I "vecchi" e i "giovani" di Zola. Un'ipotesi per Pirandello (Pirandello e Zola)

20

Transcript of I "vecchi" e i "giovani" di Zola. Un'ipotesi per Pirandello (Pirandello e Zola)

Armonia e conflittiDinamiche familiari nella narrativa italiana moderna e contemporanea

P.I.E. Peter LangBruxelles Bern Berlin Frankfurt am Main New York Oxford Wien

Destini incrociati n° 14

Ilaria de Seta (a cura di)

Armonia e conflittiDinamiche familiari nella narrativa italiana moderna e contemporanea

Information bibliographique publiée par « Die Deutsche Bibliothek »« Die Deutsche Bibliothek » répertorie cette publication dans la « Deutsche National-bibliografie » ; les données bibliographiques détaillées sont disponibles sur le site <http://dnb.ddb.de>.

Questo libro è stato pubblicato con il contributo di: Fondation Universitaire de Belgique; Patrimoine de l’Université de Liège. Copertina: La foto in copertina, che ritrae Pirandello in famiglia, proviene dall’Archivio Fotografico-Iconografico Luigi Pirandello, Istituto di Studi Pirandelliani, che ne autorizza la pubblicazione.

Il volume è stato sottoposto a una revisione anonima.

Toute représentation ou reproduction intégrale ou partielle faite par quelque procédé que ce soit, sans le consentement de l’éditeur ou de ses ayants droit, est illicite. Tous droits réservés.

© P.I.E. PETER LANG s.a.Éditions scientifiques internationalesBruxelles, 20141 avenue Maurice, B-1050 Bruxelles, Belgiquewww.peterlang.com ; [email protected]

Imprimé en Allemagne

ISSN 2031-1311ISBN 978-2-87574-205-6eISBN 978-3-0352-6460-9D/2014/5678/82

35

I «vecchi» e i «giovani» di Zola Un’ipotesi per Pirandello

Claudio GiGante

Université Libre de Bruxelles

1. Fine NovecentoAveva visto com’è inverosimile che si possa discendere l’uno dall’altro e com’è inverosimile che davvero si discenda l’uno dall’altro. Nascita, successione, le generazioni, la storia: assolutamente inverosimile.Aveva visto che non discendiamo l’uno dall’altro, che solo in apparenza è così.Aveva visto come stanno le cose […]1.

L’ultimo grande romanzo del Novecento sembra offrire, attraverso i pensieri di Levov «lo Svedese», una risposta definitiva all’antica questione della diversità morale dei «vecchi» rispetto ai «giovani». Il legame padre/figli, suggerisce Roth, è puramente biologico; i valori non passano con il sangue: è tempo perso chiedersi perché le generazioni non si corrispondano. Il sangue, buono o cattivo, mente. Nel contempo, Pastorale americana propone una dinamica generazionale a suo modo esemplare: il rifiuto dei valori dei padri, l’illusione dell’attentato palingenetico, l’utopia di una nuova civiltà, anche nazionale, fondata su valori altri, se non sempre alti, e contrapposti. Il padre, «lo Svedese», è un uomo dabbene: è realmente generoso, crede nella famiglia, nel progressismo moderato e istituzionale, nella bontà –in fondo– del cuore umano. È disposto a perdonare e dimenticare, vorrebbe rimettere ogni cosa al suo posto.

La «Pastorale» che né lui né la sua famiglia hanno potuto vivere – l’american dream spezzato– simboleggia l’irrompere della Storia nell’ingenua costruzione ideale del presente. Sua figlia Merry non si è

1 Roth, Ph., Pastorale americana [1997], trad. it. di Mantovani, V., Torino, Einaudi, 2005 (19981), p. 452.

Armonia e conflitti

36

limitata come altri sedicenni a coltivare il sogno di distruggere la società in cui vive: un esercizio che fa parte della retorica della crescita; sua figlia ha messo con le sue mani una bomba, sua figlia ha ucciso.

Anche Merry, in realtà, è una persona dabbene. Se il padre crede di essere portatore di un valore di civiltà (di avere contribuito a «costruire»), la figlia ha pensato davvero di radere quel mondo per edificarne un altro. I «vecchi» e i «giovani» sono linee parallele, più che antitetiche. Un incontro è impossibile.

2. Rome2

Su Roma, luogo simbolo di due generazioni di scrittori patrioti si è scritto molto3: del resto, è nell’idea di Roma che confluiscono personaggi diversi e fra loro rivali come Mazzini, Garibaldi e da ultimo Cavour –la celebrata trimurti dei manuali di storia patria d’antan. Il controcanto è offerto più tardi da tanta letteratura “indignata” (si direbbe oggi), tra l’Imperio di De Roberto e I vecchi e i giovani di Pirandello: ma il discorso è più vasto e più complesso, quantunque, per le linee generali, soprattutto per il versante “parlamentare”, abbastanza noto.

Vorrei proporre, in chiave pirandelliana, un angolo di visuale diverso: la prospettiva offerta da Rome di Zola, romanzo fluviale, pubblicato nel 1896 in contemporanea in Francia e in Italia, dove apparve a puntate su «La Tribuna» prima di uscire in volume4. Zola lavorò alla stesura del romanzo tra il 1894 (quando effettuò anche un soggiorno di due mesi

2 Alcune parti del presente paragrafo sono, con minime varianti, già apparse in un saggio di chi scrive dedicato, in prevalenza, ad altri argomenti: «Effetti dell’unificazione tra entusiasmo, disincanto, delusione (Cattaneo, d’Azeglio, Nievo, Zola, Carpi)» nel vol. Pre-sentimenti dell’Unità d’Italia nella tradizione culturale dal Due all’Ottocento, a cura di Gigante, C., e Russo, E., Roma, Salerno Editrice, 2012, p. 397-423. Nel contributo citato lasciavo da parte – enunciandola ma ripromettendomi di discuterla in altra occasione (che dovrebbe per l’appunto essere questa) – l’ipotesi di un rapporto tra Rome e I vecchi e i giovani.

3 Basti il rinvio, tra tanta messe bibliografica, all’ormai classico Treves, P., L’idea di Roma e la cultura italiana del XIX secolo, Milano-Napoli, Ricciardi, 1962.

4 Rome par Zola, E., Paris, Charpentier, 1896; Roma, traduzione di Palma, G. (alias E. Luzzatto), Roma, Stabilimento tipografico della Tribuna, 1896. Le tappe della composizione (con l’inevitabile dossier di documenti, come da regola per Zola e dintorni) sono tracciate da Jacques Noiray nella Préface e nella Notice che corredano la sua recente edizione del romanzo (Paris, Gallimard, 1999); questa l’edizione di riferimento, le pagine delle citazioni saranno indicate nel corpo del testo con la sigla R. Rome è il secondo romanzo della trilogia Les trois villes, che comprende Lourdes e Paris. Un esemplare di quest’ultimo si trova ancora fra i residui della biblioteca dello studio romano di Pirandello: cfr. Barbina, A., La biblioteca di Luigi Pirandello, con una premessa di Bosco, U., Roma, Bulzoni, 1980, p. 163.

37

I «vecchi» e i «giovani» di Zola

nella capitale)5 e la primavera del 1896. La vicenda si situa nell’autunno del 1894, al tempo del secondo governo Crispi: una stagione di crisi non soltanto per le conseguenze degli scandali finanziari legati alla Banca Romana e per le infuocate tensioni sociali esistenti in diverse aree del Paese, a cominciare dalla Sicilia, ma anche per i dubbi sulla tenuta della stessa Unità (ricordo che Crispi, nel colloquio che ebbe con Umberto I in vista della formazione del nuovo governo, rivelò al sovrano che c’erano fondati timori di una secessione repubblicana nel nord: si sarebbe parlato, addirittura, di una nuova Cisalpina)6. Zola non sembra compiere sforzi particolari per distinguersi dai luoghi comuni sugli Italiani che si colgono nella stampa coeva d’Oltralpe; in particolare si serve di due articoli condizionati da diffidenze politiche e anche, presumibilmente, dai numerosi corollari della cosiddetta “guerra doganale”: si tratta di «Les Italiens d’aujourd’hui», di René Bazin, apparso nel 1893 sulla Revue des deux mondes, e «Les deux Rome en 1894» di Alfred Berl, pubblicato un anno dopo su La revue de Paris7. Ciò detto, Zola coglie due temi fondativi della crisi dell’Italia post-unitaria: in primo luogo, lo scarto drammatico tra il mito a lungo vagheggiato della capitale –che per la sola forza del suo passato remoto avrebbe dovuto dare linfa al glorioso futuro della nuova Italia– e l’impasto di corruzione politica e finanziaria che nella realtà si era formato; in secondo luogo, il paradosso di uno stato che costruisce la propria capitale sul principio di un’idea: Roma non è la città che ha guidato il processo unitario né il suo prestigio nasce da una riconosciuta superiorità politica. Il primato di Roma è il frutto, allo stesso tempo, di una visione archeologica della Storia e di una costruzione ideologica: quando questa non sarà più condivisa, anche il primato verrà meno8.

Zola immagina che un giovane prete francese, Pierre Froment, protagonista già di Lourdes9, accorra nel 1894 a Roma per difendere

5 Cfr. Luciani, G., «Zola visiteur de Rome ou du bon usage du Baedeker», nel vol. Il terzo Zola. Émile Zola dopo i «Rougon-Macquart», a cura di Menichelli, G.C., Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1990, p. 173-189.

6 Cfr. Duggan, Ch., Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, trad. it. Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 760-764; Cammarano, F., Storia dell’Italia liberale, ivi, id., 2011, p. 168.

7 Cfr. Bazin, R., «Les Italiens d’aujourd’hui», in Revue des deux mondes, a. LXIII, 1893, vol. CXVIII, p. 47-94 e 524-571; Berl, A., «Les deux Rome en 1894», in La revue de Paris, I, 1894, to. V, p. 541-574. Si tratta di articoli che sono stati da tempo segnalati dalla critica zoliana (cfr. ed. Noiray, cit., Notice, p. 903-905).

8 È possibile che alla diffusione di questa immagine abbiano contribuito gli scritti di d’Azeglio circolati Oltralpe: in particolare La politique et le droit chrétien au point de vue de la question italienne (con la falsa data di «Malte. Décembre 1859») e L’Italie de 1847 à 1865. Correspondance politique de Massimo d’Azeglio, Paris, Lib. académique Didier et Cie, 1867.

9 Paris, Charpentier, 1894; traduzione di Palma, G. (alias Luzzatto, E.), Roma, Stabilimento tipografico della Tribuna, 1895.

Armonia e conflitti

38

un proprio libro –nel quale ha vagheggiato una profonda riforma della Chiesa– che rischia di essere condannato all’Indice; dopo una lunghissima tortuosa serie di incontri con personaggi di ogni risma, ma in particolare dell’aristocrazia romana, Froment riesce a ottenere un’udienza da papa Leone XIII senza per altro riuscire a impedire che il libro sia condannato (destino che accomuna questo libro immaginario a Rome e agli altri romanzi zoliani, tutti messi all’Indice)10. Il prete comprende tardivamente di avere coltivato un’illusione impossibile: la Chiesa non potrà mai essere riformata, perché una sua riforma, una sua reale rinunzia alle prerogative temporali, significherebbe la fine della stessa istituzione, che ha ragione di esistere soltanto nella sua granitica “romanità”. Froment comprende che le aperture alle questioni sociali dell’enciclica Rerum novarum vanno intese in un senso puramente caritatevole, senza illusioni rivoluzionarie. Lo sguardo del prete si estende quindi sulla capitale del nuovo stato, travolta dallo scandalo finanziario legato alla speculazione edilizia (Zola trae informazioni minuziose, al riguardo, dall’articolo di Bazin: ma sappiamo dai suoi diari ch’egli stesso, a Roma, volle visitare nell’autunno del 1894 l’immenso cantiere fatiscente nato a ridosso del quartiere Prati); la classe dirigente dell’Italia non sembra neppure lontanamente all’altezza dei voti delle generazioni precedenti che avevano versato il sangue per l’indipendenza e l’Unità. Ne nasce –pur all’interno di episodi invero troppo caricati, simili alle tinte gotiche di altre generazioni (su tutti l’obbrobriosa storia di amore e morte di Dario e Benedetta, un miscuglio indigesto di clichés letterari davvero non all’altezza dello scrittore)– un complesso ragionamento sui vecchi e sui giovani, sulle illusioni patriottiche di una generazione tradite dalla malattia affaristica di un’altra, che a mio giudizio contribuì a ispirare il romanzo pirandelliano, se non altro in forma di reazione.

Centrale in questa prospettiva –ma non per la trama del romanzo ove occupa un ruolo marginale– è la figura di un vecchio patriota, Orlando Prada, personaggio nel quale Zola ha inteso sintetizzare un intero secolo di lotte; dunque, un altro ottuagenario, un milanese che ha un passato di carbonaro, poi di mazziniano, infine di garibaldino nel 1848-’49 (partecipa sia alla difesa di Roma che a quella di Venezia); quindi l’esilio a Torino, nel decennio di preparazione, e la conversione alla causa sabauda; la partecipazione alla battaglia di Magenta, nel ’59; un anno dopo Orlando è fra i Mille che sbarcano a Marsala; ancora, come non bastasse, si trova con Garibaldi in Aspromonte, nel ’62; a Custoza nel ’66; a Mentana nel ’67, ed è, neanche a dirlo, dopo essere in fretta rientrato fra le armate regolari, fra i primi bersaglieri che varcano la breccia di Porta Pia: più che un percorso «classico» –come l’ha definito Sophie Guermès,

10 Cfr. Disegni, S., «Emile Zola all’Indice», in Esperienze letterarie, IV, 2008, p. 47-78.

39

I «vecchi» e i «giovani» di Zola

che ha avuto il merito di richiamare di recente l’attenzione, in chiave risorgimentale, su questo romanzo11– si tratta di un percorso «ideale»; Orlando è un vero e proprio maratoneta delle battaglie per l’Unità; la sua biografia di patriota onnipresente –dalla Carboneria a Porta Pia– non ha corrispondenze precise con nessuno dei protagonisti del tempo12.

Orlando Prada, più volte ferito in giovinezza, è vissuto nel mito dell’Unità e nel culto di Roma; colpito adesso da paralisi, costretto all’immobilità –ma non afasico, a differenza del dumasiano Noirtier de Villefort che forse gli ha prestato qualche tratto (come suggerisce Tilli Bertoni in un bel contributo apparso di recente)13–, vive al piano alto di un edificio, ironia della sorte, di via XX settembre, dal quale si dispiega uno dei più suggestivi panorami di Roma. Il vecchio Orlando vive di questo panorama, che simboleggia tutto quello che ha desiderato nella sua vita; si abbevera di questa visione quasi a volere cercare un sostegno capace di conferirgli un nuovo orizzonte ideale, di fronte alla devastazione morale del presente: che non è soltanto dovuta alla corruzione del mondo politico, che pure ha un suo peso, ma alla scoperta che l’Unità è ancora da farsi (non manca il richiamo a d’Azeglio)14; che i cittadini del nord e del sud hanno alle spalle secoli di culture differenti e continuano a restare moralmente distanti. È la solita visione di maniera, secondo cui da un lato ci sarebbe «le nord travailleur et économe, politique avisé, savant, tout aux grandes idées modernes», dall’altro «le Midi ignorant et paresseux, tout à la joie immédiate de vivre, dans un désordre enfantin des actes, dans un éclat vide des belles paroles sonores» (R, 211), un Mezzogiorno politicamente formato da individui scaltri e traffichini che concepiscono la costruzione della nuova capitale soltanto come un colossale affare, senza alcuna prospettiva di grandezza ideale. Fonte di queste asserzioni è l’articolo di Alfred Berl che, oltre a descrivere i caratteri dei meridionali e dei settentrionali in termini che Zola riprende alla lettera15, propone la

11 Cfr. Guermès, S., «Fiction et diction du Risorgimento dans la littérature de langue française, de Charles Didier à Émile Zola», nel vol. Il romanzo del Risorgimento, a cura di Gigante, C. e Vanden Berghe, D., Bruxelles, P.I.E. Peter Lang, 2011, p. 211-227, partic. p. 217-218.

12 Secondo Noiray, nelle note commento dell’ed. cit., Zola avrebbe tratto spunto per Prada dalla vita di Garibaldi: ma è francamente difficile seguirlo in questa direzione. Quanto all’aspetto fisico, invece, Zola s’ispirò a Enrico Cernuschi, che aveva avuto modo di conoscere durante il lungo esilio di questi in Francia (cfr. ed. cit., p. 948).

13 Cfr. Bertoni, C., «Dallo Stendhal italiano alla San Felice di Dumas: passioni e amarezze del Risorgimento nell’ottica degli stranieri», nel vol. Pre-sentimenti dell’Unità d’Italia nella tradizione culturale dal Due all’Ottocento, cit., p. 353-381, a p. 380.

14 Cfr. R, 223.15 Cfr. Berl, art. cit., p. 551: «L’Italien du nord, calme, brave, industrieux, robuste, instruit,

économe et intègre, apporte dans la vie publique ces qualités solides et foncières. Le Méridional est tout autre d’esprit, de caractère, de tempérament. Impressionnable et

Armonia e conflitti

40

medesima visione della nuova capitale e del nuovo stato militarmente conquistati dalle forze del nord, ma politicamente preda dell’avido attivismo meridionale.

Secondo Berl, riecheggiato senza alcuna sfumatura nel pensiero che Zola attribuisce al suo personaggio Prada, la grave malattia che affligge la capitale, e quindi l’Italia, nasce dalla meridionalizzazione della politica; il parlamento è nelle mani dei deputati che vengono dal sud: gente che in gran parte non ha dato alcun contributo alla lotta per l’indipendenza e poi per l’Unità, ma che adesso –forte della folta rappresentanza parlamentare– si è dedicata a una spoliazione sistematica delle pubbliche finanze. Nel romanzo è il napoletano Sacco (un cognome non scelto a caso), odiato dal vecchio milanese Prada, a incarnare il tipo dell’affarista sbarcato a Roma e lanciatosi –anche grazie a un’annunziata nomina ministeriale– alla conquista del potere:

Ce qui outrait et désespérait le vieux soldat [Prada], c’était un tel homme, un Sacco, tombé en bandit à Rome, dans cette Rome dont la conquête avait coûté tant de nobles efforts. Et, à son tour, Sacco la conquérait, l’enlevait à ceux qui l’avaient si durement gagnée, la possédait, mais pour s’y délecter, pour y assouvir son amour effréné du pouvoir. Sous des dehors très câlins, il était résolu à dévorer tout. Après la victoire, lorsque le butin se trouvait là, chaud encore, les loups étaient venus. Le nord avait fait l’Italie, le Midi montait à la curée, se jetait sur elle, vivait d’elle comme d’une proie (R, 223).

Ma non è solo un problema nord-sud: c’è anche –vivissima–, come accennavo più sopra, la questione generazionale. Luigi Prada, il figlio di Orlando, allevato dal padre nel mito della costruzione nazionale, è divenuto uno dei più intriganti affaristi della nuova capitale; avido e senza scrupoli («le fils du héros que la conquête a gâté, qui mange à dents pleines la moisson coupée par l’épée glorieuse du père» [R, 216]), ammira il padre ma non riesce a farsi contagiare dalla sua passione né dai suoi ideali. I «vecchi» muoiono e non c’è un «giovane» che ne prenda il testimone ideale, grida Orlando:

Oui, oui! lança-t-il dans un dernier cri, on donnait tout, son cœur et sa tête, son existence entière, tant qu’il s’est agi de faire la patrie une et indépendante. Mais, aujourd’hui que la patrie est faite, allez donc vous enthousiasmer pour réorganiser ses finances! Ce n’est pas un idéal, cela! Et c’est pourquoi, pendant que les vieux meurent, pas un homme nouveau ne se lève parmi les jeunes (R, 208).

mou, facile et spirituel, prompt d’esprit et d’imagination, moqueur et pétulant, il est aussi d’une ignorance profonde, d’un individualisme effréné, incapable d’effort […] et surtout, en matière politique, sans scrupules et sans moralité». E vd. anche Bazin, art. cit., p. 86-87.

41

I «vecchi» e i «giovani» di Zola

L’ardore dei «vecchi» per la conquista dell’Unità e di Roma, desiderata come e più di una donna, anche la più amata («Moi, je l’ai aimée et voulue plus qu’aucune femme» [R, 204]), si è trasformato nei «giovani» non soltanto in sete di affari, ma anche in una sorta di abulia di ideali, quasi un tragico contrappasso delle passioni dei «vecchi». Se il vecchio Orlando Prada ancora spera nella grandezza di Roma e nell’Unità dell’Italia, la sua speranza è rappresentata come una lontana futura utopia, che non ha alcun rapporto con il presente, ma è soltanto nutrita da un’incrollabile fede nell’Idea di nazione che un giorno darà i suoi frutti («L’Italie renaîtra dans sa glorie ancienne, dès que le grand peuple de demain aura poussé de terre»! [R, 847]); mentre nei pochi «giovani» dove sono ancora vivi i semi dell’ideale inizia a serpeggiare un desiderio di anarchia e distruzione.

È il caso del giovane Angiolo Mascara, tipica figura di Gutmensch, nell’accezione di idealista ingenuo, che sogna di radere Roma al suolo per poterla ricostruire daccapo. Il suo aspetto efebico –in linea con una tradizione di angeli potenzialmente sterminatori che si ritrova anche, da noi, in De Roberto, Pirandello e Borgese16– è in voluta contraddizione con i propositi esplosivi: Mascara è il nipote ventenne di uno dei Mille, morto in Sicilia mentre combatteva insieme a Prada. È un anarchico che non ha più fiducia nelle parole dei «vecchi» e non crede al mito della terza Roma; insegue, con i suoi compagni, il mito della quarta Roma, che rinascerà dalle ceneri di quella che i patrioti dell’altra generazione si erano illusi di edificare:

Je la reconstruirais, répéta l’enfant debout, d’une voix tremblante de prophète inspiré, je la reconstruirais, oh! si grande, si belle, si noble! Ne faut-il pas pour l’universelle démocratie de demain, pour l’humanité enfin libre, une cité unique, l’arche d’alliance, le centre même du monde? Et n’est-ce pas Rome qui est désignée, que les prophéties ont marquée comme l’éternelle, l’immortelle, celle en qui s’accompliront les destinées des peuples? Mais, pour qu’elle devienne le sanctuaire définitif […], on doit la purifier d’abord par le feu, ne rien laisser en elle des souillures anciennes. Ensuite, quand le soleil aura bu les pestilences du vieux sol, nous la rebâtirons dix fois plus belle, dix fois plus grande qu’elle n’a jamais été […] (R, 849).

3. Un’ipotesi per PirandelloA questo punto, lo si sarà compreso, la mia domanda è se, così come è

avvenuto per Il Santo di Fogazzaro su un piano totalmente diverso (quello dell’utopia riformatrice di Pierre Froment, riversata nella figura, mistica

16 Vd. di chi scrive «La figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana del disincanto postunitario (Zola, Pirandello, De Roberto, Borgese)», in Filologia e Critica, XXXVII (2012), 3, p. 331-351.

Armonia e conflitti

42

e savonaroliana, di Pietro Maironi)17, Rome abbia svolto un ruolo, per marginale che sia stato, nella formazione de I Vecchi e i giovani: ipotesi che si adatterebbe bene, fra l’altro, alla recente proposta, fondata sul reperimento di due foglietti autografi conservati alla Houghton Library, di anticipare al 1896 –cioè proprio all’anno di pubblicazione di Rome– l’inizio della gestazione del romanzo di Pirandello18.

Per evitare equivoci, mi sembra utile dire subito che non è una prospettiva crenologica quella che intendo proporre, prospettiva che può funzionare, invece, in un confronto tra Rome e Il Santo (non c’è dubbio, ad esempio, che l’episodio centrale del romanzo di Fogazzaro –l’incontro di Pietro con il papa– sia ispirato al colloquio parimenti notturno tra Pierre Froment e Leone XIII, nel cap. XIV di Rome)19. La precisazione ha un suo peso, visto che è nota per Pirandello l’abitudine di assorbire con disinvoltura nelle sue pagine –che si tratti di narrativa, teatro o saggistica– le idee, le circostanze e perfino gli spunti eruditi della letteratura del suo tempo20.

Rispetto a Zola, è sotto la spinta di tutt’altri stimoli culturali, oltre che di vicende personali e familiari, che Pirandello ha composto I vecchi e i giovani; d’altra parte, l’aspetto del romanzo di Zola che qui interessa non è il cuore di Rome pur essendo, a mio modo di vedere, un elemento tutt’altro che secondario, che destò perplessità e non poche critiche sui giornali italiani (e specialmente romani) del tempo21. Il ragionamento che mi sento di proporre è il seguente. Ci sono delle affinità non trascurabili, che vale la pena almeno enunciare. Nel contempo, l’interpretazione

17 Cfr. Morbiato, L., «Zola e Fogazzaro: le “soldat de la vérité” e il cavaliere dello spirito», nel vol. Antonio Fogazzaro, Padova, Esedra, 2004, p. 51-86 (= Filologia Veneta, IV, 1993); Romboli, F., «Zola e Fogazzaro: paragrafi per un confronto», in Filologia e Critica, XXVIII, 2003, 3, p. 350-371.

18 Cfr. Frau, O., «Per un manoscritto de I vecchi e i giovani», in Ariel, XVIII, 1, 2003, p. 123-151; Pupino, A.R., Pirandello o l’arte della dissonanza. Saggio sui romanzi, Roma, Salerno Editrice, 2008, p. 190-197.

19 I due episodi sono stati più volte messi a confronto: vd. ad es. Curreri, L., «De Bruges à Rome. Il Santo d’Antonio Fogazzaro», in M. Quaghebeur, a cura di, Les Villes du Symbolisme, Bruxelles, P.I.E. Peter Lang, 2007, p. 111-122, alle p. 113-114.

20 Cfr., nell’ambito del cantiere del romanzo, De Meijer, P., «Una fonte de I vecchi e i giovani», in La Rassegna della letteratura italiana, LXVII, 1963, p. 481-492; P.M. Sipala, «Dal romanzo-documento al romanzo storico: De Roberto e Pirandello», in Id., Scienza e storia nella letteratura verista, Bologna, Patron, 1976, p. 161-206; infine, Frau, O., «Un caso di cleptomania letteraria. I vecchi e i giovani tra fonti e plagio», in Pirandelliana, I, 2007, p. 79-94: intervento interessante per le fonti segnalate, ma poco persuasivo quanto alle categorie interpretative utilizzate.

21 Cfr. Faitrop-Porta, A.-Ch., «Il realismo di Rome al vaglio della critica romana (1896-1960)», nel vol. Il terzo Zola. Émile Zola dopo i «Rougon-Macquart», cit., p. 141-171. Nell’ampia rassegna sugli interventi suscitati dal romanzo di Zola figurano vari nomi di persone vicine a Pirandello, a cominciare da Capuana e Ojetti. Vd. anche Tortonese, P., «Pourquoi Rome n’a pas plu aux Italiens», ibid., p. 205-213.

43

I «vecchi» e i «giovani» di Zola

della Storia, pur prendendo le mosse da una comune percezione della crisi –quel «declino dell’idea risorgimentale di stato e delle sue promesse mediazioni sociali, della sua funzione di mito e della sua tensione verso traguardi collettivi», che Mazzacurati aveva con finezza individuato nell’apologo di Anselmo Paleari sui «lanternoni» spenti all’improvviso dalle «fiere ventate» della storia22–, è del tutto diversa, in particolare per la dialettica nord-sud che fonda la nostra comunità nazionale: al punto che non si può escludere che Pirandello, affidando al proprio romanzo, per usare una formula di Guglielminetti, «il compito di costruire una storia non risorgimentale» della Sicilia23, volesse proporre in tutta la sua drammaticità il divario etico-politico fra vecchi e giovani anche per suggerire, rispetto a Zola, una chiave di lettura che fosse tutt’altra.

La galleria pirandelliana annovera personaggi che tutti conosciamo, provenienti da una realtà territoriale omogenea. Tra Girgenti e Roma siamo nello stesso periodo, anche se non precisamente nello stesso anno, scelto da Zola: Pirandello ha ambientato I vecchi e i giovani nel tempo in cui lo scandalo della Banca Romana ha inizio; Zola si porta avanti di due anni, scegliendo come sfondo l’esplosione della bolla immobiliare (si direbbe oggi) nella capitale, che dello scandalo della Banca fu una delle conseguenze. Il vecchio Mauro Mortara, ottuagenario (o quasi) anche lui, se non può vantare lo stesso palmarès di Orlando Prada né la stessa condizione sociale svolge tuttavia una funzione analoga: quella di misurare la distanza fra gli ideali della sua generazione e la corruzione o semplicemente l’abulia dei “giovani”. Prada, che vive a Roma da un quarto di secolo, ha avuto modo giorno dopo giorno di familiarizzarsi con l’idea del declino dei propri ideali. Per Mortara, come si sa, si tratta invece di un’agnizione tardiva quanto il suo viaggio a Roma: agnizione consegnata a battute indimenticabili come: «Questa […], questa è l’Italia?» o «Che sangue avete voi nelle vene? È questa la gioventù d’oggi? è questa?»24. Il riferimento angoscioso al sangue (la domanda è rivolta al principe Lando, ma riguarda tutti i «giovani» trapiantatisi a Roma, attori senz’anima del dramma che si sta svolgendo) tocca un nodo di fondo della «morfologia

22 Cfr. Mazzacurati, G., Pirandello nel romanzo europeo, Bologna, Il Mulino, 1995², p. 240. Quanto a Paleari, il riferimento è ovviamente al cap. XVIII de Il fu Mattia Pascal (cfr. Pirandello, L., Tutti i romanzi, a cura di Macchia, G., con la collaborazione di Costanzo, M., Milano, Mondadori, 1973, vol. I, p. 317-578, alle p. 485-486). Sul riflesso ne I vecchi e i giovani della percezione di fallimento degli ideali risorgimentali si leggono ancora con profitto le considerazioni di Salinari, C., Miti e coscienza del decadentismo italiano. D’Annunzio, Pascoli, Fogazzaro e Pirandello, Milano, Feltrinelli, 1960, p. 249-284, e di de Castris, A.L., Storia di Pirandello, Bari, Laterza, 1962, p. 27-29, 90.

23 Guglielminetti, M., Pirandello, Roma, Salerno Editrice, 2006, p. 158.24 Pirandello, L., I vecchi e i giovani, in Id., Tutti i romanzi, cit., vol. II, p. 3-515, risp.

p. 390 e 423. Di qui in avanti l’indicazione della pagina sarà indicata nel corpo del testo, dopo la citazione, con la sigla VG.

Armonia e conflitti

44

del discorso nazionale»25: nell’ingenua retorica di Mortara si affaccia il dubbio che non soltanto la comunità nazionale non sia fondata su un legame fraterno, ma anche che nelle famiglie il sangue dei «giovani» –per temperamento, per passione, per coraggio, per forza ideale– non sia lo stesso dei vecchi. Sull’animo del vecchio patriota aleggia il dubbio, senza il beneficio finale della riflessione, che incide la coscienza di Levov «lo Svedese».

Ma come l’Orlando Prada di Zola, malgrado tutto e sino al tragico finale, Mauro Mortara nutre una fiducia in fondo inscalfibile nella futura grandezza della nazione, di cui è adombrato anche un possibile futuro coloniale; come Prada, Mortara ama Roma ancora prima di conoscerla (per il suo idealismo “garibaldino” pensa di poter finalmente morire dopo averla vista)26: la ama come simbolo di una passione prossima al delirio dell’amour de loin; in un’epoca in cui, osserva la voce narrante, era diventata «quasi titolo d’infamia la qualifica di “vecchio patriota”» (VG, 301).

Roberto Auriti, Corrado Selmi, il ministro d’Atri, protagonisti loro malgrado e a vario titolo della «bancarotta patriottica», sono personaggi intermedi: sono allo stesso tempo «vecchi» e «giovani»: vantano un passato patriottico, addirittura leggendario nel caso di Auriti, e un presente ricco di non onorevoli compromessi. Sono tutti «impeciati», per dirla con le parole del ministro d’Atri («Tutti impeciati, ti dico! Tutti... tutti... Muojo di schifo... Il fango, fino qua!»), che misura sulla sua pelle la lunga deriva: «da Quarto... ah, da quella notte a questa, che baratro!» (VG, 287)27. Flaminio Salvo, con la sua appendice parlamentare Ignazio Capolino, è un affarista senza scrupoli che non si fa fatica ad accostare al Sacco del romanzo di Zola, anche se per lui esiste una genealogia nostrana –mi riferisco al Gesualdo verghiano– che è stata molte volte, e certo non a torto, evocata. Il progetto di don Ippolito Laurentano –restituire Roma al papa per smantellare in seguito l’unità dell’Italia– è lo stesso coltivato dagli intrighi senza futuro orditi dall’aristocrazia nera per lunghi capitoli descritta da Zola. Il principe Lando, il figlio di don

25 Ricalco il lessico proppiano di Banti, A.M., La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino, Einaudi, 2011 (20001), p. 56-108.

26 VG, 302: «Era lui davvero, Mauro Mortara, a Roma? respirava proprio lui lassù quell’aria di Roma? toccava proprio lui coi piedi il suolo di Roma? vedeva lui tutte quelle grandezze? o era sogno? Ah, si potevano chiudere ora gli occhi suoi, dopo tanta grazia? Veduta Roma, avevano veduto tutto. Posta la sua firma nel registro del Pantheon, alla tomba del Re, poteva morire».

27 Sulla simbologia del fango, della pece, della creta cfr. Merola, N., Il romanzo dell’infatuazione, saggio introduttivo all’ed. a sua cura de I vecchi e i giovani, Firenze, Giunti, 1994, p. XXV-XXXVI.

45

I «vecchi» e i «giovani» di Zola

Ippolito, compie un’osservazione generazionale che si ritrova anche sulle labbra del vecchio Prada: la sua generazione appartiene a un’«età sterile» che succede, come sempre nella storia, a un «tempo di straordinario rigoglio» (VG, 308); la freddezza del calcolo e poi della diplomazia –che avevano frenato gli slanci garibaldini del ’62, del ’66 e del ’67– ha spento la fiamma della passione patriottica: «Non poteva l’Italia farsi in altro modo?»; e soprattutto: «Ma, se la fiamma s’era lasciata soffocare, non era pur segno che non aveva in sé quella forza e quel calore che avrebbe dovuto avere?» (VG, 310).

Infine, il Gutmensch: ne I vecchi e i giovani è una figura –che è anche inquietante proiezione autobiografica28– incarnata dal ventenne Antonio Del Re: «pallido», «cereo», nipote di uno dei Mille morto in Sicilia, proprio come il nonno dell’Angiolo Mascara di Zola, e anche lui giunto a Roma dal sud. Nella memoria del lettore del romanzo si imprime soprattutto il ricordo di Antonio Del Re quale giovane personaggio serioso e “inetto” (nel senso sveviano del termine) che sembra capace, per fatto personale o onore di famiglia, di minacciare di morte soltanto un uomo, il Selmi, che sta già morendo suicida per i fatti suoi; non meno importante, tuttavia, è il sogno carezzato in Sicilia di vendicare con la «mano armata» i torti della malaunità, sogno che a Roma si trasforma nel più ambizioso progetto di emulare, ai danni del Parlamento, il talento bombarolo del giovane Crispi –che del romanzo pirandelliano, al di là della probabile parziale proiezione nel Selmi, è il vero sottaciuto grande vecchio:

L’idea gli era balenata, sentendo una sera a tavola discorrere del modello delle bombe recate da Francesco Crispi in Sicilia alla vigilia della Rivoluzione del 1860 e della preparazione di esse. […][…] D’improvviso [Antonio Del Re] s’era sentito prendere e predominar tutto da quest’idea. […] Sì, sì, questa sarebbe la giusta vendetta, questo lo sfogo di tutte le amarezze, che avevano attossicato la sua vita e quella dei suoi; […] avrebbe dimostrato che lui solo sapeva far quello che loro tutti insieme non avrebbero mai saputo (VG, 349-350)29.

Il gioco di corrispondenze potrebbe continuare (anche su aspetti secondari dei due testi: come la morte di Aurelio Costa con la sua amante Nicoletta Spoto), ma più importante è l’immagine cancrenosa della città che è proposta in entrambi i romanzi: Roma è la «putrida carogna», il «cadavere immane» (VG, 274), la «cloaca» (VG, 423) che inghiotte danari e uccide speranze; il solo contatto con la capitale è sufficiente non

28 Cfr. Sciascia, L., Pirandello e la Sicilia, Milano, Adelphi, 1996, p. 72-83. 29 Sul modello delle «bombe Orsini», importato da Crispi in Sicilia nell’estate del 1859,

vd. Duggan, Ch., Creare la nazione, cit., p. 179-180.

Armonia e conflitti

46

solo per spegnere ogni virtù ma anche per addormentare ogni passione. Nel caso di Pirandello, siamo parecchio oltre l’immagine, pure efficace, dell’acquasantiera-posacenere del Mattia Pascal30.

Il punto rilevante è che Pirandello presenta una visione della Storia opposta o almeno, se si vuole, complementare rispetto a quella di Zola, così come non conciliabile fra i due romanzi è l’immagine del popolo. È la Sicilia, non Roma, la terra di conquista («Povera isola, trattata come terra di conquista! Poveri isolani, trattati come barbari che bisognava incivilire! Ed erano calati i Continentali a incivilirli» (VG, 85), pensa amaramente Caterina Auriti); è l’unificazione, osserva Selmi, che ha prodotto un dissesto finanziario: la Sicilia, di suo, aveva nel vecchio regime, al momento di entrare «nella grande famiglia italiana» (VG, 200) un debito lieve –ma su questo torneremo. Soprattutto, i Siciliani hanno contribuito con il sangue e con le armi all’impresa unitaria: ma loro, come i meridionali continentali (che però nel romanzo non sono, si può dire, rappresentati), sono stati in seguito traditi e umiliati, come se fossero stati redenti senza combattere, senza meriti: se il vecchio Mortara ha partecipato ai moti del ’48, alla battaglia di Milazzo e infine a quella del Volturno, il giovanissimo Auriti è partito con i Mille da Quarto, ha partecipato all’ultimo assedio a Franceschiello ed è stato poi in Aspromonte –perdendo per questo anche il sussidio che il governo gli aveva riconosciuto quale orfano di guerra. E così altri personaggi, dal Selmi ai vecchi compagni di Mortara, come Trigona, che nel romanzo sono poco più che comparse, anzi dei «poveri relitti»31 di una stagione gloriosa irrimediabilmente tradita. È per questo che Mortara può nutrire lo stesso orgoglio di Prada; anche lui pensa di «avere fatto» l’Italia: e se nel romanzo di Zola sono i meridionali a non comprendere la natura ideale del patriottismo, ne I vecchi e i giovani sono i soldati piemontesi di guardia al monumento funebre di Vittorio Emanuele al Pantheon a prendersi gioco di Mortara, delle sue medaglie garibaldine, del suo orgoglioso diniego di fronte alla prospettiva di poter ricevere una pensione di reduce:

Ma che pensione! Lui? Perché la pensione? Non aveva niente, lui. Non sapeva neppure che ci fosse, quella pensione; e se l’avesse saputo, non l’avrebbe mai chiesta. Prender danaro per quel che aveva fatto? Ma gli dovevano prima cascar le mani! (VG, 304).

30 Pirandello, L., Il fu Mattia Pascal, cit., p. 445: «I papi ne avevano fatto – a modo loro, s’intende – un’acquasantiera; noi italiani ne abbiamo fatto, a modo nostro, un portacenere. D’ogni paese siamo venuti qua a scuotervi la cenere del nostro sigaro […]». Su Roma «città morta» vd. Macchia, G., Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Mondadori, 1981, p. 66-67.

31 Cfr. Spinazzola, V., «Il sovversivismo dei Vecchi e i giovani», in Id., Il romanzo antistorico, Roma, Editori Riuniti, 1990, p. 147-190, a p. 166.

47

I «vecchi» e i «giovani» di Zola

Ma Girgenti è l’altra faccia della medaglia della crisi economica: se nella capitale sono stati investiti ingenti capitali, grazie anche a crediti illimitati concessi senza copertura, a Girgenti ogni industria è sparita: «da anni non si fabbricavan case e tutto deperiva in lento e silenzioso abbandono» (VG, 174). Di fronte al supposto arricchimento del sud a spese del nord, Flaminio Salvo –che pure, come si conviene a un cacicco32, ha saputo realizzare i propri affari– ricorda invece che la «pioggia dei benefizii s’era riversata tutta su l’Italia settentrionale, e mai una goccia ne era caduta su le arse terre dell’isola» (VG, 366)33; sulla stessa lunghezza d’onda è il pensiero del socialista Lando Laurentano, altra figura in parte autobiografica, che ritiene impossibile in Sicilia una lotta di classe finché il malcontento, «per l’incuria sprezzante verso l’isola fin dal 1860» (VG, 465), accomunerà tutti gli ordini sociali: il «sogno di Lando consiste dunque –come ha scritto Spinazzola– nello sviluppare interclassisticamente la protesta della civiltà agricola meridionale contro le sopraffazioni dell’industrialesimo urbano insediato nel Nord Italia»34.

La violenta repressione dei Fasci lascia intravedere, anche nelle sue primitive forme di organizzazione politica, un popolo ridotto alla fame ed esasperato, pronto anche a barbari eccidî. Un popolo che non somiglia neppure alla lontana al tipo meridionale descritto da Zola: gaudente e spensierato, senza progetti di vita associata, contento in fondo della propria miseria, pronto a bearsi soltanto della luce meridiana, compenso stordente di ogni male ereditato. Ancora Lando, definisce come «espiazione» il destino dei «giovani» davanti all’opera politica dei «vecchi»; rispetto a Zola, la coalizione di interessi economici di una parte del paese ai danni dell’altra, con la sponda politica della capitale, esiste sì, ma i beneficî sono andati tutti in direzione opposta: «Ecco come l’opera dei vecchi –pensa Lando–, ora nel bel mezzo d’Italia, a Roma, sprofondava in una cloaca; mentre su, nel settentrione, s’irretiva in una coalizione spudorata di loschi interessi; e giù, nella bassa Italia, nelle isole, vaneggiava apposta

32 Cfr. Sciascia, L., Pirandello e la Sicilia, cit., p. 28-29.33 Sulla natura complessa del personaggio di Ignazio Salvo cfr. Barilli, R., La linea Svevo-

Pirandello [1972], Milano, Mondadori, 2003, p. 163-168: libro che a distanza di anni resta un curioso mélange di felici intuizioni critiche e farraginose disquisizioni. Le pagine sul Salvo non fanno eccezione: l’analisi per molti versi acuta del carattere del personaggio è curiosamente conclusa con una svista clamorosa; Barilli è convinto che Salvo nutra un inconscio rancore verso la figlia Dianella, venuta al mondo invece di un agognato figlio maschio. Ma il dramma è invero tutt’altro: Salvo ha avuto un figlio maschio, nato dopo Dianella, che gli è tuttavia morto in tenera età; al momento della morte, «nel cordoglio rabbioso», Salvo aveva lanciato alla povera Dianella undicenne uno sguardo terribile – e indelebile – che voleva dire: «Non potevi morir tu invece?» (I vecchi e i giovani, cit., p. 131). La morte del figlio condiziona le relazioni familiari di Salvo ed è in trasparente rapporto con la sua smania accumulatrice.

34 Spinazzola, V., «Il sovversivismo dei Vecchi e i giovani», cit., p. 183.

Armonia e conflitti

48

sospesa, perché vi durassero l’inerzia, la miseria e l’ignoranza e ne venisse al Parlamento il branco dei deputati a formar le maggioranze anonime e supine!» (VG, 423).

Insomma tutte le teste pensanti de I vecchi e i giovani –dalla radicale Caterina, al clericale Flaminio fino al socialista Lando– concordano nel rivendicare il tradimento che il sud, e la Sicilia in particolare, avrebbe subito dai primi governi postunitari35. È una versione che non si potrebbe ricevere integralmente, per molte ragioni che oggi sono del resto materia sensibile del dibattito storiografico. Ma è una versione della Storia che ci riesce comunque molto più accetta rispetto all’affresco superficiale e francamente irritante (e forse Pirandello se ne irritò) che Zola aveva offerto ai suoi lettori36.

35 Cfr. in proposito la Prefazione di Onofri, M., all’ed. a sua cura del romanzo (Milano, Garzanti, 1993), partic. p. LXIII-LXVIII.

36 Questo intervento era già stato scritto e consegnato alla curatrice del volume quando mi è giunta fra le mani una riproposta editoriale del romanzo, in traduzione italiana, preceduta da una non memorabile prefazione (cinque pagine) di Emanuele Trevi (É. Zola, Roma, Roma, Bordeaux, 2012). L’editore ripropone la traduzione ottocentesca di Emilia Luzzatto (senza nominarla), precisando che è stata «rivisitata» sul testo originale.