Il welfare in Europa tra convergenze e diversità (Welfare in Europe: Between Convergencies and...

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Il sogno europeo: i sistemi di welfare in Europa tra convergenze e persistenti diversità * Domenico Maddaloni, Dario Verderame * Premessa In un recente lavoro Jeremy Rifkin ha usato la metafora del Sogno Europeo per definire la visione di una società fondata su livelli elevati di benessere economico, di coesione sociale, di democrazia politica, in un contesto pluristatale e plurinazionale segnato da una graduale convergenza negli assetti sociali, culturali, istituzionali, che sarebbe incarnato dalle società europee e in maniera più operativa dal processo di costruzione dell’Unione Europea (Rifkin, 2004). Una visione che, a parere dello studioso nordamericano, può offrire al mondo prospettive di inclusione e di sostenibilità sociale ed ecologica assai migliori di quelle garantite dal Sogno Americano, basato convenzionalmente su livelli assai più elevati di individualismo, di competizione, di spreco delle risorse naturali, di indifferenza verso le ineguaglianze sociali – anche se, riconosce lo stesso Rifkin, con un’attenzione maggiore alla responsabilità personale. Una visione, dunque, quella europea, o forse addirittura una proposta egemonica (Maddaloni, 2007) che trova nell’articolazione e nell’ampiezza dei sistemi di protezione sociale un elemento essenziale che la qualifica e che la renderebbe riconoscibile all’esterno: ed in effetti occorre notare che, subito dopo lo Stato nazionale, lo Stato sociale è una costruzione storica peculiare delle società europee, un’innovazione sistemica tanto efficace da essersi diffusa in tutto il mondo, per quanto – come si vedrà – quasi mai con l’ampiezza conosciuta nelle società europee. Il rapporto tra Europa e welfare sembra dunque centrale, lo notano anche degli studiosi del calibro di Bauman (2004) o di Giddens (2007), per la definizione dell’identità sociale e politica dell’Europa quale realtà storica e dell’Unione Europea quale attore istituzionale plurinazionale in grado di fungere da global player nell’epoca della “seconda” o “tarda” modernità. In questa prospettiva appare assai rilevante chiedersi quanto welfare ci sia nell’Europa di oggi , ma anche, ed insieme, quanta Europa ci sia nel welfare di oggi (Verderame, 2009): due domande alle quali il contributo che qui presentiamo cerca di fornire una risposta, necessariamente limitata dai confini ristretti imposti ad un contributo scientifico. Il primo paragrafo di questo lavoro si concentrerà pertanto sulle comunanze e le diversità, le convergenze e le divergenze tra le società europee e in particolare tra i sistemi di protezione sociale, con un’analisi comparata basata soprattutto su dati quantitativi tratti dalla banca dati OECD; nel secondo paragrafo si cercherà invece di evidenziare alcuni connotati dei processi * Rispettivamente professore associato di Sociologia e dottore di ricerca in Analisi sociale e politiche pubbliche, Dipartimento di Sociologia e Scienza Politica, Università degli studi di Salerno. Il testo qui presentato si basa sull’intervento da noi tenuto in occasione del Convegno di studi su Cinquant’anni di integrazione europea: mercato unico europeo, politiche sociali, diritti fondamentali , Facoltà di Scienze Politiche, Università degli studi di Salerno, 20 maggio 2009. Ringraziamo Piero Pennetta e Cosimo Risi per il prezioso aiuto prestatoci e per avere favorito la pubblicazione di una versione riveduta e corretta di questo lavoro sulla rivista Europae. Il saggio è il prodotto di un lavoro comune; Domenico Maddaloni è autore del paragrafo 1, Dario Verderame del paragrafo 2, mentre comuni sono la premessa e le conclusioni. 1

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Il sogno europeo: i sistemi di welfare in Europa tra convergenze e persistenti diversità*

Domenico Maddaloni, Dario Verderame*

Premessa

In un recente lavoro Jeremy Rifkin ha usato la metafora del Sogno Europeo per definire la visione di una società fondata su livelli elevati di benessere economico, di coesione sociale, di democrazia politica, in un contesto pluristatale e plurinazionale segnato da una graduale convergenza negli assetti sociali, culturali, istituzionali, che sarebbe incarnato dalle società europee e in maniera più operativa dal processo di costruzione dell’Unione Europea (Rifkin, 2004). Una visione che, a parere dello studioso nordamericano, può offrire al mondo prospettive di inclusione e di sostenibilità sociale ed ecologica assai migliori di quelle garantite dal Sogno Americano, basato convenzionalmente su livelli assai più elevati di individualismo, di competizione, di spreco delle risorse naturali, di indifferenza verso le ineguaglianze sociali – anche se, riconosce lo stesso Rifkin, con un’attenzione maggiore alla responsabilità personale. Una visione, dunque, quella europea, o forse addirittura una proposta egemonica (Maddaloni, 2007) che trova nell’articolazione e nell’ampiezza dei sistemi di protezione sociale un elemento essenziale che la qualifica e che la renderebbe riconoscibile all’esterno: ed in effetti occorre notare che, subito dopo lo Stato nazionale, lo Stato sociale è una costruzione storica peculiare delle società europee, un’innovazione sistemica tanto efficace da essersi diffusa in tutto il mondo, per quanto – come si vedrà – quasi mai con l’ampiezza conosciuta nelle società europee.

Il rapporto tra Europa e welfare sembra dunque centrale, lo notano anche degli studiosi del calibro di Bauman (2004) o di Giddens (2007), per la definizione dell’identità sociale e politica dell’Europa quale realtà storica e dell’Unione Europea quale attore istituzionale plurinazionale in grado di fungere da global player nell’epoca della “seconda” o “tarda” modernità. In questa prospettiva appare assai rilevante chiedersi quanto welfare ci sia nell’Europa di oggi, ma anche, ed insieme, quanta Europa ci sia nel welfare di oggi (Verderame, 2009): due domande alle quali il contributo che qui presentiamo cerca di fornire una risposta, necessariamente limitata dai confini ristretti imposti ad un contributo scientifico. Il primo paragrafo di questo lavoro si concentrerà pertanto sulle comunanze e le diversità, le convergenze e le divergenze tra le società europee e in particolare tra i sistemi di protezione sociale, con un’analisi comparata basata soprattutto su dati quantitativi tratti dalla banca dati OECD; nel secondo paragrafo si cercherà invece di evidenziare alcuni connotati dei processi

* Rispettivamente professore associato di Sociologia e dottore di ricerca in Analisi sociale e politiche pubbliche, Dipartimento di Sociologia e Scienza Politica, Università degli studi di Salerno. Il testo qui presentato si basa sull’intervento da noi tenuto in occasione del Convegno di studi su Cinquant’anni di integrazione europea: mercato unico europeo, politiche sociali, diritti fondamentali, Facoltà di Scienze Politiche, Università degli studi di Salerno, 20 maggio 2009. Ringraziamo Piero Pennetta e Cosimo Risi per il prezioso aiuto prestatoci e per avere favorito la pubblicazione di una versione riveduta e corretta di questo lavoro sulla rivista Europae. Il saggio è il prodotto di un lavoro comune; Domenico Maddaloni è autore del paragrafo 1, Dario Verderame del paragrafo 2, mentre comuni sono la premessa e le conclusioni.

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istituzionali attivati nell’ambito definito dall’Unione Europea, per evidenziare le forme ed i limiti dell’integrazione che si sta verificando sotto questo profilo.

1. Quanto welfare c’è nell’Europa di oggi? Dinamiche e tipologie dei sistemi nazionali di protezione sociale

In un momento nel quale si pone in dubbio, di fronte all’avanzare della crisi economica ed alle sue conseguenze sui processi di integrazione o dis/integrazione a livello regionale, statale, continentale, l’effettività della convergenza delle società europee in direzione di un modello omogeneo (Dauerstaedt, 2007; con riferimento in particolare ai sistemi di protezione sociale, cfr. anche Alber, 2006) è opportuno ricordare che, in una prospettiva storica di lungo periodo e in un’ottica comparata di proporzioni globali, le società europee mostrano notevoli e profonde somiglianze. Con riferimento soprattutto alla parte occidentale e centrale del continente, le formazioni sociali europee mostrano una serie di connotati di struttura comuni, tra i quali soprattutto: l’individualismo, che emerge dalla combinazione tra la logica del cristianesimo occidentale e dall’eredità culturale del diritto romano, ma declinato nel contesto di un sistema di credenze e di pratiche istituzionali che lo distinguono dall’egoismo di un vero o presunto “stato di natura”; una struttura economica fondata sull’attività di famiglie di contadini stanziali sui fondi che coltivano e che liberano, per effetto delle aspre lotte sociali del basso Medioevo, dalle pretese proprietarie dei signori; il fenomeno urbano e la connessa autonomia tra le sfere dell’economia, della politica, della religione, sulla quale si articola un complesso reticolo di interdipendenze che conferisce legittimità a ciascuna; l’adozione della democrazia fondata sui principi dell’eguaglianza giuridica, tra tutti coloro che hanno diritto a partecipare alla deliberazione, e della maggioranza elettorale, che salvaguarda il diritto delle minoranze ad esprimere la propria opinione senza intaccare la legittimità della prima a realizzare la sua volontà (Mendras, 1999, pp. 5-48; sugli aspetti comuni alle società europee occidentali cfr. anche Therborn, 1995). A partire dal basso Medioevo questo modello sociale basato sull’individualismo, la proprietà privata, il capitalismo, l’autonomia cittadina, lo Stato nazionale, la democrazia politica, ha interagito con strutture economiche e sociali diversificate influenzandone il mutamento e finendo per rafforzarsi ulteriormente, pur non cancellando tuttavia le specificità nazionali (ibidem). Non soltanto, ma in un’ottica di medio termine – e cioè con riferimento al periodo successivo alla II Guerra Mondiale – il processo di convergenza strutturale tra i Paesi dell’Europa occidentale e centrale – e, a partire dalla fine degli anni ’80, anche dell’Europa orientale – può essere verificato con ampiezza di prove con riferimento a tutte le dimensioni costitutive dell’esistenza associata (Crouch, 2001). In questo contesto storico lo sviluppo delle istituzioni e dei programmi che vengono indicati dal concetto di Welfare State o, più propriamente, di sistema pubblico di protezione sociale, sembra costituire un ulteriore connotato specifico delle società europee occidentali, un’evoluzione decisiva – nella direzione della modernità – delle azioni, spontanee od organizzate, miranti alla riproduzione sociale nel contesto segnato da impetuosi processi di trasformazione, quali l’industrialismo, l’urbanesimo, l’emergere del conflitto sociale e la crescita della competizione interstatale che si sviluppa a partire proprio dall’Europa nel XIX secolo e che giunge al culmine nel periodo successivo alla II Guerra Mondiale (Ritter, 1996; Mingione, 1997; Girotti, 1998). Un apogeo che sembra ormai alle spalle,

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al punto che molti, come fa lo stesso Crouch, indicano la “nuova” società che emerge dalla crisi degli anni ’70 con il termine “postindustriale” (altri preferiscono “postfordista”, altri ancora “postmoderno”), ma nel quale continua a proporsi lo scandalo, a giudizio di alcuni, o la sfida, a detta di altri, del Modello Sociale Europeo, e cioè di sistemi di welfare ampi ed inclusivi, orientati ad offrire solidarietà, sicurezza, eguaglianza delle opportunità per i cittadini (cfr. la premessa a questo lavoro; cfr. anche Ferrera et al., 2006, pp. 11-51).

E’ in questo più ampio contesto che va collocata la nostra riflessione sulle divergenze persistenti e le convergenze in corso tra i sistemi di protezione sociale in un’Europa che, nel frattempo, grazie al fallimento ed al crollo del “socialismo di Stato”, alla fine degli anni ’80, ha recuperato la parte orientale di cui era monca, al punto da giungere alla metà degli anni ’00 alla sua incorporazione definitiva nell’Unione Europea1. Proprio Crouch, nel suo lavoro, ha sviluppato un confronto, purtroppo limitato ai Paesi dell’Europa occidentale e segnato dalla notevole disomogeneità tra le statistiche nazionali in tempi nei quali la disciplina di Eurostat non regnava sovrana, che ci fornisce anche alcune utili indicazioni preliminari nella nostra ricerca su quanto welfare ci sia nell’Europa di oggi. In primo luogo, le iniziative di protezione dai rischi sociali possono non passare per l’esercizio dei diritti di cittadinanza ma essere comprese nella nozione di autotutela della popolazione, la quale può acquistare servizi in maniera individualistica sul libero mercato se dispone di adeguato potere d’acquisto, oppure rivolgersi a modalità comunitarie di erogazione dei servizi, quali quelle assicurate dalla corporazione professionale, dalla famiglia o rete di parentela, dalla confessione religiosa di appartenenza. In secondo luogo, occorre notare che lo sviluppo dei diritti sociali che è associato a questa dimensione della cittadinanza di massa si fonda sul presupposto morale della solidarietà in quanto principio che tiene insieme la collettività dei cittadini liberi ed eguali, e che può essere opposto al criterio della beneficenza, spesso all’origine di molte forme di protezione sociale di derivazione tradizionale sia da parte dello Stato che da parte della Chiesa, il quale invece è associato a nozioni di subordinazione e di deferenza da parte dei beneficiari degli interventi di tutela (ibidem, pp. 461-492).I risultati del confronto proposto da Crouch, che si riferiscono al periodo compreso tra gli anni ’60 e gli anni ’90, mostrano che il livello della spesa pubblica non soltanto continua a crescere ancora negli anni ’90, ma tende a convergere ovunque in Europa occidentale su livelli elevati – la tendenza è a passare dal 20-25% del 1970 al 40-50% del 1995 –, con le evidenti eccezioni costituite dagli Stati Uniti e dal Giappone, che segnano il carattere specificamente europeo occidentale dell’”economia sociale di mercato”; al contrario, se si prende in esame il livello dei consumi finali pubblici, ovvero la spesa pubblica al netto dei trasferimenti di reddito alla popolazione, che tendono ovunque a crescere potentemente per l’effetto automatico dei mutamenti demografici – l’invecchiamento della popolazione – e di quelli economici – la crescita della disoccupazione –, a proposito del quale livello dei consumi si evidenzia una dinamica piuttosto contenuta e che tende ad arrestarsi già nel corso degli anni ’80. In secondo luogo, Crouch osserva che l’indagine sugli effetti di redistribuzione tende a mostrare che la redistribuzione attuata con le imposte e i trasferimenti di reddito mediati dallo Stato sociale ha un effetto apprezzabile sulle diseguaglianze soltanto in alcuni Paesi, in particolare quelli scandinavi, e in misura minore in Germania e in Spagna (Maravall, 1997), laddove l’incisività redistributiva delle politiche sociali è risultata sempre inferiore negli Stati Uniti ed è apparsa in drastica riduzione nel Regno Unito, i due Paesi che più hanno sposato la strategia liberista di rilancio della crescita per mezzo di un ampliamento dell’ineguaglianza di reddito. Va tuttavia ricordato che, in armonia

1 Il che, naturalmente pone inevitabili problemi in termini di integrazione tra le due parti dell’Europa, con riferimento anche alle politiche sociali (Lendvai, 2004).

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con quanto notato già nelle sezioni precedenti dell’opera, a partire dagli anni ’70 o quantomeno dagli anni ’80 si è sviluppato ovunque un movimento in direzione dell’ampliamento delle diseguaglianze di reddito tra le classi e le categorie professionali, che ha spinto molti lavoratori dipendenti, in particolare quelli appartenenti alle categorie meno qualificate, in condizioni riconosciute di povertà economica, e che questo movimento è sostenuto anche dalla tendenza all’arresto della crescita della spesa pubblica sociale, che nel corso degli anni ’90 avrebbe raggiunto l’intero gruppo dei Paesi considerati (Crouch, 2001, pp. 461-492).Un problema connesso al precedente è costituito dalla diversità delle forme assunte nella storia dai sistemi nazionali di protezione sociale, che da una parte ne evidenzia il legame con l’insieme degli assetti sociali, istituzionali, culturali di ciascun Paese, dall’altra può avere un impatto diverso sulla struttura dell’occupazione, sul mercato del lavoro, sulle diseguaglianze sociali a livello nazionale. In questa prospettiva (e tralasciando gli sforzi di classificazione già compiuti, ad esempio da Titmuss) assume importanza la tipologia dei mondi del capitalismo del welfare che Esping-Andersen ha proposto (1990; 2000), in particolare centrandola sul concetto di “demercificazione” (decommodification) della forza lavoro nel suo sforzo di conservare il proprio livello di vita nell’eventualità che si verifichino gli eventi che ne inabilitano la capacità di lavorare. In questo senso Esping-Andersen identifica quale chiave analitica per la costruzione di una tipologia dei regimi di welfare la triade costituita dal mercato autoregolato – il welfare liberale a carattere residuale –, dal settore pubblico quale erogatore sia di trasferimenti che di servizi – il welfare socialdemocratico a carattere universalistico – e dal settore pubblico coadiuvato da forme comunitarie ereditate dalla società tradizionale – il welfare conservatore a carattere particolaristico – (Crouch, 2001, pp. 461-492). Studi ulteriori (da Ferrera, 1996, a Ponzini, 2008) pongono tuttavia in rilievo il fatto che, nel contesto più generale del welfare conservatore/particolaristico /corporativo, un’ulteriore distinzione va compiuta tra i sistemi che maggiormente rispettano i connotati peculiari di questo modello – il welfare conservatore in senso stretto – e quelli che invece se ne differenziano sotto una pluralità di aspetti, ad esempio quelli relativi alle modalità di gestione degli interventi, con conseguenze rilevanti in termini di efficienza e di efficacia di queste – il welfare particolaristico clientelare caratteristico dell’Europa del Sud – (su questo cfr. anche Ferrera et al., 2006, pp. 11-51).

1.1. I sistemi nazionale di protezione sociale

Comunanze e diversità, dunque, e convergenze e divergenze, tanto al livello più generale costituito dalle formazioni sociali nazionali che a quello più specifico, e sul quale si concentra la nostra attenzione, relativo ai sistemi nazionali di welfare. In questa sezione del lavoro proporremo i risultati di una indagine, condotta sulla base dati OECD2, in merito a due aspetti che appaiono di grande rilevanza per valutare le condizioni e i processi in precedenza menzionati: l’ammontare e la composizione della spesa sociale, da una parte, e i risultati di questa in termini di riduzione delle ineguaglianze, in generale, o del rischio di povertà economica, in particolare. Il ricorso alla base dati dell’OECD consente di estendere l’analisi comparata a Paesi emergenti – ad esempio, la Turchia – o a Paesi sviluppati che non fanno parte dell’Unione Europea, sia che appartengano geograficamente al nostro continente – ad esempio, la Svizzera – sia che non vi appartengano – ad esempio, gli Stati Uniti –. D’altro canto, non tutti i Paesi membri dell’Unione Europea fanno parte dell’OECD – in particolare molti dell’Europa orientale –; e la definizione di spesa sociale che viene usata in ambito OECD

2 Disponibile online, in parte gratuitamente, all’indirizzo http://stats.oecd.org/WBOS/index.aspx.4

comprende la previdenza, la sanità, l’assistenza, l’abitazione e le politiche del lavoro, ma esclude un comparto di grande rilievo per la ricerca sul welfare, e in verità anche per la “qualità sociale” (Ruffolo, 1990), quale l’educazione.

In una prospettiva diacronica l’ipotesi della convergenza, quantomeno in termini dimensionali, tra i sistemi pubblici di welfare è suffragata dai dati presentati nella tabella 1, relativa alla dinamica della spesa pubblica in campo sociale3 nei Paesi membri dell’OECD dal 1980 al 2005 (cfr. al riguardo anche Castles, 2002, e Tomka, 2003). La tabella evidenzia sia una tendenza generale alla crescita dell’incidenza sul PIL della spesa sociale pubblica, che persiste nonostante il periodo preso in esame sia quello nel quale il “consenso di Washington” basato sulle dottrine liberiste è apparso egemone, ad a momenti persino incontrastato, nel discorso pubblico relativo ai rapporti tra l’economia, la politica e la società. Le uniche eccezioni a questa tendenza si riscontrano infatti nei Paesi Bassi e, in relazione ad un periodo assai più limitato, nella Repubblica Slovacca, laddove persino negli Stati Uniti è possibile riscontrare un aumento, benché lieve, dell’indicatore considerato – dal 13,1% al 15,9% del PIL –. Non soltanto, ma la tabella consente di mostrare che, al termine del periodo in questione, ben 17 Paesi europei su 22 si trovano al di sopra della soglia costituita dalla media OECD, contro 0 Paesi extraeuropei, a conferma del fatto che la presenza di un esteso welfare pubblico è una componente costitutiva dell’identità sociale e politica dell’Europa. Inoltre, il ritmo di aumento della spesa sociale pubblica si presenta minore nei Paesi che già potevano disporre di un sistema di welfare pubblico assai ampio al principio del periodo in questione – ad esempio la Svezia e la Danimarca –, e maggiore invece in quelli che presentavano un volume più ristretto della spesa pubblica in questo campo – ad esempio la Spagna, la Polonia, l’Italia, la Svizzera, la Francia e soprattutto il Portogallo –, a conferma più diretta dell’ipotesi della convergenza, almeno da questo punto di vista. Insomma, dai dati qui presentati si ricava l’impressione di un processo di integrazione tra i sistemi di welfare nazionali che si innesta su alcune premesse istituzionali e culturali comuni, relative al ruolo dello Stato quale garante prioritario del benessere collettivo e della coesione sociale, ma che al tempo stesso non trascende alcune specificità nazionali, che possono essere utilmente rappresentate dalle tipologie dei modelli di welfare presentate e dibattute in letteratura.

Tuttavia l’affermazione di Alber (2006), secondo il quale le differenze nazionali dividono i Paesi dell’Europa più di quanto l’Europa nel suo insieme sia distinta rispetto agli Stati Uniti, può difficilmente essere condivisa se si guarda ai contenuti del grafico 1. Questo al contrario aiuta a sostenere l’ipotesi secondo la quale “veramente”4 esiste5

un Modello Sociale Europeo (Castles, 2002; Ferrera, 2003; Tomka, 2003; Giddens, 2007, pp. 3-34): la teoria secondo la quale cioè è possibile enucleare, in particolare in rapporto alla protezione sociale, un insieme di connotati comuni alle società,

3 La base dati OECD consente di distinguere tre componenti della spesa sociale: la spesa pubblica, la privata obbligatoria, la privata volontaria. La spesa sociale privata obbligatoria si riferisce a benefici definiti dalla legislazione ma erogati attraverso il settore privato, ad esempio indennità di malattia che la legge pone a carico dei datori di lavoro. La spesa sociale privata volontaria si riferisce a benefici derivanti da programmi, collettivi o individuali, che scaturiscono da accordi privati, ad esempio forme previdenziali erogate su un fondamento contrattuale, pur eventualmente beneficiando di esenzioni fiscali od altri vantaggi.4 “Veramente”, nella misura in cui è possibile attribuire un valore di verità ad una categoria forgiata nel discorso prodotto dal dibattito politico a livello europeo e soprattutto dalla retorica delle istituzioni comunitarie (per una critica in materia cfr. Jepsen e Serrano Pascual, 2005).5 O forse persiste, se si tiene conto che taluni studiosi (p. e., Wickham, 2002) ritengono, sottovalutando forse parzialmente la resistenza delle istituzioni e dei sistemi sociali al cambiamento, che il Modello Sociale Europeo conosca già il suo declino, sotto l’attacco del “consenso di Washington” mascherato da politica per la convergenza e da New Public Management, prima ancora di avere trovato una sua definitiva codificazione.

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quantomeno a quelle dell’Europa occidentale e centrale, che le distinguono dal Modello Anglosassone o, più francamente, Americano. Il grafico incrocia la componente pubblica della spesa sociale con la quota della spesa per beni e servizi sul totale spesa sociale pubblica, per tutti i Paesi dell’OECD per i quali sono disponibili dati significativi sotto i due profili qui presi in esame. Risalta la posizione isolata degli Stati Uniti, l’unico Paese a mostrare una combinazione di bassa spesa sociale pubblica e alta spesa per beni e servizi. Sul versante opposto si viene invece a formare una sorta di “arcipelago” che trova al suo centro le posizioni della Francia e della Germania, non casualmente i due Paesi leader dell’Unione Europea – ricordate il “capitalismo renano” di Albert (1993)? –, ed intorno a queste i punti relativi a Svezia, Norvegia, Danimarca, da una parte, Austria e Italia dall’altra, Slovacchia e Repubblica Ceca, con il Lussemburgo, su un altro versante, più il caso del Giappone. I Paesi in questione condividono, più o meno, una più elevata spesa pubblica in campo sociale e una spesa per beni e servizi inferiore, o al massimo uguale, a quella statunitense (attenzione, sempre in termini relativi). Tra gli Stati Uniti e l’”arcipelago” europeo si trova poi, disposta su una lunga linea, una serie di punti relativi a Paesi – Islanda, Corea del Sud, Regno Unito, Paesi Bassi, Svizzera – che presentano valori inferiori in rapporto ad entrambi i Modelli, e quindi una connotazione qualitativa più sfuocata: una spesa pubblica sociale maggiore che negli Stati Uniti ma minore che nel “cuore” dell’Europa, e una quota assai variabile della spesa per beni e servizi. E’ da notare, infine, che la correlazione tra le due distribuzioni prese in esame nel grafico 1 si presenta elevata (r = - 0,50); ma il piccolo numero di casi a disposizione non rende possibile trarre conclusioni troppo forti da un simile valore, senza contare il fatto che la correlazione è una misura di associazione tra due variabili, e quindi non permette mai di sostenere che è a “a” causare “b”, in quanto potrebbe essere che sia “b”, invece, a causare “a”. In altri termini, non è dato qui sapere se quanto più un Paese ha livelli elevati di spesa pubblica sul totale della spesa sociale si riduce la quota della spesa pubblica che si traduce in beni e servizi, o se invece quanto più un Paese ha bassi livelli di spesa per beni e servizi tanto più aumenta la componente pubblica della spesa per la protezione sociale. Una parziale conclusione su questo argomento non può dunque che mettere in adeguato rilievo le differenze esistenti tra i modelli sociali prevalsi lungo le due sponde dell’Atlantico, e perciò tra le visioni del mondo sociale – i Sogni, direbbe Rifkin – che questi modelli incarnano.

1.2. La performance dei sistemi di protezione sociale

Passando a considerare i risultati delle iniziative di protezione sociale, è opportuno considerare che in una prospettiva sociologica la performance dei sistemi di welfare si misura, come è ovvio, in relazione alla capacità, da questi mostrata in conseguenza dell’obbligo alla solidarietà sociale che questi incarnano, di promuovere, in positivo, l’eguaglianza tra i cittadini, o quantomeno di garantire a costoro il grado minimo di sicurezza che consiste nella fuoriuscita dalla condizione di povertà. Anche sotto questo profilo si vedrà come tra i Paesi dell’Europa si evidenzino sia convergenze che divergenze, al punto da confermare l’ipotesi della persistenza di una varietà di modelli di welfare.

Nel grafico 2 si incrociano le serie relative alla quota della spesa pubblica in campo sociale sul PIL, in valori percentuali, e dell’indice di Gini, che come è noto la misura più impiegata nell’analisi delle diseguaglianze di reddito in una popolazione6:

6 Non va dimenticato peraltro che le ineguaglianze di reddito non esauriscono il quadro delle diseguaglianze economiche, e che una letteratura ormai sterminata (per citare due titoli: Fitoussi e Rosanvallon, 1996; Sen, 2000) concorda sul fatto che il quadro delle ineguaglianze sociali si presenta

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quanto più il valore dell’indice si avvicina ad 1 tanto più la ricchezza (il reddito) è concentrata, ed al contrario quanto più si avvicina allo 0 tanto più i cittadini di un Paese possiedono un’analoga capacità reddituale (o un’analoga ricchezza). Un primo aspetto da notare è che le due distribuzioni di frequenza appaiono strettamente associate (r = 0,59): più cresce la spesa pubblica in campo sociale, più diminuisce l’ineguaglianza di reddito (cfr., in una prospettiva diacronica, Brady, 2004) – ma anche, più l’ineguaglianza di reddito è ridotta, più aumenta l’incidenza della spesa pubblica in campo sociale: la relazione tra le due variabili infatti non è lineare come sembra (Ove Moene e Wallerstein, 2001; Schwabish, Smeeding, Osberg, 2004). Occorre tuttavia guardarsi dal concludere che un incremento della spesa sociale pubblica di per sé condurrebbe a una riduzione delle ineguaglianze economiche, dal momento che occorre considerare anche questioni di efficacia e di efficienza della spesa, fortemente legate al modello istituzionale o regime di welfare prevalente in ciascuno dei Paesi considerati (Cantillon, Marx, van den Bosch, 2002). Infatti un secondo aspetto da considerare è costituito dal fatto che la relazione tra spesa sociale pubblica e ineguaglianze di reddito dà i risultati migliori nei Paesi che rappresentano in forma paradigmatica il “modello socialdemocratico” – la Svezia e la Danimarca –; a questi seguono quelli rappresentativi del “modello conservatore corporativo” – Belgio, Austria, Francia, Germania, e inoltre la Finlandia – mentre più distanziati si collocano i Paesi del “modello conservatore particolaristico” – Italia, Spagna, Grecia, Portogallo – e quelli che rappresentano il “modello liberale” – la Gran Bretagna, l’Irlanda, il Canada, l’Australia, e inoltre gli Stati Uniti –; ultimi in graduatoria infine si collocano i due Paesi meno sviluppati dell’area OECD – la Turchia e il Messico – mentre la Corea del Sud definisce una situazione abbastanza eccentrica nella prospettiva qui considerata. La tipologia dei mondi del welfare capitalism (Esping-Andersen, 1990, 2000), opportunamente modificata, ricompare insomma a definire un quadro utile all’analisi dei risultati relativi all’associazione tra livello della spesa pubblica in campo sociale e ineguaglianze di reddito: non va dimenticato infatti che in contesto segnato quasi ovunque, come osservato nella sezione precedente, da un aumento e non da una riduzione dell’incidenza della spesa sociale pubblica, la differenza cruciale in termini di qualità dei risultati del sistema di protezione sociale la fa la sua configurazione istituzionale di partenza7, insieme con i connotati dei processi di riforma attivati a partire dagli anni ’808.

Infine, la tabella 2, ripresa da un lavoro di Ponzini (2008), rende evidente il dislivello di performance che ancora contraddistingue i sistemi di welfare dei Paesi aderenti all’Unione Europea per quanto riguarda la capacità di ridurre il rischio di povertà, qui definito dalla quota della popolazione che sopravvive con un reddito personale inferiore al 60% della media del Paese. L’azione dei sistemi di protezione sociale è misurata ancora una volta attraverso un indicatore di spesa, i trasferimenti sociali, distinti in trasferimenti di reddito previdenziali, le pensioni, e in erogazioni in denaro, in beni o in servizi di natura diversa dalle prestazioni previdenziali. La tabella è costruita in maniera da mostrare le persistenti diversità tra i modelli o regimi di welfare presenti nell’ambito istituzionale dell’Unione Europea, ed evidenzia che sotto il profilo

sempre più articolato ed assai più vasto di quello relativo alle diseguaglianze economiche 7 Si consideri ad esempio la diversa collocazione dei punti relativi all’Austria ed all’Italia nei due grafici qui presentati: due situazioni simili per quanto riguarda il rapporto tra spesa pubblica e spesa sociale totale e il rapporto tra spesa per beni e servizi e spesa pubblica, ma con risultati assai differenti in termini di associazione con le ineguaglianze di reddito, dunque di efficacia dell’intervento del sistema di welfare (a vantaggio dell’Austria).8 Questi ultimi hanno valore in particolare per il caso dei Paesi Bassi, il Paese che in tempi recenti ha maggiormente ristrutturato il proprio sistema di welfare, al punto da figurare tra i pochi in controtendenza per quanto riguarda il rapporto tra spesa pubblica e PIL (Caminada e Goudswaard, 2001).

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preso in esame, l’efficacia del welfare nella riduzione della povertà, è possibile distinguere ben sei Europe sociali. Tre di queste conseguono risultati elevati in termini di abbassamento del rischio di povertà, e corrispondono in sostanza al “modello socialdemocratico” dei Paesi scandinavi, a quello “conservatore corporativo” tipico dell’Europa centrale, ed a quello dei Paesi dell’Europa orientale già parte dell’Austria, a mostrare la presenza di effetti di lunga durata che travalicano anche l’esperienza storica più recente, condivisa da questi Paesi con altri, e relativa al socialismo di Stato ed alla comune appartenenza al blocco sovietico. Gli altri tre modelli si rivelano invece meno efficaci nel ridurre il rischio di povertà nella popolazione: si tratta dei Paesi anglosassoni che seguono il “modello liberale”, dei Paesi della parte settentrionale dell’Europa orientale, segnati da un’eredità storica alquanto diversa da quella “paternalistico socialdemocratica” tipica della Mitteleuropa, ed infine dai Paesi dell’Europa del Sud che incarnano il modello “conservatore particolaristico”, tra i quali l’Italia (ibidem).

In sostanza, dal punto di vista dei risultati dei sistemi nazionali di protezione sociale, ed in particolare della componente pubblica di questi, i dati qui presentati e discussi paiono rendere evidente che la realtà è assai più complessa di qualsiasi schema astratto che voglia spiegarla in base ad un unico principio, o riducendola ad un’unica dimensione. In un certo senso, ad un certo livello, il Modello Sociale Europeo esiste: le società europee condividono sia un interesse per la sicurezza e la coesione, sia l’opinione secondo la quale spetta alle istituzioni pubbliche il compito di provvedere a realizzare direttamente simili finalità, o a spingere i cittadini affinché si muovano in questa direzione; sotto entrambi questi profili, esse inoltre paiono distinguersi abbastanza chiaramente dalla società nordamericana. In un altro senso, ad un altro livello, persistono diversità tra i sistemi nazionali di protezione sociale, di un’ampiezza sufficiente a giustificare l’opinione secondo la quale, alla metà del primo decennio del secolo, il continente europeo accoglie una pluralità di regimi di protezione sociale, nonostante gli sforzi compiuti finora dall’Unione Europea nel tentativo di renderli più compatibili, se non proprio di giungere ad una completa fusione. A questi sforzi volgiamo adesso l’attenzione, nel tentativo di mostrarne, sinteticamente, la portata e i limiti.

2. Quanta Europa c’è nel welfare di oggi? Il processo di integrazione europea e le politiche sociali nazionali

L’obiettivo che intendiamo perseguire in questa seconda parte del lavoro è quello di delineare la trama che lega i sistemi di welfare europei all’emergere e consolidarsi di una dimensione sociale a livello europeo, cercando di individuare gli elementi costitutivi di questa relazione e i fili che legano le politiche sociali nazionali a quelle europee, e, più in generale, le politiche sociali nazionali al processo di integrazione europea. È questo un tema al quale, in letteratura, viene riservata un’attenzione crescente, a testimonianza di come l’Europa rappresenti sempre più l’orizzonte dentro il quale, in vario modo, i problemi che accompagnano la vita dei sistemi di protezione sociale europei sono pensati, analizzati, impostati e, a volte, risolti. Letture ed interpretazioni, dagli esiti spesso antitetici, sono state date alle relazione che lega i sistemi nazionali di welfare alla cornice istituzionale dell’Unione europea. Siamo di fronte ad un processo, anche se lento e accidentato, di convergenza dei sistemi di

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protezione sociale europei? È il welfare europeo un sostituto auspicabile dei welfare dei Paesi membri? Inoltre, in che termini è possibile parlare di welfare, cittadinanza e politiche sociali, in una prospettiva europea? Si tratta di domande di ampia portata ai quali non è possibile dare una risposta, seppur parziale, in questa sede. Negli approcci più recenti, tuttavia, si è affermata una specifica necessità cognitiva, dai più condivisa, quella di considerare l’Europa come un sistema di governance multilivello che ha costruito la propria legittimità sulle risposte di policy che è stata (ed è) in grado di dare, «venendo così ad identificarsi con la propria stessa governance, con il modo in cui cerca di guidare i cambiamenti coordinando l’azione di attori dotati di legittimità diverse, e favorendo l’incontro fra idee e risorse d’autorità» [Giuliani 2007, p. 8]. Parallelamente, con l’ampliarsi delle aree di intervento comunitario, parte della ricerca ha lasciato aperte le questioni sollevate dalla grand theory e si è concentrata non più su domande legati allo statuto ontologico [Caporaso 1996] della costruzione europea – cioè riguardanti la natura della sua organizzazione politica, delle sue istituzioni, e come tale natura sia cambiato lungo il processo di integrazione – quanto piuttosto su domande che, dando per scontata la sua esistenza, si interrogano sul suo funzionamento, ossia domande del tipo «che cosa fa l’Unione europea?», «quali sono gli effetti della sua azione?»9. È a partire da questa prospettiva che è cresciuto nel discorso scientifico lo spazio riservato al tema dell’integrazione europea quale concetto che «si pone sulla frontiera del dibattito teorico e della ricerca politologica sulle dinamiche della governance nell’Unione europea» [Giuliani 2004, p. 1]. Il contributo forse più rilevante fornito dagli «Europeanization studies» è quello di mettere in luce i fattori e i meccanismi di mutamento che hanno luogo nelle arene domestiche di policy come conseguenza dell’interazione con il livello europeo (cfr. in particolare Knill e Lehmkuhl, 1999; Börzel e Risse, 2000; Radaelli, 2000). In particolare, il punto che ci preme evidenziare è che gli studi sull’integrazione europea forniscono interpretazioni che non sono generalizzabili ma che piuttosto mirano ad identificare «le specificità, contestualità e mutua relazione delle variabili in gioco» [Gualini 2005, p. 492]. Accompagnato dal rifiuto di concetti olistici, il suo uso è coevo all’analisi di case studies [Graziano 2004, p. 13] che hanno come esito quello di mettere in evidenza come «l’estensione e il significato del mutamento favorito dall’europeizzazione possono mutare da politica a politica, da processo a processo, da struttura a struttura» [Fabbrini 2003b, p. 11]. L’integrazione europea è quindi «un processo che produce asimmetrie, frammentazione e dinamismo all’interno dei singoli paesi della UE» [ibidem, p. 11]. Ciò risulta ancor più veritiero se si considera «il cambio di paradigma delle politiche sociali europee», il loro scivolamento verso forme soft di regolazione, e il persistere, se non l’acuirsi – alla luce di quanto prevede il nuovo Trattato di Lisbona – di quella «trappola della sussidiarietà» [Ferrera 1998] che pregiudica l’efficacia dell’intervento comunitario in ambito sociale. Quanto appena sostenuto ci consente, peraltro, di chiarire un punto importante: il concetto di integrazione europea non può essere utilizzato quale sinonimo di convergenza, in quanto è necessario distinguere il processo (l’europeizzazione) dalle sue possibili conseguenze [Green Cowles, Caporaso e Risse 2001; Radaelli 2003; Fabbrini 2003b].

La nuova agenda di ricerca dell’europeizzazione (cfr. anche Graziano e Vink, 2006) offre, quindi, più di uno spunto per comprendere la reale portata dei cambiamenti che il processo di integrazione europea ha prodotto. Tuttavia, crediamo che il suo uso debba essere, per certi versi, più parsimonioso. Cerchiamo di spiegarci meglio. Ad

9 Ciò ha significato tentare di rimediare alle irrisolte contraddizioni ereditate da due prospettive di studio a lungo contrapposte nella scienza politica: l’«approccio sovranazionale», sviluppatosi nell’ambito della politica comparata, e quello «intergovernativo», riferibile al filone delle relazioni internazionali (Scharpf, 2002).

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esempio, associare il concetto di europeizzazione alle dinamiche dell’integrazione economica, può essere fuorviante. Quest’ultima, come noto, eliminando i vincoli nazionali sugli scambi e le distorsioni competitive, ha significato per gli Stati membri una perdita della capacità di controllo dei propri confini economici e con essa la capacità di promuovere politiche (sociali) correttive del mercato. Se, quindi, il concetto di europeizzazione viene riferito agli effetti, anche se indiretti, di questa forma di integrazione, si potrebbe concludere, al limite, che l’intero edificio dei welfare states dei Paesi membri è europeizzato. Nulla toglie che ciò sia. Tuttavia il concetto di europeizzazione assumerebbe una valenza olistica, il che sembra l’esatto contrario della sua ragion d’essere. Inoltre, il concetto di integrazione europea, avendo come suo elemento caratterizzante quello di rimandare a forme di interazione multilivello10, ci sembra non adattarsi alla situazione in cui ad essere attivati, in modo indiretto, sono solo meccanismi di «cambiamento delle strutture di opportunità domestiche» [Knill e Lehmkuhl 1999], per definizione ascrivibili al solo ambito nazionale.

In definitiva, occorre tenere presente sia gli aspetti diretti che indiretti di questa relazione tra dinamiche connesse all’integrazione europea e le traiettorie di cambiamento dei sistemi di protezione sociale nazionali. A questo scopo ci si riferirà ai concetti, assai diffusi in letteratura, di «integrazione negativa» ed «integrazione positiva» [Scharpf 1999]. Questi ultimi fanno riferimento agli effetti che la regolazione europea produce su quelle nazionali in termini, rispettivamente, di dissolvimento delle normative nazionali (quelle che ostacolano le «libertà economiche») e ricostruzione di un assetto regolativo a livello europeo. Per questo motivo, essi sono utili soprattutto a cogliere la dimensione normativa del rapporto tra processo di integrazione e sistemi di welfare e ben si adattano alla nozione di Modello Sociale Europeo come insieme di regole che, dando progressivamente forma ad una dimensione sociale europea, influenzano alcuni aspetti dell’assetto dei sistemi di protezione sociale dei Paesi membri.

Tuttavia, sia l’evoluzione dell’intervento regolativo comunitario verso forme soft di regolazione che quanto suggerito dall’agenda di ricerca dell’europeizzazione, rendono evidente l’esistenza di un’altra dimensione più densa di elementi cognitivi. L’«integrazione cognitiva» riassume il senso che, soprattutto dopo il lancio della Strategia di Lisbona e la formulazione di un «Metodo aperto di coordinamento» per le materie sociali, viene attribuito, in modo prevalente, alla nozione di modello sociale europeo come progetto condiviso di modernizzazione dei sistemi di welfare. Utilizzeremo, nel prosieguo, questo quadro concettuale per analizzare le molteplici forme attraverso le quali il processo di integrazione europea influenza, attraverso nuovi vincoli e nuove opportunità, i welfare states europei.

2.1. L’integrazione negativa

L’aspetto più evidente e, probabilmente, più problematico del rapporto tra welfare e processo di integrazione europea, è dato da quell’insieme di condizionamenti che possiamo riassumere con l’espressione «integrazione negativa». È opinione diffusa che quest’ultima, identificabile nell’abolizione di misure restrittive al commercio o alla libera concorrenza, abbia minato la capacità dei governi nazionali di controllare i propri confini nazionali riducendone la facoltà, oltre che l’efficacia dell’azione, di imporre 10 Ci riferiamo alla definizione che Radaelli [2003] da al concetto di europeizzazione. Secondo l’autore, esso «si riferisce a: un processo di (a) costruzione, (b) diffusione, e (c) istituzionalizzazione di regole formali e informali, di procedure, paradigmi di policy, stili, “modi di fare”, nonché di credenze condivise e norme che sono inizialmente definite e consolidate nella formazione delle politiche e della politics dell’Unione europea, e successivamente incorporate a livello nazionale nella logica del discorso, nelle identità, nelle strutture politiche e nelle politiche pubbliche» [ivi, p. 30].

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politiche regolative di correzione del mercato. L’accelerazione di questo processo di erosione della sovranità nazionale può essere rintracciato nel passaggio da un’area di libero scambio e da un’unione doganale ad un mercato unico e, ancor di più, ad una un’unione monetaria; percorso segnato da una sorta di radicalizzazione degli obiettivi economici [Scharpf 2002, p. 17], giunta a maturazione con i parametri imposti dal Trattato di Maastricht, successivamente rafforzati dal «Patto di stabilità e crescita» e dalle misure sanzionatorie ad esso collegate. In definitiva, per cercare di mantenere o accrescere la competitività dei propri sistemi produttivi, i governi entrano in quella che in letteratura viene definita come «competizione regolativa», nel tentativo di attrarre capitali o minimizzare i propri costi di adattamento alle pressioni della concorrenza internazionale [Scharpf 1999, p. 88]. Tale competizione si manifesta, tra gli altri, in due ambiti ai quali occorre prestare maggiore attenzione: in campo fiscale e in campo sociale. Limitando le nostre osservazioni a quest’ultimo, un aspetto di questa competizione è legato al fatto che le imprese che si trovano ad operare in Paesi dove sono in vigore standard sociali e del lavoro più bassi hanno un vantaggio competitivo, in termini di costi che esse devono sostenere, rispetto ad altre operanti in Paesi con più elevati livelli di protezione. Tale situazione può determinare una pressione irresistibile sui Paesi che hanno sistemi di protezione sociale con standard più inclusivi, inducendo i governi degli stessi a ridimensionare i propri livelli di tutela al fine di evitare tali forme di concorrenza che rappresentano, di fatto, una minaccia dal punto di vista del proprio sistema produttivo11. In realtà, le preoccupazioni che la competizione regolativa, conseguente alla realizzazione di un mercato comune, possa provocare una «race to the bottom» si sono per ora mostrate eccessive, almeno in proporzione agli effetti che essa ha mostrato. Dal punto di vista empirico, sia in campo fiscale – dove si assiste piuttosto ad un «livellamento», ad una «race to the middle» [Hobson 2003] – che in campo sociale – dove in alcuni casi, come Grecia e Spagna [Guillén, Matsaganis 2000], ha avuto luogo un miglioramento degli standard sociali –, in assenza di un modello di regolazione condiviso, si è venuta a realizzare una situazione descrivibile in termini di «mutuo accomodamento» [Scharpf 2002] tra gli interessi in gioco. Ciò non toglie, tuttavia, che nello scenario disegnato dall’integrazione negativa le scelte disponibili, all’interno degli Stati membri, in materia di politica sociale si siano ridotte, non solo perché queste devono tener conto delle possibili ricadute in termini di competitività, ma anche e soprattutto per i vincoli imposti dalla «costituzione economica» europea a politiche espansive della spesa pubblica. Per questi motivi, sembra essere più che convincente l’immagine diffusa in letteratura di uno Stato sociale «semi-sovrano» [Leibfried, Pierson 1995b; anche Ferrera 2000; 2004], entrato in una fase del suo sviluppo storico caratterizzato da una «austerità permanente» [Pierson 1999].

Un settore nel quale l’integrazione negativa mostra i suoi effetti in maniera, per così dire, ancor più diretta sulla capacità di regolazione degli Stati membri è quello degli ordinamenti lavoristici nazionali attraverso le interferenze che su di essi esercita il diritto comunitario della concorrenza. È questo uno campo di studi in cui da tempo la scienza giuridica ha maturato le sue riflessioni, cercando di sviluppare griglie interpretative su come il processo di integrazione abbia influito sugli ordinamenti del lavoro e della sicurezza sociale (rectius: previdenza sociale) interni. A tale proposito, le valutazioni – prevalentemente di segno negativo – espresse da molti giuslavoristi europei in termini di «infiltrazione», «erosione», «corrosione», «intrusione», ecc. [Giubboni 2003, p. 165 e ss.], del diritto della concorrenza rispetto ai diritti del lavoro nazionali riflettono la preoccupazione che l’approccio garantista, tipico degli

11 Tale ragionamento può essere fatto valere anche al contrario, nel senso che un Paese, nel quale vi sono costi legati al lavoro più bassi, è interessato a mantenerli tali, se non ulteriormente a diminuirli, al fine di mantenere il proprio vantaggio competitivo.

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ordinamenti lavoristici, possa essere minacciato dal valore sovraordinato assunto dalle regole della concorrenza a livello comunitario e dagli intenti deregolatori attraverso queste perseguiti. Due sono le vicende sotto molti aspetti «paradigmatiche» [ibidem, pp. 220 e ss.]: quella dei monopoli pubblici di collocamento e quella dei monopoli previdenziali nazionali. Si tratta di due “casi” molto noti per i quali non è possibile, in questa sede, ricostruire nei dettagli la complessa giurisprudenza maturata dai giudici della Corte di Lussemburgo (Roccella, 1997; Giubboni, 2003). In sintesi, la disciplina della concorrenza non ha intaccato il principio su cui si basa lo Stato sociale nazionale, ossia l’appartenenza obbligatoria a monopoli pubblici di previdenza sociale. Tuttavia, nel momento in cui ci si allontana dalle forme di previdenza c.d. di primo pilastro, diventano gradualmente più forti le pressioni esercitate dalle norme comunitarie in materia di concorrenza. Ciò vale sia per le forme collettive di previdenza complementare (c.d. di secondo pilastro) che per le forme di previdenza volontaria integrativa basate su contratti individuali (c.d. di terzo pilastro).

Queste considerazioni spingono ad ampliare la riflessione su come il diritto della concorrenza possa incidere su quella che è una delle sfere di produzione del welfare: ossia il mercato. Parimenti a quanto sta accadendo per la previdenza integrativa dove l’obiettivo dichiarato della Commissione è quello di creare un «mercato unico per i regimi pensionistici integrativi»12, anche nell’ambito dei servizi alla persona la spinta che proviene dalle Istituzioni comunitarie sembra essere quella per una creazione di un “libero mercato” dei servizi sociali. In particolare, i profili di condizionamento che emergono dall’analisi delle più recenti orientamenti della Commissione europea, sembrano prefigurare un’estensione ai servizi sociali dell’ambito di applicazione della disciplina comunitaria in materia di concorrenza13. Del resto è questo un settore che, proprio per la tendenza alla esternalizzazione che sempre più lo caratterizza, si presta ad essere “inquadrato” secondo logiche di tipo competitivo. Una prova di quanto detto può essere trovata anche nei processi, in atto nel settore privato profit, «di fusioni ed acquisizioni, con l’ingresso di gruppi industriali di rilevanti dimensioni rispetto la struttura media tradizionale del settore» [Longo, Sicilia 2006, p. 173] e nei corrispondenti processi di aggregazione nel settore non profit. Quale rilevanza a livello intra-comunitario assumeranno queste tendenze e, soprattutto, quali le conseguenze per i cittadini dei Paesi membri, per ora non è dato dirlo. Più evidenti, invece, sono i segnali di un indebolimento dei tradizionali circuiti nazionali di produzione del benessere individuale ed una loro «ricalibratura istituzionale» multi-livello.

2.2. L’integrazione positiva

Dal punto di vista dell’integrazione positiva, gli effetti che il processo di integrazione europea ha sull’assetto dei sistemi di protezione sociale europei si prestano ad essere analizzati sotto due profili: quello del coordinamento dei sistemi di protezione sociale per i lavoratori che si spostano all’interno della Comunità14 e quello delle

12 Commissione delle Comunità europee, Verso un mercato unico per i regimi pensionistici integrativi, COM(99) 134 def., del 11 maggio 1999.13 Cfr. in particolare la comunicazione della Commissione delle Comunità europee, Attuazione del programma comunitario di Lisbona: i servizi sociali d’interesse generale nell’Unione europea , COM(2006) 177 def., del 26 aprile 2006 (per un approfondimento cfr. Verderame, 2009).14 Occorre ammettere che la collocazione di questa materie nell’ambito delle forme di « integrazione positiva» potrebbe essere disorientante rispetto alla definizione sopra richiamata della stessa. Ciò potrebbe essere una forzatura, visto anche il meccanismo attraverso il quale si realizza il coordinamento dei regimi di sicurezza sociale, rappresentato dal mutuo riconoscimento delle legislazioni nazionali; meccanismo che è stato (ed è) alla base dell’eliminazione degli ostacoli che si frappongono al commercio o alla libera concorrenza, secondo una logica di integrazione di tipo «negativo». Allo stesso modo, le

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Direttive che, in campo sociale, hanno creato, a livello europeo, uno spazio sociale omogeneo o, quanto meno, convergente.

Analizzando il primo profilo, è noto come l’emergere di una «dimensione sociale» nel processo di integrazione europea si sia manifestata inizialmente attraverso le norme relative alla libera circolazione dei lavoratori e al conseguente coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale (rectius: previdenza sociale). La consequenzialità tra le discipline di queste due materie è dimostrata dal fatto che, sino al Trattato di Nizza, la sicurezza sociale ha rappresentato un ambito di intervento comunitario esclusivamente nella misura in cui questo serviva a garantire la libera circolazione dei lavoratori tra i Paesi membri e, quindi, a contribuire alla creazione di un mercato senza frontiere interne nel quale realizzare una allocazione dei fattori produttivi – fra i quali il lavoro – in maniera non distorta. Una caratteristica costante delle discipline di queste due materie è stata la progressiva estensione del loro ambito di applicazione sia soggettivo (le persone che ne beneficiano) che oggettivo (le materie alle quali si applicano), anche grazie alle numerose sentenze della Corte di giustizia che «ha piegato norme e principi del diritto comunitario al fine di “massimizzare”i benefici ricavabili dal lavoratore» [Cinelli 2005, p. 122]. Per questi motivi, «il sistema comunitario di coordinamento dei regimi nazionali di sicurezza sociale risponde da sempre ad esigenze e istanze non riducibili ad una mera logica di integrazione mercantile e di promozione della libera circolazione della “forza lavoro” nel mercato comune» [Giubboni 2005, p. 14]. Di fronte a diritti che difficilmente sono riconducibili solo ad una logica di mercato, l’intervento comunitario in queste materie ha fatto propria una logica tendenzialmente universalista.

Ma, perché e in che modo il coordinamento, a beneficio dei lavoratori migranti, dei sistemi previdenziali europei ha modificato l’assetto dei welfare nazionali? Le discipline in materia di libera circolazione e coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale hanno creato degli spazi di entrata ed uscita rispetto ad uno spazio tradizionalmente chiuso, quale appunto l’edificio dei Welfare States, portando ad una ridefinizione di quella che Ferrera [2004; 2005b] definisce «architettura spaziale della cittadinanza sociale». Questa ridefinizione si articola essenzialmente attraverso due dimensioni, costitutive della cittadinanza: quella territoriale «che identifica l’orizzonte di validità geografica dello status di cittadino» [Ferrera, 2004, p. 99] e quella sociale (appartenenza) «che specifica […] i requisiti necessari per il riconoscimento di quello status» [ibidem, p. 99]. Entrambe contribuiscono a definire i confini della cittadinanza e del welfare state, rispetto ai quali il processo di integrazione europea ha aperto nuovi spazi, indebolendone la tradizionale chiusura.

Ciò, tuttavia, non è avvenuto in modo uniforme per tutti gli ambiti della sovranità sociale statuale. Innanzitutto, la libera circolazione dei lavoratori e il conseguente coordinamento dei regimi di sicurezza sociale ha generato flussi in entrata e in uscita in quella che è la struttura portante dei sistemi di welfare, ossia le assicurazioni sociali obbligatorie. Ciò ha arricchito il patrimonio dei diritti di cui gode il lavoratore che si sposta all’interno dei confini dell’Unione europea, in base ai principi quali la totalizzazione dei periodi contributivi, l’esportabilità delle prestazioni assicurative, ecc.. L’ambito di solidarietà rappresentato dall’assistenza sociale rimane

disposizioni relative al coordinamento dei regimi di sicurezza sociale non prevedono l’istituzione di regimi assicurativi diversi da quelli nazionali per i lavoratori che si spostano da un Paese membro all’altro, quanto piuttosto il coordinamento delle normative nazionali in base ad una serie di principi contenuti nei regolamenti dedicati a tale materia. In altre parole, manca quell’elemento caratterizzante l’«integrazione positiva», cioè «la ricostruzione di un assetto regolativo a livello dell’unità economica più ampia» [Scharpf 1997; tr. it. 1999, p. 51]. Tuttavia, come illustrato nel paragrafo, proprio i principi che tali regolamenti richiamano e la loro messa in pratica hanno consentito un ampliamento delle tutele comunitarie per quei lavoratori che si spostano all’interno della Comunità.

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invece uno spazio ancora chiuso rispetto al livello sovranazionale. È intuibile il perché. Come scrive Ferrera, è questo «il regno della solidarietà asimmetrica» dove esistono forti «legami di condivisione che, essendo basati sul bisogno e non sui contributi, presuppongono dosi elevate di we-feelingness, di senso comune di appartenenza» [ibidem, p. 116-117]. Infine, lo spazio della previdenza complementare dove, secondo Ferrera, l’integrazione europea «ha posto le basi per la formazione di nuove collettività redistributive» [ibidem, p. 118]. Il nostro giudizio in merito è invece meno ottimista, in quanto è vero che la tendenza è quella alla creazione di un mercato della previdenza completare, tuttavia, ciò avviene secondo una logica appunto di mercato piuttosto che di cittadinanza. In altre parole, ad essere salvaguardata o incoraggiata, almeno per ora, è la libertà di circolazione dei capitali piuttosto che quella dei lavoratori e la connessa trasferibilità dei diritti alla pensione complementare.

Per quanto attiene al secondo profilo, uno degli strumenti privilegiati attraverso il quale l’Unione europea ha promosso il proprio intervento regolativo in campo sociale è rappresentato dalle Direttive. Tuttavia, va anche precisato che la natura delle politiche sociali comunitarie è molto diversa rispetto a quella delle politiche sociali nazionali. Questo perché l’obiettivo delle prime è essenzialmente quello della creazione di un mercato al riparo da forme distorte di concorrenza e di prevenire forme di «social policy regime competition». Ciò nonostante, appare chiaro che, nel perseguire tale obiettivo, queste stesse politiche15 svolgono una funzione correttiva del mercato nel momento in cui fissano alcuni standard di tutela minimi. Quindi, anche se principalmente market-related, esse hanno implicazioni per il welfare [Taylor-Gooby 2004b], in quanto rappresentano, in ogni caso, una modificazione o una integrazione delle modalità di funzionamento del sistema economico. In altre parole, esiste un isomorfismo tra le politiche sociali comunitarie e quelle nazionali in quanto entrambe parlano con il “linguaggio dei diritti”.

In che modo, dunque, le direttive sociali europee influenzano le politiche sociali nazionali? È stato fatto notare come, in molti casi, le legislazioni nazionali già contemplino le previsioni contenute in queste direttive e che, per questo motivo, esse ricoprono un ruolo marginale nella ridefinizione dell’architettura dei welfare states [Guillén, Álvarez 2004]. Tuttavia, se è vero che tali normative hanno incorporato sviluppi maturati già da tempo nei sistemi di welfare nazionali, il loro impatto non va trascurato. Un segnale di ciò è dato proprio dall’insorgere di “situazioni di conflittualità”. In particolare, dalle relazioni annuali che vengono redatte dalla Commissione sul controllo dell’applicazione del diritto comunitario è possibile ricostruire una serie storica delle procedure di infrazione aperte a carico degli Stati membri [Verderame 2009]. Senza entrare nel dettaglio, ciò che emerge dall’analisi di questi documenti è che esiste un nucleo di Direttive16 per le quali si presenta, sovente, il problema della compliance, e che quest’ultimo, almeno nel settore sociale, sembra ben lontano dall’essere solo una “faccenda” dei Paesi dell’Europa meridionale, come sostiene più in generale Börzel [2003]. È questo, del resto, un campo di studi ancora poco esplorato, rispetto al quale l’agenda di ricerca sull’europeizzazione promette forse di dare i risultati più incoraggianti.

2.3. L’integrazione cognitiva15 Si pensi a quelle politiche sociali che trovano applicazione attraverso lo strumento delle Direttive (art. 137 TCE, par. 2, lett. b) e che, ricordiamo, hanno per oggetto: la sicurezza e salute dei lavoratori, le condizioni di lavoro, i diritti del lavoratore in caso di risoluzione del rapporto di lavoro e i diritti alla informazione e consultazione, le condizioni di impiego dei cittadini dei paesi terzi, l’integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro e la parità tra uomini e donne (art. 137 TCE, par. 1, lett. a-i).16 Tra queste, le Direttive in materia di «Organizzazione dell'orario di lavoro» (Dir. 2000/34/CE) e di «Parità di trattamento uomo-donna (formazione e lavoro)» (Dir. 2002/73/CE).

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L’aspetto oggi più rappresentativo del nuovo corso assunto dalla politica sociale comunitaria può essere sintetizzato con l’etichetta dell’«integrazione cognitiva». Con il varo della Strategia di Lisbona (marzo 2000), l’Unione europea ha esteso decisamente il proprio raggio di azione in ambito sociale, dando avvio al «Metodo aperto di coordinamento» (MAC) in materie quali la lotta alla povertà e alla esclusione sociale («Processo inclusione sociale»), prima, e protezione sociale (pensioni e sanità), poi17. L’Unione europea ha, quindi, individuato per se stessa il ruolo di facilitare il coordinamento e l’apprendimento reciproco tra le élites politiche nazionali, fissando linee guida, obiettivi comuni ed indicatori utili a monitorare i progressi compiuti verso l’obiettivo, sancito dal Trattato di Nizza, della modernizzazione dei regimi di protezione sociale (art. 137, par. 1, lett. k). È evidente la natura cognitiva di questo progetto: la modernizzazione del modello sociale europeo non impone alcuna forma di regolazione più o meno stingente (Regolamenti o Direttive), ma disegna un percorso basato sullo scambio di esperienze e “buone prassi”, attraverso le quali affrontare problematiche comuni18.

È opinione diffusa che il Metodo aperto di coordinamento sia la forma più rappresentativa di questo nuovo orientamento dalla politica sociale comunitaria che ha imboccato decisamente la strada della regolazione soft, caratterizzata da una normatività debole, tanto da essere definita come forma di intervento post-regolativa. Questa sua caratteristica è, del resto, legata alla necessità di ovviare al problema dell’esistenza di diversità troppo grandi tra i Paesi membri in materia di politiche sociali, ed è per questo che il Metodo aperto di coordinamento, lontano dal voler imporre una stessa base regolativa, si lascia pensare come ad un “laboratorio” nel quale promuovere una visione politica condivisa delle difficoltà comuni incontrate a livello nazionale ed orientare le politiche di riforma del welfare [Palier 2004]. Il grande interesse che il MAC ha suscitato deriva dalle sue potenzialità ma anche dalle sue debolezze e dai numerosi problemi che esso solleva (Barbera, 2006a), con particolare riferimento ad alcune questioni di fondo, quella della legittimità della regolazione soft comunitaria e quella della sua effettività (Sakellaropoulos, 2005).

In merito a tali problematiche vi sono visioni contrastanti. Quelle più pessimistiche individuano nel MAC un modo per nascondere l’inefficacia dell’azione comunitaria nella sfera sociale, a fronte della riluttanza da parte degli Stati membri nel condividere scelte comuni. Il MAC diviene così un semplice esercizio procedurale al quale si accompagna una depoliticizzazione dei contenuti e delle scelte in materia di politica sociale. Al di là della sua efficacia, quanti criticano il nuovo corso della politica sociale comunitaria inaugurato con il MAC, evidenziano come questo sia essenzialmente strumentale ad uno processo di ridimensionamento dei sistemi di protezione sociale europei. Le linee guida e gli obiettivi contenuti nelle varie

17 Come noto, i processi di coordinamento in materia di inclusione e protezione sociale (pensioni e sanità) sono stati oggetto di una razionalizzazione che ha portato all’elaborazione di un'unica applicazione del MAC per queste materie. Il «MAC integrazione sociale e protezione sociale» è così finalizzato al raggiungimento di tre «obiettivi generali» (overarching objectives), individuati prima dalla Commissione [COM 2005(706)] e poi approvati nel corso del Consiglio europeo di primavera (marzo 2006). Per una efficace ricostruzione si veda Sacchi [2006a].18 Va sottolineato come il progressivo approfondimento delle tematiche sociali, in campo comunitario, ha origini diverse: da una parte, c’è la necessità di coordinare politiche per le quali il Welfare State ha perso parte della propria incisività; dall’altra emerge un bisogno di legittimazione, avvertito dalle Istituzioni europee, di fronte ai «cittadini europei». Sin dall’immediato dopo Maastricht, infatti, è stato invocato il bisogno di un’Europa sociale in grado di riequilibrare – e qui si manifesta probabilmente il paradosso più evidente della costruzione europea – l’asimmetria venutasi a creare tra “integrazione negativa” e “integrazione positiva”, tra l’«Europa dei tecnocrati e dei banchieri» ed un Europa attenta al benessere dei “propri” cittadini.

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applicazioni del MAC (l’adattabilità della forza lavoro, la sostenibilità finanziaria dei sistemi pensionistici o di quelli sanitari) sembrano indicare la direzione di una riforma dei welfare nazionali in senso liberale, nella quale la politica sociale è funzionalmente subordinata agli obiettivi della politica economica. La trasformazione del Welfare State in Workfare State, secondo la terminologia proposta da Jessop [1993], sembra essere, per i critici del MAC ma non solo, il mainstream dell’intervento comunitario in ambito sociale (Palier, 2004, p. 13).

Viceversa, le visioni ottimistiche del MAC tendono ad evidenziarne la capacità di sopperire ai limiti delle forme di regolazione di tipo hard e di avviare meccanismi di apprendimento reciproco e di policy transfer non più guidati dall’alto. Tra le virtù del MAC, quindi, c’è quella di rendere possibile l’attivazione di «processi di autoregolazione sociale, dando alla società civile un ruolo decisionale finora prevalentemente attribuito alle istituzioni». [Barbera 2006b, p. 5], secondo un approccio orientato dal basso e, quindi, maggiormente attento alle specificità nazionali e locali. Dinanzi a problemi comuni, quali la disoccupazione e la povertà, il Metodo aperto diviene uno strumento che permette di superare le differenze politico-istituzionali esistenti tra i sistemi di welfare e di ricercare soluzioni comuni, attraverso l’apprendimento reciproco, inserendo i Paesi membri in un quadro stabile di confronto su questi temi. Proprio la iteratività, secondo i «teorici del MAC», non è un segnale di debolezza ma un punto a favore di tale metodo che tende così ad istituzionalizzarsi e ad esercitare una maggiore influenza. L’aspetto che allora diviene predominante è quello cognitivo, insieme al grado di flessibilità con il quale permette di affrontare i problemi comuni. Se si tiene conto di questo aspetto, è possibile guardare alla relazione tra processo di integrazione europea e welfare nazionali in modo diverso. Come osserva Palier [2004], «l’Europa agisce da catalizzatore, quale filtro che, allo stesso tempo, rende possibili nuove riforme e riorienta il modello sociale europeo» [ibidem, p. 16]. Secondo l’autore, «il contributo dell’Europa alla trasformazione del welfare state sarà più visibile se si analizzano le riforme meno in termini di aggiustamento e adattamento a shock esterni (come la globalizzazione o l’invecchiamento della popolazione) e più in termini di politiche pubbliche costruite attraverso l’interazione sociale che coinvolge più istituzioni europee» [ibidem, p. 16]. Ciò non vuol dire negare i problemi che sono alla base delle trasformazioni del welfare, ma piuttosto partire da questi per arrivare a comprendere come le soluzioni di policy vengano «socialmente costruite», come alcune prevalgano su altre, cercando di porre in risalto gli «aspetti cognitivi e normativi alla base del processo di policy-making» [ibidem, p. 16]19.

Secondo Barbier [2004, p. 15], quello che tuttavia accomuna sia gli approcci più ottimistici che quelli più critici nei confronti del MAC è quello di non riuscire ad individuare meccanismi tali da dimostrare e documentare le trasformazioni indotte da questa forma soft di regolazione sociale. In altre parole, il problema dell’effettività del MAC – ma anche per forme di regolazione più cogenti, come le Direttive – è una delle questioni ancora aperte (Giubboni, 2003, p. 152)20. 19 In definitiva, dal punto di vista teorico, i vantaggi che offre il MAC sono riconducibili sia ad una prospettiva razionalista, secondo la quale la regolazione soft permette di ridurre i costi di cooperazione e di facilitare processi di negoziazione» [Trubek et al. 2005, p. 16], secondo una logica orientata al risultato, che ad una socio-costruttivista che vede in tale metodo la possibilità di costruire «processi di persuasione, apprendimento, argomentazione e socializzazione» [ivi, p. 16], secondo pratiche di governance condivise.20 Le valutazioni prevalenti sembrano, per ora, di segno negativo. Ad esempio, secondo Sacchi [2006a], «ben lungi dal configurare strategie coerenti volte alla modernizzazione di policy, i NAP sono stati, in tutti gli Stati membri, dei documenti di razionalizzazione dell’esistente nel migliore dei casi, delle mere “relazioni a Bruxelles” nel peggiore» [ibidem, p. 34]. Anche nel campo dell’occupazione, dove il Metodo aperto di coordinamento ha alle spalle – oltre che una base normativa più solida – una fase di rodaggio più lunga, è difficile poter individuare un nesso di causalità tra le linee guida e gli orientamenti elaborati a

16

Del resto la progressiva trasformazione delle modalità con le quali il MAC ha trovato applicazione e la sua storia relativamente breve rendono «difficile cogliere quali risultati siano destinati a consolidarsi e quali siano di carattere transeunte» [Barbera 2006b, p. 16]. Per questo motivo, come sostiene Ravelli [2005], «un giudizio equilibrato sull’impatto e sulle prospettive future del MAC […] deve tener conto della sua natura sperimentale e del fatto che i processi di convergenza da esso innescati non sono (né potrebbero essere) rapidi» [ibidem, p. 40].

Osservazioni conclusive

Il nostro breve, ma intenso viaggio nel rapporto esistente tra Europa e welfare può forse permettere alcune parziali e provvisorie conclusioni in merito ai problemi ed alle prospettive del processo di integrazione europea, e delle forme nelle quali si articola e si esprime l’interesse europeo per la solidarietà sociale, per la sicurezza, per l’eguaglianza delle opportunità nel contesto della seconda modernità, che rappresenta la parte qui presa in considerazione del Sogno Europeo di cui parla Rifkin. In primo luogo, è opportuno evidenziare che le osservazioni che precedono, e quelle che seguono, non riguardano che alcuni segmenti di una realtà segnata da una profonda e crescente complessità: il lavoro qui presentato si concentra soprattutto sui sistemi pubblici di welfare, che costituiscono soltanto un segmento dei più ampi sistemi di protezione sociale, i quali a propria volta non sono che un elemento, benché di grande rilievo, che concorre a definire la configurazione delle formazioni sociali europee; inoltre, non va dimenticato che il processo di allargamento dell’Unione Europea ha a sua volta complicato il quadro estendendo la definizione di ciò che, esplicitamente o più spesso implicitamente, si considera “Europa” e di ciò non si considera tale.

Una volta espresse queste cautele, è opportuno osservare che la realtà qui esaminata presenta sia elementi di comunanza che di divergenza: il Modello Sociale Europeo emerge con una certa chiarezza se, come si è cercato di fare, i Paesi dell’Europa vengono posti a confronto sistematico con quelli extraeuropei, anche ad analogo (o superiore) livello di sviluppo. Al tempo stesso, persistono differenze di lunga durata in alcuni fondamentali orientamenti nazionali della politica sociale, con particolare riferimento al grado di tolleranza mostrato nei confronti dell’ineguaglianza sociale e della povertà economica, e ad alcuni assetti tipici della configurazione strutturale dei sistemi di welfare, con riferimento all’incidenza relativa sia della spesa privata, sia della spesa per trasferimenti di reddito, che producono delle divergenze insospettate in termini di “qualità sociale” o di efficacia ed efficienza dei sistemi di protezione sociale. Ciò giustifica la persistente validità della letteratura relativa alla classificazione dei sistemi nazionali di welfare in differenti modelli o regimi, una classificazione che diviene ancora più articolata non appena il focus dell’analisi scientifica e del dibattito politico si sposta dall’Europa occidentale e settentrionale per includere quella del Sud e dell’Est. Accanto a ciò, i processi di convergenza istituzionale che l’attivazione delle competenze comunitarie in materia di politiche economiche e sociali, occupazionali ed educative ha generato, inducendo a riflettere sulle diverse forme di integrazione indotta da ciò, non appaiono (ancora?) abbastanza efficaci da superare le differenze nazionali ed invertire eventuali derive in senso divergente.

livello europeo e le riforme del mercato del lavoro in atto nei Paesi membri [Velutti 2005].17

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Tabella 1. Spesa sociale pubblica, in percentuale del PIL, nei Paesi OCSE (1980-2005).

Paese Anno variazione incidenza s. p. s. / PIL* 1980 1985 1990 1995 2000* 2005**

Svezia 27,1 29,4 30,2 32,1 28,5 29,4 8,5Francia 20,8 26,0 25,1 28,6 27,9 29,2 40,4Austria 22,5 23,8 23,9 26,5 26,4 27,2 20,9Danimarca 24,8 23,2 25,1 28,9 25,6 26,9 8,5Germania 22,7 23,2 22,3 26,5 26,2 26,7 17,6Belgio 23,5 26,0 24,9 26,2 25,3 26,4 12,3Finlandia 18,0 22,5 24,2 30,9 24,3 26,1 45,0Italia 18,0 20,8 19,9 19,9 23,3 25,0 38,9Lussemburgo 20,6 20,2 19,1 20,8 19,7 23,2 12,6Portogallo 10,2 10,4 12,9 17,0 19,6 23,1 126,5Ungheria n. d. n. d. n. d. n. d. 20,0 22,5 12,5Norvegia 16,9 17,8 22,3 23,3 21,3 21,6 27,8Regno Unito 16,7 19,8 17,0 20,2 19,2 21,3 27,5Spagna 15,5 17,8 19,9 21,4 20,3 21,2 36,8Polonia n. d. n. d. 14,9 22,6 20,5 21,0 40,9Paesi Bassi 24,8 25,3 25,6 23,8 19,8 20,9 -15,7Grecia 10,2 16,0 16,5 17,3 19,2 20,5 101,0TOTALE OECD 16,0 17,7 18,1 19,9 19,3 20,5 28,1Svizzera 13,5 14,5 13,4 17,5 17,9 20,3 50,4Repubblica Ceca n. d. n. d. 16,0 18,2 19,8 19,5 21,9Giappone 10,6 11,4 11,4 14,3 16,5 18,6 75,5Nuova Zelanda 17,2 17,9 21,8 18,9 19,4 18,5 7,6Australia 10,6 12,5 13,6 16,6 17,8 17,1 61,3Islanda n. d. n. d. 13,7 15,2 15,3 16,9 23,4Irlanda 16,7 21,3 14,9 15,7 13,6 16,7 0,0Repubblica Slovacca n. d. n. d. n. d. 18,6 17,9 16,6 -10,8Canada 13,7 17,0 18,1 18,9 16,5 16,5 20,4Stati Uniti 13,1 13,1 13,4 15,3 14,5 15,9 21,4Turchia 4,3 4,2 7,6 7,5 13,2 13,7 218,6Messico n. d. 1,9 3,6 4,7 5,8 7,0 268,4Corea del Sud n. d. n. d. 2,9 3,3 5,0 6,9 137,9

* Il dato della Turchia si riferisce al 1999.** Il dato del Portogallo si riferisce al 2004.

Fonte: OECD Statistical Database.

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Tabella 2. Percentuale di persone a rischio di povertà prima e dopo i trasferimenti sociali (2004)(Soglia di povertà: 60% del reddito medio nazionale).

Paese % persone a rischio povertàRiduzione della povertà: incidenza percentuale di

Prima dei TS Dopo i TS per Pensioni Altri TS Totale TS Pensioni Altri TS

Danimarca 39 31 12 20,5 48,7 69,2Finlandia 40 28 12 30,0 40,0 70,0Norvegia 38 29 11 23,7 47,4 71,1Svezia 42 29 9 31,0 47,6 78,6Irlanda 40 32 20 20,0 30,0 50,0Regno Unito 43 29 19 32,6 23,3 55,9Austria 43 24 12 44,2 27,9 72,1Belgio 42 28 15 33,3 31,0 64,3Francia 45 26 13 42,2 28,9 71,1Germania 44 24 13 45,5 25,0 70,5Paesi Bassi 37 22 11 40,5 29,7 70,2Estonia 39 24 18 38,5 15,4 53,9Lettonia 40 26 19 35,0 17,5 52,5Lituania 42 26 21 38,1 11,9 50,0Polonia 51 30 21 41,2 17,6 58,8Repubblica Ceca 39 21 10 46,2 28,2 74,4Repubblica Slovacca 40 22 13 45,0 22,5 67,5Slovenia 37 16 10 56,8 16,2 73,0Ungheria 50 29 13 42,0 32,0 74,0Grecia 39 23 20 41,0 7,7 48,7Italia 43 24 19 44,2 11,6 55,8Portogallo 42 26 20 38,1 14,3 52,4Spagna 39 24 20 38,5 10,3 48,8EU 25 43 26 16 39,5 23,3 62,8

Fonte: Ponzini (2008) (elaborazione su base dati Eurostat).

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Grafico 1. Un confronto tra i sistemi di welfare in alcuni Paesi OECD (2005). Spesa pubblica e spesa pubblica per beni e servizi

As

At

Be

CzFr

Is

It

Ja

Ko

Lu

Nl

Sl

Ch

UkUs Dk

Ge

No

Se

30,0

35,0

40,0

45,0

50,0

55,0

60,0

65,0

70,0

60,0 65,0 70,0 75,0 80,0 85,0 90,0 95,0 100,0 105,0

% spesa pubblica /spesa sociale totale

% b

eni e

serv

izi /

spes

a so

cial

e pu

bblic

a

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Grafico 2. La performance dei sistemi di protezione sociale. Spesa sociale pubblica (in % del PIL) (2005) e indice di Gini (metà '00)

As

At

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Cz

Dk

Fr

GeHu

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No

PlPt

Sl

Sp

Se

Ch

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Us

BeFi

Gr

0,20

0,25

0,30

0,35

0,40

0,45

0,50

5,0 10,0 15,0 20,0 25,0 30,0 35,0

% spesa sociale pubblica /PIL

indi

ce d

i Gin

i

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