Al di là del visibile. Il disegno italiano 1968/1972

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Horti Hesperidum Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica Rivista telematica semestrale STUDI SUL DISEGNO ITALIANO TRA CONNOISSEURSHIP E COLLEZIONISMO a cura di FRANCESCO GRISOLIA Roma 2014, fascicolo II UniversItalia

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Horti Hesperidum

Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica

Rivista telematica semestrale

STUDI SUL DISEGNO ITALIANO TRA CONNOISSEURSHIP

E COLLEZIONISMO

a cura di FRANCESCO GRISOLIA

Roma 2014, fascicolo II

UniversItalia

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Il presente tomo riproduce il fascicolo II dell’anno 2014 della rivista telematica Horti Hesperidum. Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica.

Cura redazionale: Michela Gentile, Marisa Iacopino, Marta Minotti, Giulia Morelli, Jessica Pamela Moi, Gaia Raccosta, Deborah Stefanelli, Laura Vinciguerra.

Direttore responsabile: CARMELO OCCHIPINTI Comitato scientifico: Barbara Agosti, Maria Beltramini, Claudio Castelletti, Valeria E. Genovese,

Francesco Grisolia, Ingo Herklotz, Patrick Michel, Marco Mozzo, Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Ilaria Sforza

Autorizzazione del tribunale di Roma n. 315/2010 del 14 luglio 2010 Sito internet: www.horti-hesperidum.com

La rivista è pubblicata sotto il patrocinio e con il contributo di

Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Dipartimento

di Scienze storiche, filosofico-sociali, dei beni culturali e del territorio

Serie monografica: ISSN 2239-4133 Rivista Telematica: ISSN 2239-4141

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INDICE

FRANCESCO GRISOLIA, Presentazione 5 FURIO RINALDI, Bernardino Luini «Mediolanensis», Aurelio Luini e Giovanni Paolo Lomazzo: disegni firmati tra autografia e documento 9 LAURENCE ARMANDO, Un dessin inédit, autour de Rosso, Primatice et Thiry: Un homme nu (Apollon?) à demi-assis sur un char 59 CRISTIANA GAROFALO, La Cena in casa del Fariseo tra Lodovico Cigoli eFrancesco Curradi: su un bozzetto della collezione Feroni 73 VIVIANA FARINA, Addenda al catalogo dei disegni di Aniello Falcone 93

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DARIO BECCARINI, Una nota su Domenico Antonio Vaccaro 121 ISABELLA ROSSI, Sulle tracce dell’ «immenso studio» di Pietro Stefanoni. Entità e dispersione 141 LUISA BERRETTI, Anticipazioni dal fondo di disegni e stampe del Museo Civico di Pescia 207 CARLOTTA SYLOS CALÒ, Al di là del visibile: il disegno italiano tra il 1968 e il 1972 231 ABSTRACTS 255

AL DI LÀ DEL VISIBILE: IL DISEGNO ITALIANO TRA IL 1968 E IL 1972

CARLOTTA SYLOS CALÒ

Il contesto Gli anni Sessanta costituiscono per le arti visive in Europa e negli Stati Uniti un decennio di fondamentale ripensamento dell’opera d’arte e della sua produzione. Non fa eccezione l’Italia, protagonista di quel passaggio epocale che, all’incirca alla metà degli anni Sessanta, determina, e per sempre, il legame tra la forma dell’opera e il suo ‘significato’. Definitivamente aperte le possibilità espressive e ripensati i parametri di forma, spazio, tempo ed esperienza, grazie agli esempi di Lucio Fontana, Piero Manzoni e Alberto Burri, l’arte italiana del periodo vive un momento di grandissimo fervore creativo e di rinnovato rapporto con il contesto di appartenenza (sociale, economico e politico) espresso tanto nelle ricerche di reportage, quanto nella poetica del terrestre e nella meno ‘materiale’ esperienza concettuale della seconda metà del decennio. Il sovvertimento

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delle tecniche tradizionali della pittura e della scultura – ormai aperte allo spazio, all’azione, alla contingenza – insieme all’elezione di modalità del fotografico, dell’immagine in movimento, del teatro, della poesia, del documentario, della pubblicità, contribuiscono a quella dematerializzazione dell’oggetto d’arte teorizzata da Lucy Lippard e che in generale comporta – davvero per tutti – l’accentuazione del processo più che del prodotto1. Che l’opera d’arte tenda alla riduzione o al

contrario alla sensualità, che sia ascrivibile nell’ambito del concettualismo o della microemotività2, la sua apertura al reale e

all’essere è sotto tutti gli aspetti massima: la tecnica in quanto tale perde importanza e gli artisti si dimostrano – nei fatti e nei dibattiti – incuranti di necessità formali non finalizzate al processo e all’esperienza. Mantenendo salda la capacità di instaurare un rapporto orizzontale con l’uomo e con il mondo, di intervenire sulla realtà anche attraverso la ridefinizione dei propri termini di esistenza (linguaggi, spazi, ruoli), l’opera d’arte degli anni Sessanta registra, a partire dalla seconda metà del decennio, una maggiore insistenza sulla componente mentale, su una verifica del linguaggio a partire dai dati più elementari: per dirla con Filiberto Menna, con il sopraggiungere del decennio Settanta

Desidero ringraziare Andrea Bizzarro, Matteo Boetti e Luigia Lonardelli per aver discusso con me una prima bozza di questo contributo, e la Fondazione Alighiero e Boetti e la Fondazione Giulio e Anna Paolini per le immagini pubblicate. 1 I primi a suggerire la smaterializzazione dell’oggetto d’arte e il suo significato per le poetiche contemporanee sono Lucy Lippard e John Chandler (LIPPARD, CHANDLER 1968, pp. 31-36). L’idea è stata successivamente ampliata e ridiscussa: si veda a tale proposito ALBERRO 1999, pp. 46-58. 2 La definizione di arte microemotiva è stata data da Piero Gilardi: «a free and open language which produces not only the traditional subject matter of art but often takes on the flavour of a happenings […]. A symptom of the need to cut out the superstructures of technological society […] a primary emotive freedom that is parallel to but independent of ‘structural action’». GILARDI 1968, p. 51.

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«strutture significanti e livelli di significazione fanno tutt’uno»3.

L’arte italiana si trova dunque a vivere una nuova coincidenza tra concetto e operazione artistica, tra pensato e agito, tra idea e materia. Il procedimento analitico, che già era stato di Manzoni e Castellani, di Mauri e Lo Savio, vive una nuova stagione, nell’intenzione degli artisti di mettere in atto – contestualmente alle opere – verifiche della realtà, della visione, dello spazio, della relazione. Ne è un esempio l’esperienza di Arte Povera che, pure nella sua eterogeneità, mostra, fino alla fine del 1968, una tendenza alla messa in scena dei materiali, alla sensualità e alla natura, per poi concretizzarsi in oggetti e comportamenti. Quell’ambizione a una presenza-esperienza letterale già visibile con le mostre di Pino Pascali e Jannis Kounnellis alla galleria L’Attico di Fabio Sargentini4, pronunciata attraverso la messa in scena di materiali

e forme a servizio di una relazione non mediata tra opera e spettatore, si fa più essenziale e appunto circostanziata. Le ricerche degli artisti – successivamente al biennio centrale di Arte Povera, quello del 1968-19695 – sono maggiormente

accorte riguardo alla vita propria dei materiali e traducono l’economia dei mezzi della prima povertà in una lingua dalla forma ridotta e intellettuale. Meno fenomenologico, il lavoro dell’artista accentua la sua capacità di comunicare, di generare pensiero e informazione, di mettere in relazione (lo spettatore

3 MENNA 1984, p. 11. 4 Come è noto la definizione di Arte Povera e la prima teorizzazione del movimento si deve a Germano Celant (CELANT 1967A), tuttavia la poetica ‘povera’ aveva già fatto il suo debutto a Roma con le mostre di Pino Pascali (ottobre 1966) e Jannis Kounellis (marzo 1967) e soprattutto con la collettiva Fuoco, Immagine, Acqua, Terra (giugno 1967) con opere di Umberto Bignardi, Mario Ceroli, Piero Gilardi, Jannis Kounellis, Pino Pascali, Michelangelo Pistoletto, Mario Schifano (FUOCO IMMAGINE ACQUA TERRA

1967). 5 «Di lavori se ne facevano in continuazione e questo è durato fino al ‘68/‘69 […] Si era andati avanti un po’ troppo guardando ai materiali. Alla fine erano quasi più importanti del resto. Era diventata una cosa da drogheria». BOETTI 1988, p. 69.

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con l’opera, lo spettatore con la realtà, eccetera) in maniera assai più povera e letterale. Si registra dunque, in linea generale, un atteggiamento dalla temperatura più fredda, anche motivato, come accennato poc’anzi, dal rischio di un nuovo formalismo legato ai materiali, che si traduce in un’analisi e verifica dell’immagine e della realtà attraverso l’opera, con modalità che si muovono dalla letterarietà, all’ironia, dall’archetipo alla citazione colta, e affidata meno alla fisicità e più all’immaterialità. L’idea che si intende proporre in questo scritto è che, in questo percorso di riduzione dell’opera d’arte, il disegno svolge una parte importante, contribuendo alle nuove modalità di approccio all’operazione estetica e venendone, al contempo, modificato. Attraverso diversi esempi, da Mauri a La Rocca, da Boetti a Paolini si vuole illustrare l’idea di un disegno da intendere non solo come tecnica, ma come rappresentazione del pensiero, della visione e della conoscenza sensoriale: cosicché la linea non è qualcosa che descrive e circoscrive, non è un contorno, ma è invece lo svolgimento di sensazioni e pensieri legati al vedere, al sentire e all’immaginare. I gesti e i tempi del disegnare divengono quindi densi schemi di visione, ricalchi, riscritture e si connotano quali rilievi di sguardi ravvicinati su spazialità reali e interiori. Sembra infatti che il disegno, liberato dalla necessità di rappresentare già con l’Informale, si richiami all’effettiva povertà e densa concettualità della Linea (1960) di Piero Manzoni. Allora disegnare diventa, nell’ampio clima culturale dell’arte italiana della fine degli anni Sessanta, tecnica, materiale, modalità teorica e operativa, e si fa con gesti, semplici e densissimi, in cui il segno ibridato (dalla scrittura, dall’azione, dal gesto, dall’informazione, dalla progettazione, eccetera) è tramite di una visione completa e aperta della realtà, dell’arte e della comunicazione. Se con l’Informale – e con i segni e i gesti che ne veicolano il senso – erano state marcate la dimensione esistenziale ed esperienziale del disegno (come delle altre tecniche), negli anni Sessanta esso pare accompagnare lo sguardo ampio dell’artista, volto, con quello di tutti, alla realtà (storica, sociale, estetica, tecnologica).

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Il disegno Il disegno, proprio in coincidenza con la dematerializzazione cui si accennava, assorbe la temperie del periodo: è capace di restituire i processi e le idee del farsi dell’opera, cosicché il suo significato si allarga ed espande fino ad assimilare, nella linearità, tutta la complessità del progettarsi e dell’essere dell’opera, mettendo a nudo sviluppi del pensiero, percezioni e implicazioni identitarie dell’artista e del suo lavoro, configurandosi come impronta, ricalco, ma anche proiezione di una relazione articolata con lo spazio e con l’altro. Con il recupero – forse non pianificato, ma certo tangibile – da parte della generazione operante negli anni Sessanta e Settanta, di alcune ottiche della prima avanguardia, esso è impiegato in maniera a sé stante con prospettive di autonomia e libertà, e interpretato secondo una vasta gamma di orientamenti, temi e ‘tecniche’. Coerentemente a una situazione che nel dopoguerra aveva registrato le novità interessanti del disegnare, più nell’ambito del segno che in quello realista – dove comunque permangono soprattutto i linguaggi e gli approcci di Picasso – negli anni Sessanta esso è una delle chiavi di indagine di diverse ricerche. Ciò ha già i suoi prodromi all’inizio del decennio, probabilmente anche in seguito alla lezione di Fontana e a quella di molte esperienze della corrente Informale – con cui il segno aveva superato, anche per il disegno, i canonici schemi espressivi e rappresentativi – cosicché disegnare è per molti artisti un importante spazio di esperienza e analisi, il «momento germinale già maturo della coscienza dell’idea che si fa spazio»6. Nel fatto, apparentemente minimo, dell’abbozzare, tracciare, schizzare, copiare sono riposti, a questo punto, una quantità di eventi e fenomeni: la luce, l’atmosfera, il movimento, il gesto; cosicché il segno, lo spazio, la traccia, l’impronta disegnati allargano i loro significati, sono metonimie dell’autore, della sua ricerca.

6 GUALDONI 1990, p. 9.

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Attraverso l’analisi di situazioni di lavoro assai diverse, tra valore analitico e progettuale del segno e un approccio invece più espressivo, si evidenzia in questi anni una libertà di movimento ‘tecnico’ connaturata all’aderenza dell’idea alla base del lavoro e con il suo sviluppo nel disegno. Ciò è testimoniato, a titolo esemplificativo, anche dall’uso del foglio, disegno esso stesso, pagina, progetto, diario, «luogo teoricissimo, massimamente astratto»7 – come scrive Flaminio Gualdoni – e massimamente corporeo, si potrebbe aggiungere, perché sul foglio, attraverso il disegnare, si possono tracciare esperienze, delineare il percettibile, reale e immaginato. Già nel 1957, quando Fabio Mauri sagoma con della tempera su carta la forma del primo schermo e gli dà il titolo Disegno, realizza un’opera concettuale capace di unire visibile e invisibile, e fa del foglio un campo in cui chi guarda può proiettare sull’opera il proprio immaginario di sogni e memorie. Pochi anni dopo un giovanissimo Giulio Paolini licenzia Disegno geometrico (1960, fig. 1), una convenzionale quadratura realizzata a inchiostro, con squadra e compasso, su una tela dipinta a tempera bianca. Anche in questo caso il gesto del disegnare si limita a indicare la premessa del quadro, «un modo per qualificare la tela non come veicolo di un’immagine data per sempre»8; non quindi definizione, ma possibilità dell’immagine e dello spazio, una sorta di figurazione prima dell’opera. Le applicazioni del disegnare sono dunque molteplici, toccano il visibile e l’invisibile riuscendo a rappresentare entrambi. Si spazia – solo per citare alcune prove – dall’esemplificazione di un nuovo atteggiamento costruttivo del foglio, dello spazio e della luce (Piero Dorazio), all’indagine sul tempo e sul corpo (Toti Scialoja), dalla scrittura come segno (Novelli), allo spazio architettonico e alla luce-colore (Francesco Lo Savio), dalla riflessione sull’opera d’arte e le sue tecniche di costruzione (Giulio Paolini), fino alla ‘riscrittura’ delle cose (Ketty La Rocca). Sì, perché anche la scrittura diventa disegno e viceversa.

7 GUALDONI 1987, p. 14. 8 PAOLINI 1972, pp. 16-17.

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Se già con i primi collage (1964-1965), realizzati nel contesto fiorentino della Poesia Visiva, Ketty La Rocca esibisce un uso particolarmente libero del foglio, privo di quadratura e ordine interno, dove immagini e messaggi sono fluttuanti nel vuoto, con le Riduzioni la novità si trasferisce dall’approccio allo spazio della pagina e al linguaggio, alla ridefinizione dei contorni delle immagini. Una calligrafia divorante – che è disegno, ricamo e scrittura, – è applicata per lo più a immagini fotografiche appartenenti alla cultura visiva e sociale di tutti – e quindi a nessuno – quali gesti di mani, monumenti, ritratti di stelle del cinema, rappresentazioni canoniche di eventi, come il matrimonio – su cui l’artista interviene stravolgendone i contorni, ristabilendone di nuovi, rifondando così anche la relazione tra l’immagine, sé e l’altro. L’intenzione – nelle dichiarazioni dell’artista9 – sembra essere quella di conferire, a rappresentazioni ormai banalizzate, una nuova vita attraverso il segno della grafia – spesso la parola you ripetuta – operando così anche una riscrittura del linguaggio e delle immagini a misura personale. La Rocca rappresenta letteralmente la sua soggettività attraverso un codice corporeo – appunto la grafia – che trasforma le immagini per sottrazione fino a renderle linee disegnate nello spazio del foglio, in grado di visualizzare livelli di significato nascosti nel campo dell’immagine, prima invisibili e ora visibili. Questi pochi esempi già testimoniano quanto il disegno sia in questo momento, prima di una tecnica con uno stile ‘coerente’, una modalità di visione e azione capace di mantenere la tensione germinale dell’idea e di visualizzarla, percorrendo con coerenza la distanza tra una categoria e l’altra dell’operazione estetica. Con gli anni Sessanta esso cessa dunque di costituire solamente il progetto di un’opera più concreta a cui è subordinato e si fa campo aperto in cui l’immagine è progetto e processo insieme, capace di essere, nei segni e nei silenzi del foglio o della parete, opera completa, e assorbire le possibilità

9 Cfr. KETTY LA ROCCA 1989

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dell’azione e della riflessione dell’arte italiana di questo scorcio di anni. Specie alla fine del decennio Sessanta, con il disegno si riesce a far coincidere forma e contenuto, a eliminare, quando occorre, l’ingombro del materiale, descrivendo ‘analiticamente’ il pensiero che è l’opera in modo immediato e ‘povero’, fino ad arrivare a una sorta di grado zero della rappresentazione e dell’astrazione, pari al fotografico o alla scrittura, e tale da far ‘rinascere’ oggetti, immagini e concetti. Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Ketty La Rocca, Claudio Parmiggiani, Giulio Paolini sono artisti diversi che pure condividono l’esercizio del disegno e il suo impiego per una ‘riscrittura’ delle cose (che siano immagini, quadratini, archetipi, o strumenti essenziali dell’arte e della visione): una sorta di pratica della forma che fa appunto del disegno progetto e oggetto, stadio che prepara all’opera ma anche, in piena neo-avanguardia, l’opera, il lavoro, assumendo, all’occorrenza, sviluppi che vanno oltre il foglio e la matita. Il disegno si fa infatti, proprio a partire da questi anni, – è importante ribadirlo – con una quantità di strumenti e un’ampia gamma di atti, cosicché disegnare significa anche scrivere, copiare, ricalcare, cancellare, calcare, fino a trasformare in disegno, e usare in tal senso, anche quello che da un punto di vista squisitamente tecnico non lo è: disegnare negli anni Settanta è dunque abbozzare, tracciare dei segni, scrivere degli appunti, immaginare su un foglio uno spazio, compiere un’azione: è – per parafrasare il titolo di un’importantissima mostra – visualizzare processi di pensiero. Processi di pensiero: il disegno di Alighiero Boetti La vicenda di Alighiero Boetti, che all’indomani della manifestazione amalfitana di Arte Povera/Azioni povere passa all’uso dei davvero semplici foglio e matita10, e con questi crea

10 «A questo punto, allora, ti prendi uno spazio piccolissimo, veramente povero nel senso della semplicità, come un foglio di carta quadrettata, e costruisci una regola iniziale che ti soddisfi, e ti trovi a cimentarti con una

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lavori come il Cimento dell’armonia e dell’invenzione (1969, figg. 2a-2b), è solo uno degli esempi più chiari del superamento dell’egemonia dei materiali e conferma quanto proprio l’uso della matita e del foglio, inteso come disegno, è rivelatore dell’apertura ‘analitica’ dell’arte italiana della fine degli anni Sessanta. Nella ricerca di Boetti, il disegnare, il copiare, il ricalcare sono azioni tese a sperimentare spazi e regole nuovi. Nel caso dell’opera citata, il segno, di volta in volta giocato sul confine tra regolare e irregolare, nell’azione del ricalco del foglio quadrettato, è capace di registrare variazioni di mano e di animo, e assume molti e profondi significati. Questo sistema operativo semplice e fortemente poetico, come tutti quelli adottati da Boetti, codifica e decodifica realtà e verità, le discute, ci gioca, collegando in maniera magistrale un astratto diagramma di segni alla vita e alla realtà. In Mettere al mondo il mondo (1972, fig. 3)11, formulata l’idea, deciso il sistema12, l’artista affida l’esecuzione ad atri, usando un procedimento sì elementare, ma impreziosito dal tempo, arricchito dal gesto delle persone, dalla diversità e dall’alterità delle mani che agiscono sul foglio con tratti tra loro diversissimi. Lo spazio è così riempito a biro lasciando emergere, in negativo, il disegno di alcune virgole (anche queste un omaggio al tempo, o forse un omaggio al simbolo che sostituisce la ‘e’ di congiunzione tra i nomi Alighiero e Boetti).

cosa che più è piccola più ti da libertà di azione individuale, una possibilità di indagine, di informazione». BOETTI 2002, p. 36. 11 «Arrivo all’hotel e mi dicono che il mio socio afgano è a Isotif un paesino a circa 40 km da Kabul. Prendo di nuovo un taxi e parto […] Sono seduto sul taxi, le dita percuotono il tamburo, il fumo amplifica tutto e li mi arriva in testa questa frase: ‘mettere al mondo il mondo’. Io che ore prima sono stato in una casa a Torino, ora mi vedo passare una carovana anno mille, e sono io l’artefice di questa visione sono io che ho creato quell’immagine. Cerco un pezzo di carta, piccolo piccolo, e ci scrivo sopra mettere al mondo il mondo». BOETTI 1992, op. cit., p. 44. 12 Nelle prime opere a biro risalenti al 1971 l’artista richiede agli esecutori di attenersi a una tratteggiatura che segua una trama di piccoli quadrati di circa 4 cm; successivamente lascia più spazio all’interpretazione personale del segno. Cfr. LAUTER 1998A, p. 47.

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L’insieme, una volta compiuto, leggendo le lettere dell’alfabeto in alto, combinate con le virgole galleggianti sull’inchiostro, rivela la frase che è poi il titolo, e conferma l’attitudine dell’artista a una semplificazione che rivela la varietà nell’ordine e il disordine nella regola: la costellazione di virgole apparentemente lanciate a caso sulla superficie a biro rivela, a ben guardare, l’esistenza del codice e il suo risultato. L’umanizzazione del sistema, accentuata dall’affidamento ‘della messa al mondo’ a mani maschili e femminili, crea un’opera di clima concettuale che possiede però tutto il fascino del cromatismo vario dei gesti che l’hanno composta; è la combinazione perfetta tra il fattore umano e casuale e la regola, è pura poesia in forma di opera d’arte. Proprio prendendo ad esempio le vicende poveriste di fine anni Sessanta per un’indagine sul significato del disegno in quegli anni, può essere interessante ripercorrere la vicenda della mostra curata da Jean Christophe Ammann al museo di Lucerna nel maggio del 1970. L’esposizione e il suo catalogo illustrano la giovane neoavanguardia italiana attraverso interventi che sono – come recita il titolo – Processi di pensiero visualizzati (fig. 4). Gli artisti invitati – Anselmo, Boetti, Calzolari, Fabro, Griffa, Kounellis, Maini, Mattiacci, Merz, Paolini, Penone, Pistoletto, Prini, Salvo, Zorio – appartengono tutti, fatta eccezione per Griffa e Maini, al gruppo di Arte Povera e tutti presentano, secondo il filo conduttore della mostra, opere in forma di disegni, appunti, note. Già due eventi internazionali che avevano ospitato ricerche italiane avevano posto l’accento sulla smaterializzazione dell’arte: Op Losse Schroeven. Situaties en Cryptostructuren (On loose screws. Situations and Cryptostructures), a cura di Wim Beeren, che si tiene allo Stedelijk Museum di Amsterdam dal 15 marzo al 27 aprile 1969, e la mostra Live in Your Head. When Attitudes Become Form. Works – Concepts - Processes - Situations - Information, a cura di Harald Szeeman alla Kunsthalle di Berna dal 22 marzo al 27 aprile 1969. Nel primo caso ci si propone di documentare una situazione in fieri, si decide di presentare in catalogo anche progetti non ancora realizzati; nel secondo il sottotitolo in

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quattro lingue chiarisce le modalità operative di una temperie creativa fondata sul rifiuto della forma artistica mediata, e favorevole invece a una diretta relazione con lo spazio della vita, spostando l’accento dal risultato al processo. Nel caso di Processi di pensiero visualizzati, tecnica, processo e opera coincidono. Il punto di partenza è appunto l’Arte Povera – si tratta anzi della prima mostra internazionale dedicata esclusivamente ai suoi artisti – che, a dispetto del mondo tecnicizzato in cui si inserisce, impiega mezzi semplici e significanti, coerente a una forma di autoemarginazione in grado di riaffermare il principio per cui la sensibilità colta nella sua autenticità oggettivata riflette e incarna una rievocazione naturale di fenomeni ambientali universali e individuali13.

Proprio dalla definizione di Arte Povera il curatore decide di cominciare il catalogo traducendo e pubblicando i due interventi di Celant per le prime celebri mostre dedicate al movimento: quella alla Bertesca di Genova (27 settembre-20 ottobre 1967) e quella alla Galleria De Foscherari di Bologna (24 febbraio-15 marzo 1968). Si tratta di interventi ormai notissimi che mostrano, qualche anno prima, un certo anticipo della corrente, o almeno del suo patrocinio critico, su elementi essenziali nel passaggio analitico dell’arte italiana degli anni Settanta. Nel 1967 Celant tratteggia le caratteristiche fondamentali della povertà annunciando che la banalità è salita sul carro dell’arte:

La presenza fisica, il comportamento, nel loro essere ed esistere sono arte. […] Il processo linguistico consiste nel togliere, nell’eliminare, nel ridurre ai minimi termini, […]. Così nelle arti visuali la realtà visiva e plastica è vista nel suo accadere e nel suo essere.

L’arte dunque rifiuta ogni complicatio visuale non essenziale e si spoglia da ogni sovrastruttura storico-simbolica: è dato di fatto, presenza, specie rispetto agli esempi di Boetti, Fabro, Kounellis,

13 PROCESSI DI PENSIERO 1970.

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Prini e Pascali in cui tutto è comportamento, essere fisico o materico. Comportamento ribadito e precisato da Celant in occasione della mostra di Genova, dove definisce l’Arte Povera come

un esserci teso all’identificazione, cosciente, reale = reale, azione = azione, pensiero = pensiero, evento = evento, un’arte che predilige l’essenzialità informazionale, il comporre teso a spogliare l’immagine della sua ambiguità e della convenzione che ha fatto dell’immagine la negazione di un concetto. […] Arte come stimolo a verificare continuamente il proprio grado di esistenza (mentale e fisica) […].

L’Arte Povera non è dunque un operare illustrativo ma intende presentare il significato fattuale dell’immagine, come azione cosciente, momento «che tende alla “decultura”, alla regressione dell’immagine allo stadio preiconografico, […] alla natura intesa secondo le unità democritee e all’uomo come “frammento fisiologico e mentale”». Sono proprio gli elementi della presentazione e dell’essenzialità – che così chiaramente emergono dalla definizione critica della corrente – a interessare Ammann che sviluppa l’idea della riduzione fino a coinvolgere, prima dell’immagine, lo stesso processo che la genera e a richiedere agli artisti un intervento che mostri, appunto, lo svolgimento del loro pensiero. Delle figure coinvolte, solo Alighiero Boetti e Giorgio Griffa sono rappresentati in catalogo con lavori che sono (di)segni. Il primo, in particolare, pare incarnare con il suo lavoro il titolo della mostra: è un visualizzatore di processi di pensiero. Nelle pagine a lui dedicate riporta appunti e citazioni scritte a mano – torna la grafia – e li associa a delle forme disegnate: un cerchio, una spirale, una x, il simbolo dell’infinito. La scrittura, come accade ed è accaduto altre volte nel lavoro di questo artista, assolve alla triplice funzione di azione, segno e disegno, ed è giocata in questo caso parallelamente alla scelta dei simboli, affatto casuale, che rimanda ad alcuni elementi tipici dell’arte (e della filosofia) di Boetti, tutti duali. Così il cerchio – «GREMBO, GROTTACAVERNA, CORDONE

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OMBELICALE, CONCAVO E CONVESSO, LABIRINTO» – tra i più antichi simboli sacri – condiviso da molte culture, dal sufismo al buddismo, – richiama l’unità e la perfezione e l’artista vi accosta il labirinto nella sua duplice accezione di circolare e lineare, unità e molteplicità. Segue la spirale – « ASSENZA E PRESENZA. ORBITA. APERTO È ROTTO. “NULLA PUO’ ESSERE UNICO E INTERO CHE NON SIA STATO LACERATO” (Yeats)» – il simbolo cosmico di crescita e declino, evoluzione e involuzione, espansione e contrazione. La x – «LA CLESSIDRA. IL PUNTO TEMPO. LA COLONNA SENZA FINE DI BRANCUSI QUANDO LA DESTRA DIVENTA LA SINISTRA E LA SINISTRA LA DESTRA. “L’UOMO STA COSTITUZIONALMENTE CERCANDO CIÒ CHE È COSTITUZIONALMENTE IMPOSSIBILE” (Roheim)» – e il segno dell’infinito, qualcosa senza limiti né compimento – «DOPPIO ZERO UGUALE INFINITO. “LA NOTTE DÀ LUCE ALLA NOTTE, LA DOPPIA OSCURITÀ O NEGAZIONE DELLA NEGAZIONE. (Hopkins, The Habit of Perfection)”». Disegnando e scrivendo questi concetti Boetti visualizza processi mentali basilari di tutto il suo lavoro, li descrive tracciandoli in linee che prendono spazio e diventano simboli, crea figure che acquistano significato proprio nell’essere disegnate, coerentemente all’idea che il procedimento, più che il risultato, appassiona l’artista. Ricorda Annemarie Sauzeau:

l’enunciato iniziale in un lavoro di Boetti – intendo il materiale scelto, la situazione lavorativa, il “che fare” e con che – è sempre di una disarmante e spaesante elementarità. […] Non solo il suo enunciato iniziale è estraneo alla tradizione, alla retorica dell’arte, ma altrettanto la regola del gioco che ne svilupperà il meccanismo […] e nasce un’altra cosa, fonte di inedito piacere visivo e di interrogazione di senso. Questi “giochi” d’arte, in quanto non protetti da alcuna patina di mestiere, affrontano nel rischio più

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radicale la funzione di “messa in opera della verità” che all’arte riconoscono i filosofi14.

In questo processo di messa in opera della verità la scrittura è centrale. «Scrivere è disegnare»15 – dichiara più volte l’artista – ma soprattutto è un modo efficace, un’unità di corpo, segno, spazio e tempo per rendere un concetto immediatamente afferrabile allo sguardo16, in un ‘lampo di intelletto’17. Per Boetti, viaggiatore e avventuriero anche nelle letture, sono importanti suggestioni le filosofie islamica e cinese, l’idea di una scrittura (e riscrittura) di frasi, parole, simboli, codici magici che sono insieme segno e disegno, forma e concetto, capaci di rendere congiuntamente visibile e invisibile, di percorrere appunto i processi del pensiero e le sue deviazioni e, magia più grande, di raffigurarli. Gli spazi allusi: il disegno in Giulio Paolini La ricerca di Giulio Paolini è coerente fin dagli esordi all’indagine sulla percezione e sullo spazio come condizioni essenziali del fare arte, oltre che, naturalmente, della realtà e dei suoi codici di osservazione. Costituiti principalmente da tele bianche, fogli da disegno, calchi in gesso, riproduzioni fotografiche, e plexiglas, i suoi lavori mostrano subito l’ossatura della visione, la costruzione che la prepara e l’annuncia. A ciò si aggiungono, più avanti negli anni, complessi giochi visuali tra spettatore, opera e/o figure silenziose dalle fattezze classiche. L’uso della quadratura, dell’immagine incompleta, dello sdoppiamento sono – già dal celebre Premio Lissone del 1961 – sistemi per indagare gli elementi intellettuali e ‘pratici’ della

14 SAUZEAU 1996, p.35. 15 Cfr. PASINI 1987. 16 Cfr. LAUTER 1998B, pp. 127-145. 17 Questa espressione è utilizzata da Anne Marie Sauzeau scrivendo delle preferenze di Alighiero Boetti in materia d’arte «Alighiero ha sempre preferito i lampi dell’intelletto all’elaborazioni dell’intellettualità» SAUZEAU 2006, p. 41.

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pittura, ma anche evocano la visione di quel che non c’è. Fin da subito quindi la focalizzazione sui primi gesti dell’artista e soprattutto sul suo sguardo, capace di strutturare lo spazio e la sostanza delle immagini presenti e immaginate, costituiscono la base e l’essenza delle operazioni di Paolini. Di lui, nel 1967, Germano Celant scrive:

Il suo impegno è quindi indirizzato a decifrare il linguaggio visuale come “limite iniziale del possibile” (Barthes). […] Una serie di libere tracce, che non intaccano la totalità del linguaggio, ma ne sottolineano la potenzialità, che è energia infinita dell’arte stessa18.

Dunque nella produzione di questo artista, specie quella degli anni Sessanta, si mostra una capacità dell’opera di essere potenziale, di fare vedere oltre il visibile, composta come è attraverso segni e gesti costruttivi del possibile, in spazi e tempi in divenire e, soprattutto ‘esistita’ attraverso lo sguardo di chi la coglie, uno sguardo prensile capace di afferrare anche ciò che non è visibile. Marisa Volpi, all’apertura di un articolo che dedica all’artista nel 1973, inserisce una citazione da Storia dell’arte presso gli antichi di J. J. Winckelmann: «Chiamo indeterminata la bellezza che non è composta di alcuna altra linea né di alcun altro punto se non quelli che propriamente costituiscono la bellezza»19, indicando così tutta l’essenza classica presente nel lavoro di Paolini, quella pulizia della visione che, negli anni Sessanta specialmente, va a coincidere con una sorta di rinuncia alla rappresentazione del visibile. I suoi lavori sono anzitutto degli schemi, degli spazi assoluti, da percorrere con lo sguardo – come suggerisce Trini20 – procedendo a tentoni come fossimo ciechi. Racconta l’artista a Carla Lonzi:

18 CELANT 1967B, p. 268. 19 VOLPI 1973, p. 84. 20 TRINI 1972, pp.60-67.

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Non credo assolutamente che si possa arrivare a coprire degli spazi, mentali o fisici che siano, a coprirli in modo effettivo, concreto, cioè con oggetti, con proposte formali […]. Piuttosto, è possibile non so se dire evocarli o alluderli, […] con mezzi che non abbiano la pretesa di essere significanti … per consolarmi […] di aver dato vita a un modello, a un’idea e non a un oggetto vero e proprio21.

In Vedo, la decifrazione del mio campo visivo (1969, fig. 5), l’artista traccia, su dei fogli disposti a parete, innumerevoli punti a matita che riportano l’ampiezza del proprio campo visivo, così disegnato attraverso una sorta di protensione mentale e fisica, verifica dell’atto e dello spazio percettivo del vedere. Trini analizzando il lavoro chiama in causa Lacan: «Paolini è a ridosso del campo visivo che ispeziona alla cieca, […] non mette in scena il suo sguardo, […] ma lo sguardo di noi che lo vediamo cieco: “ciò che mi determina essenzialmente nel visibile è lo sguardo che è fuori” (Lacan)»22. Questa lettura coincide con l’intenzione dell’artista – almeno fino alla prima metà degli anni Settanta – di lavorare anzitutto sul linguaggio stesso del fare arte nel modo meno corporeo possibile e di soffermarsi sul vedere, dichiara Paolini: «Non posso affermare che la mia ricerca è dedicata al vero (al visibile) […] unica storia di queste opere è l’assoluta dedizione al fenomeno, antico del vedere»23. Dunque l’opera in certo modo preesiste all’azione dell’artista la cui ricerca è orientata verso immagini assolute, legate a materiali e tecniche elementari inerenti alla natura stessa dell’arte e della visione. Secondo questi principi Vedo è un lavoro sul guardare in cui tecnica e immagine coincidono: la composizione di punti a matita, che è il procedimento e l’opera, – si tratta infatti della traduzione in cifre disegnate del vedere dell’artista (artefice e primo fruitore) – parla dell’arte in sé e al di fuori di ogni circostanze individuale. Come nel caso della quadratura la

21 PAOLINI 1969, pp. 16-17. 22 TRINI 1972, p.61. 23 PAOLINI 1975, p. 42

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struttura era dedotta oggettivamente dal foglio, secondo un atteggiamento constatativo, così i punti del campo visivo. Quello di Paolini è dunque un disegno costruttivo dello sguardo e del vedere, una sorta di percezione predesign che mostra, attraverso il minimamente visibile, una tensione che coincide – nei casi citati, attraverso il disegnare – con la riproposizione dei meccanismi creativi dell’opera, testimonianza descrittiva, e quindi aperta, di quello che è stato il suo itinerario. Questo genere di immagini sono per l’artista – almeno fino al 1968-1969 – composite sul piano dei significati e delle suggestioni che veicolano, ma in una forma del tutto disadorna e tesa alla descrizione di processi di visione e immaginazione. Dichiara l’artista:

Mi sembra, […] che le mie opere non abbiano nessun futuro. Che si esauriscano e siano esaurite nel momento stesso in cui nascono, nel senso che sono testimonianza […]. Si tratta, appunto, di risultati molto vicini a una certa fissità d’immagine, a un’immagine elaborata, sovrapposta, complessa, ma ancora un po’ meno di semplice. […] Appena più in qua della semplicità c’è tutto, insomma, ci sono tutti i meccanismi e le reazioni, i pensieri … quindi io cerco di fermare questa fase complessa dell’elaborazione di una cosa24.

24 PAOLINI 1969, pp. 378-379.

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Didascalie Fig. 1. Giulio Paolini, Disegno geometrico, 1960, tempera e inchiostro su

tela, 40 x 60 cm. Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino. © Giulio Paolini. Foto Mario Sarotto. Courtesy Archivio Giulio Paolini, Torino.

Figg. 2a-2b. Alighiero Boetti, Cimento dell’armonia e dell’invenzione, visione d’insieme e particolare, 1969, 25 elementi, 70 x 50 cm cad. Milano, collezione privata. Photo courtesy Fondazione Alighiero e Boetti. © Alighiero Boetti by SIAE 2014.

Fig. 3. Alighiero Boetti, Mettere al mondo il mondo 1972-1973, biro blu su carta intelata, 2 elementi, ognuno 159x164 cm. Photo courtesy Fondazione Alighiero e Boetti. © Alighiero Boetti by SIAE 2014.

Fig. 4. Alighiero Boetti, Proposta grafica per il catalogo della mostra Processi di pensiero visualizzati – Junge italienische Avangarde, 1970.

Fig. 5. Giulio Paolini, Vedo (la decifrazione del mio campo visivo), 1969, matita su parete, 225 x 375 cm. © Giulio Paolini. Foto Anna Piva. Courtesy Archivio Giulio Paolini, Torino.

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