«Culture del testo e del documento», 13., 2012, n° 38, Maggio‐Agosto.
Kitāb ṣalāt al‐sawā'ī: PROTAGONISTI, VICENDE ED IPOTESI ATTORNO AL PRIMO LIBRO ARABO STAMPATO CON CARATTERI MOBILI CELESTE GIANNI ‐ MICHELE TAGLIABRACCI* Introduzione. Nei primi anni del Cinquecento, i contatti commer‐ciali e culturali esistenti tra Occidente e Oriente erano sufficien‐temente consolidati da permettere la condivisione delle tecniche tipografiche anche nelle regioni arabe. La necessità di utilizzare alfabeti appropriati per la stampa di opere straniere aveva già prodotto edizioni in greco, ebraico, glagolitico, cirillico e armeno. Non deve sorprendere che la stampa con caratteri mobili arabi sia nata e abbia avuto principalmente diffusione in Europa. La tarda in‐troduzione di questa importante tecnica che avrebbe favorito l'e‐spansione del mercato librario è legata a diversi fattori, soprattutto socio‐religiosi: la sacralità della scrittura nella cultura arabo‐islamica sanciva l'importanza del manoscritto, massima forma di espressione, che riproduceva lo stesso alfabeto del Corano, disceso direttamente da Dio. Il testo stampato era invece considerato un oggetto di poco valore, addirittura dissacrante se impiegato per ri‐produrre un'opera religiosa1. La storia della stampa nei paesi arabi è assai recente: solo nei primi anni del 17. secolo sorse vicino ad Aleppo la prima tipogra‐fia dell'Oriente, a Qozhaya, per opera di cristiani maroniti che producevano libri liturgici, mentre la diffusione su grande scala della stampa ebbe inizio in seguito alla campagna d'Egitto condot‐
* Rispettivamente: School of Oriental and African Studies ‐ University of London, e‐mail: <[email protected]>. Biblioteca San Giovanni di Pe‐saro, Biblioteca Comunale Federiciana di Fano, e‐mail: <tagliabrac‐[email protected]>. 1 Sul tema vedi per esempio: JACQUES BERQUE, The Koranic Text: From Revelation to Compilation, in The Book in the Islamic World. The Written Word and Communication in the Middle East, George N. Atiyeh (ed.), Albany, State University of New York Press, 1995, p. 17‐29.
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ta da Napoleone tra il 1798 e il 1801. Per quanto concerne la stampa con caratteri arabi, occorre preci‐sare che "arabo" designa, soprattutto nelle prime edizioni, più che altro una grafia o un alfabeto, e non una lingua2. Nell'Itinerario di Terra Santa di Bernardo di Breydenbach, stampato a Magonza da Erardo Reuwich (1486) compare una tavola dell'alfabeto arabo, ma è anche riprodotta per la prima volta un'intera frase stampata in caratteri arabi: «wa al‐salām» (tradotta con pax, anche se in questo caso dovrebbe intendersi come amen). Risale al 1499 la Hypnerotomachia Poliphili3 di Francesco Colonna, in cui vengono riportate alcune scritte arabe in un'illustrazione raffigurante una statua di elefante che regge un obelisco4. La prima opera completamente stampata con caratteri mobili fu il Kitāb ṣalāt al‐sawā'ī, indicato nelle fonti quale Horologium, Septem horae canonicae5, Horologion6, Precario horarii7, Preces orarie8, e‐dito il 12 settembre dell'anno 1514 per opera del tipografo Grego‐rio de Gregori. Nel colophon, come luogo di stampa viene riportata
2 I caratteri arabi sono stati nel corso del tempo adottati per lingue come il neopersiano, il turco ottomano e altri idiomi turchi dell'Asia centrale (come il pasto e l'urdu). 3 ANGELO MICHELE PIEMONTESE, Le iscrizioni arabe nella Poliphili Hypnero‐tomachia, in Islam and the Italian Renaissance, ed. Charles Burnett, Anna Contadini, London, The Warburg Institute, 1999, p. 207. 4 Un elenco accurato di tutte le occorrenze di testi a stampa con caratteri (isolati o in parole o in frasi) in arabo ‒ siano incisioni o con caratteri mobili ‒ è reperibile alle p. 257‐260 del v. 3 di RIJK SMITSKAMP, Philologia Orientalis. A Description of Books Illustrating the Study and Printing of Oriental Languages in Europe, 3 v., Leiden, Brill, 1976‐1991. 5 CHRISTIAN FRIEDRICH SCHNURRER, Bibliotheca arabica, Halle, I. C. Hendelius, 1811, p. 231. 6 GEORG GRAF, Geschichte der christlichen arabischen Literatur, v. 1., Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1944‐1953, p. 636. 7 SCHNURRER, Bibliotheca arabica cit., p. 232. 8 GIOVANNI GALBIATI, La prima stampa in arabo, in Miscellanea Giovanni Mercati, v. 6., Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1946, p. 409.
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Fano, città delle Marche. Dell'edizione esistono con certezza tredi‐ci copie; inoltre una (conosciuta fino agli anni Ottanta del 20. seco‐lo) non è al momento rintracciabile, mentre di un'altra non ci sono indicazioni del tutto sicure9. Raramente menzionato è l'esemplare
9 Da GIORGIO VERCELLIN, Venezia e l'origine della stampa in caratteri arabi, Padova, Il poligrafo, 2000, p. 62‐63: «M[IROSLAV] KREK, The Enigma of the First Arabic Book, 1979, 3, p. 203, ne cita otto (peraltro la sua congettura che ce ne siano tre alla British Library è del tutto infondata); Hitti parla di quattro copie, mentre secondo Smitskamp 236d ne esistono nove. Le tre‐dici a me note con certezza sono: Milano, Biblioteca Ambrosiana (segn. SP/II/74); Modena, Biblioteca Estense (segn. α. U. 2.1, la copia qui espo‐sta); Parigi, Biblioteque Nationale (segn. Rés. B. 3597); Londra, British Li‐brary (due copie, segn. 876 g 27; segn. OR.70.aa.12); Monaco, Bayerische Staatsbibliothek (segn. Rar. 1348); Norimberga (segn. Rar. 1348); Rostock, Zentralbibliothek Sondersammlungen (segn. Cie‐2370); Uppsala, Bibliote‐ca Carolina (segn. Manuell utl, 1. Litt. Arab. Kristlig [Officium]); Il Cairo, Dār al‐kutub (segn. Ìusūsī 1977‐34136); Princeton, Princeton University Library (segn. Rare Books (Ex) 2272.715.1514; è la copia studiata da Krek e da Hitti). Inoltre Nathalie Rodriguez, capo del servizio Africa e Medio O‐riente della Biblioteca Interuniversitaria di Lingue Orientali di Parigi, mi segnala che tra i fondi sotto le sue cure esisteva una copia del Kitāb (segn. AG.IV.261), di cui però si sono perse le tracce da anni (senz'altro prima del 1993, anno da cui la dott. Rodriguez lavora in tale Biblioteca). Hitti infine ne segnalava un'altra "in the Medici Library at Florence". Questa copia di Firenze era forse quella già segnalata da SCHNURRER, Bibliotheca arabica cit., p. 233‐234. Fumagalli scrive che Giacomo Manzoni ne possedeva un esemplare (GIUSEPPE FUMAGALLI, Lexicon typographicum Italiae, Firenze, Ol‐schki, 1905, p. 120), cosa confermata da Manzoni stesso nei seguenti ter‐mini: "io non ho mai detto, e molto meno stampato, non che di possedere, di conoscere alcuna edizione soncinate di libro scritto in arabo. Conosco invece, e posseggo, nell'esemplare che appartenne al cel. Orientalista Silve‐stro de Sacy le Ore arabe impresse a Fano, e le descrivo in questi annali per più motivi [in realtà la descrizione sembra mancare]. Pochissimi anni or sono [...] me ne capitò a Roma un secondo esemplare, che già appartenne al mio primo professore d'Arabo (ora è un mezzo secolo) nella romana Sa‐pienza, l'Ab. Michelangelo Lanci" (G. MANZONI, Annali tipografici dei Sonci‐no, 1883, v. 1., pt. 2, p. 215‐216)».
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di Firenze, custodito presso la Biblioteca Medicea Laurenziana, er‐roneamente catalogato nella sezione manoscritti10. Si tratta di un rifacimento o adattamento degli Horologia, libri litur‐gici contenenti preghiere notturne e diurne in uso presso i cristiani greci, che venivano recitate privatamente. Anche in Italia questa ti‐pologia di opere aveva avuto parecchie edizioni; proprio in quel tempo gli eredi di Filippo Giunta, nel 1520, avevano allestito un'edi‐zione greca di un Orologion basata su volumi antecedenti. La produzione del Kitāb ṣalāt al‐sawā'ī suscita ancora molti quesi‐ti irrisolti, e i vari studiosi che si sono occupati di questa edizione hanno suggerito numerose ipotesi. Si tratta dunque qui di riporta‐re le possibilità già prese in considerazione e tentare di giungere ad una conclusione che si basi su di esse e sui nuovi elementi otte‐nuti attraverso l'analisi bibliologica e testuale dell'opera. Le tema‐tiche più suggestive trattate in una serie di dibattiti riguardano al‐cuni punti fondamentali dell'edizione: a chi era destinata? Chi fu‐rono i committenti? Perché Gregorio de Gregori, che aveva in Ve‐nezia il suo luogo di produzione, decise di andare a Fano per stampare il Kitāb? Ripercorrendo le vicende che circondano la realizzazione dell'Ho‐rologium, si tenterà di offrire alcune nuove possibili risposte a questi interrogativi e di presentare elementi utili per approfondi‐re ulteriormente la ricerca. 1. Struttura e analisi dell'opera. 1.1 Ripartizione del testo. Il volume del Kitāb ṣalāt al‐sawā'ī qui analizzato è quello della Biblioteca E‐stense di Modena (segn. α. U. 2.1). L'opera, composta da 120 carte, si apre con il frontespizio, seguito dai nove capitoli che compongo‐no la parte testuale e si conclude con il colophon. Solo in uno dei due esemplari della British Library (Or. 70.aa.12) è inclusa una lettera dedicatoria datata 1517. La lingua usata è l'arabo classico del Corano, anche se sono pre‐
10 Segn. MS OR 362. Collocazione gentilmente segnalata da A. M. Piemon‐tese.
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senti termini specifici della liturgia cristiana. La grafia è chiara, ma compaiono alcuni errori ortografici che in parte sono dovuti ad er‐rori di stampa ed in parte sono da far risalire ad una possibile in‐fluenza dell'arabo scritto dell'epoca. Altri errori sono legati alla vocalizzazione, che non è presente per intero, ma solo in alcuni casi: per chiarire la pronuncia, per determinare la funzione grammaticale di una parola o quella morfologica di una sillaba. Gli errori di vocalizzazione possono essere tipografici oppure com‐messi dall'autore stesso. Ad esempio è da considerarsi errore di stampa la sostituzione di una yā con una bā in posizione iniziale o mediana, poiché si differenziano solo per un punto diacritico. Ulte‐riori errori tipografici sono forse relativi alla disponibilità o meno di alcuni caratteri tra quelli incisi. Ad esempio è assente il carattere dell'Alif maqṣūra ,(ى) sostituita sistematicamente con la yā .(ي)Invece l'assenza della hamza (ء) in fine di parola è riscontrabile anche in testi arabi dell'epoca, dunque si presenta come una consuetudine ortografica presente anche nella scrittura araba dei manoscritti. È di diversa natura la presenza della hamza in posizioni in cui non dovrebbe essere: in questo caso si tratterebbe di un errore tipografico. Il colophon invece è caratterizzato da numerosi calchi di parole occidentali, ed è ricco di espressioni e termini cristiani, mentre mancano parole tipicamente islamiche. Le date riportate nel testo si riferiscono solo all'era cristiana, senza accennare a quella dell'egira (622 d. C). 1.2 I nove capitoli del Kitāb. La parte testuale del Kitāb ṣalāt al‐sawā'ī, cioè Il libro della preghiera delle piccole ore è strutturata in nove capitoli che comprendono salmi del re Davide, dossologie, Pater e Credo, suddivisi fra ore diurne e notturne. Ciascun capitolo è aperto da una sorta di basmala11 che non è quella della tradizio‐ne islamica, Bi‐Ism Allāhi al‐Raḥmāni al‐Raḥīmi (Nel nome di Dio il Clemente il Misericordioso), ma è Bi‐Ism Allāhi al‐Hayyi al‐Azalī
11 Con il termine Basmala si indica la formula araba Bi‐Ism Allāhi al‐Raḥmani al‐Raḥīm che apre ogni sura del Corano, tranne la IX.
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(Nel nome di Dio il Vivente l'Eterno). Nella seconda, sesta e nona ora si precisa inoltre che la preghiera è detta 'alà ṭaqs al‐rūmī, cioè "secondo il rito di Roma". Per Balagna si tratterebbe dei riti dei cristiani greco‐ortodossi bizantini melchiti12. All'inizio di ogni ca‐pitolo vengono precisati la preghiera enunciata e il periodo della giornata in cui recitarla. Per distinguere questa introduzione dal testo vero e proprio viene usato l'inchiostro rosso (rubricazione). 1.3. Il Frontespizio. Il frontespizio del Kitāb riporta semplicemente il titolo dell'opera, senza specificare altri dati bibliografici, come l'autore, il luogo, l'anno e l'editore. Ciò aveva fatto supporre che si trattasse di un occhiello. Tuttavia Montecchi13 ricorda che la strut‐tura del frontespizio era, all'epoca, ancora in fase di formazione, negli anni che vanno dalla datazione del colophon (1514) a quelli della lettera dedicatoria (1517). Infatti in alcuni particolari casi veniva stampato sulla prima pagina solo il titolo o il nome dell'au‐tore. Ciò avveniva, ad esempio, per conferire maggiore solennità all'opera o all'autore, oppure quando questi elementi erano suffi‐cienti a distinguere il volume. Anche Aldo Manuzio aveva adopera‐to questa impostazione per le sue edizioni in corsivo ed in ottavo dei classici antichi e moderni14. Nel frontespizio del Kitāb viene conferita maggior solennità al vo‐lume grazie anche ad alcuni elementi decorativi: il titolo è rubrica‐to ed è posto al centro della metà superiore della pagina, incorni‐ciata da un doppio filettato costituito da segmenti stampati in ros‐so e in nero. La trascrizione del frontespizio risulta essere in ogni
12 JOSEE BALAGNA, L'Imprimerie arabe en Occident: XVIe, XVIIe et XVIIIe siècles, Paris, Maisonneuve et Larose, 1984, p.20. 13 GIORGIO MONTECCHI, Analisi bibliologiche sulla prima stampa in lingua araba: Horologium, Fano, Gregorio de Gregori, 1514, in MARIA CRISTINA MISITI. Le mille e una cultura. Scrittura e libri fra Oriente e Occidente, San‐to Spirito (Bari), Edipuglia, 2007, p. 71‐72. 14 LORENZO BALDACCHINI, Aspettando il frontespizio, Milano, Sylvestre Bon‐nard, 2004. Galbiati parla di un titolo «a modo di occhiello» (La prima stampa cit., p. 410).
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documento analizzato Kitāb ṣalāt al‐sawā'ī, tradotto in Montecchi15 «Libro della preghiera delle piccole ore». Nel dizionario arabo‐italiano di Traini troviamo il termine diversamente vocalizzato: «al‐suwai'a», tradotto con "oretta", al plurale «al‐suwai'āt». Secondo Galbiati16 il titolo è sbagliato e dovrebbe essere: Kitābu ṣalāt al‐sawā'iyat. Tuttavia un errore nel titolo è assai improbabile: in realtà il termine al‐sawā'ī potrebbe essere predicato aggettivale di Kitāb, e la traduzione sarebbe quindi "Libro orario della preghiera". In tale caso sarebbe corretto. 1.4 Il Colophon. Il colophon del Kitāb, introdotto da una breve inte‐stazione, occupa l'intera pagina 120r, incorniciata da segni di in‐terpunzione ornamentali. Il testo inizia con l'introduzione di una variante del titolo dell'opera, come avveniva spesso negli explicit dei manoscritti. Galbiati traduce la variante del titolo "Orologio benedetto"17; letteralmente "Libro benedetto delle Ore". Viene poi indicata la data di pubblicazione secondo l'era cristiana: il 12 set‐tembre dell'anno 1514, seguita da varie lodi al Signore che si con‐cludono con l'invocazione, inchiostrata in rosso, Amin. Appare a questo punto un termine di cui la traduzione svolge un ruolo importante per conoscere le dinamiche della realizzazione dell'opera. La parola è ḥatama18. Galbiati e Krek19 la traducono ri‐spettivamente con "stampato" e "printed", mentre Vercellin so‐
15 MONTECCHI, Analisi bibliologiche cit., p. 71. 16 GALBIATI, La prima stampa cit., p. 411. 17 Ibidem. 18 In RENATO TRAINI, Vocabolario arabo‐italiano, Roma, Istituto per l'O‐riente, rist. 2004, del termine ḥatama vengono date le seguenti traduzio‐ni: sigillare, bollare, marchiare, stampigliare, timbrare. In EDWARD WILLIAM LANE, Arabic‐English Lexicon, Beirut, Beirut, Librairie du Liban, 1863. Il termine viene tradotto con: «he saled, stamped, imprinted or impressed». 19 Rispettivamente: GALBIATI, La prima stampa cit., p. 411. M. KREK, The Enigma of the First Arabic Book Printed from Movable Type, «Journal of the Near Eastern Studies», 38., 1979, p. 208.
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stiene che il significato non sia legato alla stampa, e che ḥatama significherebbe piuttosto "completato". Secondo Montecchi questa traduzione sarebbe giustificata dal possibile legame con la tradi‐zione degli explicit dei manoscritti: il termine indicherebbe il completamento dell'attività di scrittura. Dunque si afferma che il volume è stato "stampato" o "completato" per opera di Gregorio de Gregori nella città di Fano. Queste varianti di traduzione hanno portato a diverse ipotesi sull'effettivo luogo di stampa del volume. Altro punto in cui divergono le varie traduzioni del colophon ri‐guarda il termine con radicali ḥ.k.m., vocalizzato nel testo ḥakam20. Galbiati propone come traduzione più fedele di questo passaggio «sotto il governo di Papa Leone», similmente Krek che traduce «du‐ring the reign», mentre Balagna «sous l'égide» e Vercellin «per or‐dine di». Montecchi ritiene più appropriata la traduzione di Galbiati, sostenendo che tale tipo di indicazione temporale e geografica era comune nelle edizioni latine del tempo, in cui oltre a riportare tipo‐grafo, anno e luogo di stampa, si indicava anche «il nome dell'auto‐rità sovrana sotto cui l'edizione ha visto luce»21. Nella parte conclusiva del colophon l'editore chiede al lettore, co‐m'era d'uso, di correggere gli eventuali errori, pregando per il perdono di Dio attraverso il Signore. Anche il colophon, pur essen‐do un elemento paratestuale e di funzione editoriale, presenta una terminologia legata alla sfera religiosa e si conclude con l'invoca‐zione Amin, proprio come una preghiera22.
20 In TRAINI, Vocabolario, cit., ḥakam viene tradotto: giudice, arbitro, refe‐rendario. Probabilmente la vocalizzazione è ḥukm, cioè: giudizio, deci‐sione, sentenza, giurisdizione, ordine, comando, autorità, governo. 21 MONTECCHI, Analisi bibliologiche cit., p. 72‐74. 22 Si propone una traduzione integrale del colophon: «Questo benedetto Libro delle Ore fu completato nel giorno di martedì 12 settembre dell'anno 1514 di nostro Signore Gesù il Messia, sia lode al suo nome. Amen! È stato stampato dal maestro Gregorio della casa di Gregorio della città di Venezia. Stampato nella città di Fano sotto il governo di Sua Santità il Papa Leone che occupa il trono di San Pietro Apostolo nella città di Roma. Se qualcuno trova un errore lo rettifichi e Dio rimetterà a lui i suoi errori attraverso il
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1.5 La lettera dedicatoria del 1517. Nell'esemplare del Kitāb ṣalāt al‐sawā'ī conservato alla British Library di Londra è inclusa una lettera dedicatoria firmata da Gregorio de Gregori in data 1 Di‐cembre 1517, indirizzata a Papa Leone 10.23 Montecchi, Krek, Gal‐biati e Vercellin ritengono che il Kitāb non sia stato ristampato, ma che la lettera sia stata aggiunta tre anni più tardi in seguito ad una seconda distribuzione dell'opera. Invece Rhodes e Ascarelli‐Menato24 ritengono possibile che l'edizione di Fano fosse rimasta
Signore. Amen». 23 Lettera dedicatoria del 1517: Prefazione in latino al Kitāb ṣalāt al‐sawā'ī (dalla copia conservata dalla British Library di Londra, Or. 70.aa.12). «Salutem in Christo Padri et Domino Domino Leoni Pontifici .X. Libellum hunc, Beatissime Pater, quamvis arabice litteris scriptum, pla‐cuit tamen tuo nomini dicare: ut qui sit religione plenus et sacer. Est enim in Beate Virgini quo utuntur hodie quicquid reliqui est in Syria nominis cristiani dicatus. Cum enim Syri quidam adiissent me docuissentque multos esse et in Syria et aliis orientalis Asiae regioni bus qui in sacris hoc litterarum genere uterentur, haud sane ab re fore existimavi si qua possem et hos industria nostra iuvare, qui vel hoc ipso quod deum verum colunt auxilio non indegni exstimandi sunt. Excusi igitur libellum summa quidem difficultate non solum quod rem aliis intentam aggrediebar, sed quotiamo nullum genus litterarum comparandum, idque ita esse testari possunt et huius idiomatis et caeterorum non ignari. Quae ratio erit ut illi quoque haud inviti nobis ignoscant si quid erratum fuerit. Alias si annuet deus (quotiamo ut dici solet semper dies posterior meliora affert) dabimus longe potiora. Paratos enim habemus omnes hymnos quibus donemus illos populus, quo possint verum deum rite piis precibus venerari. Est quidem opus hoc pusillum, fatemur, et Beatitudinis Tue maiestate fautori et totius christianae reipublicae parenti non vedibam. Annue igiturr [così nel te‐sto], Beatissime Pater, ut iturus in Syriam per tot maria gentesque feras presidio nominis tui tutus evadat. Nos quidem ex laboribus nostris fructus amplitudini Sanctitatis Tue gratificari. Vale. | Gregorius de Gregoriis Venetus S. P. D. | Venetiis Kal. Decembribus .M.D.XVII.» 24 Rispettivamente: DENNIS RHODES, Carolus Paganus, De passione Christi et son imprimeur, «Buletin du bibliophile», 1., 1986, p. 51. FERNANDA A‐SCARELLI‐MARCO MENATO, La tipografia del '500 in Italia, Firenze, Olschki,
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incompleta, che sia stata completata a Venezia nel 1517 e poi pubblicata con l'aggiunta della lettera. Le lettere dedicatorie svolgevano una funzione importante nel processo editoriale sia del manoscritto che del libro stampato perché costituivano un primo approccio con il pubblico, mediato dalla figura del dedicatario25. La lettera, indirizzata a Papa Leone 10., è scritta in latino, arricchita da termini e forme sintattiche e‐laborate secondo lo stile del latino umanistico, perché fosse ade‐guata alla figura del destinatario. Il Kitāb viene qui spesso definito libellus, piuttosto che liber, probabilmente in relazione sia alla ri‐stretta dimensione del volume (120 c. in ottavo) sia al genere let‐terario, in quanto il termine libellus può essere anche tradotto come taccuino, registro, e quindi più adatto ad un Libro d'Ore. Proprio in questa lettera si fa riferimento ai possibili committenti, cioè alcuni cristiani di Siria che avrebbero informato lo stesso Gre‐gorio de Gregori riguardo l'uso e la necessità di opere come queste nella liturgia cristiana orientale. De Gregori sottolinea, nella parte centrale della lettera, quanto sia difficile l'uso dei caratteri arabi per la stampa, così chiede perdono ai lettori per gli eventuali errori e sollecita loro consigli per poter migliorare le possibili future ri‐stampe. Queste dediche venivano usate per promuovere la propria immagine, e quindi venivano arricchite con le prospettive fiduciose degli editori. Anche in questo caso, Gregorio de Gregori ammette l'intenzione di voler continuare a stampare altri libri in arabo per la liturgia cristiana, dei quali però non ci è giunta alcuna testimonian‐za. Queste affermazioni sono solo di circostanza, oppure Gregorio si aspettava che in futuro avrebbe potuto godere di qualche privilegio
1989, p. 202. 25 MARCO PAOLI, Ad Ercole Musagete. Il sistema delle dediche nell'editoria italiana di antico regime, in I dintorni del testo. Approcci alle periferie del libro: Atti del Convegno internazionale, Roma, 15‐17 novembre, Bologna, 18‐19 novembre 2004, a c. di Marco Santoro, Maria Gioia Tavoni, 1., Ro‐ma, Edizioni dell'Ateneo, 2005, p. 149‐165. Sulle dediche del Cinquecen‐to si veda il trattato di GIOVANNI FRATTA, Della dedicazione de' libri, Vene‐zia, Angelieri, 1591.
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per i caratteri arabi? Alla luce dei fatti, l'assenza di ulteriori pubbli‐cazioni con questi tipi, inducono a considerare tali affermazioni come consuetudine introduttiva, al pari delle successiva premura nell'esprimere l'inadeguatezza del libellus di fronte alla maestà pon‐tificia (unica in grado di proteggere il viaggio del Kitāb). In conclu‐sione, il tipografo afferma che la ricompensa maggiore per il suo operato è sapere di godere della benedizione papale, grazie all'im‐pegno preso nei confronti delle comunità cristiane d'Oriente. Probabilmente la lettera fu aggiunta non solo nel volume indiriz‐zato al Papa, ma anche in quelli messi in commercio nel 1517. In‐fatti l'ipotesi più accreditata è che vi siano due date di emissione (intesa come distribuzione): il 12 settembre 1514 e il primo di‐cembre 1517. La prima emissione del volume avveniva nel secon‐do anno del pontificato di Leone 10., mentre la seconda coincideva con l'ultimo anno di vita del Concilio Lateranense 5., voluto da Giulio 2. nel 1512. Per quanto riguarda l'edizione del 1517, non si tratta di una ri‐stampa dell'intera opera, ma solo della rilegatura del foglio della lettera dedicatoria con le carte del primo fascicolo. Anche il conte‐nuto della lettera suggerisce che già nel 1514 era stato divulgato il volume, in favore del pubblico dei cristiani di Siria: che fosse già stato pubblicato nel 1514 è anche accreditato dal fatto che nelle altre copie da noi possedute non sia presente la lettera dedicato‐ria. 2. Contesto storico‐geografico dell'opera. 2.1 Committenti. Nel Kitāb non esistono specifici riferimenti ad una committenza. Balagna presume che potrebbe esservi stato un finanziamento per soste‐nere la produzioni del Kitāb ṣalāt al‐sawā´ī da parte di Giulio 2., nel 1512, anno dell'apertura del Lateranense 5.26; di questo parere è anche Hitti27, ma ad oggi non si ha nessun breve o bolla che atte‐
26 BALAGNA, L'Imprimerie cit., p. 19. 27 PHILIP KHURI HITTI, The First Book Printed in Arabic, «Princeton University Library Chronicle», 4., Princeton, Princeton University Press,
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sti questo appoggio28. Tale ipotesi è presa in considerazione dallo stesso Krek anche se osserva la totale mancanza di documenta‐zione riguardo all'incarico e riferimenti al pontefice in sede dedi‐catoria. Da non dimenticare che il progetto dell'edizione dell'Horo‐logium cadrebbe sotto il pontificato di Giulio 2., essendo stato pubblicato appena diciotto mesi dopo l'incoronazione papale di Leone 10.29 Va riconsiderato anche il ruolo di questi, per altro menzionato sia nella prefazione in latino del 1517, sia nel colo‐phon in arabo, poiché la traduzione dall'arabo di «taḥta ḥakam» è da intendersi "sotto il governo di" piuttosto che "per ordine di" Leone 10.30 Escludendo dunque mandati pontifici, è più verosimile ricondurre la realizzazione dell'opera ad un'opportunità commerciale, come si può desumere anche da questo passo della lettera dedicatoria: «Cum enim Syri quidam adiissent me docuissentque multos esse et in Syria et aliis orientalis Asiae regionibus qui in sacris hoc litte‐rarum genere uterentur, haud sane ab re fore existimavi si qua possem et hos industria nostra iuvare, qui vel hoc ipso quod deum verum colunt auxilio non indigni existimandi sunt». 2.2.1 Destinatari. Nella dedicatoria del 1517, presente unicamente nel volume conservato alla British Library, si accenna ai possibili destinatari dell'opera, cioè i cristiani di Siria. Tuttavia occorre precisare che vi erano diverse comunità di cristiani in tale regione, appartenenti a varie confessioni: ortodossi, cattolici, monofisiti,
1942, p. 147; JOHN MARY LENHART, The First Book Printed in Arabic Characters, «American Catholic Quarterly Review», 4., Philadelphia, Hardy & Mahony, 1917, p. 60. 28 STEFANO EVODIO ASSEMANI, Bibliothecae apostolicae Vaticanae: codicum manuscriptorum catalogus, v. 1., Paris, Maisonneuve, 1926, p. LXI. 29 KREK, The Enigma cit., p. 203, 209. 30 VERCELLIN, Venezia cit., p. 412. L'autore sottolinea che il termine qui u‐sato si riferisce in prima istanza al dominio e al governo del territorio, piuttosto che a un ordine o a un comando, per il quale non avrebbe usato questa preposizione.
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nestoriani. Tutte le chiese cristiane orientali si sono formate a par‐tire dai quattro Patriarcati di Alessandria, Antiochia, Gerusalem‐me e Costantinopoli, anche se c'è una certa coincidenza, per quan‐to riguarda tradizioni culturali e liturgiche, tra i Patriarcati di An‐tiochia e di Gerusalemme. Quindi, almeno territorialmente, si pos‐sono circoscrivere tre gruppi che divergono per tradizioni e litur‐gia. Per comprendere a chi fosse rivolto il Kitāb, occorre analizza‐re alcuni punti: i rapporti che vi erano tra le varie chiese cristiane d'oriente e la sede pontificia di Roma; l'uso nella liturgia di tali chiese dell'arabo anche in forma scritta; la corrispondenza dei contenuti del volume con quelli delle varie confessioni. Secondo Georg Graf (citato da Krek)31 l'opera era destinata ai Mel‐chiti. Krek sostiene che si tratterebbe di alcuni salmi nella tradu‐zione dal greco all'arabo del vescovo melchita dell'11. secolo, 'Abd Allah Ibn al‐Fa�l. Anche per Balagna il volume sarebbe rivolto ai «Chrétiens grecs orthodoxes byzantins melkites... de langue ara‐be»32. Invece Schnurrer sostiene che siano le Sette Ore Canoniche recitate dai laici di rito Giacobita33 sottoposti al Patriarca di Ales‐sandria. Questa tesi sarebbe inoltre sostenuta dalle raffigurazioni presenti nel volume che riportano un tipico uccello egiziano, l'ibis. Secondo Hitti, il Kitāb era un testo con finalità missionaria tra i musulmani34. Montecchi invece ritiene possibile che i committenti fossero maroniti, perché proprio in quel periodo si erano intensi‐ficati i rapporti tra Chiesa maronita e romana. 2.2.2 La Chiesa Maronita. La Chiesa maronita è una chiesa cattolica sui iuris, poiché mantiene riti derivati dalla tradizione siro‐antiochena. I Maroniti sono una comunità cristiana che prende il nome dal monastero di San Marone, distrutto nel 10. secolo, che
31 KREK, The Enigma cit., p. 206. 32 BALAGNA, L'Imprimerie cit., p. 18. 33 SCHNURRER, Bibliotheca arabica cit., p. 231. Il termine "giacobita" fu da‐to dagli ortodossi fedeli ai dettami del concilio di Calcedonia ai monofisiti d'Egitto e di Siria considerati discepoli di Giacomo il Cencioso, monaco che organizzò in clandestinità le Chiese monofisite delle due regioni. 34 HITTI, The First Book cit., p. 5.
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sorgeva ad Apamea di Siria, attorno alla Chiesa che custodiva le reliquie di questo santo anacoreta vissuto tra 4. e 5. secolo. Durante le controversie cristologiche del 6. secolo i maroniti ap‐poggiarono la definizione di Calcedonia (451)35. In seguito alle conquiste arabe la comunità si spostò nei monti del Libano che di‐ventarono sua sede spirituale a partire dal 939 con il trasferimen‐to del patriarcato dalla sede di Antiochia. All'epoca delle Crociate i maroniti parteciparono saltuariamente al fianco della Chiesa ro‐mana fino al 15. secolo. Questa unione con la Chiesa romana non ha provocato nessuno scisma all'interno della comunità maronita, che successivamente, durante il periodo ottomano, fu protetta dai francesi. Durante il Concilio Lateranense 5., si intensificarono i rapporti tra Chiesa maronita e romana. Agli inizi del 1514 giunse a Roma un rappresentate del patriarca Simon Pietro che consegnò l'8 marzo 1514 una lettera in cui veniva esposto lo stato della Chiesa maro‐nita e dei riti orientali. Il Papa rispose aggiungendo inoltre «mul‐tos habemus arabicarum notarum peritos interpretes»36 e che dunque l'inviato del Patriarca poteva tranquillamente parlare in arabo. Fu proprio durante il Lateranense 5. che si consolidarono i rapporti tra la Chiesa maronita e Roma. Il Papa inviò infatti in O‐riente il frate minore Giovanni Francesco da Potenza che portò va‐
35 Così afferma il dettato dogmatico del concilio di Calcedonia: «Inse‐gniamo a confessare un solo e medesimo Figlio: il Signore nostro Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, uno e medesimo Cristo Signore unigenito; da riconoscersi in due nature, senza confusione, immutabili, indivise, in‐separabili, essendo stata salvaguardata la proprietà di ciascuna natura, e concorrendo a formare una sola persona e ipostasi; Egli non è diviso o separato in due persone, ma è un unico e medesimo Figlio, Verbo e Si‐gnore Gesù Cristo». 36 Sull'intera vicenda dei contatti tra le chiese orientali e il papato si v. Historie de Conciles d'après les documents originaux, a c. di Carl‐Joseph Hefele, trad. francese aumentata da note critiche e bibliografiche di Dom Henri Leclercq, v. 8., Paris, Librarie Letouzey et Ané, 1917, parte 1., p. 507‐513, in part. p. 108.
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ri doni, tra cui libri pontificali da usare durante i riti sacri. La liturgia maronita è di tipo siro occidentale, ma in seguito all'av‐vicinamento alla Chiesa di Roma ha subito un processo di latiniz‐zazione. Il Patriarca di Antiochia (con sede a Bkerke), che attualmente reg‐ge la confessione, è anche cardinale della Chiesa cattolica. 2.2.3 La Chiesa Melchita. Il termine "melchita" fu attribuito ai cri‐stiani dell'area sira che avevano accettato la definizione cristologi‐ca di Calcedonia, da parte dei loro avversari monofisiti che, nono‐stante le persecuzioni di Giustino e Giustiniano, difendevano l'una natura di Cristo. Tale parola deriva dalla radice siriaca malka (re). I monofisiti accusavano i melchiti della loro dipendenza dalla sede imperiale, che li condusse ad una graduale bisantinizzazione. An‐che i monofisiti d'Egitto diedero il titolo di "imperiali" (basilikoì) agli ortodossi, ma il termine sopravvisse nella forma di origine a‐raba malakajjah, ossia melchiti. Sia in Siria che in Egitto intorno al 10. secolo i melchiti abbando‐narono i riti siro antiocheni a favore di quello bizantino. Nel 17. secolo la comunità di rito bizantino si unì a Roma. Si tende a defi‐nire melchiti solo i cattolici tornati all'unione dallo scisma. Tutta‐via questi melchiti greco‐cattolici vanno distinti dai melchiti ro‐mano‐ortodossi, che invece appartengono alla confessione orto‐dossa, a cui probabilmente era destinato il Kitāb. Perché scegliere di stampare un Libro d'Ore per i riti della Chiesa melchita? La liturgia dei cristiani ortodossi melchiti si esprime in greco, ma anche in arabo. Dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, un'importante colonia greca e cristiana era emigrata a Vene‐zia e sulla costa adriatica, dove si era insediata; un altro gruppo di melchiti si era invece stabilito in Turchia, in seguito alla vittoria del sultano Muḥammad 2. Nel 1514 questi melchiti avevano rafforzato il potere del proprio Patriarca e favorito la convivenza con il potere turco. Proprio in questi anni Roma stava analizzando le conseguenze della rottura del 1054 con le chiese orientali e tentando di approc‐
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ciarsi nuovamente ad esse. Se con i maroniti i rapporti erano già consolidati, altri sforzi andavano fatti per aumentare l'influenza della Chiesa romana presso le altre comunità cristiane d'Oriente. Appare giustificata la tesi che il Kitāb fosse destinato ai melchiti, in particolare a quelli di confessione ortodossa, in quanto usavano la lingua araba nella loro liturgia, affiancata al greco, ed avevano e‐spresso più volte l'esigenza di testi scritti in arabo, e non solo in greco, per la preghiera. Inoltre, ammettendo o no la possibile commissione dell'Horologium da parte di Giulio 2. o di Leone 10., si può in ogni caso considerare la pubblicazione di tale opera un atto strategico, volto a riconsiderare i rapporti con questa chiesa ortodossa che si stava legando sempre più al tollerante potere ot‐tomano. Un elemento decisivo che porta ad affermare con certezza che si tratti di un testo destinato ai melchiti, di rito greco bizantino, è stato il confronto dell'Horologium di de Gregori con un Horolo‐gium utilizzato ancora oggi dai melchiti per la liturgia quotidiana. Si tratta di un volume stampato nel 1985, intitolato Al‐Ūrūlūjīun Ay Kitāb al‐Sā'āt (al‐m'rūf bil‐sauā'iyyat)37, utilizzato dai melchiti per la liturgia domenicale celebrata presso la Chiesa di Santa Ma‐ria in Cosmedin di Roma. Quest'opera è divisa in due parti, di cui la prima coincide perfettamente con l'Horologium del 1514, ad ec‐cezione di alcune indicazioni riguardanti gli atti liturgici da com‐piersi durante la preghiera, di alcune preghiere in greco inserite nei vari capitoli, di alcuni capitoli aggiuntivi38.
37 Wayalih, Auktū'īḫus al‐Aḥād, 1985. 38 Precisando le distinzioni, si osserva che il 1. capitolo coincide in en‐trambe le opere (cioè comprende lo stesso contenuto); il 2. capitolo del‐l'Horologium del 1985 corrisponde al 2. e 3. capitolo dell'altro; il capitolo 3. del primo corrisponde in gran parte al capitolo 4. del secondo, tuttavia vengono inserite nell'Horologium del 1985 alcune preghiere in greco e altri salmi che mancano in quello edito da de Gregori. Il capitolo 4. del‐l'Horologium del 1985 corrisponde al 5. della cinquecentina: confrontan‐do i testi si notano solo alcune differenze di lessico, dovute essenzial‐mente alle variazioni linguistiche date dalle diverse epoche di edizione.
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Si può concludere che si tratta della stessa opera: anche nel volu‐me del 1514 vengono inserite parole greche traslitterate in arabo, che indicano certamente che si tratta di un testo di rito greco bi‐zantino. L'unica incertezza che rimane riguarda la confessione dei melchiti ai quali era indirizzata tale opera. Infatti, la scissione dal‐la Chiesa ortodossa risale definitivamente al 1724, quando la Chiesa melchita abbraccia la confessione cattolica. I destinatari erano certamente i melchiti di rito greco bizantino, ma ancora di confessione ortodossa39. Altro indizio che spinge ad identificare i La corrispondenza del capitolo sulla preghiera della sesta ora non è data solo dai salmi riportati in entrambi i volumi, ma anche dalla preghiera aggiuntiva presente nei due Horologia, sebbene in quello più recente ne vengano aggiunte anche altre. Il 6. capitolo della'edizione cinquecentina non è presente in quella più tarda; invece il capitolo 7. corrisponde in en‐trambe, e si tratta della preghiera delle ore otto. L'8. capitolo corrispon‐de in entrambi i volumi, sebbene l'Horologium del 1514 inizi direttamen‐te dal salmo 103, saltando alcune preghiere introduttive. Viene a questo punto saltato nella cinquecentina un intero capitolo del volume del 1985. Mentre il 9. ed ultimo capitolo del Kitāb corrisponde all'ultimo capitolo della prima parte dell'altro. 39 Nel 6. capitolo del Kitāb vengono riportati i Salmi del Re Davide 53., 54. e 90. e alcune preghiere aggiuntive. Il Libro dei Salmi è un testo contenuto nella Bibbia ebraica e cristiana, composto da 150 capitoli, che la tradizione attribuisce in parte al Re Davide. La numerazione dei Salmi varia in base al testo considerato. Infatti ne esistono due versioni: il testo ebraico masore‐tico e i manoscritti greci della versione detta Septuaginta. La numerazione dei Salmi riportati nel Kitāb corrisponde a quella dei Salmi della Septuagin‐ta, cioè alla numerazione greca. L'ipotesi che i destinatari fossero melchiti risulta quindi ancor più accreditata, visto che la liturgia scritta di questa comunità religiosa era soprattutto in greco; invece quella maronita preva‐lentemente in siriaco e successivamente in latino. Sebbene non sia stato attestato il traduttore, è possibile giustificare l'ipotesi di Krek che si tratti di una traduzione dell'11. secolo fatta dal vescovo melchita 'Abd Allah Ibn al‐Faḍl. Dalla traduzione di questo capitolo infatti si denota un arabo scor‐revole, privo delle tipiche forzature date dalla traduzione letterale di un testo. Ciò avvalorerebbe l'ipotesi che l'opera fosse già stata tradotta da tempo, e ormai assimilata dalla tradizione liturgica in arabo, anche se con‐
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melchiti come destinatari del testo in esame, è la comparsa, a di‐stanza di due secoli dall'edizione de Gregori, di un altro Horolo‐gium in greco e in arabo, stampato in Europa orientale. 2.3 L'Horologium di Bucarest: un salterio melchita in Europa orien‐tale. Nel 1702 viene stampato a Bucarest un Horologium in greco e in arabo, di rito bizantino melchita. Il volume, inchiostrato in "ros‐so e nero", presenta caratteri arabi relativamente grandi e non vo‐calizzati. Come il volume di de Gregori, questo Horologium ha una storia complessa. L'opera fu commissionata da Atanasio 3. Dabbas, Patriarca orto‐dosso melchita di Antiochia, che vi aggiunse una prefazione e lo dedicò al principe di Valacchia, Costantino Bassaraba. Atanasio 3. rappresenta quei cristiani d'oriente ortodossi che la Chiesa di Ro‐ma voleva riportare al proprio fianco; egli divenne dunque pa‐triarca per un certo periodo, dopo essersi alleato con Roma, anche se poi si ritirò. Nel 1702 si recò in Valacchia dove conobbe il Voi‐vode Costantino Bassaraba. La Valacchia divenne vassalla della Turchia dopo il 13. secolo. Al‐l'inizio del 18. secolo ancora non esistevano tipografie promosse da missionari europei, nemmeno a Costantinopoli o ad Aleppo. In questo periodo, i cristiani siriani melchiti iniziano a sentirsi in‐soddisfatti di una liturgia solo in greco, e manifestano l'esigenza di produrre il proprio patrimonio di preghiere, salmi, omelie in ara‐bo, anche per proprio conto. I melchiti di Siria, che erano sotto la protezione dell'Impero ottomano, presero così contatti con i cri‐stiani greco ortodossi della Valacchia, la cui liturgia era stata ara‐bizzata nel 16. secolo. A quel tempo la Valacchia presentava un certo sviluppo culturale. Fu dunque normale che Atanasio 3. si re‐casse a Bucarest per realizzare questa stampa e preparare l'istal‐
frontando la traduzione in italiano di questi Salmi (nella versione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana), risulta una notevole corrispondenza, nonostante manchino alcuni passaggi nella versione araba che riguardano più che altro le istruzioni liturgiche.
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lazione ad Aleppo di una stamperia melchita. L'arabo usato nell'Horologium di Bucarest non è quello classico accademico, ma è un arabo parlato, a differenza di quello del Kitāb di Fano che invece è in arabo classico. Nella prefazione, fatta da Atanasio 3., viene precisato che il volume è destinato agli ortodos‐si che vivono nei paesi arabi. L'entusiasmo suscitato da questa o‐pera tra i cristiani melchiti fu probabilmente dovuto al fatto che dopo l'Horologium di Fano non vi erano state più produzioni de‐stinate a questa chiesa orientale. Tale dato potrebbe confermare l'ipotesi che non si fosse trattato di una commissione da parte del Papa per la produzione del volume, poiché in tal caso probabilmente ci sarebbe stata maggior conti‐nuità nei rapporti tra le due Chiese. Inoltre la Chiesa romana a‐vrebbe favorito maggiormente la produzione di opere rivolte ai melchiti appartenenti alla confessione cattolica, piuttosto che a quella ortodossa. È plausibile che grazie ai contatti con la comuni‐tà dei greci ortodossi presente a Venezia già dal 1453, Gregorio de Gregori abbia voluto invece produrre un'opera dai grandi poten‐ziali commerciali. 3. Analisi bibliologica. 3.1 Composizione, formato e impaginazione. Il volume è composto da quindici quaderni di 8 carte per un totale di 120 carte della dimensione di circa 165x108 mm. Il formato in ottavo è costituito da una serie di fascicoli ricavati da un unico grande foglio di stampa, piegato tre volte a metà, che dà origine a otto carte, cioè a sedici pagine. Trattandosi di un testo redatto in lingua araba, la scrittura pro‐cede da destra a sinistra; perciò anche la piegatura del foglio di stampa e l'impostazione delle pagine su di esso avvenivano spe‐cularmente rispetto alle stampe latine. Di conseguenza, la distri‐buzione del testo nelle diverse pagine del foglio di stampa avve‐niva anch'essa in modo speculare rispetto a quello della tipogra‐fia latina, così come avveniva nella tipografia ebraica già speri‐mentata da Gershom Soncino. Mentre nel foglio di stampa latino, preparato per essere impresso dal torchio, la prima pagina del
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fascicolo da stampare in ottavo si trovava a destra in basso, nel foglio di stampa ebraico ed arabo questa si trovava sempre in basso, ma a sinistra. Montecchi approfondisce l'analisi dello specchio di stampa del‐l'Horologium, cioè lo spazio occupato nella pagina dal testo, che è delimitato da una cornice costruita con filetti tipografici in cui i la‐ti misurano 136 mm in altezza e 85 mm alla base; l'autore segnala che «ci troviamo di fronte a un rettangolo della sezione aurea, una delle figure geometriche maggiormente diffuse [...], cui si attribui‐vano in campo compositivo caratteristiche di equilibrio ed armo‐nia, tanto da essere considerata alla base della stessa proporzione dell'universo, e detta per questo divina»40. Anche lo spazio della scrittura, all'interno della cornice, offre la medesima proporzione della sezione aurea: avendo l'altezza di 122 mm e la base 75 mm, tenuto conto di un minimo margine di tolleranza da accampare sempre in opere compiute con procedure artigianali, cioè in gran parte manuali. Lo specchio di stampa delle pagine, che invece dei filetti hanno per ornamento cornici silografiche, presenta anch'es‐so un rettangolo della sezione aurea: 95 mm di altezza su una base di 59 mm41. Il doppio specchio di stampa, cioè lo spazio che unisce all'interno di un medesimo ampio rettangolo l'intero testo stampato presente sulle due pagine del libro aperto davanti al lettore, misurato sui lati esterni dei filetti con una base di 192 mm e un'altezza di 136 mm, porta a un rettangolo che si avvicina a quello della propor‐zione invariante. Molto probabilmente, questo esito è da attribuirsi al caso o ad una semplice conseguenza delle altre procedure di impaginazione più che ad un vero e proprio sistema di progettazione. Ci troviamo in‐fatti già nel secondo decennio del Cinquecento, quando la proget‐tazione grafica più che con procedure strettamente compositive (come avveniva nel manoscritto e nelle prime edizioni a stampa,
40 MONTECCHI, Analisi bibliologiche cit., p. 83‐86. 41 Ibidem.
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con l'uso quindi di riga e compasso) procedeva già, molto proba‐bilmente, per accostamento di moduli predefiniti e fissi, visiva‐mente qui testimoniati dai legni rettangolari per le silografie che andavano ad occupare i margini lasciati liberi dalla scrittura. I singoli quaderni o fogli di 16 pagine, sono numerizzati per la fasci‐colazione nella parte bassa della prima pagina di ogni quaderno, fra l'ultima riga di testo e la filettatura interiore con la collocazione in rosso di una specie di virgola rovesciata (') molto marcata e simile a quella che si trova talvolta anche nel testo, ripetuta tante volte, pro‐gressivamente conforme al numero di posizione del foglio. Ad e‐sempio, l'ultimo foglio che è il quindicesimo, porta 15 virgole capo‐volte allineate42. 3.2 Caratteri e inchiostri. Il Kitāb costituiva un'impresa partico‐larmente complessa, la cui principale difficoltà consisteva nella produzione dei caratteri; una realizzazione più elaborata rispetto ai caratteri greci e latini corsivi creati da Aldo Manuzio con la col‐laborazione di Francesco Griffo, e ai caratteri ebraici di Gershom Soncino. Tra le ipotesi, c'è anche quella secondo cui Gregorio de Gregori, come già Manuzio e Soncino, si sia servito, anche in que‐sta realizzazione, dell'abilità di Francesco Griffo: è molto suggesti‐vo pensarlo ma non abbiamo nessun tipo di documentazione di‐retta. La notizia della partecipazione di Francesco Griffo alla prepara‐zione dei caratteri arabi è stata recentemente ripresa, seppure in modo leggermente dubitativo, da Huda Smitshuijzen Abi Fares, in un'opera sulla tipografia araba, in cui scrive «the Italian typogra‐pher Francisco Griffo – the man responsible for cutting the first Italics for the printer Aldus Manutius – is assumed to be the au‐thor of these Arabic fonts. This assumption is based on the fact that Griffo had a professional relation with the printer who produced this book»43. Allo stato attuale delle ricerche, l'incisore
42 GALBIATI, La prima stampa cit., p. 410. 43 HUDA SMITSHUIJZEN ABI FARES, Arabic Typography. A Comprehensive
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dei caratteri arabi e coloro che prepararono le matrici in rame u‐sati da de Gregori sono purtroppo ignoti. La più grande difficoltà, maggiore di quella affrontata da Aldo Ma‐nuzio e Francesco Griffo di fronte al corsivo degli umanisti, fu la necessità di rendere il ductus, cioè il tracciato della mano che scri‐ve, entro il rigido modulo del carattere tipografico. L'esito, per quanto perfetto dal punto di vista strettamente tipografico, non poteva né potrà mai soddisfare appieno l'occhio del lettore abitua‐to alla varietà e alla complessità dei calligrafismi dell'arabo. Una nota in tedesco apposta su un foglio inserito in una copia del British Museum (collocazione R. 70.aa 12), identifica il libro come un manoscritto44. Geoffrey Roper trova proprio nella natura corsi‐va della scrittura araba una delle ragioni che hanno ritardato l'in‐troduzione della stampa presso questi paesi45. In questa opera di avvicinamento alla scrittura, forse Gregorio de Gregori aspettava consigli e suggerimenti da quanti conoscevano la lingua e la scrit‐tura araba, proprio per avvicinare maggiormente i suoi testi alla scrittura manuale, e chiedeva loro di collaborare per rendere me‐no imperfette le edizioni future, poiché, come chiosa nella dedica in latino dell'esemplare della British Library: «semper dies poste‐rior meliora affert». Montecchi prende in esame le tre serie alfabetiche di caratteri u‐sata da de Gregori in quest'opera (A 408, A 250, A 204). Con la prima, non completa, sono state incise, fuse e stampate solo le let‐tere presenti nel titolo: Kitāb ṣalāt al‐sawā'ī. I caratteri tipografici
Sourcebook, London, Saqui Books, 2001, p. 45. Si v. soprattutto TIZIANA PESENTI, De Gregori, Giovanni e Gregorio, in Dizionario Biografico degli Ita‐liani. De Fornari‐Della Fonte, v. 36, Roma, Istituto della Enciclopedia Ita‐liana, 1988, p. 202‐207. L'autrice parla sia del carattere latino inciso da Francesco Griffo per Gregorio de Gregori, sia dell'edizione dell'Horolo‐gium, Fano, 1514 (p. 206). Tra il 1512 e il 1523 de Gregori pubblicò nu‐merosi breviari e libri liturgici (p. 205). 44 KREK, The Enigma cit., p. 204. 45 GEOFFREY ROPER, Arabic Incunabula, «L'Arabisant», 21., 1982, Paris, As‐sociation Française des Arabisants, p. 20.
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sono di grandezza tale da far occupare alla frase una sola riga, po‐sta esattamente sulla linea che divide a metà il rettangolo di scrit‐tura delimitato dalla cornice a doppio filetto. Secondo il metodo di misurazione già adottato per gli alfabeti latini e greci dai biblio‐grafi, potremmo dire che siamo di fronte a un carattere da desi‐gnarsi come A 408: la lettera A significa che si tratta di un caratte‐re arabo (come si usa la lettera R per romano, la G per gotico, la C per corsivo e Gr per greco); 408 sono i millimetri che misurano in altezza 20 righe di testo stampate con questo carattere, secondo una convenzione comunemente accettata dai bibliografi, per avere parametri di rapida e facile registrazione nell'analisi delle antiche edizioni. In verità qui si dà l'indicazione delle 20 righe per ulteriori compa‐razioni, poiché in questa edizione esiste una sola riga, quella del titolo, che misura in altezza mm. 20,40 che moltiplicati per 20 ci danno la formula A 40846. Gregorio de Gregori ha fuso solo altre due serie di caratteri arabi: uno qui denominato A 250 e l'altro A 204. Il carattere A 250 misura circa i tre quinti rispetto al caratte‐re A 408 del frontespizio. Anche di questo carattere non è stato creato l'intero alfabeto, poiché è usato solo nella riga posta all'ini‐zio di ciascuna delle sezioni in cui è suddiviso l'Horologium, che cominciano con l'invocazione che Giovanni Galbiati traduce «Nel nome di Dio vivo ed eterno»47. Balagna pone due importanti questioni, «l'imprimeur a‐t‐il gravé trois modèles de poinçons, fabriqué trois modèles de matrices ou bien seules les lettres utilisées pour la majeure partie du volume sont‐elles le fruit de caractères mobiles? Le titre et l'invocation sont‐ils nés de l'impression sur bois?»48. I tempi di realizzazione e
46 MONTECCHI, Analisi bibliologiche cit., p. 78‐79. 47 GALBIATI, La prima stampa cit., p. 410. In verità nella sezione che inizia a c. 21v, il carattere usato nella prima riga non è il carattere A 250, ma quello più piccolo del testo, A 204. Probabilmente il motivo va cercato nel fatto che qui l'invocazione non è seguita dal medesimo testo presente negli altri inizi di sezione. 48 BALAGNA, L'Imprimerie cit., p. 18.
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il costo di una singola serie tipografica ci inducono a ritenere che il Kitāb non sia totalmente realizzato utilizzando caratteri mobili. Nell'intero corpo dell'Horologium, ad eccezione dei titoli e dei tito‐letti appena ricordati, de Gregori usa il carattere A 204, esatta‐mente la metà di quello usato nel frontespizio (il testo è disposto su 12 linee per pagina). È un carattere abbastanza grande da con‐sentire all'incisore di rendere con una certa chiarezza il tracciato dell'alfabeto e da presentare, almeno ad un occhio occidentale, u‐n'eleganza di forme davvero sorprendente per essere il primo al‐fabeto arabo creato per la stampa, e certamente non inferiore ai breviari in caratteri latini, glagolitici, cirillici o armeni usciti dalle tipografie veneziane ed europee di quegli anni49. A proposito della fedeltà all'alfabeto arabo Galbiati scrive che «la grafia è già precisata e molto chiara ma non sempre esatta, anche meno esatta se si voglia confrontarla con la scrittura araba quale poi è venuta fissandosi in tempi susseguitisi attraverso l'opera specialmente dei dotti europei. Segnatamente i punti diacritici of‐frono delle incongruenze, in taluni casi sono omessi di regola e ta‐lora hanno forme diverse dagli attuali»50. Sono utilizzati simboli particolari per indicare le virgole (con un segno all'araba) e punti per segnare la fine delle frasi, spesso con inchiostro rosso. Com‐paiono, come segnalato da Vercellin, «modi non usuali per segnare alcuni grafemi; esiste qualche confusa forma di vocalizzazione. Si distinguono inoltre due diverse yā finali: quella con la parte ter‐minale incurvata verso destra è usata alla fine delle righe in cui non vi è sufficiente spazio per la variante normale, che peraltro ha sempre due punti sotto. Un altro elemento caratteristico sono due trattini orizzontali (simili a un tanwīn) posti sopra la sīn ( ( س a distinguerla dalla shīn ( ( ش una peculiarità che si incontra in alcuni manoscritti»51. I titoli e alcune parole da mettere in risalto sono inchiostrati in
49 MONTECCHI, Analisi bibliologiche cit., p. 78‐79. 50 GALBIATI, La prima stampa cit., p. 410. 51 VERCELLIN, Venezia cit., p. 63.
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rosso. Lo stampatore ha infatti utilizzato due inchiostri, rosso e nero: quello nero per la maggior parte del testo, quello rosso im‐piegato nella prima pagina, dove compare il titolo a modo di oc‐chiello, e all'interno dell'opera per evidenziare titoli, introduzioni e rubriche. La voluta eleganza del libro si afferma anche attraverso la doppia filettatura rettangolare che incornicia il testo in ogni singola pagi‐na. Tale filettatura è in nero per tutti i quaderni, fatta eccezione del primo, per il quale la filettatura è a tratti alternati in rosso e in nero. Le filettature a inizio di ciascuna parte in cui il libro è distri‐buito (otto in tutto), si sviluppano in larghi motivi di ornamenta‐zione a fiorami stilizzati e figure di uccelli52. La stampa dei libri rossi e neri, come si diceva allora, comportava due passaggi del foglio sotto il torchio, prima per stampare le parti in rosso, mentre venivano schermate e non inchiostrate le parti in nero, poi per stampare, in un secondo momento, le parti in nero, quando erano schermate e non inchiostrate le parti in rosso. Una delle difficoltà maggiori da superare in questi casi era la regola‐zione del registro, cioè il perfetto posizionamento del foglio da stampare sul timpano e di conseguenza sulla forma in piombo, per far sì che le due pressioni, quella per il rosso e quella per il nero, andassero ad occupare sul foglio esattamente il loro posto, con‐sentendo ai testi in rosso e in nero di integrarsi senza sovrapposi‐zioni nella riga di scrittura, garantendo così un perfetto allinea‐mento orizzontale e verticale del testo stampato. C'è da notare che piccole variazioni ed errori si riscontrano anche nelle edizioni più curate. Alcuni casi di cattivo allineamento anche nei titoli, sottoli‐neati da Vercellin, sono assolutamente comuni53. 3.3 Apparati figurativi. Gregorio de Gregori ricorre all'uso di doppi
52 GALBIATI, La prima stampa cit., p. 409‐410. L'autore erroneamente so‐stiene che il testo sia privo di punteggiatura. 53 Rispettivamente: MONTECCHI, Analisi bibliologiche cit., p. 79 e 81, VER‐CELLIN, Venezia cit., p. 63.
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filetti tipografici per incorniciare tutte le pagine del Kitāb prive di silografie. I filetti sono composti da piccoli segmenti tipografici di 10,2 mm, dell'altezza cioè del carattere principale A 204, disposti in modo tale da formare attorno allo specchio di scrittura una cor‐nice rettangolare con una altezza di 132 mm, e una larghezza di 81,6 mm ottenute rispettivamente con tredici e con otto filetti po‐sti l'uno di seguito all'altro54. Montecchi osserva che de Gregori probabilmente intendeva realizzare tutte le filettature con l'alter‐nanza cromatica di inchiostri rosso e nero, ma «dovette desistere dopo il primo fascicolo, probabilmente perché l'esito non fu felice; infatti, il leggero spostamento nel registro di circa due millimetri durante le due diverse impressioni in rosso e in nero, ben oltre i margini di tolleranza consentiti, nonché la qualità dell'inchiostro rosso che nei doppi filetti tendeva ad espandersi più del nero, fe‐cero sì che i tratti in rosso della cornice apparissero non allineati e più spessi rispetto a quelli in nero, con un effetto molto sgradevo‐le55. Si preferì allora, a partire dal secondo foglio di stampa, cioè dal se‐condo fascicolo, stamparli tutti solamente in nero»56. Le pagine iniziali delle diverse parti del Kitāb (nove in tutto) sono evidenziate anche dalla presenza di silografie che incorniciano sui quattro lati il testo. In ogni pagina sono impiegati quattro legni: uno verticale per il margine di cucitura; un altro, pure verticale, per il margine di taglio, della medesima altezza ma più largo; e due orizzontali, rispettivamente per il margine di piede e per quello di testa57. Vercellin osserva che «non sempre il tipografo rispetta questa distribuzione ed inverte tra loro i legni di cucitura con quelli di taglio (c. 64r, 76r), oppure, in un caso, ruota di cento ot‐tanta gradi il legno del margine di testa, capovolgendo così la figu‐ra ivi rappresentata, un ibis che caccia un insetto (c. 69v).
54 MONTECCHI, Analisi bibliologiche cit., p. 81. 55 Cfr. fig. 1, cornice a doppi filetti del frontespizio. 56 MONTECCHI, Analisi bibliologiche cit., p. 81. 57 Ibidem.
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Le cornici silografiche, composte come s'è detto di quattro legni ciascuna, sono tre in tutto, due (Floreale A e Floreale B) con raffi‐gurazioni floreali bianche su fondo nero e una terza cornice con figure di foglie, di fiori, di insetti e di uccelli, che sembrano ibis in varie stilizzazioni, da cui il nome della cornice, Ibis. Ciascuna delle tre cornici è presente almeno due volte: cornice Floreale A, tre vol‐te (c. 2r, 64r, 82r); cornice Floreale B, due volte (c. 32r, 76r); cor‐nice Ibis, quattro volte (c. 21v, 69v, 88v, 100r)»58. Stanley Morison ha collegato queste silografie di de Gregori allo stile arabesco che ai primi del Cinquecento si stava diffondendo soprattutto a Venezia, non solo in campo tipografico, ma anche in altri settori delle arti decorative59. Va inoltre ricordato che queste cornici, compaiono in altre edizioni di Gregorio de Gregori, tra le quali Morison ricorda la Via de aperta Verità di Battista da Crema del 152360. In precedenza altre cornici arabesche erano state uti‐lizzate dal de Gregori per l'edizione di Friedrich Nausea, In artem poeticen, carminumque condendorum. Primordia. Eiusdem Syntag‐ma de conficendis epistolis (Venezia 1522). Nessuna di queste cor‐nici compare invece nella produzione di Soncino, ulteriore indizio a discapito di una possibile collaborazione dei due tipografi per quest'opera. 3.4 Filigrana. Il Kitāb presenta, su quattro copie analizzate (colloca‐
58 MONTECCHI, Analisi bibliologiche cit., p. 79 e 81. Cfr. fig. 3. 59 STANLEY MORISON. Selected Essays on the History of Letter‐Forms in Manuscript and Print, ed. by David McKitterick, 1., Cambridge, Cambridge University Press, 1981, p. 149. 60 Ibidem. L'illustrazione di una cornice della Via de verità, quella deno‐minata cornice Floreale A, si trova in KREK, The Enigma cit., p. 206. Della silografia con uccelli e insetti (denominata Ibis) Rhodes offre un'illustra‐zione presa dal De passione Christi libellus aureus, di Carolus Paganus, stampata nel 1523 e da Rhodes giustamente attribuita alla tipografia ve‐neziana di Gregorio de Gregori, che qui si serve anche dei caratteri latini già usati nella lettera di dedica a Leone 10. del 1517 (RHODES, Carolus Pa‐ganus cit., p.84).
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te nella Princeton University Library, Ambrosiana, Estense, Baaye‐rische Staatsbibliothek)61, la filigrana di un'ancora, posizionata in cima alla pagina, vicino al dorso. La filigrana può essere identificata con Briquet n° 43662. Krek riscontra che non sono accertate altre produzioni del de Gregori che presentino questa filigrana, ma essa era d'uso prevalentemente in ambito veneziano, soprattutto tra le petizioni conservate nell'Archivio di Stato63. Non a caso e non a tor‐to Krek si fonda anche su questo elemento per sostenere la sua ipo‐tesi di una pura origine "veneziana" dell'Horologion. Secondo Ver‐cellin, tuttavia, la prova è assai debole, in quanto, come lo stesso Krek deve riconoscere, «una ricerca casuale tra le opere stampate da de Gregori e da Gershom Soncino non ha permesso di ritrovare nessuna filigrana ad áncora del tipo che compare appunto nell'Ho‐rologion, tra le carte usate da entrambi»64. 3.5 Legatura. Tra tutte le rilegature analizzate delle copie del Ki‐tāb, solo quella conservata presso la Biblioteca Ambrosiana pre‐senta una legatura coeva, restaurata nell'anno 2000 dalle Suore Benedettine di Viboldone. I piatti denotano una fattura veneziana, con ferri a fiori e cornici che richiamano le silografie, pure di scuo‐la veneziana, dell'edizione. Anche la cornice interna della legatura misura 136 mm come le cornici a doppio filetto che ornano tutte le pagine dell'edizione65. Galbiati, oltre alla «larga riquadratura a fiorami impressi, oltre cinque impressioni in oro nel riquadro cen‐trale, delle quali quattro agli angoli a maniera di foglietta e una quinta nel mezzo», segnala anche il taglio dorato e gli avanzi di due fermagli metallici66. La legatura dell'esemplare di Modena mi‐
61 KREK, The Enigma cit., p. 210‐211 e n. 23. 62 CARLES‐MOÏSE BRIQUET, Les Filigranes: dictionnaire historique des marques de papier dés leur apparition vers 1282 jusqu'en 1600, v. 1., Paris, W. Kunding & Fils, 1907, p. 40. 63 KREK, The Enigma cit., p. 211. 64 VERCELLIN, Venezia cit., p. 65. 65 MONTECCHI, Analisi bibliologiche cit., p. 69‐70. 66 GALBIATI, La prima stampa cit., p. 411.
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sura 165 mm in altezza e 114 mm nella base. Montecchi puntua‐lizza che la legatura moderna «è stata completamente rifatta nel 1967, dopo aver tolto la precedente legatura in bazzana rossa con cui Girolamo Tiraboschi aveva fatto rilegare l'intera raccolta E‐stense, al posto della legatura originale»67. 4. L'esecuzione dell'opera. 4.1 Biografia dell'editore Gregorio de Gregori. La vicenda biografica di Gregorio de Gregori è inizialmen‐te legata a quella del fratello Giovanni. La loro paternità è incerta: in alcuni documenti Giovanni risulta figlio di un certo Gregorio morto prima del 147668, mentre in altri è citato un certo Antonio69. Originari di Forlì, nacquero intorno al 1450. Il primo ad esordire come tipografo fu Giovanni, che lavorò prima a Vicenza, dove testimoniò insieme a Giovanni dal Reno alla stipu‐lazione del contratto tra Giacomo fu Zenone da Mantova, intaglia‐tore di caratteri e Giorgio fu Federico de Corono; poi, dal 1476 si spostò a Padova dove tentò di specializzarsi nella produzione di testi universitari, nonostante la concorrenza degli editori venezia‐ni. Giovanni entrò a far parte di una società temporanea stretta tra i tipografi Pierre Maufer, Ercole da Busca, Antonio da Trada, Boni‐no Bonini, Antonio Pocheparole, Andrea Torresani, Valdizocco e Zaccaria Zaccaroti. Iniziò così la produzione dei commenti di Bar‐tolo da Sassoferrato al Corpus Iuris, di cui i volumi uscirono con il falso luogo di stampa Venezia; il secondo volume riporta anche un falso anno di stampa, il 1480, inconciliabile con le documentazioni inerenti. Già nel 1483 Giovanni viveva nella Serenissima, a Santo Stefano, e in quell'anno si vide affiancato dal fratello Gregorio, con cui iniziò a sottoscrivere tutte le edizioni: la prima, con data 17
67 L'es. Estense ha la collocazione: α. U. 2. 1. L'es. Ambrosiano: S. P. II. 74. 68 ANTONIO SARTORI, Documenti padovani sull'arte della stampa nel sec. XV, in GIORGIO EMANUELE FERRARI, Libri e stampatori in Padova, Padova, Tipo‐grafia Antoniana, 1959, p. 217 doc. 87; e FERNANDO BANDINI (et alii), 1474: Origini della stampa a Vicenza, Vicenza, Neri Pozza, 1975, p. 48, n. 39. 69 A. SARTORI, Op. cit., 1959, p. 202 doc. 72, 205 doc. 77.
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maggio 1483, sono gli Opera di Orazio70. La società familiare dei de Gregori fu attiva fino al 1505, ottenen‐do ottimi risultati che portarono alla stampa, nel 1497, di ben die‐ci edizioni, produttività con cui solo Aldo Manuzio poteva concor‐rere in Venezia. La scelta editoriale ricadde sui testi universitari, inizialmente giuridici, ma poi anche filosofici e scientifici. Tali edi‐zioni erano abbastanza costose, sia per la necessità di molta carta, che della disponibilità di almeno due tipi di caratteri utilizzati per distinguere il testo dal commento (occorrevano due fasi di stam‐pa)71. I de Gregori stamparono il Fasciculus medicine, il primo libro
70 Precedentemente aveva già stampato a Venezia i Facta e dicta memo‐rabilia, di Valerio Massimo, che terminò il 18 giugno 1482, e il Missale Romanum, concluso il 31 gennaio 1483 (more veneto 1482). 71 Per le pubblicazioni giuridiche dell’Informatium, del Digestum vetus, e del Codex beneficiarono ancora della società con Britannico da Brescia, mentre nel 1485 realizzarono autonomamente i Consilia di Bartolo, due Lecturae di Angelo degli Ubaldi e di Paolo di Castro, e la riedizione del‐l'Informatium. Nel 1486 stampano il commento di Ubaldi all'Informatium e il De regulis iuris di Dino da Mugello; del 1487 sono le Disceptationes di Niccolò Tedeschi, il Super Clementinis di Francesco Zabarella e la Summa di Enrico da Susa. Dopo l'edizione di vari commenti di Giovanni d'Andrea del 1489 e dei Consilia di Paolo di Castro del 1493, i due fratelli avviaro‐no la produzione di testi di filosofia e medicina, come la Physica e del De coelo et mundo di Alberto Magno (1494‐1495) e di Aristotele (1495‐1496). Datati 1491, il Super Physicam Aristotelis di San Tommaso, le Que‐stiones di Duns Scotus, le Regulae di Guglielmo Heytesbury, le Consequen‐tia di Ralph Strode; del 1495 Sino Questiones super Metaphysicam Aristo‐telis di Antonio d'Andrea; del 1497 gli Opera di Mesue (Yuhānna ibn Mā‐sawaih) con il commento di Mondino Luzzi. Per quanto riguarda i testi di medicina, i de Gregori realizzarono opere innovative come i De observa‐tione in pesti lentia e Collectiones medicinae di Alessandro benedetti (1493) e la Corona florida medicinae seu conservazione sanitatis di Anto‐nio Gazio (1491). Oltre alla produzione universitaria, i due fratelli stam‐parono classici latini e greci e anche opere della letteratura italiana: nel 1485 e 1487 vengono riediti i Memorabilia di Valerio Massimo; del 1492 sono i primi otto libri delle Familiares di Petrarca, il Decamerone di Boc‐
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di medicina illustrato, che venne pubblicato a partire dal 1491. Era costituito da una serie di tavole illustrate anonime e da testi medici tratti dalla tradizione manoscritta tedesca del '300‐'400 ed attribuiti nel colophon ad un certo Ketham, che tuttavia è un auto‐re inventato, introdotto perché l'opera sembrasse più autorevo‐le72. Tuttavia una grave crisi commerciale pesò anche sul mondo dell'editoria, e l'officina de Gregori, invece dei dodici titoli del 1495, arrivò a produrne solo uno nel 1498. L'edizione delle Opere di Aristotele, stampata dai fratelli de Grego‐ri nel 1496, contiene un'epistola prefatoria di Democrito Terraci‐na73. La tipografia si ristabilì attivamente tra il 1500 e il 1505, con
caccio illustrato, il Novellino; si aggiungono popolari testi poetici e narra‐tivi in volgare: la Storia di Apollonio di Tiana di Antonio Pucci (1489), i Fioretti dei paladini (attorno al 1495) la Frottola di un Caligaro (1485 circa). Altre produzioni rientrano in quest'ultima tipologia: sermonari, grammatiche, effemeridi astrologiche e una piccola raccolta statuaria: Statuta civitatis Caesanae del 1494. 72 L'opera tratta dei fondamenti della diagnosi e della terapia nella medi‐cina pratica: l'esame delle urine, il salasso, le influenze astrali, la gravi‐danza, i rudimenti dell'anatomia e della chirurgia. Pur essendo destinato ai medici, il volume segue il formato in‐folio del trattato universitario, con carattere gotico e testo su due colonne, illustrato con sei tavole silo‐grafiche a piena pagina con didascalie. Nel 1494, dato il successo dell'o‐pera, tradotta anche in spagnolo, Giovanni e Gregorio pubblicarono una nuova edizione curata da Sebastiano Manili che seguiva però il formato del libro umanistico, con caratteri romani e testo a piena pagina. Que‐st'edizione comprendeva l'aggiunta dell'Anatomia di Mondino e la sosti‐tuzione delle vecchie tavole silografiche con dieci nuove. Anche in questo caso il Fasciculus volgare venne attribuito erroneamente ad un certo Pe‐trus de Montagnana. In realtà di tratta di Pietro da Montagnana, prete e grammatico padovano morto nel 1478, che veniva rappresentato in una delle tavole silografiche, quella che fungeva da frontespizio, e che ripor‐tava l'iscrizione «Petrus de Montagnana» solo per indicare la personalità raffigurata. 73 Riferimenti: IGI 797, HC 1659, MBC V 349, GW 2341, GOFF A966, ISTC n. ia00966000, in DANIELA FATTORI, Democrito da Terracina e la stampa
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l'edizione di opere di rilievo come i De animalibus di Avicenna74 nella traduzione di Michele Scoto (attorno al 1500), gli Opera di Aristotele, redatti in società forse con Giovanni Paganini75 nel 1501 e gli Opera di Giovanni Crisostomo in società con Bernardino Stagnino. Dal 1505 Gregorio iniziò ad operare da solo, dovendo spesso col‐laborare con terzi, e trovandosi ad impersonare a volte il ruolo di editore, a volte quello di tipografo, adattandosi alle esigenze di mercato76. Tra i possibili finanziatori è possibile menzionare an‐che Melchiorre Sessa e Pietro Rafani77. Nonostante la disponibilità economica, Gregorio non riuscì a realizzare la stampa delle cinque edizioni principi per cui aveva chiesto il privilegio decennale il 28 dicembre 1507. Oltre alla pubblicazione degli Opera di esegesi biblica di Alfonso Tostado del 1506‐1508, condotta su manoscritti fatti copiare dal cardinale Ximenes de Cisneros e concessi dal Collegio di Salaman‐ca e alla prima edizione dell'Universalis de anima traditionis opus
delle Enneades di Marco Antonio Sabellico, «La Bibliofilìa», 105., 2003, n° 1, p. 30‐31. 74 Sulla questione v. NANCY G. G. SIRAISI, Avicenna in Renassaince Italy, Princeton, Princeton University Press, 1987. 75 Da VERCELLIN, Venezia cit., p. 64‐65: «Per esempio i De Gregori stampa‐rono gli Opera di Aristotele (1501) in società con Paganino Paganini, cui si deve la stampa del primo Corano in caratteri mobili». Tuttavia l'edi‐zione del Corano non è di Paganino Paganini, ma del figlio Alessandro. Sulla questione vedi ANGELA NUOVO, Alessandro Paganini. 1509‐1538, Pa‐dova, Antenore, 1990, p. 107‐131. In PESENTI, De Gregori cit., p. 202‐206, si parla invece di Giovanni Paganini come collaboratore dell'opera. 76 Si avvalse inoltre dei finanziamenti di altri tipografi, editori e librai ve‐neziani, quali Bernardino Stagnino, Lucantonio Giunta, Andrea Torresa‐ni, Lorenzo Lorio, Niccolò Garanta, Battista Putelletto, Bartolomeo Ga‐biano, e dei mercanti Giangiacomo De Angelis da Venezia, Michael Riera da Barcellona, Ludovicus Horneken da Groninga. 77 Short Title Catalogue of Books Printed in Italy and of Italian Books Printed in Other Countries from 1465 to 1600 now in the British Museum, London, Trustees of the British Museum, 1958, p. 333, 545.
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di Cristoforo Marcello del 1509, è in questo periodo che Gregorio si specializzò nella produzione di libri liturgici e devozionali illu‐strati, noti come i "rossi e neri", poiché vi si alternavano due di‐versi colori d'inchiostro. In tale tipologia rientra anche il Kitāb78. Le caratteristiche di questi libri richiedevano alti costi, aumentati dalle ricche silografie di cui lo stesso Gregorio de Gregori è consi‐derato l'incisore. Infatti le più illustri edizioni delle 330 dei de Gregori sono rese tali dalle silografie e dalla gran varietà dei carat‐teri usati: se ne contano venticinque gotici, otto romani, due corsi‐vi (uno dei quali inciso da Francesco Griffo), due greci e uno ebrai‐co. Le opere liturgiche e devozionali tuttavia non erano destinate a territori limitati, ma potevano essere commerciate su un vasto territorio, senza temere la concorrenza straniera, all'epoca ancora limitata. Nel 1514, anno della pubblicazione dell'Horologium, Gregorio produsse altre quattro opere, a distanza di pochi mesi l'una dal‐l'altra: il 22 maggio un Simon Cordo, Clavis sanitationis, in folio (I‐saac 12333); il 15 luglio, un Aristotele, Posteriora, in folio (Isaac 12334); il 20 settembre un Avenzohar, Abhumeron, in folio (Isaac 12335); il 5 dicembre, un Sant'Ambrogio, Officiorum liber, in otta‐vo (Isaac 12336)79. Gregorio aveva già avuto esperienze con tra‐duzioni di testi arabi come la versione spagnola di Mudḫal ilā sa‐nā'at aḥkām al‐nujūm di al‐Qabī�ī nel 1491; la farmacopea di Ibn Zuhr (nello stesso anno) e il De animalibus di Ibn Sīnā (tra 1500 e 1505)80. L'unica opera stampata a Fano da Gregorio è il Kitāb ṣalāt al‐sawā'ī81.
78 Sui libri devozionali si v. LEONARDAS VYTAUTAS GERULAITIS, Printing and Publishing in Fifteenth‐century Venice, Chicago, American Library Association, 1976. 79 FRANK ISAAC, An Index to the Early Printed Books in the British Museum. Part II. 1501‐1520. Section II. Italy, London, Bernard Quaritch, 1938, p. 22‐23. 80 KREK, The Enigma cit., p. 209. 81 Rientrano invece nell'abituale contesto della produzione veneziana, tra il 1512 e il 1523, le sei edizioni dell'Officium beatae Mariae Virginis, e al‐
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Gregorio si distinse inoltre per la stampa di spartiti musicali, an‐che se nell'ultima fase di produzione, a partire dal 1520, si dedicò alle edizioni in volgare di opere già pubblicate, contribuendo alla diffusione del genere del "libretto da mano", modellato sull'enchi‐ridio aldino. In questo periodo stampò vari testi in volgare di Pe‐trarca e Boccaccio, traduzioni di classici latini e greci, testi di lette‐ratura devozionale, tre edizioni del Duello di Paride del Pozzo, le Opere di Girolamo Benivieni e alcuni testi popolari della letteratu‐ra spagnola. Al 1528 risalgono le ultime produzioni di Gregorio: un'opera volgare e Las siete partidas di Alfonso il Saggio, edita da Lucantonio Giunta. Nel 1529 doveva essere ancora vivo, ma il suo ritiro dall'attività tipografica potrebbe essere collegato all'incendio che in quell'an‐no a Venezia distrusse molti magazzini di tipografi e librai, anche se sappiamo che fino al 1538 venivano ancora usate le sue matrici silografiche. La marca tipografica usata dai de Gregori presenta tre varianti di una doppia croce latina intrecciata con una croce di S. Andrea tra le iniziali "Z" e "G". Invece Gregorio usava la sua propria marca, rappresentante due angeli con una corona di spine tra le iniziali
trettante del Missale Romanum e del Breviarum Romanum, di cui una in tedesco. Del 1516 è la prima edizione del Caeremoniale Romanum, com‐missionato da Cristoforo Marcello, a quel tempo protonotario apostolico e vescovo di Corfù, con editori i patrizi veneziani Antonio e Silvano Cap‐pello. Tra il 1519 e 1529 produsse le prime edizioni del Missale e dell'A‐genda della chiesa di Aquileia, mentre del 1523 sono un Officium Roma‐num e delle Orationes. Dal 1522, grazie ai finanziamenti di Lorenzo Lorio da Portese, si occupò delle edizioni di Erasmo, pubblicando in quell'anno il Disticha moralia, il De ratione studii e le Familiarium colloquiorum for‐mulae; nel 1523 la Paraphrasis in Evangelia Matthaei; nel 1524 l'Opus de conscribendis epistolis, e nel 1525 il Modus orandi e il De contemptu mun‐di. Sia Lorio che Gregorio si occuparono di varie opere giuridiche di Frie‐drich Grau (o Grawe) da Waischenfeld in Franconia, umanista tedesco e corrispondente di Erasmo, oltre che segretario di Lorenzo Campeggi e vescovo di Vienna.
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"G. G.". 4.2.1 Venezia e i privilegi di stampa. Si ritiene opportuno accenna‐re brevemente all'attività tipografica veneziana nei primi anni del 16. secolo e alla relativa regolamentazione, poiché sono stretta‐mente correlati alla produzione di Gregorio de Gregori, editore del Kitāb. Venezia era uno dei centri principali della stampa a caratte‐ri mobili fin dalla diffusione in Italia di tale tecnica: limitandosi al‐la fine del 15. secolo, negli Annali tipografici si possono annovera‐re quasi duecento tipografi. Erano inoltre presenti nella Serenis‐sima un numero consistente di tipografi stranieri: «il numero rela‐tivamente maggiore è, com'è naturale, di tedeschi; pur vi sono pa‐recchi francesi oltre al Jenson, e fiamminghi, olandesi, svizzeri, uno spagnolo, parecchi dell'Istria, della Dalmazia, uno d'Ungheria, parecchi di Candia, tra cui sopra tutti notevole Zaccaria Calliergi. Dell'Italia ogni maggiore città vi partecipa, e vi partecipano molte delle città minori [...]»82. L'attività tipografica di Venezia era tal‐mente cospicua che gli stessi editori promossero una specifica re‐golamentazione, attraverso i cosiddetti privilegi di stampa. Il primo fu concesso il 1 settembre 1469 a Giovanni da Spira, l'in‐troduttore della stampa a Venezia, e non si hanno notizie di pre‐cedenti atti giuridici di tale natura, anche negli altri stati europei. Il decreto stabiliva che nei cinque anni successivi al rilascio nes‐suno avrebbe potuto stampare altre opere. Si trattava in realtà di una sorta di "brevetto" sulla procedura realizzativa delle opere; tuttavia da Spira non poté fruire del privilegio, poiché morì im‐provvisamente durante la stampa dell'opera di Sant'Agostino, De Civitate Dei. Il primo vero atto di proprietà letteraria viene rilasciato a Marco Antonio Coccio da Vicovaro, detto il Sabellico, per la sua storia di Venezia dall'origine della città fino ai suoi tempi. Presentata ai Consiglieri della Repubblica, essi vietarono la stampa del libro, a
82 CARLO CASTELLANI, La stampa in Venezia: dalla sua origine alla morte di Aldo Manuzio Seniore, Venezia, F. Ongania, 1889, p. 29‐30.
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chiunque diverso dal tipografo incaricato dallo stesso autore. Per un'eventuale infrazione la pena consisteva nel pagamento di cin‐quecento ducati o «nell'indignazione della Signoria Serenissima». Il Sabellico fece stampare la sua opera dal ricco tipografo Andrea de' Torresani d'Asola, che la pubblicò nell'anno 1487 con i carat‐teri che aveva acquistati dal tipografo francese Nicola Jenson. Tale privilegio era stato concesso strettamente per preservarne la pro‐prietà letteraria (e non la tematica trattata), poiché nel 1491 ven‐ne rilasciato al giureconsulto Pierfrancesco da Ravenna un privi‐legio per un'altra opera sulle memorie cittadine intitolata Foenix, stampata nel 1492 (1491 more veneto). Nell'ultimo decennio del 15. secolo non si trova libro stampato a Venezia che non porti la clausola Cum gratia et privilegio. I privile‐gi di stampa erano rilasciati prevalentemente dal Collegio, qualche volta dal Senato, raramente dal Consiglio dei Dieci. La cura mag‐giore dei magistrati era impedire le riproduzione illecite. A questo proposito si ricorda il ricorso che Aldo Manuzio il 17 ottobre 1502 indirizzò al Senato: il tipografo si lamentava dei numerosi contraf‐fattori, che oltre a vanificare il frutto della propria sua fatica, dif‐fondevano opere di bassa qualità. Il privilegio del Senato fu con‐fermato da un Decreto del doge Leonardo Loredano, datato il 14 novembre 150283. Tuttavia il numero di queste concessioni, che per altro spesso non venivano sfruttate, era talmente cresciuto da aver bloccato la pro‐duzione libraria. Per questo motivo il primo agosto 1517 il Senato ordinò: «Tutti i privilegi già concessi sono revocati; i libri potran‐no essere stampati da chicchessia: saranno solo eccettuati quelli, per cui sarà stato chiesto un nuovo privilegio; il solo Senato avrà ind'innanzi facoltà d'accordare privilegi in adunanza non mai mi‐
83 Tra i numerosi privilegi ottenuti da Aldo ricordiamo quello per le sue edizioni con caratteri dell'alfabeto greco, 25 febbraio 1496; inoltre la concessione della stampa delle opere di alcuni poeti latini cristiani, che comprendeva anche il privilegio per l'utilizzo del corsivo e per il formato ottavo piccolo.
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nore di 150 senatori e con due terzi dei suffragi; ma li accorderà solamente "pro libris et operibus novis, nunquam antea impressis, et non pro aliis"»84. Con la Parte presa il 3 gennaio 1533 (1534) si stabilì che tutte le opere privilegiate dovevano essere stampate entro un anno per non far decadere il privilegio, risale al 3 gen‐naio 1593 (1594) la decisione di affidare al Senato il potere di de‐cretare il prezzo delle opere stampate (considerando i costi di produzione e il pregio intrinseco). Pertanto durante il 16. secolo i magistrati avevano stabilito il rilascio e la durata del privilegio e la pena dei trasgressori. 4.2.2 Democrito Terracina e il privilegio di stampa per i caratteri arabi. Merita particolare attenzione la figura di Democrito Terra‐cina85, beneficiario del primo privilegio per opere in diversi carat‐teri orientali, tra cui l'arabo, concesso dal Senato veneto il 15 lu‐glio 1489. Erano esclusi il greco, che era a stampa libera e l'ebrai‐co, vietato fino al 1515 con il privilegio assegnato a Daniel Bom‐berg86. Il privilegio di Terracina prevedeva una validità di 25 anni. Ogni contravventore avrebbe pagato una multa di 200 ducati in oro e il sequestro dei libri87. Alla morte del tipografo, avvenuta
84 C. CASTELLANI, I Privilegi di Stampa e la Proprietà Letteraria in Venezia dalla introduzione della stampa nella città fin verso la fine del secolo XVIII, Venezia, Fratelli Visentini, 1888 . Il provvedimento del Senato prese il nome di "Parti prese in diversi tempi in materia di stampe". 85 D. FATTORI, L'avventurosa vita di Democrito da Terracina (fra libri e al‐tro), «RR Roma nel Rinascimento.», n° 15, s.l., s.n., 1999, p. 305‐316. 86 KREK, The Enigma cit., p. 209, n. 18. 87 Privilegio chiesto al Senato della Repubblica di Venezia da Democrito Terracina in data 15 luglio 1498 per la stampa in caratteri orientali: «1498, 15 luglio (N. C.) Humiliter supplica el fedel suo servitor, et citadin suo venetian, Democrito Terracina, habitante in Venetia, cum sit che l'habia da far stampar alcune opere in lingua arabica, morescha, soriana, armenicha, indiana et barbarecha, cum grandissima et quasi intollerabel pexa, et cum fadige et pericoli grandissimi, etiam in utilità della replubli‐ca christiana, et exaltation de la fede, et augumento de la scientia natura‐
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probabilmente nel 1513, segue una richiesta da parte di Lelio e Paolo Massimo, nipoti di Democrito, di rinnovo del privilegio per altri 25 anni, non avendo conseguito i frutti della concessione fino ad allora. Tuttavia nessuna opera risulta prodotta durante questo cinquantennio. Proprio allo scadere del privilegio richiesto da Lelio e Paolo, nel 1538, viene richiesto da Antonio Brucioli, tipografo presente a Ve‐nezia a partire dal 1529, un altro privilegio che prevedeva l'esclu‐siva per la produzione di una serie di caratteri e segni grafici ca‐paci di esprimere la corsività della scrittura araba, cioè la muta‐zione di disegno che la singola lettera subisce a seconda della po‐sizione che occupa nella parola. Tuttavia non esistono prove del‐l'effettiva realizzazione di tali caratteri da parte del Brucioli88.
le, et ancor de la medicina, per conservation de la salute de le anime et corpi de molti et infiniti fidel christiani, che usano le soprascrite lengue; considerata la effrenata cupidità de alcuni, et lo livor et iniquità de molti, li quali non resteriano voler tuor el fructo de lo inzegno et spexe et fati‐che del soprascrito supplicante, cum farli concorrentia de le soprascrite opere, poi che fusseno de si luntani paesi conducte in questa cità de Ve‐netia; pertanto supplica quella se degnj conciederli gratia che, in termene de anni vinticinque proximi, nissuno ardisca stampar o far stampar libri de qualunque sorte se siano in lettere de le lingue soprascrite, nè qui in Venetia, nè in luochi subditi e la Serenità Vostra, nè stampati in altri luogi et terre, nè in questa inclita cità, ne navigarli in vostri navilij, ne di vostri subditi portar o vender nè far vender in li soprascriti vostri luogi et terre, nè per il colpho cum navilij forestieri, soto pena ogni fiata de perder dicti libri et pagar ducati duxento d'oro; la mittà vadi a l'hospedal de S. Anto‐nio, el resto ai Avogadori de Cumun, obligandosse lo soprascrito suppli‐cante non stampar mai libri, li quali tractino cossa alcuna pertinente a la setta maomettana, nè che siano in favor de quella, bnè contra la nostra sanctissima fede, ma tute in favor et augumento de la fede christiana.» 88 EDOARDO BARBIERI, La tipografia araba a Venezia nel XVI secolo, una te‐stimonianza d'archivio dimenticata, «Quaderni di Studi Arabi», 9., Univer‐sità degli studi di Venezia, Dipartimento di scienze storico‐archeologiche e orientalistiche, 1991, p. 127‐131.
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Nato intorno al 1450 da Paolo de' Massimi89, uno dei maggiori rappresentanti della nobiltà mercantile romana e da una certa Lu‐dovica90, Bernardo de' Massimi (questo era il suo vero nome del Terracina) intraprese fin da giovane la carriera ecclesiastica che lo portò in breve a divenire uno dei canonici di S. Giovanni in Late‐rano e cameriere del cardinale francese Guglielmo d'Estouteville91, ricco mecenate e suo parente acquisito. Poco prima della morte del suo protettore, Bernardo organizzò, a danno del cardinale, un furto di oggetti preziosi del valore, sem‐bra, di 30.000 ducati92, con i quali fuggì a Venezia dove trovò u‐n'accoglienza non disinteressata. Infatti, non appena giunto nella città lagunare, si era premurato di offrire alla Signoria Veneta,
89 Figlio di Lello de' Massimi e fratello di Massimo. Cfr. POMPEO LITTA, Fa‐miglie celebri italiane: I Massimo di Roma, 4., Milano, Basadonna, 1839, tav. II. 90 Cfr. Liber anniversariorum Societatis Salvatoris ad S. Sanctorum, in Ne‐crologi e libri affini della provincia Romana, a c. di Pietro Egidi, v. 1, Roma, Istituto Storico Italiano, 1908, p. 471. 91 Cfr. MARINO SANUDO, Commentarii della guerra di Ferrara tra li viniziani ed il duca Ercole d'Este nel 1483, Venezia, Picotti, 1829, p. 62: «Morì il car‐dinale Roan vecchissimo, il quale… era ricchissimo sì per le entrate che per gli uffizi, che molte volte nella Romana Corte avea sostenuti e lasciò gran tesoro, il quale tutto per comandamento del Papa il conte Girolamo usur‐pò, meno alcuni argenti di grande valore da un suo Cameriere mentre mo‐riva rubati, e da Roma portati a Venezia» Si veda anche EUGÈNE MÜNTZ, Les arts à la cour des papes pendant le XV et le XVI siècle, 3., Paris, 1882, p. 285‐297; ANNA ESPOSITO ALIANO, Testamento e inventari per la ricostruzione della biblioteca del Cardinale Guglielmo d'Estouteville, in CONCETTA BIANCA (et a‐lii), Scrittura, biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento, Atti del semi‐nario 1‐2 giugno 1979, Città del Vaticano, Scuola vaticana di paleografia, diplomatica e archivistica, 1980, p. 309‐342. 92 Cfr. GASPARE PONTANI, Diario Romano di G. P., già riferito al "notaio del Nantiporto" (30 gennaio 1481‐25 luglio 1492), in «Rerum Italicarum Scriptores», a c. di Diomede Toni, III/2, Città di Castello, S. Lapi, 1907‐1908, p. 23.
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tramite il Banco dei Garzoni, un prestito di 2.000 ducati93. Dopo una lunga serie di peripezie varie che lo portarono anche in Germania alla corte dell'Imperatore, di cui divenne consigliere e dal quale fu persino sul punto di ottenere un Vescovato, costretto a ritornare a Venezia, venne raggiunto dalla mano della giustizia papalina e finì per una prima volta in carcere per circa un anno (1492). Ne uscì grazie all'intervento non gratuito di uno dei suoi protettori veneziani appartenenti alla influente famiglia Cappello. Fu a questo punto che decise di rifarsi una nuova vita e di cambia‐re identità, usando il nome di Democrito da Terracina "filosofo". Fece così ingresso nei circoli politico‐culturali della Serenissima e si fece amico di prestigiosi letterati come Marco Aurelio Sabellico, Marino Sanudo, Giovanni Armonio e Bernardino Gasoli, attraverso i quali entrò poi in contatto con il mondo delle tipografie venezia‐ne, attratto senza dubbio dalle opportunità di guadagno. Della sua attività tipografica abbiamo diverse testimonianze indi‐rette (come il privilegio citato), sia attraverso le lettere prefatorie di talune edizioni, sia soprattutto attraverso alcune lettere del suo amico e conterraneo Marco Antonio Sabellico. Nell'agosto del 1497 Sabellico chiese al Senato veneto il privilegio di stampa delle Enneades ab orbe condito. Il 31 marzo 1498 uscì dall'officina di Bernardino e Matteo Vitali il volume in folio contenente le prime sette Enneades; con una lettera posta alla fine dell'opera Marco Antonio Sabellico si rivolge a Democrito per ringraziarlo del suo impegno. Fu dunque per le amichevoli richieste di Democrito che Sabellico si convinse a dare alle stampe la sua opera, prima che questa fosse completamente terminata, limitandosi alle prime set‐te parti delle undici di cui si doveva comporre. Democrito fu l'editore principale dell'opera, coadiuvato da Gio‐vanni Armonio e da Bernardino Gadoli94. Ma in realtà le carte degli
93 Cfr. Archivio di Stato di Venezia (ASV), Senato, Terra, reg. IX, c. 28, pubblicato da FRANCESCO FERRARA, Documenti per servire alla storia de' Banchi veneziani, «Archivio Veneto», 1., 1871, p. 443. 94 Bernardino (al secolo Pietro) Gadoli, tra il 1492 e il 1495 sovrintese
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archivi giudiziari veneziani svelano che attorno all'edizione di quest'opera si celano i retroscena di una spregiudicata operazione finanziaria, che ha per protagonista, oltre a Democrito, un certo Demetrio Coletti. Democrito e Coletti avevano formato una società per la stampa delle Enneadi nella quale l'impegno finanziario do‐veva essere sostenuto da Coletti, mentre Democrito doveva forni‐re l'assistenza tecnica. Sorsero fra i due delle controversie: sembra che Democrito avesse utilizzato il capitale di Demetrio per stam‐pare un centinaio di copie in più di quanto concordato, e rivender‐le in proprio. La causa fra i due si protrasse per una decina di anni, coinvolgendo anche altri personaggi, in particolar modo il nipote di Democrito, Lelio de' Massimi, figlio di suo fratello Giulio. Il pro‐cesso si concluse tuttavia a favore di Demetrio e Democrito fu condannato a pagare e a restare in carcere finché non avesse sod‐disfatto il suo creditore. Nella sua lunga e articolata risposta, presentata il 7 aprile 1505, Demetrio punta a smascherare la malafede di Democrito il quale, sfruttando abilmente la sua doppia identità, ha prestato, col nome di Bernardo de' Massimi, una malleveria giurata in favore di De‐mocrito da Terracina95, cioè si è fatto mallevadore di se stesso per poi ricusare l'identificazione con il Bernardo de' Massimi che fece la malleveria, sostenendo di essere lui un prete e di non aver potu‐to quindi in tale veste prestare alcun giuramento, non essendo gli ecclesiastici soggetti alla giurisdizione laica. Demetrio sostiene i‐noltre la perfetta validità della cedola sottoscritta da Democrito come suo debitore, che quest'ultimo vorrebbe fare annullare af‐
alla monumentale edizione della Bibbia latina pubblicata a Venezia nel 1495 da Paganino de' Paganini. 95 La cosiddetta fida o affida, originariamente una sorta di salvacondotto per i falliti non fraudolenti, col tempo divenne un sistema abusivo cui si ricorreva appena acquistata una merce a tempo, allo scopo manifesto di ottenere una moratoria nel pagamento o di vederlo ridotto tramite un accordo, sotto la protezione dei Sopraconsoli (cfr. GIOVANNI ITALO CASSAN‐DRO, La rappresaglia e il fallimento a Venezia nei secoli XIII‐XVI con docu‐menti inediti, Torino, Lattes, 1938, p. 113 e s.).
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fermando di non essere stato in grado di intendere e di volere. Per dare maggior credibilità alle sue parole riguardo alla falsità del suo avversario Demetrio ricorda ai giudici il famoso furto ai danni del cardinale di Rouan. Infine, dalla testimonianza di un certo Ni‐colò Ferro, apprendiamo le circostanze di una seconda carcera‐zione di Democrito, che forse non fu neppure l'ultima, poiché ci viene reso noto, da Marino Sanudo, che egli fu arrestato, nel marzo del 1508, sotto accusa di spionaggio in favore dell'Imperatore te‐desco96. Non sappiamo come si concluse la vicenda giudiziaria col Coletti, né quali altre vicissitudini seguirono l'arresto di Democrito a Riva del Garda, mentre rientrava in Italia dalla Germania, ma certamen‐te i suoi ultimi anni non dovettero essere facili: si ridusse a vivere in estrema miseria in casa della cognata, senza mai poter realizza‐re quella che era stata la sua più grande ambizione nel campo ti‐pografico, ossia stampare una serie di opere in varie lingue orien‐tali, impresa mai tentata prima, che presupponeva l'incisione di nuovi caratteri tipografici: un progetto davvero grandioso, ma che rimase un sogno impossibile che lasciò in eredità ai nipoti Paolo e Lelio97, quando morì quel 14 aprile del 1513. Così Sanudo ricorda nei suoi Diarii alla data del 14 aprile 1513 la fine della avventurosa vita di Democrito Terracina: «Morite in questa note, a ore 4, poi stato ass'infermo, per scorition di vesiga, domino Bernardo di Maximi nominato Democrito Romano, homo doctissimo, era prete. Questo fu quello tolse li arzenti per assa' summa di denari al cardinal Roan vecchio francese e li portò in questa terra; et quel seguite saria gran cose da scriver. Unum est, è andato in pochi giorni driedo sier Francesco Capello el cavalier, con el qual hebbe molta familiarità al tempo lui portò qui dicti ar‐
96 Cfr. M. SANUDO, I Diarii, prefazione di G. Berchet, 7., Venezia, Deputa‐zione veneta di Storia Patria, 1879‐1903, p. 354, 376. 97 Figli di Giulio de' Massimi e di Laura Tedaldini, alla morte dello zio, il 12 maggio 1513, ripresentarono la richiesta di privilegio di stampa per le opere che dovevano essere stampate da Democrito.
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zenti. Or è morto; homo doctissimo et molto amico mio; sepulto a la Misericordia»98. Merita ulteriore approfondimento lo studio del‐la figura di Democrito Terracina, utile anche per una visione più dettagliata delle questioni giuridiche legate all'arte tipografica99. 4.3 Attività tipografica di Fano nei primi decenni del 16. secolo. Nel‐le Marche la storia dell'arte tipografica è contrassegnata da una miriade di stampatori itineranti che danno origine ad una produ‐zione tipografica intermittente e saltuaria, scarsamente sostenuta da una effettiva progettualità e un chiaro disegno editoriale. Tipo‐grafi, spesso provenienti da altre regioni, arrivano e scompaiono in breve tempo, lasciando poche edizioni, a volte anche significati‐ve100. Nel 1501 a Fano viene fondata un'importante officina tipografica. Si tratta della tipografia di Girolamo Soncino (Gershom b. Mose Soncino), nato nel 1460101. Il cognome deriva da una località della Lombardia, nei pressi di Cremona, Soncino, dove il nonno, Israele Nathan, medico proveniente da Spira, ed il padre Giosuè avevano dimorato aprendovi una stamperia. Gershom lavorò a Brescia (1491‐1494) e poi in altre località dell'Italia centrale. Nel 1501 giunse a Fano, che era considerata la località più adatta a scambi commerciali, più tollerante verso gli ebrei, buon centro culturale. Non erano però tempi tranquilli. Nel 1498 il governatore di Fano,
98 SANUDO, I Diarii cit., p. 154. Per un approfondimento su Cristoforo Cap‐pello si veda D. FATTORI, Democrito da Terracina cit., p. 27, nota 1. 99 NICOLAS BARKER, Aldus Manutius and the Development of Greek Script & Type in the Fifteenth Century, New York, Fordham University Press, 1992. Barker sostiene addirittura che Terracina sia uno pseudonimo sotto il quale si nasconda Aldo Manuzio. 100 Per un approfondimento sulla tipografia marchigiana v.: Collectio the‐sauri, l'arte tipografica dal XV al XIX secolo; dalle Marche tesori nascosti di un collezionismo illustre, a c. di Mauro Mei, Firenze, Edifir, 2005. 101 Per la storia dell'arte tipografica fanese nel Cinquecento: MARCO FERRI, Per una storia della tipografia a Fano nel XVI secolo, in Collectio thesauri cit., p. 139‐141.
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Paolo Cybo, era stato ucciso in una sollevazione popolare e nel 1501 Cesare Borgia aveva ottenuto la nomina di "vicario perpe‐tuo" della città. Forse Soncino fu attratto dalle prospettive del nuovo ducato, assegnato appunto al figlio naturale di un papa po‐tente come Alessandro 6., e soprattutto al sodalizio con Lorenzo Astemio, umanista, maestro e bibliotecario che aveva una lunga esperienza editoriale, perché aveva collaborato a Cagli, tra il 1475 e il 1476, con i due prototipografi Bernardino da Bergamo e Ro‐berto da Fano. Astemio in seguito divenne l'editore ed il correttore delle opere in latino ed in volgare stampate dal Soncino. Fino ad allora Soncino aveva prodotto libri in ebraico. Per le pubblicazioni in volgare cambiò pure il suo nome in Girolamo o Jeronimo. Il primo libro stampato a Fano contiene gli Opuscola latina variorum auctorum et praesertim sanctorum Patrum ed è datato 10 aprile 1502, in 8°, di carte 28. Egli si circondò inoltre di umanisti molto apprezzati e di collaboratori preziosi, primo fra tutto l'incisore di caratteri, Francesco Griffo da Bologna. L'aver sottratto ad Aldo Manuzio la collaborazione di Francesco Griffo fu un colpo brillante. In effetti se si esamina l'edizione del Petrarca del 1503, che viene dopo l'aldina del 1501, «bisogna cer‐tamente ammirare la perfezione tecnica, persino il superamento dell'originale, perché il corsivo fuso nell'occasione dal Griffo risul‐ta per diversi aspetti migliorativo rispetto al primo aldino»102. In totale sono conosciute 32 edizioni fanesi di Soncino. Nel 1507, tornata la città di Fano sotto il dominio della Chiesa, Gi‐rolamo Soncino passò a Pesaro. L'anno dopo, il 1508, è di nuovo chiamato dal comune di Fano per stamparvi gli statuti (con l'occa‐sione pubblica come editore due o tre opere), ma subito torna a
102 A. NUOVO, La parte del volgare del catalogo di Gershom Soncino, in L'at‐tività editoriale di G. S.: 1502‐1527, Atti del Convegno, Soncino, 17 settem‐bre 1995, a c. di Giuliano Tamani, Soncino, Edizioni del Soncino, 1997, p. 61.
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stabilirsi a Pesaro, dove rimane fino al 1515103. Tra i 1515 ed il 1519 si spostò tra Fano (1515‐1517), dove stampa sei opere, Or‐tona a Mare e di nuovo Pesaro. Avendo poi ottenuto alcune con‐cessione dal Comune di Rimini vi si stabilì dal 1519 al 1527. Dal 1527 al 1530 fu a Cesena. Ma le difficoltà da lui incontrate per mo‐tivi religiosi, per invidie o gelosie, lo spinsero infine ad allontanar‐si dall'Italia. Nel 1529 stampò un libro ebraico a Salonicco; poi fu a Costantinopoli dove lavorò ancora fino al 1534, anno nel quale morì104. Dal 1516, anno a cui risale l'ultima attività di Soncino in città, al 1560 non è segnalato altro tipografo nella città di Fano. 4.4 Ipotesi sul luogo di stampa ed eventuali esecutori. La questione più analizzata dai vari studiosi del Kitāb riguarda il luogo di stam‐pa: si discute ancora se sia stato stampato davvero a Fano o piut‐tosto a Venezia. Nel 1514 nella Serenissima era ancora in vigore il privilegio di stampa richiesto da Democrito Terracina il 15 luglio 1489, rinno‐vato come già detto dai nipoti Lelio e Paolo Massimo. Venivano ri‐chiesti gli stessi provvedimenti per i contravventori al monopolio,
103 Si segnalano, relativamente al periodo citato, alcuni documenti ri‐guardanti le attività del Soncino conservati presso la sezione storica del‐l'Archivio di Stato Fano (ASF). ASF, Consigli, v. 42 (1514‐1515), c. 176v. ‐ 11 ottobre 1514: Supplica di Soncino per poter risiedere con la sua fami‐glia presso la città di Fano e trasferirvi la sua tipografia, purché sia pre‐vista l'immunità dalle gabelle e dagli oneri, secondo le norme applicate a chi esercita tale arte. ASF, Consigli, v.43 (1514‐1515), c. 88r. ‐ 4 marzo 1515: Il Consiglio Generale di Fano accoglie la supplica di cui al numero precedente , concedendo anche la esenzione dalle Gabelle e la libertà di "estrarre" libri. ASF, Depositaria, v. 136 (1512‐1514), c. 169r. ‐ 26 gen‐naio 1515: Registrazione da parte del Depositario comunale della som‐ma di libre 10 a Girolamo Soncino per la consegna di cinque copie degli Statuti della città da lui stampati a vari Ufficiali del Comune, nonché ai correttori degli Statuti stessi. 104 ASCARELLI‐MENATO, La tipografia del '500 cit., p. 200‐201.
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cioè il pagamento di duecento ducati in oro e il sequestro dei libri. Tuttavia nessuna opera risulta stampata durante questo cinquan‐tennio da parte di Democrito o dei suoi nipoti. Inoltre il privilegio non si riferiva solo alla produzione all'interno dei domini di Vene‐zia, ma precisava «né in luochi subditi a la Serenità Vostra, né stampati in altri luogi et terre». Gregorio de Gregori dichiara nel colophon dell'Horologium che il volume venne stampato a Fano. È molto improbabile identificare «Fān» con Phanos, isola del mar Ionio o Bān, località a 82 chilome‐tri a sud‐est di Tripoli, in Libia. Tali riferimenti sono giustamente confinati in nota dal Krek105. Si tratta dunque di Fano, città che non attesta altre produzioni di Gregorio. In quegli anni la città era sotto il controllo pontificio. Quando Leo‐ne 10. divenne Papa, nel 1513, i magistrati della città di Fano Francesco Bertozzi, Battista Salvolini e Angelo Palazzi si presenta‐rono in sede pontificia per prestare il giuramento di fedeltà al Pa‐pa. L'intervento più significativo di Leone 10. nel periodo interes‐sato dal presente studio, è l'emissione di una Breve datata 8 gen‐naio 1514 che conferma l'assoluzione dei fanesi dall'obbligo di ri‐fornire i veneziani di ingenti quantità d'olio destinate alla Camera Ducale e alla Chiesa di S. Marco in Venezia, per le quali la Serenis‐sima perseverava le sue rappresaglie contro la città marchigiana. Già Giulio 2. aveva assolto Fano da questi antichi obblighi, ma fu grazie a Leone 10. che i fanesi cessarono di essere tributari di Ve‐nezia106. Sempre in quell'anno venne eletto protettore della città Vincenzo de' Negusanti, personalità di spicco che fu segretario del Cardinale Adriano di Corneto, prelato domestico, protonotario apostolico, fino a divenire vescovo proprio nel 1514, anno in cui prese parte al Concilio Lateranense. Il 6 marzo 1515 Fano vide la nomina uffi‐ciale alla carica di governatore di Costantino Principe di Macedo‐
105 KREK, The Enigma cit., p. 208. 106 PIETRO MARIA AMIANI, Memorie istoriche della città di Fano, Fano, 1751, parte 2., p. 106‐107.
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nia, discendente dall'antica famiglia imperiale dei Comneni d'O‐riente. Esiliato dalla madrepatria, Costantino si convertì al cattoli‐cesimo dalla confessione cristiana greco‐ortodossa, insieme alla sua consorte. Già nel 1514 gli era stata annunciata la futura nomi‐na a governatore perpetuo della città di Fano direttamente da Pa‐pa Leone 10., probabilmente grazie a questioni che riguardavano il risarcimento del credito accumulato dal Macedone rispetto alla Camera Apostolica che lo aveva assoldato varie volte nelle passate guerre. Gli venivano così assegnati i proventi del sale, le tratte del grano e il giudizio delle cause civili e criminali107. Brevemente descritto il contesto storico fanese nel periodo in cui venne edito il Kitāb, possono essere fatte alcune considerazioni riguardo all'eventuale partecipazione all'esecuzione dell'opera dei personaggi sopracitati. Nonostante Leone 10. avesse alcuni inte‐ressi nel controllo della città di Fano, si è già esclusa la possibilità di un qualche coinvolgimento nella realizzazione dell'opera, per gli scarsi riferimenti nel paratesto che sarebbero stati di certo più consistenti se si fosse trattato di una committenza pontificia. La partecipazione di un'autorità fanese, come era Vincenzo de' Negusanti, al concilio Lateranense è prova della vicinanza della città all'autorità pontificia, tuttavia si è già analizzata l'estraneità dell'opera dal contesto del concilio, in quanto vi è attestata la par‐tecipazione della sola chiesa maronita tra quelle orientali, mentre l'Horologium è chiaramente destinato alla liturgia melchita. La presenza di una figura come Costantino il Macedone, convertitosi dalla confessione greco‐ortodossa, potrebbe indurre a pensare un qualche collegamento con la produzione di un'opera legata alla li‐turgia ortodossa, tuttavia la lingua araba era sicuramente scono‐sciuta dal Principe Comneno, che inoltre trascorse pochissimo tem‐po nella città di Fano. Trattando invece del contesto tipografico fanese, Giacomo Manzoni riteneva che nell'edizione del Kitāb avesse una qualche forma di
107 Ivi, p. 108‐109.
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coinvolgimento Gershom Soncino108 che, oltre ad essere uno stampatore particolarmente operoso, sperimentò nuove tecniche e si cimentò in imprese anche innovative. Sono forse queste sue caratteristiche che spinsero anche altri studiosi, oltre a Manzoni, ad attribuirgli anche la stampa del Kitāb. Tuttavia, come sottolinea Krek, Soncino tra il 1509 e il 1515 viveva a Pesaro, e nessun libro venne da lui stampato con data topica di Fano durante quegli anni. Krek aggiunge ulteriori dettagli sulle produzioni dei Soncino che potevano avere qualche collegamento con il Kitāb, come il Penta‐teuco poliglotta pubblicato da altri membri della famiglia a Co‐stantinopoli nel 1546, in cui il testo arabo viene però reso con pic‐coli caratteri ebraici: secondo Krek se gli stampatori avessero avu‐to dei caratteri arabi, li avrebbero sicuramente usati109. Non esi‐stono inoltre produzioni sonciniane che presentino una filigrana simile a quella del Kitāb, sebbene non sia riscontrata neppure in altri lavori del de Gregori; quantunque sia di uso comune preva‐lentemente a Venezia. Un aspetto che potrebbe motivare la possibile collaborazione tra Gregorio e Gershom Soncino riguarda i caratteri arabi usati e la loro realizzazione. Figura di spicco del periodo è l'incisore di ca‐ratteri Francesco Griffo (nominato nelle fonti anche come Grifi, Griffi o Francesco da Bologna), che intraprese tale carriera al ser‐vizio del libraio bolognese B. Faelli. Migrato a Venezia, già vantava tutte le credenziali per poter ottenere uno degli impieghi più am‐biti nella capitale della tipografia del Cinquecento, al servizio di Aldo Manuzio, per il quale, a partire dal 1494, incise numerose se‐rie di caratteri tondi. Ai primi anni della collaborazione con Manu‐zio risale anche il disegno di caratteri greci (la prima serie è del 1495). Tuttavia si ritiene possibile che Griffo avesse operato a Ve‐nezia già prima del 1494: il Decamerone illustrato, frutto dei torchi
108 MANZONI, Annali tipografici dei Soncino cit., v. 3., p. 215‐216, 363. Si v. la voce dedicata a Fano da G. FUMAGALLI, Lexicon typographicum Italiae cit., p. 120. 109 KREK, The Enigma cit., p. 209.
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dei fratelli de Gregori, è impresso con caratteri romani tondi di sorprendente fattura, tanto che risulta assai facile considerarli o‐pera dell'abile artigiano. Griffo si distinse ancora per spirito di innovazione e sperimenta‐zione, soprattutto grazie all'ideazione del carattere "corsivo itali‐co" che imitava la scrittura corsiva in uso presso le cancellerie del‐l'epoca e che ancora oggi è universalmente utilizzato. Il corsivo consentiva la riduzione del formato dei volumi, con la conseguen‐te diminuzione di prezzo e maggior praticità di fruizione. Manuzio, riconosciuta la portata di una simile scoperta, si assicurò il privi‐legio decennale di produzione e vendita di libri prodotti con tale carattere. Griffo non poté allora avvalersi delle proprie invenzioni presso altri tipografi o editori dello Stato veneto. Così lasciò Vene‐zia nel 1502 e prestò la propria opera per Gershom Soncino da ta‐le data al 1507. Per Soncino disegnò il cosiddetto "corsivo 2". Tra il 1511 e il 1513 lavorò anche per Ottaviano Petrucci, tipografo di Fossombrone (località non distante da Fano), che dopo un ven‐tennio di attività in Venezia, era tornato nella sua città natale per continuare la stampa di libri di canti musicali. Tuttavia negli anni che interessano la produzione del Kitāb la pre‐senza di Griffo è attestata al fianco di F. Giunta, dal 1513 al 1515. Successivamente Griffo rientrò a Bologna nel 1516 e morì due an‐ni più tardi, giustiziato in seguito all'esito del processo per l'omi‐cidio del genero. Non risulta ad oggi che il Griffo avesse fatto pro‐pria alcuna marca tipografico‐editoriale, nonostante la sua attività di editore svolta a Bologna dopo il 1516. Non esistono perciò pro‐ve della effettiva realizzazione dei caratteri arabi da parte di Grif‐fo, nonostante quelli del Kitāb siano da considerarsi di pregiata fattura, degna opera di un tale artista. L'altro elemento che ha alimentato ulteriori ipotesi a favore della possibile stampa del volume a Venezia, è la famosa lettera dedica‐toria del 1517. Secondo Rhodes «la prefazione [latina] firmata Gregorio de Gregori è datata 1 dicembre 1517 e [...] quindi la stampa del volume potrebbe sì essere iniziata a Fano nel 1514, ma poi completata a Venezia nell'attrezzata officina dei de Gregori
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dopo la seconda data»110. Tuttavia la lettera dedicatoria è presente in una sola copia dei volumi del Kitāb: ciò porta a ritenere più probabile l'aggiunta delle medesima in una seconda data di distri‐buzione dell'opera : non ci troviamo dunque di fronte ad una se‐conda edizione o ristampa, né ad una eventuale realizzazione in due tempi. Dato importante per stabilire il luogo di stampa dell'Horologium è l'analisi dell'attività editoriale di Gregorio in quel periodo: oltre ad essere l'unico libro che l'editore ha impresso a Fano, nel corso del‐lo stesso anno aveva stampato e firmato a Venezia altre quattro opere: il 22 maggio un testo di Simon Cordo; il 15 luglio, un Aristo‐tele; il 20 settembre un Avenzohar; e il 5 dicembre, un Sant'Am‐brogio111. Tale considerevole attività non gli avrebbe lasciato mol‐to tempo per soggiornare a Fano (si ricorda che il Kitāb porta la data di pubblicazione del 12 settembre 1514). Inoltre, non risul‐tano, dal punto di vista archivistico, testimonianze di alcuna attivi‐tà a Fano da parte di de Gregori, contrariamente a quanto accade a Soncino, che pur avendo già operato nella stessa città, richiede al comune di poter risiedere e riavviare la sua attività nel 1514. Vercellin propone un ulteriore parere sulle eventuali collabora‐zioni di Gregorio per la produzione dell'opera: «altri possibili pro‐tagonisti delle vicende di cui ci stiamo occupando [sono] i Pagani‐ni. Infatti i membri di questa famiglia erano anche – e soprattutto – cartai a Toscolano e della pregiatissima carta benacense si face‐va, attraverso Venezia, esteso commercio in tutto l'Oriente. Ora, lungi da me l'idea di sostenere che la carta del Kitāb sia stata for‐nita dai Paganini: nessuna prova esiste finora a favore di ciò (ma neppure contro...). Il punto, ben concreto, è un altro: il testamento del 1505 di Paganino de Paganini comprendeva un lascito a Gre‐gorio de Gregori: i due e le loro famiglie – come scrive Angela Nuovo a cui si deve questa scoperta – erano quindi certamente in rapporti d'affari (si ricordi la citata stampa in comune dell'Aristo‐
110 RHODES, Carolus Paganus cit., p. 50. 111 ISAAC, An Index cit., p. 22‐23.
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tele del 1501). Quali rapporti, quali affari, e durati fino a quando non siamo in grado di affermarlo con certezza; ma un minimo in‐dizio di collaborazione esiste. Si deve allora supporre una coope‐razione di diversi personaggi con diversi gradi di responsabilità per il finanziamento, la preparazione, la stampa e la diffusione del Kitāb, piuttosto che l'attività di un singolo»112. Ultima ipotesi è che Gregorio avesse già programmato di andare in stampa nel 1514 o poco dopo, ma trovandosi impreparato, sia alla morte del Terracina avvenuta l'anno precedente, sia al rinnovo del privilegio da parte dei nipoti, abbia deciso di non attendere il nuo‐vo termine, ma di indicare come luogo di stampa Fano e proba‐bilmente di aggiustare la data di pubblicazione, stampando però a Venezia. Conclusioni. Analizzando il Kitāb e la relativa documentazione, si sono consolidate alcune ipotesi relative ai quesiti principali che ha suscitato quest'opera. Non sussistono indizi su commissioni papali che sarebbero stati certamente più evidenti nel paratesto dell'opera. Anche le notizie contenute nella lettera dedicatoria del 1517 inducono a ritenere plausibile l'esclusiva committenza da parte di cristiani di Siria re‐sidenti a Venezia. Si tratta quindi di un'edizione a scopo commer‐ciale. I destinatari sono ortodossi melchiti. Questa ipotesi, sostenuta dalla maggioranza degli studiosi citati, è ulteriormente convalida‐ta dall'analisi linguistica dell'Horologium, che accerta l'origine greca del contenuto. Inoltre, lo studio comparato di altre produ‐zioni destinate ai melchiti, mostra l'evidente interesse da parte di questa comunità a commissionare opere liturgiche anche in arabo, da sostituire a quelle tradizionali greche. Tuttavia il Kitāb ha sti‐molato numerosi studi non solo per l'importanza storica dell'in‐troduzione della stampa araba in caratteri mobili, ma anche per l'enigmatica vicenda relativa al luogo di stampa.
112 VERCELLIN, Venezia cit., p. 66.
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Alcuni caratteri estrinseci del volume, come filigrana, silografie e l'unica legatura coeva pervenuta, riconducono la realizzazione in ambito veneziano. Anche le vicende biografiche del suo realizzato‐re, Gregorio de Gregori, vanno a discapito di una possibile produ‐zione fanese. Difficile da sostenere l'ipotesi di una realizzazione marchigiana: l'editore avrebbe dovuto provvedere ad inviare il supporto carta‐ceo ed eventualmente una cassa tipografica (qualora si escluda la fusione dei caratteri a Fano, il che comportava la partecipazione di un conoscitore della lingua araba, oltre ad un abile artigiano), per poi far rientrare il materiale a Venezia da rilegare e distribuire da una località portuale che vantava rapporti privilegiati con il mer‐cato arabo. La scelta di una città diversa da Venezia deriva probabilmente dal‐l'esigenza di aggirare il privilegio di stampa ottenuto da Democri‐to Terracina, in vigore fino al 1514. Probabilmente de Gregori a‐veva già preparato il Kitāb e attendeva la scadenza del privilegio per la stampa; l'improvvisa morte del Terracina e l'immediato rinnovo del privilegio da parte dei nipoti, indussero de Gregori a localizzare, solo formalmente, la stampa dell'opera in un centro d'attività tipografica periferico, ma rinomato, Fano. Ulteriori noti‐zie attestano diversi illeciti ad opera dei fratelli de Gregori, tra cui una falsa datazione topica dei commenti di Bartolo da Sassoferra‐to al Corpus Iuris (viene indicata Venezia invece che Padova), la falsificazione delle opere di Aldo Manuzio e l'attribuzione del Fa‐sciculus medicine ad un autore inesistente. Inoltre, il tempismo con cui de Gregori fa cadere la stampa del Kitāb nel lasso di tempo non coperto da alcun privilegio, può far sospettare che anche la data‐zione cronica sia in qualche modo "aggiustata". Si ritiene necessario il rinvenimento di qualche traccia dell'attività di de Gregori a Fano, come ad esempio documenti d'archivio o scritture private, per poter ricollocare la realizzazione del primo libro stampato in arabo in caratteri mobili nella città marchigiana indicata nel colophon. Sono già stati analizzati i volumi riguardanti l'anno 1514 dei Consigli, dell'Ufficio Depositaria e dell'Ufficio Re‐
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ferendaria113 dell'Archivio di Stato di Fano. In tali volumi non sono presenti né suppliche da parte di Gregorio, né di Soncino114, né di altri riguardanti la richiesta di stampare l'Horologium, sebbene fosse d'uso la registrazione di queste attività. La presenza e l'opera di Soncino in città vengono invece conferma‐te da numerosi riferimenti d'archivio. Per quanto riguarda il pe‐riodo che concerne la pubblicazione dell'Horologium, sia nei Con‐sigli, sia nell'Ufficio Depositaria si attesta un coinvolgimento del tipografo in due occasioni. La prima risale al 26 gennaio 1514 e riguarda il pagamento di libre 10 a Girolamo Soncino per la con‐segna di cinque copie degli Statuti della città da lui stampati a vari ufficiali del Comune115. Nella seconda registrazione, datata 4 mar‐zo 1515, si attesta che il Consiglio Generale di Fano accoglie una precedente supplica di Soncino per concedergli l'esenzione dalla Gabelle e la libertà di "estrarre" libri116. Per quanto concerne le sezioni della depositaria e della referenda‐ria riguardanti le spese e gli acquisti per libri, carta e inchiostri mancano riferimenti alle attività di Gregorio e non compare nulla di collegabile all'edizione del Kitāb.
ABSTRACT. The essay “Kitāb ṣalāt al‐sawā'ī: protagonists, vicissitudes and hypothesis around the first Arabic book printed in movable types”
113 Rispettivamente: ASF, Ufficio Depositaria, A.A.C. III, 138. ASF, Ufficio Referendaria, A.A.C. III, 65‐66. 114 L'attività di Soncino in città viene invece riportata nei Consigli in due circostanze: il 26 gennaio 1514, in cui si registra che il Consiglio Generale di Fano accoglie una precedente supplica di Soncino per concedergli l'e‐senzione dalla Gabelle e la libertà di "estrarre" libri. La seconda registra‐zione datata 26 gennaio 1514 riguarda il pagamento di libre 10 a Giro‐lamo Soncino per la consegna di cinque copie degli Statuti della città da lui stampati a vari ufficiali del Comune. 115 ASF, Depositaria, v. 136 (1512‐1514), c.169r. 116 Rispettivamente: ASF, Consigli, v. 42 (1514‐1515), c.176v; v.43 (1514‐1515), c. 88r.
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provides a detailed analysis of contents, bibliological characteristics and historical background concerning the commission, market and details of Gregorio de Gregori’s edition in 1514. In particular, all previous studies of this book have been cited and criticized in parallel to the new research which has provided important results concerning the most ambiguous issues around the Kitāb, namely the identity of the commissioner of the book and the year and location of the edition.
Figura 1. Frontespizio Kitāb (Biblioteca Estense di Modena). Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
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Figura 2. Colophon Kitāb (Biblioteca Estense di Modena). Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Figura 3. Cornici figurate del Kitāb: Floreale A, Floreale B, Ibis (Biblioteca Estense di Modena). Su concessione del Ministero per i
Beni e le Attività Culturali.
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