Cercare un centro di gravità permanente? (1999)

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1 DAMIANO PALANO CERCARE UN CENTRO DI GRAVITÀ PERMANENTE? FABBRICA SOCIETÀ ANTAGONISMO Questo articolo è apparso sulla rivista “Intermarx” (www.intermarx.com) nell’aprile 1999 Introduzione Al principio del 1990 i tiepidi ruggiti della Pantera studentesca sembrarono per un istante destare da un decennale torpore non solo l’Università ma tutta la società italiana. L’illusione troppo ottimistica e frettolosa di essersi lasciati definitivamente alle spalle la grigia rassegnazione degli anni Ottanta autorizzò le ipotesi più ardite e persino la speranza di trovarsi di fronte alla vigilia di un nuovo Sessantotto. Sull’onda di questo entusiasmo alcuni intellettuali radicali, provenienti da vari spezzoni del movimento antagonista degli anni Settanta, lanciarono dalle pagine del Manifesto un “Appello all’intellettualità di massa”, la cui ambizione non stava tanto nella pretesa di valere come carta fondativa dei conflitti a venire, quanto nella presunzione di avere individuato la figura centrale della nuova stagione di lotte. Benché l’espressione “intellettualità di massa” fosse generica e maldestra secondo gli stessi estensori del documento, essa veniva però considerata la più precisa e concreta per sciogliere il nodo problematico rappresentato dalle trasformazioni produttive del decennio precedente: Questa diffusa intellettualità, talvolta integrata in reti produttive avanzate, talaltra precaria e “dai piedi scalzi”, è il bandolo di tutte le matasse. Niente affatto marginale, essa sta al centro dell’accumulazione capitalistica, è il nervo scoperto di un modo di produzione in cui il sapere figura come il principale ingrediente (Bascetta, Bernocchi, Modugno 1990, p. 32).

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DAMIANO PALANO

CERCARE UN CENTRO DI GRAVITÀ PERMANENTE?

FABBRICA SOCIETÀ ANTAGONISMO

Questo articolo è apparso sulla rivista “Intermarx” (www.intermarx.com) nell’aprile 1999

Introduzione Al principio del 1990 i tiepidi ruggiti della Pantera studentesca sembrarono per un istante destare da un decennale torpore non solo l’Università ma tutta la società italiana. L’illusione troppo ottimistica e frettolosa di essersi lasciati definitivamente alle spalle la grigia rassegnazione degli anni Ottanta autorizzò le ipotesi più ardite e persino la speranza di trovarsi di fronte alla vigilia di un nuovo Sessantotto. Sull’onda di questo entusiasmo alcuni intellettuali radicali, provenienti da vari spezzoni del movimento antagonista degli anni Settanta, lanciarono dalle pagine del Manifesto un “Appello all’intellettualità di massa”, la cui ambizione non stava tanto nella pretesa di valere come carta fondativa dei conflitti a venire, quanto nella presunzione di avere individuato la figura centrale della nuova stagione di lotte. Benché l’espressione “intellettualità di massa” fosse generica e maldestra secondo gli stessi estensori del documento, essa veniva però considerata la più precisa e concreta per sciogliere il nodo problematico rappresentato dalle trasformazioni produttive del decennio precedente:

Questa diffusa intellettualità, talvolta integrata in

reti produttive avanzate, talaltra precaria e “dai piedi scalzi”, è il bandolo di tutte le matasse. Niente affatto marginale, essa sta al centro dell’accumulazione capitalistica, è il nervo scoperto di un modo di produzione in cui il sapere figura come il principale ingrediente (Bascetta, Bernocchi, Modugno 1990, p. 32).

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Nonostante la Pantera tornasse dopo pochi mesi di libertà

nella cattività paludosa che l’aveva vista sorgere, il dibattito che si era innescato in quei giorni non si esaurì e non cessò di proseguire negli anni. Le critiche che piovvero sull’essenziale e persino scarna ipotesi dell’intellettualità di massa si rivelarono molto più numerose e pesanti dei consensi. Non si trattava però di critiche inedite, elaborate sull’onda del movimento e della sua esperienza. Riaffioravano invece da un passato cronologicamente vicino ma politicamente estremamente remoto, ed insieme ad esse un fantasma tornava ad affacciarsi e ad inquietare le attese dei militanti radicali.

Più o meno dalla metà degli anni Settanta uno spettro turba infatti la serenità degli intellettuali di sinistra: lo spettro della ‘centralità’. Per quanto il tramonto della classe operaia fosse uno scenario già ambiziosamente evocato alla fine degli anni Cinquanta da parte dei profeti della ‘fine delle ideologie’, soltanto dalla prima grande ristrutturazione delle grandi fabbriche seguita all’Autunno Caldo l’incubo della perdita del Soggetto forte e ‘centrale’ del conflitto iniziò ad abbattersi sugli intellettuali italiani. Per gran parte dei marxisti ingenui e storicisti di formazione togliattiana e populista, la scoperta dell’imminente perdita delle mitiche radici fu il più efficace pungolo per l’abbandono totale e repentino di una mitologia a favore di un’altra: la ‘Classe Operaia’ irreale discesa dal Paradiso dell’Idealismo, termine intangibile di ogni speranza di socialismo, trovò paradossalmente il proprio erede nell’altrettanto irreale ‘Mercato’ glorificato dal nuovo corso neoliberista. Per quanti invece rimasero lontani dalle mitologie e dalle più ingenue mode culturali, il problema dell’esaurirsi della centralità operaia iniziò ad assumere i toni sempre più cupi della tragedia.

Via via che venivano emergendo nella società nuovi conflitti e nuovi movimenti, intellettuali ottimisti o eccessivamente precorritori dell’avvenire non esitavano a proclamarne la centralità finalmente svelata. Mentre però gli studenti, i giovani del Settantasette, il movimento femminista, gli ecologisti, insieme a tutti gli altri movimenti più o meno rilevanti raggiunti per un attimo dai riflettori della politica nazionale, smentivano invariabilmente le aspettative di cui

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erano stati investiti, le sconfitte della gloriosa classe operaia di fabbrica e soprattutto del mitico “operaio massa” gettarono un’ombra sempre più fitta di sconforto su militanti e intellettuali radicali.

Nonostante allora non si fosse pienamente compresa la portata effettiva dell’evento, l’occupazione di Mirafiori dell’autunno 1980 e la sconfitta operaia seguita alla marcia dei quarantamila quadri acquistarono il valore non solo simbolico di una cesura storica. Benché gli operai metalmeccanici non fossero scomparsi quel 16 ottobre 1980, il giorno della ‘resa’ sindacale, essi incominciarono proprio in quel momento a diventare ‘invisibili’. Il loro ruolo egemonico e la loro centralità politica iniziarono realmente a scivolare tra le macerie del passato recente, lasciando orfani e senza radici la sinistra tradizionale ed i suoi portavoce. Quanto più la crisi e la ristrutturazione diventavano drammatiche e permanenti, tanto più aumentavano le speranze della venuta di un nuovo soggetto centrale. Quanto più la situazione pareva priva di sbocchi, tanto più l’ansia della palingenesi sociale reclamava la discesa di una nuova centralità.

L’inquieta e quasi religiosa speranza di tanti è per molti versi comprensibile, ma ciò non toglie che essa presti il fianco a critiche anche piuttosto severe, di ordine politico e teorico. Per quanto abbia condiviso l’ansia per quella sospirata venuta, ritengo che questo atteggiamento debba essere condannato senza cautele. Questo articolo vuole affrontare criticamente proprio la concezione tradizionale della ‘centralità’ del soggetto conflittuale, considerando soprattutto la versione che di essa ha fornito la tradizione teorica dell’‘operaismo’ italiano1. Al tempo stesso, intendo anche proporre una nuova nozione di centralità fondata sulla categoria analitica di ‘antagonismo sociale’, più

1 Ovviamente intendo per ‘operaismo’ il filone teorico che si sviluppò

in Italia, a partire dai primi anni Sessanta, attorno alle riviste Quaderni rossi, Classe operaia, Contropiano, Potere operaio, e che ha avuto come principali esponenti Raniero Panzieri, Mario Tronti e Antonio Negri. Nonostante il termine ‘operaismo’ suoni oggi particolarmente paradossale preferisco continuare ad utilizzarlo, rinunciando ad espressioni forse più corrette ma meno comprensibili come, ad esempio, ‘composizionismo’ o ‘scuola della composizione di classe’; a dispetto della sua difficoltosa traducibilità in italiano, considero molto più soddisfacente l’espressione ‘autonomist marxism’, utilizzata tra gli altri da Cleaver (1979, 1996).

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pluralista ed in grado di cogliere sia l’estensione del dominio sia l’ampiezza delle strategie di lotta messe in atto dai diversi settori sociali.

Più in particolare, tenterò di mostrare come l’ansia della centralità che caratterizza molte odierne teorie del postfordismo, nonostante venga presentata come ‘soggettivista’, costituisca solo una variante del determinismo caratteristico del marxismo ortodosso (1) e sia costruita sulla base del mito della centralità operaia. Questo mito, il cui autentico padre è il Gramsci di Americanismo e fordismo (2), è costruito sulla concezione deformata e viziata del rapporto tra fabbrica e società che Mario Tronti espose fin dal 1963 (3) e che Antonio Negri riprese e sviluppò coerentemente con la propria teoria dell’operaio sociale (4); secondo questa idea, la fabbrica sociale sarebbe semplicemente una socializzazione integrale del processo di produzione immediato: tutto, compresa la classe, verrebbe inglobato nel capitale, con la conseguenza di un ritorno ad un nuovo feticismo tecnologico (5). In alternativa a questa concezione, nell’ultima parte (6) propongo di utilizzare la categoria analitica di ‘antagonismo sociale’, in grado di comprendere la fabbrica sociale come insieme di relazioni sociali capitalistiche e di dar conto, contemporaneamente, della forza dei processi di autovalorizzazione antagonista.

1. L’ansia della centralità: cicli di lotta e determinismo tecnologico

La corrente di teorici marxisti che in Italia va sotto il nome di ‘operaismo’, nel corso della sua storia, è stata spesso stigmatizzata dai molti critici per l’eccessivo ricorso all’analisi della tendenza, alla previsione di lungo periodo e, talvolta, alla profezia millenaristica. Sin dal primo apparire delle analisi dei Quaderni rossi, i tradizionalisti non tardarono infatti a segnalare come in realtà i giovani teorici raccolti intorno a Panzieri considerassero gli squilibri tra Nord e Sud ormai completamente superati e lo sviluppo economico italiano integralmente compiuto. Critiche di questo tenore seguirono costantemente le riflessioni di Panzieri, Tronti, Negri e degli altri operaisti, ma ciononostante proprio quella vocazione profetica che gli avversari polemici rimproveravano al loro

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metodo si rivelò la loro arma più affilata. Così, le ironie sul ‘sociologismo idealistico’ dell’“operaio massa”, dopo l’esplosione conflittuale degli anni Settanta, lasciarono il posto ad una vera e propria accettazione di quell’‘astrazione’ anche da parte delle scienze sociali ufficiali, dando luogo ad una sorta di legittimazione della vecchia eresia.

Il saggio di Romano Alquati (1962) sulla forza lavoro alla Olivetti di Ivrea - un testo in cui venivano esposte le idee della “composizione di classe” e dell’“operaio massa”, insieme ad altre nozioni che sarebbero risultate fondamentali negli anni seguenti - divenne ben presto un esempio per molti di coloro che, nauseati dalle logoranti discussioni sull’Unione Sovietica e sullo stalinismo, sentivano l’esigenza profonda di tornare a riflettere sulla realtà concreta di fabbrica. Dapprima sommessamente e poi con sempre maggiore nettezza iniziava ad emergere dagli scritti di Alquati, Tronti, Panzieri e dagli altri membri dei QR l’ipotesi che esistesse in Italia una nuova figura operaia, l’operaio massa, prodotto dello sviluppo economico accelerato del Dopoguerra e delle massicce migrazioni dal Sud verso le capitali industriali del Nord; l’operaio massa, tecnicamente dequalificato rispetto al proprio predecessore, l’operaio professionale, e politicamente privo di tradizioni, era però considerato capace di esprimere una radicalità conflittuale ed antagonista fortissima ed irriducibile: la rivolta di Piazza Statuto che nel ’62 vide protagonisti proprio questi soggetti ancora non ben definiti fornì una prima conferma dell’ipotesi operaista, ma la definitiva prova venne solo alla fine degli anni Sessanta.

Con l’ondata conflittuale culminata nell’Autunno Caldo del ’69 e cominciata almeno due anni prima, non soltanto l’ipotesi ‘sociologica’ avanzata dai QR fu definitivamente convalidata, ma la stessa ipotesi politica che i gruppi operaisti avevano costruito sull’operaio massa sembrò trovare una formidabile conferma. L’operaio semiqualificato della grande impresa, senza tradizioni politiche alle spalle, spesso di recente immigrazione e perciò sradicato rispetto alla cultura d’origine, sembrava effettivamente in grado sia di esprimere una insospettata potenza conflittuale, sia di essere effettivamente l’avanguardia politica del movimento rivoluzionario italiano. Al di là della sua consistenza numerica, esso in virtù della

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posizione che occupava nell’ambito del ciclo produttivo era il ‘soggetto centrale’ della lotta, la figura sociale emergente in grado di stabilire la propria egemonia politica, la propria direzione e la propria guida su tutto il movimento e su tutti i vari settori in lotta. La sua centralità si rivelava sia nella potenza d’attacco sia nella possibilità di agire da collante e da stimolo per la ricomposizione politica di classe. Come nella società fordista la grande fabbrica occupava il centro della strategia di sviluppo del capitale, così l’operaio massa veniva a rappresentare il cardine di ogni strategia conflittuale, opponendo la propria centralità politica a quella del capitale.

Se però l’ipotesi dell’operaio massa incontrò tutto sommato un accordo sostanziale tra i vari gruppi operaisti, una sorte ben diversa accompagnò invece la sua crisi. Dopo il 1972-73 infatti il ciclo di lotte operaie, e soprattutto quelle del settore dell’auto, entrò nella fase discendente: pur rimanendo elevati i livelli di conflittualità, la ristrutturazione e la repressione politica iniziarono gradualmente ad erodere le basi su cui il movimento aveva costruito la propria forza. Molti osservatori nella sinistra rivoluzionaria, pur consapevoli del processo in atto, preferirono non attribuire ad esso un peso eccessivo e, forse per leggerezza intellettuale, forse per malintesa fedeltà ai principi rivoluzionari, continuarono a consolidare teoricamente il mito della Classe Operaia, pur discostandosene sempre più marcatamente nella pratica quotidiana. Altri, più temerari o forse più incoscienti, cercarono invece di uscire dal vecchio quadro teorico, formulando ipotesi talora estemporanee, talora più consistenti, sulla possibilità di nuovi soggetti centrali. Vennero così coniate formule come ‘proletariato giovanile’, ‘operaio sociale’, ‘proletariato intellettuale’, formule che qualche volta valevano come semplici slogan per identificare un movimento composito altrimenti indefinibile, ma che altre volte avevano alle spalle solide e complesse elaborazioni teoriche che non sempre riuscivano a trovare una concreta applicazione politica.

L’ipotesi dell’‘operaio sociale’, formulata in modo compiuto da Antonio Negri e base della strategia politica di una parte dell’area autonoma nella seconda metà degli anni Settanta, era probabilmente la più ambiziosa tra le proposte avanzate in quel periodo. Il suo ’pregio’ e la sua ambizione

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stavano nella pretesa di aver individuato non solo uno dei soggetti conflittuali dello scenario sociale, ma il vero proprio ‘centro’ delle lotte future. In pratica, l’operaio sociale avrebbe dovuto scalzare l’operaio massa dal suo trono, venendo ad occuparne il posto centrale e conquistando l’egemonia politica su tutto il movimento antagonista. È qui inutile ricordare che la teoria di Negri incontrò più stroncature che sostegni e che le critiche si incentrarono quasi unanimemente sulla pretesa della centralità del nuovo soggetto. Forse è invece più interessante osservare che più o meno le stesse osservazioni polemiche, animate quasi sempre dal medesimo spirito, riecheggiano oggi a proposito della definizione dei caratteri del nuovo assetto sociale ‘postfordista’. I due schieramenti che sono emersi negli ultimi anni a questo proposito riprendono infatti per molti versi (anche se spesso con assai minore raffinatezza teorica) i toni del dibattito svoltosi alla fine degli anni Settanta intorno ai caratteri del cosiddetto operaio sociale.

Da un lato coloro che sostengono si sia prodotto un mutamento radicale, una vera e propria cesura, rispetto alla precedente fase taylorista-fordista-keynesiana, ritengono che stiamo assistendo al graduale emergere di un nuovo soggetto centrale egemone, che viene definito, a seconda delle diverse prospettive, come “lavoratore immateriale” (Lazzarato, Negri 1992, Lazzarato 1997), “intellettuale massa” (Virno 1990a) o “lavoratore autonomo di seconda generazione” (Bologna 1992, 1993, 1997). Dall’altro, si collocano invece i ‘critici’, le cui posizioni sono forse più eterogenee rispetto a quelle dei loro avversari, ma che sono sostanzialmente d’accordo nel rifiutare validità scientifica alla nozione di ‘postfordismo’ (sia perché troppo vaga, sia perché il Fordismo sarebbe per loro lontano dall’avere realmente esaurito le sue possibilità di sviluppo) e nel contestare che stia emergendo qualsiasi soggetto centrale paragonabile per forza e potenzialità all’operaio massa (Antignani 1990, Grisi 1998, Melotti 1996, Piccolo 1993, Turchetto 1995, 1996).

Di fronte al dilemma della nuova centralità, le due risposte che vengono fornite, benché diano l’impressione di una radicale e totale opposizione reciproca, condividono in realtà la stessa impostazione di fondo. Nonostante tutto, infatti, entrambe ripropongono l’estrema rigidità dello schema feticista

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secondo cui il livello economico e tecnologico determina linearmente le forme della politica e della soggettività. Gli autori delle ipotesi sul nuovo soggetto centrale quasi certamente respingerebbero le accuse di feticismo e di determinismo ricordando l’importanza sostanziale che essi, contro la tradizione del marxismo ortodosso, attribuiscono alla soggettività, ma questo non toglie che nello schema post-operaista come oggi viene riformulato il dato del salto tecnologico e dunque del passaggio al postfordismo appaia spesso come l’agente del mutamento della composizione di classe: come nella peggiore vulgata marxista, ad ogni nuovo livello dello sviluppo capitalistico corrisponde un nuovo assetto della sovrastruttura politica, o, in termini solo apparentemente più eleganti, il mutato assetto della fabbrica postfordista sposta il centro del conflitto dalla grande impresa alle reti della produzione sociale, evocando così la potenza di una nuova figura conflittuale egemone.

Benché nelle analisi sul Postfordismo condotte in questi anni dagli operaisti la speranza nella venuta di una nuova stagione di lotte abbia alterato l’originario schema metodologico e dipinto con toni di attesa messianica molte delle loro ipotesi, un certo feticismo deterministico si nascondeva in nuce già nelle prime indagini sulla composizione di classe. In uno dei principali saggi dell’Autonomist Marxism, scritto da Sergio Bologna alla fine degli anni Sessanta, veniva avanzata una delle ipotesi più pregnanti di quel filone di ricerca: considerando i caratteri del movimento dei consigli sorto in Germania dopo la Prima Guerra Mondiale, Bologna formulava l’ipotesi che esso fosse la manifestazione politica dell’operaio professionale, avanguardia delle lotte di quella fase e soggetto egemone sul resto della classe operaia. L’operaio professionale infatti, tecnicamente qualificato e posto nelle industrie meccaniche (cioè nei punti del più elevato sviluppo tecnologico del capitale), rappresentava il soggetto centrale dell’organizzazione sociale e perciò era in grado di sviluppare il più alto potenziale antagonista; la sua composizione tecnica, oltre ad essere il suo punto di forza, era però anche l’elemento che ne determinava le modalità organizzative e le aspirazioni politiche, cioè il modello consiliare e l’utopia autogestionaria:

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Laddove l’industria meccanica (generica, fine e di precisione), l’industria elettromeccanica e ottica erano più concentrate, laddove esisteva cioè all’interno della forza-lavoro complessiva una predominanza dell’operaio d’industria altamente specializzato, là il movimento dei consigli acquisterà le sue più forti caratteristiche politico-gestionali. [...] La posizione dell’operaio dell’industria meccanica altamente specializzato, di elevate capacità professionali [...] era la posizione materialmente più suscettibile ad accogliere un progetto organizzativo-politico come quello dei consigli operai, cioè di autogestione della produzione” (Bologna 1972, pp. 15-16).

Bologna sosteneva che, nonostante l’utopia

autogestionaria, spesso considerata come riformista, il movimento dei consigli avesse avuto un carattere effettivamente antagonista e rivoluzionario, in virtù del particolare assetto economico tedesco; ma, al di là di questo, il nodo su cui riflettere è costituito dal rischio cui Bologna in parte si esponeva definendo il rapporto tra sviluppo del capitale, sviluppo della classe operaia ed assetto organizzativo. Da un lato infatti, in un recupero soggettivista ed intelligente di Lenin, egli sosteneva che le leggi della scienza della rivoluzione dovevano fondarsi sulla giusta valutazione del “livello effettivo raggiunto dalla lotta” e dello “stadio di sviluppo del partito” (Bologna 1972, p. 35), subordinando così lo sviluppo organizzativo allo sviluppo della soggettività antagonista; dall’altro però, risolvendo la diatriba tra Lenin e Rosa Luxemburg sul partito sostenendo che essi si rivolgevano a due differenti tipi di classe operaia, egli finiva anche per costringere la scienza del partito ad inseguire le successive riorganizzazioni del sistema capitalistico: in questo modo gli argini dell’organizzazione non erano più quelli toccati dalla soggettività antagonista, ma quelli segnati dallo sviluppo del capitale e la figura egemone tornava ad essere definita, seppur negativamente, dall’assetto tecnologico della produzione.

L’ambivalenza che traspariva dall’articolo di Bologna sul movimento dei consigli restava irrisolta anche nell’ipotesi che reggeva la teoria e la pratica operaiste nell’età eroica degli anni Sessanta. L’operaio massa, considerato dai QR in poi come l’avanguardia di ogni lotta rivoluzionaria in Italia, pareva

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infatti talora ‘ontologicamente autonomo’ dal capitale, talaltra prodotto della nuova fase taylorista-fordista-keynesiana: in quest’ultima versione l’operaio semiqualificato delle grandi fabbriche del Nord protagoniste delle lotte della fine degli anni Sessanta sembrava infatti il prodotto involontario della controrivoluzione capitalistica, che, liberatasi dell’operaio professionale degli anni Venti, aveva paradossalmente dato corpo e anima ad un nemico ancor più spietato.

L’immagine che usciva da questa impostazione era quella del succedersi periodico di differenti cicli di lotte, ognuno dei quali legato alle fasi di ascesa, culmine e declino di una determinata figura operaia egemone situata nel cuore della produzione capitalistica. Perciò non deve stupire che, al principio del declino dell’operaio massa, gli sforzi maggiori degli operaisti si siano concentrati quasi istericamente sulla previsione dei caratteri che la figura protagonista del futuro ciclo conflittuale avrebbe posseduto. Altrettanto scontato era che la ricerca del ‘soggetto’, da giusta reazione alla concezione del ‘processo senza soggetto’ dello strutturalismo e del marxismo idealistico, abbia finito per travalicare i limiti della previsione, sfociando in un nuovo determinismo di segno invertito.

In questo senso, tra la prospettiva condivisa, ad esempio, da Maria Turchetto - la quale sostiene che non siamo entrati ancora in una nuova fase dello sviluppo capitalistico perché la rivoluzione micro-elettronica ha solo fornito la base per l’esplosione del nuovo mercato dei beni immateriali - e quella di chi ritiene che la nuova era telematica ci consegni un nuovo soggetto rivoluzionario, la differenza sta solo in uno scarto di ottimismo. In entrambi i casi il capitale resta autonomo, indipendente da quelle relazioni sociali di cui invece si nutre. Da una parte si attende l’emergere di un nuovo settore produttivo centrale, dall’altro si confida che il nuovo paradigma produttivo partorisca il soggetto egemone, anch’esso centrale. La storia della ‘tecnica’ e la storia dell’economia, il loro sviluppo e la loro crisi, sono sempre distinti e scissi dalle vicende e dalla realtà della classe e dei rapporti sociali.

Anche nel primo operaismo non mancavano alcune ambiguità, ma non avevano certo il peso che hanno assunto

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oggi: la scissione tra “composizione tecnica” e “composizione politica” nell’analisi della struttura della forza lavoro poteva per certi versi rievocare il feticismo della contrapposizione deterministica tra struttura e sovrastruttura, ma il costante riferimento alla concretezza storica e alla materialità della lotta e dei comportamenti consentiva che quell’apparente ambiguità trovasse coerente soluzione nella nozione di “composizione di classe”, in cui si riassumeva il livello di sviluppo della classe operaia. Così, per quanto il livello ‘tecnico’ e quello ‘politico’ potessero essere scissi analiticamente, il radicamento nella concretezza storica li rendeva metodologicamente indivisibili. Al contrario, tramutare la distinzione analitica in una separazione vera e propria, come alcuni post-operaisti oggi fanno, significa tornare, da un lato, all’analisi economica abbandonando la critica dell’economia politica e, dall’altro, a considerare la cultura operaia e proletaria come il momento sovrastrutturale della presa di coscienza e del passaggio dall’in sé al per sé della classe. Da una parte si approda cioè a Rostow e alla mitologia progressista degli stadi di sviluppo, dall’altro al gramscismo storicista degli anni Cinquanta.

Il mito operaista della centralità, oltre ad avere molti discendenti, ha anche molti padri, a volte dichiarati altre volte più nascosti. La riscoperta del giovane Lukács e del marxismo eretico degli anni Trenta (con l’esaltazione idealistica di una Classe Operaia come soggetto collettivo razionale) ebbe certo una palese influenza su Panzieri, Tronti e Negri, ma l’ansia della centralità è soprattutto italiana e torinese: il padre della ‘deformazione’ fabbrichista, del mito della centralità politica della grande industria e della sua classe operaia non è il Tronti di Operai e capitale, ma, paradossalmente, uno dei suoi nemici dichiarati, il Gramsci dei Quaderni del carcere.

Per quanto possa sembrare un’operazione paradossale o intellettualistica, per sciogliere il nodo del soggetto centrale postfordista dobbiamo tornare al Fordismo, rovesciando le fondamenta feticiste su cui, da Gramsci in poi, è stata edificata la sua mitologia progressista. La vulgata sul Postfordismo, dalla scuola della regolazione fino alle interpretazioni di Marco Revelli, non è figlia né dell’operaio massa né della sua sconfitta, ma discende dal sogno gramsciano di una società ‘razionale’ e dal suo graduale tramutarsi nell’incubo della società-fabbrica.

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2. La città fabbrica, ovvero “l’unico luogo americanista d’Italia” Con una lucidità che appare oggi sorprendente, negli anni Trenta Gramsci dalla cella del carcere in cui era tenuto prigioniero riuscì ad intuire molti dei caratteri della nuova epoca ‘fordista’, allora soltanto ai suoi stentati inizi. Nonostante la sua valutazione della controrivoluzione capitalistica allora in atto fosse sostanzialmente positiva, in virtù degli esiti progressisti che avrebbe dovuto avere, egli intuì con una certa completezza che “l’Americanismo e il fordismo risulta[va]no dalla necessità immanente di giungere all’organizzazione di un’economia programmatica” (Gramsci 1977, p. 435) e che i problemi che sarebbero derivati da questo mutamento non sarebbero stati di semplice ordine economico ma avrebbero investito anche la sfera culturale, quella morale e politica, cioè, in breve, quella che egli definiva come “societas hominum”.

L’imperativo che Gramsci riteneva centrale per l’affermazione dell’Americanismo anche in Europa e in Italia stava nel raggiungimento di una “composizione demografica razionale”, nel fatto che “non esist[essero] classi numerose senza una funzione essenziale nel mondo produttivo, cioè classi assolutamente parassitarie” (Gramsci 1977, p. 437). Ciò che Gramsci intravedeva (e che in definitiva bramava) era la complessiva ridefinizione della società in vista dell’ordine produttivo, l’eliminazione degli elementi parassitari in contrasto con la razionalità geometrica della fabbrica. Mentre gli Stati Uniti, per la loro mancanza di tradizioni, offrivano da questo punto di vista il terreno ideale per la fabbrichizzazione della societas hominum, “la vecchia e anacronistica struttura social-demografica europea” pareva a Gramsci quasi inconciliabile con “una forma modernissima di produzione e di modo di lavorare quale è offerta dal tipo americano più perfezionato, l’industria di Enrico Ford” (Gramsci 1977, pp. 436-437).

Se Torino, la città della Fiat, restava per Gramsci l’esempio più vicino di Americanismo in Europa, Napoli era invece la testimonianza dell’esistenza delle classi parassitarie: l’industriosità di Napoli “non [era] produttiva e non [era]

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rivolta a soddisfare i bisogni e le esigenze di classi produttive” (Gramsci 1977, p. 438), cioè, il fatto che l’industria produttiva (di merci) avesse un peso così scarso ed un ruolo così marginale rispetto alle altre attività economiche della città (commercio, servizi, ecc.) faceva sì che anche le classi “produttive”, capitalisti e operai, fossero marginali. Al contrario, la razionale distribuzione demografica (‘razionale’ in quanto strutturata sulla base degli imperativi della fabbrica), rendendo centrale l’attività industriale della produzione di merci, spingeva al centro del proscenio anche lo scontro delle due classi “produttive”.

Il termine del processo era l’assorbimento di tutte le attività della fabbrica e l’eliminazione di quelle ‘inutili’: in breve, la trasformazione della società in appendice della fabbrica, il suo assoggettamento totalitario ed integrale all’ordine della produzione. È da qui, da questa idea della “città fabbrica”, della razionalizzazione produttiva e dello sviluppo economico che nasce la concezione della centralità politica della grande fabbrica e della sua classe operaia, la convinzione che ogni ipotesi rivoluzionaria non possa che affidare il ruolo di avanguardia all’operaio della Fiat. Secondo la celebre formula gramsciana, sostanzialmente sottoscrivibile dagli operaisti degli anni Sessanta,

L’egemonia nasce dalla fabbrica e non ha bisogno

per esercitarsi che di una quantità minima di intermediari professionali della politica e dell’ideologia (Gramsci 1977, p. 442).

Gramsci sottolineava con particolare enfasi l’elemento

della razionalità produttiva cui avrebbe condotto l’Americanismo e condivideva anche gli sforzi per la creazione di una “nuova etica” e di un “nuovo tipo umano, conforme al nuovo tipo di lavoro e di processo produttivo” (Gramsci 1977, p. 442), perché nella sua visione storicistica del progresso questa nuova fase avrebbe creato le basi per lo scontro finale e per l’avvento del socialismo. Al di là di questa marcata connotazione lavoristica, che sarà invece rovesciata totalmente dagli operaisti degli anni Sessanta, è importante notare come l’ipotesi gramsciana sull’egemonia nel Fordismo sia fondata integralmente sull’idea dell’egemonia della fabbrica e della

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produzione immediata sulla società e sull’idea del progressivo assorbimento della società (circolazione) nella produzione. Strategicamente questo significava che il punto di vista migliore per interpretare e comprendere il mondo si avesse a Detroit o dietro i cancelli della Fiat di Torino.

Le suggestioni che Gramsci evocò in Americanismo e fordismo rimasero a lungo inascolate e, paradossalmente, vennero riprese soltanto all’inizio degli anni Sessanta proprio dai giovani teorici dei QR, in pieno boom economico e perciò con una ben diversa consapevolezza. Nonostante alcune analogie, il discorso operaista rappresentava una svolta radicale non solo rispetto al gramscismo ma anche rispetto al pensiero dello stesso Gramsci. Il rapporto di subordinazione fra societas rerum e societas hominum che emergeva dalle pagine del pensatore sardo veniva dissolto insieme alla distinzione tra economia e politica, tra lotta di classe e lotta culturale. Le categorie feticiste del marxismo ortodosso venivano rovesciate e lette dal punto di vista della classe operaia, della sua storia e della sua composizione. Nonostante tutto però, il centro del mondo rimaneva sempre a Torino, alla Fiat e alla porta numero 5. I Quaderni rossi scoprivano la lotta di classe dentro la fabbrica, sulla catena, ma fuori continuava a vivere sempre soltanto l’individuo atomizzato, consumista ed impotente di fronte allo spettacolo delle merci e alla seduzione del capitale. Se dentro la fabbrica il consumismo svelava il volto rivoluzionario della “rude razza pagana” senza valori ed ideali, desiderosa di incrementi salariali ed irrispettosa verso l’ascesa della produttività, nella società l’operaio si scopriva come l’inerme abitante del Mondo nuovo di Huxley (1991), vittima di un capitale onnipotente ed irresistibile.

In effetti la dicotomia fabbrica-società costituisce un termine essenziale della riflessione operaista fin dal suo sorgere e già dalle sue primissime elaborazioni traspariva quel nodo problematico che, irrisolto e spesso neppure intravisto, sta ancora oggi alla base delle tante ambiguità proprie delle varie ipotesi sul nuovo soggetto centrale.

Sul secondo numero dei Quaderni rossi, uscito nel 1962, Tronti tracciò un quadro di riferimento teorico che sarebbe rimasto fondamentale per tutta l’esperienza successiva e che tentava di comprendere, “dal punto di vista operaio”, il

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processo di terziarizzazione e di proletarizzazione dei ceti medi che incominciava allora a offrire le prime anticipazioni. L’obiettivo polemico principale dei QR erano ancora le teorie allora imperanti sulla “società opulenta” e sulla “fine delle ideologie”, che, pur con toni eterogenei, concordavano che il raggiungimento di un livello elevato di benessere e l’innalzamento dell’istruzione media, prodotti del virtuoso processo di sviluppo economico postbellico, avrebbero gradualmente contribuito ad eliminare dalle società industrializzate gli accesi conflitti sociali e le contrapposizioni ideologiche della prima metà del Novecento. Corollario di questo teorema progressista era che il diffondersi di impieghi ‘intellettuali’, come quelli del terziario, a scapito dei classici lavori di fabbrica avrebbe col tempo eliminato tanto l’“alienazione” del lavoro (intesa come ‘noia’ e assenza di partecipazione all’attività lavorativa) quanto la lotta di classe: evidentemente l’argomentazione si presentava come particolarmente insidiosa per i giovani teorici operaisti.

Panzieri nel suo seminale articolo sull’uso delle macchine nel neocapitalismo (1961) aveva già attaccato nelle sue fondamenta il feticismo progressista per la tecnologia, ma il fenomeno della progressiva ‘socializzazione’ del capitale rimaneva ancora inesplorato e così Tronti, rileggendo Marx, tentò di offrire una prima soluzione alla questione. Tutto il discorso di Tronti si fondava sulla dicotomia irresolubile tra Fabbrica e Società: la stessa sostanziale distinzione, ripresa ovviamente da Marx, tra ‘processo lavorativo’ e ‘processo di valorizzazione’ veniva ricondotta alla contrapposizione di fabbrica e società. Se la logica capitalistica (ed anche la logica espositiva adottata da Marx nel Capitale) li vedeva e li voleva uniti come un’unità organica, ciò non significava che essi lo fossero necessariamente: al contrario, il punto di vista operaio pretendeva che ognuno di essi venisse inteso come momento unitario, perché, se nel processo di valorizzazione l’operaio era impotente e atomizzato, nel processo lavorativo esso non era più mera forza lavoro inerme e passiva, ma elemento dinamico e antagonista. Mentre il capitale voleva vedere i due processi come armonici, tentando di integrare la forza lavoro nel capitale come elemento passivo, li si doveva intendere come contrapposti e conflittuali:

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Nella mistificazione borghese dei rapporti

capitalistici, questi due processi ultimi camminano insieme e parallelamente, appaiono ambedue come oggettivi e necessari. Si tratta invece di vederli distinti nella loro unità, fino al punto da contrapporsi l’uno all’altro come processi contraddittori che si escludono a vicenda: leva materiale di dissoluzione del capitale piantata nel punto decisivo del suo sistema (Tronti 1962, p. 39).

In questo quadro teorico, secondo cui la società si

esauriva nel mercato, l’inversione prospettica, la rivoluzione copernicana di Tronti si risolveva nel semplice rovesciamento della prospettiva canonica delle scienze sociali: in Tronti il momento particolare, la fabbrica, diventava il paradigma antagonista del momento generale ed il punto di osservazione ‘parziale’ ma ideale per la demistificazione. Rispetto al marxismo ortodosso il salto era immenso, ma il rovesciamento, se riusciva a ricostruire un modello antagonista della gerarchia di fabbrica, si limitava ad assumerne per poi rifiutare l’immagine della società dipinta dalla sociologia borghese.

Proseguendo su questa linea, Tronti giungeva a formulare una suggestiva ed entusiasmante lettura della fabbrichizzazione della società: solo con il passaggio dalla produzione del plusvalore assoluto a quella del plusvalore relativo, iniziava ad affermarsi (come già aveva detto Marx) il modo di produzione capitalistico e, soprattutto, solo con questo passaggio iniziava a trasformarsi il rapporto tra la produzione e le altre sfere. Utilizzando il quadro tracciato da Marx nell’Introduzione del ’57 (Marx 1968, I, pp. 3-40), Tronti sosteneva che,

quanto più avanza lo sviluppo capitalistico, cioè

quanto più penetra e si estende la produzione del plusvalore relativo, tanto più necessariamente si conchiude il circolo produzione - distribuzione - scambio - consumo, tanto più, cioè, si fa organico il rapporto tra produzione capitalistica e società borghese, tra fabbrica e società, tra società e Stato (Tronti 1962, p. 51).

A questo stadio di sviluppo, quando il rapporto tra fabbrica e società si fa più stretto ed organico, paradossalmente la fabbrica

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sembra sparire: si tratta evidentemente del processo di terziarizzazione ed ‘intellettualizzazione’ del lavoro di cui Tronti intendeva svelare il carattere contraddittorio ed il lato oscuro.

Quanto più il rapporto determinato della produzione capitalistica si impadronisce del rapporto sociale in generale, tanto più sembra sparire dentro quest’ultimo come suo particolare marginale. [...] Quando il particolare si generalizza, si universalizza, appare rappresentato dal generale, dall’universale. Nel rapporto sociale di produzione capitalistico, la generalizzazione della produzione si esprime come ipostatizzazione della società. Quando la produzione specificamente capitalistica ha tessuto ormai l’intera rete dei rapporti sociali, appare essa stessa come un rapporto sociale generico (Tronti 1962, p. 49).

Nonostante la società appaia come momento generale e

tenda ad offuscare il particolare della fabbrica, in realtà è proprio quest’ultima ad estendersi e ad assorbire e funzionalizzare tutto l’ambito esterno. Per Tronti, come d’altronde per tutto il gruppo dei QR, sviluppo capitalistico significava infatti principalmente fabbrichizzazione della società:

Al livello più alto dello sviluppo capitalistico, il

rapporto sociale diventa un momento del rapporto di produzione, la società intera diventa un’articolazione della produzione, cioè tutta la società intera vive in funzione della fabbrica e la fabbrica estende il suo dominio esclusivo su tutta la società (Tronti 1962, p. 51).

In questa frase c’è tutto l’operaismo successivo, con pregi,

intuizioni, equivoci ed errori. In questo passo, breve e piuttosto schematico, ci sono in nuce tanto gli approdi dell’“autonomia del politico” quanto le tesi negriane sull’operaio sociale e quelle più recenti sul lavoro immateriale.

Rispetto a Gramsci il capovolgimento era quasi totale, ‘copernicano’, appunto: come ha osservato Sergio Bologna, i “Quaderni rossi avevano scaraventato l’egemonia sotto le presse di Mirafiori” (Bologna 1974, p. 2). I due livelli della societas hominum e della societas rerum venivano ridotti ad uno solo e lo

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spazio dell’egemonia, lo spazio del ‘politico’, era eliminato ed assorbito completamente nel livello della fabbrica. In modo ancor più significativo, il recupero del concetto scientifico di fabbrica, ripreso dalle intuizioni del giovane Lenin di Lo sviluppo del capitalismo in Russia, aveva consentito di non cadere nelle trappole del fabbrichismo e nella mitizzazione di una determinata figura storica della classe operaia (accortezza che invece non dimostrò mai il lavorista e produttivista Gramsci).

Nonostante tutto questo, la linearità razionale e progressiva dell’Americanismo dipinto da Gramsci continuava però a rivivere, pur mutata di segno, nell’ipotesi trontiana della fabbrica sociale. Ad accomunare due ipotesi così diverse era proprio il mito della centralità della fabbrica, che in entrambe le versioni continuava a valere non solo come cardine attorno al quale girava tutta la società esterna, ma anche come unità in grado di fagocitare ed assorbire tutto il resto. Il mito della centralità politica della fabbrica era il portato dell’implicito ‘produttivismo’ trontiano e comportava che - riprendendo le stesse categorie utilizzate da Marx (1968, pp. 3-40) - lo stringersi dei momenti della produzione, della distribuzione, dello scambio e del consumo avvenisse sostanzialmente come estensione del primo momento a danno degli altri. Se Marx aveva distinto due diversi livelli a cui considerare la produzione, uno ‘particolare’, accanto agli altri momenti particolari (distribuzione, scambio e consumo), ed uno ‘generale’, che comprendeva sia la produzione come momento singolo sia gli altri tre in un’unità organica, Tronti eludeva invece la distinzione e considerava perciò la ‘fabbrichizzazione’ come generalizzazione del momento particolare della produzione. Da ciò discendevano tutta una serie di elementi che limitavano fortemente le sue intuizioni. In primo luogo, l’estensione della fabbrica veniva considerata come “riduzione di ogni lavoro a lavoro industriale” (Tronti 1962, p. 53) e perciò come generale salarizzazione, con il risultato che ogni lavoro di riproduzione non salariato veniva di fatto escluso dal campo dell’analisi. In secondo luogo, lo spazio del politico non era eliminato e lo Stato pianificatore veniva inteso propriamente come gestore diretto dello sviluppo economico e come agente della razionalizzazione e dell’eliminazione degli squilibri tra le varie zone geografiche (Tronti 1962, p. 72).

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Soprattutto, però, l’assunzione della centralità della fabbrica, cioè della produzione come momento particolare, faceva sì che ogni ipotesi politica rimanesse ancorata alle mura della fabbrica, al luogo della produzione immediata ed alle prospettive della sua estensione. Ricalcando paradossalmente le orme di Gramsci, con quell’opzione teorica,

si era inchiodato ogni processo di rinnovamento del movimento operaio, ogni rottura strategica con le vecchie organizzazioni, ogni ricostruzione di una storia operaia, ai lavoratori della Fiat ed al rapporto città - fabbrica di cui Torino è espressione (Bologna 1974, p. 3). Ancora una volta si era preso come esempio e come

modello per ipotizzare tendenze e sviluppi futuri l’unico luogo “americanista” d’Italia e l’unico luogo in cui la “composizione demografica razionale” di cui aveva scritto Gramsci trovava rispondenza nella realtà concreta. Torino e la Fiat erano la rappresentazione materiale tanto dell’Americanismo di Gramsci quanto della fabbrica sociale di Tronti, ma in entrambi i casi l’ipotesi della centralità politica della grande fabbrica e della sua classe operaia, proprio perché formulata sulla base di quel modello, costituiva una forzatura teorica fin troppo evidente e dalle conseguenze deleterie. A Torino negli anni Sessanta il ‘livello politico’ ed ogni autonomia sociale erano effettivamente assorbiti dentro il livello della fabbrica, ma ciò costituiva un caso del tutto particolare (che presupponeva peraltro un bacino di sottosviluppo a cui approvvigionarsi) e costruire su di esso una ipotesi teorica forte ed una strategia politica rivoluzionaria rappresentò un errore per alcuni versi gravissimo. Elevare Torino e la Fiat a centro del conflitto servì finché l’operaio massa fu in grado di svolgere un ruolo di avanguardia, ma a lungo andare il mito della fabbrica totale si svelò come chiusura totalitaria sugli orizzonti multiformi dell’antagonismo sociale.

La concezione trontiana della fabbrica come unico centro del possibile antagonismo operaio aveva come risvolto necessario l’idea della società come luogo dello scambio, come momento a-conflittuale in cui gli operai si muovevano come atomi: a differenza di altri teorici, per Tronti la classe esisteva anche prima del suo ingresso in fabbrica, nella società, ma dato

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che in questo ambito non esisteva un rapporto salariale tra classe operaia e capitalisti, era di fatto impossibile qualsiasi ipotesi di conflitto e, a maggior ragione, qualsiasi eventualità di ricomposizione.

Centralità della fabbrica e della produzione immediata significava per Tronti, in fondo, centralità del salario: perciò, dato che egli non ammetteva altro tipo di lotta se non quella sul salario diretto, era scontato che venisse a contrapporre irriducibilmente la società, luogo dello scambio, alla fabbrica, luogo della relazione salariale e produttiva. Anche nel momento più alto dello sviluppo capitalistico, per Tronti fabbrica e società, benché integrate fino all’indistinzione, continuavano così a contrapporsi reciprocamente: secondo la celebre formula contenuta in Operai e capitale, “uno dei punti più alti e maturi della lotta di classe sarà dato proprio dallo scontro frontale tra la fabbrica come classe operaia e la società come capitale” (Tronti 1966, p. 235), nel senso che anche al più elevato grado di fabbrichizzazione, fabbrica e società non cessano di contrapporsi, o meglio, non cessano di contrapporsi i due modelli di relazione sociale che secondo Tronti le istituiscono, e cioè, da un lato il rapporto salariale della produzione immediata, dall’altro il rapporto di scambio mercantile fondato sul denaro.

Da questa irresolubile contrapposizione nasceva anche il blocco feticistico della riflessione trontiana: l’incapacità di cogliere la differenza tra il livello particolare della produzione immediata e quello generale della produzione come unità organica dei momenti parziali, spingeva Tronti, da un lato, a riassorbire la politica integralmente nella lotta economica e salariale della fabbrica, dall’altro, sul piano sociale, verso l’alternativa tra la passività e la restaurazione di un livello di mediazione - ipotesi quest’ultima che egli avrebbe sviluppato negli anni Settanta.

3. Gli indiani di Mirafiori e la società

Il ciclo di lotte che nella primavera del 1973 aggredì in tutta Europa il settore dell’auto sembrò confermare in un primo momento la correttezza e la lungimiranza delle tesi sull’operaio

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massa. Se infatti l’emergere del “partito di Mirafiori”, cioè di un’autonomia operaia radicale e totalmente indipendente rispetto alle ‘avanguardie esterne’, aveva scagliato un risoluto colpo di piccone contro il modello organizzativo ultraleninista attorno al quale si erano costituiti i gruppi operaisti dopo l’Autunno Caldo, l’ipotesi centrale dell’operaio massa come avanguardia e centro della lotta di classe continuava a reggere e pareva anzi corroborata dai nuovi elementi. Mirafiori e la mitica porta numero 5 continuavano nonostante tutto a rimanere il centro dell’universo e soprattutto il punto di vista privilegiato per comprendere la società.

In realtà però l’occupazione di Mirafiori del marzo ’73 palesò uno iato profondo rispetto alle lotte del ’69: benché i giovani operai che si legavano il fazzoletto rosso intorno alla fronte e, battendo sui bidoni trasformati in tamburi, lanciavano urla senza senso, non fossero, a livello di struttura tecnica della forza lavoro, troppo distanti da quelli di quattro anni prima, la loro ‘storia politica’, la loro socializzazione ed i loro comportamenti erano abissalmente lontani. Nonostante tutto si trattava ormai di una ‘nuova’ composizione di classe. Come hanno scritto Nanni Balestrini e Primo Moroni,

L’occupazione di Mirafiori costituisce la prima

manifestazione del proletariato giovanile in liberazione, che costituirà il reticolo sociale portante delle lotte degli anni seguenti, fino all’esplosione del 1977 (Balestrini, Moroni 1988, p. 435).

Così, paradossalmente, gli indiani di Mirafiori, mentre

parevano confermare la validità del mito della Fiat e di Torino come paradigma totalizzante, costituivano in realtà la prima crepa nell’architettura geometrica della centralità operaia. L’unico luogo “americanista” d’Italia incominciava a non essere più il modello sulla cui base ipotizzare tendenze e sviluppi politici.

Proprio la cesura del marzo ’73 e la crescente consapevolezza del declino dell’operaio massa, spinsero alcuni eredi dell’operaismo degli anni Sessanta a formulare nuove ipotesi. È più o meno in questo periodo che, insieme alla breve fortuna del ‘proletariato giovanile’, si iniziò a parlare con una certa convinzione dell’operaio sociale. Negri lo fece a partire dal

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1975 e negli anni seguenti questa ‘nuova figura sociale egemone’ divenne il punto focale della sua elaborazione teorica e delle sue ipotesi politiche. L’espressione ‘operaio sociale’ però non venne coniata da Negri, perché, come ha osservato Steve Wright (1996), Romano Alquati aveva utilizzato il termine già qualche tempo prima, nel corso della ricerca che egli condusse sui rapporti tra università e terziarizzazione, per identificare quel nuovo soggetto politico, altamente scolarizzato e profondamente diverso dall’operaio massa, che attraversava il processo di progressiva proletarizzazione e massificazione del lavoro ‘intellettuale’ (Alquati 1976, Alquati 1978).

Al di là delle dispute filologiche e delle necessarie distinzioni tra l’ipotesi di Alquati e quella di Negri, è piuttosto interessante ricordare che in realtà a parlare per la prima volta, almeno nel contesto dell’operaismo italiano, di ‘operaio sociale’ era stato proprio Mario Tronti, che dieci anni prima, nel 1965, in Operai e capitale, aveva tradotto in quel modo l’espressione gesellschaftlicher Arbeiter ripresa dal Primo Libro del Capitale (Marx 1989a, p. 374). Riferendosi alla lettura marxiana dello sviluppo della cooperazione sociale produttiva da parte del capitale, Tronti mirava a sorreggere la propria tesi secondo cui, con lo sviluppo del modo di produzione specificamente capitalistico (fondato sull’estrazione di plusvalore relativo) non solo il modo di lavorare mutava radicalmente, ma la stessa forza lavoro, prima esterna ed indipendente, veniva integrata nel capitale:

È solo la produzione di capitale che rende possibile

il processo di socializzazione produttiva della forza-lavoro, la nascita della figura storica dell’operaio sociale, come forza produttiva sociale del lavoro, incorporata nel capitale (Tronti 1966, p. 147).

Nonostante qui parlasse di ‘operaio sociale’

(gesellschaftlicher Arbeiter) e di socializzazione del lavoro, la contrapposizione irresolubile tra fabbrica e società che aveva animato Tronti fin dal ’62 non era sciolta: la Gesellschaft restava sempre il luogo dello scambio e della passività operaia, e nell’espressione ‘operaio sociale’ era già presente quell’ambivalenza sostanziale che sarebbe stata ereditata da Negri dieci anni dopo. Per Tronti la ‘socializzazione’, lo

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sviluppo della cooperazione sociale, rimaneva un processo interno alla fabbrica, un movimento che interessava unicamente la logica interna al momento della produzione immediata; la ‘socializzazione’, lungi dall’affievolire lo scontro mortale tra fabbrica e società, lo acuiva ulteriormente, perché se prima la classe operaia conservava una autonomia anche nella società, ora, con lo sviluppo dell’operaio sociale, essa scompariva dalla società ed esisteva soltanto nella cooperazione sociale produttiva.

Tutta l’argomentazione di Tronti si muoveva attorno alla dicotomia fabbrica-società e la figura dell’operaio sociale, che avrebbe dovuto risolvere teoricamente il dilemma dando concretezza ai processi di ‘fabbrichizzazione’ crescente e di lavorizzazione di ogni ambito sociale, rimaneva imprigionata nella trappola di fondo: la contrapposizione tra fabbrica e società si traduceva in una contraddizione tra ‘socializzazione’ e ‘società’, in cui l’uso di una terminologia ambigua riusciva a dare la parvenza di una soluzione coerente, mentre l’opposizione logica di due diversi modelli di legame sociale veniva occultata sotto il velo illusorio di un riuscito gioco di prestigio.

Negri ereditò integralmente questa contraddizione e, nonostante alcune intuizioni più che significative, non riuscì mai a liberarsene compiutamente. Come ho accennato, la sua vera e propria teoria dell’operaio sociale risale almeno al 1975, ma già in alcuni scritti precedenti, riprendendo ancora le pagine marxiane sullo sviluppo della cooperazione produttiva, egli aveva incominciato a tracciare il quadro di riferimento entro il quale poi si sarebbe mosso. Il punto di svolta della sua riflessione viene di solito individuato in Crisi dello Stato-piano, un opuscolo breve ma denso di anticipazioni e suggestioni, destinato in origine a circolare tra i militanti di Potere operaio. Franco Berardi ha scritto che proprio in quel lavoro, di cui peraltro egli riconosce alcuni pregi, “possiamo trovare l’origine della torsione soggettivista a cui viene sottoposta sia l’analisi del potere che la progettualità politica di movimento” (Berardi 1998, p. 127) nella fase dei primi anni Settanta; ciò che Berardi critica è, in sostanza, il fatto che Negri faccia discendere da una premessa ‘giusta’ - la crisi della legge del valore e la crisi connessa dello Stato-piano - una conseguenza logica sbagliata -

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l’arbitrarietà dei movimenti del capitale nella crisi: qui, in questo “salto logico ingiustificato” starebbe la causa della svolta leninista e politicista di Negri e Potere operaio.

Che la ‘svolta’ leninista compiuta da Negri e, in quella fase, dai principali gruppi operaisti2 abbia comportato assai più conseguenze deleterie che progressi significativi è un giudizio quasi scontato, ma probabilmente il volontarismo ed il soggettivismo trovarono origine, più che in discutibili principi teorici, in oggettive situazioni di emergenza politica3. Al di là delle implicazioni che, in termini di strategia politica allora vennero tratte, mi sembra che il nodo problematico risieda piuttosto nell’analisi complessiva e generale della tendenza che Negri iniziò a sviluppare in quel periodo e che, nonostante aggiustamenti di tiro intercorsi nel tempo, costituisce ancora oggi il suo principale quadro di riferimento. Si tratta infatti, ancora una volta, dell’eredità problematica della dicotomia trontiana di fabbrica e società e della ricerca del luogo della produzione immediata e ‘particolare’ come centro del conflitto. Negri infatti in questo periodo, cioè nel ‘70-71, iniziava ad essere consapevole dell’imminenza della ristrutturazione produttiva con cui il capitale intendeva liberarsi dell’operaio massa. Ipotizzando le linee verso cui la ristrutturazione si sarebbe mossa, riteneva che il processo di socializzazione della cooperazione produttiva sarebbe andato notevolmente avanti. Così, riecheggiando le espressioni di Marx e di Tronti sulla forza collettiva dell’operaio sociale, giungeva a prefigurare una rottura nello sviluppo capitalistico, determinata proprio dal “realizzarsi della tendenza dello sviluppo per quanto compete la forza-lavoro complessiva, dal suo costituirsi - per lo sviluppo capitalistico stesso - in individuo sociale unificato e compatto” (Negri 1971, p. 14).

Nonostante l’immagine dell’individuo sociale facesse presagire una svolta più drastica, in questo periodo il riferimento politico di Negri, la figura centrale cui egli restava saldamente ancorato, era sempre l’operaio della grande

2 Oltre a Potere operaio, anche Lotta continua visse nel biennio

1971-72 la sua stagione ‘militarista’; cfr. al proposito la ricostruzione fornita da Bobbio (1979, pp. 98-111).

3 Per una critica più dettagliata e precisa della lettura dell’esperienza di Negri e di Potere operaio fornita da Berardi, vedi Palano (1998).

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impresa. Così era ancora in Partito operaio contro il lavoro (Negri 1974), anche se in questo caso il discorso si approfondiva ed apriva spazi nuovi di sviluppo per la ricerca. In particolare, qui Negri, tornando con più insistenza sul nesso tra crisi, socializzazione della produzione e permanenza della rigidità operaia. forniva una prima definizione della nuova composizione politica di classe, definizione che rappresentava un ulteriore passo verso la tematica dell’operaio sociale.

Ora sappiamo che la composizione politica di

questa classe operaia, riunificata come classe sociale, spontaneamente rivolta alla pratica di appropriazione, è la realtà che domina e determina il meccanismo capitalistico della crisi e tutte le forme che la crisi viene producendo (Negri 1974, p. 125).

Nel carattere ‘politico’ della “radicalità estrema” espressa

dalla lotta di classe, Negri individuava uno degli elementi che lo avrebbero spinto ad ipotizzare l’esistenza di una nuova figura conflittuale, ma questo è solo l’elemento ‘soggettivo’, subordinato sempre più all’elemento ‘oggettivo’, tecnico, della riunificazione della classe “in una nuova base di produzione” (Negri 1974, p. 125). La distinzione metodologica tra composizione politica e composizione tecnica della forza lavoro si tramutava sempre più in una opposizione tra volontarismo politicistico e determinismo feticista proprio per l’impossibilità di sciogliere il dilemma trontiano della fabbrichizzazione della società. L’opposizione tra fabbrica e società tornava qui, sostanzialmente invariata nei suoi termini, a proposito della strategia della ristrutturazione capitalistica: da un lato il capitale metteva in atto un imponente processo di socializzazione della forza produttiva, dall’altro però, nonostante la società venisse investita da questa nuova centralità produttiva, il capitale continuava a porre l’impresa come cardine dell’intera organizzazione sociale:

Da un lato il capitale ha diffuso il processo di

valorizzazione fino ad annegarlo nella complessità delle relazioni sociali, dall’altro ha nostalgia dell’estrazione immediata di valore e ne reimpone la centralità. Il capitale mette la fabbrica, come punto di valorizzazione

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del circuito sociale della produzione, contro la società come ambito di devalorizzazione, come sede della massificazione, e contemporaneamente la società come immagine della macchina sociale di produzione contro la fabbrica in quanto sede privilegiata del rifiuto del lavoro e dell’attacco al saggio di profitto (Negri 1974, p. 126).

Il passaggio teorico era complesso e a questa complessità

concorreva probabilmente sia il fatto che Partito operaio contro il lavoro era uno scritto di passaggio - e in quanto tale problematicamente irrisolto sebbene assai suggestivo -, sia la circostanza che Negri, in questa fase, puntava strategicamente ancora sulla centralità politica (anche se ormai non più ‘produttiva’) dell’operaio massa 4 . Nonostante questi tratti problematici, erano palesi i connotati che Negri attribuiva ancora alla socializzazione della produzione: essa era intesa sostanzialmente come estensione della cooperazione sociale strutturata nell’ambito della produzione immediata; riprendendo la formulazione marxiana del Capitolo VI inedito (Marx 1969) sull’approfondimento della cooperazione, Negri giungeva ad ampliare il carattere di lavoratore ‘produttivo’ fino ad includervi tutti i lavoratori salariati: “possiamo ora dichiarare che il concetto di lavoratore salariato ed il concetto di lavoratore sono tendenzialmente omogenei” (Negri 1974, p. 127).

Benché fosse un progresso enorme rispetto alle posizioni fabbrichiste allora diffuse nel movimento, l’equivalenza stabilita da Negri finiva per convalidare quella centralità del salario che costituiva la base della centralità della produzione immediata. In sostanza, rispetto a Tronti la differenza stava soltanto nella profondità attribuita al processo di socializzazione della cooperazione produttiva, ma nonostante questo l’identità tra lavoro, relazione salariale e possibilità di

4 Chiedendosi quale sia il centro politico della nuova composizione di

classe, Negri risponde ancora che “chi è capace di ciò è di nuovo quella classe operaia delle grandi fabbriche che è il soggetto privilegiato dello sfruttamento ed insieme l’agente effettivo di svalorizzazione del lavoro e del profitto. [...] È attorno a questa avanguardia che tutto il proletariato si lega, in un’identità di interessi che chiede un interprete, in una unità di fini che chiede una direzione, con un carico di violenza anticapitalistica che chiede un detonatore” (Negri 1974, p. 128).

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lotta (e dunque l’equivalenza tra socializzazione produttiva e salarizzazione) confermava di fatto la centralità politica e teorica della fabbrica, continuando a contrapporre ad essa la società come luogo del mercato, dello scambio e dell’assenza di conflitto.

4. Fuori dai cancelli: la nascita dell’operaio sociale Quando nel 1975 il tema dell’operaio sociale iniziò ad esplodere e ad acquistare un peso sempre maggiore, il quadro continuava ad essere lo stesso. Paradossalmente, nonostante l’operaismo scoprisse la società, continuava a rinchiuderla dentro i cancelli di Mirafiori:

Dinnanzi alle imponenti modificazioni provocate - o in via di essere determinate - dalla ristrutturazione, il corpo di classe operaia si distende ed articola in corpo di classe sociale, in proletariato. [...] Di fatto la linea rossa dell’astrazione del lavoro si realizza sempre di più. Dopo che il proletariato si era fatto operaio, ora il processo è inverso: l’operaio si fa operaio terziario, operaio sociale, operaio proletario, proletario (Negri 1976, p. 9).

Il fattore determinante nella nascita della nuova figura

conflittuale era la ristrutturazione ed i suoi caratteri, che almeno nell’analisi negriana erano “socializzazione, terziarizzazione, flessibilità” (Negri 1976, p. 28), rendevano centrale l’operaio sociale perché la fabbrica si era spostata nella società. Qui “fabbrica sociale” stava soltanto per “fabbrica diffusa”: il conflitto si era spostato nella società perché la relazione salariale si era diffusa sul territorio. Benché si rinunciasse in questo modo alla centralità politica della grande impresa, la centralità strategica e teorica della relazione salariale, come opposto della relazione di scambio vigente nel mercato, continuava ad essere il cardine di tutta l’analisi.

Questa argomentazione, che, nonostante alcuni tratti, riprendeva e sviluppava conseguentemente le premesse teoriche dei Quaderni rossi e soprattutto del ‘giovane’ Tronti, si incontrò più o meno all’altezza del 1977 con il tema dell’autovalorizzazione operaia. Benché, come ha rilevato

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Harry Cleaver (1996) esso non rappresentasse una novità assoluta in ambito marxista, è certo che comunque la scoperta teorica dell’autovalorizzazione abbia costituito un vero punto di svolta originale per l’operaismo italiano. Il ripensamento degli schemi di riproduzione del Secondo Libro del Capitale e l’intuizione fondamentale che l’antagonismo non si esaurisce nella merce consentirono infatti agli eredi di Panzieri di uscire teoricamente dalle mura della fabbrica e di concepire la possibilità di valorizzazione autonoma della classe operaia.

In sostanza, in questa svolta stavano anche le premesse teoriche per abbandonare definitivamente la contraddittoria dicotomia trontiana fabbrica - società, perché in effetti, sulla scorta del Marx dei Grundrisse, si arrivava finalmente a scindere la produzione in generale, come modo di produzione e riproduzione complessiva, come insieme organico, dalla produzione immediata, come momento particolare del processo complessivo. Per certi versi si trattava di un recupero del Tronti ‘hegeliano’ delle origini, così spesso criticato per il suo ‘soggettivismo’; l’esistenza della classe operaia come classe in effetti, per il Tronti di Operai e capitale, precedeva il capitale e la costituzione della classe dei capitalisti: “prima il rapporto di classe, poi il rapporto capitalistico” (Tronti 1966, p. 149); già nella circolazione la forza lavoro si scopriva come classe, ma ciononostante Tronti non riusciva a comprendere ‘come’ questa indipendenza potesse trasformarsi in conflitto. Qui stava invece la svolta negriana, l’intuizione della riproduzione della forza lavoro come ambito di lotta.

Spesso si ritiene che l’ipotesi dell’operaio sociale e la teoria dell’autovalorizzazione siano due aspetti tra loro inscindibili e necessariamente connessi. In realtà tra questi due temi eisiste uno iato profondo e, in una certa misura, una vera e propria contraddizione in termini di impostazione teorica. Da un lato infatti il processo di autovalorizzazione è visto come consolidamento del rifiuto del lavoro a livello sociale e come possibilità di libero sviluppo delle individualità: si tratta dunque di uno schema antiteleologico, antifinalistico ed antideterministico. Un processo senza fine, illimitato nelle sue possibilità e dipendente unicamente dal livello di sviluppo della classe operaia. Dall’altro lato, la figura dell’operaio sociale è un’ipotesi sulla composizione di classe e, per quanto sia

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rappresentata come combinato disposto di lotte operaie e ristrutturazione capitalistica, il peso determinante è attribuito alla socializzazione produttiva, che continua ad essere letta nei termini già esposti da Negri fin dal 1971. Sulla scorta del Frammento sulle macchine marxiano, la contraddizione fondamentale implicita nella tendenza dello sviluppo è quella tra lavoro sociale e funzione del denaro. Con la socializzazione della produzione il lavoro non è più posto come lavoro di un singolo, ma come lavoro sociale, come lavoro dell’operaio collettivo. Secondo le parole di Marx,

il carattere sociale della produzione è presupposto,

e la partecipazione al mondo dei prodotti, al consumo, non è mediata dallo scambio di lavori o di prodotti di lavoro reciprocamente indipendenti. Esso è mediato dalle condizioni sociali della produzione entro i quali l’individuo agisce (Marx 1968, I, pp. 116-118).

In pratica, mentre la crisi nello schema

dell’autovalorizzazione era risultato dello sviluppo della classe operaia, qui essa sorgeva dalla contraddizione tra socializzazione della produzione e forma mercantile dello scambio, tra sviluppo della cooperazione sociale e permanenza del denaro.

Questa lettura della contraddizione fondamentale veniva ripresa in più occasioni da Negri, in modo sempre più ossessivo, dapprima accanto e insieme alla prospettiva dell’autovalorizzazione, poi in maniera progressivamente più indipendente. Di questo si trovano echi anche oggi nella riflessione sul lavoro immateriale e nella lettura della cosiddetta “sproporzione” rintracciabile nel Frammento: se negli anni Settanta c’era però un’ambiguità di fondo intorno al carattere della sproporzione (ambiguità relativa alla questione se il ruolo determinante fosse da attribuire alla rigidità di classe o alla composizione organica del capitale), con gli anni Novanta è diventato sempre più marcato il peso attribuito alla socializzazione e cioè alla componente ‘tecnica’ della trasformazione. Ciò è particolarmente evidente nella teoria della crisi della legge del valore, caposaldo della riflessione di Negri fin da Crisi dello Stato-piano. L’ipotesi che la legge del valore, quantomeno nella sua formulazione quantitativa, sia

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ormai esaurita ed abbia perduto ogni capacità descrittiva è d’altronde l’ennesimo portato della tesi trontiana dell’integrazione della classe operaia nel capitale. Con lo sviluppo estremo della cooperazione produttiva, la forza lavoro è ormai tutta dentro il capitale, non esiste al di fuori della sua cooperazione, e perciò la legge del valore non può più misurare niente: il lavoro singolo non esiste più ed il denaro non può più commisurare la forza sociale del lavoro combinato. La società è ormai integralmente sussunta ed il denaro rimane una forma arbitraria della sopravvivenza del capitale (Negri 1994).

Negri a questo punto, abbandonata la prospettiva dell’autovalorizzazione, recupera pienamente la concezione trontiana della fabbrichizzazione; è la produzione immediata, cioè la produzione come momento particolare, che si estende fagocitando gli altri, ed in effetti la circolazione è ormai considerata come sussunta nella produzione: il momento dello scambio, prima inteso come dialettico, come la fase in cui la classe operaia era esterna al capitale benché inerme ed atomizzata, è ora sussunto integralmente nel capitale. La fabbrica sociale post-moderna viene così ad essere il risultato della socializzazione della fabbrica, e Negri può confermare, insieme alla centralità politica della produzione immediata, quanto Tronti aveva intuito più di trenta anni fa a proposito della terziarizzazione:

l’apparente declino della fabbrica come luogo della

produzione non significa declino del regime e della disciplina di fabbrica, ma significa piuttosto che tale disciplina non viene più limitata ad un luogo specifico interno alla società, ma si insinua in tutte le forme di produzione sociale, diffondendosi come un virus. La società tutta è ora permeata dal regime della fabbrica, e cioè dalle regole specifiche dei rapporti di produzione capitalistici (Hardt, Negri 1995, p. 16).

Con questo recupero estremo, che per Negri costituisce la

chiave della critica dell’era post-moderna riemerge in tutti i suoi tratti originari la contraddizione implicita nella concezione trontiana. Anche qui l’antitesi tra società e fabbrica socializzata è in realtà l’antitesi di due diversi modelli di sintesi sociale: da un lato il modello della produzione immediata, con al centro la

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relazione salariale, dall’altro il modello dello scambio mercantile che si attua nella sfera della circolazione, fuori dalla fabbrica. La società, che prima era intesa come terreno della mediazione, del denaro (come elemento di una relazione dialettica) e dell’assenza del conflitto, ora diventa ambito di lotta sulle condizioni di riproduzione dell’esistenza, perché viene semplicemente eliminato nella sua specificità.

Tutta la teoria dell’operaio sociale si gioca in questa ambiguità di fondo, senza essere in grado di coglierne effettivamente la portata. La formulazione forse più organica e completa di questa ipotesi venne fornita da Negri in uno dei suoi testi meno conosciuti e considerati, Il comunismo e la guerra (Negri 1980), scritto nel periodo immediatamente successivo alla sua prima incarcerazione. Criticando la ricezione che nel movimento era stata data della tematica dell’operaio sociale, Negri precisava come quest’ultimo non fosse il ‘passo’ successivo dell’operaio massa, ma qualcosa di assai più ampio.

In realtà nessuno o pochissimi hanno saputo, nel

movimento, comprendere la portata ontologica, totalizzante della definizione dell’operaio sociale come asse portante della nuova composizione di classe. [...] L’operaio massa è un elemento parziale della soggettività di lungo periodo dell’operaio sociale. [...] Invece di comprendere questa portata della categoria e dei suoi risvolti teorici e politici [...] si è continuato a cincischiare su vecchi dommatismi: centralità operaia o meno? Senza capire la verità ormai elementare che l’operaio sociale era anche al centro dello sfruttamento diretto di fabbrica. [...] Ma se Dio vuole, non solo di quello. Una centralità storica totale, l’opposto militante della crisi del mercato: questo è l’operaio sociale, il movimento del valore d’uso. Che diviene movimento comunista (Negri 1980, pp. 19-20).

In questo testo, come in quelli della fine degli anni

Settanta, il peso fortissimo assegnato alla dimensione dell’autovalorizzazione proletaria si incontrava problematicamente con lo schema deterministico di derivazione trontiana, rendendo manifesta la loro reciproca contraddizione: da un lato, l’opposto del mercato era l’autovalorizzazione, lo sviluppo dei bisogni dell’operaio collettivo, il tramutarsi del sabotaggio in autodeterminazione, dall’altro invece il fattore di

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crisi del mercato e dunque del sistema di mediazione sociale fondato sul denaro era costituito dallo sviluppo estremo della cooperazione produttiva. Se la prima soluzione consentiva di superare le ambiguità e le contraddizioni del primo operaismo, la seconda rappresentava invece la coerente e fedele riproposizione dello schema trontiano del ’62. E, paradossalmente, ad avere la meglio nella riflessione dello stesso Negri sarebbe stata proprio quest’ultima opzione.

La strada del post-operaismo degli anni Ottanta e Novanta a questo punto è già delineata. Mirafiori non è più il “centro”, l’Americanismo ed il Fordismo vengono abbandonati insieme al mito di Torino come città-fabbrica modello. L’operaio massa, celebrato come avanguardia eroica di un passato di lotte sempre più remoto, viene ormai relegato al margine del conflitto fino a sfumare nell’invisibilità. Ma se Mirafiori muore come tempio dell’operaismo, deve però risorgere in una nuova forma, deve rinascere nella società, come fabbrica sociale. Il fabbrichismo si estingue nella sua forma tradizionale, ma rivive nella sostanza della salarizzazione della società.

Così Negri, abbandonata sempre più decisamente la prospettiva dell’autovalorizzazione, vede il comunismo scaturire ormai non dal rifiuto collettivo e dalla sovversione antagonista della cooperazione sociale produttiva, ma proprio dalla massima estensione di quest’ultima. Il conflitto e la contraddizione fondamentale diventano quelle tra produzione immediata e scambio mercantile, tra la logica interna alla fabbrica e la logica della società. Riprendendo Sohn-Rethel (1978), la contraddizione è tra due opposte sintesi sociali, quella fondata sulla razionalità produttiva e quella fondata sul denaro. La ‘sproporzione’ di cui Marx parlava ambiguamente nei Grundrisse diventa puramente meccanica, affidata allo scontro di due modalità tecniche di organizzazione della società.

La contraddizione non è più tra la potenza autonoma dell’operaio sociale ed il dominio del capitale, non è più uno scontro radicato nella materialità della composizione di classe. Ma non è neppure, semplicemente, uno scontro tra ‘strutture’ e ‘sovrastrutture’ deterministicamente intese, in cui le condizioni ‘oggettive’ ed economiche sono distinte da quelle ‘oggettive’ e politiche. Si tratta di qualcosa di più profondo. È la

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contraddizione tra due diverse concezioni del carattere sociale del lavoro. La sproporzione da cui Negri ed i suoi eredi ritengono debba discendere il comunismo, è semplicemente una differenza tra concezioni teoriche: da un lato il lavoro astratto sociale, in cui la socialità è assicurata dallo scambio con l’equivalente generale astratto ‘denaro’, dall’altro il lavoro socializzato della cooperazione produttiva.

Di nuovo riemerge lo scontro fabbrica-società, di nuovo, come nella previsione trontiana, anche nel momento di più alto sviluppo capitalistico e di più profonda integrazione di fabbrica e società, esse non cessano di contrapporsi l’una all’altra, la fabbrica come classe operaia e la società come capitale. Ma ancora una volta lo ‘scontro’ si svela come una pura contraddizione logica e la sua soluzione non può che consistere nella soppressione di uno dei termini dell’opposizione. Il comunismo cessa di coincidere con il libero sviluppo delle individualità e diventa una problema di rigore logico.

Il nodo centrale di tutta la tradizione operaista e l’enigma della sua inesausta ansia di centralità sta tutto qui: nella sua sostanziale incapacità di andare realmente oltre la fabbrica, oltre il processo di produzione immediato, riconoscendo la specificità delle articolazioni sociali e della loro funzione nell’ambito del processo di produzione e riproduzione complessivo. La conseguenza paradossale di questa incapacità è la ricaduta in un rinnovato ma ugualmente deleterio produttivismo in cui l’avvento del comunismo è in qualche modo affidato allo sviluppo della cooperazione sociale. In uno schema feticista non troppo dissimile da quello ortodosso, l’attesa della nuova ‘centralità’, di un nuovo soggetto conflittuale egemone, nasconde sotto un sottile velo volontaristico la speranza che la rivoluzione comunista coincida con la rivoluzione tecnologica.

5. ‘Antagonismo sociale’ come categoria analitica: una proposta teorica Franco Berardi, nella sua recente rievocazione dell’esperienza teorico-politica di Potere operaio, è tornato sulla controversa questione dei risvolti idealistici dell’operaismo italiano. In

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particolare, riprendendo le osservazioni che Davide Bigalli formulò in un suo articolo del 1967, Berardi ritrova “un’affinità impressionante tra il concetto di Soggetto che propone Hegel e il concetto di Soggetto che propone Tronti” (Berardi 1998, p. 36). Secondo le parole di Bigalli, “l’estraneità del proletariato dalla società borghese che in Marx fonda il valore negativo del proletariato stesso, ma anche il suo valore sociale, in Tronti rimane categoria ontologica” (Bigalli 1967, p. 124). La trasfigurazione della classe operaia nel Soggetto hegeliano costituirebbe in sostanza il portato estremo della rivoluzione copernicana di Tronti; l’inversione della prospettiva ortodossa, liberandosi dallo storicismo e ponendo al centro il nuovo soggetto ‘classe operaia’, avrebbe condotto paradossalmente proprio ad un nuovo “criptoidealismo”, secondo il quale

È il Soggetto che pone in essere la contraddizione,

è la classe operaia che pone in essere perfino il suo contrario, il capitale, ed è ancora questo Soggetto che supera la contraddizione ritrovando la sua identità con se stesso, all’interno della contraddizione e al di là di essa (Berardi 1998, p. 37).

L’accusa formulata da Berardi, che pure riconosce

l’importanza eccezionale e la portata rivoluzionaria del rovesciamento trontiano, non è nuova ed è stata a più riprese indirizzata anche a Negri - considerato il più conseguente erede dell’idealismo trontiano - da parte di esponenti della stessa tradizione operaista. Si può sostenere addirittura che questa critica di fondo abbia costituito negli ultimi trent’anni il principale criterio di ricostruzione dell’esperienza teorica iniziata con i QR, nel senso che la maggior parte delle letture ha voluto vedere, all’interno del gruppo originario, due anime, una ‘sociologica’, analitica ed antidialettica, incarnata dalla figura di Panzieri, l’altra soggettivista, politicista ed “hegeliana”, di cui sarebbero stati alfieri soprattutto Tronti, Asor Rosa e Negri. La scissione che nel ’64 diede origine a Classe operaia viene così considerata come la coerente conseguenza dell’esplosione della seconda ‘anima’: la ricostruzione che ad esempio Raffaele Sbardella ha compiuto della “NEP” di Classe operaia, benché alimentata da tardi

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strascichi polemici, è tutta costruita attorno all’idea di un hegelismo fortissimo ed insopprimibile (Sbardella 1980).

Nonostante questa consolidata linea interpretativa, non ritengo né che su questo punto esistano sostanziali divergenze tra Panzieri e Tronti, né che il preteso ‘criptoleninismo’ trontiano sia all’origine degli errori e delle difficoltà teoriche dei suoi eredi. In effetti, come ha osservato Sandro Mancini (1975), l’autonomia e l’indipendenza operaie, che Tronti fondava ontologicamente, come la precedenza logica e storica della classe operaia sul capitale e sulla classe dei capitalisti, lungi dall’essere una deformazione soggettivista, costituiscono il conseguente esito dell’inversione strategica iniziata da Panzieri con il saggio sull’uso delle macchine nel neocapitalismo.

Forse Panzieri, più per il legame che ancora lo stringeva alla tradizione che per cautela teorica, non giunse agli esiti di Tronti, ma ciò non significa che l’autonomia ontologica della classe operaia non fosse già tutta dentro il suo discorso: svelata la tecnologia come rapporto di forza, svelato il capitale come relazione di classe e come lotta di classe, la deduzione trontiana della precedenza della relazione di classe rispetto alla costituzione della classe dei capitalisti e all’effettivo sviluppo della cooperazione capitalistica era quasi scontata. E non si tratta né di criptoleninismo né di ipersoggettivismo, ma solo della intuizione che il capitale è lotta di classe ed una relazione sociale costitutivamente conflittuale.

Per quanto i critici si muovano in una dimensione opposta alla mia, ritengo che il Tronti di Operai e capitale pecchi per difetto e non per eccesso di cautela: quando considera che, ad un certo livello dello sviluppo capitalistico, sia avvenuta definitivamente l’integrazione della classe operaia nel capitale, egli perde ogni possibilità di articolare l’autonomia operaia nella società, fuori dalla fabbrica. Questo passaggio, secondo la sua prospettiva, coincide con la salvezza perché, sancendo la centralità politica della relazione salariale e dell’operaio massa, garantisce la possibilità del conflitto e della sua estensione.

Ciò comporta però anche che, eliminato il punto di partenza, cioè l’autonomia di classe fuori dalla cooperazione produttiva, l’indipendenza della vita fuori dalla fabbrica, la lotta di classe si trovi imbrigliata in un eterno circolo vizioso senza possibilità di uscita. L’alternarsi di sviluppo della

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cooperazione, integrazione progressiva della classe, estensione delle condizioni del conflitto, esplosione della lotta, non può che concludersi ogni volta con una nuova ipotetica lotta: il cerchio non si spezza e continua a vivere un’eterna rincorsa, in una spirale interminabile senza mai conclusione. Ad ogni tappa dello sviluppo del capitale deve corrispondere un nuovo soggetto centrale, collocato al centro della fabbrica, cioè al centro strategico del processo di produzione immediato, secondo uno schema deterministico in cui ogni stadio viene ogni volta salutato come il più elevato.

Per superare definitivamente questo tranello, per rompere ‘teoricamente’ il circolo vizioso in cui l’operaismo si è invischiato, è necessario rompere proprio con l’idea fondata sulla centralità della relazione salariale. Dobbiamo abbandonare l’idea totalitaria e ortodossa di ‘classe operaia’ che riposa nell’implicito fabbrichismo dell’avanguardia egemone, del soggetto centrale. Considerare la società come fabbrica, cioè come insieme di relazioni sociali capitalistiche, non può significare risolvere la società in una fabbrica sempre più diffusa ed estesa fino all’infinito.

Secondo una prospettiva di questo genere, sostenuta tra gli altri da Lazzarato (1997), Marazzi e Negri, l’esito estremo della fabbrichizzazione della società (ovvero, della socializzazione della fabbrica) diverrebbe la totale subordinazione della vita al capitale, la sostanziale indistinzione di tempo di lavoro e tempo di vita: questa idea è ‘totalitaria’ in partenza perché considera come totalitario il processo di salarizzazione della società e finisce per non ritrovare più l’antagonismo concreto, se non nella forma di una semplice contraddizione logica.

Per comprendere l’attuale mutamento capitalistico (ma per comprendere meglio anche tutti quelli passati) la prospettiva della fabbrica, della produzione immediata, è utile, ma non sufficiente: è necessario cogliere i processi e le modalità con cui la vita viene trasformata in lavoro anche prima della produzione immediata, prima della fabbrica. È necessario cogliere come vengono creati i ‘presupposti’ sociali dell’accumulazione, come vengono creati i lavoratori. Anche quando non sono (ancora) salariati, anche quando non sono ‘produttivi’. Ciò comporta realmente la necessità di uscire

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‘teoricamente’ da Mirafiori, dalla fabbrica fisica ed empirica, ma anche dalla fabbrica come processo di produzione immediato di merci. Uscire dal feticismo fabbrichista significa comprendere come la società sia ‘fabbrica’, ma non più nella vecchia concezione produttivista di ‘fabbrica diffusa’. Bensì come fabbrica di lavoratori, come processo di produzione complessivo che trasforma la vita in merce, in forza lavoro potenziale.

Uscire da Mirafiori e scoprire la relazione sociale capitalistica, con il suo carico di antagonismi e di ribellioni contro l’imposizione della forma merce, significa anche dissolvere la vecchia dicotomia trontiana di fabbrica e società e l’implicita contraddizione logica che la sorreggeva: non c’è alcuno scontro tra fabbrica e società, almeno nel senso che non c’è alcuna contraddizione tra il legame sociale fondato sullo scambio mercantile e sul denaro e la sintesi definita dalla cooperazione produttiva di fabbrica. Fondamento del modo di produzione e riproduzione capitalistico non è né la socializzazione delle merci attraverso lo scambio con l’equivalente generale-denaro, né la produzione e l’accumulazione quantitativa di merci, bensì l’imposizione del lavoro astratto come lavoro imposto, alienato ed illimitato (De Angelis 1993; 1995): fondamento del modo di produzione capitalistico è la riproduzione allargata della vita come lavoro, perché solo essa è in grado di produrre capitale. Cercare il centro di questa lotta tra il capitale e la vita, benché strategicamente possa sembrare ragionevole, è in realtà illusorio perché il capitale non è una ‘cosa’, non è immobile e solida, non è fissa in un luogo che possa essere eletto stabilmente a ‘fulcro’ della società e della lotta, e soprattutto non esercita il suo dominio su un soggetto così definito nel tempo da autorizzare incoronazioni e glorificazioni durature.

Il capitale, in quanto relazione sociale, è fluido, mobile, ‘liquido’ (Holloway 1994): è in grado di abbandonare più o meno velocemente qualsiasi preteso centro, trasformando quest’ultimo in margine e fissando un nuovo temporaneo cardine. Per questo non solo la lotta dei lavoratori contro la forma merce imposta alla loro vita è continua, ma anche la lotta che il capitale combatte per imporre il lavoro astratto non conosce soste e confini: esso deve costruire continuamente, in

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un eterno lavoro di Sisifo, le condizioni ed i ‘presupposti’ della produzione capitalistica, dentro e fuori dalla fabbrica, prima e dopo la produzione immediata. L’accumulazione originaria dei corpi e delle menti continua quotidianamente e l’unico limite che può incontrare il capitale è la lotta di classe stessa, lo sviluppo dell’autonomia e del rifiuto della classe e la sua crescita in termini di non-capitale.

Se cogliamo la società capitalistica come immensa raccolta di merci, e cioè come un immenso reticolo di relazioni tra capitale e lavoratori per l’imposizione della forma di merce, possiamo compiutamente dissolvere l’idea hegeliana di ‘classe operaia’, cioè la concezione di una classe operaia intesa come soggetto collettivo in grado di comprendere l’unità della disseminata e frammentata società capitalistica, superando l’atomismo cui essa è condannata nella sfera della circolazione ed ergendosi al livello ‘generale’ della società. In questo mito non si cela solo l’anima idealista della storia senza soggetto, ma anche l’illusione che il nuovo ‘soggetto collettivo’, la classe operaia ormai passata dall’in sé al per sé e divenuta cosciente del proprio compito storico, riesca, in quanto soggetto generale, a comprendere la società come intero e a dirigerla razionalmente. L’idea di classe operaia che abbiamo ereditato dalla Seconda Internazionale, oltre che idealista, è anche strettamente legata alla concezione del socialismo come capitalismo ‘razionale’, come un capitalismo senza gli ‘inconvenienti’ dovuti alla imprevedibilità dei movimenti anarchici del mercato. Liberarsi di questa concezione è ad un tempo liberarsi dell’idealismo e del finalismo, aprendo gli occhi verso un orizzonte in continua e permanente estensione.

Penso che per compiere questa operazione sia utile pensare il conflitto di classe in termini di ‘antagonismo sociale’: non si tratta né di un modo per liberarsi meno bruscamente di un metodo di analisi di classe, né della ennesima ipotesi sulla nuova figura sociale egemone che la ristrutturazione avrebbe prodotto. Più concretamente quando parlo di ‘antagonismo sociale’ intendo proporre una categoria analitica, storica e materialistica, che riesca da un lato a comprendere il concreto livello raggiunto dalle lotte e dai comportamenti conflittuali consolidati a livello sociale (e cioè, in breve, la composizione di classe dentro e fuori dalla fabbrica) e, dall’altro, ad offrire una

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capacità di descrivere la polimorfica e multidirezionale azione antagonista ed autovalorizzante maggiore di quella offerta dal totalitarismo sia della centralità fabbrichista e di quella dell’operaio sociale. Si tratta insomma di una semplice categoria interpretativa in grado di dar conto della molteplicità delle pratiche autovalorizzanti che si sviluppano nell’intreccio complessivo delle relazioni sociali capitalistiche.

Il proposito di raccogliere l’insieme delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico sotto la categoria analitica di ‘antagonismo sociale’ non è nuovo e neppure straordinariamente originale. Analoghe riformulazioni non sono mancate, soprattutto nei tardi anni Settanta, di fronte all’emergere dei nuovi movimenti sociali, però gran parte delle sollecitazioni che esse offrirono sono state velocemente dimenticate. Inoltre, anche a causa dell’influenza deleteria ma spesso determinante di filoni teorici come lo strutturalismo ed il funzionalismo, queste riformulazioni dell’analisi di classe si esponevano ad accuse di determinismo non troppo dissimili da quelle rivolte ai filoni da cui traevano ispirazione.

Un esempio significativo ed emblematico di queste elaborazioni è offerto dalla riflessione di Claus Offe, teorico tedesco epigono della scuola di Francoforte e di Jürgen Habermas, che tentò di ridefinire l’insieme delle contraddizioni intrinseche al capitalismo come ‘antagonismo sociale’ 5 . Introducendo il suo scritto forse più importante - Strukturprobleme des kapitalistischen Staates (Offe 1972) - e tentando di fornire una definizione soddisfacente del ‘capitalismo maturo’. Offe respingeva l’idea, diffusa e condivisa da gran parte dei marxisti ortodossi, che il modo di produzione capitalistico fosse connesso inscindibilmente con il potere di disposizione legale della proprietà, cioè con la forma giuridica della proprietà dei mezzi produzione. Riprendendo fedelmente la lezione del Capitale di Marx, egli sosteneva che “il carattere specifico del capitalismo risulta[va] invece [...] dal fatto che tutte le società capitalistiche presentano leggi di sviluppo comuni fra loro ed unicamente fra loro” (Offe 1977, p. 19). Sulla

5 La critica di determinismo che qui muovo all’impostazione di Claus

Offe è in parte anche un’autocritica, perché in passato, in uno scritto sulla formazione (Palano 1996) ho adottato uno schema fortemente debitore della teoria proposta dallo studioso tedesco.

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base di questa intuizione, Offe respingeva da un lato l’ipotesi che il capitalismo fosse ormai superato e dall’altro la tesi che esso avesse risolto le proprie interne contraddizioni. Al contrario, secondo Offe la contraddizione fondamentale non solo non si era esaurita, ma si era estesa progressivamente, proprio perché “il capitale subordina[va] al proprio movimento, quello cioè della propria autovalorizzazione guidata dalla ricerca del profitto, tutti gli ambiti ed aspetti della società” (Offe 1977, p. 20). Offe individuava la contraddizione fondamentale delle società capitalistiche

nel contrasto tra l’estensione inconsapevole [...] dei

rapporti di interdipendenza all’interno del processo di socializzazione da un lato, e, dall’altro, la mancanza di una organizzazione e di una pianificazione consapevoli di questo processo (Offe 1977, p. 21).

Criticando esplicitamente le letture storiciste della lotta di

classe, Offe intendeva con la propria proposta teorica, scindere il piano logico della contraddizione capitalistica da quello storico: intendeva cioè ricostruire una definizione logica di capitalismo che riuscisse a dar conto del carattere contraddittorio di quest’ultimo senza al tempo stesso cristallizzare il conflitto e l’antagonismo in una determinata forma da esso storicamente assunta o in una specifica figura sociologica della classe operaia. Ciò per riuscire a cogliere come gran parte dei conflitti odierni, benché non siano catalogabili come scontro tra capitale e lavoro salariato, siano parte essenziale e manifestazione della contraddizione fondamentale:

a ben poco servirebbe definire il capitalismo

unicamente sulla base della logica di movimento o della “totalità del processo”, se non si riuscisse ad identificare di volta in volta il “portatore” o l’agente dell’antagonismo sociale. Ecco perché è compito della teoria del capitalismo intrecciare le categorie logiche con quelle sociologiche, motivando anche il carattere specifico di questo intreccio (Offe 1977, p. 26).

Se nella fase del paleocapitalismo l’individuazione

empirica del gruppo sociale per cui passa il fronte del conflitto è piuttosto scontata, la stessa operazione diviene con l’avvento

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della fase del capitalismo maturo sempre più complessa. La continuità della contraddizione si incontra e concilia con il mutamento della struttura sociale e della dislocazione del conflitto, ma ciò non comporta che l’antagonismo venga meno bensì solo che mutino le forme in cui esso si manifesta e i punti in cui esso emerge. Come il capitalismo può essere ‘logicamente’ ridotto alla sua logica di movimento, di cui vanno riconosciute tutte le diverse traduzioni storiche e geografiche, così la ‘classe’ può essere ridotta sul piano logico all’antagonismo sociale, cioè ad una categoria in grado comprendere tutte le manifestazioni determinate del conflitto.

Generalizzando quindi al massimo le implicazioni

antagonistiche del concetto di classe possiamo - prima ancora di esprimere qualsiasi definizione in termini di sociologia delle classi - affermare al più che l’antagonismo di classe esiste là dove, a causa della logica dell’accumulazione privata, si creano dei conflitti sociali che mettono in discussione la prosecuzione di questa accumulazione e la sopravvivenza dei suoi presupposti istituzionali e politici. La caratterizzazione della società capitalistica come società di classe non anticipa l’individuazione dei gruppi e degli strati sociali che, in circostanze concrete, svolgono questa funzione distruttiva sia in atto che potenzialmente (Offe 1977, p. 27)6.

Il quadro concettuale delineato da Offe in questo suo

importante saggio presta il fianco ad alcune critiche legate al suo implicito debito con lo struttural-funzionalismo. Per quanto egli sfugga al determinismo totalizzante della tradizione althusseriana, è evidente che il suo tentativo di ancorare l’emergere dell’antagonismo alla contraddizione interna della ‘struttura’ capitalistica finisca con l’assumere i movimenti storici di lotta come sua conseguenza e non come sua causa. Il vizio di questa impostazione è chiaro fin dal principio, dal

6 “Come il dominio della logica di accumulazione può essere esercitato

entro forme istituzionali diverse e da parte di gruppi sociali diversi, così anche la contraddizione generata da quel dominio, e che gli si rivolge contro, non può venire identificata in tutti gli stadi di sviluppo del capitalismo col “proletariato” (nel senso sociologico della forza-lavoro produttiva e salariata)” (Offe 1977, p. 27).

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momento in cui Offe fonda la contraddizione nella ‘strutturale’ incapacità del capitale di controllare ‘razionalmente’ le conseguenze del suo sviluppo: qui riemerge pienamente la vecchia idea ortodossa dell’anarchia capitalistica come fattore di crisi e, benché Offe sia interessato ad una ridefinizione dinamica delle figure del conflitto, è chiaro che l’emergere di queste resta sempre l’esito di una dinamica da esse autonoma ed indipendente. Come ha osservato al proposito Negri, “l’analisi di Offe si ferma su un vuoto di determinazione di classe” (Negri 1977, p. 219), ma ciononostante la sua definizione di antagonismo sociale ci offre ancora spunti notevoli su cui ragionare7.

Riprendendo le sollecitazioni più significative della ‘scuola della composizione di classe’ e coniugandole con la nozione di ‘antagonismo sociale’, il vuoto di determinazione materialistica implicito nello schema di Offe può essere superato. Se nella più avvertita riflessione operaista, per composizione di classe si intendeva infatti “non soltanto la composizione tecnica, la struttura della forza-lavoro, ma anche la somma e l’intreccio delle forme di cultura e dei comportamenti sia dell’operaio massa che di tutti gli strati sussunti al capitale” (Primo maggio 1978, p. 62), allora con ‘antagonismo sociale’ dobbiamo intendere tutte quelle pratiche concrete, quei comportamenti diffusi, quelle tradizioni, quelle cristallizzazioni di lotte e conflitti precedenti, che costituiscono la base materiale della composizione di classe.

È chiaro che, in questo senso, la composizione espressa dall’antagonismo sociale ha ben poco a che vedere con la distinzione ortodossa tra struttura e sovrastruttura e tra economia, politica e cultura: e, ancor più precisamente, questo approccio metodologico appare in contrasto sostanziale con tutte le concezioni che mirano a separare la lotta economica, spontanea, immediata, dalla lotta radicale anticapitalistica, intesa come possibile solo in presenza di una sviluppata ‘coscienza di classe’. Per essere chiari, coniugare l’esperienza

7 Un discorso parzialmente analogo potrebbe essere svolto anche a

proposito della nozione di “antisystemic movement” proposta da Arrighi, Hopkins e Wallernstein (1989), ma mi pare che in questo caso il riferimento al ‘sistema’ mondiale dell’economia presenti implicazioni ‘deterministiche’ maggiori.

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metodologica della scuola della composizione di classe estendendo l’analisi a tutto l’antagonismo sociale significa abbandonare definitivamente il nodo della coscienza di classe, con tutto il suo carico di implicito eurocentrismo e con la sua sottintesa esaltazione della tradizione del movimento operaio occidentale. Ad essere rilevanti dal punto di vista dell’analisi dell’antagonismo sociale non sono le ideologie o le rappresentazioni teoriche che un determinato gruppo sociale, lottando contro il capitale, può sviluppare o fare proprie: l’elemento rilevante è dato invece proprio dall’insieme delle diverse e molteplici pratiche di rifiuto del lavoro salariato e non salariato e di lotta contro l’imposizione della forma merce che vengono messe in atto quotidianamente, in modo più o meno evidente e con minore o maggiore radicalità a seconda dei periodi, in ogni parte del mondo. Ad influenzare questo insieme di pratiche possono contribuire una serie quasi infinita di fattori storici, tra i quali rientrano ovviamente anche le ideologie e le rappresentazioni teoriche della realtà che gli intellettuali diffondono, ma anche in questo caso nessuna ideologia e nessuna teoria si rivela necessariamente ed inevitabilmente più efficace e ‘vera’ di altre, neppure il marxismo. A costituire un fattore di stimolo alla diffusione ed alla circolazione di pratiche di rifiuto del lavoro possono concorrere tanto versioni ‘post-moderne’ della tradizione marxista quanto aspetti di culture precapitalistiche sedimentate in profondità. Questo non significa sostenere che gli studenti occidentali degli anni Sessanta siano ‘uguali’ ai neri afroamericani dei ghetti statunitensi, né che gli ‘indiani’ di Mirafiori non presentino differenze enormi rispetto agli indios del Chiapas: significa invece riconoscere la specificità storica e sociale di ognuno di questi soggetti e strati sociali e comprendere le vie ed i processi attraverso cui ognuno di essi ha sviluppato la propria differente rivolta contro la riduzione della vita a merce.

Antagonismo sociale è dunque il rifiuto di ogni centralità che non sia quella della lotta contro la forma capitalistica delle relazioni sociali, tanto nella produzione quanto nella riproduzione. Solo abbandonando ogni concezione feticista della centralità è possibile uscire dal circolo vizioso della perenne attesa del ‘nuovo soggetto egemone’ e pensare ad una

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ricomposizione di classe non totalitaria, né ideologica o idealistica. Ricomposizione diventa così non solo ‘unificazione’ concreta delle lotte, ma anche sviluppo delle molteplici pratiche dell’antagonismo sociale: non più semplicemente ‘blocco’ della produzione capitalistica e rottura temporanea del meccanismo dell’accumulazione, ma sviluppo dei bisogni antagonisti e valorizzazione autonoma delle soggettività contro il legame capitalistico. La ricomposizione cessa di essere la versione aggiornata dell’unità socialista ed acquista lo spessore nuovo di un processo infinito, plurale e libero, mentre il comunismo inizia a mostrarsi come il processo di dissoluzione di ogni centralità e di ogni misura astratta.

6. Conclusione In questo testo ho tentato di criticare la concezione della ‘centralità’ che una parte della tradizione marxista e soprattutto il filone dell’operaismo italiano hanno portato avanti. Se nella cosiddetta fase ‘fordista’ dell’accumulazione il soggetto centrale era affidato all’operaio massa delle grandi fabbriche, in virtù del ruolo strategico che queste ultime occupavano in quel periodo, con l’avvento del ‘post-fordismo’ si è assistito al proliferare di ipotesi sull’aumento di nuovi soggetti egemoni. Criticando queste interpretazioni ho sostenuto che alla loro base stia una concezione feticista e produttivista della centralità, una concezione che privilegia in ogni caso la produzione immediata di merci a scapito del processo complessivo della riproduzione sociale. L’unica reale centralità è quella della relazione sociale capitalistica e della lotta costante e quotidiana tra capitale e lavoro per l’imposizione della forma merce. Ogni altra concezione della centralità si fonda sull’idea che il capitale sia una ‘cosa’ immobile e statica, con un centro e dei margini stabili, mentre esso, proprio in quanto relazione sociale, ha dato storicamente prova della propria estrema fluidità e del proprio policentrismo. Pertanto cercare in ogni fase un soggetto conflittuale centrale significa generalizzare indebitamente un dato di una determinata situazione storica, rischiando di non vedere la varietà e la pluralità di conflitti che soggetti ‘marginali’ pongono in atto. Proprio per sfuggire alle

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implicazioni totalitarie che le più diffuse ipotesi sulla centralità comportano, ho proposto di utilizzare come categoria analitica della composizione di classe la nozione di ‘antagonismo sociale’, inteso come l’insieme delle pratiche e delle strategie di rifiuto del lavoro e della forma merce che i diversi settori sociali sottoposti al dominio del capitale pongono in essere nella loro lotta. Al di là di ogni implicazione strategica che da questa impostazione può derivare, ritengo che la categoria di ‘antagonismo sociale’ si possa rilevare metodologicamente preziosa nell’analisi delle varie forme di conflittualità diffuse nel contesto del capitalismo maturo globalizzato, rompendo sia con l’ansia operaista per la centralità sia con l’indeterminatezza di classe delle ricerche sui ‘nuovi movimenti sociali’.

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