Finzioni antinomiche in '1934' di Alberto Moravia

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Transcript of Finzioni antinomiche in '1934' di Alberto Moravia

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“Ma tutte le

nostre riflessioni, anche le più razionali,

sono originate da un dato oscuro del sentimento.

E dei sentimenti non è così facile liberarsi come

delle idee:

queste vanno e vengono, ma i sentimenti

rimangono.”

(Alberto Moravia - La noia)

2

INDICE

3

1. LA NARRATIVA DI ALBERTO MORAVIA: TEMI E FIGURE

p. 4

2. “1934”: PERCORSI DI ANALISI

p. 56

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

4

1. LA NARRATIVA DI ALBERTO MORAVIA: TEMI E FIGURE

Una storia letteraria del Novecento che prescinda

dalla figura di Alberto Moravia si vedrebbe

depauperata di uno dei modelli intellettuali più

lucidi ed efficaci della cultura del secolo e di

un prosatore fra i più prolifici delle ultime

decadi. Ed in effetti è riscontrabile una certa

tendenza della critica, a partire dagli anni

immediatamente seguenti alla sua morte, a

limitarne l’evidente ed innegabile preponderanza

effettiva sullo sviluppo della Letteratura

italiana, probabilmente come reazione

5

riconducibile all’attenzione massiccia destata nel

dibattito culturale dalla sua febbrile attività

narrativa e, non da ultimo, dall’ingombrante

presenza mediatica riconosciutagli.1

Inconfutabile è pure, d’altro canto, una certa

ricorsività dei nodi tematici che però, lungi dal

renderla monocorde, informano e vivificano la sua

sterminata opera generale: l’opinione diffusa di

un mondo moraviano ripetutosi in coazione dopo un

presunto esaurimento coincidente con l’opera prima

de Gli Indifferenti è da attribuire alla sorprendente

compiutezza del primo tentativo, che già manifesta

solidi punti di contatto col gruppo del 900 di

1 Cfr. ‘Alberto Moravia’ di R. BARILLI in Storia

Generale della Letteratura Italiana, Il Novecento e le forme del

realismo, a cura di Nino Borsellino e Walter

Pedullà, Milano, Motta, 2004, pp. 560-5616

Bontempelli e ne “applica a meraviglia uno dei

precetti più giusti ed efficaci, quello secondo

cui bisogna condurre la narrazione come stavano

facendo gli architetti del Movimento moderno, e

cioè “a pareti lisce”, con una prosa lucida e

funzionale, senza le bellurie così consuete

all’ambiente letterario nostrano.”2 Lo stesso

Moravia racconta, in proposito: “Partecipai un

giorno a una riunione redazionale del ‘900’.

C’erano, oltre a Bontempelli, la Masino, Marcello

Gallian, Aldo Bizzarri, Pietro Solari, non ricordo

altro: venne deciso che ciascuno di noi doveva

produrre, entro un certo termine, un romanzo per

motivi di linea culturale e di gruppo. L’unico che

2 Ibid.7

lo scrisse fui io: d’altra parte ci stavo

lavorando da un pezzo”3.

E’ tuttavia opportuno richiamare l’attenzione

sulla fase moraviana precedente alla pubblicazione

del romanzo, di cui l’autore nel saggio intitolato

Ricordo de Gli Indifferenti contenuto nella raccolta L’uomo

come fine parla in questi termini: “Prima de Gli

Indifferenti avevo scritto parecchio ma senza aver mai

certezza di incontrare me stesso sotto la penna.

Avevo scritto molte poesie, novelle e persino un

paio di romanzi. Si trattava nella grande

maggioranza di imitazioni da questo o quest’altro

autore di cui via via mi infatuavo. Con Gli

Indifferenti, per la prima volta in vita mia, mi parve

di mettere i piedi sopra un terreno solido. Dalla

3 ‘Ritratto al magnetofono’ di E. SICILIANO in

Alberto Moravia, Milano, Bompiani, 1982, pp. 39-408

buona volontà sentii ad un tratto che passavo alla

spontaneità.”4 La formazione culturale di Moravia è

però vissuta nell’ambito privato ed isolato

domestico e di quello del sanatorio di Cortina

d’Ampezzo, laddove costretto a letto da una forma

di tubercolosi ossea, intreccia le contingenze

della sua angosciosa e problematica vicenda

autobiografica con la percezione di un’immanente

crisi della Storia i cui effetti si riverberano in

campo culturale. La sua appartenenza al ceto

borghese è un ulteriore e persino fondamentale

motivo di acutezza analitica a cui lo scrittore

non abdicherà mai seppur criticandone aspramente e

con fervida ostinazione dal suo interno i costumi:

“Essendo nato e facendo parte di una società

4 A. MORAVIA L’uomo come fine, Milano, Bompiani, 1964,

p. 99

borghese ed essendo allora borghese io stesso

(almeno per quanto riguardava il modo di vivere)

Gli Indifferenti furono tutt’al più un mezzo per

rendermi consapevole di questa mia condizione.”5

Il profondo rivolgimento storico del suo tempo è

individuato da Moravia in due avvenimenti che

avevano distrutto vecchi equilibri materiali e

morali trascinando in rovina la consolidata forma

egemonica delle classi dominanti: l’ecatombe della

Prima Guerra Mondiale e la Rivoluzione bolscevica.6

Pertanto la mutata condizione antropologica vede

“Il tradizionale “universo borghese” […] risultato

virtualmente minato, nei suoi valori e nella sua

organicità, da questi accadimenti, che – altro

5 Id. p. 12

6 “Conversazione con Moravia” di F. CAMON in Il

mestiere dello scrittore, Milano, Garzanti, 1973, p. 1910

dato colto con molta nettezza dallo scrittore –

hanno visto agire per la prima volta sulla scena

della storia – e, c’è da aggiungere, via via sotto

ogni latitudine – un nuovo e inconsapevole

protagonista: le masse proletarie.”7 Senso

immanente della disgregazione, quindi, che intanto

investe le sovrastrutture culturali (“Il senso di

cupio dissolvi era diffuso a ogni livello in maniera

allarmante. Era una cosa di cui soffrivo anch’io

acutamente, condannato com’ero all’immobilità. E

mi bastava che mi guardassi attorno, nello stesso

sanatorio, per scoprire che l’idea di morte, e il

disfacimento, pure se sembrerà strano che tutto

questo potesse avvertirlo un ragazzo, erano

7 “Il primo Moravia” di R. CAVALLUZZI in Metamorfosi

del Romanzo, Bari, Adriatica, 1988, pp. 224-22511

intorno a me.”8) e s’immette nella forma letteraria

borghese per eccellenza, e cioè quella romanzesca.

Occorre a questo punto precisare i margini del

rapporto di Moravia con la cultura decadente

d’inizio secolo. In un articolo pubblicato

nell’ottobre 1927 su La Fiera Letteraria9 (E condotto da

Voza all’attenzione della letteratura critica che

l’aveva a lungo ignorato10), vero esordio pubblico,

il giovanissimo Alberto Pincherle esprimeva

l’urgenza di ripristinare l’equilibrio nel romanzo

fra “azione” e “commento”, laddove era avvertibile

8 F. CAMON, op. cit., pp. 19-20

9 A. PINCHERLE in “C’è una crisi del romanzo?” in La

Fiera Letteraria, Milano, Ottobre, 1927

10 Cfr P. VOZA, Moravia, Palermo, Palumbo 1997, pp.

9-10-1112

“il problema della malattia del romanzo”11 che

“consisteva in una crescente e diffusa

“cerebralità”, in uno squilibrio vistoso tra il

“pensiero” e l’”azione”, in una prevalenza abnorme

del primo sulla seconda (col conseguente,

esasperato accamparsi della “gran fiera

psicologica”, del “mondo arbitrario delle

intenzioni, del pensiero, dei desideri

ineffettuati, della subcoscienza”, dell’”inutile

zavorra psico-analitica”)”12. E tuttavia,

nonostante la pervasiva degenerazione ravvisabile

negli autori come Joyce e Pirandello, Pincherle si

mostrava fiducioso nell’intento di ricondurre

nella forma romanzesca il potere funzionale della

“rappresentazione vera, e soprattutto convincente

11 Id., p. 10

12 Ibid.13

della vita.”. La stessa percezione critica del

disfacimento della Storia a cui abbiamo fatto

cenno prima, che aleggiava diffondendosi e

permeando la stessa struttura ospedaliera del

sanatorio nella trasfigurazione dell’autore,

informava e sostanziava gli stessi istituti

secolari della letteratura, andando a costituire e

fondare la stessa attitudine critica intellettuale

dello scrittore, in un originario ed originale

“anti-decadentismo” di radicale reazione, che era

pertanto caratterizzato “da una forma quasi

morbosa di assorbimento di “tutta l’impossibilità

di fondo, l’impossibilità alla vita””13 della

“malattia psicologica” della cultura decadente. Ne

consegue che con la crisi modernista di

frantumazione del dispositivo letterario del

13 Id. p. 1114

personaggio, in verità assai centrale

nell’economia romanzesca, si andava ormai

delineando la minaccia dell’esaurimento della

funzione ricompositiva della letteratura e

dell’arte. Non stupisce dunque che l’opera di

strenua (Ed è doveroso puntualizzare nel nostro

caso, inflessibile) reazione di Moravia passi da

un’avida ed onnivora lettura dei classici della

letteratura europea come Proust e Dostoevskij, in

una prassi di autoidentificazione biografica che

dalla sensazione paralizzante di una crisi di

civiltà evolveva la già sveviana concezione della

malattia come condizione conoscitiva in condizione

necessaria del “giudizio morale”, in uno scarto

che era la cifra stessa della reazione.14

14 Cfr Id. p. 1215

La stessa forza motrice autobiografica è

confermata dalle parole dell’autore:

A dire il vero la mia preferenza per la tragedianon era il frutto di una riflessione fredda ecritica, bensì quello di un’inclinazionesentimentale molto profonda. [...] Basti direche io, prima ancora di scriverne, desideravovivere la tragedia. Tutto ciò che era delitto,contrasto sanguinoso e insanabile, passionespinta al grado estremo, violenza, mi attraevainfinitamente. [...] Con ogni probabilità inquel tempo scrivere per me fu un surrogato delleesperienze che non avevo fatto e non riuscivo afare.15

Ed ecco trasparire qui, fusa con la concentrazione

autobiografica, una delle qualità fondamentali

dell’opera prima moraviana, ovvero quella tensione

drammaturgica a cui il narratore si appresta per

realizzare e solidificare quel nodo drammatico da

opporre alla impossibilità narrativa della cultura

decadente. E’ intuibile dunque sia la scelta dei

cinque personaggi estremamente caratterizzati che

15 A. MORAVIA, L’uomo come fine, op. cit., p. 916

quella di mantenere saldate le due giornate in cui

si diluiva il racconto inizialmente distanti16 nel

tempo e soprattutto quella di focalizzare

l’attenzione narrativa su un ambiente familiare,

lo stesso entro cui si configuravano le tragedie

dell’antichità greca. E d’altra parte, Moravia

stesso riconosce il riferimento di autori del

mondo teatrale moderno: “In quel tempo leggevo

soprattutto teatro, in particolare Molière,

Goldoni e Shakespeare le cui opere si trovavano

nella biblioteca di mio padre; e così, pian piano

mi venne l’ambizione di scrivere un romanzo che

accomunasse le due tecniche della narrativa e del

teatro”17. Il robusto interesse giovanile di

16 Cfr A. MORAVIA L’uomo come fine, op. cit., p. 10-11

17 Frammento di autobiografia citato in A.

LIMENTANI17

Moravia per la forma drammatica è testimoniato da

un testo sperimentale risalente alla fase di

gestazione de Gli Indifferenti ossia il Dialogo tra Amleto e

il Principe di Danimarca che già indica lo stato della

riflessione dell’autore sull’impossibilità

dell’azione e sulla tragedia nel mondo borghese.

Non intendiamo però svincolare questo momento di

formazione dal suo intento attivo già preso in

considerazione, e cioè che “Il senso delle “fonti”

in Moravia è dunque in prevalenza di arricchimento

dello spirito critico, dell’intelligenza,

possibile in quanto c’è stata in precedenza di

quei testi una digestione completa, una piena

assimilazione, sia pure dietro un originario,

vigente e coibente, impianto di tecnica

romanzesca. Non per nulla uno dei settori di

18

maggior consanguineità per Moravia è […] il

Settecento francese e non per nulla lo scrittore è

venuto a incontrarsi sul piano dell’attività

culturale quotidiana con le odierne correnti

neoilluministiche.”18 Lo stesso esordio de Gli

Indifferenti (“Entrò Carla…”) sin dal contenuto

semantico dinamico della prima forma verbale che

potrebbe anche introdurre una didascalia

drammaturgica, nella sua concentrazione narrativa

e nel sapiente addensamento di dettagli afferenti

alla sfera sensoriale visiva, mostrano sicuri e

consapevoli punti di contatto con tecniche

teatrali e oseremmo dire perfino cinematografiche

(“… una sola lampada era accesa e illuminava le

ginocchia di Leo seduto sul divano; un'oscurità

18 A. LIMENTANI, Alberto Moravia tra Esistenza e Realtà,

Vicenza, Neri Pozza, 1962, p. 2619

grigia avvolgeva il resto del salotto”) per

l’attenzione posta dal narratore in maniera

abilmente “registica” ad alcuni elementi

fotografici della descrizione. A corroborare

ulteriormente la vocazione teatrale del primo

romanzo di Moravia sarebbe utile riportare la

riduzione de Gli Indifferenti ad opera di Moravia stesso

con la collaborazione di Luigi Squarzina.

Nonostante la considerazione della tragedia e del

teatro in particolare “come la più alta

manifestazione letteraria di tutti i tempi”,

l’autore non può però che attenersi alla

constatazione dell’impossibilità del conflitto

tragico nel mondo moderno, laddove in modo analogo

a quanto narrato nell’apologo dello strappo nel

cielo di carta del teatro di marionette condotto

20

da Anselmo Paleari ne Il fu Mattia Pascal nel mondo

moderno i parametri etici che regolerebbero e

configurerebbero l’agire dei personaggi sono

andati in consunzione e, pertanto, ad essi è

ammessa solamente la contemplazione della loro

irresolutezza. Ne Gli Indifferenti la tensione eroica va

a sfaldarsi e a crollare, precipitata e

prepotentemente rimpiazzata da “una ambigua

indifferenza etica”19, sicché il nodo drammatico

così accuratamente perseguito non può che

rivelarsi sotto forma di “tragedia mancata”, con

la sua perdita di senso e con l’alienazione

individuale del personaggio. La tessitura

dialogico-drammaturgica nel suo delirio di

inautenticità borghese è dunque continuamente e

19 E. SANGUINETI, Alberto Moravia, Milano, Mursia,

1962, p. 2921

costantemente insidiata da un livello ulteriore,

ossia quello delle intenzioni e dei propositi,

suggellato dai numerosissimi ”avrebbe voluto”, che

denunzia il procedere parallelo di pronunce

intenzionali e reali, rivelazione immediatamente

visibile e notevole della “crisi borghesemente

nervosa ed eccitata”. Ed anche nelle fasi finali

dell’opera, allorché l’”azione” pare prendere il

sopravvento su un andamento narrativo fino ad

allora rigidamente avviluppato al “commento” con

Michele che si appresta a commettere omicidio

segnando indelebilmente Gli Indifferenti col marchio di

una tragedia fin qui soltanto allusa, lo strumento

del delitto, e cioè una pistola, non può che

necessariamente incepparsi, rivelando ancora una

volta e forse definitivamente la riflessa natura

22

inconcludente e pertanto insufficiente della

rivolta del personaggio, convalidandone

l’irriducibile e sostanziale indifferenza. Non si

sfugga però da un dato ineludibile, e cioè che la

tenuta strutturale del romanzo si basa sulla

compattezza appunto drammaturgica originata dal

gioco di “simmetrie morali” dei cinque personaggi

nella loro misura di “aderenza” alla vita.20 Ed è

il protagonista Michele il portatore di quel

motivo centrale dell’intera opera moraviana

condotto fino agli ultimi romanzi, ossia quella

“inadeguatezza o scarsità della realtà”

(Approfondita poi ne La Noia) frutto di una patita

alienazione vitale, autentico frustrante rovello

per i suoi eroi e contemporaneamente dispositivo

di analisi critica e realista per l’autore. Negli

20 Cfr P. VOZA, op. cit., p. 1723

anni del consolidamento del regime fascista si

delinea fra le opposizioni culturali al debordante

dottrinarismo nazionalistico ufficiale il

dibattito dei collaboratori della rivista

fiorentina “Solaria”, che pone il suo fulcro in

un’eventuale apertura europea della letteratura

italiana da ottenere proprio attraverso il

romanzo, genere ben disposto ad accogliere lo

svolgersi del reale quotidiano, pur facendo però

esso dibattito affidamento su basi e gusti

dell’idealismo crociano.21 E’ per l'appunto la

focalizzazione sulla particella sociale del nucleo

familiare borghese che permette a Moravia di

sondare con (forse) ingenua accuratezza la crisi,

beninteso già preesistente e persistente,

accresciuta dalle aporie prodotte dal regime

21 Cfr R. CAVALLUZZI, op. cit., pp. 230-23124

fascista, che aveva “eretto a sistema

l’incomunicabilità”22. Occorre precisare adesso

però che la relazione dialettica fra classi

sociali in Moravia si sviluppa in un indeterminato

ed elementare rapporto di opposizione fra ricchi e

poveri23 e che l’esperienza sociale dei suoi

personaggi (In modo speciale dei protagonisti)

conduce essi, prima ancora dell’amara rivelazione

del loro status alienato, al doloroso sentimento

della propria fatale condizione messa in atto

dalla loro ricchezza, come esplicato dal narratore

omodiegetico ne La Noia:

22 A. MORAVIA, “Storia dei miei libri” in Epoca

Lettere, 28 Marzo 1953

23 Cfr. E. SANGUINETI, op. cit., p. 1125

Qualche volta pensavo al detto evangelico: è piùfacile che un cammello passi per la cruna di unago piuttosto che un ricco entri nel regno dìDio; e mi domandavo che cosa volesse dire esserericco. Si era ricchi perché si disponeva dimolto denaro? O perché si era nati in unafamiglia ricca? O perché si era vissuti etuttora si viveva in una società che metteva laricchezza al di sopra di qualsiasi altro bene? Operché si credeva alla ricchezza, desiderandodiventar ricchi o rimpiangendo di esserlo stato?O perché, come era il mio caso, non si volevaessere ricchi? Più ci pensavo e più mi parevadifficile precisare a me stesso il senso dideterminazione e di predestinazione che miinspirava la ricchezza.

Se ne desume, con disarmante evidenza, che il

distacco del personaggio moraviano è reso

ineluttabile e irrefragabile da una necessaria

presa di coscienza della propria passiva

condizione sociale, tale che i vincoli da essa

indotti nelle loro manifestazioni più disparate

influenzano e ledono le basi dell’esistenza

borghese, e pertanto ineludibilmente sconfinano

nella società civile intera che ideologicamente è26

controllata da valori borghesi, di cui i detentori

di ricchezza sono pazienti e patenti portatori.

Valga ancora citare l’autore stesso:

Ma tutte le nostre riflessioni, anche le piùrazionali, sono originate da un dato oscuro delsentimento. E dei sentimenti non è così facileliberarsi come delle idee: queste vanno evengono, ma i sentimenti rimangono.

Che con l’enunciazione di questo teorema non fa

che confermare quell’”oscuro” patimento della

dannazione vitale, che è poi quella “strana

maledizione che il denaro porta con sé”24 ed è la

cifra stessa dell’universo borghese. Michele si

vede tutto rivolto verso il rimpianto di una

“moralità tragica”, di un mondo borghese ancora

illibato in cui ogni stimolo umano non finisce per

essere contraffatto da una fatale insincerità.24 Id., p. 12

27

Proprio per questa “prospettiva postuma” egli è a

ragione il capostipite di una lunga serie di eroi

moraviani, portatori loro malgrado di una

nostalgia funebre verso un antico decoro morale

concepibile soltanto intellettualmente e

lucidamente coscienti della crisi insita nella

loro stessa natura di personaggi. A chiarimento

riportiamo l’introspezione del protagonista:

“Come doveva essere bello il mondo” pensava conun rimpianto ironico, quando un marito traditopoteva gridare a sua moglie: “Moglie scellerata;paga con la vita il fio delle tue colpe” e, quelch’è più forte, pensar tali parole; quando alpensiero seguiva l’azione: “Ti odio” e zac! Uncolpo di pugnale: ecco il nemico o l’amico stesoa terra in una pozza di sangue; quando non sipensava tanto, e il primo impulso era semprequello buono; quando la vita non era come oraridicola, ma tragica, e si moriva veramente, esi uccideva, e si odiava, e si amava sul serio,e si versavano vere lacrime per vere sciagure, etutti gli uomini erano fatti di carne ed ossa eattaccati alla realtà come alberi alla terra. Apoco a poco l’ironia svaniva e restava ilrimpianto; egli avrebbe voluto vivere inquell’età tragica e sincera, avrebbe volutoprovare quei grandi odi travolgenti, innalzarsi

28

a quei sentimenti illimitati… ma restava nel suotempo e nella sua vita, per terra.

E ci troviamo inevitabilmente ad un nodo cruciale

dell’interpretazione complessiva poiché se l’aspra

consapevolezza di Michele sostanzia il moralismo

critico dell’intero romanzo essa non ha che

riferimento in una lontana proiezione ideologica

dettata dalla stessa appartenenza alla classe

borghese: la denunzia “non può cioè che

documentarsi sulla verifica del grandissimo

divorzio che si apre tra la proiezione stessa e la

squallida condizione reale”25. Michele è dunque

doppiamente “insufficiente” su un piano vitale. Se

nell’inquadrare il protagonista Sanguineti parla

di “bovarismo storico” possiamo certamente

affermare che egli colga nel segno nel restituire

analiticamente quella condizione di crisi25 Id., p. 15

29

consapevole dell’uomo-personaggio borghese il

quale stabilisce un rigido rapporto di opposizione

costantemente verificabile e verificata tra la

dimensione storica del suo presente ed una forma

sublimata di visione ascritta ad un epoca

terminata del passato che si alimenta di

proiezioni mitiche e letterarie. Non è quindi un

caso se Moravia adorni la nostalgia del suo

protagonista con una certa attenzione per

l’eleganza e per il gusto estetico.

E se il referente esterno del “mondo” appartenente

alla cultura decadente si trasforma in Moravia in

una più semanticamente densa “società”, la lotta

dell’autore è condotta proprio al cuore

dell’universo borghese e al sistema del regime

fascista vigente di cui sinergicamente regge le

30

fondamenta. Proprio ciò determina il “taglio

moralistico” che si apre nei confronti di un

regime reazionario con i toni della denuncia e del

risentimento, nutrendosi tuttavia di forme di

pathos neo-romantiche “mediate, pour cause, da

modelli tardottocenteschi e schiettamente

irrazionalistici”26.

Pare ora necessario prendere in considerazione il

rapporto che intercorre tra la figura di Michele e

quella di Carla: se finora ci siamo profusi sul

ruolo dell’alienata individualità di Michele

scopriamo poi che di tale fenomeno è portatore

cosciente anche sua sorella.

26 Cfr. R. CAVALLUZZI, op. cit., p. 233

31

L'offendeva, l'umilava la disinvoltura con laquale la madre, che abitualmente non si curavaaffatto di lei, la tirava in ballo come unargomento favorevole ai suoi scopi;

Poi:

soltanto Carla non si moveva nè parlava: undisgusto meschino e fastidioso l'opprimeva;aveva l'impressione che la marea angosciosa deipiccoli avvenimenti di quella giornata stesseper traboccare e per sommergere la sua pazienza;socchiudeva gli occhi e tra le ciglia spiava consofferenza le facce stupide e irritate deglialtri quattro.

Ed ancora, a titolo di esempio:

Una dolorosa impazienza la possedeva: " Finirla" si ripeteva guardando quel salotto oscuro dovetanti giorni di fuoco si erano consumati incenere, e il gruppo solenne e ridicolo che essiformavano intorno alla lampada: " finirla contutto questo ", e si sentiva cadere in questosuo esitante abbandono come una piuma in unatromba di scale. Per questo non protestò, nonparlò.

32

Dove si manifesta quella carica ciecamente

distruttiva detenuta dal personaggio di Carla

rintracciabile ovunque che nel sospingere la

rivolta inerte all’estremo delle sue potenzialità,

ne svela quel risultato ultimo che è poi la

condizione finale del romanzo, ossia

quell’adattamento patito e confuso (E tuttavia

ancora inerte) eppure conclusosi positivamente con

l’accettazione dello squallido vincolo

matrimoniale borghese con Leo. Ed è la spia

ultimativa, qualora essa fosse necessaria, del

distacco intercorso ormai nel confronto finale con

il fratello Michele, la cui rivolta resta sì

autentica ma appunto perché disperatamente

confinata “nel limbo delle intenzioni e dei

sentimenti”27 e non ha un punto di sfogo

27 E. SANGUINETI, op. cit., p. 2133

empiricamente valido (Invalidato, rammentiamo,

dall’impossibilità di risoluzione del nodo

tragico). Riportiamo:

Si chinò, afferrò una mano della fanciulla:  "Malo rifiuterai, non è vero?" domandòansiosamente; "dimmi che lorifiuterai..." Silenzio: "Lo sposerò" ella dissealfine; silenzio ancora: "Cosa avverrebbe di mese non lo sposassi?" ella continuò con vocetriste e dura; "che cosa diventerei...? Pensaciun istante... in queste condizioni..." E fece ungesto come per mostrarsi quale era; nuda,perduta, povera: "Sarebbe una pazzia rifiutarlo,non mi resta che sposarlo..." Tacque, guardandocome prima davanti a sé.  La rigidità del tonoaveva persuaso Michele più di qualsiasi ragione:"Tutto è finito" pensò guardando le guancepuerili di Carla, che il fanale dell'automobileilluminava; "è una donna." Si sentì vinto: "E così Carla" domandò ancora come un bambino malconvinto, "lo sposerai?"  "Lo sposerò" ellaripetè senza voltarsi.

E’ nei termini di “iniziazione” che definiremmo

efficacemente l’itinerario dei due personaggi:

frustrata ed irrisolta in Michele, compiuta

perfettamente ma patita da Carla che

34

progressivamente presenta la sua resa alla

naturale ed al contempo volgare violenza del

mondo.

E proprio sul finire del romanzo Sanguineti,

nell’ultima immagine di Carla, individua

l’”estremo simbolo dell’iniziazione riuscita”

rappresentato dal travestimento simile a quello

della madre, ad esacerbare grottescamente la

dissoluzione: il topos romanzesco del matrimonio

finale, evento di ristabilimento e riabilitazione

morale, viene crudelmente allora rovesciato di

segno poiché messo in atto nel momento di massima

rovina per gli Ardengo, a parabola conclusa.

Quella Carla che ad inizio de Gli Indifferenti come

Michele avvertiva precisamente la falsità del suo

ambiente di vita di cui pur fa parte, con il suo

35

esito conclusivo conferma la regola generale,

ossia che “nel mondo degli Indifferenti ogni impulso

reattivo è destinato a ripiegarsi e a riconvertire

la propria direzione, a risolversi nella regola

generale: tutti i personaggi, in una parola, in

quanto partecipi di un tale ambiente, sono

fatalmente tarati, ancorché, s’intende,

diversamente tarati. Appartenere a questo

ambiente, ad ogni modo, significa per Moravia,

come immediata conseguenza, essere segnati da una

sorta di peccato originale, di innato vizio cui

non è concesso sfuggire”28. E’ appunto per questo

che Gli Indifferenti costituiscono un atto di

svuotamento dall’interno dell’universo borghese,

di critica feroce da parte di un suo membro del

“senso comune” ormai alla deriva, lo stesso senso

28 Id., p. 2436

“senso” che informa la caratterizzazione di tutti

i personaggi ed il dispiegarsi del loro agire. E

se il fine di Moravia era quello di restituire una

fotografia dell’inautenticità borghese, il romanzo

è pertanto un catalogo dei topoi della coscienza

borghese in frantumi, che non trova esiti reali

persino nei maggiormente consapevoli (Carla e

Michele) se non nel ripiegamento nella sua stessa

inautenticità (Il rito matrimoniale). Rimanendo

nel merito dell’artificiosità prendiamo ora in

considerazione il personaggio di Lisa che ci offre

la chiave di lettura di un asse portante

dell’opera moraviana: è lei l’esemplificazione,

nel suo dibattersi patetico e patentemente infuso

di topoi sentimentalistici, del degradato ed

ipocrita (ma necessario poiché borghese)

37

travestimento della sessualità femminile.

Leggiamo:

staremo insieme... ignoreremo il mondo intero"ella diceva queste parole con una voce fervorosache fece rabbrividire il ragazzo: "vivremolontano dalle cose che ti dispiacciono, vuoi?...da tutte queste miserie... Tu mi racconterai latua vita, i tuoi dispiaceri, le tue tristezze, eio ti darò tutto l'amore che posseggo, che homesso in serbo per te... sarò la tua compagna,vuoi? la tua compagna fedele e umile, tantoumile, sai, che ti ascolterà in silenzio e ticonsolerà con le sue carezze, così... così..."La mano che ella passava sulla testa del ragazzosi contrasse; Lisa si chinò, baciò i capelli, lanuca, in furia, mentre quelle sue dita febbrilis'aggrappavano, stringevano nervosamente lespalle curve di Michele, il cuore le tremava

Atteggiamento degradato che è poi opposto e pur

tuttavia complementare a quello ispirato dal

brutale cinismo di Leo che suggerisce caldamente a

Michele di addentrarsi senza remore nel ménage con

Lisa, poiché ad esempio “è piena di temperamento…

una vera femmina…e in secondo luogo dove la trovi

oggi una amante che ti riceva in casa?”. Ed il

38

mondo a Leo non può che apparire “capovolto” (Ma

badiamo, è l’ennesimo crudele capovolgimento di

cui l’autore impreziosisce l’opera) se Michele

ritiene poi che “si debba andare con una donna

soltanto quando la si ama”. Allora dunque a

partire dal comportamento sessuale abbiamo isolato

l’altro nucleo fondativo dell’arte moraviana,

ovvero quell’erotismo che tocca da vicino nel

romanzo de Gli Indifferenti tutti i personaggi ed

insieme al danaro ne determina la

caratterizzazione: Michele è anche impotente

sessualmente per il suo rifiuto delle grottesche

regole erotiche proprie della borghesia

magnificamente portate in scena dal contegno di

Lisa, e tale incapacità è la cifra stessa della

sua indifferenza, che a sua volta ne spiega

39

inoltre l’alienazione sessuale. E se anche

attraverso il sesso Carla matura e conclude il suo

processo di adattamento ed approdo alla volgare

realtà tramite la stipula sofferta del proprio

contratto con la società, Michele non può che

preservare la propria condizione d’innocenza dal

fallito fenomeno d’iniziazione. Allora, se

accettare la partecipazione al rito collettivo

dell’inautenticità (O alla serie di riti che la

esprimono banalmente nella volgare quotidianità)

rappresenta lo scacco definitivo per la propria

purezza, il tenace quanto futile eludersi

miserabilmente dalla decadenza rimane l’unica ed

ultima forma di nobiltà superstite, ed è la forma

aristocratica unicamente possibile.

40

A questo punto quindi l’indifferenza di Michele

non è che un valido strumento narrativo per

definire meglio il contenuto di testimonianza

della crisi borghese, ed è qualcosa di analogo,

come ben rilevava Sanguineti, all’effetto di

straniamento ricercato da Brecht seppur esso

ottenuto con scopi e modalità distinte (E però con

tecniche, notiamo altresì, drammaturgiche).29

È qui che si rileva l'inflessibilità del moralismo

critico di Moravia, atto a svellere le ideologie

freudiana e marxista per poi applicarne la pars

destruens nella descrizione di testimonianza

dell'universo borghese secondo le categorie

brutalmente ivi degradate di sesso e denaro che

29 Cfr Id., p. 3041

sono, infine, le realtà irriducibili ed elementari

dell’uomo.30

Ci tocca infine rilevare ne Gli Indifferenti un dato

importante, ovvero quell’assenza del personaggio

paterno nel nucleo familiare (In qualche modo

spregiudicatamente surrogato per i tratti

caratteristici del capofamiglia dal cinico Leo) e

nell’economia di dissoluzione che implicherebbe un

confronto edipico, costantemente rimandato e

finalmente approfondito poi soltanto nel 1985 in

occasione de L’uomo che guarda o nel 1988 con Il viaggio

a Roma.

Dopo l’exploit narrativo de Gli Indifferenti l’autore

decide di tenere in vita l’impostazione del

protagonista nel suo atteggiamento di distacco e

disgusto allo scopo di scandagliare, spesso con

30 Cfr Id., p. 4142

macchinosità (E pertanto si è parlato di “prove

mancate”31), la questione morale che reggeva

l’opera d’esordio, e pubblica Le ambizioni sbagliate nel

1935, tentativo di emulazione di un “fitto

dibattito morale, sul modello di Dostoevskij, ma

su schemi da romanzo d’appendice”32 al cui

protagonista Pietro mancava la consapevolezza di

alienazione esistenziale indotta da una proiezione

ideologica d’innocenza la quale viceversa si

rendeva concreta nella caratterizzazione del suo

personaggio. Venendo a defungere la dialettica che

si articolava dalla malata realtà in disfacimento

al sogno di primigenia innocenza Moravia pare

perdere sensibilità e maneggiare la materia

31 P. VOZA, op. cit., p. 30

32 G. FERRONI, “Da Gli Indifferenti ad Agostino” in

Storia della Letteratura Italiana, Milano, Elemond, p. 43443

narrativa con “fedeltà meccanica ad un piano

prestabilito”33 riportando ad una descrizione

quindi totalmente oggettiva e priva di esitazioni

quella che era invece una problematica

esistenziale.

Allo scopo di rinvenire quello stridente rapporto

oppositivo, cifra sostanziale della vera arte

poetica moraviana, urge rivolgere la nostra

attenzione verso una parte coeva della produzione

dell’autore, ossia quella fase che si sviluppa

negli anni precedenti alla Seconda Guerra Mondiale

e che vede Moravia interessato a schemi narrativi

di stampo surreale ed allegorico e in cui lo

scrittore sembra smentire la sua ricerca

romanzesca realistica. Utile sarebbe tentare di

giustificare questa rivoluzione prospettica con la

33 E. SANGUINETI, op. cit., pp. 50-5144

probabile scelta di evitare toni di denunzia che

sarebbero potuti risultare anche vagamente

eversivi dai quadri della politica culturale

fascista predominante o con quella, magari

coagente, di sperimentare toni stilistici

maggiormente tendenti all’evasione.34 Permane

tuttavia quella spiccata sensibilità per la

questione morale da cui derivano le scelte

saggistiche di esposizione e attraverso cui

traspare e si delinea il profilo di un’antinomia

tra natura e storia, vero cardine della più alta

produzione moraviana già lievemente accennato nel

rimpianto regressivo di Michele: ad esempio

abbiamo Empedocle ne Il sandalo di bronzo che

contrappone gli “affari politici e morali” della

città ai fenomeni naturali persino più

34 Cfr R. CAVALLUZZI, op. cit., p. 25145

immediatamente percebili, come il ciclo del giorno

e della notte, oppure la nostalgia del

protagonista ne Il Silenzio di Tiberio per le frontiere

belliche ancora incontaminate dalla civiltà;

viceversa dal mare di Capri in contemplazione

non c’era da aspettarsi nulla di buono:cortigiani adulatori e pettegoli, generaliambiziosi e ottusi, ministri indaffarati, taleera infatti per la maggior parte la gente senzamisteri che, trepidamente e con la testa pienadi sciocchi fracassi romani, varcava troppospesso il golfo, si arrampicava tra le macchiedi lentischi e di cipressi su per le scomodescalette fino alla villa e, ansimante e con unpalmo di lingua in fuori, veniva aprosternarglisi davanti.

E in un altro breve racconto, con disarmante e

quasi scontata evidenza, l’autore riconsidera il

nodo tragico insoluto de Gli Indifferenti mediante il

pensiero di Lucrezio sull’insieme dei riti della

politica:

46

Ossia una specie di tragedia senza catarsi,recitata da personaggi che, nonostante gli alticoturni e le voci cavernose, non sapevano esseretragici.

Altrettanto rilevanti sono le raccolte

dell’Epidemia, pubblicata nel 1944, e dei Sogni del

pigro del 1949. Nel racconto eponimo del primo

raggruppamento, l’epidemia della crisi morale

assume satiricamente la forma di un cattivo odore

che si spande nella città e che la popolazione

definisce omertosamente “profumo”. I Sogni del pigro

presentano ventisette apologhi su alcuni difetti

in una dimensione universale e tuttavia

scopertamente critica in cui si rivela la satira

sul presente: emerge sugli altri il “pigro”

Talamone, funzionario politico inerte che si

trincera dietro un’astratta incapacità di agire.

47

La cifra comune della tensione surrealistica

moraviana (che sarà poi riscontrabile anche nei

racconti degli anni '80) è una pervasiva e piatta

quotidianità subdolamente incrinata da “uno

spiraglio di inquietudine”, da una crisi

fastidiosa ed allarmante che viene colta

nell’attimo del suo introdursi.

Ed è nel 1944 con Agostino che quella tensione

surreale ed apologetica si risolverà finalmente

nel reale con il sogno d’innocenza consapevolmente

impossibile poiché frustrato. Come ci rivela il

finale

Ma non era un uomo; e molto tempo infelicesarebbe passato prima che lo fosse.

48

l’itinerario iniziatico del giovane protagonista

tredicenne si conclude con l’acerba quanto fatale

constatazione di un percorso di auto-coscienza

progressivamente fallito, inquadrando allora più

in profondità quell’immaturità astratta ed inerte

che era già propria di Michele attraverso qui

l’analisi di una mancata e frustrata iniziazione

al sesso, che è poi come già enunciato uno dei

grandi temi di Moravia. Ed al nodo tragico

definitivamente insolubile de Gli Indifferenti qui

corrisponde una condizione sofferta e sospesa a

metà strada fra innocenza coscientemente perduta e

serena virilità, resa più acutamente visibile

dalla presenza del personaggio spia della madre

verso cui il tormentato protagonista è attratto

ambiguamente. Ma la vera sostanza del romanzo è

49

poi quell’altra alienazione vitale più radicale

che si prescrive nei termini sociali di drammatica

opposizione fra il soggetto borghese di Agostino

ed il mondo sottoproletario dei suoi coetanei che

la villeggiatura marittima gli dà l’opportunità di

conoscere: la dialettica sociale appena abbozzata

da Moravia nel suo primo romanzo in occasione

dell’introspezione di Mariagrazia in cui viene

espresso l’orrore della donna verso la “turba dei

miserabili” si traduce nella contingenza del

patito e pur tuttavia perseguito rapporto

gnoseologico con una nuova zona della realtà che

si determina risolto soltanto nella misura in cui

essa zona respinge e sottopone ad umiliazione il

protagonista. E poiché tale avvilimento sembra

ricercato, la scrittura moraviana rivela adesso

50

clamorosamente in lucida trasparenza il

sostanziale masochismo dell’individuo borghese che

si riconosce nelle puntuali dichiarazioni di

alienazione che gli provengono dal mondo reale,

sin da subito:

Disperato, egli lo guardò, come per implorareaiuto. Il Saro parve afferrare quello sguardo.Si tolse il sigaro di bocca e disse: “Ma nonvedete che non sa nulla?” Un improvviso silenzio seguì la gazzarra. “Comenon sa nulla?” domandò il Tortima che non avevacapito.“Non sa nulla,” ripeté il Saro con semplicità. Equindi rivolto ad Agostino, raddolcendo la voce:“Di’ Pisa... un uomo e una donna... che fanno?lo sai?”.Tutti parevano trattenere persino il fiato.Agostino guardò il Saro che fumava e loconsiderava tra le palpebre socchiuse, guardò iragazzi che parevano tutti gonfi di risamaltrattenute, quindi ripeté meccanicamente, gliocchi rabbuiati come da una nube: “Un uomo e unadonna?” “Sì, tua madre e Renzo,” spiegò conbrutalità Berto.

E, d’altra parte, non si ritenga che Moravia

faccia coincidere natura e proletariato nella

51

visione del sesso che esso offre35, poiché il

personaggio di Saro presenta deformazioni fisiche

e morali parecchio accentuate (Si tenga presente

la sua pedofilia compiaciuta ad esempio) che ne

rendono palesi le corruzioni rispetto ad un ordine

ovvio. E’ Agostino a rincorrere l’aspirazione

frustrata verso l’informazione di quei modelli

(Come li definiva psicanaliticamente Gadda36) in

quel processo formativo di maturazione che ne

sancisce però prematuramente la sua immagine

alienata attraverso una spietata curiosità verso i

ragazzi della banda e verso la sessualità materna.

Il protagonista “per trovare un qualche gusto di

35 E. SANGUINETI, op. cit., p. 68

36 ‘Agostino: tre drammi in uno’ di C. E. GADDA da I

viaggi la morte in Saggi Giornali Favole e altri scritti, Milano,

Garzanti editore52

realtà autentica, deve poi filtrarsela, tale

realtà, inevitabilmente, attraverso la lente

corrotta e deformante del mondo della banda.”.

Processo poi irrisolto se anche nell’osservazione

furtiva Agostino nonostante l’applicazione degli

schemi sessuali apportatigli dalla banda non

riesce a disgiungere l’immagine brutalmente

dileggiata di donna da quella materna. Se Agostino

non è che un dramma dell’autocoscienza non è

possibile ancora però dimenticare il dato

dialetticamente sociale alla base del percorso,

che rinviene la sua più lucida e spietata

rappresentazione nel capitolo III quando per un

caso fortuito assistiamo ad un beffardo quanto

grottesco capovolgimento (che va di pari passo a

quello già riportato e che avviene nel dialogo tra

53

Leo e Michele ne Gli Indifferenti) allorché Agostino

viene ritenuto un povero garzoncello addetto alle

barche da un padre borghese in gita col suo

bambino:

“Tredici,” rispose Agostino.“Vedi,” disse l’uomo rivolto al figlio, “questoragazzo ha quasi la tua età e già lavora.”Quindi, ad Agostino: “E a scuola ci vai?”“Vorrei... ma come si fa?” rispose Agostinoassumendo il tono ipocrita che aveva spessovisto adottare dai ragazzi della banda di frontea simili domande; “bisogna campare, signore.”“Vedi,” tornò a dire il padre al figlio, “vedi,questo ragazzo non può andare a scuola perchédeve lavorare... e tu hai il coraggio dilamentarti perché devi studiare.” “Siamo moltiin famiglia,” continuò Agostino remando di lena,“e tutti lavoriamo.”“E quanto puoi guadagnare in una giornata dilavoro?” domandò l’uomo.“Dipende,” rispose Agostino; “se viene moltagente anche venti o trenta lire.”“Che naturalmente porti a tuo padre,” lointerruppe l’uomo. “Si capisce,” rispose Agostino senza esitare.“Salvo s’intende quello che ricevo come mancia.”L’uomo questa volta non se la sentì di additarlocome esempio al figliolo, ma fece un grave cennodi approvazione con il capo. Il figlio taceva,stringendo più che mai al petto il pallone e

54

guardando Agostino con gli occhi smorti eannacquati.“Ti piacerebbe, ragazzo,” domandò ad un trattol’uomo ad Agostino, “di possedere un pallone dicuoio come questo?”Ora Agostino ne possedeva due di palloni, egiacevano da tempo nella sua camera, abbandonatiinsieme ad altri giocattoli. Tuttavia disse:“Sì, certo, mi piacerebbe... ma come si fa?dobbiamo prima di tutto provvedere alnecessario.” L’uomo si voltò verso il figlio, e, più pergioco, come pareva, che perché ne avesserealmente l’intenzione, gli disse: “Su, Piero...regala il tuo pallone a questo ragazzo che nonce l’ha.” Il figlio guardò il padre, guardòAgostino e con una specie di gelosa veemenzastrinse al petto il pallone; ma senza dirparola. “Non vuoi?” domandò il padre condolcezza, “non vuoi?”“Il pallone è mio,” disse il ragazzo.“È tuo sì... ma puoi, se lo desideri, ancheregalarlo,” insistette il padre; “questo poveroragazzo non ne ha mai avuto uno in vita sua...di...’ non vuoi regalarglielo?”“No,” rispose con decisione il figlio.“Lasci stare,” intervenne a questo puntoAgostino con un sorriso untuoso, “io non me nefarei nulla... non avrei il tempo di giocarci...lui invece...”Il padre sorrise a queste parole, soddisfatto diaver presentato in forma vivente un apologomorale al figlio. “Vedi, questo ragazzo èmigliore di te,” soggiunse accarezzando la testaal figliolo, “è povero e tuttavia non vuole iltuo pallone... te lo lascia... ma tutte le volteche fai i capricci e ti lamenti... deviricordarti che ci sono al mondo tanti ragazzi

55

come questo che lavorano e non hanno mai avutopalloni né alcun altro balocco.”“Il pallone è mio,” rispose il figlio testardo.“Sì, è tuo,” sospirò il padre distrattamente.Guardò l’orologio e disse: “Ragazzo, torniamo ariva,” con una voce mutata e del tuttopadronale. Senza dir parola, Agostino voltò laprua verso la spiaggia.

E nella risposta ostinatamente negativa il figlio

ci svela la sua identità con l’Agostino prima

della frattura alienativa dello status quo

edenico, prima del confronto con i modelli sociali

“altri”, anteriormente cioè all’acquisizione

conoscitiva del suo status in rapporto ai ragazzi

della banda. Agostino adesso mediante la parte

casualmente recitata diventa cosciente di

un’alienazione diversa, permanente e preesistente

e proprio perciò collabora alla tendenziosa

lezione di morale del padre.

E’ ancora un adolescente il protagonista di un

altro grande romanzo dell’autore, ossia La56

disubbidienza pubblicato nel 1948 in cui l’itinerario

di iniziazione sessuale si inscrive in una sempre

più aggressiva avversione verso la realtà

fenomenica tout court:

Egli sentiva che il mondo gli era ostile; e cheegli era ostile al mondo; e gli pareva dicondurre una guerra continua ed estenuantecontro tutto ciò che lo circondava.

Che è poi il punto di avvio per il protagonista

Luca di una serie di scoperte concernenti i

rapporti borghesi fra gli uomini e le cose,

laddove la sua stessa educazione “per lui

apprestata con tanta cura, in casa e fuori, non è

propriamente educazione alla vita ma educazione

alla proprietà, educazione all’impiego fruttuoso

del denaro, educazione mistificata alle

57

mistificazioni di una società innaturale e

antivitale”37 ed in fondo dichiara precise

consonanze con quel distacco radicale dalla realtà

di cui si farà portavoce il Dino de La noia. Ai riti

del delirio d’inautenticità scoperto ed alle forme

di travestimento degli elementari appetiti l’eroe

oppone una rivolta quasi “scientifica” (E

scientificamente ordita dall’autore, con il

progressivo ma ineluttabile organizzarsi prima nel

fenomeno fisico del vomito, poi con la rinuncia

della proprietà ed infine con la fredda

autoesclusione) ed a tratti “politica” (Si

rammenti l’affinità esplicita con la forma dello

sciopero e la disposizione delle braccia assunta

da Luca durante il sonno). E si tratta di quella

stessa rivolta auspicata e sognata da Michele ne

37 E. SANGUINETI, op. cit., p. 8058

Gli Indifferenti e che appare già borghesemente segnata

e stravolta e che non può che dotarsi di

implicazioni via via sempre più funebri fino allo

sfociamento totale nell’identificazione fra azione

e morte38 e pertanto conduce alla guarigione, non

per una sua soluzione, ma perché riporta la

rappresentazione della realtà per il protagonista

alla sua interpretazione univocamente possibile.

All’impulso di morte, unica vasta pianura

d’innocenza disponibile, si sostituisce dunque

quello famelico alla vita, con le sue tinte

grottesche poiché nitidamente patologiche:

Sì, concluse, la vita doveva proprio esserequesto; non il cielo, la terra, il mare, gliuomini e le loro sistemazioni, bensì una cavernabuia e stillante di carne materna e amorosa incui egli entrava fiducioso, sicuro che visarebbe stato protetto come era stato protetto

38 P. VOZA, op. cit., p. 3859

da sua madre finché ella l’aveva portato inseno. La vita era essere sprofondati in questacarne e sentirne l’oscurità, il risucchio comecose benefiche e vitali. Improvvisamente,comprese il significato del sollievo che l’avevarinfrescato mentre l’infermiera lo schiacciavanel suo abbraccio.

Ove con evidenza rileviamo come il ritorno alla

realtà si realizzi attraverso forme sessualmente

regressive e pertanto intrinsecamente deformi,

segnalate d’altronde da lessemi semanticamente

affini all’appena conclusa tendenza funebre

(“sprofondati”, “oscurità”, “risucchio”).

Se la ribellione è definitivamente e fatalmente

segnata come irrealizzabile allora l’uomo in

rivolta è mandato in congedo: nel 1947 viene dato

alle stampe La romana la cui protagonista Adriana

manda alla ribalta lo stereotipo femminile

moraviano, già presente in nuce nella Carla de Gli

60

Indifferenti39, che poi è alla base di altre opere come

La ciociara. Abbiamo qui la solida e compatta voce

narrante autodiegetica della protagonista popolana

che sviluppa il suo percorso di autocoscienza, in

netta cesura con i vecchi eroi moraviani: se

Carla, nel suo percorso iniziatico rappresentava

la possibile alternativa allo stato d’impotenza

del fratello Michele, adesso la sua aderenza alla

vita viene riportata ad un livello ancora

superiore attraverso l’esperienza sessuale della

sua professione con diversi uomini borghesi,

“tutti ovviamente più deboli e limitati e di corto

respiro rispetto a lei, la vincitrice”40, che poi

non a caso periscono. Ma Moravia non propende

verso una “simpatia positiva per il popolo, ma ha,

39 Cfr. R. BARILLI, op. cit., pp. 575-576

40 R. BARILLI, op. cit., p. 57661

e fortissima certo, una simpatia tutta negativa,

quale può essergli offerta, e provocata assai

acremente, dal suo preciso e documentato rancore

contro la classe e la società borghese”41. In

verità ci troviamo di fronte alla riproposizione

della poetica dell’autore che intende in qualche

misura indagare sulla frattura con la realtà

contratta dall’intellettuale: e come tale non può

ripresentarsi se non fatalmente fallimentare

dinanzi alla figura della natura di cui Adriana si

sostanzia e cui è affidata la testimonianza

narrativa. E quindi Moravia “ha voluto,

dall’interno di questo intreccio, osservare e

tematizzare i movimenti, se non propriamente

rivoltati, cupamente negativi e rovinosi dei suoi

personaggi (Astarita, Sonzogno e, soprattutto,

41 E. SANGUINETI, op. cit., p. 10162

Giacomo): quasi un rovesciamento sperimentale

della lente d’osservazione”42.

La donna come natura ritorna nella figura di Leda,

moglie del protagonista de L’amore coniugale Silvio,

ed è l’ennesima declinazione di Michele nella sua

irriducibile cifra d’impotenza sia nel rapporto

con il romanzo da lui con cura architettato che

nei confronti del richiamo erotico della coniuge:

marcando una sospensione dell’approfondimento

relazionale con Leda in virtù del distacco

intellettuale richiesto dall’opera in elaborazione

egli se la vede sfuggire fra la sfrenata morsa

sessuale del suo barbiere personale Antonio. E’

l’ennesimo appuntamento mancato dall’eroe

moraviano con la vita se Silvio non è in grado di

stabilire un legame conoscitivo realmente efficace

42 P. VOZA, op. cit., p. 5063

con Leda tale che gli permetta di recepirne ed

interpretarne adeguatamente e correttamente le

insofferenze ed i turbamenti che segnano il

necessario manifestarsi e spiegarsi della sua

prepotente e (tocca a questo punto sottolinearlo

con particolare enfasi) naturale vitalità

femminile. Dovere possibile per l’intellettuale è

ora quello di prendere atto in concreta

partecipazione della sua mancata connessione alla

vita e nutrire i legami che intercorrono tra la

torbida epifania della natura nei gesti di Leda ed

il progetto narrativo non affermatosi, svelando

l’urgente esigenza di un nuovo rapporto “estremo”

e sofferto con il reale.43

Legame sicuro con la scrittura dell’autore degli

anni ’30 dimostra nel 1951 il racconto de Il

43 Cfr Id., p. 5164

conformista il cui protagonista Marcello riflette

alcuni tratti adolescenziali di altri eroi

moraviani nella sua parabola di formazione,

segnata dal suo degradato rapporto omosessuale con

il domestico pedofilo che sull’orlo della

consumazione interrompe e commette delitto,

uccidendolo nella casa vuota: dal turpe trauma

generato emergerà il bisogno di un normalizzante

conformismo nei confronti dell’autorità costituita

e in direzione di una rassicurante accettazione

delle strutture politiche del regime fascista

attraverso l’adesione alle sue forze di polizia,

che lo costringono a recarsi a Parigi in luna di

miele con la novella coniuge Giulia per ritrovare

il suo vecchio professore di filosofia Quadri ed

additarlo ai sicari italiani per le sue idee

65

antifasciste. L’inganno complicherà le sue maglie

con l’instaurazione di un rapporto omoerotico tra

Giulia e Lina, partner di Quadri, che finirà poi

per morire nell’agguato teso al marito. La via del

fermo conformismo borghese condurrà il

protagonista alla sua fatale morte in un

bombardamento aereo.

Con Il disprezzo siamo nel 1954 sulla soglia de La noia,

pubblicato tre anni dopo, nel senso che esso

prefigura la tematizzazione già adottata ne L’amore

coniugale della figura femminile come natura che

costringe finalmente l’eroe protagonista incarnato

dal marito al rapporto estremo con la realtà. E se

altrove l’autore aveva segnalato una regressione

verso un’individualità di livello intellettuale

inferiore mediante l’utilizzo della narrazione in

66

prima persona, qui il protagonista redige un

memoriale dopo la morte della moglie Emilia: il

risultato è la trasparente mediocrità delle

aspirazioni di Riccardo Molteni verso un mondo

ideale e nei riguardi di un infruttuoso rimpianto

per l’arte omerica, che è poi pretesto per il

confronto con il regista Rheingold e con il

produttore, entrambi portatori di una visione del

mondo “tutto reale” con i propri rispettivi

progetti di riduzione cinematografica della

vicenda di Ulisse. A onta di ciò le due possibili

fisse interpretazioni offerte da Rheingold e di

Riccardo rappresentano le separate istanze della

dissociata figura intellettuale di Moravia, la cui

conciliazione è una prospettiva quantomeno

possibile44:

44 Cfr Id., p. 5867

“Dissi con fermezza, del tutto calmo ormai: “NoRheingold, erano grandissime… Può darsi che leiabbia ragione a vedere l’Odissea in quel modo…ma sono convinto, invece, che anche oggil’Odissea può essere fatta come l’ha scrittaOmero…”“La sua è un’aspirazione, Molteni… lei aspira adun mondo simile a quello di Omero… lei vorrebbeche ci fosse… ma non c’è, purtroppo”.Dissi conciliante: “Mettiamola pure così: ioaspiro ad un mondo simile… lei, invece, no”.“Ma ci aspiro anch’io, Molteni… chi non ciaspira?... Quando però si tratta di fare unfilm, non bastano le aspirazioni…”

Non basta aspirare, tendere idealisticamente o

meno al ristabilimento della scissione con il

reale ed è proprio da qui che si apre la ricerca

del nuovo romanzo-saggio, da questa consapevolezza

che rende questo romanzo secondo Sanguineti “la

summa più precisa e complessa, quasi una unitaria

enciclopedia della sua varia tematica, giacché,

come si avvertiva, nella nostalgia per un mondo

mitico irrecuperabile si fondono la nostalgia ‘

68

storica ‘ e la nostalgia ‘ naturale ‘ dei grandi

eroi moraviani, e si confessa, con anche più

sicura evidenza, il carattere ‘ mitico ‘ di

siffatta nostalgia.”45

E’ la fatale presenza di Emilia, rigida nel suo

atteggiamento di radicato disprezzo nei confronti

del marito, a svelare tutta la svalutazione della

realtà che ella impersona nei confronti dell’eroe

moraviano, ormai ridotto a mediocrità, e proprio

verso quel sogno innocente di “un paradiso di

concretezza e verità” che Riccardo come altri

protagonisti nutre.

L’autore concede il ruolo di protagonista ancora

ad una donna di bassa estrazione sociale ne La

ciociara del 1957, resoconto narrato delle peripezie

di Cesira con la figlia Rosetta durante il

45 E. SANGUINETI, op. cit. p. 11869

conflitto bellico della Seconda Guerra Mondiale.

Ed è poi una parziale adesione per i suoi tratti

corali ad un neo-realismo già in esaurimento, con

la raffigurazione effettiva del mito proletario

che “agisce innanzitutto sul piano stilistico-

espressivo, determinando una certa patina

dialettale della scrittura”46 e non si carica mai

dei segni positivi di una possibile alternativa ai

valori corrotti dell’universo borghese ormai

guasto vista l’avida sete di profitto e

d’interesse personale della società contadina a

costo dell’infrangimento di ogni moralità. In

opposizione a tale mito si staglia la figura più

interessante del romanzo, quel Michele omonimo e

per certi versi omologo al protagonista de Gli

Indifferenti che segnala quella fine dell’eroe

46 P. VOZA, op. cit., p. 6070

moraviano a cui si è fatto cenno poco fa. Ed in

questo Michele la rivolta è finalmente ma

clamorosamente possibile perché egli, seguendo

l’opinione di Sanguineti, ha portato a risoluzione

la lacerazione interiore per mezzo di una

religiosa “coscienza della putrefazione” per cui

“la contraddizione non è più affatto nell’anima

del personaggio, ma è e si sviluppa nella sua

coscienza, perché è nelle cose stesse, e nelle

cose è riconosciuta virilmente”47. La fede

dell’eroe moraviano è infine dunque pronta e

disponibile a trovare punti di convergenza con la

natura da cui Cesira è informata, ed addirittura

con la sua mitologia del dolore “fornisce la

47 E. SANGUINETI, op. cit., p. 11171

giustificazione “religiosa” del doloroso ritorno

alla normalità delle due donne”48.

Ci troviamo allora ad un punto cruciale dell’opera

di Alberto Moravia allorché prendiamo in

considerazione La noia del 1960 e realizziamo quasi

con disincanto che il sogno del protagonista non

possiede “più né caratteri storici, o di

nostalgia, né caratteri naturali, o di

regressione, né finalmente caratteri

sincreticamente storico-naturali, ossia mitici”49 e

riduce una sua possibile descrizione ad una

sintesi di negazioni. Adesso la messa a fuoco

narrativa, agli albori del boom economico, punta

verso l’alta società italiana nel personaggio di

48 P. VOZA, op. cit., p. 60

49 E. SANGUINETI, op. cit. p. 12072

Dino, toccato da quell’alienazione da cui il

borghese in passato riteneva di essere indenne:

In fondo, pensai, io ero simile al rampollo diuna famiglia nobile ma decaduta che si ostini avoler vivere con lo stesso treno di vita fastosodei suoi antenati. Il giorno che accetta lasituazione che già gli sembrò insostenibile, eche, invece, è la situazione normale di unaquantità sterminata di persone, egli cessa disoffrire e si accorge che tutto ciò che sembravaintollerabile ad un certo livello, non lo è piùaffatto ad un livello più basso. In realtà ciòche mi faceva soffrire non era tanto la noiaquanto l'idea che io potessi o dovessi nonannoiarmi. Cioè, appartenevo anch'io ad unafamiglia molto nobile e molto antica che inpassato, non si era mai annoiata, ossia avevasempre avuto rapporti diretti e concreti con larealtà. lo dovevo dimenticare questa famiglia; eaccettare definitivamente la condizione in cuimi trovavo. Ma si poteva vivere nella noia,ossia vivere senza alcun rapporto con niente direale, e non soffrirne? Qui stava tutto ilproblema.

Donde, come descrive abilmente il protagonista, la

coscienza dell’alienazione trova la sua traduzione

più efficace nell’inquietante sentimento della

noia, che è poi73

propriamente una specie di insufficienza oinadeguatezza o scarsità della realtà. Peradoperare una metafora, la realtà, quando miannoio, mi ha sempre fatto l'effettosconcertante che fa una coperta troppo corta, adun dormiente, in una notte d'inverno: la tirasui piedi e ha freddo al petto, la tira sulpetto e ha freddo ai piedi; e così non riescemai a prender sonno veramente. Oppure, altroparagone, la mia noia rassomigliaall'interruzione frequente e misteriosa dellacorrente elettrica in una casa: un momento tuttoè chiaro ed evidente, qui sono le poltrone, lì idivani, più in là gli armadi, le consolle, iquadri, i tendaggi, i tappeti, le finestre, leporte; un momento dopo non c'è più che buio evuoto.

Dino dichiara esplicitamente di averne sempre

patito e Moravia crea un sottile legame tra questa

forma di sofferenza sociale e quella patologica

dell’erotomania di Balestrieri appena defunto, di

cui il protagonista sembra ineluttabilmente

seguire le sorti: la vicenda intera è proprio

incanalata in direzione di una costante

reciprocità che la coscienza di Dino non fa che

74

assecondare, sin dal primo incontro con Cecilia

che lascia subito delineare la corrispondenza fra

Cecilia e la realtà, dispositivo già operante

nelle tragiche vicissitudini di Balestrieri:

"In altri termini, lei per Balestrieri era nonsoltanto qualche cosa di molto reale, ma anzi,addirittura, la sola realtà che contasse.Infatti, quando gli disse che voleva lasciarlo,lui tentò di uccidersi. E lo tentò appuntoperché lei, andando via, gli sottraeva tuttoquello che per lui era reale"

E’ da questa fatale relazione che si svela il

fulcro tematico dell’intero romanzo, ossia quella

“smania di possedere”, quella tendenza al possesso

che è poi fallimentare è che si manifesta “in modi

di patente incoerenza, giacché la realtà apparirà,

ad un tempo, desiderabile e ripugnante, come ciò

che, non potendosi veramente possedere, si

75

tratterà almeno di neutralizzare.”50 Si origina da

qui il circolo vizioso del possesso, che è poi

l’unico strumento di conoscenza disponibile al

borghese: allorché cerchi di intraprendere

rapporti basati su concretezza con la realtà per

approfondirne le doti misteriose essa si rivela

disgustosa e nauseante e non più desiderabile, e

pertanto, venuta a cadere la sua brama, essa

riappare appetibile per la sua “sostanza autonoma”

e così via.51 Il sesso, prima per Moravia strumento

diagnostico della crisi borghese insieme al danaro

per la sua naturale appartenenza alla sfera

istintiva ed “animalesca”, è qui degradato ad un

livello “artificioso” e persino accessorio di esso

poiché Dino prova a controllare e possedere

50 Id. p. 125

51 Cfr Id., p. 12676

Cecilia per mezzo dei soldi che le consegna

durante lo svolgimento dei rapporti e a cui ella

pare non attribuire alcun valore. A differenza

proprio del legame fra Dino e la madre, che viene

chiarito prestissimo: “eravamo madre e figlio e il

legame che ci univa non era l’amore bensì il

denaro”52. Pertanto, se il denaro è un mezzo

addirittura rassicurante (Anche per l’imitatio del

contegno materno) per stabilire dei vincoli

affettivi e conoscitivi esso è, deducibilmente, il

principale strumento di conoscenza (e proprio per

questo contemporaneamente di alienazione)

dell’universo borghese. Si comprende allora lo

svilimento ed il decadimento inesorabile del sesso

a mera funzione dell’aspirazione al possesso, il

52 A. MORAVIA, La Noia, Capitolo I77

quale poi pare finalmente disgregarsi

nell’epilogo:

e noi eravamo due e lei non aveva niente a chefare con me e io non avevo niente a che fare conlei, e lei era fuori di me, come io ero fuori dilei. E, insomma, io non volevo più possederlabensì guardarla vivere, così com'era, cioècontemplarla, allo stesso modo che contemplavol'albero attraverso i vetri della finestra.

E nella rinuncia al possedere si spiega, secondo

Sanguineti, la soluzione moraviana che conduce il

borghese onesto alla sua possibile “redenzione

morale”53.

Ritornato al saldo controllo della sua

tematizzazione, Moravia si confronta più

solidamente con le urgenze della civiltà

industriale neocapitalistica nelle raccolte dal

titolo L’automa (1962) e Una cosa è una cosa (1967):

53 Cfr E. SANGUINETI, op. cit., p. 13078

nella prima l’autore, ormai reso sicuro dalla sua

strategia della “contemplazione”, coglie i suoi

personaggi nel momento di una crisi della

tranquilla routine neoborghese per poi farla

rientrare nei binari della sordida quotidianità,

come il mancato eccidio familiare commesso dal

protagonista del testo eponimo.

In Una cosa è una cosa Moravia riprende gli schemi

tautologici wittgensteiniani per approfondire i

temi della nascente società consumistica

sviluppando l’impossibilità dialogica allo scopo

di riflettere sull’inconsistenza dei rapporti

umani e dell’impotenza conoscitiva, laddove gli

oggetti “si limitano a ribadire la loro inerte e

tautologica presenza”54

54 P. VOZA, op. cit., p. 7379

Nel mezzo, quasi in risposta alle istanze

ideologiche del Gruppo 63, si colloca nel 1965 il

romanzo de L’attenzione, il cui protagonista struttura

la narrazione su una registrazione diaristica

della sua quotidianità dopo aver preso

consapevolezza dell’assoluta inautenticità del

romanzo “agito”. Tuttavia ne deriva un nesso

ineludibile tra vita e parole che sfocia

nell’ambiguità del finale bifronte, in cui la

vicenda dell’incesto commesso si configura come

“storia di un senso di colpa originato da una

colpa effettivamente commessa” oppure presenta la

“storia di come un romanziere affronta il problema

della rappresentazione della colpa e del senso di

colpa”.

80

E’ però da collocare agli anni ’60 un più acuto

manifestarsi dell’interesse per la scrittura

teatrale con la sua partecipazione al dibattito

sul linguaggio del palcoscenico e con il primo

testo effettivamente teatrale (che non sia una

riduzione di un romanzo o di un racconto), Il mondo

è quello che è del 1962. Chiara è qui la connessione

tra l’idea di una drammaturgia fondata sulla

parola (e quindi sul linguaggio) e quell’altra

urgenza moraviana di un “teatro di idee”, portata

fino in fondo nell’esperienza della Compagnia del

Porcospino con Enzo Siciliano e Dacia Maraini il

cui manifesto dichiarava appunto l’intento di

Un teatro dove le idee hanno un ruolopreminente, divenendo esse stesse azione, arischio di farsi schematico, simbolico,didascalico. Un teatro quindi volto interamentealla funzione comunicativa.

81

Giustificata la scelta del teatro invece del

romanzo con il proposito di “una rappresentazione

che sia insieme emblematica e concettuale” Il mondo

è quello che è, presentato al Festival del teatro di

Venezia nel 1966 dal Teatro stabile di Torino, si

contrappone a quello che Moravia definisce “teatro

della chiacchiera” di alcuni autori contemporanei

come Beckett e Cechov mettendo in scena un gioco

da salotto borghese, ossia la “terapia del

linguaggio” guidata dal professore di filosofia

Milone che prevede il rifiuto di tutte le parole

“malate”, quelle che “ci riguardano, ci toccano,

ci turbano”55 verso l’uso esclusivo di parole sane,

“atone”. L’autore intende qui dimostrare la

55 A. MORAVIA, ‘Il mondo è quello che è’, da Teatro,

Volume I, Milano, Bompiani, p. 30982

possibile funzione del linguaggio come strumento

di integrazione reale nella piatta quotidianità

borghese.

Due anni dopo viene pubblicato e portato in scena

dal Teatro stabile dell’Aquila Il dio Kurt: ed è il

tentativo teatrale di Moravia più profondo e più

incisivo per la serie di elementi scenici di

richiamo alla drammaturgia contemporanea come la

riflessione sul totalitarismo nazista, il

metateatro, l’incesto familiare e le persecuzioni

tedesche. Tuttavia la lettura delle vicende

naziste è un travestimento per una considerazione

spietata sulla storia del presente, sull’orrenda

modernità industriale e consumistica: il defunto

“Fato Greco” è stato surrogato dal “Fato moderno”,

impersonato dalla turpe figura del maggiore delle

83

SS Kurt che sperimenta crudelmente una

rappresentazione dell’Edipo re sofocleo messa in

scena da alcuni deportati consanguinei. Il

risultato è un angoscioso affresco dell’orizzonte

ossessivo contemporaneo, del terribile ed

aberrante totalitarismo consumistico del presente

e, ancora, dell’impossibilità di una catarsi

autentica.

Il nodo tematico della libido viene affrontato nel

1971 in Io e lui il cui protagonista intellettuale

presenta l’intima scissione freudiana tra

sublimazione sociale dell’erotismo e pulsioni

fisiologicamente virili condotta fino ad una

tensione tragicomica surreale, ove le istanze

dell’inconscio afferenti alla sfera sessuale

vengono interpretate dalla personificazione del

84

suo membro spropositato (Lui), che assume il

controllo del personaggio (Io) inducendolo

costantemente contro la sua volontà ad una

desublimazione delle sue tendenze artistiche

cinematografiche in ogni contesto: Lui conduce il

protagonista in situazioni dai contorni

boccacceschi in cui tuttavia si rende manifesta

la contraddizione aperta e lacerante che opera

anche nella neoborghesia, attanagliata e ribassata

da una desublimazione inconsapevole che rivela la

sua cieca istintualità dietro la maschera del buon

senso. Evidenti risultano qui i richiami

all’attualità culturale, come alle contestazioni

studentesche del ’68: Moravia infatti “non ha

alcuna simpatia verso tutti coloro che cercano il

senso generale, trascendentale, di una rivolta

85

prima di tutto psicologica e conoscitiva,

nell’ambito ristretto delle provocazioni politico-

ideologiche. Chi così fa, come i giovani usciti

dal ’68 e confluiti nel terrorismo, sublima un po’

troppo, riporta un atteggiamento di critica

generale e disinteressata nel solco di funzioni

rigide, sottoposte a una ferrea disciplina, a

parole d’ordine.”56

Oppure ancora il tema della rivoluzione insieme a

quello antico della rivolta dà vita alla

dialettica alla base del romanzo La vita interiore del

1978, concentrato sulla ricezione di tutte le

violente contraddizioni del fenomeno del

terrorismo, già dibattuto in articoli ed

interviste: abbiamo qui un’altra forma

dissociativa dell’identità con la protagonista

56 R. BARILLI, op. cit., p. 58586

Desideria che viene sospinta verso l’azione e

verso l’omicidio da una Voce, intransigente

coscienza rivoluzionaria che è però separata dal

personaggio, anche per l’astrattismo della

rivoluzione in sé che è poi il contrassegno del

suo principio alienativo.

E finalmente un confronto edipico si profila

solidamente con L’uomo che guarda nel 1985 e con Il

viaggio a Roma del 1988: il protagonista del primo,

Dodo, scopre una relazione tra suo padre e sua

moglie, attratta dalle proporzioni anatomiche del

vecchio professore ed è morbosamente invogliato

alla contemplazione dei movimenti del loro

rapporto sessuale dai tratti incestuosi nel suo

ruolo meramente voyeuristico, scevro da

87

condizionamenti culturali e in relazione schietta

con la realtà dispiegata davanti ai suoi occhi.

Ne Il viaggio a Roma invece un anziano Riccardo De Sio

induce il figlio Mario a compiere la vacanza

eponima con l’intento di rinsaldare il rapporto

fra i due, ancora immersi nel ricordo nostalgico

della defunta madre Leopoldina. E’ appunto

ricorrendo alla presenza di questa ed altre

attuali figure femminili intrecciate e

sovrappostesi che Mario giunge alla risoluzione

del conflitto edipico57, secondo un principio di

disponibilità ad accogliere tutti i contatti con

la realtà con estrema avidità58, che è poi

l’ultimativa tematizzazione della strategia

contemplativa.

57 Cfr R. BARILLI, op. cit., pp. 588-589

58 P. VOZA, op. cit., pp. 95-9688

A ridosso del giorno della propria morte Moravia

conclude la stesura finale de La donna leopardo, che

è poi un ritorno a L’amore coniugale e che tuttavia a

differenza degli altri romanzi presenta un finale

sospeso e dalle peculiarità enigmatiche,

diversamente dalle opere precedenti in cui

l’intreccio si scioglieva in trasparenti e limpidi

explicit, guidati da lucide geometrie esplicative:

è tutta nella ripresa della figura femminile e

delle sue ferinità caratteriali la cifra di una

enigmaticità ora insondabile ed inviolabile.

Considerando lucidamente il ricorsivo ritorno su

costanti ed intramontabili nodi tematici (Come

quello succitato) come risorsa dell’arte moraviana

possiamo certamente affermare che tale strategia

produttiva dispiega i suoi risultati più efficaci

89

nel suo ostinato riflettere su percorsi di

iniziazione (vedasi anche i frequentissimi eroi

adolescenti), ossia su itinerari di ricerca di un

rapporto gnoseologico stabile con la realtà, ora

frustrati ed ora adeguati, e pur tuttavia

laboriosi e sofferti. Ove pure il punto di avvio

resta una tendenza diagnostica e regressiva

dell’autore costantemente pronto a confrontarsi

con la realtà e a regredire coattivamente nei suoi

personaggi, ed è pertanto una tensione positiva

dai tratti “umanistici” se poi ne analizziamo le

funzioni ricompositive e demistificanti nel

conferire una chiara dicibilità al mondo59, nel

“riscoprire l’uomo o meglio il punto ineffabile e

inalterabile dal quale esso comincia a esistere”

poiché, come sappiamo già

59 Id., p. 9990

Se l’uomo vuole ritrovare un’idea dell’uomo estrapparsi dalla servitù in cui è caduto, deveesser consapevole dell’esser suo di uomo e perraggiungere questa consapevolezza deveabbandonare una volta per tutte l’azione per lacontemplazione.60

Proprio la contemplazione come strumento, felice

approdo tematico raggiunto nell’explicit de La noia:

nella commozione finale di Dino abbiamo un

evidente esempio (ma è l’ennesimo dei tanti

possibili) di quel prolungamento dello scrittore

nei suoi personaggi, del loro disperato

contundersi con la realtà, di quel caparbio

atteggiamento di onestà morale così radicato e

sostanziato nei suoi “eroi” in cerca di una

qualche redenzione.

60 A. MORAVIA L’uomo come fine, Op. cit., pp. 96-9791

2. “1934”: PERCORSI DI ANALISI

L’opera generale di Moravia, come abbiamo potuto

constatare, ha rilevato i suoi apici artistici più

fertili nel corso degli anni allorché ha saputo

efficacemente mettere in scena un lacerante urto

intrinseco ai suoi protagonisti, eroi del progetto

romanzesco ed autentiche estensioni della sua

complessa individualità poetica. Tale tensione

narrativa, che vede l’autore assumere le forme dei

suoi personaggi quasi in un febbrile streben

drammatico d’identificazione e “personificazione”

(intesa come assegnazione di un mascheramento) è

via via verificabile sin dalla fase d’esordio con

la straordinaria testimonianza del Michele de Gli

Indifferenti in cui viene infuso lo scatto reattivo

92

alla letteratura decadente di cui Moravia in Joyce

intravedeva il baluardo:

Volevo tornare, con la presentazione di unragazzo, alla compattezza della tragedia. […]Joyce lasciava che il romanzo sbattesse control’impossibilità del racconto, proprio perché unpersonaggio occupa tutto l’orizzonte possibile.Bene, mi sono detto (è inutile far conto delmargine largo d’ingenuità in cui mi muovevo),voglio che tutto l’orizzonte sia occupato da unnodo drammatico.61

Poi, su tale modello, con i vari itinerari di

iniziazione borghese alla realtà fatalmente

inconcludenti e diversamente declinati di

Agostino, di Riccardo Molteni, di Dino e di altri

eroi, scorgiamo la profonda ricerca conoscitiva

dell’autore che nel costante richiamo ai temi

primariamente abbozzati segna nuovi livelli di

approfondimento ed attenzione critica. E’ utile a

questo punto riportare ancora un passo61 Ritratto al magnetofono’ di E. SICILIANO in

Alberto Moravia, Milano, Bompiani, 1982, p. 4193

dell’intervista di Enzo Siciliano a Moravia per

esaminare in profondità l’attitudine critica del

narratore:

Era come se io capissi attraverso la miamalattia tutta l’impossibilità di fondo,l’impossibilità alla vita che la cultura europeaesprimeva. Il senso di cupio dissolvi eradiffuso a ogni livello in maniera allarmante.Era una cosa di cui soffrivo anch’io acutamente,condannato com’ero all’immobilità. E bastava chemi guardassi attorno, nello stesso sanatorio,per scoprire che l’idea di morte, e ildisfacimento, pure se sembrerà strano che tuttoquesto potesse avvertirlo un ragazzo, eranointorno a me.62

Appare qui più nitidamente che altrove quel

parametro di fondo di analisi della sterminata

opera moraviana, ossia quell’ineludibile

coincidenza autobiografica, quell’intreccio patito

e fondante fra vicenda privata e cultura

intellettuale, quella basilare corrispondenza fra

letteratura e vita che segna (come abbiamo visto)

62 Id., p. 3294

“drammaticamente” l’esperienza artistica

dell’autore romano che nel riferimento al vissuto

personale degli anni Venti e Trenta marca a posteriori

tale periodo con lo stigma dell’”impossibilità” e

della “malattia”. Si tengano ben presente, a tal

proposito, le forme surrealistiche ed apologetiche

in cui Moravia muta la sua prosa prima così

funzionalmente lucida e razionalmente critica

nell’opera prima nelle raccolte di racconti

brevi.63 La stessa tensione allegorica e surreale

pare tornare a nutrire una fase tarda dell’opera

moraviana a partire dai racconti di Una cosa è una

cosa del 1967, come ad esempio il protagonista de

La legge delle leggi il quale improvvisamente non è in

63 Cfr “Il primo Moravia” di R. CAVALLUZZI in

Metamorfosi del Romanzo, Bari, Adriatica, 1988, p. 251

95

grado di agire a meno che non trovi una “qualche

legge o regola o norma” che definisca le modalità

dell’azione. Il narratore descrive abilmente il

proprio stato incerto:

Una bomba è esplosa nella mia testa, un po' comepotrebbe esplodere in un negozio di porcellane,cioè in un luogo chiuso e pieno di oggettifragili, e da allora vado in giro con la testapiena di frantumi che si muovono di qua e di làcomponendosi e scomponendosi in figure assurde,come i vetrini di un caleidoscopio. Naturalmente, niente di tutto questo appare difuori; sono sempre lo stesso; di me non sipotrebbe davvero dire: "Ahi, quanto mutato daquell'Ettore che fu", benché poi ci sarebbe ogniragione di dirlo. 

Ancora, in Io e Lui le pulsioni inconsce erotiche

desublimanti assurgono addirittura a personaggio e

governano il protagonista alla ricerca di svariate

avventure sessuali, aprendone una travagliata

scissione dell’identità dalle tinte fosche e dai

risvolti spesso complessi, oppure la sezione di

Desideria operata ne La vita interiore con la coscienza96

rivoluzionaria della Voce: sono segni evidenti di

una moraviana riapertura verso zone

dell’irrazionale, le quali ben si prestano ad

essere accarezzate dallo scandaglio critico ora

coniugato sotto la specie di forme tendenzialmente

surreali.

Ed il tema ora ricorrente della dissociazione ci

conduce inevitabilmente a prendere in

considerazione uno dei tardi romanzi di Alberto

Moravia, ovvero quel 1934 che nel 1982 vede il

riallacciamento dello scrittore al surrealismo già

clamorosamente esibito negli anni Trenta: tuttavia

se all’epoca il panorama culturale in cui si

muoveva il giovane autore si presentava

egemonizzato dai quadri dirigenziali del regime

fascista, adesso “è dunque la civiltà industriale,

97

a costituire l’orizzonte ultimo e definitivo entro

il quale l’intellettuale-artista moraviano è

destinato per sempre (ovvero in tempi epocali e

indefinibili) a svolgere la sua missione, che non

è “militante” ma “conoscitiva”, e consiste nel

“dire la verità”.”64 La stessa civiltà industriale

che era il referente sociale ne La noia e che

espandeva l’ideologia borghese oltre i propri

confini storici in un nuovo universo neo-

capitalistico e di sfrenato consumismo.

Moravia racconta a Siciliano il dato biografico

reale alla base di 1934:

A Sorrento conobbi una tedesca. Me ne innamorai.Era la moglie di un ufficiale dell’esercito. Lavolli raggiungere a Berlino. Ricordo che era ilmarzo del 1933. Partii con l’idea di rimanerequalche tempo in Germania. Ero molto preso daquella donna: soffrivo gli effetti di un colpodi fulmine. In Italia non avevo avuto con lei

64 P. VOZA, Moravia, Palermo, Palumbo 1997 p. 8198

alcun rapporto: appena un bacio. Così, partii.Feci il viaggio in terza classe. Ricordo unoscompartimento affollato di tedeschi. Miaddormentai. Quando mi svegliai, si lamentarono:dissero che nel sonno avevo tirato calci.Ricordo una strana conversazione. Si discorrevadi ebrei. Parlai di Margherita Sarfatti: dissiche era ebrea e che era l’amante di Mussolini.Quei tedeschi rimasero sbalorditi.Arrivai a Berlino. […] Telefonai a quella donna,e lei mi rispose, fredda, distante e seccata,che non era il caso di incontrarci. Partii quella sera stessa in vagone letto,straziato dalla rabbia. Mi capitò di vedereHitler prima della partenza, in una granconfusione di folla, da lontano. Finì così lamia avventura berlinese.65

Il tema del doppio, così fondante e ricompositivo

nell’economia del romanzo, sgorga in Moravia dalla

presa di visione di una “crisi del personaggio” in

quanto struttura della narrazione66:

In quanto tale, un personaggio singolo nonesiste. I personaggi sono multipli. Devo direche alla crisi del personaggio sono arrivatoassai tardi.67

65 E. SICILIANO, op. cit., p. 121

66 Id., pp. 120-121

67 Id., p. 12099

Ed ancora nella stessa intervista lo scrittore

afferma che il tema delle gemelle ha un precedente

riferimento letterario nei Menecmi:

L’insistenza su quel tema, nel mondo classico, èassai strana. Ho sempre pensato che quellavicenda esemplificasse non il teatro di equivociche si crea attorno a due persone similifisicamente e perciò suscettibili di comiciscambi: i due gemelli sono una sola personacolta nei suoi lati contrastanti, dell’anima edel corpo.Me ne sono convinto ancora di più scrivendo. Laprima stesura del romanzo aveva qualcosa dimeccanico e dedotto. Nel momento in cui Beate eTrude sono diventate una sola persona, tutto siè trasformato in qualcosa di più drammatico, dipiù sottile, di più ambiguo, per lo meno ai mieiocchi.Così, arrivato a concludere il libro, non so chisia fra le due donne la vera, per dir così, - seBeate o Trude. Insomma, non so più chi reciti:se Beate reciti Trude, o viceversa.68

La coincidenza autobiografica ci appare un dato

ineludibile nel momento in cui è essa stessa

ammessa dalle parole dell’autore, che asserisce di

soffrire di una forma malinconica:

68 Id., p. 122100

una forma di sfiducia in se stessi, ma tantoaccentuata da sfiorare la disperazione. E ladisperazione conduce al pensiero della morte.69

Moravia qui non sta parlando d’altro se non della

disperazione da cui è affetto il protagonista, nei

medesimi termini dell’interrogativo incipitario:

“E’ possibile vivere nella disperazione e nondesiderare la morte?”70

Non ci sorprende dunque più di tanto se in 1934 il

livello di corrispondenza autobiografica sfiori

uno dei massimi picchi: infatti a definitiva

conferma possiamo constatare che l’età dichiarata

del giovane protagonista Lucio sia di ventisette

69 Ibidem

70 A. MORAVIA, 1934, Gruppo Editoriale Fabbri,

Milano, Bompiani, 1982, p. 7101

anni, ovvero la stessa di Alberto Moravia

nell’anno 1934.

E’ pertanto Lucio l’ennesimo eroe moraviano,

protagonista e narratore omodiegetico del romanzo,

che giunge a Capri con l’assillo della

disperazione da rendere stabile e impedire che

sfoci nel suicidio.

Alla fine mi è venuta l’idea che, immobilità perimmobilità e contraddizione per contraddizione,tanto valeva “stabilizzare” consapevolmente evolontariamente la disperazione. Cosa intendevocon “stabilizzare”? In qualche modo, immaginandoche la mia vita fosse uno Stato,instituzionalizzare la disperazione, cioèriconoscerla, diciamo così, ufficialmente comelegge dello Stato medesimo.71

Nelle intenzioni del giovane intellettuale la

profonda problematica esistenziale della

disperazione, dal Werther di Goethe e da Kleist

risolta con il suicidio, andava trasferita in

71 Id., p. 30102

ambito letterario fino a renderla “la condizione

normale dell’esistenza”:

Nella misura in cui sarei avanzato nellascrittura, la mia vita interiore si sarebbeallontanata dall’idea del suicidio, pur restandoimperniata su quella della disperazione. Equesto perché avrei raccontato, appunto, nelromanzo, la storia di un uomo che finisce peruccidersi; cioè avrei trasferito sulla paginaciò che restava allo stato di intenzione nellavita.72

Ed è lo sguardo apparentemente complice di una

ragazza tedesca sul vaporetto a scatenare la

curiosità di Lucio: attraverso l’espressione del

volto Beate (così si chiama) pare condividere lo

stato di disperazione del protagonista e, dunque,

egli le tenta continui ed insistenti approcci

nonostante la costante presenza del coniuge.

L’imminente amore per Beate appare a Lucio

la conferma che la vita valeva la pena di esserevissuta, dopo tutto.73

72 Ibid.103

Il contegno che esibisce Beate è però ambiguo,

dettato da una specie di “piano”, e si carica

ineluttabilmente sin dalla sua comparsa di un’aura

misteriosa e spesso indecifrabile che assicura la

tenuta romanzesca ed amplifica le potenziali

significazioni allegoriche, d’altronde complicata

dalla condotta ora irosa ora compiacente del

marito. Lucio realizza poi che l’attrazione per

Beate è motivata dalla necessità di una figura

doppia, di un’identità analoga che sia una

“compagna nella stessa avventura psicologica.”74 La

vicenda s’infittisce ulteriormente quando Beate,

dopo una serie di tentativi spesso rocamboleschi

di approccio del protagonista, annuncia

l’imminente ritorno in Germania e gli riferisce

73 Id., p. 33

74 Id., p. 74104

l’orrore nei confronti del marito, il quale “ha le

mani sporche di sangue”. Afferma inoltre di aver

lasciato il libro delle lettere di Kleist come

segnale per Lucio: ne deriva un profondo

smarrimento, poiché esse alludono continuamente

alla pratica suicidaria dell’autore con la

compagna Enrichetta Voghel, che a sua volta in

Beate potrebbe essere motivata politicamente viste

le nefandezze commesse dal marito, a differenza di

quella problematica esistenziale che attanaglia

Lucio.

Ed ecco ora intricarsi il rapporto tra

l’intellettuale e la realtà: egli avverte uno

stravolto interesse per la relazione di Beate

“vittima” con il marito “carnefice” e quindi per

la contemplazione del meschino legame, denunciando

105

dunque una palese affinità con il Silvio de L’amore

coniugale:

Sì, ero innamorato di Beate; ma ciò che adessopareva attirarmi di più in lei, era proprio ciòche, invece, avrei dovuto sperare che non fossemai avvenuto: la sua complicità viziosa conl’uomo che le faceva orrore e che aveva le manisporche di sangue.75

Lucio, che le ha dato convegno nella sua camera

d’albergo per la sera stessa, è dimidiato fra la

tensione verso il suicidio a due dettato

dall’amore per la tedesca e quella precedente del

romanzo della “stabilizzazione”.

Emerge allora la figura di Sonia, direttrice del

museo Shapiro, con cui il protagonista intraprende

una conversazione e da cui viene condotto alla sua

villa allo scopo di sedurlo: tuttavia Lucio si

mostra piuttosto incuriosito del vissuto della

matura donna, che gli narra la sua partecipazione

75 Id., p. 104106

alle vicende rivoluzionarie in Russia e la

violenta relazione con il “ferino” Evno Azev,

terrorista e spia controrivoluzionaria. Dapprima

attratto dalla possibilità di dare sfogo alla

“vitalità” che gli permetteva di accettare il

suicidio, adesso prova ribrezzo per Sonia e decide

di allontanarsi verso la pensione. Qui,

nell’attesa di Beate, Lucio si addormenta ed ha

luogo un sogno: Beate, in abiti militari, lo

sollecita al pagamento del conto di due stanze

d’albergo entro la mezzanotte, ed è in realtà

l’esortazione all’urgenza del suicidio sotto forme

allegoriche sessuali.

E’ un orologio a pendolo molto moderno, con ilquadrante di cristallo che permette di scorgerein trasparenza il meccanismo. Allora mi accorgoche attraverso il cristallo non si vedono isoliti congegni, bensì il triangolo rosso delpube di Beate. A quanto sembra, Beate sta rittadietro il quadrante, con il ventre schiacciatocontro il vetro. Ma come fanno a girare le

107

lancette? Semplice: sono innestate nel ventre;si muovono azionate dai visceri più segreti epiù intimi. Al tempo stesso, sento la voce dilei che mi dice tranquillamente che dovrò pagarealle dodici76

Dopo un drammatico finto risveglio, Lucio realizza

di aver dormito profondamente per tutta la notte e

scorge dalla finestra la partenza della coppia.

Quindi, ricade in uno stato d’inerzia e di

riflessione sul contegno enigmatico di Beate.

Mentre è alla ricerca dell’indirizzo che possa

condurlo in Germania da lei, trova sul libro di

Kleist appartenente alla tedesca la dedica della

gemella Trude, del cui arrivo Beate gli aveva

comunicato. Nella sala da pranzo Lucio trova Trude

(che inizialmente scambia per Beate a causa

dell’aspetto pressoché identico) in compagnia di

sua madre Paula: il personaggio di Trude appare

76 Id., p. 171108

estremamente antitetico alla gemella per la sua

“viziosa vitalità”, per il contegno sguaiato e per

i continui ammiccamenti sessuali in direzione del

protagonista, con cui poco dopo si reca in giro

per una passeggiata serale. E’ l’occasione per

Lucio di conoscere meglio da lontano Beate, di cui

la sorella non dà affatto un giudizio lusinghiero

ma, anzi, ne deride la pervasiva tensione

malinconica e le manie suicide per poi confondere

il protagonista con esplicite effusioni erotiche.

L’avventura balneare con Trude però appare a Lucio

l’opportunità di congiungersi al medesimo corpo di

Beate senza la prospettiva dell’ineluttabile morte

per suicidio. Titubante, lievemente irritato dalle

continue provocazioni della ragazza, accetta la

gita in barca da lei propostagli e le due strane

109

masturbazioni col piede richiestegli. Tuttavia

dalla condotta di Trude pare ora emergere una

strana ambiguità che in qualche modo l’avvicina a

sua sorella. Continua è intanto l’insistenza degli

interrogativi di Lucio sulla persona di Beate:

scopre così i suoi numerosi tentativi di suicidio

in coppia con un uomo, l’origine del suo torbido

matrimonio asessuato con Alois Muller, prima

amante di Trude, e la presunta violenza sessuale

subita dalla piccola Beate in Baviera. A fine

della conversazione Trude propone a Lucio di fare

sesso la sera stessa dopo la mezzanotte

impersonando sua sorella:

io farò in modo che la tua illusione sia ancorapiù completa, fino a oltrepassare l’amore e asfiorare la morte. Se però non riuscirò adilluderti, allora sarai autorizzato a sospenderela recita, esattamente come si interrompe la

110

prova di una commedia quando ci si accorge chegli attori non conoscono la parte.77

Alla reception Lucio riceve una missiva firmata da

Beate in cui è contenuto lo stesso invito per la

sera stessa. Annulla la partenza a cui si era

risolto subito prima e realizza di aver davanti il

proposito iniziale della sua ricerca, ossia

accettare e rendere stabile la disperazione in

comune con Beate senza condividerne gli esiti

mortuari, ed è ancora la volta di un sogno: la

sensuale Trude che chiede insistentemente di

entrare nella camera di Lucio si alterna alla

esitante Beate. Ma giunge presto il risveglio:

bussa alla porta la madre delle gemelle e rivela

la natura faceta di tutta la vicenda: Paula e

Trude fanno parte di una compagnia teatrale ed

hanno inventato il personaggio di Beate per77 Id., p. 260

111

adescare un “casanova” italiano e poi

ridicolizzarlo. Ma Lucio è finito per innamorarsi

di Beate e pretende di continuare la messinscena

ad insaputa di Trude:

“Sì, è vero, ma sta di fatto che è stata Trude ainventare Beate e io voglio sapere perché l’hainventata. E inoltre perché ha inventato proprioBeate e non un altro genere di personaggio.”78

Paula glielo nega, ma accetta di rispondere ad

alcune domande del protagonista: Lucio scopre

della conversione di Trude al nazionalsocialismo

in seguito ad un tentativo di suicidio, già

presagita da un sogno inquietante di un rito

matrimoniale pagano con Hitler che ha assonanze

con il racconto dello stupro di Beate ed intuisce

il rapporto saffico che intercorre tra lei e

Paula. Dopo la furibonda uscita di Paula dalla

stanza, Lucio indaga ancora il motivo della78 Id., p. 278

112

finzione “simmetrica”: si scopre allora innamorato

del fascino di “sdoppiamento” di Trude che gli

permetterebbe di sintetizzare le due figure così

dialetticamente opposte e pertanto realizzare la

stabilizzazione. Un ulteriore punto di svolta è

dato dalla discussione in salotto fra i personaggi

principali ed alcuni professori tedeschi scaturita

da un dibattito sul mensur come rito civile

tedesco: Lucio avverte quanto l’opinione degli

astanti, Trude inclusa, possa essere in realtà

inflazionata dal terrore del totalitarismo

nazista:

Se non avessi avuto altre preoccupazioni, forsemi sarei divertito, sia pure in maniera agra, alvedere tutti quegli uomini che avevano passatola vita tra gli studi, cercare di farlodimenticare, sostenendo che c’erano due culture,l’una “sana”, “costruttiva”, insomma “tedesca”;l’altra “decadente”, “distruttiva”, insomma“ebraica”.[…]

113

Pensavo che in regime di terrore non è possibiledistinguere non soltanto la verità dalla falsitàma anche la verità dalla falsità, mi si perdoniil bisticcio, dalla verità della verità.79

Ed ancora, egli ipotizza che sia la “misurata”

Beate ad aver inventato il personaggio

esageratamente fisico e vitale di Trude:

Cosa poteva esserci, d’altra parte, di piùautentico della disperazione in tempi didittatura terroristica, e che cosa di menoautentico negli stessi tempi, della sana gioiadi vivere? Ma, soprattutto, mi colpivano da unaparte la misura del personaggio di Beate edall’altra l’eccesso di quello di Trude. Non eraforse l’eccesso, il carattere tipicodell’invenzione rispetto al reale, e la misura,invece, il carattere tipico del reale rispettoall’invenzione?80

Trude si presenta in camera di Lucio

annunciandogli quanto egli aveva già presentito,

ossia di essere in realtà Beate. Si danno convegno

per qualche ora dopo, una volta terminato il

discorso di Hitler trasmesso alla radio, allo79 Id., p. 308

80 Id., p. 306-307114

scopo di consumare finalmente l’amore ed il

suicidio. Il protagonista in attesa

dell’appuntamento opta per conoscere Shapiro,

coniuge di Sonia, dalla quale è accolto

emblematicamente con siffatte parole:

Te, invece, appena gli ho detto che eri unintellettuale italiano, ha subito deciso diaccoglierti con tutti gli onori. Lo sai che hadetto? ‘Un intellettuale italiano? Credevo fosseuna razza ormai estinta. Vediamo un po’ com’èquesto fossile.’81

Segue uno stravagante dialogo tra i due in cui

Lucio espone il problema della disperazione e a

cui Shapiro consiglia, come soluzione, di

acquisire uno status di ricchezza allo scopo di

poter godere della “bellezza” della creazione

artistica, come egli stesso in gioventù si è

procurato. Nel frattempo in Germania si sta

81 Id., p. 321115

consumando la strage epurativa della Notte dei

lunghi coltelli in cui anche il marito di Beate

trova la morte. Nella conclusione del romanzo si

narra il ritrovamento dei cadaveri di Paula e

Beate su una panchina a seguito dell’uso di

pastiglie di cianuro e la parallela scoperta di

una lettera della donna, gemella di quella di

Kleist, in cui annuncia la morte congiunta. Alla

base di 1934 pare esservi come abbiamo intravisto

una certa “disposizione al ricalco manieristico,

sia sotto il profilo figurativo, che sotto quello

letterario.”82

Nella pagina di esordio, a titolo di esempio,

riscontriamo una connessione tra il ritratto

82 ‘Moravia, ritorno agli anni Trenta” di R.

CAVALLUZZI in Lo scarpone e il turbante indiano, Bari,

Graphis, 2009, p. 100116

paesaggistico e lo stato d’animo del protagonista,

assieme al riferimento figurativo al pipistrello

“dalle ali spiegate” di Melencolia I di Albrecht

Dürer:

Come nella stampa un arcobaleno incurvava i suoicolori chiari sullo sfondo del cielo tetro e lagrande rupe rossa di Capri si stagliava a piccosu un mare calmo e scuro che, qua e là,scintillava di riflessi accecanti come unalastra di piombo graffiata dalla punta di uncoltello. In questo paesaggio, che pareva inattesa di una catastrofe, l’insegna colladomanda sulla disperazione ci stava bene; comeci stava bene il pipistrello, pseudo uccellocrepuscolare dal volto lugubre, dal gridostridulo.83

Altro richiamo a Dürer è nella descrizione del

“lanzichenecco” (Curioso nomignolo affibbiatogli

dal protagonista narratore) nelle ultime fasi

dell’opera:

Questo cosiddetto “lanzichenecco” rassomigliavamolto al personaggio di un disegno di Dürer,intitolato: Ritratto di un giovane uomo. Il ritrattorappresentava una testa tipica della germanicitàlatinizzata del pittore: fronte alta e larga,

83 A. MORAVIA, 1934, op.cit., p. 7117

capelli bruni e inanellati, occhi grandi e scuridallo sguardo sognante e fermo, naso magro,dritto, aguzzo, con narici increspate erisentite, bocca al tempo stesso sdegnosa esensuale.84

La presenza del confronto visivo con il pittore

tedesco, celebre per il suo interesse verso

l’esoterismo, enfatizza le potenzialità

allegoriche delle descrizioni e carica i referenti

di notevoli imminenze tragiche, oltre “a dar

risalto al racconto di una vicenda intrisa, tra

l’altro, dall’orrore del nazismo trionfante al

momento della “notte dei lunghi coltelli””85.

L’arte figurativa nutre ancora le significazioni

descrittive, come nel caso delle pose fotografiche

di Beate a riva esplicitamente imitative del

Botticelli:84 Id., p. 300

85 R. CAVALLUZZI, op. cit., p. 100118

Fuori dall’acqua sono emerse via via le spalle,il petto, la vita, il ventre. Müller, intanto,come un forsennato, correva di qua e di là suisassi, scattando in fretta e furia le suefotografie. Beate ha mosso ancora due o trelenti passi: lentamente è affiorato per interoil pube folto e rosso. Il marito ha dato in unaspecie di grido disperato; ha ingiunto: “Così,così!”; portandosi nello stesso tempo, a guisadi esempio, la mano prima all’inguine, poi allatesta e alfine al petto come una donna che, perpudore, si sciolga i capelli e se ne ricopra ilseno e il ventre. Allora ho avuto una bruscailluminazione: Müller, con quei gesti, siriferiva ad un modello, ad una figura già nota.Quale? Ad un tratto ho capito: senza dubbioammiratore della pittura classica italiana,Müller voleva fotografare la moglienell’atteggiamento della Venere botticellianache, rivestita dei soli capelli, esce dal mare.86

E 1934 è anche un romanzo retrò nella misura in cui

esso si cosparge di echi letterari: è rilevante

anzitutto il modello esistenzialista del suicidio

di Kleist esposto nella lettera (poi imitata nelle

ultime battute) che offre un sicuro riferimento al

Romanticismo oltre che essere la base per numerose

riflessioni del protagonista sul tema della

86 A. MORAVIA, 1934, op.cit., p. 97119

stabilizzazione. Per giunta, uno dei primi

tentativi di avvicinamento a Beate è realizzato

attraverso la lettura di un brano poetico

sull’eternità dell’amore di Così parlò Zarathustra.

Importantissimi nella struttura del romanzo sono

pure i fitti richiami a presenze celebri del

passato in visita a Capri (Ibsen, Goethe ecc.), la

cui ambientazione dunque si alimenta di una certa

tensione memorialistica utile a sua volta a

garantire un costante orientamento alla volta di

una dimensione di tempo anteriore. In riferimento

a questa soffusa ma commossa fermentazione d’antan

di grande impatto emotivo (e quindi in larga

misura espressionistico) è un passo del capitolo

VII, in cui Lucio viene accompagnato da Sonia alla

propria dimora:

120

Poi abbiamo preso a camminare per lo strettoviale, all’ombra scherzosa dei platani, lungogli oleandri in fiore dall’acre profumopolveroso. I platani riunivano i rami al disopra delle nostre teste, tra le foglieocchieggiava ogni tanto un sole indiretto efiltrato che, pur essendo l’ardente sole digiugno, aveva qualche cosa come di sognato e diremoto, quasi fosse stato il sole di un giugnodi tanti anni or sono. Ad accrescerequest’impressone di anacronismo estivo,contribuivano pure i cancelli rugginosi e, al dilà dei cancelli, in fondo ai giardini folti enegletti, le facciate pompeiane e liberty diville e villette della fine dell’ottocento.[…]Ho pensato che, per completare quest’aria disogno sognato ad occhi aperti in cui parevaimmersa Anacapri non avrebbe dovuto mancare unsuono di pianoforte reso lento e balbettantedalla mano esitante di una bambina costretta adesercitarsi in un vecchio salotto pieno difotografie ingiallite e di paralumi con leperline.87

Ed ecco, infatti, per una sorta di magia onirica

che puntella ed al tempo stesso sorregge l’opera,

il suono di un pianoforte:

Infatti, come originato da questa riflessione,eccolo il pianoforte, i cui suoni parevanoprovenire da uno dei tanti giardini chefiancheggiavano la strada. Ma non era la manoesitante di una bambina a suscitare quei suoni

87 Id., pp. 125-126121

evocatori di altre estati lontane, bensì quelladi una persona sicuramente adulta che suonavacon buona conoscenza e per suo privato diletto.E infatti non suonava degli esercizi ma, come miè sembrato, un pezzo di Chopin, fermandosi ognitanto come a ricordare qualche cosa e poiriprendendo con foga e agilità.88

Sonia però rivela al protagonista che è la madre

della dottoressa Cuomo, la quale in preda a

improvvise crisi “si mette al pianoforte. Ma non

suona mai il pezzo intero. Va avanti un poco, poi

ricomincia, poi smette, poi riprende.”89

E se è vero che 1934 è soprattutto un testo dal

carattere autobiografico intessuto di riferimenti

allegorici ci sembra qui di rilevare una sottile

analogia con lo stesso procedimento adottato da

alcuni celebri romanzieri (e di cui lo stesso

autore si appropria) descritto ne L’uomo come fine:

88 Id., p. 126

89 Id., pp. 126-127122

Flaubert e Dostoevskij, invece, un po’ comecerti uccelli solitari che ripetono senza posa,con fedeltà significativa, sempre lo stessoverso, in fondo non hanno mai fatto altro cheriscrivere sempre lo stesso romanzo, con lestesse situazioni e gli stessi personaggi.90

Accanto a questi episodi narrativi dall’evidente

tensione onirica si collocano i sogni di Lucio,

densi di simbologie sessuali già adottate

altrove91. Il primo vede il protagonista

impossibilitato a pagare il conto di un albergo ed

incalzato da Beate, nel cui ventre sono innestate

delle lancette ad indicare l’incombenza del

suicidio da lei adombrato: si svela proprio

attraverso tale racconto onirico il significato

nella permanenza caprese di Lucio, ossia il suo

dibattersi nella disperazione dimenandosi fra

90 A. MORAVIA, L’uomo come fine, Bompiani 1964, p. 107

91 si veda in proposito il sogno di Luca ne La

disubbidienza123

tendenze mortuarie esistenziali e storiche. Nel

secondo sogno alla porta dell’eroe moraviano si

presentano le due figure contrastive e

complementari di Beate e Trude che pur tuttavia

non lascia penetrare in camera poiché egli attende

invero una terza donna, che è la sintesi di

entrambe. Nell’ultimo, invece, l’attesa di Beate

viene frustrata dal soggiunto rituale d’amore

incompiuto:

Volevo abbracciarla, tirarla a me. Ma le miebraccia hanno stretto il vuoto. Con un sensoamarissimo di frusrazione, mi sono destato.92

Utile è anche riportare all’attenzione il sogno

matrimoniale di Trude, in cui ella viene ferita al

dito dal Führer, suo novello sposo. Ed è ancora la

rivelazione dello stupro da ella subito durante

l’infanzia ad opera di un seguace di Hitler che

92 A. MORAVIA, 1934, op.cit., p. 334124

poi diventerà suo marito. Possiamo dunque a

ragione affermare che la tensione onirica che

permea universalmente 1934 laddove si estende con

respiro maggiore svela “fino in fondo” la verità e

pertanto rappresenta la sublimazione di quella

stessa tensione conoscitiva dell’intellettuale-

narratore.

La materia onirica, nella sua opposizione alla

dimensione del reale del presente, costituisce

dunque una struttura ermeneutica del rimando al

passato degli anni Trenta, in una costante

dialettica ad impostazione binaria, che è la cifra

ultimativa e funzione diagnostica del romanzo

stesso. Allora, nei sogni come nella realtà, il

protagonista borghese non realizza nessuna delle

due tensioni così precipuamente costitutive

125

dell'opera: non attua il progetto del suicidio e

non pratica un rapporto sessuale, limitandosi ad

aspirare disperatamente ad entrambe. E’ il ritorno

alla fonte dell'opera moraviana, cioè alla sordida

inconsistenza del non agire borghese, “abbarbicato

all'immanenza priva di speranza”93. Residua è

tuttavia la fondativa impazienza gnoseologica di

Lucio che sviluppa l'itinerario del personaggio

scontrandosi con epifanie della binarietà: la

dicotomia fra Beate e Trude, la sessualità

grottesca ed insieme i trascorsi rivoluzionari di

Sonia, il rapporto omosessuale tra Paule e Trude

ecc.

Lo stile romanzesco è qui improntato in forma di

un giallo, con il suo sviluppo sempre enigmatico e

che il protagonista narratore tende costantemente

93 R. CAVALLUZZI, op. cit., p. 107126

indagare per districare il fitto svolgimento degli

eventi. Il tema della teatralità, della “recita”,

è peraltro accennato in apertura dal protagonista

quasi come enunciasse un presagio:

E non stavamo sulla ribalta di un teatro d'operabensì nella realtà della vita, sul ponte delVapore che va da Napoli a Capri.94

Poi viene anche esplicitamente condotto a

metafora:

Evidentemente, ho pensato una volta arrivatonella mia camera, la lettera di Trude con lafirma di Beate mi aveva convinto a disdire ilviaggio perché aveva creato di colpo l'atmosferadella recita, esattamente come il tonfo del gongche, nei teatri, annunzia la ripresa dellarappresentazione, dopo un'interruzione dovuta,come si dice, a motivi tecnici. Perché rimangonodi solito gli spettatori, perché non se ne vannodopo una ragionevole attesa? Per tre ragioni:perché sono curiosi di vedere come andrà afinire la commedia; perché hanno speso i soldidel biglietto; perché, pur non essendo avari nécuriosi, si interessano all'arte dell'autore.Delle tre ragioni, le prime due non mi parevanovalide: non ero curioso di vedere come sarebbeandata a finire la commedia; tra me e Trudec’era ormai il tacito accordo che la recita sisarebbe conclusa proprio con quel rapporto

94 A. MORAVIA, 1934, op.cit., p. 11127

fisico che Beate fin da principio avevacompletamente escluso. La seconda ragione avevaancora meno fondamento: infatti, rinunciando adandare in Germania, rifiutavo di pagare ilprezzo del biglietto, cioè accettando la recita,rifiutavo la proposta del suicidio a due, inaltre parole e in sostanza, assistevo gratisallo spettacolo. Restava la terza ragione che mipareva la sola valida: rinunziando al viaggio inGermania e accettando la recita, io dimostravodi essere interessato all’arte dell'autore cioèdi non essere innamorato né di Trude, né diBeate, ma del fantasma che, con la recita, sisarebbe frapposto tra me e le gemelle.95

Possiamo con una certa sicurezza confermare che

1934 presenta la stessa struttura portante

dell'arte narrativa moraviana e il suo fulcro in

un itinerario conoscitivo frustrato con cui il

protagonista viene a confrontarsi. E se l'autore

adotta un registro incardinato sul tema pervasivo

e quasi meccanico della dissociazione egli non

intende allontanarsi da quella tensione

conoscitiva che informa la sua opera generale fin

95 A. MORAVIA, 1934, op.cit., pp. 264-265128

dal suo strabiliante esordio, ma è l'applicazione

tenace di un diverso procedimento simmetrico (come

era stato moralmente simmetrico il sistema dei

personaggi ne Gli indifferenti). Allorché Moravia stesso

definisce “retrò” il suo romanzo nell'intervista con

Enzo Siciliano, egli non fa che indicare l'asse

poetico su cui è installato 1934, ossia una

profondità rivisitazione del passato degli anni

Trenta già segnato tragicamente dalle turbe atroci

della Storia (che esacerba le immedicabili

contusioni dei personaggi) e sull'orlo di una

crisi. Conosciamo però un dato ulteriore:  Moravia

rinsalda il suo apparato allegorico ed apologico

allentando le maglie del realismo del “romanzo di

cose” quando intende spostare l'asse critico dalla

società ad un piano più vasto che includa una

129

riflessione politica. Perciò il recupero

dell’esperienza degli anni Trenta in forme

talmente simmetriche non è che il pretesto per una

disamina dei totalitarismi dell’orizzonte umano

del presente, ossia quelli della società

consumistica neocapitalista le cui tendenze

egemoniche hanno rinforzato i presupposti

alienativi già operanti ad inizio secolo. E,

analogamente a quanto accadeva negli anni Trenta,

dopotutto e dopo un percorso irto d’insolubili

interrogativi, all’intellettuale non è possibile

che la contemplazione della propria meschina

esclusione rispetto al corso imperioso della

Storia e della mancanza di consistenza dei suoi

sogni letterari ed esistenziali, lontani dal

terribile e cruento manifestarsi della realtà:

“Mio carissimo Lucio,130

All’amicizia che tu mi hai sempre dimostratocosì fedelmente è riservato di sostenere unastrana prova, poiché noi due, Paula ed io, citroviamo qui, in località Migliara, ad Anacapri,in uno stato molto imbarazzante in quantogiacciamo uccise dal cianuro e ora facciamoassegnamento sulla bontà di un benevolo amicoper affidare le nostre fragili spoglie allatutela sicura di questa terra italiana, ecc.”96

96 A. MORAVIA, 1934, op.cit., p. 335131

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