07 L'ethos teoretico

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L’ethos teoretico Scritti per Eugenio Mazzarella

a cura di

Pierandrea AmatoMaria Teresa Catena

Nicola Russo

Guida

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2011 © Alfredo Guida EditoreNapoli - Via Port’Alba, [email protected]

Il sistema di qualità della casa editriceè certificato ISO 9001/2000

ISBN 978-88-6042-917-9

L’Editore potrà concedere a pagamento l’autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore al15% del presente volume.Le richieste di riproduzione vanno inoltrate all’Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delleOpere dell’ingegno (AIDRO). Corso di Porta Romana, 108 - 20122 Milano - [email protected]

In copertina: Vincent Van Gogh, Les livres jaunes (1887).

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Il volume che presentiamo – un omaggio in onore dei sessant’anni diEugenio Mazzarella – è composto dai contributi di un numero limitato distudiosi, che pur nella diversità dei loro percorsi teorici, artistici e accade-mici, sono uniti dall’insegnamento filosofico che Mazzarella ha maturatodai primi anni Novanta nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università“Federico II” di Napoli.

L’obiettivo della raccolta è disegnare una cartografia, che per quantofatalmente parziale, sia in ogni caso indicativa degli interessi filosofici e po-etici della produzione mazzarelliana: si tratta di mostrare, nei lavori degliallievi, le variegate inclinazioni della sua inchiesta teorica insieme al pro-gredire degli obiettivi politici e culturali. Posizioni che naturalmente corri-spondono a rifrazioni e trasformazioni di ordine concettuale che hanno se-gnato le diverse fasi della ricerca mazzarelliana.

L’insieme dei contributi ha però superato il suo scopo iniziale: quasicome per un tacito accordo, ognuno con il proprio accento teorico eprospettiva concettuale, con la propria capacità di illustrare e immaginarepercorsi tra le pieghe della filosofia e della poetica di Mazzarella, essihanno rivelato spontaneamente non solo alcune parti dell’intero, ma ancheuna sua autentica unità, quella che ai nostri occhi è, ed è stata, unaricchezza particolare del suo insegnamento. Nella trama pur variegata degliinterventi che compongono questo volume, infatti, risalta tanto più chiara,quanto meno è stata cercata, un’ispirazione comune, il senso di un “noi”non definito entro i limiti di una dottrina o fedeltà alla dottrina, ilriconoscimento, che si fa vivo nell’esercizio, di un’idea di filosofia nonvincolata a nessun contenuto particolare, né a nessuna fede, non a unmetodo in senso stretto e tanto meno a scansioni settoriali, bensì a unmodo, a un atteggiamento, un ethos: vera e propria disposizione delpensiero che si fa immediatamente stile dell’insegnamento.

Non c’è dubbio, del resto, che è nel modo stesso in cui Mazzarella hainsegnato la filosofia, che essa si è realizzata di fronte a noi come stile del

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domandare, serietà della riflessione che non si acquieta in un ordineconcettuale e didascalico, né si trincera entro i territori che le sonofamiliari, ma pur sempre pacata e misurata, osa porre problemi veri, osaanzi tutta la complessità del vivere oggi, senza alcuna pretesa dineutralizzarla nella parola e, tuttavia, non per questo dispensandola dallosforzo di penetrarne le asperità.

È chiaro che la ricerca teorica, in questa prospettiva, acquista unsignificato particolare, perché si intreccia programmaticamente a un’idea delsapere come esperienza educativa chiamata a esprimere immancabilmenteuna posizione senza superflue rigidità ideologiche. Da questo punto di vistacrediamo di avere imparato che la filosofia, se è tale, non è mai neutrale,ma pretende ancora, quando questo suo carattere distintivo sembra per lopiù smarrito, una decisione, in tutto e per tutto inattuale, nei confrontidell’Oggi.

Così, se nell’opera e nell’insegnamento di Mazzarella manca, si potreb-be dire, programmaticamente qualsiasi intenzione pastorale, non c’è dubbioche al contrario, alla luce di una fedeltà irremovibile verso il rigore e la se-rietà scientifica, esse schiudano, per chi lavora con lui, un ampio, comples-so e indeterminato campo della libertà di ricerca. Spazio che, proprio per-chè aperto, impone un permanente, a volte silenzioso incontro con le suetesi, autentico presupposto per un confronto effettivo che consegna chi vipartecipa a una messa in chiaro delle proprie posizioni, a un continuo giocodi verità con se stessi. L’assenza di principio di un argine alle differenze,dunque, non significa un indizio di indifferenza, ma è l’occasione, per chiabita questa libertà, di mettersi alla prova nell’ambito di un alto livello dicompetenza disciplinare.

Va da sé che lavorare a questo volume non è stato facile, visto che lasfida è stata quella di riuscire, almeno in parte, a sollevare l’insieme delmagma teorico che in oltre trent’anni di esercizio filosofico Mazzarella hamaneggiato. Si è trattato, ad esempio, di ritornare a Nietzsche e al nesso travita e storia in un ambito in cui la critica all’immoralità della morale noncomporti la rinuncia a un’istanza etica per l’uomo; di mettere in questionela Auseinanderssetzung con Heidegger, suo autore capitale che, se da unlato rappresenta la leva per un’analisi post-marxiana della tecnica moderna,e quindi in larga parte costituisce la fonte primaria di una critica delle deri-ve tecnocratiche del mondo attuale, dall’altro diventa il campo di un con-flitto teorico ad alta intensità. Ma non solo: si è provato anche a criticarelo storicismo assoluto heideggeriano, tanto dalla prospettiva di una conce-zione della trascendenza che non si esaurisce nell’immanenza del possibiledell’esistenza, quanto alla luce di urgenze bio-etiche imposte proprio nel-

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l’orizzonte schiuso dalla questione della tecnica heideggeriana. Senza di-menticare, ancora, la produzione poetica mazzarelliana, fatalmente intreccia-ta a un’inquietudine filosofica che al dire poetico riserva la chance di nomi-nare l’infinita finitezza umana come ininterrotta esperienza del domandare.

Ma non è tutto. Il volume è stato un’occasione per fare i conti con unaserie di nodi teorici che non nascondono il tempo in cui questo lavoro co-mune è sedimentato: l’aggressione che l’Università italiana sta subendo conestrema veemenza – e in particolare le materie umanistiche e gli Ateneimeridionali – tramite un miope esercizio legislativo che mira a infrangerequalsiasi vera dimensione culturale per l’Università e progetta, invece, ilsuo abbandono alla miseria materiale e simbolica. In questo senso auspi-chiamo che questo lavoro possa fornire una prova di come nelle facoltà ita-liane sia ancora vivo l’esercizio di un sapere positivamente critico, che sirifiuta di essere al servizio di un progetto anti-culturale.

Certo ciò può significare, e per noi ha senz’altro significato, abdicare erinunciare a schemi protettivi. Tuttavia crediamo ne sia valsa la pena, vistoche più di tutto ciò ha significato sperimentare, nel rispetto e nell’urbanitàdel dialogo e della propria specifica diversità, un progetto comune e unanuova forma di amicizia.

È per queste ragioni, che qui, semplicemente, ringraziamo EugenioMazzarella.

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Filosofia e Cultura AvvenireForse un protrettico

Nicola Russo

Scrivere per un maestro, soprattutto nel caso che sia davvero tale, ciinduce fatalmente a riflettere su noi stessi, giacché non possiamo evitare,nel rendergli onore, di pensare non solo alla sua figura e alle sue opere, maancor prima a quel che è stato per noi sino ad oggi. Dovesse pur non rima-nerne alcuna traccia esplicita in quel che scriveremo, la circostanza stessa ciavrà condotto, almeno in una certa misura, a “rifare il punto”: come il ma-rinaio, che nel mezzo della navigazione, memore dei porti in cui ha sostato,dei venti e delle correnti che lo hanno spinto, lasci per un momento il ti-mone e ripercorra sulla carta la direzione che ha tenuto e stimi e fermi inbase ad essa la sua posizione attuale e la rotta.

Allo stesso modo, ripercorrendo le vie e gli impulsi più vivi della pro-pria formazione, come è necessario fare quando si intende saldare una pic-cola parte del proprio debito, si accede ad uno stato singolare, e tuttavia ti-pico, di sospensione rispetto al normale fluire della vita e del pensiero, soli-tamente tutti volti in avanti e progettati, anche nel presente immediato, sulfuturo più o meno prossimo di ciò che ci si propone di compiere e dicomprendere, di ideare e realizzare. L’urgenza dei propositi e dei progetti,anche di quelli teorici, orientati verso i quali, come si dice, dimentichiamonoi stessi, cede il passo ad un atteggiamento propriamente riflessivo: difronte a quel flusso si arretra per un istante, ci si ferma un passo indietro,sulla soglia, una stazione dalla quale possiamo guardare non solo in avanti,ma anche all’indietro, e osservare il percorso compiuto.

A differenza, dunque, di ogni altra circostanza nella quale ci disponia-mo ad affrontare un possibile oggetto di riflessione teorica, foss’anche que-sto proprio l’opera di un maestro, quando scriviamo non di lui, bensì perlui – che, infatti, significa per lo più trattare di tutt’altre cose, e per ragioniche hanno a che fare precisamente con la peculiarità di tale circostanza –,in qualche misura ci troviamo sempre posti come davanti a uno specchio enella necessità di “fare il punto”. Il che, naturalmente, nei diversi momenti

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della formazione e nelle differenti stagioni della vita assume significati edimensioni di volta in volta specifici; e tuttavia rimane, ogni volta, un’occa-sione e una via, tramite la quale approfondiamo la consapevolezza della rot-ta percorsa e di quella da percorrere.

Lo asseriva già il giovane Nietzsche, con l’enfasi propria alla gioven-tù, non a caso nell’Inattuale dedicata a Schopenhauer, lo asseriva in ma-niera radicale, individuando l’indice più sensibile della conoscenza di sénella «scala, sulla quale fino ad ora ti sei arrampicato verso te stesso:giacché la tua vera essenza non sta profondamente nascosta dentro di te,bensì immediatamente al di sopra di te, o per lo meno di ciò che tu abi-tualmente prendi per il tuo io. I tuoi veri educatori e plasmatori ti rivela-no quale è il vero senso originario e la materia fondamentale del tuo es-sere»1. Il che non vuol dire, come in effetti non è qui neanche vagamen-te leggibile, che in quello specchio le due immagini si debbano confon-dere, che la riflessione su di sé alla quale induce la riflessione sui proprimaestri debba divenire, come pure in certi casi vi è il rischio che diven-ga, un rispecchiamento immediato, nel quale perdere la propria immaginein quelle altrui o magari sovrapporvela. E tuttavia indica, che la relazio-ne formativa va ben al di là, più in profondità e più in alto, della sem-plice trasmissione di saperi, di metodi o di abilità, poiché essa interessaintegralmente la persona, è una delle vie tramite le quali essa innanzitut-to si fa, si forma e quindi pure si conosce.

Il riferimento alla III Inattuale, dunque, non è solo esemplare – e inve-ro su diversi piani esemplare –, poiché tramite esso pongo le premesse delmio discorso, a prima vista esclusivamente occasionali e lievemente diva-ganti, nella loro propria connessione con il suo nucleo, con il suo argomen-to, che non ha più alcun carattere personale. Oltrepassando il rimando pun-tuale a ciò a cui l’ho qui riferito, infatti, quel passo – seppure in una formaancora molto sintetica ed ellittica, quasi come la prima esposizione di untema melodico entro una partitura, nuda ed elementare, che proverò nel se-guito a integrare, sciogliere e armonizzare – allude alla concezione dellaformazione come principio della cultura, della cultura come principio diautonomia, e dell’autonomia di nuovo come ininterrotto processo di forma-zione; allude quindi a quell’indefinito e imperfettibile “divenire se stessi”,

1 F. NIETZSCHE, Schopenhauer come educatore, tr. it. di M. Montinari in Opere diFriedrich Nietzsche a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. III, t. I, Adelphi, Milano19823, p. 363, che continua, con accenti sottilmente platonici: «[... del tuo essere],qualche cosa di assolutamente ineducabile e implasmabile, ma in ogni caso difficil-mente accessibile, impacciato, paralizzato: i tuoi educatori non possono essere nien-t’altro che i tuoi liberatori».

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che si realizza in una forma particolarmente pura nella filosofia2. Dimensio-ne strettamente pedagogica che naturalmente, quasi da sé, poiché le è so-stanzialmente implicito, si amplia fino a divenire metafora e principio dellospazio più universalmente culturale, del nesso tra tradizione, filosofia e cul-tura avvenire.

L’aver così ricondotto, forse anche un po’ troppo elegantemente, il con-tenuto di questo scritto alla forma della sua occasione, l’averne cancellatocosì, apparentemente, ogni residuo di casualità e di mera occasionalità,l’averne insomma idealizzate e universalizzate le circostanze concrete econtingenti, non mi autorizza ancora e senz’altro a passare al tono imperso-nale con il quale vorrò condurlo fino in fondo. L’occasione, infatti, la con-cretezza del contingente, come mi hanno insegnato, non si lascia diluirenelle sue forme, né ho pensato di poter far qui semplicemente ciò. Anzi, leragioni vere per le quali oggi mi risolvo a svolgere un discorso su “educa-zione e cultura” appartengono molto più alla concretezza della contingenza– al fatto che sia proprio oggi che mi trovi a farlo e che il suo destinatarioideale sia proprio Eugenio Mazzarella –, piuttosto che semplicemente allasua forma. Conseguentemente, non solo non posso trascolorare subito nel-l’impersonale, ma devo anzi prima andare ancora più a fondo verso l’indi-viduale, approfittando risolutamente almeno per un attimo dell’occasione diquesto scritto, della sua natura di dono prima che di saggio, per tradire inqualche misura l’impersonalità del linguaggio scientifico, e le tante racco-mandazioni a non farlo, e dire almeno un poco cosa significa oggi fermar-mi sulla soglia e guardare indietro.

Nel farlo, però, e nel consegnare a questo scritto solo poche tracce trale tante trovate, avverto che l’elemento biografico vale qui anche comeexemplum, in senso proprio ed argomentativamente forte, di ciò di cui an-drò poi in cerca per altre vie: all’obiezione ripetuta spesso in varie forme evarianti, che l’inattualità di certi scopi sia anche la loro inattuabilità, è in-fatti sempre lecito rispondere alla maniera di Diogene, indicando la realtàdell’impossibile, qui l’attività dell’inattuale. Quel che essa mostra, quasicome reperto probante, è che ciò di cui parlo – la “cultura avvenire” – nonè un ideale, non solo un ideale, bensì una possibilità sempre concreta, perla quale vi è ancora spazio, il cui spazio ancora aperto va difeso oggi più

2 Filosofia di cui, in tal senso, il “conosci te stesso” non è tanto il presupposto, ilpunto di partenza (e solamente tale non era neanche il precetto delfico), quanto un ri-sultato, l’esito continuo, ogni volta differente, rimodulato e ricompreso ad ogni diversastazione dell’autoriflessione.

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che mai. Nel dire di cosa sono debitore e cosa ho imparato, insomma, co-mincio anche a dire cosa ritengo degno di essere insegnato, nel guardare in-dietro non posso non guardare anche in avanti.

A Eugenio Mazzarella devo tra le cose più rare e preziose della miavita, e non è solo di insegnamenti che parlo: egli ha riposto in me una fidu-cia, che ho dovuto guadagnare ogni giorno, di cui sono dovuto divenireogni giorno all’altezza. Il suo modo radicale e appassionato di porre le do-mande, anche quelle estreme, e insieme la misura e il rigore nell’osare lerisposte, sempre problematiche, sempre accompagnate da un punto interro-gativo e aperte a soluzioni ulteriori; il coraggio e la lucidità della consape-volezza, la “coscienza intellettuale”, che non ha risparmiato nulla, che nonsi è risparmiata nulla; la vastità degli interessi e l’ampiezza dello sguardo,capace di penetrare le cose dalle più diverse prospettive, organicamente,senza cedere mai allo specialismo; il suo rispetto assoluto verso le diver-genze teoriche, anche molto profonde, la sua lungimiranza nel richiederenon aderenze scolastiche, confessionali o ideologiche, che non ha mai nutri-to, bensì la tenacia e la passione dell’intelligenza, la serietà e l’onestà nelchiedere e nel cercare: questi solo pochi dei tratti tramite i quali abbiamovisto realizzarsi un’idea di scuola basata non sulle dottrine, ma sul modo diintendere e praticare la filosofia, sulla dimensione integrale della Filosofia,indissolubilmente teoretica ed etica, di cui egli, prima ancora che maestro, èstato esempio, e anzi maestro proprio perché innanzitutto esempio.

Non solo questo ho imparato da Eugenio Mazzarella, ma solo a questovoglio limitarmi qui, concentrarmi sulla dimensione pedagogica della filoso-fia, poiché essa rimane lo sfondo di tutta la riflessione intorno alla culturaavvenire3. Con l’avvertenza preliminare e consueta, rispetto a quanto andròdicendo, che ovviamente vale anche qui la legge fondamentale, che quelche si impara non è necessariamente e sempre quel che ci è stato insegnato.E, ancora, che un vero maestro, proprio se è tale, in fondo non lo si inter-preta: da lui si è appreso a procedere per la propria via.

L’espressione “cultura avvenire” è ancora del giovane Nietzsche e ilsenso complessivo in cui è assunta qui come concetto determinato si chiari-rà man mano. Basti per ora notare, molto semplicemente, che un avveniresi dà sempre a partire da un presente, è sempre proiettato da un presente erivolto ad esso, sempre il domani rispetto a un oggi. E così ritorna questaparola: “oggi”, che introdotta quasi inavvertitamente è, invero, uno degli

3 Che non vuol dire ancora il suo “fondamento”, come sarà chiaro più avanti, macome in effetti ho già asserito dicendone principio la “formazione”.

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assi del discorso, sin dal suo inizio. Come si è già notato, infatti, la contin-genza tipica di ogni scritto generato in occasioni simili è bifronte, la stazio-ne dalla quale si guarda indietro, verso i momenti della propria formazione,è ogni volta “oggi” e tuttavia non è necessariamente “l’oggi”: l’attualitàstessa è guardata dalla distanza che si è assunta verso il correre innanzi del-la vita e del pensiero, dalla sospensione su questo flusso, grazie alla qualesi fa il punto sull’oggi stesso.

Qualcosa che, invero, avviene non solo qui, ma ogni volta che il pen-siero filosofico si interroga sul proprio tempo, come proprio Mazzarella hafatto tematicamente più volte, definendo «la domanda sull’oggi»: «Non uninseguire un’attualità che va troppo in fretta, persino per il pensiero forse –bensì un sostare presso ciò che è in atto, magari da lungo tempo, nell’og-gi»4. Se è così, allora anche la domanda sulla cultura avvenire – che è e ri-mane una domanda inattuale, se non altro perché nulla ha a che fare con lepresunzioni sul futuro di chi chiede oggi una scuola “all’altezza dei tempi”–, non riguarda solo il domani, ma, rivolta all’oggi, tiene presente quel cheè già stato, che permanendo si volge in avanti.

L’opposizione tra attuale e inattuale, lo si intuisce già da ciò, non èsemplice come a prima vista appare, non si limita all’opposizione tra ciòche oggi – in ogni “oggi” della “modernità” – è in voga, sulla bocca ditutti, corrente, moderno e ciò che, invece, non è più di moda, è oramairesiduo e passato, obsoleto. L’autenticamente inattuale, infatti, ciò chepermane nell’oggi pur non essendo al modo dell’oggi, al modo odierno,vi permane appunto perché non è mai stato di moda, perché non è un exmoderno che oramai ha “fatto il suo tempo”, perché, non essendo ieristato una moda, non passa al modo in cui le mode passano e si cancella-no l’una dopo l’altra, al modo in cui ogni oggi diviene necessariamenteuno ieri e mai un domani. Per questo ogni spirito inattuale sa riconosce-re le sue tracce non solo in ciò che è stato ieri e l’altroieri, ma oggi stes-so e così nell’avvenire: infatti, solo quel che non passa insieme all’oggi,che non è passato nello ieri, continua a passare verso il domani. Qualco-sa al cui confronto l’attuale mostra il carattere di una corrente superfi-ciale del tempo: il dominio dei pregiudizi correnti che modellanol’“opinione pubblica”, quel che Heidegger chiamava la chiacchiera e checomprende anche le mode intellettuali, in generale lo spazio pubblicitariodella comunità, ove costantemente si esercita e consuma la “retorica del-l’attualità”, uno spazio già da tempo controllato dai mezzi di comunica-

4 E. MAZZARELLA, Heidegger oggi. Dall’essere-nel-mondo all’essere-alla-vita, inHeidegger oggi, a cura di E. Mazzarella, Il Mulino, Bologna 1988, p. 11.

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zione di massa, tramite i quali, come Günther Anders magistralmente de-scrive, si consuma l’“antiquatezza” della modernità stessa5.

Superficialità del tempo che non è niente di marginale ed innocuo, cosìcome marginali ed innocue appaiono ad uno sguardo superficiale le mode el’assedio pubblicitario delle coscienze. Tale superficialità, infatti, indica solol’evanescenza di ogni singola attualità, il suo correre e continuo trascorreresulla superficie, ogni volta indifferente e tuttavia sovrastante,l’immediatezza di ciò che non ha ieri né domani, e che nondimeno dominal’oggi, la cui serie continua è sempre all’“ordine del giorno”. I greci lochiamavano l’effimero: ciò che sta per un sol giorno e tuttavia sul giorno6.

Tale dominio superficiale, che non è dunque per questo meno effettivo,che anzi proprio grazie alla sua evanescenza diviene incondizionato, è ilprincipio di uno stato tipico dell’umanità moderna, forse anche più dellanoia o dell’angoscia: la “fretta”, il continuo affannarsi a correr dietro, nonimporta a quale “imperativo dell’ora”, non importa spronati da quale “paro-la d’ordine” e “necessità dei tempi”, non importa avvinti a quale “Must” oa quale pregiudizio, sedotti da quale “novità”, costretti da quale “emergen-za” o intimoriti da quale “crisi”. Ed è propriamente in questo “non impor-ta” che si consuma l’abdicazione della volontà e dell’autonomia: essere “al-

5 Cfr. G. ANDERS, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca dellaterza rivoluzione industriale, tr. it. di M.A. Mori, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp.277 ss.

6 Nonostante l’affinità terminologica, la superficialità del tempo è ben diversa eanzi l’opposto della superficie delle cose, cui corrisponde la profondità di un abissovuoto, aperto e retto su di essa, di cui parlo in N. RUSSO, Polymechanos Anthropos,Guida, Napoli 2008, pp. 202 ss. Al contrario, la superficialità del tempo è, per sé,solo evanescenza, niente affatto il limite e così anche il principio della profondità (on-tologicamente ciò si deve al fatto, che il presente come stato istantaneo è precisamen-te l’analogo cronologico dell’ente autoidentico e dunque, così come l’entità dell’entesi manifesta essere il nulla profondo rispetto al tutto della superficie della cosa, cosìl’istante presente è il nulla superficiale rispetto alla profondità del tempo). Per sé,giacché all’evanescenza dell’attuale e al suo tempo puntualizzato nella successioneneutra di istanti presenti non si contrappone solo la vena profonda dell’inattuale: essaè anche il volto cangiante e l’epifenomeno di una struttura ben più solida, intrinseca-mente astorica, quella «supermacchina» della «configurazione tecnico-industriale» dicui parla Arnold Gehlen, riconoscendone la forma della post-histoire, l’eterno immuta-bile, secondo il concetto, entro cui è incanalato, «encadrée», lo scorrere superficialedel presente (cfr. ivi, p. 32). Il tempo profondo che «oscilla in cerchio» è metaforache rubo a G. ANDERS, La catacomba molussica, tr. it. di A. Mantovani, Lupetti, Mila-no 2008, p. 48. Incidentalmente, al significato comune di ���µερ�ν, da �p� µρα,“della vita di un sol giorno”, se ne affianca uno più raro: “ciò che uccide in un solgiorno”, detto di piante velenose o di veleni…

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l’altezza dei tempi”, infatti, adeguarsi a quel che “richiede il momento” –per continuare a citare solo alcuni dei termini e delle espressioni elementaripiù care alla retorica dell’attualità –, significa in fondo aver già rinunciato aporre i propri scopi, accoglierli come pregiudicati, preconfezionati, assem-blati altrove, propriamente «prodotti»7. Per questo il culmine della retoricadell’attualità, la sua forma più pura, ove più chiaramente emerge il caratterecoattivo, impositivo, dell’oggi, è l’appello alle “cause di forza maggiore”,all’“emergenza” e alla “crisi”, tutte cose rispetto a cui il “sano realismo”comanda di inchinarsi e chiudere la bocca8.

L’attualità, insomma, come superficialità del tempo, immediatezza del-l’ora, estrema prossimità e anzi aderenza del presente, è lo spazio di domi-nio che induce la fretta, l’affanno delle anime, le quali, correndo per tenereil passo, tanto inavvertitamente, quanto fatalmente lasciano indietro il pen-siero e la facoltà di giudizio critico, la capacità di arretrare e di accedere aquella stazione della riflessione, a quell’intervallo e pausa, a quella distanzadall’oggi e inattualità, ove si può essere in grado di vedere e giudicare, nonsolo di adeguarsi, di porre gli scopi e non solo di approntare i mezzi.

Nell’ambito della cultura, l’odierna attualità si nutre di tre parole d’or-dine: la “lotta per il merito”, la “lotta contro gli sprechi”, la “lotta per l’ef-ficienza e la produttività”. Queste grida di battaglia non appartengono a

7 Cfr. ancora ID., L’uomo è antiquato…, cit., pp. 149 s.8 “Agitare lo spettro della crisi”, reale o immaginaria che sia, è da sempre un

mezzo per imporre, tramite la paura, “necessità del presente” spesso contingenti. Valea dire che le stesse “misure d’emergenza” sono, talora, lo scopo di cui la crisi divieneil mezzo ed è per questo che non affrontano le sue cause, risolvendola, ma solo le ri-cadute, gli effetti al margine, normalizzandola: si dà, insomma, un uso strumentaledelle forze maggiori a sostegno di forze minori. Considerazione con la quale non in-tendo affatto negare che esistano emergenze, che ovviamente il principio di realtà im-pone di assumere come vincoli effettivi, rispetto ai quali agire davvero responsabil-mente; sto solo stigmatizzando la circostanza, che nelle mani della retorica dell’attua-lità tutto finisce, prima o poi, per divenire una forza maggiore, ben al di là della suarealtà come tale: quando si dice, per esempio, per rimanere nella nostra attualità, che«per la cultura non ci sono soldi» o che «la crisi impone di investire solo nelle attivitàculturali che hanno una ricaduta economica», non si enunciano fatti e neppure neces-sità reali, bensì scelte preconfezionate, prese altrove, imposte come necessità dei tem-pi e così sottratte alla discussione pubblica. Indipendentemente dalla consapevolezza eautonomia – dubito scarsissime – con le quali si è scelto di spendere diversamente ildenaro pubblico o ci si è disposti a trattare lo Stato solo come garante della crescitaeconomica, in quelle scelte non si realizza nessuna necessità reale, ma solo quella cheè propria all’essere all’altezza dei tempi. La statura di questa altezza, la sua bassezza,è così sempre sottratta alla vista.

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nessuno schieramento in particolare, scandiscono il ritornello intonato datutte le opinioni pubbliche, politiche e pubblicistiche, con pochissime ecce-zioni. Sono, in tal modo, il patrimonio dei pregiudizi condivisi, della chiac-chiera in voga, l’ultimo grido della modernità. In tal senso, e solo in talsenso, trova una qualche giustificazione anche la pretesa, di per sé ridicola,che le ultime riforme, nel porsi esplicitamente “all’altezza dei tempi”, ab-biano una dimensione “epocale”: solo nel senso di essere ben adeguate,d’infimo ordine quali sono, a quest’epoca miserabile. Non è, però, sempli-cemente una questione di statura: è necessario ridurre la pretesa, tanto alti-sonante quanto risibile, che si abbia oggi di fronte un progetto epocale diriforma dell’istruzione alla constatazione che è solo un dispositivo all’altez-za dei tempi, poiché è lampante che esso non apre affatto un’epoca nuova,non proviene da un reale rinnovamento, ma realizza unicamente lo spiritodell’attualità, ipostatizza e riproduce la superficialità del presente e, perquanto possa avere un certo futuro, per quanto abbia avuto già, paradossal-mente, un lungo passato, non ha in sé alcun avvenire.

Come si diceva prima, però, anche se superficiale, l’attualità è tuttofuorché inefficace: come ultima attualizzazione di un processo in moto giàda tempo, che ha le sue radici in fenomeni imponenti, oramai di dimensioniplanetarie, cui generalmente si dà il nome di “globalizzazione”, ma che i fi-losofi preferiscono ancora pensare come “nichilismo”; quel che oggi appa-rentemente coinvolge solo la forma dell’università, la sua struttura e i suoimeccanismi, peraltro con un impianto normativo disorganico e zoppicante,lungi dal promuovere una riforma dell’educazione superiore sulla base diun’idea rinnovata di cultura superiore, come richiederebbe per sua naturaun tale intento, deriva al contrario proprio dal venir meno di una qualsivo-glia idea circa natura e scopi della cultura, di quella cultura di cui qui, non-dimeno, si cerca di dire l’“avvenire”9.

Solo, dunque, in vista di ciò, dell’idea di cultura superiore e di quantointorno al suo concetto si dirà più avanti – ove apparirà chiaro che essa o èavvenire o non è affatto –, è opportuno definire brevemente cosa ne è del-l’educazione a partire dalle parole d’ordine della sua attuale riformazione.

Figlia dei suoi tempi, intimamente e non solo accidentalmente congiun-ta con le coincidenti politiche economiche di definanziamento radicale di

9 Vale a dire che, nei termini dell’attualità, la “cultura superiore” non ha alcunfuturo, perché già non ha più alcun presente: è infatti concetto decisamente inattuale eper lo più relegato a un lessico obsoleto; per questo si può parlare del suo avveniresolo dal punto di vista dell’inattuale. Corollario della prima asserzione è la constata-zione, solo apparentemente paradossale, che non è la riforma a distruggere la cultura,ma la distruzione della cultura a generare la riforma.

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ogni realtà di ordine culturale (“lotta agli sprechi”), anche di quelle più ric-che di storia e gloriose, la riforma porta a coronamento il movimento di ri-duzione dell’università a istituto tecnico (“lotta per la produttività”). Il mez-zo di tale ridimensionamento è la mortificazione non tanto dell’autonomiaamministrativa, ma di quella culturale dell’università, il cui tramite sono leprocedure di valutazione (“lotta per il merito”): la misura di quel che è va-lido culturalmente – qualsiasi cosa possa ciò significare – e che va dunquesostenuto e promosso, è demandata a organi, i criteri della cui valutazionenulla hanno a che vedere con la cultura10. In conseguenza di ciò, la soprav-vivenza stessa degli istituti superiori di cultura dipende oggi da una compu-tazione della loro dignità “scientifica” e “didattica” – e così della loro Le-benswürdigkeit – a partire da parametri di efficienza tecnica, anche nel sen-so della tecnica della formazione, ed efficacia economica, innanzitutto in vi-sta di quello che è detto “il mondo del lavoro”.

Se tale è il mezzo, è chiaro che lo scopo per il quale è approntato, lariduzione dell’università a istituto tecnico, non consiste solamente nell’in-centivazione delle facoltà scientifiche e applicative11. Non solo queste, infat-ti, ma anche quelle umanistiche verranno concepite, strutturate e ammini-strate come scuole ove si viene addestrati per certe mansioni economiche ea certe abilità strumentali, compresi i vari modi dell’esercizio diffuso delpotere. Sarà così sempre più raro vedere grandi spiriti sintetici, che ancorain ogni disciplina nascevano qua e là in anni recenti, provenire da luoghi si-mili, giacché questi saranno preordinati a produrre esclusivamente buonioperai delle scienze applicative e delle tecniche antropologiche: periti di la-boratorio, fisici sperimentali al servizio dell’industria, ingegneri informatiz-zati, computatori statistici, antropologi della rete, e poi esperti nella psicodi-namica delle masse, nell’adescamento pubblicitario ed elettorale, nell’infor-mazione...

La conseguenza è ovvia: un buon numero di discipline smaccatamenteinattuali, come le Lettere classiche, l’Archeologia e la Filosofia, ma anchealcune branche delle Scienze Naturali e delle Matematiche, saranno benpresto ritenute obsolete e superflue, residui inutilizzabili e quindi sprechi da

10 In tal dispositivo di legge, sia detto tra parentesi, sta anche il vero vulnus anti-costituzionale della riforma (art. 33 della Costituzione: «L’arte e la scienza sono liberee libero ne è l’insegnamento [...]. Le istituzioni di alta cultura, università e accademie,hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi»).

11 Di cui nessun vero uomo di scienza o spirito costruttivo avrebbero molto darallegrarsi: anche l’autonomia di tali discipline, infatti, risulta progressivamente annul-lata e svilite le loro dimensioni più teoriche. Per non dire che “incentivare”, in epocadi tagli, significa solo disincentivare altrove.

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eliminare. Succede già, sta già succedendo da tempo in tutto l’Occidente,spesso per vie traverse, come quando l’archeologia diviene un settore delle“scienze del turismo” o la filosofia va a finire nell’epistemologia e nella so-ciologia, fino a perdere completamente il senso di quel che è stata per oltredue millenni.

Eppure, per quanto evidente sia tutto ciò, per quanto strettamente attua-le, il quadro che se ne trae è incompleto e probabilmente troppo fosco,troppo soffocante: patiamo forse la restrizione della prospettiva al primopiano, quello della retorica pubblica, che non rappresenta, per quanto sianopervasivi il suo ascendente e la sua persuasività, tutte le voci del nostrotempo. E che, innanzitutto, si trova disarmata di fronte a ciò che, pur nonavendo in sé nulla di straordinario, le appare, o se non altro denuncia, comeuno scandalo: il semplice fatto che, a dispetto della sua obsolescenza pro-grammata, l’inattualità della cultura superiore sia ancora in atto e così an-cora sempre avvenire...

Ciò che queste ultime asserzioni, in realtà ancora solo allusive, voglio-no propriamente intendere, potrà essere chiaro più avanti, quando la dimen-sione di quel che così si manifesta sarà più evidente. Per ora sia sufficientedire che ancor oggi, a dispetto di tutti gli imperativi dell’attualità e dellasua pubblicistica, e quindi nonostante il processo di riduzione dell’istruzio-ne ad addestramento, permane un’aspirazione all’autonomia, radicata inuna tradizione che non è ancora passata, permane la determinazione a nonvoler ridursi a funzionari della cultura al servizio delle liturgie del merca-to e delle varie stratificazioni dell’imposizione, a non volersi mirmidoniz-zare in una società dell’efficienza. Poiché, se è pur vero che troppo uma-na è la disponibilità a lasciarsi sedurre e compensare, ancor più intimamen-te umani, incastonati nella stessa eredità antropologica e nutriti lungo tut-ta la nostra storia, sono l’ostinazione a crescere, il desiderio di conoscen-za, il piacere nel creare forme sempre nuove e più perfette, l’anelito ver-so una sempre maggiore ampiezza e libertà dello spirito. Ma con ciò ab-biamo elencato gli impulsi elementari e più vivi della filosofia e di ognicultura superiore.

Si tratta, tuttavia, di una traccia ancora esile, poiché ottenuta guardandoin controluce all’oggi, quasi il negativo di un negativo. È proprio adesso,però, prima ancora che l’immagine si definisca più compiutamente, che vamostrato in che senso si è prima detta lampante l’assenza di una qualsiasiidea di cultura superiore come orientamento degli odierni progetti di rifor-ma dell’educazione. L’asserzione, infatti, non è né apodittica, né basata sulpresupposto di un concetto di cultura già materialmente determinato, di cuisi può fare, anzi, del tutto a meno: infatti, purché si assuma il termine in

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quella, tra le sue varie accezioni, che sin dall’inizio è stata qui pertinente,ossia come correlato dell’educazione, ciò in vista di cui ci si forma e altempo stesso a partire da cui ci si forma, non v’è alcun bisogno di definir-ne preliminarmente il contenuto per rendersi conto che l’istruzione odierna– che appunto perciò chiamo istruzione e non educazione – non è in vistadi essa. Lo mostra la stessa evidenza del fatto che l’ammaestramento el’addestramento, cui in sostanza si riduce oggi ogni istruzione, sono in vistadi abilità e di funzioni, e niente affatto di qualcosa che possa mai chiamarsi“cultura”, quali che siano la sua natura, ispirazione e contenuto.

Vale a dire: quel che oggi, in effetti, vien meno – ma solo entro lo spa-zio concettuale orientato dalla retorica dell’attualità – è l’idea stessa di edu-cazione, fintantoché tale termine deve avere qualcosa a che fare con la cul-tura. Anche quella che viene intesa oggi come “alta formazione”, infatti,non è null’altro che un’alta specializzazione in determinate abilità, il livellosuperiore di un addestramento. Ma se a nessun livello, né a quelli inferiori,né a quelli superiori, rimane non dico un luogo eminente, ma almeno unospazio residuo per un insegnamento e un apprendimento che non siano, inultima analisi, funzionali al “mondo del lavoro”, lì dove la logica del meri-to coincida integralmente con la logica della produttività, nel senso che èvalido solo ciò che è “efficace ed effettivo”, lì di fatto semplicemente svani-scono tanto l’educazione, quanto la cultura, lì di fatto essi sono solamente“sprechi”.

Certo, ciò non ci autorizza ancora a concludere, che nell’ambito del-l’educazione superiore quel che oggi è visto come spreco sia già solo perquesto anche lo spazio di una cultura autentica. Ma ci autorizza a conclude-re, che ciò che non è spreco, in vista di questo non può essere il dominioeminente della cultura superiore. Nei termini che usavamo prima: l’attualerimane un dominio superficiale, sovrastante ma non superiore.

Eppure così non abbiamo solo ripetuto, scandendolo meglio terminolo-gicamente, quanto in sostanza si era già detto; non abbiamo solo distintomeglio e separato tra istruzione ed educazione, addestramento e formazione,merito e cultura; non è solo una maggiore precisione che abbiamo guada-gnato nel trattare certi concetti dal punto di vista formale. Infatti, proprionel tenere ancora materialmente indeterminato il concetto di cultura, proprionel mostrare che già formalmente la retorica dell’attuale ne è priva ed anzilo contrasta, ci rendiamo conto con chiarezza di qualcosa che in fondo giàsapevamo, troviamo il modo di esprimere il presentimento che la “culturasuperiore” non è in alcun modo unicamente il correlato di livelli superioridi educazione, che quindi non è neppure analogicamente paragonabile al-l’oggetto di un addestramento superiore, che è qualcosa, insomma, già solo

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per la sua forma, di radicalmente diverso, quasi di opposto. La differenzanon è di grado, ma di natura: la “cultura superiore”, ed è questo il motivoper il quale tale concetto diviene la nostra bussola, non è tanto il livello piùalto di una formazione, quanto l’orientamento superiore di ogni formazione,è ciò che è propriamente la cultura di un’educazione autentica, è la culturasic et simpliciter rispetto a ciò che solo per modo di dire si può chiamareancora in tal modo. Tra attuale e inattuale non vi è analogia possibile: daun lato c’è la riduzione dell’educazione a istruzione tecnica, dall’altro vi èla cultura superiore.

Con queste parole prendiamo congedo dall’attualità, arretriamo di nuo-vo, cerchiamo uno sguardo più vasto sul nesso tra formazione e cultura, percomprendere in che senso cultura superiore è lo stesso che cultura avvenire,e quindi in che modo, a partire da ciò, noi possiamo ancora parlare dell’av-venire della nostra cultura. Quello sguardo si riflette nella figura del piùinattuale dei nostri maestri, è dalla sua riflessione che cerchiamo di farenuovamente il punto, un punto la cui rilevanza travalica di gran lunga lequestioni legate in senso stretto al destino delle istituzioni culturali, giacchéciò che grazie ad esso si lascia intravedere è quel che potremmo chiamare,intendendo la parola nelle sue due opposte accezioni, la rotta dello spirito,il suo cammino prossimo o la sua disfatta. Non erroneamente, infatti, Nietz-sche stesso ha compreso la propria opera come la messa in luce di un’alter-nativa, che è quell’alternativa che abbiamo ancora di fronte e di cui Mazza-rella, cogliendone in una sintesi folgorante l’intera immagine, va al cuore:

«Il destino dell’esserci spirituale dell’Occidente greco-cristiano come spiritofinito si gioca tra un caso da patire o da cui difendersi secondo l’ordine del-la necessità (un tramonto necessario) e un kairÒj da afferrare per una nuovanascita»12.

Ciò di cui si tratta, infatti, è precisamente questo, non solo per quelche concerne la cultura: è l’occasione che lo spirito occidentale è chiamatoad afferrare contro l’ordine della necessità, affinché non tramonti, ma abbiaancora un destino, un avvenire.

Sull’avvenire delle nostre scuole è il titolo di un ciclo di conferenzeche il giovane Nietzsche tenne all’università di Basilea, nelle quali an-ch’egli indicava un ordine della necessità e il kairÒj di una nuova nascita,una eÙkair…a: parole inattuali allora, così come lo sono oggi, e dunque ben

12 E. MAZZARELLA, Vie d’uscita, Il melangolo, Genova 2004, p. 27.

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oltre l’altezza tanto dei suoi tempi, quanto dell’oggi, i quali proprio daquelle pagine, singolarmente, risultano accomunati nell’indirizzo di fondo diquel che entrambi hanno creduto nuovo e attuale e che appare invece così,a un secolo e mezzo di distanza, quasi ancora il medesimo fraintendimento.E intorno al destino della cultura Nietzsche non smetterà mai di interrogar-si, fino alle sue ultime opere, mantenendo inalterato lo spirito inattuale deisuoi primi scritti, la capacità di vedere, e così di parlare, oltre il propriotempo. È perciò da una delle sue ultime pagine, che pare scritta ieri, chevoglio prendere le mosse, per cercare una prima definizione dei termini ele-mentari messi in gioco.

Nel Crepuscolo degli idoli, parlando di Quel che i tedeschi non hannoe che noi neppure ci sogniamo, Nietzsche mostra come la questione decisi-va della cultura sia quella riguardante il nesso tra educazione e formazione:«Per tutti gli istituti di un’educazione più elevata, in Germania, è andataperduta la cosa principale: tanto il fine che il mezzo per attuarlo. Si è di-menticato che l’educazione, la formazione sono per sé fini – il fine non è ilReich –, che per tale scopo occorre l’educatore – non già l’insegnante di li-ceo e i dotti dell’università. C’è bisogno di educatori che siano essi stessieducati» e non di «balie superiori»13.

Eliminiamo subito un possibile fraintendimento, molto grave: in nes-sun modo Nietzsche sta qui difendendo l’idea di quel che potrebbe dirsi,in analogia a l’art pour l’art, “cultura per la cultura”. Egli sta parlando,invece, proprio delle scuole ove si realizza nella sua espressione più ele-vata il nesso tra educazione e formazione, nesso che ricomprende in sé,ma travalica anche di gran lunga, quello tra insegnamento e apprendimen-to, diciamo forse meglio tra maestro e allievo. Ed è riguardo a tali istitu-ti di cultura superiore che dice qualcosa di estremamente semplice edestremamente difficile al tempo stesso: che il loro fine è per l’appuntonull’altro che l’educazione e la formazione – si tratta di un unico fine:l’educazione per la formazione –, non il Reich, ossia non lo Stato, oggidiremmo non l’impresa o il mondo del lavoro, insomma non una qualcheistanza e funzione eterogenea. Ma qual è la natura di questa formazione?Dicendone mezzo «l’educatore esso stesso educato» e non il dotto, né labalia, egli lascia intendere che non si tratta di un semplice travaso didottrina ed erudizione, né di una forma di accudimento, tutela e allatta-

13 F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, tr. it. di F. Masini in Opere..., cit., Vol. VI,t. III, Adelphi, Milano 19863, p. 103 (tr. leggermente modificata: nell’originale leggia-mo, riferito al nesso educazione-formazione: «selbst Zweck»: «di per sé il fine» o«essi stessi i fini», e non “Zweck an sich”, come la traduzione «fini a se stessi» po-trebbe lasciar intendere).

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mento spirituale, quali sono ancora quelli del liceo. Non è, però, solo innegativo che tale espressione insegna qualcosa circa l’essenza della for-mazione: l’“educatore educato”, infatti, che è tutto fuorché l’istruttore pro-fessionista che realizza un addottrinamento professionale, non solo impri-me una forma, anzi in fondo non la imprime affatto, ma realizza egli stes-so quella educazione, è egli stesso quella forma e solo perciò può ancheispirarla: «Spiriti superiori, nobili, comprovati a ogni istante, comprovatidalla parola e dal silenzio, culture divenute mature, dolci»14...

Reife, süss gewordene Culturen – ecco, questo è il fine dell’educazionesuperiore: l’uomo che cresce, il suo spirito che matura, che nell’esercizio sirinsalda e si fa armonico, si compie e così anche si libera per il propriocompimento, uno «spirito divenuto libero». Questo è ciò che vuole raggiun-gere la cultura superiore, questa la forma della sua formazione, non la cul-tura stessa in senso astratto, né l’acculturamento a sé stante, bensì, se sivuole, homo cultura nella sua piena maturità ed elevazione, l’ideale cheNietzsche vide incarnato in Goethe15.

Un ideale radicalmente inattuale già nella Prussia di fine ottocento,così come già vi erano ben attuali gli indirizzi ancor oggi alla ribalta:«Quel che di fatto raggiungono le “scuole superiori” tedesche è un bruta-le dirozzamento vòlto a rendere, con la minor perdita di tempo, utilizza-bile, sfruttabile ai fini del servizio statale, un numero esorbitante di gio-vani [...]. Nella Germania odierna nessuno ha più la libertà di dare ai suoifigli un’educazione elevata: le nostre scuole “superiori” sono preordinatetutte quante, con i loro insegnanti, programmi e obiettivi d’insegnamento,per la più equivoca mediocrità. Impera ovunque una fretta indecorosa,come se qualcosa andasse perduto, qualora il giovanotto non avesse an-cora “finito” a 23 anni, e non sapesse ancora rispondere alla “prima trale domande”: che professione? Una specie superiore di uomini, ci siaconcesso dirlo, non ama le “professioni”, appunto per il fatto che cono-sce la sua vocazione... Questi uomini hanno tempo, si prendono tempo,non pensano affatto di aver “finito” – a trent’anni si è, nel senso dell’al-ta cultura, un principiante, un fanciullo»16.

Sì, «ci sia concesso dirlo», ci sia concesso parlare e ascoltare di una«specie superiore di uomini»: «Si deve essere privilegiati per avere diritto a

14 Ibidem.15 Cfr. ivi, pp. 150 s.16 Ivi, pp. 103 s. Questa «fretta indecorosa» la conosciamo bene ancora oggi, è

stata proprio in anni recenti uno dei cappi che si sono stretti intorno all’università,strangolando maestri e allievi in una foga priva di senso – priva di senso, intendo, ri-guardo alla vocazione propriamente educativa e formativa.

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un privilegio tanto alto», scriveva in questo stesso aforisma Nietzsche, paro-le che oggi fanno storcere il naso, che lo fanno storcere da sempre. E, tut-tavia, non può essere in alcun modo accolta un’accusa di elitarismo, rivoltaa un simile discorso, e neppure che venga tacciato di aristocraticismo deca-dente17: riguardo a cose di tale portata non si può concedere nulla al bonton dell’ipocrisia democraticheggiante e tribunizia, ai suoi inchini e salame-lecchi, nulla a discapito del vero e dell’evidente. Poiché è evidente, che unaconcezione e una prassi della vita sociale e della cultura, che non abbia al-tra unità di misura al di là della funzionalizzazione del “capitale umano”alle necessità del mercato e dello Stato, potrà forse sfoggiare ancora la pro-pria retorica egualitarista – oggi nella forma dell’“eguaglianza delle oppor-tunità”, messa poi “al vaglio del merito” – e così accondiscendere genero-samente ad ogni mediocrità, blandirla e anzi promuoverla, proclamarla addi-rittura un diritto; ma rimane il fatto che, in tal modo, occulta semplicemen-te che ciò che caldeggia è un abbassamento dell’uomo e, in ultima analisi,il suo asservimento.

Contro di ciò, contro tutte le varie forme in cui qualcosa del genere siè realizzato e si realizza, non vi è quindi nulla di spocchioso nel rivendica-re l’idea di una «specie superiore di uomini» e di una specie superiore dieducazione e di crescita, che non sia un «brutale dirozzamento» e una fret-tolosa messa a servizio, poiché è altra la vocazione dell’uomo o, almeno,altre vocazioni sono possibili, che necessitano di cure e attenzioni diverse.In effetti, è in questo termine – la vocazione –, anzi nel verbo dell’originaletedesco – il «sapersi chiamati»: la coscienza di un compito e di una desti-nazione, di una via, della propria vita e della propria umanità come esserepermanentemente in cammino, mai finiti, mai veramente compiuti e prontiall’uso –, che si condensa tutto il senso dell’eccezione e del privilegio dicui Nietzsche sta qui parlando: si deve essere privilegiati, ossia vocati allacrescita, per godere di un simile privilegio, del privilegio di una formazionesuperiore, ovvero di una formazione tramite cui ci si fa costantemente supe-riori a se stessi.

Nel dire ciò non abbiamo edulcorato, ma forse ancor più radicalizzatoquel che Nietzsche andava scrivendo, per quanto sia altresì venuto in chiaroche con «specie superiore di uomini» egli non intende affatto un’elite il cuistatus più elevato, che sia di spirito o di censo, garantisca un’educazionepiù raffinata: «Nessuno ha più la libertà di dare ai propri figli un’educazio-ne elevata», questo scrive Nietzsche, di questa impossibilità e imposizione

17 Critiche da sempre molto in voga, a partire dalla retorica antisemita della Ger-mania del primo ’900.

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sta parlando, ossia del venir meno di un ideale di cultura superiore e delsuo spazio, non certo dello scomparire delle scuole per aristocratici, che so-pravvivevano egregiamente allora, così come oggi prosperano le loro analo-ghe. Questo deve rimanere chiaro, insomma, che la superiorità di cui egliparla, di cui non si è mai stancato di parlare, è quella del «superamento dise stessi», l’impulso a crescere e coltivarsi non per raggiungere uno statussociale ed economico privilegiato, non per “riuscire”, come si dice oggi, maanzi proprio per rimanere «l’imperfetto mai compiuto» divenire ciò che siè: non vi è altro senso – direzione e sentimento – di tale superamento, chenon sia la misura della propria crescita. È questa l’eccezione delle eccezio-ni, che ad alcuni potrà apparire ben poca cosa, ma non a quella specie diuomini che considerano come sommo privilegio la libertà di estendere e ap-profondire le proprie facoltà e la propria esperienza.

Troviamo così l’indice più rivelativo di ciò che andiamo cercando, diquel concetto di “cultura superiore” che non è l’insegnamento di cose supe-riori e neppure l’addestramento per cose superiori, bensì la coltivazione diuomini che si rendono superiori, che tramite la formazione crescono allaloro propria altezza, almeno in linea di principio incessantemente. Null’al-tro, dunque, vuol dire che l’educazione, di qualunque grado e altezza essasia, è per sé il fine: che lo scopo non è l’avviamento al lavoro, ma la matu-razione dell’uomo. Il giovane Nietzsche, sempre scrivendo del suo maestroSchopenhauer, trovò parole ispirate: «Questo è il segreto di ogni formazio-ne, essa non procura membra artificiali, nasi di cera, occhi occhialuti: piut-tosto ciò che potrebbe dare questi doni è soltanto l’immagine degeneratadell’educazione. Essa invece è liberazione, rimozione di tutte le erbacce,delle macerie, dei vermi che vogliono intaccare i germi delicati delle piante,irradiazione di luce e di calore...»18.

È difficile aggiungere qualcosa a queste parole, ma va fatto, per cercaredi far ridiscendere il discorso nella caverna della nostra attualità e, inoltre,perché rimane ancora il compito di chiarire in che modo la cultura superio-re è cultura avvenire, in che modo lo è di per sé e in che senso possiamocontinuarne a parlare oggi in connessione con la filosofia. Lo faremo se-guendo ancora alcune tracce lasciate da Nietzsche, che già in quell’aforismadel Crepuscolo degli idoli aveva mostrato come la vocazione alla crescitanon può venir revocata alla scadenza di un rapido iter scolastico che mettadirettamente capo all’impiego, che abbia nell’impiego il suo motore immo-bile: se la formazione è per l’uomo stesso, se egli è il soggetto della pro-

18 ID., Schopenhauer come educatore, cit., p. 363.

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pria maturazione e non invece l’oggetto di un’istruzione per l’uso, se è in-somma egli stesso cultura viva e in divenire, e in questo senso già possia-mo dire cultura avvenire, è evidente che debba rimanere sempre un «princi-piante», sempre di nuovo all’inizio, sempre un fanciullo che dà principio asé e a nuove cose. Ossia una promessa di futuro, lo sguardo, il desiderio el’impulso ad avvenire.

Lo stile dell’educazione all’altezza di una tale promessa, all’altezza diuna formazione come pedagogia perenne, è quanto di più inattuale possia-mo pensare e ricordare. Già solo il tentativo di nominarlo ci costringe apronunciare parole, di cui in qualche modo ci vergogniamo, che proprio perquesto vergognarcene siamo propensi a deridere come un residuo anacroni-stico e, come si dice, “superato”: come se il nostro mero non essere più al-l’altezza di un simile ideale, il fatto che rimanga per noi relegato ad unpassato che facilmente ci convinciamo essere solo idealizzazione, insommala semplice circostanza di averlo cronologicamente alle spalle, possa con-sentirci di ritenerlo davvero superato, ossia di ritenerci superiori ad esso19.E tuttavia quelle parole bisogna osarle, e soprattutto bisogna cercare di ono-rarle, ponendoci rispetto a ciò che dicono nella posizione che realmente cicompete, ossia indietro e così ancora sempre rivolti innanzi verso il compi-to sovrattuale, ancor più che inattuale, che ci indicano: una pedagogia del-l’elevazione.

Nulla di romantico, per quanto l’espressione possa portare con sé unsentore di idealismo ottocentesco: quelle parole, infatti, intese con la dovutaattenzione e il necessario rigore, in maniera sobria se non spassionata, nonsono che una formulazione sintetica di quel che è stato, sin dall’inizio, loscopo dell’insegnamento filosofico, la sua disciplina. Nella maniera piùpura è Platone a parlarcene, quel maestro che non ha smesso per tutta lavita di onorare nel proprio maestro l’ideale maieutico della filosofia e cosìla sua natura intimamente pedagogica: la Palinodia di Socrate sull’amore,nel Fedro, con la sua polemica contro la tecnica dei discorsi di Lisia, ossiacontro quella concezione sofistica della formazione come mezzo per preva-lere nei contenziosi di natura politica o giudiziaria, ci regala l’immagine piùlimpida della filosofia come di un ethos dialogico, tramite il quale l’anima«mette le ali» e si innalza verso la sua propria dimora, si eleva alla suapropria altezza.

Questa è già una prima ragione, per la quale la filosofia rientra diretta-mente e a pieno titolo entro un discorso circa la cultura avvenire. Così,

19 Pretesa di per sé risibile, che è solo, per così dire, metasecolarizzazione del“mito del progresso”.

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però, abbiamo approssimato solo un aspetto della questione, ci siamo ap-poggiati su una sola delle sue gambe, abbiamo trovato in essa un primopunto stabile, ma non siamo ancora in grado di procedere oltre. Tuttavia,già da tale posizione possiamo trarre ancora una volta, ma ora in tutta lasua forza, la conclusione che già Nietzsche traeva nel suo aforisma: la fun-zionalizzazione dell’istruzione pubblica, che cancella ogni spazio autonomodi crescita, che assorbe l’intera gioventù di una nazione, mettendone a frut-to sistematicamente, sin dalla prima fanciullezza, ogni energia e aspirazio-ne, che così incanala e assorbe ogni esuberanza dello spirito e del tempera-mento, ponendoli al servizio dell’economia e dello Stato, esaurendoli inquel servizio, non è promessa di futuro per una civiltà superiore, ma un se-gno sicuro del suo decadimento, è la fine di un’epoca e non il suo inizio.O, più precisamente, quale che possa essere la sua durata, è la pratica diun’epoca terminale20.

Da cui bisogna distogliere lo sguardo, per poter vedere più a fondo.Voglio farlo leggendo solo poche righe di quelle conferenze Sull’avveniredelle nostre scuole (1872), che per quanto mai pubblicate da Nietzsche, ri-masero per lui tanto vive e presenti, che ancora nei suoi ultimi scritti ne ri-troviamo parafrasati interi passaggi21. In un unico paragrafo della prefazionealla prima conferenza vengono subito afferrati i punti decisivi della questio-ne: il legame che ci unisce alle «nostre scuole», vi leggiamo, «non è casua-le e non si può dire che noi le indossiamo come un mantello. Esse piutto-sto, come monumenti vivi di importanti movimenti di civiltà [Kulturbewe-gungen], ci collegano con il passato del popolo e costituiscono nei lorotratti essenziali un legato così sacro e degno di onore, che io potrei parlaredell’avvenire delle nostre scuole solo nel senso di un’approssimazione –spinta quanto più in là possibile – allo spirito ideale da cui esse sono sorte.Con tutto ciò, io sono convinto che i numerosi mutamenti, introdotti dal-l’arbitrio dell’epoca presente in queste scuole, al fine di renderle più “attua-li”, non sono in buona parte altro se non linee contorte e aberrazioni, ri-spetto alla nobile tendenza primitiva della loro costituzione. E ciò che noipossiamo sperare dal futuro a questo riguardo è un rinnovamento, un rin-

20 La questione della Kultur intesa come nesso tra educazione e formazione siamplia qui fino alla questione della Kultur come «unità di stile in tutte le manifesta-zioni vitali di un popolo», ossia come ethos di una civiltà (cfr. ID., David Strauss.L’uomo di fede e lo scrittore, tr. it. di S. Giametta in Opere..., cit., Vol. III, t. I, Mila-no 1972, p. 171). È in tal senso che Nietzsche riprende la famosa disequazione bur-ckhardtiana: «La cultura e lo Stato – non ci si inganni in proposito – sono antagoni-sti...» (ID., Crepuscolo degli idoli, cit., p. 102).

21 Cfr., per esempio, ivi, pp. 104 ss.

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giovanimento e una purificazione dello spirito tedesco, in una misura taleche da esso rinascano in certo modo altresì questi istituti, presentandosi al-lora, dopo questa rinascita, al tempo stesso vecchi e nuovi: gli istituti pre-senti, per contro, pretendono per lo più di essere unicamente “moderni” e“attuali”. È soltanto nel senso di quella speranza, che io parlo di un avveni-re delle nostre scuole»22.

Respira in queste parole, poderoso, lo stesso spirito della coeva Nascitadella Tragedia (1872), la stessa ispirazione e speranza «combattente», lastessa lucida e illuminante comprensione che lo sguardo sul futuro si apresolo a partire dalla memoria del passato, che anzi è proprio del passatostesso, prima ancora e ben più che dell’attesa, che si nutre la speranza,«che è in virtù di esso, delle esperienze che per suo tramite essa incorpora,delle personalità, azioni e possibilità stesse dell’umano che il passato stiva eregala allo sguardo fisso sul futuro, che la speranza si rende capace di divi-nare alcunché»23. L’avvenire della cultura, insomma, come ogni avvenire, oè una rinascita o non avviene affatto: il Nietzsche dello Zarathustra evo-cherà la «corda tesa» e il «ponte», come immagini dell’arco dispiegato trapassato e futuro sul fulcro del presente, l’arco teso che racchiude la naturadi ogni rinascimento, la sua temporalità profonda. Metafora che rimane va-lida tanto per la dimensione storico-universale della cultura, quanto perquella più strettamente educativa: come abbiamo visto, nel rapporto autenti-co tra maestro e allievo non si realizza un travaso di dottrine, ma respira evive la tradizione, letteralmente si rigenera grazie al doppio movimento,tramite cui un uomo rinasce nello spirito della sua cultura e così quellastessa cultura rinasce nel suo spirito. Questo è il senso proprio del «monu-mento vivo» di cui parla Nietzsche, il senso della tradizione avvenire.

Qualcosa che non può realizzarsi, ovviamente, a partire dall’oggi cor-rente e dalla sua fuga in avanti, non dal suo gettarsi cieco e indaffarato suogni novità e innovazione, non seguendo le sue «linee contorte» e capric-ciose, che si esauriscono nell’attimo stesso in cui vengono tracciate: solonella sua inattualità il presente custodisce la promessa, ossia protegge, fin-ché vi riesce, talora nascondendoli, i semi e la vitalità da cui può principia-re un rinnovamento genuino. Ne era ben consapevole il giovane Nietzsche:«A nessuno dovrebbe essere lecito pronunciarsi in tono di profezia riguardoall’avvenire della nostra cultura e, in connessione con ciò, riguardo all’av-

22 ID., Sull’avvenire delle nostre scuole, tr. it. di G. Colli in Opere..., cit., Vol. III,t. II, Adelphi, Milano 19903, p. 83.

23 Rubo questa frase da una lettera del mio caro amico Joaquin Mutchinick, poi-ché non avrei saputo esprimere la cosa meglio di così.

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venire dei nostri strumenti e metodi di educazione, se egli non può dimo-strare che in una qualche misura questa cultura avvenire esiste già nel pre-sente e che le basta estendersi attorno a sé in una misura molto più grande,per riuscire a esercitare un influsso necessario sulla scuola e sugli istituti dieducazione. Mi si permetta soltanto di indovinare l’avvenire fondandomi,come un augure romano, sulle viscere del presente: in questo caso, ciò nonvuol dire né più né meno che promettere una futura vittoria a una tendenzaculturale già esistente, sebbene per il momento essa non sia né amata, néonorata, né diffusa»24.

Riguardo a noi, possiamo dire lo stesso? E con ciò giungiamo all’ulti-ma domanda di queste pagine. C’è ancora una scintilla di vita nelle nostreistituzioni culturali? E si trova nella nostra discreditata università? Se nonaltro nel senso che si nasconde al suo interno, per quanto «né amata, néonorata, né diffusa»? E se dovessimo avere ragioni per nutrire una similesperanza, con quali mezzi e lenti di ingrandimento saremmo capaci di indi-viduare le vene pulsanti e distinguerle da quelle inaridite e come promuove-re le prime a discapito delle seconde? In fondo, negli ultimi anni non èproprio questa una delle strategie portanti dei progetti di riforma degli isti-tuti superiori di cultura? Non è ad uno scopo analogo, se non altro formal-mente, che si è “apparato” tutto lo strumentario, estremamente pervasivo,delle valutazioni, autovalutazioni e convalide, degli incentivi e delle penaliz-

24 Ivi, pp. 83 s. Nel seguito delle conferenze Nietzsche affronta più particolareg-giatamente una serie di temi cui abbiamo già accennato e sui quali non ho qui l’agiodi soffermarmi. Mi pare opportuno citare solo le pp. 109 s., ove la decadenza dellacultura tedesca è ricondotta all’influsso dei «dogmi preferiti dell’economia politica diquesta nostra epoca. Conoscenza e cultura nella massima quantità possibile – produ-zione e bisogni nella massima quantità possibile – felicità nella massima quantità pos-sibile: tale è pressappoco la formula. In questo caso noi troviamo che lo scopo ultimodella cultura è costituito dall’utilità, o più precisamente dal guadagno, da un lucro indenaro che sia il più grande possibile. In base a questa tendenza la cultura sarebbepressappoco da definire come l’abilità con cui ci si mantiene “all’altezza del nostrotempo” [...]. Il vero problema della cultura consisterebbe perciò nell’educare uominiquanto più possibile “correnti”, nel senso in cui si chiama “corrente” una moneta [...].La “lega” tra intelligenza e possesso, sostenuta in base a queste idee, si presenta addi-rittura come un’esigenza morale. Secondo questa prospettiva, è malvista ogni culturache renda solitari, che ponga dei fini al di là del denaro e del guadagno, che consumimolto tempo». E poi, ivi, p. 427: «La cultura “conforme all’epoca” giunge qui al-l’estremo della cultura “conforme all’istante”, cioè a un cogliere grossolanamentel’utilità momentanea. Non si ha che da vedere nella cultura un qualcosa che reca utili-tà, e ben presto si confonderà ciò che reca utilità con la cultura», movimento che ha«la sua fonte in una completa mondanizzazione».

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zazioni, tutto il sistema di controllo della macchina educativa, che finisceper esserne un ulteriore impedimento, come una specie di melassa che ren-de vischioso ogni movimento, legandolo alla costante rendicontazione dellasua produttività e spingendo ogni linea di tendenza propriamente culturalein seno alle nostre istituzioni educative fatalmente alla “resa dei conti”, cherischia di essere una semplice resa, l’arrendersi e il ritirarsi di fronte aistanze estranianti e incompatibili con ogni idea e tendenza residua versouna pratica vivente dell’educazione superiore?

Lo si comprende: non è tramite un apparato di valutazione, alla cuiispirazione abbiamo visto mancare ogni idea e pure il minimo presentimen-to di cosa sia la cultura, che potremmo renderci capaci di dare una ragionealla speranza in un rinnovamento delle nostre scuole. Quell’apparato e lasua ispirazione, al contrario, sono già in quanto tali, costitutivamente, lasvalutazione di ogni tendenza autenticamente culturale, di ogni vita liberadella cultura entro le nostre istituzioni, nelle quali diffondono scoraggia-mento e demotivazione, una sfiducia amara verso l’avvenire, che tanti dicoloro che in quelle istituzioni hanno infuso lavoro e passione spesso ora-mai nutrono.

A quella domanda, dunque, se c’è ancora una scintilla di vita nella no-stra cultura e se essa riluce, anche solo fiocamente, nelle nostre università,non si trova una risposta positiva guardando all’università stessa secondo lemodalità attuali, giacché è questa stessa via ad annullare le condizioni dipossibilità di una risposta positiva, in fondo perché rende impossibile unaqualsivoglia risposta: come poter valutare la vitalità di una cultura, se nonsi sa affatto cos’è cultura?

Eppure, in negativo quella via qualcosa ci insegna: che se mai vi fosseuna scintilla di vita, essa sarebbe destinata a spegnersi e a fuggire dall’Uni-versità, non avendo però un luogo altrettanto aperto, com’essa era per suanatura, ove rifugiarsi; che dunque, concretamente, se anche l’Università nonè la realizzazione compiuta di un’idea di cultura superiore, è però, insiemea pochi altri istituti la cui sopravvivenza non dipenda da istanze eterogeneealla formazione, l’unica istituzione e dimensione oggettiva, ove essa potreb-be avere una realtà autonoma, non subordinata a interessi privati o partitici.

Queste conclusioni, però, sono ancora vuote e quasi solo pretese retori-che, se non acquistano, al di là della loro concretezza, anche un contenutoreale, determinato e vivo; ma un tale contenuto lo possono acquistare solocon un mutamento radicale della prospettiva, tramite il quale cercare di dareuna risposta sensata a quelle domande, cambiando quindi integralmente ilpunto di vista e non solo cercando di affinarlo e di correggerlo. Infatti, nonè guardando alla Istituzione, al Monumento della cultura, che avremmo le

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ragioni di una speranza, perché non è nel monumento, sia dal punto di vistaideale, che in atto, che si fa reale il costante e vivo rinnovamento di unospirito, di cui consiste integralmente la tradizione avvenire. Il monumento èesclusivamente, per così dire, il deposito di un radicamento, deposito nonsolo e primariamente nel senso di contenitore di una tradizione, ma come ilsuo farsi materia e depositarsi in forme concrete, che sono vive, però, solonel rapporto educativo vero e proprio, solo se la cultura non rimane mera-mente la traccia e il residuo di un passato, un deposito alluvionale, ma èanche, per l’appunto, la speranza di un futuro, una traccia come via e noncome semplice impronta.

La speranza, insomma, che ricerca tendenze vive, per non essere profe-zia nel deserto e così solo chiacchiera, quelle tendenze non dovrà ricercarlenel solo monumento, ossia non dovrà chiedersi se l’università, nei suoi or-gani, nelle sue sedi e nei suoi docenti, è ancora o mai stata il luogo e l’am-biente di una tendenza culturale viva, ma dovrà trovarle nel nesso fonda-mentale che fa di ogni cultura un organismo vivente e così solo giustificaogni promessa per il futuro: il nesso maestro-allievo. Innanzitutto nel darsidi questo nesso, che non è nulla di banale o di scontato: se per certi versi,entro certi limiti, ci è consentito usare la metafora della cultura come “col-tivazione”, infatti, la profezia nel deserto rimarrebbe disperata anche se noipotessimo contare, come non possiamo fare, nelle migliori istituzioni cultu-rali possibili, ma in un contesto di completo esaurimento dello spirito, in uncontesto “culturale” svuotato e privo di esigenze, ove quelle istituzioni sa-rebbero paragonabili a una pioggia che cade, appunto, sul deserto, su unaterra inaridita e non più fertile, su una «Molussia rumorosa, illuminata ecieca»25.

In altri termini, la sola istituzione non è nulla, a prescindere dal suovalore, se non vi è la vera speranza di ogni cultura, il suo vero principio dirinnovamento e di rinascita, ossia una sete e un’esigenza di cultura superio-re nelle nuove generazioni, in coloro che vengono all’università attendendo-si da essa gli stimoli e, per così dire, una palestra, ove esercitare, coltivaree far crescere il proprio spirito. Insomma, la tendenza viva, attuale e pienadi futuro, per quanto anch’essa «né amata, né onorata, né diffusa», quellatendenza culturale che noi dobbiamo cercare se «è già esistente» per poterdare un fondamento alla speranza, non voglio dire qui, come il giovaneNietzsche, in una sua «futura vittoria», ma se non altro nella sua sopravvi-venza, non è solo nell’educatore, ma innanzitutto in chi è in cerca dellapropria formazione.

25 G. ANDERS, La catacomba molussica, cit., p. 19.

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La speranza dell’Università, in definitiva, è nel fatto – esso stesso va-riamente condizionato da tanti altri fattori culturali e innanzitutto dalla suafonte: le scuole primarie e secondarie, che per questa via rientrano integral-mente nella questione di una possibile cultura superiore – che vi siano an-cora una sete e un desiderio di crescita, una terra fertile e assetata, in cuisiano ancora presenti i semi e lo humus depositati da una tradizione più chemillenaria, nel fatto, insomma, che vi siano ancora giovani che richiedanoalla scuola un’autentica formazione e non solo un addestramento ai fini del-lo Stato, del Mercato, della Tecnica e neanche della stessa Cultura, se èvero che lo scopo della formazione non è il suo depositarsi nel monumento,quasi semplicemente accumularsi nella formazione di un detrito culturale,se è vero che essa ha di mira essenzialmente l’Uomo, l’arricchimento, l’ap-profondimento e l’armonizzazione del suo spirito.

Tutto ciò sia detto solo a mo’ di anticipazione, perché senza esplicitar-ne compiutamente le premesse rimane non solo qualcosa di positivamenteinattuale, ma anche di vago. Per il momento, dunque, non avendo ancoramostrato quelle premesse, limitiamoci al senso in cui quanto asserito ri-sponde direttamente e solo alla domanda che ponevamo, che non era sel’università è l’istituzione viva di una cultura superiore, ma se noi possiamooggi nutrire una qualche speranza nella cultura avvenire, ossia se possiamoindicare nel presente le condizioni della formazione e del dispiegamento diquell’arco che unisce passato e futuro in un organismo sempre rinnovatodella cultura.

Ebbene, la risposta è sì, inequivocabilmente, se si comprende, in primoluogo, che quelle condizioni non vanno ricercate solo nelle scuole comeipostasi e deposito della funzione dell’educatore, ma ancor prima in chi daquelle scuole richiede le forme e lo spazio in cui e di cui dissetare la pro-pria sete, la vera tendenza viva di ogni cultura. E, in secondo luogo, se siconstata il dato, ripeto non banale, che quella richiesta è ancora viva, chequella sete, con tutto ciò di cui essa è sintomo, è ancora inesausta. E riba-disco: anche se non onorata, né diffusa, giacché è oramai da troppo tempoinvalsa la mala abitudine di presentare funzione e senso della scuola aglistessi giovani come una via di mezzo tra accudimento e apprendistato, unasorta di estensione sociale della potestà genitoriale, che nel migliore deicasi è amorevole e tutta compenetrata dei propri doveri e delle proprie re-sponsabilità, ma che inevitabilmente, anche nel momento in cui si convincee convince i giovani dei più incontestabili diritti a ogni istruzione possibilee desiderabile, non può che proiettare su di essi le proprie aspirazioni epriorità, conformarli ad esse. Inoltre, nel lasciar loro solo il diritto di rice-vere, ogni volta nel modo in cui è per ognuno più semplice e congeniale, e

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così sempre più efficientemente, i propri ammaestramenti, li rende di fatto ilmero oggetto della formazione, che tiene in un costante stato di minorità, eciò a livelli sempre più alti, fino a ricomprendere la stessa Università – fe-nomeno cui si dà oggi il nome di “liceizzazione”, che è già un segno allar-mante della compiuta perdita di senso degli stessi licei.

Insomma, quella condizione prima di ogni possibile speranza nella cul-tura non è un fatto banale, e neanche qualcosa di onorato e diffuso, proprioperché esso si realizza non entro, bensì a dispetto della concezione onoratae della realizzazione diffusa, e oramai estesa a ogni livello, della scolarizza-zione come esclusivo diritto ad un’istruzione, che nel non mettere mai capoad un’autentica “maturità”, stringe il giovane, a dispetto di tutti i suoi dirittie di tutte le cure e i riguardi che gli vengono prodigati, in una costante su-bordinazione, entro la quale non viene mai indirizzato e messo di fronte aicompiti, ai doveri e alle responsabilità di un’autonomia reale nello sceglieree nel formarsi. Autonomia che, se non altro su un piano ideale, certamentedovrebbe essere il presupposto anche di ogni ulteriore apprendimento, deltutto sensato e necessario, rivolto a scopi già dati e altri dalla formazionestessa, e quindi di ogni apprendistato in senso lato “tecnico” o comunqueprofessionale, mirato all’acquisizione delle abilità richieste per esercitare unmestiere – fosse pure quello del professore universitario.

Ma da dove si trae la fiducia e in base a che cosa si afferma così ine-quivocabilmente che, a dispetto di un contesto latamente culturale per trop-pi versi sfavorevole anche alla sola enunciazione di un’idea di cultura supe-riore, vi sia ancor sempre nelle nuove generazioni, nonostante pure le con-dizioni ancora a lor modo sfavorevoli alla costituzione di un atteggiamentoautonomo e responsabile, un’autentica sete e tendenza verso la coltivazionee formazione del proprio spirito? Tale affermazione, se non vuole appariremera lusinga, certo non può limitarsi semplicemente a descrivere un’espe-rienza personale, pur se maturata in anni di insegnamento. Per essere com-pleta, infatti, essa deve soddisfare almeno due requisiti: in primo luogo esi-bire le condizioni di possibilità, soprattutto dopo che ha descritto le circo-stanze limitanti; e poi indicare i termini reali e il luogo ove propriamenteuna simile tendenza viva si mostra, è oggettivamente visibile e non solo peril tramite di una testimonianza. Indicarne i termini e pure dire chiaramenteperché è proprio lì che inequivocabilmente si mostra.

Le condizioni di possibilità, è evidente, non possono ridursi a conside-razioni generiche sulla psicologia giovanile, la sua esuberanza e il vividodesiderio di crescita e di conoscenza (che pure si danno), e neanche limitar-si – come prima – a enfatizzare genericamente lo spazio geoculturale in cuisono radicate le nostre istituzioni scolastiche, le radici ultramillenarie della

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sua cultura. No, bisogna indicare il tramite reale, per cui quella cultura con-tinua a rinnovarsi e riattualizzarsi, la linea che tiene concretamente unite legenerazioni, la sua memoria ininterrotta, quell’«unica memoria» e solidarie-tà non a destra e a sinistra, ma «all’indietro e in avanti», di cui ancora An-ders tratteggiava una metafora lucida e toccante26. E questa linea, se non ènella forma dell’istruzione primaria, secondaria e superiore – o se non lo èinequivocabilmente –, è però nei suoi stessi contenuti, nelle opere e nelletestimonianze della storia, dell’arte e della cultura occidentali, che spessoparlano ai giovani più direttamente e più chiaramente dei loro più prossimie immediati insegnanti.

È, insomma, la stessa memoria della nostra cultura, il nesso unitariodelle sue forme plurime come mnhme�on, mn»mh e mnhmosÚnh, monumento,memoria e rammemorazione, la condizione di possibilità della sua tradizio-ne e quindi del costante impulso al suo rinnovamento; considerazione dav-vero elementare, epperò ancora una volta per nulla priva di conseguenze.Se, infatti, pur nel contesto di un indirizzo complessivo della cultura che haperduto il senso dell’educazione superiore, l’impulso fondamentale di que-sta continua tuttavia sempre a ripresentarsi, giacché la tradizione dissemina-ta parla direttamente ad anime ancora sempre assetate, è facile comprendereche la dimenticanza di quella tradizione, o meglio la sua progressiva messain soffitta e archeologizzazione come qualcosa di non più attuale e confor-me ai bisogni di una società dell’efficienza e della fitness, finiranno per ta-gliare le sorgenti stesse di ogni cultura superiore possibile e annullare ognisperanza residua in essa o almeno spostarne i termini alla fine – e qualepoi? – di un nuovo medioevo, di una nuova segregazione e catacomba. Ilche vale anche laddove venga portata alle sue ultime conseguenze la conce-zione, che tra pochi anni diverrà luogo comune e opinione di massa, che lehumanities possano essere al più un passatempo elitario di poche manciateselezionate di giovani agiati un po’ eccentrici o il rilassante dopolavoro dimanager stressati, ricercati e un po’ snob, sparendo di fatto completamentedalla cosiddetta “cultura generale” delle masse, ove è già sempre più sosti-tuita dal cosmo fittizio della televisione, grande apparato di volgarizzazionedella civiltà, tramite cui si realizza un’«epoca di derisione generale dellospirito, di istupidimento organizzato, di idolatria comandata»27. Innanzituttoa questo indirizzo, dunque, bisogna resistere: cercare di evitare, per dirnepoche, che l’insegnamento del greco e del latino, della musica, delle lettere,dell’archeologia nel senso più autentico, vasto e nobile della parola, scom-

26 Ivi, p. 37.27 Ivi, p. 11.

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paiano definitivamente dai contenuti stessi delle nostre scuole, dopo esserestati umiliati dai suoi metodi.

Se la difesa della memoria, del tradito e tradendo, è la condizione dipossibilità – e abbiamo così risposto alla prima domanda –, qual è invece illuogo ove quella tendenza viva è inequivocabilmente evidente per se stessa,dove non dobbiamo solo presumerla, perché potremmo comunque sempreconfonderla con qualcos’altro? Che non vuol dire cercare il luogo ove solosarebbe presente, ma quello in cui è in quanto tale più evidente, perché visi dà in maniera pura, il che certo non comporta affatto che non si dia an-che altrove. Anzi, solo se la troviamo inconfondibilmente almeno in un luo-go, possiamo e dobbiamo presumerla anche altrove.

Nel rispondere a questa domanda, lo si sarà intuito, troviamo la secon-da connessione intrinseca tra filosofia e cultura avvenire. Infatti, se ognivera formazione è per sé fine, ossia se è eminentemente svincolata e nonfunzionale ad altri interessi, se non è mezzo per altri scopi, bensì essa stes-sa scopo, allora è giustificato cercare le tracce della sua vivacità ove sianomeno presenti elementi propri all’addestramento e all’istruzione, ossia lad-dove la disciplina stessa dell’educazione e, per così dire, la sua materia sia-no costitutivamente inutilizzabili. In ciò non vi è nulla di estemporaneo, ar-bitrario o casuale, come dimostra anche in negativo il fatto, che quel luogoè anche il più colpito e negativamente interessato dall’attuale indirizzo allafruibilità, il primo a cadere sotto il suo anatema dell’inutilità. Inutilità, chesin dai tempi di Aristotele, se non ancora prima, è stata invero uno dei mo-tivi di vanto della Filosofia, il suo blasone, il segno inconfondibile dellasua eÙgneia, della sua nobile generazione. Non è un caso, da tale punto divista, che essa sia stata, lungo una parte significativa e prevalente della no-stra tradizione, pur nella sua piena ineffettualità, la prima e più nobile dellediscipline, tant’è che le altre hanno di frequente ambito a essere delle filo-sofie particolari, una su tutte la philosophia naturalis. Nobiltà e primato chenon le derivavano – come ha più o meno benevolmente malinteso, in tantimodi diversi, il positivismo – dall’essere la scienza delle scienze o la lorologica o la loro metodologia, dall’essere quindi in senso ampio un’episte-mologia, ma innanzitutto dal rappresentare, proprio nella sua ineffettualità enon nonostante essa, la forma più pura, quasi l’idea stessa, di cultura supe-riore, di un sapere e di una conoscenza, i più vasti in estensione e in sinte-ticità, in nessun modo finalizzati ad altro che non a se stessi, ossia, in ulti-ma analisi, allo sviluppo armonico, completo e libero di chi li coltiva e inessi si coltiva.

Questa caratterizzazione in negativo, peraltro, non esclude una determi-nazione anche in positivo circa la natura della filosofia, che però, vista nel

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suo complesso e storicamente, non sarà comunque una specificazione defini-ta rigidamente né dal contenuto, né dal metodo, il che propriamente distin-gue la filosofia dalle altre discipline che possono vantare un alto grado diinutilità, di resistenza alla loro messa a frutto pragmatica in vista di altri sco-pi. Le Lettere classiche, per esempio, oppure la Storia, che moltissimo ci in-segnano e senza le quali, così come senza le Arti e tanto altro che qui nonsto ad elencare, uomini di un certo tipo non saprebbero più trovare il gusto eil senso del loro stesso vivere, sono altrettanto o quasi inutili quanto la filo-sofia, dalla quale si distinguono, per rimanere sul piano formale e sempre invista di una loro estrapolabile produttività, solo per il fatto di avere, nel con-tenuto o nel metodo, una maggiore determinatezza e con essa una maggiorepositività, un dominio di validità, a partire dal quale e in vista del quale pos-sono certe volte servire a qualche scopo specifico. La filosofia, invece, losanno ben tutti, non serve proprio a niente, è del tutto scandalosamente inu-tile, cosa che oggi, in tempi di crisi strutturali e strumentali di ogni tipo einnanzitutto economiche, quando la parola d’ordine è tagliare gli sprechi, èpropriamente lo spreco per antonomasia. Ebbene, proprio questa taccia di in-famia, tale coerentemente nel contesto di una «culture encadrée», è in realtàil più autentico Titolo d’onore della filosofia: che essa sia il primo lusso, equindi spreco, della cultura non rispecchia null’altro che la sua antica nobiltàe libertà, la sua ™leuqer…a. In ultima analisi, infatti, la filosofia non serve aniente perché, e nella misura in cui, non serve nessuno28.

Cosa ci autorizza a concludere ciò, rispetto alla speranza in una culturasuperiore? Ebbene, una tale speranza dimostra il suo fondamento nel sem-plice fatto e finché si darà il semplice fatto, che giovani talentuosi e appas-sionati di conoscenza trovino l’ostinazione e il coraggio di mettere in se-condo piano le loro pur ovvie aspettative di realizzazione professionale, pertenere in primo piano la propria formazione, che ricercano per essa stessa enon per farsene qualcosa, per essere uomini e non per servire a qualcosa oa qualcuno. Un coraggio, quello che ci troviamo sotto gli occhi ogni gior-no, che è un fenomeno di dimensioni straordinarie, di cui non dovremmomai smettere di stupirci, che dovremmo onorare, cercando di rimanervi al-l’altezza: la generosità che manifesta è l’indice più puro della profonditàdelle radici della nostra cultura; sminuirla, contrastarla, cercare di soffocarlae di screditarla è al converso il segno dell’imbarbarimento della civiltà.

28 Comincia a servire a qualcosa, infatti, solo quando si mette al servizio di qual-cuno, come un tempo avvenne con la teologia cristiana, di cui si fece ancilla, cometante altre volte, e con molta minore dignità e profondità, si è resa utile, per quella oper quell’altra istanza, perdendo però così, in ogni caso e ogni volta, la sua proprianatura e destinazione.

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Nella stessa misura, seppur non con la stessa evidenza, questo vale perogni disciplina, anche per quelle a indirizzo scientifico o applicativo – per-ché anche l’Architettura, per dirne solo alcune, la Matematica o la Fisicaappartengono a pieno diritto, secondo il loro nucleo ideale, al complessodella cultura superiore e quindi richiedono anch’esse un’educazione coeren-te a tale loro ispirazione. Vale, insomma, in ogni caso in cui il coraggiodella gioventù, magari anche la sua apparente irresponsabilità, che è spessouna responsabilità verso se stessi più elevata e più profonda, nutrano e sor-reggano, senza tener conto dell’utilità e della destinazione, bensì del solooggetto, un’aspirazione al sapere come ampliamento dell’orizzonte dellapropria intelligenza e, con essa, della propria consapevolezza e libertà. Valesempre, solo che quando la disciplina verso cui quell’aspirazione si dirige ètale, da escludere di per sé quasi ogni prospettiva di realizzazione professio-nale raggiungibile direttamente tramite essa, quel coraggio riluce in manierapiù diretta e più pura. Ogni laureato in Archeologia, in Matematica pura ein Filosofia è un’offesa alla “moneta corrente” dell’attuale e proprio così ilsegno e la traccia di una tradizione che non vuole perire, di un ideale dicultura superiore che continua a rinascere. Quella persona, che avrà cosìnon solo cercato invano, ma in qualche misura anche raggiunto un raffina-mento dello spirito e una più profonda e radicata consapevolezza e umanità,saprà poi ben districarsi nelle vicende della vita, grazie all’ampiezza dellosguardo e alla vivacità dell’intelligenza, senza rimanere asservito ad un’uni-ca funzione, qualunque professione abbia la ventura di esercitare. E questo igiovani lo sanno, lo comprendono, rispetto a questo spesso fanno ancheconsapevolmente una scelta.

Si intende anche bene, però – e così riafferriamo insieme l’intera tramadel discorso e lo portiamo a conclusione –, che quel fondamento vivente diuna qualsiasi speranza in una cultura superiore, quel coraggio giovanile equell’anelito che rinascono ad ogni generazione, affinché possano realizzarsied essere così pure il corpo vivente di una cultura avvenire e di una tradi-zione che si fa ventura, richiedono ai loro educatori una passione altrettantoviva e una responsabilità almeno altrettanto rigorosa e radicale. Educatoriessi stessi educati, com’è stato per tutti noi Eugenio Mazzarella.

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Di una certa qual collera contro l’epocaDall’Università delle masse alla nuova Università di massa

Maria Teresa Catena

Se è vero che la filosofia è inseparabile da una certa qual colleracontro l’epoca è anche vero che essa ci procura una certa serenità.

Nondimeno la filosofia non è una Potenza. Le religioni, gli Stati,il capitalismo, la scienza, il diritto, l’opinione pubblica, la televisione

sono delle potenze, non la filosofia.La filosofia può conoscere grandi battaglie interne (idealismo-realismo),

ma sono battaglie da ridere.Non essendo una potenza, la filosofia non può ingaggiare battaglie

con le potenze; contro di loro conduce semmai una guerrasenza battaglie, una guerriglia.

Non può dialogare con loro, non ha nulla da dire,nulla da comunicare, può solo avviare dei pourparler.

Poiché le potenze non si accontentano di rimanere esteriori,ma penetrano anche in ciascuno di noi, grazie alla filosofia

ciascuno di noi si trova incessantemente in pourparlere in guerriglia con se stesso.

GILLES DELEUZE

Le riflessioni che seguono nascono senz’altro dall’occasione, sentitapiù che dovuta come tale, di rendere atto e testimonianza a colui che, da uncerto punto in poi del mio percorso, è stato il mio maestro. Esse però, cosìil caso ha voluto, sono cadute in un momento molto difficile della vita del-la nostra Università, in una fase in cui sembra essersi del tutto smarritaquella che Ortega y Gasset, più di ottant’anni fa, definiva la missione com-plessiva dell’Università: sarebbe a dire, essere non soltanto un posto «perstudenti, un recinto ad usum delphinis», quanto un’istituzione «collocata inmezzo alla vita, alle sue urgenze, alle sue passioni»; un’istituzione che, inquesto senso, potrebbe (e dovrebbe) imporsi come autentico «potere spiri-tuale», tale da sovrastare la chiacchiera della «Stampa, rappresentando laserenità di fronte all’esaltazione, il serio acume di fronte alla leggerezza eall’evidente stupidità». Così, e solo così, prosegue il filosofo, l’Universitàpotrebbe tornare «ad essere ciò che fu nella sua ora migliore: un principiopromotore della storia europea» 1.

1 J. ORTEGA Y GASSET, La missione dell’università, tr. it. di M. Gambardella, Gui-da, Napoli 1972, pp. 81 ss. (il corsivo è mio).

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Ebbene, il casuale combinarsi di due fatti così diversi – come sono unomaggio a un maestro e la ricezione di una “crisi” – sullo stesso “oggetto”Università, mi ha spinta a scrivere quel che segue; mi ha, in altre parole,sollecitata a provare a dire qualcosa su entrambe le diverse, eppur intreccia-te, questioni.

Partendo dalla considerazione che, lungi dall’essere l’Università unastruttura extra o a-temporale, trattandosi piuttosto di un “luogo” nel tempo,dunque di un luogo che non può sottrarsi alla necessità di essere riformatoovvero di riformarsi, e cercando di tener fermo l’assunto che qualsiasi riav-vio debba fare tutt’uno con la sua funzione, cioè con l’assunzione, l’inter-pretazione e la possibilità della promozione dell’uomo occidentale, ho attin-to a un autore col quale a lungo mi sono misurata: Immanuel Kant.

Certo, non posso esimermi dal dire che una certa qual collera percorrequeste pagine, nella misura in cui, non riuscendo ad astrarmi dall’ora, pro-vo forte la sensazione che oggi siamo piuttosto di fronte a una sorta di vi-vacità se non di frenesia riformatrice che difficilmente rintraccia corrispetti-vi in epoca moderna e contemporanea; in tal senso, non posso evitare diprovare un prepotente turbamento dell’animo nel pensare che, dietro questoeccesso di proposte, si celi la liquidazione della possibilità che l’Universitàsia o torni ad essere autentico principio promotore.

Naturalmente, e va da sé, non mi azzardo a dare indicazioni di riforma.Del resto, non ne ho le competenze. Ciò che provo piuttosto a fare, evitan-do qualsiasi aporetica riattualizzazione del “classico” Kant, è tener fermi gliestremi del suo ragionamento sull’Università e sulla facoltà filosofica inparticolare, per cercare di riflettere in proprio allo scopo di far riemergereun possibile senso da attribuire, ora, al compito di quest’istituzione.

Da questo punto di vista, e più di tutto, queste pagine contengono, népotrebbe essere diversamente, quel che mi è stato insegnato e, soprattutto,come mi è stato insegnato.

Ve le propongo, perciò, per quel che soprattutto sono: il frutto di un la-voro sul campo vissuto tra uno smarrito sconcerto e una indomita illusione.

Che un inedito riformismo trasformatore/ricostruttivo sia il tratto distin-tivo della situazione universitaria, lo evidenziava lucidamente, oltre un qua-rantennio fa, Pietro Piovani: «per tutto il secolo XX», scriveva in proposito,«cioè dalla prima guerra mondiale in poi, l’Università europea, pur resisten-do con insospettata vigoria o remissivo spirito di adattamento, ha vissutovita difficile»2. Vita difficile rispetto alla quale sorprende più «il fatto che

2 P. PIOVANI, Morte (e trasfigurazione?) dell’Università, Guida, Napoli 20002, p. 7.

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essa sia riuscita a sopravvivere»3 che, di contro, la sua stessa effettiva mor-te, appunto annunciata e quindi attesa.

In altri termini e ad un primo, superficiale approccio, seguendo la sciainterpretativa proposta dal filosofo napoletano nelle dense pagine di Morte(e trasfigurazione?) dell’Università, sembrerebbe che la titolarità di questodinamismo riformatore andrebbe ricondotta proprio alla lunga agonia del-l’istituzione universitaria: per cui ci troveremmo di fronte a una rispostastrutturalmente reattiva, mero effetto di questa stessa lunga agonia. In realtà,le cose non stanno così semplicemente perché, se si decide di prendere incarico in maniera sostanziale l’analisi piovaniana, non è possibile non evi-denziare il motivo (o i motivi) che nel profondo ha (o hanno) agito corrosi-vamente sino all’esito ultimo. Che è come dire che, lungi dall’essere un’en-tità astratta, una struttura metafisica, e proprio perché invece è un’istituzio-ne che vive nel tempo, l’Università non solo muore e si trasfigura, ma que-sta stessa trasfigurazione e il tipo di istanza riformatrice che ne deriva, han-no dei profondi motivi storici; insomma, «le ragioni del declino dell’istitu-zione e dell’idea di Università vanno dunque molto al di là delle occasionidella cronaca»4.

Se non si dimentica infatti, che «le Università moribonde o morte allafine del secolo XX sono le Università dell’Ottocento», quelle cioè nate dal-la straordinaria attività riformatrice compiuta da Wilhelm von Humboldt,«già separate, con netta soluzione di continuità, dalla tradizione universita-ria medievale, si cederà meno facilmente alla tentazione del lamento apoca-littico»; inoltre, e auspicabilmente, visto che «il nostro Novecento» ha assi-stito «a una rottura di grande significato»5, ciò consentirà di comprendere ildato realmente sensibile in base al quale «gli ultimi decenni del secolo XXsi trovano di fronte a una grande migrazione verticale di popoli, foriera dimutamenti profondi, non meno innovatori di quelli che appartennero, untempo, alle grandi migrazioni “orizzontali”»6. Ecco dunque un significativomotivo del declino della specifica “versione” dell’istituzione universitaria:«la delocalizzazione dell’uomo novecentesco, che è una vera forma di no-madismo morale, è una delle ragioni principali dell’impossibilità di soprav-vivenza dell’Università ottocentesca nell’inoltrato Novecento»7.

Così, se fino alla metà del secolo XX il giovane che, «sempre piùspesso entrando a far parte di una società colta provenendo da ambienti fa-

3 Ibidem.4 Ivi, p. 45.5 Ivi, pp. 45 ss.6 Ivi, p. 52.7 Ivi, p. 34.

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miliari incolti», trovava una società stabile, dopo la metà del XX secolo, sitrova inserito in un processo «alterato dalla velocità impressa dalla dinami-ca economica al giro stesso della circolarità sociale»8; cosa questa che creanon solo una «disordinata fame di informazione culturale degli homines no-vissimi»9, ma che dilata il perimetro stesso di questi homini, costretti sem-pre più a confrontarsi con gli straordinari sviluppi cui aveva messo manol’uomo moderno. Sviluppi che, dal canto loro, sul piano della esponenzialeconcrescenza delle acquisizioni conoscitive, fanno sì che «oggi la multifor-mità della ricerca scientifica, nei suoi vari aspetti, nelle sue mutevoli spe-cializzazioni, non è contenibile dentro organismi unitari, pur variamente ar-ticolati»10.

Piovani, detto altrimenti e in maniera più stringente, alla fine degli anni’60 del Novecento, aveva perfettamente colto che l’istanza riformatrice del-l’Università avrebbe dovuto farsi carico, da un lato, della crescente doman-da di un «nuovo uomo occidentale» sempre più composito e complesso, edall’altro, della polverizzazione dei saperi sempre più autonomi e più spe-cialistici. Il filosofo napoletano, aveva insomma visto che tale stato di coseimponeva la necessaria trasfigurazione dell’Università elitaria in Universitàdi massa.

Si tratta ora di provare a cogliere, in qualche modo prospetticamente epur tuttavia in maniera necessariamente sommaria e schematica, cosa hacomportato nell’ultimo quarantennio, lo specifico di questa trasformazioneepocale.

Se solo si volge lo sguardo al significato che ha assunto la ormai abu-sata formula Università di massa in Italia, ci si accorge che il primo passocompiuto, e proprio dal punto di vista legislativo, implica l’assunzionequanto meno di questa dilatazione dell’utenza. Leggiamo in proposito quan-to scrive Felice Froio: «Tristano Codignola (...), d’accordo col ministro Fer-rari-Aggradi, il 18 ottobre 1969, presenta una legge-stralcio davvero rivolu-zionaria che viene approvata il 4 dicembre, in meno di due mesi. È il casodi ricordare che siamo in tempi di contestazione e di fermenti politici e cul-turali. In questa riforma si prevede l’accesso all’università di tutti i diplo-mati delle scuole secondarie superiori e la liberalizzazione dei piani di stu-dio delle facoltà. E sulla base della stessa logica, Codignola presenta un’al-tra legge che blocca a partire dalla sessione 1970, i concorsi a cattedra eabolisce la libera docenza. Due leggi traumatiche che nell’intenzione dei

8 Ivi, p. 52.9 Ivi, p. 53.10 Ivi, p. 81.

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promotori avrebbero dovuto portare presto alla riforma organica dell’univer-sità»11.

Vero è anche che la legge Codignola (910/1969), aprendo «l’accesso atutte le facoltà a chi sia in possesso di qualunque diploma di maturità», im-plicava di fatto «la nascita dell’università di massa», senza cambiare inniente «la struttura dell’università d’èlite»12.

Ora, non c’è dubbio che questo tipo di tensione/contraddizione – pog-giante su un re-formare preoccupato di conservare forme e strutture per iltramite di un loro semplice allargamento di fruizione – nel decennio succes-sivo è di fatto esplosa, tanto da comportare la necessità di un ulteriore cam-biamento che si sforzasse di agire sulle forme stesse dell’Università. Il datoassolutamente evidente, nella sua contraddittorietà, è quello relativo allosbilanciato rapporto numerico docente-discente13 cui s’è risposto in manierastoltamente orizzontale, senza alcuna idea complessiva di Università da co-struire. Cosa questa che ha fatto sì che «le vicende legislative che avrebbe-ro dovuto dare al paese una riforma globale dell’università», si concludesse-ro «nel 1980 con un decreto del presidente della repubblica, noto come la382, che attua la legge delega del 21 febbraio dello stesso anno». Questi,prosegue Froio, «i punti più qualificanti»: 1) il ruolo dei docenti si dividein due fasce: gli ordinari di prima fascia e gli associati di seconda fascia; 2)definisce le incompatibilità; 3) istituisce il ruolo dei ricercatori; 4) stabiliscele modalità di reclutamento e di inquadramento; 5) istituisce il dottorato diricerca; 6) crea i dipartimenti; definisce il tempo pieno e il tempo definito;fissa in 15.000 i posti dei professori associati e in 16.000 quelli dei ricerca-tori; stabilisce le norme per il reclutamento dei docenti; fissa le modalitàper l’inquadramento, mediante un giudizio di idoneità, degli incaricati, degliassistenti e dei tecnici laureati nel ruolo di professore associato. Questa leg-ge ha avuto conseguenze gravi sui nostri atenei perché ha consentito l’in-gresso nei ruoli di un esercito di associati e ricercatori, chiudendo di fattole porte delle università ai giovani. Dice Simone: «le conseguenze più gravidi questo brutale todos caballeros furono e sono tremende: è stato calcolatoche più dell’80% dei professori associati e quasi il 77% dei ricercatori at-tuali sono entrati in ruolo non per concorso ma con un giudizio di idoneità,cioè quasi in omaggio»14.

11 F. FROIO, Le mani sull’università. Cronache di un’istituzione in crisi, EditoriRiuniti, Roma 1996, pp. 58 ss.

12 P. PELLINI, La riforma infinita, in «alfabeta 2. 03», ottobre 2010, p. 30.13 Mi limito a riportare un unico dato numerico: se negli anni ’50 gli studenti

universitari erano 226.000, nel 2007 erano un milione e ottocentomila.14 F. FROIO, Le mani sull’università. Cronache di un’istituzione in crisi, cit., pp. 61 ss.

42 Maria Teresa Catena

In altri termini, la vera svolta riguardo la modifica delle forme struttu-rali dell’Università ottocentesca ha comportato una effettiva sanatoria dimassa che ha, di fatto, ridotto la qualità complessiva della docenza universi-taria innescando una sorta di processo famelico in funzione del quale il re-clutamento degli anni ’90 e inizio 2000 ha significato una dilatazione di no-tevoli proporzioni del corpo docente che, nello snodo decisivo dell’autono-mia amministrativa degli Atenei, ha portato ad alcuni meccanismi di dupli-cazione delle sedi. Duplicazioni e superfetazioni favorite, proprio sul finiredegli anni ’90, da ulteriori interventi legislativi in materia di strutturazionedidattica.

Tuttavia, e prima di fare un ulteriore accenno a tale questione, c’è undato su cui riflettere e a cui riportare questi successivi movimenti di frene-sia riformatrice.

Trattasi del fatto che nuove svolte epocali hanno nel frattempo investitole nostre società. La situazione è sotto gli occhi di tutti e, in una certa mi-sura, lungi dall’essere statica, segue un’implacabile evoluzione, un inarresta-bile crescendo che, lasciando alle spalle le ideologie, il senso di apparte-nenza politica, il collante delle culture di massa, sfocia in una sempre mag-giore spettacolarizzazione di sé e della propria individualità. Insomma, èevidente che, tramontate le utopie collettive e superato anche il trionfo delprivato o, con termine noto a tutti, trascorsa l’epoca del riflusso, «il nostrotempo, simmetricamente, appare piuttosto quello dell’estroflessione del pri-vato: che si spinge proditoriamente “convesso” nella sfera pubblica: la inva-de, si fonde con essa radicalmente cambiandola di segno»15. Ed è chiaroche l’interfaccia che permette lo scambio è lo spettacolo, il format, che, at-traverso un certo ritmo di controllo spazio-temporale, permette l’esposizionedi sé, del proprio vissuto che diventa vissuto da tutti e di tutti.

Così, a partire da questi pochi accenni, non credo sia sbagliato dire chela nostra sia un’epoca estetica, un tempo cioè che tende a privilegiare la di-mensione del sentire. Ma questa non è una novità. Allo stesso modo in cuinon è nuovo sostenere che tale sentire, come tutto il resto, si sia adeguatoalla regola dello scambio economico, finendo per privilegiare la velocità, ilnarcisismo, la competitività, il successo, e ancora, lo standard e la massifi-cazione. Tuttavia, le cose stanno proprio così: in una sorta di ripiegamentoin massa sul proprio particulare, ciò che si viene a definire è una società incui si «fa strada l’elogio della libertà di essere se stessi, anche in spregio a

15 A. CORTELLESSA, Dalla Pornocrazia alla Mignottocrazia. Note sul regime bio-spettacolare di Berlusconi, in «alfabeta 2. 03», cit., p. 17. Cfr. inoltre, su tali questio-ni, A. TONELLI, Stato spettacolo. Pubblico e privato dagli anni ’80 a oggi, Bruno Mon-dadori, Milano 2010.

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qualsiasi vincolo comunitario, principio di legalità incluso, per affermare ilproprio progetto di vita»; una società nella quale l’individualismo di massadegenera in un «relativismo nichilistico che non tocca solo i grandi proble-mi strutturali». Al contrario: tale individualismo nel quale, «centrale è uncerto modo di declinare se stessi», riguarda anche le «sfere più sottili del-l’essere sociale: le scelte personali, i “gusti” di valore, che rendono un pae-saggio sociale sostenibile, anche in chiave estetica, oltre che etica, le deci-sioni più complesse a prendersi nella sfera della vita»16.

A questo stato di cose, però, non corrisponde più tanto quel che Deleu-ze chiamava, descrivendo le società di controllo e il modello dell’impresa,un dividuo deformabile, malleabile, «diviso nel suo stesso intimo»17; e direi,forse nemmeno più quell’uomo liquido, capace di relazioni meramente vir-tuali, così ben descritto da Bauman18: qui siamo di fronte ad un’ulterioredeclinazione dell’“uomo nuovo”, a una declinazione che definirei gassosa19,volatile; siamo insomma al cospetto di un soggetto, se così si può ancorachiamare, che iper-stimolato dal punto di vista percettivo, è al tempo stessopreda dei cliché; a un io che, dietro una scorza esterna in apparenza moltodura, è di una fragilità che valica i limiti dell’inconsistenza; ad un indivi-duo auto-centrato il cui interno, al tempo stesso, si estroflette continuamen-te in un pubblico, continuo, ridondante flusso di parole; a un «bambino ge-neralizzato»20, deresponsabilizzato, sospeso tra divertimento sfrenato e tri-stezza senza rimedio, profondamente bisognoso di continua tutela e accudi-mento.

Così, per quanto paradossale possa sembrare, quest’epoca, che abbiamoappena ribadito essere estetica, è vieppiù profondamente anestetizzata estandardizzata, vieppiù de-sensibilizzata e narcotizzata.

Non c’è dubbio che in tale situazione – e certo non è un caso – si apreun grande spazio per politiche paternalistiche e di destra: perché in questo«vuoto di relazioni interindividuali», «di percorsi identitari singoli e colletti-

16 E. MAZZARELLA, La necessità comunitaria: la politica e la sfida dei valori, inID., Vita, politica, valori. Sensibilità individuali e sentire comunitario, Guida, Napoli2010, pp. 7–16.

17 G. DELEUZE, Poscritto sulle società di controllo, in Pourparler 1972- 1990, tr.it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, pp. 236 ss.

18 Z. BAUMAN, Amore liquido, tr. it. di S. Minucci, Laterza, Roma-Bari, 2004. Cfr.anche, dello stesso autore, Modernità liquida, tr. it. di S. Minucci, Laterza, Roma-Bari2002.

19 Prendo a prestito quest’espressione da Y. MICHAUD, L’arte allo stato gassoso.Saggio sul trionfo dell’estetica, tr. it. di L. Schettino, Edizioni Idea, Roma 2007.

20 L’espressione è di J. LACAN, in Sul bambino psicotico, in «La psicoanalisi. Stu-di internazionali del campo freudiano», I, 1987, pp. 11-21.

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vi», in questo vuoto «ormai saturo di conflittualità», hanno luogo «derivesecuritarie e regressive», illiberali e demagogiche espresse «attraverso nuo-vismi mediatici»21.

Allo stesso modo, non c’è dubbio che, anche in questo caso, tale situa-zione epocale abbia investito le nostre istituzioni, la nostra Università inparticolare. Già Deleuze lo aveva ben visto, notando che la stessa pubblicaistruzione, sempre più basata sul principio del merito22, tende a diventareuna scuola secondaria superiore che trasforma i docenti in maestri accudentie gli studenti in allievi da tutelare, secondo una mostruosa formazione per-manente: «Il punto è che siamo all’inizio di qualcosa (...). Nel regime del-l’istruzione: le forme di controllo continuo e l’azione della formazione per-manente sulla scuola, il corrispondente abbandono di ogni ricerca nelleUniversità, l’introduzione dell’impresa a tutti i livelli di scolarità»23.

La sintonia riformistica con questo stato di cose, in materia di Univer-sità, è sconcertante.

«Il 25 maggio 1998 il ministro Berlinguer e i suoi omologhi francesi,inglesi e tedeschi firmano la dichiarazione della Sorbona, che auspica l’ar-monizzazione dei sistemi di istruzione superiore in Europa; il 19 giugno1999 il ministro Zecchino firma a Bologna il progetto di “spazio europeodell’istruzione superiore”. La nuova università dovrà fondarsi sul sistemadel 3+2: triennio semplificato e “spendibile sul piano del lavoro” (in tutte lefacoltà, anche dove un corso di tre anni non crea alcuna professionalità);biennio di vaga specializzazione. Istituiti i nuclei di valutazione d’ateneo(legge 370/1999), Zecchino realizza il progetto Ruberti-Martinotti-Berlin-guer, con la legge 509/1999. Prima in Europa, l’Italia può così vantareun’università licealizzata, parcellizzata, capace di sfornare dai trienni lavoroa qualificazione medio-bassa. Al cambio di maggioranza, nel 2001, il mini-stro Moratti manifesta propositi radicali: parziale smantellamento del 3+2,ritorno alla selettività. Un programma coerente, da destra seria: rimasto deltutto inapplicato (soprattutto per l’opposizione della CRUI). Il ministro ri-piega sulle normative concorsuali, nel tentativo di sanare i danni causati an-che in questo campo da Berlinguer (legge 210/1998: concorsi facili idoneitàfacili). Il ritorno a un farraginoso sistema di concorsi nazionali è approvatoa fine legislatura (legge 509/2009), ma rimane inapplicato per mancanza didecreti attuativi. In ambito didattico, Moratti limita un po’ la moltiplicazio-ne dei corsi di laurea, creando confusione (riforma della riforma) senza

21 E. MAZZARELLA, La necessità comunitaria: la politica e la sfida dei valori, cit.p. 10.

22 G. DELEUZE, Poscritto sulle società di controllo, cit., p. 236.23 Ivi, pp. 230 e 240.

Di una certa qual collera contro l’epoca 45

cambiare molto; l’unico lascito catastrofico del suo quinquennale mandato èla proliferazione delle università private e degli screditatissimi diplomificitelematici»24.

L’ho sottolineato: armonizzazione/standardizzazione25; semplificazione;licealizzazione; proliferazione del privato e del telematico26. L’ho detto e loripeto: l’assonanza tra queste scelte e la situazione sociale è evidente.

Ora, mi sembra di poter dire che, al di là della sempre più crescente epericolosa economicizzazione, standardizzazione, licealizzazione e privatiz-zazione della risposta – vero motore della “vivacità” riformatrice di que-st’ultimo trentennio27 – che altro non ha fatto che dilapidare le risorse suoggetti fondamentali quali reclutamento e didattica, l’attuale Università dimassa abbia finito col caricarsi delle masse di contraddizioni e schizofreni-che eterogeneità di questo oggi28. E lo ha fatto al punto tale da trasformarsiin Università (dell’individualismo) delle masse.

Ma, così facendo, ha eluso, almeno in Italia, lo specifico intrinseco del-la sua autentica missione che, come ho provato a dire in modo sintetico, haa che fare con un lavorìo costante sui sensi, i modi e i polisemici significatidell’umanesimo occidentale29.

24 P. PELLINI, La riforma infinita, cit., p. 30 (il corsivo è mio).25 Che di una standardizzazione si tratti, lo mostra il fatto che anche le altre Univer-

sità europee soffrono degli stessi problemi di quelle italiane. Per un’analisi attenta di talestato di cose, rimando a M. REGINI, Malata e denigrata. L’Università italiana a confrontocon l’Europa, Donzelli, Roma 2009. A tale volume rimando anche chiunque voglia sot-trarsi, con cognizione di causa, alle facinorose polemiche che, da tempo oramai, un certoceto politico e i media hanno scatenato sui pur tanti limiti delle nostre Università.

26 Della inquietante distribuzione di fondi alle Università private e telematicheparla con dati alla mano, R. MORDENTI, L’università struccata. Il movimento dell’Ondatra Marx, Toni Negri e il professor Perotti, Edizioni Punto Rosso, Milano 2010.

27 Di un eccesso velleitario di riforme epocali, destinato ad andare a scapito quantomeno della manutenzione ordinaria e straordinaria del sistema che già c’è, scrive E.MAZZARELLA, in, Riforma e manutenzione del sistema universitario, in «Bollettino filoso-fico», Università della Calabria, «La Filosofia e l’Università», 19/2003, pp. 35-43.

28 In fondo, come pure è stato constatato da M. DOMENICHELLI, in «alfabeta 2. 03»,cit., p. 33, il progetto complessivo, presentato come progetto teso «a salvare l’univer-sità di Stato», si è materializzato in vero e proprio progetto di «demolizione in un set-tore di massima rilevanza per la vita democratica del paese e, nei termini dell’ideolo-gia liberomercatista, perdente anche nella competizione internazionale. Manca un pro-getto di università perché manca un progetto di comunità politica in cui sia chiaraqual è la missione affidata alle università, quale il compito nel progetto di democraziache dobbiamo continuare a pretendere».

29 Lungi dall’essere questione da considerarsi desueta, il problema e il senso di talemissione si può individuare anche nelle dichiarazioni delle Linee guida del governo perl’Università risalenti al 2008. Le riporto: «L’Europa, attraverso la strategia di Lisbona, ha

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E allora, che fare, oltre a provare una certa qual collera contro l’epoca?L’ho detto: cercare di ripensare e ragionare circa la possibilità che

l’Università possa tornare ad essere autentico «principio promotore».Da questo punto di vista, e come annunciato, proverò a riproporre e a

riflettere sugli estremi di un ragionamento kantiano.Nell’autunno del 1765 Kant pubblicò in opuscolo una Notizia dell’indi-

rizzo delle sue lezioni nel semestre invernale 1765-6630. Si tratta di quel chenoi, oggi, chiameremmo “il programma del corso”; programma di un corsosvolto all’interno e per un’Università di certo ben diversa da quella con laquale ci confrontiamo oggi e sul quale, pur tuttavia, vale la pena soffermar-si contenendo le parole dell’allora giovane filosofo alcune indicazioni disorprendente attualità e perciò stesso di una qualche utilità ai fini del rinve-nimento di una direzione da prendere in questo clima di così difficile defi-nizione.

Ebbene, la prima cosa che colpisce del ragionamento del filosofo èl’avvertimento del pericolo insito nell’insegnamento accademico: formareun individuo che, dagli anni di studio, porti via solo «una scienza presa aprestito, quasi appicicata, non cresciuta in lui»; un individuo che, perciò, siaguastato «dall’illusione (Wahn) di esser sapiente»31. Se infatti si ha la prete-sa, il pregiudizio, spesso più sciocco dei preconcetti del senso comune, didover impartire cognizioni in modo prematuro o astratto, altro non si fa cheseminare e far fiorire quel male più incurabile dell’ignoranza che Kantchiama, appunto, presunzione di sapere; si finisce insomma per far circolareindividui dotti, uomini di studio che, mostrando poca intelligenza, altro nonsono che gusci vuoti. Ora, a parere del magister, è esattamente questo chefanno le Accademie: «mandare per il mondo più teste insulse di qualsiasialtro stato sociale»32.

posto il traguardo di una società basata sulla conoscenza. L’Italia ha come principale ri-sorsa il suo capitale umano (...). L’università e la ricerca – un binomio inscindibile –sono una ricchezza fondamentale per l’Italia. Per tornare ad essere una strumento davve-ro efficace di crescita e di promozione sociale e personale in un Paese avanzato, l’univer-sità deve cogliere con coraggio la richiesta di rinnovarsi...». Citato in M. REGINI, Malata edenigrata. L’Università italiana a confronto con l’Europa, cit., p. VII (il corsivo è mio).

30 I. KANT, Nachricht von der Einrichtung seiner Vorlesungen in dem Winterhal-benjahre, von 1765–1766. Di questo scritto c’è un’unica traduzione, Notizia dell’indi-rizzo delle sue lezioni nel semestre invernale 1765-1766, a cura di A. GUZZO in Concet-to e saggi di storia della filosofia, Le Monnier, Firenze 1940, pp. 322-334. A questatraduzione mi rifaccio, apportandole qualche modifica.

31 Ivi, p. 323.32 Ivi, p. 324. Lungi dall’essere occasionale, quest’affermazione circa i guasti

prodotti da un certo tipo di educazione corrisponde a un pensiero radicato nell’allora

Di una certa qual collera contro l’epoca 47

Così, al cospetto di quel che, a voler usare un eufemismo, potremmochiamare un inconveniente, che cosa propone l’allora libero docente pressol’Università di Königsberg?

In poche parole, di capovolgere il metodo comunemente usato dai pro-fessori. Sarebbe a dire: di non partire tanto dal ragionamento astratto e dal-l’altrettanto astratta acquisizione di nozioni, quanto piuttosto, seguendo quelche il filosofo ritiene essere il corso naturale della mente umana, dall’indi-rizzare il lavorìo dell’intelletto, che sempre si muove attraverso l’esperienzae i suoi giudizi intuitivi, per condurlo poi, mediante questi stessi giudizi, aiconcetti. Insomma, si tratterebbe di far maturare l’intelligenza, di incremen-tarla ed esercitarla attraverso i giudizi d’esperienza. Più precisamente: direnderla «attenta a ciò che possono insegnarle le sensazioni comparate deisuoi sensi»33. Solo dopo aver fatto questo sarà possibile che la ragione, po-nendo questi stessi concetti in rapporto con le loro premesse e conseguenze,finisca col comprenderli in un tutto ben ordinato per mezzo della scienza.Dunque: prima l’uomo intelligente (verständigen Mann); poi, l’uomo ragio-nevole (vernünftigen Mann); infine, ed eventualmente, l’uomo dotto (derGelehrten).

Evidentemente, come si esprime suggestivamente il giovane Kant, quinon si tratta tanto di far sì che il discepolo impari dei pensieri (Gedanken),piuttosto di far in modo che impari a pensare (denken lernen); non è que-stione cioè di pretendere che riceva passivamente delle nozioni, limitandosia portarlo (tragen) sulla strada di una disciplina già pronta: l’indicazioneche ci viene data è piuttosto quella di condurre (leiten) il giovane ad un piùmaturo giudizio in proprio, far sì che egli «in futuro sia capace di cammi-nare da sé»34.

Con quella che non esiterei a definire lucidità, il giovane professore sache questo metodo ha dalla sua un vantaggio: «che se pure il discente –come avviene comunemente – quasi mai raggiunge l’ultimo grado, pure egliha approfittato dell’istruzione, ed è diventato più capace e accorto, se nonper la scuola, almeno per la vita»35. Affermazione pessimistica certo, e al-l’apparenza assai limitativa dei compiti e dei fini dell’insegnamento, poiché

giovane Kant. Basti pensare a quanto egli annotava proprio in quegli anni circa il fattoche «le nostre Accademie istruiscono un gran numero di truffatori». Cfr. in propositole sue Bemerkungen in den «Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erha-benen», 1764-1765, tr. it. di M. T. Catena, Annotazioni alle Osservazioni sul senti-mento del bello e del sublime, Guida, Napoli 2002, p. 112.

33 Ibidem.34 Ibidem.35 Ivi, p. 323, (il corsivo è mio).

48 Maria Teresa Catena

– almeno così sembrerebbe che Kant dica – visto che è difficile avere uo-mini, non dico dotti, ma ragionevoli, tanto varrà accontentarsi di formareindividui che siano almeno capaci di orientarsi con una certa avvedutezzanelle complesse vicende di questo mondo.

Tuttavia, com’è tipico del modo di procedere del filosofo di König-sberg, ciò che sembra essere la conclusione – in questo caso oscillante tra ilrassegnato e l’elitario – è invece l’inizio di un ragionamento di tutt’altrotipo.

A ben guardare infatti qui il magister non sta solo dicendo – e forsenon sta dicendo affatto – che, visto che pochi saranno coloro in grado diragionare, tanto varrà che il metodo d’insegnamento universitario, seleziona-te le menti migliori per altri scopi, si limiti, per i restanti, a formare “buoniuomini”, adatti al più a cavarsela nelle complesse circostanze della vita. Alcontrario, egli sta affermando qualcosa di ben diverso: e cioè che solo se siè in grado di vivere, di misurarsi con la vita, sarà possibile sperare di arri-vare ad essere ragionevoli e, magari, dotti. Per parafrasare una lapidaria af-fermazione di un autore certo abissalmente distante da Kant, Guy Debord,si può dire che le pagine di questa Nachricht stanno sostenendo che per sa-per scrivere bisogna aver letto, e per saper leggere bisogna saper vivere.

Il compito che Kant assegna all’insegnamento universitario è dunquetutt’altro che scontato o limitato essendo invece, ben più complesso esenz’altro più difficile: si tratta infatti di preparare a vivere. E preparare avivere, se non tutti, il maggior numero possibile di individui. Solo se ci siallena in tale senso, se ci si misura con quest’esercizio continuo, si puòpensare di proseguire su una strada, approfondire un percorso e approntareun sapere che lungi dall’essere astratta nozione, sarà invece, come dev’esse-re, e per usare un’espressione di marca nietzschiana, funzionale alla vita36.

E vengo qui a sottolineare un altro punto del ragionamento condottodal filosofo; un punto che, già implicito in quanto appena detto, vorrei oraesplicitare attraverso la formulazione di una domanda.

Se compito dell’insegnamento universitario è, come dire, svolgere unasorta di apprendistato alla vita o, detto in altri termini, comprendere che

36 Lungi dall’essere peregrina, quest’associazione a Nietzsche è invece legittimanon solo – e non tanto – per un’assonanza di carattere contenutistico, visto che lostesso pensiero nietzschiano è attraversato dalla questione del rapporto-contrasto trasapienza e vita, ma anche – e soprattutto – perché in Nietzsche l’assunzione funziona-le del sapere in chiave vitale, di strumentario vitale, ha a che vedere con «l’assimila-zione in chiave estetica del trascendentale kantiano». Cfr. in proposito E. MAZZARELLA,Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della vita, Guida, Napoli 1983, p. 43. Ma,cfr. ivi, anche le pp. 51–54.

Di una certa qual collera contro l’epoca 49

«vivere richiede a ciascuno lucidità e comprensione, e più ampiamente lamobilitazione di tutte le attitudini umane»37, se dunque questo è il compito,chi o per meglio dire, quale, tra i tanti insegnamenti, è maggiormente depu-tato in tal senso?

La risposta di Kant va da sé: la filosofia. «Un metodo di questo gene-re», afferma davanti ai suoi studenti, «esige la natura propria della filosofia(Weltweisheit)»38.

Certo, è chiaro.Ma qui, più che chiudersi, la questione si apre ulteriormente.Infatti: quale filosofia? Di quale filosofia sta parlando il giovane magi-

ster?Presagendo la più nota distinzione della prima Critica39, egli distingue

tra due possibili specie di scienze che si possono, in senso proprio, impara-re (lernen): le scienze storiche, alle quali appartengono oltre alla storia, an-che la descrizione della natura, la filologia, il diritto positivo, e le scienzematematiche. In entrambi questi casi l’allievo, lo studente, «non ha che daricevere»: infatti, nelle scienze storiche, attraverso l’esperienza propria ol’altrui testimonianza, in quelle matematiche, attraverso l’evidenza dei con-cetti e l’infallibilità della dimostrazione, si ha a che fare con qualcosa che èdato nel fatto (was in der Tat gegeben); con qualcosa cioè che, in quantotale, ci si deve limitare ad «imprimere (einzudrücken) nella memoria o nel-l’intelligenza»40.

Non va così per la filosofia, che non è affatto una disciplina già pronta,dalla quale poter imparare qualcosa. In questa «materia», al contrario, nonc’è la possibilità di mostrare un libro a partire dal quale poter dire agli stu-denti: «vedete, qui è la sapienza e la comprensione sicura; imparate a inten-derlo e capirlo, poi costruiteci su e sarete filosofi». E non c’è perché, «perimparare anche la filosofia, bisognerebbe, anzitutto, che ce ne fosse real-mente una»41.

Ma non solo. Essa vieta assolutamente che lo stesso autore di quel cer-to libro debba o possa esser considerato come modello; e lo vieta perché,

37 E. MORIN, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero,tr. it. di S. Lazzari Raffaello Cortina, Milano 2000, p. 53.

38 I. KANT, Notizia dell’indirizzo delle sue lezioni nel semestre invernale 1765-1766, cit., p. 324.

39 ID., Critica della ragion pura, 1781A, 1785B, tr. it. di G. Gentile e G. Lom-bardo-Radice, Laterza, Roma-Bari 19853, pp. 632 ss.

40 ID., Notizia dell’indirizzo delle sue lezioni nel semestre invernale 1765-1766,cit., p. 325.

41 Ibidem.

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in entrambi i casi – sia che sia il libro, sia che sia l’autore a venire propo-sto come tale – si inganna la gioventù prospettandole «l’idea di una filoso-fia che si asserisce bell’e fatta, escogitata per suo bene da altri»42.

Caduti così i modelli e le certezze ad essi legate, altro non resta, pecu-liare a quest’insegnamento, che il metodo zetetico, indagativo; il metodo,scriverà il filosofo in un’annotazione successiva, «di coloro che cercano»43.

È dunque questo che bisogna provare a fare: esser capaci di insegnareal giovane a (ri)-cercare, a riflettere da sé e, di conseguenza, a riflettere suciò che gli viene proposto come modello; insomma, qui è in gioco non tan-to la capacità di «imparare la filosofia (Philosophie lernen)», quanto piutto-sto quella di «imparare a filosofare (philosophieren lernen)»44: il che signi-fica imparare ad avere sulle cose un «più maturo giudizio proprio»45.

Sembra proprio di sentir già parlare il Kant maturo della Risposta alladomanda: che cos’è l’illuminismo?; pare, insomma, di ascoltare le paroledel pensatore che, nel 1784, con un termine ben più noto e famoso, chia-merà maggiorenne l’individuo capace di critica, colui cioè che ha il corag-gio di mettere in discussione e sottoporre al vaglio della propria capacità dipensare qualunque forma di autorità, qualunque forma di subordinazione tu-toriale, qualsiasi tipo di potere o sapere che tenti di impedirgli di obbediresolo a se stesso. Cosa non facile certo, visto che comunemente l’uomo èstretto in una doppia morsa, tendendo a perpetrare da sé, anche dopo che èdiventato formalmente maggiorenne, uno stato di minorità mentale ed intel-lettuale; continuando, in altre parole, a sottomettersi volontariamente, perpigrizia e viltà, a tutori che, dal canto loro, non aspettano altro che istupidi-re le loro «creature (...) come fossero animali domestici», cercando di evita-re di far loro «muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le han-no imprigionate», e mostrando ad esse «il pericolo che le minaccia qualoratentassero di camminare da sole»46.

Il compito che dunque, leggendo tra queste righe anche le successivepagine più mature, Kant assegna all’insegnamento universitario – anzi, aquello filosofico – è allora ben più complesso: perché qui non si tratta solodi svolgere un esercizio continuo, un dubbio permanente o un lento appren-

42 Ibidem.43 ID., Annotazioni alle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, cit.,

p. 191.44 ID., Notizia dell’indirizzo delle sue lezioni nel semestre invernale 1765-1766,

cit., p. 324.45 Ivi, p. 325.46 ID., Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, 1784, tr. it. di N. Me-

rker, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 18.

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distato per evitare a chi si ha di fronte di vivere da testa insulsa, preparan-dolo piuttosto a saper vivere; e non si tratta nemmeno soltanto di restituire,così facendo, un senso vitale a quella conoscenza che, presa per sé sola,poco finirebbe col significare. Qui è questione anche di fronteggiare le in-finte aderenze, le tante resistenze del discepolo, visto che, oltre ad aiutarloa sottrarsi all’uso pedissequo di regole e formule, «questi strumenti mecca-nici di un uso razionale», si dovrebbe provare a spingerlo a districarsi daciò che egli più di tutto ama: questa «minorità che per lui è diventata pres-soché una seconda natura»47.

Da questo punto di vista le parole di Kant non solo sono ben lontaneda quelle che, almeno a partire da Platone, la filosofia rivolge a sé comeproprio compito educativo: sarebbe a dire l’idea di poter svolgere sullamente dell’allievo una sorta di formazione, di Bildung, o detto in altri ter-mini, di provare a compiere un qualunque esercizio pedagogico che abbiacome presupposto «che la mente degli uomini non sia stata loro concessanei modi giusti e che quindi vada ri-formata»48.

Di più. Esse si posizionano anche a una certa distanza da quello che dilì a poco verrà considerato il ruolo dell’istituzione, universitaria in generalee filosofica in particolare. Per usare le parole di Schleiermacher: «risveglia-re l’idea della scienza nei giovani più nobili, già forniti di nozioni di qual-che genere, aiutarli a dominarle in quel settore di conoscenza, cui ciascunodi essi voglia dedicarsi»49. Insomma, differentemente dal successivo model-lo humboldtiano che, vedendo nell’Università, l’istituzione in cui è concre-tamente possibile fare della scienza un sistema unitario, ritiene correlativa-mente come proprio compito precipuo quello di formare un soggetto del sa-pere, il filosofo di Königsberg propone qualcosa di ben diverso: il compitodel corso filosofico non è quello di imparare a imparare, come vorranno isuoi successori, quanto piuttosto quello di imparare a disimparare. Non è

47 Ibidem.48 J. F. LYOTARD, Due parole sul corso filosofico, in Il postmoderno spiegato ai

bambini, tr. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1987, p. 113.49 F. D. E. SCHLEIERMACHER, Gelegentliche Gedanken über Universitäten in deut-

schen Sinn. Nebst einem Anhang über eine neu zu errichtende, 1808, tr. it. in AA. VV.,L’unità del sapere. La questione universitaria nella filosofia del XIX sec., Città nuova,Roma 1977, p. 233. Per amor di precisione è bene sottolineare però che pur avendo laposizione di Schleiermacher molte assonanze con quella di Humboldt, ben diverso è ilcompito che essi fanno svolgere alla filosofia: se infatti, per il primo essa ha un in-dubbio primato nella formazione dei soggetti del sapere, per il secondo è piuttostoalle matematiche che va attribuito questo compito. Cfr. W. VON HUMBOLDT, Über die in-nere und aussere Organisation der höreren wissenschaftlichen Anstalten in Berlin,1810, tr. it. di F. Tessitore, Università e umanità, Guida, Napoli 1979.

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un caso, del resto, che egli scriva: «anche l’autore su cui si insegna la filo-sofia, non dev’essere considerato come modello (Urbild) di giudizio, masolo come un’occasione di giudicare anche di lui, e perfino contro di lui(wider ihn)»50.

Certo, Kant qui non lo dice, ma è in qualche modo implicito nel suodiscorso: questo metodo non può non esporre lo stesso insegnante, almenonella misura in cui il ruolo che egli riveste non si limita solo a combatterele connivenze con le rassicuranti trappole e certezze tradizional-familiariche l’allievo tende a perpetrare; al contrario, la sua difficoltà sta anche nelfatto che questa situazione investe in pieno innanzitutto se stesso, richieden-dogli di mettere in atto in prima persona una paradossale capacità critica diinsegnamento. Detto in altri termini: se l’andamento di un corso di filosofiaè differente da quello di un corso di storia o di matematica, non avendo lafilosofia alcun rapporto con la teoria o con l’acquisizione di un sapere; sedurante le lezioni filosofiche non si promettono certezze, dovendo il docen-te essere pronto a far ragionare anche contro i modelli dati, allora, egli stes-so non potrà sottrarsi a svolgere un comune esercizio di pazienza e, insie-me, di sconcerto rispetto al testo; egli stesso, insomma, con i suoi allievidovrà essere in grado, ricominciando ogni volta daccapo, di mettersi al-l’ascolto, alla ricerca di ciò che di un pensiero resta ancora impensato. Inconclusione, se non può essere considerato «filosofo colui che arriva con si-curo possesso sul problema», allora non potrà essere considerato professoredi filosofia «colui che non comincia, non riprende il corso dall’inizio»51.

E va da sé che questo non vuol dire che non si impara nulla o che ilprofessore debba sedurre o captare la benevolenza dei suoi allievi, trala-sciando un rispettoso lavorìo sui testi: il giovane Kant, all’epoca così legatoalle idee educative di Rousseau, non avrebbe potuto tollerarlo52. Al contra-rio, ciò significa solo che «non impariamo nulla dagli altri se non ci fannoimparare a disimparare»53.

Imparare a disimparare insieme. Riflettere certo da sé, ma in confrontocon altri e con altro. Essere auto-didatti senza per questo auto-riferirsi, chiu-dersi sulle proprie interpretazioni. Ecco ciò che dovrebbe accadere, secondo

50 I. KANT, Notizia dell’indirizzo delle sue lezioni nel semestre invernale 1765-1766, cit., p. 325 (il corsivo è mio).

51 J. F. LYOTARD, Due parole sul corso filosofico, cit., p. 114.52 Della complessa ricezione che Kant fece, anche da questo punto di vista, del

pensiero di Jean Jacques Rousseau, sono testimonianza le coeve pagine delle Annota-zioni alle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, cit., alle quali senz’al-tro rimando.

53 J. F. LYOTARD, Due parole sul corso filosofico, cit., 114.

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il giovane magister, durante un corso di filosofia. Se così non fosse, del re-sto, se in una lezione filosofica non si sperimentasse questo, allora essa nonassolverebbe al suo doppio compito, di preparare a vivere e di approntare unsapere che sia anche, sempre insieme, saper vivere e sapere per vivere.

Non è forse scontato sottolineare, a questo punto, che non di poco contoè il peso politico di questa posizione. Certo, Kant non lo sviluppa affatto inquesta sede, e ci vorranno anni per farlo. Ma nel 1798, nel Conflitto delle fa-coltà, egli espliciterà senza mezzi termini il ruolo che la facoltà filosofica èin grado di svolgere. Proprio in quanto non fondata sull’autorità dei libri odel sapere costituito e, in questa misura, ricevendo solo dalla ragione la suafonte di legittimazione, tale facoltà è l’unica tra tutte che, certo non in gradodi dare ordini, pur tuttavia si sottrae dal doverli ricevere. Cosa non da poco,dato che è proprio tale libertà a permetterle di operare ed eventualmente diistituire un legame tra la verità delle conoscenze e dei saperi da un lato e ifini e gli scopi della ragione dall’altro; o, tradotto in termini concreti, è gra-zie a questa sua indipendenza che essa è in grado di giudicare ed eventual-mente dirimere gli inevitabili conflitti che, per ragioni, per così dire struttura-li, insorgono tra il governo e le diverse facoltà universitarie54.

54 I. KANT, Il Conflitto delle facoltà, 1798, tr. it. di A. Poggi, Istituto universitariodi magistero, Genova 1953. Per quanto non sia possibile qui soffermarsi su questo im-portante scritto kantiano, un breve riferimento schematico vale forse la pena farlo,esponendo succintamente il ragionamento del filosofo. Partendo dal presupposto che igoverni siano mossi dal bisogno di agire sul popolo, e comprendendo essi che è ancheattraverso la diffusione di certe dottrine che quest’azione può avvenire, Kant individuae descrive il forte nesso che intercorre tra il potere, i saperi e l’istituzione dell’Univer-sità. Se è vero infatti che i governi individuano tre modi per influire sui sudditi, cioèattraverso la garanzia del raggiungimento del benessere eterno, di quello con gli altri edi quello fisico, non deve affatto stupire che essi si adoperino per creare dei luoghi –le Università – in cui, radunati dei dotti, s’insegnino quelle dottrine – teologia, diritto,medicina – che garantiscano la formazione di quel personale amministrativo – buoniecclesiastici, magistrati, medici - che, a loro volta, assicurino il raggiungimento delbenessere promesso. Va da sé che questa situazione ha un carattere paradossale, poi-ché se da un lato i docenti rispondono al governo nell’esercizio del loro sapere, se daun lato cioè essi aspettano che quest’ultimo indichi ciò che deve essere insegnato pub-blicamente, e che decida dunque quali teorie vadano accolte e quali respinte comenon congruenti ai propri fini, è dall’altro lato pur vero che il governo nulla sa in ma-teria di sapere. Che dei conflitti possano aprirsi tra i governi e le facoltà, non deveperciò sembrare strano. Allo stesso modo, si comprende perché, secondo Kant, a giu-dicare intorno a questi conflitti debba essere chiamata in causa proprio la facoltà di fi-losofia: avendo la sua fonte di legittimazione nella ragione e non dipendendo dal go-verno, essa ha infatti quell’autonomia che le permette di muoversi con libertà sia ri-spetto alle altre facoltà sia rispetto allo stesso governo. In questo senso le sarà possi-

54 Maria Teresa Catena

Tuttavia, al di là di questo, e senza voler toccare le questioni poste al-l’Università e alla facoltà filosofica in particolare in questi anni successivi,credo che, per tornare alle pagine della prolusione giovanile, esse contenga-no anche un’altra indicazione; indicazione che più di tutte m’interessa met-tere in rilievo, implicando essa alcuni elementi, non dico per ripensare com-plessivamente il compito dell’Università, ma, certo più pianamente e limita-tamente, per provare a individuare, all’interno dello spazio universitario, diquesto spazio dell’oggi, un possibile tipo di esercizio da compiere.

Cerco di spiegarmi meglio.In fondo, anche se en passant, a tale questione già si è fatto riferimen-

to quando, a proposito della necessità espressa di evitare che le Universitàformino teste insulse, s’è notato che il giovane magister propone di regolar-si secondo questo modo: «anzitutto far maturare l’intelligenza e accelerarnel’incremento, esercitandola nei giudizi di esperienza e rendendola attenta aciò che possono insegnarle le sensazioni comparate dei suoi sensi»55.

Ebbene, ecco l’indicazione interessante.La questione che il giovane filosofo pone, non mi sembra possano es-

serci dubbi, è di carattere estetico, nel doppio senso che tale termine rivestenella filosofia kantiana.

Certo, siamo ad un livello elaborativo ben distante dalle future spe-culazioni tanto della prima quanto della terza Critica. Lungi dall’esserela futura «scienza di tutti i principi a priori della sensibilità»56, l’esteticaqui non ha ancora nemmeno a che fare – né potrebbe essere diversamen-te – con la fondazione del Gefühl quale facoltà autonoma: ciò è chiara-mente mostrato dal fatto che, nelle stesse pagine successive della Nachri-cht, tale ambito è assimilato, identificato tout court, con quello del gusto,mentre il sentimento, dal canto suo, è descritto come capacità di avverti-mento interno del bene e del male, dunque collocato nell’ambito dellamorale57; cosa che non deve stupire, del resto, visto che negli anni in cui

bile giudicare le altre facoltà mostrando che i loro saperi hanno un legame non tantocon la verità quanto con il governo e, insieme, provando a rimettere insieme questistessi saperi con il loro fine. Molte le questioni che si potrebbero sollevare a riguardo,per una disamina delle quali rimandando senz’altro a J. DERRIDA, Mochlos ou le conflitdes facultés, 1984, tr. it. di M. Ferraris, in «Aut-aut», 208, 1985, pp. 13-40, e aB. MORONCINI, Kant I. Risposta alla domanda ‘Che cos’è l’università?’, in ID., Il di-scorso e la cenere, Guida, Napoli 1988, pp. 237–278.

55 I. KANT, Notizia dell’indirizzo delle sue lezioni nel semestre invernale 1765-1766, cit., p. 324.

56 ID., Critica della ragion pura, cit., p. 66.57 Ivi, ID., Notizia dell’indirizzo delle sue lezioni nel semestre invernale 1765-

1766, cit., pp. 330 ss., dove Kant scrive, per quel che concerne la prima questione:

Di una certa qual collera contro l’epoca 55

siamo il giovane filosofo non ha ancora focalizzato né la facoltà autono-ma del giudizio riflettente, né di conseguenza, ha potuto individuare nelgusto qualcosa di diverso da una semplice capacità sensibile di compara-zione e confronto tra le sensazioni. E molto tempo ci vorrà, è noto, pri-ma che Kant arrivi a sciogliere questo snodo, riuscendo a collocare cosìil sentimento, che era via via stato espunto dall’ambito fondativo dellamorale critica, tra le pagine della matura estetica degli anni ’90, finalmen-te legittimandolo quale capacità che l’animo ha di riflettere a priori suglistati connessi alla diversa disposizione delle facoltà58.

Ciò non toglie però che in questo semestre invernale del 1765-66, ildoppio senso che il termine estetica ricoprirà negli anni successivi, èsenz’altro possibile reperirlo.

Non è forse vero che il giovane magister parla, a proposito dei sensi,di una capacità di comparare? E non è perciò legittimo ritrovare in essa ilsuccessivo potere che la prima Critica attribuirà alla sensibilità, e cioè lamessa in forma, all’istante e nell’istante in cui lo riceve, del così detto“dato” della sensazione? Detto in altri termini: se le sensazioni operano se-condo una Vergleichung, allora esse non sono pensate, già in questi anni,come il luogo o il momento di una mera recezione passiva, essendo piutto-sto loro attribuito un lavorìo che è già insieme capacità formatrice, attività,facoltà di retroagire, formandoli, sui dati ricevuti.

Ora, che questo tipo di esercizio sia considerato il primo passo, la con-ditio sine qua non che un corso di filosofia deve proporre per «far maturare

«oltre di che, anche la strettissima parentela delle materie dà occasione, nella criticadella ragione, di gettar qualche sguardo su la critica del gusto, cioè su l’estetica». Perquanto riguarda poi la seconda della questioni cui s’è fatto riferimento, si legge: «Lafilosofia morale ha la speciale sorte di ricevere (...) l’apparenza di scienza e qualchecredito di fondatezza (...); e la causa di ciò è che la differenza del bene e del malenelle azioni, e il giudizio su la rettitudine morale può esser conosciuto con facilità egiustezza dal cuore umano direttamente, senza perdersi in dimostrazioni, mediantequel che si chiama “sentimento” (Sentiment)».

58 Basterebbe a ricordarlo la difficoltà espressa nella famosa lettera a Reinholddel 28-31 dicembre 1787 dove, dopo aver affermato di essere riuscito ad individuarele tre facoltà dell’animo – la facoltà conoscitiva, il sentimento di piacere e dispiaceree la facoltà di desiderare – e constatando di aver «trovato principi a priori per la pri-ma nella Critica della ragion pura (teoretica) e per la terza nella Critica della ragionpratica», Kant confessa di doverli ancora cercare per il secondo, consapevole di averea «disposizione una materia sufficiente per il resto della mia vita, perché io abbia diche meravigliarmene e – ove possibile – perché la penetri a fondo». Cfr., appunto, I.KANT, Epistolario filosofico 1761-1800, tr. it. di O. Meo, Il melangolo, Genova 1990,p. 164.

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l’intelligenza e accelerarne l’incremento»59, non mi sembra cosa di pococonto. È come se qui il giovane magister, anticipando le più note paginedella prima Critica, stesse dicendo non solo che, onde evitare di formare«uomini di studio che mostrano poca intelligenza», è assolutamente neces-sario inchiodarli, per così dire, ai limiti di quell’esperienza sensibile che,sola, impedisce salti arditi verso concetti «più alti e remoti»60. Perché infat-ti, è anche altro che egli afferma, sostenendo come, altrettanto indispensabi-le, sia capire, in primis, che il dato esperienziale, ogni singolo dato, lungidall’essere una riproduzione del reale, è piuttosto «una traduzione ricostrut-tiva» e interpretativa di ciò che ci circonda61. Ma di più: benché meno evi-dente sia in queste parole la seconda accezione del termine estetica, quellacioè legata a quanto in futuro verrà descritta come la capacità sentimentaledi ascolto e riflessione degli stati che accompagnano il pensare, non c’èdubbio tuttavia che Kant qui, in secundis, spinga e inviti l’allievo a prestareattenzione (achtsam macht) a queste informazioni portate dalla sensibilità;come a dire che suggerisce loro di attardarsi a considerare, a riflettere suciò che sentono.

Così, per arrivare ad avere sulle cose un più maturo giudizio proprio,c’è un doppio, se non triplo esercizio da compiere: disimparare la tradizio-nale idea che identifica la sensibilità con la recettività e, così facendo, assu-mersi l’onere di provare a sentire riappropriandosi della capacità interpreta-

59 ID., Notizia dell’indirizzo delle sue lezioni nel semestre invernale 1765-1766,cit., p. 324.

60 Ibidem.61 Per quanto lontano dalle pagine kantiane, può essere senz’altro interessante ri-

flettere sulle possibili ricadute pratiche di quest’esercizio di riflessione sulla capacitàformatrice della sensibilità. A tal proposito riporto quanto sostiene E. MORIN in, La te-sta ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, cit., pp. 50-51: «Cosìnoi possiamo mostrare che si possono avere, a partire da testimonianze contraddittoriesullo stesso evento, per esempio alla vista di un incidente d’auto, percezioni che com-portano spesso delle razionalizzazioni allucinatorie. Si possono descrivere casi di per-cezione imperfetta, dovuti all’abitudine o a un’attenzione solo accennata, a disatten-zione verso un dettaglio giudicato insignificante, a un’interpretazione sbrigativa di unelemento insolito e soprattutto a una scarsa visione d’insieme o a un’assenza di rifles-sione. Bisogna illustrare casi di rievocazioni troppo sicure che si autoconfermano nellaripetizione di un ricordo deformato. Si deve anche indicare che una ricerca superficia-le dell’intelligibilità porta a ignorare il significato di un fatto o di un evento, cosìcome una ricerca troppo ostinata dell’intelligibilità conduce a un errore razionalizzato-re che altera questo significato. Si citeranno esempi di decisioni disastrose, prese nonsolo per imprevidenza, cinismo o mancanza di responsabilità, ma anche a seguito diprocessi psichici di assurda razionalizzazione o di occultamento inconscio, volti a pre-servare la nostra tranquillità personale».

Di una certa qual collera contro l’epoca 57

tiva che i sensi svolgono; che è come dire che il pensare in proprio richie-de, quantomeno correlativamente, un esercizio a sentire in proprio. Questoprimo addentrarsi – magari per orientarsi – nelle complesse regioni del sen-tire è, perciò, anche quanto la filosofia non dovrebbe tralasciare di provarea fare se vuole sforzarsi di essere e di proporsi come un sapere che, aiutan-do a vivere sia anche, insieme e quasi circolarmente, funzionale alla vita.

Ora, che Kant proponga questo a degli allievi, ai suoi allievi del seme-stre invernale 1765-1766, non è poi tanto strano, soprattutto se si tiene con-to che questa fase pre-critica della sua speculazione è quella in cui, accom-pagnato da Hume e Rousseau, egli rivolge uno sguardo particolarmente at-tento al mondo umano per cercare e trovare in esso, secondo quella che poichiamerà «teleologia tecnica soggettiva»62, regole che, appunto, servano avivere. Ma per far ciò è proprio a un potenziamento e, insieme, a un affina-mento della capacità di sentire che bisogna rivolgersi, almeno nella misurain cui è essa, data la sua radice concreta, la sola facoltà in grado di farci daguida in questo mondo.

Naturalmente, questo non basta. Non basta cioè vedere nella Sinnli-chkeit un sia pur concreto ricettacolo di dati: ritenendo infatti il giovanefilosofo ancora possibile un rinnovamento dei costumi, auspicando all’epo-ca una rivoluzione estetica in grado di mettere capo quantomeno a «unuomo di natura costumato»63, è chiaro che la sensibilità venga letta e vi-sta come una capacità di messa in forma e, insieme, seppur in modo an-cora confuso, come riflessione sentimentale circa la possibilità di unabuona messa in forma.

Ma soprattutto, ciò che non deve stupire è la chiamata in causa, per larealizzazione di tale scopo, dell’insegnamento universitario, e di quello filo-sofico in particolare. Sperando fermamente non essere più molto lontanauna grande rivoluzione della filosofia64, Kant ovviamente non può non pro-spettare anche una nuova educazione filosofica: «un’educazione» cioè che,lo si è visto, lungi dal tralasciare il coinvolgimento del sentire, sia perciò

62 I. KANT, La metafisica dei costumi, tr. it. di G. Vidari, successivamente rivedutada N. Merker, Laterza, Roma–Bari 19913, p. 234.

63 ID., Annotazioni alle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, cit.,p. 49.

64 Di questa ferma speranza sono testimoni le parole che Kant scrive a Lambert:«Affinché la vera filosofia risorga, è necessario che la vecchia distrugga se stessa e,come la putrefazione è il più completo disfacimento che precede sempre l’inizio diuna nuova generazione, così la crisi della cultura in un’epoca che pur non manca dibuone menti mi fa bene sperare che la più grande rivoluzione delle scienze, da tantotempo auspicata, non sia molto più lontana». Cfr. appunto, I. KANT, Epistolario filoso-fico 1761-1800, cit., p. 45.

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stesso «libera» e in grado anche di formare «persone libere»65, capaci dicritica e dunque di una saggezza nella vita di cui «la metafisica», un giornopotrebbe divenire «compagna»66.

Il punto, tuttavia, non è questo, poiché qui si tratta di domandarsi piut-tosto, che senso possa avere, oggi, stante la veloce descrizione che ho fattodella nostra situazione attuale definendola come quella dell’Università (del-l’individualismo) delle masse; che senso ha, appunto, fare questo Schritt zu-rück e ripescare le considerazioni kantiane sull’Università e, in particolare,sull’insegnamento filosofico.

Eppure un senso c’è. Provo a riassumerlo.In prima battuta. Se è vero, com’è vero, che è anche attraverso un’este-

sa scolarizzazione e licealizzazione che sta avvenendo la liquidazione dellamissione dell’Università, allora il richiamo critico del giovane magister, tut-to teso a mettere in guardia dall’esercitare un continuo tutoraggio o accudi-mento, e men che mai una seduzione dell’allievo, non è forse peregrino;quel che delle parole di Kant mi sembra suonare in stupefacente assonanzacon l’oggi, è l’indicazione che egli dà all’insegnamento, in specie a quellofilosofico, di riappropriarsi della sua missione di promozione dell’uomo e,così facendo, di preparare innanzitutto gli individui a vivere, cioè a pensarecriticamente per provare a orientarsi, davvero maggiorenni, in un mondoche oggi forse più di ieri, li vuole fortemente minorenni.

Allo stesso modo, la necessità da lui indicata di non tralasciare il pianoestetico, nel doppio senso che ho provato ad individuare, quel piano cioèche è sempre insieme percettivo e sentimentale, non è del tutto scevra di in-teresse.

Lavorare in tal senso, infatti, può innanzitutto significare far tacere lelogorree di una comunicazione che quanto più ritenuta universale è tantopiù diventata fradicia67; può, in altre parole avviare un dirottamento dellaparola che è, insieme, un dirottamento dalla parola. Naturalmente, non sitratta di sollecitare il mutismo o l’insignificante silenzio, quanto piuttosto difar tacere il rumore che ci circonda per tentare di ricollocarsi rispetto astandardizzate forme di mimesi percettiva e, insieme, per cercare di riflette-re sulla specificità di un sentire/interpretare in proprio; il che significa sfug-

65 ID., Annotazioni alle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, cit.,p. 185.

66 ID., I sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica, 1766, tr. it. diM. Venturini, Rizzoli, Milano 1982, p. 160.

67 G. DELEUZE, Controllo e divenire, in ID., Pourparler 1972–1990, cit., p. 231,dove si legge: «Forse la parola, la comunicazione sono fradice. Sono interamente pe-netrate dal denaro: non accidentalmente, ma essenzialmente».

Di una certa qual collera contro l’epoca 59

gire il più possibile all’esposizione a un indifferenziato ed irriflesso sentirea tutti comune, a tutti detto, per tutti uguale per posizionarsi così al livellodi quella che Deleuze chiama la seconda figurazione68 e, insieme, riproporreuna “parola piena” in cui risuoni, di nuovo, finalmente non più esibita, lapresenza di un sentire riflettente.

È certo solo un primo passo, ma è un passo forse indispensabile ad av-viare la costituzione, non dico di buoni, ma quanto meno di propri modi diesistenza o di stili di vita; per riproporre cioè una questione sulla quale,oggi, si ha molto bisogno di riflettere.

E forse questo, tra i tanti, è il compito di chi resta, per ventura, a lavo-rare nelle Università. Provare a suscitare, a ri-suscitare, in sé, negli altri einsieme, in un lavoro che chiama certamente in causa il testo, la lettura e laparola, «ciò che più ci manca», ciò che abbiamo completamente «smarrito»,ciò di cui «siamo stati spossessati»69: il nostro percepire/sentire.

In questo senso, attingendo ai tanti testi che la tradizione filosofica cipropone e chiamando in causa, correlativamente, la letteratura, l’arte e il ci-nema – vere e proprie “scuole” di esperienze percettive ed emotive – biso-gnerebbe intensificare nello spazio universitario momenti di riflessione ca-paci di operare una seppur breve sottrazione alla desensibilizzazione; sitratterebbe, insomma, di individuare ancorchè momentanei «interruttori» per«suscitare eventi, per piccoli che siano, che sfuggano al controllo, oppuredare vita a nuovi spazi-tempo, anche di superficie e volume ridotti»70.

Ora, e in conclusione, in che misura questo è possibile?Perché, di fatto, se il mondo verso il quale provare a rivolgersi parla il

linguaggio dell’impresa e della standardizzazione e se, correlativamente,sente secondo un’ovattata e rassicurante narcosi narcisistica allora, così in-teso, quest’esercizio che propongo di non tralasciare e provare a svolgerenello spazio universitario, è per sua natura incommensurabile al discorso eal sentire del mondo, di questo mondo. Da questo punto di vista, come se-gnala Lyotard, tra il mondo e il compito filosofico-accademico, come delresto tra l’allievo e il professore non può aver corso la dialettica o la dialo-gica, ma solo l’agonistica: «Noi dobbiamo esser capaci di affrontare l’opi-nione pubblica solidamente costituita e a noi avversa. Ma occorre elaborarela nostra risolutezza, tentar di sapere a quale scopo batterci»71.

68 ID., Francis Bacon. Logica della sensazione, tr. it. di S. Verdicchio, Quodlibet,Macerata 1995, in particolare le pp. 157–166.

69 ID., Controllo e divenire, cit., p. 233.70 Ivi, pp. 231 ss.71 J. F. LYOTARD, Due parole sul corso filosofico, cit., p. 119.

60 Maria Teresa Catena

Che fare allora?Ritornare al passato, arroccandosi su ormai trascorse esperienze e pro-

vando magari ancora platonicamente, a selezionare le menti, facendo del-l’Università e di quella filosofica in particolare, un luogo per pochi? Andarein guerra? Fare del filosofo, come lo stesso Kant vorrebbe, un guerrierosempre all’erta, pronto a battersi contro i mercanti d’apparenza trascenden-tale? Chiudere le scuole, argomentare per conto proprio o, il che è peggio,assuefarsi alla minorità permanente celata dietro questi eccessi di riforme,aspettando inermi la propria sparizione?

Del resto, forse, non c’è molto tempo davanti. Non ne resta tanto, ditempo, da percorrere. Ma finché si è lì, anzi, finché si è qui, «non è il casoné di avere paura né di sperare»72. Si tratta di non diffidare e porsi al-l’ascolto poiché «la domanda di analisi, di sconcerto»73, di riflessione, si èforse rarefatta, ma non è scomparsa. Si tratta di accoglierla, metterla incampo e chiamare sempre più persone a porvi attenzione, lavorando a cheil numero di coloro che abbiano voglia di affrontare la fatica di smarrirsi,analizzando i testi, per approntare volta per volta nuove armi per sentire,pensare e vivere in proprio, aumenti sempre più, giorno dopo giorno, co-stringendo la vecchia Università (dell’individualismo) delle masse a unanuova riforma che, questa volta non dimentica della sua missione, farà diessa una nuova Università di massa.

Quella nuova Università dove sarà possibile lavorare, forse più sereni,sempre da autodidatti e mai da soli, in perenne, collerica guerriglia col pro-prio tempo e con se stessi.

72 G. DELEUZE, Poscritto sulle società di controllo, cit., p. 235.73 J. F. LYOTARD, Due parole sul corso filosofico, cit., p. 120.

Di una certa qual collera contro l’epoca 61

Una misura nell’uso delle tecnicheLe ragioni della legge sulla Dichiarazione Anticipata di Trattamento*

Vincenzo Bochicchio

Zeus non ti turba. Ti dai tu la tua leggePrometeo: culto acceso dell’uomo

ESCHILO, Prometeo incatenato vv. 542-543

Buona parte del dibattito culturale e politico italiano, negli ultimi quin-dici anni, ha orbitato con andamento ricorsivo attorno a questioni collocabi-li nel vasto territorio della “bioetica”. Un territorio vasto, per l’appunto, maanche sfaccettato e indefinito, in cui si raccolgono alcune delle problemati-che “eticamente sensibili” su cui il legislatore è sempre più spesso chiamato– e talvolta provocato – a legiferare: un primo, inevitabile paradosso, se sipensa che spesso le questioni bioetiche coinvolgono medico e paziente incamera caritatis, un luogo appartato e silenzioso dove ciascuno parla all’al-tro come fosse la sua stessa coscienza.

A ben vedere, però, si tratta di un paradosso solo apparente. I dilem-mi che emergono nel territorio della bioetica richiedono un grado di consa-pevolezza e di sapere, che spesso va ben al di là delle visioni del mondoin dialogo fra medico e paziente: ecco perché è quanto mai necessario, perla bioetica, un supporto multidisciplinare in cui convergano i saperi del di-ritto, della medicina, della filosofia, delle scienze cognitive, ed altri saperiregionali connessi alle questioni che di volta in volta si pongono. Il dialo-go con queste discipline è davvero essenziale alla bioetica, perché può darespessore antropologico a opzioni che altrimenti si ridurrebbero a mere “pro-cedure”1.

* Le riflessioni proposte in queste pagine sono state oggetto di profonde discus-sioni con Eugenio Mazzarella, il mio maestro. Il debito di affetto e di idee che hocontratto con lui negli ultimi dodici anni è inestinguibile: a lui, che non ha mai smes-so di ascoltarmi e di accompagnarmi paternamente, devo la mia identità e “libertà” distudioso. Per queste ragioni, e numerose altre, semplicemente, lo ringrazio.

1 Cfr. E. MAZZARELLA, Sacralità e vita. Quale etica per la bioetica?, Guida, Napo-li 1998, pp. 17 ss.

62 Vincenzo Bochicchio

Ma c’è anche un’altra e più importante ragione per cui è necessarioche la bioetica incontri un’“antropologia forte”: «nel bisogno di bioetica c’èla consapevolezza della coscienza scientifica medica – in linea con l’auto-consapevolezza della coscienza tecnologica più avvertita – che la potenzadella tecnologia alla lunga non può non incontrare un’antropologia vieppiùforte, una ragione dell’uomo all’altezza dei suoi effetti, a pena di essereagito – l’uomo – da questi stessi effetti più che di elaborarne un sapere digoverno»2, scrive Mazzarella, indicando così nell’innesto fra sapere medicoe tecnologia il core problem della bioetica, o se si vuole il luogo in cui ma-tura la sua sfida.

Emblema dell’innesto fra medicina e tecnologia è la gestione di quelleche Jonas ha definito «tecniche di differimento della morte»3: si tratta, in so-stanza, di pratiche che consentono ad un individuo di rimanere in vita diffe-rendo una morte altrimenti imminente, mantenendolo così in «uno stadio tera-peutico nel quale la linea di demarcazione tra la vita e la morte viene integral-mente a coincidere con quella tra continuazione e interruzione del trattamen-to»4. In molti si pongono «la domanda se sia giusto prolungare in modo esclu-sivamente artificiale ciò che – allo stato attuale del nostro sapere – può certoancora chiamarsi vita, ma è appunto soltanto un genere di vita completamentealla mercé della nostra tecnica»5. La prospettiva di una vita alla mercé dellatecnica, cioè totalmente ed inconsapevolmente gestita dalla tecnica, va ben ol-tre la profezia heideggeriana che preconizzava un uomo ridotto a Funktionärder Technik6, ben oltre i timori di Gehlen circa gli effetti del sodalizio frascienze della natura e tecnica7: realizza un autentico paradosso etico, giuridicoe antropologico, che solo un dialogo interdisciplinare, nel pluralismo dellevoci e dei saperi, può provare a dipanare.

Per chiarire i termini di questo paradosso, sarà dunque opportuno met-tere in dialogo l’antropologia filosofica – declinata in un’antropologia dellatecnica – con le scienze cognitive, perché sono questi i saperi regionali dacui possiamo attenderci una risposta, seppur provvisoria, alle domande: co-s’è la tecnica? E cos’è la coscienza? Naturalmente, non c’è da aspettarsi un

2 Ivi, p. 15.3 Cfr. H. JONAS, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità,

ed. it. a cura di P. Becchi, Einaudi, Torino 1997, pp. 185-205.4 Ivi, p. 187.5 Ivi, p. 201.6 Cfr. M. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, ed. it. a cura di P. Chiodi, La nuova Italia,

Firenze 1968, p. 271.7 Si cfr. A. GEHLEN, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, ed. it. a cura di

E. Mazzarella, Guida, Napoli 1990, p. 53.

Una misura nell’uso delle tecniche 63

responso definitivo o definitorio. Ma un interessante contributo al dibattitogiuridico e bioetico sul tema dell’eutanasia, dell’accanimento terapeutico,delle tecniche di differimento della morte, certamente sì. E forse, un dialo-go del genere può costituire un buon antidoto ai fanatismi, alle ideologie eai monologhi che sempre più spesso caratterizzano la discussione pubblicasul “fine vita”.

1. L’a priori tecnico: azione e rappresentazione nell’animale uomo

Nel corso dei secoli, la filosofia ed il mito in Occidente hanno fornitonumerose immagini dell’essere umano: le più profonde ed evocative defini-zioni, tuttavia, insistono sulla sua difettività. Da Eschilo a Nietzsche, l’uo-mo si configura ora come «impasto opaco senza disegno»8 che attende diessere compensato e “fatto ricco”9 da Prometeo, ora come «imperfetto maicompiuto»10 che per vivere ed affermarsi è tragicamente costretto a prodursiverità instabili: insomma, un animale costituzionalmente meno dotato deglialtri, eppure – o forse proprio per questo – più “capace”, più “intelligente”,più “adattivo”.

Sul carattere difettivo della natura umana insistono anche alcuni impor-tanti settori dell’antropologia novecentesca. Gehlen, in particolare, traduce ilparadigma della difettività nella descrizione dell’uomo come Mängelwe-sen11: «l’uomo, già fisicamente, è talmente qualificato da una carente dota-zione di armi organiche o di mezzi di difesa organici, dalla insicurezza edal basso sviluppo dei suoi istinti, dalla mediocrità delle prestazioni senso-riali, che consideravo sostenibile applicare in questo contesto l’espressione“essere manchevole”, già utilizzata una volta da Herder»12, scrive Gehlen inun testo retrospettivamente dedicato ai progressi della “scienza dell’uomo”nel Novecento.

L’idea che un “deficit” organico o fisiologico in un organismo animalecomplesso possa avere una funzione evolutiva, è un’intuizione cui è giunta per

8 ESCHILO, Prometeo incatenato, v. 450, tr. it. di E. Savinio, Garzanti, Milano1988 (200916), p. 37.

9 Cfr. ivi, vv. 507-510, p. 41.10 Cfr. F. NIETZSCHE, Considerazioni inattuali II. Sull’utilità e il danno della storia

per la vita, tr. it. di S. Giametta, in Opere di Friedrich Nietzsche, ed. it. a cura di G.Colli e M. Montinari, v. III, t. I, p. 263. Sulla visione antropologica nietzscheana, cfr.E. MAZZARELLA, Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della vita, Guida, Napoli2000 (2a ed. accresciuta), in part. le pp. 27-64.

11 Cfr. A. GEHLEN, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, tr. it. di C.Mainoldi, Feltrinelli, Milano 1983, p. 46.

12 A. GEHLEN, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 197.

64 Vincenzo Bochicchio

altre vie anche la più avanzata ricerca etologica13, confermando per un verso labontà delle indagini di Gehlen, e per altro verso denunciando la limitatezzadella sua nozione di “istinto”: tralasciando questo aspetto tutt’altro che secon-dario, quel che però mi preme sottolineare in questa sede è la relazione “evo-lutiva” che Gehlen istituisce fra difettività e tecnica. Nella sua ricostruzione,infatti, la carenza di dotazione istintuale si traduce in una «mancanza di spe-cializzazione»14 da parte dell’uomo rispetto all’ambiente, intendendo per spe-cializzazione l’attitudine di un essere vivente a reagire adeguatamente e univo-camente ad uno stimolo ambientale. L’istinto, in quest’ottica, sarebbe una sor-ta di apparato reattivo che la selezione naturale ha perfezionato nel corso dellegenerazioni, in funzione di un sempre più efficace adattamento all’ambiente: èin fin dei conti il correlato stesso dell’ambiente, dell’habitat in cui l’animale siinsedia, ed a cui “reagisce” in termini di stimolo-risposta.

La condizione umana è invece sui generis, proprio a causa della caren-za istintuale e della mancanza di specializzazione15: «l’uomo è dunque orga-nicamente “l’essere manchevole”, egli sarebbe inadatto alla vita in ogni am-biente naturale e così deve crearsi una seconda natura, un mondo di rim-piazzo, approntato artificialmente e a lui adatto, che possa cooperare con ilsuo deficiente equipaggiamento organico; [...] Vive, per così dire, in unanatura artificialmente disintossicata, resa maneggevole (handlich gema-chten), trasformata in senso utile alla sua vita, ciò che è appunto la sferadella cultura»16. Incapace di re-agire all’ambiente – che pure lo istituiscenella sua natura animale17 – l’uomo si trova costretto ad agire, a trasforma-re l’ambiente con la propria attività per renderlo “maneggevole”, e Gehlennon poteva utilizzare termine più adeguato. L’uomo edifica allora, sollecita-to dalla sua difettività, una seconda natura che gli consente di trasformarel’Umwelt in Welt, l’ambiente nel proprio mondo: un apparato artificiale chesupplisce alla mancanza di specializzazione, e che si costituisce a sua voltacome la più plastica delle specializzazioni presenti in natura. Tant’è che op-portunamente Gehlen può domandarsi se «la sfera della cultura non [sia]

13 Cfr. ad esempio le originali intuizioni di Zahavi e Zahavi a proposito della co-municazione animale: A. ZAHAVI, A. ZAHAVI, Il principio dell’handicap. La logica dellacomunicazione animale, tr. it. di M. Luzzatto, Einaudi, Torino 1997.

14 A. GEHLEN, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 87.15 Sui limiti del «paradigma dell’incompletezza», cfr. R. MARCHESINI, Post-human.

Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 9-42.16 A. GEHLEN, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., pp. 88-89.17 Cfr. E. MAZZARELLA, Presentazione a A. GEHLEN, Antropologia filosofica e teoria

dell’azione, cit., p. 8. L’istituzione dell’homo natura come zoé» è questione risoluta-mente affrontata in E. MAZZARELLA, Vie d’uscita. L’identità umana come programmastazionario metafisico, Il melangolo, Genova 2004, pp. 121-152.

Una misura nell’uso delle tecniche 65

forse proprio la sfera naturale dell’uomo, un ritaglio da un campo che sipresenta illimitato, dal mondo»18.

Qui, in tutta evidenza, “naturale” ed “artificiale” si sovrappongono, per-ché l’artificio è un’entità che procede dalla natura dell’uomo, è un mododella physis19, una sua peculiare declinazione, una sua concrezione tecnica.Ma per comprendere lo spessore tecnico della cultura, cioè di quel “mondodi rimpiazzo” che l’uomo deve approntarsi, è il caso di soffermarsi ancorabrevemente sulla mancanza di specializzazione dell’animale uomo. Comeabbiamo visto, Gehlen sostiene che l’animale re-agisce al suo ambiente invirtù dell’istinto: invece, mancando di tale specializzazione, non potendo re-agire adeguatamente agli stimoli ambientali, l’uomo agisce, cioè intervienenell’ambiente pianificando autonomamente un’azione senza l’ausilio di pat-tern comportamentali innati e predefiniti. In altri termini, «solo con una tra-sformazione previsionale della natura un essere così costituito organicamen-te è in grado di vivere. Per questo bisogna collocare al centro di tutti gli ul-teriori problemi e questioni l’azione e bisogna definire l’uomo come un es-sere che agisce, o anche come un essere in grado di prevedere o creare cul-tura, il che vuol dire la stessa cosa»20.

L’azione, in buona sostanza, si configura come un atto originario edautonomo che istituisce una seconda natura, a compensazione della pri-ma natura manchevole e difettiva. Ora, la seconda natura dell’uomo, cheGehlen opportunamente individua nella cultura, è costituita essenzialmen-te dall’attitudine tecnica dell’essere umano, intendendo con ciò la suacapacità progettuale e previsionale: mentre cioè l’istinto dirige univoca-mente il comportamento dell’animale, l’attitudine tecnica il comportamen-to se lo prefigura e prerappresenta in vista di uno scopo. In questa attivi-tà prefigurante consiste la differenza fra l’attitudine tecnica dell’essereumano e le abilità strumentali degli animali, a parere di Gehlen: «biso-gna annoverare i risultati di questa attività progettante e trasformatrice,incluso i necessari mezzi materiali, strumenti di pensiero e di rappresen-tazione, tra le condizioni fisiche di esistenza dell’uomo, e questa asser-zione non vale per nessun animale. Le costruzioni dei castori, i nidi de-gli uccelli, ecc., non sono mai progettati previsionalmente e vengono pro-dotti da un’attività puramente istintiva. Perciò indicare l’uomo come Pro-meteo ha un senso esatto e giusto»21.

18 A. GEHLEN, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 119.19 Cfr. E. MAZZARELLA, Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger, Guida, Napoli

1981, pp. 241-264.20 A. GEHLEN, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 89.21 Ivi, p. 88.

66 Vincenzo Bochicchio

Quest’ultima osservazione, secondo la quale il passaggio evolutivo dal-la difettività alla tecnica è già tracciato nel mito di Prometeo, è decisamenteevocativa e ricca di implicazioni. «Il mito di Prometeo – scrive Paolo Rossi– ha accompagnato costantemente lo sviluppo della coscienza culturale del-l’Occidente»22, rappresentando il simbolo stesso dell’umanità, e le declina-zioni ermeneutiche che il mito ha assunto di epoca in epoca, esprimono an-ch’esse simbolicamente l’idea di uomo che una certa temperie culturale haprodotto: non è quindi un caso che anche Gehlen rinvenga nel mito di Pro-meteo il simbolo della sua immagine di uomo.

Secondo la narrazione platonica, gli dei plasmarono tutte le stirpi mor-tali «e quando si trovarono nel momento di farle venire alla luce, affidaronoa Prometeo ed Epimeteo il compito di fornire e distribuire le facoltà a cia-scuna razza in modo conveniente»23. Ma Epimeteo, incaricatosi di fornireogni razza dell’occorrente per sopravvivere, «non si accorse di aver esauritetutte le facoltà per gli animali: e a questo punto gli restava ancora la razzaumana non sistemata, e non sapeva come rimediare. Mentre egli si trovavain questa situazione imbarazzante, Prometeo viene a vedere la distribuzione,e si accorge che tutte le razze degli altri animali erano convenientementefornite di tutto, mentre l’uomo era nudo, scalzo, scoperto e inerme»24. Eccotradotto nel mito il paradigma della difettività, della mancanza di specializ-zazione: l’uomo è manchevole di un’attitudine predefinita, non è figlio diEpimeteo, colui che comprende dopo, ma attende che sia Prometeo a donar-gli il suo talento.

«Allora Prometeo, in questa imbarazzante situazione, non sapendo qualemezzo di salvezza escogitare per l’uomo, ruba ad Efesto e ad Atena la lorosapienza tecnica insieme col fuoco (senza il fuoco era infatti impossibile ac-quisire ed utilizzare quella sapienza), e la dona all’uomo. In tal modo, l’uo-mo ebbe la sapienza tecnica necessaria per la vita»25, continua Platone. Lasapienza tecnica, la téchne26, rappresenta dunque l’attitudine che Prometeoconcede ai mortali, assieme al fuoco che è necessario per “acquisire” ed“utilizzare” questa sapienza: sono quindi due i doni che Prometeo riserva

22 P. ROSSI, I filosofi e le macchine 1400-1700, Feltrinelli, Milano 1962 (20093),pp. 179-180.

23 PLATONE, Protagora, 320 D, ed. it. a cura di G. Reale, Platone. Tutti gli scritti,Bompiani, Milano 2000 (20013), p. 818.

24 Ivi, 321 C, cit., p. 819.25 Ivi, 321 C-D, cit., p. 819.26 Sui significati della téchne in Platone si veda G. CAMBIANO, I rapporti tra epi-

steme e techne nel pensiero platonico, in AA. VV., Scienza e tecnica nelle letteratureclassiche, Ist. di filologia classica e medievale Un. di Genova, Genova 1980, pp. 43-61.

Una misura nell’uso delle tecniche 67

agli umani. Sul primo, la sapienza tecnica, si sofferma Eschilo nel suo Pro-meteo incatenato, insistendo sulla diretta paternità di questo dono da partedel gigante: Prometeo è il presago, colui che comprende in anticipo, e pro-prio per questo è «fonte di tutte le scienze (technai) ai viventi»27.

Prometeo è, in buona sostanza, l’emblema dell’attitudine tipicamenteumana a progettare e rappresentarsi l’esistente in vista di uno scopo, quel-l’attitudine metafisica che Heidegger raccoglie nella formula Vorstellung, re-praesentatio come cifra della dimenticanza dell’essere avvenuta nella cultu-ra occidentale28. Heidegger, com’è noto, rinviene proprio nella filosofia pla-tonica «il presupposto storico remoto»29 a partire dal quale il mondo è statopoi ridotto a immagine, a rappresentazione, e spiega che in questa furiosa eprogressiva metafisica della rappresentazione «l’uomo pone in giuoco la po-tenza illimitata dei suoi calcoli, della pianificazione e del controllo di tuttele cose»30.

Ma il racconto del mito di Prometeo offerto da Eschilo precede il rac-conto di Platone, ed insiste più di quest’ultimo sull’attitudine calcolante erappresentante di Prometeo e degli uomini: «io li formai – racconta Prome-teo al coro – riflessivi, sovrani del loro intelletto. [...] Anche prima di meguardavano, ed era cieco guardare; udivano suoni, e non era sentire [...] nonsapevano case – trame di cotti mattoni – inondate di sole, né il mestiere dellegno [...] Fu mia – e a loro bene – l’idea del calcolo, primizia d’ingegno,e fu mio il sistema di segni tracciati. [...] Fu mia, solo mia, la scoperta diun mezzo marino – vele come ali – per la gente che corre le onde. Io [...]ho ideato tanti congegni per l’uomo»31. L’uomo, senza l’attitudine prometei-ca a ridurre il “mondo” in immagine, sarebbe stato schiacciato dal-l’“ambiente”, e invece è riuscito a progettare le vele come ali, a «vederenell’albero la barca futura»32, a concepire le case come “trame di mattonicotti”, insomma a dispiegare una sempre più complessa attitudine tecnicagrazie alla capacità di rappresentarsi plasticamente l’esistente, a pre-vederee progettare.

27 ESCHILO, Prometeo incatenato, vv. 505-506, cit., p. 41.28 Le riflessioni heideggeriane sulla natura “rappresentativa” della metafisica oc-

cidentale si intrecciano con la Frage nach der Technik in alcuni significativi testi diSaggi e discorsi, in particolare La questione della tecnica, Scienza e meditazione, Ol-trepassamento della metafisica. Si veda di M. HEIDEGGER, Saggi e discorsi, ed. it. acura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1991, pp. 5-65.

29 M. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, cit., p. 90.30 Ivi, p. 99.31 ESCHILO, Prometeo incatenato, vv. 440-471, cit., pp. 37-39.32 A. GEHLEN, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 116.

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Non è allora un caso che Gehlen individui lo specifico dell’essereumano proprio in questa sua caratteristica modalità del rappresentare: «sipuò definire l’uomo semplicemente come un essere che si distingue piùper le rappresentazioni che per le percezioni, e proprio di questo viveperché si comporta più a partire da situazioni previste e progettate cheda quelle incontrate e “reali”»33. L’attitudine a rappresentarsi il mondo, enon semplicemente a percepire l’ambiente, è lo scarto che segna la diffe-renza fra l’animale e l’uomo, ed è questione su cui sarà opportuno ritor-nare in seguito, quando ci occuperemo della natura e delle funzioni dellacoscienza. Per ora, è il caso di insistere sulla natura antiveggente dellacognizione umana e sul suo carattere rappresentativo, rilevando che taleattitudine rappresentativa si configura come il correlato dell’attitudine tec-nica, e che entrambe, poi, esitano nell’azione, cioè nell’antiveggenza e nel-la progettualità tecnica, che è proprio ciò che manca all’attitudine stru-mentale degli animali.

Ed anzi, si potrebbe forse individuare il salto evolutivo fra l’uomo e gliantropoidi proprio nel passaggio fra la strumentalità e la tecnica, e sostene-re con Gehlen che l’uomo allo “stato di natura” non sia mai esistito34 per-ché non hai mai espresso un’attitudine strumentale, ma sempre e solo “tec-nica”: l’homo sapiens, cioè, sarebbe da sempre homo technicus. Tecnica estrumentalità, in effetti, differiscono nettamente sul piano evolutivo: scriveGehlen che «i veri istinti sono [...] figure motorie assai pregnanti di tipospecialissimo, che avvengono in base a un automatismo congenito e dipen-dono da processi endogeni di produzione di stimoli. Grazie a una tale com-mutazione endogena gli uccelli danno inizio ai movimenti istintivi della co-struzione del nido, ammassando il materiale che, in precedenza e a costru-zione avvenuta, per loro non esiste»35. Ciò significa che la strumentalità,procedendo dall’istinto, si configura come un a posteriori evolutivo: un di-spositivo risultante da un lungo processo di selezione compiuto dalla specie,ossia uno degli esiti dell’evoluzione per quella specie.

Per questo dispositivo a posteriori, gli oggetti dell’ambiente non han-no né un prima né un poi, “non esistono” se non nell’atto stesso di uti-lizzarli perché l’animale non se li “rappresenta”: è la rappresentazione cheli fa esistere, li fornisce di uno spessore temporale, ce li fa prefigurare eli fa permanere nella nostra mente. Il dispositivo che ci permette di rap-presentare un oggetto non può che essere un a priori, ed un a priori tec-nico, ossia una funzione che ci consente di rappresentare un oggetto in

33 Ivi, p. 95.34 Cfr. ivi., p. 8835 A. GEHLEN, L’uomo, cit., p. 51.

Una misura nell’uso delle tecniche 69

vista di uno scopo36. Ciò che questa funzione a priori produce sono delleintroflessioni rappresentative: l’a priori tecnico, cioè, dispone un certooggetto in una rappresentazione interna, lo introflette, e così può prefigu-rarselo in vista di uno scopo. L’uomo vive di introflessioni rappresentati-ve, il suo stesso “mondo” è di fatto un’armonica introflessione rappresen-tativa indotta dall’a priori tecnico: tutto può essere manipolato in vista diuno scopo, tutto può essere ridotto a mezzo nell’orizzonte di un certo fine.E anzi, si può dire che l’a priori tecnico, nell’installare le sue introfles-sioni rappresentative, istituisce il dominio dei mezzi nell’orizzonte dei fini,nella vaga precomprensione che sia il fine a giustificare il mezzo.

Questo è il primo dono di Prometeo, il dono che il Protagora di Plato-ne individuava nelle technai, nella sapienza tecnica, e che invece sotto lalente dell’antropologia novecentesca si è rivelato come un a priori tecnicoche dispone le introflessioni rappresentative: così l’evoluzione, se per unverso avrebbe fornito ciascuna specie animale di un a posteriori strumentalespecie-specifico come correlato adattivo all’ambiente, per altro verso avreb-be fornito l’uomo di un a priori tecnico in grado di piegare gli enti ai pro-pri scopi, in virtù di introflessioni rappresentative facilmente “manipolabili”e progettualmente dinamiche. Ma, come avverte il mito, è impossibile ac-quisire ed utilizzare le technai senza il fuoco.

2. L’orizzonte della coscienza: l’interfacciarsi di introflessioni rappresenta-tive ed estroflessioni cognitive

Il fuoco è il secondo dono di Prometeo alla stirpe umana, un dono em-blematico, al punto da divenire esso stesso la fonte delle technai nella tra-gedia di Eschilo. Prometeo racconta, infatti, di aver donato agli uomini ilfuoco ed il coro, sconvolto dalla notizia, si rivolge con incredulità al gigan-te: «E ora, ha il lampo del fuoco chi tramonta col giorno?», «Una fonte, datrarne la scienza di molti mestieri (technas)» risponde Prometeo37. Il fuocoè insomma la fonte della tecnica, il dono che salva l’umanità dalla rovina.E nonostante tutte le difformità presenti nelle varie narrazioni del mito, è ilsimbolo stesso di Prometeo. Perché proprio il fuoco? E che rapporto c’è frail fuoco – o ciò che simboleggia – e l’a priori tecnico con le sue introfles-sioni rappresentative, cioè il primo dono di Prometeo?

36 Cfr. U. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli,Milano 2002 (20086), p. 381.

37 L’intero brano si trova in ESCHILO, Prometeo incatenato, vv. 246-254, cit., p.25.

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Il fuoco, in tutta evidenza, è anch’esso una techne38. La sua caratteristi-ca principale consiste nel poter essere ricreato in ogni luogo, ricorrendo apochi elementi naturali, se per l’appunto se ne conosce la tecnica di produ-zione. Naturalmente, il fuoco che gli ominidi primitivi incontravano percaso nei loro ambienti di vita doveva risultare scarsamente utile, perché im-poneva notevoli limitazioni al suo uso: il fuoco diviene invece un vero eproprio volano dal punto di vista evolutivo quando l’homo erectus smette diusare le mani per deambulare39, e può, fra le altre cose, cominciare a pro-durre ed utilizzare proprio il fuoco40. I più recenti studi di antropologia41,infatti, mostrano come la tecnica del fuoco abbia rivoluzionato radicalmentele sorti del genere umano, in virtù dei numerosi cambiamenti metabolici,cognitivi ed anatomici comportati dalla cottura dei cibi, dalla disponibilitàdi illuminazione e calore “artificiali”, e dal miglioramento della produzioneartigianale.

Se ne può dedurre che la tecnica del fuoco abbia avuto un potente effettoretroattivo nella storia evolutiva del genere umano: una retroazione che si ègiocata sul progressivo affinamento della conoscenza e della diffusione di que-sta tecnica. La produzione del fuoco deve essere stato uno dei primi “saperi”dell’umanità, un sapere mostrato, insegnato ed appreso, un sapere produttivodi una straordinaria “protesi”, la prima che il genere umano abbia veramentecreato senza modellare un materiale già presente in natura: una protesi che hapermesso di metabolizzare meglio i cibi, di lavorare i metalli, di vedere al buioe di riscaldare il corpo. Una protesi diversa da tutti i “prolungamenti esosoma-tici”42 che l’uomo ha in comune con gli altri animali.

In tutta evidenza, produrre il fuoco ed utilizzarlo come “protesi” non èla stessa cosa che utilizzare un bastone per avvicinare un frutto o abbattereun animale, e la ragione di questa dissomiglianza non rimanda immediata-

38 Cfr. PLATONE, Protagora, 321 D-E, cit., p. 819.39 Sulla funzione evolutiva che ha avuto la “liberazione” della mano rispetto alla

motilità, cfr. A. LEROI-GOURAHN, Il gesto e la parola. Tecnica e linguaggio, tr. it. di F.Zannino, Einaudi, Torino 1977, pp. 32-72.

40 Cfr. J. R. STEVEN, Hominid Use of Fire in the Lower and Middle Pleistocene: AReview of the Evidence, “Current Anthropology”, 30 (1), 1989, pp. 1-26.

41 Si cfr. soprattutto, K. S. BROWN et. al., Fire As an Engineering Tool of EarlyModern Humans, “Science”, 325, 2009, pp. 859-862; R. WRANGHAM, R. CARMODY, Hu-man adaptation to the control of fire, “Evolutionary Anthropology: Issues, News, andReviews” 19 (5), 2010, pp. 187-199.

42 Sebbene non faccia riferimento al fuoco, una profonda riflessione sulla naturadelle protesi e sul corpo come “prima protesi” si trova in C. SINI, L’uomo, la macchi-na, l’automa. Lavoro e conoscenza tra futuro prossimo e passato remoto, Bollati Bo-ringhieri, Torino 2009, pp. 41-62.

Una misura nell’uso delle tecniche 71

mente alla differenza sopra discussa fra a posteriori strumentale e a prioritecnico. Lo specifico del “fuoco” consiste nel suo essere non solo una in-troflessione rappresentativa, ma anche, e forse soprattutto, una estroflessio-ne cognitiva43. Vediamo perché.

L’introflessione rappresentativa, come abbiamo detto, consiste nellasussunzione di un oggetto all’ a priori tecnico, una sussunzione che ci con-sente di rappresentare un oggetto in vista di uno scopo. Ma, evidentemente,per potersi dare un’introflessione rappresentativa, deve essere prima dispo-nibile l’oggetto: quando noi, come l’uomo primitivo, ci prefiggiamo unoscopo ed andiamo poi alla ricerca di un oggetto per realizzarlo, sosteniamodi aver trovato quello giusto quando possiamo rappresentarcelo come mezzo“atto” o “utile” per il nostro fine. Ma col fuoco non succede nulla di tuttoquesto. Per servire ai nostri scopi, il fuoco deve essere prima prodotto: inaltri termini, deve essere presente prima nella nostra mente, sotto forma dicognizione tecnica, per poter essere poi estroflesso nella fiamma “in carne eossa”.

Ecco perché il fuoco è un’estroflessione cognitiva: conosciamo la tecni-ca di produzione del fuoco, e all’occorrenza la mettiamo in atto per produr-re la fiamma. Poiché però ne conosciamo le applicazioni, quella fiamma ègià prima di suscitarla anche un’introflessione rappresentativa: una doppianatura, quella del fuoco, che caratterizza numerose attività umane. Ora, noinon potremo mai sapere se la tecnica del fuoco sia stata la prima estrofles-sione cognitiva che il genere umano abbia posseduto, ma possiamo certa-mente affermare che ne rappresenta il prototipo e l’emblema. Possiamo, in-fatti, immaginare la tecnica del fuoco come uno dei più importanti saperiposseduti dall’uomo primitivo: gradualmente questa tecnica, questo patrimo-nio cognitivo, ha cominciato a vivere di vita propria, e come tutti i saperidavvero significativi è sopravvissuto ai suoi ideatori. La possibilità di pro-durre estroflessioni cognitive ha progressivamente condotto l’uomo a for-giarsi quel “mondo di rimpiazzo” di cui parlava Gehlen a proposito dellacultura, perché è tipico dell’estroflessione cognitiva lasciare un «resto»44

fuori e dentro la mente che l’accoglie.Il fuoco, poi, è un elemento naturale. Un elemento dell’“ambiente”.

Ciò significa che l’uomo è in grado di tradurre un elemento naturale in unatecnica, in una cognizione, e di ricreare poi all’occorrenza questo elemento

43 Prendo in prestito l’espressione usata da Longo e Sini, modificandone solo inparte il senso. Cfr. C. SINI, L’uomo, la macchina, l’automa, cit.; G. LONGO, Il nuovoGolem: come il computer cambia la nostra cultura, Laterza, Roma-Bari 2000.

44 Cfr. C. SINI, L’uomo, la macchina, l’automa, cit., pp. 63 ss.

72 Vincenzo Bochicchio

naturale. La tecnica del fuoco è, allora, “seconda natura” per eccellenza, èl’atto di fondazione della cultura. Ecco spiegata la ragione per cui il mitorinviene nel fuoco il secondo dono di Prometeo, quel dono senza il qualenon sarebbe possibile “acquisire ed utilizzare” la sapienza tecnica: non ba-sta l’a priori tecnico per creare un “mondo di rimpiazzo”, ma è necessarioche la tecnica divenga un contenuto cognitivo statuito, replicabile, trasmissi-bile, descrivibile, insomma estroflettibile. Solo così la tecnica può divenirecultura, solo così l’ostile “ambiente naturale” può gradualmente lasciare ilposto alla “seconda natura”.

Introflessioni rappresentative ed estroflessioni cognitive costituisconodunque i due elementi – i due doni di Prometeo – che consentono all’uomodi crearsi il suo mondo: nell’istituzione della “seconda natura” agiscono insinergia, si potenziano ed “alimentano” reciprocamente, producendo uninarrestabile progresso cognitivo e tecnologico. E la ragione sta nella parti-colare natura delle estroflessioni cognitive, nella loro tendenza a creare«vincoli di sfera», per usare una felice espressione di Gehlen45. In effetti,ogni nuovo patrimonio cognitivo, ogni nuova tecnica statuita e riproducibi-le, gradualmente si diffonde e si installa nel “mondo di rimpiazzo”: “diffon-dersi” qui significa che viene conosciuta ed utilizzata come mezzo. E quan-to più vi si ricorre, quanto più diviene indispensabile e pervasiva, tanto piùsi cristallizza e diviene un “vincolo”, quasi un elemento biologico che po-trebbe farci parlare nuovamente di ambiente piuttosto che di mondo46.

Il presidio che ci restituisce continuamente il mondo, ed evita cheun’estroflessione cognitiva divenga così rigida e cristallizzata da costituirsiad elemento “ambientale”, è proprio l’a priori tecnico: la funzione che, ori-ginariamente, il “mondo” lo aveva istituito. L’estroflessione cognitiva, infat-ti, proprio come il fuoco e la sua tecnica, reca in sé la natura del mezzo, ela sua comprensione e diffusione deve interfacciarsi con l’a priori tecnicoche ha la funzione di orientarla verso un certo fine. Così, come ho già an-notato, l’a priori tecnico istituisce il dominio dei mezzi nell’orizzonte deifini, nella precomprensione che sia il fine a giustificare il mezzo. Questodispositivo anzitutto ricaccia continuamente il patrimonio cognitivo tecniconel dominio dei mezzi, evitando che l’estroflessione cognitiva divenga unfine in se stesso e che si debba dar luogo alla estroflessione – ad esempio,alla produzione – di qualcosa semplicemente perché “lo si può fare”. Quan-do questo succede, quando si altera l’equilibrio fra introflessione rappresen-tativa ed estroflessione cognitiva, si corre sempre il pericolo che un sempli-

45 Si cfr. A. GEHLEN, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 114.46 Si cfr. ivi, p. 115.

Una misura nell’uso delle tecniche 73

ce mezzo divenga così importante da subordinare a sé tutti i fini, o addirit-tura da crearne a proprio uso e consumo. Si tratta, come scrive Galimbertisulla scorta di Anders, del rischio che «il mezzo giustifichi il fine»47, ma citorneremo più avanti. Per ora è solo il caso di aggiungere che l’a priori tec-nico, nell’interpretare “progettualmente” un’estroflessione cognitiva, le apresempre nuovi orizzonti di applicabilità, di crescita, di sviluppo, insomma diricerca e progresso. Perciò, l’uomo non ha nulla da temere dal progressodelle attitudini tecniche in sè: semmai, deve temere una certa sopravvaluta-zione del patrimonio cognitivo esistente, che potrebbe giustificarne l’estro-flessione a tutti i costi.

Ma, riprendendo le fila del discorso, come si interfacciano introflessio-ni rappresentative ed estroflessioni cognitive? E perché il progresso, e forsela nostra stessa storia evolutiva, dipende dal loro interfacciarsi? Si tratta, inbuona sostanza, di risalire ad un’altra funzione cognitiva che non solo rendepossibile questo interfaccia, ma ne fa un vero e proprio dispositivo evoluti-vo. Questa funzione è la coscienza.

Non è chiaramente possibile condurre in questa sede una ricognizione,anche solo approssimativa, della storia filosofica e scientifica del concettodi coscienza: ben consapevole che si tratta in larga parte ancora di un mi-stero48, mi limiterò piuttosto a ripercorrere alcune riflessioni che sono stateelaborate in ambito neuropsicologico ed antropologico, declinandole poi intermini filosofici rispetto alla nostra “questione della tecnica”. Un primo,necessario chiarimento riguarda il termine stesso, ed i significati cui mi ri-ferirò nel prosieguo del discorso. In un’ottica neuropsicologica, «è necessa-rio distinguere tra “esperienza cosciente” e “stato cosciente”: tra essere con-sapevoli di un particolare accadimento sensoriale e l’essere semplicementein stato di veglia. Lo stato cosciente, situazione fisiologica che ci rendepronti a reagire alle sollecitazioni degli stimoli ambientali o agli stimoli in-terni, è condizione necessaria perché si verifichi l’esperienza cosciente diun accadimento specifico o perché si strutturi una consapevolezza del sé edel proprio corpo»49.

In tutta evidenza, lo “stato cosciente” si colloca a livello esclusivamen-te percettivo, e si esaurisce nella condizione di vigilanza e attenzione chesta alla base della reattività ad uno stimolo. È un fenomeno strettamenteconnesso al processo percettivo, sebbene non sia ad esso immediatamente

47 Cfr. U. GALIMBERTI, Psiche e techne, cit., p. 682, e inoltre p. 484.48 Prendo in prestito l’osservazione di D. C. DENNETT, Coscienza. Che cos’è, tr. it.

di L. Colasanti, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 31-32.49 A. BERTI, Neuropsicologia della coscienza, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p.

15.

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sovrapponibile: seguendo Thorpe, questa modalità della coscienza è «ciòche si potrebbe chiamare “avere una percezione interna”»50, o anche un’al-terazione dello stato attentivo interno. Si tratta di un’attitudine cognitivache chiaramente posseggono anche gli animali più evoluti51, ed anzituttoquelli che fanno uso di strumenti esosomatici: esiste, anzi, una stretta rela-zione fra stato cosciente, percezione e strumentalità. L’apparato dell’a po-steriori strumentale, infatti, è un dispositivo che pur avendo molto di istin-tuale e predefinito, spesso manifesta un livello di complessità tale che l’ani-male, per metterlo in atto, deve orientarsi fra più opzioni e aiutarsi con de-gli insight, e sempre Thorpe, in un suo studio ormai classico sull’argomen-to, sostiene che proprio la capacità di dirigere selettivamente l’attenzionesia indice di uno “stato cosciente”52.

La questione è senz’altro complessa, ma quello che mi preme sottoline-are in questa sede è che vi è un livello, una modalità, o anche un’espressio-ne della coscienza che si attaglia esclusivamente al processo percettivo.Cambiando prospettiva, si potrebbe anche dire che lo stato cosciente rappre-senta uno dei possibili esiti del processo percettivo – poiché, com’è noto, lapercezione può anche non essere cosciente – ed il suo esitare in uno statocosciente la rende senz’altro più “disponibile” a fungere, per esempio, dastimolo53. Ecco quale funzione svolge allora la coscienza, già a questo pri-mo livello: stabilisce un segmento, un “campo” percettivo che rende un cer-to insieme di stimoli più disponibili rispetto ad altri. Ma disponibili percosa?

In un suo recente volume Anna Berti, commentando alcune evidenzecliniche relative al fenomeno del Blindsight, fornisce indirettamente duerisposte al nostro quesito: «1) la coscienza facilità l’interpretazione e lacomprensione del mondo che ci circonda; 2) la coscienza rende i nostricomportamenti più adattivi»54. Detto in altri termini, lo “stato cosciente”agevola l’interazione con l’ambiente perché dirige le risorse attentive ver-so un certo insieme di stimoli, discriminandoli rispetto ad altri e consen-

50 W. T. THORPE, L’etologia e la coscienza, in V. Somenzi (a cura di), La fisicadella mente, Bollati Boringhieri, Torino 1969 (19741), p. 267.

51 Tant’è che, a parere di Thorpe, «la comparsa della coscienza può essere statauna necessità evolutiva, forse il solo modo con cui organismi viventi altamente com-plessi potevano diventare vitali in senso completo» (ivi, p. 299).

52 La conclusione cui giunge Thorpe è significativa: «non è più sufficiente pensa-re che con comportamenti di qualsiasi grado di complessità l’animale si limiti a filtra-re passivamente gli stimoli che gli arrivano» ma è opportuno «supporre che [...] [sia]in grado di operare una scelta cosciente» (ivi, p. 275).

53 Si cfr. A. BERTI, Neuropsicologia della coscienza, cit., pp. 51-61.54 Ivi, p. 56.

Una misura nell’uso delle tecniche 75

tendo così di elaborarli meglio: una funzione indispensabile quando lecomplessità del comportamento devono intrecciarsi con le complessità del-l’ambiente, tant’è che Thorpe indica lo sviluppo della coscienza come«una necessità evolutiva»55 negli organismi dall’organizzazione comporta-mentale più complessa.

La coscienza, del resto, non è un funzione cognitiva unitaria che siproietta sulle percezioni come un fascio di luce sugli oggetti, rendendoli poicoscienti: è piuttosto una proprietà emergente e multicomponenziale, unafunzione che si implementa – che “emerge” – insieme ad altre attitudini co-gnitive. Bisogna cioè ripensare «l’esistenza, sia a livello cognitivo che neu-robiologico, di una struttura eterogenea dei processi coscienti, opposta al-l’idea di una struttura unitaria [...] [puntualizzando] come la coscienza nonsia una funzione sovraimposta in modo gerarchico alle altre attività cogniti-ve, con struttura monolitica e inscindibile, ma piuttosto una proprietà [...]inestricabilmente implementata nei circuiti dedicati alle varie funzioni co-gnitive, somatosensoriali e motorie»56.

Ora, lasciando sullo sfondo l’annosa ed insolubile disputa fra riduzio-nisti, funzionalisti, epifenomenisti e numerosissimi altri “isti”57, concentria-moci sulle caratteristiche appena descritte della funzione “coscienza”:come proprietà emergente dall’organizzazione cerebrale, essa si accompa-gna a diversi moduli cognitivi, si implementa con essi e ne segue in uncerto senso le “sorti” evolutive, proprio come nel caso della percezione edel relativo “stato cosciente”. Questo significa che, in un organismo piùcomplesso dal punto di vista cognitivo come l’uomo, questa funzione nonsi attaglierà semplicemente alla percezione, ma assumerà sempre nuoveforme e nuove caratteristiche secondo il modulo cognitivo con cui ci in-terfacciamo all’esterno. Scrive opportunamente Sini che «la coscienza è unfenomeno intenzionale, è sempre coscienza di qualche cosa, è semprecoscienza che si rivolge a un oggetto, ma si rivolge a questo oggetto invari modi, nel modo del percepire, nel modo del fantasticare, nel mododel ricordare»58 e, potremmo aggiungere, “nel modo del rappresentare”. È,insomma, una funzione dell’intenzionalità, che procede dalla natura cogni-tiva – e non solo – dell’uomo.

55 W. T. THORPE, L’etologia e la coscienza, cit., p. 300.56 A. BERTI, Neuropsicologia della coscienza, cit., p. 145.57 Per un’agile ricognizione si veda A. BENINI, Coscienza e autocoscienza: eventi

biologici fuori dalla portata delle neuroscienze, in L. GABBI, V. U. PETRUIO, Coscienza.Storia e percorsi di un concetto, Donzelli, Roma 2000, pp. 148 ss.

58 C. SINI, La coscienza come intenzionalità nella fenomenologia, in L. GABBI, V. U.PETRUIO, Coscienza, cit., p. 110.

76 Vincenzo Bochicchio

Ritornando alla distinzione fra “stato cosciente” ed “esperienza co-sciente”, potremmo allora ben sostenere che la seconda si caratterizza peruna complessità cognitiva che rimanda alla complessità dell’esperire umano.Sarebbe allora l’“esperienza cosciente” a distinguere l’uomo dall’animale,ed una prima spiegazione del perché, ce la fornisce ancora Gehlen: «il li-vello superiore della coscienza umana, così come è esteriormente rappresen-tato dal considerevole sviluppo del cervello, corrisponde, d’altra parte, adun processo di riduzione degli istinti, di involuzione delle figure di compor-tamento innate e con una funzionalità predeterminata»59. L’uomo, in altritermini, si trova nella condizione di poter agire, di poter programmare ilproprio comportamento, perché dispone di una funzione cognitiva che rendecostantemente disponibili le sue introflessioni rappresentative: disponibiliper essere combinate, gestite, comprese, calibrate. Una funzione cognitivache rende disponibili le introflessioni rappresentative non semplicemente infunzione della loro multiforme “combinabilità” mentale, ma anche, e so-prattutto, in funzione dell’azione cui daranno luogo. Questa funzione cogni-tiva è, per l’appunto, la coscienza, anzi l’“esperienza cosciente”, che alloraandrebbe concepita come una vera e propria “funzione” dell’azione, unafunzione che ci consente di rapportare continuamente il nostro comporta-mento alla rappresentazione preveggente che ci fornisce l’introflessione rap-presentativa: solo così possiamo essere consapevoli di ciò che facciamo, diciò che vogliamo fare, di ciò che vogliamo ottenere. Insomma, utilizzandoancora una volta un’espressione di Gehlen, la coscienza si configura «comefase dell’azione, come organo-guida del comportamento»60, e cioè come“funzione” che rende effettivamente disponibili le rappresentazioni perl’azione.

In effetti, senza esperienza cosciente non potrebbe neppure darsi unarappresentazione, un’introflessione rappresentativa. Una percezione sublimi-nale, inconsapevole, è certo possibile61, ma il contenuto mentale cui dà luo-go non potrà mai condurre ad un’“azione” nel senso che al termine abbia-mo attribuito sin’ora: al massimo, potrebbe indurre un comportamento deltipo stimolo-risposta, tipico della cognizione animale. In ambito neuropsico-logico, del resto, si è da tempo appurato che «la consapevolezza degli sti-moli che ci circondano contribuisce in modo determinante all’azione volon-taria. Il comportamento legato al blindsight è, invece, caratterizzato dal fatto

59 A. GEHLEN, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 218.60 Ivi, p. 254.61 A proposito dei fenomeni relativi alla percezione subliminale ed alla loro evi-

denza sperimentale, è ormai un classico il lavoro di N. F. DIXON, Preconscious proces-sing, Wiley & Sons, Chichester 1981.

Una misura nell’uso delle tecniche 77

che, nella vita di tutti i giorni, i pazienti non iniziano mai un’azione versogli oggetti che cadono nel campo cieco»62 anche se ne hanno una qualchepercezione “inconsapevole”. Così, «anche dopo ripetute esposizioni allostesso test, e anni di valutazione in laboratori diversi sparsi per il mondo, ipazienti blindsight non imparano a rispondere in modo spontaneo ed ecolo-gicamente appropriato a stimoli rispetto ai quali non provano esperienza co-sciente»63, perché queste percezioni inconsapevoli non possono dare luogo arappresentazioni.

Ora, appurato che esiste una stretta connessione fra coscienza e intro-flessioni rappresentative, domandiamoci come si configura l’esperienza co-sciente delle estroflessioni cognitive. Abbiamo detto che le estroflessionicognitive sono contenuti cognitivi statuiti, trasmissibili, riproducibili: nelloro complesso costituiscono il “mondo di rimpiazzo” di cui parla Gehlen,vale a dire la cultura come nostra “seconda natura”. Abbiamo anche dettoche vivono di vita propria, sono un “resto” che l’uomo apprende e poiestroflette a modo suo: emblema delle estroflessioni cognitive sono le pa-role organizzate in un linguaggio64, «la casa dell’essere» scriveva Heideg-ger65, per sottolineare come questa estroflessione cognitiva non solo vive divita propria, ma intesse profondamente i nostri pensieri ed il nostro mododi essere al mondo. Se dunque assumiamo le parole come fenomeni carat-teristici delle estroflessioni cognitive, possiamo condurre alcune interessan-ti considerazioni – supportate da materiale clinico e sperimentale – circa ilrapporto fra esperienza cosciente ed estroflessioni cognitive: «ad esempio,benché i pazienti con blindsight siano in grado di elaborare alcune caratte-ristiche dello stimolo, l’elaborazione semantica del materiale presentato nelcampo cieco non è sempre di livello tale da permettere ai pazienti di co-gliere in modo non ambiguo, in presenza di più interpretazioni, il signifi-cato di una parola. Questo vuol dire che l’essere coscienti di una parola ci

62 A. BERTI, Neuropsicologia della coscienza, cit., p. 56.63 Ivi, p. 57.64 Un proficuo filone della ricerca psicologica e filosofica rinviene nel linguaggio

la fonte stessa dell’autocoscienza, dei processi cognitivi superiori, e dell’attitudine tec-nica nel genere umano: l’esperienza più significativa in tal senso è rappresentata dallopsicologo sovietico Lev S. Vygotskij, vero e proprio caposcuola della psicologia “sto-rico-culturale”. Cfr. in particolare L. S. VYGOTSKIJ, Pensiero e linguaggio. Ricerche psi-cologiche, tr. it. di L. Mecacci, Laterza, Roma-Bari 1992 (200810), e ID., Il processocognitivo, tr. it. di C. Ranchetti, Bollati Boringhieri, Torino 1987. Sulle prospettive fi-losofiche del lavoro di Vygotskij, si veda F. CIMATTI, La scimmia che si parla. Lin-guaggio autocoscienza e libertà nell’animale umano, Bollati Boringhieri, Torino 2000.

65 M. HEIDEGGER, Lettera sull’“Umanismo”, ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Mi-lano 1995 (19983), p. 31.

78 Vincenzo Bochicchio

permette di analizzarla in modo semanticamente più profondo ed effica-ce»66.

Essere coscienti di un’estroflessione cognitiva ci permette di analizzar-la, di scomporla e ricomporla nei suoi costituenti primari, ci permette dielaborarla ulteriormente, di darle un nuovo spessore, o anche uno antico:detto in altri termini, solo nell’ambito di un’esperienza cosciente è possibileappropriarsi di un’estroflessione cognitiva, comprenderla, elaborarla e riela-borarla, e poi di nuovo estrofletterla. All’infuori dell’esperienza cosciente,non può esservi alcuna elaborazione cognitiva, non è possibile neppureinoltrarsi nei costituenti elementari di un’idea, di un pensiero, di una perce-zione, per comprenderli. E questo vuol dire che per un individuo con undeficit nella “funzione” della coscienza, l’estroflessione cognitiva continuasenz’altro ad esistere – emblema del suo essere un “resto” che vive di vitapropria – ma non può essere compresa ed elaborata. Non può essere nean-che sussunta all’a priori tecnico, che come abbiamo visto la ricondurrebbecome mezzo nell’orizzonte dei fini, nella precomprensione che sia il fine agiustificare il mezzo, e non viceversa.

La coscienza, pertanto, è la sola matrice in cui possono configurarsitanto le introflessioni rappresentative quanto le estroflessioni cognitive, edè anzi una matrice che le tiene insieme interfacciandole. L’esperienza co-sciente è una sorta di dispositivo di cui l’uomo è dotato per disporre del-l’a priori tecnico e per appropriarsi in modo “intelligente” dei prodotti ar-tificiali della cultura: è, quindi, il solo modo per mettere le tecniche a di-sposizione di ogni singolo individuo, per lo meno in linea di principio,perché solo in virtù del dispositivo della coscienza le tecniche possonoessere create, comprese, estroflesse, modificate, statuite. Senza esperienzacosciente, in effetti, non potrebbe esserci tecnica ma solo strumentalità,la quale, si badi, come mezzo per l’adattamento è un fine dell’evoluzio-ne. Le estroflessioni cognitive, tecniche, parole, e aggiungerei anche leg-gi, sono invece mantenute nella condizione di mezzo in virtù dell’a prioritecnico, e si tratta di un’operazione che può realizzarsi solo nell’ambitodell’esperienza cosciente.

Infine le estroflessioni cognitive, poiché vivono di vita propria, espri-mono anche l’attitudine a costituirsi come fini in sé, travalicando la loronaturale costituzione di mezzi e realizzando la paradossale condizione percui il mezzo giustifica il fine: una condizione che, in una vera e propriaobliterazione dell’a priori tecnico, esporrebbe l’uomo al rischio concretodi essere gestito dalla tecnica, in luogo di esserne gestore. Un rischio che,

66 A. BERTI, Neuropsicologia della coscienza, cit., p. 56.

Una misura nell’uso delle tecniche 79

in linea di principio solo l’esperienza cosciente può, ogni giorno, ogni ora,scongiurare.

3. Dichiarazioni Anticipate di Trattamento: la necessità di una legge come“misura nell’uso delle tecniche”

Sostenere che le estroflessioni cognitive vivano di vita propria puòsembrare, in prima battuta, una sopravvalutazione meccanicista del “mondodi rimpiazzo” che l’uomo ha artificialmente creato come sua seconda natu-ra. Ed aggiungere poi che comportano il rischio – scongiurato dall’esperien-za cosciente – di gestire le nostre vite, di alterare il rapporto e la proporzio-nalità fra mezzi e fini, e addirittura di anteporre il mezzo al fine, suonadavvero come una provocazione.

Se però torniamo al nostro punto di partenza, ossia la questione bioeti-ca posta dalle “tecniche di differimento della morte”, è possibile rendersiconto di quanto invece siano potenti ed operanti le estroflessioni cognitive,a prescindere dall’individuo che ne fruisce, e che dovrebbe gestirle. Anzi, sipuò dire senza tema di smentita che le estroflessioni cognitive della biome-dicina, quel patrimonio di saperi di cui l’umanità va più fiera, sono partico-larmente esposte al pericolo che sia alterata la proporzione fra fine e mez-zo, nella loro estroflessione. Il rischio che ciò succeda è simbolicamente piùsignificativo proprio laddove non vi è più esperienza cosciente, ovvero dovefa difetto il dispositivo che l’evoluzione ci ha consegnato per gestire leestroflessioni cognitive. Ma procediamo con ordine.

A proposito delle “tecniche di differimento della morte” Jonas provoca-toriamente si domanda: «come la mettiamo se la morte di un uomo vienesottoposta al controllo umano? [...] La sua propria volontà (qualora siaquella di morire) non è forse la sola che in tale circostanza debba essereascoltata?»67. Riflettiamo brevemente sulla prima questione: il controlloumano qui evocato non rimanda semplicemente alla volontà altrui, ma alcomplesso delle tecniche – delle estroflessioni cognitive – che il sapere me-dico ha messo a punto nel “mondo di rimpiazzo”. Tutti, infatti, ci serviamoutilmente di queste tecniche e di questi saperi, quando ne abbiamo bisogno,e li consideriamo un mezzo per raggiungere consapevolmente un certo fine:il benessere, la soppressione del dolore o la guarigione da una malattia, ilmiglioramento di una prestazione fisica o estetica, ecc. Ecco un classicocaso di estroflessioni cognitive di natura medica sottoposte, nell’orizzontedella coscienza, alla funzionalità dell’a priori tecnico. Questa dialettica dellariduzione a mezzo delle tecniche mediche risulta così necessaria, così ur-

67 H. JONAS, Tecnica, medicina ed etica, cit., p. 186.

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gente in termini pratici e simbolici, da venire spesso statuita in un’altraestroflessione cognitiva come la legge, ed una delle più nitide formulazionidi questo principio ce la offre proprio la Costituzione italiana che all’artico-lo 32 recita «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sa-nitario se non per disposizione di legge»: ciò significa che il trattamento sa-nitario, salvo eccezioni che non riguardano più solo l’individuo, ma anchela società68, non può mai essere imposto, ma deve essere consapevolmentescelto dall’individuo che così lo riconduce, come mezzo, nell’orizzonte deipropri fini.

Ma cosa succede se un individuo non può scegliere perché in Stato Ve-getativo Permanente, e dunque irrimediabilmente incosciente a causa di ungrave danno all’encefalo? È in questo caso che si realizza l’ipotesi provoca-toriamente posta da Jonas: non solo l’individuo non può più scegliere o rifiu-tare un trattamento tecnico, ma la sua stessa morte viene sottoposta al con-trollo umano, ancor più precisamente al controllo del “mondo di rimpiazzo”e delle sue estroflessioni cognitive. In virtù dei prodotti delle estroflessionicognitive – le tecniche e le “protesi” – questo individuo può essere ossigena-to, nutrito, idratato, e mantenuto in vita. In quest’ottica, evidentemente, nonha senso porre una distinzione fra alimentazione-idratazione artificiale e tec-niche terapeutiche in senso stretto: il dibattito che orbita attorno a questaquestione è sfuocato, e può solo provocare divisioni e anatemi senza venire acapo di un punto di vista univoco69. Di fatto, ciò che accomuna queste tecni-che è essenzialmente più importante di ciò che le differenzia: tanto le «tecni-che di sostegno alla vita biologica»70, quanto i dispositivi terapeutici e chirur-gici, sono infatti estroflessioni cognitive, ovvero presidi del “mondo di rim-piazzo” che l’a priori tecnico, nell’ambito dell’esperienza cosciente, normal-mente riconosce come mezzi nell’orizzonte dei fini.

Ma se l’esperienza cosciente è gravemente e irrimediabilmente compro-messa, e l’individuo non è quindi più in grado di tradurre una tecnica in unmezzo giustificato da un fine, che natura assumono tutte quelle estroflessio-ni cognitive tese non a curare una patologia, ma a differire una morte altri-menti imminente? In tal caso, a mio parere, queste estroflessioni cognitive

68 Come nel caso dei Trattamenti Sanitari Obbligatori previsti dalla Legge 180del 13 maggio 1978, la c.d. Legge Basaglia.

69 Come dimostra il travagliato testo che il Comitato Nazionale di Bioetica ha“approvato” il 30 settembre 2005, intitolato “L’alimentazione e l’idratazione di pa-zienti in stato vegetativo permanente”( http://www.governo.it/bioetica/testi/PEG.pdf).

70 E. MAZZARELLA, Tra etica e norma: il dibattito sul ‘fine vita’, in R. Bonito Oli-va, A. Donise, E. Mazzarella, F. Miano (a cura di), Etica antropologia religione. Studiin onore di Giuseppe Cantillo, Guida, Napoli 2010, p. 76.

Una misura nell’uso delle tecniche 81

potrebbero configurarsi come presidi distanasici, in altre parole forme di ac-canimento terapeutico che alterano gravemente il rapporto fine-mezzo tipicodella tecnica medica. Le caratteristiche dell’accanimento terapeutico e delladistanasia le ha efficacemente descritte Mazzarella in un importante discor-so alla Commissione Affari sociali della Camera dei deputati, durante la di-scussione del disegno di legge che dovrebbe normare le “Disposizioni inmateria di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni an-ticipate di trattamento”: «concettualmente, l’accanimento non è configuratodal ricorso o dall’esclusione di questa o quella tecnica, ma è il complessodi un approccio finalizzato della cura che ha perso la proporzionalità tramezzi e fini [...]. Forse è giunto il momento che il legislatore aiuti a distin-guere tra la vera eutanasia [...] e quella che più correttamente potrebbe defi-nirsi “distanasia”, il rifiuto accanito di vedere nella morte un pezzo dellastrada che la vita è chiamata comunque a compiere»71.

Il tenace e spesso inconsapevole rifiuto di rassegnarsi alla natura ed ac-cettare la morte ha molto a che fare con la tecnica72, e forse lo si potrebbeconsiderare il terzo dono di Prometeo – ma primo in linea di principio –che nella tragedia di Eschilo, in uno scambio col coro, confessa: «Pr.: Erafisso, sbarrato all’ora fatale l’occhio dell’uomo: io lo distolsi./ Co.: Chemedicina inventasti a questa piaga?/ Pr.: Opaco sperare: l’ho fatto colonodei cuori./ Co.: Regalo grande hai donato ai viventi»73. Ecco, insieme allasapienza tecnica ed al fuoco, Prometeo dona all’uomo la multiforme spe-ranza di sconfiggere la morte, sulla terra o nell’oltremondo: nel caso dellabiomedicina l’origine comune dei tre doni si rende ancor più palese, e spes-so prende forma nella distanasia, un atteggiamento di accanito rifiuto dellamorte, un imperativo categorico che vede nella sopravvivenza “a tutti i co-sti” uno dei fini della tecnica medica. Ed eccoci finalmente al punto.

Non è detto che un individuo possa considerare la sopravvivenza “atutti i costi” un fine, cui ricorrere con i mezzi offerti dalle estroflessioni co-gnitive del sapere medico: per calarsi nella cronaca, non lo consideravanotale né Eluana Englaro, né Piergiorgio Welby. E nei mesi in cui si discutevadella loro sorte, in molti, interrogati dall’urgenza della cronaca, si sono

71 Camera dei deputati – XII Commissione, Resoconto di mercoledì 23 settembre2009, pp. 91-92. Il discorso è stato poi pubblicato, con brevissime aggiunte e modifiche,in E. MAZZARELLA, Il testamento biologico, “L’Acropoli”, XI, 1-2010, pp. 68-77, e in ID.,Vita politica valori. Sensibilità individuali e sentire comunitario, Guida, Napoli 2010.,pp. 89-103.

72 Sono profonde, a tal proposito, le riflessioni proposte in C. SINI, L’uomo, lamacchina, l’automa, cit., pp. 104-124.

73 ESCHILO, Prometeo incatenato, vv. 248-251, cit., p. 25.

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chiesti se fosse giusto “sopravvivere a tutti costi”, contro o a prescinderedalla propria volontà: un’interrogazione, si badi bene, in cui il mezzo è datoe giustificato, ma non il fine, che invece va in cerca di giustificazioni nellalegge, nella religione, nella morale. Ecco che il mezzo (la tecnica medica)prende il sopravvento sul fine (la sopravvivenza a tutti i costi), e si realizzaquell’insidiosa e paradossale sproporzione in cui il mezzo non solo non hapiù bisogno di essere giustificato, ma anzi istituisce un fine che resta poi inattesa di giustificazione. Nel caso di Eluana Englaro – e dei tanti nella suastessa condizione – questo paradosso è reso poi ancor più drammatico dal-l’impossibilità stessa di accettare o rifiutare il mezzo, cioè il trattamentomedico, perché fa difetto l’esperienza cosciente. Una vita senza coscienzaallora realizza, simbolicamente e de facto, l’impossibilità di ricalibrare laproporzione fra mezzo e fine, e cioè l’impossibilità di ricondurre un’estro-flessione cognitiva alla condizione di mezzo mediante l’a priori tecnico: ilrischio che questa vita corre – e con essa ogni individuo e ogni società – èche sia la tecnica a gestirla fin nelle sue cellule, creandosi e giustificandosii propri fini, i propri prodotti, i propri obiettivi. I doni di Prometeo – l’apriori tecnico, le estroflessioni cognitive, la speranza di sopravvivere allamorte – da benedizione per l’umanità carente, sembrano invece intrecciarsiin una terribile maledizione tecnica.

Anche questa maledizione, che proietta la sua ombra sulla dimensionesociale dell’essere umano, è stata preconizzata nel mito: sempre nel Prota-gora, si legge che da Prometeo «l’uomo ebbe la sapienza tecnica necessariaper la vita, ma non ebbe la sapienza politica, perché questa si trovava pres-so Zeus, e a Prometeo non era ormai più possibile entrare nell’acropoli, di-mora di Zeus»74. Così, continua Platone, gli uomini vivevano in solitudineesposti agli attacchi delle fiere, e «cercavano di raccogliersi insieme e disalvarsi fondando città; ma, allorché si raccoglievano insieme, si facevanoingiustizie l’un l’altro, perché non possedevano l’arte politica, sicché, di-sperdendosi nuovamente, perivano. Allora Zeus, nel timore che la nostrastirpe potesse perire interamente, mandò Ermes a portare agli uomini il ri-spetto e la giustizia, perché fossero princìpi ordinatori di città e legami pro-duttori di amicizia»75. I doni di Prometeo, insomma, non solo non sono suf-ficienti, ma senza la sapienza politica conducono il genere umano alla dissi-pazione.

Il correttivo alla potenziale distruttività comportata dai doni di Prome-teo, la politica, è però anch’esso una tecnica: per Platone, anzi, è la basilikè

74 PLATONE, Protagora, 321 D, cit., p. 819.75 Ivi, 322 B-C, pp. 819-820.

Una misura nell’uso delle tecniche 83

téchne, la tecnica regia che sola può condurre gli uomini «alla vita comuni-taria in concordia e amicizia»76. Ma in che senso la tecnica regia della poli-tica può “governare” e mitigare la distruttività tecnica, e condurre gli uomi-ni alla concordia? Lo può, e lo deve fare, disponendosi «come misura nel-l’uso delle tecniche»77, annota opportunamente Galimberti sulla scorta deltesto platonico. E la politica è misura nell’uso delle tecniche, se le ricalibracome mezzi nell’orizzonte dei fini, nella precomprensione che sia il fine agiustificare il mezzo. Questo è il più alto servizio che la politica può rende-re all’uomo nell’“epoca della tecnica”. Ovviamente, la funzione politica siattua attraverso quelle estroflessioni cognitive che sono le leggi: saperi sta-tuiti, combinabili, modificabili, trasmissibili, che fungono da mezzi finaliz-zati alla convivenza civile. E come tutte le estroflessioni cognitive, anche leleggi comportano il rischio che ne sia sopravalutata e irrigidita la portatastrumentale, a scapito dei fini che sono sempre un fatto dell’“esperienza co-sciente”. Un rischio – per tornare alla nostra questione bioetica – ancor piùconcreto, se si tratta di legiferare sull’impatto che la tecnica può avere neglistati di “fine vita”, o nello stato Vegetativo Permanente.

La legge, in questi casi, dovrebbe svolgere al meglio possibile la suafunzione politica di “misura delle tecniche”, e solo questo. Se, invece, si ir-rigidisce nella sua condizione procedurale e tecnica di estroflessione cogni-tiva, se dá luogo ad «uno scenario giuridico di divieti o di prescrizioni ob-bliganti su questo tema, siamo fuori sia dall’autodeterminazione del pazien-te, che dall’alleanza terapeutica; siamo sul terreno della biopolitica di stato,e autoritaria per altro»78. Detto in altri termini, una legge che, in caso diperdita irreversibile dello stato di coscienza, obbligasse sic et simpliciter adun trattamento sanitario o ad un trattamento di sostegno artificiale alle fun-zioni biologiche, costituirebbe un rimedio più crudele del male: non solosottoporrebbe un individuo ad una tecnica medica a prescindere dalla suavolontà, ma addirittura giustificherebbe per legge un “fine” indotto dallepossibilità della tecnica medica. Il mezzo, cioè, giustificherebbe il fine tra-mite un altro mezzo, ossia la legge, obliterando così le prerogative del-l’“esperienza cosciente”. Dov’è, in tutto questo, la funzione della politica edelle sue leggi come “misura delle tecniche”?

Si potrebbe allora pensare che la soluzione possa essere una legge sulcosiddetto “testamento biologico”, e cioè una norma che consenta una di-chiarazione di volontà sui trattamenti sanitari cui l’individuo intende essere

76 PLATONE, Politico, 311 C, ed. it. a cura di G. Reale, Platone. Tutti gli scritti,cit., p. 368.

77 U. GALIMBERTI, Psiche e techne, cit., p. 274.78 E. MAZZARELLA, Vita politica valori, cit., p. 98.

84 Vincenzo Bochicchio

sottoposto, se dovesse venir meno «l’integrazione psico-fisica alla base del-la possibilità stessa della vita cosciente»79. In questo caso, una dichiarazionevincolerebbe “ora per allora” in termini però perentori, con tutti i problemiche questo comporta: la dichiarazione di non procedere al trattamento sani-tario, prodotta allora perché il sapere medico non lasciava fondate speranzedi guarigione, potrebbe invece ora risultare obsoleta e rischiosa per il pa-ziente. Il testamento biologico, in effetti, non può bastare perché non risol-ve il vero problema in questione negli stati di “fine vita”: l’obliterazionedell’esperienza cosciente. È chiaro che una volontà “ora per allora” è trop-po debole per sopperire alla perdita di coscienza, così come è altrettantoevidente che nessun’altra “coscienza”, nessun’altra volontà – quella di unparente, di un medico, di un legislatore – può stabilire per me come proce-dere in situazioni del genere.

Meglio sarebbe raccogliere la volontà del paziente in una “Dichiarazio-ne Anticipata di Trattamento”80, e farla dialogare con le coscienze in “carnee ossa” che si ritrovano a gestire le estroflessioni cognitive del sapere me-dico; una legge che permettesse questo dialogo, in effetti, svolgerebbeun’eccellente funzione di “misura nell’uso delle tecniche” perché in luogodi procedure perentorie e prescrittive, darebbe alla volontà dichiarata alloradal malato lo spessore della consapevolezza vissuta ora dal suo medico edai suoi parenti81. Detto in altri termini, una norma più «discreta»82 e menoperentoria opporrebbe al drammatico spegnimento dell’esperienza cosciente,una vera e propria “ermeneutica” delle esperienze coscienti: una sorta di di-spositivo “vicario” che riequilibrerebbe senz’altro mezzi e fini nel tratta-mento medico, tenendo conto in prima istanza della dichiarazione del pa-ziente, ed in seconda istanza delle concrete aspettative di progresso dellamedicina.

Il parlamento italiano sta discutendo, in questi mesi83, alcuni disegni dilegge che già nel titolo si propongono di superare le difficoltà comportatedall’istituzione del testamento biologico, ed alcuni emendamenti sembrano

79 ID., Tra etica e norma: il dibattito sul ‘fine vita’, cit., p. 82.80 Sullo slittamento semantico presente nel passaggio da “Testamento Biologico”

a “Dichiarazioni Anticipate di Trattamento” si veda ID., Vita politica valori, cit., pp.93 ss.

81 «Questa valutazione [...] va intesa come contributo sociale alla decisione delsingolo individuo». F. CONTALDO, La nutrizione ai confini della vita. Riflessioni sulcaso Terri Schiavo: ovvero tra etica delle comunità ed etica degli individui, Guida,Napoli 2006, p. 103.

82 E. MAZZARELLA, Tra etica e norma: il dibattito sul ‘fine vita’, cit., p. 75.83 Il presente saggio è stato scritto in un arco di tempo che comprende il secondo

semestre del 2010.

Una misura nell’uso delle tecniche 85

dare a queste norme quel necessario spessore “politico”, pluralista, affattoideologico, che la “misura delle tecniche” sempre richiede. È il caso del-l’emendamento 3.1 al già citato disegno di legge C. 2350 “Disposizioni inmateria di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni an-ticipate di trattamento”, che fra l’altro recita: «Qualora il rifiuto di alimen-tazione ed idratazione artificiale sia stato espressamente oggetto della di-chiarazione anticipata di trattamento, tale dichiarazione deve intendersicome impegnativa per le decisioni che il fiduciario, ove nominato, dovràconcordare con il medico curante e con i familiari, ovvero per le decisioniche il medico curante dovrà assumere d’intesa con i familiari. La dichiara-zione anticipata di trattamento potrà essere disattesa solo nel caso di moti-vate prospettive di beneficio terapeutico per il paziente, da riportarsi nellacartella clinica, la cui valutazione spetta al medico curante che le proporràal fiduciario, se nominato, e ai familiari, e fino a quando esse siano ragio-nevolmente attese. In caso di disaccordo tra il fiduciario, il medico curantee i familiari, sui tempi e le modalità di attuazione della dichiarazione antici-pata di trattamento, che preveda per il paziente la sospensione di idratazio-ne ed alimentazione, la valutazione in ordine al beneficio terapeutico di cuial capoverso precedente, è demandata ad un collegio medico - che includail medico curante - designato dalla direzione sanitaria della struttura che hain carico il paziente».

L’emendamento, presentato da Eugenio Mazzarella, traduce nel concre-to di una norma gli intenti sin qui discussi: scardinare il primato del mezzosul fine, dei tecnicismi e dei proceduralismi nella gestione degli stati di“fine vita”, per sostenere il primato della consapevolezza e delle coscienze,del pluralismo, dell’autodeterminazione84. Una legge che tenga conto diquesti princìpi, è una legge che non si rassegna a giustificare un fine soloperché un mezzo tecnico lo consente: piuttosto, ammette il ricorso ad unmezzo tecnico fintanto che e nella misura in cui un fine possa realistica-mente giustificarlo. Evidentemente, solo da una norma siffatta ci si puòaspettare un’autentica “misura nell’uso delle tecniche”, che lasci l’individuocosciente libero di autodeterminarsi, e l’individuo incosciente libero di spe-rare.

84 E. MAZZARELLA, Vita politica valori, cit., p. 96.

86 Marco Stimolo

Rilevanza del Prospettivismo nella Teoria della Scelta Razionale 87

Rilevanza del Prospettivismonella Teoria della Scelta Razionale

Marco Stimolo

Questo saggio persegue il modesto obiettivo di illustrare una possibilevia per individuare nell’ambito della teoria della scelta razionale (da qui inpoi RCT – Rational Choice Theory) l’attualità e inattualità sul piano episte-mologico del prospettivismo filosofico di matrice nietzscheana. A tal fineprenderò le mosse dalla ricostruzione mazzarelliana del prospettivismonietzscheano, allo scopo di meglio enuclearne – e di sintetizzarne – gliaspetti teorici fondamentali, che costituiranno la linea direttiva della mia il-lustrazione.

Metterò quindi in evidenza l’implicazione reciproca tra gnoseologia eontologia della vita all’interno dell’istanza prospettivistica. Di conseguenza,mostrerò come tale implicazione reciproca porti alla conseguenza di unafrattura di una supposta corrispondenza metafisica tra contenuto conoscitivoe oggetto esterno. Inoltre, prenderò in considerazione l’estrema conseguenzanichilistica del prospettivismo, rappresentata dalla decostruzione dell’unitàegoica e della stabilizzazione dell’identità individuale sulla base meta-logicadella volontà di potenza.

Da queste premesse,porrò in risalto tre fondamentali ricadute metafisi-che della RCT. In primo luogo, prenderò in considerazione l’assunzione diuna perfetta identità tra prospettiva teorica e prospettiva degli agenti, cheporta la RCT a stabilire un’immediata e non problematica rilevanza empiri-ca delle sue proposizioni analitiche. Inoltre, mostrerò come questa assunzio-ne implichi l’assunzione complementare di una corrispondenza perfetta traambiente soggettivo e ambiente oggettivo per ciò che concerne la conoscen-za degli agenti coinvolti in una data interazione strategica. In ultimo, chiari-rò come la RCT si basi su di un’ipotesi di condizioni sincroniche di identi-tà individuale.

In questo contesto, il prospettivismo si presenta come un problemaanalitico che mette in crisi le tre ricadute metafisiche della RCT. A tal pro-posito, mostrerò come l’introduzione di elementi cognitivi congruenti con lecaratteristiche generali del prospettivismo filosofico abbiano determinato

88 Marco Stimolo

un’estensione del potere predittivo ed esplicativo della RCT. Nello specifi-co, mi concentrerò sulla possibilità di razionalizzare la variabilità endemicadei risultati sperimentali nella teoria dei giochi, inserendoli in un quadro te-orico coerente.

In conclusione, metterò in evidenza la parziale compatibilità dei nuovistudi sull’incoerenza intertemporale delle scelte con il prospettivismo filoso-fico. L’aspetto di coerenza consiste nell’utilizzare un modello di agente a sémultipli, la cui identità individuale si stabilizza su basi sub-personali e nonepistemiche. L’aspetto non compatibile consiste invece nel carattere mereo-logico di questo modello, che non soddisfa la caratterizzazione nietzscheanadella forza in termini non atomistici.

1. Aspetti teorici generali del prospettivismo

In questa sezione illustrerò gli aspetti fondamentali del prospettivismonietzscheano, che, a mio avviso, giocano un ruolo sistematico nei nuovisviluppi dell’economia contemporanea, con particolare riferimento alla di-sciplina micro-economica RCT. Al fine di individuare in maniera marcata lecaratteristiche rilevanti del prospettivismo filosofico, farò riferimento al te-sto nietzscheano, in quanto espressione più radicale di questa istanza filoso-fica1. Tali aspetti possono essere così schematizzati: implicazione reciprocatra ontologia del vivente e gnoseologia; frattura di una supposta adeguazio-ne perfetta tra contenuto conoscitivo e oggetto conosciuto; decostruzionedell’unità egoica e stabilizzazione dell’identità individuale sulla base meta-logica della volontà di potenza.

Per ciò che concerne il primo punto, il prospettivismo si presentacome una dottrina della conoscenza fondata sulla stessa struttura ontolo-gica dell’organismo conoscente. Tale fondazione ontologica dell’attivitàconoscitiva svolge la funzione di una identificazione critica del perimetrodi possibilità della conoscenza stessa. Il suo contributo originale consisteproprio nella sua individuazione ad un livello bio-fisiologico delle condi-zioni di possibilità della conoscenza. In virtù di ciò, il problema dellaconoscenza in Nietzsche è immediatamente legato al problema del sosten-tamento vitale dell’organismo. Questo legame colloca il progetto di una

1 Nello specifico, farò riferimento al testo di Umano Troppo Umano, che offreuna formulazione del prospettivismo nietzscheano più utile al mio discorso. Inoltre,assumerò il testo di Eugenio Mazzarella come linea guida per una sua presentazionesintetica. Cfr. F. NIETZSCHE, Umano Troppo Umano, 2 Voll., in Opere di FriedrichNietzsche a cura di G. Colli e M. Montinari, Vol. IV, t. II e III, tr. it. di S. Giametta,Adelphi, Milano 2001; E. MAZZARELLA, Nietzsche e la Storia. Storicità e ontologia del-la vita, Guida, Napoli 2000.

Rilevanza del Prospettivismo nella Teoria della Scelta Razionale 89

giustificazione ontologica della conoscenza in un contesto di matrice evo-luzionistica e non metafisica.

Da ciò si comprende come la stessa capacità conoscitiva dell’uomo, inquanto bio-fisiologicamente determinata al livello ontogenetico, non sia altroche un precipitato evolutivo della filogenesi della specie. Come tale essa nonpuò essere assunta come un dato, ovvero come il presupposto non problema-tico di contenuti conoscitivi specifici, ma al contrario va intesa, a sua volta,nei termini di un problema ontologico concernente la stabilizzazione evoluti-va della struttura del vivente. Per dirla con Mazzarella, «lo stesso apparatocategoriale con cui l’io si costituisce il mondo dell’esperienza si è a sua voltacostituito, è divenuto e continuamente diviene»2. Per questa ragione la cono-scenza diviene problema a se stessa, non nel senso di una aspirazione a unasua fondazione razionale, ma nel senso dell’individuazione della sua specifi-ca funzionalità determinata dalla struttura bio-fisiologica del vivente.

La conseguenza di questa implicazione reciproca tra ontologia dell’or-ganismo e gnoseologia prospettica è che, essendo l’apparato categoriale delsoggetto definito nei termini dinamici di precipitato evolutivo, non è piùpossibile definire il concetto di verità nei termini di una piena adeguazionedel concetto alla cosa. La definizione metafisica del concetto di verità cedequindi il passo ad una conoscenza, le cui finalità non sono esclusivamentequelle di determinare le condizioni di oggettività, che nel frattempo viene asua volta messa in crisi, ma anche, se non soprattutto, quella di potenziarela vita del soggetto conoscente. In altre parole, essendo la conoscenza de-terminata dalla storia evolutiva del soggetto, essa assolverà in primo luogoad una funzione evolutiva. Per far ciò, la conoscenza non può pervenire aduna pura oggettività, nel senso schopenhaueriano di una “morte” del sogget-to al cospetto del palesarsi senza mediazioni dell’oggetto della conoscenza.Essa, al contrario, deve stabilire il valore di ogni conoscenza determinata inmodo funzionale alla vita del soggetto. In virtù di ciò, è consustanziale allaconoscenza prospettica una dimensione normativa, nel senso specifico diuna posizione di valori funzionali alla vita.

A tal riguardo, è bene stabilire una netta differenza tra prospettivismonietszcheano e le derive idealistiche di una teoria della conoscenza esclusi-vamente dipendente dal soggetto. La funzionalità della conoscenza alla vitaè sì una visione radicalmente strumentale, ma essa non comporta un’assolu-ta insensatezza della sua portata veritativa. Se così fosse, se il prospettivi-smo non fosse altro che una riproposizione a livello gnoseologico della fila-strocca della demenza “tutto è falso, tutto è permesso”, allora non potrem-

2 Ivi, p. 69.

90 Marco Stimolo

mo neanche stabilire il modo in cui la conoscenza possa avere una sua fun-zione evolutiva; in altri termini, il fraintendimento soggettivistico del pro-spettivismo condurrebbe a delle conclusioni auto-contraddittorie.

Di contro, ritengo che l’istanza gnoseologica nietzscheana conservi unsenso minimale di portata veritativa, proprio in virtù della sua relazione re-ciproca con l’ontologia del vivente. Su questa base, allora, possiamo inter-pretare la funzionalità della conoscenza alla vita come la determinazionedel grado di auto-organizzazione interna dell’organismo. Quest’ultimo sipresenta come un complesso dell’accadere conflittuale, in cui si individua-no, in un istante dato, molteplici centri di gravità dell’ordinamento gerarchi-co. A questo stato di perenne conflittualità inerisce dunque l’impossibilitàdi un equilibrio statico. Forza e quiete si escludono e in un determinatomomento della forza è data l’assoluta condizionatezza di una nuova riparti-zione di tutte le forze; la modificazione appartiene all’essenza della forza edunque anche la stessa temporalità. Sulla base di questa concezione dell’or-ganico come stato di conflittualità endemica, possiamo concludere che laportata veritativa di una conoscenza prospettica consiste proprio nella stabi-lizzazione dinamica di una identità individuale. Ciò costituisce il vincoloontologico, che preserva il vivente dalla filastrocca della demenza3.

Ai fini di quanto verrà detto in seguito (sezione 4), va precisato chequesta caratterizzazione dell’organico come stato di conflittualità non impli-ca una caratterizzazione atomistica del concetto di forza. Al contrario, que-sta si presenta come un concetto relazionale la cui esistenza singola, postulal’esistenza di altre forze. In virtù di ciò, la proposta nietzscheana di unasemplificazione fisiologica della conoscenza esclude una determinazionemereologica dell’organismo4.

In ciò che segue, tenterò di mettere in evidenza queste caratteristichegenerali analizzando il modo in cui il prospettivismo si pone come proble-ma analitico all’interno della RCT. Tutto questo sarà oggetto della prossimasezione.

2. Il prospettivismo come problema analitico nella RCT

In questa sezione mostrerò le modalità e i termini in cui si pone il pro-blema del prospettivismo nel dominio analitico della RCT. Partirò dallamessa in evidenza di come il processo di assiomatizzazione della teoria del-

3 Cfr. F. NIETZSCHE, Frammenti Postumi 1885-1887, in Opere... di Friedrich Nietz-sche, cit., Vol. VIII, tomo I, tr. it. di S. Giammetta, Adelphi, Milano 1975, pp. 17 ss.e pp. 32 ss.

4 G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia, tr. it. di F. Polidori, Einaudi, Torino 2002.

Rilevanza del Prospettivismo nella Teoria della Scelta Razionale 91

la scelta, unitamente alla progressiva espunzione di elementi psicologici, ab-bia portato questa disciplina a derive di natura metafisica. Queste consisto-no, in primis, nella pretesa di una identificazione totale della prospettiva te-orica con la prospettiva degli agenti coinvolti nel problema di decisione inesame; in secundis, sulla base di questa identificazione, la teoria della sceltastabilisce una completa corrispondenza tra la conoscenza dell’agente e lastruttura oggettiva del problema di decisione. In questo contesto, il prospet-tivismo si pone come un problema analitico a seguito del venir meno diqueste relazioni di identità.

La progressiva eliminazione per astrazione degli elementi psicologici èuna caratteristica dell’evoluzione storica della RCT5. Da un punto di vistateoretico, si potrebbe dire che l’eliminazione della cosiddetta psicologia uti-litaristica ha determinato una riduzione della molteplicità dei fini individualia un unico fine definito in termini formali e di carattere normativo: l’utilitàattesa. In termini informali, l’utilità attesa è da intendersi come il risultatodel prodotto degl’indici di utilità e delle probabilità assegnate alle conse-guenze delle varie alternative possibili. La teoria della scelta razionale nonprevede quindi una determinazione delle finalità individuali, sia in termininegativi che in termini positivi, ma garantisce la possibilità di un ordinamen-to delle alternative sulla base dell’utilità attesa delle loro conseguenze6.

A questa formalizzazione matematica del concetto di utilità attesa corri-sponde una definizione formale del concetto di razionalità in termini di co-erenza logica. Nello specifico, un agente è razionale nella misura in cuile sue preferenze soddisfano i quattro assiomi di coerenza logica: asimme-tria, transitività, continuità e indipendenza dalle alternative irrilevanti7. Inol-tre, le preferenze razionali possono essere rappresentate da una funzione diutilità attesa. Questa conseguenza attesta l’equivalenza analitica sussistentetra la coerenza logica definita dagli assiomi e il principio di massimizzazio-ne dell’utilità attesa. Il risultato analitico cruciale della RCT viene dunquesintetizzato dalla seguente asserzione: l’agente, le cui preferenze soddisfanogli assiomi di razionalità, si comporta come se stesse massimizzando la suafunzione di utilità attesa.

Sulla base di questa assiomatizzazione dei concetti complementari dirazionalità e utilità attesa, la RCT è in grado di analizzare i problemi di de-

5 Cfr. M. HOLLIS, R. SUGDEN, Rationality in Action, in «Mind», New Series, Vol.102, No. 405, gennaio 1993, pp. 1-35.

6 Cfr. D. GAUTHIER, Moral by Agreement, Cornell University Press, New York1990, p. 212.

7 J. VON NEUMANN, O. MORGENSTERN, Theory of Games and Economic Behavior,Princeton University Press, Princeton 1947.

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cisione, sia in contesti parametrici che strategici, su un piano squisitamentelogico/deduttivo. Ogni problema di decisione viene ridotto alla sua purastruttura logica, che, unitamente alla specificazione dei vincoli contestuali,delle funzioni di utilità e del connesso ordinamento delle alternative, ne de-termina in maniera univoca la soluzione. Si prenda come esempio un pro-blema di decisione strategica come il gioco dell’ultimatum8. La struttura lo-gica del gioco è semplice: due agenti, un proponente e un ricevente, devo-no dividersi una somma di denaro. Il proponente ha la facoltà di deciderequanta somma concedere al ricevente; se quest’ultimo accetta, il gioco fini-sce, in caso di rifiuto, invece, nessuno riceve nulla. Le funzioni di utilità e icorrispettivi ordinamenti delle preferenze sono costruite sulla base dell’as-sunzione di razionalità completa. Il proponente preferirà, dunque, concedereuna minima somma al ricevente e questo, preferendo una quota positiva auna negativa, accetterà l’offerta.

Questo semplice gioco e la sua connessa soluzione di una distribuzio-ne iniqua del surplus ha la pretesa di rappresentare una classe rilevante diinterazioni socio-economiche reali. Pertanto questo risultato logico ha – odovrebbe avere – una rilevanza predittiva per quanto concerne le regolaritàcomportamentali del mondo reale. Questa pretesa di una rilevanza empiricadi un risultato analitico si basa sull’assunzione ausiliare di una identità per-fetta tra la prospettiva teorica e la prospettiva cognitiva degli agenti coin-volti nell’interazione strategica9. Quest’ultimi vengono caratterizzati sullabase delle assunzioni di informazione illimitata e di razionalità perfetta. Inquesto modo gli agenti sono a conoscenza di tutti i teoremi inerenti allaloro interazione, così da poterne dedurre la soluzione logica. In altri termi-ni, la prospettiva interna degli attori dell’interazione è paritetica alla pro-spettiva esterna del teorico che la analizza. In sintesi, l’identità assunta traprospettiva degli agenti e prospettiva del teorico esclude la possibilità diuna differenziazione epistemologica tra prospettiva interna ed esterna algioco strategico10.

A rendere ancora più forte e restrittivo questo risultato è il fatto che,come si è già detto, esso pretende di avere una rilevanza sul piano empiricoe predittivo; anzi, l’identità perfetta tra la prospettiva degli agenti e quella

8 Per un’analisi logica e sperimentale del gioco dell’ultimatum si veda W. GÜTH,R. SCHMITTBERGER, B. SCHWARZE, An Experimental Analysis of Ultimatum Bargaining, in«Journal of Economic Behavior and Organization», III, 1982, pp. 367-388.

9 Cfr. V.L. SMITH, Rationality in Economics. Constructivist and Ecological Forms,Cambridge University Press, Cambridge 2008, pp. 161-168.

10 Cfr. R. SUGDEN, The Role of Inductive Reasoning in the Evolution of Conven-tions, in «Law and Philosophy», Vol. 17, No. 4, luglio 1998, pp. 377-410.

Rilevanza del Prospettivismo nella Teoria della Scelta Razionale 93

del teorico è ritenuto essere il fondamento logico della rilevanza empiricadella RCT. Ciò implica che la deduzione della soluzione di una interazionestrategica non è semplicemente corretta sul piano logico, ma essa si preten-de essere anche vera nel senso forte di una piena adeguazione alle realtàempiriche, descritte dalla struttura logica del gioco11.

Tale relazione di identità implica l’assunzione complementare di unaindifferenziazione tra ambiente soggettivo ed oggettivo degli agenti, coin-volti in una interazione oggetto di analisi. Se infatti non sussiste distinzioneepistemologica tra prospettiva interna ed esterna, da ciò consegue che gliagenti di una interazione – al pari del teorico che la analizza – rispondonoad una conoscenza oggettiva. In virtù di ciò, la RCT può giustificare la suarilevanza predittiva ed empirica.

Lo sviluppo esponenziale dell’economia sperimentale degli ultimi anni,lavorando proprio sulla base delle strutture logiche delle interazioni strategi-che, ha raccolto una notevole mole di evidenza empirica, che non confermala pretesa rilevanza predittiva della RCT12. In questa sede non è il caso diaddentrarci sui problemi epistemologici inerenti alla possibilità di falsifica-zione empirica di assiomi logico-normativi; preferisco piuttosto proporreuna possibile giustificazione di questa discrepanza tra teoria e realtà empiri-ca facendo leva proprio sul concetto di prospettiva.

Sulla base di quanto detto nella sezione precedente, nella misura in cuidefiniamo il concetto di prospettiva nei termini di un’auto-organizzazionedinamica di un organismo, funzionale al mantenimento delle sue funzionivitali, allora non è possibile – nemmeno sul piano logico – stabilire una re-lazione di identità tra due prospettive. Il problema di una discrepanza tra te-oria e realtà empirica può essere quindi ascritto all’impossibilità di stabilireuna relazione di identità tra prospettiva teorica e prospettiva degli agenti.

Il programma di ricerca della behavioural economics, soprattutto nelsuo filone di ricerca a forte carattere evoluzionistico che parte da HerbertSimon fino ad arrivare a Peter G. Smith, sembra proprio confermare questaasserzione teorica13. Infatti, la presa di coscienza delle limitate capacità di

11 Per una ricostruzione critica del dibattito circa la possibilità di una estensioneimmediata delle conclusioni analitico/normative della RCT ad un piano empirico, siveda F. GUALA, The logic of normative falsification: rationality and experiments in de-cision theory, in «Journal of Economic Methodology», 7:1, 2000, pp. 59-93.

12 Per una raccolta aggiornata dei risultati più importanti nel campo dell’econo-mia sperimentale e comportamentale, si veda: C. CAMERER, G. LOEWENSTEIN, D. PRELEC,Neuroeconomics: How Neuroscience Can Inform Economics, in «Journal of EconomicLiterature», Vol. 43, No. 1, marzo 2005, pp. 9-64.

13 Cfr. H. A. SIMON, Models of Bounded Rationality, Vol. 2, Behavioural Economi-cs and Business Organization, MIT University Press, Cambridge 1982 e P. GODFREY-

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computazione degli agenti reali, ha spinto gli economisti ad includere nellaloro analisi i processi percettivi e cognitivi, che costituiscono l’ambientesoggettivo, a cui un agente reale risponde in maniera prioritaria. L’argomen-to centrale a cui approdano questi studi può essere così sintetizzato: è pos-sibile che il comportamento di scelta apparentemente governato dai principidella RCT sia effettivamente governato da euristiche a dominio specifico; èanche possibile che il processo di evoluzione abbia raffinato queste euristi-che a tal punto da approssimare i requisiti di razionalità della RCT, maquesto non implica che il meccanismo di decisione corrisponda alla struttu-ra formale della RCT. In breve, gli studi di economia cognitiva e sperimen-tale mettono in questione la legittimità di derivare conclusioni empirichedalle proposizioni analitico-normative della RCT. Per questa ragione, la pro-spettiva degli agenti deve essere compresa e spiegata in quanto altra rispettoalla prospettiva teorica14.

A ciò si aggiunga il fatto che la stabilizzazione di un ambiente sogget-tivo implica una specifica auto-organizzazione delle facoltà percettive delsoggetto. Per questo, la rilevanza analitica della prospettiva cognitiva degliagenti implica la possibilità di una loro eterogeneità radicale, con conse-guente complicazione dell’analisi. Dirò altro su questo punto nella sezione4. Per il momento basti pensare che il riconoscimento dell’eterogeneità de-gli agenti, sebbene fortemente intuitivo, non era permesso dalla RCT stan-dard, proprio in virtù delle sue derive metafisiche.

Si comprende dunque come, nel contesto della RCT, il prospettivismosi presenti come un problema analitico ed epistemologico. Esso, infatti, nonimplica semplicemente una rielaborazione dei metodi analitici, ma ancheuna rielaborazione a livello epistemologico, nella misura in cui il problemadel prospettivismo attesta la necessità di una relazione interdisciplinare traRCT e scienze cognitive. Nella sezione che segue, illustrerò il modello co-gnitivo maggiormente utilizzato nelle spiegazioni economiche di interazionistrategiche.

3. Processo cognitivo di categorizzazione

In questa sezione prenderò in considerazione gli aspetti fondamentalidei processi di categorizzazione cognitiva delle interazioni sociali. Su questabase metterò in evidenza la similarità stretta di questo processo cognitivo

SMITH, Complexity and the Function of the Mind in Nature, Cambridge UniversityPress, Cambridge 1996.

14 R. SUGDEN, Ken Binmore’s Evolutionary Social Theory, in «The Economic Jour-nal», 111, febbraio 2001, pp. 213-243.

Rilevanza del Prospettivismo nella Teoria della Scelta Razionale 95

con gli aspetti teorici del prospettivismo filosofico, al fine di proporre ilprocesso di categorizzazione cognitiva come sua naturalizzazione in sensoscientifico.

La categorizzazione cognitiva può essere definita come un meccanismodi trasformazione informazionale, le cui caratteristiche specifiche derivanoda un processo di co-evoluzione inconscia tra lo sviluppo biologico e cultu-rale del cervello15.

Il compito di trasformazione informazionale degli inputs in outputs av-viene sulla base dell’effetto causale di uno stimolo esterno, che attiva la suacomparazione con gli altri stimoli precedentemente processati, al fine di sta-bilirne le differenze e similarità16. Questa comparazione deve essere intesanei termini di un processo valutativo funzionale all’astrazione delle caratte-ristiche situazionali rilevanti.

La “rilevanza” – pertinence nella terminologia di Dan Sperber – è unconcetto selettivo che permette una trattabilità adeguata del compito di pro-cessamento delle informazioni, nel senso che esso identifica le restrizionispecifiche da imporre sul processo di trasformazione degli inputs in outputs.Nello specifico, la rilevanza di uno stimolo consiste nei suoi effetti conte-stuali sugli stimoli precedentemente processati: maggiore è l’effetto conte-stuale dello stimolo, maggiore sarà la sua rilevanza. Ne consegue che lacomparazione in termini di rilevanza cognitiva tra gli stimoli è strettamentedipendente dagli effetti contestuali di un singolo stimolo17.

Sulla base di questa comparazione, il processo cognitivo di categorizza-zione diagnostica l’inclusione di uno stimolo in una categoria. Il criterio diinclusione è qui rappresentato dalla specifica tipicità – typicality – di unostimolo. Un singolo input può essere incluso in una struttura cognitiva checollega gli stimoli tra di loro sulla base della stabilizzazione di una specifi-ca tipologia di stimoli inclusi in una categoria cognitiva18.

Da questi cenni si comprende come un approccio cognitivista alla co-noscenza sia qualitativamente differenze rispetto ad un approccio logico-de-duttivo. L’aspetto rilevante di questa differenza consiste nel fatto che, men-tre l’approccio logico fornisce l’idea apparentemente naturale di una forma-zione dell’esperienza sulla base di impulsi sensoriali che rifletterebbero de-

15 Cfr. J. L. BERMÙDEZ, Philosophy of Psychology, Routledge, New York 2005, pp.18 ss.

16 C. BICCHIERI, The Grammar of Society. The Nature and Dynamics of SocialNorms, Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp. 83 ss.

17 D. SPERBER, D. WILSON, Relevance. Communication and Cognition, Blackwell,Oxford 1995, pp. 118 ss.

18 Cfr. S.T. FISKE, S. E. TAYLOR, Social Cognition, McGraw-Hill, New York 1991.

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gli aspetti invarianti dell’ambiente esterno, l’approccio cognitivista sottoli-nea il fatto che le percezioni attuali risultano dalla relazione dinamica tragli impulsi esterni e la nostra esperienza passata in condizioni similari. Daquesta differenza deriva una implicazione cruciale: se l’approccio logico-de-duttivo, nello stabilire un rapporto di riflessione tra impulsi sensoriali easpetti invarianti dell’oggetto esterno, rende possibile un rapporto di ade-guazione tra conoscenza e oggetto, l’approccio cognitivo non può distingue-re gli aspetti oggettivi della conoscenza e quelli derivanti dal processo dicomparazione degli stimoli in termini di rilevanza cognitiva19.

Come caso illustrativo, si prendano in considerazione i cambiamenti di-namici di categorie a seguito di una revisione della propria conoscenza.Questi cambiamenti del processo di categorizzazione non sono linearmentederivabili da cambiamenti corrispondenti degli inputs esterni. Dato che ilprocesso di categorizzazione consiste in una comparazione di stimoli, allorasarà la relazione tra gli input informazionali e non gli input singolarmentepresi a rivelarsi l’aspetto causalmente rilevante nel determinare l’elaborazio-ne di informazioni output. Non vige dunque una corrispondenza lineare tracategorie cognitive e input esterni20.

La dinamicità intrinseca del processo di categorizzazione cognitiva ciporta a prenderne in considerazione un altro aspetto, inerente al modello disoggetto cognitivo proposto da questa teoria. La comparazione in termini dirilevanza cognitiva tra gli stimoli è essenzialmente auto-organizzata, ovveroessa non è internamente regolata da una unità centrale dove convergano tut-te le informazioni rilevanti. A seguito della “caduta” delle barriere episte-mologiche tra scienze cognitive e neuroscienze, le teorie sul processo di ca-tegorizzazione cognitiva si sono basate su un modello del cervello come unprocessore parallelo di informazioni, costituito da siti-neurali semiautonomi,la cui coordinazione endogena determina la rilevanza cognitiva di uno spe-cifico contenuto informazionale, che andrà a costituire una specifica catego-ria cognitiva. Si comprende dunque che, le teorie dei processi di categoriz-zazione cognitiva siano fondate sugli aspetti neuro-fisiologici del soggettoconoscente21.

19 Cfr. V. L. SMITH, Rationality in Economics. Constructivist and Ecological For-ms, cit., pp. 206-209.

20 Cfr. S. HARNAD, To Cognize is to Categorize: Cognition is Categorization, in H.Cohen and C. Lefebvre (a cura di), Handbook of Categorization in Cognitive Science,Elsevier, Amsterdam 2005, pp. 20-45.

21 Per una ricostruzione critica della letteratura psicologica a riguardo e del suoutilizzo nei modelli di spiegazione economica, si veda: D. ROSS, Economic Theory andCognitive Science: Microexplanation, MIT Press, Cambridge 2005, pp. 230 ss.

Rilevanza del Prospettivismo nella Teoria della Scelta Razionale 97

Ho, quindi, illustrato gli aspetti rilevanti delle teorie dei processi di ca-tegorizzazione cognitiva, sottolineandone la similarità con gli aspetti teoricigenerali del prospettivismo filosofico. Nella prossima sezione illustrerò ilmodo in cui queste teorie sono utilizzate per superare alcune lacune nel po-tere di spiegazione e previsione della RCT.

4. Rilevanza delle categorie cognitive nella RCT

In questa sezione, metterò in evidenza le conseguenze fondamentali de-rivanti all’utilizzo delle categorie cognitive nell’ambito della teoria dei gio-chi. Prenderò le mosse dalla distinzione tra framing cognitivo e struttura lo-gica del gioco in riferimento diretto alla prima deriva metafisica della RCTstandard: l’assunzione di una perfetta identità tra prospettiva teoria e pro-spettiva degli agenti. Su questa base, mostrerò come l’utilizzo delle catego-rie cognitive determini un passaggio dalla semplice deduzione dei risultatidi equilibrio in interazioni strategiche alla spiegazione causale delle scelteindividuali. In secondo luogo, mostrerò come l’utilizzo delle categorie co-gnitive fornisca una razionalizzazione di una eterogeneità degli agenti e deiconnessi risultati di equilibrio. Questo problema si riferisce alla seconda de-riva metafisica della RCT: l’assunzione di una perfetta corrispondenza tra laconoscenza degli agenti e la struttura oggettiva dell’interazione in cui sonocoinvolti.

Per ciò che concerne il primo punto – differenza tra framing cognitivoe struttura logica del gioco – va ricordato che la RCT standard fornisce unadeduzione a ritroso (backward deduction) delle strategie razionali che pre-siedono ala stabilizzazione di un dato equilibrio. In questo quadro analitico,si parte dalla individuazione dei payoff che costituiscono il risultato di equi-librio dell’interazione. Da questa identificazione vengono poi dedotte lestrategie e le preferenze razionali che sono funzionali alla stabilizzazione diquell’equilibrio. Questo processo di deduzione a ritroso si basa sulla defini-zione delle preferenze in termini di scelte e quest’ultime in termini dei ri-sultati conseguenti22.

Da questa impostazione d’analisi è possibile trarre l’implicazione cen-trale di una relazione di uno a uno tra l’individuazione dei risultati e le fun-zioni di utilità attesa dei giocatori. In altre parole, la teoria dei giochi consi-dera un risultato irrazionale la possibilità di assegnare differenti indici diprobabilità e utilità allo stesso risultato nel medesimo stato del mondo. Perquesta ragione, è possibile concludere che la funzione di utilità attesa di-

22 Cfr. L. J. SAVAGE, The Foundations of Statistics, John Wiley, New York 1954,pp. 10 ss.

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pende esclusivamente dalla struttura logica del problema di scelta. Su que-sta base la RCT può assumere una assoluta indifferenza tra prospettiva teo-rica e prospettiva degli agenti.

L’introduzione di elementi cognitivi quali i processi di categorizzazioneci porta nel dominio delle spiegazioni causali, dove il risultato dell’intera-zione è razionalizzato sulla base del comportamento di scelta e non vicever-sa. In virtù di ciò, l’utilità di un dato risultato non è indipendente dall’attodi scelta e quest’ultimo dipende dal framing cognitivo dell’interazione stra-tegica. Inoltre, come ho già accennato nella sezione precedente, il processodi categorizzazione cognitiva non è in una relazione univoca con il suo re-ferente oggettivo e quindi non è possibile assumere una corrispondenza per-fetta tra cognizione soggettiva e struttura logica del gioco. Ciò significa cheil medesimo individuo può implementare processi di categorizzazione diffe-renti per la medesima struttura logica, così da determinare una variazionenel comportamento di scelta23.

Per illustrare il punto, si prenda di nuovo in considerazione il casodell’ultimatum game. Si ricordi che la RCT deduce dalla struttura logicadel gioco la soluzione univoca di una distribuzione iniqua del surplus. Glistudi recenti di economia comportamentale e sperimentale hanno tentatodi razionalizzare il risultato empirico di una divisione pressoché equa delsurplus nell’intervallo tra il 40% e il 50% facendo appello proprio allecategorie cognitive24. Gli esperimenti di V.L. Smith sul gioco dell’ultima-tum hanno attestato una variazione del risultato dell’interazione corrispon-dente alle variazioni delle informazioni a proposito del proponente. L’espe-rimento presentava un continuum di informazioni circa la titolarità nonvincolante del proponente ad una parte del surplus. Questo continuumpartiva da un grado zero fino all’informazione circa il merito specifico delproponente per il possesso di una parte del surplus. Il risultato ha atte-stato un’ubiquità della divisione equa del surplus. Nel caso di zero infor-mazioni, il surplus veniva diviso in maniera egualitaria, mentre al cresce-

23 Per un’analisi filosofica della differenza tra spiegazioni psicologiche a caratterecausale e la deduzione di scelte razionali da risultati di equilibrio, si veda: J. L. BER-MÙDEZ, Decision Theory and Rationality, Oxford University Press, Oxford 2009. Perciò che concerne invece la relazione variabile tra framing cognitivo e referente fattualenel contesto della teoria della scelta, si veda: F. SCHICK, Understanding Actions, Cam-bridge University Press, Cambridge 1991.

24 Per una ricostruzione critica del dei dati collezionati a proposito di un compor-tamento equo negli esperimenti sul gioco dell’ultimatum, si veda: F. GUALA, Paradig-matic Experiments: The Ultimatum Game from Testing to Measurement Device, in«Philosophy of Science», 75, dicembre 2008, pp. 658-669.

Rilevanza del Prospettivismo nella Teoria della Scelta Razionale 99

re delle informazioni il criterio di divisione si basava sul principio menorestrittivo di equità25.

Questi dati sono stati interpretati in termini cognitivi: il gioco dell’ulti-matum viene generalmente concepito come una situazione in cui si applica-no norme di equità e, sebbene la struttura logica del problema non cambi,una variazione delle informazioni determina una variazione corrispondentedei processi di categorizzazione cognitiva dell’interazione in esame; da ciòconsegue la variazione dei risultati di equilibrio. Si nota dunque come il ri-conoscimento di una relazione variabile – piuttosto che univoca – tra strut-tura logica e cognizione soggettiva determini l’estensione del potere predit-tivo ed esplicativo della RCT. Ciò non è possibile mantenendo l’assunzionedi una corrispondenza perfetta tra prospettiva teorica e prospettiva degliagenti.

Si è detto inoltre che l’introduzione dei processi di categorizzazionecognitiva nella RCT permette una razionalizzazione dell’eterogeneità degliagenti rispetto alla determinazione univoca della struttura logica dell’intera-zione. Ciò implica l’impossibilità di un rapporto di immediata corrispon-denza tra cognizione soggettiva e struttura oggettiva dell’interazione. Questorisultato possiede una notevole rilevanza esplicativa in quanto, come si èdetto nella sezione precedente, l’agente risponde in prima istanza al suoambiente soggettivo, che si costituisce tramite i processi di categorizzazionecognitiva. Sul piano analitico questo significa che i risultati di equilibrio diuna interazione non solo possono variare a seconda delle informazioni di-sponibili, ma anche sulla base dell’eterogeneità dei soggetti coinvolti.

A tal proposito, gli esperimenti di Henrich sono un esempio illustrati-vo26. Henrich condusse degli esperimenti sul gioco dell’ultimatum in piccolesocietà a carattere semi-tribale con nessuna relazione di scambio tra di loro.La grande variabilità dei risultati sperimentali attesta una forte condivisionedell’interpretazione del gioco all’interno di una società, ma una grande dif-ferenza tra le società non in relazione tra loro. In qualche gruppo, il propo-nente del gioco offriva più della metà del surplus e il ricevente rifiutaval’offerta. Il risultato può essere spiegato solo se si assume un’interpretazio-ne del gioco come un caso particolare di un gift-giving game, dove la gene-rosità del donatore è percepita come un segno di status, che genera un’ob-bligazione. Questi risultati attestano una discrepanza tra prospettiva degli

25 V. L. SMITH, Rationality in Economics. Constructivist and Ecological Forms, cit.,pp. 212-220.

26 Cfr. J. HENRICH, Does Culture Matter in Economic Behaviour? UltimatumGame Bargaining Among the Machiguenga, in «The American Economic Review», 90(4), 2000, pp. 973-979.

100 Marco Stimolo

agenti e struttura logica del gioco. In ogni caso, la frattura di questa derivametafisica della RCT ne estende il potere predittivo.

Ho quindi illustrato come la messa in crisi delle derive metafisiche del-la RCT tramite l’introduzione di elementi cognitivi sia coerente con le ca-ratteristiche teoriche generali del prospettivismo filosofico. Rimane ora daillustrare come l’ultimo aspetto del prospettivismo filosofico – la stabilizza-zione dell’identità individuali su basi non logiche – sia presente in alcunetendenze eterodosse dell’analisi delle scelte. Affronterò il tema nella sezioneche segue.

5. Basi sub-personali dell’identità individuale. Il caso dell’incoerenza in-tertemporale delle scelte.

Nella sezione precedente ho illustrato brevemente come alcune applica-zioni sperimentali della RCT, utilizzando i processi di categorizzazione co-gnitiva, ripercorrano a livello locale taluni sviluppi del prospettivismo filo-sofico. In questa sezione prenderò in considerazione l’aspetto cruciale delprospettivismo: l’implicazione reciproca di gnoseologia e ontologia del sog-getto vivente.

Come dovrebbe risultare chiaro dalla prima sezione, questa relazionereciproca non implica esclusivamente una limitazione della conoscenza adun orizzonte determinato dalla stessa struttura del soggetto, ma anche – esoprattutto – la decostruzione dell’unità egoica, intesa come unità epistemi-ca fondativa di una conoscenza certa. A causa di ciò, l’identità individualediventa un problema e non un dato, ovvero essa va analizzata nel suo pro-cesso di stabilizzazione dinamica. Dato che l’istanza del prospettivismo sot-tolinea l’impossibilità di una fondazione logico\intellettuale dell’identità in-dividuale, quest’ultima è possibile solo sulla base “meta-logica” degli istintivolitivi. Riferendomi al paradigma nietzscheano, tali istinti non vanno intesinei termini di desideri, ma come centri di forza – volontà di potenza – ilcui “agone” interno è alla base della stabilizzazione dinamica dell’identitàindividuale27.

Qual è la rilevanza specifica di questo universo concettuale nel dominioanalitico della RCT? Nella terza sezione ho affermato che le teorie dei pro-cessi di categorizzazione cognitiva propongono un modello di soggettocome sistema dinamico complesso che si auto-organizza sulla base della co-ordinazione endogena dei siti semi-autonomi di elaborazione informaziona-le. Il termine “coordinazione” va qui inteso in senso metaforico, in quantosi tratta di un modello di agente basato sull’assunzione di una competizione

27 Cfr. E. MAZZARELLA, Nietzsche e la storia, cit., pp. 65 ss.

Rilevanza del Prospettivismo nella Teoria della Scelta Razionale 101

interna tra gruppi di centri neurali, ognuno dei quali costituisce un “sé” de-terminato, inerente all’intero sistema individuale. A tal riguardo, il problemadella RCT consiste nello stabilire le condizioni di identità individuale comestabilizzazione dinamica della competizione interna dei “sé” a livello sub-personale.

Alcune interpretazioni eterodosse della RCT, quale quella di Jon Elster,utilizzano questo modello di agente a sé multipli per una spiegazione causa-le e una conseguente risoluzione razionale dell’incoerenza intertemporaledelle preferenze e delle scelte28. Il classico esempio utilizzato in questa let-teratura è quello di Ulisse legato al palo della nave per resistere alla sedu-zione del canto delle sirene. In questo suo atto, Ulisse assume un’attitudinestrategica verso se stesso: prevedendo che, in assenza di impedimenti, egliavrebbe ceduto al canto delle sirene, decide di legarsi a un palo della nave.Dal punto di vista della RCT standard, l’atteggiamento di Ulisse è del tuttoirrazionale. Sulla base di una identità individuale unitaria e stabile, l’agenterazionale al tempo t è in grado di implementare una scelta che massimizzala sua funzione di utilità attesa anche al tempo (t + 1). Tale scelta razionalerende superfluo qualsiasi impegno vincolante, così come simbolizzato daUlisse legato al palo.

Secondo Jon Elster questa conclusione normativa della RCT non hauna rilevanza né esplicativa né predittiva, data l’ubiquità del fenomeno del-l’inversione delle preferenze. Nel tentare di fornire una spiegazione causaledel fenomeno dell’incoerenza inter-temporale delle decisioni, Elster basa lasua analisi su un modello decentralizzato dell’agente a “sé” multipli, checompetono tra loro per determinare in maniera rilevante l’intero sistema in-dividuale. Per ciò che concerne l’esempio fittizio di Ulisse, l’espediente dilegarsi al palo significa letteralmente che Ulisse, in maniera deliberata,esprime un impegno – commitment – a un suo sé specifico, prevedendo cheil suo “sé” al tempo (t + 1) del canto delle sirene massimizzerebbe la suaspecifica funzione di utilità cedendo alla seduzione. Tramite questo impe-gno, Ulisse riesce a stabilire dinamicamente la sua identità individuale nelcontinuo temporale. Inoltre, l’utilizzo di un modello di agente a sé multiplifornisce una razionalizzazione su base causale del fenomeno dell’incoerenzaintertemporale delle decisioni.

In questo esempio fittizio vediamo come la risoluzione di un problemadi incoerenza intertemporale delle preferenze dipenda dalla stabilizzazionedi una prospettiva particolare di un sé specifico, che emerge dalla coordina-

28 Cfr. J. Elster (a cura di), Multiple Self, Cambridge University Press, Cambridge1986.

102 Marco Stimolo

zione di un gruppo determinato di siti di elaborazione informazionale. Talecoordinazione perviene alla formazione di un framing cognitivo del proble-ma in oggetto, che viene risolto sulla base di una specifica identificazionedell’individuo. A tal riguardo, è bene sottolineare come la stabilizzazionedell’identità individuale sulla base di processi di elaborazione informaziona-le a livello sub-personale sia coerente con l’istanza del prospettivismo filo-sofico, secondo cui, una volta decostruita l’unità egoica come base episte-mica di una conoscenza certa, l’identità individuale può emergere esclusiva-mente sulla base meta-logica dell’agone tra centri di volontà di potenza.

Sebbene questo modello di agente a sé multipli, unitamente al suo uti-lizzo nella teoria della scelta, soddisfi dei requisiti cruciali del prospettivi-smo filosofico, allo stato attuale delle ricerche questi modelli non sembranopoter soddisfare il requisito di una caratterizzazione non atomistica del con-cetto di forza e di una connessa composizione non-mereologica dell’interosistema individuale. Nelle scienze cognitive, questo modello di agente sibasa sull’ipotesi di una mente costituita da moduli, i cui algoritmi specificili rendono reciprocamente indipendenti29. L’utilizzazione di tali modelli ineconomia porta alla caratterizzazione specifica del sistema individuale neitermini metaforici di un mercato decentralizzato di competizione perfetta, incui i sé multipli svolgono la funzione di agenti economici. Per questo, ilprocesso di stabilizzazione dell’identità individuale viene visto alla streguadi un equilibrio di mercato emergente dall’interazione di agenti atomistici.

In ogni caso, è bene sottolineare come l’attualità del prospettivismo fi-losofico si colleghi ad un momento di rielaborazione epistemologica e fon-dazionale della RCT, le cui direttive di ricerca procedono verso il supera-mento dell’ingenuità metafisica di una composizione mereologica dell’agen-te economico. In tal senso, il prospettivismo filosofico mostra la sua inat-tualità – in senso nietzscheano – fungendo da euristica direttiva di program-mi di ricerca.

29 Cfr. M.S. Gazzaniga (a cura di), The New Cognitive Neurosciences, MIT Press,Cambridge 2000.

Rilevanza del Prospettivismo nella Teoria della Scelta Razionale 103

«Ogni cosa ha il suo tempo»Kierkegaard lettore del Qohelet

Giulia Longo

«Tutta l’esistenza mi angustia, dal più piccolo moscerino ai misteri del-l’Incarnazione: tutto mi riesce inspiegabile, me stesso soprattutto; tutta lavita mi è una peste, me soprattutto. Vasto è il mio dolore, non conosce con-fini; nessuno lo conosce se non Dio nei cieli, ed Egli non vuol consolarmi;nessuno lo conosce se non Dio nei cieli, ed Egli non vuole avere pietà dime. Giovane mio, tu che sei ancora ai primi passi verso la meta: se ti seismarrito, ritorna, volgiti a Dio e alla sua scuola attingerai in te una giovi-nezza, un aumento di vigore per la tua attività di uomo. Mai ti toccheràsentire quanto bisogna soffrire, quando si son sperperati la forza e il corag-gio della propria giovinezza nel ribellarsi a Lui; si deve poi, affranti e di-sfatti, incominciare una ritirata attraverso paesi distrutti e province rovinate,circondati ovunque dall’orrore delle devastazioni, dalle città bruciate e dallemacerie fumanti di speranze deluse, da opulenza infranta e da grandezzaabbattuta. Una ritirata lenta come un’annata di sventura, lunga comeun’eternità, interrotta da questo uniforme, ripetuto sospiro: “Il tedio di que-ste giornate!”»1.

1 S. KIERKEGAARD, Diario, tr. it. di C. Fabro, Morcelliana, Brescia 1980, vol. 2, n.453, p. 164. L’inciso kierkegaardiano tra virgolette è di diretta filiazione da Qo. XII,3, cosa che sottolineiamo sin da ora, in quanto si tratta dei versi immediatamente se-guenti l’incipit del capitolo XII del Qohelet («Pensa al tuo Creatore nella tua giovi-nezza»), assai cari a Kierkegaard, in una qualche misura assunti come “filo rosso” delpresente contributo, il quale si propone di offrire un primo sguardo d’insieme sullalettura appassionata - per quanto poco conosciuta – che Kierkegaard maturò del picco-lo grande testo dell’Antico Testamento. Per quanto riguarda la versione italiana diesso, ci siamo avvalsi di quella pietra miliare che è il lavoro di G. RAVASI, Qohelet. Illibro più originale e “scandaloso” dell’Antico Testamento, San Paolo, Cinisello Balsa-mo 2004, nonché dei “sudori poetici” di GUIDO CERONETTI (Qohélet. Colui che prendela parola, Adelphi, Milano 2001), il quale rende i succitati versi nei seguenti termini:«E il tuo Creatore pensalo / Nei tuoi anni di desiderio / Prima che i giorni diventinosciagura / Flagellato dagli anni di cui dirai / – Nessuna voglia di loro».

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Suona in questi termini un appunto del ventiseienne Søren Kierkegaard,datato 12 maggio 1839: un pensiero “angustiato” che prova a comunicare ilsenso di inspiegabilità che lo circonda, l’atmosfera pestifera che gli scandi-sce una vita cadenzata dal dolore, nella quale nessuno può accorrere in suoaiuto all’infuori di un Dio che gli si nega. Ha solo ventisei anni, Søren Kie-rkegaard, eppure si rivolge ad un vocativo come a non poterne meglio mar-care la distanza: «Giovane mio». Sembra, in tal modo, dare del tu al suo séponendosi, però, dall’alto del suo io: già lo invita a non perdere di vista lapropria meta, al tornare quanto prima sui propri passi in caso di smarrimen-to, all’appellarsi ad un Dio diverso rispetto a quello, arroccato nei suoi cieli,cui poco prima rimproverava la mancanza di pietà. È un Dio, questo, alquale non bisogna ribellarsi, onde non esser costretti, poi, ad aggirarsi, “af-franti e disfatti”, tra gli spettri putrefatti dei propri atti, accompagnati a vistada una oscura cantilena che ne segue, ombra obliqua, il disgusto.

Questa oscura cantilena, quell’“uniforme, ripetuto sospiro”, altro non èche una citazione biblica, posta tra virgolette per onestà intellettuale, a mo’di riconoscimento di un credito, da un lato, e di assunzione di un debito,dall’altro, spia di un’appropriazione tale da eccedere la stessa punteggiatura.Autore della citazione è un saggio vetero-testamentario che il giovane Kie-rkegaard legge già molto avidamente, pur senza spingersi nel darne un giu-dizio unitario di fondo, preferendo, al più pragmatico trarne risposte, conti-nuare veracemente ad interrogarlo. «“Il tedio di queste giornate!”» suona,allora, come un’esclamazione strappata di bocca all’uno, e presa in prestitodall’altro in nome del tramen di pensiero che li unisce, declinato poi neitermini più maturi di una «infinita differenza qualitativa»: c’è un Dio impe-netrabile da qualche parte in alto, uno spazio in cui vige il tempo dell’eter-no, ed un uomo gettato sulla terra irrimediabilmente angosciato, che sichiede se quella traccia d’eterno vi sia davvero, nei tempi alternati ed appa-rentemente privi di senso in cui lui si dibatte. Il saggio maestro è il primo anon fornire alcun credo definitivo sulle cose, delle quali, anzi, lamenta apiù riprese l’inconsistenza, la vanità. «Forfængelighed», recita in danese laparola-chiave del Qohelet: «vanità». Ed è la temuta eco a questa, a risuona-re tra le righe di Kierkegaard.

Il 14 giugno 1840, a poco meno di un mese dalla difesa di laurea inteologia discussa poi ai primi di luglio, un suo quaderno accoglie una densariflessione in margine al concetto di «novità», inteso quale paradigma delcristianesimo, vero e proprio discrimen di esso rispetto all’antichità. «Alt ernyt i Christo», recita il titolo posto al centro della pagina: «Tutto è nuovoin Cristo». È questa citazione ipertestuale – mutuata dalla II lettera di Paoloai Corinzi 5,17 – a diventare la cifra dell’apporto cristiano ad un concetto

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altrimenti stolido di novità, alla lunga usurante e tedioso. Così Kierkegaard:«Questo sarà il mio punto di vista per un’esposizione speculativa della co-noscenza cristiana. (Nuovo non solamente come lo è qualcosa di diverso,ma anche come ciò che è stato rinnovato, ringiovanito, a confronto di ciòche è invecchiato e caduto in rovina.) Questo punto di vista sarà a un tem-po polemico e ironico. Mostrerà, inoltre, che il cristianesimo non è il re-stringimento intorno a un solo oggetto, a una singola psiche normale (noncome una pezza nuova, ma come una bevanda che ridona giovinezza)»2.Rifacendosi, in parentesi, al versetto di Mt. 9,16 circa il ricucire una pezzanuova su un abito vecchio, Kierkegaard caratterizza la venuta di Cristo, irri-ducibile a una singola psiche umana, troppo umana, a toppa di un tessutointegro ed immacolato che vada semplicemente a coprire una fessura rovi-nata; l’immagine adottata per rendere l’effetto di quell’aggiunta risolutiva –«in Cristo» – non riguarda più il settore tessile, quanto quello più propria-mente nutritivo, quasi fosse un elisir donato da una bevanda che, standoalla stessa parentesi e rappresentando lo stesso Cristo, “ridona la giovinez-za”. Il passo prosegue in questi termini, arricchendosi di un’importanza pe-culiare chiamando in causa una proposizione-guida del Qohelet:

«Ecco il punto di vista comparativo col quale finora si è determinato ilrapporto del cristianesimo al passato: “Niente di nuovo sotto il sole”. Sitratta di un atteggiamento negativo che uccide la vita per la monotoniaastratta che porta in sé, mentre l’altro punto di vista è fecondo. L’idea stes-sa di mediazione, la parola d’ordine della filosofia più recente, è propriol’opposto del cristianesimo: per quest’ultimo l’esistenza precedente non èper niente facile da digerire, e preme pesantemente su di lui ed in lui; comeper l’individuo singolo l’esistenza anteriore alla fede non può essere affattomediata spensieratamente, ma va redenta con dolore profondo. In generalele due categorie sono ugualmente necessarie: cioè il cristianesimo è ciò chemai è venuto in mente ad alcun uomo – e tuttavia dal momento che è statodato all’uomo, oggi gli sembra naturale. Quando dico che tutto è nuovo inCristo, mi riferisco specialmente a tutti i punti di vista antropologici; poichéla conoscenza propria di Dio non ha precedenti, e dunque è, in un certosenso, nuova in Cristo. Si vede qui a meraviglia la validità del concetto dirivelazione a confronto del punto di vista propriamente umano. Bisogna di-stinguere bene le due proposizioni: l’una – “tutto è nuovo” – è una conce-zione estetica; l’altra – “tutto è nuovo in Cristo” – è una concezione dog-matica, è un speculazione sulla storia universale»3.

2 S. KIERKEGAARD, Diario, vol. 3, n. 808, p. 53.3 Ibidem.

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“Rivelazione” è in danese “Aabenbaring”, apparizione nel senso del-l’apertura: è forse l’etimologia che meglio sintetizza l’interpretazione kie-rkegaardiana circa la venuta di Cristo sulla terra come evento dell’avvento,almeno prima di figurare nel suo secondo senso, più polemico e meno iro-nico, quando Cristo tornerà sulla terra e chissà se troverà ancora la fede. Inprocinto di sostenere l’esame teologico, difatti, Kierkegaard dichiara già unsuo proprio “punto di vista per un’esposizione speculativa della conoscenzacristiana”, che invero tutto poi sarà fuorché speculativa. Cresce di pari pas-so un’avversione motivata nei riguardi della casta di teologi nella quale, daun lato, entra a far parte, e dalla quale, dall’altro, tende subito a distinguer-si, prendendo una posizione propria. In quell’inciso secondo cui all’uomosembra naturale un cristianesimo che tuttavia non è a se stesso che eglideve, Kierkegaard intravede quella “marcia indietro” azionata dall’uomo perpura lascivia: una “ritirata” catastrofica che nulla ha in comune con quellaintimata al giovane angustiato, quanto un atto dovuto di imputazione peraver “naturalizzato” un cristianesimo che, come tale, non può essere in al-cun modo inteso alla stregua di un essere già dato fin dalla nascita, quantounicamente come un divenire cristiani (at blive christne), un credere a quel-l’annuncio “mai venuto in mente ad alcun uomo” ma, per l’appunto, a luirivelato col e dal Vangelo, inteso letteralmente come la “buona novella” an-nunciante ai credenti “Amore” e “Grazia” per il tramen dell’uomo-Dio.

Sono idee che il sottile pensatore medita già da tempo. Il 10 agosto1835, ad esempio, egli appuntava assai stenograficamente: «Tutto il contra-sto tra la legge del Vecchio Testamento ed il Nuovo è indicato in modo toc-cante e pregnante nella Lettera agli Ebrei, 12,24: aimati rantij moukreitton lalounti para ’Abel, al sangue d’aspersione che parla megliodi quello d’Abele. (Vendetta. Punizione – Amore. Grazia)»4. In quest’ultimaparentesi divisa in due da un trattino, Kierkegaard nomina i quattro concettifondamentali, a loro volta a due a due raggruppati, che rappresentano, me-glio di qualsiasi altro, il contrasto suddetto. Da un lato «Hævn» e «Straf»,“vendetta” e “punizione”, colonne portanti dell’Antico Testamento; dall’al-tro i “nuovi” valori su cui si poggia il Nuovo, «Kjerlighed» e «Naade»,“amore” e “grazia”. La prima coppia è strettamente correlata, quasi un bi-nomio indissolubile: vendetta e punizione esprimono quella dialettica tradelitto e castigo all’ombra della quale il Vecchio Testamento si dibatte;amore e grazia rendono invece l’esempio di Cristo, il modello del suo inse-gnamento come proprium novum del Nuovo Testamento, il cui oblio, reo diaver preso invano l’una, dimenticato l’altro, risulterà il principale capo

4 Ivi, n. 59, p. 47.

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d’accusa per quell’ultimo Kierkegaard assetato di giustizia, spia del cristia-nesimo nella cristianità.

Sin dal 1837 Kierkegaard si arrovella riguardo il rapporto – ben piùche una semplice “connessione storica” – tra ebraismo e cristianesimo, edanzi inizia a maturare una nuova idea di quest’ultimo. In ottobre, il discorsoè più chiaro e distinto: «Tutte le altre religioni sono discorsi obliqui: il fon-datore si mette in disparte e fa parlare un altro; perciò ne fa parte come unmembro della religione. Soltanto il cristianesimo è discorso diretto: Io sonola Verità»5. Kierkegaard dichiara apertamente, quindi, la perspicuità del cri-stianesimo rispetto alla “obliquità” propria delle altre religioni, in se stesseindirette in quanto mancanti della prima persona propria del fondatore diesse fondante. Lungi da uno snobismo del pensiero che ritenga soltanto ilproprio sia degno di essere pensato, qui Kierkegaard intende mettere a fuo-co precisamente il concetto di “parola” (Ord) cui il cristianesimo dà vita:una parola diretta, pronunciata da un “io” che la assuma esprimendola, pre-dicandola nell’esistenza, una parola che risponda di sé mentre parla, standodavanti come esempio concreto che in quanto tale può anche permettersi ditacere, dimostrando da sé, in sé e per sé, la più fedele testimonianza a sestessa. Kierkegaard affina e raffina, in tal modo, i suoi già spasmodici studibiblici; nel marzo dell’anno seguente annota: «Nel cristianesimo tutto è di-ventato di un grado inferiore; è stato cioè introdotto un momento superiore.Profhteia era il momento più alto nel Vecchio Testamento; ma nel Nuovoè en glwssh lalein, così che profetein mantiene la coscienza in sé, noncome nel Vecchio Testamento»6.

Lo scarto tra i due tempi ed i due luoghi viene, in tal modo, ad am-pliarsi: il Nuovo Testamento può infatti – sta qui il suo paradossale mo-mento superiore diventando di un grado inferiore – far tesoro di quel profe-tizzare proprio dell’Antico, in quanto esso, ora, parla una lingua propria,con una voce dal suo timbro ed accento, una lingua che «beholder Bevi-stheden i sig», “mantiene la coscienza in sé”, a differenza di quella ebraicadelegata, e in qualche modo anche relegata, nella profezia. “Niente di nuo-vo sotto il sole” funge, allora, da definizione che, dalla bocca di Qohelet,passa a caratterizzare un intero, “saccente” atteggiamento pre-cristiano, chetutto ha visto e nulla vede di nuovo in alcun dove, e però pur contiene, al

5 Ivi, n. 286, p. 120. Per un raffinato discorso al margine, cfr. N. VIALLANEIX, Kie-rkegaard, l’Ancien Testament et Israël, in «Études Théologiques et Religieuse», 4/1979, pp. 547-577.

6 Diario, n. 428, p. 158. Uno snello sunto del punto di vista kierkegaardiano sulpunto è contenuto in C. CHALIER, Kierkegaard et le judaïsme, in «Les NouveauxCahiers», 44/1976, pp. 56-64.

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suo interno, un quid essenziale che non si riversa, “spensieratamente”, nellaconcezione estetica del “tutto è nuovo”, quanto piuttosto denuncia la neces-sità di una redenzione “con dolore profondo”, una catarsi che proprio in uninedito senso di «novità» – paradossalmente suggerito a Kierkegaard pro-prio dal “pre-cristiano” Qohelet – rinviene la risposta cristiana alla “media-zione” propria della filosofia moderna che, pure, cristiana si professa. È unattacco dal di dentro, quello che Kierkegaard tenta di muovere, tenendoQohelet sotto braccio e facendo rilucere, nel suo “sotto il sole”, il suo “inCristo”. Si tratta, cioè, di un doppio movimento, che Kierkegaard ha inmente di attuare in prima persona, con la frenetica attività di scrittore chedi lì a poco porrà in essere. È un atteggiamento che deve, in qualche modo,mimare da vicino proprio Qohelet: colui che, con le sue parole illuminanti,getta un’ombra su tutto, senza, di quel tutto, sbottonarsi a dir nulla; coluiche, “polemico e ironico”, spinge e respinge, tace e acconsente, incastra esvia. Un saggio del Vecchio Testamento che reca in sé già i semi del Nuo-vo, problematizzando le categorie dell’Antico senza arrestarsi ad esse, maanzi sfidandole, chiarendole, arrischiandole. «Der er Tid til at nedrive, ogder er Tid til at opbygge»: “c’è un tempo per distruggere, e un tempo percostruire”, suona una prima traduzione. Il 10 luglio 1840, egli annota sulsuo Diario:

«Strano quest’odio per l’“edificante” che fa capolino dappertutto in He-gel; ma, lungi dall’essere un oppiaceo che assopisce, l’“edificante” è l’amendello spirito finito, e un aspetto della conoscenza da non trascurare»7.

L’edificante (det opbyggelige) non è quella bevanda narcotizzante cheHegel temeva che fosse, ammonendo la filosofia dal guardarsi bene dall’es-serlo: per Kierkegaard è, anzi, alleato princeps di quell’elisir, di quella “be-vanda che ridona giovinezza” evocata il mese prima e che egli pian pianocomincia ad assaporare con sempre maggiore cognizione di causa. Il primoluogo in cui questo misterioso lemma compare passa, in realtà, quasi inos-servato tra i migliaia di appunti che le sue carte annoverano, ma assumeuna portata specifica in relazione al futuro prossimo kierkegaardiano. Essorisale al 18 aprile 1836, e suona in questi termini: «Non più scritti edifican-ti che insegnino a disprezzare il mondo e a tendere all’eternità, ma storielledi vita quotidiana»8. Dagli anni ’40, Kierkegaard comincerà, difatti, ad af-fiancare alle sue opere pseudonime più squisitamente filosofiche, discorsiedificanti (opbyggelige Taler) firmati col proprio nome. In un certo senso,quindi, mantiene ben fermo il proposito giovanile: non sarà autore di sem-

7 Diario, vol. 3, n. 659, p. 11.8 Diario, vol. 2, n. 104, p. 63.

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plici “scritti edificanti”, ma “inventerà” un nuovo genere edificante, in for-ma di discorso, nel quale non insegnerà il disprezzo per il mondo o il ri-mando all’eterno, perché non insegnerà affatto. Non è un caso in ogni pre-fazione ai Discorsi, egli ponga l’accento sul fatto si tratti di «“discorsi”, enon “prediche”, in quanto il suo autore non ha alcuna autorità per predica-re, “discorsi edificanti”, e non “discorsi per edificazione”, in quanto coluiche parla non pretende in alcun modo di insegnare». I corsivi non fanno al-tro che rafforzare gli intenti: i Discorsi – attenendosi alle sole categorie eti-che dell’immanenza9 – possono parlare filosoficamente, permettendosi unsofisticato sviluppo dialettico, laddove le prediche appartengono ad un ge-nere elitario, dall’andamento stabilito dalla legge ecclesiastica cui sottostan-no. Sul punto dell’autorità per predicare, sta e cade un motivo autobiografi-co, giacché Kierkegaard non fu mai ordinato pastore, benché detenesse tuttii requisiti per aspirare al pastorato. Non suona improprio, dunque, pensareche il concetto stesso di «Myndighed», “autorità”, si rapportasse ad una ve-ste che il giovane Kierkegaard - ancora rispettoso ai limiti del pedissequo,sebbene già cominciasse a sviluppare una certa capacità critica - non si sen-tiva degno di indossare, e di qui rimarcasse puntualmente la sua eterogenei-tà rispetto a quanto, da lui, tanto distante, quale la prerogativa del “predica-re” da membro autorizzato, investito del solenne incarico impartito dal ve-scovo secondo il Rituale ufficiale. Il non pretendere di dirsi maestro, ed intal senso di insegnare, è figlio di una puntualizzazione più volte presenteanche nel Diario, per cui egli tiene alla sua posizione neo-socratica, quellarispondente al paradossale “invece di essere il maestro, essere colui che vie-ne educato”10. Il movimento è, anche in tal caso, doppio, ed ogni afferma-zione contiene a sua volta una doppiezza ulteriore, per Kierkegaard inesau-ribile fonte di riflessione: egli non vuol predicare, ed a maggior ragione habisogno, nel suo pur oscuro scrutare, del più illuminato dei predicatori.

Appellativo danese per il libro del Qohelet è, per l’appunto, «Prædike-ren»: “il Predicatore”, di diretta discendenza dal luterano «der Prediger Sa-lomo». Del predicatore Salomone, Kierkegaard tiene a mente le parole, sen-za però limitarsi a rinvenire, in esse, mere sentenze da citare all’occorren-za11. Qualcosa deve preservare il suo aver detto quel che disse. È all’ombra

9 Cfr. S. KIERKEGAARD, Postilla conclusiva non scientifica, in Opere, a cura di C.Fabro, Sansoni, Milano 1993, p. 398.

10 Cfr. Diario, vol. 6, n. 2655, p. 221.11 Altro appellativo del testo tutt’ora in uso è quello di «Prædikerens Bog», “Il li-

bro del Predicatore”. Nella versione dell’Antico Testamento del 1740, da Kierkegaardadottata, il titolo ripetuto in calce ad ogni pagina del Prædikerens Bog era «SalomoPrædiker», espressione coniata da Lutero, che chiama il libro «Der Prediger Salomo»:

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di quell’altrimenti troppo sbrigativo “niente di nuovo sotto il sole” intesoquale ennesimo, uniforme e rassegnato sospiro, che Kierkegaard si batte permettere in luce, anzitutto, l’uomo che visse. Tra gli appunti preparatori aiDiscorsi edificanti del 1844, compaiono una decina di righe redatte in stilequasi cinematografico, nelle quali egli immagina una scena che si compiein una parola: «Egli siede nel suo manto regale, la folla sta tutta attorno alsuo trono, un vocio confuso – c‘è orgoglio per la sontuosità del re, invidia,rimproveri a Dio che a questi sia stato dato ciò che a loro è stato negato –si fa silenzio – egli vorrebbe alzarsi – parlare – ma nessuna parola va oltrele sue labbra – torna indietro impotente allo splendore del trono, al lussodella corona, la veste di porpora gli pesa troppo, si alza in piedi e la follaascolta: Tutto è vanità, mera vanità»12.

È questo il Qohelet per Kierkegaard più reale e regale, il Predicatoreche prende la parola dinanzi all’assemblea che si raduna attorno al suo tro-no e che proprio della sua parola è in attesa, una parola che resta scolpitasulle sue labbra ma senza che egli riesca a muoverle in un suono compiuto,finché non ripercorre col pensiero i fasti della corona e del regno, finchénon sente ricadergli addosso il peso del mantello che indossa: allora «reisersig atter», si muove di nuovo, verosimilmente si alza in piedi, raccoglie leforze e la voce, e prende la parola. «Alt er Forfængelighed, idel Forfængeli-ghed», “tutto è vanità, mera vanità”. L’«Alt» qui espresso parla, in tal sen-so, la voce del riconoscimento del trapassare del tutto, laddove una è lacosa a non essersi esaurita né trascorsa, una sola di contro a quella inanitàassoluta: ovvero la sua stessa parola, che ancora può esprimere quel che havisto e patito, ed a cui pensa si ridurrà anche quel che non arriverà a vede-re, in cui tuttavia nulla ci sarà di nuovo, a partire dal ripetersi dello stessosotto il segno dell‘identico. “Tutto” è la parola che Qohelet – fedele al suonome-funzione13 – pronuncia, e che Kierkegaard accoglie scomponendola

cfr. Die Bibel oder die ganze heilige Schrift nach der deutschen Übersetzung Dr. Mar-tin Luthers mit einer Vorrede vom Dr. Hüffel, Carlsruhe og Leipzig 1836 [ASKB 3].Kierkegaard possedeva altresì [ASKB 80] un testo contrario a questa tradizione, che in-fatti argomentava contro l’identificazione di Salomone come autore: W.M.L. DE WETTE,Lehrbuch der historisch-kritischen Einleitung in die Bibel Alten und Neuen Testamen-ts», 2 voll., Berlin 1833-42, in part. vol. 1, § 282-284, pp. 351-356. Nostra tesi è che lalettura del Prædikerens Bog inflazioni anche il suo concetto di «Predica».

12 Pap. IV B 172, taccuino 1842-1844, p. 347, traduzione nostra.13 Per una filologicamente accuratissima analisi del lemma ebraico, cfr. in part. i

primi due paragrafi della prima sezione del succitato testo di Ravasi: Un immensovuoto, tutto è vuoto, pp. 13-35. Il lessico ad uso di Kierkegaard era invece il LexiconManuale Hebraicum et Chaldaicum in Veteris Testamenti Libros, Leipzig 1833, ASKBn. 72. L’Antico Testamento da cui preferibilmente egli citava: Det Gamle Testamentes

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nelle irriducibili singolarità di cui si compone, focalizzando ora il senso ditotalità del suo sentire ora il significato recondito che esso cela, così comela tonalità emotiva di fondo, quella di un uomo che non può rimanere indif-ferente al suo dire. Pur in forza dell’intrinseca assurdità della vita, non sipuò accettare passivamente una tale, in apparenza inoppugnabile, dichiara-zione di resa nei suoi riguardi: quell’“atteggiamento negativo che la uccideper la monotonia astratta che porta in sé” deve recare al suo stesso internouna ragione concreta che ne eviti l’arrendersi, indicando al contempo lapossibilità di un costruire ben più forte di quel distruggere.

«Guardalo, il preoccupato! Esaminalo più da vicino, non lo riconosciquasi più da quando se ne andava così lieto, così forte, così pieno di fiducianella vita [...]. Presto le avversità avrebbero strappato al più forte o carpitoal più debole la sua bella speranza. Allora tutto gli diventò confuso, nonesisteva più alcun Signore in cielo, il vasto mondo era un’arena per il sel-vaggio chiasso della vita, non c’era alcun orecchio che unificasse la confu-sione in armonia, nessuna mano che intervenisse a governare. “Comunqueun uomo possa consolarsi nella vita, la speranza è perduta” – così pensava,e la speranza andò perduta. Allora la sua anima si fece preoccupata. E piùguardava fisso giù nell’anarchia dove tutto pareva dissolversi, più questa ot-teneva potere su di lui fino a incantarlo totalmente; la sua mente vacillò,egli stesso precipitò lì dentro e si perdette nella disperazione. O se anche lapreoccupazione non ottenne un tale potere seduttivo su di lui, la sua animadivenne nondimeno estranea e indifferente a tutto. Guardava come gli altri,ma il suo occhio leggeva sempre ovunque una scrittura invisibile, che tuttoè vacuità e illusione»14.

«Alt er Tomhed og Skuffelse», “tutto è vacuità e illusione”. Una preoc-cupazione che prende il posto della speranza è l’angoscia di un uomo pro-

Poetiske og Prophetiske Skifter efter Grundtexten, J. Møller e R. Møller, 3 voll., Co-penaghen 1828-1830, ASKB nn. 86-88 e 89-91. In Bibelen eller den hellige Skriftpaany oversat af grundtexten og ledsaget men Indledninger og oplysende Anmærknin-ger, Copenaghen 1847, ASKB nn. 8-10, nell’Introduzione all’Ecclesiaste, l’enigmaticolemma viene reso come «Den, som taler i en Forsamling», “Colui che parla a un’as-semblea”, ed è proprio la letteralità di un tale “prendere la parola” a fungere da moti-vo ispiratore del presente studio.

14 S. KIERKEGAARD, La preoccupazione dell’uomo interiore, in Discorsi edificanti1843, Piemme, Casale Monferrato 1998, pp. 136 s. Cfr. l’ottimo studio di R. GARAVEN-TA, Preoccupazione e angoscia nei “Discorsi edificanti”, in «Notabene. Quaderno distudi kierkegaardiani», 4/2005, pp. 59-97. Dello stesso autore, cfr. anche l’ottima mo-nografia Angoscia e peccato in Søren Kierkegaard, Aracne, Roma 2007, nonché la tra-duzione del testo kierkegaardiano, “edificante”, del ’45, Accanto a una tomba, Il me-langolo, Genova 1998.

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priamente di-sperato, talmente impigliato nelle strette del non senso e del-l’alienazione a sé che concepisce tutt’al più consolazioni temporanee, vie difuga del momento, soluzioni estetiche che si arrestano perplesse lungo ilcrinale di un – nietzschiano ante litteram – nichilismo della forza, o delladebolezza. A contrassegnare la serietà di Qohelet non può, allora, essere al-tro che una preoccupazione più originaria, che si stagli di contro ad unaconfusione onnivora e opponga, a questa, resistenza. Le virgole kierkegaar-diane sono, in questo, assai significative: il venir meno di un Dio nei cieliè, per lui, il farsi arena del mondo, in cui chiasso ed anarchia hanno giocofacile in quanto è l’uomo per primo, privo del suo vocativo creatore, a ve-nire risucchiato nel vortice che tutto dissolve. Qohelet ispira a Kierkegaarduna meditazione autonoma circa l’identità di quel “tutto” dato per scontato,liquidato come vacuità e illusione, “mediato spensieratamente” come vanitàe fatica inutile. Può, il già stato, essere altrimenti? Esiste un’eccezione al ri-petersi evenemenziale degli accadimenti? Alla ripetizione che nel suo succe-dersi uniforme, misurato su linee fisse, ripercorre il suo cammino autorefe-renziale, è in grado di opporsi un qualche movimento in una direzione chela redima? Sono queste le domande che animano l’instancabile filosofo inuna delle più ferventi stagioni filosofiche del suo pensiero, in balia dei duefronti su cui si muove, e che vede da un lato la produzione edificante, edall’altra quella pseudonima a sua volta pluristratificata. È il Predicatore afargli da spalla in un ragionamento da queste pungolato, un ragionamentoche riprende la questione del rapporto del cristianesimo con il passato e loaffronta, ora, da un punto di vista ancor più nuovo, rinnovato e ringiovani-to, rispetto a quello già annunciato come tale tre anni prima. Vengono ades-so, infatti, nominate esplicitamente estasi temporali allora staticamente sud-divise di modo che non fossero, tra di loro, comunicanti. «Novità» può fun-gere da paradigma del cristianesimo ad una condizione: che sotto il sole diQohelet rinvenga un rapporto di continuità col futuro, piuttosto che di ri-mando ad un incerto eterno.

«Hvad der sker, var allerede, og hvad der skal ske, har allerede været»:letteralmente, “ciò che accade già fu, e ciò che accadrà è già stato”, cosìcome secondo Qohelet 3,15. Una tale coscienza è iper-cosciente, ossia trop-po legata ad uno schema asfittico di sé, una coscienza che quel che vede lorapporta sistematicamente a quel che ha già visto precludendosi di vederequalcosa di «virkeligt nyt», “realmente nuovo”, proprio perché chiuso, in talsenso, ad una autentica Aabenbaring, ad una “rivelazione” che, apparendo,rinvii ad un’apertura mai apertasi prima. Constantin Constantius, famosopseudonimo kierkegaardiano, tratterà a suo modo il dilemma nel piccolo ca-polavoro del ’43 Gjentagelsen, in sé significante sia Ripetizione che Ripre-sa. Nelle prime pagine del testo, lo pseudonimo presenta la Gjentagelse in

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termini altisonanti, congratulandosi con la bontà della lingua danese, la qua-le, di contro a tanti vocaboli importati dall’estero, dispone invece di un pro-prio termine filosofico ad hoc esportabile solo a furia di atroci cefalee edubbi iperbolico-metodici, un termine filosofico che può tener testa, in tuttafierezza, alla tanto sbandierata «Mediation» tedesca. Laddove la remine-scenza ripete, ogni oggetto, all’indietro (baglænds), la Gjentagelse lo ricor-da in avanti (forlænds): un tale cambiamento di rotta è, invero, decisivo,poiché una ripetizione all’indietro riporta a quel conoscere come ricordareche ha il suo fulcro nell’“occasione”, ovvero in un ri-conoscere quanto ègià stato, sublimandolo nel momento del suo ritrovarlo, nel suo riportare,alla memoria, quanto in essa, nel frattempo, conservato, e che di nuovo inessa, in ultima analisi, va a rifinire per finire. Laddove, cioè, il ricordo ètutto circoscritto in un passato posto all’indietro, la Gjentagelse è tutta pro-iettata al futuro, tutta protratta in avanti. Proprio il fatto che un qualcosa ègià stato determina la novità della ripresa: così articola Constantin Constan-tius il suo argomentare, ed il primo passo che egli muove è il passaggio lo-gico secondo il quale quello che viene ripetuto è stato, altrimenti non po-trebbe venire ripetuto. Ed è qui che interviene lo scarto: «men netop det, atdet har været, gør Gjentagelsen til det Nye», “proprio il fatto che ciò è sta-to fa della Gjentagelse qualcosa di nuovo”. Con un salto si è oltre lo stec-cato logico: il fatto stesso del suo poter esser ripresa fa diventare la Gjenta-gelse qualcosa di diverso dalla stessa, pura ripetizione. Il doppio binario quistride al massimo livello: non vi è solo una differenza sostanziale col ricor-do, ma ve n’è anche una ulteriore, ancor più intimamente essenziale perchéesistenziale, tra ripetizione e ripresa, ed è nella ritirata (Tilbagetog) suggeri-ta dal Predicatore all’uomo angustiato che essa brilla di luce propria, in unedificare più profondo – perché più fondante – del mero costruire.

Il primo dei Tre Discorsi edificanti del 1844, ancora inediti in italiano,è dedicato al Qohelet, al primo versetto del XII capitolo: «Tænk paa DinSkaber i Din Ungdom», «Pensa al tuo Creatore nella tua giovinezza», quel-lo che pare rivolgersi ai giovani per invitarli non solo a pensare quel pen-siero, ma a viverlo in tempo, prima di rifugiarsi nel cantilenante sospiro sultedio dei giorni che sembra, inevitabilmente, attendere poi al varco ogniuomo. La redazione del manoscritto, firmato Søren Kierkegaard, si accom-pagna alla revisione de Il concetto dell’angoscia, ed alla stesura di Briciolefilosofiche e Prefazioni, tutti pseudonimi15. La compresenza cronologica,

15 Cfr. Søren Kierkegaards Skrifter, vol. 5, N.J. Cappelørn, J. Garff et alii, Cope-naghen 1998, d’ora in poi SKS. Nel tomo di commento, SKS K 5, p. 188, gli scrupo-losi studiosi danesi sottolineano, in particolar modo, un vero e proprio unicum tra

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dunque, discende da una correlazione più chiaramente concettuale. Ad esserannodate tra loro sono le voci di “edificante” e “ripresa”, che svettano nelmare magnum del discorrere kierkegaardiano, la cui prima pagina costitui-sce già di per sé sola un testamento in miniatura del suo filosofare:

«C’è un verità la cui grandezza, la cui sublimità si è soliti lodare di-cendo di essa con ammirazione che è indifferente, ugualmente valida, siache la si accetti, sia che non la si accetti; indifferente alla particolare condi-zione del singolo, sia questi giovane o vecchio, felice o triste; indifferentealla sua relazione con questi, che gli arrechi beneficio o danno, che lo trat-tenga da qualcosa o lo aiuti ad ottenerla; ugualmente valida, che egli la ac-colga con tutta la sua anima o che la professi freddo ed insensibile, cheegli sacrifichi la sua vita per essa o che se ne serva per un cattivo profitto;indifferente al fatto sia stato lui a scoprirla o che ripeta quanto ha imparato[...]. Esiste un altro tipo di verità, o meglio esistono altri tipi di verità, chesi potrebbero chiamare preoccupate. Esse non hanno nulla di sublime, giàper la ragione secondo cui, disonorate come sono, hanno la consapevolezzadi non essere pienamente valide in generale, per tutte le occasioni, ma sol-tanto propriamente per il singolo, sia questi giovane o vecchio, felice o tri-ste; è questo che decide se possono essere verità per lui. Esse non abbando-nano il singolo né lo lasciano andare, ma continuano a riguardarlo finchélui non se ne distacchi da solo, e nemmeno questo è loro indifferente, ben-ché egli non riesca a renderle problematiche ai loro propri occhi. Una taleverità [preoccupata] non è indifferente a come il singolo la accolga, se eglise ne appropria di tutto cuore o se invece essa non diventa, per lui, che unsemplice ritornello, ed anzi proprio questa differenza mostra di essere gelo-sa di sé [...]. Come una verità preoccupata non è indifferente a chi l’ha pro-clamata, così costui continua costantemente ad esser presente in essa, per-ché lo riguardi di nuovo in quanto singolo»16.

È in quanto esempio di questa distinzione che Kierkegaard guarda aQohelet. Le parole poste in corsivo sottolineano i due tipi di verità cui egliallude: la prima, «ligegyldig», “indifferente”, è anche «lige gyldig», “ugual-

questi Discorsi ed il coevo Il concetto dell’angoscia. Di questo stesso avviso anche G.PATTISON, A Dialogical Approach to Kierkegaard’s Upbuilding Discourses, in «Journalfor the History of Modern Theology», vol. 3, pp. 185-202; A. BURGESS, Between Re-flection and the Upbuilding: a Pattern in Kierkegaard’s Discourses, in P. Cruysberghs,J. Taels, K. Verstrynge (ed.), Immediacy and Reflection in Kierkegaard’s Thought,Leuven University Press, Leuven 2003, pp. 97-105.

16 S. KIERKEGAARD, Tre opbyggelige Taler 1844, 8 giugno 1844, in Søren Kierke-gaards Skrifter, vol. 5, cit., pp. 233 s., testo ristabilito da S. Bruun e K. Ravn, tradu-zione mia, di prossima pubblicazione

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mente valida”, la verità oggettiva a scudo della modernità tanto riverita emagnificata in pompa magna, valida «ved alle Leiligheder», “per tutte leoccasioni”, contro cui si oppongono, irriducibilmente, le seconde,«bekymrede Sandheder», “verità preoccupate”, quelle disonorate ma interes-sate soltanto alle sorti del singolo cui di volta in volta si indirizzano. Conl’abituale eleganza di scrittura, Kierkegaard traccia l’“identikit” di tali veritàvariando il predicativo tra i diversi aggettivi che le caratterizzano, affinchése ne arguisca l’eterogeneità di fondo. Kierkegaard ripercorre all’indietro, alcontrario, tutte le qualità della prima proprio al fine di rimarcare al megliolo scarto delle seconde, la cui squisita non indifferenza – nei termini ine-quivocabili di «Sandhed for ham», “verità per lui”17 – è quella che al me-glio rende l’imparagonabilità tra le due. La verità preoccupata non si ridur-rà mai a «et Mundsveir», “un ritornello”, una vuota parola, proprio nellamisura in cui riguarda il singolo che non la ripete a pappagallo, non appro-priandosene, ma anzi la possiede in quanto gli appartiene, in quanto, ancorae sempre, “per lui”. La massima del Predicatore, allora, non è stata sceltaper caso: Kierkegaard la erige a emblema della verità preoccupata, nel suoessere non indifferente preoccupandosi della differenza:

«E, se potessi ascoltare la voce di chi ha detto questo, potresti renderticonto di quanto fosse egli stesso commosso; e se potessi vederlo di perso-na, e se tu stesso fossi un uomo giovane, saresti preso dalla stessa parteci-pazione con la quale si preoccupa di te, mentre piuttosto vorrebbe soltantodestarti a preoccuparti di te stesso. Chi è quell’uomo che ha detto questo?Noi non lo sappiamo; ma se tu sei giovane, seppure fossi erede al trono e ituoi pensieri fossero tali da ispirarti l’ansia del dominio, ebbene, anche co-lui di cui parliamo indossò il manto regale, e ciò nonostante riteneva il pen-siero sul Creatore il miglior pensiero della giovinezza»18. Kierkegaard battesulla – presunta – regalità del Predicatore, ma ciò che gli preme è metterein luce la sua «kongelig Ord», “parola regale”, “regale” al di là del fatto adaverla pronunciata sia stato un re. La sua è una parola differente, una paro-

17 Cfr. la famosa «verità di Gilleleje» («Ciò che in fondo mi manca è di vederchiaro in me stesso, di sapere ciò che io devo fare, e non ciò che devo conoscere, senon nella misura in cui la conoscenza ha da precedere sempre l’azione. Si tratta dicomprendere il mio destino, di comprendere ciò che in fondo la divinità vuole io fac-cia, di trovare una verità che sia verità per me, di trovare l’idea per la quale io vogliovivere e morire») dell’agosto 1835; a riprenderla a partire dall’esergo e fino al titolodella raccolta di saggi tutta, è il lavoro di G. MODICA, Una verità per me. Itinerari kie-rkegaardiani, Vita e Pensiero, Milano 2007. La sezione maggiormente influenzata dal-l’appunto del ’35 è proprio la prima: cfr. Ivi, pp. 23-72.

18 SKS 5, cit., p. 234.

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la della differenza, che dice cose anche meno piacevoli – che tutto è vanitàè fatica inutile, infanzia e giovinezza comprese, ad esempio –, ma tutte,allo stesso modo, volte a far luce su una differenza che non si lascia ridurrea nessuna identità facente capo ad una indifferenza che voglia eguagliare elivellare il tutto.

«Egli non dice come altrimenti: Così rallegrati nella tua giovinezzacosì allontani la pena, dove l’espressione stessa, a lasciar indifferentementecadere quanto detto, suggerisce che è di ciò che è indifferente che sta par-lando. Egli ha omesso questa piccola, casuale parola, e, come il discorsosulla vanità procede e sembra voler gettare tutto nella vanità, così il Predi-catore si erge a risolvere la questione di modo che essa non superi i suoilimiti, per fermare la vanità con la specifica espressione dell’ammonizione:Pensa, perciò, al tuo Creatore»19. La «lille henkastende Ord», la “piccola,casuale parola” che Qohelet non usa è «saa», “così” inteso però in sensoconsecutivo, una sorta di do ut des irrintracciabile in questo dodicesimo ca-pitolo del suo libro. Quella che Kierkegaard interpreta come freno ad ognivanitas vanitatum è l’avverbio «derfor», “perciò”. Riletta con l’aggiunta diesso, la sentenza qoheletica suonerà: “Pensa, perciò, al tuo Creatore”. L’in-tento kierkegaardiano, arrestandosi a queste prime battute, risulta in realtàmolto oscuro: il rifarsi alla grammatica quando si ha a che fare con la vitapare mimare con altri gesti quella verità indifferente di cui sopra, e dunquevanificare, doppiamente, il discorso tutto. È per arginare tale pericolo cheKierkegaard torna a soffermarsi sull’incontrovertibile differenza posta nel-l’identità del Predicatore, il quale parla col potere della convinzione, conl’autorità dell’esperienza, con l’affidabilità della competenza acquisita, conla lieta fiducia della franchezza, con la forza della serietà, con «detBekymrede i Formaningen», “la preoccupazione nell’ammonizione”, unapreoccupazione che è, sì, universalmente ma non ugualmente valida:

«E qualora tu fossi giovane, seppure fossi più ingenuo, non dovresti fer-marti, implorante, dinanzi alla porta della saggezza, poiché la preoccupazionedel Predicatore è anche per te, ed egli non dice semplicemente che tu debbapensare al tuo Creatore, ma ti ammonisce a farlo; e qualora tu fossi giovane,seppure fossi triste, privo di preoccupazioni o scoraggiato, chiunque tu sia,tuttavia è a te, proprio a te che egli parla, a te a cui l’ammonizione si rivolge,come pure la ragione dell’ammonizione: “Prima che vengano i giorni tristi egli anni di cui dovrai dire: Non ci provo alcun gusto”»20.

19 Ivi, p. 237. La lettura ravasiana è contenuta nel capitolo XIII del suo commen-to: Il canto supremo dei giorni, pp. 328-360, e legge come un unicum Qo. 11,7 –12,8.

20 SKS 5, cit., pp. 237 s.

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Kierkegaard cita qui il prosieguo dei versetti qoheletici, i quali nonsuonano affatto stonati, ma anzi conferiscono alle parole stesse del Predica-tore l’accento in esse contenuto, un accento che Kierkegaard legge comenon limitato alla sola giovinezza, ovvero destinato a passare, ad “esser vali-do” in un mero arco definito di tempo, bensì contenente in sé il significatodella giovinezza, coincidendo, questo, con quello del pensiero. Non è unvantaggio esser giovani così come non è uno svantaggio esser vecchi: eppu-re, più si cresce più difficile diventa tenere il conto dei propri pensieri, lacontabilità si affina, il pensiero tutto diventa calcolante, e, se si è perso il“riporto” (Menten) – questa la nuova, pertinente immagine adottata – il cal-colo tutto non torna. Kierkegaard si avvale, dopo la grammatica, dell’opera-zione aritmetica per segnalare il senso della sottrazione, qualora, perdendola giovinezza, si fosse con essa perduto – perché non opportunamente pen-sato – il suo pensiero migliore. È a questo punto dell’intricata argomenta-zione che Kierkegaard nomina «Tilbagetogets Frelsende Engel», “l’angelosalvatore della Ritirata”. In danese il Pentateuco è luteranamente suddivisonei “cinque libri di Mosè”, di modo che alla Genesi corrisponda “il primolibro di Mosè”, all’Esodo il secondo e così via. Bisogna allora calare il tut-to in ambito esistenziale, perché egli suggerisca, proprio a partire dal lascitodel Predicatore, di intitolare «Tilbagetoget», la Ritirata, un momento decisi-vo nella vita umana, come tale non riducibile al mero titolo di un libro:

«In quanto il primo libro nel Vecchio Testamento è stato chiamato Gene-si e il secondo Esodo, un terzo libro nella vita dell’uomo potrebbe dirsi LaRitirata. Si rende evidente la necessità di tornare indietro, a ciò che una voltaera così bello ma che da allora è stato disprezzato, dimenticato, svalutato, ir-retito, e al quale ognuno, nondimeno, adesso, fa ricorso con una certa vergo-gna [...]. Non neghiamo che la Ritirata di una persona possa esser molto di-versa da quella di un’altra, ma è il Predicatore che dice: Pensa perciò al tuoCreatore, pensa a questo per amore della ritirata. Anche se il momento chedeve iniziare fosse così terribile, anche se un uomo in conflitto con se stessoavesse già distrutto molto di quanto resta dietro di lui, ebbene, già il solo ri-cordo di questo pensiero potrebbe essergli sempre d’aiuto»21.

“Ritirata” sta qui a indicare la postuma, paradossale anticipazione del«derfor», in tutta la corsività del corsivo, poiché è il pensiero di Diocome Creatore la Ritirata che ringiovanisce, il ricordo che, anziché tortu-rare di rimorsi, all’indietro, ora riprende, edificando, in avanti. La parolaregale del Predicatore suona, nel discorso kierkegaardiano, come una pa-rola pienamente edificante, un «perciò» che, come tale, non si limita a

21 SKS 5, cit., pp. 246 s.

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ricostruire sulle macerie, quanto piuttosto riprende dalle fondamenta il di-scorso dell’uomo sulla propria vita, senza arenarsi, “affranto e disfatto”,rimpiangendo tempi ai quali non può più tornare. Il Predicatore ne è, intal senso, la prova: egli figura da uomo anziano, re preoccupato, chementre da un lato denuncia il senso di vanità che permea il tutto, dall’al-tro svela una singola cosa che vana non è, e che egli stesso ha salvatodal vortice altrimenti pestifero che tutto mira a livellare. Kierkegaard ètotalmente avvinto dalla ricchezza del Qohelet, dallo “strabismo lungimi-rante”22 dei suoi occhi, dall’enigma del tempo dinanzi al quale essi si tro-vano fiondati e su cui egli non può che, singolarmente, dire quanto havisto. Occupato e pre-occupato dalle meditazioni filosofiche condotte inparallelo e che nel ’46 vedono nel Poscritto conclusivo non scientifico unpunto di svolta23, nel 1847 egli dà alle stampe, di nuovo a suo nome,un’altra serie di Opbyggelige Taler: Discorsi edificanti in vario spirito. Laprima parte, Un discorso d’occasione, “attacca” così:

«Ogni cosa ha il suo tempo, dice Salomone, ed in tal modo l’esperien-za parla di ciò che è passato e di ciò che è superato, quando l’uomo anzia-no, rivivendo la sua vita, la vive soltanto in una sorta di ricordo rimuginan-te, avendo la sua vita superato quelle impressioni della vita che, come im-mediatamente presenti, nella fretta, sono qualcosa di diverso da ciò chesono come il passato per un pacato ricordare»24.

22 Cfr. E.I. Rambaldi (a cura di), Qohelet: letture e prospettive, Franco Angeli,Milano 2006, ed in esso il saggio di E. MAZZARELLA, «Ogni notte il rigore del labirin-to». Qohelet o l’incapacità del labirinto, in ivi, pp. 117-131; nonché K.W. JAMES, Ec-clesiastes: Precursor of Existentialists, in «Bible Today», 22/1984, pp. 85-90; D. LYS,L’Etre et le Temps. Communications de Qohelet, in M. Gilbert (ed.), La sagesse del’Ancien Testament, Louvain 19912, pp. 248-258; V. D’ALARIO, Il libro del Qohelet.Struttura letteraria e retorica, EDB, Bologna 1992; L. MAZZINGHI, Ho cercato e hoesplorato. Studi sul Qohelet, EDB, Bologna 2001; G. Bellia – A. Passaro (a cura di),Il libro del Qohelet. Traduzione, redazione, teologia, Edizioni Paoline, Milano 2001;E. TAMEZ, Qohelet ovvero il dubbio radicale, Claudiana, Torino 2005.

23 Cfr. S. KIERKEGAARD, Scritti sulla comunicazione, a cura di C. Fabro, 2 voll.,Logos, Roma 1982, in part. pp. 125 ss., in cui il filosofo “rivela” la particolare posi-zione della Postilla, intesa quale «Vendepunktet», “il punto di svolta” di tutta la suaprodigiosa attività letteraria, il cui autore è sì uno pseudonimo, ma in cui – come giàper le Briciole filosofiche – Kierkegaard figura come editore, e per lo stesso motivo:entrambe, infatti, «pongono il problema» – quello del cristianesimo e del diventarecristiano inteso quale «Opgave» (compito) rispetto all’essere uomo –, e dunque “meri-tano”, almeno parzialmente, che Kierkegaard si esponga in prima persona.

24 S. KIERKEGAARD, En Leiligheds-Tale (Un discorso d’occasione), prima parte –delle tre di cui si compone – di Opbyggelige Taler i forskjellig Aand (Discorsi edifi-canti in vario spirito), 13 marzo 1847, in SKS 8, p. 124.

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L’incipit del discorso presenta il passato che si appresta, a grandi li-nee, a tematizzare, e lo fa dando vita a un personaggio: «Oldingen», il ve-gliardo, l’uomo anziano, attanagliato «i en betragtende Erindring», in un ri-cordo rimuginante, riconsiderante, contemplativo in senso retrospettivo. Può,l’esperienza dell’anziano, “fare da spalla” alle parole di Salomone? Può,l’anziano stesso, ripeterle con la stessa intonazione, nella stessa vocazione?Può, una saggezza dettata e maturata dall’esperienza quale è quella del ve-gliardo, valicare i limiti temporali e parlare per bocca dell’eterno, ergendosia conclusione necessaria di ogni destino, a tomba di qualsiasi, non contem-plata, possibilità?

«Oh, quale spiacevole saggezza se tutto ciò che è umano fosse comedice Salomone e se il discorso sul tema dovesse finire allo stesso modo diquello secondo cui vi è un tempo per ogni cosa – in termini più familiari:“che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica?”»25. La sterzata di Kierke-gaard è più che mai brusca, tant’è che immediatamente si preoccupa di pre-cisare: «Forse il significato potrebbe essere più chiaro se Salomone avessedetto: Ci fu un tempo per ogni cosa, ogni cosa ebbe il suo tempo – al finedi mostrare che egli, come un uomo anziano, sta parlando del passato, enon ne sta parlando a nessuno, ma a se stesso»26. Coniugando al passato iverbi “essere”, at være, ed “avere”, at have, Kierkegaard ottiene frasi più“umane”, che più si addicono al vegliardo pieno di saggezza che si dicevaSalomone fosse: «Der var Tid til Alt; Alt havde sin Tid». Salomone parle-rebbe, in tal caso, il linguaggio dell’esperienza, «Erfarings Sprog»; non sitratterebbe che del suo proprio monologo sulla vita, del suo singolo puntodi vista. «Hvad Fordeel har Den, der anstrænger sig, af al sin Stræben?»,“che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica?”, più letteralmente: “qualeprofitto ha colui che si sforza da tutto il suo sforzo?”, suonerebbe come uninterrogativo privato, una considerazione che non corre il rischio di incitarea non agire, a non sforzarsi, a non far nulla con fatica. Quale è, però, l’etàdi Qohelet? Chi si crede di essere, cosa pretende di dire? Può, un soggettovivente oggetto ad ogni qualsivoglia mutevolezza, decantare un discorso

25 Ibidem. Ad interrogarsi circa il valore propriamente filosofico di Un discorsod’occasione, rinvenendo in Qo. 3,1 la più opportuna ouverture per un discorso sulrapporto tra tempo ed eterno, è U. KNAPP, Das Gute: eine philosophische Rekonstruk-tion, in N.J. Cappelørn – H. Deuser (ed.), Kierkegaard Studies. Yearbook 2007, deGruyter, Berlin-New York 2007, pp. 46-64.

26 SKS 8, p. 126. Sul problema del “passato” in Qohelet, cfr. N. LOHFINK, Ge-genwart und Ewigkeit. Die Zeit im Buch Kohelet, in «Geist und Leben», 60/1987, pp.2-12. Dello stesso studioso, cfr. anche il di poco precedente Le Temps dans le Livrede Qohelet, in «Christus», 125/1985, pp. 69-80.

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sull’eterno? Kierkegaard chiama il Predicatore sul banco degli imputati, perappurare la fondatezza del suo discorso tutto, non solo indagato, adesso, nelsuo rivolgersi al giovane, ma ponendosi ora nei panni di quello, qualoraquesti, appena affacciato sulla vita, scappi via da essa con le parole diQohelet ripetute “come un ritornello”, a mo’ di alibi per la sua noluntas,museruola sulle labbra. Nonostante ogni tentativo retorico di accorpamentotra l’anziano e Salomone, però, l’uno non si identifica nell’altro, ma tutt’alpiù concorda col suo pensiero di fondo, senza con questo lasciarsi assolu-tizzare dal finale del suo messaggio. Kierkegaard prosegue in un crescendoe diminuendo continui di attrazione e distacco per le parole dell’Ecclesiaste,di avvicinamento per l’inoppugnabilità della di lui riflessione e di allontana-mento per il disfattismo cui essa potrebbe condurre, quand’ecco, all‘im-provviso, egli manda sulla scena una pianta, nella forma di un fiore, e unanimale, ambo dotati di pensiero e di parola, ambo privi di età in scalaumana, ambo svolgenti la parabola salomonica. Due “enti”, dunque, pro-priamente non umani, volti ad esemplificare «Menneskets Hemmelighed», il“mistero dell’essere umano”.

«Anche il fiore, quando è ormai tardo autunno, può parlare con la sag-gezza degli anni e dire in verità: “Ogni cosa ha il suo tempo, c’è un tempoper nascere e un tempo per morire; c’è un tempo per scherzare frivolmentecol vento primaverile e un tempo per esser schiantati dalla tempesta autun-nale; c’è un tempo per fiorire rigogliosamente vicino all’acqua corrente,amata dalla fonte, e un tempo per essere avvizziti e dimenticati; c’è untempo per essere cercati per la propria bellezza e un tempo per essere irri-conoscibili nella propria miseria; c’è un tempo per essere accuditi con curae un tempo per esser buttati via con disprezzo; c’è un tempo per gioire nelcalore del sole mattutino e un tempo per perire nel freddo della notte. Ognicosa ha il suo tempo; che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica?”»27.Due sono le sentenze qoheletiche sulle quali ora Kierkegaard si sofferma:«Alt har sin Tid», “Ogni cosa ha il suo tempo”, ed il già richiamato “Chevantaggio ha chi si dà da fare con fatica?”. Anche il fiore se le ripete informa di domanda, “quando è ormai tardo autunno”. Analogamente, l’ani-male:

«Anche l’animale, quando sta per morire, può parlare con la saggezzadegli anni e dire in verità: “Ogni cosa ha il suo tempo; c’è un tempo perfare salti di gioia e un tempo per trascinarsi a terra; c’è un tempo per sve-gliarsi presto e un tempo per dormire a lungo; c’è un tempo per correre in

27 Ibidem. Per una visione ulteriore, cfr. S. KIERKEGAARD, Il giglio nel campo el’uccello nel cielo. Discorsi 1849-1851, tr. it. di E. Rocca, Donzelli, Roma 1998.

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gruppo e un tempo per appartarsi per morire; c’è un tempo per costruire ilnido con la propria amata e un tempo per sedersi solitari sul tetto; c’è untempo per volare liberi incontro alle nuvole e un tempo per sprofondare op-pressi a terra. Che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica?”»28. Kierke-gaard si chiede, in tal modo, se Qohelet sia stato davvero il Predicatore chelui riteneva che fosse, e che nella Ritirata “preventiva” intimata al giovanearrestava sul serio ogni qualsivoglia disfatta ulteriore, o se invece non siastato altri che un vegliardo avvelenato dalla vita, che, nell’avvicendarsi del-la dialettica dei tempi decantata nel suo terzo capitolo ed ora parafrasatadai pensieri del fiore e dell’animale, altro non desiderò che fermare l’uomoben prima di arrivare al varco dell’esistenza.

«E se tu dicessi al fiore: “Non c’è nient’altro da dire?”, esso risponde-rebbe: “No. Quando il fiore è morto la storia è finita”, o altrimenti [...]supponi concluda la sua risposta in un altro modo, aggiungendo: “La storianon è finita, perché quando sono morto [in realtà] sono diventato immorta-le” – ebbene, non ti sembrerebbe, questo, un discorso strano?». Kierkegaardspiazza di nuovo, col suo andamento fatto di domande tracciate e risposteinattese, fedele al «besynderlig Tale», a quel “discorso strano” che sta pro-ponendo, in corso d’opera. «In altre parole, se il fiore fosse immortale,l’immortalità dovrebbe precisamente essere ciò che gli impedirebbe di mo-rire, e cioè l’immortalità dovrebbe esser stata presente ogni momento dellasua vita. E il discorso sulla sua vita dovrebbe, a sua volta, esser stato total-mente diverso, al fine di esprimere la differenza dell’immortalità dalla mu-tevolezza del tutto e dalla diversità del corruttibile. L’immortalità non sareb-be, allora, un cambiamento finale intervenuto, mettiamola così, con la mor-te intesa come età conclusiva; al contrario, sarebbe l’immutabilità che non èmutata al mutare degli anni»29. Fa il suo ingresso la parola «Udødelighed»,immortalità, e lo fa corazzata del suo sommo predicato: «Uforanderlighed»,immutabiltà. Entrambe fanno quadrato intorno al paradosso che rappresenta-no: «È questa la ragione per cui il saggio Salomone aggiunge a ciò che lapersona anziana ha detto in merito all’esserci un tempo per ogni cosa: “Dioha fatto bella ogni cosa a suo tempo; ha anche messo l’eternità nel cuoredegli esseri umani” (Qo. 3,11)»30. L’eternità posta nel cuore degli esseriumani ne fa dei viventi, qualora essi non la barattino col tempo da avereper ogni cosa: immortalità e immutabilità fanno un tutt’uno con l’eternità

28 SKS 8, p. 126.29 Ibidem.30 «Gud gjorde Alting smukt i sin Tid; ogsaa Evigheden lagde han i Menneske-

nes Hjerte (Præd. 3,11)»: così Kierkegaard riporta la citazione, anch’essa tra virgolet-te e con la fonte tra parentesi, in SKS 8, p. 126.

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che adesso emerge in tutta la sua decisività per quel che riguarda “ogni es-sere umano di qualsiasi età”, in quanto fondamento di ciò che è l’essereumano, di contro a quanto di mutevole e temporale ne caratterizza la vitamortale.

«La saggezza degli anni confonde, solo la saggezza dell’eterno è edifi-cante [...]. Non è saggio parlare dell’eterno e dire che ha un suo tempocome ha un suo tempo ciò che è corruttibile, che ha i suoi cicli come ilvento, che però non prosegue mai, che ha il suo corso come il fiume, cheperò non riempie mai il mare»31: con uno stile che ormai “mima da vicino”quello del suo mai troppo meditato Predicatore, Kierkegaard ne mette inluce il più stridente acme filosofico: il tempo proprio dell’eterno è essen-zialmente differente rispetto al tempo del mutevole, del corruttibile, piagatodall’annosa “saggezza degli anni”. Ove questo, ed ogni cosa in esso, ha ilsuo tempo, l’eterno ha sempre tempo: il danese sottolinea questo aspettocon una ripetizione avverbiale: «Kun det Evige passer altid og altid», “sem-pre e sempre”, pienamente sempre, nel senso del contenuto, in quello dellatemporalità, della direzione, e prosegue oltre il prender fiato del vento, oltreogni foce o delta prima del mare.

Il fiore e l’animale, allora, hanno pensato secondo gli schemi del tem-po, stretti nella morsa del finito, di una dialettica delle differenze che non sispinge al di là di queste, non trova perché non sa cercare, non sa coniugarele polarità nella reciprocità che le redime: è questo la superiorità dell’eter-no, per la quale Kierkegaard utilizza un predicativo del tutto peculiare. Tor-nando sulla differenza rispetto alla «Aarenes Viisdom», la “saggezza deglianni” di cui sopra, Kierkegaard incalza: «kun Evighedens Viisdom er opbyg-gende». Soltanto la saggezza dell’eternità è edificante, suona la traduzioneitaliana più vicina all’originale danese, nel quale, però, quell’«opbyggende»non sta, semplicemente, per un participio presente, quanto per un’azionecontinua, un edificare che non si interrompe mai, un edificare che non per-de mai di vista il suo fondamento – né le sue fondamenta, aggiungerebbesottilmente Kierkegaard – e continua a edificare, pur nel suo letterale essereedificante. Quel «Tid til at nedrive, og Tid at opbygge», a tutta prima tra-dotto come «un tempo per distruggere, e un tempo per costruire», si arric-chisce adesso, per Kierkegaard, del significato più profondo e fondante chegli è proprio. Ai Discorsi in vario spirito seguono di soli pochi mesi gli

31 SKS 8, p. 126. Sul punto, cfr. V. MELCHIORRE, Pentimento e ripresa in Kierke-gaard. Dal Qohelet ai gigli nel campo, in «Notabene. Quaderno di studi kierkegaar-diani», 4/2005, pp. 55 ss., nonché, per un’ulteriore visione d’insieme dell’autore, stre-nuo sostenitore del «futuro» come Grundwort kierkegaardiano, cfr. ID., Saggi su Kie-rkegaard, Marietti, Genova 2002.

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Atti dell’amore, opera nella quale egli si cimenta con l’etimologia del verbo«at opbygge», dello stesso ceppo semantico dell’«erbauen» tedesco e del-l’«upbuild» inglese. Kierkegaard tenta tale prova filologica mentre è impe-gnato nel commentare l’espressione paolina secondo cui “L’amore edifica”:è da questa che egli prende spunto per segnalare come «edificare» sia untermine diventato ormai d’uso comune, seppure – egli rimarca – in sensotraslato rispetto a quello che aveva nelle Sacre Scritture. La pagina meritadi esser citata per intero:

«Edificare è formato con “costruire” e l’aggiunta “sopra”, sulla quale,quindi, tocca mettere l’accento. Chiunque edifica costruisce, ma non ognu-no che costruisce anche edifica. Quando un uomo costruisce una nuova alaalla sua casa, non si dice che egli edifica un’ala ma che l’aggiunge sullacasa. Questo “su” sembra quindi accennare all’alto, come a indicare la dire-zione in alto. Tuttavia non è questo il caso. Quando un uomo alza di 10piedi un edificio già alto 30, non diciamo che egli ha edificato la casa di 10piedi d’altezza, ma che egli ha sopraelevato la costruzione. Qui il significa-to comincia ad essere rilevante; infatti si vede che non si tratta dell’altezza.Se invece un uomo ha costruito, per bassa che sia, una casa, ma dalle fon-damenta, diciamo che egli ha edificato dalle fondamenta. Edificare è quindierigere qualcosa in altezza partendo dalle fondamenta. Questo “sopra” indi-ca certamente la direzione in altezza, ma soltanto quando l’altezza ha nellostesso tempo il suo opposto nella profondità [...]. L’accento cade così spe-cialmente in rapporto al soggiacere: costruire dalle fondamenta. Non dicia-mo “edificare” il costruire nel fondo: non diciamo edificare un pozzo. Mase si parla di edificare, non importa se l’edificio è alto o basso, il lavorodeve esser fatto dalle fondamenta. Non possiamo mai dire di uno che haaggiunto all’edificio quanto si voglia in altezza, se non è dalle fondamenta,egli non ha edificato. Quanto è strano! Questo “su”, “sopraelevare”, indical’altezza, ma è un’altezza che richiama la profondità. Perché edificare (in-nalzare) è costruire dalle fondamenta»32.

L’italiano ritrova con difficoltà l’etimo per Kierkegaard tanto evidente,in quanto il latino “edificare” restituisce quanto Kierkegaard problematizzaulteriormente, così come l’oikwdomein greco. Kierkegaard sottolinea, allora,stando alla scansione dei tempi pure qui tanto essenziale, il tempo del get-tare le basi, del partire – a più riprese ripetuto in corsivo – dalle fondamen-

32 S. KIERKEGAARD, Atti dell’amore, tr. it. C. Fabro, Bompiani, Milano 2003, pp.625 ss. Sul parallelo con l’oikwdomein paolino, cfr. I. R. KITZBERGER, Bau der Gemein-de: das paulinische Wortfeld “oikwdomein”, Echter, Würzburg 1986. Tra le migliorimonografie sul tema, cfr. G. PATTISON, Kierkegaard’s Upbuilding Discourses. Philo-sophy, Theology, Literature, Routledge, London and New York 2002.

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ta, della profondità come contrassegno dell’opbyggelig, esigendo, l’altezza,un radicamento nel profondo per potersi elevare sotto il segno dell’autenti-co. L’«op-» come prefisso riceve, cioè, qui, dalla fondatezza del «bygge», ilriconoscimento della sua fondazione. Eppure, la parola «edificare» vieneadoperata con nonchalance, lamenta Kierkegaard, ed il senso traslato del-l’uso comune perde il pregio della letteralità, la “scambievole scambievolez-za” insita nel concetto di ascesa. “Edificare” scade, in tal modo, a sinonimodel mero “costruire”, in danese «at bygge» privo dell’«op-», laddove è ladirezionalità ambivalente, per Kierkegaard, e nel senso dell’altezza e inquello della profondità, come scavare fondamentale per l’innalzare, a confe-rire la portata specifica, il «lige» dell’«op-bygge-lige».

È proprio a partire dal ’47, a cavallo tra i Discorsi edificanti in variospirito e gli Atti dell’amore, che qualcosa, nella visione kierkegaardianadella «Kirke», “chiesa” – intesa quale organismo-guida del cristianesimo –si incrina, via via in modo sempre più irreversibile: essa passa, difatti, a fi-gurare quale il più perverso accomodamento con la logica di questo mondo,la quale, “sistematicamente”, blatera di piegare il cristianesimo al progressodei tempi, nei termini, per Kierkegaard fatali, di “perfettibilità del cristiane-simo”. Sin dal ’46 si riaffaccia in lui quel proposito sempre accantonato didiventare pastore: predicherà altre 3 volte, il tutto cadenzato da un conti-nuo, ed anzi crescente, avvicinarsi e ritrarsi da quella stessa chiesa di cui sisente parte ma dalla quale, allo stesso tempo, prende le mosse e le distanze.È lo stesso concetto di «predica», invero, a subire una rigida critica: non èun caso che, oltre al termine «Prædiken», egli prenda ad utilizzare la parola«Forkyndelse», più propriamente “annuncio” carico di solennità, laddovequella mera “predica” scade a occupazione salariata dei pastori, bollaticome impostori, imbroglioni, cannibali addirittura, che, con l’autorità (Myn-dighed, ma – forte anche qui la bipartizione – pure Autoritet) che detengo-no, e che Kierkegaard in qualche modo ritiene essere la mossa giusta nellemani sbagliate, non pensano affatto di reduplicare nella propria vita quantodurante il sermone proclamano, invece, con le lacrime agli occhi, in appa-renza tanto vitalmente coinvolti.

È questa discrepanza tra parola e post-parola, Efter-Ord, parola noncomprovata dai fatti, che Kierkegaard proprio non riesce a digerire. Il suocompito è servire il cristianesimo, “ringiovanendo” quello delle origini, il«Christendom» cui egli, da poeta penitente, ancora e sempre aspira, e chedistinguerà sottilmente da quella «Christenhed», “cristianità”, che l’ordinestabilito va predicando come fosse il cristianesimo autentico, lo stesso che– secondo il passo fondamentale del 1840 – apportava quell’aggiunta deci-siva nell’«in Cristo» al «tutto è nuovo». Eppure, in tutto questo, Qoheletnon abbandona Kierkegaard, il quale, anzi, preferisce appellarsi al saggio

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israelita dell’Antico Testamento, sincero e disincantato nel suo predicare,piuttosto che scendere a patti coi pastori predicanti del suo tempo che ilNuovo Testamento lo hanno smarrito, travisato, sporcato, ed alla lunga, sen-za mezzi termini, trasformato nell’esatto contrario di quel che Cristo ha an-nunciato. Per porre un freno alla dilagante condotta dell’ordine stabilito (detBestående), dunque, Kierkegaard decide di “caricare” il suo concetto di“edificante” di un potere che il solo “edificare” sembra tralasciare: dovràessere “terrificante”. A ben vedere, in un senso più autentico, il terrificare èla prima azione dell’edificare, laddove, però, è ben più facile rimuoverequell’impressione originaria ed occultarla, piegando lo stesso opbyggeligenei termini di un consolare di edile memoria, che si limiti a costruire quan-to prima sulle rovine di quanto distrutto, sostituendolo con un quid di refri-gerante. Nelle Carte che testimoniano il nuovo imperativo kierkegaardiano,un proposito recita: «Vanno scritti alcuni pensieri per risveglio – Pensieriche feriscono alle spalle – per edificazione. “Bada ai tuoi passi, quando vainella casa del Signore” (Prædikeren). Questo sarà l’inizio. Nei discorsi saràscelto un testo di modo che sembri provenire dal Vangelo»33.

La mossa kierkegaardiana è deliberatamente intrapresa: il Qohelet saràl’unico testo dell’Antico Testamento ad esser utilizzato in chiave neo-testa-mentaria, di apparente provenienza evangelica addirittura. Ed il passo ulte-riore supera lo stesso “edificante”, nel momento in cui viene qui impressauna nuova direzione all’imminente nuovo inizio: “per edificazione”. Le solecategorie filosofiche dell’immanenza non bastano: qui è cristiano il fine, piùche edificante, perciò “per edificazione”. Già l’ultima parte dei Discorsi invario spirito aveva per titolo: Vangelo delle sofferenze. Discorsi cristiani,laddove già quest’ultima specifica, “cristani” anziché “edificanti”, lascia

33 Pap. VIII 1 A 486, 1847. “Per edificazione e risveglio” sarà, tra l’altro, il sot-totitolo di Sygdommen til Døden: cfr. S. KIERKEGAARD, La malattia per la morte, tr. it.di E. Rocca, Donzelli, Roma 1999, e qui l’ottima Introduzione, dal titolo Un uomonuovo, pp. VII-XXVII. A tal proposito, cfr. Diario, cit., vol. 6, n. 2387, pp. 62-64:«Dunque ora esce La malattia per la morte, ma pseudonima, con il mio nome pereditore. Vi è scritto: Til Opbyggelse, “per edificazione”, che è più della mia categoria,della categoria di poeta: “edificante”. Come il fiume Guadalquivir (già mi è venuto inmente un’altra volta e sta in qualche luogo del Diario) scompare a un certo punto sot-to terra, così vi è un tratto, det opbyggelige, l’edificante, che porta il mio nome. Vi èqualcosa che è inferiore (la cosa estetica), questa, pseudonima; e un’altra che è piùalta, che è anch’essa pseudonima, perché la mia personalità non vi corrisponde». Sultema, cfr. I. ADINOLFI, Poeta o testimone? Il problema della comunicazione del cristia-nesimo in Søren Kierkegaard, Marietti, Genova 1991; J. W. ELROD, Poet Penitent, in«Kierkegaardiana», 13/1984, pp. 84-96; J. BONDE JENSEN, Jeg er kun en Digter. OmSøren Kierkegaard som skribent, Babette, Copenaghen 1996.

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presagire un passo oltre l’opbyggelige, pur contenuto nel titolo d’insiemedell’opera. Il quarto paragrafo di tale, “sonoro”, Vangelo delle sofferenzeverte sul senso di colpa dell’uomo dinanzi a Dio, sulla gioia insita in taleessere in torto al suo cospetto34. Esso prende l’avvio in questi toni:

«Quando sentiamo una frase bella, edificante, incisiva e vera, ci piaceanche sapere chi l’ha detta, in quale occasione e circostanza: cioè desideria-mo sapere fino a che punto quella frase vera è stata anche verità in coluiche la diceva, e questo ci piace saperlo sia per lui che per noi [...]. Cosìquando un re parla della ricchezza della potenza e del dominio terreno,qualificando tutto questo come mera vanità, ci fa piacere che chi lo dice siaun re, poiché egli deve certamente avere avuto l’occasione di farne l’espe-rienza; egli non è come chi vede tutte queste cose a distanza, accecato dallabrama del desiderio: il re vede tutto questo assai da vicino. Quando unoche ha posseduto chissà quanto, anzi tutto, ma anche solo allo scopo disentire questo quando ha perso tutto, quando egli dice: “Sia lodato il nomedel Signore!”, questo ci tranquillizza e ci rallegra perché egli è stato certa-mente provato»35.

Kierkegaard nomina, oltre a Qohelet, l’altro gigante vetero-testamentario,Giobbe, che insieme a quello sempre tiene sul leggio, e lo fa associando i duein virtù della più seria verità che sulle loro labbra e nella loro vita ha avutotempo e luogo: nella qualificazione del tutto come vanità da parte del Qohelet,nelle vesti più veritiere del re Salomone, del suo prendere la parola davantialla folla adunata innanzi al suo trono, e nella lode elevata al nome di Dio chetutto ha dato nel mentre lo toglie da parte di Giobbe. L’accento cade dunquesul loro aver sperimentato quanto vanno dicendo: sull’aver patito sulla propriapelle, sul poter confermare, riscontrato a incrocio con l’esempio della lorovita, frasi che altrimenti, se non trovassero un tale supporto, verrebbero ad es-ser simili a quell’albero che porta frutti magnifici, ma che non sono commesti-bili, descritto dal Libro della Sapienza. Il “Tutto è vanità” qoheletico, in parti-colare, è come se fosse posto in secondo piano per quel che riguarda il conte-nuto che esso propone, una volta quello stesso Predicatore venga ad essereidentificato nel re che tutto ha posseduto e che dunque ha tutto il diritto di

34 «Domandati e continua a domandare finché troverai la risposta; perché si puòaver riconosciuto una cosa molte volte, si può averla legittimata nel riconoscimento, sipuò aver voluto una cosa molte volte, si può averla tentata, e tuttavia unicamente ilprofondo intimo moto, unicamente l’indescrivibile intenerirsi del cuore, questo unica-mente ti convincerà che quanto hai riconosciuto ti appartiene, che nessun potere riu-scirà a strapparlo via da te; perché solo la verità che edifica è verità per te» (S. KIE-RKEGAARD, Enten-Eller, tr. it. di A. Cortese, Adelphi, Milano 1977, vol. 5, p. 274).

35 Già ne Il concetto dell’angoscia, (in Opere, cit., p. 188), compare un rimandoa Eccle. 1,2.

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qualificare ogni possesso e possedimento come vanità, in quanto, appunto,manifesta da sé le credenziali per esser creduto in ciò che dice, stando nel suostatus essendi, in qualche modo, la forma a garanzia del contenuto che la suasentenza racchiude.

I contorni dell’interpretazione kierkegaardiana del Qohelet si fanno piùdefiniti, e quel che emerge è una sorta di interpretazione doppia: da un lato,c’è il Predicatore che rinviene la speranza – l’angelo salvatore della Ritirata– nel pensiero del Creatore in giovinezza, e che dunque dà voce all’uomointeriore che parla entro di sé nella sua costante preoccupazione, dall’altroc’è invece il Predicatore che perde la speranza, il di-sperato angustiato dainterrogativi privi di risposta, condensati nell’illustre «Alt er Tomhed ogSkuffelse», “tutto è vacuità e illusione”. Viene da chiedersi quale sia, tra idue Qohelet, quello dell’«Alt har sin Tid», “Ogni cosa ha il suo tempo”.Tutto, infatti, ha il suo tempo, ma anche, lo stesso tutto, è vacuità è illusio-ne. Il baratro di Qohelet è però confinato al fatto sia proprio lui, fedele alsignificato del suo nome, il primo parlatore, il primo pronunciatore, finan-che predicatore, di quelle parole che non hanno fine, ma solo fame di ven-to. È un’antinomia che non sfugge a Kierkegaard, il quale si interroga finoal chiedersi se la vanità tanto intrinseca al tutto giunga a vanificare il tempostesso. Ma è un quesito che adesso risolverà avvalendosi di categorie cri-stiane, a Qohelet ancora sconosciute. È per questo, allora, alla luce e al-l’ombra di tutto questo, che il rapporto tra i due Testamenti assume nelpensiero kierkegaardiano la eco del dialogo tra l’Antico e lo strascico inter-venuto nel Nuovo, col cambiamento essenziale di rotta non soltanto rispettoall’esempio di Cristo, ma rispetto al vincolo tra amore e grazia che la suamorte ha istituito e che la cristianità piega invece ai suoi interessi, una voltache “essere cristiano” venga a scadere nell’indicare un sinonimo di “essereuomo”. È per questo, allora, che i discorsi devono e non possono non di-ventare, da edificanti, cristiani. C’è un genere umano da risvegliare, narco-tizzato nella falsa bambagia assuefatta ad un tempo privo di futuro. Il ver-setto dal Qohelet 4, 17 (“Bada ai tuoi passi quando vai nella casa di Dio”)costituirà effettivamente il primo dei quattro “pensieri che feriscono allespalle” tematizzati nel ’48 ma abbozzati sin dallo stesso, fecondo, ’47, annoin cui cade anche un altro appunto, per molti versi chiarificante: «Questa èla chiave di volta della storia universale. Il cristianesimo è la religione delfuturo, il paganesimo era del presente o del passato. Anche il giudaismo eratroppo del presente nonostante il suo carattere profetico, era un futurum inpraesenti; il cristianesimo è un praesens in futuro»36.

36 Diario, n. 1513, p. 78. Sull’influsso e la lettura dell’Antico Testamento in Kie-rkegaard, cfr. l’ottima monografia di M. ENGELKE, Kierkegaard und das Alte Testament.

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Impossibilitato a non rifarsi alla sua adorata grammatica antica, Kierke-gaard richiama qui un’idea già balenata, ma non parimenti svolta, ne Ilconcetto dell’angoscia, poi più opportunamente trattata nelle Briciole e nelPoscritto. Che il “nuovo” del cristianesimo – o meglio: il suo “in Cristo” –stia nel futuro a cui esso coniuga ogni verbo al presente, nel mentre perl’ebraismo si tratta di un’anticipazione del futuro sempre però confinato alpresente, ove questo impedisce il predominare dell’altro, che appunto solocol cristianesimo, con l’avvento dell’eterno nel tempo, con l’esempio dellavita di Cristo prima che con la sua morte elevata a redenzione37, eromperàin tutta la sua portata. Questo paradossale praesens in futuro è, sì, presenteanche in Qohelet, la cui dialettica dei tempi decantata nell’alternarsi delloro perpetuo avvicendarsi rientra anch’essa in un tale futuro già visto eposseduto nel presente, già saputo, già compiuto, un futuro che, semplice-mente, già è. Nel cristianesimo, allora, è il “sarà” ad essere.

Ma di tutta questa raffinatissima grammatica esistenziale non v’è trac-cia in quel cristianesimo al passo coi tempi, in quella cristianità fiera delsuo dirsi, nonostante la menzogna di cui si macchia, “cristiana”: «La di-sgrazia della cristianità è che un uomo è educato fin da bambino in una si-curezza sulla cosa suprema che alla fine diventa indifferenza»38, recita unperiodo all’interno di un più composito brano da cui è tratto. Questo essere“educati fin da bambini” corrisponde punto per punto a quella paradossale“naturalizzazione acquisita” di una religione che, fin dal suo ingresso nelmondo, fa invece perno sulla trascendenza di cui consta. È la scontatezza,un “conoscersi” come cristiani senza preoccuparsi di “riconoscersi” cometali, ciò che denuncia Kierkegaard, e che stigmatizzerà a tinte sempre piùfosche e cupe come il prwton yeudoj di tutti gli errori.

Zum Einfluß der alttestamentarischen Bücher auf Kierkegaards Gesamtwerk, CMZ-Verlag, Rheinbach 1998. In particolar modo dagli anni ’50 si assiste, nei Papirer, auna sorta di escalation della diade “Ebraismo-Cristianesimo”. Sul punto, cfr. M.PLEKON, Søren Kierkegaard at the End: Authority in the Attack of the Church, in P.Houe, G.D. Marino, S. Hakon Rossell (ed.), Anthropology and Authority. Essays onSøren Kierkegaard, Rodopi, Amsterdam-Atlanta 2000, pp. 299-312, nonché ID., Kie-rkegaard at the End: His ‘Last’ Sermon, Eschatology and the Attack on the Church, in«Faith and Philosophy: Journal of the Society of Christian Philosophers», vol. 17, 1/2000, pp. 68-86.

37 Cfr. il passo intitolato “Il Modello”, in Diario, vol. 8, n. 3139, pp. 88 s., nelquale Kierkegaard – “nietzschianamente” – accusa Paolo di aver forgiato un cristiane-simo paolino, a sua immagine e somiglianza, mettendo in risalto la morte di Cristo,anziché il modello della sua vita, come redenzione, così spostando l’oggetto della fedein una morte redentrice.

38 Diario, n. 1639, p. 124.

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Tra le Løse Papirer di quegli stessi anni ’40, un brano riporta: «Ladifficoltà è che si hanno insieme e il Vecchio e il Nuovo Testamento,perché il Vecchio ha tutt’altre categorie rispetto al Nuovo. Infatti che sidirebbe mai nel Nuovo di una fede che pensa di accomodarsi bene aquesto mondo, con le cose del tempo, invece di abbandonarle per afferra-re l’eternità? Da ciò quell’incoerenza nelle prediche, a seconda che vi sifaccia trasparire il Vecchio o il Nuovo Testamento»39. Lo stacco finale, diprimo acchito, sembrerebbe repentino, un mutare i termini della questio-ne da un ambito speculativo ad uno più propriamente empirico quale isermoni dei pastori. Ebbene, per Kierkegaard si tratta – e man mano chepassa il tempo si tratterà ancor più seriamente – di una e una sola cosa,in quanto il cristianesimo di cui parla è la cristianità che dice di esserecristianesimo, e il Nuovo Testamento che tale cristianità si compiace, intutta naturalezza, di predicare, è in realtà più vicino al Vecchio, standoalle categorie sulle quali si basa, prive di qualsivoglia riferimento all’eter-nità, o tutt’al più contenendolo solo a parole, laddove è l’esistenza deipastori a sbugiardarne la condotta di vita, ad incasellarli ed incastrarli incategorie del tutto diverse rispetto a quelle di cui, commossi, predicano.Il Verbo sulle loro labbra, la Parola, per Kierkegaard, al maiuscolo, inte-sa quale «Guds Ord», “Parola di Dio”, figura sonora della sua carne, suo-na, quindi, in bocca a questi ipocriti pastori, come una fede facente capoalle cose del tempo, accomodata con questo mondo, una fede compromes-sa che come tale non è più fede, perché priva della «profondità di set-tanta mila braccia» con la cui incommensurabilità Kierkegaard la commi-sura, priva di quello slancio verso l’eternità che invece non si preoccupadi afferrare. Coi Pensieri che feriscono alle spalle il movimento doppiodiventa, con ciò stesso, complementare: è come se, da un lato, Kierke-gaard arretrasse rispetto alla ripresa, preferendo, ad essa, il tempo che laprecede, e dall’altro avanzasse rispetto all’edificare, spingendosi fino al-l’Opbyggelse, quella “edificazione” ritenuta, negli anni precedenti, “trop-po alta” al solo paragonarla con l’“edificante”. Il cristianesimo – egli ar-gomenta adesso – non ha bisogno di alcuna difesa: esso è tanto forte daattaccare, specchio in tal senso del fatto che dell’edificare egli metta orain luce il terrificare. Anche meditando il passo “pseudo-cristiano” delQohelet, Kierkegaard aggiunge l’avverbio «derfor», “perciò”, sicché essosuonerà: «Perciò bada ai tuoi passi quando vai nella casa del Signore,poiché è una cosa estremamente seria il salire alla casa del Signore. Ri-corda che vi abita il Signore che è nel cielo, mentre tu sei sulla terra

39 Diario, n. 917, p. 90.

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[...]. Nella casa del Signore tu sei davanti a Dio. E cos’è la schiettezzadavanti a Dio? È che la tua vita esprima quello che tu dici»40.

Kierkegaard fa sostenere anche al Qohelet, dunque, la parte a cui egliper primo sta addossando la più profonda serietà: il passo in direzionedella casa di Dio inteso quale possibilità di collisione con la chiesa uffi-ciale. Saranno in particolar modo le due opere seguenti, La malattia perla morte ed Esercizio di cristianesimo, ad attirarsi lo sfavore e la contra-rietà della Chiesa danese41, in primo luogo nella figura del suo primateMynster, col quale, però, complice un certo savoir faire da parte di en-trambi, Kierkegaard non è ancora ai ferri corti, benché i Diari del perio-do segnalino già un contrasto insanabile di fondo proprio nel mancatoriconoscimento dello status vigendi all’interno della cristianità. Nel ’50, èproprio “ispirato” da Mynster che egli cita nuovamente il Predicatore42,laddove il termine apparentemente innocuo, «Prædiken», “predica”, vienesempre più assimilato alla “prebenda” del pastore, letteralmente «Leve-brød», “pane di vita”, “pagnotta”, e di qui il primo significato di “me-stiere”. Nulla sfugge all’implacabile criticismo kierkegaardiano, che negliultimi anni di vita, però, anziché continuare col citare, esplicitamente omeno, i suoi tanto amati e scandagliati testi biblici, preferisce prender luistesso la parola ed agire a suo modo, dalle file sia di quotidiani “ufficia-li” che della rivista da lui fondata e di cui sarà l’unico redattore, dall’em-

40 S. KIERKEGAARD, Discorsi cristiani, tr. it. di C. Fabro (il quale, però, a dispettodi tutte le edizioni danesi, riporta la citazione a Siracide 4, 17), pp. 38-40. Una nuovaristampa è disponibile tra i tipi SE, Milano 2010, col titolo Pensieri che feriscono allespalle – e altri discorsi edificanti. L’altra versione italiana è a cura di D.T. Donadoni,Borla, Roma 1963. In italiano, nonostante le due edizioni, manca ancora la quarta par-te dei Discorsi. A porre l’accento sul punto in questione è N. VIALLANEIX, Écoute, Kie-rkegaard. Essai sur la comunication de la Parole, cit., in part. pp. 228 ss., laddove sisofferma sull’interrogativo «Qu’est-ce que prêcher?». Su Kierkegaard e la sua arteoratoria, cfr. F. J. BILLESKOV JANSEN, La réthorique de Kierkegaard, in Kierkegaard. Vin-gt-cinq études, «Les Cahiers de la Philosophie», Université Lille III, 8/9, Cedex 1990,pp. 83-94; P. SØLTOFT, The Power of Eloquence: on the Relation between Ethics andRhetoric in Preaching, in P. Houe – G.D. Marino (ed.), Søren Kierkegaard and theWord(s). Essays on Hermeneutics and Communication, Reitzel, Copenaghen 2003, pp.240-247.

41 Da Mynster bollate come «un gioco blasfemo con le cose sacre»: nello specifi-co, cfr. C. FINK THOLSTRUP, “Playing a Profane Game with Holy Things”: Understan-ding Kierkegaard’s Critical Encounter with Bishop Mynster, in R.L. Perkins (ed.),IKC. Practice in Christianity, vol. 20, Macon 2004, pp. 245-274. Su Mynster, cfr. C.FABRO, L’attività oratoria, dottrinale e pastorale di un vescovo luterano dell’ ’800: J.P.Mynster, in «Ricerche di Storia Sociale e Religiosa», 1973, pp. 41-108.

42 Cfr. Diario, vol. 8, n. 3049, pp. 47 s.

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blematico titolo L’istante43. Qui sferzerà l’attacco più pungente contro lacristianità stabilita, forte del ricco bagaglio frattanto accumulatosi nelloscrigno del suo pensare. Individuata la “chiave di volta della storia uni-versale”, non resta che ripetersi le parole del Qohelet ed accettarle nellaloro crudezza: «“Dio creò l’uomo retto, ma egli cerca tanti stratagemmi”.Ecco una magnifica parola del Predicatore»44.

Quell’uomo tutto ha visto, tutto ha capito, e tutto ha detto. Due solecose si possono fare per rendergli merito: riprenderne – e non, meramente,ripeterne – il messaggio – attuandolo secondo la propria, irripetibile singo-larità, senza lasciarsi, da esso, solo terrificare – e poi tacere. Sembra svelareproprio questo un bellissimo passo kierkegaardiano a malapena notato tra lesue Carte, redatto in forma d’appunto e perciò non compiuta, incurante per-sino di una consecutio temporum e di una punteggiatura altrimenti estrema-mente rispettate. Esso s’intitola «Tale ved en stor Talers Grav», “Discorsosulla tomba di un grande oratore”:

«Se, in un modo o nell’altro, ci fosse qui un compito per un oratore –sennonché egli adesso non è più qui, le sue labbra sono chiuse per sempre,[ebbene] l’occasione più propizia per un oratore che volesse rendergliomaggio, stiamo in silenzio sulla sua tomba – ed anche colui che qui deveparlare vorrebbe rimanere in silenzio, poiché chi può parlare sulla sua tom-ba? Oh, torna indietro ancora una volta, lascia sentire ancora una volta, perl’ultima volta, la tua voce possente. In questa forma andava così restituito ilsuo ricordo. Il punto centrale non è male»45.

L’omaggio supremo, dunque, compiuto sulla tomba di un grande orato-re, per chi ne volesse rievocare il ricordo, riprendendolo, indietro nel tem-po, in avanti, starebbe precisamente nel mantenere il silenzio, quasi a nonoffuscarne l’inimitabilità della parola, la scioltezza di una lingua tanto unicada non poter essere celebrata che col preservarne la memoria sonora. Kie-rkegaard non dà un volto a tale grande oratore, sicché il brano stesso è pas-sato semi-inosservato agli occhi della critica. Ma avvicinarlo a quel re esi-tante nel prendere la parola, e che però non appena la prende incanta la fol-

43 La prima auto-proposta di titolo era in realtà: «Nell’istante: per l’eternità. Conil mio lavoro mi sono avvicinato tanto alla contemporaneità, all’istante, che non possodavvero fare a meno di un organo di stampa con cui rivolgermi ad essa, la contempo-raneità, secondo l’istante, e l’ho chiamato: L’istante [...]. Però non è qualcosa di effi-mero quello che voglio, come non è qualcosa di effimero quello che ho voluto; no,era ed è qualcosa di eterno: per mezzo degli ideali contro le allucinazioni» (Pap. XI 3B 246,3).

44 Pap. XI 1 A 481, 1854, p. 373. Il riferimento è a Qo. 7,29.45 Pap. X 1 A 456, 1849, pp. 291s., la traduzione è mia.

132 Giulia Longo

la che contornia il suo trono, potrebbe immettere su di una via più che le-gittima, dal basso di un io che dà del tu al suo sé, pieno di ammirazione erabbia. Ammirazione per quella insuperabile magia oratoria, per quella vistacui non sfuggì neanche l’invisibile; rabbia per quel troppo parco fare i conticon Dio, per un troppo disincantato attenersi ai suoi precetti limitandosi anon sgarrare ad essi. Colpe, queste, non del tutto imputabili al saggio israe-lita, quanto piuttosto al tempo in cui egli visse, e rispetto al quale, anzi,egli pare persino avere insegnato, imparando e sperimentandone le falle sul-la propria pelle, piccole, regali parole, di cui il Kierkegaard ventiseiennenon intravedeva che il primo uniforme, ripetuto sospiro, mentre è quello piùcresciuto, rinvigorito, nella sua giovinezza, per la sua attività di uomo, adaver compreso, nell’essere non indifferente, il senso della differenza: che ri-petere non è riprendere, che costruire non è edificare, che cristianità non ècristianesimo.

«Ogni cosa ha il suo tempo» 133

Per tutti e per nessunoIl «superamento della morale» nella filosofia di Nietzsche*

Joaquin Mutchinick

Nelle pagine seguenti si proporrà un’interpretazione del problema nietz-schiano dell’Autosuperamento [Selbstaufhebung] della morale e della Tra-svalutazione di tutti i valori: due formule linguistiche – coniate dallo stessoNietzsche – che indicano in modo del tutto generale la sua critica alla mo-rale e i risultati a cui pervenne. Lo si farà lungo il filo conduttore di unadomanda che può sembrare, in prima battuta, del tutto accidentale e arbitra-ria. Vale a dire: A chi era diretta la critica nietzschiana della morale? Chierano i destinatari ideali dei suoi discorsi, i presunti lettori per cui scriveva?Si rivolgeva a tutti? A nessuno? Non si vuole alludere con ciò – va da sé –a singole persone a cui possono essere state dedicate alcune delle sue pub-blicazioni, e tantomeno ad un qualche segreto desiderio di cui potremmovenire a conoscenza rovistando nel suo epistolario. Intendiamo riferirci, in-vece, ad un «tipo di uomo» – per usare un’espressione ancora nietzschiana1

* Scrivere oggi intorno a Nietzsche è l’occasione propizia per rielaborare le lineedi una riflessione che ha ricevuto da Eugenio Mazzarella, dalle sue lezioni e dai suiscritti, preziose suggestioni e chiarimenti, e che, ancor più significativamente, è statasegnata dal suo insegnamento in quella che può essere detta la propria disposizionefondamentale. Dato che questo terzo aspetto al di là di quello puramente formale econtenutistico è tanto difficile da definire quanto da indicare, mi limiterò ad accennar-vi mediante un ricordo: il desiderio, in quegli anni appena nato, di apprendere unmodo di interrogare che non si accontentasse di descrivere con dovizia la questioneper poi passare oltre, che intendesse le domande dei grandi pensatori come problemida riformulare, non come curiosità da riproporre, che, per usare un’immagine classica,cercasse di vivificare con il proprio sangue pensieri che altrimenti sarebbero rimastimuti spettri, anche al costo di introdurre in essi qualcosa a loro estraneo, trovò nel-l’attività filosofica di Eugenio Mazzarella la sua più ricca fonte di sollecitazione e diappagamento.

1 Cfr. F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, tr. it. di F. Masini, in Opere diFriedrich Nietzsche, edizione italiana condotta sul testo critico stabilito da G. Colli eM. Montinari, Adelphi, Milano 1964 e ss., vol. VI, tomo II, af. 30. Tutte le citazionidalla Gesamtausgabe riportano il numero di aforisma (nelle opere edite) o di fram-

134 Joaquin Mutchinick

– al quale egli ha indirizzato eventualmente la sua opera come al suo conse-gnatario predestinato. Crediamo di poter mostrare, con le conclusioni, cheuna tale domanda non è estranea al problema nietzschiano e possiede, inforza dell’intimo rapporto che ha con esso, la virtù chiarificatrice che le at-tribuiamo.

I. Indagine preliminare

Il primo passo che faremo per individuare chi sono coloro a cui Nietz-sche rivolge la sua critica della morale, è quello di chiarire, in funzione delnostro scopo ed entro i limiti dettati da esso, queste formule appena citate:«Autosuperamento della morale» e «Trasvalutazione dei valori». Per questosi renderà necessario soffermarsi su un punto nodale del suo pensiero, incui molte importanti considerazioni confluiscono e si aggrovigliano: ci rife-riamo alla distinzione fondamentale che egli opera nell’ambito della morale,in base alla quale ne riconosce, in ultima istanza, due “specie” diverse. Aquesto inquadramento finale dei fenomeni morali in due tipologie differentiè possibile risalire, dato il posto centrale che esso occupa nella riflessionenietzschiana, percorrendo numerose vie. La più immediata di esse sembre-rebbe essere l’esposizione dell’analisi proposta nella prima dissertazionedella Genealogia della morale, dove si distinguono appunto una «moraledei signori» e una «morale degli schiavi»; noi, però, rinunzieremo a talevia, perché lo spirito polemico che anima questo scritto – «eine Streit-schrift» è precisamente il suo sottotitolo – non farebbe che intorbidare ilcompito che ci siamo posti, alla cui difficoltà aggiungerebbe quella di doverneutralizzare i pregiudizi e i malintesi, vecchi e nuovi, che si sono andatistratificando. Cercheremo pertanto di giungere a questa distinzione fonda-mentale mediante l’esame della sua concezione fisiologica della morale,senza rinunciare per questo alle tesi della prima dissertazione, di cui coglie-remo invece i presupposti.

Ma cos’è questa “concezione fisiologica della morale”? Si tratta di unaserie di pensieri e considerazioni intorno alla funzione vitale della moraleche, specialmente a partire dal 1884 e fino alla fine della sua attività intel-lettuale – come testimoniano i numerosi frammenti postumi di quel periodo–, Nietzsche si sforza di precisare e sviluppare con coerenza, e che, allostesso modo di altre sue concezioni fondamentali, deve essere – per cosìdire – “ricostruita” a partire dai frammenti e aforismi della sua opera. Co-minciaremo dunque questa operazione di “ricostruzione” citando quasi per

mento (nell’opera postuma) secondo questa edizione, solo nei casi in cui ciò possa es-sere di qualche aiuto abbiamo indicato anche il numero di pagina.

Per tutti e per nessuno 135

intero il famoso frammento della primavera del ’85 intitolato «Morale e fi-siologia»2. Da esso emergeranno i punti principali.

«Morale e fisiologia. Riteniamo avventato che si sia così a lungo considerataproprio la coscienza umana come il grado più alto dello sviluppo organico ecome la più meravigliosa di tutte le cose terrene, anzi quasi come il loro fio-re e il loro fine. Ciò che è più meraviglioso è invece il corpo: non si finiscemai di ammirare, considerando come il corpo umano sia divenuto possibile;come una tale enorme unione di esseri viventi, ciascuno dipendente e sotto-messo, e tuttavia in certo senso a sua volta imperante e agente con volontàpropria, possa vivere, crescere e sussistere per qualche tempo come un tutto;e ciò avviene chiaramente non grazie alla coscienza! Per questo “miracolodei miracoli” la coscienza è appunto solo uno “strumento” e niente più –nello stesso senso in cui lo stomaco è un altro strumento. Il magnifico colle-gamento della vita più molteplice, l’ordine e il coordinamento delle attivitàsuperiori e inferiori, le mille forme di obbedienza, che non è un’obbedienzacieca, e ancor meno meccanica, ma un’obbedienza selettiva, intelligente, pie-na di riguardo e finanche riluttante – tutto questo fenomeno “corpo” è, misu-rato dal punto di vista intellettuale, tanto superiore alla nostra coscienza, alnostro “spirito”, al nostro consapevole pensare, sentire e volere, quanto l’al-gebra alla tavola pitagorica. L’”apparato nervoso e cerebrale” non è, per pro-durre in genere il pensiero, il sentire e il volere, così finemente e “divina-mente” costruito; mi sembra anzi che proprio per questo, per il pensare, sen-tire e volere, non ci voglia affatto un “apparato”, ma che tutto ciò, ed essosoltanto, sia “la cosa stessa”. Al contrario, una tale enorme sintesi di esseri eintelletti viventi, che si chiama “uomo”, potrà vivere solo quando sarà creatoquel sottile sistema di collegamento e di comunicazione, e in tal modo un’in-tesa rapida come il lampo fra tutti questi esseri superiori e inferiori – e pre-cisamente a opera di soli mediatori viventi: ma questo è un problema di mo-rale e non un problema di meccanica! Di favoleggiare dell’“unità”, del-l’“anima”, della “persona”, ce lo siamo oggi vietato: tali ipotesi servono soloa rendere il problema più difficile, questo è chiaro. E anche quei piccolissimiesseri viventi che costituiscono il nostro corpo (o meglio: del cui cooperareciò che chiamiamo “corpo” è la miglior immagine), non sono per noi atomispirituali, ma qualcosa che cresce, lotta, si accresce e a sua volta muore: sic-ché il loro numero muta in modo variabile, e la nostra vita è, come qualun-que vita, in pari tempo un continuo morire. Ci sono dunque nell’uomo tante“coscienze” quanti sono gli esseri – in ogni istante della sua esistenza – checostituiscono il suo corpo. Ciò che distingue quella che è abitualmente pen-sata come l’unica “coscienza”, l’intelletto, è proprio che essa rimane protetta

2 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1884–1885, tr. it. di S. Giametta, fr. 37 [4], inOpere, cit., vol. VII, tomo III, p. 134.

136 Joaquin Mutchinick

e staccata dall’infinita varietà delle vicende di queste molte coscienze, e,come coscienza di rango superiore, come pluralità e aristocrazia dominante,ha a che fare solo con una scelta di esperienze, per di più solo esperienzesemplificate, rese perspicue e intelligibili, e dunque falsate, – perché l’intel-letto continui da parte sua in questo semplificare e rendere perspicuo, e dun-que falsare, preparando ciò che si chiama comunemente “una volontà”. Ognisiffatto atto di volontà presuppone per così dire la nomina di un dittatore.Ma ciò che presenta questa scelta al nostro intelletto, ciò che ha già in pre-cedenza semplificato, assimilato e interpretato le esperienze, in ogni caso nonè appunto questo intelletto: non più di quanto lo sia ciò che esegue la volon-tà, ciò che accoglie una pallida, esigua ed estremamente imprecisa rappresen-tazione di valore e di forza, e la traduce in forza viva e in precisi criteri divalore. E proprio la stessa specie di operazione che si svolge qui si devesvolgere in tutti i gradi inferiori, continuamente, nel reciproco comportamen-to di tutti questi esseri superiori e inferiori: questo scegliere e presentare leesperienze, questo astrarre e pensare insieme, questo volere, questo ritradurreil sempre indeterminatissimo volere in attività determinata. Seguendo il filoconduttore del corpo, come si è detto, apprendiamo che la nostra vita è pos-sibile grazie al concerto di molte intelligenze di valore assai disuguale, equindi solo grazie a un costante e svariatissimo comandare e obbedire – oper parlare in termini morali: grazie all’ininterrotto esercizio di molte virtù.E come si potrebbe mai cessare di parlare moralmente!»3

Cerchiamo ora comprendere i punti principali di questo “breve trat-tato”.

I. a. Il magnifico collegamento

Il “Corpo” è un’enorme unione di esseri viventi 4. Esso può vivere, cre-scere e sussistere per qualche tempo come un tutto grazie al loro molteplicecooperare. Un cooperare che, visto da vicino, sembra più una lotta che unapacifica intesa: ogni singolo essere, infatti, cerca di affermare se stesso ascapito del resto: comanda e obbedisce secondo il proprio pensiero, senti-

3 ID., Frammenti postumi 1884-1885, cit., fr. 37 [4]. Gli ultimi passi del branosono stati omessi. Il loro esame ci avrebbe portato a considerare un aspetto della con-cezione fisiologica che, per quanto fondamentale e strettamente legato al discorso chestiamo svolgendo, può essere tralasciato senza compromettere la sua riuscita. Ci rife-riamo alla questione del suo valore di «verità». Ciò avrebbe richiesto l’analisi del pro-blema della verità nell’opera di Nietzsche, un’esigenza che in questa sede, chiaramen-te, non possiamo soddisfare.

4 Per evitare i continui rimandi e facilitare la lettura del testo, da questo punto inpoi, tutte le citazioni tratte dal frammento 37 [4] saranno semplicemente messe in cor-sivo, senza altra indicazione.

Per tutti e per nessuno 137

mento e volontà ed esclusivamente nel proprio «interesse»5. Ma ciò che ap-pare ad un primo sguardo come la premessa per un completo disordine è inrealtà il presupposto della più complessa interdipendenza tra le parti, giac-ché la sussistenza dell’insieme è sì una conseguenza della loro interazione,ma è anche – e soprattutto – una loro condizione6. Tanto chi comanda (A)quanto chi obbedisce (B) ha bisogno della funzione dell’altro; è nel propriointeresse che questo (A) bada, con il proprio comando, alla sussistenza deisubordinati, e che quello (B) cerca, con la propria obbedienza, l’utilità deisuperiori.

La lotta, però, non scompare in questa interdipendenza. Innanzituttoperché i ranghi della gerarchia non sono fissi, bensì determinati ogni voltasecondo «un processo che si sposta continuamente per il crescere di tutti ipartecipanti»7, ossia dal fatto che una delle due parti riesce a costringerel’altra a pensare, sentire e volere così come essa comanda. Inoltre, si devenotare, sia nel comando che nell’obbedienza questi esseri vogliono unica-mente affermare se stessi: chi comanda lo fa imponendo il proprio pensiero,sentimento e volontà; chi esegue, invece, operando con un’obbedienza selet-tiva, intelligente, piena di riguardo e finanche riluttante. L’interpretazionedell’ordine, infatti, dà a chi obbedisce l’occasione di sistemare opportuna-mente il comando che non può contrastare. «Io ho dato un ordine, ma chipuò leggere in fondo al mio animo le mie reali intenzioni? Eppure ciascunos’impadronisce di quest’ordine, lo misura col suo metro, lo piega, comemeglio gli accomoda, al proprio metodo personale. Osservate le varie sfu-mature che darà a quest’ordine un intrigante, a seconda che gli dia noia o,al contrario, favorisca il suo intrigo; osservate i contorcimenti che gli farà

5 Cfr. Frammenti postumi 1884, tr. it. di M. Montinari, in Opere, cit, vol. VII,tomo II, fr. 27 [27]: «Facendoci guidare dal corpo, riconosciamo l’uomo come unapluralità di esseri animati che, in parte lottando l’uno con l’altro, in parte subordinatil’uno all’altro, nell’affermazione della loro singola esistenza affermano, senza volerlo,anche la totalità».

6 Cfr. ivi, fr. 25 [430]; ID., Frammenti postumi 1884–1885, cit., fr. 34 [123].7 ID., Frammenti postumi 1884–1885, cit., fr. 40 [55], dove la determinazione dei

rapporti di forza viene definita come «un combattimento, posto che s’intenda il termi-ne in senso così lato e profondo da concepire come una lotta anche il rapporto di chiè dominato con chi domina, e come una opposizione anche il rapporto di chi obbedi-sce con chi comanda». Cfr. anche ivi, fr. 36 [22]: «Si potrebbe definire la vita comeuna forma durevole di processo delle determinazioni di forza, in cui le diverse forzein lotta crescono per parte loro in modo disuguale. In che senso c’è un’opposizioneanche nell’obbedire; la forza propria non va affatto perduta. Allo stesso modo, nel co-mandare c’è un ammettere che la forza assoluta dell’avversario non è sconfitta, fago-citata, dissolta. “Comandare” e “obbedire” sono forme complementari della lotta».

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subire»8, faceva notare al riguardo un uomo abituato a comandare. La tra-duzione dell’indeterminatissimo volere in attività determinata dà adito ad“aggiustamenti” di questo tipo; naturalmente, entro i limiti dettati dalla for-za del comandante (A) nell’imporsi e dell’obbediente (B) nel resistere. Cheun subordinato venga costretto a pensare, sentire e volere in un certo modoè chiaramente nell’interesse di chi comanda; e nel caso che ottemperare aquest’ordine particolare non sia nell’interesse di chi deve osservarlo, saràcomunque nel suo interesse obbedire, oppure fingere di farlo – o in ultimo,se è in grado, opporvisi.

Il magnifico collegamento è un ordinamento gerarchico tra esseri che,attraverso un costante e svariatissimo comandare e obbedire, ricevono e tra-smettono, dal più alto al più basso rango, il loro pensiero, sentimento e vo-lontà. Un ordinamento che non è statico, bensì muta insieme alla forza deipartecipanti. Una piccola variazione nello stato di forza di esseri gerarchica-mente vicini alla parità, possiamo supporre, trasformerà in inferiori quelliche prima erano i superiori; un mutamento che non modificherà sensibil-mente l’intero quando si produrrà nei gradi più bassi, ma che ridisegneràtotalmente i rapporti di forza quando avverrà, invece, nei posti di comando:allora il pensiero, sentimento e volontà dominante la totalità cambierà infunzione di chi si imponga. All’intelletto e alla coscienza, però, di questocomplicato processo in cui molti esseri con diversi gradi di potenza si allea-no in una causa comune, si contrastano insieme ai propri seguiti e si tradi-scono volgendo a loro talento l’ordine ricevuto, giunge solo una scelta diesperienze, per di più solo esperienze semplificate, rese perspicue e intelli-gibili. Vale a dire: la coscienza non fa parte, in questa organizzazione, dellasfera dei comandanti, ma accoglie il pensiero, sentimento e volontà che le èconsegnato, gerarchicamente parlando, “dall’alto”; un pensiero, sentimento evolontà che, data la posizione che occupa nella scala gerarchica, deve esse-re necessariamente molto più minuto, ristretto, preciso e univoco di quelloche i più alti ranghi comunicano ai loro immediati subordinati. La coscien-za riceve dalla multiforme complessità di ciò che accade al di sotto di essaun unico e alquanto definito pensiero, sentimento e volontà: ciò di cui si di-venta coscienti9.

8 E. A. conte de LAS CASES, Il memoriale di Sant’Elena, tr. it. di A. del Massa,Casini, Roma 1969, vol. II, p. 356.

9 «Tutto ciò che entra nella coscienza costituisce l’ultimo anello di una catena,una chiusura [...] I veri avvenimenti concatenati si svolgono al di sotto della nostracoscienza: le serie e successioni di sentimenti, pensieri, eccetera, che si producono,sono solo sintomi del vero accadere! [...] Ogni pensiero, ogni sentimento, ogni volontànon nasce da un istinto determinato, ma è uno stato globale, una superficie completa

Per tutti e per nessuno 139

La coscienza è appunto solo uno «strumento» e niente di più – nellostesso senso in cui lo stomaco è un altro strumento. Questo è un punto cen-trale della concezione che stiamo analizzando. La coscienza ha un ruolo su-bordinato nella catena di comando ed obbedienza; la sua funzione è quelladi rendere ancora più univoco e definito il pensiero, sentimento e volontàche ha ricevuto dalla totalità: continuare in questo semplificare e rendereperspicuo, e dunque falsare, preparando ciò che si chiama comunementeuna “volontà”. La sua attività specifica consiste nel mettere in parole ilpensiero, sentimento e volontà che le è consegnato, e nel rendere così com-prensibile all’esterno e a se stessa di riflesso, lo stato complessivo del “cor-po”. La coscienza è un “organo di comando”: lo strumento con cui il “cor-po” comunica all’esterno il proprio pensiero, sentimento e volontà10.

di tutta la coscienza e risulta dalla determinazione momentanea di potenza fra tutti gliistinti di cui siamo costituiti – cioè tra l’istinto che domina al momento e quelli che aesso obbediscono o si oppongono. Il pensiero successivo è segno del mutamento che èfrattanto intervenuto in tutta la situazione di potenza» (ID., Frammenti postumi 1885-1887, tr. it. di S. Giametta, in Opere, cit., vol. VIII, tomo I, fr. 1 [61]).

10 Per comprendere il senso di queste affermazioni e, con esse, il ruolo della co-scienza nella fisiologia nietzschiana, è necessario ricordare che Nietzsche distinguenettamente tra la funzione di un determinato organo e le condizioni del suo nascere,tra l’utilità che esso ha per l’insieme a cui serve e le ragioni del suo generarsi (cfr. adesempio ID., Genealogia della morale, tr. it. di F. Masini, in op. cit., vol. VI, tomo II,p. 276). Il discorso circa l’origine della coscienza e la sua provenienza dall’istinto dicrudeltà (cfr. la seconda dissertazione della Genealogia della morale) è quindi intera-mente lasciato da parte. Noi vogliamo afferrare la sua specificità in quanto «organo»,la sua utilità, la mansione a cui l’ha deputata la totalità di cui fa parte. Cfr. a tale pro-posito un aforisma della Gaia scienza e un frammento postumo dell’inverno ’87/’88intitolato «Rolle des “Bewußtseins”»: «Mi è lecito procedere alla supposizione che lacoscienza in generale si sia sviluppata soltanto sotto la pressione del bisogno di co-municazione [...] Coscienza è propriamente soltanto una rete di collegamento tra uomoe uomo – solo in quanto tale è stata costretta a svilupparsi [...] Il fatto che le nostreazioni, i pensieri, i sentimenti, i movimenti siano anche oggetti di coscienza – almenouna parte di essi – è la conseguenza di un terribile “dovere” che domina l’uomo dalungo tempo: essendo l’animale maggiormente in pericolo, ebbe bisogno di aiuto, diprotezione; ebbe bisogno dei suoi simili, dovette esprimere le sue necessità, sapersirendere comprensibile – e per tutto questo gli fu necessaria, in primo luogo, la “co-scienza”, gli fu necessario anche “sapere” quel che gli mancava, “sapere” come sisentiva, “sapere” quel che pensava [...] L’uomo, come ogni creatura vivente, pensacontinuamente, ma non lo sa; il pensiero che diviene cosciente ne è soltanto la piùpiccola parte, diciamo pure la parte più superficiale e peggiore: infatti soltanto questopensiero consapevole si determina in parole, cioè in segni di comunicazione, con laqual cosa si rivela l’origine della coscienza medesima» (ID., Gaia scienza, tr. it. di F.Masini, in op. cit, vol. V, tomo II, af. 354). «È essenziale non ingannarsi sulla funzio-ne della “coscienza”; è la nostra relazione con il “mondo esterno”, che ha sviluppato

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Vediamo adesso quel che implica questa funzione della coscienza. Gra-zie alla sua attività il singolo comunica agli altri uomini un’immagine com-prensibile del proprio stato fisiologico. Ciò richiede, innanzitutto, che egliinterpreti se stesso, che la coscienza accolga una scelta di esperienze del«corpo» e la deformi, contorca e semplifichi in una determinata direzione,il che avviene, abbiamo visto, continuamente nel reciproco comportamentodi tutti questi esseri superiori e inferiori: questo scegliere e presentare leesperienze, questo astrarre e pensare insieme, questo volere, questo ritra-durre il sempre indeterminatissimo volere in attività determinata (la co-scienza però, è stato detto, lo fa ad un livello gerarchico relativamente bas-so). Da questa operazione viene fuori una rappresentazione che può essereappresa da altre coscienze: ciò che l’individuo “pensa, sente e vuole”,espresso in termini linguistici, è un potenziale mezzo per provocare una re-azione negli altri, per “comandare” possiamo dire, purché questa parolacomprenda anche il supplicare, il sedurre, il consigliare, e tutte le altre for-me più o meno sottili di imporsi. Inoltre, possiamo osservare, il pensiero,sentimento e volontà cosciente agisce sullo stesso individuo che pensa, sen-te e vuole, il cui comportamento viene modificato sia da ciò che “entra nel-la coscienza”, sia dall’eventuale proposito cosciente di cambiare se stesso(il prendere coscienza e l’agire cosciente sulla propria condotta).

Noi dobbiamo ridurre, dunque, in base alla funzione fisiologica dellacoscienza come “organo del comando”, la ricchezza e complessità dei feno-meni coscienti ad un loro unico carattere comune: il loro essere in grado dimodificare il proprio “corpo” e le coscienze degli altri uomini. Questaastrazione, che ci permette di comprendere i fenomeni coscienti come co-mandi rivolti sia all’“esterno” che all’“interno”, si rivelerà di gran importan-za per il seguito della nostra indagine. Ora, però, limitiamoci a ricordarechi è l’autore di questi comandi. Ogni siffatto atto di volontà presuppone

la coscienza. Invece la direzione [die Direktion], ossia la sorveglianza e previdenzaper l’ordinato svolgimento delle funzioni corporee non entra nella nostra coscienza[...]. Che ci sia per ciò una suprema istanza, non è da dubitare: una specie di comitatodirettivo, in cui i diversi desideri fondamentali fanno sentire la propria voce e la loropotenza. “Piacere” e “dispiacere” sono cenni che provengono da questa sfera... pari-menti la volizione; parimenti le idee [...]. Di solito si ritiene che la coscienza stessasia un sensorium generale e un’istanza suprema; tuttavia essa è solo un mezzo per co-municare; si è sviluppata nei rapporti esterni e in relazione a interessi a quelli legati...Per “rapporti” si intendono qui anche gli effetti esercitati dal mondo esterno e le rea-zioni in tal caso necessarie da parte nostra; come pure i nostri effetti sull’esterno.Essa non è la direzione, ma un organo di direzione [Organ der Leitung]» (ID., Fram-menti postumi 1887–1888, tr. it. di S. Giametta, in Opere, cit, vol. VIII, tomo I, fr. 11[145]).

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per così dire la nomina di un dittatore. Ma ciò che presenta questa sceltaal nostro intelletto, ciò che ha già in precedenza semplificato, assimilato einterpretato le esperienze, in ogni caso non è appunto questo intelletto.Sono infatti gli esseri del “corpo”, in lotta tra di loro, a fornire alla coscien-za il materiale che essa deve elaborare: «Tutti i nostri motivi consapevolisono fenomeni di superficie: dietro a essi sta la lotta dei nostri istinti e deinostri stati, la lotta per il potere»11.

Un’ultima osservazione servirà di conclusione a queste considerazionigenerali sul magnifico collegamento. Il fenomeno cosciente, abbiamo detto,esprime il pensiero, sentimento e volontà che domina di volta in volta l’in-tero “corpo”; esso approva, disprezza, promuove e combatte quel che acca-de dentro e fuori del “corpo” seguendo gli ordini dell’istinto dominante12.Ciò significa che ogni prospettiva e interpretazione presente nel fenomenocosciente, ogni suo “sì e no”, è soltanto un’immagine intelligibile dell’oscu-ro giudizio di valore che governa il “corpo”, oppure, espresso secondo unanota formula nietzschiana, che la morale cosciente è un «linguaggio di se-gni degli affetti» [Zeichensprache der Affekte]13. Si delineano così, in baseall’attività della coscienza, due diversi ambiti del costante e svariatissimocomandare ed ubbidire del “corpo”; due “forme” di morale14, possiamodire, che stanno tra di loro nella relazione di specie e sottospecie: la moraledell’intero “corpo” e quella sezione di essa che pertiene alla coscienza. Duemorali a cui corrisponde, in base al loro ordinamento gerarchico, un diversogrado di potenza e abilità nel comandare: «La morale effettiva dell’uomo,nella vita del suo corpo, è cento volte più grande e più sottile di quanto

11 ID., Frammenti postumi 1885–1887, cit., fr. 1 [20].12 Cfr., oltre ai frammenti citati, anche il famoso aforisma 109 di Aurora (tr. it.

di F. Masini e M. Montinari, in op. cit., vol. V, tomo I) intitolato Autodominio e mo-derazione, nonché il loro motivo ultimo, in cui Nietzsche descrive la dinamica di que-sti due fenomeni secondo la sua concezione fisiologica. Cfr. anche ID., Frammenti po-stumi 1885–1887, cit., fr. 1 [58]; ivi, fr. 7 [60].

13 Cfr. ID., Al di là del bene e del male, cit., af. 187; ma anche ID., Frammentipostumi 1882–1884, vol. I, tr. it. di L. Amoroso e M. Montinari, in Opere, cit., vol.VII, tomo I, parte I, fr. 7 [60], 7 [76], 7 [125]; ID., Frammenti postumi 1884, cit., fr.25 [113]. Vale a dire: la coscienza traduce in un linguaggio dalle capacità espressiveinferiori il Diktat degli affetti che guidano il «corpo», il quale costituisce, data la po-tenza che essi hanno sul «corpo», la «vera morale»: «Io chiamo “morale” l’attività dilode e di biasimo dei nostri affetti, dunque il loro giudizio di valore» (ID., Frammentipostumi 1882–1884, vol. I, cit., fr. 4 [143]).

14 Secondo la definizione di «morale» data in ID., Al di là del bene e del male,cit., af. 19, come «dottrina dei rapporti di supremazia sotto i quali prende origine ilfenomeno “vita”».

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non sia mai stato il moralizzare concettuale»15. Dobbiamo distinguere per-tanto una prima morale, quella «effettiva», che determina i desideri e i bi-sogni del “corpo”, ciò che è da inseguire e da evitare, da una seconda,quella «concettuale», che si limita a rendere comunicabili, e molte volte inmodo confuso e balbuziente, questi medesimi desiderata a se stessi (AB) eagli altri (B).

I. b. La natura degli esseri del «corpo».

Gli aspetti del magnifico collegamento che abbiamo messo in evidenziaor ora sono: la gerarchia che vige tra gli esseri del “corpo”; la mobilità diquesta gerarchia, dovuta al continuo aumento e diminuzione della potenzadei suoi partecipanti; la capacità di questi esseri, direttamente proporzionaleal loro grado di potenza, di flettere l’ordine ricevuto secondo il propriopunto di vista; la funzione della coscienza e, infine, la distinzione di duediversi tipi di comando in base a questa funzione. Ora è giunto il momentodi concentrarci sull’assunto principale di questa concezione, ovvero sul-l’idea che il “corpo” sia effettivamente un tale magnifico collegamento, cheesso sia un’unità resa possibile dall’interazione di innumerevoli esseri chepensano, sentono e vogliono. Dobbiamo perciò volgere la nostra attenzionealla natura di questi esseri viventi.

Nel lungo frammento che stiamo commentando, Nietzsche scrive: Queipiccolissimi esseri viventi che costituiscono il nostro corpo (o meglio: delcui cooperare ciò che chiamiamo «corpo» è la miglior immagine), nonsono per noi atomi spirituali, ma qualcosa che cresce, lotta, si accresce e asua volta muore. Ciò significa, in prima battuta, che gli esseri del “corpo”non devono essere intesi come delle unità semplici e “senza finestre”. Laloro natura consiste, al contrario di quella delle monadi leibniziane, nel tro-varsi in contatto tra di loro e nel modificarsi a vicenda. In più, da un’altropasso dello stesso brano, veniamo a sapere che insieme al carattere del-l’eternità e dell’irrelatezza, manca a questi esseri anche quello della «so-stanzialità»: non sono, cioè, degli “esseri” che pensano, sentono e vogliono,

15 ID., Frammenti postumi 1884, cit., fr. 25 [437]. Cfr. anche ID., Frammenti1882–1884, vol. I, tr. it. di L. Amoroso e M. Montinari, in Opere, cit., vol. VII, tomoI, fr. 7 [126]: «La coscienza è giusto uno strumento; e, se consideriamo quante cose equanto grandi vengono compiute senza la coscienza, non certo il più necessario, né ilpiù meraviglioso. Al contrario: forse non c’è organo così male sviluppato, così difetto-so e soggetto a sbagliare: è appunto l’ultimo nato fra gli organi e quindi è ancora unbambino – perdoniamogli le sue bambinate! Fra queste rientra, insieme a molte altre,la morale come somma di giudizi di valore dati finora sulle azioni e i modi di sentiredegli uomini».

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bensì, per quanto possa suonare strano, il pensare, sentire e volere medesi-mo: Mi sembra che proprio per questo, per il pensare, sentire, e volere,non ci voglia affatto un «apparato», ma che tutto ciò, ed esso soltanto, sia«la cosa stessa». Pensare, sentire e volere, possiamo dire, non è per Nietz-sche un’“azione” di questi esseri ma – si conceda l’espressione – la loro es-senza: essi sono in tutto e per tutto pensiero, sentimento e volontà, e nonpermangono una volta che questa loro attività cessa. Anziché esseri viventi,dunque, sarebbe più appropriato chiamarli “attività viventi”, giacché si trattadi pensieri, sentimenti e volontà che, senza essere prodotti da nessun “appa-rato”, esistono solo in quanto si esplicano, dominano e resistono: «Quantidi energia [Kraft–Quanta] la cui essenza consiste nell’esplicare potenza sututti gli altri quanti di energia»16.

Questa precisazione, però, che in principio può sembrare una mera cu-riosità, ci costringe a riconsiderare la dinamica fondamentale del collega-mento descritto nella sezione precedente. Se gli esseri del “corpo” sonopure attività, allora l’idea che essi comandino ed obbediscano secondo ilproprio pensiero, sentimento e volontà deve essere corretta in modo oppor-tuno. Non si danno, cioè, “esseri” capaci di ricevere un comando e di agirein conseguenza, ma solo attività oltre le quali non rimane alcun agente. Laloro interazione deve essere intesa come un rapporto tra azioni differentiche, senza alcun sostrato, si condizionano le une le altre gerarchicamente. Ilche ci pone davanti a due grosse difficoltà: 1) in primo luogo dobbiamotrasferire a questa nuova condizione la relazione di comando ed obbedienza,ovvero dobbiamo poter pensare due diverse attività del genere appena de-scritto, in un rapporto tale che l’essenza della prima determini l’essenzadella seconda; e 2) dobbiamo rappresentarci queste attività in modo che illoro concorrere ad una azione comune non le dissolva completamente inun’unita superiore che annulli la loro individualità. Due difficoltà che devo-no essere risolte se non si vuol rinunciare alla concezione del “corpo” comemolteplicità vivente.

Per quanto riguarda il primo punto, troviamo il rapporto che stiamocercando nella riflessione aristotelica intorno alla nozione di potenza, e piùprecisamente, nella messa in luce della duplicità essenziale della potenzaenunciata nella nota definizione: «Potenza si dice il principio del movimen-to o del mutamento in altro, oppure in quanto altro»17. Qui, con la prima

16 ID., Frammenti postumi 1888–1889, tr. it. S. Giametta, in Opere, cit., vol. VIII,tomo III, fr. 14 [81].

17 «δ�ναµις λγεται µ�ν �ρ�� κιν�σεως � µετα��λ�ς �ν �τρ�ω � � !›τερ�ν» (ARISTOTELE, Metafisica, tr. it. di G. Reale [leggermente variata], Bompiani,Milano 2000, 1019 a15 s.).

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definizione filosofica del termine “potenza”, vengono forgiati gli strumenticoncettuali per pensare due diverse attività che si condizionano reciproca-mente nella loro essenza. Cerchiamo ora di guadagnarli.

Il principio del movimento o del mutamento si esprime, secondo Ari-stotele, sia come potenza di fare che come potenza di patire18. Ogni even-tuale mutamento di cui la potenza è principio – ogni suo attuarsi 19 – viene

18 Cfr. ivi, 1046 a19-26: «È chiaro che, da un lato, la potenza di fare e di patire èun’unica potenza [m…a dÚnamij to" poie�n kaˆ p£scein]: una cosa è potente perchéessa stessa ha la potenza di patire e perché un altro ha la potenza di patire ad operadi essa. D’altro lato, invece, sono diverse: l’una si trova nel paziente [...], l’altra nel-l’agente». Qui Aristotele opera una prima distinzione di carattere topico: la potenza difare è il principio di un mutamento qualsiasi che avviene in una cosa diversa (in al-tro), come nel caso della potenza di costruire (cfr. ivi, 1019 a16 s.: «L’arte di costrui-re [o#kodomik»] è una potenza [dÚnamij] che non si trova [oÙc Øp£rcei] in ciò cheviene costruito [™n t�$ o„kodomoumn�ω]»); mentre, specularmente, la potenza di pati-re è il principio che si trova nel paziente medesimo (ivi, 1046 a12), lo stato [›xij] percui qualcosa è passibile di un certo mutamento (cfr. ivi, 1046 a13).

19 «Non tutte le cose si dicono in atto [™nerge…v] allo stesso modo, ma solo peranalogia [...] Alcune cose si dicono in atto come movimento [k…nhsij] rispetto apotenza, altre come sostanza [oÙs…a] rispetto a una certa materia [Ûlhn]» (ivi, 1048b6-9). Nella sintetica analisi che proponiamo – volta a individuare un unico aspettoessenziale della riflessione aristotelica intorno alla potenza – ci siamo limitati aconsiderare solo il primo rapporto: quello che chiama movimento l’atto della potenza.Si rende perciò utile, prima di procedere, una breve caratterizzazione del movimentocome atto. Innanzitutto è opportuno ricordare che il mutamento è movimento quandosi dà «™x Øpokeimnou e#j Øpoke…menon» (ID., Fisica, tr. it. di L. Ruggiu, Mimesis,Milano 1995, 225 b1-2), ossia quando non è né generazione assoluta – « d’ ™k to"m� Ôntoj ¡pl$j e„j oÙs…an gnesij ¡pl$j» (ivi, 225 a15-16) – né distruzioneassoluta – « ™k t�j oÙs…aj e„j tÕ m� e%nai» (ivi, 225 a18). Nel nono capitolodell’undicesimo libro della Metafisica, costituito da estratti del terzo libro della Fisica,Aristotele scrive: «Chiamo movimento l’atto [™nrgeian] di ciò che è in potenza inquanto è tale. E che diciamo cose vere, è chiaro da questo: quando il costruibile [tÕo„kodomhtÒn], considerato in quanto tale, è in atto [™nerge…v], viene costruito[o„kodome�tai], e questo è la costruzione [o„kodÒmhsij] [...]. E il muoversi[kine�sqai] accade [sumba…nei] quando c’è questo atto [™ntelceia], né prima nédopo [...]. Il movimento sembra essere un certo atto [™nrgeia], ma imperfetto[¢tel»j]; la causa è che il potente [tÕ dunatÕn] di cui esso è atto [™nrgeia], èimperfetto. E per questo è difficile afferrare cosa sia il movimento; infatti è necessarioporlo o nella privazione, o nella potenza, o nell’atto assoluto [™nrgeian ¡pl�n], manessuna di queste cose sembra accettabile. Sicché rimane ciò che abbiamo detto: ilmovimento è atto [™nrgeian], ed è atto nel senso indicato: da comprendere difficile,ma ammissibile che sia [„de�n m�n calep»n ™ndecomnhn d’ e%nai]» (ID., Metafisica,cit., 1065 b16- 1066 a26). La traduzione di ™ntelceia ed ™nrgeia come «atto» nonè dovuta all’intenzione di appiattire i due termini in un unico significato; bensì a

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sottoposto, grazie a questa articolazione, alla condizione che ci sia qualcosain grado di farlo e qualcosa in grado di subirlo. Esso è inteso, per dirla inaltri termini, come l’azione di un principio sull’altro, e nella fattispecie,come l’azione del principio che si trova nell’agente sul principio che si tro-va nel paziente20. Così diciamo, servendoci di uno degli esempi più ricor-renti in questa trattazione, che la costruzione di una casa [o#kodÒmhsij] èl’atto che nasce [g…gnetai] dalla prossimità [plhsiÒthj] della potenza delcostruttore [o#kodomikÒj] con quel materiale [Ûlh] che è passibile di diven-tare una casa21. L’atto è l’incontro del principio del fare con il principio delpatire22: «¢eˆ d’, Ótan “ama tÕ poihtikÕn kaˆ tÕ paqhtikÕn &sin,g…gnetai ™nerge…v tÕ dunatÒn»23.

Queste osservazioni circa il modo in cui la potenza diventa atto ci aiu-tano a comprendere la definizione di potenza: una determinata potenzadeve, per essere tale, avere sempre in altro il principio del mutamento cor-rispondente. La potenza di fare, infatti, è principio di un mutamento deter-minato unicamente a condizione che si dia qualcosa passibile di un talemutamento – anche nel caso in cui non avvenga l’incontro –, altrimenti nél’una né l’altra sono potenza di alcunché. Lo o#kodomikÒj, diciamo, è po-tente di fare una casa purché la Ûlh sia potente di diventarlo; e nel caso incui si perdessero tutti i materiali per fare case, oppure tutti i costruttori di-menticassero la loro arte, l’altro termine perderebbe immediatamente quellaprecisa potenza di fare o di patire. Ogni potenza è potenza rispetto adun’altra; ed è quest’altra potenza ad attuarsi, quando vengono a trovarsi in-sieme: l’incontro con la potenza di patire fa sì ché la potenza di fare simuova – che il costruttore [o#kodomikÒj], avendolo deciso [bouleÚein], di-

quella di evitare che si irrigidisse, mediante l’uso di due parole diverse, una differenzache a volte sembra congetturabile, ma molte altre volte non si riscontra. Cfr. G. REALE,Il concetto di filosofia prima e l’unità della metafisica di Aristotele: con due saggi suiconcetti di potenza-atto e di essere, Vita e Pensiero, Milano 1993, p. 403.

20 ARISTOTELE, Metafisica, cit., 1045 a30 s.: «Nelle cose in cui si da generazione,cos’è dunque causa di questo: dell’essere in atto ciò che è in potenza, se non ciò chefa?». Il corsivo è mio.

21 Cfr. ivi, 1048 a-1049 a.22 La differenza tra potenze razionali [met' lÒgou] e potenze irrazionali

[¥logoi] non deve essere considerata significativa rispetto a questo punto. Le tcnaie le poi �ηtikaˆ ™pist�mai, sebbene siano principio di ambedue i contrari in quantopotenze razionali (cfr. ivi, 1046 b), si rivolgeranno sempre ed esclusivamente all’unoo all’altro di essi, ponendosi quindi come potenze determinate. Cfr. ivi, 1047 b35-1048 a15.

23 ID., Fisica, cit. [traduzione leggermente variata], 255 a34 s.: «Sempre infatti,quando l’agente e il paziente si trovino insieme, diventa in atto il potente».

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venga costruente [o„kodomo"n]24 – e che, diventata attiva, agisca sulla po-tenza di patire muovendola25. Vediamo dunque che tutt’e due le potenzesono, l’una rispetto all’altra, il principio del mutamento nell’altro: l’unaprovoca il mutamento che l’altra permette, modificandosi entrambe in ununico atto che viene logicamente scandito nei suoi due movimenti26.

Ciò che una potenza può fare all’altra, così come ciò che l’altra puòpatire dalla prima, è una reciproca determinazione stabilitasi nell’incontro:sono le possibilità che ognuna delle due possiede riguardo e in virtù del-l’altra. Da qui nasce un atto unico essenzialmente determinato da entrambii principi e come tale irriducibile interamente a uno soltanto dei due; ciòche nella descrizione degli esseri del “corpo” abbiamo chiamato comandoed obbedienza: la imposizione di un’azione che proviene dal superiore e sirealizza nell’esecuzione dell’inferiore, ricevendo le sue determinazioni es-senziali dalla potenza di entrambi. Una potenza singola, infatti, risulta im-pensabile: essa è tale solo rispetto ad altre potenze dalle quali è determinatanelle proprie possibilità.

24 Cfr. ivi, 1048 a30-1048 b6: «Atto è l’esistere [Øp£rcein] della cosa [tÕpr)gma] non così come diciamo che è in potenza [m� o“utwj ésper lgomendun£mei] [...] Ciò che vogliamo dire diventa chiaro per induzione nei casi particolari,e non c’è affatto bisogno che ci mettiamo a cercare la definizione di ogni cosa, mabasta che noi riusciamo a cogliere l’analogia [tÕ ¢n£logon sunor)n]: come ilcostruente [o#kodomo"n] sta al costruttore [o#kodomikÒn], e lo sveglio al dormiente, eil vedente a chi ha gli occhi chiusi avendo la vista, e ciò che è ricavato dalla materiaalla materia, e ciò che è elaborato [tÕ ¢peirgasmnon] a ciò che non è elaborato [tÕ¢nrgaston]. Al primo termine di questa differenza sia assegnata l’atto, all’altro lapotenza».

25 Questa caratterizzazione si addice chiaramente solo ai motori in movimento,che passano cioè dalla potenza all’atto, e non ad un motore immobile. Cfr. W. WIELAND,La fisica di Aristotele, tr. it. di C. Gentili, Il Mulino, Bologna 1993, in particolare ilterzo capitolo Le strutture fondamentali del mondo della natura.

26 «L’atto di questo in quello [to"de ™n t �$de] e l’atto di questo da quello[to"de ØpÕ to"de] è diverso riguardo al discorso [t �$ lÒgJ]» (ARISTOTELE, Fisica,cit., 202b21 s.). Il che non toglie che l’atto sia uno: «È chiaro che il movimento è nelmobile [™n t�$ kinht �$]: l’atto [™ntelceia] di questo infatti è ad opera di ciò chemuove [ØpÕ to" kinhtiko"]. E l’atto [™nrgeia] di ciò che muove non è altro [oÙk¥llh ™st…n]; bisogna infatti che l’atto [™ntelceian] sia di ambedue. È motore[kinhtikÕn] in quanto è in potenza, è movente [kinoàn] in quanto invece è in atto[t�$ ™nerge�n]; ed è attualizzatore del mobile [œstin ™nerghtikÕn to" kinhto"]. Co-sicché un unico atto [m…a ™nrgeia] e allo stesso modo è per ambedue: come è lostesso l’intervallo tra l’uno e il due e tra il due e l’uno, e così come la salita e la di-scesa: l’essenza però non è una [¢ll' tÕ e%nai oÙc ›n]. E nello stesso modo stannole cose circa il movente [to" kino"ntoj] e il mosso [kinoumnou]» (ID., Metafisica,cit., 1066 a26-34).

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Vediamo così emergere un aspetto del rapporto gerarchico che primarischiava di passare totalmente inosservato: la determinazione dell’azioneavviene sì dall’alto verso il basso, da chi ha la capacità di fare nei confron-ti di chi è suscettibile di patire, ma il condizionamento, invece, è reciproco:non si dà soltanto da chi comanda verso chi obbedisce, ma anche, e inmodo altrettanto essenziale, da chi obbedisce verso chi comanda, in quantoil comandante può ordinare soltanto ciò che i subordinati sono in grado dieseguire27.

Notiamo subito, inoltre, che le potenze che costituiscono il “corpo” nonsono mere possibilità – non sono cioè ™n dun£mei – bensì attività: ognunadi esse esplica ad ogni istante tutte le possibilità che ha; produce e subiscetutti gli effetti di cui è capace. L’incontro da cui scaturisce l’atto unico nonè un evento che avviene e che può non avvenire, ma l’essenza stessa deiquanta: essi sono, abbiamo detto, «quanti di energia [Kraft–Quanta] la cuiessenza consiste nell’esplicare potenza su tutti gli altri quanti di energia»28.La prossimità essenziale a tutti gli altri quanta, nella quale ogni quantumdetermina la propria potenza, è una condizione senza la quale i quanta nonsarebbero tali. Tuttavia, dobbiamo aggiungere, non è questa ancora la lorointera essenza: l’attività dei quanta non è un mero esplicare potenza. Laloro essenza è esplicare potenza a partire da una determinata prospettiva,secondo un proprio “sì e no”; in caso contrario, mancando ogni altro crite-rio per la loro individuazione, non si potrebbe parlare di “diversi” quanta.

Ci avviciniamo così alla seconda difficoltà da risolvere. Se devono con-tinuare ad essere molteplici, le attività del “corpo” non possono perdere laloro prospettiva costitutiva, il loro “giudizio di valore”. Devono essere pen-sate come aventi un’“intenzione” che le qualifichi, in base alla quale cia-scuna sia effettivamente diversa dall’altra. Ma qual è questa prospettiva for-malmente identica che pone ogni attività nella sua singolarità? Essa è l’au-mento della propria potenza: «Un quanto di potenza è definito dall’effettoche esplica e a cui resiste. Manca l’adiaforia; che di per sé sarebbe pensa-bile. È essenzialmente una volontà di sopraffare e di difendersi dalla sopraf-fazione. Non autoconservazione: ogni atomo proietta la sua azione in tuttol’essere – lo si sopprime se si sopprime questa irradiazione di volontà dipotenza. Perciò lo chiamo un quanto di “volontà di potenza”»29. L’attività

27 Nietzsche pone questa duplice determinazione dell’azione comandata alla basedella sua interpretazione dell’atto volitivo in i. a. F. NIETZSCHE., Al di là del bene e delmale, cit., af. 19; ID., Frammenti postumi 1884, cit., fr. 27 [19]; ID., Frammenti postu-mi 1884, cit., fr. 27 [65].

28 Cfr. supra nota 16.29 ID., Frammenti postumi 1888–1889, fr. 14 [79].

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dei quanta non si limita esplicare potenza, ma lo fa con una precisa “inten-zione”, ed è per questo che sono, essenzialmente, quanti di volontà di po-tenza: potenza con l’intenzione di accrescersi.

Sappiamo, però, che il termine “volontà” non può significare qui unafacoltà che determina l’attività e rimane oltre il suo compimento. Non sipuò trattare della “volontà” come la si intende comunemente, dato chemanca appunto l’“essere” che dovrebbe essere in possesso di tale facoltà.Essa è invece un’attività che si esplica già da sempre con un unico obietti-vo30. “Volontà di potenza” significa propriamente che questi due termini –l’attività e il fine a cui questa attività si volge – sono posti e tolti insieme,che non si dà una potenza (un agire) che non sia nel contempo volontà dipotenza, così come non si dà una volontà (un’intenzione) che non sia nelmedesimo istante una precisa quantità di forza che si esplica.

Possiamo quindi osservare che in virtù della sua unica direzione – ac-crescersi – una quantità di movimento si contrappone, resiste e si esplicasull’attività diretta diversamente, e così si distingue come un determinatoquantum: «Se A agisce su B, solo allora A è localizzato, separato da B»31.La sua “intenzione” di piegare la direzione degli altri e di resistere nellapropria, in evidente conflitto con la medesima “intenzione” delle potenzerestanti, fa sì che la sua quantità si determini e si opponga alle altre. Que-sta dinamica configura l’attività complessiva del “corpo” come un insiemedi centri di forza che lottano per accrescersi; una lotta in cui lo scopo del-l’attività dei diversi centri, pur essendo per tutti l’aumento della potenza, èun unicum per ciascuno di essi: «Ogni centro di forza ha per tutto il restola sua prospettiva, cioè la sua affatto determinata scala di valori, il suo tipodi azione, il suo tipo di resistenza»32.

La concezione fisiologica della morale è, in ultima istanza, l’applica-zione alla dinamica fisiologica di quel “tentativo di una nuova interpretazio-ne” i cui presupposti metodologici sono esposti con chiarezza nel af. 36 di

30 Per Nietzsche l’unica rappresentazione accettabile di «volontà» è quella in cuiessa è posta come un’attività orientata allo scopo, mentre la «volontà» intesa come fa-coltà è un residuo atavico dell’antica fede nella magia (ID., Gaia scienza, cit., af.127), una falsa concretizzazione (ID., Frammenti postumi 1885–1887, cit., fr. 1 [62]),un errore funesto (ID., Crepuscolo degli idoli, tr. it. di F. Masini, in op. cit, vol. VI,tomo III, p. 72), etc. Cfr. ID., Frammenti postumi 1888–1889, cit., fr. 14 [121]. In ID.,Frammenti postumi 1887–1888, cit., fr. 11 [114] scrive: «Non esiste un “volere”, masolo un volere qualcosa; non si deve separare il fine dallo stato, come fanno i teoreti-ci della conoscenza. Il “volere”, come essi lo intendono, esiste tanto poco quanto il“pensare”: è una pura finzione».

31 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1888–1889, cit., fr. 14 [80].32 Ivi, fr. 14 [184].

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Al di là del bene e del male: «L’uomo come una pluralità di «volontà dipotenza»: ciascuna con una pluralità di espressioni e forme. Le pretese“passioni” singole (per esempio l’uomo è crudele) sono soltanto unità fitti-zie, in quanto si stringe insieme e si considera sinteticamente come un “es-sere”, una “facoltà” o una passione ciò che, provenendo dai diversi istintifondamentali, entra nella coscienza come omogeneo»33.

II. L’autosuperamento della morale dal punto di vista «fisiologico»

Ora che abbiamo guadagnato una visione d’insieme sulla concezionefisiologica, possiamo servirci di essa per tentare di comprendere ciò cheNietzsche chiama «l’autosuperamento della morale». La prima osservazioneche dobbiamo fare è che, dati i due diversi tipi di morale che abbiamo rico-nosciuto nel “corpo”, quello generale e quello specifico, solo il secondo,quello concettuale, si presta ad essere in qualche modo tolto [aufgehoben],giacché l’altro tipo di morale, dal momento che coincide con la prospettivacostituiva dei diversi quanta di “volontà di potenza” che conformano il“corpo”, non può venir annullato senza che il corpo sia ipso facto cancella-to. Questa osservazione sembra essere suffragata da un frammento dell’au-tunno del 1887, nel quale l’esigenza di subordinare la morale cosciente e ilsuo giudizio di valore alla vita complessiva dell’intero corpo, esprime im-plicitamente la necessità di porre fine [aufheben] al comando supremo dellacoscienza: «Rispetto al mondo immenso e molteplice di un lavoro delleparti le una contro l’altra o l’una a favore dell’altra, quale è rappresentatodalla vita complessiva di ogni organismo, il suo mondo cosciente di senti-menti, intenti, giudizi di valore è una piccola sezione. Di fissare questo

33 ID., Frammenti postumi 1885–1887, cit., fr. 1 [58]. Altri frammenti in cui iprocessi fisiologici sono spiegati in base all’ipotesi della volontà di potenza come for-ma fondamentale della realtà sono: ivi, 2 [148]; ID., Frammenti postumi 1887–1888,cit., fr. 9 [13]; Ivi, 11 [96]; Ivi, 11 [111]; ID., Frammenti postumi 1888–1889, cit., fr.14 [121]. Si ricorderà che «Tentativo di una nuova interpretazione di ogni accadere»era il sottotitolo del primo piano per il progetto «La volontà di potenza», risalente al-l’estate del 1885. Cfr. ID., Frammenti postumi 1884–1885, cit., fr. 39 [1]. Le conside-razioni principali dell’af. 36, che qui ci limiteremo ad enunciare senza esaminare indettaglio, sono 1) l’assunzione del «mondo di bramosie e di passioni» come l’unicarealtà a cui abbiamo accesso (cfr. anche ID., Frammenti postumi 1885–1887, cit., fr. 2[83]); e 2) l’imperativo metodologico di far valere un’unica specie di causalità fintan-toché è possibile, per cui si ha che «se noi effettivamente riconosciamo la volontàcome agente, se noi crediamo alla causalità del volere: se ci comportiamo in questomodo – e in fondo la fede in tutto questo è appunto la nostra fede nella causalità stes-sa –, siamo costretti a fare il tentativo di porre ipoteticamente la causalità del volerecome causalità esclusiva» (ID., Al di là del bene e del male, cit., af. 36).

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frammento di coscienza come scopo, come perché di quel fenomeno globa-le di vita, non abbiamo nessun diritto: manifestamente l’acquistare coscien-za è solo un mezzo in più per il dispiegamento e l’ampliamento di potenzadella vita [...] Una determinata specie di mezzi è stata fraintesa come sco-po; la vita e il suo accrescimento di potenza sono stati invece abbassati amezzi [...] L’errore fondamentale sta sempre nel fissare la coscienza – inve-ce che come strumento e dettaglio della vita complessiva – come criterio,come stato sommamente pregevole della vita: insomma l’errata prospettivadell’a parte ad totum»34.

Ammettiamo dunque, almeno in via provvisoria, che la critica nietz-schiana si proponga di “togliere” – qualsiasi preciso significato possa assu-mere in seguito questo concetto – quella morale identificata con l’attivitàdella coscienza. Quali sarebbero, però, le ragioni di un tale “superamento”?Noi sappiamo che la critica nietzschiana alla morale si muove di preferenzasu due binari: in primo luogo 1) si sforza di mostrare l’inadeguatezza dellamorale rispetto all’accadere dei fatti, la mancanza di verità dei suoi concettie del suo procedere, e finisce per liquidare, in quanto falsi, tutti gli elemen-ti fondamentali con cui si sono da sempre costruiti i sistemi morali: il con-cetto di “io”, di “libertà”, di “responsabilità”, etc.; e in secondo luogo, 2)segnala e ammonisce circa la perniciosità di certi “valori” tenuti in alto pre-gio dalla morale dominante (cristiana e moderna), come l’altruismo, lacompassione, l’uguaglianza tra gli uomini, etc.35. Ora, tenuto conto di questidue filoni di pensiero, ci tocca domandare: 1) il “superamento” della mora-le è dettato dalla sua mancanza di verità, ossia: la morale deve essere supe-rata perché è falsa?; e nel caso che non fosse questo effettivamente il mo-vente, 2) si tratta forse di eliminare certi valori che impediscono qualcosacome lo sviluppo dell’umanità, per sostituirli con altri valori che invece lopromuoverebbero?

34 ID., Frammenti postumi 1887–1888, cit., fr. 10 [137]. Cfr. anche ivi, 11 [83];ID., Frammenti postumi 1882–1884, vol. II, tr. it. di L. Amoroso e M. Montinari, inOpere, cit., vol. VII, tomo I, parte II, fr. 24 [16]).

35 Data la centralità di questi concetti e la frequenza con cui sono utilizzati, ana-lizzati e definiti, una scelta dei passi più significativi sarebbe, oltre che inutile, ancheeccessivamente abbondante; perciò preferisco rimandare all’ancora insuperato Nietz-sche-Index approntato da K. SCHLECHTA per la sua edizione in tre volumi (Hanser,München 1965). Qui si possono consultare, nell’ambito di quella edizione, tutte le ri-correnze dei più importanti concetti nietzschiani nei loro diversi usi. Inoltre ci si puòvalere, ma purtroppo solo in parte, del Nietzsche-Wörterbuch (2004) pubblicato daWalter de Gruyter, Berlino, giacché l’ambizioso progetto della casa editrice tedesca haprodotto per il momento soltanto uno dei quattro volumi programmati, la cui ultima-zione è prevista per il 2011.

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1) Abbiamo visto che secondo la concezione fisiologica della moralel’attività della coscienza non è di un genere diverso rispetto a tutte le altreattività del “corpo”: tutti gli esseri del “corpo”, inclusa la coscienza, inter-pretano e falsificano ciò che avviene dentro e fuori di esso secondo la pro-pria prospettiva costitutiva. Ciascun quantum di volontà di potenza si servecostantemente della falsità e la bugia, perché la sua attività e rivolta soltan-to all’accrescimento della propria potenza, non alla verità: esso è, posto chesi identifichi l’agire morale con l’essere veritieri, una natura essenzialmenteimmorale. L’attività della coscienza è immorale, e lo è anche la “moralità”intesa come ideale cosciente dell’umanità: «La vittoria di un ideale moraleviene ottenuta con gli stessi mezzi “immorali” di ogni altra vittoria: violen-za, menzogna, denigrazione, ingiustizia»36. Questo, però, non può derivarein una scomunica della morale, non può essere usato come argomento con-trario alla sua esistenza, giacché, se così fosse, si starebbe inavvertitamentefacendo valere quello stesso ideale che si vuole bandire. Vale a dire: chel’ideale della “verità” (che la verità esista) si riveli falso e fondato su unmalinteso, non depone contro questo ideale se non a condizione che si ri-manga sotto la sua influenza37. La concezione fisiologica della morale, po-stulando la falsità dell’attività della coscienza e di ogni suo ideale, non eli-mina la loro validità, piuttosto la rende – per usare una espressione diNietzsche – «naturale»: la intende come relativa ad un attività fisiologica ealla sua volontà di potenza: «Posso definire la tendenza di questo modo divedere come naturalismo moralistico; il mio compito è di ritradurre i valorimorali apparentemente emancipati e divenuti senza natura nella loro natura– ossia nella loro naturale “immoralità”»38.

La morale cosciente, quindi, non deve essere superata a ragione dellasua falsità. 2) Si tratta allora di sostituire i suoi ideali con altri? Di educarela coscienza in modo che impari un nuovo bene ed un nuovo male? Anchequesta interpretazione è da respingersi. Ciò, infatti, non costituirebbe un“superamento” della morale come fenomeno, bensì soltanto la sostituzionedi una sua forma con un’altra.

Stando così le cose, cerchiamo di individuare i moventi del “superamen-to” partendo dall’intento fondamentale che abbiamo presupposto: lo scardi-namento della morale cosciente. Noi abbiamo visto che questa morale, inquanto attività della coscienza, è un insieme di “comandi” rivolti a se stessi eagli altri. Aggiungiamo ora, accogliendo i due filoni critici appena esaminati,che in base a certi errori concettuali essa classifica le azioni umane come

36 F. NIETZSCHE., Frammenti postumi 1885–1887, cit., fr. 7 [6].37 Ibidem.38 ID., Frammenti postumi 1887–1888, cit., fr. 9 [86].

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“buone” e come “cattive”. Questa classificazione che distingue l’agire in duesfere essenzialmente diverse, possiamo osservare, pone allo stesso tempo unavalutazione intorno alla loro “desiderabilità”. Vale a dire: la prima classe diazioni (buone) deve essere inseguita, mentre l’altra (cattive) deve essere evi-tata. Detta “desiderabilità” mostra chiaramente l’ideale regolativo della mora-le cosciente, la condizione di perfezione che essa proietta sulla realtà e allacui realizzazione tende con ogni suo sforzo, cioè: una esistenza in cui si diasoltanto un agire “buono”, in cui la vita sia spogliata dal “male”, in cui ogniatto “immorale” sia stato rimosso; detto kantianamente: il prototipo dellasantità39. Questo ideale, però, in cui la distinzione tra “bene” e “male” è inte-sa in senso essenziale, ontologico, e non come una valutazione prospettica40,conduce necessariamente alla equazione tra “immorale” e delendum;un’equazione in cui Nietzsche scorge la fonte prima degli effetti rovinosidella morale cosciente sulla salute del “corpo”: «Questo modo di pensare,con cui si alleva un determinato tipo d’uomo, muove da questo assurdo pre-supposto: prende il bene e il male come realtà che siano in contraddizionetra loro (e non come concetti complementari di valore, il che sarebbe la veri-tà), consiglia di prendere il partito del bene, pretende che il buono rinunci esi opponga al male fin nell’ultima radice – e in tal modo nega in realtà lavita, che ha in tutti i suoi istinti tanto il “sì” quanto il “no”»41.

La morale cosciente, con la sua classificazione e la sua aspirazione,nega in primo luogo il carattere essenziale dell’attività vitale messo in lucedalla concezione fisiologica, ossia il fatto che ogni agire è determinato daun “sì” e un “no”, dall’amare e dall’odiare, dall’assimilare e respingere.Questo ideale, che è secondo Nietzsche la maggiore stortura che si abbiaavuto finora in psychologicis42, non è capace di vedere che ogni quantum divolontà di potenza del “corpo” perde il suo “sì” insieme al suo “no”, datoche queste non sono due realtà distinte e separate, bensì due aspetti dellasua attività vitale, della sua esplicazione di potenza. La volontà della mora-le cosciente di eliminare il “no”, sostiene Nietzsche, riposa in una doppia

39 Cfr. I. KANT, Critica della ragion pratica, in ID., Scritti morali, tr. it. di P. Chio-di, UTET, Torino 1970. La santità è per Kant l’esclusione di «qualsiasi massima con-traddittoria con la legge morale» (ivi, p. 169); una condizione irraggiungibile alla qua-le l’uomo deve, nonostante e perciò, continuamente aspirare.

40 Come avviene invece nella concezione fisiologica della morale: «Intuizionefondamentale: le qualità “buone” e quelle “cattive” sono in fondo identiche – si fon-dano sugli stessi istinti dell’autoconservazione, dell’assimilazione, scelta, intenzione diprocreazione, e così via» (F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1884, cit., fr. 25 [488]).Riguardo all’ideale morale, cfr. ID., Frammenti postumi 1888–1889, cit., fr. 15 [113]).

41 Ibidem.42 Ibidem.

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incomprensione: da un lato essa non si accorge di rendere impossibile cosìil fenomemo “vita”, che in ogni “sì e no” dice il suo “sì”43; dall’altro, nonsi rende conto di essere essa stessa una forma di vita, di volontà di poten-za, e che nel voler eliminare il “no” che pronuncia la vita, emette anch’essail suo “no”, a cui non può rinunciare intanto che esiste44.

In questa doppia incomprensione si radica la convinzione della moralecosciente di essere una potenza esclusivamente positiva. In quanto presumedi dire soltanto di “sì” e di sradicare il “male” che si trova nell’uomo (duecose contronatura secondo la concezione fisiologica), essa può credere “inbuona coscienza” – sit venia verbo – che i suoi comandi guidino verso ilpiù alto dei beni, che la sua meta, il suo ideale regolativo, sia il fine ultimoe più degno dell’agire umano. Così essa fraintende completamente il suocarattere di strumento. Ma questa aspirazione – secondo la quale tutto quelche ad essa appare come “male”: l’odio, la brama di possesso, l’inimicizia,la crudeltà, ecc., deve scomparire – è, vista dall’ottica della concezione fi-siologica, una cura debilitante, giacché tutti questi affetti “cattivi” sono tan-to necessari quanto quelli buoni45. La volontà della morale di cancellarequesti affetti conduce ad un impoverimento del “corpo”, ad un dimezza-mento della sua potenza. Solo quegli istinti che si mostrano alla coscienzasub specie boni hanno per essa diritto di cittadinanza nel “corpo”, intantoche tutte le altre forze devono essere eliminate. Tuttavia, nota Nietzsche,questa doppia incomprensione non è soltanto una via verso l’indebolimento.Essa risponde già, in quanto attività volta a ridurre la potenza del “corpo”,ad uno stato complessivo di debolezza, ad una incapacità da parte dell’istin-to che domina attraverso la coscienza di assoggettare senza distruggere:«Invece di dominare e di economizzare le grandi fonti di energia, i torrentidell’anima che irrompono spesso in modo così pericoloso e travolgente,

43 «In tutte le correlazioni di sì e no, di preferire e respingere, amare e odiare, siesprime solo una prospettiva, un interesse di determinati tipi di vita: in sé tutto ciòche è dice sì» (ivi, 14 [31]).

44 «Ma persino qui la vita riesce ad avere ragione – la vita che non sa separare il“sì” dal “no”; a che serve ritenere, con tutte le forze, malvagia la guerra? non volerfar male, non voler far “no”? Si fa la guerra lo stesso! non si può fare altrimenti!L’uomo buono, che ha rinunciato al male, affetto, come gli sembra desiderabile, daquell’emiplegia della virtù, non cessa in modo alcuno di fare la guerra, di avere nemi-ci, di dire “no”, di fare “no”. Il cristiano per esempio odia il “peccato”!...» (ivi, fr. 15[113]).

45 ID., Frammenti postumi 1887–1888, cit., fr. 10 [133]. Si noti però che questiaffetti “negativi” sono non solo “necessari” nel senso di essere “tollerati” come condi-zione di esistenza dei lati più ameni; essi sono bensì desiderabili in sé stessi; cfr. alriguardo Ivi, fr. 10 [3] e le osservazioni sulla crudeltà fatte nella seconda dissertazionedella Genealogia della morale.

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questo modo di pensare miopissimo, e rovinosissimo, il modo di pensaremorale, vuole farli inaridire»46.

La morale cosciente (o meglio: l’istinto che si serve di essa per impor-si) è incapace di dominare ciò che giudica “male”, e cerca perciò di cancel-larlo. Lì dove un istinto forte terrebbe a freno gli altri subordinati e li fa-rebbe lavorare per sé, essa li annienta, li distrugge. La liberazione da questomodo di pensare ottuso e limitante, che coincide con la restituzione dellacoscienza al suo ruolo di strumento, è proprio l’aspetto del “superamentodella morale” che stiamo cercando di portare alla luce. Non semplicementeun affrancare gli istinti da ogni vincolo e autorità – Nietzsche riserva dureparole per questa forma di “misarchia” –, bensì la sostituzione della moralecosciente con una nuova volontà sufficientemente forte da dominare il restodegli istinti senza doverli eliminare. La differenza tra il dominio esercitatodalla morale cosciente e quello di questo nuovo istinto sovranno è da cer-carsi, dunque, nella diversa curva di potenza che ciascuno dei due fa descri-vere ai “corpi” in cui operano, rispettivamente discendente e ascendente;ma ancor di più, ed è qui che si trova l’elemento decisivo, nello stato dipotenza iniziale dei “corpi” suddetti, dato che tanto il “corpo” che si servedella doppia incomprensione della morale per annullare i forti istinti che loturbano, quanto quello che li può coordinare sotto la signoria di un istintoancora più forte, possiedono questa debolezza e questa forza fin dal princi-pio. Il “superamento della morale”, pertanto, presuppone come condizionedi possibilità l’esistenza di un tale istinto: una forte volontà in grado di do-minare tutte le altre senza servirsi della morale cosciente.

In questo nuovo ordinamento che subentra alla morale, i forti istintiche di norma sconvolgono l’agire umano non sono né temuti né calunniati,bensì padroneggiati e messi al servizio di quello dominante. Questa condi-zione è detta da Nietzsche grandezza di carattere47, uno stato di “salute” in

46 ID., Frammenti postumi 1888–1889, cit., fr. 14 [163]. «L’intolleranza della mo-rale è espressione della debolezza dell’uomo: egli teme la propria “immoralità”, deverinnegare i propri impulsi più forti, non sapendoli ancora utilizzare...» (ID., Frammentipostumi 1887–1888, cit., fr. 10 [206]). Cfr. anche ID., Frammenti postumi 1888–1889,cit., fr. 14 [157]; ID., Frammenti postumi 1885–1887, cit., fr. 1 [122]; 1 [4].

47 «La cieca cedevolezza verso un affetto, non importa affatto che si tratti di unaffetto generoso e pietoso oppure di uno ostile, è causa dei più grandi mali... La gran-dezza del carattere non consiste nel non possedere questi affetti – al contrario, li sideve possedere in grado temibilissimo – bensì nel tenerli a freno... e anche in talcaso, non per il piacere di domarli, ma solo perché...» (ID., Frammenti postumi 1887–1888, cit., fr. 11 [353]). Il frammento è monco e finisce così; noi, però, possiamocongetturare una conclusione a partire da un frammento di qualche mese successivo:«Il dominio delle passioni, non il loro indebolimento o la loro estirpazione! Quanto

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cui l’istinto che si trova al vertice della gerarchia è tanto potente da deside-rare che i suoi avversari-strumenti non soltanto conservino, bensì accresca-no la loro potenza, dato che l’aumento di questa è un modo di estendere lapropria. Al contrario di quanto avveniva sotto il dominio della morale co-sciente, in questa nuova condizione il “corpo” è portato al potenziamento,all’arricchimento e alla gerarchizzazione dei suoi istinti. Il nuovo “sì e no”che domina il “corpo”, quello dell’istinto più forte, non impoverisce il “cor-po” come lo faceva il “sì e no” della morale cosciente, che proprio per que-sto, per il suo carattere depauperante, viene tolto, levato, “superato” dal “sìe no” che sopraggiunge. Il forte istinto che domina nella grandezza è co-stretto dalla sua natura a fare così; altrimenti – vale a dire: se non impones-se al “corpo” il proprio “sì e no” togliendo il “sì e no” della morale co-sciente – sarebbe condannato, sotto il dominio della morale, a depotenziar-si. Eccolo qui, dunque, il movente fisiologico del “superamento”: esso èdettato dalla volontà di potenza di un forte istinto che si trova già nel “cor-po”. E con questo movente abbiamo trovato anche la dinamica del-l’“autosuperamento”: per inseguire il “bene” del “corpo” – la sua potenzasecondo la concezione fisiologica – la morale del “corpo” deve abolire igiudizi morali coscienti. Un’abolizione che, in base a quanto detto, non puòvoler indicare la soppressione della coscienza, l’eliminazione della pluralitàe ricchezza dei suoi fenomeni; ciò sarebbe ancora il miope modo di pensaremorale che cerca di distruggere qualsiasi resistenza le si opponga. Il “supe-ramento” della morale cosciente ad opera della morale del “corpo” deve es-sere inteso invece secondo la determinazione del concetto data da Hegelnella sua Scienza della logica48. Si capisce così che il giudizio di valore co-sciente non viene semplicemente abolito, bensì depredato della sua verità eautorità, e in questo modo, una volta restituito alla sua condizione di stru-mento, mantenuto come utile mezzo di comando dell’istinto dominante.“Autosuperamento della morale” è, in questa prospettiva, il fatto che la mo-rale cosciente, idealmente emancipata dal “corpo”, venga ricondotta dallamorale del “corpo” al suo ruolo di strumento.

più grande è la forza di dominio della nostra volontà, tanta più libertà si può concede-re alle passioni. L’uomo grande è grande per il campo d’azione della libertà dei suoidesideri; ma egli è abbastanza forte per fare di questi mostri i suoi animali domesti-ci...» (ID., Frammenti postumi 1888–1889, cit., fr. 16 [7]).

48 «La parola togliere [Aufheben] ha nella lingua il doppio senso, per cui valquanto conservare, ritenere, e nello stesso tempo quanto far cessare, mettere fine» (G.W. F. HEGEL, Scienza della logica, tr. it. di A. Moni, Laterza, Roma–Bari 2004, p. 100),cosicché «il tolto è insieme un conservato, il quale ha perduto soltanto la sua imme-diatezza, ma non perciò è annullato» (ibidem).

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Questa subordinazione è la salute di un “corpo” che ha perso la fedenella morale, che già non è più in grado di concepire un istinto come sem-plicemente “buono” o semplicemente “cattivo”; la salute di un “corpo” giun-to finalmente alla consapevolezza che “buono e cattivo” si danno insieme,che dove manca il “cattivo” il “buono” non può che essere debole, e chedove si ha il “bene” nella sua massima potenza, lì si ha anche “il male” inegual misura. Il “superamento” della morale cosciente, l’“autosuperamento”della morale del “corpo” che toglie i suoi vecchi sì e no per porsene nuovi, èdunque, al tempo stesso, una “trasvalutazione dei valori”, in quanto ciò chela morale cosciente vede come “bene”, proprio l’ideale che essa tenta di farcalare sulla terra, appare al nuovo istinto dominante come qualcosa da evita-re; mentre tutto quel che essa ritiene “male”, tutti gli aspetti “negativi” del-l’esistenza che la coscienza morale vorrebbe cancellare, vengono ricercati daquesto istinto come condizioni di potenziamento, come ciò senza di cui nonpuò darsi grandezza. Una prosopopea di questo istinto non userebbe parolemolto diverse da queste: «Che cos’è mediocre nell’uomo tipico? Che noncomprenda come necessario il rovescio delle cose; che combatta gli inconve-nienti come se se ne potesse fare a meno; che non voglia accettare con l’unacosa l’altra – che voglia cancellare ed estinguere il carattere tipico di unacosa, di una situazione, di un’epoca, di una persona, in quanto approva sol-tanto una parte delle loro qualità, mentre le altre vorrebbe eliminarle. Ciòche noialtri combattiamo è quello che i mediocri trovano “desiderabile”:l’ideale inteso come qualcosa in cui non debba restare nulla di nocivo, dimalvagio, di pericoloso, di problematico, di distruttivo. La nostra visione èprecisamente l’opposta: che con ogni crescita dell’uomo debba crescere an-che il suo rovescio, che l’uomo più alto, posto che tale concetto sia consen-tito, sia l’uomo che rappresenta al massimo il carattere antitetico dell’esi-stenza, come sua gloria e unica giustificazione... Gli uomini ordinari possonorappresentare solo un cantuccio e un angolino piccolissimo di questo caratte-re naturale: si rovinano subito, quando cresce la molteplicità degli elementi ela tensione degli opposti, ossia la condizione preliminare per la grandezzadell’uomo. Che l’uomo debba diventare migliore e peggiore, è la mia formu-la per questa inevitabilità...»49.

III. A chi si rivolge questo insegnamento?

Con questa parziale ricostruzione della critica nietzschiana alla morale –parziale in quanto considerata da un unico punto di vista: quello fisiologico –abbiamo cercato di crearci le condizioni per rispondere alla domanda che po-

49 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1887–1888, cit., fr. 10 [111].

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nemmo all’inizio: chi sono i destinatari di questa dottrina? Ora possiamo ve-dere più chiaro il senso di questa domanda. Posto che la critica nietzschiananon sia da intendersi unicamente come la descrizione di uno stato di cose,bensì anche come un insegnamento volto a produrre effetti, come una conse-guente sollecitazione ad attuare e rendere pratico ciò viene appreso per via te-oretica, è opportuno chiedere: chi sono, secondo Nietzsche, quelli che possonofare proprie queste dottrine, coloro in grado di cogliere i frutti di questa suaesperienza? Oppure riteniamo che essa si rivolga a tutti gli uomini allo stessomodo? In altre parole: v’è un “tipo di uomo” a cui è riservato il “superamentodella morale” come obbligo e privilegio? E se sì, quale?

La prima parte della risposta l’abbiamo già rinvenuta. Questa dottrinasi rivolge soltanto a quelli che hanno in sé la possibilità di attuare il “supe-ramento”: «Superflua è ogni teoria, per la quale non sia già pronto tutto,come forze accumulate, come esplosivi. Si raggiunge una trasvalutazione divalori solo quando esiste una tensione di nuovi bisogni, di nuovi bisognosi,che soffrono dei valori vecchi»50. La “trasvalutazione dei valori” insegnatada Nietzsche rimane una teoria superflua lì dove non si trovi un uomo che,sofferente della morale cosciente, debba risolversi per l’abolizione dellamorale oppure per lo sradicamento del suo più forte istinto: «Trasvalutare ivalori – che sarebbe ciò? Devono esserci tutti i movimenti spontanei, quellinuovi, futuri, più forti; ma si trovano ancora sotto falsi nomi e valutazioni enon sono ancora divenuti consapevoli di se stessi. Un coraggioso prenderecoscienza e dir sì a ciò che è stato raggiunto. Un liberarsi dall’andazzo se-condo i vecchi giudizi di valore, che ci abbassano in quanto di meglio e dipiù forte abbiamo raggiunto»51.

Tutto quel che Nietzsche insegna riguardo alla perniciosità della mora-le, alle ragioni per cui va “superata”, al condizionamento reciproco tra “buo-no” e “cattivo”, costituisce certamente, per chiunque porga l’orecchio, un in-teressante materiale di riflessione, ma solo per “i nuovi bisognosi” esso èanche qualcosa di più, una intima possibilità da realizzare, un appello, una«lenza d’oro»52, un segnale di fuoco, un «segno interrogativo per quelli chehanno la risposta...»53. Ma chi sono questi uomini? Nietzsche li chiama coni nomi più diversi: buoni europei, uomini superiori, malriusciti, solitari, etc.54

50 Ivi, fr. 9 [77].51 ID., Frammenti postumi 1887–1888, cit., fr. 9 [66].52 ID., Così parlo Zarathustra, tr. it. di M. Montinari, in Opere, cit., vol. VI,

tomo I, parte IV, cap. Il sacrificio col miele, p. 288.53 ID., Il fuoco del faro, in ID., Ditirambi di Dioniso, tr. it. di G. Colli, in Opere,

cit., vol. VI, tomo IV, p. 39.54 Per la localizzazione di questi concetti nell’opera di Nietzsche, cfr. n. 36.

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Una loro caratterizzazione, per quanto generale, meriterebbe una trattazionea sé. Limitiamoci dunque a considerare un unico tratto loro distintivo; unacontraddizione che li definisce in quanto tali e che emerge da ciò che abbia-mo detto fin qui.

La forza straripante di un istinto scardina in questi uomini il “sì e no”della morale cosciente. I parametri tradizionali che interpretano e regolanol’agire umano si dileguano per loro. Tutto quel che l’uomo ha immesso nel-la vita per renderla sensata e sopportabile, tutto ciò che costituì fino adoggi il sale dell’esistenza e la sua giustificazione scompare agli occhi diquesti nuovi bisognosi insieme alla fede nella morale. Al suo posto si spa-lanca per loro un nuovo mondo della coscienza, «immorale e inumano», incui «le cose non vanno in modo divino, anzi neppure razionale, pietoso ogiusto secondo l’umana misura»55. Essi sono, nel senso più profondo dellaparola, dei pessimisti: non si contentano unicamente di negare la realtà diciò che l’umanità ritiene un “bene”, oltre a questo considerano la sua attua-zione come ideale regolativo una disgrazia56. Ma v’è uno scotto da pagareper questo loro “no” pronunciato lì dove tutta l’umanità ha da sempre di-scusso intorno al “sì” (– intorno a quale sia effetivamente il bene dell’uo-mo...). Essi hanno ormai preso coscienza e memoria del fatto che il loroagire è “solo” volontà di potenza: un agire rivolto sempre e soltanto a ga-rantirsi le condizioni del suo verificarsi ancora (potenza che vuole potenza– mancanza assoluta dello scopo)57. Questa loro coscienza apre ora davantiad essi uno scenario desolante: ogni bene del “corpo” si mostra adessocome un mezzo per accrescere la propria potenza. Per essi non esiste più al-cun bene che sia tale. La scomparsa del “Bene in sé” e la nascita dei molti“beni relativi” è un fenomeno che certo li riguarda; ma ancora prima e piùessenzialmente, la loro esperienza è condizionata dalla consapevolezza cheil bene non è più un fine o un «fiorire dell’umano»58 fine a se stesso, bensì

55 ID., La gaia scienza, cit., af. 346.56 Cfr. ID., Frammenti postumi 1887–1888, cit., 11 [135].57 Questo aspetto della «volontà di potenza» è stato considerato in maniera espli-

cita in una breve annotazione del 1887: «Sul problema se la potenza nella “volontà dipotenza” sia solo mezzo: il protoplasma che si appropria di qualcosa e l’organizza,che quindi si rafforza ed esercita potenza per rafforzarsi» (ID., Frammenti postumi1887–1888, cit., fr. 9 [145]); ed emerge come carattere fondamentale della «dinamica»in vari frammenti, tra cui: ID., Frammenti postumi 1885–1887, cit., fr. 2 [76]; ID.,Frammenti postumi 1887–1888, cit., fr. 11 [111]; ID., Frammenti postumi 1888–1889,cit., fr. 14 [82], 14 [174], 16 [12]. Cfr. inoltre M. HEIDEGGER, Nietzsche, tr. it di F. Vol-pi, Adelphi, Milano 1994, passim.

58 Con questa espressione (human flourishing) M. Nussbaum traduce il polise-mantico termine greco eÙdaimon…a (cfr. M. NUSSBAUM, La fragilità del bene, tr. it. diM. Scattola e R. Scognamiglio, Il Mulino, Bologna 2004, passim).

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un’attività che mira necessariamente e secondo la propria essenza a garanti-re se stessa, ad assicurarsi le condizioni del suo darsi ancora, senza altroscopo che questo perpetrarsi. La loro coscienza non soffre per la “relatività”di ogni valore, per il fatto che ogni bene appare ora riferito ad un soggettodeterminato e perché l’antico e unico Bene è stato sminuzzato in molti benidiversi (questo è infatti lo strato più esterno e superficiale della loro espe-rienza); bensì a causa di ciò: del fatto che ogni bene si mostra sempre “re-lato” a qualcosa d’altro, che la loro coscienza già non è in grado di trovarequalcosa di ultimo nell’universo, un qualche bene del “corpo” (o di un cer-to gruppo di appartenenza o di tutta l’umanità come genere) che non finiscaper rivelarsi nella sua estrema conseguenza come “un bene per qualcosa”,come uno strumento. Anche la “discussione razionale” che cerca di armo-nizzare la “relatività dei valori” suona ai loro orecchi come una ragionestrumentale che organizza, lì dove crede di parlare di valori e di fini, sol-tanto forme e configurazioni della “volontà di potenza”59. Tutto ciò che èbene è per loro essenzialmente determinato dal rendere possibile qualcos’al-tro – esso deve garantire la continuità della propria attività nell’impostazio-ne amorale della volontà di potenza; oppure deve rendersi compatibile con“il bene dell’altro”, o garantire la “possibilità dell’Umano”, nella forma mo-rale della “discussione razionale” –; per cui “il bene” non è più un fine, masolo la condizione di possibilità di realizzare ciò che garantisce ancora que-sta possibilità. La concezione del bene che ha sempre dominato in diverseforme storiche sull’esistenza umana – anche nella sua ultima versione ato-mizzata nei “mille beni diversi”, “politeismo dei valori” –, cade perciò im-provvisamente: «Pensiamo questo pensiero nella sua forma più terribile:l’esistenza, così com’è, senza senso e scopo, ma inevitabilmente ritornante,senza un finale nel nulla: “l’eterno ritorno”. È questa la forma estrema delnichilismo: il nulla (la “mancanza di senso”) eterno!»60.

Eppure, dobbiamo notare, questa loro incapacità di trovare un motivoultimo per cui vivere già non costituisce per essi una ragione per non far-lo: in loro la vita del “corpo” è in grado di prevalere sul fenomeno coscien-te e su tutta l’assurdità, il disgusto, la disperazione e la sofferenza che in

59 Due paradigmi di questa “discussione razionale” sono la concezione rawlsianadella giustizia (cfr. J. RAWLS, Una teoria della giustizia, tr. it. di U. Santini, Feltrinelli,Milano 2008; ID., Il costruttivismo kantiano nella teoria morale, tr. it. di S. Veca, inID., Saggi. Dalla giustizia come equità al liberalismo politico, Edizioni di Comunità,Torino 2001, pp. 64-135) e l’essenzialismo di Nussbaum (cfr. M. NUSSBAUM, Giustiziasociale e dignità umana. Da individui a persone, tr. it. di E. Greblo, Il Mulino, Bolo-gna 2001; ID., Human Functioning and Social Justice. In Defense of Aristotelian Es-sencialism, in «Political Theory», 1992, vol. 20, 2, pp. 202-246).

60 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1885–1887, cit., fr. 5 [71].

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esso si riflette. Essa non ha più bisogno di ripararsi da questi aspetti terribi-li dell’esistenza mediante un ordinamento morale della realtà: «La mia nuo-va concezione del pessimismo consiste nella volontaria esplorazione dei latiterribili e problematici dell’esistenza [...] “Quanta ‘verità’ sopporta e osauno spirito?” Problema della sua forza. Un tal pessimismo potrebbe sbocca-re in quella forma di affermazione dionisiaca del mondo così come è: finoal desiderio del suo assoluto ritorno e della sua eternità: con ciò sarebbeposto un nuovo ideale di filosofia e sensibilità»61. La coscienza di questiuomini non indica più loro cosa sia il bene. Ma ciò non depone né control’attività della coscienza, né contro la necessaria strutturazione della realtàoperata da ogni istinto, né, in generale, contro la vita.

La teoria della “trasvalutazione dei valori” e dell’“autosuperamento del-la morale” è diretta a questi uomini, gli unici in grado di attuarla. Essi nonsono, però, degli uomini in carne ed ossa viventi sulla terra; questi pessi-smisti affermatori sono piuttosto un “tipo”, una speranza incarnata il cuicorrispettivo esistente non è dato per scontato, sebbene ammesso come pos-sibile (essi non sono certo un “tipo ideale” per Nietzsche!). Quindi possia-mo dire a modo di conclusione, riprendendo la dedica apposta allo Zarathu-stra, che la teoria della “trasvalutazione” e del “superamento” è rivolta incerto senso a tutti, giacché ogni uomo può venir a conoscenza di ciò cheessa insegna, benché, in base alla dottrina stessa, non sia da escludere lapossibilità che manchi proprio colui in grado di farla propria, in modo cheessa – dobbiamo dire – pur rivolta a tutti, non sarebbe in realtà rivolta anessuno. Questo è quanto possiamo leggere tra le righe di un frammentodel 1887, destinato in seguito dallo stesso Nietzsche a far parte del materia-le con cui avrebbe elaborato l’introduzione al quarto libro della sua proget-tata Volontà di potenza: «La prefazione per i pessimisti – e nello stessotempo contro i pessimisti... A coloro che oggi non soffrono della problema-ticità della nostra esistenza, non ho niente da dire: leggano pure i giornali esi facciano le loro idee sui “cattivi ebrei”. Una parola sull’isolamento asso-luto: chi non mi viene incontro con un centesimo di passione e di amore,non ha orecchie per me... Finora mi sono aperto un varco... [Ich habe michbisher durchgeschlagen...]»62.

61 ID., Frammenti postumi 1887–1888, cit., fr. 10 [3].62 ID., Frammenti postumi 1887–1888, cit., fr. 10 [196]. Non ci è possibile deter-

minare a quale piano della Volontà di potenza si riferisse il catalogo (Ivi, fr. 12 [1]) incui questo frammento è in tal modo classificato. Le tre varianti che il titolo del quartolibro presenta fino al 1888 sono «L’eterno ritorno» ( ID., Frammenti postumi 1885–1887, cit., fr. 2 [74]; 5 [75]), «Il martello» (ivi, fr. 2 [100]), e «Disciplina e alleva-mento» (ivi, fr. 7 [64]). In ivi, fr. 2 [118] si specifica: «Il martello: come teoria cheproduce la decisione».

Per tutti e per nessuno 161

I paradossi della continuitàProlegomeni alla storia del concetto di spazio*

Felice Masi

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tutto è contiguo: l’essente infatti termina nell’essente

[Parmenide, fr. B 8, v. 25]

Quando, agli inizi di giugno del 1932, scrive a Gerhardt Albrecht, rife-rendo di una crisi che riguardava i fondamenti e l’evidenza metodologicache appartiene alla scientificità, nella quale ci si lambiccava «il cervellosull’abbandono della legge di causalità e sul sovvertimento dei concetti dispazio»1, Husserl non sembra solo riportare la mente alla temperie storicadell’inizio del XX secolo – individuando le due categorie che rispettiva-mente le geometrie non-euclidee (lo spazio) e la meccanica quantistica (lacausa) sottoponevano ad esame – ma, mediante tali annotazioni, finisce pertracciare una cornice più vasta in cui si possano ridefinire i caratteri delnesso scienza e filosofia. «La scienza rigorosa, – continua – identificata conla scienza positiva moderna, sta da una parte e la filosofia da un’altra, cosìche la metafisica (in fondo null’altro che scienza, scienza capace dell’ultimachiarificazione sul mondo e sugli uomini, scienza che ha a tema il loro sen-so ultimo ed assoluto) vale come un campo di vaghe speculazioni o come ilregno di una mistica fantasticante»2. Pochi anni dopo, lo Heidegger dei Bei-träge poteva ancora annotare che la storia delle ‘rappresentazioni’ dello

* I motivi della scrittura di questo saggio nascono oramai più di un quindicenniofa, dalla frequenza dei corsi del prof. Mazzarella, la cui rigorosa tematizzazione deilemmi della spazialità nel pensiero heideggeriano propiziò il mio primo ed ingenuodisegno di tesi. Alla balzana, quanto timida, proposta di un progetto sui concetti dispazio e tempo nella filosofia di Heidegger, egli rispose con un consiglio che – forsesuo malgrado – presi alla lettera: «potresti lavorare sui rapporti tra Husserl e Heideg-ger, cominciando dallo studio della Sesta Ricerca Logica e della sua rilettura heideg-geriana». Da allora in poi mi sarei allontanato sui percorsi delle ricerche fenomenolo-giche ben più di quanto io e lui avremmo potuto prevedere.

1 E. HUSSERL, Briefwechsel, IX, Familienbriefe, Hua, Dokumente, 3/9, hrsg. von K.Schuhmann, Kluwer Academic, Dordrecht 1994, p. 83.

2 Ibid.

162 Felice Masi

spazio è «la storia della verità dell’Essere (Seyn) e può essere compiuta inmaniera filosoficamente fruttuosa solo insieme alla storia della domanda-guida»3. Dimostrando una concordanza tutt’altro che terminologica o occa-sionale, la fenomenologia tedesca arresta – all’altezza della metà degli anniTrenta del secolo scorso – il suo proprio cammino dinanzi ad una questio-ne, mediante cui cerca di riconquistare uno sguardo sulla vicenda del pen-siero occidentale e di commisurare il ruolo e la dimensione dell’interroga-zione filosofica ed, in specie, di un’interrogazione filosofica circa le scien-ze. E si badi, sin da subito, che poco sarebbe comprensibile di un tale ten-tativo se si cedesse all’isolamento di un solo termine, come quello di spa-zio, essendo piuttosto in gioco la complicazione che lega questo alle nozio-ni di molteplicità, relazione e rappresentazione, definendo così il livello ele-mentare di un concetto fenomenologico di mondo naturale. Quanto rappre-senta il fronte critico rispetto ai saperi contemporanei è costituito dal modoin cui questi ultimi ereditano tali nozioni, prima ancora che quella di ente odi fenomeno: è difatti attraverso di esse che si decide della determinazionetopologica del mondo o della notificazione scientifica dello spazio (logico-geometrico-fisico) del mondo.

Pertanto rimettere mano alla storia del concetto di spazio e presentarlaal vaglio delle fenomenologie di Husserl e Heidegger, significa considerareun capitolo decisivo nella vicenda della metafisica occidentale e consentireal tradizionale confronto tra maestro e discepolo di guadagnare confini pernulla più scolastici4. Per conseguire un tale obbiettivo, o anche solo per av-vicinarsi alla sua preparazione, occorre, però, cogliere il filo dell’invenzioneneoplatonica dello spazio, che derivò da un’ancora arcaica necessità di in-terpretare filosoficamente i risultati, tecnici e teorici, conseguiti dalle scien-ze ellenistiche, e da lì delineare le opzioni di sviluppo che quel concettoavrebbe potuto assumere nelle successive epoche del pensiero. Poiché tutta-via un così ambizioso progetto di ricostruzione storico-effettuale sarebbenon solo troppo ampio, ma anche fuorviante per l’intento che muove questosaggio, si dovrà piuttosto valutare, come, da quell’ideazione tardo-antica, laModernità abbia assunto la fisionomia di un Kampf ums Raum e come ri-spetto ad una tale battaglia si sia potuta giocare la trasvalutazione fenome-nologica dell’immagine del mondo. Partire dall’assunto di una lettura della

3 M. HEIDEGGER, Beiträge zur Philosophie. Vom Ereignis, GA, Bd. 65, hrsg. vonF.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt am Main 1994, p. 579.

4 Cfr. D. FRANK, Heidegger et le probleme de l’espace, Minuit, Paris, 1986; G.NEUMANN, Die phänomenologische Frage nach dem Ursprung der mathematisch-natu-rwissenschaftlichen Raumauffassung bei Husserl und Heidegger, Duncker & Humblot,Berlin 1999.

I paradossi della continuità 163

metafisica moderna sub specie spatii comporterà di sottoporre ad esamenon solo diversi modelli di costituzione della spazialità, ma anche di valuta-re se, e come, nel contesto della crisi fondazionale delle scienze naturali,che, agli inizi dello scorso secolo, toccava i temi dello spazio e del suo or-dine formale (e quindi razionale-causale), le filosofie fenomenologiche sia-no state in grado di intendere quale fosse la materia del contendere.

1. Ontologia metrica

Se la storia dello spazio5 può essere fatta risalire all’apocrifo concettua-le, rappresentato dall’invenzione aristotelica dell’aporia zenoniana sull’entitàreale del luogo, sarà la revisione epistemologica che Proclo avviò sugli Ele-menti di Euclide ad annunciare il peculiare statuto della geometria modernacome metrica universale. Nel suo Commentario non solo giunge ad espres-sione il risultato di una vicenda secolare, ma l’intento di offrire alla geome-tria “matura” una disposizione teorica e metodologica, di definirne una teo-ria della conoscenza e di affidarle un posto tra le scienze matematiche e traquelle fisiche, finì per produrre uno dei più grandi monumenti della proto-modernità: l’idea della materia noematica come ragione degli oggetti spa-ziali tradotta nell’idea dello spazio come principio di ontologia della fisica.Il paradosso dello pseudo-Zenone – tramandato nei termini di: se il luogo èqualcosa e non nulla, esiste un luogo del luogo? – mediante cui la Fisicaaristotelica tentava anche una riduzione all’assurdo tesi platonica circa lanecessità di riconoscere una localizzazione all’ente perché questo fosse pen-sabile come essente6, se non può ritenersi risolto dalla nozione ancora arcai-ca di limite o dalla distinzione tra la condizione fisica del luogo e quellalogica-ontologica del dove, rappresentò senza alcun dubbio la ragione del-l’accorto accantonamento euclideo di un qualsiasi riferimento all’idea di

5 Cfr. K. A. ALGRA, Concepts of Space in Greek Thought, Brill, Leiden-New York-Köln, 1995; E. S. CASEY, The Fate of Place: a philosophical History, California Uni.Press, Berkeley-Los Angeles 1997; D. R. LACHTERMAN, The Ethics of Geometry. A Ge-nealogy of Modernity, Routledge, New York 1989.

6 ARISTOTELE, Fisica, IV, 209a 25-26, 212 b 27. Quanto al confronto tra la nozio-ne aristotelica di limite, come praj, e quella euclidea di Ôroj, cfr. ID., Metafisica, D,17, 1022a 4 e EUCLIDE, Elementi, 1, 13. Per una ricostruzione teorica del pensiero diZenone di Elea si veda G. COLLI, Zenone di Elea (1964-65), Adelphi, Milano 1998.Inoltre cfr. H. R. KING, Aristotle and Paradoxes of Zeno, in «The Journal of Philo-sophy», 46, 21, 1949, pp. 657-670; J. BARNES ET AL., Zenone e la grandezza delle cose,Academia Verlag, Sankt Augustin 2010. Nella vasta bibliografia sulla teoria aristoteli-ca del luogo, si vedano almeno E. HUSSEY, Aristotle’s Physics Book III and IV, Claren-don Press, Oxford, 1983; B. MORISON, On Location: Aristotle’s Concept of Place, Cla-rendon Press, Oxford 2002.

164 Felice Masi

uno spazio. Quella degli Elementi era infatti una scienza proto-fisica, unacinematica pura, in cui le entità erano definite come quanta geometrici:l’elaborazione teorica di una tale quantizzazione rappresenta l’intento speci-fico del Comentario procliano.

Affidando, secondo un uso già platonico ed aristotelico, alle scienzematematiche un carattere dianoetico, quindi razionale ed argomentativo,Proclo ne definisce in primo luogo la stabilità, l’irrefutabilità e l’esattezzadel metodo7, distinguendone la geometria come scienza ipotetica dellegrandezze8. Perché sia possibile fondare una teoria «delle grandezze, dellefigure e dei limiti loro propri, dei rapporti che sono in esse e delle proprie-tà loro peculiari, delle loro posizioni e dei loro movimenti svariati, proce-dendo dal punto senza parti ed arrivando fino ai corpi solidi»9, è necessariostabilire in che cosa consista l’ipotesi da cui ha principio, ché in essa pro-prio il riferimento ai principi denota l’ipotesi. Quell’ipotesi protetica, antici-pativa di quelle tetiche, positive10, riferisce di una composizione del limite edell’illimitato in conformità alla misura ed all’ordine degli onta11. Gli og-getti geometrici infatti condividono del limite l’unitarietà e l’identità, men-tre dell’illimitato la varietà e la generazione, dal primo traggono rapporti,figure e forme, dal secondo il sostrato in cui le forme risiedono12. Ebbeneciò che più pesa sullo statuto della geometria è appunto la genesi delle fi-gure intellettuali, che non possono derivare per astrazione dalle cose mate-riali, né per conglobamento dei dati comuni alle singole cose, né per espe-rienza delle cose sensibili13; in altri termini, se in questione è appunto ladefinizione della grandezza degli enti geometrici (o delle grandezze quaenti geometrici) allora questa non risulta dalla generalizzazione analiticadalle quantità degli enti naturali, né dalla sintesi di tali generi metrici nétantomeno in seguito (posteriormente) alla conoscenza sensibile della natu-ra. Prima di portarla ad ulteriore chiarimento si intenda, sin d’ora, chel’ipotesi geometrica – che la grandezza non costituisce una generalità, néanaliticamente né sinteticamente – assume e ribalta l’aporia zenoniana: si

7 PROCLO, Commento al I Libro degli Elementi di Euclide, tr. it. di M. TimpanaroCardini, Giardini, Pisa 1978, p. 27; cfr., ivi, p. 40.

8 Ivi, p. 31.9 Ivi, p. 65.10 Proclo distingue (ivi, p. 79) i “principi comuni” in ipotesi, postulati ed assio-

mi, a differenza di Euclide che segue una suddivisione in termini, postulati e nozionicomuni, considerando quello delle parallele non un postulato, ma un’ipotesi da sotto-porre a dimostrazione.

11 Ivi, p. 28.12 Ivi, pp. 29-30.13 Ivi, p. 36.

I paradossi della continuità 165

può riconoscere come le grandezze, che gli oggetti geometrici sono, sianonello spazio, a partire dalla constatazione che non derivino dall’accumulodelle nozioni comuni alle evidenze, che l’estensione non rimonti alla som-matoria. E questo assunto acquisisce un rilievo decisivo per l’intera vicendadel pensiero scientifico moderno, qualora si ponga mente solo alla defini-zione ancora kantiana del quantum come unità dell’ente fisico14.

Perché si comprenda il tipo di grandezza che compete alle figure geo-metriche non è sufficiente distinguere tra “quanto” e “quanto grande”, tra lespecie del “quanto” in se stesso ed in relazione ad altro, tra il “quantogrande” in quiete ed in movimento; e non lo è perché essa deriva dalla dif-ferenziazione e dalla dimensionalità degli oggetti geometrici15. Se infatti le“conoscenze prime sono essenzialmente senza figura e senza dimensione”16,mentre le ultime, quelle sensibili, limitatamente alla loro istantaneità radica-le, alla loro infinita discrezione, sono tanto mutevoli da proibire di intender-ne la continuità dello stesso movimento, come è possibile distinguere legrandezze geometriche ed identificarle mediante misura? Ciò che è giustap-punto inconcepibile in ciascuno dei due piani contrapposti è l’estensione, lagrandezza continua di una figura e, per converso, è proprio questo l’argo-mento della geometria. Pertanto il modo in cui sono costituiti e conosciutigli oggetti geometrici rappresenta il più alto problema cui dare soluzione.Quella che assumerà il titolo fenomenologico di Frage nach der Ursprungder Geometrie viene declinata, nella psicologia procliana della conoscenza,nei termini di una genealogia dell’invenzione dei teoremi, delle proiezioni,delle costruzioni “di sezioni, posizioni, applicazioni, aggiunte e sottrazio-ni”17. La specie dimensionabile di un circolo – che quanto al suo concettopuro ed universale è uno soltanto, senza figura né dimensione, avendo sottodi sé la pluralità dei circoli sensibili, da quello stesso ordinati come circoli– può dispiegarsi in grazia della Ülh noht», che costituisce “un solo ed im-materiale sostrato, inseparato nella realtà di un corpo semplice che sorpassaper l’estensione la sostanza indivisa”18. E che questa non sia soltanto la ri-petizione della materia dei matematici, già indicata da Aristotele, che nonsia “ciò di cui è fatta la pensabilità delle figure geometriche” o la concepi-bilità dei luoghi che le figure geometriche sono, è chiaramente mostratodalla sua comparazione con l’estensione della sostanza indivisa, con l’asso-

14 I. KANT, Opus postumum (1882-1884), ed. it. a cura di V. Mathieu, Laterza,Roma-Bari 2004, pp. 75-77.

15 PROCLO, Commento al I Libro degli Elementi di Euclide, cit., p. 51.16 Ivi, pp. 61-62.17 Ivi, p. 81.18 Ivi, p. 62.

166 Felice Masi

lutamente illimitato. La Ûlh noht», in quanto concetto geometrico e soloquindi logico, garantisce la conoscenza di dove siano “molti cerchi omocen-trici” e le loro differenze “di grandezza, di piccolezza, del loro essere con-tenuti o contenenti”19. La sua medesima estensione è composta dalle varia-zioni delle figure, è l’ambito di un gruppo di trasformazione che risponde aspecifiche leggi di proiezione e di traslazione. In ragione della sua posizio-ne mediana è comprensibile alla sola immaginazione, pur non essendo diessa un esclusivo prodotto, giacché “misura comune di tutta quanta lascienza è l’intelletto”20; essa è infatti oggetto di un intelletto passivo, da cuideriva la sua processione razionale, ed in quanto tale merita il nome di ma-teria noematica. Non si tratta di un piano infinito, ma del campo di relazio-ni, rappresentabile certo ancora come piano, in cui si compie la genesi dellefigure a partire da quella più semplice del triangolo equilatero sino al rom-boide ed oltre. La sua estensione, come quella degli oggetti geometrici, nonè propriamente numerica né numerabile: essa piuttosto ne consente la misu-razione in quanto ambito di corrispondenza. È una grandezza che permettecomparazione e divisione solo al suo interno, come principio di variazionee di differenziazione: è l’ipotesi dello spazio da cui dipende la geometriaproto-moderna. Mediante questa idea di spazio – l’ipotesi che sta a fonda-mento della geometria – divengono pensabili estensione e movimento, limi-te e continuità; è mediante questa idea di spazio che la geometria può rag-giungere i suoi ultimi risultati nella “scienza della natura”, nell’ottica, nellacatottrica e nella meccanica, sino all’organopoietica ed alla taumatopoieti-ca21, alla tecnica di costruzione di macchine o congegni.

E ciò ancora non basta, dacché la fondamentale domanda filosoficarivolta alla scienza geometrica, a quella scienza cioè segnata dall’ipotesiche i propri onta abbiano grandezza, che gli oggetti costruiti con riga ecompasso abbiano un’estensione, diventa: «servendosi di quali norme[po…oj kanÒsi] ‹la scienza [qewr…a]› può misurare [parametre‹] la veritàche è negli oggetti da essa stessa generati [™n toÚtoij gennhqntoij]»22?Dal IV secolo in poi – ed in modo particolare nella funzione moderna dellageometria come proiezione metrica degli enti fisici23 – la geometria non èsolo scienza pura della grandezza, ma anche la dottrina che si ascrive il

19 Ivi, p. 62.20 Ivi, pp. 44-45.21 Ivi, p. 55; cfr., ivi, p. 51, ove l’insieme delle scienze fisiche viene definito

come l’intera cinetica della materia.22 Ivi, p. 34. Cfr., ivi, p. 66.23 G. GALILEI, Discorso intorno a due nuove scienze (1638), in ID., Opere, a cura

di F. Brunetti, Utet, Torino 1996, pp. 741 ss.

I paradossi della continuità 167

compito generalissimo di stabilire il medesimo carattere scientifico dellamisura, assumendo essa stessa il ruolo di ipotesi metrica della pensabilitàdell’essere fisico. La geometria, in quanto meghetica, avrebbe dovuto defi-nire non tanto la posizione di un punto di riferimento nello spazio, a partiredal quale misurare lunghezza, ampiezza e profondità di grandezze sensibili,quanto piuttosto il medesimo statuto dell’estensione, metricamente determi-nabile. In ragione della definizione geometrica di grandezza, che nella tar-da-antichità acquista il suo compiuto statuto meta-teoretico, si rende possi-bile una fondazione ipotetica della metrologia classica, in cui alla compara-zione ricorsiva tra materie, una delle quali assunta a metro24, si sostituisceuna dottrina pura della corrispondenza (e quindi della misura), che superaper generalità anche la teoria delle proporzioni, che ne diventa un modo.

Nonostante l’introduzione procliana della nozione di spazio sia ancorauna determinazione quasi-intuitiva della formalità geometrica, che dovràconquistarsi nei secoli una purezza aneidetica25, in essa può essere rintrac-ciata una risposta metodologica e teorica agli interrogativi eleatici ed al loroprocedimento per assurdo, così come la medesima funzione era stata assun-ta dalla topologia aristotelica e dalla sua fondazione di una scienza del mo-vimento, allora si può asserire che la geometria procliana dello spazio segnil’inizio del contromovimento moderno all’impensabilità dell’essere dell’es-sente fisico, come grandezza essente, come essente che è in quanto gran-dezza continua, in quanto estensione26. Si può cioè pensare allo spaziocome il capitolo principale della metafisica moderna in quanto ontologiametrica, in primo luogo nell’accezione di dottrina dei “primi principi meta-fisici delle scienze naturali”. Ed una tale proposizione storico-ideale puògiustificarsi proprio perché, dalla prospettiva che abbiamo dichiarato di as-sumere sin dapprincipio, “l’indagine circa la natura e la costituzione dellospazio”, la “logica dello spazio”, realizza la medesima pensabilità dell’esse-re sotto la specie dell’ordine27, rendendo così conoscibile il senso d’essereontico della massima contiguità dei luoghi mediante quello ontologico dellacoesistenza degli enti geometrici. Pertanto è giusto nell’assunzione dello

24 Sulla metrologia antica, cfr. L. RUSSO, La rivoluzione dimenticata. Il pensieroscientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 90-95 e 312-317.

25 Su questo O. BECKER, Mathematische Existenz (1927), Niemeyer, Tübingen1973, p. 264. Cfr. E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia tra-scendentale (1954), tr. it. di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 1997, p. 54.

26 Cfr. A. SZABÒ, Anfänge der griechischen Mathematik, Oldenbourg Verlag, Mün-chen-Wien 1969.

27 Cfr. E. CASSIRER, Filosofia delle forme simboliche, III/1 (1929), tr. it. di E. Ar-nauld, La Nuova Italia, Firenze 2002, in part., pp. 189-215.

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spazio, come principio ed ambito di differenziazione – dell’idea di spaziocome struttura noematica secondo cui si dispongono e si distendono i sin-goli noemata, in quanto punti oggettuali, nell’identificazione, cioè, tra l’es-sere dell’ente fisico e quello spazio inesauribile, nonostante risulti esauritoe riempito nelle sue zone parziali 28 – che la metafisica proto-moderna sipresenta già come dottrina pura della fisica.

Se convalidiamo infatti l’ipotesi che la formazione dell’idea di spazionella tarda antichità sia avvenuta superando le nozioni aristoteliche di limitee di contenuto, ma assumendo al tempo stesso la cornice teorica in cui era-no poste, ovvero la formulazione della domanda logico-ontologica sullospazio come principio di ragione (della differenza) degli enti fisici, ovverocome causa (materiale-)noematica29, allora possiamo intendere come l’interosviluppo moderno di un’ontologia metrica, di una scienza dell’essere del-l’essente fisico come quantum, si compie, e si frange, nella storia del tra-scendentale moderno30. Ebbene, se così possiamo sostenere che stiano lecose, se il concetto di spazio è l’indice dei concetti fondamentali logici del-la metafisica moderna, introdotta proprio dal modo in cui Aristotele ha fattopresente la domanda sullo spazio, che pur non ancora nominato tematica-mente si affacciava nell’aporia di non poter rendere ragione degli enti estesimediante il riferimento ad un luogo dei luoghi, e dalla riformulazione pro-

28 Riprendo qui criticamente la posizione che Emanuele Severino espose in Ritor-nare a Parmenide (1964), in ID., Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1995, p. 25,asserendo che «attraverso l’irruzione delle differenze del molteplice nell’area dell’es-sere», dopo Parmenide, «tutta la metafisica occidentale è una fisica».

29 È rilevante l’introduzione dell’ipotesi della spazialità come quinto genere dicausalità in G. BRUNO, Acrotismus Camoeracensis (1586), in G. BRUNO., Opera Latineconscripta, I, a cura di F. Fiorentino, Morano, Napoli 1879, pp. 106-107. Inoltre, per-ché sia correttamente interpretata l’assunzione di una causalità noematica, come prin-cipio di ragione, si tenga sullo sfondo l’interpretazione di M. HEIDEGGER, Il principio diragione (1955-56), tr. it. di G. Giurisatti e F. Volpi, Adelphi, Milano 1991, che, seppurimplicitamente, ha accompagnato la scrittura di questo saggio.

30 I. KANT, Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaften (1786), Ge-sammelte Schriften, Akademie Ausgabe, IV, De Gruyter, Berlin 1902, pp. 479 e ss.;ID., Opus potumum, cit., in part. pp. 249 e ss. A riguardo, cfr. M. FRIEDMAN, Kant’sTheory of Geometry, in «The Philosophical Review», 44, 4, 1985, pp. 455-506, inpart. pp. 467 e ss. Sulla storia delle Grössenlehren dopo Kant, si vedano B. BOLZANO,Einleitung zur “Grosenlehre” in Gesamtausgabe, hrsg. von E. Winter et alii, From-mann-Holzboog, Stuttgart 1969, II, pp. 23–216; S. KRÖNER- R. M. CHISHOLM, Einleitungin F. BRENTANO, Raum, Zeit, Kontinuum, Felix Meiner, Hamburg 1976, p. XXXIV; A.MARTY, Raum und Zeit, hrsg. von J. Eisenmeier et alii, Niemeyer, Halle 1916. Cfr. M.BARALE, Immaginazione geometrica, in ID., Immagini della ragione. Logos e Ratio al-l’alba della scienza moderna, Guida, Napoli, 1983, pp. 23-73.

I paradossi della continuità 169

cliana di una pre-estensività puramente geo-metrica, allora il compito chepossiamo assegnare ad una fenomenologia dello spazio è quello di unascomposizione di tali primi principi, al fine di restituirne (archeologica-mente) la traccia evolutiva sino alla contemporanea immagine scientifica delmondo naturale e di presentare (genealogicamente) la costituzione del-l’esperienza di fatto dello spazio del mondo.

2. Ontologia della fisica

Essendo evidente il tributo che un sottotitolo come Prolegomeni allastoria del concetto di tempo paga nei confronti dell’interpretazione che Hei-degger diede, alla metà degli anni Venti dello scorso secolo, della filosofiafenomenologica, non possiamo sottrarci dal cominciare proprio con una ri-presa del suo pensiero circa i molti significati del concetto di spazio traanalitica esistenziale e storia della metafisica31. Ancora nei Beiträge – checostituiranno il termine esterno della nostra indagine – Heidegger prova unacomprensione dello spazio-tempo all’interno di una storia dell’essere, in cuilo sviluppo delle rappresentazioni scientifiche avrebbe dovuto svolgere unruolo decisivo, introducendo al “domandare e pensare veramente iniziali”32.Rimontando alle origini greche, all’esperienza fondamentale dell’ousia,come essentità, sarebbe dovuto divenire possibile comprendere come spazioe tempo si fossero resi rappresentabili, “in quanto ciò che è così pre-dispo-nibile nella physis”33, e come di seguito avessero potuto invece assumere icaratteri moderni dei concetti di ordine e di forme dell’intuizione34, in virtùdella medesima “estensione immediatamente pre-disposta“, presa però qualequantitatività e numerabilità35. La necessità, quindi, di condurre una inter-pretazione di “Aristotele, Fisica IV, su topos e kronos” si può realizzaresoltanto restituendo “l’intera impostazione fondamentale della ‘fisica’”; maciò implica un’analisi dei testi dello Stagirita che distingua la topologia del-la presentità, ove giocano il peras, il periechon, dalla dottrina delle catego-rie, secondo cui pou e potè restano “determinazioni dell’essentità – ou-sia”36. Si tratta quindi di un’analisi che retrodati la divaricazione tra la pre-sentazione e le rappresentazioni spazio-temporali nel seno stesso del primocompiuto tentativo di risposta alle aporie sussistenti nel nesso tra essere e

31 Cfr. E. MAZZARELLA, Tecnica e Metafisica, Guida, Napoli 1981, in part. 100 ss.32 M. HEIDEGGER, Beiträge zur Philosophie, cit., p. 373.33 Ivi, p. 375.34 Ivi, p. 373.35 Ivi, p. 375.36 Ivi, p. 376. Cfr. ivi, pp. 372-373.

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continuità come condizione preliminare di un’ontologia della fisica. È pro-prio nell’ambivalenza delle definizioni aristoteliche di luogo e dove, comecondizione o stato e come modo d’essere37 che cova il tormento della deter-minazione di spazio culminante nelle scienze moderne e nelle loro rappre-sentazioni “abituali ed attuali”. Se la misurabilità è il calco teorico delnome parmenideo della “continuità dell’essere”, se essa si esprime ancoracome un interesse specifico dell’ontologia generale kantiana di dare «allafisica come scienza dell’essente in generale un fondamento ontologico»38,allora sulla riuscita di una “storia del concetto di spazio” (quale variantedella “storia della verità dell’Essere”) pende la domanda circa la geometriacome scienza metrica dell’essente fisico. E sarebbe impaniante invertire ilcorso dal linguaggio delle generalità spaziali a quello delle varietà topologi-che, dalle rappresentazioni dello spazio a “prossimità e distanza, vuoto edonazione, slancio ed esitazione”39.

Ma questo, che è il limite estremo di un tentativo, di cui va verificatala cogenza a fronte delle sue stesse pretese, riconduce sui primi passi dellariflessione heideggeriana sulla spazialità, compiuti già all’interno di un’in-terpretazione della cinési e della fatticità come concetti fondamentali dellafilosofia aristotelica40. Dai primi corsi friburghesi fino almeno al saggiosull’essenza ed il concetto di FÚsij, la Fisica aristotelica resta «il librofondamentale, dimenticato e perciò mai pensato con sufficiente profondità,della metafisica occidentale»41, quello in cui la filosofia prima finisce perdipendere dalla secondarietà di un’ontologia della fisica, da una dottrina deimodi d’essere (-pensato) dell’ente fisico, proprio in ragione della relazionetra movimento-modificazione e la pre-condizione della sua misurabilità spa-ziale.

Nella scoperta della motilità come matrice aristotelica del «problemadell’essente e del senso d’essere (on – ousia – kinesis – physis)»42, Heideg-

37 A. TRENDELENBURG, La dottrina delle categorie in Aristotele (1846), tr. it. di G.Reale, Vita e Pensiero, Milano 1994, pp. 231 ss.

38 M. HEIDEGGER, Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leibniz(1928), GA, Bd. 26, hrsg. von K. Held, Klostermann, Frankfurt am Main 1978, p.228.

39 ID., Beiträge zur Philosophie, cit., p. 372.40 ID., Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fe-

nomenologica (1921-22), tr. it. di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1990, pp. 147 ss.41 ID., Vom Wesen und Begriff der FÚsij. Aristoteles Physik B 1 (1939), in ID.,

Wegmarken (1967), GA, Bd. 8, hrsg. von F-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurtam Main 1976, p. 242.

42 ID., Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, cit., p. 143. Cfr., ivi, pp.147-160.

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ger rintraccia i principi di una categorizzazione che ha i caratteri cinemati-co-spaziali dell’inclinazione, della gravità e della distanza, che in quanto di-stanziamento determinerà la medesima ambientalità dell’Esserci. Quell’au-tentica motilità della vita si imbatte sin da subito nelle figure grammaticali-geometriche dell’iperbole e dell’ellissi, della cancellazione della distanza edella chiusura, non solo come assicurazioni o facilitazioni del rovinío, dellatemporalità propria dell’incontro “del mondo in quanto tale”43. Ambeduedefiniscono un ambito della significatività linguistica, mediante l’intensifi-cazione o la sottrazione del riferimento, ambedue rappresentano una terio-morfosi della rimandatività; ambedue, però, iperbole ed ellissi, definisconocurve la cui differenza consta nel trattamento matematico della distanza tradue punti di un piano. Mediante questi due luoghi, in cui retorica e geome-tria giungono ad una peculiare sovrapposizione, si descrivono come quanti-tà continue altrettante dimensioni dell’originaria cinèsi vitale: grandezzecioè definite dal movimento continuo di un punto44. A partire da un tale in-dizio, ovvero dalla complicazione di movimento, grandezza e continuitànella comprensione dell’Um-charakter dell’Esserci, può derivarsi una trac-cia dell’analitica heideggeriana della spazialità, che implica una processioneinversa da Kant ad Aristotele a Euclide ed oltre.

Quando nel 1926, professa le lezioni sui Concetti fondamentali dellafilosofia antica, Heidegger dedica una specifica elaborazione alla risolu-zione euclidea ed aristotelica delle aporie zenoniane, muovendo dal pro-blema della grandezza spaziale, nei termini della domanda su «come dal-l’accumulo di ciò che non è spaziale possa nascere ciò che è spaziale»45,ovvero dall’equivoca definizione di Ôgkoj, di ciò che dipende dal ripetu-to deposito dell’uno sull’altro, dall’aver portato una cosa sull’altra. Nelladerivazione quindi dall’atto dell’™negke�n, dell’™mfrw, del portare-dentro,ossia del trasformare qualcosa in contenuto di un insieme che ne defini-sce allo stesso tempo il criterio di appartenenza e di somiglianza interna,ciò che sembra decisivo non è l’inizio arbitrario, la prima pietra, ma lapeculiare regolarità foronomica. Pertanto «ciò che costituisce una difficol-tà non è il tempo, né lo spazio, ma il continuo. Continuo=l’essere»46; e,propriamente, l’essere dell’essente fisico. A partire da una tale questione,ovvero dalla pregnanza logico-ontologica del continuo all’interno della fi-

43 ID., Ontologia. Ermeneutica dell’effettività (1923), tr. it. di E. Mazzarella, Gui-da, Napoli, 1988, p. 97.

44 Cfr. C. JORDAN, Cours d’analyse, III, Gauthier-Villars, Paris 1887, pp. 587-594.45 M. HEIDEGGER, Grundbegriffe der antiken Philosophie (1926), GA, Bd. 22, hrsg.

von F.-K. Blust, Klostermann, Frankfurt am Main 1993, p. 72.46 Ivi, p. 76.

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losofia greco-classica ed in particolare dalla coimplicazione tra la nozio-ne platonica di koinonia ed i destini della matematica e della geometria– tema che sarà per altro esplorato nel corso del semestre invernale 1926-27 sul Sofista platonico47 – Heidegger può elaborare una triangolazione traontologia, dialettica ed idea di scienza. Seguendo l’itinerario del Teeteto,Heidegger esamina la connessione tra doxa e kinesis insistente all’internodella definizione di episteme ed individua due dirimenti significati di per-cezione: il primo, in cui il percepito è inteso come modo d’essere del-l’Esserci, il secondo, invece, in cui è inteso come corso tra gli essenti-presenti (Vorhanden), ambedue passibili di una duplice traduzione nelloschema esplicativo delle scienze naturali e nel dato di fatto fenomenolo-gico48. È evidente che ambedue i casi (percezione e movimento) rappre-sentino una specie di relazione. «Relazionalità e relatività come problemaontologico. Essere riferito di qualcosa a qualcosa. Problema della relazio-ne in generale. Relazione e Essere, Essere e Essere altrimenti, non-esse-re-così»49: in questo modo, Heidegger cerca di rendere la questione chediverrà matura solo nel Sofista, e che nel dialogo in esame compare at-traverso la sentenza protagorea, secondo cui ciò che “è”, si muove, ov-vero che tutto si muove, Essere è movimento50. Si specificano così duespecie di divenire, l’una mediante il cambiamento, l’altra mediante il con-fronto, l’essere-in-relazione-a, raccolte insieme da quello «sguardo inten-zionale che si tiene attraverso (durchhalten) il cambiamento reale»51. No-nostante sia ben differente il contesto di questa lettura heideggeriana,si risente chiaramente l’eco dell’interpretazione della dottrina aristotelicadella motilità ontologico-fisica, così come era già emersa due anni prima,nel corso del semestre estivo del 1924, dedicato al libro G della Fisica,ove si legge che «se qualcosa si muove, si può dire che sia un fenomeno(das phänomenal): esso si spinge da se stesso a ciò che può essere»52.L’ontologia dell’essere fisico, derivante dal confronto con la soluzioneplatonica alla pensabilità dell’essere come molteplice (e quindi all’essere

47 ID., Platon: Sophistes (1924-25), GA, Bd.19, hrsg. von I. Schlüßer, Kloster-mann, Frankfurt am Main 1992; in part.: pp. 100-121 e pp. 500-522.

48 ID., Grundbegriffe der antiken Philosophie, cit., p. 11549 Ivi, p. 117. Cfr. ivi, p. 269.50 Ivi, p. 116 e p. 118.51 Ivi, p. 118.52 ID. Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie (1924), GA, Bd. 18, hrsg.

von M. Michalski, Klostermann, Frankfurt am Main 2002, p. 323. Cfr. R. BERNET, DieLehre von der Bewegung bei Aristoteles und Heideggers Verständnis von derBewegtheit menschlichen Lebens, in AA. VV., Heidegger und die Griechen, Kloster-mann, Frankfurt am Main 2007, pp. 95-122.

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dell’ente come relazione) e la determinazione aristotelica di un’ontologiadella dynamis53, si delinea mediante una nozione propria del Tra, dell’am-bito relazionale del movimento e della percezione, in quanto grandezzacontinua innumerabile, in quanto non immediatamente traducibile in suc-cessione di enti. Ma ciò dipende appunto dalla tenuta di uno sguardo fe-nomenologico che sia capace di cogliere, in una peculiare nozione di spa-zialità, il carattere proprio della cinési vitale ed, in quella di continuum,la sua misura logica. Si può giungere a determinare le forme esistenzialidell’allontanamento o del disallontanamento, ma anche della collocazionee dispersione come possibilità proprie di ciò che ci-è, solo muovendo dauna ricomprensione dell’ontologia dell’essere-fisico quale problematizzazio-ne radicale dell’unità molteplice dell’essere e della sua diciblità logico-linguistica. «Il fenomeno della dispersione dell’esserci nello spazio si di-mostra ad esempio nel fatto che tutte le lingue sono determinate origina-riamente da significati spaziali»54. Orbene un tale assunto non consentesolo di avviare una genealogia avverbiale-locale del linguaggio, di cui giàdava atto il corso su La logica come problema della verità55, ma devial’attenzione su un «fenomeno [che] può essere spiegato solo se vieneposto il problema metafisico dello spazio, che diviene visibile solo dopoaver attraversato quello della temporalità (in senso radicale: meta-ontolo-gia della spazialità)»56. Sul limite della sua opera maggiore, Heidegger in-dica aforisticamente un tema che sembra perduto nello sviluppo del suopensiero e che tuttavia la nostra analisi non può evitare di affrontare:quello della meta-ontologicità dello spazio.

Proviamo a capire cosa intenda questa espressione e cosa significhiil suo rapporto di diversità-successione rispetto al problema metafisico deltempo, attraverso un confronto tra i Prolegomeni ed Essere e Tempo, quan-

53 Cfr. in part. M. HEIDEGGER, Aristotele: Metafisica Q 1-3 (1931), tr. it. di U.Ugazio, Mursia, Milano, 1992; ID., Grundbegriffe der antiken Philosophie, cit., pp.170-179.

54 ID., Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leibniz, cit., p.173.

55 ID., Logica. Il problema della verità (1925-26), tr. it. di U. Ugazio, Milano,Mursia, 1986.

56 ID., Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leibniz, cit., p.174. Cfr. ivi, pp. 199-200. Riguardo alle interpretazioni che si sono succedute nellaletteratura critica si vedano S. G. CROWELL, Metaphysics, Metaontology and the Endof Being and Time, in «Philosophy and Phenomenological Research», LX, 2, 2000;F.-W. VON HERRMANN, Ontologia fondamentale-Temporalità-Metaontologia, in E. MAZZA-RELLA (a cura di), Heidegger a Marburgo (1923-1928), il melangolo, Genova 2006,pp. 11-22.

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to al tema della spazialità del mondo, nel tentativo di comprendere comel’introduzione della continuità accanto all’estensione costituisca una dif-ferenza tutt’altro che marginale tra i due testi. Mentre nell’opus magnumi due interlocutori storico-filosofici, riguardo ad una dottrina pura dellospazio, sono Descartes e Kant, rispettivamente principio e compimento diuna parabola che avrebbe risolto la mondità nella sua spazializzazione equesta in variante di un’intuizione pura assolutamente demondificata, cheavrebbe cioè fatto dell’extensio, in cui il mondo-circostante sarebbe statosussunto, un cogitatum57, nel corso di lezioni di due anni precedenti siintroducono le definizioni leibnizeane di spatium, extensio (ed extensum)e di continuum58. La possibilità di non confondere lo spazio con la sem-plice estensione, e questa con la sostanza estesa (o, semplicemente, conciò che è esteso) è assicurata giusto dal ricorso all’ipotesi – formulatanegli Initia mathematica – di “una diminuzione continua ed uniforme” del-l’estensione fino al limite della trasformazione in punto, “la cui grandez-za (magnitudo) è nulla”. E ciò non rileva solo per la valenza temporaledella continuità o della simultaneità, ma soprattutto per quella analiticadi ordine. Potremmo infatti comprendere la portata di un’arte analitica piùampia della matematica, solo intendendo, come sua questione essenziale,quella dell’esistenza pensabile del molteplice, ovvero della mancanza dicontraddittorietà tra i molteplici perché possano essere pensati come esi-stenti. Orbene un tale principio coincide con una nozione allargata dicoesistenza, che non corrisponda cioè alla simultaneità e non si distinguacosì dall’anteriorità o posteriorità: una coesistenza che sia predicabile nonsolo di «quelle cose che si percepiscono insieme, ma anche [di] quelleche percepiamo successivamente, purché nel passaggio dalla percezionedell’una alla percezione dell’altra, non sia perita quella antecedente o nonsia sorta quella successiva»59. Se quindi la contraddittorietà risedeva nel-la determinazione di due stati opposti della medesima cosa, la sua assen-za dovrebbe essere assicurata da una nozione di continuità, che precedela demarcazione delle quantità o dei continui possibili. La legge di con-tinuità è il principio logico-fisico di conversione del genere in una quasi-specie opposta: «questo è il privilegio del continuo»60. Se quindi si può

57 M. HEIDEGGER, Essere e Tempo (1927), tr. it. di P. Chiodi, Utet, Torino 1994, pp.182-198.

58 ID., Prolegomeni alla storia del concetto di tempo (1925), tr. it. di R. Cristin eA. Marini, il melangolo, Genova 1991, pp. 290 ss.

59 G. W. LEIBNIZ, Inizi metafisici della matematica (1714), in ID., Scritti filosofici,III, a cura di M. Mugnai e E. Pasini, Utet, Torino 2000, p. 478.

60 Ibid.

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definire lo spazio come ordine delle situazioni 61, è proprio perché ad essoattribuiamo la definizione più generale di continuità, così da intendere lageometria come «scienza dei limiti e della grandezza del continuo»62 econ ciò stesso anche analitica pura dell’essente-fisico. Da una tale consi-derazione logico-metafisica deriva sia la possibilità di descrivere come gliuomini giungano a formarsi la nozione dello spazio, sia quella di legareinsieme la genealogia percettiva della continuità e la sua definizione di-namica, sia ancora la determinazione della posizione come «una relazio-ne di coesistenza tra molteplici, [che può essere] conosciuta attraverso altricoesistenti intermedi, tali cioè che hanno con i primi una più semplicerelazione di coesistenza»63. Si badi infine che la riflessione leibnizeanasullo spazio, come concetto di ordinalità continua, non solo, come è ov-vio, non rimuove la questione della misurazione delle grandezze spaziali,ovvero la magnitudo, ma nemmeno quella della quantità dello spazio odello spazio come quantum. Piuttosto la meghetologia spaziale derivaancora una volta dal suo statuto synechologico.

Orbene dovrebbe essere finalmente chiaro perché l’espunzione del rife-rimento a Leibniz in Essere e Tempo, all’interno di una trattazione che con-serva il medesimo registro argomentativo delle lezioni del 1925, non è af-fatto solo il frutto di una risistemazione editoriale: il rimando agli Initiamathematica, infatti, avrebbe aperto nel capitolo della scienza pura dellospazio un ulteriore fronte, accanto a quello dell’extensio cartesiana, avrebbecostretto l’indagine heideggeriana, mediante l’introduzione del concetto dicontinuità, a misurarsi intempestivamente con l’ontologia dell’essere fisico econ l’antica questione della pensabilità del molteplice. Infatti, come si rico-nosce nel corso su I principi metafisici della logica del 1928, «se l’exten-sio, l’estensione dovesse costituire l’essenza delle cose di natura, alloral’originario di questa essenza, il punto matematico, non potrebbe mai e poimai rendere comprensibile né fondare l’unità ontologica di un essente persé»64, non potrebbe cioè garantire carattere di unità all’ente fisico. Citandocosì il Leibniz del Nuovo Sistema della Natura, Heidegger giunge a ricono-scere che l’unica possibilità moderna di attribuire realtà alla moltitudineconsiste nel ricorso a vere unità, ad unità reali, ad atomi formali o monadi,che differiscono dai punti matematici, i quali «non sono che estremità del-

61 ID., Carteggio Leibniz-Clarke, Quinto scritto di Leibniz (1716), ivi, p. 551.62 ID., Lettera a Varignon sul principio di continuità, in ID., Scritti filosofici, II, a

cura di D. O. Bianca, Utet, Torino 1988, p. 764.63 ID., Inizi metafisici della matematica, cit., p. 478.64 M. HEIDEGGER, Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leib-

niz, cit., p. 92.

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l’estensione e modificazioni, di cui è noto che il continuo non può esserecomposto»65. Pur non avendo ancora conseguito la chiarezza della lettura,di più di un decennio successiva, de Le ventiquattro tesi, è già qui tuttaviaevidente come Heidegger possa comprendere proprio nella continuità l’esi-stentificante dell’ente fisico e possa ricondurre così la filosofia leibnizianaalla domanda greca della pensabilità-esistibilità del molteplice, oramai nellaforma della coappartenenza tra realtà effettiva e rappresentare66.

Non è peregrino quindi sostenere che giusto da una tale derivazionelogica del continuo si renda possibile anche il corretto intendimento delpercorso interpretativo che Heidegger ha dedicato alla filosofia trascenden-tale, almeno dal Kant-buch del 1928 sino al corso del semestre invernaledel 1935-36, ove proprio la nozione di estensività e lo statuto matemati-co della scienza (e della costituzione scientifico-naturale della cosalità)svolgono un ruolo decisivo67. Il legame tra questi due caratteri consentedi comprendere il genere di pre-disponibilità accordato al concetto di spa-zio, così come viene presentato dalla precedenza riconosciuta agli assio-mi dell’intuizione nella costituzione della cosalità; essi, infatti, determinan-do la predatità dell’essente-intuito o dato, non possono non corrisponderealla matematicità dell’estensione e della sua continuità, alla quantità delladistanza e dell’intervallo: non quindi l’intermezzo tra i corpi, né sempli-cemente i loro limiti, ma la dottrina della loro quantità, la meghetologia.Attraverso la ripresa del pensiero kantiano (in quanto autoriflessione filo-sofica sulla scienza moderna) diviene possibile comprendere come quelleche divengono le rationes, le relazioni razionali nella meccanica newto-niana, siano già grandezze, proporzioni, analogie soltanto nella dinamicaaristotelica. All’impossibile realtà dello spazio si sostituisce l’assoluta pre-cedenza della sua grandezza continua, che non esige ancora di esserenumero (come invece accade nella definizione di tempo) perché è unarelazione irrelativa, una relazione che non si può assicurare alle figuretopologiche da connettere, perché essa stessa sola può indirle. Così il vi-cino ed il distante non possono assolvere la medesima funzione del pri-ma e del dopo che la cronometria enumera, perché se la numeralità rea-lizza il già-noto, e di già noto nello spazio vi è che l’ente abbia luogo,ma non dove esso sia, non si potrà assumere come originariamente mate-

65 G. W. LEIBNIZ, Nuovo Sistema della Natura (1695), in Il Nuovo Sistema, in ID.,Scritti filosofici, I, a cura di M. Mugnai e E. Pasini, Utet, Torino 2000, p. 448.

66 M. HEIDEGGER, La metafisica come storia dell’essere, in ID., Nietzsche, tr. it. diF. Volpi, Adelphi, Milano 1994, pp. 893-910.

67 ID., La questione della cosa (1935-36), tr. it. di V. Vitiello, Guida, Napoli1989, pp. 211 ss.

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matica la coimplicazione logico-ontologico-fisica delle categorie locali,della legge di continuità e dell’unità metrica, che si esprime nel concettodi spazio. Anzi, se all’essere dell’ente inerisce un dove-essere, ciò è piut-tosto un carattere della sua dicibilità, della sua logica ontica. Ma questoci riconduce ancora una volta ad affrontare quanto Heidegger aveva postocome limite all’interrogazione filosofica circa la spazialità: il suo titolometa-ontologico. Se per ontologia fondamentale intendiamo la fondazione(Grundlegung) dell’ontologia in generale, divisa nei tre capitoli di «1)fondazione presentante dell’interna possibilità della domanda sull’esserecome problema fondamentale della metafisica – l’interpretazione dell’Es-serci come temporalità; 2) esposizione del problema fondamentale racchiu-so nella domanda sull’essere – esposizione temporale del problema del-l’essere; 3) sviluppo dell’autocomprensione di questa problematica, il suocompito e i suoi limiti»68, in che cosa consisterà una meta-ontologia, in-tesa come suo rovesciamento, laddove pure questo sia assunto come suaparte integrante? Nell’ontologia fondamentale è, cioè, latente una tenden-za a ricadere lì da dove era sorta: «una tale nuova problematizzazionecova nell’essenza dell’ontologia stessa e deriva dal suo ribaltamento, dal-la sua metabol». Io chiamo questa problematica Metaontologia. E quinell’ambito del domandare metaontologico-esistenziale vi è anche l’ambi-to della metafisica dell’esistenza (qui solo si può porre la questione del-l’etica)»69. Per metaontologia si dovrebbe quindi intendere una conversio-ne ontica, una ricomprensione dell’essente che si distinguerebbe dallescienze positive perché non rappresenta «un’ontica sommaria nel senso diuna scienza generale che raccoglie empiricamente i risultati delle singolescienze in una cosiddetta immagine del mondo per dedurne una visionedel mondo e della vita»70, perché essa non aspira ad una sommatoria del-le conoscenze ontiche in vista di una “metafisica induttiva”. Essa cioè nonpuò essere una dottrina pura linguistico-matematica, la redazione di unasintassi per l’ontologia o ancora la metafisica positiva rappresentata dallametodologia delle scienze particolari; la metaontologia dovrebbe piuttostocostituire la Kehre, «in cui la medesima ontologia ritorna espressamentenell’ontica metafisica, in cui inespressamente è sempre stata. E ciò signi-fica portare, attraverso il movimento della radicalizzazione e dell’univer-salizzazione, l’ontologia al rovesciamento in essa latente. Qui si compi-rebbe la svolta, rovesciandosi in metaontologia»71.

68 ID., Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leibniz, cit., p. 196.69 Ivi, p. 199.70 Ivi, pp. 199-200.71 Ivi, p. 201.

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Nelle righe di questa appendice sul carattere dell’idea e la funzionedell’ontologia fondamentale, che piuttosto tematizza l’unità di Fundamen-talontologie und Metaontologie, nell’idea di una filosofia come centrale etotale concrezione dell’essenza metafisica dell’esistenza72, il primo annun-cio della Kehre si lega ancora ambiguamente alla questione dello spazio. Lastrada poi percorsa da Heidegger verso un ripensamento delle nozioni di lo-calità e di aperto, di spazio-tempo e di vuoto – che «non è il posto vacan-te nelle forme di ordine o negli ambiti per la presenza calcolabile di spa-zio e tempo, né è l’assenza di ciò che è in questi presente, ma è il vuotospazio-temporale, l’originario spalancamento nell’esitante venir meno»73 –chiarisce quale fosse il limite che sul finire degli anni Venti sarebbe dovu-to essere valicato. Pur restando così uno hapax, il lemma della metaontolo-gicità dello spazio richiama la riflessione su quale significato avesse potutoesprimere. Se infatti le riflessioni heideggeriane più tarde possono offrire alnostro interrogativo un tipo di risposta, una variante, che, anche se solo inapparenza rinuncia alla ricomposizione della metafisica occidentale dellacontinuità, presentandone il ribaltamento, quanto è azzardato seguire il filodi un altro tipo di risposta, lungo una strada – che, in quella stessa epoca,il filosofo di Messkirch aveva dichiarato sbarrata, e sbarrata proprio dal-l’incapacità a fare questione al di là dell’essere dell’ente, a partire dall’es-sere intenzionale – ovvero quella della fenomenologia husserliana74? Quan-to è azzardato continuare il disegno di una fenomenologia dello spazio,avendo assunto proprio la sua conversione ontica, così come sarebbe stataindicata da Heidegger, ma attraverso quell’interrogazione filosofica che nonsarebbe riuscita a saltare oltre l’onticità? In altri termini, che cosa potrebbesignificare riprendere la domanda sullo spazio a partire dalle analisi onto-fenomenologiche di primo grado che Husserl aveva cominciato con il cor-so del semestre invernale del 1907 su Ding und Raum? Sia chiaro che nel-l’inversione proposta non vi è alcuna intenzione di intraprendere un esamefilogenetico – per conoscere quanto dell’uno vi sarebbe nell’altro o quantonel passaggio di generazione o di lettura si sarebbe disperso –; e a rigorenon vi è nemmeno quella del rigoroso confronto: si tratta piuttosto davverodi una inversione, la cui giustificazione dovrà essere interamente a caricodell’argomentazione e la cui concludenza dovrà essere provata sulla sua ca-pacità di definire la fenomenologia della spazialità come introduzione aduna ontologia dell’essente-fisico.

72 Ivi, p. 202.73 ID., Beiträge zur Philosophie, cit., pp. 580-581. Cfr., ivi, pp. 579-580.74 ID., Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., pp. 114 e ss.

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3. Fenomenologia generale della continuità

Per comprendere come le riflessioni husserliane sulla definizione feno-menologica dello spazio possano situarsi all’interno degli sviluppi delle dot-trine geometriche tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, sembrautile rammentare quanto scriveva Felix Klein nelle sue lezioni sulla storiadella matematica nel Diciannovesimo Secolo, laddove notava come «la vi-sione generale che sta a fondamento della dottrina dell’estensione è quellache ritorna sempre in tutte le nature geometricamente accertate, cioè lagrandezza continua»75. Una tale permanenza dovrebbe essere radicata nel-l’assunto secondo cui lo spazio sarebbe «una concezione originaria dellospirito umano, come del resto il numero con cui è posta solo in un secondomomento in relazione mediante la misura»76. Da ciò deriva, così prosegueKlein che è «innaturale e non necessario includere, come fa Euclide, la“misura” tra i fondamenti geometrici e quindi fondare ad esempio la teoriadella proporzione, in cui, mediante l’introduzione del numero irrazionale,bisogna trarre a fatica il continuo dal discreto. L’idea che questo percorsoinaugurato da Euclide sia la strada più lunga per la costruzione della geo-metria e che non conduca mai effettivamente allo scopo – cioè alla com-prensione ed al dominio del continuo – è una tendenza sempre ritornante,che contrasta con quell’aritmetizzazione della matematica attualmente pre-ponderante. Così anche Hilbert nei suoi Fondamenti della geometria intro-duce il concetto di limite solo alla fine della sua trattazione, dopo aver fon-dato un puro calcolo della distanza, senza fare ricorso a ciò. Allo stessomodo Grassmann si oppone a che la geometria sia solo un’applicazionedell’aritmetica e pretende per la sua dottrina dell’estensione il carattere diuna scienza autonoma. Da ciò egli distingue, in quanto disciplina altrettantoautonoma, la metrica»77.

Tali annotazioni, giusto indicando nella dottrina della grandezza conti-nua e dell’estensione e nella metrica i punti cardinali mediante cui orientarel’edificio della geometria, consentono una presentazione allo stesso tempo

75 F. KLEIN, Vorlesungen über die Entwicklung der Mathematik im 19. Jahrundert,Springer, Berlin 1926, pp. 177-178.

76 Ibidem.77 Ibidem. Cfr. D. HILBERT, Fondamenti della geometria (1903), tr. it. di C. F. Ma-

nara, Feltrinelli, Milano 1970; H. GRASSMANN, Die Ausdehnugslehre, Wiegand, Leipzig,1844. Su Grassmann, oltre a E. HUSSERL, Prolegomeni a una logica pura, in ID., Ricer-che logiche (1900-01), tr. it. di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 2005, pp. 254-255, siveda E. CASSIRER, Sostanza e funzione (1910), tr. it. di G. Preti, in ID., Sostanza e fun-zione – Sulla teoria della relatività di Einstein, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp.118 ss.

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corretta ed ampia della teoria fenomenologica dello spazio, costituita com’èalmeno su tre piani: a) la fenomenologia generale della continuità, b) la co-stituzione sistematica dello spazio, e c) una genealogia della misura. La so-vrapposizione di tali livelli consentirà la descrizione puntuale di un’idea dispazio a partire dalla diffusione, ovvero da quella disomogeneità, che costi-tuirebbe la condizione ancora pre-spaziale di un insieme di momenti cosali-locali; questi, a loro volta, diverranno posizioni o posti nello spazio feno-menico e luoghi o parti di spazio in quello oggettivo. Solo tutti e tre questistrati formeranno l’esperienza dello spazio, e la formeranno proprio nell’in-tersezione specifica di diversi campi sensoriali, di quello tattile, di quellovisivo e di quelli loro subordinati. Tutti e tre questi strati formerannol’esperienza dello spazio, in quanto ad ognuno è connesso il movimento(nel primo, movimento dello spazio, nel secondo, nello e dello spazio, nelterzo, negli e tra gli spazi); in ciascuno, si porrà, così, differentemente ilproblema della finitezza e della continuità: lo spazio pre-fenomenale non èancora né continuo né discreto, né finito né infinito; quello fenomenico ècostante (Stetigkeit) ed infinito (legame al tempo); quello oggettivo è conti-nuo (Kontinuum) ed illimitato. L’introduzione del concetto proprio di conti-nuità sarà possibile solo in quest’utlimo strato, quello dello spazio oggetti-vo, geometrico e fisico. Ne deriva pertanto una peculiare posizione dellaquestione circa geometria ed esperienza, o geometria e fisica, consentendouna radicale elaborazione critica non solo della tradizione moderna, ma del-l’intera storia ideale dello spazio.

Ma andiamo per gradi ed iniziamo a distinguere – conseguentemente aipresupposti fino ad ora indicati – tra una onto-fenomenologia di primo gra-do, che ha a tema la costituzione dello spazio, ed una metafisica scientifica,ovvero una scienza dell’essere dato di fatto, mediante cui lo spazio natura-le del mondo intero in quanto «tema universale delle scienze positive, ottie-ne un’interpretazione “metafisica”»78. Al disegno di una onto-fenomenologiaelementare Husserl attribuisce la funzione di riformulare il lascito della filo-sofia trascendentale, in quanto espressione principale della nozione modernadi metrica: se infatti la storia del trascendentale è la storia dei modi in cuiil carattere metrico delle forme conoscitive – ovvero l’assunto secondo cuiconoscere qualcosa significa prenderne le misure, ed in primo luogo misu-rarne la distanza e quindi la dimensione – ha attraversato il pensiero filoso-fico e scientifico almeno da Galileo a Planck, dalle esperienze misurabiliagli oggetti fisici misurati, allora la fenomenologia, che di questa storia esi-

78 E. HUSSERL, Storia critica delle idee (1923-24), tr. it. di G. Piana, Guerini e As-sociati, Milano 1989, p. 202, nota.

I paradossi della continuità 181

ge di far parte, intende procedere ad un’elaborazione compiuta della rela-zione metrica o della conoscenza come relazione di misura. Assunto cioèche il trascendentale non è la misura della conoscenza, ma la conoscenzacome misura e che in un tale assetto metrico ne va della costituzione mede-sima della cosa, allora per onto-fenomenologia di primo grado si può inten-dere, semplicemente, la fenomenologia trascendentale come dottrina costitu-tiva degli oggetti nel decorso dell’esperienza di fatto del nostro mondo79. Intal modo si può scongiurare la confusione tra una onto-fenomenologia edun’ontologia che «prende le unità nella loro identità e per la loro identitàcome se fossero un che di saldo e definito. La considerazione fenomenolo-gico-costitutiva prende le unità nel loro flusso, come unità di un flusso co-stitutivo [...] Questa considerazione è in certo modo cinetica o “genetica”:una genesi che fa parte di un mondo “trascendentale” totalmente diverso daquello della genesi naturale e naturalistica»80. Il disegno fenomenologicoconsiste, quindi, nell’indicazione di «una strada che discende dal formaleanalitico al formale cosale, dalle condizioni legali di possibilità della sem-plice non-contraddizione a nuove condizioni legali della possibile verità co-sale: dall’apriori matematico-analitico a quello cosale-sintetico. La stradaconduce al versante sintetico dell’a priori generalissimo ed ancora indiffe-renziato della possibile realtà ad uno che va sempre differenziandosi. Si ot-tiene ... l’intero a priori di un mondo possibile in quanto tale ed in quantoconoscibile da una soggettività»81.

Ebbene vi sono almeno tre ragioni che definiscono come il centro diun tale progetto debba essere designato in una fenomenologia dello spazio,così come siamo andati definendola sino ad ora: la prima è storico-ideale eriguarda la centralità che l’epistemologia della geometria ha nella filosofiatrascendentale e nella definizione del suo apparato logico-conoscitivo; la se-conda pertiene invece al ruolo decisivo del quantum e dell’estensione all’in-terno dell’ontologia metrica moderna; la terza infine consiste nella elemen-

79 ID., Ding und Raum. Vorlesungen 1907, Hua, Bd. XVI, hrsg. von Ulrich Clae-sges, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/London 1973, pp. 139-140. Alriguardo si vedano V. COSTA, L’estetica trascendentale fenomenologia, Vita e Pensiero,Milano 1999, in part. pp. 235-279, e P. NATORP, Forma e materia dello spazio. Dialogocon E. Husserl, tr. it. di N. Argentieri, Bibliopolis, Napoli 2008.

80 E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologi-ca, Libro terzo (1953), tr. it. di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, p. 496. Cfr. ID., Ms. FI 24 (1909), pp. 33-34. Cfr. I. KERN, Husserl und Kant, M. Nijhoff, Den Haag 1964, p.165.

81 Ivi, p. 153 (Ms. F I 32, p. 128b). Cfr. E. HUSSERL, Natur und Geist. Vorlesun-gen Sommersemester 1927, Hua, Bd. XXXII, hrsg. von M. Weiler, Kluwer AcademicPublishers, Dordrecht/Boston/London 2001.

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tare connotazione spaziale della cosalità, in quanto unità determinata o de-terminabile. È necessario quindi che il primo grado di una onto-fenomeno-logia sia occupato dal vaglio delle modalizzazioni e della predicabilità diuna unità intenzionale identica. Si intenda, però, che con questa formulanon ci si riferisce solo all’uguaglianza dell’oggetto intenzionale in assenzadi cambiamenti, ottenuta comparando elementi assunti nell’analisi statica;né alla medesimezza pre-categoriale propria del tempo originario, ove nonci si può affidare ad una linea temporale della ricorsività: del riempimentoo dell’elusione. Unità intenzionale identica significa piuttosto l’identifica-zione di un’unità attraverso modificazioni intenzionali. «All’essenza dellacosalità in generale – scrive Husserl – appartiene di essere un’unità inten-zionale identica, che si “costituisce” in una certa molteplicità, reale o possi-bile, di manifestazioni, di mostrarsi legittimamente quanto al suo essere edal suo essere di volta in volta così in una connessione di manifestazioni re-golata e volta per volta motivata. Tuttavia la connessione è una connessionedi manifestazioni concordanti, che si riempiono vicendevolmente; questesono condotte da una coscienza di credenza che le attraversa o, se si prefe-risce, da una coscienza tetica, da una coscienza d’essere»82.

L’unità intenzionale identica, in cui una cosa si costituisce – quelphänomenologische Ansicht cui Heidegger assegnava la capacità di tenersiattraverso il fenomeno reale – è una corrente dossica, un tracciato dinamicodescritto da una forza, che garantisce l’esistenza del mondo; e l’esperienzaè quella forza, «che produce continuamente da sé una nuova forza,integrandosi sempre con essa. Ogni percezione, già mentre dura, integra lasua forza, e nella connessione percettiva ognuna si corrobora con l’altra,corrispondendo a tutte le serie di quei riempimenti, che intrecciano in unlegame multiplo i diversi lati e raggi della percezione, in un legameconcorde ed unitario»83. L’unità intenzionale identica è cioè già unad�namij, una metabol�, attraverso la quale si mostra come ogni individuoabbia in sé «la sua essenza concreta o un concreto contenuto (chiamatoanche essenza individuale), che è la singolarizzazione di un generale. Puressendo quest’essenza individuale, tuttavia questa si differenzia da ognialtra, che chiamiamo sua ripetizione: l’individuo è essenza individuale inuna differenza individuale (il t+de t.), che è differente per ogni individuo,[avendo] una determinazione, che non è ripetibile, né specificabile»84.

82 ID., Ding und Raum, cit., § 84, p. 285.83 Ivi, p. 290.84 ID., Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung. Zur Phänomenologie der anschau-

lichen Vergegenwärtigungen (1898-1925), Hua, Bd. XXIII, hrsg. von E. Marbach,Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/London 1980, p. 499.

I paradossi della continuità 183

Possiamo dire che il percorso di costituzione di una cosa è segnato dal-le seguenti tappe che presumono l’ingiustificabile inizio della esperienza difatto del mondo: 1) la riflessione è inaugurata da una neutralizzazione, dauna modificazione dello statuto contenutistico di questa originaria esperien-za; 2) la datità propria dell’intuito, in quanto intuizione individuale, comin-cia a costituirsi proiettandosi sul posto vuoto lasciato dalla riflessione; 3)l’oggettualità si notifica, si presenta come prova di se stessa, si presenta inse stessa come documento di sé, sich beurkundet 85 (tale documento è peròsolo l’indicizzazione delle variazioni modali di questo oggetto); 4) nell’indi-cizzazione un qualcosa viene identificato come questo oggetto inalteratonella durata di una percezione inalterata ovvero identico in una percezionemodificata; 5) l’identificazione dell’oggetto si compie nella sua modifica-zione; la forma della sua identificazione, e quindi anche della sua modifica-zione, è la forma della differenza, ovvero la forma che fa la differenza.

Consideriamo l’esempio classico della percezione inalterata di una sfe-ra uniformemente gialla, vale a dire di una sfera il cui colore “propriamen-te” visto (quello del lato anteriore) sia uniforme. Se però esaminiamo ilcontenuto immanente di una tale percezione, scopriremo che all’identitàdelle note distintive obiettive (la sfera uniformemente gialla) non corrispon-de in nessun modo l’identità delle sensazioni corrispondenti; anzi «trovere-mo un adombramento continuo di giallo, ed è chiaro che qui c’è una con-nessione necessaria: solo quando tale adombramento è sentito, si presentauna sfera uniformemente gialla. E di nuovo occorre qui notare che l’identitàdi determinazioni oggettuali non solo è compatibile, nella sfera della perce-zione propria, con una sostituzione o un cambiamento continuo dei conte-nuti di sensazione, ma che riguardo a molte determinazioni, ciò è richiestonecessariamente. Avvicinando o allontanando la sfera noi abbiamo costante-mente percezioni sempre nuove. Il momento della diffusione all’interno del-la sensazione richiede un’alterazione continua, se le percezioni molteplicidevono ottenere unità nella coscienza: che questa sia la stessa sfera inaltera-ta nella sua estensione e nella sua forma»86. La percezione di una cosa, in-fatti, nonostante sia unità non frammentabile, in quanto presentazione del-l’interezza di una cosa, in quanto presentazione in cui una cosa si fa intera,è, però, «un’unità continua di porzioni di percezione, di fasi di percezione,che hanno esse stesse il carattere di percezione»87. Fenomenologicamente, ilcontenuto della cosa si determina in ognuna di queste porzioni, in ognuna

85 ID., Ding und Raum, cit., p. 8.86 Ivi, pp. 44-45.87 Ivi, p. 62.

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di queste fasi; ciascun taglio trasversale, che può essere compiuto, contienei momenti sensazione ed apprensione, manifestazione propria ed impropria.In ciascuna, e nella continuità, delle fasi, si definisce l’estensione pre-feno-menale intera della cosa; ora l’essenza della percezione concreta consistenel portare una tale estensione alla manifestazione: essa ha un’estensionepre-empirica e pre-spaziale che costituiscono l’estensione spazio-temporaledella cosalità. La spazialità pre-fenomenale – definita da alcune determina-tezze primarie (come quelle cromatiche, dell’esempio precedente) – quandoviene frazionata comporta un frazionamento corrispondente dell’estensioneobbiettivamente riempita, «cioè un frazionamento spaziale della cosa: il suospazio viene frazionato, e con esso anche il suo pieno spaziale»88. Le regoledi una tale divisibilità sono però complesse: non solo posso suddividere in-sieme sia l’estensione di adombramento dei dati sensibili che la manifesta-zione propria che le appartiene, mettendo in evidenza una parte del latodella cosa che è rivolto verso di me, facendole corrispondere una parte del-la cosa, ma posso isolare anche soltanto il contenuto della manifestazioneimpropria (rilevando la parte costituita dalla porzione che mi è nascosta).La spazialità è infatti un’estensione tridimensionale che «offre molteplici emolto complicate possibilità di frammentazione. Certamente, noi non dob-biamo semplicemente sostituire i paralleli fenomenologici alle rappresenta-zioni geometriche, ma, in grossa approssimazione, possiamo vedere che quile complicazioni sono ben più grandi»89. La difficoltà nella descrizione del-le possibilità di suddivisione dell’estensione (pre-fenomenale) dello spazioconsiste nel fatto che ad essa corrisponde il livello più basso di costituzionedella cosa (ovvero della cosa come fantòma e quindi non ancora propria-mente come fenomeno), all’interno del quale si possono dare determinatez-ze che si diffondono «in modo continuo o discreto, parlando più precisa-mente, in modo dappertutto continuo o non dappertutto continuo, e dunquediscreto in singoli limiti spaziali, in singoli “punti”, linee, superfici»90. Equesto obbliga ad una distinzione rigorosa di due specie di continuità: quel-la, 1) «dell’estensione [Extension] spaziale in quanto tale che giunge, nelmodo più chiaro possibile, alla coscienza come momento immanente, quan-do noi facciamo trasformare il non cambiamento in cambiamento; peresempio, spostando continuamente una discontinuità qualitativa su un’esten-sione unitariamente riempita in questo e quel modo. Passiamo continuamen-te da punto a punto, da linea a linea; [e quella] 2) delle determinatezze

88 Ivi, p. 69.89 Ibidem.90 Ivi, p. 70.

I paradossi della continuità 185

riempienti esse stesse, ad esempio, il passaggio di qualità in qualità, comenel passaggio dal rosso, attraverso il porpora, al violetto. Le determinatezzeriempienti hanno, è da dire di passaggio, diversi lati che sono capaci di unacontinuazione: il lato della qualità in senso stretto, il lato dell’intensità, o,anche nelle determinatezze di colore, il lato della saturazione, della chiarez-za e simili»91. Distinguiamo, cioè, tra una continuità dell’estensione ed unadel plenum esteso: queste però non possono essere fatte corrispondere aduna grandezza estensiva e ad una intensiva, ad una coesistenza e ad unagradualità, o ancora, semplicemente, ad una continuità (spaziale) e ad unacostanza (temporale), proprio perché queste dimensioni non possono presu-mersi come già costituite nell’estensione pre-fenomenale dei campi sensibi-li. Ma la fallacia maggiore consiste nell’intendere i due tipi di continuitànon come due livelli di un concetto che sta andando costituendosi e chegiungerà a comporsi solo all’interno della compiuta formalizzazione dellospazio geometrico, ma come due modalità distinte di una forma relazionalegià pronta in questo stadio dell’indagine: e questo sarebbe possibile solo sela continuità fosse un dato originario, se fosse una qualche entità fisica, sepotessimo ritrovarla da qualche parte nella nostra esperienza di fatto (o an-cor prima di essa). Se cioè la continuità fosse, e non valesse invece – comei brani della sua storia raccolti fino ad ora dovrebbero mostrare – come mi-sura (e ragione) dell’essere spaziale. Cos’altro si potrebbe chiedere oltre ladefinizione di continuità? «Che ogni punto – avrebbe risposto Bolzano, ri-baltando un verso del poema parmenideo in un’esclamazione paradossale –ne abbia uno che gli sia a contatto diretto! Questa richiesta, però, è ovvia-mente impossibile da soddisfare, e racchiude in sé una contraddizione»92.

L’unico modo per intendere il rapporto insistente tra il continuum deidati fisici e quello della apprensione è di considerare anche questi come par-ti, come peculiari frazioni di un interno che si costituisce mediante l’attiva-zione della loro parallelità. Tra di essi sussiste la medesima relazione cheHusserl, nel § 114 di Idee I, ritiene vigere tra “atto reale”, cogito “reale”, re-almente posizionale, e l’ombra di un atto, un cogito improprio, non “real-mente” posizionale93: in ambedue le circostanze, le due parti, possono distin-guersi e funzionare come un intero proprio riflettendosi l’una sull’altra, pro-iettando l’una il profilo dell’altra. Nel caso banale della percezione visiva diuna sfera colorata, l’uniformità (o la multiformità) della colorazione e la sua

91 Ibidem.92 B. BOLZANO, I paradossi dell’infinito (1831), tr. it. di A. Conte, Bollati Borin-

ghieri, Torino 2003, p. 92.93 E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologi-

ca, Libro Primo (1913), I, tr. it. di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, p. 281.

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forma estensiva (la sfericità, appunto), non solo non costituiscono due conte-nuti distinti, se non ad un successivo atto tetico, ma solo corrispondendosipossono concorrere a costituire l’unità della cosa “sfera colorata”, a cui stia-mo facendo riferimento. Così, cioè, non solo si conferma la coappartenenzatra colore ed estensione, già sostenuta nella Terza Ricerca Logica, ma si so-stiene che la medesima costituzione dello spazio, ovvero dell’estensionecome Ausdehnung, non può risolversi nell’isolamento di uno dei due caratte-ri, quello dell’Extension prefenomenale, ma contempla la sovrapposizione dientrambi. In questo modo, non solo progredisce la rielaborazione della cop-pia moderna qualità primarie (estensione e movimento) e qualità secondarie(colore), ma si procede piuttosto alla definizione di una nozione di quantumcosale, che le annovera solo come suoi livelli elementari94.

Se analizziamo la percezione di qualcosa – sia che esso sia in quiete oin movimento, sia che l’osservatore sia in quiete o in movimento, ed ancorasia che questi si muova o sia mosso – essa risulta essere un complessocomposto dall’oggetto rilevato (la cosa percepita, la sfera) e dalle circostan-ze, in cui tale percezione si svolge. Le circostanze, a loro volta, raggruppa-no tanto il contesto cosale, l’Umgebung, l’ambiente circostante alla cosa edall’osservatore, quanto la sequenza motivazionale che dirige la percezione,ovvero il flusso temporale pre-oggettivo in cui si fondono rimemorazione,prememorazione (o aspettazione) e presenza. Si tratta quindi di un comples-so Kb, in cui la componente-b fornisce l’intenzione-verso (il percepito) e lacomponente-K la motivazione di questa intenzione. Qualora si tratti, comenel nostro esempio di prima, di una percezione visiva – cui corrispondereb-be ovviamente la costituzione di cosa e spazio nel campo visivo – potrem-mo disegnare una sequenza o linea percettiva, risultante come una moltepli-cità bidimensionale. Poniamo che in un tempo t 1, t 2, ... t l, le circostanze(K

1, K

2, ...K

s) si convertano continuamente l’una nell’altra, e che in una me-

desima circostanza, e in tempi diversi, la figura cosale (b) resti la stessa,ma ne muti il colore (F), come illustra il seguente diagramma:

a K1

F11, F

12, …, F

1l, …

a K2

F21, F

22, …, F

2l, …

……..………………….........……a K

sF

s1, F

s2, …, F

sl, …

___________________________

Tempi: t1, t2, …, tl, …

94 Sulla molteplicità delle estensioni pre-«empiriche», si veda ID., Ding undRaum, cit., § 54, p. 199.

I paradossi della continuità 187

«Se K1 passa continuamente in Ks, allora le F della diagonale passano

continuamente l’una nell’altra, mentre le figure attraverseranno i mutamentidella molteplicità in quiete, cosa che non compare nel diagramma. Le serieverticali appartengono al medesimo punto temporale. [...] Se il colore ob-biettivo a partire dal punto temporale corrispondente invece di mutare, restaimmutato, allora per questo come per ogni punto temporale, la serie vertica-le indica i colori per ogni K: cioè nel diagramma ripeteremo sempre ancoradi nuovo soltanto la serie verticale. Se la modificazione procede solo per iltempo t 1 ... t 2, allora nel corrispondente mutamento della situazione cine-stetica K

1 ... K

2 i mutamenti cromatici seguiranno lungo la diagonale F

1 F

2,

proseguendo quindi nel senso della serie verticale, poiché proprio la serieverticale si mantiene da ora innanzi parallela ed immutata»95.

Tale formalizzazione husserliana dimostra chiaramente come la conti-nuità figurale – che costituisce l’unità della cosalità pre-spaziale nel campovisivo – può essere considerata una molteplicità lineare solo se la si assumecome «estratta da una molteplicità multidimensionale d’immagini possibili,la quale comporta ancora molte altre molteplicità lineari d’immagini, in unnumero infinito; ognuna, secondo il suo tipo determinato, inglobata nel de-terminato tipo comune della molteplicità complessiva»96. La descrizioneperò si complica quando, pur restando nel campo visivo, studiamo il frantu-marsi di una figura in una figura doppia, o ancora la confluenza di due fi-gure in una sola. Le due figure sono così simili che l’uno sembra la ripeti-zione dell’altra e risulta ardua l’individuazione di una qualche differenza,nonostante presentino distanza, orientamento e localizzazioni differenti o ta-lora anche differente contenuto, ovvero o diverso grado di chiarezza (dovu-to ad un privilegio di accomodazione dell’una sull’altra) o diverso colore.Ora cosa si può notare quando si unificano figure doppie (l’una diviene tra-sparente all’altra, l’una concorre e ricopre l’altra) o una figura unitaria siscompone in una doppia? Si può dire che esse «formino un sistema unidi-mensionale, che deve l’unità continua della sua copertura [Überdeckung]alla fusione con il sistema unitariamente continuo della molteplicità di dif-fusione; e la riempie o continuamente, con lo stesso valore, o con valorimutevoli. Come per tutti i continua doppi, anche qui una soluzione di con-tinuità, dunque l’entrata in gioco di profonde discontinuità, non può effet-tuarsi che in limiti legati ad una mediazione continua»97.

95 Ivi, p. 269-270. Per un confronto con i diagrammi temporali, si veda ID., Perla fenomenologia della coscienza interna del tempo (1928), tr. it. di A. Marini, FrancoAngeli, Milano 2001, pp. 351 ss.

96 ID., Ding und Raum, cit., p. 200.97 Ivi, p. 170.

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Ciascun livello di variazioni corrisponde, infatti, alla determinazione diuna linea assiale, ovvero di un continuum unidimensionale (sopra-sotto,alto-basso, avanti-dietro, ma anche bianco-nero, rosso-viola), e quindi anchead un tipo di modificazione dell’orientamento percettivo; ciascuno di questilivelli vale come un intero, o come una parte intera, chiusa, e può sussisteresolo afferendo all’intero di cui è parte, ovvero al tipo comune della molte-plicità degli orientamenti e delle serie dimensionali. Queste linee dimensio-nali coincidono con altrettanti livelli della costituzione spaziale. Il primo li-vello è occupato dallo spazio oculomotorio, limitato e chiuso, definito dalsemplice movimento degli occhi, che a partire da un punto zero (la posizio-ne degli occhi) definisce un sistema di coordinate formato dall’incrocio didue assi: quello verticale (sopra-sotto) e quello orizzontale (destra-sinistra).La forma di un tale spazio è doppiamente unidimensionale, definisce cioèun continuo circolare di qualità di orientamento. Il secondo livello, derivan-te dal movimento della testa attorno al suo asse, mentre il resto del corporesta fermo, può essere definito come un differente spazio oculomotorio (incui però gli oggetti non sono in quiete), oppure come un primordiale spaziocefalomotorio statico. Stante il vincolo della normale posizione della testa edel sistema cinestetico oculare, «questo nuovo spazio non ha più limiti “de-stra-sinitra”, ma resta chiuso. L’incrocio di assi non funge come sistemafondamentale di orientamento, ma viene sostituito da una linea chiusa dicoordinate destra-sinitra, come ascissa, e da una linea aperta sopra-sotto.[...] A partire da una posizione fondamentale, possiamo registrare un rivol-gimento verso destra, che potrebbe continuare idealmente fino a raggiunge-re lo stesso spazio oculomotorio e [lo stesso] sistema di corpi, di un idealerivolgimento verso sinistra (+a, – a)»98. La forma di questo spazio sarebbecilindrico, definito come è da una linea-zero, da un asse delle ascisse chiu-so e da due linee parallele y = +b, y’ = – b. Il terzo livello è quello dellospazio propriamente cefalomotorio, quello in cui si considerano idealmentei movimenti del capo, in assenza però ancora di profondità, quindi di cam-biamento, sovrapposizione o traslazione. «Il sistema fondamentale di orien-tamento di questo spazio sono due linee-zero, che definiscono altrettanti“cerchi” chiusi, ovvero la linea chiusa destra-sinistra (che già è stata costi-tuita prima) e la linea chiusa sopra-sotto. Il punto di intersezione è lo zeroe ha per così dire un’ombra, un contro-zero»99. Uno spazio siffatto è unacalotta sferica, in cui si dispongono i corpi come enti di superficie: la suaforma è determinata da un incurvamento dell’ordinata e non da un’effettiva

98 Ivi, p. 310.99 Ibidem.

I paradossi della continuità 189

rotazione del sistema di orientamento. Nelle fattispecie spaziali analizzatefino ad ora non vi sono a rigore profondità, né i caratteri di vicino e lonta-no, se non nel senso ampio di “portarsi qualcosa vicino”. Solo al quarto li-vello intervengono i fenomeni di copertura, di allargamento prospettico, dicontrazione o fusione, così da costituire, nel cambiamento di grandezza e difigura della cosalità, allontanamento, avvicinamento e spostamento in unsenso completamente differente: ciò è reso possibile dall’introduzione diun’appercezione duplice e non più univoca come quando invece un determi-nato corpo nel campo visivo corrispondeva ad una sola figura100. Adesso in-fatti possiamo intendere pienamente l’accenno compiuto precedentemente aicontinua doppi, che nel caso dello spazio oculomotorio rappresentavanosolo un esempio marginale o patologico e che invece nel continuo comples-sivo delle direzioni, ovvero nell’interezza dello spazio visivo, costituisce lalegge costitutiva della cosalità. I livelli precedenti definivano lo spaziocome una superficie sferica che si muoveva in se stessa e poteva dividersiin parti, considerabili a sé stanti e di per sé mobili: mediante quest’ultimolivello si riconoscono quelli antecedenti come effettivamente solo porzionidi una “superficie sferica del mondo”, intesa come sistema del mondo pro-fondo tridimensionalmente101, ovvero come complesso di enti corporei e su-perficie terreste. Ma questo non vale per lo spazio del mondo, ove la possi-bilità ideale dell’essere-mossi svolge un significato costitutivo102, né per «ilmondo esistente nell’idealità infinita»103. Ma proprio solo per quella rappre-sentazione della Terra, a cui ancora nel 1934 Husserl si riferiva quale «uni-tà sintetica che si va attuando analogamente a come, in un’esperienza pro-gressiva coerente, i campi dell’esperienza delle singole persone pervengonoall’unità di un unico campo di esperienza»104.

100 Ivi, p. 314. Da qui emerge come sia possibile convertire ciascun livello dicontinuità in una varietà n-estesa seguendo il metodo indicato da Riemann in Überdie Hypothesen, welche der Geometrie zu Grunde liegen (mitgetheilt durch R. De-dekind), in «Abhandlungen der Königlichen Gesellschaft der Wissenschaften in Göt-tingen», 1843, pp. 136 ss. È significativa la differenza tra una tale conversione di unamodalità presentativa (la determinazione dei continua) nei termini della geometriariemmaniana, e quella machiana di un piano meramente entitativo (la pelle). Cfr. E.MACH, Die Analyse der Empfindungen und das Verhältnis des Physischen zum Psychi-schen, Fischer, Jena 19002; M. JAMMER, Storia del concetto di spazio, tr. it., Feltrinelli,Milano 1979.

101 E. HUSSERL, Ding und Raum, cit., p. 316.102 Ivi, pp. 316-317.103 ID., Rovesciamento della dottrina copernicana nell’interpretazione della cor-

rente visione del mondo (1934), tr. it. di G. D. Neri, in «Aut-Aut», 245, 1991, p. 3.104 Ivi, pp. 3-4. Sulla questione di una scienza universale, puramente fisica, della

“natura”, cfr. ivi, p. 14.

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Dovrebbe finalmente risultare chiaro come una fenomenologia generaledella continuità105 rappresenti la condizione preliminare per una costituzionesistematica dello spazio, in quanto analisi delle modalità in cui la la cosalitàspaziale si compone attraverso le modificazioni continue – e potenzialmenteinfinite – della sua quasi-estensione. E ciò tanto più rileva se ad una dottri-na di grandezze pluriestese (come appunto sarebbe lo spazio), deve esserepremessa la distinzione sostenuta dal Riemann delle Hypothesen – testo cherappresenta il più autentico interlocutore di queste analisi husserliane – se-condo cui «per le grandezze discrete il confronto quantitativo avviene attra-verso la numerazione, mentre per quelle discrete avviene mediante misura-zione»106. Pertanto se gli enti reali che sono alla base di uno spazio – comevarietà n-estesa, in cui è possibile esaminare i quanta indipendentementedalla loro posizione – non costituiscono una molteplicità discreta, ma conti-nua, «il fondamento delle relazioni metriche deve essere cercato nelle forzeche agiscono su di essi tenendoli insieme»107. Tuttavia nella vita quotidiana,nell’esperienza comune, nell’ambito cioè del cosiddetto concetto naturale dimondo, «vi sono pochissime occasioni di formulare concetti i cui modi dideterminazione formino una varietà continua, tanto che probabilmente i soliconcetti semplici i cui modi di determinazione formino una varietà plurie-stesa sono le posizioni degli oggetti sensibili ed i colori»108. Attorno alla co-stituzione del continuo metrico si possono, così, isolare almeno tre questio-ni: 1) la distinzione tra numerazione e misurazione; 2) l’impossibilità di ra-dicare nel comune uso linguistico la nozione di continuità, se non nei casidei luoghi degli oggetti sensibili e dei colori; 3) il rimando ad una fonda-zione dinamica. In che senso queste tre asserzioni si legano e specificano ilvalore di eccezione proprio di quegli esempi su cui le descrizioni fenome-nologiche si sono soffermate? Ed ancora in che modo possono essere deter-minati i rapporti tra esperienza comune ed esperienza scientifica propriomediante un esame della misurazione (geometrica) e delle sue condizioni?

Queste domande impongono un richiamo alle considerazioni che Hus-serl stese, negli anni Trenta, riguardo alla distinzione tra misurazione edesattezza, nell’ambito di una genealogia delle modalità e degli strumentimetrici. Ciò che nella prassi matematica, a differenza che in quella empiri-ca, chiamiamo esattezza, corrisponde alla possibilità di determinare e cono-scere le figure ideali, in assoluta identità, ovvero come sostrati assolutamen-

105 ID., Ding und Raum, cit., p. 99.106 B. RIEMANN, Über die Hypothesen, welche der Geometrie zu Grunde liegen,

cit., p. 135.107 Ivi, p. 149.108 Ivi, p. 135.

I paradossi della continuità 191

te identici e metodicamente univoci di caratteristiche determinabili109. In untale processo – lungo il quale si compirebbe l’invenzione della geometria –svolgono un ruolo peculiare alcune forme come la linea, il triangolo ed ilcerchio, che fungono da figure elementari mediante cui costruire tutte le al-tre110. Un tale procedimento geometrico – che esige di valere intersoggetti-vamente – «rimanda ad una metodica già in esercizio nel mondo-ambienteintuitivo-preteoretico, a quella metodica primitiva e quindi artificiale delladeterminazione commisurante ed in generale metrica. La sua funzione haorigine proprio nella forma essenziale del mondo-ambiente. Le figure sensi-bilmente esperibili o immaginabili in maniera intuitivo-sensibile e tutti i tipiad ogni livello di generalità passano gli uni negli altri continuamente: inquesta continuità riempiono la spazialità (sensibile-intuitiva) come loro for-ma. Ogni figura di quest’infinità aperta, anche se essa in realtà è data intui-tivamente come un fatto, non ha ancora alcuna “obbiettività”, essa non è in-tersoggettivamente determinabile, né partecipabile nella sua determinatezzaper ciascuno – per ogni altro che non la veda effettivamente. A questo ser-ve chiaramente l’arte della misura (Messkunst)»111. Siffatta metrica arcaica,come testimonia l’agrimensura, procede attraverso il confronto approssimatotra le figure corporee dei fiumi, dei monti, degli edifici e le forme loro cor-rispondenti; il vincolo di somiglianza figurale, che in essa si impone, verràpoi elaborato dalla metrica universale della geometria nel suo mondo dipure figure-limite112. Dovrebbe però essere chiaro che la continuità, cuiHusserl fa riferimento, è quella della forma fisica dell’esperienza, ovverodello stile del mondo, «di una comunità di stile od un’unità strutturale [che]si mantiene nei diversi presenti concreti e da questi si proietta presuntiva-mente l’orizzonte esterno che appartiene costantemente all’esperienza»113. Èla struttura ontologica del mondo, ovvero l’unità ontologica dello spazio delmondo, il quale non si riferisce solo a coloro che qui ed ora esperiscono,ma a tutti i soggetti dell’esperienza oggettiva possibile in generale. In talguisa, la questione circa le condizioni di possibilità dell’essere vero di unmondo siffatto che deve essere esperito sempre e solo presuntivamente inquanto essente, è equivalente a quella circa le condizioni di possibilità dellasua conoscibilità teoretica o circa le condizioni di possibilità di una scienza.Si ottiene così quindi che il mondo presunto, «se esso in generale è in veri-

109 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale,cit., p. 56.

110 Ibidem.111 Ivi, p. 57.112 Ibidem.113 I. KERN, Husserl und Kant, cit., pp. 161-162.

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tà, deve avere una struttura formale secondo una necessità incondizionata,deve avere una determinata struttura omogenea, quindi una struttura univer-sale della natura fisica con lo spazio, il tempo e la casualità, una universalestruttura di leggi fisiche sotto il titolo di causalità, etc. L’essere di un mon-do non è in sé, come se fosse indifferente rispetto alla possibilità di una co-noscenza della verità, ma ambedue – mondo e conoscenza – si trovano inuna correlazione necessaria, prescrivendo all’essere del mondo stesso unastruttura necessaria, una struttura d’essere»114.

Eppure un tale stato di cose è esposto al suo ribaltamento, quandol’unità metrica dell’ente viene assunta come unità ontico-effettuale dell’es-sente-misurato. Laddove infatti si determini la cosa della fisica come reale,distinta quindi dalla sua mera manifestazione, individuale o intersoggettiva,che solo può dirsi in relazione con la normalità umana dell’esperienza edelle sue condizioni, laddove si possa cioè separare con nettezza reale emetrico come due diversi stati dell’enunciato, sembrano disperdersi le trac-ce della costituzione a partire dall’esperienza, da quel vissuto in cui «ven-gono esperiti degli stati i quali, in quanto stati del reale, rientrano nel temadella scienza ed esigono una descrizione scientifica»115. Così la cosa dellafisica smette di essere “quella nuova dimensione di relatività” a partire dal-la quale si costruisce attraverso «il pensiero, la pura cosa della fisica, a cuiineriscono allora multiformi “spazi riempiti” che sono in riferimento con di-verse facoltà sensibili e con diverse deviazioni sensibili individuali»116. Essa– lungo la lenta depurazione dalle qualità secondarie, che le scienze naturalimoderne compiono sull’enticità – diviene regola di indipendenza, segno sol-tanto della semplice manifestazione117. Lo statuto simbolico, segnico-indica-tivo, della cosa fisica rappresenterebbe così l’ipotesi fondamentale di unarealtà spazio-causale (geometrico-meccanica) nascosta nei decorsi dei vissu-ti fenomenici, ma allo stesso tempo una norma od un criterio della loro me-desima praticabilità. In questa trascendenza interna della cosa fisica rispettoall’interezza dell’esperienza consiste quel “diffuso realismo segnico” chetrasforma «la determinazione logico-empirica della natura immediatamenteed intuitivamente data [...] in mondo sconosciuto di realtà che sarebbero

114 E. HUSSERL, Ms. F I 32, p. 124b, cit. in I. KERN, Husserl und Kant, cit., pp.165-166.

115 E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenolo-gica, Libro terzo (1952), II, tr. it. di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, p. 441.

116 ID., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Li-bro Secondo (1952), II, cit., p. 88.

117 Ivi, p. 89. Cfr. ID., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia feno-menologica, Libro Primo, cit., pp. 95-96.

I paradossi della continuità 193

delle cose in sé e che verrebbero introdotte a titolo di ipotesi allo scopo difornire la spiegazione causale delle manifestazioni»118.

La costituzione sistematica dello spazio – di cui abbiamo esaminato soloil piano elementare coincidente con una fenomenologia generale della conti-nuità – permette così di comporre l’indagine genealogica sull’esperienza difatto del mondo con i lineamenti fondamentali di una epistemologia fenome-nologica, non in virtù di un’analogia formale o modellistica o ancora di unmitico legame tra l’essere fisico “oggettivo” e quello “soggettivo”, ma a par-tire dalla nozione moderna di quantum, inteso, però, invece che come gran-dezza divisibile e quindi misurabile, come entità metrica. È in una tale pro-spettiva che si può reclamare per la costituzione della spazialità il caratteredella prova di esistenza, della definizione legittima di un’entità proto-fisi-ca119. Se pertanto è vero che fu giusto la nozione di spazialità a provocare –nel pensiero heideggeriano della seconda metà degli anni Venti – non solol’impasse, denunciato dalla locuzione poi abbandonata di metaontologia, maa decidere anche l’impercorribilità di un’analisi «della morfologia pura delleforme spaziali, dell’analysis situs e della scienza metrica pura dello spa-zio»120, allora bisogna rintracciare in queste ricerche sulla fenomenologia ge-nerale della continuità la ragione delle annotazioni critiche che Husserl andòscrivendo proprio a margine delle righe di Essere e tempo dedicate al proget-to scientifico dell’ente naturale121. Nella brevità quasi aforistica della nota«un progetto scientifico noi dobbiamo prima averlo e fondarlo, non però me-diante quelle vaghe generalità di Heidegger»122 – al di là di ingenerosità efraintendimenti – Husserl sembra richiamare ad un impegno più ampio, dicui è parte decisiva la costituzione di cosa e spazio e l’analisi della legge dicontinuità come principio di identità dell’ente geometrico-fisico.

Esula altresì dai nostri compiti e dai nostri intenti definire i termini diun confronto e tanto meno di un arbitrato: quello che importa è restituire lafenomenologia dello spazio al suo proprio ambito storico-ideale, che dal-l’artificio aristotelico dello pseudo-Zenone almeno fino a Riemann e Hilbertsi raccoglie attorno al quesito circa la relazione tra entità e spazialità. Aquella vicenda cioè che ripensando l’antica diade mgeqoj-l+goj riconosceil mgeqoj come l+goj dell’ente, come inessente modo del suo essere.

118 Ivi, p. 132.119 Cfr. O. BECKER, Beiträge zur phänomenologischen Begründung der Geometrie

und ihrer physikalischen Anwendungen (1923), Niemeyer, Tübingen, 1973, p. 8; ID.,Mathematische Existenz, cit., p. 148.

120 M. HEIDEGGER, Essere e Tempo, cit., p. 197.121 Ivi, p. 524.122 E. HUSSERL, Glosse a Heidegger, tr. it. di C. Senigaglia, Jaka Book, Milano

1997, p. 96.

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Metafisica e nichilismo 195

Metafisica e nichilismoLa questione della morte in Heidegger e Jünger*

Pierandrea Amato

È mia intenzione in questo contributo vagliare il nesso che l’orrore del-la carneficina industriale sembra instaurare tra il nichilismo e la morte. Mipropongo, più precisamente, un’analisi di questa correlazione attraversol’esame della posizione di chi giudica il secondo conflitto mondiale il com-pimento della modernità come dominio del nichilismo. Mi riferisco alla me-ditazione che Ernst Jünger e Martin Heidegger intraprendono negli anniCinquanta del Novecento nel momento in cui il patrimonio moderno di co-noscenze appare materialmente dissolto nella catastrofe; quando la produ-zione meccanica della morte su vasta scala rivoluziona la percezione chel’umanità ha di se stessa, dal momento che scopre, in particolare con l’im-piego potenzialmente generalizzato di armi atomiche, di avere la possibilitàdi consegnarsi alla propria fine come specie (la bomba atomica, e i suoi de-rivati, da una prospettiva squisitamente filosofica, in effetti, rappresentanoun’occasione per promuovere il suicidio della razza umana e quindi, dalpunto di vista della nostra specie, l’annichilimento totale).

I termini complessivi del dialogo possono essere riassunti in poche battu-te1: in Über die Linie (Oltre la linea), un testo redatto in onore dei sessant’an-

* In occasione della pubblicazione di questa raccolta di scritti in onore dei ses-sant’anni di Eugenio Mazzarella, mi è parso, come dire, naturale fare i conti con gliinizi della mia ricerca. Tenendo anche conto che sono passati dieci anni esatti dallacomparsa del mio primo libro, Lo sguardo sul nulla, in cui i lineamenti del nichilismoerano messi alla prova attraverso le inchieste teoriche di Jünger e Heidegger. Oggi al-lora per me riveste un valore speciale ritornare sul luogo del delitto, per quanto daun’altra prospettiva, e maneggiare nuovamente i materiali di un tempo. All’epoca, in-fatti, le cose da pensare che confluirono nel volume del 2001, si materializzarono nel-l’ambito di un confronto con Eugenio Mazzarella, le cui indicazioni delinearono inparticolare un metodo per la ricerca filosofica che tutt’ora rimane per me un riferi-mento vincolante.

1 Il confronto critico si svolge tra Über die Linie di Jünger, pubblicato nel 1950,e il saggio heideggeriano del 1955, Über «Die Linie», che, peraltro, sin dall’anno suc-

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ni di Heidegger, Jünger indica nel nichilismo – inteso come un fenomeno cheinduce essenzialmente la fine del meraviglioso e processi di riduzione e svani-mento – la causa spirituale dell’orrore che la seconda guerra mondiale ha pro-vocato. Sulla scia della cartografia nietzscheana del fenomeno, secondo Jün-ger, tuttavia la diffusione planetaria del nichilismo non sarebbe un evento ec-cezionale, ma rappresenterebbe la ‘condizione normale’ del mondo nel mo-mento in cui la tecnica tende a governare la totalità delle relazioni umane (in-somma, quando il mezzo non è più tale, ma diventa esso stesso origine e finedell’essere delle cose). La logica dello sradicamento, il sistema della calcola-bilità, la fine dell’età del senso, sono manifestazioni epocali che prescrivono lasovranità del vuoto.

La relazione costituiva che Jünger stabilisce tra il nichilismo e la tecni-ca moderna non permette, come accade, almeno in parte, per Nietzsche, dipensare il nichilismo come un fenomeno che emerge nelle pieghe di un ge-nerale processo di decadenza. Al contrario, fiorirebbe laddove comandal’ordine, l’anonimato, la salute, l’indifferenza. Sono queste le condizioni incui l’umanità guadagna il grado zero dell’essere. Situazioni in cui il desertocresce, testimoniando plasticamente che ci troviamo in un tempo in cuil’essere in quanto tale non ha più valore.

Per quanto giudichi il nichilismo il generatore fondamentale di una po-tenza distruttrice devastante, Jünger si dichiara però ottimista: è possibileopporsi alla diffusione del vuoto. Dopo la catastrofe, proprio perché in fon-do la catastrofe si è consumata, non è sbagliato pensare che ci siano le con-dizioni per un superamento del nichilismo. L’apice del pericolo, in altre pa-role, incoraggerebbe l’apertura di uno spazio in cui lottare contro l’aggres-sione dell’automatismo. Sarebbe l’occasione di un movimento in grado direspingere la cattura del niente. Jünger intravede una serie di segni – l’eros,un’inedita dedizione al sacro, l’emergere di nuovi valori – che lasciano im-maginare la manifestazione di una nuova umanità capace di abbandonare ildeserto. Di varcare la linea del nichilismo. L’uomo sarebbe in grado dischivare il niente; di sottrarsi alla sua legge.

Lasciare alle spalle il deserto significa, secondo Jünger, essenzialmenteintraprendere un cammino verso se stessi. Vuol dire riconoscere nella singo-larità un baluardo alla diffusione planetaria del vuoto e della supremaziaspirituale della tecnica (ci sarebbe, per dirla molto semplicemente, una li-

cessivo, presenta un nuovo titolo: Zur Seinsfrage. E. JÜNGER, Über die Linie, in AA. VV.,Anteile. Martin Heidegger zum 60. Geburtstag, Klostermann, Frankfurt a. M. 1950,pp. 245-284. M. HEIDEGGER, Über “die Linie”, in AA. VV., Freundschaftliche Begegnun-gen. Festschrift für Ernst Jünger zum 60. Geburtstag, hrsg. von A. Mohler, Kloster-mann, Frankfurt am Main 1955, pp. 9-45.

Metafisica e nichilismo 197

bertà originaria in ciascuno di noi che in ultima istanza la tecnica non puòcatturare). Lo spazio da cui concepire un pensiero della speranza in gradodi logorare la fatalità dell’esistente e la penuria dell’essere.

La risposta di Heidegger, nel saggio Über «die Linie» (Su la linea),comparsa la prima volta in un volume in onore dei sessant’anni di Jünger,per quanto apparentemente conciliante nei toni, nella cogenza filosofica del-la questione è polare alle tesi jüngeriane. In particolare, ponendo la questio-ne nei termini del superamento (Überwindung) del fenomeno, Jünger nonavrebbe la possibilità di pensare la natura essenziale del nichilismo e perquesta ragione rimarrebbe invischiato in una sua rappresentazione fonda-mentalmente metafisica. Nella sua ipotesi, infatti, il nichilismo è raffiguratocome un oggetto che ci sta di fronte e non è, come invece pensa Heidegger,la località che l’uomo abita nell’età della manifestazione dell’essenza dellatecnica moderna. Jünger considera il nichilismo un fenomeno estraneo al-l’essenza dell’essere; lo pensa, cioè, nel modo in cui la metafisica e lascienza moderna concepiscono il niente (il tutt’altro da ciò che è). Heideg-ger, al contrario, nella Seinsfrage presenta la co-implicazione a-dialettica tral’essere e il nulla in cui il nulla non presenta nulla di negativo, dal momen-to che è il Dasein come tale a soggiornare sulla linea (l’uomo è, secondoHeidegger, la linea). Tutto ciò fa dire a Heidegger, diversamente da Jünger,che soltanto un nuovo pensiero dell’essere può generare le condizioni persepararsi dal carattere distruttivo del nichilismo. In altre parole, soltanto unapprofondimento dell’essenza non nichilistica del nichilismo (un’operazioneche Heidegger definisce Verwindung), è l’occasione per lasciarsi alle spalleil niente-nullo della metafisica.

«Heidegger sembra operare uno spostamento del discorso jüngerianodal piano assiologico a quello ontologico»2. Jünger, secondo il giudizio diHeidegger, non comprende l’essenziale: non cattura l’intima verità nichili-stica della metafisica. L’assiologia jüngeriana del nichilismo è metafisicaperché la metafisica dispiega sempre, in fondo, lo insegna proprio Heideg-ger, un’assiologia. Über die Linie, quindi, si limiterebbe a un’indagine onti-co-categoriale del nichilismo e per questa ragione Jünger non rappresente-rebbe altro che un episodio inscritto all’interno del compimento neitzschea-no della metafisica.

A questo punto, per approfondire dettagliatamente le tensioni teoricheche questo dialogo sprigiona, sarebbe ragionevole allestire una ricognizione

2 E. MAZZARELLA, Assiologia e ontologia del nichilismo. Su Jünger e Heidegger, inStoria Metafisica Ontologia. Per una storia della metafisica tra Otto e Novecento,Morano, Napoli 1987, p. 212.

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analitica dei due saggi sulla linea per appurare, in primo luogo, se la criticaheideggeriana della posizione di Jünger è filologicamente legittima. Antici-patamente, peraltro, sarebbe inevitabile esaminare la ragione per cui Hei-degger considera nel suo complesso l’opera di Jünger – con particolare rife-rimento ai testi dei primi anni Trenta, La mobilitazione e L’Operaio – unsintomo esemplare dell’età del nichilismo compiuto e di una determinata in-terpretazione della filosofia di Nietzsche (l’Arbeiter jüngeriano, secondoHeidegger, è l’incarnazione della meta-fisica della volontà di potenza)3.Inoltre, per venire a capo della questione del nichilismo, si dovrebbe mette-re in luce come l’interpretazione heideggeriana della tecnica moderna devemolto all’intuizione jüngeriana che riconosce nella tecnica una forma senzaevoluzione in grado tuttavia di condizionare la storia4. In realtà però, inquesto contesto, non è mia intenzione riprendere sistematicamente i terminidella loro Auseinandersetzung sul nichilismo5. Piuttosto, il mio obiettivo èdislocare la questione nell’ambito della dissipazione ontologica della mortenell’età del dominio della tecnica, in modo da verificare, da un lato, se ilconfronto critico che si sviluppa sul tema del nichilismo tra Jünger e Hei-degger sia più intricato di come lascerebbe intendere la presa posizione diZur Seinsfrage, e, dall’altro, l’ipotesi che la stessa Verwindung heideggeria-na della metafisica sia probabilmente piena di insidie metafisiche.

Jünger fornisce una descrizione fenomenologica del nichilismo. Verificala sua diffusione quotidiana. Ne saggia gli effetti nelle condotte individualie collettive. Ciò fa dire a Heidegger che la sua prospettiva non è in gradodi porre il problema del nichilismo all’altezza della sua imposizione epoca-le. Tuttavia la posizione jüngeriana è forse più intricata di come può appari-re a una prima lettura del testo del ’50. Jünger, in effetti, dimostra di essereconsapevole di muoversi in un spazio teorico scivoloso: «il nichilismo, perquanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti, antistanti il niente, non entreràmai in contatto con la potenza fondamentale stessa. Allo stesso modo, sipuò avere esperienza del morire, non della morte. Anche il contatto imme-

3 Un volume della Gesamtausgabe testimonia nel suo complesso l’attenzione hei-deggeriana per il pensiero jüngeriano: M. HEIDEGGER, Zu Ernst Jünger, in Gesamtau-sgabe, Band 90, hrsg. von P. Trawny, Klostermann, Frankfurt am Main 2004.

4 Per un sistematico confronto critico sul tema della tecnica tra Heidegger e Jün-ger, vedi P. NERHOT, Ernst Jünger – Martin Heidegger. Il senso del limite (o la questio-ne della tecnica), CEDAM, Padova 2008.

5 Al tema è dedicato il capitolo centrale di un mio libro, Lo sguardo sul nulla.Ernst Jünger e la questione del nichilismo (Mimesis, Milano 2001, pp. 81-134), cuirimando per un’analisi dettagliata del confronto sulla linea tra Jünger e Heidegger.

Metafisica e nichilismo 199

diato con il niente è pensabile, ma allora la conseguenza sarà l’annienta-mento istantaneo, come se una scintilla scaturisse dall’assoluto»6. Il nientenon coincide con il nichilismo. Non concerne lo svanimento. Il niente, piut-tosto, ricalca la potenza della morte: come la morte eccede ogni morire,allo stesso modo il niente è una figura che non coincide con il nichilismo.Il contatto immediato con il niente, una potenza fondamentale per Jünger,in fondo riguarda la morte – l’esperienza im-possibile dell’eterno nel tempo– e non l’ordine del nichilismo.

Se la morte in Jünger gioca un ruolo che non si riduce alla sua caratu-ra fenomenologica, in Über die Linie si apre forse un varco verso la possi-bilità di porre in termini non soltanto descrittivi il problema del nichilismoche, seppur collocato nell’ambito di un discorso ‘assiologico-metafisico’ suldestino della terra nell’epoca dell’egemonia della tecnica moderna, sembraanticipare il pensiero dell’ultimo Jünger, quando la questione della morte,tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Novanta, diventa l’argomentocruciale per concepire un oltrepassamento del “muro del tempo” (vedi inparticolare la raccolta di aforismi del 1990 consacrata a una meditazionesulla fine del tempo che ha per l’appunto come centro di gravità la questio-ne della morte: La forbice7).

La morte nel pensiero dell’ultimo Jünger ha una rilevanza assoluta: susci-ta la speranza di un’infrazione dell’egemonia della tecnica, logorando la sua(non)articolazione del tempo (ossia la capacità di soffocare il tempo nella rou-tine). La morte, in questo senso, invocherebbe l’esperienza dell’essere. L’esse-re umano, soggiornando nella morte, incrocia la chance dell’essere, penetran-do in un’esperienza che lo trascende in-finitamente. Sarebbe, per dirla con laprospettiva dichiaratamente post-antropologica che Jünger adotta a partire dal-la pubblicazione nel 1959 di Al muro del tempo, l’avamposto per vedere lecose come effettivamente sono dopo la fine del tempo storico.

Per definire adeguatamente il senso che la morte assume nell’economiadel pensiero di Jünger, quando si pone la questione dell’abbandono del-l’universo temporale e spaziale dominato dalla tecnica moderna, è necessa-rio, come spero di dimostrare rapidamente, un breve riferimento alla celebreesegesi heideggeriana della morte in Essere e tempo (primo capitolo dellaseconda sezione della prima parte), dove, come è noto, essa non ritrae lafine dell’esistenza, ma l’occasione delle sua esperienza più autentica inquanto sua possibilità più propria.

6 E. JÜNGER, Oltre la linea, E. Jünger – M. Heidegger, Oltre la linea, a cura di F.Volpi, Adelphi, Milano 1998, pp. 59-60.

7 E. JÜNGER, La forbice, tr. it. A. Iadicicco, Guanda, Parma 1996.

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La morte, nel capolavoro del ’27, condensa l’esperienza im-possibileche unisce materialmente la totalità delle strutture del Dasein (l’ente cheè per la morte: Sein zum Tode). La morte rappresenta l’essere nella suatotalità effettiva nel rispetto dell’apertura progettante dell’esistenza. È ciòche è più proprio dell’esserci, ma senza che ciò implichi una logica del-l’appropriazione; perché, in fondo, la morte è ciò di cui non faccio espe-rienza. Dal momento che la morte non è di sua proprietà, ciò permetteall’esserci di essere ontologicamente un progetto aperto essenzialmente (latotalità dell’esserci, il suo compimento, è ciò che costitutivamente gli sfug-ge): «l’Esserci esiste già da sempre in modo tale che il suo “non-ancora”gli appartiene»8. L’assenza è il più proprio dell’esserci. Il “non-ancora”,però, nella prospettiva dell’ontologia fondamentale di Essere e tempo, nonè una mancanza d’essere (deesse), ma, al contrario, ritrae il modo di es-sere dell’esserci nel senso della possibilità come supremo principio onto-logico. La morte dispiega l’essere (temporale) dell’esserci; la sua manierapiù propria che lo comanda: «nella morte l’Esserci sovrasta a se stessonel suo poter-essere più proprio»9. Con la morte l’esserci trascende sestesso; è il suo modo di essere ontologicamente per il proprio poter esse-re più autentico: «nella sua qualità di poter-essere, l’Esserci non può su-perare la possibilità della morte. La morte è la possibilità della pura esemplice impossibilità dell’Esserci. [...] Se l’Esserci esiste, è anche getta-to in questa possibilità»10.

L’esserci è in grado di avvertire concretamente la sua possibilità piùpropria – il senso della morte come accesso al più autentico se stesso –nella situazione emotiva dell’angoscia (in una condizione che il soggettonon domina): «l’essere-gettato nella morte gli si rivela [all’esserci] nelmodo più originario e penetrante nella situazione emotiva dell’angoscia “da-vanti” al poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile»11. L’ango-scia della morte è la chance di intuire la co-essenzialità esistenziale dellamorte come ciò che può accadere in qualsiasi attimo; per questa ragionel’angoscia (la Befindlichkeit – il trovarsi concretamente situato in una situa-zione emotiva come dato strutturale del Dasein – al cospetto del nulla/mor-

8 M. HEIDEGGER, Essere e tempo, tr. it. P. Chiodi, Longanesi, Milano 1970, p. 297.Sul tema della morte in Heidegger, con particolare riferimento a Essere e tempo, milimito a rimandare a quello che oramai da tempo rappresenta un classico sull’argo-mento: U. M. UGAZIO, Il problema della morte nella filosofia di Heidegger, Mursia, Mi-lano 1976.

9 M. HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., p. 305.10 Ivi, p. 306.11 Ibidem.

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te), secondo una celebre indicazione di Heidegger, non va confusa con lapaura (un tipo di timore, cioè, ancorato alla presenza minacciosa di un entedeterminato e non al carattere indeterminato del nulla).

Se non è possibile fare esperienza della propria morte, tuttavia, secon-do Heidegger, ciò non significa che il Dasein non possa non accedere allaverità della morte. Anticipando la morte (un’anticipazione provocata dal-l’angoscia per il nulla), infatti, si coglie la possibilità della morte. La suaco-originarietà ontologica: «l’essere per la possibilità, in quanto esser-per-la-morte, deve rapportarsi alla morte in modo che essa, in questo essere eper esso, si scopre come possibilità. A questo modo di essere per la possi-bilità noi diamo il nome di anticipazione della possibilità»12. Approfondireil senso dell’angoscia, la situazione emotiva al cospetto del nulla dell’esse-re, è l’occasione per l’esserci di essere: «l’anticipazione svela all’esserci ladispersione nel Si-stesso e, sottraendolo fino in fondo al prendente curaavente cura, lo pone innanzi alla possibilità di essere se stesso, in una li-bertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si, effettiva, certa di sestessa e piena di angoscia: LA LIBERTÀ PER LA MORTE»13. L’anticipa-zione della morte impone la situazione non formale della libertà: la libertàdi essere con-l’essere.

Nell’ontologia fondamentale di Essere e tempo la preclusione del sensodell’essere per il Dasein, lo sviamento più pericoloso, evidentemente, con-cerne l’occlusione di un’esperienza singolare della morte. La più autenticadelle inautenticità, il pericolo dei pericoli, riguarda l’esclusione della morte:quando si sottrae la morte alla morte, muore la possibilità dell’esserci di es-sere il suo più proprio poter-essere (la chance per il Dasein di esperire lapropria trascendenza immanente alla sua stessa esistenza). Per questo moti-vo, pur rischiando di inciampare nelle ambiguità metafisiche del lessico fi-losofico tradizionale, Heidegger considera la morte in Essere e tempo ciòche raccoglie la totalità effettiva dell’esistenza umana.

A questo punto, prima di ritornare a Jünger, e mettere a confronto lasua posizione con quella heideggeriana, è probabilmente utile una descrizio-ne della questione della morte anche nell’opera postuma di Heidegger: iBeiträge zur Philosophie (Vom Ereignis). I Beiträge, in effetti, approfondi-scono e specificano la posizione di Essere e tempo in una direzione profi-cua per la nostra prospettiva impegnata a esaminare, più che la consistenzaontologica della morte, la sua capacità di essere un’esperienza concettualein grado di ostacolare l’imposizione mondana dell’essenza della tecnica:

12 Ivi, pp. 318-319.13 Ivi, p. 323.

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«nel carattere insolito e unico della morte si apre nell’intero ente ciò chepiù di tutto è inusuale, l’Essere stesso che si presenta essenzialmente nellasua potenza straniante»14. La morte cattura la tensione del niente in quantoapertura alla verità dell’essere. Nei Beiträge si concepisce l’identità tra lamorte e il niente dell’essere (l’essere dopo la metafisica; l’essere s-fondatotramite, appunto, la nullità della morte) per vanificare il rischio di un’even-tuale entificazione metafisico-nichilistica dell’essenza della morte: «essereper la morte, cioè essere per il nulla, e ciò in quanto essenza dell’esserci! Equesto non deve essere nichilismo»15. A questo proposito Heidegger, perscongiurare qualsiasi incomprensione tra il niente-nullo e la morte, sostieneche «l’anticipazione della morte non è volontà di nulla (Wille zum Nichts)nel senso comune, bensì al contrario, l’esser-ci più profondo»16. La morte,in quanto nulla, si disloca nell’essenza dell’essere, e per questa ragione lamorte è «la suprema ed estrema testimonianza dell’essere»17. La morte del-l’esser-ci lascia svanire l’essere ogni volta di nuovo e in questa maniera locustodisce. Lo fa essere secondo la propria essenza (storicamente riparato):la morte consente un’esperienza in-finitamente storica all’essere per cui,solo uccidendo la morte, si dà una ni-entificazione assoluta della totalitàdell’ente (il problema della morte si rivela evidentemente, nell’epoca in cuila tecnica diviene principio metafisico che governa la totalità dell’ente, de-cisivo sia da un punto di vista ontologico sia ontico).

La morte è la «più profonda essenza del nulla»18: raffigurando l’estre-ma e più propria possibilità del Ci, coincidendo con lo spazio della lororelazione ontologica, racchiude la co-appartenenza ontologica di essere eniente. Con la dimensione ontologica della morte si pensa una neutralizza-zione della metafisica, la quale, non pensando la dimensione ontologica delniente dell’essere, non afferra la peculiarità essenziale della morte per l’es-sere.

14 M. HEIDEGGER, Contributi alla filosofia (dell’evento), tr. it. A. Iadicicco, Adelphi,Milano 2007, p. 284.

15 Ivi, p. 285. Legare la natura del dis-velamento dell’essere all’angoscia è deter-minante, almeno nell’economia del pensiero di Heidegger tra gli anni Venti e Trenta,per intendere il valore della co-appartenenza di essere e nulla come gesto decisivo perdisfarsi della metafisica (sui complessi rimandi tra angoscia e morte, sin dai tempi diEssere e tempo, cfr. M. DE CAROLIS, Destino e grammatica. Il rapporto fra il linguaggioe la morte nel pensiero di Heidegger, in «aut aut», 187-188, gennaio-aprile 1982, inpart. pp. 83-84).

16 M. HEIDEGGER, Contributi alla filosofia, cit., p. 322.17 Ivi, p. 284.18 Ivi, p. 322.

Metafisica e nichilismo 203

La morte costituisce plasticamente il modo del ritrarsi dell’essere, chenell’assenza si dà, e nel velarsi, consente all’esser-ci di essere (con l’esse-re). La morte riveste il nome storico del nulla con cui l’essere si ritrae ecustodisce nella finitezza: «la morte è lo scrigno del nulla, ossia di ciò che,sotto tutti i rispetti non è mai qualcosa di semplicemente essente, e che tut-tavia è, e addirittura si dispiega con il segreto dell’essere stesso. La morte,in quanto scrigno del nulla, alberga in sé ciò che è essenziale dell’essere. Inquanto scrigno del nulla la morte è il riparo dell’essere»19. La morte, realiz-zando l’autentica apertura storica al senso dell’essere, crea le condizioniperché l’esserci abbia accesso al proprio essere. Nella morte l’esserci pene-tra nella propria dimensione originaria.

La morte nella produzione jüngeriana, pur giocando complessivamenteun ruolo importante, sembra generalmente collocarsi in un altro orizzonterispetto a quello heideggeriano: rappresenta un’idea che accoglie l’ambizio-ne dell’uomo di evadere dall’universo ‘senza speranza’ della tecnica. Costi-tuisce, quindi, una classica posizione metafisica. Interpreta una formula sen-za tempo dell’essere, per cui, in ultima analisi, la morte è un’occasione pereludere l’esistenza20. Il valore della morte in Jünger, in questo senso, dalpunto di vista di Heidegger, rimarrebbe un’immagine dell’eternità dell’esse-re (la morte come il varco per uccidere il tempo con il ritorno dell’eterno).

Indubbiamente Jünger, con il tema della morte, sembra pensare unaclassica dimensione della trascendenza trascendente. La morte rischia di ap-parire senza storia (un’idea; un semplice varco dell’al di là). Se Jünger mi-sura la vita con la nullità senza tempo dell’essere, per Heidegger la chancedi provocare l’essere è data all’uomo proprio dal suo stare nel mondo es-senzialmente come mortale.

La divaricazione tra il nichilismo (morire) e il niente (morte), concepitada Über die Linie, forse però complica le cose; potrebbe ricalcare la diffe-renza heideggeriana tra il niente nullo della metafisica e il niente ontologicodella morte. Se infatti è vero che la morte in Jünger permane per lo più neltipico dualismo nichilistico della metafisica, tuttavia questo giudizio nonesaurisce la questione. Infatti, se esperita nell’esperienza evenemenziale del-l’attimo, nell’istante mortale cui accenna Über die Linie, la morte non sem-bra più facilmente ascrivibile alla logica della metafisica. In effetti, nell’atti-

19 M. HEIDEGGER, La cosa, in Saggi e discorsi, tr. it. G. Vattimo, Mursia, Milano1976, p. 119.

20 Esemplare di questo impiego della morte da parte di Jünger è il romanzo filo-sofico del 1977: Eumeswil (tr. it. M.T. Mandalari, Rusconi, Milano 1981). Il protago-nista, Venator, punta a sbarazzarsi della sua condizione fisica come presupposto essen-ziale per andare oltre la storia e penetrare nel regno della libertà.

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mo tra la vita e la morte, si dà una relazione tra la morte e il mondo in cuila morte non è una semplice presenza-assente. Piuttosto, diventa spazio kai-rologico in cui la morte configura la possibilità più propria dell’esistenzaperché può accadere in qualsiasi istante.

Per verificare se non è scorretto pensare che in Jünger emerga un’asso-nanza teorica con le tesi heideggeriane, bisogna, preliminarmente, avanzareun quesito: qual è il senso ontologico dell’onticità dell’attimo della morte cuifa riferimento Jünger? Über die Linie pensa l’attimo della morte e non lamorte; in questo senso, l’attimo è il “contatto immediato come una scintilladall’assoluto”; un attimo che si staglia alla stregua dell’eternità (per questaragione Jünger si arresta sull’abisso del niente: l’istante del niente custodisceun’eternità in-vivibile. Nell’attimo la totalità si annulla; allora è meglio tace-re). Nell’attimo si condensa il nichilismo assoluto del pensiero della morte;si impone una svalutazione della vita per la realtà del nichilismo, dal mo-mento che, nell’attimo, la morte è un valore (e «pensare per valori [...] è lapiù grande bestemmia che si possa pensare contro l’essere»21).

Porre il problema dell’essenza del nichilismo in un ambito critico chelo associa al valore dell’espansione planetaria della tecnica moderna, com-porta la formulazione, tanto più in un contesto teorico determinato dal con-fronto Heidegger-Jünger, di un interrogativo che più o meno esplicitamentecaratterizza qualsiasi prospettiva che scandisce in termini filosofici il sensodell’egemonia culturale della tecnica moderna: è possibile conservare un re-sto di libertà nell’età della routine e dell’astrazione? Si dà, in altre parole,un’effettiva esperienza della libertà quando l’essenza della tecnica moderna,con la logica della sostituibilità, nega, in termini heideggeriani, l’esperienzapiù propria della libertà (la morte)?22 In una battuta: è possibile concepire

21 M. HEIDEGGER, Lettera sull’«Umanismo», in Segnavia, tr. it. F. Volpi, Adelphi,Milano 1994, p. 301.

22 La ‘sostituibilità’, come Jünger intuisce già al fronte della prima guerra mon-diale (vedi la figura del milite ignoto), è la modalità essenziale con cui si manifestaqualsiasi ente nell’età della produzione tecnica dell’ente. Anche l’uomo, questa è laprospettiva antropologica che L’Operaio veicola, diventa un essere riproducibile, dalmomento che non esprime più un’effettiva individualità determinata. Tutto ciò è tra-dotto in termini filosofici da Heidegger in un seminario che risale al 1969: «uno deimomenti essenziali del modo di essere dell’ente attuale (la disponibilità per un consu-mo pianificato) è la sostituibilità, il fatto che ogni ente diviene essenzialmente sosti-tuibile [...]. Essere oggi è essere sostituibile» (M. HEIDEGGER, Seminari, tr. it. di M. Bo-nola, Adelphi, Milano 1992, pp. 141-142). L’essere dell’ente come sostituibilità signi-fica essenzialmente che la morte, come evento kairologico singolare, è ciò che è pre-cluso nell’età della tecnica (il Novecento, da questo punto di vista, sarebbe il tempoin cui si dà l’eclissi del senso della morte).

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un’ontologia della libertà nel tempo del funzionalismo assoluto? Per ten-tare di fornire una risposta a questi interrogativi, per quanto parziale e fatal-mente provvisoria, è necessario, nella costellazione dei temi sin qui solleva-ti, insistere con il problema della morte, avendo a questo punto però l’ac-cortezza di inserire la questione nel più ampio spettro problematico dellaSeinsvergessenheit heideggeriana.

Con l’anticipazione della morte, il pensiero dell’essere rammemora laverità dell’origine, percependo, in questa maniera, la determinazione storicadell’essere. La Seinsfrage scongiura la fine della fine, ossia quella situazio-ne, al tempo della pianificazione tecnica del mondo, in cui non si può –ontologicamente – finire. Nella morte, in altre parole, il pensiero di Heideg-ger individua un’esperienza in cui il Dasein potrebbe concepire un pensierodell’essere (Seinsdenken) in grado di corrispondere alla storia dell’essere(Seinsgeschichte).

Se il pensiero dell’essere è essenzialmente un corrispondere alla voca-zione del pensiero, alla sua necessità ontologica (deve pensare ciò che è dapensare nell’età del compimento tecnico della metafisica), Heidegger nonrischia però di condurre in un vicolo cieco ciò di cui Jünger, dopo la secon-da guerra mondiale, è alla ricerca nel tempo del dominio del Leviatano tec-no-logico: la libertà? In effetti, quale agio si dà per la libertà quando la sto-ria dell’essere diventa un programma che appartiene interamente al destinodell’essere? Detto in altri termini: l’appello dell’essere è un evento che ilDasein può (storicamente) rifiutare?

La tecnica moderna, consegnando l’ente nella sua totalità alla logicadell’impiego, interpreta la più grande minaccia dell’essere. È in questa si-tuazione di pericolo che l’esserci, per salvarsi dallo spaesamento della di-svelatezza dell’essere (il nichilismo assoluto), approfondisce la propria radi-ce, la verità dell’essere, e anticipando la morte, si trova al cospetto del nul-la. Ma l’esserci può rimanere senza il proprio essere (pensiero) essenziale?Compiuta la metafisica, il pensiero che ha pensato questo compimento, puònon decidersi per la morte? Condannato alla gettatezza, secondo la celebreintuizione di Essere e tempo, il Ci nel mondo rischia di essere consegnato aun destino storico che non può rigettare, per cui, sostanzialmente, nella pro-pria relazione storica con l’essere, l’esserci appare, in realtà, un essere-in-catenato (vale a dire: la sua libertà si configura nei termini di un’estremanecessità)23. Come dire: la Seinsfrage potrebbe non essere un evento ontolo-

23 Sulla libertà dell’esserci come conformità all’essere, per cui la libertà dell’es-serci sembra ridursi a mera «riflessività» rispetto alle prerogative dell’essere, vedi ilcontributo di E. MAZZARELLA, De servo arbitrio: la fine della libertà in Martin Heideg-

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gico per il Dasein, ma, al contrario, rappresentare una sorta di paralisi delpensiero (a tutto ciò, evidentemente, non sarebbe estraneo il primato cheHeidegger attribuisce all’ascolto come forma di obbedienza del pensieroalle prerogative dell’essere).

Non è qui possibile adesso allestire un quadro teorico adeguato a in-quadrare in tutta la sua multiforme problematicità la questione della(non)libertà in Heidegger. In particolare, manca lo spazio per discutere lamaniera il cui la Seinsfrage ricolloca la questione in un altro orizzonte con-cettuale rispetto a quello classico. È mio proposito, allora, limitarmi a indi-care soltanto una delle strategie messe in piedi da Heidegger per eludere ilrischio che la Seinsfrage smarrisca il problema della libertà del Dasein. Miriferisco al modo in cui nella filosofia di Heidegger degli anni Sessanta sidesigna sistematicamente l’essere nei termini evenemenziali dell’Ereignis:un nome dell’essere che elude la logica della presenza nell’ottica di uncompletamento a-dialettico tra l’essere e il nulla.

L’Ereignis è una forma di nichilismo. Istituisce l’oblio dell’essere checontamina l’essere24. Dunque, il nichilismo dell’Ereignis non è il nichilismodella dimenticanza dell’essere (il nichilismo della metafisica); piuttosto in-corpora il nichilismo del tempo dopo la metafisica. Comportando co-ori-ginariamente la dis-propriazione dell’essere, l’Ereignis è il salvamento dal-l’epoca del disvelamento assoluto, prospettando la velatezza costitutiva del-l’essere. Determina il ritrarsi dell’essere da una zona s-velata (di pericolo):«il nascondimento, che appartiene alla metafisica come suo limite, deve es-ser proprio all’Ereignis stesso. Questo significa che il ritrarsi, che caratteriz-zava la metafisica nella forma dell’oblio dell’essere, si mostra ora come ladimensione del nascondimento stesso [...]. L’Ereignis, l’appropriazione im-propriante, è in sé stesso dis-propriazione (Enteignis)»25. La velatezza è ilnulla dell’essere; mentre la velatezza (dimenticanza) della velatezza dell’es-sere fa sì che dell’essere sia ni-ente: il nichilismo. La dis-velatezza dellavelatezza dell’essere è il nichilismo compiuto come ‘condizione normale’

ger, in G. Cacciatore, G. Cantillo, G. Lissa (a cura di), Lo storicismo e la sua storia.Temi, problemi, prospettive, Guerini, Milano 1997, pp. 516-523.

24 «Il nascondimento dell’essere appartiene, come sua privazione, alla radura lu-minosa dell’essere. L’oblio dell’essere, che costituisce l’essenza della metafisica [...]appartiene all’essenza dell’essere stesso. Pertanto per un pensiero dell’essere si pone ilcompito di pensare l’essere in modo tale che l’oblio gli appartenga essenzialmente»(M. HEIDEGGER, Protocollo di un seminario sulla conferenza “Tempo ed essere”, in ID.,Tempo ed essere, a cura di E. Mazzarella Guida, Napoli 1980, p. 138).

25 Ivi, p. 151. «Il ritrarsi deve appartenere a quel che è proprio e peculiare del-l’Ereignis» (M. HEIDEGGER, Tempo ed essere, in Tempo ed essere, cit., p. 128).

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del mondo. Questo è il momento in cui il nulla è annichilito (l’oblio del-l’oblio), e per questo motivo l’essere è pienamente disponibile per la pro-pria manipolazione/macchinazione (l’essere è completamente entificabile).L’essere smarrisce qualsiasi riparo e si trova nel pericolo estremo («L’essen-za della tecnica, in quanto è un destino del disvelamento, è il pericolo»26).Appartiene al destino più proprio dell’essere il fatto di essere dimenticato,ma quando è obliata la dimenticanza (o meglio: quando si creano le condi-zioni storiche che rendono impraticabile qualsiasi chance perché l’esserenon sia dimenticato), l’essere corre il più grande rischio della (propria) sto-ria: la dimenticanza dell’essere riguarda la metafisica come evento dell’es-sere. Con il doppio oblio dell’essere, quando si altera la dimenticanza, si dàil dis-velamento assoluto: la disponibilità totale dell’essere per l’adulterazio-ne tecnica. Tuttavia, secondo Heidegger, l’essere non è più un ente tra glialtri, come nel sistema della metafisica, se corre proprio questo rischio27.Vale a dire: è nell’età del dominio della tecnica che si creano le condizionistoriche perché si dia una posizione del problema dell’essere non in terminimetafisici (la Seinsfrage).

È la situazione del Ge-stell – il modo di essere del mondo nel tempodella tecnica; l’imposizione disvelante l’essere in quanto appropriazione del-lo spazio del pensiero dell’Ereignis – l’invocazione della Seinsfrage: «tra lefigure dell’essere e la trasmutazione dell’essere nell’Ereignis sta il Ge-stell.Questo è, per così dire, una stazione intermedia, offre un doppio aspetto, è– così si potrebbe dire – una testa di Giano. Esso può, cioè, in certo qualmodo essere ancora inteso come una continuazione della volontà di volontà,quindi come un’estrema configurazione dell’essere. Ma allo stesso tempo èuna prefigurazione dell’Ereignis stesso»28. Il ‘doppio gioco’ destinale delGestell, essenziale per l’essere, è insieme il pericolo e ciò che salva, inquanto l’essere, con l’Ereignis (l’evento in appropriabile dell’essere), è pro-vocato a cor-rispondere alla sua propria essenza velata: l’oblio di sé; ilvelo; il (proprio) nulla. L’Ereignis, nel tempo della supremazia del Ge-stell,designando la verità dell’essenza dell’essere, è l’estrema configurazione del-la differenza dell’essere (differenza anche da se stesso): promuovendo ilnulla che è tutt’altro dal niente nulla, dispone una tutela dell’essere (costi-tuisce una salvaguardia della sua ricusa).

26 ID., La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, cit., p. 21.27 Per le considerazioni che qui propongo, invero in modo forse troppo coinciso,

sono state preziose le sollecitazioni offerte dal sopracitato intervento di M. DE CAROLIS,Destino e grammatica, cit., in part. pp. 92 ss.

28 M. HEIDEGGER, Protocollo di un seminario sulla conferenza “Tempo ed essere”,cit., p. 163.

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Non credo sia azzardato pensare che nella filosofia di Heideggerl’Ereignis sia un’esperienza di pensiero che illustri in termini ontologici ilproblema della libertà. Contribuisce a eludere, precisamente, il rischio, in-scritto potenzialmente nei caratteri della Seinsfrage, di lasciarsi sfuggire ilcarattere aperto del Dasein. Vale a dire, la chance da parte dell’essere di ri-trarsi una volta s-velato. L’Ereignis, insorgendo contro l’irrigidimento del-l’imposizione totalmente dis-velata dell’essere, occulta la verità dell’essereper conservare la sua differenza (per non rischiare di compromettere la suadifferenza con un’istanza dialettica): donando all’essere l’opportunità di ri-trarsi, offre la libertà di essere all’esser-ci.

La libertà dell’Ereignis è il coraggio del pensiero di non indugiare sul-la manifestazione dell’essere una volta snidata la sua verità più propria (lamorte come cifra della sua ritrazione).

L’Ereignis salva l’essere dal pericolo che l’essere è per se stesso(«L’essenza della tecnica è il Gestell. L’essenza del Gestell è il pericolo.L’essere è nella sua essenza il pericolo di se stesso»29), in quanto dis-pro-priazione dell’apertura: ritraendosi sempre di nuovo, una volta provocatodalla tecnica, l’essere sprofonda nella propria essenza, nel nulla che lo obliae ripara. Questa disposizione dell’essere è l’essenza della Verwindung: l’ap-profondimento della verità della metafisica che avviene dopo che è statasvelata la sua verità nichilistica.

La tematica heideggeriana dell’Ereignis, che mette in questione il pro-blema della metafisica nel pensiero di Heidegger, merita di essere collegata,per ragioni di ordine concettuale, con la celebre sentenza heideggeriana «or-mai solo un Dio ci può salvare». Invocazione che, se inquadrata da unaprospettiva corretta, potrebbe abbandonare la dimensione sulfurea che per lopiù ne ha caratterizzato la ricezione e assumere invece una piena rilevanzafilosofica.

Quale dio ci può salvare nell’età del massimo pericolo? Heidegger noninvoca un dio trascendente, ma della storia. Un dio della storia per liquidarel’epoca del dis-velamento dell’essere. Nell’epoca dell’oblio dell’oblio, nel-l’estremo rischio per l’essere, l’unica chance è un pensiero in grado di fareesperienza della morte (un’immanenza trascendente dell’esistenza): «nellamorte si raccoglie il massimo occultamento dell’Essere. La morte è oltreogni morire»30. La morte, pensata come la più propria possibilità dell’esser-ci, da riguadagnare nell’epoca della negazione tecnica della morte, incarna

29 ID., Il pericolo, in Conferenze di Brema e Friburgo, tr. it. G. Gurisatti, Adelphi,Milano 2002, p. 81.

30 ID., In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo e M. CaraccioloPerotti, Mursia, Milano 1990, pp. 35-36.

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l’oblio essenziale dell’essere (l’oblio che sorge con il compimento storicodella metafisica). Si tratta dell’autentico occultamento: la morte non puòobliare l’oblio; ciò significherebbe un impraticabile oblio di se stessa.

La riproposizione heideggeriana del nichilismo non ha nulla a che farecon il nichilismo della metafisica perché accade dopo il disvelamento deldisvelamento dell’essere: è un nichilismo memore del pericolo perché siimpone con il pensiero e non con la dimenticanza dell’oblio, e dispiegando-si con l’Ereignis, rammemora quale pensiero abissale è chiamato a pensarel’essere («solo nel pensiero dell’essere stesso, dell’Ereignis, l’oblio dell’es-sere è esperibile come tale»31). Con l’Ereignis si dà un nichilismo, si po-trebbe dire, avveduto della verità dell’essere; un nichilismo avvisato dellosfondamento del fondamento. L’Ereignis pensa il nulla più proprio dell’es-sere per salvaguardare l’essere dal nulla che lo ni-entifica.

Nell’età in cui la dimenticanza del velarsi dell’essere predispone stori-camente l’entificazione assoluta della totalità dell’ente, l’Ereignis è il pen-siero del rimettersi nell’oblio dell’essere di cui l’essere abbisogna e che lametafisica non concede in quanto essenzialmente oblio dell’oblio dell’esse-re. Se la metafisica è costituzionalmente dimentica dell’oblio, Heideggersembra arrischiare, per garantirne l’essenza, la verità velata dell’essere.

L’evento dell’essere, imponendo all’essere la propria nullità, è l’occul-tamento autentico dell’essere; operazione ‘da nulla’ di cui si incarica lamorte. Il compito del pensiero dell’essere sta nel promuovere l’autenticopensiero dell’oblio, oltre la metafisica, per una metafisica, per così dire, de-metafisicizzata; in questo modo, il nulla ontologico, l’oblio dell’oblio, sva-nisce: si tratta di una metafisica (s)fondata sul nulla; un nulla memore dellapropria essenza e del proprio essere esperito con la morte.

Il pensiero di Heidegger, da questo punto di vista, potrebbe essere giu-dicato un sacrificio dell’essere per favorire un cammino verso il nulla diuna trascendenza non metafisica (il sacrificio è il ritrarsi dal naufragio del-l’essere perché il pensiero, se ‘deve’ fare naufragio, non può essere il nau-fragio). Si va all’indietro (la svolta tornante heideggeriana: die Kehre); si

31 ID., Protocollo di un seminario sulla conferenza “Tempo ed essere”, cit., p.139. L’ap-propriazione/dis-propriazione dell’Ereignis, l’al di là del fondamento, si di-sfa di ciò che di metafisico conserva l’argomento della differenza ontologica: lasciasvanire qualsiasi ambiguità intorno al pericolo inscritto nell’oblio dell’oblio dell’essere(il tema della differenza ontologica, per dirla con una battuta, si limiterebbe essenzial-mente a segnalare l’oblio dell’essere e non la dimenticanza di questo oblio). Cfr., suquesta importante e delicata questione heideggeriana, M. GARDINI, Heidegger verso le«cose stesse» di Husserl, in ID. (a cura di), Heidegger e la fenomenologia dell’esisten-za, in «Discipline Filosofiche», IX, 2, 1999.

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giunge al nichilismo che riguarda costitutivamente all’essere. In questomodo si dà il tempo per quello che nell’Ereignis si chiama svanimento.

Non è forse fuori contesto a questo punto, per vederci più chiaro nelnichilismo dell’Ereignis, proporre un riferimento a una delle più indeci-frabili figure del pensiero heideggeriano: l’ultimo dio. L’ultimo dio, Hei-degger lo specifica sin dall’epigrafe della sezione dei Beiträge ad essoconsacrata (Der letzte Gott), è «quello del tutto diverso rispetto agli dèigià stati, specie rispetto al Dio cristiano»32. Individua il dio dopo la me-tafisica occidentale; il dio venuto con l’Ereignis; quello teso a fuggire ilpensiero che non pensa l’essenzialità della morte: «se già capiamo cosìpoco la morte in ciò che ha di estremo, come possiamo pretendere diessere maturi per il raro cenno dell’ultimo dio»33. La questione dell’ulti-mo dio va associata al tema della morte perché riguarda la possibilità piùpropria dell’esserci nel tempo del pericolo. L’ultimo dio accade con unpensiero essenziale della morte (è ciò che incarna una presa di distanzadal dio della metafisica; dalla logica della presenza). Affiora in un tipodi evento dell’essere che può essere nominato come rifiuto (Verweigerung).L’ultimo dio «non è né fuga né un avvento, bensì qualcosa di originario,la pienezza della concessione dell’essere nel rifiuto»34. È nell’Enteignis,come Verweigerung, che si dà l’ultimo dio. Nell’evento dell’essere, acca-de il dio della fine: «la massima vicinanza dell’ultimo dio avviene dun-que quando l’evento, in quanto indugiante negarsi, si intensifica nel rifiu-to»35. L’ultimo dio, il dio estremo (der äußerste), ha bisogno dell’essere:«questo carattere estremo dell’essenziale permanenza dell’Essere richiedela massima intimità della necessità dell’abbandono dell’essere»36; il sot-trarsi dell’essere, per salvaguardare l’oblio, abbisogna di un dio che sadell’occultamento, di un dio alla ricerca dell’evento (del suo stesso even-to): «l’ultimo dio non è l’evento stesso, ma ne ha bisogno»37. Il sacrifi-cio del pensiero dell’essere, della verità stessa dell’essere, si dispiega,

32 M. HEIDEGGER, Contributi alla filosofia, cit., p. 395.33 Ivi, p. 397. Sul tema della morte nei Beiträge, CH. MÜLLER, Der Tod als Wan-

dlungsmittel. Zur Frage nach Entscheidung, Tod und letztem Gott in Heideggers “Bei-trägen zur Philosophie”, Duncker&Humblot, Berlin 1999.

34 M. HEIDEGGER, Contributi alla filosofia, cit., p. 398. Non è argomento che sipossa affrontare in questa sede, ma credo che sul tema della Verweigerung si giochi lapossibilità di porre correttamente la questione del politico in Heidegger: il rifiuto è ilprincipio ontologico di diserzione ontica da ciò che è propriamente immondo nelmondo.

35 Ivi, p. 403.36 Ivi, p. 400.37 Ivi, p. 401.

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come avverte Heidegger, proprio «per preparare l’ultimo dio», che «nonè la fine, bensì l’altro inizio di incommensurabili possibilità della nostrastoria». Quest’altro inizio si radica nell’ultimo dio come ri-proposizionedel nulla dell’essere; è la traccia della co-appartenenza del nulla con l’es-sere.

L’ultimo dio non è la capitolazione di una storia; piuttosto, come figurasuprema del rifiuto – l’intima verità dell’essere – costituisce l’inizio diun’altra storia. Ri-tornare a dio (all’ultimo) è la Kehre costitutiva dell’esse-re; l’essere che nella morte dell’esserci si ripara. La Kehre appartiene al-l’essere nella polivalenza dell’Ereignis: Kehre im Ereignis; il ri-tornare aciò che non è mai stato in quanto verità originaria, per soggiornare conl’essenziale oblio dell’essere nell’ultimo dio.

Non credo sia scorretto pensare l’ultimo dio come un approfondimentodel tema heideggeriano dell’essere per la morte. Il dio finito evidentementeincamera la verità ontologica della morte (l’autentico nulla dell’essere);questo dio, l’ultimo, ultimo perché storico, av-viene quando si pensa la ve-rità della morte. L’essere si ritrae dall’oblio dell’oblio che arrischia i dueappartenenti, l’essere e l’esserci, grazie alla propria costitutiva dis-propria-zione dal dis-velamento; ossia, sacrificando la propria verità più propria perla verità dell’esserci. L’esserci si salva, radicato nell’essere, inabissandosi inun dio, il dio della morte, l’ultimo: il dio della storia e del mondo.

Chi è l’ultimo dio? Significativamente figura di un libro destinato acomparire dopo la morte del suo autore per volontà del suo autore, è unafigura che dovrebbe nominare l’im-possibile: la morte dalla morte (è la ne-cessità di pensare l’im-possibile, in fondo, il movente filosofico che fa delpoetare, secondo Heidegger, la modalità di un pensiero all’altezza dellaSeinsfrage). Nell’ultimo dio risuona la verità del nulla nella morte dell’es-ser-ci. La morte, un modo per evocare il nulla, è il (suo) doppio in cui l’es-sere si manifesta. Il dio della morte è l’occasione per pensare l’abissalitàdell’essere: la morte, custodendo l’essere, è la libertà di essere per l’esserci.

Nel cono d’ombra teorico che si instaura tra la morte e l’ultimo dioin Heidegger, vale la pena infine porre un quesito che potrebbe conferma-re l’idea che la Seinsfrage non stabilisce una correlazione oltremodo deter-minata tra il Sein e il pensiero chiamato a pensare il suo ritrarsi: se l’esse-re si ritira sacrificando la propria identità, non emerge una disponibilità del-l’essere ad abbandonare la storia, in modo da consegnare all’esserci un de-stino senza alcun destino pre-stabilito, evidenziando in questa maniera lapre-potenza che marca il tratto che separa l’essere dal Ci? Per appartenerealla libertà originaria della morte, l’ultimo dio esplora, con una decisione

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(Ent-scheidung) per la morte a favore della libertà – per recidere, cioè, iltempo nel tempo –, la possibilità di divincolarsi dall’oblio dell’oblio del-l’essere. Se è così, allora, questa strategia non ricalca il cammino di Jün-ger, cioè di chi taglia il tempo per un altro tempo nel tempo (per dirla conHeidegger: per un altro inizio)? Jünger e Heidegger, in altre parole, non siritrovano sullo stesso sentiero in cui la posta in gioco è nientemeno che lasalvaguardia ontologica della morte come tutela di un’origine infondata del-l’esistenza?

Il pensiero di Heidegger è un cammino per ri-tornare alla morte; ossia,al carattere in-fondato della nostra provenienza. Ma questo non è il ‘pro-gramma’ di Jünger dopo il confronto con Heidegger? Jünger, questa è lamia tesi, probabilmente recepisce e conduce per altri sentieri il più nascostodel pensiero della Seinsfrage (il pensiero chiamato a provocare “l’altro ini-zio della nostra storia”). Soltanto con il ritrarsi dell’essere (il ritrarsi che sidà con la Seinsfrage), infatti, si dà per il Dasein il tempo per con-viverecon la tecnica, in un tempo in cui diventa possibile cogliere il valore onto-logico dell’oblio dell’essere. Il ri-voltarsi dell’uomo verso il nulla, è un ri-tornare alla propria pro-venienza. Se ciò è vero, si potrebbe allora dire chel’essere per la morte heideggeriano propriamente significa ‘essere con la(propria) nullità’.

La nullità dell’essere, innanzitutto, ci è alle spalle; per questa ragione ilpensiero che abbandona la metafisica non deve andare oltre, piuttosto abita-re la propria ignota ‘provenienza’, per illuminare l’essere-nullità verso cuiandiamo in modo da disinnescare l’estremo – in quanto definitivo – tentati-vo ‘tecnico’ di rimuovere il nulla da cui pro-veniamo.

Metafisica e nichilismo 213

Esistenza teoretica e virtù della scepsiL’ethos filosofico di Karl Löwith

Agostino Cera

...das Wesentliche ein Einfaches ist – bei mir vielleicht etwas allzu Einfaches

KARL LÖWITH

Il presente contributo intende essenzialmente rendere merito ad una te-stimonianza, ché sotto questa luce ha da essere inteso il nesso che intercor-re, e che fatalmente lega, Karl Löwith e la skyij, vale a dire: un pensieroe la forza che lo innerva, l’energia che, con una solidità pur sempre discre-ta, lo sostiene. Perché l’anima di un pensiero, il suo valore reale ed ultimoo è tale, testimonianza appunto, o neppure può aspirare ad essere autenticomagistero. E al di fuori del pendolo fra testimonianza e magistero, un pen-siero semplicemente non è. In che cosa, poi, si sostanzi da ultimo l’attodella testimonianza, e con esso quello del magistero, è presto detto: nel ren-dere conto di ciò di cui si è testimoni, nel risponderne. Questo vuol dire,per rilanciare ulteriormente la posta, che solo entro un siffatto orizzontemagistrale (pedagogico), responsabile e perciò stesso esemplare, una que-stione come quella che si andrà a porre di qui a poco può sperare di risul-tare ancor oggi fragwürdig, cioè viva, vitale al di là di qualsiasi “legittima-zione a freddo” (oggettiva) possa assicurarle l’acribia, appassionata quantosi voglia, di un impegno che esaurisca se stesso nello svolgimento del pro-prio compito storiografico e/o filologico.

Anch’essa, anche una simile questione, quindi, dovrà saper rendereconto e rispondere di sé, a patto però di essere, preliminarmente, ancora ingrado di suscitare il cimento di un’interrogazione, la passione di una do-manda, dal momento che: ciò che non guida, ciò che non conduce (führen)non edifica (bilden); ciò che non testimonia, ciò che non risponde di sé nonpuò condurre da nessuna parte.

Un simile, insolito meccanismo trae verosimilmente la propria ragiond’essere da un curioso paradosso legato al fenomeno della testimonianza:quanto più essa si radica nel terreno della propria specifica singolarità (lavicenda unica che l’ha prodotta) tanto più esonda dalla sua parzialità, assur-gendo – per il tramite di una in tal modo acquisita esemplarità – ad una di-

214 Agostino Cera

mensione indefinitamente ampia, potenzialmente universale. Nella sua mani-festazione più autentica, quindi, la testimonianza si offrirà come un’intrica-zione inscindibile di singolarità ed universalità, di parzialità e totalità. Ciòposto, nel caso di specie il proposito di “parlare di Karl Löwith” potrà rite-nersi rispettato soltanto laddove esso si riveli in grado di tracimare da unalveo specialistico, ridando corpo e voce alle istanze (universali) di cuiquell’esperienza di pensiero (singolare) ha voluto farsi interprete.

Ora, laddove ci si trovi o ci si ponga nella condizione di dover ren-dere conto, se non addirittura merito, ad una testimonianza altrui, le coseinevitabilmente si complicano. Se quella testimonianza è autentica, s’èdetto che essa sarà anche magistero; di conseguenza, in quanto testimonidi una testimonianza ci si troverà giocoforza nella condizione di discepo-li, a nostra volta costretti a rendere conto (e in tal modo, di nuovo, adinsegnare) di come e dove quell’esempio magistrale ci abbia condotti. Diuna siffatta complessità sembra farsi saggio, per quanto inconsapevole,custode e latore il verbo tradere che riesce ad aver ragione, tenendolasorprendentemente avvinta al proprio interno, della tensione ossimorica chelo abita: quella fra una dimensione mimetica, epigonale ed una creativa(in quanto tale, almeno parzialmente fuorviante). Si tratta, in ultima istan-za, di quella ambiguità sottesa allo stesso rapporto pedagogico che, parti-colarmente in filosofia, è assurta oramai al rango di topos; tanto più nelcaso di un autore come Löwith, la cui profonda conoscenza del pensieronietzscheano e il rapporto lungo più di mezzo secolo con un maestrod’eccezione come Heidegger lo posero nella condizione di esperire, an-che dolorosamente, la profonda saggezza insita nella pedagogia zarathu-striana1.

Stante quanto sin qui affermato, il senso più alto dell’essere testimonedi una testimonianza andrà rinvenuto nell’esserne traduttore, vale a dire: fe-dele traditore. Di una traduzione, quindi, si occuperanno le pagine che se-guono, nel loro intento di trasmettere e consegnare (tradere) una declinazio-ne decisamente inattuale e tuttavia proprio per questo mai antiquata della

1 In tal senso, risulta eloquente fin quasi all’esaustività la citazione tratta dal ca-pitolo Della virtù che dona dello Zarathustra e posta a chiusura della prefazione allaseconda edizione del 1960 (la prima data 1953) di Heidegger. Denker in dürftiger Zeitche, si tenga presente, rappresenta lo scritto löwithiano più critico nei confronti delpensiero di Heidegger: «Male è ripagato il maestro di cui si rimane sempre soltantoallievi. E perché non volete strappare le foglie della mia corona? ...» (ora in K.LÖWITH, Sämtliche Schriften Band 8, hrsg. von B. Lutz, Metzler, Stuttgart 1984, pp.124-234. La citazione è a p. 125).

Esistenza teoretica e virtù della scepsi 215

skyij: quella che pone il proprio radicamento e affida la propria tenuta adun terreno che non è logico-epistemologico bensì etico, in quanto non si la-scia incontrare alla stregua di uno strumento atto a dirimere questioni tantocomplesse e sottili quanto algide e in fin dei conti inessenziali (a-patiche),ma piuttosto vi si imbatte affidandosi, esponendosi ad essa: patendola. Diredel radicamento etico della scepsi è perciò dirla anzitutto come p£/oj, per-ché patico è l’ancoraggio a partire dal quale essa riesce ad assurgere al ran-go di una postura esistenziale, di una ›xij (di un habitus) e quindi di un0/oj; plasmatore a sua volta della modalità complessiva di un essere-nel-mondo, della forma di un b…oj. b…oj /ewrhtikÒj, laddove la vita in que-stione sia decisa ad imprimere a se stessa lo stigma filosofico. Se, infatti, la«filosofia è una questione che concerne tutto l’uomo, la sua “esistenza”,non è possibile separare persona e cosa»2.

È questa, verosimilmente, la ragione per la quale non può che suonarestridente predicare di Löwith l’appartenenza, o anche la sola prossimità, adun qualche filone dell’ennesima rinascita dello scetticismo: parlando, testi-moniando di Karl Löwith, nelle pagine a seguire si parlerà, più “semplice-mente”, di uno scettico. Lasciar emergere in tutta la sua portata il distinguosottile e insieme profondissimo fra il richiamarsi – in qualsiasi modo lo sifaccia – alle dottrine dello scetticismo ed esercitare la virtù della scepsi (lascepsi come virtù)3, tra il dirsi scettico e l’esserlo, tale è il compito di cui ilpresente esercizio di traduzione intende farsi carico.

Dal canto suo, la messa in opera di un simile proposito vuole ancheessere testimonianza e traduzione, da parte di chi scrive, verso l’esempiomagistrale di colui che, direttamente e indirettamente, nel corso di questianni lo ha guidato nell’edificazione dell’unico edificio possibile, dell’unicopercorso degno: quello ancora non battuto, il proprio.

Quell’esempio magistrale, che più di tutte conosce la virtù della misu-ra, ha saputo condurmi quel tanto da lasciare che, gradualmente, con lemie gambe giungessi sulla mia strada (quale che sia o dovrà essere), almio proprio posto. Dal quale gli rendo ora, sentitamente, questo piccoloomaggio.

2 La citazione è tratta del saggio redatto da Löwith nel 1969 in occasione dell’ot-tantesimo compleanno di Heidegger: Zu Heideggers Seinsfrage. Die Natur des Men-schen und die Welt der Natur, ora in K. LÖWITH, Sämtliche Schriften Band 8, cit., pp.276-289. Il passo citato è a p. 279.

3 E laddove la skyij venga intesa in se stessa come ¢ret», va da sé che“skeptik+j”, in quanto essenzialmente connotante il “portatore di una virtù”, assurge-rà a sinonimo di fr+nimoj e di sof+j.

216 Agostino Cera

Il gesto preliminare e necessario allo scopo di un adeguato inquadra-mento del tema in oggetto, risulta ovviamente la sua perimetrazione. Com-pito che presenta, peraltro, una immediata peculiarità con la quale urge por-si a confronto: la collocazione dell’ethos scettico al quale Löwith si è sem-pre convintamente richiamato non può passare per un’apparentemente ovviapanoramica storica circa quello che, soprattutto in epoca moderna, il milieufilosofico ha inteso con “scetticismo”. D’altra parte si rivelerebbe un’impre-sa sostanzialmente vana, quella di ricercare il nome di Löwith all’internodelle varie ricostruzioni storiche ad esso dedicate4. Non è a partire da lì, ineffetti, che possono essere rivenute le tracce di ciò di cui qui ci si è postiin cerca: l’orizzonte logico-epistemologico lungo il quale sembra istradarsi(rinchiudersi) irreversibilmente la declinazione moderna della scepsi – perlo meno da Hume in poi, ma il discorso potrebbe valere, con la sola, par-ziale eccezione di Montaigne, già a partire da Cartesio – recide in via pres-soché definitiva il legame tra skyij ed 0/oj, tra skyij e b…oj. Di con-tro, riavviare un simile circuito, ripensare, praticandola, la possibilità stessadella skyij come ¢ret», come pathos esistenziale è precisamente ciò cheanima al suo fondo l’opzione löwithiana. Volerla comprendere, per poi ade-guatamente tradurla e testimoniarla, significherà allora ispo facto accettaredi esporsi a quello stesso pathos.

Nel 1967, in occasione della Festschrift per i 70 anni di Löwith, DieterHenrich intitola significativamente il suo breve ma pregnante contributo:Sceptico Sereno5. In esso l’autore, com’è peraltro di prassi in simili circo-

4 La cosa non vale per i soli studi specialistici dedicati a questo tema, quelli cherinvengono la vitalità più recente dello scetticismo nel suo essere stato adottato dallafilosofia analitica, lungo una tradizione peraltro riconducibile interamente all’area an-glofona (è essenzialmente Hume, infatti, il feticcio scettico con il quale si confronta-no, e che dunque legittimano, i vari Quine o Putnam), vale a dire quella che prima epiù radicalmente ha fatto della scepsi una opzione di ordine esclusivamente logico-epistemologico (la stessa ontologia che da qui prende le mosse appare una sorta diprotesi, di secrezione di una più ampia cornice logica), recidendone cioè i possibili le-gami con la sfera etico-vitale. Anche in area tedesca, un autore come Odo Marquard,oramai da anni impegnato in una rivalutazione di posizioni ispirate scetticamente, fapressoché nullo riferimento alla figura e all’opera di Löwith, citato al massimo comedecostruttore del paradigma della Neuzeit e del suo braccio armato: la filosofia dellastoria. Insomma, il Löwith di Von Hegel zu Nietzsche o di Meaning in History (siveda, ad esempio: O. MARQUARD, Skepsis in der Moderne. Philosophische Studien, Re-clam, Stuttgart 2007, in particolare pp. 40-54).

5 Il testo si trova in H. Braun, M. Riedel (hrsg. von), Natur und Geschichte. KarlLöwith zum 70. Geburtstag, Kohlhammer, Stuttgart 1967, pp. 458-463.

Esistenza teoretica e virtù della scepsi 217

stanze, ripercorre le tappe fondamentali dell’esperienza filosofica dell’omag-giato. Ma al momento di isolare il proprium del percorso löwithiano, Henri-ch sceglie di connotarlo non nei termini di un concetto o di una dottrina,bensì in quelli, appunto, di un habitus, come la Grundstimmung di un b…oj,quella tonalità fondamentale in grado di scandire un’esistenza: «una capaci-tà di rapportarsi a ciò che vive, di godere dell’inappariscente, di quella bel-lezza che si fa presente con discrezione»6.

Sulla scorta anche di un simile esempio, si è deciso l’azzardo di proce-dere alla preliminare collocazione della questione scettica in Löwith attra-verso un percorso poco consueto, quello delineato dalla inestricabile dialet-tica intercorrente tra i concetti di: speranza, dubbio, disperazione e fede.

Il primo momento di questa operazione consta di una precisazione diordine linguistico. In tedesco, a differenza che in italiano, esiste un nessoorganico tra i termini “dubbio/dubitare” e “disperazione/disperare”. In en-trambe le lingue la “disperazione” rappresenta una condizione caratterizzatada una sostanziale alterazione, la degenerazione di una sorta di trofismopsicologico (o spirituale, se si preferisce). La differenza pertiene alla moda-lità di una tale alterazione: l’italiano descrive un’alterazione per sottrazione,una diminuzione, mentre il tedesco isola un fenomeno di accrescimento. Ilche risulta possibile in quanto diversa è la “materia” offerta alla disperazio-ne dalle due lingue affinché essa, alterandola appunto, possa pervenire amanifestazione di sé. In altri termini: emendato di quell’elemento di scom-penso che fa la disperazione vera e propria, il residuo nelle due lingue nonrisulta lo stesso. Mentre in italiano il contraltare della disperazione è, ovvia-mente, la speranza (per cui la di-sperazione coincide totalmente con “l’as-senza di speranza”), in tedesco questo ruolo viene svolto dal dubbio: la di-sperazione è qui Verzweiflung, mentre il dubbio è Zweifel. Disperare, in te-desco, non equivale perciò a perdere la speranza, ma piuttosto a ri-dubitare,ovvero a dubitare oltre misura7.

6 «Eine Fähigkeit zum Umgang mit dem Lebendigen, zum Genuß des Unschein-baren und jener Schönheit, die unaufdringlich gegenwärtig ist» (ivi, p. 460).

7 Per la verità, anche in tedesco esiste un’espressione che ricalca specularmentel’italiano “disperazione”: “Hoffnungslosigkeit”, “assenza, mancanza di speranza” (Hof-fnung-los). Tuttavia si tratta di una forma desueta: tanto nel linguaggio filosoficoquanto in quello corrente viene impiegato pressoché esclusivamente il sostantivo “Ver-zweiflung”.

Si ha piena consapevolezza che la scelta di descrivere “dal di fuori” questa dina-mica presente nelle due lingue assumendo la prospettiva di una delle due (ovvero par-lando di “disperazione” sia per intendere il sostantivo italiano “disperazione” che il te-desco “Verzweiflung”) risulta piuttosto problematica e dunque opinabile. Per ordinareminimamente il discorso, si opererà utilizzando la forma “di-sperazione” in riferimen-

218 Agostino Cera

Il nesso zweifeln-verzweifeln suggerisce così una dialettica della misurascettica, sussumibile interamente alla polarità Ûbrij-swfrosÚnh. La dispe-razione è data, paradossalmente, dalla perdita di una misura, dalla s-misura-tezza (ma si potrebbe dire anche dall’iperbolicità) nell’esercizio del dubbio,una tracotanza (Ûbrij) del dubitare che finisce per equivalere ad una sottra-zione alle responsabilità cui esso chiama, prima tra tutte la capacità di so-stenerlo, ovvero di sostenersi in esso. Che cosa implichi un tale sovradubi-tare, lo spiega nel modo migliore una frase con cui Löwith chiude un sag-gio degli anni ’40 (significativamente intitolato Poscritto a Essere e tempo)nel quale propone una critica comparata dei percorsi filosofici di Heideggere Rosenzweig, un’affermazione che nella sua semplicità esprime probabil-mente quella che egli ritenne la regola di base del gioco della scepsi e dellafilosofia tutta: «che si possa ancora sapere qualcosa – e che si possa anchenon-sapere»8. Laddove l’impegno di una ricerca non si pieghi a questo det-tato, rinunciando così alla aprioristica certezza di un esito positivo (certo)9,laddove l’amore per la sapienza interpreti se stesso come possesso, è già al-lora che si appronta il terreno per un esito fideistico, esito che nell’interpre-

to specifico al fenomeno prodotto dall’assenza di speranza (e dunque al sostantivo ita-liano), mentre si ricorrerà a “disperazione” in un più generico riferimento sia all’as-senza di speranza (l’italiano “di-sperazione”) che al troppo di dubbio (il tedesco “Ver-zweiflung”).

8 M. Heidegger und F. Rosenzweig. Ein Nachtrag zu “Sein und Zeit”, [1942/43], ora in K. LÖWITH, Sämtliche Schriften Band 8, cit., pp. 72-101. La citazione è a p.101. Si tratta, per così dire, dell’unica dichiarazione di fede possibile per la stessascepsi, essendo lo scettico «l’unico intellettuale assennato nel senso letterale della pa-rola e che verifica in modo esatto (skptomai)», ovvero colui che «ancora crede(glaubt) che si possa sapere qualcosa e che si possa anche non sapere» (ibidem). Perdirla con Platone, lo scettico è colui che, «da buon saggio (swfr+nwj)», non penserà«di sapere quello che non sa» (Teeteto 210 c3) e ancor più “quello che non (si) puòsapere”.

9 Con l’incapacità di una simile rinuncia si spiega anche tutta la distanza dell’in-terpretazione löwithiana da quella hegeliana dello scetticismo. In Hegel lo scetticismoè parte di quel «cammino della disperazione (Weg der Verzweiflung)» intrapreso dallacoscienza naturale, che solo perdendo tutte le sue verità può pervenire finalmente (fa-talmente) alla coscienza filosofica, quella del Sapere Assoluto, vale a dire quella chenon può più non sapere, nella misura in cui cessa di essere mero concetto del sapereper divenire sapere essa stessa. Un tale schema – con il dubbio che si accresce neces-sariamente fino a quella smisuratezza che ne fa disperazione, la quale innesca a suavolta un processo di conversione radicale (dalla coscienza naturale a quella filosofica)– conferma come in Hegel si assista alla perfetta laicizzazione di movenze originaria-mente, cristianamente fideistiche. Cfr. G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, tr.it. di V. Cicero, Bompiani, Milano 20064, in particolare p. 154, laddove Hegel usa allastregua di sinonimi le locuzioni «Weg des Zweifels» e «Weg der Verzweiflung».

Esistenza teoretica e virtù della scepsi 219

tazione löwithiana può assumere una connotazione duplice: laica (come av-verrebbe nell’esistenzialismo) o religiosa in senso stretto. In altre parole: undubbio indisciplinato (in quanto privo di misura), che non sa dubitare, chechiede troppo (ver-zweifeln), si predispone già fideisticamente, gravandosidi un peso talmente gravoso da non poter essere sostenuto (di qui la dispe-razione) e del quale deve perciò assolutamente sgravarsi, sgravio a quelpunto possibile soltanto attraverso il salto nella fede, salto che è, ancorauna volta, pura risolutezza, pura decisione. «È l’aumento del dubbio sino adiventar disperazione che prepara alla fede»10.

E dunque: un meno di speranza conduce alla disperazione. Un troppodi dubbio conduce alla disperazione. Su entrambi i versanti genealogici –ovvero, come nulla di speranza e come troppo di dubbio –, essa connotaun’impossibilità di trascendere, un azzeramento del carattere ek-statico pro-prio dell’uomo e già solo perciò una conditio inumana. Heidegger ne offreuna felice istantanea, allorché definisce il disperato (der Verzweifelte) comecolui che «vede l’impossibilità del possibile»11.

Speranza e dubbio, malgrado le loro distinzioni, appaiono accomuna-bili in quanto pratiche di apertura, forme di contrapposizione alla totalità(totalità come definitiva conciliazione, conchiusione, chiusura) incarnatadalla certezza, salvaguardie dell’infinitezza, cure della trascendenza. Dauna parte, quindi, la speranza (incerta certezza) dall’altra il dubbio (certaincertezza).

Ed in quanto pratiche di apertura, sia l’una che l’altro fanno appello al-l’orizzonte del “non così”, tuttavia con una differenza determinante: nel“non così” della speranza è incluso sempre, per quanto implicito/indefinito,un “bensì altrimenti”, un “non ancora”. La speranza reca in sé una dote dicontro-certezza che è già quantomeno ipoteca, rimando al delinearsi di unatotalità altra da sostituire a quella vigente ed insoddisfacente. In questo essatradisce probabilmente il suo carattere “interessato”, la sua prossimità alla

10 Wissen, Glaube und Skepsis, [1956], ora in K. LÖWITH, Sämtliche SchriftenBand 3, hrsg. von B. Lutz, Metzler, Stuttgart 1985, pp. 197-273.

La citazione è a p. 230 (d’ora in avanti WGS). Stante la prossimità, evidenziatain precedenza, fra smisuratezza ed iperbolicità del dubbio, va da sé che quanto appenaargomentato può valere anche come implicita ma solida obiezione löwithiana nei con-fronti dell’impiego cartesiano della scepsi.

11 M. HEIDEGGER, Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leib-niz, in ID., Gesamtausgabe Band 26, hrsg. von K. Held, Klostermann, Frankfurt amMain 1978. La citazione è alle pp. 248-249. Heidegger intende quest’affermazionecome ulteriore testimonianza della priorità del possibile sul reale.

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disperazione, nel senso di una comune inclinazione verso un esito fideisti-co12. Il dubbio, al contrario, si risolve completamente nella sua azione disabotaggio, nell’effrazione della totalità. Esso frange una chiusura senza de-linearne, neppure sul piano ipotetico, una nuova, ma limitandosi al dispie-gamento di un orizzonte in cui semplicemente ridiviene praticabile la possi-bilità intesa nella sua accezione più amplia, come trascendenza, ossia: tantocome possibilità del possibile quanto come possibilità del reale stesso.

La speranza ridischiude il possibile di fronte ad una chiusura di realtàche rischia di farsi mera computazione e dunque pre-visione; essa si orientaal “chissà cosa” del futuro, di contro al “sempre (e solo) già così” dello hicet nunc. Trascende proiettando, ovvero slanciandosi in avanti. La speranza ètensione e distensione: nel tempo, verso il futuro (attesa, distensio animi) epresuppone perciò un alveo temporale rettilineo piuttosto che ciclico. Di-spiegandosi lungo una direzione, essa possiede una sua forma, ovvero unaconnaturata vocazione geschichtlich. Il dubbio, al contrario, è istantaneo edinforme. L’unica possibile direzionalità che gli è predicabile è quella multi-radiale della pura deflagrazione13.

Proprio il suo carattere proiettivo, sfociante nell’escatologico (e dunquein un orizzonte fideistico), la sua congenita temporalità lineare (storicità),marca l’incompatibilità di fondo tra filosofia e speranza. Löwith non dà spe-ranza alla filosofia, la speranza è già sempre fuori del pensiero, o meglio:l’unica speranza che il sapere può concedersi è il dubbio e la virtù del dubi-tare, la sua giusta misura, è la scepsi. Di conseguenza, nella concezionelöwithiana viene a determinarsi la condizione, all’apparenza paradossale, perla quale la filosofia può essere (deve essere) hoffnungslos ma non verzwei-felt, vale a dire: priva di speranza (di-sperata) senza per questo essere dispe-rata. Il “tra” che fa da interstizio a Hoffnung e Verzweiflung è appunto laskyij come virtù del sapere. In una formula: la skyij è la swfrosÚnhdel dubitare (dello Zweifeln), il Glaube ne è la Ûbrij (Verzweifeln)14.

12 In quest’ottica appaiono scontati, ma non per questo inutili, i riferimenti a SanPaolo. Per fare due esempi: «Nella speranza noi siamo stati salvati» (Rm 8,24) e «lafede è fondamento delle cose che si sperano» (Eb 11,1).

13 Ciò detto, appare lecito affermare che è sempre possibile dubitare (qualsiasi re-altà è dubitabile), mentre non sempre è possibile sperare (oltre al caso della di-spera-zione, ci si possono figurare condizioni ideali, di pieno appagamento, in cui non siavverte il bisogno della speranza). E il vecchio adagio: finché c’è vita c’è speranza?Forse sarebbe meglio dire: finché c’è vita può esserci speranza, finché c’è vita c’èdubbio.

14 Valga, quanto appena detto, anche come replica alle considerazioni svolte nel-l’interessante lavoro di un giovane studioso italiano, Diego Fusaro, dove viene postoin questione il tema del rapporto tra filosofia e speranza in Löwith (nell’ambito, peral-

Esistenza teoretica e virtù della scepsi 221

Disperazione è chiusura. Chiusura come stasi, interruzione della tensio-ne al possibile che è essenzialmente motilità (ek-stasi)15. Nella disperazionené si fa né ci si aspetta nulla, si resta fermi: in ciò alligna verosimilmente ilsuo carattere di insostenibilità16. Ed in quanto stasi priva di ek-staticità, ladisperazione è chiusura anche come sottrazione. Ciò a cui il disperato vuolesottrarsi è il suo restare aperto, il suo essere ex-posto. La disperazione sidelinea come un impraticabile (e per questo inevitabilmente destinato alloscacco) tentativo di rimettere il proprio mandato ek-statico, di deporre ilproprio carattere trascendente. Quale condizione preliminare di essa, laStimmung a cui essa corrisponde, andrebbe perciò indicata un’esasperazionedi questo stesso carattere ex-positivo: la disperazione equivale ad una rispo-sta negativa al quesito postoci dall’angoscia17, alla questione dinanzi a cui

tro, di un più generale confronto con Ernst Bloch attraverso il filtro ermeneuticomarxista). Nella sua pur legittima, per certi aspetti doverosa, critica all’impostazionegenealogica löwithiana – che tenta di ricondurre interamente la speranza al rango di“prodotto storico”, esito dell’imporsi della Weltanschauung cristiano-moderna –, Fusa-ro menziona alcuni esempi di “speranza greca”. Ora, al di là delle questioni filologi-che (in merito alle quali non va sottostimato il valore di imprimatur che ha sull’interacultura greca la posizione espressa in Le opere e i giorni da Esiodo, secondo la qualela speranza è un male, l’unico rimasto chiuso nel vaso di Pandora), appare determi-nante, rispetto all’esito dell’analisi di Fusaro, il mancato riferimento al nesso peculiaree diretto esistente nella lingua tedesca tra dubbio (Zweifel) e disperazione (Verzwei-flung), a partire dal quale soltanto può intendersi rettamente la concezione di un sape-re filosofico che, rinunciando alla speranza, non cada però vittima della disperazione.Nel paradigma löwithiano, la skyij finirebbe così per delinearsi a tutti gli effetticome quel e1elpij menzionato da Platone nel Fedone (63 c5, un passo citato dallostesso Fusaro. Cfr. D. FUSARO, Filosofia e speranza. Ernst Bloch e Karl Löwith inter-preti di Marx, Il Prato, Saonara 2005, in particolare pp. 20-40).

15 La motilità del possibile assume in realtà la forma di un venire alla luce, di unde-starsi (Ent-stehung, che in tedesco significa appunto “venire alla luce”, ma che let-teralmente è “de-stare”, sottrazione della stasi). La sua autentica attuazione coincidecon la piena remissione di quella stessa stasi (nel senso del compimento, della realiz-zazione di una precedente possibilità) che l’ha prodotta. Un essere nella presenza,quello della possibilità, che quindi è sì motilità, ma lo è solo in quanto arresto dellastasi. E se il muoversi è de-starsi, il de-starsi è, a sua volta, ek-stare, vale a dire: sta-re nella ex-posizione.

16 All’apparenza, quello della immobilità sembrerebbe un elemento comune tradisperazione e fede. Ad uno sguardo appena più attento, però, la differenza risulta net-ta: il non muoversi della fede è un restar saldi e dunque un esplicito contrapporsi aspinte cinetiche, un contromuoversi per annullarle. L’immobilità è qui il risultato del-l’azione di forze uguali e contrarie. Nel caso della disperazione, invece, la stasi equi-vale ad un’assoluta ¢kinhs.a, una totale assenza di pulsioni cinetiche, vale a dire unacondizione di completa passività, in cui ci si trova letteralmente in balìa di nulla

17 Qui, ovviamente, l’angoscia va intesa nella sua accezione heideggeriana, ovve-ro come Angst contrapposta alla mera Furcht.

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l’angoscia ci pone nel momento in cui ci pone in questione. Detto in termi-ni heideggeriani: se la Geworfenheit è angoscia, la disperazione equivale aduna ratifica di essa, Wieder-wurf 18. Allorché l’ex-posizione – che è l’effetti-vo (faktisch) stare nell’incerto, ovvero nell’instabile, ek-statica motilità dellavita, ek-sistere – si fa piena, absoluta, sciolta da qualsiasi filtro (ed in quan-to tale insostenibile), ad essa può replicare la sola fede che, a fronte di unatale illimitata apertura, è una chiusura parimenti absoluta, una compattezzagranitica: la totalità del certo, la securitas della certitudo che chiude conl’incerto in modo inappellabile, definitivo.

18 Appare utile, a questo proposito, tentare un chiarimento su base lessicale delladinamica, presente all’interno del pensiero heideggeriano, fra il termine Entwurf e lesue molteplici filiazioni. Lo Ent-wurf andrebbe inteso, alla lettera, come “de-getto”,ovvero “sottrazione al getto” (che in tedesco è Wurf. Ent-, invece, è prefisso che valeil nostro “de-”). In effetti il nesso logico-etimologico (quello generale, a prescinderedall’uso che ne fa Heidegger) tra “Wurf/getto” ed “Entwurf/progetto” appare piuttostochiaro. Se il Wurf, in quanto “getto”, “lancio”, rappresenta la concrezione del fatale,dell’im-previsto, del casuale, allora il “progetto”, in quanto condotta totalmente inten-zionabile, pre-vedibile, sarà la negazione, la riuscita sottrazione alla tirannia del casua-le presente nel Wurf, e quindi, come detto, Ent-Wurf (“de-getto”, “s-lancio”). In unaformula: il “progetto”, come Ent-wurf, è essenzialmente un “rigetto” (la temporaneaepoché di quella preliminare gettatezza che anche di esso costituisce la fondamentalecondizione di possibilità). Lo Entwurf è quindi la risposta obbligata che il Daseinmette in opera per “replicare” alla sua costitutiva Geworfenheit (che è, appunto, laversione categoriale, ontologica del Wurf. Geworfenheit è la sostantivizzazione digeworfen, participio passato del verbo werfen, “gettare”, “lanciare”). E questo “proget-to” (Entwurf) come replica/sottrazione (Ent-Wurf) al getto/gettatezza (Geworfenheit) siesplica non in una impossibile (data la stessa costituzione ontologica dell’Esserci, inprimo luogo la sua Zeitlichkeit) sottrazione ad esso, bensì in un contro-getto (Gegen-wurf oppure Wider-wurf) che si dà come un getto in avanti, all’interno, cioè, dellospazio dischiuso preliminarmente dalla gettatezza stessa. Letteralmente esso è dunqueun “pro-getto”, un Vor-wurf (leggibile, alla lettera, anche come “pre-getto”). In talmodo, lo Entwurf come Vorwurf ambisce ad essere uno Über-wurf, un “getto che vaoltre”, che in qualche modo trascende, supera la Geworfenheit, e così facendo, la co-pre. Normalmente Überwurf significa in effetti “copertura”.

Per riassumere: la replica del Dasein di fronte alla sua inaggirabile “gettatezza”consta di una emancipazione da essa (Ent-wurf) che si attua, a sua volta, come “con-trogetto” (Gegen-wurf/Wider-wurf) il quale tenta di superarla andando al di là di essa(Über-wurf), attraverso una fuga in avanti, proiettiva, anticipante (Vor-wurf). Quest’ul-tima potrebbe leggersi addirittura come un tentativo di piena assunzione da parte del-l’Esserci della propria Geworfenheit (un porsi, per così dire, al di sopra di essa – sfu-matura ulteriore presente in Überwurf), nella misura in cui andando in avanti rispettoal “getto”, essa si ritrova al prima di esso (pro-getto = pre-getto). Il che, a ben vedere,appare una dinamica tutt’altro che dissimile rispetto a quella relativa al processo diautenticazione operato dall’Esserci, al conseguimento della sua Eigentlichkeit.

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La pura ex-posizione è abbacinante, insostenibile. Sostenibile può esser-lo soltanto attraverso il filtro di una minima e tuttavia indispensabile distan-za: quella che fa dello Entsetzen una Ausgesetzheit e del /a"ma un/aum£zein, dell’orrore uno stupore e una meraviglia19. Fare dell’orrore unostupore, permetterci di stupirci piuttosto che inorridire è forse il vero atto dinascita e insieme la più grande conquista della filosofia: l’inganno che lapartorisce. In questo senso, più che scorretta, è incompleta la celeberrimagenesi aristotelica (Metafisica I, 2, 982b), già anticipata da Platone (Teeteto155d): la nascita della filosofia avviene sì per opera della meraviglia, la qua-le è però anzitutto ed essenzialmente trasfigurazione, e in ciò occultamento,

19 Ausgesetztheit ed Entsetzen sono le due parole chiave, le due Grundstimmun-gen che Annalisa Caputo evince dal confronto di Heidegger con la poesia di Hölderlin(più precisamente: Ausgesetztheit è la parola emergente in Hölderlin und das Wesender Dichtung – la conferenza tenuta da Heidegger a Roma nel ’36, che segna anchel’occasione dello strappo ufficiale con Löwith –, mentre Entsetzen si impone in Wiewenn am Feiertage..., discorso tenuto nel 1939). Il termine Ausgesetztheit è, alla lette-ra, “esposizione” (aus-Gesetztheit), mentre Entsetzen (che la Caputo intende come va-riante di “esposizione” e come s-concerto) significa letteralmente “deposizione” (ent-setzen), ma può indicare anche “orrore”, “terrore” (cfr. A. CAPUTO, Heidegger e le to-nalità emotive fondamentali (1929-1946), Franco Angeli, Milano 2005, pp. 314-331).

Ebbene, proprio in questa duplice veste dello Entsetzen, al di là del suo impiegonel contesto heideggeriano, potrebbe venir rinvenuta una modalità sorgiva tanto dellaGeworfenheit quanto dello stesso qaum£zein /Erstaunen: la deposizione come matricedella gettatezza, l’orrore come genesi della meraviglia. A chiarire il senso di quest’at-tribuzione, possono concorrere le parole di Aldo Masullo che nel termine “ek-sisten-za” trova un equipollente di questo Entsetzen. Dopo aver definito, in modo filosofica-mente convenzionale, l’ek-sistenza come «un paradossale stare-nello-uscir-fuori», Ma-sullo parla dell’«insostenibile orrore dell’“ek”», “ek” che «dice il destino dell’esser-ci» (A. MASULLO, Paticità e indifferenza, il melangolo, Genova 2003, pp. 38-39). Ora, èappunto questa modalità dello “ek” che esprime l’ex-posizione in quanto tale, mentrel’orrore che esso incarna equivale al vero pathos della ex-posizione, il senso autenticodel sentirsi ex-posti/deposti. Lo Entsetzen esprimerebbe così la modalità più genuinadel qaum£zein. Scoprirsi deposti, prima ancora che gettati o situati, fa inorridire, ter-rorizza prima ancora che meravigliare (su questo tema è d’uopo il richiamo ad EMA-NUELE SEVERINO, che al Grundwort qa"ma ha dedicato riflessioni significative. Tra i di-versi esempi possibili, si veda: La filosofia contemporanea, BUR, Milano 1998, p. 7).La conversione di questo orrore in “meraviglia/Erstaunen” segna già l’imporsi delladisciplina del logos, la menzogna che partorisce la filosofia. In Besinnung (1938/39,ora inserito nel volume 66 della Gesamtausgabe), Heidegger trova una formulazioneefficace per esprimere l’inscindibile intricazione di queste due polarità che costituiscela vera cèra filosofica: das erstaunende Ersetzen (lo stupefacente orrore). Per “ren-dere l’idea” della radicalità di un simile orrore, restano insuperate, ad avviso di chiscrive, le pagine conclusive di Heart of Darkness di Joseph Conrad, il disperato e in-sieme lucidissimo «The horror! The horror!» con cui Kurz si congeda dalla vita.

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dell’orrore. E soltanto a partire da qui, saldamente radicata in questo instabi-le terreno, essa può ergersi poi al rango di disciplina del logos.

Tornando alla questione che più direttamente interessa nella circostan-za, si è visto come partendo dall’analisi della genealogia duplice del con-cetto di disperazione (in quanto “prodotto” della speranza piuttosto che deldubbio), si sia pervenuti ad isolare le due sorgenti da cui si dipartono i per-corsi autonomi di speranza e dubbio, ovvero: fede e scepsi. È quindi oppor-tuno rivolgersi direttamente a questo aut-aut 20.

Nella raccolta di saggi Wissen, Glaube und Skepsis del 1956 (del qualefa parte anche un lavoro del ’51 che ha per titolo proprio Skepsis und Glau-be), Löwith espone nel modo più chiaro le proprie posizioni sull’argomen-to. Dopo aver premesso che «una fede autentica e totale è altrettanto raraquanto uno scetticismo filosofico radicale, che tutto pondera e tutto pone inquestione»21, definisce la skyij essenzialmente come ricerca della verità –ricerca che persiste finché il cercatore non abbia trovato «ciò che elimina inmodo indubitabile il suo dubbio»22 – e in quanto tale opposta alla fede, laquale antepone alla ricerca di verità la propria ansia di certezza e con essala conseguente necessità di decidersi perentoriamente per qualcosa. Effetti-vamente, un discrimine fondamentale tra fede e scepsi è rappresentato dalladecisione. Chi crede decide, deve decidersi: la decisione è veicolo di cer-tezza per il tramite della volontà. La decisione è l’estrinsecarsi di una vo-lontà di certezza. Chi esercita il dubbio, al contrario, lotta costantementeper sottrarsi non alla decisione in quanto tale, bensì al carattere risoluto erisolutivo di essa, al suo voler essere la parola ultima (decisiva).

D’altra parte è pur vero che un certo tipo di scepsi, quella smisuratache diviene mera manìa di dubitare (Zweifelsucht), risulta funzionale allostesso percorso di fede. Di una tale scepsi – che Lowith ritiene una “inven-zione” tutta moderna – e di un tale percorso, Kierkegaard incarna l’espres-sione più coerente. Entro un simile contesto, il dubbio viene esercitato sen-za mai poter assumere un vero ethos scettico, vale a dire che si è già sem-pre proiettati in direzione di un esito fideistico, verso una decisione di sal-

20 A proposito di questo tema, Löwith distingue i due paradigmi, gnoseologici enon solo, di ™pist»mh-dÒxa (nel cui ambito la dÒxa ricomprende la stessa p…stij) egn$sij-p…stij, facendo risalire la nascita di quest’ultimo (al quale soltanto si devel’imporsi dello aut-aut tra sapere e fede) a Proclo (si veda: WGS, p. 206). In effettiancora in Platone (Repubblica VI, 509d-511e) p…stij ed e„kas…a sono considerate ledue forme di dÒxa, mentre i modi della ™pist»mh sono nÒhsij e di£noia.

21 WGS, p. 218.22 Ivi, pp. 219-220.

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vezza. Dubitare diviene così momento integrante di un più generale para-digma teologico-terapeutico: si dubita sin da subito per disperare, per am-malarsi cioè di quella malattia mortale (die Krankheit zum Tode) alla qualepuò offrirsi come f£rm)kon il solo salto nella fede23.

Al pensatore danese andrebbe inoltre ascritto il fondamentale cambio dipaternità dell’atto di dubitare: a questo punto colui che dubita non è più unio, interiore ma fondamentalmente teoretico – una figura ancora possibile alcospetto di quella conciliazione hegeliana di fede e sapere, alla cui disgre-gazione lo stesso Kierkegaard aveva contributo in modo determinante –,bensì un Sé esistente, un’ipseità gettata, abbandonata in situazione. A frontedi un simile retroterra, anche per Löwith non c’è alternativa: se la skyij èquella intesa e vissuta dalla Neuzeit in via di dismissione – l’antropo-teolo-gia cristiana che cede il posto ad una definitiva “emancipazione” dell’uomo,ma che in quanto «secolarizzazione rimane pur sempre una secolarizzazionedel saeculum cristiano»24 –, trascendere diviene indispensabile; essa non èin grado di rispondere alle istanze avanzate da questo ogni volta singolo in-terlocutore (l’unico che, di lì a poco, sarà capace di avvertire la presenzadell’ospite più inquietante).

Anzi, date tali premesse, la replica kierkegaardiana si rivela parados-salmente la più saggia ed onesta nel suo esplicito aggrapparsi all’ancora disalvezza offerta dalla fede religiosa ripresa nel suo carattere originario, es-sendo quest’ultima ben in grado di riconoscere il bisogno innato dell’uo-mo di trascendere l’incertezza. Per lo stesso motivo, Löwith condivide lacritica di Pascal nei confronti di quelle “creature stravaganti” che vivonorealmente nell’incertezza, tipi umani nei quali riconosce gli antesignani del

23 Nel contributo preparato per il IX congresso internazionale di filosofia, Löwithcontrappone esplicitamente il dubbio razionale (vernünftiger Zweifel) di Descartes allapassione per la disperazione (Leidenschaft der Verzweiflung) di Kierkegaard (cfr. K.LÖWITH, Descartes’ vernünftiger Zweifel und Kierkegaards’ Leidenschaft der Verzwei-flung, in AA. VV., Travaux du IXe Congrés International de Philosophie (Congrés De-scartes), I: Etudes cartésiennes, 1re Partie, par le soins de R. Bayer, Paris 1937, pp.74-79).

Vista la centralità di Kierkegaard, alle cui posizioni ovviamente si ispira la rifles-sione löwithiana circa le implicazioni tra fede, dubbio e disperazione, gioverà ricorda-re che anche in danese la disperazione (foritvivleise) equivale ad un troppo di dubbio(“foritvivleise” è composto dalla preposizione “fori”, grossomodo equivalente al “ver”tedesco, e “tvivl” che significa, appunto, dubbio) piuttosto che ad un nulla di speranza(håb).

24 Welt und Menschenwelt, [1960], ora in K. LÖWITH, Sämtliche Schriften Band 1,hrsg. von K. Stichweh, Metzler, Stuttgart 1981, pp. 295-328. La citazione è a p. 306(d’ora in avanti WM).

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«ben noto esistenzialista medio, gettato nell’esserci (ins Dasein geworfen),che fa tacere la sua scepsi elaborando un projet fondamental e impegnan-dosi per qualche cosa»25. Se qui l’attacco appare esplicito, ancora più di-retto è però quello rivolto a Jaspers e Heidegger, rei di aver abboccato «al-l’esca del sacro», infrangendo la regola per cui «l’incertezza dell’indaginefilosofica e la certezza della fede cristiana devono essere di scandalo l’unaall’altra, e soltanto così potranno essere di reciproco stimolo». ScriveLöwith: «la filosofia tedesca contemporanea non vuol sapere quel che puòesser vero, e dare pertanto lo spazio che spetta di diritto all’incertezza del-la scepsi, né attenersi alla fede cristiana tradizionale, ma si ritira in unavaga religiosità che preferisce citare poeti e supplisce alla mancanza di so-stanza religiosa chiedendo troppo alla filosofia»26. E il chiedere troppo, ilsovradubitare rappresenta, come si è visto, l’anticamera della disperazioneprima e della fede poi.

L’idea di fondo è quindi la seguente: lo scettico deve sì trascendere lapropria scepsi, ma per Löwith ciò può accadere esclusivamente entro la cor-nice dello stesso scetticismo, laddove di esso si recuperi il retroterra eticooltre che noetico. In altri termini: scettico autentico può dirsi soltanto coluiche ancora sa volgersi alla contemplazione (Betrachtung), intesa comel’esercizio più nobile cui possa dedicarsi l’essere umano e non come meraalienazione contrapposta alle (e per questo derivata dalle) esigenze pratiche.Quest’ultimo è semplicemente un /ewre�n ancillare, corrotto dall’asservi-mento ad una pr)xij essa stessa deietta, che finisce per chiedere conto disé (anche a se stesso) sul solo piano degli effetti, dei risultati, dell’utilità(l’unico che rivesta un qualche valore pratico-operativo). La posizionelöwithiana sembra suggerire l’esistenza di una duplice modalità del/ewre�n: la pura (rein) teoria di contro alla mera (bloß) teoria, il “/ewre�ncontemplativo”, quello originario, in opposizione al “/ewre�n teoretico”(operativo, produttivo), quest’ultimo forma derivata e corrotta del primo,che ha luogo allorché esso si lascia aggiogare al principio di prestazione,commisurando se stesso sulla propria capacità di produrre teorie. La/ewr…a come contemplatio, dal canto suo, «non si fissa su un ente determi-nato, ma in un ambito. La /ewr…a non è tanto il singolo atto momentaneoquanto piuttosto un atteggiamento (Haltung), uno stato (Stand) e una condi-zione (Zustand) in cui ci si mantiene. È un “esserci” (“Dabeisein”) [...] chenon significa soltanto presenza (Anwesenheit), ma anche che chi è presente

25 WGS, p. 236.26 Ivi, pp. 199-200.

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“c’è in senso pieno” (“ganz dabei” ist)»27. In fin dei conti, è bene ricordar-lo, il sostantivo skyij deriva dal verbo skptomai (considerare). LoskeptikÒj, in quanto colui che osserva, che considera, è quindi ipso factoun contemplatore. La skyij è già sempre /ewre�n.

Ora, il solo aver posto la premessa che il /ewre�n, per essere autenti-co, non possa trovare, né debba cercare, la propria legittimazione nell’altroda sé (nelle teorie positive entro la cornice pratica della produzione di risul-tati concreti), è sufficiente a far riemergere l’in-cui e il verso-dove, la ¢rc»e il tloj della trascendenza scettica: la totalità del cosmo come uno-tuttonella quale soltanto l’uomo ritrova il proprio posto e con ciò la propria mi-sura. Il mtron della skyij è allora il /ewre�n che, a sua volta, ha qualeunico orizzonte di riferimento e parametro il kÒsmoj28.

La cosa vale anche in ottica temporale: skyij e /ewre�n necessitanodi un’adeguata situazione temporale, quella cosmica della circolare sempi-ternitas in contrapposizione alla linearità proiettiva dell’attesa (e la speranzaè una forma di attesa) verso lo œscaton di un non ancora.

Concretamente (ossia eticamente), il richiamo congiunto e conseguentedalla skyij al /ewre�n e dal /ewre�n al kÒsmoj vuol dire votarsi al-l’«equanimità dell’atarassia, un’imperturbabilità morale»29, un atteggiamentodi distanza, che non solo è distinto dall’apatia, ma rappresenta piuttosto lacondizione di possibilità per esercitare rettamente la propria paticità comeex-posizione: riconoscendola e sostenendola senza cercare in alcun modo diimporsi su di essa, di appropriarsene. Detto in una formula: la scepsi sere-na del contemplatore è l’ostensione della propria ex-posizione.

’Ap£/eia è, alla lettera, indifferenza, insensibilità, assenza di p£/oj. Èuno stato di calma, ma di calma indotta a forza di ottundimento, il prodottodi una sedazione, una narcosi. Qualcosa che nel suo tendere ad un ideale

27 H.-G. GADAMER, Lob der Theorie, in ID., Gesammelte Werke Band 4, Mohr, Tü-bingen 1987, pp. 37-51. La citazione è a p. 48.

28 Sempre in WGS viene proposto un ulteriore esempio di come la significazionedi una condotta o disposizione dipenda in misura determinante dall’ambito entro cuiessa può collocarsi, dal Grund che le fa da sfondo e da basamento. Una volta avvenu-to il passaggio epocale dalla cosmo-teologia greca all’antropo-teologia cristiana, ilmundus rerum scade nel mundus hominum, ragion per cui così come il dubbio divieneimpraticabile nella forma di una scepsi e sfocia giocoforza nella disperazione, pari-menti frustrata doveva restare l’ambizione kierkegaardiana di essere un «Socrate cri-stiano». Non potendo più attingere a quell’atarassia che dell’ironia costituisce l’oriz-zonte naturale, la sua analisi del concetto socratico di ironia dovette risolversi nel rin-venimento di una negatività assoluta (insuperabile, intrascendibile) e dunque nel sarca-smo. Cfr. WGS, pp. 224-225.

29 Ivi, p. 221.

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stato ¢k…nhton profila una condizione simile a quella della disperazione.’Atarax…a è invece imperturbabilità (da t£raxij, confusione, sconvolgi-mento), un atteggiamento nei confronti del proprio essere-situati in cui ci silascia pienamente ex-posti, prendendo soltanto una precauzione minima, manecessaria, per evitare di rimanere abbacinati dall’orrore dello Entsetzen,dalla «vista di Medusa» che impietrisce disperando30. Una tale precauzionesi traduce ancora una volta in una disposizione definibile, prendendo a pre-stito un’espressione di Nietzsche, nei termini di un pathos della distanza,da intendere qui essenzialmente come ™poc» e trascendimento del propriointeresse, capacità di distanziamento di sé da se stessi31. Il fatto che da essatransiti la concreta tutela della propria ex-posizione, fa sì che l’atarassia siaanche vera frÒnhsij (intesa, quest’ultima, secondo la sua accezione aristo-telica).

Da queste considerazioni esce corroborata l’ambizione löwithiana chenel riferimento alla pura contemplazione possa delinearsi ipso facto unethos, dal momento che la cifra caratterizzante di essa è appunto il distan-ziamento come dis-interesse (la non strumentalizzabilità), vale a dire la gra-tuità del suo essere fine in se stessa. E così come non è apatico, il /ewre�nneppure può dirsi “apratico”32. Anzi, proprio in quanto 0/oj, vale a dire inquanto come (wie) di qualsiasi fare, esso è anche originariamente pr)xij.

In Welt und Menschenwelt, saggio del 1960, Löwith fa esplicita men-zione di un ethos della teoria e della vocazione originaria della filosofiacome epist»mh /ewrhtik», come b…oj /ewrhtikÒj, o meglio dell’«ethos

30 In deroga all’affermazione löwithiana testé citata, ci si affida qui alle parolepoetiche di un non poeta. Forse perché, malgrado tutte le cautele che la filosofia devefar proprie, non si può dare torto a Heidegger nel suo sostenere che i poeti sono i piùesposti nell’aperto, gli spettatori più prossimi di quell’orrore stupefacente del qualequesti versi di Primo Levi (dedicati a Mario Rigoni Stern e Nuto Revelli) rendonouna testimonianza degna di fede. Ho due fratelli con molta vita alle spalle,/nati al-l’ombra delle montagne./Hanno imparato l’indignazione nella neve di un paese lonta-no,/ed hanno scritto libri non inutili./ Come me,/hanno tollerato la vista di Medusa,/che non li ha impietriti./Non si sono lasciati impietrire dalla lenta nevicata dei giorni.

31 In Schöpfung und Existenz, saggio del 1955 contenuto in WGS, Löwith ricon-duce alla «capacità di prendere la distanza (Abstandnehmen)» da tutto ciò che è pro-prio dell’uomo tanto la possibilità di astrazione ed oggettivazione quanto quella delsuicidio (il poter dire di no a se stessi. Cfr. WGS. p. 259).

32 Quella di ¢prax…a è, fra l’altro, una delle accuse classiche mosse dai dogmati-ci (dagli stoici, in particolare) nei confronti degli scettici pirroniani. La componenteessenzialmente pratica dell’ethos scettico va rinvenuta proprio nel suo proposito di er-gersi a vera e propria forma di vita, quella (espresso ancora in termini pirroniani) del-lo ¢dÒxastoj b…oj, della vita senza dogmi – certa nel suo essere priva di illusioni –,quella vita che sa concedere a se stessa il lusso e la fatica di non dover credere.

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teoretico come condotta filosofica della vita (philosophische Lebenshal-tung)»33. A venir contrapposti essenzialmente e radicalmente sono qui dueirriducibili caratteri intenzionali, due modi dello sguardo, rispetto ai quali ilcontemplare e lo speculare risultano degli effetti. Da una parte il disinteres-se del /ewre�n (la Betrachtung), dall’altra la circospezione della prassi quo-tidiana (la Umsicht): soltanto al primo può dischiudersi il mondo come co-smo, laddove alla circospezione, che è inemendabile antropocentrismo, nonpuò che pararsi innanzi un Bestand: un magazzino, un serbatoio di fondi.

Lo sguardo disinteressato è sempre più attento, perché più libero, diquello avveduto e circospetto, che sa già sempre cosa cercare (l’utile) inciò che guarda, che guarda per trovare e non per guardare. «Der Menschlebt frei in der Theorie»34.

E dunque, il recupero della skyij e della /ewr…a nel loro spazio sor-givo culmina nell’accesso ad un’ambientalità, ad un “farsi mondo del mon-do” ad esse peculiare. Il /ewre�n cessa di essere un’esperienza derivata, de-classata ovvero teoresi – un declassamento che in Heidegger35, ad esempio,avviene dal momento che “il teoretico” sospende, epochizza la Umweltcome modalità dello es weltet, ovvero poiché esso pretende di accadere inun in-cui del tutto posticcio, di aver luogo in un assoluto non luogo –, nellamisura in cui si disvela il suo specifico interfaccia mondano (che non soloesiste, ma è addirittura il più originario: prima ed oltre qualsiasi Men-schenwelt): il cosmo, la Welt pura e semplice. È il solo ethos scettico-con-templativo-atarassico che consente l’accesso, come esperienza (originariasenza essere immediata) vissuta, a «l’uno e l’intero di tutto ciò che è essen-te per natura»36.

Da Ent-lebnis che era (ovvero: ciò che è condannato ad essere entro unmondo ridotto ad ens creatum), il /ewre�n, una volta recuperato il suo“luogo naturale”, torna ad essere Erlebnis. E la distanza connaturata ad untale atteggiamento risulta così condizione necessaria per l’approssimarsi adun orizzonte che non accade (che non ha da farsi) ma che già sempre èquale esso è, id quod substat. Questo processo di approssimazione si com-

33 WM, p. 322. La discussione dei due paradigmi (teoretico e circospetto) si trovaalle pp. 313 ss.

34 Questa efficace formula fa da titolo al breve contributo redatto da IRING FET-SCHER per i 75 anni di Löwith (in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 10.1.1972, Nr.7).

35 Cfr. M. HEIDEGGER, Zur Bestimmung der Philosophie, in Gesamtausgabe Band56/57, hrsg. von B. Heimbüchel, Klostermann, Frankfurt am Main 19992, pp. 73 ss.

36 WM, p. 296.

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pie come collocazione, come atto di posizionamento: l’Erlebnis sfocia inuna Erörteung, in una o„kolog…a37. Con il “ritrovamento” del cosmo comeriposizionamento in esso, l’essere umano ritrova la propria posizione: la po-sizione dell’uomo, parafrasando Scheler, è nel cosmo. In questo passaggiodal “che cosa” al “dove” e dal “dove” all’“oltre” dell’uomo (da “Was istder Mensch?” a “Wo ist der Mensch?”, per culminare in un “Der Menschsteht (ist) in dem Über des Menschen”) si gioca il significato ultimo dellariflessione löwithiana, il suo esito più maturo nei termini di una antropolo-gia cosmocentrica.

Ma, giova ribadirlo, ciò che le indagini löwithiane tentano di circoscri-vere non è una m/odoj, una procedura, bensì un come del proprio essere-nel-mondo, un 0/oj. E l’ethos in quanto modo di interpretare il proprio es-sere-situati (Gesetztheit) equivale ad un atteggiarsi (Verhalten) nei confrontidella propria situazionalità: intenzionandolo, esso fa del mero posiziona-

37 Per il concetto di o#kolog.a, si possono vedere: E. MAZZARELLA, Tecnica e me-tafisica. Saggio su Heidegger, Guida, Napoli 1981, in particolare pp. 291-301 e so-prattutto ID., Esistenza storica e virtù della terra: uomo e natura in Karl Löwith eMartin Heidegger (in ID., Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della vita, Guida,Napoli 1983, pp. 149-167, in particolare, p. 167). In quest’ultimo caso, Mazzarellasviluppa il discorso sulla o#kolog.a inserendolo nella cornice di una comparazione frala prospettiva «geneaologica» di Heidegger e quella «genetica» di Löwith, sancendo lasuperiorità della prima in quanto in grado di dar vita ad una opzione cosmologica dalrespiro più ampio – ovvero su un k+smoj che è l+goj, 0qoj, dimora: o%koj –, giac-ché «non dimentica che nella storia naturale dell’uomo non può esservi pietas verso la“natura” che non sia anche pietas verso la “storia”» (ibidem). Ora, sarebbe molto inte-ressante appurare, dopo quasi tre decenni, la tenuta di simili affermazioni all’internodell’impianto filosofico complessivo di Mazzarella, specialmente alla luce della parzia-le “svolta postheideggeriana” cui egli ha dato corso con la raccolta di saggi Vied’uscita. L’identità umana come programma stazionario metafisico (il melangolo,Genova 2004), laddove delinea la possibilità di una “ontologia seconda kat'sumbebhk2j”. Dalla prospettiva assunta dal presente contributo, risulterebbe di parti-colare interesse comprendere se il ridimensionamento della prospettiva heideggeriana– operato per il tramite di una rinnovata attenzione alla Menschenfrage, alla tutela daparte dell’uomo del suo o%koj fondamentae: il suo inaggirabile ancoraggio alla fÚsijin quanto esser-corpo, con l’annessa responsabilità di continuare a potersi riconoscerecome tale, non recidendo cioè il proprio phylum al cospetto di un essere oramai ridot-to a pura kineticità – possa rivelarsi compatibile con una rivalutazione delle posizionidel Löwith più tardo, quello che tratteggia una ipotesi di antropologia cosmocentricao physiologica, declinando in maniera non troppo dissimile il nesso uomo-natura (re-lativamente a questi esiti della riflessione löwithiana, sia consentito il rinvio a: A.CERA, Io con tu. Karl Löwith e la possibilità di una Mitanthropologie, Guida, Napoli2010).

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mento un modo di porsi, della posizione una postura, della Stellung unaHaltung 38.

Sta perciò in certo modo nella cosa stessa, il fatto che questa pagine sichiudano con una testimonianza relativa alla postura dell’uomo KarlLöwith, affidata al ricordo, amichevole perché pieno di riguardo, di Hans-Georg Gadamer: «una profonda tristezza era intorno a lui effusa – nellostesso tempo egli serbava la più degna rassegnazione davanti a ciò che diestraneo e di strano ha l’esistenza che ci è imposta [...] Al fondo di questaimperturbabilità c’era una distanza in lui innata [...] Era il suo ethos: un ac-cettare senza illusioni le cose come sono, un riconoscere naturale ciò che ènaturale, ma anche un persistente attenersi a tutto ciò che, a volta a volta,era a lui vicino»39.

38 «Lo “scetticismo” è l’atteggiamento filosofico (die philosophische Haltung)che, invece di porre domande estreme, che necessariamente mirano a soluzioni dog-matiche, pone con chiarezza e salvaguarda i problemi in quanto tali» (M. Heideggerund F. Rosenzweig. Ein Nachtrag zu “Sein und Zeit”, cit., p. 101). Dubbi radicali cir-ca la tenuta dell’ethos filosofico löwithiano sono stati espressi da G. COLOMBO in Ata-rassia e quietismo borghese. La teoria metafisico-fisica di Karl Löwith (in «Sociolo-gia», 2-3, 1977, pp. 193-226, in particolare pp. 217-226).

39 H.-G. GADAMER, Karl Löwith, «Filosofia», 1974, pp. 171-172. Del medesimo te-nore – improntata cioè ad una ulteriore virtù tradizionalmente scettica, quella dellametriop£/eia, del “misurato patire” – la preghiera che Jacob Burckhardt rivolge aldestino e attorno alla quale Löwith costruisce il suo empatico confronto con lo storicodi Basilea: «il senso del dovere per i compiti attuali e la rassegnazione dell’inevitabilee – se i grandi problemi dell’esistenza ci toccano – una loro formulazione chiara enon equivoca, infine quel tanto di sole nella vita del singolo, che è necessario permantenerlo sereno nell’adempimento del suo dovere e nella considerazione del mon-do» (Jacob Burckhardt. Der Mensch inmitten der Geschichte, in K. LÖWITH, SämtlicheSchriften Band 7, hrsg. von H. Ritter, Metzler, Stuttgart 1984, pp. 39-361. La citazio-ne è a p. 83).

Lo scritto löwithiano che affronta questa particolare sfumatura dell’ethos scetticoin maniera più personale, è un breve saggio del 1948 che si gioca tutto intorno alladialettica tra i due tipi umani del cristiano e del gentleman: Can there be a ChristianGentleman? (ora, in versione tedesca, con il titolo: Die christliche Gentleman, in K.LÖWITH, Sämtliche Schriften Band 3, hrsg. von B. Lutz, Metzler, Stuttgart 1985, pp.163-170).

232 Agostino Cera

Esistenza teoretica e virtù della scepsi 233

Una radicalità sostenibilePoesia e ontologia dopo Nietzsche e Heidegger

Simona Venezia

Chi insegna non è il migliore. È utile. Insegna agli altri.Non che siano come lui, ma che siano diversi

da se stessi – questo è loro utile.

B. BRECHT1

Nell’opera di Eugenio Mazzarella il rapporto con la poesia si artico-la in una duplice prospettiva: da un lato esso è un essenziale ambito discandaglio teoretico alla luce della filosofia heideggeriana – punto di ri-ferimento continuo, tra adesione e dissenso, dell’impostazione mazzarel-liana – che, proprio nella poesia così come è stata reinventata dalla mo-dernità del poetare pensante di Hölderlin, scorge un passaggio privilegia-to all’anderes Denken post-metafisico; dall’altro è esercizio personale discrittura, lavorio individuale linguistico-esistenziale, così come si configu-ra nelle tre raccolte poetiche pubblicate fin dagli anni Novanta. Questodoppio statuto svela nei fatti una tensione tra teoria e prassi poetica cheoscilla tra l’asimmetria di progetti in fondo condivisi, ma profondamentedifferenti per senso e significato, e la corrispondenza di una progettualitàmeditativa comune tra discorso filosofico e fare poetico, senza che que-st’ultima però possa mai essere veramente attenuata da una riconciliazio-ne, che necessariamente dovrebbe proporsi sotto forma di vincolante ri-flessione speculativa.

Di fronte all’assunto heideggeriano di un poetare fondativo dell’autenti-co pensiero futuro, l’unico davvero custode di una verità disvelativa e nonpiù predicativa, Mazzarella appare fedele nel considerare le poesie«Winke», cenni, «Worte eines Denkens»2 – parole di un pensare che, comeè noto, anche lo stesso filosofo tedesco ha collezionato fin dalla giovinezza3

1 B. BRECHT, Le storie del signor Keuner, Einaudi, Torino 2008, p. 42.2 «I Winke non sono poesie. E non sono neanche una “filosofia” trasportata in ver-

si e in rime. I Winke sono parole di un pensare [Worte eines Denkens] che ha bisognosolo in parte di questo modo di esprimere [Aussagen], ma non si esaurisce in esso.Questo pensare non si ferma all’ente, poiché esso pensa l’Essere [das Seyn]», in M. HEI-DEGGER, Il pensiero poetante, a cura di F. Cassinari, Mimesis, Milano 2000, p. 75.

3 I Frühe Gedichte, le prime “poesie” di Heidegger, tra l’altro molto ingenue epretestuose, cariche anche di pesanti echi onto-bucolici, risalgono infatti al 1910-1916

234 Simona Venezia

–, ma anche infedele nel sottrarsi a una visione a volte totalizzante, a unasorta di fede cieca nella poesia come accesso assoluto alla verità che hareso l’incedere interpretante heideggeriano troppo spesso appesantito, quasicostretto a pensare la poesia sempre e solo come collocazione ontologico-linguistico-destinale del disvelamento dell’essere.

Eppure anche per la produzione lirica di Mazzarella, e non solo per lasua riflessione filosofica, il rapporto tra poesia e filosofia [Poesie und Phi-losophie] pensato heideggerianamente – quello che il filosofo tedesco hatentato di sdoganare dal pensiero obiettivante della metafisica in direzionedi un abbandono del predominio della rappresentazione, riformulandolo pri-ma in una domanda sull’essenza della poesia [Wesen der Dichtung]4, cosìcome accade intorno alla metà degli anni Trenta, e poi, dalla metà deglianni Quaranta, nella «prossimità enigmatica»5 di poetare e pensare [Dichtenund Denken]6 – è predominante. Soprattutto nelle prime opere questa com-mistione tra dimensione teoretica e dimensione lirica appare molto stretta,anche se non obbligatoriamente finalizzata alla mera formulazione poeticadi un messaggio concettuale. Di sicuro in questo frangente emerge che lanecessità del dire è intimamente connessa alla possibilità del pensare. Ve-dremo che invece nelle ultime raccolte si avverte un allontanamento dal-l’“ingerenza” teoretica a favore di una parola più calata in una dimensioneautonoma, che nel linguaggio, e non nel pensiero, cerca la verità di se stes-sa, senza tuttavia per questo divenire autoreferenziale.

Questo passaggio deve avvenire nella poesia perché avviene nel direstesso: «nella prosa può esserci tutto, anche poesia, / ma nella poesia deveesserci solo poesia»7, scrive Wislawa Szymborska facendo terra bruciata

e sono contenute in ivi, pp. 28-35. Gli ultimi componimenti, profondamente teoretici equasi riassuntivi di tutto il suo pensiero, risalgono invece al dicembre del 1975 e sonoscritti in memoria di Erhart Kästner, in ivi, pp. 210-213.

4 Ci riferiamo essenzialmente alle analisi del saggio Der Ursprung des Kunst-werkes, nel quale viene messo in collegamento il potenziale disvelativo del linguaggiopoetico con il disvelamento ontologico della verità intesa come ¢l»qeia. Cfr. M.HEIDEGGER, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, LaNuova Italia, Firenze 19969, pp. 3-69.

5 Così come viene definita da H.-G. GADAMER, Filosofia e poesia, «Rivista di Este-tica», 43, anno XXXIII, p. 3.

6 Heidegger definisce il colloquio Dichten und Denken come il superamento delrapporto metafisico Poesie und Philosophie in quanto «il pensare in senso stretto, ilpensiero dei pensatori», in M. HEIDEGGER, Seminari, a cura di M. Bonola e F. Volpi,Adelphi, Milano 1992, p. 203.

7 W. SZYMBORSKA, Gente del ponte, a cura di P. Marchesani, Scheiwiller, Milano1998, p. 13.

Una radicalità sostenibile 235

attorno a vanità cerebro-sapienziali e certezze autocelebrative del pensie-ro. L’attività poetica di Mazzarella sembra incamminarsi verso questaesclusività, pur rimanendo necessariamente sempre ancorata a un’identitàfortemente filosofica.

Nonostante sia lo stesso Heidegger a porre in maniera esplicita comequestione fondamentale una differenza irriducibile, sia quando afferma che«l’abisso che separa Dichten e Denken rimane chiaramente e distintamenteaperto»8, sia quando sottolinea che «il poetare e il pensare non sono a lorovolta identici»9, il suo discorso su tale argomento non è scevro di ambigui-tà. Questa sorta di indefinitezza scaturisce dal fatto che, pur essendo duesaperi distinti e non assimilabili, poetare e pensare si muovono nello stessoambito: «Il detto del poeta e il detto del pensatore non sono mai la stessacosa [das gleiche]. Ma l’uno e l’altro possono dire, in modi diversi, la stes-sa cosa [dassselbe]»10, ovvero il Medesimo. Nonostante il Selbe sia tale solonella «reciproca appartenenza del differente a partire dalla riunione operatadalla differenza»11, e quindi solo in quanto salvaguardia più autentica delladifferenza ontologica, questo passaggio non è privo di forzature. SecondoHeidegger infatti il vero significato del verbo Dichten è da rintracciare nellasua accezione derivante dal greco de…knumi, che vuol dire «mostrare [zei-gen], rendere qualcosa visibile, manifesto [etwas sichtbar, etwas offenbarmachen], ma non in generale, bensì sul cammino della sua propria essen-za»12. È questo carattere essenzialmente delotico che connette il dire poeticoal pensiero autentico, come luogo del disvelamento della verità dell’essere,che dopo la svolta si sposterà sempre di più sul versante della parola comeciò che dà essere all’ente nella nominazione13. Nella poesia si pronuncia

8 M. HEIDEGGER, Che cosa significa pensare?, in Saggi e discorsi, a cura di G.Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 91.

9 ID., Introduzione alla metafisica, a cura di G. Vattimo, tr. di G. Masi, Mursia,Milano 1990, p. 37.

10 Vedi supra nota 8.11 «Dichten e Denken si incontrano nel medesimo [im selben] solo se e fino a

che rimangono nettamente nella differenza [Verschiedenheit] della loro essenza. Il me-desimo non si identifica mai con l’uguale [das gleiche], e neppure con la vuota uni-formità del puramente identico. L’uguale si volge sempre verso il senza-differenze[das Unterschiedlose], affinché tutto si accordi in esso. [...] Il medesimo si lascia diresolo quando è pensata la differenza», in M. HEIDEGGER, Saggi e discorsi, cit., p. 129.

12 ID., Gli inni di Hölderlin “Germania” e “Reno”, a cura di G. B. Demarta,Bompiani, Milano 2005, p. 34 (traduzione modificata).

13 «Di ciò di cui può dirsi “es gibt” fa parte anche la parola; forse non solo an-che, ma prima di ogni altra cosa e in modo tale che nella parola, nella sua essenza, sicela quello che “gibt” (dà)», in M. HEIDEGGER, In cammino verso il linguaggio, a curadi A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia, Milano 1973, pp. 152 s.

236 Simona Venezia

quel nominare [Nennen] originario che permette alle cose di emergere dal-l’oscurità del non detto, dall’oblio nel quale l’essere è costretto nel suo ap-piattimento a mero ente14. Ma questa forzatura giunge fino a una sorta dimistificazione quando, nel saggio sul detto di Anassimandro del 1946, Hei-degger asserisce: «allora il pensare [Denken] deve poetare [dichten] l’enig-ma dell’essere»15. In questo modo la poesia rischia di perdere una sua auto-nomia e viene, così come spesso è accaduto nella storia della filosofia sepur per differenti motivazioni, relegata in un ruolo troppo funzionale, che,per quanto di inoppugnabile rilevanza, disperde in un obiettivo e non con-voglia in un compito la sua essenza.

In questa prospettiva la poesia è Poesia con la maiuscola, monumenta-le istituzione in parola della verità dell’Ereignis in quanto mancanza origi-naria che di fatto smentisce il tempo come permanenza. Di conseguenza lasvolta come Kehre è la collocazione di luoghi in cui far rivelare l’esseredall’oblio che nell’epoca della tecnica è l’unico modo con cui l’essere stes-so si dà. Oltre ai Grundworte dei Presocratici – avanguardia di un pensieroontologico di tipo disvelativo, tuttavia ben presto soppiantato da un’ontolo-gia di tipo sostanzialistico – tocca alla poesia nella sua declinazione epifa-nico-sacrale di ascendenza hölderliniana sfidare la metafisica per tentareuno sguardo al di là. Ma forse in questa sorta di mitizzazione dei Preso-cratici e dei poeti Heidegger compie l’errore di rendere la poesia qualcosadi sublimato nella sua valenza esclusivamente ontologica, schiacciandola inun compito che di certo non tutti i poeti le riconoscono. Nel vincolarne lesorti a quelle della filosofia, paradossalmente Heidegger non rende il mi-glior servizio alla poesia, perché in questo modo il compito del dire vieneridimensionato dal compito del pensare, nel momento in cui lo stesso direrischia di diventare in realtà pensare. Che differenza sussiste tra una poesiache ha il dovere di dire l’essere nella sua verità e una visione romanticache intende il poetare come capace di dire la verità nel suo essere? Ma èproprio per evitare questa deriva che Heidegger ritiene necessario il fonda-mento ontologico del poetare, e anche secondo Mazzarella ogni vincolo ro-mantico e in generale ogni vincolo funzionale si dissolve proprio nell’on-tologia: «La poesia è vita che si fa sapendosi e vita che si sa facendosi,ingresso nell’Origine»16.

14 Ci permettiamo di rinviare alle analisi contenute nel nostro Il linguaggio deltempo. Su Heidegger e Rilke, Guida, Napoli 2007, pp. 84 ss.

15 M. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, cit., p. 348.16 E. MAZZARELLA, Uno scritto. II. Poesia e filosofia, in Un mondo ordinato, Palo-

mar, Bari 1999, p. 90.

Una radicalità sostenibile 237

È in questo orizzonte onto-teoretico di riferimenti e sollecitazioni chesi muovono le riflessioni di Mazzarella sul rapporto pensiero-poesia. Tutta-via, nel momento in cui proprio il confronto prettamente filosofico con Hei-degger ha subito negli ultimi anni un cambiamento di rotta, è possibile rin-tracciare gli effetti che di tale mutamento si sono riverberati anche nel di-scorso intorno alla poesia e nel poetare stesso.

Questa evoluzione, questa svolta, non è l’isolato approdo verso unadirezione inattesa, ma il terreno comune di una maturazione intellettuale elirica che scaturisce anche da specifici sviluppi teoretici. Gli scritti e gliinterventi degli ultimi anni vedono infatti un abbandono della storicità comematrice ontologica originaria in favore di un essere-alla-vita – «presuppo-sto biologico» e «mero diritto ad esserci»17 di tutto ciò che esiste, fonda-mento ontologico comune sia al pensiero che alle scienze –, passaggioche avviene in maniera programmatica, anche se non pienamente sistema-tica, in Vie d’uscita, ma ampiamente presagito in Sacralità della vita18. Èil colloquio con le scienze a imporsi come compito per il pensiero. Difronte a questa sfida, la storicità intesa come origine ontologica primaria– che Mazzarella aveva evidentemente tratto dallo Heidegger degli anniVenti, soprattutto nella declinazione culminante nella diade Geschicht-lichkeit/Zeitlichkeit19 di Essere e tempo – rischia di escludere dal discorsouna datità che sia al tempo stesso fenomenologica e ontologica, ovvero lanuda vita come apertura originaria comune a tutti i viventi. In questo modola storia stessa non può essere pensata, come pure farà Heidegger dopo lasvolta, in quanto Seinsgeschichte, essenzialità temporale e non più tempo-ralità essenziale, rinchiusa nella destinalità del Geschick che, anche seconcepita come rimando supremo alla dispropriazione insita dell’Enteignis,sembra costretta a dissolvere l’inaggirabilità dell’individualità umana. Per-tanto al centro del pensiero di Mazzarella non si pone più la storicità comeevento dell’attimo che connette l’uomo alla sua vicenda esistenziale, mala diade zw»/b…oj come attimo dell’evento, in cui si localizza l’irripetibi-lità di ogni situazione effettiva, l’unicità di ogni essere qui e ora nel tor-mento del proprio ci.

17 E. MAZZARELLA, Vie d’uscita. L’identità umana come programma stazionariometafisico, il melangolo, Genova 2004, p. 8.

18 Cfr. ID., Sacralità della vita. Quale etica per la bioetica?, Guida, Napoli 1998.19 Cfr. M. HEIDEGGER, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano

20083, p. 440 ss. Mi permetto di rinviare sull’argomento al mio Misura e fondamentodi un’ontologia della fatticità. Note su Vie d’uscita di Eugenio Mazzarella, consultabi-le all’indirizzo http://www.filosofia.it/images/download/argomenti/Mazzarella_3_Venezia05.pdf.

238 Simona Venezia

Natura prima ancora che storia: anche nelle prove poetiche è possibileavvertire il pathos di questo passaggio, di questo cambio di prospettiva chenon intende in alcun modo porsi come l’avamposto di una contrapposizionestoricismo/naturalismo e neanche di un’antitesi natura/cultura. Qui per natu-ra non si intende prettamente un universale sostanzialistico, ma più propria-mente il b…oj indicante nella finitezza umana l’indifferibile misura dell’esi-stenza individuale in quanto «universale biologico vincolante in una qual-che misura sempre il fatto di cultura»20.

Nonostante questa concettualizzazione sia essenzialmente teoretica,l’intuizione poetica anticipa tale svolta: «Nessuno va oltre la sua ombra»21,possiamo leggere in un componimento scritto quasi venti anni prima dimettere a fuoco anche teoreticamente che nessuno può andare oltre ciò chenon ha creato: nessuno va oltre la natura umana che non ha concorso a cre-are. E quindi è la zw», il dato biologico, a risultare l’intangibile, quella «sa-cralità della vita» che non può essere aggirata, né violata senza violare irri-mediabilmente se stessi.

Il progetto di Mazzarella devia dunque da un iniziale ancoraggio al-l’approccio storico-genealogico per configurarsi come una critica allo stori-cismo nella sua specularità con il naturalismo. Mentre lo storicismo non siconfronta con la questione dell’origine, il naturalismo rischia la deriva inuna specie edulcorata di biologismo umanistico. È inevitabile che un pro-getto che tenta di superare queste prospettive non può che contenerle in parteentrambi. Eppure, la definizione di un’ontologia dell’essere secondo22, chetenta di pensare un fondamento fondante ma non fondativo nell’eventualitànon riconducibile a forme di stabilità usiologiche del sumbebhk2j, si dirigeproprio verso il tentativo di evitare sia i fraintendimenti dello storicismo chequelli del naturalismo, intendendo dimostrare che in ultima analisi entram-be queste visioni non possono che collimare. Per evitare che questo fonda-mento fondante ma non fondativo non ricada in una metafisica di stampobiologistico Mazzarella elabora un’ontologia della fÚsij, in cui originarioè il biologico inteso come condivisione, e non come selezione. La domandase questo tentativo riesca fino in fondo deve tuttavia essere assorbita dalleistanze di un’ontologia critica della finitudine, che cerca di coniugare sia lastoricità insita nel vivente, che la sua connaturata biologicità con la sua al-trettanto intrinseca tensione verso l’assoluto. Questo è un passaggio fonda-mentale per Mazzarella, perché solo in questo modo è possibile riformulare

20 E. MAZZARELLA, Sacralità della vita, cit., p. 8.21 ID., Il singolare tenace, I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme 1993, p. 49.22 ID., Vie d’uscita, cit., pp. 37 ss.

Una radicalità sostenibile 239

un autentico, nuovo concetto di modernità, facendo emergere ciò che diveramente moderno c’è nella modernità, che va difeso contro l’appiattimen-to, spesso ineluttabile, sull’ipertrofismo soggettivistico proprio della coscien-za moderna e delle sue declinazioni filosofiche.

È difatti proprio nel concetto di moderno che Mazzarella intravede ilnodo gordiano del sapere occidentale, al contrario dell’ultimo Heidegger,che giungerà a misconoscere tale centralità, facendo rientrare la filosofiamoderna in un percorso già segnato, individuando nel tradimento platonicoproprio della delimitazione dell’essere nell’ambito dell’ente delle idee, enon appunto nella deriva soggettocentrica dell’identità tipicamente moderna,i prodromi dell’operativismo tecnologico e di conseguenza l’origine del-l’oblio dell’essere.

Non è un caso che sia proprio la questione della modernità il riferi-mento teorico al centro della prima raccolta poetica di Mazzarella, Il sin-golare tenace, un primo libro da intendere proprio come un inizio, in cuila parola poetica scopre sé come voce capace di dire nel momento in cuiil dire stesso deve essere necessariamente pensato al di là del pensarestesso.

Il soggetto e il suo rapporto con il mondo: è questa l’ossessione de Ilsingolare tenace: «qui, dall’altra faccia dell’eterno, / io mi racconto ame»23. Ossessione racchiusa già in un titolo che da un lato è un punto dipartenza e dall’altro un punto di arrivo. «Singolare» sia come sostantivoche come aggettivo, sia come singolo che si erge dalle paludi del dubbio edella frustrazione, che come tenzone, combattimento all’ultimo sangue difronte a un dicibile rassegnato e autoreferenziale. La tenzone dell’io liricoavviene nella parola, ma non è contro l’indicibile, quello che abitualmentesi pensa essere il nulla della poesia. Essa avviene nel dicibile stesso. Maz-zarella è infatti cosciente del fatto che il nulla per la poesia non è l’indici-bile24, ma il non detto. A lui non interessa ciò che le parole non possonodire, ma ciò che le parole devono dire.

Avviluppata in una «vertiginosa implosione»25, la soggettività copre tut-to lo spazio della poesia, anche il vuoto, anche il vuoto di se stessa. Nono-stante l’io lotti contro il proprio vuoto, non può fare a meno di dargli veri-tà, renderlo vero e reale quanto vero e reale è lui stesso: «misura di sé sco-po di se stesso / fuoco di se stesso»26.

23 E. MAZZARELLA, Il singolare tenace, cit., p. 35.24 Cfr. S. VENEZIA, Il linguaggio del tempo. Su Heidegger e Rilke, cit., p. 15 ss.25 C. RICCIO, Della poetica filosofia. L’opera di Eugenio Mazzarella, in «Critica

letteraria», fasc. III, 124, 2004, p. 491.26 E. MAZZARELLA, Il singolare tenace, cit., p. 63.

240 Simona Venezia

Fuori dall’io si scontrano le grandi forze dell’affettività e della raziona-lità, lasciando tracce di lotte ostinate, dalle quali giungono pallidi riflessi diuna battaglia che non si può combattere in prima persona, se non nella pa-rola: «e tutto questo / io che non capisco»27.

L’urgenza più pressante è quella di porre distanza tra sé e il mondoproprio nel momento in cui nella parola poetica è il rapporto tra sé e mon-do a emergere in tutte le sue contraddittorie e dolenti metamorfosi. Fin dal-l’inizio la poesia di Mazzarella è alla ricerca di una intimità con la distan-za, di una radicalità sostenibile.

Per sua essenza la poesia sosta presso luoghi di confine. Le verità ac-clarate, le esperienze totalmente ricostruibili non le interessano. Sono letracce della distanza – della lotta tra lontananza e vicinanza – quelle che in-segue il poeta ogni volta in cui riesce effettivamente a poetare: la poesia èsempre giungere «fino a quel paese nascosto a lato a tutte le mie strade»28,ovvero salvaguardare nella prossimità che si ottiene «tutte le strade» dellalontananza da cui ineluttabilmente siamo partiti, ma che non possiamo mairealmente abbandonare.

Il singolare tenace è la tenzone, la lotta contro l’io nell’unico modo incui un io consapevole, troppo consapevole, sa fare, cioè dicendo sempre esolo io: «davanti a me / rivendico me»29. È un io che si distrugge solo riaf-fermandosi, perché quello che vuole è la salvezza – tema caro allo Heideg-ger estimatore incondizionato di Hölderlin – anche quando intrisa di perico-lo30. Nelle raccolte successive questo soggettivismo viene temperato, e nonè un caso, perché è proprio la salvezza a venire meno come desiderio in-confessabile. L’io lirico non vuole più essere salvato: è questa la grandiosaquanto dolorosa “conquista” della poesia del Novecento. La poetessa russaAnna Achmatova ha addirittura scritto che i versi poetici «nascono dallaspazzatura»31, chissà, forse memore di Eraclito e del suo frammento: «pro-prio come un mucchio di rifiuti gettati a caso è il più bello dei mondi»32.La poesia non salva niente, neanche se stessa.

27 Ivi, p. 22.28 Ivi, p. 39.29 Ivi, p. 26.30 Tale riferimento rinvia ovviamente al celebre verso hölderliniano contenuto

nell’inno Patmo, più volte commentato da Heidegger: «Ma dove c’è pericolo, là cre-sce anche ciò che salva». Cfr. per esempio M. HEIDEGGER, La questione della tecnica,in Saggi e discorsi, cit., pp. 22 ss. e 26 s.

31 Citato in I. BRODSKIJ, Dall’esilio, a cura di G. Forti e G. Buttafava, Adelphi,Milano 1988, p. 42.

32 G. COLLI, La sapienza greca. III. Eraclito, Adelphi, Milano 19962, pp. 98 s.

Una radicalità sostenibile 241

Qui, infatti, non è in gioco solo il confronto con Heidegger, ma anchequello con Nietzsche. Nei componimenti de Il singolare tenace si odono ni-tidi echi della dolente vicenda dell’oltre-uomo nietzscheano, che fonda ilnulla da cui è divorato e del quale, una volta smascherato, non potrebbemai fare a meno. La fascinazione per il coraggio tragico di Nietzsche èmolto forte: «polvere e figura / quanto emerge di me»33. La vicinanza al-l’uomo che scopre la fragilità di ciò che è sempre stato pensato come infi-nito, di ciò che è stato immaginato senza limiti, sembra trovare solo disin-canto dinanzi a sé, nonostante sia esso stesso a contraddire la vanità del tut-to, quell’«ancora non tramontato nodo dell’effimero»34.

L’io si ritrova a dubitare delle forme in cui rinchiude il mondo per nonrimanerne sopraffatto, ma, allo stesso tempo, dando forma nel pensiero atutto ciò che lo eccede, l’io decreta come necessario il suo insistere nel-l’esistenza: «Mentre muore ogni cosa che ha una meta, / il singolare tenacenel mare del distinto, / l’eterno voler stare»35.

A colpire è proprio questa lucida consapevolezza che non scade mai,come si potrebbe pensare a una lettura superficiale, nell’apoteosi di unasoggettività che giudica se stessa per giustificarsi, ma che è sempre intimacontestazione di ogni ipertrofismo soggettivistico della coscienza. Ma taleconfutazione non è ancora in grado di compiere altro se non la mera difesadel contrario di ciò contro cui combatte, e quindi ancora non è davvero ca-pace di dire.

I nodi non si sciolgono perché non è compito della poesia tentare difarlo. È per questo che tale questione si ripresenterà successivamente river-sandosi nelle analisi prettamente filosofiche del testo intitolato Lirica e filo-sofia36, in cui la modernità viene messa in discussione proprio sul banco diprova della soggettività. In questo volume il rapporto tra pensare e poetareviene approfondito in due luoghi esemplari della storia del pensiero, ovverola poesia della modernità in modo particolare nella sua declinazione leopar-diana e la teologia negativa di Qohélet.

Lirica e filosofia: il titolo non si pone come l’indice programmatico diun confronto, ma come una sintesi speculativa che intende individuare unparadigma della poesia di tutti i tempi nel concetto di modernità del lirico,che a sua volta non viene presentato come una corrente letteraria, un’eti-chetta culturale, ma come l’identità della coscienza che pensa se stessa, «il

33 E. MAZZARELLA, Il singolare tenace, cit., p. 26.34 Ivi, p. 31.35 Ibidem.36 Cfr. E. MAZZARELLA, Lirica e filosofia, Morcelliana, Brescia 2007.

242 Simona Venezia

luogo, “eterno e universale”, dove la coscienza umana scopre l’“esistenza”e il sé si lega, nei flutti del principium individuationis, all’albero dell’Io pernon soccombere»37.

Quello che appare essere un peana alla dominatrice appropriazione disé diventa la profonda e dolorosa ricerca dell’illusione della propria integri-tà. Anche ne Il singolare tenace si agita la confutazione di qualcosa chenon può essere superato e che vive di questa tensione. È la contestazione diquello che non si può non essere, di quello che si è e basta: «è questo“muro” che l’Io lirico dell’ultima modernità è chiamato la sua parte a riedi-ficare, il centro di un universo spirituale che metta in relazione io e mondo,interno ed esterno»38.

Il lirico è infatti il moderno della poesia più che la poesia del moder-no, il luogo in cui la soggettività ragiona su se stessa senza pensarsi neces-sariamente come coscienza, ma vivendo la propria coscienza. Per questomoderno è sia un Leopardi che ripercorre retrospettivamente l’antica sapien-za della finitezza umana, che un Qohélet che, prospetticamente, nell’anacro-nistico paradosso della denuncia radicale della vanità del mondo, di fattoprecorre e fonda il moderno.

La disperata radicalità di guardarsi fondare il proprio abisso: questo èa ben vedere l’accesso al nichilismo del Novecento prima che sia una vol-ta e per tutte spalancato da Nietzsche. Si tratta di uno sguardo che si ànco-ra a quanto c’è di più furiosamente destabilizzante per subirlo solo nel mo-mento in cui è giudicato ineluttabile. La scelta di Leopardi e Qohélet nonsolo non è casuale, ma diviene necessaria. È in questi autori che troviamoil paradossale superamento di Nietzsche prima di Nietzsche stesso. Nel-l’idea del dolore come significato essenziale dell’esistenza del primo e nel-l’incenerimento di ogni velleità di trarre dal dolore stesso qualcosa di vita-le del secondo avviene senza clamori, ma con non poche contraddizioni, ilsuperamento di un soggettivismo potenziato dalla volontà di porsi cometale. È questa la problematica più importante della modernità, il rapportotra volontà e coscienza, che in una sola parola il pensiero ha spesso chia-mato soggettività.

L’io lirico indaga il vuoto solo nella sua paradossale corposità, indaga ilvuoto che, pur essendo stato pensato come infinito, non può essere infinito,perché quantomeno è ridimensionato proprio da quella voce che si alza acontestarne l’inquietante onnipervasività e diventa essa stessa il vuoto checontrasta: «tutto il resto è il niente che presidia. Perché anche il Tutto – per

37 Ivi, p. 8.38 Ivi, pp. 38 s.

Una radicalità sostenibile 243

noi – è finito»39. L’io lirico non solo come baluardo della lotta contro il nien-te, ma come luogo in cui il niente non può essere giustificato senza esserecontraddetto. Perché qui è in azione una soggettività non più trasparente a sestessa come la coscienza cartesiana che organizza il mondo tramite provechiare e distinte, imponendo come parametro di validità universale la capaci-tà di dimostrare la realtà riflessa nella propria realtà non più suscettibiledi discussione. Per l’io teoretico quantomeno rimane salda la capacità diriflettere sul mondo la propria irriducibile realtà sostanziale; almeno rimaneil dubbio che può pensare anche ciò che lo rinnega e lo annulla, e quindi an-che se stesso. A essere in gioco è la facoltà dell’io di proiettare se stesso nelpensiero e nel mondo, ma, mentre nella filosofia «l’autocoscienza come au-topossesso» rischia di essere «l’illusione soggettivistica dell’io, non la suaverità»40, l’io lirico non ha nulla di questa trasparenza metodica, e trova pro-prio nell’attraversamento mai scontato della propria opaca coscienza la veritàdell’esistenza. Nella lirica impadronirsi di sé e perdersi sono destinati acoincidere, per questo l’io non rischia di rendere se stesso oggetto di analisio speculazioni razionalistiche, ma vive la sua identità solo nella sua dislo-cazione. Perché alla fine non è un io che pensa, ma è sempre e solo un ioche dice.

La seconda raccolta di poesie di Mazzarella risale invece al 1999 e siintitola Un mondo ordinato. Questo titolo, che potrebbe essere sia un pro-gramma di intenti che il manifesto di un tradimento, viene spiegato dallostesso autore in una delle due appendici di contenuto prettamente filosoficoapposte in conclusione della silloge41. Anche in questo caso il filosofo senteil bisogno di ‘aiutare’ il poeta a esprimere quello che nella parola della liri-ca rimarrebbe in parte celato da quell’‘implicitezza’ gelosa di sé tipica diogni detto veramente poetico.

Un mondo ordinato è essenzialmente un mondo dicibile. L’ordine a cuiqui ci si riferisce non è un insieme di regole, la capacità di suddividere e inqualche modo di ricondurre tutto a un ambito di norme prestabilite. L’ordi-ne non è una sovrastruttura metafisica a cui il mondo dovrebbe in qualchemodo conformarsi, ma è essenzialmente la parola che dice, la parola chepuò effettivamente dire e che non si perde nell’eccesso dell’indicibile, nel-

39 E. MAZZARELLA, Uno scritto. II. Poesia e filosofia, cit., p. 90.40 ID., Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger, Guida, Napoli 1981, p. 206.41 Di questa scelta estremamente netta parla anche nella sua «non-prefazione» G.

RAVASI, «Perplessi lungo il crinale», in E. MAZZARELLA, Un mondo ordinato, cit., p. 7,sottolineando come l’autore abbia aggiunto come appendice due testi teorici sulla que-stione della poesia, non disdegnando un accostamento che è già indice di un’imposta-zione concettuale esplicita.

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l’immane perdita del Dioniso condannato a smarrirsi nella musica e a ripu-diare, come vedremo farà lo stesso Nietzsche, la capacità lirica di definire ilmondo rendendolo visibile e accessibile in un profilo.

Ma nonostante ciò, nonostante cioè il fatto che in questo modo l’autoregiunga a definire la sua stessa poesia attraverso uno sguardo teoretico e diconseguenza non intraveda soluzione di continuità tra pensare e poetaresussiste una cesura non conciliabile: «Oh sì, c’è il mondo – / e dopo que-sto, niente / nel navigato mare dei pensieri – / ma poi, dopo del mondo, /quale limite estremo della mente?»42.

C’è un ordine nel niente? E nel limite che nel «navigato mare dei pen-sieri» si scorge, ma non si può dire, né pensare? Eppure l’io teoretico nonrecede di fronte alla necessità dell’ordine e dice: «un mondo ordinato. Mes-so in ordine nella parola. Salvato nella lingua. Questa è la poesia. Un mon-do che si può dire. Un mondo ordinato, un mondo che si deve dire: siamoqui per questo»43. La poesia deve dunque salvare nel dire quello che ognigiorno l’impietoso fluire del mondo si condanna a disperdere alla mercé distanchi e facili oblii. La poesia non si arrende di fronte al nichilismo del-l’indicibile, ma nella parola tenta di costruire un luogo in cui la coscienzapossa essere se stessa senza divenire padrona di se stessa, padrona del vuo-to che pure decide di cantare.

Ordine ed essenza stessa della poesia sono intrinsecamente connessi:«nel proprio frammento di ordine ricevuto deve brillare l’Ordine, deve essererestaurata l’instaurazione originaria della poesia. Lo spazio lasciato vuotodall’Ordine si riempie della sua eco, anelito di una risposta ad un appello,che non viene da noi eppure viene da dentro di noi. Dove questo non accade,la poesia scade o resta letteratura, mero romanzo dell’io»44. Se sostituissimoalla parola “ordine” la parola “dicibile” o anche solo “dire”, dunque, il signi-ficato non cambierebbe, anzi diventerebbe ancora più radicale, perché se ildicibile è l’ordine, allora anche la radicalità, l’assolutezza che in qualchemodo corrisponde all’irrevocabile finitezza umana, può essere sostenibile.

L’ordine è il progetto inaggirabile della lirica della modernità: «Tutta lapoesia moderna – intendendo per moderna tutta la linguisticità poetica dicui abbiamo memoria storica come traccia già costituita della mente co-sciente che abitiamo – è costruita, in progressione geometrica, su questovuoto dove l’io possa espandersi a ri-toccare la sua sorgente come virtualerestaurazione dell’ordine originario: eminentemente è suo anelito o quanto

42 Ivi, p. 17.43 E. MAZZARELLA, Sulla poesia. I. Frammenti, in ivi, p. 72.44 ID., Uno scritto. II. Poesia e filosofia, in ivi, pp. 88 s.

Una radicalità sostenibile 245

meno espresso vuoto della sua mancanza. Una scheggia dell’Ordine, unbrano del suo suono, deve esserci: questo il poeta lo sa sempre – anchequando lo manca»45.

In queste parole la cesura tra teoria e prassi poetica si apre in tutta lasua intensità: l’ordine è necessario proprio nel momento in cui si compren-de quanto tutto l’ordine finora precostituito abbia irrigidito la coscienzanell’evidenza di se stessa. Nel dire poetico a parlare è sempre l’io che cercail mondo nell’unico modo che conosce, ossia cercando se stesso: «io sonola domanda»46.

In un ordine così inteso fa meno paura anche il silenzio47, anzi, esso èintrinsecamente connesso alla parola: «una poesia taglia il Silenzio, si sta-glia nel Silenzio, contro il silenzio, per significare il Silenzio tramite la me-raviglia della parola detta»48. Il rapporto tra ordine e silenzio è in questocaso essenziale: esso appare essere il vero garante dell’indicibile, ma non loè. Il silenzio è in realtà ciò che rende possibile il dicibile, perché solo tra-mite il vero silenzio possiamo accedere al dire autentico.

«Il poeta lavora nel silenzio attorno alla parola»49: il silenzio non ap-partiene al campo dell’indicibile, come si suole credere, ma a quello del di-cibile. La parola è quello spazio che si apre nel silenzio e che lo garantiscecorrispondendo a quella raccolta sapienziale che lo stesso silenzio è quandoscaturisce da un autentico pensiero. Il silenzio davvero detto è la parola po-etica estrema.

Anche alla luce di siffatta grammatica del silenzio, l’ultima raccolta dipoesie finora pubblicata da Mazzarella, dal titolo Opera media50, si presentacome un testo più compiuto, più risolto, paradossalmente proprio nella suasperimentazione linguistica più accentuata. Nelle sillogi precedenti, infatti,il messaggio poetico si articolava quasi sempre attraverso la matrice concet-tuale di una comunicazione filosofica, pur nella stasi di un equilibrio asso-lutamente non preventivabile. In questo ultimo testo invece lo scrupoloso la-vorio sulle parole appare un flusso in divenire di solida stabilità, che per-mette al lettore di assistere a una condensazione della parola che viene at-

45 Ivi, p. 89.46 Ivi, p. 61.47 Anche in questo caso il riferimento è lo Heidegger dei saggi sul linguaggio,

nei quali viene analizzato anche il senso dello Schweigen (si cfr., solo come esempio,M. HEIDEGGER, In cammino verso il linguaggio, cit., p. 144; ma anche ID., Essere etempo, cit., p. 165, p. 208).

48 E. MAZZARELLA, Sulla poesia. I. Frammenti, cit., p. 71.49 Ibidem.50 Cfr. ID., Opera media, Il melangolo, Genova 2004.

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tratta, quasi risucchiata, da un linguaggio volutamente ordinario, seguendouna direzione molto cara dalla poesia italiana del Novecento, che si soffer-ma sull’ordinarietà e la ripetibilità dell’esistenza come accesso privilegiatoalla straordinarietà e all’unicità della parola: «Fiamma di una candela cheresiste / Protetta da un bicchiere»51.

Con l’intuitiva comprensione del poeta, che delle parole non evincesolo la bellezza, ma anche la profondità, Daniele Del Giudice definisce lapoesia di Opera media come «pura tensione esistenziale, zona media del vi-vente»52, nella quale è possibile constatare un «bel ritorno [...], un bell’ap-prodo: dal lontano cosmico, imprendibile, al vicino corporale, zona del tan-gibile, dell’esperibile, a portata di mano che è qui ed è per tutti, ma è unlimite invalicabile su cui sostare»53. Questa svolta è contrassegnata dunquedalla maggiore frequenza di componimenti intenzionati da un interesse perl’evento ordinario, meno marcati da un respiro metafisico universale nelquale far convogliare la propria esperienza. È l’esperienza stessa capace diraccontare, non c’è bisogno di inserirla in un contesto più vasto. Il discorsosi fa più intimo proprio nel momento in cui la distanza si amplifica. Nelleprime prove poetiche lo sguardo maggiormente filosofico-concettuale eracapace di una distanza attuata per non farsi travolgere dal tormento dellatroppa vicinanza con il mondo, con gli altri, con il dolore. Ora la distanzanon è più essenziale per proteggersi, ma diviene fondamentale per pondera-re, per condividere senza ipocrisie. Aprirsi all’altro non significa più rinun-ciare a dire io.

È, infatti, la condivisione e l’apertura all’alterità il vero centro dellasvolta contenuta in questa raccolta: «Potessi solcare il mare / l’oceano / chelega la mia vita / al tuo sorriso»54. È l’incontro con l’altro il luogo in cuil’io trova se stesso. Nelle raccolte precedenti l’altro rischiava di essere sol-tanto un lontano riflesso dell’io, che, contenendo in sé, a mo’ di monade,già tutte le connessioni e le varianti possibili dell’umano, era capace di cu-stodire anche la sapienza dell’assenza, vero segreto dell’incontro con gli al-tri. Adesso invece l’assenza non è più in mano all’io, gli altri non sono cal-colata proiezione o mera conseguenza, ma il contesto a cui si coappartiene:nell’incontro con gli altri inizia un’autentica apertura all’altro. L’io che sco-pre l’altro non scopre più un mero non-io, non scopre più il riflesso – in-controllabile, imprevedibile, ma pur sempre un riflesso – di se stesso, bensì

51 Ivi, p. 78.52 D. DEL GIUDICE, Opera di mezzo, in ivi, p. 8.53 Ibidem.54 E. MAZZARELLA, Opera media, cit., p. 51.

Una radicalità sostenibile 247

un’identità che va salvaguardata con la stessa pervicace convinzione con cuiva garantita la propria. Ciò che salva l’io atterrito da se stesso «nella confu-sione e nella speranza»55 è l’incontro con chi potrebbe a sua volta atterrirci,è vero, ma che almeno attesta come necessaria l’istanza di uscire fuori dase stessi.

Lo sguardo su tutto ciò che è umano e finito diventa necessariamentepiù solidaristico. Poetare è sempre una specie di «fratellanza sopra il vuo-to» come amava osservare il grande Octavio Paz, la necessaria fratellanzadell’«umana compagnia» di cui Leopardi cantava ne La ginestra56. È in uncomponimento come quest’ultimo che la poesia compie il salto al di là diuna modernità intesa come autocelebrazione della propria coscienza che, sepur capace di istituire il nulla come suo fondamento, non è capace di con-dividere questa sua scoperta, destinata per questo a rimanere puro riverberodella propria monumentale egoità. Ne La ginestra il poeta prende congedodalla modernità non per rinnegarla, bensì per superarla. L’abbandono è fina-lizzato a fondare una modernità autentica, davvero all’altezza del compitoche essa stessa si è posta. Una modernità in cui la poesia non è solo atte-stazione della propria affermazione o della propria remissione, ma è primadi tutto incontro con l’altro, non è solo riflesso o proiezione, ma coapparte-nenza. La poesia è essenzialmente questo: «in fondo un esercizio – cammi-nando – di incontrare qualcosa, per via: la luce che regge ogni disastro»57.Destino del poeta è quello di aprire un varco essenzialmente etico identifi-cando se stesso nel colloquio con gli altri, indagare «quell’orror che primo /Contra l’empia natura / Strinse i mortali in social catena».

Giungiamo in questo modo a un punto importante della riflessionemazzarelliana sul rapporto tra pensiero e poesia, e anche in questo caso lafilosofia di riferimento è senza dubbio quella di Heidegger, se pur con si-gnificative variazioni. Fin dalle analisi contenute in Tecnica e metafisica, in-fatti, secondo Mazzarella l’«estetica ontologica» heideggeriana, «non puòche essere sostanzialmente un’etica. Il poetare è autentico quando progettaun vivere abitando nella misura dell’!qoj, l’abitare poeticamente su questaterra»58. È nella parola poetica che si delinea un approccio primario all’esi-stenza, una percezione originaria [a‡sqhsij] che permette all’uomo un’inti-

55 Cfr. ID., Nella confusione e nella speranza, in Lirica e filosofia, cit., p. 13 ss.56 G. LEOPARDI, La ginestra o il fiore del deserto, v. 129, in Canti, a cura di N.

Gallo e C. Garboli, Einaudi, Torino 19932, p. 279.57 E. MAZZARELLA, Sulla poesia. I. Frammenti, cit., p. 71.58 Sulla questione dell’estetica ontologica heideggeriana si cfr. anche E. MAZZA-

RELLA, Elementi per un’estetica ontologica, in «aut aut», 307-308, gennaio-aprile2002, pp. 187-203.

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mità con la terra che è già etica, perché è già meditazione fondamentaleche, pur non potendo più vertere su valori prescrittivi e normativi, affrontasenza remore la misura dei propri limiti, ovvero gli unici valori ancora con-divisibili dopo l’evento epocale della morte di Dio. Nell’estetica l’uomopuò accedere a una potenzialità di orientamento e di discernimento che so-spende ogni utilitarismo e ogni retribuzione, perché è sempre alla base diogni possibile valutazione di tipo conoscitivo. La filosofia si deve riappro-priare di questa tensione del vivente, che è già essa stessa meditazione eti-ca: «gestire il tragico dell’etico: la tensione irrisolvibile tra sé e sé di un es-sere, l’uomo, che è vita ed insieme aver-da essere questa vita»59.

La sovrapposizione tra il rapporto Dichten und Denken e l’etica, che inHeidegger risulta problematica nella sua totale e risolutiva consegna al-l’ambito della cosiddetta “etica originaria” – elaborata in maniera non siste-matica e non a caso in un solo testo, ovvero nel celebre Brief 60 –, divienenel percorso mazzarelliano un’istanza non ulteriormente prorogabile. Mentrein Heidegger l’“appropriazione” ontologica dell’etica rischia di divenire ne-cessariamente una forzatura se per approccio originario si intende un oriz-zonte teoretico che esclude ogni processo di tipo applicativo, Mazzarella ri-scontra nel dialogo della filosofia con le altre scienze, in primis le cosiddet-te «scienze della nuova umiltà»61, sia un concreto ancoraggio etico che unafattiva applicazione.

Anche per quanto riguarda questa problematica si può parlare di unasvolta, che vede il passaggio dalla sua prima formulazione sottoforma dio„kolog…a62 – che Mazzarella definisce heideggerianamente «sapere chenella sua originarietà si sa rimesso a ciò che istituendolo nel soggiorno,nel produrlo e durarlo nella disvelatezza, è la sua propria dimora, cui èri-chiamato per farsene carico, e nell’oggi tecnico come ciò che rende im-prescindibile questo sapere»63 – a una concettualizzazione sottoforma diodologia64, in quanto «sapere di sé come cammino dell’io storico-monda-

59 E. MAZZARELLA, Sacralità e vita, cit., p. 33.60 Cfr. M. HEIDEGGER, Lettera sull’“umanismo”, in Segnavia, a cura di F. Volpi,

Adelphi, Milano 1989, pp. 307 ss.61 E. MAZZARELLA, Vie d’uscita, cit., p. 11.62 Cfr. ID., Tecnica e metafisica, cit., pp. 291 ss.; Tecnica e oikologia: etica e on-

tologia, in Ermeneutica dell’effettività. Prospettive ontiche dell’ontologia heideggeria-na, Guida Editori, Napoli 1993, pp. 115-137.

63 Ivi, p. 133.64 Cfr. ID., Vie d’uscita, cit., pp. 60 ss. Tale prospettiva odologica è presente in

maniera centrale anche nella filosofia heideggeriana; solo come esempio: «Il pensierostesso è un cammino. Corrispondiamo a questo cammino soltanto restando in cammi-

Una radicalità sostenibile 249

no quanto a se stesso»65, ergo sapere essenzialmente etico e onto-fenome-nologico del cammino. Il luogo in cui stare come !qoj diviene o%koj perpoi profilarsi come 3dÒj: l’incontro con l’altro diventa qualcosa di fami-liare come lo è l’ambiente di casa per poi proiettarsi verso l’esterno comecammino comune. È questo il fondamento dell’abitare poeticamente suquesta terra: trovare la misura significa cercare il soggiorno in cui sosta-re. La necessità di individuare una misura rimane viva in tutta la sua inag-girabilità, e per questo nelle analisi di Vie d’uscita approfondirne l’entitàè compito dell’odologia, il sapere che coniuga sguardo universale ontolo-gico e individualità fenomenologica. In questo tipo di approccio la filoso-fia da sola non basta, ma, come detto, deve confrontarsi con le altre scien-ze che si confrontano con la singolarità dell’individualità situazionaleumana, sia da un punto di vista biologico, che storico, che politico ecc.Il cammino di ogni «inesperto uomo di terra»66 diventa così il vero abita-re poetico.

Nonostante incommensurabili distanze, per Mazzarella sia poesia chefilosofia devono porre al centro di un orizzonte ontologico l’unicità dellavita dell’uomo. In Opera media tutto questo avviene nella distanza di unosguardo compassionevole, coinvolto ma non travolto dal continuo stupo-re di fronte al tanto dolore e alla tanta intensità che sempre implica ognicosa che accade. L’io lirico nomina se stesso, in una delle definizioni piùriuscite, come «battello non ebbro», che «ha navigato tutte le sue ac-que»67, individuando la propria identità in un’incolmabile lontananza conuna poesia “giovane” di rimbaudiana memoria, intesa come una poesiain cui la resa dei conti con se stessi può essere tale solo annullando sestessi.

Mazzarella è invece alla ricerca di una radicalità sostenibile, di unaresa dei conti che non annienta, ma fortifica l’io, capace di congiungere daun lato la continua sfida con se stesso e con la vita, totale, risoluta e risolu-tiva, e dall’altro la presa di distanza più irriducibile. Nella sua opera poeticaconvive questa contraddizione che è sia mediazione che estremizzazione,contraddizione che la scelta del titolo, Opera media, chiaramente sbilanciatasulla possibile mediazione tra questi due estremi – quella che abbiamo defi-nito l’intimità con la distanza –, non può ancora sciogliere. Lo stesso autore

no», in M. HEIDEGGER, Che cosa significa pensare?, tr. it. di U. M. Ugazio e G. Vatti-mo, SugarCo, Milano 1979, vol. II, p. 136.

65 E. MAZZARELLA, Vie d’uscita, cit., p. 59.66 ID., Opera media, cit., p. 52.67 Ivi, p. 72. Il verso esatto recita: «ora che so tante cose / che battello non ebbro

/ ho navigato tutte le mie acque».

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definisce tale resa dei conti «un bilancio di sopravvivenza»68, la compensa-zione necessaria di fronte a forze impari e spesso ostili: «nega ogni cosache nasce / ogni altra cosa / e il fiore uccide / la terra di cui vive»69.

Con il nichilismo si tenta di convivere proprio così, non rifiutando difronteggiare l’eccesso della radicalità, ma cercando di attraversare il passoche ci aspetta senza cedere alle lusinghe del radicalismo. Mazzarella è sem-pre stato più incline alla faticosa distanza apollinea che all’osmotica vici-nanza dionisiaca, più propenso a un equilibrio sull’abisso che a un abban-dono al tragico, più orientato a una distanza che comprende che a una vici-nanza che tutto vuole conoscere. Considerato che Apollo e Dioniso sono difatto due espressioni diverse dello stesso mito70, «due aspetti della stessa fi-gura»71, ossia quasi due facce differenti della stessa persona, tale prospettivaè più vicina a quanto di Dioniso c’è in Apollo che viceversa. Perché il pro-blema di Nietzsche è stato soprattutto questo: la tragedia non inizia con lamorte di Dio, ma con l’individuazione nella diade apollineo-dionisiaco del-l’essenza conflittuale dell’essere, del mondo e dell’uomo. Nel momento incui è nella musica che l’uomo trova la verità della sua sapienza e quindidel suo stesso dolore – nella musica che è evidentemente attimo estatico,possesso traditore e assoluto di sé, immagine trasfigurata del pensiero – ini-zia il nichilismo. Non a caso Ernesto Grassi conclude il suo mirabile scrittointroduttivo all’opera più nietzscheana di Mazzarella, Il singolare tenace,con queste parole: «Stringi invano nel pugno il sensibile, il corpo, sentisolo la musica»72.

Apollo è il dio della musica. Dioniso è la musica stessa. Nietzsche nonpoteva che soccombere, ma non di fronte agli altri per aver sancito il nichi-lismo come verità dell’esistente, ma di fronte a se stesso per aver cercatonella musica la purezza.

68 Ivi, p. 85. Questa raccolta è assai retrospettiva, molto ripiegata nell’«infinita ca-scata / dei ricordi» (ivi, p. 18), quella dimensione in cui tuttavia è possibile rintracciarese stessi solo contestualizzando sé ogni momento in mezzo alle persone e ai luoghi.

69 Ivi, pp. 45 ss.70 «Così si potrebbe in realtà simboleggiare il difficile rapporto fra l’apollineo e il

dionisiaco nella tragedia con un legame di fratellanza fra le due divinità: Dioniso parlala lingua di Apollo, ma alla fine Apollo parla la lingua di Dioniso. Con questo è rag-giunto il fine supremo della tragedia e dell’arte in genere», in F. NIETZSCHE, La nascitadella tragedia, a cura di G. Colli e S. Giametta, Adelphi, Milano 199415, p. 145. Si cfr.su tale questione almeno M. DETIENNE, Apollo con il coltello in mano, Adelphi, Milano2002; ID., Tra Dioniso e Apollo. Lo scambio delle maschere, La Conchiglia, Capri 2010.

71 G. RACITI, Mechane. Hegel, Nietzsche e la costruzione della ‘illusione’, Guida,Napoli 2000, p. 53.

72 E. GRASSI, Esperienza non conoscenza. La poesia, in Il singolare tenace, cit., p. 15.

Una radicalità sostenibile 251

La Nascita della tragedia è la prima e ultima opera di Nietzsche. Il Dio-niso lacerato, il dio destinato a risorgere dai suoi brani anticipando di fatto laresurrezione del racconto evangelico, ritorna: «Dioniso fatto a pezzi è unapromessa di vita; la vita rinasce in eterno e ritornerà in patria, tornerà dalladistruzione»73. È questo il mito che prescrive la necessità del nichilismo:quello che ritorna è l’impossibilità del dire, il tradimento della parola che siscioglie nell’impeto bacchico, nel furore dell’esistenza che tormenta se stes-sa. Anche l’eternità in Nietzsche si tinge del colore oscuro del nichilismo.

La lotta tra Apollo e Dioniso, infatti, non lascia scampo. Solo Orfeopuò mediare tra i due74. Solo la poesia può contenere in un orizzonte ilprofilo di quello di fronte al quale, come è stato detto una volta e per sem-pre da Eraclito, non ci si può nascondere perché non può mai tramontare75.Ma non è un caso che la poesia per Nietzsche rischia troppo spesso di es-sere illusione sontuosa e formalismo troppo celebrato. Dioniso, infatti, can-ta. Nietzsche sembra aver decretato una volta e per tutte che musica e poe-sia non possono essere lo stesso: è qui dunque che attecchisce la radice piùprofonda del nichilismo, è qui che per l’uomo l’unica possibilità di “reden-zione” è l’attimo rapito dell’estasi dionisiaca che solo nella musica puòdavvero realizzarsi. Non si tratta soltanto della naturale esaltazione dellamusica, ma anche della possibile, consequenziale mortificazione della poe-sia: la parola e l’immagine impongono all’uomo l’individuazione di certez-ze che non corrispondono all’essenza oscillante e transeunte del vivente,mentre la musica smaschera il fondo illusorio di ogni velleità definitoria. Èper questo motivo che il progetto nietzscheano non può essere seguito finoin fondo se non dal solo Nietzsche.

Siamo di nuovo giunti a un punto decisivo di tutto il percorso mazza-relliano: il confronto con Nietzsche. È noto il rapporto conflittuale del filo-sofo tedesco con la poesia76: pur non riuscendo, a causa del suo indubitabi-le e geniale talento letterario, a non scrivere in forma poetica alcuni deisuoi scritti in prosa, e pur componendo egli stesso, in qualità di «animalescaltro, predace, sgusciante»77, opere in versi, spesso riconosce nella soprav-

73 F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Bompia-ni, Milano 20014, p. 554.

74 Cfr. S. VENEZIA, Il linguaggio del tempo. Su Heidegger e Rilke, cit., pp. 351 ss.75 Cfr. G. COLLI, La sapienza greca. III. Eraclito, cit., pp. 94 s.76 Rapporto contraddittorio che si evince ad esempio quando Nietzsche parla del-

l’«irrazionalità barbaramente bella della poesia», in F. NIETZSCHE, La gaia scienza, acura di G. Colli e F. Masini, Adelphi, Milano 200113, n. 84, p. 121.

77 Ovvero in qualità di «giullare soltanto! Soltanto poeta!», in F. NIETZSCHE, Cosìparlò Zarathustra, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 199820, p. 347.

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valutata ammirazione per la poesia un sopruso di bellezza. Sopruso che inquesto caso non rafforza l’uomo, anzi, lo inganna e lo indebolisce tramitefacili consolazioni e consolatori abbagli.

Mazzarella si pone contro tutto ciò: per lui la parola non è tradimento,ma necessaria testimonianza. Per Nietzsche non esiste la necessità della te-stimonianza, della condivisione, e quindi si potrebbe pensare che non esistela necessità della poesia. Oltre che nella sua impostazione filosofica, la di-stanza da Nietzsche si misura anche nella sua opera poetica.

Da un’esigenza prettamente anti-nietzscheana scaturisce l’ancoraggioalla metafisica cui si richiamano i saggi raccolti nel volume intitolato Vied’uscita. La metafisicità che qui viene elaborata non risulta ‘contenutistica’,bensì, come esplicita il titolo, programmatica. Abbiamo, infatti, già avutomodo di constatare che tale metafisicità si fonda sull’essere-alla-vita, sul-l’originaria apertura biologica del vivente. Nella necessità di far diventarel’essere-alla-vita un paradigma ontologico si scorge l’istanza di non lasciarealle scienze il compito di agire sul vivente senza ragionare sul suo fonda-mento. Metafisico in questo caso non è sinonimo di ultraterreno, ma di on-tologicamente cogente nel suo vincolo biologico.

Gli sviluppi dell’ultimo Mazzarella segnano dunque un abbandono diNietzsche, la cui presenza si avverte forte e inaggirabile non solo nelle ana-lisi monotematiche di Nietzsche e la storia78 e in generale in tutti i testi te-oretici, ma anche, come abbiamo visto, nei componimenti poetici soprattut-to de Il singolare tenace. Tuttavia l’abbandono è da intendersi sempre insenso heideggeriano: un lasciare essere ciò che primariamente è nella diffe-renza e nella lontananza. Anche perché il problema per Mazzarella non èquello di superare Heidegger tramite Nietzsche, così come, si potrebbe direnon senza forzature, è frequente fra non pochi anti-heideggeriani, come adesempio in Derrida e Sloterdijk. Il problema è superare l’opposizione traHeidegger e Nietzsche, ambizioso progetto finora non ancora realizzato.Anche perché, mentre per Heidegger il ‘travisamento’ di Nietzsche consiste

78 Cfr. E. MAZZARELLA, Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della vita, Gui-da, Napoli 2000 (seconda edizione accresciuta). In questo testo il pensiero nietzschea-no è ripercorso a partire dall’ontologia della vita propria dell’iniziale metafisica del-l’artista fino ad attraversare sia la «fondazione di una teoria della storicità» (ivi, p. 18)che il superamento di un prospettivismo ‘logico’ a favore di uno ‘etico-pratico’, perpoi approdare alla deriva nichilistica della filosofia della liberazione zarathustriana.Tutti questi fili teoretici sono riannodati alla luce della lotta che il pensiero nietzsche-ano stesso ha compiuto contro una sua insita ambiguità romantico-storicistica parados-salmente acquietata solo nel vitalismo nichilistico di un’umanità condannata a essereall’altezza di se stessa.

Una radicalità sostenibile 253

nella pretesa di elevare l’apparenza a essere e quindi di entificare la superfi-cie immanentistica del legame tragico con la terra in un fondamento sostan-zialistico di stampo metafisico, per Mazzarella consiste essenzialmente nel-l’aver cercato una radicalità non sostenibile.

Siffatta istanza di metafisicità è dunque insita nella lettura ontologicadelle «ricadute ontiche»79 dell’umano, e non quindi in istanze ultraterrene,in questioni religiose e teologiche che pure rappresentano, come è noto, unaltro nodo gordiano del pensare e del poetare di Mazzarella. Fin dalla pri-ma raccolta poetica, infatti, la strenua lotta dell’io lirico per emergere dallapropria impossibilità di uscire da se stesso è presieduta da un Dio cosìenormemente vicino nella sua lontananza, «maestro di mancanza»80, eppureassenza che parla e che consola. Solo la distanza apre un accesso a un Dioche, come quello di Hölderlin, è difficile da afferrare: Nah ist / Und schwerzu fassen der Gott81. È quest’assenza di Dio a irrompere continuamente inmaniera sistematica nei componimenti mazzarelliani: «il dio dell’ignoto èsapiente»82.

Il riferimento all’angelo rilkiano in questo caso è inevitabile: «Cantal’angelo del finito»83. Così come l’angelo delle Duineser Elegien presiede laverità come finitezza dell’immanenza, questo angelo del finito, «l’imprecisoangelo del niente»84, non attesta nessuna superiorità ontologica della trascen-denza, benedicendo tutto ciò che sulla terra può non pensare e quindi anchenon soffrire, l’«invidiata condizione / che è vento, che è energia»85: «se lamia vita fosse / il prato, il bosco, il fiume ... »86. Dunque, l’essenza del divi-no diviene un modo non per allontanarsi dall’immanenza terrena, ma perappropriarsi di essa nella distanza in maniera viscerale, assoluta, così come idivini e i mortali nella quadratura del Geviert heideggeriano si coappartengo-no solo nella loro incommensurabile corrispondenza intrisa di lontananza.

79 Cfr. ID., Ermeneutica dell’effettività. Ricadute ontiche dell’ontologia heidegge-riana, cit.

80 E. MAZZARELLA, Il singolare tenace, cit., p. 35.81 «Prossimo / è il Dio e difficile è afferrarlo», in F. HÖLDERLIN, Patmo, in Liri-

che, a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1982, pp. 666 s.82 E. MAZZARELLA, Opera media, cit., p. 44.83 ID., Il singolare tenace, cit., p. 24.84 Ivi, p. 25. Numerosi riferimenti all’angelo sono presenti anche nella raccolta

successiva Un mondo ordinato, quando l’autore parla sia di un «angelo freddezza»(ivi, p. 54), che dell’«angelo freddo della ragione» (p. 45), ma anche di un «grandeangelo del mondo» (p. 30) «che non può avere pietà» (p. 32). Si cfr. inoltre la poesiaintitolata proprio L’angelo (p. 36) e quella intitolata Visitazione (pp. 32-33).

85 Cfr. n. 82.86 ID., Opera media, cit., 19.

254 Simona Venezia

Arriviamo in questo modo a un altro punto decisivo: pur essendo lapoesia di Mazzarella stata definita «una teologia in forma di domanda iro-nica e rassegnata»87, in realtà il suo discorso poetico è più incline al religio-so che al teologico: «in questo invano si apre l’essere concreto – Io; lo spa-zio che lo consente è il fuoco che lo consuma, il fuoco da corrispondereper riempire tutto quello spazio, l’angoscia dell’invano. In questo senso lapoesia è sempre religiosa»88. La prospettiva è chiara: mentre nell’opera filo-sofica Mazzarella si cimenta, come è noto, in riflessioni sul rapporto tra te-ologia e filosofia, nell’opera poetica non c’è spazio per la teologia, ma soloper una forma di ‘religione’, che sarebbe in realtà più esatto definire ‘sensodel religioso’. Non è un caso che quando parla di teologia Mazzarella lofaccia esplicitamente, affrontando direttamente la questione. I titoli di alcunisuoi scritti (Teologia e filosofia di fronte a Cristo89 in primis) dimostranoampiamente che interventi su questioni teologiche non vanno cercati altroverispetto ai luoghi individuati dallo stesso autore.

Sul versante poetico si delinea dunque il perimetro di uno spazio delreligioso inteso nel senso di re-ligio, legame che prescinde da regole o pro-messe di redenzione proprie della teologia: «re-ligio è re-integrazione. Sen-tirsi in una qualche misura reintegrati nel cosmo, in un senso che va al dilà di questo momento qui, dove io sono, e solo per adesso»90.

Ma cosa vuol dire che la poesia è essenzialmente religiosa e non te-ologica? Nel caso delle poesie di Mazzarella può significare proprio quellodi cui abbiamo parlato finora: a parlare non è la vicinanza di Dio, ma lasua assenza, la sua ineluttabile mancanza91: «fosse dio il mio compagnopiù vero / in questo niente»92. Il religioso indica l’immensa vicinanza del-

87 D. DEL GIUDICE, Opera di mezzo, cit., p. 8.88 E. MAZZARELLA, Sulla Poesia. I. Frammenti, cit., p. 71.89 Cfr. ID., Filosofia e teologia di fronte a Cristo, Cronopio, Napoli 1996, conflu-

ito successivamente in Pensare e credere. Tre scritti cristiani, Morcelliana, Brescia1999 (pp. 17-37). La celebre affermazione di Dostoevskij secondo la quale è preferi-bile seguire Cristo in ogni caso, anche se non fosse la verità, ripresa in questo testo(p. 17), non è indice di un paradosso. Non indica per antitesi che Cristo è la verità,ma al contrario che la questione di Cristo non è una questione di verità. Mentre ilpensare deve sempre interrogarsi sulla verità in quanto qualcosa ad esso necessaria-mente estraneo, il credere è già verità e, quindi, destinato a sottrarsi a tale domanda ea ogni successiva, possibile attestazione.

90 Ivi, p. 24.91 Anche in questo caso si odono stentorei echi heideggeriani, basti ricordare la

rilevanza che viene riservata al celebre verso della poesia hölderliniana Heimkunft cherecita: es fehlen heilige Nahmen, mancano nomi sacri. Cfr. almeno M. HEIDEGGER, DerFehl heiliger Namen, in Aus Erfahrung des Denkens, cit., pp. 231-235.

92 E. MAZZARELLA, Un mondo ordinato, cit., p. 57.

Una radicalità sostenibile 255

l’assenza di Dio, la tangibile prova dell’abbandono, l’attestazione di uncongedo non concordato eppure irremovibile. Questo spazio del religioso,quasi del tutto sottratto a un giustificazionismo di tipo teologico, si muo-ve nell’ambito della tematica del sacro heideggeriano, di una dimensionealtra rispetto all’umano pur non essendo ancora qualcosa di divino. Il sa-cro per Heidegger non è «un’illuminazione mistica, un’estasi abbaglian-te»93, ma una variante ontologica di quella nominazione [Nennen] che,secondo la celebre tesi del pensatore che pensa l’essere e del poeta chenomina il sacro94, è compito esclusivamente del poeta.

Mazzarella è convinto della necessaria autonomia di filosofia, poesia eteologia95: è per questo che il religioso che anima le sue poesie assomigliadecisamente più al sacro heideggeriano che a uno statuto teologico di salvez-za. E non è un caso che è proprio la tematica del sacro a essere posta al cen-tro delle sue riflessioni sulla bioetica e, appunto, sulla «sacralità della vita».La declinazione ontologica dell’umano va innestata nel campo del biologico,mai disgiunta da una storicità intesa come inaggirabilità situazionale dell’irri-petibilità della vicenda esistenziale di ogni individuo. Soprattutto in questasua declinazione ontologica, il sacro è prima di ogni cosa «tentativo di ab-bracciare il Tutto, computo delle Ombre»96: è questo il senso religioso cheMazzarella intravede come compito della poesia, computo delle ombre, elen-cazione degli abissi quotidiani che rendono l’uomo capace di affrontare gra-zie alla resistenza del linguaggio la propria vicenda biologica e storica. Cosìcome il cosiddetto secondo Heidegger si interessa maggiormente del “reli-gioso” più che della religione, anche Mazzarella sembra coinvolto più da unareligiosità intesa come senso dell’esistere, che come attestazione di una veri-tà ultraterrena che in qualche modo debba essere dimostrata.

Più che negli scritti teoretici, nei componimenti lirici non c’è spazioper forme dottrinali: anche Nietzsche – il grande accusatore dell’ipocrisiainsita nella pedissequa accettazione della religione intesa come consolazionee fonte di certezze a basso costo, e per questo il grande avvocato della vita,di una vita “voluta” come volontà di potenza –, affermava che «Das Chri-stentum ist eine Praxis, keine Glaubenslehre. Es sagt uns wie wir handeln,

93 L. AMOROSO, Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenberg & Sellier, Torino 1993,p. 44.

94 «Il pensatore dice l’essere. Il poeta nomina il sacro», in M. HEIDEGGER, Poscrit-to a «Che cos’è metafisica?», in Segnavia, cit., p. 266.

95 È per questo motivo che non è possibile affermare che «il conflitto di teologia,filosofia e poesia “viene a cadere”», così come si legge in C. RICCIO, Della poetica fi-losofia. L’opera di Eugenio Mazzarella, cit., p. 503.

96 E. MAZZARELLA, Sulla poesia. I. Frammenti, cit., p. 71.

256 Simona Venezia

nicht was wir glauben sollen»97. Dunque il Cristianesimo è una prassi, enon una teoria, è un modo di condurre l’esistenza, e non una speculazionesu di essa, una trasformazione che sconvolge l’anima, e non una discetta-zione sulla possibilità di farlo. Nell’esperienza dell’esistenza cristiana perMazzarella si intravede in maniera radicale l’essenza di una finitudine sal-vata, ma totalmente immersa nella labilità dell’attimo cairologico, che diceil tempo nella verità della perdita. La fenomenologia della vita del Cristia-nesimo, inteso come autentica apertura alla temporalità dell’esistenza lonta-na da burocratizzazioni e istituzioni, pur non essendo «das gleiche» di poe-sia e filosofia, constata al pari di queste ultime che l’unica verità dell’uomo[dasselbe] su questa terra è in ultima analisi la sua radicale, non riscattabilefinitudine: «l’uomo è segno, e come tale un dicente che indica: e indica al-l’essere fino al suo ritrarsi, al nullificarsi del nulla»98.

Di fronte alla radicalità di tale irrevocabile finitudine, alla vicinanzacontinua della morte che ci impedisce di progettare l’eternità, ma anche diripudiare il transeunte, il compito del poeta è quello di non farsi ingannaredalla rabbiosa assolutezza dell’indicibile, ma di combattere per far emergerela dolorosa persistenza del dicibile. Un grande poeta come Brodskij scrive:«... più difficile che sparire è riaffiorare»99, perché più difficile che abban-donarsi all’impeto nichilistico della rinuncia, sparire in un cupio dissolviche alla fine rischia di non fare nient’altro che assecondare fragili vanità, èriaffiorare nella parola, dire il dolore che pure può annichilire l’esistenza,ma una volta detto ci schiude sempre il senso di qualcosa che è altro daldolore stesso. A sparire è sempre uno solo, ma per riaffiorare c’è semprebisogno di qualcuno che potrebbe ascoltarci, o anche solo di qualcuno percui valga la pena farlo.

La tensione tra sparire e riaffiorare indica la continua ricerca di una ra-dicalità sostenibile, la possibilità di incontrare ciò che per sua natura nonincontra, ma travolge, cercando di non rimanerne annientati. Una radicalitàsostenibile è quell’assolutezza che non annichila, ma neanche salva. Senzala consolazione, ma neanche il peso, di valutazioni universalistiche o di re-tribuzioni ultraterrene, il compito è quello di non farsi atterrire dal radicaleazzeramento del pensare comune di cui pure è capace la poesia. Perchésolo i poeti sanno che per non rimanere schiacciati dalle macerie del palaz-zo che da se stessi si è distrutto non basta uscire prima del crollo.

97 «Il Cristianesimo è una prassi, non una dottrina. Ci dice come comportarci, noncosa dobbiamo credere», in F. NIETZSCHE, Aus dem Nachlaß der Achtzigerjahre, in Werkeund Briefe, vol. 3, a cura di K. Schlechta, Hanser Verlag, München 19933, pp. 639 ss.

98 E. MAZZARELLA, Tecnica e metafisica, cit., p. 201.99 I. BRODSKIJ, Poesie italiane, a cura di S. Vitale, Adelphi, Milano 1996, p. 87.

Una radicalità sostenibile 257

Per concludere vorrei riprendere l’esergo con cui ho iniziato: «Chi in-segna non è il migliore. È utile. Insegna agli altri. Non che siano come lui,ma che siano diversi da se stessi – questo è loro utile»100. L’insegnamentodi Eugenio Mazzarella non è da rintracciare solo nella profondità delloscandaglio teoretico, e in generale nella sapienza del magistero, ma anchenel suo desiderio di non voler cambiare i propri allievi, di rispettare scelteanche quando non condivise, di accettare evoluzioni speculative e personali,pur se non immediatamente contigue al proprio modo di pensare. Lungimi-ranza e cura per la libertà di non diventare come lui, pur di diventare real-mente altro rispetto a un’idea stereotipata e rinunciataria di se stessi: anchequesto mi ha insegnato il mio maestro. E anche in questo spero un giornodi potergli somigliare.

100 Cfr. supra, nota n. 1.

258 Simona Venezia

Una radicalità sostenibile 259

La parola poetica di Eugenio Mazzarella*

Vincenzo Frungillo

Come esistenza, l’individuo è sempre la sporgenza sullasuperficie liscia della legge, che a toccare possiamo farci male.

Eugenio Mazzarella nei suoi scritti insiste su un punto: la conoscenza elo scandaglio teoretico hanno senso se attraversano il nodo doloroso e sen-ziente che è ogni singolo individuo. La sola ricerca non conta, bisogna ave-re altri mezzi, altri strumenti per giungere al cuore delle questioni. La poe-sia ha avuto questo ruolo nella sua attività di pensatore e di intellettuale, letre raccolte di versi Il singolare tenace, Un mondo ordinato e Opera medialo testimoniano. Lì dove i saggi dicono e puntualizzano, si ritrae un’ombrache prende parola nei versi. Già Ernesto Grassi scriveva:

«Poesia come esperienza non come conoscenza: la conoscenza fissa, defini-sce l’esperienza, patisce il continuo mutare, trasformarti, non essere in brac-cio ad una facoltà deduttiva ma inventiva nel senso di in-venire in radicaleantitesi all’in-ventare soggettivo. Perciò esperienza piena di meraviglia perl’apparire che si impone che non è da noi scelto, appunto passione lontanada ogni invenzione»1.

I versi della poesia il cielo sopra Berlino/ autobus 185, presenti nellaprima raccolta, Il singolare tenace, recitano:

* Questo breve intervento cerca di chiarire quelli che sono per me alcuni puntinodali della poesia di Eugenio Mazzarella, ma allo stesso tempo vuole introdurre lapoesia che segue. Il testo in versi liberi che presento è un omaggio alla relazione ma-estro-allievo. Spero che i versi possano completare quanto qui ho solo accennato. Rin-grazio l’amico Nicola Russo che chiedendomi di partecipare a questo volume mi hadato l’occasione di esprimere il mio riconoscimento, il mio affetto e i miei auguri piùsinceri al Professore e maestro Eugenio Mazzarella.

1 E. GRASSI, Esperienza come conoscenza. La poesia, prefazione a E. MAZZARELLA,Il singolare tenace, I quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme 1993, p. 12.

260 Vincenzo Frungillo

le mani della carnesi contendono il reale e le parolelo spazio d’assalto del cuoree il fermo battito vuole

nella mia stanza è entratoun uccello che sa starevestito di silenzioe gioca con un pazzo domatoredi leoni e di cervi e senza fede

stupida parola che tormenti!saperti dire!tutto resta solol’albero il niente il soletutto acceca

l’angelo dell’impotenza mi ha toccato2

In queste strofe l’esperire è possibile grazie alla parola poetica, la paro-la senziente per definizione; l’impotenza è proprio l’incapacità del soggettod’inventare ossia di predisporre l’evento umano. La poesia è alleata del si-lenzio, in modo intimo, ma è anche e soprattutto il compito di dire il mon-do, essa deve farsi tramite tra l’essere, l’invio di senso di ogni epoca, e ilsingolo uomo calato in un sistema di significati comunemente accettati; lavera poesia mantiene questo rapporto sempre e comunque in potenza.

«È questo “muro” che l’Io lirico dell’ultima modernità è chiamato la suaparte a riedificare, il centro di un universo spirituale che metta in relazioneio e mondo, interno ed esterno: bussando a questo muro, a trascendere co-munque il suo mondo in un più vasto mondo spirituale, una città dello spiri-to – da costruire nonostante tutto [...]»3.

Tutta la produzione di Mazzarella focalizza questo rapporto, anche sele raccolte più recenti sembrano avere una maggiore attenzione per la cru-dezza del quotidiano, le immagini e le metafore sono meno eteree e metafi-siche. Leggiamo ad esempio nella raccolta Un mondo ordinato la poesiaQuello che sono:

2 Ivi, p. 573 E. MAZZARELLA, Lirica e poesia, Morcelliana, Brescia 2007, pp. 36-37.

La parola poetica di Eugenio Mazzarella 261

induriscocome indurisce intimo di pietra -sento il battito esternoindifferentecome guardassi ai vetriil mondo delle pioggechiuso a un altro pensiero, ad esso intentocome sterpi e a passi l’ansia del riparo

indurisco,e come pietra tenera mi spezzoalla carne dell’animaalla voce4

Così avviene anche nella raccolta più recente Opera media in cui ilfuoco dell’attenzione sembra essere più rivolto al mondo con le sue sventu-re: qui si riconoscono gli influssi degli autori che sono più vicini per ispira-zione ad Eugenio Mazzarella, il Mario Luzi dell’ultima produzione, da Nelmagma in poi, e il Vittorio Sereni con la sua metafisica quotidiana. Mazza-rella si rivolge alle “opere intermedie”, ossia le opere che stanno al mezzotra quelle «vive di Dio» e «le morte compiute indipendentemente dall’ispi-razione della fede», così come suggerisce Daniele Del Giudice nella bellaprefazione al volume. La voce del poeta è rivolta a coloro che vivonol’esperienza dello svuotamento del nome di Dio, così ad esempio recitanodei versi del componimento Funerale:

[...]entrare con le insegnecome un antico renel proprio nientepieno nella forzanon consumatoprima dell’oltraggio5

La ruvidezza del mondo si fa più presente, la parola poetica si manife-sta come battaglia combattuta sul posto, come lotta di posizione con quantosi rischia di tacere; la poesia diventa la tecnica sottile del dispiegamento, unesercizio d’equilibrio, perciò anche un necessario e costante apprendistatoetico.

4 E. MAZZARELLA, Un mondo ordinato, Palomar, Bari 1999, p. 46.5 ID., Opera media, il Melangolo, Genova 2004, p. 62.

262 Vincenzo Frungillo

Scivola sull’acqua di notteSilenzio che si muoveLa mia naveCome avesse una metaSicura nell’ignoto

Vedo capiscoNuoto l’elementoIl puro movimentoChe sottendeL’arco l’orizzontePlenilunio del mondoPiena e sola e dipintaÈ la mia notte6

Questa bella poesia che chiude l’ultimo volume di versi pubblicato fi-nora da Mazzarella, sembra essere commentata dallo stesso autore in un’in-tervista rilasciata poco dopo l’uscita del libro:

«parla della linea mediana, dalla linea di galleggiamento delle imbarcazioni,qui il legno storto del vivente, dove oscilla il margine segnato dalle onde tral’opera viva della barca, la parte sommersa e indispensabile, e l’opera mortache emerge dall’acqua [...] Insomma è il luogo dell’indecisione, dove ognivolta si decide tutto per ognuno di noi, la vita che ci è data»7.

La parola poetica è un percorso, un cammino che ha delle regole maiassolute o definitive, e come tale Eugenio Mazzarella me l’ha trasmessa.

6 Ivi, p. 84.7 E. MAZZARELLA, Mazzarella: la poesia, un cerotto sull’anima, intervista con Na-

tascia Festa, in «Corriere del Mezzogiorno», 2004.

La parola poetica di Eugenio Mazzarella 263

La parte mancante

ad Eugenio Mazzarella

Aspetto chi trasformi il nostro vuoto in spazioe anche se conosco il rimpiantoper le mille possibilità tradite prendo posto.Siedo vicino a chi mastica il suo spirito.Mi dice che la nostra parte peggioreè la memoria, “e la parte migliore?” Mi chiede.“La carne con le sue ferite”, risponde.Poi aggiunge che le due parti vivono insieme,

l’una nell’altra come un quadro e la sua cornice.(Entri il mondo, entri il tempo,faccia il suo ingresso, faccia il suo corso.Fuori dall’aula non viene nessuno.Il quarto d’ora accademico diventa un secolo.)Ricordo per l’occasione i poeti inglesi,giovani tornati dal primo conflitto senza arti,ricordo l’immagine d’una cerimonia

mentre un uomo mostra la sua gamba monca,sono poeti poco citati, da noi poco studiati,dicevano cose semplici, senza retoricacome l’Ungaretti dei Naufragi. Non ho mai smessod’ascoltare la loro parte mancante.“Sono tante le cose che vi dirò da qui alla fine,ma solo una vale: prendete da me solo ciòche non vi assomiglia”. Le sue parola sono una conferma.

Bisognerebbe scrivere un galateo dei silenzi,sottolineare che ce ne sono di diversi,dai più bassi e volgari ai più alti e religiosi,che i due estremi si toccano, si tengono insieme,che in questa tangenza rientra ogni nostra forma.Eppure la nostra natura è fatta di parole,la nostra natura è tradire, spostare l’ombra,risanare ogni volta l’assenza che ci forma.

264 Vincenzo Frungillo

In questo meccanismo se una parte eccede sull’altraci sarà un rumore di fondo come di cinghiache esce dalla sua puleggia, ci sarà un’ecovalido per tutta la specie. Capisco allora la sfidadi chi accetta la distonia perché nel corpo,ma anche in cielo, nello spazio universo,all’azione risponde già sempre una reazionecontraria e inversa, e si può far finta di non sentire,

dissimulare, che non è tradire, ma poi capitache il cordone ombelicale della regola primanon si stacchi mai del tutto (questa è un’utopia)che riprenda la frustrazione, la malattia,il fruscio di fondo della macchina,il suo motore che continua ad andare,ci unisce gli uni agli altri anche se con gli annici sentiamo sempre più soli e distanti.

Ma tentare però bisogna tentare,perché il vuoto valga per ciò che vale,resti una variante, sia lo sguardo pulsante,ci distragga per un solo istante, ci porti a fondo,ci porti a trasformare il tempo in spazio,in camere e strofe, ci ricordi le parole,la nostra scommessa finale. “Una volta Celanchiese al maestro l’ultima parola.

Heidegger rimase scosso da tanta innocenza”.Cerco di ripetere una regola, un’equazione:

non si dice ciò che ci precede.E allora si pone sulla bilancia la propria vita(e la propria morte), chi tenga in equilibrio il tuttonon si conosce; la chiamo meccanica pesantequesto stare fermi a guardare il sistema di levein cui sei entrato senza far rumore.

La parola poetica di Eugenio Mazzarella 265

Nota bio-bibliografica

a cura di Simona Venezia

Eugenio Mazzarella nasce a Napoli il 26/06/1951. Dopo essersi laurea-to presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II” con il prof. AldoMasullo, inizia la sua attività di ricerca come borsista DAAD in Germaniae successivamente presso l’Università di Salerno. In seguito è professore in-caricato di Estetica presso l’Università dell’Aquila. Dopo essere stato pro-fessore associato di Filosofia Teoretica presso l’Università di Catania e diFilosofia della Storia presso l’Università di Napoli “Federico II”, diventaprofessore straordinario di Storia della filosofia presso la Facoltà di Magi-stero dell’Università di Salerno e dal 1993 professore ordinario di FilosofiaTeoretica presso l’Università di Napoli “Federico II”. Dal 1995 al 2005 di-rige il Dottorato di Ricerca in “Scienze Filosofiche” dell’Università di Na-poli “Federico II” e dal 1999 al 2005 cura la programmazione e le relazioniinternazionali per la Facoltà di Lettere e Filosofia, di cui è Preside dal 2005al 2008. Nel 2008 viene eletto deputato del Parlamento italiano, divenendocomponente della VII Commissione Cultura della Camera. Membro di pre-stigiose istituzioni accademiche e culturali, organizzatore e relatore in occa-sione di numerosi convegni, è inoltre autore di dieci monografie, di oltre140 pubblicazioni scientifiche e di oltre 1000 interventi di taglio pubblici-stico. Dal 1976 è editorialista di varie testate nazionali: «Roma», «La Re-pubblica», «La Voce» di Montanelli, «Il Corriere del Mezzogiorno» e «IlMattino». È stato inoltre Presidente del Consorzio Editoriale Fridericiano,direttore scientifico della Guida editori, consulente scientifico di diversecase editrici, redattore e direttore di riviste scientifiche.

Ha composto tre raccolte di poesie, e pubblicato singoli componimentiin diverse antologie. Nel 1974 è stato finalista al Premio di poesia “Città diVita”, Firenze; nel 1998 ha ricevuto il «Premio Capri/San Michele» per ilvolume Sacralità e vita, nel 1999 il Premio Speciale “La finestra” al Pre-mio Nazionale di poesia “Alessandro Tanzi” per il volume Un mondo ordi-nato, e nel 2005 ha ottenuto la menzione speciale per la sezione “Saggi”del premio di filosofia “Viaggio a Siracusa” per il volume Vie d’uscita.

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Pubblicazioni scientifiche di Eugenio Mazzarella 267

Pubblicazioni scientifiche di Eugenio Mazzarella

Monografie

1. Vita politica valori. Sensibilità individuali e valori comunitari, Guida, Napoli2010, pp. 112;

2. Lirica e filosofia, Morcelliana, Brescia 2007, pp. 83;3. Vie d’uscita. L’identità umana come programma stazionario metafisico, il

melangolo, Genova 2004, pp. 191;4. Pensare e credere. Tre scritti cristiani, Morcelliana, Brescia 1999, pp. 90;5. Sacralità e vita. Quale etica per la bioetica?, Guida, Napoli 1998, pp. 80;6. Filosofia e teologia di fronte a Cristo, Cronopio, Napoli 1996, pp. 41;7. Ermeneutica dell’effettività. Prospettive ontiche dell’ontologia heideggeriana,

Guida, Napoli, 1993 (20022), pp. 220;8. Storia metafisica ontologia. Per una storia della metafisica tra otto e nove-

cento, Morano, Napoli 1987, pp. 220;9. Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della vita, Guida, Napoli 1983,

pp. 189 (ed. accresciuta 20002, pp. 235);10. Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger, Guida, Napoli 1981 (20022), pp.

333 (seconda edizione, pp. 372).

Raccolte di poesie

11. Opera media, prefazione di D. Del Giudice, il melangolo, Genova 2004, pp.95;

12. Un mondo ordinato, con uno scritto di G. Ravasi, Palomar, Bari 1999, pp.95;

13. Il singolare tenace, con uno scritto di E. Grassi, I Quaderni del Battello Eb-bro, Porretta Terme 1993, pp. 70.

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Articoli e saggi

14. Tra etica e norma: il dibattito sul ‘fine vita’, in R. BONITO OLIVA, A. DONISE,E. MAZZARELLA, F. MIANO (a cura di), Etica antropologia religione. Studi inonore di Giuseppe Cantillo, Guida, Napoli 2010, pp. 75-90;

15. Worldly Nihilism and Theological Nihilism – A Possible Definition, in E. CA-RAFOLI, G. A. DANIELI, G. O. LONGO (eds.), The Two Cultures: Shared Pro-blems, Springer, Milano 2009, pp. 99-114;

16. I limiti degli stili di vita dell’homo oeconomicus. Individuo e comunità nellospazio planetario: verso un’ecologia dello spirito, in I. LUCCHESE, R. MELILLO

(a cura di), Le ragioni degli altri. Scritti in onore di Antonino Conci, Franco-Angeli, Milano 2008, pp. 457-464;

17. La carne addosso: annotazioni di antropologia filosofica, in AA.VV., Fides.Humanitas. Ius. Studi in onore di L. Labruna, 5, Editoriale Scientifica, Na-poli 2007, pp. 3453-3463;

18. Identità umana ed artificio. Idee per una libertà sostenibile, in V. GESSA KU-ROTSCHKA, G. CACCIATORE (a cura di), Saperi umani e consulenza filosofica,Meltemi, Roma 2007, pp. 107-117;

19. L’androide Philip Dick, in «Giornale di Filosofia», n. 19, 2007, pp. 31-38;anche in: L’androide Philip Dick. Identità umana e artificio. Idee per una li-bertà sostenibile, in P. BARCELLONA, F. CIARAMELLI, R. FAI (a cura di), Apoca-lisse e post-umano. Il crepuscolo della modernità, Edizioni Dedalo, Bari2007, pp. 415-442;

20. Che cos’è nichilismo. Nichilismo mondano e nichilismo teologico, in «Iride»,n. 47, gennaio-aprile 2006, pp. 95-108;

21. Periferie. 1-3 per Pietro Barcellona, in M. De CANDIA, P. FERRI (a cura di),Pietro Barcellona raccontato dai suoi amici, Gangemi Editore, Roma 2006,pp. 42-45;

22. “Ogni notte il rigore del labirinto”: Qohelet o l’incapacità della polvere, inE. I. RAMBALDI (a cura di), Qohelet: Letture e Prospettive, Franco Angeli,Milano, 2006, pp. 117-132;

23. Senza invadere lo sguardo, prefazione a G. DECORTI, A. SICKLINGER (a curadi), Re_action_s. Peter Lorenz, Libria, Melfi 2006, pp. 6-9;

24. Che cos’è metafisica?, in AA.VV., Le parole dell’Essere. Per Emanuele Se-verino, Bruno Mondadori, Milano 2005, pp. 411-424;

25. La cultura filosofica napoletana tra storicismo, fenomenologia ed esistenzia-lismo, in F. RIZZO (a cura di), Filosofia e storiografia. Studi in onore di Gi-rolamo Cotroneo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 277-292;

26. Il rosso della ciliegia, in F. BONICALZI, C. VINTI (a cura di), Ri-cominciare.Percorsi e attualità dell’opera di Gaston Bachelard, Jaca Book, Milano2004, pp. 289-292;

27. L’a-priori della conoscenza nell’etica materiale dei valori di Max Scheler, in

Pubblicazioni scientifiche di Eugenio Mazzarella 269

«Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche», vol. 114 (2003), Gian-nini, Napoli 2004, pp. 77-117;

28. “Giebt es auf Erden ein Mass? Es giebt Keines...”, in M. L. MARTINI (a curadi), Il Novecento e i linguaggi della modernità, il Mulino, Bologna 2005, pp.15-46; anche in: G. CANTILLO, F. C. PAPPARO (a cura di), in Eticità del senso,Luciano Editore, Napoli 2003, pp. 99-122;

29. Pensiero e teologia: l’inciampo di Cristo, in E. GRANITO (a cura di), La fedenella ragione e le ragioni della fede, La città del sole, Napoli 2005, pp. 119-128;

30. Die philosophische Kultur in Neapel zwischen Historismus, Phänomenologieund Existentialismus, in T. EGGENSPERGER, U. ENGEL, U. PERONE (a cura di),Italienische Philosophie der Gegenwart, Alber, Freiburg/München 2004, pp.53-72;

31. Domande. Il tempo nell’architettura, in M. PERRICCIOLI (a cura di), AbitareCostruire Tempo, CLUP, Milano 2004, pp. 57-61;

32. Nietzsche critico della tradizione morale-cristiana: aspetti e problemi, in P.Di GIOVANNI (a cura di), Nietzsche e la civiltà occidentale, Edizioni Antepri-ma, Palermo 2004, pp. 193-203;

33. Fecondazione assistita: un’occasione per ripensare ai valori, in «Italianieu-ropei», 5/2004, pp. 252-269;

34. Riforma e manutenzione del sistema universitario, in «Italianieuropei», 2/2004, pp. 81-91;

35. La libertà alle frontiere della vita, in «Dialoghi», Anno IV, marzo 2004, n.1, pp. 62-71;

36. La ripresa del dialogo in Italia tra filosofia e teologia, in AA.VV., La filoso-fia italiana tra Ottocento e Novecento e il magistero di Leone XIII, Atti delConvegno 29.5-1.6.2003, Edizione dell’Archidiocesi di Perugia-Città dellaPieve, Cortona 2004, pp. 45-53;

37. Psychoanalyse und Ontologie, in M. RIEDEL, H. SEUBERT, H. PADRUTT (Hrsg.),Zwischen Philosophie, Medizin und Psychologie, Böhlau, Köln 2003, pp.163-182;

38. Ontologia dell’essere secondo, in A. ARDOVINO (a cura di), Heidegger e gliorizzonti della filosofia pratica, Guerini, Milano 2003, pp. 127-140;

39. L’infrastrutturazione culturale ed immateriale della città: La comunità traimpossibilità e speranza, in L. FUSCO GIRARD (a cura di), L’uomo e la città,Franco Angeli, Milano 2003, pp. 610-614;

40. Riforma e manutenzione del sistema universitario, in «Bollettino filosofico»,n. 19, 2003, pp. 35-43;

41. L’“Impero” si combatte indossando il saio francescano, in «Mondoperaio»,n. 3, 2003, pp. 160-163;

42. Heidegger oggi, in «Revista portuguesa de filosofia», Tomo LIX, 2003, Fasc.4, pp. 1241-1252;

270 Pubblicazioni scientifiche di Eugenio Mazzarella

43. Individuo e comunità nello spazio planetario, in «Revista portuguesa de filo-sofia», Tomo LIX, 2003, Fasc. 3, pp. 841-852;

44. Heidegger und Hegel: Die Vorlesung zur „Phänomenologie des Geistes“(1930-31), in H. SEUBERT (Hrsg.), Heideggers Zwiegespräch mit dem deut-schen Idealismus, Böhlau, Köln 2003, pp. 141-154;

45. L’estetico come l’etico, in L. LANZARDO (a cura di), Aura. Scritti per GianniCarchia, Edizioni SEB 27, Torino 2002, pp. 167-174; anche in: A. COCO (acura di), Le passioni dello storico. Studi in onore di Giuseppe Giarrizzo,Edizioni del Prisma, Catania 1999, pp. 415-420; e in: «Quaderni di Esteticae Critica», 2/1997, pp. 169-174;

46. Elementi per un’estetica ontologica, in «aut aut», nn. 307-308, gennaio-aprile2002, pp. 187-203; anche in: G. BENTIVEGNA, S. BURGIO, G. MAGNANO SAN

LIO (a cura di), Filosofia, scienza, cultura. Studi in onore di Corrado Dollo,Rubbettino, Soveria Mannelli 2002, p. 517 ss.;

47. Der Wille zur Macht als Wille zur Form: Nietzsche, in H. SEUBERT (Hrsg.),Natur und Kunst in Nietzsches Denken, Böhlau, Köln 2002, pp. 153-166;

48. La volontà di potenza come volontà di forma: natura e arte in Nietzsche, in«Iride», n.36, agosto 2002, pp. 283-296;

49. Città mediterranea e globalizzazione, in «Civiltà del Mediterraneo», n. 1,giugno 2002, pp. 35-40;

50. Nietzsche e il giudizio del cristianesimo, in F. TOTARO (a cura di), Nietzschetra eccesso e misura, Carocci, Roma 2002, pp. 28-33;

51. Filosofia e teologia della storia di fronte alla sfida del nichilismo, in S. PRO-CACCI (a cura di), Filosofia e teologia della storia di fronte alla sfida del ni-chilismo, Rubettino, Soveria Mannelli 2002, pp. 53-62;

52. Heidegger e la possibilità di una filosofia cristiana, in C. ESPOSITO e P. POR-RO (a cura di), Heidegger e i medievali, Brepols, Bari 2001, pp.149-160;

53. Sacralità della vita e santità delle decisioni, in P. BARCELLONA (a cura di),Nuove frontiere del diritto, Dedalo, Bari 2001, pp. 89-104;

54. La volontà di potenza come volontà di forma, in F. FANIZZA, G. PENZO, G.RICCADONNA (a cura di), Attualità e inattualità del pensiero di Friedrich, Edi-trice Zona, Rapallo 2001, pp. 64-76;

55. Serietà e inizio della filosofia: Heidegger e la possibilità di una filosofia cri-stiana, in «Paradigmi», n. 55, 2001, pp. 35-47;

56. Heidegger oggi, in «Palomar», n. 6, 2001, pp. 28-32;57. Cristianesimo e storia, E. RAMBALDI (a cura di), Millenarismi nella cultura

contemporanea, Franco Angeli, Milano, 2000, pp. 157-173;58. Il compito del pensiero, in «Oltrecorrente», 1, 2000, pp. 89-106;59. De servo arbitrio: Heidegger and the End of Liberty, in «Differentia. Review

of Italian Thought», New York, 8-9, 1999, pp. 203-210;60. Ermeneutica e odologia: ermeneutica fenomenologica e storicità, in «Disci-

pline filosofiche», IX, 2, 1999, pp. 169-181;

Pubblicazioni scientifiche di Eugenio Mazzarella 271

61. Filosofia e stupore, in «Bollettino filosofico», n. 15, Dipartimento di Filoso-fia dell’Università della Calabria, Cosenza 1999, pp. 197-203;

62. Etica e pubblicità, in C. GILY REDA (a cura di), Frammenti di mondo. 30sguardi sulla pubblicità, Editoriale Scientifica, Napoli 1999, pp. 263-269;

63. Pensare Auschwitz: elementi di un’antropodicea, in P. AMODIO, R. DE MAIO,G. LISSA (a cura di), La Sho’ah tra interpretazione e memoria, Vivarium, Na-poli 1998, pp. 669-689;

64. Dall’essere-nel-mondo all’essere-alla-vita, in E. MAZZARELLA (a cura di),Heidegger oggi, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 11-26;

65. Sulla poesia, in «YIP Yale Italian Poetry», vol. II. 1, 1998, pp. 131-144;66. Individuo e comunità nello spazio planetario. Verso un’ecologia dello spirito,

in «Iride», n. 25, 1998, pp. 567-578;67. Volontà di fondazione e filosofia della storia della storia in M. Heidegger, in

M. M. OLIVETTI (a cura di), La recezione italiana di Heidegger, Cedam, Pa-dova 1998, pp. 309-335;

68. Teologia e storia, in Una teologia come storia, San Paolo, Milano, 1998, pp.273-281;

69. Filosofia e rivelazione, in «Filosofia e teologia», 1/98, pp. 146-165;70. Che cos’è la verità?, in «Paradosso», 2-3/1997, pp. 107-109;71. Legalità e giustizia, in E. MAZZARELLA (a cura di), La cultura della legalità,

Fridericiana, Bibliopolis, Napoli 1997, pp. 33-38;72. Autonomia e formazione, in F. TESSITORE (a cura di), Quale Università? I

problemi dell’autonomia, Fridericiana, ESI, Napoli, 1997, pp. 83-91;73. “De servo arbitrio”: la fine della libertà in Martin Heidegger, in G. CACCIA-

TORE, G. CANTILLO, G. LISSA (a cura di), Lo storicismo e la sua storia. Temi,problemi, prospettive, Guerini, Milano 1997, pp. 516-523;

74. Pensare Auschwitz. Elementi di un’antropodicea, in «Filosofia e teologia», 1/97, pp. 119-130;

75. La situazione dell’io nella poesia dell’ultima modernità, in «Nuova Antolo-gia», n. 2200, ottobre-dicembre 1996, pp. 310-327;

76. Filosofia e rivelazione, in «Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politi-che», vol. CVII, 1996, pp. 369-385;

77. L’istanza cosmologica tra scienza-tecnica e filosofia, in «Studi filosofici»,1991-1992, pp. 289-298; anche in «aut aut», nuova serie, n. 250, luglio-ago-sto 1992, pp. 116-123;

78. Contraccezione e sacralità della vita tra “natura” e “artificio”, in C. NAPPI,M. GUIDA (a cura di), L’interruzione volontaria di gravidanza, Momento Me-dico, Salerno 1996, pp. 113-127;

79. Contraccezione e sacralità della vita, in «il Mulino», n. 363, 1/96, pp. 34-47;

80. Poesia e filosofia, in E. HIDALGO-SERNA, M. MARASSI (a cura di), Studi inmemoria di Ernesto Grassi, La città del sole, Napoli 1996, pp. 737-753;

272 Pubblicazioni scientifiche di Eugenio Mazzarella

81. Sprache und Existenz: Ingeborg Bachmann und Martin Heidegger, in K.-E.LÖNNE (Hrsg.), Kulturwandel im Spiegel des Sprachwandels, Francke, Tübin-gen 1995, pp. 153-159;

82. Für eine Geschichte der Metaphysik zwischen dem 19. und 20. Jahrhundert:Das diltheysche Paradigma, in «Dilthey-Jahrbuch für Philosophie und Ge-schichte der Geisteswissenschaften», Band 9, 1994-95, hrsg. von F. Rodi,Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1995, pp. 270-292;

83. Filosofia e teologia di fronte a Cristo, in «Asprenas», vol. 42, 3, 1995, pp.391-400;

84. Psicoanalisi e ontologia: i Seminari di Zollikon di Martin Heidegger, inAA.VV., Sogno e mondo ai confini della ragione. Studi fenomenologici, ESI,Napoli 1995, pp.145-168;

85. Leben und Phänomenologie: Heideggers Vorlesung von 1921/22, in T. ALBER-TINI (Hrsg.), Verum et Factum. Beiträge zur Geistesgeschichte und Philo-sophie der Renaissance zum 60. Geburtstag von Stephan Otto, Peter Lang,Frankfurt am Main 1993, pp. 331-347;

86. Etica e bioetica, in «Archivio di storia della cultura», anno VI, 1993, pp.189-204;

87. Il colloquio tra io e sé nello “Zarathustra” di Nietzsche, in «Archivio di sto-ria della cultura», anno V, 1992, pp. 199-211;

88. Volontà di fondazione e filosofia della storia. Heidegger e la politica, in M.HEIDEGGER, Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, Guida, Napoli 1992,pp. 25-49;

89. Il disagio dell’abitare tra moderno e postmoderno. Storicità e architettura, inM. BERTOLDINI, M. ZAPELLI (a cura di), Atti tecnici e cultura materiale, Città-Studi, Milano 1992, pp. 77-89;

90. Storicità, tecnica e architettura, in «Archivio di storia della cultura», AnnoIV, 1991, pp. 189-216; anche in: V. CANGEMI (a cura di), Cultura e impegnoprogettuale, Franco Angeli, Milano 1992, pp. 11-38;

91. Tra Nietzsche e Heidegger: finitudine come valore, ontologia e assiologia, inG. ACOCELLA ET ALII (a cura di), L’opera di Pietro Piovani, Morano, Napoli1991, pp. 435-462;

92. Autoriforma impedita dalla “consociazione”, in «Prospettive Settanta», n. 1,1991, pp. 11-13;

93. La crisi del socialismo reale e i nodi della democrazia occidentale: qualiprospettive?, in «Prospettive Settanta», n. 1-2, 1990, pp. 15-19;

94. Socialità e Stato, in «Prospettive Settanta», n. 1-2, 1989, pp. 9-13;95. Ecologia e cristianesimo: verso un’ecologia dello Spirito, in «Prospettive

Settanta», n. 3-4, 1989, pp. 218-225;96. Jünger e Heidegger: assiologia e ontologia del nichilismo, in G. MORETTI (a

cura di), Heideggeriana. Saggi e poesie nel decennale della morte di MartinHeidegger, in «Itinerari», 1986 (1-2), pp. 209-226;

Pubblicazioni scientifiche di Eugenio Mazzarella 273

97. Dilthey e Nietzsche, in «Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche»,vol. 45, Giannini, Napoli 1984, p. 1 ss.;

98. Attualità della seconda Inattuale, in «Criterio», anno II, n. 4, 1984, pp. 65-70;

99. Esistenza storica e virtù della terra. K. Löwith e M. Heidegger, in «Pensie-ro», 1982 (23), pp. 133-151;

100. Verso un’ontologia del declino, in «L’uomo, un segno», n. 2, nuova serie,1982, pp. 51-55;

101. La Seinsfrage come Kehre e come Denkweg, in M. HEIDEGGER, Tempo ed es-sere, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1980, pp. 197, pp. 7-93;

102. Il problema della ‘Kehre’ nel pensiero di Heidegger, in «Atti dell’Accademiadi Scienze Morali e Politiche», Giannini, Napoli 1979, 105, pp. 253-279;

103. Pensiero e ideologia: «Ueber» Marx e Heidegger, in K. AXELOS, Marx e Hei-degger, Guida, Napoli 1978, pp. 5-84;

104. Eticità e storia in Ernst Troeltsch, in «Rassegna di Teologia», n. 5, 1976, pp.510-522;

105. Filologia e tragedia nel giovane Nietzsche, in «Sigma», n.1/2, 1976, pp. 221-250;

106. Al margine. Note sulla scrittura in Nietzsche, in «Altri Termini», n. 8, 1975,pp. 3-13.

Curatele e traduzioni

107. R. BONITO OLIVA, A. DONISE, E. MAZZARELLA, F. MIANO, Etica antropologiareligione. Studi in onore di Giuseppe Cantillo, Guida, Napoli 2010, pp. 525;

108. E. MAZZARELLA, Heidegger a Marburgo (1923-1928), il melangolo, Genova2006, pp. 367;

109. E. MAZZARELLA e D. CONTE, Il concetto di tipo tra Ottocento e Novecento:letteratura, filosofia e scienze umane, Liguori, Napoli 2002, pp. 373;

110. E. MAZZARELLA, R. BONITO OLIVA, Identità e persona nello spazio mediterra-neo, Guida, Napoli 1999, pp. 154;

111. E. MAZZARELLA, Heidegger oggi, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 341;112. M. HEIDEGGER, Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà uma-

na, a cura di E. Mazzarella, trad. di C. Tatasciore, Guida, Napoli 1998, pp.320;

113. E. MAZZARELLA, La cultura della legalità, Fridericiana, Bibliopolis, Napoli1997, pp. 188;

114. B. M. D’IPPOLITO, E. MAZZARELLA, A. PIROMALLO GAMBARDELLA, Sogno emondo. Ai confini della ragione: studi fenomenologici, Edizioni ScientificheItaliane, Napoli 1995, pp. 225;

274 Pubblicazioni scientifiche di Eugenio Mazzarella

115. M. HEIDEGGER, Ontologia. Ermeneutica della effettività, trad. di G. Auletta,Guida, Napoli, 1992, pp. 117;

116. M. HEIDEGGER, Seminari di Zollikon, a cura di E. Mazzarella e A. Giugliano,trad. italiana di A. Giugliano, Guida, Napoli 1991, pp. 449;

117. M. HEIDEGGER, Tempo ed essere, introduzione, traduzione e note di E. Mazza-rella, Guida, Napoli 1991, pp. 202;

118. M. HEIDEGGER, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzionealla ricerca fenomenologica, trad. di M. De Carolis, Guida, Napoli 1990, pp.237;

119. A. GEHLEN, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, trad. di G. Auletta,Guida, Napoli 1990, pp. 444;

120. K. AXELOS, Marx e Heidegger, traduzione italiana, introduzione e note di E.Mazzarella, Napoli 1978, pp. 217.

Introduzioni, Prefazioni e Presentazioni

121. Presentazione a F. MASI, Emil Lask. Il pathos della forma, Quodlibet, Mace-rata 2010, pp. 9-11;

122. Prefazione a A. CERA, Io con tu. Karl Löwith e la possibilità di una Mitan-thropologie, Guida, Napoli 2010, pp. I-IV;

123. Prefazione a S. VENEZIA, Il linguaggio del tempo. Su Heidegger e Rilke, Gui-da, Napoli 2007, pp. 9-12;

124. Introduzione a F. MASI, M. VICINANZA, Emergenza, rischio e decisione. Mo-delli della decisione sull’emergenza ecologica e bioetica, Guida, Napoli2007, pp. 7-9;

125. Prefazione a G. LONGO, Kierkegaard Nietzsche: eternità dell’istante, istanta-neità dell’eterno, Mimesis, Milano 2007, pp. 7-10;

126. Presentazione a V. BOCHICCHIO, Il laboratorio dell’anima: immagini del corponella filosofia di Immanuel Kant, il melangolo, Genova 2006, pp. 7-11;

127. Prefazione a R. PITITTO, Ad Auschwitz Dio c’era: i credenti e la sfida delmale, Studium, Roma 2005, pp. 11-13;

128. Introduzione a H. PADRUTT, L’inverno epocale. Critica ecologica del presente,Guida, Napoli 1998, pp. 9-10;

129. Presentazione a M. HEIDEGGER, Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenzadella libertà umana, Guida, Napoli 1998, pp. 5-13;

130. Introduzione (con R. Bonito Oliva) a E. MAZZARELLA e R. BONITO OLIVA,Identità e persona nello spazio mediterraneo, Guida, Napoli 1999, pp. 7-9;

131. Introduzione a I. BACHMANN, La ricezione critica della filosofia esistenzialedi Martin Heidegger, Guida, Napoli 1992, pp. 5-12;

132. Introduzione a M. HEIDEGGER, Seminari di Zollikon, a cura di E. Mazzarella eA. Giugliano Guida, Napoli 1991, pp. 5-22 (anche in «La Rivista dei Libri»,anno I, n. 5 agosto 1991, pp. 36-40);

Pubblicazioni scientifiche di Eugenio Mazzarella 275

133. Introduzione a M. HEIDEGGER, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele.Introduzione alla ricerca fenomenologica, a cura di E. Mazzarella, Guida,Napoli 1990, pp. 7-31;

134. Presentazione a A. GEHLEN, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, acura di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1990, pp. 4-8;

135. Introduzione a M. HEIDEGGER, La fenomenologia dello spirito di Hegel, acura di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1988, pp. 7-23.

Recensioni

136. Recensione a B. FORTE, In ascolto dell’Altro. Filosofia e rivelazione, in«Asprenas», vol. 43, 4, 1996, pp. 594-596;

137. Vita e pensiero d’un filosofo, recensione a H. ALTHAUS, Nietzsche. Una trage-dia borghese, in «Letture», Anno 50, n. 516, aprile 1995, pp. 66-67;

138. Recensione a M. CACCIARI, Geo-filosofia dell’Europa, in «La città nuova»,anno IX, n. 3, 1994, pp. 62-63;

139. Recensione a F. TESSITORE, Introduzione allo storicismo, in «Prospettive Set-tanta», nuova serie, anno XIV, n. 2/3, 1992, pp. 303-304;

140. Recensione a G. VATTIMO (a cura di), Estetica moderna, in «Bollettino diStudi vichiani», n. 9, 1979, pp. 184-187.

276

277

Indice

Introduzione 5

Filosofia e Cultura Avvenire. Forse un protrettico 9

Nicola Russo

Di una certa qual collera contro l’epoca 37Dall’Università delle masse alla nuova Università di massa

Maria Teresa Catena

Una misura nell’uso delle tecniche 61Le ragioni della legge sulla Dichiarazione Anticipata di Trattamento

Vincenzo Bochicchio

Rilevanza del Prospettivismo nella Teoria della Scelta Razionale 87

Marco Stimolo

«Ogni cosa ha il suo tempo» 103Kierkegaard lettore del Qohelet

Giulia Longo

Per tutti e per nessuno 133Il «superamento della morale» nella filosofia di Nietzsche

Joaquin Mutchinick

I paradossi della continuitàProlegomeni alla storia del concetto di spazio 161

Felice Masi

Metafisica e nichilismo 195La questione della morte in Heidegger e Jünger

Pierandrea Amato

278 Indice

Esistenza teoretica e virtù della scepsi 213L’ethos filosofico di Karl Löwith

Agostino Cera

Una radicalità sostenibile 233Poesia e ontologia dopo Nietzsche e Heidegger

Simona Venezia

La parola poetica di Eugenio Mazzarella 259

Vincenzo Frungillo

Nota bio-bibliografica 265

Pubblicazioni scientifiche di Eugenio Mazzarella 267

Indice 279

«Grafica Bodoni» - Napoli

giugno 2011

280 Indice