria, e tralascia volutamente i riferimenti impliciti agli aspetti più scopertamente sessuali o favolosi della vicenda. È l’idea del dialogo segreto ed iniziatico che colpisce Poggio, quella grande e pacata religiosità che sembra essere la cifra distintiva della figura di Numa, e che accompagna costantemente il secondo re della tradizione, nell’incessante opera di creazione e sistemazione dei culti e delle

45 Per le epitomi di Plutarco nel Quattrocento cfr. RESTA 1962; sulle

traduzioni latine delle Vite cfr. GIUSTINIANI 1961. Spunti importanti per i rapporti con gli affreschi rinascimentali in GUERRINI 1998. Sulla tradizione di Livio in età umanistica fondamentale BILLANOVICH 1981. Sulla sua fortuna editoriale tra Quattrocento e primo Cinquecento cfr. MC DONALD 1971. 46 Cfr. COFFIN 1991, p. 30.

47 Cfr. BRACCIOLINI 1964, Lettera ai famigliari XXVII.

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festività religiose che egli compie nella Roma appena fondata da Romolo. Una caratterizzazione del secondo re romano già solidamente costituita dalla tradizione storiografica antica48. Questo recupero della figura di Numa come exemplum di religiosità si radica presto nella cultura umanistica, venandosi talvolta di accenti neoplatonici. Interessanti riflessi di questo fenomeno si hanno anche in testimonianze artistiche, come ad esempio negli affreschi con uomini illustri posti a decorazione del Palazzo del Collegio del Cambio a Perugia, opera del Perugino, dove la figura del secondo re di Roma appare a simboleggiare, quasi sigla riassuntiva, quella prudentia nell’azione di governo che sola scaturisce da una profonda pietas49 (fig. 17). A dimostrare come, agli inizi del Cinquecento, anche nella cultura romana si fosse cristallizzata l’esemplarità religiosa di Numa, è il perduto ciclo di affreschi che Jacopo Ripanda eseguì in quegli anni nel Palazzo dei Conservatori sul Campidoglio50. È questa un’opera che, per la committenza, il luogo di esecuzione e i temi iconografici prescelti, è certo tra le più gravide di allusioni politiche e culturali tra quelle dei primi decenni del secolo. Ripanda51, intriso di cultura antiquaria, affresca le sale con i personaggi dell’antichità che più, per la cultura dell’epoca, venivano considerati fondanti per la grandezza di Roma antica: tra questi, sulla scorta di Livio, subito dopo Romolo il fondatore, il pio Numa, ad alludere scopertamente a quella che doveva essere una delle virtù cardinali dei Conservatori e del

48 Cfr. STORCHI MARINO 1999.

49 Così GUERRINI 1985, p. 58; in generale sugli affreschi del Perugino al

Collegio del Cambio VENTURI, CARADENTE 1955, SCARPELLINI 1998 e TEZA 2004. Il reimpiego delle figure storiche dell’antichità in chiave morale e paradigmatica è uno degli aspetti più profondi della filologia umanistica, un sentiero attraverso il quale si giunge a rivivere il passato in modo attivo e, molto spesso, politicamente progressista: in proposito, importanti considerazioni in DONATO 1985. 50 Cfr. FARINELLA 1992, pp. 80-97.

51 Sulla figura del Ripanda è fondamentale FARINELLA 1992.

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governo laico della città: la religiosità, certo in quegli anni letta come devota sottomissione al Pontefice. Ancora un altro importante ciclo figurativo testimonia la vivacità della figura di Numa nella cultura rinascimentale: gli affreschi di Villa Lante al Gianicolo, opera di Perin del Vaga52. Qui il sofisticato programma allegorico appare connesso con l’ideologia del pontefice e con la nuova età dell’oro che si voleva da questi instaurata53. Il pitagorico Numa, sepolto secondo la tradizione sul Gianicolo54, doveva evocare nello spettatore le qualità religiose del pontefice, novello Giove. Per quanto concerne la figura di Egeria, invece, accanto agli aspetti fin qui tratteggiati relativi soprattutto al suo rapporto con Numa, ne vanno posti altri che più da vicino la riguardano, e che, come una nuova pelle, contribuiscono a ravvivarla nell’immaginario umanistico. Egeria, nella mitologia antica, è una ninfa e, al pari della miriade di ninfe pagane che nel Rinascimento tornano a popolare l’universo degli umanisti e dei dotti, viene anch’essa richiamata dall’antichità a dialogare con i moderni. Le ninfe antiche, infatti, sono figure centrali nella produzione letteraria umanistica di corte incentrata su tematiche pastorali e mitologico-allegoriche. Con le loro affascinanti e favolose storie, fungono da metafore per amori impossibili, travestimenti per donne amate, immagini della devota sposa, sì da apparire sempre come materiale letterario vivo, pronto da riutilizzare per costruire nuove storie dense di significati simbolici e di rimandi al presente55.

52 Cfr. LILIUS 1981 e CARUNCHIO, ÖRMÄ 2005.

53 Sull’ideologia politico-antiquaria del pontificato di Leone X si veda il

quadro tracciato in JACKS 1993, pp. 175-204. 54 PICCALUGA 1996.

55 Questo in particolare per quanto concerne la Firenze medicea: si pensi alla

stessa produzione letteraria del Magnifico e a quella degli umanisti a lui più vicini; per le esplorazioni del significato metaforico della figura della ninfa nella letteratura e nell’arte medicea resta una pietra miliare, almeno dal punto di vista del metodo, WARBURG 1966; illuminanti considerazioni in GOMBRICH 1975.

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Esemplare, in questo senso, è un testo capitale come l’Orfeo del Poliziano56, dove la figura femminile principale, Euridice, è immaginata nelle sembianze di una ninfa, che appare per la prima volta al pastore Aristeo proprio sotto un’ombrosa grotta57, secondo uno schema associativo classico ninfa/fonte/spelonca che è identico a quello rilevato per il Ninfeo di Egeria58. Ma è soprattutto ad un altro testo fondamentale che bisogna guardare per percepire con quale intensità le ninfe e tutto il mondo pastorale-bucolico avessero permeato a fondo la cultura aristocratica del primo Cinquecento: l’Arcadia del Sannazaro, nota a partire dal 150459.

56 Tra la vasta bibliografia in merito si ricorda: DOGLIO 1977; TISSONI

BENVENUTI 1986 (edizione commentata del testo). Sulla figura del Poliziano sono fondamentali: GARIN 1967, pp. 131-162; BRANCA 1983; FERA, MARTELLI 1998. 57 «Aristeo, pastor giovane:

Caro mio Mopso, a piè di questo fonte 20 non son venuti questa mane armenti, ma senti’ ben mugghiar là drieto al monte. Va’, Tirsi, e guarda un poco se tu’l senti. Tu, Mopso, intanto ti starai qui meco, ch’i’ vo’ ch’ascolti alquanto i miei lamenti. 25 Ier vidi sotto quello ombroso speco una ninfa più bella che Diana, ch’un giovane amatore avea seco. Com’io vidi sua vista più che umana, subito mi si scosse il cor nel petto 30 e mie mente d’amor divenne insana: tal ch’io non sento, Mopso, più diletto ma sempre piango, e’l cibo non mi piace, e senza mai dormir so stato in letto.

58 Schema evidentemente desunto da un topos della letteratura idillico-

pastorale di età ellenistica e romana: sul tema cfr. FANTUZZI 2002, con bibl. prec. 59 Per l’Arcadia si veda l’edizione commentata ERSPAMER 1990. Tra la

bibliografia critica, penetranti considerazioni in CORTI 1969 (in particolare pp. 281-367); importante anche SANTAGATA 1979.

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L’Arcadia, pur contro la volontà del suo autore che in un certo senso non la considerò mai opera compiuta, conobbe immediatamente una fortuna immensa, sintomo evidente della sua modernità e del fatto che ben interpretava le aspettative culturali delle elites del tempo; il suo mondo pastorale e i suoi complessi intrecci mitici calcati o rielaborati dal patrimonio greco-romano, la sua storia amorosa a sfondo filosofico e moraleggiante e i suoi continui e obliqui riferimenti al presente, ne fecero da subito un classico, che, con alterne vicende, visse per almeno tre secoli nella cultura europea. Tra la selva delle fonti che ispirarono il Sannazaro, un posto di rilievo lo ebbe, come già per Poliziano, l’Ovidio delle Metamorfosi. Proprio il testo ovidiano contiene importanti riferimenti ad Egeria60, che, non a caso, vengono ripresi dal Sannazaro ed inseriti nel suo incanto pastorale61; il passo dell’Arcadia, pur nella brevità, documenta la familiarità che i colti lettori del poeta napoletano potevano avere con la mitica ninfa. Certo non è facile oggi ricostruire integralmente e, soprattutto, comprendere questo universo mentale di eroi, divinità e creature mitologiche, pagane e cristiane, appannaggio di un gruppo sociale ristretto, ma politicamente dominante; tuttavia, è in questo mondo vagheggiato e virtuale che prendono corpo i programmi e si dispiega la propaganda visiva di questi ceti. Ricostruita così, per grandi linee, l’atmosfera culturale che ha reso familiare la ninfa Egeria a partire dal XV secolo, è possibile definire con meno difficoltà il perché proprio il monumento della Caffarella sia stato identificato con la fonte della mitica Egeria. Le indicazioni topografiche fornite dai testi classici localizzavano la fonte fuori dalla Porta Capena, che allora era identificata con Porta San Sebastiano del circuito murario aureliano; un passo di Marziale62, in particolare, lamentava come

60 Ov., Met., XV, 479-496, 546-551.

61 SANAZZARO, Arcadia, XI, 19.

62 MART. 2.6.14-16.

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il luogo, una fonte in grotta, fosse stato ai suoi tempi sciaguratamente rifatto in marmo e materiali lussuosi. Il Ninfeo della Caffarella rispondeva bene, con le sue caratteristiche architettoniche e la sua posizione topografica, alle indicazioni filologiche, apparendo inoltre, con il suo aspetto di grotta immersa nella natura campestre, assai consono a quel mondo bucolico-pastorale abitato da satiri e ninfe che si è visto essere stato in gran voga in piena età rinascimentale. Meno facile è invece precisare ad annum quando tale consapevolezza antiquaria possa essersi manifestata. Scorrendo il testo chiave della topografia antiquaria del XV secolo, la Roma instaurata del Biondo Flavio, non si trova alcuna traccia del luogo63. Bisogna attendere la pubblicazione dell’innovativa opera di Bartolomeo Marliani per trovare menzione della Fonte di Egeria fuori Porta Capena64, anche se tale menzione non risulta ancora associata al monumento della Caffarella. Il primo documento a far riferimento a questa identificazione sembra dunque essere il disegno B attribuito a Sallustio Peruzzi. È certo comunque che, almeno dagli anni Quaranta del XVI secolo, l’identificazione fosse ormai divenuta consueta: lo attestano, senza possibilità di equivoci, la Pianta della Campagna Romana di Eufrosino della Volpaia65 (1547) e l’interessante Pianta Piccola di Roma Antica66 di Pirro Ligorio, che inoltre mostra come, per l’antiquario napoletano, tutta la valle dell’Almone andasse ormai definita con il toponimo di Vallis Egeriae. Dai dati fin qui raccolti, allora, è possibile costatare come l’idea che il Ninfeo della Caffarella fosse la fonte della ninfa Egeria dové formarsi negli stessi anni in cui l’edificio fu riadattato per essere nuovamente utilizzato come edificio ricreativo.

63 Sull’opera del Biondo un primo inquadramento in WEISS 1963; acute

prospettive critiche in GÜNTHER 1997. Da ultimo MUECKE 2012. 64 Cfr. MARLIANI 1534, VII, p. 170: «...Lucus Egeriae extra portam Capenam,

quod Camoenis sacravit Numa». Sul Marliani cfr. ALBANESE 2007. 65 Su questa pianta resta fondamentale ASHBY 1914.

66 Cfr. FRUTAZ 1962, pp. 60-61, tav. 25.

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Coincidenza difficilmente casuale, che anzi indica come proprio quest’identificazione antiquaria dové suggerire il riadattamento dell’antico edificio. A questo punto, restano solo da definire i tempi e le motivazioni storiche che portarono ai nuovi lavori nel monumento. I Caffarelli, Carlo V e il Ninfeo Entrati dunque in possesso dei terreni posti nella valle e del Ninfeo, i Caffarelli decidono di ristrutturare l’antico monumento per destinarlo ad un nuovo uso. Cosa può averli spinti ad una simile operazione? I Caffarelli, tra le nobili famiglie romane di età rinascimentale, non si distinguono particolarmente per interessi antiquari: una rapida rassegna delle collezioni di antichità raccolte nei loro palazzi urbani dà l’idea di un impegno blando67, dettato più dalla volontà di adeguarsi al gusto corrente imposto dal pontefice e dalle grandi famiglie, che da una consapevole scelta programmatica68. Questo, però, contrasta con la decisione di reimpiegare il Ninfeo, che viceversa si segnala come una raffinata operazione antiquaria. Si è visto come l’identificazione dell’edificio con la fonte della ninfa Egeria possa aver determinato una volontà di riuso, e come il Ninfeo, con la sua acqua perenne e la sua fresca spelonca, potesse offrire un sofisticato riparo dalla calura ed un luogo di riposo e di svago durante la permanenza campestre dei Caffarelli, o durante le battute di caccia organizzate nei terreni della tenuta. C’è però un documento, finora mai valorizzato adeguatamente, che è in grado di gettare nuova luce sul problema. Si tratta di una tavola disegnata nel XVII secolo da J. Asselin ed incisa da G. Perelle69 in cui è illustrato, oltre al monumento, un

67 Cfr. ad esempio ALDROANDI 1558, p. 221, in cui vengono illustrati le

poche sculture antiche conservate presso il Palazzo Caffarelli alla Valle. 68 Sulle collezioni rinascimentali di antichità si veda FRANZONI 1984.

69 Cfr. VIA APPIA 1956, pag. 36, fig. 26.

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arredamento mobile presente all’epoca all’interno del Ninfeo ed oggi scomparso: un grande elemento architettonico marmoreo di riuso impiegato come tavola per il pasto, circondato da una serie di capitelli antichi di spoglio utilizzati come sgabelli (fig. 18). La didascalia alla tavola ci informa come questo singolare arredo fosse stato realizzato in occasione del trionfo romano di Carlo V, nel 1536, con lo scopo di ospitare un banchetto offerto all’imperatore dai Caffarelli. Sulla veridicità di questo mobilio non si può dubitare: lo riportano infatti come esistente nel Ninfeo anche altri attendibili documenti grafici della prima metà del XVII secolo realizzati da artisti quali Claude Lorrain70 (fig. 19), Herman van Swanevelt71, Bartholomeus Breenbergh72. La tradizione di questo soggiorno imperiale al Ninfeo, praticamente nota da sempre, non è mai stata presa sistematicamente in considerazione, se non a livello aneddotico. Chi scrive, invece, crede che essa possa non solo completare, ma chiarire in una nuova prospettiva di lettura quanto si è venuto fin qui illustrando in merito alle vicende cinquecentesche del Ninfeo. La bontà della tradizione sul banchetto di Carlo V al Ninfeo non è da mettere in discussione; oltre che dai documenti grafici citati, infatti, è resa solida da alcune importanti circostanze storiche. In primo luogo sappiamo che i Caffarelli ebbero un ruolo di primissimo piano, come famiglia di punta della nobiltà cittadina, nella complicata organizzazione diplomatica che dové preparare l’ingresso trionfale dell’imperatore nella Città Eterna; non a caso, proprio nel Palazzo Caffarelli in via del Sudario si tenne il banchetto serale in onore di Carlo V, banchetto a cui prese parte la nobiltà romana e che aveva l’obiettivo di riconciliare questa con l’imperatore. Sappiamo poi come Giovan Pietro, il capo della casata, fosse paggio di Carlo V. La testimonianza più vivida dei rapporti tra l’imperatore e i

70 Cfr. ROETHLISBERGER 1968, p. 202, cat. n. 408.

71 Cfr. BARTSCH 1920, vol. II, pp. 163-164 e BARTSCH 1978, p. 295.

72 Cfr. ROETHLISBERGER 1969, p. 42, n. 125 (con bibl. prec.).

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Caffarelli è certo il ciclo di affreschi che decorano ancora oggi il salone di Palazzo Caffarelli-Vidoni, luogo dello svolgimento del sopracitato ricevimento imperiale: affreschi dipinti dopo gli eventi a perenne memoria, in cui l’artista, purtroppo anonimo, ha ritratto i momenti salienti di quei giorni73. Si consideri poi come un banchetto analogo, svolto cioè in un monumento antico riadattato all’occasione, fu offerto a Carlo V anche nel suo trionfo napoletano, che precedette quello di Roma74. Se dunque del banchetto non si può dubitare, è necessario precisare meglio quando, nell’arco della permanenza di Carlo a Roma, esso possa essersi tenuto. La risposta più ovvia sembra essere una sola: nella giornata del suo trionfo, proprio nell’ambito delle cerimonie per il corteo trionfale. La documentazione storica conosciuta in merito al trionfo di Carlo V a Roma, illustrante nel dettaglio il percorso, i protagonisti, gli apparati effimeri ed i relativi significati allegorici, non sembra recare memoria di questo banchetto al Ninfeo che, tuttavia, può essere ugualmente ipotizzato sulla base di indizi indiretti75. È noto infatti come l’imperatore ed il suo seguito, passata la notte nel Monastero della Basilica di S. Paolo fuori le mura, iniziarono il percorso trionfale dalla Basilica di S. Sebastiano sulla via Appia, nelle primissime ore del pomeriggio. Quale luogo migliore del Ninfeo di Egeria, praticamente a pochi minuti di cammino da S. Sebastiano, poteva allora ospitare il pranzo consumato da Carlo e dai suoi dignitari prima dell’inizio del corteo? In aggiunta a questo elemento per così dire pratico del cerimoniale, c’è poi un fattore più strettamente culturale ed ideologico che vale a confermare definitivamente la datazione del banchetto al Ninfeo di Egeria al 5 aprile del 1536, giorno del trionfo imperiale.

73 Cfr. LOTTI 1971.

74 Cfr. DE VOS 1985, p. 356.

75 Sul trionfo di Carlo V si vedano CANCELLIERI 1832, pp. 92-104;

PODESTÀ.

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Il trionfo di Carlo V è, come gli studi più recenti hanno ampiamente mostrato76, una complessa macchina cerimoniale finalizzata alla rappresentazione allegorica del potere, un dispositivo effimero potentemente evocativo che, attraverso la mimesi con l’Antico, carica i suoi protagonisti di nuova legittimazione ideologica. Tutta la cerimonia è intrisa di simbolismi e allusioni, più o meno velate, che, seppure sotto paludamento antiquario, condensano per gli osservatori colti, tra i tanti messaggi, anche lo stato dei problematici rapporti politici tra l’imperatore e il papa. Vale la pena di riassumere il problema: Carlo, vincitore a Tunisi sugli Infedeli, risaliva l’Italia acclamato nelle principali città come trionfatore e protettore della cristianità77. Con la guerra contro i musulmani, costosa e faticosissima, l’imperatore sperava di aver appianato la strada ad una riconciliazione delle relazioni con il Papa, devastate dopo il terribile Sacco di Roma del 152778 e con lo scoppio della Riforma. Il Trionfo romano, accortamente preparato, sembrò l’occasione propizia per mostrare, quasi ostentare, l’avvenuta riconciliazione: Carlo V, come un nuovo imperatore romano paladino della cristianità cattolica, ricevette il massimo omaggio dalla Madre Chiesa, mostrando però una devota volontà di pacificazione ed un timore religioso quasi filiale nei confronti del Sommo Pontefice. È in questa prospettiva, riassunta nel programma iconografico del complesso apparato effimero allestito per il Trionfo, che va letta allora la sosta al Ninfeo di Egeria. Chi l’ha programmata ha certo voluto alludere simbolicamente ad un Carlo devotamente religioso, come un nuovo Numa a segreto colloquio con la

76 Ad esempio MADONNA 1980. Sintesi importante in VISCEGLIA 2002. Più

in generale sui trionfi moderni cfr. PINELLI 1985. 77 Tra la sterminata letteratura su Carlo V ed il suo regno si citano almeno il

classico BRANDI 1937 e la raccolta di scritti CHABOD 1985 (in part. pp. 5-161), ricco di interpretazioni e letture penetranti. 78 Sugli effetti del Sacco si vedano il fondamentale CHASTEL 1983 e, per

l’approccio multidisciplinare, MIGLIO 1986.

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dotta Egeria; ispirato cioè da quella saggia prudentia che è virtus specifica del mitico re di cui si è precedentemente trattato, e attento in questo modo a non prevaricare l’autorità morale del pontefice, Paolo III Farnese. Un’esplicita allusione a questa identificazione con Numa era sicuramente contenuta in una parte del programma iconografico che decorava la porta trionfale effimera allestita come ingresso alla città a Porta San Sebastiano: qui, infatti, le figure di Romolo e Numa, affrontate, valevano a ricordare le virtù cardinali richieste all’imperatore dei cristiani. Il recupero della memoria di questo banchetto, infine, permette di tornare all’ipotesi precedentemente espressa di identificare in Baldassare Peruzzi l’artefice del riuso cinquecentesco del Ninfeo, chiudendo così il cerchio. Sappiamo infatti come l’artista fu responsabile della progettazione di parte degli apparati effimeri per il trionfo di Carlo V79. Considerando le circostanze evocate, non stupirebbe allora che sempre a lui debbano essere intestati i lavori di reimpiego all’antica del monumento. Contro questa proposta, potrebbe solo ostare il fatto che l’artista morì qualche mese prima del trionfo, ma siamo informati su come non solo i preparativi ed i progetti, ma anche i lavori per l’evento dovessero essere già cominciati lui vivente80. In ogni modo, anche volendo ammettere per prudenza che i lavori al Ninfeo possano aver preceduto e non essere all’inizio stati legati al trionfo dell’imperatore, a parere di chi scrive resta comunque persuasiva, sulla base dei documenti di vario genere analizzati, la proposta di attribuire al Peruzzi senior la paternità dell’intervento. Le fortuna del Ninfeo tra antiquaria e cultura popolare La salubrità e la freschezza del luogo, la presenza della fonte, l’amenità del paesaggio, ma anche la fama antiquaria del

79 VISCEGLIA 2002.

80 LANCIANI 1990, p. 63.

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monumento e la memoria del banchetto di Carlo V, di cui era rimasta tangibile prova nella tavola fatta di spoglie antiche, dovettero determinare la grande fortuna del Ninfeo di Egeria almeno fino a tutto il XIX secolo. A partire dai decenni centrali del Cinquecento il monumento è tra quelli più famosi dei dintorni di Roma ed inizia ad essere incessantemente visitato e frequentato da antiquari, artisti, viaggiatori81. C’è però forse un uso meno noto del monumento che affianca quello, per così dire, aulico: ed è l’uso ricreativo che il popolo romano fa del Ninfeo nel corso della bella stagione. Grazie alla sua amena ubicazione, e presumibilmente sulla spinta della consacrazione ricevuta dal banchetto imperiale, il Ninfeo diviene una delle località fuori porta prediletta dal popolo per le feste e le scampagnate. All’interno del settore orientale dell’ambiente II, sulle stesse murature antiche, si impianta addirittura una piccola osteria82. Lo testimonia bene una memoria di Flaminio Vacca, che riporta in particolare come durante la stagione calda fosse uso fare festa alla Caffarella ed al Ninfeo di Egeria. Così Vacca83:

Poco lontano dal detto luogo si scende ad un canaletto, del quale ne sono padroni i Caffarelli, che con questo nome è chiamato il luogo. Vi è una fontana sotto una gran volta antica, che al presente ancora si gode; e molti di Roma al tempo dell’estate vi vanno a far ricreazione, e ci stanno tutto il giorno. Essendovi stato più volte vi viddi un epitaffio antico, da moderni messo per pavimento in detto fonte, il quale diceva, che quella era la fonte di Egeria, dedicata alle Ninfe. Favoleggiando i poeti dicono, che Egeria fosse Ninfa di Diana; ed essendo innamorata di un suo fratello molto lontano da lei, volendogli scrivere, che tornasse, prese lo stile, e scrivendo pianse si dirottamente, che Diana mossa a compassione la convertì in viva fonte: e questa dice l’epitaffio essere la medesima fonte, in cui fu convertita.

81 KAMMERER-GROTHAUS, KOCS 1983; DE CRISTOFARO 2005B, pp. 122-

214. 82 DE CRISTOFARO 2005B, pp. 160-163.

83 Il testo è in FEA 1790, pag. CXI, memoria n.83.

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La notizia del Vacca è preziosa anche per un altro aspetto: tramanda, infatti, il ricordo di un’epigrafe messa dai moderni nel pavimento del Ninfeo che, con funzione didascalica, doveva illustrare ai visitatori ciò che si trovavano di fronte visitando il monumento. Epigrafe, oggi purtroppo scomparsa, che molto probabilmente era stata creata ad hoc da qualche abile antiquario. L’uso del monumento come luogo di ritrovo per feste popolari, comunque, si radicò divenendo una tradizione perdurante fino almeno alla prima metà del XVIII secolo. Un poemetto di Giovanni Briccio84 pubblicato a Viterbo nel 1620, oggi quasi dimenticato ma a suo tempo conosciuto, dal titolo parlante, Lo spasso della Caffarella, restituisce in modo vivido come a maggio il popolo romano si ritrovasse presso il Ninfeo per trascorrere una giornata in allegria e spensieratezza, tra vino e cibi festivi, balli, canti, giochi popolari, corteggiamenti e schermaglie amorose (fig. 20). Un popolo borghese e minuto fatto di sarti, mugnai, artigiani, calzolai, rigattieri, barbieri, notai, uomini di lettere, per citare solo alcune delle categorie professionali ricordate nella canzone del Briccio, con la significativa assenza dell’alto clero e dell’aristocrazia. E poi gli stranieri, sempre più numerosi col passare dei decenni e di variegata provenienza, attratti da queste rumorose e gioiose feste popolari così vicine, per la mentalità dell’epoca, alla sfrenata vitalità dei baccanali antichi.

84 BRICCIO 1620.

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Didascalie Fig. 1. Panoramica del ninfeo di Egeria dopo i restauri eseguiti con i

fondi per il Giubileo 2000 (foto Autore). Fig. 2. Valle della Caffarella alla fine degli anni Settanta del XX secolo

(RANELLUCCI 1981, fig. 7). Fig. 3. Valle della Caffarella, Casale della Vaccareccia (RANELLUCCI

1981, fig. 4). Fig. 4. Casale della Vaccareccia, portico d’ingresso con capitelli

romani di età imperiale di rimpiego (RANELLUCCI 1981, fig. 11) Fig. 5. Antonio da Sangallo il giovane, Ninfeo di Egeria, Firenze,

Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (BARTOLI 1914). Fig. 6. Planimetria del ninfeo di Egeria dopo gli scavi del 2000

(Cirone/De Cristofaro/Di Mento). Fig. 7. Ninfeo di Egeria: particolare dello sfondamento post antico

della nicchia per l’accesso all’acquedotto retrostante, oggi tamponata nel corso dei restauri del 2000 (foto Autore).

Fig. 8. Ninfeo di Egeria: particolare della fontana con statua di fiume dopo restauri del 2000 (foto Autore).

Fig. 9. Sallustio Peruzzi (attrib.), Ninfeo di Egeria, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (BARTOLI 1914).

Fig. 10. Sallustio Peruzzi (attrib.): Ninfeo di Egeria, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (BARTOLI 1914).

Fig. 11. Ninfeo di Egeria: particolare in pianta delle canalette cinquecentesche.

Fig. 12. Ninfeo di Egeria: particolare della fontana cinquecentesca (foto Autore).

Fig. 13. Ninfeo di Egeria: particolare della fontana cinquecentesca (foto Autore).

Fig. 14. Ninfeo di Egeria: dispositivo di troppo-pieno della fontana cinquecentesca (foto Autore).

Fig. 15. Francisco d’Ollanda. La statua di Cleopatra “in hortis pontificum”. Cod. Escurialensis 28-I-20, fol 8r. (LANCIANI 1989, fig. 120).

Fig. 16. Marten van Heemskerck, La fontana dell’Arno in Belvedere. Berlino, Kupferstischkabinett, I, fol. 62r. (LANCIANI 1989, fig. 123).

Fig. 17. Pietro Perugino, Prudenza e Giustizia sopra sei savi antichi, affresco con raffigurazione del re Numa Pompilio. Perugia, Collegio del Cambio, Sala delle Udienze.

Fig. 18. J. Asselijn (dis.) e G. Perelle (inc.), Veduta del ninfeo di Egeria. Fig. 19. Claude Lorrain, Ninfeo di Egeria (RANELLUCCI 1981, fig. 89). Fig. 20. Jan van Ossenbeeck, Festa al ninfeo di Egeria (RANELLUCCI

1981, fig. 84).

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L’OSPEDALE E LA CHIESA DI

SANTA MARIA DEI RACCOMANDATI A CITTADUCALE: UNA RICOSTRUZIONE STORICA TRA FONTI,

VISITE PASTORALI E DECORAZIONI AD AFFRESCO

ISABELLA ROSSI

La chiesa di Santa Maria dei Raccomandati, nonostante versi da molti anni in precarie condizioni conservative, è sicuramente tra gli edifici più interessanti di Cittaducale. Danneggiata a più riprese dai terremoti che hanno colpito il Lazio e la Marsica nel corso dei secoli e in particolare nel Novecento, la chiesa, il cui aspetto interno risaliva, al momento della chiusura al pubblico nel 1970, al restauro settecentesco, fu fortunatamente oggetto dell’interesse personale di Anna Maria Berti Bullo, moglie dell’allora comandante della Scuola Allievi Sottufficiali e Guardie Forestali dello Stato ospitata nei locali dell’adiacente struttura. Presa l’iniziativa personale di effettuare sondaggi all’interno per evitare che, una volta chiuso, l’edificio fosse dimenticato e rovinasse definitivamente, la studiosa giunse ad importanti scoperte, documentate da una preziosissima relazione del marzo del 1971, tra cui la messa in luce di alcuni

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affreschi scialbati, quattro-cinquecenteschi, tutt’ora inediti1. La

loro analisi non può prescindere da quella della chiesa e della sua storia, che si è cercato in questo articolo di riassumere collazionado tutte le fonti e i contribuiti degli studiosi che a lungo e con dedizione hanno approfondito molti aspetti della storia di Cittaducale e del suo territorio. Le visite pastorali, visionate e trascritte in occasione della ricerca, completano il quadro di riferimento e, sebbene non permettano di risalire oltre il 1682, forniscono alcuni dati interessanti sulla storia del complesso e sulla confraternita che lo gestiva in origine. 1. La confraternita dei Raccomandati a Cittaducale: la Collatio del 1450 e le vicende dell’Ospedale Sulla scia delle scoperte del 1970-1971, la Berti Bullo rinveniva nei fondi dell’Archivio del Capitolo lateranense di Roma un documento fondamentale. Datata 3 aprile 1450, la Collatio Hominibus Fraternitatis Hospitalis Ecclesiae sub vocabolo Sanctae Marie de Recommendatis Civitatis Ducate, è una conferma del privilegio, concesso dal «Capitolo e dai Canonici della Sacrosanta Chiesa Lateranense», di «fondare e di edificare Ospedale e Chiesa con il nome di Santa Maria dei Raccomandati», sfruttando un terreno di proprietà del medesimo Capitolo. Successivamente, grazie

Il presente contributo è il risultato di un approfondimento della tesi in Storia dell’Arte Moderna, da me discussa nel 2007 nell’ambito del corso di Specializzazione in Storia dell’Arte Medievale e Moderna dell’Università degli Studi ‘La Sapienza’ di Roma, sotto la guida del prof. Vincenzo Bilardello, che qui ringrazio per i preziosi consigli, per la disponibilità e per l’analisi acuta e mai scontata delle opere d’arte. Ringrazio inoltre, per l’aiuto e la cortesia dimostratami, il dott. Roberto Biondi e la dott.ssa Daniela Ciammetti dell’Archivio Arcidiocesano dell’Aquila, e don Mariano Pappalardo, parroco di Cittaducale. Un ringraziamento speciale va infine a Gianni Pittiglio per il costante e impagabile sostegno. 1 La relazione, datata 6 marzo 1971 (= Relazione 1971), è conservata presso

l’Archivio Restauri della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Roma, Frosinone, Latina, Rieti e Viterbo (= ARSbap-Lazio), nella pratica relativa segnata Cittaducale (RI), Chiesa di Santa Maria dei Raccomandati, 193bis (= Santa Maria dei Raccomandati).

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alla scoperta di una lettera del 1774 conservata nello stesso archivio, fu possibile risalire alla data della concessione originaria, il 1365 e, quindi, di stabilire un punto fermo nella storia della congregazione nella cittadina2. La confraternita dei

Raccomandati del Salvatore ad Sancta Sanctorum era stata fondata a Roma su iniziativa del cardinale Pietro Colonna tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, attorno all’antica e popolare devozione per l’Acheropita, custodita dal Capitolo lateranense. I principi fondanti del sodalizio erano quelli caratteristici della fioritura associativa tipica della spiritualità tardo-medievale e si sostanziavano nella partecipazione attiva e responsabile all’organizzazione del culto ed alle pratiche della fede, ma con un atteggiamento di totale impermeabilità alle suggestioni dei movimenti penitenziale e flagellante, nonostante il termine di ‘raccomandati’ possa far pensare ad una confraternita di disciplinati3. Appartenenti soprattutto al ceto di commercianti,

imprenditori agricoli e proprietari di bestiame, che rappresentava l’elemento più vitale della società e dell’economia della Roma trecentesca, i Raccomandati diedero vita, inizialmente, ad una struttura tradizionale di stampo mutualistico, rispettosa dell’autorità religiosa come delle istituzioni civili. I primi statuti della ‘fraternità’ (1331) presentavano un’impostazione prevalentemente devozionale: istanze assistenziali e caritative rivolte ai soli confratelli e una

2 BERTI BULLO 1973, pp. 43-47. Cfr. Appendice documentaria I.

3 Sulla confraternita dei Raccomandati del Salvatore ad Sancta Sanctorum cfr.

PAVAN 1978, pp. 35-96 e PAVAN 1980, pp. 189-193. Si esclude la possibilità di una filiazione del sodalizio civitese dalla più famosa confraternita di Santa Maria dei Raccomandati di Roma che avrebbe poi assunto, alla metà del XIV secolo, la titolazione di confraternita del Gonfalone. I Raccomandati del Gonfalone erano disciplinati (o battuti). La vocazione all’assistenza ospedaliera è invece connaturata ai Raccomandati del Sancta Sanctorum. Sull’argomento in generale si veda il recente ed approfondito contributo a cura di M. Gazzini, STUDI CONFRATERNALI 2011 nonché ESPOSITO 2013.

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struttura costituzionale incerta e poco gerarchizzata4.

Successivamente la congregazione si impegnò in opere di carità rivolte all’esterno: nel 1333 furono istituiti i primi centri assistenziali, organizzati prima in case riadattate, poi in veri e propri ospedali. La sensibilità per il problema della carità trovò presto nell’attività ospedaliera un’espressione a tal punto concreta da costituirne l’elemento caratterizzante: le parole Societas e Hospitalia furono, nel lessico elaborato dalla confraternita stessa, associate così di frequente da diventare di fatto sinonimi, ma con una progressiva preferenza del secondo termine sul primo5. E se questo è il contesto in cui si inserisce la

4 Il complesso più rilevante di norme riguardava la frequenza ai sacramenti,

la partecipazione a riunioni sociali, le messe e il banchetto comuni, la preghiera quotidiana, le esequie dei confratelli defunti: tutte regole che avevano lo scopo di rafforzare il vincolo associativo. La solidarietà del gruppo, caratterizzato da un numero limitato di adepti di cui si cercava di garantire l’omogeneità sociale, si concretizzava nell’aiuto reciproco, economico e morale, verso chiunque fosse colpito da malattia o da improvvisa povertà. Cfr. PAVAN 1978 e PAVAN 1980. 5 Tra i primi edifici eretti dai Raccomandati si ricorda quello di Sant’Angelo

al Laterano, più noto come Ospedale del Salvatore, fondato nel 1348. Tali iniziative, sorte in un momento in cui la povertà cominciava ad essere percepita come problema non solo religioso ma anche sociale, spiega il successo ed il conseguente prestigio della confraternita: nel giro di pochi anni i Raccomandati riuscirono a concentrare uno dei patrimoni più cospicui della città, grazie all’abbondanza dei lasciti testamentari e delle donazioni. In virtù dell’evidente ruolo di «ammortizzatore sociale» assunto nel corso del Trecento, la confraternita ottenne la protezione delle autorità cittadine e della Chiesa, attraverso la concessione di indulgenze, privilegi ed esenzioni (Bonifacio IX nel 1397 e 1403; Martino V nel 1422; Eugenio IV nel 1433 e 1437; Niccolò V nel 1448 e 1449; Sisto IV nel 1476). Nel 1408, sotto la spinta delle responsabilità connesse con la gestione dei nosocomi e con l’amministrazione dell’ingente patrimonio fondiario, si rese urgente una revisione e un ampliamento degli statuti: i Secunda Capitula fornirono una salda base statutaria, caratterizzata da una struttura più gerarchizzata e maggiore libertà di azione per i dirigenti, eletti dall’assemblea, peraltro esautorata da ogni potere decisionale. Con le Reformationes del 1474, si restrinse ulteriormente la base del reclutamento con il divieto per i sodali di appartenere ad altre confraternite coinvolgendo, contestualmente, i membri nelle decisioni collegiali, per garantirne la concordia reciproca al fine di

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concessione del 1365, alcuni eventi dalle forti ripercussioni sociali devono aver spinto la popolazione locale a dar vita a gruppi organizzati con finalità assistenziali: il giubileo del 1350, preceduto dalla famosa peste del 1348 e, soprattutto, una seconda terribile epidemia, scoppiata nel 1363, due anni prima della ratifica della Collatio. Sebastiano Marchesi, autore dell’unica cronaca storica di Cittaducale (1592), racconta:

Questa fu la gran peste della quale Giovanni Boccaccio poeta di Certaldo fa menzione nel Decamerone suo, nella quale peste per maggior male segli aggionse una carestia universale di tutte le cose. Onde, e per l’una e per l’altra causa, non restò viva in Civita una terza parte delle genti […]. Durò questa afflizione quasi per tre anni continui fino all’anno del giubileo 1350 […]. Fu in questo anno [1363, n.d.a] in Civita una grandissima pestilenza che uccise meglio di doimila persone […]6.

Se l’Anno Santo, coincidente con la fine della pestilenza del 1348, aveva portato lungo la Salaria schiere di pellegrini provenienti dall’Abruzzo, dalle Marche, dal Piceno e in generale dai centri adriatici, inclusa la Puglia, la recrudescenza del morbo, appena un decennio dopo, deve aver sicuramente dato un ulteriore impulso alla nascita della confraternita nonché alla

riorganizzare e ampliare le attività assistenziali a nuovi settori. Cfr. PAVAN

1978, p. 96 e PAVAN 1980, pp. 190-193 . 6 MARCHESI 1592 [ED. 2004], pp. 48, 52. La prima edizione del Compendio

storico di Cittaducale dall’origine al 1592 si deve all’iniziativa di un comitato di cittadini che nel 1875 rintracciò una copia del manoscritto originale, purtroppo perduto, presso il marchese Dragonetti De Torres all’Aquila. Nel 1979 la Pro-Loco di Cittaducale e l’Archivio di Stato di Rieti curarono la ristampa anastatica del libro, fornendola di indici. Ad Andrea Di Nicola si deve un’accurata edizione critica basata sull’esemplare della Biblioteca Nazionale di Parigi, qui giunto, attraverso alterne vicende, grazie a Gabriel Naudé, dapprima segretario di Giovan Francesco Guidi di Bagno, vescovo di Rieti e, in seguito, al servizio del cardinal Mazzarino, dal quale era stato incaricato dell’acquisto di libri e di manoscritti in Italia e Fiandra. Cfr. Introduzione in MARCHESI 1592 [ED. 2004], pp. 1-8. Sugli itinerari giubilari nel Medioevo in Sabina, cfr. PAPÒ, CARROZZONI 1999.

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fondazione di una chiesa e soprattutto di un ospedale. Inoltre, appare più che plausibile l’appoggio concesso dal Capitolo lateranense alla filiazione civitese, in una città di recentissima fondazione (1308) appartenente al Regno di Napoli, ma che di fatto ricadeva sotto la giurisdizione ecclesiastica della diocesi di Rieti e, quindi, dello Stato Pontificio7.

2. La chiesa e l’ospedale: la vicenda storica dalla fondazione alla chiusura al culto La chiesa e l’ospedale sorsero dunque su una proprietà del Capitolo lateranse, indicata nella Collatio col termine casaleno che, in latino medievale, indica una domus semi-diruta o i ruderi di edifici più antichi (fig. 1)8. Se il 1365 costituisce pertanto un

termine post quem per la costruzione del complesso, resta difficile stabilirne con esattezza la cronologia. È stato ipotizzato in passato che il documento potesse essere una spia di una mancata edificazione delle strutture e che la confraternita, per non perdere i diritti acquisiti, avrebbe così provveduto a far ratificare la concessione9. Secondo questa lettura la chiesa

risalirebbe alla seconda metà del XV secolo, anche se eretta in forme romaniche: un ritardo stilistico frequente nelle province lontane dai grossi poli culturali10. È il caso di notare, tuttavia,

che nella Collatio la formula adottata si riferisce già agli «uomini della confraternita dell’ospedale e della chiesa denominata Santa

7 GUIDONI 1985, p. 170. Per la bibliografia sull’argomento, cfr. FIORE 1980,

CITTADUCALE E LA SABINA 1981, CAPEZZALI 1990, CITTADUCALE: LA

FONDAZIONE 1992, MARINELLI 1996. 8 Il capitolo di San Giovanni possedeva anche la chiesa di San Giuseppe e a

Santa Rufina, frazione di Cittaducale, la chiesa di Santa Maria del Popolo. 9 DI FLAVIO 1990, pp. 75-79.

10 Per Gavini la facciata è contemporanea a quella di Santa Cecilia e pertanto

databile all’ottavo decennio del XV secolo, mentre l’interno è dubitativamente assegnato al Trecento. Lo studioso supponeva l’esistenza di strutture più antiche sotto le decorazioni moderne. Cfr. GAVINI 1927-1928, II, pp. 224-225.

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Maria dei Raccomandati», lasciando aperta l’ipotesi, più plausibile, che i due edifici già esistessero: la conferma del 1450, quindi, potrebbe essere stata necessaria per procedere ad un rinnovamento o ad una ricostruzione del complesso. Se gli anni Quaranta del secolo erano stati per Cittaducale densi di rivolgimenti politici, con alterni passaggi sotto la giurisdizione dello Stato della Chiesa e del Regno di Napoli11, il decennio

successivo coincise con una fase di relativa pace che si ripercosse, da ciò che se ne può dedurre, anche sul versante progettuale ed artistico. Proprio al 1450, ad esempio, risale la commissione del ‘rigoglioso’ portale della chiesa di Sant’Agostino che, qualche anno più tardi (1455), fu dotata anche di una «Cona di rilievo» per l’altare maggiore di «artificiosissimo lavoro e molto ricca». Nello stesso periodo Mastro Andrea da Bergamo fu incaricato della realizzazione di una fontana da collocare davanti alla chiesa di San Giovanni, oggi scomparsa, che sorgeva proprio accanto a quella dei Raccomandati. Non bisogna dimenticare, tuttavia, il disastroso terremoto di quell’anno che deve aver necessariamente segnato un brusco arresto nelle attività edilizie:

Del mese poi di dicembre il dì di Santa Barbara in Civita, ansi per tutto il Regno, cominciorno a sentirsi terribilissimi terremoti che continuorno per tutto il mese. Nel penultimo giorno di esso ne fu sentito uno così grande che un simile non che maggiore non fu udito in memoria delle genti giamai, che ruinarono molti edifizi e della terra e del contado ed in particolare delle chiese, con mortalità di infinite persone del territorio e di tutto il Regno; che Alfonso Re volse farle numerare e trovo esser arrivate al numero di trentamila e più12.

11 Cfr. BAZZINI 2011, pp. 549-552, nota 40, p. 549. Secondo Marchesi

Cittaducale tornò a far parte del Regno di Napoli nel 1442. Cfr. MARCHESI

1592 [ED. 2004] pp. 66-68. 12 MARCHESI 1592 [ED. 2004], pp. 66-68. Tra gli avvenimenti più drammatici

che coinvolsero la popolazione si ricordano anche le epidemie del 1477 e del 1484 (cfr. MARCHESI 1592 [ED. 2004], pp. 75, 77), e il sisma del marzo 1502 in seguito al quale «si spallarono molti edifizi di case private in terra,

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Sessant’anni più tardi, nel 1509, gli ambienti annessi all’edificio furono destinati al primo vescovo residente di Cittaducale, i cui alloggi saranno trasferiti solo nella seconda metà del XVI secolo nell’episcopio adiacente alla cattedrale13. Questo importante

evento ebbe probabilmente delle ripercussioni sul decoro generale degli interni e anche sulla chiesa. Racconta Marchesi:

fu poi alli 13 di novembre 1508 eletto Vescovo Giacomo Alfarabio da Leonessa il quale, alli 11 di gennaro dell’anno venente, mandò don Luzio suo fratello a pigliare il possesso, e non tardò molto a comparir lui a far la residensa, che fu ricevuto con gran pompa e popular contento, che la comunità e il clero non perdonorno a spesa nessuna per onorarlo e riceverlo solendidamente; che gli forno consegante per abitazione le case di Santa Maria della Fraternita14.

aprendosene molte altre; e cadè anche il cimiero del campanile di Santo Agostino» (cfr. MARCHESI 1592 [ED. 2004], p. 104). 13 Le notizie sull’ospedale sono state raccolte da Andrea Di Nicola in una

pubblicazione dedicata alla storia della cittadina dalla fondazione alla fine del Settecento. Cfr. DI NICOLA 2004, p. 73. L’autore ha affrontato lo spoglio della documentazione conservata presso l’Archivio di Stato dell’Aquila (= ASAq). Sul trasferimento si veda la Relatio ad limina del vescovo Valentino Valentini (1590). Cfr. TASSI 1990, pp. 299-300. 14 MARCHESI 1592 [ED. 2004] p. 103. L’avvenimento più importante del XVI

secolo è sicuramente il processo che portò all’istituzione della diocesi e alla conquista dell’autonomia religiosa da Rieti. Cittaducale, nemica del capologuogo sabino sin dalla fondazione, in lotta costante per questioni di confini e per essere l’avamposto più importante del Regno di Napoli, si trovava tuttavia soggetta alla sua autorità religiosa. Tale contraddizione fu risolta da Alessandro VI che, il 24 giugno del 1502, nominò Matteo Mongiani, vassallo e servitore degli Orsini, primo vescovo di Cittaducale. Le proteste del prelato reatino Giovanni Colonna, cui si unirono presto anche quelle della comunità, non rassegnata all’idea di perdere una porzione importante della propria giurisdizione ecclesiastica e dei relativi proventi, indussero Giulio II a riunire amministrativamente le due circoscrizioni (1505). Solo nel 1508 la nuova diocesi iniziò il suo corso autonomo che terminò con la morte dell’ultimo vescovo, Pasquale Martini, durante l’occupazione napoleonica (1798). Governata da un Vicario capitolare fino al Concordato del 1818 fra la Santa Sede e i Borboni, la diocesi fu infine

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Cessata momentaneamente l’attività ospitaliera, i Raccomandati continuarono ad operare dedicandosi al seppellimento degli «uccisi»15. Nel 1569, l’antico refettorio che era stato prima della

confraternita e poi del vescovo, fu utilizzato dai funzionari ducali di Margherita d’Austria e dalla Camera cittadina per le riunioni del camerlengo e dei priori; a partire da questa data, il sodalizio riprese a svolgere le proprie funzioni negli ambienti annessi alla chiesa di San Girolamo (detta anche Santa Maria di Canetra intus) e solo nel 1571, con il trasferimento di ‘Madama’ all’Aquila, i locali rientrarono in suo possesso16. Nel 1588 Cola

Mazilli, ricco armentario di Lugnano, lasciò in eredità i propri averi per l’erezione di un nuovo monastero femminile benedettino presso la chiesa di Santa Croce, poi mutuata con quella dei Raccomandati: i confratelli cedettero così a Giovan Battista Marchesi, esecutore testamentario del defunto, la chiesa, l’orto e le abitazioni, ma il trasferimento delle monache avrebbe avuto luogo solo dopo la costruzione, in un luogo «vicino e comodo», di un altro nosocomio in cui ricevere «li povari, infermi e Pellegrini», in sostituzione della stanza che fungeva da ospedale17. È interessante notare, in proposito,

soppressa e annessa a quella dell’Aquila: solo nel 1972 è tornata, dopo cinquecento anni, a far parte di quella di Rieti. Cfr. CONTE 1990A, pp. 276-279. 15 DI NICOLA 2004, p. 73.

16 Lo spostamento fu dovuto alla decisione di Margherita di prendere

alloggio nel Palazzo della Comunità. Cfr. DI NICOLA 1984, p. 100 e DI

NICOLA 2004, p. 151. L’unico nosocomio a rimanere a tutti gli effetti attivo nella cittadina, oltre a quello dei Raccomandati, trasformato nel 1509 in residenza vescovile, e a quello di San Girolamo (DI NICOLA 2004 pp. 41, nota 42, 107, p. 113, nota 80, 118, 169), presso la chiesa di San Francesco, fu l’ospedale di Santo Spirito (cfr. DI FLAVIO 1990B, II, pp. 75-79, DI NICOLA 2004, p. 73 e p. 92, nota 10). Sulle dinamiche organizzative degli ospedali nel Lazio, cfr. STROPPIANA 1979, pp. 79-90 e DI FLAVIO 1996. 17 DI NICOLA 2004, pp. 106-107, 166-167. Si segnala, senza aver avuto

tempo di prenderne visione, un atto notarile conservato presso l’Archivio capitolare lateranense di Roma (Q.5.B.11), redatto a Cittaducale il 26 marzo

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come alcune tele provenienti dalla chiesa, oggi conservate nella sagrestia della cattedrale e nel salone dell’Episcopio, rispecchino iconografie legate a santi o a episodi delle Sacre Scritture riconducibili a tematiche assistenzialiste e caritative: è il caso dell’Incontro tra Abramo e Melchisedech (fig. 2) dove quest’ultimo è tradizionalmente raffigurato mentre offre pane e vino al patriarca ebraico, e della Cena in Emmaus (fig. 3) in cui i tre protagonisti sono rappresentati con le vesti tipiche dei pellegrini18. Dal documento del 1588 si evince anche che i

confratelli avrebbero continuato ad usufruire della chiesa con la possibilità di tenerla «sempre aperta e preparata» per le feste, le messe e le processioni organizzate durante l’anno, mentre il monastero avrebbe corrisposto un compenso al cappellano, obbligato a somministrare i sacramenti sia ai sodali sia agli infermi. Con un breve di Sisto V, dell’agosto dello stesso anno, ai Raccomandati fu comunque assegnata, evidentemente per officiare le funzioni durante i lavori, la chiesa di San Girolamo, mentre la ristrutturazione del complesso fu affidata ad Antonio Scalabrino da Brenzone nel maggio del 1589. Il mastro si impegnava a

construere, resarcire et in quanto farà bisogno di novo fabricar fidelmente come si conviene il novo Monasterio di Monache da erigersi a fabricarsi novamente nella chiesa de Santa Maria de Raccomandati, secondo però il modello e forma di quello fatto, e

1589: Mandatum procurae ad peragenda varia negotia confratrum S. Mariae de Recommendatis, de Civitate Ducali. Cfr. DUVAL-ARNOULD 2010, p. 115. 18 Le due tele sono citate in CONTE 1990B, p. 185 con alcune imprecisioni.

La prima è idenfiticata come Davide e Abiatar, la seconda è erroneamente attribuita alla scuola di Cola dell’Amatrice. Per entrambe si ipotizzava una provenienza dalla Cappella del Sacramento di Santa Maria del Popolo, per via della tematica eucaristica; in realtà, facevano parte dei beni di Santa Maria dei Raccomandati, come specificato dalle relative schede OA (1972). Le opere sono state recentemente pubblicate in GRUMO 2011, p. 63, n. 58 e p. 67, n. 67.

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che a lui sarà dato e consegnato dal prefato messer Gio. Battista [Marchesi, n.d.a.]19.

La Relatio ad Limina del vescovo Valentino Valentini (1580-1592) del 1590 conferma, in effetti, l’esistenza di due monasteri femminili: quello di Santa Caterina e quello sub titulo Sanctae Mariae de Raccomandatis20. Poichè l’ospedale, un tempo gestito

dalla confraternita, aveva trasferito le sue funzioni in quello di San Girolamo già dal 1569, non è un caso che nell’elenco delle congregazioni di laici compaia quella di «San Girolamo dei Raccomandati»: dato confermato anche dal testamento di Bucciarello Pagani che, nel 1592, lasciava una pianeta del valore di quindici ducati a «Santa Maria dei Raccomandati in San Girolamo»21. Nonostante la spesa di duemila scudi, i lavori,

sebbene iniziati, non trovarono attuazione e nel 1593 le benedettine di Santa Caterina chiesero di entrare in possesso della loro eredità22. Nel 1594 il vescovo Giovanni Francesco

Zagordo (1593-1599) pregò invece il papa di poter utilizzare i redditi superflui dell’ospedale dei Raccomandati e della confraternita di San Girolamo per l’erezione del seminario23.

Alcuni anni dopo la congregazione tornò in possesso dei propri beni, ma già nel gennaio del 1619, in seguito all’iniziativa del vescovo Pietro Paolo Quintavalle (1609-1627) che aveva chiamato nella cittadina una comunità di Somaschi per l’istituzione di una scuola di «grammatica e humanità», gli ambienti furono nuovamente ceduti: le monache si dissero ancora disponibili a rinunciare all’edificio, mentre il priore dei Raccomandati don Costanzo Manenti e altri ventuno confratelli

19 DI NICOLA 2004, pp. 106-107, 166-167.

20 Cfr. TASSI 1990, pp. 299-300, 305, 379-390 e TOZZI 1997, pp. 148-151.

21 DI NICOLA 2004, p. 73, nota 207 e p. 92, nota 10.

22 DI NICOLA 2004, pp. 106-107 e 166-168.

23 «Sunt in Civitate tria hospitalia videlicet. Hospitale Sanctae Mariae de Re-

commendatis unitum cum Hospitali Sancti Hieronimi: quod per Confrater-nitatem Sancti Hieronimi de Recommendatis gubernatur et regitur». Cfr. TASSI 1990, p. 334.

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concessero la chiesa. I religiosi ne acquisirono la totale proprietà nell’agosto 1620, sebbene il progetto educativo non trovasse attuazione24. Fu così che nella Relatio ad limina del 1623 il

vescovo Quintavalle propose di utilizzare un lascito di seicento scudi del defunto presbitero Ascanio Costanzi, destinato alla costruzione del convento, per l’istituzione del nuovo seminario nei locali del convento stesso, il cui completamento richiedeva ancora duemila scudi25. Il sodalizio continuava tuttavia a

operare e doveva rivestire una certa importanza se fu, di fatto, l’unica associazione di laici proveniente da Cittaducale ad essere menzionata in una celebre cronaca del Giubileo del 1650: la confraternita giunse a Roma, da Porta del Popolo, il 17 novembre di quell’anno, accolta ufficialmente dai rappresentanti del Capitolo lateranse e, dopo aver pernottato presso le strutture della Santissima Trinità dei Pellegrini, proseguì la visita con il pellegrinaggio alle quattro principali basiliche della città:

La Compagnia della Madonna de’ Raccomandati di Civita Ducale vestita di bianco, favorita dal Capitolo di S. Giovanni Laterano, che le mandò incontro le sue Croci, Padiglioni, e Campanello, come aggregata ad esso, nell’ultimo veniva Monsignor Pomponio Dedoli [Vetuli, n.d.a] Denari Vescovo di essa Città, fu numerosa di Donne, le prime sei vestivano di rocchetti bianchi portando torcie accese in mano, che facevano honoranza ad una Croce d’ottone sopra un’hasta dipinta di turchino portata da un’altra vestita similmente di rocchetto, e doppo molti Fratelli in truppa senza sacchi, incontrata da un Mandatario di questa della Trinità, che l’alloggiò26.

Il passo è interessante dal punto di vista storico-sociale, poiché documenta una partecipazione attiva e molto numerosa alla vita

24 DI NICOLA 2004, pp. 118-120, nota 101, p. 120.

25 TASSI 1990, pp. 348, 424. MORELLI 1999, p. 220, n. 885f.

26 A causa del grande afflusso di pellegrini organizzati in confraternite, il

numero di chiese da visitare per ottenere l’indulgenza plenaria fu ridotto a quattro invece che a sette. Cfr. RUGGIERI 1650 (ED. 2004), pp. 20, 263-264.

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del sodalizio soprattutto da parte delle donne, incaricate del ‘trasporto’ della croce d’ottone e ricordate con le fiaccole accese in mano ed il ‘rocchetto’ (la corta mantellina ancora in uso nei cortei religiosi) sulle spalle27. Da questo momento le fonti

tacciono fino a quando, l’8 dicembre 1660, il vescovo Giovan Carlo Valentini (1659-1661) inaugura, nei più volte citati ambienti dell’edificio, il seminario diocesano, «arricchito per l’aggregazione della chiesa di S. Maria dei Raccomandati», con «l’obbligo di vigilare al mantenimento dell’Ospedale»28. Nella

Relatio ad limina dell’anno successivo (1661) lo stesso prelato annotava: Adsunt etiam quatuor Laicorum Confraternitates, quae in processionibus cum saccis incedunt, atque Mons Pietatis, et Hospitale […] mentre, nel 1687, il successore Filippo Tani specificava che tale accoglienza non prevedeva alcun pasto: Hospitale ad peregrinos excipiendos sub tecto, sed sine victu […]29. Quest’ultimo

probabilmente, od uno dei locali ad esso pertinente, fu riadattato nel 1726 a teatro cittadino su iniziativa dell’amministrazione pubblica per essere poi smantellato nel 1729 dal vescovo Pietro Giacomo Pichi (1718-1733), sotto la minaccia di scomunica per gli occupanti che vi si erano barricati in segno di protesta30. Nel 1795 l’abate Francesco Sacco

registrava:

27 Sulla partecipazione femminile alle attività dei sodalizi, cfr. ESPOSITO

2001, pp. 53-78. 28 SIGNORINI 1868, II, p. 414, MACERONI 1990, p. 477. Il seminario fu in

seguito aperto nel marzo del 1662, nel giorno della festa di San Tommaso d’Aquino (7 marzo). 29 La Relatio ad limina (1661) del vescovo Giovan Carlo Valentini è trascritta

in MACERONI 1990, p. 507. Per quella di Filippo Tani (1687), cfr. MACERONI 1990, p. 517. 30 Sull’erezione del seminario, cfr. NOVELLI 1992, p. 31, DI NICOLA 2004, p.

132, nota 60, e p. 150; SAN FELICE DA CANTALICE 1990, pp. 299, 305, 334, 348, 477. Nel 1726 alcuni scenari, forse risalenti al tempo di Margherita d’Austria, furono trasportati nell’ospedale, cfr. DI NICOLA 1984, p. 108, nota 43. Su Tani cfr. MACERONI 1990, p. 477. DI FLAVIO 1990A, p. 34.

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Questa Città […] ha un Duomo di mediocre architettura, ufiziato da quattordici Canonici; un Seminario capace di molti Alunni, e fornito di tutte le scienze necessarie all’istruzione della gioventù; un Monastero di Monache Benedettine; un Monte di Pietà; tre Conventi di Regolari, il primo de’ Padri Agostiniani, il secondo de’ Conventuali, ed il terzo de’ Cappuccini; e sei Confraternite laicali sotto l’invocazione del Sagramento, del Suffragio, di Santa Maria de’ Raccomandati, della Buona Morte, di San Giuseppe, e dello Spirito Santo […]31.

Durante l’occupazione napoleonica, i vani retrostanti l’abside che, secondo alcuni saggi effettuati dalla Berti Bullo, dovevano aver ospitato gli ambienti privati del vescovo, vennero adattati a carcere32. Con la Restaurazione il collegio ecclesiastico tornò alla

diocesi aquilana; nel 1834 il Segretario Generale dell’Intendenza del Secondo Abruzzo Ulteriore, Francesco Paolo Blasioli, trattava per avere in affitto una parte dell’antico seminario per la costruzione di un ospedale ad uso dei detenuti infermi e, l’anno seguente, destinava una somma di 808 ducati per l’ampliamento ed il miglioramento delle prigioni. Tuttavia, a differenza di quanto accadeva nei distretti dell’Aquila e di Sulmona, lamentava la completa assenza di strutture assistenziali: caso ironico, se si pensa alla secolare tradizione ospitaliera della cittadina33. Nel 1870 una parte del complesso fu adibita ad asilo

31 SACCO 1795, p. 321.

32 ARSbap-Lazio, Santa Maria dei Raccomandati, Relazione 1971, pp. 10-11:

«L’architetto Frangipane e il dott. Recupero hanno effettuato un altro sopralluogo il 7/2/1971. In tale occasione feci presente che avrei eseguito dei sondaggi nei locali dell’ex carcere mandamentale di Cittaducale, adiacente alla chiesa di S. Maria dei Raccomandati, nella sua parte posteriore, dietro l’abside […]. Sotto l’altare […] ho potuto aprire un varco nel muro che si è rivelato di chiusura di una galleria sotterranea […]. Chiaramente visibili e degni di nota sono nei locali del carcere tre archi […] a tutto sesto. Vi è una stanza, dietro all’abside della chiesa, dove è collocato un altare e nella stessa stanza, sulla parete a destra, è un vano, con stipiti di pietra, oggi armadio a muro, che forse era una finestra […]». 33 S.V. 1834, p. 121 e S.V. 1835, pp. 10-11.

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su iniziativa dell’arciprete Felice Gianfelice (1870-1897)34. Solo

nel 1936, per evitare la confisca del vicino convento di Santa Caterina da parte dello Stato, la Curia decise di permutare il vecchio seminario col monastero35. Negli antichi locali s’insediò

la Scuola di selvicoltura per le Guardie Forestali del Regno, istituita nella cittadina nel 1905, oggi Scuola del Corpo Forestale dello Stato (1995). Prima della chiusura la chiesa era officiata per il servizio dei forestali. 3. Il monumento Santa Maria dei Raccomandati sorge nel quartiere di San Giovanni, uno dei quattro rioni storici compresi entro le mura, e un tempo il più ricco di chiese36: se si esclude la cattedrale di

Santa Maria del Popolo, sono oggi scomparse la chiesa di Santo Spirito, cui era annesso un ospedale, quella di San Francesco e quella di San Giovanni, la prima ad essere edificata e ad aver dato il proprio nome alla contrada37.

34 Sulla destinazione ad asilo cfr. PALMEGIANI 1932, p. 436. Sullo stato della

collegiata e delle altre chiese di Cittaducale dopo le ‘leggi eversive’ del 1866, cfr. TASSI 2006, pp. 117-120. 35 TASSI 2006, p. 120, nota 88.

36 Gli altri quartieri sono: Santa Maria (di Cesoni), Santa Croce e

Sant’Antimo. I rioni più recenti posti fuori le mura sono invece quello di Sant’Antonio e di San Magno. 37 I resti della trecentesca chiesa di San Francesco, soppressa nel 1866 e già

ridotta in grave stato di fatiscenza nel 1875, sono scomparsi definitivamente entro il 1981. Agli inizi del Novecento l’edificio fu ceduto al Corpo Forestale dello Stato che lo utilizzò dapprima come refettorio, poi come magazzino (AAA, Visite pastorali (1839), b. 839/2, p. 271, cfr. Appendice documentaria II) e infine officina meccanica, mentre l’ex convento venne adibito a Caserma degli Allievi Sottoufficiali. Nel 1982 le quattro tele degli altari laterali furono depositate in Sant’Agostino e poi a Roma: sono oggi in deposito temporaneo presso il Museo diocesano di Rieti. Cfr. DON

ANTONIO E CITTADUCALE 2006, p. 30 e TOZZI 2008, pp. 571-576. La chiesa di San Giovanni invece, visibile in alcune fotografie di inizio Novecento, era «semidiruta» nel 1932, quando se ne conservava ancora un «bellissimo» portale a Roma. Cfr. PALMEGIANI 1932, p. 438. Per la descrizione, cfr.

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Sita all’angolo tra via Matteotti, su cui affaccia il prospetto principale, e piazza dei Forestali (già della Rete), la chiesa confina a nord-est con la Scuola forestale che ha inglobato, all’interno del proprio cortile, l’antico chiostro quattrocentesco38. L’edificio non è mai stato oggetto di studi

approfonditi: le prime indagini sulla struttura, ad opera del Soprintendente ai monumenti del Lazio Antonio Muñoz e dall’architetto Ignazio Carlo Gavini, risalgono infatti solo all’inizio del XX secolo39.

L’edificio presenta una semplice facciata rettangolare a conci regolari di pietra grigia, al centro della quale si apre una piccola finestra circolare con mostra rientrante, il cui vano è ornato da arcatelle trilobe. Sotto una modanatura leggermente sporgente, che ne costituisce il coronamento superiore, si snoda una teoria di archetti pensili (fig. 1). La forma di questo semplice e austero prospetto e l’oculo centrale sono comuni a molti edifici dell’area abruzzese tra Trecento e Quattrocento e non aiutano pertanto a circoscrivere ulteriormente la datazione40. Il portale, invece, con

le sue linee essenziali, sembra essere già frutto di una nuova temperie culturale; inoltre, il confronto con quello della vicina chiesa di Santa Cecilia, su cui compare la data 1471, permette di definire un arco cronologico più preciso (fig. 4). I due manufatti sono sostanzialmente identici e furono con ogni probabilità

MUÑOZ 1917, pp. 43-44. Sulla cattedrale e gli altri edifici religiosi, cfr. CONTE 1996.

38 VERANI 1928, p. 150 e PALMEGIANI 1932, p. 436. Il chiostro è stato

trasformato nel tempo e adattato per i servizi della scuola forestale. Resta

solo il lato che affianca la chiesa, con colonne alternativamente cilindriche e

prismatiche e capitelli a foglia d'acanto semplificato con dentellatura a punta

di diamante. 39 MUÑOZ 1917, p. 41, 45, 47-48; GAVINI 1927-1928, II, p. 325. Brevi

accenni si trovano invece in PALMEGIANI 1932, p. 436. 40 Basti pensare alle chiese aquilane, come San Marciano (fine XIII - inizio

XIV) o Santa Maria di Collemaggio (prima metà XIV) di cui la cattedrale di Cittaducale cita il rosone del portale sinistro. Cfr. MORETTI [1971]. Sull’arte e l’architettura in Abruzzo si vedano i recenti contributi in L’ABRUZZO IN ETÀ

ANGIOINA 2005 e in UNIVERSITATES E BARONIE 2006.

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scolpiti nella bottega di uno stesso tagliapietre locale41.

L’elemento plastico di maggiore rilievo è costituito dall’arco che incornicia la lunetta e che si imposta su una stretta trabeazione; lungo il profilo superiore dell’architrave, nelle mostre e nella ghiera dell’arco principale corre, invece, una decorazione a punte di diamante, presente anche nella porta secondaria che si apre sul fianco destro della chiesa, vicino all’angolo contiguo alla facciata. Questo motivo ornamentale è caratteristico di quasi tutti gli edifici antichi di Cittaducale ed interessa sia quelli religiosi (Santa Maria del Popolo) sia civili (pilastri del palazzo Malatesta) e sembra testimoniare una «urbanizzazione rapida e omogenea» dell’abitato42. Le colonnine esagonali, incassate tra i

montanti esterni e il profilo interno del portale presentano, immediatamente sotto la trabeazione, delle decorazioni simulanti foglie stilizzate. Sotto l’architrave, due piccole mensole a foglia ricurva incorniciano il vano dell’entrata, mentre la lunetta interna è decorata da un dipinto murale, risalente con ogni probabilità al XIX secolo, raffigurante il monogramma mariano, lo stesso che si trovava anche sui confessionali ottocenteschi rimossi dalla chiesa durante l’ultima campagna di restauri. Sulla sinistra del prospetto svetta il campanile, dello stesso tipo di quello della cattedrale e di Sant’Agostino, ma di cui rimane solo il primo ordine. Presenta due coppie di bifore trilobate sul fronte principale, una sola sul fianco e due semplici aperture a tutto sesto sul lato posteriore. La facciata ha subito, nel corso del Novecento, due importanti restauri. Il primo risale al terremoto del 13 gennaio 1915, di cui resta testimonianza nelle foto e nelle descrizioni pubblicate da Antonio Muñoz sul Bollettino d’Arte di quell’anno: la chiesa riportò la «caduta di parte del rivestimento del prospetto, la rottura di una colonnina del rosone» e il «distacco di parte del rivestimento della facciata»,

41 MUÑOZ 1917, p. 47, GAVINI 1927-1928, II, p. 324. Cfr. VALENTI 1990,

pp. 111-121. 42 MARCHETTI 1990, p. 125.

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ma già nel settembre successivo risultavano «recuperati tutti i pezzi del paramento»43. Il secondo intervento risale invece alla

campagna di consolidamento della struttura, intrapresa dalla Soprintendenza negli anni Settanta, terminata nel 1988, durante la quale furono tamponate le profonde finestre rettangolari aperte con ogni probabilità durante i lavori di rifacimento del XVIII secolo44.

La chiesa è caratterizzata da una pianta longitudinale senza transetto, terminante in un’abside quadrata e divisa in tre navate, di cui le laterali ricoperte da volte a crociera (fig. 5). I pilastri rettangolari, che inglobano quelli antichi a sezione ottagonale con capitelli a foglie lisce, scandiscono lo spazio in quattro campate di cui le centrali più ampie, ed erano ingentiliti, sul lato verso la navata centrale, da lesene coronate da capitelli compositi e da stucchi settecenteschi (fig. 6). L’utilizzo del pilastro ottagono in edifici civili e religiosi gode di una particolare fortuna nell’architettura romana del XV secolo. Il modello compariva, a titolo esemplificativo, nel palazzo apostolico di Santa Maria Maggiore ricostruito da Niccolò V, oggi distrutto, dove i pilastri, realizzati in laterizio, erano sormontati da capitelli ad angoli smussati. L’accoppiamento con capitelli a foglie lisce è attestato invece nel chiostro di Santa Francesca Romana (1450 ca.), nella chiesa dei Santi Nereo e Achilleo (1475 ca.), nella villa del cardinale Riario alla Magliana (1485 ca.) e nel palazzo di Domenico della Rovere in Borgo (1480-1490). Dal punto di vista funzionale questo tipo di sostegno fu adottato per ragioni di praticità e di economia, essendo formato da rocchi sovrapposti di pietra45: per quanto ci

43 CRONACA DELLE BELLE ARTI 1915A, p. 18, CRONACA DELLE BELLE

ARTI 1915B, p. 67, MUÑOZ 1915, p. 94, MUÑOZ 1917, p. 41. Sui danni del terremoto del 1915 in Abruzzo, cfr. GAVINI 1915 e MUÑOZ 1915. 44 Una finestra analoga si apre sulla facciata della chiesa di Santa Cecilia. Cfr.

MARCHETTI 1990, pp. 122-127. 45 VALTIERI 1989, pp. 257-268. La prima testimonianza del suo utilizzo è

documentata da un disegno borrominiano che ritrae l’interno di San Giovanni in Laterano prima della ristrutturazione.

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riguarda, è interessante notare che la sua diffusione si concentra proprio durante il pontificato di Niccolò V, sotto il quale fu ratificata la concessione ai Raccomandati di Cittaducale. Sebbene non sia corretto basarsi su pochi elementi formali per datare un edificio, questo dato, insieme alle considerazioni sopra esposte sul portale, contemporaneo a quello di Santa Cecilia (1471), avvalorerebbe l’ipotesi di una riedificazione della chiesa terminata appunto intorno all’ottavo decennio del XV secolo. Ciò che rimane della decorazione settecentesca, oltre a qualche lacerto di decorazione in stucco, si limita all’affresco raffigurante Angeli turibolanti nella volta del presbiterio. I tre altari, sebbene entro i limiti di una produzione affidata a maestranze locali, presentano un certo interesse in relazione alla diffusione delle tipologie romane tardobarocche in provincia46.

L’altare maggiore (fig. 5) doveva essere preceduto da una balaustra, a quanto pare scomparsa:

Tutta la navata corre fra sei pilastri […] fino all’abside, in cui al di là della balaustra un altro voluminoso altare barocco si innalza con una grande cornice dorata tra colonne di finto marmo, capitelli in gesso, angeli verniciati, fino a m 7,40 circa dal suolo. In alto un quadro di una Madonnina, ad olio, chiuso in una nicchia sotto vetro, è cosa di nessun valore, a meno che un forte ritocco non ne abbia alterato la primitiva fattura47.

46 L’altare maggiore, il più imponente, è costituito da una mensa

parallelepipeda dipinta a finto marmo verde, giallo e grigio. Due colonne disposte obliquamente, con basi e capitelli compositi, reggono una trabeazione molto alta, sui cui angoli sporgenti si ergono due angeli inginocchiati; al centro del fastigio mistilineo si apre la piccola cornice raggiata. I due altari laterali, più piccoli, presentano la stessa struttura, fondata su lesene divergenti rispetto al piano di fondo e decorazioni a teste cherubiche. 47 ARSbap-Lazio, Santa Maria dei Raccomandati, Relazione 1971, p. 3.

Questa Vergine potrebbe identificarsi con una tela di modestissima fattura (cm 100x75), raffigurante una Mater dolorosa un tempo conservata nell’Episcopio di Cittaducale, non rintracciata nel corso della ricerca ma nota da una fotografia del 1972. Cfr. scheda OAC 1200209819 (S50).

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4. Le visite pastorali Dati nuovi e interessanti sulla storia e sull’aspetto originario della chiesa sono invece forniti dalle visite pastorali conservate presso l’Archivio Arcidiocesano dell’Aquila48. Prima di iniziare

con i sunti dei documenti, per non ingenerare confusione nella descrizione degli altari, si specifica che si è seguito lo stesso criterio adottato nelle ispezioni dai vescovi, cominciando dal presbiterio e proseguendo verso l’uscita. Dalla più antica, del 1682, si ha la conferma che la chiesa fosse unita al seminario e che fosse la sede del sodalizio, i cui membri vestivano il sacco (adest Societas cum usu sacci). L’altare maggiore, della confraternita e officiato dai chierici Apollonio Palumbo e Luca Lambricelio, conservava l’affresco della Madonna dei Raccomandati con i santi Francesco e Domenico (in muro pintis), collocato sulla parete dell’abside o inserito all’interno di un pala marmorea più antica, forse definitivamente perduto in seguito al terremoto del 170349. Da una fotografia del 1972, che mostra

l’altare settecentesco già privo della tela con l’Incoronazione della Vergine tra san Domenico e sant’Isidoro agricoltore (fig. 7) oggi custodita nella vicina chiesa di Santa Cecilia, era possibile scorgere, sulla muratura di fondo, l’ombra di un dipinto raffigurante una Vergine col Bambino, forse da identificare con la citata Madonna dei Raccomandati. Anche nella relazione della Berti Bullo, a proposito dell’altare maggiore, si specificava che:

Sopra al Tabernacolo viene messo in luce un affresco per ora coperto di calce in una nicchia alquanto rovinata, interrotta

48 Alla fine del XVIII secolo l’archivio vescovile di Cittaducale fu in parte

bruciato e disperso sulla piazza dai partigiani dei francesi invasori. Quel poco che si salvò fu trasferito all’Aquila dopo la soppressione della cattedra civitese nel 1818 e la sua unione con quella del capoluogo abruzzese. Cfr. CAPEZZALI 1990. 49 La cittadina fu, nel corso dei secoli, colpita da numerosi eventi sismici.

Oltre a quelli già citati, si ricordano i terremoti del 1519, 1539, 1582, 1639, 1646, 1672. Cfr. MUÑOZ 1917, p. 41.

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dall’altare barocco. La continuazione è nello spazio riservato al tabernacolo, ritrovato sotto circa 20 cm di muratura di mattoni e malta. Potrebbe anche trattarsi di pittura a tempera; troppo poca è la superficie che è stata possibile liberare dalla calce, con assoluta sicurezza di non sciupare il dipinto, per potere giudicare il tipo e l’epoca della sua esecuzione50.

Ancora, in un altro resoconto, si faceva riferimento a frammenti di affreschi antichi, ritrovati sulla stessa parete dove

era stata portata alla luce, con un piccolo saggio, una parte di aureola, un occhio di notevoli dimensioni e parte della carnagione di un viso e di un manto, elementi tutti che potrebbero far pensare ad una Madonna a mezzo busto, bizantineggiante […]51.

Su questo altare, amministrato dal cappellano Giovanni Pisano, aveva luogo la solenne esposizione dell’eucarestia. Nella navata sinistra esistevano, poi, un altare dell’Annunciazione, sotto la cura di Gentile Innocenzo, familiare del doctor Virgilio Vetuli, e uno dedicato alla Natività52. Quest’ultimo corrisponde a quello

attualmente visibile nella forma data dalla ristrutturazione settecentesca e deriva il suo nome dal soggetto dell’affresco inglobato all’interno della cornice tardobarocca o dalla tela che lo ricopriva ancora nel 1970 e poi rimossa (fig. 36). Nella navata destra (a cornu epistolae) era un altro altare con l’icona della Vergine in muro pincta. Tutte le mense si presentavano, a questa data, scarsamente curate ed erano ancora visibili, inserite nel pavimento originario di cui il vescovo dispose un parziale

50 ARSbap-Lazio, Santa Maria dei Raccomandati, Relazione 1971, p. 8. Cfr.

Archivio fotografico della Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e del Polo Museale della Città di Roma (Rieti, Cittaducale, Santa Maria dei Raccomandati, neg. sop. 116496). 51 ARSbap-Lazio, Santa Maria dei Raccomandati (Relazione della dott.ssa

Rosalba Cantone [1981?]). 52 Sulla famiglia, che aveva dato a Cittaducale uno dei suoi più famosi

vescovi, Pomponio Vetuli (1632-1652), cfr. DI FLAVIO 1990A, p. 32, nota 27.

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restauro, ben sette lapidi sepolcrali: a queste sepolture dovevano appartenere i resti di ossa rivenuti dalla Berti Bullo nel 197053. I

due rettori della chiesa, i canonici Giovanni Paolessi ed un membro della famiglia Pagani, usufruivano per metà delle rendite provenienti da un beneficium simplex (ovvero esente dalla cura delle anime) trasferito alla chiesa dei Raccomandati da quella di San Pietro in Malvasia in contrada Portella e del relativo diritto di giuspatronato. Altri benefici provenivano dalle chiese di San Giuseppe, di Sancti Angeli Lauriani (attuale Lisciano), di Santa Croce in Panzano e di San Lorenzo a Sambuci. La chiesa era unita, come noto, oltre che al seminario, all’oratorio di San Girolamo, retto a sua volta da un proprio cappellano, Belisario Lambricelio54.

Nel 1687 la situazione era sensibilmente mutata. Nella chiesa si celebrava regolarmente durante tutte le festività di precetto, ma solo in due occasioni era prevista una messa cantata: a Pasqua e nel giorno di san Rocco (16 agosto). L’altare maggiore era in buone condizioni e adeguatamente provvisto di tutto il necessario per la celebrazione; quello dell’Annunciazione, che apparteneva alla famiglia Vetuli, fu trovato spoglio, nonostante le raccomandazioni della visita del 1681, con le quali si intimava

53 ARSpab-Lazio, Santa Maria dei Raccomandati, Relazione 1971, pp. 9-10:

«Lungo il muro della navata destra un rialzo del pavimento lungo tutta la parete desta la mia curiosità. Infatti dopo la solita traccia del penultimo pavimento, in ordine di tempo, quello certamente del 1650 o 1700, sotto cm 10 di terreno di riporto, senza difficoltà si scopre un vuoto in muratura, a volta nella parte superiore, di m 1,20 x 2,00. Una parte è certamente crollata in epoca precedente alla messa in opera dell’attuale pavimento. Esaminata la cavità con una forte luce, vi si possono scorgere poche ossa umane: un bacino, un teschio, un osso lungo […]. Dai sondaggi sul pavimento finora eseguiti si può dedurre che sotto l’attuale pavimento in mattonelle ve ne fosse uno, fino al principio di questo secolo, in cotto, con gli elementi disposti a disegno. Più sotto ancora, a circa cm 46 di profondità, quello originario […]». 54 San Pietro in Malvasia compare nell’elenco delle chiese, risalente al 1459,

che versavano contributi al vescovo di Rieti. Cfr. MARCHESI 1592 [ED. 2004], p. 102. Archivio Arcidiocesano dell’Aquila (= AAA), Visite pastorali, b. 1125, ff. 161v, 162v-r. Cfr. Appendice documentaria II.

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di revocarne la cura a favore della chiesa e della confraternita. Il vescovo decise tuttavia di rinnovare il decreto sollecitando l’erede dei Vetuli, Vittoria Ricci, a rispettare gli accordi. L’altare della Natività fu trovato ruraliter provisum e pertanto furono disposti alcuni accorgimenti come la copertura della mensa sacra con una tela cerata, l’inserimento di cuspidi sui candelabri e la manutenzione generale degli arredi. Si menziona qui, per la prima volta, l’altare del Rosario, l’ultimo a sinistra che, trovato spoglio e privo di pietra consacrata su cui officiare, venne sospeso finchè non fosse stato nuovamente restaurato e dotato delle necessarie suppellettili: è probabile che vi facesse parte la nicchia della Madonna col Bambino circondata dalle scene dei Misteri (figg. 6, 14-28), scoperta nel 1970. Difficile dire se a questa data gli affreschi fossero stati già scialbati: se così fosse, il documento dimostra che l’altare aveva comunque mantenuto l’antica titolazione. La stessa situazione di generale abbandono fu riscontrata nella navata destra, dove erano due altari dedicati alla Vergine. Il primo fu trovato inadeguato e sprovvisto di ogni accessorio funzionale alla celebrazione. Il secondo, detto del Gonfalone, aveva come icona un antico (vetustum) stendardo raffigurante la Madonna, a detta del vescovo di buona fattura (pictura est valde pulcra), ma che aveva bisogno di essere inserito all’interno di un telaio ligneo per ornare adeguatamente lo spazio sacro. È interessante notare, sebbene non si abbiano elementi univoci per stabilire l'identità dei due oggetti, che «Uno stendardo della Madonna» compariva ancora nell’inventario dei beni della confraternita del 1910. Inoltre, non si può non ricordare il gonfalone un tempo nei locali dell’episcopio (fig. 8) che, alla luce di tali considerazioni, potrebbe provenire proprio dalla chiesa dei Raccomandati55. Tre elementi rendono, se non

55 Il dipinto è stato recentemente pubblicato in GRUMO 2011, dove lo si dice

conservato in Santa Maria del Popolo. Al momento della revisione dell’articolo, dell’opera, che nel 1972 era nel salone dell’episcopio, non si è trovata traccia. Tra le altre tele un tempo nell’edificio e non rinvenute in questa occasione si segnala il modesto San Rocco (XVI secolo?). Cfr. scheda OA 1200209815 (50s).

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certa, almeno plausibile questa ipotesi. La datazione al 1590 e lo stile attardato su moduli stilistici di primo Cinquecento giustificherebbero l’aggettivo vetustum utilizzato dal vescovo nel 1687. La presenza di Rocco e Sebastiano, gli stessi santi che comparivano nella lunetta scoperta nel 1971 sotto la muratura di rifacimento dell’altare settecentesco e che non sappiamo se fosse stata, a quella data, già tamponata, sembrerebbe avvalorare la congettura (figg. 9, 11). L’aspetto più interessante risiede nella raffigurazione, negli angoli inferiori della tela, dei membri di una confraternita, gli uomini in abiti penitenziali e le donne col capo coperto. In basso al centro sono i busti di sant’Antonio Abate, di un santo vescovo, forse san Magno, patrono di Cittaducale, e infine di un altro santo legato ai viandanti e ai pellegrini, Cristoforo56. Lo stendardo è tra l’altro

dipinto anche sul retro, dove compare una più tarda Madonna in trono col Bambino tra san Giuseppe e san Sebastiano (fig. 10). Nel caso si trattasse realmente del gonfalone dei Raccomandati, questa seconda immagine potrebbe essere messa in relazione all’intervento di rintelaiatura ordinato dal vescovo, mentre la presenza di san Giuseppe celerebbe un riferimento al beneficio sub titulo Sancti Josephi connesso all’altare, di giurispatronato della famiglia De Magnanti e il cui rettore era allora il reverendo Tommaso Cherubini. La relazione, inoltre, precisa che la mensa fu trovata piuttosto piccola e stretta (exiguus) e che il prelato ordinò di mettere in opera una lastra di marmo più grande o, in alternativa, di riadattarvi quella del vicino altare già sospeso. Qui si ufficiava il culto solo nel giorno di Natale e nelle festività seguenti57.

Nel 1693 la situazione non sembra sostanzialmente mutata. Tutti gli altari, ad eccezione del maggiore e di quelli della Natività e del Gonfalone, furono sospesi; il vescovo dispose un

56 Su san Magno da Trani, patrono di Cittaducale cfr. CAIONE, CALIÒ,

FALASCHI, LEGGIO, PATERA 2007, pp. 125-133. 57 AAA, Visite pastorali, b. 1293, ff. 191r-195r (nuova foliazione 99r-101v).

Cfr. Appendice documentaria II.

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nuovo restauro del pavimento e la predisposizione di un feretro per i confratelli defunti58.

Le visite del Settecento ci informano dell’esistenza di soli tre altari, identificabili con quelli visibili tuttora. Poiché la relazione del 1693 riferisce un numero superiore (sei), è più che plausibile, come già ipotizzato in passato, che il rifacimento in forme tardobarocche risalga a una data immediatamente successiva al 1703, anno del disastroso terremoto che causò gravi danni a tutti gli edifici di Cittaducale. Per alcuni di questi, come Santa Maria del Popolo, sono documentati i lavori di restauro in seguito al sisma, per altri sono ipotizzabili. La prima relazione, risalente solo al 1745, ricorda che l’altare maggiore conservava pro Icona l’immagine della Vergine dei Raccomandati con san Francesco e san Domenico, forse la stessa menzionata nel 1682 e che il vescovo Francesco di Giangirolami (1682-1685) diceva dipinta su muro. Tra i vari onera del cappellano Giuseppe Pirotti c’era anche l’impegno di celebrare una messa cantata nella chiesa di San Girolamo e di esporre il Sacramento nelle quaranta ore connesse alla festività del Natale. L’altare della Natività, sotto la cura della confraternita, era stato con ogni evidenza ritenuto decorosamente allestito, se il vescovo Nicola Maria Calcagnini (1750-1792) ordinava soltanto di ricoprirlo con una tela cerata: il canonico Dionisio Berrettini, Iurispatronatus de Magnante, vi celebrava la messa sei volte l’anno. Una notiza interessante riguarda l’altare opposto, nella navata destra, dedicato alla Vergine e amministrato da un’altra confraternita menzionata qui per la prima volta, la Congregationem artificum, ‘eretta’ dal «venerabile Padre Baldinucci». Il sacerdote di cui si parla è il predicatore gesuita Antonio, figlio minore del più famoso critico fiorentino Filippo59. Secondo la

58 AAA, Visite pastorali, b. 1293, pp. 31-32 (nuova foliazione, p. 219r/v). Cfr.

Appendice documentaria II. 59 Educato nel collegio gesuitico della città natale e poi nel noviziato della

Compagnia di Gesù a Roma, Baldinucci (Firenze 1665 - Pofi 1717) fu esonerato dalle opere di evangelizzazione in Oriente e, a causa della salute malferma, indotto a dedicarsi all’insegnamento. Dopo il 1698 si impegnò in

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testimonianza del confratello Francesco Maria Galluzzi, biografo del religioso, nel 1712 Baldinucci si recò nelle diocesi di Rieti e di Cittaducale e nel 1713 era sicuramente nella cittadina: tra queste date e quella della morte (1717) deve essere stato fondato il nuovo sodalizio, poiché le missioni sul territorio sembrano essere state più di una60. A «Civita» il missionario,

spesso affiancato dal futuro vescovo Pichi, tenne con successo un famoso quaresimale; durante il suo soggiorno, scrisse anche alcune lettere in cui lamentava il gran lavoro dedicato alla cura delle anime del luogo «giacché notte e giorno non mi lasciano vivere»61.

Nel 1793 la gestione ordinaria della chiesa sembra migliorata. Il canonico Filippo Antonio Giraldi, incaricato di compiere l’ispezione al posto del vescovo Pasquale Martini (1792-1798), trovava l’altare dei santi Ignazio e Saverio, nel 1745 ancora dedicato alla Vergine del Gonfalone, sufficientemente corredato di ornamenti sacri (fig. 11): qui doveva trovarsi la tela, oggi nella sagrestia della cattedrale, raffigurante la Vergine in gloria tra sant’Ignazio di Loyola e san Francesco Saverio (fig. 12), rimossa dalla Berti Bullo nel febbraio del 1970: «Un quadro ad olio, sistemato

missioni popolari nelle campagne dell’Italia centrale promuovendo la diffusione degli esercizi spirituali per il clero contadino e per le congregazioni mariane nonché la pratica delle processioni penitenziali e il culto della Madonna refugium peccatorum. Cfr. VANNUCCI 1893 e MEROLA

1963, p. 495. 60 GALLUZZI 1720, p. 212: «faceva il Padre Baldinucci le solite sue Missioni

in Civita Ducale […]»; pp. 226-227: «Era nell’anno 1713 il signor Gio. Carlo Malatesta di Civita Ducale travagliato da un acerbo dolore di calcoli e mentre per esso gemeva, e spasimava, fu visitato dal P. Antonio […]». Si ricorda, in proposito, l’intervento di Adriano Ruggeri dal titolo Missioni del p. Antonio Baldinucci e visite pastorali: fonti a confronto per una quantificazione dei danni del terremoto del 1703 nell’alta valle del Velino ed Alto Aterno, pronunciato al convegno Settecento abruzzese. Eventi sismici, mutamenti economico-sociali e ricerca storiografica (L’Aquila, 29-31 ottobre 2004), a cura di Raffaele Colapietra, Giacinto Marinangeli, Paolo Muzi. Purtroppo il contributo non compare negli atti pubblicati da Colacchi (L’Aquila) nel 2007. 61 GALLUZZI 1720, pp. 30, 32, 38, 43, 72, 88, 94-95, 203, 207, 221, 233, 235-

236, 252.

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nella cornice interna, anch’esso molto mal ridotto, era zuppo d’acqua, quando è stato levato dalla sua sede»62. Il culto di

Francesco Saverio era stato diffuso, in terra d'Abruzzo, proprio da padre Baldinucci, che lo considerava suo protettore nel ministero apostolico63. Anche l’altare della Natività si mostrava

bisognoso di maggiori cure: il canonico ordinò, pertanto, la fornitura di nuove tovaglie, corone ricoperte d’oro e un lavabo64.

Il sacrarium fu trovato ben provvisto di suppellettili e con l’occasione si dispose l’inventario di tutti i beni mobili e immobili. Interessante, a chiusura del documento, la notizia della compresenza, all’interno della chiesa, delle due confraternite dei Raccomandati e degli Artisti, già citate nel documento del 1745, ma che risultano, a questa data, riunite in un unico sodalizio. Nel 1805 il vescovo Emanuele Ceciri lodava il buono stato dell’altare maggiore su cui era esposta l’Effigies Beatissimae Virginis Mariae de Raccomandatis in tela depicta simul cum Icone sancti Dominici et sancti Erasmi, forse la stessa citata nel 1745, sebbene sia difficile pensare che un vescovo potesse fraintendere l’iconografia di frate Francesco con quella del vescovo Erasmo. La già citata Incoronazione della Vergine tra san Domenico e sant’Isidoro agricoltore (fig. 7), oggi attribuita a Giuseppe Chiari (1654-1727), potrebbe essere identificata col dipinto citato nel 1805, nonostante si debba ancora presupporre un fraintendimento interpretativo: in quanto pastore di Antiochia, Erasmo è sempre raffigurato in abiti pastorali, mai in abiti da contadino né tantomeno con una vanga, come in questo caso, tipico attributo del santo spagnolo, canonizzato nel 1622 da

62 ARSbap-Lazio, Santa Maria dei Raccomandati, Relazione 1971, p. 2.

63 GALLUZZI 1720, p. 179. È importante ricordare, tuttavia, che nella visita

del 1687 il vescovo esortava a recitare delle messe «ut aiunt Sanctorum

recentiorum». Cfr. Appendice documentaria II. 64 Il termine lavabo indica sia il rito dell’abluzione delle mani del sacerdote,

dopo l’offertorio, sia il servizio, costituito da una brocca e da un bacile, per l’abluzione delle mani del vescovo nella liturgia eucaristica.

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Gregorio XV insieme a sant’Ignazio di Loyola e a san Francesco Saverio65.

L’altare della Natività veniva trovato convenientemente ornato, ma il prefetto della confraternita, Domenico Costantini, era comunque esortato a rimuoverne l’umidità, per quanto possibile. Questo problema era evidentemente tra le ragioni principali del deterioramento del frammento di affresco, a sua volta ricoperto da «un quadro letteralmente imbevuto d’acqua, raffigurante una Natività, tutto rotto, raggrinzito», rimosso dalla Berti Bullo nel febbraio del 1970 ma non rintracciato. Il dipinto è forse andato perduto poiché non se ne trova traccia neppure tra quelli schedati nel 1972 dalla Soprintendenza66. Anche

l’altare dedicato alla Vergine e ai due santi gesuiti fu trovato predisposto in maniera piuttosto mediocre. Dalla relazione del 1832, molto succinta per quanto riguarda la descrizione dell’interno, non si ricavano informazioni utili, se non l’indicazione di rifornire gli altari laterali di nuove tovaglie e di far restaurare due casule. Nel complesso, il vescovo Girolamo Manieri si ritenne soddisfatto e concesse l’indulgenza di quaranta giorni ai presenti, procedendo in seguito alla cresima di alcuni giovani. Il documento termina con un lungo elenco di pia legata, ovvero degli obblighi di messe e di preghiere in ricordo dei defunti, in ottemperanza ai lasciti testamentari dei medesimi. Tra i nomi compare qui per la prima volta quello di Cola Mazilli, il ricco armentario di Lugnano che nel 1588 aveva donato la cospicua eredità con la quale si era dato avvio ai lavori di costruzione del monastero annesso alla chiesa: sono proprio i suoi gli oneri più numerosi da rispettare e si distinguono, rispetto a quelli degli altri defunti, nell’ufficio di messe più

65 La tela era stata in precedenza attribuita a Carlo Cesi (Antrodoco, 1626 –

Rieti, 1686) da Francesco Abbate in seguito al restauro diretto nel 1978. L’opera è stata successivamente riferita a un seguace di Girolamo Troppa (Rocchette di Torri in Sabina, 1637 – Roma, 1710); cfr. FERRARIS, VANNUGLI 1987, p. 34, CONTE 1990B, p. 186. Per l’attribuzione a Chiari, cfr. SCHLEIER 1990, p. 27, nota 1. 66 ARSbap-Lazio, Santa Maria dei Raccomandati, Relazione 1971, p. 2.

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solenni, lette e cantate, da celebrarsi nel lunedì di Pasqua e il 16 agosto, festa di san Rocco67.

Nel 1842 monsignor Filippo de’ Conti fornisce la prima descrizione in italiano dell’edificio, trovato in buono stato e ben dotato di arredi. L’altare maggiore era allora consacrato alla «Madonna della Purificazione» mentre gli altri corrispondono a quelli menzionati nelle visite precedenti. L’unica confraternita nominata è quella degli Artisti, dedita alla recita del rosario nelle feste di doppio precetto, mentre i gesuiti Ignazio e Francesco Saverio sono ricordati come santi protettori della chiesa. Il cambio di dedicazione dell’altare maggiore potrebbe avere un legame con il terremoto del 1703: lo sciame sismico ebbe il suo picco il 2 febbraio di quell’anno, giorno in cui si celebrava la Purificazione di Maria e la Presentazione al tempio di Gesù, festività connesse al rito della Candelora. Le visite pastorali ottocentesche, peraltro, attestano messe in suffragio dei defunti e l’obbligo della partecipazione ai sacramenti della comunione e della confessione proprio in quel giorno68.

Nel 1853 il vescovo Luigi Filippi si trovava nelle condizioni di approvare unicamente l’altare maggiore; quello della Natività fu sospeso «perché grondante di acqua nelle pareti» mentre quello dedicato ai santi Ignazio e Francesco Saverio fu nuovamente interdetto per l’annosa questione della mensa di marmo, non adeguata alle sue funzioni. In occasione dell’ispezione, un quadro posto a sinistra della porta d’ingresso venne staccato e posto ai piedi della parete per «liberarlo dall’umidità»69.

Nel 1875 lo stesso vescovo, ricevuto dal cappellano Antonio Vetuli, trovò gli altari finalmente «decenti ed ornati competentemente come comporta la piccola Chiesa che è

67 Su Cola Mazzilli cfr. DI NICOLA 2004, pp. 166-167. AAA, Visite pastorali,

b. 1124, pp. 13-14 (1832). Cfr. Appendice documentaria II. 68 AAA, Visite pastorali, b. 879/2, p. 167 (1842); b. 879/3, ff. 10r/v (1853); b.

1415, pp. 88-91 (1875). Risposte ai questionari del vescovo (1910). Cfr. Appendice documentaria II. 69 AAA, Visite pastorali, b. 1376, pp. 10-11 (1853). Cfr. Appendice

documentaria II.

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decentissima». La confraternita degli Artisti continuava a riunirvisi durante le feste per la recita del Rosario, per la messa e per tutte le pratiche connesse ai riti, ma poteva contare su una «meschinissima rendita», integrata con l’elemosina ed il contributo volontario di una lira all’anno versata da ogni confratello. L’attenzione di Filippi è rivolta in particolare alla decrizione della suppellettile:

L’Illustrissimo prelato visitò la custodia, e la sfera contenutavi coll’ostia consacrata. E trovò tutto a lodare, specialmente la ripetuta sfera di argento fatta lavorare di recente dal passato Prefetto della Congregazione Signor Angelo Giacomelli ed Assistenti che son venuti raccogliendo per questo le volontarie oblazioni dei fedeli70.

La visita del 1896 non fornisce notizie di rilievo, se non la richiesta di restaurare il pavimento e di foderare la custodia dell’altare maggiore. Un’ultima osservazione, relativa a tutta la documentazione analizzata, riguarda i nomi delle casate cui appartenevano molti degli ecclesiastici che godevano dei benefici connessi ai singoli altari e che risultano, quasi tutti, membri di famiglie nobili o benestanti della città: i Pagani, i Vetuli, i Roselli, i Falconi, i Bonafaccia da un lato e i Berrettini e i Palombi dall’altra71.

Altre informazioni, più utili, provengono dalle cosiddette Risposte ai questionari del vescovo, di cui restano i documenti del 1910 e del 1919. Il primo è il più importante perché contiene un inventario degli arredi conservati dalla confraternita, detta però, con un’apparente incongruenza, «eretta nell’anno 1784 con assenso regio di Ferdinando IV». Questa precisazione permette di ipotizzare che questo sia l’anno in cui le due congregazioni, dei Raccomandati e degli Artisti, furono unite in nuovo organismo

70 AAA, Visite pastorali, b. 1415, pp. 88-91 (1875). Cfr. Appendice

documentaria II. Cfr. TASSI 2006, p. 109. 71 NOVELLI 1992, pp. 48-49.

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associativo dal vescovo Calcagnini, come indicato nella visita del 179372. L’elenco registra la presenza di cinque quadri in

sagrestia, di «sei quadri grandi alle pareti della Chiesa», con cui possono essere identificate le tele conservate nell’Episcopio, quella nella chiesa di Santa Cecilia e altre di scarsa fattura non rintracciate, schedate nel 1972 ed allora in pessimo stato di conservazione. Alla luce di quanto emerso dall’inventario e in assenza di dati specifici sulla provenienza, si propone in via dubitativa l’identificazione delle quattordici tele della Via Crucis menzionate nel documento, di cui qui si riproduce Cristo e la Veronica (fig. 13), con le piccole tele sei-settecentesche conservate nell’ex residenza vescovile, opera di un modesto artista locale. Nel 1919 l’edificio era chiuso al culto e fu adibito a magazzino di viveri. La sagrestia, la cui porta era ostruita, conservava ancora dei registri, ma del tutto inaccesibili. È plausibile che la struttura, dopo il terremoto del 1915, non fosse stata messa in sicurezza: nonostante l’assenza di un cappellano, i confratelli, sebbene scarsamente partecipi alle funzioni, erano ancora circa duecento. Le uniche visite novecentesche consultabili integrano in parte questo quadro ma sono molto scarne di notizie. Nel 1922, le confraternite di Cittaducale, tra cui quella della Madonna dei Raccomandati, ricevettero alle porte della città il vescovo Aldolfo Turchi, ma dalla relazione non si evince alcuna ispezione alla chiesa; nel 1939 è invece elencata tra quelle che lasciavano «alquanto a desiderare»73.

72 Cfr. SABATINI 1995, p. 126. Negli Appunti bibliografici intorno a Statuti,

Ordini, Grazie, regole, ecc. della regione Abruzzese dall’anno 1196 all’anno 1799, editi nel 1934, Sabatini ricordava le Regole delle confraternite del Santissimo Sacramento, dei Santi Fabiano e Sebastiano in San Giuseppe, della Madonna de’ Raccomandati, di Sant’Antonio Abate e del Suffragio, tutte approvate il 26 aprile 1784. 73 AAA, Visite pastorali, b. 878/2, p. 3 (1922), b. 839/1, p. 543 (1934), b.

839/2, p. 271 (1939). Cfr. Appendice documentaria II.

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5. La storia recente: dalla chiusura ai restauri degli anni Ottanta Chiusa definitivamente al pubblico nel 197074, la chiesa si

trovava da oltre trent’anni in uno stato di grave fatiscenza a causa del terremoto del 5 settembre 1950. Già nell’ottobre del 1949 il sindaco di Cittaducale, a capo del comitato cittadino sorto per intervenire sul monumento minacciato dal crollo del prospetto e del campanile, scriveva alla Sovrintendenza dei Monumenti e delle Arti dell’Aquila per richiedere un sussidio a causa dell’esiguità delle donazioni private, ricordando che già nel 1915 il comune aveva provveduto autonomamente al restauro della facciata, danneggiata dal terremoto. Il sisma dell’anno seguente aggravò la situazione, colpendo principalmente la navata destra e il campanile. L’ossatura muraria presentava lesioni e distacchi di conci di pietra e sensibili strapiombi all’esterno e all’interno. I lavori, sollecitati dall’amministrazione comunale, dalla confraternita e da singoli cittadini, furono rimandati per molti anni a causa della cronica penuria di fondi statali. Nel 1956 fu effettuato un sopralluogo dalla Soprintendenza ai Monumenti del Lazio e contestualmente intervenne anche l’Ufficio del Genio Civile di Rieti che, in sede di verifica, propose l’abbattimento del corpo di fabbrica strapiombato75. Da un controllo effettuato in quello stesso

anno, si accertò che la confraternita dei Raccomandati era ancora proprietaria dell’edificio; nel 1957 il priore Giuseppe Tiburzi e il parroco sollecitavano il rilascio del nulla osta necessario per l’abbattimento di una soffitta ricavata «lateralmente alla navata centrale», come suggerito in precedenza dal funzionario del Genio Civile. Nel 1959 il priore Andrea Sarti, dopo aver ricevuto dall’amministrazione l’intimazione a provvedere alle spese, dichiarava di non

74ARSpab-Lazio, Santa Maria dei Raccomandati, Ordinanza del 25/5/1970 del

sindaco Enzo Tiberti. Si ricorda che solo nel 1927 il comune di Cittaducale, allora amministrativamente compreso nel territorio dell’Aquila, fu incorporato nella ‘neonata’ provincia di Rieti. 75ARSpab-Lazio, Santa Maria dei Raccomandati, prot. 2321 del 3/4/1956.

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possedere né fondi né rendite per far fronte ai lavori, aprendo, pertanto, le trattative che avrebbero portato lo Stato a sostituirsi all’ente proprietario76.

Nel 1970 il Genio Civile di Rieti ribadiva al Ministero dei Lavori Pubblici, che prontamente ne informava la Soprintendenza, la necessità di un intervento di consolidamento: i dissesti riguardavano lesioni nelle chiavi degli archi delle navate laterali, il crollo parziale della soffittatura nei pressi dell’ingresso, l’avvallamento delle falde del tetto e l’incrinatura dell’architrave del portale principale77. I lavori ebbero luogo ma non furono

risolutivi e si procedette in seguito con iniezioni di cemento nelle murature che danneggiarono seriamente gli affreschi della parete destra. Sono questi gli anni in cui, a causa della cronica latitanza dello Stato, Anna Maria Berti Bullo prese l’iniziativa di effettuare delle ricerche sulla chiesa. Secondo quanto riportato dalla stessa Berti, in seguito al crollo parziale della volta si decise di eseguire delle indagini sulle arcate divisorie: furono messi in luce, inizialmente, i pilastri ottagonali della navata centrale. Nonostante la Soprintendenza ne fosse immediatamente informata, grazie ad Ilaria Bertelli Toesca, nessun funzionario effettuò il sopralluogo di routine: la signora decise pertanto di portare avanti le ricerche in modo autonomo mentre la chiesa veniva chiusa definitivamente con l’ordinanza comunale del 25 maggio 1970. Solo nel gennaio del 1971 l’architetto Frangipane, inviato da Roma, presa visione del lavoro fatto, richiese alla Berti di continuare con i saggi: nel febbraio del 1971 venivano portati alla luce diversi brani di affreschi scialbati. Nonostante l’attenzione sollevata momentaneamente dalla scoperta, nel

76ARSpab-Lazio, Santa Maria dei Raccomandati. Lettera del priore Andre Sarti,

16 aprile 1959 (prot. 3402 del 21/471959). Nel dicembre del 1958 il Provveditorato Regionale alle Opere Pubbliche per il Lazio trasmetteva una perizia (n. 323) per il restauro della chiesa in cui erano previsti i soli lavori atti ad assicurare la stabilità delle coperture e della facciata, essendo stati già compiuti dall’ente proprietario le opere concernenti il ripristino statico delle fondazioni. 77 ARSpab-Lazio, Santa Maria dei Raccomandati, prot. 10251 del 4/7/1970.

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1977 la struttura era ancora puntellata a causa di gravi dissesti statici: il tetto aveva ceduto e gli archi delle navatelle presentavano lesioni di chiave78. Nel novembre del 1980 la

Soprintendenza si trovò ad affrontare una situazione divenuta drammatica: la volta in camera canna della navata centrale era interamente crollata. Anche la copertura aveva subito cadute parziali e le parti residue della grossa orditura risultavano fatiscenti. Si decise allora di non ricostruire ex-novo le parti settecentesche crollate e di non procedere ad un mero restauro conservativo che avrebbe, in ultima analisi, lasciato la chiesa nello stato in cui si trovava al momento dell’inizio dei lavori. Si stabilì, pertanto, la rimozione di tutti gli intonaci, il consolidamento statico e l’abbattimento del rialzo operato nel 1956 dal Genio Civile sulla navata destra per prevenire il crollo della parete. Durante i lavori, mentre si sostituiva la copertura a tetto della parte absidale, si verificò il distacco di una porzione di intonaco al centro che si decise di non risarcire79. La volta

della navata centrale fu totalmente sostituita da una copertura a capriate, ma i restauri si interruppero nel 1987 per mancanza di fondi. Sebbene la facciata e le fondazioni non corressero più il rischio di improvvisi dissesti, le arcate furono puntellate. Gli affreschi non vennero interessati, invece, da alcuna operazione, ma si rimossero ulteriori porzioni di intonaco in zone non interessate dall’intervento della Berti. Nel frattempo le infiltrazioni d’acqua hanno causato un peggioramento dello stato di conservazione dei dipinti della parete destra, evidente dal confronto tra le foto del 1972 e quelle del 2007. Il lento ma graduale slittamento della platea della chiesa in direzione della Scuola Forestale ha dato il via a nuovi lavori di consolidamento non ancora conclusi80.

78 ARSbap-Lazio, Santa Maria dei Raccomandati, Relazione 1971.

79 ARSbap-Lazio, Santa Maria dei Raccomandati, Relazione della Società

Antonio Triglia & C., 2/3/1981, prot. 4770, 11/4/1981 e Relazione del Soprintendente Giovanni di Geso, prot. 9347/13655 del 20.7.1981. 80 La notizia dello slittamento è frutto di una comunicazione orale della

dottoressa Roselli dell’Ufficio Tecnico della Scuola Forestale di Cittaducale

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Nella relazione preliminare ai restauri redatta nel 1981 l’architetto Francesco De Tomasso, incaricato di dirigere i lavori, formulava delle ipotesi circa l’originario assetto dell’edificio di cui si dà, qui di seguito, una breve sintesi. Il funzionario notava, prima di tutto, un’anomalia nell’impianto planimetrico: delle quattro campate laterali, le due centrali presentavano una dimensione maggiore di circa 50 cm rispetto a quelle poste alle estremità. Conseguentemente, i pilastri mediani che a causa delle maggiori dimensioni delle campate più grandi risultavano maggiormente caricati, avevano un diametro maggiore (circa 70 cm contro 50 cm). A proposito delle vicende costruttive successive alla fase quattrocentesca, l’architetto individuava due momenti principali: il primo, risalente presumibilmente alla fine del Cinquecento, con la costruzione delle volte a crociera nelle navate laterali e un secondo, nel XVIII secolo, più invasivo. A questo intervento doveva riferirsi la realizzazione della volta in camera canna sulla navata centrale e dei tre altari barocchi, la decorazione a stucco dipinto, l’inglobamento delle colonne ottagonali in nuovi pilastri compositi ed il rimaneggiamento della zona absidale, di cui ipotizzava, grazie anche alla presenza di tracce di affreschi più antichi, una radicale manomissione strutturale precedente all’intervento quattrocentesco81.

6. Gli affreschi Riportati alla luce tra il 1970 e il 1971, in seguito alla chiusura dell’edificio al culto per problemi statici, gli affreschi di Santa

(anno 2007). Ricordo, infine, che parte dei nuovi uffici dell’adiacente edificio è stata allestita sopra la navata sinistra, con conseguente pericolo di nuovi dissesti, danni alle volte e alle pareti dove si trovano la maggior parte degli affreschi. Può essere utile, in proposito, consultare il sito dello studio dell’ingegner Antonio Ambrosi, incaricato dei restauri: http://www.antonioambrosi.com/index.htm. 81 ARSbap-Lazio, Santa Maria dei Raccomandati, Relazione dell’architetto

Francesco de Tommaso (1981?).

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Maria dei Raccomandati costituiscono la più importante testimonianza figurativa di Cittaducale tra la fine del XV e la prima metà XVI secolo82. Schedati nel 1972 da Vincenzo

Bilardello per conto della Soprintendenza ai Beni Storici ed Artistici del Lazio, gli affreschi, scialbati prima o durante la ristrutturazione settecentesca in forme barocche, furono scoperti, come abbiamo visto, da Anna Maria Berti Bullo83. In

quell’occasione, l’intonaco che li ricopriva non fu interamente rimosso: altre porzioni sono state liberate durante gli anni Ottanta ma senza portare ad ulteriori acquisizioni. L’operazione, anche in quel caso, non fu estesa a tutta la superficie e per questo motivo non si esclude che vi siano altri brani ancora nascosti. Il quadro decorativo della chiesa non era, da quanto si può dedurre, organicamente strutturato, ma si componeva di più riquadri votivi giustapposti con la sola esclusione di due affreschi, entro nicchie centinate ricavate a vivo nel muro. Tutte le immagini riflettono, nel loro complesso, i caratteri della cultura figurativa umbro-laziale, sono databili tra l’ultimo quarto del XV e la prima metà del XVI secolo e confermano la progressiva omologazione del linguaggio locale, rappresentato nei suoi esiti migliori dall’amatriciano Dionisio Cappelli, sui modi di Antoniazzo Romano prima, per approdare in seguito ad un’uniformità espressiva modellata sulla «dignitosa modestia di Iacopo Siculo e dei fratelli Lorenzo e Bartolomeo Torresani, pittori trapiantati a Rieti dalla nativa Verona»84.

82 Altri affreschi, di epoche differenti e databili tra la fine del XIV e il XV

secolo, sono nell’ambiente retrostante l’abside settecentesca della chiesa di Santa Cecilia. Cfr. MUÑOZ 1917, p. 47 e CANTONE 1990B, pp. 128-139. 83 Sono gli anni, questi, della schedatura estesa della regione sabina, tra Rieti

e il confine abruzzese, in un’area che era già stata pioneristicamente censita vent’anni prima da Luisa Mortari e Italo Faldi. Cfr. MORTARI 1951, MORTARI 1960, MORTARI 1966, BILARDELLO 2004, pp. 48-49. 84 Cfr. Enrico Lavagnino in MORTARI 1957, pp. 3-10. Nella premessa al

catalogo della mostra, lo studioso forniva un quadro chiaro delle influenze che potevano individuarsi sul territorio dopo la metà del Quattrocento.

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La parete della chiesa che ha conservato la maggior parte di queste testimoninze figurative è quella sinistra. La più rilevante è una Madonna col Bambino (fig. 14) di scuola antoniazzesca, circondata da quattordici scene con i Misteri del Rosario (figg. 15-28) che forse, un tempo, costituiva la parete di fondo dell’omonimo altare citato nelle visite pastorali del 1687 e del 1693. Il vano entro cui si trova fu riportato alla luce nel febbraio del 1971, nascosto da una nicchia entro cui era una statua della Vergine, identificabile forse con la terracotta otto-novecentesca raffigurante un’Addolorata ora nella Cattedrale85.

L’opera è mutila: la parte coincidente con i volti e i busti delle due figure è stata staccata prima di procedere all’intonacatura. La Berti Bullo supponeva che questa porzione fosse stata trasferita all’esterno, nell’edicola che ancora oggi si trova sul fianco destro dell’edificio. L’analisi autoptica indurrebbe ad escludere questa ipotesi sia per la frontalità del volto della Vergine, non congruente con la posizione del corpo nell’affresco, sia per l’assenza del viso del Bambino (fig. 29). È

Indicava nell’Abruzzo il serbatoio più ricco di energie artistiche, soprattutto nella zona compresa tra Leonessa, Posta, Borbona, Antrodoco e il Cicolano; tra Rieti, Greccio e Magliano Sabina notava influenze umbre; nell’area compresa tra Palombara, Poggio Mirteto, Vescovio e la Valle del Tevere coglieva invece un linguaggio uniforme, influenzato dalle coeve esperienze artistiche «tiburtine». Per un quadro generale sulla pittura nella zona compresa tra monti Sabini, Tiburtini, Cornicolani e Prenestini, cfr. BUTTAFOCO 1995, MASSAFRA 1995; sulle opere ad affresco tra Lazio ed Abruzzo a cavallo tra XV e XVI secolo cfr. NARDECCHIA 2001, TOMEI

2005; sull’Abruzzo nel primo Quattrocento, cfr. DELL’ORSO 1992; sull’Umbria, cfr. TARCHI 1940 e TARCHI 1954, TODINI 1989, DALL’ALBORNOZ ALL’ETÀ DEI BORGIA 1990, SAPORI 1993. Si veda infine il recente ed aggiornato repertorio di Giovanna Grumo dedicato ai dipinti su tela e tavola realizzati nel reatino durante il Cinquecento. Cfr. GRUMO 2011. 85 ARSbap-Lazio, Santa Maria dei Raccomandati, Relazione 1971, p. 7: «Sotto

pochi centimetri di intonaco, intorno alla nicchia dove trova posto una statua della Madonna, nella parte della navata sinisitra resti di affreschi di due differenti periodi […]». La provenienza della statua dalla chiesa dei Raccomandati è stata comunicata dal parroco don Mariano Pappalardo (2013).

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plausibile, tuttavia, che l’immagine sia stata manomessa, nel corso dei secoli, da periodiche ridipinture fino a perdere la forma originaria86. Il dipinto è evidentemente ispirato ad alcuni

prototipi di Antoniazzo Romano, più volte replicati e che ha tra i suoi modelli più stringenti la Madonna degli Uditori di Rota alla Pinacoteca Vaticana (1488-1492), la Madonna col Bambino di Sant’Apollonia a Velletri e quella dell’ex-Ospedale civile di Bracciano (entro 1495), in cui si riscontrano alcuni identici particolari (fig. 30)87: la posizione delle gambe e dei piedi

dell’infante, il risvolto del manto della Vergine che dall’avambraccio si avviluppa sulle ginocchia, la camicia che affiora dall’asola della manica destra, la posizione della mano sinistra, col mignolo leggermente piegato e indice e medio divaricati. Sebbene le campiture di colore appaiano oggi piatte a causa della perdita delle rifiniture a secco, la cromia ha mantenuto la sua fastosa vivacità. I due angeli che incoronano la Vergine sono delineati in maniera più sciolta, mentre il colore è caratterizzato dall’accostamento di tinte stridenti e da effetti cangianti. La morfologia dei nasi e delle bocche è simile a quella del San Domenico, raffigurato poco oltre sulla parete e riconducibile alla stessa bottega (fig. 31). La diffusione della maniera di Antoniazzo tra il Lazio settentrionale e l’Umbria meridionale risale all’ultimo ventennio del XV secolo, protraendosi in alcuni casi fin oltre la prima decade del

86 Il vetro che protegge l’icona votiva non permette una corretta lettura del

dipinto la cui superficie appare accidentata e lacunosa. Solo un restauro potrebbe accertare l’esistenza di strati d’intonaco precedenti e confermare l’ipotesi che il frammento sia ciò che resta dell’antico affresco. 87 CAVALLARO 1992, p. 202, n. 28. Nonostante la data, comparsa durante i

restauri del 1965, l’affresco è variamente datato tra il 1491-1493 e il 1497-1499. Anche l’attribuzione oscilla tra la bottega e la completa autografia del maestro. Stessa composizione, ma in controparte, si ritrova nell’opera di Le Mans e in quella del Museo civico di Viterbo, datate all’ultimo decennio del XV secolo. Cfr. CAVALLARO 1992, pp. 200, 203, 238 e CAVALLARO 2013, pp. 34-42. Tra le opere attribuite alla bottega si ricordano ancora la Madonna col Bambino nella chiesa di Santa Maria e San Biagio a Sant’Angelo Romano e l’affresco del Prado, datato entro il 1495.

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Cinquecento, anche grazie alla «vasta disponibilità e all’ampia circolazione dei cartoni» utilizzati dagli allievi, dalla sua «posizione di artista legato al mondo confraternale» e ai gusti attardati della committenza locale, concentrati principalmente su temi devozionali88. È in questo contesto e in concomitanza

con l’arrivo dei grandi protagonisti del Rinascimento a Roma, che matura in Antoniazzo, qualche anno prima della morte (1508), la decisione di allontanarsi in provincia e di trasferire proprio a Rieti la bottega (1505), la cui attività rimase viva per alcuni decenni spegnendosi gradualmente in forme provinciali e di maniera, ‘forme’ di cui questo affresco sembra essere un esempio significativo. Nel duomo del capoluogo sabino si conserva una Madonna in trono col Bambino, la Maddalena e san Balduino, eseguita da Antoniazzo e dal figlio Marcantonio, documentato in città fino al 1526, che sembrerebbe essere, ad oggi, l’opera più vicina al dipinto civitese rintracciata sul territorio89. È possibile che l’esecuzione dell’affresco vada messa

in relazione con qualche evento particolare, come il trasferimento della residenza negli ambienti annessi alla chiesa dei Raccomandati nel 150990. Le scenette che contornano la

88 CAVALLARO 1992, p. 109; SANTOLINI 1996, p. 51; CAVALLARO 2008, pp.

425-426. 89 Antoniazzo tornò successivamente a Roma, forse già a partire dal 1506, e

qui si spense nell’aprile del 1508, come recentemente accertato da Anna Esposito. Cfr. ESPOSITO 2013, p. 62 e CAVALLARO 2013, pp. 43-44. Sul pittore si veda il recentissimo catalogo della mostra ANTONIAZZO ROMANO. PICTOR URBIS 2013. Su Marcantonio Aquili cfr. COSTAMAGNA 1981, pp. 76-82; ROSSI 2008, pp. 408-413; GRUMO 2011, pp. 13-14 e GRUMO 2013, in particolare pp. 154-155. La studiosa pubblica un trittico in collezione privata (fig. 40a), firmato da Marcantonio (1507), il cui pannello centrale, una Madonna col Bambino, mostra la classica tipologia riprodotta dalla bottega e dai seguaci di Antoniazzo, sostanzialmente coincidente con quella dell’affresco di Cittaducale, ad eccezione della posizione della mano sinistra della Vergine. 90 Non bisogna dimenticare che il primo vescovo (1502), Matteo da

Mugnano, sebbene non si fosse mai recato nella cittadina, era vassallo degli Orsini e per gli Orsini Antoniazzo aveva decorato alcuni ambienti del castello di Bracciano, tra cui la già citata Madonna col Bambino.

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nicchia, invece, testimoniano la crescente devozione al salterio mariano, pratica diffusa dal XIII secolo, e poi incrementata nella seconda metà del Quattrocento dal domenicano bretone Alain de la Roche, cui si deve la fissazione dei quindici misteri, e dal teologo Jacob Sprenger, cui invece spetta la fondazione della confraternita del Rosario a Strasburgo nel 147591. In Italia, la

prima congregazione con questa titolazione era nata a Venezia nel 1480, seguita l’anno successivo da quella romana, istituita presso il convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva. Sarà poi il frate veneziano Alberto da Castello a dare nuovo impulso alla devozione mariana con la pubblicazione, nel 1521, di un celebre testo più volte ristampato per tutta la prima metà del XVI secolo92. La leggenda, diffusa soprattutto da Alain de la

Roche, voleva che la Vergine fosse apparsa a san Domenico e che gli avesse donato il rosario: fu così che, dopo un periodo di ‘incertezza’ iconografica in cui si continuò ad utilizzate l’antico modello della Madonna della Misericordia, si giunse all’elaborazione di un nuovo prototipo, differenziatosi a sua volta in due schemi principali: il primo con Maria che, assisa su una nuvola, consegna il rosario a san Domenico, il secondo, invece, cui si aggiungono le figure di Gesù e di santa Caterina da Siena93. I misteri furono collocati generalmente come

‘cornice’ intorno all’immagine centrale della Vergine, soluzione questa di chiara matrice italiana, adottata soprattutto in area umbro-marchigiana, come nella pala di Giulio Vergari per la chiesa di San Michele Arcangelo a Bolognola (1519) oppure, ispirandosi a tipologie nordiche, all’interno del quadro stesso, come pannelli o medaglioni incastrati o sospesi su un roseto,

91 Il culto fu confermato da Sisto IV con due bolle emanate rispettivamente

nel 1478 e nel 1479. Le confraternite del Rosario praticavano la devozione alla teoria dei misteri dolorosi, gaudiosi e gloriosi. Sui primi passi della confraternita, cfr. MEERSSEMAN 1977B, pp. 1144-1232. Per le più antiche confraternite domenicane di devozione mariana, cfr. MEERSSEMAN 1977A pp. 921-1171. 92 ROSA 1999, p. 234-235.

93 MEERSSEMAN 1964B, pp. 318-325 e MEERSSEMAN 1977C, pp. 1204-1206.

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come nel caso della celebre tela di Lorenzo Lotto a Cingoli (1539)94. Rispetto a quanto esposto è evidente che l’affresco di

Cittaducale presenti incongruenze e sollevi interrogativi: prima di tutto la scena centrale, con la sola Vergine in trono senza i santi e, apparentemente, considerato lo stato di conservazione complessivo, l’assenza di cespugli di rose. Questa particolarità è forse spia di una datazione alta dell’affresco ed è, come già detto, comune ad altre opere di area marchigiana; oppure potrebbe spiegarsi in ragione di un cambiamento in corso d’opera o verificatosi qualche anno dopo l’esecuzione del gruppo centrale, con l’aggiunta degli angeli reggicorona, delle scene dei misteri e con la realizzazione del San Domenico nel già citato riquadro sulla stessa parete. In secondo luogo, il numero delle scene non è quello canonico: nella cornice sono rappresentati solo quattordici episodi invece di quindici. Manca, infatti, quello che di norma apre la serie, l’Annunciazione. L’Assunzione della Vergine, invece, generalmente raffigurata mentre ascende al cielo lasciando il sepolcro vuoto, circondato dagli apostoli agitati e confusi, è qui evocata dall’episodio della Consegna della cintola a san Tommaso (fig. 27), un’iconografia la cui liceità era stata più volte messa in dubbio nel corso del Quattrocento95. Nonostante l’opposizione degli ambienti

94 Sull’influenza di modelli tedeschi nella pala di Lotto, cfr. LAVAGNOLI

2006, pp. 28-36. Sulla storia della confraternita e sull’iconografia del Rosario in Italia, cfr. MEERSSEMAN 1964A e MEERSSEMAN 1964B, argomenti poi approfonditi in MEERSSEMAN 1977C. Tra gli studi recenti, relativi a singole opere o ambiti territoriali, cfr. anche QUATTRINI 1990; VENTURA 1994; ANSELMI 2009, pp. 489-495. 95 L’iconografia, nata nel XII secolo, ebbe tra i suoi più strenui contestatori

sant’Antonino, arcivescovo di Firenze (1446-1459), per la diretta derivazione dal Transitus della Beata Vergine Maria, un testo apocrifo attribuito allo Pseudo Giuseppe di Arimatea (VI-VII secolo), ripreso con qualche variante dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine. Secondo il racconto la Vergine, prima di morire, avrebbe prodigiosamente chiamato a sè nella valle di Giosafat gli apostoli, allora impegnati nella predicazione in varie parti del mondo. Tommaso giunse tardi: mentre si dirigeva al luogo prestabilito, vide Maria ascendere al cielo mentre la cintola veniva «gettata dall’alto». Nella Legenda

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culturali più aggiornati, nei centri periferici e presso le clientele piccolo-borghesi, si sviluppò una costante fedeltà al soggetto, incrementata dalla devozione popolare intorno alla reliquia conservata a Prato, con importanti eccezioni anche nella produzione artistica ufficiale96. Nel reatino, l’episodio compare

anche nello sfondo della più tarda tavola con l’Assunzione della Vergine di Jacopo Siculo per la chiesa di San Pietro a Leonessa (1542-1543)97.

Dal punto di vista stilistico le piccole scene di Cittaducale sono caratterizzate da un’espressionistica vivacità narrativa e da un tratto spigoloso e veloce, quasi fumettistico; gli elementi architettonici, gli sfondi paesaggistici e i particolari accessori sono invece ridotti al minimo, prediligendo invece la mimica dei personaggi: l’assenza totale di divagazioni descrittive è evidente nelle scene ambientate all’aperto (Visitazione, Crocifissione, Resurrezione, Consegna della cintola a san Tommaso, figg. 15, 23, 24, 27). Laddove è presente un interno, questo è raffigurato in modo compendiario; se nella Presentazione al Tempio (fig. 17) domina un impianto più solido, la Flagellazione (fig. 20) sembra citare, seppur goffamente, nella figura di Cristo e nella colonna sormontata dall’idolo, alcuni prototipi celeberrimi, tra cui lo

Aurea (cap. 119) il racconto è diverso: dopo le esequie officiate dagli apostoli, Tommaso si rifiutò di credere all’accaduto. Maria allora gli apparve e, a memoria di quanto avvenuto e per farlo ricredere, gli consegnò la cintura che aveva indosso. Cfr. FERRETTI 2002, p. 411. 96 I primi esempi si registrano in Francia alla metà del XII secolo e a

Strasburgo nel 1230. Un affresco nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo a Spoleto sembra essere, invece, una delle più antiche raffigurazioni italiane del tema (fine del XIII secolo). Alla fine del Trecento, l’iconografia si diffuse in Toscana, soprattutto nei centri minori. Tra le opere più famose si ricordano, invece, il Tabernacolo di Orsanmichele di Andrea Orcagna (1359), la Porta della Mandorla di Nanni di Banco (1414-1421), la Madonna della cintola di Filippo Lippi e Fra’ Diamante al Museo civico di Prato (1456-1467 ca.). Cfr. FERRETTI 2002, p. 412 e sgg. Si veda anche il Dossale con i Misteri del Rosario attribuito alla bottega di Domenico Beccafumi in San Domenico a Siena (prima metà del XVI secolo). 97 GRUMO 2011, p. 42, n. 17.

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stendardo di Luca Signorelli oggi a Brera, eseguito per la confraternita di Santa Maria dei Raccomandati a Fabriano (1475). Sebbene non si siano identificate corrispondenze precise, alcuni elementi lasciano supporre che a far da modello a queste immagini siano state stampe nordiche, probabilmente xilografie quattrocentesche, con cui queste scenette condividono il tratto duro e alcuni caratteri tipologici, come ad esempio i lunghi capelli sciolti e la sottile fisicità di Maria nella Visitazione (fig. 15) o le esili colonne del Gesù tra i dottori (fig. 18) e dell’Incoronazione di spine (fig. 21). L’Assunzione della Vergine (fig. 32), una delle xilografie a corredo delle Meditationes di Juan de Torquemada, mostra un’impaginazione simile a quella dell’Ascensione (fig. 25) e della Pentecoste (fig. 26) di Cittaducale, oltre ad inglobare l’episodio della consegna della cintola a san Tommaso al suo interno. Il testo fu il primo libro a stampa con illustrazioni edito in Italia (1467) e, come recentemente dimostrato, aveva ispirato la decorazione del chiostro di Santa Maria sopra Minerva a Roma, il cui programma iconografico era stato approntato dal celebre cardinale e teologo spagnolo98. Al di là di questo, le

piccole scene costituiscono senz’altro un episodio figurativo degno di interesse e al momento ‘isolato’, sia dal punto di vista iconografico sia stilistico, nella zona reatina. Per quanto riguarda la struttura compartimentale della nicchia, l’unico confronto possibile sembra essere l’affresco della chiesa di San Pietro nella vicina località di Torano, presso Borgorose (seconda metà del XVI secolo), con la Madonna del Rosario tra i santi Domenico, Caterina, Agostino, Gregorio, Pietro, Ambrogio (?) e donatori e intorno, disposte in senso antiorario, quattordici scene dei Misteri (fig. 33). Il riquadro successivo, posto in corrispondenza della seconda campata dall’entrata, raffigura un San Domenico (fig. 31): una grande lacuna ne ha compromesso il volto, lasciando in vista

98 Meditationes J. de T. positae et depictae de ipsius mandato in ecclesiae ambitu S. M. de

Minerva, 1467. Cfr. DE SIMONE 2002.

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solo una porzione del naso e della bocca. Il santo tiene nella mano sinistra un volume mentre l’indice della mano destra è alzato. La stesura pittorica è concepita per ampie campiture di colore conservatosi in buono stato. Il disegno appare rigido e marcato nella veste e nel mantello, le cui superfici definiscono piani semplificati e taglienti, mentre appare più libero nel volto. Anche in questo caso si nota l’eco di prototipi antoniazzeschi: tra gli esempi più stringenti ricordiamo il Sant’Antonio da Padova del Museo civico di Rieti (1474) e il Santo Vincenzo Ferrer (fig. 34) del convento di Santa Sabina a Roma (1482-1485). La stesura del colore e la tavolozza richiamano le scene dei Misteri, in particolar modo le tinte pastello dai riflessi perlati della scena della Visitazione (fig. 15) e, come già detto, il naso e le labbra presentano forti affinità con quelli degli angeli. Identiche appaiono anche le aureole, non sempre perfettamente centrate sulla testa dei personaggi, campite dal medesimo timbro giallo-ocra e definite in maniera sommaria da una linea spessa e scura. È interessante notare la ricorrenza di altre figure domenicane all’interno del palinsesto pittorico dell’edificio, a partire dall’espressionistico e severo volto, dipinto sulla parete di fondo della stessa navata (fig. 35); la presenza di san Domenico è testimoniata nel perduto affresco con la Vergine dei Raccomandati di cui parla il documento del 1682 e compare infine nell’Incoronazione della Vergine tra san Domenico e sant’Isidoro agricoltore (fig. 7), un tempo sull’altare maggiore: l’antica devozione mariana/rosariana all’interno della chiesa, attestata come già visto a partire dal XVIII secolo nelle visite pastorali, sembrerebbe avere un’ascendenza molto più antica, di cui gli affreschi della parete sinistra costituirebbero la prima testimonianza99.

99 Potrebbe rappresentare un domenicano anche il frammento di una figura,

rinvenuto sulla parete di fondo della navata destra, di cui rimane la parte inferiore con due lembi di veste, uno scuro e l’altro bianco, verosimilmente un mantello e una tonaca. Tuttavia, la presenza di ciò che sembrebbe a prima vista un bastone, lascia aperta la possibilità di un’identificazione con sant’Antonio Abate.

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All’interno della cornice tardobarocca dell’unico altare della navata è invece inglobato un antico brano di affresco che, nonostante il cattivo stato di conservazione, sembra mostrare ancora una qualità per nulla mediocre. Raffigurante in origine una Natività o un’Adorazione dei pastori, l’opera fu salvata dalla scialbatura ed eletta a decoro di uno dei tre altari principali (fig. 36). La prima menzione di un altare Nativitatis, con cui deve essere identificato quello in oggetto, risale al 1682, quando è così registrato nella visita pastorale del vescovo Francesco De Giangirolami (1682-1685); in seguito è l’unico, insieme a quello maggiore e all’altare della Vergine (poi dedicato ai santi Ignazio e Francesco Saverio) nella navata opposta, a sopravvivere alla ristrutturazione seguita al terremoto del 1703. È probabile che il dipinto, oltre a costituire una delle memorie più antiche conservate nell’edificio e, per questo motivo, divenuto oggetto di particolare venerazione da parte dei fedeli, fosse stato valorizzato anche per la sua valenza artistica. L’affresco raffigura, in basso al centro, Gesù Bambino il cui corpo è tagliato all’altezza del torace: si scorgono a fatica la testa, il nimbo crucisegnato, il braccio e la mano sinistra alzati. Alle sue spalle è collocata la mangiatoia colma di paglia, il cui prospetto frontale è costituito da rami di legno intrecciati. Il bue e l’asino rappresentano la parte dell’opera più chiara, mentre sullo sfondo si scorge il muro della stalla; a sinistra si intravede, tagliata, una figura con le mani giunte e parte del mantello che la ricopriva. L’attitudine coincide con quella della Vergine, anche se i colori dell’abito non corrisponderebbero a prima vista con quelli canonici. La manica è gialla mentre il manto ha una tonalità rossastra: questa apparente particolarità potrebbe in realtà corrispondere alla base preparatoria su cui veniva stesa l’azzurrite. Se ciò che rimane dell’affresco è evidentemente un brano ridotto, le sue dimensioni, affatto esigue, lasciano immaginare una composizione molto imponente e che probabilmente si sviluppava occupando gran parte della parete, oltre gli attuali limiti dell’edicola barocca: sui lati le figure di san Giuseppe, della Vergine ed eventualmente dei pastori, in basso il Bambino raffigurato per intero e in alto la parte sommitale

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della capanna o una gloria d’angeli. Le fisionomie dei due animali, come anche la tipologia della mangiatoia e della parete di pietra, sono ispirate a prototipi tardo-quattrocenteschi di matrice umbra; si pensi alla Natività di Filippo Lippi nel Duomo di Spoleto (1469) e a quelle di Pinturicchio in Santa Maria del Popolo a Roma e nella Cappella Baglioni di Spello (1501), in cui compare il motivo dei grossi rami intrecciati della greppia. L’Adorazione dei Pastori, affrescata nel 1516 nell’abside di Santa Maria di Arrone da Vincenzo Tamagni e da Giovanni da Spoleto (fig. 37), costituisce un altro termine di paragone. Sebbene nel frammento di Cittaducale la superficie appaia molto deteriorata, le ombre che ne definiscono i volumi sembrano vicine a quelle di Arrone, permettendo così di datare l’affresco, in virtù di questa qualità scultorea più risentita, entro il terzo decennio del Cinquecento100. L’affresco di analogo

soggetto di Francesco da Montereale (1520) nella chiesa di San Panfilo a Villagrande (L’Aquila) (fig. 38) costituisce un altro esempio di come potesse svilupparsi la composizione sulla parete. I problemi di umidità, documentati dalla visita del 1805, sono molto probabilmente gli stessi che hanno ridotto l’antica e venerata immagine a poco più di una larva e che, in epoca imprecisata, si decise di occultare con la tela di analogo soggetto rimossa dalla Berti Bullo nel 1970101.

In fondo alla parete della navata campeggia, su un esuberante e florido tendaggio a girali rossi, una Madonna del latte realizzata con notevole scioltezza e senso cromatico (fig. 39). Il riquadro entro cui è compresa è delimitato da una cornice rossa sul cui bordo interno si snoda una decorazione ad archetti trilobati,

100 Il ciclo di Arrone è una precoce importazione in area umbra della pittura

romana raffaellesca. Spetta probabilmente a Tamagni tutto l’impianto architettonico, l’apparato ornamentale e il paesaggio, memore di Pinturicchio e di Sodoma; a Giovanni da Spoleto, la Morte della Vergine, la maggior parte dell’Incoronazione e parte dell’Adorazione dei Pastori. Cfr. PETRALLA, SAPORI 2004, pp. 84-97. 101 AAA, Visite pastorali, b. 1176, f. 3r (1805). Cfr. Appendice documentaria

II.

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simile a quella dell’oculo in facciata, mentre un bordo più esterno a quadrilobi ingloba l’intera figurazione. La Vergine indossa una veste rossa, le cui maniche, originariamente decorate con motivi damascati, dovevano essere blu, come il manto che le copre la spalla sinistra. Il volto, sfortunatamente privo degli occhi e della fronte a causa di un’estesa lacuna, rivela ancora nei particolari della bocca e del naso un’esecuzione raffinata ed attenta risolta in sottili passaggi cromatici, evidenti nelle sfumature rosee delle guance e nel tocco bozzettistico e liquido delle labbra (fig. 40). La testa è ricoperta da un candido velo dal bordo appena sfrangiato, effetto ottenuto con rapidi tocchi a punta di pennello. La figura di Gesù appare più incerta, delineata da un ductus a tratti tremolante, come nel segno che ne definisce i pettorali. Cesare Verani propose, nel 1976, l’attribuzione dell’affresco a un seguace dell’artista amatriciano Dionisio Cappelli102. La tipologia del volto della Vergine,

atteggiato in un’espressione seria e aristocratica, con le caratteristiche labbra rosse e il mento incavato sottolineato da una fossetta, trova diverse affinità soprattutto con gli affreschi votivi della chiesa di Santa Maria delle Grazie nei pressi di Amatrice, più nota come santuario dell’Icona Passatora: si veda, in particolare, la Madonna della Misericordia (1491) e la Vergine col Bambino in trono (1490 – fig. 41), dove il volto dell’infante ricorda quello di Cittaducale ma con un piglio più aristocratico e meno vitale. Il gesto della mano sinistra invece, con il pollice e l’indice avvicinati e il palmo aperto in evidenza, potrebbe giustificarsi con la presenza, in origine, di un velo trasparente tracciato a secco, oggi perduto; una posa analoga si ritrova nella Vergine del Trittico di Fondi di Antoniazzo Romano (1476), a sua volta messa in relazione con la più antica Madonna col Bambino tra angeli e putti del pittore marchigiano Giovanni Boccati, oggi ad Ajaccio (1460).

102 VERANI 1976A [ed. 2003], pp. 163-172; VERANI 1976B [ed. 2003], pp.

173-183.

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Qualche somiglianza tipologica si riscontra, infine, anche nelle opere di Bernardino Campilio (1491), conservate nella chiesa parrocchiale di Sant’Agata a Spelonga (Arquata del Tronto), sebbene queste figure mostrino una maggiore tendenza all’astrazione geometrica tanto nei volti quanto nei fondi oro con decorazioni damascate, realizzate con l’uso di mascherine103. Nel nostro affresco, invece, la freschezza della

rappresentazione deriva anche dalla libertà e dalla naturalezza con cui sono stati tracciati i girali vegetali, non paragobabili alla produzione preziosa e convenzionale dei dipinti votivi dell’area umbro-laziale e marchigiana. L’opera è databile all’ultimo decennio del XV secolo. Sulla destra della Madonna del latte è un riquadro di grandi dimensioni, al cui centro campeggia, entro una ghirlanda, il monogramma CHO, da cui si diparte una croce (fig. 42): si tratta di un’abbreviazione equivalente del più comune Crismon (formato dalle lettere greche chi e ro - X e P). Il monogramma ricorre nei cicli di pitture devozionali del Rinascimento, ma questo si distingue per l’eleganza formale e compositiva delle lettere, caratterizzate da linee dalla cadenza calligrafica e decorativa. Sulla parete di fondo della navata campeggiano due riquadri raffiguranti un Santo domenicano (fig. 35) e una Madonna col Bambino (fig. 43). La prima figura, tagliata quasi per intero fino alle spalle, è quella più compromessa dall’apertura della porta sottostante104: il volto, sdegnoso e aristocratico, è delineato da

103 Sul Trittico di Fondi (Madonna col Bambino, i santi Pietro e Paolo e il

committente Onorato II Caetani d’Aragona) cfr. scheda di Anna Cavallaro in ANTONIAZZO ROMANO. PICTOR URBIS 2013, n. 9, pp. 84-85. Su Bernardino di Campilio cfr. FRATINI 1996, p. 359. 104 ARSbap-Lazio, Santa Maria dei Raccomandati, Relazione 1971, p. 2: «In

fondo alla navata laterale sinistra, a lato dell’abside della navata centrale, una porta di costruzione relativamente recente, aperta in un muro di circa cm 95 di spessore, immette in un locale sotterraneo rispetto all’odierno pavimento, al quale si accede mediante una scala di legno e che è adibito a ripostiglio di roba vecchia e inutile […]».

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tratti marcati, che definiscono forme affilate e volumi semplificati mentre sul lato destro si scorge ciò che rimane di un libro aperto. L’affresco fu realizzato prima della Madonna col Bambino: il lato destro della cornice è in parte ricoperto da un altro strato d’intonaco, steso per omologare l’inquadratura dell’immagine contigua con quella più antica. Si tratta di una campitura di colore grigio e rosso adiacente ad una banda con elementi geometrici. Il motivo decorativo che inquadra il santo si ritrova in un altro frammento sulla stessa parete raffigurante in origine un santo vescovo o un diacono (fig. 44), e negli affreschi quattrocenteschi rinvenuti dietro l’abside della vicina chiesa di Santa Cecilia. I tratti espressionistici della figura fanno pensare all’opera di un artista influenzato dalla pittura marchigiana105. Se

ne propone una datazione all’ultimo ventennio del XV secolo. Nel riquadro successivo, la Vergine mostra lineamenti nitidi e delicati, mentre la purezza dei volumi è esaltata da una buona realizzazione a fresco, evidente soprattutto nell’incarnato che ha mantenuto una consistenza translucida. Il Bambino, fasciato in un panno giudaico, si impone fisicamente per le proporzioni piuttosto sovradimensionate e disarmoniche: la testa appare troppo grande rispetto al corpo e anche il braccio destro risulta sproporzionato. Il viso sembra quello di un uomo maturo, per nulla tenero e aggraziato, ma rigido e spaventato in un’espressione quanto meno anomala nel panorama della pittura coeva di stampo devozionale. Le aureole dei due personaggi sono le più elaborate di tutta la chiesa e con decorazioni a rilievo: in quella della madre si notano ancora le punzonature circolari del bordo e i raggi interni divergenti mentre, in quella del figlio, i bracci svasati della croce e tracce di colore rosso. Lo strato grigio-bruno dei nimbi è forse imputabile all’ossidazione dello stagno utilizzato come base per la doratura a mecca. Nel complesso l’immagine doveva

105 Nell’opera del Maestro di Arnano, attivo nell’ultimo quarto del XV

secolo, si ritrovano personaggi dai volti, occhi e nasi allungati, ma il ductus lineare non appare così tagliente e affilato come in questo caso. Cfr. PITTORI

A CAMERINO NEL QUATTROCENTO 2002, pp. 402 e 405.

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presentarsi, agli occhi dei devoti, curatissima fin nei minimi dettagli: uno strato d’oro ricopriva sicuramente anche il bordo superiore della veste rossa e la piccola stella ancora visibile sulla spalla destra della Vergine. Il colore, conservatosi discretamente su tutta la superficie a parte locali abrasioni superficiali, ha mantenuto la sua brillantezza originaria. Lo spazio definito da drappi e veli, come già per la Madonna del latte e il Santo domenicano, ricorre spesso in riquadri votivi dell’Umbria meridionale106. L’affresco, databile all’ultimo ventennio del XV

secolo, è riconducibile ad un ambito umbro-laziale. Tra gli affreschi della navata destra, l’unico ad essersi conservato in maniera leggibile è la Crocifissione tra san Rocco e san Sebastiano (figg. 9, 11), scoperta nel gennaio del 1971 riportando alla luce una nicchia occultata per metà sotto l’altare dei santi Ignazio e Francesco Saverio e per il resto sotto la muratura di rifacimento107. Come nel caso della Madonna col Bambino e i

Misteri del Rosario, la superficie pittorica non è stata scialbata, poiché l’intonaco fu steso direttamente su un nuovo strato di muratura ruvida108. Una cornice dipinta, oggi perduta, correva

106 Impaginazioni simili si ritrovano ad esempio in alcune opere della tarda

attività di Matteo da Gualdo, come quelle della chiesa di San Giovanni Battista a Grello (1480-1499). Cfr. MATTEO DA GUALDO 2004, p. 187. 107 ARSbap-Lazio, Santa Maria dei Raccomandati, Relazione 1971, p. 7.

108 ARSbap-Lazio, Santa Maria dei Raccomandati, Relazione 1971, p. 7: la Berti

Bullo affermava di aver rimosso «40 cm circa di muratura formata da grossi massi e qualche pezzo di mattone e malta grossolana ma piuttosto resistente». Rispetto alle fotografie del 1972, l’affresco ha subito un processo di ulteriore degrado. La superficie appariva nel 2007 completamente sbiancata, per effetto di efflorescenze saline causate dalle infiltrazioni d’acqua e dalla forte umidità. La differenza è ben percepibile confrontando le vecchie immagini con quelle attuali. Allora il chiaroscuro, più evidente, conferiva all’immagine un impatto visivo maggiore e la possibilità di una lettura stilistica meno compromessa. Erano già documentati, tuttavia, segni di ridipinture a tempera nell’angelo, nella testa di Cristo, nel fondo, mentre ben conservato appariva il paesaggio. La tamponatura in cemento, visibile ora come allora, sulla spalla sinistra di Cristo, si deve all’intervento del Genio Civile di Rieti, chiamato a fronteggiare un grave dissesto statico della parete. Il colore rossastro del fondo corrisponde presumibilmente alla base,

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lungo il perimetro esterno, mentre l’intradosso ha mantenuto la decorazione a motivi vegetali bianchi, su fondo rosso e blu. Al centro del sottarco, entro un clipeo, campeggia ancora l’insegna lateranense: due chiavi incrociate in campo scarlatto sovrastano l’iscrizione SS. Lateranensis Ecclesia. Cristo, il cui volto è delineato da tratti marcati e veloci, indossa un perizoma bianco, bordato da un ricamo giudaico, visibile ancora nella foto del 1972. San Rocco è raffigurato imberbe, con lo sguardo severo e supplice allo stesso tempo e i lineamenti marcati; i consueti attributi del santo, il cappello a tese larghe, la borsa a tracolla e il bordone, gli stessi indumenti che dovevano indossare i pellegrini che attraversavano la Salaria verso Roma, sono appena percepibili a causa delle numerose efflorescenze saline. Sulla gamba piegata doveva apparire la pustola, oggi scomparsa, mentre sul mantello smanicato poteva ancora scorgersi, nel 1972 (fig. 45), l’ombra di una croce greca109. Sebastiano, insieme

all’angelo che volteggia sopra la sua testa, è la figura più compromessa dal degrado. I tratti del volto delicati e regolari, l’espressione di abbandonata tristezza, fanno di questa figura il contraltare dell’altra. Sullo sfondo si apre un paesaggio dominato da un colle sovrastato da una cittadina cinta da mura e torri sul fronte verso la vallata, probabile allusione a Cittaducale. In basso, sulle estreme propaggini del pendio, è raffigurato un altro centro abitato, lambito da un fiume, forse il Velino: grazie ad un ingradimento della foto del 1972 è stato possibile scorgervi una chiesa e due torrioni e può darsi si tratti di una delle frazioni che si trovavano a valle. Per la contemporanea presenza di Rocco e Sebastiano, invocati in caso di pestilenze e associati in tal senso fin dalla metà del Quattrocento, l’affresco deve essere stato realizzato in occasione di una grave recrudescenza del morbo110. Marchesi

realizzata ad affresco, per la stesura dell’azzurrite, oramai perduta, ma visibile ancora a tratti in alto, vicino alla cornice. 109 Sull’iconografia del santo si veda MAGGIONI 2000, pp. 60-63.

110 San Sebastiano è trafitto ma non ucciso dalla freccia, emblema del morbo

fin dall’antichità pagana oltre che nella Bibbia, ed è quindi invocato come il

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registra tutte le epidemie dalla fondazione della città, ma ad una dedica una particolare attenzione, quella degli anni dell’invasione francese in Italia: una parte dell’esercito presidiava allora i confini del Regno e se «Civita» non venne attaccata fu solo per la disastrosa disfatta di Pavia, subita da Francesco I nel 1525. Alla ritirata seguì la

peste che andava facendo gran danni per le terre del Regno, e particolarmente in Civita nell’anno 1528, in cui ne morivano più di trenta al giorno […]. E di questi tempi tuttavia continuavano i travagli di Civita Ducale di peste e de banditi li quali si erano scoverti in gran numero nella Valle di Corno, ove facevano infinite arrobbarie111.

La narrazione presenta, tuttavia, un’incongruenza. Il morbo è qui messo in relazione con la disfatta dei francesi, avvenuta tre anni prima. Si tratta evidentemente di un errore ed è probabile che Marchesi faccia riferimento alla pestilenza portata dai Lanzichenecchi in Italia in seguito al Sacco di Roma, iniziato nel maggio 1527 e protrattosi per dieci mesi. L’affresco potrebbe essere stato quindi realizzato proprio in questa occasione, in qualità di voto o ‘scudo sacro’ per invocare la cessazione del flagello nella sua fase più acuta, cui sicuramente allude il

primo uomo che sconfisse la peste senza che la sua giovinezza e bellezza fossero devastate. San Rocco, subentrato in un secondo tempo nella devozione popolare, subisce la peste ma, ritiratosi in una foresta per non diffondere la malattia, ne esce guarito, diventando così il simbolo della speranza nella guarigione. L’associazione tra i due santi sta quindi a scongiurare la peste (san Sebastiano) e a guarirla (san Rocco). Cfr. HALL 1974, ad vocem. I due santi inginocchiati ai lati di una Madonna della Misericordia compaiono in un affresco devozionale quattrocentesco in San Domenico a Rieti. Il binomio iconografico è molto diffuso in Umbria nella seconda metà del XV secolo. Si pensi agli stendardi di Benedetto Bonfigli (Gonfalone di san Francesco al Prato, 1464; Gonfalone di Civitella Benazzone, 1464-1465) e agli affreschi di Jacopo Zabolino nelle chiese di San Lorenzo ad Azzano (1488) e della Madonna delle Forche a Vallo di Nera (1494). Cfr. TODINI 1989. 111 MARCHESI 1592 [ED. 2004], p. 115.

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cospicuo numero di frecce conficcate nel corpo di Sebastiano. Dal punto di vista stilistico la composizione sembra influenzata dallo stile dei fratelli Lorenzo e Bartolomeo Torresani, attivi in Sabina tra la prima e la seconda metà del Cinquecento e il cui stile risultava aggiornato sui nuovi modelli romani ed umbri, dal Signorelli di Orvieto al Michelangelo e al Raffaello del Vaticano. L’affresco può essere quindi riferito ad un pittore locale influenzato dalla loro maniera. La composizione, aperta su di un ampio paesaggio collinare, ritorna in opere autografe o attribuite ai due veronesi, come nella Deposizione dalla croce in San Francesco a Rieti, attribuita a Lorenzo (secondo quarto del XVI secolo) mentre negli affreschi della chiesa di San Paolo a Poggio Mirteto (1521), le tipologie dei volti, con marcate ombre intorno agli occhi e labbra carnose messe in risalto da un chiaroscuro deciso, mostrano una certa consonanza con la figura del San Rocco112. Il motivo iconografico del Crocifisso tra

una coppia o gruppi di santi è molto diffuso in tutto il Lazio settentrionale tra il secondo e terzo quarto del XVI secolo, in forme più o meno stereotipate: si ritrova, ad esempio, sia nella vicina località di Canetra (chiesa di San Sebastiano) sia in Sant’Egidio a Corchiano (1560 ca., fig. 46), nel viterbese, dove l’attribuzione oscilla tra Bartolomeo e Alessandro e Piefrancesco Torresani113.

112 I Torresani sono documentati per la prima volta in Sabina a Poggio

Mirteto (1521), cfr. VERANI 1953, VERANI 2003, pp. 253-255. Attivi a Rieti nel 1525, gli artisti lavorarono in seguito nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Santa Rufina (Morte e Assunzione della Vergine e Sant’Antonio Abate tra san Martino e san Sebastiano). Cfr. SACCHETTI SASSETTI 1932 [ed. 2003], TOZZI 1988, pp. 24-36. Nel 1548 la loro presenza è attestata a Cittaducale, dove eseguono l’affresco della lunetta del portale di Sant’Agostino. Cfr. CANTONE 1990A, pp. 102-110. La bottega dei Torresani continuò ad operare nella zona, nonché nel Lazio settentrionale (Corchiano, Fabrica di Roma) e nell’Umbria meridionale (Narni), cfr. TIBERIA 1996, pp. 383-426. 113 Cfr. RUSSO, SANTARELLI 1999 e ANDREA 2003, pp. 16-27. Altre affinità

si rilevano nella Crocifissione della chiesa dei Santi Martiri di Cerchiara, vicino Rieti, attribuita ad Alessandro o negli affreschi in San Silvestro papa a Falerii riferiti a Lorenzo (1556). Il tipo del Cristo è lo stesso ma le proporzioni della

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Alcuni brani di affreschi, per le loro condizioni conservative difficilmente databili ma, con ogni probabilità, riconducibili tutti al XV secolo, concludono il panorama decorativo della chiesa. Il modesto San Francesco (fig. 47) ormai quasi completamente perduto e reso illeggibile dalle iniezioni di cemento, si trova nell’ultima campata dall’entrata, accanto ad una nicchia a sesto ribassato aperta a ridosso della semicolonna ottagonale verosimilmente nel XVI secolo. Le decorazioni dei montanti sono ascrivibili a una fase successiva, durante la quale la figura fu ricoperta da un ornato a girali bianchi su fondo rosso. Una netta e scura linea di contorno definisce il santo, rappresentato stante su di un pavimento grigio rozzamente scorciato in cui tratti tremolanti definiscono in modo sommario le venature del marmo. Il crocifisso e le stimmate sui piedi permettono di identificarlo come Francesco. L’iscrizione che corre lungo il margine inferiore, mutila e deteriorata, recita «[A]GOSTI[…]F […]DE M. PORTO» ed è forse da mettere in relazione con il committente (fig. 48). Il frammento di una Madonna col Bambino (fig. 49), nelle medesime condizioni del precedente, presenta una lacuna in corrispondenza della parte inferiore dei volti, mentre conserva la mano di Cristo alzata in segno di benedizione. Il gruppo è collocato entro uno spazio basso e ristretto, definito da un’architettura incerta, di cui s’intravedono i riquadri geometrici del soffitto. Ciò che ne rimane è troppo esiguo per proporre seri raffronti che, laddove esistessero, non supererebbero comunque i confini di un ambito popolaresco e devozionale e una datazione al XV secolo. Alla stessa bottega può forse essere attribuito, per via dell’identica decorazione a crocette grigio-verdi della cornice (sebbene questo motivo sia diffusissimo nei dipinti devozionali della zona compresa tra la Valle Reatina,

figura di Cittaducale sono meno slanciate mentre l’aureola, non scorciata, definisce un semplice ritaglio geometrico intorno alla testa. cfr. VERANI

1962, p. 8.

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l’Umbria meridionale e le Marche)114, un altro brano sulla parete

di fondo della navata destra che mostra la parte inferiore di una figura alata in movimento, parte di una perduta Annunciazione (fig. 50).

114 Nella stessa Cittaducale compare, ad esempio, in un affresco mutilo e più

volte ridipinto raffigurante San Sebastiano, nella chiesa di Santa Maria di Sesto; nella zona, nelle già citate opere di Bernardino Campilio conservate nella parrocchiale di Sant’Agata a Spelonga (Arquata del Tronto).

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Appendice documentaria I Si trascrive il testo in latino della Collatio del 1450, pubblicata e tradotta dalla Berti Bullo nel 1973.

COLLATIO HOMINIBUS FRATERNITATIS HOSPITALIS ECCLESIAE SUB VOCABULO SANCTAE MARIAE DE

RECOMMENDATIS CIVITATIS DUCATE Capitolum et Conventus Sacrosanctae Lateranensis Ecclesiae Canoni-corum Regolarium Beati Augustini Congregationis Salvatoris eiusdem Lateranensis Ecclesiae dilectis nobis in Christo hominibus fraternita-tis hospitalis et Ecclesiae sub vocabulo Sanctae Mariae de Recom-mendatis terrae Civitatis Ducate (sic) Reatinae diocesis praesentibus et futuris nobis et sacrosanctae Lateranensis Ecclesiae immediate su-biectis salutem in eo qui est omnium vera salus. Laudabilia vestrum probitatum et virtutum merita quibus apud nos fide digno commen-damini testimonio nos excitant inducunt ut personas vestras benigno favore prosequamur. Hinc est quod cum constat nobis hominibus ut Universitati dictae terrae Civitatis ducate fuisse et esse indultum per nonnulos in dicta nostra Lateranensi Ecclesia antecessores quoddam privilegium fundandi et edificandi quoddam hospitale et Ecclesiam sub vocabolo Sanctae Mariae de Recommendatis positam intus ter-ram Civitatis Ducate praedictae in quodam caseleno dictae nostrae lateranensis Ecclesiae, cuius quidam privilegii tenor de verbo ad ver-bum per omnia talis est. Capitolium et Canonici Sacrosanctae La-teranensis Ecclesiae, dilectis nobis in Cristo hominibus et Universita-ti terrae Civitatis ducatae Reatinae diocesis etc. dictoque privilegio per nos viso et coram nobis exibito et producto, Nos enim votis vestris in hac parte favorabiliter anuentes volentes igitur praemissorum merito-rum vestrorum intuitu vobis gratiam facere specialem dictam Eccle-siam et Hospitale praefatum sub vocabulo Sanctae Mariae de Re-commendatis dictae terrae et civitatis praedictae ut praefertur vobis concessae et collatae omni modo, via, iure et forma quibus melius possumus et debemus, cum omnibus et singulis indulgentiis, immuni-tatibus exentionibus, iuribus, pertinentiis, responsionibus et censu praedictis et aliis prout in eodem continetur tenore presentium accep-tamus ratificamus emologamus et de novo vobis iam dictis hominibus fraternitatis praedictae concedimus atque conferimus et de illis iam dictis hominibus fraternitatis praedictae etiam providemus dictum privilegium eorundem concessum. In quorum omnium fidem et

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testium praemissorum has nostras presentes litteras seu privilegium vobis fieri mandavimus per infrascriptum Antonium Ludovicum no-tarium et scribam nostrum et dicti conventus ipsumque iupsimus nos-tri magni capitularis sigilli apprensione muniri. Datum Romae in loco capitulari dictae nostrae lateranensis Ecclesiae die tertio mensis aprilis tredicesima inditione sub anno Domini millesimo quadrigentesimo quinquagesimo Pontificatus Sanctissimi in Christo Patris et Domini Nicolaii divina providentia Papae Quinti.

Appendice documentaria II L’Aquila, Archivio Arcidiocesano Nella trascrizione dei documenti si è scelto di sciogliere le numerosissime abbreviazioni, relative soprattutto al testo latino. Per maggiore leggibilità si è preferito non indicare gli scioglimenti tra parentesi tonde, utilizzate solo laddove le parole non sono state univocamente interpretate. Le parentesi quadre indicano, nelle visite pastorali in latino, le lacune nel testo; in quelle in italiano, le parti non trascritte. Visite pastorali 30 novembre 1682 Vescovo Francesco De Giangirolami Busta 1125, ff. 161v, 162v-r. Feria 2a die 30 mensis novembris 1682 De Ecclesia Sanctae Mariae Virginis de Raccomandatis vulgo ‘La Fraternita’. Illustrissimus Dominus Episcopus post vespertinas horas una mecum accessit ad dictam Ecclesiam Sanctae Mariae de Raccomandatis intus civitatem unitam Seminario, et facta oratione et absolutione mortuorum. Visitavit altare majus Imaginibus Beatae Mariae Virginis de Raccomandatis, et Sancti Francisci et Dominici in muro pintis [rurali]ter provisum. Adest Societas cum usu sacci sub eodem titulo Beatae Mariae Virginis de Raccomandatis.

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Exponitur in dicto altari Sanctissimum Sacramentum in die Sanctissimae Nativitatis et celebra(tur) in [sin]gulis diebus dominicis et festis […] piarum personarum cuius Cappellanus est Reverendus Dominus (Johannis) Pisanus. Adest alius Cappellanus Reverendus Dominus Bellisarius Lambricelus, qui tene(t) celebrar(i) ut supra in oratorio Sancti Hieronimi. Officiales sunt clericus Appollonius Palumbus, et Lucas Lambricelius. Visitavit altare Sanctissimae Annunciationis in navi (sinistri) peritus denudatus jussit provideri de (omnibus) necessaris expensis Gentilis Innocentii Illustris Doctoris Virgilii Vetuli. Visitavit [altare] Sanctissimae Nativitatis (ruraliter) provisum. Visitavit altare Beatae Mariae Virginis in alia navi a cornu epistolae Abs. (ma.) cum Icona Beatae Mariae Virginis in muro picta peritus denudatum quod suspensum donec provideatur de necessariis. Ecclesia ipsa est (consecrata) et habet tres navatas, media (or)nata, et picta cum pavimento (santo) ex laboribus (urbis), et mandavit reaptari ubi (coget). Habet 7 sepulchra defunctorum. Mandavit provideri de stola violacei coloris. In dicta Ecclesia adest beneficium simplex sub titulo Sancti Petri in Malvasia rurale quod fuit translatum ab Ecclesia diruta Sancti Petri in Malvasia in Turre Petrella seu Portella, quod beneficium est divisum inter duos Rectores pro medietatem. Rectores sunt admodum Re-verendus Dominus Canonicus Paganus et Reverendus Dominus Jo-seph Paulessi. Pars dimidia dicti benefici est iurispatronatus Illustris Domini de Pa-ganis, et altera medietas iurispatronatus de Paulessi her(edes) De Mi-cherris, et illorum de Spinosis. Adest in dicta Ecclesia beneficium Sancti Josephi iurispatronatus de Magnante cum onere sex missarum quolibet anno fratres sunt qua-tuor. Rector est Reverendus Dominus Thomas Cherubinus. Adest beneficius simplex Clericatus nuncupatus quod fuit translatum ab Ecclesia diruta, et rurali Sancti Angeli Lauriani, fratres sunt trium circiter cuis Rector est admodum Reverendo Domino Canonico Jo-seph Rosellus. Dictus Canonicus Paganus habet beneficium Sanctae Crucis in Pan-zano, et Beneficium Sancti Laurerentii Sambuci Ecclesiae ruralis et dirutae.

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4 settembre 1687 Vescovo Filippo Tani Busta 1293, ff. 191r-195r (nuova foliazione 99r-101v). Feria quinta die 4 septembris 1687 Illustrissimus Dominus Episcopus de more prosequens visitiationem accessit ad Ecclesiam Sanctae Marie de Raccomandatis vulgo La Fraternita intus Civitatem unita seminario et facta oratione et absolutione mortuorum. Visitavit altare maius competenter provisum. Adest Societas cum usu sacci sub eodem titulo Beatae Mariae Virginis de Raccomandatis. Adsunt duo Cappellani amonibiles ut alter ipsorum inserviat et celebret in hac Ecclesia omnibus diebus festis de praecepto, in die tertio Paschatis Resurrectionis quo die etiam ibidem fit officium solemne ac celebratur missa cantata et etiam in die Sancti Rocchi in quo pariter celebratur missa cantata. Alter Cappellanus inservit et ce-lebrat pariter omnibus diebus festis in Oratorio Sancti Hyeronimi quod est unitum huic Ecclesiae. Officiales dictae Ecclesiae Sanctae Marie de Raccomandatis et etiam Confraternitatis eiusdem tituli, sunt de praesenti Johannes Paulus (J)annocchius et Franciscus Germanus. Visitavit Altare Sanctissimae Annuniciationis, primum a latere Evan-gelii peritus denudatus familiae quondam de Vetulis et praecipue quondam Doctoris Virgilii Vetuli et quia in visitatione episcopi Valen-tini de anno 1681 fuit decretum ut provideretur de omnibus necessa-riis ad celebrandum et in convenientem formam dictum altarem ap-taretur expensis heredum quondam supradicti Doctoris Virgilii Vetuli alias (nisi infra annum hoc fieret) dictum altare liberum esset dictae Ecclesiae et Societatis. Idcirco Illustrissimus Dominus Episcopus renovavit et confirmavit dictum decretum et iussit intimari Victoriae Ricci heredi, et nepoti dicti Doctoris Virgilii, ut infra annum provideat ut supra, alias omne jus amittat in dictum altare et praedictum jus devolvatur in praedic-tam Ecclesiam et Sociatetem, quae tunc teneatur ipsa de praedictis necessaris providere. Visitavit Altare Nativitatis ruraliter provisum. Mandavit provideri de ultima, (lisa) inferiori tobalea, et lapidem sacrum tela cerata cooperiri, et ad faciem celebrantis (trahi) competenter, et in candelabris apponi

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cuspides, crucemque in medio altaris magis elevari, et fasciam ligneam pariter apponi ad pedes celebrantis in scabello suppedaneo. Visitavit Altare Sanctissimi Rosarii ultimum a latere Evangelii pariter denudatum et sine lapide sacro, ubi non celebratur, quod Dominatio Sua Illustrissima etiam suspendi donec de omnibus necessaris provideatur. Visitavit altare Beatae Mariae Virginis primum in cornu epistolae quod fuit suspensum in praecedenti visitatione ab Episcopo de Giangirolamis eo quod careavet omnibus necessariis ad celebrandum. Illustrissimus Dominus Episcopus confirmavit suspensionem prae-dictam donec. Visitavit altarem secundum in eodem navi in quo pro icone adest vexillum Beatae Virginis ut aiunt del Confalone. Et quia in dicto altari adest lapis sacer amonibilis valde exiguus mandavit provideri de aliquo lapide sacro maiori et in altari quod totum de petra est incastrari, vel lepidem sacrum ab alio altari in eodem latere epistolae ut supra suspenso removeri in dicto, et hac transferri, et decenter aptari, cum altare praedictum suspensum sit totum in marmore consecratum. Mandavit provideri etiam de duabus tobaleis, de candelabris, et tabella ultimi Evangelii et apponi fasciam ligneam ad pedes celebrantis. Asserunt Officiales in dicto altari non celebrari nisi in die Nativitatis Domini Nostri Jesu Christi et festarum sequentium. Et quia praedictum vexillum valde vetustum amplius non circumfectur, et pictura est valde pulcra mandavit apponi diligenter in aliquo telari, ut decentius inservire possit pro icone altaris praedicti. In visitatione praedecessoris Episcopi de Giangirolamis describuntur nonnulla beneficia translata ab Ecclesis dirutis in hanc Sanctae Mariae de’ Raccomandatis. Nempe benefiucium simplex sub titulo Sancti Petri in Malvasia Ecclesiae dirutae eiusdem Sancti Petri in Terr.o Petrellae seu portellae quod beneficium est divisum inter duos Rectores pro medietate nempe inter Canonicum Costantinum de Paganis et Josephus Paulesse. Item aliud beneficium sub titulo Sancti Josephi iurispatronatus De Magnantibus cum onere sex missarum quolibet anno fructus scutorum quatuor circiter, Rector est Reverendus Dominus Thomas Cherubinus qui asserit propria conscientia dicto oneri missarum satisfecisse et satisfacere. Item aliud beneficium simplex Clericus nuncupatus quod fuit translatum ab ecclesia diruta et rurali Sancti Angeli Lauriani fructus

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scutorum trium circiter, cuius Rector est Reverendus Dominus Canonicus Josephus Rosellus, qui nuper idem beneficium renunciavit canonice et (sponte) datariam nepoti suo clerico Johanni Francisco Travaglino. Recognoscenda sunt Acta praedicta Visitationis, ubi alia nonnulla. Quo ad corpus Ecclesiae. Mandavit lapides sepulcrales circum circa qu. (a)ptari. Quo ad supellectilem sacram. Mandavit pro planeta violacei coloris provideri de manipulo decentiori, et alias planetas reaptari ubi opus est, et etiam provideri de missis ut aiunt Sanctum recentiorum, et etiam de velo omnium colorum. Et quia, ut dictum est, in dicta Ecclesia adest Societas sub titulo Sanctae Mariae de Raccomandatis. Ideo Illustrissimus Dominus mandavit ut Officiales praesentes dictae Confraternitatis afferant libros introitus, et exitus, rationemque reddant eorum administrationis, quod etiam quia multis ab hinc annis praestituorum non fuit ab officialibus praesentis nempe ab annis quindecim circiter, ideo mandavit etiam eosdem citari ad hoc ut pariter rationem reddant administrationis eorum suo loco et tempore sub poenis et censuris arbitratu. 3 luglio 1693 Vescovo Filippo Tani Busta 1293, pp. 31-32 (nuova foliazione p. 219 r/v). Die 3 Julii 1693, feria sexta Illustrissimus Dominus Episcopus prosequens visitationem Civitatis convitatus et accessit ad Ecclesiam Sanctae Mariae de Raccomandatis vulgo La Fraternita intra Civitatem, et praemissis ad Deum precibus ante Altare maius, et absolutione fidelium defunctorumque, Visitavit Altare majus competenter provisum, in quo lapis sacer complectitur seu superpositus est in toto dicti altari. Debet provideri de umbello, ac de tela cerata p(rout) ex precedentibus visitationibus ad quas (…). Visitavit altare Sanctissimae Annunciationis primum a latere Evangeli peritus denudatum, in quo nullatenus celebra(tum). Stetit in decretis praecedentium suorum visitationum, quae debebunt intimari. Visitavit altare Nativitatis Domini Nostri Jesu Christi ruraliter provisum. Mandavit inferiores mappas diligenter mundari, fasciam ligneam poni ad pedes celebrantis et omnia sumptibus Societatis dictae Ecclesiae.

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Visitavit altare Sanctissimi Rosarii ultimum a latere Evangelii est de omnibus denudatus est etiam suspensum. Visitavit altare Beatae Mariae Virginis primum in cornu Epistolae quod caret omnibus necessaris ad celebrandum; et est suspensum. Visitavit altare 2 in eodem navi in quo pro Icone adest Vexillum Beatae Mariae Virginis ut aiunt del Confalone ruraliter provisum, facta diligentia fuit repertum lapidem dicto altari (super)impositum totum esse consecratum ut pate(a)t ex operculo Sacrarum Reliquiarum, et ex crucibus lateralibus in dicto lapide incisus. Per (errorem?) autem et in adu(….)iam fuit in precedentibus visitationibus a Cappellano seu Prioribus dictae Ecclesiae (super) impositus alius lapis sacer exiguus et in quadam tabula inclusus, quem iussit ulterius super dictum altare non apponi. Mandavit mappas diligenter mundari stetique in decretis. In dicto altari (pra)eter non nulla beneficia simplicia in precedentibus visitationibus descripta sed sine expressione alicuius oneris missarum adest beneficium sub titulo Josephi cum onere seu missarum quolibet anno cuius Rector cum sit Reverendus Dominus Thomas Cherubinus nunc degens in Civitate Aquilae debet ab eo inquiri an dicto onere (spolium?) satisfecerit. Quo ad corpus Ecclesiae mandavit ubi opus est pavimentum reaptari, et provideri de feretro pro deferendis cadaveribus sumptibus dictae Societatis. Visitavit Sacristiam. Mandavit provideri de planeta, manipulo, et stola nigri coloris, vel violacei alias vero reaptari praesertim duas planetas vetustiores ambas ut aiunt vulgo di capicciola sumptibus dictae Societatis. Mandavit etiam a Prioribus reddi computa introitus, et exi-tus infra sex menses et omnia praedicta sub penis arbitrio et reco-gnosci debent visitationes praecedentes ad quas. 6 settembre 1745 Vescovo Nicola Maria Calcagnini Busta 1110, ff. 25r/v, 26r/v (nuova foliazione 29r/v, 30r/v). De Ecclesia Beate Mariae Virginis de Raccomandatis vulgo ‘La Fra-ternita’ Eadem die 6a 7mbris Illustrissimus et Reverendissimus Dominus as-sociatus ut supra pervenit ad dictam Ecclesiam Beatae Mariae Virginis de Raccomndatis nuncupatam ‘La Fraternita’, et facta oratione, et ab-solutione defuntctorum de more devenit ad infrascriptam visitatio-nem, et primo visitavit altare maius, quod habet pro Icona Imaginem

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Beatae Mariae Virginis de Raccomandatis, et Sancti Francisci et Do-minici, quod invenit competenter provisum. In dicto altari adest onus celebrandi singulis diebus festivis de prae-cepto, et dominicis et faciendi unum officium in anno, nempe canen-di primas vesperas in feria secunda post Pascha; et missam cum cantu in feria tertia Paschatis una cum quatuor missis lectis. Aliud onus habet in Festo Sancti Rocci, (videlicet) unius missae cum cantu, et quatuor missarum lectarum. Aliud demum onus habet celebrari faciendi missam unam cum cantu in Ecclesia Sancti Jeronimi, quae onera satisfacienda sunt per Cappel-lanum Confraternitatis, quae reperitur erecta in dicta Ecclesia usu sac-ci cerulei coloris, eiusque Camerarius ad praesens est clericus Carolus Bonafaccia, Cappellanus eiusdem Confraternitatis ad praesens est Re-verendus Joseph Pirrotti. In dicta Ecclesia exponitur Sanctissimum Eucharistiae Sacramentum spatio quadraginta horarum in die Nativitatis Domini Nostri Jesu Xristi. Visitavit Altare sub invocatione Nativitatis Domini Nostri Jesu Xristi ad dictam Confraternitatem spectans, et mandavit provideri de tela cerata supra lapidem sacrum. Adest in dicto altari beneficium simplex cum onere sex missarum in anno, et Rector ad praesens est Reverendus Dominus Canonicus Dionisius Berrettini Iurispatronatus de Magnante. Adest aliud beneficium simplex Clericatus nuncupatum absque ullo onere, quod possidet(us) a Reverendo Canonico Joanne Francisco Travaglini. Insuper adest aliud beneficium simplex sub titulo Sancti Petri in Malvasia, translatum ab ecclesia diruta Sancti Petri in Malvasia in loco ubi dicitus Pretella seu Portella iurispatronatus de Paolessi absque ullo onere, et Rector ad presens est Reverendus Dominus Carolus Paolessi. Visitavit altare in cornu Epistolae altaris maioris sub titulo Beatae Mariae Virginis, quod altare spectat ad Congregationem Artificum erectam a Venerabile Padre Baldinucci. In dicto altari adest onus celebrandi duas missas pro anima quondam Josephi Tiberti. Celebratus pariter in eodem altari missa singulis diebus dominiciis, et festiviis de praecepto sumptibus et elemosinis dictae Congregationis per Reverendum Jeronimum Travaglini Cappellanum. Visitavit paramenta sacra, et mandavit provideri de burza, et velo sive supracalice (tr)ium colorum.

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13 maggio 1793 Vescovo di Cittaducale Pasquale Martini; canonico Filippo Antonio Giraldi Busta 1373, f. 9r. De Ecclesia Sanctae Mariae de Raccomandatis Eadem retroscripta die tertiadecima mensis maii 1793. Completa visitatione Ecclesiae Sancti Joannis Baptistae mox se contulit ad alteram Sanctae Mariae noncupatae de Raccomandatis, fuitque exceptus a Reverendo Canonico Domino Philippo Antonio Giraldi, in qua brevi oravit ac peracta de mandato per eundem Reverendum Canonicum mortuorum absolutione. Visitavit altare majus Beatissimae Virgini Mariae dicatum et laudavit. Visitavit altare Nativitatis Domini Nostri Jesu Christi et mandavit provideri de novis tabulis cum coronis auro linitis pro cartis Canonis, in principio, et lavabo. Visitavit Altare SS. Ignatio, et Francisco Xaverio, sacris quod ornatibus sufficienter instructum inspexit. Deide accessit ad Sacrarium quod sacris suppellectibus invenit bene provisum. Iussit Magistro Priori ut conficiat inventarium omnium rerum mobilium, et immobilia, anuorumque reditum ad Ecclesiam spectantium. Duae institutae reperiebantur Confraternitates in hac Ecclesia, quae postea unitae fuerunt ab M. Episcopo Calcagnini; uniti quoque ambarum reditus, et a Praefecto, et Depositario Confraternitatis, qui quot annis per secreta suffragia eliguntur, admisnistrantur. 10 maggio 1805 Vescovo di Cittaducale Emanuele Ceciri; canonico Domenico Giannantoni Busta 1176, f. 3r. De Ecclesia Beatissimae Virginis Mariae de Raccomandatis vulgo La Fraternita Civitatis Ducalis. Die decima mensis Maii 1805 Reverendissimus Dominus comitatus ut supra ac admodum Reverendo Domino Canonico Dominico Giannantonii, meque hora fere decima quinta ad Ecclesiam Sanctae Mariae de Raccomandatis perexit, ibique in ingressu ianuae praesto fuit admodum Reverendus Canonicus Nicolaus Giraldi Cappellanus cum Magistro Domino Domenico Costantini dictae Ecclesie

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Praefecto et facta brevi oratione, de more similiter peracta mortuorum absolutione. Visitavit altare majus, quod bene retentum invenit et laudavit. In dicto altari adest effigies Beatissimae Virginis Mariae de Raccomandatis in tela depicta simul cum Icone Sancti Dominici et Sancti Erasmi. Visitavit pariter altare sub invocatione Nativitatis Domini Nostri Jesu Xristi, et competenter ornatum invenit, hortatus est, si potest fieri, ut umiditatem ex illo removeret dictus Prefectus. Visitavit item aliud altare in cornu Epistolae sub titulo Beatissimae Virginis, S(anctorum) Ignatii, et Francisci Xaverii, quod mediocriter praeparatum invenit. Accessit ad Sacrarium, et de omnibus ad sacrificium necessariis prae-paratum invenit. His peractis: oravit parumper et ad suas (Ecclesias) redivit. 5 ottobre 1832 Vescovo Girolamo Manieri Busta 1124, pp. 13-14 (foliazione recente f. 86r/v) Pro Ecclesia Sancte Mariae de Raccomandatis. Illustrissimus et Reverendissimus Dominus Episcopus una cum suis proefatis convisitatoribus ad Ecclesiam Sanctae Mariae de Raccomandatis die 5a dicti mensis accessit et sacro peracto ac elargita populo Indulgentia 40 dierum, nec non expletis consuetis precibus pro animabus defunctorum concionem habuit, et puellos et puellas sacro linivit chrismate. Deinde visitavit altaria, et suppelletilia, et iussit provideri altaria lateralia de tobaleis et duas casulas designatas restaurari coetaera probavit ac laudavit. In hac Ecclesia adest erecta sodalitas sub titulo Sanctae Mariae de Raccomandatis, et singulis festis eius confratres ad preces effundendas congregantur. Sumptibus eiusdem Sodalitatis ad implenda sunt sequentia pia legata. Pro q.m Josepho Tiberti missae duae = pro q.m Joanne Cecini missae duae = pro Laureto Senesi missae due = pro q.m Margarita Quirini missa una = pro q.m Francisco Leonardi missae sex = pro q.m Bartholomeo Ceciri missae tres = pro q.m carlo Costantini missae duae = pro q.m Antonio Spinelli calabrese missa una = pro q.m Antonio Anibaldi et Christina Allegri missae quatuor = pro q.m Francisco Scorretti missae duae = pro q.m Armando Felice Gioia missae quatuor = pro q.m Eleuterio Caroselli missa una, et rosarium unun infra annum = pro q.m Angelo Giraldi missa una in precibus 40

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horarum ad honorem Purificationis Beatae Mariae Virginis, et Rosarium recitandum ad omnibus confratibus die 13 decembris anniversaria obitus ipsius Giraldi = pro q.m Octavio d’Antono missae duodecim quarum septem in proecipuis festivitatibus Beatae Mariae Virginis; una in festo Sancti Antonii Abbatis 17 Januarii, et quatuor in supradictis precibus quadraginta horarum ac tandem rosarium recitandum ad omnibus fratribus = pro q.m Christina Santilli missae duae, et unum rosarium = pro q.m Mazzilli vesperas cum assistentibus in feria 2a post Pascha, et in 3a sequenti missae tres lectae et una cum cantu = pro q.m eodem Mazzilli missa una cantata cum primis vesperis et missae duae lectae die 16 augusti = pro q.m Bernarda d’Antono missae tres quarum una die 2 augusti et aliae in precibus 40 horarum. In festo Sancti Hieronimi missa una cum cantu = missae tres lectae quarum prima in Nativitate Domini Nostri Jesu Christi; secunda in Circumcisione eiusdem, et tertia in eius Epifania. 1842 Vescovo Girolamo Manieri. Visita eseguita da monsignor Filippo de Conti Curoli Busta 879/2, pp. 166-167. Chiesa di Santa Maria dei Raccomandati Questa chiesa è a volta, ed ha tre altari; il maggiore sacro alla Madonna della Purificazione, quello a cornu Evangeli alla Natività di Nostro Signore e l’altro a Sant’Ignazio, e a San Francesco Saverio. Vi è la congregazione degli Artisti che vi Recita il Rosario in tutte le feste di doppio precetto. Tiene un cappellano per la messa, e per la confessione. Ha fondi ma vi è lo stato discusso. Ha pesi di messe 40 lette, e 3 cantate, e si sodisfano dal Cappellano signor Canonico Don Alessandro Falconi, il quale inoltre è tenuto ad applicare pei fratelli vivi, e defonti in tutte le Feste di doppio precetto, e dei Santi Protettori, che sono Sant’Ignazio e San Francesco Saverio. Questa chiesa è provista competentemente di arredi. 22 luglio 1853 Vescovo Luigi Filippi Busta 879/3, ff. 10v-11r/v. Chiesa di Santa Maria dei Raccomandati.

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L’Illustrissimo e Reverendissimo Monsignor Vescovo unitamente ai Convisitatori ed altri di sua compagnia dopo la visita della Chiesa di San Francesco si portò nella Chiesa di Santa Maria dei Raccomandati, ove dopo aver pregato come a solito, visitò l’Altare maggiore sacro alla Madonna della Purificazione e lo approvò. Sospese poi l’Altare sotto il titolo della Natività, perché grondante di acqua nelle pareti. Quindi dichiarò interdetto l’altare che è a lato dell’Epistola, sacro a Sant’Ignazio e San Francesco Saverio, fino a che non si apponesse novella pietra sacra. Ordinò ancora che il quadro posto a sinistra della porta d’ingresso si ponesse provvisoriamente a piedi la Chiesa appunto per liberarlo dall’umidità. Nella Chiesa di cui è parola vi è eretta la Congregazione degli artisti, la quale tutti i giorni festivi si riunisce per la recita del Santo Rosario; e per la Messa e Confessione tiene pure un Cappellano che attualmente è il Canonico Don Alessandro Falconi; il quale è tenuto ad applicare per i seguenti legati, cioè: 1° Annue messe due per fu Giuseppe Tiberti. 2° Messe due pel q.m Giovanni Ceciri. 3° Messe due per fu Lorenzo Senese. 4° Messa una per la q.m Margarita Quirini. 5° Messe due pel fu Carlo Costantini. 6° messa una per Antonio Spinetti Calabrese. 7°. Messe quattro per le anime dei q.m Antonio Anibaldi e Cristina Allegri. 8° Messe due per Francesco Scorretti, 9° Messa una per q.m Eleuterio Caroselli, 10° Messa una nel giorno del 2 febbraio pel q.m Angelo Giraldi. 11° Messe due per Cristina Santilli. 12° Messe tre per q.m Bernardino Dantono, delle quali una deve applicarsi a 2 Agosto, due poi nelle 40 ore della Purificazione. I suddetti Legati poi costa essersi fedelmente adempiti fino al corrente anno 1853. Non così però e a dirsi dei Legati seguenti, dei quali costa l’adempimento in parte, e però se ne ordina il ripiano non facendosi trascorrere più del mese per la totale soddisfazione; cioè: 1° Per il legato di Messe dieci che si celebrano per i defunti fratelli e sorelle, come apparisce dal registro presentato, mancano Messe 56. 2° Per il legato di messe sei pel q.m Francesco Leonardi, a compimento del corrente anno, manca una messa. 3°. Per il legato di messe tre per Bartolomeo Ceciri mancano due messe nel 1847. 4° Per il legato di messe quattro per Amando Felice Gioia mancano messe tre negli anni 1844 e 1846. 5° Per il legato di messe dodici per Ottavio Dantono manca una messa nel 1852; e contemporaneamente s’impone di celebrare le suddette medesime nei giorni prescritti, e come risulta dai Registri. 6° per il legato di una messa cantata e tre lette nel Martedì di Pasqua, obbligo di Mazzilli, costa essersi adempito fino al 1841 a sole messe tre lette. Quindi si

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ordina celebrare tutte le messe cantate e le lette già trascurate, e riponersi in corrente nello spazio di sei mesi. 7° Per il legato di una messa Cantata nel giorno di San Girolamo che si trova adempito a tutto il 1822 e nell’anno 1836, si ordina ripianare l’atrasso dentro sei mesi. 8° Per il legato di messe tre nei giorni di Natale, primo dell’anno, ed epifania, che si trovano esattamente adempite dal 1840 al 1853, si ordina ripianare l’atrasso fino al 1839. 9° Per il legato di una messa a 25 Aprile per il q.m Pasquale Tiberti, perché si è adempito ne’ soli anni 1833, 1851, 1852 e 1853 s’ingiunge rimettere le trascurate applicazioni nello spazio di sei mesi. Finalmente per l’esatto adempimento de’ suddetti legati, non meno che degli altri, si ordina un Libro regolare di registro e bene intestato. S’ingiunge ancora alla Congrega medesima di regolarizzare il libro delle prestazioni de’ fratelli e sorelle; di adempire subito alle messe dieci a morte de’ Congregati; e perciò si prelevi di anno in anno dalle elemosine raccolte una somma che dovrà rimanere in una cassa triclave a formare un monte de’ Morti. 19 luglio 1875 Vescovo Luigi Filippi Busta 1415, pp. 88-91. Senza perder via l’Illustrissimo e Reverendissimo Monsignor Vescovo si recò nella chiesa di Santa Maria dei Raccomandati ove ricevuto alla porta dal Cappellano Signor Don Antonio Vetuli e fatta breve orazione innanzi al Santissimo Sacramento, che ivi si conserva in occasione della novena di Sant’Anna, incominciò a visitarla. In questa chiesa è eretta la confraternita degli Artisti dove questi si riuniscono tutti i giorni festivi per la recita del Santo Rosario, per la Messa e per pratticarvi gli atti di Religione. L’Illustrissimo prelato visitò la custodia, e la sfera contenutavi coll’ostia consacrata. E trovò tutto a lodare, specialmente la ripetuta sfera di argento fatta lavorare di recente dal passato Prefetto della Congregazione Signor Angelo Giacomelli ed Assistenti che son venuti raccogliendo per questo le volontarie oblazioni dei fedeli. Visitò gli altri due Altari che trovò decenti ed ornati competentemente come comporta la piccola Chiesa che è decentissima. Visitò la biancheria che trovò netta, gli arredi in buono stato, quantunque tra essi fosse una pianeta bianca che interdisse fino a quando non fosse restaurata; i vasi sacri in buono stato; e tutto il

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resto che occorre al servizio del culto ebbe a lodare perché decentemente tenuto. La congregazione ha una meschinissima rendita la quale non bastando a far fronte alle spese di mantenimento ed ai più legati vi sopperisce per via di elemosine, e colla contribuzione di Lira una che ogni fratello paga nell’anno. A carico di questa Congregazione sono i seguenti Legati:

1) N. 2 Messe lette pel q.m Giuseppe Tiberti 2) N. 2 Messe lette pel q.m Giovanni Ceciri 3) N. 2 Messe lette pel q.m Loreto Senese 4) N. una Messa letta per q.m Margherita Quirini 5) N. 3 Messe lette per q.m Francesco Leonardi 6) N. 3 Messe lette pel q.m Bartolomeo Ceciri 7) N. 2 Messe lette pel q.m Carlo Costantini 8) N. 1 Messa letta pel q.m Antonio Costantini 9) N. 4 Messe lette pel q.m. Antonio Annibaldi e Caterina

Allegri 10) N. 2 Messe lette pel q.m Francesco Scorretti 11) N. 4 Messe lette pel q.m Amando Felice Gioia 12) N. 1 Messa letta con un Rosario pel q.m Eleuterio Caroselli

13) N. 1 Messa letta annuo pel q.m Angelo Giraldi da dirsi nelle quarant’ora della Purificazione, ed un Rosario da dirsi nel 13 Dicembre di ogni anno

14) N.12 Messe lette annue da dirsi 7 nelle festività di Maria Santissima, una nel giorno di Sant’Antonio Abbate, e le altre 4 nelle quarant’ore della Purificazione ed un Rosario pel q.m Ottavio Dantono

15) N. 2 Messe lette annue per la q.m Cristina Santilli 16) N. 3 Messe ed una cantata nel Martedì di Pasqua pel q.m

Mazzilli. 17) N. una Messa cantata all’anno e parata pel q.m Giuseppe

Vallesi da dirsi nel giorno 19 Settembre Tutti questi Legati si trovano segnati nella tabella della Sagrestia, e nei registri delle Messe. Si adempiono. È a notare però che nel 1872 il Cassiere non diede l’elemosina per nessuna di queste Messe perché il fondo da cui si ritraggono le rendite era rimasto inondato. Pel 1874 ancora non se ne celebrò alcuna, ed altrettanto è a dire pel 1875 già decorso per la metà. L’Illustrissimo e Reverendissimo Monsignor Vescovo ordinò al Priore della Confraternita di mettersi al più presto in regola. Il Cappellano della Confraternita applica la Messa tutte le

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Domeniche, e compie tutte le funzioni religiose in questa Chiesa e la Confraternita gli paga a titolo di elemosina e di compenso Lire 106.25 annue e si adempie.

29 luglio 1883 Vescovo Augusto Antonio Vicentini Busta 1291, pp. 401-403. N.d.a.: si riporta qui di seguito un breve sunto del documento. Il vescovo Augusto Antonio Vicentini visita Cittaducale ma ispeziona solo la Cattedrale di Santa Maria del Popolo e le chiese di San Francesco e di Sant’Agostino. 3 maggio 1896 Arcivescovo de L’Aquila Francesco Paolo Carrano Busta 1290, p. 271. Per la chiesa dei Raccomandati, in cui è eretta la Confraternita degli Artisti, e che fu visitata da lui stesso, Monsignor Arcivescovo ordinava:

1) Ne’ confessionari si mettano le tabelle dei casi riservati e alle grate altre grate in legno.

2) Si restauri, dove occorra, il pavimento. 3) La custodia dell’altare maggiore sia foderata di seta bianca.

18-23 Agosto 1919 Monsignor Adolfo Turchi, arcivescovo de L’Aquila Busta 878/1, pp. 12-17. N.d.a.: si riporta qui di seguito un breve sunto del documento. Tra il 18 e il 23 agosto 1919, monsignor Adolfo Turchi, visita Cittaducale, officia le funzioni, cresima duecento bambini e ispeziona le seguenti chiese, oltre a controllarne i registri parrocchiali: Santa Maria del Popolo, San Francesco e Santa Maria delle Grazie. Emana i relativi decreti con le indicazioni sul da farsi. Non è citata Santa Maria dei Raccomandati. 3 settembre 1922 Monsignor Adolfo Turchi, arcivescovo de L’Aquila Busta 878/2, pp. 3-9.

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La mattina del 3 Settembre Sua Eccellenza Monsignor Arcivescovo, in compagnia del Segretario di Visita, parte dalla sua residenza dell’Episcopio di Aquila per tempo alle ore 6 ¾ del mattino, per iniziare la sua seconda visita pastorale diretto a Cittaducale. Si arriva alle ore 8 alla porta Napoli, ove si trovano per il ricevimento l’Arciprete Don Pietro Dionisi, la Confraternita laicale del Sacramento, quella della Madonna dei Raccomandati, quella di Sant’Antonio Abbate, le Suore Missionarie Zelatrici del Sacro Cuore con i Paggi del Santissimo Sacramento e l’Oratorio femminile e un certo numero di Popolo. Le aste del baldacchino sono sorrette da 6 giovani delle migliori famiglie della Città […]. (N.d.a.: la memoria prosegue con la descrizione della cerimonia nella cattedrale, della cresima dei fanciulli, del saggio catechistico e dell’ispezione della chiesa. Il giorno 8 settembre si procede alla visita del Monastero di Santa Caterina, della chiesa di Santa Maria delle Grazie e di quella di San Giuseppe. Si emanano i relativi decreti). 4 maggio 1934 Gaudenzio Manuelli, arcivescovo de L’Aquila Busta 839/1, p. 543 [pp. 541-543]. Monsignor Arcivescovo, accompagnato dal Prevosto di San Marciano di Aquila, Don Pietro Dionisi, è accolto solennemente fuori la porta della città con intervento di autorità, scuole, Balilla, Piccole Italiane, confraternite e musica cittadina […]. Oltre alla chiesa parrocchiale Sua Eminenza visita anche le seguenti chiese: Chiesa di Santa Cecilia […]. Chiesa di Santa Maria delle Grazie […]. Chiesa di Santa Maria dei Raccomandati:

1) Mettere ai confessionali l’immagine del Crocifisso; 2) Mettere i crismali sulle pietre sacre; sul piano terra degli altari

mettere tavole anziché mattoni. Chiesa di San Giuseppe […]. Chiesa di Sant’Agostino […]. 4 giugno 1939 Gaudenzio Manuelli arcivescovo de L’Aquila Busta 839/2, pp. 267-274. Sua Eminenza Monsignor Gaudenzio Manuelli Arcivescovo dell’Aquila, il 4 giugno 1939, festa della Santissima Trinità, si reca,

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accompagnato dal Reverendissimo Canonico Don Amilcare Torlone, in Cittaducale per compiervi la seconda Santa Visita […]. Giunto nella chiesa parrocchiale Sua Eminenza compie le cerimonie prescritte per la circostanza e inizia la celebrazione della Santa Messa. Dopo il Vangelo parla al popolo dicendosi lieto di fare la seconda Visita in quella città che, dopo la città dell’Aquila, sede ordinaria dell’Arcivescovo, è la più cara al suo cuore per le più frequenti relazioni che ormai, dopo il restauro dell’Episcopio, Sua Eminenza tiene con quel popolo […]. La vita religiosa in questa parrocchia va lentamente risvegliandosi sia per mezzo di un po’ di movimento di Azione Cattolica, sia per la frequente presenza di Monsignor Arcivescovo che in questi ultimi tempi -1937- ha fatto restaurare l’Episcopio decorosamente dopo un lungo periodo di abbandono e di trascuratezza che l’avevano reso quasi cadente e inabitabile. Fu inaugurato il 19 agosto 1937 con funzione solenne di San Magno nella Chiesa Parrocchiale coll’intervento di rappresentanza del Capitolo Cattedrale di Aquila, molto clero, autorità e personaggi invitati dall’Arcivescovo. Sua Eminenza ha diviso il fabbricato in due appartamenti riservandosi il primo piano ed assegnando al Parroco quello superiore a cui si accede per mezzo di una nuova scalinata. Un cancello in ferro impedisce ogni comunicazione col quartierino dell’Arcivescovo che ha l’ingresso dalla porta principale. Una imitazione della grotta di Lourdes, costruita da libera e generosa cooperazione del locale Comando della Milizia Forestale, adorna l’ingresso dalla Piazza. La facciata fu restaurata dal comune. La sala del Trono fa anche da Cappella, perché il trono può trasformarsi in Altare, sopra di cui vi è una buona tela raffigurante Sant’Agostino regalato dalle Agostiniane di Aquila […]. La Santa Visita nella Parrocchia di Cittaducale non è stata preceduta da predicazione come è prescritto nelle disposizioni dell’Ordinario. Nella Chiesa di Sant’Agostino sono in corso importanti lavori di restauro fatti per conto del Comune a cui è stata però ceduta la Chiesa di San Francesco rovinata dal Terremoto e dall’incuria ed ora passata alla Milizia Forestale che ne ha fatto magazzeno. Nel giorno successivo 5 giugno Sua Eminenza l’Arcivescovo, (fu) accompagnato dall’Arciprete Don Domenico d’Angelo, da Don Alessandri, Cappellano del Monastero e da Don Moscardi Parroco di Grotti a visitare le Chiese di Santa Caterina (Monastero) Santa Maria delle Grazie, San Giuseppe e di Santa Maria dei Raccomandati. Tutte lasciarono alquanto desiderare, tranne quella delle religiose, per ordine

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e pulizia che Sua Eminenza ha raccomandato caldamente all’Arciprete. Decreti […] Risposte ai questionari del vescovo 23 luglio 1910 Risposte ai questionari del vescovo pellegrino Francesco Maria Stagni Busta 1105/12.1 (23r-25v). Confraternita di Maria Santissima dei Raccomandati di Cittaducale diretta dal priore Ursini Giovanni, Ermini Antonio, ed Angretolli Nicola. 1° La Confraternita fu eretta nell’anno 1784 con assenso regio rilasciato e firmato dal re Ferdinando 4°. 2° Le regole della Confraternita sono distribuite secondo i voleri dello Statuto od assenso regio. Tiene il sacco bianco con rocchetto o mantellina rossa con lo stemma di Maria, e col cingolo rosso. Conserva una parte di contabilità degli ultimi tempi. 3° I fratelli inscritti sono 247; ma non tutti pagano. Gli ufficiali sono Ursini Giovanni, priore; Ermini Antonio, 1° assistente e Angretolli Nicola, 2° assistente. 4° Buona parte dei fratelli, ricorrendo la festa della Purificazione e nelle feste Pasquali si confessano e si comunicano. 5° La Chiesa non ha né padre spirituale, né il direttore; per far dire le messe in tutte le feste dell’anno ci dobbiamo raccomandare ai Padri Cappuccini. 6° La Chiesa è propria.

Attivo 7° La rendita proveniente dal Cassiere per riscossione fondi è di £ 120.00

La riscossione dei confratelli in media ammonta a £ 160.00

Riscossione questua, in media £ 150.00 ------------ Totale dell’attivo £ 430.00

Passivo

Messe tutto l’anno in media £ 140.00

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Pagamento dell’organista £ 50.00 Pagamento al sagrestano £ 50.00 Per soddisfare i confratelli morte in multa £ 100.00 Spese per la novena della Purificazione £ 30.00 Spese per le quarantore del Santo Natale, della Purificazione e del Carnevale, compresa la cera £ 50.00 Per mantenimento della biancheria £ 15.00 Per spese impreviste £ 30.00

------------ Totale del passivo £ 435.00

8° L’inventario dei sacri arredi conservati dalla detta confraternita è il seguente:

1) Piviali N. 3, di cui uno nero e due colorati in buono stato: 3

2) Parato in terzo nero in buono stato. N. uno: 1 3) Parato in terzo di tutti i colori in buono stato. N. uno: 1 4) Parato di lama, la sola pianeta mediocre. N. 1: 1 5) Bandinella di seta in buono stato. N. uno: 1 6) Numerale uno con quattro fiori in buono stato: 1 7) Camici festivi in buono stato di tela con merletti. N. tre:

3 8) Camice giornaliero in mediocre stato: 1 9) Amitti in buono stato. N. quattro: 4 10) Tovaglie con merletti festive N. tre: 3 11) Tovaglie per gli altari festive. N. due: 2 12) Tovaglie giornaliere di panno in buono stato per gli altari.

N. 3: 3 13) Sottotovaglie mediocri. N. quattro: 4 14) Asciugamani di tela. N. due: 2 15) Sparone mediocre. N. uno: 1 16) Purificatori. N. quindici: 15 17) Messale dei morti, festivo. N. uno; dei vivi, puranche

festivo. N. uno. In tutto: 2 18) Messali, come sopra, giornalieri. N. due: 2 19) Una pace pei confratelli di metallo: 1 20) Corporali con palle. N. 4: 4 21) Pianete di vari colori complete. N. nove: 9 22) Reliquie N. 6, di cui due di legno e quattro metalliche: 6

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23) Ostensori due, dei quali uno è d’argento 24) Calici metallici con coppe d’argento. N. due: 2 25) Campanelli N. quattro, dei quali uno al banco: 4 26) Quadri in sagrestia. N. cinque: 5 27) Crocifissi. N. due: 2 28) Elenco dei legati. N. uno. 1 29) Inginocchiatoi. N. due: 2 30) Quadri di preparazione alla messa. N. tre di cui uno

senza vetro: 3 31) Stendardo della Madonna. N. uno: 1 32) Scala per salire alla cucinetta. N. una: 1 33) Baldacchino per altare, completo, con crocifisso, in

buono stato. N. uno: 1 34) Sacchi. N. venti: 20 35) Tappeti di differente grandezza, il piccolo strappato. N.

tre: 3 36) Stuole per confessare. N. due: 2 37) Sedie di damasco. N. 3: tre 38) Sedie ordinarie. N. cinque: 5 39) Candelieri. N. cinquantadue, più sei di metallo, in tutto

cinquattotto: 58 40) Crocifissi agli altari. N. tre: 3 41) Lampade in buono stato. N. quattro. 4 42) Brocchetta piccola per l’olio una: 1 43) Idem grande (per l’olio). N. una: 1 44) Ampolle, paio uno: 1 45) Piattino. N. due, dei quali uno di cristallo: 2 46) Vasetto di purificazione di cristallo. N. 1: 1 47) Incensiere con navicella di ottone. N. uno:1 48) Tavolinetti due, dei quali uno con tovaglia: 2 49) Cornocopi di ferro. N. due: 2 50) Scalette per gli altari N. due, delle quali una mediocre: 2 51) Via Crucis N. quattordici: 14 52) Quadri grandi alle pareti della Chiesa. N. sei: 6 53) Lampadari. N. quindici: 15 54) Stipo o vestiario. N. uno: 1 55) Cassa per cera. N. una: 1 56) Croce per calvario. N. una: 1 57) Fiori per gli altari in buono stato. N. dieci: 10 58) Idem usati N. dieci: 10 59) Banco priorale. N. uno: 1

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60) Carta gloria. N. dodici: 12 61) Misteri. N. dodici: 12 62) Catafalco per morti mediocre. N. 1: 1 63) Bandinella giornaliera rossa. N. 1: 1 64) Candelabro giornaliero. N. uno: 1 65) Banchi misti. N. dodici: 12 66) Inginocchiatoi. N. due: 2 67) Stipo piccolo mediocre. N. uno: 1 68) Vasetti per i fiori. N. dodici: 12 69) Vasetti per i fiori N. quattro: 4 70) Un Crocefisso grande per il Sepolcro: 1 71) Calice uno d’argento 72) Chiavetta d’argento. N. una:1 73) Pisside con coppa d’argento. N. una: 1 74) Confessionali. N. due: 2 75) Incensiere di metallo bianco con navicella nuovo. N. uno 76) Secchiello per acquasantiera con aspersorio. N. una: 1

9° Non ha sigillo proprio Città Ducale, 23 luglio 1910

Il priore G. Ursini

13 luglio 1919 Risposte ai questionari del vescovo Adolfo Turchi Parrocchia di Cittaducale. Chiesa Madonna dei Raccomandati Busta 893/ 9.1 (ff. 2r-3r) La Chiesa ha il titolo di Madonna dei Raccomandati. Attualmente è chiusa perché adibita a magazzino di viveri. Le suppellettili ed arredi sono chiusi in sagrestia. Confraternita della Madonna dei Raccomandati 71. Il titolo di Confraternita è: Madonna dei Raccomandati. Non si sa quando fu eretta. Ha l’approvazione Regia. 72. L’attuale priore non sa dare schiarimenti. Qualche registro o carta vecchia è in sagrestia dove non si può entrare perché la porta è ostruita. I confratelli portano sacco bianco con mozzetta color rosa vivo, con placca. 73. I fratelli iscritti sono circa 200. Priore è Giovanni Ursini = 1° Assistente Mancini Stefano = 2° Assistente Pietro Angelilli. Le

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elezioni sono fatte per votazione dai confratelli; non vengono sottoposte all’approvazione dell’Ordinario. 74. Non ha né il direttore, né cappellano. Le funzioni venivano prima celebrate dal Parroco nella Chiesa della Confraternita, attualmente sono celebrate dal Parroco stesso nella chiesa parrocchiale. 76-77. Il priore non ha uno statuto. I fratelli partecipano scarsamente alle funzioni. 78. Il Priore è d’accordo col Parroco. 79. La confraternita ha qualche rendita propria che viene riscossa dall’esattore comunale ed amministrata dal Segretario della Congregazione di Carità, con bilancio proprio appropriato annualmente dalla Regia Prefettura. Il Priore ha poi l’amministrazione di ciò che si esige come quota dai confratelli e delle elemosine ed ha registri con introito ed esito, che, fino ad ora, non erano stati mai sottoposti all’approvazione dell’Ordinario. 80. Si fanno questue in chiesa e fuori vengono erogate per la manutenzione della Chiesa e per le spese di culto e feste popolari. 81. Il Priore ha un registro ove sono notati dei legati annui di N. 27 Santissime Messe che furono adempiti fino a tutte il 1915. Per tale adempimento si donino in tutto £ 32:50. Il Priore non ha altri registri di legati, né sa se (ce) n’è una tabella nella sagrestia della Chiesa. 82. N.N. 83. Una volta all’anno per consuetudine, il 25 maggio per rinnovare le cariche. Non esiste registro di verbali. 84. N.N. Cittaducale, 13 luglio 1919 Il Parroco D. Pietro Dionisi

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I. ROSSI

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Didascalie Fig. 1. Facciata di Santa Maria dei Raccomandati a Cittaducale. Fig. 2. Incontro tra Abramo e Melchisedech, episcopio, salone. Fig. 3. Cena in Emmaus, episcopio, salone. Fig. 4. Portale (2007). Fig. 5. Abside e altare maggiore (2007). Fig. 6. Veduta navata sinistra (2007). Fig. 7. Giuseppe Chiari (attr.), Incoronazione della Vergine tra san

Domenico e sant’Isidoro di Siviglia. Cittaducale, Santa Cecilia, presbiterio.

Fig. 8. Madonna con il Bambino in trono tra san Rocco e san Sebastiano e membri di una confraternita (Gonfalone, recto-1972).

Fig. 9. Crocifissione tra San Rocco e San Sebastiano, navata destra (1972). Fig. 10. Madonna col Bambino tra san Giuseppe e san Sebastiano

(Gonfalone, verso-1972). Fig. 11. Altare di sant’Ignazio di Loyola e di san Francesco Saverio

(2007). Fig. 12. Vergine in gloria tra sant’Ignazio di Loyola e san Francesco Saverio,

cattedrale, sacrestia. Fig. 13. Cristo e la Veronica, episcopio, salone. Fig. 14. Madonna col Bambino e angeli, navata sinistra (2007). Fig. 15. Visitazione (2007). Fig. 16. Natività (2007). Fig. 17. Presentazione al tempio (2007). Fig. 18. Gesù tra i dottori (2007). Fig. 19. Orazione nell’orto (2007). Fig. 20. Flagellazione (2007). Fig. 21. Incoronazione di spine (2007). Fig. 22. Andata al calvario (2007). Fig. 23. Crocifissione (2007). Fig. 24. Resurrezione (2007). Fig. 25. Ascensione (2007). Fig. 26. Pentecoste (2007). Fig. 27. Consegna della cintola a san Tommaso (2007). Fig. 28. Incoronazione della Vergine (2007). Fig. 29. Busto di Madonna, esterno, fianco destro, edicola (2007). Fig. 30. Madonna col Bambino. Bracciano, cappella dell’ex Ospedale

civile. Fig. 31. San Domenico, navata sinistra (2007).

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Fig. 32. Assunzione della Vergine, xilografia dalle Meditationes di J. de Torquemada (1467).

Fig. 33. Madonna del Rosario tra i santi Domenico, Caterina, Agostino, Gregorio, Pietro, Ambrogio (?), santi e donatori. Loc. Torano (Borgorose), chiesa di San Pietro.

Fig. 34. San Vincenzo Ferrer. Roma, convento di Santa Sabina. Fig. 35. Santo domenicano, navata sinistra, parete di fondo (2007). Fig. 36. Natività, parete sinistra, altare (2007). Fig. 37. Adorazione dei pastori. Arrone, chiesa di Santa Maria. Fig. 38. Adorazione dei pastori. Villagrande (AQ), chiesa di San Panfilo. Fig. 39. Madonna del latte, parete sinistra (2007). Fig. 40. Madonna del latte, volto (part. - 2007). Fig. 41. Madonna col Bambino in trono. Loc. Ferrazza (Amatrice), chiesa

di Santa Maria delle Grazie. Fig. 42. Monogramma, parete sinistra (2007). Fig. 43. Madonna con il Bambino, navata sinistra, parete di fondo (2007). Fig. 44. Santo domenicano e Madonna col Bambino, navata sinistra, parete

di fondo (2007). Fig. 45. San Rocco (Crocifissione tra san Rocco e san Sebastiano, part. -

1972). Fig. 46. Crocifissione. Corchiano, chiesa di Sant’Egidio. Fig. 47. San Francesco, parete destra (2007). Fig. 48. San Francesco, iscrizione. Fig. 49. Madonna col Bambino, parete destra (2007). Fig. 50. Annunciazione, navata destra, parete di fondo (2007).

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TOMMASO DE’ CAVALIERI NELLA ROMA DI CLEMENTE VII E PAOLO III

MARCELLA MARONGIU

Al di là del tentativo – peraltro poco seguito – compiuto da Alexander Perrig1, di presentare Tommaso de’ Cavalieri come uno degli artisti più grandi del Cinquecento, attraverso la creazione di un suo corpus di disegni ottenuto sottraendoli a quello del Buonarroti, generalmente l’immagine che gli storici dell’arte e della letteratura hanno del nobile romano e della sua amicizia con l’artista è quella derivata da Erwin Panofsky:

Non si può pertanto mettere in dubbio che tale disegno2 simboleggi il furor divinus, o, per esser più precisi, il furor amatorius, e

Una parte delle ricerche confluite in questo saggio è stata svolta durante la mia fellowship a Villa I Tatti – The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies (2010-2011): per questo ringrazio il Direttore Lino Pertile, lo Staff e i colleghi Fellows con cui ho condiviso quest’esperienza e dai quali ho ricevuto spunti di riflessione. Sono inoltre grata, per il generoso aiuto, a Giovanni Agosti, Elisabetta Archi, Carmen C. Bambach, Francesco Bausi, Stephanie Buck, Hugo Chapman, Antonio Corsaro, Claudia Echinger Maurach, Caroline Elam, Emanuela Ferretti, Riccardo Gennaioli, Francesco Grisolia, Paul Joannides, Elena Lombardi, Simona Mercuri, Annalisa Perissa, Pina Ragionieri, Vittoria Romani, Carl B. Strehlke. Infine, un grazie speciale a Barbara Agosti, per l’insostituibile e determinante supporto in ogni fase della ricerca. 1 PERRIG 1991, pp. 78-85.

2 Il Ratto di Ganimede, realizzato da Michelangelo per il Cavalieri nell’autunno

1532, ora ritenuto perduto e testimoniato da diverse copie, una delle quali,

M. MARONGIU

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ciò non in senso astratto e generale, ma come espressione della passione veramente platonica, totale e esclusiva che aveva colpito l’esistenza di Michelangelo all’incontro con Tommaso Cavalieri3.

L’incontro tra il maturo artista e il giovane patrizio, allora quasi ventenne4, impresse una svolta radicale alla vita di entrambi, e su questo avvenimento, e sull’invio a Tommaso di disegni e componimenti poetici, si è concentrato l’interesse degli studiosi5. E tuttavia, per restituire un ritratto più veritiero e completo del Cavalieri, e per comprendere quale fu il suo ruolo nella vita culturale romana per oltre mezzo secolo, è necessario tornare alle notizie pubblicate quando lui era ancora in vita da parte di autori che lo conobbero personalmente, fonti primarie insieme alle informazioni contenute nel carteggio michelangiolesco; ulteriori elementi scaturiscono dallo studio delle sue collezioni e della circolazione dei disegni e delle rime che Michelangelo aveva realizzato per lui.

conservata al Fogg Museum di Cambridge, Mass. (inv. 1955.75) (fig. 1), è stata autorevolmente ritenuta autografa: si veda GNANN 2010, pp. 276-280, n. 83 (con bibliografia precedente); per un approfondimento sul tema, al di là del dibattito attributivo, si veda IL MITO DI GANIMEDE 2002. 3 PANOFSKY 1939, pp. 298, 302.

4 La data di nascita di Tommaso de’ Cavalieri non è nota, anche se può

essere collocata in un arco di tempo abbastanza limitato grazie alla documentazione su alcuni avvenimenti della sua vita. Grande clamore, e confusione, ha generato la pubblicazione da parte di Gerda Panofsky-Soergel (PANOFSKY-SOERGEL 1984, pp. 399-400) di un documento, già in parte trascritto da FROMMEL 1979, p. 128, nota 258, la cui inesatta interpretazione portava la studiosa a collocare la data di nascita di Tommaso tra il 1519 e il 1520, contro il tradizionale 1511-1512 (FROMMEL 1979, p. 72): il documento, datato 1536, diceva Tommaso «maior XVI minor tamen vigintiquinque annis», che non significa affatto «not yet 25, but [still] a minor of 16» (PANOFSKY-SOERGEL 1984, p. 399). Se Tommaso de’ Cavalieri nel 1536 si trovava tra i 17 e i 24 anni, se nel 1525 lui e il fratello maggiore Emilio erano di età inferiore ai 14 anni (FROMMEL 1979, p. 128, nota 256), e se nel 1539 Tommaso doveva aver compiuto 25 anni perché ricopre una carica pubblica (Ca-porione del quartiere Sant’Eustachio: FROMMEL 1979, p. 76), si può ragionevolmente affermare che sia nato nel 1513 o 1514. 5 In particolare, si vedano PANOFSKY 1939, pp. 295-317, e FROMMEL 1979.

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Nel 1547 Giorgio Vasari aveva già presumibilmente completato la biografia di Michelangelo, nella quale scriveva:

Sonsi veduti di suo in più tempi bellissimi disegni, come già a Gherardo Perini amico suo et al presente a Messer Tommaso de’ Cavalieri romano, che ne ha degli stupendi, fra i quali è un Ratto di Ganimede, un Tizio et una Baccanaria, che col fiato non si farebbe più d’unione6.

Il testo fu pubblicato nel 1550; tre anni dopo usciva la Vita di Ascanio Condivi, il quale si presentava al lettore non «buono scrittore» ma «raccoglitor di queste cose diligente e fidele, affermando d’averle raccolte sinceramente, d’averle cavate con destrezza e con lunga pazienzia dal vivo oraculo suo, e, ultimamente, d’averle scontrate e confermate col testimonio de’ scritti e d’uomini degni di fede»7; in questa biografia non si trova notizia alcuna del dono dei disegni, mentre il riferimento al Cavalieri compare nell’elenco delle notabili amicizie dell’artista. La ragione di ciò va cercata principalmente nelle critiche moralistiche rivolte a Michelangelo, in particolare dopo la rivelazione del Giudizio universale della cappella Sistina, di cui si era fatto portavoce Pietro Aretino in una lettera al Buonarroti, scritta nel 1545 e circolata manoscritta fino alla pubblicazione nel 15508: l’Aretino, irritato dal fatto che Michelangelo

6 VASARI, ED. BAROCCHI 1962, I, pp. 121-122. Passo citato quasi alla lettera

da Varchi nell’orazione funebre di Michelangelo: «Lascierò infiniti altri modegli e disegni, che egli donò a più bellissimi giovani, suoi carissimi, e honestissimi amici, come fu Gherardo Perini, e più di tutti gl’altri M. Tommaso Cavalieri, cortesissimo, e honoratissimo gentilhuomo romano, e tra questi era una Baccanaria, un Tizio, e un Ganimede, quando fu rapito dall’aquila; a quali non manca nessuna, per esser vivi, se non il fiato solo» (VARCHI 1564, p. 17). 7 CONDIVI, ED. NENCIONI 1998, p. 6.

8 Non c’è traccia della lettera nell’Archivio Buonarroti; il testo, autografo

nell’intestazione, nella sottoscrizione e nel poscritto, è conservato all’Archivio di Stato di Firenze (Carte Strozziane, I Serie, 137, cc. 249, 254). Nella versione a stampa la lettera reca la data luglio 1547 e l’indirizzo di

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262

rimandasse all’infinito il dono di una sua opera, accusava l’artista:

perché il sodisfare al quanto vi obligaste mandarmi doveva essere procurato da voi con ogni sollecitudine, da che in cotale atto acquetavate la invidia, che vuole che non vi possin disporre se non Gherardi et Tomai9.

Il significato e la ragione del silenzio del Condivi furono recepiti dal Vasari, che nell’edizione giuntina delle Vite, pubblicata quattro anni dopo la morte dell’artista, citava il Cavalieri nel discorso sulle amicizie di Michelangelo e introduceva il motivo della funzione didattica dei disegni d’omaggio:

Con tutto ciò ha avuto caro l’amicizie di molte persone grandi e delle dotte e degli uomini ingegnosi, a’ tempi convenienti, e se l’è mantenute [...]; et infinitamente amò più di tutti Messer Tommaso de’ Cavalieri, gentiluomo romano, quale essendo giovane e molto inclinato a queste virtù, perché egli imparassi a disegnare gli fece molte carte stupendissime, disegnate di lapis nero e rosso, di teste divine10, e poi gli disegnò un Ganimede rapito in cielo da l’uccel di Giove11, un Tizio che l’avoltoio gli mangia il cuore12, la Cascata del carro del Sole con Fetonte nel Po13 et una Baccanalia di putti14,

Alessandro Corvino (ARETINO, ED. PROCACCIOLI [1997-2005], vol. IV, pp. 130-131, n. 189). 9 CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, IV, pp. 215-219, n. MXLV.

10 L’unico disegno sicuramente inseribile in questo gruppo è la Cleopatra di

Casa Buonarroti (inv. 2 F) (fig. 7): GNANN 2010, pp. 284-287, n. 86 (con bibliografia precedente). 11 Cfr. sopra, nota 2.

12 Il supplizio di Tizio, 1532, Windsor, Royal Collection, inv. RL 12771 (fig. 2):

si veda, con bibliografia precedente, GNANN 2010, pp. 273-275, n. 82. 13 Della Caduta di Fetonte si conservano tre versioni, realizzate tra il 1533 e il

1534: la prima è ora conservata a Londra, The British Museum, Department of Prints and Drawings, inv. 1895-9-15-517 (con un avviso di Michelangelo al destinatario: «[Messe]r Tomao, se questo sc[h]izzo non vi piace, ditelo a Urbino, [acci]ò che io abbi tempo d’averne facto un altro doman da·ssera, [co]me vi promessi; e se vi piace e vogliate che io lo finisca,

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che tutti sono ciascuno per se cosa rarissima e disegni non mai più visti. Ritrasse Michelagnolo Messer Tommaso in un cartone, grande di naturale, che né prima né poi di nessuno fece il ritratto, perché aborriva il fare somigliare il vivo, se non era d’infinita bellezza15. Queste carte sono state cagione che, dilettandosi

[rim]andatemelo»), la seconda a Windsor, Royal Collection, inv. RL 12766, e la terza a Venezia, Gallerie dell’Accademia, inv. 177 (con la nota, autografa di Michelangelo, «...lo ritracto el meglio ch[e] o saputo... vi rimando il vostro p[er]ch[e] ne son servo vostro che lo ritraga un altra volta...») (figg. 3-4): si vedano MICHELANGELO’S DREAM 2010, pp. 123-135, nn. 4-6 (con bibliografia precedente), e MARONGIU 2013. 14 Baccanale di putti, 1533, Windsor, Royal Collection, inv. RL 12777 (fig. 5): si

veda, con bibliografia precedente, MICHELANGELO’S DREAM 2010, pp. 138-145, n. 8. 15 FROMMEL 1979, fig. 1, proponeva di riconoscere un ritratto del Cavalieri

nella testa di Windsor, Royal Collection, inv. RL 12764 (secondo PERRIG 1991, pp. 77-79, si tratterebbe di un autoritratto del Cavalieri); tuttavia, come già proposto da POPHAM, WILDE 1949, pp. 257-258, n. 434, e ribadito da JOANNIDES 1996, pp. 37-39, n. 1, il disegno è più probabilmente uno studio per una figura femminile. JOANNIDES 2003A, p. 253, sub n. 107, ha proposto di identificare in Tommaso de’ Cavalieri il giovane ritratto sul foglio di Bayonne, Musée Bonnat, inv. 595 (fig. 9); la proposta è stata recentemente accolta da HIRST 2011, pp. 263, 375-376, nota 90. L’identificazione si basa su una postilla apposta su un esemplare dell’edizione giuntina delle Vite del Vasari conservata alla Biblioteca Corsiniana di Roma (29.E.4-6, III (6), p. 755) e resa nota già da Bottari: «stupivamo a vedere la diligenza usata da Michelangiolo nel ritratto di detto Messer Tommaso fatto di matita nera, che pare di mano d’un Angiolo, con quei begli occhi, e bocca, e naso vestito all’antica, e in mano tiene un ritratto, o medaglia, che si sia; sbarbato, e insomma da spaurire ogni gagliardo ingegno» (VASARI, ED. BOTTARI 1759-1760, III, pp. 309-310, nota 3). La descrizione concorda con la notizia fornita da Pablo de Céspedes (che conobbe Tommaso nel 1567 e rimase in contatto epistolare con lui anche dopo il ritorno in Spagna: BOUBLI 2003, p. 229) nel Discurso de la comparación de la antigua y moderna pintura y escultura: «Retrató Miguel Angel á su amigo Tomas del Caballero en un cartoncillo cerca de una vara algo ménos, de lápiz negro, con tanta vivacidad y grandeza con trage, que en aquel tiempo se usaba, y en una mano tiene una medalla. No espere nadie ver en algun tiempo mejor cosa, aunque sea de colores, ántes á mi parecer, quedan muchos pasos atrás, con una manera de dibuxar tan grande y hermoseada, que non solo es cosa meravillosa; pero hasta ahora

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Messer Tommaso quanto e’ fa, che n’ha poi avute una buona partita che già Michelagnolo fece a fra’ Bastiano Viniziano, che le messe in opera, che sono miracolose; et in vero egli le tiene meritatamente per reliquie e n’ha accomodato gentilmente gli artefici16.

Rispetto alla notizia pubblicata nel 1550, nella giuntina il Vasari forniva dunque un elenco più completo, soffermandosi sul soggetto dei disegni e sulla tecnica esecutiva. È probabile che nella prima edizione il biografo non avesse osservato le opere personalmente, almeno non tutte; invece, tale possibilità gli si presentò in seguito, grazie alla disponibilità del possessore dei disegni, di cui infatti ricorda che «n’ha accomodato gentilmente gli artefici». Che al tempo della prima redazione Vasari non avesse avuto accesso alla collezione del Cavalieri sembra confermarlo un passo della Vita di Valerio Vicentino intagliatore, nella quale sono citati i «cristalli di Giovanni da Castel Bolognese, fatti per Ipolito cardinale de’ Medici, il Tizio, il Ganimede»17; solo nella versione giuntina di questa biografia le invenzioni sono riferite a Michelangelo, anche se Vasari continua a considerare il cardinale Ippolito come committente dei disegni:

Et avendo Michelagnolo fatto un disegno [...] al detto cardinale de’ Medici d’un Tizio a cui mangia un avoltoio il cuore, Giovanni [l’] intagliò benissimo in cristallo, sì come anco fece con un disegno del medesimo Buonarroto un Fetonte, che per non sapere guidare il carro del Sole cade in Po, dove piangendo le sorelle sono convertite in alberi18.

nunca imitada, aunque de muchos tentada, ni hasta aquel dia vista» (in BOUBLI 2003, p. 236, nota 64). 16 VASARI, ED. BAROCCHI 1962, I, p. 118.

17 VASARI, ED. BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, IV, p. 620.

18 VASARI, ED. BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, IV, p. 622.

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L’elenco dei disegni fornito dal Vasari nella giuntina, al quale si dovrà aggiungere almeno il Sogno19, concorda con quanto emerge da più passi del carteggio michelangiolesco. Alla fine di dicembre 1532, nella prima delle lettere note, Michelangelo scriveva al Cavalieri:

E se pure delle cose mia, che io spero e promecto di fare, alcuna ne piacerà, la chiamerò molto più aventurata che buona; e quand’io abbi mai a esser certo di piacere, come è decto, in alcuna cossa a Vostra S(igniori)a, il tempo presente, con tucto quello che per me à a venire, donerò a quella20.

Questo riferimento generico al dono di opere trova conferma nella risposta del giovane, databile al primo gennaio 1533:

In questo mezo mi pigliarò almanco doi hore del giorno piacere in contemplare doi vostri desegni che Pier Antonio me à portati, quali quanto più li miro, tanto più mi piacciono, et appag[h]erò in gran parte il mio male pensando alla speranza che ’l detto Pier Antonio mi à data di farmi vedere altre cose delle vostre21.

19 Il Sogno, 1533-1534, Londra, The Courtauld Gallery, Samuel Courtauld

Trust D.1978.PG.424 (fig. 6): si veda MICHELANGELO’S DREAM 2010, pp. 100-109, n. 1 (con bibliografia precedente). Per la datazione, si rimanda alla nota 47. Più problematico è l’inserimento in questo gruppo dei Saettatori (Windsor, Royal Collection, inv. RL 12778: GNANN 2010, pp. 266-269, n. 80, con bibliografia precedente), ricordato insieme al Sogno nella Vita di Marcantonio Bolognese e d’altri intagliatori di stampe (cfr. oltre, nota 83), ma precedente l’incontro con il Cavalieri: oltre a ragioni stilistiche, la datazione del disegno non può prescindere dall’appunto sul verso del foglio, datato 12 aprile 1530, che ricorda una visita di Andrea Quaratesi, giovane fiorentino frequentato da Michelangelo nella seconda metà degli anni venti (si veda il ritratto a matita nera del British Museum, Department of Prints and Drawings, inv. 1895-9-15-519: CHAPMAN 2005, pp. 209-211). 20 CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, III, pp. 443-444, n.

DCCCXCVII. 21 CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, III, pp. 445-446, n.

DCCCXCVIII.

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Nel mese di settembre, mentre Michelangelo era a Firenze, Cavalieri gli scriveva:

Forse tre giorni fa io ebbi il mio Fetonte assai ben fatto, e àllo visto il Papa, il cardinal de’ Medici e ugnuno. Io non so già per qual causa sia desiderato di vedere. Il cardinal de’ Medici à voluti veder tutti li vostri disegni, e sonnogli tanto piaciuti che voleva far fare quel Titio e ’l Ganimede in cristallo; e non ò saputo far sì bel verso che non habbia fatto far quel Titio, e ora il fa maestro Giovanni. Assai ò fatto a salvare il Ganimede22.

A questa data, dunque, dovevano esistere altri disegni oltre ai tre ricordati, anche se è quasi impossibile stabilire quali fossero. Si può comunque ipotizzare che il cardinale Ippolito de’ Medici avesse visto due versioni della Caduta di Fetonte, quella di Londra e quella di Windsor23, forse il perduto ritratto e qualche Testa divina, o anche il Baccanale di putti, che Michelangelo realizzò soprattutto a Firenze24 e che il cardinale non avrebbe richiesto perché inadatto a essere replicato in un cristallo a causa della sua complessità compositiva e del gran numero di figure. Tra i primi a conoscere i disegni fu certamente Sebastiano del Piombo che il 17 luglio 1533, scrivendo a Michelangelo impegnato a Firenze nel mausoleo mediceo della Sagrestia Nuova, gli proponeva di affrescare nella cupola il Ganimede,

22 CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, IV, p. 49, n. CMXXXII.

23 Sia il cristallo inciso dal Bernardi, sia la lunga ecfrasi de La Ninfa Tiberina

del Molza, dimostrano la conoscenza di entrambe le redazioni: cfr. oltre nel testo, e note 32-33, 50. 24 Quindi tra giugno e ottobre 1533 (POPHAM, WILDE 1949, pp. 254-255, n.

431) o tra maggio e settembre 1534. All’Ashmolean Museum di Oxford (inv. P 410: JOANNIDES 2007, pp. 301-304, n. 66) si conserva un disegno di Raffaello da Montelupo che, per le significative varianti rispetto all’originale michelangiolesco di Windsor, deve essere considerato una copia da una versione precedente e non un ricalco del foglio della Royal Library, come sostenuto da Joannides; tale versione, ora perduta, fu verosimilmente a disposizione del Sinibaldi durante la collaborazione con Michelangelo nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo.

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convertito in San Giovanni evangelista25: un’idea certamente sorta dalla conoscenza diretta del disegno. Oltre che uno dei più cari amici e fidi consiglieri di Michelangelo, Sebastiano divenne, dopo la morte di Raffaello e la diaspora dei suoi allievi, il più importante artista alla corte di Clemente VII, al cui fianco restò anche nei giorni drammatici del Sacco di Roma e dell’esilio a Orvieto. Il rapporto privilegiato del pittore veneziano con il papa si estese, a partire dal 1529, a Ippolito de’ Medici, giovanissimo cardinal nepote, e agli intellettuali della sua cerchia, in particolare monsignor Giovanni Gaddi26, Francesco Berni, Gandolfo Porrino e Francesco Maria Molza27; la grande considerazione che per lui nutriva il giovane cardinale è

25 «De l[le vo]lte che se ha da l[avorar]e che è nel cielo de la lanterna,

[Nostro] Signore se referise a vui, che fate far quello volete vui. A me parebbe [che] li staese bene de Ganimede, e farli la diadema che paresse San Ioanni de l’Apochalipse quando el fu rato in cielo»: CARTEGGIO DI

MICHELANGELO 1965-1983, IV, pp. 17-19, n. CMX (18). 26 Il suo nome, infatti, compare spesso nelle lettere di Sebastiano a

Michelangelo (nell’ottobre 1531 il pittore scrive «messer Zuan Gaddi, chierico de Camera molto mio patrone, che mi ama più di quello che io merito»: CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, III, pp. 332-335, n. DCCCXXVIII); lo stesso Gaddi fa riferimento a Sebastiano in una lettera al Buonarroti (CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, III, pp. 367-368, n. DCCCXLV). Dei rapporti tra il pittore e il monsignore parla anche il Cellini nella propria autobiografia (CELLINI, ed. Ferrero 1980, pp. 174, 191). Giovanni Gaddi faceva parte di una famiglia di banchieri fiorentini con forti interessi a Roma, legati alla famiglia Medici: da Clemente VII Niccolò Gaddi ottenne la porpora (1527) e Giovanni la dignità di chierico della Camera apostolica. Nel palazzo romano di Giovanni Gaddi avevano spesso sede le riunioni dell’Accademia della Virtù (cfr. oltre nel testo); il monsignore riceveva quotidiane visite di Sebastiano del Piombo e ospitò Cellini, l’Aretino, Varchi, Jacopo Sansovino, il Tribolo e Annibal Caro, che lo servì dal 1525 fino alla morte (ARRIGHI 1998A e ARRIGHI 1998B). 27 «E perché era amicissimo di tutti gli uomini virtuosi, spesso avea seco a

cena il Molza e messer Gandolfo, facendo bonissima cera. Fu ancora suo grandissimo amico messer Francesco Berni fiorentino, che gli scrisse un capitolo, al quale rispose fra’ Sebastiano con un altro assai bello, come quelli che, essendo universale, seppe anco a far versi toscani e burlevoli accomodarsi»: VASARI (1568), ED. BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, V, pp. 100-101.

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dimostrata dalla decisione (giugno 1532) di inviare Sebastiano a Fondi per ritrarre l’amata Giulia Gonzaga28, e dalle lodi tributate al dipinto dai versi del Molza e del Porrino29. Lo stretto rapporto di Sebastiano col Cavalieri, fin dai primi momenti della sua amicizia con Michelangelo, è documentato dal carteggio del Buonarroti, che vede i due amici spesso nominati insieme dall’intermediario Bartolomeo Angelini. Nella già citata lettera del 17 luglio 1533 Sebastiano dimostra di conoscere bene il Ratto di Ganimede, mentre in quella del 6 settembre è lo stesso Cavalieri a informare Michelangelo: «L’altro giorno feci la vostra imbasciata a fra’ Sebastiano, e ve se ricomanda per mille volte». L’amicizia di Sebastiano col Cavalieri e la familiarità del pittore con la corte clementina, oltre che il nome di Michelangelo, possono essere state le ragioni per le quali «il Papa, il cardinal de’ Medici e ugnuno» avessero avuto la possibilità di ammirare i disegni d’omaggio gelosamente custoditi dal giovane Tommaso. Una conferma dell’amicizia con Sebastiano, ben oltre la stagione clementina, è offerta dalla testimonianza di Giorgio Vasari, che attesta come il primo nucleo della collezione grafica del Cavalieri fosse costituito dai disegni a lui donati da Michelangelo e da quelli che lo stesso aveva realizzato per Sebastiano del Piombo: il pittore doveva averli donati – o venduti – personalmente al Cavalieri, perché nell’inventario dei

28 VASARI, ED. BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, V, p. 97; si leggano anche

le lettere di Sebastiano a Michelangelo dell’8 giugno («Credo dimane partirmi da Roma et andar insino a Fondi a retrarre una signiora, et credo starò 15 zorni»: CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, III, p. 408, n. DCCCLXXI) e del 15 luglio 1532 («Compare mio carissimo, tornato da Fondi io ho trovato morto el povero nostro Benvenuto [della Volpaia]»: CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, III, pp. 419-420, n. DCCCLXXXI). 29 N. Macola, in VITTORIA COLONNA E MICHELANGELO 2005, pp. 109-111,

n. 30.

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suoi beni, compilato dopo la morte, non compare alcun riferimento ad essi30. Se si torna ancora una volta alla lettera scritta da Tommaso il 6 settembre 1533, vi si trova notizia dell’esecuzione, per conto di Ippolito de’ Medici, di una copia in cristallo del Tizio affidata a «maestro Giovanni»: questi era Giovanni Bernardi da Castelbolognese, uno dei più importanti incisori di pietre e medaglisti del Cinquecento, come Sebastiano del Piombo attivo nella corte di artisti e letterati di cui si circondava il cardinale Ippolito de’ Medici31. Michelangelo era informato anche del desiderio del cardinale di tradurre in cristallo il Ganimede, un foglio che Tommaso si vantava di essere riuscito a salvare; tuttavia, nonostante le sue resistenze, alla fine il Bernardi intagliò nel cristallo non solo il Tizio ma anche il Ganimede e una versione della Caduta di Fetonte che combina motivi derivati dal disegno di Londra e da quello di Windsor32. Oltre che nei tre cristalli commissionati da Ippolito, Bernardi riprese i soggetti in una serie destinata a Pier Luigi Farnese, probabilmente realizzata per una cassetta sul tipo della celebre Cassetta Farnese, decorata con scene di soggetto mitologico, sulla

30 Per la trascrizione dell’inventario, si veda HIRST 1981, pp. 154-156. WILDE

1953, pp. 30-31, nota 1, ricorda la notizia vasariana del passaggio nella collezione del Cavalieri dei disegni realizzati da Michelangelo per Sebastiano del Piombo e si chiede come gli studi per la figura di Lazzaro del British Museum siano potuti arrivare in Casa Buonarroti, da cui provengono; in realtà Vasari precisa che non tutti i disegni, ma «una buona partita», passarono nelle collezioni di Tommaso. 31 DONATI 1989, pp. 40-42; REBECCHINI 2010, pp. 235-238.

32 Il ratto di Ganimede, 1533-1535, perduto (noto soltanto attraverso placchette

bronzee): DONATI 1989, pp. 82-83; DONATI 2011, p. 24. Il supplizio di Tizio, 1533-1534, firmato «.IO.C.B.» in basso al centro, Londra, The British Museum, inv. Dalton 787: DONATI 1989, pp. 78-79; DONATI 2011, pp. 22-23. La caduta di Fetonte, 1533-1535, firmato «.IOVANES.» in basso al centro, Baltimora, The Walters Art Museum, inv. 41.69: DONATI 1989, pp. 86-87; DONATI 2011, p. 25.

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base di un programma forse dettato da Claudio Tolomei33. Rispetto alla prima serie, questi cristalli sono di dimensioni maggiori e presentano delle varianti, talvolta significative come nel caso della Caduta di Fetonte34, che non fanno escludere la possibilità che il Bernardi, anziché usare gli stessi modelli, abbia attinto nuovamente agli originali posseduti dal Cavalieri. Intorno alla corte di Ippolito gravitava anche Francesco Salviati, il quale «colorì un Fetonte con i cavalli del Sole, che aveva disegnato Michelagnolo»35, ora perduto. Paul Joannides ritiene che l’opera fosse destinata al cardinale Ippolito36, ma tale committenza non è documentata; anzi, la notizia vasariana sembrerebbe smentirla, poiché il riferimento è inserito subito dopo la descrizione della Visitazione di San Giovanni Decollato «che fu finita l’anno 1538», precisando «perché non perdeva Francesco punto di tempo, mentre lavorò quest’opera fece molte altre cose e disegni, e colorì un Fetonte…»37. Se davvero la copia della Caduta di Fetonte era stata commissionata dal giovane cardinale, il Salviati potrebbe aver utilizzato sia gli originali in possesso del Cavalieri, sia eventuali copie dei disegni commissionate da Ippolito perché venissero utilizzate dal Bernardi; se però non si tratta di una commissione del cardinale, morto nell’agosto del 1535, è altamente probabile che il pittore abbia copiato uno o più disegni autografi grazie alla disponibilità di Tommaso38. Un rapporto diretto tra i due,

33 SLOMANN 1926, pp. 10-13; KRASNOWA 1930. A questa serie dovevano

appartenere Il supplizio di Tizio, 1537-1547, firmato «.IOVANES.B.» in basso al centro, e La caduta di Fetonte, 1537-1547, firmato «.IOANEI.» in basso al centro, entrambi perduti (noti soltanto attraverso placchette bronzee): DONATI 1989, pp. 80-81, 84-85. 34 MARONGIU 2008, pp. 81, 83.

35 VASARI, ED. BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, V, pp. 517-518.

36 JOANNIDES 2003B, pp. 79, 82.

37 VASARI, ED. BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, V, p. 517.

38 Pur collegando la copia della Caduta di Fetonte a una commissione di

Ippolito de’ Medici, Joannides è convinto di un prestito diretto di disegni al Salviati da parte del Cavalieri (JOANNIDES 2003B, p. 79). Si deve notare

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oltre che da questa possibilità, è attestato dal gran numero di disegni del Salviati di proprietà del Cavalieri che risulta dall’inventario della vendita di una parte della collezione, di certo non la più importante, fatta dal Cavalieri a Giovan Giorgio Cesarini – genero del cardinale Alessandro Farnese – il 16 gennaio 1580; in questo inventario, rintracciato recentemente da Lothar Sickel39, sono presenti ben otto disegni del Salviati, oltre a due cristalli del Bernardi, uno dei quali è la Caduta di Fetonte ora a Baltimora40. L’inventario della vendita al Cesarini è un documento di straordinaria importanza non solo perché uno dei più antichi che presenti un ordinamento per artisti, ma soprattutto perché molti dei personaggi citati ebbero rapporti diretti col Cavalieri: questo fatto, evidenziato da Sickel41, è una garanzia dell’autografia delle opere, ma l’elenco appare di fondamentale importanza anche perché testimonia di rapporti non altrimenti documentati, o conferma le ipotesi formulabili attraverso lo studio sistematico delle copie e delle derivazioni dai presentation drawings. Per questa via, oltre che ipotizzare un rapporto diretto tra il Cavalieri e Francesco Salviati, si possono comprendere e contestualizzare le copie di singoli motivi inserite da Battista Franco nei suoi dipinti della seconda metà degli anni trenta: nell’inventario, infatti, compare anche un disegno del Franco, un altro artista che certamente ebbe accesso ai disegni del Cavalieri quando, all’inizio degli anni trenta, giunse a Roma nel seguito del cardinale Francesco Corner, con il quale furono in

come il Vasari, documentatissimo sulle vicende biografiche dell’amico Francesco, dica che questi aveva tratto la copia dal disegno di Michelangelo. 39 SICKEL 2006.

40 Cfr. sopra, nota 32. Il secondo cristallo è La presa di Pavia, come il Fetonte

proveniente dalla collezione Strozzi e attualmente conservato allo Walters Art Museum, recante la sigla «HIP. MED.»: un destino collezionistico che lo accomuna alla Caduta di Fetonte: SICKEL 2006, pp. 187-188; 213-214, doc. II. 41 SICKEL 2006, pp. 185-186.

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rapporto anche Francesco Berni42 e Sebastiano del Piombo43; in particolare, a Roma Battista entrò nell’orbita michelangiolesca, legandosi soprattutto a Raffaello da Montelupo, con il quale lavorò alla realizzazione degli apparati effimeri per gli ingressi trionfali di Carlo V a Roma e Firenze (1536)44. Nel dipinto commissionatogli l’anno successivo per celebrare la battaglia di Montemurlo45, combattuta dal nuovo duca di Firenze Cosimo de’ Medici contro le truppe repubblicane, il pittore inserì alcuni motivi tratti dai disegni donati da Michelangelo al Cavalieri (il Ratto di Ganimede e il Sogno)46. Battista non poté vedere le opere a Firenze – come ha sostenuto Anne Varick Lauder47 – ma a Roma, durante il suo soggiorno degli anni trenta, quando

42 Cfr. oltre nel testo e note 90, 94.

43 F. Biferali, in BIFERALI, FIRPO 2007, pp. 18-20.

44 M. Firpo, in BIFERALI, FIRPO 2007, p. 45; VARICK LAUDER 2009, pp. 19-

20. 45 Firenze, Galleria Palatina, inv. 1912, n. 144 (fig. 10): M. Marongiu, in IL

MITO DI GANIMEDE 2002, pp. 82-83, n. 22 (con bibliografia precedente). 46 MARONGIU 2004, pp. 4-9.

47 «In the painting, the figure of Ganymede was taken from Michelangelo’s

drawing, the Rape of Ganymede, which Franco would have known from cop-ies. The original was sent to Rome in 1532 or 1533»: VARICK LAUDER 2003, p. 97-98. Tuttavia, non ci sono prove che il Ratto di Ganimede sia stato eseguito a Firenze, come invece furono la Caduta di Fetonte, in parte, e il Baccanale di putti (cfr. sopra, nota 24). L’assenza di derivazioni a Firenze, la cronologia interna al gruppo e le notizie del carteggio permettono di affermare che il Ratto di Ganimede sia stato eseguito da Michelangelo a Roma negli ultimi mesi del 1532. Più difficile stabilire in quale momento e in quale città sia stato realizzato il Sogno: il disegno presenta uno stretto legame con le statue della Sagrestia Nuova, e il gruppo principale sembra avere un qualche rapporto con il medaglione quattrocentesco di palazzo Medici a Firenze, derivante dal celeberrimo intaglio antico con Diomede e il Palladio. Si conserva a Francoforte (Städel Museum, inv. 393) un foglio recentemente attribuito al Clovio, probabilmente copia di un disegno perduto di Michelangelo riferibile a un momento abbastanza precoce dell’elaborazione del gruppo principale del Sogno (M. Marongiu, in PREGIO E BELLEZZA 2010, p. 104, n. 19): questo porterebbe a considerare il disegno eseguito a Roma (novembre 1533-maggio 1534, oppure a partire da settembre 1534), forse sviluppando idee maturate a Firenze.

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«vedute le maniere di diversi, si risolvé non volere altre cose studiare né cercare d’imitare che i disegni, pitture e sculture di Michelagnolo; per che datosi a cercare, non rimase schizzo, bozza o cosa, non che altro, stata ritratta da Michelagnolo, che egli non disegnasse»48. Battista ebbe anche occasione di copiare il Baccanale di putti, una figura del quale è ripresa nella Deposizione di Cristo ora a Lucca49. Della circolazione di questi disegni nella cerchia che gravitava intorno a Ippolito de’ Medici, e poi ad Alessandro Farnese, sono testimonianza sei ottave de La Ninfa Tiberina, composta da Francesco Maria Molza nel 1537, che appaiono come una straordinaria rievocazione dei disegni di Michelangelo:

E d’ulivo una tazza, ch’ancor serba quel puro odor che già le diede il torno: nel mezzo a cui si vede in vista acerba portar smarrito un giovinetto il giorno, e sì ’l carro guidar, ch’accende l’erba, e fin al fondo i fiumi arde d’intorno: stolto, che mal seppe il vïaggio, e ’l consiglio seguir fedele e saggio. Ecco Giove, che in ciel fra mille lampi dà, folgorando, il segno, e lo percuote; ecco i destrier per gli aerosi campi fuggir turbati a parti più remote, là dove par che minor fiamma avampi; così dal carro ardente e da le ruote cadde il misero in Po nel fumo avolto, tardi pentito de l’ardir suo stolto. L’umor, che col cader ei frange e parte là ’ve più molle ha ’l re de’ fiumi il piede,

48 VASARI, ED. BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, V, p. 459.

49 Lucca, Museo Nazionale di Villa Guinigi, inv. 128. Anche in questo caso

VARICK LAUDER 2003, p. 102, pensa alla mediazione di una copia, che individua nel disegno di Raffaello da Montelupo a Oxford (Ashmolean Museum, inv. P 410: cfr. sopra, nota 24).

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rassomiglia sì ’l ver, che dirai: l’arte quivi d’assai pur la natura eccede: Con sì alto saper l’opra comparte chi che si fosse che tal pegno diede del saggio ingegno suo chiaro e gradito, e mosse a fama glorïosa ardito. Da l’altra parte v’è intagliato il pianto, che fan le sue dolenti e pie sorelle lungo il gran fiume, ove si dolser tanto, che ’l cordoglio n’andò sovra le stelle; onde, cangiato il lor corporeo manto, le vaghe membra e le chiome irte e belle, come il ciel per pietà dispose e volse, tenera fronde e duro legno avolse. Le braccia in rami andarno, in fronde il crine, e i piedi diventâr ferme radici: cotal ebbe il lor pianto acerbo fine, e le luci già sante, alme, beatrici, e le polite membra e pellegrine, ch’altri sperâr godendo esser felici, per divina sentenza, in breve forza, una amara converse e dura scorza. Indi poco lontan sovra un gran sasso, cui verde musco d’ogni intorno appanna, con gli occhi fitti giù nell’onda al basso, e in man tenendo una tremante canna, canuto vecchio, e per molt’anni lasso, con l’amo i pesci d’allettar s’affanna: vero argento pareggia, a chi ben mira, la preda ch’a lo scoglio aduna e tira50.

50 MOLZA, ED. BIANCHI 1991, 12-17. Cfr. AGOSTI 2008, p. 96; MARONGIU

2008, pp. 81-82. Il riferimento a Giove fulminante e allo sguardo di Eridano rivolto verso il basso – assenti nel cristallo del Bernardi – lasciano supporre che il Molza descrivesse i disegni di Londra e Windsor, fusi anche dal Bernardi nella sua composizione: lo sguardo del dio fluviale rivolto verso il basso è presente soltanto nel foglio della Royal Library, mentre lo

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Poco tempo dopo, sempre nell’ambito farnesiano, fu eseguita la miniatura di Giulio Clovio raffigurante il Ratto di Ganimede51, tratta direttamente dall’originale in possesso del Cavalieri, come attestano le testimonianze dei Diálogos em Roma di Francisco de Hollanda52 e delle Vite vasariane53. Il Clovio dovette avere una

svolgimento della metamorfosi delle Eliadi è presente soltanto nel foglio del British Museum. 51 Firenze, Casa Buonarroti, inv. Gallerie 1890, n. 3516 (fig. 11): M.

Marongiu, in IL MITO DI GANIMEDE 2002, pp. 84-85, n. 23 (con bibliografia precedente). 52 Nel racconto di uno degli incontri in San Silvestro al Quirinale, promossi

da Vittoria Colonna, Francisco ricorda: «Qui Don Giulio ci mostrò un Ganimede, miniato di sua mano su disegno di Michel Angelo, lavorato tanto soavemente, che era stata la prima cosa con cui egli a Roma si era guadagnata fama»: OLANDA, ED. MODRONI 2003, p. 144. Da quanto risulta dai dialoghi, sarebbe stato Francisco a introdurre il Clovio in quella cerchia: «mi avviai a Monte Cavallo. E, tuttavia, mi sembrava presto e, passando dalla casa del cardinale Grimaldi, volli ricordare a Don Giulio di Macedonia, suo gentiluomo, ed il più colto di tutti i miniaturisti di questo mondo, un’opera che faceva per me. / Giulio fu contento di vedermi, perché erano diversi giorni che non ci vedevamo; e quando ebbi visto la nostra opera (e la chiamo nostra, perché erano mio il disegno e suoi i colori) e mi volevo licenziare da lui, mi chiese dove andassi, dal momento che lo lasciavo così. / Come gli dissi che me ne andavo per conversare con maestro Michel Angelo e con la signora Vittoria Colonna, Marchesa di Pescara, e con Messer Lattanzio Tolomei, gentiluomo senese, alla chiesa di San Silvestro, Don Giulio cominciò a dire: / - “Oh, Messer Francisco, che mezzo mi consigliereste perché fossi degno della conversazione di tanto nobile corte, e perché il signor Michel Angelo mi accogliesse nel numero dei suoi servitori per vostra intercessione?”». Poco oltre Francisco dice al Clovio che Michelangelo «sarà ben contento di conoscervi» e «egli è ancora un estraneo rispetto a voi, per il fatto che voi ancora non l’avete conosciuto» (OLANDA, ED. MODRONI 2003, pp. 142-143). Se la testimonianza è attendibile, alla data del dialogo (novembre-dicembre 1538) i rapporti del Clovio con Michelangelo non erano stretti e il croato doveva aver avuto accesso al Ratto di Ganimede in virtù di suoi rapporti col Cavalieri. 53 «Ha dunque il Duca, oltre le cose dette, un quadretto di mano di don

Giulio, dentro al quale è Ganimede portato in cielo da Giove converso in aquila; il quale fu ritratto da quello che già disegnò Michelagnolo, il quale è

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frequentazione abbastanza stretta con il Cavalieri, poiché, oltre alla miniatura, si attribuiscono al croato anche le copie dagli altri disegni d’omaggio54 e di un foglio realizzato da Michelangelo per Sebastiano del Piombo, probabilmente entrato nelle collezioni del nobile romano già dalla fine degli anni trenta55. Nell’inventario della vendita al Cesarini si trovano ben nove

oggi appresso Tomaso de’ Cavalieri, come s’è detto altrove»: VASARI, ED. BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, VI, p. 218. 54 Sono attribuite al Clovio tre copie del Ratto di Ganimede (Windsor, Royal

Collection, inv. RL 13036: M. Marongiu, in IL MITO DI GANIMEDE 2002, pp. 86-87, n. 24; Parigi, Musée du Louvre, Département des arts graphiques, inv. 734: JOANNIDES 2003A, pp. 232-234, n. 86; Palermo, Galleria Regionale di Palazzo Abatellis: A. Francischiello, in GIORGIO VASARI 2011, p. 39, n. 10), una del Sogno (Chatsworth, Devonshire Collection, inv. 18: MICHELANGELO’S DREAM 2010, pp. 164-166, n. 13) e una della Cleopatra (Parigi, Musée du Louvre, Département des arts graphiques, inv. 733: JOANNIDES 2003A, pp. 258-259, n. 115). 55 Flagellazione di Cristo, 1545 circa, Windsor, Royal Collection, inv. RL 0418:

JOANNIDES 1996, pp. 120-122, n. 34; GNANN 2010, pp. 176-179, nn. 49-50: Joannides e Gnann ritengono la copia eseguita quando il disegno era ancora nelle mani di Sebastiano, dati i rapporti di amicizia tra questi e il Clovio. Tuttavia, si deve ricordare come il 23 giugno 1571 Ludovico Tedeschi, maggiordomo del cardinale Alessandro Farnese, in una lettera a Ottavio, duca di Parma, scriveva che era stato concluso un dipinto a lui destinato, basato su un disegno che Michelangelo aveva fornito a Sebastiano del Piombo, concesso in prestito da Tommaso de’ Cavalieri: potrebbe trattarsi della Flagellazione, di cui esiste una copia del Venusti alla Galleria Borghese (inv. 133: CAPELLI 2001, p. 25; CAPELLI 2003; SICKEL 2006, p. 167; GNANN 2010, pp. 176-179, nn. 49-50). La notizia potrebbe confermare la presenza del disegno originale nella collezione di Tommaso, anche se la difficoltà a datare le copie del Clovio rende insolubile il dubbio su chi abbia fornito l’originale al miniatore croato. Per quanto riguarda la Flagellazione Borghese (la cui attribuzione al Venusti non è accolta da KAMP 1993) si deve però notare che sul mercato antiquario è passato un dipinto analogo, firmato e datato da Venusti, e con esplicito riferimento a Sebastiano del Piombo («MA VENU / 1552 / AP. S. VEN»: cfr. KAMP 1993, p. 124, n. 35): è improbabile che Venusti, dopo vent’anni, abbia avuto bisogno del disegno, che invece si rendeva necessario per un altro artista; la lettera, dopo tutto, non menziona il Venusti. Secondo WALLACE 1985 il dipinto citato nella lettera sarebbe una copia del Ratto di Ganimede, mentre RUVOLDT 2011 pensa a una copia del Sogno.

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disegni del Clovio56, e altre sue opere Tommaso dovette tenere per sé, dal momento che otto pezzi tra disegni e dipinti risultano venduti dal figlio Emilio al cardinale Alessandro Montalto nel 159257. Allo stesso Francisco de Hollanda, che tra la fine degli anni trenta e inizi quaranta frequentò Michelangelo e gli intellettuali radunati da Vittoria Colonna in San Silvestro al Quirinale58, Paul Joannides ha attribuito una copia della Caduta di Fetonte di Londra59, eseguita probabilmente a ricalco dall’originale in possesso del Cavalieri. Questa copia andrà datata tra il 1539 e il

56 SICKEL 2006, pp. 213-214, doc. II.

57 «Noi Ales.ro Cardinal Montalto promettiamo pagare al S.r Emilio de’

Cavalieri durante la vitta sua scudi cinque d’oro in oro il mese così convenutosi per il prezzo delle infrascritte cose comper[ate] da lui […] Una nostra donna di Acquacella d.d. Giulio […] L’ovatino d.d. Giulio […] Una testa di Alessandro Magno di lapis nero d.d. Giulio / Cinque quaditti a uolio di d. Giulio»: KIRKENDALE 2001, p. 112. Kirkendale ritiene che «don Giulio» sia Giulio Romano, ma si noti come fin dal 1527, dopo aver preso i voti nell’ordine degli Scopetini, il croato, il cui nome originario era Giorgio, veniva chiamato «don Giulio» (SMITH 1976, p. 20); anche nell’inventario della vendita al Cesarini «don Giulio» è distinto da «Giulio Romano». La «testa di Alessandro Magno di lapis nero d.d. Giulio» potrebbe essere la ‘testa divina’ ora a Windsor (inv. RL 0453) (fig. 8), di chiara ascendenza michelangiolesca (da un disegno per il Cavalieri?), utilizzata per la Minerva del Commento alle Lettere di san Paolo ai Romani (miniato per il cardinale Marino Grimani tra il 1534 e il 1538: Londra, Soane Museum. Ms. 11, fol. 1), e ripresa in controparte nel ritratto di Alessandro Magno inserito nel Libro d’Ore Farnese (1538-1546: New York, The Pierpont Morgan Library, M 69, foll. 32v-33r) come pendant di quello di Alessandro Farnese (che compare in abito classico e non cardinalizio), come ricordava anche il Vasari (VASARI, ED. BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, VI, p. 215). Per il disegno si veda JOANNIDES 1996, pp. 46-47, n. 5; per le miniature SMITH 1976, p.n.n. (foll. 32v-33r); CIONINI VISANI, GAMULIN 1980, pp. 34, 38-42, 53-58. La testa è stata riutilizzata dal Clovio anche nella miniatura sciolta Sacra famiglia con soldato del Museo Marmottan di Parigi (inv. M 6119: LEZIONARIO FARNESE 2008, p. 28, p. 57 nota 65). 58 Si leggano i suoi resoconti nei Dialoghi romani (OLANDA, ED. MODRONI

2003, pp. 101-165); sulla sua collezione di disegni: DESWARTE-ROSA 2006. 59 Parigi, Musée du Louvre, Département des arts graphiques, inv. 829:

JOANNIDES 2003A, pp. 259-260, n. 116.

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1541, successivamente agli incontri descritti nei Diálogos em Roma, poiché in essi non è presente alcun riferimento al Cavalieri, neppure a proposito del Ratto di Ganimede del quale il Clovio stava eseguendo la copia60. Si dovrà quindi presumere che Francisco de Hollanda abbia conosciuto solo in un secondo tempo il Cavalieri, forse con il tramite di Michelangelo, o forse in incontri successivi nel cenacolo di San Silvestro, poiché si data a quegli stessi anni (1538-1541) una lettera di Michelangelo che documenta il ruolo di Tommaso come latore di un disegno d’omaggio a Vittoria Colonna61. Una copia del Sogno, ora agli Uffizi, è stata attribuita a Marcello Venusti, con una datazione intorno al 154062. Se la gamma

60 Cfr. sopra nel testo, e nota 52.

61 «Signiora marchesa, e’ non par, sendo io in Roma, che gli achadessi

lasciare il Crocifisso a messer Tomao e farlo mezzano fra Vostra Signioria e me, suo servo, acciò che io la serva, e massimo avend’io desiderato di far più per quella che per uomo che io conosciessi mai al mondo; ma l’ochupatione grande in che io sono stato e sono non à lasciato conoscier questo a Vostra Signioria»: CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, IV, pp. 102-103, n. CMLXVII. Il disegno in questione è ora conservato al British Museum, inv. 1895-9-15-504 (V. Romani, in VITTORIA COLONNA E MICHELANGELO 2005, pp. 165-167, n. 49, con bibliografia precedente). Da questa invenzione, integrata con le figure dei dolenti, sempre su disegno di Michelangelo ma databili verso la metà degli anni cinquanta (Musée du Louvre, inv. 720 e 698: JOANNIDES 2003A, pp. 174-178, nn. 39-40; V. Romani, in VITTORIA COLONNA E

MICHELANGELO 2005, pp. 168-169, n. 50-51; A. Rovetta, in L’ULTIMO

MICHELANGELO 2011, pp. 154-159, nn. 3.1-3.2), il Venusti trasse per il Cavalieri il dipinto devozionale ora a Oxford, Campion Hall (cfr. oltre, nota 76), così come quello, databile verso il 1554-1555, realizzato per l’Urbino (Francesco Amadori), fedele servo di Michelangelo (vedi anche JOANNIDES 2011, pp. 26, 28, 33). Il Buonarroti si servì spesso dell’Urbino per recapitare lettere, disegni e rime (cfr. CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, IV, p. 12, n. CMVI; p. 100, n. CMLXV; p. 176, n. MXVII). 62 Galleria degli Uffizi, inv. Gallerie 1890, n. 9434. Il dipinto, riferito a

Venusti da S. Meloni, in DIPINTI SALVATI 1966, p. 13, n. 17, e in UFFIZI 1979, p. 584, n. P1866, e confermato da RUVOLDT 2003, p. 97, BUCK 2010, pp. 59-61, PARRILLA 2011, non è tuttavia compreso nel catalogo di KAMP 1993 né considerato in RUSSO 1990 e CAPELLI 2001. PARRILLA 2011, p. 94,

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cromatica e il trattamento delle superfici e dei volumi inducono a dubitare di questa proposta attributiva, ciò che è certo è che il dipinto fu tratto dal disegno originale e non dalle incisioni, e la sua provenienza romana non è inficiata dalla presenza di una figura femminile sulla sinistra, simile all’Aurora della Sagrestia Nuova, che è evidente frutto di un successivo intervento moralistico, che ha cancellato la figura dell’amante e modificato la parte superiore del corpo della donna63. Noto fin dai suoi primi anni romani come abile copista del Giudizio universale, attività per la quale si guadagnò nel 1542 la stima di Michelangelo64, Venusti divenne solo in seguito il traduttore in pittura delle sue invenzioni, quando, nella vecchiaia, il Buonarroti abbandonò l’attività pittorica limitandosi a eseguire dei cartoni da far colorire a Marcello. Questi, prima ancora della copia dell’affresco sistino, commissionatagli nel 1549 da Alessandro Farnese65, acquisì fama grazie all’Annunciazione dipinta per l’altare della cappella Cesi in Santa Maria della Pace, eseguita su modello di Michelangelo66: come riporta Giorgio Vasari67, fu Tommaso de’

sposta la datazione al 1560 circa e dice la copia eseguita grazie all’originale michelangiolesco messo dal Cavalieri a disposizione del Venusti (p. 98). 63 L’inserimento della figura ispirata all’Aurora è attribuito all’autore del

dipinto e considerato un esempio dell’autocitazionismo di Michelangelo – adottato anche dal seguace e amico Venusti – da RUVOLDT 2003, p. 97. 64 KAMP 1993, pp. 132-133, doc. 2.

65 Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte, inv. Q. 139: U. Bile, in

PALAZZO FARNÈSE 2010, pp. 438-439, n. 211 (con bibliografia precedente). Nello stesso anno Venusti riceve un pagamento per pitture nel soffitto della cappella Paolina (RUSSO 1990, p. 23). 66 La pala d’altare risulta dispersa; una replica è ora custodita a Roma, presso

la Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Corsini (inv. 255) (fig. 12). Il disegno di Michelangelo è conservato a New York, The Pierpont Morgan Library (inv. IV, 7): M. Marongiu, in AGOSTI 2007, pp. 358-363, n. 23. 67 «Ha fatto poi fare Messer Tommaso a Michelagnolo molti disegni per

amici, come per il Cardinale di Cesis la tavola dove è Nostra Donna annunziata dall’angelo, cosa nuova, che fu poi da Marcello Mantovano colorita e posta nella cappella di marmo che ha fatto fare quel cardinale nella chiesa della Pace di Roma»: VASARI, ED. BAROCCHI 1962, I, p. 119.

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Cavalieri, alla fine degli anni quaranta, a richiedere al Buonarroti il cartone per la pala d’altare della cappella del cardinale Federico Cesi68, da affidare al Venusti, e a commissionare allo stesso pittore anche la pala destinata all’altare del Collegio dei Benefattori e Chierici in San Giovanni in Laterano a Roma, tratta dall’invenzione scartata dal Cesi69. Ben più che per tutti gli artisti finora ricordati, i rapporti tra Venusti e Cavalieri furono tanto stretti quanto documentati70;

68 Che i rapporti tra il cardinale e Michelangelo non fossero molto stretti lo

suggerisce una lettera di Michelangelo a Luigi del Riccio della fine del 1543: «Messer Luigi amico caro, perché io so che voi siate maestro di cerimonie tanto quant’io ne sono alieno, avend’io ricevuto da monsignor di Todi il presente che vi dirà Urbino, vi prego, faccendovene parte e credendo che siate amico di Sua S(ignior)ia, quando vi vien bene in nome mio la rengratiate con quella cerimonia che c’è facile e dura [a me]»: CARTEGGIO DI

MICHELANGELO 1965-1983, IV, p. 176, n. MXVII. WALLACE 2003, pp. 139-145, parla invece di una lunga consuetudine e di uno scambio di favori piuttosto che di una vera e propria commissione. 69 «Ha fatto poi fare Messer Tommaso a Michelagnolo [...] un’altra Nunziata,

colorita pur di mano di Marcello, in una tavola nella chiesa di San I<o>anni Laterano, che ’l disegno l’ha il Duca Cosimo de’ Medici, il quale dopo la morte donò Lionardo Buonarruoti suo nipote a Sua E(ccellenza)»: VASARI, ed. Barocchi 1962, I, p. 119. Il secondo cartone eseguito da Michelangelo, con un impianto compositivo differrente ma con evidenti parallelismi che dimostrano un’elaborazione contemporanea a quello di New York, è attualmente conservato a Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, inv. 229 F; il dipinto si trova ancora in San Giovanni in Laterano, trasferito nella Sagrestia Vecchia (fig. 13): HIRST 1988, pp. 133-137, nn. 54-55; M. Marongiu, in AGOSTI 2007, pp. 358-363, n. 23. Si consideri però la proposta di JOANNIDES 2011, pp. 31-32, secondo il quale i due disegni non sarebbero coevi, ma realizzati ad oltre un decennio di distanza: il cartonetto degli Uffizi entro la metà degli anni quaranta, lo studio di New York intorno al 1555; vicino a questa data lo studioso colloca anche la commissione della pala Cesi, per la quale Michelangelo avrebbe recuperato un’invenzione precedente. 70 «Per lo che gli ha finalmente il gentilissimo messer Tommaso de’ Cavalieri,

che sempre l’ha favorito, fatto dipignere con disegni di Michelagnolo una tavola, per la chiesa di San Giovanni Laterano, d’una Vergine annunziata, bellissima»: VASARI, ED. BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, VI, pp. 221-222.

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anzi, in base alle informazioni ricavabili dalle fonti, si può affermare che precedettero l’amicizia tra Venusti e Michelangelo. La familiarità tra Venusti e Cavalieri si protrarrà oltre la morte del Buonarroti – Tommaso lo chiamerà a dipingere nel palazzo dei Conservatori71, e presterà forse un disegno di Michelangelo della propria collezione per un dipinto richiesto a Marcello dal cardinale Alessandro Farnese72 – e fino alla morte del Venusti, nel cui testamento sono nominati come esecutori testamentari Giacomo della Porta insieme a Mario de’ Cavalieri e Valerio della Valle, rispettivamente figlio e cognato di Tommaso73. La collezione di Tommaso comprendeva alcune opere del Venusti: quattro suoi disegni furono venduti al Cesarini nel 158074, mentre un dipinto con l’Orazione nell’orto, su disegno di Michelangelo, fu venduto dal figlio Emilio al

Sia Cavalieri, sia Venusti erano membri della Compagnia del Crocifisso di San Marcello, con il cui abito furono sepolti (per il testamento del Cavalieri, dettato il 27 febbraio 1580, si veda DOKUMENTE UND FORSCHUNGEN 1906, pp. 446-447, n. III.6; per quello del Venusti, del 14 ottobre 1579, KAMP 1993, pp. 143-149, doc. 25); Cavalieri è documentato tra i membri della Compagnia fin dal 1555; nel 1557 ne fu eletto priore e fece parte della commissione incaricata di scegliere il sito per la costruzione dell’Oratorio, affidata a Giacomo della Porta; nel 1562 fu nominato guardiano; nel 1573 partecipò alla commissione per l’affidamento della realizzazione del soffitto ligneo (affidato al Boulanger) e nel 1578 in quella per l’incarico della decorazione delle pareti (affidata a Giovanni de’ Vecchi). Della Compagnia fecero parte anche i figli di Tommaso, Mario (documentato dal 1568) ed Emilio (documentato dal 1572) (HENNEBERG 1970, pp. 159-160, 164, 167-168; KIRKENDALE 2001, pp. 50, 63-64). 71 Un pittore «Marcello», con tutta evidenza il Venusti, riceve dei pagamenti

tra l’ottobre del 1577 e l’aprile successivo, per aver dipinto la nicchia d’altare della cappella del Palazzo dei Conservatori (RUSSO 1990, p. 25; KAMP 1993, pp. 142-143, doc. 23; BEDON 2008, pp. 387-388): si tratta della Madonna col Bambino in gloria fra i santi Pietro e Paolo, tuttora in situ (inv. 103): RUSSO 1990, p. 15; KAMP 1993, p. 112, n. 15; CAPELLI 2001, p. 31, fig. 24. 72 Si tratterebbe della già ricordata Flagellazione di Cristo della Galleria

Borghese: cfr. sopra, nota 55. 73 KAMP 1993, pp. 143-149, docc. 25-26.

74 SICKEL 2006, pp. 213-214, doc. II.

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cardinale Alessandro Montalto nel 159275; infine, sue opere sembrerebbero ancora presenti nel palazzo Cavalieri secondo l’inventario del 175576. Una copia del Ratto di Ganimede, eseguita da Daniele da Volterra presumibilmente verso la metà degli anni quaranta e ora perduta, è registrata nell’inventario delle opere possedute da Fulvio Orsini77. Daniele, giunto a Roma intorno al 1537 e in un primo tempo attivo nell’orbita di Perin del Vaga, nella seconda metà degli anni quaranta impresse al suo stile una decisa svolta in chiave michelangiolesca, che – a queste date in cui acceso era il dibattito sulla moralità del Giudizio universale – significava anche una precisa scelta ideologica, apertamente dichiarata nelle scene allegoriche inserite all’ingresso della cappella Orsini a Trinità dei Monti (1545-1547)78.

75 KIRKENDALE 2001, p. 112; cfr. sopra, nota 57.

76 KIRKENDALE 2001, pp. 116-117. Nell’inventario citato da Kirkendale

l’opera di maggior valore è «un quadretto rappresentante il SS.o Crocifisso spirante con la Madonna e S. Giovanni, opera di Michel Angelo Buonarota», inserito in una «custodia […] di pietre dure»: a questa notizia andrà ricollegato il dipinto ora a Oxford (Campion Hall) (fig. 14), ancora inserito in un tabernacolo in legno e marmo colorato, che rimase di proprietà della famiglia Cavalieri fino al 1797, fatto finora sfuggito agli studiosi del Venusti. Sul dipinto si veda A. Rovetta, in L’ULTIMO MICHELANGELO 2011, pp. 160-161, n. 3.3 (con bibliografia precedente, ma senza riferimenti all’inventario settecentesco). 77 «97. Disegno senza cornice, col ratto di Ganimede rapito in l°, di mano di

Da-nielle, copiato da Michelangelo» (HOCHMANN 1993, p. 88). DUSSLER 1959, p. 314, n. 722, aveva riferito a Daniele la copia del Ratto di Ganimede a Windsor (Royal Collection, inv. RL 13036; per JOANNIDES 1996, pp. 72-74, n. 15, opera di Giulio Clovio) e quella degli Uffizi (inv. 245 F): cfr. M. Marongiu, in IL MITO DI GANIMEDE 2002, pp. 86-89, nn. 24-25. Per l’influenza dei disegni d’omaggio di Michelangelo sulla grafica di Daniele alla metà degli anni quaranta, si veda V. Romani, in DANIELE DA VOLTERRA 2003, p. 32, pp. 90-91, n. 17. 78 Distrutte alla fine del Settecento, sono note attraverso le copie fatte

eseguire da Alonso Chacón negli anni ottanta-novanta del Cinquecento (taccuino conservato a Roma, Biblioteca Angelica, ms. 1564: cfr. foll. 285v-286r, 287v): si veda B. Agosti, in DANIELE DA VOLTERRA 2003, pp. 84-87, n. 15. È interessante notare che Daniele dichiara come suo modello non solo

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Daniele non fu soltanto un fedele traduttore delle invenzioni di Michelangelo e il più profondo interprete del suo stile, ma anche uno dei sui amici più cari: lui e Tommaso de’ Cavalieri erano presenti al capezzale dell’artista morente79 e alla stesura dell’inventario dei suoi beni80. Questi fatti sono anche conferma della grande amicizia che legò Tommaso e Daniele81, ed è significativo che, alla morte del Ricciarelli, il Cavalieri protesse i suoi allievi offrendo loro prestigiosi incarichi nel grande cantiere capitolino82.

Michelangelo ma anche Sebastiano del Piombo: il ritratto congiunto dei due artisti, Michelangelo e Sebastiano, è una testimonianza dell’avvenuta riconciliazione dopo i dissapori sorti su questioni tecniche relative al Giudizio universale (cfr. oltre, nota 90), confermando la notizia vasariana «Michelagnolo mise mano all’opera, non si scordando però l’ingiuria che gli pareva avere ricevuta da fra’ Sebastiano, col quale tenne odio fin quasi alla morte di lui» (VASARI, ED. BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, V, p. 102; il corsivo è mio); i rapporti tra i due dovevano essere ancora tesi nel 1538, poiché Francisco de Hollanda, riportando un discorso di Michelangelo, lo definiva «pigro pittore [che] non aveva dipinto a Roma più di due sole cose» (OLANDA, ED. MODRONI 2003, p. 132). 79 Quattro giorni prima della morte dell’artista, Diomede Leoni scriveva a

Leonardo Buonarroti, nipote di Michelangelo: «potete esser certo che m. Tomaso del Cavaliere, m. Daniello et io non siamo per mancare in assentia vostra di ogni offitio possibile per honore et utile vostro»: CARTEGGIO

INDIRETTO 1988-1995, II, pp. 172-173, n. 358. 80 Cfr. lettera di Averardo Serristori a Cosimo I de’ Medici del 29 febbraio

1564, in GAYE 1839-1840, III, pp. 127-128, n. CXXII. 81 Nella vendita di disegni a Giovan Giorgio Cesarini sono presenti tre

disegni di Daniele: SICKEL 2006, pp. 213-214, doc. II. 82 Michele Alberti e Jacopo Rocchetti realizzarono su commissione dei

deputati alle fabbriche capitoline, Tommaso de’ Cavalieri e Prospero Boccapaduli, il fregio della Sala dei Trionfi nel Palazzo dei Conservatori: i pagamenti per gli affreschi sono registrati nel 1571, mentre quelli per altri lavori di stucco e doratura nel 1577 (BEDON 2008, p. 387); e tuttavia, la decorazione pittorica della Sala doveva essere già conclusa nel 1565, poiché è descritta dal Gamucci (GAMUCCI 1565, p. 18) (devo questa informazione a Barbara Agosti). Dal 1575 al 1577 i due pittori sono pagati anche per i lavori alla cappella (PECCHIAI 1950, pp. 149, 175-176; BEDON 2008, pp. 357, 386, 387).

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Nel corso del quinto decennio del Cinquecento dai disegni di Michelangelo furono tratte delle stampe, che ebbero una straordinaria e immediata diffusione inserendosi in un mercato in forte crescita. Queste contribuirono alla fortuna dell’editore Lafrery, come ricordava il Vasari:

Sono poi da altri state intagliate molte cose cavate da Michelagnolo a requisizzione d’Antonio Lanferri, che ha tenuto stampatori per simile essercizio, i quali hanno mandato fuori libri con pesci d’ogni sorte; et appresso il Faetonte, il Tizio, il Ganimede, i Saettatori, la Baccanaria, il Sogno83.

È probabile che, anche in questo caso, gli originali siano stati forniti dal Cavalieri, non solo grande collezionista ed estimatore delle stampe84, ma anche personalità di rilievo nella diffusione di

83 VASARI, ED. BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, V, pp. 19-20.

Tra le più antiche incisioni tratte dai disegni d’omaggio del Cavalieri, si devono ricordare il bulino generalmente attribuito a Nicolas Béatrizet raffigurante Il ratto di Ganimede (1542), pubblicato da Lafrery (Passavant VI.119.111: BIANCHI 2003, pp. 6-7, n. 35; BARNES 2010, pp. 57-63, p. 196, n. 81); il bulino tradizionalmente attribuito a Nicolas Béatrizet con Il supplizio di Tizio (1542 circa), pubblicato da Salamanca (Bartsch XV.259.39: BIANCHI 2003, pp. 5-6, n. 33; BARNES 2010, pp. 57-63, p. 196, n. 84) – ma una copia fu pubblicata da Lafrery (BARNES 2010, p. 196, n. 84a) – ; il bulino di Nicolas Béatrizet tratto dalla Caduta di Fetonte ora a Windsor (1545-1550), forse pubblicato da Lafrery (Bartsch XV.258.38: BIANCHI 2003, p. 5, n. 32; BARNES 2010, pp. 57-63, p. 196, n. 85); il bulino di Enea Vico dal Baccanale di putti (1546, ma verosimilmente derivante da un disegno eseguito negli anni 1540-1542) (Bartsch XVI.305.48: BARNES 2010, pp. 64-65, p. 196, n. 86) e quello di Nicolas Béatrizet (1546 circa) dallo stesso disegno (Bartsch XV.260.40: BIANCHI 2003, p. 6, n. 34; BARNES 2010, pp. 64-65, p. 196, n. 87), la cui copia fu pubblicata (1553) da Lafrery (BIANCHI 2003, p. 6, n. 34A; BARNES 2010, p. 197, n. 87a); il bulino attribuito a Nicolas Béatrizet tratto dal Sogno (ante 1545), pubblicato da Salamanca (Passavant VI.119.112: BIANCHI 2003, p. 7, n. 36; M. Bury, in MICHELANGELO’S DREAM 2010, pp. 167-170, sub n. 14; BARNES 2010, pp. 66-68, p. 197, n. 88). 84 Sono presenti ben 1248 stampe nella vendita al Cesarini: SICKEL 2006, pp.

213-214, doc. II.

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questo mezzo, essendo stato Curatore e Soprintendente della Stamperia Apostolica, la prima tipografia pubblica di Roma85. È di straordinaria importanza il fatto che l’incisione con La battaglia di Zama realizzata da Cornelis Cort e pubblicata dal Lafrery (1567), sia stata tratta da un disegno, allora attribuito a Raffaello, di proprietà di Tommaso de’ Cavalieri, come dichiara espressamente l’iscrizione: «EX ARCHETYPO RAPHAELIS URBINATIS / QUOD EST APUD THOMAM CAVALERIUM PATRICIUM ROMANUM / EXCUDEBAT IN ROMAE

ANTONIUS LAFRERIUS SEOVANI»86. Quest’episodio costituisce un importante tassello per la definizione della personalità del Cavalieri e della sua rete di rapporti, ma soprattutto è la dimostrazione evidente della sua fama di collezionista ed esperto d’arte tra i contemporanei, per i quali l’appartenenza di un disegno alla sua collezione doveva essere una garanzia di autografia e qualità. La produzione e diffusione delle stampe dai disegni d’omaggio costituisce un terminus post quem per poter verificare la circolazione degli originali e la loro conoscenza diretta da parte dei copisti. Un’altra possibilità per indagare sulle frequentazioni del Cavalieri è offerta dallo studio della circolazione delle rime composte per lui da Michelangelo. Nella corrispondenza tra i due, o del Buonarroti con l’intermediario Bartolomeo Angelini, numerose sono le testimonianze dell’invio di componimenti poetici. Come nel caso dei disegni, anche le rime non erano fruite esclusivamente dal destinatario, ma note ad altre persone dell’élite intellettuale di

85 FROMMEL 1979, p. 78.

86 (fig. 15) SELLINK 2000, III, pp. 92-94, nn. 195-196; SICKEL 2006, p. 175.

Cornelis Cort, giunto a Roma alla fine degli anni sessanta e da subito attivo nell’orbita del Lafrery, fu strettamente legato al Clovio, di cui tradusse le invenzioni degli anni tardi. Cort incise anche invenzioni di altri artisti legati al Cavalieri: Francesco Salviati, Marcello Venusti, Bernardino Passeri (uno dei testimoni della vendita di disegni e stampe a Giovan Giorgio Cesarini: SICKEL 2006, p. 213, doc. I), Girolamo Muziano: cfr. SELLINK 2000, ad indicem.

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cui questi faceva parte87. Spesso l’Angelini copiava i componimenti di Michelangelo prima di consegnarli al Cavalieri, con l’approvazione dell’artista che ne era puntualmente informato, come emerge chiaramente dal carteggio:

Honrando e carissimo Michelagniolo, io ò ricevuto la vostra a me carissima insieme chol vostro gemtile e bel sonetto, del quale, riserbatomene copia, ò dato al vostro messer Thomao, qual à ’uto molto charo88,

oppure

Honrando e carissimo Michelagniolo, io mi trovo la vostra de’ dì XI d’ottobre, insieme cholla di messer Thomao e li bellissimi sonetti, delli quali n’ò servato chopia e dipoi datoli a chi amdavano, per saper quanta afezione e’ porti a tutte le chose vostre89.

Le due lettere si datano entrambe all’autunno 1533; solo qualche mese più tardi, una testimonianza della circolazione delle rime è offerta da Francesco Berni, nel celebre capitolo A fra Bastian del Piombo in lode di Michelangelo come artista e poeta90. Il capitolo costituisce la visione nostalgica del poeta

87 Cfr. REBECCHINI 2010, p. 205, per la diffusione orale della poesia, con o

senza accompagnamento musicale, all’interno dei cenacoli della Roma post Sacco. 88 CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, IV, pp. 50-51, n. CMXXXIII.

89 CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, IV, p. 56, n. CMXXXVII.

90 La data estrema per la composizione del capitolo è quella di morte di

Clemente VII, il 25 settembre 1534: sia Berni sia Michelangelo ne parlano come di persona viva. Il riferimento a Sebastiano e all’ambiente romano lascerebbe pensare che Michelangelo si trovasse in quel momento a Roma e Berni a Firenze, quindi la cronologia può essere ristretta alla primavera del 1534, oppure al settembre 1534, subito dopo la partenza di Michelangelo da Firenze e a ridosso della morte di Clemente VII. Berni aveva soggiornato a Roma, inserito nell’entourage di Ippolito de’ Medici, dai primi di aprile al 9

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burlesco, che da Firenze, rivolgendosi a Sebastiano, ricorda gli amici che con lui animavano la corte di Clemente VII e del cardinale Ippolito, in particolare monsignor Carnesecchi e Francesco Maria Molza; questi rapporti d’amicizia sono descritti anche in un passo della biografia vasariana di Sebastiano: «E di continuo aveva a cena il Molza e messer Gandolfo, e facevano bonissima cera. Era amico di tutti li poeti, e particularmente di messer Francesco Bernia, il quale gli scrisse un bellissimo capitolo, et esso gli fece la risposta»91. Dopo aver lodato il Buonarroti come essenza stessa della pittura, della scultura e dell’architettura, Berni ricorda la sua attività come poeta:

Ho visto qualche sua composizione: sono ignorante, e pur direi d’avelle lette tutte nel mezzo di Platone. Sì ch’egli è nuovo Apollo e nuovo Apelle: tacete unquanco, pallide vïole, e liquidi cristalli e fere snelle: ei dice cose, e vuoi dite parole92.

settembre del 1533, quando il cardinale partì per Marsiglia mentre Berni si fermò a Firenze (REBECCHINI 2010, p. 202). Il capitolo bernesco è anche la testimonianza più estrema della profonda amicizia che legava Michelangelo e Sebastiano del Piombo (così Berni si rivolge al Luciani: «Voi solo appresso a lui potete stare / e non senza ragion, sì ben v’appaia / amicizia perfetta e singulare»: vv. 37-39), bruscamente rotta durante la preparazione della parete della cappella Sistina destinata al Giudizio universale (cfr. sopra, nota 78). 91 VASARI (1550), ed. Bettarini, Barocchi 1966-1987, V, p. 100. Per la natura

di questi incontri conviviali, si consideri anche la notizia autobiografica del Vasari: «In questo tempo andando io spesso la sera, finita la giornata, a veder cenare il detto illustrissimo cardinal Farnese, dove erano sempre a trattenerlo con bellissimi et onorati ragionamenti il Molza, Anibal Caro, messer Gandolfo, messer Claudio Tolomei, messer Romolo Amasseo, monsignor Giovio, et altri molti letterati e galantuomini, de’ quali è sempre piena la corte di quel signore»: (VASARI, ED. BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, VI, p. 389). 92 BERNI, ED. ROMEI 1985, vv. 25-31.

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Questi versi, oltre a offrire un’acutissima sintesi critica della produzione poetica di Michelangelo e della sua originalità rispetto al petrarchismo cinquecentesco93, sono una prova della conoscenza di un momento particolare dell’attività poetica di Michelangelo: sebbene Berni non dichiari espressamente quale «sua composizione» egli abbia «visto», la lettura del canzoniere michelangiolesco dimostra come i motivi di ispirazione neoplatonica, presenti sporadicamente nelle rime giovanili, diventino una costante nei componimenti dedicati al Cavalieri94. Un esempio tra i tanti è il sonetto n. 105 dell’edizione Girardi, che Varchi cita per esteso95 attestandone la correlazione con il giovane:

Non vider gli occhi miei cosa mortale allor che ne’ bei vostri intera pace trovai, ma dentro, ov’ogni mal dispiace, chi d’amor l’alma a sé simil m’assale;

93 CORSARO 1994, pp. 99-101.

94 Anche secondo FROMMEL 1979, p. 56, i vv. 25-27 del capitolo si

riferiscono ai componimenti per il Cavalieri. L’incontro tra Tommaso de’ Cavalieri e Francesco Berni si deve datare alla primavera-estate 1533, quando il poeta si trovava a Roma. È probabile che sia stato Tommaso, e non Michelangelo, a mostrargli i testi: non sempre, infatti, il Buonarroti teneva copia dei componimenti inviati all’amico, come risulta dalla Lezzione del Varchi (che spesso trasmette testi o versioni non tramandati in forma manoscritta) o da alcuni passi del carteggio (cfr. oltre nel testo). 95 Si noti come Varchi, introducendo questo sonetto, e attestando che si

trattava di un componimento ispirato dal Cavalieri, facesse esplicito riferimento al capitolo del Berni: «Et che il Poeta nostro intendesse di questa arte, & di questo Amore lo mostrano manifestissimamente (oltra l’età, & costumi suoi honestissimi) tutti i componimenti di lui pieni d’Amore Socratico, & di concetti Platonici, de i quali essendo homai l’hora tarda, & restandoci, che dire pure assai intorno la maggioranza dell’arti, uoglio, che mi baste allegare vn sonetto solo, il quale però puo valere per molti, & mostrerrà (come disse quello ingegnosissimo Poeta di ciance, et da trastullo) che egli è nuovo Apollo, & nuouo Apelle, & non dice parole, ma cose, tratte non solo del mezzo di Platone, ma d’Aristotile. / Non vider gl’occhi miei cosa mortale» (VARCHI 1549, pp. 51-52).

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e se creata a Dio non fusse equale, altro che ’l bel di fuor, ch’agli occhi piace, più non vorria; ma perch’è sì fallace, trascende nella forma universale. Io dico c’a chi vive quel che muore quetar non può disir; né par s’aspetti l’eterno al tempo, ove altri cangia il pelo. Voglia sfrenata el senso è, non amore, che l’alma uccide; e ’l nostro fa perfetti gli amici qui, ma più per morte in cielo.

Un caso particolare di circolazione di queste rime è costituito dai madrigali composti da Michelangelo, che sembrerebbero nati già con finalità di pubblica diffusione, come dimostrano alcuni passi significativi del carteggio. Alla fine di luglio del 1533, scrivevano sia Sebastiano del Piombo:

Vi mando el canto de’ vostri madrigali, quali non ve despiaceranno: l’uno è de messer Costanzo Festa, l’altro è de Concilion96; et ne ho datto ancora doi copie a messer Thomao97,

sia Bartolomeo Angelini:

In questa sarà una di fra’ Bastiano, insieme chonn li dua camti delli vostri madrichali98.

Ai primi di agosto Michelangelo da Firenze rispondeva a Sebastiano:

96 Jean Conseil, noto come Johannes Consilium, fu tra i cantori della cappella

Sistina il preferito di Leone X; ebbe una posizione di rilievo durante il pontificato di Clemente VII, che si servì di lui anche per missioni diplomatiche e lo scelse come cantore della cappella Secreta: FREY 1952, pp. 160-165. 97 CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, IV, pp. 22-23, n. CMXIII.

98 CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, IV, p. 25, n. CMXV.

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I’ò ricievuto i dua madrigali e ser Giovan Francesco99 gli à facti cantare più volte; e secondo che mi dice son tenuti cosa mirabile circa il canto. Non meritavan già tal cosa le parole. Così avete voluto, di che n’ho piacere grandissimo; [...] Avete data la copia de’ sopradecti madrigali a messer Tomao, che ve ne resto molto obrigato100.

Gli autori delle musiche erano figure di spicco della corte clementina: oltre a essere uno dei più celebri cantori della cappella Sistina fin dai tempi di Leone X, Jean Conseil godette

99 Si tratta di Giovan Francesco Fattucci, cappellano di Santa Maria del

Fiore, che fu tra gli amici più stretti di Michelangelo e, fin dall’inizio degli anni venti, gli fu costantemente accanto aiutandolo nel disbrigo dei problemi pratici, dalla conduzione del cantiere laurenziano (di cui si occupò direttamente durante il pontificato di Clemente VII) ai difficili rapporti con gli eredi di Giulio II, fino a diventare ufficialmente procuratore di Michelangelo nell’estate 1525 (varie sono le testimonianze in CARTEGGIO DI

MICHELANGELO 1965-1983, II, III e IV). I rapporti tra i due prevedevano anche favori di minor rilievo, come seguire i lavori del sarto, o i raccolti dei poderi, o l’invio di abiti, ma anche occuparsi della madre dell’amico durante le reciproche assenze da Firenze (vari esempi in CARTEGGIO DI

MICHELANGELO 1965-1983, III e IV). Oltre che con Michelangelo, il Fattucci era in stretti rapporti anche con Gherardo Perini (CARTEGGIO DI

MICHELANGELO 1965-1983, II, p. 342, n. DL; p. 353, n. DLX) e Andrea Quaratesi (CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, III, pp. 441-442, n. DCCCXCVI), giovani amici di Michelangelo per i quali, tra gli anni venti e trenta, l’artista realizzò disegni d’omaggio: le tre teste divine per Gherardo Perini, oggi al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (inv. 601 E, 598 E, 599 E: TOLNAY 1975-1980, II, pp. 89-91, nn. 306-308); I saettatori (Windsor, Royal Collection, inv. RL 12778: GNANN 2010, pp. 266-269, n. 80, con bibliografia precedente) e, probabilmente, le Fatiche di Ercole (Windsor, Royal Collection, inv. RL 12770: GNANN 2010, pp. 262-265, n. 79, con bibliografia precedente) per Andrea Quaratesi, oltre al ritratto, per il quale si veda sopra, nota 19. Anche successivamente a questo episodio il Fattucci chiese dei madrigali a Michelangelo (CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, IV, pp. 94-95, nn. CMLX-CMLXI). 100 CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, IV, p. 36, n. CMXXIII.

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anche dell’amicizia personale del pontefice101, mentre Costanzo Festa fu il più importante compositore di questa stagione102. In passato, Michelangelo aveva già concesso i propri componimenti poetici ai musicisti103; in questo caso sembra che l’iniziativa sia stata di Sebastiano del Piombo, o comunque sia scaturita nell’ambito della corte papale, dove si deve immaginare che le rime donate da Michelangelo al Cavalieri avessero una circolazione analoga a quella dei disegni. Più tardi altri madrigali furono affidati a Jacques Arcadelt104, il più grande madrigalista del Cinquecento, che fu la figura di riferimento del coro pontificio durante il papato di Paolo III105. È probabile che i madrigali musicati, a Roma come a Firenze, venissero eseguiti all’interno di cenacoli che riunivano, intorno alla figura del ricco e dotto signore, musicisti, poeti, artisti,

101 SHERR 2005, p. 234.

102 Cantore della cappella Sistina fin dai tempi di Leone X, continuò la

carriera sotto Adriano VI, Clemente VII e Paolo III; mantenne stretti rapporti con la famiglia Medici anche dopo la morte dei due pontefici. Cfr. FREY 1952, pp. 165-172; IESUÈ 1997. 103 Il madrigale Com’arò dunche ardire (Girardi 12) fu pubblicato nel 1518, con

la musica di Bartolomeo Tromboncino (FREY 1952, pp. 151-157): si tratta del primo componimento di Michelangelo stampato in una antologia. 104 Tra l’autunno 1538 e la primavera 1539 Michelangelo scriveva a Luigi del

Riccio in Roma: «Questo mandai più tempo fa a Firenze. Ora, perché l’ò rifatto più al proposito ve lo mando [...]. Se vi piace, fatelo scriver bene e datelo a quelle corde che legan gl’uomini senza discretione» e «Messer Luigi s(ignio)re mio caro, il canto d’Arcadente è tenuto cosa bella; e perché, secondo il suo parlare, non intende avere facto manco piacere a me che a voi che lo richiedesti, io vorrei non gli essere sconoscente di tal cosa. Però prego pensiate a qualche presente da·ffargli, o di drappi o di danari, e che me n’avisiate: e io non arò rispecto nessuno a farlo» (CARTEGGIO DI

MICHELANGELO 1965-1983, IV, pp. 98-99, nn. CMLXIII-CMLXIV). 105 Originario delle Fiandre, dopo essere stato a Firenze al servizio del duca

Alessandro de’ Medici è documentato a Roma nel 1539 tra i cantori della cappella Giulia in San Pietro, ma il suo arrivo in città dovrà collocarsi entro la metà del decennio; dalla fine del 1540 fece parte del coro della cappella Sistina. Si vedano FREY 1952, pp. 179-197; BERNSTEIN 2004, pp. 210-211.

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prelati e cortigiani, di cui le fonti trasmettono ampia documentazione106. Nella lezione pronunciata nel marzo del 1547 davanti agli accademici fiorentini, pubblicata nel 1550107, Benedetto Varchi commentava diversi componimenti poetici di Michelangelo, molti dei quali scritti per Tommaso de’ Cavalieri: di lui diceva:

& perche ciascuno possa meglio giudicare non tanto le diuerse cagioni […] ma ancora i bellissimi concetti ui recitarò due interi de’ suoi sonetti […], & il primo sarà quello indiritto à M. Tommaso Caualieri giouane Romano nobilissimo, nel quale io conobbi gia in Roma (oltra l’incomparabile bellezza del corpo) tanta leggiadria di costumi, & cosi eccellente ingegno, et graziosa maniera, che ben meritò, & merita ancora, che piu l’amasse chi maggiormente il conosceua108.

La testimonianza del Varchi è fondamentale, non solo per verificare quanto si debba al Cavalieri la pubblica conoscenza dell’opera poetica di Michelangelo da parte dei suoi contemporanei, ma anche perché un numero importante di componimenti o frammenti è noto soltanto grazie alle citazioni presenti nella lezione. Il testo del Varchi è inoltre prova del rapporto diretto che si era creato a Roma nel 1537109 o nel 1544110 tra il Varchi e il Cavalieri, confermato da una lettera di Michelangelo a Giovan Francesco Fattucci, databile al febbraio 1550:

a questi dì messer Tomao de’ Cavalieri m’ha pregato ch’io ringrazi da parte sua il Varchi per un certo Libretto mirabile che c’è di suo

106 Si veda REBECCHINI 2010, pp. 205 sgg.

107 La dedica a Bartolomeo Bettini dell’editore Lorenzo Torrentino è datata

12 gennaio 1549 secondo lo stile fiorentino. 108 VARCHI 1549, p. 47.

109 Per questo soggiorno del Varchi: GINZBURG 2007, p. 182, nota 93. Cfr.

lettera di Francesco de’ Pazzi a Benedetto Varchi in Roma del 19 giugno 1537 (LO RE 2006, pp. 210-211, n. XI). 110 Per questo soggiorno del Varchi: LO RE 2012, pp. 512-513.

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in istampa, dove dice che parla molto honorevolmente di lui, et non manco di me; et hammi dato un sonetto fattogli da me in quei medesimi tempi, pregandomi io gl[i]ene mandi per una certa sua giustificazione; il qual vi mando in questa111.

Per contro, i rapporti del Varchi con Michelangelo non erano particolarmente stretti: lo dimostra il passo con cui chiude la prima lezione del 1547112, o una lettera di Michelangelo al Fattucci dello stesso anno113, ma, in generale, è indicativo di ciò anche il tono formale usato nelle lettere. Ulteriore testimonianza di un rapporto tra Varchi e il Cavalieri sarà da rintracciare, sulla fine degli anni cinquanta, nella disponibilità offerta dal Cavalieri al giovane Alessandro Allori di studiare i disegni di Michelangelo della sua collezione, attestata dalle copie rimaste114 e dalla lettera di ringraziamento del Varchi a Michelangelo:

Ma poi che messer Alessandro Allori, il quale non si sazia di predicare le singularissime virtù e unica cortesia di lei, mi disse che

111 CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, IV, pp. 339-340, n.

MCXLIII. 112 «Onde io (gia sono molti anni) hauendo non solo in ammirazione, ma in

reuerenza il nome suo, innanzi, che sapessi lui essere ancora Architettore feci vn sonetto»: VARCHI 1549, p. 53. 113 «rachomandomi a voi, e pregovi che questa che va a messer Benedetto

Varchi, luce e splendore della Achademia fiorentina, perché stimo sia molto amico vostro, gniene diate; e ringratiatelo da parte mia quel più che non so né posso fare io»: CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, IV, p. 260, n. MLXXVIII. 114 Tra i fogli attribuiti all’Allori, si trovano le copie di diversi disegni di

proprietà del Cavalieri: La caduta di Fetonte, Washington, National Gallery of Art (già New York, Woodner Collection); Il supplizio di Tizio, Windsor, Royal Collection, inv. RL 0471, e Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, inv. 248 F; Il Sogno, New York, Piepont Morgan Library, inv. IV, 79. L’Allori realizzò anche la copia dipinta del Sogno, pendant del ritratto di Bianca Cappello (Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890, n. 1514), e le repliche ora a Roma e a New York in collezione privata. Si vedano: JOANNIDES 1996, pp. 68-69, n. 13; PILLIOD 2003, pp. 36-48; BUCK 2010, p. 49; M. Marongiu, in LEONARDO E MICHELANGELO 2011, pp. 208-209, n. 66.

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ella serbava ancora memoria di me, non mi sono potuto tenere di non significarle con questa lettera quanto ciò mi sia giunto, nuovo non, ma ben caro e giocondo; e ne ringrazio Vostra Signoria, se non come debbo, certo quanto posso, come la ringrazio ancora infinitamente del favore che ella, per somma bontà et amorevolezza sua, s’è degnata di fare a detto messer Alessandro115.

Fin dai primi anni quaranta, a Roma, con la collaborazione di Luigi del Riccio e di Donato Giannotti, Michelangelo stava lavorando al riordinamento della sua produzione poetica, che prevedeva da un lato l’esclusione di un notevole numero di poesie da questo ‘canzoniere’, dall’altro la revisione stilistica dei componimenti prescelti, alcuni dei quali scritti diversi anni prima. È significativo come molti dei versi citati dal Varchi non compaiano nella raccolta, o vi compaiano in una redazione precedente. La raccolta non venne mai stampata, e non è chiaro se questa fosse la finalità, o se invece l’autore pensasse soltanto a una circolazione manoscritta, limitata e controllata. Di fatto ne esistono diverse redazioni116. È certo che il progetto maturò tardi nella mente dell’artista, forse su sollecitazione degli amici: Michelangelo, infatti, spesso dimostra di non tenere copia dei componimenti, come si legge nella già citata lettera al Fattucci: «messer Tomao de’ Cavalieri […] hammi dato un sonetto fattogli da me in quei medesimi tempi»117, o in una lettera a Luigi del Riccio del 1542: «Ancora prego Vostra S(ignio)ria mi mandi […] quel sonecto che io vi mandai, acciò che io lo rachonci»118. Gli elementi fin qui esposti portano ad escludere che le opere, disegni o rime, realizzati da Michelangelo per Tommaso de’ Cavalieri fossero principalmente ed esclusivamente un veicolo

115 Lettera del 12 febbraio 1560: CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983,

V, pp. 203-204, n. MCCCXVII. 116 Attestata in: Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 3211; Archivio

Buonarroti, XIII e XIV (parti I, II, IV). Si veda CORSARO 2008. 117 Cfr. sopra, nota 111.

118 CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, IV, p. 141, n. CMXCV.

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per esprimere la passione provata dall’artista per il giovane. Senza voler escludere anche questa componente, essi devono essere considerati piuttosto come frutto della cultura umanistica e antiquaria di Michelangelo e del Cavalieri, e dell’ambiente culturale di cui erano parte integrante. Sia i soggetti e le scelte stilistiche adottati nei disegni e nelle rime, sia i nomi dei personaggi coinvolti nella loro elaborazione e circolazione, rimandano al nutrito gruppo di intellettuali radunatosi intorno a Ippolito de’ Medici, chiamato Accademia della Virtù, i cui membri erano accomunati dall’interesse per l’antichità classica e da un programma di studio che, ampliando quello esposto da Raffaello e dal Castiglione nella lettera a Leone X, aveva come fine la pubblicazione di un’opera enciclopedica, composta da esperti delle varie discipline, incentrata sull’edizione volgare e illustrata del De Architectura di Vitruvio119, affiancata da studi linguistici, ingegneristici e da una

119 Per l’interesse di Michelangelo per Vitruvio, cfr. lettera a Michelangelo del

7 dicembre 1532 di Giovanni Norchiati, maestro della scuola dei chierici di San Lorenzo, dove si parla della traduzione di Vitruvio e del coinvolgimento di Michelangelo nell’analisi di opere antiche; ma, già negli anni venti, Michelangelo discuteva argomenti vitruviani a Firenze con Averardo Serristori, Pier Vettori, Antonio Alberti, Giovan Francesco da Sangallo, Lorenzo Cresci (G. Agosti, in MICHELANGELO E L’ARTE CLASSICA 1987, p. 81; FERRETTI 2004, p. 457). Probabilmente entro la metà degli anni trenta si datano i sopralluoghi alle antichità del Foro, compiuti da Michelangelo in compagnia di Sebastiano del Piombo, descritti da Raffaello da Montelupo (HIRST 1981, p. 143, nota 87; GATTESCHI 1998, p. 121). Raffaello non fornisce una data per quell’episodio; altrove ricorda che al momento del Sacco di Roma erano presenti in casa sua molti disegni «dal momento che avevo ritratto tutte le antichità di Roma, che erano assai» (GATTESCHI 1998, p. 124). È infine probabile che fossero appartenuti a Michelangelo «Un Vitruvio coperto di raso rosso in stampa […] Un Vitruvio legato in carta pecora […] Un libro d’architettura scritto a mano» inventariati alla morte di Daniele da Volterra nella casa che fu del Buonarroti a Roma (inventario pubblicato da GASPARONI 1866, p. 179). Dalla casa il nipote Leonardo portò via certamente i disegni e una cassa contenente denari e documenti (GOTTI 1875, II, p. 155; Del Vita, in VASARI, ed. Frey, Frey, Del Vita 1941, p. 69, nota 9e), ma nessun cenno è fatto ai libri, che potrebbero essere compresi

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particolare attenzione alle opere d’arte (oltre ad architettura, pittura e scultura, anche medaglistica ed epigrafia); queste ultime erano studiate sia dal punto di vista stilistico, sia da quello iconografico, spesso sulla base di confronti tra le fonti letterarie e quelle figurative120. Alla morte di Ippolito, molti dei protagonisti di questo cenacolo migrarono nell’orbita del cardinale Alessandro Farnese, nipote di Paolo III, sotto il cui pontificato ebbe inizio il prestigioso cursus honorum di Tommaso de’ Cavalieri121. L’appartenenza a pieno titolo di Tommaso alla cerchia farnesiana, come esperto di arte classica e di architettura, è testimoniata da prestigiosi incarichi pubblici: la nomina, da parte del cardinale Alessandro, a giudice dell’integrità degli Orti

nella generica dicitura «Leonardo lassa in detta casa diverse masserizie» del contratto di affitto; nell’accordo, anzi, Leonardo specificava di «mettere a custodia più tosto che a pigione dela sua casa di Roma una persona amorevole, nela quale possa confidare sicuramente, che debbi non pur conservarla, ma ridurla anco in miglior stato» (GASPARONI 1866, pp. 158-159). Il ruolo di custode traspare anche da alcuni passi del carteggio di Leonardo (Jacopo del Duca chiama il Ricciarelli «guardiano della casa»: CARTEGGIO INDIRETTO 1988-1995, II, pp. 229-231, n. 384; alla morte di Daniele, lo stesso accetta di prendere la casa «per conservare et goderme le cose che forno de quella buona memoria et per essere un guardiano de vostre cose»: CARTEGGIO INDIRETTO 1988-1995, II, pp. 246-247, n. 392). Di fatto Daniele non abitò mai nella casa di Macel de’ Corvi, nella quale dovevano essere rimasti parecchi oggetti appartenuti a Michelangelo, se Jacopo del Duca, prima di entrarne in possesso, informava Leonardo Buonarroti «che non era fatta la divisione delle cose vostre e de m. Daniello» (CARTEGGIO INDIRETTO 1988-1995, II, pp. 249-250, n. 394). 120 Il programma di studio dell’Accademia è esposto nella lettera di Claudio

Tolomei ad Agostino de’ Landi del 14 novembre 1542 (pubblicata per la prima volta in De le lettere di M. Claudio Tolomei libri sette, Venezia 1547, foll. 105 v-109r: ora in SCRITTI D’ARTE 1971-1977, III, pp. 3037-3046). Cfr. PAGLIARA 1986, pp. 67-74; DALY DAVIS 1989, pp. 187-197; HERKLOTZ 1999, pp. 251-254, 291, 297; SCHREURS 2000, pp. 84-87. 121 Nel 1539 diventa Caporione del quartiere Sant’Eustachio: FROMMEL

1979, p. 76.

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Farnesiani, donati a Ottavio Farnese122, o quella di deputato speciale per la sistemazione dei Fasti Consolari e Trionfali nel cortile del palazzo dei Conservatori123, fino all’incarico di deputato ordinario alla fabbrica del Campidoglio124, carica che Tommaso occupò per oltre vent’anni. Alle cariche pubbliche si affiancarono numerose occasioni private, che confermano il ruolo di primo piano svolto dal Cavalieri nella vita culturale romana125. L’ingresso del Cavalieri all’interno dell’élite intellettuale prima medicea e poi farnesiana potrebbe essere avvenuto attraverso il cardinale Andrea della Valle126, possessore della più straordinaria collezione d’arte antica della Roma di primo Cinquecento127. Questi era legato sia a Leone X, che lo aveva creato cardinale nel 1517 e del quale incarnava gli ideali estetici

122 1548: LANCIANI 1902-1912, II, p. 55; FROMMEL 1979, p. 79;

KIRKENDALE 2001, p. 50. 123 1548: LANCIANI 1902-1912, II, p. 225; PERRIG 1979, p. 679; FROMMEL

1979, p. 79; ARGAN, CONTARDI 1990, p. 254; KIRKENDALE 2001, p. 49. 124 1554: PECCHIAI 1950, p. 38; FROMMEL 1979, p. 80; PERRIG 1979, p. 679;

KIRKENDALE 2001, p. 52; BEDON 2008, p. 344. 125 Nel 1562 fu chiamato da Alessandro Farnese, con Guglielmo della Porta

e Girolamo Galimberti, per stimare la collezione di Paolo del Bufalo, che il cardinale intendeva acquistare (LANCIANI 1902-1912, II, p. 179); nel 1567 si occupò, per conto degli eredi, della stima della collezione di Luca de’ Massimi (LANCIANI 1902-1912, I, p. 230); nel 1583 fece parte della commissione per la valutazione della collezione di antichità di Ottaviano Capranica, insieme ad Andrea Velli, Girolamo Paparone, Paolo Fabi e Pier Tedallini (LANCIANI 1902-1912, II, p. 92). 126 Per i rapporti diretti di Andrea della Valle con Ippolito de’ Medici, cfr. la

notizia data da Pirro Ligorio del dono fatto da Ippolito di due tabelle bronzee: LANCIANI 1902-1912, I, p. 298; WREN CHRISTIAN 2008, p. 60, nota 72 (notizia ritenuta non credibile da REBECCHINI 2010, p. 229, nota 32). Cfr. anche le pretese su alcune medaglie e altri oggetti antichi, avanzata alla morte di Ippolito da Faustina della Valle, erede di Andrea; la restituzione di una testa di marmo di Ottaviano era reclamata dal cardinale Paolo Emilio Cesi (REBECCHINI 2010, pp. 227-228). 127 RIEBESELL 1989; PAOLUZZI 2007; WREN CHRISTIAN 2008, pp. 39-53.

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e culturali128, sia a Clemente VII, che seguì a Orvieto, dove si era rifugiato dopo il Sacco, e che lo inviò a Roma come governatore in sua vece nel 1529. Il palazzo della famiglia Cavalieri era vicino a quelli dei della Valle, come lo erano le rispettive cappelle funerarie in Santa Maria in Aracoeli; i Cavalieri si rifugiarono presso il cardinale nei giorni più difficili del Sacco129 e più tardi Tommaso sposerà la nipote del cardinale, Lavinia130; nel 1584, infine, Emilio, secondogenito del Cavalieri131, sarà tramite della vendita a Ferdinando de’ Medici della collezione di antichità radunata dal cardinale, i cui pezzi più importanti sono ora esposti nei corridoi vasariani della Galleria degli Uffizi. Non si deve poi trascurare il ruolo che potrebbe aver giocato il cugino Gentile Delfini, di pochi anni maggiore di Tommaso. Gentile, figlio di Giovan Battista Delfini e Jacobella di Gaspare de’ Cavalieri132, noto per gli studi eruditi e per l’attività collezionistica, fu canonico di San Giovanni in Laterano133: qui nel 1539 incontrò il giovanissimo Fulvio Orsini e lo accolse nella sua casa, facendosi carico della sua formazione e introducendolo presso Angelo Colocci, Annibal Caro e

128 FALGUIÈRES 1988, pp. 287-297; WREN CHRISTIAN 2010, pp. 216-220,

385-388. 129 FROMMEL 1979, p. 74.

130 FROMMEL 1979, pp. 74-75.

131 KIRKENDALE 2001, p. 111.

Emilio fu uno dei più importanti musicisti della sua generazione (KIRKENDALE 2001). A lui, e non a Tommaso, si deve la vendita al cardinal Farnese (Odoardo e non Alessandro) della parte più importante della preziosa collezione grafica ereditata dal padre: SICKEL 2006, pp. 178-181. 132 AMAYDEN, ED. BERTINI 1906-1914, I, p. 375.

133 Come si è accennato, Tommaso de’ Cavalieri commissionò al Venusti una

pala, su disegno di Michelangelo, per l’altare del Collegio dei Benefattori e Chierici in San Giovanni in Laterano a Roma (cfr. sopra, nota 69). Il legame della famiglia Cavalieri con la basilica lateranense rimase costante nel tempo: nel 1584 Tiberio, orfano di Mario de’ Cavalieri, primogenito di Tommaso, ne divenne canonico (KIRKENDALE 2001, p. 57).

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l’entourage farnesiano134. Gentile e Tommaso furono chiamati insieme a uno degli incarichi più prestigiosi per gli antiquari della Roma farnesiana: nel 1548 divennero infatti deputati speciali per la sistemazione dei Fasti Consolari e Trionfali, donati dal cardinale Alessandro Farnese al Popolo Romano e destinati al cortile del palazzo dei Conservatori135, il cui progetto architettonico fu affidato a Michelangelo136. In questo contesto di raffinata cultura antiquaria la personalità di Tommaso de’ Cavalieri trova la sua piena e coerente collocazione, e non nella cerchia antimedicea del cardinale Niccolò Ridolfi, come si è sempre affermato137: i rapporti del cardinale con Michelangelo diventeranno stretti solo negli anni quaranta, mentre quelli col Cavalieri non sono – allo stato attuale degli studi – documentati138.

134 CELLINI 2004, pp. 235-236.

135 Della commissione fecero parte anche Antonio Agostini, Ottavio

Pantagato, Gabriele Faerno e Bartolomeo Marliano (LANCIANI 1902-1912, II, pp. 96, 222-226); quest’ultimo risulta essere legato all’ambiente dell’Accademia della Virtù (FERRETTI 2001-2004, p. 40, nota 161); SCHREURS 2000, pp. 87-96. 136 Ricordava Vasari nell’edizione giuntina delle Vite: «Il quale edifizio riesce

tanto bello oggi, che egli è degno d’essere conumerato fra le cose degne che ha fatto Michelangnolo, et è oggi guidato, per condurlo a fine, da Messer Tomao de’ Cavalieri, gentiluomo romano, che è stato et è de’ maggiori amici che avessi mai Michelagnolo» (VASARI, ED. BAROCCHI 1962, I, p. 86). 137 FROMMEL 1979, pp. 14 sgg., 40, 72; KIRKENDALE 2001, p. 15.

138 Il fatto che per le prime missive il tramite tra Michelangelo e Tommaso

sia lo scalpellino Pier Antonio Cecchini, il quale nella lettera del 2 luglio 1532, in cui offriva i propri servigi a Michelangelo, si firmava «Vostro minor servitore Pietrantonio, familiar di monsignor reverendissimo de’ Ridolfi» (CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, III, p. 414, n. DCCCLXXVII), non autorizza a pensare che ci fosse consuetudine tra il cardinale e Tommaso. Dalla lettera datata 15 luglio, di Sebastiano a Michelangelo allora a Firenze, emerge quale fosse il ruolo del Cecchini nella vita dell’artista: «Et io ho ordinato a quel sculptore del cardinale Redolphi che habbi un pocco de cura a la casa et a li marmi, el quale mi ha promesso di far l’officio benissimo» (CARTEGGIO DI MICHELANGELO 1965-1983, III, pp. 419-420, n. DCCCLXXXI).

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TOMMASO DE’ CAVALIERI

Horti Hesperidum, III, 2013, 1 309

Didascalie Fig. 1. Il ratto di Ganimede (da Michelangelo), matita nera, mm 361 x

275. Cambridge, Mass., Harvard University Art Museums, Fogg Museum, inv. 1955.75.

Fig. 2. Michelangelo Buonarroti, Il supplizio di Tizio, 1532, matita nera, mm 190 x 330. Windsor, Royal Collection, inv. RL 12771.

Fig. 3. Michelangelo Buonarroti, La caduta di Fetonte, 1533, matita nera su traccia a stilo, mm 311 x 216. Londra, The British Museum, De-partment of Prints and Drawings, inv. 1895-9-15-517. © Trustees of the British Museum.

Fig. 4. Michelangelo Buonarroti, La caduta di Fetonte, 1533, matita nera, mm 413 x 234. Windsor, Royal Collection, inv. RL 12766.

Fig. 5. Michelangelo Buonarroti, Il baccanale di putti, 1533, matita rossa, mm 271 x 385. Windsor, Royal Collection, inv. RL 12777.

Fig. 6. Michelangelo Buonarroti, Il Sogno, 1533-1534, matita nera, mm 398 x 280. Londra, The Courtauld Gallery, Samuel Courtauld Trust, D.1978.PG.424.

Fig. 7. Michelangelo Buonarroti, Cleopatra, 1534 circa, matita nera, mm 232 x 182. Firenze, Casa Buonarroti, inv. 2 F.

Fig. 8. Giulio Clovio, Minerva (da Michelangelo), 1540 circa, matita nera, mm 280 x 197. Windsor, Royal Collection, inv. RL 0453.

Fig. 9. Michelangelo Buonarroti, Ritratto di Tommaso de’ Cavalieri (?), 1533-1535 circa, matita nera, mm 695 x 488. Bayonne, Musée Bonnat, inv. 595.

Fig. 10. Battista Franco, La battaglia di Montemurlo, 1537-1538 circa, olio su tavola, cm 173 x 134. Firenze, Galleria Palatina, inv. 1912, n. 144.

Fig. 11. Giulio Clovio, Il ratto di Ganimede (da Michelangelo), 1538 circa, tempera su pergamena, mm 340 x 235. Firenze, Casa Buonarroti, inv. Gallerie 1890, n. 3516.

Fig. 12. Marcello Venusti, Annunciazione (da Michelangelo), 1550 circa, olio su tela, cm. 45 x 30. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Corsini, inv. 255.

Fig. 13. Marcello Venusti, Annunciazione, 1555 circa, olio su tela, cm. 320 x 210 circa. Roma, San Giovanni in Laterano, Sagrestia (già altare del Collegio dei Benefattori e Chierici).

Fig. 14. Marcello Venusti, Cristo crocifisso tra la Vergine e san Giovanni, 1550-1560 circa, olio su tavola, cm 51,4 x 33,7. Oxford, Campion Hall.

Fig. 15. Cornelis Cort, La battaglia di Zama (da Giulio Romano e Giovan Francesco Penni), 1567, bulino. Düsseldorf, Kunstmuseum.

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LA MOGLIE DI COLA DELL’AMATRICE.

APPUNTI SULLE FONTI LETTERARIE E SULLA CONCEZIONE DELLA FIGURA FEMMINILE

IN VASARI

LUCA PEZZUTO

Singolar donna degna d’eterna lode (G. Vasari, Le Vite…, 1568)

Se non fosse stato per il generoso ed in gran parte veritiero inserto biografico aggiunto da Giorgio Vasari nelle pagine dell’edizione delle Vite del 1568, parte della lunga carriera di Nicola di Piergentile1, meglio conosciuto con il diminutivo di

Cola dell’Amatrice, sarebbe ancora oggi di difficile identificazione:

Fu ne’ medesimi tempi Nicola, detto comunemente da ognuno maestro Cola dalla Matrice, il quale fece in Ascoli, in Calavria et a Norcia molte opere che sono notissime, che gl’acquistarono fama di maestro raro e del migliore che fusse mai stato in que’ paesi. E perché attese anco all’architettura, tutti gl’edifici che ne’ suoi tempi si fecero ad Ascoli et in tutta quella provincia furono architettati

1 Questo il nome per esteso dell’artista, come si evince dai documenti. Per

un approfondimento si veda CANNATÀ 1991, pp. 9-13.

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da lui. Il quale senza curarsi di veder Roma o mutar paese, si stette sempre in Ascoli, vivendo un tempo allegramente con una sua moglie di buona et onorata famiglia e dotata di singolar virtù d’animo, come si vide quando al tempo di papa Paulo Terzo si levarono in Ascoli le parti; perciò che fuggendo costei col marito, il quale era seguitato da molti soldati, più per cagione di lei, che bellissima giovane era, che per altro, ella si risolvé, non vedendo di potere in altro modo salvare a sé l’onore et al marito la vita, a precipitarsi da un’altissima balza in un fondo: il che fatto, pensarono tutti che ella si fusse, come fu in vero, tutta stritolata nonché percossa a morte; per che lasciato il marito senza fargli alcuna ingiuria, se ne tornarono in Ascoli. Morta dunque questa singolar donna, degna d’eterna lode, visse maestro Cola il rimanente della sua vita poco lieto. Non molto dopo, essendo il signor Alessandro Vitelli fatto signore della Matrice, condusse maestro Cola già vecchio a Città di Castello, dove in un suo palazzo gli fece dipignere molte cose a fresco e molti altri lavori; le quali opere finite, tornò maestro Cola a finire la sua vita alla Matrice. Costui non arebbe fatto se non ragionevolmente, se egli avesse la sua arte esercitato in luoghi dove la concorrenza e l’emulazione l’avesse fatto attendere con più studio alla pittura et esercitare il bello ingegno di cui si vide che era stato dalla natura dotato2.

Le ricerche sull’argomento sono state piuttosto limitate rispetto al reale valore di tale citazione all’interno della seconda versione della biografia del pittore Marco Cardisco3, specie in considerazione del fatto che la descrizione vasariana risulta essere uno degli aspetti di maggior interesse dell’intera vicenda

2 VASARI, BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, II, pp. 228-229. 3 Nel testo di maggior spessore su Cola dell’Amatrice, il catalogo della mostra sull’artista tenutasi nel 1990 ad Ascoli, curato da Roberto Cannatà e Adriano Ghisetti Giavarina (CANNATÀ, GHISETTI GIAVARINA 1991), la vicenda critica della digressione biografica vasariana non è andata oltre la mera citazione. L’unico studioso che si premurò di approfondire tale argomento, come si vedrà successivamente, è stato Giuseppe Fabiani (FABIANI 1952).

UNA «SINGOLAR DONNA DEGNA D’ETERNA LODE»

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critica del pittore abruzzese4, oltre che la più antica testimonianza storiografica nota sull’argomento. Le notizie relative ai pittori dell’Italia meridionale, se si escludono i fatti artistici di ascendenza tosco-romana ed il «caso internazionale di Antonello da Messina»5, nell’opera dell’aretino si limitano alla Vita di Girolamo Santacroce ed alle poche note presenti nella Vita-contenitore di Cardisco. Eccettuata la capitale partenopea, delle altre provincie del Regno di Napoli in cui «non sono soliti nascere uomini di tale professione»6, Vasari non ebbe diretta conoscenza; si pensi, tra i vari esempi possibili, alla totale assenza di riferimenti su L’Aquila, uno dei centri più importanti del regno – punto strategico di passaggio dei mercanti e dei viaggiatori gravitanti sull’asse viario conosciuto come ‘Via degli Abruzzi’ (Firenze - L’Aquila - Napoli)7 – città che ospitò la Visitazione (fig. 1) firmata da Raffaello, ma probabilmente eseguita con l’aiuto dei suoi fedeli collaboratori Giovan Francesco Penni e Giulio Romano, per Marino Branconio, padre del più noto Giovan Battista8. All’Aquila, peraltro, lo stesso Cola dell’Amatrice progettò la facciata della basilica di S. Bernardino da Siena (fig. 2), reinterpretando un progetto ritenuto autografo di Raffaello per la chiesa medicea di S. Lorenzo a Firenze9. Il rapporto di Vasari con l’Italia meridionale ed il conseguente giudizio sull’arte incontrata in

4 Amatrice ai tempi di Cola era parte integrante del Regno di Napoli, anche se i suoi territori rientravano nella Diocesi di Ascoli. L’annessione della cittadina al Lazio avvenne durante il regime fascista e tale si è mantenuta sino ai giorni nostri, essendo entrata a far parte della provincia di Rieti. 5 PREVITALI 1976, pp. 691-699 6 VASARI, BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, II, pp. 228-229. 7 Sulla ‘Via degli Abruzzi’ si veda principalmente GASPARINETTI 1967 e ANSELMI, RICCI 2005. Recentemente si è svolto anche un convegno universitario su questo tema: La “Via degli Abruzzi” e le arti nel Medioevo. Tra Napoli e Firenze. Percorsi storico artistici lungo l’Appennino centrale abruzzese (secoli XIII-XV) (L'Aquila-Castelvecchio Subequo, 11-12 maggio 2012). 8 Sulle vicende aquilane della Visitazione Branconio si vedano GASBARRINI

2005 e MACCHERINI, 2010, pp. 155-159 con relativa bibliografia. 9 Sull’argomento si veda, GHISETTI GIAVARINA 1991 e GHISETTI GIAVARINA 2002.

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quei luoghi fu probabilmente influenzato dalla esperienza napoletana del biennio 1544-1545, in cui l’artista si dovette fare l’idea che i gentiluomini partenopei erano «poco curiosi delle cose eccellenti di pittura»10, che «più conto tenevano d’un cavallo che saltasse, che di chi facesse con le mani figure dipinte parer vive»11, come non mancò di ricordare nella Vita di Polidoro da Caravaggio. Giovanni Previtali, in un saggio giustamente famoso, ha sottolineato questo particolare approccio della visione teorica vasariana, rimarcando che la fioritura dell’arte nel Mezzogiorno non fu mai sostenuta dai cosiddetti ‘Baroni’, ma da una ingente committenza ecclesiastica e, nello specifico, dal coinvolgimento nel patrocinio delle arti, della parte agiata del ceto medio, costituita da ricchi mercanti, avvocati e magistrati12. Gli indirizzi di tali commissioni non potevano che essere di destinazione religiosa, con la conseguente assenza, o quasi, di una iconografia profana, di quadri da stanza o di esempi autonomi di ritrattistica13. Una condizione che certo non poteva carpire appieno l’interesse e l’approvazione di un artista come Giorgio Vasari, abituato a ben altri contesti artistico culturali. Nella propria autobiografia, infatti, l’aretino poté affermare senza remore che a Napoli «dopo Giotto, non era stato insino allora in sì nobile e gran città maestri che in pittura avessino fatto alcuna cosa d’importanza, se ben vi era stato condotto alcuna cosa di fuori di mano del Perugino e di Raffaello; per lo che m’ingegnai fare di maniera, per quanto si estendeva il mio poco sapere, che si avessero a

10 VASARI, BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, II, p. 201. 11 VASARI, BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, II, p. 201. 12 Sulla fortuna dell’arte meridionale in Vasari il contributo di Previtali (PREVITALI 1976) è ancora una lettura fondamentale. Molte delle considerazioni contenute in quel saggio sono riportate e discusse nel presente paragrafo. 13 In questo discorso rientra pienamente anche la produzione pittorica di Cola dell’Amatrice. Se si eccettuano i tardi lavori a Città di Castello per il condottiero Alessandro Vitelli (quindi non più in Italia centro-meridionale), quasi tutte le opere dell’artista sono di tema schiettamente religioso. Completamente assenti sono i sopracitati ‘quadri da stanza’.

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svegliare gl’ingegni di quel paese a cose grandi e onorevoli operare»14. Tuttavia, questo sentimento anti-partenopeo, più che la prerogativa di un singolo, dovuta esclusivamente ad un’esperienza personale deludente, sembrerebbe rientrare in un esplicito atteggiamento della tradizione letteraria fiorentina. Si pensi ai giudizi di Cristoforo Landino15 o di Poggio Bracciolini. Quest’ultimo, nel suo De vera nobilitate, lamentava che gli aristocratici napoletani disdegnavano la carriera mercantile e «sprecavano il proprio tempo occupandosi di cavalli e, in generale, di condurre una vita oziosa»16. Risulta evidente che il forte apprezzamento dei nobili partenopei per il genere equino, più che una notazione personale fosse la trasposizione di un topos letterario. Nonostante tali premesse critiche, nell’edizione del 1568 l’encomiabile volontà di estendere geograficamente il resoconto biografico spinse l’aretino a prendere in maggiore considerazione il panorama cinquecentesco della pittura meridionale attraverso l’ampliamento della vita di Marco Calavrese, ritenendo i due artisti ivi citati – Marco Cardisco e Cola dell’Amatrice – per motivi diversi, ugualmente degni di entrare a far parte della ‘sua’ storia dell’arte17.

Nel presente contributo l’attenzione è focalizzata sulla biografia di Cola dell’Amatrice. Nello specifico, si intende approfondire un limitato, ma assai interessante, aspetto di tale vicenda: l’aneddoto moralizzante relativo all’eroica morte della moglie dell’artista. Attraverso l’esegesi di questa mirabile digressione saranno rese note alcune delle probabili fonti letterarie che ispirarono lo storiografo nella stesura del pezzo e si tenterà di interpretare la concezione vasariana della figura femminile,

14 VASARI, BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, II, p. 993. 15 LANDINO, LIACI 1970. 16 BENTLEY 1987.

17 Ed è questo, a mio avviso, l’aspetto che la critica dovrebbe prendere in

maggiore considerazione rispetto a quanto è stato fatto in precedenza. Non

ci si dovrebbe limitare a far notare cosa l’aretino abbia escluso, ma, invece,

concentrarsi sul perché abbia messo ciò che è presente, considerando questa

operazione critica, comunque, più che positivamente.

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all’indomani della stretta adesione ai dettami della Controriforma. La questione riguardante l’aneddoto di Vasari sulla moglie di Cola ebbe una limitata, ma interessante, vicenda critica di ambito strettamente locale, volta a riconfermare la reale esistenza di questa donna e l’elogio del suo gesto valoroso. In proposito, alcuni eruditi ascolani dell’Ottocento ed altri studiosi della prima metà del secolo scorso a lungo si interrogarono sulla possibile storicità del racconto e ricercarono invano notizie documentarie sulla tragica morte, «esempio stupendo di amor coniugale»18. Nel 1871 Giulio Cantalamessa dedicò all’episodio anche una originale novella storica di sua invenzione intitolata Maria Filotesio19, purtroppo ritenuta da alcuni studiosi successivi documento (sic!) storicamente valido20. Giuseppe Fabiani, in tempi meno lontani, mise in luce alcuni dati che avrebbero potuto essere più indicativi sulla possibile veridicità del racconto21. Vasari citando il «tempo di Paulo terzo» in cui «si

levarono le parti»22 fece riferimento ad un avvenimento ben

preciso: la rivolta cittadina del 1535 e la conseguente occupazione del Palazzo del Popolo, distrutto da un violento incendio doloso. Lo studioso rese noto che in alcuni manoscritti quattrocenteschi dell’Archivio di Stato di Ascoli si ricordava non solo l’incendio del 1535, ma anche un evento miracoloso ad esso collegato: nello stesso giorno un crocifisso ligneo trecentesco, che non fu distrutto dalle fiamme nonostante si trovasse in una posizione estremamente sfavorevole, fu trionfalmente portato in salvo dalla popolazione ed esposto sull’altare di san Giobbe, nella adiacente chiesa di San Francesco. Secondo le testimonianze, una volta sistemata sull’altare la statua sanguinò copiosamente e tale miracolo si

18 FABIANI 1952, p. 20 19 CANTALAMESSA 1871. 20 MASSIMI 1939, pp. 92-93. 21 FABIANI 1952, pp. 20-23.

22 VASARI, BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, II, p. 229.

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ripeté «il lunedì seguente à hora de mezo giorno»23. Il vescovo

per fare chiarezza sui fatti accaduti nominò una apposita commissione di esperti, di cui fece parte anche «mastro Cola della Matrice pittore24, che giudicò insindacabilmente «quello

essere vero sangue»25. Fabiani, sebbene non osasse mettere

esplicitamente in dubbio l’autorevole testimonianza dell’aretino, tramandata anche dalla recente tradizione locale (vox populi, vox dei!), non riusciva a capacitarsi della presenza di Cola dell’Amatrice, si chiedeva come potesse un uomo colpito da una grande sciagura come quella narrata da Vasari di lì a poco ritrovarsi a far parte di tale commissione, come se nulla gli fosse accaduto26. Da quel momento in avanti, il contenuto della biografia vasariana di Cola dell’Amatrice, e con esso la vicenda della moglie dell’artista, non furono più analizzate, né approfondite. A questo punto, riprendendo le fila di un discorso interrotto sin dai tempi di Fabiani, sarà utile ripercorrere velocemente le notizie documentarie sull’artista. Il 28 marzo 1528 Cola dell’Amatrice fece testamento all’Aquila presso il notaio Cherubino di Collebrincioni:

In primis lassa la sepoltura del corpo sou in quella parrocchia che morera in omnibus et singulis eius bonis mobilibus et stabilibus iuribus et adtionibus facit suos universales erede dominam Comitissam dominam Lauram et dominam Sabettam eius sorores carnales; et morendo alcuna delle dicte heredi instituite, senza herede legitima de loro corpi descendente vadano li una ad l’altra:

23 Archivio di Stato di Ascoli (= ASA), Archivio Storico Comunale, mss. n.

12, p. 28; n. 18, c. 72; n. 20, c. 28; FABIANI 1952, p. 22. 24 FABIANI 1952, p. 22.

25 FABIANI 1952, p. 22.

26 FABIANI 1952, p. 22. Nei successivi studi su Cola dell’Amatrice questa vicenda non fu più menzionata.

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et morendo tucte morevano, senza herede legitime ut supra vadano al ceppo paterno27.

Nel 1528, quindi, il pittore all’età di circa cinquanta anni28 non si

era ancora sposato e lasciava tutti i suoi beni alle tre sorelle Laura, Sabetta e Comitissa. Negli anni seguenti, seguendo il filo delle numerose testimonianze documentarie raccolte sull’artista29, non si scorge nessun accenno ad un possibile

matrimonio; si consideri, inoltre, che nell’ultima parte della sua vita Cola si spostò frequentemente da una città all’altra, prima di ritornare definitivamente ad Ascoli30. Nelle testimonianze

documentarie postume sul pittore, si legge che i suoi beni dopo il decesso furono ereditati direttamente dai nipoti31. Cola non

ebbe mai figli e quando morì, intorno al 1550, non aveva una moglie, o, almeno, l’ipotetica coniuge (con la quale avrebbe dovuto contrarre matrimonio in un periodo compreso tra il 1530 ed il 1549, ossia tra i suoi cinquanta ed i sessanta anni di età), non doveva essere più in vita32. Anche se, personalmente,

ritengo che Cola dell’Amatrice non dovette mai sposarsi, in

27 Archivio di Stato dell’Aquila, (= ASAq), ACA, Sezione Notai, scheda n.

26(76), Cherubinus Johannis Juliani de Collebrincionio de Aquila, Sezione Testamenti, n. 59. 28 Sull’approssimativa data di nascita di Cola si veda GAGLIARDI 1991, p. 9.

29 Il primo che si occupò di ritrovare e trascrivere sistematicamente i

documenti su Cola dell’Amatrice presenti nell’Archivio di Stato di Ascoli fu Fabiani (FABIANI 1952). Il regesto documentario più recente è stato redatto da Giannino Gagliardi (GAGLIARDI 1991, pp. 9-13). L’erudito ascolano, inoltre, è in procinto di pubblicare un nuovo regesto con inediti documenti sull’artista amatriciano. 30 Questo suo viaggiare in continuazione non si lega bene all’eventualità di

un tardo matrimonio, che avrebbe comportato degli obblighi per l’anziano pittore, o almeno il desiderio di una maggiore residenzialità. 31 Comunicazione orale di Giannino Gagliardi, che ringrazio per la

disponibilità. 32 In breve, l’artista avrebbe avuto la possibilità di sposarsi verso gli anni

Trenta e Quaranta del Cinquecento, ma l’eventuale moglie sarebbe dovuta poi morire, senza dargli figli, entro il 1550.

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questa sede non interessa accertare tale aspetto33. La digressione vasariana sulla moglie di Cola ha poco a che fare con la realtà storica e cercarne una eventuale conferma, o smentita, nei documenti esistenti rischia solo di svilirne il valore qualitativo. Si ricordi che le raccolte di biografie erano pur sempre intese come genere letterario, dotate di una rigogliosa tradizione fortemente rinnovata in età umanistica. Ancora oggi non si comprende bene a quale disciplina debba afferire il genere biografico, se alla storia o alla letteratura34. Ad ogni modo, in

questi testi risulta sempre molto difficile discriminare gli eventi realmente accaduti dai fatti possibili e verosimili, o, ancora, distinguere entrambe le categorie di eventi dalla pura finzione letteraria35. È ovvio che con tali presupposti risulta difficoltoso

districare l’intreccio di storia, mito, leggenda che sta alla base di una raccolta di biografie come poteva essere quella di Vasari. Sebbene secondo l’ottica degli autori le biografie siano dei testi eminentemente storici, esse si collocano a metà tra cronaca e narratio36, tra storia e letteratura, giungendo a risultati inaspettati

in cui il fatto storico finisce per combinarsi indissolubilmente con l’elemento leggendario37. Escludendo dal discorso l’utilizzo

a scopo didattico di modelli prestabiliti, Vasari presenta le sue biografie in forme molto duttili, da mettere spesso in relazione con la cultura, le idee e gli umori del momento in cui si trovava a scrivere. Particolare attenzione nella valutazione del testo deve essere posta al grado delle sue conoscenze documentarie su di un dato argomento, alla natura di tali conoscenze; importante sarà, ad esempio, stabilire se esse furono dirette o mediate. Nel

33 Si tratterebbe esclusivamente di una curiosità da soddisfare, non di un dato documentario la cui assenza potrebbe pregiudicare il discorso qui presentato sulle fonti vasariane. 34 Si pensi che fino al Seicento la storia intesa come disciplina rientrava

nell’insegnamento della Retorica. 35 Per il genere delle Raccolte di biografie, si veda COLLINA 1996, p. 112.

36 COLLINA 1996, p. 112.

37 Come vedremo, il caso della biografia di Cola è molto indicativo in tal

senso.

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caso di Cola dell’Amatrice, ad esempio, il fatto di avere esclusivamente una conoscenza mediata dei fatti riguardanti l’artista (che non ebbe mai modo di conoscere), ha necessariamente spinto Vasari ad utilizzare il compendio storico per completare le scarne notizie in suo possesso38. Le prove

della storicità del racconto vasariano non vanno ricercate nel documento, che raramente è utilizzato ed anche quando è presente sembra un intruso non desiderato. Lo storiografo, quando si trova costretto ad usare un riferimento documentario diretto, per sfatare una tesi contraria, o legittimare le sue conoscenze su dati argomenti, sembra quasi scusarsi con il lettore e, comunque, provare disagio dal punto di vista formale e stilistico39. Il testo delle Vite, invece, è molto più fluido ed interessante quando l’autore può liberamente assimilare l’evento storico, fonderlo nel discorso e reinventarlo come nel caso della moglie di Cola. Vasari, in tal senso, non fece nulla di diverso rispetto ai suoi contemporanei storici e letterati, adoperando il racconto, la biografia ed i documenti a disposizione secondo gli usi del suo tempo; dovrà passare circa un secolo e mezzo prima che «si affermi stabilmente la gioia di incastonare nella pagina il testo documentario»40. È fuori di dubbio che nel testo

vasariano, redatto in un periodo in cui la comunicazione tra arti figurative e letteratura cresceva esponenzialmente, furono utilizzati determinati modelli letterari e ciò non deve stupire il lettore. La digressione storica inserita nella vita di Cola non è un caso, l’aretino all’interno delle biografie si concesse spesso delle pause letterarie, degli aneddoti in cui ha inserito un abbozzo di

38 Per l’esegesi della biografie di Cola dell’Amatrice e di Marco Cardisco, mi

riserbo di analizzarle esaustivamente nella mia tesi di Dottorato, avente per oggetto lo studio monografico dell’opera pittorica e del taccuino di disegni dell’artista abruzzese. In tale capitolo sarà dedicato apposito spazio alla ricerca dei possibili informatori (ascolani e non) di Vasari. 39 Si veda in proposito il caso della biografia di Michelangelo ed il documento relativo al discepolato dello scultore presso Ghirlandaio, o quella di Buonamico Buffalmacco. 40 CAPRUCCI 1976, pp. 299-320.

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disegno storico, il cosiddetto compendio. Anche se è proprio nei momenti in cui lo scrittore ha incastrato questi inserti che si riesce ad intravedere il carattere autentico dell’ottica vasariana, del suo modo di pensare e delle sue convinzioni letterarie, storiche e culturali, l’idea del compendio in sé, resta comunque un aspetto secondario. Tali digressioni, come detto, possono essere inserite nel testo solo nei casi in cui lo scrittore conosce poco o niente delle effettive storie individuali degli artisti in questione; l’esempio del pittore abruzzese è emblematico41. È importante comprendere

appieno l’uso e la funzione che riveste l’aneddotica nel tessuto dell’opera: essa funge compiutamente da «strumento di coagulo»42; sembrano più che appropriate, in proposito, le

parole di Ernst Gombrich: «la mente minaccia presto di agitarsi nel vuoto se non le viene offerto qualcosa con cui baloccarsi: un fatto, un aneddoto, un piccolo pettegolezzo, qualche informazione sull’ambiente»43. Anche se, come nel caso della

moglie di Cola, bisognerebbe godere disinteressatamente dei riposi aneddotici, al di là dei significati che vi si possono scorgere, giova ricordare che la loro efficacia narrativa non risulta mai essere fine a se stessa. L’aneddotica in Vasari può assumere varie consistenze ed intenzioni, può essere di carattere macchiettistico, novellistico o moralistico, ma non risulterà mai gratuita, anche solo perché attraverso di essa viene restituita la testimonianza diretta del carattere, dei modi di vita e delle psicologie del tempo44. Non è

raro scorgere, durante la lettura di tali divagazioni, la determinazione di rapporti concreti: si prenda l’esempio di Buffalmacco, che dipinse un’opera per un villano di Calcinaia, il quale alla conclusione del lavoro si dimostrò restio a pagare il

41 CAPRUCCI 1976, p. 310.

42 CAPRUCCI 1976, p. 315.

43 GOMBRICH 1973, p. 95.

44 CAPRUCCI 1976, p. 315.

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dovuto al pittore fiorentino45. Buffalmacco, per contro,

ridipinse un «orsacchino» al posto del Bambino in braccio alla Vergine ed alla fine, solo dopo aver promesso di ripristinare l'aspetto originale dell'affresco, ottenne il compenso dovuto per il suo lavoro. Una storia come questa, ma se ne potrebbero citare infinite altre, sebbene non abbia attinenza con la reale esperienza di Buonamico, rientra nella categoria del verosimile e mostra esplicitamente al lettore quali potessero essere le difficoltà che spesso si incontravano nei rapporti tra committenti ed artisti, specie in contesti rurali o nel contado. L’aneddoto, quindi, acquista in questi casi il valore di testimonianza storicamente valida. In tal senso, l’esempio della moglie di Cola dell’Amatrice, a parte l’origine letteraria dell’exemplum ed i topoi classici tirati in causa, di cui si dirà a breve, rientra a pieno titolo nella categoria del verosimile. Da un lato perché rappresenta una concreta testimonianza del clima di terrore che effettivamente si respirava quando le città venivamo messe al sacco dai soldati, mercenari senza scrupoli, dall’altro perché ci restituisce la concezione ideale delle virtù femminili nella letteratura della seconda metà del Cinquecento e, soprattutto, ricorda quale fosse, all’indomani della Controriforma, il comportamento morale adeguato a cui una donna pia avrebbe dovuto ispirarsi in materia di castità e pudicizia. Inoltre, dal racconto si evince un altro dato di primaria importanza, che potrebbe implicitamente indicare l’origine ascolana di una parte delle informazioni reperite da Vasari su Cola dell’Amatrice46. La citazione della sommossa

cittadina del 1535 tradisce la presenza di un eventuale informatore locale, il quale dovette aggiornare lo storiografo aretino su alcune vicende occorse al pittore; l’erudizione e la grande fantasia dello scrittore aretino devono aver fatto il resto,

45 VASARI, BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, I, p. 163.

46 Tale argomento, come detto, sarà debitamente affrontato nella mia tesi di

Dottorato.

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creando quel connubio indissolubile tra storia e mito che diede vita ad una pausa letteraria di grande qualità. Rileggendo il passo, Vasari narra:

Il quale [Cola dell’Amatrice] […] vivendo un tempo allegramente con una sua moglie di buona et onorata famiglia e dotata di singolar virtù d’animo, come si vide quando al tempo di papa Paulo Terzo si levarono in Ascoli le parti perciò che fuggendo costei col marito, il quale era seguitato da molti soldati, più per cagione di lei, che bellissima giovane era, che per altro, ella si risolvé, non vedendo di potere in altro modo salvare a sé l’onore et al marito la vita, a precipitarsi da un’altissima balza in un fondo: il che fatto, pensarono tutti che ella si fusse, come fu in vero, tutta stritolata nonché percossa a morte; per che lasciato il marito senza fargli alcuna ingiuria, se ne tornarono in Ascoli. Morta dunque questa singolar donna, degna d’eterna lode, visse maestro Cola il rimanente della sua vita poco lieto47.

Anche se non è questa la sede per mettere in evidenza i mutamenti cui è sottoposta nel Cinquecento la concezione delle virtù e delle attitudini femminili, basti ricordare che alla figura muliebre nella seconda stagione del Cinquecento, in letteratura, così come in ambito trattatistico, o nella produzione teatrale, venne restituito il ruolo, considerato più adeguato, di vittima. Fu così accantonata la precedente categorizzazione boccaccesca di mulier virilis, riferita a quelle donne per le quali valevano gli stessi criteri di giudizio degli uomini, che si sottraevano alle virtù private ed alle incombenze femminili e che perciò si elogiavano per le loro qualità pubbliche come il coraggio, la forza, l’acume strategico ecc.48 Negli anni fra il 1545 ed il 1563

per effetto del clima della Controriforma si imposero nuove

47 VASARI, BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, II, p. 229.

48 Boccaccio fu il primo ad intendere la raccolta di biografie femminili come

genere a sé stante. Il suo celebre De mulieribus claris ebbe grandissima fortuna tra i suoi contemporanei ed anche successivamente. Sulla questione della concezione delle virtù femminili in età moderna si veda COLLINA 1996, p. 110; COSENTINO 2006, pp. 65-99.

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direttive sociali e, di conseguenza, il ripristino di modelli familiari e culturali secondo cui «una donna può esistere soltanto all’interno dello schema vergine-moglie-vedova».49

Vasari – il quale fu sempre e comunque un uomo ed uno scrittore del suo tempo – in tutti i personaggi femminili delle Vite, da Properzia de’ Rossi alla moglie di Cola, non si limitò a rispettare gli orientamenti di questa concezione ormai controriformata, bensì andò alla ricerca, dove possibile, di azioni e comportamenti esemplificativi. Quando si trovò a dover raccontare le vicende di donne artiste, come nel caso della scultrice bolognese, fuse la tradizione derivata da Plinio e da Boccaccio con la logica controriformata. In Boccaccio le artiste furono interpretate come donne forti, le quali per affermare la loro indole virile rifiutarono le incombenze femminili, proprio come le Amazzoni o le principesse guerriere. Ad esempio, la pittrice Tamari «tam miro ingenio despectis mulieribus officiis, paternam artem imitata est»50, solo

disprezzando i lavori di casa poté conseguire la gloria nella pittura. Il comportamento della pittrice boccaccesca non poteva esser condiviso ai tempi di Vasari, che diede un ritratto ben diverso per la sua Properzia, «giovane virtuosa non solamente nelle cose di casa, come l’altre, ma in infinite scienze, che, nonché le donne, ma tutti gli uomini gl’ebbero invidia»51. Nella

vicenda della consorte di Cola dell’Amatrice, l’aretino utilizzò nuovamente un exemplum classico, connotandolo storicamente sotto forma di compendio, a scopo eminentemente didattico, quasi si trattasse di una esortazione morale. Mi pare evidente l’analogia tra il comportamento della moglie dell’artista e gli exempla di virtù presenti nella tradizione letteraria romana. Il suicidio descritto richiama in qualche misura la forte connotazione tragica delle storie delle eroine narrate nel capitolo De pudicitia presente nel libro VI del Dictorum

49 COSENTINO 2006, pp. 65-69

50 BOCCACCIO, BRANCA 1967, X, pp. 226-228.

51 VASARI, BETTARINI, BAROCCHI 1966-1987, II, p. 172.

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Factorumque memorabilium di Valerio Massimo. Tra queste, l’exemplum più calzante è sicuramente quello di Ippona Greca:

Atque ut domesticis externa subnectam, Graeca femina nome Hippo, cum hostium classe esset excepta, in mare se, ut morte pudicitiam tueretur, abiecit. Cuius corpus Erythraeo litori adpulsum proxima undis humus sepulturae mandatum ad hoc tempus tumulus contegit: sanctitatis vero gloriam aeternae traditam memoriae Graecia ludibus summis celebrando cotidie florentinorem efficit52.

Vasari dovette necessariamente leggere questa storia per poter elaborare il proprio aneddoto, anche se, probabilmente, consultò una versione della vicenda a lui più congeniale. Il caso di Ippona fu narrato anche da Giovanni Boccaccio nella famosa raccolta di biografie femminili intitolata De mulieribus claris, la cui edizione a stampa, sia in latino, sia in volgare, poteva essere facilmente accessibile allo scrittore aretino. Su Ippona Boccaccio scrisse:

Hyppo greca fuit mulier, ut ex codicibus veterum satis percipitur; quam vix credam unico tantum optimo valuisse opere, cum ad altiora conscendamus gradibus, eo quod nemo summus repente fiat. Sed postquam vetustatis malignitate et genus et patria ac cetera eius facinora sublata sunt, quod ad nos usque venit ne pereat, aut illi meritum subtrathaur decus, in medium deducere mens est. Accepimus igitur Hypponem hanc casu a nautis hostibus captam. Que cum forte forma valeret sentiretque predonum in se pudicitiamque suam teneri consilium, tanti castitatis decus existimavit, ut cum, nisi per mortem servari posset cerneret, non expectata violentia, in undas se dedit precipitem; a quibus sublata vita et pudicitia servata est. Quis tam severum

52 «Per fare ora seguire esempi stranieri a quelli patrii, una donna greca, di nome Ippona, catturata da una flotta nemica, per preservare con la morte la sua verginità si gettò in mare. Del suo corpo, arenatosi sul litorale di Eritre e sepolto assai vicino alla riva, si può vedere ancora oggi il tumulo: e i greci ne tramandarono la gloria eterna, rendendone ogni giorno più viva la memoria con le loro continue lodi» (VALERIO MASSIMO, FARANDA 1971, pp. 460-461).

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muliebris consilium non laudet? Paucis quidem annis, quibus forsan vita protendi poterat, castitatem redemit et immatura morte sibi perenne decus quesivit. Quod virtutis opus procellosum nequivit mare contegere nec desertum auferre litus quin literatum perpetuis monimentis suo cum honore servaretur in luce. Corpus autem postquam ab undis aliquandiu ludibrii more volutatum est, ab eisdem in eritreum litus inpulsum, a litoranis naufragi ritu sepltum est. Tandem cum ferret ab hostibus exorta fama quenam foret et mortis causamm ab Eritreis summa cum veneratione sepulcri locus in litore ingenti tumulo atque diu mansuro in servati decoris testimonium exornatus est, ut noscamus quoniam nullis adverse fortune tenebris lux possit obfuscari virtutis53.

Ossia:

Ippona fu greca, come si apprende dagli scrittori antichi. A stento io crederei che si sia segnalata solo per un’eccellente impresa, poiché noi uomini per gradi saliamo alle più eccelse vette e nessuno d’improvviso diviene sommo. Ma poiché la malignità del tempo ci tolse il ricordo della sua stirpe, della sua patria e delle altre sue imprese, è mia intenzione di presentare di lei quel tanto che fino a noi è giunto in modo che l’onore ad essa dovuto non si dilegui né le venga sottratto. Sappiamo dunque che Ippona fu catturata per caso da naviganti nemici sul mare. Era assai bella e presto si accorse che i corsari stavano consultandosi per violare la sua pudicizia. Ella tanto stimò il decoro della proprià castità, che, non vedendo altro mezzo di salvarla, se non colla morte, si gettò in mare, senza aspettare che la violentassero. Così dai flutti le fu tolta la vita, ma salvata la pudicizia. Chi non loderebbe così grave decisione di donna? Col prezzo di quei pochi anni di cui poteva forse essere allungata la sua vita riscattò la propria castità; e con una morte precoce si acquistò la gloria eterna. Il mare tempestoso ricoprendola e il lido deserto strappandola, non poterono impedire che la sua impresa gloriosa fosse serbata alla luce, con grande onore per lei, dal perenne ricordo delle lettere. Il suo corpo invece, sballottato come uno zimbello dai flutti, fu dagli stessi gettato sul lido eritreo, dove ricevette dagli abitanti sepoltura,

53 BOCCACCIO, BRANCA 1967, X, pp. 214-217.

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come se fosse stato di un naufrago. Quando poi i nemici fecero sapere la sua identità e la vera causa della sua morte, il luogo del sepolcro sul lido fu abbellito dagli Eritrei con un gran tumulo, destinato a rimanere a lungo come testimonianza dell’onore da Ippona difeso. Così essi vollero farci sapere che la luce della virtù non può mai essere oscurata dalle tenebre di avverso destino54.

È manifesto il parallelismo tra l’Ippona della versione boccaccesca e la moglie di Cola dell’Amatrice. Un confronto diretto tra i due testi può confermare tale rapporto di dipendenza. Entrambe le donne erano giovani e di bell’aspetto, se Ippona fu descritta come «molto bella» e colpita da una «morte precoce», anche la moglie di Cola, a detta di Vasari, fu una «bellissima giovane». Nel racconto dell’aretino i militari che inseguirono il pittore lo fecero «più per cagione di lei […] che per altro»55, essendo esplicitamente interessati ad usare violenza

sessuale nei confronti dell’affascinante donna, più che ad inseguire il marito; analogamente, su Ippona, Boccaccio ha riferito che i soldati nemici, una volta che la donna fu da loro «catturata per caso […] sul mare»56, si dimostrarono

intenzionati, proprio come i mercenari dell’episodio vasariano, a «violare la sua pudicizia»57. Ormai consce del pericolo in cui

erano incappate, entrambe le giovani si comportarono allo stesso modo. Per quel che concerne la moglie di Cola, «ella si risolvé, non vedendo di potere in altro modo salvare a sé l’onore et al marito la vita, a precipitarsi da un’altissima balza in un fondo»58. Ippona, a riguardo, «ella tanto stimò il decoro della

propria castità, che, non vedendo altro mezzo di salvarla, se non colla morte si gettò in mare, senza aspettare che la

54 BOCCACCIO, BRANCA 1967, X, pp. 214-217.

55 VASARI, BETTARINI, BAROCCHI, 1966-1987, II, p. 229.

56 BOCCACCIO, BRANCA 1967, X, p. 215.

57 BOCCACCIO, BRANCA 1967, X, p. 215.

58 VASARI, BETTARINI, BAROCCHI, 1966-1987, II, p. 229.

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violentassero»59. E se il corpo di entrambe le giovani subì gravi

percosse a causa di un cinico destino – ed in effetti della moglie di Cola «pensarono tutti che ella si fusse, come fu in vero, tutta stritolata nonché percossa a morte»,60 mentre Ippona «Il suo

corpo invece, sballottato come uno zimbello dai flutti, fu dagli stessi gettato sul lido eritreo»61 – non così fu per la loro fama,

degna di eterni riconoscimenti. Infatti, entrambi gli scrittori decisero di rendere giustizia alla memoria delle loro eroine grazie al «perenne ricordo delle lettere»: Boccaccio su Ippona disse «Chi non loderebbe così grave decisione di donna […] con una morte precoce si acquistò la gloria eterna»62 e

similmente Vasari per la moglie di Cola asserì «Morta dunque questa singolar donna, degna d’eterna lode, visse maestro Cola il rimanente della sua vita poco lieto»63. E viene quasi da

chiedersi se il solitario e vecchio Cola dell’Amatrice avrebbe realmente apprezzato le nozze combinategli da Vasari con la versione controriformata di Ippona greca.

59 BOCCACCIO, BRANCA 1967, X, p. 217.

60 VASARI, BETTARINI, BAROCCHI, 1966-1987, II, p. 229.

61 BOCCACCIO, BRANCA 1967, X, p. 217.

62 BOCCACCIO, BRANCA 1967, X, p. 217.

63 VASARI, BETTARINI, BAROCCHI, 1966-1987, II, pp. 229.

UNA «SINGOLAR DONNA DEGNA D’ETERNA LODE»

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Didascalie Fig. 1. Raffaello e aiuti, Visitazione. Madrid, Museo National del

Prado, proveniente dalla chiesa di San Silvestro all’Aquila. Fig. 2. Cola dell’Amatrice, Facciata della chiesa di San Bernardino.

L’Aquila.

UNA «SINGOLAR DONNA DEGNA D’ETERNA LODE»

Horti Hesperidum, III, 2013, 1 343

1

L. PEZZUTO

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2

GLI APPARTAMENTI DI PAOLO IV IN VATICANO:

DOCUMENTI SU PIRRO LIGORIO E SALLUSTIO PERUZZI

FEDERICA BERTINI

Un’analisi puntuale dei registri di spesa pontifici, i Camerali 1296, 1297 e, soprattutto, 12981, conservati nell’Archivio di Stato di Roma, ci permette in queste pagine di illustrare alcune fasi dell’allestimento degli appartamenti di papa Paolo IV in Vaticano, negli anni tra il 1555 e il 1558, ad opera di un grande numero di artisti, operai e artigiani variamente specializzati, coordinati da Sallustio Peruzzi e da Pirro Ligorio. Gli appartamenti La direzione del cantiere era affidata all’architetto Sallustio Peruzzi, successivamente affiancato da Pirro Ligorio, architetto ed antiquario ormai ben affermato che, originario di Napoli, vantava adesso di essersi formato nella Roma degli anni Trenta alla scuola di Baldassarre Peruzzi.

1 Appositamente trascritto ed indicizzato (adesso in corso di pubblicazione).

F. BERTINI

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Le informazioni di cui disponiamo sull’attività di Sallustio, figlio di Baldassarre, sono molto scarse2. Sappiamo del suo impegno nella risistemazione delle fortificazioni di Tivoli, volute proprio da papa Carafa; ci sarà utile ricordare, al riguardo, la testimonianza dovuta al tiburtino Giovanni Maria Zappi, contemporaneo di Ligorio, su cui di recente Carmelo Occhipinti ha richiamato l’attenzione degli studiosi:

Giunge contemporaneamente da Roma [scil. a Tivoli] un ingegnere pontificio chiamato Sallustio, il quale ne’ suoi piani militari aveva segnato anche quello della demolizione della maggior parte del Quartiere di Santa Croce per costruire in quel luogo bastioni e trincee. Questa risoluzione peraltro sembrò così stravagante e ruinosa che fece nascere un popolare tumulto, e poco mancò che

il signor architetto non venisse accoppato3. Questo «ingegnere pontificio chiamato Sallustio» sembrerebbe aver goduto di un ruolo importante all’interno della corte papale4. Proprio Michelangelo, in una lettera datata il 28 maggio 1556, informava Giorgio Vasari di aver chiesto a Sallustio di intercedere presso il Carafa, affinchè il pittore fiorentino potesse ottenere la tanto attesa ricompensa per una pala d’altare, commissionata e consegnata al tempo di Giulio III5. La

2 PORTOGHESI 1970, p. 500, vol. 2. Si rinvia, per la bibliografia, alla recente

monografia di SEIDEL 2002. 3 OCCHIPINTI 2009, p. 218.

4 Lo studioso De Maio riporta che nel gennaio del 1558 Sallustio Peruzzi era

«architetto» prediletto di Paolo IV. Inoltre viene definito come architetto del conclave dello stesso papa (ANCEL 1908, p. 51, vol. XXV) e assunto immediatamente dopo l’elezione pontificia come «architector Suae Sanctitatis» (CAMERALE 898). È menzionato nel pagamento del 16 giugno 1555 come «architetto nuovo di Sua Beatitudine» (CAMERALE 898, f. 90; CAMERALE 900, ff. 58, 59, 60v, 65 v, 66; CAMERALE 1296 D, f.16; CAMERALE 1297, ff. 17v, 20 v, 39 v, 44 v, 54 v, 60). 5 La lettera venne inviata da Michelangelo come risposta a Vasari per la sua

richiesta di pagamento di una tavola dove era raffigurata la scena della «Chiamata degli Apostoli Pietro ed Andrea» commissionata da Giulio III, ormai deceduto, per essere collocata nella sua cappella. ENEA 2010, p. 19

GLI APPARTAMENTI DI PAOLO IV IN VATICANO

Horti Hesperidum, III, 2013, 1 347

vicenda suggerisce una riflessione sugli stretti rapporti confidenziali che a quel tempo intercorrevano tra l’architetto ed il papa; sempre Michelangelo riferirà al Vasari che Paolo IV non prendeva decisioni in merito a opere d’arte senza essersi prima consigliato col Peruzzi6. Proprio a partire dal 16 giugno del 1555, Sallustio riceveva una ricompensa mensile di 18 scudi d’oro, in veste di «architetto nuovo di Sua Beatitudine»7:

A Maestro Sallustio, architetto nuovo di Sua Beatitudine per sua provvisione del mese presente cominciata dal primo giorno,

concessali da Nostro Signore scudi 18 di oro8. A differenza di altri, egli riceveva dunque una quota fissa, a dimostrazione di un suo continuo impegno, non occasionale, al servizio del papa, giacché proprio in questi anni era già lui a dirigere i lavori nel Palazzo Apostolico. Ma ripercorriamo le fasi del cantiere degli appartamenti papali, ritornando a una lettera del 17 ottobre del 1556 redatta dall’ambasciatore fiorentino Bongianni di Jacopo Gianfigliazzi9, allora stabilmente a Roma, dove troviamo riportata la motivazione che spinse Paolo IV ad abbandonare gli appartamenti di Giulio II10, già subito dopo la sua elezione:

Le stanze ch’era solito abitar Nostro Signore perché minacciavano ruina, ha causato che Sua Santità s’è ritirato a abitar nelle stanze nuove che fece Giulio sopra il corridore, che va a Belvedere, per

6 VASARI, FREY 1923, p. 451, vol. I.

7 CAMERALE 898, f. 90; CAMERALE 900, ff. 58, 59, 60v, 65 v, 66; CAMERALE

1296 D, f. 16; CAMERALE 1297, ff. 17v, 20 v, 39 v, 44 v, 54 v, 60 v. 8 A tale proposito, l’Ancel consiglia la consultazione anche del mandato del

14 maggio 1555: Ad bonum computum fabrice constructionis conclavis pro creatione Pont. proxime creaudi (Roma, Archivio di Stato, Mand. 1553-1555, f. 227). Cfr. ANCEL 1908, p. 51, n.1, vol. XXV. 9 Bongianni di Jacopo Gianfigliazzi era ambasciatore a Roma dal 1556 al

1560. 10 Al secondo piano del Palazzo Apostolico presso il braccio orientale

dell’attuale Cortile del Papagallo. Cfr. ACKERMAN 1954, pp. 83-86.

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non rimanere alla stiaccia, et io ho visto quella stanza che la chiamano la camera verde, il palco essere inclinato più di quattro gradi di braccio e fesso tutto lo adorramento del detto palco e dicono essere rotta una trave e nelle altre stanze ancora ove dormiva Sua Santità fatto el medesimo, di modo che sta ora del

continuo in dette stanze nuove11. Proprio l’avanzato stato di degrado in cui quelle stanze riversavano sembrerebbe aver costretto il Carafa a ritirarsi nell’appartamento di Giulio III del Monte, collocato nell’angolo sud-orientale del terzo e quarto piano del cortile del Belvedere12. La «camera verde», menzionata dal Gianfigliazzi, è stata identificata come una di quelle piccole stanze che si affacciavano verso l’attuale cortile del Papagallo e che il Carafa progettava di distruggere per fare spazio ad una nuova loggia13. Considerando la data riportata nella lettera, è presumibile che già a partire dall’ottobre del 1556 il papa avesse abbandonato l’appartamento Medici e che, quindi, l’opera di rifacimento delle stanze nuove avesse avuto inizio già dai primi mesi della sua elezione. Ad avvalorare questa ipotesi, un pagamento, riportato nel Camerale 1296, risalente al giugno del 1555 (ovvero a due settimane dopo l’elezione), attesta che tale muratore Geronimo era impegnato nel rifacimento della camera del pontefice e della cappella delle nuove stanze:

A maestro Geronimo muratore a buon conto dei suoi lavori di muro in Palazzo Apostolico alla camera di Nostro signore e alla

cappella delle stanze nuove, 30 scudi14.

11 ANCEL 1908, p. 49, n. 3, vol. XXV. ACKERMAN 1954, p. 83.

12 FEA 1819, pp. 166-167.

13 Queste piccole stanze trovavano la loro collocazione vicino la famosa Sala

di Costantino, anch’essa manomessa dal pontefice. Cfr. COFFIN 2004, pp. 29 e 31. 14 ANCEL 1908, pp. 50-52, vol. XXV.

GLI APPARTAMENTI DI PAOLO IV IN VATICANO

Horti Hesperidum, III, 2013, 1 349

Risultano dunque numerosi pagamenti a favore di muratori, fabbri, falegnami, scalpellini e pittori già a partire dal primo giugno dello stesso anno. Tra i vari protagonisti di questa fase iniziale: gli scalpellini Domenico Roscelli, Nicolò Bresciano, Benedetto Schela, Lorenzo Benuccio e tale Ridolfo; il muratore Geronimo Fabrici, che abbiamo appena incontrato; il falegname Giovanni Fregosino; il fabbro Pellegrino ed il pittore Pietro Venale. Questi stessi nomi saranno ricorrenti anche nei rendiconti degli anni successivi. I pagamenti continuano anche nei mesi compresi tra aprile e settembre del 1555, a favore di: Angelo Ferraro, Pietro «chiavaro» in Agona e Francesco falegname (definito anche falegname di Palazzo, probabilmente da indentificarsi con l’intagliatore Francesco da Volterra). Una spesa risalente al primo luglio riporta la realizzazione di una base per la cappella Nuova di Paolo IV, dove, come già evidenziato, i lavori di muratura iniziarono solo appena dopo due settimane dall’elezione pontificia:

1° luglio, Maestro Nicolo scalpellino riceve 5 scudi a un buon Conto della base che lui fa per la cappella Nuova di Nostro

Signore, alle stanze del Corritore di Belvedere15. In questa fase, dunque, è già all’opera Nicolò Longhi da Viggiù, che ritroveremo successivamente, tra gli anni cinquanta e sessanta, in stretta collaborazione con Pirro Ligorio, non solo nel Casino di Pio IV ma anche nel cantiere della villa d’Este di Tivoli16. Sempre dai pagamenti effettuati nel 1555, e durante i

primi mesi del 1556, sono cospicui gli interventi all’interno delle stanze, più che nella cappella Nuova, mentre al termine del primo anno di pontificato risulta frequente il coinvolgimento dei falegnami più che dei muratori17. Ciò denota che il grosso

15 ANCEL 1908, pp. 50-51, n.6, vol. XXV.

16 OCCHIPINTI 2009, pp. 236, 238, 381, 382,382.

17 ANCEL 1908, p. 51, vol. XXV.

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dei lavori strutturali era ormai in via di conclusione. Ricordando però le parole del Gianfigliazzi, Paolo IV dovette risiedere in questi luoghi già a partire dalla metà dell’ottobre 1556. A quella data solo la Cappella rimaneva inconclusa18. Se i lavori agli appartamenti vennero terminati in così breve tempo, occorre presupporre, come vedremo, che il pontefice avesse lasciato quasi del tutto immutate le residenze di Giulio III. Inoltre l’assiduo intervento, nei primi mesi, di muratori, scalpellini e falegnami, denota un impegno più che di natura decorativa, di natura strutturale. Gran parte del lavoro di muratura sembra, però, essere concluso già all’inizio del 1556. Ciò lascia pensare, come già detto, a modifiche e rifacimenti più che ad una ricostruzione ex novo. Come vedremo, infatti, in alcune stanze permangono, a tutt’oggi, testimonianze pittoriche risalenti all’epoca di Giulio III. Effettivamente è possibile individuare, alla luce di quanto finora documentato e sulla base delle parole del Vasari, due degli interventi più importanti – e decisamente invasivi rispetto alla preesistente situazione – realizzati dal Carafa: l’erezione della cappella Nuova, ricavata dalla chiusura della loggia di Giulio III, e quella delle stanze nuove situate «sopra il corridore di Belvedere». Per quanto riguarda la cappella Segreta, o cappella Nuova, i rendiconti mostrano pagamenti già a partire dal giugno del 1555. Proprio la realizzazione di quest’ultima comportò la chiusura di una loggia degli appartamenti del Monte che, a detta del Vasari, sarebbe stata decorata con «tutte le fatiche di Ercole»19 da Taddeo Zuccari (assieme al quale lo stesso Vasari aveva lavorato a Villa Giulia e nella Sala Regia del Palazzo Apostolico). Taddeo dovette anche «dipignere in alcune stanze sopra il corridore di Belvedere alcune figurette colorite, che servirono per fregi di quelle camere»20.

18 FEA 1819, pp. 166-167.

19 VASARI 2001, p. 1180; Enea 2010, p. 23.

20 VASARI 2001, p. 1180; Enea 2010, p. 23.

GLI APPARTAMENTI DI PAOLO IV IN VATICANO

Horti Hesperidum, III, 2013, 1 351

Una stima dei lavori «Reveduta e tassata per Pirro Ligorio architetto il dì 4 di marzo 1559»21, scritta dal pittore Pietro Venale, testimonia che il Carafa aggiunse alcune camere sopra l’appartamento del Monte, precisamente al quarto piano, tra cui era proprio la sua camera da letto. Venale stesso dichiara di aver contribuito alla decorazione di alcuni ambienti:

Stima dei lavori di pittura fatti per mano di Maestro Pietro Venale pittore, fatti detti lavori nel Sacro Palazzo Apostolico […]. Nella prima camera per entrare sopra al corridoio quale va in Belvedere, per aver fatto un fregio a una facciata della detta camera fatto di figure colorite in campo azzurro con varie figure, parte sopra il carro trionfante e parte innanzi con putti che buttano fiori sopra il carro e nelle cantonate del detto fregio due figure in abito di termini di chiaro e scuro con l’ornamento delle dette cantonate di chiaro e scuro con un tondo finito di bronzo con una figura dentro per ciascheduno tondo con il suo architrave di chiaro e scuro tutto intagliato con teste di maschere e fogliame. Stimato insieme Scudi 25. E più stimiamo la volta della loggia di Belvedere cioè nel mezzo di detta volta due tondi grandi con i raggi nel mezzo un’arma della felice memoria di Papa Innocenzo coloriti. In lo entrare di detta loggia dietro la porta un pilastro dal mezzo in gioso dipinto e messo di oro e raconciata la detta porta con il basamento sotto la finestra della Cappella con le bande di qua e di là dalla detta finestra sopra gli archi di detta volta […] fatte le arme del detto Pontifice dove erano quelle della felice memoria di Papa Giulio e sopra una finestra che guarda verso prato v’è dipinto un mazzo di festoni dove era il petafio di lettere detto Papa Giulio e due finestre che guardano verso il giardino dei merangoli fatte di nuovo dipinte a paesi che accompagnano l’altra pittura e nell’altra loggia dipinto un paese sopra la finestra che guarda verso prato con una cornice finta intorno […]. Scudi 60. E più stimato un palio tutto dorato nella camera nuova che Sua Santità ha fatta far sopra quelle di Papa Giulio III quale ha la finestra che guarda verso il bosco e la porta che riesce […] nella

21 ACKERMAN 1954, pp. 171-172, doc. 115.

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camera dove dorme Sua Santità tutto il parco dorato di oro. Scudi 200. E più stimato una Cappella con un frontespizio finto di marmo con l’arma di Sua Santità dorata […] Scudi 25. E più stimiamo uno palco nella stanza nova dove Sua Santità volle che si faccia il coro per la musica della cappella, il detto palco e li balaustri dello sopradetto coro con le sue cornici, Scudi 50. Addì 26 marzo 1558, … per aver dipinto due angeli quali ha fatto il disegno Pirro Ligorio architetto di Sua Santità dipinti in tavola di grandezza sei palmi l’uno tutti e due dipinti di colori fini con tempera quali sono di qua e dillà dell’altare in cappella montano… scudi 7.

Lo stesso pittore, attivo durante il pontificato Medici, sotto la direzione dello Zuccari, proseguirà il suo impegno al servizio di Paolo IV, come è confermato dai pagamenti pontifici22. Il

22 Pietro Venale da Imola lavora durante il pontificato di Giulio III alle

lunette con figure di nudo femminile della Galleria del Primaticcio di Palazzo Firenze, dove è attivo anche il pittore Prospero Fontana. Egli poi è impegnato alla decorazione di Villa Giulia dove, assieme all’esperto di grottesche Pietro Veltroni, dipinge amorini e uccelli per il portico circolare del primo piano (CARUNCHIO 2000, p. 25). Esperto di grottesche e stuccatore è coinvolto poi in Vaticano tra il 1541 ed il 1558. Proprio per Giulio III in questi luoghi esegue le decorazioni di alcune stanze (SANTAGATI 2004, p. 18). Egli continuerà poi a lavorare per Paolo IV (come testimonia anche la stima dei lavori da lui stesso redatta). Nel CAMERALE 1298 è riportato un pagamento a suo favore risalente al novembre 1557: «A Maestro Pietro Pittore per pagare alcune giornate al cartone del paliotto dell’altare della cappella, Scudi 2,3». Inoltre, stando ancora a quanto riportato dalla stima da lui stesso redatta, dipinge due angeli disegnati da Pirro Ligorio, su tavola di sei palmi da collocarsi ai lati dell’altare della cappella voluta dal papa Carafa. In base alle notizie riportate dal fondo Camerale A.S.R I, Fabbriche B 1517, il pittore riceve inoltre pagamenti tra il 1550 ed il 1555: «Maestro Pietro da Imola a buon conto della sua pittura nell’ultima stanza del Corridore scoperto di Belvedere» (ff. 62v, 68v); «per la pittura a grottesco e per stucco a oro alla seconda camera nova, dico alla volta del dado […]; per la pittura di un fregio della predetta camera da sopra appresso le vecchie lavorato a grottesco sopra lo stucco con un quadro a paese per facciata della stantia, li altri quadri a grottesche con imprese del PP. e di S.S.R.ma […]; per la pittura e oro nel studiolo appresso le stanze

GLI APPARTAMENTI DI PAOLO IV IN VATICANO

Horti Hesperidum, III, 2013, 1 353

Carafa dunque continuò ad impiegare anche gli stessi artisti ed artigiani già coinvolti nei cantieri del suo predecessore. Tornando alle nuove stanze, osservando le due ben note incisioni pubblicate da Antoine Lafréry (figg. 1-2)23 si può

notare la presenza, nell’angolo sud-est del Cortile del Belvedere, di un segmento del quarto ordine, probabilmente iniziato da Antonio da Sangallo al tempo di Giulio III o addirittura di Paolo III24, e poi concluso dal Carafa25 (come osservato da Pietro Venale nella sua perizia). Un disegno con una veduta dall’alto dal Palazzo Apostolico (fig. 3), oggi attribuito a Giovan Battista Naldini26 (ma per molto tempo a Giovanni Antonio Dosio), datato tra il 1558 e il 1561 (a conclusione del pontificato Carafa o all’inizio di quello Medici), mostra come a quel tempo dovesse presentarsi il cortile bramantesco. Ancora lontano dall’essere concluso, il Belvedere mostrava solamente l’ala est, mentre il Cortile della Pigna l’emiciclo centrale della facciata della Villa di Innocenzo VIII. Per quanto riguarda il cortile superiore, oltre al primo piano di ordine porticato, è possibile osservare la costruzione di una parte del secondo, voluto proprio da Pio IV (ciò renderebbe plausibile una datazione del disegno all’epoca del pontificato Medici). La corte intermedia presentava invece due piani, mentre quella inferiore tre ordini sovrapposti. Ma in questo caso non è possibile, a causa del taglio della veduta, dimostrare se effettivamente fosse stato già dato inizio al quarto

vecchie […]; per la pittura della loggetta che riesce dove stanno i trombetti […]; per la pittura del dato in su della prima camera della sala e sopra» (ff. 28v, 29v). Cfr. ACKERMAN 1954, pp. 165-168.

23 LANCIANI 1990, pp. 238-239, vol. III. 24 HESS 1967, p. 151, vol. I.

25 ACKERMAN 1954, pp. 171-172, doc. 115.

26 GAMBI, PINELLI 1994, pp.34-41, vol. I. Lanciani attribuiva il disegno a

Giovanni Antonio Dosio (LANCIANI 1990, p. 235, vol. III).

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piano. Tuttavia è evidente che tutta l’ala ovest era impostata solo a livello delle fondamenta27. Per illustrare gli interventi negli appartamenti di Giulio III ed identificare cosa di essi rimane oggi visibile, occorre prima di tutto ripercorrerne brevemente la storia. L’appartamento di Paolo IV subì in effetti diverse vicissitudini; ciò che oggi rimane è noto sotto il nome di Appartamento della Guardia Nobile. I successori non dimorarono in queste stanze, e solo con l’elezione di papa Urbano VIII (1623-1644) vennero intraprese campagne di restauro e di ridipintura. Il pontefice Barberini ordinò il rifacimento pittorico delle stanze che, a quel tempo, versavano in uno stato di degrado, mantenendo in parte intatte le decorazioni esistenti; inoltre ridefinì i due ambienti attigui all’appartamento dando luogo ad una nuova stanza, quella detta di Carlo Magno, e ordinò la ristrutturazione di un’altra camera, quella detta della Contessa Matilda28, che diede il nome a tutto l’appartamento29. Con Alessandro VII Chigi, nel 1658, esso venne poi trasformato in mezzanino, fino al corpo della biblioteca30. Queste notizie, assieme a quanto riportato da Pietro Venale, ai rendiconti camerali, alle testimonianze dei contemporanei e di attenti osservatori settecenteschi, quali Agostino Taja e Giovanni Pietro Chattard, si rendono per noi utilissime ai fini di una ricostruzione dell’assetto decorativo degli appartamenti.

27 Dopo la morte di Donato Bramante, nel 1514, il progetto del Belvedere

subì un arresto, per poi essere ripreso con papa Paolo IV. Sarà Pio IV a riprendere i lavori in quest'ala aggiungendo il catino del nicchione ed il loggiato che lo corona. Egli si servì dell'architetto Pirro Ligorio, fece inoltre realizzare un piano superiore ai corridoi del Cortile della Pigna e sostituì con una scala doppia quella circolare già esistente nel nicchione. Cfr. HESS 1967, pp. 143-150. 28 Questa camera, attigua a quella di Carlo Magno e collocata tra il Palazzo

nuovo e quello antico, avrebbe dovuto ospitare temporaneamente le spoglie della contessa (ENEA 2010, p. 83). 29 MORONI 1741, p. 65, vol. 9.

30 HESS 1967, p. 151, vol. I.

GLI APPARTAMENTI DI PAOLO IV IN VATICANO

Horti Hesperidum, III, 2013, 1 355

Proprio dalla Sala di Carlo Magno, dalle due porte di fondo rispettivamente sormontate da due dipinti in chiaroscuro che vedono come protagonista Clemente XIII31, a cui si deve un importante intervento di restauro e riallestimento, si accede alla prima anticamera degli appartamenti di Paolo IV. Ci sarà utile qui riportare le parole di Giovanni Pietro Chattard, autore della Nuova descrizione del Vaticano, edita nel 1776, che indica con precisione i diversi modi per accedere, negli ultimi decenni del Settecento, a quello che egli chiama ancora l’appartamento di Giulio III (e di conseguenza a quello di Paolo IV):

Per una scaletta, la quale ha il suo ingresso dal quarto branco della Cordonata, che dal Cortile di Belvedere sale al Corridore della Cleopatra. Il secondo ingresso lo riceve dalla scala a lumaca di Belvedere, come verrà dimostrato a suo luogo; e finalmente il terzo e più comodo adito, il ritrae dalla sopraenunciata porta, la

quale nella prima anticamera di questo appartamento introduce.32 La prima anticamera delle «stanze nuove», che stando alle descrizioni più antiche presentava una ricca decorazione con «diverse figurine»33 e «scherzi di putti, di maschere, di baccanali e di altre poetiche fantasie»34 all’interno dei riquadri lignei dell’attuale soffitto, sembra aver mantenuto, evidentemente anche grazie ai restauri del papa Barberini, gran parte delle decorazioni pittoriche dovute agli interventi di Paolo IV e prima ancora di Giulio III. Proprio al di sotto del soffitto, sulle pareti, corre un fregio con sfondo turchino che ospita numerosi puttini che giocano tra le lettere dorate che formano la dedicatoria al papa del Monte: «JULIUS III. PONTIFEX OPT. MAX.»35.

31 Papa Clemente XIII intraprese lavori di restauro presso la Sala di Carlo

Magno tra il 1768 ed il 1769 (ENEA 2010, pp. 92-104). 32 CHATTARD 1776, p. 195, vol. II.

33 CHATTARD 1776, p. 195.

34 TAJA 1750, p. 203.

35 TAJA 1750, p. 203.

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Proprio Pietro Venale36 afferma, nel suo rendiconto, di aver a sua volta dipinto una parte del fregio della prima anticamera con putti che gettano fiori, precisamente in una delle pareti della camera:

Nella prima camera per entrare sopra al corridoio quale va in Belvedere, per aver fatto un fregio a una facciata della detta camera fatto di figure colorite in campo azzurro con varie figure, parte sopra il carro trionfante e parte innanzi con putti che buttano fiori sopra il carro e nelle cantonate del detto fregio due figure in abito di termini di chiaro e scuro con l’ornamento delle dette cantonate di chiaro e scuro con un tondo finito di bronzo con una figura dentro per ciascheduno tondo con il suo architrave di chiaro e scuro tutto intagliato con teste di maschere e fogliame.

Stimato insieme Scudi 2537. Il pittore afferma di aver dipinto il fregio su «un campo azzurro», con un carro trionfante, putti che gettano fiori ed ai margini di esso due figure e due medaglioni «di chiaro e scuro», dimostrando di aver ripreso comunque la tematica dei decori già esistenti. Nonostante la parte del fregio, decorata da Venale, sia andata perduta a causa dei restauri promossi da Urbano VIII38, il resto è a tutt’oggi visibile e può essere proprio attribuito ad un primo intervento, risalente all’epoca di Giulio III; l’intervento di Pietro Venale è da collocarsi, dunque, solo in un secondo tempo, probabilmente in occasione dei restauri intrapresi da Paolo IV.

Quest’ultimo papa, già in questa prima anticamera dovette soltanto integrare senza stravolgere la planimetria ed i decori voluti da Giulio III; stando anzi alle parole del Venale, possiamo constatare come il pontefice cercasse una continuità, riprendendo temi e tipologie esistenti. Egli mantenne addirittura, come è possibile ammirare ancora oggi, la

36 ENEA 2010, p. 26.

37 ACKERMAN 1954, pp. 171.172, doc. 115.

38 ENEA 2010, p. 26.

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dedicatoria con lettere dorate a Giulio III così come lo stemma del Monte del pavimento in cotto39. Per quanto riguarda la paternità delle pitture realizzate al tempo di Giulio III in questa stanza, l’intervento di Taddeo Zuccari è ricordato solo dal Vasari, ma non trova riscontri documentari. Probabilmente Vasari intendeva riferirsi ad un intervento soltanto progettuale dello Zuccari. Taddeo aveva lavorato, assieme a Perin del Vaga, a Pietro Venale e a Prospero Fontana40, alla decorazione di Villa Giulia negli stessi anni del cantiere vaticano. Ma proprio Vasari riporta che Taddeo venne anche coinvolto da Giulio III nella decorazione in Vaticano, oltre che nella villa:

Perciò che, piacendo a quel Papa il suo modo di fare, gli fece dipignere in alcune stanze sopra il corridore di Belvedere alcune figurette colorite, che servirono per fregii di quelle camere; et in una loggia scoperta, dietro quelle che voltavano verso Roma, fece nella facciata di chiaro scuro, e grandi quanto il vivo, tutte la fatiche di Ercole, che furono al tempo di Papa Pavolo Quarto

rovinate per farvi altre stanze e murarvi una cappella41. Al tempo di Giulio III lo Zuccari avrebbe dunque avuto il compito di dipingere «figurette colorite che servirono per fregi» in alcune stanze sopra il Corridoio del Belvedere che potrebbero coincidere con quelle del fregio di Giulio III prima descritto. Non è possibile però definire con certezza la paternità dell’opera ma è comunque possibile pensare che essa venne affidata all’équipe degli artisti già attivi a Villa Giulia. Le stesse finestre senza la cimasa, la trabeazione delle porte e la decorazione pittorica delle altre stanze sembrano richiamare proprio quel cantiere42.

39 ENEA 2010, p. 27.

40 Sia Prospero Fontana che Taddeo Zuccari furono allievi di Perino.

41VASARI, BAROCCHI, BETTARINI 1966-1987, ed. 1568.

42 ENEA 2010, p. 20.

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In conclusione, il confronto tra quanto è ancora visibile dell’anticamera, le testimonianze di contemporanei e le descrizioni degli osservatori successivi, ha reso possibile prendere atto di come, in linea generale, essa abbia conservato l’aspetto che avrebbe dovuto mostrare al tempo di Paolo IV, il quale a sua volta si era preoccupato di mantenere pressoché inalterato l’assetto voluto da Giulio III. In questo caso verrebbe avvalorata l’ipotesi precedentemente esposta, che vede il Carafa dedicarsi per lo più agli interventi di natura strutturale che a quelli decorativi nell’appartamento. Continuando il percorso, si raggiunge la seconda anticamera, detta oggi «Stanza della Consegna»43. In linea con quella precedente è la decorazione del soffitto, anch’esso suddiviso in riquadri che in questo caso avrebbero però dovuto ospitare diverse specie di uccelli dipinti. L’articolazione delle pitture parietali è invece caratterizzata da un grande fregio con diversi riquadri che ospitano alcuni paesaggi e vedute, tra cui la raffigurazione di Castel Sant’Angelo e della Girandola dove tra gli spettatori è possibile riconoscere «Giulio III in abito pontificio con un cardinale e due camerieri d’onore»44. L’allusione al papa del Monte continua nella parte centrale delle pareti lunghe, dove finte edicole «con fregio tondo, cornice e frontespizi rotti scartocciati con una testina nel mezzo che regge con la bocca due festoni, il tutto di chiaroscuro e due figure di giallo dipinte a sedere sopra i detti frontespizi, che reggono nel mezzo tre monti con un ramo d’olivo intorno», alludono all’emblema di Giulio III, mentre l’ape sottostante «la detta testina» si riferisce a quello di Urbano VIII45 (raffigurato in diverse scene). Nonostante le manomissioni dovute agli

43 A dare il nome all’anticamera è l’affresco raffigurante il Cristo che

consegna le chiavi a San Pietro. ENEA 2010, p. 45. 44 CHATTARD 1776, p. 195.

45 In questo caso la descrizione del Chattard si riferisce alla decorazione della

parete sinistra, al di sopra della finestra. La medesima raffigurazione caratterizza la parete opposta (CHATTARD 1776, p. 195). Si consiglia di visualizzare l’immagine riportata dall’Enea (ENEA 2010, p. 33, fig. 7).

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interventi Barberini, la presenza di scene che vedono protagonista Giulio III, accompagnate dall’emblema del Monte, dimostra ancora una volta come Paolo IV non stravolse quanto di già realizzato dal suo predecessore. La contigua «Sala delle Udienze» ricalca più o meno la stessa decorazione di quella appena considerata46. Tornando però alla prima anticamera, da essa è possibile accedere in una stanza47, detta del «Fregio dei Sette Colli»48, così chiamata per la decorazione che la contraddistingue. L’aspetto attuale di essa, nonostante qualche modifica, sembra rispettare la linea decorativa stabilita sotto Giulio III. Il fregio sottostante il soffitto ligneo si presenta come un finto cornicione, dove sono raffiguranti alcuni paesaggi mentre agli angoli si riconoscono i tre monti dell’emblema pontificio. Oltre ai sette colli, viene rappresentata anche Villa Giulia (dove in una delle sue stanze ricorre una decorazione analoga). Considerando quanto ipotizzato in precedenza riguardo il coinvolgimento di Taddeo Zuccari nella decorazione della prima anticamera, si potrebbe pensare ad un suo intervento, almeno progettuale, anche per questi fregi alla cui realizzazione avrebbe lavorato lo stesso Venale. Sono evidenti infatti analogie, non solo stilistiche, con quanto da lui realizzato a Villa Giulia. Evidentemente i due cantieri, la villa e gli appartamenti, avrebbero dovuto procedere di pari passo. Tornando alla Sala della Consegna, una porta dell’angolo della parete destra «con stipiti, architrave, fregio cornice e frontespizio acuto di marmo greco scorniciato, con iscrizione del fregio bisnodato di Paolo IV», conduce poi a quella che avrebbe dovuto essere la cappella Nuova49 voluta dal Carafa.

46 Quest’ultima stanza viene chiamata dall'Enea «Sala della Basilica di San

Pietro». Cfr. ENEA 2010, p. 34. 47 Essa è contigua alla cappella Nuova di Paolo IV.

48 ENEA 2010, p. 35.

49 CHATTARD 1776, p. 195. Sempre dalle parole del Chattard ricaviamo come

avrebbe potuto presentarsi la cappella al momento della descrizione da parte dell’autore: «quadrata con volta a botte e due pilastri per facciata con due

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La Cappella Nuova La cappella Nuova, voluta da Paolo IV, avrebbe dovuto ospitare il tabernacolo bronzeo commissionato a Pirro Ligorio, oggi collocato dietro l’altare del Duomo di Milano. L’allestimento di questa cappella, assieme alla sistemazione di altre stanze, provocò la chiusura di quella loggia dietro le camere che davano verso Roma, decorata con il ciclo delle

mezzi pilastri negli angoli con base e capitelli corinzi, questi sostengono un fregio e cornice dentellata che gira tutt’intorno. Nella parete di fronte l’ingresso c’è una nicchia con un pilastro per parte nella zona interna e mezzo pilastro negli angoli dipinti a chiaroscuro con base e capitelli dorati e con architrave fregio e cornice che girano intorno alla nicchia. Sopra ai due pilastri è esaltata da un arco a sesto scorniciato decorato da arabeschi e chiaroscuro con fondo rosso e tre armi dipinte di Paolo V. Nella zona sotto il sesto ci sono teste di angeli con ali e campo turchino. Nella volta della nicchia c’è Padre Eterno con gloria di angeli e spirito santo con corte di altri angeli grandi. La nicchia dalla cornice in giù è ornata da diversi riquadri di pietre mischie dipinte a chiaroscuro. Poi nel mezzo c’è l’altare di marmo sopra cui c’è un quadro in tela con cornice intagliata e dorata rappresentante la Madonna e Gesù bambino in seno. Due finestre bislunghe con sesto tondo scorniciato di marmo situate una per parte ai lati dell’altare, con vetri decorati con arabeschi e in una di esse c’è San Pietro con l’arme di Pio IV» (CHATTARD 1776, pp. 204-205). Il Taja riporta però che la cappella era già presente al tempo di Giulio III, anche se la tribuna fu ridipinta da Paolo V, in quanto presenta le arme di casa Borghese dipinte in diversi siti. Sotto «d’una superba ringhiera di marmi a mano manca dell’ingresso campeggi un’arme in pietra colorata di Paulo IV». Inoltre «allato a questa cappella è una stanza come se fosse sagrestia, da cui si sale su detta ringhiera». Nel soffitto della sagrestia, intagliato e con cornici, «negli scompartimenti ci sono i 4 evangelisti su gusto degli scolari di Raffaello». Il Taja procede scrivendo che «l'altra stanza al lato destro della prima stanza e che è in uso di sala privata dei palafranieri ha ancora il soffitto d’intaglio e nel fregio ha dei riquadri ornati a stucco con lo sfondo paesaggi che richiamano Paul Brill». Inoltre riporta che l'appartamento di Giulio III al momento in cui scrive la sua opera era chiamato «dei principi forestieri» (TAJA 1750, p. 205).

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Fatiche di Ercole, che Vasari attribuisce, come abbiamo visto, a Taddeo Zuccari50. I pagamenti risalenti al novembre e al dicembre del 1555, riportati dal Camerale 1296, evidenziano spese effettuate per le «impannate della loggia» e per il «tramezzo che fanno per la loggia»51. I lavori iniziarono, evidentemente, già a partire dal giugno del 1555. Come sostiene Jacob Hess, la costruzione della cappella è conseguente alla chiusura di una loggia al terzo piano degli appartamenti di Giulio III52. Oggi è ancora possibile apprezzare l’abside, o quanto ne resta, sotto forma di una piccola sporgenza semicircolare; ad indicarci che la Cappella del papa Carafa non fosse prevista durante il pontificato del Monte è poi il dislivello tra il pavimento di essa e quello del resto delle stanze53, senza dire della disomogeneità esterna dell’abside rispetto al resto della costruzione muraria54. Ora, punto di partenza per ricostruire l’evoluzione dei lavori che condussero alla sua conclusione, nel 1559, sono i rendiconti dei Camerali conservati nell’Archivio di Stato di Roma. A partire dal giugno e poi nell’agosto del 1555 risultano pagamenti a favore di quel «maestro Geronimo muratore» che non solo lavorò alla «camera di Nostro Signore» ma anche «alla Cappella delle stanze nuove»55. Altri pagamenti effettuati nello stesso anno riguardano la fornitura di basi e capitelli, di una porta56 e di finestre in vetro57.

50 ENEA 2010, p. 23.

51 ACKERMAN 1954, p. 22.

52 HESS 1967, p. 150.

53 ENEA 2010, p. 21.

54 ENEA 2010, p. 52.

55 CAMERALE 1296 D, f. 15 (trattato da ACKERMAN 1954, pp. 83, 169).

56 L’ingresso principale della Cappella è segnato da una cornice di marmo su

cui corre la scritta: «PAULUS IIII PONT. MAX». 57 CAMERALE 1296 D, ff. 25; 36; 38; 18 (riportati da ACKERMAN 1954, pp.

83, 169).

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Le decorazioni continuarono regolarmente anche durante il 1556 risultando, infatti, pagamenti per le suppellettili, gli stucchi e per cinque capitelli in peperino58. Negli anni successivi compaiono ancora conti riguardanti altri quattro capitelli dello stesso materiale, le «vetriate», un «lastrone di marmo e un pezzo di colonna di mischio verde»59. Stando all’assiduità dei pagamenti, relativi all’anno 1557, è possibile constatare come le spese per la Cappella continuassero a ritmo incalzante. Si tratta ancora una volta di interventi non riguardanti i lavori di muratura, ma di decorazione e finitura. Numerose sono le elargizioni, già dal mese di gennaio del 1557, a favore di scalpellini, come Nicolò, Benedetto Schela e Domenico Roscelli60. Vengono impegnati anche stuccatori, come Giovanni Maria, e falegnami, tra cui un certo Giovanni61. La lettera scritta il 22 novembre del 1557 dal Gianfigliazzi, riporta che il papa gli chiese di far giungere Vasari da Firenze per dipingere la cappella, ma il tentativo fallì:

Mi disse che il papa aveva voglia di ricercare Vostra Eccellenza che li concedessi Giorgino per la sua Cappella62.

58 CAMERALE 1297 D, ff. 23v: 40v; 58 v; 61 v (riportati da ACKERMAN 1954,

pp. 83, 169). 59 ACKERMAN 1954, pp. 83, 169.

60 CAMERALE 1298, ff. 17r, 19 r, 19 v, 24 v, 25 r, 25 v, 26 r, 26 v, 27 v, 31 v,

29 r, 32 r, 32 v, 33 r, 33 v, 34 v, 36 r, 37 r, 39 r. 61 CAMERALE 1298, ff. 16 r, 23 v.

62 ANCEL 1908, p. 53, n. 4, vol. XXV. Non era certo la prima volta che

Vasari rifiutava commissioni del papa per rimanere al servizio del duca Cosimo de’ Medici. Egli stesso riporta che nel 1554, durante l’ultimo anno di pontificato di Paolo IV, era stato chiamato invano da Andrea Tassini per recarsi in Francia al servizio del re. Vasari infatti rispose di «non volere per qualsivoglia gran provvisione o promesse o speranza partirsi dal servizio del duca Cosimo suo signore». Al suo posto partì Francesco Salviati, tornandosene ben presto in patria. (VASARI, BAROCCHI, BETTARINI, 1966-1987, ed. 1568)

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Lo stesso Vasari riporta che nel 1557, giunto a Roma in compagnia del cardinale Giovanni de’ Medici, rifiutò addirittura la proposta di Paolo IV di decorare la Sala dei Re63. Ma nel corso dell’anno 1557 non si fermano le spese e i lavori riguardanti le vetrate, ad opera di personalità come Martino «bicchieraro», Giovanni fiammingo «vetraro», Mambrilla «chiavaro» e Gasparo fiammingo «ferraro»64. Questi pagamenti forniscono un’idea del fervore decorativo che caratterizzò questo luogo. Alla luce dei fatti riportati, la decorazione della Cappella prevedeva comunque una linea di decoro unitaria, dove assoluta rilevanza spettava, fin dalle origini, all’impiego di marmi policromi, in particolare del «mischio verde». Anche il Gianfigliazzi scrive che nel settembre del 1558 la Cappella era decorata con preziose colonne di differenti colori, «colonne

63 Con l’elezione di Pio IV ci fu la volontà di terminare la Sala dei Re. Il papa

decise di affidare il compito a Daniele da Volterra, già impegnato nei lavori, ma il Cardinale Alessandro Farnese fece di tutto per far assegnare la metà del lavoro a Francesco Salviati. Il Vasari riporta che, giunto a Roma assieme al cardinale Giovanni de’ Medici, figlio del duca Cosimo, gli venne proposto dal pontefice di lavorare alla detta sala. Egli rifiutò dicendo che «nel palazzo del duca Cosimo suo signore aveva a farne una tre volte maggiore di quella, e oltra ciò che era sì male stato trattato da papa Giulio Terzo, per lo quale aveva fatto molte fatiche alla Vigna, al Monte et altrove, che non sapeva più che si sperare da certi uomini; aggiungendo che, avendo egli fatta al medesimo, senza esserne stato pagato, una tavola in palazzo, dentrovi Cristo che nel mare di Tiberiade chiama dalle reti Pietro et Andrea (la quale gl’era stata levata da papa Paulo Quarto da una cappella che aveva fatta Giulio sopra il corridore di Belvedere, e doveva essere mandata a Milano), Sua Santità volesse fargliela o rendere o pagare». Il Vasari informa che sarà proprio Pio IV a riconsegnargli la tavola. Inoltre prosegue affermando che fu lui stesso a consigliare al papa Francesco Salviati, ma Pirro Ligorio «cominciò a dire al Papa che essendo in Roma molti giovani pittori e valentuomini, che a voler cavare le mani di quella sala sarebbe stato ben fatto allogar loro una storia per uno, e vederne una volta il fine». Sarà lo stesso Salviati allora a decidere di allontanarsi da Roma e recarsi a Firenze. (VASARI, BAROCCHI, BETTARINI 1966-1987, ed. 1568) 64 CAMERALE 1298, ff. 17 v, 18 r, 25 r, 28 v, 35 v.

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mirabili di serpentino e d’altra ragioni, che non è possibile veder le più belle»65. Inoltre, alcuni documenti risalenti al 1557 sembrano affermare come alcune colonne di marmo prelevate da Santa Maria Maggiore e da Santa Sabina a Roma fossero destinate alla cappella66. Sempre nello stesso anno, risulta evidente la presenza di altre colonne di mischio verde, a cui lavora il Pietrasanta «scultore», per le quali lo stesso Pietrasanta riceve un pagamento sia nel mese di novembre, che in quello di dicembre67. Inoltre, sempre nel febbraio del 1557, lavora a quattro capitelli di peperino68 e continua a lavorare di scalpello, ancora alle colonne, nel 155869. Proprio quando Battista da Pietrasanta inizia il suo impegno, a partire dal novembre del 1557, ai marmi pregiati, l’architetto Ligorio comincia ad essere coinvolto da Paolo IV nei lavori in Vaticano. È probabile, considerando anche quanto riportato dal teatino Antonio Caracciolo70, riguardo al tabernacolo bronzeo ed al suo modello ligneo, che l’architetto abbia partecipato attivamente, a partire da questo periodo, non solo alla progettazione di esso, ma anche ai lavori riguardanti la cappella. Tornando poi agli interventi risalenti all’anno 1557, nell’ottobre viene effettuato un pagamento anche a favore di Tommaso «indoratore» per l’indoratura di alcuni catenacci71 e nel novembre viene addirittura realizzato il «paliotto d’altare», ad opera di «maestro Pietro pittore» (cioè, ancora, Pietro Venale). I lavori erano, dunque, al termine del 1557, in via di conclusione72. Perciò è menzionato don Antonio, che continuerà a comparire sia nel 1558 che nell’anno successivo nelle funzioni di «chierico

65 ANCEL 1908, p. 54, vol. XXV.

66 ANCEL 1908, p. 54, vol. XXV.

67 CAMERALE 1298, ff. 35 r, 36 r, 37 v, 38 v.

68 CAMERALE 1298, ff. 17 r, 18 r, 24 v, 35 r.

69 CAMERALE 1298, ff. 41 r, 48 v.

70 CARACCIOLO 1612, pp. 138-139.

71 CAMERALE 1298, f. 32 v.

72 CAMERALE 1298, f. 35 r.

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della cappella segreta», per essersi occupato della «lavatura dei panni», delle «spese minute» e del «servizio» della cappella73. Con l’ufficializzazione del ruolo di Pirro Ligorio a partire dal gennaio 1558, proseguirono i lavori alla cappella; nel marzo dello stesso anno erano ormai portati a compimento gli arredi. L’ambasciatore Gianfigliazzi, in una lettera del 16 settembre 1558, riporta che a quella data in quel luogo «non li mancava affar se non l’altare»74. Gli interventi si concentrarono per lo più nei primi mesi dell’anno, tra gennaio e febbraio, essendo ancora impegnati Pietrasanta, scalpellino e scultore, ma anche Benedetto Schela scalpellino e Gasparo fiammingo fabbro75. Le opere di scalpello, menzionate nel documento potrebbero riferirsi anche ai lavori promossi per la realizzazione dell’altare (che, come già riportato, nel settembre del 1558 non era stato ancora compiuto), oltre che per il poggio, per le colonne e forse anche per la tribuna in legno. Vengono ancora effettuati lavori alle vetrate, sia nel mese di gennaio che in quello di marzo; inoltre sono pagate sempre nel 1558 «20 viti» per il completamento dei «lavori alle finestre»76. Si menziona la sagrestia della Cappella, per la quale si effettuano nello stesso anno pagamenti per la fornitura di alcuni «balaustri di metallo». Nicolò Calcagni riceve denaro per un ventaglio e per aver comprato del fustagno per coprire le colonne della cappella nel 155977. La consuetudine dell’epoca di rivestire persino l’architettura, ed in questo caso specifico le preziose colonne verdi, testimonia per il luogo un intento di grande fastosità, dimostrandone l’importanza che esso rivestiva per il pontefice.

73 CAMERALE 1298, ff. 31 v, 43 v, 60 r, 69 v.

74 ANCEL 1908, p. 56, vol. XXV, n. 1.

75 CAMERALE 1298, ff. 41 r, 41 r, 42 r, 42 r, 43 v, 44 r, 45 r, 45 v, 46 v, 48 v,

52 r. 76 CAMERALE 1298, ff. 43 v, 52 r, 43v, 54 v.

77 CAMERALE 1298, ff. 41 v, 66 r.

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Vengono inoltre fornite armi di marmo, probabilmente sempre con funzione decorativa nella cappella, a cui lavora ancora lo stesso Nicolò scalpellino78 (cioè Nicolò Longhi da Viggiù). Nella stima di Pietro Venale, il «frontespizio finto de marmore con l’arma di Sua Santità dorata», attribuito a Pirro Ligorio79, potrebbe coincidere con il fregio in stucco menzionato già nel settembre 1558. Infatti, a metà dello stesso mese è documentato come la Cappella presentasse lungo le pareti una decorazione in stucco ed una tribuna in legno80, mentre, come sappiamo, l’altare era ancora inconcluso. Osservando i pagamenti pontificali è evidente che alla fine dell’anno avvenne un rallentamento dei lavori della Cappella, che si ridussero, nell’anno successivo, solo a spese riguardanti «lavatura di panni» e «spese minute», da parte di don Antonio. Ciò dimostrerebbe come si era ormai giunti al compimento dell’opera. Inoltre al 1559 risalgono due tavole dipinte da Venale raffiguranti due angeli disegnati però da Pirro Ligorio per essere collocate ai lati dell’altare:

Per aver dipinto due angeli quali ha fatto disegno maestro Pirro architetto di Sua Santità dipinti in tavola di grandezza di sei palmi l’uno, tutti due dipinti di colori fini con tempera, quali sono di qua

e di la dall’altare in Cappella81. Il Poggio della musica e la Sagrestia I pagamenti dei registri camerali riportano anche spese per il modello del «poggio», previsto per le funzioni della Cappella e che avrebbe dovuto collocarsi nella contigua sagrestia. Come apprendiamo dai documenti, di seguito riportati, si trattava di un «poggio della musica», una sorta di palco che doveva accogliere musici e cantori durante le funzioni sacre che

78 CAMERALE 1298, ff. 47 r, 50 v, 54 r, 57 r.

79 ACKERMAN 1954, p. 84.

80 ANCEL 1908, p. 56, vol. XXV.

81 ACKERMAN 1954, pp. 171-172, doc. 115.

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si svolgevano nella cappella. Purtroppo non è pervenuto il disegno dell’opera, probabilmente ideato dallo stesso Ligorio. Maestro Geronimo «scalpellino», Nicolò «scalpellino», Bartolomeo «falegname» e Battista Frosino «falegname», lavorano alla realizzazione del modello ligneo, a partire dal febbraio fino all’aprile del 155782. Proprio il pagamento a favore di Battista Frosino «falegname», testimonia la messa a punto di questo modello:

[Aprile 1557] Battista Frosino falegname 5 scudi per tanti suoi legnami per fare il modello del poggio della Cappella nuova

segreta83. La decorazione pittorica dello stesso verrà invece compiuta da «Pietro pittore»84 che può essere identificato proprio con Venale. Il modello non viene però più menzionato a partire dall’aprile del 1557, ad indicare che esso doveva essere stato ormai accantonato. A partire da questo mese, infatti, si sarebbe avviata la realizzazione vera e propria dell’opera. Troviamo ancora impegnati in questo lavoro lo stesso Nicolò e Geronimo85. Viene pagata a Francesco Pallavicino una colonna di «mischio giallo»86 e Paolo «scalpellino» riceve denaro per comprare «teverini»87, per il poggio. Tra febbraio e marzo del 1558, vengono poi elargiti pagamenti a favore di «Capitan Cencio funditore»88, per aver realizzato alcuni balaustri di metallo, per il coro:

82 CAMERALE 1298, ff. 18 r, 18 v, 20 r.

83 CAMERALE 1298, f. 20 v.

84 CAMERALE 1298, f. 22 r.

85 CAMERALE 1298, ff. 20 v, 21 v, 31 r, 31v, 36 v.

86 CAMERALE 1298, f. 23 r.

87 CAMERALE 1298, f. 38v.

88 La presenza di «Capitan Cencio capitano e funditore dell’Artiglieria»

permette inoltre una riflessione. È molto singolare che un fabbricatore di cannoni e di armi sia incaricato di realizzare dei «balaustri», che non hanno

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[Marzo 1558] Al Capitan Cencio capitano e funditore dell’Artiglieria 24 scudi per resto di 90 scudi che tanto monta un suo conto dei balaustri di metallo gettati per uso del coro della

sagrestia della Cappella segreta89. È in base a questa testimonianza che è possibile stabilire come il poggio dovesse essere collocato all’interno della sagrestia della cappella. Nella stima di Pietro Venale del 1559 viene citato un pagamento, risalente al 26 marzo del 1558, per un «palco nella stanza nuova dove Sua Santità vuole che si faccia il coro per la musica della Cappella» (avvalorando quanto prima affermato sulla decorazione pittorica del modello del poggio ad opera dello stesso pittore). Ed ancora per «balaustri de lo sopradetto coro con le sue cornici»90. Il «palco della musica», citato dal pittore, sembrerebbe coincidere proprio con il coro della sagrestia, per il quale Capitan Cencio realizzò i «balaustri». Altri pagamenti per i lavori riguardanti il poggio, a favore di Nicolò scalpellino91, continuano sia nel gennaio del 1558, che nello stesso mese dell’anno successivo, quando l’opera doveva ormai essere in via di conclusione. La sagrestia, contigua alla Cappella, potrebbe coincidere dunque con una di quelle «altre stanze», di cui scriveva anche il Vasari, aggiunte a quelle di Giulio III, da Paolo IV, in seguito alla chiusura della loggia. Tutto l’interesse dimostrato nei riguardi del «poggio» e del suo compimento e la cura rivolta anche alle decorazioni

niente a che vedere con ciò che è abituato a produrre. È quindi possibile che non esistevano a Roma a quel tempo operai e soprattutto artisti specializzati nella fusione e lavorazione del bronzo, da utilizzarsi in campo artistico. Ciò sarebbe riprova della singolarità e dell’eccezionalità del Tabernacolo bronzeo di Pio IV, la cui fusione venne infatti affidata ad artigiani provenienti dal Lago di Lugano. 89 CAMERALE 1298, ff. 50 v; 42 v; 47 r.

90 ACKERMAN 1954, p. 172, doc. 115.

91 CAMERALE 1298, ff. 41 r, 42 r.

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contribuivano di certo all’effetto di grande magnificenza che si confaceva alla cappella in funzione del cerimoniale papale. Il Tabernacolo Per quanto riguarda il Tabernacolo, si deve rinviare a un prossimo intervento. Mi limito qui ad avanzare alcune congetture circa la sua collocazione all’interno della Cappella di Paolo IV. Una prima possibilità è che esso fosse posizionato sopra l’altare, distaccato da esso dalle quattro colonne lavorate a partire dal novembre del 1557 dal Pietrasanta e che il Caracciolo afferma essere destinate proprio all’altare della Cappella. Ad avvalorare tale ipotesi concorre la volontà del cardinale Carlo Borromeo di posizionare il Tabernacolo, giunto nel Duomo di Milano, proprio «nel mezzo dell’altare su quattro colonnette ben fatte»92 tenendo conto, con ogni probabilità, dell’assetto che si era originariamente pensato per esso. Questa decisione rispecchia quel clima controriformato degli ultimi anni del Concilio Tridentino, dove anche le questioni architettoniche, quelle riguardanti le immagini sacre ed il coinvolgimento del fedele assunsero primaria importanza. Proprio secondo le Instructiones redatte dal Borromeo qualsiasi tabernacolo sarebbe dovuto essere ben in evidenza, collocato sull’altar maggiore. Se così fosse, considerando che le dimensioni del solo Tabernacolo sono di 2,26 m di altezza, con un diametro alla base di 98,5 cm ed un’altezza del corpo cilindrico di 1,69 m (dalla modanatura di base alla cornice dell’ordine dorico), esso si sarebbe presentato con un carattere fondamentale e preminente all’interno dell’ambiente che doveva ospitarlo. Ciò potrebbe essere spiegato solo con la messa in pratica di una precisa volontà del papa, probabilmente legata a questioni di carattere simbolico.

92 Lettera di San Carlo a monsignore Ornameto del 2 settembre 1564,

Milano, Archivio in Curia, Carteggio uff., III, 95 verso, 96. Ed. M. Cogliati, “Ambrosius, Bollettino Liturgico Ambrosiano”, n. 5, maggio 1938.

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Altra ipotesi, avanzata dalla Scotti93, è che il Tabernacolo sarebbe stato sistemato non proprio sull’altare ma dietro, o lateralmente ad esso, sempre nella zona presbiteriale, in quanto esso, in un disegno riguardante la sistemazione milanese, è posto in fondo a quest’area, dietro l’altare, rialzato su un piedistallo quadrato, apparentemente conformato a tronco di piramide. Inoltre si potrebbe pensare anche che le quattro colonne lavorate dal Pietrasanta fossero state ideate come sostegno di un ciborio per il Tabernacolo, ma ciò rimane soltanto un’ipotesi, in quanto non siamo a conoscenza dell’effettiva altezza di esse e quindi non possiamo definirne con certezza la collocazione.

93 SCOTTI 1972, p. 63.

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Didascalie Fig. 1. Monogrammista HCB, Giostra nel Cortile del Belvedere, incisione

edita da Antonio Lafréry. Fig. 2. Etienne Du Pérac, Torneo nel Cortile del Belvedere, incisione edita

da Antonio Lafréry. Fig. 3. Giovan Battista Naldini, Il Cortile del Belvedere durante la

ricostruzione di Paolo IV. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi.

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