FERRARA STORICO DELPENSIERO ECONOMICO Le prefazioni alla prima serie della Biblioteca...

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PIERO ROGGI FERRARA STORICO DEL- PENSIERO ECONOMICO Le prefazioni alla prima serie della Biblioteca dell’Economista Working Paper 2012 [Digitare qui il sunto del documento. Il sunto è in genere un breve riassunto del contenuto del documento. Digitare qui il sunto del documento. Il sunto è in genere un breve riassunto del contenuto del documento.]

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PIERO ROGGI

FERRARA STORICO DEL-PENSIERO ECONOMICO

Le prefazioni alla prima serie della Biblioteca dell’Economista

Working Paper 2012

[Digitare qui il sunto del documento. Il sunto è in genere un breve riassunto del contenuto del documento. Digitare qui il sunto del documento. Il sunto è in genere un breve riassunto del contenuto del documento.]

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Il tema del presente convegno riguarda “l’economia divulgata”. Non l’economia nel momento

in cui è formulata dall’economista, ma nel momento in cui, risistemata in manuali e trattati, lascia il

suo autore per riprodursi nella mente degli studenti, degli addetti ai lavori, dei politici in cerca di

consapevolezza critica per compiere scelte ponderate; per rivolgersi, insomma, a destinatari diversi.

Di solito manuali e trattati sono immessi nella competizione della cultura economica come merce

non confezionata; altre volte in concatenazioni organizzate. Nella prima serie della Biblioteca

dell’Economista vi sono 13 volumi, decine fra manuali e trattati, 13 involucri introduttivi1. Questa

relazione non avrà cura dei singoli trattati inclusi nella prima serie. Rivolgerà invece la sua atten-

zione proprio ai rivestimenti introduttivi di Francesco Ferrara2 dei tredici volumi.

Che tipo di letteratura economica è quello delle “prefazioni ferrariane”? È storia del pensiero

economico o agiografia di economisti; critica scientifica delle teorie prefate o riordino classificato-

rio del materiale esposto? Per sbrogliare la questione sistemerò la materia da trattare in tre momenti

consecutivi:

1. Illustrerò i tre criteri di giudizio adottati da Ferrara;

2. Ne additerò alcuni esempi;

3. Trarrò, infine, transitorie conclusioni.

Non vorrei soffermarmi a lungo, col permesso del lettore, sul clima culturale del decennio

1850-60. Ma qualcosa deve pur essere detto.

Durante il Risorgimento la cultura, compresa quella economica, era in agitazione; indipenden-

za ed unità nazionali apparivano questioni scottanti. La cultura economica era sollecitata a schierar-

si; neppure Pomba e Ferrara potevano schivare la questione. E la affrontarono nella presentazione

dell’opera, in una paginetta iniziale intitolata Editori.

L’indipendenza politica era un obiettivo anche per la Biblioteca dell’Economista; ma come

raggiungerla? Attraverso la via larga e facile della glorificazione di una scienza italiana, il che

avrebbe messo gli economisti italici nell’angolo remoto del nazionalismo, separandoli dalla scena

europea, oppure attraverso la via stretta e faticosa dell’appartenenza ad una sola cittadinanza scien-

1 La prima serie della Biblioteca dell’Economista fu pubblicata dal 1850, a Torino, su iniziativa di Francesco Ferrara

e dell’editore Pomba; sia i tredici volumi della prima serie che gli altrettanti della seconda sono introdotti dalle prefa-

zioni di Ferrara, poi raccolte in F. FERRARA, Esame storico critico di economisti e dottrine economiche del secolo XVIII

e prima meta del XIX, Torino, UTET, 2 voll., 1889-1891. 2 Francesco Ferrara (1810-1900), statistico, uomo politico ed economista palermitano, fu costretto all’esilio a Torino

all’indomani della restaurazione borbonica del 1848; qui assunse la cattedra di Economia Politica, avviò il progetto del-

la Biblioteca dell’Economista e si distinse come acuto saggista. Dal 1858 visse in varie città d’Italia; fu tra i fondatori

della Società di Economia Politica (1868) e della Società Adamo Smith (1874), sedette a lungo nei banchi del Parla-

mento e fu per un breve periodo Ministro delle Finanze (1867). Le sue opere sono raccolte nei sedici volumi della col-

lana Opere di Francesco Ferrara (Bancaria editrice).

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tifica, che di slancio avrebbe superato i compressi ambiti nazionali?3 La repubblica delle scienze

non avrebbe forse assecondato l’indipendenza politica?

Da un certo punto di vista la Biblioteca dell’Economista era avviata ad un solo compito: quel-

lo di plasmare una classe dirigente adeguata per il futuro; ma come? In un modo solo: «fuggendo la

lebbra letteraria e teologica», suggeriva Ferrara nel postillare Genovesi4, e abbracciando l’economia

politica liberale. Ecco perchè il nome di “Biblioteca dell’Economista”, intendendo per “economi-

sta” – lo vedremo meglio in seguito – l’economista liberale5.

L’operazione Ferrara-Pomba provvide una biblioteca economica per l’educazione di una clas-

se dirigente liberale. Ferrara pensò di dotare gli interessati con manuali e trattati. Ma, senza che

questo rientrasse nel suo scopo principale, finì per offrirci in dono preziosi involucri introduttivi,

prefazioni che, oggi, hanno un’importanza forse maggiore, dei testi che si proponevano di presenta-

re.

Vi sono tre grandi criteri che dominano le prefazioni ferrariane e regolano il suo modo di va-

lutare e soppesare autori e testi. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il primo criterio non è

teorico, ma, secondo le parole di Ferrara, “pratico”: si trattò di valutare l’autore secondo il suo at-

teggiamento verso il governo economico del paese. L’autore non è giudicato in sé. Quel che conta è

avere cognizione se egli sia un liberista oppure un interventista. Da dove nasce questo “criterio pra-

tico”? Proprio perché pratico, il canone sembrerebbe non volersi posare su nessuna teoria. Eppure

non è così: il criterio pratico si appoggia su un preciso schema teorico, quello dell’appropriazione di

Destutt de Tracy6.

Il rapporto fra Destutt de Tracy e Francesco Ferrara è del tutto speciale7. Nella sua introduzio-

ne al volume VI della prima serie8, Ferrara condanna Say. Sembrerebbe impossibile, eppure è così;

l’autore francese avrebbe sempre trovato difficoltà a gettare le fondamenta filosofiche del binomio

3 Premesso che «non bisogna immolare la verità e la storia alla vanità nazionale» (Biblioteca dell’Economista, prima

serie, volume III, p. 70 – nel seguito B.E., 1, III, p. 70), Ferrara scrive: «Sia consentito inorgoglirsi non di ciò che già

fummo, ma di ciò che saremo […]. L’Italia avrebbe ella pure una scienza economica, se invece di essere collezione di

territori, avesse l’unità della lingua e del nome» (B.E., 1, III, p. 68). 4 In B.E., 1, III, p. 5. 5 Prego il lettore di fare attenzione a questa particolarità terminologica: al giorno d’oggi la parola “economista” signi-

fica “studioso che si occupa di economia”; per Ferrara, invece, con questo termine si indica esclusivamente il gruppo

degli autori liberali, contrari all’intervento del governo nelle cose economiche. 6 Antoine-Luois-Claude Destutt, conte di Tracy (1754-1836), filosofo ed economista francese, divenne senatore dopo

il 18 brumaio; la sua attività esclusiva sarebbe sempre restata la speculazione filosofica, che gli permise di elaborare

un’originale scienza dei processi conoscitivi e intellettivi (da lui detta “ideologia”), la quale riconduceva l’origine delle

idee nelle sensazioni e nelle emozioni psichiche. Nel volume VI (1854) della prima serie della Biblioteca

dell’Economista è presente il suo Trattato della volontà. 7 Al termine dell’esposizione della sua teoria, Ferrara pronuncerà parole di ammirazione per Destutt de Tracy:

«Ognuno sarà colpito dalla serie di queste idee derivanti le une dalle altre per via di generazione. Vi sono grandi verità

[…]» (B.E., 1, VI, p. 49). 8 Il volume in questione, pubblicato nel 1854, comprende i lavori di Say (Trattato di economia politica), Sismondi

(Nuovi principii d’economia politica), Tracy (Trattato della volontà) e Droz (Economia politica); a Say sarà dedicato

anche il volume successivo, del 1855, nel quale sarà pubblicato il Corso completo d’economia politica pratica.

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libertà/intervento dello Stato. Questo stesso fondamento Ferrara non l’ha mai trovato fra i suoi col-

leghi economisti: neppure in Say, che pure valutava un grande. Say non ha una teoria della libertà e

della proprietà. E ciò indebolisce – pensa Ferrara – l’intero suo sistema teorico. Neppure Say,

l’economista della libertà economica contro l’economia voluta dal tiranno Napoleone; neppure Say,

che ha pagato un prezzo così alto per la propria indipendenza scientifica; si poggia su una teoria so-

lida della libertà e della proprietà.

Sostiene Ferrara: se il fenomeno della produzione altro non è che il gesto che la specie umana

compie per avvicinare la natura inanimata al bisogno dell’uomo consumatore; se tale riduzione del-

la distanza può compiersi sia forzando la sola natura inanimata che appropriandosi del potere pro-

duttivo dell’altro uomo per obbligarlo ad operare in sua vece tale avvicinamento; se, insomma, la

produzione può svolgersi in regime di libertà verso l’uomo o di imposizione verso la natura co-

munque refrattaria, allora vi saranno due modi di “produrre”: l’avvicinamento buono e quello per-

verso. Il primo è una pressione trasformatrice sulla sola natura; il secondo è l’avvicinamento scelle-

rato operato attraverso la costrizione esercitata su un altro uomo. Il primo costituisce la produzione

naturale; il secondo la produzione per mezzo di “usurpazione”.9. Le forme dell’usurpazione – conti-

nua Ferrara – si sono mostrate variamente nella storia: la riduzione in schiavitù, lo statalismo (forma

attenuata di schiavitù), il protezionismo, il monopolio.

Come si vede si tratta di una teoria della proprietà, e al tempo stesso della libertà10, di tipo fi-

losofico11, che costituisce una premessa indispensabile per capire il criterio usato da Ferrara per va-

lutare gli economisti. L’economia politica, quello sforzo intellettuale di rappresentare i fenomeni di

appropriazione e di produzione, non può non esserne compromessa. Il suo oggetto dovrà limitarsi ai

fenomeni di appropriazione produttiva che si svolgano senza usurpazione dell’uomo sull’uomo. La

scienza, che rappresenterà concettualmente l’altro tipo di appropriazione produttiva in contesto di

usurpazione, è tutto fuorché scienza economica. Ecco dunque chi sono gli “economisti” per Ferrara:

sono gli studiosi che immaginano e descrivono il mondo economico nella libertà del produrre; gli

altri sono “pseudo economisti”, “sistemisti” che riferiscono di sistemi d’interessi, dei quali, alla fi-

ne, diventano complici.

Sarà per tutti palese, a questo punto, quanto singolare sia l’impostazione ferrariana. Nessuno

storico che si rispetti aveva, fino allora, proposto un criterio così crudamente politico-economico

per soppesare e classificare gli economisti. Tale criterio, inoltre, avrà non poche conseguenze sulla

9 «Tutte le volte che le forze umane si spingono sulla natura, nulla può essere perduto. Ma quando esse si rivolgono a

comprimere un’altra forza umana, allora si passa dallo stato di aspettativa feconda a quello di una totale dissipazione»

(B.E., 1, VI, p. 66). 10 Ancora Ferrara: «La proprietà è il principio della scienza. La libertà è l’essenza della proprietà» (ibidem). 11 Ferrara assume la filosofia della scienza di Destutt de Tracy: «Egli ha avuto il generoso desiderio di scrivere la filo-

sofia della scienza» (B.E., 1, VI, p. 53).

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storiografia ferrariana. Raffigurata nel suo orizzonte socio-economico l’utopia di una società finale,

libera da pressioni sulla persona e guidata dagli “appropriatori diretti della natura” (eroi positivi

contrapposti agli “appropriatori di forze personali”), Ferrara inclina ineluttabilmente verso una sto-

ria, dove si distinguono gli autori della libertà, disposti nei punti più alti del suo narrare, e gli autori

favorevoli all’usurpazione (protezioni, statalisti, monopolisti di ogni genere e natura), sistemati ai

piani bassi del suo racconto storico.

La sua non è una scelta di tipo morale, semmai di tipo profetico: affinché si affermi la società

della libertà economica, gli autori della libertà debbono essere oggi esaltati, gli altri combattuti.

Fra coloro che nelle prefazioni ferrariane stanno in alto, troviamo Turgot12, il ministro che osò

difendere la libertà di commercio nei periodi bui; Bastiat13, fondatore e segretario dell’Association

pour la liberté des échanges; Chevalier14, che suggerì al governo francese di Napoleone III il libero

scambio15. Non ci sono protezionisti in questa lista. Essi stanno in basso, come tutti gli italiani del

Settecento (eccetto Ortes)16 e molti dell’Ottocento. Mercantilisti, protezionisti e favorevoli al mo-

nopolio son collocati nelle cerchie basse della rappresentazione ferrariana, quelle cerchie che

esprimono imperfezione e sofferenza nella storia del pensiero economico.

C’è poi, in Ferrara, un altro criterio per distinguere gli scrittori ammissibili da quelli da riget-

tare. È il criterio ideologico dell’italianità. Nell’introduzione al volume III della prima serie della

Biblioteca dell’Economista17, Ferrara lancia la sua energica offensiva al criterio dell’italianità18. Il

periodo storico nel quale scriveva era uno di quelli a forte carico emotivo: l’insofferenza verso

l’occupante austriaco era molto sentita. Il moto risorgimentale si allattava all’ideologia nazionale.

12 Anne-Robert-Jacques Turgot (1727-1781), economista e politico francese, divenne controllore generale delle fi-

nanze e Ministro con Luigi XVI. L’incarico fu revocato su pressione dell’aristocrazia e delle corporazioni, avverse alle

sue proposte di liberalizzazione e di taglio delle spese statali. Tra i principali esponenti della corrente fisiocratica, ha la-

sciato alcuni scritti economici, tra i quali le Réflexions sur, la formation et la destruction des richesses (1766), tradotte e

pubblicate nella prima serie della Biblioteca dell’Economista (vol. I, 1850). 13 Frederic Bastiat (1801-1850), economista francese, fu probabilmente tra i più tenaci sostenitori della dottrina libe-

roscambista in Francia; fondatore dell’Association pour la liberté des échanges (1846), nei suoi scritti attaccò le tesi so-

cialiste e sostenne che solo la libertà economica avrebbe garantito la naturale armonia degli interessi dei corpi sociali.

Nella prima serie della Biblioteca dell’Economista sono pubblicate le Armonie economiche (vol. XII, 1851). 14 Michel Chevalier (1806-1879), economista francese e docente al Collège de France, sostenne nei suoi scritti il libe-

ro scambio e, come firmatario del trattato commerciale del 1860 con l’Inghilterra (assieme a Cobden), contribuì alla ra-

pida diffusione della pratica liberista nel continente europeo. Nella prima serie della Biblioteca dell’Economista è pre-

sente il Corso di economia politica (vol. X, 1864). 15 Precisa Ferrara: «L’associazione fondata a Bordeaux si espanse e si ebbe la centrale a Parigi» (B.E., 1, XII, p. 30). 16 Giammaria Ortes (1713-1790), economista e scrittore veneziano, si impegnò nella ricerca e nella descrizione di

quelle che riteneva le leggi naturali del gioco economico; ciò lo condusse ad un’aspra critica del mercantilismo e delle

pratiche di intervento dello Stato in economia. È autore del trattato Dell’economia nazionale, pubblicato nella prima se-

rie della Biblioteca dell’Economista (vol. III, 1852). 17 Il volume è del 1852 e raccoglie i Trattati italiani del secolo XVIII; in esso sono pubblicate le Lezioni di economia

civile (Antonio Genovesi), le Meditazioni sull’economia politica (Pietro Verri), gli Elementi di economia pubblica (Ce-

sare Beccaria), Delle leggi politiche ed economiche (Gaetano Filangeri) e Dell’economia nazionale (Giammaria Ortes). 18 Come premessa alla questione, Ferrara enuncia il principio secondo il quale «non bisogna immolare la verità e la

storia alla vanità nazionale» (B.E., 1, III, p.70).

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Molti colleghi di Ferrara propendevano per una ricerca storiografica che valorizzasse gli economisti

italiani del passato19, allo scopo di rinvigorire, anche in questo campo, l’identità italiana. Uscire da

questo cliché poteva dimostrare scarsa sensibilità per la causa nazionale20. Gli italiani sono – questo

è il giudizio di Ferrara – nella quasi totalità (e con l’eccezione di Ortes) mercantilisti, economisti

senza valore; anzi, neppure “economisti”, ma uomini di sistema.

Se il criterio “pratico” è quello di liberismo/protezionismo, allora gli economisti italiani sono

destinati, se non proprio all’inferno (dove abitano i portatori espliciti di interessi economici di set-

ta), almeno al purgatorio, dove sono raccolti coloro che, pur non essendo ancora saliti al livello del-

la scienza economica, giacciono nel girone degli autori di monografie tematiche21. Essi rannodano

ad un solo concetto teorico la materia che trattano, ma non riescono a farlo per tutto il materiale che

lavorano. Sono, insomma, autori di studi specifici e non di “principi” o trattati generali.

Oltre al criterio “pratico” (e a quello dell’italianità, che logicamente vi discende), vi è un se-

condo principio, quello “logico”. Aurelio Macchioro ha riconosciuto acutamente in questo il criterio

distintivo di Ferrara. Non che sia il solo, ma certo quello principale. Per Macchioro, Ferrara produce

teorizzazione “per polemica”, il suo sarebbe un modo “apagogico”. Detto così, la maniera di Ferrara

ci appare l’espressione di un intellettuale inquieto, tendenzialmente rissoso, che libera la propria

creatività scientifica soltanto se punto dalla passione per la disputa. Ma le cose stanno diversamen-

te: in Ferrara la polemica non è espressione caratteriale ma accurata, preordinata scelta metodologi-

ca.

Prima di entrare nel cuore del problema, c’è da dire che Ferrara ha una forte preferenza per le

teorie contemporanee. A differenza degli storici, diciamo così, “scritturisti”, che cercano di com-

prendere ed interpretare il presente con i sacri testi alla mano, Ferrara ha una decisa disposizione a

considerare le teorie del passato come elaborati intellettuali rozzamente difettosi; il che non signifi-

ca inutili, anzi. Significa, piuttosto, che questi “errori del passato” (chiamiamoli così provvisoria-

mente), se opportunamente trattati, possono riuscire addirittura a far progredire la scienza. C’è in ef-

fetti, in Ferrara, una forte propensione a spremere gli sbagli degli antichi per costruire nuove verità.

Certo, non la verità in generale, la sua verità, semmai.

19 Gli italiani, nota Ferrara, «hanno prodotto una scienza che non ha titolo alla gratitudine della posterità» (B.E., 1, III,

p. 44); «è falso che essi nel 1700 abbiano dato alla luce una scienza economica. E pensarlo è ridicolo» (ivi, p. 360). 20 A questo riguardo, Mancini obietta a Ferrara: «Ferrara poteva, a proposito di Turgot e Quesnay, indicare alla grati-

tudine della scienza economica il nome del Serra, senza il rimorso di aver contribuito a rendere ridicole le glorie italia-

ne» (B.E., 1, III, p. 54). La risposta di Ferrara è tagliente, quando parla di «quel miserabile cicaleggio economico di Ser-

ra» (ivi, p. 56). 21 Quelli degli italiani, scrive Ferrara, «erano studi di non ancora scienza […], erano monografie» (B.E., 1, III, p. 53).

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Chiamerei questa impostazione ferrariana “errore-opportunità”, nel senso che gli errori degli

antichi non devono essere buttati al macero, ma, opportunamente riciclati, possono diventare occa-

sioni per la crescita della scienza.

Se le imprecisioni del passato sono possibilità di crescita della teoria moderna, cosa possiamo

dire di quest’ultima? Quella di Ferrara è una “teoria ricevente”, perché incassa le erronee teorie del

passato come spiegazioni solo parziali del fenomeno. Essa le mescola come spiegazioni di casi par-

ticolari e si propone come teoria generale (o più generale), rendendo così possibile un ulteriore pas-

so verso la verità. Le dispute scientifiche del passato imprimono sì alla storia del pensiero economi-

co un movimento oscillatorio che è in sé “dialettica dei contrari”, ma questo movimento, tuttavia, è

destinato a chiudersi e a pacificarsi nel momento stesso in cui appare la formulazione teorica che

ingloba i contrari e ne fa cessare l’irrequieta contesa. Per gestire intellettualmente la complessità di

questa impostazione ferrariana, attribuirò a questo suo procedimento un solo nome di sintesi: “Me-

todo della convergenza oscillatoria”, per significare che la contrastata oscillazione fra teorie parziali

pure converge verso una teoria che le assimila e le placa22.

Questa maniera ferrariana ha un pregio rispetto a modi alternativi di tornare alle teorie del

passato? È lui stesso a confermarcelo: le dispute del passato e del presente cessano di essere inutili

per diventare, con questa impostazione, combustibile a favore della crescita teorica23.

La gran parte degli autori di trattati e manuali della prima serie di Biblioteca dell’Economista

sono studiati col “metodo logico”, cioè col metodo della “convergenza oscillatoria”.

Quesnay per esempio: l’errore del grande fisiocrate, che pure Ferrara guarda con ammirazione,

sta nell’aver considerato la terra come settore esclusivamente produttivo di “prodotto netto”. Ferrara

tratta l’errore di Quesnay come l’opportunità che cercava per mostrare la sua verità. Se la produzio-

ne è un mutamento di forma nella materia, operata da una potenza appropriativa che avvicina la

stessa al bisogno del consumatore, allora tutti i settori economici sono, per ciò stesso, produttivi. Il

prodotto netto è ubiquitario e non sussistono settori “sterili”.

Introducendo Storch24 in altra parte della prima serie, Ferrara regola i conti con Smith e con

Say25 riguardo alla vexata questio del lavoro produttivo-improduttivo (in Smith) e del prodotto ma-

22 Luigi Einaudi, nel capitolo dedicato a Francesco Ferrara dei suoi Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine

economiche (Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 1953), per giustificare la propria passione bibliofila, ebbe a confes-

sare: «L’acquisto ragionato (di una vecchia edizione da un libraio antiquario) dipende, nel mio caso, dalla fissazione che

delle teorie moderne si debba cercare il germe in libri scritti tempo addietro». Anche di Ferrara si può dire che avesse

un simile convincimento; il suo, tuttavia, era logicamente assai meglio teorizzato di quello dell’ economista piemontese. 23 «Convertire l’inutilità della polemica in un diligente sviluppo delle teorie fondamentali della scienza è uno sforzo

che ripaga» (B.E., 1, IV, p. 14). 24 Heinrich Friedrich von Storch (1766-1835), economista russo, contribuì in modo decisivo alla diffusione del pen-

siero smithiano nel suo paese, pur non mancando di criticare la teoria degli sbocchi di Say e guardando di buon occhio

la pratica protezionistica per lo sviluppo dell’industria nazionale. La sua opera più importante è con tutta probabilità il

Cours d’économie politique, tradotto e pubblicato nella prima serie della Biblioteca dell’Economista (vol. IV, 1853).

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teriale-immateriale (in Say). Le inesattezze degli antichi convergono, oscillando, verso la teoria di

Ferrara, che amorevolmente le accoglie come casi particolari di una teoria più ampia. Per Ferrara

ogni bene è simultaneamente materiale-immateriale giacché è proiezione, sulla natura inanimata,

della duplice natura dell’uomo: il suo essere anima e corpo26. Anche in un bene che all’apparenza è

il più immateriale, un’omelia (di là dall’evidente immaterialità del “servizio spirituale”), il teorico

avvertito dovrebbe sempre scorgere una componente materiale, senza la quale il bene non esistereb-

be: il pulpito ligneo dal quale quell’omelia viene impartita.

I beni non si possono dunque differenziare in materiali e immateriali, ma sono partecipi tutti

della simultanea condizione di materialità-immaterialità. Insomma, la teoria di Ferrara, appoggian-

dosi sugli errori antichi che riceve dentro di sé, riesce a produrre una sintesi di maggior verità.

Fare i conti con gli errori degli antichi sulla questione della rendita è per Ferrara operazione

più ardua. La teoria della rendita da monopolio è uno degli “errori-opportunità” che Ferrara userà,

insieme all’errore di Ricardo, per riformulare la sua teoria di sintesi. Prendiamo la prima: la rendita

è il prezzo di un fattore detenuto in regime di scarsità e di monopolio; quest’ultimo è responsabile

dell’aumento del prezzo del grano. Prendiamo ora la seconda, che spiega la rendita in modo diame-

tralmente opposto: è l’accresciuto prezzo del grano che, mettendo in gioco le terre meno produttive,

innalza il valore della rendita (rendita differenziale nelle versioni di Ricardo, Anderson, Malthus).

Per Ferrara non esiste fra le due una teoria vera. Sono entrambe vere o false secondo il periodo con-

giunturale che l’economia sta vivendo. Le due opposte teorie diventano spiegazioni di casi partico-

lari, in certo senso erronee, ma, in altro senso, da non buttare. Semmai da comporre in una spiega-

zione più vasta e articolata.

La “maniera” di Ferrara, il suo modo di tornare indietro nel tempo teorico, se volete di fare

storia del pensiero economico, è un modo, bisogna riconoscerlo, inconsueto. Più che di una storia, si

tratta del recupero di teorie antiche, contenenti aurei granelli di verità che non devono essere perdu-

ti, ma che possono invece essere utilizzati per un processo di recupero che diventa il compito prin-

cipale dell’economista moderno. Come quegli orafi che di tanto in tanto raccolgono tutta la spazza-

tura della stanza dove lavorano e, invece di gettarla nell’immondizia, la fanno bruciare per racco-

gliere grammi d’oro, così Francesco Ferrara diventa ai nostri occhi un recuperatore instancabile di

frammenti preziosi di pensiero economico che, altrimenti, andrebbero improvvidamente perduti.

25 Di Smith, nella prima serie della Biblioteca dell’Economista, è presente la Ricerca sopra la natura e le cause della

ricchezza delle nazioni (vol. II, 1851), mentre di Say sono pubblicate le Lettere a Malthus (vol. V, 1854), il Trattato di

economia politica (vol. VI, 1854) e il Corso completo d’economia politica pratica (vol. VII, 1855). 26 «L’idea di prodotto immateriale mi parve sempre erronea» (B.E., 1, IV, p. 14).

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Consideriamo, per esempio, la teoria del valore. Uno degli “errori-opportunità” da recuperare

è la teoria del costo di produzione di Ricardo27. Molte sono le anomalie che ne tradiscono

l’erroneità28: il margine misterioso fra prezzo corrente e valore, colmato soltanto con l’espediente

dell’oscillazione della domanda e dell’offerta; i casi di valore senza prezzo e di prezzo senza valore;

la spiegazione del prezzo di monopolio. L’altro errore-opportunità è di Say e della sua teoria

dell’utilità. Dal loro trattamento di recupero Ferrara fa scaturire la teoria del costo di riproduzione:

il costo di produzione casalinga del compratore diventa in Ferrara la teoria ricevente. La variabile

utilità spiega, ma solo finché il consumatore produce da sé. Quando si rivolge al mercato, vale il co-

sto di produzione per spiegare il valore di scambio. Anche in questo caso nella teoria ferrariana

convergono teorie conflittuali, che possono essere salvate nella nuova sintesi.

Ferrara non amava gli studiosi propensi all’utopia. Disprezzava cordialmente Sismondi, che

avvertiva come filantropico sognatore29, e detestava anche il vescovo Chalmers30. Di Sismondi ebbe

a dire che la scienza, nelle sue mani, diveniva “menzogna”.

E purtuttavia Ferrara non getta al macero le teorie dei due economisti. Ecco la teoria sismon-

diana delle crisi di sovrapproduzione: il mondo è condannato a vivere in miseria, nell’assurdità di

una produzione esondante ma non consumata. Tale è la conclusione di Sismondi. L’argomentazione

di Ferrara, invece, è la seguente: se gli operai sono sottoposti a salari insufficienti per lo spiazza-

mento che il loro lavoro patisce da parte delle nuove tecnologie, la produzione crescerà e la capacità

d’acquisto della gran massa diminuirà, portando al paradosso succitato. La teoria sismondiana non è

falsa del tutto: piuttosto si riferisce ad una situazione solo parzialmente valutata. L’arco temporale è

quello del breve periodo e la teoria ci spiega quel che succede nel momento stesso del rivelarsi della

crisi. Più che erronea, la teoria sismondiana è miope, astrae dai riassestamenti che necessariamente

sopravverranno. La sovrapproduzione, sostiene Ferrara appoggiandosi all’autorità di Say, sarà rias-

sorbita da spostamenti di capitali da un settore all’altro. La sovrapproduzione svanirà come la neb-

bia al sole. La teoria di Sismondi, insomma è un caso particolare, o meglio: rappresenta un “tempo

particolare”, quello della crisi, il tempo breve.

27 Ferrara formula la sua teoria del costo di riproduzione in occasione della critica a Ricardo e a Say sul valore, nel

volume XI della Biblioteca dell’Economista (1856), dove, oltre ai Principii dell’economia politica di Ricardo, sono pre-

senti opere di Torrens, Bailey, Whately e Rae. 28 «Il sistema del costo di riproduzione – afferma Ferrara – è di capitale importanza in economia: distrugge la mo-

struosità di vedere il principio del valore smentito da moltissime eccezioni» (B.E., 1, V, p. 64). 29 Nella prima serie della Biblioteca dell’Economista, di Sismondi sono presenti i Nuovi principi d’economia politica

(vol. VI, 1854) e il giudizio di Ferrara circa la “conversione” del francese dallo smithianesimo della Ricchezza Com-

merciale all’eresia dei Nuovi principi è severissimo: «Scrisse i Nuovi principi di economia politica ritrattando i principi

fondamentali della scienza. Nella nuova scuola a cui si ascrisse perdette le capacità del suo ingegno e fu irrimediabil-

mente perduto per la scienza» (B.E., 1, VI, p. 2); 30 Thomas Chalmers (1780-1847), pastore presbiteriano, fu docente di Matematica, di Filosofia morale e di Economia

politica; nei suoi scritti economici si avvicinò al pensiero di David Ricardo e di Thomas Malthus e si sforzò di concilia-

re le leggi economiche con quelle della morale cristiana. Nella prima serie della Biblioteca dell’Economista è presente

la sua Economia politica nel suo rapporto con la condizione morale e le morali tendenze della società (vol. VIII, 1855).

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Anche riguardo a Chalmers, Ferrara mostra lo stesso atteggiamento, relegando la sua teoria

della sovrapproduzione industriale (causata nel caso specifico dalla scarsità della produzione agri-

cola) a caso particolare della sua teoria degli sbocchi31. In sostanza gli utopisti hanno la vista troppo

breve e la pietà troppo rapida nel piangere le disgrazie altrui32. La teoria degli sbocchi ha una sere-

nità temporale che impedisce analisi sbrigative e superficiali.

C’è infine un terzo criterio – secondo Ferrara – per vagliare la qualità dell’economista. Si trat-

ta di inserire quest’ultimo in uno dei tre stadi di avanzamento percorsi dalla scienza economica. Egli

può rientrare nello stato rozzo dei sistemisti, in quello appena più evoluto dei produttori di mono-

grafie, oppure in quello moderno degli economisti scienziati. Il primo stadio è quello primitivo, il

secondo è intermedio fra preistoria e scienza, il terzo è il periodo scientifico. È ovvio che includen-

do un economista in uno dei tre periodi, se ne fissa anche un giudizio di qualità. La stagione primi-

tiva, o quella dell’infanzia della scienza, secondo il linguaggio ferrariano, accoglie lavori che rap-

presentano esplicitamente gli interessi economici di sette o partiti. Questa produzione si manifesta

nella forma di “massime” o ricette di politica economica, sorrette pure da tenui quanto rari filamenti

razionali. Si tratta in ogni caso di brevi pamphlet redatti da “pugilatori a pagamento”. La stagione

dell’adolescenza produce prevalentemente “monografie tematiche”, cioè trattazioni che hanno

l’ambizione di stringersi intorno ad alcuni principi ancora parziali. Il panorama della letteratura, a

questo stadio del suo sviluppo, è simile al delta di un fiume con le sue isolette separate. Ogni isolet-

ta rappresenta una monografia, retta ciascuna da un diverso corpo di principi (è il caso del Malthus

della teoria della popolazione o il caso di numerosissimi scrittori italiani del ‘700: adolescenti della

scienza33). Nella stagione della scienza matura, infine, prevalgono pochi principi, capaci di rianno-

dare a sé stessi tutte le riflessioni: è il caso di Smith, che tutto collega nel principio del lavoro; è il

caso di Quesnay, che tutto allaccia nel concetto di prodotto netto34.

31 «La teoria del general gluts di Chalmers non fa che confermare la teoria degli sbocchi di Say» (B.E., 1, VIII, p. 19). 32 «Non basta piangere con eloquenza, come Geremia», fa dire Ferrara a Blanqui; «il solo mezzo possibile per com-

battere l’ineguaglianza è la libertà» (B.E., 1, VI, p. 38). 33 Di Malthus, nella prima serie della Biblioteca dell’Economista, sono presenti soltanto i Principii di economia (vol.

V, 1854), mentre il Principio di popolazione comparirà solo nella seconda serie. Ferrara, tuttavia, apprezza più il teorico

della popolazione che quello successivo dei Principi: «Malthus, come professore di tutta la scienza, perdette il luminoso

posto che, come autore del Principio di Popolazione, aveva occupato» (B.E., 1, V, p. 34). E tuttavia si scaglia contro le

monografie (il Principio di popolazione era, in realtà, una monografia): «è condannata a fallire quell’economia politica

che spieghi con una legge il modo con cui si produca la ricchezza, con un’altra il modo in cui si ripartisce, con una terza

il modo con cui si consuma […]. Questa molteplicità di criteri non può durare in Economia […]. Nei primordi della

scienza si poté ciecamente accettarla. Ma dopo un secolo […] dover ancora ondeggiare fra le incertezze del sapere eco-

nomico dei tempi di Genovesi, Verri e Beccaria […]» (B.E., 1, V, p. 38). 34 «Smith e Quesnay sono i soli che hanno pensato a trovare, in tanti sparsi frantumi, uno stipite comune» (B.E., 1,

III, p. 43).

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Dopo quanto detto sopra dovrebbe essere chiaro al lettore quali siano i tre parametri di giudi-

zio storiografico di Ferrara, rispetto agli autori inclusi nella prima serie della Biblioteca

dell’Economista: il criterio pratico (valutare l’economista secondo l’atteggiamento politico econo-

mico: liberista o protezionista), il criterio logico (giudicare le sue erronee teorie cercando tuttavia di

recuperarle con il metodo della “oscillazione convergente”) e il criterio evolutivo (inserire

l’economista di cui si esamina la produzione scientifica in uno dei tre stadi della storia del pensiero

economico).

Ferrara non ama studiare l’economista nel contesto che lo circonda. Piuttosto lo sradica dal

suo passato solo per giudicarlo e lo vaglia per mezzo di un corpo di giurati. Il giudizio diventa com-

plesso e l’autore da valutare si trasforma in un poliedro molteplice, le cui facce possono essere valu-

tate da arbitri diversi. È troppo severo dire che quella di Ferrara è una “schizofrenia storiografica”,

giacché un singolo autore può avere giudizi positivi e negativi nello stesso tempo? Talvolta la con-

traddittorietà del giudizio su un medesimo autore è perfino imbarazzante, come nel caso di un grup-

po di professori di economia, tutti al Collège de France: Say, Rossi, Chevalier. Secondo il primo

criterio pratico, essi appaiono campioni di libertà; economisti del tutto censurabili per l’erroneità e

la parzialità di alcune loro teorie, secondo il criterio logico; senza la qualità di appartenere alla fase

veramente scientifica della storia del pensiero economico (eccetto Say), secondo il criterio evoluti-

vo.

Say, per esempio, soddisfa il terzo criterio. Egli è ritenuto, addirittura, il fondatore della scien-

za moderna35, perché è riuscito a staccarsi dall’osservazione di interessi particolari. Say non si è vo-

luto immergere nelle contese fra “sistemisti”, faziosi difensori di contrapposti interessi, ma si è in-

nalzato, contemplando il combattimento dall’alto. Ha analizzato con distacco le poche fibre teoriche

racchiuse in posizioni nate per la difesa di interessi precisi, ne ha estratto il succo mettendo insieme

una scienza che non prescrive, ma che si offre alla consultazione dei politici e dei capi partito. Say36

è l’autore più lodato da Ferrara, se si eccettua Bastiat.

Say soddisfa, dunque, il terzo criterio, ma non quello logico, a causa di errori vari nascosti

nella sua teorizzazione. Say manca di una teoria della proprietà37, o, per meglio dire, la possiede so-

lo implicitamente. Ferrara non apprezza tale carenza e propone, a sanatoria, di integrarla con la teo-

ria della proprietà di Destutt de Tracy. Dall’oscillazione Say-de Tracy emergerà la più evoluta teo-

ria ferrariana.

35 Ferrara parla proprio di una scienza “moderna”, quasi a voler dire che se Smith può considerarsi fondatore di una

qualche scienza economica, può esserlo solo di quella antica, immatura. 36 «Ora, J. B. Say fu il primo e il solo che, spostando gli studi, mise come “fine” il “mezzo” (la teoria). Perché la mol-

teplicità dei sistemi, il loro urto, avevano convertito in un vivo bisogno l’analisi del fenomeno economico» (B.E., 1,

VII, p. 24). 37 «Say si sottrasse all’obbligo di dimostrarla» (B.E., 1, VII, p. 35).

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Say è detestabile anche per l’errore contenuto nella sua teoria del capitale38. Se nella teoria del

francese il capitale è colto solo nel suo momento genetico, nel suo emergere dal risparmio, e in

Smith il capitale è colto in altro momento, anch’esso parziale, quello dell’avvio della produzione fu-

tura, Ferrara ha buon gioco nel sostenere che queste due prospettive sono erronee perché parziali.

Questi errori possono essere ricevuti e ricompresi in una dottrina più vicina alla realtà, più vera. La

teoria è, ovviamente, quella di Ferrara, che distingue il concetto di “capitale in potenza”, conservato

col risparmio, da quello di “capitale in atto”, impiegato nella produzione successiva.

Say è criticabile, infine, per l’errore retorico, per aver dato alla scienza un’architettura fuor-

viante. L’economia politica – secondo Ferrara – non va disposta secondo lo schema “produzione,

distribuzione, consumo”, ma piuttosto secondo quello “economia individuale, sociale, internaziona-

le”. Say, in conclusione, è un poliedro di vetro con due facce luminose ed un’opaca39. E Ferrara

vorrebbe tirare a lucido anche quest’ultima. Perché? Perché le opacità possono fiaccare le forze per

combattere gli scrittori del sopruso, del monopolio, dell’interventismo statale.

Esaminiamo il caso di Rossi e Chevalier. Entrambi sono campioni del liberalismo, quindi be-

naccetti da Ferrara. Nel mondo liberale sono apprezzati. Il primo è Pari di Francia, il secondo ha

suggerito con successo a Napoleone III l’adozione del libero scambio40: anch’egli é Pari di Francia.

Per Ferrara essi superano la prova del criterio “pratico”, ma non quella del criterio “teorico”. La lo-

ro debolezza è palese.

Presentando Rossi41, Ferrara è anche imbarazzato dall’aura che circonda la sua figura, dopo la

sua fine tragica42. Rossi è un liberale, martire dell’economia politica, eppure Ferrara non può tacere

i suoi rilievi critici43: Rossi è un economista manicheo. Ecco l’argomentazione: se la scienza per lui

si differenzia in scienza pura ed applicata; se la prima esalta la libertà e la seconda la applica con at-

teggiamento accomodante; se la prima è per il liberoscambismo e la seconda lascia entrare la prote-

zione statale sul mercato del lavoro a proposito del lavoro dei fanciulli44, allora Rossi è un economi-

38 Secondo Ferrara «l’idea di capitale di Say ha una primitiva inesattezza che ha potuto viziare parti essenziali della

sua opera» (B.E., 1, VII, p. 84). 39 Certo che il giudizio di Ferrara appare perfino ingeneroso quando sostiene: «Temerei di esaurire la pazienza del let-

tore se mi estendessi a dimostrare parecchie altre lacune che mi sembrano lasciate da Say nelle nozioni fondamentali

della scienza» (B.E., 1, VII, p. 85). 40 Chevalier fu, assieme all’inglese Cobden, curatore e firmatario del trattato di libero commercio anglo-francese

(1860), tramite il quale molti precedenti ostacoli nel commercio fra i due stati vennero eliminati o ridotti. 41 Di Rossi la prima serie della Biblioteca dell’Economista offre il Corso d’economia politica (vol. IX, 1855). 42 Pellegrino Rossi (1787-1848), economista e uomo politico, visse a lungo in Francia e al Collège de France ottenne

la cattedra di Economia Politica, succedendo Say. Come ambasciatore francese presso la Santa Sede divenne consigliere

di Pio IX e, con la rivoluzione parigina del 1848, si trattenne a Roma, assumendo responsabilità di governo. Le sue scel-

te politiche attrassero l’ostilità delle forze democratiche e reazionarie e Rossi finì vittima di un attentato, all’indomani

del quale ebbero inizio i disordini che condussero alla proclamazione della Repubblica Romana (cfr. G. ANDREOTTI,

Ore 13. Il ministro deve morire, Milano, Rizzoli, 1991). 43 «Mi accingo a parlare di Rossi. L’argomento è difficilissimo a me che, scrivendo nell’interesse della scienza, sarò

costretto a rivelare demeriti» (B.E., 1, IX, p. 6). 44 «Rossi ammetteva il principio dell’intrusione governativa nella legge sul lavoro dei fanciulli» (B.E., 1, IX, p. 53).

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sta manicheo. Il manicheismo in economia genera incertezza, disorienta le menti; l’ambiguità frena

la lotta per la causa. Rossi sarebbe un buon lottatore, ma il suo cuore cede spesso nell’applicazione

e fornisce un messaggio incerto: non all’espansione del liberalismo nel mondo45.

Diversa è la debolezza di Chevalier46, che Ferrara definisce come reticenza teorica. Chevalier

è uomo di una sola idea: il potenziamento della produzione globale dipende dalle infrastrutture di

comunicazione e dall’istruzione professionale. Tutto il resto è vanità. L’insufficienza di innervature

teoriche è dunque il fondamento della sua debolezza argomentativa47 nello scontro fra liberisti e in-

terventisti.

A fronte dei chiaroscuri di Rossi e Chevalier, alta risplende invece, per Francesco Ferrara, la

stella di Bastiat48. Non è quella di Bastiat una mera forza teorica. In primo luogo è una forza “prati-

ca”. È dunque Bastiat l’eroe compiuto di Ferrara. Egli soddisfa simultaneamente tutti e tre i criteri

di giudizio. Bastiat soddisfa il criterio “pratico”, come fondatore e segretario dell’Association pour

la liberté des échanges, è l’ironico scrittore dei Sofismi economici contro gli interventisti. Ma non

basta: Bastiat osserva anche il criterio logico. Non conosce debolezze teoriche Bastiat. Per il terzo

criterio, quello delle fasi evolutive del pensiero economico, egli appartiene, senza dubbio, alla fase

più matura, quella scientifica.

Non bisogna pensare che l’immagine di Bastiat che ci restituisce Ferrara sia un’elegia precon-

cetta. Certo che la morte dell’economista francese è descritta minuziosamente, con sensibilità e .

L’invito a visitare la tomba dell’economista, morto a Roma e sepolto a San Luigi dei francesi, è

struggente. La morte prematura non è certo quella del Cristo, ma la filigrana di significato che

l’attento lettore potrà trovare in queste pagine ferrariane rimanda a quella. È una morte immatura, la

morte del “servo sofferente”, l’icona di un eroe che si offre in sacrificio per la salvezza del mondo

economico dai peccati dell’interventismo e del sopruso dei potenti49.

45 «Rossi fu infedele anche qui alla scienza (questione dei banchi) a cui doveva la gran parte del suo prestigio» (B.E.,

1, IX, p. 56). Il giudizio è perfino più duro: Ferrara accusa Rossi di aver abbandonato la causa per le onorificenze rice-

vute: «La fama medesima del suo nome non valeva qualcosa di più di una paria (pari di Francia) e di una Croce?»

(B.E., 1, IX, p. 53). 46 Nella prima serie della Biblioteca dell’Economista è pubblicato il suo Corso di economia politica (vol. X, 1864). 47 Bisogna riconoscere che Ferrara, prima di mostrare le insufficienze di Chevalier sul piano teorico, gli concede un

giudizio “pratico” molto lusinghiero: «Lo abbiamo incontrato, vigile sentinella e sveglio bersagliere, sotto la cittadella

del protezionismo economico […]. Egli appartiene a quell’aurea catena di illustri benefiche intelligenze che ebbe origi-

ne da Turgot» (B.E., 1, X, p. 6). E tuttavia, poco dopo, ne rimprovera la reticenza: «Ogni reticenza teorica rischia di di-

venire una debolezza […]. Ciò che contro Chevalier può essere lecito osservare non è l’erroneità dei principi, sarebbe

piuttosto il silenzio» (ivi, p. 87). 48 «La scienza che spesso si incarica di riparare le ingiustizie dei “portatori di interessi” […] aprì finalmente le braccia

al nome di Bastiat» (B.E., 1, XII, p. 14). «Se si rileggono i suoi scritti […] è impossibile che non si resti innamorati del

suo talento» (B.E., 1, XII, p. 32). 49 «Il sistema della libertà, il sistema nel quale si annichilisce la superbia dell’uomo, che si inchina rispettoso

all’azione del dito di Dio [sottolineatura di F., ndr], questo sistema é troppo invocato ormai perché il giorno del suo

trionfo possa lungamente tardare. E spunterà in Italia; e quel giorno gli italiani si ricorderanno di visitare in Roma la

chiesa di S. Luigi per benedirvi di nuovo le ceneri dell’economista francese». Si tratta di una pagina di grande intensità

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Che tipo di letteratura economica – ci chiedevamo all’inizio di questo saggio – è quella delle

introduzioni di Ferrara? È storia del pensiero economico? È agiografia di personaggi illustri? È let-

teratura critica sugli economisti? È novello “indice” che approva gli autori edificanti e condanna

implicitamente quelli non compresi nella raccolta; è la sua una lista di proscrizione? Una cosa è cer-

ta: la sua non è agiografia e neppure descrizione biografica, men che meno ricostruzione del conte-

sto storico dei singoli economisti. Ferrara non è un “mesologo”, semmai un “dogmatico”. Il genere

biografico pare essere molesto al nostro Ferrara: appena gli è possibile, affida ad altri il compito,

come nel caso di Smith50, oppure, come nel primo volume sui Fisiocrati, separa in due saggi distinti

il Ragguaglio (storia di contesto) e la Nota sulla dottrina dei Fisiocrati (storia della teoria).

Non è – si diceva – quella di Ferrara, agiografia. In un senso molto speciale è storia del pen-

siero economico. Infatti, se si guarda al suo primo criterio, quello “pratico” (libertà/intervento), Fer-

rara ci appare come il narratore di una storia pilotata da un potente ideale (quello della libertà eco-

nomica) e orientata da una precisa profezia. Narrando la sua storia, Ferrara crea l’identità di un

nuovo partito, lui che avversava i partiti; facendo la sua storia Ferrara fornisce al nuovo partito un

sistema di pensiero, lui che detestava i sistemi. Tale partito e tale sistema fanno di Ferrara un Ba-

stiat o un Cobden italiani. Ma non basta.

Se si guarda al suo criterio “logico” e che, in linguaggio più moderno, abbiamo rinominato

criterio della “convergenza oscillatoria”, Ferrara ci appare come uno storico dell’analisi. In verità

egli non assomiglia che parzialmente ai contemporanei storici dell’analisi. Eppure la sua preferenza

per la teoria moderna sull’antica e il suo pregiudizio sulla “primitiva imperfezione delle teorie del

passato” ce lo prospettano come un iniziatore della moderna storia dell’analisi, nella versione “re-

ceived view”. Ferrara non conosceva il termine. Eppure, senza esserne consapevole, egli fu uno spe-

ciale guida di quel particolare modo di fare storia che gli economisti come lui oggi prediligono.

In conclusione, il Ferrara della prima serie della Biblioteca dell’Economista è storico com-

plesso e difficile da decifrare. Rimane aperto, al termine di questo scritto, un interrogativo di cui

non potrò ora occuparmi: quale effetto ha avuto sul corso della storiografia italiana il suo modo sin-

golare di rivisitare il passato?

Sostenere, come si è fatto nelle pagine precedenti, che Ferrara sia uno storico del pensiero

economico, oltre che un economista, permetterà forse a questo irrequieto intellettuale siciliano di

eludere l’oblio del tempo. Ferrara economista è già stato visitato con sapienza e larghezza di mez-

emotiva, che tradisce un tono latamente esodico (Esodo). Una ricerca sul collegamento fra la cultura religiosa di Ferrara

e la sua teoria economica pare oramai improcrastinabile. 50 Il saggio introduttivo su Smith viene affidato a Blanqui (Giudizio del signor Blanqui intorno al saggio sulla Ric-

chezza delle Nazioni, in B.E., 1, II, pp. 48 ss.), il quale sostiene: «Tutto è mutato dopo l’opera di Smith». Ferrara giusti-

fica questa scelta editoriale in Avvertimento per la presente edizione, in B.E., 1, II, p. 72.

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zi51. Ferrara storico del pensiero economico non ancora: questa prossima e rinnovata esplorazione

sarà forse un modo per trattenere Ferrara, ancora per un po’, nel mondo dei vivi.

51 Da questo punto di vista, la letteratura sul Ferrara è molto ricca. Si possono ricordare, fra gli altri: R. FAUCCI,

L’economista scomodo. Vita e opere di Francesco Ferrara, Palermo, Sellerio, 1995; C. CASTELLANO, La libertà nel

pensiero e nell’azione di Francesco Ferrara, in “Economia e credito”, n. 1/2 1991; P. F. ASSO, P. BARUCCI, M. GANCI

(a cura di), Francesco Ferrara e il suo tempo: atti del Congresso, Palermo, 27-30 ottobre 1988, Roma, Bancaria editri-

ce, 1990; A. NARDI, La teoria dei bisogni di Francesco Ferrara: un confronto con Smith, Marx e Keynes, in “Rassegna

economica”, n. 4, 1990; F. CAFFÈ, Il neoliberismo contemporaneo e l’eredità intellettuale di Francesco Ferrara, in

“Rivista internazionale di scienze economiche e commerciali”, n. 1, 1985; P. TEDESCHI, La politica della statistica del

giovane Francesco Ferrara nel dibattito metodologico sulla scienza economica del primo Ottocento, Firenze, Universi-

tà degli studi, 1981; G. FRISELLA VELLA, Francesco Ferrara e la Scuola economica italiana, in “Giornale degli econo-

misti e annali di economia”, n. 7/8, 1961.