K. Revue trans-européenne de philosophie et arts

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K.

Revue trans-européenne de philosophie et arts

KAFKA, LA SCRITTURA DELLA DESTITUZIONE ?

KAFKA, L'ECRITURE DE LA DESTITUTION ?

ANNO I, 1, 2/2018

Kafka, la scrittura della destituzione. ? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts

numéro 1 - 2/2018

ISSN de la revue 2609-2484

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Editoriale

Le ombre di Kafka - 5

Essays

Luca Salza, Fragments pour une lecture destituante de Kafka – 12

Gianluca Miglino, Nella tana della metafora assoluta. Poetologia e storia nell’ultimo Kafka - 25

Jutta Linder, “Das eigentlich Komische ist freilich das Minutiöse”. Note sul comico in Kafka - 38

Alain Brossat, Mourir comme un chien - 51

Eleonora De Conciliis, Metamorfosi dello spazio e riduzione dell’umano: Kafka e l’animale -64

Alain Naze, Métamorphose et impouvoir - 78

Vincent Lecomte, Échapper au territoire de l’homme. Kafka/Kulik : une (en)quête animale - 86

Thamy Ayouch, L’hybride, le psychique et le social : pour une psychanalyse mineure - 106

Jacob Miller, Apparatus and ethics - 124

Interviews

Au cœur du Procès. Entretien avec Krystian Lupa - 133

The Kafka’s rights. A dialogue with Judith Butler - 148

Works

Guillermo Saccomanno, K: escrito en el cuerpo - 157

Mauro Delci, L’obscurité de K - 163

Eredità e metamorfosi kafkiane: Jiří Kolář (attraverso Giuseppe Desiato e Patrizio Esposito) - 165

Readings

Pierandrea Amato, Nudità senza spettatore. Godard e il fantasma di Kafka - 187

Bruno Roberti, Lynch con Kafka – 198

Lorenza Bottacin Cantoni, Davanti alla letteratura, fuori dalla morte. Il paradigma di Kafka nel pensiero di

Maurice Blanchot - 212

Fabio Domenico Palumbo, Lettere di sfida all’Altro. Frammenti di richieste oscene al Super-io - 225

Paulina Spiechowicz, Regards croisés. Kafka, le cadre et la chambre - 236

Giuseppe Crivella, Canetti e Kafka. Una lettura incrociata a partire da Massa e potere - 247

Eleonora Corace, Il cane in Kafka, tra addomesticamento e diserzione - 260

Jiří Kolář, Pomo Imperiale, collage, 1969 (la mela lanciata dal Padre contro Gregor Samsa, trasformato in insetto)

Jiří Kolář, Pomme Impériale, collage, 1969 (la pomme que le Père lance contre Gregor Samsa, transformé en insecte)

“Le ombre di Kafka”, editoriale, K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, 1, 2/2018, pp.5-10

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Le ombre di Kafka

Con una straordinaria intuizione, Giorgio Agamben ha identificato la “colpa” di Josef K., protagonista del Processo, nell’autocalunnia, nell’accusa che egli fa a sé stesso calunniandosi e che mette in moto il romanzo (G. Agamben, “K.”, in Id., Nudità, Roma, nottetempo, 2009). Un reato paradossale, in cui l’accusato sa di essere innocente, ma in cui, nel momento in cui si autoaccusa, diventa colpevole (di calunnia, appunto). Ma perché K. calunnia sé stesso? Secondo Agamben, nel Processo l’accusa è la chiamata in causa dell’essere del diritto, che è appunto accusa nella sua stessa essenza, dal momento che l’essere, una volta “accusato”, perde la sua innocenza, divenendo “cosa”, causa, oggetto di lite. È contro questa origine del diritto che si scaglia Kafka. Dall’autocalunnia discende infatti nel romanzo un processo in cui non solo in causa non è nulla di preciso, ma in cui ad essere chiamata in causa è la stessa chiamata in causa, l’essenza stessa del processo. Ma, a cosa punta l’autocalunnia di Josef K.? Qual è il movimento che Josef K. (e Kafka) punta a mettere in opera? La sottigliezza dell’autocalunnia consiste nel fatto che è essa è una strategia che mette in questione la stessa implicazione fondamentale dell’uomo nel diritto, tentando di disattivare e rendere inoperosa l’accusa, la chiamata in causa che il diritto rivolge all’essere. La calunnia che Josef K. fa nei confronti di sé stesso è in altri termini un modo di affermare la propria innocenza di fronte alla legge, un mezzo di difesa contro le autorità che minacciano continuamente l’esistenza, irretendola nella logica della colpa, nella dimensione di una legge che appare sempre come una lancinante e grottesca caricatura di una Legge originaria a cui non è possibile avere accesso. Ma, come Kafka sperimenta proprio attraverso la stesura del romanzo, si tratta di una strategia insufficiente, perché il diritto risponde a questo tentativo di destituzione trasformando in delitto la stessa chiamata in causa e facendo dell’autocalunnia, che doveva renderlo inoperoso, il proprio nuovo fondamento. La frase che conclude il Processo è la conferma dello scacco di questa strategia, radicale e fallimentare al tempo stesso, ma testimonia anche di uno spostamento radicale di prospettiva. «“Come un cane!” disse, era come se la vergogna dovesse sopravvivergli». Le parole finali del romanzo in tutti i sensi centrale nell’opera di Kafka, non solo pongono in modo esemplare il dilemma adorniano della necessità/impossibilità di interpretare i testi dello scrittore praghese. Nel momento della condanna, che è anche esecuzione, Josef K., una delle incarnazioni più limpide dell’uomo della conoscenza alla ricerca della verità che attraversano l’opera di Kafka, diventa infatti (come un) animale, tentando, dopo il fallimento della sua strategia di destituzione del diritto, di sottrarsi alla presa della legge e alla colpa che essa genera. Ma, come già avveniva nella Metamorfosi, questa trasformazione ha un residuo essenziale, la vergogna, che è l’unica cosa che sopravvive al confronto impari tra l’uomo che cerca la verità e la legge. Proprio per questo si può ipotizzare che in Kafka l’animale non sia semplicemente il senza coscienza hegeliano, e neanche l’animale nietzscheano che è identico con il proprio essere corpo ed istinto. L’animale kafkiano è un animale che ha già attraversato la colpa di essere umani, un animale che ridiventa animale comprendendo in sé tutta la dis-umanità dell’essere uomo, e, in particolare, dell’essere uomo della letteratura: il travaglio della solitudine, la lotta senza mandato e legittimazione da parte di una comunità che non riconosce più la funzione della letteratura, lo scempio di una vita vissuta solo in funzione della scrittura, un animale che si assume la colpa di non essere animale e di non essere più uomo. Nell’opera di Kafka si assiste forse allora anche ad un movimento di destituzione dell’idea di animalità “acefala”, desoggettivante, impiegabile in direzione biopolitica. La vergogna infatti sopravvive, è un residuo del diventare animale, un resto di una morte che non compie, non conclude. La stessa morte diventa così un compito infinito, come la scrittura, Come ha scritto Blanchot, Kafka «va verso il poter morire attraverso

Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

l’opera che scrive» (M. Blanchot, De Kafka à Kafka, Paris, Gallimard, 1981), perché l’opera è essa stessa un’esperienza (interminabile) della morte. Se questa traccia è giusta, se cioè l’animale che vive l’esperienza ignominiosa della morte degradante dell’ultima pagina del romanzo è in prima istanza lo scrittore (il Processo, per non parlare degli infiniti luoghi dell’opera kafkiana, delle lettere e dei diari, lo conferma in numerosi punti), si può ipotizzare che una spinta destituente in atto nell’opera di Kafka – minare l’essenza stessa del diritto, con tutte le sue premesse ontologiche, teologiche e politiche, attraverso un movimento di sottrazione – giunge ad uno scacco essenziale, che ha però il potere di aprire un orizzonte ulteriore e ancor più radicale, in cui cerca di muoversi l’opera dell’ultimo Kafka. La vergogna che il romanzo secerne come suo ultimo resto è infatti sicuramente la vergogna di essere scrittore, la colpa della letteratura in quanto risultato della libidine oscena di un vizio solitario che desacralizza la vita trasformandola in immagine, in pagina perfetta (colpa di cui è monumentale testimonianza il carteggio di Kafka con Felice Bauer, che è la premessa della stesura del Processo). Ma, per il senso di orgoglio e ribellione in essa impliciti, essa esprime anche il senso di umiliazione di uno scrittore che non è riuscito a dimostrare al potere che amministra la vita che la via della letteratura conduce alla salvezza e alla conoscenza della verità. Incapace di accettare il potere di un’istituzione che si è costituita come un sistema impenetrabile di forme intransitive, nell’ultima scena del Processo Kafka rappresenta sicuramente l’esecuzione dell’uomo della letteratura, ma indica anche, proprio in quel senso di vergogna che va oltre la punizione dell’animale letterario, l’orizzonte di una diversa funzione dello scrittore che non si rassegna a cedere la letteratura al potere dell’apparato.

*

Fare il punto su questo nodo cruciale dell’opera di Kafka, che, a differenza di quanto a lungo proposto dalle diverse mitologie kafkiane, conosce una sua evoluzione interna molto precisa (c’è un Kafka della Metamorfosi, e uno, ad esempio, del Castello, che ha attraversato, facendosi carico appunto della colpa della scrittura, le aporie della cultura del suo tempo), significa – ancora oggi, dopo decenni di filologia kafkiana – porsi il problema di ricordare quante implicazioni abbia per Kafka l’essere scrittore, l’essere “uomo dellaletteratura”.Come ha mostrato Giuliano Baioni (Kafka. Letteratura ed ebraismo, Torino, Einaudi, 1984), Kafka è direttoerede di quella cultura borghese dell’Ottocento romantico che attribuiva allo scrittore il preciso ruolosociale di vittima sacrificale votata alle estasi di un martirio grazie al quale l’assoluto si rendeva visibileall’uomo nelle forme della poesia. Una concezione estetica, quella da cui muove la cultura giovanile delloscrittore, non ancora incardinata sulla crisi della parola e sulle sollecitazioni nietzscheane proprie delleprime avanguardie e quindi persino in ritardo rispetto ai risultati più avanzati della letteratura di inizioNovecento. È anche da questo “ritardo”, da questa radicale inattualità delle posizioni di partenza delloscrittore di una Praga in parte periferica rispetto ai centri culturali del tempo, che in Kafka germina lapotenzialità di un’altra letteratura, che, nei suoi risultati estremi, destituisce di senso e funzione la dinamicainnovatrice, tutta interna alla cultura borghese, delle avanguardie, aprendo una dimensione letterariatotalmente nuova.Il perfezionismo della propria ricerca letteraria colloca Kafka in primissima fila tra i martiri ascetici dellaproduttività borghese, tra quegli scrittori che oppongono al terrorismo della competizione di mercato ilterrorismo speculare di una ricerca letteraria assoluta, come avviene ad esempio per Flaubert, lo scrittoreche Kafka ha idolatrato e da cui ha tratto un’idea della letteratura come ascesi della produzione nella qualelo scrittore si isola completamente dal mondo per nutrire la letteratura con la propria vita, un’idea

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castratoria e narcisistica della letteratura che, in particolare nella cultura tedesca, ha fatto di Flaubert il padre dell’estetismo europeo, l’inventore di quella «macchina celibe» che è stata per Kafka la letteratura. Un racconto, tanto celebre quanto cruciale, come La colonia penale, dice però chiaramente come la macchina delle parole, il congegno traduttore delle metafore che è la letteratura, non funzioni più. La «macchina celibe» della Colonia penale rappresenta appunto questa funzione mortale della letteratura in un’epoca in cui il dolore dell’esistenza artistica non significa più, come accadeva nel passato, l’estasi e il martirio in nome della conoscenza. Nella sua funzione di macchina che traduce i disegni labirintici sia in parole leggibili sia in belle figure ornamentali, il congegno della Colonia penale sembra ad un primo sguardo la metafora di una letteratura che, sia pure al prezzo di un indicibile supplizio, garantisce quell’unità di bellezza e verità che è il punto di partenza della cultura estetica di Kafka. Ma nel racconto la macchina delle parole, il congegno traduttore delle metafore, non funziona più, o meglio, funziona solo per sé stessa, proprio perché l’esercizio della letteratura non è più la catarsi di una cerimonia sociale, ma può essere solo l’abominevole rito di una esecuzione solitaria. I presupposti poetologici di questa concezione della letteratura sono da ricercare in particolare in quel fenomeno della metamorfosi della metafora prodotto dalla complicità tra naturalismo e culto décadent della forma, essenziale per la letteratura tra l’Otto e il Novecento. Il naturalismo, inteso come compimento e superamento del realismo ottocentesco, tende ad annullare la parola nelle cose in nome di uno sperimentalismo scientifico che trasforma la scrittura, da forma di conoscenza, in puro procédé, con il risultato di affermare il principio tecnico di una mimesi che implica la catastrofe della funzione ermeneutica del linguaggio e l’instaurazione del dominio assoluto della forma. D’altronde, già con La metamorfosi Kafka aveva infatti registrato quell’evento catastrofico all’origine della letteratura moderna che è la metamorfosi della metafora. Concependo testi che sfidano il lettore a comprenderli su di un piano diverso da quello della semplice lettura, Kafka pone al lettore domande ineludibili che però costantemente spingono al di là dell’immagine, in direzione di un significato che sembra essere solo alluso o cifrato. Ma, se il lettore, con la sua domanda, inevitabilmente trasforma l’immagine in un simbolo e deve poi condurne la sua lettura come una interpretazione di simboli, ciò è dovuto al fatto che Kafka stesso ha vissuto queste sue immagini come degli oggetti metaforici totalmente negativi, ponendosi, come ha scritto già diversi anni fa franco Fortini (“Gli uomini di Kafka e la critica delle cose”, in Id., Verifica dei poteri, Milano, il Saggiatore, 1965), deliberatamente al di fuori del linguaggio poetico. Le immagini di Kafka non sono infatti forme catartiche, non istituiscono un rapporto che leghi l’orrore del significante alla liberazione di un qualsiasi significato. Non trovando all’interno del testo un senso che le trascenda, esse non rimandano, come pure fanno credere, ad una verità che stia al di là della loro bellezza fisica. Sono semplicemente presenti come materia metaforica, bella ma proprio per questo impermeabile a qualsiasi interpretazione, e il loro grado di verità è unicamente nella funzione che hanno di essere la causa di una domanda che induce il lettore a fabbricarsi, anche inconsapevolmente, una certa chiave della lettura e a compromettersi, in maniera spesso irreparabile, con un’interpretazione univoca e rassicurante. Il carattere «non estetico» della narrativa di Kafka risiede così nell’opacità delle sue immagini che hanno, per questo, molto dell’allegoria benjaminiana che, nel rifiutare la trasparenza del simbolo, è anticatartica, non più estetica.

*

L’ambiguità istituzionale della letteratura si trasforma così in Kafka nel sistema di un prospettivismo totale nel quale la metafora-oggetto diventa la causa meccanica di infiniti modi della lettura che non investono solo gli attributi formali del testo o la sua collocazione storiografica, ma anche il problema, del tutto interno al testo, di un significante che sembra rimandare a un significato assente o inaccessibile. La metaforicità assoluta della poesia moderna, l’attività illimitata di una cultura semiotica che trasforma ogni

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

cosa in segno e nel segno di un segno, è il modo in cui Kafka vive la cultura dell’età postnietzscheana. Nel frammento Delle similitudini, Kafka definisce l’imperativo della metafora come un «Va’ dall’altra parte», che forse vuol dire: «sii tu stesso una metafora», «vivi la tua vita nella metafora». Se questo è vero, il dovere di seguire l’imperativo della similitudine diventa il dovere di distruggere la letteratura. L’ethos flaubertiano della costruzione dell’oggetto estetico assoluto deve fare posto a quello della sua distruzione secondo la tecnica dell’interpretazione, di cui Kafka ha dato un modello esemplare nell’esegesi della parabola del Processo, in cui fa letteralmente a pezzi una pagina di “bella letteratura”, creando una nuova forma di letteratura che nega il principio della propria autonomia. Se questa dialettica tra costruzione del testo e sua necessaria distruzione per mezzo dell’interpretazione sarà la legge che informa l’opera tarda dello scrittore, in cui Kafka intenderà la propria esistenza come un processo esegetico ininterrotto e la propria opera come «una nuova dottrina esoterica, una Cabbala», ciò avviene perché nella fase del Processo egli ha rappresentato la catastrofe più clamorosa della letteratura proprio là dove la letteratura stessa celebrava il suo trionfo.

* Accanto al Kafka che ha avuto il coraggio di concepire gli orrori della Metamorfosi e della Colonia penale c’è tuttavia anche il Kafka che si è proposto di redimere la letteratura dalla sua mostruosa intraducibilità perseguendo costantemente, al prezzo della sua stessa vita, un testo che, se non poteva sperare di contenere la verità, doveva almeno rappresentare una continua proiezione verso l’al di là dell’immagine, un assalto al confine nel senso di un assalto al concetto stesso di confine. La similitudine di cui si serve la letteratura può essere tutt’al più un rinvio allusivo ad una verità in ogni caso inaccessibile, ma non può in nessun modo esercitare la funzione della metafora piena e significante. Come ha scritto ancora Blanchot, la scrittura diventa così in Kafka una macchina che scrive sé stessa, una danza, una eterogenesi dei fini, un flusso in cui lo scrittore stesso, il soggetto creatore della cultura estetica di ascendenza romantica, attraversando la letteratura precedente, scompare, per riemergere in una dimensione nuova, nel deserto in cui iniziare quell’assalto al confine estremo che è al centro dell’opera dell’ultimo Kafka. La fine del simbolico, e il problema della verità che con questa catastrofe si spalanca, prende le mosse da questo cortocircuito: la cosa non è mai la cosa, ma sempre il segno di un altro da sé, che però non è un simbolo decifrabile, ma semplicemente un oggetto simbolico, cioè, di nuovo una cosa. È proprio per questa radicale ambiguità che l’opera di Kafka si rivela essere il caso estremo di uno sperimentalismo che, a differenza da quanto perseguito dalle avanguardie, non ha per oggetto la struttura formale dell’opera, ma la vita stessa del suo produttore, che letteralmente si distrugge per obbedire al comandamento della similitudine. In un mondo in cui la parola poetica non è più un segno che sta metaforicamente in luogo di qualcosa d’altro, la parola è la cosa, come Gregor Samsa è uno scarafaggio, e la bellezza diviene il regno di un terrore intransitivo. Mancando sia la causa che il fine della metamorfosi, l’immagine dell’insetto non è più nemmeno un’immagine, ma un corpo metaforico negativo che indica l’assenza del significato con una forza di persuasione illimitata. La letteratura, che in questo modo si è trasformata in un’istanza terroristica, è solo bella e, nel momento in cui non può più rappresentare un altro da sé, è anche solo corpo. In questa sua orrida fisicità, la poesia di Kafka può quindi riflettere pienamente gli automatismi formali del mondo moderno. Come ha scritto Benjamin, «anche Kafka è uno che viene sognato; coloro che lo sognano, sono le masse» (W. Benjamin, Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1977, vol. II/III).

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In tal senso Kafka è anti-heideggeriano: se si impegna in una lotta mortale per riportare su di un piano umano la natura ingannevolmente trascendente della colpa, ciò avviene perché il suo fine è di gettare le premesse di una rivoluzione, di una comunità a venire. Come hanno chiarito in modo definitivo Deleuze e Guattari, in Kafka tutto è politica, tutto è collettivo, dal conflitto che oppone padri e figli, che non è edipico, ma rappresenta il germe di un programma politico, al fatto che le sue enunciazioni, il suo “stile” inconfondibilmente individuale, trapassi in enunciazione collettiva, perché la letteratura viene ad assumere su di sé questa funzione, divenendo potenzialmente rivoluzionaria (G. Deleuze-F. Guattari, Kafka. Pour une littérature mineure, Paris, Les Éditions de Minuit, 1975). La macchina letteraria anticipa la macchina rivoluzionaria a venire proprio perché in essa non c’è una sola parola che sia ideologia. Dal momento che essa solo può soddisfare le condizioni di un’enunciazione collettiva che, nell’ambito di una letteratura minore, non sono presenti in alcun luogo, questa letteratura diventa affare del popolo. Se, come detto, per un certo periodo, Kafka ha pensato secondo le tradizionali categorie della cultura estetica in cui si è formato (incluso le coppie autore ed eroe, narratore e personaggio, sognatore e sognato), l’evoluzione della sua opera consiste nella rinuncia al principio del narratore e del rifiuto di una letteratura d’autore o di maestri. Gli ultimi racconti testimoniano questo processo chiaramente, da Josephine la cantante-topo che rinuncia all’esercizio individuale del canto per fondersi nel collettivo della moltitudine della sua gente, al passaggio dall’animale individuato alla muta collettiva dei sette cani musicanti delle Indagini di un cane, in cui i pensieri del solitario ricercatore tendono al legarsi all’espressione collettiva della specie canina, anche se questa collettività non è più o non è ancora data. Nell’opera tarda dello scrittore praghese, il soggetto si scioglie in quelli che Deleuze e Guattari definiscono “concatenamenti collettivi d’enunciazione”, che la scrittura esprime nelle condizioni in cui esistono soltanto come potenze diaboliche (come in Un medico di campagna) o come forze rivoluzionarie a venire. La solitudine dello scrittore, il vuoto che si crea dopo che egli ha vampirizzato la propria vita per la letteratura, sono le premesse per l’apertura a tutto ciò che attraversa la storia. La parabola letteraria di Kafka dice, in altri termini, che la letteratura, intesa come costruzione estetica che conferisce senso alla realtà, ha fallito la prova della storia, uscendone distrutta, o trasformata in un’altra letteratura. La storia, mai come in questo caso, non è una categoria astratta, ma è concretamente la Grande Guerra, intesa come evento epocale che segna la spaccatura irreversibile tra verità e realtà dei fatti storici. Nella sua natura erratica, l’opera di Kafka è non solo l’allegoria di ciò che la Grande Guerra significa per la cultura europea, ma ne è anche una delle poche espressioni (insieme al Proust di Deleuze, l’ “altro Kafka”, l’altro scrittore di guerra) capaci di rappresentarne, proprio in virtù di quanto detto sopra, l’irrapresentabilità. In altri termini, la questione a cui cerca di dare risposta l’impossibile lotta contro il confine condotta da Kafka dopo la conclusione del Processo è: cosa può/deve essere la letteratura nell’epoca dopo la fine della Storia? Dopo le carneficine della prima guerra della tecnica, dopo la distruzione dell’umanità dell’uomo avvenuta nelle trincee del primo conflitto mondiale, la verità non è più attingibile né da una letteratura realistica o simbolistica, né dalla sua negazione speculare, una letteratura d’avanguardia. In uno dei suoi ultimi racconti, La tana, Kafka ha invece saputo tradurre l’irrappresentabile della Grande Guerra in una costruzione metaforica assoluta in cui, senza dire nulla della guerra come fatto storico o come esperienza, la nudità del soggetto post-bellico traspare in tutta la claustrofobica logica autoreferenziale della sua costruzione. L’animale post-umano protagonista del racconto, che ovviamente è ancora una volta anche lo scrittore, prigioniero dell’interminabile attività di costruzione della sua opera, rivela in modo chiaro come la potenza destituente della scrittura kafkiana emerga proprio perché non sono i protagonisti delle sue opere ad incarnarla. Al contrario, come quasi tutte le figure kafkiane, esso non sa stare nell’aperto, non sopporta l’idea che l’interpretazione-costruzione non sia più una pratica per accedere alla verità o fondare un centro (M. Cacciari, Icone della legge, Milano, Adelphi, 1985). Sono invece le situazioni – i testi – a tradurre in immagine la dimensione destituente in

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

cui si trova a vivere l’uomo post-kafkiano. Il mondo del testo è traduzione allegorica del mondo destituito di qualsiasi fondamento, in cui si muove un “eroe” che non può accettare la fine del domandare, il fatto che l’interpretazione, per quanto infinita, non conduca alla verità. I personaggi di Kafka non sanno vivere (e di qui discende, il grottesco, e soprattutto, il comico, che è una dimensione essenziale dell’universo kafkiano) in quella dimensione intimamente antinomica in cui pure si muovono, che il testo è.

*

Cosa resta quindi di Kafka? Dopo gli imponenti risultati che la filologia ha raggiunto negli ultimi decenni, è forse possibile iniziare a sottrarre Kafka alle sue mitologie. Kafka e la sua opera sono anche teologia, psicanalisi, esistenzialismo, germanistica, sono sicuramente il terreno ideale per lo strutturalismo, il decostruzionismo, i cultural studies. Ma, dopo circa un secolo, provano anche l’impossibilità di essere ridotti ad interpretazioni unitarie o univoche, ad un senso. Nella scrittura di Kafka è infatti continuamente in atto una radicale forma di liberazione della scrittura da sé stessa, un tentativo così radicale di cancellare la dimensione soggettiva dall’esperienza dell’arte, da giungere fino al punto in cui una scrittura senza autore e senza soggetto può diventare una scrittura di tutti. Anche elementi apparentemente accidentali (e peraltro a lungo costitutivi della mitologia kafkiana), come la volontà di far distruggere i propri scritti, il non risolversi mai per una vita da scrittore di professione, sono espressione di questa esperienza della scrittura come flusso infinito, lavoro di una macchina impersonale, pratica di resistenza destituente in cui arte e vita coincidono oltre la loro reciproca elisione, fino ad essere la possibile voce di tutti e di nessuno.

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Essays

L. Salza, « Fragments pour une lecture destituante de Kafka » K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, 1, 2/2018, pp.12-24

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Luca Salza

Fragments pour une lecture destituante de Kafka

ABSTRACT

In what sense can we say that the Great War represents a turning point in Kakfa's work ? What connection does Kafka, the dweller of the cellar, the animal

of the woods, bear with history ? His continually present interiority isn't it also a way, the only possible, of facing the outside world and his times ? We would

like to demonstrate that his literary activity is also connected with the search for a future community, real and yet always impossible.

Keywords: First World War, Desertion, Destituent power, Blanchot, Communism

Je suis le seul à déserter de temps en temps

Franz Kafka

1. La vie et l’écriture ne font qu’un. Il n’y a pas d’existence au-delà de l’écriture. Kafka serait-il alors le

dernier des romantiques ? En réalité, ce n’est point un dandy qui résulte de cette métamorphose de la vie

en littérature. Aucun « besoin artistique » n’anime cette recherche. Elle découle plutôt de la volonté de

s’insérer dans une communauté, voire de l’instituer. Une communauté impossible, imprésentable, une

communauté d’écriture et politique.

2. « Je suis là à écrivasser » (Kafka, 2012b, p. 247, note du 9 mai 1912). Toute sa vie Kafka l’a passée à

« écrivasser ». A part quelques moments de réussite heureuse, Kafka ne produit que des fragments, des

ébauches de textes narratifs, des milliers de lignes d’écriture, des pages de journal, de cahiers remplies

d’encre sans parvenir à constituer une « œuvre ». Il ne crée que des « éléments décousus (…). Chaque

petit bout de l’histoire vagabonde de tous côtés comme un sans-patrie et me jette dans une direction

opposée à la sienne » (Kafka, 2012b, p. 122, note du 5 novembre 1911). C’est le travail d’une vie. Kafka,

son existence – sans psychologie aucune – devient une machine, Kafka est un homme-expérimentation.

Une machine d’écriture, sans interprétation ni signifiance (Deleuze, Guattari, 1975, p. 14). La recherche

continuelle, spasmodique, persévérée jusqu’au bout de son existence, pendant des pages et des pages, ne

veut atteindre aucun but. Elle ne veut ni constituer une « œuvre » ni éclairer une « vie ». Elle n’est que

cette recherche. Elle n’est, osons-le dire, que le geste d’écrire, soustrait aux autres moments d’une vie,

notamment à la paresse ou aux angoisses paralysant sur un canapé.

3. Kafka est le nom de l’entretien infini. Une littérature sans plus littérature, un écrire interminable,

incessant (Blanchot, 1955, p. 20). Sans fin, in-fini, un travail, toujours recommencé, sur l’existence, contre

l’existence :

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Écrire en ce sens (en cette direction où il n’est pas possible, seul, de se maintenir, ni même sous le nom de tous,

sans des tâtonnements, des relâchements, des tours et des détours dont les textes ici mis ensemble portent trace,

et c’est, je crois leur intérêt), suppose un changement radical d’époque – la mort même, l’interruption – ou pour

parler hyperboliquement, « la fin de l’histoire », et, par-là, passe par l’avènement du communisme, reconnu comme

l’affirmation ultime, le communisme étant toujours encore au-delà du communisme. Écrire devient alors une

responsabilité terrible (Blanchot, 1969, pp. VII-VIII).

Peut-on penser que l’expérience, ou l’expérimentation, d’écriture de Kafka est compliquée aussi parce

qu’elle est tout à fait consciente de cette responsabilité ? Ni Dieu, ni père : la question de Kafka est tout

autre. L’écriture-existence entre en rapport avec la politique car elle sent cette responsabilité.

4. Le rapport entre l’écriture et la politique est la question d’une communauté à venir. Or, Franz Kafka

est seul, toujours très seul. Il revendique même cet espace, ses déserts pour pouvoir se consacrer à son

« unique désir », son « unique vocation », la littérature. Felice Bauer est parmi les premières qui

expérimentent dans leurs vies cette conception de la littérature (et de la vie) de l’« habitant de la cave » :

Car écrire signifie s’ouvrir jusqu’à la démesure, l’effusion du cœur et le don du soi extrêmes, par quoi un être croit

déjà se perdre dans ses rapports avec les autres êtres, et devant lesquels, par conséquent, il reculera toujours tant

qu’il gardera son bon sens – car chacun veut vivre aussi longtemps qu’il est vivant – cette effusion et ce don de soi

sont pour la littérature bien loin d’être suffisants. Ce qui passe de cette couche superficielle dans l’écriture […] cela

est nul et s’effondre à l’instant même où un sentiment plus vrai vient ébranler ce sol supérieur. C’est pourquoi on

n’est jamais assez seul lorsqu’on écrit, c’est pourquoi, lorsqu’on écrit, il n’y a jamais assez de silence autour de vous,

la nuit est encore trop peu la nuit. C’est pourquoi on ne dispose jamais d’assez de temps, car les chemins sont

longs, on s’égare facilement, quelquefois même on prend peur, et même sans contrainte ni tentation on a déjà envie

de rebrousser chemin (une envie qui se paie toujours très cher plus tard), combien plus encore si la plus chère des

bouches vous donnait inopinément un baiser ! J’ai souvent pensé que la meilleure façon de vivre pour moi serait

de m’installer avec une lampe et ce qu’il faut pour écrire au cœur d’une vaste cave isolée et verrouillée (…). Que

n’écrirais-je pas alors ! De quelles profondeurs ne saurais-je pas la tirer ! (…) Qu’en dis-tu, chérie ? Ne te dérobe pas à

l’habitant de la cave (Kafka, 1972, pp. 281-282, lettre écrite le 14 janvier 1913).

5. Le désastre de la rupture des fiançailles avec Felice s’accompagne d’un désastre historique, à savoir de

l’éclatement de la Grande Guerre. Tout comme la fin (provisoire) de la relation avec Felice, la guerre

aussi ouvre un horizon de possibilités nouveau pour l’écrivain. Au cours de l’été 1914, Kafka, confronté

à deux « procès » (Canetti, 1972, p. 77) semble prêt à se battre. Non pas sur les champs de bataille. Kafka,

tandis que toute la société se mobilise, il continue de demeurer à l’écart. Il est armé d’une autre arme. Il

est dans d’autres batailles. La guerre est pour lui l’occasion d’écrire, enfin !

14

Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

Je n’ai pas le temps. C’est la mobilisation générale. K. et P. sont appelés sous les drapeaux. Je reçois maintenant la

récompense de la solitude. Il est vrai que c’est à peine une récompense, la solitude n’apporte que des châtiments.

Malgré tout, je suis peu touché par toute cette misère et je suis plus ferme que jamais. Cet après-midi il faudra que

je reste à l’usine, je n’habiterai pas à la maison, parce que E. et ses deux enfants s’installent chez nous. Mais j’écrirai

en dépit de tout, à tout prix ; c’est ma manière de me battre pour me maintenir en vie. (Kafka, 2008, p. 383, note

du 31 juillet 1914).

Comment convient-il d’interpréter la réaction de Kafka devant l’histoire ? S’agit-il d’une attitude trop

désinvolte, impolitique, voire incivile, ou bien indique-t-elle le désir de l’écrivain de s’écarter par rapport

à l’histoire et aux pouvoirs qui la dirigent ?

6. Quand l’Allemagne déclare la guerre à la Russie, Kafka ne change pas le programme de sa journée. Le

2 août 1914, il s’en va nager en piscine. Mais quelques jours plus tard, le 6, lorsqu’il voit les gens partir, la

fleur au fusil, vers le front, il se montre très contrarié. Il souhaite à ces combattants « tout le mal possible ».

Kafka est un défaitiste. Il considère les « défilés patriotiques l’un des plus répugnants phénomènes qui

accompagnent accessoirement la guerre » (Kafka, 2012b, p. 385). Il n’ira pas contre-manifester dans la

rue (d’ailleurs, qui l’a fait en août 1914 ?). Son attitude n’est pas « dialectique », mais elle implique toute

la force d’un Diogène qui préfère brûler au soleil, avec ses spectres, plutôt que de pactiser avec le pouvoir

en place, comme Kafka l’écrit à Milena dans une lettre datée probablement de novembre 1920 (Kafka,

1956, p. 248). Kafka, ainsi que les personnages qu’il crée, ne sont jamais dans une posture d’opposition.

Ils sont comme des « sages » qui regardent le monde, comprennent parfois quelque chose, mais ils ne

semblent pas vouloir ni pouvoir « résister ». Même quand ils sont exaspérés face à leur situation, quand

ils semblent vouloir agir et réagir, ils ne s’opposent pas vraiment à leur sort : ils sont, au maximum, comme

Josef K., dans une sorte de mimesis d’une volonté d’opposition. Et pourtant Josef K. a dû « voir » quelque

chose quand il se laisse tuer sur un terrain vague. Les discussions entre Brecht et Benjamin sur Kafka

tournent également autour de cette question, une espèce d’incompréhension peut-être s’installe entre les

deux amis : si, selon Brecht, Kafka tombe dans l’échec car il ne propose pas de solutions à l’aliénation

qu’il voit dans les formes de la vie collective des hommes, pour Benjamin c’est ce « voir », typique du

« sage », qui compte (Benjamin, 2003, p. 182 sq.). Une « voyance » qui, selon moi, provoque le présent.

Une voyance qui saurait être une « rupture » du présent.

7. La littérature ne soulage de rien. Ce n’est probablement pas paradoxal de soutenir que Kafka

n’abandonne jamais complètement tous les « empêchements », tous les « obstacles » à la littérature, toutes

les véritables causes de sa « ruine » (travail au bureau, projets de vie de famille, etc.) parce qu’il connaît la

puissance destructrice de la littérature. Dans les mêmes jours de l’explosion de la guerre, Kafka précise

que, s’il fuit les gens, « ce n’est pas pour vivre en paix, c’est pour m’anéantir en paix » (Kafka, 2012b, pp.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

376-377, note du 28 juillet 1914). La littérature est le lieu de cette destruction. Destruction, avant tout, du

sujet. La littérature et la mort : elles sont liées jusque dans les derniers textes de Kafka, surtout ici.

Songeons, par exemple, aux pages du Terrier (Kafka, 1980, pp. 738-772).

8. Si le récit des origines se construit sur le désir de perpétuer le nom du héros (Achille va à Troie tout

en sachant qu’il y mourra, mais cette mort héroïque le rendra immortel), notre culture contemporaine

bouscule totalement ce thème du récit ou de l’écriture faits pour conjurer la mort. L’écriture est

maintenant liée au sacrifice, au sacrifice même de la vie ; effacement volontaire qui n’a pas à être

représenté dans les livres, puisqu’il est accompli dans l’existence même de l’écrivain (Foucault, 1969).

9. L’écriture se refuse à moi. D’où le projet d’investigations autobiographiques. Pas une biographie, mais

investigation et mise au jour des plus petits éléments possibles. Ensuite je veux me construire à partir de là comme

quelqu’un dont la maison ne serait pas solide, qui voudrait s’en construire une autre à côté, solide elle, si possible

avec les matériaux de l’ancienne. Mais c’est grave quand en plein milieu de la construction ses forces le quittent et

qu’il a maintenant à la place d’une maison peu solide mais portant complète une maison à moitié détruite et une

autre à moitié achevée, donc rien. Ce qui s’ensuit c’est la folie, donc à peu près une danse de cosaques entre les

deux maisons, au cours de laquelle le cosaque à coups de talons de bottes fouille et excave si longtemps la terre

que sous lui se creuse sa tombe (Kafka, 2017, p. 23-24).

10. Construction/destruction, destruction/construction : le double mouvement est le constant d’une

impossibilité. La catastrophe n’est pas derrière nous. Elle n’est pas non plus à l’horizon. Nous sommes

dans la catastrophe. Kafka est submergé sous les détritus du monde. Kafka, et nous avec, nous ne

pouvons plus rien bâtir. Ou bien si nous bâtissons, nous produisons, en même temps, d’autres ruines.

Peut-on soutenir que la catastrophe de Kafka est liée aussi à ce qui se produit en Europe après l’été 1914 ?

La Grande Guerre est un tournant pour l’écrivain de Prague, comme le soutient, par exemple, Alexander

Kluge1, car le désastre de la guerre mondiale lui confirme l’idée selon laquelle le monde ancien n’est plus :

1 « Beaucoup d’hommes et aussi beaucoup d’écrivains ont ressenti le 1er août 1914, c’est un fait. […] le 28 juillet 1914, le jour où l’héritier du trône d’Autriche a été assassiné à Sarajevo, alors que les journaux sont pleins d’un événement qui, dans tous les cas, sème en Europe un sentiment d’inquiétante étrangeté, il parle dans son journal d’un tramway qu’il a manqué, d’un coup de téléphone qu’il n’a pas passé, etc. Il se détourne donc complètement de l’histoire de l’époque pour en rester à ses remarques personnelles et aux incidents qu’il a vécus pendant cette journée bien concrète. Comme il a publié La Métamorphose en 1915, vous pouvez constater que la situation véritable est entrée depuis longtemps, sinon dans son journal, du moins dans ses histoires : c’est le monde qui apparaît sous une métaphore monstrueuse et, sur ce point, la Première Guerre mondiale représente quelque chose que nous n’avons pas encore compris. Cette guerre de 1914 à 1918 a d’abord été décrite comme une explication définitive entre l’Allemagne et la France, entre la responsabilité de la guerre et le manque d’envie de mener de nouveau ce genre de guerre, entre les armes chimiques et l’interdiction des armes chimiques, des arguments qui sont encore à l’œuvre aujourd’hui, jusque dans l’actuel conflit syrien. Mais ces récits sont insuffisants, car le fait est que c’est une grande culture qui produit ces implosions, et ce à grands cris, et soutenue par l’approbation d’auteurs, d’écrivains, de musiciens, etc. : voilà qui demeure un laboratoire, encore inconnu dans toutes ses particularités, de l’expérience humaine, si bien que, cent ans après, nous nous mettons à en refaire le récit ». La Grande Guerre constitue, pour Kafka, comme le note toujours Kluge, un tournant car le nouveau monde qu’elle crée impose aussi d’autres manières de raconter : « Tel est le monde dans lequel Kafka

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

la littérature, l’art, la culture ont explosé sur les champs de bataille. Nous sommes dans le désert définitif

du « no man’s land ». Nous y errons à jamais comme des soldats ébahis par les bruits et la fureur de la

guerre. L’écriture de Kafka, fragmentaire, incomplète, in-finie et infiniment insaisissable est le constat de

ce désastre, ou plutôt elle est la « prophétie » (au sens que Bourdieu donne à ce terme2) de cette

catastrophe :

Celui qui, vivant, ne vient pas à bout de la vie, a besoin d’une main pour écarter un peu le désespoir que lui cause

son destin – il n’y arrive que très imparfaitement –, mais de l’autre main, il peut écrire ce qu’il voit sous les

décombres, car il voit autrement et plus de choses que les autres, n’est-il pas mort de son vivant, n’est-il pas

l’authentique survivant ? (Kafka, 2012b, p. 520, note du 19 octobre 1921)

Une image d’un champ de bataille ou d’une ville ravagés par la « guerre de matériels ». Ici se promène

l’écrivain-voyant. C’est un survivant. Il regarde derrière lui, il écrit en fouillant sous terre tout ce que

l’histoire a laissé par terre.

11. Kafka est un écrivain de guerre. Il n’écrit pas sur la guerre, mais il écrit sous sa pression, dans son

horizon : il la sent à ses côtés et il la vit. Il en sort plus ou moins indemne et il essaie alors d’en témoigner.

Que peut-il en dire ? Rien, ou pas grand-chose, aucun soldat n’a pu communiquer son expérience des

champs de bataille. Leur écriture est un carottage du sol. Y a-t-il quelque chose sous les ruines ? Ils

traversent les terres dévastées comme s’ils étaient ahuris par les dommages causés par les explosions et

par toute la violence du monde, à la recherche de quelques restes. L’écriture est la traversée de ce monde

détruit. Ce rapport aux sous-sols, à la mort rend la Grande Guerre une « guerre littéraire », non pas le fait

qu’elle ait été combattue par des soldats scolarisés, comme le veut une interprétation purement

sociologique de la « littérature de guerre ».

12. L’écriture du monde des ruines, sous les ruines, est-elle également une écriture de la destitution de ce

monde ? Y a-t-il une communauté dans l’écriture de Kafka ? Ou mieux et plus précisément : dessine-t-

elle les contours d’une communauté à venir ? La haine (ou l’indifférence) que Kafka manifeste envers les

combattants, les défilés patriotiques, les drapeaux et la guerre n’est pas très différente de la méfiance qu’il

a envers le sionisme et les autres projets politiques qui ennoblissent la vie de son meilleur ami, Max Brod.

La littérature, le « grand secours », semble combler les trous et les tourments d’une vie, elle ne semble pas

raconte, et voilà pourquoi nous devrions le respecter : parce qu’avec sa méthode et celle de Marcel Proust, nous pouvons encore une fois raconter l’ensemble de la période de 1914 à 1918, en la prenant par ses bouts inconnus, par ce qui a résisté, par ce qui s’est entêté » (Kluge, 2014, pp. 22-23). 2 « De même que le prêtre a partie liée avec l’ordre ordinaire, de même le prophète est l’homme des situations de crise, où l’ordre établi bascule et où l’avenir tout entier est suspendu » (Bourdieu, 1971, p. 331).

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

capable de créer une communauté. Surtout chez des gens seuls comme Kafka. Cette solitude fait de lui

un renégat. Kafka renie le passé, la tradition, la religion, la communauté. « Qu’ai-je de commun avec les

Juifs ? C’est à peine si j’ai quelque chose de commun avec moi-même et je devrais me tenir bien tranquille

dans un coin, content de pouvoir respirer » (Kafka, 2012b, p. 321, note du 8 janvier 1914). Ce genre

d’observations s’étayent tout au long du Journal. On sait, et Blanchot y insiste beaucoup (Blanchot, 1981,

pp. 105-121), qu’elles culminent dans les dernières réflexions de Kafka sur son « exil » : « Je suis d’ores et

déjà citoyen de cet autre monde qui est, avec le monde ordinaire, dans le même rapport que le désert avec

une contrée agricole (il y a quarante ans que j’erre au sortir de Chanaan) ; c’est en étranger que je regarde

derrière moi, je suis assurément, même dans cet autre monde, le plus infime et le plus craintif de tous »

(Kafka, 2012b, p. 541, note du 28 janvier 1922).

13. Kafka est banni de ce monde réel. Il erre dans les déserts. Or, une fois qu’il est là, il sait qu’il doit

lutter à la fois pour faire de ce dehors un autre monde et pour faire de cette erreur le principe, l’origine

d’une liberté nouvelle (Blanchot, 1981, p. 112). Il lutte pour soi-même et pour cet autre monde. K.,

l’arpenteur, ne veut à aucun moment s’installer dans la communauté du village, il continue de vaguer sous

le Château. K. est l’homme des seuils. Il dit à Olga qu’« il y a des portes qui donnent accès ailleurs, des

barrières qu’on peut franchir si on est assez adroit » (Kafka, 1976, p. 678). Dans les dernières pages du

roman, il parvient même à entrer dans les salles du Château pour dénoncer sa situation. Son errance

solitaire le soustrait au destin de vaincus et de soumis des autres habitants du village, de tous « ceux qui

sont nés quelque part » et y restent toute leur vie. K. est comme un exilé ou un réfugié d’aujourd’hui.

Comme eux, il vient de nulle part et il ne demande qu’à vivre. Comme eux, il entend franchir des portes,

des ports et des passages. K. se retrouve dans un désert, en dehors de la communauté, loin du Château.

Les exilés et les migrants, dans leur périple, construisent des « hétérotopies », la jungle de Calais, le village

global de Riace, aux marges et contre les lois et les institutions en place. Après avoir traversé les déserts,

les murs, les vagues de la mer, ils ne s’arrêtent plus : ils revendiquent une vie nomade. Alors que les

autorités administratives et policières veulent les assigner à résidence, ils ne cherchent probablement plus

des « papiers ». L’intolérable pour les lois des dirigeants des pays riches est ce nomadisme. Les existences

des « migrants » sont intolérables puisqu’elles restent sur les limites, ils tournent sans cesse (l’Europe doit

remettre en question le traité de Schengen en rétablissant les contrôles aux frontières entre les Etats) :

combien de langues européennes connaît un « migrant » ? Cette « errance » sous les Châteaux d’hier et

d’aujourd’hui destitue tout l’ordre des discours dominants.

14. Entre 1914 et 1918 des gens refusent de rester derrière les lignes tracées par les états en guerre. Ils se

mettent à les traverser. Déserteur peut se dire en allemand « Überläufer ». Ceux qui ne respectent pas les

consignes de tuer, de partir à l’assaut, de sortir de la tranchée, « courent au-delà ». Aller vers le dehors. Le

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

défi, pour le déserteur, est de constituer, dans sa course même l’espace d’un dehors, là où, dans le cadre

de la « mobilisation totale », tout doit être « dedans », bien dans « nos » frontières, dans le respect le plus

absolu de l’ordre. Les différentes formes de refus de la guerre sont cette impossibilité. Est « déserteur »,

en effet, celui qui se désidentifie totalement. Son « non » ouvre la voie de l'abandon. Le déserteur est hors

de tout, de soi-même, de son monde, de ses amis, de son groupe, de sa communauté, de sa langue, de

l’histoire. Il perd son identité, son humanité parfois : la désertion est, en ce sens, une « désidentification ».

Le déserteur perd l’appartenance à l’histoire, la désertion est une « désappartenance ». Le déserteur est

toujours écrasé sur la ligne de la frontière, s’il ne reste pas à errer pas dans le « no man's land » ou par

terres étrangères. Aussi est-il toujours hors du temps et de l’espace, dans un désert. La désertion est une

traversée du désert. Dans le mot « désertion », dans son sens étymologique, il y a « désert » : du latin

« desertare », dérivé de « desertus », participe passé de « deserere », « abandonner ».

15. Kafka est un déserteur comme les soldats insoumis et insubordonnés de la Grande Guerre, même s’il

n’a pas connu les champs de bataille. A la même époque que ces soldats transfuges, et à la même manière

qu’eux, il s’exclut de tout, à commencer de sa langue maternelle, il ne cesse d’errer avec d’autres

déserteurs, dans le dehors désert « où, immobiles, marchant d’un pas égal et lent, vont et viennent les

hommes détruits » (Blanchot, 1980, p. 34). Là où il se met à écrire parce que l’autre monde qu’il n’a cessé

de chercher a quelque chose à voir avec l’activité littéraire.

16. Le déserteur tourne le dos à tout son monde et s’en va. Différentes sont alors les voies qui s’ouvrent

à lui : il devient prisonnier de l’ennemi, il se réfugie là où il n’y a pas de guerre, il essaie de se cacher à

l’arrière ou bien il entame un processus sans fin à l’intérieur et à travers le dehors, sans retour dans un

nouveau séjour (devenir-femme, devenir-animal par exemple, se jeter dans un processus de devenir sans

fin), un processus qui le conduit loin dans le désert, où il reste à vaguer, il y perdra sa place, son rôle, son

nom, son identité. Dans ce dernier cas, la désertion n’est pas seulement la rébellion de la conscience

individuelle, celle qui dit « non », elle est aussi cela, comme le montrent, d’un point de vue bourgeois,

Jean Giono ou Martin du Gard dans certains de leurs travaux, mais elle incarne surtout ce moment où

s’évapore l’identité passée, ce moment où un homme-une femme se lance dans un parcours de

métamorphoses infinies. Le « non » présuppose encore un pouvoir de la conscience, c’est un moi qui

parle. On peut, en revanche, déserter sans dire « non », la marche vers le désert sera alors une fuite hors

de l’être, un abandon du moi et un délaissement de l’identité, une plongée dans le dehors.

17. Quelques mois après le début de la Grande Guerre, alors qu’il est en pleine rédaction du Procès, Kafka

écrit La Colonie pénitentiaire (Kafka, 1980, pp. 304-334). Dans une contrée lointaine, indéterminée, à la

saveur fortement exotique, mais marquée par le sceau de l’actualité historique, car nous sommes sur une

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

île colonisée, un officier présente à un voyageur la façon dont s’exécutent les jugements chez eux. Il s’agit

d’un système archaïque, fondé sur un appareil qui grave sur le corps du condamné la sentence jusqu’à ce

que mort s’ensuive. Cette sentence ne comporte pas uniquement des lettres, mais aussi des ornements

qui, d’une part, rendent la lecture du jugement difficile, et qui, d’autre part, contribuent à la théâtralisation

de la mort. En effet, un public assiste aux supplices, ou plutôt c’était ainsi il y a longtemps étant donné

qu’aujourd’hui il n’y a plus personne. Ce procédé tombe en désuétude, nous sommes à la fin des sociétés

disciplinaires, dirait Foucault. En effet, l’officier est le défenseur d’une tradition qui périclite, il saisit

l’occasion de l’arrivée dans la colonie de l’explorateur pour faire l’apologie du bien-fondé de ces pratiques

et espérer que le visiteur en deviendra le témoin chez lui (en métropole ?) pour la relancer. L’officier

invite même le voyageur à assister à la nouvelle exécution, dont la victime est un homme accusé

d’insubordination. Un déserteur, qui, comme tout plébéien, a perdu toute caractéristique humaine : « un

homme stupide à grande bouche, à la tête sale et aux cheveux crasseux ». Il est hébété aussi par

l’impossibilité de comprendre la langue des dominants. Il ne parle pas leur langue, le français. La seule

personne avec qui il peut communiquer est le soldat qui s’occupe de lui, un indigène aussi. Le condamné

ne sait pas ce qu’on lui prépare. Évidemment, il ne le comprendra même pas quand son dos sera marqué

par le jugement « Respecte ton supérieur ». Son corps ne lui apprendra rien car il ne connaît pas ces

lettres. Il ne sait même pas qu’il est objet d’une condamnation car la « faute est toujours certaine », c’est

par un droit absolument souverain qu’il va mourir. Il est condamné par le seul témoignage d’un capitaine

qui l’a surpris en train de dormir pendant son service. Le capitaine a alors fouetté au visage cet homme

(esclave), mais lui, il a réagi et a secoué le capitaine en lui criant : « Jette ça ou je te bouffe ». Cannibalisme

plébéien ! L’officier a enregistré la plainte du capitaine et a fait arrêter l’homme. Voilà tout.

18. Les choses se compliquent puisque l’étranger, en bon européen civilisé, vivant déjà dans une époque

post-disciplinaire, se révèle être un adversaire de cette pratique. L’officier comprend que la parole

civilisatrice, le dernier ressort qu’il a afin de préserver son institution lui fait défaut. Il chasse le condamné

et se place lui-même sous l’appareil après avoir inséré une nouvelle sentence dans le dessinateur : « Sois

juste ». L’appareil ne peut tolérer ce jugement de vérité, il dégringole et tue l’officier. Il n’y a pas de

conclusion. Le récit reste inachevé. Après les événements, on assiste seulement au départ du voyageur

qui chasse le soldat et le condamné qui essaient de le suivre. Il convient de lire La colonie pénitentiaire en

ayant à l’esprit ce qui se passe à l’époque. La guerre vient de commencer, mais elle a déjà montré sa

violence inouïe. Pour la seule journée du 22 août 1914, près de 27 000 soldats français sont tués et souvent

portés disparus en Lorraine et dans les Ardennes belges. La bataille de la Marne tout de suite après, en

septembre, fauche des centaines de milliers de soldats toutes nationalités confondues. Quand Kafka écrit

son texte, on sait désormais que la nouvelle guerre avale et expulse les hommes à des rythmes jamais

connus auparavant. C’est qu’elle s’est totalement industrialisée. L’appareil de la Colonie est ce matériel de

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

guerre qui prétend faire mourir en beauté, avec arabesques et ornements, comme dans les poèmes

chantant les guerres anciennes, mais qui, en réalité, est déjà moderne puisqu’il chosifie et animalise

l’homme. Il tue les soldats inconscients, mais aussi ceux qui, comme l’officier, sont fiers de leurs

uniformes et qui ne veulent pas perdre leur patrie. Le voyageur n’incarne pas de valeurs positives, il quitte

l’île d’une manière égoïste et lâche. Tous sont soumis à la mécanisation de la vie, représentée par la guerre,

même ceux qui semblent s’y opposer, même dans des lointaines contrées. L’appareil domine tout. Dans

ce prisme, le mécanisme de torture de la Colonie n’est pas un vestige des temps passés. Il peut

probablement disparaître car il a déjà accompli son devoir et il est prêt à renaître sous d’autres formes,

de nouvelles inventions techniques prêchant la déshumanisation totale de l’homme.

19. Il n’y a plus d’homme, le soldat-guerrier n’est plus le personnage principal de l’histoire d’une guerre,

il n’est qu’une victime sacrificielle. La guerre n’est plus l’espace où peuvent s’étaler certaines vertus, le

courage, la force, la fraternité, que le poète, de Homère jusqu’au Tasse, se met à chanter. Tout cela

disparaît. Boum. Dans un éclat. « Militarisme ne veut pas dire caste, mais possibilité quant au succès de

la mécanisation de la guerre, si nécessaire comme militarisation de la pensée » (Kafka, 2012a, p. 161). Le

soldat, au lieu de se sublimer sur le champ d’honneur, (comme le fait Achille ou les autres chevaliers de

notre tradition littéraire), perd tout caractère humain. Il meurt comme une bête, sacrifié sur l’autel d’une

nouvelle divinité, la technique. La machine de la colonie est une « machine esthétique » : sa destruction

représente la fin de la tradition romantique et bourgeoise.

20. Tous les hommes, comme tous les soldats au front, ne sont qu’un troupeau d’animaux, destinés à

mourir hébétés et soumis, ou bien peut-être à vivre enterrés. La tranchée est la nouvelle demeure de

l’homme, pour se cacher, pour essayer de se protéger encore sous le déluge de bombes, obus, missiles,

lance-flammes, comme le terrier est la maison de la taupe. Le devenir-taupe de l’homme, avant de

constituer la matière d’un autre récit, est un souvenir personnel que Kafka relate dans son journal : « P.

est de retour. Il pousse des cris, est agité, hors de lui. Histoire de la taupe qui creusait le sol sous lui dans

la tranchée et qu’il a regardée comme un signe divin l’avertissant de quitter l’endroit. A peine était-il parti

qu’une balle a touché un soldat qui venait d’entrer derrière lui en rampant et se trouvait au-dessus de la

taupe » (Kafka, 2012b, p. 404, note du 4 novembre 1914). P. est Josef Pollack, le mari de Valli, la sœur

de Kafka, rentré à la maison car il est légèrement blessé. Avec son histoire, Kafka touche, quelque mois

seulement après son début, la réalité de la guerre. Il souligne l’attitude nerveuse du revenant et surtout il

le compare à une taupe qui creuse son terrier pour sa survie. Dans les lignes suivantes, on trouve

également la dénonciation du comportement des officiers face au désespoir des soldats.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

21. La fuite doit être générale. Kafka et les autres déserteurs, errant seuls dans les rues, les tranchées et

les mers, arriveront-ils à croiser leurs chemins ? Les jours où les soldats italiens refusent de combattre

contre les Austro-Hongrois (l’armée du pays où Kafka est né) et quittent les affrontements à Caporetto

(Kobarid en slovène), Kafka rêve d’une bataille qui a lieu dans cette même région des Alpes entre l’Italie

et l’Autriche-Hongrie sur les bords du Tagliamento, la ligne de démarcation entre les puissances en guerre.

On est en novembre 1917 et Kafka relate ce rêve dans son Journal. Le narrateur assiste aux préparatifs

d’une bataille entre les Autrichiens et les Italiens. Ce sont les Autrichiens qui semblent succomber jusqu’à

l’arrivée de soldats prussiens. Le narrateur se réveille avant le début des hostilités. On sait que les renforts

des Allemands ont joué effectivement un rôle important dans la suite des événements. L’utilisation de

gaz et une nouvelle tactique d’attaque finissent par démoraliser les Italiens. Ils sont désespérés. Comme

le narrateur et les Autrichiens : « Grand désespoir, la fuite générale va devenir nécessaire » (Kafka, 2012b,

p. 505).

22. Pourquoi Kafka parle-t-il de fuite ? Pourquoi « rêve »-t-il du Tagliamento ? Une communauté sans

communauté se dessine – ombreuse, spectrale – chez Kafka. Une communauté négative, la communauté

des déserteurs, des sans-patries, des migrants, de ceux qui souffrent, de tous ceux qui n’ont pas de

communauté. Une communauté impossible.

23. L’impossibilité d’une communauté possible (à venir) est l’impossibilité même de l’activité littéraire.

Une littérature de tziganes :

Ils vivaient entre trois impossibilités, (que je nomme par hasard des impossibilités de langage,

c’est le plus simple, mais on pourrait aussi les appeler tout autrement) : l’impossibilité de ne pas écrire,

l’impossibilité d’écrire en allemand, l’impossibilité d’écrire autrement, à quoi on pourrait presque ajouter une

quatrième impossibilité : l’impossibilité d’écrire (car ce désespoir n’était pas quelque chose que l’écriture aurait pu

apaiser, c’était un ennemi de la vie et de l’écriture ; l’écriture n’était en l’occurrence qu’un provisoire, comme pour

quelqu’un qui écrit son testament juste avant d’aller se pendre, un provisoire qui peut fort bien durer toute une

vie), c’était donc une littérature impossible de tous côtés, une littérature de tziganes qui avaient volé l’enfant

allemand au berceau et l’avaient en grande hâte apprêté d’une manière ou d’une autre, parce qu’il faut bien que

quelqu’un danse sur la corde (mais ce n’était même pas l’enfant allemand, ce n’était rien, on disait simplement que

quelqu’un danse.) (Kafka, 1984, pp. 1087-1088, lettre à Max Brod, juin 1921).

24. Sans peuple, sans identité, sans nom : une communauté nomade. Une communauté étrangère à

jamais. Une communauté d’écriture. On appelle cela, le communisme. Ce n’est probablement pas un

projet politique, il n’y a aucun programme, aucune visée, pas de manifestes, pas de chefs. Il n’y a que les

pas incessants et les murmures dans les plaines désolées du « no man’s land » et les écritures sans fin de

22

Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

gens qui, dans leurs solitudes, dans le désert, grâce au désert, grâce à leur solitude, se libèrent et peuvent

rencontrer dans l’attente de l’écriture d’autres gens qui errent comme eux. Quand nous lisons Kafka, dans

l’inachèvement et l’incomplétude de ses pages et de son existence, nous sentons le besoin de ce

communisme, c’est-à-dire de ce rapport entre l’écriture et une politique, une communauté sans

communauté qui s’inscrit dans un espace littéraire et politique. Un espace-monde, mais pétri de

singularités, toujours à détruire et à (re)construire, une communauté destituante et destituée.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Gianluca Miglino

Nella tana della metafora assoluta.

Poetologia e storia nell’ultimo Kafka

ABSTRACT

In the short story The Burrow, Kafka gives us one of the most precise descriptions of his conception of literature and encrypts at the same time a radical

confrontation with the most important historical event of his time. As synthesis of a poetology of the absolute metaphor and of a radical confrontation with

the end of the story represented by the Great War, this text is an example of the possibilities of a destituent conception of literature.

Keywords: Kafka’s Poetology; First World War; Destituent power.

A minacciarmi non sono soltanto i nemici di fuori. Ce ne

sono anche nell’interno della terra [...]. Sono esseri

sotterranei e nemmeno la leggenda è in grado di descriverli.

Franz Kafka

1. Quando nell’inverno tra il 1923 e il 1924 scrive il frammento narrativo noto, a partire dalla prima

edizione di Max Brod, con il titolo Der Bau (La tana), Kafka ha ormai alle spalle gran parte della propria

parabola letteraria. Alla fine di agosto del 1922 è stato infatti costretto a interrompere la composizione

del suo ultimo grande romanzo, Das Schloss (Il castello), a causa di un devastante crollo nervoso. E nel

dicembre, proprio durante il lavoro alla Tana, consegna allo stesso Brod il testamento con il quale ordina

all’amico di bruciare tutti i suoi manoscritti e di risparmiare soltanto i pochi racconti pubblicati. Il

parallelismo tra questo testamento, la sua definitiva rinuncia alla letteratura come militanza – ormai

solitaria – contro gli spettri del mondo moderno, e la stesura del racconto è un primo elemento per

contestualizzare e focalizzare il ruolo cruciale che questo testo ha nell’opus kafkiano1. L’ipotesi che guida

questa analisi è infatti che l’opera di Kafka sia il risultato di una precisa evoluzione interna guidata da una

serie di movimenti di progressiva, volontaria, progettata, oltre che sofferta destituzione. In quella che non

potrà fare a meno di essere una ricostruzione breve e sommaria di alcune tappe fondamentali della

produzione e della riflessione poetologica di Kafka, il punto nodale è sicuramente l’esito, compiuto e

1 Il ritorno alla comunità gli è offerto dal suo incontro con Dora Diamant, una giovane ebrea orientale che lo scrittore conosce nell’estate del 1923. Con Dora, che proviene da una famiglia chassidica e conosce bene l’ebraico, Kafka legge il Vecchio Testamento, segue un corso di lezioni sul Talmud presso l’Accademia di studi ebraici e vorrebbe imparare il giardinaggio e l’agricoltura in vista di un’emigrazione in Palestina. Come ha scritto Baioni, l’ultimo anno della sua vita, nel quale scrive, oltre alla Tana, solo Giuseppina, la cantante, non fa più parte, a ben guardare, della storia di Kafka scrittore della westjüdische Zeit, l’epoca dell’ebraismo occidentale, ma riguarda soltanto un uomo il cui nome ebraico è Amshel (cfr. Baioni 1984, pp. 292-293).

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

fallimentare al tempo stesso, del Processo, romanzo che lo scrittore decide di mettere da parte nel corso

del 1917, anno per molti versi cruciale nella biografia, esteriore, poetica ed interiore, dell’autore2. Come

ha mostrato e ribadito un’infinita letteratura critica, pur essendo il romanzo irrisolto in alcuni essenziali

nodi centrali, la conclusione, insieme al capitolo che contiene la leggenda dell’uomo “dinanzi alla porta

della legge” e la sua interpretazione, costituisce un primo chiaro punto di arrivo del percorso letterario di

Kafka. Se ha ragione Giorgio Agamben, nel Processo Kafka aveva messo infatti in atto una strategia volta

a chiamare in causa l’essere stesso del diritto (cfr. Agamben 2009, p. 38). La colpa di Josef K. consiste

infatti propriamente in un’autocalunnia, un reato paradossale, in cui l’accusato da un lato sa di essere

innocente, ma in cui, nel momento in cui si autoaccusa, diventa colpevole (di calunnia, appunto). È

dall’autocalunnia che prende avvio nel romanzo un processo in cui non solo in causa non è nulla di

preciso, ma in cui ad essere chiamata in causa è l’essenza stessa del processo in quanto “accusa”,

trasformazione dell’essere in “causa”, in cosa. La sottigliezza dell’autocalunnia consiste nel fatto che essa

è una strategia che tende a disattivare e a rendere inoperosa l’accusa, la chiamata in causa che il diritto

rivolge all’essere. In altri termini, per Kafka l’unico modo di affermare la propria innocenza di fronte alla

legge sembra essere quello di accusarsi falsamente, mettendo così in moto un processo che punta a

destituire l’essenza del diritto. La calunnia che Josef K. fa nei confronti di sé stesso è quindi un mezzo di

difesa contro le autorità che minacciano continuamente l’esistenza, irretendola nella logica della colpa,

nella dimensione di una legge che appare sempre come una lancinante e grottesca caricatura di una Legge

originaria a cui non è più possibile avere accesso. Ma, come Kafka sperimenta proprio attraverso la stesura

del romanzo, si tratta di una strategia insufficiente, perché il diritto risponde trasformando in delitto la

sua stessa chiamata in causa e facendo dell’autocalunnia, che doveva renderlo inoperoso, il proprio nuovo

fondamento. La frase lapidaria che conclude il romanzo testimonia appunto del carattere radicale e

fallimentare di questa strategia. Nel momento della condanna, che è anche esecuzione, Josef K., una delle

figure più limpide dell’uomo della conoscenza e della ricerca della verità che attraversano l’opera di Kafka,

diventa (come un) animale, tentando, dopo il fallimento della sua sottile strategia di destituzione del

diritto, di sottrarsi alla presa della legge e alla colpa. Dopo aver cercato di destituire l’essenza della legge

attraverso l’autocalunnia, nel momento della condanna-esecuzione il divenire cane è infatti un gesto di

sottrazione, l’ultima mossa di una strategia disperata volta a disinnescare la logica della colpa, giunta, col

romanzo, ad un suo paradossale compimento.

Kafka impiegherà diversi anni ad elaborare il residuo di questa trasformazione in animale, quella

“vergogna” che gli sopravvive, che è la vergogna dell’essere uomo della letteratura, di aver sacrificato alla

2 Nel 1917 Kafka rinuncia definitivamente al progetto di sposarsi con Felice Bauer e, come detto, mette da parte il lavoro al Processo. Sembra si tratti di una contraddittoria rinuncia sia alla vita, sia alla letteratura. In realtà, come scrive a Max Brod nel Natale del 1917, pochi giorni prima di disporre della distruzione dei suoi manoscritti, si tratta per lui solo di poter fare, in perfetta solitudine, chiarezza sulle ultime cose (cfr. Baioni, 1984, p. 211).

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

pratica colpevole e solitaria, oltre che narcisistica, della scrittura tutta la sacralità della vita. Alla fine del

1917 scopre di essere ammalato di tubercolosi, l’equivalente di un’altra condanna a morte che però per

lui significa, neanche tanto paradossalmente, la possibilità di dedicarsi alla letteratura in maniera totale,

sciogliendo tutti i legami con quel mondo ebraico-occidentale3 (i progetti di matrimonio, il lavoro

d’ufficio, il problema della sua collocazione nell’ambiente culturale delle avanguardie letterarie di Praga4

etc.) che era stato il termine della sua lotta con e nella letteratura. In più di quattro anni, fino al gennaio

del 1922, non scrive quasi nulla (tranne alcuni fondamentali frammenti narrativi, i diari, i cosiddetti

aforismi di Zürau, ovviamente tutti essenziali a seguire l’evoluzione interna della sua poetica5), fino alla

“decisione notturna” di portare avanti l’“assalto all’ultimo limite terreno” di cui parla nei diari tra il 16 e

il 22 gennaio 1922 (cfr. Kafka, 1959, vol. II, pp. 204-205)6, che ovviamente è la decisione di affrontare,

con la stesura del Castello, la battaglia cruciale della propria opera letteraria. Kafka ha deciso di confrontarsi

con la westjüdische Zeit assumendone su di sé la rappresentanza legittima. È questa la giustificazione

interiore di un romanzo come II castello, un’opera meditata e costruita con un rigore allegorico sconosciuto

alle altre opere dello scrittore, in cui la vita di Kafka e l’umanità della westjüdische Zeit diventano i veicoli di

un complesso sistema di simboli e di metafore che rappresentano la sintesi dell’intera narrativa. La figura

del suo protagonista è infatti diversa da quella del Josef K. del Processo, anche se ne presuppone lo scacco.

Provando a riconsiderare nuovamente la professione del K. protagonista del romanzo, Agamben

ricostruisce la tradizione giuridica a cui è legata la storia e il concetto di “agrimensore” nel diritto romano

(cfr. Agamben, 2009, pp. 48-51). Ciò di cui K. si occupa, la professione che egli dichiara ai funzionari del

castello come una sorta di sfida consiste infatti nella “costituzione dei limiti”. Il conflitto che si istituisce

tra il protagonista del romanzo e le autorità del castello non riguarda allora, come vuole una lunga

3 La westjüdische Zeit è per Kafka l’epoca della contaminazione delle culture, della storia mutilata, della tradizione ridotta a un mucchio di oggetti fuori uso, di cui il tribunale del Processo rappresenta la metafora più immediata. Al ruolo cruciale per l’interpretazione dell’opera di Kafka di questa che è l’unica categoria storica usata consapevolmente dallo scrittore è dedicato il fondamentale volume di Giuliano Baioni (cfr. Baioni 1984), che è punto di riferimento essenziale di questo saggio. 4 Per la generazione di Kafka e Brod la nuova concezione della letteratura – una variante ebraico-occidentale dell’espressionismo – era quella di un’attività politico-culturale volta a “produrre per la comunità” e quindi, in un senso più radicale, a produrre la comunità. La letteratura si poneva in tal senso un potere costituente. Kafka invece, pur partendo dalle stesse premesse, credeva che il suo compito fosse di attraversare la crisi, di affrontare senza riserve la negatività della westjüdische Zeit e, cosa ben più ambiziosa, di condurre da solo, in quanto scrittore e con i soli strumenti della letteratura, la sfida contro la cultura di un’epoca nella quale la letteratura sembrava essere compromessa in modo irreparabile con il linguaggio impuro dell’attualità (cfr. su questi punti centrali Baioni 1984, pp. 250 e 263). 5 Si ricordino qui, solo perché funzionali al discorso, i due frammenti “mitici” dedicati a Prometeo e ad Ulisse. Il Prometeo di Kafka è il mito negativo del rapporto tra bellezza e verità, che, nell’età moderna, sono in un rapporto di esilio reciproco. Kafka è convinto che la (sua) letteratura abbia proprio la funzione di testimoniare questa distanza (cfr. Baioni 1984, p. 226). Per questo è possibile concepire un altro mito dell’esistenza letteraria con un eroe che sa che le Sirene non cantano più. Il mito di Ulisse concepito da Kafka, in quanto rovescio del mito di Prometeo e delle sue possibili letture, è allora il mito della concezione destituente della letteratura a cui Kafka giunge dopo lo scacco della strategia destituente condotta dall’uomo della letteratura nei confronti di una legge menzognera rappresentata nel tribunale del Processo. 6 L’annotazione del 16 gennaio si conclude con una sintesi ineludibile della poetica dell’ultimo Kafka: “Tutta questa letteratura è assalto al limite e, se non fosse intervenuto il sionismo, avrebbe potuto evolversi facilmente e diventare una nuova dottrina esoterica, una cabbala. Ne esistono gli spunti. Certo qui si richiede un genio incomprensibile che affondi nuovamente le radici nei secoli antichi o li ricrei e con tutto ciò non si doni, ma soltanto ora incominci a donarsi” (Kafka, 1959, vol. II, p. 210).

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

tradizione interpretativa che risale a Brod, la possibilità di stabilirsi nel villaggio (e quindi di fare parte di

una comunità, da cui anzi, come scrittore, è definitivamente e volontariamente uscito), o di essere

accettato dalle autorità del castello (che sono invece il “nemico”), quanto invece la fissazione, e quindi

anche la trasgressione, dei confini. Se il castello è allegoria kafkiana del principio di autorità (legittima o

meno, discendente dalla Legge o incarnazione della menzogna universale), allora l’agrimensore è

impegnato in una radicale lotta contro il castello e i suoi funzionari sui limiti di questo governo, e la sua

scelta della professione è sia una dichiarazione di guerra, sia la sua strategia. L’assalto al limite estremo è

allora l’assalto al confine che separa castello (alto) e villaggio (basso) e l’intuizione “cabalistica” di Kafka

sta nel fatto che egli sa che la lotta non è contro Dio o la sovranità suprema, ma contro i messaggeri e

funzionari che sembrano rappresentarli e che sicuramente per Kafka incarnano, come già il tribunale del

Processo, la natura caotica e menzognera del mondo moderno. Sono i loro confini, che sono anche le

barriere che essi hanno stabilito tra gli uomini e il divino, che l’agrimensore vuole mettere in questione,

abolire, rendere inefficace e inoperoso, destituire, perché passa invisibilmente in ogni uomo, è uno

“spettro” che è compito della sua letteratura abolire. L’agrimensore è, in altri termini, la figurazione

complessiva e riassuntiva di un’opera di destituzione che, iniziata (e, in un certo senso, ad un primo livello,

fallita) col Processo, Kafka ha posto in termini radicali e per lui definitivi con il suo ultimo romanzo. In

quanto ultimo assalto al confine estremo, il Castello rappresenta infatti la descrizione cifrata della lotta di

uno scrittore contro il caos e il disordine della storia. L’uomo moderno si trova infatti per Kafka di fronte

ad un mondo nuovissimo dalla straordinaria efficienza formale, nel quale la dottrina e la tradizione

emergono come relitti arcaici e come segni ciechi di una verità della quale si è perduta la conoscenza7.

Con il Castello la letteratura è innanzitutto una sfida che lo scrittore lancia ai fantasmi della westjüdische Zeit.

In quanto testimonianza negativa, essa non può illudersi di raggiungere la verità, ma può indicarne

l’esistenza nella nostalgia di ciò che è “più di tutto quanto suscita angoscia” (Kafka, 1988a, p. 242, lettera

del novembre 1920), l’angoscia di quella distanza che impedisce all’uomo di parlare con l’uomo. Il

compito dello scrittore è in altri termini quello di abbattere il sistema delle mediazioni che si incarna

nell’apparato del sopruso burocratico, il progetto – inaudito per le forze di uno scrittore isolato –, se non

di scardinare i congegni dell’apparato per ricondurre la bellezza delle sue forme alla verità custodita in

ogni singolo uomo, almeno di dare testimonianza negativa di questa distanza. Il Castello va inteso allora,

almeno secondo la consapevole intenzione del suo autore, come un tentativo di purificazione della storia,

come una sfida ai fantasmi di un’epoca dell’inganno e della menzogna. Questa testimonianza negativa per

la verità da parte della letteratura appare tuttavia, sempre più chiaramente, un processo sistematico di

7 Per questo Benjamin scriverà qualche anno dopo che lo studio è la categoria messianica dell’opera di Kafka: i suoi personaggi sono “studenti senza dottrina” che, tuttavia, non hanno altra speranza che lo studio, poiché “la Scrittura, senza la chiave che di essa è la parte indispensabile, non è appunto Scrittura, ma vita, vita come viene condotta nel villaggio ai piedi della collina del Castello” (Benjamin, 1966, p. 146, lettera a Scholem del 15 settembre 1934).

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

autodistruzione. Le prose di Kafka, dai suoi romanzi più famosi ai suoi racconti di più difficile

interpretazione, sono l’opera storica e autobiografica di uno scrittore che ha sottoposto tutti gli elementi

storici e psicologici dei quali si costituivano la sua epoca e il suo mondo interiore ad uno spietato processo

di traduzione iconica al fine di farne gli elementi astorici di una similitudine assoluta. Solo che questo

imperativo poetico della traduzione metaforica assoluta vale anche per la costruzione dell’opera che abbia

eliminato ogni traccia del suo costruttore, per un testo autobiografico in cui la vita dell’uomo, non più

riconoscibile come storia o come psicologia, diventi puro materiale metaforico, immediatamente

utilizzabile per la composizione del testo.

Che senso ha, allora, il fatto che Kafka, dopo aver rinunciato alla possibilità di concludere il romanzo

(che è incompiuto in un senso differente dal Processo), dopo alcuni mesi ritorni alla scrittura con la stesura

della Tana? Se le Indagini di un cane, altro testo fondamentale dell’opera del tardo Kafka, sono la “versione

ebraica” del Castello, e vanno quindi interpretate in quest’ottica (cfr. Baioni 1984, p. 277), qual è il senso

di questa fondamentale prosa che praticamente chiude la vicenda letteraria di Kafka?

2. In una delle sue ultime lettere a Milena Jesenská del marzo 1922 – Kafka ha appena incominciato la

stesura del Castello – appare con molta evidenza quale funzione abbia la letteratura nei confronti della

comunicazione mediata dagli apparati. La facilità con cui è possibile scrivere lettere ha prodotto nel

mondo moderno “un terribile disordine nelle coscienze”. Scrivere lettere significa “comunicare con degli

spettri”, “denudarsi di fronte a degli spettri”, perché con ogni lettera si evoca il proprio spettro e si

provoca quello del destinatario. L’umanità – continua Kafka – si è difesa da questi spettri della

comunicazione inventando il treno, l’auto e l’aereo. Ma gli spettri hanno subito reagito inventando a loro

volta il telegrafo, il telefono e la telegrafia senza fili: “Gli spettri non moriranno di fame, ma noi andremo

in rovina”, conclude lo scrittore (Kafka, 1988a, pp. 247-248)8. Per questo, per l’ultimo Kafka scrivere

significa lanciare una sfida suicida agli “spettri notturni” nell’assurda speranza di “uscire da questo mondo

della menzogna per arrivare dall’altra parte, nel mondo della verità” (Kafka, 1970, p. 497). Queste parole

delle Indagini di un cane significano naturalmente che Kafka non considera il suo testo come una metafora

riflesso della verità. Se la burocrazia non è per Kafka ordine, precisione, meccanismo, ma caos,

imprevedibilità, impura vitalità che si pone come unica legge, ogni forma di apparato o di organizzazione,

come il tribunale del Processo o le autorità imperscrutabili del Castello, non è che l’incarnazione di questa

metafora della confusione delle cose che funziona come una macchina. Per questo la perfezione formale

e l’ordinata coerenza della sua prosa hanno qualcosa di freddo e irreale, e sono, rispetto al mondo impuro

8 Leggendo questi passi non si può dimenticare che nei primi capitoli del Castello ci sono due importanti telefonate e una lettera delle autorità. Nella seconda telefonata, dopo essere venuto a sapere che tra villaggio e Castello non c’è nessuna vera comunicazione telefonica, si sente solo quel canto che è l’unica voce dei telefoni dell’autorità, canto che ovviamente è un’altra versione del silenzio delle Sirene.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

e caotico degli spettri notturni, la precisione della macchina delle metafore che produce solo domande,

per poi alle fine piantare il suo aculeo di ferro nel cervello del suo costruttore, come avviene Nella colonia

penale.

Tra la lettera a Milena del marzo 1922 e la stesura della Tana verso la fine del 1923 prende forma la poetica

della maturità dello scrittore. La solitudine nella quale egli vede una sorta di fortezza che lo difende dalla

confusione del mondo, non è tuttavia la condizione statica passiva. Quando Kafka scrive nei diari “Senza

relazioni umane non ci sono in me menzogne visibili. Il cerchio delimitato è puro” (Kafka, 1959, vol. I,

p. 299, appunto del 30 agosto 1913), intende proprio lo spazio del testo o, per usare la sua similitudine

più diretta del testo letterario, lo spazio della tana che impegna l’animale in un lavoro forsennato di

costruzioni e di distruzioni continue. Vivere nella solitudine vuol dire infatti vivere nella condizione della

perpetua scrittura, in cui vivere e scrivere sono la stessa cosa. Questa scrittura totale realizza nel modo

più tragico quella unità di vita e di letteratura che è la principale eredità che Kafka riceve dalla cultura

dell’estetismo. La ricerca dell’unità del bello e del vero si trasforma in un processo di introspezione di cui

Kafka ha dato appunto nella Tana una rappresentazione nei modi della metafora assoluta. “Il frenetico

ritmo del movimento interiore può avere cause diverse, la più evidente è l’autoanalisi che non concede

tregua a nessun pensiero e ogni pensiero costringe a scappare per essere poi a sua volta di nuovo inseguito,

come pensiero, da una nuova autoanalisi”, si legge nei diari, sempre nel già citato e cruciale appunto del

16 gennaio 1922. Anche la caotica interiorità dello scrittore è in altri termini una macchina che condanna

all’introspezione perpetua. L’introspezione attiva fa solo psicologia, che è paura e desiderio di morte,

desiderio della punizione, impazienza, sentenza che l’uomo pronuncia contro sé stesso (calunniandosi e

autopunendosi). E ciò accade perché il prigioniero conosce in realtà solo l’orizzonte della propria cella,

che è anche la propria fortezza. La letteratura è appunto quella cella che è anche fortezza, e va quindi

intesa come processo infinito di continue costruzioni e distruzioni, perché la fortezza deve essere

indubbiamente costruita, ma la cella altrettanto certamente distrutta. Costruire la tana significa cioè anche

distruggerla, poiché la sua insicurezza significa la sua impurità. L’utopia letteraria di Kafka è allora l’atto

inesauribile della costruzione della tana, durante il quale l’animale, che si identifica col ritmo del suo

operare, può dimenticare l’esistenza del nemico. La realtà consiste invece nella traumatica scoperta che

l’opera finita, proprio per la sua perfezione, rappresenta per l’animale che l’ha costruita l’illusione di

possedere la tana inattaccabile e di essere quindi al sicuro dai suoi persecutori. Di qui la necessità per lo

scrittore di non illudersi, nemmeno per un momento, di avere costituito nell’opera l’armonia e il silenzio

di un mondo in cui sia possibile vivere in modo coerente e senza contraddizioni. Questa illusione sarebbe

infatti di nuovo psicologia, come tutto ciò che può essere motivato con la ragione. Per Kafka psicologia

è quell’insieme di connessioni e giustificazioni razionali con le quali l’uomo cerca di ricomporre in una

costruzione organica, pulita e sicura quel caos di frammenti e rifiuti in cui in realtà consiste la sua

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coscienza. Costruzioni, ovvero, menzogne, sono le forme della vita associata e della sua comunicazione,

ma anche le immagini o le interpretazioni della vita interiore non si sottraggono a questo radicale carattere

di impurità. Così, se la verità è indistruttibile, l’unica via per accedervi sarà quella della distruzione. Tutto

ciò che non sa resistere agli attacchi dell’analisi interiore si dimostra essere figura dell’inganno. La vita

interiore si trasforma quindi in un processo di distruzione di ogni pensiero secondo un movimento

labirintico che si traduce in una sintassi che ritorna continuamente sui propri passi per mettere alla prova

ogni affermazione, proprio come l’animale della Tana, che scava nella sua costruzione delle gallerie che

poi richiude per riaprirne delle nuove, in un delirio della ragione dialettica che trova l’unica certezza nella

distruzione sistematica di ogni certezza (cfr. Baioni, 1984, p. 270).

Kafka spera così di giungere, attraverso la progressiva distruzione dei costrutti della psicologia, a quella

costruzione indistruttibile che è il testo letterario assoluto, che, semplice e disadorno, ha l’ordine, la

precisione, la pulizia, la pura funzionalità della macchina, è lo stile senza stile della prosa di Kafka. Se il

comandamento è distruggersi per diventare ciò che si è, la letteratura è l’unico spazio in cui ciò è possibile

(Blanchot, 1981). Ma la lotta che qui per Kafka si tratta di portare avanti non discende da un agonismo

costruttivista di stampo nietzscheano, da una volontà di potenza. Essa ha la sua legittimazione solo nel

fatto che è “l’unica cosa da fare”, ed è in questo senso il risultato di un movimento di sottrazione, di

cancellazione della vita, riassorbita nella scrittura, della comunità, da cui lo scrittore che sfida gli apparati

del mondo moderno è uscito, del senso, che è stato tradotto in una metafora assoluta.

La Tana è quindi prima di tutto la traduzione iconica della poetica di Kafka, monologo assoluto che

riassume quanto Kafka ha elaborato nel confronto con gli “spettri notturni” della westjüdische Zeit

attraverso la sfida sempre più solipsistica della propria scrittura. Calco febbrile del ritmo forsennato del

proprio stile e della purificazione a cui ha sottoposto la propria psicologia di uomo per estrarne il testo

assoluto, il racconto sembra essere un bilancio essenziale e disperato di quel che resta della letteratura

nell’età della distruzione della letteratura. Ultimo di una galleria di figure della metamorfosi dell’uomo

della letteratura in un non-più-umano che è uno dei contrassegni più marcati e discussi dell’opera di

Kafka9, l’animale del racconto rappresenta, nella sua esistenza ridotta alla pura attività della costruzione e

della riflessione monologante, anche una resa dei conti con la questione dell’autocoscienza. Nella

differenza ineludibile tra l’animale che osserva e conosce astrattamente il proprio rifugio e la creatura che

invece concretamente in esso si rintana riemerge problematicamente la dialettica dell’autocoscienza di

matrice hegeliana, che Kafka aveva più volte affrontato tramite le sue letture ripetute delle opere di

Kierkegaard, una delle quali avviene proprio nei mesi di stesura della Tana. Nella dinamica del testo appare

chiaro come non vi sia mai una vera ascesa ad un livello superiore della coscienza, ma solo infinite

ripetizioni, infiniti sdoppiamenti che non colmano mai l’abisso tra il soggetto che sa e il soggetto che è

9 La bibliografia sull’argomento è ormai sterminata. Per una sintesi e ulteriori rimandi bibliografici, cfr. Thermann, 2010.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

oggetto del sapere, ma lo proiettano in una cattiva infinità. Il punto archimedico del luogo assoluto si

rivela letteralmente utopico, dal momento che in ogni costruzione, sia pur labirintica (Labyrinth è una

delle parole più ricorrenti nel testo), rimane un “fondamento purtroppo non risolvibile” (Kafka, 1970, p.

532). Nelle aporie di questa costruzione vengono meno le costruzioni della riflessione idealistica, e non è

caso che sia un animale a contraddire le speranze della filosofia. Ma questo è possibile solo perché questo

animale è zoon logon echon, un animale ridivenuto animale dopo essere stato uomo. Come è evidente nella

struttura del testo, l’aporia della coscienza non sta nella contrapposizione tutta idealistica tra spirito e

corpo, ma è il risultato di un processo discorsivo, del fatto che qui ci sia un soggetto che parla. Il soggetto

che monologa deve sempre e di nuovo far ricorso all’istanza di un testimone anonimo, e il fatto poi che

il soggetto neghi questo altro provoca il ritorno dell’alterità come fenomeno acustico indefinito appena

udibile che lo sveglia a pause regolari. Il rumore misterioso accelera il processo della costruzione nella

misura in cui la distrugge in quanto opera. In quanto evento acustico indifferenziato, tale rumore è l’altro

dalla scrittura, che evoca ancora una volta il contrasto che attraversa l’opera intera di Kafka, quello tra la

magia della voce, con cui la vita seduce a sé, e il silenzio della scrittura, che è votata alla morte. Il rumore

percepito all’improvviso è quindi l’altro lato del discorso articolato, una presenza a cui l’animale non può

sottrarsi e che frantuma irrimediabilmente la solidità inattaccabile della sua costruzione.

Ma, se una lettura del racconto come metafora poetologica è data in fin dei conti per scontata e

consolidata nella letteratura critica, rimane la domanda su come leggere la seconda parte del testo. Perché

il primo ed unico incontro con l’altro diventa possibile solo sotto il segno dell’assoluta inimicizia? Perché

il dramma costruttivo dell’assoluta certezza di sé culmina nel dilemma arcaico del divorare o essere

divorati, nella figura dell’animale che viene incontro all’altro solo con artigli e denti?

3. Secondo la fondamentale indicazione offerta da Wolf Kittler, il racconto non è un prodotto autonomo

della fantasia di Kafka, ma la parodia cifrata di una storia molto differente. Si tratta del reportage di guerra

di Bernhard Kellermann dal titolo Krieg unter der Erde (Guerra sotto terra). Come ha mostrato in dettaglio

Kittler (Kittler, 1990, p. 296), le relazioni tra il racconto di Kafka e il reportage di Kellermann sono

evidenti già a partire dalla ripresa del vocabolario tecnico, per non parlare della metaforica animale e del

motivo dell’assolutezza del rapporto col nemico, che derivano dall’arsenale di immagini e motivi con il

quale anche “autori di guerra” come Jünger o Remarque avrebbero descritto la guerra di trincea. A tutto

questo si aggiungono due elementi ulteriori molto significativi, ovvero il motivo dell’ascolto nelle

profondità della terra e l’analogia di struttura tra i due testi. Ma perché Kafka, nell’inverno 1923-24, si

occupa ancora della guerra di trincea, cifrandola nella metafora assoluta del suo testamento poetico?

Come ha ipotizzato Kittler, è probabile che la ripresa del reportage di Kellermann abbia a che fare con

un vero e proprio sintomo nel senso in cui Freud parla delle nevrosi di guerra in Al di là del principio di

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

piacere. Nell’interpretazione di Freud, l’evento traumatico deve essere ripetuto nella psiche del

traumatizzato proprio in quei casi in cui il dolore atteso nel momento dello shock non ha avuto modo di

verificarsi (cfr. Freud, 1977a, pp. 194 sgg.). Così, anche Kafka può ripetere solo ora l’“esperienza” della

guerra di trincea, che, secondo quanto da lui stesso dichiarato, per lui fu traumatica proprio perché non

poté prendervi parte. In altri termini, il discorso sulla guerra riemerge proprio in chi non ha potuto farne

esperienza e può essere per questo tradotto in un’esperienza assoluta, come quella dell’animale del

racconto. Ciò avviene ovviamente perché nel racconto il resoconto di guerra di Kellermann e la situazione

solipsistica della sua esistenza letteraria possono coincidere nei termini di quella metafora assoluta in cui,

come si è visto, si riassume la poetica di Kafka. Il modo in cui Kafka ottiene questa mediazione totale

corrisponde infatti a quella che è la caratteristica più specifica della sua scrittura, cioè prendere la metafora

(animale) alla lettera, eliminando tutto ciò che possa ricordare l’immane impresa collettiva della guerra.

Se vengono ripresi tutti i più importanti termini tecnici della guerra di trincea (cfr. Kittler, 1990, p. 297),

i riferimenti alle innovazioni tecnico-militari che connotano la prima guerra moderna della tecnica, come

la mitragliatrice, il filo spinato e gli esplosivi, vengono eliminati dal repertorio figurativo, per poter poi

svolgere fin nei minimi dettagli l’azione nel modo coerente di una dialettica esclusivamente intrapsichica

e intersoggettiva. Così, la riduzione dell’evento all’orizzonte esclusivamente solipsistico non rappresenta

tanto un rifiuto del reportage di Kellermann, quanto piuttosto una sua estremizzazione. Come aveva

scritto Freud nel 1919, la Grande Guerra aveva prodotto in coloro che erano fisicamente sopravvissuti

ai campi di battaglia un genere di angosce in cui ciò di cui si aveva paura non erano le violenze esterne,

quanto piuttosto “il nemico interno” (Freud, 1977b, p. 75). La diagnosi freudiana corrisponde

perfettamente con quella del narratore del racconto: “a minacciarmi non sono soltanto i nemici di fuori.

Ce ne sono anche nell’interno della terra [...]. Sono esseri sotterranei e nemmeno la leggenda è in grado

di descriverli” (Kafka, 1970, p. 510).

Testi come quello di Kellermann, così come di Kafka, mostrano come il discorso di Freud sulle cause

interiori delle neurosi di guerra vada inteso in senso tutt’altro che metaforico. In una guerra tra eserciti di

massa, in cui l’incontro con il nemico avveniva in forma esclusivamente mediata dai mezzi tecnici delle

battaglie di materiali e ad una distanza non dominabile con la percezione, era inevitabile che l’immagine

del nemico reale fosse spazzata via e rimossa per lasciare il posto a figurazioni allucinatorie10.

10 Non deve sorprendere il fatto che Kafka sviluppi con precisione proprio questi aspetti, in Kellermann solo accennati. Kafka aveva ad esempio già scritto nel 1916: “La guerra mondiale, che porta raccolta in sé tutta l’umana sofferenza, è anche, più di quanto sia mai accaduto in un conflitto del passato, una guerra dei nervi. In questa guerra dei nervi, troppi sono coloro che soccombono. Così come negli ultimi decenni di pace l’intenso impiego di macchine ha messo in pericolo, scosso e danneggiato, in misura infinitamente maggiore rispetto al passato, i nervi delle persone addette al loro funzionamento, la componente meccanica, smisuratamente accresciuta, delle odierne imprese belliche è stata fonte di gravissimi pericoli e danni per i nervi dei combattenti. E ciò accade in proporzioni tali che anche i più informati riescono a stento a farsene una rappresentazione adeguata. [...] Coloro che vediamo tremare e sussultare, per disturbi nervosi, nelle strade delle nostre città, non sono che i messaggeri, relativamente innocui, dell’immensa schiera dei sofferenti” (Kafka, 1988b, pp. 129-130)

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

La coazione a ripetere, che è l’aspetto più sconvolgente e nuovo di queste “malattie di guerra”, caratterizza

anche l’autocoscienza che domina il racconto di Kafka. Essa è perseguitata – come i pazienti dei medici

di nervi e degli psicanalisti di guerra della Grande Guerra – da una angoscia nevrotica, e una delle strategie

che concepisce per difendersi è “la più frequente causa naturale delle nevrosi di guerra” (cfr. Kittler, 1990,

p. 299, n. 49), la Verschüttung, il seppellimento sotto terra (cfr. Kafka, 1970, pp. 542-543).

L’esperienza collettiva della guerra determina quindi anche e proprio il discorso di coloro che non hanno

avuto esperienza diretta di essa. E il fatto che il racconto riprenda dettagli e struttura del reportage di

Kellermann, mentre cancella tutti i riferimenti diretti alla guerra, dimostra non solo che, in questa fase

storica, la guerra era stata assorbita senza residui nel discorso collettivo, era divenuta come inconscia, si

era ritratta dalla e nella rappresentazione, ma che Kafka era pienamente cosciente di tutto ciò. Egli

comprende infatti che è possibile dire l’evento che spacca in due la storia moderna, segnando una cesura

epocale irreversibile, solo senza nominarlo direttamente, esattamente così come nel Castello aveva cifrato

nei modi della parabola la sfida all’apparato oppressivo e menzognero del mondo moderno. La Tana non

rappresenta la guerra, ma traduce in testo i momenti essenziali del discorso collettivo che era nato dalla

guerra stessa, non parla di un trauma, ma è la ripetizione, coatta e potenzialmente infinita, di quel trauma.

Dal racconto emerge che la guerra non può essere “oggetto”, tema di una costruzione letteraria

tradizionale, ma che essa è un evento epocale che produce nuovi discorsi, mutando radicalmente la

dimensione storica dei testi che da essi discendono. Il soggetto che parla in questi testi è come travolto

dal potere dei discorsi che lo investono, come l’animale che, alla fine del racconto, è travolto dal delirio

dell’inimicizia assoluta. In questo modo la letteratura arriva ancora una volta a quel confine estremo di

cui Kafka parla nei diari. Come la memoria coatta delle nevrosi traumatiche si basa sulla rimozione della

psicosi, così l’estremismo stilistico della scrittura kafkiana si trasforma nel suo opposto, in un

automatismo in cui il soggetto dell’enunciazione si perde completamente nell’enunciato.

Scritta cinque anni dopo la fine della guerra, la Tana traduce in immagine la dimensione tellurica, la

regressione trogloditica della guerra di trincea senza nominare le condizioni tecniche, storiche e politiche

all’interno delle quali il riemergere di queste esperienze arcaiche ha avuto luogo. Nei frammenti raccolti

in Durante la costruzione della muraglia cinese, Kafka aveva però già affrontato, ancor prima che nel Castello, i

problemi riguardanti i rapporti tra l’apparato industriale e burocratico dello stato moderno e la questione

della sovranità. Lo scrittore ha lasciato nei suoi quaderni un aforisma a tal proposito assolutamente

chiarificatore: “Cosa costruisci? Voglio scavare un cunicolo. Deve avvenire un progresso. Troppo in alto

lassù è il mio posto. Noi scaviamo il pozzo di Babele” (Kafka, 1994, p. 255). La costruzione della muraglia,

metafora delle immani imprese della tecnica e dell’organizzazione moderne, come in primis è stata la

Grande Guerra con il suo governo del materiale umano, è messa in relazione con la costruzione della

torre di Babele, che però qui diventa un pozzo, una costruzione frutto di uno scavo nella terra. In altri

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

termini, come ha dimostrato Kittler (cfr. Kittler, 1990, pp. 302-309), in questi testi si pone, insieme al

problema della conduzione della guerra, la questione decisiva delle possibilità e dei limiti della

comunicazione, d’altronde implicite nella storia della costruzione della torre di Babele. Nel mondo

moderno le istanze responsabili del coordinamento della costruzione sono sempre caratterizzate dalla

loro assoluta lontananza e si esprimono solo attraverso ordini e messaggi, cioè solo sul piano della

comunicazione. I testi di Kafka in questione trattano fra l’altro anche delle conseguenze dell’introduzione

di questi sistemi di reti di comunicazione per quel sistema di scrittura che è la letteratura. Il narratore è

destituito dalla sua sovranità e diventa un mero redattore di dispacci, l’eroe non ha più senso e,

soprattutto, non ci può essere più alcun simbolo in cui si concentri il significato del tutto11. Al posto dei

soggetti sovrani, che fanno e diffondono discorsi, ci sono i materiali o le condizioni tecniche (spazio,

tempo, velocità, provenienza) dei discorsi stessi. La destituzione della centralità del senso è compiuta e

l’immediatezza dell’esperienza personale, da Goethe in poi garanzia della corrispondenza tra finzione e

autenticità del discorso letterario, non designa più l’origine di ciò che viene detto, ma il punto in cui il

discorso deve interrompersi, in un vicolo cieco in cui la scrittura stessa rischia di perdersi. Si tratta della

fine del significato nel muto compimento della violenza. Come Kafka ha scritto in Un vecchio foglio, altro

breve racconto frammentario appartenente ai testi nati intorno a Durante la costruzione della muraglia cinese,

facendo anche qui riferimento alla figura del nemico che ritorna in forma assoluta nella Tana:

Coi nomadi non si può parlare. Non conoscono la nostra lingua, anzi non ne hanno neppure una propria.

Tra di loro si intendono come le cornacchie. Di continuo risuona il loro gracchiare. Il nostro modo di

vivere, le nostre istituzioni sono loro incomprensibili quanto indifferenti. Perciò rifiutano anche qualsiasi

tentativo d'intendersi a segni. Puoi slogarti le mascelle e lussarti le mani, ma loro non ti capiscono, né mai

ti comprenderanno. Spesso fanno delle smorfie, si muove allora il bianco degli occhi, mentre la bocca si

gonfia di bava; ma con questo non vogliono né dir qualcosa e neanche spaventare; ma fanno così, perché

è loro abitudine. Non si può dire che usino violenza. Dinanzi a un loro intervento ci si fa da parte e si

cede tutto (Kafka, 1970, pp. 235-236).

Il mittente fittizio del vecchio foglio sogna allora lo stesso sogno dell’animale della tana, e deve similmente

constatare che non è possibile comprensione. Questo passo infatti non si interroga solo su cosa sia

diventata la letteratura nell’epoca della violenza organizzata e portata ad un altissimo grado di perfezione

tecnica, ma coinvolge anche la questione dei limiti e delle condizioni del designare, del definire in generale.

Gli eventi mediali fanno la storia, la funzione degli apparati decide della vita e della morte. In ogni caso,

11 Anche in questo Walter Benjamin si è dimostrato l’interprete più congeniale di Kafka, colui che ha saputo trarre dal confronto con la sua opera le intuizioni più fulminanti. Si vedano al proposito le tesi del saggio su Il narratore (Benjamin, 1995).

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

si è raggiunto il confine in cui il codice linguistico comune fallisce, sostituito dal gracchiare delle

cornacchie, nella muta lotta dell’animale contro un nemico che è stato evocato solo dal suo monologo.

La lingua, anche e prima di tutto quella della letteratura, ha perduto la sua funzione di mediazione e di

conciliazione, è divenuta di parte, estranea, resa muta dai mezzi tecnici e se ne sta a pezzi dinanzi ai

soggetti, da essa emana solo una violenza che non produce più l’uomo, ma quell’animale che abita la

Tana.

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J. Linder, «“Das eigentlich Komische ist freilich das Minutiöse”. Note sul comico in Kafka» K. Revue transeuropéenne de philosophie et arts, 1, 2/2018, pp.38-50

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Jutta Linder

“Das eigentlich Komische ist freilich das Minutiöse”

Note sul comico in Kafka

ABSTRACT

When Kafka, among his annotations for The Castle, inserts the sentence “But the real comic lies in the particular”, he gives us a precious indication about

the mechanism of his writing. The extreme attention to narrative detail, which characterizes his style, is also a gimmick for him to give a comic tone to his

poetic visions. Paying attention to Kafka’s comic side, this contribution aims to focus an aspect that some of his contemporaries had already highlighted, but

that has only recently begun to raise a perceivable interest in the German studies.

Keywords: Kafka, “kafkaesque”, narrative style, narrative detail, comic.

Tra le pagine che Kafka, lavorando al suo ultimo romanzo Das Schloß, aveva ad un certo punto scartato

come parti da inserire nel testo, si trova un frammento, lungo forse tre o quattro cartelle, in cui si fa

riferimento a quell’episodio che tratta dell’incontro tra il protagonista K. e il segretario del castello Bürgel.

A farsi carico della narrazione, in questo caso, è una delle stesse figure dell’opera, un abitante del villaggio

non ulteriormente specificato, il quale, preoccupato di svolgere bene tale suo compito, si esprime, a mo’

d’apertura, sul carattere dell’episodio da presentare. “La storia in sé”, che K. stesso gli avrebbe riferito in

maniera minuziosa – così esordisce – sarebbe davvero “troppo comica”. “Ma”, aggiunge poi come

elemento fondamentale, “la vera comicità sta nel minuzioso” (“Das eigentlich Komische ist freilich das

Minutiöse”)1.

Che Kafka abbia fatto, con questa precisazione, un appunto che riguardava la propria arte dello scrivere,

è fuori di ogni dubbio. Non a caso era giunto a metterla in bocca, con trucco d’autore di lunga tradizione

letteraria, a una figura del racconto la quale, in sostituzione di lui, veniva temporaneamente investita del

1 F. Kafka, Das Schloß. Apparatband, hg. von M. Pasley, in Schriften Tagebücher. Kritische Ausgabe [d’ora in avanti, KKAS], hg. von J. Born, G. Neumann, M. Pasley u. J. Schillemeit unter Beratung von N. Glatzer, R. Gruenter, P. Raabe u. M. Robert, Frankfurt a. M., Fischer Taschenbuch Verlag, 2002, p. 424. Si adotteranno, inoltre, citando da questa edizione di Kafka, le seguenti sigle specifiche: KKAD per F. Kafka, Drucke zu Lebzeiten, hg. von W. Kittler, H.-G. Koch u. G. Neumann, in Schriften Tagebücher etc.; KKAN per Nachgelassene Schriften und Fragmente, hg. von J. Schillemeit, in Schriften Tagebücher etc.; KKAP per Der Proceß, hg. von M. Pasley, in Schriften Tagebücher etc.; KKAT per F. Kafka, Tagebücher, hg. von H.-G. Koch, M. Müller u. M. Pasley, in Schriften Tagebücher etc. Con la sigla KKAB si citerà, poi, dall’edizione separata delle lettere di Kafka: F. Kafka, Briefe (1900-1912, 1913-1914, 1914-1917, 1918-1920), hg. von H.-G. Koch, in Schriften Tagebücher Briefe. Kritische Ausgabe, hg. von G. Neumann, M. Pasley, J. Schillemeit u. G. Kurz unter Beratung von N. Glatzer, R. Gruenter, P. Raabe u. M. Robert, Frankfurt a.M., Fischer Verlag, 1999-2008. Le traduzioni italiane dei testi di Kafka saranno sempre mie.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

ruolo di narratore2. Il fatto poi che Kafka non abbia voluto accogliere, alla fine, il frammento in questione

nell’insieme dell’opera ha certamente la sua importanza per quest’ultima, ma non tocca per niente la

validità stessa dell’affermazione di cui sopra come momento di rivelazione, cioè, del proprio laboratorio

poetico.

Parlando del comico in Kafka, argomento del quale solo negli ultimi tempi la critica specifica ha mostrato

un percepibile interesse3, vi è naturalmente da scorgere, va detto qui in forma di premessa, tutto un

panorama di storie il cui tasso di potenzialità comica risulta altissimo. Prendiamo ad esempio un racconto

quale Blumfeld, ein älterer Junggeselle, dove al desiderio, come viene nutrito inizialmente dal protagonista

(scapolo già anzianotto), di essere accolto, quando torna a casa, dall’“abbaiare”, dal “saltare” e dal “leccare

le mani” (KKAN I, p. 232) di un cane fedele compagno, segue invece, nello sviluppo della narrazione,

l’entrata in scena di un paio di palline che, mosse da un perpetuo saltellare, si configurano come

nevrotizzante perversione, come irrefrenabile assillo. Oppure prendiamo, per fornire un altro caso, una

delle Tiergeschichten a cui Kafka così volentieri fa ricorso e che, con il loro tipico intreccio tra universo

animale e universo umano, offrono naturalmente delle varianti di comicità del tutto speciali: le Forschungen

eines Hundes, per esempio, le quali ci presentano gli sforzi, per così dire inumani, che l’indagatore, creatura

a quattro zampe, intraprende per venire a fondo, senza riuscirci d’altra parte, delle verità ultime della sua

esistenza canina; e tutto ciò sistematicamente accompagnato, a scandire quasi l’intreccio di cui si diceva,

da formulazioni a cui il cane suole ricorrere, grazie alla sua indiscutibile competenza linguistica, come

quella di vivere “in mezzo alla caninità” (KKAN II, p. 423), di partecipare al destino di questa da “cane

tra i cani” (KKAN II, p. 423), di dover attenersi alla necessaria tolleranza trovandosi, all’interno di questa

comunità, di fronte a “cani come me e te” (KKAN II, p. 429)4.

E certamente ci sono poi, quali inquadrature a effetto comico, tutte quelle situazioni che, in un contesto

narrativo più ampio, fanno scattare, spesso anche in forma di tornure inaspettata, la vena umoristica dello

2 E su questa circostanza Kafka insiste visibilmente quando, a seguito del passo citato, fa dire all’io narrante: “Se riuscissi a farlo bene, voi avreste di K. un quadro completo e di Bürgel poco o niente. Se riuscissi a farlo bene – questa è la condizione. Poiché la storia, diversamente, potrebbe diventare anche molto noiosa, vi è in essa anche questo elemento”. Cfr. KKAS App., p. 424. 3 Se nella prima fase della ricerca specifica su Kafka, sviluppatasi più consistentemente solo dopo la Seconda guerra mondiale, l’interesse si era concentrato in maniera preponderante sugli aspetti tenebrosi della scrittura del praghese, si nota, soprattutto a partire dal nuovo millennio, una crescente sensibilità per una più completa valutazione della sua figura in cui, appunto, rientra pure la considerazione del suo lato comico. Per i relativi studi si vedano, fra gli altri, i seguenti lavori: Pavel, 1992; Vogel, 2006, pp. 72–87; Rehberg, 2007; Kaul, 2008, pp. 83–92; Könemann, 2008, pp. 123–140; Dehe, Engstler, 2011; Fluhrer, 2016. Significativo risulta del resto, per la tendenza qui descritta, il fatto che la dissertazione dello studioso svizzero Dentan, uscita a Ginevra nel 1961 come uno dei pochi studi sull’argomento del periodo intermedio, sia stata riproposta in traduzione tedesca a distanza di mezzo secolo, nel 2012. 4 Per una più completa illustrazione si riporta, qui di seguito, l’intero passo: “Erano venuti fuori [i cani della musica], dentro di sé li si era salutati come cani, molto irritati però dal rumore che li accompagnava, ma erano tuttavia cani, cani come me e te. Li si osservava, seguendo l’abitudine, come cani che si incontrano per strada, invogliati ad avvicinarsi, a scambiare saluti. Si trovavano infatti molto vicini, cani, certamente molto più anziani di me, e non della mia specie dal pelo lungo e cotonato, ma neanche troppo estranei quanto ad altezza e statura […]” (KKAN II, p. 428-429).

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

scrittore praghese. Torno, a scopo illustrativo, proprio a quell’episodio di cui si è parlato in apertura,

all’incontro cioè di K., presunto o vero agrimensore nello Schloß, con la figura di Bürgel. Lungo tutta la

storia del romanzo, come è ben noto, il protagonista, ossessivamente attirato dalla presenza del castello

che sovrasta lo spazio in cui egli si muove tra le case e le vie del villaggio, non cerca altro, pur servendosi

di sotterfugi meschini, che di entrare in contatto diretto con quel che vede come il mondo di lassù. Ma,

nel momento in cui finalmente gli si prospetta per la prima volta un’occasione che potrebbe permettergli

una tale opportunità – ed è la volta, appunto, in cui si trova a tu per tu con il segretario Bürgel, personaggio

espressamente presentato nel testo come “segretario di collegamento” (“Verbindungssekretär”) (KKAS,

p. 407) tra i due mondi del sopra e del sotto, in quel momento, dunque, K. pian pianino si addormenta.

“Alla voce piana, compiaciuta di Bürgel, che per procurarsi il sonno lavorava evidentemente invano, egli

si era ormai così abituato che essa avrebbe piuttosto favorito anziché disturbato il proprio

addormentarsi”, così apprendiamo dal protagonista prima che, seduto sul bordo del letto da cui gli sta

parlando quel segretario, sprofondi totalmente nel sonno: “‘Macina, macina, mulino – pensò –, tu macini

solo per me’” (KKAS, p. 419).

Con la trovata appena descritta, il giocarsi l’opportunità tanto desiderata a causa di un prepotente attacco

di sonno, la storia si mostra davvero, come annunciato dal frammento scartato, “troppo comica”, anche

perché ciò che in un contesto di più elevata pretesa di genere poetico si sarebbe presentato come ironia

tragica5, qui si riduce in banalità, vista la soluzione adottata a livello causale. Ma, come pure è stato detto

in aggiunta in quel frammento, la vera comicità deve ancora venire; e questo, appunto, attraverso il

ripiegamento del narratore sul minuzioso.

Vediamo ora come questa carta venga giocata dall’autore, scegliendo due momenti dell’episodio che

possono essere considerati rappresentativi. Il primo di essi, parlando dell’eventualità di poter capitare

nelle mani della giusta competenza burocratica, suona in questa maniera:

“Dov’è dunque”, disse Bürgel, giocherellando con due dita sul labbro inferiore, con gli occhi spalancati e il collo

teso, come se, dopo una camminata faticosa, si fosse avvicinato ad un affascinante luogo panoramico, “dove si

trova dunque quella sunnominata, rara, quasi mai data possibilità?” (KKAS, p. 419).

Il secondo si riferisce alla fine di K. in mezzo a quello sproloquio, diventato ormai un monologo:

5 Di “ironia quasi tragica” parla invece, a proposito dell’episodio in questione, Matthias Schuster nel suo grande studio sullo Schloß-Manuskript di Kafka. Cfr. Schuster, 2016, p. 286.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

K. non udiva più niente, dormiva, separato da tutto ciò che accadeva intorno. La sua testa, che inizialmente posava

in alto sul montante basso del letto, era scivolata giù nel sonno e pendeva ora liberamente abbassandosi pian

pianino, l’appoggio del braccio in alto non bastava più, istintivamente K. se ne procurava un altro, puntando la

mano destra contro la coperta del letto, afferrando così casualmente il piede di Bürgel che spuntava fuori dalle

coltri. Bürgel vi diede un’occhiata e gli lasciò il piede, per quanto fastidioso ciò potesse essere (KKAS, p. 424).

Come la cura del minimo dettaglio – il giocherellare col labbro inferiore assieme allo spalancarsi degli

occhi e l’estendersi del collo nel caso di Bürgel, per esempio, o l’involontario afferrare il piede di

quest’ultimo con quello scivolamento di testa e braccio che lo precede – riesca a potenziare in maniera

egregia la comicità che la “storia” di per sé già possiede, viene dimostrato con tutta evidenza dai due passi

sopra citati. E soffermiamoci, dunque, su questo punto per ulteriori chiarimenti.

A sottolineare l’importanza del minuzioso nel nostro caso ci viene in aiuto pure la voce autorevole di

Thomas Mann. Irriducibile estimatore di Kafka qual era sin dai tempi in cui aveva avuto modo di

conoscere qualche esempio della sua prosa, vale a dire già a partire dagli anni Venti 6, egli non si stancò

mai di mettere in rilievo proprio quell’aspetto di cui ci stiamo occupando. “Quanto può essere comica

quest’anima sofferente! Glielo ascrivo ad altissimo merito” (lettera a M. Brod del 17 settembre 1951,

Mann, 1988, p. 103; trad. mia) suona, ad esempio, una delle sue tante affermazioni in proposito e, nel

caso specifico, dopo la lettura, più volte ripetuta fra l’altro7, dei diari dello scrittore praghese. E, riguardo

al comico nell’espressione letteraria, cosa per la quale si era soffermato in particolare sullo Schloß,

ritenendolo, con la sua raffigurazione del ‘mondo di lassù’, una satira religiosa senza pari della sfera del

divino, Mann tiene conto proprio di come, nella trattazione del dettaglio poetico, siano imperanti una

“scrupolosità”, un “amore” e una “cura” che indurrebbero “in maniera misteriosa al ridere”8. “Chi ha

letto questo”, dice ancora riportando come prova del nove la seconda chiamata telefonica che il

protagonista fa nel romanzo,

6 Fu attraverso il recitatore Ludwig Hardt, il quale lesse alcuni pezzi della prosa kafkiana nell’abitazione di Mann a Monaco nell’estate del 1921, che lo scrittore venne per la prima volta a contatto con Kafka, risultandone – cosa generalmente poco nota – immediatamente conquistato. Per informazioni più dettagliate sull’interesse di Mann per Kafka si vedano Linder, 2016, pp. 429-443, e Linder, 2018, pp. 25-31. 7 Anche quando parla della sua rilettura dei diari kafkiani assieme a Hesse, nella tarda estate del 1951, Mann insiste nuovamente sul lato comico dello scrittore praghese, esprimendosi in termini come “diari curiosissimi, spesso molto comici”. Cfr. l’annotazione del 12 settembre 1951 (Mann, 2003, p. 101). 8 Così Mann nell’introduzione alla seconda edizione americana del Castle (1941), accolta successivamente tra i suoi saggi con il titolo Dem Dichter zu Ehren. Franz Kafka und „Das Schloß“ (Mann, 1974, X, p. 775; trad. mia). Fuorviante, a tal proposito, risulta la traduzione proposta nell’edizione italiana pubblicata nella collana “I Meridiani” (Mann, 1997, p. 762), dove l’espressione “auf geheimnisvolle Weise zum Lachen reizend[en]” viene resa con un generico “misteriosamente comica”, in riferimento al termine “coscienziosità”, cosa per la quale il punto del discorso a mio avviso più significativo viene a cadere. Vedi anche, sempre in questo omaggio a Kafka, la seguente osservazione di Mann: “Era un sognatore e le sue opere spesso sono concepite ed elaborate del tutto secondo la natura del sogno; imitano la follia alogica e angosciante dei sogni, questi strani giochi d’ombra della vita, in maniera così precisa da far ridere” (Mann, 1997, p. 772; trad. mia).

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

chi ha ascoltato assieme a K. il “ronzio di infinite lontanissime e infantilissime voci nella cornetta”, e sentito le

risposte sgarbate che l’impiegato con il “piccolo difetto di pronuncia” da lassù impartisce a colui che, invadente e

bramoso, attende giù all’apparecchio della locanda, non smetterà più di leggere, ma percorrerà, vivendovi dentro,

tutto quel libro preciso ed inaudito per venire a capo, tra sgomento onirico e scoppi di risate, di quell’essere e di

quell’agire, venerandi-maliziosi, vessatori, di natura “tutta differente” ed eteronomi dell’autorità divina (Mann,

1997, p. 777; trad. mia).

Dettagli come “‘ronzio di infinite lontanissime e infantilissime voci nella cornetta’”, oppure l’impiegato

di lassù con il “‘piccolo difetto di pronuncia’”, sono i punti sui quali fa leva, da grande intenditore in

materia di umorismo letterario, lo stesso Thomas Mann.

L’acribia con cui Kafka, per tornare a lui, si dedica alla cura del minimo dettaglio è ben nota come uno

dei suoi tratti caratterizzanti. E quanto gli sia stato connaturato questo tipo di approccio al mondo

fenomenico lo vediamo soprattutto quando cerchiamo di risalire a quelle fonti – i diari, innanzitutto – in

cui dà prova della sua quotidiana percezione del reale. Molto bene si prestano a tale intento di

ricostruzione i cosiddetti “quaderni di viaggio” nella misura in cui essi, per la logica della loro genesi,

rendono testimonianza della percezione di cose fino a quel momento a lui sconosciute o poco familiari.

Così, per andare ora a ulteriori esempi, quel diario che ci parla del viaggio in Italia che Kafka,

accompagnato dall’amico Max Brod, compie nella tarda estate del 19119, può proprio servire a rendere

tangibile la centralità che il mondo microscopico – certamente di alto valore significativo per lo scrittore

– assume nella sua percezione della realtà: “Stuzzicante visione del camminare delle lucertole lungo un

muro” (KKAT, p. 959), vi si legge, oppure, sempre in tema di questi animaletti, “batticuore delle

lucertole” (KKAT, p. 961); e, riguardo a certe usanze locali, un’annotazione del tipo “Il figlioletto dell’oste

mi porge, senza che io gli avessi mai parlato, la sua boccuccia per il bacio della buonanotte su invito di

sua madre. Mi è piaciuto il gusto” (KKAT, p. 961); e infine, per andare a modi abituali di portamento

degli uomini, l’osservazione che si riferisce ai vigili urbani di Milano, “Eleganza dei vigili per niente da

impiegati, quando essi, in una mano i guanti di filo tolti e il bastoncino nell’altra, si mettono in movimento

per svolgere un servizio” (KKAT, p. 969).

9 Per maggiori ragguagli sui soggiorni italiani di Kafka – si tratta complessivamente di tre viaggi fatti, rispettivamente, nel 1909, 1911 e 1913 – si rinvia innanzi tutto alle scrupolose ricostruzioni offerte da Hartmut Binder. Cfr. Binder, 2007; e Binder, 2008, pp. 153-410. Vedi, inoltre, Tonelli, 1995; e Linder, 2017, pp. 67-79. Il viaggio di cui sopra, quello cioè del 1911, fu inaspettatamente sospeso a Milano, dopo sole ventiquattro ore, a causa della notizia pervenutagli – argomento, questo, anche del Tod in Venedig manniano – dell’epidemia di colera nell’Italia settentrionale. A tal proposito vedi le annotazioni dello stesso Kafka in KKAT, p. 966.

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E siccome i diari nel caso di Kafka, oltre a registrare delle impressioni che gli venivano dal contatto con

il quotidiano, gli servivano pure da base per i suoi esercizi letterari, come prove di incipit di racconti,

abbozzi di passi vari ecc.10, in essi possiamo cogliere, grazie a certi appunti dell’autore, anche qualcosa in

merito al passaggio che, a volte, avveniva dalla sua percezione del reale alla connotazione poetica che

questa poteva assumere. Vediamo, per esempio, come l’immaginario elabora il ricordo di un episodio, di

per sé a quanto sembra assai imbarazzante, verificatosi con un addetto del Café Savoy di Praga. Vi si parla,

per la precisione, di un “capocameriere” di cui si mette in rilievo il fatto che “sta lì davanti a ogni cliente,

e anche davanti a noi prima e pure dopo, come un cane, con un muso canino che scende su una grande

bocca chiusa da umili pieghe laterali” (KKAT, p. 83). E, per citare un altro caso, vediamo cosa lo scrittore

avverte di fronte alla figura di un attore, incontrato in occasione di uno spettacolo dato al Rudolphinum di

Praga:

Come avviene con tutti i vecchi meridionali – che hanno un naso grosso e un viso largo e pieno di rughe che vi

corrisponde e attraverso le cui narici può soffiare un vento forte come quello che esce dal muso dei cavalli – dei

quali si sa perfettamente che questo è l’aspetto definitivo del loro volto, non più superabile ma ancora per lungo

tempo stabile, anche il suo mi ricordava quello di una vecchia italiana, nascosto, certo, da una barba cresciuta in

modo molto naturale (KKAT, pp. 244-245).

Che, come qui si vede a proposito del ricorso – frequente, d’altra parte, in Kafka – all’universo animale11,

il processo di poetizzazione si attui in contemporanea con la stessa percezione del reale ci fa capire meglio,

del resto, perché egli ripetutamente, quando si trattava di difendere il proprio mestiere di scrittore, abbia

voluto definire tout court la sua esistenza con affermazioni del tipo di essere, egli stesso, “non altro che

10 Si ricorda, a questo proposito, che la stesura del racconto Das Urteil fu eseguita, nel giro di una sola notte (quella dal 22 al 23 settembre 1912), sulle pagine dello stesso diario (cfr. KKAT, pp. 442-460). Come gli fosse scaturita di getto la scrittura in questo caso Kafka lo spiega, sempre nel diario, esordendo così: “Questo racconto, “La sentenza”, l’ho scritto nella notte fra il 22 e il 23, dalle dieci di sera alle sei del mattino, di getto. Non riuscivo quasi più a tirare fuori da sotto la scrivania le gambe, irrigidite dallo stare seduto. Sforzo terribile e gioia di vedere svolgersi la storia davanti a miei occhi e di vedere come io procedessi come navigando nell’acqua. Più volte durante quella notte portai il mio peso sulle spalle” (KKAT, p. 460). Per una complessiva valutazione si rimanda alla sensibilissima ricostruzione fornita da Reiner Stach nel secondo volume della sua biografia di Kafka. Cfr. Stach, 2015, pp. 108-117. 11 Va aggiunto che l’abitudine di Kafka di pescare così volentieri, per il proprio immaginario, nel repertorio dell’universo animale, ebbe un ulteriore vigoroso impulso dal suo soggiorno, durato più di sei mesi dopo l’inizio della sua tubercolosi nell’agosto del 1917, nel villaggio di Zürau, presso la sorella Ottla, che lì gestiva la fattoria del cognato. Così scrive all’inizio dell’ottobre 1917 in una lettera a Weltsch: “Dal momento che uno ha superato la sensazione, con tutte le sue scomodità, di vivere in un parco di animali allestito secondo i principi più moderni, in cui viene data piena libertà agli animali, allora non c’è vita più gradevole, e soprattutto più libera, di quella del villaggio, libera in senso spirituale, non condizionata, nella misura del possibile, dal mondo che ti circonda e da quello che hai lasciato. Non si deve però scambiare questa vita con quella che si fa in una cittadina, che probabilmente è terribile. Vorrei vivere qui per sempre […]” (KKAB 1914-1917, p. 345). Vedi anche le lettere, scritte sempre da Zürau, a Elsa e Max Brod del 2 o 3 ottobre 1917 (KKAB 1914-1917, p. 340); e, ancora, a Max Brod del 23/24 novembre 1917 (KKAB 1914-1917, p. 368).

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letteratura” (KKAT, p. 579)12. Cosa da lui perfino reclamata, e significativamente nel nostro contesto, per

i momenti della sua vita in cui non scriveva13.

Se l’acribia nel cogliere il dettaglio risulta tanto caratterizzante per Kafka da essere pure espressione

spontanea nei suoi approcci al reale, allora anche quel tendere verso il comico, che egli riesce a produrre

attraverso il disegno delle osservazioni microscopiche, è a rigor di logica sempre movimento attivo. In

altri termini, quando pronuncia quella frase con cui si riferisce all’episodio già citato dello Schloß, “Ma la

vera comicità sta nel minuzioso”, Kafka ci parla di una costante della sua scrittura.

Non solo dunque a esaltare, come visto, quel che di comico già c’è nelle varie costellazioni descritte

all’inizio del presente contributo vengono ad agire, riprendendo le parole di Mann, la “scrupolosità”,

l’“amore” e la “cura” nel disegno del dettaglio. Esse agiscono in tale direzione – e questo è il punto, direi,

fondamentale – anche là dove le circostanze nel testo scritto sembrano essere opposte, a far da

contrappunto cioè a quella dimensione del perturbante che, sotto il segno di “kafkiano”14, è entrata come

peculiarità nella storia letteraria nonché, a mo’ di prova dell’imponente fortuna dell’autore, nel linguaggio

comune.

Certamente, per l’esito felice della dinamica in questione, ci vuole pure la giusta disposizione da parte del

lettore, un senso, diciamo, per un determinato tipo di umorismo nero, come, in una pertinente

pubblicazione in materia dal titolo Was ist komisch?, sostiene Ágnes Heller tirando in campo proprio

Kafka15. È così che la filosofa, citando dal racconto Die Verwandlung, arriva a definire, dal suo punto di

vista, “estremamente comico” (Heller, 2018, p. 138)16 un passo come il seguente:

12 Così nell’abbozzo della lettera indirizzata a Carl Bauer, padre della fidanzata Felice, contenuto nel diario sotto la data del 21 agosto 1913. Per la lettera stessa, datata 28 agosto 1913, cfr. KKAB 1913-1914, p. 271. Vedi anche la lettera a Felice del 24 agosto 1913, nella quale, alla stessa maniera, Kafka precisa senza mezzi termini: “Non ho nessun interesse letterario, ma io son fatto di letteratura, non sono nient’altro e non posso essere nient’altro” (KKAB 1913-1914, p. 269). 13 Si rinvia alla lettera all’amico Brod, datata 5 luglio 1922, in cui Kafka si esprime, a tal proposito, in questa maniera: “Lo scrivere mi mantiene, ma forse è più corretto dire che mantiene questo tipo di vita. Con questo non dico naturalmente che la mia vita sarebbe migliore se io non scrivessi. Sarebbe piuttosto molto più pesante e del tutto insopportabile, e dovrebbe finire in follia. Ma questo solo nella condizione che io, come davvero è il caso, sono scrittore anche quando non scrivo […]”. Cit. da Kafka, 1958, p. 384 (trad. mia). 14 Già Max Brod si era polemicamente espresso, a suo tempo, contro i giudizi troppo riduttivi sull’essenza dell’opera di Kafka a partire dall’uso del termine “kafkiano”, facendo presente nella sua biografia dell’amico: “Già si sta formando una leggenda che cancella i veri tratti della sua personalità. Recentemente, per esempio, un periodico svizzero pubblicava un articolo che nell’intenzione di rendere Kafka “interessante per il lettore comune narrava le cose più straordinarie sul suo conto: che durante una sua lettura a Monaco tre signore svennero e dovettero essere portate fuori dalla sala, tanto sarebbe stata impressionante la descrizione delle scene di orrore lette da Kafka” (Brod, 1956, pp. 273-274). 15 Già nelle pagine introduttive al suo volume sul comico, uscito per la prima volta in lingua inglese nel 2005, la Heller adduce il caso di Kafka come esempio lampante del suo ragionamento sulla soggettività della valutazione del fenomeno in questione. Come idea di principio, sostiene fra l’altro: “‘Essere’ comico non è quindi come essere zucchero o sale, come essere una sostanza chimica, perché bisogna avere un senso per il comico, sia un senso personale che uno impersonale, per poter assaporare, sentire e apprezzare ciò che è comico” (Heller, 2018, pp. 11-12; trad. mia). 16 Si veda l’intero passo: “La descrizione dei cambiamenti dell’appetito e del cibo di Gregor, della maniera in cui egli impara a strisciare nel modo giusto e a perfezionare la tecnica per sistemarsi nella sua nuova vita, tutto ciò è estremamente comico” (trad. mia).

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Nessuno, dunque, sarebbe più entrato da Gregor fino al mattino; aveva quindi tutto il tempo di riflettere

indisturbato su come dovrebbe risistemare ora la sua vita. […] Non senza provare una certa vergogna si rifugiò

sotto il divano, dove, anche se il suo dorso veniva un po’ schiacciato e anche se non poteva più alzare il capo, si

sentiva subito a suo agio rimpiangendo solo che il suo corpo fosse troppo largo per stare tutto sotto il divano

(Heller, 2018, pp. 138-139).

Nel passo citato, come si vede, non manca infatti quella insistente impronta del minuzioso di cui stiamo

parlando.

Si capisce poi meglio, sullo sfondo di questo ragionamento, come si sia potuto avverare ciò che riferisce

Max Brod, ricordando la lettura ad alta voce che Kafka aveva fatto, nella cerchia dei suoi amici praghesi,

del suo secondo romanzo, Der Prozeß, allorché precisa a proposito dell’umorismo dell’autore:

Quando Kafka leggeva i suoi scritti agli amici, quell’umorismo diventava particolarmente manifesto. Ridemmo, per

esempio, senza freno quando ci fece sentire il primo capitolo del “Processo”. Egli stesso rideva talmente che per

qualche momento non era capace di continuare la lettura. Fatto abbastanza strano quando si pensi alla tremenda

serietà di questo capitolo. Ma era proprio così (Brod, 1956, p. 200)17.

Soprattutto dalla frase che Brod aggiunge, quando mette a confronto la risata prodotta dalla lettura del

testo con il suo carattere di “terribile serietà”, si evince poi la dinamica che vi regna, ovvero il già enunciato

contrappunto tra comicità nel dettaglio e messaggio perturbante dell’insieme. A confermarlo, del resto,

ci viene di nuovo in soccorso la diagnosi di Mann, là dove questi parla, mettendo in conto la reazione del

lettore, di “risate” da un lato e di “sgomento onirico” dall’altro.

Stiamo ancora per un momento sull’argomento del Prozeß per vedere un po’ più da vicino come la

possibilità di produrre, con la cura del dettaglio narrativo, l’effetto del comico in mezzo al contenuto

angosciante sia di costante presenza. Vediamo intanto, come esempio preso a caso dal capitolo che

17 Sia Max Brod che Felix Weltsch, ambedue amici intimi dell’autore, non si stancarono mai di mettere in rilievo, nelle più varie occasioni, l’elemento di comicità nella persona come nella scrittura di Kafka. Si leggano, per esempio, sotto questo profilo, i loro saggi contenuti in Brod, 1948. Weltsch, per citare solo un esempio, sostiene in maniera decisa: “Che l’opera di Kafka sia piena di umorismo, che ogni pensiero sia pervaso di umorismo, questo fatto nessuno – nonostante l’atmosfera cupa – potrà fare a meno fare a meno di riconoscerlo” (Brod, 1948, p. 180; trad. mia). Che la ricerca germanistica su Kafka – quando, come già detto, inizia in maniera sistematica a svilupparsi nel secondo dopoguerra – non abbia voluto tener conto di queste testimonianze dirette, rappresenta naturalmente un discorso a parte.

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riguarda la sede del tribunale dove il protagonista Josef K. stenta ad orientarsi, l’episodio in cui viene

introdotta la figura dell’usciere:

“Ma oggi non c’è udienza”, obiettò poi l’usciere del tribunale, poiché K. taceva. “Lo so”, disse K. guardando la

giacca borghese dell’usciere, la quale, come unico contrassegno ufficiale, aveva, accanto ad alcuni bottoni comuni,

anche due bottoni dorati che sembravano staccati da un vecchio mantello da ufficiale (KKAP, p. 89).

Traiamo poi dalla leggenda Davanti alla legge – inserita, come si sa, nel capitolo del duomo – quel passo

dove dell’uomo di campagna, fermo davanti alla porta custodita, si dice: “Rimbambisce, e siccome,

studiando per anni il guardiano, ha riconosciuto anche le pulci nel suo bavero di pelliccia, supplica pure

queste pulci di aiutarlo e di far cambiar idea al guardiano” (KKAP, p. 294). E, infine, prendiamo in

considerazione quell’esito terribile del romanzo con cui la figura di K. viene liquidata, letteralmente, come

si dice nel testo, “come un cane!” (KKAP, p. 312). Ma, come a tener a bada l’atrocità ivi descritta in modo

nudo e crudo, fa da contrappeso, per un momento, la curiosissima impressione che l’aspetto fisico dei

suoi due sicari produce sullo stesso K., e che viene così riportata:

Forse sono tenori, pensò vedendo il loro pesante doppio mento. Provava ribrezzo per la pulizia dei loro volti. Si

vedeva addirittura ancora la mano ripulitrice che era entrata negli angoli dei loro occhi, che aveva fregato il loro

labbro superiore e raschiato le rughe sul mento (KKAP, p. 307).

Impressione, questa, che, poco prima di essere da lui formulata, K. ha già sintetizzato nella domanda

rivolta ai due: “In quale teatro lavorate?” (KKAP, p. 306).

Facendo, come si è già detto sopra, da contrappunto al fenomeno del perturbante, quel momento di

comicità, basato sulla cura del minuzioso, si adatta certamente benissimo a proteggere la stessa

argomentazione poetica da ogni caduta nel patetico. E non solo. Si aggiunge pure, da specifica peculiarità

in Kafka, un che – per dirla con Freud18 – di inviolabilità dell’io, senza il quale osservazioni come quelle

fatte dal protagonista del Processo a proposito dei suoi sicari non sarebbero state mai possibili. In altre

18 Rinvio in particolare al saggio Der Humor, scritto successivamente al trattato Der Witz und seine Beziehung zum Unbewußten, in cui Freud scorge nella capacità dell’individuo di mettersi moralmente, grazie alla propria forza umoristica, al di sopra delle aggressioni provenienti dal mondo circostante un trionfo del narcisismo ovvero l’affermazione vittoriosa di una inviolabilità dell’io (cfr. Freud, 1991, p. 385). Fu ulteriormente elaborata, quest’idea dell’umorismo quale mezzo, nel migliore dei casi, di superamento dell’angoscioso, dall’allievo di Freud, il viennese Ernst Kris (cfr. Kris, 1977, pp. 145-161). Per un primo orientamento teorico riguardante il fenomeno del comico, risulta utilissimo il manuale interdisciplinare a cura di Wirth (Wirth, 2017).

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parole, oltre ad essere ingrediente fondamentale dell’ironia che fa parte, bisogna dire, del vero “kafkiano”,

il comico prodotto dall’arte del minuzioso riesce a comunicare al lettore, nonostante tutta l’aggressività

del mondo circostante, anche un residuo irriducibile di dignità umana.

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A. Brossat, « Mourir comme un chien » K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, 1, 2/2018, pp.51-63

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Alain Brossat

Mourir comme un chien

ABSTRACT

This article deals with guilt and shame as the unifying threads of Kafka's novel The Trial. What is the object or the ground of guilt - what makes it arise? Or

it is maybe rather some sort of a mood, an inclination - unrelated to any distinct object? How does shame as a "pure affect" appear as the Doppelgänger of guilt

and projects it into the ontological dimension? Shame is a breach that opens up in the fortress of the human subject and this is why guilt appears to be, at

the end, unescapable.

Keywords : shame, fault, guilt, desubjectification

Dans La Métamorphose, le devenir-cloporte de Grégoire peut être vu comme une objectivation grotesque

de la honte d’être soi. Devenir, non pas « un beau jour », mais une horrible nuit, un bousier alors qu’on

était un employé de bureau modèle, c’est évidemment une chute, dans tous les sens du terme, une

dégringolade vers l’abject, le tout-en-bas. D’une façon générale, pour un humain, le devenir animal,

quelles qu’en soient les circonstances, être traité comme un animal, être traité d’animal, travailler, vivre,

manger comme un animal – c’est une figure massive et constante de la honte. Et, devenir vermine, cafard,

c’est, dans cette figure même, quelque chose comme une décadence superlative : Grégoire rampe, il lui

coule un liquide brunâtre des lèvres, etc.

Mais cette honte n’est pas tout à fait distincte ou déliée du sentiment de culpabilité, ou du moins, elle va

prospérer, d’emblée, sur un arrière-plan de faute1. Comme il s’est réveillé cloporte, Grégoire n’a pas pu

se lever pour se rende au bureau ; du coup, le gérant, qui a besoin de lui, ne tarde pas à faire irruption

chez ses parents, furieux, pour le réclamer ; et devant les explications embarrassées de ses parents, il

invoque une faute récurrente : « Sachez que votre travail de ces derniers temps ne nous a pas donné

satisfaction », lance-t-il à Grégoire à travers la porte fermée de sa chambre (Kafka, 1991). Grégoire est

offusqué, car il a, lui, la certitude qu’il fait son travail avec ponctualité et conscience professionnelle. Mais

il n’est pas en position de se justifier : sa voix est devenue un couinement grotesque, et, de toute façon, il

a beau se récrier « Les reproches que vous m’avez faits tout à l’heure sont vraiment dépourvus de

fondement », il ne saurait rejeter le poids de l’incrimination, ni prouver son innocence ou sa bonne foi. Il

se trouve exactement alors dans la position d’un plaignant, d’une victime (il vient quand même de lui

arriver un gros pépin…) qui se trouve dans l’incapacité de faire entendre sa plainte mais, de surcroît, va

se trouver dans la position de devenir l’accusé, le suspect. Le cinéma a souvent tiré parti de ce genre de

situation et de ses puissances dramatiques : là où l'on voit une vieille juive rescapée des camps

1 Toute l'œuvre de Kafka s'oppose ici à la thèse culturaliste de Ruth Benedict qui, dans Le chrysanthème et le sabre, fait de la honte (shame) vue comme conséquence d'une extrême sensibilité à l'opinion des autres un trait essentiel de la culture japonaise et des cultures de l'Asie de l'Est, par opposition à la culpabilité (guilt) qui, pour elle, constitue un trait spécifique de l'intériorité occidentale, dans ses fondements judéo-chrétiens (Ruth, 1946). Chez Kafka, tout au contraire, honte et culpabilité sont indissociables et s'enchaînent en boucles.

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d'extermination nazis se faire traiter de folle lorsqu'elle hurle en pleine rue et se heurte à l'indifférence des

passants, ayant reconnu l'un de ses bourreaux – par exemple (Schlesinger, 1976).

L’hypothèse serait qu’il y a, d’une manière très paradoxale, honte à se trouver dans cette situation du

plaignant qui ne peut faire entendre sa réclamation et se fait, au contraire, accuser de folie ou de fraude.

Je veux dire honte intensément éprouvée par le sujet, et là il s’agit bien d’un affect non moins que d'une

pensée, il est envahi par un sentiment de honte qui le paralyse et le suffoque, à cause de la violente

injustice qu’il éprouve et du sentiment d’impuissance qui l’accompagne. Littéralement, Grégoire n’est pas

entendu par le gérant : « Avez-vous compris un seul mot de son histoire ? », demande celui-ci aux parents

de Grégoire.

Toutes sortes d'interactions s’établissent donc d’emblée entre honte et culpabilité : il se pourrait bien que

la métamorphose de Grégoire, objet de honte, ne soit pas étrangère à une « faute » contestée, mais

néanmoins évoquée par le supérieur de Grégoire, qu’il aurait commise. Qu’elle en serait donc, à quelque

titre, le prix ou la punition… Et par la suite, lorsque Grégoire doit s’installer, de force plus que de gré,

dans son « devenu-animal », sa chambre se transformant en grotte plus ou moins pestilentielle, il va

naturellement se sentir fort coupable d’imposer tout ce tracas à ses parents, de ne plus pouvoir être

soutien de famille, bref d’être devenu la honte de sa famille…Ces « circulations » perpétuelles entre honte

et culpabilité, entre différentes figures de la honte éprouvée et de la honte sociale (Scham, Schmach,

Schande...) vont s'identifier, tout aussi bien, dans Le Procès.

Dans le cas de Grégoire comme dans celui du déporté des camps ou de quiconque subit l’épreuve d’une

brutale et radicale déperdition de sa condition sociale, voire de sa condition humaine tout court, la honte

est l’affect qui fait corps avec cette violente et soudaine extraction hors des circuits de la reconnaissance

et de l’appartenance constitutifs de la conscience de soi et de la certitude d’être « quelqu’un », une

personne humaine dans laquelle est établi le sujet. La honte est liée à l’épreuve (plus que l’expérience) de

la déperdition radicale de ce qui faisait de moi un être humain et pas un simple « vivant », un segment de

vie simple, sans qualification. La honte est l’affect qui accompagne la découverte du fait que,

contrairement à ce que nous imaginions, nous n’existons pas « par nous-mêmes », mais par la place qui

nous est donnée dans un réseau dense d’interdépendance et de réciprocités2. C’est très exactement

l’épreuve que connaît Grégoire : en dépit de sa terrible métamorphose, il est encore, pour lui-même, « le

même », il n’a pas perdu son nom, il est chez lui, il est encore et toujours le même voyageur de commerce,

même si provisoirement empêché, etc. Mais aux yeux de ses proches, il a perdu sa place et sa valeur, la

mère s’enfuit en poussant des cris perçants lorsqu’elle le voit, son père ne le touche, avec dégoût, que

2 Sur ce point cf. : Elias, 1969 ; Honneth, 1992.

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« du bout de sa canne », sa sœur qui, compatissante au début, lui apporte des épluchures moisies dont il

se délecte, donne, au bout de quelques jours, le signal de la curée :

« Mes chers parents, déclara la sœur en frappant de la main sur la table par manière d’introduction, cette situation

ne peut pas durer. Si vous ne vous en rendez pas compte, moi je le sens. Je ne veux pas prononcer le nom de mon

frère en parlant du monstre qu’il y a ici, je vous dirai donc simplement : il faut chercher à nous débarrasser de ça ».

Lui-même, Grégoire, a bien sûr connu l’épreuve d’un devenir-autre, tout autre, particulièrement

éprouvante. Cependant, certaines continuités subjectives persistent : il s’identifie à lui-même en dépit de

tout, en rapport à un passé, un présent, un avenir éventuel. Il n’a pas perdu à ses propres yeux son nom

propre. Il pourrait même, sous certaines conditions, s’accommoder de sa nouvelle situation, restant bien

au chaud dans la moiteur de sa tanière… Mais il en va autrement aux yeux des autres : il est devenu « le

vieux mangebouse » (dixit la bonne), « cette bête » et puis, pour finir ce « ça » qui scelle son sort. Le neutre

du « ça » signale ce dont on peut se débarrasser, le jetable, l'abject. Or, Grégoire perçoit la transformation

du regard que les autres jettent sur lui, la disparition de la reconnaissance, de l'appartenance, et c’est de

cela que naît la honte. Honte pour soi, honte pour les autres, indissociablement. La pomme pourrie qu’on

lui balance dessus et qui vient s’incruster dans son dos est le signe pur de cette proscription qui s’égale,

pourrait-on dire, à l’expulsion d’Adam et Eve hors du jardin d’Eden. Le geste qui prononce son exclusion

de la communauté humaine – ici, le cercle familial. Elle devient, en s’incrustant dans la peau, en infectant

la plaie, le stigmate, la souillure (the stain) qui le rappelle sans répit à cet ostracisme. Logiquement, on ne

fait plus le ménage dans sa chambre, elle devient un débarras, car il est lui-même un détritus, un déchet,

un « encombrant » (mort, la bonne le ramasse et l’évacue d’un coup de balai…).

La honte est liée à cette progressive dégradation, mais elle entretient des rapports indistincts mais

persistants avec la Schuld – tout ce qu’il « doit » à ses parents et ne pourra jamais leur rendre… Mais il

s’aperçoit aussi que sa métamorphose va permettre à l’ordre familial de se remettre en place : employé

modèle qui faisait vivre la famille toute entière, il avait usurpé le rôle du père. Sa dégradation va faire que

le père va reprendre sa place, que la mère, la fille et le père vont resserrer leurs liens et de commencer

une nouvelle vie… Sa dégradation puis sa disparition ne sont donc qu’une tragédie provisoire, la vie va

reprendre son cours sans lui qui se voyait au centre de la vie de la famille et en était si fier… Il y a honte,

intense, à découvrir ainsi son inutilité, sa condition superfétatoire… À découvrir avec quelle facilité il

devient un déchet, dans l'espace même du plus proche, la société familiale.

Comme le remarque Giorgio Agamben, Kafka fait ici distinctement signe en direction de Primo Levi en

associant le motif de la honte à la condition de celui qui se trouve ainsi retranché de la condition humaine

et réduit à la forme la plus basse et humiliante de la mort « biologique », « organique », par contraste avec

la mort héroïque, dramatique ou tragique. Mais ce rapprochement a une limite : là où, à propos de Levi

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et Antelme, Agamben parle d'une « honte sans culpabilité », chez Kafka, Scham et Schuld ne sauraient

jamais être complètement démêlées3.

Ce que dévoile Le Procès, c’est qu’être, c’est être en faute. Mais, cela, qui le dit ? Une instance extérieure à

l’individu, un juge, un tribunal, une autorité ou bien une instance interne, conscience, surmoi, œil

intérieur, qu’importe ? La chose n’est pas claire : bien sûr, il y a bien cette objectivation de l’accusation

qui est manifeste dès la première phrase, célèbre, du roman, et qui dit : « On avait sûrement calomnié

Joseph K., car, sans avoir rien fait de mal, il fut arrêté un matin » (Kafka, 1963). Donc, toutes les

apparences semblent bien indiquer que c’est l’autorité, une sorte de pouvoir en place qui en a après Joseph

K. Mais un rapide examen des conditions de cette arrestation et de la suite des événements nous

porteraient aisément à soupçonner que tout ceci n’est qu’une fantasmagorie qui se produit dans la tête de

K. D’abord, son « arrestation » est une arrestation de papier – il peut continuer à vaquer à ses

occupations ; ceux qui l’« arrêtent » sont incapables de lui signifier de quoi il est accusé ni qui l’accuse et

encore moins à quel type de procédure il est appelé à faire face ; par ailleurs, il va bientôt s’avérer que ces

prétendus agents de la force publique sont eux-mêmes des pantins terrorisés qui vont bientôt se faire

fouetter comme des garnements dans un placard à balais, etc. Donc, tout ceci n’est pas très sérieux et est

présenté avec insistance au début du roman comme une mise en scène tant soit peu grotesque - même si

cela semble appelé à finir très mal.

On va être désormais conduit à osciller entre deux nouvelles hypothèses : soit tout ceci est le produit

déraisonnable d’une sorte de délire de culpabilité (mais alors, d’où vient ce délire, quel en est le fond ? –

l’hypothèse freudienne trouve ici son fondement – « L’homme a inventé ses péchés pour se délivrer de

ses angoisses » écrit Bernard Groethuysen (Kafka, 1963, Préface) ; soit, il s’agit de tout autre chose : une

forme de pouvoir innommable, insaisissable mais omniprésent et redoutable par les prises qu’il parvient

à s’assurer sur la subjectivité des individus, et dont le propre serait de les transformer tous en coupables

objectifs. En d’autre termes, comme le dit encore Groethuysen, « c’est l’accusateur qui rend coupable.

Personne ne saurait choisir ses propres crimes », et alors en effet, il n’est vraiment pas besoin d’avoir fait

quoi que ce soit de « mal » pou être non seulement accusé, mais condamné, condamné d’avance par le

simple décret de l’autorité qui vous accuse. Cette seconde hypothèse, cela a été abondamment souligné,

installe le roman de Kafka tout entier dans ce que l’on pourrait appeler le pressentiment du totalitaire4.

3 Agamben, 1998. 4 Ce point mériterait d'être discuté : le pressentiment du totalitaire chez Kafka, c'est aussi un effet de lecture lié au contexte historique dans lequel s'est produite son universelle reconnaissance, après la Seconde guerre mondiale. Du coup, Kafka devient par anticipation un écrivain de l'autre côté du Rideau de fer, et l'on en vient à éluder d'autres rapprochements possibles – les deux bourreaux et les escadrons de la mort des régimes policiers et autres dictatures tropicales, par exemple. Ce n'est pas toujours pour de bonnes raisons que Kafka a été « embarqué » dans les croisades antitotalitaires.

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Impossible, naturellement, de trancher entre les deux lectures, cette indécision est le sceau du génie de

l’écrivain. Le roman, du coup, va être placé sous le signe de l’indétermination, comme y est placée la

question de la faute. Est-il une farce ou un drame, une tragédie ? Est-il quelque chose comme le journal

d’un fou halluciné, avec tout ce que ce genre de folie (délirante) peut avoir de bouffon, d’hilarant – tous

les psys vous le diront - , ou bien le récit funèbre d’une marche de mort, celle d’un malheureux innocent

broyé par les rouages d’une machine totalitaire ?5

Mais, pour ce qui nous concerne, faire le choix d’une de ces grilles de lecture n’est sans doute pas ce

qui importe le plus. Ce qui compte surtout, c’est d’examiner soigneusement le régime de la faute qui y est

présenté. Ce régime, c’est celui de l’indistinction ou de l’indétermination. Au début, K. ne prend pas cette

affaire trop à cœur, il va même se demander si ce ne sont pas des collègues de bureau qui lui font une

blague. Mais petit à petit, et sans qu’il ne se passe quoi que ce soit qui attente directement à sa liberté, son

« procès » dont les traces sont impalpables va en venir à accaparer toute son existence, le jetant dans une

anxiété croissante, au point qu’il ne parvient plus à travailler ni à conduire une existence normale, au fur

et à mesure où s’accumulent toute une série de signes indistincts mais suffisants pour enraciner en lui le

pressentiment du pire.

Peu à peu, le doute va s’insinuer dans l’esprit de K. qui, au début, clamait son innocence avec la dernière

des vigueurs et une superbe arrogance – ne serait-il pas, néanmoins, par quelque biais coupable ? Mais de

quoi ? Il ne saurait le dire et tous ceux qu’il interroge à ce propos lui font des réponses alambiquées qui

renforcent cette impression de culpabilité diffuse. Du coup, K. entre dans la peau du coupable, devance le

désir de l’autorité en se rendant à une convocation qui ne lui a pas été adressée, bref se conduit d’une

manière qui, toujours plus, le désigne comme quelqu’un qui a quelque chose à se reprocher.

Mais il y a pire que cette dimension subjective – tout se passant comme si l’accusé se donnait à lui-même

un destin de coupable parce qu’il l’était bien, déjà, par quelque biais… ce destin de coupable qu’il s'inflige

progressivement est accompagné de la montée de la honte qui, peu à peu se substitue à l’indignation et

la colère suscitée par l’accusation, au début. La ligne de force du roman est ici tout à fait distincte : de la

honte circonstanciée, associée à des actions, des attitudes ou des conduites, des situations à la honte

« essentielle » d'être soi, d'être « un homme » (un être humain), d'être voué à mourir « comme un chien ».

Si l'on voulait s'en tenir à une lecture un peu prosaïque du roman, on pourrait s'attarder sur le fait qu'au

fond, K., comme personnage social, n'est pas un bonhomme très sympathique, qu'il est fortement

imprégné notamment d'un préjugé social, en sa qualité de membre des couches supérieures (cadre

5 La querelle des interprétations est particulièrement vive, sur ce point, parmi les traducteurs et commentateurs de Kafka – voir par exemple la présentation par Bernard Lortholary de sa traduction de Le Procès (Kafka, 1983a) : « la métaphysique des commentateurs (ainsi que la mollesse des traducteurs) a gommé le comique de Kafka ». Tandis que Lortholary insiste sur le rire que suscitait auprès des amis de Kafka la lecture à voix haute de son roman, Georges-Arthur Goldschmidt met en avant, dans la présentation de sa propre traduction (Kafka, 1983b), des motifs infiniment plus « lourds » : l'échec programmé, la culpabilité d'être soi, l'angoisse dans ses relations à la conscience morale, la faute comme accompagnement de la vie - « sa faute fait route avec lui, inséparable de lui, inavouable puisqu'elle est lui-même »...

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

supérieur dans une banque), au point que sa condescendance, parfois brutale, pour les inférieurs et les

subalternes ne se dissimule guère. On pourrait noter aussi que ses manières avec les femmes sont assez

régulièrement celles de ce que l'on appellerait aujourd'hui un harceleur – avec notamment cette Mlle

Bürstner dont on le voit, de bout en bout, si occupé. On pourrait relever également que, dans toute la

première partie du roman, son insouciance face à son « arrestation » et l'arrogance dont il fait preuve face

à ses accusateurs sont typiques du patricien qu'il est, solidement établi (pense-t-il) dans sa position sociale

et protégé par celle-ci....

Bref, ce ne seraient pas pour lui les raisons qui manqueraient, dès lors que s'effondrent peu à peu ses

assurances, de devenir sensible à la honte ou de sentir monter l'affect de la honte, en relation avec telle

ou telle circonstance particulière de son existence présente - sa brutalité à l'endroit du petit personnel de

la banque, sa dérobade face au bourreau lors de la bastonnade des deux petits flics, ses idées préconçues

sur les femmes, la désinvolture avec laquelle il traite son oncle venu lui prêter main forte, etc. - mais en

fin de compte, tous ces motifs de honte susceptible de devenir distincts au fil d'un examen de conscience

stimulé par l'accident de parcours survenu dans la carrière de cet homme de pouvoir (« fondé de

pouvoir ») aspirant à la réussite qu'est Joseph K., toute ces petites hontes vont se dissoudre au fil du

roman dans la grande honte océanique qui submerge le supplicié dans ses derniers instants. La honte est

la dernière sensation que K. éprouve avant de mourir ou, plutôt, elle est le dernier affect qui habite le

récit de sa mise à mort telle qu'il l'éprouve lui-même – et de la sorte, elle s'éternise. Il semble revoir tout

le cours de sa vie dans l'instant de sa mort, et il le revoit tout entier placé sous le signe de la honte (Scham).

C'est comme si toute sa vie n'avait été que honte, bref, ce qui se découvre à lui dans l'instant de sa mort,

c'est la honte d'être soi, la honte comme cette « espèce de sentiment ontologique » dont parle Agamben,

inspiré par Lévinas et Heidegger6. La honte comme affect pur qui submerge le sujet dans l'instant de la

désubjectivation et de sa destruction, c'est ce qui vient ici relayer et en quelque sorte pulvériser la

culpabilité entendue comme sentiment et toujours entendue, dans sa relation à la faute, comme

culpabilité pour quelque chose - relative à telle ou telle faute commise. Mais Joseph K., avec sa morgue de

patricien et ses vilaines petites manières avec les dames, n'est pas un coupable ordinaire. La honte qui le

submerge à l'instant de sa mort montre qu'il est infiniment plus (davantage) que la somme de ses fautes,

morales et autres7. Il n'est pas non plus, en tant qu'il est incapable de s'orienter dans le labyrinthe de la loi

ou plutôt d'une justice opaque, le coupable électif – il est celui qui, dans l'instant de la mort, comprend

que celle-ci, loin d'être une sensation passagère, est vouée à lui « survivre », car elle est le signe sous lequel

6 « Ce qui apparaît dans la honte c’est donc précisément le fait d'être rivé à soi-même, l'impossibilité radicale de se fuir pour se cacher à soi-même, la présence irrémissible du moi à moi-même » (Lévinas). « L'être lui-même porte avec soi la honte, la honte d'être » (Heidegger) – in Agamben, 1998. 7 Les choses seraient bien simples si, comme l'affirme le stoïcien romain Musoniius Rufus, « si on a honte d'une action, c'est qu'on a conscience qu'elle est une faute » (in Foucault, 2018). Ce que fait au contraire surgir Le Procès, dans le devenir de son personnage principal, c'est le motif d'une honte intransitive, « honte pour rien » en particulier et affect saturant à ce titre même, bien davantage que culpabilité pour quelque chose, pour ceci ou cela.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

se place, au plus intime de nous-même, notre « présence à nous-mêmes » - « Ce que la honte découvre,

c'est l'être qui se découvre » (Agamben).

En ce sens, la honte qui « survit » (« überlebt ») à Joseph K., c'est tout simplement le fait que chaque

humain, dans l'instant de sa mort, répète son expérience tout comme il a lui-même répété celle des

mourants et agonisants qui l'ont précédé8. C'est la découverte, dans le moment et l'épreuve limite de la

désubjectivation pure (la mort ou plutôt le mourir), du fait qu'aucune « totalisation » de la vie ne saurait

survivre à la débâcle de la mort. A l'instant où le sujet perd pied dans sa vie, dit Agamben il est « livré à

l'inassumable » et c'est cela même qui est indissociable de la honte.

De ce point de vue, le « Comme un chien ! » que K. prononce et ne se contente pas de penser (« Wie ein

Hund !, sagte er ») au moment même où il meurt ne devrait pas appeler un commentaire sentimental ou

apitoyé. Il n'y a aucun pathos dans cette scène finale, aussi glacée, sobre et objective (sachlich) que possible.

Il n'y a aucune dramatisation particulière dans ces dernières lignes, aucun crescendo émotionnel pour la

bonne raison que, d'une manière ou d'une autre, c'est la condition même de la mort humaine, de toute

mort humaine qui se dévoile dans cette scène – nous mourons tous, de toute éternité, « comme un chien »,

c'est-à-dire rigoureusement seul face à la mort, ce qui ne veut pas dire nécessairement abandonné. Même

Joseph K. dont les conditions de la mise à mort ne sont pas particulièrement riantes peut conserver

jusqu'au bout l'espoir qu'il n'est pas totalement abandonné : alors même que les bourreaux s'apprêtent à

exécuter leur funeste besogne, une fenêtre s'ouvre au « dernier étage d'un immeuble qui jouxtait la

carrière », un être humain « qui, à cette distance paraissait falot et fluet » apparut à la fenêtre, « se pencha

à l'extérieur d'un grand mouvement brusque , puis écarta encore les bras. Qui était-ce ? Un ami ? Un être

bon ? Quelqu'un qui prenait part ? Quelqu'un de secourable ? Était-ce un isolé ? Etait-ce tout le monde ?

Y avait-il encore un secours ? ... » (Kafka, 1983a).

C'est le basculement du sujet humain dans la désubjectivation ou la pure désolation arendtienne, à l'instant

de la mort, qui s'éprouve in extremis comme chute de l'être humain dans la condition animale, une chute

qui ne peut que s'associer à la honte pure. Toute mort humaine est en ce sens petite, abjecte, dissociante,

consternante (se peut-il que ce soit moi, ce déchet humain, cette loque, cette carcasse qui geint…?), la

belle mort antique, chrétienne, guerrière et sainte, c'est le mensonge de la civilisation par excellence. Reste

à savoir si c'est à bon escient que le narrateur de sa propre mort, truchement ici, peut-être, de l'auteur,

Kafka, associe cette honte qu'il y a à mourir, si près et si loin de soi tout ensemble, au nom de l'animal –

en quoi le chien meurt-il plus bassement qu'est censé mourir l'humain ? N'est-il pas au contraire, lui qui

meurt « biologiquement », « organiquement », prémuni contre la honte (le désespoir et l'accablement) qui

s'associent in fine pour l'humain à la découverte en lui de cette altérité inassumable du moribond, du

condamné, de celui dont la mort ne sauvera ni ne transfigurera rien ?

8 Sur cette figure de l'éternelle reprise (d'une même image, d'un même geste), voir Blanqui, 1872. Sur l'association de la honte à la désolation de la condition de mourant, voir, dans une perspective sociologique, Elias, 1982.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

Mais ce n'est là qu'une ligne de force du texte : si l'on veut aller vers une lecture politique de l'oeuvre, on

entre dans une tout autre dimension : ce qui se dévoile peu à peu de la physionomie ou la topographie,

comme on veut, de l’appareil de justice (supposé) qui étend son filet sur lui ; celui-ci fonctionne sans

règles connues, ses représentants sont insaisissables, la procédure est à ce point opaque qu’on a

l’impression que ce qui compte, ce qui tranche, en définitive, c’est le simple fait d'être épinglé par elle.

Quand on entre un peu plus dans les détails, on voit se dessiner un tableau terrifiant : la défense n’est pas

« expressément permise par la loi », ce qui fait que les avocats, ceux qui sont désignés comme « marrons »

comme les autres jouent un rôle assez opaque de « conseillers » destinés à réconforter les inculpés

désemparés par le flou des incriminations et de la procédure, mais sans qu’ils aient, à l’évidence, la

moindre prise sur le cours de l’instruction. D’autre part, l’accusé n’a aucun droit de regard sur les dossiers

de celle-ci, en d’autres termes, il ne peut savoir ni sur quoi porte l'incrimination, ni ce qui figure à charge

ou décharge dans le dossier ; les avocats n’ont pas le droit de l’assister lors des interrogatoires par le juge

d’instruction. Les requêtes qu’il adresse au juge (qu’il ne connaît pas) lui sont renvoyés sans avoir été lus,

etc.

En bref, ce qui caractérise cette « justice », c’est qu’elle n’est au fond qu’une machinerie anonyme destinée

à faire entrer qui elle a pris pour cible dans la peau du coupable. Les inculpés ne savent même pas quelle

est l’échelle des condamnations, comment l’on est condamné ou innocenté, et en général, même ceux qui

sont acquittés le sont dans une forme telle (« acquittement apparent » ou « atermoiement illimité ») que

les poursuites peuvent reprendre contre eux à chaque instant et ceci indéfiniment. Ainsi, cette machinerie

est une fabrique de coupables objectifs. Pas étonnant que ceux qu’elle prend dans ses rouages se trouvent

rapidement réduits à l’état de loques hébétées, comme ce pauvre négociant Block qui est littéralement

devenu l’« esclave » de son avocat dont il attend, bien en vain, qu’il l’éclaire sur l’état de son procès. C’est

K. qui, bien avant que les choses aient pris tout à fait mauvaise tournure pour lui, est bien obligé de le

constater : « J’ai trouvé tout le monde d’accord pour affirmer qu’aucune accusation n’était lancée à la

légère et qu’une fois l’accusation portée le tribunal est fermement convaincu de la culpabilité de l’accusé »

(Kafka, 1963).

Le Procès décrit donc un monde où l’innocence n’existe plus. La parenté sur ce plan de Joseph K. avec

Œdipe est évidente : de plus en plus convaincu d’avoir commis un crime ou du moins de devoir porter

le fardeau d’une faute qu’il ne peut identifier précisément.

K. a beau se dire, dans un dernier sursaut d’énergie et d'optimisme qu’il était « surtout nécessaire, s’il

voulait parvenir au but, d’éliminer a priori toute idée de culpabilité. Il n’y avait pas de délit, le procès

n’était pas autre chose qu’une grande affaire comme il en avait souvent traité avantageusement pour la

banque » (Kafka, 1963), etc., il n’en sent pas moins monter en lui un flux de honte insidieuse, liée à toutes

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

les humiliations, frustrations, perturbations que lui inflige cette « justice » insidieuse qui « n’admet pas de

preuve ». Le propre de la procédure opaque à laquelle ils doivent se soumettre est de faire perdre aux

accusés toute dignité, toute vergogne, de les transformer en pantins désemparés, désorientés, suppliants,

moralement brisés, attendant la sentence passivement…9

Plus les accusations sont vagues, plus l’autorité qui les porte est insaisissable et indéterminée, et plus

l’accusé est enfermé dans une culpabilité tenace, poisseuse, tendant à s’installer comme une condition.

Joseph K. a beau avoir des sursauts d’indignation, il entre inexorablement dans la peau du coupable. Il

proteste : « Je suis accusé sans pouvoir arriver à trouver la moindre faute qu’on puisse me reprocher.

Mais, ce n’est encore que secondaire. La question essentielle est de savoir par qui je suis accusé ? Quelle

est l’autorité qui dirige le procès ? Etes-vous fonctionnaires ? Nul de vous ne porte l’uniforme… » (Kafka,

1983a) - bref, il y a bien toute une question de l’état de droit et de ses conditions qui traverse le roman -,

mais il n’empêche : à la fin, K. ira vers son exécution abjecte, non pas seulement résigné, « abandonné »,

mais peut-être au fond comme si cette fin n’était que l’épilogue naturel de tout ce qui précède – il y a

longtemps qu’il ne croit plus lui-même à son innocence.

C’est donc bien qu’il y a « quelque chose », en dessous, en dépit du vide apparent du « dossier K. ».

Quelque chose d’aussi indistinct que les accusations, mais de tout aussi insistant, du début à la fin du

roman. Quelque chose qui s’associe constamment, étroitement à la faute et à la culpabilité, mais sur un

mode subreptice, constamment implicite. Et ce quelque chose, c’est, en particulier, le désir, dans ses liens

indissolubles à la sexualité (Kafka, 1983b).

Car c’est un fait : plus K. est perdu dans le labyrinthe de son procès, plus il est amené à engager des

démarches destinées à en démêler l’écheveau, et plus il trouve toutes sortes de satisfactions sexuelles

marquées du sceau de l’irréel ou du surréel, c’est-à-dire qui lui sont accordées « comme dans un rêve »,

comme si tout ceci se passait en rêve10. Il embrasse sur la bouche Mlle Bürstner, sa voisine la

9 Quelques lignes d'un passage supprimé par Kafka semblent indiquer que l'appareil de Justice avec lequel K. a maille à partir est en vérité un appareil parallèle dont l'action, tout en étant couverte par l'autorité, se situe en dehors de la légalité étatique : conduit par les deux bourreaux sur le lieu du supplice, K. croise un policier en uniforme et armé d'un sabre (incarnation, à ce titre, de la légalité). Celui-ci s'approche du groupe qui « pouvait paraître un peu suspect » : « L'Etat m'offre son aide, chuchota K. à l'oreille d'un de ces messieurs. Que diriez-vous si je transférais le procès sur le terrain des lois de l'Etat ? Il pourrait alors se faire, messieurs, que ce soit moi qui doive alors vous défendre contre l'Etat » (Kafka, 1983a). La situation ici évoquée s'apparente beaucoup moins à celle d'un Etat totalitaire où la police politique et les organes de sécurité sont tout puissants qu'à un régime policier où coexistent avec les appareils légaux toutes sortes de dispositifs de répression et de terreur dépourvus de statut mais constamment actifs (milices, escadrons de la mort, paramilitaires, etc.). 10 L'impression de perpétuel « décalage » que suscite auprès du lecteur l'écriture de Le Procès comme de tant d'autres récits de Kafka tient à ce que celle-ci s'associe aussi étroitement que possible à la « syntaxe » du rêve, tout comme l'écriture de Sade ou de certains textes de Nabokov (L'enchanteur...) se tient aussi près que possible des « logiques » du fantasme. Cette emprise du rêve sur l'écriture du roman est particulièrement sensible dès lors que sont en question les rapports entre les sexes, le désir sexuel – tout s'y passe comme « dans un rêve », comme si la censure diurne avait été abolie. Mais ce décalage s'identifie dans toutes sortes d'autres domaines : Le Procès est un roman qui célèbre la modernité technique, notamment communicationnelle, Joseph K. fait couramment usage du téléphone, du télégraphe, il se déplace en taxi automobile et son oncle prend le train de nuit – mais bizarrement, son avocat, Huld, s'éclaire à la bougie dans son appartement-cabinet... En bref, c'est de l'accumulation

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

dactylographe légère et habile de ses doigts dont le nom même a quelque chose de vaguement obscène,

flirte avec la femme de l’huissier qui officie dans l’étrange bâtiment où est censé se trouver le bureau du

juge d’instruction, il s’envoie en l’air avec Leni, la petite infirmière qui officie auprès de son avocat malade,

et il est le premier à s’émerveiller de ces succès faciles, comme si ces femmes rencontrées sur son chemin

d’épreuve et qui toutes disent vouloir l’aider étaient là pour compenser les peines qu’il doit endurer depuis

qu’il a été mis en accusation… Tout se passe comme si, tant qu’à être traité en coupable sans avoir

commis aucun crime, on se voyait accorder au moins quelques bénéfices secondaires de cette position.

Tant il est avéré que toutes ces rencontres heureuses que fait K. se produisent directement sur le parcours

de son procès.

Mais on pourrait dire inversement : qu’importe que ceux qui t’accusent ne sachent rien de la faute que tu

as commise – toi, tu le sais bien, car tu n’ignores rien de ton désir insatiable, de ta concupiscence, de ton

goût immodéré pour les jeunes femmes et les passades expéditives, etc. Donc, même si les accusations

sont nébuleuses, il y a bien un domaine de la faute, celui de ces amours « coupables ». Coupables en quel

sens ? On ne le sait trop, mais leur côté ouvertement et directement sexuel, charnel, les connote du côté

du péché, d’un certaine forme de bestialité. Serait-ce donc à cause de ce côté bestial (caché) de l’honorable

fondé de pouvoir dans une banque, tel qu’il se dévoile tout au long du roman que K. est voué à mourir,

à la fin « comme un chien » - entendu ici comme animal lubrique, prêt à s'accoupler impudiquement, en

public11. Mais peut-on être puni, se sentir en faute pour des fantasmes ? Est-ce la faute de l'honorable K.

si ses fantasmagories sont peuplées de jeunes femmes exerçant des fonctions suffisamment indéterminées

ou troubles pour laisser entendre (le mode du sous-entendu est ici déterminant) qu'elles ne sont pas

seulement faciles, mais même carrément un peu putes ? Cette Mlle Bürstner qui, tout en étant dactylo,

fréquente assidument un cabaret, Leni qui trouve beaux tous les clients de son patron l'avocat et leur

tombe dans les bras, la femme de l'huissier qui se laisse « emporter » par le tout venant, la logeuse

manifestement prête à s'offrir à K. à tout moment, et jusqu'à cette mystérieuse Mlle Elsa, serveuse dans

un café et habituée à recevoir ses visiteurs au lit... Le propre de chacune de ces créatures fantasmatiques,

Leni en tout premier lieu, est d'incarner dans leur physionomie, leurs gestes et leurs conduites, le désir

inconscient du narrateur. Elles en sont, à strictement parler, les truchements, les automates. Y a-t-il honte

à fantasmer ? La question est en principe sans objet, puisqu'il semblerait bien que le sujet humain ne

de petites étrangetés de cette espèce que naît le sentiment d'Unheimlichkeit que suscite constamment le roman. Or celle-ci est le terreau sur lequel peut prospérer le régime de la faute indéterminée et de la honte comme affect accompagnant la dissociation du sujet. 11 En même temps, l'impression prévaut qu'il s'agit d'une sexualité sans satisfaction génitale, inhibée quant au but, toute entière enfermée dans le fantasme. K. multiplie les gestes déplacés vis-à-vis de Mlle Bürstner, se targue d'en faire sa maîtresse quand bon lui semblera (« une petite dactylographe qui ne saurait lui résister longtemps »), son « image » et son nom accompagnent ses tribulations tout au long du livre – mais en fin de compte, il ne se passe rien avec elle jusqu'à ce furtif adieu avec ce qui pourrait bien n'être qu'un fantôme, une illusion, alors qu'il chemine vers le lieu de son exécution... Et pourtant, bien des allusions disposées dans les premiers chapitres du roman suggèrent que Mlle Bürstner n'est pas, en vérité, une créature bien farouche...

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

saurait s'empêcher de fantasmer... Mais le génie de Kafka est de compliquer la question, en faisant du

fantasme le matériau du roman et en statuant : ce n'est pas parce que l'on ne peut pas s'empêcher de

fantasmer que l'on peut pour autant se délier de la honte qu'il y a à vivre sous l'emprise de ses fantasmes...

Comme l'a montré Foucault, tout le régime d'écriture d'un Sade est guidé par le fantasme, il écrit ses

romans en quelque sorte sous la dictée du fantasme, sans se dissocier de cette coulée, sans se retourner

(Foucault, 1993). C'est la raison pour laquelle les pires des bourreaux et monstres sadiens ignorent la

honte. Kafka, c'est différent : sans relâche, son écriture introduit, entre le sujet en proie à ses

fantasmagories et le fantasme lui-même la dimension d'un mal-être, celle du sentiment de la faute, de

l'affect de la honte ou si l'on veut, de la souillure. En ce sens, le régime de la faute et de la honte qui

s'identifie dans Le Procès s'apparente à celui que Gilles Deleuze détecte dans les récits de T. E. Lawrence

(Deleuze, 1993) : la honte y est glorieuse, en ce sens qu'elle est productive et créatrice, indissociable de la

« fonction fabulatrice » (« Jamais la honte ne fut chantée à ce point, et d'une façon si fière et si hautaine »),

mais ceci à la condition de faire l'objet d'une élaboration dont le propre est de produire une dissociation

du sujet d'avec lui-même : il y a, chez Lawrence, honte à trahir les Arabes, honte à « prêcher la liberté

nationale aux hommes d'une autre nation », comme il y a honte chez Kafka à « trahir » ses fantasmes en

les faisant passer dans les créatures qui peuplent l'existence libidinales et les fantaisies libidineuses du

banquier K. (un métier où, en principe, le fétiche monétaire prend le pas sur le fétichisme sexuel).

Donc, pour faire simple, l’humain serait coupable, de naissance, pour autant qu’il serait un être de désir

et voué à éprouver la honte de se découvrir si proche de la bête, en dépit de toutes ses assurances sociales.

Mais ce n’est là qu’une piste, qui néglige complètement, par exemple, la fameuse parabole de la loi d’où

il ressort que ce qui fait la force de la loi, c’est qu’elle est inaccessible, indéchiffrable. Le sujet se trouve

donc condamné à tenter de détecter des signes de ce que la loi exige de lui, tentative désespérée qui ne

fait que l’enfoncer dans sa culpabilité native. Là, ce n’est pas le désir, la sexualité qui sont en cause, mais,

en général, la condition métaphysique de l’homme surplombé par le silence énigmatique de la loi, un

silence qui l’exténue. Cette piste, à être explorée trop exclusivement ou unilatéralement, présente un

inconvénient majeur : elle théologise à outrance le roman de Kafka, alors même qu'une lecture infiniment

plus badine ou taquine de cette supposée parabole demeure possible : une parodie burlesque des

discussions subtiles sur des thèmes religieux et de l'esprit de sérieux qui imprègne les querelles

d'interprétation à propos de textes sacrés que leur opacité même voue à se dérober à toute clarification.

Le contraste est en effet saisissant, dans le dernier chapitre (« Dans la cathédrale »), entre le caractère

impérieux de l'interpellation dont Joseph K. fait l'objet, et qui le rive littéralement sur place en lui

assignant, par lui-même, le rôle et la place du coupable (le « On te croit coupable ! » énoncé par le prêtre

y suffit) et les méandres dans lesquels s'enfonce la dite parabole et dont il ressort, pour peu qu'on veuille

bien renoncer au ton de solennité ou à la terreur sacrée avec lesquels on la commente habituellement,

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

que ce qui caractérise la loi, du point de vue de l'homme ordinaire, c'est qu'il n'y a pas de bon moment

pour y accéder, toujours trop tout ou bien alors trop tard... Une « leçon » dont un sujet moins enclin à la

soumission ou passif que le personnage de l'homme arrêté devant la porte pourrait être enclin à déduire

que le mieux est de passer son chemin et de vivre sa vie sans s'en trop soucier... Nous ne saurons jamais

si les amis de Kafka assistant à ses lectures de fragments du roman riaient aussi lorsqu'il en arrivait à ce

passage...

Ce qui caractérise en propre un « grand » roman, c'est la façon dont il adresse à chacun-e de ses lecteurs-

trices des « messages » et des « signes » dont l'effet est d'établir entre ce texte et ceux-ci un état de

connivence et des affinités d'une intensité telle que, tous et séparément, ils le percevront comme si

chacun-e d'entre eux en était le-la destinataire en particulier. Pour ce qui me concerne, j'ai toujours su

qu'entre l'auteur de Le Procès et moi, c'était comme une histoire de famille, tant sont évidents et nombreux

les clins d'oeil qu'il me destine : comme le relève l'auteur de la plus récente traduction en français du

roman, Stefan Kaempfer, le traducteur qui entreprendrait de rendre en français les noms propres figurant

dans Le Procès ne manquerait pas de traduire celui de Mlle Bürstner par Mlle Brossard ou, ajouterai-je sans

prendre grand risque, « Mlle Brossat » - une cousine par anticipation, donc, mon seul regret étant qu'en

français se perd la connotation sexuelle du terme allemand12. Premier signe d'intelligence en forme de

Witz donc, indubitablement adressé par l'auteur à moi en particulier, amicale petite fusée lancée par Kafka

dans le ciel de la postérité et destinée à retomber dans mon jardin. Mais ce n'est pas tout : le « menuisier »

à la recherche duquel K. prétend être lorsqu'il erre dans les « bureaux » de la chambre d'instruction est,

par lui, affublé du nom de Lanz, soit, à une lettre près, celui de mes deux professeurs révérés, Pierre et

Ariane Lantz, qui m'ont d'une main ferme orienté vers la philosophie – grâces leur soient rendues... Seuls

les sots verront dans ces rencontres onomastiques l'effet d'un pur hasard : Kafka savait parfaitement ce

qu'il faisait quand il adoptait ces noms, anticipant sur mes jubilatoires rencontres ultérieures avec son

texte13.

Lire Le Procès, cela peut arriver à tout le monde, même aux distraits, même aux gens pressés qui n'en

feront rien. Mais ce n'est pas à eux que ce texte est destiné : il l'est à ceux qui le relisent et le reliront

jusqu'à leur dernier souffle, comme on relit une vieille lettre d'amour ou la missive d'un ami très cher et

trop tôt disparu. Ce livre n'est pas une œuvre consacrée par la postérité, c'est un courrier qui nous est

adressé, avec son lot de bonnes et de moins bonnes nouvelles – toujours rafraîchies, en tout cas.

12 Kafka, 2017. 13 Je pourrais épiloguer aussi sur le nom de Wohlfahrt, qui survient dans un chapitre ébauché du roman, mais ce serait pour évoquer un faible d'esprit que je préfère oublier...

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

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E. de Conciliis, «Metamorfosi dello spazio e riduzione dell’umano: Kafka e l’animale» K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, 1, 2/2018, pp.64-77

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Eleonora de Conciliis

Metamorfosi dello spazio e riduzione dell’umano: Kafka e l’animale

ABSTRACT

The purpose of this paper is re-reading some Kafka’s tales concerning the (un)relationship between man and animal, their problematic separation or mismatch.

The object of the analysis is therefore the metamorphosis of animal into man and viceversa – and hence of their prospective exchange –, as well as the

peculiar way of experience and deformation of the space.

Keywords: Kafka’s animalistic tales, methamorphosis, space experience, perception, human being, monkey, burrow.

Il proprio osso frontale gli taglia la strada,

egli si batte la fronte contro la propria fronte fino a sanguinare.

Franz Kafka

1. Del buon uso di Kafka

Si può fare un uso filosofico, o filosofico-politico di Kafka? La risposta sembra scontata: da più di

settant’anni non si fa altro, e anche i germanisti mostrano ormai di ritenere tale esercizio parte integrante

dell’esegesi kafkiana. In quest’articolo faremo allora un uso più fedelmente letterario di Kafka, eppure

irrispettoso: un uso foucaultiano, in cui la scrittura del praghese funga da cassetta degli attrezzi per un

pensiero che gioca a spingersi al limite, o addirittura nell’assenza dell’umano (ed è quindi preso da

vertigine, nausea, vomito)1.

Allontanandoci solo apparentemente dal tema della “destituzione” (termine lacaniano) o anche della

“diminuzione” del soggetto nell’opera di Kafka, spesso interpretata come resistenza al potere e critica

della norma umana2, cercheremo di rileggere quello del (non-)rapporto tra uomo e animale, cioè della loro

problematica separazione o differenza3, attraverso l’analisi della metamorfosi dell’animale in uomo e

viceversa (per cui sarebbe più esatto parlare del loro scambio prospettico), nonché delle specifiche modalità

di esperienza (in senso benjaminiano: Erfahrung) e deformazione (in senso benjaminiano ma anche

freudiano: Entstellung) dello spazio, che caratterizzano alcuni racconti kafkiani.

In altre parole, se, come insegna Nietzsche, per vedere bisogna spostare le prospettive, non dobbiamo

guardare tanto alla trasformazione del corpo e della psiche umani in corpo e psiche animali (ciò che in

1 Sull’esperienza ludica della vertigine (ilinx) cfr. Caillois, 2000; cfr. inoltre Adorno: “Lo stato di paura che Kafka suscita è quello che precede il vomito” (1972, p. 262). 2 Secondo Canetti (1992) ad esempio, il motivo dell’animale nella produzione kafkiana allude al “farsi piccolo” dello scrittore di fronte al potere e alle umiliazioni ch’esso infligge all’essere umano, mentre il “divenire minore” dell’animale rispetto al potere e alla Legge costituisce com’è noto il perno della lettura deleuziano-guattariana di Kafka: “divenire animale significa …fare il movimento, tracciare la linea di fuga in tutta la sua positività, varcare una soglia” (Deleuze-Guattari, 1975, p. 23). 3 Si pensi alle riflessioni, quasi coeve e dalla comune valenza etico-messianica, di Jacques Derrida (2006) e Giorgio Agamben (2002).

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

effetti rappresenta uno dei primi esperimenti di Kafka: la Verwandlung), ma a quella dello spazio stesso

(che si espande o si riduce, si contrae o si dilata) per come viene raccontata e così paradossalmente

realizzata nella narrazione: al modo in cui essa funge da inconscia linea di forza più che di fuga nel

dispositivo narrativo, le cui coordinate tradizionali vengono da Kafka continuamente deformate. È

insomma lo spazio letterario (Blanchot, 1997), in cui lo scrittore si muove a sua volta come un animale4,

a contenere, a mo’ di inoltrepassabile orizzonte, la trasformazione e lo scambio reciproco dello spazio

percettivo esterno, fisico, e di quello riflessivo interno, psichico dei suoi personaggi – il che del resto si

verifica già nel grande racconto del 1914 (si pensi alle passeggiate di Gregor sul soffitto) ma ancora in

forma piuttosto espressionista, quasi splatter.

Poiché negli anni successivi Kafka andrà molto avanti nella sperimentazione letteraria intesa come

processo di deformazione e/o rarefazione del mondo, che si riflette nell’espansione e/o riduzione dello

spazio psicofisico dei suoi personaggi, abbiamo scelto qui a titolo di esempi un tardo frammento

favolistico e due celebri racconti i cui protagonisti sono singoli animali divenuti quasi-umani (Una relazione

accademica) o ridotti a pure astrazioni (La tana). In questi testi, come pure ne La metamorfosi, il processo

metamorfico non viene mai descritto, ma al contrario enigmaticamente taciuto, mentre quello che

potremmo chiamare l’effetto-vertigine (con tutto il suo corredo sintomale) viene raggiunto spostando,

deformando o addirittura abolendo il confine tra uomo e animale: come ha scritto Benjamin, “si possono

leggere per un buon tratto le storie di animali di Kafka senza avvertire che non si tratta di uomini […]

quando si imbatte nel nome della creatura – la scimmia, il cane, la talpa –, il lettore alza gli occhi spaventato

e si accorge di essere già lontanissimo dal continente dell’uomo” (Benjamin, 1962, p. 286).

D’altra parte, secondo Agamben, le storie di Kafka “contengono proprio nel finale una possibilità di

rovesciamento che ne ribalta integralmente il significato” (Agamben, 2005, p. 67), impedendo così

un’interpretazione univoca o definitiva e indicando invece un’apertura, una via di fuga. Se il frammento

Wunsch, ein Indianer zu werden5 rappresenta, persino dal punto di vista sintattico, l’esempio più noto di

questa possibilità metamorfica e, in termini spaziali, felicemente espansiva, nei racconti che prenderemo

in esame non vi è nessuna apertura, nessun rovesciamento, ma al contrario un’esperienza, lenta o

fulminea, di riduzione dello spazio, che può coincidere col “varcare una soglia” (cfr. Deleuze-Guattari, 1975),

cioè col diventare umani rinunciando all’animalità, oppure col vivere sprofondati in uno spazio “di

indecidibilità” (Carofalo, 2016, p. 156) dove sperimentare i limiti dell’umano, espandendolo e insieme

riducendolo (Thermann, 2010).

4 Secondo Blanchot (1983), colui che ha scelto di essere un letterato si condanna ad appartenere a quello che Hegel chiamava “il regno animale dello spirito”. Perciò la letteratura è un rischio mortale, è la vita che porta in sé la morte, la pura possibilità del morire – come un cane (si pensi alla chiusa del Processo). 5 “Se si fosse almeno un indiano, subito pronto e sul cavallo in corsa, torto nell’aria, si tremasse sempre un poco sul terreno tremante, sinché si lasciavano gli sproni, perché non c’erano sproni, si gettavano via le briglie, perché non c’erano briglie, e si vedeva appena la terra innanzi a sé come una brughiera falciata, ormai senza il collo e la testa del cavallo!” (Kafka, 1970, p. 135).

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

Il carattere metamorfico, instabile e pulsante dell’esperienza dello spazio assume insomma i tratti di una

oscillazione deformante, capace di dischiudere attraverso la scrittura (ed esclusivamente in essa, cioè nello

spazio del linguaggio o spazio letterario) una zona di indistinzione psicofisica tra uomo e animale che

elude o addirittura, in un certo senso, liquida la questione del loro confine/rapporto così com’è stata

posta prima dall’evoluzionismo, poi formulata dall’antropologia filosofica novecentesca e infine ripresa

da Agamben e Derrida – per cui potremmo parlare di una critica scritturale dell’ominazione, in Kafka, via

animale.

Andrebbe quindi respinta o quanto meno modificata l’interpretazione canettiana relativa al carattere

redentivo della condizione (che è anche, in termini spaziali, una posizione) animale nella scrittura

kafkiana6: non si tratta tanto di essere salvati dall’ebbrezza colpevole e insieme dalla fragilità del potere,

ma di sperimentare una trasformazione portata letteralmente al limite, e dal basso; come lo stesso Kafka

(che era solito scrivere a letto) annota nei Diari, la letteratura è appunto un “assalto all’ultimo limite

terreno, e precisamente assalto dal basso; dalla parte degli uomini” (Kafka, 1972, p. 606, annotazione del

16 gennaio 1922) che, nello spazio letterario, “giocano” vertiginosamente a divenire animali. È questo, in

fondo, l’uso intensivo della lingua realizzato per sovvertire la lingua (Foucault, 2015), analizzando il quale

possiamo tentare di fare un buon uso di Kafka.

Se il linguaggio realizza l’espansione psichica dell’umano come pluralità relazionale (la semiosfera, nei

termini di Lotman), i racconti kafkiani lo riducono all’osso frontale (Kafka, 1972, p. 811): alla contrazione

estrema, talvolta al triste compromesso, infine al delirio paranoico dell’individuazione. In essi non è

dunque in questione la separazione, il confine tra uomo e animale, ma si parte già sempre dalla loro

trasformazione e confusione linguistica – che non allude affatto alla loro unione messianica. In Kafka la

vita umana non è mai interamente umana, e quella animale mai interamente animale perché, rinunciando

a una definizione comune e condivisa del mondo – in termini lacaniani, lacerando la realtà come coperta

del reale –, egli ne rimescola e fluidifica i contorni. Karl Heinz Fingerhut (1969) ha individuato tre

elementi all’interno di tale operazione narrativa: il primo consiste nella soppressione delle caratteristiche

che differenziano l’uomo e l’animale; il secondo nella perdita dell’aspetto comunemente noto degli esseri

viventi attraverso il deformarsi delle proporzioni e le ibridazioni fra animali diversi; il terzo, nell’irruzione

di figure fantastiche di animali o di ibridi nel mondo quotidiano, che viene accettata come qualcosa di

normale. Qui ci occuperemo soprattutto del primo, lasciando da parte gli altri due (per un’analisi più

ampia dei racconti rinvio a de Conciliis, 1998).

6 “Bisogna sdraiarsi per terra fra gli animali per essere salvati. La posizione eretta rappresenta il potere dell’uomo sugli animali, ma proprio in questa chiara posizione di potere egli è più esposto, più visibile, più attaccabile. Giacché questo potere è anche la sua colpa, e solo se ci sdraiamo per terra tra gli animali possiamo vedere le stelle che ci salvano dall’angosciante potere dell’uomo” (Canetti, 1992, p. 182).

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2. La pulsazione dello spazio

Com’è noto, pur trattando di animali, la favola esopica li rende parlanti, ma impedisce qualunque

confusione tra uomo e animale, riducendo il secondo ad exemplum del primo. Essa ricorre inoltre al topos

dell’animale per esorcizzare gli istinti e neutralizzare le energie che agitano l’interiorità dell’uomo.

Cercando di enucleare l’essenza del genere, Lessing (1992, pp. 67-104) ha definito “trama” o azione

(Handlung) della favola una sequenza di trasformazioni che insieme costituiscono un intero. Quest’unità

narratologica si basa sulla subordinazione dell’azione ad un unico scopo finale, che costituisce, per il

filosofo illuminista, l’effetto proprio della favola. Secondo Lessing inoltre lo scopo finale, ciò per cui la

favola viene inventata, è il principio morale razionale o insegnamento (Lehre): un universale principio della

ragione umana che può essere immediatamente compreso senza bisogno di dimostrazione teorica o

passaggi concettuali. In ciò sta la specifica differenza tra favola e filosofia: l’universale (astratto) viene

calato nel particolare (concreto), e poiché la realtà si confà solo all’unico, il fatto particolare, in cui consiste

la favola, dev’essere rappresentato immediatamente come reale, come caso unico. Mettendolo in scena

in uno spazio astratto, la favola tuttavia non presuppone nessuna interiorità del personaggio, nessuna

dottrina psicologica di cui il lettore dovrebbe avere padronanza per interpretarne il contenuto. Essa si

trova, per così dire, al di là del concetto filosofico ma al di qua della psicologia del soggetto; il

riconoscimento immediato della Lehre non è ostacolato dal meccanismo dell’identificazione col

protagonista o viziato dalla partecipazione emotiva alle sue vicende, ma viceversa reso possibile dall’uso

convenzionale di figure animali ridotte a “caratteri” schematici e vivificate soltanto dalla potenza plastica

dell’azione.

Nel rifiutare ogni spessore psicologico del personaggio, Kafka fa però esplodere il genere, portandolo al

di là della stessa filosofia dei lumi – nel desertico spazio letterario del Novecento in cui, per dirla con

Blanchot (1997), non si può più dire “io”. La funzione retorico-pedagogica scompare del tutto, mentre il

fantastico viene inserito intensivamente nella lingua e nella struttura del racconto. Nelle “favole” di Kafka

manca dunque ogni possibilità di percepire o insegnare una verità o un principio universale, perché manca

ormai la stessa verità universale, nonché la logica in base alla quale enunciare il principio di

comportamento e di retribuzione; in esse nessun concetto può essere icasticamente e luminosamente

esemplificato nel caso particolare, ché anzi scivolano spesso in modo esasperante verso l’indeterminato,

e non sono quasi mai brevi come quelle esopiche. L’effetto più frequente che provocano è dunque quello

della vertigine, della frustrazione o dello sforzo vanificato, mentre la strada dell’interpretazione è sbarrata

(nella lingua di Benjamin, è una Strasse gesperrt).

Un esempio di tutto ciò è fornito da un piccolo frammento del 1920, in cui Kafka sfrutta il motivo

tipicamente esopico del contrasto fra gatto e topo:

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

“Ahimè,” disse il topo “il mondo diventa ogni giorno più angusto. Prima era talmente vasto che ne avevo paura,

corsi avanti e fui felice di veder finalmente dei muri lontano a destra e a sinistra, ma questi muri precipitano così in

fretta l’un verso l’altro che io mi trovo già nell’ultima camera, e là nell’angolo sta la trappola in cui andrò a cadere”.

“Non hai che da mutar direzione” disse il gatto, e se lo mangiò. (Kleine Fabel, in Kafka, 1970, p. 175)7.

Si tratta di un esperimento apparentemente “classico” dal punto di vista favolistico, con una completa

sostituzione dell’umano con l’animale – ma senz’alcuna morale. Se inoltre lo spazio costituisce il muscolo

nascosto della narrazione animalesca di Kafka, siamo di fronte a un esercizio di riduzione spaziale

dapprima lenta, poi all’improvviso fulminea, che funge da perfetto contraltare dell’espansione

metamorfica di Desiderio di diventare un indiano e culmina nell’assoluta mancanza di una via d’uscita – cioè

nella morte del topo, del “piccolo”, di fronte al potere.

Klaus Doderer (1977) ha analizzato questo frammento come rappresentazione straordinariamente rapida

di un mondo rarefatto, o meglio ridotto, attraverso il caratteristico uso kafkiano dei tempi (dal passato

remoto al presente) che impediscono di organizzare la vita del topo in sequenze cronologiche.

Provenendo da una lontananza e da una vastità che ispirano angoscia, l’animale si è spinto verso le pareti,

che però hanno ristretto sempre più fortemente il suo raggio d’azione e la sua libertà di movimento, fino

a condurlo nella posizione priva di scampo di un prigioniero. Alla fine il mondo diventa nelle tre direzioni

ermeticamente chiuso: la strada finisce nella stanza, davanti alla parete sta la trappola, nella direzione di

corsa e dietro di essa, impedendo la fuga, aspetta tranquillo il gatto. La vita del topo e con essa l’intero

spazio narrativo finiscono nelle sue fauci.

Questa trama (Handlung) non viene peraltro descritta in una successione logica e coerente: il lettore la trae

piuttosto dal breve scambio di battute tra i protagonisti, cioè attraverso la parte riferita al dialogo e

all’azione, che viene anch’essa ridotta al minimo. Se insomma il tempo raccontato racchiude tutta la vita

del topo, esso precipita nella stanza senza via d’uscita e nell’atto del divorare; perciò qui non è il tempo a

“rilevare” lo spazio (Derrida, 2001), ma al contrario, lo spazio a rilevare e ridurre il tempo: è come se il

dispositivo narrativo si rimpicciolisse di colpo, attraverso una brusca restrizione di campo.

Concentriamo quindi la nostra attenzione sulla frase finale. Il gatto dà al topo, come partner di un

colloquio che deriva in realtà da un monologo, il consiglio – per niente plausibile – di cambiare direzione.

Secondo Doderer, tra il consiglio e l’azione, tra l’aiuto verbale e il divoramento reale, vi è

un’insormontabile, vertiginosa tensione, che Kafka produce accostandoli in un’unica frase e separandoli

con una semplice virgola. Lo scioccante effetto del divoramento spinge il lettore ad attribuire alla storia

che lo precede un qualche senso, a cercare cioè il filo della narrazione – ma questo filo viene spezzato

proprio in virtù del salto che Kafka ha imposto alla lettura con quell’unica frase finale. Con il brusco atto

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del divorare diviene infatti trasparente la mancanza di senso, che provoca automaticamente nel lettore la

vana ricerca di un senso in ciò che è stato già detto. Questa sorta di loop è stato così descritto da Giuliano

Baioni: “che cosa spinge il topo che è libero, assolutamente libero, nella trappola?”. Proprio “l’angoscia

e la vertigine della libertà assoluta, che lo portano a cercare rifugio in un mondo ben definito”, cioè

delimitato dalle pareti, “il quale però altro non è che la trappola in cui lo attende il gatto” (Baioni, 1997,

p. 199). L’antagonista compare come l’unico altro che si trova accanto al protagonista. La pluralità

relazionale della semiosfera è ridotta al minimo, e se quest’unico altro indica al protagonista la via d’uscita,

gli fa comprendere contemporaneamente e anche brutalmente la sua non percorribilità. Attraverso lo

scarto fra consiglio e azione, che svela l’assurdità di entrambi, la trappola nella quale Kafka ha attirato il

lettore si chiude definitivamente. Essa conduce infatti al punto cieco oltre il quale non c’è nessun trionfo,

nessun insegnamento morale, nessun principio razionale, ma solo l’oscurità dello spazio vuoto.

3. Un esperimento comparativo

Nell’impossibilità di definire ma nell’intento di segnalare una vita che non sia né animale né umana bensì

semplice, nuda vita e dunque indifferenza tra uomo e animale, Agamben ricorre all’immagine di uno spazio

vuoto: “come ogni spazio d’eccezione, questa zona è, in verità, perfettamente vuota, e il veramente umano

che dovrebbe avvenirvi è soltanto il luogo di una decisione incessantemente aggiornata, in cui le cesure e

la loro riarticolazione sono sempre di nuovo dis-locate e spostate” (Agamben, 2002, p. 43). Ciò perché

quella umana non è una specie naturalmente evoluta e definita ma il risultato del funzionamento non

naturale di una macchina antropogenica, nonché, nei termini di Sloterdijk (2004), antropotecnica, che di

continuo deforma la vita per umanizzarla ma anche per escludere e insieme catturare, cioè per ridurre in

proprio potere il non umano – l’animale.

Com’è noto, Agamben muove dalla differenza ontologica tra l’ambiente animale e il mondo umano, così

com’è stata teorizzata da von Uexküll (2010) e utilizzata da Heidegger nei Concetti fondamentali della metafisica

(1992): in quanto, secondo Uexküll, l’animale vive chiuso nel suo mondo-ambiente (Umwelt), in cui non

si danno oggetti ma marche cui reagisce in modo inconsapevole (secondo lo schema stimolo-risposta),

esso è, secondo Heidegger, povero di mondo nonché privo di linguaggio. Vivendo stordito nel suo ambiente,

l’animale appare completamente assorbito nel suo spazio percettivo – dunque tutt’altro che libero,

nonché impossibilitato a cambiare la sua prospettiva assumendo quella di un altro animale (Agamben,

2002, p. 47); perciò a differenza dell’uomo, al quale il mondo viene dis-velato dal linguaggio come

Lichtung, esso vive nell’aperto non svelato: “l’ente, per l’animale, è aperto ma non accessibile [e]

questa apertura senza disvelamento definisce la povertà di mondo dell’animale rispetto alla formazione

di mondo che caratterizza l’umano” (p. 58).

Ora, più che rappresentare il contrario della Metamorfosi (poiché drammatizza il percorso che va

dall’animale all’uomo invece che dall’uomo all’animale, e in cinque anni invece che in una notte), la

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

scimmia che diventa quasi umana nel celebre racconto Una relazione accademica (Ein Bericht für eine Akademie,

1919) sembra rovesciare completamente tale distinzione: Rotpeter viene dall’aperto inteso come libertà,

spazio infinito della natura, e s’impoverisce – si riduce – diventando uomo, cioè acquisendo la “ricchezza”

del linguaggio. Se cioè da un lato la metamorfosi in uomo non è totale, d’altra parte l’espansione dello

spazio psichico e l’elevazione prospettica guadagnate dall’ibrido Rotpeter attraverso il sacrificio della

libertà e l’uso della lingua (che culmina appunto nella scrittura di una relazione) sono soltanto apparenti,

rovesciandosi anzi in una sorta di riduzione etica dell’umano – nel feroce giudizio che il protagonista

formula sugli uomini. Al posto di un positivo (cioè spinoziano-deleuziano) o comunque resistenziale

“divenire animale” (o “divenire minore”), incontriamo qui il divenire quasi-umano dell’animale come

illusorio “divenire maggiore”, che nasconde in realtà un “sabotaggio della macchina antropologica” (Dick,

2015).

Nel partecipare, come lettori, a questo diverso esperimento con lo spazio compiuto da Kafka in quanto

“animale letterario”, dobbiamo tuttavia evitare di restar fermi alla critica del darwinismo che pure esso

contiene, o di cadere nella trappola di un’immediata e ingenua identificazione con la scimmia che si sveglia

dentro una gabbia, la cui memoria si riduce alla scoperta della ferita riportata durante la cattura, e che

prende coscienza della propria singolarità come “prigione” che ormai la divide dalla “grande, mitica

libertà dell’inconscio” (Baioni, 1997, p. 200) e della savana. Più che a ridefinire (Cimatti, 2013, pp. 113-

118), Kafka ci invita infatti a giocare sul confine tra umano e animale – confine che la scrittura di una

relazione da parte di una scimmia ammaestrata rende non solo fluido, ma anche vertiginosamente

prospettico, proprio in quanto esperito nello spazio del linguaggio.

In questo spazio di indistinzione non si dà alcuna possibilità di rovesciamento o di apertura, e dunque, per

Rotpeter, nessuna speranza di ritornare al passato scimmiesco e allo spazio illimitato, ovvero di varcare

“l’immensa porta che la volta celeste forma sopra la terra” (Kafka, 1970, p. 250). L’antropotecnica cui ha

misteriosamente deciso di sottoporsi per sopravvivere alla cattura e avere così una via di scampo (e che

consiste in un umiliante precetto: “la rinuncia a ogni ostinazione”, ib.), lo ha condotto in una zona oscura

ma gravida di linguaggio dove l’irreversibile, tragica umanizzazione dell’animale sembra fare segno verso

la reciproca animalizzazione dell’uomo – in termini più attuali, verso la fine dell’antropocene, intesa sia

come assenza di vie d’uscita (si pensi all’esaurimento delle risorse naturali) che come metamorfosi

qualitativa dello spazio (si pensi al global warming), dunque come altrettanto tragica riduzione del mondo

umano. È forse in questa chiave profetica che possiamo leggere l’esperimento mentale-letterario della

relazione – in cui la lingua, per così dire, surroga la metamorfosi corporea e il divenire umano dell’animale

si rovescia nel ridivenire animale dell’uomo. In entrambi casi, infatti, si tratta di una riduzione – riduzione

dell’aperto e del vivente che, per abitarlo e farlo diventare “mondo”, è costretto a difendersi da esso, a

rimpicciolirlo e, al limite, a distruggerlo.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

In tal senso davanti alla scimmia non vi è alcuna radura, ma la cassa in cui è rinchiusa e che, come un osso

frontale, le sbarra la strada. L’immunizzazione dall’aperto coincide con l’individuazione, pagata con una

riduzione spaziale cui corrispondono un’illusoria espansione psichica e un’ingannevole calma interiore –

che serve almeno a resistere allo squallore dei teatri di varietà (Kafka, 1970, p. 254). Come animale

ammaestrato, Rotpeter è alla ricerca di una scappatoia al destino “umano” che ha dovuto scegliere per

sopravvivere e, in fondo, di una vendetta. Non solo, una volta ottenuta la fama, dà da vivere ai suoi gretti

impresari; il suo primo maestro riesce ad educarlo solo al prezzo di “prendersi” la sua animalità, con un

significativo scambio prospettico: “la mia natura di scimmia uscì da me, fuggendo in corsa frenetica, con

una capriola, tanto che il mio primo maestro divenne egli stesso quasi una scimmia e dovette abbandonare

presto l’insegnamento per essere ricoverato in una casa di salute” (pp. 257-58). Se nel mondo moderno

l’animalizzazione viene stigmatizzata come pazzia, la violenza che la scimmia deve assecondare e

introiettare per sopravvivere è pur sempre quella della ragione. Rotpeter sa benissimo che non potrà mai

più ritrovare la libertà assoluta dell’aperto (ammesso che questa libertà esista o sia mai esistita); la sua

saggezza consiste, allora, nel rinunciare alla fuga – nel crearsi un surrogato di libertà ma anche

nell’insediarsi, grazie alla scrittura, nell’oscura zona di indistinzione tra uomo e animale, da cui si può

giudicare il primo e mimare il secondo. Scrivere relazioni, come faceva anche l’impiegato Franz Kafka,

significa abitare il vuoto e insieme percorrere lo spazio letterario, luogo dell’intrattenimento infinito

(Blanchot, 1981).

4. L’animale che dunque sono diventato

Se l’ibrido di Una relazione accademica rappresenta un atopos comparativo rispetto all’uomo e alla scimmia –

dacché questo è, in fondo, il tema della relazione: un ironico confronto tra le due specie –, l’essere

monologante de La tana (Der Bau, 1924) ha ormai perso qualunque referente esterno e qualsiasi alterità,

umana o animale. Si tratta dunque di due racconti speculari, ma anche consequenziali. Se infatti la scimmia

si umanizza riducendo la propria libertà – perdendo lo spazio –, l’uomo si riduce a bestia perdendo l’altro,

ma restando comunque chiuso nella solitudine del linguaggio; se inoltre nel primo caso il confine tra

umano e animale viene fluidificato, nonché “rappresentato” dal linguaggio del protagonista, nel secondo

il confine è ormai completamente abolito: l’uno trapassa letterariamente nell’altro. Così l’espansione

spaziale della tana, cioè dell’interno, si accompagna a una dolce espansione del tempo (“entro la tana ho

sempre tempo all’infinito”, Kafka, 1970, p. 240) e diventa riduzione dell’aperto, cioè dell’esterno.

In termini heideggeriani, l’animale de La tana è povero di mondo. Nonostante la sua logica robusta e la “gioia

che il [suo] cervello intelligente ha di se stesso” e che lo spinge a calcolare (p. 225), ragiona da solo in un

ambiente (Umwelt) oscuro, nel quale costruisce un edificio protettivo: la sua costruzione auto-difensiva è

il suo stesso pensiero, una soggettività assoluta che però perde, insieme all’alterità, ogni riferimento alla

condizione umana. Mancando qualsiasi descrizione del suo aspetto, la voce narrante è inoltre priva di

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ogni fisicità: alla nausea provata nell’immaginare lo scarafaggio, Kafka sostituisce la vertigine che il lettore

avverte nel seguire il raffinato esercizio della ragione in cui appunto consiste il monologo del protagonista.

Per ottenere quest’effetto monomaniacale, che rifletta una rarefazione del mondo esclusivamente interiore

o meglio vista dall’interno, egli spoglia l’esistenza del protagonista di tutta la sua varietà esperienziale, e la

riduce al bisogno di accumulare cibo per difendersi e sopravvivere. Scopo unico del costruttore è infatti

ingurgitare ogni cosa e/o portarla nella tana per farla diventare se stesso.

Ma il costruttore della tana è anche prigioniero della tana. Non a caso, per i suoi lavori di scavo, non

possiede altro che la fronte (p. 227), cioè, ancora una volta, l’osso frontale che gli sbarra la strada. La

costruzione non è la libertà, ma un’illusoria tranquillità rappresentata dal continuo “confronto tra la tana

sicura e la vita altrove” (p. 235). Ben presto l’animale comprende che non è l’ambiente esterno, l’aperto,

ma la tana stessa – la psiche estesa o proiettata nello spazio – a costituire la fonte dell’insicurezza,

dell’angoscia: io sono la tana (“io e la tana siamo talmente uniti”, p. 238), ma la tana è porosa, io sono

esposto al pericolo, io stesso sono il pericolo perché sono solo: “non viene nessuno e io devo affidarmi

a me stesso” (p. 235); “sembra quasi che io stesso sia il nemico in attesa della buona occasione di

irrompere” (p. 236).

I numerosissimi accenni al “nemico”, disseminati lungo tutto il racconto, culminano nel momento in cui,

al risveglio, il costruttore inizia a sentire un sibilo, che non cesserà più. Da quel momento le ipotesi sulla

natura dell’origine del rumore coincidono con quelle sull’esistenza del nemico; esso si incarna ora in

piccoli, minuscoli animaletti che scavano penetrando nei recessi della costruzione, ora in un animale

sconosciuto e indifferente che scava per proprio conto senz’alcun intento aggressivo, ora infine nella

“bestia” della leggenda che non lascia scampo alle sue vittime.

Siamo dunque di fronte a una metamorfosi spaziale, oltre che psichica della soggettività razionale e per

ciò stesso delirante. La sua unica speranza è il differimento dell’assalto del nemico mortale, che la

costruzione della tana aveva in qualche modo esorcizzato. Poiché però si tratta di un edificio unico

progettato da un accumulatore seriale, esso non può andare esente da qualche difetto (“è sempre un

difetto possedere di qualunque cosa un esemplare solo”, p. 229); è anzi proprio questo a costituire la

fessura attraverso la quale la rovina penetra nello spazio-ambiente che l’animale si è sistematicamente

fabbricato tutt’intorno a sé.

Il costruttore, in quanto soggetto assoluto, ha inglobato, facendosene inglobare, l’oggetto, e perciò

pretende di essere Tutto e Uno, di essere Dio. Il delirio di dominio divino e capillare dell’imprevedibile

rappresenta l’altra faccia del piacere provato nel dormire come un bambino (p. 238), nel caldo vuoto e

silenzioso delle gallerie. E poiché si tratta di un delirio di possesso, esso si organizza in una sorta di

raddoppiamento, che consiste nell’uscire dalla tana – cioè da se stesso – per guardare la propria illusoria

sicurezza, il proprio sonno, e goderne.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Nel complesso, l’ideale del costruttore è una vita che assomiglia in tutto alla morte: le piazzeforti sono

simili a piccole accoglienti bare; l’energia fornita dal cibo serve soltanto a rendere più appetibile la stasi

nell’oscurità, mentre il sibilo, che una volta udito diventa il leit-motiv della narrazione, appare come l’eco

di una sindrome ossessivo-paranoica. È insomma l’attività calcolante dell’animale a trasformarsi

insensibilmente nella bestia della leggenda, nel “nemico”: non il sonno della ragione, ma la ragione stessa

genera mostri.

In termini più squisitamente spaziali la tana, nella sua struttura membranosa, non ha bordi rivolti verso

l’esterno: impedisce di vedere il nemico che si avvicina, è fortezza ma anche prigione, isolamento, trappola

mortale. In questo senso l’edificio rivela la sua profonda affinità con quello letterario: a nulla vale scavare

(per lo scrittore: scrivere), per calmare la disperazione e l’angoscia che crescono a causa dell’impossibilità

di trovare la fonte del sibilo. Quella fonte è infatti nascosta nell’azione stessa dell’esorcismo, della difesa

assoluta che è anche metamorfosi assoluta – nella scrittura. Mentre lo spazio gli pulsa alle tempie, cercare

la sorgente del rumore significa per l’animale letterario avvolgersi sempre di più nella rete labirintica delle

metafore, nella spirale delle supposizioni e dei dubbi, che, a causa della solitudine in cui vive, non possono

mai essere confortati da una conferma esterna, intersoggettiva. La realtà e il delirio, l’uomo e l’animale,

divengono allora la stessa cosa, un essere-spazio che, tormentato dal sibilo, comincia a impazzire: “Ora

non capisco più il mio piano precedente; “la fantasia non si ferma”, e l’“inquietudine interna” non può

trovare causa o riposo (pp. 249-250).

Dalla iniziale, orgogliosa descrizione della tana, che è già di per sé un incubo, si passa così all’incubo vero

e proprio: riconoscendo che non vi è nessuna efficacia o velocità nel suo lavoro di difesa (la velocità è

solo delle fiabe: p. 247), il costruttore sperimenta la straordinaria capacità di autosuggestione del solipsista,

che si trova di fronte, di lato, di sotto, di sopra, la pervasiva vischiosità di un altro imprendibile. Ma il

rumore, invariato, informe, non smette: diventa la radiazione di fondo dell’angoscia; perciò l’animale non

scava più nella sua direzione (qualunque direzione non ha più senso): si limita a mangiare per distrarsi in

attesa della morte:

Sono arrivato al punto che la certezza non la voglio neanche. Nella piazza centrale scelgo un bel pezzo di carne

rossa spellata e mi rannicchio con essa in uno dei mucchi di terra dove regnerà certamente il silenzio, [per] quanto

qua dentro esista ancora il silenzio vero e proprio. […] dovrei godermi lautamente le mie provviste. Quest’ultimo

è probabilmente l’unico piano attuabile che io possiedo (p. 254).

Il cibo, da fonte di vita, diviene lento percorso verso l’autodistruzione, che dunque coincide con la vita

stessa. Dopo aver sprecato il proprio tempo in giochi puerili, senza pensare a difendersi (p. 252), il

“vecchio costruttore” (com’egli stesso si definisce, p. 253) si ritrova inerme nella psiche-tana, incapace di

prevedere l’attacco, di identificare il nemico e di isolarlo, magari chiudendolo in una delle gallerie. E

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

quando il sibilo sembra cessato, in realtà non lo è. Tutto sembra anzi invaso dal rumore, che in assenza

di visibilità del nemico diventa l’eco dell’ignoranza che, come detto, genera lo sdoppiamento del

monologo. Perciò La tana non è uno stream of consciousness, quanto piuttosto un trattato raccontato in prima

persona sulla costruzione (Bau) che si presenta a sua volta come una costruzione, la quale inesorabilmente

si sfalda attraverso la fessura aperta dal sibilo. Chi o cosa lo emette?… Forse anch’esso procede usando

il muso: l’osso frontale gli apre la strada invece di sbarrargliela, cosicché avanza, si avvicina senza sosta e ti

accerchia. Potrebbero quindi essere in molti: gli animali della leggenda, gli esseri sotterranei – tu credi di

essere nella tua casa, in realtà sei nella loro. E se sei già morto nella tana, puoi comunque morire in eterno,

all’infinito. Nessun rovesciamento finale dunque, nessuna apertura, ma anche nessuna lotta, scontro o

tragedia finale. “Tutto invece è restato immutato” (p. 255).

Questa frase rinvia all’immobilità della struttura narrativa del racconto: in esso non succede niente. La storia

è costituita solo dal procedere minuzioso delle argomentazioni dell’animale, che, descrivendo la

costruzione, ripete all’infinito il processo di valutazioni ed ipotesi di calcolo che lo ha guidato nella sua

opera. “Unico” come lo scrittore, anche il costruttore la edifica contro l’angoscia, e allo stesso tempo vi

s’identifica. Il suo monologo forma il suo autoritratto, che è, contemporaneamente, una condanna a

morte, poiché “vi è un solo rapporto, quello del pensiero con sé medesimo, ed un solo movimento, il

giro vizioso del pensiero che pensa se stesso e che per esaurirsi in se stesso non può che distruggere sé

medesimo”, cosicché “la ricerca del sé è la distruzione del sé” (Baioni, 1997, p. 287).

Coerente con la sua idea della letteratura come “carcere”, Kafka giunge qui a una “completa, totale

rarefazione del mondo” (p. 288), che è anche un radicale ridimensionamento, dunque una destituzione

dell’umano. Se la Relazione accademica, in quanto esperimento comparativo, inscenava il confronto fra

uomo e animale, qui ogni paragone è divenuto impossibile: facendo coincidere senza scarti lo spazio

interno e quello esterno, eliminando tutte le distrazioni diegetiche, lo scrittore fornisce una

rappresentazione appunto spaziale, proiettiva, della “diabolica caccia interiore” (Kafka, 1972, pp. 605 e

sgg.) che ha condotto contro se stesso, ma anche contro l’immagine esteriore, superficiale dell’uomo:

Nel fatto che …mi sono lasciato deperire anche fisicamente, potrebbe esserci un’intenzione. Io volevo rimanere

indipendente, non distratto dalla gioia di vivere che può provare un uomo utile e sano. […] La sistematica distruzione di

me stesso nel corso degli anni …è stata come la lenta rottura di un argine, un’azione intenzionale (pp. 597-98)8.

Egli sembra dunque aver pagato il libero fluire dello spirito, ovvero l’uscita dallo stato di minorità in cui

lo aveva costretto una famiglia troppo umana (la famosa evasione dalla sfera paterna, Carrouges, 1949) con

8 Corsivi miei.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

una crudele, animalesca riduzione del corpo – ma, pur vivendo “rintanato” dentro la scrittura, ha

sperimentato la vertiginosa voluttà di questa metamorfosi.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Alain Naze

Métamorphose et impouvoir

ABSTRACT

Why does Gregor Samsa’s metamorphosis, while generating lots of disorders within his family environment, not increase his agency? Why does he suffer this

transformation? Canetti’s anthropological approach of the metamorphosis, particularly about metamorphoses into insect, could be valuable to formulate an

answer to this issue.

Keywords: metamorphosis, insect, Canetti, agency, impotence.

Tu voulais me recouvrir, je le sais, mon petit fiston, mais je ne suis pas encore recouvert et mes dernières forces sont encore assez fortes et trop fortes pour toi.

Franz Kafka

Si la métamorphose peut constituer le moyen d’un surcroît de puissance chez celui qui en est l’objet, ce

processus ne peut donc affecter que des êtres à la puissance limitée1. Sous ce rapport, Gregor Samsa

correspond bien au portrait d’un possible postulant à la métamorphose, non certes à travers la présence

chez lui du moindre esprit de révolte, mais du fait de sa vulnérabilité effective, largement liée à son

dévouement (envers sa famille, son employeur aussi), à son absence de volonté de troubler l’ordre des

choses. Venant de subir une métamorphose l’ayant transformé en insecte, Gregor va par exemple

envisager ses difficultés pour se rendre à son travail comme un simple contretemps, que ses employeurs

pourront comprendre, et accepter, au regard de sa ponctualité ordinaire. Il n’y a donc chez lui aucune

aspiration à un surcroît de puissance, donc pas non plus à un processus de métamorphose susceptible de

décupler ses forces, de renverser un ordre entérinant sa subalternité. C’est donc de manière passive, à son

corps défendant, qu’il subit ce processus, au point de vouloir en limiter la portée, en l’assimilant à une sorte

de fièvre passagère.

Cette transformation de l’employé de commerce, du fils de famille en insecte (qui désignerait sans doute

un « cancrelat », Ungeziefer2) va bien produire divers désordres, et d’abord et surtout dans la vie

quotidienne de sa propre famille. En ce sens, on pourrait reconnaître malgré tout, en ce processus de

métamorphose, au moins une puissance de fait, non voulue, une forme de puissance involontaire de

destitution. Il ne faudrait pourtant pas situer Gregor dans la lignée d’un Bartleby, puisqu’à la différence

1 « Le lion n’a pas à se métamorphoser pour atteindre sa proie ; il y arrive en étant lui-même. […] L’essentielle puissance à son apogée méprise la métamorphose. Elle se suffit à elle-même, ne veut qu’elle-même » (Canetti, 1966, p. 219). 2 Du moins est-ce l’interprétation effectuée par Claude David, traducteur de Franz Kafka (Kafka, 2015, note 3, p. 24).

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

du personnage de Melville, le personnage de Kafka se caractérise bien plutôt par sa bonne volonté, l’écart

du « I would prefer not to » étant ici bien davantage remplacé par une incapacité d’agir (un affaiblissement

accru, donc) liée au changement d’état d’homme en insecte (il aurait plaisir à pouvoir continuer son travail,

pour faire vivre sa famille). Ainsi, n’oublions pas que Gregor sera la victime véritable de sa métamorphose

– c’est lui qui périra, et plus significativement encore, des suites des manifestations de violence d’un

pouvoir paternel, qui en sortira même renforcé, sous la forme d’une restauration de la vitae necisque potestas

romaine du pater familias, autrement dit, d’un droit de vie et de mort du père sur ses enfants, sur son fils

en l’occurrence.

Que Gregor Samsa ne présente guère les traits d’un révolté, c’est ce que confirme l’ensemble de la

nouvelle de Kafka. Pour commencer, il semble enregistrer simplement son changement d’état, d’homme

en insecte, sans s’en épouvanter, paraissant presque accepter cette transformation, même s’il l’envisage

initialement comme provisoire. Ce sont bien plutôt les effets qu’aura sa transformation sur son

environnement qui vont l’attrister (la distance progressive de sa sœur à son égard, l’incapacité de sa mère

à regarder en face l’insecte qu’il est devenu, la fuite du fondé de pouvoir venu s’enquérir des raisons de

son retard au travail, en ce qu’elle indique qu’il lui sera difficile de conserver sa place, et donc les moyens

de faire vivre sa famille, le congé signifié à ses parents par les locataires témoins d’une apparition de

Gregor, etc.). Si une désorganisation générale intervient dans la famille, elle résulte bien de la

transformation de Gregor en insecte, mais à aucun moment il ne s’en réjouit, cherchant bien au contraire

à limiter de tels effets, par exemple en imposant le moins possible sa présence aux membres de la famille.

Bien sûr, il n’accepte pas de gaieté de cœur tout ce qui lui advient, comme cette volonté, initiée par sa

sœur, de débarrasser le plus possible sa chambre des meubles qui s’y trouvaient – c’est d’ailleurs à cette

occasion qu’interviendra le seul véritable mouvement de résistance de la part de Gregor. Il va vouloir

s’opposer à tout prix (en faisant barrage au moyen de son corps) au retrait de sa chambre du portrait

d’une femme à la fourrure :

il fut contraint de se dire qu’il ne pourrait pas supporter cela longtemps. Elles [sa mère et sa sœur] lui vidaient sa

chambre, on lui prenait tout ce à quoi il tenait ; elles avaient déjà enlevé le meuble où il rangeait sa scie à découper

et ses autres outils ; voilà maintenant qu’elles dégageaient le bureau profondément enfoncé dans le plancher, sur

lequel il avait écrit ses devoirs lorsqu’il était à l’école supérieure de commerce, au collège ou même déjà à l’école

primaire ; non, ce n’était plus le moment de peser les bonnes intentions que les deux femmes pouvaient avoir ; il

avait d’ailleurs presque oublié leur existence, car, dans leur extrême fatigue, elles avaient cessé de parler et l’on

n’entendait plus que le lourd martèlement de leurs pas.

80

Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

Il surgit alors de sa retraite, pendant qu’elles reprenaient leur souffle dans la pièce voisine, appuyées sur le bureau

– il changea quatre fois la direction de sa course, sans parvenir à savoir ce qu’il devait sauver pour commencer ;

c’est alors qu’il aperçut sur le mur l’image de la dame toute couverte de fourrure ; elle attira son attention, parce

qu’elle restait seule sur le mur nu ; il grimpa en toute hâte sur la cloison, se pressa sur le verre, qui adhéra contre

lui et dont la fraîcheur fit du bien à son ventre brûlant. […]

L’intention de Grete était claire et Gregor la comprit aussitôt : elle voulait d’abord mettre sa mère à l’abri, puis le

déloger de son mur. Eh bien ! elle n’avait qu’à essayer ! Il était couché sur son image et il ne la lâchait pas. Plutôt

sauter à la figure de Grete ! (Kafka, 2015, pp. 80-82).

Dans ce moment où Gregor se trouve dépossédé des biens de sa propre chambre, où il ne peut s’y

opposer, et où il souffre de cette dépossession (des souvenirs de son existence d’avant la métamorphose

sont attachés à ces meubles), il ne fait acte de résistance qu’à propos d’une image qu’il avait placée dans

un cadre, sur le mur. La dimension érotique de cet objet est au fond ce qui effectue la jonction entre le

Gregor d’avant la métamorphose et celui devenu insecte : il y a bien souvenir de l’attachement érotique

du jeune homme à cet objet, mais aussi rapport érotique actuel de l’insecte au tableau (« il grimpa en toute

hâte sur la cloison, se pressa sur le verre, qui adhéra contre lui et dont la fraîcheur fit du bien à son ventre brûlant » - je

souligne). L’hostilité de Gregor à l’encontre de ce déménagement apparaît par conséquent bien davantage

comme liée à un bouleversement des conditions matérielles de son existence actuelle qu’à un regret de

type sentimental relatif à une période révolue. D’ailleurs, il ne s’interroge guère alors sur les intentions de

sa sœur et de sa mère (« il avait presque oublié leur existence »), ce qui implique que ses affects de colère

ne sont pas dirigés directement contre elles, mais bien contre le bouleversement d’un ordre des choses

que leur action entraîne. Dans ces conditions, l’efficacité de sa résistance (sa mère s’évanouit en

l’apercevant, comme une tache sur le mur, ce qui ajourne au moins le retrait du cadre de sa chambre, la

sœur sortant alors de la pièce pour aller chercher des sels) n’est aucunement vécue par Gregor comme

victoire, puisqu’il est tout prêt à abandonner son trophée pour venir en aide à sa mère : « Elle [la sœur]

courut chercher des sels dans la pièce voisine pour tirer sa mère de son évanouissement. Gregor voulut

aider lui aussi – il serait toujours temps plus tard de sauver la gravure -, mais il restait collé au verre et dut

faire un effort pour s’en arracher […] » (Kafka, 2015, p. 83).

Gregor va même jusqu’à éprouver du désespoir, dans l’idée qu’il est responsable de l’état actuel de sa

mère, qu’il va jusqu’à imaginer comme possiblement au seuil de la mort. Il ne vit donc sa puissance de

désorganisation, qu’il grossit même au point de s’attribuer un quasi parricide, que sur un mode passif,

involontaire, souffrant. Il est profondément affecté lui-même par les effets de sa propre puissance, qu’il

ne maîtrise pas, et qu’il regrette.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Il n’est pas jusqu’à la puissance de révélation libérée par sa métamorphose que Gregor détourne au profit

de sa famille, quand, légitimement, il aurait pu y puiser des éléments justifiant son ressentiment. En effet,

alors qu’il avait cru, sur la foi de ce que ses parents lui en avaient dit, que l’intégralité de son salaire, seule,

permettait et continuait de permettre à la famille de vivre, à la suite de la faillite de l’entreprise du père, il

apprit qu’en fait sa famille épargnait de l’argent, n’ayant pas tout perdu lors de la faillite :

On n’avait pas non plus dépensé tout l’argent que Gregor, qui ne gardait pour lui-même que quelques florins,

apportait tous les mois, et on avait de la sorte constitué un petit capital. Gregor, derrière sa porte, approuvait

vivement de la tête, tout heureux de cette prévoyance et de cette économie, qu’il ne soupçonnait pas (Kafka, 2015,

pp. 68-69).

Cette révélation, dont on comprendrait qu’elle ait provoqué la colère de Gregor, pour l’absence de

franchise dont elle témoigne, et plus généralement, en raison de l’exploitation (la pire qui soit : tirée des

sentiments d’attachement du fils pour sa famille) dont il a été l’objet, va au contraire provoquer sa joie.

Cette bonté inoxydable semblerait suffisante pour rendre compte du fait que la métamorphose de Gregor,

bien qu’ayant occasionné force désordres dans la maison, n’ait eu au fond aucun effet réel de destitution

de la puissance, paternelle en particulier. C’est en effet bien le père qui, par ses violences physiques à

l’encontre de son fils métamorphosé, finira par causer sa mort. Et pourtant, s’il y a bien une puissance

effective de la métamorphose, comment se fait-il, qu’au-delà des intentions (non insurrectionnelles, c’est

certain) de Gregor, elle n’ait pas provoqué un renversement de l’ordre familial ? Comment se fait-il que

la métamorphose de Gregor se soit en fait traduite par un surcroît de vulnérabilité chez lui ?

Dans le cadre d’une approche anthropologique de la métamorphose, Elias Canetti, s’appuyant sur certains

rites australiens, reconnaît « le lien étroit qui existe entre multiplication et métamorphose » (Canetti, 1966,

p. 115). Ainsi en aurait-il été de la métamorphose d’hommes en kangourous, qui renvoyait à l’idée du

nombre des kangourous, plus grand que celui des hommes : « Quand ils se multipliaient, les hommes se

multipliaient aussi. La multiplication de l’animal totémique était identique à la leur » (p. 116). Canetti

accorde même une telle importance au lien entre métamorphose et multiplication, qu’il semble ne pouvoir

reconnaître d’utilité humaine à la métamorphose en insectes, et plus largement en animaux appelés

« nuisibles », qu’à travers une volonté de s’approprier ce grand nombre :

82

Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

Il ne saurait être question ici d’utilité au sens ordinaire du mot, ces créatures sont des fléaux pour l’Australien aussi

bien que pour nous. Ce ne peut être que le nombre immense de ces êtres qui l’attire, et s’il établit quelque affinité

avec eux, c’est parce qu’il cherche à s’approprier ce nombre. L’homme qui a le moustique pour totem veut que les

siens deviennent aussi nombreux que les moustiques (ibid.).

Ainsi, le désir en apparence paradoxal des hommes de se métamorphoser en animaux nuisibles ne se

comprend-il qu’à partir du surcroît de puissance attendu d’un surcroît numérique. On pourrait donc

envisager que, d’un point de vue anthropologique au moins, la métamorphose subie par Gregor Samsa

ne relève pas de l’ordre du souhaitable – le caractère nuisible du cancrelat n’étant, dans ce cas, pas racheté

par la multiplication des animaux de cette espèce. Gregor est seul dans sa chambre. Dès lors, on pourrait

comprendre que l’effet attendu d’une métamorphose – le fait de « confére{r] à l’homme tant de pouvoir

sur toutes les autres créatures » (p. 357) – ne s’actualise aucunement dans la nouvelle de Kafka, la

vulnérabilité de Gregor en ressortant au contraire encore accrue.

Le malheur de Gregor semble tenir, fondamentalement, à son isolement en tant qu’insecte, car alors,

seule la forme de la « métamorphose de fuite » (comme on le verra) semblerait lui convenir. Sa recherche

de puissance, en l’espèce, ne pouvant se comprendre qu’à travers la multiplication, son isolement le voue à

l’impuissance, et même, pour tout dire, à l’extermination. Il sera écrasé par son père, sous un flot de

pommes utilisées comme projectiles (Kafka, 2015, pp. 88-89), provoquant une blessure qui finira par lui

être fatale – mais sa sœur elle-même s’était ralliée à l’idée d’une nécessaire disparition de l’insecte

(initialement, son frère), à la nécessité de s’en débarrasser. Loin que la métamorphose de Gregor enchaîne

sur un sentiment d’admiration et de crainte (comme l’assurerait une métamorphose comme gain de

puissance), elle débouche bien davantage sur un sentiment de mépris. Ecoutons Canetti à ce propos :

[…] plus encore que le danger et la rage, c’est le mépris qui pousse à écraser. On écrase quelque chose de très petit,

qui ne compte guère, un insecte, parce qu’on ne saurait pas autrement ce qu’il en est advenu. […] ce comportement

envers une mouche ou une puce trahit le mépris de tout ce qui est absolument sans défense, vit dans un tout autre

ordre de grandeur et de puissance que nous, qui n’avons rien de commun avec lui, ne nous transformons jamais

en lui, ne le craignons pas, sauf s’il se montre soudain en masse [je souligne]. La destruction de ces créatures minuscules

est le seul acte de violence qui, même en nous, reste absolument impuni [je souligne – à rapprocher du retour à une vie

de famille paisible, après la destruction de Gregor]. Leur sang ne retombe pas sur notre tête, n’appelle pas le nôtre.

Nous ne regardons pas leur œil mourant. Nous ne les mangeons pas [le « coup de balai » de la « femme de peine »

(Kafka, p. 115)]. Nous ne les avons jamais intégrés, du moins en Occident, dans le règne croissant, quoique assez

peu effectif, de l’humanité. En un mot, elles sont hors la loi (Canetti, 1966, p. 217).

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Hors la loi, l’insecte isolé devient exterminable, susceptible d’une mise à mort sans procès, hors des formes

de la loi.

C’est pourquoi la forme de la métamorphose de fuite eût mieux convenu à Gregor, mais avouons que

cela s’avérait ici impossible, et ce, dès le départ, la métamorphose ayant eu lieu pendant une nuit, et

condamnant donc le fils de la famille métamorphosé à rester prisonnier dans sa chambre. « Les

métamorphoses de fuite, […] servent à échapper à un ennemi » (p. 362). Mais Gregor ne se reconnaît pas

d’ennemi(s), aussi l’intention d’une fuite doit-elle être immédiatement écartée. Ce n’est que lorsqu’il est

reclus dans sa chambre, et qu’il ressent les affres de son abandon, qu’il prend conscience également des

griefs que la famille peut nourrir à son endroit, ce n’est qu’alors, donc, qu’il pourrait être tenté par la fuite

– il lui faudrait alors enchaîner sur une autre métamorphose. Mais cela nécessiterait que Gregor en vienne

à intégrer une logique de chasse, ce dont il est éloigné le plus qu’il soit possible. Lorsqu’il regarde par la

fenêtre, et aperçoit les rayons du soleil, Gregor reste situé aux antipodes de la logique propre à une

métamorphose de fuite :

Un beau jour, il [l’apprenti, sous l’emprise du maître] aperçoit un rayon de soleil dans son écurie. Il regarde bien et

découvre une fente dans la porte, par laquelle le rayon a pénétré. Vite, il se transforme en souris et se faufile au-

dehors par la fente. Le maître s’aperçoit qu’il est parti, se transforme en chat et se met à la poursuite de la souris.

Commence alors une folle série de métamorphoses. Le chat ouvre déjà la bouche pour tuer la souris que celle-ci

se transforme en poisson et saute dans l’eau. Le maître devient en un clin d’œil un filet, qui flotte à la poursuite du

poisson (p. 364).

Rien n’est moins conforme au rythme de La métamorphose que cet incessant mouvement par lequel un être

se livre à une suite indéfinie de transformations, en vue d’échapper à la capture. Loin de ces

métamorphoses merveilleuses, Gregor semble bien plutôt prisonnier dans son nouveau corps et dans sa

chambre, ses tentatives de fuite étant réduites à ses pauvres moyens physiques. Vulnérable au plus haut

point, Gregor l’est de par cette impossibilité d’échapper à sa forme actuelle, mais aussi par l’absence d’un

vouloir-vivre indéfectible (Gregor semble préférer disparaître, plutôt que d’être une pure et simple gêne

pour sa famille).

Ce serait donc l’isolement de Gregor qui scellerait son destin. Seule une masse d’insectes eût été

susceptible de renverser le rapport de forces. L’individu est écrasé par l’institution – le fils ici est écrasé

84

Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

par l’institution familiale, méprisé de manière évidente sous la forme de l’insecte qu’il est devenu. Sous

ce rapport, Gregor, nullement chasseur (on l’a vu) deviendrait proie, sous l’impulsion de ce que Canetti

nomme « mélancolie » :

La mélancolie commence quand les métamorphoses de fuite sont achevées et qu’on éprouve l’inutilité. Dans la

mélancolie, on est la proie rattrapée et déjà saisie. On ne peut plus s’échapper. On s’est résigné à son sort, on se

voit proie. […] Les processus de dépréciation qui diminuent constamment la valeur de la personne s’expriment

sous la forme symbolique de sentiments de culpabilité. Une faute signifiait à l’origine que l’on était au pouvoir de

l’autre (p. 368).

Quelle faute ? Peu importe. Imaginaire ou non, elle fait de Gregor un être indéfiniment redevable, au

point de ne pouvoir tout à fait condamner ses bourreaux. Sa vulnérabilité (physique, mais aussi quasiment

ontologique) aurait pu être dépassée uniquement par le moyen d’une masse d’individus vulnérables, ne

s’exemptant pas de cette vulnérabilité, mais la retournant, au point d’en faire une force. Autrement dit,

c’est d’un point d’extrême faiblesse physique que des corps, s’exposant en une masse de corps, peuvent

affirmer leur persistance, sans renier leur précarité :

Quelle est la signification politique du fait de se rassembler en tant que corps, d’interrompre la circulation ou de

réclamer l’attention ; de se mouvoir, non pas comme des individus perdus et isolés, mais comme un mouvement

social d’un certain type ? Il n’est pas nécessaire qu’il soit organisé d’en haut (la présomption léniniste), ni de porter

un seul message (l’affirmation logocentrique) pour que des corps rassemblés exercent une certaine force

performative dans la sphère publique. Ce “nous sommes là”, qui traduit cette présence corporelle collective, peut

aussi vouloir dire “nous sommes encore là”, autrement dit, “on n’a pas encore disposé de nous”. Ces corps sont

précaires et persistants. Pour cette raison, je crois que nous devons toujours lier la précarité à des formes d’agir

social et politique, lorsque cela est possible (Butler, 2016, p. 269).

La métamorphose de Gregor l’a donc livré à une extrême précarité, dont il aurait pu tirer une force, non

certes en reniant cette vulnérabilité, et en se transformant en individu de pouvoir, mais en se liant à

d’autres corps précaires. De cette manière, l’affirmation d’une présence perdurante et précaire eût valu

comme affirmation d’une puissance destituante. Ne pas se réapproprier la force, mais faire de l’endurance

du corps précaire une force :

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Les corps qui sont dans la rue sont précaires. Ils sont exposés à la force policière et, par conséquent, endurent

parfois des souffrances physiques. Mais ces corps sont aussi obstinés et persistants, insistant sur leur présence

continue et collective. Certaines de ces présences collectives s’organisent sans hiérarchie, instaurant par l’exemple

les principes de traitement égal qu’ils exigent des institutions publiques (Butler, 2016, p. 270).

L’infinie délicatesse de Gregor, cette manière de s’excuser presque d’être, cette façon de timidité ontologique,

tout cela milite en faveur d’une résistance sans reniement, d’une affirmation sans violence de sa présence,

et d’un droit illimité à une telle présence, tout en retenue, mais sans négation, ouvrant sur toute forme de

co-existence.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Vincent Lecomte

Échapper au territoire de l'homme

Kafka/Kulik : une (en)quête animale

ABSTRACT

The quests pursued by Kafka's narrators are true investigations in which they engage with their whole body. In "Investigations of a Dog" or "The Burrow",

we follow, from the inside, mutations as much behavioural as psychological and reflexive, generated by the relation to a fantasized otherness. In the same

movement, Kafka also seems to describe, from the outside, a humanity whose moral foundations are shaking and whose specificity is becoming more and more

uncertain. Precisely, provoking this disorder is also the aim of the Russian artist Oleg Kulik, who, by adopting the point of view of a dog offers the image of

a strange and yet familiar bestiality to an unsettled public.

Keywords: Kafka, Kulik, dog, animal point of view, investigation, humanity, territory, performance, body

Franz Kafka est l'un des plus célèbres écrivains de l'animalité humaine. Dans « Recherches d'un chien »,

notamment, fable posthume et inachevée, le narrateur est le point de vue de l'animal, plus qu'il ne le prend.

Il peint un paysage psychologique qui pourrait autant s'avérer celui de l'homme que de l'animal – même

si l'incarnation animale, comme souvent chez Kafka, a d'abord pour but de dépeindre l'univers1 dans

lequel il évolue. Ce qui semblait présenter le portrait d'un être singulier, rendu ambigu par les sentiments

parfois contradictoires qui l'habitent et surtout par le fait même qu'il s'agit d'un chien pensant et parlant,

relève peu à peu du constat sur l'état d'une espèce dont nous peinons à déterminer définitivement la

véritable nature. Pour ce faire, dès le début, le narrateur canin (dont l'identité semble se construire au fur

et à mesure des progrès de la narration) se distingue clairement de celle de ses semblables :

Aujourd'hui, quand je regarde en arrière et que je me remémore le temps où je vivais encore au milieu du peuple

des chiens et où, chien parmi les chiens, je partageais toutes leurs préoccupations, je trouve tout de même, à y

regarder de plus près, que quelque chose clochait depuis toujours, qu'il existait une fine fêlure, qu'au plus fort des

manifestations populaires les plus respectables, et parfois même dans le cercle d'intimes le plus restreint – non, pas

parfois, très souvent au contraire –, j'étais pris d'un léger malaise, que le simple fait de voir un congénère canin bien-

aimé, le simple fait de le regarder d'un œil un peu neuf, me plongeait dans l'embarras, dans l'effroi, dans la perplexité

– oui, dans le désespoir. (Kafka, 2008, p. 278)

1 Nombreux sont les commentateurs qui voient dans ce texte un portrait de Kafka en chien, ainsi que des références récurrentes à la communauté juive avec laquelle l'auteur entretenait des rapports tumultueux. Dans cette nouvelle, on peut notamment reconnaître de manière métaphorique une rencontre avec les hassidim, adeptes d'un renouveau religieux, apparu au XVIIIᵉ siècle en Europe de l'Est. Dans La Lettre au père, Kafka reproche violemment à son père de ne lui avoir transmis qu'un « fantôme de Judaïsme ».

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Point de vue sur le territoire

Le narrateur est un chien d'âge mûr, désormais isolé2 de ses « congénères », en proie à une véritable crise

d’identité, s’interrogeant sur sa nature canine. Il porte également un regard hors du commun sur des êtres

qui semblent vivre le groupe de manière insouciante. Ceci le pousse à mener une véritable enquête sociale.

Aux yeux des siens, s'il est encore respecté, il reste cependant pour la plupart d'entre eux incompris. On

perçoit rapidement que le héros est à la fois un chien et, d'une certaine manière, de par sa « singularité »,

étranger à cette espèce, et même peut-être à toute forme de subjectivité supposée. Pourtant, il affirme :

« je suis loin de dévier des normes de mon espèce » (ibid.). La blessure qui le meurtrit à la fin de la nouvelle

achèvera de lui offrir une conscience aiguë de la vie des siens. « Ich war wirklich völlig außer mir » peut-on

notamment lire, que l'on peut traduire aussi bien par « j'étais véritablement tout entier hors de moi » (p.

277) ou « je n'étais véritablement plus du tout moi-même » (p. 334)3. La formule exprime d'abord une

topographie intérieure, une désorientation morale et physique. Le chien finit par ne plus savoir d'où il

parle, semblant tout autant hors-lieu qu'hors-lui. L'auteur s'interroge ainsi : « Le monde marchait sur la tête

? Où étais-je ? Qu'était-il donc arrivé ? » (p. 287). Malgré un je omniprésent, qui semble parfois même

omniscient, l'on assiste à une dépossession de soi ; plane sans cesse cette altérité rimbaldienne du sujet.

Dispersion ou perdition ? Je pourtant est là, reclus dans l'antichambre de tous les possibles. Kafka nous

laisse errer avec cet animal sans visage qui pourtant non seulement nous parle, mais parle aussi de nous.

Toutefois, il est à remarquer que cette conscience tient à se distinguer des autres sans nier tout à fait sa

spécificité. L'animalité de cet être intermédiaire, que le chien incarnerait parfaitement et que, dans l'un de

ses ultimes textes, Kafka dépossède de toute spécification, en restant confus, devient comme générique.

Et, comme dans bien d'autres nouvelles de l'auteur pragois, il est difficile de savoir s’il est question de

l'intimité d'une humanité animale ou celle d'une animalité humaine4.

Pourtant, une sorte d'empathie désemparée le hante. Elle lui donne accès à une réflexion sur l'espèce,

dont le lecteur devient à son tour dépositaire. Ces constats révèlent, au-delà de la simple conscience de

sa propre existence, une étude bien plus universelle. Toute la complexité du point de vue provient du fait

qu'une conscience sociale et psychologique de l'autre par un animal n'est plus asphyxiée par une

représentation rigoureuse de soi. Cependant, à travers la façon dont il s'exprime, le chien nous est de plus

en plus familier, non comme pourrait le devenir un animal de compagnie, mais bien par la communauté

de conscience(s) dont ses propos laissent entrevoir le possible avènement, même si par moments une

2 Sa seule fréquentation est celle de son voisin, dont il veut également s'écarter. 3 Dans la récente édition des œuvres complètes de Kafka à la Pléiade, Jean-Pierre Lefèvbre va même jusqu'à faire directement référence à la notion d'extase. (Kafka, 2018) 4 Kafka a pu s’inspirer de l’ouvrage de Oskar Panizza, D'après le journal d'un chien (Panizza, 1983) pour en proposer une sorte de contre-point. En effet, alors que chez Panizza les réflexions également exprimées par un chien sont exclusivement centrées sur les hommes, chez Kafka l'humain est totalement absent des propos et de l’univers du narrateur.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

stupeur nous saisit, au souvenir qu'il s'agit bien là des confidences d'un chien – ce complément, cette

annexe affective de nos vies d'hommes.

Nathalie Georges-Lambrichs voit dans le chien une figure récurrente et paradigmatique dans la littérature

du XXe siècle5 :

dhommestique, il incarne la faille qui sépare les maîtres – Thomas Mann en est le paradigme – de ceux en qui le

réglage de la distance avec l’animal défaille, que Kafka incarne, Bobrowski se tenant dans son ombre. Jean-

Christophe Bailly s’est attardé dans son livre (Bailly, 2001) sur une photographie de Kafka, « jeune et rayonnant »

aux côtés « d’un grand chien […] flou, présence moirée où l’on devine pourtant les deux ». Une extraordinaire

puissance en réserve semble sourdre, dit-il, du point où la main de Kafka tient sans vraiment la serrer l’oreille du

chien. (N. Georges-Lambrichs, 2015)

Au fur et à mesure de la lecture de la nouvelle de Kafka, le lecteur s’enfonce dans les méandres d’une

confidence ; les états de cet esprit canin comblent peu à peu toutes les parcelles de l'imaginaire campé par

l'auteur. Ces états prennent la forme de remarques sur les comportements en groupe. On ne peut

échapper à l'établissement d'un parallèle avec une condition humaine modelée par les fonctionnements

sociaux. Avec Kafka, nous n'assistons pas, à proprement parler, à une critique sociale, mais bien plus à

l'étude psychologique du conditionnement opéré par cette société, à partir de sa marge6. Car « c'est la

réalité actuelle qu'il veut décrire. Le véritable sujet de ses livres, c'est l'Histoire de son époque » (Ferenczi,

2014, 125) affirme Rosemarie Ferenczi. Pour elle, l'étude psychologique du sujet en tant que tel n'est pas

sa priorité. Il veut faire le portrait de l'homme en groupe, en lien7. Ferenczi ajoute que pour Kafka il est

« impossible d'en rendre compte en s'attachant à un cas particulier qui, pris isolément, ne dégage aucun

sens, car l'homme isolé est une abstraction, une construction de l'esprit non conforme au réel. L'homme,

5 Le chien a un rôle important dans des œuvres comme Dingo de O. Mirbeau (Mirbeau, 1913), et plus récemment Les Grandes blondes de J. Echenoz (Echenoz, 1995), Un Pedigree de P. Modiano (Modiano, 2005), Un Chien mort après lui de J. Rolin (Rolin, 2010) ou La Carte et le Territoire de M. Houellebecq (Houellebecq, 2010)… 6 « Recherches d'un chien » a donné son nom à l'exposition collective du groupe de fondations partenaires FACE (Foundation of Arts for a Contemporary Europe), à la Maison rouge à Paris en 2010-2011. Elle proposa, en écho avec la nouvelle, d'exposer le travail d'artistes en marge, « au bord de la machine sociale et politique qu’ils analysent en créant autant d’univers singuliers contigus au reste du monde. […] Comme le chien-protagoniste de la nouvelle de Kafka, ces artistes se posent des questions sur le sens de la création artistique, animés par une véritable passion pour la société humaine. » (Dossier de presse) On pouvait y voir exposés : Mark Dion, William Kentridge, Bruce Nauman, Kara Walker, Fishli & Weiss, Virginie Barré, Maurizio Cattelan, Thomas Hirschhorn… 7 Évoquant un ouvrage d'Echenoz intitulé Les Grandes blondes (Minuit, Paris 1995), C. Jérusalem voit dans le chien l'occasion de « construire, de manière empirique et souterraine (s'agit-il ici d'un clin d'œil au fouisseur kafkaïen du « Terrier » ?), une image du corps social contemporain » (C. Jérusalem, 2014, p. 86). L'objet des investigations de l'écrivain, pour Rosemarie Ferenczi, est le « contexte relationnel » (Ferenczi, 2014, p. 125), le « réseau complexe de relations mouvantes et dialectiques dans lequel l'individu est pris comme l'araignée dans sa toile » (ibid.), mais le performeur tente lui aussi de saisir le mouvement même qui innerve et fait tenir la société des siens.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

pour Kafka, est relation » (ibid.). Une analyse précise du phénomène social, voire communautaire

s'esquisse. Impossible alors de faire référence à la thèse de Deleuze et Guattari (Deleuze, Guattari, 1980)

démontrant que le point de vue de type déviant, que l'on peut associer à celui du schizophrène, révèle la

présence même du groupe8. Ainsi se construit une sorte de territoire mobile, organisant le groupe qui ne

forme jamais une masse. La meute représente davantage un réseau de signes et de modes intersubjectifs9.

De plus, la distanciation critique que pratique constamment le narrateur animal semble contredire

l’étrangeté à laquelle son animalité le condamne sans recours. Se représenter le monde et ses occupants à

l'aide d'un langage articulé, permettant de mettre en relation des concepts ou des jugements précis et

parfois même complexes, ne peut être le fait que de l'homme. Ajoutons que la façon d'écrire de Kafka,

qui consiste à faire constamment témoigner le narrateur de son propre vécu, en regard du groupe (un

individu à l'identité qui reste indéfinie mais dont la personnalité ne cesse de se déterminer, de prendre

consistance, tout en perdant parfois la forme corporelle qu'on était tenté de lui attribuer), engendre une

réflexion au caractère universel qui place le conteur-confident, indéniablement, du côté de la condition

humaine. Ceci est accentué par le fait que l'identité du confident restera indéfinie.

Peut-on pour autant affirmer que Kafka veut simplement investir une figure animale afin de choisir un

point de vue extérieur pour témoigner de sa propre condition d’homme ? D'après leurs comportements,

ces personnages animaux ne semblent pour autant pas faire que de la figuration. Dans « Recherches d'un

chien », le narrateur, de toute évidence, reste chien10 et ne parle que de chiens. D'ailleurs, dans ce récit, la

minutie descriptive des détails comportementaux, constituant une sorte d'éthologie esthétique, distingue

très nettement Kafka de la tradition de la fable animalière. La pensée allégorique d'Ésope et de La

Fontaine notamment, laisse la place à une subjectivité, voire une existentialité animale jamais abandonnée.

Et la vie animale, dont les narrateurs de Kafka se font plus les témoins que les incarnations figurales, ne

sert pas seulement un discours métaphorique ayant une valeur d'enseignement moral.

Comment ne pas songer alors au « Terrier », nouvelle dans laquelle Kafka met en scène un être encore

plus indéterminé, jusqu'à rendre floue la frontière entre l'homme et quelque autre animal ? Cet être, qui

n'est pas chimérique pour autant, offre également, dans cette œuvre qui est quasiment notre

8 Le groupe peut chez Kafka être confondu avec la notion d'« Hundschaft », qui désignerait la « race canine ». Catherine Billmann a choisi de traduire ce terme par le néologisme « chienneté », sorte d'équivalent d'humanité mais qui serait à entendre davantage comme « société des hommes ». 9 Le motif de la meute inspire largement les arts plastiques. Songeons notamment aux peintures et dessins d’Henri Cueco, mettant en scène des chiens marchant, courant, sautant, ou attendant quelque action, parfois entremêlés. Pour cet artiste, groupes animaux et humains subissent souvent le même traitement. 10 Kafka n'est pas le seul à donner la parole à un chien. En dehors de D'après le journal d'un chien d’Oskar Panizza, on peut penser notamment à Un Pedigree de P. Modiano (Modiano, 2005) ou, toujours du même auteur, Les Aventures de Choura (Modiano, 1986) et Une Fiancée pour Choura (Modiano, 1987).

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

contemporaine, un point de vue distant et perçant sur le monde. Le réseau de galeries, dans lequel toute

l'histoire se situe, ne constitue pas à proprement parler un refuge – endroit d'où le narrateur des

« Recherches d'un chien », lui, observera la vie des autres chiens. L’espace fini, défini, réconfortant que

pourrait représenter le refuge, tel un territoire secret permettant la totale sûreté du repli, n'est pas

envisageable dans le « Terrier ». Pour Kafka, cet idéal tant topographique que psychologique de retrait

(mais non de retraite) nierait l'exploration inquiète qui ici obsède son héros. La mécanique du doute et de

l'angoisse paranoïaque alimente une recherche au sens le plus dynamique que ce mot puisse prendre.

D'ailleurs, Forschungen que nous trouvons dans « Forschungen eines Hundes », « Recherches d'un chien », s'il

a en allemand un caractère scientifique et rigoureux, renvoyant à un certain positivisme, garde néanmoins

en lui tous les caractères de l'action. Il peut donc être associé aux notions tant de l'expérimentation que

de l'investigation dont le mouvement de projection peut se révéler prééminent sur la découverte de son

objet. Les quêtes que poursuivent les animaux-narrateurs de Kafka sont en fait des enquêtes scientifiques

rigoureuses dans lesquelles ils s'engagent de tout leur corps.

Dans « Le Terrier », la recherche est menée du dessous, de l'intérieur. La subjectivité animale, à l'identité

plus incertaine encore, semble donc entièrement conçue pour ce territoire sous-terrain, voire sous-terrien.

On assiste à une sorte d'épure d'un phénomène autant comportemental que psychologique et réflexif,

généré par un rapport à l'autre, dont l'existence est elle aussi purement interne. Autrui ne prend jamais

corps et n'est présent que dans les représentations que le narrateur s'en fait. Peu à peu il apparaît que le

fonctionnement de la conscience animale est d'abord le fruit du territoire lui-même.

Chez Kafka, l'altérité ne se résout jamais vraiment ; elle ne peut d'ailleurs pas, foncièrement, réussir à

atteindre un point de résolution, ou d'élucidation. En cela, l'impossibilité d'achèvement est le sceau de la

littérature kafkaïenne. C'est donc, pour elle aussi, dans le mouvement qu'elle initie que se situe sa force,

et non dans ce qu'elle vise. Dans « Le Terrier » aucune rencontre n'aura lieu ; il s'agira, exclusivement,

d'un rapport de soi à soi dans un mouvement dialectique interne, dont le moteur reste l'autre tel que

fantasmé. L'autre forge l'identité propre, il lui donne une raison, une logique, une consistance11. Le

système dont il explore la topographie, confus dans sa configuration globale et pourtant précis dans ses

détails, est en apparence un réseau ramifié de galeries, en rhizomes. Mais, il est assimilable à une logique

de pensée. Rappelons encore les premiers mots de Gilles Deleuze et Félix Guattari, dans Kafka. Pour une

littérature mineure : « Comment entrer dans l’œuvre de Kafka ? C’est un rhizome, un terrier. » (Deleuze,

11 Ce constat est mis à jour par la psychologie dès le stade du nourrisson. Cf. notamment Le Penser. Du Moi-peau au Moi pensant (Anzieu, 1994).

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Guattari, 1975, p. 7) Sonder ces entrailles terrestres, c'est tenter d'en savoir plus sur l'intimité de

fonctionnements et représentations sociaux, et donc, par-là, de se connaître mieux soi-même. Tout

comme Beuys l'affirmera dans ses performances menées face à divers animaux auxquels il se retrouve

confronté, Kafka convoque par cette exploration méthodique et jusqu’au-boutiste l'élu d'une espèce. Le

chien, émissaire d'une animalité globale, tel un principe fondamental plus encore que vital, à qui Kafka

donne la parole, permettant de rompre le dernier rempart entre l'homme et les autres animaux, se situe

toujours entre l'exemple et l'essence.

Qui fait la bête...

On peut considérer Oleg Kulik comme l'un des artistes qui a investi au plus près cet être participant

simultanément des deux mondes. Né à Kiev en 1961, celui-ci a d'abord suivi un double cursus d’art et de

géologie. Cette double formation va inspirer une œuvre tissée par des enjeux multiples, esthétiques,

biologiques et territoriaux. Ses premières expositions à Moscou, au milieu des années quatre-vingt-dix, le

détournent rapidement de sa première vocation de directeur de galerie. Laissant deviner une filiation tant

avec les Actionnistes Viennois que les performances de Joseph Beuys, il s'illustre de façon retentissante

à travers des interventions dans lesquelles le point de vue animal, surtout celui du chien, est ouvertement

adopté.

S'il avait déjà montré, à Moscou quelques temps auparavant, des photos interrogeant

l’anthropocentrisme, il choisit des lieux symboliques pour inaugurer une série de performances en

« homme-chien ». C'est par ces actions qu'il a accédé à une forme de notoriété auprès du public. Succèdent

d'autres performances déclinant cette incarnation. Mais c'est la série de performances en « homme-chien »

– aussi nommée Mad Dog – qui retient particulièrement ici notre intérêt. Dans ces performances, il a pour

intention de transmettre par son corps nu, et suivant des comportements qui n’appartiennent qu’au chien,

un discours à la fois politique, sociologique et éthique, fondé sur la représentation canine. L'exposition

Interpol de Stockholm, notamment, en 1996, se veut être le trait d'union entre l'Europe de l'Est et l'Europe

de l'Ouest. À cette occasion, Kulik choisit donc d'adopter pour la première fois les postures, la

déambulation et les attitudes d'un chien. Tenu en laisse, il aboie, flaire, guette, investigue les lieux à la

manière d'un canidé quelconque. Il ne s'agit pas d'une simple forme de mime, dans laquelle il se serait

grimé en animal, mais bien d'une métamorphose comportementale.

Il n'a recours à aucun accessoire, costume ou autre artifice destinés à le rapprocher de l'anatomie canine.

Seule une laisse, tenue par un acolyte qui, à peine plus habillé que lui, vient retenir sa furie animale,

déchaînement dans lequel, par ailleurs, on peut deviner bien plus l'homme que l'animal12. De plus l’univers

12 Peut-on voir dans cette performance une forme de réponse détournée à ce qu’exprime Cioran dans l’aphorisme suivant ?

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

humain n’est jamais loin aussi bien dans le geste de maîtrise, matérialisé par la laisse, que dans l'imagerie

relayée par certaines pratiques sexuelles, auxquelles appartiennent les accessoires utilisés. N'est-il pas

possible de voir, dans cette manifestation pulsionnelle l’un des ressorts de la performance ? En cela Kulik

rejoint Kafka. En effet, l'on pourrait également se livrer à une lecture pulsionnelle de La Métamorphose.

Dans cette nouvelle, les allusions au masochisme sont nombreuses. Les pommes dont se saisit le père,

comme projectiles, pour frapper son propre fils en proie à une transformation, si elles sont en apparence

inoffensives – sauf peut-être dans leur symbolique biblique –, deviennent l'objet cruel d'un supplice. Mais,

plus encore, le nom « Samsa » serait, selon Bernard Michel (Michel, 1998), une contraction du nom de

famille de Leopold von Sacher-Masoch dont Richard von Krafft-Ebing (von Krafft-Ebing, 1890),

professeur en psychiatrie à l'Université de Vienne, avait tiré, à la fin du XIXe siècle, l'appellation de ce

qu'il concevait comme perversion sexuelle : le masochisme. La correspondance que Michel établit entre

Kafka et Masoch relève d'un héritage plus large, qu'il constate dans une grande part de la littérature de

l'Europe centrale.

Mais le caractère érotique ou pulsionnel n’est pour Kafka comme pour Kulik qu’un moyen d’atteindre ce

qui fait l’humanité, d’en déconstruire la force autocréatrice. Le rapport que l'homme entretient avec les

autres animaux peut être mis parfois en parallèle avec ce type particulier de pulsion. Ce qui, dans la relation

de l'homme à certains animaux, peut s'apparenter à une domination, voire à une prédation, prend souvent

l'apparence du sadisme le plus cruel. Le fait que Kulik notamment ait choisi la figure du chien et qu'il l'ait

associée dans ses performances aux accessoires sadomasochistes s'inscrit dans une filiation

iconographique tout à fait révélatrice sur le plan symbolique. Notons que ce type de relations humaines

projetée sur le monde animal est une construction de l’esprit, un véritable fantasme. La nutrition ou la

défense du territoire, notamment, ne justifient pas des pratiques allant de la négligence à la mutilation,

hors la situation proprement dite du combat. D’une manière générale, agir de manière sadique ou

masochiste n’a aucun sens d’un point de vue animal.

Comme chez Kafka, dans la performance de Kulik, la question territoriale se retrouve bel et bien au

centre de la réflexion que l'artiste russe a choisi de vivre, plus que d'exprimer, avec le patrimoine physique

de son humanité. L'Europe de l'Ouest faisait figure à l'époque de territoire des libertés, des Lumières,

« Au zoo. Toutes ces bêtes ont une tenue décente, hormis les singes. On sent que l’homme n’est pas loin. » (Cioran, 1995, p. 1452). Avec Kulik, on a affaire à un homme, en situation de chien, mais qui, malgré son comportement ne peut se défaire de cette indécente tenue d’homme. Homme se faisant chien ou singe, cet animal-là est trop imparfait dès lors qu'il commence à nous ressembler. Le mystère de l’altérité ne prend pas.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

d'une économie raisonnée et raisonnable, de la communauté des bien-pensants. L'Europe de l'Est13, dont

est issu Kulik, était, à l'inverse, celui de la répression, d'un modèle économique en perte de vitesse et

surtout d'une forme de bestialité politique. Cette dernière expression n'est d'ailleurs pas anodine. Chez

l'artiste russe, bestialité et caractère animal jouent souvent de concert, contribuant à mettre à jour un

paradoxe à l'état déjà plus ou moins patent. En effet, la bête n'est pas, selon Kulik, celle que l'on croit,

mais bien plutôt celle qui a le pouvoir du langage, donc celui de dominer par la description et la définition

des êtres tous les autres animaux. Quoiqu'il en soit, c'est bien le « cliché canin dévalorisant »

(Jérusalem, 2014, p. 85), l'image de la déchéance que révèle certaines expressions populaires14, que Kulik

entend convoquer dans ses actions.

Qui est/hait la bête ?

On pourrait se demander si suivre avec Kafka et Kulik la bête au plus près, jusqu'à l'incarner, ne revient

pas à interroger la figure destituée de l'homme, et, partant, la figure instituée de l'animal que l'humain peut

représenter. Yves Christen, biologiste, dans L'Animal est-il un philosophe, voit dans le mot bête « un piège »

(Christen, 2013, p. 11). Il se demande même comment l'on peut « qualifier un comportement humain à

l'égard des bêtes ? » (ibid.) Il rappelle aussi

qu'aucun qualificatif n'existe pour dire qu'il faut, ou qu'il faudrait, agir de façon éthique vis-à-vis de ces autres. À

l'évidence, l'usage du mot « bestial », qui, littéralement, pourrait convenir, induirait un contresens. Ainsi le

vocabulaire nous contraint à postuler qu'il n'est qu'une façon de se comporter dignement, c'est en étant humain –

donc sous-entendu pas animal –, et ce alors même que, le plus souvent, les humains agissent de façon fort peu

« humaine » – mais tout en restant Ô combien « humain, trop humain » ! – à l'encontre des bêtes… La prégnance

de notre référentiel à notre espèce est si lourde qu'elle en devient insurmontable. (ibid.)

Kafka joue également avec la symbolique de la bestialité que le chien incarne idéalement. Dans les

« Recherches d'un chien », il dira notamment, au sujet des nouvelles générations qui le fascinent et

l'inquiètent : « les chiens n'étaient pas encore – je ne peux pas l'exprimer autrement – aussi canins qu'ils

le sont aujourd'hui » (Kafka, 2008, p. 311). Kafka ne savait sans doute pas que « lorsqu’ils ont le choix,

les chiens préfèrent rejoindre et s’intégrer aux groupes humains plutôt qu’aux groupes canins. » (Kubinyi,

Virányi, Miklósi, 2007, p. 29) À la lecture des nombreuses pages consacrées à la réflexion sur

13 Notons, en poursuivant le parallèle entre Kulik et Kafka, que ce dernier voyait dans les juifs de l'Est des juifs « authentiques », bien qu'ils fussent à l'époque mal perçus par les juifs germanisés, et singulièrement par son père. Pour Kafka, les juifs de l'Ouest se détournaient de leur histoire, de leur culture, de leur identité. 14 Songeons, entre autres, à « temps de chien », « regard de chien battu », « n'être pas bon à jeter aux chiens » …, expressions populaires qui sont sans doute héritées de la tradition chrétienne. On trouve notamment dans la Bible : « Ne donnez pas les choses saintes aux chiens, et ne jetez pas vos perles devant les pourceaux, de peur qu'ils ne les foulent aux pieds, ne se retournent et ne vous déchirent. » (Matthieu, 7, 6).

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

l'alimentation15 des chiens et notamment sur l'origine de la nourriture, on pourrait être tenté de percevoir

le rapport au maître – à l'homme donc –, toutefois, il n'y a aucune trace de maître ni d'humanité dans ces

« Recherches » – si ce n'est bien sûr de manière métaphorique. L'auteur aurait-il voulu seulement rappeler

ce penchant du chien pour la compagnie de l’homme, ou bien plutôt mettre au jour une projection

humaine naturelle au chien16 ?

Dans « Recherches », une distanciation métaphorique, dont Kafka rend le lecteur témoin, permet à

l'auteur de stigmatiser une autre bestialité, les barbaries d'un extrémisme ambiant, que l'Europe centrale

du début des années vingt peut laisser présager. La parenthèse « je ne puis m'exprimer autrement » qui

instaure cette distance, est d'ailleurs une forme d'adresse au lecteur frère et complice visé par ce propos.

L'emploi de ces parenthèses devient une figure rhétorique chez Kafka, comme l'outil et le lieu, dans les

discours et dans la conscience, d'une justification face à une société dont il est toujours difficile de dire si

le héros la subit plus qu'il ne l'abrite en lui. Ce territoire linguistique, cognitif et moral, signe, le plus

souvent, un désir d'adhésion mêlé d'un espoir de réconciliation avec l'autre, à commencer par celui qui

est en nous. Évacuant, dans l'homme-chien, ce double dont ne se départit jamais tout à fait l'acteur, Kulik

ne s'abandonne-t-il pas, par cette posture dépourvue de toute distanciation apparente, à une position

encore plus radicale ? Apparaît là l'urgence brute et brutale de l'expression. Cette scène extrême,

contrairement à ce que présente Kafka, vise un public dont il n'espère aucune complicité, peut-être même

aucune forme d'apitoiement.

Cette position immédiate ne serait-elle qu'un des modes d'expression de ce que Jean-Marc Proust nomme

« le programme zoophrénique » observable chez Kulik tout au long de ses œuvres ? L'art zoophrénique17,

qui tente de percer la conscience animale dans toute sa complexité « pourrait se définir comme un

programme d’entredéchirement entre l’âme, la bête représentée et celle qui ne sommeille plus chez

l’artiste, mais qui s’exprime avec cette violence pathognomonique des pays de l’Est qu’Oleg Kulik semble

essayer d’exorciser » (Proust, 2011). Si, dans ses performances, Kulik entend montrer à même son corps

15 Des commentateurs lisent ce passage de la nouvelle comme une longue dissertation sur la question du Cacherout qui, représentant l'un des fondements de la Loi hébraïque, désigne l’ensemble des règles alimentaires juives, dont la source est à trouver dans la Torah. La figure du maître, dont on peut attendre ici l'apparition, pourrait alors prendre un caractère divin. 16Dans un texte intitulé « Écologie et socialité du chien », Bertrand Deputte remarque que « ce qui existe de fait dans cette relation interspécifique, notamment chien-homme, c’est le regroupement d’individus appartenant chacun à une espèce sociale. […] Le cas de la relation chien-homme rassemble donc des individus ayant acquis chacun, au cours de l’évolution, mais indépendamment, les capacités à s’ajuster à un autre, spécifique, pour maintenir une proximité avec la spécificité additionnelle de l’évolution d’une relation commensale. Ce type de relation, au cours de l’évolution, a permis au chien de prendre en compte les comportements humains afin de rester à sa proximité. » (Deputte, 2010, p. 322) 17 Parmi les nombreuses actions et photographies mettant en scène une relation intime entre l’artiste et diverses espèces de mammifères, d’oiseaux ou de poissons, les séries « Zoofrenia I » (1997) et « Zoofrenia II » (1998) le montrent dans les positions les plus intimes avec un chien, une chèvre ou des oies.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

l'intérêt et l'urgence d'une prise en compte du point de vue animal, la dimension symbolique n'est jamais

absente de ses préoccupations.

Par ailleurs, il ne confond pas bête et animal. On ne peut oublier que la bestialité a souvent servi à

représenter et à recouvrir la grossièreté, l'immoralité, la sauvagerie, la cruauté, l'irrationnel… La religion

s'est maintes fois appuyée sur cette figure éloquente pour dénoncer ce qui, selon elle, est en gestation

chez le fidèle, ou manifeste chez l'impie, la violence prédatrice, les pulsions sexuelles, en somme les plus

bas instincts. S'immisçant dans cette tradition iconographique pour, de l'intérieur, l'interroger à nouveaux

frais, Kulik suscite, selon Jacques Robert « l’association avec l’animal, le sang18 – ou du moins sa couleur

– et le diabolique (donc le mystique puisque l’un n’existe pas sans l’autre) et toute la violence possible que

ce mélange peut provoquer, surtout lorsqu’il est mis en valeur par le photographique » (Robert, 2008).

Mais ces caractères sont davantage ceux de la bête que de l'animal, et servent bien souvent à stigmatiser

les travers humains. L'animal serait donc plutôt le négatif de l'homme. Il se définit par des manques :

manque de raison, de liberté. Ailleurs, on le cantonnera à sa place dans l'histoire de l'évolution et au rôle

presque mécanique qu'il y a tenu. Si on en suit le mouvement donc la logique, cette histoire n'a comme

ultime objectif que l'épiphanie de l'humanité. Comme représentant d'une espèce incapable de devenir

sujet, l'animal ignore toute autre forme de progrès que celle qui, lui échappant, consiste à porter son corps

comme offrande à cet autel construit à la gloire de l'homme.

Lorsqu'il fait de son propre corps ce théâtre de geste vindicatif, Kulik, à la suite de Kafka, investit

sciemment la bête. Toutefois, au-delà de l'expression d'une violence à grand peine réprimée, il veut laisser

transparaître une souffrance animale. Afin d'y parvenir il va permettre au public de s'identifier

partiellement à lui. En effet, lors de ces actions il est impossible d'oublier complètement la présence de

ce corps d'homme, que constitue, qui plus est, celui de l'artiste. Même si la canidité est la première visée

dans l'intention clairement lisible de la performance, par le comportement adopté, c'est bien l'homme

qui, ici, à la fois agit de son plein gré et semble encore ouvertement pointé.

(H)or(s) l'homme

Ajoutons qu'être un artiste russe revient pour Kulik à se trouver dans la peau de l'autre. Le pays d'origine

autant que l'environnement, l'alentour, sont, dès le début de son œuvre, incontournables. Ils n'ont pas

pour seul rôle de déterminer, de consolider ou de prouver l'identité d'un individu. Comme dans de

nombreuses œuvres de Kafka, l'espace joue également comme un interlocuteur du corps au sein d'une

réflexion plus large sur l'animal, l'humain. Au-delà de la topographie, c’est la spatialité qui, dans cette

18 Sang qui abonde également dans la nouvelle de Kafka. Qui plus est, il s'agit de celui du narrateur face auquel il ne sait comment réagir.

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œuvre, devient un élément autant physique que symbolique, voire métaphorique. Kulik fait revivre à son

public, comme Kafka à son lecteur, cette « attraction territoriale » (Augé, 1992, p. 148) qui, selon Marc

Augé, a souvent déserté le champ de nos représentations, de nos motivations.

« Si le zoomorphisme établit un rapport étroit avec l’âme humaine, la métamorphose questionne pour sa

part l’identité corporelle humaine » (Joyeux, 2013) rappelle Laure Joyeux. À observer les positions de

Kulik, il vaudrait mieux parler d'animalisme humain, c'est-à-dire de considération humaine d'enjeux

animaux globaux que le rapport à l'espace met le plus naturellement en évidence. La place de l'homme,

comme référence rationnelle allant de soi, s'en voit bousculée.

La façon dont Kulik part du corps pour mieux y revenir fait émerger une pensée de l'animal. Il ne prétend

pas la révéler, mais, à travers l’identification qu’il suscite, il en laisse paraître le possible. Pour atteindre ce

vécu animal capable d'ébranler la conscience humaine, l'exactitude comportementale est pour Kulik une

préoccupation centrale. Il en va de même, selon Hannah Arendt (Arendt, 2000, pp. 129-131), pour Kafka.

Le caractère fantastique de La Métamorphose, par exemple, se confond avec un réalisme surprenant. Selon

Arendt, de l'ensemble du travail de Kafka sourd la préscience d'un totalitarisme en construction. La

peinture qu'il fait de la violence sociale insidieuse tire son efficacité, son caractère vraisemblable de la

précision dont il fait preuve dans la description de la physionomie et même de la perception animale.

Dans La Métamorphose, il dépasse le point de vue de l'entomologiste pour rejoindre, en quelque sorte, celui

de l'insecte lui-même. Peut-on dire qu'il envisage son Umwelt19 ? Ce réalisme scientifique et psychologique

ne cantonne pas la Bête à une symbolique, ne la voit pas uniquement comme métaphore, procédé littéraire

duquel il prétendait précisément se préserver. La créature est un véritable objet de réflexion. Celui-ci doit

donc prendre corps, être matériellement crédible. C'est ainsi qu'on peut voir dans ce souci naturaliste la

volonté de rapporter en permanence son propos à une animalité humaine, et sa singulière Umwelt.

L'animalité, chez Kafka et chez Kulik, est une expérience vécue de l'intérieur, mais aussi une expérience

limite de l'humanité. Kafka, au travers de ces diverses descriptions animales, et Kulik dans la plasticité

canine dont il fait preuve, ne s'interrogent-ils pas sur la question de l'espèce, et ne tentent-ils pas en cela

de parfaire le portrait d'une spécificité humaine ? Cette description et cette incarnation zoologique

méticuleuses ne livrent-elles pas l'image, en négatif, de nos représentations sociales ? Kafka et Kulik ont-

ils pour but, à travers le point de vue d'un animal percevant nos représentations et usages sociaux, de

décrire l'animalité sociale humaine dans ce qu'elle peut avoir de monstrueux ?

19 Dans le chapitre « La notion de monde animal » de Mondes animaux et monde humain (von Uexküll, 1965), Jakob von Uexküll développe le concept d'Umwelt. Il s'agit de la représentation que chaque espèce se fait de son environnement. Il forme son monde propre, auquel elle donne sens, et qui la détermine.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Science animale de l’homme

Dans une époque qui voit se développer les sciences humaines, qui voit naître l'éthologie, on peut se

demander si Kafka ne tente pas d'étudier l'homme en animal. En effet, ses textes traitent bien davantage

de problèmes sociaux et de rapports humains que d'une quelconque vie animale. Quant à Kulik, un simple

goût de la provocation voudrait, selon une équivalence facile, que le performeur s'en tienne à affirmer

qu'être un artiste russe revient à avoir une vie de chien. Le chien représenterait le labeur, les difficultés,

mais surtout l'infériorité vis-à-vis de l'homme20. L'Est inférieur à l'Ouest se lirait donc dans cet homme

mis à nu21 et, qui plus est, évoluant à quatre pattes, objet d'une chute politique inscrite violemment dans

le corps. Mais, si l'on observe attentivement les attitudes du performeur et que l'identification commence

à se produire22, on est en droit de se demander si cet homme est réellement dominé par son animalité ou

s'il n'est là que pour opposer la sienne à celle des passants interloqués. L'artiste zoomorphe entend réaliser

un piège moral. En effet, il révèle par son attitude ambiguë, entre animal et homme, mais surtout entre

bête aimable et dangereuse, la représentation clivée que l'on se fait du vivant et même d'une espèce. Dans

une forme de montage scientifique inversé, l’animal devient le savant et l’homme l’objet d’étude, capturé,

saisi pour le bien de l’enquête.

Si le héros kafkaïen ou le performeur russe, en artiste cynique, ont renoncé aux attributs qui font le

panache de l'homme, voire sa raison d'être, ils crient haut et fort leur singularité, faite d'une humanité

qu'ils sentent leur être refusée. Kulik va même jusqu’à surjouer la bête afin de d'atteindre cette humanité23.

Dans l'expérience qu'il mène, il secoue son public (en grande part involontaire) afin de susciter en lui un

saisissement qui doit survenir avant le ressaisissement orchestré par ce qu'il perçoit comme sa raison. Ce

moment d'apparente incertitude qui prend au dépourvu le badaud et lui intime l'obligation de trouver la

parade qui le sauvera de ce guet-apens, peut alors provoquer en lui un trouble spéculaire : le regard d'un

dehors porté sur lui-même et qui pourtant ne peut être que le sien. Sur ce point, on pourrait considérer

que Kulik trouve son pendant philosophique dans les derniers travaux de Jacques Derrida (Derrida,

2006). L'anthropocentrisme s'y voit ébranlé à l'occasion d'une expérience du quotidien, anodine en

apparence : être surpris, au sortir de la douche, par le regard d'un chat. Stupeur et pourtant familiarité

20 Tout comme dans la nouvelle de Kafka, l'espèce canine peut représenter le « peuple juif ». 21 Ici l'expression est à prendre dans tous ses sens. 22 Surtout si, retransmise, la distance du médium vidéo et sa temporalité d'enregistrement libèrent le spectateur d'une part du cantonnement à sa position d'homme qu'implique bien plus radicalement le fait d’assister en direct à la performance. 23 Au cours de l'une de ses interventions, Mad Dog, en 1994, Kulik va mordre la main qu'un spectateur lui tendait puis le renverser sur la chaussée. Par le refus de cette signification simple de reconnaissance, voire d'intégration, l'artiste-chien remet brusquement en cause la trop évidente bonne conscience éclairée qui dispense son auteur, à travers un tel geste, d'en appliquer réellement la politique. Jean-Marc Proust analyse ainsi cet acte qui peut relever de la bestialité la plus avérée : « négligeant de respecter son territoire, un spectateur est mordu et Kulik arrêté par la police suédoise. » (Proust, 2011) L'arrestation poursuit, autant physiquement que politiquement, cette confrontation d'un être, perdu entre humanité et animalité, avec le contexte social dans et pour lequel elle eut lieu.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

émanent soudain de ce monde qui transparaît dans ces yeux-là. Retour original sur une histoire de

l'homme face à l'animal, de l'homme sur l'animal, de l'homme re-vu par l'animal. S'ébauche alors un re-

questionnement fondamental touchant à nu les fondements d'une humanité instauratrice de « sa propriété »

et de « sa supériorité sur la vie dite animale » (Derrida, 2006, p. 40).

Ne serait-on pas également tenté d'affirmer que, devenant chien, et non pas tout à fait bête, l'artiste se

tourne résolument vers une existence plus authentique, plus naturelle ? Il devient la preuve dans et par la

chair que l'on peut échapper au jugement en incarnant radicalement celui-ci. Incarner c'est aussi déjouer

par le corps. En jouant la sauvagerie, la violence, l'étrangeté, il veut retourner contre les juges humains le

miroir d'une animalité à laquelle ils n'échappent pas et, par-là, les déstabiliser, ou même les destituer. Le

civilisé n'est pas celui qui se targue de l'être, la violence de son propos révèle une autre bestialité, plus

sournoise, plus tolérée.

Zwischen land24

À l’image du métamorphosé de Kafka, dans la performance de Kulik, le mutant interroge l'homme. Car

c'est bien le résultat d'une mutation à laquelle nous avons affaire. Cependant la monstruosité ne provient

pas d'un être incongru, hors norme, fantastique, mais d'un chien, l'animal dont la fidélité vient autant de

sa proximité avec l'homme que de sa solide force figurale. Ce n'est pas le spectacle d'une altérité de

confusion que donne Kulik, mais bien de l'animal comme incarnation du grand étranger. On le côtoie,

on croit le connaître et pourtant il est irrémédiablement de l'autre côté.

Cette attitude consistant à n'être ni dedans ni dehors, ni de l'un ni de l'autre, et désirant se construire non

en face ou en opposition, mais de l'endroit même où la société est fondée, constitue aussi bien la position

adoptée par Kulik que la créature kafkaïenne. Et tous deux veulent laisser émerger l’entre plus encore que

de l'autre, l'interstice relationnel, les transmetteurs sociaux, et plus largement, tel un éthologue hyper-

participatif, la mécanique qui ordonne les rapports spécifiants du groupe.

Les rues ou les parvis d'institutions représentatives sur le plan politique et économique, dans lesquels

évolue ce chien, sont autant d'espaces transitoires desquels peuvent émerger les bribes d'une humanité

absorbée, dissoute par des flux de circulation et de communication dominants. En aboyant sur les

passants, le chien cherche-t-il à pousser l'homme, l'animalité humaine, à revenir sur les lieux qu'elle a

bâtis ? L'homme n'est-il pas lui-même ce chien errant tenu en laisse, cet être perdu eux aussi dans l'espace,

24 Pays, contrée, lieu, mais aussi état de conscience intermédiaire. Terme employé notamment par S. Freud dans une correspondance avec W. FIiess (Freud, 1985). Ajoutons que Zwischenland (en un seul mot) fait partie du titre d'un recueil de nouvelles de Lou Andreas-Salomé : Im Zwischenland, Fünf Geschichten aus dem Seelenleben halbwüchsiger Mädchen (Andreas-Salomé, 1902)

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

de moins en moins capable de se définir, de s'identifier ? Kafka, lui aussi, met en scène des animaux à la

conscience humaine, perdus dans des espaces qui les dominent, en quête d'une identité qu'ils peinent à

concevoir. À partir d'une analyse que le critique Fredric Jameson fait de l'hôtel Bonaventure de l’architecte

John Portman, Marc Wigley tire le constat suivant :

Faire l'expérience de l'espace post-moderne, c'est faire l'expérience de la perte d'un espace antérieur, la perte de ses

histoires. Mais la seule histoire qui semble être menacée par l'hôtel est celle du critique lui-même. Le critique est

perdu devant une forme nouvelle d'espace, là où être perdu signifie être incapable de décrire la chose elle-même.

Être perdu dans l'espace c'est l'histoire de la crise de l'objet, comprise comme une crise du sujet, une crise d'identité.

Être perdu, c'est perdre le sens des choses (Jameson, 2007, p. 43).

Cette perte de sens est à comprendre à la fois comme perte de signifiance et perte de direction, voire de

lieu, de place. Tout comme le fouisseur du « Terrier » parcourt inlassablement des galeries dont il semble

n'en plus être l’architecte, Kulik erre dans les rues, cherche des repères vivants, plus que sociaux, de corps

en corps, mais n'y arrive pas. Du moins entend-il montrer par cette performance que l'on n'y arrive plus.

Et c'est en convoquant l'animal qu'il peut faire surgir l'état, l'ampleur de cette perte. Cette créature perdue

entre l'identité humaine et canine, montre un être perdu entre son animalité intrinsèque et cette humanité

construite de toute pièce, cet objet dont le danger réside dans le fait qu'il a dissous certaines bases de sa

subjectivité, une subjectivité animale. Kulik entend aussi montrer que le désir d'hypersubjectivité,

d'hypercommunicabilité a finalement mené à une dissolution du sujet et un appauvrissement des échanges

entre les êtres. Mais cette perte du sujet n’était-elle pas déjà constatée par Kafka de personnage en

personnage, pris dans les méandres d’une organisation supérieure ayant elle-même comme perdu son

sens, mais refusant obstinément d’en convenir25.

La voix de son être

Chez Kulik comme chez Kafka, la voix de la bête est centrale. Elle indique une vie intérieure à laquelle

l'auditeur a accès sans parvenir à l'atteindre tout à fait. En effet, lorsqu'un inconnu prend soudain la

parole, alors qu'il n'avait laissé transparaître de lui que d'étranges aspects physiques ou comportementaux,

on attend les indices fondamentaux de son état d'esprit, si ce n'est de sa santé mentale. Il en va donc de

même face à l'allure et aux agissements inopportuns de cet individu, homme et chien à la fois. La première

urgence est de tenter de le situer mentalement, voire psychologiquement, pour identifier le danger,

l'ennemi, le prédateur potentiels.

25 Sauf peut-être lors du retournement final de « la parabole de la Loi » qui est racontée par un prêtre à Joseph K., dans Le Procès à l'avant-dernier chapitre (et qui figurera en 1915 sous le titre Devant la loi).

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

Si avec Kulik, le chien s'exprime en chien, d'autres éléments paraissent le rapprocher du héros canin de

la nouvelle de Kafka. Le corps d'abord est bien le vecteur premier de l'action. Sa chorégraphie,

mystérieuse et incompréhensible pour la plupart des spectateurs malgré eux, fascine et inquiète le public.

Puis, plutôt que de délivrer une parole, cet humain, dont la farce semble bien pesante, grogne, aboie,

gémit. Le doute qui s'installe une fois que le performeur a pris voix rappelle le doute qui façonne la

conscience du narrateur kafkaïen contaminant le lecteur.

Les « Forschungen » que Kafka fait pratiquer à son animal-enquêteur se fondent d'abord sur une esthétique

de la douleur, dont sont loin d'être exemptes les actions de Kulik. Dans les « Recherches d'un chien », le

narrateur entretient une confusion, voire une fusion lorsqu'il affirme : « c'étaient bien des chiens, des

chiens comme toi et moi » (Kafka, 2008, p. 284). Il se dit à la fois l'égal du lecteur et, partant, ne niant

jamais sa nature de chien, nous fait partager une existence canine qui pour lui va de soi. Cette existence

s'avère donc une évidence. Elle est soulignée par une formule induisant l'incontestable et pourtant

surprenante origine animale de son lecteur-confident qui ne peut éviter de se sentir soudain emporté par

cette qualification incongrue. Chez Kulik, même si l'homme ne cesse d'être exposé et ce, en flagrant délit

de nudité, au cœur de l'espace public, semblant plus associer que fondre tout à fait les deux natures,

impossible d'espérer qu'une voix humaine dissipe, dissolve la confusion qui hante cette incarnation.

La quête même des personnages de Kafka consiste à tenter de se percevoir, de s’envisager dans la relation

à l’autre, mais celle-ci reste toujours difficile, voire impossible. Kulik, qui a choisi d'opérer

intentionnellement et par lui-même le déplacement, allant jusqu'à évacuer de nombreuses marques de son

humanité, n'en cherche pas moins le même effet retour, non pas la réanimalisation de l'homme mais bien,

par la confusion avec le chien, la réanimation de sa conscience animale.

Ce qui reste une exposition involontaire à un animal domestique chez Derrida, représente avec Kulik une

stratégie supérieure ou seconde de monstration charnelle et prend chez Kafka l’allure d’une mise à nu

morale. Dans les trois cas, l’enjeu, l’horizon de la rencontre de l’autre donne lieu à un véritable

déshabillage de l'humain. La déconstruction du regard sur autrui initie même une dé-monstration de son

fonctionnement, de sa logique profonde. Ce qui pouvait être qualifié de « passivité de la nudité »26 par le

26 La nudité se réfère, voire nous réfère, pour Derrida, à l'un des piliers de notre civilisation. Face à l'animal, la réaction première, originelle, est bien de se réfugier dans le temple « judéo-christiano-islamique » le plus proche et le plus fondamental. Derrida, par cette expérience, a « voulu vérifier l'invariance jusque dans notre modernité […] d'une loi ancestrale ». « J'ai voulu me rappeler à la nudité devant le chat, depuis le temps, depuis un temps antérieur, dans le récit de la Genèse, depuis le temps où Adam […] crie leurs noms aux animaux avant la chute, nu avant d'avoir honte de sa nudité. […] Je ne pouvais donc

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philosophe surpris à la dérobée par son chat, a, chez l'artiste, le caractère d'une action de nudité

ouvertement revendiquée.

Kafka est l'un des auteurs majeurs d'une honte civilisationnelle. Pour cet héritier de la rigueur et de la

spiritualité juive, ayant souffert par son père d'une violence morale, écrire devient l'occasion de fouiller

sans retenue les rouages de cette vieille douleur sociale. Dans « Recherches d'un chien », comme dans

une bonne part de son œuvre, le narrateur, dont le monde intérieur envahit tout le récit, se débat avec

son pire ennemi, cette blessure qui le hante et l'a construit, la culpabilité27. Il porte sur lui-même le regard

triste du voyant incompris : « Mon exploit me parut si grand que, [...] je me mis à pleurer d'émotion et

d'apitoiement sur moi-même, … » (Kafka, 2008, p. 325).

Autoportrait de l'homme en animal

Lorsque l'artiste russe prend le point de vue de l'animal, il perçoit qu'il peut s'extraire, ne serait-ce que

fugacement, de sa condition d'homme. Il cherche à offrir à l'humanité un autoportrait par le dehors, par

le contour. Dans les « Recherches », le héros vit une dépossession de soi similaire. On l'a vu, il confie :

« je n'étais véritablement plus du tout moi-même » (p. 334). L'alternance d'excitation et d'épouvante

engendrée par l'expérience du jeûne que constitue ses recherches le mène à un état modifié, supérieur,

extatique, un « regain de vitalité » (p. 333), une transfiguration. Le sentiment, ou plutôt l'« instinct »

d'inaptitude (pp. 336-337), qu'il conçoit comme un bien, la mélancolie que lui provoque le monde de ses

semblables, et la maladie fatale qu'elle a initiée en lui, entraînent le narrateur à une révolution d'abord

lisible physiquement, un profond élan de réincarnation. Enfin, son corps baignant dans son sang, dont la

vie aurait dû s'être retirée, se voit soudain transcendé. Le passage par l'altérité et le deuil de soi, nécessaire,

donne brusquement sur un nouveau jour, un au-delà dans lequel évolue un être à l'animalité imprécise,

confuse, et pourtant accomplie qu'incarne un mystérieux chien, au « beau regard droit et scrutateur » (p.

331).

C’est peut-être par souci de l'autre que Kafka et Kulik, hors de toute taxinomie, comme placés dans

l'antichambre de l'existence, veulent savoir ce que signifie être un animal – donc, par retour, confusion

ou confrontation, être homme.

m'étonner de mon trouble, cette honte d'avoir honte, nu devant l'animal ou les animaux, qu'en me reportant à un temps d'avant la chute, avant la honte et la honte de la honte. » (Derrida, 2006, p. 40) Derrida se demande, à l'endroit même de sa nudité nouvelle, ou à nouveau véritable, et à l'âge d'avant ces temps qui le firent et nous firent hommes de la modernité, s'il peut s'approcher de l'animal, en acceptant enfin de se voir regardé nu. 27 Notons ici que dans Le Procès, roman entièrement consacré au sentiment de culpabilité et à l'œuvre du jugement du groupe sur la conscience de l'individu, il est dit à la toute fin que Joseph K. est exécuté « comme un chien ».

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

Les « Recherches », à la fin, nous délivrent un message en suspens. Certaines forces animales profondes

empêchent l'enquêteur, le chercheur, de garder le but de « sa science ». Mais ce qui a tout de l'instinct n'a

plus rien de négatif, même s'il a détruit ses capacités scientifiques.

C'était l'instinct qui, peut-être précisément dans l'intérêt de la science – mais d'une science différente de celle que

l'on pratique aujourd'hui, d'une science ultime –, m'a fait placer la liberté au-dessus de tout le reste. La liberté ! Bien

sûr, la liberté telle qu'elle est possible de nos jours une pauvre plante chétive. Mais elle est tout de même liberté,

tout de même quelque chose de bien à soi. (p. 337)

La nouvelle s'achève ainsi.

Kafka, Kulik, et même Derrida, ont mené des « recherches » d'un autre ordre grâce à cette libération

d'une force et d'une forme animales qui ne peut pas nous avoir quittés. Il s'agit pour eux de rompre avec

une animalité réifiée, objet d'un discours anthropocentré, c’est-à-dire rompre avec l’humanité, pour

réinvestir une animalité qui ne va forcément pas de soi, même si elle est pleinement de soi, de la nature-

même du sujet. Kulik n'est plus dans ses performances ni homme ni bête, mais sans doute les deux, dans

un territoire intermédiaire où erre un corps qui ne sait plus à quelle humanité se vouer. Kafka, pour sa

part, pratique l'incarnation animale pour atteindre à une intelligence du vivant dépassant toute

différenciation. Tous deux néanmoins ont investi la figure et le corps du chien, « chien comme toi et

moi » (p. 284), afin d'en tirer un savoir fondamental commun, le savoir de l'inassouvi.

Et chez Kafka, comme chez Kulik, ce savoir passe par l'abandon de soi, ouvrant sur l'envers d'un décor

où humanité et animalité n'auraient plus à tenir leurs positions. Il s’agit de montrer à l'homme une

animalité dont il ne pourrait, malgré ses plus vifs efforts, être exclu. Kulik est nu dans ses actions, mais,

au-delà de la nudité qui pourrait offrir la vision d'une communauté corporelle, c'est la chair qu'il donne à

voir, et qu'il laisse s'exprimer. L'expression de la chair, c'est peut-être ce que recherchait Diogène à travers

une forme d'essentialité nue28 : un corps non pas confronté à la nature, ni même vivant dans la nature,

mais bien à et de la nature.

28 Ne peut-on y voir un appel à la figure de Diogène le cynique, à sa remise en cause des valeurs humaines dont il voulait radicalement se dissocier pour retrouver la voie d'une sagesse naturelle en adoptant le point de vue animal ? Il n'est qu'à songer aux désirs exprimés au travers des anecdotes en forme de paraboles que l'on se plaît à rapporter à son sujet : le fait qu'il marchait pieds nus, qu'il cassa son écuelle afin de boire à même ses mains, et qu'il fit à Alexandre cette unique requête de bien vouloir s'ôter de son soleil. Pour lui, n'avoir aucune médiation entre lui et la terre, entre lui et l'eau et entre lui et le soleil, représentait les conditions premières de l'accès à la sagesse. Toutefois, Kulik, contrairement à Diogène, n’entend pas seulement adopter la posture d’un animal déconsidéré pour s’extraire de sa propre société, il offre un corps en action, bien que contraint par la laisse, pour tenter une réincarnation, un repositionnement.

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Selon Merleau-Ponty, « dépasser vraiment c’est aussi conserver ; en devenant autre, on ne doit pas refuser

d’assumer ce que l’on a été. » (Merleau-Ponty, 2001, p. 501) Kafka et Kulik élèvent au rang de raison

(aussi vivante que celle dont l'homme se croit seul investi), une autre raison qui, si elle se distingue par

bien des aspects de celle de l’être humain, ne lui est pas pour autant résolument étrangère.

Kafka et Kulik, en destituant l’humain de son poste d’observation et d’ordonnance du monde, semblent

appeler de leurs vœux une restitution, celle d’une nature inaliénable qui est aussi une raison d’être.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Thamy Ayouch

L’hybride, le psychique et le social : pour une psychanalyse mineure

ABSTRACT

Hybridity, psyche and society: towards a minor psychoanalysis

This article claims that the “identity” of psychoanalysis is only founded through its relation to its outside: hybridity, the inclusion of foreign, heterogenous

elements, defines the psychoanalytical approach, and a conceptual, theoretical and epistemological hybridization of its discourse is what guarantees that it

remains psychoanalytical. This dimension proves crucial, and clinical, when it comes to conceiving of a psychoanalytical approach of minorized and otherized

subjects that stretches beyond the gender, sexuality and race normativity which prevails in certain discourses and practices performed in the name of

psychoanalysis. Through a historical deconstruction of the norms that may characterize clinical and theoretical psychoanalysis, the article aims to define a

political psychoanalysis likely to listen to minor discursivities: a minor psychoanalysis, after the model of minor literature that Deleuze and Guattari find in

Kafka.

Keywords: Minor psychoanalysis, hybridity, vulnerable subjects, norms, historicity.

1. Problématisation : mosaïques et sujets mineurs

Analysant l’œuvre tardive de Freud L’Homme Moïse et le monothéisme, Edward Said soutient que Freud y

revient de manière obsessionnelle sur le problème de l’identité de Moïse (Said, 2004). S’il s’agit, dès la

première phrase du texte, d’« enlever à un peuple l’homme qu’il honore comme le plus grand de ses fils »

(p. 63), c’est parce que Moïse, clairement identifié comme Égyptien par Freud, est étranger au peuple qui

l’a adopté comme son chef (p. 51). Freud remet ainsi en question l’idée qu’une religion, une culture

pourrait-on ajouter, naisse de l’intérieur d’une communauté : Moïse est égyptien, le monothéisme est

emprunté à Akhenaton, la circoncision est une pratique d’abord égyptienne, les Lévites sont identifiés

comme disciples égyptiens de Moïse, et jusqu’au Dieu Yahvé est sans doute emprunté à la tribu arabe

voisine des Midianites. Le judaïsme, mais aussi la judéité, ne sont, dans cette généalogie, possibles que

par l’inclusion d’un élément étranger : être juif/ve ne peut être défini sans rapport avec le non-juif.

L’identité juive n’est pas alors homogène, univoque et exclusive, elle ne peut se constituer sans cette faille

ou imperfection originelle radicale, une caractéristique susceptible, selon E. Said, d’« être appliquée et [de]

parler à d’autres identités se sentant menacées » (pp. 84-85).

Prolongeant la démarche d’E. Said, Judith Butler soutient que la relation éthique au non-juif est

constitutive de ce qui est juif (Butler, 2013). Dans cette définition de l’identification juive précisément par

ce qu’elle n’est pas, la relation à l’altérité vient destituer l’ontologie, interrompre l’identité comme ipséité

et coïncidence à soi, et en faire le résultat d’une relationnalité. Cette brisure de l’identité et son extimité

incarnée par la figure de Moïse, Jacqueline Rose, dans sa réponse à Edward Said (Said, 2004, pp. 105-

106), l’attribue au rapport de Freud à sa propre identité juive. Ainsi rappelle-t-elle la préface à la traduction

en hébreu de Totem et Tabou, rédigée par Freud en 1930 :

107

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Aucun lecteur de [l’édition en hébreu de] ce livre ne saurait se mettre si aisément dans les sentiments de l’auteur,

qui ne comprend pas la langue sacrée, est devenu totalement étranger à la religion de ses pères – comme à toute

autre -, ne peut partager les idéaux nationalistes sans avoir pourtant renié son appartenance à son peuple, ressent

sa spécificité comme juive, et ne la souhaite pas autre. Si on lui demandait : « qu’y a-t-il encore de juif en toi, depuis

que tu as abandonné tout ce que tu avais là en commun avec ceux de ton peuple ? », il répondrait : « Encore

beaucoup de choses, probablement l’essentiel ». (Freud, 1998, p. 195)

La spécificité juive dont Freud se considère dépositaire, dont il revendique l’essence ou l’« essentiel », ne

tient pas à une identification religieuse, linguistique ou nationale : elle n’est pas rapport au même mais à

une nécessaire altérité. Peut-être est-ce là précisément le sens que pointe le signifiant « hébreu »,

[ivri], où le verbe trilitéral source, [‘avar], renvoie au passage et à la traversée.

Ces considérations de la judéité sont, à mon sens, susceptibles d’être étendues à la psychanalyse elle-

même. Je soutiendrais qu’une « identité » de la psychanalyse ne vient que de sa fondation par ses

extériorités : l’hybridité, inclusion d’éléments étrangers, disparates, hétérogènes, est constitutive de sa

démarche. En outre, et comme la judéité, la psychanalyse ne peut rester figée dans une identification

imaginaire à elle-même : sa gageure est, pour demeurer psychanalytique, d’entretenir un rapport constant

avec des discours autres, de s’hybrider. Une hybridation conceptuelle, théorique mais aussi

épistémologique du discours analytique par d’autres discours semble constituer la condition de maintien

de sa démarche psychanalytique, celle d’un rapport fondateur à l’extimité.

Mais pourquoi insister particulièrement sur cette question épistémologique ici ? Cette dimension s’avère

fondamentale, et proprement clinique, lorsque sont abordées par la psychanalyse des sujets minorisés ou

altérisés. Une abondante littérature psychanalytique porte en effet depuis plusieurs décennies sur les

homosexualités, les transidentités, les postures de sexualités et de sexuation non hétérocentrées, ou sur

les réagencements familiaux, le plus souvent dans une visée à la fois nosographique et étiologique. Par

de là les forfanteries médiatiques de psychanalystes dans les débats autour du PaCs, du mariage pour

tous/tes ou de l’homoparentalité1, le péril semble plus sérieux lorsque sont développées des catégories

1 Voir à ce sujet : T. Anatrella « Ne pas brouiller les repères symboliques », Le Figaro, 16 juin 1998 ; id., « A propos d’une folie », Le Monde, 26 juin 1999 ; id., La différence interdite, Paris : Flammarion, 1998 ou encore id., Le règne de Narcisse. Les enjeux de la différence sexuelle, Paris : Presse de la renaissance, 2005 ; M. Balmary, « Mariage pour tous : la parole en danger », in La Vie, 1er février 2013 ; C. Flavigy, « Le PaCs, l’enfant et Freud », Libération, 19 octobre 1999 ; S. Korff-Sausse, « PaCS et clones : la logique du même », Libération, 7 juillet 1999 ; P. Legendre, Le Monde de l’éducation de décembre 1997, « Nous assistons à une escalade de l’obscurantisme », Le Monde, 23 octobre 2001 ; Serge Lesourd, Le Monde, 14-15 mars 1999 ; A. Magoudi, Le Monde, 5 novembre 1997 ; M. Schneider, « Désir, sexe, pouvoir », et « Malaise dans la sexualité ? Du nouvel ordre sexuel au nouvel ordre matriarcal », Esprit, mai 2002 ou Big Mother. Psychopathologie de la vie politique¸ Paris : Odile Jacob, 2002 ; J-P. Winter, « Gare aux enfants symboliquement modifiés », Le Monde des débats, mars 2000, et, avec M. Vacquin, « Non à un monde sans sexes », in Le Monde, 4 décembre 2012.

ע ב רי

ע ב ר י

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

dites « scientifiques », académiques, pour rendre compte des déviances de genre et de sexualité. Ainsi

renvoie-t-on encore l’homosexualité à une immaturité sexuelle (incapacité d’intégrer le courant affectif

œdipien), à une régression post-œdipienne, à un syndrome dépressif cherchant compensation narcissique,

ou à une psychose reconstruisant de manière délirante la réalité (Bergeret, 2003). Nul scrupule alors à

tordre la clinique pour qu’elle vienne confirmer les élucubrations théoriques les plus péremptoires, qui la

précèdent toujours. Ainsi, pour l’une, la relation homosexuelle, au « potentiel psychotisant » d’une

patiente étudiée à la loupe correspond à une « néo-réalité, […] ghettoïsation, […] néo-identité sexuelle

confortée par la spécularité apportée par la compagne, [qui] répondent alors à une crise existentielle

majeure » (Bourdellon, 2003, p. 111). Pour d’autres, l’homosexualité est une Imposture perverse (André,

1993) : la lesbienne vise à donner son pénis imaginaire à l’objet pour voiler son manque (Julien, 2000), et

confirme en même temps la castration de l’homme et sa propre non-castration. Un autre voit dans le

« désistement », notion artificiellement isolée dans l’analyse par Freud d’une jeune femme homosexuelle

(Freud,1973), la clé de toute homosexualité, considérée ainsi comme naturellement vengeresse2.

Et c’est avec la même normativité, la même suffisance à se croire détenteurs/trices des règles de la

subjectivation, et la même science confuse que bien des psychanalystes ont abordé les transidentités.

L’une fait ainsi des personnes trans des sujets états-limites, « malades du narcissisme » pour qui toute

élaboration est court-circuitée, évacuée dans l’acte et le corps (Chiland, 2005). Si les freudien/nes

cherchent à débusquer les « vrais transsexuels », pour permettre l’accès protocolisé aux soins, codifié et

conditionné par des gages de conformité de genre, la veine lacanienne, plus catégorique, brandit

religieusement le diagnostic de psychose. La formule lacanienne péremptoire décidant que « le

transsexualiste » confond l’organe et le signifiant3, et la violence clinique inouïe dont le maître fait preuve

avec deux femmes trans font des émules (Lacan, 1992, 1996). Les approches d’autres lacaniens sont

2 « Ne peut-on tirer des leçons générales de cette particularité vengeresse du désistement, qui le distingue d’une simple identification au père ? (…) On a ainsi un éclairage particulier d’une caractéristique de nombre d’homosexuels, pour lesquels il devient, à un certain moment de leur existence, urgent d’informer leurs parents de leurs choix. Il est rare que les hétérosexuels se donnent cette peine : ils préfèrent le plus souvent s’isoler de la curiosité de leur famille. (…) On peut penser que tous les homosexuels qui sont dans la même configuration que celle abordée par Freud (c’est-à-dire dans la « normalité » post-œdipienne) sont tenaillés un jour par l’envie pressante de faire connaître leur choix à leurs familles. Mais cela ne suffit pas encore pour massifier leur vœu et en faire une revendication collective de reconnaissance sociale. Car, au-delà d’une monstration vengeresse du changement d’objet, souvent mise sous les yeux du père, c’est la société tout entière qui peut être prise à témoin de cette affaire intime. (…) Quoiqu’il en soit, on ne peut considérer comme inexistante dans la revendication d’une reconnaissance publique de l’homosexualité, une dimension de vengeance liée au désistement » (Pommier, 2010, pp. 80-81). L’absurdité de cette position et le ridicule qu’elle affiche, en omettant d’inscrire la « revendication collective » dans une dimension sociétale d’acceptation ou de refus des homosexualités tient à une dépolitisation totale des sexualités, autant que de la psychanalyse. 3 « Un organe n’est instrument que par le truchement de ceci dont tout instrument se fonde, c’est que c’est un signifiant. Eh bien, c’est en tant que signifiant que le transexualiste n’en veut plus et pas en tant qu’organe. En quoi il pâtit d’une erreur, qui est l’erreur justement commune. Sa passion, au transexualiste, est là folie de vouloir se libérer de cette erreur : l’erreur commune qui ne voit pas que le signifiant, c’est la jouissance et que le phallus n’en est que le signifié Le transexualiste ne veut plus être signifié phallus par le discours sexuel, qui, je l’énonce, est impossible. Il n’a qu’un tort, c’est de vouloir le forcer, le discours sexuel qui, en tant qu’impossible, est le passage du Réel, à vouloir le forcer par la chirurgie », (Lacan, 1973, séance du 8 décembre 1971).

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

autant de variations sur le thème « Jacques a dit ». Pour l’un, le « sujet transsexuel » ne reconnaît pas le

grand Autre, enlisé dans un commerce avec le seul « autre de la demande, sans l’au-delà obscur du désir »

(Safouan, 1974). Pour un autre, « le transsexuel » n’accèderait qu’à une castration réelle, chirurgicale, faute

de parvenir au statut symbolique de la différence des sexes (Dor, 1987). Un troisième considère qu’à

l’origine de toute transidentité résiderait une identification psychotique du sujet à la seule « fonction du

voile » propre au « déguisement transsexuel » (Czermak,1982). Et tous/tes s’accordent à bannir les sujets

trans « hors du sexe » (Millot, 1983 ; Frignet, 2000 ; Morel, 2004), du fait de leur refus de reconnaître le

phallus symbolique (Frignet, 2000).

Que des psychanalystes s’auto-proclament garants d’un fonctionnement inaltérable de l’appareil

psychique s’avère très problématique. Parlant au nom de la psychanalyse, dans un mélange de dogme et

de psittacisme, ils gratifient la communauté de leurs « perspectives de grenouilles » peu soumises à

l’analyse du contre-transfert, et reproduisent les stéréotypes les plus poussifs dans un habillage de

métapsychologie éternitaire. La considération descriptive des modalités d’arrangement des sexes, des

configurations historiquement situées des sexuations et des sexualités, dont découlent nombre de notions

psychanalytiques, devient alors prescriptive d’un seul mode de subjectivation, et exclusive d’une variété

reléguée à la pathologie.

Si, idéalement, la psychanalyse ne saurait imposer des normes de subjectivation, puisqu’elle œuvre

précisément à leur déconstruction, elle ne manque pas, comme institution, d’être rattrapée par elles. Les

normes de subjectivation auxquelles est soumis/e l’analysant/e réapparaissent dans la cure, autant de son

côté que de celui de l’analyste et la visée, toujours asymptotique, de suspension de la normativité en séance

implique que l’analyste accompagne l’analysant/e dans la découverte de la contingence de ces normes,

sans s’épargner leur déconstruction dans sa propre posture.

Ces normes, du reste, ne régissent pas uniquement les sexualités et sexuations : elles portent également

sur les différences ethniques, culturelles ou linguistiques et définissent le positionnement social et

psychique de sujets « altérisés ». Ces « autres » de l’Occident propres à l’orientalisme (Said, 1980), autres

internalisés pointés par F. Fanon (Fanon, 2011), sont à la fois inférieur/es et menaçant/es. Ils/elles ne

forment toutefois un groupe que par l’exclusion dont ils/elles font l’objet et qui les uniformise en leur

attribuant les mêmes traits négatifs, définissant ainsi en creux l’identité d’un groupe majoritaire. Un

groupe altérisé n’est donc pas une communauté identitaire, mais une catégorie naturalisée par la

discrimination et à laquelle est ainsi assignée une identité homogène autre.

C’est pourtant l’attention à l’altérité qui caractérise l’écoute analytique. L’écoute analytique n’advient que

si elle ne cherche pas à réduire l’autre par le même, à ramener l’étranger à la familiarité de ce que l’analyste

connaît ou comprend. Comment alors écouter l’inintelligible, comment ne pas l’écarter de prime abord

comme altérité totale et inaccessible, ni, au contraire, le ramener à des modèles familiers ? Comment se

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

positionner ici dans la pratique analytique et selon quelles catégories construites rendre compte de cette

inintelligibilité ? Dans cette attention à l’inintelligible, si l’altérité principale reste celle de l’inconscient, les

représentations culturelles et subjectives de l’autre inscrit/e dans un référentiel distinct, les différences

ethniques ou de genre et les « vies inintelligibles » semblent occuper une place centrale.

Plus globalement, la question qui ici surgit est celle du rapport d’une perspective clinique et

épistémologique à sa propre contemporanéité. Appréhender les sexualités et sexuations actuelles, les

revendications culturelles ou la dénonciation des implications coloniales de certains dispositifs comme

l’effet de « militance politique » aux antipodes des visées de la psychanalyse, c’est inscrire celle-ci, les

questions qu’elle aborde et leur théorisation dans la sphère éthérée de l’intemporel et de l’a-politique. La

procédure consistant à nier l’historicité des formations discursives et leur inscription politique est, malgré

qu’elle en ait, elle-même politique. Faisant de l’intime ou du privé qu’aborde la psychanalyse un lieu hors

polis, elle maintient ininterrogés les rapports de pouvoir qui le structurent. Le politique, abordé dans ses

fins, ne se limite en effet pas à l’ars politicum, stratégies et exercices laissés à la discrétion du « prince »,

mais s’étend à l’ensemble des manifestations propres à l’organisation sociale, et aux modes de

gouvernance qui la caractérisent. À ce titre, la psychanalyse s’avère politique, du fait de l’inscription du

sujet et du sujet de l’inconscient dans l’espace de la polis et ses configurations de pouvoir, mais aussi du

fait des effets normatifs, ou au contraire déconstructeurs que la pratique et la théorisation analytique

peuvent entraîner.

Prendre acte de cette dimension irréductiblement politique implique, pour les psychanalystes,

d’accompagner leur approche de la subjectivité directement d’une analyse des modes de gouvernance

propre à un espace historico-social donné, et des effets que leur dispositif peut y susciter. La gageure est

alors de saisir sa propre contemporanéité, d’effectuer une archéologie de son propre discours, de

discerner les formations discursives de sa propre époque et d’habiter une paradoxale dys-chronicité. Cette

perspective convoque donc l’extériorité d’autres discours : elle implique l’hybridité comme motif

analytique et l’hybridation comme destin épistémologique.

En d’autres termes, cette psychanalyse politique œuvrerait à analyser la manière dont la production des

discours, subjectifs et collectifs est contrôlée, organisée par un ensemble de procédures particulières, où

comme le souligne M. Foucault, tout discours singulier qui se fait entendre implique la réduction au

silence d’une multiplicité d’autres discours. Il s’agirait alors d’écouter la manière dont, chez chaque

analysant/e, apparaissent les systèmes d’exclusion caractéristiques de l’ordre du discours : la parole

interdite, le partage de la folie et la volonté de vérité (Foucault, 1971, p. 12). La visée serait de permettre

à une discursivité mineure de surgir au sein des discours majeurs, à la fois collectifs, et dans leur incidence

sur la subjectivation.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Mon propos sera donc de tenter de définir ici une « psychanalyse mineure » à l’écoute de cette discursivité

mineure, en étudiant, d’abord, la manière dont y agit le motif de l’hybridité.

2. Hybridité et psychanalyse

Depuis les années 1990, on peut observer une remarquable ubiquité du thème de l’hybridité, dans une

pluralité de champs : dans le domaine de la biologie (agriculture, élevage et horticulture, génétique, bio-

génétique, et cybernétique), des sciences humaines et sociales (anthropologie, linguistique, critique

littéraire, culture et arts). Deux motifs semblent prévaloir : l’hybridité des corps, et celle des cultures et

histoires. D’un côté, une pluralité de pratiques médicales, orthopédiques ou technologiques, depuis la

greffe jusqu’aux membres bioniques, en passant par divers types de prothèses, investit le corps et promeut

la notion d’hybridité dans le discours de la science. D’un autre, l’hybridité devient un outil d’analyse des

dynamiques de formation de groupes et des inégalités sociales entre cultures, ethnies, classes, genres et

sexualités.

Plus que comme thème et contenu d’un certain nombre d’énoncés, c’est au niveau de l’énonciation que

la thématisation de l’hybridité a des effets. L’hybridité des corps est souvent appréhendée comme

conséquence d’un développement « post-humaniste » des sciences et des techniques, conduisant à un

abandon du corps, ou à sa dématérialisation, et, partant, à la perte de dimensions anthropologiques

fondamentales. Par ailleurs, si le fait que toute population soit hybride reste un truisme, prêter ce motif

de l’hybridation, par les discours des études culturelles et postcoloniales, à des populations migrantes ou

descendantes de migrations a un effet politique : lever le négationnatisme d’une longue histoire de

suprématie imposée de la « race blanche » et de désaveu de tout mélange culturel, et mettre en exergue la

spécificité actuelle des populations migrantes ou originaires de migrations. Ces discours renversent ainsi

un rapport de force : ils ne l’annulent pas mais le reconfigurent. L’hybridité y apparaît alors, plus que

comme mélange de traits propres à des cultures différentes, comme altération du niveau énonciatif de

tout discours culturel : elle est ce qui s’y manifeste à titre de symptôme.

L’hybridité ne vient donc pas perturber l’identité au seul niveau des énoncés, ce qui reste ici une

lapalissade : sur le plan des énonciations, la discursivité visant ce thème implique des procédures

politiques de régulation des identités – fondées sur un programme de l’humain, - ou, au contraire, de

disruptivité qui, brisant la certitude d’un discours, l’ouvrent à ce qu’il ne contrôle pas.

C’est ce même trouble de l’énonciation qu’effectue l’occurrence de l’hybridité dans le discours

psychanalytique. Le terme central y renvoyant chez Freud est celui de « sang-mêlé », utilisé, dans le texte

« L’inconscient », pour évoquer la nature double du fantasme. Une ligne harmonique de l’hybridité

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

traverse ce texte, depuis le mélange constitutif de la théorisation de l’inconscient, à la croisée du psychique

et du social, la double hypothèse du passage de l’inconscient à la conscience, l’appellation hybride

d’« affect inconscient », jusqu’à la multiplicité dynamique du processus du refoulement. Le thème de

l’hybridité résonne alors pleinement et en ces termes :

Parmi les rejetons des motions pulsionnelles ics présentant le caractère que nous venons de décrire, il en est qui

réunissent en eux des déterminations composées. D’une part, ils sont hautement organisés, dépourvus de

contradiction, ils ont utilisé toutes les acquisitions du système Cs et notre jugement a bien de la peine à les distinguer

des formations de ce système. D’autre part, ils sont inconscients et ne sont pas susceptibles de devenir conscients.

Ils appartiennent donc qualitativement au système Pcs, mais en fait à l’Ics. C’est leur origine qui reste décisive pour

leur destin. Il faut les comparer aux sang-mêlé des races humaines qui, en gros, ressemblent presque aux Blancs,

mais qui, pour tel ou tel trait frappant, trahissent leur origine de couleur et de ce fait demeurent exclus de la société

et ne jouissent d’aucune des prérogatives des Blancs. À cette espèce appartiennent les formations fantasmatiques

des hommes normaux comme des névrosés, dans lesquelles nous avons reconnu les degrés préliminaires de la

formation du rêve et du symptôme ; en dépit de leur haute organisation, elles restent refoulées et en tant que telles

ne peuvent devenir conscientes (Freud, 1968, pp. 101-102).

L’analogie coloniale est ici importante ; les sang-mêlé, minorisé/es, ne jouissant d’aucune prérogative des

Blancs, sont tels les rejetons de l’inconscient : ils/elles viennent troubler l’ordre blanc de la même manière

que les rejetons de l’inconscient perturbent la pleine identité à elle-même de la conscience, et celle de

toute procédure de la science. La dimension énonciative du propos est politique : en les comparant, Freud

semble renvoyer la constitution de la connaissance occidentale à la domination coloniale, et dans le même

geste, il entame leur assurance, leur « pureté » apparente, et les entache d’une nécessaire hybridité.

Freud ne se prononce certes pas explicitement sur la question coloniale, et ne conteste ici

qu’implicitement ces classifications. Toutefois, la portée énonciative de ce motif d’hybridité au cœur des

phénomènes psychiques s’avère politique lorsque l’on considère la source même de ces théorisations : la

clinique menée avec des patientes hystériques.

En effet, si celles-ci adressent par leur corps, une demande au médecin, c’est aussi un espace social qu’elles

interpellent. Le discours incorporé des patientes hystériques, comme l’observent nombre d’historien/nes

(Edelman, 2003), articule une contestation des normes de genre. Sans entrer ici dans le détail de la

démonstration, il apparaît que la théorisation, par Freud, de la vie psychique placée sous ce motif de

l’hybridité provient d’une écoute de cet appel, et y articule une réponse politique. En ce sens, c’est grâce

à l’hybridité thématiquement présente dans la théorie analytique que Freud, sur le plan énonciatif, restitue

à l’hystérie son tranchant subversif, sur le double niveau d’une résistance aux savoirs médicaux, et d’un

corps défiant des normes de genre et de culture.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

La dimension politique du geste freudien de l’hybridité tient ainsi à l’écart évident qu’il marque devant le

pouvoir psychiatrique et sa fonction biopolitique. Freud ne renverse pas directement des représentations

de genre, mais la discursivité psychiatrique qui les implique, son pouvoir de normalisation et de

médicalisation des corps et des sexualités. L’hybridité de la théorie analytique, son fondement clinique et

politique dans l’accompagnement de patientes hystériques engagent cette science nouvelle – juive – qu’est

la psychanalyse, dès le début, dans une forme de devenir mineur, une voie alternative aux discours

majoritaires sur les normes psychiques et sociales.

3. Historiciser les discours

Si l’hybridité, comme moteur de la théorisation et de l’écoute analytique, vient révéler le trouble des

énonciations – cliniques, des analysant/es et des analystes, mais aussi sociales et théoriques, - ce motif

permet alors une mise en perspective des discours, une altération du niveau énonciatif des discours

majoritaires. Qu’une « psychanalyse mineure », tendue vers l’écoute des discursivités mineures adresse

cette critique du point de vue majoritaire aux autres disciplines, ne la dispense toutefois pas de traquer le

majoritaire et l’hégémonique dans son propre discours. Une historicisation de la pratique et de la théorie

analytiques semble alors ici de mise. Si le sujet auquel a affaire l’écoute analytique s’inscrit dans une

grammaire normative permettant sa subjectivation, ces normes restent à historiciser, et ne doivent pas

être interdites de révision. Cela implique alors que la théorie analytique n’en véhicule pas une vision

restreinte, qui les prescrive comme seules façons de se subjectiver. La référence au « sujet », à l’« Œdipe »,

à la « perversion », à la « castration », au « phallus », au « Symbolique », aux « Noms-du-Père » ou à la

« Loi » s’inscrit dans l’espace historicisé des discours : ces notions, mêmes affublées de majuscules, restent

des conventions linguistiques construites pour modéliser approximativement l’inintelligible de

l’inconscient. Elles ne sauraient alors s’imposer comme catégories anhistoriques, transcendantes et

impératives de la subjectivation.

Sur le plan clinique, cela signifie que la visée de neutralité bienveillante de l’analyste ne suffit pas à

l’exempter de sa situation sociale (de genre, de classe, de culture et d’ethnicité). Sur le plan de la

théorisation, souligner cette situation revient à tenter d’analyser la manière dont l’universel auquel aspire

la théorie perpétue l’universalisation d’un particularisme culturel ou de genre.

Un parallélisme pourrait être établi entre l’affirmation autoritaire d’une position d’emblée universellement

« neutre » de l’analyste, et l’universalisme républicain en France : le recours à d’apodictiques catégories

valables en tout temps et tout lieu escamote, dans les deux cas, nombre d’exclusions. Celles-ci portent,

autant pour l’universalisme républicain que pour la neutralité analytique, sur des positions de genre et de

culture.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

C’est ce que montre par exemple le minutieux travail d’analyse de l’universalisme républicain qu’effectue

Joan Scott dans La Citoyenne paradoxale (Scott, 1998). Si les féministes peuvent se prévaloir de la promesse

universaliste républicaine, et de la neutralité de l’individu abstrait détenteur de droits, un second

universalisme, contraire au premier, celui de la différence sexuelle, légitime, lui, leur exclusion de la

citoyenneté. En résulte la conception d’un individu citoyen abstrait qui n’est pas neutre mais masculin.

Cette exclusion est alors escamotée par la thématisation d’une « attirance naturelle » entre les femmes et

les hommes garantie par une « séduction à la française », notion définie par d’autres historien/nes (Mona

Ozouf, Claude Habib ou Philippe Raynaud) pour garder les rapports de sexe « à la française » du gender

« à l’américaine ».

La construction de la théorie analytique n’est pas désarticulée de cette inscription historique « française ».

A titre d’exemple, ce mythe de la séduction ne peut manquer de renvoyer à la conception du phallus, et

des « manifestations idéales ou typiques des comportements de chacun des sexes » (Lacan,1966, p 685)

qu’il induit4.

Par ailleurs, les exclusions perpétrées par une vision rigide de l’universalisme républicain portent

également sur des positions de culture et d’ethnicité. C’est ce qui apparaît dans l’instrumentalisation de la

laïcité mise en place en France pour légiférer sur le foulard, comme le montre Joan Scott dans The Politics

of the Veil (Scott, 2007). La simplification hétérocentrée des relations de genre et de sexualité subsumées

sous la séduction rend impossible de considérer les normes sexuelles distinctes et les modalités de relation

autres entre les genres que le voile peut poser, et qui entrent en conflit avec un imaginaire de l’ « identité

française ». Les représentations de la sexualité des Musulman/nes sous-jacentes à la considération du

voile comme « symbole visible de la soumission des femmes » relèvent souvent d’un racisme anti-arabe

et anti-musulman qui escamote derrière sa revendication d’universalité les exclusions qu’il perpètre

(notamment par des stratégies d’invisibilisation des relations dans les couples musulmans ou des

lesbiennes portant le voile). Outre cette naturalisation des rapports entre les sexes, fondée sur le mythe

de la séduction (nécessitant des corps conventionnellement découverts), l’opposition française au voile,

au nom de l’universalisme républicain, soulève la question d’une évacuation de la réflexion sur l’histoire

de la colonisation, l’exclusion des populations immigrées, et les politiques assimilationnistes (Scott, 2012).

4 Du semblant qu’est le phallus résultent deux postures de sexuation, selon Lacan : « la femme » entend être désirée pour ce qu’elle n’est pas, et pour paraître être le phallus, rejette « une part essentielle de la féminité, nommément tous ses attributs dans la mascarade » (p 694). « L’homme » lui, trouvant la satisfaction de sa demande d’amour dans la relation à une femme, ne cède pas sur son désir du phallus, qui « fera surgir son signifiant dans sa divergence rémanente vers ‘une autre femme’ qui peut signifier ce phallus à divers titres, soit comme vierge, soit comme prostituée » (ibid.). Se pose ici la question de savoir que sont ces entités fixées de « femme » et d’« homme », à quelle essentialisation leur généralité renvoie, sur quelle imaginaire complémentarité et sur quelles postures historiques et historicisables, proches du mythe français de la séduction, elles sont fondées.

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4. Par-delà l’universel

La question de la différence, proprement masquée par l’impératif universaliste neutre et abstrait, mais

aussi celle de la localisation de la position émettant cet impératif ne manquent donc pas de se poser à la

psychanalyse française et à ses théorisations. Il semble alors urgent de déconstruire le mythe universaliste

qui peut parfois y agir. Que l’inconscient ignore le genre, la sexuation, la culture, la couleur de peau ou

l’ethnie reste vrai. Toutefois, qu’en est-il de l’appréhension consciente, lors de la séance analytique, des

différences de culture ou de genre, de l’inscription de l’analysant/e autant que de l’analyste dans une

position culturelle et genrée particulière, que l’allégation insistante d’une neutralité de l’analyste ou d’une

universalité abstraite de l’inconscient ne suffit pas à réduire ?

La « neutralité bienveillante » de l’analyste et son intention consciente de s’abstenir, aussi louable soit-elle,

ne se réalise toutefois pas magiquement sitôt énoncée. L’analyste n’en a pas moins des représentations,

conscientes ou inconscientes lui faisant occuper une position imaginaire et fantasmatique eu égard au

genre, à la sexualité, à la classe, la race et la culture qui, plutôt que d’être escamotées par une revendication

de neutralité, devraient être soumises à l’analyse du contre-transfert. L’interrogation reste la même que

pour l’universalisme républicain : sur quelle abstraction, feignant ignorer les différences, peut-être

construit un sujet de l’inconscient conçu selon le primat silencieux d’une posture masculine,

hétérocentrée, binaire et ethnocentrée ? Est-il judicieux de chercher à tout prix, en psychanalyste, à

annuler la considération de l’inscription sociale de l’analysant/e lorsqu’elle/il appartient à des groupes

altérisés, en situation de dépendance et d’infériorité ? N’est-il pas plus prudent de viser, plutôt que

l’abstention et la neutralité abstraite qu’elle articule, une reconnaissance de la différence ? On ne peut

faire ici l’économie d’une reconnaissance du degré inégal de vulnérabilité des sujets en fonction de la

viabilité de leurs corps et désirs (Butler, 2012). Faute de cela, le cadre analytique risquerait de reproduire

la plus grande vulnérabilisation qui affecte des sujets trans, gay, lesbiens, de couleur, altérisés et minorisés,

à qui n’est pas reconnue la même humanité qu’à des sujets hétéro, cis ou culturellement et ethniquement

majoritaires. La question est alors de parvenir à reconnaître sans essentialiser.

C’est donc toute la dimension située de l’universel comme opérateur théorique qui est à interroger dans

cette réflexion sur la possibilité d’une psychanalyse mineure. L’universel se décline dans une polysémie,

et apparaît d’abord comme construction théorique propre à une aire : la pensée grecque du Katholikos –

kata, selon, holon, le tout. La notion relie trois plans distincts : celui, logique, renvoyant à l’avènement du

concept dans la Grèce classique, celui, juridique, instaurant la citoyenneté romaine, et celui, religieux, de

la dissolution paulinienne de tout clivage dans l’amour divin et l’économie du salut. L’idéal religieux est

116

Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

par la suite sécularisé dans des aménagements sociaux, politiques et culturels promouvant l’idée que seule

la rationalité occidentale serait porteuse de valeurs mondialement émancipatrices. C’est cet universel que

convoque l’entreprise coloniale pour justifier ses exactions, et c’est un de ses avatars que nombre de

penseurs/ses contemporain/es posent comme garantie contre le « fléau » du communautarisme.

Considéré psychanalytiquement, l’universel apparaît, comme le souligne Monique David-Ménard, comme

un style de pensée et d’écriture (David-Ménard, 2009). Les constructions conceptuelles de l’universel

(chez Kant, Sade, Freud ou Lacan) se révèlent, selon l’auteure, comme un cas particulier de déplacement

des enjeux pulsionnels, où la pensée s’élabore d’abord à partir d’une position subjective pour s’en éloigner

ensuite. L’affirmation d’un dispositif universel procède toujours à l’effacement des modalités sexuelles de

sa construction. L’universel définit ainsi un style de pensée, évacuant les fantasmes au fondement des

concepts.

S’il semble difficile de penser sans faire opérer un certain universel, on peut du moins tenter d’identifier

les manières dont il agit – et par cette action, provoque des exclusions. La visée d’une psychanalyse

mineure serait donc d’opérer une déconstruction constante de l’universel à la fois

- dans le discours de l’analysant/e, en révélant la contingence de ses représentations, leur singularité, mais

aussi leur possible transformation pour que surgissent d’autres singularités, le/a déterminant encore plus

spécifiquement par-delà l’habitus, la croyance, l’appartenance au groupe ;

- dans le discours de l’analyste, par-delà toute nosographie, étiologie, diagnostic, catégorie générale ;

- dans le fonctionnement de la théorisation analytique, où cette déconstruction ne peut alors se faire que

par un travail constant de retraduction.

S’hybrider, emprunter la langue d’autres champs disciplinaires est une des formes de cette retraduction.

La particularité clinique des populations minorisées, et l’énonciation située revendiquée par les études

queer ou transgenres et les études postcoloniales et décoloniales permettent de questionner ces visées

d’universalité, et de rappeler à la psychanalyse le primat, tout psychanalytique, de l’hypersingularité. Je

soutiendrais donc que ce risque d’un universalisme abstrait peut être contré par une hybridation de la

psychanalyse par les études de genre et les études postcoloniales et décoloniales.

5. Pour une psychanalyse mineure

Au regard de ces développements, comment pourrait-on alors caractériser une psychanalyse mineure ?

C’est sur le modèle de la littérature mineure, définie par Gilles Deleuze et Félix Guattari, que j’en viserais

la thématisation ici (Deleuze, Guattari, 1975). Elle reprendrait la triple impossibilité propre à l’écriture

chez Kafka : impossibilité de ne pas psychanalyser, impossibilité d’analyser dans la langue majeure, et

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

impossibilité d’analyser autrement. Les auteurs prêtent trois caractères à la littérature mineure : la

déterritorialisation de la langue, le branchement de l’individuel sur l’immédiat-politique et l’agencement

collectif d’énonciations, autant d’aspects susceptibles, à mon sens, de définir une psychanalyse mineure.

Une littérature mineure n’est pas celle d’une langue mineure, mais celle qu’une minorité écrit dans une

langue majeure, comme c’est le cas de l’allemand pour les auteurs juifs de Prague. Similairement, une

psychanalyse mineure travaillerait à la déterritorialisation de la langue majeure psychanalytique : elle

viserait à voir quel usage des notions majeures psychanalytiques peut être effectué dans le cas spécifique

de minorités cliniques – de genre, de classe ou de race. Cette psychanalyse mineure pose la question de

savoir si les notions analytiques sont susceptibles d’une universalisation, ou si leur situation historique ne

menace pas de limiter leur extension à la singularité du sujet blanc, occidental, le plus souvent masculin,

de classe moyenne ou favorisée, hétérocentré et cis-centré.

Si le deuxième caractère des littératures mineures est une dimension majoritairement politique, faisant

que chaque affaire individuelle est immédiatement branchée sur le politique, une psychanalyse mineure

visera à inscrire toute question subjective dans l’espace sociétal, historique et politique du sujet. Si dans

la littérature mineure « le triangle familial se connecte aux autres triangles, commerciaux, économiques,

bureaucratiques, juridiques, qui en déterminent les valeurs » (p. 30), une psychanalyse mineure prendra

en compte ces autres triangles, appréhendera les effets politiques d’un symptôme individuel par-delà la

seule perspective triangulaire œdipienne.

Dans la littérature mineure, troisième caractère, il n’y a pas d’énonciation individuée séparée d’une

énonciation collective5. Une psychanalyse mineure s’attachera à considérer la manière dont un dire ou un

acte individuel, subjectif, peut correspondre à une action commune, sitôt qu’il est propre à un sujet

minoritaire. Dans cette psychanalyse mineure, comme dans la littérature mineure, l’écoute s’appliquerait

aux « agencements collectifs d’énonciation » (p. 32).

Le ou la praticien/ne d’une psychanalyse mineure n’appartient pas nécessairement à une minorité (de

classe, de race ou de genre), mais assume une position de minorité eu égard aux relations instituées de

savoir et de pouvoir. Cette posture n’est pas nouvelle en psychanalyse, elle radicalise la déterritorialisation

de la psychanalyse par rapport aux discours majoritaires, sa suspicion et sa suspension à l’endroit des

formations discursives. Comme le soulignent G. Deleuze et F. Guattari, « ‘mineur’ ne qualifie plus

certaines littératures, mais les conditions révolutionnaires de toute littérature au sein de celle qu’on appelle

grande (ou établie) » (p. 33). Il s’agit, pour une écriture mineure, de « trouver son propre point de sous-

développement, son propre patois, son tiers-monde à soi, son désert à soi » (ibid.). De même, une

psychanalyse mineure renvoie au potentiel non établi, révolutionnaire, de l’écoute analytique, dont les

5 « Ce que l’écrivain tout seul dit constitue déjà une action commune, et ce qu’il dit ou fait est nécessairement politique, même si les autres ne sont pas d’accord. Le champ politique a contaminé tout énoncé », (ibid.)

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

conditions psychanalytiques peuvent être menacées par l’institutionnalisation de la psychanalyse et de sa

théorisation, et seraient ici garanties par cette attention au minoritaire, « patois ou tiers-monde » de la

langue, du genre et de l’ethnicité.

Cette psychanalyse serait ainsi une minoration de la langue majeure de la psychanalyse, ou des utilisations

hégémoniques qui peuvent en être faites. Mais comment définir ici la minorité ? Comme le soutient

Deleuze dans un autre texte, la minorité apparaît dans la conflictualité endogène à tout système de

majorité définissant des normes hégémoniques qui décident des pratiques et des conduites sociales, mais

aussi des possibilités discursives et des positions subjectives des groupes et des individus. La minoration

surgit dans les variations et écarts de ces constantes normatives qui ne sont pas prévus ni codés par ce

système. Minorités et majorité ne sont donc pas une question de nombre, mais d’« état de droit et de

domination » imposant une constante :

La majorité, écrit G. Deleuze, implique une constante idéale, comme un mètre-étalon par rapport auquel elle

s’évalue, se comptabilise. Supposons que la constante ou l’étalon soit Homme-blanc-occidental-mâle-adulte-raisonnable-

hétérosexuel-habitant des villes-parlant une langue stantard (…). Il est évident que « l’homme » a la majorité, même s’il est

moins nombreux que les moustiques, les enfants, les femmes, les noirs, les paysans, les homosexuels… etc. C’est

qu’il apparaît deux fois, une fois dans la constante, une fois dans la variable dont on extrait la constante.

(…) Une autre détermination que la constante sera donc considérée comme minoritaire, par nature et quel que soit

son nombre, c’est-à-dire comme un sous-système ou comme hors-système (selon le cas). Mais à ce point tout se

reverse. Car la majorité, dans la mesure où elle est analytiquement comprise dans l’étalon, c’est toujours Personne

‑ Ulysse ‑ tandis que la minorité, c’est le devenir de tout le monde, son devenir potentiel pour autant qu’il dévie du

modèle (…).

C’est pourquoi nous devons distinguer le majoritaire comme système homogène et constant, les minorités comme

sous-systèmes, et le minoritaire comme devenir potentiel et créé, créatif. (Deleuze, 1978, pp 154-155).

Une psychanalyse mineure serait alors psychanalyse de ce devenir, qui n’est pas propre aux seuls sujets

minorisés et altérisés, mais caractérise les processus de détermination de la singularité subjective dans son

rapport aux normes.

C’est une position politique que l’analyste occupe par sa situation dans la cité, son écoute des

minorisations du psychique et du social, son maniement du transfert, l’analyse des effets de pouvoir qui

le traversent, et la réflexion sur les contrecoups subjectifs et sociaux de sa pratique. Cette inscription

politique de la psychanalyse l’engage à tenter de saisir la singularité des expériences minoritaires hors d’un

recours aux normes majoritairement prévalentes.

Toutefois, pour cette psychanalyse mineure, déconstruire certaines catégories du discours majoritaire ne

signifie pas valider de nouvelles catégories identitaires de discours minoritaires. C’est ce que montre J.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Scott en analysant la notion d’« expérience » dont se prévalent certain/es historien/nes (Scott, 1992, p.

33). Pour contrevenir à l’autorité des seules identités et genres majeurs, dans un premier temps, les voix

d’historien/nes féministes ou gay et lesbiennes en appelèrent à l’« expérience » de femmes, de gays,

lesbiennes ou personnes de couleur, points de vue différents qui révélaient la partialité de l’énonciation

de l’histoire officielle, prétendument objective et en réalité blanche, masculine et hétérocentrée. Si ces

tentatives de rendre visible l’expérience minoritaire montrent bien l’ampleur du silence et de l’oppression

des vies minoritaires, elles reprennent toutefois, sans les analyser, et au titre d’identités fixes, les catégories

de représentation de l’histoire majoritaire, homme/femme, homosexuel/hétérosexuel, noir/blanc (p. 26).

On oublie en effet ici d’appréhender le système idéologique de ces catégories, leurs postulats, leur

découpage de la réalité, les notions de sujet, d’origine et de cause qu’elles impliquent. La question

principale qui se pose alors à une psychanalyse mineure est de reconnaître des voix minoritaires, lever

leur invisibilisation ou leur réduction au silence, sans toutefois essentialiser leur identité.

La psychanalyse conçoit en effet toute construction d’identité comme unification imaginaire, qui, si elle

peut être politiquement réelle, est ontologiquement fantasmatique. Mais l’approche psychanalytique ne

peut se contenter de balayer d’un revers de main cette question des identités minoritaires en renvoyant

leur étiologie au fantasme. Cette déconstruction du fantasme d’identité doit être accompagnée d’une

analyse de la manière dont fonctionne, dans la posture énonciative prétendument neutre de la

psychanalyse, une identité implicite. Si donc bien des analystes écartent les identités minoritaires comme

captations imaginaires, cette même captation caractérise également l’identité majoritaire implicite depuis

laquelle ils parlent (masculine, hétérocentrée, cis-centrée, occidentale, blanche), tout aussi construite, et

qui n’est pas alors livrée à la même critique.

L’analyste et le/a théoricien/ne de l’analyse gagnerait, comme Joan Scott enjoint l’histoirien/ne à le faire,

à « traiter l’émergence d’une nouvelle identité comme un événement discursif » (p. 34), ce qui implique

de demander ce qui amène des individus à se subjectiver selon des catégories jugées fondamentales (genre,

sexualité, classe, origine ethnique, culture, etc.) et ce qui conduit l’approche analytique à utiliser ces

catégories dans son discours.

Une psychanalyse mineure, en outre, articulerait moins une théorie de la sexualité qu’une étude des

relations de pouvoir et des effets d’emprise, subjectifs et collectifs, par lesquelles un sujet se subjective

en s’assujettissant. La relationnalité autre proposée par les sexualités et sexuations non binaires les

révèlerait comme création plus que comme découverte d’un aspect secret du désir, invention de nouvelles

formes de vie et d’un nouveau droit relationnel. De même, la position de minorisation culturelle ou

ethnique, si elle n’est pas systématiquement productrice de souffrance dans un contexte majoritaire,

articule toutefois un mode de relationnalité particulier, dans le cadre de rapports de pouvoirs qu’une

écoute psychanalytique peut s’attacher à déceler.

120

Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

Le paradoxe apparent tient alors à ceci qu’il n’est guère besoin d’une psychanalyse spécifique aux

minorités, mais probablement de perspectives extérieures à la psychanalyse – celles des études de genre,

queer, postcoloniales et décoloniales, par exemple - pour garantir sa démarche analytique et empêcher son

arrimage à axe narcissique. La psychanalyse ne s’adresse pas à des sujets identitaires ou identifiés à un

trait unaire particulier : toutefois, elle ne peut éviter de maltraiter les sujets minorisés qu’en se voyant

rappeler que la neutralité et l’universalité de ses modèles restent parfois situées à la faveur de sujets

majoritaires. Une psychanalyse mineure œuvrerait alors à souligner les exclusions perpétrées par certains

discours analytiques sans viser une psychanalyse spécifique des exclu/es, à dévoiler l’androcentrisme de

certaines perspectives sans choir dans un différentialisme binaire, à pointer l’homophobie, la transphobie

ou l’ethnocentrisme sans ériger d’identité essentialisée de genre, de culture ou d’ethnicité.

Une psychanalyse mineure serait donc une psychanalyse hybridée, consciente des effets de pouvoir dans

lesquels elle s’inscrit, en retraduction d’elle-même, en devenir-mineur, une psychanalyse fissurant son

homogénéité, son identité à elle-même, qu’elle ne considèrerait alors, à la manière de toute identité, que

comme tentative ponctuelle, à un moment donné, d’affirmer une cohérence minimale de soi susceptible

de se reconfigurer continuellement.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Jacob Miller

Apparatus and ethics

ABSTRACT

Many have taken up the question of ‘what is an apparatus (apparat)’ since it was posed to Foucault. In the concatenating series, Agamben is one such author

who has published the work, What is an Apparatus?. In order to glean a clear understanding of Agamen’s work, Kafka’s In the Penal Colony must be addressed.

In adopting a literary approach, the paradigm presented by Kohlberg on moral development can be useful when determining an appropriate readership for

such works as mentioned above. By an inspection of such themes found within In the Penal Colony as the guest’s dilemma and capital punishment, one may

be resituated, hermeneutically, with a renewed appreciation for Kafka’s work.

Keywords: Capital Punishment, Civil Disobedience, Civil Refusal, Corrective Justice, Moral Development, Pedagogy

Textual understanding is an ongoing process. As persons develop, gain new insights and knowledge,

so too does their understanding of a particular text morph. Perhaps change, of an individual or

collective mind, is a foremost important reason for textual revisitation. Kohlberg’s work, in particular,

offers a research grounded framework for categorizing audience and readership. In his research,

Kohlberg identified six stages of moral development, the later stages only being identified across a

minority of individuals, with the 6th stage (a universal ethic) only observed in such well-known

exemplars as Martin Luther King and Mahatma Gandhi.

A popular conception of Kohlberg’s work may find applicability to questions of legal maintainability

(e.g. how likely someone is to obey a particular law), but what is arguably the most important benefit

of Kohlberg’s work is the ability to identify at which stage of development an individual values human

life and the nuances of evaluation at the respective stages. While Kohlberg’s work is not typically

modeled in literature studies, Kohlberg himself relied significantly upon moral dilemmas in his

research, which marries effectively with those dilemmas expressed in In the Penal Colony by Franz Kafka.

Such texts as, In the Penal Colony or What is an Apparatus? by Giorgio Agamben present opportunities

for revisitation through a moral framework, as offered by Lawrence Kohlberg and others, to better

imagine their respective personal, interpersonal, and societal implications. Furthermore, the disposition

of a reader may be understood to impede textual understanding or conversely, enhance it. Juxtaposing

the above authorship amongst themselves and others will provide new insights and a theoretical

readership not otherwise explicitly mentioned by the respective authorship.

1. The Guest’s Dilemma

Our point of departure, as it were, is to be found in Agamben’s work, What is an Apparatus?, wherein

dispositif is translated into the English form ‘apparatus’ (Agamben, 2009). The translation is further

explained by a secondary translation citing Agamben’s use of Kafka’s In the Penal Colony for the working

translation of apparatus - derived from ‘apparat’ as found recurrently in Kafka’s work (Agamben, 2009,

p.1). The apparatus most readily presents itself to the reader as one of many apparatus: “It’s a

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

remarkable piece of apparatus…” (Kafka, 1995, p.140). One then is immediately presented with an

image of condemnation, a man who is to be executed publically by this particular apparatus.

The formation of structural power is between criminal (i.e. condemned man) and executor. The

apparatus is then referred to as a machine (p.141) by which we “the readers” may grasp the technical

associations thereby involved. The beauty or horror which invention may present is exemplified here

by Kafka not necessarily by the application of the apparatus but rather by the positing of how one

could invent such a thing, what set of elements could have anticipated such an apparatus. If we are to

consider the apparatus in Kafka’s work as invention rather than innovation, it must be without referent,

incommensurable with any other apparatus such as one might observe in medieval Europe’s

implements of torture, reminiscent of the gibbet (Foucault, 1995); however, we should too retain the

understanding that invention is oftentimes relative, for example, in that what may seem inventive to

group (a) without greater exposure could be considered by group (b) to be innovative.

A bit later on we, the reader, are presented with the comparison of the apparatus to that which is “in

hospitals” where the contrast is in the apparatus’ precision (Kafka, 1995, p.143). Then we observe what

could be considered the last instance of torture: the commandment which the prisoner had disobeyed

is inscribed upon his chest (p.144). We then read that in fact the condemned are unware of the

accusation made against them, unable to defend themselves (p.145).

Later on, Kafka expresses the importance of ought, rather than could or should, in relation to action

or inaction (p.153). The expression is articulated in a xenological manner, whereby the explorer is

referred to as a stranger rather than guest to the island. The consideration of the stranger’s presence

(i.e. the explorer) is then considered coextensively with the disassembly of the apparatus. It is an

important exchange, for it calls into question the rights of hospitality1. Ought one, guest or stranger,

be expected to act in a certain way, such actions presuming the possibility of inaction or might rather

we consider the supposition of the commandant to suggest a vitiated articulation of rightness that

perhaps more appropriately the commandant ought to have exclaimed ‘should’. In other words, does

labeling of guest or stranger, afford such an individual privilege, or on the contrary, does such an

apprehension precisely negate the possibility of inalienability? To be considered a soldier in the context

of Kafka’s story carried the expectation of governing support, for any contrarian amongst the group

was subject to persecution (as we know they were unprivileged to prosecution), but the stranger,

exemplary of the empty set when inventing, existed without precedent. For the commandant it would

not have been the explorer’s disagreement with the operations he was to admire, but rather a

1 David Hume writes, “Strangers and foreigners are without protection: hence, in all polite countries, they receive the highest civilities, and are entitled to the first place in every company.” (Hume, 2008, p.73)

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

refrainment in his position as stranger which might pose the greatest risk.

After we come to terms with the explorer’s opinions he imperturbably states that he “can neither help

nor hinder…” (p.157) - in this moment one might consider the explorer an accomplice by not delating.

The story then culminates with a promise of resurrection, redolent of a particular eschatology (p.167).

Finally, the explorer is confronted with a moral dilemma of his own when departing the island, the

explorer expresses the potential to assist the condemned man and soldier departing the land though

acts against such opportunity. There is a moral decision-making process from the arrival to the

departure of the explorer’s visitation.

The explorer must first apprehend the possibility of visitation, then choose whether or not to visit,

under whichever pretext and intentionality, then while visiting the choice of action or inaction, to speak

or remain reticent, followed lastly by ability to aid or impede other human beings. It may be said that

the explorer in Kafka’s example delegates himself into a prescriptive morality. The explorer is, perhaps,

a greater representation of control or governance than the apparatus itself. To administer the execution

or torture of any person, to obey commands or orders, such behavior as often observed typically

represents an earlier order of moral development whereat an individual’s sense of responsibility is

avouched by bureaucratic structures. To observe laws or regulations with an appreciation of such laws

and regulations is exemplary of a further developed moral order, though with such a disposition too

arises the possibility of transgression, to act beneath or beyond such legal expectations. What is so

unfortunate about the explorer’s choice to not assist the condemned man and soldier is that there was

before him the opportunity to preserve a human life; on the other hand, if the explorer had transgressed

the law, setting sail for his own lands, evading as it were the penalty of his transgression, it would

nonetheless fall into an earlier order of moral development. However, if the explorer had, at the

moment when the opportunity first presents itself, transgressed the law earlier in the story, thus

challenging the commandant plenary position and furthermore incurring the penalty for his

transgression, the explorer may have been understood to have displayed a further developed morality,

although such was not the case.

We may suggest that the morality expressed by the situational characterization of Kafka’s story, from

where we draw our citation of dispositif, (aparat/apparatus), constrains one’s discourse to a particular

moral disposition. The disposition is one which functions with legal precepts. We thank Kafka for his

contribution and in the spirit of Kohlberg agree, “If we attend to literature and history instead of

textbook personality psychology, it appears that real moral crises arise when situations are socially

ambiguous, when the usual moral expectations break down” (Kohlberg, 1981, p.188). The narrative of

In the Penal Colony represents aptly the normal distribution which one may observe cross-culturally, or

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

what conforms itself to Kohlberg’s 4/5 stages of moral development2.

It may be worthwhile to consider the formulation of a narrative that will both hold a position of

possibility for further development and be understood by the greatest number of adults. Expurgated

works for children are most readily understood by adults but will not typically challenge an adult’s

moral disposition, whereas the narrative which meets a common moral disposition will too position

itself by way of development. We might then begin to dissect further the moralistic setting by which

Kafka presents In the Penal Colony, as so to better understand one’s disposition when deploying such a

citation as Kafka’s in the wider discourse regarding the question, ‘what is an apparatus’? We are

reminded yet again that the apparatus in Kafka’s work functions to implement a form of capital

punishment.

2. Capital Punishment

Kohlberg (1981) provides a grounded and rigorous framework with which one may approach such

ideas as capital punishment or corrective justice (Kohlberg, 1984, p.633), so fundamental to Kafka’s

work and by extension to both Agamben and Foucault. Kohlberg’s theory of moral development

situates itself in a similar manner as a glass ceiling theory, although more dynamic. The moral actor is

able to apprehend a moral stage proceeding from their own (e.g. from 4 to 5) though is unable to

apprehend two or more further stages, perhaps this is due to the logical requirements involved in such

a theory3; however the case, Kafka’s story may be said to exemplify Kohlberg’s stages 4/5 of moral

development (law maintaining) (Kohlberg, 1981, p.153). Whereby the transgressor in Kafka’s work is

not provided any procedural recourse for his crime, the form of justice expressed may be considered

corrective.

One finds little possibility of an alternative to capital punishment as a corrective (rather than

retributive) (Agamben, 1998, p.26) means in In the Penal Colony. The soldier, who is the principal in the

act of transgression - witnessed by the explorer who may in his neglect to sound any alarm be

considered an accessory - does so transgress in what may be said to constitute a conscientious act of

refusal (Rawls, 1973, p.369). Had the explorer assisted in the exigent egress of the escapees, the

explorer’s act would constitute what might be understood as conscientious evasion, though one may

too imagine the explorer serving a more diplomatic role, leading to the official questioning, through

what might be regarded as proper channels, of such non-procedural acts of punishment, reliant upon

such apparatus as might constitute torturous exhibitions. No matter the case of the explorer, what In

2 “I have stressed as the key definition of Stage 4 that it is a law- (or rule) and-order-maintaining perspective. Other moral psychologists (Freud, Piaget) have failed to distinguish between the Stage 4 rules-and-authority-maintaining perspective and the Stage 1 rules-and-authority-obeying perspective” (Kohlberg, 1981, p.151). 3 “…one can be at a given logical stage and not at the parallel moral stage, but the reverse is not possible” (p.138).

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

the Penal Colony neglects to exemplify is precisely the potentiality of civil disobedience (Rawls, 1973;

Kohlberg, 1981). That a person may exhibit developmental signs of moral decision-making processes

is evidence of the possibility for further stage development. That a person exhibits moral

considerations exemplary of further stage moral development is evidence of the potentiality for similar

decisions of such stages. That Kafka neglects to present the reader with evidentiary potential consigns

the thought of the reader to Kohlberg’s stage 4/5 of moral development.

This consignment may be said to once more express itself in the work of Agamben. We might suggest

that Agamben, by the incorporation of the Foucauldian narrative, also expresses a potentiality in

edifying the reader to a moral disposition further than what In the Penal Colony provides. Agamben

concludes his piece by stating what is supportive of Kohlberg’s research in the consideration of “the

Ungovernable, which is the beginning and at the same time, the vanishing point of every politics”

(Agamben, 1998, p.24). One might interpret such a statement with both Kohlberg and Rawls’

framework to typify the act of civil refusal rather than civil disobedience. Where both civil disobedience

and refusal may suggest an actor’s appreciation of human dignity and life, it is only the prior which

may be said to socially hold such difficult and relatively rare occurrence.

As we pursue Kohlberg’s hypothesis, which suggests not only a dynamic model of moral action but

also the mobile ability to pass from one stage to successive stages of morality though without omission

of intermediary stages, we may too suggest that of the many fabulae, both unwritten and accessible,

concatenation of intelligibility (e.g. citation) might include such moralistic development as well. That

to purpose a piece beyond the moral receptivity of one’s audience is not only unreasonable, but

possibly dangerous as well. Typical exemplars can be found cross-culturally in those whose causes have

been misconstrued as universally just by sizable populations, quashed by governance, only to be

resurged generationally.

The moment whereat one pursues the question, ‘what is an apparatus,’ one is confronted with a

particular moral modality. If one holds an understanding, or at minimum a consideration, of Kafka’s

work to present itself as a prerequisite to Agamben’s work and additionally, Agamben’s work as

consanguine with Foucault, one might imagine such neurophysiological impediments or more widely,

educational (i.e. developmental) impediments which may define audience. It may be said that Agamben

could not address the individual (likely a child) who is unable to appreciate the moral implications of

Kafka’s work. At minimum then, if one were to categorize, one might suggest that those individuals

who satisfy Kohlberg’s criteria for stage 3 development might engage with Kafka’s work, though would

not interpret further moralistic considerations beyond stage 4, likewise, Agamben’s work might eagerly

await an interpretation by that relatively small group of individuals who happen to meet the criteria for

129

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Kohlberg’s stage 5/6 of development.

An individual, who might appreciate such moral dilemmas as encountered in In the Penal Colony may

constitute an exemplar not in the person necessarily, but in the decisions of such a person as Former

Associate Justice of the United States Supreme Court Brennan (Kohlberg, p.293). Longitudinally,

maintaining a rectitude of dissent may not be an easy task - although we may consider such a task less

difficult when amongst a body of dissenters. It is true that the position of Supreme Court judge affords

any number of benefits; the political correlative costs when expressing dissent, eddying from what are

otherwise widely accepted values may be substantial. Qualitatively, one might imagine that the

expression of informed dissent grows evermore necessary not solely in the echelons of governance,

but throughout a social system, wherein the choice to act upon a stage 5 or stage 6 dilemma may

significantly rely upon a secondary actor. We might imagine that an actor beyond the 6th stage, having

recognized such a universal ethic would maintain self-determinacy in the instance of a moral wrong.

Additionally, there may exist significant ethnocentric trammels when passing such judgment or opinion

on the matter of capital punishment. In the absence of capital punishment, what remains is the cell.

Retainment of a sense of retribution fundamentally will perpetuate whichever economic interests rely

upon said retribution. A side-effect then, of dissent from the widely concurred position in favor of

capital punishment, reifies such figures as the panopticon, causing such institutional functions to fulfill

otherwise unmet retributive demands in desuetude. Carceral predilections then foment, pressuring any

other possible prescriptive means towards conformity, further reducing the possibility of

deinstitutionalized rehabilitation.

There are elisions to be observed in the self-identificatory moralistic developmental process. If one

were to exclaim, without an appreciation of social contractual agreements, one is acting with some

higher cause or reasoning, it is precisely the abdication of one’s position as citizen within the social

order that unfortunately must renounce such an action. Neglect of and for one’s responsibility to the

social order while preserving the value of human life nonetheless fails to demonstrate further moral

consideration. Fulfilling the moral task of accounting for one’s actions so as to perpetuate systemic

social change, towards the good, this is the void which presents itself as so difficult to address,

articulate, and redress, undoubtedly due to the psycholinguistic limitations that our contemporary

vernaculars permit.

3. Interrogating the apparatus

Acts of interrogation may be said to in some ways reinforce the stage of development so necessary to

Kohlberg’s 5th and 6th stages, while concurrently anchoring one’s moral disposition towards a 4/5 stage.

When one poses the question, ‘what is an apparatus’, one co-relatedly subscribes to the normative need

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

of arrestment, categorization, definition, determination, operationalization, and tractability. Language

may be said to provide the means by which intentions are communicated, whether such intension is

towards the good or otherwise open ended. To define a thing’s haecceity is to preclude the potential

of such a thing to be something else (e.g. many worlds theory or nominalism).

The intent of interrogation may be called into question, does one pose such a question as, ‘what is an

apparatus’ eristically or is one aiming towards some maieutic good that may result in such a line of

questioning. One may likewise be ignorant of a particular term, as a child developing within their

respective environment agog to rationalize what such terms are, what purposes they serve, and so

forth, there may be a particular innocence to the interrogatory act; is such innocence to be corrected,

almost certainly. Whenever one opens a line of inquiry into any widely held congealed taboo, such

sentimental abreactions are most commonly spurred. We do not mean to equate the notion of law with

a social taboo, but what we do mean to understand is how one is to interrogate the very process from

which it emanates reflexively by the very language with which it preserves. Would such a sense-making

contingently necessitate a recuperation of sorts of the very language with which it sense-makes: what

of the epistemological declarations that so readily operationalize themselves under the auspices of law;

perhaps of utmost consideration, what community might thrive by such a linguistic self-awareness (e.g.

that a particular gesellschaft might offer)4.

We might then applaud such texts as Kafka’s which demand at minimum a particular disposition of

the reader - such a disposition necessary for further considerations. If Agamben’s citation and Kafka’s

texts were to articulate an earlier stage of moral development, one would not intentionally arrive upon

such considerations of law. We might then suggest that the concatenation of Kafka with Agamben and

with Foucault, provides a benchmark by which one’s audience may be supposed.

References

Agamben, G., 2006, Che cos’è un dispositivo?, Milano, Nottetempo; Eng. tr. 2009, What Is An Apparatus?

And Other Essays, Stanford, Stanford University Press.

4 Kennedy reminds us too of the dialogues that “The importance of the dialogue is that for the first time it poses in detail the question of the morality of rhetoric in society and for the first time emphasizes the need for knowledge as the basis of communication.” (Kennedy, 1994, p.38).

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Agamben, G., 1995, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Bollati Boringhieri; Eng. tr.1998,

Homo Sacer: Sovereign Power and Bare Life, Stanford, Stanford University Press.

Foucault, M., 1975, Surveiller et punir: Naissance de la prison, Paris, Gallimard; Eng. tr. 1995, Discipline &

Punish: The Birth of the Prison, New York, Vintage Books.

Hume, D., 2008, David Hume: Selected Essays, Oxford, Oxford University Press.

Kafka, F., 1994, In der Strafkolonie, in Id., Drucke zu Lebzeiten, Frankfurt am Main, S. Fischer Verlag; Eng.

tr. 1995, In the Penal Colony, in Id., Franz Kafka: The Complete Stories, New York, Schocken Books, pp.140-

167.

Kennedy, G., 1994, A New History of Classical Rhetoric, Princeton, Princeton University Press.

Kohlberg, L., 1981, Essays on Moral Development Vol 1. The Philosophy of Moral Development: Moral Stages and

the Idea of Justice, San Francisco, Harper & Row.

Kohlberg, L., 1984, Essays on Moral Development Vol 2. The Psychology of Moral Development: The Nature and

Validity of Moral Stages, San Francisco, Harper & Row.

Rawls, J., 1973, A Theory of Justice, Cambridge, The Belknap Press.

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

INTERVIEWS

« Au coeur du Procès. Entretiens avec Krystian Lupa » K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, 1, 2/2018, pp.133-147

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Au cœur du Procès

Entretiens avec Krystian Lupa

Né en 1943 à Jastrzębie Zdrój en Pologne, Krystian Lupa est metteur en scène, scénographe, créateur

lumière et bien souvent traducteur des romans de langue allemande qu'il adapte à la scène. Il est en outre

écrivain, plasticien et pédagogue notamment à l'École Nationale Supérieure de Théâtre Ludwig Solski de

Cracovie, dans laquelle il enseigne la mise en scène et le jeu à partir de 1983 et dont il a été le doyen de

1990 à 1996.

Bien que Kafka ait toujours été un auteur fétiche pour lui, Krystian Lupa ne se sentait pas mûr pour

entreprendre la mise en scène de l'une de ses œuvres, jusqu'à ce que, comme il le dit lui-même, la réalité

l'exige… L'accession au pouvoir du PIS1 en 2015, lui en donna la force.

Devant le repli nationaliste, la haine de l'autre et le rejet de l'altérité qui s'installèrent dans le pays, il déclara

quelques jours avant la première du Procès2 au Nowy Teatr de Varsovie : « Kafka est de retour et ce n'est

pas une bonne nouvelle car quand Kafka revient, cela annonce la fin du monde3 ». En effet, l'écriture du

Procès débuta en 1914 et Kafka, écrivain de langue allemande, pragois d'origine juive, possédant des

papiers autrichiens, ressentit les événements de façon accrue. Il pressentait que la fin d'un monde

s'annonçait. Aujourd'hui, Lupa se sent à son tour étranger dans son propre pays. Le metteur en scène fait

face à un pouvoir conservateur autoritaire qui entend avoir la mainmise sur les institutions culturelles du

pays, les utilisant, au mieux, à des fins de distraction, au pire, à des fins de propagande. Selon le

gouvernement, les artistes et les intellectuels ont pour mission d’œuvrer à la gloire d'un peuple polonais

uni autour du catholicisme. Tout acteur de la sphère culturelle qui ne serait pas en accord avec leur vision

de catholicisme patriotique, sera évincé4.

Ainsi Le Procès, né d'un contexte social perturbé et d'un climat politique anxiogène, s'inscrit

Ces entretiens ont été réalisés, traduits du polonais et introduits par Rébecca Pierrot.

1 Prawo i Sprawiedliwość (Droit et Justice), parti conservateur, nationaliste, eurosceptique, fondé en 2001 par les frères Jarosław Kaczyński et Lech Kaczyński. 2 La première eut lieu le 15 septembre 2017. 3 Karpiuk, D., 2017, W Newsweeku : Idzie apokalipsa. Proces Kafki według Krystiana Lupy, in « Newsweek pl » [en ligne, dernière consultation le 15/09/2018]. 4 Krzysztof Mieszkowski qui, animé d'une véritable vision artistique, proposa une programmation exigeante, faisant ainsi la renommée du Teatr Polski de Wroclaw, ne fut pas reconduit dans ses fonctions de directeur en 2016. Son départ et surtout son remplacement par un acteur de sitcom proche du gouvernement, Cezary Morawski, déclencha une révolte au sein du théâtre qui s'étendit à la majorité des institutions culturelles du pays. Krystian Lupa et Piotr Rudzki (directeur littéraire du théâtre), qui faisaient partie de la commission de recrutement du nouveau directeur, quittèrent la salle en refusant de signer le protocole des délibérations, déclarant publiquement que le concours était biaisé. Lupa annula Le Procès qui était programmé au Teatr Polski et dont les répétitions avaient débuté quatre mois plus tôt. Dès lors, Le Procès devint l'emblème de la révolte. Les acteurs du Procès quittèrent Wroclaw et le Teatr Polski pour rejoindre d'autres théâtres. Le Procès fut programmé un an plus tard à Varsovie.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

immanquablement dans une démarche politique, le metteur en scène polonais se trouvant, comme

l'auteur pragois, au tournant d'une époque où la montée des partis populistes en Europe fait rage.

Néanmoins, loin de tout manichéisme, l'engagement de Lupa est d'abord artistique. La création est pour

lui l'occasion de questionner les événements, de développer une réflexion. Le spectacle témoigne de sa

vision du monde et du dialogue qu'il établit avec l’œuvre de Kafka, œuvre qu'il explore dans toute sa

complexité. Allant au-delà des faits et des apparences, en quête des failles et des paradoxes qui habitent,

non seulement l’œuvre du Procès, mais aussi Kafka lui-même, il en livre une vision personnelle. Le metteur

en scène instaure un jeu de miroir entre deux époques, celle de Kafka et la nôtre, entre deux créateurs,

Kafka et lui, mais surtout, il met en évidence le lien qui unit Kafka à son personnage, Joseph K.. Le

protagoniste du roman est accusé et, bien qu'il ne sache pas de quoi, il n'a de cesse de prouver son

innocence. La question de la responsabilité est posée : l'Homme peut-il être innocent en ces époques

troublées, se demande Lupa…

Le metteur en scène s'empare du personnage de Joseph K. et le renomme Franz K. démasquant du même

coup Franz Kafka dont il fait son personnage. Il scinde Franz K. en deux : K.1 et K.2, incarnés

simultanément sur la scène par deux acteurs différents, Marcin Pempuś et Andrzej Kłak. Franz K. devient

ainsi Franz Kafka en même temps que le propre personnage de l'écrivain, Joseph K., le double derrière

lequel il se cache et à qui il a fait vivre les pires cauchemars, allant jusqu'à le tuer comme un ultime geste

de libération. Ce motif du double reflète la dualité de l'homme et des situations auxquelles il est confronté.

Cette dualité souligne la suspicion qui peut à tout moment s'immiscer en nous, marquant parfois toute

une époque lorsque celle-ci devient la proie de la peur, engendrant le repli sur soi et les désastres qu'il

génère. K. 2 est en quelque sorte la part sombre de Franz K., celle, qui murmurant à l'oreille de K. 1, se

plaît à le provoquer, le déstabiliser, l'abreuvant d'insinuations, distillant le soupçon en lui. Du soupçon

naît un sentiment d'insécurité qui se meut en une angoisse sourde pour finalement laisser place à la peur

et au désarroi. À moins que ce double ne tente de le réveiller...

Lupa présente à travers Franz K. un personnage double, désemparé, en proie au doute. Ce morcellement

est signifié physiquement sur scène par le dédoublement presque schizophrénique du protagoniste. Il

s'avère que cette scission, ce manque d'unité, cette blessure béante est inscrite dans la structure même du

roman de Kafka puisque comme le fait remarquer Lupa, Le Procès est un roman parcellaire. Kafka en a

écrit le début et la fin, au milieu, il y a ce que Lupa nomme, un trou, une tache blanche. Cette tache

blanche est en quelque sorte l'abîme que l'écrivain a contourné, la blessure originelle qu'il ne pouvait

toucher. Lupa après avoir démasqué Kafka, affirmant son identité diffractée, choisit d'éclairer cette tache

blanche. Pour lui, l'origine du roman est liée à la relation ambiguë qu'il entretenait avec Felice Bauer.

Kafka est tombée amoureux de la jeune fille à travers les lettres qu'il lui écrivait, il a aimé sa propre

création. Felice n'existant qu'à travers l'écriture, l'illusion s'évanouissait lorsqu'il la rencontrait. Après deux

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

années de relation épistolaire, le 12 juillet 1914, Kafka rencontre sa fiancée, Felice, à l'hôtel Askanischer

de Berlin. Il s’ensuivit une réunion chez les parents de celle-ci, où le père de Felice, sa sœur et quelques

proches étaient présents, comme le raconte Ghyslain Lévy5 dans un texte exposant la mécanique de la

correspondance amoureuse de l'auteur avec Felice. Kafka vivra cette réunion au cours de laquelle la

rupture sera prononcée, comme une comparution devant un tribunal. La violence de cet événement fut

à l'origine du Procès. Ce traumatisme allié à un sentiment de culpabilité l'auraient empêché d'aborder ce

fait réel, de le regarder en face, d'être à même de prendre du recul et de l'analyser. En effet il avait toujours

laissé croire Felice à leur futur mariage alors qu'il s'en savait incapable, et cette incapacité doublée d'un

mensonge le conduisirent finalement à la rupture. Pour Le Procès, il créa le personnage de Joseph K., un

alter ego, qu'il propulsa dans une histoire abstraite, bien qu'inspirée d'un épisode concret issu de son

propre vécu, une sorte d'anti-héros, reflet de lui-même, qu'il malmena jusqu'à la mort, suggérant un

sentiment de haine de soi. Lupa explique que Kafka a probablement été piégé par l'abstraction de son

récit qui l'aurait en quelque sorte bloqué et empêché de développer sa narration. On pourrait dire que

Kafka tournait autour de sa blessure sans pouvoir y toucher. C'est pourquoi, Lupa créa la scène de Felicja

qui surgit au centre du spectacle, naissant de la tache blanche laissé par Kafka. La scène de Felicja, est une

pause dans le spectacle, le temps paraît y être suspendu, c'est une scène intimiste, durant laquelle un lien

semble unir les protagonistes qui se retrouvent sur de vieux lits en fer, préparent du thé, parlent de leurs

sentiments mais surtout de leurs ressentiments. Mais la quiétude est illusoire : cette scène est une mise en

abîme du Procès. Elle est le procès dans le Procès, le procès originel. Ici, Franz K. n'est plus que Franz

Kafka, mis en accusation par Felice. Loin de vouloir combler le vide central du roman, Lupa en dévoile

la teneur. Ce vide n'est qu'apparent, c'est un espace hanté par les non-dits, la faille qui fit trébucher Kafka.

La scène de Felicja qui réunit Franz Kafka, Max Brod, Felicja Bauer et Greta Bloch s'achève sur

l'effacement des personnages qui laisse place à une mise à nu des acteurs. Eux aussi sondent leur faille,

exposent leurs blessures, perdus dans un monde terrifiant, ils clament leur désillusion, leur angoisse, leur

doute quant à l'avenir.

La scène de Felicja, bien qu’en retrait du monde extérieur et du Pouvoir invisible qui menace Franz K.,

n'en est pas moins violente. Elle semble reproduire à moindre échelle les rapports de force auxquels K.

se trouve constamment confronté, jusque dans sa sphère intime. Néanmoins, à la fin de cette scène, la

prise de conscience des comédiens est une lueur d'espoir. Le fait même que ce spectacle existe et ait pu

être crée en Pologne, malgré un Pouvoir intrusif, est une marque d'espoir incontestable. Le Procès est une

œuvre qui peut paraître noire tant l'état des lieux qu'elle dresse, de la responsabilité publique comme de

la responsabilité individuelle, est critique, sans concession. Néanmoins, paradoxalement, ce constat est

salvateur car le spectacle nous éclaire, provoque une prise de conscience suscitant une réflexion, peut-

être même une introspection, nous évitant ainsi le destin funeste de Joseph K..

5 Lévy, G., 2005, Une machine amoureuse : les lettres de Kafka à Felice, in « Topique », vol. n°90, n°1, pp. 27-41.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

À la fin des quatre mois de répétition au Teatr Polski de Wroclaw, avant les événements qui ébranlèrent

le théâtre et provoquèrent la décision de Lupa d'annuler Le Procès, le metteur en scène revenait, lors d'un

entretien, sur la genèse du spectacle.

R.P. : D'où l'idée du Procès vous-est-elle venue ?

K.L. : J'y ai pensé à plusieurs reprises, parce que c'est l'un de mes livres préférés, mais en même temps il

y a quelque chose qui fait que j'ai peur de Kafka, c'est-à-dire, c'est complètement irrationnel, je ne sais

pas, j'ai peur de son négativisme, de son pessimisme extrême, de sa négation du bonheur. Kafka me

semble être un écrivain fasciné par son malheur. J'avais cette impression quand j'ai commencé à travailler

sur lui, quand nous avons commencé à travailler sur Le Procès de Kafka. J'ai eu, à plusieurs reprises,

connaissance des travaux d'étudiants, les étudiants adaptent souvent Le Procès et cela me fascinait quand

ils travaillaient dessus. Ce que je peux dire, c'est que je n'ai pas encore vu un Kafka génialement réalisé.

Et je ne suis pas sûr que nous y arriverons parce que je vois combien la tâche est étrange. Je veux dire

que je sens constamment, et c'est de cela dont j'avais peur, que la façon avec laquelle je ressens Kafka et

qu'il parvient à moi, me frappe et produit des choses étranges chez moi comme chez le lecteur, que c'est

très secret, qu'il faut tout simplement retourner le monde, le mettre sur la tête, et en même temps ne pas

basculer du tout. Parce que Kafka est extrêmement réaliste et en même temps, c'est le réalisme de

l'irréalité. Comment dire ? Ce n'est pas un réalisme de cette réalité, c'est tout simplement une autre réalité.

Pourtant, ce n'est pas parce que cette réalité a la tête en bas qu'on ne la connaît pas. Cette autre réalité

que Kafka nous montre est une vérité tapie sous cette réalité véritable, et pour y parvenir, je le sais bien,

et j'en suis maintenant convaincu, il faut avec les acteurs parvenir à un miracle. C'est-à-dire faire avec les

acteurs seize ou vingt petits Kafka et les acteurs doivent avoir en eux ce sentiment du monde, cette qualité

d'observation, cette espèce de folie et une sorte de vision à rebours. Voir réellement, je dirais, regarder et

soupçonner différents détails des événements qui se produisent et les autres personnes aux intentions

étranges qui sont le plus souvent tracées par mes craintes et ainsi de suite et ainsi de suite... Tout cela a

fait que je préférais m’occuper de Bernhard plutôt que de Kafka car il m'était plus proche et qu'il me

réjouissait plus par son énergie malgré tout positive. Alors que, chez Kafka, il y a la mort, ce qui me fait

peur. Je me suis mis à Kafka, parce que l'on dit de plus en plus souvent, à propos de ce qui se passe en

Pologne que c'est « comme chez Kafka » et nous disons cela de façon assez schématique. Tout le monde

dit que c'est comme chez Kafka et personne ne sait ce que cela veut dire. Je dis « comme chez Kafka »

car j'ai une sorte de pressentiment. Alors si, c'est comme chez Kafka, montons Le Procès et voyons ce que

signifie « c'est comme chez Kafka ». Est-ce que nous pourrons dire beaucoup sur notre réalité, ça je ne

le sais pas. Au début quand je m'y suis mis, il m'a semblé qu'on pourrait beaucoup parler de notre réalité

137

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

et que, surtout ce texte pourrait être tel, une sorte de « site » sur lequel nous pourrions ajouter d'autres

textes, nos propres textes. Cependant, il s'avère que Kafka est assez jaloux et ne veut pas qu'on lui ajoute

d'autres textes, comme si, à chaque fois que j'essaye de lui en ajouter d'autres, il les rejetait. C'est-à-dire

que je n'arrive pas à faire avec lui comme avec Bernhard. Par exemple avec Bernhard, j'écrivais certaines

choses, mes apocryphes. Si c'est un sentiment passager, ou définitif, cela je ne le sais pas encore. Ce que

nous venons de terminer, c'est ce que l'on pourrait appeler l'étape de macération avec Kafka. Tout ce que

nous essayons de faire ici, je me dis encore que « ce n'est pas encore ça ». Nous essayons de dire ce que

c'est, comment cela pourrait être. Maintenant, ça va être les vacances, un temps de solitude, et à partir de

là, j'attends de moi-même une véritable vision de cette mise en scène.

R.P. : Comment avez-vous pensé à scinder Joseph K en deux ?

K. L. : En fait, tous les héros de ce grand roman de Franz Kafka, c'est évident, sont des alter ego, c'est

lui. On ressent particulièrement l'identité de l'écrivain et en même temps vous pouvez dire que l'écrivain

ou ce héros, c'est moi. Mais à partir du moment où je commence à écrire sur ce héros, qui est moi, je

deviens le sadique de ce héros. Ce qui veut dire que l'attitude de Franz Kafka envers son personnage est

incroyablement cruelle, je dirais incroyablement compromettante, il l’attrape (le coince) à chaque pas, il

le révèle à chaque pas et en même temps ne se révèle pas lui-même. Il est étrange que nous sentions que

Kafka a un mystère, qu'il ne se trahit jamais, qu'il est un homme secret. Toute cette étrangeté, cet étrange

rituel qu'il pratique avec son héros, le fait qu'il le tue, on peut dire qu'en fait, il se tue lui-même afin d'être

immortel en tant qu'écrivain. Pour lui-même, il doit tuer son alter ego, il doit le violer, il doit l'humilier.

La question est : « est-il vrai que Kafka est masochiste, qu'il est sadique ? »

À ce moment-là, il y a deux personnes. Il y a tout le temps dans le fonctionnement de K. deux variantes,

deux personnes qui se méfient l'une de l'autre, très hostiles l'une envers l'autre, toujours dans la

controverse. Immédiatement, ce n'était même pas une idée, c'est venu spontanément, j'ai senti que

l'existence de Joseph K. était une existence dialogique. Cela signifie qu'il y a un dialogue constant.

Incessamment, dirais-je, je suis insatisfait, c'est-à-dire, que quelqu'un est insatisfait du fait que je suis une

victime de ce procès. Et il dit « tu es toi-même responsable, tu es un mollasson, tu es un égoïste parce

que tu es un lâche », et ainsi de suite… À chaque fois, cette attente de quelque chose de mieux me

concernant, depuis l'enfance, c'était comme cela : Kafka a été divisé en celui que son père lui demandait

d'être, mais à un certain moment, une partie de ce père est devenu une partie de lui-même. Celui qui a

exigé de lui des résultats héroïques à l'école, d'un lâche qui avait terriblement peur de tout, de chaque

examen, qui avait l'impression qu'il n'arriverait à rien. Il ne peut pas faire face à la vie. Il est double, c'est

un caractère double. En général, bien sûr que l'on peut dire que Kafka est double, il a une existence

double, schizophrénique. Il se l'impose lui-même. Cela veut dire que je ne peux pas me représenter

l'existence de Joseph K. sans cela, sans une certaine polémique continuelle, permanente, une polémique

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

incessante.

R.P. : Il y a des motifs qui reviennent sans cesse comme un cycle : les mains, les fenêtres, le chiffre trois, le double. Comment

allez-vous le porter à la scène ?

K. L. : On peut dire que la révélation, c'est chez Kafka toujours un même schéma, il joue avec la

dissimulation et la révélation. On ne peut pas tout montrer parce qu'à ce moment-là notre spectateur ne

verrait pas quelle piste suivre, où regarder. On ne peut à cet instant montrer tout cela, c'est un jeu contre

l'extérieur et contre soi. Tous ces motifs, toutes ces rencontres que vit le héros, introduisent une certaine

stratégie qui doit le conduire d'une certaine manière à la victoire, ou ce genre de choses, comme les

explications à Mlle Bürstner dans la chambre6. Tout cela, à cause de cette hypocrisie qui fait partie de la

personnalité, devient impossible : toutes les rencontres devraient d'une certaine manière me disculper,

mais parce que je m'excuse tout le temps, je ne suis pas innocent. Je me défends sans cesse, je ne vais pas

à l'attaque, ou à de rares moments, en fait je suis tout le temps sur la défensive. À ce propos la tante dit

finalement : « ceux comme toi parlent comme des coupables ». Donc tous ces motifs nous aident car ils

sont des fétiches ou des motifs qui nous éclairent sur ce qui se passe et nous permettent dans une certaine

mesure d'appréhender les choses intangibles (abstraites). Car il y a deux choses dans ce roman, deux

choses insaisissables. Insaisissables – je le suis moi et ce qui se passe en moi – les mécanismes de mes

décisions, je n'y ai pas complètement accès, ils sont insaisissables, c'est-à-dire ce qui m'a attaqué, et cette

réalité qui m'attaque d'une manière que je dirais absurde, d'une manière qui va à l'encontre de toutes les

règles et de toute logique. Et pourtant elle m'attaque victorieusement et est pour ainsi dire impénétrable,

une sorte de sphinx. Mais d'un autre côté, je suis un sphinx pour moi-même.

Trois semaines après la première du Procès au Nowy Teatr de Varsovie, le 15 novembre 2017, Lupa

exprimait sa vision de l’œuvre de Kafka, lors d'un entretien, à Cracovie7.

R.P. : Pour commencer, j'aimerais aborder la question du motif, car, chez Kafka, il y a différents motifs, comme la main,

le chiffre trois ou bien la bouche que vous avez ajoutée. Ils sont comme une écriture cachée. Comment cela a-t-il été retranscrit

dans votre travail ? Pouvez-vous me parler de ces motifs ?

K. L. : Lorsque nous avons commencé au tout début, à Wroclaw encore, nous étions sur le chemin du

mystère, de la fascination de Kafka pour la philosophie juive. Sa fascination toute ésotérique. Mais plus

tard lors de la reprise à Varsovie, j'ai voulu m'éloigner de ce thème. Prendre un autre chemin, plus simple,

6 Franz K. éveille la suspicion chez Melle Büstner en voulant s'expliquer, plus il tente d’éclaircir la situation, plus il paraît trouble aux yeux de la jeune femme. 7 Traduits par Rébecca Pierrot avec l'aimable assistance de Natasza Gerlach.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

pas le chemin du mystère, de ce symbolisme ésotérique. Il est certain qu'il en est resté quelque chose, ne

serait-ce que ce qui se passe dans la troisième partie, au troisième acte, quand Franz K est plongé au

milieu des gens qui entourent l'avocat Masala8, qui est ce que l'on peut appeler un initié.

On a ici, quelques individus qui usurpent cette initiation. Différents initiés se succèdent, une sorte

d'avocat gourou qui est un personnage mystérieux avec ce traité sur la nature des tribunaux… C'est la

façon dont nous abordons le mystère, bien que Kafka le traite très ironiquement, en montrant en même

temps l'absurdité de cette pensée, tout cela, à un moment donné, se frotte à l'absurde. Franz Kafka, en

tant que Franz, en tant que Joseph K. – peu importe comment nous appelons le héros de notre histoire

– en cherchant de l'aide, commence à subir l'action de toutes ces personnes, de toute cette sphère. En

même temps, c'est comme s'il avait contracté une maladie et, à ce moment-là, il ne peut se sauver de cette

fin qui s'approche, avec cette force de détermination.

L'autre mystère, c'est celui du chiffre trois, on a trois cercles, trois moyens de libération, c'est-à-dire le

prochain initié, le peintre9 qui est en fait aussi un usurpateur. Cela veut dire qu'à chaque fois, on a affaire

à une sorte...Je ne veux pas appeler cela un mensonge, car comment dire, Kafka ne le considère pas non

plus ainsi... Kafka était lui-même très influencé par la Kabbale et toute la symbolique de la méditation.

Cette symbolique qui est là depuis toujours, cette symbolique qui se tient dans chaque réalité et qu'il faut

savoir, d'une certaine manière lire, à travers les symboles. Donc, il doit faire face à l'absurde et avec ce

sentiment qu'en allant dans cette direction, il n'est pas plus proche de l’illumination, que c'est justement

peut-être le contraire, d'une certaine manière, il ne fait que sceller son destin, donc, sa mort. Je dirais que

ce qu'il a entendu dans : « À la fin, tu es reconnu coupable », c'est comme la question, « à quel moment

es-tu reconnu coupable ? ». Est-ce que cela concerne cet acte prétendument commis à un certain

moment, au début, ou plutôt toute la période de l'accusation jusqu'à maintenant, et que cette faute de

Franz K., est en fait seulement, à un moment donné, remarquée, démontrée. Tout le temps, nous parlons

de l'observation de l'accusé, que l'observation de l'accusé, comme le dit l'avocat Masala, est plus

importante que tous les faits enregistrés au début du Procès. L'observation de l'accusé – de cela on peut

dire – ce que l'accusé fait après l'acte d’accusation. C'est justement à ce moment-là que l'on peut, soit être

sauvé – la question est comment – soit être finalement reconnu coupable. Ces trois façons de se libérer,

ces trois cercles, il ne faut pas les négliger, ne pas nous en éloigner pour un ajustement à une sorte de

lettre de la loi actuelle, pour les traiter de façon plus spirituelle, ou plus philosophique, plus dans la

réflexion, ou de façon métaphorique, ce qui veut dire dégagée du réel, débarrassée des apparences, c'est

une prolongation, un sursis. Que veulent dire ces trois rendez-vous ? Nous appellerons cela notre

philosophie de la liberté. Ce qui veut dire que cette figure, d'une certaine manière, définit très

8 L'avocat Masala, interprété par Piotr Skiba, Maître Huld dans le roman de Kafka. 9 Le peintre Titorelli, informe Franz K. de l'existence des trois cercles, des trois possibilités : l'acquittement réel, l’acquittement apparent et l'atermoiement illimité.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

profondément, en fait, notre condition de liberté. Autrement dit, la libération totale, l'acquittement, est

en fait impossible. Car on peut se dire que tout cela n'est pas du ressort d'une instance, aucune instance

(aucun jugement) n'est en mesure de libérer l'homme. C'est l'homme qui tout au plus peut le faire seul,

en d’autres termes, obtenir ce genre d'acquittement total.

Cet acquittement total est une condition divine, en fait inaccessible à l'homme. Les gens tombent dans la

zone de culpabilité, ils se salissent dans cette zone d'accusation ou appelons-la aussi « la mauvaise

conscience » qui est la condition humaine permanente. En fait il s'agit de l'éternelle dépendance au réel,

ou la faute prétendument commise. Et à ce moment-là, cette libération complète, l'acquittement, est

pratiquement impossible, en raison du fait qu'il est inaccessible pour l'homme qui est déjà entré dans la

sphère de la culpabilité. Il a commencé sa vie dans le domaine de la culpabilité. Par exemple, on pourrait

dire que peut-être le crime ou l'acte de Franz K est en quelque sorte inné, il l'a en naissant. Il est devenu

un homme en grandissant à la maison, puis à l'école, plus tard, il a mûri en diverses institutions, devenant

un être humain, d'une certaine manière, devenant un homme coupable. Et en conséquence, une libération

totale est pour lui inaccessible. En ce qui concerne les apparences, c'est très intéressant, l'apparence de la

liberté, car elle est superficielle. C'est-à-dire obtenir un soi-disant sceau d'acquittement ou de libération

est une sorte de tromperie, en fait un homme effectue, en apparence, des activités pour se libérer de tout

cela et renvoyer une image aux autres qui s'appuie elle aussi sur celle de son entourage, qui la confirme.

Cependant, il devra la répéter constamment, et tout cela sera une sorte de mensonge. Par conséquent, le

fait même qu'il entre dans ce mensonge, le rend, en quelque sorte, coupable à nouveau. S'engager, sur le

chemin de la libération apparente, à la fin, le rend coupable et son acquittement en réalité n'est

qu'apparent. C'est une question très intéressante, que plus tard – car l'existentialisme n'apparaîtra qu'après

Kafka – les existentialistes poseront. En parlant de la liberté, ils empruntaient souvent la piste du Procès

de Kafka, ce paradoxe de la liberté apparente. Le sursis, c'est-à-dire comme si l'individu fuyait

constamment devant le bilan de sa faute. Et c'est, je dirais, le chemin le plus banal vers la liberté.

Alors parlons de la trinité, de ces trois cercles, appelons cela une renaissance ou une renaissance de notre

liberté et l'échappatoire à notre statut d'accusé, en fait, nous avons une sorte de traité philosophique, à

mon avis assez précis. Mais d’un autre côté, nous pouvons nous dire, que nous l'avons entendu de la

bouche d’un homme peu crédible10, je veux dire, comme chez Kafka, d'un commerçant, glissant, suspect,

retors. De plus en plus, nous entrons dans la sphère de la manipulation, légale et spirituelle en même

temps. En fait, ce que nous voulions, c'était un peu faire de ce peintre, moins un commerçant

qu'un ...escroc, un imposteur, aspirant en quelque sorte à une illumination. À une initiation. Initiation, est

peut-être un meilleur mot. Initiation à la forme ésotérique de la loi, à la forme supérieure de la loi et

donner l'illusion au héros qu'il va dans cette direction. Une sphère inaccessible, d'une instance supérieure,

10 Titorelli, le peintre.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

toujours invisible. Ici, chez Kafka la plus haute instance est toujours inaccessible. Sans cesse, l'on nous

dit que nous opérons, que nous traitons, dans les sphères inférieures de la loi. Et généralement nous

n'avons pas accès aux sphères supérieures. Ici, il y a usurpation de l'entrée dans ces sphères supérieures.

Nommons-là, une usurpation, très suspecte, en regard de la condition de cet homme, qui est celle-ci et

pas une autre, cette trinité. Enfin, nous voulons dire que, dans ce troisième acte, nous traitons ici, dans

cette maison de l’avocat, de la sphère de cet inaccessible, étant dans la sphère des pressentiments, et dans

la sphère des symboles, dans la sphère de la symbolique. Car l'on sait que la symbolique de la pensée

humaine, de l'âme humaine est une sorte d'avant-garde. Appelons cela un processus spirituel humain.

Tout ce qui est de l'ordre du magique, symbolique, ou des théories ou fétiches individuels, à la fois dans

la sphère des nombres symboliques, dans la sphère des symboles de signification, et enfin dans la sphère

de certaines divinités, certains archétypes qui fonctionnent ici sont d'un côté récupérés par Kafka de

l'ésotérique juive, mais, d'un autre côté Kafka soumet cette sphère à une radiographie ironique et elle

apparaît sous une forme très suspecte.

R. P. : La dernière fois, à Wroclaw, nous avons parlé du double qui est un motif prépondérant dans votre travail sur

« Le Procès », vous disiez même entre autres choses, pouvoir considérer « Wycinka »11 et « Le Procès » comme des pièces

sœurs. J'ai pu relever à présent, d'autres rapports au double. Tout d'abord la modification essentielle qui est que Joseph K.

est devenu Franz K. (lui-même est un Franz K. dédoublé) ce qui démultiplie encore les choses. Ce jeu se retrouve aussi

d'après moi dans les costumes qui jouent sur la transparence et le montré-caché ainsi que sur le travestissement, dualité entre

le féminin et le masculin (quand Felicja habille K. en femme). La figure du double est aussi christique : avec les deux anges

d'abord blancs puis noirs. De même sur l'affiche du Procès, avec le motif des mains liées et des mains ouvertes. Pourriez-

vous me parler un peu plus de ce motif du double, de ce projet que vous aviez imaginé comme un échiquier, un soir noir et

un soir blanc.

K. L. : Oui c'est une question très large ici, la dualité. C'est aussi très similaire à un mouvement intuitif.

Car, on pourrait commencer avec Léonard de Vinci, puisque tu mentionnes l'affiche, et se demander

pourquoi l'homme vitruvien est représenté dans deux positions différentes. Pourquoi en un mot, en

regardant ce dessin, la géométrie du corps humain par laquelle Léonard de Vinci était fasciné, une pose

n'a-t-elle pas suffi ? Ces deux positions, celle du début, d'un homme debout, fermé, avec les mains

baissées et la position de l'homme ouvert, c'est à dire la position la plus inspirante, la position de l'homme

liée au fait de recevoir et de donner. Donc, en même temps, dans ce modèle de l'homme vitruvien, nous

avons ces deux conditions : le corps humain fermé et ouvert. Je ne sais pas si Léonard de Vinci l'a voulu

dès le début, s'il était pleinement conscient de la force du symbole qu'il créait avec son dessin ? À quoi

aspire-t-il réellement à ce moment ? Que pressent-il en cet instant, en esquissant un tel dessin ? Car d'un

11 Wycinka (Des arbres à abattre), d'après Holzfällen (Des arbres à abattre), roman de Thomas Bernhard, Teatr Polski, Wroclaw, Pologne, 2014.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

côté l'intention de ce dessin est très simple. C'est-à-dire, c'est la géométrie d'un corps qu'il inscrit dans un

cercle et dans un carré. Il s'agit aussi des proportions. Où est le centre de cette figure qui entoure le corps

humain ? D'un autre côté, Léonard de Vinci ne pouvait pas ne pas se rendre compte qu'en esquissant ce

type de dessin, en même temps, d'une certaine manière, il fait allusion à ce symbole chrétien très puissant

qu'est le Christ crucifié. Le fait même que par exemple notre affiche ait été pour certains un objet

d'attaque religieuse, je veux dire, j'ai moi-même reçu un SMS d'une personne qui visiblement n'avait pas

identifié l'affiche comme étant L'homme de Vitruve de Léonard de Vinci, elle l'a interprétée comme étant

celle du Christ... le Christ se masturbant ! Alors je dirais que cette dualité qui est inscrite dans ce dessin

très symbolique de Léonard de Vinci... Il se trouve que l'on peut voir beaucoup de choses dans ce dessin,

le champ d'interprétation est vaste, il y a de nombreuses possibilités !

Il est intéressant de voir toutes ces dualités. Il y a au début de nos répétitions [à Wroclaw] un double, deux

Joseph K., deux Franz K.12. Cette opposition est dans le roman, c'est en premier lieu – l'opposition entre

l'auteur et le héros, entre le narrateur et le héros. Que Kafka crée en même temps son alter ego sous la

forme du héros du Procès et en même temps l'objet de son attaque, cela veut dire qu'il y a quelque chose

qui peut nous faire penser qu'il convoque son héros – qui lui ressemble de façon troublante – dans le but

de s'en séparer, de se libérer de lui et à la fin de le tuer ; et en même temps, l'observer, et voir jusqu'à quel

point il se différencie de tout cela, de ce qu'il veut être, de ce qu'il vise. S'il est vrai que je m'identifie à une

image idéale de moi-même ou à mon rêve, alors cet Autre est un coupable, chargé d'une faute, pour tout

ce qui est Moi, et en fait cet inconnu, ce corps dans lequel se trouve ce Moi, détruit, perdu ou même,

comme si l'on empruntait une piste criminelle, du faux, par exemple. Mais ce n'est pas une telle

installation, je dirais, de la narration, extrêmement prédatrice, une installation narratrice perverse de

Kafka, qui, jusqu'à maintenant ne laisse tranquille aucun des critiques et des exégètes de son œuvre. C'est

le début de cette histoire, est-ce que toute l'histoire de Kafka suit systématiquement la première

installation ? J'en doute car il s'avère parfois que celui qui est justement l'accusé, à un moment donné, se

trouve devenir le narrateur, il obtient soudain sa voix et l'autre reste muet, comme si les rôles

s'échangeaient. Est-ce que l'on veut cela ou non ? Est-ce que je veux le permettre ou est-ce que je ne veux

pas le permettre ? Comme si tout notre étrange chemin de croix, être soi, être un Homme, est au fond,

ici, dans cette histoire, et présenté aussi de façon prédatrice, très symbolique. C'est pour cela que l'on peut

dire que ce livre nous capture… comme dans les griffes de son récit. En fait, il fait avec nous quelque

chose de très bizarre, c'est-à-dire que nous ne sommes pas pleinement en mesure de pénétrer, ni de

réaliser ce qui nous arrive. Et, au moment où nous devenons les lecteurs de ce livre vampirique, dès le

début, j'avais le sentiment qu'il fallait que je fasse quelque chose de cette très étrange et très provocante

installation du personnage principal par le narrateur de ce texte. Et plus particulièrement je dirais que

12 Le dédoublement de Joseph K. au Teatr Polski de Wroclaw a laissé place au dédoublement de Franz K. à Varsovie.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

l'idée qu'il y ait deux Franz K. n'est pas venue si simplement, comme théoriquement, de la lecture, mais

du fait qu'il y avait au Teatr Polski de Wroclaw deux acteurs à qui je voulais confier le rôle. Et à partir de

ce moment-là, la chose a été très simple. C'est vrai, comme j'ai deux acteurs, c'est peut-être la manière la

plus simple que j'aie de traiter, de gérer cette syzygie contradictoire, cette dualité qui est dans le livre, cette

dualité mystérieuse. Mais c'est facile de dire et même de faire en sorte qu'il y ait deux acteurs, plus difficile

est, de le mettre en œuvre, plus tard. Je veux dire, il me semble que d'une certaine façon, nous avons lutté

pour renforcer ce genre de tension continue, cette polémique intérieure qui habite le héros. Le fait que le

héros n'est pas une unité, que le héros est dans un dialogue constant, en contradiction, que le héros est

accusé et accusateur, qu'il est un corps qui, comme disait Kafka, subit l'oppression, et en même temps

cet autre [ce second] debout, à côté.

Durant les répétitions, nous lisions cette histoire très bizarre que Kafka racontait : depuis l'enfance il avait

– je ne sais pas si c'est un don ou le système de défense d'un individu sans cesse humilié et constamment

malheureux d'être ce qu'il est – dans les moments les plus embarrassants et les plus horribles de sa vie, il

avait cette possibilité de quitter, en quelque sorte, son corps. Il restait à côté et observait avec un certain

sadisme celui à qui les choses arrivaient, sans s'en soucier. Il a cessé de le défendre. Parce que, le plus

souvent, c'est ainsi dans ce genre de situation cauchemardesque, un observateur étrangement cruel surgit

en nous qui nous dit à quel point nous sommes pitoyables en cet instant. Néanmoins, nous exigeons que

le plus intelligent en nous ne nous abandonne pas, et ne nous laisse pas dans cette bêtise, dans un manque

de volonté et une impuissance totale. Le plus intelligent de nous deux devrait veiller sur nous ou au moins

être notre avocat, sinon notre héros. Sois au moins mon avocat et dis-moi au moins ce que je dois dire.

Mais effectivement si, à ce moment, Kafka a complètement déserté et a laissé son pauvre corps à la

dévoration et à la perdition totale… C'est la question, bien sûr, est-ce que nous appelons cela de la lâcheté

car jusqu'à un certain point, jusqu'à ce que, pour ainsi dire, j'admette que c'est moi encore, je peux dire

que je suis un lâche. Mais au moment où je pars complètement, que je dis, ce n'est pas moi, et que je suis

pour ainsi dire sadique – d'un autre côté, je ne suis plus un lâche – je ne suis que cruel car l'on peut dire

que je me suis libéré de lui, je suis maintenant au-delà de tout cela. Donc, je dirais que l'on a ici dans la

narration du Procès, un exemple exact, un exemple qui se répète tout le temps – le modèle de la séparation.

Il s'est éloigné si loin de lui-même qu'il ne mérite plus le nom de lâche, puisqu'il n'a plus rien en commun

avec l'autre, il n'est donc plus un lâche, il est seulement cruel. Cette figure étrange est constamment

présente et dans ce cas, il se peut que nous n'ayons pas encore exploité complètement cette piste13.

Cependant, ce dédoublement se produit sans cesse, à différents endroits, il touche à la fois l'identité et

l'identité sexuelle – ce qui est aussi quelque chose d'étrangement instable chez Kafka. Et cela, je dirais à

nouveau qu'à la vérité, nous avons essayé d'une certaine manière de le provoquer, de le pénétrer lors de

nos nombreuses conversations. Néanmoins, c'est arrivé tout seul, pendant une répétition nocturne. Il se

13 Des modifications ont été apportées au spectacle après la première de Varsovie.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

créa des figures de travestis que nous n'avions pas prévues auparavant. Elles se créaient seules, à partir de

cette sorte d'esprit étrange. Elles se créaient parfois d'abord à travers les costumes, car ce qui est

intéressant c'est qu'avant cette improvisation nocturne durant laquelle est née la scène de Felicja, il y a eu

des essayages de costumes chez Piotr14 et il est peut-être possible que ces costumes aient fait leur chemin

dans la tête des acteurs et que cette pensée ait éclos dans la tête des acteurs. Il semble aussi que Piotr est

en grande partie l'auteur de ce que nous appellerons la gémellité. Car au début des répétitions ici15, Piotr

a esquissé, c'est à dire qu'il a eu l'intuition de la gémellité. Pour lui, Greta ressemble comme une jumelle

à Felicja et il a pensé à la perruque de Greta. À ce moment, Greta, donc Małgosia Gorol16, revêt pendant

l'improvisation cette perruque qui avait été faite pour provoquer cette gémellité entre ces deux femmes.

Il y a aussi une gémellité entre Adam et Małgosia17, comme le sont les figures d'anges en général.

En fait, pourquoi cette scène de Kafka est-elle si étrange ? Pourquoi ces deux personnes ? Bien sûr, le fait

qu'il voie ces deux personnes est justifié à ce moment précis, par l'état du héros, par son évanouissement.

Il est dans un état bizarre, narcotique, il voit ces deux personnes et leur attribue quelque chose qui se

passe en lui. En un mot, il n'a pas d'autre issue que ces deux, je dirais, spécimens, qui l'aident en cet instant

et qui d'une certaine manière le radiographient, comme s'il s'agissait d'un cliché radiologique, c'est à ce

moment-là qu'il conçoit sa scission, dans ce que nous appellerons vision ou illumination, sa scission, en

ces deux personnes. En un mot il est vrai qu'à l'extérieur, dans différentes situations, apparaissent, en

quelque sorte, des images rémanentes de ma propre division. Ce qui veut dire que je vois à l'extérieur ce

que je ne suis pas capable de voir en moi-même et que je ressens si fort.

R. P. : Pas si éloigné de la figure du double, pouvez-vous me parler de la figure du sphinx ? Vous y avez longuement fait

référence au travail à la table à Wroclaw en citant Axel Munthe (Le Livre de San Michele) et en nous parlant de ce

sphinx au visage en partie défiguré qui nous est caché. Ici lors des répétitions le sphinx est revenu à plusieurs reprises au

sujet de Mme Grubach. Le sphinx fait appel au secret, au caché (quand je pense à ce sphinx spécifiquement, cela évoque

encore plus la question de l'identité). Pouvez-vous m'en dire un peu plus ?

K. L. : Le sphinx, le sphinx c'est en général celui qui m'accuse. C'est à dire quelque chose que je ne vois

pas, quelque chose qui est en quelque sorte devant moi et me pose des énigmes de sphinx. Car on peut

se dire que le sphinx nous le connaissons principalement par cette parabole, ce mythe grec d’Œdipe,

lorsque le sphinx pose une énigme, dans ce mythe l'énigme est une sorte de radiographie de mon secret,

je dirais. La parabole originelle. Donc, si l'on dit qu'à un certain moment Madame Grubach se transforme

en sphinx, en tant que substitut, cela veut dire que j'ai été attaqué par cette étrange détention. On me dit

14 Piotr Skiba, acteur, assistant et costumier sur les productions de Lupa. 15 À Varsovie, lors des répétitions de la reprise du Procès, après les événements de Wroclaw. 16 L'interprète du rôle. 17 Adam Szczyszczaj et Małgorzata Gorol interprètent respectivement, Max Brod et Greta Bloch, ainsi que les deux anges, blancs, puis noirs.

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que ceux qui m'arrêtent sont des sous-traitants de la sphère inférieure et que ce n'est pas un tribunal

normal, c'est à dire que ce n'est pas un tribunal connu et reconnu par moi. Ce n'est pas un tribunal officiel

qui me conduit à cette hiérarchie reconnue. Je suis dans un État dont le Président du gouvernement

envahit toutes les institutions que l'État régit. Je sais que le tribunal est une instance liée au gouvernement

de cet État et pourtant ayant en soi une autre entité, etc, etc... Tout ce qui est connu dans un État sûr et

me permet de me sentir en sécurité, et, même lorsque je suis accusé de façon officielle, je ne perds pas

complètement cette sécurité car cela concerne mon crime, alors, à ce moment, je le reconnais. On a ici

affaire au sphinx, en fait dans une situation dans laquelle cet ordre naturel est perturbé, où tout à coup, il

se pose quelque part à proximité, caché, tout comme d'une mafia surgit parfois une autre entité et un

autre pouvoir, une autre force qui m'attire et qui en ce moment m'attaque et exige une sorte de règlement,

me reproche une certaine culpabilité pour laquelle je dois payer. Et ici se crée ce sphinx, cet être

symbolique pour lequel il y a tout cet espace inconnu. La créature symbolique. C'était important pour

moi, qu'au moment où je ne vois pas qui m'arrête, qui m'accuse et de quoi l'on m'accuse, à ce moment je

commence à voir ce sphinx en l'individu le plus proche de moi. Cela veut dire qu'à mon sens, Mme

Grubach qui en sait plus que moi à ce sujet, commence à avoir le visage de ce sphinx. Cela veut dire que

le sphinx apparaît à travers les personnes les plus proches. À un moment donné le juge d'instruction

devient le sphinx. À un moment donné, le sphinx est même incarné par Róża, qui est en quelque sorte

une personne de condition modeste, malgré tout, elle a le stigmate du sphinx pour moi, car elle en sait

plus que moi sur le thème que je ne connais pas. Donc ce sphinx est en quelque sorte un visage sans

visage, errant, dont constamment, au cours de mon voyage, quelqu'un s'empare. C'est quelque chose

comme aller sur le chemin ésotérique de la tragédie grecque. C'est le masque du sphinx qu'à chaque

mouvement quelqu'un revêt.

R. P. : Il y a aussi quelque chose de très géométrique dans l'espace : entre le triangle18 qui fait référence à ce chandelier mais

aussi une part plus christique avec la trinité, quand le mari de Róża s'étend par terre, sa tête arrive juste au niveau du

sommet du triangle, les points de fuite des lattes etc... Cette géométrie se retrouve jusque dans l'affiche, reprenant le célèbre

dessin de Léonard de Vinci (inspiré par Vitruve) représentant un homme (rappelant ici K.), enfermé dans un carré rouge

(qui rappelle la ligne rouge) et un cercle, on pense évidemment à la thématique de l'homme au centre du monde (au centre

du cosmos), ainsi qu'à sa double dimension matérielle/rationnelle et spirituelle/universelle. Mais ici vous semblez jouer avec

cette représentation de l'homme au centre du monde, les carrés de lumière tentent sans cesse de capturer les hommes, tout

18 La géométrie est très présente dans la scénographie du spectacle, outre la ligne rouge, indissociable des spectacles de Lupa, il y a les carrés de lumière qui apparaissent avec les deux anges. Mais c'est le triangle qui est peut-être le motif clef de cette scénographie. On le distingue dans le parquet recouvrant le plateau : comme une marqueterie, les lattes de bois dessinent un triangle au milieu de l'avant-scène, pointant vers le fond de scène. Cette figure est soulignée par une découpe de lumière, changeant de couleur selon les scènes. Ce triangle lumineux n'est pas sans évoquer le chiffre trois et le chandelier du roman. On le retrouve aussi dans les toiles du peintre Titorelli. À la fin du spectacle un second triangle, inversé, est projeté en fond de scène. Une cartographie s'esquisse donc sur la scène, sur le plateau et sur les murs.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

comme la caméra, la photo, l'image tente en vain de capter l'identité morcelée de K., ou, en général, l'âme des personnages.

K. L. : Je suis très intéressé par cette question. Je veux seulement confirmer que nous ne cherchons pas

seulement à l'aide de ces symboles et de certaines figures symboliques simplifiées, des formes

géométriques ou de numérologie, à l'aide de ces clefs à exprimer quelque chose, mais que c'est avec de

telles clefs que nous cherchons quelque chose. Les symboles ne sont pas là pour exprimer quelque chose

que nous connaissons bien, ils sont là pour exprimer quelque chose que nous ne connaissons pas bien,

ce que nous pressentons. Les symboles apparaissent alors comme une forme simplifiée de ce

pressentiment et je dirais qu'à un certain moment, les symboles sont souvent de petites lanternes qui

brillent dans l'obscurité. Et le fait que, dans le troisième acte, cette symbolique se multiplie à l'aide de la

géométrie, de la géométrie triangulaire qui est inscrite et en fait arrive sur le sol, nous avons deux figures

symboliques. Nous avons un triangle qui, depuis les spectateurs, à la frontière, vise le carré dans la

profondeur de la scène. Le carré qui, dans le tribunal sera un lieu entouré d'une barrière19, un lieu pour

cet homme vitruvien. Donc, en fait, c'est comme si une figure triangulaire essayait de devenir un carré.

C'est-à-dire que la figure triangulaire est présente dans de nombreuses symboliques ésotériques, de la

symbolique égyptienne à la symbolique kabbalistique, mais aussi par exemple dans le Yi jing de la

symbolique chinoise. Et le trois aspire à devenir quatre, le triangle aspire à devenir carré. Le carré, quatre,

précisément la figure la plus proche du cercle, qui devient un. En fait, tout cela est la symbolique de

l'individuation, comme le dit Jung, appelons cela le secret de cette symbolique. Donc le fait que l'homme

aspire à la plénitude, quelque part, tout au début, de façon assez intuitive, j'ai construit une carte

géométrique au sol, car le sol est une sorte de carte... des actions de notre héros. On peut dire qu'il y a

deux coordonnées au sol, x et y. À chaque fois nous pouvons considérer le sol de sorte qu'un individu,

dans un champ donné, comme une figure d'échecs, puisse déterminer sa position et à ce moment en

mesurer la tension et ce qu'elle signifie dans cet espace. Au moment des assises, lorsque Franz K. était là,

nous avons fait quelque chose de similaire dans Miasto Snu20, dans, je dirais, sa seconde variation, nous

avions une sorte de cube dans lequel l'homme avouait qui il était. C'est-à-dire qu'en entrant dans un tel

cube, il est, pour ainsi dire, soumis à une certaine radiation et, à un moment donné, il fait sa confession

et se révèle dans ce cube. On pourrait se dire qu'il est là pour développer son moi, son moi secret, et qu'il

veut le faire ressortir, mais ici c'est le contraire, ici cet homme n'est pas dans le cube pour se développer,

se percer à jour et arriver à l'accomplissement, à une certaine incarnation et au développement de ce qui

est en lui. Mais en fait, pour éclairer sa culpabilité, la faute – c'est à dire l'inverse – pour répondre à

l'accusation, et que ce triangle, à ce moment, cette figure imparfaite, est en fait un genre de faisceau

lumineux de l'accusation. Ce triangle, dont la base est tournée vers les spectateurs dit : « C'est nous qui

19 La barre à laquelle se tient Franz K.. 20 Miasto Snu (La Cité du rêve), inspiré du roman L'Autre côté d'Alfred Kubin, TR Warszawa, Varsovie, Pologne, 2012 ; avant- première au Théâtre de la Ville, Paris, France, 2012.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

accusons, et toi, défends-toi face à nous ! ». À ce moment, le triangle fait des spectateurs, des procureurs.

En même temps, la défense par l'attaque de Franz K., c'est-à-dire le monologue qu'il leur envoie au

moment de l'interrogatoire dit le contraire : « C'est vous qui placez votre péché en moi, c'est vous qui par

votre propre petitesse et par le mensonge qui est en vous, cherchez une victime. Et c'est vous qui avez

créé un État de mal dans lequel vous détruisez ». Et si nous parlons en ce moment des connotations

politiques de notre représentation, c'est comme une tentative de construire une relation entre les

spectateurs et notre personnage principal qui, a un moment crée ce sphinx… et déplace ce sphinx

justement sur les spectateurs.

Je voulais ajouter au sujet de la multiplication de ces figures symboliques, le triangle et le carré, au

troisième acte, que c'est à l'aide de ces figures, à travers ces figures justement que cette recherche a lieu

dans l'obscurité. Elles ne sont pas nécessairement, à ce moment, notre voie de perfection, le genre et le

chemin auquel nous nous adaptons, comme avec tout ce qui est sans forme en nous, c'est comme une

tentative de contrôler et d'ordonner le chaos qui est en nous et cette figure est le prototype, elle est

l'anticipation. Ces figures sont comme, par exemple, la figure de Dieu, la forme de Dieu est l'anticipation

et nous devons commencer à explorer cette figure afin de savoir ce qu'elle signifie, et si nous l'avons

instinctivement, intuitivement, extériorisée, ce n'est pas pour exprimer nos connaissances, c'est seulement

pour exprimer nos pressentiments. Ce n'est que l'exploration de cette figure qui nous mettra sur le

chemin, et alors peut-être que cette figure subira une certaine transformation, une certaine modification.

Peut-être qu'elle changera complètement lorsqu'elle sera reconnue, nous reconnaîtrons en nous-mêmes

ce qu'est l'essence de notre recherche. Mais ici dans le troisième acte, ce feu d'artifice, cette débauche de

figures symboliques est en fait une sorte de signe de désespoir, et cet appel au secours désespéré à l'aide

de ces figures, est comme si nous perdions le chemin de l'harmonie avec nous-même. Il y a eu une

catastrophe et ces figures, à ce moment, participent de notre folie.

« The Kafka’s Rights. A dialogue with Judith Butler » K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, 1, 2/2018, pp.148-155

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

The Kafka’s Rights

A Dialogue with Judith Butler*

It is well known that after Kafka’s death his friend Max Brod collected and secured his manuscripts,

before he escaped to Israel to avoid the Nazi extermination (he died in Tel Aviv in 1968). Afterwards,

the manuscripts were delivered to Brod’s secretary, Esther Hoffe; Hoffe had indeed been asked by Brod

to donate Kafka’s works to a public archive. A part of these ended up in the German Literature Archive

of Marbach. Later on, the Archive tried to buy from Esther Hoffe’s daughters the rest of the manuscripts

that Max Brod had left to their mother. Starting from 2007, this request started a series of legal actions

involving the German Literature Archive, the National Library of Israel and Hoffe’s daughters, all of

them contending for Kafka’s heritage. Indeed a peculiar and aporetic heritage, one that was made

impossible by Kafka himself, since he had entrusted Brod with his own manuscripts with a mandate to

destroy them.

In June 2015, after over ninety years of vicissitudes, relocations and sales, three judges from Tel Aviv

District Court decided that Kafka’s manuscripts are the property of the National Library of Israel.

The judges wrote in the verdict: “As far as Kafka is concerned, is the placing of his personal writings –

which he ordered to be destroyed – for public sale to the highest bidder by the secretary of his friend and

by her daughters in keeping with justice? It appears that the answer to this is clear”. In the context of a

controversial between private actors and a German cultural institution, the Israeli judges finally

transformed the Hoffes’ “mismanagement” and enrichment into a justification for Kafka’s

nationalisation.

However, who owns Kafka? Who does he belong to? What does it mean to transform into Israeli national

heritage the writings of an author who seems to have constantly tried to produce a diasporic poetics,

connotated by non-belongingness and absence of roots? How can the nationalisation of Kafka’s works

by Israel coexist with the same writer’s ambivalence towards the Zionist political project? Which are the

purposes and the political aftermaths of the transformation of his writings into state property?

In 2011, Judith Butler tried to answer to these extremely topical issues – while the trial was still underway

and its outcome was yet to be seen – through the essay Who owns Kafka?, published in the «London

Review of Books» (it was translated in Italian and published in «il lavoro culturale» in 2016). In this essay,

* Questions posed by Gianluca Miglino, Giuliana Sanò and Marco Tabacchini. We would like to thank Mariavita Cambria for

the linguistic revision.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

by combining historical reconstruction, philosophy, political theory and literary criticism, Judith Butler

seizes the opportunity to develop again some of her most cherished themes: the relationship between

language and subjectivation; the establishing of political subjectivities by means of the undoing of

identity-related tenets and goals; the tension between diasporic condition, messianism and nation-state;

the thorny situation involving Judaism, Zionism and dispossession of the Palestinian people. As Judith

Butler demonstrates, these are not only Kafkian themes, but also potentially paradigmatic elements for a

destituent consideration of Kafka and his heritage.

1) On several occasions you have remarked/observed how every form of social belonging becomes

problematic in and for Kafka. This attitude is clear both in the skepticism expressed for belonging to the

Jewish world (it is worth remembering Kafka’s joke, made famous by Arendt, about the Jewish people:

“My people, provided that I have got one”), and in the most pressing themes of his writing – such as the

persistence of destinations which are irreparably unknown or what you call the “poetics of non-arrival”

– used as a narrative expedient given to the characters in order to definitively dodge any sort of family

bond and community, any sort of suffocating territorialization;, so much so that even their relationship

with housing seems to be affected by similar attempts of subtraction (the renouncement to shut

themselves up in “one’s own flat” that you quote in Who Owns Kafka?). If Kafka seems to be fascinated

by the galut mythology, his characters, as well as the writer himself, seem to be radically immune to any

operation of redemption or release. Indeed, in the world they inhabit there is neither a possible

redemption nor a habitable inscription, as if the exile were constitutive and belonging were singularly

placed between the mirage and the goal. This is probably why in Kafka such belonging does not reveal

tself as an imposition or a destiny, but rather with the seductive patina of the promise or of the

opportunity (that “opportunity to start from one point, like all the others, to trace the radius of a circle,

then, like all the others, to describe my perfect circle around this point” and stay there appropriately).

Every community, every castle, every America or Palestine seems to be just as many allegories of that

nest that the main character of Der Bau builds with zeal but only to be better locked up. How can we

escape from the seduction that the opportunity and the promise of belonging keeps on flashing before

our eyes? And again: how is it possible/can we think about a belonging that is not an appropriation and

a capture?

JB: It seems true that Kafka understood the perils of belonging, but he also understood something of

the unchosen character of kinship and community. As much as we may want to derive something like a

Kafkan theory of belonging, that cannot quite work. His figures seek to leave, to escape captivity, but

150

Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

like Odradek, they keep rolling down those same stairs. What is perhaps less often remarked upon is the

subterfuge ways that infinity enters into these figures, suggesting a deformation and continuation of some

notion of the divine. Much depends on how we imagine redemption. It will not come from a single man,

symbolizing a grand synthesis or bringing a message from God. In some ways, Kafka’s work releases us

from that expectation. Similarly, the animal figures who assume human longings take apart the human

form, giving it both creaturely and objectal forms. How, for instance, would we read “Red Peter” from

the Report to the Academy in relation to Odradek? These figures are peripheral to the human, but they

disclose its implication in the very kinds of beings from which it has been traditionally distinguished. It

would not be enough to say that poor Odradek should not be objectified. Odradek is on the far side of

the process of objectification, and yet there is that laughter that rustles like leaves. And there is that

infinite tumble down the stairs, even a kind of imagined eternity that will outlive the father figure and the

lines of kinship. These are, drawing from Adorno, the small rays of hope that are generated from figures

of damaged life. But they are not hope for redemption.

2) In your text on Kafka, you mentioned that “weird form of hope that can emerge from an interrupted

sociality”. This occasion is often provoked by an impasse in the communicating ability of language, by

an arrest of the linguistic dispositive that works producing misunderstanding and misinterpretation.

Examples are the occasions of destitution of commands and orders, their not being recognized as orders

and commands. It is as if the interrupted sociality of which you talk about was, first of all, the interruption

of a sociality based on hierarchy and command, and therefore on the performative value of language.

The communicative experience of Kafka’s main characters becomes purely intensive, deprived of a

symbolic or significant use so as to put itself at the limit of the pure affirmation. Does this weird form of

hope maybe allude to a form of de-territorialization towards the symbolic space in which the subject has

already been captured? A liberation from the “space-time conditions of the here” as an opening towards

“an unspeakable beyond”?

JB: Perhaps, but that seems more close to Deleuze’s understanding of Kafka’s writing as undertaking a

deterritorialization. I understand him as contesting the very basic terms of chronology and sequence,

especially in his scattered parabolic statements on the messianic. And sort parables like The Bucket Rider

presume that human figures can traverse great distances with curious vehicles. In Conversation with a

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Supplicant we can see how the gravity of bodies does not quite work, and how even the separate parts of

a body are not always coordinated in a kinetic way. So yes, the basic presuppositions about bodies having

integrity, bound by gravity, conditions of mobility, are all called into question. For me, one of the larger

questions is why the body tends to fall into pieces when there is no adequate language. This leads to the

broader question, what is the relation between the body and language in Kafka’s writing? The Tower of

Babel and the Great Wall of China are both structures that cannot hold. Their foundations are not

foundations, and their ability to stand is tenuous – fatally so. But when the very conditions of

communicating or building a common understanding are undermined, then an architecture fails. The

architecture is what might shelter a body or secure its passage, but no such linguistic architecture is in

place. Even the directions that might help the explorer understand how to operate the terrible machine

in The Penal Colony is not readable. All this relates to the epistolary discussion between Scholem and

Benjamin about how best to read Kafka, whether he believes in law, whether there is a key that can

decipher the relation between studying the law and living one’s life. Scholem understands the absence of

God to provide that key, but Benjamin insists that the key was always lost, and that law has now to be

understood as story. Our post-theological job, then, is to read fiction, since there the specific arrangement

of the loss of eschatological temporality assumes a specific form. Fictions constellate for us the wretched

condition of a law that we can no longer follow because it does not communicate to us.

3) Kafka’s writing seems to be populated by figures who tend to retreat themselves against an

uninhabitable reality, by figures pushed by the urgency of escaping from the world as it is. To this extent,

the parable performed in The departure is masterful, when the first-person narrator confesses that he

wants to go “only away-from-here”, “always away-from-here”. And yet, such a need for evasion seems

to preserve a purely individual figure, a non-communicable and non-sharable one, just like an escape line

that must be pursued in solitary. The intimacies in Kafka are always resolved in punctual intensities, while

the covenants always proceed on the side of power (the executioners of the Trial, the crowd judging in

the tale The blow on the door, etc.). We wonder if Kafka’s retreat from power relations can open up

towards common and convivial gestures capable of dodging capture devices, or if it seems destined to be

resolved into an imperceptible becoming - both to itself and to others.

JB: I understand the “away-from-here” in the parable called Das Ziel to name a desire to be away from

every possible “here”, even to find a way to “go over” – as mentioned in The Parable on Parables or

152

Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

Gleichnisse. Those moments raise the expectation of leaving an earthly place for a heavenly beyond, but

that never takes place. In its place, we are left with “deictic” language: the here and the beyond. The

parable itself contains the devastated expectation, but is also a new form that is born of that sequence.

We are conscripted, as it were, into the desire for the beyond, the emancipation from the here and the

now, only to have that expectation defeated not through any sequence, but in its absence. Nothing

happens; no one goes; but the gestures are constellated in a still form that raises, laments, and negates

the possibility of a liberatory sequence. We are asked to think outside the terms of progress, to be sure,

and redemption, but the parable contains both the expectation and its disappointment in a form that is

economical and clear. The form emerges from that dashed expectation, but it also reanimates and dashes

again, not to leave us in the ditch, but to produce a form that carries and crystallizes the history of that

longing and its disappointment. The fact that we feel both means that we have not moved beyond the

promise or its break; they become the scene of the present, and give new literary forms that arrest and

thematize expectant sequence.

4) Kafka’s narration is populated by a multitude of inept and inadequate subjectivities, radically incapable

of coinciding with any place offered to them. We recall the praise of Odradeck made by Adorno, where

the philosopher highlights its “total uselessness in a world dominated by capitalism that tries to exploit

every object for its own purposes”. Here Adorno seems to fall, however, in the same mistake already

warned by Bataille, which suggested to identify, next to the restricted economy of profit, an enlarged

economy able to recover and exploit every material, every fault of the existing. In the dominion of capital,

not even Odradeck, closed in his autistic and perpetual motion, seems immune to the fatality of capture.

In this sense, it seems very appropriate his proposal to recognize in this creature - if such a statute can in

spite of everything be recognized - an allegory of Kafka’s own writing, for which “it almost causes distress

to me to think that it can survive me”. A writing that is far from being useless or unusable, if it has ended

up unexpectedly feeding the phantoms of nationalism and identity. As you have clearly showed in your

text, the relation of Kafka with the precipitate of his writing is, to say the least, ambiguous: if, on the one

hand, the pain for its possible survival is at the base of the intentions of burning all traces, on the other

the gesture of destruction is interrupted and deferred, leaving others the responsibility to take charge of

it. Even if Kafka was aware that the survival of his writing would nourish the always approachable figure

of a mythological “Author”, he did not stop writing, that is, he did not stop making a risky gesture “that

leads to another world”. It is as if this gesture is not resolved in the simple – and yet necessary – resistance

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

to the un-liveable figure of this world, but reaches out to an unimaginable elsewhere, to a usability yet to

be invented, towards future readers that do not cease to miss it. The radical distrust of this world and the

strange form of hope that has already been discussed: wherever the writing intends to go, it will not be

anywhere as we know it ...

JB: that is perhaps so. We will not find figures who secure their liberation in his work, and we will not

find ourselves suddenly transported into new landscapes that relieve us of the burdens imposed by prior

places. You can say that he did not stop writing. That is true. But he wanted his work destroyed, and the

writing he did undertake was only partially in the forms of stories and novels. Even the parables are

extracts from a set of diaries. And his letters are perhaps more substantial than any of his novels. When

he started to form Hebrew letters in his final years, I am not sure whether he was seeking to write

something, or whether he was dealing with the graphic form of the letters, both drawing and writing. My

sense is that he gives us a way to think about law under conditions in which legal realities are becoming

normalized nightmares throughout the globe. Millions waiting for refuge, for papers, very often not

understanding the language or the map. Detention in which no one is charged with any crime, and no

timeframe exists for anything remotely resembling a trial. Kafka’s own descriptions of these states are

often dry, but that does not mean there is no moral outrage. It is not directly expressed precisely because

he is communicating that “this is now the accepted way of things”. The power of his description is to be

found partially in his tone, the mimicry of neutrality and dispassion, not only the animals who speak.

5) Several times the writing of your works has proved to be an opportunity for comparison with writing

and with Kafkaesque figures, so much so that some texts seem to assign to the Prague writer a privileged

place within contemporary political thought. On the other hand, his name does not occur only in texts

explicitly related to Jewish culture, as is the case with Parting Ways, but it appears on all occasions, namely

when it is necessary to deal with the eminent cruxes of contemporary politics. As an example, in Gender

Troubles, the tale In the penal Colony is recalled in order to outline the paradigm itself of the field of masculine

power, as well as to indicate the ritualistic ways by means of which the cultural apparatus set up the

inscription of the bodies. In Giving an Account on Oneself there are numerous Kafkian references that permit

to articulate the relationship between recognition, judgment and ethical violence. Also in the most recent

Notes Toward to the Performative Theory of Assembly, Kafka is brought into the play in order to show the

specific task of the prison institution, whose operational regime shows the need for a reproduction of

154

Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

the prisoners’ body and, at the same time, its limitation and mortification. Beyond these insistent though

fragmentary references, one may well wonder if you have ever had an interest in rethinking the figure of

Kafka, even in the awareness of the difficulty – or the danger – concealed in returning such a figure to

the role or myth of the author.

JB: I am always reading his biographies and his letters along with his literary works, and I do not

understand this as relating the life of the man to his work. The notes he left, the letters he wrote, the

notebooks – these are all his writing. And those who reconstruct his life depend often on these written

traces of the life to reconstruct his formation. I am especially interested in the years in which he was

attending Yiddish theatre, but also sometimes showing up at a Zionist Congress, relaying the multi-lingual

conflicts with great dispassion and humor. His failed efforts to become political are, in my view, quite

laudable. At one point at a World Zionist Congress, he apparently sketched the hats of all the

interlocutors while they were debating the political future. He was drawing and writing his world, but

also given over to the theatrical gestures that carried whatever traces of Yiddishkeit were important to

him.

His letters relay a condition of bodily anxiety, of course, and yet more harrowing scenes of bodily

subjection pervade the writing. Gregor turns into an insect and loses his capacity to use language. It is

unclear whether Josephine the Singer ever sings or even talks. The animal figures who do not speak might

be understood as bestialized humans. But that may be too quick. As animals, they have a distance from

the human form, even a relation to a temporality that has little to do with finitude or redemption. When

they do speak, when Red Peter mimes human speech, he brings out its gestural dimension in a way that

mirrors Kafka’s description of gestures in the Yiddish Theatre. There is an exhilarating mimesis or

citationality that accompanies this protracted debasement, or emerges precisely from that condition. The

language of law, and the language of conversation, breaks up into parts that recall and foreclose

communications that would guarantee an outcome. The body starts its walk, only suddenly to be gliding

or to find that there is no way to coordinate its limbs. Those very conditions constitute the release from

space and time. They are what is left of political redemption, as it were, that depend on full

communication or historical resolutions of a final sort. The distance from the world follows from a

painful immersion, one whose unbearability necessitates breaking up or even vacating the human form,

and yet the absence of an escatological or teleological redemption, the loss of expectant sequence, shakes

the coordinates of the world and re-constellates space and time.

After the completion of my manuscript on Violence, Non-Violence, I hope to turn to Kafka to write another

book, a book that I imagine to be my last book. The book will consider the problems of law and justice

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

in relation to Kafka’s literary forms. I plan to start with the parables and the diary entries, the smallest

textual contributions he left, in order to understand both the relation between the desire for justice and

the impasses of law, even in the injustices of law. My sense is that, through literary form, Kafka gives us

an understanding of legal violence that is distinct from Benjamin’s although, as we know, Benjamin

derived much from Kafka. Indeed, I hope to include in this study a close reading of Benjamin’s letters

with Scholem where they explicitly clash about the question of what it means to live in the law, or

according to law. Benjamin suggests there that story and fable emerge precisely on the condition that

there is no way to know whether one can follow the law, or even read the law. Derrida’s own writing on

law and justice will be important to this project, but I will stay closer to Kafka’s own texts, focusing not

only on the parables, but the stories, and The Trial. I have also written a short piece that discusses the

contemporary problem of detention camps in relations to Kafka’s stories (Infinite Detention, MLA, January

2018). So perhaps you would like to consider this as well.

As you will see, the breakdown of due process, which requires that evidence be shown and openly

examined, of the right to know the crime of which one is charged, and the temporality of detention all

come into play. I believe that Kafka gives us both a structural and phenomenological understanding of a

form of waiting, which is a permutation of living on, that takes place in relation to a cruel and impassable

law. There is as well a messianic understanding of the end of law, the dissolution of law, that allowed

Benjamin to link Kafka to anarchism, although that would have never been Kafka’s choice. Kafka’s give

us another understanding of the theological-political than the one currently articulated in the shadow of

Schmitt.

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

WORKS

G. Saccomanno, «K : escrito en el cuerpo» K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, 1, 2/2018, pp.157-162

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Guillermo Saccomanno

K: escrito en el cuerpo

“Encerrando lo mínimo en un pliego de seda. Provocando diluvios en un pequeño corazón”, se lee en

“Lo grande en lo pequeño”, uno de los tramos de “Wen Fu, Prosopoema del arte de la escritura”, tratado

en verso sobre las reglas de composición de Lu Ji en el siglo III. Estimada la primera obra de crítica

literaria china, Lu Ji, su autor fue militar y hombre de estado a la vez y, en su preceptiva, dejó sentadas

las reglas metafóricas y líricas que debía atender la creación de un poema. “Intentando que de la no

existencia, surja la existencia, llamando a la puerta del silencio para que responda el sonido. Así el lenguaje

se amplia y lo ocupa todo por entero. El pensamiento profundiza y llega a lo insondable”. Puede

conjeturarse que Franz Kafka (Praga,1883-1924) conociera tal vez las normas fijadas por Lu Jin, pero no

lo es que el orientalismo, tanto como el pensamiento jasídico influyeron en la creación de sus relatos y

en el espíritu de sus proyectos novelescos inconclusos. La hipótesis puede resultar atendible para

acercarse a un escritor que gustaba tanto de la narrativa realista (en Dickens ese obsesivo temple de la

descripción, en Flaubert la precisión de la palabra justa y en Dostoievski la deriva del ser disminuido)

como de las paradojas sufíes vecinas de los koans zen. Del mismo modo que esa literatura cifrada en

tramas cortas nunca dice lo que simula decir y su sentido va por el lado de la revelación cuando no de la

búsqueda de una verdad siempre en fuga, la literatura de Kafka nunca termina de decir lo que insinúa

constante.

La bibliografía sobre Kafka es vasta, casi inabarcable para un lector obsesivo de su obra. Veamos, no

obstante, un poco. Superarla, según Steiner, es entrar a la escritura de Kafka venciendo una muralla china

de ensayos. Y, a su modo, como respondiendo a la premisa kafkiana de convertirse en una literatura, su

misma literatura, a su vez, detona una Biblioteca de Babel que incluye, entre otros, tanto a Canetti,

Blanchot y Steiner, como más acá, siempre entre otros, a Mallea, Sábato, Borges y Correas. Difícil

acercarse a Kafka y no quedar pegado, resistir el impulso del subrayado, la porfía crítica al haber creído

intuir una zona de significación o un detalle que a otros les pasó por alto. Lo más probable es que resulte

patético el intento – y este puede ser uno – de aquel que se sienta a escribir sobre su obra. Pasa en otras

lenguas, pasa en otras partes y también acá. El adelantado en su rescate fue el inexorable Borges, pero su

validación no está tan explícita en “Las pesadillas y Kafka” como en la propuesta política de identidad

literaria que formula en “El escritor argentino y la tradición”: “No debemos temer y debemos ensayar

In Franz Kafka, “Diarios”, prólogo de Jordi Llovet, edición al cuidado de Ignacio Echevarría, traducción de Joan Parra y Andrés Sánchez Pascual, De bolsillo, Random House, 847 páginas. Guillermo Saccomanno est né à Buenos Aires. Il a d’abord travaillé dans la publicité avant de devenir auteur de bandes dessinées. Il arrive plus tard à la littérature, avec des œuvres comme 77 et L’Employé (Asphalte, 2012), qui a remporté le prix Biblioteca Breve. Basse saison a remporté le prix Dashiell Hammett en 2013.

158

Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

que nuestro patrimonio es el universo y no podemos concretarnos a lo argentino para ser argentinos:

porque ser argentinos es una fatalidad y, en ese caso, lo seremos de cualquier modo, o ser argentino es

una mera afectación, una máscara”. Antes que Borges, en 1911 Kafka planteaba en su diario que una

literatura nacional es algo así como el “diario íntimo” de una nación antes que su historiografía. “Los

peores escritores buscan los modelos a imitar dentro de su propio país”, sentencia. Entre otros conflictos,

a Kafka lo preocupaba la situación de la literatura judía y se tentó en una lengua menos restringida al

gueto. Cabría preguntarse acá si la universalidad de Kafka, al elegir el alemán, no aspira, con su prosa que

no es ni elegante ni desaforada, una prosa sin acento, más bien neutra, que resiste los peores embates de

traducción y los traspasa, no se debe acaso a su asepsia instrumental, su afán de claridad. Lo oscuro de

Kafka, en consecuencia, está en otro lugar y no en la escritura. Nada como la transparencia, esa diafanidad,

para referir las tinieblas.

“La memoria de una nación pequeña no es menor que la memoria de una nación grande”, escribía. Al

respecto, aclara Jordi Llovet en el prefacio de la última, completa y cuidada edición completa de los

“Diarios”1 que “esta es la primera de la serie de reflexiones de Kafka sobre lo que más adelante

denominará, en expresión que ha suscitado muchos comentarios, “literaturas pequeñas” y no “menores”,

como se ha traducido habitualmente. Obsérvese que esta primera reflexión surge tanto de las

conversaciones del autor con Jizchac Löwy acerca de la literatura checa en Praga, que no recogieron

precisamente con fortuna Gilles Deleuze y Felix Guattari en su célebre libro “Kafka. Por una literatura

menor”. Al respecto salta en Kafka la cuestión de la lengua, la elección de la lengua hegemónica, el alemán

como instrumento de expresión. Pero hay más con respecto a la lengua y la culpa, que será, sin duda, su

obsesión siempre implícita. Nótese una ironía filosa de Kafka, en un documento que le dejó a su amigo

Max Brod, y que conserva la Sociedad Kafka de Praga, se registró: “Religión: Mus”, es decir, musulmán.

Conviene preguntarse también si acaso la culpa, como beneficio secundario, no deviene en su

retorcimiento de conciencia el aliento para la escritura. Kafka deja sus novelas inconclusas: ¿por qué no

puede terminarlas? ¿Por qué, como destino, las consagra al fuego repitiendo el gesto virgiliano que será

el motivo de Herman Broch en “La muerte de Virgilio”, la situación del poeta que, en su agonía, se niega

a entregarle a Augusto emperador su poema nacional y lo consagra a la destrucción. A Kafka le cuesta

pronunciar la palabra mutter, madre, en alemán. Mientras el hebreo circula fluido en la comunidad judía,

elige la lengua del dominador. Es decir, una lengua en la que, al inscribirse, traiciona. No es azaroso que

poco después de anotar sus reflexiones sobre una literatura nacional narre en el diario un episodio de

circuncisión. Pero su desarraigo es tal, detecta Marthe Robert, lectora profunda de su diario, que, si bien

en sus narraciones hay apellidos judíos muy típicos, en toda su obra – con excepción notable del diario,

por su cualidad privada – nunca escribe la palabra judío. Según Adorno: “La relación entre el escritor

1 Kafka, F., 1948, Tagebücher 1910-1923, Frankfurt, S. Fischer; trad. esp. 2006, Diarios, Barcelona, DeBolsillo-Random House.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

judío y el escritor alemán era peculiarmente tensa y problemática, como si contuviera presagios de la

catástrofe última”. Kafka no está “familiarizado” con el idioma que utiliza como instrumento”. El uso de

la palabra, la elección de un sonido a pronunciar no son casuales. Sigue Steiner: “Kafka pulía palabras

como Spinoza pulía lentes”. Samuel Becket no permaneció ajeno a la influencia de Kafka al retomar la

espera como absoluto, esa espera (¿de qué?, ¿de Dios o de un perro?) que da miedo, una espera de nada.

“La forma en Kafka es clásica, avanza como una aplanadora, casi serena”, observa Beckett. “Parece estar

amenazada todo el tiempo, pero la consternación está en la forma”. Entonces vale preguntarse si esa

forma “amenazada”, a la que se refiere Beckett no será la presunción del castigo, y acá, se deduce, lo que

le corresponde a quien infringe la ley de su comunidad es un proceso. En la perspectiva de Blanchot,

estamos ante “una escritura del desastre”: “Lo que Kafka nos da, don que no recibimos. Es una suerte

de combate de la literatura contra la literatura, combate cuya finalidad se nos escapa y que, al mismo

tiempo es tan distinto de lo que conocemos por ese nombre o por otros, que lo desconocido mismo no

basta para hacérnoslo sensible, ya que nos resulta tan familiar como extraño”.

Tal vez redunde insinuar que la lectura de sus diarios es indispensable como lupa de posible comprensión

de su literatura. Apropiándose de una idea de Goethe, Kafka marca que sólo alguien que escribe un diario

está en condiciones de entender el diario de otro. El diario, entonces, como confesionario, catarsis y

exorcismo de los malestares cotidianos y, en su historia particular, como gabinete secreto de su literatura.

En sus páginas puede verificarse que Kafka es lector de autores decimonónicos y como ellos, más que

ellos, explota y concentra hasta el absurdo las arbitrariedades de la burocracia judicial. Pero es en Gogol

y Dostoievski donde deberían, volviendo a Steiner, subyacer sus fuentes, esa confusión ridícula y

desoladora entre la arbitrariedad y la humillación, resortes de las existencias mutiladas de escribientes y

copistas. K tiene tanto del Akaki Akievich de “El capote” como Samsa tiene del hombre del subsuelo, el

hombre reducido a la condición de sabandija. “La palabra exacta para sabandija, ungeziefer, así designaban

los nazis a los gaseados”, apunta Steiner, y señala el carácter profético de la literatura kafkiana.

En su diario, a los veintinueve años, en septiembre de 1912, Kafka relata: “Esta historia, “La condena”

la he escrito de un tirón durante la noche del 22 al 23, entre las diez de la noche y las seis de la mañana.

Casi no podía sacar de debajo del escritorio mis piernas, que se habían quedado dormidas de estar tanto

tiempo sentado. La terrible tensión y la alegría a medida que la historia iba desarrollándose delante de mí,

a medida que me iba abriendo paso por las aguas. Varias veces durante esta noche he soportado mi propio

peso sobre mis espaldas. Cómo puede uno atreverse a todo, cómo está preparado para las más extrañas

ocurrencias, un gran fuego en el que mueren y resucitan. Amanecía cuando la criada atravesó por vez

primera la entrada y escribí la última frase. Apagar la lámpara, claridad del día. Ligeros dolores cardíacos.

(…) Sólo así es posible escribir, sólo con esa cohesión, con total abertura del cuerpo y del alma”. Esta

cita merece algunas anotaciones: al leer el relato, uno de los primeros que publica Kafka, dedicado a Felice

Bauer (con quien mantiene un noviazgo que no llega a puerto después de cinco años), aquí se encuentran

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

definidos ya sus temas. Hay una boda que no se consumará. Hay un padre que injuria y rebaja. Y cuyo

mandato, que finalmente cumplirá el hijo, es que este se ahogue. Al leer el cuento se puede advertir el

sentido del calificativo “ocurrencias”. Daría la impresión que durante la escritura, a golpes de hacha (las

hachas serán mencionadas por Kafka en su diario, aspiraba una literatura que cayera sobre el lector como

hachazos), Kafka va talando la historia, la construye mediante golpes inesperados, dejándose llevar por

las “ocurrencias”. Y si bien Kafka, lector de Poe, no cincela un cuento de estructura perfecta, el cuento

resulta no obstante terrible en el despliegue de la tragedia filial y su suicidio. La irrupción del padre como

figura incisiva en la historia, a su vez, nos franquea la entrada en la problemática del padre, que no es otra

que la del hijo escritor y la culpa de no ser rentable, el hijo que, según rastreó Tomás Eloy Martínez, con

tal de huir de la sombra paterna y su comercio, llegó a escribirle a su tío ejecutivo de Assicurazioni

Generali solicitándole un puesto en Buenos Aires. “En esencia, la lucha de Kafka contra su padre no fue

más que la lucha contra el poder absoluto”, sostiene Canetti. “Su odio iba dirigido contra la familia en su

conjunto. El padre era la parte más poderosa de la familia”.

Según Carlos Correas, en su prólogo a la ya clásica “Carta al padre”, en l953 o 1954 Oscar Masotta, tras

leer la misma le escribió una a su padre, empleado bancario, pensando que le financiaría la obra. El padre

de Kafka, es sabido, no leyó el texto del hijo. El padre de Masotta, que no debe haber pasado las primeras

líneas, sacó carpiendo al suyo. Más allá de este incidente tragicómico que, una vez más, el autor de

“Operación Masotta” aprovecha anecdóticamente para cobrarse cuentas de amor pendientes con el

introductor de Lacan en el país, el prólogo tiene su aporte. Correas se detiene en el diario correspondiente

a noviembre de 1911, mientras Kafka lee sin expectativas sus cuentos expresionistas a sus amigos, su

padre se pasea en bata al igual que el padre de “La condena”, padre que vigila severo al hijo que descuida

el negocio y se distrae con la literatura. Este es el tiempo en que frecuenta el teatro judío de Praga y se

enamora de una actriz casada, la señora Tschissik: “Yo esperaba calmar un poco mi amor por ella con un

ramo de flores pero fue inútil”. Y, sartreano, el subrayado de Correas en Kafka: “Sólo es posible calmarlo

mediante la literatura o el acto sexual. Escribo esto no porque no lo supiese, sino porque quizá sea bueno

poner por escrito bastantes veces lo que nos sirve de advertencia”. Lo que lee Correas: “Esa anotación

es literariamente bella, como es bella la señora Tschissik, y la belleza es la totalidad del acto, una unión

interna de las partes entre sí, que se justifica por sí misma (…) Por consiguiente acostarse con la mujer

bella es calmarse en el modo de entregarse a un todo inmutable dado, expuesto y ofrecido, pero hacer

literatura en vez de una mujer bella es a su vez calmarse en el modo de crear un todo puro, verdadero e

inmutable que valga por esa mujer”.

Las mujeres de Kafka imponen temor, buscan, se dejan pero dominan. En su abandono, incitan a los

hombres como a perros. Los encuentros con ellas no son amorosos, son animales. Conviene tener en

cuenta que en la Praga de Kafka no sólo está en alza la cultura judía, el estudio reverencial del Talmud y

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

la Torá. También existe un candente mercado sexual que inspira en el escritor atracción y rechazo,

sentimientos similares a aquellos que lo apartan de la tentación matrimonial y terminan disolviendo sus

relaciones con Felice y más tarde con Milena Jesenská. Kafka es ese joven flaco, con una sonrisa entre

ingenua y astuta, que le lleva flores a la señora Tshissick, que se volverá desencantado a su encierro,

registrará tanto su desventura erótica como la admiración a quienes parten hacia Palestina, y luego, en su

ficción, con su relato del hombre convertido en insecto, al leerlo a sus amigos, doblándose de risa,

mostrará el lado siniestro de la rutina, los intereses familiares y la enajenación del mundo laboral. Pero

Kafka es mucho más también que la alegoría que habilitará casi cincuenta años más tarde a un escritor

bisoño de la remota Aracataca, Gabriel García Márquez, a combinar lo realista con lo fantástico. Gracias

a la visión de Kafka es archisabido que una de sus intuiciones mayores ha sido que nos pueden patear la

puerta en la madrugada, que la tortura es una máquina que escribe en el cuerpo de la víctima. Ya se ha

dicho: sus hermanas y otros familiares, amigos y conocidos citados en el diario acabarían en los campos

de exterminio nazis. Son inapreciables las aproximaciones del marxismo y las corrientes de pensamiento

psi que han puesto un reflector en toda su obra y lo acercaron a cada aspecto social de su narrativa. Que

hay además lecturas de la modernidad, tampoco es novedad. El germanista cubano José Aníbal Campos

ha explorado lo que denomina “animalario” kafkiano. Algunas de las obras en que se generan relaciones

transhumanas son, además de “La metamorfosis”, “Investigaciones de un perro”, “La construcción”,

“Josefina, la cantante”, “Preparativo para una boda de campo”, “Informe para una academia”. Benjamin

analizó que en los animales el hombre depositó todo aquello que olvidó. El universo personal de Kafka

se percibe también en las laberínticas construcciones sin salida de Escher y en la fascinación que ejerce

sobre el cine de Cronemberg. Peter Hummel opina: "Allí donde los americanos inventan moscas

teledirigidas, dotadas de cámaras y bombas, todo con el fin de conquistar territorios enemigos. Kafka,

con el mismo propósito, el de conquistar territorios ignotos, valga la aclaración, pone en movimiento a

perros, a topos, a ratones y hasta pulgas”. La crítica, pareciera, no ha dejado rincón por hurgar. Pareciera

(sic). Porque sabemos también que la faena no está ni estará agotada. En tanto, Kafka sigue escribiendo

compulsivamente en la noche de Praga sin encontrar siquiera un armisticio con el mundo que lo controla,

acorrala y empequeñece.

Sin embargo daría la impresión de que, como la última palabra de interpretación no está dicha, sería

oportuno indagar en claves teológicas, opinión que suscriben tanto Benjamin y Steiner como Werner

Hoffman en su breve pero no menos certero ensayo “Los aforismos de Kafka”. Si la literatura judía es

una literatura de comentarios religiosos, la de Kafka, heredera de su tradición, es una sucesión de

comentarios narrativos sobre comentarios de dicha literatura que, a su vez, ha generado toda una literatura

de comentarios a su alrededor. ¿Por qué no pensar entonces que toda la glosa ensayística y la ficción

replicante a su manera no constituyen un género en sí mismo? Kafka habría de anotar en su diario: “La

literatura es mi religión”. Pues bien, sus devotos son legión. El carácter místico que Kafka le concede al

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

escribir tiene un carácter sagrado. “Habría que considerar”, piensa Hoffman, “en qué medida de

desesperación de sí mismo, y de rechazo del mundo, se acerca a las doctrinas de las Gnosis en su

radicalismo y dualismo”. Al enfrentar, como da en llamarla, “la nada rugiente”, se da cuenta que morir es

“dar nada a a la nada”, pero que debe haber otra cosa, eso que busca, algo indestructible, algo inmaterial

dentro de sí, sin lo que no puede vivir”. En los aforismos Kafka busca ser claro como no lo es en sus

novelas. Rasgar el misterio, su imperativo: “A partir de determinado punto ya no hay retorno. Es preciso

alcanzar ese punto”.

Cada nueva generación encuentra en Kafka lo que no ha terminado de decir, seguramente porque sigue

y seguirá escribiéndonos. Así como deslumbra a quien se le acerca, Kafka desafía a quien pretende

escribir: intimida. Quien pretenda emularlo, debe enterarse: se escribe con el cuerpo, y “poner el cuerpo”

no es un tic lingüístico progre, es condición esencial. Sin cuerpo no hay literatura. Con su entrega, tan

próxima a la inmolación, un holocausto individual, Kafka podría haber tenido en mente todo el tiempo

el dogma de Lu Jin: la no existencia en la existencia, lo inabarcable en lo mínimo, golpeando la puerta del

silencio para que escuchemos su sonido.

M. Delci, « L’obscurité de K » K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, 1, 2/2018, pp.163-164

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Mauro Delci

L’obscurité de K

Ce qu’il y a de plus cruel dans la mort : une fin apparente provoque une souffrance réelle. Franz Kafka Car avec la vie pure et simple cesse la domination du droit sur le vivant. Walter Benjamin Un portrait porte absence et présence, plaisir et déplaisir. La réalité exclut absence et déplaisir. Blaise Pascal

La foi simple qui nie de pouvoir ne pas vivre, instinctivement peut être.

Kafka place son lecteur en début d’évidence, en sursaut face à « ce noir grotesque » qui contaminé de

lumière, en gris neuf l’illumine de son obscurité.

Cette obscuration imprévue qui fait de son parcours un recueil des mots de l’autorité et de la force avec

leur bruit inquiétant des langues babéliques refoulant la peur et ignares de leur fonction d’obstacles

naturels à l’épreuve d’une vie, ouvre certes à la découverte d’une vérité autre, mais ôte à cette expérience

un but quelconque, et ne la dédommage de sa difficulté. Elle place l’inévitable être là au seuil d’un espace

impénétrable de la conscience dont les barrières, qui ne sont qu’à peine que celles mêmes de notre peau,

marquent une entrée ou une sortie, un enfermement ou une libération, de vie ou de mort.

On pourrait dire que le chœur dans la tragédie substitue notre corps en esprit ici. La métamorphose est

le lieu, sa visite incidente, un aménagement nomade, l’esprit ne peut plus lancer sa fuite vitale via le chœur

face au néant.

L’affranchissement du danseur vers la musique délivrant ses muscles à l’avantage d’une écoute plus

savante est ignoré dans Kafka instinctivement, une promesse plus grande s’impose.

Dès lors l’unique volition sera le mouvement consenti au seuil d’un refus d’entrée, une suspension

d’attente souffrant la réponse, un procès tant inacceptable qu’indispensable suspendu à une issue en gage.

De quelle matière est-il fait cet espace scellé dans la conscience ? Quelle est la véritable nature de ce temps

donné comme l’aumône d’un commencement qui promet de muter la connaissance en reconnaissance

renouvelant sans cesse la métamorphose du passage à une possibilité d’accès ?

Notre droit au « seuil » est juridiquement inhumain ou « trop humain » selon la formule nietzschéenne et

notre logos prouve la réalité de cette injustice.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

Celui-ci n’est plus un ordre, c’est l’ordre d’une condamnation de l’être à l’indéterminé auquel on s’est

surpris, liberté et prédestination sont indissociables, la force du salut la seule téléologie du vivant.

La condamnation chez Kafka est inévitable autant que la mort, son cheminement anime une menace

permanente, la « peur » singulière, sorte de gardienne d’un privilège, ultime peut-être, d’objection.

On dirait la preuve profane du divin, son image abstraite et utilement iconoclaste, sa « personne »

scripturale.

En forme de cercle n’ayant ni de début ni de fin et pourtant fermé, l’homme regarde la Loi en tant que

commandement comme une nécessité de devenir. Son obéissance voire son observance plus précisément,

que Kafka appelle en la sublimant avec la simplicité d’un enfant : patience, ne recouvre que son aspect

reflétant.

Sorte de permanence dans l’être, la Loi devient ainsi dialectique d’accès, une clé d’ouverture à travers le

monde, une tentative inaliénable, intime, et profondément souveraine.

Cela contient en soi sa force secrète qu’aucun Léviathan ne pourrait contenir, qu’aucune sécularisation,

avec ses temps kairologiques, ne pourra accomplir.

La guerre de « tous contre tous » est celle de tous contre un et cet un est invincible.

Kafka est pour sa mémoire notre prophète à tous, le plus proche certes parmi d’autres par sa pudeur et

sa fuite.

Il nous annonce notre immanence au désastre, la Shoah, comme personne parce qu’il a réussi à montrer

de la langue sa matrice inaltérable de vérité avec son bruit sourd du lieu de fusion, d‘empreinte dans la

réalité, son son universel.

Cette intériorisation de la réalité qui ne dépasse pas sa vie, l’état du pouvoir de l’autre, aux dépens de la

conscience, chère à Kierkegaard et à son action de rapetissement par son exposition à l’infini de la vérité,

a permis Kafka de négativiser le sensible pour en souffler la lumière, en forme de rêve, tel un classique.

Singulièrement les fictions qu’il présente comme des véritables prières anonymes, mystères dessinés par

une logique que Primo en traduisant le Procès a cherché de percer héroïquement, laissent davantage sous

nos yeux la quintessence de la valeur du « document ».

Les bras levés de cette mère qui brandit son petit enfant dans ce canot d’infortune défiant une mer

dévorante ne suffiront pas à arrêter la marche inexorable de la stultifera navis qui nous transporte. C’est

un fait, une vérité nue comme le serpent.

Pourtant notre sur-vie elle est liée à notre désir de lucidité, de ne pas tuer en nous le témoin, nous voulons

le réveil, le toucher qui voit, cette capacité à aimer « ce que peut le corps » et cette incapacité au silence.

«Eredità e metamorfosi kafkiane. Jiří Kolář (attraverso Giuseppe Desiato e Patrizio Esposito)» K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, 1, 2/2018, pp. 165-185

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Eredità e metamorfosi kafkiane:

Jiří Kolář (attraverso Giuseppe Desiato e Patrizio Esposito)

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

Nelle pagine che seguono presentiamo alcune immagini di lavori dell’artista cecoslovacco Jiří Kolář –

l’artista di un paese che non esiste più – affidandoci alla mediazione, alla memoria che taglia, all’esperienza

che nel suo studio praghese – e al rapporto epistolare che ne nacque –, assaporò il fotografo Patrizio

Esposito, in compagnia dell’artista Giuseppe Desiato, all’inizio degli anni Settanta1.

Scheda biografica di Jiří Kolář

Jiří Kolář nasce nel 1914 a Protivin. Disoccupato, scrittore, drammaturgo, poeta; sin da molto giovane

inizia a comporre Collage (prima esposizione a Praga nel 1937). Nel 1942 fonda il “Gruppo 42”

impegnato in una rigenerazione dell’arte cecoslovacca contro il peso della tradizione classica, iniziando

un lungo percorso che negli anni Sessanta lo porta a liberarsi delle parole, dalla loro strategia mimetica,

per dedicarsi, in uno stile squisitamente Dada, sempre di più alle varie forme del Collage, compreso l’anti-

Collage, e alla composizione di poesie dove non c’è (più) niente da leggere e dove, però, dobbiamo

imparare a vedere.

Dopo la guerra, e solo per qualche mese, s’iscrive al Partito comunista. Inizia a viaggiare. Più volte verso

Parigi.

Arrestato nel 1953, per i suoi lavori d’avanguardia considerati sovversivi, resta in galera per nove mesi.

Solo nel 1964 ha nuovamente la licenza di pubblicazione ma sostanzialmente fino al 1989 in patria è

vietato esporre suoi lavori. Anche perché nel 1977 è tra i firmatari della celebre “Charta 77”, in cui si

esige un rispetto più ampio delle libertà civili in Cecoslovacchia.

Nel 1968 partecipa a Documenta 4 a Kassel.

Nei primi anni Ottanta di stabilisce a Parigi dove fonda Revue K, dedicata alla diaspora ceca in Francia.

Dal momento che non ha il permesso dalle autorità ceche di restare in Francia, viene condannato a un

anno di prigione. Dopo la fine nel regime comunista, torna in patria dopo oltre dieci anni e diventa, tra

l’altro, cittadino onorario di Praga. Muore a Praga nell’estate del 2002.

L’archivio di Jiří Kolář si trova presso la Galleria Malesi di Lecco. Il sito offre un’ampia ricognizione bio-

bibliografica e una ricca selezioni d’immagini: http://www.archiviojirikolar.it/.

1 Senza la disponibilità, l’amicizia e l’archivio di Patrizio Esposito (http://archivio.fotografiaeuropea.it/2008/Sezione.jsp?idSezione=74&idSezioneRif=42) non avremmo potuto dedicare una parte della sezione Works di questo numero della rivista a Jiří Kolář, fondatore, nel 1980, a Parigi di Revue K.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Patrizio Esposito

Due giorni di agosto 1970 nello studio di Jiří Kolář

Non vi era più traccia, a Praga, del bitume o della vernice nera che avevano coperto i nomi delle strade

cittadine verso la fine dell’agosto 1968. A disorientare l’esercito sovietico e i suoi blindati erano stati

alcune centinaia di giovani resistenti: «La capitale ha perduto i nomi delle vie e in molti casi anche i numeri

civici. I giovani hanno smontato le targhe stradali, hanno cancellato e divelto i cartelli indicatori agli

incroci affinché potessero muoversi in città soltanto coloro che la conoscono bene». Di certo non un

esercito straniero, che «occupava le vie per fermare la Primavera di Alexander Dubček», scriveva il

Rudé právo in quei giorni, «tentando di arrestare casa per casa» i ribelli. Di quella pittura, due anni dopo,

era sparita l’impronta ma non la memoria, così non era ancora disperso il fuoco che aveva bruciato a

venti anni Jan Palach, «comunista e luterano». «Basta bombe, basta bombe…», nel 1990 una registrazione

audio del suicidio, ascoltata in dettaglio e resa pubblica dalla BBC, amplificava il soffio ultimo delle parole:

basta carri armati in Cecoslovacchia, basta bombe in Vietnam. Palach fu «la torcia numero uno», poi a

darsi fuoco furono due giovani operai a Pilsen e a Brno ed altri diciotto ragazzi nel paese che «doveva

svegliarsi». «Dimmi chi sono quegli uomini lenti / coi pugni stretti e con l’odio fra denti; / dimmi chi

sono quegli uomini stanchi / di chinar la testa e di tirare avanti», cantò Guccini per Palach. E per guerre

che di molta cenere furono madri.

Nell’agosto del 1970, da Piazza San Venceslao, attraversando la zona dell’antico palazzo della Posta,

trovammo via Nekazanka seguendo cartelli tirati a lucido. Lo studiolo di Jiří Kolář, ad un numero pari

della strada, era in cima ad una scalinata di legno malferma e impolverata, questo il ricordo. Giuseppe

Desiato, con cui ero in viaggio, aveva l’indirizzo di Kolář scritto su un ritaglio di carta da Adriano Spatola

(qualche mese prima eravamo ospiti ebbri nel suo casale a Mulino di Bazzano, con Giulia Niccolai,

Claudio Parmiggiani, Corrado Costa: «se vi spostate in Europa dovete incontrare il poeta praghese, e poi

Julien Blaine, Paul De Vree, Henri Chopin…»). Dopo aver superato infinite porticine lungo i piani alti

dell’edificio, Kolář, cinquantasei anni da completare a breve, comparve all’estremità dell’ultimo

pianerottolo. Ci osservava salire. Giusto un cenno della testa, un tenue sorriso, e quella figura sembrò

conosciuta da tempo, un che di familiare rese semplici i saluti. Nello spazio ingombro di opere e attrezzi

di lavoro, illuminato da due ampie vetrate che in orizzontale seguivano la linea obliqua del tetto, restammo

all’impiedi. Un po’ storditi, tutti, e senza una lingua in comune. Sembrò fosse stata l’eco di una ostilità ai

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

blindati, al passaggio di armi e di morti a tenerci vicino, più che le tele, i libri, la birra. Eravamo muti ma

non estranei, una donna, forse era Bela, la moglie di Kolář, aiutò in qualche momento le parole a farsi

avanti. Quegli anni non erano stati di riposo: «Sono nato in guerra» – aveva scritto qualche mese prima –

«Sono stato imprigionato, ho capelli e occhi grigi, ho il respiro e l’andatura pesante, ho cambiato molti

mestieri ma sono allegro. L’arte continua a inquietarmi». Desiato, che veniva da un’infanzia faticosa,

comunicava con gesti e con canti in dialetto, una fratellanza immediata tra i due durò poi nel tempo.

Kolář lavorava con minuzia nei pochi angoli liberi del tavolo colmo di forbici, lame affilate e colle. Le

sue mani veloci, mani da contadino al vederle, sezionavano libri d’arte antica e moderna, foravano cartoni

e spiegazzavano carta da rotocalco e vecchie stampe. «Se le carte vanno inumidite, meglio farlo fare alla

pioggia. Lascio le riviste sul marciapiede a bagnarsi, le auto e pedoni, passando, fanno il resto». In una

zona dello studiolo si sfiorava il tetto spiovente con la testa, telai e cartoni, tenuti addossati a pareti e

cavalletti, limitavano lo spazio a stretti passaggi, anche per questo si restava quasi immobili o seduti sul

legno del pavimento. Su mensole e a terra poggiavano gli oggetti che erano stati avvolti da parole o da

immagini ritagliate dai quotidiani, erano le decine di variazioni di Scatola da conserva stanca, di Natura morta

in cucina, di Pomo imperiale. A questa ultima serie di oggetti lettristi, le mele di piccole o grandi dimensioni

coperte da caratteri e parole, a volte da francobolli, era ricorso Angelo Maria Ripellino nell’introduzione

a Jiří Kolář, Collages, del 1976, per ricordare sia «la piccola e rossa mela che nella Metamorfosi il signor Samsa

scaraventa sul figlio Gregorio mutato in scarafaggio» di Kafka, sia «la vaghissima vergine-mela» di Jabloňová

panna, fiaba buia di Karel Jaromir Erben. Per Ripellino «lo spaesamento da Ready-Made si congiunge»

nel frutto di Kolář «con l’apparenza di libro» e ne fa uno «spartito illeggibile e quindi arcano». Uno dei

magistrali «deliri ottici» che «abbàcinano» chi guarda. Nella scrittura preziosa-leziosa di Ripellino «Gli

accurati artefatti del collagista boemo testimoniano di una infinita pazienza», appaiono quali

«Conglomerati di segni incògniti che rammentano scintografie. Impuntiture da sarti. Guazzabugli di note

ammattite. Grafemi squassati dalla corèa di San Vito. Nera gromma dattilografica […] Tanta

frammenteria non impedisce che l’intera [sua] opera abbia poi una dannata coerenza […] Le immagini,

martoriate da sfregi e brancicature, si ricompongono come vedute distorte di un universo sbagliato».

Mani contadine. Quelle di un potatore, quelle abituate ad un innesto, ad un travaso, ad una

moltiplicazione di foglie e semi estranei alla purezza. I pezzi di carta che Kolář accostava o sovrapponeva,

su cartoni ed oggetti, ramificavano oltre ogni previsione davanti ai nostri occhi. Guardavamo in silenzio

come si pratica l’impurità. Come la «cosa anacronistica» congiunge tempi distanti tra loro, in virtù di «un

passato che non smette di lavorare» nell’oggi, e che nell’«immagine dialettica» si mostra quanto, scriveva

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Walter Benjamin, «la relazione tra il Già-stato e l’Adesso non è un decorso ma un’immagine discontinua,

a salti». «Immagine nella quale passato e presente si sviano, si trasformano, si criticano a vicenda per dar

vita a qualcosa che Benjamin chiamava una ‘costellazione’, una configurazione dialettica di tempi

eterogenei», aggiungeva Georges Didi-Huberman (Didi-Huberman, 2009).

Con noi avevamo una telecamera super8 Elmo 106 e una malandata macchina fotografica Zenit-E: dei

filmati non vi è traccia, alcune fotografie e provini sono rimasti tra i pochi ricordi di quel viaggio (assieme

al fugace carteggio successivo). Ad anni da allora, si ha coscienza che avevamo mal scattato e mal

stampato il mezzo rullino Kodak che era in macchina nei due giorni trascorsi con Kolář.

Il contadino dei «deliri ottici» fu generoso: tornammo in Italia con dei collages originali, riproduzioni su

carta fotografica – anche tolte da cornici affisse alle pareti – e libri (tra questi Und 2, Gersaints

Aushängeschild, il povero e straordinario spillato edito a Kassel da Edition & Verlag Boczkowki nel 1969,

e l’insieme di poesie e collages Návod K Upotřebení (Istruzioni per l’uso), realizzato tra il 1965 e il 1969 ed

edito a Praga da Edice Křižovatka nel 1969). Dall’Italia, in novembre, sapemmo che era stato ricoverato

per una emorragia cerebrale, eppure continuavamo a ricevere la sua corrispondenza concisa, fotografie

di opere e libri siglati con firma e data, inviati dall’indirizzo di casa.

Riaprendo uno dei volumi spediti, Jiří Kolář, introdotto da un lungo saggio critico di Miroslav Lamač del

1968 e pubblicato due anni dopo dalle edizioni Situace di Praga, la pagina del frontespizio, me ne rendo

conto solo oggi grazie ad una luce radente, ha quattro righe leggere scritte a secco, come una frase

nascosta. Potrebbe essere l’impronta lasciata dalla pressione della penna su un foglio poggiato per caso

sul libro aperto, ma la precisione grafica con cui le parole compaiono rispetto alla parte stampata e alla

firma in chiaro di Kolář, lasciano un dubbio.

Il libro a cui tenevo di più, Automat svět (Automatizza il mondo), ideato con Bohumil Hrabal (Hrabal, Kolář,

1966), non l’ho trovato. Kolář lo aveva mostrato e poi regalato prima che andassimo via: al testo dello

scrittore si affiancavano i collages, a volte stampati come mappe di grande formato e tenuti piegati tra le

pagine. A scomparsa. Forse è a Praga che ho inteso il valore delle zone vuote nei libri, delle immagini e

delle parole segrete, proprio a vista eppure celate. Il valore dell’intermittenza necessaria alla lettura, del

bianco che viene a spiegare mentre acceca.

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I due maestri boemi, nati entrambi nel 1914, bevevano insieme nelle taverne dove la birra era versata da

tubi di gomma. Hrabal si era lasciato andare da una finestra di ospedale nel 1997 («quante volte avrei

voluto buttarmi dal quinto piano, dalla mia casa, in cui tutte le camere mi fanno male, ma l’angelo

all’ultimo momento mi salva sempre, mi tira indietro, come dal quinto piano voleva buttarsi il mio dottor

Franz Kafka, dalla Maison Oppelt…», Hrabal, 1991). Kolář morì nel 2002, dopo il saltuario esilio a Parigi

ed il ritorno a Praga.

Hrabal, lo scrittore che aveva riso di Bill Clinton in un incontro ufficiale, alla presenza di Vàclav Havel

divenuto presidente, aveva scritto di non volere monumenti alla memoria. E se qualcuno insisteva per

prolungare il suo nome nel tempo, preferiva essere ricordato in una targa posta molto in basso su un

muro, all’altezza del biondo getto dei cani. La sua bara fu costruita con il legno usato per le botti, la scritta

che vi era incisa, «Pivovar Polná», era il nome del birrificio dove la madre, e l’uomo che gli fu padre,

avevano lavorato da operai. Il commiato di Kolář: «Flaubert ha letto duemila libri per scrivere Bouvard e

Pécuchet, Hrabal ha scritto quel che ha scritto ascoltando duemila bevitori delle taverne di Praga, sfidando

il fiato del lettore», prese la forma di una ennesima, acuminata sforbiciatura.

Bibliografia

Didi-Huberman, G., 2009, La Somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modalità dell’impronta. Torino,

Bollati Boringhieri.

Hrabal, B, Kolář, J., 1966, Automat svět. Výbor z povídek, Praga, Mladá Fronta.

Hrabal, B., 1991, Il flauto magico, in L’uragano di novembre, Roma, edizioni e/o.

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1, 2, 3, 4 Jiří Kolář e Giuseppe Desiato nello studio di via Nekazanka, agosto 1970

5, 6 Copertina e frontespizio di UND 2, Gersaints Aushängeschild, Kassel, 1968

7 Pomo Imperiale, collages, 1969

8 Veronese III e Veronese IV, anticollage, 1968

9 Stampa fotografica dalla serie Nascita di una farfalla, collage, 1970

10 Busta contenente il catalogo Jiří Kolář, Edizioni Situace, Praga, 1970

11, 12 Copertina e retrocopertina del catalogo Jiří Kolář, Edizioni Situace, Praga, 1970

13, 14 Collages per Bohumil Hrabal, Automat svět, Výbor z povídek, Edizioni Mladá fronta, Praga

1966 (http://expo58.blogspot.com/2014/03/hrabaluv-automat-svet.html)

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READINGS

P. Amato, «Nudità senza spettatore. Godard e il fantasma di Kafka» K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, 1, 2/2018, pp.187-197

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Pierandrea Amato

Nudità senza spettatore

Godard e il fantasma di Kafka1

ABSTRACT

This paper means to examine the theoretical and visual trait of Jean-Luc Godard’s Adieu au langage (2014). The movie questions the efficacy of language for

the orienting of the gaze. The matter is that the poverty of language can be pursued but cannot be obtained from within the language itself. On the contrary,

the dog, the actual leading character of Godard’s movie, is not naked since he cannot help but be naked. In this sense, one can affirm that the appearances

of the dog in Adieu au language represent the reversal of Franz Kafka’s Investigations of a Dog (1922, posthumously published in 1931). Whilst Kafka is the

writer who approaches more closely the impersonality of the images, the dog “imprisoned” in his book never accomplishes the “goodbye to language”. After

all, Kafka’s dog is identical to the woman undressing and dressing herself in the sitting room in Godard’s movie.

Keywords: cinema, dog, event, nudity, shame.

A questa età ho difficoltà a vivere la mia vita,

ma ho ancora il coraggio di immaginarla

Jean-Luc Godard

1. Senza parole

La tesi che guida la composizione di queste pagine è che nella fase più recente del cinema di Jean-Luc

Godard la presa di congedo dalla tradizionale forma racconto cinematografica si organizza attraverso

l’assemblaggio di materiali in grado di svelare l’estrema radicalità del gesto godardiano fino a rivelarne la

perentoria carica post-antropologica. In realtà, è proprio la questione antropologica il problema che vorrei

indagare qui grazie all’impiego in contrappunto di un racconto di Kafka che dovrebbe mostrare che se in

Godard l’immagine sprigiona una forma di estrema alterità rispetto alla realtà, al contrario, la sostanza

filosofica e letteraria del suo cinema rischia di conservare, almeno in parte, una tentazione dialettica.

È in particolare in un film del 2014, Adieu au langage, che si condensa in maniera programmatica l’esigenza

di Godard di portare il cinema oltre i limiti del linguaggio, al di là del logos, in un territorio in cui, dunque,

l’immagine potrebbe bastare a sé stessa perché indipendente dalla cosa che lascia vedere tramite la sua

dicibilità discorsiva.

1 Non avrei concepito questo contributo intorno a Adieu au langage di Godard e Kafka senza una serie di conversazioni con il mio amico fotografo Roberto Cerenza. Che anche qui desidero ancora una volta ringraziare per la sua consueta generosità.

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L’ambizione del film non potrebbe essere più radicale, dal momento che sin dall’inizio siamo proiettati

in universo d’immagini di guerra, a sottolineare l’abisso del presente cui saremmo consegnati, in un vortice

di rimandi cinematografici e letterari in cui è quasi impossibile non perdere la bussola anche perché la

materia è trattata mediante una persistente sgranatura delle immagini che contribuisce alla visione di

un’esperienza della visione spudoratamente perturbante.

Tuttavia l’estremo rifiuto per la narrazione nell’ultimo Godard, per quanto si accompagni a una gestione

dell’immagine frammentaria, discontinua, in realtà, in quanto sottratta all’autorità autoriale del continuum,

diventa persino totale; cioè, libera dall’esigenza di descrivere ciò che accade fuori di essa. Perché in fondo,

come insegna Nietzsche con l’uso dell’aforisma, soltanto nel frammento si dà completezza.

In questa direzione va lo stesso impiego del 3D in Adieu au langage. Per quanto il film sia il primo

lungometraggio girato da Godard in 3D, il suo assetto si realizza anche grazie a un impiego

(volontariamente) accessorio, addirittura scorretto di questa percezione filmica della realtà. Infatti, se

l’immagine non si lascia più guidare dal linguaggio, è disancorata dalla sua carica verbale, allora scopre già

la propria esclusiva profondità che il 3D non fa che replicare perché in fondo da sempre il cinema

dovrebbe catturare la cosa che guarda eludendo ciò che “per natura” tende a confondere lo sguardo: la

parola. Il 3D in Godard, allora, si rivela uno strumento, se vogliamo, antiquato e approssimativo tanto

da funzionare tramite una soggettiva innestata nello sguardo di un cane (lo sguardo di questo animale

costituisce il filo rosso cruciale che raccorda le diverse parti del film).

Nell’ultimo Godard, dunque, l’uso della presunta novità del 3D si rivela nient’altro che il segno di una ri-

scoperta del suo impiego nella storia del cinema, tema sul quale Godard ama costantemente ritornare,

trattando il cinema nelle sue Histoire(s) alla stregua di un elemento pulsante e nevralgico che accoglie tutte

le storie possibili (cfr. Cervini et al., 2010). Ma proprio questa implacabile necessità di ribadire la propria

appartenenza al cinema è forse l’ennesima dimostrazione del desiderio godardiano di estinguere la propria

origine letteraria più che visiva, quasi un tentativo di far sbiadire l’eco di una provenienza in fondo meta-

cinematografica. Adieu au langage è forse una delle formulazioni più evidenti di questo tentativo.

Naturalmente il corpo a corpo con il linguaggio, il linguaggio delle parole, non sarebbe neanche il caso di

sottolinearlo, non nasce in Godard nel 2014. Anzi, probabilmente mostrare i limiti del linguaggio, la sua

irrimediabile trascendenza rispetto all’immagine nei confronti della cosa, rappresenta un problema

capitale che attraversa per intero la sua ricerca. In un conflitto, sia chiaro, che in Godard si rivela in fondo

irrisolvibile innanzitutto perché notoriamente Godard arriva al cinema tramite la scrittura – o meglio: fa

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già il cinema scrivendo di cinema2 – e d’altronde lo stesso Adieu au langage è disseminato di immagini che

riprendono l’atto di scrivere. Tutto ciò lo dimostra già, per citare soltanto un esempio eclatante, un film

del ’68, ma si potrebbe anche osare e dire, immaginato dal ’68, La gaia scienza (uscito poi nel 1969), in cui

la protagonista, impegnata insieme al suo fidanzato in un delicato processo di auto-formazione

rivoluzionario, riconosce proprio nel linguaggio l’arma più affilata del potere e quindi lo strumento contro

cui esercitare la propria resistenza. A dimostrazione, lo dico qui tra parentesi, che la pregnanza filosofica

del cinema di Godard, in realtà, è sempre anti-filosofica perché ampiamente determinata, per intenderci,

dall’immanenza della cosa e non tanto dall’ente (cioè, dalla cosa filtrata attraverso la sua dicibilità).

Insomma, e per farla breve, in Godard, ma come potrebbe essere altrimenti, vi è una radicale istanza anti-

platonica e quindi una condensazione anti-filosofica della filosofia che rende tutt’oggi il suo cinema

assiduamente impegnato a rimuovere la sua provenienza filosofica.

Ma torniamo al 2014: Adieu au langage recusa l’efficacia del linguaggio per orientare lo sguardo come

strumento in grado di catturare frammenti di realtà. Il punto, però, è che la povertà nel linguaggio si può

ricercare ma non realizzare restando all’interno del linguaggio stesso (come quando un poeta è, in qualche

modo, destinato immancabilmente a dire il silenzio), come si sta appunto nell’intimità di un

appartamento, dove l’addio al linguaggio somiglia a uno svestirsi per poi accennare a un rivestirsi poiché

il trapasso che l’addio dovrebbe sancire non si può mai compiere definitivamente.

Il cinema di Godard oggi pretende di partire da ciò che non si può dire e a stento, quasi, vedere.

L’immagine prende avvio dall’indicibile; sgorga a partire da ciò che non si può dire né raccontare e per

questa ragione non è, a ben vedere, l’esito di una decisione di un soggetto, ma una corrente, un magma

di frammenti che sospendono la logica che tiene insieme dicibile/indicibile.

Il congedo dal linguaggio fonetico s’incarna in Adieu au langage nel vero protagonista del film: il cane; il

quale, a differenza degli uomini, che nel film si svestono e rivestono incessantemente, non è nudo perché

non può non esserlo. Il cane godardiano, a ben vedere, e per andare subito al punto, è una figura della

resistenza; resiste alla banalizzazione permanente cui siamo soliti percepire il legame tra la realtà e

l’immagine. Il cane, più precisamente, lo fa capire lo stesso Godard in una serie di considerazioni sul film

(Venzi, 2018), è il cinema; dà un corpo al cinema impegnato a fornire un accordo, un punto

d’implicazione, tra la realtà e la sua immagine senza che l’una tradisca l’altra; senza, quindi, cedere a una

forma di relazione stereotipata tra i due poli incapace di concepire questo nesso come l’esito di

un’invenzione in grado di portare un soggetto qualsiasi oltre la propria individualità e non come una

forma di cristallizzazione della realtà stessa.

2 Lo stesso Godard dichiara esplicitamente una forma di continuità tra la sua prima attività critica e il vero e proprio debutto come regista nel 1961 con Fino all’ultimo respiro (Godard, 2007).

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La condizione del cane godardiano è paradisiaca perché si rivela una nudità senza vergogna; cioè, priva

di libido. Potremmo dire, come insegna Nietzsche all’inizio della sua seconda inattuale sulla storia,

Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874), che la sua condizione ricorda quella dell’infanzia, quando,

appunto, la nudità dovrebbe apparire priva di colpa e quindi senza vergogna (il film, in effetti, termina

con i vagiti di un nascituro). In questo senso essere uomini, essere finiti, per le Scritture, vuol dire

innanzitutto conoscere, o forse, sarebbe meglio dire, riconoscere la propria nudità. Come se la

conoscenza originaria, il peccato che precede ogni peccato, fosse legato a una conoscenza di ciò che non

è in nostro potere – la libido sessuale – come cifra universale del sapere di qualsiasi sapere.

2. L’animale dialettico

Adieu au langage struttura la propria parabola canina gestendo un’eredità letteraria e filosofica corposa; lo

testimoniano esplicitamente i titoli di coda del film in cui Godard riversa le tracce di una costellazione di

nomi che dovrebbe indicare i punti d’orientamento, per lo più letterari, di un’esperienza di congedo

definitivo dalla narrazione cinematografica. Nello specifico, almeno nell’economia di un discorso

impegnato a esaminare la filosofia post-antropologica che agiterebbe il cinema dell’ultimo Godard, mi

limiterei qui però esclusivamente al nesso nudità e animalità per come compare in un libro di Derrida del

2006, L’animale che dunque sono (il nome di Derrida, per l’appunto, è uno di quelli che compare alla fine di

Adieu au langage).

Ricordiamo rapidamente l’intenzione di Derrida: L’animale che dunque sono s’impegna a ripensare l’umano

a partire da ciò che propriamente umano non è, la nudità animale. Più precisamente: mette in discussione

l’idea consolidata che il primato dell’uomo sugli altri animali sia fondato su un’abilità linguistica particolare

(vale a dire: sul logos). Insomma, e in estrema sintesi, Derrida, allestendo un affascinante cantiere storico-

critico-filosofico (si va, solo per fare qualche nome famoso, da Aristotele a Heidegger passando per

Cartesio), dimostra che nella tradizione filosofica occidentale l’assunto cardine che ci separa dall’altro,

l’animale che noi non siamo, è che l’animale non pensa.

Non è qui possibile adesso, come pure sarebbe importante fare, predisporre un’analisi accurata de

L’animale che dunque sono e meno ancora indagare accuratamente i riferimenti che alimentano le stesse tesi

di Derrida e soprattutto dobbiamo rinunciare almeno qui a valutare ciò che esse sono in grado d’innescare

in particolare per gli assi concettuali fondamentali dell’antropologia politica contemporanea3. Si tratta

allora di limitarsi molto, forse troppo brevemente, a pochi riferimenti al testo derridiano unicamente per

3 Per un’analisi approfondita de L’animale che dunque sono, vedi almeno Speranza, 2011.

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mettere a fuoco la logica di Adieu au langage in modo da chiarire il valore dell’operazione godardiana

impegnata a dissociare le parole, quando rappresentano la semplice occasione di una comunicazione

narrativa, e le immagini.

Con l’ambizione di sferrare un attacco ai fondamenti di qualsiasi forma di antropocentrismo, Derrida

risponde in maniera perentoria a un quesito quanto mai classico, che cos’è l’uomo?: l’uomo non è la sua voce;

in altri termini, ciò che lo specifica, e quindi lo differenzia dagli altri animali, non si può ridurre alla sua

consistenza logico-razionale. Per smantellare la presupposta sovranità dell’uomo sull’animale, dunque, è

necessario innanzitutto rimuovere la condizione di possibilità che materialmente garantisce questo

primato: il linguaggio. Bisogna quindi disfarsi di qualsiasi parola che fiorisce a partire dall’esistenza umana;

se queste parole sono esclusivamente umane, allora bisogna cancellarle; non utilizzarle più.

In L’animale che dunque sono questa decantazione linguistica si condensa in un’operazione sorprendente: a

differenza di Godard, che s’impegna a lavorare con un cane, Derrida si occupa della sua gatta. O meglio:

dello sguardo che la sua gatta lancia, muta, verso la sua nudità. Derrida, in effetti, mette in relazione

l’esperienza tipicamente umana del pudore nei confronti delle proprie nudità e quindi della vergogna (e

quindi della colpa), partendo da un apparentemente insignificante episodio quotidiano: l’essere visto (o

guardato?) nudo dalla propria gatta. Questo sguardo provoca un particolare tipo di imbarazzo, quello “di

un animale nudo davanti ad un altro animale”; ossia, un “animalimbarazzo” (Derrida, 2006, p. 38)4.

Questa situazione, però, ben oltre una vicenda del tutto particolare, in realtà, provoca un’interrogazione

intorno alla nudità:

Non esiste nudità in natura. C’è solo l’esperienza conscia o inconscia di esistere nella nudità. Dal momento che è

nudo, senza esistere nella nudità, l’animale non si sente e non si vede nudo. Per lo meno così si pensa. Per l’uomo

vale piuttosto il contrario e il vestito risponde ad una tecnica. Dovremmo quindi pensare congiuntamente, come

uno stesso oggetto, il pudore e la tecnica. Insieme al male, alla storia, al lavoro, e a tante altre cose ad esso collegate

- l’uomo sarebbe il solo a inventarsi un vestito per nascondere il sesso. E sarebbe uomo proprio in quanto diventa

capace di nudità […]. L’animale sarebbe in situazione di non nudità in quanto nudo e l’uomo in situazione di nudità

dal momento che non è più nudo. Ecco una differenza, un tempo o un contrattempo tra due nudità senza nudità”

(pp. 39-40).

L’animale non conosce la vergogna perché non possiede alcuna coscienza della propria nudità: non è

(mai) nudo perché è nudo. La nudità esiste piuttosto, secondo Derrida, nello sguardo dell’altro; allora

4 Per fare il punto sulla questione filosofica dell’animalità, che da oltre un decennio, nell’era del post-umano informale, appare nuovamente un problema capitale per il pensiero, mi limito qui a rimandare a un solo utilissimo saggio: Cimatti, 2013.

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forse non è soltanto la parola che manca all’animale, ma anche un tipo di sguardo che guarda per giudicare

e colpevolizzare.

Il problema della nudità diventa l’occasione per interrogarsi sull’alterità rispetto alla quale proviamo

vergogna: “Niente mi ha mai fatto pensare tanto all’alterità assoluta del vicino o del prossimo, quanto i

momenti in cui mi vedo visto nudo sotto lo sguardo di un gatto” (p. 47). Di fronte allo sguardo animale,

l’uomo è spinto a formulare un interrogativo di chiara matrice edipica: “Chi è che sono? A chi domandarlo

se non all’altro? Forse proprio al gatto?” (ib.). Un’occhiata bestiale è la soglia rimodulazione del sé umano:

“Come ogni sguardo senza fondo, come gli occhi dell’altro, questo sguardo cosiddetto animale mi fa

vedere il limite abissale dell’umano: l’inumano o l’annumano, le fini dell’uomo, cioè il passaggio delle

frontiere oltre il quale l’uomo osa annunciarsi a se stesso” (p. 49).

L’intelaiatura teorica di Adieu au langage sembra effettivamente impastata con lo sforzo derridiano di

consegnare alla nudità umana, l’unica nudità concepibile, l’indice della nostra umanità segnata dalla

vergogna di essere nudi. Come la gatta di Derrida svela il peso della nudità umana, e quindi lo strutturale

agglomerato di pudore-vergogna-colpa di cui saremmo fatti, lo stesso fa lo sguardo del cane di Godard

impresso nella macchina da presa: la sua differenza rispetto alla coppia che in Adieu au langage si sveste e

si riveste in continuazione testimonierebbe l’alterità del cane rispetto al gioco d’amore fondato su

risentimenti, sensi di colpa, vergogna, su forme di comunicazione destinate fatalmente al fallimento. Il

film mette a nudo, se è lecito dire così in questo contesto, che un uomo e una donna, seppure ripresi

mentre defecano, come fa Godard, comunque non possono avere effettivamente accesso a una

condizione d’innocenza (linguistica) proprio perché non posso essere (mai) nudi. Come se nel cane allora,

al contrario, si materializzasse simbolicamente una forma di purezza dell’immagine, che il cinema è in

grado di montare e lasciare vedere, che la stessa storia del cinema, legata alla scrittura, alla narrazione, alla

rappresentazione, rischia continuamente di celare allo sguardo.

3. Vivere e morire come un cane

Se la posizione di Derrida gioca un ruolo esplicito nella composizione di Adieu au langage, adesso si tratta

d’indicare un altro possibile debito del film, sempre legato al problema dell’animalità, che però Godard

non evoca apertamente (ammesso e non concesso che Godard abbia coscienza esplicita di questa

correlazione) ma che tuttavia appare prezioso per svelarne le intenzioni essenziali; mi riferisco a un

formidabile racconto di Kafka del 1922 pubblicato postumo nel 1931: Indagini di un cane (il titolo del

racconto è dell’amico per eccellenza di Kafka, Max Brod).

L’ipotesi è questa: Adieu au langage potrebbe essere una riscrittura, per quanto sistematicamente rovesciata,

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del racconto kafkiano.

In Indagine di un cane il monologo filosofico e angoscioso del cane, in assenza di uomini, nasconde la

mancanza di una soglia di differenza tra l’uomo e l’animale in quell’animale, il cane appunto,

addomesticato “per natura” tanto da sembrare molto simile a un uomo; è solo alla fine del racconto, a

ben vedere, che il cane ha la capacità di riconciliarsi con i propri istinti in modo da custodire la propria

integrità/libertà5. Il cane, in ultimo, avrebbe accesso a una sua forma di verità, una località dove la sua

libertà non ha nulla a che fare con la coscienza, ma con una manifestazione spontanea delle proprie

pulsioni. Una libertà, però, attenzione, che non coincide con la propria comunità di riferimento, al cui

interno il cane di Kafka si rivela un escluso, ma neppure con una forma di riconoscimento intellettuale

del senso di questa emarginazione. La sua libertà, piuttosto, si colloca al di là di qualsiasi sfera dialettica,

oltre l’idea che l’animale o è un non-uomo oppure è come lui. Insomma, per il cane di Kafka la libertà

significa aver attraversato la consapevolezza che la libertà non è un dato di natura, una condizione, ma

un evento (raro).

Il cane di Kafka tuttavia, prima di ogni altra cosa, prima di essere libero, parla, ragiona, dimostra di avere

coscienza delle cose e anche una notevole abilità di penetrazione nel passato (sa, addirittura, riconoscere

sia che la vita lo ha molto cambiato sia, in realtà, che non lo ha trasformato nel profondo). Insomma, le

sue parole, il suo sguardo sulle cose e gli altri cani, la sua difficoltà a fare parte di una comunità, a

confondersi con gli altri, lasciano pensare di avere a che fare con un animale che soffre i disagi di un

uomo; più precisamente, le tensioni di chi, quando racconta la propria storia, rischia di prendere le

distanze dalla propria storia, dal momento che si posiziona in un luogo esterno rispetto all’oggetto del

racconto.

Arriviamo rapidamente al punto: perché Kafka dovrebbe operare – clandestinamente – nelle maglie delle

visioni di Godard? Perché la sua presenza appare, almeno ai miei occhi, persino imprescindibile per

giustificare e chiarire l’ambizione di Adieu au langage? Se è vero, come è stato giustamente notato, che il

film di Godard costituisce innanzitutto una riflessione radicale sull’atto del comporre6, e in particolare sul

cinema come gesto di resistenza, allora, grazie alla gestione che entrambi fanno del cane, Kafka diventa

un’occasione persino ovvia di confronto. Kafka, infatti, lo dico con grande semplicità, è lo scrittore che

più di ogni altro si è spinto costantemente al di là della pagina letteraria, andando oltre i suoi limiti, fino

a sfiorare, con la sua scrittura che dovrebbe prendere congedo da qualsiasi forma di rappresentazione –

un grande obiettivo di Godard – l’impersonalità dell’immagine.

5 Walter Benjamin già notava in un saggio del 1934 dedicato alla filosofia del gesto kafkiano, “si possono leggere per un buon tratto le storie di animali in Kafka senza avvertire che non si tratta di uomini” (Benjamin, 1962, p. 286). 6 Adieu au langage “è una delle più ardue meditazioni sull’atto di comporre cui il cineasta abbia mai dato corso” (Venzi, 2018, p. 149). Approfitto di questa citazione per rimandare, più in generale, al contributo di Venzi per una lettura complessiva e puntuale di Adieu au langage.

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Se le intenzioni di Kafka, ossia battere la strada di un’uscita dalle tenaglie della narrazione, scrivendo

senza sosta, ma senza portare generalmente mai a termine le proprie prove, anticipano la stessa ambizione

di Godard, Indagini di un cane, però, segna una discrepanza tra i due: il cane kafkiano (non) è muto.

Piuttosto quello godardiano forse resta simile alla donna nel salotto che si sveste e si riveste, e così non

può consumare l’addio al linguaggio perché, al contrario, con il suo gesto ne prolunga l’ombra; mentre la

nudità del cane è visibile proprio perché non si vede né può vedersi; è tale perché non lo è

linguisticamente; in altre parole, costituisce il senza immagine dell’immagine.

Il monologo di un cane pieno di titubanze, giravolte emotive, prese di coscienza, otturazioni discorsive,

deliri persecutori, dialoga con Godard ma assai problematicamente, perché inverte il senso del suo segno

visivo provando a oltrepassare qualsiasi indugio dialettico nella composizione del rapporto uomo-

animale. Per verificare questa distanza tra i due cani, ad esempio, è sufficiente leggere un brano di Indagine

di un cane quando il cane di Kafka inveisce contro i suoi simili (un frammento che si rivela peraltro non

soltanto cruciale per intercettare la gestione del problema della nudità in generale ma rappresenta un apice

straordinario dell’universo letterario e filosofico dell’ultimo periodo dell’opera di Kafka):

Vergogna! Si spogliavano e ostentavano sfacciatamente la loro nudità: se ne compiacevano e quando per un istante obbedivano

al sano istinto e abbassavano le zampe anteriori, rimanevano quali allibiti, come fosse un fallo, come se la natura fosse sbagliata,

risollevavano subito le gambe e pareva che con lo sguardo chiedessero perdono di aver interrotto per un momento il loro

stato di peccato (Kafka, 1970, p. 464)7.

A questo punto, elaborando una leggera sterzata, in modo da orientarci almeno un po’ nella trama del

confronto tra nudità e veste che sembra attraversare Adieu au langage, potrebbe essere utile rivolgersi a un

saggio di Giorgio Agamben, Nudità, in cui si trovano le ragioni della posizione anti-teologica kafkiana e

quindi, allo stesso tempo, forse una certa (almeno apparente) rigidità di quella godardiana.

L’intenzione di Agamben è di documentare, adoperando il suo classico metodo archeologico, che

l’opposizione di matrice teologica tra nudità e veste è, in realtà, per quanto consolidata, infondata;

piuttosto, ricercando le ragioni di questa antitesi, si tratta di mettere a fuoco la natura della loro

implicazione. Il gesto fondamentale di Agamben, per stravolgere l’assetto dialettico della nudità, è di

7 Sulla posizione speciale occupata dal cane nel bestiario kafkiano, una vera e propria Schlüsselfigur (come non ricordare, ad esempio, la conclusione del Processo, dove il protagonista, Josef K., appunto muore “come un cane”; colpevole, ma ignaro di esserlo), vedi Pastorelli, 2015; studio dove peraltro non si manca di rimandare a un contributo assai meno recente ma tuttora prezioso sempre per inquadrare il ruolo pirotecnico incarnato dal cane nella galassia di Kafka: Winkelman, 1967.

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mostrare che sin dalla sua codificazione con la Caduta di Adamo ed Eva la nudità non è uno stato, una

maniera dell’essere della forma, ma si presenta come un “evento”: “In quanto oscuro presupposto

dell’addizione di una veste o subitaneo risultato della sua sottrazione, dono insperato o improvvida

perdita, essa appartiene al tempo e alla storia, non all’essere e alla forma” (Agamben, 2009, p. 96). La

nudità, dunque, sarebbe sempre legata a una forma di denudamento; di trasformazione. Se “l’uomo è

l’animale che deve riconoscersi umano per esserlo” (Agamben, 2002, p. 33), questa individuazione risale

innanzitutto nel riconoscersi, come insegnano le Scritture, come un essere immancabilmente nudo.

L’evento della nudità, in altre parole, che non precede però nessuna veste, è l’umanità dell’umano che si

scolla dalla sua animalità.

Il cane, lo dicevamo, per Godard non è nudo perché non può non esserlo: il suo sguardo non può

realizzare alcuna forma di visione impressionista, bensì si riversa automaticamente in immagine in quanto

non include lo sguardo stesso come desiderio passato attraverso una coscienza; in altre parole, non può

contare su alcuna esteriorità perché è l’eterno rovesciarsi tra dentro e fuori, parola e immagine, a essere

destituito di fondamento. In questo senso, lo ripeto, è possibile sospettare che le immagini di un cane in

Adieu au langage siano l’inversione delle Indagini di un cane; solo che il riferimento (forse casualmente) deve

rimanere nascosto proprio perché probabilmente la sua rilevanza oltrepassa persino quella consueta di

una referenza o persino di un debito.

Kafka, come di consueto, lo troviamo sui limiti, le soglie, laddove, più precisamente, si tratta di

scompaginare il limite di qualsiasi limite e la differenza tra l’alto e il basso (si pensi, ad esempio,

naturalmente alla figura dell’agrimensore nel Castello). Kafka, in questo modo, opererebbe in maniera

clandestina in Godard in modo che lo stesso Godard intralci, mediante un sottile e carsico corto-circuito,

la stessa opzione teorica di Adieu au langage in modo da non mascherare l’esigenza che pure ciò che non

può essere né narrato né rappresentato pretende alla fine un’immagine in grado di lasciare vedere ciò che

non si può dire. Adieu au langage, in questo senso, attraverso lo sguardo del suo protagonista, un cane-

cinefilo, non sancirebbe una forma di sottrazione dal linguaggio tout court, come se le immagini a loro

modo non fossero (anche) un linguaggio, piuttosto un’estrema presa di congedo da una condizione, come

quella che tutti noi oggi assaporiamo, che ci impone di comunicare senza tregua al di là di ciò che si tratta

di comunicare (comunicare sempre rappresenterebbe un nuovo imperativo globale; un dovere in cui la

possibilità di comunicare reagisce innanzitutto al dovere di farlo; cfr. Zanardi, 2018). In fondo, è proprio

la totalizzazione della comunicazione, che prosciuga qualsiasi possibilità di comunicare, è ciò contro si

batte il cinema di Godard. Per questa ragione, probabilmente, il cane/bambino di Adieu au langage non

smette di gridare; vale a dire, di schiudere dentro e contro qualsiasi forma di verticalità nei confronti della

realtà, un’esperienza delle “cose rozze e materiali, senza le quali non si danno cose fini e spirituali”

(Benjamin, 1997, p. 25).

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Bruno Roberti

Lynch con Kafka

ABSTRACT

There is a scene in David Lynch’s Twin Peaks: The Return (2017) where a picture of Franz Kafka is shown hanging on a wall. Moreover, a long part of this

“chaosmic” 18 hours long drama series takes place in a labyrinthic company insurance office. Sliding from one world into another, undecidableness between

dream and reality, presence of threshold guardians are recurring themes in Lynch’s production as well as Kafkaesque topics. This convergence can be

profitably investigated in Twin Peaks: The Return.

Keywords: Lynch; Kafka; Twin Peaks; chaosmos; machine.

Nel corso del 3° episodio di Twin Peaks: The Return, quando l’agente Cole, cioè David Lynch, viene

chiamato a rispondere al telefono nel suo ufficio, che si vede lì per la prima volta, dietro alla sua scrivania

è appesa la fotografia in bianco e nero di un fungo atomico, e quando ci si sposta nel controcampo, sul

muro opposto fa bella mostra una fotografia, anch'essa in bianco e nero, di Franz Kafka, un grande

ritratto che viene inquadrato più volte e in modo esplicito. Sappiamo dell’amore di Lynch per Kafka, che

in alcune sue dichiarazioni considera come un “fratello astrale” (un suo progetto scritto ma non realizzato

è stato quello di ridurre per lo schermo La metamorfosi e il suo primo film, il misterioso Eraserhead, che

Lynch cita nel terzo episodio della serie, era larvatamente ispirato al Processo). Non si tratta, in questo

scritto, tanto di rintracciare le occorrenze kafkiane che emergono con maggiore o minore evidenza nel

cinema di Lynch, quanto di enucleare come uno stesso stato, vorticante e nebuloso, dei soggetti, dei corpi,

della materia, della percezione e della loro fagocitazione e co-incidenza con ciò che si può intendere

(risalendone la genealogia teologica) come dispositivo, e che si esplica nello statuto antropologico del

moderno, nella stessa declinazione del concetto di umano, venga propriamente in luce nelle immagini, in

un emergere visivo, che, questo soprattutto, accomuna lo scrittore e il cineasta.

In Twin Peaks: The Return dunque è lo stesso David Lynch a interpretare Gordon Cole, agente dell’FBI

completamente sordo. Cole misinterpreta e fraintende, la sua comunicazione interpersonale si sposta

continuamente su un piano di interferenze. La presenza di Lynch, in quanto conduttore di indagini e regista

di questo vero e proprio film lungo 18 ore (i cui tasselli/episodi compongono e scompongono il

dispositivo filmico, rifrangendolo in tante parti che contengono ciascuno l’intero e le sue infinite rifrazioni,

come in un aleph borgesiano), costituisce una sorta di chiave per introdursi nel tessuto spaziotemporale del

film. Questa chiave è costituita da una sorta di ermeneutica delirante che l’agente Cole (il quale sprofonda

spesso nel sonno) definisce metodo onirico. L’introduzione dei sogni (come metodo di esegesi delirante) in

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un universo postulato di per sé nell’indecidibilità onirica introduce una logica paradossale (simile alla

bilogica teorizzata da Matte Blanco per cui la logica onirica sarebbe una logica “simmetrica” per cui non

vigerebbe il principio di non-contraddizione), un principio di indeterminazione che si ripercuote per ogni

singola immagine. “Viviamo dentro un sogno” dice un personaggio in Fuoco cammina con me

(prolungamento cinematografico del ciclo Twin Peaks). In quel film, oltretutto, l’agente Cole parla un

linguaggio criptico, in codice, che i suoi sottoposti non decifrano. La logica “interferenziale” adoperata

da Cole è la stessa con cui il regista gira il ciclo Twin Peaks e viene tradotta dalla continua presenza di

dispositivi di trasmissione che in un certo senso mis-funzionano così come mis-interpretano. Sono

dispositivi spesso acustici che si traducono in macchine della visione (telefoni antiquati, televisori etc…)

che corrompono la comunicazione, come le stesse protesi acustiche usate da Cole. Al limite è lo stesso

linguaggio il dispositivo (in-decifrabile), “il più antico dei dispositivi” (come sostiene Agamben) entro cui

gli agenti-attanti nel film e la funzione spettatoriale (che si ripercuote in molte situazioni) restano catturati.

Anche in Kafka il misfunzionamento, l’interferenza di “stranezze” nel tessuto del reale, e soprattutto il

fraintendimento diventano costitutive della stessa logica onirizzante del recit, una specie di cattura del soggetto

in una rete di spostamenti metamorfosizzanti di posizioni e identità. Il fraintendimento prende forma di

interferenza acustica e si fa epifania teologica verso il finale de Il Castello quando una comunicazione

telefonica sembra rinviare a una atmosfera di redenzione talmudica. Dalla telefonata in cui il protagonista

attende la rivelazione-ammissione all’ingresso nel Castello egli intrasente sul fondo, come una

interferenza, un brusio infantile (quasi un brusio degli angeli). Il dispositivo telefonico si fa epifanico e

criptico strumento1. “Aporia e utopia sono ugualmente sostenute e rivelate dal telefono” (Treder, 2006,

p. 47). Ma il coro celeste è anche il coro dei burocrati (burocrazia celeste in una giaculatoria talmudica).

Un messaggio messianico per via telefonica che postula insieme la redenzione e l’allontanamento,

inattingibilità e lontananza della voce redentrice, in una indistinzione tra salvazione e perdizione. Una

sorta di “Teofania del meccanismo”.

In un piccolo libretto Giorgio Agamben traccia una genealogia teologica del dispositivo connettendolo

al paradigma cristiano dell’ oikonomia. Il governo dei soggetti ha un fondamento teologico per cui

l’amministrazione, il ministero, l’officio, co-incide con l’officiare un mistero. Enigma della burocrazia celeste

che ossessiona continuamente Kafka, sia come pervasività del controllo che come possibile via di

enigmatica redenzione.

1 Assimilazione redentrice che avveniva già in America, laddove si descrive il curioso dispositivo a cassetti automatici della scrivania dello zio di Karl, che ricorda a questi il presepe meccanico che lo incantava da bambino con l’arrivo dei Re Magi.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

chiamerò dispositivo letteralmente qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, determinare,

intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi

(Agamben, 2006, pp. 21-22).

Il dispositivo si fonda come una macchina che produce soggettivazione, ma allo stesso tempo la sua

fagocitazione conduce nel dispositivo contemporaneo a un meccanismo predisposto a una sorta di

nebulizzazione dei soggetti, a una loro reduplicazione ed elisione, a una sostanziale desoggettivazione. C’è

un elemento inafferrabile che residua, come ingovernabile, dalla presa dei dispositivi in misura

proporzionale alla loro pervasività. Prende luogo un dispositivo senza soggetto, un essere senza

fondamento. Il procedimento di cattura del vivente va verso una duplicazione e spostamento come

interferenza tra dispositivo e identità: “uno stesso individuo, una stessa sostanza, può essere il luogo di

molteplici processi di soggettivazione” (p. 23), fino a condurre a uno slittamento delle identità, a una

desoggettivazione spostata. In buona parte del cinema di Lynch (Strade perdute, Mullholand Drive, Inland

Empire e nello spossessamento-possessione dell’agente Cooper in Twin Peaks: The Return) tale slittamento

che postula identità e universi paralleli diventa ricorrente. E il meccanismo di interferenza e spostamento

avviene in una logica simmetrica di tipo onirico. Gli slittamenti di identità lynchiani avvengono con un

moto di conversione, una sorta di “torpore elettrico”, che è anche un introdursi tra i gangli di veglia-

sogno che producono metamorfosi. In Mulholland Drive viene sottolineata l’attitudine di Rita ad

addormentarsi di continuo a seguito dell’incidente sulla Mulholland Drive, ed è in questo interstizio che

avviene la riconversione delle identità delle due donne: “Ho bisogno di dormire. Mi sentirò meglio se

dormo. Ho solo bisogno di stendermi… e dormire”. Allo stesso modo in Kafka Gregor Samsa suppone

che: “Se dormissi ancora un po’ e cercassi di dimenticare tutte queste sciocchezze?”. La posizione di

torpore nel restare come immobilizzati sulla schiena è la postura “kafkiana” (lo scarafaggio umano

capovolto) che torna in Lynch spesso, come per Dale Cooper steso sul pavimento della sua stanza

d’albergo all’inizio della seconda stagione di Twin Peaks, o Alvin riverso di schiena sul pavimento di casa

in Una storia vera. Postura che ha qualcosa di spettrale, dal momento che tale posizione riversa si attaglia al

distacco di un corpo sottile, a una trance astrale, alla levitazione di un secondo corpo, a una metamorfosi

quasi sciamanica in animale.

Ciò che si costituisce in tale indifferenziazione è un soggetto spettrale. La duplicazione del mondo e dei

corpi in una nebulosa attiene a una deriva catastrofica dei dispositivi.

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In luogo dell’annunciata fine della storia, si assiste, infatti, all’incessante girare a vuoto della macchina, che, in una

sorta di immane parodia dell’oikonomia teologica, ha assunto su di sé l’eredità di un governo provvidenziale del

mondo, che, invece di salvarlo, lo conduce-fedele, in questo, all’originaria vocazione escatologica della

provvidenza- alla catastrofe (p. 34).

Nell’ufficio di Cole, giustapposto al ritratto di Kafka, è appesa una grande foto del nebuloso fungo di

un’esplosione atomica2. Immagine di ciò che soppianta la relatività einsteiniana e si introduce nella

membrana della materia, nella sua scissione atomica, postulando, con la fisica dei quanti, un principio

d’indeterminazione che si formula con la fantasmatica e funzione d’onda di Schrödinger. Il mistero

subatomico si fa oscillazione, coalescenza di stati simultanei della materia come natura profonda e invisibile,

eppure potentemente presente, delle cose. L’embricarsi del meccanismo, dell’umano e dell’animale in una

compresente compagine si configura in un vortice spettrale. Questa spettralità dell’azione occulta dei

dispositivi (e la loro trasmissione per interferenza elettrica) intesa anche come subincisione nella materia

dell’umano è resa visione, immagine concreta e simbolica, in un racconto come Nella colonia penale.

“Credo che le macchine e tutte le cose meccaniche lo inquietassero” (Treder, 2006, p. 33) diceva,

riferendosi allo scrittore praghese, Dora Diamant, ultima fidanzata di Kafka. L’apparat di Nella colonia

penale è eigentumlich, cioè è strano. È un dispositivo che incide e co-incide con il corpo umano, con l’umano e,

mentre ne spossessa la soggettività, controlla, aspira e si impossessa del vivente conferendogli soggettività

particolare nella pena e nella condanna singolare, inscritta nella stessa psicofisicità umana. Ciò scrivendo (con

una scrittura che si fa corpo) le parole della legislazione infranta. (“Avrà visto apparecchi simili nelle case

di cura”).

Questa macchina kafkiana sembra modellata da vicino sull’apparecchio che Carl Baunscheidt (1809-1873), di

professione meccanico, aveva inventato per il proprio metodo curativo. […] L’apparecchio di Baunscheidt incideva

la pelle del paziente con aghi finissimi procurando delle microferite che venivano poi strofinate con unguenti

irritanti (Treder, 2006, pp. 34-35).

2 Nel film di Orson Welles tratto da Processo di Kafka, a seguito dell’esecuzione in un buco scavato nel terreno di Josef K, assistiamo, come una apocatastasi teologica, all’esplosione del fungo atomico.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

Ma una ulteriore particolare stranezza è che il dispositivo una volta compiuto l’atto di scrittura, che è

anche condanna-sentenza-esecuzione, si autodistrugge eseguendo su se stessa una sorta di auto esecuzione.

Tale disintegrazione del dispositivo segna una specie di cancellazione nel momento stesso in cui si attua una

scrittura. Ciò somiglia, nella sua spettralità incarnativa, al dispositivo cinematografico (almeno quello pellicolare)

nel senso in cui Pasolini diceva che il cinema si scrive su carta che brucia. Un disegno che mentre incide e scrive

si cancella mettendo allo scoperto le ruote del suo meccanismo.

Il cadere a pezzi di una macchina di altissima precisione […] delinea i due poli estremi all’interno dei quali si muove

la ricerca scientifica del nostro secolo: tecnologia e caos (Treder, 2006, p. 36).

Tale spettralità dell’artefatto moderno, di un dispositivo inerente alle forme assoggettanti della modernità è

l’impressione che riceve nel guardare la luce e la vetrosità, il labirinto architettonico di New York (in una

specie di panoramica o di dolly, o quasi ripresa con un drone) da parte di Karl in America. La

contemplazione stupefatta, che ha quasi della visione mistica, della rivelazione misterica (che ne estrae il

dato teologico connesso al dispositivo del mistero-ministero) di Karl investe il meccanismo tecnologico che

appare in nuce, epifanicamente da meccanismi che paradossalmente sembrano bilicare tra l’alba

dell’industrialismo e l’estremo automatismo della tecnologia impersonale dei dispositivi odierni,

convertendone un dato fantastico, mutante. E a questa pulsione panottica risponde (come nella descrizione

degli ascensori dalle pareti di vetro che trasportano mobili oppure dell’ufficio telegrafico che trasforma

gli umani in strani mutanti le cui orecchie si prolungano nelle protesi telefoniche e pervengono alla vista

attraverso l’apertura-chiusura delle porte di innumerevoli cabine) un senso di nascondimento, di

dissimulazione percettiva (come nei bisbigli indecifrabili dei centralinisti dell’albergo che, sempre

elettricamente, così come elettrica era l’energia della macchina in Nella colonia penale, destinano i loro sussurri

a una minacciosa amplificazione). Eppure in questi stessi spazi tecnologici e concetrazionari, come per lo

strano dispositivo del racconto, si dissemina e contagia l’intero romanzo una irruzione implacabile del

caos e del disfacimento che sembra essere il portato insito nello stesso funzionamento dei dispositivi. Ciò

viene desunto e assunto da Kafka per via di immagini. Le sue metamorfosi e gli atti simbolici (la cui

decrittazione contiene di per sé la perpetuazione indefinita e indeterminata dell’enigma, come l’insita

condizione tra identificazione e disidentificazione, soggettivazione e desoggettivazione cui è sottoposto

l’umano nel moderno) non sono estranei a quel principio di indeterminazione che sul finire degli anni

venti soppianta la fisica einsteiniana (che tra l’altro si elaborava anche nei salotti praghesi di inizio

Novecento, come quello di Berta Fanta, che Kafka frequentò) e sfocia in una “teoria del caos” che fa

smottare, come gli ingranaggi di una macchina, le stesse intelaiature del reale.

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La tecnologia e la burocrazia sono governate dalla stessa legge del caos per cui non solo il soggetto nel momento

di osservare l’oggetto lo muta per lo stesso fatto di osservarlo, ma sarà l’oggetto osservato che cambia il soggetto

annichilendolo (Treder, 2006, p. 42).

Se da un lato l’insistere acustico e l’ossessione per il mis-funzionamento dei dispositivi e per la mutazione

dei corpi-identità in Lynch trascina fin dentro una elisione del cinema, direi una sua implosione (e una sua

disseminazione indifferenziata, dai film alle serie, dalle incisioni di dischi ai siti web), dall’altro in Kafka

(come ha mostrato il bel libro scritto da un attore, Hans Zischler, Kafka va au cinéma) il cinema (visitato a

sua volta come macchina celibe dallo scrittore nei suoi “vagabondaggi celibi” con Max Brod) è avvertito

come una macchina paradossale, un dispositivo visivo che “forclude” la visività, che la fa come implodere

in sé fino a un accecamento o a una interferenza che impedisce allo sguardo di intensificarne l’attenzione

e disloca, o distrae, in un essenziale fraintendimento della visione l’accesso a un luogo mentale dove poter

sprigionare una reale attenzione, una percettività che, nell’immanenza e nel suo estrarsi trascendentale dal

flusso visuale, diventi capace di cogliere la sottigliezza dei gangli della vita, di contemplarne l’essenziale

potenza nascosta e invisibile. È una aporia che attraeva e respingeva Kafka nel-dal cinema.

Nel parlare di Kafka spettatore entusiasta della velocità astrale di una “locomozione aerea”, quella

dell’autunno 1909, nel meeting aereo di Brescia (che darà spunto per il racconto Gli aereoplani a Brescia,

una sorta di sfrecciante ed esaltante dispositivo veloce e mobile, una meccanica celeste che sembra essere

l’altro lato del meccanismo “demoniaco” del cinema che frustra, per Kafka, in una sorta di tormento del

procedere stesso della sua visione meccanica, la potenza della visione resa a un tempo prossima e lontana

illusoriamente tangibile e realmente intangibile, in un moto inarrestabile) Zischler parla della

partecipazione emotiva di Kafka:

a un grande spettacolo meccanico come una visione che integra gli spettatori [e che] si decompone nel caso del

cinema in impressioni fotografiche istantanee e incoerenti. Apparentemente, la scrittura versatile, la ‘scrittura della

velocità’ non arriva a seguire il ritmo del cinema. L’aeronautica, con tutta la sua arditezza tecnica, è un’arte en plein

air. La sua descrizione si nutre di una percezione immediata e della trasposizione ispirata all’apparizione di una

tecnica celeste. Per contro il cinematografo è un neonato del nottambulismo (Zischler, 1996, p. 27).

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In Lynch tale “nottambulismo” sonnambolico, in rapporto a un vortice di rallentamento e intensificazione

o velocità percettiva insieme, è una cifra filmica che traspone l’astralità in vedute “celesti” ritornanti (in

riprese dall’alto o verso il cielo) volta a volta minacciose o come sospesi in un etereo trascorrere in cui la

velocità è come se si stirasse e interferisse con le immagini, ad esempio nell’inizio-sigla del ciclo Twin Peaks

o in A straight story.

Kafka per suo conto sente il cinema come una interferenza del visivo proprio come impedimento di una

intercessione dello stesso. Zischler cita a questo proposito un dialogo tra Brod e Kafka in cui alla domanda

se lo scrittore amasse il cinema, Kafka perplesso risponde che quel “giocattolo magnifico” non lo

sopporta perché forse è egli stesso, come scrittore e come persona, è troppo visuale. Si considera come un

essere che cerca prima di tutto la visione. La persegue come una sorta di redenzione, mentre il cinema

invece di aprire come una finestra l’anima, cosa che fa la quintessenza della visione, gli risulta simile a una

“falda di ferro”, che perturba la visione con una rapidità che precipita le immagini in una “continuità

superficiale” per cui lo sguardo non assapora le immagini, ma sono le immagini che risucchiano,

assorbono, assaporano le immagini (Zischler, 1996, pp. 10-11).

La potenza occulta della macchina da presa in Lynch sembra possedere una anfibolia deflagrante che conduce

a un a sorta di viaggio nelle intercapedini della materia, fino alla sua scissione.

Scrive Francesco Zucconi, partendo dall’immagine della sordità di David Lynch, in un articolo su «Fata

Morgana Web» che:

soprattutto nel secondo e nell’ottavo episodio la macchina da presa sembra penetrare la densità della materia

e diegetizzare la scissione atomica. La cittadina di Twin Peaks resta l’incomprensibile punto di snodo

dell’eterogeneo, dove il bene e il male, il banale e il complesso, il pieno e il vuoto si incastonano (Zucconi, 2017).

È come se ciò che in Kafka è una ossessione del dispositivo come rete di cattura del soggetto e insieme

sua possibilità di redenzione si traducesse in Lynch in una trasposizione della

rete come protocollo di connessione e condizione di vita. Dispositivo capace di far circolare dati, generare metadati

e condizionare condotte su scala globale. La Rete e il suo risvolto opaco: il controllo e la paranoia di essere spiati,

tracciati, osservati da una posizione vuota posta “dietro” allo schermo; dietro allo schermo (Zucconi, 2017).

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Nel primo episodio della stagione assistiamo alla morte violenta diremmo paradossalmente per visione

invisibile di due giovani amanti, assunti come semplici “scrutatori”, “osservatori” in una gabbia di vetro

nella città di New York (scenario che rimanda direttamente ai dispositivi architettonici di America e alla

loro aporetica “opaca trasparenza”). I ragazzi sono come ri-presi da questa micidiale e spettrale

Rete/dispositivo che interviene direttamente sui loro corpi-sguardo.

La Rete e l’idea di guerra informatica, la paura di una nuova Hiroshima. (Si veda tutta la seconda parte dell’ottavo

episodio che inizia con un esplicito riferimento al “Trinity Test” del 16 luglio 1945, il primo esperimento nucleare

della storia). La Rete e il suo doppiofondo, i domini del dark web (il personaggio William Hastings che, nel nono

episodio, rivela di aver visitato una dimensione parallela dove avvengono scambi tra molti soggetti) (Zucconi,

2017).

È una messa, in campo e fuoricampo (è una sorta di magnetico campo di attrazione ciò in cui si inseriscono,

guardando in un incommensurabile fuoricampo i due giovani) della questione del dispositivo, tutta

kafkiana. Sono due ragazzi, anzi un ragazzo che poi incontra una ragazza, al quale è stato assegnato il

compito di stare seduto di fronte a una stranissima macchina, di cui non conosciamo il funzionamento,

un dispositivo vero e proprio, che ha al suo interno una figura che ricorrerà spessissimo nel film, e cioè

un cerchio/vortice/occhio/obiettivo. E all'interno di questo dispositivo c'è un'altra ossessione che

ricorrerà nel film e cioè delle amplificazioni che funzionano tramite antenne e la funzione di questo ragazzo

è semplicemente quella di stare davanti a questa teca di vetro, a questo obiettivo e di guardare.

Naturalmente è facile dire che è la stessa posizione dello spettatore, però è anche la stessa posizione di

chi osa fissare un buco nero o un buco vuoto, quello cioè che secondo Lacan è il reale. L'abisso del buco

nero è il reale, che non è la realtà, ma qualcosa di molto diverso, un risucchio che assorbe e reietta il

processo di soggettivazione. Ora, l'idea di dispositivo ritorna (non è un caso, perché tutto il film è fatto

di ritorni continui, di ossessioni, di fantasmi, di corpi, di doppi, ecc.) e ritorna attraverso varie declinazioni,

tutte distorte in un anacronismo delle immagini, del dispositivo. Si parla, si ascolta, si guarda attraverso

strani oggetti, degli antiquati apparecchi telefonici, dei televisori, dei videotelefoni, dei computer, ma tutto,

come sempre in Lynch, ha come a che fare con un'aura di un altro secolo, o, direi, addirittura di altre ere.

In altri film lynchiani, ad esempio in Elephant Man, questa sua ossessione per le suppellettili industriali o

post-industriali, rimanda a una sorta di strana epoca indefinibile, anacronica, come appunto inscritta in

una prospettiva di genealogia teologica, o di teleologia dell’oggetto intercessore e insieme amministratore,

immagine prefigurante e inscrizione iconica-economica (nota Agamben come la figura di Cristo per gli

gnostici era definita come incarnazione dell’uomo dell’economia). E un’aura gnostica scorre in ogni film di

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

Lynch (la co-creazione e l’inattingibilità demiurgica dell’origine, come il rovesciamento simmetrico del

bene e del male).

Nei primi secoli della storia della Chiesa, fra il secondo e il sesto secolo, il termine greco oikonomìa svolse nella

teologia una funzione decisiva. Oikonomìa in greco significa l’amministrazione dell’oikos, cioè della casa. […] Come

si arrivò a parlare di economia divina? […] Il termine oikonomia si andò specializzando per significare in particolare

l’incarnazione del figlio e l’economia della redenzione e della salvezza. L’oikonomia divenne così il dispositivo

attraverso cui il dogma trinitario e l’idea di governo divino del mondo vennero introdotti nella fede cristiana

(Agamben, 2006, p. 17).

Nel passo di Agamben l’idea trinitaria si connette all’escogitamento di un dispositivo che introduce l’idea

di “terza persona” (su cui Roberto Esposito ha riflettuto di recente in due libri: Terza persona e Due). È

chiaro che la terza persona ha a che fare con un fondamento di teologia politica, ma nello stesso tempo

ha a che fare con qualcosa che nell'immanente supera il doppio, la dicotomia duale, per addentrarsi in un

campo che è il campo dell'impersonale, che è un neutro che fa l’Uno. Non l’Uno plotiniano, divino, ma

l’Uno come pleroma, per usare un termine gnostico. Non a caso la gnosi è il pensiero esoterico del

cristianesimo più vicino all’idea di dualità: c’è un demiurgo cattivo che crea il mondo al posto di un altro

e c’è un dio abissale e inconoscibile dove risiede la verità. Appunto la gnosi è fondamentale non solo in

Twin Peaks: The Return ma in tutto Lynch, dove c’è sempre l'idea di una creazione doppia, perversa, di un

dio demente o ingannevole, tant’è vero che la figura del doppio è fondamentale soprattutto in Twin Peaks:

The Return. Basti pensare a Cooper e alla moltiplicazione della sua identità, e all’esplicazione meccanica di

questa trasposizione rispetto proprio alla macchina e all’economia, come nella sequenza delle vincite

compulsive alla slot-machine. Non a caso il termine di questa sequenza, e verso la stessa destinazione

finale del film, torna l’immagine dell’oikos, della ricerca dell’ingresso in una dimora entro cui è interdetto

l’accesso e quella della porta, della sua posizione e del suo ritrovamento. Questa “teologica” dimora,

questo ingresso al Regno è un nucleo che, nell’immagine del “custode sogliare”, dell’ingresso impedito

eppure verso cui si viene risucchiati, e si “attende”, ricorre e fonda la scrittura kafkiana.

In Twin Peaks: The Return si affastellano degli intermundia attraverso cui si trasmette, per via zigzagante ed

elettrica, tutta una architettura filmica del dispositivo catturante. Si tratta di una “Intermondanità, essendo

tali universi, comunicanti. E la comunicazione avviene, ad esempio, tra sonno e veglia: due aspetti di cui

non si può ancora decretare l’indecidibilità” (Chiesa, 2017, p. 78). Il passaggio tra i mondi, il

funzionamento degli intermundia funziona come per interferenze, cambiamenti repentini di

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

sintonizzazione. Inland Empire si apre inquadrando la piccola punta di uno strumento che legge su un

disco intercettando un programma radiofonico, Axxon N, che denomina a sua volta l’apertura di porte

che mettono i mondi paralleli in comunicazione. In ciò le immagini lynchiane assumono il ruolo delle luci

intermittenti e della televisione o dei filmati inscritti nello schermo, videocitofoni, sit-com, reality surreali

in cui l’umano è interconnesso con l’animale. In Inland Empire Il Confessore si muta in una sorta di analista

freudiano la cui identità slitta, e a un certo punto si nomina con allusione kafkiana come Mr. K., e siede

a una scrivania che sarà la stessa dove siede il coniglio semiumano Jack Rabbit, ricevendo una telefonata

delle più enigmatiche.

Il ruolo del telefono (che assume come si è visto nel Castello una funzione di interferenza con un

trascendentale redentivo) in Lynch si assimila alla pervasività catturante del dispositivo. E la fattura di tali

telefoni assume l’aura di un sortilegio che si ripercuote:

si tratta della fattura e della dimensione dei telefoni continuamente impiegati dai personaggi. Telefoni col filo

arricciato, tanto grossi da risultare grotteschi. Li usa la segretaria dello sceriffo e li usa Janey-E, la moglie di Doogie;

li usa ripetutamente il personaggio di Lorrain prima di ricevere la visita di Ike “The Spike” e lo usa quest’ultimo

nel nono episodio, ma anche la Signora Ceppo per comunicare con il vice-sceriffo Hawk; li usa l’agente Gordon

Cole – interpretato da Lynch stesso – negli uffici dell’FBI (Zucconi, 2017).

Anche in Kafka la coalescenza dei dispositivi (come in Lynch l’intermittenza visuale tra grammofoni,

termosifoni, telefoni, citofoni) assume la pregnanza di una architettura visuale sospesa tra il

protoindustriale e la prefigurazione tecnologica (come si è visto, in America e in Nella colonia penale, il

telefono e i suoi meccanismi da “pianola meccanica”, la sala dei telegrafi con le protesi acustiche dei

telegrafisti che sembrano uomini-macchina-mutanti intravisti attraverso porte di cabine che si aprono e

chiudono a intermittenza, i telefoni di un albergo dove i centralinisti bisbigliano salvo amplificare

acusticamente la voce in una potenza quasi ultraterrena, la scrivania dello zio di Karl che ricorda il presepe

meccanico). Zucconi evoca una sequenza di Twin Peaks: The Return a tal proposito folgorante, proprio nel

senso degli intermundia:

È l’episodio quinto. Gli agenti sono nella prigione del South Dakota e cercano di interagire con un prigioniero che

assume le sembianze dell’agente Cooper – disperso da decenni – ma che costituisce in realtà il doppelgänger di

Cooper, un’incarnazione di BOB. La conversazione si svolge su toni d’incomprensibilità reciproca, quando

quest’ultimo compone una lunghissima serie numerica sulla tastiera del vecchio telefono con il quale comunica con

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

gli agenti. L’interfaccia va in tilt: gli schermi a circuito chiuso mostrano le immagini di un’officina meccanica e di

una trasmissione televisiva di cucina; i neon saltano; gli effetti del corto circuito si fanno sentire fino a Buenos

Aires (Zucconi, 2017).

Appare significativo dunque che l’irruzione del volto di Kafka in Lynch avvenga in praesentia dello stesso

regista che si fa come protesi filmica e acustica di se stesso, e che appunto si reca, ripreso alle spalle, ad aprire

la porta con in primo piano sfocato l’apparecchio acustico.

È per questa via che il regista sembra cercare di trasformarsi in una “macchina acustica” capace non tanto di

ascoltare e comprendere, quanto di sentire le interferenze tra i diversi livelli seriali che sfruttano l’etere e il

ciberspazio. È dunque dal punto di vista del suo orecchio – proprio in quel timpano e grazie al gioco di manopola

con il quale regola il volume dell’apparecchio acustico – che tanto il microscopico nucleare quanto il macroscopico

interstellare si rendono ugualmente esplorabili, nell’intensità (Zucconi, 2017).

Ci piace a questo punto citare qui una sorta di splendida “radiografia” kafkiana dell’universo ritornante di

Twin Peaks in cui emerge l’interferenza perturbante dello scrittore con il cineasta, e viceversa, tratta da una

conversazione collettiva apparsa su «Filmcritica»:

Quando ad esempio, in Twin Peaks 3 compare il Fireman, il Fuochista, oppure quando nella puntata n° 8 ci si trova

all'interno di una sorta di teatro dismesso, che ha molte somiglianze con il Club Silencio […] io sento distintamente

il riattivarsi di quello che Walter Benjamin aveva definito “l'inesauribile mondo intermedio” di Franz Kafka. Per

quanto riguarda il Fuochista penso ovviamente ad America, in cui questo personaggio compare nelle prime pagine,

così come il teatro dell'episodio n°8 mi fa immediatamente pensare al teatro di Oklahoma, con cui,

straordinariamente, America si chiude. Lynch ovviamente non fa una messa in scena letterale di America di Kafka

in Twin Peaks 3, ma credo comunque che alluda al suo mondo, che del resto ha molto a che fare con le avanguardie

del Novecento di cui si diceva prima. Nel mondo di Kafka vengono messe in circolo in continuazione delle

allucinazioni, dei fantasmi, delle macchine infernali e fantastiche, degli incroci animali inquietanti, la comicità e la

tragedia, la disperazione e la speranza, in una interpretazione radicalmente personale del realismo magico europeo,

con cui l'opera di Lynch intrattiene secondo me una relazione profonda. Tra l'altro Dougie Jones, uno dei doppi

dell'agente Cooper, lavora a Las Vegas in una compagnia di assicurazioni, proprio come Franz Kafka ha fatto quasi

per tutta la vita... Anche lo strano animale in metamorfosi, mezza rana e mezza mosca, che nell'episodio n°8, di cui

si parlava, entra nella bocca della ragazza addormentata, fa pensare a Gregor Samsa, o allude comunque a certi altri

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animali kafkiani indimenticabili, come l'incrocio tra un capretto e un gattino… Insomma, io mi sono sentita

profondamente commossa nel vedere il riattivarsi certi elementi del mondo di Kafka… («Filmcritica», 2018).

Viene dunque come messo in campo e insieme tenuto fuori, sia in Kafka che in Lynch una precipuità che

è del linguaggio come del cinema in quanto radicali dispositivi che si pongono al crocevia embricato tra

oggetto e soggetto, personale e impersonale, umano e animale e meccanico e che pongono la questione

dell’iscrizione interferente dello spettatore. In questo punto vorticante ritorna l’idea dello spettatore, la

sua posizione, come di fronte all’ aleph borgesiano, o di fronte alla legge kafkiana, o alle porte-tende delle

stanze lynchiane. Tutti questi elementi ritornano secondo il movimento del falso ritorno o della ripetizione

differente, (riprendendo Deleuze). Ricordiamoci che Twin Peaks viene dopo Inland Empire che altro non

è se non il dispiegarsi di un movimento continuo di entrata ed uscita dal cinema, senza mai sapere dove

è il set, dove è il cinema e dove siamo noi. Come faceva notare Andrea Pastor nella conversazione

collettiva a «Filmcritica» che richiamavamo:

la pulsione scopica in dello spettatore viene spazzata via sin dall’inizio, quando i due ragazzi che devono osservare

quel parallelepipedo trasparente vengono fatti fuori da una creatura misteriosa. Lì fa i conti con Kubrick… Tanti

altri elementi portano all’idea della cancellazione del punto di vista: ci sono le donne senza occhi, pugnalate agli

occhi («Filmcritica», 2018).

Dai dipinti degli uomini delle caverne nella grotta di Altamira fino alla progettazione della camera oscura

da parte di Ruggero Bacone, il cinema, anche tecnicamente, esiste da sempre in un luogo non-luogo, in

un tempo non-tempo. Noi stessi siamo cinema, i nostri occhi sono macchine da presa. E quindi esiste un

intralinguistico e un intrafilmico, piuttosto che un fuori-cinema o una fuoriuscita del/dal linguaggio, nel

momento in cui la questione del posto dello spettatore fagocita qualsiasi differenza tra visibile e leggibile,

trascrivibile e infilmabile. La realtà virtuale è qualcosa che agisce ed incide nelle nostre pratiche e nel

nostro pensiero oggi, ma se noi ripensiamo al fatto che il bisonte di Altamira era stato dipinto in modo

tale che una protuberanza della parete della grotta coincidesse con la gobba dell’animale, dobbiamo

concludere che il 3D, che le realtà virtuali esistessero già allora. Dov’è che interviene Lynch in tutto

questo? Sicuramente in questa sorta di indeterminabilità, di indistinzione o di crossover; nello stesso tempo

interviene all’interno di un vortice, che è il vortice determinato da ciò che si guarda, da dove lo si guarda,

fino a che punto lo si guarda e come si debba o si possa guardare in questa sorta di buco nero, di vortice.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

Il vortice ha la sua propria ritmica che è stata paragonata al movimento dei pianeti intorno al sole, il suo

interno si muove ad una velocità più grande del suo margine esterno, così come i pianeti ruotano più o

meno veloci a seconda dalla loro distanza dal sole. Nel suo avvolgersi a spirale esso si allunga verso il

basso per poi risalire verso l'alto in una sorta di intima pulsazione. Il centro intorno a cui e verso cui il

vortice non cessa di turbinare è però un sole nero in cui agisce una forza di risucchio e di suzione infinita.

Secondo gli scienziati ciò si esprime dicendo che nel punto del vortice in cui il raggio è uguale a zero la

pressione è uguale a meno infinito. Il vortice ha la sua propria ritmica che è stata paragonata al movimento

dei pianeti intorno al sole, il suo interno si muove ad una velocità più grande del suo margine esterno,

così come i pianeti ruotano più o meno veloci a seconda dalla loro distanza dal sole. Nel suo avvolgersi

a spirale esso si allunga verso il basso per poi risalire verso l'alto in una sorta di intima pulsazione. Il

centro intorno a cui e verso cui il vortice non cessa di turbinare è però un sole nero in cui agisce una

forza di risucchio e di suzione infinita. Secondo gli scienziati ciò si esprime dicendo che nel punto del

vortice in cui il raggio è uguale a zero la pressione è uguale a meno infinito (Agamben, 2014, pp. 61 e

sgg.).

Non si può fare a meno, dopo aver letto queste parole, di pensare alle situazioni sia dei protagonisti dei

romanzi di Kafka che a quelli dei film di Lynch.

Bibliografia

Agamben, G., 2006, Che cos’è un dispositivo?, Roma, Nottetempo.

Agamben, G., 2014, Il fuoco e il racconto, Roma, Nottetempo.

Chiesa, S., 2017, Valent, Borges, Dalì, Lynch.L’universo onirico come apertura alla (com)possibilità, Milano, Albo

Versorio.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Filmcritica, 2018, n° 684-685, Roma, Associazione Amici di Filmcritica.

Treder, U., 2006, Tecnologia e caos nell’opera di Kafka, in Montespelli, F. (a cura di), Tra Frankenstein e Prometeo,

Napoli, Liguori.

Zischler, H., 1996, Kafka va au cinéma, Paris, Cahiers du cinèma.

Zucconi, F., 2017, Sordità di David Lynch, in “Fata Morgana Web”, 3 luglio 2017.

L. Bottancin Cantoni, «Davanti alla letteratura, fuori dalla morte. Il paradigma di Kafka nel pensiero di Maurice Blanchot» K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, 1, 2/2018, pp. 212-224

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Lorenza Bottacin Cantoni

Davanti alla letteratura, fuori dalla morte.

Il paradigma di Kafka nel pensiero di Maurice Blanchot

ABSTRACT

This essay, titled Before the literature, outside the death, aims to examine the relation between writing and death in Blanchot’s thought. Through the analysis

of Kafka’s novels, tales, diaries and letters, Blanchot gains a peculiar conception of the figure of the writer. Kafka becomes the paradigm of this interpretation,

which leads to discover the revolutionary power of literature by redefining both the idea of death and the notion of writing.

Keywords: Blanchot, Kafka, literature, death, writer.

Maurice Blanchot trasmette, nei suoi scritti critici, filosofici e politici, l’esigenza di un’insurrezione

permanente del pensiero (Kaplan, 2014, p. 92). Tale impulso, ribelle a ogni stasi, è la rivoluzione che non

ha mai luogo una volta per tutte, è lavoro incessante sul potere di negazione, è coraggiosa capacità di

prendere in carico i contrari ed esplorare a fondo le contraddizioni. In questo modo, la letteratura può

agire sul reale e sui suoi limiti senza, tuttavia, avere alcuna garanzia che il proprio operato sia definitivo,

tanto per la società quanto per un soggetto: precarietà, infinito lavorio, incessante conversazione sono i

termini dell’esperienza letteraria che in Blanchot divengono strumenti di ridefinizione della libertà. Tanto

a livello collettivo, quanto singolare, l’erranza e l’impossibilità di attingere a una verità definitiva

ossessionano Blanchot e permeano la sua intera produzione. Si tratta di un fil rouge che lega l’autore

francese alla rocca letteraria – possente e inaccessibile – della scrittura di Kafka: “La morte inafferrabile,

la fine che non ha fine, la sparizione come sola presenza” (Pignaud, 2014, p. 105), cioè la condizione dello

scrittore.

Kafka ha cercato con tutte le sue forze di essere scrittore. Si è disperato tutte le volte che ha creduto gli si impedisse

di diventarlo. Ha voluto darsi la morte quando, con un incarico nella fabbrica del padre, ha pensato che per quindici

anni non avrebbe più scritto. […] Avendo impegnato tutta la sua esistenza nella sua arte, egli la vede completamente

in pericolo quando deve lasciare quest’attività per un’altra: allora, propriamente, non vive più (Blanchot, 1949, p.

76)1.

1 In questo saggio si è scelto di modificare alcune traduzioni di alcune opere di Blanchot per meglio uniformarle al resto del testo anche ove fossero presenti le traduzioni italiane.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Kafka è, per Blanchot, colui che più di chiunque altro si è impegnato per consegnare l’intera vita a un

certo numero di parole. Operazione folle, follia di scrivere e di portare alla luce il contenuto opaco

dell’esistenza, che tuttavia rimbalza lo scrittore verso questa stessa opacità notturna, condannandolo

all’impossibilità di appropriarsi della sua vita.

La scrittura, secondo Blanchot, si presenta in prima istanza come un tentativo di riscattare la colpa stessa

dell’esistenza mediante la messa in parola dell’inafferrabile: una condanna a morte impossibile da scontare

(cfr. Agamben, 2009, pp. 33-57)2. Lo scrittore è condannato, sempre sul punto di entrare nello spazio di

morte e costantemente tenuto fuori da un’invalicabile soglia aperta – un luogo senza spazio: impossibile

da attraversare.

Davanti alla porta sta lo scrittore; egli fa dell’attesa stessa un’opera, fa dell’inoperosità un lavorio sulla

soglia. “Là rimane […] per giorni e anni” (Kafka, 2006, p. 519). Egli apre, così, lo spazio letterario e, pur

con impazienza – la sua colpa irredimibile – “decide di attendere […] finché non abbia ottenuto il

permesso di entrare” (p. 518). Se la parola è il portale attraverso il quale l’esperienza e l’oggetto, una volta

nominati, perdono la propria mutevolezza, sono fissati e immortalati e vengono normati, il lavoro sulla

soglia della parola – il gesto letterario di definizione dell’esperienza – si configura come incessante opera

senza scopo e come impaziente attesa. Nello spazio letterario, “il linguaggio non è un potere, non è il

potere di dire” (Blanchot, 1967, p. 37), in esso la negazione afferma una parola errante che è sempre fuori

di se stessa e ribelle a ogni prensione concettuale definitiva.

In questa sede si intende mostrare in che modo, secondo Blanchot, la figura dello scrittore,

apparentemente relegato al ruolo di portavoce di una parola impersonale e neutra, sia in realtà colui che,

mediante il gesto letterario, traduce la parola neutra in possibilità e forme che tracciano un confine

all’impersonale stesso. Il rapporto con la morte, in questa prospettiva, assume caratteristiche peculiari,

specialmente in riferimento alla figura cardinale di Kafka (cfr. Agamben, 2009, p. 56); nell’esegesi

blanchotiana della parabola letteraria kafkiana è possibile ripensare la portata rivoluzionaria della scrittura

che, come rilevano anche Deleuze e Guattari, può scardinare le istanze soggettive e consegnarle a una

parola che è di tutti senza essere livellante.

2 La colpa kafkiana, per Agamben (così come per Anders), non deriva da un’accusa esterna, ma è frutto dell’autocalunnia, nell’accusare se stessi di una colpa inesistente dichiarandosi innocenti. Cfr. Anders, G., 1951, Kafka pro e contro. I documenti del processo, trad. it. 2006, a cura di a cura di Maj, B., in appendice la recensione critica di Brod., M., 1952, Assassinio di un fantoccio chiamato Franz Kafka; la replica di Anders e la controreplica di Brod, Quodlibet, Macerata.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

È la letteratura che produce una solidarietà attiva, malgrado lo scetticismo; e se lo scrittore resta ai margini, o al di

fuori, della sua fragile comunità, questa situazione lo aiuta ancora di più a esprimere un’altra comunità potenziale

(Deleuze, Guattari, 1996, p. 31).

La letteratura, dunque, ha un duplice potere: da un lato essa si presta a essere la forza aggregativa capace

di creare costellazioni di senso, di valori condivisi, dall’altro essa reca in sé il potenziale inespresso,

consegnato alla responsabilità dello scrittore, di disporre il terreno per un’altra forma comunitaria, ma la

letteratura “non accetta mai di diventare mezzo” (Blanchot, 1967, p. 73) e si ribella continuamente a chi

tenta di padroneggiarla e appropriarsene.

La scrittura letteraria diviene, così, la parodia del lavoro, laddove quest’ultimo esige un’azione calcolata

secondo un impegno che deve essere rapportato all’effettiva produzione di qualche cosa, la prima non ha

altro scopo che la “produzione” di un linguaggio. Come afferma Blanchot:

Se si scorge nel lavoro la potenza della storia che trasforma l’uomo trasformando il mondo, è necessario riconoscere

nell’attività dello scrittore il lavoro per eccellenza. Che cosa fa l’uomo che lavora? Produce un oggetto. Questo

oggetto è la realizzazione di un progetto fino allora irreale; è l’affermazione di una realtà diversa dagli elementi che

la costituiscono e l’avvenire di nuovi oggetti, in quanto diventa lo strumento capace di fabbricarne altri. Ad

esempio, voglio scaldarmi. Finché questo progetto rimane un desiderio, posso rigirarlo da tutti i lati, ma non mi

scalda. Allora mi fabbrico una stufa: la stufa trasforma in verità quel vuoto ideale che era il mio desiderio; afferma

nel mondo la presenza di qualcosa che non vi era, e l’afferma negando ciò che prima vi si trovava […]. Con

quell’oggetto, ecco, il mondo è cambiato (Blanchot, 1981b, pp. 25-26).

Blanchot non si limita a ripercorrere le tracce di Hegel e Marx, ma estende l’idea della realizzazione

dell’essere attraverso la sua negazione e trasformazione, sostenendo che la scrittura è lavoro per

eccellenza; lo scrittore, infatti

Per scrivere deve distruggere il linguaggio così com’è e realizzarlo sotto un’altra forma, negare i libri facendo un

libro con ciò che essi non sono. Questo nuovo libro è sicuramente una realtà: lo si vede, lo si tocca, lo si può anche

leggere […]. Il volume scritto è, per me, un’innovazione straordinaria, imprevedibile, tale che mi è impossibile,

senza scriverlo, rappresentarmi ciò che potrà essere. Per questo, mi appare come un’esperienza – i cui effetti, per

quanto coscientemente prodotti, mi sfuggono – dinanzi a cui non potrò ritrovarmi lo stesso: in presenza di

qualcos’altro io divento altro (p. 27).

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Il libro è opera di trasformazione e di negazione della realtà: i dati materiali si traducono in un nuovo

linguaggio, sono negati e modificati, ma sono nuovamente resi al mondo sotto forma di possibilità.

L’opera “è sorgente infinita di nuove realtà, a partire da cui l’esistenza non sarà più quella che era” (ib.).

Lo scrittore esercita il sommo potere di negazione e trasformazione; ma il parossismo del lavoro,

l’illimitata potenza metamorfica, coincide con l’estrema negazione del lavoro stesso3. La letteratura è la

parodia del lavoro: sono negate la contingenza dell’autore, le circostanze temporali della sua esistenza e i

suoi limiti. L’opera è negazione assoluta, perciò

in fin dei conti, non nega nulla e l’opera, dove la negazione si realizza, non è un’azione realmente negativa,

distruttrice o trasformatrice, ma realizza piuttosto l’impotenza a negare, il rifiuto di intervenire nel mondo e

trasforma la libertà, che occorrerebbe incarnare nelle cose secondo le vie del tempo, in un ideale al di sopra del

tempo, vuoto ed inaccessibile (p. 26).

Appare evidente, allora, la strana posizione occupata dallo scrittore che è padrone di tutto, dell’illimitato,

ma incapace di afferrare il limite. Egli dispone dell’infinito, regna sull’immaginario4, ma resta reciso fuori

dal mondo: è catturato in un movimento – che non conduce a nulla – tra l’immaginario e il reale, è

incapace di sottrarvisi, ma sempre impegnato a tradurre il possibile in reale e viceversa. Opera inoperosa

e improduttiva: l’intera esistenza dello scrittore è consegnata alle parole, alla loro erosione e a un’attività

senza scopo. Colui che scrive e si mette in gioco in prima persona si trova proiettato in questa medesima

dinamica metamorfica che lo traspone nella terza persona. L’io narrante è sempre un terzo, un egli, un

“io fittizio” mai pienamente sovrapponibile all’io autoriale.

Proprio dal rapporto di Kafka con la scrittura Blanchot ricostruisce l’operazione parodistica, di contro-

canto al reale, istituita dal gesto letterario in tutta la sua portata rivoluzionaria. Da un lato, infatti, la

letteratura si configura come spossessamento del soggetto da se stesso e dal proprio potere, dall’altro è

precisamente questa inoperosa disfatta che apre alla possibilità della rivoluzione incarnata dalla letteratura:

una deformazione tramite la messa in ridicolo delle strutture di potere, la parodia della lingua, l’ironia

della ratio portata all’estremo (che si trasforma in irrazionalità)5.

3 Per un approfondimento delle modalità delle metamorfosi nell’opera di Kafka, si veda Guattari, 2007. 4 Dove l’immaginario, per Blanchot, non è separato dal mondo, ma è la totalità delle possibilità espresse e inespresse del mondo, il mondo come insieme dei compossibili. 5 Una parodia che ricalca la nota ironia gioconda dell’uomo Franz Kafka, come ricorda l’amico Brod (cfr. Brod, 1954, pp. 50-51).

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

L’incontro di Blanchot con l’opera di Kafka avviene presumibilmente tra il 1943 e il 1949 e ha un carattere

aurorale: conferisce un orientamento peculiare sia alla produzione critica che a quella più strettamente

teorica, trovandosi, inoltre, in consonanza con la prosa di Thomas l’Obscur e Aminadab6.

Grazie alla lettura di Kafka, Blanchot accede al cuore intimo della sua propria scrittura, del gesto di

scrivere e della letteratura, di quella rivoluzione dell’immaginario che rappresenta la ribellione dei mezzi

contro i fini che giunge all’assurdo, fino a un labirinto in cui ogni corridoio, come nel Castello, non conduce

da nessuna parte.

La scrittura insegna la passività: scrivere, secondo Blanchot, corrisponde a cercare di fare i conti con la

propria esistenza prendendone le distanze; questo porta a spersonalizzarsi e dislocarsi dalla fatticità

contingente e a ridisegnare la propria esperienza fuori di sé e al di là dei propri limiti. Mediante il gesto

letterario, lo scrittore dapprima trasforma il proprio volto in ritratto, in volto estraneo, per poi renderlo

l’effige della persona intangibile, fino a generare un “simile” (“semblable”, Blanchot, 1967, p. 235) che

designa lo scarto intercorso tra chi scrive e quanto è scritto, uno scarto già presente che rende possibile

entrare in relazione con l’alterità.

Lo scrittore si sente preda di una potenza impersonale che non lo lascia né vivere né morire: l’irresponsabilità

insormontabile diviene la traduzione di questa morte senza morte che l’attende al confine del nulla; l’immortalità

letteraria è lo stesso movimento attraverso il quale fin dentro al mondo […] si insinua la nausea per una

sopravvivenza che non è tale, di una morte che non mette fine a nulla (Blanchot, 1981c, p. 56).

Il semblable corrisponde alla presenza dell’assenza, all’enigma di quanto non appartiene al mondo, ma lo

delimita. Lo scrittore, creando questo “simile”, scrive un’opera nella quale non si annulla, ma non rivive,

restando, così, fuori dal mondo e ai confini di esso nella perpetua erranza dell’esilio in cui “ogni geografia

si ricrede” (Collin, 1971, p. 38). La narrazione porta lo scrittore ad alienare da sé le caratteristiche, le

esperienze e le peculiarità che lo denotano. Egli diviene uomo del neutro che intravvede se stesso nel

proprio doppio senza riconoscersi in esso. Non basta scrivere

6 Come ricorda Sartre, infatti, il romanzo Aminadab (1942) ricalca, nella composizione, alcune caratteristiche dell’opera kafkiana, rivelando una parentela elettiva tra Blanchot e il praghese dal momento che Blanchot sostiene che all’epoca della sua stesura non aveva ancora letto niente di Kafka; cfr. Sartre, 1947. Questa affermazione è confermata dal fatto che in Faux pas (1943) il nome di Kafka compare una sola volta, elencato insieme a quelli di altri romanzieri, in un saggio sul Il mito di Sisifo di Camus, mentre La part du feu (1949) si apre con due saggi dedicati a Kafka e si chiude con La littérature et le droit à la mort, posto anche all’inizio della raccolta De Kafka à Kafka (1981) che accorpa scritti che vanno dal ’43 al ’68.

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Io sono infelice. Fintanto che non scrivo nient’altro, io sono troppo vicino a me stesso, troppo vicino alla mia

infelicità, perché questa infelicità divenga davvero mia nella modalità del linguaggio: io non sono ancora veramente

infelice. Non è che a partire da questo momento in cui arrivo a questa sostituzione strana: Egli è infelice, che il

linguaggio comincia a formarsi come linguaggio infelice per me, ad abbozzare e progettare via via il mondo

dell’infelicità che si realizza in esso (Blanchot, 1981c, p. 87)7.

In Kafka, Blanchot scopre precisamente questo movimento, palesato dalla lettura incrociata dei diari,

delle lettere, dei racconti e dei romanzi. Da un lato Franz Kafka si confessa nei diari e con gli amici, mette

in parole la sua “malattia”, l’inanità di una vita senza la scrittura, allorché, per esempio, sostiene che solo

un lavoro potrebbe salvarlo (28 luglio 1914) che nient’altro – al di fuori della letteratura – potrà

soddisfarlo (6 agosto 1914); dall’altro comprende che scrivere non è affatto un potere di cui si dispone e

si sente vacillare: “disgraziatamente non è la morte, ma sono gli eterni tormenti del Morire” (Blanchot,

1967, p. 50).

Il movimento in cui Kafka è intrappolato, movimento incessante del morire, rappresenta per Blanchot il

lavorio del negativo. Già in La lecture de Kafka, si legge: “Tutta l’opera di Kafka è alla ricerca di

un’affermazione che vorrebbe ottenere tramite la negazione, affermazione che, non appena si delinea, si

sottrae, sembra menzogna e si esclude, così, dall’affermazione, rendendo nuovamente possibile

l’affermazione stessa” (Blanchot, 1981a, p. 69). Il negativo appare ambiguo, inafferrabile e in continuo

movimento: una motilità senza termine, senza fine e soprattutto senza progresso. “L’ambiguità del

negativo è legata all’ambiguità della morte. Dio è morto, ciò può significare questa verità ancora più dura:

la morte non è più possibile” (p. 70). Come il cacciatore Gracco, vivo e morto, sempre in bilico sulla

grande scala che porta lassù, intento a vagare su e giù, a destra e a sinistra, sempre in movimento, mentre

si aggira nelle regioni remote della morte vagheggiando la sua amata patria, la sua Foresta Nera, senza

potervi fare ritorno, senza potersi fermare in alcun luogo e deriso dal banale disguido del barcaiolo alla

sua morte.

Il cacciatore Gracco rappresenta la condizione dello scrittore per il quale

Non c’è fine, non c’è possibilità di farla finita con il giorno, con il senso delle cose, con la speranza: questa è la

verità di cui l’uomo occidentale ha fatto un simbolo di felicità, che ha cercato di rendere sopportabile toccando la

sponda fortunata dell’immortalità, di una sopravvivenza che compenserebbe la vita. Ma questa sopravvivenza è la

nostra stessa vita (pag. 69).

7 Blanchot distingue la morte, il timore umano che in fondo al nulla ci sia comunque un residuo d’essere e capace di fugare il timore della fine certa, dal morire inteso come in-condizione umana, eterno morire quotidiano di un’imminenza assente.

218

Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

Blanchot rintraccia la condizione esistenziale – e insieme la condizione letteraria – di Kafka in questa

strana sopravvivenza (o eterno tormento del morire) associata l’impossibilità di mettere un punto, di

finire, di arrestarsi al compimento dell’opera, dal momento che l’opera, come si è detto, è intrinsecamente

incompiuta e sottratta dalla logica del lavoro. “L’esistenza è interminabile, […] è un esilio” eterno (p. 72).

Attraverso l’esegesi dell’opera di Kafka, Blanchot individua nella connessione tra la morte e la scrittura

una lettura che ribalta la prospettiva dello Heidegger di Essere e tempo producendo il rovesciamento

speculare dell’autenticità in inautenticità, e sconvolgendo il rapporto dell’Esserci con la morte.

Il “Man” impersonale heideggeriano impedisce al singolo di prefigurarsi la propria morte mediante il

meccanismo dell’anticipazione e sostiene la struttura pubblica dell’Esserci, offrendo una giustificazione

o un’interpretazione della morte: “Il Si non lascia sorgere il coraggio dell’angoscia di fronte alla morte. […] Il Si si

prende cura di rovesciare questa angoscia in paura di fronte a un evento che sopravverrà” (Heidegger,

2008, p. 305)8. Il quotidiano della chiacchiera della curiosità e dell’equivoco induce l’Esserci alla tentazione

della superficialità, allontanandolo dall’autenticità. Davanti alla prospettiva della morte, il Dasein si consola

con la “tranquillizzazione […] della deiezione” che colloca nell’universo intersoggettivo dell’essere-con altri

(ib.). Il Dasein, però, aperto nella comprensione emotivamente situata, non può mai eludere la sua

possibilità più propria perché è progettuale, e “il mirare tende all’annullamento della possibilità del possibile

rendendolo disponibile” (p. 312). Eppure la morte non può corrispondere a un prendersi cura mirato alla

realizzazione (qui Blanchot rintraccia la sorellanza della morte e della letteratura): non è, infatti, un

potenziale utilizzabile né una semplice presenza, bensì un elemento esclusivamente costituente l’Esserci.

La realizzazione calcolata della morte differisce dal sostare di fronte a una possibilità e ne indebolisce la

portata di imminenza minacciosa. La posizione autentica dell’essere-per-la-morte è la comprensione da

parte dell’Esserci della sua esistenza mediante l’anticipazione della morte come limite estremo di ogni

possibilità. “L’anticipazione fa comprendere all’Esserci che ha da assumere esclusivamente da se stesso

quel poter-essere in cui ne va recisamente del suo poter-essere più proprio. La morte non ‘appartiene’

solo indifferentemente al proprio Esserci, ma lo reclama in quanto singolo” (p. 315).

Blanchot riscopre, invece, nella superficialità dell’inautenticità il solo spazio di morte, uno spazio che

diviene spazio letterario. La morte “autentica e sempre mia” assume tratti parodistici, diviene

inafferrabile, diviene morire eterno: si muore. La vera angoscia, di conseguenza, non è cagionata dalla

prospettiva della fine: in fondo all’angoscia resistono la speranza consolatoria della propria morte insieme

8 Anche Heidegger ammette l’incertezza: di fronte all’angoscia per il fatto sicuro della morte “la quotidianità tradisce un ‘certezza’ superiore a quella puramente empirica” (Heidegger, 2008, p. 309).

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

al “bisogno stesso di limitare che immettiamo nell’essere” (Blanchot, 1967, p. 124). Su questo

presupposto sorge “il disprezzo della morte anonima, […] l’angoscia travestita che nasce dal carattere

anonimo della morte” (p. 102). Si desidera una morte monumentale, dignitosa, ma s’incontra piuttosto

un abisso, “non ciò che fonda, ma l’assenza e la perdita di ogni fondamento” (p. 132). Ciò è

massimamente espresso dallo scrittore, infatti:

Chi canta deve mettersi interamente in gioco, e, alla fine, perire, poiché egli parla solo quando l’approssimazione

anticipata alla morte, la separazione anticipata, l’addio formulato in anticipo cancellano in lui la falsa certezza

dell’essere (p. 134).

In un infinito, tormentoso, gioco del rimpiattino che sfuma i confini identitari, nella scrittura “la facoltà

di dire e la facoltà di comprendere, esperimentandosi nel loro mancamento, fanno prova della loro

impossibilità” (ib.). Lo scrittore è colui che scrive per poter morire9, dal momento che scrivere

corrisponde a cessare di essere se stessi per consegnarsi a un ospite – altro, lettore – il cui compito e la

cui vita saranno unicamente l’inesistenza di chi scrive (cfr. Blanchot, 1980, p. 105).

Scrivere è sempre scrivere di sé, tracciare una auto-biografia nel tentativo di non morire, di rendersi

immortali nell’opera, ma l’opera appartiene al regno della letteratura, dell’immaginario, del confluire dei

possibili, dell’impossibilità di operare una scelta definitiva, essa è il regno della negazione che è eterna

affermazione di tutto. Redigere la propria biografia – scrivere – significa quindi uccidersi e

contemporaneamente sopravvivere nella propria opera nella terza persona. Il narratore si racconta,

racconta la propria vita (e la propria morte) ma nel farlo l’opera lo dis-appropria della vita stessa, lo

immortala e lo sottrae così alla morte. Così lo scrittore è privato della fine:

La ricapitolazione dell’esistenza intera, della quale si dice che si senta liberato chi va a morire, non è il piacevole

ritorno delle cose che si collocano al loro posto in un tempo circoscritto, ma il loro caos irrecusabile; non si tratta

di una lettura ordinatrice, della suprema illuminazione, ma della rivelazione dell’impossibilità della lettura (Collin,

1971, pp. 53-54).

9 Blanchot cita Kafka: “Scriver per poter morire – Morire per poter scrivere”, evidenziando la circolarità (la circolazione) del gesto letterario e l’impossibilità di giungere a una soluzione definitiva, pur nella remota speranza “là dove si annuncia l’interminabile, di afferrare e suscitare il termine” (Blanchot, 1967, p. 75).

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

Lo scrittore, intrappolato nel morire, tenta di porre fine a tale movimento e cerca la morte mediante il

“mezzo” letterario: attraverso l’arte cerca di aprirsi la porta verso l’opera per accedere a qualche cosa di

“vero”, di definito una volta per tutte (cfr. Blanchot, 1967, p. 63).

Kafka ha provato che “scrivere significa abbandonarsi all’incessante, e, per angoscia […] dell’impazienza

e cura scrupolosa dell’esigenza di scrivere, si è più delle volte rifiutato a quel salto che solo permette il

compimento, a quella fiducia incurante e felice per cui (momentaneamente) si pone un termine

all’interminabile” (p. 63). Nomade per eccellenza10, come le figure dell’agrimensore de Il Castello, dello

straniero in visita Nella colonia penale, dell’errare eterno del cacciatore Gracco (solo per citare alcuni

esempi), lo scrittore appartiene all’illimitato, ma è condannato “all’eccesso della misura e alla ricerca di

una continuità senza difetto, senza lacuna, senza disparità” (Blanchot, 1967, p. 65); tale condanna si

sostanzia nel dovere impossibile di porre un limite all’illimitato per impedire che si compia nell’opera. Lo

scrittore sta di fronte alle porte della letteratura e fuori dallo spazio di morte: è la sentinella che vigila al

disgregarsi dei valori, all’erosione del senso perché crea significati sempre nuovi. Egli è il portavoce del

possibile e della sua proliferazione, lo scrittore – e Kafka più di chiunque altro – definisce la comunità

dei mortali e attende alla rivoluzione mediante il potere metamorfico della parola letteraria.

Per Blanchot, infatti, il linguaggio offre solo una provvisoria garanzia della verità. Fissare il singolare

nell’universale di un lemma o di un concetto, infatti, rappresenta la tensione primaria dell’uomo che mira

a conferire stabilità alle quanto vi è di contraddittorio in sé e nel rapporto con il mondo. L’uomo ha il

costante bisogno di nominare e parlare per organizzare l’esperienza mutevole e inafferrabile entro confini

stabili. Da ciò si origina il discorso scientifico che mappa i fenomeni nel tentativo di padroneggiare la

natura, ma nemmeno le opere di carattere scientifico – che riportano esperienze alienate dal contesto

sensibile contingente – sono sottratte alla provvisorietà e all’erosione del linguaggio, proprio perché –

paradossalmente – affidate a un linguaggio:

La letteratura (l’esigenza di scrivere quando si fa carico di tutte le forze e le forme di dissoluzione, di

trasformazione) diviene scienza solo attraverso lo stesso movimento che conduce la scienza a diventare a sua volta

letteratura, discorso inscritto, quello che cade ininterrottamente nell’insensato gioco di scrivere (Blanchot, 2010, p. 128).

Nel discorso scientifico, come nella scrittura letteraria, il descrittore (narratore) si fa terza persona. Il

sapere scientifico si distorce, secondo Blanchot, assumendo caratteri “umanistici”, ogni scienza, in fin dei

10 Il termine nomade condivide la radice greca nem- con il nomos (la legge che stabilisce, assegna e spartisce); altrettanto, il verbo nemein rimanda al pascolare e al vagare (cfr. Schmitt, 2002, p. 73). Il nomade è “l’errante per prati, la cui unica legge, si può dire, è l’erranza in quanto tale” (Sanò, 2017, p. 39).

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

conti, diviene una narrazione dal momento che non esiste ancora una scrittura senza linguaggio. La parola

letteraria, invece, non è spiegazione e dispiegamento di un concetto, ma compressione di componenti

differenti che concorrono a creare un temporaneo campo di senso. In questo modo si comprende lo

scrittore sia colui che “nomadicamente” traccia i confini dello spazio della parola donando concretezza

al possibile mediante il linguaggio, ma sia sempre chiamato a vigilare sul disgregarsi del linguaggio stesso

in un inesausto lavoro di ri-definizione. Ecco la rivelazione dell’opera kafkiana che fonda la riflessione

blanchotiana. Leggere Kafka equivale a osservare la morte come in un quadro che ce la rende oscura, ma

ce la pone innanzi agli occhi. L’opera di Kafka riluce di quel vano sforzo di farsi intendere: “ecco perché

non la comprendiamo che tradendola, e la nostra lettura circola ansiosamente intorno a un malinteso”

(Blanchot, 1981a, p. 74).

Per Blanchot la rivoluzione si consuma precisamente grazie alla figura dello scrittore, la soglia critica per

l’ingresso dell’immaginario nel reale, che innestando tutto il possibile nel mondo attraverso l’opera, crea

un sovraccarico d’essere capace di esplodere trasformando la realtà stessa. Grazie a Kafka si scopre

Una negazione che non si soddisfa con l’irrealtà in cui si muove, perché vuole realizzarsi e non può farlo che

negando qualcosa di reale, più reale delle parole, più vera dell’individuo isolato che ha dinanzi: così non smette di

spingerlo verso la strada del mondo e dell’esistenza pubblica, fino a portarlo a pensare che, scrivendo, può divenire

proprio questa esistenza. Allora egli incontra nella storia quei momenti decisivi dove tutto sembra messo in

questione, dove legge, fede, Stato, mondo dell’alto, mondo del passato, tutto s’inabissa, senza sforzo, senza azione,

nel nulla. […] La storia ora è il vuoto, il vuoto che si realizza, la libertà assoluta che diviene evento. Queste epoche

sono chiamate Rivoluzione (Blanchot, 1981b, p. 31).

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Fabio Domenico Palumbo

Lettere di sfida all’Altro

Frammenti di richieste oscene al Super-io

ABSTRACT:

Letters are always written for the Other. More specifically, they are addressed to the inconsistency of the big Other, as a protest against its powerlessness.

The childish complaint aimed to the Other’s evanescence, in accord with Lacanian psychoanalysis, can be understood in terms of perversion, particularly in

its masochistic variant. When Kafka blames his own father for having used rude educational means, he actually blames him for not being powerful enough:

according to Slavoj Žižek, this can be ascribed to a perverse strategy which tries to restore the Other’s power in order to reanimate the Self. Keywords: Kafka; Žižek; Lacan; letter; phantasm.

Come intendere il rapporto tra corpus epistolare kafkiano e logica lacaniana del fantasma? Considerare la

lettera come “oggetto del desiderio”, secondo la lezione dello scritto di Jacques Lacan su La lettera rubata

di Edgar Allan Poe, è un invito a esplorare il retroterra pulsionale dell’epistolario kafkiano. Franz Kafka

si affida alle lettere tanto quanto ne diffida: sa di scrivere “lettere fantasma”, avendo in mente un volume

cinese tradotto in ceco che va leggendo nel 19201, e sa ancora meglio che “ogni storia d’amore è una

storia di fantasmi”2. In una delle ultime missive alla scrittrice boema Milena Jesenká, Kafka si confessa

impigliato nella rete del fantasma, smarrito nella casa infestata/frequentata (secondo l’etimologia di

hauntology, dal francese antico hanter)3 dagli spettri del mittente e del destinatario, creature superficiali

votate a creare lo “scompiglio delle anime” (Kafka, 2015, p. 211). Le lettere, più che mai se d’amore, si

sottraggono alla banale teoria della comunicazione per offrirsi alla logica del fantasma, all’enigma del

desiderio dell’Altro. Risuona qui la domanda lacaniana fondamentale sul desiderio: Che vuoi?. Secondo il

Lacan del Seminario X, l’oggetto fantasmatico a cui mi indirizzo, la destinazione del mio desiderio, non è

infatti una mèta verso cui muoversi attivamente, ma qualcosa che, provenendo dall’Altro, mi agita dal di

dentro (Lacan, 2007). Il fantasma soggettivo è dunque il modo in cui ciascuno articola il proprio desiderio

in rapporto all’oggetto piccolo (a), cioè a quel resto di godimento – ritagliato dal corpo per opera del

1 Kafka fa cenno in due lettere a Milena alla traduzione dal cinese di un Libro dei fantasmi [Gespensterbuch], reso in ceco con bubácká kniha, ma il volume cui fa riferimento non è chiaro. Cfr. Kafka, 2015, pp. 196-197. 2 Il richiamo è al titolo di una recente biografia di David Foster Wallace (cfr. Max, 2013). 3 Sul tema della hauntology cfr. Fisher, 2014. Il rimando alla logica del fantasma in rapporto alla superficie è in relazione a Logica del senso (Deleuze, 2009).

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

linguaggio – che prende il posto del mitico oggetto materno (la “Cosa”)4. Proprio questa natura reale

(pulsionale) dell’oggetto fantasmatico può far dire a Kafka che i fantasmi delle lettere sono dunque spiriti

reali, che “non hanno solo il lenzuolo sopra la testa” (Kafka, 2015, p. 196).

È a partire dalla questione fondamentale del fantasma, dell’oggetto – piccolo (a) – perduto e della sua

ricerca (Recalcati, 2012, p. 310), che è possibile concepire, insieme, il desiderio e la lettera, il destinarsi e

l’agognare. La lettera è per K. una storia di sospensioni, un differire e un allontanare attraverso lo stesso

gesto fàtico con cui ci si tiene in contatto – presentificando un’assenza sotto forma di fantasma. È il

modo per tenere congiunte-separate Praga e Vienna, Praga e Berlino, per non fare rincontrare il “Suo F.

Kafka” e la “Cara signora Milena”, il “Suo Franz K.” e la “Cara signorina Felice”5. La lettera, dunque,

come proprio spettro spedito all’Altro per risvegliarlo dal sonno dell’inconsistenza, per rianimare l’Altro,

scordando che è da sempre non-morto, che è un non-(non-)Altro. Se non esiste altro dell’Altro, ciò

tuttavia non è motivo sufficiente per cessare di scrivere, per smettere di bussare alla porta col tocco

leggero dell’epistola, quando inizia “la malìa dello scriver lettere e sempre più mi distrugge le notti che già

si distruggono per conto loro. Devo smettere, non posso più scrivere” (Kafka, 2015, p. 222). Il punto è

che non si può cessare di scrivere lettere più di quanto si possa smettere di desiderare, e, ancor di più, che

ogni lettera, anche se smarrita à la Derrida (2017), arriva sempre a destinazione, pur se occultata o rubata,

come nel Poe di Lacan (1974a)6. Anche se alcune lettere restano non spedite, nondimeno sono soggette

a un movimento di rotazione attorno all’oggetto del desiderio.

Premesso ciò, nella mia lettura intendo soffermarmi sull’interpretazione offerta da Slavoj Žižek del

travagliato rapporto kafkiano con la lettera e i fantasmi che la infestano all’interno del breve saggio Kafka:

Una lettera arrivata a destinazione (Žižek, 2016b), chiamando “in soccorso” la nozione di fantasma

sviluppata nei testi più “lacaniani” del filosofo sloveno e la sua analisi della struttura perversa in rapporto

all’istanza superegoica. Risulta però necessario inquadrare preventivamente la questione nella

costellazione teorica lacaniana, facendo parallelamente riferimento alle lettere kafkiane. Una lettera, come

4 L’enigma del desiderio dell’Altro, sottratto al controllo del soggetto, da un lato opera il taglio “letale” del significante, dall’altro consegna il soggetto al godimento pulsionale: l’oggetto piccolo (a) ha dunque questa duplice veste, sia effetto del taglio sia residuo di godimento, al contempo oggetto perduto e oggetto-causa del desiderio. Cfr. Lacan, 2007, p. 256. 5 Si tratta di Milena Jesenká, giornalista, traduttrice e scrittrice ceca, cui Kafka comincia a scrivere nell’aprile del 1920, intrattenendo un fitto e appassionato epistolario, inframezzato dagli incontri vis-à-vis tra i due a Vienna (per quattro giorni) e Gmünd (un giorno) e protrattosi con continuità quasi fino alla fine dello stesso 1920, fatte salve alcune “postille” nei tre anni seguenti; e della steno-dattilografa prussiana di origini ebraiche Felice Bauer, che Kafka conosce nel 1912 e con cui intreccia un primo fidanzamento dal primo giugno del 1914 al 12 luglio del 1914 e un secondo fidanzamento dal luglio 1917 al 16 ottobre dello stesso anno. 6 Nello scritto lacaniano su La lettera rubata di Edgar Allan Poe, Lacan mostra come una lettera, seppur per vie traverse, finisca sempre per “lasciarsi trovare”. Anche se, nel racconto di Poe, il re non vede la lettera, compromettente per la reputazione della regina; anche se la regina, astutamente, sa che il miglior posto per nasconderla è lasciarla in piena luce; anche se il ministro la trafuga; anche se la polizia si dimostra poco avveduta; cionondimeno, il Cavalier Dupin non si lascia fuorviare e la trova dove non ci si sarebbe mai aspettati di rinvenirla, cioè sotto gli occhi di tutti. La lettera nel saggio sta per l’oggetto precursore del desiderio (Lacan, 1974a, p. 33).

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

detto, si indirizza sempre all’Altro nella sua inconsistenza, in segno di protesta contro la sua impotenza o

la sua evanescenza (vi tornerò a breve nei termini di Žižek), come una lamentela rivolta all’enigma del

desiderio dell’Altro, al fantasma che inghiotte in un alone nebuloso la domanda di senso di cui sono

portatrici le lettere: “Come sarà nata mai l’idea che gli uomini possono mettersi in contatto tra loro

attraverso le lettere? […] Baci scritti non arrivano a destinazione, ma vengono bevuti dai fantasmi lungo

il tragitto” (Kafka, 2015, p. 211). Nella lettera si ha sempre a che fare con almeno quattro persone: il

mittente, il destinatario, e le proiezioni reciproche dell’uno sull’altro. Così Kafka a Milena: “È molto se

rimane un po’ di tempo per scrivere alla vera Milena perché quella ancor più vera era qui tutto il giorno

nella camera, sul balcone, nelle nuvole” (p. 15). Più del dubbio su chi l’Altro (a cui stiamo scrivendo) sia,

sussiste il dubbio su chi siamo per l’Altro: il soggetto/autore della lettera è diventato in fin dei conti

oggetto per l’Altro, si è assoggettato. Cosa sono io? “Me lo spieghi Lei, Milena, maestra!” (p. 18). È il

“come tu mi vuoi” della figlia di Freud, che fantastica di mangiare una torta alla fragole ma già pregusta

la scena a venire: lo sguardo compiaciuto dei genitori di fronte al godimento della bambina nell’assaporare

la torta7. L’Altro che mi osserva, che mi legge, che mi sogna, scopre dentro di me il mio tesoro, il mio

àgalma, ciò che in me è più di me e che perciò ignoro8. Il registro della lettera rientra così a pieno titolo

nelle messinscene del desiderio, ove il soggetto, costretto in virtù dell’azione dell’Altro (del linguaggio) a

una perdita di godimento, cionondimeno guadagna proprio grazie a quella perdita un plusgodere, ossia

l’accesso al desiderio, a una forma sublimata del godimento. La destituzione, in fin dei conti, interessa qui

tanto il soggetto quanto l’oggetto, risolvendoli nella logica del fantasma ($◇a)9.

Di fronte a un tale svuotamento tanto del campo del soggetto quanto del campo dell’Altro, ossia al

cospetto della mancanza e della divisione che li attraversano, vi è la possibilità di opporre un movimento

regressivo, di rifugiarsi nelle identificazioni immaginarie, in un’idolatria dell’Altro che, in ultima analisi,

ha di mira la restaurazione del soggetto: “[…] vedo vicinissimi, davanti ai miei occhi, i Suoi piedi e li

accarezzo […] vero che la mia camera è piccola, ma qui è la vera Milena che evidentemente Le è scappata

domenica e, mi creda, è meraviglioso starle accanto” (pp. 30, 32). La posizione di Kafka nella lettera (mai

spedita) al padre (così come, mutatis mutandis, in quelle a Milena) si situa in questa spirale regressiva. Più

in particolare, nella Lettera al padre del 1919 (Kafka, 1987), secondo la lettura che ne dà Slavoj Žižek, è in

atto un indirizzamento all’istanza super-egoica che ne denuncia l’impotenza per rimproverarle la perdita

di autorità, l’incapacità di passare il testimone della potenza paterna (vedi Žižek, 2016b, pp. 94-95). Sulla

scorta della concettualizzazione lacaniana della perversione nel Seminario X, mi sembra di poter osservare,

nelle richieste “oscene” indirizzate all’istanza super-egoica paterna, la cifra perversa-infantile del gesto

7 Attraverso l’identificazione col fantasma, accedo al desiderio dell’Altro, “disvelandone l’enigma”, diventando finalmente il suo “oggetto del desiderio”. Cfr. Žižek, 2009, p. 69. 8 Vedi Žižek, 2016a, pp. 26-29. 9 Cfr. Lacan, 2013.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

kafkiano. Ora, rispetto alla struttura perversa, una posizione privilegiata, secondo la lezione dei seminari

lacaniani X e XVI e del saggio deleuziano su von Sacher-Masoch (Deleuze, 2007), riveste la variante

masochistica. A tal proposito, si fa notare cursoriamente come la disposizione masochistica si intrecci col

tema dell’attesa10, che, in Kafka, assume echi barthesiani11:

“Devo forse aspettare tutta la giornata?”. “Sì” rispondesti e ti rivolgesti a un gruppo lì pronto che ti aspettava. Il

significato della risposta era che non saresti venuta affatto e che l’unica concessione per me era il permesso di stare

ad aspettare. “Non aspetterò”, mormorai e credendo che tu non avessi udito, mentre era la mia ultima carta, te lo

gridai dietro disperatamente. Ma per te non aveva importanza, tu non te ne curasti più. In qualche modo ritornai

barcollando in città (Kafka, 2015, p. 48).

D’altronde il masochismo è strettamente connesso al materno; non a caso Kafka, nella lettera alla Jesenká

del 12.VII.20, scrive: “Ciononostante però – e anche questo fa parte della tua energia dispensiera di vita,

o mamma Milena – ciononostante sono, in fondo, meno rovinato che forse in tutti questi ultimi sette

anni, eccettuato l’anno nel villaggio” (p. 75). Milena diviene oggetto-feticcio, il velo davanti

all’inconsistenza dell’Altro femminile-materno, la donna-madre-fallo idealizzata, eternizzata. Le strategie

perverse, clinico-letterarie, di Kafka, sono perciò due diversi tentativi di destituzione della Legge. Da un

lato, una sfida al padre ordalico, la cui potenza soverchiante si situa al di sopra della Legge: “Ancora dopo

anni mi impauriva la tormentosa fantasia che l’uomo gigantesco, mio padre, l’ultima istanza, potesse

arrivare nella notte senza motivo e portarmi dal letto sul ballatoio, e che dunque io ero per lui una totale

nullità” (Kafka, 1987, p. 14). Dall’altro, una preghiera alla madre-Legge, un piegarsi all’idolo per denegare

a tutti i costi l’inconsistenza dell’Altro. È questo il senso del consegnarsi masochisticamente come

“oggetti (inerti) del godimento” dell’Altro. Non vi è però differenza nel fine ultimo delle manovre:

umiliare la Legge, come nel sadismo, o sospenderla in excelsis, come nel masochismo, sono entrambi sforzi

disperati di insufflare la vita nell’Altro, per rianimare l’altro dell’Altro, salvando al contempo il soggetto.

Tornando da Milena al padre (o dalla madre al padre?), e dalle preghiere ai rimproveri, consideriamo con

Žižek la recriminazione sostanziale di Kafka nei confronti del padre, ossia quella di non essere abbastanza

potente (Žižek, 2016b, p. 95), di essersi spogliato delle insegne dell’Altro. La crisi del paterno è prima di

tutto un fallimento dell’ordine simbolico: “ci si infastidisce per l’eccesso di vitalità del padre, e ciò

10 Laddove la variante sadica della perversione prevede come meccanismo di difesa privilegiato la negazione, nel masochismo un ruolo centrale è affidato al diniego. Si tratta del diniego della mancanza dell’Altro, cui viene sovrapposto il velo del fantasma, mentre il piacere viene sospeso, rinviato, differito. Il piacere è ciò a cui si allude, l’al-di-là del velo, la promessa fatta per essere rimandata. 11 Si fa riferimento ai Frammenti di un discorso amoroso: “L’attesa è un incantesimo: io ho avuto l’ordine di non muovermi” (Barthes, 2001, p. 41).

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

presuppone già il fallimento dell’autorità simbolica” (p. 93). Secondo la grammatica lacaniana, ciò che è

andato perduto nell’ordine simbolico ritorna sotto un altro registro, e qui in particolare nell’immaginario,

dove viene reclamato attraverso la fantasia-infantile masochistica di destituzione della Legge e di

reintegrazione dell’Altro. La struttura perversa reclama in fin dei conti un ritorno all’Uno; la toppa messa

dal perverso nel buco della trama dell’Altro che dovrebbe emendarlo dalla mancanza è al servizio dell’Uno

e delle sue fantasie fusionali-regressive12. Come detto, il masochista si riduce ad essere oggetto inerte del

godimento Uno. Così Kafka in una lettera a Milena del 27.X.10: “Non è proprio così, Milena. Tu conosci

da Merano colui che ora ti scrive. Poi siamo stati una persona sola e allora non era il caso di parlare di

conoscersi, e poi siamo stati di nuovo scissi. A questo proposito vorrei dire ancora qualche cosa, ma non

mi esce dalla gola strozzata” (Kafka, 2015, p. 199). O, ancora, secondo questa logica perversa-invischiata

va interpretata la difficoltà, anzi “il rifiuto di Kafka di accettare il Nome del Padre”, considerato da Žižek

come “il segno più certo di questa prigionia” (Žižek, 2016b, p. 93): si tratta della prigione dell’ingorgo

libidico, in cui il deficit di funzione simbolica di Hermann Kafka fa sprofondare Franz. Kafka fa

effettivamente riferimento all’eccesso di vita del padre, a voler sottolineare questa prevalenza del

pulsionale sul simbolico, questa eclissi della funzione paterna: “[…] notavo la tua predilezione per

espressioni volgari dette preferibilmente ad alta voce, di cui tu ridevi come se avessi pronunciato battute

eccellenti, mentre si trattava appunto solo di piccole, volgari scurrilità (ma al tempo stesso erano per me

un’altra umiliante manifestazione della tua forza vitale)” (Kafka, 1987, p. 28).

È tuttavia Kafka a guidare le danze della manovra perversa, poiché, è bene sottolinearlo, non è lecita la

proporzione sadismo : attività = masochismo : passività. “Lungi dall’essere una vittima passiva del terrore del

padre, Kafka stava dirigendo il gioco” (Žižek, 2016b, p. 93). In questo senso Žižek considera come una

memoria-schermo o come una fantasia retroattiva-ricostruttiva l’episodio riportato nella Lettera come

trauma infantile:

Una notte piagnucolavo incessantemente per avere dell’acqua, certo non a causa della sete, ma in parte

probabilmente per infastidire, in parte per divertirmi. Visto che alcune pesanti minacce non erano servite, mi

sollevasti dal letto, mi portasti sul ballatoio e mi lasciasti là per un poco da solo, davanti alla porta chiusa in

camiciola. […] Quella punizione mi fece sì tornare ubbidiente, ma ne riportai un danno interiore (Kafka, 1987, p.

14).

12 In altri termini, “nella perversione, il fantasma persegue lo scopo di colmare innanzitutto l’Altro” (Recalcati, 2016, p. 449).

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

È qui evidente il tratto ambiguo non solo della sfida kafkiana all’autorità paterna (il pianto della memoria-

schermo come espressione dell’insofferenza di fronte all’impotenza dell’Altro e del tentativo di

“stanarlo”), ma dello stesso Super-io genitoriale. Il senso di colpa di Kafka si risolve nella “sensazione

dell’impotenza di entrambi” (p. 22), padre e figlio presi in un doppio legame perverso. La caduta del

(grande) Altro è una messa tra parentesi dell’Ideale dell’Io (Idealich) freudiano, una débâcle dell’agente etico

che vorremmo impressionare con la nostra condotta esemplare, sostituito dalla sua versione oscena-

comica-sadica, il Super-io, “l’insaziabile e crudele agente che mi bombarda di richieste impossibili, e che

ridicolizza i miei tentativi falliti di incontrarle” (Žižek, 2016b, p. 98). L’aspetto perverso dell’azione del

Super-io prende la forma del doppio legame, dell’ingiunzione paradossale: “sii libero”. La colpa si traduce

in una spirale auto-distruttiva, in un movimento di impotenza appresa, per cui ciò che dovrebbe liberarci

e consentirci l’azione ci avviluppa nell’impossibilità di compierla. In qualche modo, l’innocenza diventa

essa stessa colpa al massimo grado: se si è innocenti nei confronti di un potere ingiusto, non si è forse

colpevoli di non macchiarsi di una colpa pur di sovvertirlo? (p. 97). Dunque la legge kafkiana è un doppio

legame perverso, e tale è nella versione del padre: “Fa’ un po’ quello che ti pare: io certo non ti costringo

[…]” (Kafka, 1987, p. 22). Secondo la concezione batesoniana del double bind (Bateson, 2000), il doppio

legame, oltre a palesarsi nella paradossalità di una ingiunzione del tipo “sii libero!”, sfrutta la possibilità

di utilizzare canali, registri, momenti diversi per inviare messaggi contraddittori; così l’apparente libertà

educativa propugnata da Hermann Kafka veniva accompagnata da sfumature di significato antitetiche:

“l’insulto, la minaccia, l’ironia, […] un riso cattivo e – strano a dirsi – […] l’autocommiserazione” (Kafka,

1987, p. 23).

Di fronte a Franz si pone dunque una duplice strada: soccombere alla “strategia di sottomissione” di un

grande Altro percepito tuttavia come impotente; o giocare al gioco perverso dell’invischiamento che lava

la colpa e la trasforma in una condivisione dell’impotenza, in una dipendenza che, con un coup de théâtre,

“libera tutti”, salva il padre per salvare il figlio:

Insomma, non ti restava addosso nemmeno un granello di sporcizia terrena. E proprio tu, con due parole brutali,

mi spingevi dentro a quello sporco, quasi vi fossi destinato. Se al mondo ci fossimo stati solo noi due, un’idea che

cullavo spesso, la purezza del mondo sarebbe finita con te, e con me sarebbe cominciata, grazie al tuo consiglio, la

sporcizia (p. 60).

Questa è la parabola masochistica della lettera, nella quale comunque Žižek intravede un finale

“consolatorio”, in cui la strategia perversa assume una veste sublimatoria, per cui Franz, dall’essere la

sporcizia del padre, si riduce all’essere assolutamente nulla, passando “dalla morte alla sublimazione” (Žižek,

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

2016b, p. 106). Questa visione della letteratura come opzione clinica e della perversione come strumento

di liberazione creativa, così come il legame tra pulsione di morte e sublimazione, avvicinano il Kafka di

Žižek al Deleuze di Logica del senso, ma, ancor più, la torsione perversa (e paranoica – si veda il passo

succitato della “sporcizia”) della sottomissione, il suo tratto masochistico specificherei, è espressa a chiare

lettere da Deleuze e Guattari in Kafka. Per una letteratura minore:

Inversamente, ingrandire e dilatare Edipo, ampliarlo, farne un uso perverso e paranoico significa già uscire dalla

sottomissione, rialzare la testa per guardare sopra la spalla del padre quanto, da sempre, era in discussione in quella

storia: tutta una micropolitica del desiderio, dei vicoli ciechi e delle vie d’uscita, delle sottomissioni e delle

rettificazioni. Aprire il vicolo cieco, sbloccarlo. Deterritorializzare Edipo nel mondo, non riterritorializzarsi su

Edipo e nella famiglia. Eppure, per far questo, era necessario ingrandire Edipo sino all’assurdo, al comico, era

necessario scrivere la Lettera al padre (Deleuze, Guattari, 1996, p. 19).

Si tratta qui di fare i conti con un Edipo troppo grande, che è un Edipo gonfiato a dismisura, come un

palloncino riempito d’aria fino allo scoppio comico, osceno, perverso. È la strategia perversa di tappare

il buco nella falla dell’Altro, di riempire d’aria, o di ridicolo, il campo dell’Altro, in un tentativo disperato

di tenere a galla se stessi, di rimanere attaccati alla mongolfiera di A grande. Punire Franz per salvare

Hermann. Salvare Hermann per non perdere Franz. Perciò la lettera al padre, con tutto il suo carico di

memorie ricostruite, di fantasie retroattive, con le paure proiettate e ingigantite, con la sua finta posa di

sottomissione, è una specie di carnevale – è la “commedia del Super Io” (Žižek, 2016b, p. 100) e dei modi

per metterlo a nudo. Modi per snidare l’altro dissimulando (quanto più una lettera è nascosta, tanto più

è in bella vista, come insegna il seminario lacaniano su La lettera rubata di Poe), sviando (quanto più un

messaggio non viene inviato, tanto più arriva a destinazione, come nel caso della lettera di Kafka al padre),

triangolando (come Cressida che amoreggia con Diomede nella sua tenda, forse per farsi vedere da

Troilo?13), e, più in generale, avanzando al Super-io richieste oscene, spingendolo con la provocazione a

ostentare la forza della Legge, per smascherarne il tratto perverso. Sono le nozze, celebrate da Lacan, tra

Kant e Sade (Lacan, 1974b).

Sade, la cui verità è Sacher-Masoch, è il nome della pulsione di morte, e torna qui utile riprendere il senso

di Thanatos, per concludere quest’analisi del tratto perverso del fantasma kafkiano, ossia della sua

versione del desiderio. Si può dire che, spostandoci dalla struttura perversa a quella nevrotica, la variante

di Kafka sia quella ossessiva, intendendo per ossessione l’identificazione alla morte, all’attesa e alla

mortificazione del desiderio. L’ossessivo pur di congelare la vita uccide il desiderio, al contrario

13 Il capolavoro di Shakespeare Troilo e Cressida viene citato in Žižek, 2016b, p. 88.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

dell’isterico che rinuncerebbe alla vita pur di tener vivo il desiderio. “È l’effetto Thanatos che accompagna

tutta l’esistenza dell’ossessivo: la mortificazione sadica che esso opera del desiderio dell’Altro […]”

(Recalcati, 2016, p. 367). Kafka ricorda a Milena di essere uscito per lei dalla selva, ma di dover tornare a

rintanarvisi, dopo la fine della stagione dell’amore:

Le cose stanno all’incirca così: io, bestia silvestre, non stavo, si può dire, nella selva giacevo non so dove, in un

fosso lurido (lurido beninteso per la mia presenza) ed ecco che ti vidi fuori all’aperto, la cosa più meravigliosa che

avessi mai visto, dimenticai tutto, mi dimenticai interamente, mi alzai, mi avvicinai, timido bensì in quella nuova

eppure natia libertà, mi avvicinai dunque, arrivai fino a te, tu fosti tanto buona, mi accovacciai presso a te come se

ciò mi fosse lecito, posai il viso nella tua mano, ero tanto felice, tanto orgoglioso, tanto libero, tanto potente, tanto

a casa mia […] ma in fondo ero pur sempre la bestia, vivevo all’aperto soltanto per grazia tua e […] leggevo la mia

sorte nei tuoi occhi. Non poteva durare (Kafka, 2015, p. 183).

In questa lettera ritroviamo la costellazione di personalità di Franz Kafka: dal fondo paranoide collegato

al tratto perverso-masochistico (il sentirsi “lurido”, l’affidarsi all’Altro buono-potente), la caduta

depressivo-masochistica, l’effetto Thanatos dell’ossessivo che rinuncia ad Eros e si rintana nella selva, si

rifugia nella tana:

Il racconto di Kafka intitolato La tana illustra in modo straordinariamente efficace il fantasma ossessivo e il suo

inevitabile vacillamento. Lo strano protagonista del racconto dedica la propria vita all’edificazione di una tana

labirintica dove egli possa essere il solo abitante […]. Il mondo si sdoppia; sopra la tana è il caos della contingenza,

della caccia, del lavoro, della vita; sotto, nella tana, tutto è ordinato secondo una regola necessaria, tutto è sotto

controllo […] e nulla è lasciato al caso. Si tratta di una liquidazione ingegneristica dell’Altro che punta a realizzare

il mondo dell’Uno senza l’Altro. Una regressione a un godimento narcisistico, chiuso su se stesso, desessualizzato,

dove l’Altro è radicalmente escluso (Recalcati, 2016, p. 343).

Milena nota il tratto ossessivo, mortificante, anti-erotico, ascetico nel senso della sospensione del

desiderio, della personalità di Franz – non solo nelle attività della vita quotidiana (dallo spedire una lettera

al contare i soldi, e non per meschinità, piuttosto per una sorta di tratto “autistico”), ma anche nel

relazionarsi a lei. In una lettera a Max Brod, amico comune della coppia, dei primi di agosto del 1920,

Milena scrive: “Frank non ha la capacità di vivere. Frank non guarirà mai. Frank morirà” (Kafka, 2015,

p. 233). E ancora, nel gennaio/febbraio 1921:

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Io invece avevo i piedi ancorati saldissimamente in questa terra, non ero in grado di abbandonare mio marito e

forse ero troppo donna per trovare la forza di assoggettarmi a una vita che sarebbe stata, sapevo bene, la più

rigorosa ascesi fino alla morte. Dentro di me c’era però un invincibile desiderio […] di una vita che sia molto vicina

alla terra. […] So che egli non si oppone alla vita, ma soltanto a cotesta specie di vita. […] E dire che in tutto il

mondo non c’è un altro che abbia la sua immensa energia: quell’assoluta, incrollabile necessità di arrivare alla

perfezione, alla purezza e alla verità (pp. 236-237).

Il brano risulta illuminante, e testimonia della profonda comprensione che Milena ha di Kafka, del suo

perfezionismo, del suo “opporsi alla vita” fino a distruggere il desiderio nell’Altro. Milena probabilmente

sbaglia a considerare il proprio desiderio di vita come qualcosa di “istintuale”, di biologico (l’avere un

figlio). Ciò che l’ha allontanata da Franz (il Suo Frank) è stata l’ossessività di lui, quella stessa che lo ha

reso capace di rasentare la perfezione. Tuttavia, il tratto “isterico” di Milena, la sua incostanza e la sua

desiderabilità, come forse quelle di Fanny Brawne, l’amata di John Keats, hanno spinto per una breve

estate Franz fuori dalla selva, hanno mitigato Thanatos e frugato dentro di lui come un coltello14,

scovando infine Eros. Kafka, sul balcone della pensione Ottoburg di Merano, nei quattro febbrili giorni

di Vienna, esce dalla selva per poggiare il capo sul seno dell’amata, come si legge nei versi di Bright Star di

John Keats: “no, ma del pari costante e invariato, la guancia / sopra il seno fiorente del mio amore / per

sentire il suo dolce abbassarsi e risalire” (Keats, 2009, p. 115).

Poi per Franz tornano le paure, le ossessioni, tutto è tana, è “dire ‘un momento, aspetti’, per non esser

mai pronti”, mai pronti a lasciare Praga per Vienna, a prendere un giorno di ferie, a raggiungere Milena.

La “comfort zone” di Kafka è riassunta efficacemente da Ervino Pocar nella Premessa alle Lettere a Felice:

“Aveva una donna, non vicino da doverle parlare, ma lontano da poterle scrivere” (Kafka, 2011, p. XV).

È il Kafka sadico-ossessivo delle 21 interrogazioni a Felice, dei rimproveri, delle raccomandazioni

assillanti, come nell’incipit della lettera del 7.XI.12: “Carissima signorina Felice, ieri ho asserito che sto in

pensiero per Lei e mi sono sforzato di farle raccomandazioni. Ma che cosa sto facendo? Non La

tormento?” (p. 40). Tormentare il desiderio fino a distruggerlo, per conservare il godimento narcisistico;

obliterare l’Altro per ridurlo all’Uno, idolatrare il riflesso senza mai andare al di là. E quando lo specchio

si incrina, quando l’oggetto sfugge alla presa – alla cattura narcisistica, lasciarsi tormentare dal di dentro.

La depressione come “trionfo dell’oggetto”: tutto è finito, c’è solo un modo di non separarsi – morire

dentro. Forse le parole della fine sono nella lettera a Milena del 18.IX.20: “[…] mi tormento fino alla

soglia della follia, ma che cosa sia e che cosa voglia in lontananza, non so. Soltanto che cosa voglia da

14 Vedi la lettera a di Kafka Milena del 14.IX.20, Kafka, 2015, p. 184.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

vicino: silenzio, tenebra, il rintanarsi, questo so, e devo obbedire, non posso fare altrimenti” (Kafka, 2015,

p. 186).

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Paulina Spiechowicz

Regards croisés. Kafka, le cadre et la chambre.

ABSTRACT

The reading of Kafka's work highlights his attention to architectural language. From "the room" that characterizes The metamorphosis, through the recurrence

of "doors" and "windows", architecture becomes one of the principal elements that link narrative representation to the outside world. This is why we propose

a cross reading of his work starting from two different but complementary texts: first, Michelle Perrot's Histoire de chambres (Seuil, 2009), then L'Instauration du

tableau, Meta-painting at dawn Modern Times (Droz, 1993) by art historian Victor Stoichita.

Keywords: ut architectura poesis ; doors ; room ; windows ; mimesis.

Que l’espace fasse problème dans les récits de Kafka, semble désormais une évidence. Problème en raison

de sa présence envahissante, de l’anomalie des structures architecturales, de la récurrence de certains

bâtiments dans ses histoires, ainsi que de leur spécificité qui participe ponctuellement d’une situation

absurde, voire sans issue : portes, châteaux, chambres, lits, couloirs et fenêtres relèvent d’une mise en

scène qui redéfinit les contours du réel par rapport à la fiction. Il suffit de vérifier le nombre d’occurrences

de ces termes pour s’apercevoir de leur caractère obsessionnel : dans La Métamorphose, le mot « chambre »

fait son apparition environ 70 fois, soit un peu moins que le mot « porte » qui revient plus de 80 fois, ce

qui, dans un récit d’un peu moins de cent pages, n’est pas sans poser un certain nombre de questions.

En 1947 déjà, Starobinski s’interrogeait sur ces rêves architecturaux et affirmait : « À quoi tient l’étrangeté

des architectures de Kafka ? » (Starobinski, 1947, p 131), en pointant leur anomalie non pas en termes de

structure, mais de situation : « L’étrangeté est dans la position des personnages par rapport à ces objets.

Un lit, un plafond n’ont en soi rien de très singulier ; mais un lit qu’un étranger doit enjamber pour entrer

dans une chambre, un plafond si bas qu’il oblige de fléchir la nuque, voilà qui engendre l’absurde » (Ibid.).

La lecture de l’espace dans l’œuvre de Kafka permet ainsi de mettre en évidence l’attention qu’il porte

aux éléments du langage architectural et nous interroge sur la récurrence de ses descriptions d’intérieurs

domestiques. C’est pourquoi nous nous proposons de lire les lieux qui caractérisent La Métamorphose,

selon une double perspective : d’un côté, l’étude de Michelle Perrot, Histoire de chambres (2009), permet de

recontextualiser le rôle historique et littéraire de la chambre, de l’autre, L’Instauration du tableau, Méta-

peinture à l’aube des temps modernes (1993) de l’historien de l’art Victor Stoichita, nous aide à comprendre le

système de représentation employé par Kafka dans sa mise en scène des intérieurs, et notamment la

fonction des portes et des fenêtres dans le récit (Nicolae, 2015).

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

« L’ordre de la chambre reproduit l’ordre du monde dont elle est la particule élémentaire », écrit Michelle

Perrot dans son essai qui étudie le développement de l’espace de la chambre depuis l’Antiquité jusqu’à

aujourd’hui (Perrot, 2009, p. 471). Dans la première partie de La Métamorphose, la chambre est décrite dans

le détail et représente le seul lieu qui, à part quelques visions du salon et de l’antichambre, caractérise la

scène du récit :

En se réveillant un matin après des rêves agités, Gregor Samsa se retrouva, dans son lit, métamorphosé en un

monstrueux insecte. […] Ce n’était pas un rêve. Sa chambre, une vraie chambre humaine, juste un peu trop petite,

était là tranquille entre les quatre murs qu’il connaissait bien. Au-dessus de la table […] on voyait accrochée l’image

qu’il avait récemment découpée dans un magazine et mise dans un joli cadre doré. Elle représentait une dame

munie d’une toque et d’un boa tous les deux en fourrure […]. (Kafka, 1915, p. 5)

Choisir comme décor une chambre à l’aube du XXe siècle n’est pas anodin. Choix théâtral, certes, car

l’espace convoqué par Kafka implique l’unité du lieu, mais choix qui intervient surtout dans un moment

historique, qui voit la chambre s’imposer en tant qu’espace individuel : ce point mérite d’être approfondi.

L’analyse linguistique nous indique que la kamara grecque « désigne un espace de repos partagé avec des

camarades » (Perrot, 2009, p. 21), tandis que la camera latine est « le mot par lequel les Anciens désignaient

la voûte pour certaines constructions voûtées » (Ibid.). Pour parler du lieu de repos ou d’amour, les Latins

utilisaient plutôt l’appellation de cubiculum, un réduit étroit pour le lit. Il s’agissait d’une pièce petite, de

forme carrée qu’on pouvait fermer à clés (Voir Dupont, 1995 ; Dibie, 2000 ; Ariès, Duby, 1985-1987).

Michelle Perrot souligne comment la chambre, loin d’être le réceptacle de l’individu, dévoile une histoire

d’abord politique. La chambre, avant le XIXe siècle, était l’apanage des rois, des papes et des seigneurs,

comme témoigne aussi l’utilisation du mot « chambre » avant le XIXe : la Chambre de la signature au

Vatican, la Chambre des Lords en Angleterre, où encore la Chambre du Roi en France, où Louis XIV

recevait au lit, dans un rituel purement public, très éloignée de la dimension intime que nous attribuons

aujourd’hui à ce lieu.

Avant la chambre, il y avait en effet la salle : ici, personnes et animaux vivaient tous ensemble, dans le

même espace. « Au XVIIIe siècle, 75% des foyers parisiens sont concentrés dans une seule pièce » (Perrot,

2009, p. 72), et en 1870, 70% des logements ruraux en Touraine ne comportaient encore qu’une

« principale chambre à feu où tout (et tous) était rassemblé dans 30 à 40 mètres carrés » (Perrot, 2009, p.

68).

L’industrialisation, l’exode rural, l’affirmation de la bourgeoisie ont bousculé les codes de l’espace

domestique (voir Muthesius, 2009). Vers la fin du XIXe siècle, on assiste à la profusion des intérieurs,

perçus comme lieux privés, expression de l’individualité et de la personnalité de l’occupant. Edmond de

238

Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

Goncourt décrit la maison comme un refuge rempli d’objets personnels (Goncourt, 1881), tandis que

pour Walter Benjamin, le XIXe siècle cherche l’habitation (das Wohnen) : « […] abstraction faite de ce

thème préhistorique, il faut considérer l’habitation sous sa forme la plus extrême comme un mode

d’existence du XIXe siècle » (Benjamin, 1939, p. 239).

Si, au XVIIIe siècle, avaient été mis en avant alcôve, boudoir, rideaux, table de toilette et bidet, le

XIXe siècle se tourne vers les étuis, tapis et couvertures (Voir Praz, 1945 ; Thornton, 1984 ; Gere, 1989 ;

Rice, 2007). La structure, la forme même de l’habitation, évolue : il est ainsi question de

bâtiments victoriens, d’appartements haussmanniens, d’hôtels meublé (avant l’apparition des gratte-

ciels newyorkais), dans une profonde osmose entre intérieur et extérieur, entre le dehors et le chez soi,

où l’idée d’intime et d’intimité peuvent finalement jaillir librement (Roche, Pardailhé-Galabrun, 1998).

Il s’agit d’une conquête architecturale, donc, mais aussi d’une conquête de l’intériorité au sens large du

terme : ce n’est pas sans conséquences qu’en parallèle on assiste au développement des disciplines

psychologiques, à la naissance de la psychanalyse avec, entre outre, l’instauration du cabinet de Freud et,

par extension, de la chambre psychanalytique.

De même, les récits qui placent l’histoire dans les intérieurs domestiques se multiplient (Hamon, 2001 ;

Perrot, 2003). À partir du texte fondateur de Xavier de Maistre, Voyage autour de ma chambre (1794),

l’intimité de l’espace devient un endroit à explorer, une Wunderkammer romanesque qui cache des secrets

bien plus exotiques que la conquête des pays éloignés, dans une anthropologie du proche ante litteram, en

version romancé. Balzac fait de la chambre un des lieux de prédilection de ses récits (Frommel,

Spiechowicz, 2014), Huysmans renferme son protagoniste, Des Esseintes, dans l’espace clos d’une

maison où l’existence se transforme en circumnavigation autoréférentielle parmi des objets fétiches (A

rebours, 1884). Et cela sans compter le nombre de livres dont le titre fair référence à ce lieu : Prosper

Mérimée, La Chambre bleue, 1872, August Strindberg, La Chambre rouge, 1879, Gaston Leroux, Le Mystère

de la chambre jaune, 1907 et encore Virginia Woolf, Une Chambre à soi, 1929. Lieu de l’érotisme par excellence

dans Le Plaisir de D’Annunzio (1889), interstice de la mémoire dans La Recherche de Proust (1913-1927),

la chambre devient rapidement le lieu emblématique de la modernité.

Mais alors que tout le XIXe et le début du XXe siècle paraissent se caractériser par la conquête de l’espace

intérieur, Kafka procède en sens inverse. Il ne remplit pas, il vide. Il n’accumule pas, il perd. Pour Kafka,

la vraie tragédie repose justement dans cette défaite : la métamorphose du corps de Gregor Samsa

implique la dépossession du langage, mais aussi la dépossession de l’espace.

La première partie du récit représente la tentative de la part de Gregor d’appréhender l’espace. Tout

d’abord, il trouve un lieu pour se cacher du regard de ses proches, et notamment de sa sœur qui vient lui

239

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

amener à manger. Ensuite, il se voit obligé de s’adapter entièrement à sa nouvelle condition dans cet

humus domestique, non plus en tant que homme, mais en tant qu’animal (Hacopian, 2006), Ici, la

configuration spatiale change de dimension et tout mouvement – horizontal et vertical jusqu’à la surface

du plafond – est permis. Les murs deviennent ainsi un terrain de jeu et de découverte, dernier acte de

liberté avant la chute :

Pendant la journée, […] prit-il l’habitude, pour se distraire, d’évoluer en tous sens sur les murs et le plafond. Il

aimait particulièrement rester suspendu au plafond; c’était tout autre chose que d’être allongé sur le sol ; une

oscillation légère parcourait le corps ; et dans l’état de distraction presque heureuse où il se trouvait là-haut, il

pouvait arriver que Gregor, à sa grande surprise, se lâche et atterrisse en claquant sur le plancher. (Kafka, 1915, p.

62)

Mais, finalement, la métamorphose de Samsa ne le restreigne dans son rapport à l’espace domestique : sa

sœur décide de vider la chambre, avec l’aide de sa mère, au début hésitante. Ensemble, les deux femmes

finissent par se lancer dans l’entreprise de dépouillement de la chambre de Gregor :

[…] Comment s’expliquer autrement qu’il ait pu souhaiter sérieusement de voir sa chambre vidée ? Avait-il

réellement envie que cette pièce douillette, agréablement installée avec des meubles de famille, se métamorphosât

en un antre où il pourrait certes évoluer à sa guise en tous sens, mais où en même temps il ne pourrait qu’oublier

rapidement, totalement, son passé d’être humain ? (p. 66).

Il s’agit d’un dépouillement qui, même du point de vue lexical, dévoile la nature de la métamorphose de

Kafka, métamorphose par la langue et métamorphose par l’espace. Il s’ensuit une longue description de

la spoliation à laquelle Gregor assiste dans l’impuissance, l’impossibilité de réagir, en perdant le moindre

espoir de retour à ses fonctions humaines. La métamorphose de l’espace paraît donc comme le point de

rupture du récit, le point de non-retour. Ici, la problématique du corps par rapport au lieu qui l’entoure

paraît gagner toute sa force et son évidence, dans une lente ascèse qui mène au cœur du réel par la

transfiguration inquiétante, sinon effrayante, de l’humain (Conin, 1997). De ce point de vue, la projection

de son propre corps, dans sa chair même, participe à ce programme, à cette exigence de reconfiguration

et de mise en échec spatiale :

 […] Gregor dut bientôt s’avouer que les allées et venues des deux femmes, leurs petites exclamations, le raclement

des meubles sur le sol avaient sur lui l’effet d’un grand chambardement qui l’assaillait de toutes parts ; et bien qu’il

rentrât la tête et les pattes, et enfonçât presque son corps dans le sol, il se dit qu’immanquablement il n’allait pas

pouvoir supporter tout cela longtemps. Elles étaient en train de vider sa chambre ; elles lui prenaient tout ce qu’il

aimait. (p. 69)

240

Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

 Tout est enlevé, la commode qui contenait ses objets personnels, le bureau sur lequel il faisait ses devoirs

pendant qu’il était à l’école primaire, tout ce qui lui était cher, ce qui lui appartenait, prolongeait son être,

tout lui est soustrait. L’avenir se réduit désormais à un espace vide et quatre murs. Deux éléments

subsistent cependant : le canapé au-dessous duquel Gregor se cache et une photo, l’image que Kafka avait

décrite au tout début du récit :

[…] C’est alors que lui sauta aux yeux, accrochée sur le mur par ailleurs nu, l’image de la dame vêtue uniquement

de fourrure ; il grimpa prestement jusqu’à elle et se colla contre le verre, qui le retint et fit du bien à son ventre

brûlant. Cette image, du moins, que Gregor à présent recouvrait en entier, on pouvait être sûr que personne n’allait

la lui enlever. (p. 70)

 La photographie d’une inconnue devient ainsi la seule et dernière accroche d’humanité à laquelle se voue,

dans cette chambre vidée, Gregor Samsa. Si, dans des nombreux textes de Benjamin, les appartements

sont considérés comme des sortes de carapaces de protection : « La forme originaire de toute habitation,

c’est la vie non dans une maison mais dans un boîtier (das Gehäuse). Celui-ci porte l’empreinte de celui qui

l’occupe. Dans le cas tout à fait extrême, l’appartement devient un boîtier » (Benjamin, 1939, p. 239), chez

Kafka l’intérieur domestique devient le lieu de la faillite de ses relations personnelles. Un boitier, oui, mais

où le « chez soi » n’a plus aucune raison d’être, au contraire. La chambre se transmute en un endroit de

peur et de danger au fur et à mesure que son animalité s’impose et ses rapports familiaux se détériorent :

 Mais la hauteur si dégagée de cette chambre où il était contraint de rester couché à plat lui fit peur sans qu’il pût

découvrir pourquoi – car enfin c’était la chambre où il logeait depuis cinq ans –, et, d’un mouvement à demi

conscient, et non sans une légère honte, il se précipita sous le canapé. (p. 45)

 L’impossibilité de l’espace intérieur se reflète aussi dans l’impossibilité de l’espace extérieur, et par

conséquent, dans l’annulation de toute possibilité de perspective. La seule représentation possible se

concrétise dans des visions de couloirs, microcosme théâtral qui impose ses propres règles

scénographiques, tandis que ce qu’il y a dehors, au-delà de l’appartement, le paysage, bien qu’à plusieurs

reprises recherché, n’arrive pas à s’affirmer (Caron, 1997). D’ailleurs, un de premiers mouvements de

Gregor, presque un instinct de survie, le pousse à chercher l’ailleurs par la fenêtre : « Le regard de Gregor

se tourna ensuite vers la fenêtre, et le temps maussade – on entendait les gouttes de pluie frapper le

rebord en zinc – le rendit tout mélancolique » (p. 6).

Par le biais de l’étude de Victor Stoichita, il est possible de mettre en relation le système de représentation

employé par Kafka avec la tradition de vues d’intérieur dans l’histoire de l’art. Cette comparaison permet

d’analyser la représentation de l’espace dans le texte de Kafka tout en l’intégrant dans une tradition

241

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

visuelle bien plus ample (Starobinski, 1984). Dans L’Instauration du tableau : Meta-peinture à l’aube de la

modernité, Stoichita parcourt l’histoire des vues d’intérieur et pointe l’importance du cadre, à savoir le

framework de l’œuvre d’art. Dans ce genre de peintures, l’espace détient un rôle principal et devient le

protagoniste de la dimension visuelle, mettant en scène un « intérieur pur », et s’appuie sur une

configuration picturale qui se sert de portes, cadres, fenêtres et miroirs afin de se définir et jouer comme

doublure de l’espace : « l’embrasure de la fenêtre reprend les données essentielles du tableau. Elle est, par

essence, cadre. Ce cadre/embrasure définit la nature morte comme “étant-sur-le-seuil” et le paysage

comme “vu à travers” » (Stoichita, 1993, p. 50).

Il est évident que Kafka utilise des clous spatiaux pour orchestrer son rapport avec les autres et, en

général, avec le monde. Mais la fenêtre, chez Kafka, comme tout autre élement architectural, n’est pas

seulement symbolique, elle aussi littérale. Elle connote l’espace, le situe et le visualise. Tout comme la

porte, elle définit les possibilités de mouvement, et donc de développement, dans le cadre du récit. C’est

donc l’espace domestique qui est mis en cause. L’objet « fenêtre » nous amène d’un côté à questionner le

rapport à l’intime de Gregor, et de l’autre sa relation avec le monde extérieur. Dans cette dialectique, la

fenêtre ouvre la perspective au paysage (Cauquelin, 2013) : « C’est le rectangle de la fenêtre, qui

transforme le dehors en “paysage”, les incunables de ce genre pictural doivent pour cette raison être

cherchés dans le fond des tableaux de la Renaissance, où, pour la première fois, ils reçoivent une

définition » (Stoichita, 1993, p. 58). Le paysage est ainsi fenêtre, comme la fenêtre est – par définition –

tableau : elle incarne ainsi l’idée du tableau perspectif, soit une vision traversante. Il n’y a pas de vision

sans fenêtre, car l’acte de regarder, c’est voir non à travers quelque chose, mais par l’absence de quelque

chose : à travers un trou.

Les raisons d’un tel parallélisme sont assez évidentes : la fenêtre concrétise le rapport intérieur/extérieur,

sans lequel la notion de paysage n’aurait pas pu être perçue. Car pour percevoir un paysage, il faut remplir

une autre condition indispensable : la distance. Nous avons parlé d’échec de l’espace et de la faillite du

paysage chez Kafka : cela parce que, dans la Métamorphose, toute opération d’éloignement, de perspective

et de mise à distance devient dramatiquement impossible. S’il est vrai que la fenêtre est machine à image,

dans le récit tout ce qui est hors-champ s’estompe. L’espace est autoréférentiel : plus la narration avance,

plus chaque effort d’appréhension de l’extérieur par le regard échoue, tandis que la vue de Gregor diminue

jusqu’à ce qu’il n’arrive quasiment plus à voir dehors :

Ou bien il ne reculait pas devant l’effort considérable que lui coûtait le déplacement d’une chaise jusqu’à la fenêtre,

puis l’escalade de son rebord où il restait appuyé, calé sur la chaise, manifestement juste pour se remémorer le

sentiment de liberté qu’il éprouvait naguère à regarder par la fenêtre. Car en fait, de jour en jour, il voyait de plus

en plus flou, même les choses peu éloignées ; il n’apercevait plus du tout l’hôpital d’en face, dont la vue par trop

fréquente le faisait jadis pester, et s’il n’avait pas su habiter dans la rue calme, mais complètement citadine, qu’était

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

la Charlottenstrasse, il aurait pu croire que sa fenêtre donnait sur un désert où le ciel gris et la terre grise se

rejoignaient jusqu’à se confondre. (p. 58)

 Difficile de croire à un choix involontaire chez un écrivain dont le premier recueil publié en 1913 portait

le titre de Regard, et contenait deux textes, le premier Regards discrets à la fenêtre et l’autre Fenêtre sur rue. Si la

fenêtre installe le rapport entre le tableau et le cadre, pour Kafka c’est la littérature elle-même qui serait

un « acte d’observation » (Wajcman, 2004). Le regard dirigé vers la fenêtre, au-delà de la chambre, dans

ce dehors qui sera, jusqu’à la fin du récit, une sorte d’utopie, est ainsi un acte, et pas n’importe lequel.

C’est un acte de résistance et de liberté, le tout dernier, voué à s’éteindre progressivement. Il s’agit d’un

véritable topos qui revient constamment dans l’œuvre de Kafka, comme le note aussi Starobinski :

Le rapport dynamique entre le dedans et le dehors, par l’entremise obligée de la fenêtre subira d’infinies variations.

Pas un roman, depuis L’Oublié (où reviennent avec insistance les balcons avec vue sur la rue ou sur les balcons

voisins) qui n’ait son jeu de fenêtres. Les occurrences de la fenêtre, chez Kafka, sont au moins aussi nombreuses

que celles des portes, seuils, clôtures, escaliers, corridors : lieux de passage, mais qui, d’être destinés au passage,

mettent d’autant mieux en évidence l’impossibilité de passer outre, laquelle, à son tour, met en valeur le dangereux

privilège du franchissement. (Starobinski, 1983)

Tout comme la chambre, la fenêtre participe à la transformation de Gregor et représente son passage de

la condition humaine vers celle de l’animal : de la possibilité du dehors jusqu’à l’annulation du paysage.

Machine à découper, la fenêtre en vient ainsi à consommer une perte. Perte du monde extérieur, mais

aussi vis-à-vis du monde intérieur. Pour reprendre les considérations de Walter Benjamin : « Pourquoi le

regard qu’on jette à travers des fenêtres inconnues tombe-t-il toujours sur une famille en train de déjeuner

ou sur un homme seul, assis à table sous la suspension, et occupé à des choses mystérieusement futiles ?

Un tel regard est la cellule germinale de l’œuvre de Kafka » (Benjamin, 1939, p. 235-236).

Tandis que la fenêtre ouvre l’intérieur vers l’extérieur, par la porte, le regard passe d’un intérieur vers un

autre intérieur. Elle représente une limite moins tranchante que la fenêtre, laquelle sépare culture et

nature. La porte, n’est qu’un hiatus au sein du monde de la culture : « Si l’embrasure de la fenêtre

fonctionne comme matrice de toute peinture, et particulièrement, à partir du XVIe siècle, comme matrice

du paysage, l’embrasure de la porte, en revanche, vise, inébranlablement, l’espace domestique » (Stoichita,

1993).

Un très grand nombre de maîtres de la peinture, dont Pieter de Hooch ou Emmanuel de Witte, ont fait

du regard à travers la porte, ce qu’on a appelé en néerlandais comme le doorkijkje, un motif constant de

leurs œuvres, comme un prolongement de l’espace vital, une « vue-à-travers-un-cadre-de-porte ». C’est

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

justement dans cette configuration de doublure, de « vie-vue-à-travers », que la porte paraît dans le récit

de Kafka, et incarne une limite, une frontière, mais aussi un passage :

Sans doute la porte en bois empêchait-elle qu’on notât de l’extérieur le changement de sa voix (p. 10).

Et voilà que déjà, à l’une des portes latérales, son père frappait doucement, mais du poing (p. 11)

« Gregor ! Gregor ! » Et derrière l’autre porte latérale, la sœur de Gregor murmurait d’un ton plaintif : « Gregor ?

Tu ne te sens pas bien ? (p. 12)

La porte donnant sur l’antichambre était ouverte et, comme la porte de l’appartement l’était aussi, on apercevait le

palier et le haut de l’escalier. (p. 31)

Dans la salle de séjour, Gregor vit par la fente de la porte que l’éclairage au gaz était allumé, mais alors que

d’habitude c’était l’heure où son père lisait d’une voix forte à sa mère, et parfois aussi à sa sœur, le journal paraissant

l’après-midi, on n’entendait cette fois pas le moindre son. (p. 43)

C’est comme si tout se passait au seuil de cette porte, unique passage possible entre ces deux mondes,

celui de Gregor et l’autre monde, celui de la famille. Cet élément concourt ainsi à dénoter le naufrage

domestique, et fait en sorte que le « voyage immobile » de Gregor, pour reprendre les mots de Deleuze

(Deleuze, Guattari, 1975, p. 35), s’achève avec sa mort et, en quelque sorte, la conséquente libération de

la famille Samsa de leur lieu domestique. Le dernier mouvement connote en effet ce passage :

Puis tous trois quittèrent de concert l’appartement, ce qui ne leur était plus arrivé depuis déjà des mois, et prirent

le tramway pour aller prendre l’air à l’extérieur de la ville. Le wagon, où ils étaient seuls, était tout inondé par le

chaud soleil. Confortablement carrés sur leurs banquettes, ils évoquèrent les perspectives d’avenir […]. La

principale amélioration immédiate de leur situation résulterait, d’une façon nécessaire et toute naturelle, d’un

changement d’appartement ; ils allaient en louer un plus petit et meilleur marché mais mieux situé et généralement

plus pratique que l’actuel, qui était encore un choix fait par Gregor. (p. 116)

La métamorphose est donc le récit d’une déterritorialisation de l’intime, qui passe par la perte

deshumanisante de l’espace clos d’une chambre, mais aussi l’histoire d’une reprise de possession de

l’espace de la part de la famille de Gregor. Kafka opère un parallèle entre l’idée de métamorphose et la

transformation de l’espace, cela à l’aide d’un système de représentation, la vue d’intérieurs, et à la mise en

scène d’un microcosme domestique, la chambre, où tout élément architectural, en annulant les points de

fuite, concrétise le drame domestique de sa condition animale.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

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G. Crivella, «Canetti e Kafka. Una lettura incrociata a partire da Massa e potere» K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, 1, 2/2018, pp.247-259

K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Giuseppe Crivella

Canetti e Kafka

Una lettura incrociata a partire da Massa e potere

ABSTRACT

This text attempts to develop a comparison between the narrative universe of Kafka and the theses presented by Canetti in the essay Masse und Macht

(1960). The purpose of this comparison is to highlight the elements of continuity between the two authors. This crossed reading aims to show how the

relationship between mass and power - highlighted by Canetti - can become a hermeneutical tool for analyzing Kafka’s narrative.

Keywords: Elias Canetti, Franz Kafka, Crowd and Power, The other Trial, literary criticism.

Di che cosa ti vergogni tanto, quando leggi Kafka?

Ti vergogni della tua forza.

Elias Canetti

1. Considerazioni preliminari

I riferimenti diretti all’opera di Kafka nei molteplici scritti di Canetti sono quantificabili in poco più di

una quindicina di rimandi di estensione alquanto variabile. Fatta eccezione per il testo del ‘69, L’altro

processo, la figura del narratore praghese ad un primo esame sembra occupare un posto piuttosto periferico

nel pensiero dell’autore di Auto da fè.

Eppure se si procede ad uno scandaglio più dettagliato, è possibile scoprire tra i testi e le tesi dei due

autori una sottile e segreta complicità, una sorta di convergenza riposta ma tenace che fa convergere le

posizioni di Kafka e di Canetti secondo una precisa e sotterranea linea di saldatura.

Ma prima di esplicitare quale sia questa linea appena evocata, è bene passare rapidamente in rassegna i

rimandi al praghese reperibili presso Canetti1. Ne La provincia dell’uomo, ad esempio, Kafka è una sorta di

invisibile convitato di pietra (Canetti, 1986, p. 136, pp. 321-322, p. 337, p. 348), scomodato in tutto una

manciata di volte per essere messo in contatto/contrasto con autori come Musil (p. 337) o Tolstoj (p.

1 Per motivi di spazio limitiamo la nostra attenzione alle raccolte degli anni in cui Canetti si dedicava alla stesura del testo su cui verterà la nostra riflessione: La provincia dell’uomo. Va comunque detto che anche volendo estendere la nostra attenzione alle raccolte di appunti più tarde – come, ad esempio, La tortura delle mosche o Un regno di matite – il narratore praghese resta in ogni caso una presenza alquanto felpata.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

348)2. In Potere e sopravvivenza invece l’autore de La tana è certamente più presente, occupa uno spazio più

ampio, sebbene questo di fatto non riesca mai a ottenere la rilevanza del saggio del ‘69.

Tuttavia, proprio in uno dei saggi contenuti nell’ampia raccolta del 1972 Kafka d’improvviso assume una

sorta di imprecisa e obliqua centralità: nello scritto intitolato Dialogo con il terribile partner (Canetti, 1974, p.

78) l’autore de Il processo viene evocato ripetutamente. Kafka diventa nel corso di questo ricco studio colui

che più di tutti nel Novecento ha dato forma ad un genere letterario – quello dei Diari – che fa dello

sdoppiamento di sé (Barilli, 1982, p. 57), o meglio, della incontrollabile moltiplicazione dei sé il proprio

fluido fulcro (ib.).

Poetre e sopravvivenza appare tre anni dopo L’altro processo. Nonostante le ovvie differenze intercorrenti tra

i due scritti, essi di fatto risultano legati da una profonda analogia di articolazione. In entrambi gli scritti

infatti la massa occupa un posto velatamente centrale. Essa è una nozione sfuggente e paradossale, appare

sotto delle forme altamente cangianti e diversificate: a volte sembra proliferare delicatamente su se stessa

e da se stessa, altre volte contiene qualcosa di furioso e minaccioso. Più o meno avvertibile sotto le sue

numerose manifestazioni, essa risulta sotterraneamente operante in tutti gli aspetti della vita e dell’opera

di Kafka passati in rassegna da Canetti.

Ed è proprio la massa, a nostro giudizio, il nucleo germinale a partire dal quale tentare di sviluppare una

lettura incrociata tra i due autori. La segreta linea di saldatura a cui accennavamo prima è rappresentata

proprio dal ruolo tutt’altro che secondario giocato da tale nozione trasversale.

Ciò che vogliamo quindi proporre in questo scritto è una sorta di ardita e sperimentale – seppur sempre

suffragata in maniera puntuale da una nutrita bibliografia critica – lectio difficilior nel corso della quale

tentare di rileggere alcuni passaggi salienti dell’opera di Kafka partendo dalle tesi esposte da Canetti nel

suo saggio del 1960.

La nostra lettura incrociata non va intesa allora come una semplice rilettura di Kafka a partire da alcune

posizioni di Canetti. Qui tentiamo di prospettare un’analisi sviluppata secondo un doppio versante di

riflessione, così che se da un lato cerchiamo di capire se e quanto il praghese sia stato rilevante nella

stesura di Massa e potere, dall’altro puntiamo a valutare in che misura le tesi di Massa e potere possano

diventare delle prospettive critiche su Kafka.

I due fronti di riflessione si strutturano quindi specularmente, obbedendo ad un principio di precisa

2 Vi sarebbe una lunga riflessione da fare sul modo in cui Canetti si serve degli altri narratori nei suoi quaderni di appunti. Pur essendo un lettore vorace e onnivoro, i riferimenti diretti agli autori si limitano spesso a qualche menzione fugace. I nomi appaiono in maniera quasi rapsodica per poi lasciare spazio alla riflessione per voce sola di Canetti. Kafka non fa eccezione. Va detto però che in almeno due passi Canetti riconosce expressis verbis l’assoluta unicità del praghese nella storia della letteratura (Canetti, 1986, p. 321 e Canetti 1974, pp. 78-79).

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

reversibilità: quanto più risultano evidenti i loci testuali che, desunti dal praghese, possono essere riletti

tramite Canetti, tanto più si delinea la pregnanza ermeneutica che quest’ultimo ha saputo estrarre dalle

figure dell’universo kafkiano, rendendole autonome rispetto al contesto d’origine e facendone così dei

nuclei concettuali in grado di attraversare i domini di indagine più disparati.

Tale lettura incrociata non smette di ruotare intorno ai due autori descrivendo pertanto un’ellissi dai

fuochi mobili, che ora si sovrappongono, ora si distanziano, pur rimanendo sempre in comunicazione,

come riflettendosi reciprocamente in un’unica luce che li attraversa da angolature differenti, proiettando

alternativamente l’ombra dell’uno sul profilo instabile dell’altro.

2. Spettrografie della massa

L’idea che la massa possa assurgere a terminale operativo privilegiato per addentrarsi nelle spire della

scrittura kafkiana ci pare essere suggerito dallo stesso Canetti, il quale proprio nell’opera del 1969

intercetta almeno quattro momenti ben distinti in cui la massa fa la sua perturbante e inaspettata

apparizione presso il praghese. Esplicitiamo qui rapidamente queste quattro forme:

1. Per quanto riguarda il primo tipo di massa, possiamo osservare che Kafka, agli occhi di Canetti,

sperimenta il proprio corpo come una sorta di astratto spazio impersonale ove di volta in volta vi si

manifestano organi, tessuti, arti resi avvertibili grazie alla intensificazione improvvisa di focolai di dolore.

La massa appare sotto due forme distinte ma interrelate: da una parte troviamo l’intermittente superficie

anatomica da cui emergono nuclei organici diversi; dall’altra invece scorgiamo quel palpebrante paesaggio

algesico, ove sciami di dolori migrano da una zona all’altra tracciando lancinanti latitudini di sofferenza

(Canetti, 1980, pp. 38-39).

Ecco allora delinearsi “due masse doppiamente intrecciate” (Canetti, 1985, p. 84): la massa astratta del

corpo, prossima ad una rarefazione – tale da risucchiare Kafka in una sorta di anticamera della morte

(Canetti, 1980, p. 117) – e la massa invisibile (p. 50) dei dolori.

Abbiamo quindi due masse complementari e speculari, masse che si riflettono l’una nell’altra, fuse in un

flebile palpitare di organi effimeri, la cui presenza coincide senza resto con l’acuirsi dei dolori che

trafiggono il corpo del praghese. Le due masse combaciano e si saldano così in una perfetta

compenetrazione, grazie alla quale quel corpo diventa avvertibile solo in forza di ciò che ne mette

capillarmente a repentaglio la consistenza.

2. La seconda immagine di massa è rappresentata dai denti: Canetti è molto attratto da questo tema e vi

ritorna per ben due volte, commentando due diversi loci testuali dell’epistolario (pp. 75-76 e p. 118.).

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

Recuperando, in relazione a questo secondo tipo di massa, le analisi consegnate da Canetti nello scritto

del ‘60, potremmo dire che i denti qui rappresentano una variazione della massa aizzata (Canetti, 1985,

p. 88-89): essi, affilati e taglienti, si parano dinanzi al praghese come un pericolosissimo plotone

d’esecuzione che gli si fa sempre più dappresso, gli si stringe attorno fino al punto di stritolarlo, o meglio,

dilaniarlo con il semplice contatto3. I denti gli si cristallizzano intorno, lo assediano e lo feriscono,

tramutandosi in una sorta di concentrica muraglia ossea in grado di precludere a Kafka ogni via di fuga.

3. A questa seconda forma è legata la terza nozione intercettata da Canetti. Qui la massa non va più colta

nell’accezione di insieme composito, di moltitudine più o meno eterogenea e compatta di elementi. Essa

va intesa come quantità di materia omogenea contenuta in un corpo.

Per Kafka questa transizione semantica è cruciale: se lo sciame di dolori e la compagine dei denti visti

finora sono delle molteplicità massificate ad alto tasso di aggressività diretta contro il suo corpo, ora

questo stesso corpo può sottrarsi ai loro agguati riducendo la propria massa alle proporzioni di una

creatura quasi microscopica, inavvertibile e sfuggente (Canetti, 1980, pp. 50-53; Blanchot, 1955, p. 83)4.

Il medesimo risultato è ottenuto inoltre con una variazione di questa logica di auto-soppressione: Kafka,

suggerisce Canetti (p. 38), persegue la magrezza come un metodo per assottigliarsi fino a trasformare il

proprio corpo in una sorta di spettrale massa-zero.

Con questa terza forma transitiamo verso l’ambito della muta (Canetti, 1985, pp. 111-150). E, in

particolare, l’auto-soppressione qui prospettata potrebbe afferire ad un tipo specifico di muta, ovvero

quella interna (p. 138), finalizzata alla deliberata perdita del corpo5. I tratti salienti di tale configurazione si

trovano tutti presso Kafka, con una leggera variazione: in questo caso è il corpo stesso del praghese,

prima vissuto come mera massa disordinata di organi, a concentrarsi in un unico punto, riducendosi ad

esso, scomparendo definitivamente in esso, coincidendo con quel nucleo di invisibilità e isolamento che

per l’autore de Il processo sembra essere l’unica forma possibile di esistenza (p. 505).

4. L’ultima tipologia mette in contrasto le masse liquide dei flussi emorragici che attraversano il corpo del

praghese a partire dal 1916, con la solidità della “massa fisica” del suo medico curante (Canetti, 1980, p.

152). L’opposizione anche qui è netta e anche in questo caso siamo dinanzi a due masse che si

fronteggiano: da una parte abbiamo una massa aperta (Canetti, 1985 p. 19), la quale scorre via dal corpo

dello scrittore, una massa fatta di liquidi che erompono fuori dalla bocca di Kafka privandolo

gradualmente delle forze (Canetti, 1980, p. 153 e Blanchot, 1955, p. 90), mentre davanti ad esso si erge

come un colosso il medico in tutta la sua consistenza corporea, massiccia, impenetrabile e imponente,

3 Il perturbante tema della minaccia legata ai denti torna anche in altri scritti di Kafka: Cfr, Kafka, 2010, p. 885. 4 Al processo di auto-riduzione fisica fa da controcanto un processo simmetrico e inverso di espansione nella scrittura, cfr. Canetti, 1980, pp. 54-55. 5 Canetti parla esplicitamente di uno scorporarsi.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

una massa chiusa potremmo dire, una sorta di solido cristallo di massa (Canetti, 1985, pp. 88-89) rispetto

al quale la figura di Kafka è come schiacciata, condannata alla dispersione lenta e inarrestabile.

La nozione di massa aperta rappresenta presso il praghese però una sorta di paradossale rovesciamento di

ciò che tale espressione designa presso Canetti. Essa infatti in Massa e potere è caratterizzata da un continuo

incremento delle proprie unità (pp. 24-25), da un accumulo illimitato finalizzato al momento dello

scoppio (ib.) ostile verso compagini rivali. La massa aperta di matrice emorragica mira all’esatto contrario,

ad uno svuotamento irreversibile, ad una sorta di ramificata e viscerale kenosi corporea che fa

dell’incontenibile sperpero di deflussi ematici di cui è teatro Kafka il doppio negativo di ciò che Canetti

denomina in un altro passaggio di Massa e potere muta di accrescimento (pp. 129-132).

Queste quattro varianti di massa sono strettamente interconnesse. L’idea, ad esempio, di un corpo-spazio

travagliato da fulminanti scariche di dolore sembra anticipare la massa delle emottisi in cui si paleserà più

tardi la tisi. Il corpo-spazio si liquefa in uno scorrere di energie che finiscono col dissolvere l’instabile

mosaico organico a cui Kafka aveva cercato di dare un profilo definito.

Al frenetico ricamo di transiti algesici – che sembrano incidere il corpo dello scrittore praghese nello

spessore delle sofferenze secondo una fisionomia frammentaria – Kafka può opporre solo lo sforzo

esasperato di contrazione progressiva della propria massa corporea. Si tratta di un espediente che non

solo permette di eludere le scariche di dolore, ma consente anche di sottrarsi all’aggressività rappresentata

dai denti.

È quindi come se in Kafka si oscillasse sempre tra una massa multiforme e una massa puntiforme, fino

all’eruzione della sintomatologia legata alla tisi. A questo punto il corpo tende alla propria ineluttabile

dissipazione, prossimo a dissolversi negli innumerevoli rivoli di sangue che ogni notte scorrono in esso e

da esso, trasformando Kafka in una sorta di trasparente creatura anfibia sospesa tra l’agonia e l’assenza.

3. Del Potere come massa paranoide

Ma che cosa succede se proviamo ad espandere questo quadro di riflessioni sulla produzione narrativa di

Kafka? Chi ha letto Josephine la cantante o l’episodio del Teatro di Oklahoma, o ancora testi postumi come

Di notte o La tana sa bene che la massa gioca in essi quasi sempre un ruolo cardinale (Barilli, 1982, p. 178).

In questa sezione cercheremo di proseguire la nostra lettura incrociata proiettando su alcuni testi di Kafka

un reticolo concettuale desunto interamente da Massa e potere. Se quanto detto finora è corretto, potremmo

allora osservare che molte delle figure kafkiane si profilano sempre con la fisionomia al tempo stesso

tagliente e nebulosa di corpi alieni incassati in un organismo massificato e dominante, il quale finisce

sempre o per liquidare quelle figure – in quanto formazioni parassitarie – o per assimilarle al suo interno,

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

fagocitandole come prede insignificanti.

Gli esempi che potremmo produrre in tal senso sono numerosi. Ci limiteremo a riportare un estratto da

Descrizione di una lotta in cui il contrasto tra singolo e massa è ben chiaro, tanto più se si pensa che la

moltitudine qui è rappresentata da elementi del paesaggio naturale:

volevo discendere velocemente ma, poiché il ramo tremava come la mia mano, caddi impietrito da quell’altezza.

Urtai appena e non avvertii alcun dolore, ma mi sentii così debole e infelice che poggiai la faccia sul terreno a

bosco, dal momento che non riuscivo a sopportare la fatica di vedere intorno a me le cose della terra. Ero persuaso che ogni movimento

e ogni pensiero fossero strappati con la forza, che ci si dovesse proteggere da essi. La cosa più naturale era invece stare lì sull’erba,

le braccia lungo il corpo e la faccia nascosta. E mi dicevo di essere proprio contento di trovarmi già in quella posizione naturale,

dato che altrimenti ci sarebbero volute molte crisi estenuanti, come passi o parole per giungervi (Kafka, 1988, p. 188).

Il testo è senza dubbio emblematico perché, scritto secondo una radicale focalizzazione interna, permette

di vedere l’opposizione tra un singolo e due tipologie di massa che sembrano minacciarlo: da una parte

abbiamo una massa esterna, “le cose della terra”, che nella loro sonnolenta inerzia celano in realtà un

coefficiente di aggressività estremo, quella stessa aggressività che poi sperimenterà qualche decennio più

tardi la spettrale persona loquens del racconto La tana. Ma dall’altra parte riscontriamo un secondo esemplare

di massa, quella interna, secreta dal suo stesso corpo sotto forma di “passi o parole” che sembrano

dilaniare il personaggio in una serie di azioni disparate e contraddittorie.

Le due masse si contendono il corpo della maschera parlante – ridotta ad una specie di fragilissima

membrana di interscambio tra due poli di forze in contrasto – secondo tre coppie ordinate di matrici di

aggressione: compressione e lacerazione, schiacciamento e frantumazione, assorbimento e

scomposizione. La massa qui è un personaggio tanto inavvertibile quanto rilevante e la scelta di usare una

focalizzazione interna serve proprio a rendere la minaccia che essa rappresenta tanto più concreta quanto

più sfuggente.

Se ora caliamo l’ossatura di questo schema narrativo nei diagrammi analitici messi a punto da Canetti,

vedremo che la strutturazione dei ruoli elaborata da Kafka risponde in maniera impeccabile ad una precisa

ridistribuzione di forme e forze aventi proprio nella massa il loro punto di coordinazione profonda e

serrata:

• Il narratore potrebbe senza problemi rientrare nel fenotipo del sopravvissuto (Canetti, 1985, pp. 273-238

e pp. 565-571), riconoscibile da tre connotati:

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a. vive in una sorta di isolamento metafisico irriducibile (p. 334).

b. non appartiene ad alcuno degli spazi – fisici o meno – in cui si situa (p. 332).

c. avverte lo spettro di colui che lo sopprimerà anche là dove non v’è che materia inanimata (p. 302).

• Sebbene rappresentata da elementi propri del mondo inorganico, la prima massa funziona nel racconto

di Kafka come una massa muta e silenziosa (p. 137-138), una massa quindi intesa come cerchio (p. 33)

che si restringe sempre più intorno al sopravvissuto fino ad inghiottirlo in una sorta di possente

deglutizione minerale finalizzata ad assimilare in sé ciò che sembra esserle del tutto estraneo.

• La terza considerazione pertiene al dominio di riflessioni ascrivibili alla dimensione paranoide,

ampiamente vagliata da Canetti nell’undicesima sezione di Massa e potere. La psiche della persona loquens

diventa un epicentro inesauribile di masse immateriali che ne mettono a repentaglio la coesione (p. 434-

444). La massa assale dall’interno il corpo del personaggio trasformandolo in una moltitudine convulsa

di entità che cercano di distaccarsi le une dalle altre.

Se la prima moltitudine rientrava quindi nella tipologia della massa come cerchio, ora l’accerchiamento

procede paradossalmente dall’interno, in una sorta di orribile rovesciamento che porta il sopravvissuto

ad essere lui stesso il terreno ove lasciar allignare i componenti della moltitudine, quali corpi estranei che

finiscono col corrodere l’organismo da cui sono sorti (p. 421-433).

Alla luce di quanto detto finora ci sembra possibile spostare le nostre analisi su due campioni testuali

molto più impegnativi, ovvero Il Castello e Il Processo. Come vedremo tra poco, tutti gli elementi di

continuità tematica messi in luce tra il praghese e Canetti si troveranno ad essere confermati.

Partiamo proprio dalle figure centrali dei due romanzi: Josef K. e l’agrimensore K. Soggetti ad un

isolamento che non smette di logorarli, posti al centro di un pietrificato cosmo ove il Potere imperversa

come una sottile penombra che intride di sé ogni cosa, persona o situazione, fino a diventare l’invisibile

e inguaribile tabe da cui i due K. finiscono con l’essere divorati, tali figure centrali rappresentano una

forma elettiva del sopravvissuto canettiano.

Essi sono imprigionati in quella che l’autore de L’altro processo chiamerebbe “una muta costellazione di

potere” (p. 463) in seno a cui questi si muovono e si dibattono invischiandovisi sempre di più, fino a

diventare indistinguibili da essa. Ogni gesto, ogni parola e ogni pensiero immediatamente viene assorbito

nel cavernoso organismo del Potere (Kafka, 1971, p. 163)6, diventando così un ulteriore vincolo

infrangibile che lega l’accusato (o lo straniero, nel caso dell’agrimensore) al proprio ferreo destino.

6 Non a caso l’avvocato dice a Block: “sai che le diverse opinioni si accumulano intorno al processo fino a diventare impenetrabili”.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

Pur senza alcun riferimento diretto a Kafka, Canetti ha inquadrato benissimo questa dimensione di

sonnambolica stagnazione relativa al Potere, osservando come essa, presso certi popoli, tenda a

configurarsi come una sorta di estinzione del tempo (Canetti, 1985, p. 482). Stesso stato di cose troviamo

presso i romanzi del praghese: questi si protraggono perversamente in una palude acronica ove il termine

delle vicende è perpetuamente rinviato. Il Potere qui ha inglobato in sé il tempo e ha tramutato la durata

in un puntiforme spazio bianco su cui i personaggi scivolano senza costrutto. Anche il tempo quindi è

quantificabile come una specie di assoluta massa-zero priva di inizio e di fine, a tal punto che gli episodi

che ostacolano i due K. nella realizzazione dei loro scopi potrebbero benissimo essere infiniti (Benjamin,

1962, p. 278).

Il tempo non scorre, ma si frantuma in sequenze pulviscolari di eventi insignificanti, i quali trasformano

la vicenda di Josef K. e dell’agrimensore in un’astratta farandola di incontri e conversazioni, scontri e

solitudini che finiscono per mandare in stallo la durata apparente delle loro ossificate esistenze. Il Potere

aspira il tempo nella propria cieca eternità catatonica, traducendolo nella grottesca parodia di un divenire

che non conosce mutamenti, ma che semplicemente sembra protrarsi in un dedalo circolare di eventi

tutti diversi, sebbene tutti equivalenti nella loro totale e anodina fatuità.

E la medesima fatuità è riscontrabile presso la massa di personaggi secondari in cui si imbattono i due K

(p. 468), “anonima folla teologica di giudici, guardiani e cancellieri” (Agamben, 1985, p. 57). Se è vero,

come già detto più volte, che i romanzi di Kafka possono essere letti come la rarefatta esegesi di una

convulsa metafisica del Potere (Canetti, 1980, pp. 110-111), allora la galleria di manutengoli che Josef K.

e l’agrimensore incontrano sul loro cammino può essere vista come “un’orribile massa di dèi decapitati”

(Canetti, 1985, p. 494), precipitati informi di un dominio che in essi si centellina senza esaurirvisi mai,

espressione di una contro-gerarchia angelica (Kafka, 1971, p. 99)7 in forza della quale ogni figura nuova

incontrata nel cammino di avvicinamento al Potere di fatto respinge il questuante verso una latitudine

sempre più remota ed oscura (Kafka, 1997, p. 347)8.

Il tempo – ridotto alla forma cava del proprio atrofizzato scorrere – i personaggi – trasfigurati in una

muta di creature assimilabili nude ipostasi di un Potere che devitalizza tutto ciò che accetta di diventarne

umbratile emanazione – sono entrambi sintomi espliciti di quel dominio paranoico che Canetti illustra

nelle sezioni finali dell’ultimo capitolo di Massa e potere.

I punti di tangenza tra gli universi narrativi di Kafka e le tesi dell’autore de L’altro processo a questo punto

diventano numerosi. Presso il praghese, ad esempio, sia Josef K. che l’agrimensore sperimentano la

7 “La graduatoria dei funzionari è infinita e imperscrutabile perfino agli iniziati”. 8 Emblematico di ciò è il passo che chiude Il Castello, con K. che accede al seguito di Gerstäcker nella spoglia e solitaria casupola di quest’ultimo, ormai lontanissimo da ogni contatto col Castello.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

presenza del Potere come se questo fosse una sorta di remotissimo e necrotico corpo celeste (Canetti,

1985, p. 529 e Blanchot, 1949, p. 15) che non smette di allontanarsi; ma quanto più esso è distante, tanto

più si moltiplicano e si fanno più serrati i legami che chiudono nella sua asfissiante orbita i due personaggi.

Il Potere inoltre, come ben spiega ancora Canetti nella sezione sulla paranoia di Schreber (Canetti, 1985,

pp. 528-561), è un corpo amorfo fatto solo di nervi lunghissimi e tentacolari, i quali si tendono tra le varie

figure prese in esso tramandovi un soffocante reticolo che le attraversa dando loro movenze e parvenze

marionettistiche, le cui voci affiorano dalle loro gole afone come per effetto di una possessione ecolalica

tramite cui si esprime l’inudibile e incessante mormorio del Potere stesso (p. 547).

In seno a tale stato di cose Josef K. e l’agrimensore sembrano essere gli unici viventi (p. 536), gli unici

che si ostinano a sopravvivere all’interno della massa di un dominio sempre prossimo alla propria

ineluttabile e irreversibile cadaverizzazione. Il sopravvissuto abita in queste rarefatte latitudini come una

sorta di tenue ma tenace minaccia. In egual modo e parallelamente a tutto ciò, nelle affilate regioni del

Potere ove è scagliato senza riparo il sopravvissuto, tutto sembra costituire una minaccia per quest’ultimo.

La realtà dei romanzi kafkiani quindi è sempre soggetta a tale sdoppiamento paranoide9; a fronteggiarsi

sono sempre due o più versioni contraddittorie e discordanti di uno stesso evento (Benjamin, 1962, p.

270 e Adorno 1972, p. 253), biforcato secondo una sorta di falsa specularità nel punto mediano della

quale si moltiplicano i passi falsi, proliferano le interpretazioni deliranti, diventano pressoché

imponderabili le ipotesi legate agli effetti possibili della più semplice e apparentemente insignificante

azione (Kafka, 1971, p. 103 e pp. 179-80 e Canetti, 1980, p. 121)10.

Ne Il Castello vi è un esempio formidabile di tale instabilità paranoide del dato reale. Si tratta della

descrizione di Klamm da parte di Barnabas riportata a K. da Olga (Kafka, 1997, pp. 195-196). Il

funzionario rappresenta una massa di identità embrionali reciprocamente equipollenti e interscambiabili

(Adorno, 1972, p. 270). Egli è una sorta di mercuriale propaggine sub-umana (Rella, 1999, p. 157 e

Blanchot, 1949, p. 25) di quel Potere occulto e irrefutabile che muta aspetto senza palesarsi mai. Nella

sua molteplicità di volti e fisionomie Klamm risulta essere l’imitazione iperbolica (Canetti, 1985, p. 506)

di quelle strutture di travestimento e invisibilità che abbiamo visto essere costitutive di ogni forma di

dominio (Adorno, 1972, p. 259 e Canetti, 1980, p. 127).

Klamm è al tempo stesso unità sovraordinata a tutti coloro che a lui devono rendere conto e molteplicità

disordinata di apparizioni improvvise (Benjamin, 1962, pp. 266-267). Egli è un’ulteriore manifestazione

di quella massa intesa come muta di nemici pronta a scagliarsi contro il sopravvissuto, massa aperta e

9 Evoca l’idea di una chiave paranoica per leggere Kafka anche Adorno (cfr. Adorno, 1972, p. 255). 10 Il racconto postumo La tana è il punto più alto di resa narrativa di questa dimensione intensamente paranoide.

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accerchiante, massa invisibile e intrusiva, massa onnipresente e inarginabile di sembianti mutevoli che

sembrano spiare l’agrimensore K. da ogni punto del paesaggio (Calasso, 2005, p. 205)11.

Ne Il processo troviamo qualcosa di molto simile, concentrato in una osservazione folgorante: “gli alti

funzionari si nascondono” (Kafka, 1971, p. 90 e Calasso 2005, p. 204 e 283). Antenati forse più

rudimentali di Klamm – che si cela nella propria natura di uomo-massa – essi sono infatti dappertutto

intorno a Josef K., ma del tutto irriconoscibili, quasi fisiologicamente incassati nelle pareti, nei muri, nei

soffitti, nei pavimenti degli ambienti che l’accusato visita e attraversa (Benjamin, 1962, p. 277).

Ecco allora che lo spazio fisico de Il processo viene ritrascritto in un tortuoso polipaio topologico di

ambienti tutti organicamente afferenti all’affilata sfera di dominio del Tribunale. Josef K. percorre in

realtà un unico invertebrato labirinto di luoghi comunicanti (Benjamin, 1962, p. 267), così che ad essere

metamorfico in questo romanzo non è solo una delle emanazioni del Potere, ma è tutto lo spazio che

questo occupa perversamente e che anzi con questo si identifica senza resto (Calasso, 2005, p. 204). Vi è

in relazione a ciò ne Il processo un passaggio quasi del tutto sconosciuto – perché espunto dall’autore – in

cui Kafka illustra tale stato di cose:

K. fu molto contento di poter lasciare il duomo vero e proprio; quello spazio ampio, alto, dove gli occhi arrivavano

soltanto a scorgere una brevissima cerchia, lo opprimeva; già più volte, comprendendone l’inutilità, aveva guardato

verso l’alto e dal buio aveva visto volare, per così dire, le tenebre contro di lui da ogni parte (p. 217)12.

Massificato e impalpabile, il Potere si sigilla sul povero Josef K. simile ad un’enorme bocca di tenebra

pronta ad inghiottirlo come un insignificante grumo di cibo, destinato quindi così ad essere riassimilato

in “quell’unità che soltanto cose inanimate possono formare” (p. 186), secondo un movimento affine a

quello visto nel brano tratto da Descrizione di una lotta.

Tumulato al fondo del sonnolento sbadiglio sepolcrale di quest’oscurità trascendentale (Rella, 1999, p.

166) – la quale coincide perfettamente con l’asfittica vastità del Potere – il sopravvissuto si avvia così

verso il proprio ineluttabile dissolvimento (Canetti, 1985, pp. 565-571). Canetti e Kafka, da prospettive

difformi ma congruenti, penetrano nel congegno di questo dispositivo bifido, mostrando che non si dà

mai massa che non implichi potere e non si dà mai potere che non si esplichi in masse.

Seguendo ancora Canetti, vediamo allora che nei due romanzi di Kafka sono presenti i cinque connotati

11 Calasso risale al primo esempio di tale panoptismo kafkiano, ravvisandolo in un passo de Il fochista. 12 Il passo avrebbe dovuto chiudere, con un moto di liberazione abortito sul nascere, il lungo episodio del dialogo col sacerdote in cui si commenta l’apologo Davanti alla legge.

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specifici che contraddistinguono il Potere: quest’ultimo deve essere unico e assoluto, caratterizzato da un

isolamento inespugnabile, distante come una frontiera sempre visibile ma di fatto irraggiungibile e

inaccessibile, capace di presentarsi attraverso innumerevoli travestimenti e quindi, proprio per questo,

irriducibilmente avvolto nella propria inoppugnabile invisibilità (Canetti, 1985, p. 505).

Presso i due autori quindi la massa è il vettore polimorfo di un potere che tende ad essere tanto più

operante e incisivo, quanto meno evidente e avvertibile. Proprio nell’indagine di tale proporzionalità

inversa i due scrittori convergono. Gli esempi da noi prodotti ci rivelano così l’indubbia concordanza tra

le tesi di Canetti e l’universo narrativo di Kafka.

La massa allora equivale in ultima istanza a quello “spazio senza spazio” (Adorno, 1972, p. 263) ove oltre

alle identità si confondono i linguaggi, ove si scambiano i volti insieme ai significati e ove l’arcaico e il

tecno-morfo si sovrappongono, come nel racconto La colonia penale nel corso del quale la moltitudine

anonima degli innumerevoli condannati al supplizio meccanico appare dinanzi a noi come centellinata, al

fine di vedere meglio attraverso tale distillazione il crittogramma del Potere in tutta la sua violenza (Rella,

1999, p. 163).

A questo punto, sembrano dire di concerto i due autori, non resta che la scrittura quale ultima ed unica

forma di sopravvivenza e di resistenza ad ogni manifestazione, diretta od obliqua, di dominio. Ed è

proprio in questo angusto frangente che le tesi di Canetti incontrano la riflessione di Blanchot sull’opera

di Kafka.

4. Conclusioni

Nel corso di questo studio ci siamo limitati a suggerire alcune linee di indagine aventi come fulcro

tematico la funzione della massa nelle opere di Kafka. Per mettere in luce la pregnanza di tale nozione ci

siamo serviti del massiccio complesso di riflessioni consegnateci da Canetti in Massa e potere. Sebbene gli

elementi di continuità tra i due autori non siano immediatamente evidenti, ad una lettura più approfondita

è emersa una certa congruenza tra le rispettive posizioni.

Certo, il presente scritto è lungi dall’aver esaurito il campo di ricerca. Siamo anzi ben consapevoli che

esso non può proporsi se non come un primo, incerto e sicuramente perfezionabile colpo di sonda in un

ambito di studi che resta ancora da setacciare in maniera capillare.

Tale approccio incrociato non solo punta ad evidenziare un aspetto, come quello specifico della massa,

dell’universo kafkiano che forse non è stato quasi mai debitamente soppesato, ma mira a sottolineare

anche la forza euristica che un testo come Massa e potere riveste nel momento in cui le tesi lì discusse

vengono trasposte in un ambito di riflessione che sembra essere fuori contesto rispetto al campo di studi

258

Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

delimitato dall’autore.

Che Kafka sia un autore che interroga le manifestazioni più raccapriccianti del potere è indubbio. Ma che

tale operazione possa e debba passare attraverso uno studio delle masse è un dato che forse la bibliografia

critica ha trascurato a lungo. Non solo, ma anche l’idea che tutto il potere possa essere interpretato come

una specie di onnipervasivo delirio paranoico presso il praghese trova non poche conferme; tuttavia solo

mediante una sorta di continua opera di sovrimpressione tematica tra Il Castello e Massa e potere tale aspetto

prende il giusto rilievo.

Quindi, se è vero, come afferma Canetti stesso, che nessuno più di Kafka ha indagato il potere nelle sue

forme più deliranti e assolute, è anche vero che tale esplorazione è possibile e praticabile solo passando

attraverso un esame capillare dei modi in cui Kafka fa giocare le varie nozioni di massa in relazione a tale

potere.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

Eleonora Corace

Il cane in Kafka, tra addomesticamento e diserzione

ABSTRACT

This article, starting from Konrad Lorenz’s thesis that links human being and dog inside the common destiny of domestication, dwells on the figure of the

dog in Kafka. The dog appears to be an ambiguous figure, on the border between animal and humanity, characterized by shame, dependence and submission,

but, in its silence and in its strength of instincts, it is also able to practice desertion from and resistance towards human domestication.

Keywords: dog, Kafka, domestication, Lorenz.

Questo saggio intende esplorare la figura del cane in Kafka, nella convinzione che, nella ricca e affollata

zoopoetica kafkiana, rappresenti un’entità singolare ed enigmatica nella sua ambigua prossimità con

l’umano, ma, anche, per la continuità con gli istinti animali1. Un ruolo di mezzo, che non può essere, a

nostro giudizio, liquidato solamente come una metafora della condizione umana o una trasposizione

dell’ego dell’autore stesso come già suggerito, in merito a tutti i racconti e i frammenti che hanno come

protagonisti gli animali, da Deleuze e Guattari nel saggio Kafka, per una letteratura minore (1996). È noto

come in questo lavoro, però, rispetto ad altri animali proprio il cane sia accusato, e a ragione, di fallire

nell’opera di deterritorializzazione intrapresa, secondo l’ipotesi che anima il testo, dagli scritti dell’autore

praghese. Assorbito dall’orizzonte umano, sin troppo a suo agio nella struttura familiare, il cane – al pari

del gatto e, forse, anche di più – per i due filosofi francesi rappresenta l’animale edipico per eccellenza:

con il suo nome proprio e il posto nella casa, fallisce prima e più di scimmie, topi e scarafaggi, nella

prospettiva di fuga inaugurata dal divenire animale (p. 23)2.

In effetti, il cane in Kafka è una figura ibrida, che assume tratti e caratteristiche limitrofe all’umano, senza

sovrapporsi mai del tutto ad esso. La chiave di questa particolarità, che denota una profonda ambiguità,

anche concettuale, di quell’essere che chiamiamo “cane”, potrebbe essere rintracciata nel processo di

addomesticamento.

L’immagine di questo animale negli scritti di Kafka, al contrario delle descrizioni virtuose tramandate sin

dall’antichità – basti pensare ai cani da guardia di Platone nella Repubblica – è quasi sempre caratterizzata

dai tratti poco nobili della sottomissione, della vergogna, della paura, da un lato, e della totale disinibizione

e incontinenza istintuale dall’altro, cosa che spesso è stata attribuita all’influenza della tradizione ebraica,

che è solita descriverlo in modo profondamente negativo rispetto a quella occidentale (Fingerhut, 1969).

Questi attributi, però, possono essere visti come sintomi rivelatori di un’opera di allevamento compiuta,

ma non del tutto, che ha dato i suoi frutti nella dipendenza e nella sottomissione, ma che ancora vacilla

1 Per un’analisi approfondita della figura del cane nella produzione letteraria di Kafka, cfr. Pastorelli, 2015. 2 La relazione tra divenire animale e animalità è ben descritta in Cimatti, 2015.

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nell’incapacità di dominare e annullare gli impulsi istintuali, scontrandosi con l’ingestibile ribellione della

corporeità.

Più precisamente, riteniamo che sia possibile individuare in Kafka una particolare relazione tra uomo e

cane, nell’orizzonte generale della grande opera di domesticazione comune. Già Nietzsche, denunciando

il processo di addomesticamento attraverso il quale è stato trasformato “il lupo in cane e l’uomo stesso

nel miglior animale domestico dell’uomo” (Nietzsche, 1964, p. 203), unisce i due termini del confronto

in un processo di domesticazione, dove si assiste al depotenziamento degli attributi selvatici e aggressivi

del lupo e alla curiosa sottomissione dell’uomo all’uomo e in cui spicca il ruolo dell’essere umano inteso

come animale domestico, a fianco del cane. Tralasciando le problematiche enormi sollevate dalla dottrina

nietzschiana, che esulano dal discorso che si intende portare avanti in questa sede – posti, però, i possibili

riferimenti tra gli scritti di Nietzsche e quelli kafkiani (Fingerhut, 1969) – ciò che ci preme è soffermarci

sull’immagine suggestiva che vede uomo e cane insieme come animali domestici. Potrebbe trovarsi, in

questa particolare forma di relazione, la chiave per una possibile e ulteriore riflessione sulla figura del

cane nell’universo letterario di Franz Kafka.

Ulteriori spunti d’indagine si possono trovare, in questo senso, in uno scritto di natura divulgativa del

celebre etologo novecentesco Konrad Lorenz, E l’uomo incontrò il cane (1973), piccolo testo in cui è

descritta, in modo spesso deliberatamente fantasioso, l’epopea che ha visto coinvolti uomo e cane nel

processo di addomesticamento. Sebbene le opere più importanti di quest’autore sono di un periodo

successivo alla maggior parte degli scritti kafkiani, riteniamo che il parallelismo non sia azzardato, dal

momento che il lavoro dell’etologo può rivelarsi utile per tratteggiare le caratteristiche della figura del

cane in Kafka direttamente legate alla dimensione dell’addomesticamento. Sussistono, inoltre, buoni

motivi per pensare che Franz Kafka fosse al corrente delle ricerche e dei progressi della biologia e degli

studi sugli animali svolti nella prima metà del Novecento, di cui era impregnato il panorama culturale

europeo (Heller, 1989). Sono presi in considerazione, tra l’altro, scritti divulgativi, dunque testi a loro

volta ibridi, al confine tra ambiti letterari diversi, ossia né letteratura né pubblicazione scientifica. Verso

la fine di E l’uomo incontrò il cane, dunque, Lorenz afferma: “Il cane è indubbiamente più simile all’uomo

che la scimmia più intelligente: anch’esso è come l’uomo un essere addomesticato” (p. 107). La cosa

curiosa di questa frase è che sembrerebbe fare emergere una forma di contaminazione, più affine ai

discorsi di Deleuze e Guattari che all’impostazione scientifico-teorica di Lorenz stesso, quella delle

“ridicole classificazioni” (Deleuze, Guattari, 2014, p. 299), per citare i filosofi francesi. In questa frase,

emerge un procedimento diverso, che scavalca le classificazioni di specie, appunto, e le eventuali e

possibili similitudini interspecifiche, per dare vita a un processo dove importante è il rapporto in sé, la

relazione. Dire, infatti, che il cane ha un posto particolare accanto all’uomo, significa ignorare

deliberatamente quel 98% di patrimonio genetico comune che l’essere umano condivide con i primati più

evoluti (Biondi, Rickards, 2009). Da questo punto di vista, leggendo la precedente affermazione, torna

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

facilmente alla mente quella del libro Mille Piani: “ci sono più differenze tra un cavallo da corsa e un

cavallo da lavoro che tra un cavallo da lavoro e un bue” (Deleuze, Guattari, 2014, p. 316). Allo stesso

modo, quando Lorenz affianca all’uomo, invece della scimmia, il cane oltre ogni evidenza filogenetica,

seppur sullo sfondo della traiettoria dell’addomesticamento, mostra, probabilmente al di là delle sue stesse

intenzioni, non una comparazione o una semplice similitudine, ma un processo incompiuto di

contaminazione. Siamo, però, lontani dall’orizzonte di Deleuze e Guattari per il semplice fatto che,

palesemente, questo movimento è unilaterale. Come una stella più grande risucchia con la forza

gravitazionale della sua orbita quella più piccola, anche l’uomo di Lorenz trascina nella sua traiettoria

contro-natura e oltre-natura l’essere a cui attribuisce il nome di cane. Quest’ultimo verrà profondamente

sradicato dall’animalità, ma non si fa mai accenno a come il cane stesso abbia potuto incidere nello

sviluppo dell’umano, accanto al quale resta muto e per molti aspetti incomprensibile, domestico, ma

anche irrimediabilmente alieno (Marchesini, 2017). Non siamo di fronte a un possibile divenire animale,

ma a un divenire uomo mancato del cane.

La figura del cane in Kafka sembrerebbe sposare bene i presupposti di questo orizzonte teorico, per poi

distaccarsene in modo inaspettato e originale, mostrando una forma alternativa di resistenza non al di là

e oltre l’orizzonte dell’addomesticamento che condivide con l’uomo e dell’allevamento imposto da

quest’ultimo, ma rimanendone, comunque, immerso. Una forma di diserzione attuata dentro e contro la

forza gravitazionale dell’umano, al potere della quale il cane non potrebbe, comunque, ormai sottrarsi.

Si torni alla frase che, scavalcando la scimmia, colloca al fianco dell’uomo il cane. Lorenz sembra legare

questi due termini a un destino comune, di radicale sradicamento dalla naturalità verso un altrove mai

dato, proiettando il cane sulla soglia dell’umano.

Il cane è indubbiamente più simile all’uomo che la scimmia più intelligente: anch’esso è come l’uomo un

essere addomesticato e, come l’uomo, deve a questo processo due proprietà fondamentali: primo, la

liberazione dai rigidi vincoli del comportamento istintuale che, anche a lui come all’uomo, apre nuove

possibilità d’azione; secondo, però, quella permanente giovinezza che nel cane è alla radice di un

persistente bisogno d’amore, mentre all’uomo conserva quella giovanile freschezza di animo, grazie a cui

può rimanere, sino a tarda età, un essere in divenire (Lorenz, 1973, p. 107).

La problematicità di questo brano risiede in un impercettibile, ma significativo, sovvertimento della

concezione dell’animalità e nell’attribuzione di tratti generalmente ritenuti di esclusivo dominio umano a

un animale. Il rapporto tra animale e ambiente, ad esempio, è solitamente descritto attraverso le

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

caratteristiche della fissità e rigidità, per come teorizzate nel concetto di Umwelt da von Uexküll (1934)3.

Abbiamo con Lorenz – al di là della maggiore autonomia riconosciuta al vivente rispetto a ciò che lo

circonda grazie al retroterra evoluzionistico che riserva agli organismi margini di apertura al divenire – un

animale che rompe con la rigida relazione a un ambiente di riferimento. Tutto ciò può essere spiegato

attraverso il processo di addomesticamento, che trasforma l’Umwelt del cane nel non-ambiente o

nell’ambiente artificiale umano. Il cane, però, non è l’unico animale ad aver subito questo destino. Perché,

dunque, nella traiettoria aperta da questo processo millenario, vengono affiancati esclusivamente uomo e

cane? Anche facendo nostra l’intuizione di Sloterdijk che vuole la nascita dell’umano legata alla relazione

casa-uomo-animale domestico (Sloterdijk, 2006, p. 254)4, cosa porterebbe, nella serra della

domesticazione comune, nella “mostruosa coabitazione” (p. 255) che ha visto coinvolti cavalli e capre,

galline e gatti, maiali e mucche, proprio il cane a una tale vicinanza con l’umano? Sicuramente

quest’ultimo, o quelli che ne furono i progenitori, possedevano caratteristiche particolarmente adatte per

inserirsi nella vita quotidiana dell’uomo come, ad esempio, l’attitudine a vivere in branco e, dunque, allo

svolgimento di attività comunitarie come la caccia o la difesa. Questo non basta, però, a spiegare

l’affermazione da cui siamo partiti. Di più, non ci dice nulla, né circa il nostro problema, né, forse, sul

cane stesso al quale, in quanto prodotto dell’addomesticamento, difficilmente potranno essere attribuite

doti e caratteristiche pregresse.

Ammettiamo, però, che il cane si sia guadagnato un posto speciale al fianco dell’uomo per le sue innegabili

qualità fisiche, affettive e relazionali, delle quali parla diffusamente Lorenz stesso. Nei capitoli precedenti

al brano preso in considerazione, il cane è rappresentato in un regime di addomesticamento che ne affina

le capacità di comprensione della sfera umana5. È noto, inoltre, come per Lorenz l’emotività e gli impulsi

sociali dell’uomo possano essere a loro volta ricondotti ad una dimensione istintuale definita originaria e

animale (Lorenz, 1967, p. 255-257; Lorenz, 1973, p. 114)6. L’ipotesi di una tale origine dell’affettività e

della socialità potrebbe rendere più facile l’affinità con le attitudini emotive e relazionali di un’altra specie,

quella canina appunto, soprattutto considerato il lungo periodo d’allevamento in cui gli istinti di

quest’ultima avrebbero potuto essere plasmati e modellati sulla forma di quelli umani (p. 100).

Specialmente nel campo dell’espressione, inoltre, secondo Lorenz, l’indebolimento delle caratteristiche

innate a causa dell’addomesticamento “offre nuove possibilità di moduli comportamentali adattativi” (p.

97). Non avere “abissi” che separano la forma di vita umana da quella animale, ma solo gradi di coscienza

3 Anche Martin Heidegger (1983) riprende gli studi di von Uexküll giudicando l’animale immerso nell’ambiente di riferimento. Di particolare importanza l’interpretazione del rapporto tra von Uexkül e Heidegger, dove spicca la figura della zecca, in Agamben, 1996, pp. 44-59. 4 Sul nesso tra addomesticamento, nascita delle società stanziali e violenza contro gli animali nell’orizzonte teorico dell’antispecismo, cfr. Caffo, 2013, pp. 77-88. 5 In Konrad Lorenz prevale una visione esonerativa del rapporto uomo-animale, in cui quest’ultimo è considerato un mezzo per raggiungere scopi specificamente umani. Sul concetto di “esonero” si veda Gehlen, 2010. Sulla differenza tra la visione esonerante e quella postumanistica, più incline a parlare non di “mezzi” utilizzati, ma di partnership, cfr. Marchesini, 2009. 6 Tralasciando le note polemiche che questa teoria ha suscitato negli anni ’70, si rimanda a un’analisi articolata in Accarino, 2005.

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

differenti, per quanto possa essere considerata riduttiva questa posizione – anche dal punto di vista della

concezione stessa dell’animalità (Derrida, 2006) – in questo caso aiuta a concepire più facilmente un

possibile amalgamarsi dell’affettività e strutturarsi della socialità nella sfera innaturale della

domesticazione e dell’allevamento comune, tra due specie così differenti. Nelle sue teorie, Lorenz

attribuisce, inoltre, una forma di coscienza a ogni essere organico, comprendente una certa

consapevolezza della corporeità e di ciò che la circonda, nella ferma convinzione che ogni processo

vivente sia strettamente legato alla conoscenza (Lorenz, 1974)7. Nulla ci vieta di ipotizzare, dunque, che

nella sfera della domesticazione, in quello spazio che vede due esseri viventi coinvolti nell’organizzazione

di una vita in qualche modo comune, l’animale abbia potuto apprendere le logiche complesse

dell’emotività e della socialità umana, dal momento che “ciò che un organismo impara dalla realtà

esteriore viene letteralmente incorporato, incarnato nell’organismo stesso” (p. 25). Spesso, nei testi di

Lorenz, si trovano cani che si “annoiano” o in preda a sentimenti di tristezza o paura. Forse, l’autore usa

superficialmente un lessico generalmente riservato all’umano nel descrivere il comportamento e il sentire

degli animali che prende in considerazione; si potrebbe, però, ipotizzare che il cane abbia, in qualche

modo, assorbito quasi per osmosi, oltre i dettami esteriori delle regole di convivenza con l’uomo – dentro

la casa, in una famiglia – anche gran parte dell’affettività e dell’emotività umane.

Un esempio significativo in tal senso è offerto da un altro testo divulgativo, L’anello di re Salomone, nella

sezione intitolata, non a caso: L’animale con la coscienza (Lorenz, 1967, pp. 255-266). Qui le forme

d’affettività e consapevolezza attribuite al cane sono per la maggior parte legate, kafkianamente, al senso

di colpa e alla vergogna. Sono descritti, infatti, numerosi atteggiamenti definiti “colpevoli” e giudicati

sintomo di “cattiva coscienza” (p. 258), nei casi in cui un animale abbia contravvenuto alle regole dettate

dal padrone. Tali sentimenti sfociano in quello che sembra un vero e proprio senso di vergogna quando,

cedendo generalmente a un impulso istintuale contro quella che viene definita come una sorta di

“volontà” dell’animale stesso, quest’ultimo si ritrova a commettere un “misfatto” (p. 26). Questo

atteggiamento non si riferisce soltanto alla paura del castigo, ma sembra collegarsi a un senso di vergogna,

come ad esempio, nell’episodio in cui l’animale morde accidentalmente la mano del padrone intervenuto

incautamente in una contesa tra cani. Se, nei fatti, l’incidente non è grave – i denti hanno inciso solo

superficialmente la pelle – l’animale sembra cadere in preda a un forte stato di shock e prostrazione

emotiva, nonostante i ripetuti tentativi di consolarlo (pp. 258-259). Un episodio simile è descritto nella

“storia del vecchio Bubi” dove il cane, reo di aver accidentalmente ucciso un papero della casa, appare

letteralmente “affranto” (p. 264). Tutto ciò richiama alla mente il frammento di Kafka, dedicato al cane

Cäsar (Kafka, 2006), che svolge la mansione di guardiano di un giardino, ma non riesce a frenare l’istinto

7 La teoria lorenziana della coscienza è messa in relazione con l’addomesticamento, anche umano, in Fracchia, 2017, pp. 28-50.

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K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, numéro 1, 2/2018

di scappare di nascosto e assentarsi per brevi periodi, cosa che procura al protagonista del breve testo un

forte senso di mortificazione e vergogna. Ancora più consapevole delle consuetudini e del sentire umani,

sembra, però, il cane protagonista delle Indagini, quando inorridisce alla vista dei genitali esibiti dai cani

musicisti che camminano su due zampe, provando vergogna per il loro atteggiamento (Kafka, 1970a, p.

422)8. Le norme di comportamento introiettate dall’allevamento sembrerebbero produrre nel cane forme

di coscienza e modalità emotive difficilmente rintracciabili in altri animali.

Il cane, dunque, grazie alla pressione dell’umano avrebbe mutato, se non la sua forma di vita, quantomeno

le sue attitudini, diventando, inoltre, un essere perennemente infantile, un cucciolo eterno con istinti

annacquati, dal momento che non ha più bisogno di utilizzarli ai fini della sopravvivenza. Con molta

probabilità, è questo che Lorenz intendeva in chiusura del suo breve saggio in cui l’antropomorfizzazione

del cane coincide con il processo di allevamento stesso, dove spicca l’attribuzione della caratteristica

dell’infantilizzazione, generalmente riservata alla forma di vita umana (Plessner, 2006, Gehlen, 2010), con

tutto il suo correlato di nuove possibilità d’azione e di plasticità (Gehlen, 2010). Anche nell’ottica

dell’evoluzionismo lorenziano, che concede agli organismi la possibilità del divenire (Lorenz, 1974)9, è

insolito che siano riservate al cane le caratteristiche dell’apertura e della libertà d’azione. Sembrerebbe,

infatti, che le opportunità del cane dovute alla forma infantile vadano ben oltre quelle concesse agli

antropoidi, soprattutto se si considera che simili peculiarità prodigiose sono attribuite nell’immediato, e

non come mera eventualità proiettata nel corso di millenni avvenire (Sloterdijk, 2006, p. 149).

L’infantilizzazione, però, porta soltanto un eterno stato di minorità. Perennemente bisognoso e

dipendente, il cane in Lorenz manca le possibilità aperte dallo sciogliersi dei vincoli ambientali e istintuali,

rimanendo sottomesso alle logiche, a lui sempre estranee e sconosciute, dell’allevamento umano10.

Tenendo fermo questo retroterra come punto di riferimento, emerge come il cane, ormai addomesticato,

sia immerso nell’orizzonte artificiale dell’allevamento umano senza, però, riuscire a dominarlo e

nell’impossibilità di comprenderlo. È questa la condizione del protagonista delle Indagini di un cane, che

vorrebbe capire da dove viene il cibo. La scienza di cui dispone la razza canina teorizza che il cibo nasca

direttamente dalla terra, ma, nei fatti, “per la maggior parte, scende dall’alto”, al punto che i cani sono

soliti intercettarlo “prima che tocchi terra” (Kafka, 1970a, p. 440).

Nella sospensione della lotta alla sopravvivenza, le consuetudini alimentari cambiano, sia per l’uomo, sia

di conseguenza per il cane. Da tempo immemore il cibo non rappresenta più un affanno quotidiano, ma

8 È ancora Nietzsche a legare vergona, nudità e addomesticamento in Nietzsche, 1979, p. 218. Su nudità e vergogna in relazione all’animale si veda anche: Derrida, 2006, e il commento di Calarco, 2008, p. 130. Sulla nudità considerata come soglia tra animalità e umanità, cfr. anche Agamben, 2009. 9 Sul concetto di infantilizzazione e la sua importanza, soprattutto in relazione alla concezione dell’umano, cfr. Bölk, 2006; Gehlen, 2010; Plessner, 2006. 10 “Essere cane significa dover stare con l’uomo, seguirlo, fare quello che vuole, quando lo vuole lui, senza fare domande, senza fare storie, senza scappare”, per questo “cane” è “una parola da cui non si può più scappare” (Cimatti, 2017, p. 12).

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Kafka, la scrittura della destituzione? – Kafka, l’écriture de la destitution ?

arriva e basta, senza interruzioni e spiegazioni. La razza canina resta muta e indifferente alle domande del

ricercatore solitario. Forse non vuole intenzionalmente rispondere? Molto probabilmente, non sa cosa

rispondere o non ricorda la risposta, sepolta nei millenni che separano i cani moderni dai loro antenati,

nonostante resti la “sensazione che non sia sempre stato così” (p. 445). Questo clima generale di

sospensione dei bisogni e il profondo disagio e turbamento che provoca, almeno nel protagonista, ha

un’altra figura emblematica nei cani volanti, esseri misteriosi, discendenti di razze “artefatte”, che vivono

sospesi, senza più contatto con la terra e con i loro simili (pp. 431-432). Leggendo la descrizione che ne

fa Kafka, non si può fare a meno di pensare a quei penosi chihuahua, frutto di innesti di razze artificiali,

che passano la loro vita in casa ed escono esclusivamente sospesi nelle borse dei rispettivi proprietari.

Una volta che la lotta per la sopravvivenza di darwiniana memoria è interrotta, si modifica anche il patto

che intercorre tra uomo e cane. Quest’ultimo, non più mezzo di caccia, raramente strumento di guardia

e difesa, resta inerme e svuotato di una funzione legata al suo retroterra animale, per staccarsi del tutto

dalla concretezza del corpo e diventare un essere totalmente permeabile alle esigenze umane. I cani

volanti, che non si accoppiano, presumibilmente non sporcano e non si sporcano, alla pari dell’ultimo

uomo nietzschiano (Nietzsche, 1964, p. 14), sarebbero lo spettro – profetico forse – e la minaccia di un

addomesticamento compiuto.

Meno a loro agio sono ancora i sette cani musicisti, figure chiave del racconto, e simbolo dell’animalità

travolta dalla potenza di una tecnica estranea, che giunge da fuori per imporre modelli d’agire e di

comportamento non-naturali o mostruosi, come camminare ritti sulle due zampe posteriori. Gli animali,

apparentemente a loro agio, a un’osservazione attenta appaiono tesi, quasi disperati: è evidente che una

forza superiore li obbliga a comportarsi in modo tanto singolare. Da qui la domanda dell’investigatore

protagonista: “Chi li costringeva ad agire come agivano?” (Kafka, 1970a, p. 421); alla quale fa eco l’altra,

ancora più esasperata: “Sempre doveri. Riesci a capire perché dobbiamo?” (p. 449). Queste domande, al

pari delle altre, sono destinate a cadere nel nulla, perse, potremmo ipotizzare, nelle consuetudini, ormai

d’antica data, della domesticazione e allo stesso tempo annegate nel silenzio che, per ammissione stessa

del protagonista, da sempre contraddistingue la razza canina: “noi resistiamo a tutte le domande, persino

alle nostre, da quei baluardi del silenzio che siamo” (p. 430).

Un’altra figura emblematica del rapporto uomo-cane è quella rappresentata dagli sciacalli nel racconto

Sciacalli e arabi (Kafka, 1970b). Tralasciando le interpretazioni politiche generalmente legate a questo testo,

ci soffermiamo sull’immagine del cugino selvatico del cane, poiché, proprio per il distacco dal mondo

domestico, può rivelare più nettamente la misura della distanza che separa, nonostante tutto, i due

universi. Ad esempio, per quanto riguarda la tecnica e il suo utilizzo, gli sciacalli sono più accorti dei cani

musicisti, non osano tentare di padroneggiarla da soli, ma, consapevoli di avere “solo i denti per tutto

quello che vogliamo fare, il bene come il male” (p. 228), invocano l’intervento di un uomo, a cui chiedono

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di uccidere gli arabi accampati nel deserto con un paio di forbici. Solo così, con la liberazione dalla

presenza umana che è sempre minaccia d’addomesticamento, gli sciacalli potranno dirsi nuovamente

liberi, in una forma di libertà che mantiene la tipica innocenza animale circa l’utilizzo della tecnica.

“Soltanto purezza vogliamo” (ib.) dichiarano gli sciacalli, per bocca del capo e in coro11. Questo concetto

di purezza può essere letto come il rifiuto di ogni contaminazione tecnica, poiché in quel momento,

proprio come i cani musicisti, gli sciacalli perderebbero la loro naturalezza selvatica con la probabile

conseguenza di non potersi più liberare da tale influenza. Oltrepassata la soglia della spontanea naturalità

animale, come l’uomo più o meno dolorosamente testimonia, non si torna indietro (Plessner, 2006). Allo

stesso tempo, però, in un movimento binario, il rifiuto sembra mischiarsi con il desiderio di utilizzare la

tecnica destinato a rimanere, per ovvi motivi, irrealizzato. Così la dichiarazione di “avere solo i denti”

assume la dimensione di un’ammissione di mancanza e sconfitta. L’attrezzo rappresenterebbe, in

quest’ottica, tutto ciò che si spalanca agli occhi dell’animale trascinato in orizzonti artificiali, rispetto ai

quali è destinato a rimanere estraneo. È qui evidente la differenza ontologica tra la mano e le zanne, dove

il primo termine non ha nulla a che vedere con le appendici prensili degli stessi primati (Köhler, 1968)12.

Il tentativo di emanciparsi dal dominio umano attraverso l’umano stesso – quasi un ribaltamento della

legge dell’addomesticamento che ha visto l’uomo utilizzare il cane – naufraga, come è noto, nell’orgia

istintuale che si scatena alla comparsa della carcassa del cammello, gettata appositamente dagli arabi che

ne approfittano per umiliare ancora di più gli sciacalli colpendoli con la frusta. Gli uomini deridono

l’incontinenza delle bestie, ma questa potrebbe essere intesa, anche, come una forma di liberazione

dell’animale dalla paura dell’uomo attraverso l’accecamento istintuale.

Forse nessuna figura kafkiana esprime meglio il dramma di vivere immersi in un orizzonte artefatto come

quella dell’animale del racconto del 1917 Un incrocio. I cani in Kafka, al contrario di quelli lorenziani evocati

in precedenza, sono tutti bastardi, nella fedeltà alla figura ambigua e ibrida del cane, ma anche per il rifiuto

della logica dell’allevamento che incasella gli animali nelle gabbie concettuali delle razze. L’incrocio del

racconto fa esplodere questi presupposti, mostrandosi direttamente come un insieme di pezzi di creature

diverse. Metà gatto e metà agnello è, tuttavia, nel modo di comportarsi, a tutti gli effetti un cane (p. 384).

L’enigmatico incrocio sembra suggerire che il cane in quanto tale non esiste, o, meglio, “non è un

animale” (Cimatti, 2015, p. 12), almeno non in senso comune, dal momento che, nella sua forma di vita

e nelle modalità d’esistenza, come prodotto d’allevamento e domesticazione, è un essere artificiale, quasi

11 Nel racconto la figura di uno sciacallo viene subito moltiplicata e dissolta nel branco (Deleuze, Guattari, 1996). 12 La contrapposizione mano- denti è direttamente legata al problema del linguaggio, tema sul quale non possiamo soffermarci debitamente in questa sede. La mano è generalmente considerata un vero e proprio spartiacque tra l’animalità e la sfera umana, non solo per le sue indubbie capacità di utilizzabilità tecnica, ma anche – e soprattutto – in quanto presa di distanza dalle cose del mondo, emblema e fonte di un’azione differente, aperta al progettare e al pensiero teorico (Sloterdijk, 2006). In questo distacco che implica sempre una rinnovata opera di mediazione, si trova, per dirla con Derrida, la co-appartenenza essenziale tra mano e parola (Derrida, 1991).

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quanto l’uomo, anche se più di quest’ultimo conserva resti di animalità pregresse13. È curioso, inoltre,

come fulcro del breve testo, nonostante la forma mostruosa dell’incrocio, sia la descrizione di un

“classico” rapporto d’affetto e fiducia tra l’uomo e il suo animale domestico (Pastorelli, 2015). La strana

creatura si acciambella sulle ginocchia del padrone e ne raccoglie persino il pianto, nella suggestiva scena

in cui i dispiaceri dell’uomo si incarnano, letteralmente, in due grosse lacrime che pendono dai baffi

dell’animale (ib.). L’incrocio, però, va oltre, tentando addirittura di parlare: “Accosta il muso al mio

orecchio, pare che mi dica qualcosa” (ib.). Ovviamente questo tentativo naufraga nell’incomunicabilità

che divide l’essere umano dal resto dei viventi, dove il linguaggio rappresenta l’abisso e la soglia

invalicabile di questo confine. Che cosa sussurra l’incrocio all’orecchio umano? Nient’altro che

l’impossibilità di divenire ulteriormente, di compiere interamente e una volta per tutte la parabola iniziata

con l’addomesticamento. Nonostante non sappia “stare nella sua pelle” (ib.), tentando di acquisire sempre

nuove forme, proprio perché privato dalla domesticazione di un’autentica e stabile struttura animale, il

divenire uomo gli è precluso. L’impossibilità di trasformarsi pienamente in un uomo, per il cane, riflette

quella dell’uomo di tornare all’animalità, nonostante gli sia anche negato di avere un punto d’approdo

(Plessner, 2006). Uomo e cane si trovano, così, sull’onda dell’addomesticamento comune, in un “in

mezzo”, lontano dall’origine, ma senza la possibilità di un arrivo, uniti dall’attitudine alla socialità e dagli

stili di vita, ma divisi dal silenzio ostinato della bestia e dal differente linguaggio umano14. Il richiamo ai

denti (Kafka, 1970b), come i molteplici rimandi alla fame (Kafka, 1970a), possono essere letti, in questa

prospettiva, come la denuncia di un’impossibilità d’accesso alla tecnica e al linguaggio da parte del cane,

il cui modo di rapportarsi a ciò che lo circonda, passando esclusivamente dalla bocca, è ancora troppo

immediato e fisico. Il cane in quanto fame è istinto e bisogno, supremazia del corpo che detta le sue

necessità ed esige le sue soddisfazioni. L’ammissione degli sciacalli di avere “solo i denti” rappresenta

non solo la denuncia delle impossibilità biologiche di un comportamento tecnico, ma anche, e, forse,

soprattutto, di un’irrimediabile mancanza: quella della bocca fatta esclusivamente per afferrare e dilaniare,

allo stesso tempo fisiologicamente e ontologicamente incapace di parlare. Non a caso il cane delle Indagini

afferma: “Noi siamo quelli che il silenzio schiaccia, che vorrebbero infrangerlo quasi per fame d’aria”

(Kafka, 1970a, p. 434).

Questo silenzio, però, può rappresentare anche una forma di resistenza agli obblighi imposti dal

linguaggio umano. Nell’allevamento e nell’addestramento dei cuccioli, infatti, il potere dell’uomo è sin dal

principio espresso e veicolato da comandi verbali. Lorenz riconosce al cane una certa predisposizione alla

comprensione del linguaggio, affermando che questo animale capisce alcune espressioni linguistiche, ma

esclusivamente nell’ottica della relazione con ciò che viene definito il padrone (Lorenz, 1973, p. 101).

13 La chimera creata da Kafka in questo racconto, può essere anche intesa nel senso attribuito in Derrida, 2006, p. 82. 14 Sul parallelismo linguaggio/mutismo cfr. Agamben, 1996, pp. 83-86.

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Spicca come Lorenz si soffermi, inoltre, lungamente sull’educazione al rispetto di comandi meramente

verbali, come quelli classici di “fermo” o “vieni”. Meno spazio è riservato, viceversa, a tecniche

d’addestramento incentrate sulla gratificazione o la punizione fisica, dal momento che la cosa giudicata

fondamentale è che il cucciolo comprenda determinate parole e risponda in modo appropriato (Lorenz,

1967, p. 98)15. Da questo punto di vista, anche dare un nome all’animale è il primo e più forte dispositivo

di potere attuato dal sistema dell’allevamento: un cane ben addestrato, infatti, è quello che risponde

prontamente al proprio nome. Rimanere fuori dal linguaggio, dunque, significa in qualche modo non

compromettersi con le stesse forme e logiche di controllo insite nell’addomesticamento. Là dove la

chimera dell’incrocio manca nel suo tentativo di comunicare con l’uomo, recupera un’inaspettata

animalità, che potrebbe essere il sintomo di una particolare forma di resistenza. Se il potere è espresso ed

esercitato tramite il linguaggio, l’ostinazione al silenzio da parte del cane negli scritti di Kafka può essere

interpretata come una forma di diserzione pari a quella che lo scrittore Giorgio Vasta attribuisce agli

“organismi non verbali”, ossia quei personaggi che restano “muti” in un contesto dove il potere,

attraverso il linguaggio, ripropone le stesse logiche violente anche in chi vorrebbe opporsi (Vasta, 2017)16.

“Gli manca solo la parola” non è un ritornello banale, ma sottintende, spesso, una profonda nota di

rammarico e rimprovero, quasi la denuncia di un tradimento. L’animale che abbiamo creato

battezzandolo e allevandolo non potrà mai realmente seguirci, o, meglio: ci segue nella mancanza e nella

resistenza. Così facendo ci ricorda, da un lato, un passato irrecuperabile, dall’altro, nonostante la

prossimità, ci lascia da soli nella radura del linguaggio. Heidegger, in questo, aveva ragione: vivono con

noi, ma non esistono come noi (Heidegger, 2005, p. 271)17. Restano ai margini della Lichtung, a gironzolare

nel sottobosco, sotto l’ultima fila di alberi che ne segna il confine. Il progetto dell’allevamento naufraga

e si infrange contro la resistenza bio-ontologica di un corpo diverso. Là dove impera l’homo loquens, il

silenzio è diserzione.

Un suggerimento significativo, in tal senso, è offerto da un altro grande autore della deterritorializzazione

e dei margini, Céline, che, in Viaggio al termine della notte (2011), paragona la madre dell’io narrante a una

“cagna”, per l’istintiva felicità di riabbracciare il figlio momentaneamente tornato dal fronte. Le

attribuisce, però, anche un’irrimediabile inferiorità, poiché, rispetto all’animale, la donna si lascia

ingannare dalle falsificazioni del linguaggio dei doveri e dei valori, cosa che non aiuta il figlio alla ricerca

ossessiva di una salvezza. Molto più avrebbe giovato il silenzio, se non la completa impermeabilità al

15 Un discorso a parte riguarda il linguaggio non verbale e dei gesti, anche nella relazione tra uomo e cane. Cfr. Lorenz, 1950, pp. 96-99. 16 Sul linguaggio come strumento di potere e sulle possibili strategie di diserzione attraverso il silenzio, anche in riferimento a Giorgio Vasta, cfr. Salza, 2015. 17 Nella critica della valutazione heideggeriana sulla differenza uomo/animale basata sul linguaggio e il tema della risposta, ci sembra che anche Derrida suggerisca una via di fuga. Si veda Derrida, 2006. “La mancanza di un linguaggio umano tra gli animali non è in realtà una mancanza o una privazione”, Calarco, 2008, p.153. Cfr. anche Caffo, 2014.

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linguaggio, dal momento che “la cagna, almeno, non crede che a quello che prova” (p. 92). Superiorità

del sentire corporeo, opposto ad ogni rappresentazione linguistica, là dove è necessaria una via di fuga.

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