La casa a Cappadocia nel 1931, in Aequa, (IX) 31, ottobre 2007, pp. 27-30

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STUDI RICERCHE AEQUA INDAGINI STORICO-CULTURALI SUL TERRITORIO DEGLI EQUI n. 31

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STUDI RICERCHE

AEQUAINDAGINI STORICO-CULTURALI

SUL TERRITORIO DEGLI EQUI

n. 31

AEQUA

Rivista di studi e ricerche sul territorio degli Equi

Anno IX, n. 31, ottobre 2007

DirettoreGiuseppe Aldo ROSSI

Direttore responsabile

Fabrizio Lollobrigida

Condirettori

Artemio Tacchia, Luca Verzulli

Collaboratori

Gabriele Alessandri, Nicola Cariello, Pietro Carrozzoni,

Giuseppe Cicolini, Bernardino Ciocari, Alberto Crielesi,

Andrea Del Vescovo, Ivo Di Matteo, Alessandro Fiorillo,

Terenzio Flamini, Annita Garibaldi Jallet, Maria Teresa

Giovannoni, Giovambattista Grifoni, Aldo Innocenzi,

Sergio Maialetti, Vincenzo Marchionne, Zaccaria Mari,

Micaela Merlino, Giuseppe Panimolle, Antonio Proietti,

Carmine Proietti, Walter Pulcini, Gianfranco Ricci,

Claudio Rossi Massimi, Piero Sebastiani Del Grande,

Beatrice Sforza, Paola Elisabetta Simeoni, Maria

Sperandio, Boris Tacchia, Antonio Tantari.

Autorizzazione del Tribunale di Roma

n. 390/99 del 20/08/99

Costo copia € 5,00 Numeri arretrati € 8,00

Contributo editoriale: euro 20 da versare sul C.C.P. n.17250036

intestato a Associazione “Aequa”, via Valeria, 62 - 00020

Riofreddo (Rm).

Indirizzo web: www.aequa.orge-mail: [email protected] - [email protected]

Redazione: A. Tacchia, via D. Alighieri 11, 00027 Roviano (RM)

Segreteria: L. Verzulli, via del Colle 1, 00020 Riofreddo (RM)

Stampa: Tipografia Fabreschi in Subiaco.

La collaborazione alla rivista è assolutamente volontaria e gratuita. Gli

articoli e le foto ricevute, anche se non pubblicati, non vengono restitui-

ti. Di quanto scritto sono direttamente responsabili i singoli autori.

AEQUA

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Segreteria romana: c/o G. A. Rossi, Via degli Scolopi 19,

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In copertina:

Una coppa di granturco nella

mola di Vivaro Romano

(1991)

SOMMARIO

Artemio Tacchia

I Catasti o le Assegne della metà

del XVII secolo a Roviano pag. 3

Nicola Cariello

Il culto di Santa Anatolia nel Cicolano pag. 12

Beatrice Sforza

Il tormentato Monte Frumentario

di Vivaro Romano pag. 16

Antonio Tantari

Le reliquie di Santa Felicita ad Affile pag. 20

Giuseppe Cicolini

Le piogge a Subiaco e nella valle dell’Aniene pag. 24

Alessandro Fiorillo

La casa a Cappadocia nel 1931 pag. 27

Gianfranco Ricci

I martiri della strage del 1944 a Capistrello pag. 31

Stefano Rinaldi

Il palio di Castel Madama,

un “fatto sociale globale” pag. 36

Andrea Del Vescovo

Gli imperatori di Roma venuti dalla Sabina pag. 38

Marina Cimato

Il restauro della chiesa di San Nicola

a Riofreddo pag. 40

Vincenzo Marchionne

Una ipotesi sull’origine del nome

Scotonico a Roviano pag. 45

Fabio Pillonca

I danni dell’alluvione del 1813

a Paganico e Collalto pag. 47

Referenze fotografiche:

A. Tacchia, copertina, pp. 3, 6, 10, 17, 34; M. Cimato, pp.

41, 42, 43; N. Cariello, pp. 13, 14; A. Tantari, p. 20; G.

Ricci, pp. 31, 33; Archivio Aequa; Associazione Culturale

Nuovo Mondo; Associazione Rione Castelluccio.

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LA CASA A CAPPADOCIA NEL 1931

di Alessandro Fiorillo

Dopo la pubblicazione della Storia di Cappadocia, Petrella, Verrecchie (1), risultato di

una ricerca storica sui tre paesi della Valle di Nerfa (Marsica) dal periodo che precedette

la loro comparsa alla prima metà del Novecento, sto ora portando avanti una serie di

studi incentrati su alcuni aspetti della vita sociale del paese di Cappadocia (Aq) negli

anni compresi tra i primi del Novecento e la fine degli anni Quaranta.

Tale ricerca vuole approfondire alcune realtà del vissuto sociale delle genti di questo

paese, simile nella sostanza alla realtà delle genti dei tanti paesi e località limitrofe, sia

della Marsica che della vicina Valle dell’Aniene, caratterizzata da attività economiche

per lo più incentrate sull’agricoltura e la pastorizia, e nello specifico di Cappadocia (e

della vicina Petrella Liri) da una intensa attività legata al mestiere di mulattiere, che

portava le genti locali a frequenti e lunghi periodi vissuti al di fuori dei rispettivi paesi,

fuori dalle loro case (2).

La casa

Questo primo articolo vuole focalizzare l’attenzione su quella che, allora come oggi,

rappresentava il bene per antonomasia, e che garantiva prima di ogni altro la sopravvi-

venza, il riparo primario e il luogo della vita e del focolare domestico: la casa.

In quegli anni il paese di Cappadocia non era ancora esteso come oggi (sebbene molto

più abitato!), o meglio stava appena cominciando a colonizzare la zona dell’odierno

“piazzale” (3), con le prime abitazioni private costruite dai mastri muratori locali, e con

la nuova Chiesa di Santa Margherita, che proprio in quegli anni veniva ricostruita nel

nuovo sito, rispetto all’antica chiesa che si trovava in

località Vallefredda (4), irrimediabilmente danneggia-

ta dal terremoto del gennaio 1915 (5).

La vita nel paese trascorreva tranquilla e laboriosa,

rispettando quei ritmi segnati fin dai tempi più remo-

ti, una vita che nel corso dell’anno, come abbiamo

accennato, vedeva diverse famiglie passare la mag-

gior parte del tempo fuori dal paese, dalla propria

casa, nei posti dove c’era il lavoro, quel lavoro garan-

tito soprattutto dal possesso dei muli, il principale

“mezzo” di trasporto di quegli anni, soprattutto laddo-

ve c’era bisogno di disboscare e trasportare il legna-

me, il carbone e le merci in genere.

Molto spesso capitava, specialmente lungo il freddo

periodo invernale, che in paese restavano soprattutto

donne, anziani e bambini. La casa era, soprattutto

d’inverno, il “riparo” all’interno del quale trascorre-

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Casa tipica di Cappadocia

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vano, lente e spesso monotone, le giornate. Scrive Vincenzo Massotti, riferendosi alle

case (6):

“ (…) si trattava di case costruite con i sassi, con quella pietra che le montagne circo-

stanti hanno sempre fornito. Sicuramente erano case assai grandi, fino ai primi di que-

sto secolo, infatti la gente di Cappadocia ha trascorso la propria esistenza in un grande

stanzone, posto al piano superiore di una modesta abitazione, poiché il piano inferiore

veniva adibito a stalla, a pollaio e cantina. In quella sala si mangiava, si dormiva, lì le

donne si radunavano per trascorrere le lunghe giornate invernali, quando il freddo e la

neve non permettevano di uscire. Per secoli in quelle case si sono consumate storie di

miseria, ma anche piacevoli intrattenimenti. Non c’è da stupirsi del fatto che tanta

gente anche pastori e contadini, conoscessero i grandi poemi del Rinascimento:

“l’Orlando furioso”, “La Gerusalemme liberata”, “La canzone d’Orlando”, o tutti i

racconti biblici. Intorno al fuoco, infatti, la sera quando si poteva godere un po’ di ripo-

so, si radunava l’intera famiglia allora assai numerosa, e il capo famiglia, o chi per lui,

leggeva questi racconti. Quella era la televisione di allora, e i bambini chissà quali

mondi immaginavano sentendo quelle storie (…)”.

I temi di “Francesco Lilli”

Ma niente meglio di una testimonianza diretta di quegli anni riesce ad esprimere il

significato più intenso in riferimento a ciò che la casa rappresentava allora, soprattutto

se a raccontarlo in un tema dal titolo “Le lunghe serate d’inverno” è un bambino:

“Il possedere una casa è una bellissima proprietà e misero potrà dirsi colui che è privo

anche di un piccolo tugurio. La casa è il luogo più utile e più atto per il genere umano,

perché la maggior parte della vita si svolge principalmente dentro di essa. O come si

sta bene dentro la casa nella rigida e brutta stagione d’inverno! Che lunghi giorni e che

belle serate si trascorrono dentro di essa. Quando il cielo è di colore nerognolo, venti

settentrionali si innalzano impetuosi nell’immensità dell’aria, la neve densa cade a lar-

ghe tese, tutta la gente sta rinchiusa nelle sue abitazioni a godere la bella pace delle

loro famiglie. Si raccontano fiabe, si cantano stornelli, canzoni, poesie, si balla, si lavo-

rano cose famigliari. Ma guastano queste

belle felicità tristi pensieri, i quali alcune

volte eccitano anche il pianto. Ma anche

dentro le abitazioni il gran freddo inverna-

le si fa sentire, poiché nelle porte e nelle

fessure delle finestre il freddo e il vento

inevitabili entrano impetuosamente. Come

soffrono i nullatenenti in questa stagione,

molto nemica per loro! Saranno stretta-

mente spinti a girare il mondo in cerca di

cibo e di ricovero in tutti i tempi, sia buoni

che cattivi. Anelano quindi di possedere al

minimo una piccola e brutta abitazione, e

un poco di cibo per il sostentamento neces- Gruppo di Cappadociani

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sario. Ecco quei pensieri che turbano le belle e lunghe serate d’inverno.

Cappadocia, 20-8-1931, Lilli”.

A Cappadocia, molto spesso nel corso dell’anno, i capi famiglia si trovavano fuori paese

impegnati nei vari lavori e attività che consentivano di sostenere economicamente la

famiglia. A volte si tornava però in occasione delle festività, come ci testimonia in un

altro delizioso tema, “Il ceppo di Natale”, sempre lo stesso bambino:

“Non ho provato più mai una grande gioia come la provai l’anno scorso. Erano già tra-

scorsi tre anni che mio padre si era allontanato dalla sua famiglia per andare a lavora-

re in altri paesi affinché mantenesse onestamente i suoi figliuoli. Quindi avvicinandosi

la grande, solennità del S. Natale, colse l’occasione di ritornare verso il sospirato tetto.

Noi tutti di famiglia aspettavamo con ansia il desiato giorno in cui doveva ritornare il

nostro genitore. Finalmente venne il giorno tanto bramato, e ritornò il nostro padre.

Oh! come mi palpitò il cuore per l’allegria quando lo vidi! Lui piangeva per tenerezza e

io ridevo per gioia. Quindi la nostra madre preparata nel giorno della vigilia di Natale

una grande cena, tutti quanti noi ci sedemmo a tavola, riccamente apparecchiata.

Finito di mangiare e passati i dolci natalizi, ci sedemmo attorno al focolare che manda-

va un caldo eccessivo. Ma essendosi quasi consumato, mia madre uscì fuori per prende-

re un gran ceppo e fare il fuoco. Fattosi un gran fuoco, io e le mie sorelle ci mettemmo

attorno a nostro padre affinché ci raccontasse qualche fatto o qualche novella. Allora

vinto dalle nostre preghiere incominciò a raccontare delle avventure che erano avvenu-

te proprio a lui là in quei paesi di barbari e rozzi e delle tavolette piacevoli e ridicole.

Oh! come era contento vedendo tutti i suoi figliuoli stretti intorno a sé! Oh! come sop-

portava a malapena il pianto! Ed esclamava! Ah! che gioia proverebbe se potesse vive-

re sempre nella mia casa insieme colla mia famiglia! Essendo già trascorso molto

tempo in divertimento e in risi, lasciammo i giuochi e andammo a riposare.

Cappadocia 26-1-1931, Francesco Lilli” (7).

La casa, allora come oggi, era il luogo che riuniva all’interno dello stesso spazio tutti i

componenti della famiglia, ed era spesso in occasioni come quelle narrate nei temi, le

Cappadocia, la piazza con la scuola, (1935 circa)

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festività o il ritorno a casa dei capi famiglia, che al suo interno si vivevano momenti di

generale allegria, dinanzi al camino, scaldati dal fuoco e dal calore delle relazioni fami-

gliari. I temi scritti dal bambino di Cappadocia, F. Lilli, nel lontano 1931, esprimono in

maniera esemplare questo rapporto indissolubile tra le genti del paese e le loro case,

spesso piccole, scomode, fredde, inadeguate, ma pur sempre la “ricchezza” maggiore

d’ogni nucleo famigliare.❖

__________

1- A questa mia opera, pubblicata nel 2005 con il patrocinio del Comune di Cappadocia, hanno collaborato

con le loro ricerche la dott.ssa Micaela Merlino e i ricercatori locali dott. Bruno Tocci, Mario Cosciotti,

Gerardo Rosci, Margherita Addari.

2- Con notevole arricchimento di esperienze date dal contatto con una realtà più vasta e più variegata rispet-

to al microcosmo rappresentato dal paese. I mulattieri di Cappadocia e Petrella Liri hanno lavorato molto

in Toscana, in Emilia Romagna, nel Lazio e anche in altre regioni italiane, e in molti casi hanno finito per

stabilirsi nelle medesime. Ad esempio, a tutt’oggi c’è un nucleo piuttosto numeroso di cappadociani resi-

denti in Toscana, ma ancora molto legato al paese d’origine; infatti nel corso dell’estate non è infrequente

sentire il dialetto toscano per le vie del paese di Cappadocia, quando i “cappadociani” della Toscana torna-

no in paese. Ad ogni modo non erano soltanto i mulattiere ad “emigrare” dal paese, soprattutto l’inverno.

Scrive MARGHERITA ADDARI in Storia di Cappadocia, Petrella, Verrecchie di A. Fiorillo, Roma 2005, pp.

130-131: “Negli anni che seguirono la fine della seconda guerra mondiale ci fu un po’ di lavoro in più

anche in inverno perché si dovevano ristrutturare molte costruzioni. Così un anno molti degli artisti murato-

ri partirono per un paesino che si trovava a circa 15 chilometri da Nettuno, Torre del Padiglione, dove c’e-

rano da rimettere a posto alcuni casali. Per primi partivano gli uomini (i nonni, i padri e i figli) e una volta

che si erano sistemati, arrangiandosi come potevano in piccole case in affitto, nei casali abbandonati, nelle

capanne, li raggiungevano anche le mogli, ma senza i figli più piccoli che restavano al paese e continuava-

no ad andare a scuola. In inverno si lavorava molto nella zona che va da Ladispoli a Civitavecchia. Molti

dei muratori poi, invece di lavorare alla ristrutturazione degli immobili, andavano tra le rovine in cerca di

proiettili inesplosi o casse di bombe a mano abbandonate che poi rivendevano, guadagnando più di quanto

avrebbero guadagnato lavorando un giorno da muratori. Comunque se a causa di qualche lavoro, gli artisti

lasciavano Cappadocia, ma questo succedeva di rado, tornavano a casa prima degli altri, sempre e comun-

que per Pasqua”.

3- M. ADDARI, op. cit., p. 126: “Tornando alla nostra storia, i figli di Mastrangelo, temendo di perdere tutto

(…), decisero di investire immediatamente i risparmi prima che fosse troppo tardi e costruirono a

Cappadocia in un luogo che, oggi è il Piazzale, ma all’epoca era improponibile per la costruzione di un

palazzo, perché c’era un immondezzaio. Nessuno credeva che i miei avi riuscissero ad erigere un palazzo lì

e invece nel 1929 portarono a termine l’opera.”

4- Il primo nucleo abitativo del paese, il più antico. Vedi V. MASSOTTI, Historia Cappadociae, Tagliacozzo

1996, Ente Provinciale Turismo L’Aquila – Associazione Pro-Cappadocia. p. 14: “(…) Febonio Marso

nomina solo la chiesa di S. Biagio, come sede parrocchiale. Da ciò si desume che gli antichi consideravano

il borgo di Vallefredda come parrocchia a sé, intitolata a S. Margherita. Tale distacco tra i due luoghi abitati

si riscontra anche in un interessante fatto: gli uomini del piccolo borgo erano soliti alla domenica riunirsi a

gruppetti nelle piazze del paese, separati da coloro che vivevano nella parrocchia di S. Biagio. Inoltre esi-

steva un detto, vanto degli abitanti di Vallefredda, che diceva: “Se vuoi veder la gioventù fiorita vieni a

Vallefredda a S. Margherita”.

5- Quasi contemporaneamente veniva costruito anche il Palazzo del Municipio.

6- V. MASSOTTI, op. cit., pp. 4-5.

7- I temi sono stati scritti da un bambino, Francesco Lilli, della scuola elementare di Cappadocia. Li ho

ritrovati tra le carte e i documenti conservati da don Giovanni Ferrazza, parroco di Cappadocia durante i

primi 50 anni del Novecento.