Ai lumi dei suoni sacri

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Ai lumi dei suoni sacri 1 di Carla Conti Aborro in su la scena/ Un canoro elefante, Che si strascina a pena/ Su le adipose piante, E manda per gran foce /Di bocca un fil di voce. Ahi pera lo spietato/ Genitor che primiero Tentò di ferro armato/ L'esecrabile e fiero Misfatto onde si duole/ La mutilata prole. La Musica, Giuseppe Parini Nel secolo dei lumi, che si apre con le guerre di successione spagnola, polacca e austriaca e termina con la rivoluzione francese, si compie il processo di reinserimento dell'Italia nella politica europea e a Napoli inizia ad affemarsi l’identità di una classe sociale che, pur chiusa nei limiti del particolarismo dinastico da un lato e nell’obbedienza al potere religioso dall’altra, 1 Questo intervento nasce dalla conversazione omonima, tenuta con Francesco Nocerino, l’8 gennaio 2009 nell’ambito del ciclo di Conversazioni per il progetto La Città Cantante, presso la Sala degli Angeli del Suor Orsola Benincasa, a cui hanno fatto seguito quella di Agostino Ziino, Luoghi, forme e occasioni del sacro, del 13 gennaio, quella di Vincenzo De Gregorio e Antonio Florio, Musici di Chiesa, Muisci in Chiesa, del 22 gennaio e l’ultima tenuta da Marino Niola, Archeologia del sacro, del 28 gennaio. 1

Transcript of Ai lumi dei suoni sacri

Ai lumi dei suoni sacri1

di Carla Conti

Aborro in su la scena/ Un canoro elefante,

Che si strascina a pena/ Su le adipose piante,

E manda per gran foce /Di bocca un fil di voce.

Ahi pera lo spietato/ Genitor che primiero

Tentò di ferro armato/ L'esecrabile e fiero 

Misfatto onde si duole/ La mutilata prole.

La Musica, Giuseppe Parini

Nel secolo dei lumi, che si apre con le guerre di

successione spagnola, polacca e austriaca e termina

con la rivoluzione francese, si compie il processo

di reinserimento dell'Italia nella politica europea

e a Napoli inizia ad affemarsi l’identità di una

classe sociale che, pur chiusa nei limiti del

particolarismo dinastico da un lato e

nell’obbedienza al potere religioso dall’altra,

1 Questo intervento nasce dalla conversazione omonima, tenuta conFrancesco Nocerino, l’8 gennaio 2009 nell’ambito del ciclo diConversazioni per il progetto La Città Cantante, presso la Sala degli Angelidel Suor Orsola Benincasa, a cui hanno fatto seguito quella di AgostinoZiino, Luoghi, forme e occasioni del sacro, del 13 gennaio, quella di Vincenzo DeGregorio e Antonio Florio, Musici di Chiesa, Muisci in Chiesa, del 22 gennaio el’ultima tenuta da Marino Niola, Archeologia del sacro, del 28 gennaio.

1

aspira ai nuovi valori dell’illuminismo cercando di

adattarli alla situazione più culturale che sociale

del meridione. In questo clima ideologico,

culturale e filosofico che cerca e costruisce un

Mezzogiorno geografico da opporre al Settentrione

razionalistico, Napoli diventa lo «scenario

archeologico e paesaggistico della rievocazione del

mondo antico»2, e la sua rappresentazione si

struttura innanzitutto sulla musica. All’Europa

fredda, nordica che alimenta di calcolo la

modernità borghese serve un sud di contrasto e

«l’elemento dinamico, di questa costruzione, è la

musica, in cui i viaggiatori credono di ritrovare

il gesto misterioso della danzatrice della villa

dei misteri»3.

Dalla condizione che il Settentrione e il Meridione

hanno entrambi bisogno di un opposto per affermarsi

nasce quel complesso processo di maturazione di una

coscienza civile transnazionale in cui la musica,

per la prima volta, è ammessa al pari delle altre

arti nel dibattito degli intellettuali, non

22 Marino Niola, Archeologia del sacro, cit33 Ibidem

2

relegata più nel suo ambito specialistico. Così le

querelles sul presunto predominio della musica

francese o di quella italiana, del testo dei

libretti o della musica del melodramma, sono la

base dei mille pamphlets di scrittori e polemisti,

che animano la scena culturale europea.

Ma se il teatro domina le discussioni, nei trattati

principali di composizione, quelli che dettano il

trend europeo, presenti nei fondi musicali

napoletani dell’epoca e posseduti, al contempo, da

Mozart e Beethoven, si erge incontrastato il ruolo

della musica sacra.

Johann Mattheson nel Der Vollkommene Capellmeister, del

1739 scrive che «dobbiamo cercare il più grande

vantaggio di una musica veramente gioiosa nella

lode di Dio e nel rendere grazie con giubilo» e

auspica che «il canto e la musica gioiosa in

chiesa, preghiera ed onore a Dio» siano «preferiti

a tutti gli altri». Così nel suo Gradus ad Parnassum

del 1761 Johann Joseph Fux raccomanda che «siccome

le cose sagre per dignità avanzano le profane, […]

niuno sia per dubitare, che la Musica dedicata al

culto divino, e durante in eterno, di gran lunga

3

per nobiltà ottenga il primo luogo, e quindi

particolarmente a questa si debba attendere». E

ancora Heinrich Christoph Koch in un suo saggio

d’introduzione al comporre, Versuch einer Anleitung zur

Komposition del 1782, avverte che bisogna tener conto

dei tempi adeguati all’esecuzione della musica

sacra, in quanto possono essere diversi da quelli

per la musica da camera, e quest’ultimi dai tempi

in opere e sinfonie, gettando nuova luce su quella

che è una questione molto dibattuta, attualmente,

circa la prassi esecutiva della musica

settecentesca.

Se allora il teatro musicale è il prodotto

artistico nazionale, e napoletano in particolar

modo, maggiormente conosciuto nel mondo, la musica

sacra ricopre un ruolo di “diplomazia sonora”, è

tassonomicamente presente sul territorio, è

quantitativamente sovrabbondante anche se molti

aspetti attendono di essere messi in luce e solo di

recente si sono avvalsi degli studi delle fonti4.

4 Agostino Ziino nel corso della sua conversazione ha fatto riferimentoallo stato degli studi citando i recenti lavori pubblicati o in corso distampa di Paologiovanni Maione, Marta Columbro, Marina Marino, LucioTufano, Ausilia Magaudda, Danilo Costantini, Claudio Baccigalupi.

4

Alla base della produzione e del consumo di musica

sacra a Napoli nel XVIII secolo c’è un forte legame

con l’espansione delle più proficue scuole musicali

europee: i quattro Conservatori5. La specificità di

queste istituzioni caritatevoli, già nel secolo

precedente, si era delineata verso un percorso

formativo musicale dei bambini accolti, per

preservarli da un destino di povertà e devianza e

questa caratteristica, che vede l’indirizzo

esclusivamente musicale di un’istituzione, non ha

nel Sei e Settecento, corrispettivo in tutta

Italia6. Alla presenza, dunque, di un gran numero

di “figlioli, mezzani ed eunuchi” che a Napoli si

dedicavano all’apprendimento della musica in tutte

le sue componenti, tanto interpretative quanto

compositive, è ascrivibile quel fermento musicale

che animò la città7. I fanciulli, infatti, erano

5 Quello dei Poveri di Gesù Cristo fu soppresso nel 1743, poi sul finiredel secolo, nel 1797, il conservatorio di S. Onofrio a Capuana e quellodi S. Maria di Loreto furono uniti. Con Giuseppe Bonaparte e GioacchinoMurat continuarono le vicende di accorpamenti, con quello della Pietàdei Turchini, fino al 1807 quando si configurò l’attuale sede edenominazione.6 Si pensi, ad esempio, al Conservatorio di Milano, inaugurato il 3settembre del 1808, la cui istituzione si deve a Eugenio Napoleone.7 come è stato sottolineato anche nel corso delle altre conversazioni, da Agostino Ziino, Vincenzo De Gregorio e Antonio Florio.

5

chiamati a prestare la loro opera, specie come

cantori, nelle celebrazioni religiose, in

particolar modo quelle solenni come le processioni

funebri, o le occasioni legate comunque alla corte

e all’aristocrazia, ma anche nelle feste private e

in tutti i luoghi dove dove era richiesta la

presenza musicale, anche scenica diremmo, del coro,

contribuendo, in parte, alla più grande fioritura

di produzione di teatro musicale che Napoli ebbe

nel Settecento. Ai bagliori della fama di queste

voci è stato sempre posto un velo di disappunto per

la pratica della castrazione che,

come è emerso da documenti dell’archivio di S. Pietro a

Majella, veniva praticata non solo privatamente ma anche nei

conservatori con la responsabilità dei gestori di queste

istituzioni, attestata dalle cedole di pagamento dei

cerusici che operavano i bambini.8

E se per alcuni di questi castrati, i cui nomi

cedono alla musicalità dei diminutivi: Cusanino,

Farfallino, Matteuccio, Farinelli, Caffarelli,

8 Vincenzo De Gregorio, Musici di Chiesa, Musici in Chiesa, cit

6

Senesino, Gizziello, Nicolino, si aprirono le porte

dello star system dell’epoca, diventando delle vere

icone di quell’irripetibile stagione musicale,

famosi per le loro voci, che «ne’ tempo o

lontananza / potrà sparger d’oblio», per gli altri,

che non raggiungevano la celebrità, si configurava

una vita come musicista o negli ordini minori, non

essendo ammessi, negli ordini maggiori a celebrare

messa, i “mutilati”.

La vivacità musicale delle attività legate alla

musica sacra a Napoli è da ricercarsi anche nella

varietà di circostanze per le quali si

commissionava e di luoghi dove essa si eseguiva.

Nel Settecento non sono le personalità musicali a

determinare il prestigio di una manifestazione, ché

ancora non si è affermata l’estetica del genio,

bensì sono le istituzioni che garantiscono il

successo della carriera di un compositore. Per le

celebrazioni solenni, infatti, vi era un enorme

dispiego di mezzi artistici: musica innanzitutto,

ma anche macchine pirotecniche e apparati di

architetture effimere e mobili, fatte di legno,

stucchi, e panneggi. Il fulcro di tali spettacoli

7

erano le basiliche come punto di partenza di

processioni che investivano di suoni la capitale, a

cui partecipava l’intera società partenopea, dal re

e i vicerè fino ai lazzaroni. Il tutto costituiva

una rete economica di notevole interesse

documentata sì dal numero delle partiture e dei

libretti appositamente scritti, ma sosprattutto

negli atti notarili, nelle polizze di pagamento,

nelle cronache cittadine, nei bozzetti degli

architetti impegnati.

Si contendono le migliori maestranze le cappelle

musicali stabili e tra esse: le basiliche

cittadine, la Cappella Reale e quella del Tesoro di

San Gennaro. Quest’ultima prevedeva una

remunerazione a prestazione di musicisti cosiddetti

“di piazza”, ovvero ingaggiati secondo le esigenze

del calendario festivo redatto dai deputati e con

modalità assunzione diverse: o perchè direttamente

conosciuti dai deputati stessi, o per concorso, o

per appartenenza a famiglie di musicisti che già vi

avevano lavorato, come nel caso dei Fago, maestri

della cappella con Nicola dal 1709 al 31 che era

successo al Caresana, poi Pasquale dal ‘66 al ‘76 e

8

Lorenzo dal ‘76 al 1781. Molti musicisti aspirarono

a questo incarico, tra cui Francesco Fenaroli e

Francesco Durante che, però, non ottennero alcuna

mansione. Le occasioni di far musica erano

molteplici, sostenute economicamente dai “Sedili

nobili” della città, dalla Deputazione del Tesoro,

e vanno da quelle canoniche (come il primo sabato

di maggio e il 19 settembre per il miracolo dello

scioglimento del sangue), alle feste di

ringraziamento, specie per i pericoli scampati con

le eruzioni del Vesuvio e i terremoti. Molta musica

si eseguiva anche nelle chiese, come quelle di

Monteoliveto, di San Giacomo degli Spagnoli o

dell’Annunziata, quest’ultima fu distrutta

dall’incendio del 1757, e si persero molte

testimonianze. Insieme alle chiese bisogna

ricordare gli oratori: l’Oratorio del Divino Amore,

Oratorio del SS. Crocifisso dei Teatini di S. Paolo

Maggiore e la Confraternita di Maria SS. del Porto

e quella di S. Ivo, dei Teatini dei SS. Apostoli.

L’oratorio è caratteristico tanto della vita

religiosa napoletana quanto di quella musicale. La

congregazione, infatti, fondata a Roma nel 1565 già

9

nel 1586 aveva una sua sede partenopea. All’inizio

del XVIII secolo l’istituzione romana e quella

napoletana si separarono e qui da noi i sacerdoti

presero il nome di Girolamini dal primo gruppo nato

a San Girolamo della Carità ma continuarono a dare,

come a Roma, molta importanza alla musica fino a

istituire una figura di musicae praefectus per

soprintendere alle molteplici attività, con

l’apporto di compositori noti quali: Domenico Sarro

e Alessandro Scarlatti. Con Scarlatti entriamo

forse nel più prestigioso centro di musica sacra

napoletano: la Cappella Reale che, a partire dal

XIV secolo con Roberto d’Angiò fino a Francesco II

di Borbone, accolse al suo servizio i migliori

musicisti disponibili a Napoli. Scarlatti vi

approda dopo essere stato a Roma e alla corte di

Cristina di Svezia, e assume l’incarico di maestro

della Real Cappella nel 1684 e resta fino al 1702.

Napoli tornerà nel 1708 e, dopo una pausa romana,

si stabilirà nella capitale partenopea intorno al

’20 fino alla morte. La sua produzione di musica

sacra è esemplare per la definizione del genere in

quegli anni: con messe, mottetti, responsori nello

10

stile arcaico alla Palestrina e oratori. Lo spirito

austero che permea la sua scrittura non è

funzionale solo alla destinazione d’uso, diremmo,

ma è un tratto di pertinenza così forte da essere

presente anche nella sua produzione strumentale,

tanto che riguardo ai concerti scarlattiani a 7

parti e alle sue dodici sinfonie da concerto,

Charles Burney li definiva «forse troppo severi per

essere suonati in ogni altro posto che non fosse la

chiesa».

Tale è stata l’eco della musica sacra scritta ed

eseguita a Napoli nel XVIII secolo, nonché la sua

influenza sulla produzione coeva europea che si può

parlare di messa e mottetto in stile napoletano. In un

dialogo tra la “prima e la seconda prattica”9, la

messa e il mottetto napoletani sono concepiti a

sezioni, con una serie d’interventi corali, arie,

duetti, che realizzano anche singoli versetti dei

testi liturgici, secondo il principio della forma

chiusa. L’influenza dello stile teatrale è

innegabile non soltanto dal punto di vista formale

9 Sulle differenze tra queste tendenze compositive si è soffermato ancheAntonio Florio.

11

ma, anche, per le soluzioni ritmiche armoniche,

specie nell’uso delle progressioni e delle cellule

iterate. Si pensi alle prime tre battute del

mottetto a tre voci Adoramus crucem tuam di Nicola

Zingarelli che impiega, iterandolo, lo stesso

frammento, o l’“Amen” finale dal Credo di Alessandro

Scarlatti a quattro voci, in si bemolle maggiore,

interamente costruito sulla progressione I-IV. A

questo schema si alterna o spesso si affianca lo

stile antiquus, detto anche stile osservato, in

contrapposizione con lo stile galante, che fonda le

sue basi nella polifonia palestriniana, con il

sostegno obbligato o ad libitum dell’organo, che in

alcuni casi come quello della Cappella Sistina non

era neppure ammesso, in quanto si cantava

rigorosamente “a cappella”. Le dimensioni delle

sezioni aumentano progressivamente tanto che i

brani possono avere vita propria e la messa

risultare, così, formata solo da “Kyrie e Gloria” e

si parla, allora, di Missa brevis10 in cui il primo

brano in genere impegna l’intera compagine corale

10 Johann Joseph Fux parla di “Missa brevis solemnitatis” mentre Johann ErnstEberlin distingue “Missa brevis et solemnis”.

12

alternando sezioni fugate e omoritmiche, mentre il

Gloria è ripartito in più sezioni con l’intervento

spesso di voci soliste.

Ma si riscontra anche il tipo di messa-cantata per

l’ibridazione delle due forme, nonostante qui non

sia presente l’elemento di raccordo tra le sezioni

che formano la cantata, specie quella di aria

protestante, che consiste nel recitativo. La

tipologia della “messa napoletana” ci riporta alle

messe di Mozart (si veda la Missa brevis in re minore

per soli, coro e orchestra KV 65 del 1769, “brevis”

per la durata di circa venti minuti), alla Messa di

Bach in si minore BWV 232, per San Tommaso. Il

secondo tipo di composizioni, invece, continua la

tradizione romana conservando le caratteristiche

tipiche della musica liturgica specie quel

modalismo, unito ai procedimenti mottettistici

della musica figurate, che Scarlatti adopera, a

esempio, nel suo Miserere a quattro voci in mi

minore. Ma non bisogna immaginare delle scelte

esclusive tra l’uno e l’altro stile; in genere i

compositori si dedicarono ed entrambi, poiché se da

un lato la tecnica concertante pervadeva tutti i

13

generi musicali, la polifonia tradizionale iniziava

un cammino di rinnovata fortuna che si concluderà

con il movimento ceciliano nel secolo successivo.

A Napoli, in particolar modo Leonardo Leo, con le

sue quattro messe con soli Kyrie e Gloria, fu un

rappresentante di quella riforma della musica sacra

ispirata proprio alla purezza delle linee melodiche

e alla assenza di influenze teatrali.

Tutte le tecniche contrappuntistiche tradizionali

sono ben rappresentate, con le fuge sull’“Amen”

finale, l’atletismo vocale riservato ai virtuosi

nel “Christe” del Kyrie, momenti meditativi come

quelli del “Qui tollis” e del “Et incarnatus est”

con le voci soliste, e i cromatismi come nel

“Crucifixus” di derivazione madrigalistica. Di

grande suggestione è il “motivo della croce” che

veniva stigmatizzato con gli intervalli di settima

diminuita, in piena osservanza alla Affektenlehre, che

Tommaso Traetta utilizza nell’ “Eja Mater” del suo

Stabat Mater (per soli, coro a quattro voci, archi e

basso continuo). La simmetria formale è un tratto

fortemente ricercato e nei brani di maggior respiro

e si concretizza con l’adozione di una stessa

14

sezione in apertura e in chiusura, come si può

notare nel Magnificat di Durante, in si bemolle

maggiore per quattro voci, archi e continuo, in cui

il fugato del “Magnificat anima mea Dominum”, è

ripreso nel “Sicut erat in principio et nunc et

semper” finale.

La policoralità è tipica pure di questa produzione,

che genera sonorità sfarzose con due o più cori,

contrapposti o ravvicinati, era riservata per le

occasioni di maggior rilievo e si parla dunque di

Missa solemnis con una presenza anche di quattro cori

dove, con il termine “coro”, si indica sia il

gruppo vocale che strumentale. L’organo, in

funzione di sostegno, è quasi onnipresente mentre

altri strumenti, come gli archi, hanno spesso la

destinazione di caratterizzare soprattutto il

ritmo, e c’è poi l’uso di strumenti dialoganti,

“obbligati”, specie con i soli.

Non mancarono anche influssi della sinfonia negli

autori che più di altri operarono in realtà dalla

vivace tradizione strumentale. Già Leo, infatti,

aveva mostrato una scrittura interessante specie

15

per gli archi nei sei concerti per violoncello e

nel concerto per quattro violini.

E queste caratteristiche sono comuni tanto alla

messa quanto al mottetto napoletano11, usato in

diverse occasioni: le funzioni liturgiche non

solenni, le misse pro causa pubblica, i mottetti

pastorali che si erano diffusi in seguito

all’azione vivificatrice operata da S. Alfonso

Maria de’ Liguori in seno alla Controriforma e

ancora per le Quarantore12. Essi, come le messe,

quando erano destinati alle grandi occasioni, erano

concepiti per doppio coro (si vedano i due mottetti

di Francesco Durante Misericordias Domini).

Composizioni sacre solenni, dunque, con organici

imponenti nelle proporzioni per il numero dei

11 Agostino Ziino ha citato le recenti ricerche di Tufano e Baccigalupi sul “mottettone alla napoletana”.12 Le quarantore erano cerimonie religiose legate all’«esposizione dellaSS. Eucaristia per lo spazio continuo di quarant’ore», in cui si pregavaper «quaranta ore ad imitazione dei 40 giorni che Gesù Cristo digiunònel deserto». Esse si diffusero, a partire dalla fine del XVI secolo, inpieno clima controriformista con l’intento di offrire momenti didevozione collettiva nei periodi del carnevale, quando spettacoliprofani e divertenti mascherate favorivano quei comportamenti licenziosiche la chiesa condannava. Si cercò così di ricostruire, all’internodelle chiese, le tipiche processioni del Corpus Domini, che «tutto ilPopolo senza eccettione di persona» viveva come uno dei principalieventi festivi cittadini, con l’allestimento di apparati sceno-tecniciin grado di coinvolgere i fedeli in una sorta di estasi sensoriale fattadi luci, fiori, odori e suoni.

16

musicisti coinvolti, brani che i francesi

definivano à grand choeur. Lo stile mondano però si

attenuava nei periodi riservati alla penitenza: gli

organi e le campane tacevano. Anche questo uso è

un’emanazione della Affektenlehre che, secondo lo

spirito dell’epoca, trasforma elementi di un

preciso codice retorico musicale in divieti e

regole ecclesiastiche.

Ma se è vero che si trattava di musica per

autoconsumo, che spesso determinava

un’iperproduzione, non mancarono però delle

felicissime eccezioni, come lo Stabat Mater di

Pergolesi (che anche Bach conobbe ed introdusse,

con la tecnica della parodia, nel suo salmo 51 a

circa dieci anni dalla stesura avvenuta nel 1736).

La composizione di Pergolesi fu adottata dal 1753

quale moerceau d’honneur in Francia per la Settimana

Santa. O lo Stabat di Pasquale Cafaro del 1785 che a

Napoli si doveva «ogn’anno cantare nella Chiesa

della Solitaria». La grande fioritura nel XVIII

secolo di Stabat Mater, basato su una delle cinque

sequenze latine del Graduale, è dovuta al

ripristino in uso durante la messa del 15 di

17

settembre, dei Septem Dolorum Beatae Mariae Virginis,

ripristino da parte di Papa Benedetto XIII nel

1727, dopo circa duecento anni, in quanto era stato

abrogato dalla liturgia, a opera del Concilio di

Trento alla metà del Cinquecento13. Il canto ebbe

così tanta accoglienza popolare che fu adottato

anche nel corso della preghiera della “via

crucis” , da qui la nascita di alcune tra le pagine

più note del repertorio sacro, si pensi allo Stabat

Mater di Alessandro Scarlatti, del 1723 scritto per

l’Ordine dei Cavalieri della Vergine dei Dolori, lo

stesso per cui Pergolesi scrisse il suo Stabat o

alla versione di Tommaso Traetta che risale alla

metà del secolo.

Insieme con le composizioni per le occasioni

canoniche e le celebrazioni solenni, Napoli vide

anche una copiosa produzione di brani dedicati a

delle singole “esigenze”. Ne sono esempi le Lezioni

per il “triduo delle tenebre” di Nicola Porpora,

Lezione 3.a del Mercoledi S.to ottobre 1732 / Per l'Ill.ma Preg.ma D.

Isabella d'Andrea / di Nicola Porpora e, dello stesso genere,13 Cfr Carla Conti, Lo Stabat Mater di Clotilde Capace Minutolo della Sonora dei Principi diCanosa, in Archivio per la Storia delle donne, vol II, M.D’AuriaEditore, Napoli, 2005, pp 77-99.

18

la Lezzione 4 a voce sola di contralto con salderio e cembalo per

l’ecc.me signore Donna Giovannina e D. Anna Maria Capece Minutolo

de Principi di Canosa musicata da Girolamo Rossi per

queste nobildonne napoletane.

Per questo repertorio di ampie come di piccole

dimensioni, diremmo quasi domestiche, alla musica

sacra napoletana appartiene il concetto di

trasversalità nel senso che essa abbraccia tutti

gli strati della società partenopea dell’epoca: il

clero ovviamente, la nobiltà e il terzo stato, che

pure vi partecipava in massa, a differenza di altri

generi musicali che erano diastraticamente separati

per il censo dei praticanti oltre che per la loro

formazione e cultura. Si assiste, dunque, a una

sorprendente presenza ossimorica della musica sacra

a Napoli e questo aspetto è magistralmente

riprodotto nel presepe che simboleggia la festa

religiosa per eccellenza: il Natale. Nel presepe

convivono i cori angelici sulla grotta della

natività insieme con i pastori giunti per la novena

che suonano zampogne e ciaramelle e ancora i

suonatori nelle osterie con le tipiche chitarre

battenti che dialogano a distanza con i gruppi di

19

musicisti girovaghi, specie i viggianesi con le

loro arpe, senza dimenticare la banda dei mori che

accompagnava spesso le delegazioni di diplomatici

in visita nella capitale. Allo stesso modo i

capolavori di musica sacra universalmente noti sono

lo specchio di vette ancora sommerse, poiché tutta

la cultura musicale dell’epoca si fonda

sull’eclettismo a cui contribuiscono le categorie

più disparate di intellettuali: dai filosofi ai

matematici, ai letterati, fino agli amministratori

e ai politici. L’importanza della musica sacra nel

Settecento, infatti, può essere valutata a pieno

quando si comprende che non solo essa non fu

ostacolata dal potere politico ma, anzi, fu

incentivata da quest’ultimo che se ne serviva,

secondo un dettato plurisecolare, nella mediazione

con il popolo. L’idea, infatti, che non ci

sarebbero stati cambiamenti sociali finché la

religione avesse fatto da elemento frenante dei

sentimenti rivoluzionari, era un’aspetto che non

sfuggìva alle analisi più acute. Come avverte

Diderot, in una lettera del 3 aprile del 1771

scrivendo alla principessa Caterina Dashkowa:

20

«quando abbiano rivolto i loro sguardi minacciosi

contro la maestà del cielo, non mancheranno di

ribellarsi ben presto contro la maestà terrestre».

Gli enciclopedisti furono tra quelli che amarono e

difesero, in sedi accademiche, la musica italiana e

il teatro napoletano in primo luogo, anche per i

frequenti rapporti tra i musicisti napoletani, la

Francia e l’Europa tutta.

I legami tra la musica sacra a la politica sono

testimoniati dalla copiosa produzione che era

destinata alle celebrazioni ufficiali della vita

cittadina. Il secolo XVIII si apre a Napoli,

infatti, con l’esecuzione del solenne Te Deum di

Gaetano Veneziano, avvenuta il 3 luglio del 1707.

La cerimonia ebbe luogo nella cattedrale di Aversa

e il brano fu interpretato da Francesco Mancini con

gli altri membri della Real Cappella per

l’insediamento degli austriaci, mentre Veneziano

era assente per aver seguito il viceré spagnolo a

Gaeta. Ma il Settecento si chiude pure con una

storia intorno a un Te Deum: quello di Giovanni

Paisiello composto nel 1791. Si tratta di un brano,

presente alla mostra al Suor Orsola Benincasa.

21

Scritto per due cori e orchestra, ha una rilegatura

che si pregia dei gigli reali tipici della

biblioteca borbonica e porta la firma e una nota

dell’autore. Questo «Sacro Inno Ambrogiano», come

recita il frontespizio, «posto in Musica da

Giovanni Paisiello Maestro di Cappella della Real

Camera» specifica, nella dedica ai sovrani, che fu

scritto per un viaggio che Ferdinando e Carolina

fecero in Sicilia. Ma, cosa interessante, fu scelto

da Napoleone Bonaparte per la Messe du Sacre insieme

con il mottetto Domine salvum fac Imperatorem sempre di

Paisiello e la Marche di Jean-François Lesueur,

quando s’incoronò imperatore il 2 dicembre del

1804. Oltre alla duplice occasione politica di

utilizzo di questo brano esso è interessante anche

per una “Nota” di Paisiello, che contiene le

istruzioni riguardo alla disposizione dei cori e

delle orchestre, in cui si fa esplicito riferimento

all’esecuzione in chiesa se

dovesse intervenire anche la Truppa Militare, allora quelli

versetti, che sono accompagnati dalla Marcia Militare ha

inteso l’Autore di farsi eseguire la detta Marcia dale due

22

Bande Militari che si trovano colla truppa situate nella

Chiesa cioè una a Sinistra, e l’altra alla destra

con grande rilievo dato a strumenti quali «Tamburi,

Grand Cassa e Timbani»

Paisiello iniziò a dedicarsi alla musica sacra nel

1772, componendo un Requiem per Gennara Borbone.

Quattro anni dopo, accettò l'invito di Caterina II

la zarina di Russia, di ricoprire la carica di

maestro di cappella nella neonata San Pietroburgo,

che svolse fino all’83. Ma un’altro incarico

europeo, forse il più ambito per un musicista in

quel periodo, Paisiello lo ebbe nel 1802 da

Napoleone Bonaparte, a Parigi per la direzione

della musica di corte alle Tuileries, per cui

percepiva uno stipendio di 1.000 franchi, oltre a

4800 per vitto e alloggio. Dopo di Paisiello anche

Domenico Cimarosa, a San Pietroburgo dal 1787

succedendo a Giuseppe Sarti, fu maestro di cappella

per la corte imperiale russa. E proprio in Russia

il 12 dicembre 1787 fu eseguita la sua Messa di

Requiem “pro defunctis” (anche questa esposta alla

mostra), che aveva composto per il funerale della

23

Duchessa di Serra Capriola, moglie dell'inviato del

Re di Napoli. Dopo di San Pietroburgo Cimarosa fu a

Vienna, nel 1791, con la nomina, da parte di

Leopoldo II, a maestro di Cappella con un

appannaggio di 12.000 ducati annui. E negli stessi

anni, presso “l’Imperiale Cappella Russa” di

Totemkisch, operava in qualità di primo violino

Giacomo Conti, che poi assumerà l’incarico di

direttore dell’orchestra italiana a Vienna dove

rimase fino alla morte nel 1805.

Ma già alla metà del secolo Niccolò Jommelli era

attivo a Stoccarda, dal 1753 al ’69 tra Ludwigsburg

e Mannaheim, quando diventò Ober-Kappellmeister del

duca Carlo Eugenio di Württemberg.

La permanenza nelle corti europee di compositori

napoletani (si pensi anche al Portogallo per David

Perez) darà loro modo di avvicinarsi alle grandi

compagini orchestrali e di sviluppare una scrittura

più evoluta che dialogando con le voci aprirà la

strada ai successivi capolavori di musica sacra per

soli, coro e orchestra da Rossini fino a Verdi.

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