Eterna Melancolia - Analisi della parte VII de \"Il Gattopardo\" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

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1 ETERNA MELANCOLIA ANALISI DELLA PARTE VII DE IL GATTOPARDODI GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA a cura di Leonardo CANOVA In seguito al clamoroso successo editoriale de Il Gattopardo, pubblicato sul finire del 1958 da Feltrinelli, la critica tradizionalmente ostile ad ogni “best seller” ha cercato di ritagliarsi il suo cantuccio sicuro all’interno di un’opera che lascia al lettore più domande che risposte. A farne le spese furono in particolare le parti V, VII e VIII, spesso considerate appendici accessorie assolutamente non necessarie alla compiutezza del romanzo, vere e proprie mine a quei solidi pilastri che sono le unità aristoteliche; e certo chi ha voluto catalogare l’opera sotto l’angusta etichetta di romanzo storicodoveva trovarsi profondamente a disagio nel leggere la parte relativa alla morte del Principe di Salina, dove sembrano venir meno molte delle caratteristiche che avevano riguardato il resto del romanzo: in particolar modo quel realismo che, perlomeno superficialmente, cede il passo all’introspezione psicologica. Tuttavia, come Auerbach ha tentato di mostrare nella sua monumentale opera 1 , la nozione di realismo dipende totalmente dal concetto di realtà che un’epoca, una società, un individuo, hanno; nel sistema di pensiero lampedusiano, che, come vedremo, poggia costantemente su due piani, questa sezione doveva essere realistica perlomeno quanto lo furono le bolge infernali per Dante o il paesino di Aci Trezza per Verga. Non si può poi prescindere dal fatto che la parte che ci accingiamo ad analizzare fosse presente nel cantiere del romanzo fin da quando l’autore pensava ancora ad un “ciclo di novelle” (maggio 1956): una dimostrazione fin troppo evidente che per lui non doveva certo essere una mera appendice, ma piuttosto una componente essenziale della sua incessante ricerca sul “dopo”, sui destini storici ed individuali. Perciò è con la lente, piuttosto che col rasoio, che cercheremo di interpretare questo complesso primo epilogo del romanzo. 1 AUERBACH E., Mimesis, il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 2013

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ETERNA MELANCOLIA

ANALISI DELLA PARTE VII DE “IL GATTOPARDO” DI GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA

a cura di Leonardo CANOVA

In seguito al clamoroso successo editoriale de Il Gattopardo, pubblicato sul finire del 1958 da

Feltrinelli, la critica – tradizionalmente ostile ad ogni “best seller” – ha cercato di ritagliarsi il suo

cantuccio sicuro all’interno di un’opera che lascia al lettore più domande che risposte. A farne le

spese furono in particolare le parti V, VII e VIII, spesso considerate appendici accessorie

assolutamente non necessarie alla compiutezza del romanzo, vere e proprie mine a quei solidi pilastri

che sono le unità aristoteliche; e certo chi ha voluto catalogare l’opera sotto l’angusta etichetta di

“romanzo storico” doveva trovarsi profondamente a disagio nel leggere la parte relativa alla morte

del Principe di Salina, dove sembrano venir meno molte delle caratteristiche che avevano riguardato

il resto del romanzo: in particolar modo quel realismo che, perlomeno superficialmente, cede il passo

all’introspezione psicologica. Tuttavia, come Auerbach ha tentato di mostrare nella sua monumentale

opera1, la nozione di realismo dipende totalmente dal concetto di realtà che un’epoca, una società, un

individuo, hanno; nel sistema di pensiero lampedusiano, che, come vedremo, poggia costantemente

su due piani, questa sezione doveva essere realistica perlomeno quanto lo furono le bolge infernali

per Dante o il paesino di Aci Trezza per Verga. Non si può poi prescindere dal fatto che la parte che

ci accingiamo ad analizzare fosse presente nel cantiere del romanzo fin da quando l’autore pensava

ancora ad un “ciclo di novelle” (maggio 1956): una dimostrazione fin troppo evidente che per lui non

doveva certo essere una mera appendice, ma piuttosto una componente essenziale della sua incessante

ricerca sul “dopo”, sui destini storici ed individuali.

Perciò è con la lente, piuttosto che col rasoio, che cercheremo di interpretare questo complesso primo

epilogo del romanzo.

1 AUERBACH E., Mimesis, il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 2013

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1. MELANCOLIA, MORTE.

Il tema della morte, introdotto fin dalle prime parole del romanzo (“Nunc et in hora mortis nostrae.

Amen.” p. 312), percorre come un filo sottile tutto lo svolgimento della vicenda, tanto che c’è chi ha

sostenuto che Il Gattopardo sia un’opera “soprattutto sulla morte”3. In realtà esso contiene istanze

molteplici e variegate e volerne isolare una sola significa necessariamente trascurare le altre, anche

se è indubbio che la morte ed il personaggio ad essa più legato, Don Fabrizio, siano i veri protagonisti

di questa parte, intitolata per l’appunto “La morte del Principe”. Qui l’autore tenta il difficile – ed

innovativo – esperimento di narrare gli ultimi istanti di una vita dal punto di vista del moribondo:

esperimento certo non realistico in senso tradizionale ma sicuramente compatibile con ciò che Tomasi

di Lampedusa considerava realtà; del resto poi nessuno ha mai potuto descrivere gli istanti precedenti

la propria morte.

Durante questo processo Don Fabrizio porta a compimento quei tratti che durante tutta la vicenda si

erano intravisti ma che non si erano mai apertamente rivelati, resi opachi da un’ironia, spesso

derivante dallo sfasamento tra il punto di vista del narratore e quello del protagonista, che in queste

pagine si assottiglia fin quasi a scomparire.

Del Principe di Salina la critica ha messo in evidenza di volta in volta i caratteri di intellettuale, di

reazionario (forse proprio trascurando ciò che accade nelle pagine che stiamo analizzando), di

machiavellico qualunquista. A noi, in questo contesto, interessa parlare di quella che potremmo

definire “melancolia” di Don Fabrizio.

Usiamo il termine “melancolia”, in luogo del più comune “malinconia”, non per vuoto nozionismo,

ma in quanto è nostra precisa intenzione far riferimento non tanto alla tradizione di eroi e protagonisti

romantici, quanto piuttosto a quella presente nel panorama letterario del Novecento europeo (in primo

luogo l’Hans Castorp manniano), ma risalente fino alla teoria umorale di Ippocrate ed ai principi della

2 L’edizione di riferimento per il testo de Il Gattopardo è: TOMASI DI LAMPEDUSA, Il Gattopardo, edizione conforme al

manoscritto del 1957 a cura di Gioacchino Lanza Tomasi, Milano, Feltrinelli, 2013 3 CAPECCHI G., Il Gattopardo, tra storia ed eternità, ma anche Javier Mariàs.

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medicina medievale. Secondo questa teoria, del melancolico sarebbero tipici il pallore, la tristezza e

la riservatezza, la tendenza all’introspezione e al pessimismo, alla nostalgia e alla passività, il

sentimento di morte.

E infatti vediamo che il Principe di Salina viene descritto con “la pelle bianchissima e i capelli biondi”

(p.33) , è spesso portato alla riflessione ed alla tristezza anche in situazioni normalmente “felici” per

gli altri personaggi (“Per il Principe, però, il giardino profumato fu causa di cupe associazioni

d’idee” p.35 e la famosa battuta di Tancredi “Corteggi la morte?” p.224) ed è passivo di fronte ad

avvenimenti storici che pure lo riguardano da vicino; riconosce la presenza della morte in tutte le cose

come “l’unico filo rosso rasserenante durante buona parte della propria esistenza”4 e talvolta è

descritto esplicitamente come malinconico: “Si alzò; la malinconia si era mutata in umor nero

autentico” (p.220). Un vero “riottoso figlio della vita” (così Settembrini definisce Hans Castorp nella

traduzione di Der Zauberberg a cura di Renata Colorni5).

Analizzando poi una delle raffigurazioni più esemplari della

melancolia, Melancholia I di Albrecht Dürer (Figura 1), le analogie

si fanno ancora più evidenti. In questa incisione, come in molte

altre opere figurative sullo stesso tema, compare il cielo stellato (in

particolar modo una sorta di astro presago dell’Apocalisse) ed un

quadrato numerico, simbolo di ordine, le cui colonne e righe danno

sempre la stessa somma; la figura femminile giace passiva col volto

abbandonato sul dorso della sua mano.

A questi veri e propri simboli della melancolia corrispondono la

passione di Don Fabrizio per l’astronomia così come per i calcoli, grazie ai quali egli crede di

dominare un mondo ordinato ed eterno, opposto a quello caotico e in continuo decadimento in cui

4 G.P. SAMONÀ, Il Gattopardo, i racconti, Lampedusa, Firenze, La Nuova Italia, 1974 5 T. MANN, La montagna magica, a cura e con introduzione di Luca Crescenzi, traduzione di Renata Colorni, Milano,

Mondadori, 2010.

Figura 1

4

(fortuitamente, verrebbe da dire) si trova a vivere. “Il Principe, che ha i piedi nella storia, ha la testa

nell’eternità […] Il Principe sa che esiste la morte, fa i conti con questa, la corteggia, la contempla

quotidianamente osservando il cielo stellato”6; la realtà, per Tomasi di Lampedusa come per Don

Fabrizio, nasce dalla coesistenza di questi due piani: un piano storico, della vita, soggetto a

decadimento e legato alla terra, ed un piano eterno, della morte, sede di esseri immortali, legato al

cielo e al mare.

Il Principe è l’unico personaggio ad essere consapevole di questa duplice realtà e la sua melancolia

nasce proprio dallo sfasamento tra la volontà di mantenere integre le apparenze, dovendo

forzatamente vivere nel mondo storico, e la consapevolezza della sua caducità e pochezza rispetto a

ciò che viene dopo; dalla prospettiva del suo empireo stellare egli osserva e (raramente) agisce nel

mondo dei “vivi”, consapevole del fatto che l’unica eternità che agli uomini sia concesso conoscere

è quel “palliativo che promette di durare cento anni” (p.59) chiamato tradizione.

Di particolare interesse è poi il fatto che, alla stregua delle teorie medievali, la melancolia del Principe

porti con sé una sorta di pessimistica chiaroveggenza, come dimostrano le tante piccole profezie e

massime che spesso sono affidate alla voce, o perlomeno al punto di vista, di Don Fabrizio:

“Andava chiedendosi chi fosse destinato a succedere a questa monarchia che aveva i segni della morte sul volto. Il

Piemontese, il cosiddetto Galantuomo che faceva tanto chiasso nella sua piccola capitale fuor di mano? Non sarebbe

stato lo stesso? Dialetto torinese invece che napoletano, e basta.” (p.39)

“In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma Lei potrà forse vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro

voluttuoso vaneggiare: lo fanno tutti.” (p. 179)

“Tutto questo non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli...; e

dopo sarà diverso, ma peggiore” (p.185)

Al temperamento melancolico sono dunque direttamente associabili molti dei tratti caratteriali di Don

Fabrizio e, sebbene non si abbiano elementi sufficienti per poter palare della Montagna Magica e del

suo protagonista come di un modello7, forse proprio alla luce di questi potrebbe essere più semplice

comprendere la settima parte del romanzo.

6 CAPECCHI G., Il Gattopardo, tra storia ed eternità 7 Di Mann abbiamo un solo riferimento indiretto a La Morte a Venezia nelle lezioni di Letteratura Inglese. Cfr. TOMASI

DI LAMPEDUSA, Opere, I Meridiani, Milano, Mondadori, 1997, p.753

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2. TEMPO, ETERNITÀ.

In questa parte, infatti, si getta una luce più intensa sul personaggio di Don Fabrizio. Qui, il diaframma

che l’autore aveva posto tra il suo protagonista e il narratore viene quasi del tutto meno, e i punti di

vista di quelli che potremmo definire i due personaggi principali (appunto, il Principe ed il narratore)

si trovano quasi sempre a coincidere. L’ironia cede il passo alla rappresentazione diretta dei pensieri

del Principe, che scorrono sulla pagina in un vero e proprio stream of consciousness, segnalato anche

dall’assenza degli spazi tipografici che distinguono i vari “capitoletti” nelle altre parti. Flusso di

coscienza che echeggia forse maggiormente quello della Woolf – vengono in mente i passi di To the

Lighthouse analizzati magistralmente da Auerbach8 – che non quello di Joyce, dal momento che la

figura del narratore, per quanto marginalizzata ed insolitamente silenziosa, è comunque presente nelle

pause descrittive e in altri brevi, ma significativi, interventi.

In primo piano vi sono quindi i pensieri, il punto di vista non mediato (o quantomeno mediato il meno

possibile) del Principe di Salina, e ciò agisce sul trattamento particolare che viene riservato al tempo

in questa sezione; tempo che, se fino ad ora era stato rappresentato come sostanzialmente immobile

– il “tempo congelato” (p.244) di Donnafugata (ma anche di San Cono) – adesso si distende nel

passato e nel futuro seguendo i movimenti della mente del Principe durante i suoi ultimi istanti di

vita. La narrazione segue il pensiero del protagonista senza alcun tentativo di mettervi ordine: le

analessi non hanno un ordine cronologico ma appaiono come flashes memoriali che non hanno alcuna

funzione se non quella di scavare nella memoria del Principe, di rendere quell’ “esperienza umana

del tempo” che Lungani, trattando di Gadda, ha definito esprimersi “attraverso questi raccostamenti

repentini e folgoranti e questi urti, anche violenti, fra tempi ed eventi tra loro separati e, nel

contempo, attraverso la relazione che il discorso, con il suo presente, instaura tra quei tempi non più

8 AUERBACH E., Il Calzerotto Marrone, in Mimesis, il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Piccola Biblioteca

Einaudi, 2013

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presenti”9. Qui, diversamente rispetto a quanto accade in Gadda, tra i diversi tempi non c’è un urto

violento: essi coesistono all’interno della mente del moribondo senza alcun particolare attrito tra loro

e il tutto si amalgama perfettamente sulla pagina.

La sezione, infatti, dopo il riferimento temporale “statico” fornito dalla data “Luglio 1883”, si apre

con un flashback:

“Don Fabrizio quella sensazione la conosceva da sempre. Erano decenni che sentiva come il fluido vitale, la facoltà di

esistere, la vita insomma, e forse anche la volontà di continuare a vivere andassero uscendo da lui lentamente…” (p.235)

Dopo poco più di una pagina, nella quale il Principe medita sulla natura della morte (e della vita), si

torna repentinamente al presente

“Perché adesso la faccenda era differente, del tutto diversa. […] Era il mezzogiorno di un Lunedì di fine Luglio” (p.236)

dove il narratore riporta la data ed il luogo, come una sorta di ancora legato alla quale il protagonista

può spingere la mente indietro o in avanti. Il deittico “adesso” incalza in maniera quasi anaforica,

forse echeggiando quel “Nunc” con il quale si era aperto il romanzo; adesso però, lo spazio tra “Nunc”

e “in hora mortis nostrae” si è colmato.

Nelle pagine successive continuano ad alternarsi presente e passato con un ritmo incalzante, come

possiamo notare nel periodo che segue e in molti altri simili ad esso:

“Nella stanza bassa si soffocava: il caldo faceva lievitare gli odori, esaltava il tanfo delle peluches mal spolverate; le

ombre di decine di scarafaggi che vi erano stati calpestati apparivano nel loro odore medicamentoso; fuori dal tavolino

di notte i ricordi tenaci delle orine vecchi e diverse incupivano la camera” (p.240).

Il passato del ricordo si avvicenda con un presente puntuale dove gli eventi narrati sono

prevalentemente subiti dal protagonista, svuotato della sua erculea forza fisica e ridotto ad uno stato

larvale. L’erompere della vita fuori da Don Fabrizio viene reso grazie a metafore e similitudini, legate

perlopiù alla sfera dell’acqua, quali: “come delle particelle di vapor acqueo che esalassero da uno

stagno ristretto” (p.236) o “Era solo, un naufrago alla deriva su una zattera, in preda a correnti

indomabili” (p.241). E indomabile, del resto, è proprio quel presente al quale, come per tutto lo

svolgimento della vicenda, il protagonista non riesce a opporre una resistenza attiva, conformandosi,

9 LUGNANI L., Racconto ed esperienza umana del tempo, in “The Edinburgh Journal of Gadda Studies” , Issue no. 1,

EJGS 1/2001, p.3

7

anche in punto di morte, a dover morire come Principe di Salina, con tutta la mole di convenzioni e

rituali che ne conseguono:

“Perché a tutti succede così: si muore con una maschera sul volto” (p.239)

“Era il principe di Salina e come principe di Salina doveva morire, con tanto di prete accanto.” (p.242)

Stupirebbe, se già non avessimo analizzato la forma mentis del Principe, qui posta in primo piano,

trovare accanto al passato ed al presente anche insistiti riferimenti ad un futuro più o meno prossimo,

quelle piccole profezie, costantemente presenti nell’opera, che qui subiscono un’intensificazione. E

infatti Don Fabrizio presagisce in qualche modo ciò che accadrà nella parte successiva, 27 anni dopo:

“Il cuore gli si strinse, dimenticò la propria agonia pensando all’imminente fine di queste povere cose care” (p.241)

Intrecciando memoria e futuro fa poi previsioni su quelli che sarebbero stati i ricordi del piccolo

Fabrizietto e sul destino del proprio casato:

“Fabrizietto avrebbe avuto dei ricordi banali, eguali a quelli dei suoi compagni di ginnasio, ricordi di merende

economiche […] ed il senso del nome si sarebbe mutato in vuota pompa sempre amareggiata dall’assillo che altri

potessero pompeggiare più di lui”. (p.241)

Fino alle magistrali righe in cui si fondono assieme presente, passato e futuro, in una chiusa tipica

dello stile lampedusiano:

“Lui stesso aveva detto che i Salina sarebbero sempre rimasti i Salina. Aveva avuto torto. L’ultimo era lui. Quel

Garibaldi, quel barbuto Vulcano aveva dopo tutto vinto”. (p.242)

Questo andamento ondivago, quasi sinusoidale, del tempo segue quindi il flusso di pensiero del nostro

melancolico protagonista che, eternamente sospeso tra un passato di ricordi ed un futuro in cui ha il

potere di scrutare, si trova inerte di fronte ad un presente che sente estraneo e che, pur trovandosi

molto spesso ad odiarlo, subisce passivamente. L’immobilità, l’ordine che egli percepisce nel piano

eterno delle sue fredde stelle e che egli ambirebbe a proiettare anche nella vita di ogni giorno, non

appartengono a questo mondo. Emblematico, in questo senso, l’amuleto raffigurante “la testina di

Medusa con gli occhi di rubino” (p.50) che il Principe porta alla cravatta forse proprio come simbolo

della sua volontà di immobilizzare e che aggiunge un altro tassello a conferma della nostra

8

interpretazione; il rubino, infatti, compare anche nell’ode On Melancholy10 di John Keats

accompagnato alla dea degli inferi Proserpina, entità sospesa tra due mondi, che peraltro si riteneva

fosse in possesso proprio della testa di Medusa.

Viene dunque a configurarsi la figura di una sorta di dannato dantesco, cieco ed inerte di fronte al

presente ma costantemente consapevole del passato e del futuro: Don Fabrizio osserva la storia dalla

prospettiva dell’eternità, rimanendo sospeso tra di esse. Ma se da un lato, come egli stesso ammette

nella sesta parte del romanzo (“Non era lecito odiare altro che l’eternità” p.222), odia

quell’irraggiungibile eternità, dall’altro sembra anche in una certa misura parteciparvi.

3. IMMORTALITÀ, APOTEOSI.

Un dannato, dunque, ma certo un personaggio che aspira ad un’immortalità che non sia semplice

illusione, Don Fabrizio tende ad un mondo che egli considera più suo di quello in cui si è trovato a

vivere, il mondo del cielo e del mare che, nel romanzo, assumono tratti particolari. Ma Don Fabrizio

è anche indissolubilmente legato alla terra (elemento per tradizione legato al temperamento

melancolico) e da essa, in quanto Principe di Salina, non può e non riesce a staccarsi, rimanendo

sospeso, alla stregua di una mitologica Proserpina, tra i due mondi.

Complementarmente, però, al protagonista sono affidati tratti che lo accomunano, pur quasi sempre

sotto una luce ironica, alla stirpe divina. E dunque, oltre alle sue erculee dimensioni (“l’urto del suo

peso da gigante” p.32) ne viene sottolineato il “cipiglio zeusiano” (p.34) e il suo “signoreggiare su

uomini e fabbricati” (p.32); Don Fabrizio stesso afferma: “Vengono per insegnarci le buone creanze

ma non lo potranno fare, perché noi siamo déi” (p.182) mentre Padre Pirrone nel suo dialogo con

don Pietrino si premurerà di sottolineare che i signori

“vivono in un universo particolare che è stato creato non direttamente da Dio ma da loro stessi durante secoli di

esperienze specialissime, di affanni e di gioie loro; essi posseggono una memoria collettiva quanto mai robusta, e quindi

si turbano o si allietano per cose delle quali a voi ed a me non importa un bel nulla, ma che per loro sono vitali perché

poste in rapporto con questo loro patrimonio di ricordi, di speranze, di timori di classe.” (p.194)

10 Che l’autore cita direttamente nelle sue lezioni di Letteratura Inglese. Cfr, TOMASI DI LAMPEDUSA, Opere, I

Meridiani, Milano, Mondadori, 1997, p.972

9

che altro non è che un ulteriore attributo di divinità. Nel Principe

“orgoglio e analisi matematica si erano a tal punto associati da dargli l'illusione che gli astri obbedissero ai suoi calcoli

(come, di fatto, sembravano fare) e che i due pianetini che aveva scoperto (Salina e Svelto li aveva chiamati, come il suo

feudo e un suo bracco indimenticato) propagassero la fama della sua casa nelle sterili plaghe fra Marte e Giove e che

quindi gli affreschi della villa fossero stati piú una profezia che un’adulazione.” (p.34)

e, sebbene infine giunga a riconoscervisi (“sono della medesima risma” p.222), tuttavia, in un primo

momento, al ballo dei Ponteleone sono gli altri ad essere “effimeri esseri che cercavano di godere

dell’esiguo raggio di luce fra le due tenebre” (p.222) e “la reciproca stretta di quei corpi destinati a

morire” (p.222) è quella tra Angelica e Tancredi.

Don Fabrizio aspira a diventar “puro intelletto” (p.96), a separarsi dalla componente storica e

corruttibile alla ricerca di una vera immortalità. E qui, nella settima parte del romanzo, l’ultima a

vederlo protagonista, se ne descrive il processo.

Dopo l’analessi iniziale e la contestualizzazione temporale viene subito introdotto il motivo del mare

“compatto, oleoso, inerte, si stendeva di fronte a lui, inverosimilmente immobile” (p.236); immobile

proprio come le stelle fisse, teatro, come i cieli, dell’azione delle divinità: una sorta di pelagus

virgiliano. Don Fabrizio “aveva preteso di ritornare per via di terra” (p.237) – forse perché anche il

voler tornare via mare sarebbe stato “assurdo quanto mangiare una fetta di torta subito prima di un

desiderato banchetto” (p.240) – e di lui è messa costantemente in evidenza la debolezza fisica, in

contrasto con la possanza erculea che sempre lo aveva contraddistinto fino a questo momento: quel

corpo, che pur nella sua veste semidivina lo aveva tenuto incollato a questo mondo, sta lentamente

dissolvendosi. E qui, come ha giustamente notato Samonà, la tradizionale duplicità instaurata

dall’ironia viene sostituita dall’opposizione tra la “laidezza e dolorosità del concreto morire”11, così

lontana dall’impeccabilità della Morte del Giusto di Greuze, che viene a più riprese sottolineata:

“Nella stanza bassa si soffocava: il caldo faceva lievitare gli odori, esaltava il tanfo delle peluches mal spolverate”

(p.240)

“Il gigante sparuto che adesso agonizzava sul balcone di un albergo” (p.241)

11 G.P. SAMONÀ, Il Gattopardo, i racconti, Lampedusa, p.179

10

e la dolce sensazione di esser giunto, ormai, al tanto atteso banchetto; opposizione sottolineata anche

dal contrasto tra il silenzio esterno ed il fragore di acque che la vita produce nel suo impetuoso

fuoriuscire:

“fu allora che si fece sentire il fragore della cascata” (p.238)

Questo, contrariamente a quanto afferma Samonà, è un contrasto che tende a conciliarsi: non per

fusione, ma per prevalenza di uno dei due elementi. Con l’ingigantirsi del fragore nella mente del

Principe cessano proporzionalmente le preoccupazioni per il corpo e tutto ciò che è sensibile; Don

Fabrizio, con matematica precisione, comincia a fare il conto di ciò che della sua vita ha realmente

vissuto:

“Faceva il bilancio consuntivo della sua vita, voleva raggranellare fuori dall’immenso mucchio di cenere delle passività

le pagliuzze d’oro dei momenti felici: eccoli” (p.243)

In corrispondenza “Il silenzio fuori si richiuse, il fragore dentro ingigantì” (p.244) mentre il

moribondo porta a termine il suo calcolo:

“Nell'ombra che saliva si provò a contare per quanto tempo avesse in realtà vissuto. Il suo cervello non dipanava più il

semplice calcolo: tre mesi, venti giorni, un totale di sei mesi, sei per otto ottantaquattro... quarantottomila... √840.000.

Si riprese. Ho settantatré anni, all'ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto, un totale di due... tre al massimo. E i

dolori, la noia, quanti erano stati? Inutile sforzarsi a contare: tutto il resto: settant'anni.” (p.245)

A quel punto “non era più un fiume che erompeva da lui, ma un oceano, tempestoso, irto di spume e

di cavalloni sfrenati” (p.245): il narratore, in uno dei suoi pochi interventi diretti, ci ricorda le

sofferenze fisiche ma da un punto di vista esterno, con espressioni come “Doveva aver avuto un’altra

sincope”, “era il su rantolo ma non lo sapeva”, “credette di sorridere” (p.245). Esse non sono più

una preoccupazione per Don Fabrizio che, finalmente, ha raggiunto quelle gelide distese che per tutta

la vita aveva agognato, divenendo “puro intelletto armato di un taccuino per calcoli” (p.96).

“La familiarità col pensiero della morte, da lui (Il Principe) coltivata tanto a lungo, è stata come un

tentativo di non subirla, di non riceverla dall’esterno, dalla natura, ma di appropriarsela” 12 afferma

Derla, comprendendo che per Don Fabrizio la morte non è un qualcosa di subito ma di conquistato:

soltanto adesso ella potrà mostrarsi sotto le sembianze di una

12 DERLA L., Quel “povero principe”. Rilettura del “Gattopardo”, in “Aevum”, LXXXII, 2008, pp.802-816

11

“giovane signora; snella, con un vestito marrone da viaggio ad ampia tournure, con un cappello di paglia ornato da un

velo a pallottoline che non riusciva a nascondere la maliziosa avvenenza del volto. Insinuava una manina guantata di

camoscio fra un gomito e l'altro dei piangenti, si scusava, si avvicinava. Era lei, la creatura bramata da sempre che

veniva a prenderlo: strano che così giovane com'era si fosse arresa a lui: l'orario di partenza del treno doveva essere

vicino. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo, e cosí, pudica, ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella

di come mai l'avesse intravista negli spazi stellari.” (p.246)

È la Venere che tanto aveva osservato nelle sue notti trascorse a scrutare le stelle e che finalmente si

è decisa a concedergli “un appuntamento meno effimero, lontano dai torsoli e dal sangue, nella

propria regione di perenne certezza” (p.232); ma è anche La Sirena che, qualche anno dopo, Tomasi

di Lampedusa renderà protagonista di uno dei suoi racconti più emozionanti. Il Principe di Salina, in

quel mare pagano il cui fragore si è ormai del tutto placato, trova infine un’immortalità vera, della

quale finora non aveva sperimentato che un mero palliativo: un’immortalità “fisica” (Nigro) e

sensuale come quella di Rosario La Ciura, donata dal definitivo congiungersi con un essere divino.

Proprio come nel racconto La Sirena, il mare “dà la morte insieme all’immortalità”13: Don Fabrizio,

morendo, ascende al suo personale pantheon.

13 TOMASI DI LAMPEDUSA, La Sirena, in Opere, I Meridiani, Milano, Mondadori, 1997, p.408

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BIBLIOGRAFIA

OPERE

TOMASI DI LAMPEDUSA, Il Gattopardo, edizione conforme al manoscritto del 1957 a cura di

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