"In varietate concordia": una cultura unita per l'unità d'Europa

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1 Anno VIII Nuova Serie N. 2-3/2011 In varietate concordia: una cultura unita per l’unità d’Europa (a cura di Laura Balestra) Trattare nello spazio di un breve articolo l’annosa questione della ricerca di un comune patrimonio culturale per l’Europa e a cui l’Europa possa attingere nel definirsi tale e unitaria è quanto mai arduo e, per certi versi, periglioso per le notevoli implicazioni politiche, sociali e religiose che essa reca inevitabilmente con sé. Si intende qui procedere alla maniera questuante del Socrate errante per le vie d’Atene, intento ad indagare il ti esti, il “che cos’è” delle cose… Cos’è l’Europa? Nel sito web ufficiale dell’UE, alla sezione “Informazioni di base sull’Unione Europea” si legge: «L’Unione europea (UE) è un partenariato economico e politico tra 27 paesi, unico nel suo genere. Da mezzo secolo l’UE è un fattore di pace, stabilità e prosperità; ha contribuito ad innalzare il tenore di vita, introdotto una moneta unica europea e sta progressivamente realizzando un mercato unico nel quale persone, beni, servizi e capitali possono circolare liberamente come all’interno di uno stesso paese». 1 Procedendo, in un click, ai “Simboli dell’UE”, si trova un elenco, per così dire “anagrafico” delle generalità d’Europa: la bandiera, in cui «le 12 stelle in cerchio rappresentano gli ideali di unità, solidarietà e armonia tra i popoli d’Europa»; l’inno, tratto «dalla Nona sinfonia di Ludwig van Beethoven, composta nel 1823»; la festa, il 9 maggio, in memoria di quel 9 maggio 1950 in cui «gli ideali dell’Unione Europea sono stati enunciati per la prima volta […] dal Ministro degli Esteri francese Robert Schuman»; il motto “Uniti nella diversità”, che in latino suona In varietate concordia ed è stato scelto «ad indicare come, attraverso l’UE, gli europei siano riusciti ad 1 Cfr. http://europa.eu/about-eu/basic-information/index_it.htm

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Anno VIII – Nuova Serie – N. 2-3/2011

In varietate concordia:

una cultura unita per l’unità d’Europa

(a cura di Laura Balestra)

Trattare nello spazio di un breve articolo l’annosa questione della ricerca di un comune patrimonio

culturale per l’Europa e a cui l’Europa possa attingere nel definirsi tale e unitaria è quanto mai

arduo e, per certi versi, periglioso per le notevoli implicazioni politiche, sociali e religiose che essa

reca inevitabilmente con sé. Si intende qui procedere alla maniera questuante del Socrate errante per

le vie d’Atene, intento ad indagare il ti esti, il “che cos’è” delle cose…

Cos’è l’Europa?

Nel sito web ufficiale dell’UE, alla sezione “Informazioni di base sull’Unione Europea” si legge:

«L’Unione europea (UE) è un partenariato economico e politico tra 27 paesi, unico nel suo genere.

Da mezzo secolo l’UE è un fattore di pace, stabilità e prosperità; ha contribuito ad innalzare il

tenore di vita, introdotto una moneta unica europea e sta progressivamente realizzando un mercato

unico nel quale persone, beni, servizi e capitali possono circolare liberamente come all’interno di

uno stesso paese».1 Procedendo, in un click, ai “Simboli dell’UE”, si trova un elenco, per così dire

“anagrafico” delle generalità d’Europa: la bandiera, in cui «le 12 stelle in cerchio rappresentano gli

ideali di unità, solidarietà e armonia tra i popoli d’Europa»; l’inno, tratto «dalla Nona sinfonia di

Ludwig van Beethoven, composta nel 1823»; la festa, il 9 maggio, in memoria di quel 9 maggio

1950 in cui «gli ideali dell’Unione Europea sono stati enunciati per la prima volta […] dal Ministro

degli Esteri francese Robert Schuman»; il motto “Uniti nella diversità”, che in latino suona In

varietate concordia ed è stato scelto «ad indicare come, attraverso l’UE, gli europei siano riusciti ad

1 Cfr. http://europa.eu/about-eu/basic-information/index_it.htm

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operare insieme a favore della pace e della prosperità, mantenendo al tempo stesso la ricchezza

delle diverse culture, tradizioni e lingue del continente».2

Le informazioni di base, in genere, dovrebbero affrescare un quadro d’insieme esaustivo, eppure

lasciano, in questo caso, un eventuale indagatore non del tutto soddisfatto. Il profilo d’Europa che

emerge trae davvero la propria natura nei tratti caratteristici di partenariato, economia, politica,

bandiera, inno, festa e motto? Si brancola, pare, nell’alveo dell’indistinzione e verrebbe spontaneo

ribadire l’interrogativo iniziale: ma cos’è l’Europa? Qual è la sua essenza profonda, unitaria,

identitaria che la rende tale e distinguibile da altro? Forse la natura delle istituzioni operanti in nome

d’Europa saranno maggiormente illuminanti: «L’Unione europea (UE) non è una federazione come

gli Stati Uniti. Non si tratta nemmeno di un’organizzazione per la cooperazione tra i governi, come

le Nazioni Unite. È, infatti, un organismo unico nel suo genere. I paesi che costituiscono l’UE (gli

“Stati membri”) conservano la propria natura di Stati sovrani indipendenti, ma uniscono le loro

sovranità per guadagnare una forza e un’influenza mondiale che nessuno di essi potrebbe acquisire

da solo. Nella pratica, mettere insieme le sovranità significa che gli Stati membri delegano alcuni

dei loro poteri decisionali alle istituzioni comuni da loro stessi create in modo che le decisioni su

questioni specifiche di interesse comune possano essere prese democraticamente a livello

europeo».3

Un organismo unico nel suo genere, esteticamente definito, parrebbe, nelle sue direttrici essenziali,

sebbene nessuna delle definizioni finora proposte ne definisca l’essenza. L’Europa si staglia

sovrana, ma come un «tempio senza santuario»4, privo del quid sacrale che d’ogni templum è

essenziale fondamento. Sappiamo che l’Europa accentra in sé un’unione di 27 Paesi, è aperta a

nuove candidature di adesione a divenire Stati membri, è fondata su un sistema economico e

commerciale, la cui stabilità sta ultimamente vacillando, è politicamente democratica, ma non è una

federazione di Stati come gli U.S.A. né un’organizzazione per la cooperazione tra governi come le

Nazioni Unite, ebbene, si è in presenza di un’elencazione piuttosto sterile di ciò che l’Europa è e di

una altrettanto inefficace definizione di ciò che essa non è. Essere o non essere: questo è, da sempre,

stato il problema! Giungere a stabilire ciò che si è o non si è mediante la differenza per

oppositionem, alteritaria rispetto ad un altro Sé identitario, può costituire un buon punto di partenza

per comprendersi e comprendere l’Altro, nella cui di-versità iniziale si potrà certo riscontrare una

primaria av-versità, tuttavia ricomponibile entro l’idea di diversità intesa come essenza positiva e

non in-essenza oppositiva, ma in queste definizioni date si assiste ad una sorta di punto d’arrivo

2 Cfr. http://europa.eu/about-eu/basic-information/symbols/index_it.htm

3 Cfr. http://europa.eu/about-eu/institutions-bodies/index_it.htm 4 Cfr. G.F.W. Hegel, Scienza della logica, tr. it. di A. Moni con revisione di C. Cesa, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 19743,

vol. I, p. 4

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senza meta statuita. L’Europa sa ciò che non è, ha una vaga percezione generica di ciò che è e su

basi esteriori identifica se stessa, ma in interiore cos’è l’Europa? Qual è la verità che in essa

alberga, se esiste? Qual è il suo spirito? Quali sono le sue radici culturali? Qual è il senso

dell’Europa? La domanda sul senso ultimo e necessario delle cose emerge e s’impone solo quando

le cose in questione paiono perderlo. L’Europa sembra aver raggiunto il proprio tramonto critico

prima ancora, forse, di esser nata alle sue origini. Ricercare l’esse proprio dell’Europa, prescinde

dal suo agire esteriore, che non la qualifica, né la definisce in quanto tale. La ricerca d’essenza, la

tedesca Wesensforschung, è il metodo che conduce sulla via predicativa delle cose: il predicato

ontologico primo dell’Europa, della sua idea e cultura in quale elemento può essere rintracciato?

Arrischiare una risposta è tanto complesso quanto affascinante e di certo, ciò che di rilevante si

ricava dalle definizioni del Trattato di Lisbona5, non è sufficiente a stabilire il ti esti europeo: «mai

in nessun luogo i semplici trattati hanno creato una comunità, al massimo essi la esprimono».6

La concezione che l’Europa attuale ha di se stessa non può essere risolta in e da un trattato ed è

paragonabile, in ciò, alla Gesellschaft del sociologo Ferdinand Tönnies, una società che unisce

senz’anima, una panoplia senz’uomo, senza valori né radici e, stando così le cose, appare più che

chimerica l’utopia d’unire i popoli d’Europa sotto un unico blasone, in una concorde Gemeinschaft,

comunità di valori condivisi, «unità nel differente»7: ideale immagine che l’Europa vorrebbe,

dovrebbe avere di sé. Scrive Tönnies: «[…] mentre nella comunità [Gemeinschaft] (gli individui)

restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella società [Gesellschaft]

restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono».8

Ed è quest’ultima affermazione a rappresentare specificamente, oggi, l’Europa, la Gesellschaft

europea, un arcipelago senza mare che unisca isole sorelle, una sovra-nazione associante più

nazioni in qualità di sovrano organo collettivo. Ma, se proprio la sovranazionalità,

l’«Übernationalität Europa»9 di Husserl divenisse più di un mero legante economico-politico,

edificandosi come trascendentale condizione possibilitante la cooperazione attiva fra nazioni

culturalmente e valorialmente identiche, pur nella loro diversità? Il principio da cui avviare

l’indagine, vòlta a definire le linee direttrici di “una cultura armonica per l’Europa unita”, si orienta

5 Cfr. http://europa.eu/lisbon_treaty/faq/index_it.htm#19 «[…] il trattato di Lisbona è un trattato internazionale

approvato e ratificato da Stati membri sovrani che convengono di mettere in comune parte della loro sovranità in una

collaborazione sopranazionale». 6 Cfr. M. Scheler, L’eterno nell’uomo, tr. it. a cura di U. Pellegrino, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1972 7 F. Tönnies, Comunità e Società, tr. it. G. Giordano, M. Ricciardi (a cura di), Laterza, Roma-Bari 2011, p. 61 8 Ibid., passim 9 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, Il Saggiatore,

Milano 1961, pp. 56 ss.

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lungo la via dell’incessante dinamica fra unità e pluralità10, il methodos d’Europa, ed è in tale

dialettica tensionale che, seppur nell’apparente aposiopesi valoriale, anche l’Europa in fieri ha

stabilito il proprio signum: «in varietate concordia», il logos del molteplice.11

Ethos e telos: chi siamo e dove andiamo?

È possibile comprendere l’Europa a partire dall’Europa stessa? Esiste una nazione, un evento o

momento storico particolare che, solo, ne possa decretare la caratteristica precipua? Atene, Roma,

Gerusalemme, Medioevo, Umanesimo, Rinascimento, Riforma e Controriforma, Poitiers (732 d.C.),

Lepanto, Illuminismo, Rivoluzione francese, Cristianesimo, Laicità, Relativismo, Nichilismo? Ogni

visione parziale non renderà mai l’idea dell’universale e il tessuto culturale d’Europa è

polidentitario, un unicum, ma riconducibile ai molti, non all’uno. L’atto di definizione del Sé

identitario non può prescindere da tre domande fondamentali: Da dove veniamo? Chi siamo? Dove

andiamo? Il rimando all’arte pittorica di Gauguin è intuitivo ed immediato, ma non si tratta, in

questa sede, di figurare l’allegoria narrativa dell’uomo, bensì il tentativo è rivolto a statuire il

carattere e il fine dell’“essere europei”. Esiste un ethos europeo, una comune “coscienza unitaria”

fra le nazioni d’Europa? Esiste una mistica culla, una mater trascendente, una natio spirituale che

educhi e allevi gli orfani figli d’Europa? Scrisse Husserl che «l’Europa spirituale ha un luogo di

nascita in una nazione. Questa nazione è l’antica Grecia del VII e del VI secolo a.C.».12 I Greci,

inventori della filosofia e signori del logos, che tutti gli uomini affratella in un comune afflato

razionale: il pensiero, la «scoperta dello spirito».13 Nell’afferrare il proprio carattere, l’Europa lo

scopre essere di greca natura, fondato sulla Ragione, una ragione critica, che ha come proprio fine

l’essere umano. Il nome, il mito stesso di Europa intraprende la via, l’odos che si fa methodos, da

Oriente a Occidente, nel rapimento di una fanciulla fenicia sedotta dal padre degli dei, condotta per

mezzo del mare al di là del mare stesso e la sua indole, all’apparire, si mostra già connessa e distinta

da Asia, sorella d’essa dalla medesima origine (genos tautos). Nella letteratura e nella storiografia

greche, Europa ed Asia sono kasignèta14, sorelle di sangue dall’unica e identica genesi e memoria,

dove l’essere di ciascuna si dà identità nel differire dall’altra. Cavalle oniriche dall’impeto di-verso,

allegoria dell’ethos proprio di ognuna, che sconvolge i sogni di regine antiche, persiane, visionarie

per simboli delle due potenze reali.15 Nell’armonica dissonanza, l’interrogazione sul Sé e sull’Altro

10 Cfr. J. Ortega y Grasset, La società europea, in Storia e sociologia, tr. it. a cura di L. Infantino, Liguori, Napoli 1983,

p. 265 11 Cfr. M. Cacciari, L’Arcipelago, Adelphi, Milano 1997, pp. 18-19 12 Cfr. E. Husserl, cit., pp. 56-57 13 Cfr. B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino20022, passim 14 Eschilo, Persiani, 185-186 15 Cfr. Ibid., 176-200. Il riferimento è al noto sogno della regina persiana Atossa, contenuto nella tragedia eschilea, I

Persiani. La madre del Gran Re Serse sogna, una notte, mentre il figlio è in spedizione contro i Greci, due donne ben

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aggioga le distinzioni senza escluderle, ma comprendendole, gettando il pròblema del reciproco-

distinto Essere nella superiore unità del Logos, il quale «altro non potrà significare che l’originaria

comunanza del differire: l’esser-uno del molteplice proprio in forza delle differenze tra le sue

singolarità».16 Così come la Grecia scoprì la sua libertà nel separarsi e opporsi alla douleia

orientale, conquistando la fiaccola teoretica alla ragione dell’uomo, così il Cristianesimo trovò se

stesso, nella sua dimensione universale, nell’innesto e successiva differenziazione dal giudaismo e

dalla “follia” pagana, divenendo skandalon esso stesso, confine limitante e limitato, nella pars

occidentale, dall’Islam; i Lumi s’accesero in contrasto alle tenebre medievali, che pure ebbero

ragione e ragioni per essere ciò che furono e la francese libertà fraterna dell’uguaglianza capì se

stessa assaltando la roccaforte avversa dei privilegi anti-libertari. L’Europa è un «cantiere

tumultuoso e disordinato»17, secondo la definizione di Edgar Morin, la cui cultura sussiste, vitale, in

conflitti e opposizioni, crisi e decadenze, vortici di interazioni che uniscono e separano, opponendo

in tensione costante philia ed echtria, capace anche, in virtù del Cristianesimo, di ricomporle in

philoxenia o agape ton echtron (Mt 5, 44). La dinamica dei discordi plurali è al centro del suo genio

logico e dialogico, che la rende incessantemente «produttrice/prodotto» di istanze meticce,

mutevoli, di-verse/av-verse, ricche e complesse, affascinanti quanto ostili, inquietanti e pur tuttavia

necessarie nel loro essere ospiti feconde. Il logos che le percorre da una parte all’altra le sublima

nell’unicum che è fondamento analogico delle diversità stesse. Il logos-dialogos d’Europa è un

logos polemikos18, spazio di mediazione mnestico fra istanze opposte che, nella vicendevole

differenza, si uniscono fraterne: è questo l’ethos d’Europa, teso ad un intento che, dall’alba ellenica,

dall’uomo antico all’uomo nuovo, per mezzo d‘un Impero e d’una croce, approda a fine ultimo. Il

telos verso cui l’Europa persegue quell’incessante anelito all’essenza di sé transita per il medium del

logos. Il fine verso cui tende ed è stata chiamata a tendere l’idea di Europa, la dinamica polisensa

dell’Uninone Europea, dopo l’evento storico del Cristianesimo, è la bifronte natura dell’essere

umano: l’uomo e la donna, la persona. Telos è Persona, nell’idea d’Europa, e nessun tessuto

semantico, nella storia d’Oriente e d’Occidente, ha riconosciuto un valore tanto elevato alla

persona, come l’alveo fecondo di quella fede che, del logos incarnato, del Dio comunicatosi

Persona fece emblema dell’esistente e del futuro. L’entelechia d’Europa si volge in una direzione,

de dignitate hominis, ma non intesa solo alla maniera dell’Umanesimo, che nel suo

vestite, adorne l’una di pepli persiani, l’altra di dorici, belle, sorelle e appartenenti alla stessa stirpe. Entrambe sorte a

contesa, spronano Serse ad aggiogarle, come cavalle, al proprio cocchio. Asia, simbolo di servitù e dispotismo, pone

docile le redini nella bocca, Europa, allegoria della libertà, si divincola spezzando il giogo nel mezzo. Le due sorelle

di sangue si separano dalla cooriginaria stirpe per divenire ciascuna se stessa nell’esser l’opposto dell’altra. 16 M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 20084, p.25 17 E. Morin, Pensare l’Europa, Feltrinelli, Milano 1988, p. 97 18 M. Cacciari, Geofilosofia…, cit., passim

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antropocentrismo, tutto intento a far dell’uomo il protagoreo metron d’ogni cosa, lo mutò in

sapiens, faber senza Dio, artefice di se stesso, fondamento d’una nuova religione, tutta umana,

dell’uomo, per l’uomo e sull’uomo. La dignità da recuperare, dopo il crollo dell’Umanesimo laico,

è la dignitas originaria del Cristianesimo che, a dispetto di Atene o Roma, di Parigi o Philadelphia,

riconobbe tutti fratelli senza distinzione alcuna di razza o genere, senza esigenza di recriminazioni o

contro-dichiarazioni di diritti19, come proclamò, in tempi lontani eppur sempre vicini, quell’antico

persecutore divenuto apostolo delle genti: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né

libero; non c’è più né uomo né donna, poiché tutti (sono) uno in Cristo».20 Questa fu la grande

rivoluzione del Cristianesimo, i cui principi andrebbero ricompresi e recepiti ancora oggi, senza

timori, dettati da una memoria volontariamente immemore del proprio passato, nell’affaccendarsi a

risultare il meno possibile invisa a tutti. Decidere d’essere nessuno per lasciar che ognuno sia libero

di vederci come meglio crede equivale a non esistere, a non essere. Negare il proprio passato è

negare se stessi. L’Europa, soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino, limes fra Est ed Ovest,

che ha ridisegnato i confini geografici e storico-spirituali di quest’unione ancora pienamente da

raggiungere, necessita di una identità, da far maturare negli anni a venire in frutti sempre nuovi, ma

a partire da una salda radice, la quale, tuttavia, costretta, vive nascosta in rinnegamento costante,

sospesa in attesa, al fin di tutti servire senza a nulla, effettivamente, in tale modo, servire.

Leggevo recentemente di un’intervista al filosofo Remo Bodei circa il destino dell’Europa in preda

all’oblio di se stessa, ebbene, le vie che Bodei ravvisa e suggerisce affinché questo «[…] gigante dai

piedi d’argilla, formato da ventisette Paesi con storie tutte diverse, in un’estensione che va dalle

Azzorre a Cipro, dal Circolo polare artico a Malta» ritrovi se stesso sono: «una costituzione politica

omogenea con rappresentanti credibili e la precisa volontà di puntare sulla ricerca, investendo in

innovazione e tecnologia».21 Benché condivisibili, le vie prospettate dal filosofo sembrerebbero, a

mio modesto parere, non primarie alla determinazione del gnothi seauton europeo. Un uomo senza

memoria della propria identità, seppur amministrato da un buon governo e proteso egli stesso

individualmente o in dimensione collettiva verso l’innovazione e la ricerca, sarebbe pur sempre un

uomo abissale, precario, incapace di dar voce alla questione fondamentale: chi sono? Avere una

buona politica, avere uno sviluppo tecnologico innovativo è ben lungi dall’Essere e l’Europa esige

19 Il riferimento è alle culture greco-latine che non riconobbero valore di persona umana alla classe dei servi e, spesso,

riservavano alla donna un ruolo subordinato rispetto all’uomo. Così, in tempi moderni, nel 1776 in America e nel

1789 a Parigi, il valore della donna fu nuovamente vittima di un silenzio scarsamente lungimirante, che diede vita a

polemiche o contro-dichiarazioni di diritti e valori, come la “Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne”,

redatta dalla scrittrice francese Olympe de Gouges, nel 1791, in risposta alla più nota “Déclaration des droits de

l’homme et du citoyen” del 1789. 20 San Paolo, Gal 3, 28 21 Tratto dall’intervista a Remo Bodei “Europa. Il pericolo ci salverà” (a cura di Rita Sala), in Il Messaggero, 13 agosto

2011, p. 19

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primariamente un’onto-logia e, in via susseguente, una tecno-logia, o, se vogliamo, essa necessita di

un senso, una dimensione memoriale entro cui disporre attivamente le technai funzionali al

mantenimento della propria originaria armonia che è logos e polemos, articolazione dialettico-

teoretica questuante l’essenza. Politica e scienza vi contribuiscono in maniera secondaria, se non

come declinazioni di ciò che è da principio l’esse proprium d’Europa: il logos. Logos è il luogo del

cum-sensus e del legein, il raccogliere il molteplice in unità, esso è parola relazionale che, da una

parte all’altra (dia), si fa dia-logos, partecipazione, condivisione con l’altro di ciò che propriamente

è nostro (unicum), relazione con altre unicità, eccezionali, diverse dalla nostra e da altre ancora, tra

loro irripetibili e discordi, impareggiabili ed uniche ugualmente. L’Europa è armonia di unica non

sopprimibili né riducibili ad Unum, essa non ha profilo storico o geografico teoreticamente limitato,

cum-prehensibilis, manifesta piuttosto una facies liquida come il Mare di mezzo dalla «legge

rischiosa, vasto e diverso e insieme fisso»22, che intesse le trame delle sue terre e civiltà, dalla terra

dell’alba a quella del tramonto, e fonda la propria identità su presupposti spirituali comuni,

edificantisi, come cripte vetuste innalzate in moderne cattedrali, sopra l’antica-attuale dialettica

socratica e la visione (theoria) ideale platonica, frammiste ad un’evoluzione valoriale di matrice

cristiana, diretta ad un fine supremo e maggiore: l’humanitas, la dignità dell’essere umano. Idea

dialettica, dialettica tragica, visione agonale e polemica, tragedia spiritualmente irrisolta, che, nel

viaggio dall’antico al nuovo, trova pace nell’estatica commedia dell’Amor dantesco. L’humanitas,

in tal senso, diviene il comune orizzonte valoriale verso l’acquisizione di una cultura condivisa,

obiettivo, peraltro, in principio avocato dai Padri fondatori d’Europa, che fossero stati essi cattolici

o agnostici, democratici cristiani o socialisti23, come ricordò Giovanni Paolo II nel discorso

all’UNESCO del 2 giugno 1980: «La cultura è un modo specifico dell’“esistere” e dell’“essere”

dell’uomo. […] La cultura è ciò per cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo, “è” di più,

accede di più all’“essere”. È qui anche che si fonda la distinzione capitale fra ciò che l’uomo è e ciò

che egli ha, fra l’essere e l’avere».24

Dialettica tragica: le matrici culturali d’Europa

Husserl identificava la crisi culturale dell’umanità europea nell’allontanamento dalle proprie radici

culturali e dalla propria origine storica, ravvisando un esempio rivoluzionario di rinascita connettiva

22 Cfr. E. Montale, Mediterraneo (II), da Ossi di Seppia 23 Cfr. Bernard Ardura, Robert Schuman, «Il padre dell’Europa», in I padri dell’Europa. Alle radici dell’unione

europea. Atti della Tavola Rotonda (Città del Vaticano, Domus Sanctae Marthae, 14 maggio 2010), LEV, Città del

Vaticano 2010, p.31 24 Giovanni Paolo II, Allocuzione all’UNESCO – Parigi, 2 giugno 1980, in Pontificio Consiglio della Cultura, Fede e

Cultura. Antologia di testi del Magistero Pontificio da Leone XIII a Giovanni Paolo II, Città del Vaticano 2003, p.

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alle origini, in prospettiva filosofica, nel Rinascimento: «l’umanità europea attua durante il

Rinascimento un rivolgimento rivoluzionario. Essa si rivolge contro i suoi precedenti modi di

esistenza, quelli medievali, li svaluta ed esige di plasmare se stessa in piena libertà. Essa riscopre

nell’umanità antica un modello esemplare. […] Che cosa considera essenziale nell’uomo antico?

[…] Nient’altro che la forma “filosofica” dell’esistenza: la capacità di dare liberamente a se stesso,

a tutta la propria vita, regole fondate sulla pura ragione, tratte dalla filosofia».25La filosofia nella sua

forma classica, greca, la scienza della totalità delle cose, la cura del sapere evidente ed innegabile,

costituisce il sostrato fondativo della cultura occidentale. L’Europa non ha una cultura che essa

possa definire propria, in ragione del fatto che il nome stesso di Europa è sinonimo di cultura, una

cultura eclettica, formatasi in una particolare dimensione di Alterità, nell’incontro con l’Altro, nella

consapevolezza del suo irriducibile valore.26 L’esse proprium e unicum d’Europa dipende e

comprende la sua radice essere intessuta per aggregazione alteritaria del molteplice e, come tale,

appartenente ad Altro: in ciò risiede il paradosso europeo. «La questione dell’identità culturale

d’Europa non può essere posta in modo indipendente: è indissolubilmente legata alla questione del

rapporto dell’Europa con le altre civiltà, precedenti e/o esterne a essa. Per l’Europa, il rapporto con

se stessa passa attraverso il rapporto con l’altro».27 La considerazione qui espressa da Rémi

Brague, filosofo francese, autore dell’opera “La voie romaine”, tradotta in Italia, in maniera forse

più efficace ed esplicativa del tema trattato, con il titolo “Il futuro dell’Occidente. Nel modello

romano la salvezza dell’Europa”, induce a riflessioni più ampie e complesse circa l’inchiesta sulle

matrici culturali d’Europa. Se di identità si possa validamente parlare, in sede europea, ma in

prospettiva dinamica e alteritaria, sarebbe lecito rinvenire le vie identitarie di una cultura così varia

in tre direttrici interpretative: la Secondarietà romano-cristiana, l’Universalità, la Stranieritudine?

Tema caro a Rémi Brague e al card. Angelo Scola, la “Secondarietà” definisce la capacità propria

di Roma e, in via successiva, della Chiesa di riconoscersi seconde, secondarie rispetto ad una

cultura precedente ritenuta portatrice di valori non da rinnegare, per rifondarne in toto di nuovi, ma

da accogliere, comprendere, mediare e ridiffondere, riversandoli nell’alveo della propria cultura o di

una cultura altra con la quale si entri in contatto; essa appare come una via o, nel caso di Roma,

come un acquedotto, teso tra ciò che è a monte e ciò che è a valle, una sorta di attitudine

all’acculturazione in dimensione alteritaria, in una dinamica continua di acquisizione e

trasmissione. Tale “atteggiamento secondario” non sarebbe, peraltro, prerogativa esclusiva della

Romanità e della Cristianità, ma apparterrebbe anche ad altre compagini culturali, quali la cultura

25 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, Il Saggiatore,

Milano 1961, p. 37 26 Cfr. A. Scola (card.), Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Marsilio, Venezia 2007, p. 54 ss. 27 R. Brague, Europe, la voie romaine, Criterion, Paris 1992, tr. it. a cura di A. Soldati, Il futuro dell’Occidente. Nel

modello romano la salvezza dell’Europa, Rusconi Libri, Milano 1998, p. 149

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araba, ad esempio, la quale ha contribuito a conservare il patrimonio intellettuale di tradizioni altre

e diverse dalla propria, attraverso l’opera imponente dei suoi traduttori, nella consapevolezza che la

Verità sia universale, non confinabile e acquisibile da chiunque essa provenga, benché estraneo.

La Secondarietà, dunque, è apertura all’Universale e all’Altro.

L’Universalità o “cattolicità”, infatti, intesa nel suo etimo greco riconducibile all’aggettivo

katholikos (universale), manifesta la facies propria della Romanità - così come ribadito anche

dall’illustre studiosa del mondo greco-romano, Marta Sordi, in più occasioni28 - prima ancora di

connettersi ad una visione confessionale cristiana o anche islamica. In fondo così come Roma, da

Augusto in poi, aveva considerato se stessa mandataria di una missione provvidenziale e universale

nei confronti dell’ecumene soggiacente al suo Impero, così anche la Chiesa o l’Islam, quest’ultimo

nelle sue pretese universalistiche aspiranti a creare il dār-al-Islām, rientrano in tale specifica idea di

universalità29, direttamente legata o dia-logata, alla cosiddetta “stranieritudine” o dimensione

alteritaria, itinerante dell’umanità europea. Il contatto con lo straniero è un archetipo originario

nella storia dell’umanità. Nel mondo antico lo xenos, rappresentava l’Altro nel cui volto riconoscere

se stessi o l’Altro inteso in senso ostile come hostis, nemico, il cui potenziale eversivo ed av-verso

andava stemperato fino a mutarne l’iniziale hostilitas in hospitalitas, cerimoniale posto sotto gli

auspici del divino, atto a rivestire lo straniero di un’aura sacrale, rendendolo hospes o philos, amico.

Comportarsi da nemico dello straniero, echtroxenos, era considerato dagli antichi una grave colpa,

così come si legge nelle tragedie di Eschilo o Euripide. E, allo stesso modo, passando dalla

letteratura greca a quella neotestamentaria, si ritrova il tema dello straniero e dell’ospitalità nelle

parole pronunciate da Cristo nel Vangelo di Matteo 25,35: «ero xenos/hospes e mi avete accolto» o

nel paradossale precetto della montagna che invita ad amare i propri echtroi (nemici). Tale

dialettica tragica degli opposti costituisce la base dell’identità europea e il suo paradoxon, il

prodigio straordinario, il principio contrario all’opinione comune. Il Cristianesimo, a partire dal

quale l’Europa è chiamata, da più parti, a ripensare le proprie radici, rappresenta forse la novitas di

un annuncio che invita a riscoprire la propria radice come indefinito s-radicamento di Sé, infinita

tensione e apertura verso l’Altro, accogliendolo, ospitandolo in sé come fosse proprio. Optare per

una scelta identitaria in senso forte, in Europa, darebbe origine ad un’opposizione liminare tra ciò

che è europeo e ciò che non lo è, distinguendo nell’Altro il nemico da rifiutare e combattere perché

estraneo, diverso, avverso. Solo concependo l’identità come non-identità, la radice come s-

radicamento o indefinito rinnovamento della radice stessa, l’Europa potrà dirsi cristiana, nella

misura in cui accoglierà l’Altro e sarà capace di amare il proprio nemico, lasciandolo sussistere

28 Cfr. Intervista di M. Blondet a Marta Sordi, Avvenire (30 ottobre 2004) 29 M. Cacciari, La città, Pazzini, Rimini 20094, passim

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come tale, tendendogli la mano. L’armonia europea nasce proprio da questa dialettica tra identità-

alterità, tra polemos e dialogos.

Il dialogo è la dimensione razionale/relazionale propria della cultura europea e, come ha sostenuto

il sociologo francese Edgar Morin in Pensare l’Europa: «Il genio europeo non consiste solo nella

pluralità e nel cambiamento, ma anche nel dialogo tra le pluralità che produce il cambiamento».

Il vero valore d’Europa non risiede nell’uguaglianza ma nella disuguaglianza, nel binomio tragico-

dialettico uno-molti, io-tu, nosce te ipsum et alium per alium.

In tale contesto, prosegue Morin, «ciò che fa l’unità della cultura europea non è la sintesi giudeo-

cristiana-greco-romana, è il gioco non solo complementare ma anche concorrenziale e antagonistico

tra queste istanze, ciascuna delle quali ha la sua logica: si tratta, appunto, della loro dialogica».30

L’identità europea passa attraverso un ripensamento di sé come “non-identità”, attuabile mediante

una ricomprensione delle sue intuizioni ed esperienze originarie, molteplici e plurali, uni-distinte.

La patria Europa è un’Europa delle patrie e alla sua «laboriosa creazione» attesero demiurghi

dall’eminente spessore politico, culturale, morale.

I Patres d’Europa e il Cristianesimo

È forse anacronistico e singolare designare con l’antico titolo senatorio romano di “patres”, gli

ispiratori ideali e fattivi dello spirito unitario europeo? Schuman, De Gasperi, Adenauer, Monnet,

Dante: il “Senato d’Europa”. Senza nulla togliere alle riflessioni e agli sforzi attivi per l’unità

d’Europa compiuti da Carlo Sforza e Altiero Spinelli, ciò che qui preme discutere è la relazione tra

Europa e Cristianesimo a livello storico e politico, verificando la liceità e velleità ecclesiastiche nel

tenace, riecheggiante richiamo alle radici cristiane e, in tal senso, Schuman, Adenauer, De Gasperi e

Monnet, politici e cristiani, considerati, con altri, padri fondatori dell’Europa, rappresentano una

“quinta compagnia” ad hoc in merito alla questione da analizzare. Si aggiunge, infatti, quinto, a

coronamento ideale dei tempi e d’azione dei patres moderni, Dante Alighieri, concittadino, con

essi, in spirito, dell’universale patria Europa. Il Cristianesimo e il richiamo ad esso come fulcro

radicale della poliforme identità europea, ha sollevato e continua a sollevare polemiche rilevanti e,

il “laicissimo” art. 1-bis del Preambolo dell’UE ne rappresenta l’icastica evidenza: «L’Unione si

fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza,

dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti appartenenti ad una

minoranza. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal

pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla

parità tra donne e uomini». Ad esso va a complemento annotata l’“ispirazione” generale

30 E. Morin, Pensare l’Europa, cit., p. 24

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dell’Unione, ratificata nel medesimo Trattato di Lisbona: «(ISPIRANDOSI) alle eredità culturali,

religiose e umanistiche dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti

inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello

Stato di diritto». Sfuma, in nient’altro che un’allusione passibile di soggettive interpretazioni, ogni

esplicito riferimento alle radici greco-romane e, soprattutto, cristiane dell’Europa, sebbene i principi

appena citati siano espressamente esito della evoluzione-rivoluzione che il Cristianesimo operò nel

mondo antico, mutandone il volto in innovative fattezze valoriali, a cui si aggiunsero

precedentemente e progressivamente in seguito, nel corso dei secoli, altre rivoluzioni, di cui il

trattato ricorda solo gli esiti. Il “rischio” che una cosiddetta “nominatio Dei”, nel Preambolo della

mai varata Costituzione europea, possa compromettere la dimensione laica della futura UE, pare e

parve, probabilmente anche a Giscard d’Estaing, nel 2002 Presidente della “Convenzione sul futuro

dell’Europa”, un inconveniente da evitare, così come similmente, nel 2007, ha ribadito in altri

termini anche il Cancelliere tedesco Angela Merkel, favorevole ad un riconoscimento formale della

cristianità radicale d’Europa, ma altrettanto fautrice di una sua esclusione da «un documento di

Stato»31, all’insegna della separazione e indipendenza della sfera di Cesare da quella di Dio,

considerazione, peraltro, evangelicamente già ben chiara secoli or sono. Un eventuale riferimento

alle radici greco-romane-giudeo-cristiane-umanistiche all’interno di un preambolo costituzionale

avrebbe e dovrebbe avere carattere storico-culturale memoriale non confessionale e, come ha fatto

notare Ombretta Fumagalli Carulli, ordinario di Diritto Canonico all’Università Cattolica del Sacro

Cuore «il riferimento a Dio è inserito nel Preambolo di specifici testi costituzionali di Stati europei,

con maggiore o minore intensità: ad esempio in Germania vi è il generico riferimento a Dio, in

Polonia il riferimento ai valori di quanti credono in Dio […], in Irlanda l’invocazione al Nome della

Santissima Trinità»32, e dunque quale potenziale eversivo risiederebbe in una dichiarazione super

partes, di natura memoriale e storica, espressamente privata di ogni imposizione fideistico-

confessionale esclusiva ed escludente altre realtà religiose? Si obietterà che, tuttavia, l’Italia, e chi

qui scrive è cittadina italiana, non ha nella propria Costituzione alcun riferimento specificamente

confessionale, configurandosi bensì come Stato laico (artt. 8, 19, 20 Cost., relativi alla questione

religiosa), sebbene riconosca una qualche forma di privilegio alla religione cattolica (art. 7 Cost.), la

quale, al di là dell’espresso riferimento costituzionale, costituisce per l’Italia una matrice storico-

culturale e religiosa inappellabile. La tanto discussa ed ambita laicità sembra oggi essersi eretta a

baluardo ideologico e costitutivo dell’identità s-personalizzata europea. Ideologia, peraltro,

31 Tratto dall’articolo “Radici cristiane: la UE senza accordo”, a cura di Alberto d’Argento, in La Repubblica (26

marzo 2007), p. 4 32 O. Fumagalli Carulli, Costituzione europea, radici cristiane e Chiese, in www.olir.it “Osservatorio delle libertà ed

istituzioni religiose”, p. 11

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apparentemente condivisa in maniera unanime e diffusa, da opporre alla religione come qualcosa ad

essa estraneo e avverso, benché, come ha recentemente fatto notare il politologo francese Olivier

Roy, il concetto di laicità, soggetto attualmente a strani fenomeni di distorsione interpretativa, non

sia anti-religioso, ma sia in realtà una conseguenza delle antiche guerre di religione combattute in

Europa, sorto a motivo di un mancato consenso dei vari paesi europei in merito allo spazio da

assegnare alla religione. Il fanatismo scatena sì la guerra ma anche il compromesso pacifico che ne

è conseguenza di libertà, seppur come conquista tradiva e imputabile a scontri tra poteri opposti,

indipendenti e mal conciliati o difficilmente conciliabili.33 Il problema non risiederebbe tanto nel

veto più o meno avvalorato di questo o quell’altro Paese in merito a un trattato, nel far esistere

un’Europa etsi Deus non daretur, ma nell’introdurre un cardine memoriale, al pari di altri grandi

esclusi, all’interno di una Carta costituzionale, che sia definizione, nel medesimo tempo, del

carattere laico e religioso, occidentale ed orientale dell’Europa. E se dalla Francia in primis – e da

altri - venne, a suo tempo, l’abiura, dalla Francia poi, si è fatta nuovamente largo l’idea dell’eredità

cristiana d’Europa. Il 29 gennaio 2008 Nicolas Sarkozy, al Congresso dell’UMP sull’Europa,

s’espresse così: «Dire che in Europa ci sono delle radici cristiane è semplicemente dare prova di

buon senso. Rinunciare a farlo, significa girare le spalle ad una realtà storica».34 Ed è sempre dalla

Francia del secondo dopoguerra, dal progetto maturato da Robert Schuman, in stretta collaborazione

con «Monsieur Europe», Jean Monnet, che l’Europa, come auspichiamo intenderla oggi e in futuro,

conobbe un inedito processo di unificazione35, innaturale, ma ispirato a una visione politica, storica

e spirituale lungimirante, riconducibile, a detta dello stesso Schuman, «alla legge cristiana di una

nobile ma umile fratellanza. E per un paradosso che ci sorprenderebbe se non fossimo cristiani […]

tendiamo la mano ai nemici di ieri non semplicemente per perdonare, ma per costruire insieme

l’Europa di domani».36 La mano tesa del nemico al nemico che unisce e mantiene distinti Schuman

e Adenauer, Francia e Germania, rendendoli parte della stessa grande visione europea, non era

contemplata nelle concezioni antiche, fino al comandamento nuovo e paradossale di quell’ebreo di

Nazareth che, dall’alto di un monte, insegnò per primo a tendere la mano ai “fratelli-nemici”.

Il 19 marzo 1958, otto anni dopo, la Dichiarazione Schuman, il padre fondatore d’Europa, in

occasione dell’elezione a presidente del primo Parlamento europeo, disse: «Non si tratta di fondere

gli Stati associati, di creare un super Stato. I nostri Stati europei sono una realtà storica. Sarebbe

psicologicamente impossibile farli sparire. La loro diversità, poi, è una fortuna e non vogliamo né

livellarli né renderli uguali. La politica europea per noi non è assolutamente in contraddizione con

33 Cfr. Olivier Roy, L’Islam in Europa, in http://www.radioradicale.it/scheda/321363 34 N. Sarkozy, Discours lors du Congrès de l’UMP sur l’Europe, 29 gennaio 2008 35 Cfr. Bernard Ardura, cit., p. 25 36 R. Schuman, Pour l’Europe, Genève 1990, p. 44

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l’ideale patriottico di ciascuno di noi. Tutti i Paesi europei sono stati impregnati dalla civiltà

cristiana. È questa l’anima dell’Europa che occorre far rivivere. Che questa idea di un’Europa

riconciliata, unita e forte, sia ormai una parola d’ordine per le nuove generazioni che desiderano

servire un’umanità finalmente libera dall’odio e dalla paura e che impari di nuovo, dopo troppe

lacerazioni, la fraternità cristiana. L’Europa ha dato all’umanità il suo pieno compimento. È lei che

deve mostrare una via nuova, invece della schiavitù. Accettando una pluralità di civiltà in cui

ciascuna sia rispettosa delle altre. Non siamo, non saremo mai negatori della patria, dimentichi dei

doveri che abbiamo nei suoi confronti. Ma al di sopra di ogni patria riusciamo a distinguere sempre

più nettamente che esiste un bene comune, superiore all’interesse nazionale, quel bene comune nel

quale gli interessi individuali dei nostri Paesi si fondono e si confondono. In un’epoca in cui tutto è

in fermento, bisogna saper osare. È meglio provare che rassegnarsi, la ricerca della perfezione è una

scusa meschina per non agire».37 Il richiamo al Bene comune, alla fratellanza universale, al perdono

e all’accoglienza del nemico sono temi cristiani di grande attualità che inducono a una riflessione

più ampia sulla questione dei cattolici in politica, il cui impegno, ieri come oggi, anche sul tema

dell’Europa non deve indurre ad accelerazioni in senso necessariamente confessionale. In tal

direzione va letta l’opera europeistica di Alcide De Gasperi. Ricordare la sua figura, infatti,

studiarne l’attività vuol dire – come ha sottolineato Gabriele De Rosa – «confrontarsi con alcuni

nodi cruciali della storia del secolo scorso: dalle vicende legate alla dissoluzione dell’Impero

asburgico, alla crisi dello Stato liberale e all’avvento del fascismo; dalla tragedia della II guerra

mondiale alla difficile opera di ricostruzione e di avvio della modernizzazione economica, politica e

istituzionale del nostro paese, fino al progetto di una casa comune europea».38 L’ideale che supremo

s’impose nelle menti sognanti di europei ante litteram come De Gasperi, Schuman, Monnet,

Adenauer, fu l’edificazione di una comunità internazionale che s’ispirasse ai valori di democrazia,

pace, convivenza fra popoli e culture, nell’iniziativa di risollevare a nuova alba l’Europa scossa e

devastata da antagonismi e guerre, forti della consapevolezza di un «comune retaggio europeo»,

rintracciato da De Gasperi in «quella morale unitaria che esalta la figura e la responsabilità della

persona umana col suo fermento di fraternità evangelica, col suo culto del diritto ereditato dagli

antichi, col suo culto della bellezza affinatosi attraverso i secoli, con la sua volontà di verità e di

giustizia acuita da una esperienza millenaria».39 Nelle parole di De Gasperi c’è l’Europa di Atene e

Roma, l’Europa della Chiesa e forse anche già del minareto, l’Europa della Rivoluzione Francese e

Americana, l’Europa dei due polmoni di Giovanni Paolo II, l’Europa che i Padri fondatori avevano

37 Ibid., p. 46 ss. 38 http://www.degasperi.net/navipage_percorsi.php?id_cat=p1 39 A. De Gasperi, Scritti e discorsi politici, IV/3, a cura di E. Tonezzer – M. Bigaran – M. Guiotto, il Mulino, Bologna

2006, p. 2746

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visto e progettato, senza che nessuno oggi riesca a sognare di nuovo la stessa visione, cercando di

realizzarla fattivamente. Non se ne dolgano i “moderni” se, tra i patres d’Europa, posto d’onore

attribuisco anche a Dante Alighieri, logos e theo-logos dell’humanitas, che in un’Europa, alla sua

epoca, forse solo in mente Dei, seppe concepirne, tuttavia, l’idea, la visione, anch’egli, nella

descrizione degli spiriti magni del Limbo, nella teoria dei due soli, di spada e pastorale, nella sintesi

poetica e profetica d’Occidente e Oriente, nella tensione a cose che «albeggiano nel grembo del

futuro», così come ricordato da papa Paolo VI nella lettera apostolica Altissimi cantus: «il Poema di

Dante è universale: nella sua immensa grandezza, abbraccia cielo e terra, eternità e tempo, i misteri

di Dio e le vicende degli uomini, la dottrina sacra e le discipline profane, la scienza attinta dalla

Rivelazione divina e quella attinta dal lume della ragione, i dati dell’esperienza personale e le

memorie della storia, l'età sua e le antichità greco-romane, mentre ben si può dire che del Medioevo

è il monumento più rappresentativo. Nel suo contenuto tesoreggia la sapienza orientale, il logos

greco, la civiltà romana, e, in sintesi, il dogma e i precetti della legge del Cristianesimo nella

elaborazione dei suoi dottori. Aristotelico nella concezione filosofica, platonico nella tendenza

all’ideale, agostiniano nella concezione della storia, nella teologia è fedele seguace di San

Tommaso d'Aquino, tanto che la Divina Commedia è, fra l’altro, in frammenti, quasi lo specchio

poetico della Somma del Dottore Angelico. Che se ciò è ben vero nelle linee generali, è altrettanto

vero però che Dante è aperto a profondi influssi di sant'Agostino, di San Bernardo, de’ Vittorini, di

San Bonaventura, e non è scevro di qualche influsso apocalittico dell'Abate Gioacchino da Fiore,

poiché suole protendersi a cose che albeggiano o che, non ancora nate, sono in grembo del

futuro».40 Dante è stato forse il primo civis d’Europa? Se non nei fatti, lo fu nello spirito e «pur

essendo un italiano e un uomo di parte, (fu) prima di tutto un europeo»41, la sua cultura è il

patrimonio che stentiamo a riacquisire e a cui è dovere primo attingere. Dante non necessita di una

ratifica costituzionale per concepire, cum-capere, afferrare insieme la sub-stantia d’Europa, la

metonimia delle sue tre altezze: Golgota, Campidoglio, Acropoli; Grecia, Roma, Cristo o, Atene,

Roma, Gerusalemme, che dir si voglia. Egli non inabita una nazione, è la cultura d’Europa che

troneggia nei suoi versi, le cui radici nascono e s’impiantano nell’ecumene “cattolica-universale”.

Ciò che accomuna le azioni e le idee di quello che ho definito il “Senato d’Europa” è un’ideale

trascendente, una missione o diaconia a carattere katholikos-universale, un servizio al servizio del

Bene comune: l’Europa politica e spirituale, non confessionale, l’Europa dell’humanitas e del

dialogos.

40 Paolo VI, Altissimi Cantus n. 16, traduzione dall’originale latino pubblicata in Annali dell’Istituto di Studi Danteschi.

Volume primo, Vita e Pensiero, Milano 1967, vol. I, pp. IX-LIV 41 T.S. Eliot, Dante [II] (1929), in Opere 1904-1939, ed. it. a cura di R. Sanesi, Bompiani, Milano, pp. 428, 829

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Conclusione

L’Europa è un’idea, una visione stentatamente esperibile, faticosamente tangibile se non nella

misura stessa del ponos, la fatica della visio e della sua concreta realizzazione fattiva. Come

conciliare ciò che, discorde, nelle menti albeggia già in concordia? Il fine ultimo di quanti

presiedono, con le loro azioni ed intenzioni, alla creazione dell’Europa unita risiede nel

mantenimento della varietas e della concordia che la sublima. Il rischio paradossale di un’unitas

multiplex che non sia rete interculturale, dialogica e mediante, bensì imposizione riduttiva del

molteplice non ad unione ma ad Unum, s’insinua sempre ratto e sotterraneo nelle pieghe con-fuse

del costituendo Esse europeo, gettando l’idea d’Europa in scenari babelici. «La fatica di questa

theoria […] consisterà, dunque, nell’armonizzare, senza ridurle violentemente a Uno, le diverse

figure, le diverse isole, tutte ‘salve’ nell’individualità del proprio carattere, ma tutte colte nella

comune ricerca, nel comune amore (philia) per quel Nome o per quella Patria che a tutte manca»42:

l’Europa. Che cos’è l’Europa? La sua dinamica attuale la sospinge ad assumer forma di progetto

culturale, non più limitatamente economico-politico, e soltanto comprendendo che essa è un

concetto la cui dynnamis attiva risiede su fondamenti spirituali diversi e discordi, necessitanti di

un’armonia logica, dia-logica, che tutti li riconosca identici e distinti senza nessuno disconoscerne o

annullarne, sarà possibile dar ragione della sua richiesta d’identità, strappandola all’oblio di sé, al

nichilismo e al relativismo. La sua originalità risiede nella molteplicità, «in varietate concordia»,

essa è continens accogliente civiltà, da Oriente ad Occidente, e chi, meglio di quei Padri fondatori

francesi, tedeschi, italiani, uomini di frontiera, capaci di leggere il limes non come confine di

separazione ma di unione (cum-finis), poteva concepire e vedere, prima ch’esistesse, quell’Europa

unita e diversa, che gli occhi europei, oggi, non riescono ancora a contemplare? Atene, Roma,

Gerusalemme rappresentano la “patria trinitaria” dell’esse europeo, la madrepatria universale della

grande familia humana europea, ed imponendo con volontà immemore, da più parti, la damnatio

memoriae dei suoi tre fondamenti spirituali, storici e filosofici, o peggio, tentando di abolire la

varietas nell’affannosa mostruosa creazione dell’Unum indistinto, non si otterrà che una Babele

confusa e diffusa di nomi e aspetti dati a ciò che, priva della sua consapevole essenza, non avrà

forza d’esistere. In varietate concordia: il motto d’Europa le ha dato nome all’anima, spetta ora ai

figli d’Europa sentirsi fratelli di sangue (kasignetoi), divenire coscienti d’essere europei, uniti

seppur divisi, radicati nel perenne s-radicamento, dall’identità non-identitaria e, in virtù di ciò, liberi

di aprirsi all’Altro, come Roma, come Cristo: è questo l’ethos d’Europa, il suo telos, che le derivano

42 M. Cacciari, L’Arcipelago, cit., p. 20

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dalla memoria di un passato comune. Il fondamento radicale della nova humanitas europea precede

e transita al di là dell’unificazione economico-politica, che ne è solo la veste esteriore. Il Terzo

millennio s’appressa ai bastioni d’Europa e la chiama a darsi un’anima. Scrisse T.S. Eliot: «Il

mondo occidentale ha la sua unità, in questa eredità, nel Cristianesimo e nelle antiche civiltà della

Grecia, di Roma e d’Israele, alle quali, attraverso duemila anni di Cristianesimo, noi riconduciamo

la nostra origine. […] Se noi disperdiamo o gettiamo via il nostro comune patrimonio, allora tutte le

organizzazioni e i progetti delle menti più ingegnose non ci gioveranno, né contribuiranno ad

unirci».43

43 T.S. Eliot, Appunti per una definizione della cultura. Appendice: L’unità della cultura europea, in Opere 1939-1962,

ed. it. a cura di R. Sanesi, Bompiani, Milano 1993, pp. 638-640