« Prolegomena all’Achille pascoliano », Revue des Études italiennes , Nouvelle série, tome 51,...

19
1 Revue des études italiennes, t. 51, 3-4/2005, pp. 233 à 246 Prolegomena ad Achille pascoliano « Per me la poesia è moralità. Quel che è bello è anche buono. O a dir meglio, non esiste il bello esiste il buono. Anche Achille ». Achille compare tra le pagine della tesi di laurea del poeta, discussa il 18 giugno 1882 1 . Per meglio illustrare il “pathos” della poesia stasiotica e guerresca di Alceo, Pascoli porta a paragone il “pathos” di Achille, in certi momenti dell’Iliade; come al suo ritorno sul campo di battaglia, dopo la morte di Patroclo, in preda al dolore e senza più le sue armi 2 : « Ma il carattere di questa poesia (scil. di Alceo) è il pathos: pathos uguale a quello che Achille provò quando si trovò senza armi a spaventare le schiere troiane con un urlo, quando si trovò senza le sue belle armi e senza il suo dolce amico a piangere su quello stesso lido: e allora venivano le Oceanine a consolarlo 3 . » In questo primissimo accenno, si trovano già alcuni motivi, legati alla vicenda dell’eroe, che diventeranno ricorrenti nell’opera pascoliana. Si tratta, qui, essenzialmente, della forza, della violenza spaventosa dell’eroe, commista al dolore, significati dall’urlo terrificante di fronte alle schiere nemiche, e dal pianto solitario in riva al mare. Nella prefazione all’antologia Epos, pubblicata nel febbraio del 1897, 4 Pascoli individua nell’epica l’espressione della poesia originaria, in senso storico — in quanto Iliade e Odissea 1 La tesi di laurea, di argomento greco, consta di 20 pagine manoscritte, ed è divisa in due parti: « Miti e tradizioni » e jAlkai~ov ( Giovanni Capecchi, Giovanni Pascoli. Prose disperse, Lanciano, Rocco Carabba, 2004, pp. 79-97). 2 Pascoli fa riferimento agli eventi narrati nei libri XIX e XX dell’Iliade. 3 Capecchi, Prose disperse, p. 87. 4 Epos, Livorno, Giusti, 1897.

Transcript of « Prolegomena all’Achille pascoliano », Revue des Études italiennes , Nouvelle série, tome 51,...

1

Revue des études italiennes, t. 51, 3-4/2005, pp. 233 à 246

Prolegomena

ad Achille pascoliano

« Per me la poesia è moralità. Quel che è bello è anche buono.

O a dir meglio, non esiste il bello — esiste il buono.

Anche Achille ».

Achille compare tra le pagine della tesi di laurea del poeta, discussa il 18 giugno 18821. Per

meglio illustrare il “pathos” della poesia stasiotica e guerresca di Alceo, Pascoli porta a

paragone il “pathos” di Achille, in certi momenti dell’Iliade; come al suo ritorno sul campo

di battaglia, dopo la morte di Patroclo, in preda al dolore e senza più le sue armi2:

« Ma il carattere di questa poesia (scil. di Alceo) è il pathos: pathos

uguale a quello che Achille provò quando si trovò senza armi a

spaventare le schiere troiane con un urlo, quando si trovò senza le

sue belle armi e senza il suo dolce amico a piangere su quello stesso

lido: e allora venivano le Oceanine a consolarlo3. »

In questo primissimo accenno, si trovano già alcuni motivi, legati alla vicenda dell’eroe,

che diventeranno ricorrenti nell’opera pascoliana. Si tratta, qui, essenzialmente, della

forza, della violenza spaventosa dell’eroe, commista al dolore, significati dall’urlo

terrificante di fronte alle schiere nemiche, e dal pianto solitario in riva al mare.

Nella prefazione all’antologia Epos, pubblicata nel febbraio del 1897,4 Pascoli individua

nell’epica l’espressione della poesia originaria, in senso storico — in quanto Iliade e Odissea

1La tesi di laurea, di argomento greco, consta di 20 pagine manoscritte, ed è divisa in due parti: « Miti e

tradizioni » e jAlkai~ov (Giovanni Capecchi, Giovanni Pascoli. Prose disperse, Lanciano, Rocco Carabba, 2004,

pp. 79-97). 2 Pascoli fa riferimento agli eventi narrati nei libri XIX e XX dell’Iliade. 3 Capecchi, Prose disperse, p. 87. 4 Epos, Livorno, Giusti, 1897.

2

datano agli albori della civiltà occidentale — e “filogenetico” — essendo lo stadio di

sviluppo psichico dell’umanità arcaica corrispondente all’infanzia del singolo individuo5.

L’epica è, dunque, “la poesia della fanciullezza dell’umanità”; cioè, alla luce del

contemporaneo Fanciullino, la vera poesia6.

In quanto poesia del passato, che parla del passato, l’epica sottrae l’uomo all’oggi,

riconducendolo agli « anni migliori »; poiché il bene, il bello, non appartengono mai al

presente:

« Io credo che tutti i popoli in tutti i tempi trovino nel passato della

loro storia ciò che a mano a mano le singole persone nel passato della

loro vita; qualche cosa di bello, o di meglio, che allora però non

appariva quello che ora7. »

Perché un popolo abbia il suo epos, « tale e quale è quello di Omero8 » – Pascoli prosegue

– occorrono non soltanto un patrimonio mitico, una ricca immaginazione, una lingua

versatile, e una metro efficace; è necessaria una vicinanza della creatività stessa del poeta a

quel mondo. Egli deve essere come Nestore, testimone di un storie antichissime, di

vicende già leggendarie, ma “dall’interno”, ancora entro i confini dell’età eroica,

originaria. In una parola, il poeta epico deve essere antico, cioè giovanissimo: un fanciullo.

Nell’ambito di queste riflessioni, Pascoli introduce, in forma di domanda, la propria

intuizione sulle origini del genere (e della poesia, in senso assoluto): « Che nei primi tempi

eroe e aedo fossero la medesima persona, che cantava e faceva le imprese9? »

5 Alla base di queste considerazioni, centrali nella riflessione del Pascoli, sta la legge di ricapitolazione

universale del biologo tedesco Ernst Heinrich Haeckel (1834-1919). In sostanza, lo scienziato evoluzionista

dimostra empiricamente che l’evoluzione dell’embrione è una ricapitolazione in scala ridotta dello sviluppo

della specie cui appartiene, confermando a Pascoli ciò che Vico, con la teoria dei cicli culturali, e poi

Leopardi, avevano sostenuto speculativamente. Nella biblioteca di Castelvecchio sono conservate dieci

dispense della Natürliche Schöpfungsgeschichte di Haeckel, in traduzione italiana (Storia della creazione naturale,

Torino, Utet, 1890-1891). 6 Nella sua prima redazione, Il fanciullino fu pubblicato a puntate, sul « Marzocco », nel corso del 1897. « Il

saggio comincia con lo stilare i prolegomeni di un’autentica grammatica della poesia epica (la poesia della

fanciullezza dell’umanità), utilizzando materiale elaborato in Epos e arricchendolo […]. » (G. Pascoli, Opere, a

cura di Maurizio Perugi, Milano-Napoli, Ricciardi editore, 1980, II, p. 1637). 7 G. Pascoli, Prose, La poesia epica in Roma, a cura di Augusto Vicinelli, Milano, Mondadori, 1946-52, I, p. 767. 8 Prose, ib., I, p. 768. 9 Prose, ib., I, p. 772.

3

All’origine della riflessione è la figura di Achille, che è antichissimo, e quindi “fanciullo”;

che si mostra, nell’Iliade, poeta e guerriero insieme. In lui si assommano l’esperienza della

vita attiva e della vita contemplativa, così come nel suo linguaggio – nel linguaggio

omerico – l’espressione è naturalmente poetica, “estetica”. Nel tempo, con il progredire

della civiltà e “l’invecchiamento” dell’umanità, l’identità di azione e contemplazione viene

meno, così come si distinguono un linguaggio « neutro », « convenzionale », e un

linguaggio « estetico »10, in un processo di specializzazione che sembra fatalmente

allontanare dall’armonia originaria, e aprire il problema della sua ricreazione, della

ricreazione della poesia e della lingua poetica11.

È nell’episodio dell’ambasceria di Fenice, Odisseo e Aiace presso le tende dei Mirmidoni,

che Omero rappresenta Achille in atto di suonare la cetra, prezioso bottino di guerra, e di

cantare le “glorie dei guerrieri”, i kle>a ajndrw~n12. Pascoli evoca, nei dettagli e

nell’atmosfera poetica, questo passo, e ritorna a illuminare quei tratti del personaggio di

Achille già evidenziati anni prima: la sofferenza e il pianto solitario, di fronte alla natura,

animata dalla fantasia epica. Ma accanto al volto doloroso dell’eroe, emerge qui il suo

volto “morale”, nell’accettazione del destino di morte, nel senso del dovere:

« […] in disparte da tutti piangeva (egli piangeva ma in disparte),

tendeva le mani al mare e parlava alla nebbia che dal mare sorgeva,

che era sua madre […]. Egli, così nobile era d’animo, così alto, che

serviva d’esempio e modello a Socrate, quando esprimeva la

religione del dovere che vince l’amor della vita13. »

10 M. Perugi, Elementi di letteratura di Giovanni Pascoli, in « Filologia e critica », anno XVI, fascicolo III

settembre-dicembre 1991, pp. 401-418. I termini tra virgolette sono ripresi dal fascicolo LXXVI, plico 6, foglio

19 dell’archivio di casa Pascoli, riportato a p. 407 del suddetto articolo. 11« Soltanto nel primordio umano – storico e individuale – questi due modi si fondono in uno.

‹Comunemente si parla, come si vede. Non c’è espressione: è un leggere ‹estetico›. » (M. Perugi, Elementi, p.

407-408). 12 Il. IX 185-189. 13 Prose, La poesia epica in Roma, I, p. 771.

4

Nel cap. XI del Fanciullino, ricorre lo stesso riferimento a Platone/Socrate. Nell’intento di

chiarire la funzione civilizzatrice e “umanante” della vera poesia che, in quanto tale,

esclude da sé, naturalmente, il male e il brutto (in una sola parola, “l’impoetico”), Pascoli

riprende nuovamente le parole di Socrate intorno ad Achille:

« Così Omero, in tempi feroci, a noi presenta nel più feroce degli eroi,

cioè nel più vero e poetico, in Achille, un tipo di tal perfezione

morale, che poté servire di modello a Socrate, quando preferiva al

male la morte14. »

Il passo platonico, cui Pascoli rimanda, evidenzia le ragioni della moralità, riconosciuta da

Socrate al personaggio omerico:

oJ de< tou~to ajkou>sav tou~ me<n qana>tou kai< tou~ kindu>nou wjligw>rhse, polu< de< ma~llon dei>sav to< zh~~n kako<v w}n kai< toi~v fi>loiv mh< timwrei~n « Ed egli (scil. Achille), dopo avere ascoltato15, non tenne in alcun

conto la morte e il pericolo, temendo assai di più il vivere da vile e il

non vendicare gli amici. »

(Apologia di Socrate, 28 b; d)

Nell’accettazione della morte da parte dell’eroe, il Socrate platonico riconosce la volontà di

stornare da sé il male, nella forma del disonore e dell’infedeltà a se stessi, al proprio

“impegno”, ejpith>deuma. Questa volontà di intima coerenza è la stessa che induce il

filosofo a non calcolare il rischio della condanna capitale, bensì il rischio dell’infamia. La

vera natura dell’“impegno” di Achille – la vendetta per Patroclo attraverso la morte di

Ettore e di molti Troiani incolpevoli, e la conquista della gloria per se stesso – resta

nell’ombra. La radice violenta e disperata, da cui nasce la determinazione coraggiosa del

personaggio, comprometterebbe il senso e l’efficacia dell’esempio, il quale, con questa

sola, fondamentale reticenza, è perfetto ai fini di Socrate.

14 Prose, Il Fanciullino, I, p. 31. 15 Si allude alle parole di Teti, che predice al figlio, subito dopo la morte di Ettore, la sua stessa fine (Il. XVIII

95-96).

5

Al di là dei silenzi strumentali di Platone, accanto all’integrità etica e al coraggio di

Achille, sta la sua “ferocia”. Come si è letto, Pascoli lo dice « feroce »; anzi, « il più feroce »

degli eroi omerici. Egli vive in « tempi feroci », agli inizi della storia della civiltà umana; è

l’età degli eroi, guerrieri semidivini, votati alla guerra e alla violenza, ma animati da

straordinarie virtù16. Nello stesso capitolo XI, Pascoli parla della « tribù d’uomini

salvatici », che « si ingentilivano contemplando e ascoltando la loro infanzia ». L’infanzia

dei primi uomini è questo interferire di “selvatichezza” e “gentilezza”, che rende ragione

di un’equivalenza, quale è quella tra ferocia, verità e poesia in Achille. Achille è antico, e

quindi giovanissimo; un fanciullo dell’umanità fanciulla, capace di sentire e parlare

selvaticamente e poeticamente, selvaggio e poetico in sé. Essendo poetico, egli è anche

moralmente buono, come lo riconosce il Socrate platonico. Ma mentre i presupposti di

quest’ultimo sono essenzialmente etici, e non estetici, le ragioni del Pascoli si fondano

sulla riconosciuta identità di Bello e Bene17.

Dell’Achille « feroce », in Epos, Pascoli evoca « l’ira sanguinaria ». Mosso da questo

terribile sentimento, l’eroe avrebbe ucciso l’insolente Agamennone, non fosse stato per

l’intervento della dea Atena. Questa stessa passione selvaggia diventa « indignazione

dolorosa e disperata » per il furto dell’amata schiava Briseide, compiuto contro ogni etica e

giustizia; Achille diventa così « l’irato solitario » che parla con la nebbia del mare, che si

affida alla poesia come ultimo conforto. Il nucleo dell’« ira » sembra strettamente connesso

al carattere estetico del personaggio di Achille.

Accennando al processo di costituzione, dalla messe di racconti epici antici, dei due nuclei

originari di Iliade e Odissea, Pascoli individua le ragioni della fortuna letteraria di Achille, e

di Odisseo accanto a lui, nella « contraddizione dolorosa18 nel loro destino, tra ciò che

avrebbe dovuto essere e ciò che fu »:

« […] Achilleus, la forza giovanile destinata a breve vita, perché

trova la morte nella esuberanza di se stessa […]. Ché nella saga di

16 Esiodo, Le Opere e i giorni, vv. 156 sgg. 17 « ‹Quel che è bello è anche buono. O a dir meglio, non esiste il bello – esiste il buono. Anche Achille› » (M.

Perugi, Elementi, p. 407). 18 I rilievi, salvo diversa indicazione, si devono all’autore.

6

Achille il perno è la morte immatura di lui invincibile, che è

fatalmente condotta dalla mh~niv , la quale è provocata dal più

immeritato oltraggio di Agamemnon e degli Achei, e produce l’ira

contro Hector e i Troiani, non tanto a loro quanto a lui funesta19; »

In questo passo, la morte dell’eroe non è più messa in rapporto con una scelta morale; si

tratta di una morte “per eccesso di vita”. Achille non sa risparmiare se stesso e si

autoconsuma velocemente, fatalmente. Pascoli recupera le parole di Teti sul destino del

figlio, « cresciuto come un rampollo d’albero, come un albero venuto su l’altura, destinato

a vivere tristo e morire giovane20. » La tristezza dell’esistenza di Achille nasce,

primamente, dal mancato riconoscimento sociale della sua naturale eccellenza, attraverso

l’offesa di Agamennone. Da questa ingiustizia deriva, poi, la terribile ira e quella

disposizione all’accidia melancolica, quella dantesca « tristizia », per cui l’eroe si aliena dal

mondo in cui vive, che non riconosce più, e che da sempre, per sua natura, travalica.

Achille è alienato, per nascita, dal mondo degli uomini, così come dal mondo degli dei, da

cui è stato allontanato. In realtà, egli doveva essere un dio, e regnare al posto di Zeus.

Secondo un’antica profezia, infatti, da Teti sarebbe nato un figlio « migliore del padre »,

fe>rterov pate>rov , « in possesso di un’arma più temibile della folgore e del tridente21. » Per

sventare l’avverarsi di una simile rivoluzione, gli dei decisero di propiziare per la Nereide

nozze mortali, da cui nascesse non un dio, ma un semidio, destinato a morire. Achille è a

metà fra due mondi, estraneo a entrambi e partecipe di entrambi; incommensurabile ad

ogni altro mortale, egli compie tuttavia sulla terra il proprio destino. L’oltraggio di

Agamennone non è che il disvelamento, nei fatti, di un’alienazione naturale. Achille vede

il suo merito di guerriero misconosciuto; si accorge che non c’è riconoscenza, rispetto,

giustizia, tra gli uomini. È allora che non vuole più combattere — si fa « tristo » — in una

società, come quella eroica, in cui il guerriero non è nulla senza la gloria delle proprie

imprese. Solo con la morte di Patroclo, egli riprende le armi a fianco degli Achei, di cui

19 Prose, La poesia epica, I, p. 778-779. 20 Pascoli traduce da Il. XVIII 54-60 (Prose, ib., I, p. 773) 21 Pindaro, Istmica VIII 31-35; vd. anche Apollodoro, Biblioteca, 3.13.5.

7

aveva preso a desiderare la sconfitta, e si fa audacemente violento22. Secondo il Socrate

dell’Apologia, sarebbe il senso dell’onore, e l’amore verso Patroclo, ad averlo indotto a tale

passo. Tuttavia, è Patroclo stesso a contraddire, nei fatti, queste ragioni. Nell’Iliade, egli

appare in sogno ad Achille, e lo rimprovera amaramente di averlo dimenticato. Il suo

cadavere giace ancora insepolto; il compagno, compreso nella sua ira, non si è ancora

curato di dargli sepoltura:

eu[deiv , aujta<r ejmei~o lelasme>nov e]pleu, jAcilleu~. Ouj me>n meu zw>ontov ajkh>deiv , ajlla< qano>ntov ? Qa>pte me o[tti ta>cista, pu>lav jAi>dao perh>sw. (Il. XXIII 69-71)

“Ecco, tu dormi e di me già se’ fatto dimentico, Achille!

Tu mi curavi da vivo, ma tu mi trascuri da morto.

Seppelliscimi subito! Io passi le porte del Buio!

(Traduzioni e riduzioni, Il sogno, vv. 5-7)

Il lamento di Patroclo è rivelatore. Achille è animato e accecato dall’ira; l’aijdw>v , il

“pudore” di sé, è un valore ormai secondario. Egli vi si conforma, perché non può fare

altrimenti, ma combatte, essenzialmente, per distruggere, annientare, nella speranza di un

sollievo dal dolore e di una giustizia, cui non può attingere. Attraverso l’“esuberanza”

della sua forza, egli dispensa la morte, e si consegna alla morte. Le parole di Patroclo

mettono in luce l’isolamento dell’eroe da ogni preoccupazione umana, da ogni affetto,

anche da quello profondissimo per il compagno ucciso L’eroe, se compie un dovere,

sembra compierlo verso se stesso; quando ritorna sul campo di battaglia, egli dice: nu~n de<

kle>ov ejsqlon< ajroi>mhn, « adesso voglio avere nobile gloria »23. Non potendo sfuggire al

suo destino mortale, egli sceglie il meglio per ogni uomo, secondo l’antica saggezza:

22 A partire da IL. XVIII 18-21, alla notizia della morte di Patroclo, Achille abbandona l’accidia del ritiro,

spostando la propria ira, da Agamennone, a Ettore e ai Troiani. In questa forma di odio “attivo”, Achille si fa

demonico, disumanizzandosi. 23 Il. XVIII 121.

8

« quanto più presto passare le porte dell’Ade24. » E nel segno della morte, propria e degli

avversari, troverà anche la gloria.

Nella Nota per gli alunni dell’antologia per la scuola Sul limitare, pubblicata nel 1899,25

Pascoli si rivolge a un pubblico di « giovanetti », e traccia il ritratto del suo fanciullo, che

legge. Legge l’Iliade e « vede se stesso in Achille »:

« Fanciullo mio, non è vero che t’assomiglia? Tu non ti vendichi, è

vero, così terribilmente; […] quando sei adirato, che cosa non ti

proponi di fare? E anche tu, quando non ti puoi sfogare, piangi; e

piangi in disparte anche tu. E dici: mamma! Mamma! anche se ella è

lontana […] le mani le tendi; le tendi, se non al mare, al cielo infinito.

[…] Ti sei impuntato a castigare i compagni privandoli della tua

compagnia ne’ loro giuochi; e castighi te stesso. Ti rodi di non essere

con loro e non vuoi volere26. »

Il fanciullo e Achille sono accomunati dall’« ira », che fa meditare propositi terribili, che fa

sentir soli, di fronte all’ingiustizia patita, e fa piangere amaramente di dolore e sconforto.

Questo sentimento primordiale, di Achille antichissimo e dell’infanzia del singolo, si

presenta ancora con due risvolti, la violenza e la disperazione amara, melancolica, la

« ferocia » e la « tristizia ». Si noti, tuttavia, che all’eroe omerico appartengono i due volti

dell’« ira » , mentre il “fanciullino” di oggi mostra solo il secondo.

A questa somiglianza nel segno, se così si può dire, della “selvatichezza”, Pascoli fa

seguire l’invito all’imitazione di Achille “morale”:

« […] sii Achille, quando si tratta del tuo dovere! E fissati ora

nell’anima e presèntati poi nel pensiero, ogni volta, che il dovere da

adempiere sia con dolore e con pericolo, presèntati nel pensiero il

fulvo eroe sul carro da guerra: e il cavallo gli parla con la testa china

24 Pascoli traduce così il verso dell’Agone di Omero ed Esiodo che riporta la sentenza (Prose, La poesia epica, I, p.

780). 25 G. Pascoli, Sul limitare. Prose e poesie scelte per la scuola italiana, Milano-Palermo-Napoli, Remo Sandron,

19244 . 26 Capecchi, Prose disperse, pp. 199-222.

9

e con la criniera spiovente a terra e gli dice: Andremo, e morrai! Ed

esso risponde: E morrò27! […] »

L’autore stesso indica la natura del processo metamorfico, per il quale Achille omerico

diventa un moderno archetipo morale; si tratta di una riduzione, non più dal grande al

piccolo, ma per così dire, “dal selvatico al domestico”. In sostanza, Pascoli opera secondo i

modi consueti del “fanciullino”, che ingrandisce o rimpicciolisce, per vedere meglio. Qui,

egli riduce l’esistenza eroica, una volta depurata della sua logica di violenza, alle

dimensioni di un’esistenza comune, le sofferenze di Achille alle “traversie” della vita di

tutti i giorni:

« Prepara il cuore alle traversie: verranno. Ricòrdati che si può e si

deve essere eroi anche senza lanciarsi l’un contro l’altro, le lance

guarnite di bronzo. Ricordati che il sommo dell’eroismo non è nel

riluttare, ma nel rassegnarsi (Achille si rassegna alla morte), nel

soffrire anche più che nel fare28.»

Pascoli riconosce nella rassegnazione alla morte l’eroismo sui generis della “passione”,

contro l’eroismo, in senso comune, dell’azione. Achille soffre per la propria umanità: ama

Briseide e Patroclo, che gli vengono tolti; vede mortificato il suo senso di giustizia e

disprezzato l’impegno generoso per la causa degli Achei; la rabbiosa disillusione svuota di

valore il suo desiderio di gloria; l’ira violenta lo rende sanguinario e precipita la sua morte.

Dell’esperienza umana di Achille, Pascoli esalta la sua audace corsa verso la fine, l’assenza

di ogni ombra di viltà. Achille omerico non teme la morte perché la vita non può dargli

più nulla di desiderabile; la morte, invece, riserva la gloria. Achille pascoliano non teme la

morte perché ha paura di vivere sotto il giogo della morte, ripudiare se stesso, l’amore per

Patroclo, e morire “da vivo”. Così, ogni uomo può trovare, nella certezza della propria

mortalità, e in un’esistenza coerente rispetto a questa realtà, l’unica forma di saggezza e di

grandezza realmente praticabile. Il socratico “vivere per la morte” diventa, attraverso la

27 Pascoli si riferisce alla predizione di morte del cavallo Xanto, in Il. XIX 404-424. Poco più avanti ritorna il

ricordo di Il. IX 185-189 (Capecchi, Prose disperse, p. 209). 28 Ibidem.

10

mediazione dell’esempio di Achille, il modello di un’esistenza che corre verso la morte

come celebrazione di se stessa, del proprio libero volere. Poiché l’“esuberanza” della vita e

della virtù non trova, nella dimensione umana comune, riconoscimento e spazio possibili,

nella morte si consuma, affermando ed eternando la propria “innocenza”. Il dovere di

Achille pare, in ultima analisi, il dovere di morire “fanciullo”; morire alla sua natura di

uomo, per affermare la propria “divinità”.

È nelle Note a Sul limitare che compare il riferimento all’etimologia letteraria dei nomi dei

due massimi eroi omerici: Achille, da a]cov , “dolore”, e Odisseo, dalla radice di ojdu>ssomai,

“ho in odio” 29:

« […] sulla nave di Odisseo, dell’eroe dell’odio. Già, dell’odio; e con ciò

non voglio mica affermare che nella parola Odysseo ci sia proprio

questa idea di odio, come né in Achille quella di achos o cruccio.

Affermo solo che degli antichi cantori e uditori qualcuno ce le sentiva

queste due idee e immaginava che gli eroi avessero da quelle il loro

nome. […] Odisseo è perseguitato dall’odio di una divinità […]

Achille è figlio di una dea, giovane, fortissimo, e perde la vita, per il

vigore stesso della sua giovinezza. »

« L’eroe del dolore » e « L’eroe dell’odio » sono i titoli delle due sezioni dell’antologia

dedicate, rispettivamente, alle vicende di Achille e Odisseo. Pascoli vi traduce ampi brani

dei poemi omerici, verso per verso30. In nota ai testi, egli chiarisce ulteriormente il valore

di queste denominazioni:

« È Achille, l’eroe del dolore: Achille nel cui nome risuona come

un’eco d’angoscia (achos cruccio).

Egli è giovane; il più veloce, il più forte, il più grande, il più bello di

tutti, ma è destino che abbia vita breve: ed egli lo sa. […] sa tutto, e

29 Nell’introduzione a Sul limitare, p. 213, Pascoli rimanda, per Achille, a Il. I 188, quando, nel momento della

contesa con Agamennone intorno a Briseide, il nome dell’eroe è associato al suo etimo letterario: Phlei>wni d’ a]cov ge>net' (« al Pelide venne dolore »). Per Odisseo, l’allusione è a Od. I 62, quando Atena si rivolge a

Zeus, durante il concilio divino: ti> nu> oiJ to>son wjdu>sao, Zeu~? (« perché così lo hai preso in odio, Zeus? »). 30 Il metro utilizzato si compone di 17 sillabe, tenendo conto della misura massima dell’esametro greco,

l’esametro olodattilico, composto di 5 dattili (‒∪∪ ₌ una sillaba lunga e 2 brevi), per un totale di 3 sillabe x 5 +

le 2 sillabe dello spondeo o trocheo (rispettivamente ‒ ‒ ; ‒ ∪), canonicamente previsto in V posizione.

11

avanti […] e la sua vita così breve è contristata da ogni dolore […]

era per il popolo il simbolo dell’uomo rispetto agli dei quieti e

immortali, esso martoriato dall’ira e dal pianto, esso morituro dopo

breve giovinezza. Per Platone era l’esempio eroico del DOVERE. Del

dovere compiuto a costo della morte.

[…] È Odissèo o Odisèo (Ulisse), odiato dal dio del mare, che gli nega

pertinacemente il ritorno nella sua patria […]. Egli è il contrapposto

dell’eroe del dolore. È cauto quanto quello è avventato; e ama la vita

e ama la patria, quanto l’altro la gloria e la vendetta31. »

Il nucleo di “ira e pianto” è ancora separato dal tema del “dovere”; ancora, il “vigore” e

l’eccellenza dell’eroe sono indicati, con apparente paradosso, come cause di morte

prematura. Fondamentale è l’esplicita affermazione di Achille quale antico, popolare,

« simbolo dell’uomo. »

Nella prolusione pisana del 1903, La mia scuola di grammatica, Pascoli accosta nuovamente

la figura di Achille a Socrate, e quest’ultimo a Cristo, in nome del “sacrifizio” che essi

hanno compiuto. Per dimostrare e riassumere il valore morale e pedagogico delle

letterature antiche, il poeta ricorda il precetto esiodeo, ple>on h[misu pa>ntov , « la metà è più

grande del tutto », « che circola per tutta la letteratura greco-romana, e la santifica, o volete

piuttosto, la umanizza32. » Questa filosofia della “rinunzia”, nella visione sincretica del

Pascoli, trova il suo compimento ultimo nell’esperienza del Cristo, che si sacrifica. Il

paganesimo e il cristianesimo risultano, così, due momenti storici conseguenti, l’uno

preludio e preparazione dell’altro. Socrate e Cristo sono due figure del “sacrifizio”, nella

storia dell’umanità; Achille, che Socrate stesso prende a modello morale, lo è con loro:

« In vero non ho bisogno di cercare esempi per dimostrarvi l’intima

cristianità delle letterature classiche: tanti gli esempi sono presenti

allo spirito. E al nostro spirito subito, se si parla di sacrifizio,

apparisce non solo il prigioniero d’Atene, ma quello che egli evocava

avanti i cinquecento: l’eroe, figlio di una Dea, che non fece alcun

31 G. Pascoli, Sul limitare, pp. 1 e 202, in nota. È in questa antologia che si fissa in maniera definitiva il

catalogo dei riferimenti ad Achille; le rievocazioni successive dell’eroe, le allusioni al suo mito, prendono

vita da questo materiale.

32 Pascoli fa riferimento al suo “canone” di autori classici, Omero, Orazio e Virgilio, sopra tutti (Prose, La mia

scuola di grammatica, I, p. 255).

12

conto della morte e del pericolo, e più temé il vivere da vile senza

vendicare gli amici. Subito a noi apparisce il primitivo eroe del

dovere, non solo quando dice alla sua madre Dea: - Subito io muoia!

-, ma quando al cavallo parlante di morte risponde: - Lo so da me! –

E spinge avanti i cavalli col grande grido che emise anche il Cristo33.

Profonda somiglianza34! »

La natura cristologica dell’eroe omerico, nell’immaginario del poeta, è qui più che mai

evidente. Il grido umanissimo del dio/uomo, in agonia sulla croce, è accostato al grido di

dolore di Achille — uomo/dio — di ritorno in guerra, solo, abbandonato dall’unico

compagno. A voler osservare nel dettaglio, la « profonda somiglianza », che Pascoli

avverte con emozione, è una somiglianza “rovesciata”. Mentre Achille è nato uomo per

morire, Cristo si è incarnato per vivere eternamente, morendo alla morte; il primo è stato

sacrificato dagli dei per il loro stesso bene, il secondo per il bene degli uomini; il grido di

Cristo esprime l’umanità dolente del dio, il grido di Achille manifesta la potenza

sovrumana dell’uomo.

In ultima analisi, Achille, Socrate e Cristo si sacrificano in nome della coerenza con se

stessi e con la propria causa. In un mondo che non li riconosce, che non può contenere o

comprendere la loro “innocenza”, la loro “fanciullezza”, che è estetica e morale, cioè

poetica, essi muoiono per non rinnegare la loro vita e la loro natura di fronte agli uomini;

per vivere nella “gloria”, in qualunque modo la si voglia intendere.

Nei Pensieri scolastici, Pascoli discute il passo di Od. XI 487-91, in cui Achille, ormai

defunto, rimpiange la vita perduta, invidiando l’umile esistenza di un garzone di

contadino. Il Socrate platonico invita a rigettare questi stessi versi, che istillerebbero negli

uomini la paura della morte.35 Pascoli riprende le parole del filosofo:

« Se c’è negli antichi scrittori il bene, c’è anche il male; se li

assumiamo per il bene, dobbiamo gettarli per il male: dire quello che

Socrate in Platone:

- Daremo dunque di spugna, dico io, a tutte siffatte novelle,

cominciando da questi versi:

33 Matteo 27, 45-50; Marco 15, 33-37; Luca 23, 44-46. 34 Prose, La mia scuola di grammatica, I, p. 257. 35 Platone, Repubblica, III 387 b.

13

Meglio vorrei servire per opera in casa d’un altro,

d’un povero uomo che assai sottili facesse le spese,

ch’essere il re di quanti mai morti la terra consuma.

Queste e sì fatte baie tutte, con buona pace di Omero e degli altri

poeti, rigetteremo, non come non siano poetiche e piacevoli a udire ai

più, ma quanto più poetiche, tanto meno sono da udire da ragazzi e

uomini, che devono essere liberi e temere più la servitù che la

morte36. »

Si ricordi il ruolo pedagogico attribuito al personaggio omerico, modello per i fanciulli,

studenti e lettori delle antologie pascoliane. Da Achille, i giovani devono apprendere la

pratica di un eroismo quotidiano, di fronte alle prove della vita, coincidente, nel fondo,

con l’accettazione coraggiosa della propria umanità. Da essa soltanto deriva la libertà del

volere, la forza di non rinnegare se stessi, per un attaccamento alla vita che sarebbe, in

realtà, una perdita, una “morte in vita”. Quest’ombra di Achille sembra, per quanto

“poetica”, non “buona”, moralmente nociva. La dichiarazione, che compromette l’identità

pascoliana di bello, buono e poetico, non trova, tuttavia, applicazione pratica. Ritroviamo,

infatti, il passo dell’Odissea tradotto in Traduzioni e riduzioni, con il titolo Il supremo

rimpianto, e ricreato nella strofe VII delle Memnonidi.

Da un punto di vista storico-letterario, Achille rappresenta l’incarnazione epica del

“fanciullino”, eterno ed universale. Poiché, nell’estetica del Pascoli, l’epos tende a sfumare i

suoi contorni di genere storico determinato, per fondersi con l’idea stessa della vera

poesia, Achille finisce per essere epico e generalmente poetico, insieme: una figura

archetipica della vera poesia. Pascoli ne evoca ossessivamente alcune espressioni vitali –

l’urlo, il pianto, il canto solitario, il dialogo con gli elementi naturali e gli animali, l’amore

e l’odio estremi, la coraggiosa accettazione del proprio destino – e distingue due volti nel

personaggio, « eroe del dolore » ed « eroe del dovere ». Si è visto come l’interpretazione

del “dovere” di Achille, mediata da Platone, abbia un’applicazione apertamente

pedagogica. Ad essa si intreccia, come vedremo, a livello delle riflessioni morali e etiche

proprie dell’autore, una suggestione profonda di rinnovamento sociale.

36 Prose, Pensieri scolastici, I, p. 640-641.

14

Poeticamente, il nucleo più vivo e più complesso dell’Achille pascoliano sembra quello

dell’achos, nel quale la morte appare il portato naturale di una vita smisurata, esuberante.

Non a caso, la facoltà poetica stessa, che Achille “fanciullino” impersona, rivela un

analogo “eccesso”:

« ‹La facoltà poetica si fonda nella facoltà di ammirare, di

commuoversi, di piangere, di rabbrividire di gioia, di ardere d’un

sacro fuoco che conduce all’olocausto e alla morte›37 »

La poesia si radica, dunque, nel fondo primitivo ed emozionale del soggetto, dove il

« fuoco » rappresenta l’intensa capacità di esperire la vita e, insieme, il pericolo di un

eccesso insopportabile ai limiti umani. Come la poesia oscilla, per così dire, tra ardore e

incendio, Achille oscilla sempre tra commozione e violenza, tra amore e odio. In Omero è

figura non solo della mh~niv , ma anche della filo>thv , che egli dimostra nei confronti degli

Achei, prima dell’offesa, di Briseide, di Patroclo, dei genitori, degli antichi nemici38 e,

infine, di Priamo. Ira e amore sono le manifestazioni vitali più cospicue di Achille; esse

sono le radici stesse dell’achos, del dolore. Il prevalere del volto feroce su quello delicato e

amante volge l’ardore in incendio distruttivo.

Da un punto di vista morale, quando Achille dispera del bene — la giustizia, la

riconoscenza, il valore della virtù e del merito39 —, dimentica la filo>thv e si disumanizza.

In termini danteschi, Achille si rivela un « pargolo di spirito »40. Morendo, egli arresta il

37 M. Perugi, Elementi, p. 406. 38 Si ricordino le parole di Andromaca, Il. VI 414-419. 39 Dopo l’oltraggio di Agamennone, disperando di ogni giustizia, Achille si rivolge a Odisseo, inviato con

Aiace e Fenice per ricondurlo alla guerra, con queste parole: « Parte uguale a chi resta inerte e a chi molto

combatte / godono di pari onore il vile e il valente / muoiono nello stesso modo l’inoperoso e chi molto si

adopera » (Il. IX 318-320; la traduzione è mia).

40 « […] forse la categoria più rilevata nel pensiero estetico e morale pascoliano » (G. Pascoli, Opere, a cura di

M. Perugi, II, p. 1697). Citiamo qui di seguito le riflessioni di Dante sulla « parvolezza di spirito », che

coincide, in sostanza, con il mancato riconoscimento del proprio fine e del bene supremo, che è Dio; l’uomo

« pargolo » cresce fisicamente, ma si attarda, spiritualmente, in una fanciullezza che coincide con

l’immaturità del volere: « La maggiore parte delli uomini vivono secondo senso e non secondo ragione, a

guisa di pargoli; e questi cotali non conoscono le cose se non semplicemente di fuori, e la loro bontade, la

quale a debito fine è ordinata, non veggiono, per ciò che hanno chiusi li occhi della ragione, li quali passano

a veder quello. Onde tosto veggiono tutto ciò che ponno, e giudicano secondo la loro veduta. [...] Questi

15

suo sviluppo a questi stadio incompiuto, di « rampollo d’albero », di « pargolo »,

appunto41.

I passaggi pascoliani su Achille hanno evidenziato come l’ira ne determini la condotta, e lo

domini, nel tormento. Egli rischia di uccidere Agamennone, macchiandosi di un delitto

orrendo; pur volendo combattere, si costringe lontano dalla guerra e dalla gloria, unico

scopo per un eroe. In merito a quest’ultima situazione, Pascoli dice espressamente che

Achille, tutt’uno con il suo fanciullo ideale, « non vuole volere »42. Sono le stesse parole che

compendiano, nella prefazione alla Mirabile visione (1901), un pensiero di Dante:

« - L’uomo non sarà felice se non quando, volendo volere, frenerà le

passioni dannose a sé e ad altrui, e se ne purificherà, e così sarà nello

stesso tempo libero e buono -. »

Achille « non vuole volere » il suo ritorno sul campo di battaglia e, in senso “tecnico”

dantesco, non vuole il bene, si lascia dominare dall’« ira funesta », che perderà prima

Patroclo, e poi lui stesso. Sulla base dell’interpretazione pascoliana di Inf. VII43, Achille

appare “incontinente di quella passione dell’anima che è detta ira”. Il pensiero teologico –

Pascoli dantista spiega – individua un’ira buona, propria di chi desidera che sia fatta

giustizia, cioè vendetta di un’azione ingiusta; questa passione, se moderata, può

alimentare la virtù della « fortezza o magnanimità »; se smisurata, è all’origine dei « vizi

collaterali »: « audacia e timidità, orgoglio e tristizia ». Nella visione del Pascoli, Achille,

pur muovendo da giusto sdegno, finisce per disperare. Egli passa, così, per i vari stadi

della passione smisurata: è audace quando vuole uccidere Agamennone, è tristo quando si

ritira dalla guerra e piange, « nell’ora dell’indignazione dolorosa e disperata »44; è

orgoglioso quando si rifiuta di aiutare gli Achei in rotta. La sua azione, variamente

cotali tosto sono vaghi e tosto sono sazii, spesso sono lieti e spesso tristi di brievi dilettazioni e tristizie,

tosto amici e tosto nemici: ogni cosa fanno come pargoli, sanza uso di ragione. » (Convivio, I 4,3). 41 La metafora vegetale omerica è in perfetta armonia con la categoria dantesca. Si ricordi Dante, Par. XXVII

124 sgg., in cui l’albero che fruttifica è l’uomo libero nel volere il bene, contrapposto all’albero che

« imbozzacchisce », cioè al « parvolo di spirito ». 42 Pascoli evidenzia in corsivo questa espressione (vd. Capecchi, Prose disperse, pp. 199-222). 43 Prose, Sotto il velame, II, p. 500. 44 Prose, La poesia epica, I, p. 771.

16

determinata dall’ira “non buona” e dai vizi conseguenti, favorisce la catastrofe ultima del

suo destino. Divorato dal dolore e dall’ira, il “fanciullino” Achille scorda le ragioni

dell’amore – Patroclo stesso lo rimprovera in sogno – e si autodistrugge, seminando

distruzione intorno a sé. La morte di questo Achille, che trascende più che mai la misura

umana, è la morte di un’anima « pargoletta », che si è smarrita dietro false immagini di

bene (la vendetta contro Ettore e i Troiani, che non allevia un istante il suo terribile

dolore). È anche la morte del “fanciullino” primitivo che, dispiegando il suo volto

“feroce”, afferma la sua innocenza, morendo ad una vita cui è incommensurabile. Il suo

« fuoco » lo anima e lo brucia dall’interno, fino « all’olocausto e alla morte ».

Nella visione pascoliana, “la parvolezza” di spirito di Achille non è riscattata dal

personaggio sul piano morale, ma sul piano estetico. « Bello di sventura », egli non

sopravvive alla propria immaturità spirituale e muore “in fiore”; è l’esuberanza della vita

a consumare la vita stessa. Sopravvivere alla caduta del proprio fiore, significa, infatti,

vivere senza frutto, contristato dall’accidia, come Giovannino.

Il riscatto morale del “fanciullino” primitivo si compie nel “fanciullino riflesso”. Mentre

Achille è l’eroe e aedo, in cui azione e contemplazione coincidono, e il “nomenclatore” di

un cosmo appena nato, il secondo è la sua sopravvivenza; egli è dunque « antichissimo », e

“vecchissimo è il mondo che vede nuovamente” 45. Il “fanciullino” del Pascoli non coincide

in tutto con Achille, perché non può coincidervi:

« In verità, abbiamo un solo linguaggio, ma due modi di portarci

avanti le cose. O le vediamo con comm. E meraviglia, e allora

vogliamo dargli un nuovo nome, o senza e allora chiediamo come si

chiamano. È chiaro che il vero poeta è quello che dà il nome nuovo

alla cosa nuova. Ma questo non può esserlo che al principio, e allora

la poesia e prosa si fondono, e sono la stessa cosa. Dopo ci aiutiamo

con le parole che sappiamo, e le applichiamo in modo non comune.

Ci formiamo una lingua propria46. »

45 Prose, Il fanciullino, I, p. 17. 46 M. Perugi, Elementi, p. 412.

17

Un ritorno diretto all’origine, cioè ad Achille e alla primordiale poesia, non è praticabile

per il fanciullino “riflesso”. Non lo attende il « corto andare », ma « altro viaggio »: « […]

nel poeta riflesso, tra poesia e fanciullezza (che sono in Adamo coincisero) l’unico rapporto

possibile è di mediazione, perseguita attraverso un’operazione di riscatto interiore che è

morale prima che estetico, e consiste nel prendere coscienza della propria parvolezza

d’animo, ricollocandola nella gerarchia che ontologicamente le compete47. »

Il fanciullino “riflesso”, dunque, non è solo una sopravvivenza, ma anche un’evoluzione

di Achille. La sua ferocia disperata è stata addomesticata dall’amore. Non a caso il

fanciullino “riflesso” è « l’invisibile coppiere del farmaco nepenthès e ácholon, contro il

dolore e l’ira48». Il riconoscimento e la volontà dell’amore, come vero bene, in senso

estetico e morale, matura pur sempre dall’esempio di Achille, « eroe del dovere », che si

rassegna alla morte:

« È l’orrore avanti alla natura la quale vi minaccia continuamente, e

ciecamente vi affligge e stermina, che deve essere base, radice, della

giustizia e della pietà. […] Progredire la società umana non può che

verso la verità, e la verità è questa: la morte. […] Perché da cotesta

coscienza verrà in voi lo appaciamento degli odi e delle ire fraterne,

ancor più gravi di ogni altro danno; verrà il vero amore che vi farà

finalmente abbracciare tra voi49. »

Nella visione pascoliana, Achille si rassegna al suo destino di morte, scacciando la viltà e

la paura dal suo animo; egli muore esaltando il suo debito d’amore verso Patroclo. Come

Achille, l’uomo non deve essere schiavo della morte, che rende vili ed egoisti, ma accettare

il comune retaggio di dolore e miseria. Da questo deriva la vera possibilità di progresso e

di riscatto individuale e sociale:

« Uomo, abbraccia il tuo destino! Uomo, rassegnati ad essere uomo!

L’amore, pensa, è ciò che non solo di più dolce, ma di più sacro e di più

47 Queste osservazioni sono parte del commento introduttivo di Perugi a Il sabato (G. Pascoli, Opere, II, a cura

di M. Perugi, p. 1698). 48 Prose, Il fanciullino, I, p. 16. 49 Prose, La Ginestra, I, p. 102.

18

tremendo tu possa fare; perché è aggiungere nuovi sarmenti al grande rogo

che divampa nell’oscurità della nostra notte.

Pensiamo dunque, sempre, in tutto, e siamo pur mesti. Ma saremo

tutti più mesti. E riconosceremo, a questo segno, a quest’aria di

famiglia, a questa traccia di dolore immedicabile, i nostri fratelli per

nostri fratelli. E non saremo pazzi di perseguire una gioia, che

ridondi a dolore del nostro simile, e che non diminuisca d’una linea

il dolor nostro. E i mali che ora ci appariscono come fatali, la lotta

delle classi e la guerra dei popoli, saranno tolti. E sarà dunque una

religione, la religione anzi, che scioglierà il nodo che sembra ora

insolubile. […] la religione prima e ultima, cioè il riconoscimento e la

venerazione del nostro destino50 ».

Francesca Sensini

(Università degli Studi di Genova)

[email protected]

50 Prose, L’Èra nuova, I, pp. 122-123.

19