Machiavelli interprete del DeCivitateDei di Agostino

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ISTITVTO DELLA

ENCICLOPEDIA ITALIANAFONDATA DA GIOVANNI TRECCANI

MACHIAVELLIENCICLOPEDIA MACHIAVELLIANA

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©PROPRIETÀ ARTISTICA E LETTERARIA RISERVATA

ISTITUTO DELLA ENCICLOPEDIA ITALIANAFONDATA DA GIOVANNI TRECCANI S.p.A.

2014

ISBN 978-88-12-00520-8

StampaABRAMO PRINTING S.p.A.

CatanzaroPrinted in Italy

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ENCICLOPEDIA MACHIAVELLIANA

Direttore scientifico

GENNARO SASSO

Condirettore scientifico

Giorgio Inglese

Comitato direttivo

Gian Mario Anselmi, Alessandro Campi, Emanuele Cutinelli-Rendina, Jean-Louis Fournel, Sebastiano Gentile, Jean-Jacques Marchand,

Gianfranco Pasquino, Adriano Prosperi

Redattori specialisti

Emanuele Cutinelli-Rendina (coordinatore scientifico); Alessandro Capata,Paolo Falzone, Giorgio Masi, Raffaele Ruggiero, Carlo Varotti

REDAZIONE ENCICLOPEDICA

ResponsabileMonica Trecca

Coordinamento delle attività redazionaliRosalba Lanza

Lavorazione e revisione testiRoberto Bartoloni; Riccardo Martelli

Segretaria di redazioneManuela Silvio

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Nella presente Enciclopedia le edizioni di riferimento per le citazioni dalle opere di Machia-velli, ove non diversamente indicato, sono le seguenti:

Principe: nuova ed. a cura di G. Inglese, Torino 1995 e segg.; Edizione nazionale delle Operedi Niccolò Machiavelli, I, 1, a cura di M. Martelli, corredo filologico a cura di N. Marcelli,Roma 2006; Il Principe. Testo e saggi, a cura di G. Inglese, Istituto della Enciclopedia Italiana,Roma 2013.

Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: ed. a cura di G. Inglese, introduzione di G. Sasso,Milano 1984 e segg.; Edizione nazionale delle Opere di Niccolò Machiavelli, I, 2, a cura di F.Bausi, Roma 2001.

L’arte della guerra e Scritti politici minori: Edizione nazionale delle Opere di Niccolò Machia-velli, I. Opere politiche, 3° vol., L’arte della guerra. Scritti politici minori, a cura di J.-J. Mar-chand, D. Fachard, G. Masi, Roma 2001, rispettiv. pp. 1-395, 397-683.

Vita di Castruccio Castracani, Nature di uomini fiorentini, Istorie fiorentine, Frammenti sto-rici: Edizione nazionale delle Opere di Niccolò Machiavelli, II. Opere storiche, a cura di A.Montevecchi, C. Varotti, coord. di G.M. Anselmi, 2 tt., Roma 2010, rispettiv. pp. 1-66,67-76, 77-785, 915-52.

Lettere pubbliche: Edizione nazionale delle Opere di Niccolò Machiavelli, V. Legazioni.Commissarie. Scritti di governo, 7 tt.: t. 1, 1498-1500, a cura di J.-J. Marchand, Roma 2002;t. 2, 1501-1503, a cura di E. Cutinelli-Rendina, D. Fachard, Roma 2003;t. 3, 1503-1504, a cura di J.-J. Marchand, M. Melera-Morettini, Roma 2005;t. 4, 1504-1505, a cura di E. Cutinelli-Rendina, D. Fachard, Roma 2006;t. 5, 1505-1507, a cura di J.-J. Marchand, A. Guidi, M. Melera-Morettini, Roma 2008;t. 6, 1507-1510, a cura di E. Cutinelli-Rendina, D. Fachard, Roma 2011;t. 7, 1510-1527, a cura di J.-J. Marchand, A. Guidi, M. Melera-Morettini, Roma 2011.

Lettere private: Opere, 2° vol., a cura di C. Vivanti, Torino 1999, pp. 1-465.

Rime varie, Canti carnascialeschi, Capitoli (“Di Fortuna”, “Dell’Ingratitudine”, “Dell’Am-bizione”, “Dell’Occasione”), Favola ([Belfagor arcidiavolo]), opere teatrali (Andria, Man-dragola, Clizia), scritti letterari in prosa (Capitoli per una compagnia di piacere, Esortazionealla penitenza, Libro delle persecuzioni d’Africa, Sentenze diverse): Opere, 3° vol., a cura di C.Vivanti, Torino 2005 (edizione indicata nelle voci come ed. Vivanti nel caso in cui si rinviialle pagine di questa edizione).

Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua: Discorso intorno alla nostra lingua, a cura di P.Trovato, Padova 1982.

AVVERTENZE

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Abbreviazioni opere di Machiavelli

Discorsi = Discorsi sopra la prima deca di Tito LivioLCSG = Legazioni. Commissarie. Scritti di governoLettere = ed. delle Lettere private in Opere, 2° vol., a cura di C. Vivanti, Torino 1999SPM = Scritti politici minori

Altre abbreviazioni:

ASF = Archivio di Stato di FirenzeBAV = Biblioteca Apostolica VaticanaBMLF = Biblioteca Medicea Laurenziana di FirenzeBNCF = Biblioteca Nazionale Centrale di FirenzeBSAF = Biblioteca del Seminario Arcivescovile maggiore di FirenzeCM = Carte MachiavelliRIS = Rerum italicarum scriptores ab anno aerae Christianae quingentesimo ad millesimumquingentesimum, a cura di L.A. Muratori, 24 voll. in 27 tomi, Milano 1723-1738RIS2 = Rerum italicarum scriptores: raccolta degli scrittori italiani dal Cinquecento al Mille-cinquecento, nuova edizione riveduta, ampliata e corretta, sotto la direzione di G. Carducci epoi a cura di V. Fiorini, di P. Fedele e dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo, 398 fa-scicoli, Città di Castello e poi Bologna, 1900-1975

I testi in linea di massima sono stati riportati a grafia moderna.

Nelle voci biografiche, le opere degli autori biografati e le edizioni critiche di riferimento so-no indicate nella prima parte della Bibliografia delle rispettive voci omettendo il nome del-l’autore biografato.

Ove non diversamente indicato le traduzioni dei testi citati sono state effettuate dagli Autoridelle voci.

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ENCICLOPEDIA MACHIAVELLIANA

VOLUME PRIMOA-H

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e tornava ai veneziani; nell’imperiale Verona, il 22novembre, basterà una zuffa di piazza fra soldati spa-gnoli per far temere una imminente riconquista vene-ziana. Anche alla luce di questi differenti orienta-menti sociopolitici nei territori dominati, trovanouna base documentaria e politica gli articolati giudiziguicciardiniani cui si è fatto cenno.

Nella valutazione complessiva sulla disfatta di«Vailà» spicca un’ulteriore costante del ragionamentopolitico machiavelliano: la rapidità con cui in una so-la giornata si può disperdere un dominio faticosa-mente conquistato con una secolare ascesa. Il lungocammino di Venezia per consolidare il controllo deimari e le conquiste in terraferma fu dissolto ‒ o inogni caso poté per un momento apparire tale ai con-temporanei ‒ sui campi di Agnadello. L’impressionedovette in effetti essere molto forte: M. vi accennanel secondo Decennale: «alfin Marco rimase in su losmalto: / poscia che a Vailà misero salse, / cascò delgrado suo ch’era tant’alto» (vv. 175-177, e ancora neivv. 193-216 per la rapida dissoluzione dello Stato ve-neziano all’indomani della sconfitta), e torna sull’ar-gomento nel Principe xii 26, dove alla infedeltà dellecondotte mercenarie l’autore imputa la sconfitta di«Vailà», quando i veneziani «in una giornata perdernociò che in ottocento anni con tanta fatica avevonoconquistato». Il motivo torna insistentemente nelgiudizio machiavelliano, A. diviene emblema del ra-pido rovesciamento di un dominio cresciuto a dismi-sura ma non adeguatamente consolidato: così nellalettera a Francesco Vettori del 26 agosto 1513:

io stimavo poco i Vinitiani etiam nella maggior gran-dezza loro, perché a me pareva sempre molto maggiormiracolo che eglino havessino acquistato quello impe-rio et che lo tenessino, che se lo perdessino.Analogamente il Segretario fiorentino si espri-

merà in un luogo di massimo rilievo (Discorsi I vi 28):Similmente Vinegia, avendo occupato gran parte d’Ita-lia, e la maggior parte non con guerra, ma con danari econ astuzia, come la ebbe a fare prova delle forze sue,perdette in una giornata ogni cosa.

E conclusivamente nelle Istorie fiorentine I xxix,chiudendo il capitolo dedicato a Venezia e conse-gnandoci nel 1525 un giudizio definitivo sulla Re-pubblica di San Marco:

cacciati dalla cupidità del dominare, vennono [i Vene-ziani] in tanta opinione di potenza, che, non solamentea’ principi italiani, ma ai re oltramontani erano in ter-rore; onde, congiurati quelli contro a di loro, in unogiorno fu tolto loro quello stato che si avevano in mol-ti anni con infinito spendio guadagnato; e benché neabbiano, in questi nostri ultimi tempi, riacquistatoparte [Verona fu riconquistata nel 1517], non avendoriacquistata né la reputazione né le forze, a discrezioned’altri, come tutti gli altri principi italiani, vivono.

Bibliografia: M. Sanudo, Diarii, editi da N. Barozzi, G. Ber-chet, F. Stefani, R. Fulin, 58 voll., Venezia 1879-1902, in partic.voll. 8°-10° pubblicati nel 1882-1883; P. Pieri, Il Rinascimento e lacrisi militare italiana, Torino 19702, pp. 455-69; I. Cervelli, Ma-chiavelli e la crisi dello stato veneziano, Napoli 1974.

Raffaele Ruggiero

Agostino, Aurelio. – In tutta l’opera di M., ilnome di A. (Tagaste 354 - Ippona 430) compare solonel frammento di traduzione della Historia persecu-tionis Africanae Provinciae del vescovo Vittore di Vi-ta (→ Persecuzioni d’Africa). Certo disinteressato ri-spetto all’immenso corpus teologico-spirituale delpadre della Chiesa, M. rivela comunque profonde,seppure nascoste, tracce di confronto con il De civi-tate Dei (da qui in poi DcD), «opera insigne che […]non rimase chiusa alla curiosità di M. che, al contra-rio, la lesse (almeno in parte) e, in alcuni suoi scritti,liberamente se ne servì» (Sasso 1987-1997, 3° vol., p.144). Per M. il DcD non vale solo come serbatoio dimateriali storici da vagliare oppure mediatore auto-revolissimo di interpretazioni teologiche contro lequali occasionalmente polemizzare, ma soprattuttocome radicale antitesi teologico-politica della propriaeversiva prospettiva teorica, intenta a riscoprire nellevicende di Roma un paradigma insuperato di intelli-genza e governo dell’effettuale realtà politica, che af-ferma l’autonomia della storia degli uomini, ormaidenudata di qualsiasi garanzia provvidenzialistica.Capillarmente diffuso nello stesso ambiente cultura-le di M. (la fortuna editoriale dell’opera tra la metàdel 15° e la metà del 16° secolo è impressionante: è ilterzo incunabolo stampato in Italia, a Subiaco, daSweynheim e Pannartz nel 1467), il DcD si staglia,infatti, come la massima riflessione cristiana di teolo-gia politica della storia, dogmaticamente incentratasul dualismo apocalittico, escatologico-carismaticotra natura peccaminosa e grazia indebita, naturaleamor sui/contemptus Dei (il perverso desiderio identi-tario che governa ogni creatura) e soprannaturaleamor Dei/contemptus sui (il desiderio inspirato dallagrazia negli eletti), ordine transeunte del mondo mal-vagio e nuovo regno di Dio. I due amores si dispiega-no nella storia come antitetici principi d’aggregazio-ne sociale, manifestandosi o nelle grandiose civiltàstorico-politico-religiose (tutte figure della misticacivitas terrena, l’antidivina ‘bestia’ imperialistica diDaniele e dell’Apocalisse di Giovanni: cfr. DcD XX14) o nell’unica autentica respublica divina, la civitasDei fondata dalla grazia di Cristo, princeps/rex/impe-rator eterno, crocifisso nel mondo, risorto per fuo-riuscirne. La dualistica opposizione tra le due civita-tes le connette, comunque, nel rapporto tra archetipo

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divino e deformazione idolatrica, sicché la civitas ter-rena (Roma stessa nel suo ambire ‘virtuoso’ alla glo-riosa potenza universale) rivela, sub contraria specie,la perfezione trascendente della civitas coelestis, la co-munità degli eletti costituita dalla grazia.

La teoria politica di M. pare assumere particolaricoerenza e compattezza proprio nel suo configurarsicome neutralizzazione sistematica dell’opposizionedualistica agostiniana tra teologia politica romana eteologia politica cristiana, tramite il parodistico rias-sorbimento di questa in quella, sicché la civitas ter-rena, di cui Roma è ‘incarnazione’ insuperata, è l’ar-chetipo reale di cui la civitas Dei diviene ombraevanescente. In M.: a) il sacrale, il religioso torna aessere funzione del politico terreno, perdendo qual-siasi rapporto con l’eccedenza escatologica e cari-smatica del teologico cristiano; b) la nozione di capo,re, principe, messia persino, viene ricontestualizzatanel suo originario ambito storico-politico, effettuale,necessariamente violento e, nei casi estremi, disu-mano (bestiale), al punto che la stessa nozione bibli-ca di messia/profeta viene rigiudaizzata (Cristo di-viene typos di David/Mosè, analoghi di Romolo edel «principe nuovo»), seppure estromettendonequalsiasi implicazione trascendente; c) il cristianesi-mo, interpretato a partire da una rilettura polemicadi DcD XIX come religione dell’ozio, può infine es-sere restituito nella sua mera dimensione di setta sto-rico-politica, effettuale e transeunte di «republica»,quindi secolarizzato, tolto dalla sua astratta, eternadimensione escatologica di civitas coelestis e assog-gettata all’insuperato, eppure ormai morto archetipostorico di ogni civitas politica: Roma; d) le virtù deiRomani, feroci nel loro archetipico fondarsi e ricapi-tolativo rigenerarsi nell’omicidio (anche di fratelli,genitori, figli, di sé stessi), quindi nella guerra civilee imperialistica come naturale espansione del desi-derio di libertà e di gloria, sono tali proprio perchécapaci di liberarsi da qualsiasi censura teologica emorale, che pretenda di condizionarne la pura valen-za politica, cioè l’ineguagliata capacità di costruzio-ne di unificazione sociale, ordine e potenza secolare:sicché nella libido dominandi si rivela il circolo vizio-so che congiunge virtù e corruzione, gloria e violen-za, libertà e tirannia, sacrale identità e fratricidio.

Senza la poderosa reductio distruttiva dell’anti-chità classica e romana di A., dichiarata irriducibilealla trascendenza escatologica e donativa della civitasDei, M. non avrebbe forse potuto riconfigurare contale straordinaria radicalità di analisi la tremenda,secolarizzata autonomia del politico rispetto a qual-siasi ipoteca teologico-cristiana, che in un rigurgitoapocalittico non potrà non continuare ad additarne,con A., la natura ‘demoniaca’ (cfr. Sternberger 1978).

Civitas terrena e fratricidio: la fondazione sacrifi-cale del politico. Il punto capitale che rivela il rove-sciamento machiavelliano della disdetta agostinianadel politico secolare è senza dubbio l’impavida giu-stificazione del fratricidio di Romolo, argomentatain Discorsi I ix 19: «Conchiudo come a ordinare unarepublica è necessario essere solo; e Romolo per lamorte di Remo e di Tito Tazio meritare iscusa e nonbiasimo» (cfr. I xviii 30). Tra i «molti» che M. defi-nisce scandalizzati dal «cattivo esemplo» di «uno fon-datore d’un vivere civile» omicida del «fratello»,quindi del «compagno nel regno» (I ix 3), si contacerto A. (cfr. Wolin 1960, trad. it. 1996, pp. 302-03;Prezzolini 1971, poi 2004, pp. 21 e 47; Reale 1985,pp. 51-57; Sasso 1987-1997, 1° vol., pp. 154-58).Questi aveva per primo attribuito a Romolo non so-lo la diretta uccisione di Remo (con Cicerone, Deofficiis III x, 40-42, mentre Livio mette in secondopiano la versione del fratricidio), ma anche (a diffe-renza di Livio e con M.) quella di Tito Tazio, de-nunciando in radice l’origine cainitica di Roma (cfr.DcD XV 5), replicata nell’uccisione del socius: ut ma-ior deus esset, regnum solus obtinuit («per essere unadivinità più grande, tenne il regno da solo», III 13);ut ergo totam dominationem haberet unus («per dete-nere da solo tutto il potere», XV 5). La denuncia del-l’omicida libido dominandi (in DcD III 14, l’espres-sione sallustiana è radicalizzata in senso apocalittico,designando il perverso autodivinizzarsi del poterepolitico contro l’unico Dio), come principio identita-rio romano, corrisponde in negativo alla tesi che Di-scorsi I ix si ripropone di confutare: «giudican[o] perquesto che gli suoi cittadini potessero con l’autoritàdel loro principe, per ambizione e desiderio di co-mandare, offendere quelli che alla loro autorità siopponessero» (I ix 3). La tesi di fondo di M., che af-ferma la bontà dell’essere «uno» e «solo» nell’ordina-re/riformare lo Stato per il «bene comune» (cfr. I ix5-6), «fine» (I ix 4) del fratricidio/omicidio fondativo(in tal caso necessaria «azione straordinaria», I ix 6),rovescia la tesi agostiniana, non tanto perché lasciacadere qualsiasi condanna morale del crimine, giu-stificato dal bene condiviso, ma soprattutto perché,opponendosi alla disdetta apocalittica del politicoterreno, lo assolutizza, evidenziandone il dispositivoidentitario, violento, sacrificale, religioso, seppuredel tutto secolarizzato. Per assicurare buona nascita,saldezza, concordia e durata della città, è giustificatacome necessaria e legittima l’origine unitaria e indi-visa del ‘divino’ potere di fondazione, denunciata daA. come empia affermazione di superbia:

Sic enim superbia perverse imitatur Deum. Odit nam-que cum sociis aequalitatem sub illo, sed imponerevult sociis dominationem suam pro illo

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l’orgoglio è una perversa imitazione di Dio; odia infat-ti di essere sullo stesso piano degli altri alle dipenden-ze di Dio e vuole imporre ai compagni il proprio pote-re al posto di Dio (DcD XIX 12 2; cfr. Lettieri 1987).

Il volere e dover essere «uno […] uno solo» (Di-scorsi I ix 5) di Romolo ubbidisce, insomma, a unanecessità antiteologica. La cainitica ambizione di do-minio diviene da originario peccato teologico, che sol-tanto la grazia può togliere, vizio, anzi «voglia», libidointrinseca alla stessa natura dell’uomo, inestirpabile estoricamente recidiva. Nel capitolo “Dell’Ambizio-ne” (vv. 58-59), Caino uccide Abele per «voglia am-biziosa», e trasmette all’umanità il desiderio divoran-te del dominare. Evidente l’influenza agostiniana,nell’affermare l’intima connessione (assente nellaGenesi) tra fratricidio e imperialismo politico, comeprovato dagli esempi contemporanei che M. subitoconnette al primo omicida: regni e repubbliche inlotta per l’egemonia. Per A., infatti, Caino (il cui no-me significa possessio: cfr. DcD XV 17; 21), dilataimmediatamente la sua invidentia (XV 5) in imperia-listica libido dominandi, fondando quella che per laGenesi è la prima civitas storica, denominata con ilnome di suo figlio Enoch, che significa dedicatio, aindicare la sacralizzazione del secolo e del propriopotere terreno (cfr. XV 17-19).

Liberare il fondatore secolare della potenza ro-mana dalla maledizione teologica, riscattarne l’attocainitico, sacralizzarne la fondazione terrena, signi-fica pertanto lasciare cadere l’opposizione apocalitti-ca tra le due mistiche civitates/respublicae, quindi trai suoi reges/principes/capita meta-storici: Gesù Cri-sto princeps rex saeculorum (DcD XV 1 2 ecc.) controil diabolus princeps impiae civitatis (XVIII 51 1 ecc.)e le sue ‘incarnazioni’: Caino, Nino, Romolo. Vienecosì rovesciata l’interpretazione agostiniana della ci-vitas terrena – e di Roma sua suprema realizzazionestorica – come imitazione pervertita della trascen-dente «gloriosissima civitas Dei», caelestis patria op-posta a qualsiasi terrena patria (II 29 1 ecc.), unicaautentica e giusta respublica, in quanto vera iustitianon est nisi in ea republica cuius conditor rectorqueChristus est («l’autentica giustizia non si dà che inquella repubblica in cui Cristo è il fondatore e il so-vrano», II 21 4). Sicché A. non può non essere inse-rito – in compagnia di Platone, Cicerone, forse Sa-vonarola (e la sua pretesa di fondare una respublicaChristi) – tra quei «molti [che] si sono immaginatirepubliche e principati che non si sono mai visti néconosciuti in vero essere», o che, per volere fare «pro-fessione di buono», allontanandosi dalla «verità effet-tuale della cosa» politica e della storia tutta, hannoperseguito illusoriamente e rovinosamente «quelloche si doverrebbe fare» (Principe xv 3 e 5).

Numa, Varrone e la theologia civilis romana.L’intima saldatura tra dimensione politica e dimen-sione religiosa, attestata dall’insuperato modello ro-mano fatto proprio dai Discorsi, che pure il DcDaveva sistematicamente decostruito, è originaria-mente fissata nella connessione tra fondamento/or-dinamento istituzionale di Romolo e perfeziona-mento religioso introdottovi da Numa – presentatoquasi come strumento dello Spirito Santo inviatodai cieli a compiere la rivelazione del suo predeces-sore e a instaurare (simulando di essere ispirato dauna Ninfa: cfr. Discorsi I xi 10) religione, pace, ti-more della «potenza di Dio» (I xi 2-3). La nozionemachiavelliana di religione civile si costituisce per-tanto rovesciando la relazione agostiniana tra «veraet falsa religio». Trattando lungamente di Numa co-me fondatore della religione romana (cfr. DcD II16 ecc.) e della theologia tripertita (fissata da Cri-sippo, elaborata da Panezio, criticamente mediatada Scevola, istituzionalizzata da Varrone), A. avevacondannato come evidente perversione idolatrical’egemonia religiosa attribuita dai Romani alla theo-logia civilis, indifferente alla monoteistica theologianaturalis, pure filosoficamente verificata (cfr. DcDIII 4 ecc.). Da Scevola come da Varrone, la theolo-gia civilis era apertamente presentata come oppor-tuna invenzione dei fallaces principes (per A., mani-polati dai demoni), instrumentum regni funzionalealla sacralizzazione dell’ordine politico e sociale(cfr. IV 32). Risulta, quindi, agostiniana la riduzio-ne dell’intera religione romana a mera creazione delpotere politico, a sistema di politeistico culto civileprivo di qualsiasi ancoraggio alla monoteistica veri-tà naturale. Come afferma Varrone, citato da A., lareligione è affare politico, il sistema pubblico di cul-to è creazione lungimirante dei potenti-sapienti: «abhominibus instituta sunt» (VII 17; cfr. VI 4 2). Ilvizio religioso romano, denunciato da A., torna a es-sere virtù civile in M., seguace di Varrone, di cui ilDcD è pressocché esclusiva fonte documentaria,quel Varrone già centrale nel dibattito teologico-po-litico umanistico, come testimoniato dal De labori-bus Herculis di Coluccio Salutati o dal più radicaleContra ridiculos oblocutores et fellitos detractores poe-tarum di Francesco da Fiano, e insomma da coloroche Cino Rinuccini, nell’Invettiva contro a cierti ca-luniatori di Dante, Petrarca e Boccaccio, accusava diessere discepoli più di Varrone che di A. e dei padricristiani.

Nel suo stesso riattingere contro A. l’archetipoteologico-politico romano, la religione civile di M. sirivela consapevolmente anticristiana (contro Viroli2005), essendo finalizzata esclusivamente alla costi-tuzione di «buoni ordini» e alla promozione di «felici

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successi delle imprese» (Discorsi I xi 17), in quanto«dove è religione facilmente si possono introdurrel’armi» (I xi 9); l’«autorità di Dio» serve a «mettereordini nuovi e inusitati» (I xi 10) nella città, per svi-lupparne coesione, potenza militare, sanguinarioespansionismo imperialistico, senza alcuna preoccu-pazione per la fede cristiana o la giustizia. Puntualeè, in queste pagine, il rovesciamento della condannaagostiniana della teologia politica romana: i «pruden-ti» (I xii 8), gli «uomini savi» (I xi 12; xii 9), «i princi-pi d’una republica, o d’uno regno» (I xi 7) ‘inventori’di religione corrispondono ai varroniani homines pru-dentes et sapientes […] principes civitatis [intenti a] po-pulum in religionibus fallere («uomini prudenti e sa-pienti […], i principi della città intenti a ingannaregli uomini in materia religiosa», DcD IV 32). Per M.,come per il Varrone agostiniano, l’ordine politico sifonda su un arcanum imperii, che promuove, per ap-pagare una fallax ambitio (V 12 3), l’universale falla-cia, nascondendo al popolo la nuda verità del potere:si raffrontino DcD IV 31 1: Varrone

homo acutissimus satis indicat non se aperire omnia[…] loquens multa esse vera, quae non modo vulgo sci-re non sit utile, sed etiam, tametsi falsa sunt, aliter exi-stimare populum expediatuomo intelligente, lascia intendere di non aver dettotutto […] dice che ci sono molte verità di cui è inutilela divulgazione, ma che ce ne sono altre che, nonostan-te la loro falsità, è bene che il popolo prenda per vere

e Discorsi I xi 11-12: «perché sono molti i beni cono-sciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ra-gioni evidenti da poterli persuadere ad altrui. Però gliuomini savi che vogliono torre questa difficultà ri-corrono a Dio». La prospettiva varroniana – il falla-ce, per A., credere degli uomini valorosi nelle originidivine della loro civitas fa sì che essi combattano «au-dacius […] vehementius […] felicius» – è pienamen-te recepita da M., per il quale l’unica sacralità ogget-to della retta fede religiosa è quella riferibile allaciceroniana civitas aeterna romana (cfr. Cicerone,De Republica III 23-24, cit. in DcD XXII 6 2), divi-nizzatrice di Romolo – nel DcD denunciata comedeformazione secolare della trascendente respublicadi Cristo –, verità sacrale cosmico-storica che pernatura vuole durare, fuggire la morte, disposta a so-stenere guerre pro salute della patria, anche se que-sto comporta il sacrificio dei suoi cittadini, foglieprecarie di un albero perenne (cfr., ancora, DcDXXII 6 2). Si veda in DcD II 25 1-2 la notizia distraordinari combattimenti di demonii, finalizzati aincitare gli uomini a guerre e massacri, presentando-si prescienti del futuro e protettori nelle guerre; pa-rodiandola, in Discorsi I lvi 3 e 9-10, M. riporta la te-si ‘filosofica’ dell’«aere […] pieno di intelligenze, le

quali per naturali virtù preveggendo le cose future eavendo compassione agli uomini, acciò si possino pre-parare alle difese gli avvertiscono con simili segni» (9).

Il Principe messianico. Discorsi I x 1-7 prospettauna gerarchia di valori assoluti affermando che sono,nell’ordine, «laudatissimi quelli che sono stati capi eordinatori delle religioni. Appresso dipoi quelli chehanno fondato o republiche o regni». Se immediata efondante è la connessione con la successione Romo-lo-Numa, dispiegata rispettivamente in I ix e I xi,ove appunto il re fondatore della religione è conside-rato più meritevole del re fondatore del regno, forserimane implicito nel testo, almeno come referentenegativo, un terzo termine di paragone, ossia GesùCristo. L’indizio del coinvolgimento dialettico diCristo, oltre che di Mosè, nella valutazione dei divi-nizzati principes fondatori di civitates (realtà, per Var-rone e Cicerone come per A., inscindibilmente teolo-gico-politiche) è offerto dalla tarda Vita di CastruccioCastracani, ove evidente, seppure implicita, risulta laconnessione tra Romolo e Cristo, entrambi, a dispet-to delle umili origini, esaltati come sovraumani, anziinnalzatisi da loro stessi a figli di Dio: «si sono fatti fi-glioli di Giove o di qualche altro Dio» (Vita di Ca-struccio Castracani, 1). Se quindi M. estende a Cristostesso il riduzionismo evemeristico di A., che soste-neva gli dei pagani «homines fuisse» (DcD VII 18),d’altra parte è ben consapevole della tradizione ro-mana che riconosceva un Romolo divinizzato comefiglio di Marte (DcD III 3). Ma certo non potevaignorare un tema centralissimo nel DcD, che rendequanto meno ardita la centralità di Romolo nei Di-scorsi (come l’opportunità del suo singolare latitare inun testo esteriormente ‘cristiano’ quale Principe xxvi;cfr. Sasso 1987-1997, 2° vol., pp. 340-41): l’opposi-zione tra vera divinità di Cristo e falsa divinità di Ro-molo (cfr. DcD XXII 6 1-7 ecc.), o di Ercole, figliodivinizzato di Giove (cfr. XXII 4; 6 1; 10). Il Romo-lo di M. va letto non tanto in opposizione al Romolodi A., ma soprattutto al Cristo di A. – «princeps rexsaeculorum» dell’unica autentica respublica – al puntoda poter essere definito come consapevole figura an-ticristica, che prospetta cioè il riassorbimento dellacristologia ‘celeste’ in cristologia ‘terrena’, con dissa-crante inversione del modello tipico (Mosè, David)e antitipico (da Caino a Nebrot, da Nino a Romolo)cristiano-agostiniano: mentre, per A., Romolo (Cai-no redivivo) è antitesi sfigurata di Cristo, M. inter-preta tacitamente Cristo come ombra di David, ana-logo di Romolo fratricida, archetipo dell’assolutezzadel politico terreno. Cristo è insomma degradato afigura, antitipo ‘immaginario’ e debole del diviniz-zato creatore/fondatore e redentore politico-religioso

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della suprema civitas terrena. Rivelativo il xxvi capi-tolo del Principe (che, con il virgiliano capessere del ti-tolo, richiama quale eroe archetipico romano Enea,piuttosto che Romolo), ove l’invocazione al redento-re politico italiano assume aperti tratti cristologici,come provato dai riferimenti biblici non soltanto ve-terotestamentari (sia Sasso 1963, pp. 217-18, che In-glese 1995, p. 171, nota 12, rimandano unicamente aEsodo 13, 21; 14, 21), ma prima ancora paolini: 1Cor10, 1-4 opera un’allegorizzazione cristologica deglistessi episodi dell’Esodo citati da M., per concludereche «quella roccia era il Cristo» (1Cor 10, 4). Principexxvi prospetta, così, una dialettica redentiva tra ca-po/spirito e membra/corpo/carne inerte e mortale,che rilegge in senso terreno la tradizionale metaforapaolina del corpo pneumatico, formato dal sacrificiodel sangue di Cristo (cfr. 1Cor 11, 3; Rom 12, 4-5ecc.). La teologia politica di A. (cfr. DcD XIII 23 2)identifica la civitas coelestis con le membra del Capo-Cristo – Caelestes vero ideo appellat [Paolo] et alios,quia fiunt per gratiam membra eius, ut cum illis sit unusChristus, velut caput et corpus («chiama anche celesticoloro che divengono per grazia sua membri per es-sere insieme a Cristo uno stesso capo e uno stessocorpo») –, di cui la storia di Roma/Romolo è inconsa-pevole, pervertito antitipo terreno. Al contrario, inM. morte, vita, spirito, virtù, «redenzione» (Principexxvi 4 e 8), «redentore» (xxvi 26), «iustizia grande»(xxvi 10) divengono figure politico-religiose dellaprofetizzata resurrezione d’Italia per mano del suoprincipe ‘nuovo’, miracolo storico cui Discorsi I xvii3-15 (drammatico capitolo nodale, che tematizza lapossibilità ‘ultima’ della redenzione della repubblicacorrotta) adotta parodistiche formule di cristologiapolitica (le «membra tutte corrotte» di una città po-trebbero essere redente soltanto per «la bontà d’uno»,«per la virtù d’uno uomo», di un «capo», «con di moltipericoli e di molto sangue»). Cfr., in Discorsi I xii 20,l’ironica indicazione che, proprio perché sottomessaalle ambizioni secolari della Chiesa, l’Italia non «èpotuta venire sotto uno capo»; l’egemonia ecclesiasti-ca in ambito secolare determina un’anticristica disu-nione del corpo politico nazionale.

L’immanentizzazione del teologico nel politico,quindi dell’astratta cristologia e spiritualità neotesta-mentaria nella dura ed effettuale realtà profetico-mes-sianica veterotestamentaria, è insomma il principioermeneutico capitale della secolarizzante esegesi scrit-turistica di M.: «E chi legge la Bibbia sensatamentevedrà Moisè essere stato forzato […] ad ammazzareinfiniti uomini» (Discorsi III xxx 17). Pertanto, le fi-gure veterotestamentarie di Mosè e David, che latradizione cristiana interpreta come typoi di Cristo,vengono ‛violentemente’ reinterpretate come figure

del capo politico o del principe, dissacrate, eviden-ziandone la salvifica violenza: nota è la definizione diMosè (su cui cfr. DcD X 8; XIII 21, ove si sottolineala «figurata significatio» di Cristo-pietra in 1Cor 10,4; X, 13, ove ricorre il raffronto Mosè-Licurgo;XVI, 43; XVII, 2 e 8) come «profeta armato», para-gonato a Romolo, Teseo e Ciro in Principe vi 7-15 e21-23 (e cfr. xxvi 2). Così, in Discorsi I xxvi 2, Davidè indicato come esempio di «nuovo principe», che par-tendo da «fondamenti […] deboli», ha la virtù di as-sumere un potere assoluto capace di fondare nuoviassetti politici e sociali:

fare ogni cosa in quello stato di nuovo; come è nellecittà fare nuovi governi con nuovi nomi, con nuove au-torità, con nuovi uomini, fare i ricchi poveri, i poveriricchi, come fece Davit quando ei diventò re, “qui esu-rientes implevit bonis, et divites dimisit inanes”, edificareoltra di questo nuove città, disfare delle edificate, cam-biare gli abitatori da un luogo a un altro; e in sommanon lasciare cosa niuna intatta in quella provincia, eche non vi sia né grado, né ordine, né stato, né ricchez-za che, chi la tiene, non la riconosca da te.

Nel DcD David è indicato, in tutto l’Antico Te-stamento, come la principale cristologica

figura […] rex David idemque propheta de Christo eteius ecclesia prophetaverit, de rege scilicet et civitatequam condiditfigura […] David, re e profeta, ha profetizzato intornoa Cristo e alla sua Chiesa, cioè intorno al Re e alla cittàche questi ha fondato (XVII 15).

Con un blasfemo, compiaciuto rivolgimento, M.interpreta David non come ‘figura’ di Cristo-Dio,ma come ‘figura’ del principe feroce: «Una figura delTestamento vecchio, fatta a questo proposito» (Prin-cipe xiii 15). M. dimostra, per di più, una certa raffi-natezza filologica, riferendo a David un versetto evan-gelico che fonde due citazioni dei Salmi (33, 11 e 106,9), tradizionalmente attribuiti al re di Israele: si trat-ta di Luca 1, 53, un passo del Magnificat, cui è af-fiancata la parafrasi di 1, 52 («deposuit potentes desede et exaltavit humiles»). Proprio sulla proclama-zione dell’abbattimento dei potenti/superbi e del-l’innalzamento degli indigenti/umili si apre il DcD(Praefatio), ove l’umiltà della «gloriosissima civitasDei» è contrapposta alla superbia della civitas terrena,esemplata da Roma, che pretende di imitare perver-samente lo stesso atto di grazia divino, nel suo an-nientare le potenze superbe e favorire i sottomessi.

Una religione dell’ozio: De civitate Dei XIX fontedi Discorsi II II. M. e A. concordano, insomma, nel-la dichiarazione di inconciliabilità di fondo tra rive-lazione cristiana, umanesimo classico e civiltà roma-na, a differenza di tante letture compromissorie,

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dominanti nella patristica – da Melitone a Origene edEusebio, da Lattanzio ad Ambrogio e Orosio –, ingran parte del Medioevo fino a Dante, quindi in Pe-trarca e nella massima parte degli umanisti. La novi-tas eversiva di M. rispetto alla sua fonte cristiana ènell’empio rovesciamento assiologico e tipologico trai due poli dell’antitesi apocalittica agostiniana: assu-mere come vera, effettuale unicamente la civitas ter-rena, interpretando la civitas Dei come sua astratta,alienante, politicamente esiziale imitatio, sicché lastessa rivelazione biblica è utile soltanto se letta «sen-satamente», cioè se storicamente riportata alla sua so-stanza politica secolare. Il testo ove più apertamenterisulta violata la cautela machiavelliana (cfr. Sasso1987-1997, 4° vol., p. 29) nel denunciare la naturacorruttiva del cristianesimo a livello storico, politico,morale, è certo Discorsi II ii 26-41: qui M. esalta lafierezza e la maschia ferocia dell’educazione e soprat-tutto della religione gentile della «virtù», che, tramiteun grandioso sistema sacrificale «pieno di sangue e diferocità […] terribile, rendeva gli uomini simili a lui»(cfr. anche I xv 1-12). In DcD IV 31 2-32; II 25 1-261 ecc., ricorre la polemica contro l’intenzionale isti-gazione alla violenza sacralizzata nei culti romani, neiquali quei crimini ut imitanda proponerentur («veni-vano stabiliti perché fossero imitati», II 26 1).

La teologia politica romana identificava «il sommobene» (Discorsi II ii 27-36) con «l’onore del mondo»,quindi con «la esaltazione e la difesa della patria», «nel-la grandezza dello animo, nella fortezza del corpo e intutte le altre cose atte a fare gli uomini fortissimi», sic-ché «non beatificava se non uomini pieni di mondanagloria, come erano capitani di eserciti e principi di re-publiche». Al contrario, afferma ironicamente M.,«avendoci la nostra religione mostro la verità e la veravia, ci fa stimare meno l’onore del mondo». Infatti, ca-ratterizzata dall’«umiltà» (II ii 28) dei suoi sacrifici, «dipompa più delicata che magnifica»,

la nostra religione ha glorificato più gli uomini umili econtemplativi che gli attivi. Ha dipoi posto il sommobene nella umiltà, abiezione, e nel dispregio delle coseumane […]. E se la religione nostra richiede che tu ab-bi in te fortezza, vuole che tu sia atto a patire più che afare una cosa forte [...]. Questo modo di vivere, adun-que, pare che abbi renduto il mondo debole e datolo inpreda agli uomini scelerati; i quali sicuramente lo pos-sono maneggiare, veggendo come l’università degli uo-mini per andarne in Paradiso pensa più a sopportare lesue battiture che a vendicarle. E benché paia che si siaeffemminato il mondo e disarmato il Cielo, nasce più,sanza dubbio, dalla viltà degli uomini che hanno inter-pretato la nostra religione secondo l’ozio e non secon-do la virtù (II ii 31-35; cfr. I proemio A*, 7).

La teologia politica anticristiana di Discorsi I ii èuna contrattissima, eppure puntuale summa polemica

dell’interpretazione della religione cristiana pro-spettata nel DcD, in particolare nel libro XIX (og-getto di acceso dibattito in ambito umanistico), che,in dialogo con Varrone e Cicerone, si apre con la te-matizzazione dell’alternativa tra otium e negotium(XIX 2; cfr. 1 2 e 19), vita contemplativa e vita atti-va, ferma restando l’identificazione del summum bo-num (1 1) con l’aeterna vita (4 1), rivelata dalla reli-gione di Cristo, via salutis aeternae (23 2), autenticoiter veritatis (1 1), e regalis via, quae una ducit ad re-gnum non temporali fastigio nutabundum, sed aeterni-tatis firmitate securum («la via regia che sola conducenon al regno vacillante del fasto secolare, ma a quel-lo sicuro nella stabilità dell’eternità»; cfr. X 2 1-4).Il summum bonum, cui la via-Cristo conduce, identifi-candovisi, è da cercare tramite la fede, che la confes-sa come dono eteronomo della grazia (cfr. XIX 4 1).La religione cristiana è proclamata religione del-l’otium sanctum (XIX 19), rispetto al quale l’impe-gno politico e la ricerca della gloria secolare sono(con buona pace dei compromissori tentativi di Sa-lutati di conciliare otium e negotium politico) inter-pretati quali pericolose tentazioni (cfr. XIX 19), co-sì come le stesse virtutes, se non donate dalla graziae orientate alla civitas escatologica (cfr. X 22), sonodichiarate come meri vitia (cfr. XIX 25). Distaccatodalle incombenze politiche, necessariamente attrat-te nella secolare e angosciosa alternanza tra pace eguerra, nella quale stragi e sangue accompagnano laricerca del potere e della gloria (cfr. XIX 7; V 12 2),il cristiano è quindi chiamato a peregrinare verso lapace escatologica (il «Paradiso» di M.), disprezzandole passioni, la potentia e l’honor (XIX 19) politici ela realtà stessa del mondo: Res ista vero sine spe illabeatitudo falsa et magna miseria est («questa realtà,senza quella speranza, è una falsa beatitudine e unagrande infelicità», XIX 20). La suprema fortitudo delcristiano è, quindi, quella della patientia (XIX 4),del dominio delle passioni, nella consapevolezzadella dimensione soltanto escatologica della vera sa-lus, della beatitudine e della pace (XIX 4 ecc.). Labattuta machiavelliana sul cristiano, reso dalla suafede «atto a patire più che a fare una cosa forte» (Di-scorsi II ii 33), va confrontata con DcD XXII 9 eXIV 9 (con il caso esemplare di Paolo) ecc. «Scrip-tum est [Iac 4,6]: “Deus superbis resistit, humilibusautem dat gratiam”» (XIX 27). Ogni termine-chiavedella restituzione antiromana del cristianesimo inDiscorsi II ii (sommo bene, vera via, ozio contro lavirtù degli attivi, sacrifici cruenti contro sacrificiocristiano; umiltà, abiezione, dispregio delle coseumane e del mondo, fortezza nel patire dei martiricontro patria, onore, fortezza, potenza, salvezza se-colari) trova una precisa corrispondenza nel libro

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XIX del DcD. La lunga lamentatio sulla condizionedell’uomo nel mondo (cfr. XIX 4 1-15) culmina ap-punto nel ripudio della pretesa ciceroniana di defi-nire Roma come suprema respublica fondata su ius epiena iustitia; non fondata in Cristo, essa deriva daun principio di superbia, violenza, ingiustizia chemina la stessa tenuta del corpo sociale (cfr. XIX 21;23 5; 24).

Rivelativo, al riguardo, il sintetico speculum del-l’optimus princeps cristiano presentato in V 24: è talecolui che iuste imperat, capace di confessare come sol-tanto dalla onnipotente misericordia di Dio dipendail proprio potere, preferendo il dominio sulle propriepassioni a quello sui popoli, castigando pertanto laluxuria che il potere potrebbe rendere sfrenata, com-battendo l’avarizia con misericordiae lenitas et benefi-ciorum largitas. Opponendo all’ardor inanis gloriae lacaritas felicitatis aeternae (cfr. XVII 20 2), egli nontrascura pro suis peccatis humilitatis et miserationis etorationis sacrificium Deo suo vero immolare («di offrireal loro vero Dio per i propri peccati il sacrificio del-l’umiltà, della pietà, della preghiera», V 24).

Il modello supremo dell’optimus princeps davverocristiano è, in V 26 1, incarnato non da Costantino(ambiguamente lodato in V 25), ma da Teodosio,«clarus virtute et fide», che si sottomise con «religio-sa humilitas» all’onnipotenza di Dio, satis intellegensterrena munera […] in Dei veri esse posita potestate(«sapendo bene che gli stessi doni terreni […] dipen-dono soltanto dal potere del vero Dio»), al punto chemagis orando quam feriendo pugnavit («combatté piùpregando che ferendo»). Al contrario, DcD V 12 e 19– citando Sallustio, Historiae I 16 9, che parlava di«luxus atque avaritia» – identifica in «avaritia atqueluxuria» i vizi esiziali responsabili della decadenzadell’antica respublica romana originariamente esalta-ta dalla sua «ingens cupiditas» di gloria – «dominarivero atque imperare gloriosum […] concupiverunt» –per la quale virtuosamente reprimeva tutte le «cete-rae cupiditates» (V 12 1). Si noti come proprio questeinterpretazioni del principe esemplare cristiano edella decadenza dei grandi imperi universali (qui, conil DcD, la Babilonia assira è archetipo di Roma) sianomesse satiricamente in discussione nel machiavellia-no Asino (v, vv. 37-117), ove pure evidente è l’in-fluenza agostiniana nella descrizione dell’ambizionesfrenata («usura» cioè avaritia) come causa della stes-sa naturale decadenza degli imperi, che da Nino, pri-mo grande esempio di libido dominandi imperialisti-camente attuata (cfr. DcD IV 6-7; XVI 10; 17),conduce alla luxuria corruttrice di Sardanapalo. Iltema antiagostiniano dell’ozio pernicioso dei princi-pi che, pregando, attendono la salvezza propria edello Stato dal cielo è connesso al tema agostiniano

del dilatarsi innaturale dell’impero romano sino aogni estremo del globo, corpo schiantato dalla suastessa grandezza (cfr. DcD XVIII 45 3; IV 3).

La setta cristiana e le sue vicissitudini. E propriosul tema della decadenza dei regni e delle religioni o«sètte», insomma delle civitates, il DcD influisce suun altro importante passo dei Discorsi II v 1-11, ovesi mette in rilievo la relazione distruttiva del cristia-nesimo nei confronti della religione pagana («La sèt-ta Cristiana contro alla Gentile ha cancellato tutti gliordini, tutte le cerimonie di quella, e spenta ogni me-moria di quella antica teologia»), sicché la dialetticavecchio/nuovo è interpretata non già come progres-so storico-rivelativo, bensì come necessaria legge na-turale di sopraffazione e corruzione che muove il ci-clo storico delle civiltà. Netta la differenza rispettoall’interpretazione dell’Asclepius in DcD VIII 23 1-242, ove, riportata la dolente profezia ermetica sulladistruzione dei culti egiziani, A. la saluta come at-tuale, definitiva liberazione dall’inganno demoniaco, aopera della cristiana via veritatis (23 2). Certo, M.reinterpreta la cancellazione della memoria di unareligione in prospettiva affine a quella ermetica (deie istituzioni religiose sono creazioni umane) e nienteaffatto agostiniana (l’unico Dio rivela la vera religio-ne che libera dagli idoli). Non a caso, la dottrina del-la successione delle religioni, quindi dell’umana«oblivione» (Discorsi II v 15) delle civiltà precedenti,è messa in tensione, apparentemente riecheggiandoalcune delle critiche agostiniane, con le teorie classi-che dell’eternità del mondo e dell’eventuale ripetersiidentico dei suoi cicli, violentemente confutate inDcD XII 10-15. M., però, propende proprio per latesi di Apuleio, riferita e confutata in DcD XII 10:sullo sfondo dell’eternità del mondo, si afferma lavicissitudine perenne del genere umano, scandita dacatastrofi naturali («diluvii et conflagrationes» inDcD 10 1; cfr. IV 2; peste, fame e soprattutto «inon-dazione d’acque» in Discorsi II v 12 e 15, dipendentida Polibio). Non è quindi l’onnipotenza creativa diDio a dominare e contenere la totalità della vicendacosmica e storica (non superiore per A. ai seimila an-ni, all’incirca quanti M. ne riconosce alla «memoria»degli eventi), bensì il ciclico succedersi della violenzadistruttiva delle catastrofi naturali e dell’aggressivitàumana (cfr. II v 2), di cui le religioni stesse, compre-sa quella cristiana, sono tramite, come è provato dal-l’esempio leggendario di papa Gregorio (incendiariodelle Deche di Livio) riproposto dal Savonarola (cfr.II v 8). Le «cause che vengono dal cielo» (II v 12) nonsono affatto soprannaturali, ma soltanto storiche esoprattutto fisiche, capaci di ridurre l’umanità, maiestintasi, a pochissimi individui, dai cui discendenti,

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immemori delle età passate, il mondo sarebbe stato ri-popolato. Affermando – con la teoria della «oblivionedelle cose» e della loro periodica «purgazione» – eterni-tà del mondo e periodici cicli storici, M. propone per-tanto «qualcosa come un oroscopo delle religioni» (cfr.Sasso 1987-1997, 1° vol., p. 260; alle pp. 256-61, met-te in connessione il rifiuto «come cosa favolosa» dellatesi di Diodoro Sicuro su una memoria «di quaranta-mila o cinquantamila anni», in Discorsi II v 11, conquello delle cronologie eccessive proposte da scrittifabulosi, in DcD XII 10 2). Questo significa equipara-re e togliere, nel corso del mondo, paganesimo (reli-gione egiziana) e cristianesimo, prevedendone impli-citamente la finale, naturale estinzione (cfr. II v 11),riportando quindi anche la storia degli uomini allacosmica, ciclica consumazione e «purgazione» (II v16) delle nature irrazionali e inanimate, descritta inDcD XII 4 come ordine materiale del mondo prede-terminato dal Dio creatore, comunque distinto dallastoria degli uomini provvidenzialmente guidata (sul-la dipendenza di Discorsi II v da DcD XII 10-11, cfr.Inglese 1984, poi 2000, pp. 400-01).

Cupiditates: gloria, dominio, libertà, tirannia.Motivo strategico del DcD (cfr. V 12-22) è identifi-care, con Cicerone e Sallustio, nel desiderio esaltatodella gloria mondana il valore supremo della civiltàromana, capace di subordinare qualsiasi passione ovizio a quello della grandezza della patria, al puntoche Dio stesso ha voluto riconoscere l’eccellenzaumana delle virtù romane – seppure prive di grazia,quindi idolatriche e perverse –, donando loro comegiusta merces il dominio del mondo terreno (cfr. so-prattutto V 12-15).

La centralità strutturale e religiosamente ambi-gua (concessa dal cielo, ma del tutto terrena) dellagloria politica in M. presuppone dunque, ancora unavolta, il rovesciamento polemico della condannaagostiniana, come prova una serie di connessioni traDiscorsi e DcD. Lasciata cadere qualsiasi preoccupa-zione per la santità cristiana e l’apologia dell’onnipo-tenza di Dio signore della storia, i Discorsi sacraliz-zano il valore supremo attribuito dai Romani allagloria politica e militare, celebrate nel culto della re-pubblica. Subito dopo avere giustificato Romolo peril suo fratricidio, il cap. x del I libro oppone i fonda-tori/riordinatori di una civitas e i tiranni. Glorificatisono, nell’ordine, gli uomini «capi e ordinatori dellereligioni. Appresso dipoi quelli che hanno fondatorepubliche o regni» (2-3), quindi quelli che «prepostiagli eserciti, hanno ampliato o il regno loro o quellodella patria» (4), infine «gli uomini litterati» (5). Sonodefiniti «pel contrario infami e detestabili gli uominidistruttori delle religioni, dissipatori de’ regni e delle

republiche, inimici delle virtù, delle lettere» (7): que-sti formano la grande maggioranza dei potenti che,«ingannati da uno falso bene e da una falsa gloria […]si volgono alla tirannide» (9), conducendo la loro pa-tria alla rovina. Pertanto, «cercando un principe lagloria del mondo», dovrebbe operare in «una cittàcorrotta» dalla tirannide «per riordinarla come Ro-molo» (Discorsi I x 30-31), non perseguendo un po-tere fine a sé stesso, ma agendo per il benessere du-revole dell’universalità: «E veramente i cieli nonpossono dare agli uomini maggiore occasione di glo-ria» (31). La contrapposizione tra l’autentica gloriadei Romani (che vivono e muoiono per la respublica)e la tirannide (che persegue il potere per il potere) èelemento portante comune ad A. e a Machiavelli.Basandosi su alcune notazioni di Sallustio, A. distin-gue in V 19 tra cupiditas humanae gloriae e cupiditasdominationis, riconoscendo alla prima passione (pro-prio perché preoccupata del giudizio altrui: cfr. V 124) una certa capacità – seppure teologicamente pec-caminosa – di perseguire dignità morale (multa inmoribus bona) ed ethos politico, sicché proprio perquesto desiderio più alto il Dio cristiano premia i‘virtuosi’ romani con un impero glorioso e duraturo.Al contrario, la mera cupiditas dominationis, la libidodominandi – perseguita etiam per apertissima scelera(V, 19), indipendentemente dal desiderio di gloria,quindi dalla preoccupazione del giudizio pubblico edello stesso bene comune – degenera in bestiale ti-rannide, come provato dall’esempio di Nerone:

Qui gloriae contemptor dominationis est avidus, be-stias superat sive crudelitatis vitiis sive luxuriaechi, disprezzando la gloria, è avido di potere, supera glianimali nei loro istinti di crudeltà e di lussuria (V 19).

Dio è comunque confessato come l’onnipotenteSignore della storia, che può innalzare l’ipocrita e iltiranno (il principe dotato di potere assoluto; ma cfr.II 21), per punire i peccati della civitas (cfr. V 19).Ma la stessa virtus umana è vera soltanto se donatadalla gratia di Dio (cfr. V 14), che la concede soltan-to agli autentici credentes, sicché sine vera pietate, idest veri Dei vero cultu, ogni ordine politico secolare èperverso, così come ogni subordinazione ‘virtuosa’delle passioni inferiori a quella della gloria humana;mentre, qualora i governanti fossero davvero perva-si di pietas, possedendo la scientia regendi populos,proprio rinunciando alla gloria secolare e desideran-do la gloria celeste, apporterebbero alle loro comu-nità benessere e pace (cfr. II 19).

Ritroviamo, sia in Discorsi I x 1-33 sia in Principexv e xviii, una sistematica analogia con la riflessioneagostiniana sulla relazione tra desiderio di gloria,brama di dominio, tirannica indifferenza al giudizioaltrui, eppure calcolata simulazione di virtù, certo

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ormai in una prospettiva politico-religiosa del tuttosvincolata dall’ipoteca cristiana. Rivelativi gli esem-pi romani, con la distinzione tra «principi buoni»,vissuti «sotto le leggi» (16), e «scelerati imperadori»(17), tra i quali spiccano Cesare, empio corruttoredella repubblica, e Nerone. Quest’opposizione pro-spetta, pertanto, come in A., la divaricazione della«via della gloria o del biasimo» (18), sicché i seguacidella tirannide non si rendono conto di «quanta fa-ma, quanta gloria, quanto onore, sicurtà, quiete»perdono per perseguire «infamia, vituperio, biasimo,pericolo e inquietudine» (9). Afferma Principe viii10: «Non si può ancora chiamare virtù ammazzare e’suoi cittadini, tradire gli amici, essere sanza fede,sanza pietà, sanza religione: e’ quali modi possonofare acquistare imperio, ma non gloria». E in Discor-si III xl 5, la «fraude […] che ti fa rompere la fededata e i patti fatti» è dichiarata incompatibile conl’autentica «gloria». Almeno alla lettera, queste affer-mazioni paiono compatibili con quelle agostiniane,che connettono intimamente giustizia dello Stato,virtù morali dell’uomo e vera pietas.

La prospettiva di M. cambia, però, in Principe xv6-12, ove si afferma l’impossibilità per il principe,chiamato a operare in stato di precaria necessità, diessere integralmente «buono»; sicché, in Principexviii, si afferma la necessità di ricorrere all’«astuzia»piuttosto che alla «fede» e all’«integrità». E si conclu-de che il principe, novello «Chirone centauro» (5),debba assumere nella sua stessa persona di uomo lanatura di bestia (4-6), per di più binata in «golpe» e«lione» (7). Per il principe è utile «parere piatoso, fe-dele, umano, intero, religioso» (13), ma è inevitabile«diventare il contrario» (13) quando la necessità im-ponga di operare «contro alla fede, contro alla carità,contro alla umanità, contro alla religione» (14-15).Rovesciando la prospettiva di DcD V 19, che parevain qualche misura recepita in Discorsi I x 1-33, nel-l’orizzonte di crisi radicale che costringe a pensarealla salvezza della patria soltanto nei termini dell’ec-cezione obbligata, s’impone di valutare la virtù delprincipe sulla sua capacità di durare, anche con imezzi del terrore, della violenza, dell’ipocrisia, in-conciliabili non soltanto con le autentiche pietas, fi-des, caritas cristiane, ma con le stesse gloriose virtù egiustizia romane. La dura necessità del politico fini-sce per imporsi nel cuore stesso dei Discorsi nellatrattazione delle virtù repubblicane:

E che la patria è bene difesa in qualunque modo la sidifende, o con ignominia o con gloria […]. Perché do-ve si delibera al tutto della salute della patria, non videbbe cadere alcuna considerazione né di giusto néd’ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabilené di ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto,

seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e man-tenghi le la libertà (III xli 3 e 5).La prospettiva è antitetica a quella di A., che con-

danna l’assolutizzazione della potenza e della duratadello Stato romano e l’indifferenza nei confronti del-le sue qualità morali da parte di quei principes paga-ni, i quali

nullo modo curant pessimam ac flagitiosissimam esserem publicam. “Tantum stet”, inquiunt, “tantum flo-reat copiis referta, victoriis gloriosa, vel, quod est feli-cius, pace secura sit”in alcun modo si preoccupano se la società è corrotta e de-pravata. “È sufficiente che si regga”, dicono, “e prospericolma di ricchezze, gloriosa per le sue vittorie oppure, eciò è anche meglio, tranquilla nella pace” (DcD II 20).

L’implicarsi di gloria/virtù e libidine/logica asso-luta, tendenzialmente amorale, del potere, capace dicostituire ordine e durare, domina la riflessione sul-l’intimo segreto insieme espansivo e corruttivo dellapotenza romana sia nel DcD sia nei Discorsi. In DcD V12 1-2 (servendosi di Sallustio, Historiae I 1), A. re-stituisce una gerarchia delle grandi passioni romane,capaci di determinare la grandezza della respublica:

Amore itaque primitus libertatis, post etiam dominatio-nis et cupiditate laudis et gloriae multa magna feceruntle grandi imprese nacquero anzitutto dall’amore per la li-bertà, poi anche dalla brama di potere, di considerazione,di gloria (12 2).

Il dinamismo pulsionale romano è assunto comeprincipio d’interpretazione dell’espansione imperali-stica, quando l’amore della libertà si rovescia irresisti-bilmente in desiderio di dominio glorioso nei confron-ti dei popoli confinanti, ut parum esset sola libertas, nisiet dominatio quaereretur («poiché diveniva indifferentela sola libertà, se non si cercava anche il dominio», 122). Ma, ancora seguendo le Historiae di Sallustio (II18), l’originaria «ambizione» si complica ritorcendosiinternamente come fratricida conflitto sociale tra patri-zi e plebei: discessio plebis a patribus, dovuta alle iniuriaevalidiorum, generatrici di civili discordiae, dum illi domi-nari vellent, illi servire nollent («secessione della plebe[...] soprusi dei più forti [...] discordie in cui gli uni vo-levano comandare e gli altri non volevano servire», DcDV 12 6). Se in Sallustio prevale l’indicazione moralisti-ca dello scindersi conflittuale della civitas in sé stessa, ein A. il conflitto diviene segno di un’apocalittica, indo-minabile libido fratricida, in M. la tesi è refrattaria aqualsiasi valutazione morale o teologica, seppure risul-ti fedele traduzione della citazione agostiniana:

E sanza dubbio, se si considerrà il fine de’ nobili e de-gli ignobili, si vedrà in quelli desiderio grande di do-minare ed in questi solo desiderio di non essere domi-nati, e per conseguente maggiore volontà di vivereliberi (Discorsi I v 8).

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È noto come in M. i conflitti sociali, i «tumulti edissensioni universali» (I vi 25) degli «umori», secontenuti all’interno di un quadro istituzionale ca-pace di dispiegarli come forza espansiva di dominio,siano assunti – contro le condanne sallustiana e ago-stiniana – quale motore dello straordinario dinami-smo di potenza della Repubblica romana (cfr. Di-scorsi I iv 1-12): guerre e divisioni interne sono lenaturali modalità attraverso le quali Roma, «republi-ca tumultuaria» (2), cerca di attingere la propriagrandezza e durata storica. Ma questo significa che ilmodello supremo di civitas terrena assume come vir-tù, occasione di vittoria e di potenza ‘eterni’ quei vi-zi, pure riconosciuti come grandiosi, che il DcD de-nunciava come ispirati dal demonio: vana brama digloria, ingiusta libido dominandi interna ed esterna,violenza omicida e fratricida (cfr. DcD V 17 2), cheappunto culminano nelle riforme dei Gracchi e nellascissione sociale tra patrizi e plebei (cfr. II 21-22;III 24-26), origine delle guerre civili e quindi delprecipitare della repubblica verso il principato (cfr.II 22-24; III 27-30). Nella diagnosi machiavellianapare ancora di avvertire un’eco della denuncia apo-calittica agostiniana, della libido dominandi romanacome chiave interpretativa dell’incoercibile e infineomicida violenza che ‘naturalmente’ appartiene al-l’autoaffermazione del politico.

Corruzione del corpo politico, paura e «riduzioneverso il principio». Ampia, è nel DcD, la riflessionesull’intimo rapporto tra virtù e paura. Soltanto lapaura interna (metu premente, non persuadente iusti-tia: III 16) del potere tirannico di Tarquinio ha resoRoma virtuosa (cfr. DcD III 16-17 1, a partire daSallustio), richiamandola all’originario primato del-la libertà (cfr. Discorsi III i 42); così le stesse discor-die sociali tra patrizi e plebei sono state temporanea-mente superate soltanto dalla paura di un estremopericolo esterno:

quia rursus gravis metus coepit urgere atque ab illisperturbationibus alia maiore cura cohibere animos in-quietos et ad concordiam revocare civilemperché una nuova grave paura cominciò a incalzare e afrenare, per un’altra ancor più grave preoccupazione,gli animi inquieti dalle turbolenze, e a ricondurli allaconcordia civile (V 12 6).

Già in II 18 1, a partire da Sallustio, per due vol-te A. sottolinea come sia stato il metus (cfr. III 18 1)l’unica causa capace di fare tornare a Roma «optimimores et maxima concordia […] parvo intervallo»(II 18 1); per dirla in termini machiavelliani, è la«paura» (Discorsi III i 24 e 25) di un pericolo morta-le a indurre, talvolta, il corpo politico a recuperare ilsuo principio o fondamento virtuoso; è questo il caso

di «riduzione verso il principio […] per accidenteestrinseco» (III i 10), come provato nel caso dell’in-vasione gallica, e ribadito con il riferimento a «unaforza estrinseca. Perché, ancora che qualche volta lasia ottimo rimedio come fu a Roma, ella è tanto peri-colosa che non è in modo alcuno da disiderarla» (39-40); qui il caso delle guerre puniche, evocato da Sal-lustio e A., pare calzare perfettamente all’ipotesiestrema di «ritirare verso il segno» dell’originaria«bontà» la repubblica che ha paura di perire a causa digravissima minaccia esterna. «Gl’intrinseci» stru-menti capaci di «ritirare» nel principio virtuoso il cor-po politico sono o gli «ordini» disposti dalla «pruden-za intrinseca» di una città, capaci di contrastarne lacorruzione (come i tribuni della plebe: cfr. 20), ol’esempio di singoli uomini virtuosi, come quelli ditanti eroi romani, «i quali con i loro esempli rari e vir-tuosi facevano in Roma quasi il medesimo effetto chesi facessino le leggi e gli ordini» (28). Se la stessa dina-mica corruttiva e correttiva è applicata alla chiesa diCristo (cfr. 32-34), principio e fondamento di purezzaoriginaria cui (pur vanamente!) la «rinnovazione» de-gli ordini mendicanti cerca di riportare la sètta «dellanostra religione», comunque è ancora da un modelloromano che M. dipende, pure mediatogli da Agosti-no. Si tratta di un rilevante passo del De Republica ci-ceroniano (V 1 1, noto soltanto grazie ad A.), citato inDcD II 21 3, ove – a partire da una citazione di Ennio:Moribus antiquis res stat Romana virisque («Roma sifonda sui costumi e sugli uomini antichi») – si affermache soltanto recuperando gli esempi di viri, mores,maiorum instituta, Roma aveva potuto mantenere lasua grandezza fondata sulla iustitia:

Itaque ante nostram memoriam et mos ipse patriuspraestantes viros adhibebat, et veterem morem ac ma-iorum instituta retinebant excellentes viriin età anteriore alla nostra memoria, e lo stesso costu-me patrio chiamava al governo gli uomini più insigni,e questi uomini eccellenti mantenevano il costume an-tico e le istituzioni degli antenati.

L’esempio portato da Cicerone è quello di una«pictura egregia» che, divenendo sempre più scolori-ta, avrebbe dovuto essere restaurata riattivandonegli antichi tratti, il «segno», insomma, mentre ormaila Roma a lui contemporanea ne aveva perduto formaed extrema lineamenta:

Nostris enim vitiis, non casu aliquo, rem publicam ver-bo retinemus, re ipsa vero iam pridem amisimusper le nostre colpe, e non per qualche caso fortuito,conserviamo ancora il nome di Stato, ma già da tempone abbiamo perso la sostanza.

L’insistenza (invero anomala in M.) di DiscorsiIII i sulla necessità che Roma, per mezzi ordinari ostraordinari, «ripigliasse nuova vita e nuova virtù e

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ripigliasse la osservanza della religione e della giusti-zia, le quali in lei cominciavano a macularsi», insom-ma l’insistenza sull’impossibilità di mantenere unoStato forte senza ritornare periodicamente a «mante-nere la religione e la giustizia», pare pertanto dipen-dere dall’argomentazione del De Republica, lunga-mente riassunta in DcD II 21 1, ove si afferma che laiustitia (garantita dalla religiosa fedeltà agli antichimores) è l’unico autentico fondamento della Repub-blica romana, sicché, come riassume A., Cicerone ri-tiene che nec omnino nisi magna iustitia geri aut stareposse rem publicam («senza una somma giustizia nonpuò essere governato uno Stato», II 21 1).

Non è un caso, allora, che la figura esemplare del-la capacità romana di riattingere il principio buonodella sua costituzione sia, per M., Lucio GiunioBruto, che riattinge la fondativa logica fratricida diRomolo, attestante la natura unitaria e assoluta delpotere costituito, che non tollera divisione e dissen-so. In DcD III 16 Bruto è, infatti, incarnazione pa-radigmatica del perverso amore romano per libertàsecolare e gloria di sé, spinto sino all’uccisione deipropri figli congiurati a favore dei Tarquini:

pro libertate moriturorum et cupiditate laudum, quaea mortalibus expetuntur, occidi filii a patre potueruntpoté uccidere i figli per la libertà di uomini destinati amorire e per il desiderio di quella lode tanto agognatadai mortali (V 18 1).

L’atto di condanna della virtù crudele e del tuttoinutile di Bruto è netto:

pro hac temporali atque terrena Brutus potuit et occi-dere, quod illa facere neminem cogitper questa [patria] temporanea e terrena Bruto poté ad-dirittura uccidere i suoi figli, cosa che quella [celeste]non costringe alcuno a fare (V 18 1);

Etiamne ista est gloria, Iunii Bruti detestanda iniqui-tas et nihilo utilis rei publicae?Può dirsi gloriosa questa deprecabile iniquità di Giu-nio Bruto, per nulla utile allo Stato? (III 16),

ove si condanna l’esilio imposto da Bruto a LucioTarquinio Collatino, soltanto perché condivideva ilnome del re deposto. Non soltanto M. giustifica co-me previdente l’apparentemente futile motivazionedell’esilio di Collatino (cfr. Discorsi I xxviii 10-11),ma soprattutto, in Discorsi I xvi 10-11, definisce,contro A., l’inumano rigore di Bruto come politica-mente salvifico: per mantenere «lo stato libero […]non ci è più potente rimedio né più valido né più si-curo né più necessario, che ammazzare i figliuoli diBruto», vale a dire adottare qualsiasi via straordina-ria, anche se giudicata dai più iniqua; sicché, «chi fauno stato libero e non ammazza i figliuoli di Bruto,si mantiene poco tempo» (III iii 4). Non si dà auten-tico ed efficace amore di patria senza l’assunzione

radicale dell’autonomia assoluta del politico rispettoal teologico e all’etico (cfr. anche Discorsi III xxvii1-10).

Rispetto alla centralità di Bruto, risulta seconda-rio, nel suo ormai rassegnato pessimismo, il confron-to di M. con l’interpretazione demitizzante di Lucre-zia in DcD I 19 1-21, che è volta a restituirla comecolpevole nel suo suicidio, originato o da vergognaper il consenso a un eventuale piacere provato nel-lo stupro subito dal figlio di Tarquinio il Superbo oda un eccessivo amor sui bramoso di gloria immorta-le: Si adulterata, cur laudata? Si pudica, cur occisa?(«perché dev’essere lodata un’adultera? o uccisa unadonna onesta?», 19 2), perché in questo caso – corporeoppresso […] nulla voluntate («violentato il corpo […]senza alcun consenso della volontà», 19 1) – Lucreziasi sarebbe dovuta considerare del tutto innocente;affermazione riecheggiata nella sarcastica forzaturamachiavelliana della decostruzione agostiniana: «lavolontà è quella che pecca, non il corpo» (Mandrago-la III xi; cfr. Sasso 1987-1997, 3° vol., pp. 144-50,4° vol., pp. 299-312). L’astuzia spregiudicata delgiovane Callimaco è ormai volta a possedere con l’in-ganno non più la fortuna storica e la gloria pubblica,ma soltanto il corpo privato di una donna; in un fe-roce contrappasso, alla casta e gloriosa Lucrezia ro-mana è opposta l’oziosa, quindi corrotta Lucreziacristiana, religiosa perché sottomessa e ormai deltutto priva di virtù e fedeltà, caricatura delle umilimonache romane violentate che – sospettose dell’or-goglio delle loro virtù e confessanti la grazia di Diocome loro unica forza – DcD I 25-29 contrapponevaall’eroica suicida.

Rivelativo, il perverso rovesciamento operato sulprecetto di A. da frate Timoteo, parodia dei sacerdo-ti speculatores, hoc est populorum praepositi, constitutiin ecclesiis («i sorveglianti, cioè i governanti del popo-lo, costituiti nelle chiese», I 9 3) tenuti a richiamaresposi e spose, genitori e figli, padroni e servi alla mo-ralità familiare: cfr. I 9 2. Se, in I 25, A. prescrive al-le monache eventuali vittime di violenza – che co-munque habent intus gloriam castitatis, testimoniumconscientiae («hanno nella loro interiorità la gloriadella castità, testimone la loro coscienza», I 19 3) – diassumere il peso di un incertum adulterium (l’even-tuale godimento provato nello stupro subito) piutto-sto che commettere un certum homicidium (il suici-dio), alla Lucrezia ‘cristiana’ il frate consiglia diseguire la sua stessa «conscienzia», scegliendo «unbene certo» (l’adulterio per ubbidienza al proprio si-gnore-sposo e il figlio eventuale che ne deriverà)senza preoccuparsi di «un male incerto» (l’omicidio‘eventuale’ della ‘vittima’ eletta dalla fortuna virtuo-samente soggiogata).

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Bibliografia: Fonti ed edizioni: Sancti Augustini De CivitateDei, a cura di B. Dombart, A. Kalb, Leipzig 1928-1929, Stuttgart19815; F. Fiumi, Le edizioni del De civitate Dei di Agostino del se-colo XV, Firenze 1930; P. Cherubelli, Le edizioni volgari delleopere di s. Agostino nella Rinascita, Firenze 1940.

Per gli studi critici si vedano: H. Baron, The crisis of the earlyItalian Renaissance, Princeton 1955, 19662 (trad. it. La crisi del pri-mo Rinascimento italiano. Umanesimo civile e libertà repubblicana inun’età di classicismo e di tirannide, Firenze 1970); G. Bardy, Intro-duction générale à La Cité de Dieu, Bibliothèque augustinienne, éd.G. Bardy, G. Combes, 1° vol., Paris 1959, pp. 7-163; S.S. Wolin,Politics and vision. Continuity and innovation in western politicalthought, New York 1960 (trad. it. Politica e visione. Continuità e in-novazione nel pensiero politico occidentale, Bologna 1996); G. SASSO,Il Principe e altri scritti, Firenze 1963; G. Prezzolini, Cristo e/oMachiavelli. Assaggi sopra il pessimismo cristiano di Sant’Agostino eil pessimismo naturalistico di Machiavelli, Milano 1971, Palermo20042; G. Hasenhor, Les traductions romanes du De civitate Dei, I.La traduction italienne, «Revue d’histoire des textes», 1975, 5, pp.169-238; D. Sternberger, Drei Wurzeln der Politik, Frankfurt amMain 1978 (trad. it. Le tre radici della politica, Bologna 2001); G.Inglese, Commento, in N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima decadi Tito Livio, Milano 1984, 20005; M. Reale, Machiavelli, la politi-ca e il problema del tempo. Un doppio cominciamento della storia ro-mana? A proposito di Romolo in Discorsi I, 9, «La cultura», 1985, 23,pp. 45-123; G. Lettieri, Il senso della storia in Agostino d’Ippona.Il saeculum e la gloria nel De civitate Dei, Roma 1987; G. Sasso,Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 4 voll., Milano-Napoli 1987-1997; G.M. Barbuto, Il principe e l’Anticristo. Gesuiti e ideologiepolitiche, Napoli 1994; G. Inglese, Commento, in N. Machiavelli,Il Principe, Torino 1995; G. Lettieri, Riflessioni sulla teologia po-litica in Agostino, in Il dio mortale. Teologie politiche tra antico e con-temporaneo, a cura di P. Bettiolo, G. Filoramo, Brescia 2002, pp.215-65; M. Viroli, Il Dio di Machiavelli e il problema morale del-l’Italia, Roma-Bari 2005; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dellostato, la cognizione delle storie, Roma 2006; G. Lettieri, Roma, ilPrincipe e il Messia. Fondazione e decostruzione del teologico politico:Agostino, Machiavelli, Schmitt, Derrida, in Religione e politica. Mi-to, autorità e diritto, a cura di P. Pisi, B. Scarcia Amoretti, Roma2008, pp. 46-117; E. Brilli, Le attualità umanistiche della Città diDio. Un contributo iconografico allo studio della ricezione del De civi-tate Dei attraverso i codici miniati italiani del XV secolo, «Segno etesto», 2011, 9, pp. 1-35.

Gaetano Lettieri

agraria, legge → Gracchi.

Ai Palleschi. – Breve scritto indirizzato ai Me-dici e ai loro seguaci nell’autunno del 1512, per met-terli in guardia contro il rischio di favorire i loro av-versari criticando il gonfaloniere Soderini, appenacacciato dal potere. L’autografo è conservato all’Ar-chivio di Stato di Firenze: Manoscritti Torrigiani,busta V, inserto XXV, numero interno 13. Consta diun bifolio di cm 43,5×29,5. Conserva tracce di quat-tro piegature verticali e di una orizzontale. Legatoper testamento dal marchese Carlo Torrigiani conaltre carte, venne depositato all’Archivio di Stato diFirenze nel 1866. Il titolo è editoriale.

Nonostante la vittoria riportata nella battaglia diRavenna (→), i francesi dovettero battere in ritirata

di fronte agli alleati della lega Santa (papa, Spagna eVenezia). I fiorentini, protetti dal re di Francia findalla cacciata dei Medici nel 1494, non riuscirono astaccarsi da questa alleanza, malgrado le proffertedel papa. I Medici, e in particolare il cardinale Gio-vanni, ritennero che l’occasione fosse favorevole a unloro ritorno a Firenze: con il consenso del papa e ilsostegno delle truppe spagnole, marciarono sulla cit-tà, provocando la fuga del gonfaloniere a vita PieroSoderini (30 ag.). Nelle prime due settimane il pote-re dei Medici rimase vacillante: il 1° settembre infat-ti venne eletto gonfaloniere Giovan Battista Ridolfi,uno dei capi del vecchio ceto aristocratico che, nei se-coli precedenti, aveva contrastato il potere dei Medi-ci, mandandoli varie volte in esilio. Accortosi del pe-ricolo di questa soluzione, escogitata dall’inespertoGiuliano de’ Medici, il cardinale Giovanni, effettivofautore dell’impresa, organizzò un colpo di mano,messo in atto il 16 settembre: il popolo di Firenze,cacciato in piazza da uomini armati, fu costretto ariunirsi ‘a parlamento’ e a eleggere una Balìa, incari-cata di riformare le istituzioni e consegnare di fatto ilpotere ai Medici. Tuttavia, ancora per un paio dimesi, e in particolare dopo la partenza delle truppespagnole, i Medici stentarono ad assumere il con-trollo della città, perché costantemente osteggiati daforze provenienti in gran parte dal ceto ottimatizio.Solo nelle settimane seguenti essi giunsero a consoli-dare il potere, procedendo, tra l’altro, a epurazioninell’amministrazione, delle quali sarebbe stato vitti-ma lo stesso M., destituito dall’incarico di segretarioe di cancelliere il 7 novembre 1512.

Nello scritto non compare alcun riferimento cro-nologico esplicito; ma, da come viene descritta la si-tuazione politica, possiamo ritenere che il testo siasuccessivo alla conquista effettiva del potere da partedei Medici (16 sett.). Vi si afferma infatti che certifiorentini «puttaneggiono infra el populo e e’ Medici»(§ 8) e che «alcuni cittadini […] si tirono sotto a’ Me-dici» (§ 9). Un’ulteriore precisazione cronologica siricava dalla frase «e’ Medici non possono stare a Fi-renze resurgendo l’ordine vecchio» (§ 11): essa impli-ca non solo che la nuova Balìa abbia già cambiato leistituzioni, creando un ordine ‘nuovo’, ma che la da-ta di composizione possa essere spostata verso la finedi ottobre 1512, dopo la partenza delle truppe spa-gnole, visto che sarebbe altrimenti impossibile anchesolo ipotizzare un ritorno all’‘ordine vecchio’, maga-ri con Piero Soderini. Proprio in quei giorni, comeriportano le cronache, Giulio II minacciava di muta-re il governo di Firenze per punire i Medici che accu-sava di essere più fedeli al re di Spagna che a lui. Ladata verrebbe inoltre a coincidere con quella dell’in-vio di una lettera di M. – di cui si conserva solo un

AGRARIA, LEGGE

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