Azione come autocostituzione. Normatività ed agency in Christine Korsgaard (in "Ragion pratica e...

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Azione come autocostituzione. Normatività ed agency in Christine Korsgaard Gianluca Verrucci (Apparso, leggermente modificato, nel volume a cura di Mara Meletti, Ragione pratica e im- maginazione, Mimesis, Milano 2011, pp. 79-103) Abstract La nozione di agency è al centro di un rinnovato interesse da parte dei teorici dell'azione con- temporanei. Tra le proposte più discusse vi è quella del “costitutivismo”, che ritiene di poter derivare la normatività dei vincoli morali da elementi non opzionali dell'azione. Il presente articolo si concentra sulla proposta di Christine Korsgaard, ne esamina i presupposti teorici al fine di valutare la plausibilità dell'argomento che vorrebbe derivare la forza normativa dell'e- tica dall'autocostituzione dell'agente. Sebbene la proposta sia di grande interesse per il tenta- tivo di superare i resoconti realisti e sentimentalisti della normatività, si sostiene che l'ar- gomento va incontro alla difficoltà di integrare due modelli inconciliabili di normatività: la riflessione intesa in senso kantiano e la teleologia naturale di ascendenza aristotelica.

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Azione come autocostituzione.

Normatività ed agency in Christine Korsgaard

Gianluca Verrucci

(Apparso, leggermente modificato, nel volume a cura di Mara Meletti, Ragione pratica e im-

maginazione, Mimesis, Milano 2011, pp. 79-103)

Abstract

La nozione di agency è al centro di un rinnovato interesse da parte dei teorici dell'azione con-

temporanei. Tra le proposte più discusse vi è quella del “costitutivismo”, che ritiene di poter

derivare la normatività dei vincoli morali da elementi non opzionali dell'azione. Il presente

articolo si concentra sulla proposta di Christine Korsgaard, ne esamina i presupposti teorici al

fine di valutare la plausibilità dell'argomento che vorrebbe derivare la forza normativa dell'e-

tica dall'autocostituzione dell'agente. Sebbene la proposta sia di grande interesse per il tenta-

tivo di superare i resoconti realisti e sentimentalisti della normatività, si sostiene che l'ar-

gomento va incontro alla difficoltà di integrare due modelli inconciliabili di normatività: la

riflessione intesa in senso kantiano e la teleologia naturale di ascendenza aristotelica.

La nozione di agency ha richiamato di recente l'attenzione dei filosofi morali1. La capacità di

muoversi sensatamente nel mondo, ponendo scopi, perseguendo progetti, sostenendo relazio-

ni, controllando, e correggendo talvolta, la direzione della propria intenzionalità pratica, sem-

bra essere un carattere irriducibile e specifico dell'agente umano. Non vi è dubbio che lo stu-

dio di questa competenza, tanto complessa da contenere in sé un insieme di competenze più

specifiche, possa contribuire alla causa di una migliore comprensione del fenomeno morale.

Vi è però chi vorrebbe ricavarne qualcosa di più. L’idea è quella di derivare da certi elementi

costitutivi e non opzionali dell’agency la particolare forma di “necessitazione” categorica che

è alla base del fenomeno della normatività morale2.

Quello che mi propongo di fare è studiare uno di questi tentativi. Intendo soffermarmi

sull'ultima produzione di Christine Korsgaard in cui il tema della costituzione dell'agente

(morale) mediante l'azione, si intreccia con i temi della deliberazione razionale e dell'inten-

zionalità teleologica tipica dell'essere vivente3. La presenza di Aristotele accanto al Platone

politico, dovrebbe avvertirci del fatto che il punto di vista pratico-deliberativo di esplicita de-

rivazione kantiana, prediletto nella precedente opera teorica The Sources of Normativity, è ora 1 La parola è pressoché intraducibile in italiano; renderla con “azione” risulterebbe poco preciso perché si tratta di una capacità piuttosto che di un risultato; l’altra opzione,“agenzia”, è inconsueta nell’italiano corrente e non la si trova mai applicata all’agente individuale. Il termine “agentività”, ap-parso di recente in alcune traduzioni, sembra un po’ artificioso. Ho preferito pertanto conservare il termine originale inglese, con l’avvertenza che lo si deve intendere come capacità d’azione o compe-tenza agenziale, la capacità di un agente di muoversi in maniera sensata nel mondo. 2 Tra coloro che hanno proposto l'argomento costitutivista vi sono: Ch. Korsgaard, The Sources

of Normativity, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.) 1996, Ibid. The Normativity of In-

strumental Reason, in G. Cullity-B. Gaut, Ethics and Practical Reason, Clarendon Press, Oxford 1997, pp. 215-254 (ora ristampato in Ch. Korsgaard, The Constitution of Agency. Essays on Practical

Reason and Moral Psychology, Oxford University Press, New York 2008, pp. 27-68), Ibid. Self-

Constitution. Agency, Identity and Integrity, Oxford University Press, New York 2009; C. Rosati, Agency and the Open Question Argument, “Ethics” 113, 2003, pp. 490-527; T. Schapiro, What is a

Child?, “Ethics” 109, 1999, pp. 715-738; D. Velleman, The Possibility of Practical Reason, Oxford University Press, Oxford 2000. Per un argomento critico nei confronti del costitutivismo si veda D. Enoch, Agency, Shmagency. Why Normativity won’t come from what is Constitutive of Agency, “Phil-osophical Review” 115, 2006, pp. 169-198; si veda inoltre l’interessante e validamente argomentata risposta di L. Ferrero, Constitutivism and the Inescapability of Agency, in Oxford Studies in

Metaethics, vol. 4, Oxford University Press, Oxford 2009, pp. 303-333. A detta di molti, porre alla base dell'azione morale requisiti costitutivi dell'azione umana in generale comprometterebbe la possi-bilità dell'errore e dell'imperfezione morale; su questo tema è fondamentale lo scambio tra D. Lavin, Practical Reason and the Possibility of Error, “Ethics” 114, 2004, pp. 424-457 e B. Cokelet, Ideal

Agency and the Possibility of Error, “Ethics” 118, 2008, pp. 315-323. 3 Ch. Korsgaard, Self-Constitution. Agency, Identity and Integrity, Oxford University Press, New York 2009.

situato entro una cornice di tipo metafisico-naturalistico che ne modifica in parte il significato

originario4.

A titolo di anticipazione, nella prima parte presento i motivi di insoddisfazione che

spingono Korsgaard alla ricerca di un'alternativa a realismo e sentimentalismo, segue poi un

intermezzo che ne ricostruisce la complessa filosofia dell’azione. Nella terza parte espongo la

concezione del Sé che soggiace al quadro teorico esposto nelle sezioni precedenti e la solu-

zione che, su questa base, viene data al problema della normatività morale. Concludo, infine,

evidenziando alcune aporie. L’originalità della proposta di Korsgaard risiede nel tentativo di

superare la visione causale dell'azione, e i paradigmi neohumeani che la sostengono, senza

impegnarsi in artificiose costruzioni metafisiche. Il punto debole, su cui interverrò nelle con-

clusioni, è l’utilizzo di categorie riflessive di derivazione kantiana entro un quadro sostan-

zialmente metafisico-naturalistico che fa perno sui concetti di “funzione”, “forma” e “natura”.

1. Il problema

1.1. Si è soliti rappresentare le ragioni pratiche come un tipo di proposizioni che contano a

favore dell’azione. Le ragioni sono il locus in cui la normatività è racchiusa e da cui si irradia

nel mondo. È pertanto di primaria importanza venire in chiaro del ruolo da queste svolto nella

spiegazione dell'azione umana se si vuole aggredire il problema normativo. Secondo

Korsgaard, vi sono due opzioni, realismo e sentimentalismo (quest’ultimo di derivazione

humeana), che ingombrano il passo oscurando l'autentico significato dell'agency umana. En-

trambe, almeno in principio, hanno una certa plausibilità, non foss’altro perché sembrano so-

stenute dalla nostra esperienza ordinaria. Diciamo (l’esempio è di Korsgaard) che “Jack è an-

dato a Chicago perché voleva (desiderava) visitare la madre”; come diciamo, anche, che “Jack

è andato a Chicago perché sua madre aveva bisogno di lui” (era in quella circostanza oggetti-

va). Come si vede, nel primo caso la ragione della visita di Jack alla madre è un desiderio o

una passione (una pro-attitude), nel secondo, a spingere Jack ad agire è una circostanza con-

creta, uno stato del mondo, lo stato di bisogno in cui versa la madre. Il primo resoconto sup-

4 Per una discussione dei temi principali del pensiero di Korsgaard mi permetto di rimandare a G. Verrucci, Ragion pratica e normatività. Il costruttivismo kantiano di Rawls, Korsgaard e O'Neill, Mimesis, Milano 2010.

pone che l’elemento normativo sia uno stato mentale, un desiderio o una credenza (la coppia

credenza-desiderio del belief-desire model: Jack crede che la madre sia in difficoltà ed è spin-

to ad agire dal desiderio di soccorrerla); il secondo, viceversa, assume che siano certi fatti in-

dipendenti, certe proprietà mondane, a generare la risposta del soggetto.

1.2. L’argomento che dovrebbe sostenere la seconda opzione, quella realista, è che noi non

affermiamo di fare una cosa perché “la vogliamo”, ma asseriamo di desiderare di fare una co-

sa perché essa “provoca” il nostro desiderio. La ragione del nostro comportamento è non già il

nostro stato mentale quanto la proprietà di valore che rintracciamo nella cosa e alla quale ri-

spondiamo con un atteggiamento appropriato. In questo caso si dovrebbe dire che l’agente,

quando ha un desiderio nei confronti del verificarsi di una certa situazione, risponde ad una

particolare proprietà normativa.

Questo realismo normativo va incontro a delle difficoltà. Intanto, si potrebbe rilevare

che meri fatti o circostanze di per sé sono normativamente inerti e non possono suscitare ri-

sposte adeguate; poi, in secondo luogo, non sempre la conoscenza di uno stato di cose provo-

ca un’adeguata motivazione ad agire nel senso corrispondente. L’agente potrebbe avere una

ragione ma non essere motivato a seguirla, oppure potrebbe fallire nel rispondere alla proprie-

tà normativa come avviene nei casi conclamati di akrasia. Se dovessimo dire cosa manca

all’agente che fallisce nel rispondere adeguatamente alla supposta proprietà normativa, di-

remmo che gli manca un desiderio appropriato, dunque, almeno in parte, la forza delle ragioni

sembrerebbe dipendere, come sostengono i sentimentalisti, da particolari stati mentali. Inoltre,

se diciamo che un desiderio è la risposta appropriata alla situazione o ad una proprietà norma-

tiva oggettiva, stiamo già facendo uso di un concetto normativo senza spiegarlo. Abbiamo una

ragione di avere lo stato mentale in questione perché risponde appropriatamente alla ragione

offerta dallo stato di cose; abbiamo così una ragione per rispondere ad una ragione.

La risposta dei realisti normativi a questo tipo di obiezioni è che quando una persona

fallisce nell’avere una risposta adeguata alle proprietà normative, è irrazionale. La razionalità

è definibile semplicemente in termini di appropriatezza delle nostre risposte alle circostanze

normative. L’agente razionale è per definizione motivato in maniera appropriata da certe pro-

prietà. La risposta sembra porre fine ad ogni ulteriore dibattito, ma, a ben vedere, nasconde

un'ulteriore e grave difficoltà. La risposta ad una proprietà normativa non è automatica.

L’uomo razionale agisce sulla base di ragioni di cui è consapevole, non è motivato semplice-

mente dalla presenza di certe proprietà delle circostanze, quanto dal fatto che la presenza di

quelle proprietà rende le circostanze buone o doverose. Allora, di nuovo, non hanno ragione i

sentimentalisti quando affermano che la forza normativa della situazione appartiene ad uno

stato mentale, la coscienza delle proprietà? Certo, confermerebbero i realisti, una ragione mo-

tiva perché è accompagnata nell’uomo dalla coscienza della sua appropriatezza. Ma allora,

per ritornare all’esempio iniziale, restano due alternative: o Jack è motivato dal bisogno della

madre in quanto proprietà normativa (con tutti i problemi che ne derivano e di cui si è detto),

oppure è motivato dalla consapevolezza che l’azione in cui si sta impegnando è buona (il che

sembrerebbe condurre ad un feticismo morale del tipo “Jack aiuta la madre perché è una buo-

na azione e non perché sua madre ha realmente bisogno di lui”). Ciò che sembra sfuggire al

realismo normativo è la dimensione della partecipazione dell'agente all'azione che si esprime

nell’accettazione riflessiva (reflective endorsement) di una ragione che da lui è giudica essere

normativa.

1.3. Le complicazioni a cui si espongono realismo e sentimentalismo emergono ancor più ni-

tidamente se si considera la maniera di rappresentare l'operatività dei principi pratici che stan-

no alla base dell’agency razionale.

La nota tesi humeana che la ragione è “schiava delle passioni” depone a favore dello

strumentalismo nella rappresentazione del ragionamento pratico e della teoria causale

dell’azione e della forza motivazionale. Il binomio credenza-desiderio, unitamente

all’efficacia causale del principio strumentale, contribuiscono a spiegare l’azione umana. Una

certa credenza, per esempio che il bicchiere che ho di fronte è pieno di gin, non è sufficiente a

spiegare l’azione del bere né a produrla; vi deve essere nell'agente almeno un desiderio che lo

spinge in quella direzione5. Il riferimento al desiderio come ad un motore motivazionale, e

alla credenza come elemento inerte ma necessario all’ascrizione di razionalità (se credessi

erroneamente che in un bicchiere pieno di benzina inodore vi sia del gin, come nell’esempio

di Williams, sarei certamente giudicato irrazionale se volessi bere da quel bicchiere), configu-

ra una spiegazione “quasi idraulica” dell’azione6. Secondo le visioni humeane la forza moti-

5 Questo modo di concepire il ragionamento in stile humeano dipende in larga parte dalla rico-struzione di Williams, si veda B. Williams Internal and External Reasons, in Moral Luck, Cambridge University Press, Cambridge 1981 (trad. it. Sorte morale, Il Saggiatore, Milano 1987, pp. 133-148). 6 L'espressione stata coniata da J. McDowell per esprimere il carattere tipicamente meccanico di questo tipo di spiegazioni.

vazionale che ci spinge all’azione è trasmessa dal desiderio dello scopo all’idea di prendere i

mezzi necessari alla sua realizzazione (nel caso dell’esempio, afferrare il bicchiere di gin e

compiere tutti gli altri movimenti necessari che rendono possibile il bere).

Il punto che a Korsgaard preme evidenziare è che secondo questo modello non siamo

mai strumentalmente irrazionali, non possiamo mai fallire nell’applicazione del principio

strumentale. Se l’adozione del principio strumentale non è soggetta a requisiti di successo o

fallimento, ne segue che si perde il senso per cui tale principio può esser detto normativo. Il

principio di ragione strumentale si limita a descrivere l’effetto inevitabile che il desiderio di

bere provoca sulla volontà umana. Il rapporto tra la coppia credenza-desiderio e l’azione, è di

tipo casuale, non normativo. Tale principio, in conclusione, non può essere utilizzato per

esprimere raccomandazioni o doveri ma solo previsioni: dato il desiderio dell’agente di bere e

data la credenza che il bicchiere è pieno di un liquido che soddisferà il desiderio, l’azione ap-

propriata segue di necessità (se non intervengono altri fattori causali preponderanti ad impe-

dirla). Hume, e la tradizione che ne deriva, ha una visione riduttiva dell’azione come movi-

mento causato da un giudizio che produce meccanicamente un certo effetto sulla volontà.

1.4. Secondo il realismo normativo, al contrario, l’azione non è causata, ma guidata dal giudi-

zio. Il realismo ritiene che vi siano verità normative eterne e indipendenti da noi. Come agia-

mo sulla base di queste verità? I realisti affermano che agiamo in accordo con queste verità

quando le applichiamo alla realtà nelle circostanze in cui ci troviamo7. Una volta riconosciuta

la giustezza di un principio morale non rimane altro che realizzarlo mediante l’azione. Si noti

che l’azione, concepita in questi termini, non è altro che un mezzo in vista di un fine. La-

sciando da parte il problema della lacuna motivazionale, che questa spiegazione non sembra

affatto risolvere, la normatività del principio strumentale risulta, ad uno sguardo più attento,

decisamente oscura. Tale principio, prescrivendo all’agente di adottare i mezzi adeguati ai

fini, non è altro che il principio dell’applicazione. Se domandiamo al realista di render conto

della normatività del principio strumentale, questi non potrà che rispondere che si tratta di una

verità normativa come tutte le altre verità normative. A questo punto sorge il problema: se il

7 Il mutare delle circostanze spiega la distinzione tra ragioni prima facie e ragioni ultime, e sembra far propendere il realismo verso una sorta di particolarismo delle ragioni che si oppone all’etica dei principi universali di matrice kantiana.

principio di ragione ci guida all’applicazione delle verità normative alla realtà, cosa ci guida

all’applicazione di quello stesso principio?8

Questa medesima domanda, una volta dislocata in ambito morale, produce effetti de-

vastanti. È naturale supporre che il principio di ragione strumentale non ci dica nulla sulla

moralità dei nostri scopi. La morale, dunque, deve essere fondata su un principio diverso che,

però, è anch'esso chiamato a svolgere la stessa funzione del precedente, perché anche in cam-

po morale si tratta di applicare delle verità normative. Non si vede quale possa essere questo

principio. Secondo Korsgaard, anche il realismo normativo, al pari del modello humeano, ha

un modo errato di rappresentare l’azione. Il giudizio guida l’azione all’applicazione delle veri-

tà normative, ma non può fondarsi sul principio strumentale, inteso come verità normativa che

a sua volta deve essere applicata, pena la caduta in un circolo vizioso nell’ordine della giusti-

ficazione. La conclusione esibita da Korsgaard è che si deve abbandonare l’idea che i principi

che guidano le azioni siano criteri da applicare.

Entrambe le soluzioni, quella realista e quella sentimentalista, sembrano poggiare pe-

ricolosamente sopra una frattura, difficilmente ricomponibile, tra agency e normatività. Nel

sentimentalismo il desiderio può spiegare l’azione solo causalmente, perdendo di vista la cen-

tralità della dimensione normativo-giustificativa; per altro verso, i realisti, con le loro proprie-

tà normative, spiegano l’azione secondo requisiti di successo e fallimento, ma non sono poi in

grado di render conto della normatività dei requisiti invocati. Entrambe le teorie, poi, manca-

no di assegnare un qualche ruolo alla partecipazione dell’agente, che sembra invece decisiva

nel processo di scelta e di guida dell’azione. In Hume, il criterio della virtù, che ci aiuta ad

identificare la persona virtuosa le cui azioni suscitano in noi approvazione, è un criterio ester-

no alla persona virtuosa stessa (sebbene non sia esterno nel senso di imposto da Dio o da va-

lori oggettivi). È esterno perché non opera all’interno delle diposizioni e dei motivi della per-

sona come un requisito di cui il suo ragionamento debba tener conto. La persona naturalmente

buona è buona e basta, compie azioni virtuose per definizione9. Il realismo, da par suo, rap-

8 Per una discussione più approfondita di questo punto mi permetto di rimandare al mio Ragion

pratica e normatività. Il costruttivismo kantiano di Rawls, Korsgaard e O'Neill, Mimesis, Milano 2010, pp. 195-211. 9 Si potrebbe obiettare che il modo in cui Korsgaard interpreta il sentimentalismo ed il realismo normativo non rispetta le specificità di queste posizioni o non ne comprende fino in fondo la prospetti-va. Argomenta validamente in questo senso, almeno a proposito del sentimentalismo humeano, E. S. Radcliffe, Kantian Tunes on a Humean Instrument: Why Hume is not Really a Skeptic about Practi-

cal Reason, “Canadian Journal of Philosophy”, 27 (1997), pp. 247-270, che contesta l’interpretazione

presenta la normatività come adeguazione ad un requisito che è esterno all’agente (valori og-

gettivi, fatti morali, principi come quello di ragione strumentale); l’agente si adegua a questo

requisito utilizzando la ragione, una sorta di interiore modulo operativo, ma rimane privo di

una risposta al perché vi si dovrebbe adeguare.

2. Intermezzo

2.1. Il problema del criterio normativo alla luce del quale valutare l’azione gioca un ruolo non

secondario nella definizione della natura dell’azione stessa. Se affermiamo che il “bene” in

quanto criterio guida è esterno all’azione finiremo per accettare un qualche tipo di utilitari-

smo. In questa visione, l’azione è produzione di oggetti “buoni”, solitamente desiderati in

quanto utili. Ne risulta che l’azione non è buona o cattiva in se stessa, ma solo in quanto è

funzione di un qualche scopo ad essa estrinseco. Questo modo di rappresentare l’azione, se-

condo Korsgaard, occulta il problema essenziale della ragione alla luce del quale l’azione è

scelta, criterio che è alla base del fenomeno dell'agency. L’utilitarismo sembra individuare

questo criterio, in maniera del tutto naturale, nello scopo dell’azione; ma questa mossa si

espone ad alcune perplessità: come valutare la bontà dell’azione se il bene, in quanto criterio

normativo, non vi si può applicare perché univocamente incorporato nello scopo atteso? Op-

pure, se il bene è lo scopo prodotto, come valutare la produzione di quel bene, cioè il processo

che porta alla sua realizzazione? Nelle posizioni utilitaristiche l’azione è descritta come nor-

mativamente neutra: ciò che importa è non già l’azione quanto il risultato. Siamo dunque privi

di una vera ragione per scegliere l’azione in quanto tale.

L’impressione di Korsgaard è che l’azione umana sia qualcosa di più di un processo

che ha come esito un prodotto. In Aristotele e Kant l’azione è intrapresa per se stessa, e non

esternalista della Korsgaard esposta in Ch. Korsgaard, The Normativity of Instrumental Reason e in Id. The General Point of View: Love and Moral Approval in Hume’s Ethics, entrambi riediti in Id. The

Constitution of Agency. Essays on Practical Reason and Moral Psychology, Oxford University Press, New York 2008, rispettivamente alle pp. 32-46 e 263-301; per una discussione del rapporto tra etica kantiana ed etica humeana nel dibattito contemporaneo da un punto di vista sentimentalista, si veda L. Greco, L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea, Liguori, Napoli 2008, pp. 187-204. Sebbe-ne le rimostranze dei sentimentalisti siano in parte comprensibili, è qui mio interesse chiarire come Korsgaard giunga alla formulazione di alcune tesi circa la normatività pratica, non se le sue analisi di Hume siano esegeticamente ortodosse.

ha in vista null’altro che se stessa (sebbene non tutte le azioni umane siano intraprese per se

stesse, è innegabile che per entrambe l’azione come fine in sé sia l’oggetto primario

dell’etica). Entrambi assumono altresì che l’azione sia orientata ad un qualche fine. L’azione

umana sensata realizza qualcosa incorporando un fine atteso. Ma l’azione non si identifica

meramente con il processo di realizzazione. Il modo in cui Kant descrive l’azione lascia sup-

porre che oltre al processo (l’atto) e allo scopo (il prodotto), debba esservi inclusa anche la

ragione o principio soggettivo (massima). La massima dell’agente è la descrizione di

un’azione completa (whole action) che incorpora l’atto, lo scopo e la ratio per cui l’atto è in-

trapreso. L’azione non è un tipo di produzione di oggetti ma ha il suo scopo in se stessa. La

formula aristotelica “l’azione è intrapresa per se stessa” significa soltanto che essa incorpora

lo scopo, la ragione e l’atto in virtù dei quali è scelta dall’agente10. Ciò che Kant ed Aristotele

mettono in rilievo, dunque, è la forma dell’azione, il modo in cui l’atto e lo scopo sono colle-

gati da una ratio o logos appropriati. Attraverso questo modo di rappresentarla, l’azione di-

viene intrinsecamente intelligibile, motivante e normativa. L’agency è la capacità di scegliere

azioni così descritte, non semplicemente mezzi o movimenti corporei. Il criterio per giustifi-

carla è lo stesso criterio che si utilizza per descriverla: si tratta di un criterio interno all’azione

stessa che Korsgaard individua nella nozione di funzione.

2.2. Comprendere l’azione soltanto come atto produce una perdita di intelligibilità. Se osser-

vassimo che Jack parte per Chicago improvvisamente, apparentemente senza motivo, rimar-

remmo senz’altro sorpresi pensando che ci troviamo nel mezzo del semestre e tra pochi giorni

inizieranno gli esami; se ci venisse offerta come motivazione di quell’atto il fatto che la madre

di Jack vive a Chicago e che Jack ha il desiderio di vederla, il comportamento di Jack acqui-

sterebbe indubbiamente rinnovata intelligibilità; tuttavia, la menzione dell’atto (partenza per

Chicago) e dello scopo (visita alla madre) non sono sufficienti. Potremmo ancora domandarci

il “perché”. Potremmo cioè ancora chiederci la ragione che ha mosso Jack a far visita alla ma-

dre. Si potrebbe pensare che la ragione della visita sia implicita, sia per così dire “nella natura

delle cose” – è naturale far visita alla propria madre - ma è sufficiente modificare alcuni ele-

menti delle situazione per comprendere che non è affatto così; per esempio, le cose cambie-

10 Cfr. Ch. Korsgaard, Self-Constitution. Agency, Identity and Integrity, Oxford University Press, New York 2009, pp. 9-11.

rebbero se sapessimo che Jack e sua madre non si parlano da anni, oppure che Jack è già stato

da lei a Chicago due giorni fa ecc.

A questo modo di rappresentare l’azione si potrebbe obiettare che si colloca pericolo-

samente lontano dall’uso comune. Normalmente, infatti, nello scambio linguistico quotidiano,

le persone invocano a spiegazione delle azioni primariamente lo scopo o il fine verso cui

l’azione tende e, perciò, tale fine inteso viene addotto come ragione o motivazione. Korsgaard

risponde che, a ben vedere, l’uso linguistico quotidiano, nel momento stesso in cui manifesta

il carattere teleologico dell’azione, ne occulta la specificità in quanto fenomeno dotato di in-

telligibilità intrinseca. Il fatto che le persone invochino il fine a giustificazione dell’azione,

dimostra soltanto che il fine è la parte che manca per rendere l’azione pubblicamente intelli-

gibile, ma non significa affatto che l’azione debba risolversi nello scopo o nel processo. Nella

ricostruzione di Korsgaard, dunque, è l’intera azione che rende intelligibile la ragione per la

quale è intrapresa, ed è solo per un fatto di scorciatoia comunicativa che siamo soliti parlare

dei nostri scopi a chi ci chiede conto di ciò che facciamo.

2.3. Quale, dunque, il rapporto tra l’agente e l’azione? Secondo Korsgaard si tratta di porre in

relazione la natura propria o forma dell’agente con la funzione dell’azione, in termini aristote-

lici, il suo “ergòn”. Si tratta di un legame di natura essenziale, di tipo non causale, per cui

l’azione non è che il modo in cui la forma dell’agente trova realizzazione tipica; si potrebbe

dire che l’azione è parte della forma dell’agente e che, perciò, contribuisce a definirla e costi-

tuirla: la funzione dell’azione è la costituzione dell’agente. Per argomentare questa posizione,

Korsgaard propone di considerare i requisiti che permettono di identificare l’azione in quanto

tale:

1) l’azione è un movimento intelligente guidato dalla rappresentazione che l’agente ha

dell’ambiente;

2) l’azione ha un contenuto intenzionale, è sempre in vista di uno scopo atteso che la investe

del criterio normativo successo-fallimento;

3) l’azione è attribuibile all’agente come al suo autore.

Korsgaard non afferma semplicemente che i fini delle azioni sono tali “per natura” o che la

loro bontà è “nella realtà delle cose”; al contrario, la forma dell’essere vivente predispone in

maniera adattiva il modo in cui l’agente si relaziona al mondo. Ciò significa che fin dall’inizio

gli agenti, animali ed umani, sono immersi in un mondo significativo in cui vi sono oggetti

attraenti in quanto adatti a soddisfare bisogni e tendenze. In altri termini, la natura pre-

programma la rappresentazione del mondo come ambiente dotato di senso e funzionalmente

organizzato per l’agente. L’ambiente in cui gli animali si muovono, predano o ricercano un

partner, è un ambiente funzionalmente strutturato su basi istintuali che rappresentano i princi-

pi alla luce dei quali la forma animale si estrinseca in movimenti corporei che le sono tipici11.

Il comportamento è “intelligente” perché reagisce agli stimoli ambientali rappresentati, nelle

forme di vita più elementari, come minacce da evitare o benefici da conseguire. Quando af-

fermiamo, l’esempio è di Korsgaard, che un insetto si nasconde sotto il tostapane, non stiamo

descrivendo un evento mondano del tipo “piove” o “la penna è caduta dal tavolo”, ma il com-

portamento di un agente intelligente che sfrutta l’ambiente per sottrarsi ad una minaccia che

incombe su di lui. L’essere vivente è concepito come un ente individuale capace di agire, di

rispondere in maniera sensata agli stimoli, e in modo del tutto spontaneo. La risposta “intelli-

gente” dell’essere vivente ad una reale, od anche soltanto possibile, modificazione ambienta-

le, non è una reazione determinata da cause estrinseche. Korsgaard sostiene che questa capaci-

tà di movimento e azione autonoma, nel senso di non provocata o iniziata da altri se non

dall’essere vivente stesso che ne ha pieno controllo, non è tipica soltanto degli esseri superiori

ma di tutti gli esseri viventi. L’autonomia è una delle due caratteristiche essenziali degli agen-

ti.

D’altra parte, l’intelligenza del comportamento implica la capacità di rappresentare e

concettualizzare l’ambiente circostante in un certo modo. Tale rappresentazione ha solitamen-

te di mira un contenuto intenzionale, ossia uno scopo atteso, ed è congiunta alla nozione di

causa. Assieme allo scopo, l’agente si rappresenta anche i mezzi necessari al suo consegui-

mento. Agire significa porsi scopi da realizzare e trovare i mezzi migliori per farlo. Questa

11 Questo modo di concepire teleologicamente il mondo naturale non è in contrasto con la teoria evoluzionista: “Nothing I’m saying here is incompatible with a Darwinian account of how the world became populated with items fit to be thus conceptualized. And nothing I’m saying here is incompati-ble with all the ways in which the Darwinian account implies that teleological thinking can be wrong. We can wrongly assign a purpose to a useless vestigial organ, for example. We can conceive of some-thing as relative to our purposes, when it has interests of its own that make a different understanding of its organization available. So there is no claim here that everything has one and only one purpose that is in fact its natural purpose. The claim is simpler—it is that the way we conceptualize the world, the way we organize it into a world of various objects, guarantees that it will appear to be teleological-ly organized at the level of those objects.” Ibid., p. 39.

modalità rappresentativa, sebbene Korsgaard la attribuisca in maniera implicita anche agli

animali, sembra caratterizzare in maniera altamente specifica il punto di vista umano. La ca-

tegoria di causa consente agli esseri umani di rappresentarsi il mondo come insieme struttura-

to di fini e di modalità attuative collegate. È opportuno sottolineare che il concetto di causa è

originariamente collegato a quello di azione. Gli uomini non potrebbero rappresentarsi il

mondo in maniera teleologicamente organizzata se non fossero agenti che producono dei

cambiamenti nel mondo mediante le proprie azioni. La visione causale è parte della concet-

tualizzazione teleologica del mondo ed è da questa ineliminabile.

Since we must act, the world is for us, in the first instance, a world of tools and obsta-cles, and of the natural objects of desire and fear. An object is identified as a locus, a sort of force field, of particular causal powers, and the causal powers in question are identified as those we might either use or have to work against. And if we did not identify objects in this way, we could not act at all.12

Ma con la nozione di causa la definizione di agente si arricchisce di un secondo componente

essenziale, l’efficacia. Rintracciare i mezzi che, in quanto cause, producono l’effetto sperato,

significa produrre cambiamenti ambientali secondo la rappresentazione che ne abbiamo. Si-

gnifica, in altri termini, agire secondo quello che Kant chiamava imperativo ipotetico.

To act is essentially to take the means to your end, in the most general sense of the word “means”. And to take the means to your end is, as Kant himself pointed out, to determine yourself to cause the end—that is, to deploy the objects that will bring the end about. Thus action requires a world of objects conceived as the loci of causal po-wers. You intend to cut, for instance, so you look for a knife, conceiving the knife as the cause of cutting.13

I due principi individuati, l’autonomia e l’efficacia, sono i due principi pratici costitutivi

dell’azione. È in virtù di queste caratteristiche che l’azione può costituire a sua volta l’agente

in quanto tale: l’agente in quanto autore delle proprie azioni, colui che ne guida l’efficacia e

ne assume il controllo. Intelligenza, intenzionalità e autoralità stanno o cadono insieme.

12 Ch. Korsgaard, Self-Constitution. Agency, Identity and Integrity, Oxford University Press, New York 2009, p. 40. 13 Ibid. p. 40.

2.4. La descrizione appena offerta dell’azione può far sorgere la domanda se non ci si trovi

dinanzi ad una concezione in aperto contrasto con la visione scientifica del mondo. Ammette-

re che vi siano fini e scopi già dotati di valore e senso proprio, dunque già qualitativamente

connotati, anche se, si dovrebbe dire, soltanto in relazione a noi, è in aperto contrasto con

l’impostazione quantitativa della scienza moderna. Korsgaard sembra rappresentare la causa-

lità come un fenomeno non scindibile dalle capacità agenziali dell’agente. Gli esseri umani, e

implicitamente anche gli animali, applicano la categoria di causalità perché la possiedono in

quanto agenti: è costitutivo dell’essere un agente provocare dei cambiamenti nel mondo, eser-

citare una pressione causale. Tuttavia, l’idea di una causazione agenziale contrasta con il de-

terminismo tipico della visione scientifica. La causalità fisica non si applica agli agenti in

quanto il determinismo è una tesi che riguarda lo stato del mondo14. Il problema posto dal de-

terminismo è che la relazione causale collega nel tempo la successione degli stati in cui il

mondo si trova, non i singoli atti degli agenti. Così descritto, il rapporto causa-effetto non si

applica correttamente alla visione teleologica. Non si può affermare che il coltello, maneggia-

to da un umano, tagli la torta, in quanto l’evento è parte di un quadro più ampio deterministi-

camente connesso allo stato del mondo in un tempo precedente. Si dovrebbe dire, a rigore,

che è lo stato del mondo al momento T1 che ha causato lo stato del mondo al momento T2, la

cui descrizione include il movimento del coltello e quello dell’agente umano che lo manovra.

In tal modo, come si vede, scompare letteralmente la nozione di un’agente che promuove dei

cambiamenti nel mondo.

Un secondo problema nasce dalla considerazione dell'efficacia causale applicata agli

agenti animali e umani. Gli agenti non ottengono sempre gli scopi che si prefiggono anche

quando dispongono di strumenti adeguati. Il potere causale che gli agenti esercitano in virtù

della loro forma essenziale, e che orientano all’acquisizione di fini specifici, è sovente distolto

dallo scopo da forze estranee di natura mondana o psicologica. Può accadere che gli agenti

perdano il controllo delle azioni, le quali, dunque, non servono a costituirli in quanto agenti, e

li espongono al rischio e al pericolo. Si tratta del problema, ben noto in filosofia dell’azione,

delle catene causali devianti15.

14 Cfr. M. De Caro, Il libero arbitrio. Una introduzione, Laterza, Bari 2004, pp. 11-16. 15 Per una presentazione efficace del problema si veda J. Quartarone, Causazione e intenzionali-

tà. Modelli di spiegazione causale nella filosofia dell'azione contemporanea, Quodlibet, Macerata 2008, pp. 47-58.

Alla luce di quanto rilevato sembra che i requisiti dell’autonomia e dell’efficacia siano

inconsistenti. La prima tesi è smentita dal determinismo universale, la seconda dal problema

della devianza nelle catene causali. Il punto è che il vincolo costitutivo che lega la forma

dell’agente all’azione che lo costituisce sembra di natura troppo rigida e mal si presta a rap-

presentare fallimenti o improvvise cadute di stile.

2.5. La prospettiva dell’autoralità (authoredness) dovrebbe, nella intenzioni di Korsgaard,

permetterci di aggirare i due problemi menzionati in precedenza, del meccanicismo e delle

catene causali devianti, incorporando in maniera radicale la partecipazione dell’agente. In via

preliminare sembra opportuno rinunciare alle teorie causali dell’azione, dal modello belief-

desire a quello della volizione o dell’intenzione. La ricerca di una causa dell’azione, sia per il

comportamento umano che per quello animale e vegetale non umano, non offre che una falsa

soluzione al nostro problema. Rintracciare una causa significa trovare un elemento all’interno

dell’agente che consenta di spiegare il comportamento in una maniera che rimane sostanzial-

mente causalistica. Affermare che la causa è un desiderio, o la coppia credenza-desiderio, op-

pure una volizione o un’intenzione, non fa che prospettare una visione “homuncolare”

dell’agency. Si reduplica l’agency all’interno dell’agente attribuendo poi a questa proprietà

agenziale un nome: “volontà” o “capacità di formare un’intenzione”.

That is a sort of homunculus or pineal gland theory of the will. We’ve got a philoso-phical problem here, so we invent or point to an organ or faculty and say “There! That is the faculty that solves the problem!” How is the will posited as a faculty supposed to solve the problem of making volition possible? Essentially, by being capable of voli-tion. You can’t solve a philosophical problem by giving it a name. The will is not a fa-culty that makes self-determination possible; the will is the capacity for self-determination.16

Per comprendere il punto dobbiamo riflettere su ciò che, dal nostro punto di vista, giustifica

l’attribuzione del movimento all’agente come azione sua propria. Se assumiamo che a produr-

re l’azione sia una parte della persona, qualunque essa sia, il nostro processo di attribuzione si

affiderebbe ad una causa di tipo psicologico dipendente a sua volta dal determinismo univer-

sale. Perderemmo cioè la nozione di un agente che introduce dei cambiamenti nel mondo, un

16 Ch. Korsgaard, Self-Constitution. Agency, Identity and Integrity, Oxford University Press, New York 2009, p. 99.

agente che è causa prima dei movimenti che compie, un agente che agisce invece di essere

agito da altre cause. La contestazione del modello della spiegazione causale non conduce però

ad un rifiuto tout court del valore esplicativo del concetto di causa; si deve ricordare che il

concetto di causa è parte della rappresentazione che gli animali hanno dell’ambiente e da que-

sta deriva.

To see a movement as an action, as subject to standards of success and failure, we must see it as a movement attributable to the animal’s form. Since the animal’s form is what unifies her into an individual object, her form is not merely something within the animal. So when the animal’s movement can be attributed to her form, it is the animal herself, the animal as a whole, who moves. And when I say that the movement is attri-butable to the animal’s form, I don’t mean merely that the animal’s form contributes importantly to the cause of the movement. I mean rather that the animal is formed—we view the animal as formed—so as to produce a movement of that kind.17

Il modello causale scaturisce dall’agency, è il frutto della rappresentazione che l’agente si fa

dell’ambiente per scopi pratici di previsione e calcolo; in quanto tale, dunque, tale modello

non può applicarsi alla spiegazione dell’agency medesima. La causalità del modello meccani-

cistico deriverebbe pertanto la sua efficacia dalla più originaria rappresentazione teleologico-

causale. Tale rappresentazione, poi, trarrebbe la sua validità dal rapporto costitutivo che la

forma dell’animale intrattiene con la funzione delle sue azioni. In altri termini, ciò che collega

l’azione all’agente, in quanto movimento di cui questi è l’autore, è non già una relazione cau-

sale quanto una relazione di tipo costitutivo-essenziale: “The intimate connection between

person and action does not rest in the fact that action is caused by the most essential part of

the person, but rather in the fact that the most essential part of the person is constituted by her

actions.”18.

Giunti a questo punto possiamo rispondere alle obiezioni precedenti del meccanicismo

e delle catene causali devianti. Korsgaard sembra riproporre una versione compatibilista

dell’argomento della terza parte della Fondazione della Metafisica dei Costumi, ove Kant di-

stingue tra mondo intelligibile e mondo sensibile. Gli agenti si rappresentano come autonomi

e dotati di efficacia causale indipendentemente dal corso più o meno deterministicamente

concatenato degli eventi mondani. Dobbiamo dire che, dal punto di vista degli agenti, qualcu-

17 Ibid., p. 103. 18 Ibid., p. 100.

no sta tagliando la torta con un coltello, perché questa maniera di rappresentare il mondo è

essenziale alla nostra costituzione e non ne possiamo prescindere; d’altra parte, dobbiamo an-

che riconoscere che “dal punto di vista dell’universo” vi sono solo mutamenti di stati che si

susseguono meccanicamente. In un certo senso, l’irriducibilità e l’ineliminabilità del punto di

vista agenziale esprime quello che in Kant era il primato della ragion pratica su quella teoreti-

ca.

2.6. Se un agente compie l’atto X in vista dello scopo Y per la ragione Z, la partecipazione del

medesimo all’azione è espressa dall’accettazione della ragione dopo deliberazione adeguata.

La ragione Z infatti rappresenta, dal punto di vista dell’agente, il principio o logos in base al

quale l’azione è intrapresa. La presenza dell’elemento Z consente di parlare di libera parteci-

pazione dell’agente, esprime cioè la nozione di endorsement, o accettazione riflessiva, che

qualifica la deliberazione pratica di tipo kantiano che Korsgaard pone alla base dell’autoralità

e che consta di quattro elementi: incentivi, inclinazioni, principi e autocoscienza.

La rappresentazione teleologica dell’azione si configura come modalità rappresentati-

va originaria che struttura il mondo in relazioni significative. In quanto esseri viventi, abbia-

mo una forma che tende all’auto-mantenimento e percepiamo gli oggetti mondani con un cer-

to grado di salienza che dipende dalla realizzazione del nostro scopo naturale (tipicamente la

sopravvivenza e la riproduzione). Certe cose ci appaiono buone perché così sono configurate

per noi dalla natura. Alcune caratteristiche degli oggetti, dunque, ci appaiono già dotate di una

certa attrattiva. Questa considerazione generale accumuna tutti gli esseri viventi, animali e

umani. Laddove però gli animali sono guidati alla realizzazione dei loro scopi dagli istinti che

funzionano come moduli pre-programmati, gli esseri umani hanno sviluppato, nel corso della

loro storia evolutiva, la capacità di rendersi consapevoli di tutto questo, l’autocoscienza. La

vita istintuale ha radicato l’animale in un mondo teleologicamente organizzato, si è poi ag-

giunta la capacità di provare emozioni e di categorizzare le esperienze in modi che prescindo-

no sempre più dalle salienze percettive predisposte dall’istinto, capacità cui diamo il nome di

intelligenza. L’intelligenza ha infine posto le basi per lo sviluppo dell’autocoscienza che

Korsgaard identifica con la ragione19. L’autocoscienza va intesa in senso pratico, non tanto

come mera consapevolezza delle emozioni o delle risposte reattive ―che in un certo qual

19 Il testo che Korsgaard assume qui come riferimento sono le Congetture sull’origine della sto-

ria di Kant.

modo condividiamo con i nostri parenti più stretti del regno animale― bensì come capacità di

problematizzare l’azione, di essere coscienti delle basi pratiche che la influenzano.

L’autocoscienza è così all’origine della distinzione tra incentivi e inclinazioni. L’incentivo è

la coscienza che una certa qualità dell’oggetto è attraente per noi, l’inclinazione è la risposta

dell’agente all’incentivo.

La consapevolezza della pressione che gli incentivi esercitano su di noi, è alla base del

problema normativo: devo agire sulla base di quanto mi suggerisce questo incentivo? La strut-

tura riflessiva della coscienza pone il problema della ricerca di una ragione, un principio

normativo che guidi le risposte e consenta di discriminare gli incentivi. L’autocoscienza opera

ponendo una distanza riflessiva tra l’agente e l’incentivo, uno spazio in cui si esercita la liber-

tà umana. Una volta posta questa domanda, una volta preso partito dal rapporto immediato

con l'oggetto, l’uomo approda nel territorio ampio ed inesplorato della ragione. Il problema

normativo è un problema di scelta che vale per l’agente ogniqualvolta questi debba intrapren-

dere un’azione. Tale scelta rappresenta il contributo dell’agente ed è ciò che rende l’azione

attribuibile a lui in quanto autore.

The ideal of agency is the ideal of inserting yourself into the causal order, in such a way as to make a genuine difference in the world. Autonomy, in Kant’s sense of not being determined by an alien cause, and efficacy, in the sense of making a difference in the world that is genuinely your own, are just the two faces of that ideal, one loo-king behind, and the other looking forward. That is why Kant’s two imperatives to-gether are the laws of agency.20

L’autonomia dell’agente, una volta intervenuta l’autocoscienza a modificare i progetti

dell’istinto, non è più soltanto capacità di guida e controllo, ma diviene capacità di scegliere

una ragione, di identificarsi con essa, prescindendo da eventuali pressioni ambientali di natura

psicologica o d’altro tipo. L’autonomia, in quanto spontaneità nella scelta, è libertà pratica di

iniziare un’azione del tutto nuova, di fare la differenza nel mondo. Non vi è nulla “alle nostre

spalle” o “davanti a noi” che ci determini. L’efficacia non è altro che la capacità di coordinare

le opportunità ambientali a nostro favore in vista del compimento dei progetti che ci siamo

imposti. L’uomo, in quanto essere vivente, è costituito dalla forma animale che ne organizza

20 Ch. Korsgaard, Self-Constitution. Agency, Identity and Integrity, Oxford University Press, New York 2009, pp. 89-90.

la funzioni vitali, ma, in quanto persona, si auto-costituisce nella scelta delle ragioni che lo

guidano nell'azione21.

3. Il Sé e gli altri

3.1. Come si è visto, la tesi di Korsgaard è che il Sé si auto-costituisca con l’agire, e che azio-

ne ed autocostituzione siano fenomeni concomitanti. Ciò vuol dire che non esiste un Sé già

dato antecedentemente la scelta e, d’altra parte, non esiste nemmeno l’azione se non come

espressione di un Sé. La dinamica costitutiva dell’azione è essenziale per la definizione

dell’agente in quanto persona. Poiché l’azione, per come è stata descritta, implica la parteci-

pazione deliberata dell’agente, essa non soltanto appartiene a lui come opera sua propria, ma

lo costituisce nei precisi caratteri che assume in virtù di quello che fa. Pertanto, la diversità

delle azioni, e delle ragioni corrispondenti, è alla base della diversità e della specificità delle

persone.

Questo paradigma reagisce in maniera esplicita a due approcci alla filosofia del Sé che

dominano il panorama contemporaneo. Da un lato vi è la tendenza a considerare il Sé come

entità vuota, elemento strutturale, nella sostanza, privo di determinazioni e qualificazioni so-

stantive. Questo approccio, che viene fatto risalire a Kant, mentre definisce la persona come

puro agente razionale, la espone all’inconsistenza dello spettro disincarnato e dello schema

vuoto incapace di assumere impegni e vincoli, priva perciò di quei contenuti che rendono la

vita degna di essere vissuta. Il Sé diviene così una struttura impersonale che si ritira riflessi-

vamente dinanzi al mondo per porlo radicalmente in discussione osservandolo da un punto di

vista oggettivo ed asettico. L’immagine di un Sé disincarnato ha suscitato vive reazioni contro

le pretese uniformanti della ragione interpretata in termini kantiani. Si pensi ai tentativi di ria-

bilitazione di altri paradigmi, come quello della cura nelle filosofie femministe, o dell’amore

21 È forse ancora più chiara ora la distanza che separa questo modo di vedere le cose da realismo e sentimentalismo. Nel resoconto sentimentalista manca il contributo dell’agente, che si otterrebbe se si ammette una distanza riflessiva dalle passioni, ma quest'opzione rimane impraticabile per il senti-mentalismo humeano: l'agente non è autore perché è agito da forze dentro di lui, tipicamente le pas-sioni, su cui non ha alcun potere di sanzione. I realisti presuppongono un mondo di valori oggettivo e già dato indipendentemente dalla nostra natura, risolvendo la partecipazione dell'agente nel riconosci-mento di proprietà normative; in tal modo, però, hanno poi difficoltà a spiegare come sia possibile svi-luppare un’inclinazione “appropriata” per quelle proprietà.

in Harry Frankfurt, per citarne solo alcuni. L’esito della reazione è stato quello di articolare

un’immagine del Sé affatto diversa e contrapposta alla prima. Amore, legami personali e cul-

turali, identità, valori, richiedono vincoli sostanziali ed un Sé disponibile all’identificazione

“senza riserve” (wholeheartedness)22. Solo un Sé determinato e appassionato può autentica-

mente impegnarsi e restare fedele. Anche questa visione, tuttavia, presenta lati oscuri. Il pro-

blema è quello delle fonti delle determinazioni del Sé. Se assumiamo che l’identità sia un

aspetto fondante e dipenda essenzialmente dal contesto culturale, dalla tradizione o dalla sem-

plice interazione sociale, rischiamo di privarci delle armi della critica e di scivolare inavverti-

tamente nel relativismo o, peggio ancora, in una forma di gretto autoritarismo. Un Sé comple-

tamente determinato assume l’aspetto di un Sé monolitico e intollerante.

3.2. Secondo Korsgaard non vi è alcun bisogno di intendere Kant in quel modo. Quella tra i

due tipi di Sé non è una scelta dilemmatica, ma un falso dilemma, ingenerato da un’impropria

radicalizzazione del punto di vista di terza persona nell’analisi dell’agency. Il Sé non è uno

stato, un modo di essere di qualcosa, bensì un’attività. In quanto tale, il Sé non è descrivibile

in termini percettivi, ma si auto-costituisce nell’azione stessa. Il “paradosso del Sé” è conside-

rare che l’azione non è l’esito di una scelta precedentemente deliberata da un Sé già esistente;

la scelta è incorporata nell’azione e l’azione intrattiene una relazione essenziale con il Sé:

esprimendosi in azioni che sono sue proprie, il Sé si auto-costituisce in quanto tale nella scel-

ta. La costituzione del Sé si produce attraverso la coordinazione delle sue parti nel momento

deliberativo e si manifesta nell’azione che l’esprime.

Il tema della coordinazione, così centrale in questa prospettiva, ha precedenti illustri:

la Repubblica di Platone, Kant e Rawls. Il rispetto della procedura di decisione, come la coor-

dinazione fra le parti dell’anima in Platone, è la condizione del costituirsi di un’agente unifi-

cato autore delle proprie azioni. Anche in Kant si può ravvisare la medesima strategia. La

procedura in questione che rende possibile l’azione è l’imperativo categorico. Si noti che tale

imperativo non è un principio al quale la ragione deve adeguarsi per poter giungere a decisio-

ni “buone”; se lo intendessimo in questo modo ci troveremmo di nuovo fra le secche della po-

sizione realista a proposito del principio di ragione strumentale: potremmo ancora chiederci

22 L’espressione è di Frankfurt e va riferita alla dimensione originaria dell’essere umano che, lungi dall’essere la dimensione razionale di cui parlano i kantiani, ha più a che fare con l’amore e la cura.

perché adottare quel principio e finiremmo in un regresso. L’imperativo categorico, al contra-

rio, è il principio costitutivo della deliberazione razionale ed esprime la condizione di autora-

lità perché incorpora un atto di auto-legislazione. Le leggi o regole pratiche che l’agente sce-

glie di adottare sulla base dell’imperativo categorico sono leggi di una volontà autonoma.

Un’obiezione spesso rivolta al proceduralismo è che l’esito della procedura potrebbe

rivelarsi contrario a ciò che riteniamo “bene” in senso sostantivo. La procedura, recita questa

obiezione, è in fondo uno schema formale, e come tutti gli schemi di questo tipo non tiene

conto delle condizioni concrete in cui il bene può realizzarsi. Se l’imperativo categorico è co-

stitutivo dell’azione in quanto tale, cioè dell’azione che scaturisce dall’agente come dal suo

autore e per questo è efficace ed autonoma, in che senso da questa condizione strutturale si

può derivare l’azione “buona” in senso sostantivo? È evidente che agire in senso proprio, al-

meno nel senso inteso qui da Korsgaard, significhi soddisfare la condizione di autoralità, tut-

tavia, non vi è dubbio che azioni come il rubare, il mentire e l’ingannare il prossimo siano ap-

punto azioni che sembrano soddisfare quel requisito in quanto sono azioni che qualcuno ha

scelto di fare (lasciamo da parte le azioni frutto di compulsione psichica). Korsgaard contesta

questa conclusione: l’agente immorale non è autore delle proprie azioni, non è padrone di sé,

è profondamente lacerato e diviso, è qualcuno per cui il processo deliberativo non ha prodotto

l’auto-costituzione e l’unità della persona.

Se consideriamo le cose dal punto di vista dell’etica vi è però un punto ulteriore:

l’imperativo categorico fissa un vincolo di universalità che non sembra appartenere costituti-

vamente al requisito dell’autoralità dell’azione. In termini di ragioni, la questione può esser

posta in questi termini: come può la ragione che l’agente ha deliberato di seguire, e che fa par-

te della descrizione dell’azione di cui è autore, valere universalmente per tutti i possibili agen-

ti? Il requisito di universalità rappresenta, almeno in un’etica di ispirazione kantiana come

questa, il senso per cui diciamo che le ragioni morali sono oggettive e categoriche senza co-

stringerci ad assumere l’esistenza di fatti mondani o valori oggettivi indipendenti, non può

dunque essere dismesso tanto alla leggera.

3.3. Korsgaard deve pertanto dimostrare che la persona la cui costituzione è ben riuscita, ed è

pertanto autrice efficace ed autonoma delle proprie azioni, è, proprio in virtù di questa sua co-

stituzione, anche una persona buona in senso morale. In altri termini, deve dimostrare che le

ragioni per agire, scelte sotto il vincolo dell’imperativo categorico, che è il principio pratico

che rappresenta l’efficacia e l’autonomia dell’autore, sono ragioni che valgono universalmen-

te per tutti i soggetti implicati nella deliberazione. Si tratta di dimostrare come, sulla base del

modello di agency proposto, sia possibile l’interazione umana eticamente fondata.

Nella ricca letteratura recente sul tema delle ragioni, si definiscono “ragioni private”

quelle che appartengono esclusivamente all’agente. Anzitutto gli agenti avrebbero a che fare

con “ragioni private”, poi, grazie ad un qualche tipo di requisito altruista, queste ragioni mute-

rebbero di indice e verrebbero universalizzate; in tal modo gli agenti guadagnerebbero un

punto di vista non più soltanto soggettivo e individuale ma universale e, con esso, grazie

all'opera dell'immaginazione, la capacità di guardarsi dal di fuori, direbbe Nagel, come “per-

sone esistenti fra altre persone ugualmente reali”23. Korsgaard contesta radicalmente questo

paradigma e sostiene che le ragioni sono originariamente “ragioni pubbliche”. La normatività

pubblica delle ragioni garantisce il passaggio dalla costituzione dell'agente alla moralità.

3.4. Si potrebbe domandare cosa si debba intendere per relazione “giusta” o “morale” tra per-

sone. Korsgaard ha in mente il modello della coordinazione sulla base di ragioni. Se due per-

sone devono incontrarsi, dovranno trovare un momento in cui entrambe sono disponibili. Per

risolvere questo problema, che è tipico di ogni altro caso di coordinazione, le due parti devo-

no esibire le reciproche ragioni per fissare l’appuntamento ad una certa ora in un giorno de-

terminato. “To perform a shared action, each of us has to adopt the other’s reasons as her

own, that is, as normative considerations with a bearing on her own case”24. La soluzione

giunge quando entrambe, avendo considerato ciascuno le ragioni dell’altro, formano una vo-

lontà condivisa di incontrarsi. “The aim of the shared deliberation, the deliberation about

when we meet, is to find (or construct) a shared good, the object of our unified will, which we

then persue by a shared action”25. L’accordo fra due persone può essere inteso come la forma-

zione di un’unica volontà comune. Questo scambio, e l’accordo che ne deriva, è reso possibile

dal carattere pubblico delle ragioni che, a sua volta, rende possibile la deliberazione condivisa

alla base dell’autentica interazione fra persone.

Questa descrizione ha un corollario importante. L’interazione è resa possibile da una

deliberazione comune (shared deliberation) che avviene nel mondo noumenico tra persone

23 Cfr. Th. Nagel, The Possibility of Altruism, Princeton University Press, Princeton 1970. 24 Ch. Korsgaard, Self-Constitution. Agency, Identity and Integrity, Oxford University Press, New York 2009, p. 192. 25 Ibid. p. 192.

che reciprocamente si considerano “fini in sè”. Consideriamo la promessa e il contratto. Ve-

diamo che non è possibile ottenere un risulato comune se ci muoviamo nel mondo empirico

temporalmente determinato. Se ti prometto qualcosa in un certo tempo T1, la tua accettazione

della promessa avverrà in un T2 successivo. La fessura temporale che separa T1 da T2 lascia

spazio al cambiamento dell'intenzione originaria espressa da me in T1, che dunque non incon-

trerebbe più alcuna coerente accettazione al tempo T2; il risultato è che l'istituzione della

promessa non è possibile come insieme di atti temporalmente successivi. Lo stesso vale per i

contratti. La mia intenzione di lasciarti una proprietà in T1 e la tua decisione di accettarla in

T2 non sono temporalmente concomitanti; nella fessura temporale tra i due momenti la pro-

prietà che ho deciso di cedere non è ancora di nessuno e non è più mia, il che è manifestamen-

te un assurdo. La cosa era già stata notata da Kant:

These problems show that promises and transfers cannot be understood as the results of successive acts. Instead they must result from the formation of a single common will, from a moment of unity between us. Promises and transfers involve four acts, Kant says: the empirical offer and the acceptance, which are actually mere prelimina-ries, and then the two reciprocal acts of will that constitute the unification of our two wills that makes the transfer possible (MM 6:272). You agree to take what I agree to relinquish, I agree to relinquish what you agree to take, and so we form a unified will that the thing in question should be yours and not mine: it all has to happen at once, as a single action, if it is to happen at all. Kant even says that we try to symbolize this unification of our two wills by performing essentially simultaneous empirical acts such as shaking hands (MM 6:272).26

Promesse e contratti, come ogni coordinazione umana in generale, sono possibili perché av-

vengono nel mondo noumenico, vale a dire, esprimono la congiuzione di due volontà in una

sola volontà comune unificata, senza che questo atto dipenda da una successione di atti prece-

denti o conseguenti. La deliberazione comune è condizione per il costituirsi di una volontà

comune.

When we interact with each other what we do is deliberate together, to arrive at a sha-red decision. Since the conclusion of a practical syllogism is an action, the result is an action that we perform together, governed by a law we freely choose together. The

26 Ibid., p. 190. La sigla MM si riferisce alla Metafisica dei Costumi di Kant, alla quale la Korsgaard rimanda.

free choice of this law is an act that constitutes our unified will and makes shared ac-tion possible. That, in Kant’s view, is what personal interaction is.27

La coordinazione o interazione tra persone non è qualcosa di diverso dalla relazione morale,

ma ne costituisce il presupposto imprescindibile e costitutivo. Interagire sulla base di ragioni è

già essere persone morali.

4. Aporie

4.1. La soluzione del problema normativo avanzata da Korsgaard è di grande interesse. Il ten-

tativo di collegare l’agency, dunque il resoconto dell’intenzionalità e della razionalità pratica,

con una teoria normativa del Sé, è assai stimolante e suggestivo. Per altro verso,

l’accostamento di Kant ad Aristotele, senza presupporre fra loro un conflitto insanabile, evi-

denzia un genuino tentativo di sintesi e d'innovazione teorica. Sebbene l’originalità della pro-

posta sia in gran parte ancora da valutare nel suo complesso, vorrei soffermarmi su alcuni

questioni che mi sembrano improcrastinabili.

Vorrei cominciare dall’accostamento tra Aristotele e Kant. Nell’interpretazione di

Korsgaard, i due sommi filosofi assumono la parte di rappresentanti ante litteram del costitu-

tivismo normativo che ella intende difendere. Svolgono questo compito, tuttavia, in maniera

affatto diversa. Se Aristotele è il teorico della forma e della natura teleologica dell’azione,

Kant lo è della riflessione e della ragion pratica. La diversità dei rispettivi contributi mette

capo ad un differente concetto della normatività che Korsgaard si sforza di integrare in una

visione unitaria, a mio parere senza pieno successo. È, infatti, possibile notare una tensione tra

due livelli della normatività. Il primo è quello dell’agency intenzionale, il secondo quello del-

la riflessione o ragion pratica in senso kantiano. Da un lato vi è il richiamo alla forma come

fonte originaria delle ragioni dell’agente e della rappresentazione teleologico-normativa del

mondo (che l’uomo, in quanto essere naturale, condivide con gli animali), dall’altra vi è la

centralità della riflessione che si esercita come autocoscienza (self-consciousness) che destrut-

tura quel primo livello introducendovi la novità tipica della ragione, novità che è possibilità di

critica radicale degli impulsi e delle tendenze teleologicamente già predisposte dalla natura.

27 Ibid. p. 190.

La mia tesi è che la radicalità della riflessione, per come è assunta da Korsgaard, sia refratta-

ria ad una filosofia della forma come elemento unificante dell’agency. Il procedimento rifles-

sivo della ragion pratica rompe l’incanto dell’Eden in cui le cose appaiono all’uomo secondo

quanto predisposto dalla natura; una volta fuoriuscito dal regno dell’istinto, per l’uomo non vi

è più alcun modo di recuperare l’unità originaria mediante una forma unificata e “naturale”

dell’agire. Lo spazio delle ragioni, in cui si produce l’interazione umana e la genesi del valo-

re, introduce un tipo di normatività più debole di quella naturale perché richiede l’impegno

dell’agente, la partecipazione, l'esposizione al fallimento e all’azione difettiva28.

La non coincidenza dei due modelli normativi, quello dell’azione intenzionale teleolo-

gicamente orientata e quello della ragion pratica riflessiva, risalta maggiormente se si riflette

sul contenuto del Sé che dovrebbe fungere da polo di convergenza. La persona umana è risol-

ta tout court nelle sue azioni, queste la costituiscono in quanto agente unificato. Ora, si po-

trebbe domandare se le cose stiano proprio così a proposito del nostro “diventare persone”. La

scelta e l’azione unificano l’agente, e sembra che la scelta avvenga nel momento della delibe-

razione. L’attimo è il luogo in cui il Sé assume consistenza nella scelta, un atto della volontà

collocato entro il mondo noumenico. La persona descritta da Korsgaard è privata di una di-

mensione autenticamente temporale, dunque in essa viene meno anche la possibilità

dell’autenticità, della fedeltà o infedeltà a se stessi e agli altri. La persona potrebbe, a rigore,

unificarsi e auto-costituirsi in un agente differente in ogni diversa decisione, senza alcun tipo

di contraddizione pratica: l’azione scelta liberamente costituisce l’agente come autore indi-

pendentemente dalle scelte precedenti. Il compito costitutivo, che la riflessione svolgerebbe

mediante la funzionalità dei principi pratici, di fissare il carattere unificato dell’agency in una

persona libera e responsabile, rischia di assomigliare alla fatica di Sisifo.

4.2. Infine, una questione non meno decisiva: quanto questo modello di agency è appropriato

per la giustificazione dei vincoli etici? Tutto dipende dalla validità dell’argomento della pub-

blicità delle ragioni. Altrove ho esposto alcune perplessità sull’argomento in questione come

compare nella sua prima versione in The Sources of Normativity29; in Self-Constitution la

28 Korsgaard non distingue abbastanza, a mio parere, tra teleologismo come modo di concettua-lizzare il mondo “teoreticamente”, e teleologismo come tesi di teoria del valore. Questo secondo tipo di teleologismo è incompatibile con la teoria del valore kantiana fondata sulla riflessione deliberativa. 29 Rimando ancora una volta a G. Verrucci, Ragion pratica e normatività. Il costruttivismo kan-

tiano di Rawls, Korsgaard e O'Neill, Mimesi, Milano 2010, in particolare pp. 170-186.

Korsgaard non porta ulteriori prove a sostegno, tuttavia, l’impressione è che ne rafforzi il si-

gnificato complessivo in senso costitutivista.

We can’t choose to treat someone’s reasons as reasons, as considerations with norma-tive force for us. We can’t decide to treat someone as an end in himself. So am I say-ing we are all locked away from each other, in our own little system of private rea-sons? No, just the opposite. I am saying that responding to another’s reasons as norma-tive is the default position—just like hearing another’s words as meaningful is the de-fault position. It takes work to ignore someone else’s reasons; it’s nearly as hard to be bad as it is to be good. And that’s because reasons are public.30

L’unico argomento che compare in Self-Constituion è un argomento per eliminazione delle

alternative. Se le ragioni non sono pubbliche e l’interazione umana non è possibile, abbiamo

solo due possibilità. O non considerare affatto le ragioni altrui in quanto ragioni, oppure con-

siderare le ragioni altrui, al pari delle nostre, come ragioni esclusivamente private. Le conse-

guenze del primo scenario non sono praticabili: in un mondo in cui le ragioni degli altri non

hanno alcun peso non sarebbe possibile, non solo l’interazione, ma nemmeno la comunicazio-

ne o il semplice scambio di informazioni, il che è contro l’esperienza.

La discussione del secondo scenario è più complessa. Se le uniche ragioni normativa-

mente valide sono le nostre, quelle altrui ci apparirebbero come strumenti per assecondarne

l’effettività o come ostacoli che si frappongono tra noi e il soddisfacimento dei nostri proposi-

ti. Ciò perché l’unica cosa che condivideremmo con gli altri è il fatto che ciascuno ha un par-

ticolare legame solo con le proprie ragioni. Gli altri ritengono valide le loro ragioni, così co-

me noi facciamo con le nostre. Questa conoscenza ci consentirebbe di prevedere il compor-

tamento altrui sulla base delle ragioni private che gli altri lascerebbero trapelare nello scambio

sociale. La relazione tra agenti diverrebbe una relazione manipolativa volta al dominio e al

controllo. Anche i casi tipici di negoziazione ricadono in questa categoria. Cooperare per ot-

tenere un risultato comune che soddisfi entrambe, non implica ancora riconoscere le ragioni

dell’altro come normativamente valide: ciascuno ha una ragione privata per cooperare ed usa

quella dell’altro per soddisfare meglio i propri scopi.

Both of our farms are threatened by the fire, and we can fight it more effectively to-gether. So we join forces, and fight the fire together. But have I thereby accorded nor-

30 Ch. Korsgaard, Self-Constitution. Agency, Identity and Integrity, Oxford University Press, New York 2009, p. 202.

mative force to your reason for fighting the fire? Suppose that, as it happens, my farm is saved but yours is not. Psychologically, I may be inclined to grieve for you, but am I logically committed to doing so? A reason for cooperating with someone is not in itself a reason for treating his reasons as reasons, that is, as considerations with norma-tive force for you. Mutual use is use all the same.31

Korsgaard ritiene, tuttavia, che anche questo secondo scenario sia insostenibile. Le ragioni

che stanno alla base di questa conclusione risiedono nel carattere costitutivamente pubblico

dell’interazione umana. Il modello dell'interazione umana è quello della prima persona. La

maniera nella quale ciascuno di noi considera la proprie ragioni esclude in via di principio la

manipolazione: non avrebbe alcun senso mentire a noi stessi sull’esistenza di una ragione per

credere una cosa piuttosto che l’altra in vista della soddisfazione di un nostro scopo. La strut-

tura dell’autocoscienza è “trasparente”: conosciamo le ragioni che abbiamo e conosciamo an-

che ogni nostro tentativo volto a manipolarle. L’idea della trasparenza della prima persona è

qualcosa che non possiamo scegliere di adottare o di rifiutare: siamo condannati ad

un’esistenza pubblica. Il modello della prima persona non è dunque primariamente un model-

lo “al singolare”: la forma “plurale” del noi è alla base del rapporto con altri come del rappor-

to che l’io intrattiene con se stesso.

Come si vede, e come già anticipato, la tenuta dell’argomento si regge sul presupposto

della pubblicità. La struttura argomentativa è tipica dell’impostazione costitutivista: si pone

un modello molto esigente di “interazione sulla base di ragioni pubbliche” e poi si dice che

altri tipi di coordinazione non sono morali perché non rispettano quel modello. Ci si potrebbe

chiedere donde provenga quel modello. L’impressione è che sia stato ricavato dall’ideale ra-

wlsiano di persona morale libera ed eguale. Qui mi sembra di ravvisare l’unico argomento

forse davvero convincente. L’ideale in questione è costitutivo dell’essere uomini o persone: se

rinunciassimo a questo ideale, dovremmo rinunciare a concepire l’azione umana in termini di

autoralità e, con essa, rinunciare all’idea di un’equa interazione fra le persone fondata sullo

scambio di ragioni. La persona è agente autonomo ed efficace, libero e responsabile, costituti-

vamente plurale perché dentro l’interazione ragionata con altri: questo è il vero “fatto” della

ragione. Se vi rinunciassimo dovremmo fare a meno della Ragione stessa e, con essa, della

nostra umanità. A chi contesta questo esito spetta l’onere di dimostrare il contrario.

31 Ibid. p. 201.

27

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