Una retorica degli affetti: dall'epos al romanzo

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SAGGI CRITICI COLLANA DIRETTA DA ARNALDO PIZZORUSSO E EZIO RAIMONDI 48 SILVIA CONTARINI UNA RETORICA DEGLI AFFETTI: DALL’EPOS AL ROMANZO

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SAGGI CRITICICOLLANA DIRETTA DA ARNALDO PIZZORUSSO E EZIO RAIMONDI

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SILVIA CONTARINI

UNA RETORICA DEGLI AFFETTI:DALL’EPOS AL ROMANZO

Silvia Contarini è ricercatrice diLetteratura italiana presso l’Università diUdine. Per l’editore Pacini ha pubblicato ilvolume “Il mistero della macchina sensibi-le”. Teorie delle passioni da Descartes aAlfieri (1997). Ha curato inoltre l’edizioneitaliana del Premier voyage dans l’Afrique diFrançois Levaillant (Firenze, Le Lettere,1994), gli scritti di André Jolles (I travesti-menti della letteratura. Saggi critici e teorici1897-1932, Milano, Bruno Mondadori,2003), e il Discorso sull’indole del piacere edel dolore per l’Edizione Nazionale delleOpere di Pietro Verri (Roma, Edizioni diStoria e Letteratura, 2004).

Rintracciare nei testi i lineamenti di unateoria delle passioni è modo oramai col-laudato di fare storia letteraria, rico-struendo accanto al variare dei contesti latrasformazione delle immagini simbolichedi una cultura. E i saggi qui riuniti hannotutti come punto di partenza la problema-tica degli affetti e la sua influenza suigeneri letterari nelle loro modalità narrati-ve e compositive, secondo una mappa d’in-terne corrispondenze. Ciò vale non soloper il topos lirico dell’iscrizione arboreache unisce Tasso e Rousseau nel rapportofra elegia e dramma, ma anche per lametafora classica e biblica della navigatiovitae, che nel primo Settecento, compliceil paradigma della nuova scienza diGalileo, di Cartesio e di Bacone, muta disegno divenendo l’emblema di un universoemotivo fondato sull’energia della coscien-za. Ma più della metafora nautica diMetastasio, è probabilmente l’identitàcomplessa del paesaggio, tra estetica eromanzo, a configurare l’ambiguità delTournant des Lumières consegnando alsecolo successivo il conflitto irrisolto traarte e natura, cuore e ragione. La crisi del-l’utopia rousseauiana, del giardino coltiva-to come metafora della sensibilità, ripro-posta in vario modo nelle riscritture italia-ne di fine secolo, è sancita definitivamentedal romanzo del Nievo, dove le passionirivivono nelle figure dell’ossimoro e dellacontraddizione.

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UNA RETORICA DEGLI AFFETTI:DALL’EPOS AL ROMANZO

SAGGI CRITICI

COLLANA DIRETTA DA ARNALDO PIZZORUSSO E EZIO RAIMONDI

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SILVIA CONTARINI

© Copyright 2006 Pacini Editore SpA

ISBN 88-7781-755-0

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Le riproduzioni per uso differente da quello personale sopracitato potranno avveniresolo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata dagli aventi diritto/dall'editore.

INDICE

PREMESSA. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 5

I. “Et in Arcadia ego”: l’iscrizione degli affetti nella Liberata » 9II. Anatomie delle passioni tra Sei e Settecento . . . . . . . . . . . » 29III. La metafora nautica di Metastasio: metamorfosi di un

paradigma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 61IV. La gradatio patetica: Bertola e Sulzer . . . . . . . . . . . . . . . . . » 85V. Il giardino di Aristippo: arte e natura nel Tournant des

Lumières . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 113VI. Figure della reticenza: un salon di Pietro Verri . . . . . . . . . » 137VII. Alfieri e il sublime delle origini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 155VIII. La “pianta uomo”. Nievo e le passioni del moderno . . . . . » 187

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PREMESSA

Rintracciare nei testi i lineamenti di una teoria delle passioni èmodo oramai collaudato di fare storia letteraria, ricostruendoaccanto al variare dei contesti e della sensibilità la trasformazio-ne dei topoi e delle immagini simboliche di una cultura. E i saggiqui riuniti hanno tutti come punto di partenza la problematicadegli affetti e la sua influenza sui generi letterari nelle loro moda-lità narrative e compositive. Così, la strategia messa in atto dalTasso nel settimo canto della Liberata muove dal tema bucolicodell’iscrizione arborea, sede tradizionale dell’espressione liricadegli affetti, per costruire un percorso alternativo alla storia delpoema, ma ad essa intimamente connesso, che collega fra loro gliavvenimenti per via patetica, trasferendo al piano interiore delladispositio la tecnica retorica del “parlar disgiunto”. Una soluzio-ne narrativa compresa a pieno dal Rousseau della NouvelleHéloïse, che non a caso ripropone il topos dell’iscrizione arboreae il suo linguaggio allusivo dentro il paesaggio simbolico delSettecento, congiungendolo alla metafora illuministica del giar-dino coltivato in cui si esprime l’utopia effimera del controllo edella gestione sapiente delle passioni ancora diffusa nel romanzodi fine secolo, dal Giovio al Botta.

Il confronto insistito e ricorrente con il tema degli affetti per-corre del resto tutta l’età dei Lumi, a partire dalla ricezione diDescartes nella Napoli di fine Seicento, fra medicina e letteratu-ra, che intende delineare i parametri moderni di un’etica laicacome dialogo e confronto fra l’individuo e la società civile. Se ilVico mette in dubbio l’utilità di una morale “geometrica” di tipocartesiano, la tradizione che fa capo al Caloprese, al Doria e alGravina condensa l’insegnamento della maîtrise e del dressagenella figura eloquente della metafora nautica cui era già ricorsoBacone, che esprime nel linguaggio limpido e coerente del melo-dramma metastasiano l’ipotesi illuministica dell’autoregolazione

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degli affetti. Vero è che la fiducia nel paradigma cartesiano eredi-tato dall’Encyclopédie sembra incrinarsi nella seconda metà delsecolo, quando la metafora del giardino coltivato si apre alle sug-gestioni del sublime e delle sue risonanze interiori. Quella elabo-rata da Burke e dai teorici dell’energia come Helvétius o Sulzer,con cui intrattiene un dialogo privilegiato il Bertola, è infatti un’e-stetica psicologica che come intuirà poco dopo il Leopardi cele-bra il potere dominante delle passioni e il naufragio dell’io, rove-sciando l’antico assioma lucreziano della tempesta contemplatadalla riva. Come nella celebre “promenade Vernet” di Diderot,l’immaginario giardino di Aristippo che compare al centro delDiscorso sull’indole del piacere e del dolore di Pietro Verri contami-na l’archetipo rousseauiano con le suggestioni del sublime e delpittoresco, per delineare una mappa interiore della sensibilità chein accordo con la retorica psicologica di D’Alembert e delBeccaria si fonda sui moti subitanei della sorpresa, dell’inquietu-dine e del dolore, configurando un paesaggio dell’anima vicino aquell’universo oscuro delle passioni che negli stessi anni l’Alfieriera impegnato a esplorare nelle forme più intense e radicali delsuo teatro tragico, grazie alla rilettura dello pseudo-Longino die-tro le categorie moderne dell’Enquiry mediate da Helvétius. Inquesto modo le tecniche dell’allusione e della reticenza, esempli-ficate nelle arti figurative dal velo di Timante finiscono per darevita a un universo parallelo generato per sottrazione, la cui cifrainteriore è appunto l’intensità, la vertigine di uno sguardo in cuinon opera la luce della percezione e del finito, quanto piuttosto laseduzione dell’ombra.

Ma la dissoluzione del modello cartesiano, ripreso e sviluppa-to fino allo scadere del secolo grazie alla mediazione impulsivadella Nouvelle Héloïse, traspare con chiarezza, di là dalla tempe-rie romantica e post-illuministica che trova la sua figurazioneemblematica nella vigna di Renzo e nell’immagine complementa-re del leopardiano “jardin de souffrance”, nello spazio dialogicodelle Confessioni del Nievo, dove i topoi ricorrenti del giardinocoltivato e della pianta-uomo vengono richiamati solo per contra-sto, all’interno di una trama segnata in profondità dall’ironia ster-niana, per suggerire l’utopia illusoria del controllo degli affetti inun universo morale dominato dall’ossimoro e dalla contraddizio-ne. Ed è la compresenza eterna degli opposti che dà vita alromanzo moderno.

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I saggi qui riuniti, rivisti e ampliati per la pubblicazione in volu-me, derivano da occasioni di studio e di confronto diversi. Il primo ècontenuto originariamente nel numero monografico di “Schifanoia”dedicato agli Atti dei Convegno Tasso, Tiziano e i pittori del parlardisgiunto, a cura di G. Venturi, n. 20/21, 2002, pp. 97-110; il terzo èstato pubblicato negli Atti del convegno internazionaleImmaginazione e conoscenza nel Settecento italiano e francese, a curadi S. Verhulst, Milano, Franco Angeli, 2002, pp. 151-68; il quartonegli Atti del convegno Un europeo del Settecento. Aurelio de’ GiorgiBertola riminese, a cura di A. Battistini, Ravenna, Longo, 2000, pp.1-20; il quinto nel numero 27 di “Franco Italica” intitolatoMetamorfosi dei lumi. Tempo, natura, a cura di S. Messina e V.Ramacciotti (2005), pp. 189-204; il settimo fa parte del volumeMetamorfosi dei Lumi. Esperienze dell’io e creazione letteraria tra Settee Ottocento, a cura di L. Sozzi e S. Messina, Genova, Dall’Orso,2000, pp. 169-200. Il secondo, il sesto e l’ottavo sono a tutt’oggi ine-diti.

Nel licenziare il volume desidero esprimere la mia gratitudine aEzio Raimondi, alle cui intuizioni illuminanti sono debitrici molte diqueste pagine, per l’attenzione assidua e paziente con cui in questianni ha seguito il mio lavoro. Un ringraziamento particolare va inol-tre ad Arnaldo Pizzorusso per avere incoraggiato la stampa del libroaccogliendolo nella collana da lui diretta insieme a Ezio Raimondi; einfine a Édouard Pommier, che mi ha fatto dono delle sue competen-ze di storico dell’arte.

Premessa 7

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I. “ET IN ARCADIA EGO”:L’ISCRIZIONE DEGLI AFFETTI NELLA LIBERATA

Qualche anno fa, in un saggio intitolato Rousseau e Tasso nelquale il dialogo tra l’autore della Liberata e il traduttore settecen-tesco della storia larmoyante di Olindo e Sofronia veniva a assu-mere un significato più ampio di quello emerso nella ricostruzio-ne precedente di Luigi Foscolo Benedetto 1, Jean Starobinski invi-tava a riflettere su quale tipo di citazione sia l’iscrizione.Riferendosi in particolare alle strofe poetiche incise da Saint-Preux sulle rocce di Meillerie, che secondo le minute di Rousseaue la sua copia personale “non dovevano contenere altro che alcu-ni versi del Tasso”, il critico notava che l’iscrizione “è una paroladeviata, e tuttavia è un modo allusivo che il sentimento privilegiacome sua espressione più intensa” 2.

Tra i primi esempi di una tecnica allusiva nella quale i segnipiù familiari divengono al contempo i più estranei, e il sentimen-to “coincide fin dall’inizio con un senso di distanza” 3,Starobinski annoverava le iscrizioni di Erminia nell’intermezzoarcadico della Liberata, non a caso evocato con una sorta di ope-razione mimetica nelle pagine in cui Saint-Preux, subito primadelle giornate di solitudine a Meillerie, è accolto dall’ospitalitàsemplice e generosa dei pastori del Valais, inaugurando a suavolta un topos letterario destinato a essere ripreso per tutto ilSettecento.

Nell’archetipo che funge da modello, come anche nella suariscrittura moderna, la rappresentazione dell’idillio bucolico siunisce a una memoria che “desidera e cerca, al tempo stesso, ilsilenzio e la rottura del silenzio”, a un’espressione patetica in cui“il dolore dichiara la sua profondità mediante l’incisione chescava la scabra superficie, il legno o la pietra offerti dalla natura”4. Completando il percorso del critico, il lettore potrà a questopunto sperimentare su di sé la vertigine della visione speculareche cala nello spazio del romanzo la memoria dell’idillio tassia-

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

no, immaginando che Saint-Preux abbia consegnato alle rovinedi quel paesaggio alpino, dove il quieto paesaggio pastorale lasciail posto agli abissi interiori del pittoresco e del sublime, proprio iversi dolenti dell’ottava diciannove, evocati in una sorta di malin-conica rêverie da “una mano femminile intenta a scrivere sul tron-co degli alberi una storia simile alla sua” 5. Ancora al Tasso deiDialoghi si deve del resto la distinzione tra voce e scrittura cheassegna il primato alla parola scritta proprio in ragione del suovalore di simulacro, àncora o “saldissima pietra” che nella suaquiete perenne si oppone allo strepito vano del secolo, sostituen-do alla veemenza torbida e incerta delle passioni, simili “a unvento che non lassi alcun vestigio o ad una nuvola che portata da’venti tosto sparisca”, il “dottissimo silenzio” delle lettere, “certe,gravi, stabili, concordi a se medesme”, “sempre conformi a sestesse”, simbolo dell’unico legame possibile tra il mondo dei vivie quello dei morti, tra vicino e lontano 6.

Nella prospettiva notturna e intimamente divisa che Rousseaumutua dal Tasso, l’iscrizione amorosa di Saint-Preux sulle roccedi Meillerie appare da subito strettamente connessa all’iscrizionefunebre, alla pietra tombale che nel frontespizio della NouvelleHéloïse contiene in epigrafe i versi del Petrarca a prefigurazionedella morte di Julie. Come nota ancora Starobinski, quandoSaint-Preux ritorna a Meillerie i versi incisi sulla pietra hannoormai assunto il valore di un epitaffio funebre, in presenza di unamore oramai sfiorito ma amplificato nella forma lancinante delricordo dal paesaggio dell’anima, il “reduit sauvage et désert” cheassedia il “séjour riant et champêtre” degli amanti, “échappésseuls au bouleversement de la nature” 7. Saranno proprio le ini-ziali di Julie, “gravées dans mille endroits” tra i versi del Tasso edel Petrarca, a insegnare a Saint-Preux la sostanza amara e can-giante di una memoria i cui meccanismi erano descritti ancorapochi anni prima con fiducioso ottimismo da Condillac, rivelan-do come le immagini del “bonheur passé”, evocate dalla scritturaoramai lettera morta, sorgano più acerbe dalla pietra per aumen-tare la miseria del presente, sostituendo il dolore di un futurosenza storia al piacere alterato del ricordo 8.

Vale forse la pena, a questo punto, lasciare da parte le trascri-zioni moderne dei simboli tassiani per seguire le variazioni e isignificati dell’iscrizione bucolica e il valore assunto dalla metafo-ra della tomba come luogo allusivo del pathos esteso al simbolo

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vegetale della pianta, che nel Tasso della Liberata, anche in questoprecursore di Rousseau, è sempre legata al mondo degli affetti 9.Per fare solamente un esempio, sarà sufficiente ricordare l’episo-dio degli “amanti e sposi” Gildippe e Odoardo, uniti nella mortedal simbolo arboreo che allude alla loro intrinseca somiglianza,l’appartenenza originaria a una identica specie che nell’Amintadecretava gli “abbracciamenti” della vite all’olmo 10 e che nellaprosa più tarda dei Dialoghi definisce il significato stesso dell’amo-re: non già l’“elezione” chiamata in causa dal Sanminiato, ma la“similitudine” interiore fra l’amante e l’amata 11.

Ma prima che le conclusioni del Cataneo chiariscano, in sotti-le polemica con il platonismo della Molza, la vicinanza simbolicadi odio e amore e l’ambivalenza stessa di quella “passione prima-ria” 12 che nello spazio epico del poema dà forma alla tragedia diTancredi e Clorinda, occorre notare come la sequenza drammati-ca della distruzione nel canto XX della Liberata risponda conparallelismo speculare alla celebrazione dell’amore nel corodell’Aminta. Il campione della virtù sfortunata, Odoardo, a cuiSolimano ha troncato il braccio “appoggio a la fedel consorte”,cade trascinando con sé Gildippe

Come l’olmo a cui la pampinosa piantacupida s’aviticchi e si marite,se ferro il tronca o turbine lo schiantatrae seco a terra la compagna vite,ed egli stesso il verde onde s’ammantale sfronda e pesta l’uve sue gradite,par che se ’n dolga, e più che ’l proprio fatodi lei gl’incresca che gli more a lato 13.

All’interno del connubio indissolubile di amore e morte chedefinisce la psicologia tassiana, sembra quasi che il destino subli-me dei due “amanti e sposi”, con il racconto della loro risponden-za perfetta anche nella morte, porti a compimento la vicendasospesa di Olindo e Sofronia, condotti insieme al supplizio e trop-po rapidamente congedati dal poeta con l’accenno del passaggiorepentino “dal rogo a le nozze” 14. Non a caso, i “dolorosi lai” incui prende forma, all’inizio del libro, il rimpianto appassionato diOlindo, si riferiscono non tanto alla fine imminente, quantoall’impossibilità di unirsi all’amata con altro “laccio” che non siaquello terribile dei nodi del fuoco e della morte. Giocando sulla

I. “Et in Arcadia Ego” 11

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

densità metaforica della situazione emotiva, che oppone nodo anodo, fiamma a fiamma, il Tasso innesta l’esperienza diretta deldramma nella prospettiva retorica del codice amoroso e cortese,anticipando quasi quello che sarà, più avanti, la voce partecipedell’autore al dénouement tragico della vicenda di Gildippe eOdoardo.

Altre fiamme, altri nodi Amor promise,altri ce n’apparecchia iniqua sorte.Troppo ahi! ben troppo, ella già noi divise,ma duramente or ne congiunge in morte.Piacemi almen, poich’in sì strane guisemorir pur déi, del rogo esser consorte,se del letto non fui; duolmi il tuo fato,il mio non già, poich’io ti moro a lato 15.

Nonostante gli indubbi richiami ariosteschi 16, le “ombrosefronde” dove Erminia trova ricovero nella parentesi arcadicadella Liberata appaiono distanti da quelle del Furioso almenoquanto la celebrazione vitale degli amori di Angelica e Medoro, acui la natura tutta è chiamata a partecipare, è lontana dall’into-nazione dolente e raccolta che accompagna l’elegia pastorale delsettimo canto. Quando Orlando scopre i nomi degli amanti lega-ti insieme “con cento nodi” in “cento lochi” sugli “arbuscelli” 17, acoronamento della “sentenza in versi” 18 incisa da Medoro in un“arabico” privo di mistero, il velo dell’illusione cede di colpodinanzi alla memoria esibita di un’autobiografia amorosa chetrasforma i segni del coltello e dello spillo in altrettanti chiodi“coi quali Amore il cor gli punge e fiede” 19; l’eroe scoronato sivolge a una fuga “per mezzo il bosco alla più oscura frasca” 20 cheesclude a priori l’inclinazione meditativa delle ottave tassiane perdare sfogo ai moti subitanei e disordinati di una furia cieca eincontenibile in cui si mescolano tradizionalmente “odio, rabbia,ira e furore” 21. Nell’episodio della Liberata, al contrario, il pae-saggio si fa subito interiore, e gli atti stessi di Erminia “pensosi,mesti e colmi di tristezza” 22 si inquadrano emblematicamentenella rappresentazione iconografica della malinconia descritta daLomazzo nel Trattato dell’arte della pittura, dove i personaggi sonoraffigurati “assisi in loco conveniente, come sotto qualche arboroombroso, overo fra sassi e caverne” 23.

A ben vedere, le reazioni opposte e contrastanti dei personag-

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gi e la diversa orchestrazione patetica dell’episodio sembranoriproporre una volta di più la distinzione irriducibile tra la voce“commossa” delle passioni, “portate in alto” e subito cadute “aguisa di foglie levate dal vento”, e “l’edificio in saldissima pietra”rivelato dalle lettere-simulacri della scrittura, vergate in solitudi-ne con animo quieto e quasi “vacuo da perturbazioni” 24. Più cheagli epigrammi erotici di Angelica e Medoro, disseminati “qualcon carbone e qual con gesso” 25 su ogni superficie che si presti atestimoniare le gesta spavalde degli amanti, le iscrizioni degli“strani ed infelici amori” e degli “aspri successi” incisi da Erminia“in mille guise” nella “scorza de’ faggi e de gli allori” 26 rinvianoall’Arcadia umbratile del Sannazaro, alle “silvestre canzoni verga-te ne’ li ruvidi corteggi de’ faggi” 27 già richiamate dal Tasso nelsecondo coro dell’Aminta in opposizione alle “socratiche carte” ealle rime nobili delle “penne più sagge” 28.

Nel Sannazaro l’iscrizione arborea e l’epitaffio tombale non sitrovano ancora strettamente congiunti e intrecciati, non riman-dano indissolubilmente l’una all’altro come avverrà nella Liberatae poi in Rousseau, che accoglie l’intuizione tassiana all’internodel romanzo amoroso di Saint-Preux. Delimitati dallo spaziobucolico dell’arcadia, il “desir vano” e lo “stato inquieto” di cuiserbano memoria i tronchi “aspri e selvaggi” in forma di versi“incolti e foschi” 29 trovano espressione solo da ultimo nell’imma-gine fuggevole del sepolcro che sotto “i lauri ombrosi e folti” ospi-ta le spoglie degli amanti infine ricongiunti. Ma nell’elegia di Filliche chiude l’opera bisogna cogliere un segnale importante per latrasformazione del referente arboreo in simbolo, secondo l’esem-pio dell’“altero cipresso” percorso da segni ignoti in cui si cela ilcorpo di Clorinda nell’epifania straniata del XIII canto.

A conclusione del rituale delle iscrizioni amorose sui faggi e gliarbusti dell’immaginario virgiliano, l’evocazione dell’“alto pino”sacrificato a Filli diviene per il pellegrino l’altare della memoria,il “tempio onorato” e il “tumulo” che ospita, amplificandone ilnome, lo spirito della donna amata. Scanditi dalla rievocazione diamore e morte narrata in terza persona dal coro dei pastori, iversi incisi dall’amante “in su le poma puniche” si mutano in“sorba e corbezzoli” che “mandan sugo di fuor sì tinto e livido” danon lasciare dubbi sul fatto che a nutrirli siano stati l’amarezza eil dolore del novello Orfeo, la cui tragica odissea interiore faimpallidire il ricordo epico di Polidoro 30. Tra le “sorti mostruose

I. “Et in Arcadia Ego” 13

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

et uniche” di Melibeo e gli “strani e infelici amori” di Tancredirichiamati per via allusiva da Erminia sulle cortecce del suo asilopastorale sembra dunque esserci un legame, così come “il sugotinto e livido” che esce dai frutti inveleniti non può non richiama-re al lettore, con il valore di un indizio che il Tasso saprà mirabil-mente trasformare attraverso il ricordo virgiliano e dantesco, ilsangue che stilla dai tronchi della selva incantata “e fa la terraintorno a sé vermiglia” 31.

Ma per comprendere il senso profondo delle trasformazionioperate dal Tasso sul codice bucolico 32 dell’Arcadia, in cui siinnesta il dramma, occorre ritornare alla rappresentazione dellatomba come memoria dell’amore infelice. Al centro delle fantasiedi Erminia, persa nella sua rêverie pastorale, è l’immagine elegia-ca del sepolcro nella foresta, al quale l’amato Tancredi giungeràforse un giorno per ritrovare sulle scorze delle “amiche piante” ladolente biografia dell’amante infelice, e rivolgere alla “spogliainferma e frale” quei pensieri, quelle “poche lagrimette” 33 e queisospiri a lei negati in vita:

onde se in vita il cor misero fuesia lo spirito in morte almen felice,e ’l cener freddo de le fiamme suegoda quel ch’or godere a me non lice”Così ragiona a i sordi tronchi, e duefonti di pianto da’ begli occhi elice 34.

L’immagine evocata da Erminia, variante tutta letteraria delfigurativo Et in Arcadia ego, è speculare a quella del Sannazaroresa celebre dal Poussin, nella quale, come ha chiarito benePanofsky, l’iscrizione del “bel sasso quadrangulo” allude non allavittima inerme della passione amorosa, ma a colei che mostran-dosi in vita “sì altera e rigida” 35 giace ora nel sepolcro a monitoe memoria della necessità ineluttabile di soccombere, se nonall’amore, alla figura speculare della morte 36. Dal punto di vistanarrativo, la situazione patetica descritta nella Liberata risultadunque più prossima a quella dell’Aminta, che al topos della scrit-tura arborea 37 unisce l’evocazione della tomba visitata dall’a-mante crudele: Aminta, oramai prossimo a morte, vuole riassu-mere a futura memoria “le cagioni del morire” e inciderle, comeil suo antico predecessore Gallo, “ne la scorza d’un faggio, pressoil luogo dove sarà sepolto il corpo essangue”,

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sì che talor passandovi quell’empiasi goda di calcar l’ossa infelicico ’l piè superbo, e tra sé dica: – È questopur mio trionfo –; e goda di vedereche nota sia la sua vittoria a tuttili pastor paesani e pellegriniche quivi il caso guidi; e forse (ahi, sperotroppo alte cose) un giorno esser potrebbech’ella, commossa da tarda pietate,piangesse morto chi già vivo uccise,dicendo: – Oh pur qui fosse, e fosse mio! – 38.

Come si vede, alla prospettiva corale dell’Arcadia e dell’Aminta,dove, come nel quadro di Poussin, i pastori e i pellegrini fanno dasfondo agli avvenimenti e ne serbano la memoria collettiva, sisostituisce nella Liberata la rievocazione sommessa di Erminia e ilcolloquio muto e solitario con la tomba, mentre della vibrata pro-testa di Aminta non resta che il pathos smorzato che allude sim-bolicamente alla “tarda pietade” degli amanti. Allo stesso modonon c’è traccia, nella liturgia amorosa di Erminia, dei verbi-chia-ve che connotano l’immaginario erotico dell’Aminta, quei “godere”e “insuperbire” che ritorneranno emblematicamente nel XII canto– in una sorta di mise en abîme tragica messa in rilievo dalla vocedell’autore – per accompagnare la vista orgogliosa del sangue diClorinda ferita a morte (“Vede Tancredi in maggior copia il san-gue/del suo nemico, e sé non tanto offeso./ Ne gode, e superbisce.Oh nostra folle/ mente ch’ogn’aura di fortuna estolle!”).Apparentemente distante dalla scena notturna della “fera pugna”,a cui tuttavia la unisce il frammento ultimo del battesimo dellaguerriera morente che stempera la tragedia nella pastorale,l’“ambigua armonia” 39 del settimo canto appare ancora dominatadalla figura umbratile e segreta di Filli, che “altera e rigida” in vitae “mansueta et umile” nella morte sembra quasi ricomporre inun’unica immagine, nella dimensione univoca del sepolcro specu-lare al “sol letto che le accolse ambe talora” in virtù di “un’amistàsenza divieto” 40, i destini incompiuti e complementari di Erminiae di Clorinda, prefigurando nello stesso tempo la trasformazionedella guerriera attraverso il rito purificatore del battesimo che nerivela solo alla fine la natura profonda.

Ma nello spazio tragico del poema non c’è spazio per l’elegia, eanche l’episodio bucolico di Erminia rimanda, con perfetto paral-

I. “Et in Arcadia Ego” 15

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

lelismo, al dramma nel racconto, è ad esso intimamente connes-so. Come nel “grande a solo” del combattimento notturno fraTancredi e Clorinda “l’antica metafora dell’amante nemica e guer-riera si trasferisce dal campo dell’immaginario a quello del reale”,mutando “il topos agonistico della lirica in una vera e propriadistruzione” 41, così la consuetudine antica dell’amante assorto inpietoso ufficio sulla tomba viene riscritta volgendo in tragedia ilsimbolo fittizio del sepolcro in Arcadia. Nel momento di solitudi-ne estrema e inviolabile che segue la breve e illusoria parentesiconciliatrice del battesimo, Tancredi è indotto a riconoscere eaccettare il carico di angoscia del suo destino esemplare con iversi nei quali Rousseau leggerà più tardi la premonizione dellasua infelicità tramite una vera e propria operazione di dédouble-ment poetico 42.

Nello spazio solitario della memoria che ripete all’infinito lascena del trauma, la visione terribile del corpo dell’amata dilania-to dalle fiere (nella quale agisce, ancora una volta, la suggestionestraniata dell’archetipo ovidiano utilizzato correttamentenell’Aminta) lo induce a fantasticare di subire la stessa sorte, pertrovare “nella bocca stessa” e nel “ventre” delle belve l’“onoratatomba e felice” 43 che accolga, riunendole, entrambe le spoglie.La scansione ossimorica dei topoi della tradizione classica epetrarchista alternati ai simboli di morte che ripropongonoossessivamente l’immagine della follia omicida si accentua neiversi successivi, dove l’apparizione di Clorinda nello “splendorceleste” mira a cancellare il ricordo del corpo morto “senza splen-dor” e della “faccia scolorita”, introducendo la pietosa e inutileliturgia del rito funebre che cela per sempre alla vista “l’empiaferita” 44. Finché, da ultimo, la contemplazione assorta dellatomba visitata dal cavaliere “di riverenza pieno e di pietade” pro-voca lo scioglimento delle accumulazioni di senso e il repentinodénouement tragico, quando l’eroe impietrito dall’angoscia rivol-ge alla pietra viva le stesse parole immaginate da Erminia per sestessa, a proposito delle quali già il Martello, nella sua difesa ana-litica del Tasso, parlava di “passionato troppo ingegnoso” 45:

Giunto a la tomba, ove al suo spirto vivodolorosa prigione il Ciel prescrisse,pallido, freddo, muto, e quasi privodi movimento, al marmo gli occhi affisse.Al fin, sgorgando un lagrimoso rivo,

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in un languido: “oimé;” proruppe, e disse:“O sasso amato ed onorato tanto,che dentro hai le mie fiamme e fuori il pianto,

non di morte sei tu, ma di vivaciceneri albergo, ove è riposto Amore;e ben sento io da te l’usate faci,men dolci sì, ma non men calde al core.Deh! prendi i miei sospiri, e questi baciprendi ch’io bagno di doglioso umore;e dalli tu, poi ch’io non posso, almenoa le amate reliquie c’hai nel seno 46.

Come chiarirà acutamente il Martello, l’orazione “raffinata” diTancredi si fonda sulla superstizione degli amanti, “capaci di cre-der vero quant’essi vanno coll’alterata lor fantasia immaginan-do”, in questo caso che “il sasso dove l’amata donna è sepolta, fraquelle ceneri l’acceso amore raccoglia” 47. Attraverso la retoricadel desiderio il “cener freddo” immaginato da Erminia si mutanelle “vivaci ceneri” accese da Amore, che nel marmo vivo delsepolcro ha preso la sua dimora. Senonché, anche qui, la formatradizionale del compianto sulla tomba dell’amata appare corro-sa all’interno dalla dispositio tragica del racconto: Tancredi nonvisita il luogo in cui si saldano la memoria poetica e la rievoca-zione intima del suo passato amoroso, ma “il sepolcro della guer-riera per lui uccisa” 48.

Ancora una volta, la riproposizione divaricata dei due verbisinonimi dell’Aminta, “amare” e “onorare”, confermano come lasimbologia amorosa della Liberata si svolga tutta nel segno del-l’ossimoro e dell’antitesi patetica, e come il ricongiungimentodegli amanti sia possibile solo fugacemente nell’orizzonte chiusodella morte. Se l’immaginario della tomba si lega indissolubil-mente al simbolo arboreo, questo non può che essere il “troncoimpresso” del cipresso “altero” in cui si è incarnato il corpo diClorinda, rivelando tutta la distanza metaforica dall’immaginariotassiano dall’“alto pino” della tradizione bucolica celebrato daTeofrasto nell’Historia plantarum. Come prova l’analogia con leprofondità verticali della piramide a cui lo assimila l’emblemati-ca sentimentale dell’autore, il funeris signum del cipresso rinviaalle pagine di Valeriano sui geroglifici naturali riprese neiDialoghi, dove l’albero di Clorinda è insieme simbolo di morte edi beltà senza frutto, connesso al mito orfico della poesia e dell’e-

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Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

ternità e nello stesso tempo associato alla stagione caduca dell’u-manità, sola specie vegetale che abita la dimora sotterranea degliinferi 49. All’opposto del mirto di petrarchesca memoria, che pre-figura le ferite amorose e il trionfo ingegnoso e sensuale di Venerescandendo anche nell’orrore della selva il tempo terreno dellevicende di Rinaldo e Armida, il cipresso dichiara fin da subito lapropria immutabilità funerea in termini che rinviano all’antropo-logia stessa della vergine-guerriera, venendo quasi a costituire lacifra segreta del suo destino tragico: “cupressum enim nequecariem, neque vetustatem sentire tradunt, neque temere rimamaperire, ullave parte fatiscere …” 50.

Se nell’Aminta la rievocazione allusiva della tomba rimanda aduna morte fittizia che, come è stato osservato, ha la funzione di“far sbocciare quell’amore che la vita reprime, sfigura, uccide” 51,e che viceversa il sacrificio di sé (come proverà l’episodio diOlindo e Sofronia) esalta e conferma spogliandolo di ogni violen-za e aggressività, nella Liberata la tomba e il suo corrispettivoarboreo rappresentano viceversa l’impossibilità di congiungi-mento degli amanti, sono figura della loro eterna separazione. ATancredi, non più oggetto del desiderio malinconico di Erminiaaffidato alla voce silenziosa delle “amate piante”, ma testimonemostruoso di “memorandi essempi d’infelice amore” 52, vienenegata di fatto la possibilità del sacrificio di sé collegato allo sche-ma romanzesco delle morti presunte, sostituito dall’espedientecrudele del combattimento al buio nel segno dell’ombra e dell’er-rore. Prima che nell’enigma del cipresso, il destino di Clorinda stascritto nel mistero della sua identità, nell’assenza del nome cheimpedisce a Tancredi di rivelare il suo amore in presenza dellamorte per sottrarlo all’“ombra gemella dell’odio” che si liberanell’“ebbrezza funebre” 53 del duello. Solo alla fine, nello spaziotutto interiore della selva dove i simboli del sepolcro e dell’iscri-zione si trovano riuniti nell’“alta pianta” che percossa “mandafuor sangue”, la voce uscirà “quasi di tomba” per rivelare all’a-mante, in un “indistinto gemito dolente” 54, quel nome rifiutato invita.

Nella memoria del lettore che ne ricostruisce la storia interio-re, il sepolcro immaginato da Erminia nella quiete del recessobucolico fuori dal tempo della storia si lega alla tomba “di ricchepietre elette” e “da man dedala scolpite” 55 che racchiude il corpodella guerriera: non più la “spoglia inferma e frale” della tradizio-

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ne elegiaca, ma un’immagine violata che nonostante i richiamipetrarcheschi alla “morte dolce” rimanda piuttosto a certeDeposizioni tardocinquecentesche, con le “luci spietate” 56 del-l’osservatore che aprono quasi una seconda volta le piaghe nelcorpo, ripetendo i gesti del ferimento e dell’uccisione. In qualchemodo si potrebbe dire che Tancredi abbia inciso sul corpo dell’a-mata, in un linguaggio che è esso stesso il prodotto dell’errore, isegni di una vicenda terribile e crudele che stravolge per semprela mite pratica bucolica dell’iscrizione arborea.

Nel gesto aggressivo di Tancredi opera una tragica coazione aripetere che ripropone all’infinito la scansione del dramma eimpedisce alla storia di farsi scrittura: il cipresso “quasi eccelsapiramide” nel quale si incarna il corpo di Clorinda, sottratto allapietà dell’amante e della memoria funebre, è percorso da segniindecifrabili simili ai geroglifici sublimi dell’“antico già misterio-so Egitto” 57, le lettere sacre “con occulto significato” sui cui siinterrogheranno più tardi i Dialoghi 58. Nell’alfabeto di “segniignoti” dell’enigmatico-segreto, che già Benjamin collegava al sot-terraneo-segreto 59 delle rovine sepolte e delle catacombe, le uni-che note coerenti all’occhio e al cuore di Tancredi sono quelle chesi riferiscono ai “chiostri de la morte” violati dal “reo profanato-re di tombe” 60, all’ossimoro vivente di un sepolcro “quasi dimolle carne”, dalle cui piaghe immedicabili egli non può chedichiararsi “vinto” 61.

È stato Petrocchi a ricordare che “a monte della creazione diTancredi c’è Aminta”, rievocato nel primo incontro con Clorindanella cornice arcadica delle avventure pastorali, aggiungendoche anche quando lo spazio bucolico si è mutato nel pieno teatrodell’agone e della morte rimane la presenza di quel recessoombroso e silenzioso a segnare un preciso passaggio tra “la natu-ra splendidissima” della favola e quella “non ancor tragica diTancredi” 62. Senonché, rivedendo da vicino il senso generaledell’episodio di Erminia e i suoi rapporti con la dynamis pateti-ca del poema, il nesso tra i due testi e la repentina conversionedella pastorale nel dramma sembrano configurarsi decisamentecome un’antinomia. Dopo quanto si è detto, non si può infattisostare sull’immagine evocata della tomba in Arcadia, con il suocorredo di iscrizioni, senza tener conto del suo corrispettivo tra-gico a suggello delle vicende di amore e morte dei canti XII eXIII, consegnate all’ottica straniata di Tancredi. Non solamente

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Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

perché, come è stato notato, Erminia giunge nella foresta trave-stita da guerriera 63, contaminando lo spazio alternativo dell’idil-lio con i simboli della guerra (le “insolite arme” rilevate dall’ico-nografia), ma soprattutto perché l’armatura e le insegne diClorinda, impropriamente indossate, avvicinano le due figure,ne confondono le immagini, inducendo la logica ambigua e cru-dele dello scambio di persona e dell’identità perduta all’originedel tragico errore di Tancredi 64. Ancora più che allo spaziomagico in cui viene imprigionato Tancredi nell’immediato pro-sieguo del canto VII 65, la fugace utopia del mondo pastorale conil suo sepolcro intatto appare strettamente connesso alla confi-gurazione diabolica della selva di Saron, dove il rito pietoso del-l’iscrizione trova il suo inveramento tragico nella scrittura capo-volta del geroglifico. Ciò che si offre agli occhi di Tancredi quan-do, dopo aver sepolto la “diletta amica”, si accinge “languido esmorto” 66 ad affrontare gli arcani della selva incantata, non è giàil “silvestre loco” degli amori bucolici quale apparirà ancora aRinaldo, ma la visione infernale della “città del foco” seguita da“nuvol denso che porta notte e verno” 67, in una sequenza cheripropone, stravolgendone il significato, la sintomatologia amo-rosa del caldo e del freddo nel primo incontro degli amanti,destinata a spegnersi subito dopo nell’aura immobile dei “chio-stri de la morte” che anticipano e preparano le “immagini orri-bilissime” del duello rivissuto nell’inconscio 68.

Non stupisce allora se proprio a Erminia, l’alter-ego segreto diClorinda, rimane affidato, alla fine, il compito di tradurre nelcodice mediato della scrittura il destino tragico di Tancredi –altrimenti consegnato all’enigma del geroglifico e al silenzio mor-tale della selva – nella forma malinconica di una prefigurazioneche, narrando sulle cortecce dei faggi la storia degli “strani edinfelici amori” e degli “aspri successi”, sembra voler alludere aglieventi che prenderanno forma di lì a poco fuori dal limes emoti-vo dell’Arcadia, nel teatro delle passioni del combattimento not-turno. Da questo punto di vista, le incisioni di Erminia sembranoessere il corrispettivo delle iscrizioni “interne” di cui ha parlatoSparrow a proposito della pittura, nelle quali le parole inseritenell’immagine non obbediscono a un intento puramente descrit-tivo, ma si caricano di significato funzionando come un segnaletra l’artista e lo spettatore, costituendo quasi, si potrebbe aggiun-gere con Michel Butor, degli strappi o delle lacerazioni, da cui tra-

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luce il senso, nel tessuto composito di una pittura che procedeper tocchi allusivi 69. L’iscrizione degli affetti come memoria eanticipazione del dramma finisce dunque per inserire di dirittonella trama del racconto l’intermezzo arcadico dell’episodio diErminia (più volte considerato “sciolto” dal resto del poema eperciò “non necessario” 70) attraverso l’accensione patetica dell’e-pisodio idillico del sepolcro visitato dall’amante, istituendo uncollegamento emotivo tra i canti secondo il procedimento del“narrar disgiunto” e il principio costruttivo della sospensione 71.

La configurazione patetica del racconto, che procede anche sulpiano della dispositio “dal confuso al distinto” 72, muta del restoanche il senso attribuito al paesaggio. Alcuni anni fa, in un sag-gio giustamente celebre che si è già avuto l’occasione di ricorda-re, Panofsky ricostruiva la ricezione dei Bergers d’Arcadie diPoussin ponendo all’origine del quadro del Louvre l’Arcadia delSannazaro, la cui tonalità malinconica aveva sostituito il memen-to mori di derivazione medievale dominante nella prima versionedipinta sull’esempio del Guercino 73. Si può osservare tuttavia chese gli elementi della rappresentazione figurativa derivano diretta-mente dal passo dell’Arcadia relativo all’elegia di Filli, il messag-gio per così dire interiore del quadro sembra ricondurre non sol-tanto al Sannazaro, ma anche alla meditazione solitaria diErminia, che più del suo modello quattrocentesco esprime ilmistero della pastorale intesa non come teatro della fuga o delladisillusione amorosa, bensì soprattutto come spazio di elabora-zione, compromesso e ricerca di significato 74 che non implicaalcun riferimento concreto, anche se pare fuori di dubbio che ilpaesaggio di Poussin, mentre rifiuta ogni rapporto con quelle cheFüssli definirà più tardi “le mappe” e i rilevamenti topografici deipittori di vedute, sembra allontanarsi dalla stilizzazione delSannazaro per privilegiare, con il Tasso, la percezione intensa del“corpo della natura nel luminoso variare delle aurore, dei merig-gi e dei crepuscoli” 75 che corrispondono ai mutamenti dell’ani-ma. Non a caso un autore settecentesco che viene poco prima diRousseau, Antonio Conti, parlerà a proposito dei quadri diPoussin di “sillogismi taciti”, progressioni di senso derivate dalmisterioso e dall’allegorico attraverso le quali gli elementi dellacomposizione si legano fra loro per via patetica, seguendo unalogica interiore che si serve di “idee confuse e oscure” di cui l’a-nima “appena è conscia” 76.

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Anche per il poema tassiano si può forse dire – con le paroledi un altro studioso di Poussin, Marc Fumaroli – che il grandegeroglifico dei gesti nell’universo dell’autore lascia intravedere,attraverso la diversità dei luoghi e delle figure, l’unità della visio-ne patetica che li ha fatti nascere. Anche qui i simboli dell’agiretragico risuonano in consonanza con i fianchi delle montagne, itronchi degli alberi, le colonne e i pilastri che non sono mai ele-menti di decoro, ma assi portanti del “quadro-tempio” 77 intornoa cui è costruito il racconto. Non aveva dunque tortoChateaubriand, quando scriveva che il mondo della Liberata sitrova nella natura “relativement aux objets physiques”, ma infini-tamente al di sopra di essa riguardo agli “objets moraux”, e osser-vava che il compito del poeta moderno, da Tasso a Rousseau, nonera più quello di descrivere, ma piuttosto di comporre scompo-nendo, “cachant et choisissant, retranchant ou ajoutant” 78, pergiungere a quella verità epica del génie chrétien che consiste nel“je ne sais quoi jeté dans le vague” 79 in cui le cifre della scrittura,al pari delle rovine, sono il tramite segreto fra autore e lettore.

1 Cfr. L. Foscolo Benedetto, “Jean-Jacques Rousseau e Torquato Tasso”,in Id., Uomini e tempi. Pagine varie di critica e storia, Milano-Napoli,Ricciardi, 1953, pp. 217-238. Più di recente sono tornati sull’argomento S.Cardinali, Il Tasso di Rousseau, in Torquato Tasso e l’Università, a cura di W.Moretti e L. Pepe, Firenze, Olschki, 1997, pp. 489-506 e A. Beniscelli, Le pas-sioni evidenti. Parola, pittura, scena nella letteratura settecentesca, Modena,Mucchi, 2000, pp. 127-138.

2 J. Starobinski, Rousseau e Tasso, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p.30. Il testo, presentato come Lezione Sapegno 1993, era apparso originaria-mente in francese nelle “Annales de la Société Jean-Jacques Rousseau”, XL(1992).

3 Loc. cit.4 Ibid., p. 31.5 Loc. cit. Sulla diffusione del topos dell’iscrizione arborea di ascendenza

virgiliana (Buc. X, vv. 52-54) nella cultura cinquecentesca cfr. R.W. Lee,Names on Trees. Ariosto into Art, Princeton, Princeton University Press, 1977(in particolare pp. 71-83).

6 Cfr. T. Tasso, “Il Cataneo overo de le conclusioni amorose”, in Dialoghi,a cura di G. Baffetti, Milano, Rizzoli, 1998, t. II, p. 865. Sul valore ermeneu-tico del passo hanno attirato l’attenzione M.A. Rigoni, Un dialogo del Tasso:dalla parola al geroglifico in “Lettere italiane”, XXIV (1972), 1, pp. 30-44 eE. Ardissino, Il sogno tra verità e idolo nella scrittura del Tasso, in “Lingua estile”, XXIX (1994), 2, pp. 215-239.

7 J.J. Rousseau, La Nouvelle Héloïse, in Oeuvres complètes, éd. publiéesous la direction de B. Gagnebin et M. Raymond, Paris, Gallimard, 1961, t.I, p. 518.

8 Ibid., pp. 519-520. Sull’argomento ha scritto pagine illuminanti H.R.

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Jauss nella sezione di Erfahrung und literarische Hermeneutik (Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1982) dedicata al confronto tra la Nouvelle Héloïse e il Werther.

9 La presenza dell’elemento arboreo nella Liberata è stata rilevata daG. Güntert, L’epos dell’ideologia regnante e il romanzo delle passioni. Saggiosulla “Gerusalemme Liberata”, Pisa, Pacini Editore, 1989, p. 135. Ma la sim-bologia patetica del mondo vegetale, spesso congiunta al motivo dell’iscrizio-ne sepolcrale, è una costante nel Tasso, dall’Aminta alle Rime al Rogo Amoroso(per il commento all’immagine cfr. C. Varese, Torquato Tasso. Epos, parola,scena, Messina-Firenze, D’Anna, 1976, p. 173) all’emblematica dei Dialoghi(cfr. in particolare Il Conte, overo de le imprese, a cura di B. Basile, Roma,Salerno Editrice, 1993, pp. 178-187). Come ricorda D. Delcorno Branca, ilmotivo dell’albero che cresce sulla tomba, nel quale ritornano intrecciati ilmito ovidiano e l’archetipo di Tristano e Isotta, fa parte di una feconda tradi-zione che giunge fino al Boccaccio tragico della Quarta Giornata (cfr.Boccaccio e le storie di re Artù, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 26, 27). Perquanto riguarda infine le implicazioni folkloriche del tema cfr. V.A. Propp,Volsebnoe derevo na mogile (K voprosu o prischozdenii vol ebnoj skazki), tr. it.“L’albero magico sulla tomba”, in Id., Edipo alla luce del folklore. Quattro studidi etnografia storico-strutturale, a cura di C. Strada Janovic, Torino, Einaudi,1975, pp. 3-41.

10 T. Tasso, Aminta, in Id., Opere, a cura di B.T. Sozzi, Torino, UTET,1964, t. II, p.189.

11 Id., Il Cataneo, cit., p. 877.12 Ibid., p. 872.13 Si cita dall’edizione della Gerusalemme Liberata a cura di L. Caretti,

Milano, Mondadori, 1957 (X, 99-100). Sugli echi virgiliani dell’episodio diGildippe e Odoardo cfr. le osservazioni di S. Verdino, Sul canto XX dellaLiberata. Appunti di lettura, in “Studi tassiani”, XLII (1994), pp. 95-108(pp. 104-105).

14 Tasso, Gerusalemme Liberata, cit., II, ottava 53.15 Ibid., II, p. 34. Sulla ripresa di segmenti testuali nel Tasso cfr. A.

Soldani, “Ripetizione e ambiguità nella Liberata”, in Torquato Tasso e la cultu-ra estense, a cura di G. Venturi, Firenze, Olschki, 1999, pp. 187-202.

16 Come ha notato Lee (Names on Trees, cit.), la questione dell’influenzadell’Ariosto sul Tasso è complicata dal fatto che la straordinaria diffusionedell’Aminta, con il suo corredo di immagini pastorali, riaccende l’interessesull’episodio di Angelica e Medoro, che a partire dal 1577 viene inserito didiritto nel corredo di illustrazioni del poema.

17 L. Ariosto, Orlando Furioso, a cura di L. Caretti, Milano-Napoli,Ricciardi, 1954, XXIII, ottave 103 e 102.

18 Ibid., ottava 107.19 Ibid., ottava 103.20 Ibid., ottava 124.21 Ibid., ottava 129.22 G.P. Lomazzo, Trattato dell’arte della pittura, scoltura et architettura

(1584), in Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, Milano-Napoli,Ricciardi, 1971, p. 350. Non è forse inutile rilevare che nell’analisi delLomazzo la rappresentazione della malinconia risulta più completa e artico-lata di quella dell’ira, che tralascia le osservazioni naturalistiche di Leonardoper rientrare nell’astrazione formale del topos. Cfr. su questo punto R.W. Lee,Ut pictura poësis: the humanistic theory of painting, tr. it. Ut pictura poësis. Lateoria umanistica della pittura, Firenze, Sansoni, 1967, pp. 126-128.

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Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

23 Lomazzo, Trattato dell’arte della pittura, scoltura et architettura, cit.,p. 350. Ernst Gombrich ha messo in relazione la fortuna di questi elementinaturali, che si troveranno poi ricomposti nel paesaggio eroico di Poussin,con la diffusione dell’estetica di Vitruvio. Cfr. La teoria dell’arte nelRinascimento e l’origine del paesaggio, in Id., Norma e forma, tr. it. Milano,Mondadori Electa, 2003 (nuova edizione aggiornata), pp. 117-131.

24 Tasso, Il Cataneo, cit., p. 867.25 Ariosto, Orlando Furioso, cit., XXIII, ottava 106.26 Tasso, Gerusalemme Liberata, cit. VII, ottava 19.27 J. Sannazaro, Prologo all’Arcadia, in Id., Opere volgari, a cura di

A. Mauro, Bari, Laterza, 1961, p. 29.28 Tasso, Aminta, cit., pp. 230, 231. A questo proposito cfr. D. Chiodo,

Partenope in Arcadia. Alle radici dell’ispirazione bucolica in Tasso, in “Studi tas-siani”, 38 (1990), pp. 143-162. Sulla concezione amorosa nella pastorale siveda anche R. Gigliucci, “Al sommo d’ogni contentezza”: petrarchismo e favo-la pastorale, in “Giornale storico della letteratura italiana”, CXXI (2004), 595,pp. 422-436.

29 Sannazaro, Arcadia, cit., pp. 108-109.30 Ibid., p. 121.31 Tasso, Gerusalemme Liberata, cit., XIII, ottava 41. Per la riscrittura del-

l’episodio di Pier delle Vigne e in generale sul riuso tassiano dell’allegoria dan-tesca cfr. F. Ferretti, “Quasi un picciol mondo” dantesco: allegoria e finzionenelle Liberata, in “Lettere italiane”, LV (2003), 2, pp. 169-195.

32 Cfr. M. Corti, “Il codice bucolico”, in Id., Metodi e fantasmi, Milano,Feltrinelli, 1968. Sul ruolo della pastorale nella Liberata si veda J. Goudet,“La trève pastorale dans l’itinéraire et dans la sensibilité du Tasse”, in Le genrepastoral en Europe du XV au XVII siècle. Actes du colloque international tenuà Saint-Etienne (28 septembre-1er octobre 1978), éd par C. Longeon,Université de Saint-Etienne, 1980, pp. 47-71. Sul rapporto della pastorale tas-siana con il dramma utile anche il confronto con D. Cecchetti, “Tracce dipastorale nella Phèdre di Racine”, in Torquato Tasso. Cultura e poesia. Atti delconvegno Torino-Vercelli 11-13 marzo 1996, a cura di M. Masoero, Torino,Paravia, 1997, pp. 155-167.

33 Tasso, Gerusalemme Liberata, cit., VII, ottava 21.34 Ibid., VII, ottava 22. Oltre che alla tessitura emotiva di RVF. CXXVI, il

topos poetico della tomba visitata dall’amante crudele rinvia, tramite unrichiamo intratestuale che ha il valore di un’anticipazione, all’ottava LXXXVdel VI canto, in cui Erminia fantastica di subire per mano di Tancredi il feri-mento e l’uccisione che saranno poi al centro del dramma di Clorinda nelcanto XII. Su indicazione di D. Delcorno Branca, che qui ringrazio, segnaloinoltre i precedenti lirici del Pulci (Strambotti di Luigi Pulci fiorentino, a curadi A. Zenatti, Firenze, Alla libreria Dante, 1887, pp. 11-13) e del Poliziano(Rime, a cura di D. Delcorno Branca, Venezia, Marsilio, 1990, p. 84).

35 Sannazaro, Arcadia, cit., p. 126.36 Cfr. E. Panofsky, “Et in Arcadia ego. On the Conception of Transience in

Poussin’, tr. it. Poussin e la tradizione elegiaca, in Id., Il significato delle artivisive, tr. it. Torino, Einaudi, 1962, pp. 279-301. Sul significato del transi omemento mori scolpito sul sarcofago si veda ancora Panofsky, Tomb sculpture.Four Lectures on Its Changin Aspects from Ancient Egypt to Bernini, New York,Abrams, 1996, pp. 63 sgg. Per quanto riguarda l’ambivalenza intrinseca delquadro di Poussin e l’idea stessa di Arcadia cfr. S. Schama, Landscape andmemory, tr. it. Paesaggio e memoria, Milano, Mondadori, 1997, pp. 529-584.

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37 Tasso, Aminta, cit., p. 192.38 Ibid., p. 195. Per il commento a questi versi cfr. D. Radcliff-Umstead,

Structures of conflict in Tasso’s Pastoral of love, in “Studi tassiani”, XXII(1972), pp. 69-83, nonché G. Barberi-Squarotti, “La tragicità dell’Aminta”, inId., Fine dell’idillio. Da Dante a Marino, Il Melangolo, 1978, pp. 139-173.

39 Intesa nel suo significato più ampio, la categoria critica individuata perl’Aminta può essere estesa alla tonalità patetica del settimo canto, che portaall’estremo la tensione implicita nell’archetipo della pastorale. Cfr. G. DaPozzo, L’ambigua armonia, Firenze, Olschki, 1983. Ma sulla fisionomia com-plessa dell’Aminta si veda anche S. Zatti, “Natura e potere nell’Aminta”, inTorquato Tasso quattrocento anni dopo, a cura di A. Daniele e F. Walter Lupi,Rubbettino, Mannelli, 1997, pp. 11-24.

40 Tasso, Gerusalemme Liberata, cit., VI, ottave 79-80.41 E. Raimondi, “Il dramma nel racconto”, in Id., Poesia come retorica

Firenze, Olschki, 1980, p. 120.42 Cfr. J. Starobinski, Rousseau e Tasso, cit., pp. 15-19.43 Tasso, Gerusalemme Liberata, XIII, p. 79. Un precedente degno di inte-

resse, collegato all’archetipo delle Metamorfosi, si ritrova in SerafinoAquilano: “Già sento uscir d’ogni caverna obscura/Fiere affamate, ingorghe,aspre e vorace/Che de assidiar(e) mio corpo haranno cura/Quando disteso emorto in terra iace/Et per donarmi honesta sepultura/Me harà nel ventrealcun lupo rapace/Né saxo cerco sopra ornato et pulchro/Ché non merta ilmio corpo altro sepulcro”. Cfr. B. Bauer Formiconi, Die Strambotten desSerafino dall’Aquila, München, Wilhelm Fink Verlag, 1967, p. 20. Ma riguar-do al motivo della tomba nel ventre delle belve occorre segnalare anche lacoincidenza con il lamento di Olimpia nel Furioso (X, ottava 28).

44 Tasso, Gerusalemme Liberata, cit., XIII, ottava 81.45 P.J. Martello, Dialogo della vana gloria, in Id., Scritti critici e satirici, a cura

di H.S. Noce, Bari, Laterza, 1963, p. 397. Sulla lettura del Tasso a opera delMartello cfr. E. Raimondi, Gli enigmi dell’ombra. Guercino e la letteratura, in Id.,Il colore eloquente. Letteratura e arte barocca, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 55-76.

46 Tasso, Gerusalemme Liberata, cit., XII, ottave 96, 97. Su questi versi siè soffermato G. Gorni, secondo il quale il feticismo di Tancredi nei confron-ti della tomba dell’amata “instaura un processo di sostituzioni aberranti” fon-dato su “una trafila di tragiche metonimie” per cui alla fine “il sepolcro diClorinda prende il posto del Santo Sepolcro, scalzandone la dignità gerarchi-ca”. Cfr. “Il gran sepolcro di Gerusalemme. Sacro e finzione del sacro nelTasso”, in “Compar(a)ison”, 2 (1994), ottave 75-89.

47 Martello, Dialogo della vana gloria, cit., p. 397.48 Loc. cit.49 Ioannis Pierii Valerianii bellunensis Hieroglyphica seu de sacris aegyp-

tiorum, aliarumque gentium literis commentarii. (De funeris arboribus et coro-nis aliquot), Venetiis, apud Io. Antonium et Jacobum de Franciscis, 1602 (1aed. Basilea 1556), pp. 551-553. Simile al ramo d’oro dei Misteri, il cipressodella Liberata coincide con l’Albero della morte la cui crescita sotterraneacostituisce il supporto originario della vegetazione aerea. Cfr. R. Guénon,Symboles de la science sacrée, Paris, Gallimard, 1962, pp. 314-317.

50 Pierii Valerianii Hieroglyphica, cit., p. 553.51 Cfr. E. Fenzi, Il potere, la morte, l’amore. Note sull’Aminta di Torquato

Tasso, in “L’immagine riflessa”, 1-2 (1979), pp. 167-248 (p. 243).52 Tasso, Gerusalemme Liberata, cit., XII, ottava 76.53 Raimondi, Il dramma nel racconto, cit., pp. 120-122.

I. “Et in Arcadia Ego” 25

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

54 Tasso, Gerusalemme Liberata, cit., XIII, ottava 41.55 Ibid., XII, ottava 94.56 Ibid., XII, ottava 82.57 Ibid., XIII, ottava 38. L’allusione alla scrittura indecifrabile del gerogli-

fico, simbolo dell’errore e del tragico non può non richiamare, per antitesi,l’“arabico” privo di mistero del Furioso, in cui è trascritta la storia di Angelicae Medoro (XXIII, ottava 110).

58 Tasso, Il Conte overo de l’imprese, in Id., Dialoghi, cit., II, p. 1118. Suigeroglifici cfr. B. Basile, La ricerca di Iside, in Id., Poëta melancholicus.Tradizione classica e follia nell’ultimo Tasso, Pisa, Pacini Editore, 1984, pp.259-335 (poi ristampato come Introduzione all’edizione del Conte già citata),che rinvia anche nel titolo allo studio fondamentale di J. Baltruєaitis, LaQuête d’Isis: essai sur la légende d’un mythe, tr. it. La ricerca di Iside. Saggiosulla leggenda di un mito, Milano, Adelphi, 1985.

59 Cfr. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, tr. it. Il drammabarocco tedesco, Torino, Einaudi, 1971, p. 176.

60 Gorni, “Il gran Sepolcro di Gerusalemme”, cit., p. 87.61 Tasso, Gerusalemme Liberata, cit., XIII, ottava 49.62 G. Petrocchi, I fantasmi di Tancredi, Caltanissetta-Roma, Sciascia,

1961, pp. 66 e 69.63 Su questo particolare cfr. Barberi-Squarotti, Fine dell’idillio, cit., pp.

175-221 (p. 176).64 Come precisava già Galileo, alludendo al lapsus tassiano (tanto più

significativo in quanto l’autore si era soffermato sull’episodio nella lettera alGonzaga del 22 maggio 1575), Clorinda non depone spontaneamente le noteinsegne a favore di quelle “ruginose e nere”, ma viene obbligata alla sostitu-zione dal furto di Erminia nel canto VI. Cfr. G. Galilei, Considerazioni alTasso, in Id., Scritti letterari, a cura di A. Chiari, Firenze, Le Monnier, 1970,pp. 595-596.

65 La continuità tra il canto VII e il XIII nel senso dell’utopia negata èmessa in luce da A. Martinelli, La demiurgia della scrittura poetica.Gerusalemme Liberata, Firenze, Olschki, 1973, pp. 199-218.

66 Tasso, Gerusalemme Liberata, cit., XIII, ottava 32.67 Ibid., XIII, ottave33, 36. Sul confronto fra Tancredi e Rinaldo cfr. le

considerazioni di D. Foltran, Il “topos” narrativo della pianta parlante daVirgilio a Tasso, in “Studi tassiani”, XLV (1977), pp. 209-229.

68 Le ragioni interne della sconfitta di Tancredi, “superato in qualcosa per-tinente alla fortezza”, e il significato psicologico dell’iterazione sono chiaritidal Tasso stesso nella lettera al Gonzaga del 27 giugno 1575. Cfr. T. Tasso,Lettere poetiche, a cura di A. Molinari, Parma, Guanda editore, 1995, pp. 139-140.

69 Cfr. J. Sparrow, Visible Words. A Study of Inscriptions in and as Booksand Works of Art, Cambridge, Cambridge University Press, 1969, p. 50, e M.Butor, Les inscriptions du paysage, in Id., Les mots dans la peinture, Genève,Skira, 1969, pp. 138-139.

70 Cfr. in particolare la lettera a Scipione Gonzaga del 15 aprile 1575(Tasso, Lettere poetiche, cit., pp. 31 sgg.).

71 Cfr. la lettera al Gonzaga del 20 maggio 1575, non a caso incentrata sulpersonaggio di Erminia (Tasso, Lettere poetiche, cit., pp. 80-81). Sulla tecnicaretorica tassiana rinvio al numero monografico a cura di G. Venturi, Tasso,Tiziano e i pittori del “parlar disgiunto”. Un laboratorio tra le arti sorelle, in“Schifanoia”, 20/21 (1997).

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72 Tasso, Lettere poetiche, cit., p. 81. Su questo punto cfr. G. Baffetti, Fradistanza e passione. Una poetica del punto di vista “patetico”, in “Schifanoia”,20/21 (1997), pp. 87-96.

73 Cfr. Panofsky, “Et in Arcadia ego”, cit., pp. 296-297.74 A questo proposito si veda A. Tripet, Réflexions sur la pastorale, in

“Rivista di letterature moderne e comparate”, XLIX (1996), pp. 161-173. Sulrapporto fra Tasso e Poussin cfr. F. Graziani, “Poussin lecteur du Tasse”, in La“Jérusalem délivrée” du Tasse: poésie, peinture, musique, ballet, a cura di G.Careri, Paris, Klincksieck, 1999, pp. 289-308.

75 La citazione di Füssli è tratta da G. Romano, Studi sul paesaggio,Torino, Einaudi, 1978. Sull’idea di natura in Poussin si vedano, oltre al giàcitato intervento di Gombrich, le pagine sempre attuali di A. Blunt, NicolasPoussin, The A.W. Mellon Lectures on the Fine Arts, New York, PantheonBooks, 1967, e di D. Mahon, Réflexions sur le paysage de Poussin, in “Art deFrance”, 1 (1961), pp. 119-132. Particolarmente pertinente appare anche,riguardo ai paesaggi tassiani, il richiamo alla “sottile infusione d’ombra” delBastianino (cfr. G. Arcangeli, Il Bastianino, Milano, “Silvana” Editorialed’Arte, 1963, p. 16. Sui rapporti del Tasso con la pittura del Cinquecento sivedano infine G. Argan, “Il Tasso e le arti figurative”, in AA.VV., TorquatoTasso, Milano, Marzorati, 1957, pp. 209-226; F. Ulivi, Il manierismo del Tassoe altri studi, Firenze, Olschki, 1966, pp. 117-299; C. Gnudi, L’ideale classico.Saggi sulla tradizione classica nella pittura del Cinquecento e del Seicento,Bologna, Alfa, 1981, pp. 68-85.

76 A. Conti, A Monsignor Ceratti, in Id., Prose e poesie del sig. abate A.Conti, Venezia, presso G.B. Pasquali, 1739-1756, t. II, pp. 13-14.

77 M. Fumaroli, L’école du silence. Le sentiment des images au XVIIe siècle,Paris, Flammarion, 1994, pp. 179-180.

78 R. de Chateaubriand, Génie du Christianisme, texte établi, présenté etannoté par M. Regard, Paris, Gallimard, 1978, pp. 682 e 681.

79 Ibid., p. 643n.

I. “Et in Arcadia Ego” 27

B

II. ANATOMIE DELLE PASSIONI TRA SEI E SETTECENTO

Nel testo forse più significativo dell’Accademia degliInvestiganti 1, il Parere sull’origine e i progressi della medicina diLeonardo Di Capua, uscito a stampa nel 1681, lo spazio infinitodella ricerca si presenta agli occhi dei novatores nelle formeinquiete e seducenti di un “tempestoso pelago” e di una “folta enon conosciuta selva” 2: un “confuso laberinto” nel quale iseguaci di Galileo e di Descartes 3, al pari del nocchiero che simette per mare in “picciola e mal fornita barca”, o del “mal pra-tico viandante” sorpreso nella foresta “da oscura notte”, rinun-ciano da subito alle certezze di un sapere codificato per inol-trarsi nelle meraviglie inesplorate dell’universo provvisti sola-mente degli strumenti della filosofia naturale, della geometria edella morale.

Se il richiamo al valore dell’esperienza e al linguaggio dellamatematica appaiono oramai indispensabili, dopo Galileo, perdecifrare “l’oscuro laberinto” della natura, la scelta della filosofiamorale rivela nello stesso tempo la necessità acuta di indagare larealtà interiore dell’uomo, quella parte altrettanto misteriosadella conoscenza da cui dipendono “le cagioni e gli effetti” 4 dellemalattie e il funzionamento stesso dell’organismo. A confermadel ruolo di primo piano assunto dalla morale all’interno delnuovo paradigma del sapere, l’autore del Parere precisa infattisubito dopo:

come potrà il medico, adoperando il suo mestiere, convalenti medicamenti sanar gli ammalati del corpo sein prima le malattie dell’animo loro non toglie? Cioè adire, se non sa di filosofia morale? Imperciocché imali tutti del corpo, come da prima e principal cagio-ne, da alcuna passione dell’animo sovente nascersogliono, la qual certamente né conoscere né rimuoverpotrà il medico giamai se dalla moral filosofia non siascorto 5.

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

Lo stretto legame fra le passioni e le disfunzioni dell’organi-smo rinvia a una concezione antica, funzionale e non ontologica,secondo la quale la malattia è di fatto il risultato di un’alterazio-ne fisiologica dell’equilibrio degli umori del corpo 6, ripresaanche da Descartes nella corrispondenza con Elisabetta diBoemia. D’altro canto, come è stato osservato, l’epistemologiacartesiana dell’uomo macchina fornisce alla medicina non soloun modello teorico di tipo anatomico e fisiologico, ma anche unquadro di riferimento clinico-terapeutico che autorizza la rotturacon la medicina galenica 7. All’interno di questa prospettiva com-plessa, in cui il nuovo sembra coesistere accanto all’antico, biso-gna poi aggiungere che l’orizzonte epistemologico delineato nelParere e il nodo cartesiano che unisce medicina e morale includo-no non solo la fisica oramai diffusa del De l’Homme, quanto piut-tosto le indicazioni più moderne e problematiche di un testo checomincia ad attecchire nella cultura napoletana solo qualcheanno più tardi, vale a dire le Passions de l’âme, dove il filosofofrancese aveva dichiarato di esaminare la natura degli affetti e leloro manifestazioni in un’ottica medica, mettendo in pratica l’af-fermazione della lettera a Chanut del 15 giugno 1646 riguardoalla dipendenza della morale dalle nozioni della fisica e dellameccanica 8.

Non a caso, proprio nello stesso anno del Parere il trattato sullepassioni veniva letto e commentato, nella versione latina che cir-colava dal 1650 nella raccolta fattizia degli Opera, anche da unaltro medico vicino all’ambiente degli Investiganti, Luca Tozzi,che illustra in termini cartesiani la concezione meccanica dellepassioni e la loro origine dalla modificazione del sangue. Così siesprime il Tozzi nella disamina completa degli affetti che compa-re nel capitolo De motibus cum animi tum corporis della suaMedicinae pars prior, pubblicata nel 1681 9:

Animi motus, sive pathemata, originem trahunt a sensi-bus, qui pro varia objectum phantasiam moventiumrapraesentatione sub specie boni vel mali diversimodeanimum commovent. Primo enim cerebrum afficitur abapprehenso objecto, mox in universum corpus, at sen-sibilius in cor, affectio illa traducitur, unde ipsius et san-guinis motus perturbatur, ac pathemata varia exoriun-tur. Si namque sanguis concitetur, Ira; si remoretur,Timor; si intumescat, Gaudium; si vero detumeat,

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Moeror et Luctus enascuntur. Caeteras animi perturba-tiones late prosequuntur Cartesius, Gassendus, aliiquenaturae consultissimi philosophi, quae licet innumeraefere sint, septem tamen ad rem medicam magis facerevidentur: Amor, Odium, Gaudium, Moestitia, Timor,Spes et Ira 10.

Ciò che manca in questo passo, che riprende alla lettera loschema meccanicistico delle Passions de l’âme, è la nozione deldressage e della maîtrise degli affetti che costituisce la novità piùrilevante del trattato cartesiano in materia di morale, come com-prenderanno qualche anno più tardi gli esegeti dell’Accademia diMedinacoeli. A guardar meglio, anzi, la stessa divisione ortodos-sa tra le passions élargissantes, che contribuiscono al buon fun-zionamento dell’organismo, e quelle déprimantes, che lo ostacola-no nel suo slancio vitale, appare qui incrinata dalla mobilità sfug-gente degli affetti che continuamente trapassano gli uni neglialtri, mutando di fisionomia e di caratteristiche, in una sorta dimetamorfosi perenne simbolo della loro instabilità profonda e infondo, sembra suggerire il testo, ingovernabile. È il caso peresempio della gioia, classificata da Descartes tra le passioni cheassecondano i ritmi vitali, e ammessa invece con cautela nelnovero degli affetti benefici dal medico napoletano, secondo ilquale i suoi effetti sono positivi solo se è temperata da pudore eriverenza, poiché il gaudio eccessivo provoca il riso “imodicum”11 dovuto a un’estrema e pericolosa dilatazione del cuore. Allostesso modo, se la speranza possiede la funzione benefica di eli-minare il timore decretata da poeti antichi come Tibullo e Ovidio,come mostra la Tebaide di Stazio l’attesa trepida a lungo protrat-ta può mutarsi nell’inquietudine che turba la mente e consuma ildesiderio: “spes anxia mentem/extrahit, et longo consumit/gaudiavoto” 12. Fra i moti dell’animo passati in rassegna dal Tozzi è peròl’amore il sentimento più ambiguo e contraddittorio: da slanciovitale e pieno che come conferma la citazione autorevole diCardano trasforma il pavido nell’audace, assume le sembianzeopposte del dolore e della disperazione descritte nei versi piùdrammatici dell’Ars Amatoria. Il ricorso frequente alla lirica infunzione ermeneutica, comune sia all’indagine medica degliInvestiganti che alla riflessione politica e civile di Medinacoeli,non deve stupire: gli exempla ricorrenti e insistiti tratti dalla let-teratura antica e dagli autori moderni riprendono probabilmente

II. Anatomie delle passioni tra Sei e Settecento 31

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

un suggerimento dello stesso Descartes, che aveva più volte osser-vato come le sentenze profonde riguardo all’animo umano siincontrino più spesso nelle pagine dei poeti che nei volumi deifilosofi 13.

La natura duplice e cangiante delle passioni, e la fiducia rela-tiva nel potere diagnostico della medicina, che mira a correggeregli impulsi e i moti dannosi all’economia dell’organismo, ritornanell’aggiunta del 1721 intitolata De recto usu sex rerum nonnatu-ralium dove il Tozzi, forse influenzato dalla lettura recente deltrattato cartesiano messa in atto da Gregorio Caloprese, affrontanuovamente il problema dell’origine degli affetti in rapporto aldualismo e al ruolo della fantasia mediatrice fra il corpo e l’ani-ma, includendo le passioni tra le cause neutre che possono indif-ferentemente giovare o nuocere, e il cui buon uso (che in questocaso richiama esplicitamente l’usage cartesiano, nel senso diun’azione diretta della volontà sull’organismo) è necessario perconservare la vita 14. Al pari di Descartes anche il medico napole-tano ritiene che le passioni siano al tempo stesso la causa e ilrimedio principale delle malattie, e suggerisce come cura il meto-do universalmente riconosciuto del bilanciamento degli affetti:una sorta di “allotropia” per cui le conseguenze perniciose di unapassione vengono contrastate o solamente temperate facendoricorso al suo contrario.

Se, come appare nel caso significativo del Tozzi, la spiegazio-ne cartesiana riguardo alla natura e all’origine delle passioni sem-bra essere accolta nella sostanza dalla cultura investigante, l’ideadel loro buon uso sembra ancora confinata all’ambito fisiologico,come pratica esteriore che si esercita sul corpo ristabilendo ilflusso corretto degli spiriti vitali nella macchina dell’organismo.È questa senza dubbio la posizione di un medico cartesiano comeNicola Cirillo, amico non solo del Tozzi ma del Vico e diCaloprese, che partecipa attivamente alla battaglia dei novatoresin favore della risorta libertas philosophandi. Nella raccolta deiConsulti medici, apparsi postumi nel 1738 a Napoli e ristampatisuccessivamente a Venezia, l’insorgere delle affezioni isteriche econvulsive è diagnosticato in osservanza alla teoria degli spiritivitali, composti di particelle diseguali o di “dissimigliante figura”che, specie se “agitate in copia eccedente”, si muovono irregolar-mente e con impeto instabile cagionando moti convulsivi neimuscoli e soprattutto, qualora “la stessa disordinata agitazione

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dentro del cerebro si faccia”, l’insorgere di “diversissime idee”generate da “perturbata fantasia” 15.

A ben vedere dunque, quando Leonardo Di Capua affrontava laquestione della morale in rapporto alla medicina, l’esperienzadegli Investiganti appariva di fatto conclusa, ma il programmadelineato con lucida consapevolezza nel Parere poteva dirsi rea-lizzato solo in parte. Il geniale sincretismo, il probabilismo e la“sperimental filosofia” avviati nel 1663 da scienziati e filosoficome Tommaso Cornelio, Lucantonio Porzio e lo stesso Di Capuain nome di un rinnovamento che aveva saputo unire le scopertedei moderni sul moto e la circolazione del sangue alla filosofiadella natura di Telesio e di Campanella, intrecciando rapporti congli eredi di Galileo attraverso l’Accademia del Cimento e GiovanniAlfonso Borelli, aveva alla fine dovuto cedere dinanzi all’offensi-va dei medici galenisti che nel 1670 avevano condotto allo sciogli-mento dell’Accademia e alla diaspora temporanea dei suoi piùillustri rappresentanti 16. Nella sostanza ignorato dei suoi piùvicini compagni di strada, che si erano concentrati soprattuttosulle opere fisiche, dal De Homine alla Dioptrice ai Principia, nellequali era più evidente il distacco dalla cultura scolastica, l’auspi-cio del Di Capua circa la fondazione di una morale moderna sullascorta delle Passions de l’âme doveva essere portato a terminesolamente nella seconda fase della ricezione cartesiana a Napoli,dopo che le vicende lunghe e travagliate del processo agli ateisti,con la violenta condanna dei “moderni filosofanti”, tra cuiCartesio e Gassendi, proclamata nelle Lettere Apologetiche delgesuita De Benedictis in risposta alle concezioni atomistiche diFrancesco D’Andrea, avevano mobilitato le forze più attive e con-sistenti del ceto civile napoletano avverso alle procedure inquisi-toriali della Chiesa 17.

Proprio le strategie messe in campo dai moderni riuniti nel cir-colo di Giuseppe Valletta, che insieme a D’Andrea e a CostantinoGrimaldi si era assunto il compito di difendere le posizioni deinovatores dagli attacchi dei tradizionalisti, contribuiscono allafine a delineare un’immagine sostanzialmente diversa del filosofofrancese, che all’interno della cultura investigante era venuto acostituire quasi il double di Galileo, il suo necessario complemen-to nella battaglia per la libertà della scienza. Il Cartesio richiama-to con prudenza negli scritti apologetici di fine secolo, quando giàl’Accademia di Medinacoeli 18 aveva fatto il suo ingresso sulla

II. Anatomie delle passioni tra Sei e Settecento 33

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

scena, è invece quello metafisico che dimostra l’esistenza di Dio el’immortalità dell’anima, le cui posizioni vengono sempre piùspesso accostate o sovrapposte al recupero di Platone, diAgostino e dell’Aristotele pratico in chiave politica e civile 19,mentre le pagine del De inquirenda veritate di Malebranche diven-tano un punto di riferimento importante soprattutto per il valoreattribuito alla volontà sugli impulsi disordinati del corpo. Lanuova lettura filosofica di Descartes proposta dal Grimaldi, cherichiama l’attenzione sulla “cognizione d’Iddio” in quanto “supre-mo Facitore”, senza il quale “caderebbe e si ridurrebbe a nullatutta la macchina del cartesiano sistema” 20, si incontrava delresto con l’interesse sempre più diffuso per la storia e il problemadella fondazione degli stati al centro dell’indagine di Medinacoeli,che senza dimenticare l’esperienza ancora vitale degliInvestiganti si volgeva naturalmente all’analisi interiore delle pas-sioni come fondamento della vita associata.

Se è probabilmente eccessivo parlare di crisi del cartesianesi-mo fisico e di “trionfo del rinsecchito e mentalistico cartesiani-smo metafisico” 21, è certo che le lezioni di Gregorio Calopresepresso l’Accademia Palatina 22 e il suo stesso insegnamento tra-scurano il nesso tra medicina e morale e il problema della sinto-matologia delle passioni per concentrarsi sulla natura duplicedell’uomo come frammento rivelatore di un sistema più vasto chesi interroga sulla gestione della società civile e sui rapporti com-plessi degli individui con il potere. È la scoperta che il codicepolitico del buon governo non può prescindere dalla conoscenzadi un codice morale interiore che regola impulsi e passioni nelrapporto complesso tra l’istinto e la volontà, l’intelletto e l’educa-zione. Se infatti, come scrive Caloprese,

le cose non si conoscono se non per quelle che si com-pongono, e gl’imperij sono fondati su le città, e le cittànon d’altro che d’uomini composte si ravvisano, cosachiarissima si è che a voler conoscere la natura ed ori-gine degl’imperij, che è la materia assegnata per sogget-to de’ miei ragionamenti, prima d’ogni altra cosa fad’uopo investigare qual costituzion d’animo abbianol’uomini sortito dalla natura, e quali sono i principij perli quali si muovono ad operare; ed è certo altresì chetutte le regole della civil prudenza prendono diversocamino secondo la diversa idea, o buona o rea, che noiabbiamo di questi principij e di questa costituzion d’a-

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nimo. Il nostro ragionare dunque non dovrà avere altroincominciamento che dall’investigazione della naturadell’uomo 23.

La “scienza del viver civile” che egli vuole “edificata daPitagora, da Socrate, da Platone e da molti altri savijssimi filoso-fanti” sulle “leggi dell’onestà” e con quei lumi che “sono stati sug-geriti loro dall’esperienza delle cose e da una ragione regolata dal-l’onestà e dalla virtù”, smaschera secondo il filosofo la “malva-gità” di quei pensatori che “si sono imaginati l’idea dell’uomo aguisa d’un mostro spaventoso formato dalla natura non ad altrofine che a nuocere altrui; cioè senza amore, senza fede, senzapietà, senza giustizia, senza onestà, che non sa amare altro che sestesso ed il proprio interesse, e che stando di continuo intentoall’inganno ed alla frode non si notrisca d’altro che d’odio e disospetto” 24.

La polemica trasparente contro Hobbes e quella più sotterra-nea ma non meno insistita nei confronti di Machiavelli rinvia dicerto alla disamina critica del Principe contenuta nelle lettere diDescartes a Elisabetta, confermando una volta di più che all’inter-no di Medinacoeli le Passions de l’âme vengono lette insieme alcarteggio preparatorio che ne costituiva insieme il nucleo prepa-ratorio e l’origine prima nella forma empirica dell’auscultazionedi sé. Proprio qui l’ipotesi stoica del distacco dalle passioni sugge-rita inizialmente da Descartes attraverso la lettura terapeutica diSeneca si era rivelata via via sempre meno adatta a scortare l’uo-mo nel cammino difficile verso quel “contentement de l’esprit”solido e duraturo che può essere assicurato solo da una “volontéferme et constante” 25. Come riassumeva con franchezzaElisabetta nella lettera del 16 agosto 1645 a proposito della rifles-sione senecana al centro del colloquio epistolare, la “quantité debelles périodes et de sentences bien imaginées” del De vita beata,utili per “donner sujet d’une méditation agréable”, falliva proprionel proposito principale di istruire l’animo sulla natura degli affet-ti. In luogo di “montrer le chemin plus court vers la béatitude”, ilfilosofo stoico sembrava piuttosto accontentarsi di “fair voir queses richesses et son luxe ne l’en rendent point capable” 26.

Rispetto agli esempi irraggiungibili della saggezza anticarichiamati per contrasto, è di fatto l’insistenza sul metodo dell’a-nalisi a connotare l’epistolario con Elisabetta, che con le più cele-

II. Anatomie delle passioni tra Sei e Settecento 35

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

bri Passions de l’âme si presta a divenire una sorta di breviario dimorale laica e preilluministica, tanto più significativo perché inqueste pagine ogni dubbio è dichiarato, e gli strumenti dellaragione e della volontà devono spesso fare i conti con la realtàcomplessa e sfuggente del dualismo. La tecnica del dressage edella maîtrise degli affetti che costituisce la cifra riconoscibile deltrattato cartesiano è certo presente nel dialogo epistolare che loprecede, a cominciare dal tentativo di ritrovare, nella rete com-plessa degli impulsi e delle esperienze che formano la storia degliindividui, delle costanti riconoscibili con le quali costruire unasorta di percorso segnato o di mappa interiore a cui ricorrere insituazioni analoghe, per agire sulla malinconia o liberarsi dallepassioni “craintives” che influiscono negativamente sul ritmovitale. L’immagine emblematica proposta con convinzione daDescartes è quella di una volontà “maîtresse” che mira a sovrin-tendere l’attività delle passioni allo stesso modo in cui si compor-ta il pubblico a teatro, quando “voyant représenter quelque actionpitoyable et funeste” partecipa della commozione generale susci-tata dalla tragedia senza che il processo di identificazione con l’e-roe cancelli la sua identità di spettatore esterno del dramma.

E tuttavia la difficoltà di decifrare il meccanismo spesso oscu-ro degli affetti e degli impulsi primari attraverso i principî dellafisica e l’incertezza manifesta della nuova scienza morale tra-spaiono più volte dai testi, soprattutto quando l’autore denuncial’errore di metodo più diffuso che consiste nell’utilizzare “lesnotions de l’extension, des figures et des mouvements” per “expli-quer les choses à qui elles n’appartiennent pas, comme lorsqu’onse veut servir de l’imagination pour concevoir la nature de l’âme,ou bien lorsqu’on veut concevoir la façon dont l’âme meut lecorps par celle dont un corps est mû par un autre corps” 27.Originata dall’esperienza fisica, come facoltà dipendente daisensi e quindi dal corpo, la fantasia non può concepire la naturadell’anima, e tuttavia la natura corporea dell’uomo fa sì che l’im-maginazione sia il tramite più frequente tra le cose e la loro rap-presentazione astratta. La sola nozione conoscibile del rapportofra l’anima e il corpo è infatti quella intuitiva e immediata dellaloro unione, dalla quale a sua volta dipende “celle de la force qu’al’âme de mouvoir le corps, et le corps d’agir sur l’âme, en causantses sentiments et ses passions” 28.

Il tentativo di comprendere fino in fondo la natura e i modi

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della relazione fra anima e corpo da cui dipende la scienza dellepassioni rappresenta una delle eredità più difficili del cartesiane-simo napoletano, come dimostra l’esempio illuminante diLucantonio Porzio, che all’inizio del nuovo secolo riprende il pro-blema sotto la spinta del dibattito civile di Medinacoeli senzaperò dimenticare il punto di vista medico degli Investiganti, dicui aveva fatto parte fin dall’epoca della fondazionedell’Accademia. Riflettendo sugli effetti perniciosi delle “affezionidell’anima” sulla salute del corpo, un tema centrale della corri-spondenza cartesiana con Elisabetta, il Porzio si chiede comemai “se ’l pensare è proprio dell’anima” il pensiero “tanto può su’l corpo che così potentemente muta” e “giugne a tal’ora la suaforza fin’a renderlo macchina inetta a non più continuare a vive-re” 29. Per tentare di risolvere quello che gli appare come un para-dosso, l’autore ricorre a una breve ma significativa digressioneche rinvia ancora una volta al sistema codificato dal De l’Hommesvelando al contempo l’analogia imperfetta tra l’organismoumano e la macchina già messa in luce dagli Investiganti, cheavevano alluso più volte alla difficoltà intrinseca di sovrapporre ilmodello meccanicistico all’equilibrio mirabile e complesso delcorpo umano e delle sue funzioni vitali 30. Scrive il Porzio:

Io prima di rispondere a così gran domanda voglioaccennar quel che anticamente altri disse, e fu poiancor sentimento di Renato Des Cartes, che per ragiondell’anima l’uomo potrebbe sempre continovare a vive-re; ma che ’l corpo per sue mutazioni, che fin dal primodì di sua concezzione sono in ordine necessariamentel’una dell’altra, e una è in conseguenza dell’altra; e peraltre mutazioni, che per molte altre cagioni gli possonoaccadere, rendesi inetto a poter continovare a vivere; eper necessità di sua natura dee morire: come accadealla materia, ond’è composto l’orologio, che per alcunemutazioni necessarie nell’esercizio di orologio non puòpiù durare ad aver l’uso di orologio 31.

La natura deperibile della materia che dà origine all’esistenzaumana, soggetta a continue trasformazioni, racchiude dunque insé, nella sua parte corporea, le ragioni interiori di un destinoincerto e fragile, che comprende, oltre alla malattia e la morte, gli“accidenti” delle passioni. Conclude infatti il medico, riprenden-do il filo del ragionamento iniziale:

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Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

Or io venendo alla quistione proposta dico che quan-tunque il pensare sia proprio dell’anima, tuttavia nel-l’uomo, se non universalmente in tutti, almeno quasi intutti i pensieri sono necessarie le immagini delle cosecorporee. Et in qualunque modo che siano di moto o diquiete i corpi, le loro immagini sono pur corpi, e altroesser non possono che corpi. Nell’uomo i corpi rappre-sentanti queste immagini (che è tanto quanto dire gliorgani e le macchine nell’uomo) sono in gran parte dili-catissimi; e ne giungono ad essere come le sottilissimefila che escono dalla bocca del verme da seta; o verocome le fila della tela del ragno, che facilmente si pos-sono corrompere: voglio intendere unire insieme eanche confondere, e con chiuder le vie o in altra formal’uno impedir l’altro nelle opere; o distendere o accor-ciare più del dovere, o di curve dritte o di dritte curvecontra il bisogno del buono loro stato render si posso-no; così in altro modo mutare, o alterare fortemente opure spezzare si possono; onde per necessità di naturain parte o vero totalmente perdano l’uso di tali o talimacchine; o vero perdano l’uso di utili parti o particel-le nelle opere di tali o tali macchine 32.

Nel labirinto illusorio della mente che procede seguendo ilflusso disordinato delle sensazioni, le immagini delle cose corpo-ree corrompono le operazioni dell’intelletto creando simulacri efantasmi che prendono il posto dei veri giudizi, al punto che “leimmagini corporee di quanto egli è immaginabile sono vere ereali immagini: cioè corpi con i dovuti modi della corporea natu-ra, che non mai sono senza corpo; sono moti di moti e figure difigure” 33. Trasferendo il linguaggio della geometria e della mec-canica all’universo metamorfico e oscuro delle passioni, il Porziomette in luce il ruolo negativo dell’immaginazione e la dinamicadistruttiva delle “affezzioni più vementi e più continovate dell’a-nimo”, che “possono gravemente offender l’uomo nella salute fina condurlo a morte” 34. Più vicino al tono dubitativo delle letterea Elisabetta che alle indicazioni fiduciose delle Passions de l’âme,secondo cui “il n’y a point d’âme si foible, qu’elle ne puisse estantbien conduite acquerir un pouvoir absolu sur ses passions” 35,l’argomentazione dell’ultimo degli Investiganti finisce così perdare voce all’intimo disaccordo tra anima e corpo, tra l’intellettoe l’immaginazione, prospettando il vortice incontrollabile delle“occasioni malinconose” 36, quelle stesse da cui intendeva difen-

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dersi il manuale di saggezza quotidiana approntato da Descartessulla scorta del colloquio epistolare con Elisabetta.

Non bisogna dimenticare, del resto, che l’ipotesi del controlloe della gestione sapiente delle passioni viene messa in dubbionegli stessi anni anche da un autore per molti versi distante comeGiambattista Vico, amico del Porzio e frequentatore assiduodell’Accademia di Medinacoeli benché più vicino agli sviluppidella scienza civile di Paolo Mattia Doria che al cartesianesimoortodosso di Caloprese 37. Avversando apertamente “la morale delpiacere” di Epicuro e dei suoi seguaci moderni, “buona per uomi-ni che debbon vivere in solitudine” 38, e le indicazioni a suo avvi-so insufficienti di Malebranche, di Pascal e dello stesso Descartes,il cui trattato “più serve alla medicina che alla morale” 39, la rifles-sione del Vico si volge a una forma di conoscenza più vasta che“si occupa dell’indole dell’animo nostro e delle sue tendenze allavita civile e all’eloquenza, alla casistica delle virtù e dei vizi” e pre-lude alla “nobilissima dottrina dello stato” 40. Come di lì a pocofarà la Vita civile del Doria, il De ratione contraddice l’intenzioneecumenica del trattato cartesiano, rivolto a tutti gli uomini,distinguendo con fermezza tra la virtù praticabile dai sapienti,che operano seguendo i “sottili ragionamenti”, e i moti disordina-ti del volgo, “volto e travolto dalla bramosia che è tumultuosa eturbolenta, come un marchio dell’anima contratto a contagio colcorpo, del quale segue la natura, onde non si smuove se nonmediante cose corporee” 41.

Alla tecnica fiduciosa del dressage di matrice cartesiana il Vicooppone non a caso due rimedi opposti e distinti che hanno però ilmedesimo scopo di volgere “a buon uso le perturbazioni dell’ani-mo”: la filosofia, “che le modera nei sapienti in modo che assurga-no a virtù”, e l’eloquenza, “che le coltiva nel volgo affinché condu-cano ad attuare la virtù” 42. Il monito del De Antiquissima, ripropo-sto nella “dipintura” allegorica della Scienza nuova, precisa delresto, a ulteriore limitazione dell’assunto cartesiano, la finitudinedella conoscenza umana rispetto a quella divina, che sola puòagire al di fuori della “macchia” dei sensi 43. Qui l’autore insisteuna volta di più sulla differenza incolmabile tra le certezze dellafisica, che riguarda i moti interni dei corpi prodotti da una natura“certa essa medesima”, e l’incertezza della morale, che “considerai moti degli animi”, i quali sono “sommamente reconditi, e proven-gono il più delle volte dal capriccio ch’è una cosa indefinita” 44.

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Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

Dopo le obiezioni avanzate in forma dubitativa dal Di Capua esoprattutto dal Porzio, spetta dunque al Vico del De antiquissimarespingere con fermezza l’equivalenza tra il mondo fisico e ilmondo morale teorizzata nelle Passions de l’âme, proclamandoper altre vie l’irriducibilità del vivente, di cui gli affetti fannoparte, alle leggi della geometria e della meccanica. Nella prospet-tiva ampliata di una riflessione morale che intende recuperare lasaggezza degli antichi 45, gli strumenti utilizzati da Descartes eprima di lui da Epicuro per “ragionare delle cose naturali”, vale adire “la figura e la macchina”, si rivelano inadeguati non sola-mente per “ragionare dei principî e delle virtù”, ma anche percomprendere i moti oscuri e sfuggenti delle passioni, i quali“informi” e “indefiniti” per loro natura, o comunque pronti adassumere sempre nuova forma o parvenza, “non hanno alcunafigura” e “non possono muoversi con veruna macchina” 46. Perutilizzare ancora il lessico vichiano, all’“occhio di gran geometra”di Galileo e di Descartes occorre a questo punto sovrapporre “illume della metafisica” 47, che ordina e interpreta la realtà sensi-bile raccolta nella topica e la impiega a sua volta per persuaderee indirizzare il volgo con l’ausilio delle “corpulentissime macchi-ne oratorie” 48. Così il disegno della “storia ideal eterna” ricostrui-ta per frammenti nel suo fluire ininterrotto, si strutturerà nell’o-pera maggiore del Vico proprio come “la geometria che, mentresopra i suoi elementi il costruisce o ’l contempla, essa stessa si fail mondo delle grandezze”, ma nello stesso tempo “con tanto piùdi realità quanta più ne hanno gli ordini d’intorno alle faccendedegli uomini, che non ne hanno punti, linee, superficie e figure”49.

Prima di affrontare le conseguenze del pensiero vichiano nellaScienza nuova, conviene però ritornare per un momento su quel-la che nell’ultimo decennio del Seicento sembra essere divenutala via maestra del cartesianesimo italiano, vale a dire l’interpreta-zione ortodossa di Medinacoeli, che riprende dalle Passions del’âme l’invito alla maîtrise e al dressage degli affetti insistendo, conl’aiuto di Malebranche, sul ruolo attivo della volontà come poten-za razionale sul dominio oscuro dei sensi. Non per nulla laLezione quarta sull’Origine dell’Imperij del Caloprese affronta ilproblema del rapporto complesso tra corpo e anima e l’originedelle passioni recuperando da Descartes l’idea del giudizio cheprecede l’azione, e da Agostino il libero arbitrio inteso come

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“ferma e costante volontà di vivere e di operare secondo il detta-me della ragione”, al fine manifesto di “ottenere quella tranquil-lità d’animo che si suol possedere da coloro che conoscono d’averposto in opera tutto il loro potere per conoscere la verità e perpratticarla in tutte le occasioni” 50. Distinguendo tra il desiderio,“moto della nostra mente per lo quale cerchiamo la possessioned’alcuna cosa la quale si stima conveniente alla nostra natura”, el’inclinazione, o “impeto per lo quale siamo spinti ad unirci aqualche oggetto o a fare qualche operazione che ha convenenzacon noi”, l’autore si interroga sull’influenza delle “cose corporee”che “hanno grandissima efficacia in corrompere ed oscurare l’i-dee delle cose immateriali ed incorporee” 51, sul quale si soffer-mano in termini diversi sia il Porzio che il Vico:

Si vuole ancora avvertire che le inclinazioni che risiedo-no nell’anima, ma che hanno origine dal corpo, dellaqual natura sono quasi tutte le passioni dell’animo,sono valevoli a rappresentarci la passione de’ beni a’quali elle sono dirizzate, con una apparenza di bontà edi perfezione molto maggiore di quella ch’essi hanno ineffetto. Dal che ne nascono due cose: l’una, che i giudi-cij che si fanno quando siamo commossi da qualchepassione sono tutti alterati e lontani dalla verità: l’altra,che le voluttà corporee, quando ci sono presenti, si spe-rimentano molto minori di quello che si giudicano chedebbano essere quando sono lontane. Questa veritàdeve riguardarsi con somma attenzione, acciocchéessendo terminata quella commozione, possiam giudi-care delle cose come sono in se stesse, e non già dellamaniera <in> che ci vengono rappresentate dalle pas-sioni 52.

Secondo il Caloprese, dunque, la la conoscenza provvisoria espesso illusoria dei sensi, per quanto imperfetta e fallace, nonrisulta del tutto aliena dai “beni dell’animo” che “vagliono adaccrescere e conservare la perfezione dello spirito”. Al contrario,proprio “per l’unione che ha l’animo col corpo, i beni del corpo,in un certo modo, diventano anche beni dell’anima” perché

l’anima è unita al corpo con tal legge che quando la suaorganizzazione non è alterata né corrotta, in facendosiin esso alcun moto che giova alla di lui conservazione,sentiamo piacere, e facendosi alcun moto che vaglia a

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distruggere o ad alterare la di lui buona simmetriasiamo costretti a sentire dolore. Et in questo principal-mente consiste l’uso de’ sensi, il quale non è, com’altrifollemente ha creduto, per dimostrarci la vera naturaed il vero essere delle cose, ma solamente per darci unsegno all’ingrosso della costituzione buona o cattivanella quale si ritrova il corpo, o per darci una tal qualeistruzione delle cose che abbiamo a fuggire o a seguita-re per mantenere la vita in buono stato 53. Così se ho undolore in una mano, quel dolore non è altro che unsegno istituito dalla natura per farmi conoscere il catti-vo stato nel quale si trova la mano, e per indurmi a cer-car compenso a quel male 54.

Si affaccia in queste righe una prima idea del dolore comesegnale istintivo del corpo deputato alla conservazione dell’orga-nismo, che avrà grande fortuna nel Settecento da Locke al vitali-smo della scuola di Monpellier 55. Ma ciò che importa rilevare èsoprattutto il tentativo di ricomposizione della frattura tra animae corpo che minacciava fin dalle origini il dualismo cartesiano el’utopia del controllo e della gestione degli affetti. Una volta rico-nosciuta l’importanza dell’esperienza sensibile per la conserva-zione dell’organismo e la “propagazione della specie” 56, la rifles-sione di Medinacoeli è in grado di stabilire una precisa gerarchianella quale, come annoterà più tardi il Doria insistendo sul buonuso delle passioni necessarie alla vita civile, l’analisi degli affettie delle loro manifestazioni prelude a un controllo da parte dell’in-telletto, “in quella guisa appunto che il nocchiero è la guida dellanave” 57.

È forse naturale a questo punto che l’esplorazione dell’animoumano nelle sue forme molteplici e contraddittorie riconduca ildiscorso sulle passioni verso l’universo inesauribile della lettera-tura, già indicata da Descartes come un’arte della conoscenza cheprecede la filosofia fornendo dei modelli antropologici per cosìdire universali. Come ribadirà qualche anno dopo anche il Vico inuna lettera celebre a Francesco Saverio Estevan, rifacendosi adAristotele,

le ottime favole dei poeti sono verità che più s’appressa-no al vero ideale o sia vero eterno di Dio, ond’è incom-parabilmente più certo della verità degli storici, la qualesomministrano sovente loro il capriccio, la necessità, la

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fortuna; ma il capitano, che finge, per cagion d’esem-plo, Torquato Tasso nel suo Goffredo, è qual dee esser ilcapitano di tutti i tempi, di tutte le nazioni; e tali sonotutti i personaggi poeti per tutte le differenze che nepossono mai dare sesso, età, temperamento, costume,nazione, repubblica, grado, condizione, fortuna; chealtro non sono che propietà eterne degli animi umaniragionate da’ politici, iconomici e morali filosofi, e da’poeti portate in ritratti 58.

Proprio dall’interiorità complessa della poesia tassiana, daisuoi personaggi tormentati e perennemente scissi tra luce eombra, tra dovere e istinto, tra ragione e passione, muove non acaso il primo tentativo autonomo di indagine dell’animo umanomesso in atto dal Caloprese, la Lettura sopra la Concione diMarfisa a Carlo Magno, pronunciata presso l’Accademia degliInfuriati nel 1690, nella quale le strategie retoriche e l’eloquenzamirata dell’Orlando Furioso vengono messe a confronto con lasupplica patetica di Armida a Goffredo nel canto quarto dellaGerusalemme Liberata 59. Come nota subito il critico filosofo, nel-l’orazione altera e sublime di Marfisa al re franco agiscono le pas-sioni positive della venerazione e della devozione, in virtù dellequali anche l’invidia, all’inizio responsabile dell’“inimicitia” del-l’eroina verso Carlo, può cambiare di segno e divenire desideriodi emulazione grazie a quella radicale conversio degli affetti auto-rizzata dalla prospettiva cartesiana dell’usage. Così concepita,l’invidia si trasforma in “compagna indivisibile della virtù e dellagloria”, anche in considerazione del fatto che “negli animi gene-rosi qual era quello di Marfisa, quest’affetto non si suol destare senon per quelle cose che si stimano grandi oltre modo e difficili apotersi ottenere” 60. In altre parole, si affaccia qui l’ipotesi dellamutazione etica degli affetti da impulso egoistico a benefica pas-sione civile che conoscerà più ampi sviluppi nell’opera di PaoloMattia Doria e nelle Lettere cartesiane del meno noto NiccolòGiovo. Al riguardo il Caloprese si limita infatti solamente a preci-sare che “l’invidia o emulatione della fama e dell’onore non è d’al-tri che di quegli animi che sono formati dalla natura per impresegrandi e gloriose, laonde si legge appresso di Plutarco che le glo-rie di Miltiade faceano a Temistocle trapassare le notti senzasonno” 61, senza trarre dall’argomentazione tutte le conseguenzenecessarie.

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Ma veniamo al confronto probante con il Tasso. Se l’intenzio-ne manifesta dell’eroina ariostesca, coerentemente al suo perso-naggio, è quello di destare nel suo interlocutore stima “di sé edella sua singolar virtù” 62, il fine occulto di Armida, comparsainopinatamente al campo cristiano, è di fondare la forza della suapersuasione non tanto nella grandezza delle profferte, “quantonella giustitia della sua causa e nella pietà di Goffredo” 63.Secondo il critico infatti

La differenza che è tra la preghiera e l’offerta consistein questo: che quando la richiesta di difesa si avrà daottenere per via d’offerta, acciò che la persona che siofferisce non venga per troppo umiltà a cadere dalla suastima, dovrà trattare la parte della commiserationemolto moderatamente; il che si vede ottimamenteosservato da Plutarco nella concione di Coriolano. Ilcontrario è da farsi per chi vuole ottenere il suo intentoper opera delle preghiere: perché tutto lo sforzo averàda riporsi nell’umiltà e nell’efficace destamento dellacommiseratione 64.

Per avere effetto, nota il Caloprese, la supplica deve anzituttotenere conto della persona a cui si rivolge, dal momento che“negli animi che si reggon per giustitia e per pietà possono assaipiù le oneste preghiere dell’utili offerte”, mentre “quei che hannoper ultimo fine la sola utilità si muovono più facilmente per l’of-ferte” 65. Proprio per questo nell’esempio mirabile di arte retoricafondata sugli affetti elaborato dal Tasso, “la maggior forza dellapersuasione fu applicata a destare nell’animo di quel magnanimoe pio Capitano e di que’ generosi guerrieri gli spiriti della miseri-cordia e della compassione”. La recita astuta dell’“ingannatrice”Armida agisce dunque sul tratto peculiare del carattere diGoffredo, quella pietas propria dei magnanimi che “contienesotto di sé la giustitia, la fedeltà, la pietà e la magnanimità”, maal contempo mira a suscitare nell’animo del capitano lo sdegno“contro l’empietà dell’iniquo suo persecutore”, vale a dire un sen-timento più oscuro e complesso nel quale si mescolano, comeinsegna Descartes, “la crudeltà, l’infedeltà, l’astutia, l’ambitione,il sospetto e la superbia” 66.

Ma la scoperta cartesiana degli affetti misti, che la scienza poe-tica del Tasso sembra anticipare, appare ancora più adatta adescrivere ciò che avviene nell’animo di un personaggio come

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Eustazio, l’alter-ego più fragile e impetuoso di Goffredo, sedottodalle arti incantatrici di Armida e pronto a farsi suo cavalieredimenticando che la riuscita della crociata esige l’unità delleforze su Gerusalemme. Come osserva il Caloprese, la strategiamessa in atto da Eustazio per raggiungere i suoi scopi apparevanificata dalla passione istintiva e incoercibile della gelosia, cheriflette nel linguaggio irrazionale degli affetti l’intento segreto chemuove il personaggio, quando dimostra “co’l volto quell’amoreche s’era sforzato di tener celato con le parole, onde di lui cosìcantò il poeta: Qui tacque Eustazio, e questi estremi accenti/nonproferì senza arrossarsi in viso,/e i mal celati suoi pensieriardenti/l’altro ben vide, e mosse ad un sorriso 67”.

Nell’affollarsi tumultuoso delle passioni che tradisce i desideriappassionati del giovane Eustazio a dispetto della sua fine orche-strazione retorica, l’esegeta moderno legge la lotta tra vizi diversinon temperati da ragione né da virtù, con la vittoria finale dellasuperbia sull’astuzia. Proprio la mescolanza degli affetti e il loroincerto contendere rappresenta però una prova ulteriore dell’anali-si superficiale della natura umana operata da Machiavelli e soprat-tutto da Hobbes. Commenta infatti subito il critico, riprendendogli argomenti affrontati nelle Lezioni sull’origine degl’Imperij:

Quinci scorger possiamo quanto vanno fuor di caminogli storici, li quali per mostrarsi di sagace avvedimentonel discuoprire gli altri consigli recano il motivo d’ogniattione, o buona o rea che sia, a sola astutia et a medi-tato disegno d’ingannare il compagno, senza guardarein niuna maniera né all’incostanza degli umani voleriné alla forza di molti e varii affetti, li quali ove non sonoda virtù soggiogati, signoreggiando in noi ci possonorimuovere da qual si sia stabilito e determinato modod’operare. Ma in ciò peccano ancora per un’altra ragio-ne, e è che hanno per certo fondamento de’ loro giudi-tii una massima molto rea, insegnata loro da più reomaestro: cioè che gli uomini siano tutti malvagi e scele-rati, come quelli che nelle loro operationi non attendo-no ad altro che all’inganno, alla fraude e a sollevar semedesimi con la mina del compagno; la qual massimaoltre l’esser lontana d’ogni umanità ha contrario l’espe-rienza e la ragione 68.

Proprio perché composti “di spirito e di corpo”, gli uominisono infatti “usi a piegare al vitio o alla virtù secondo che l’uno o

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l’altra parte è di maggior forza”, e soprattutto, come rivelaDescartes, sono “varii nelle loro operationi”, al punto che “sicomequei che coltivano i precetti della parte spirituale, anco tal’ora,benché di poco, torcono dal dritto sentiero della virtù, così queiche hanno tolto a seguitare la scorta del senso non è possibile cheloro si offuschi tanto il lume della ragione che qualche volta nonsiano mossi ad operar drittamente” 69. L’ipotesi fiduciosa dellaconversione etica degli affetti si estende dai singoli individui atutta la natura umana, di cui diviene anzi la qualità intrinseca.

Sgombrato il campo dai suoi avversari storici, il Caloprese puòtornare al nodo centrale della compassione che domina il cantotassiano, per illustrare la sostanza profonda di un affetto conside-rato tradizionalmente come indizio di debolezza e di viltà d’ani-mo, e dunque inconciliabile con la statura morale del personag-gio di Goffredo. E tuttavia, come argomenta il critico,

nasce la difficoltà dalla dottrina di Aristotele, il qualeinsegna che il dolore dell’altrui miseria abbia originedal pensare che possa accadere a noi quel medesimoche veggiamo accadere a gli altri. Onde Virgilio fa direa Didone:Non ignara mali miseris succurrere discoQuinci cava il Filosofo che coloro che sono in estremamiseria caduti, non sentono misericordia, perché aven-do già sofferto non temono di avere più oltre a sofferire.Neanco coloro che pensano di essere in estrema felicità.E più appresso soggiugne che sono compassionevoliquei che sono deboli e quei che sono vili. Siche essendostato Goffredo dal Poeta collocato in sommo grado difelicità e fornito d’impareggiabile fortezza e di corpo ed’animo, per dritta conseguenza si ha da concludere chenel suo animo non potea albergare compassione 70.

A guardar bene, anche su questo punto la lezione dei modernisembra se non superare, almeno correggere e completare quelladegli antichi. La lettura attenta e meditata del trattato cartesianoconsente infatti di eliminare l’ostacolo apparente e nello stessotempo colloca in piena luce il sentimento religioso del testo tas-siano, mostrando una volta di più che la morale di Descartes èconforme alla verità della religione cristiana, secondo la quale “lacompassione non è solo effetto dell’amor proprio, come par chesupponga Aristotele, ma anco può nascere dalla carità che dob-biamo avere generalmente con tutti quei che sono della medesi-

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ma nostra specie” 71. A dispetto delle intenzioni dell’autore, cheintende probabilmente dare il suo contributo personale alla riva-lutazione di Descartes come filosofo cristiano inaugurata dalGrimaldi, traspare già dalle sue parole quella forma moderna dipietà intesa come sentimento universale dell’uomo verso i proprisimili che costituirà uno degli elementi essenziali della moralelaica e societaria del secondo Settecento, quando l’idea dellacompassione ispira la battaglia umanitaria e giuridica contro lapena di morte e la tortura in nome della reazione naturale e istin-tiva dell’individuo dinanzi alla sofferenza 72. Certo il mutamentodi prospettiva appare qui appena agli inizi, ma il distacco dallamorale stoica secentesca è già percepibile nel passaggio gradualeda una teoria astratta della virtù all’esercizio del libero arbitrio,inteso anche come strumento della pietà. Osserva infatti ilCaloprese sempre a proposito dell’impasse aristotelica:

Udite come risolve il dubbio Renato Delle Carte: eglidoppo aver ragionato della compassione che nasce dal-l’amor proprio soggiugne queste parole: attamen gene-rosiores et qui sunt animo fortiores, ita ut nihil mali sibimetuant et se supra fortunae imperium statuant, noncarent commiseratione cum vident infirmitatem aliorumet eorum querelas audiunt. Pars enim est generositatisbene velle unicuique. Verum huius commiserationis tri-stitia amara non est, sed instar eius quam producuntcasus tragici, qui in theatro rapraesentari videntur; magisest in exteriori et in sensu, quam in ipsa anima; quaeinterim fruitur satisfactione captandi se defungi suo offi-cio, dum competitur afflictis 73.

La nota metafora cartesiana del teatro, che misura una distan-za dalla passione poi abolita nel corso del Settecento in nome diun’identificazione assoluta, fisica e morale, tra chi compatisce echi soffre, ribadisce qui viceversa la necessità di una partecipa-zione misurata ai patimenti altrui nella quale agisce l’idea delladifferenza implicita tra l’animo fermo ed equilibrato del principee le passioni scomposte del volgo, anche se in questo caso il criti-co mostra ancora una volta di avere ben compreso la lezione car-tesiana quando a commento delle Passions de l’âme chiosa:

Ma acciò che non si prenda errore nell’intelligenza diquesto luogo, si dee notare che il citato autore per gene-

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rosità non intende quella virtù che Aristotele chiamamagnanimità, la quale consiste nel far benefici, ma siprende da lui questo nome per significare una giusta eragionevole stima che fa l’uomo di sé mediante la con-sideratione di quel bene del quale, come di cosa assolu-tamente propria, può degnamente gloriarsi. E questobene non è altro che un fermo proposito di voler dispo-nere del suo libero arbitrio secondo la detta ragione: laqual cosa, per sentimento di questo filosofo, è l’istessoche la virtù 74.

Dei vari tipi di compassione registrati dal critico, “due natedall’amor proprio e una da virtù e generosità”, la sola che puòconvenire al personaggio eroico di Goffredo è quella generatadall’appetito intellettivo che opera secondo virtù e giustizia. Inquesto modo la dottrina cartesiana compresa nella sua profon-dità esemplare viene a coincidere con l’autorità congiunta diAgostino e di Tommaso, a riprova dell’efficacia di un pensieromoderno che celebra le virtù dell’eroe cristiano come modellouniversale. Proprio i due “santi dottori” insegnano infatti che

la compassione non è sempre operatione di virtù, mache quella è degna solamente di tal nome, la quale siregge per giustizia. E passando a più sottil distintionedicono che sotto questo nome di compassione si com-prendono due moti d’animo, delli quali uno l’attribui-scono all’appetito sensitivo, e questo vogliono che siasolo passione e non virtù; l’altro appartiene all’appetitointellettivo in quanto è inclinato per natura a sentirdispiacere del male altrui. Affermano di più che il nomedi virtù può cadere solo nell’operationi di questo secon-do moto: imperciò che il regolamento della ragione noncade immediatamente se non in su l’appetito intelletti-vo, e dall’appetito intellettivo passa al sensitivo. Si chevolendo noi da questa dottrina cavare la definitioned’una compassione degna della somma virtù d’un per-fetto principe e capitano quale viene formato Goffredodal Tasso, dobbiamo dire che sia un moto dell’appetitointellettivo drizzato a sovvenir quei che sono caduti inmiseria, e regolato da giustizia 75.

Da ultimo giunge la verifica della poesia, che conferma le ipo-tesi filosofiche ricorrendo ancora una volta alla psicologia deltesto tassiano. A dare ascolto al Caloprese, nel Tasso “si possono

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notare due bellissime differenze di compassione” 76, contenutenella risposta “assai cortese e molle” 77 di Goffredo alla supplicadi Armida. Nella prima, espressa nel verso E soccorso trovar, nonche pietade (che riecheggia il petrarchesco spero trovar pietà, nonche perdono del sonetto incipitario del Canzoniere), il poeta silimita a contrapporre la pietà operante propria dell’appetito intel-lettivo a quella passiva dell’appetito sensitivo. Nella seconda inve-ce, condensata mirabilmente nei versi Or mi farebbe la pietà menpio/ s’anzi il suo dritto io non rendessi a Dio 78, distingue tra “lapietà virtuosa e prudente che è retta da giustitia, e la non virtuo-sa e imprudente la quale senza ragione ubbidisce ciecamente allimoti dell’appetito tanto intellettivo quanto sensitivo” 79. In questomodo il divario tra Eustazio e Goffredo, tra il desiderio istintivoe la virtù secondo ragione, appare tracciato per sempre nel lin-guaggio interiore degli affetti, e l’ombra scura delle passioni checirconda Eustazio sembra prefigurare ciò che avverrà di lì a pocoal personaggio per molti versi simile di Rinaldo, il paladino diArmida cui spetta alla fine, nella finzione narrativa, il ruolo diprigioniero nel giardino illusorio dei sensi.

Dopo la Concione, l’esplorazione dell’universo interiore inizia-ta dal Caloprese dentro il mondo tassiano si approfondisce con leSposizioni alle Rime del Casa 80, intessute di richiami allaLiberata, nelle quali l’origine degli affetti e la teoria cartesianadella mescolanza vengono impiegate per illustrare il procederetortuoso e quasi fisico della passione, che lascia l’animo preda ditorbidi e tempestosi movimenti. Anche qui il ricorso agli antichifilosofi, come Cicerone, deve essere integrato dalla lettura dellePassions de l’âme per riuscire a spiegare fino in fondo i comples-si meccanismi psicologici messi in scena dal Casa: tra tutti,quell’“amoroso cordoglio” che “occupando tutte le forze del pen-siero e soverchiando con la sua amarezza la capacità del cuore,suole esser cagione prima di languidezza e poi di furore” 81, la cuinatura rimarrebbe incompresa se si utilizzasse solamente l’erme-neutica classica, come per esempio il richiamo generico allazelotypia analizzata nelle Tusculanae. Forma moderna e tuttainteriore del rimpianto, racchiude in sé il sentimento desolatodella perdita aggravato dal ricordo, e ha tra le sue varianti poeti-che la follia di Orlando e il “disperato lamento di Tancredi per lamorte di Clorinda” 82.

II. Anatomie delle passioni tra Sei e Settecento 49

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

Più ancora che nella Concione, nelle Sposizioni emerge il ten-tativo dichiarato di sottrarre le dinamiche degli affetti al dominiocorporeo dei sensi e della fantasia per ricondurle alla luce chiaradella ragione depurandole dei loro effetti negativi, come avvienenel caso dell’amore celeste nel quale “trovano compimento tantol’intelletto quanto la volontà” 83 e della passione intellettuale dellameraviglia, che seguendo le indicazioni di Descartes e diMalebranche il Caloprese descrive in antitesi al desiderio e allacupidità quale potenza “istituita dalla natura per la contempla-zione delle cose”, il cui “costume è di tirare gli spiriti al capo” 84.Non più riferita all’investigazione del mondo naturale, come eraper Bacone e per gli Investiganti 85, la meraviglia figura fra queimoti dell’anima sostenuti dalla ragione e dalla volontà che fonda-no la vera conoscenza di sé, distante dai fantasmi illusori diun’immaginazione che nasce contaminata dal “materiale delcorpo” 86. Non a caso, di lì a poco un critico vicino a Calopresecome Gian Vincenzo Gravina celebrerà nel Discorso sopral’Endimione il potere sublime di un’invenzione poetica sottrattaal dominio dei sensi, dove la novità e la meraviglia “eccitando l’at-tenzione e traendo l’animo dalle terrene cose, lo sollevano soprase stesso, sicché si vede più libero e spedito da quei legami co’quali la natura corporea avvolgendoci ritarda il nostro volo versola contemplazione del puro e dell’eterno” 87

Sebbene trasferita nello spazio dell’interiorità illuminato dallapoesia del Casa, la tecnica ermeneutica delle Sposizioni nondimentica mai la funzione civile di una conoscenza di sé rivoltasoprattutto alla formazione degli individui nell’ottica più vastadegli Stati. La rilettura del cartesianesimo morale in chiave poli-tica, già autorizzata dall’autore nella disamina del Principe checompare nelle lettere a Elisabetta, unisce l’esercizio testuale dellaConcione e delle Sposizioni alla riflessione filosofica e pedagogi-ca della Vita civile del Doria 88 e delle più tarde Lettere cartesianedell’abate Niccolò Giovo, una sorta di zibaldone che muove dalleteorie fisiche del De l’Homme per concentrarsi sulla classificazio-ne etica delle passioni in ordine alla società. Come già Caloprese,il Doria distingue la volontà come moto cosciente e razionaledallo slancio incontrollato di una fantasia sedotta dalle immagi-ni esteriori dell’“immenso teatro del mondo” 89, e si impegna inuna teoria pedagogica che fin dall’infanzia combatte i “falsi giu-dicj” 90 derivati dagli impeti naturali senza negare la forza vivi-

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cante degli affetti, consapevole che “l’umana felicità non potrà inaltro consistere se non nel misto delle conoscenze e dei sensi” 91.Agli inizi del Settecento, il manifesto filosofico e politico dellaVita civile riprende con slancio i termini della polemica antistoi-ca presente in Descartes affermando esplicitamente che “le pas-sioni sono necessarie nell’uomo per renderlo operante e non isto-lido” e che “la riflessione e la filosofia giungono a moderare ed aben dirigere le passioni, non ad estinguerle” 92. Per convertire al“buon uso” i moti interiori in cui “consiste l’umana felicità”occorre prima di tutto distinguere tra le viziose passioni in cuiprevalgono l’istinto e l’eccesso, e le virtuose passioni regolatedalla ragione e “alla vita civile utilissime” 93, come “l’amore dellaconoscenza del vero e della pratica della morale umana” o il desi-derio di gloria, da cui nascono l’eroe e “il perfetto politico cheprocura la felicità di uno stato”, o ancora i sentimenti “della con-servazion della patria, di sé e della propria casa” che formano il“buon cittadino” e l’“artista eccellente” 94.

La medesima considerazione positiva degli affetti ritorna,insieme alla critica insistita al sistema politico di Machiavelli,nelle ventiquattro Lettere cartesiane del Giovo, che si propongonodi illustrare alla nobildonna destinataria del testo il “buon uso”delle passioni “tanto alla vita civile utile e necessario” 95. Oramaiprofondamente distanti dall’inquieta disamina psicologica dellelettere a Elisabetta, che forniscono comunque il modello esem-plare, le epistole del Giovo (a cui si deve anche una versione ita-liana dei Principia philosophiae e delle Passiones messa a puntotra gli anni Venti e Trenta 96) riflettono già lo spirito divulgativodel nuovo secolo riassumendo i topoi della dottrina cartesiana inuna serie di formule fisse e costanti, nelle quali ritornano l’ideadella maîtrise e del dressage come la teoria del bilanciamentodegli affetti. L’esempio più volte richiamato è non a caso quellopiù noto del cane e della pernice, che proprio all’inizio dellePassions de l’âme insegnava come l’uomo possa acquistare ildominio dei propri impulsi attraverso l’addestramento costante aseguire la voce meditata della ragione in luogo di quella inganne-vole dell’istinto.

Sulla scorta della riflessione di Medinacoeli, l’interesse dell’au-tore va alla potenza intellettuale della volontà, sciolta dai legamicon il corpo, e alla passione disincarnata della meraviglia, origi-ne della conoscenza. Ma l’analisi minuziosa degli affetti, che svi-

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Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

luppa la teoria delle passioni miste descrivendo la natura di sen-timenti compositi come il rimorso o lo scherno, si concentrasoprattutto sul significato della compassione recuperando lametafora cartesiana del teatro e l’argomentazione del Calopreseriguardo a un sentimento che non si addice solamente ai miseri,ma colpisce anche i generosi “inchinevoli alla pietà”, sebbene la“compassion del volgo” appaia alquanto diversa da quella delle“anime grandi” 97 che non sperimentano su di sé le debolezze e itimori, ma le vivono per così dire di riflesso, sulla scena delmondo. Ben diversa dalla tranquilla fiducia dei cartesiani erastata al riguardo, alcuni anni prima, la posizione delle Pensées diPascal, secondo il quale nessuna differenza esisteva, riguardo aglieffetti perniciosi, tra le passioni dei grandi e quelle delle “person-nes basses et obscures”, ma semplicemente l’operato dei primiera avvolto da una luce illusoria e fallace, dovuta al fatto che,come aveva aggiunto Nicole, “il y a je ne sais quoi de trompeurdans tout ce qui est lié à la grandeur” 98.

Sul versante cartesiano, ma in una prospettiva già settecente-sca, il Giovo riprende la descrizione accurata di quel “tempesto-so ondeggiamento” 99 fra opposte passioni che arricchisce di ine-dite valenze la “fluctuatio mentis” di derivazione senecana,aprendo un nuovo campo di indagini poi ampiamente sfruttatonel melodramma di Metastasio, ultimo allievo del Caloprese e let-tore attento delle Passions de l’âme 100. Non meno significativoper l’immaginario politico del nuovo secolo, il riconoscimentodella mutazione perenne degli affetti conduce infine alla teoriadella conversio elaborata dal Doria. Come nota il Giovo, la passio-ne ambivalente della gelosia, “spezie di timore” in cui agisce “ildesiderio di conservarsi alcun bene” 101, deprecabile nell’avarobramoso di accumulare ricchezze o nel marito sospettoso e bef-fato della tradizione novellistica, si trasforma in sentimento “one-sto e giusto” nel caso dell’“accorto capitano” di memoria tassia-na, che per difendere la città “non solamente confida la sicurtà diquella alle superbe mura o all’alte torri, o pur de’ suoi coraggiosisoldati allo sperimentato valore, ma geloso e tutto di grande affa-re occupato, quelle cose paventa per le quali la guardata rocca ela ben munita cittade alla sua cura commessa possa da stranieragenìa occuparsi” 102.

Non bisogna stupirsi a questo punto se la confutazione preve-dibile di Machiavelli che compare nella lettera del 9 agosto costi-

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tuisce una sorta di piccola dissertazione sul Principe interna allibro, nell’ottica della filosofia civile di Medinacoeli. Si apre conil rifiuto “delle regole del capo diciannovesimo e ventesimo” sucui si era già soffermato Descartes nell’epistola a Elisabetta delsettembre 1646, allorché a proposito della virtù del principeaveva sostenuto che “l’arrogance des princes, c’est-à-dire l’usur-pation de quelque autorité, de quelques droits, ou de quelqueshonneurs qu’il croit ne leur être point dus”, risulta insopportabi-le ai sudditi proprio perché considerata “une espèce d’injustice”103. In gioco è soprattutto l’affermazione del Principe secondo laquale il sovrano può essere ritenuto odioso dal popolo tanto perle buone che per le malvage azioni, ma più in generale il Giovoritiene che Machiavelli “non distinse abbastanza fra il principeche con giuste ragioni al principato pervenne, e fra quelle che,non legittime arti praticando, con vergognoso usurpamento looccupano”, con il risultato di consigliare a tutti “alla rinfusa que’precetti che solamente al tiranno conveniansi, acciò que’ principidi possanza che da delitti incominciaro” 104. Viceversa, l’“accortoprincipe” possiede un unico modo di sfuggire “l’odio o lo sprezzodel popolo”, vale a dire la clemenza e l’amore della giustizia chela ricerca costante della virtù, praticata fin dall’infanzia, gli fannoanteporre a ogni altra forma di autorità.

Ma per sostenere il valore di un insegnamento pedagogicoimprontato alla conoscenza di sé e alla regolazione interiore degliistinti e dei desideri, già suggerito dal Doria, l’autore deve respin-gere con fermezza “la massima nel capo decimoquinto” secondola quale “gli uomini essendo infelicemente corrotti, non esser egliancor possibile che a certa ruina rapidamente non corra chi sem-pre buono esser voglia”: una massima che autorizza il principe“quando l’occasion lo porti, a usar per difendersi mali e pernizio-si consigli” 105. Nella visione politica del Giovo, al contrario, la“conosciuta virtù” 106 del sovrano è la condizione essenziale delbuon governo del principe che privilegia, illuministicamente,l’“utile pubblico” sul “privato” 107, e fonda il suo consenso sull’o-pinione dei sudditi. Qui la “virtù cristiana e la compassione unitealla “tranquillità dell’animo” 108 indicate dal Caloprese come qua-lità essenziali del “perfetto capitano” danno forma a quella visio-ne positiva della natura umana nel rapporto complesso tra pote-re, giustizia e diritto, che diventerà uno dei nodi centrali dellatrattatistica politica settecentesca sulle origini e lo statuto del

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Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

dispotismo, se è vero che già Locke nel Second treatise of CivilGovernment (1690) precisava che la legge intrinseca della ragioneinsegna a tutti gli uomini l’uguaglianza della loro natura origina-ria e insieme la proibizione di nuocere ai propri simili per quelloche riguarda la vita, la salute e la libertà.

Dalla ricezione non omogenea e spesso difficile del cartesiane-simo napoletano, nelle due fasi dell’Accademia degli Investiganti edi Medinacoeli, sembrano dunque derivare premesse importantiper la scienza morale e politica del Settecento, che a eccezionedella Scienza nuova assume le nozioni della maîtrise e del dressagecome punto di partenza per una più vasta e complessa ricerca inte-riore. Nonostante che la sua riflessione presenti molti punti di con-tatto con l’indagine psicologica dell’Accademia Palatina, la possi-bilità di autoregolazione degli affetti a sostegno della vita morale ecivile non appare condivisa fino in fondo dal Vico. Nella ricostru-zione delle origini della civiltà che apre la sezione quarta dellaScienza nuova, dedicata al metodo, egli ammette infatti l’esistenzadi un “conato” proprio dell’“umana volontà” a “tener in freno imoti impressi alla mente dal corpo, o per affatto acquetargli, ch’èdell’uomo sappiente, o almeno dar loro altra direzione ad usimigliori, ch’è dell’uomo civile” 109, aggiungendo però subito dopo:

Ma gli uomini, per la loro corrotta natura essendotiranneggiati dall’amor proprio, per lo quale non sie-guono principalmente che la propia utilità; onde eglino,volendo tutto l’utile per sé e niuna parte per lo compa-gno, non posson essi porre in conato le passioni perindirizzarle a giustizia. Quindi stabiliamo: che l’uomonello stato bestiale ama solamente la sua salvezza;presa moglie e fatti figliuoli, ama la sua salvezza con lasalvezza delle famiglie; venuto a vita civile, ama la suasalvezza con la salvezza delle nazioni; unite le nazioniin guerre, paci, allianze, commerzi, ama la sua salvezzacon la salvezza di tutto il genere umano: l’uomo in tuttequeste circostanze ama principalmente l’utilità propia.Adunque, non da altri che dalla provvedenza divinadeve essere tenuto dentro tali ordini a celebrare congiustizia la famigliare, la civile e finalmente l’umanasocietà; per li quali ordini, non potendo l’uomo conse-guire ciò che vuole, almeno voglia conseguire ciò chedee all’utilità; ch’è quel che dicesi “giusto”. Onde quellache regola tutto il giusto degli uomini è la giustizia divi-na, la quale ci è ministrata dalla divina provvedenza per

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conservare l’umana società. Perciò questa Scienza peruno de’ suoi principali aspetti, dev’essere una teologiacivile ragionata della provvedenza divina 110.

Un’altra differenza significativa separa però il pensiero vichia-no dai suoi più vicini compagni di strada, vale a dire il valore attri-buito alla facoltà dell’immaginazione, che il cartesianesimo ago-stiniano e platonico di Medinacoeli confina tra gli impulsi oscuridel corpo insistendo sulla sua natura illusoria e ingannevolerispetto alla conoscenza chiara di un intelletto guidato dalla ragio-ne e dalla volontà. Estraneo alla visione morale e politica degliaffetti delineata dal Caloprese e dal Doria, il ruolo autonomo dellafantasia verrà riconosciuto solamente nella costruzione allegoricae frammentaria della Scienza nuova, dove la “volgar metafisica” 111

delle passioni dà forma alla teologia dei poeti e alla “poesia subli-me”, nata per “difetto d’umano raziocinio” 112, delle favole omeri-che. Per la prima volta, nelle pagine vichiane l’astrazione dellafilosofia e la natura razionale delle “nostre umane menti tropporitirata da’ sensi” e “troppo assottigliata” e “spiritualezzata con lapratica de’ numeri” divengono un limite alla comprensione della“vasta imaginativa di que’ primi uomini, le menti de’ quali di nullaerano astratte, di nulla erano assottigliate, di nulla spiritualezzate,perch’erano tutte immerse ne’ sensi, tutte rintuzzate dalle passio-ni, tutte seppellite ne’ corpi” 113. Proprio dai “grandi frantumi del-l’antichità, inutili finora alla scienza perché erano giaciuti squalli-di, tronchi e slogati” 114, ma ricomposti in una sorta di mappa inte-riore, viene l’indicazione sotterranea e insistente di un mondo per-duto da cui prenderà forma l’indagine inquieta degli affetti nelTournant des Lumières, quando riaffiora la coscienza della distan-za incolmabile che separa il geroglifico delle passioni dagli stru-menti della ragione analitica.

1 Sulla storia dell’Accademia e i suoi protagonisti, oggetto di numerosistudi, cfr. soprattutto M.H. Fisch, L’Accademia degli Investiganti, in “DeHomine”, 27, 28 (1968), pp. 17-75; M. Torrini, Tommaso Cornelio e la rico-struzione della scienza, Napoli, Guida, 1977, e, Id., L’Accademia degliInvestiganti Napoli 1663-1670”, in “Quaderni storici”, 48 (1981), pp. 845-883.

2 Parere del signor Lionardo di Capoa divisato in otto ragionamenti ne’qua-li partitamente narrandosi l’origine e ’l progresso della medicina, chiaramentel’incertezza della medesima si fa manifesta, Napoli, per Antonio Bulifon, 1681,p. 485.

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3 L’intreccio di galileismo e cartesianesimo nella cultura napoletana difine Seicento è indagato nel volume miscellaneo Galileo e Napoli, a cura di F.Lomonaco e M. Torrini, Napoli, Guida, 1987.

4 Ibid., p. 493.5 Loc. cit.6 Cfr. T. Verbeek, Les passions et la fièvre. L’idée de la maladie chez

Descartes et quelques cartésiens néerlandais, in “Tractatrix”, 1 (1989), pp. 45-61.

7 M. Di Giandomenico, “Cartesianesimo e iatromeccanica in Italia traXVII e XVIII secolo”, in Descartes: il metodo e i saggi. Atti del convegno per il350º anniversario della pubblicazione del Discours de la Méthode e degliEssais, a cura di G. Belgioioso et al., Roma, Istituto della EnciclopediaItaliana, 1990, pp. 651-658.

8 R. Descartes, Correspondance, publiée par Ch. Adam et G. Milhaud,Paris, P.U.F., 1960, t. VII, pp. 82-83.

9 Cfr. su questo punto S. Serrapica, Note napoletane alle “Passioni dell’a-nima”, in “Giornale critico della filosofia italiana”, XVI (1996), pp. 476-494(487, 488) e E. Lojacono, Immagini di René Descartes nella cultura napoleta-na dal 1644 al 1755, Lecce, Conte, 2003 (in particolare pp. 58-59).

10 L. Tozzi, Medicinae pars prior, in Id., Opera omnia medicinae, Venetiis,apud Nicolaum Pezzana, 1747, p. 44.

11 Loc. cit.12 Ibid., p. 45.13 Cfr. a questo proposito E. Garin, Per una storia dei cartesiani in Italia.

Avvertenza, in “Giornale critico della filosofia italiana”, Sesta serie, XVI(1996), pp. 307-311 (310).

14 L. Tozzi, De recto usu sex rerum nonnaturalium, in Id., Opera omniamedicinae, cit., p. 207.

15 Consulti medici di Niccolò Cirillo, Professor primario di Medicina nellaRegia Università di Napoli pubblicati da Francesco Buoncore, in Napoli,appresso Novello De Bonis Stampatore Arcivescovile, 1738, 3 voll., I, p. 2.L’opera forse più significativa del Cirillo, intitolata De ortu et progressu medi-cinae e rimasta inedita, andò probabilmente distrutta nel saccheggio borbo-nico della biblioteca del nipote, Domenico Cirillo, uno dei martiri dellaRepubblica Partenopea del 1799.

16 Cfr. R. De Maio, Società e vita religiosa a Napoli nell’età moderna,Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1971 e M. Torrini, “La discussionedello statuto delle scienze tra la fine del ’600 e l’inizio del ’700”, in Galileo eNapoli, cit., pp. 357-383.

17 Cfr. L. Osbat, L’Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti, 1688-1697,Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1974. Sulla figura del De Benedictiscfr. G. De Liguori, La reazione a Cartesio nella Napoli del Seicento.Giovambattista de Benedictis, in “Giornale critico della filosofia italiana”,LXXV (1996), pp. 330-355.

18 Sul ruolo e l’attività dell’Accademia Palatina si vedano le ricostruzionidi G. Recuperati, A proposito dell’Accademia di Medina Coeli, in “RivistaStorica Italiana”, LXXXIV (1972), pp. 57-79 e M. Rak, “Le lezionidell’Accademia di Medina Coeli. La tradizione manoscritta”, in PietroGiannone e il suo tempo, a cura di R. Ajello, Napoli, Jovene, 1980, II, pp. 659-689. A cura dello stesso Rak sono state pubblicate di recente le Lezionidell’Accademia di palazzo del duca di Medinacoeli: Napoli 1698-1701 (Napoli,Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2000, 3 voll.).

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19 Cfr. E. Lojacono, Immagini di Descartes, pp. 87-114.20 C. Grimaldi, Risposta alla terza lettera apologetica contra il Cartesio cre-

duto da più d’Aristotele di Benedetto Aletino. Opera in cui dimostrasi quantosalda e pia sia la Filosofia di Renato delle Carte: e perché questo si debba piùd’Aristotele, in Colonia, S. Hect, 1703, p. 188.

21 Così M. Agrimi, “Descartes nella Napoli di fine Seicento”, in Descartes:il metodo e i saggi, cit., p. 565. Sul “mentalismo” di Medinacoeli insiste ancheS. Suppa, L’Accademia di Medinacoeli fra tradizione investigante e nuovascienza civile, Napoli, Nella sede dell’Istituto, 1971. Più aperta al confronto tracultura investigante e nuova scienza civile la recente riflessione di Serrapica,Note napoletane alle “Passioni dell’anima”, cit.

22 Cfr. E. Nuzzo, Verso la “Vita civile”. Antropologia e politica nelle lezioniaccademiche di Gregorio Caloprese e Paolo Mattia Doria, Napoli, Guida, 1984.

23 G. Caloprese, Dell’origine degl’imperj. Lezione prima, in L’Accademia diMedinacoeli, cit., p. 177.

24 Ibid., p. 178.25 Descartes à Elisabeth (18 agosto 1645), in Descartes, Correspondance,

cit., p. 289.26 Elisabeth à Descartes, ibid., p. 283.27 Descartes à Elisabeth (21 maggio 1643), ibid., pp. 290-291.28 Ibid., p. 290.29 L. Porzio, Come si possa l’uom preservare da i mali che cagionano le pas-

sioni dell’animo, in Id., Lettere e discorsi accademici, Napoli, Nella Stamperiadi Michele Luigi Muzio, 1711, p. 28. Sulla figura e l’opera del medico napo-letano si veda A. Dini, Filosofia della natura, medicina, religione. LucantonioPorzio (1639-1724), Milano, Franco Angeli, 1985.

30 Commentando l’incipit del sonetto petrarchesco La vita fugge e non s’ar-resta un’ora (RVF, CCLXXII) Leonardo Di Capua aveva infatti osservato: “Egliavvene ne’corpi degli animali sì come già nella celebre nave Argo, dalla qualesdruscita or l’una, or l’altra tavola, togliendosi, ed altre invece delle tolte ripo-nendosi, mai sempre ella variavasi nella materia, comeché a variar non sivenisse mai nella forma; intanto, che dalla nave Argo alla fine niuna delletavole, delle quali fabbricata prima già venne, rimase. Così parimente nelcorpo dell’animale niuna di quelle sostanze, ch’alla sua formazion concorse-ro, se non alquante delle più salde e più dure rimangono. Ancorché nel veroil paragone non sia del tutto giusto; imperocché il corpo dell’animale trattotratto cresce nella materia, indi tratto tratto manca, rendendosi deboli i for-menti e ristringendosi e ratturandosi i valichi per cui si porta il sugo nutriti-vo alle parti.” (Ragionamento intorno all’incertezza dei medicamenti, Napoli,Raillard, 1695, p. 45).

31 Porzio, Come si possa l’uom preservare da i mali, cit., pp. 28-29.32 Ibid., p. 29.33 Ibid., p. 34.34 Ibid., p. 36.35 R. Descartes, Les passions de l’âme, éd par G. Rodis-Lewis, Paris, Vrin,

1966, p. 106.36 Loc. cit.37 Su questo punto cfr. R. Mazzola, Vico all’Accademia del Medinacoeli, in

“Bollettino del Centro di Studi Vichiani”, XX, 1990, pp. 131-139.38 G. Vico, Vita scritta da se medesimo, in Id., Opere, a cura di A.

Battistini, Milano, Mondadori, 1990, I, p. 19.39 Ibid., p. 22.

II. Anatomie delle passioni tra Sei e Settecento 57

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

40 G. Vico, De nostri temporis studiorum ratione, in Id., Opere, cit., I, p. 131.41 Ibid., p. 137.42 Ibid., p. 139. Sul tema delle passioni cfr. A. Battistini, “Vico and the

Passions”, in Teorie delle passioni, a c. di E. Pulcini, Dordrecht-Boston-London, Kluwer, Academic Publishers, 1989, pp. 113-128, e, dello stesso,Vives e le passioni, ora in Id., Vico tra antichi e moderni, Bologna, Il Mulino,2004, pp. 63-100; J. Cottingham, Ragione e passioni/passioni e ragione. Notesu metafisica, antropologia ed etica in Descartes e Vico, in “Bollettino delCentro di Studi Vichiani”, XXXIII (2003), pp. 209-231; S. Contarini, “La teladi ragno e la farfalla. Vico e le passioni dell’anima” in Momenti vichiani delprimo Settecento, a cura di G. Pizzamiglio e M. Sanna, Napoli, Guida, 2001,pp. 37-74.

43 Il tema è stato affrontato recentemente da M. Riccio, Opacità dellariflessione del sé e azione prudente: un excursus nei testi vichiani, in “Bollettinodel Centro di Studi Vichiani”, XXVIII-XXIX (1998-1999), pp. 153-160.

44 G. Vico, De antiquissima italorum sapientia (tr. it. R. Parenti), in Id.,Opere, a cura di R. Parenti, Napoli, Casa Editrice Fulvio Rossi, 1972, I, p.241.

45 Cfr. E. Nuzzo, Vico e l’“Aristotele pratico”: la meditazione sulle forme“civili” nelle “pratiche” della Scienza nuova prima, in “Bollettino del Centro diStudi Vichiani”, XIV-XV (1984-1985), pp. 61-129; e, dello stesso autore, Ilcongedo dalla “saggezza moderna” nella cultura napoletana tra ’600 e ’700: Vicoe la tradizione dei “moralisti”, in “Bollettino del Centro di Studi Vichiani”,XVII-XVIII (1987-1988), pp. 25-114. Utile anche il confronto con J.Gebhardt, Sensus communis: Vico e la tradizione europea antica, in “Bollettinodel Centro di Studi Vichiani”, XXII-XXIII (1992-1993), pp. 43-64.

46 Vico, De antiquissima, cit., p. 254.47 G. Vico, Risposta nella quale si sciolgono tre opposizioni fatte da dotto

signore contro il primo libro “De antiquissima italorum sapientia”, ovvero meta-fisica degli antichissimi italiani rivelata dalle origini della lingua latina, in Id.,Opere, cit., p. 305.

48 Vico, De ratione, cit., p. 137.49 G. Vico, Principî di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle

nazioni (1744), in Id., Opere, cit., p. 552. Sul tema della geometria utile il con-fronto con D. Lachterman, Vico, Doria e la geometria sintetica, in “Bollettinodel Centro di Studi Vichiani”, X (1980), pp. 10-35.

50 G. Caloprese, Lezione quarta, in appendice a Suppa, L’Accademia diMedinacoeli, cit., p. 206.

51 Ibid., p. 211.52 Ibid., pp. 205-206.53 Ibid., p. 208.54 Loc. cit.55 Cfr. R. Rey, Histoire de la douleur, Paris, Ed. de la Découverte, 1993.56 Caloprese, Lezione quarta, cit., p. 210.57 P.M. Doria, Della vita civile. Con un trattato sull’educazione del Principe,

Torino, Pomba, 1852, p. 75.58 G. Vico, A Francesco Saverio Estevan, in Id., L’autobiografia, il carteg-

gio e le poesie varie, seconda ed. riveduta e aumentata da B. Croce e F.Nicolini, Bari, Laterza, 1929, p. 216.

59 Sulla costruzione retorica del personaggio di Armida è utile il confron-to con H. Grosser, Tasso, la teoria e l’esprit de symétrie nella “GerusalemmeLiberata”, in “Giornale storico della letteratura italiana”, CLXXV, 569 (1998),pp. 2-52 (22-27).

58

60 Lettura sopra la concione di Marfisa a Carlo Magno, contenuta nelFurioso al canto trentesim’ottavo, fatta da Gregorio Caloprese nell’Accademiadegli Infuriati di Napoli nell’anno anno 1690. Nella quale, oltre l’artificio adope-rato dall’Ariosto in detta concione, si spone ancora quello che si è usato dalTasso nell’oratione d’Armida a Goffredo, in Napoli, presso Antonio Bulifon,1691, pp. 28-29.

61 Ibid., p. 33.62 Ibid., p. 32.63 Ibid., p. 46.64 Ibid., p. 49.65 Ibid., pp. 49-50.66 Ibid., p. 58.67 Ibid., pp. 61-62. I versi tassiani si riferiscono all’ottava 12 del V canto

(1-4).68 Caloprese, Concione, cit., pp. 63-64.69 Ibid., pp. 67-68.70 Ibid., p. 73.71 Ibid., p. 76.72 Sulla storia filosofica della compassione rimando alle pagine di M.C.

Nussbaum, Upheavals of Thought. The Intelligence of the Emotions, tr. itL’intelligenza delle emozioni, Bologna, Il Mulino, 2004, capp. VI-VIII.

73 Caloprese, Concione, cit., p. 76.74 Ibid., pp. 75-76.75 Ibid., p. 77.76 Ibid., p. 81.77 T. Tasso, Gerusalemme Liberata, IV, ottava 67 (v. 8).78 Ibid., ottava 69, vv. 7, 8.79 Caloprese, Concione, cit., p. 81.80 Sul commento del Caloprese al Casa cfr. M. Rak, Condizione critica e

fantasia poetica. Un trattato della storia delle idee letterarie del sec. XVII, in “LaRassegna della letteratura italiana”, LXXV (1971), pp. 27-70 e G. Gronda, Lepassioni della ragione, Pisa, Pacini Editore, 1984, pp. 11-52. Per un’analisi piùdettagliata dei sonetti citati rimando infine al mio volume “Il mistero dellamacchina sensibile”. Teorie delle passioni da Descartes a Alfieri, Pisa, PaciniEditore, 1997, pp. 78-91.

81 Sposizioni di Sertorio Quattromani, di Marco Aurelio Severino, diGregorio Caloprese, di Egidio Menagio e dell’Autore anonimo, in Opere diMonsignor Giovanni Della Casa dopo l’edizione di Firenze del 1707 e di Veneziadel 1728, molto illustrate e di cose inedite accresciute, Napoli, s.i.t., 1733, t. I,p. 52-53. Il primo tomo dell’edizione del 1733 riproduce l’edizione Bulifon del1691 delle Rime del Casa. L’analisi si riferisce al son. VII (Io mi vivea d’amo-re, gioia e bene).

82 Loc. cit.83 Ibid., p. 133.84 Ibid., p. 269.85 Cfr. M. Torrini, “Il topos della meraviglia come origine della filosofia

tra Bacon e Vico”, in Francis Bacon: terminologia e fortuna nel XVII secolo.Seminario Internazionale (Roma 11-13 marzo 1984), a cura di M. Fattori,Roma, Ed. de l’Ateneo, 1984, pp. 261-280.

86 Caloprese, Sposizioni, cit., p. 70.87 G. Gravina, Discorso sopra l’Endimione (1692), in Id., Scritti critici e

teorici, a cura di A. Quondam, Bari, Laterza, 1973, p. 55.

II. Anatomie delle passioni tra Sei e Settecento 59

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

88 Sulla riflessione politica e civile del Doria si vedano il volume diV. Conti Paolo Mattia Doria. Dalla repubblica dei togati alla repubblica dei nota-bili, Firenze, Olschki, 1978, nonché gli Atti del convegno Paolo Mattia Doriafra rinnovamento e tradizione, Galatina, Congedo, 1985.

89 Doria, Della vita civile, cit., p. 46.90 Ibid., p. 50.91 Ibid., p. 60.92 Ibid., p. 80. Cfr. Su questo punto M. Torrini, “Le passioni di P.M.

Doria: il problema delle passioni dell’animo nella Vita civile”, in Paolo MattiaDoria fra rinnovamento e tradizione, cit., pp. 433-454.

93 Doria, Della vita civile, cit., p. 85.94 Loc. cit.95 N. Giovo, Lettere cartesiane a una signora (3 maggio-22 novembre

1728), in Id., Trattati diversi. Fisici, e morali. Biblioteca Nazionale di Napoli,ms. I.E.13. Qui si tratta della lettera del 18 maggio 1728. Sul Giovo, abate allacorte di Nicola Gaetani d’Aragona duca di Laurenzana (autore lui stesso di unvolume intitolato Degli avvertimenti intorno alle passioni dell’animo, Napoli,Felice Mosca, 1732) e amico di Giambattista Vico le notizie sono scarse. Peruna prima ricognizione sulle Lettere cartesiane cfr. C. Cantillo, Appunti di let-tura sul cartesianesimo napoletano tra ’600 e ’700, in “Bollettino del Centro diStudi Vichiani”, XXIV-XXV (1994-1995), pp. 183-194.

96 Cfr. L. Guerrini, Note su traduzioni manoscritte delle opere cartesiane, in“Giornale critico della filosofia italiana”, XVI, 1996, pp. 500-507

97 Giovo, Lettere cartesiane, cit., c. 82v.98 P. Nicole, Essais de morale, Paris, chez Desprez, 1723, V, p. 142. Su

questo punto rimando a Contarini, “Il mistero della macchina sensibile”, cit.,pp. 47-50.

99 Ibid., c. 13r.100 Cfr. E. Raimondi, Il teatro allo specchio, in Id., Il concerto interrotto,

Pisa, Pacini, 1979, pp. 23-44, nonché G. Giarrizzo, “Da Napoli a Vienna: ilcircolo meridionale della filosofia del Metastasio”, in Leggi, poesia e mito.Giannone, Metastasio e Vico fra “tradizione” e “trasgressione” nella Napoli deglianni Venti del Settecento, a c. di M. Valente, Roma, Aracne, 2001, pp. 99-126.

101 Giovo, Lettere cartesiane, cit., c. 10r.102 Ibid., c. 11r.103 R. Descartes, Correspondance, cit., p. 167.104 Giovo, Lettere cartesiane, cit., c. 106v.105 Ibid., cc 109r.106 Ibid., c. 110r.107 Ibid., c. 110v.108 Ibid., c. 236r.109 G. Vico, Scienza nuova (1744), in Id., Opere, a cura di A. Battistini, cit.,

p. 547.110 Ibid., p. 548.111 Ibid., p. 547.112 Ibid., p. 575. In generale su questo tema rimando alle considerazioni di

M. Lollini, Le muse, le maschere e il sublime. G.B. Vico e la poesia nell’età della“ragione spiegata”, Napoli, Guida, 1994; e G. Mazzotta, The new map of theworld: the poetic philosophy of Giambattista Vico, tr. it. La nuova mappa delmondo. La filosofia poetica di Giambattista Vico, Torino, Einaudi, 1999.

113 Vico, Scienza nuova, cit., p. 572.114 Ibid., p. 554.

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III. LA METAFORA NAUTICA DI METASTASIO:METAMORFOSI DI UN PARADIGMA

Come notava già Curtius, esistono metafore che schiudono alricercatore vasti orizzonti di pensiero, configurazioni di senso incui “fenomeni di ordine spirituale si concretizzano e diventanopercepibili” 1. All’interno del mondo classico l’immagine dellanave dell’esistenza nasce strettamente correlata con il mito ulissi-dico della hybris e del nefas argonautico rivisitato da Dante, chevede nella scoperta della navigazione la fine dell’età dell’oro 2 e hail suo centro emotivo nella catastrofe del naufragio, la temutamorte per acqua che rappresenta il rovescio speculare della nasci-ta, il ritorno senza pace al non luogo del mare e la perdita dell’i-dentità non risarcita dal rito pietoso della sepoltura e dellamemoria. Fino quasi alle soglie del Settecento la tradizione patri-stica della navigatio vitae si associa al simbolo senecano e plutar-chiano del fluctus mentis caro a Montaigne, segno di instabilità eindizio rivelatore della tempesta delle passioni che ostacola ilritorno verso il porto del nocchiero, scortato dall’intelletto e dallavolontà divina 3.

Il mutamento radicale della prospettiva stoica, dopo la fiducio-sa rivalutazione della natura umana e degli affetti proclamata ametà secolo dall’Encyclopédie, che porta con sé la trasformazionesemantica dei simboli cristiani dell’imbarco, del mare aperto edel porto, sembra spettare alla riflessione estetica e morale delTournant des Lumières, quando la metafora nautica diviene illuogo privilegiato del confronto con l’energia delle passioni e ilsublime svela il risvolto moderno della poetica lucreziana delnaufragio con spettatore insistendo proprio sull’attrazione incon-scia per una sofferenza non più contemplata da lontano, al ripa-ro tranquillo delle rive 4.

Ma tra la rappresentazione stoica e cristiana della navigatiovitae rielaborata dai moralisti del grand Siècle e la vertigine del-l’imbarco volontario sul mare delle passioni che unisce, nella

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

diversità dei motivi e delle sfumature, il Diderot dei Salons e lapoetica degli Stürmer, occorre contemplare la breve illusione illu-ministica del controllo degli affetti, il momento intenso ed effime-ro in cui la nave dell’esistenza sembra poter essere non solo gui-data, ma sapientemente regolata attraverso le tecniche della maî-trise e del dressage di ispirazione cartesiana. Prima delle catastro-fi marine rese celebri da Vernet e dell’apologia dei Corsari diByron, il Settecento conosce un diverso rifiuto, forse altrettantonetto anche se meno radicale, del motivo stoico del porto e del-l’immobilità delle rive, a cui contrappone la metafora ardita delmare aperto: non solo il simbolo di una scienza pronta a esplora-re tutti gli spazi della conoscenza, sulle tracce di Galileo e diNewton, o di uno scambio di idee che non conosce frontiere, masoprattutto la prova di un investimento psicologico che prelude auna nuova morale.

Come ha rilevato Alain Corbin 5, all’onda minacciosa delleacque, monito perenne della colpa e della caduta, succede nellaprima metà del XVIII secolo l’inno alla navigazione che avvicinauomini e terre contraddicendo apertamente il mito negativodell’Oceano dissociabilis di matrice oraziana, cui si sostituiscel’immagine grandiosa del mare aperto di Buffon e di Helvétius.La rivalutazione laica e razionalistica dell’ingegno umano in tuttele sue forme e il riconoscimento degli affetti come motori moralidell’universo, in analogia con le forze fisiche del cosmo rivelateda Newton, si esprime allora attraverso il rovesciamento dellametafora stoica della navigatio vitae che comporta una rotturaradicale con la morale classica e la sostituzione progressiva delparadigma sperimentale di Locke, anticipato dall’immagine elo-quente della nave a vele spiegate sul frontespizio dell’InstauratioMagna di Bacone quale emblema della Nuova Atlantide, e ribadi-to ancora a fine secolo da Kant attraverso la metafora della cono-scenza come terra incognita e “mondo incompiuto” 6.

A differenza della terra, che conserva e trattiene le vestigia delpassato, la superficie liquida e instabile del mare si apre allasconfinata curiosità del navigante che percorre i territori ignotidel reale con la stessa trepida attenzione che riserva agli spaziinquieti dell’animo, proiettando nel futuro la propria volontà diconoscenza. Il viaggio illuministico diviene quindi per definizio-ne il viaggio per mare, veicolo stesso dell’esperienza, mentre ildeprecabile fluctus mentis di derivazione stoica si muta già nei

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Dialogues des Morts di Fontenelle nell’immagine positiva delmovimento delle passioni, necessario all’uomo morale non menodei venti che percorrono la superficie del mare e “causent quel-quefois des orages” 7. Metafora favorita di Voltaire 8, che l’utiliz-za più volte, nel Traité de Métaphysique, nel Discours en Vers surl’Homme e nelle lettere a Federico di Prussia, l’immagine rise-mantizzata della nave dell’esperienza si colloca naturalmente alcentro dei contes philosophiques, da Micromégas a Zadig, dove ilprotagonista assiste all’apologia inattesa delle passioni da partedell’Eremita. Simili ai “vents qui enflent les voiles du vaisseau” 9,talora sommergendolo, gli affetti sono indispensabili alla vitacosì come la bile è necessaria all’equilibrio dei fluidi nel corpoumano, nonostante il suo eccesso renda l’uomo collerico o malin-conico. Ancora nell’ottica cartesiana, la ferma dichiarazione del-l’utilità delle passioni, nel riconoscimento che “tout est dange-reux ici-bas, et tout est nécessaire” 10, si accompagna in Voltaireall’ipotesi necessaria dell’autoregolazione degli affetti, che fa rivi-vere la teoria antica della mesotes nella pratica illuministica dellabalance des passions, l’equilibrio sapiente dei desideri e degliimpulsi controllati dalla ragione.

La medesima analogia significativa tra il “discorde operardegli elementi” che mantiene l’universo “vivido e ferace”, e il “fiercontrasto” 11 degli umani affetti anima il manifesto della culturailluministica della prima metà del Settecento, l’Essay on Man diPope, che nella versione italiana del conte Ferrero di Lavrianoricordata anche dal Metastasio 12 suggella la sua argomentazionecontro lo “stoico indolente” 13 con alcuni versi che l’autore dellaDidone abbandonata avrà senz’altro condiviso, non solo per ladifesa fiduciosa dei moti dell’animo, ma soprattutto per la lorodivisione in utili e dannosi rispetto ai fini decretati dall’intellettoe dalla felicità:

La vita è un mar, che più spediti, o lentiTutti solchiam; nostra fidata scortaÈ la ragion; son le passioni i venti;Iddio stesso talor, schiusa la portaAgli aquiloni, i maggior flutti ascende,E sull’ale de’ venti si trasporta.Desìo, gaudio, speranza, amor che accendeSoavemente il cor, sono il drappelloLieto, che dal piacer l’origin prende.

III. La metafora nautica di Metastasio 63

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

La tristezza, il timor, e l’odio felloSon figli del dolor: contrari affettiChe improntan l’alma con vario sugello.Ma temperati saggiamente, e strettiNe’ lor confini; servono di coteA’più sublimi e nobili intelletti.Gli elementi così veder si pote,Benché nemici, insiem temprati, e mistiServare il mondo, e le superne rote.Onde ragion non è che l’uom s’attristi,Se gli affetti non sterpa, e non disperdeQuasi germogli velenosi e tristi.Perché voler che si distrugga e perdeCiò, ch’è proprio dell’uom sì come al soleLa luce, a’ prati, ed alle fronde il verde?Basta che la ragion, com’ella soleSegnar la strada, il corso anco ne reggaAll’alto fine, che da Dio si vole 14

Molto prima della rivisitazione di Foscolo nell’Ortis, che acco-glierà i versi iniziali dell’Essay on Man nella lunga lettera che afine secolo secolo perpetua la distinzione tra il bollore alfierianodegli “uomini appassionati” dall’“infeconda apatia” dei saggi 15,l’impiego della metafora nautica in termini vicini a quelli di Pope,ma più sensibili al confronto con quella tradizione stoica che l’au-tore inglese aveva bruscamente liquidato, si ritrova nel Muratori,che li adopera per denunciare l’errore di metodo di quei filosofi iquali “al mirare tanti e sì vasti perniciosi effetti originati dallepassioni […] s’inviperirono sì fattamente contra d’esse che tuttein un fascio avviluppandole, le chiamarono commozioni dell’ani-ma contrarie alla ragione e alla natura” 16. Nella Filosofia moraleesposta e proposta ai giovani (1735), che precede di due anni ilsaggio di Pope ed è quasi contemporanea al Traité deMétaphysique di Voltaire, la difesa degli “umani affetti”, movi-menti “naturali” di attrazione o di repulsione concepiti dallaprovvidenza per “fuggire o cacciare da sé ciò che da noi siapprende per male e per conseguire o conservare ciò che siapprende per bene” 17, e dunque utili e necessari all’anima nonmeno delle membra per il corpo, si accompagna all’immagineoramai consueta della nave soggetta dall’impeto violento deiventi, ma non per questo destinata al naufragio:

Ancorché le vele e i venti facciano perire talvolta i

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vascelli, non è però che l’istituzione ed uso loro sia permenare al naufragio le navi, ma sì bene per servir lorod’ali e per aiutarle a gran viaggi e ad arrivare in porto.E senza d’essi che farebbero mai e a che servirebberoquelle gran case mobili sulla schiena del mare? Tantopiù è da dir questo delle passioni; imperocché non èsempre potere del piloto, quantunque sperto e attento,l’esentarsi dal naufragio; ma in mano all’uomo, se vuolvalersi della ragione (piloto a lui dato da Dio) e del cele-ste aiuto, che non manca ad alcuno, sta sempre il fareche le passioni o in lui non nascano, o nate non lo stra-scinino in precipizi. Altrimenti si potrebbe anche direche la natura dell’uomo è un male, perché tanti e tanticon questa natura operano il male; e pure certissimo èche anche nello stato presente dell’uomo, benché trop-po diverso da quello del primo nostro padre, noi siamouna fattura nobilissima nelle mani di Dio. Basta ricor-darsi che Dio ci ha data la ragione, cioè quel freno percui si può e si dee imbrigliare ogni passione, col farleservire alla felicità, non all’infelicità nostra, e alla virtù,non al vizio 18.

Nonostante la presenza di echi frequenti di Seneca e diEpitteto, che testimoniano la validità e la ricchezza dello stoici-smo antico in rapporto alle formule semplificate degli epigonimoderni, il riconoscimento illuministico prima ancora che cri-stiano che la “felicità universale degli uomini” è “il fine di tutte lesocietà e leggi” 19 riconosce il valore del porto solamente dopo l’e-sperienza dei “grandi viaggi” dell’esistenza. Se non rimane trac-cia, nel richiamo topico alle “ali” che muovono i vascelli, dellacondanna dantesca del “folle volo” di Ulisse, non vi è dubbio chenella figura del “piloto” che simboleggia la ragione bisognacogliere un significato più ampio e complesso di quello che sipoteva ricavare dalla lettura del Manuale di Epitteto e delle operedi Lipsio di cui parla la lettera al Porcìa 20, ricollegandolo al gran-de dibattito civile e politico aperto dal Caloprese e dal Doria.

Ma è attraverso la mediazione teorica del Gravina, probabil-mente, che la metafora antica dei flutti come emblema delle pas-sioni passa dall’ambito morale e politico a definire lo statuto e ilruolo dell’immaginazione, rileggendo in altro modo la similitudi-ne classica e poi dantesca della creazione poetica come viaggioper mare 21. Nella Ragion poetica il maestro del Metastasio defini-sce l’attività immaginativa una consapevole e mimetica “disposi-

III. La metafora nautica di Metastasio 65

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

zione verso il finto” 22, nella quale il poeta “per mezzo delleimmagini esprimenti il naturale e della rappresentazion viva esomigliante della vera esistenza e natura delle cose immaginate,commuove e agita la fantasia nel modo che fanno gli oggetti reali,e produce dentro di noi gli effetti medesimi che si destano dai verisuccessi”, perché “gli affetti son tratti dietro la fantasia in unmedesimo corso e s’aggirano al pari dell’immaginazione, alzan-dosi e inchinandosi secondo il moto e quiete di essa, siccome l’on-de per l’impeto o posa dei venti” 23. La similitudine, che qui siriferisce ancora alla dimensione mobile dei flutti simbolo dellepassioni, si precisa meglio nelle sezioni del libro dedicate alla liri-ca e alla tragedia, arricchendosi di nuovi elementi. Al termine delcapitolo XIV l’elogio di Pindaro appare tutto costruito sull’impie-go della metafora nautica, che coniuga il topos dantesco della“navicella dell’ingegno” all’immagine fiduciosa del nocchieroimpegnato a mostrare la sua perizia tra i flutti:

Sopra ogn’altro Pindaro scioglie con felice augurio lanave dal porto, e spandendo le vele ad ogni vento varcaun mare di nuove ed inaspettate fantasie, per entro lequali s’aggira con tanta fiducia, che talora, quasi nelviaggio smarrito o nell’onde sommerso, s’invola affattoalla nostra veduta, ma sorto in un tratto dalle voragini,ripiglia il timone e salvo si riconduce maravigliosamen-te alle sponde 24.

Tra tutti, è però il passo sulla tragedia a fornire i riscontri piùsignificativi. Dopo aver ricordato con Aristotele che la tragediacomporta la rappresentazione nobile e commossa di un “negozia-to politico” animato da “personaggi sublimi”, la metafora nauti-ca viene assunta dal Gravina per illuminare il percorso stesso del-l’azione drammatica nelle sue fasi successive, fino alla catastrofefinale:

ogni affare s’incammina con aura di speranza, poichénon ci è con chi con venti contrari spinga la nave. Nelcorso poi dell’operazione s’urta negli scogli che s’incon-trano, e si commove la tempesta delle contradizioni,eccitate dagli opposti umori delle persone, con le qualisi tratta; e questa contradizione e disparità di pareri,fini ed affetti, ribollendo sempre più fervidamente nelcalore dell’azione, riduce le cose all’estremo. Con qualmoto e turbamento scoppia fuori quanto di bene o di

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male stava sepolto ed ignoto alle persone operanti; lequali, dopo la notizia di esso, o fermano il passo oritrattano quanto sopra l’ignoranza del medesimo erafondato o stabilito. Sicché imitandosi col finto il verodei fatti umani avviluppati, c’incontriamo nel punto deiprecetti. E perché i consigli dei principi si volgonointorno alle gran moli, e nei gran personaggi s’avanza-no al pari della grandezza dell’imprese le passioni, edalle gran passioni sono eccitati gran moti, e dai granmoti perlopiù nascono eventi strani e lugubri, perciòsuccedono nelle tragedie frequentemente le morti, es’eccita da loro negli animi compassione e spavento,che sono compagni dei casi acerbi e strepitosi 25.

Tenendo a mente la rivalutazione delle passioni sostenuta conforza dal Muratori e la fisionomia della tragedia moderna delGravina, che recupera la metafora nautica all’interno della finzio-ne tragica, si può ora venire al Metastasio, che coniuga l’indaginecartesiana sulla natura degli affetti avviata a fine Seicentodall’Accademia di Medinacoeli con la visione illuministica, arri-vando a teorizzare una “poetica dell’immaginazione riconciliatada cui è tolto lo squilibrio del negativo” 26, nella quale la virtùappare come moderazione e autoregolazione dei desideri e degliistinti. Come è stato osservato 27, il primo tentativo drammaticodel Metastasio, il Giustino (cominciato nel ’12 e terminato nel’16), mostra la convinta adesione del giovane autore alle tesi diGregorio Caloprese riguardo alla necessità di un’esistenza “rego-lata secondo le leggi della natura e della ragione” 28, e alla conce-zione della gloria come correttivo dell’amor proprio che esalta l’e-roe ma sacrifica l’uomo, elaborata dai filosofi di Medinacoeliattraverso il modello etico del poema tassiano, che troverà allafine la sua espressione più compiuta nell’Attilio Regolo 29.

Nella lettera sopra l’impianto psicologico del Demofoonte, cheaffronta il problema del mutamento e della “mischianza” 30 dellepassioni in rapporto alla struttura del dramma e alla coerenzainterna della storia, il Metastasio scrive infatti al Bettinelli:

Il mio Timante è un giovane valoroso, soggetto agl’im-peti delle passioni, ma provveduto dalla natura di unottimo raziocinio e fornito dalla educazione delle mas-sime le più lodevoli in un suo pari. Quando è assalito daalcuna passione è impetuoso, violento, inconsiderato;quando ha tempo di riflettere, o che alcun oggetto pre-

III. La metafora nautica di Metastasio 67

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

sente gli ricordi i suoi doveri, è giusto, moderato eragionevole. E in tutto il corso del dramma si vede sem-pre in esso questo contrasto o vicenda delle operazionidella mente e di quelle del cuore, degl’impeti e dellaragione. Così fa Torquato Tasso del suo Rinaldo: quan-do la passione lo trasporta, dice di Goffredo: Venga egli,o mandi, io terrò fermo il piede / Giudici fian tra noi lasorte e l’armi / Fera tragedia ei vuol che s’appresenti/Perlor diporto alle nemiche genti. Quando poi a sangue fred-do ha tempo di riflettere e di ragionare, dice al medesi-mo Goffredo: E s’io n’offesi te, ben disconforto / Ne sen-tii poscia, e penitenza al core. / Or vengo a’ tuoi richiami,ed ogni emenda/Son pronto a far che grato a te mirenda 31.

L’attenzione rivolta alla psicologia del testo tassiano, che illu-mina dall’interno i conflitti e i tormenti dei personaggi seguendo-ne le variazioni inquiete dell’animo, deriva anche dall’insegna-mento della Lettura sopra la Concione di Marfisa a Carlo Magno,dove il Caloprese aveva messo a confronto l’eloquenza dell’eroinadell’Ariosto e quella patetica di Armida, integrando gli strumentidell’etica aristotelica con i suggerimenti moderni della prospetti-va cartesiana. Ancora negli anni Settanta, del resto, il Metastasioricorderà più volte nella corrispondenza l’importanza decisivadella formazione napoletana sui testi prediletti del maestro, nonsolo il De Homine della tradizione investigante, ma soprattutto lePassions de l’âme rilette nell’ottica morale e civile dell’AccademiaPalatina, che insegnava come “l’arte di tutte le arti”, la scienzacivile da cui discende ogni forma di conoscenza, derivasse natu-ralmente dall’“arte di conoscere la natura ed inclinazione degliuomini” 32. Ma già prima, nella lettera al fratello del 31 ottobre1963, il convincimento che “il viver in società sia il maggiore de’nostri bisogni” si accompagna in maniera significativa al rifiutoradicale del “bellum omnium contra homnes” di Hobbes cheaveva costituito il bersaglio politico delle Lezioni sull’Originedegl’Imperij, anticipando quasi le conclusioni dell’Estratto dell’ar-te poetica di Aristotele secondo cui “l’obbligo del poeta (comebuon cittadino) è il valersi de’ suoi talenti a vantaggio dellasocietà, della quale ei fa parte, insinuando, per la via del diletto,l’amore della virtù, tanto alla pubblica felicità necessario” 33.

Proprio nel Giustino – la tragedia giovanile che ha per ogget-to un tema caro a Medinacoeli – la formazione del principe, o,

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per dirla con il Doria, del “capitano filosofo” 34, compare per laprima volta la metafora nautica, preceduta dal mito negativodella navigazione come fine dell’età dell’oro rappresentata dall’e-vocazione nostalgica del mondo pastorale. A sostegno di un toposche appartiene ancora all’immaginario medrommatico secente-sco 35, e che secondo Corbin esprime “un codice d’apprezzamen-to basato sul modello dell’Eden o dell’Arcadia” 36, troviamo non acaso i riferimenti stoici al “porto fedele” e “sicuro” dove il noc-chiero piega stanco “le lacere vele” dopo essere scampato al“furor dell’irata procella” 37. Se è vero che il naufrago e il pastoreconfigurano opposte metafore del movimento dell’esistenza 38,qui il Metastasio sembra risolvere il confronto tutto a favore dellaseconda. Fin dall’inizio, anzi, il recesso semplice e quieto delmondo bucolico si oppone tradizionalmente al regno infido etempestoso delle acque. In chiusura del quinto atto, tuttavia,quando il dramma si è già avviato felicemente alla conclusioneche riporta ordine e serenità nel cosmo turbato dagli eventi, ilrapporto tra le due figure subisce un mutamento significativo,che coincide con il diverso ritratto psicologico del protagonista.Ma vediamo prima l’elogio dell’eroe giunto al termine del suo per-corso di formazione, che arriva dopo il superamento della “pas-sata orribile procella” la cui rievocazione traumatica, affidata allamemoria del protagonista, sembra degna della pittura di naufra-gio cara a Diderot:

Già dilungati dalle armate naviTanto eravam, che la metà dell’opraDirsi potea: ma crebbe a nostro dannoA poco a poco di ferocia e forzaColl’infido Scirocco Africo e Noto,Che, traendo con loro un denso veloDi folte nubi, ricopriano il sole;Talché l’incerto ed impedito lumeAlla vista rendea dubbio ogni oggetto.Il rio soffiar de’ scatenati venti;Il nero orror del procelloso mare,Sempre distinto per le bianche spumeChe rompendosi il flutto al ciel mandava:De’ spessi lampi il sanguinoso lumeChe squarciando alle nubi il denso senoO in profonde voragini diviseMostrava l’onde o cumulate in monti;Lo stridor delle sarte e i mesti gridi

III. La metafora nautica di Metastasio 69

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

De’ timidi nocchieri, il lor pallore;L’ardite vele in mille pezzi scisse,Che o ricopriano il mare, o senza leggeInutili pendean de’ lor legami,Gioco infelice de’ crudeli venti;L’arbore infranto e le divulse antenne;E il pino ancor, che fra gli smossi legniTutti pingeano avanti al pensier mioOh quante volte io per dolor mi volsiAl luogo onde partimmo, e in van pentitoColl’istessa mia man m’offesi il volto!Oh quante volte alle feroci scosseDell’onde altiere io mi credei sommerso!Così senza speranza e senza aitaTanto n’andò lo sconsigliato legno,Che in luogo giunse ond’appariano in parteDi Durazzo le rocche e l’alte mura;Sicché qualche speranza in noi rinacque:Ma fu cagion di maggior doglia e pena;Perché il furor dell’impaziente NotoE l’onda che da poppa alzava il legnoSospinsero la prora in cotal guisaChe ruppe l’onda e profondossi in mare,Lasciando noi senza sostegno a’ flutti.Chi potria dire il miserabil suonoDelle interrotte e moribonde vociChe chiedevano in vano al Cielo aita?Io nol so dir, ché ’l mio timor mi tolseL’uso della favella e della mente;Né so come qui venni, e chi ridusseIn Durazzo il mio corpo, in me la vita 39

Le parole di Giustiniano, al termine della rievocazione turbatadella tempesta e della sua funzione allegorica, chiariscono unavolta per tutte che le alterne vicende dell’eroe nel suo itinerariomorale e politico hanno il valore di un “esempio” universale,“dinanzi al mondo”, di come “in mezzo a’ gravi affanni / non deel’umana mente / alle risoluzioni esser veloce / perché non sempreil duol che i cori opprime / delle cose si fa giusta misura” 40: unatrascrizione quasi letterale, in un dramma che rifiuta la catastro-fe e si impegna invece sul versante produttivo della pedagogiapolitica, del precetto contenuto nella Quarta lezione sull’originedegl’Imperj, dove il Caloprese aveva osservato che “i giudicij chesi fanno quando siamo commossi da qualche passione sono tuttialterati e lontani dalla verità”, per cui occorre che “essendo noi

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commossi da qualche passione, sospendiamo il giudizio sinché,essendo terminata quella commozione, possiam giudicare dellecose come sono in se stesse, e non già della maniera <in> che civengono rappresentate dalle passioni” 41. E difatti la secondaparte del discorso di Giustiniano, tradotto nei termini più sugge-stivi e concreti della metafora nautica, suggerisce apertamentel’encomio del “previdente nocchier” che “giammai non toglie ladestra dal timon e l’occhio dal cielo” 42, consapevole che “l’istessaforza che retta da ragion conduce in porto, spogliata da consiglici offre inermi agl’inganni ed ai perigli”. Prendendo le distanzedal mito bucolico dell’esistenza appartata e oscura, a cui all’iniziosembra appartenere simbolicamente anche la figura di Giustino,l’allievo del Caloprese sembra così concludere il “dramma dellapuerizia” prospettando con fiducia l’intervento decisivo dell’agireumano attraverso quell’unione di prudentia e previdentia che erauna delle costanti della riflessione morale dell’AccademiaPalatina attraverso la rilettura congiunta di Descartes edell’Aristotele pratico.

Dopo l’esperimento del Giustino, che fra tradizione e innova-zione comincia a delineare il ritratto del Capitano, o del “nocchie-ro” nell’ottica civile di Medinacoeli, l’impiego della metafora nau-tica diviene un topos poetico del melodramma metastasiano, sulquale è forse utile soffermarsi perché la sua presenza insistitasembra completare, sul versante antropologico, altre segnalazio-ni critiche a proposito della fenomenologia marina e dei terminiappartenenti alla sua area semantica 43. Intanto non può essereun caso che l’impiego della metafora nautica ricorra prevalente-mente nelle arie, segmenti autonomi di versi brevi (settenari eottonari) che nella struttura del melodramma configurano situa-zioni emotive di particolare tensione e accumulo patetico, comeaveva già notato Voltaire a proposito della “strophe touchante” 44

di Arbace nell’Artaserse, che allude alla solitudine dell’eroe inbalìa di “un mare crudele”, privo dell’ausilio dell’arte e della guidadella ragione.

Proprio alla struttura interna delle arie, sempre correlate aicontenuti della poesia e concepite come una sorta di approfondi-mento emotivo della condizione psicologica dei personaggi neirecitativi che le precedono 45, il Metastasio dedica particolareattenzione, rifiutando da subito i pezzi “di bravura” che attraver-so l’artificio della musica seducono l’immaginazione con piaceri

III. La metafora nautica di Metastasio 71

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

“corporei” di “corta durata” senza curarsi “né di caratteri, né diaffetti, né di senso, né di ragione” e il virtuosismo sterile di chi,“ostentando solo le sue proprie ricchezze col ministero di qualchegorga imitatrice de’ violini e degli usignuoli”, provoca nello spet-tatore quel diletto superficiale e fuggevole che “nasce dalla solamaraviglia” senza “far impressione su la mente e sul cuore” 46. Daquesto punto di vista, l’impiego della metafora nelle arie va vistocome il tentativo di coniugare ragione e sensibilità nell’ottica diun teatro cartesiano in cui il pathos mediato dalla musica coinci-de sempre con il percorso interiore che il personaggio compiedentro di sé 47, mentre la voce dell’autore si sovrappone alla suanei momenti di smarrimento o di incertezza per commentare lavicenda e proporne un’interpretazione sicura alla luce di un siste-ma filosofico oramai codificato, nel quale “la frequenza delleimmagini, le figure e le comparazioni” sono “la suppellettile e lalingua delle passioni” 48.

Se si vuole tentare un esame ravvicinato, l’enunciazione espli-cita della metafora dell’esistenza che include il confronto ineludi-bile tra la ragione e gli affetti avviene con l’Olimpiade, nell’ariameditativa che segue il monologo di Aminta:

Siam navi all’onde algentiLasciate in abbandono.Impetuosi ventiI nostri affetti sono:Ogni diletto è scoglio:Tutta la vita è mar.Ben, qual nocchiero, in noiVeglia ragion; ma poiPur dall’ondoso orgoglioSi lascia trasportar 49.

Rispetto alla presenza discreta e dissimulata nelle prime opere,la metafora nautica raggiunge però la sua applicazione più vastae coerente nei melodrammi degli anni Trenta. Nella Didoneabbandonata, per esempio, che con una sorta di antitesi rispettoal Giustino si chiude con l’immagine catartica della tempestadopo il dispiegamento delle passioni funeste dell’eroina, il contra-sto tra la gloria e l’amore, tra le inclinazioni personali e la logicadel dovere, che secondo il modello tassiano riproposto daMedinacoeli prepara il viaggio reale di Enea verso l’ignoto e il

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destino di una nazione, concentra su di sé le attese del lettore,confinando la metafora al monologo secondario di Araspe nellascena ottava dell’atto primo, forse proprio perché il conflitto tra-gico degli affetti non ha bisogno, nella sua chiarezza rivelatrice,di altro commento. Fino al Siroe, del resto, la figura del nocchie-ro sul modello del Giustino si accompagna a quella altrettantonota del pastore che rinvia al mito negativo della navigazione diorigine classica. Nel Catone in Utica, per esempio, il monito diCesare al nemico che non si piega alle offerte di pace sfrutta iltopos piuttosto incongruo, se associato al difensore stoico dellalibertà repubblicana, del mercante avido pronto a sfidare la natu-ra, che quando “il vento abbonda” e “il mar s’innalza e freme”affonda con le navi insieme a “tutta la ricca speme” 50. Un richia-mo alla prudenza e alla misura confermato nel monologo inizia-le dell’Ezio, dove l’ambiguo Massimo proclama la necessità di sfi-dare la fortuna da parte del nocchiero irrisoluto che, paventando“ogni scoglio ogni tempesta”, rischia di rimanere “un mendicopescator” 51; anche se qui l’accenno alla divinità di origine rina-scimentale contrasta evidentemente con l’esperienza e la virtùdefinite già dal Caloprese come gli strumenti adeguati dell’uomodi governo, delineando una figura di opposizione che ritorna piùtardi nell’Estratto dell’arte poetica, quando sulla scorta del Gorgiaplatonico il Metastasio distinguerà tra la vita umana trascorsa“dietro la scorta dell’arte” fornita dall’esperienza e quella domina-ta dal “capriccio della fortuna” 52.

È però il melodramma del ’26 dedicato all’eroe persiano aintrodurre un elemento di rilievo nella configurazione metafori-ca, insistendo (la battuta è di Medarse alla fine del primo atto)sulla nozione di esperienza che commisura la statura morale delcapitano alla forza del mare e introduce subito dopo, nella strut-tura meditativa dell’aria, la necessità di una valutazione a poste-riori degli eventi, una volta cessato l’impeto degli affetti:

Fra l’orror della tempestaChe alle stelle il volto imbruna,Qualche raggio di fortunaGià comincia a scintillar.Dopo sorte sì funestaSarà placida quest’alma,E godrà, tornata in calma,I perigli rammentar 53.

III. La metafora nautica di Metastasio 73

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

È qualcosa di più della differenza, già chiarita nel Giustino, trala percezione oscura dei moti dell’animo e la prospettiva lucida emeditata della ragione. In questi versi si affaccia il richiamo alle“passioni artificiali” di Dubos e del Gravina, nelle quali opera lafinzione di una scrittura che consente di riprodurre a distanza ilmovimento degli affetti privati della loro componente violenta eperturbante 54. Proprio nelle Réflexions critiques sur la poésie etsur la peinture, Dubos aveva parlato della funzione della scritturache trasforma in arte il contenuto della passione creando degliobjets-talisman: “une coquille, un fleur, une médaille”, in cui “letemps n’a laissé que de phantômes de lettres ou de figures” 55,attraverso i quali risuona per via discreta e allusiva il pathos del-l’esistenza. Un chiarimento in questa direzione viene anche dalDemetrio, quando il fedele Fenicio, al termine del secondo atto, siaugura di ritrovare il porto dopo l’esperienza del “mare turbato”e del “ciel funesto e nero”, e, “venuti i dì felici”, immagina di dise-gnare “per giuoco in su l’arene”, nella forma distaccata dellamemoria, i “perigli” trascorsi e superati 56. Al pari della “coquille”di Dubos, anche gli arabeschi leggeri tracciati sull’arena daisopravvissuti dopo il naufragio o il confronto periglioso con leonde obbediscono al medesimo impulso di esorcizzare il negati-vo non rinunciando al linguaggio degli affetti che risuona anco-ra, ingentilito, nel ricordo dell’esperienza; perché, come avevainsegnato anche il Gravina, il “diletto” deriva da un moto sensibi-le dell’animo quando “all’affetto non è congiunta l’opinion deldanno, che distrae le parti ed accresce troppo i punti del dolo-re” 57.

Dopo la precisazione importante del Siroe, che come si è vistoimplica anche un discorso di poetica, e la conferma, nell’Ezio,dove la natura del pilota si misura sulla “prova di coraggio” di“incontrar l’onde funeste/navigar fra le tempeste/e non perdere ilsentier” 58, il superamento del mito negativo della navigazione edel contrasto originario tra l’immagine arcadica del pastore e lafigura illuministica del nocchiero sembra già ben avviato nellaSemiramide. Nella scena centrale del secondo atto il ridestarsidelle speranze d’amore della protagonista accompagnata da“mille teneri affetti” è paragonata senza distinzioni allo stato d’a-nimo del pastore che quando “torna aprile/non rammenta i gior-ni algenti” e del nocchiero che “placato il vento/più non teme o siscolora;/ma contento in su la prora/va cantando in faccia al

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mare” 59. Se qui la metafora nautica appare ancora incerta nellesue valenze semantiche, come mostra il monologo di Sibari nellascena terza, che assimila la “prora sciolta” della nave alla sceltadelittuosa e gli inutili rimorsi al “dubitare” tardivo del nocchieroche lascia l’approdo sicuro senza aver ponderato le incognite diun viaggio nei recessi più oscuri del cuore, la tramadell’Alessandro nell’Indie chiarisce che il giudizio negativo riguar-da oramai solo la navigazione priva di esperienza e di strumentiadeguati, eliminando del tutto la nostalgia del recesso immobiledella riva:

Senza procelle ancoraSi perde quel nocchiero,Che lento in su la proraPassa dormendo il dì.Sognava il suo pensieroForse le amiche spondeMa si trovò fra l’ondeAllor che i lumi aprì 60.

Come confermerà di lì a poco l’aria complementare dellaClemenza di Tito, anche quando “l’onda è tranquilla e pura”, esembra “lontano ogni cimento”, il “buon guerrier non s’assicu-ra,/Non si fida il buon nocchier”, ma “in pace, in calmaancora,/l’armi adatta, i remi appresta/di battaglia o ditempesta/qualche assalto a sostener” 61. Pur in presenza del lessi-co stoico e cristiano del “combattimento” interiore, basta l’accen-no a due verbi connotati in senso cartesiano come “adattare” e“apprestare” a far trasparire il senso esatto dell’operazione delMetastasio, che traduce in poesia l’invito alla maîtrise e al dressa-ge formulato più volte dal Caloprese nelle Lezioni sull’originedegl’Imperj, quando aveva scritto che la fama perenne si conqui-sta con l’ausilio di “quei lumi che sono stati suggeriti dall’espe-rienza delle cose e da una ragione regolata dall’onestà e dallavirtù” 62.

Proprio il corredo difensivo di virtù, gloria e ragione evocato inmaniera esplicita nell’aria del Demetrio rende infatti il “varco”della “procella infida” “sicuro e franco” 63, e solamente l’esperien-za individuale di un viaggio periglioso ma necessario può confer-mare l’abilità e la perizia del nocchiero a cui si richiede la “provadi coraggio” di “incontrar l’onde funeste” senza cedere all’urto

III. La metafora nautica di Metastasio 75

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

degli scogli o alla forza dei flutti, a differenza di colui che affidaal mare “la temeraria prora” essendo preda della passione ragge-lante del timore 64. Come poi il controllo quotidiano esercitatosulle passioni riesca a tradursi in forza e volontà attiva nei con-fronti dell’esterno lo illustrano prima l’aria del Temistocle:

Al furor d’avversa sortePiù non palpita e non temeChi s’avvezza, allor che freme,Il suo volto a sostener.Scuola son d’un’alma forteL’ire sue le più funeste,Come i nembi e le tempesteSon la scuola del nocchier 65.

e in seguito, con maggiore decisione, la gnomica in versidell’Eroe cinese:

Quando il mar biancheggia e freme,Quando il ciel lampeggia e tuona,Il nocchier che s’abbandonaVa sicuro a naufragar.Tutte l’onde son funesteA chi manca ardire e speme;E si vincono le tempeste col saperle tollerar 66.

Una conclusione, quest’ultima, non molto diversa dalla pro-spettiva diffusa negli stessi anni dall’Encyclopédie, che delineal’immagine dell’uomo “environné d’ecueils, poussé par millevents contraires”, ma destinato a proseguire felicemente il suoviaggio con l’aiuto di “une raison qui modère les passions, unelumière qui l’éclaire, des règles qui le conduisent […], une pru-dence dont il est capable” 67. Prudenza e fortezza, non disgiunteda un’audacia confortata dall’esperienza, sembrano dunque esse-re le doti del “buon nocchiero”, il quale “pria di lasciar la sponda”si accerta “se calma è l’onda/se chiaro è il dì” 68, ma una voltaintrapresa la navigazione, anche se “tempeste il mar minaccia” e“l’aria di nembi è piena”, può mostrare l’“alma serena”, nella con-vinzione di perseguire quella “felicità” non illusoria che derivadalla virtù messa alla prova 69.

A partire dall’Artaserse, accanto alla figura del nocchiero “saga-ce” esperto nel dressage degli affetti che ritorna nel profilo sicuro

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l’Achille in Sciro, a cui basta “un lampo solo” tra le “ombre” e “giàritrova il polo/già riconosce il mar” 70, la partitura psicologica delmelodramma si arricchisce del profilo opposto e complementaredel naufrago privo degli strumenti necessari alla navigazione eimmerso nel mare infido dei propri tumulti interiori. Non è senzasignificato, da questo punto di vista, che l’aria successiva almonologo desolato di Arbace nell’ultima scena del primo atto rie-cheggi in maniera evidente il sonetto CLXXXIX del Canzonierepetrarchesco (Passa la nave mia colma d’oblio):

Vo solcando un mar crudeleSenza vele e senza sarte:Freme l’onda, il ciel s’imbruna,E il voler della fortunaSon costretto a seguitar.Infelice! In questo statoSon da tutti abbandonato;Meco sola è l’innocenzaChe mi porta a naufragar 71.

È la situazione emotiva originata dalla perdita della passionevitale della speranza, delineata nell’aria del monologo di Amintanell’Olimpiade:

Son qual per mare ignotoNaufrago passeggiero,Già con la morte a nuotoRidotto a contrastar.Ora un sostegno ed oraPerde una stella; al finePerde la speme ancoraE s’abbandona al mar 72.

Qui l’atto rassegnato dell’abbandono appare come il corrispet-tivo patetico della salda disposizione morale al combattimentonella Clemenza di Tito, come conferma anche il monologo diNearco nell’Achille in Sciro:

Cedo alla sorteGli allori estremi;Non son più fortePer contrastar.Nemico è il vento,

III. La metafora nautica di Metastasio 77

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

L’onda è infedele;Non ho più remi,Non ho più vele;E a suo talentoMi porta il mar 73.

Diverso è il caso di Timante nel Demofoonte, il cui cedimentointimo si configura non come un naufragio vero e proprio, quan-to piuttosto come un arresto momentaneo delle risorse psicologi-che dinanzi agli ostacoli imprevisti connessi all’identità di Dircea,anche se il personaggio, che condivide le variazioni psicologichedegli eroi tassiani senza assumerne fino in fondo il destino tragi-co, si salva in realtà non grazie alla propria virtù, quanto per ilmeccanismo provvidenziale di una doppia agnizione che renden-do la dignità di principe a Cherinto lo sottrae agli obblighi dellacondizione regale e alla logica cruenta del sacrificio conseguenteall’infrazione delle leggi umane e divine:

Sperai vicino il lido,Credei calmato il vento;Ma trasportar mi sentoFra le tempeste ancor;E da uno scoglio infidoMentre salvar mi voglio,Urto in un altro scoglioDel primo assai peggior 74.

Nelle forme pacate dell’insegnamento cartesiano della maîtrisedegli affetti condivisa anche dall’Encyclopédie, nella cui vasta cor-nice interpretativa si incontrano e si mescolano senza contrastil’ideologia civile di Medinacoeli e la visione poetica del Gravina edi Dubos, il Metastasio sembra dunque contribuire a suo modo almutamento del paradigma insito nella metafora stoica della navi-gatio vitae, che all’elogio stoico della riva e del porto sostituisce ilsimbolo agonistico del confronto con il mare aperto. Nello stessotempo, come indica anche il giudizio riduttivo sul mito degliArgonauti nel monologo del Temistocle, dove la “speme ardita”ma fraudolenta di Sebaste è paragonata all’audacia senza limitidi chi “per primo il mar solcò”, aprendo dinanzi agli occhi stupe-fatti dell’umanità nuovi lidi e tesori ignoti 75, per l’allievo delCaloprese il viaggio del nocchiero negli spazi inesplorati dell’ani-mo rimane correlato al simbolo complementare del porto come

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approdo ultimo di una ricerca interiore che dopo il confronto conla violenza degli affetti mira alla ricomposizione “di un fragilemondo emotivo in cui la ragione può venire a patti con il senti-mento” 76, e rovesciando le premesse tassiane confida nell’armo-nia di un’esistenza dove al “notturno orror” segue la dolcezzaconsolatrice del porto e del “raggio precursor/che annuncia ilgiorno” 77. Sono le parole rivelatrici del Romolo ed Ersilia, rappre-sentato nel 1765 e dunque quasi contemporaneo alla celebrazio-ne estetica e morale del naufragio da parte di Diderot 78, che rileg-ge alla luce livida del sublime di Burke il motivo lucreziano delsuave mari magno abbandonandosi al potere subitaneo e violen-to della compassione e del terrore sulla macchina fragile delcorpo.

Una conclusione, quest’ultima, certo non condivisa dall’autoredell’ Estratto dell’Arte poetica, manifesto tardivo ma convinto diuna poetica che mentre ribadisce la ferma condanna della “super-ba indolenza” della “setta insensibile” 79 degli Stoici e la necessitàdelle passioni come “universali motrici dell’uomo” 80 respinge nelcontempo l’idea moderna della catarsi come “terribile e compas-sionevole spettacolo de’ fisici altrui patimenti” 81, auspicando ilritorno alle “idee luminose” 82 di Corneille e al contrasto inesau-ribile tra le operazioni della mente e quelle del cuore. Proprionell’Estratto la metafora nautica viene impiegata di nuovo perriproporre l’invito cartesiano alla maîtrise degli affetti restituitialla loro molteplicità e variata mescolanza, contro il potere asso-luto delle passioni dominanti del terrore e della compassione cheinsidiano lo spazio intellettuale della finzione poetica. Scrive ilMetastasio:

Son pur le umane passioni i necessari venti co’ quali sinaviga per questo mar della vita; e perché sian prosperii viaggi non convien già proporsi l’arte impossibile diestinguerli; ma quella bensì d’utilmente valersene,restringendo ed allargando le vele ora a questo ora aquello, a misura della loro giovevole o dannosa efficacianel condurci al dritto cammmino o nel deviarcene. Orgli affetti nostri non si restringono al solo terrore ed allasola compassione: l’ammirazione, la gloria, l’avversio-ne, l’amicizia, l’amore, la gelosia, l’invidia, l’emulazio-ne, l’avida ambizione degli acquisti, l’ansioso timordelle perdite, e mille, e mille altri che si compongonodal concorso e dalla mistura di questi, son pure anch’es-

III. La metafora nautica di Metastasio 79

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

si fra quei venti che ci spingono a operare e che convie-ne imparare a reggere, se si vuol procurare la nostraprivata e pubblica tranquillità 83.

Dopo la tragedia aristotelica del Gravina, che nella “grandezzadell’imprese e delle passioni”, negli “eventi strani e lugubri” diret-ti a eccitare nello spettatore “compassione e spavento” non esclu-deva l’ipotesi estrema del naufragio nel “ribollire dell’azione” 84,la metafora nautica del Metastasio chiude così il cerchio dell’in-terpretazione sulle ragioni illuministiche del melodramma.

1 E.R. Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, tr. it.Letteratura europea e Medioevo latino, a cura di R. Antonelli, Firenze, LaNuova Italia, 1992, p. 432.

2 Cfr. ancora E.R. Curtius, La nave degli Argonauti, in Id., Letteraturadella letteratura, a cura di L. Ritter Santini, Bologna, Il Mulino, 1984, pp.301-325. Sul sublime dantesco correlato alla hybris di Ulisse cfr. P. Boitani,The Tragic and the Sublime in Medieval Literature, tr. it. Il sublime e il tragiconella letteratura medievale, Bologna, Il Mulino, 1992, cap. IX. Sul tema speci-fico si rimanda a due convegni usciti a poca distanza l’uno dall’altro: Naufragi,a cura di L. Sannia Nowé e M. Virdis, Roma, Bulzoni, 1993 e Naufragi. Storiadi un’avventurosa metafora, a cura di M. Di Maio, Milano, Guerini &Associati, 1994.

3 Sulla visione stoica cfr. J. Pigeaud, La maladie de l’âme. Etude sur larelation de l’âme et du corps dans la tradition médico-philosophique antique,Paris, Les Belles Lettres, 1989.

4 Oltre che il classico di H. Blumenberg, Schiffbruch mit Zuschauer.Paradigma einer Daseinmetaphor, tr. it. Naufragio con spettatore. Paradigmadi una metafora dell’esistenza, Bologna, Il Mulino, 1985, cfr. su questo puntoM. Delon, Naufrages vus de loin: les développements narratifs d’un thème lucré-tien, in “Rivista di Letterature Moderne e Comparate”, XLI (1988), pp. 91-121; e infine C. Zelle, “Erhabene Weltuntergänge im Kleinen ÜberSchiffbrüche und Schlachten vor Zuschauer. Bemerkungen zur Krise derAufklärungsästhetik im Anschluss an Lukrez ’De rerum natura”, in Il gesto, ilbello, il sublime. Arte e letteratura in Germania tra ’700 e ’800, a cura di E.Bonfatti, Roma, Artemide, 1997, pp. 77-112.

5 Cfr. A. Corbin, Le territoire du vide, tr. it. L’invenzione del mare.L’Occidente e il fascino della spiaggia 1750-1840, Venezia, Marsilio, 1990, cap.II.

6 Cfr. H. Blumenberg, Paradigmen zu einer Metaphorologie, tr. it.Paradigmi per una metaforologia, Bologna, Il Mulino, 1960, pp. 73-85 (p. 78).

7 B. Bovier de Fontenelle, Dialogues des Morts, La Haye, 1728, t. I, p.51.

8 Cfr. I.O. Wade, A favorite metaphor of Voltaire, in “The RomanicReview”, XXVI (1964), pp. 35-39.

9 Voltaire, Zadig ou la Destinée, éd. annotée par F. Deloffre, Paris,Gallimard, 1992, pp. 147.

10 Ibid., p. 148.

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11 A. Pope, L’Uomo. Saggi di filosofia morale volgarizzati dal conte GiuseppeMaria Ferrero di Lavriano, Torino, Nella Stamperia Reale, 1763, p. 23.

12 Cfr. la lettera a Giuseppe Aurelio Morano (11 gennaio 1770), inP. Metastasio, Tutte le Opere, a cura di B. Brunelli, Milano, Mondadori, 1954,t. IV, p. 1831. Ma al testo di Pope il Metastasio allude anche nella lettera aAntonio Filippo Adami del 21 febbraio 1757 (t. III, p. 1163).

13 Pope, L’Uomo, cit., p. 57.14 Ibid., pp. 57-58.15 U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, in Id., Opere, ed. diretta da F.

Gavazzeni, Torino, Einaudi-Gallimard, 1995, t. II, p. 25.16 L.A. Muratori, La filosofia morale esposta e proposta ai giovani, Venezia,

Nella Stamperia di Stefano Orlandini, 1749, p. 223.17 Ibid., p. 224.18 Ibid., pp. 224-225.19 Ibid., p. 104.20 Cfr. L.A. Muratori, Intorno al metodo seguito ne’ suoi studi. Lettera all’il-

lustrissimo signore Giovan Artico conte di Porcìa, in Dal Muratori al Cesarotti.Opere di L.A. Muratori, a cura di G. Falco e F. Forti, Milano-Napoli,Ricciardi, t. I, p. 12.

21 Cfr. Curtius, Letteratura europea e Medioevo latino, cit., pp. 147-150.22 G. Gravina, Della ragion poetica. Della tragedia, in Id., Scritti critici e

teorici, a cura di A. Quondam, Bari, Laterza, 1973, p. 201.23 Ibid., p. 202.24 Ibid., p. 230.25 Ibid., p. 220.26 E. Raimondi, Il teatro allo specchio, in Id., Il concerto interrotto, Pisa,

Pacini Editore, 1979, p. 44.27 Cfr. G. Giarrizzo, “L’ideologia di Metastasio tra cartesianesimo e

Illuminismo”, in Atti del Convegno dell’Accademia Nazionale dei Lincei indettoin occasione del II centenario della morte di Metastasio, Roma, AccademiaNazionale dei Lincei, 1985, pp. 43-77.

28 Come scrive Caloprese, Dell’origine degl’Imperij (lezione seconda), cit.,p. 188.

29 Sul personaggio dell’eroe romano “d’una virtù consumata non menoper le massime che per la pratica, e già sicura alla prova di qualunque capric-cio della fortuna, rapido e scrupoloso osservatore così del giusto e dell’onestocome delle leggi e de’costumi”, “sensibile a tutte le passioni dell’umanità, masuperiore a ciascuna” cfr. la lettera a Adolfo Hasse (10 ottobre 1749), inMetastasio, Tutte le Opere, cit., t. III, pp. 428-429. Più in generale, sull’ideolo-gia politica dei drammi metastasiani cfr. A. Beniscelli, Felicità sognate. Il tea-tro di Metastasio, Genova, Il Melangolo, 2000.

30 Cfr. su questo punto P. Luciani, “Metastasio e la “mischianza” degliaffetti”, in Il Melodramma di Pietro Metastasio: la poesia la musica la messa inscena e l’opera italiana nel Settecento, a cura di E. Sala Di Felice e R. CairaLumetti, Roma, Aracne, 2001, pp. 3-20.

31 P. Metastasio, Lettera a Giuseppe Bettinelli (10 giugno 1747), in Tuttele Opere, cit., t. III, pp. 305, 306. Ma sulla Liberata cfr. anche la lettera alDiodati del 10 ottobre 1768, t. IV, pp. 665-668.

32 Caloprese, Dell’origine degl’Imperij (lezione quarta), cit., p. 203.33 P. Metastasio, Estratto dell’arte poetica d’Aristotile, a cura di E. Selmi,

Palermo, Novecento, 1998, p. 137.34 Sul tema dell’eroe in Metastasio, tra modello corneliano e suggestioni

III. La metafora nautica di Metastasio 81

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

aristoteliche si è soffermata anche M.G. Accorsi, “Etica Nicomachea” e“Poetica” nei primi drammi italiani di Metastasio, in “Filologia antica e moder-na”, 22 (2002), pp. 35-78.

35 Cfr. P. Fabbri, Il secolo cantante. Per una storia del libretto d’opera nelSeicento, Bologna, Il Mulino, 1990.

36 A. Corbin, L’invenzione del mare, cit., p. 50. Sul mito dell’età dell’orocfr. G. Costa, La leggenda dei secoli d’oro nella letteratura italiana, Bari,Laterza, 1972, pp. 157-170 e, sulla trasformazione del topos bucolico,Beniscelli, Felicità sognate. Il teatro di Metastasio, cit. (in particolare pp. 78-86).

37 P. Metastasio, Giustino, atto II, scena VI. Questa e le altre citazioni aseguire sono tratte da Metastasio, Tutte le Opere, cit., t. I-II.

38 Cfr. qui in particolare M. Fimiani, “Omnes et singulatim”, in Naufragi.Storia di un’avventurosa metafora, cit., pp. 139-150.

39 Metastasio, Giustino, cit., atto V, scena I.40 Ibid., atto V, scena ultima.41 Caloprese, Dell’origine degl’Imperij (lezione quarta), cit., p. 206.42 Metastasio, Giustino, cit., atto V, scena ultima.43 Cfr. C. Varese, “Tempo e struttura nel dramma metastasiano”, in

Metastasio, cit., p. 153, e le riflessioni parallele di D. Goldin, “Per una morfo-logia dell’aria metastasiana”, e E. Sala Di Felice, “Il desiderio della parola e ilpiacere delle lacrime nel melodramma metastasiano”, entrambe in Metastasioe il mondo musicale, a cura di M.T. Muraro, Firenze, Olschki, 1986, rispetti-vamente pp. 36-37 e pp. 39-97.

44 Cfr. Voltaire, Dissertation sur la tragédie ancienne et moderne premessaalla Sémiramis, in Id., Théatre de Voltaire, Paris, Firmin Didot, 1843, pp. 413-414.

45 Sulla “raffinatezza dell’opposizione fra recitativo e aria” ha scritto pagi-ne acute P.V. Mengaldo, La rima nei recitativi di Metastasio, ora in Id., Gliincanti della vita. Studi sui poeti italiani del Settecento, Padova, Esedra, 2003,pp. 33-51.

46 P. Metastasio, Lettera a Giovanni di Chastellux (15 luglio 1765), inTutte le opere, cit., t. IV, pp. 397-398.

47 Sul Musicae compendium di Descartes e le relazioni tra acustica e psi-cologia in Metastasio cfr. E. Sala Di Felice, Metastasio. Ideologia, drammatur-gia, spettacolo, Milano, Franco Angeli, 1983, pp. 57 sgg.

48 P. Metastasio, Lettera a Giuseppe Barbieri (30 agosto 1758), in Tutte leopere, cit., t. IV, p. 63.

49 Id., Olimpiade, atto II scena V.50 Id., Catone in Utica, atto II, scena V.51 Id., Ezio, atto I, scena V.52 Id., Estratto, cit., p. 69.53 Id., Siroe, atto I, scena XVII.54 Per l’influenza di Dubos cfr. Selmi, Introduzione all’Estratto dell’arte poe-

tica di Aristotele, cit., pp. XXXIV-XXXV e XLV-LXII.55 J.B. Dubos, Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, nouvelle

éd., À Dresde, chez Georges Conrad Walther, 1760, t. I, p. 28. 56 P. Metastasio, Demetrio, atto II, scena XIV.57 Gravina, Della ragion poetica, cit., p. 218.58 Metastasio, Ezio, cit., atto I, scena III.59 Id., Semiramide, atto II, scena IV.60 Id., Alessandro nell’Indie, atto II, scena IV.

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61 Id., La clemenza di Tito, atto II, scena IV.62 Caloprese, Dell’origine degl’Imperij (lezione prima), cit., p. 179.63 Metastasio, Demetrio, atto I, scena V.64 Ibid., atto II, scena X.65 P. Metastasio, Temistocle, atto I, scena III.66 Id., L’eroe cinese, atto II, scena IV.67 Art. Passions (De Jaucourt), in Encyclopédie, ou Dictionnaire Raisonné

des Arts et des Métiers, mis en ordre et publié par Diderot et D’Alembert,Stuttgart, Frommann Verlag, 1967 (rist. ed. Amsterdam, Rey Libraire, 1776-1780, p. 146).

68 P. Metastasio, Ipermestra, atto II, scena I.69 Id., Il trionfo di Clelia, atto I, scena VII.70 Id., Achille in Sciro, atto I, scena VI.71 Id., Artaserse, atto I, scena XV.72 Id., Olimpiade, atto III, scena V.73 Id., Achille in Sciro, atto III, scena VI.74 Id., Demofoonte, atto I, scena IV.75 Id., Temistocle, atto I, scena XIV.76 Raimondi, Il teatro allo specchio, cit., p. 41.77 P. Metastasio, Romolo ed Ersilia, atto III, scena I.78 Cfr. D. Diderot, Salon de 1767, in Id., Salon de 1767, Salon de 1769, éd

par E. Bukdahl, M. Delon, A. Lorenceau, Paris, Hermann, 1990, pp. 229-232. Su questo punto cfr. M. Delon, Joseph Vernet et Diderot dans la tempête,in “Recherches sur Diderot et l’Encyclopédie”, 15 (1993), pp. 31-39, in segui-to ristampato in traduzione italiana nel volume collettaneo Naufragi, cit., pp.175-183.

79 P. Metastasio, lettera a Giuseppe Matorelli (24 maggio 1770), in Id.,Tutte le Opere, cit., t. V, p. 15.

80 Id., Estratto, cit., p. 77.81 Ibid., p. 76.82 Metastasio, Lettera a Giuseppe Aurelio Morano, cit.83 Id., Estratto, cit., p. 78.84 Gravina, Della ragion poetica, cit., p. 220.

III. La metafora nautica di Metastasio 83

B

IV. LA GRADATIO PATETICA: BERTOLA E SULZER

Nella lettera dedicatoria che introduce il Sepolcro campestre, ilpercorso all’interno della poesia si configura, secondo un procedi-mento ripreso più volte nel Viaggio sul Reno 1, come una “passeg-giata” in una “picciola galleria” di “miniature campestri”, “ricopia-te appassionatamente” per offrire allo spettatore “un corso gra-duato di patetiche insinuazioni” 2. Per lo scrittore del Settecento,attento alle risonanze interiori del paesaggio, rinnovare il “vecchiocerimoniale d’Arcadia” 3 significa infatti in primo luogo sostituirealla semplice imitazione della natura colta nel suo insieme idealee armonico l’“artifizio dei contrasti” e la “disposizione degli affet-ti” 4, che prevede una sorta di climax generato dall’imprevisto edalla “sorpresa del patetico”, secondo il modello pittorico diPoussin. Ma ascoltiamo le parole precise del Bertola:

Mi ha somministrato l’idea del mio Sepolcro quel qua-dro di Pussino, dove questo grand’uomo superò se stes-so nell’artifizio de’ contrasti e nella sorpresa del pateti-co; dove essendosi raccolto quanto di vago e di amenopuò vantare una campagna, quanto di più ridente efestivo può scorgere fra i suoi abitatori; e d’una partepoi, a cui l’occhio non viene richiamato che tardi, silascia vedere un gentil sepolcretto con questa commoti-va iscrizione: nella felice Arcadia anch’io vivea 5.

Costruito su un exemplum di immediata comprensione e vastarisonanza proprio per l’attenzione ricorrente e quasi ossessivache la cultura del secolo aveva dedicato al topos evocativo deiBergers d’Arcadie, riletto non solamente alla luce delle due versio-ni originali del quadro ma anche delle variazioni proposte dalleincisioni settecentesche, il discorso del Bertola ricorda al lettoreesperto la teoria dei “contrastes dramatiques” di Diderot, unautore citato non a caso nel Ragionamento sulla poesia pastoraletra quelli che avevano accolto “gli idili di Gessner con più traspor-

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

to”, imitandoli “perfin su’ teatri” 6. Nelle descrizioni diverse cheDiderot aveva dato del dipinto di Poussin – probabilmente ispi-rate sia al precedente letterario delle Réflexions critiques sur lapoésie et sur la peinture di Dubos che alla gravure di Picart intito-lata Souvenirs de la mort au milieu des prospérités de la vie – iltopos della morte repentina che incrina la serenità dell’Arcadiaaveva finito per configurare il modello per eccellenza del paesag-gio come risonanza delle passioni.

Nel Salon del 1767, in cui l’esempio “campestre” di Poussinrappresenta un punto di riferimento essenziale del pateticomoderno almeno quanto i naufragi di Vernet e le rovine di HubertRobert sono un’eco del sublime, Diderot aveva scritto che perdipingere un paesaggio ideale occorreva travestire “tous les inci-dents de la nature” e “toutes les scènes champêtres” di forme“intéressantes et pathétiques”, come aveva fatto appunto “le tou-chant et sublime Poussin” quando “à côté d’une scène champêtreriante” aveva attirato l’attenzione dell’osservatore sul sepolcrocon la celebre iscrizione Et ego in Arcadia 7. Parco di spiegazioninel testo dei Salons, che a ogni modo difficilmente il Bertola pote-va conoscere, Diderot era ritornato sul quadro nelle Observationssur les Saisons de Saint-Lambert 8 e più diffusamente nel saggioDe la poésie dramatique, dove affermava che il valore essenzialedel dipinto consiste nel fare intravedere per via allusiva “l’espace,le temps, la vie, la mort, ou quelque autre idée grande et mélan-colique, jetée tout au travers des images de la gaieté”, concluden-do in maniera perentoria: “voilà les seuls contrastes qui me plai-sent” 9. In altre parole, Diderot aveva tentato di introdurre nellascena del paesaggio classico (i luoghi e le figure “convenienti”teorizzati già dal Lomazzo) un elemento dinamico costituito dal-l’allusività delle situazioni e dei personaggi che creano una cor-rente d’intesa emotiva tra l’autore e l’osservatore.

Se è poco plausibile che il Bertola potesse vantare una cono-scenza diretta dei testi in questione, è vero d’altro canto che,messa da parte la grazia estenuata e del Sepolcro campestre, l’ar-tificio del contrasto e della risonanza patetica sembra essere unostrumento pienamente acquisito nel Viaggio sul Reno, dove l’au-tore annota significativamente:

È notissimo di che mirabile effetto sieno i contrastinelle opere dell’arte ed hanno una magica forza negli

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negli spettacoli della natura. Ma in questi (e potrà forsedirsi lo stesso di quelle) v’hanno alcuni contrasti di unaspecie che non è fatta per tutti gli occhi. Nascono dasottili gradazioni, da fuggevoli corrispondenze, damasse, da colori direi quasi modesti, perocché nonesternano a bella prima tutte le rispettive lor differenze,tutte le lor furtive mistioni. A ben ravvisarle, a discer-nerle occorre aver l’occhio alquanto accostumato albello campestre 10.

Ma già nel Sepolcro campestre, riproponendo a modo suo leteorie divulgate negli anni Sessanta da Diderot, il Bertola mostradi comprendere a pieno il valore della gradatio patetica associataal contrasto drammatico, al punto da farne i caratteri fondamen-tali del nuovo genere della pittura di paesaggio, inserendosi nelvasto dibattito sull’idillio e la pastorale inaugurato all’inizio delsecolo dal notissimo Discours sur la nature de l’Églogue diFontenelle e proseguito poi negli articoli dell’Encyclopédie 11.Nella seconda metà del Settecento, in ogni modo, le idee resecelebri dai Salons si ritrovano anche nelle meno note considera-zioni espresse da Johann Georg Sulzer nell’articolo Armonia imi-tativa della Teoria Universale delle Belle-Arti, apparso negliOpuscoli scelti sulle scienze e sulle arti nel 1778, secondo cui ilcompito primario del poeta è la creazione di “pitture appassiona-te” 12. Proprio il filosofo svizzero aveva decretato, nella disserta-zione intitolata De l’énergie dans les ouvrages des Beaux-Arts epubblicata nei Mémoires dell’Accademia di Berlino nel 1767, lasuperiorità dell’eloquenza sull’arte muta della pittura nella scaladel pathos, con un paragone che insiste sulle valenze segrete equasi alchemiche della poesia. Al pari della chimica, che “tire desmatières terrestres ce qu’elles ont d’efficace et de spiritueux”,quest’ultima concentra in se stessa “l’esprit qui est dans les cho-ses sensibles” 13, trasformandone e aumentandone l’efficaciaespressiva. Proprio alle indicazioni di questo articolo, che nonfigura negli estratti dell’Allgemeine Theorie der Schönen Kunste inappendice all’Idea della bella letteratura alemanna ma viene citatoin nota nella voce relativa all’Opera in musica, il Bertola potreb-be dunque essersi ispirato per la stesura immaginaria di un “codi-ce portatile per gli amici della natura” in cui la poesia “ha senzadubbio molti vantaggi sopra la pittura”, e in particolare “quello inispecie di esprimere la successione degli affetti per la quale il gra-

IV. La gradatio patetica: Bertola e Sulzer 87

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

zioso Albano fra gli altri seppe fare più d’un tentativo”, mentre“un Pussino poeta avrebbe potuto agevolmente rapir la palma alpittore” 14.

L’attenzione presunta agli scritti teorici di Sulzer, di cui l’auto-re della Bella letteratura alemanna si proclamerà con orgoglio ilprimo divulgatore in Italia 15, trova del resto una conferma all’in-terno dello stesso “squarcio” sull’Opera in musica, dove il Bertolariconosce con il critico svizzero che “fra tutte le Belle-Arti la piùimportante è l’arte drammatica”, poiché “non v’ha specie alcunadi energia che nella esecuzione d’un componimento drammaticonon abbia luogo” 16, riecheggiando in questo modo non solo leconclusioni dell’articolo omonimo dell’Allgemeine Theorie derSchönen Kunste, ma anche le Réflexions philosophiques sur lapoésie dramatique, pubblicate nel 1760 nelle dissertazionidell’Accademia di Berlino, e il mémoire già ricordato sull’idea dienergia nelle Belle-Arti, dove Sulzer aveva ribadito che l’artedrammatica racchiude in sé “tout ce que la poésie a de plus éner-gique” 17.

Accanto alle citazioni d’obbligo degli elegiaci inglesi, da Gray aThomson, e alla memoria dei classici antichi e moderni, daVirgilio a Sannazaro fino al Tasso, costantemente rinnovata dalpaesaggio vesuviano, il nuovo modello di poesia delineato dalBertola si precisa ancora attraverso il richiamo alla graduata“sospension vantaggiosa” 18 del Metastasio, evocata nelleOsservazioni in margine al sepolcro campestre derivato daPoussin 19, e soprattutto, come chiarirà definitivamente l’Elogio diGessner, attraverso il procedimento retorico-illustrativo messo inatto dal poeta svizzero, che “come il Pucino non sapea indursi aricopiare la natura fisica senza ranimarla alcun poco per via divivi e spiranti rapporti colla natural morale” 20 e con i suoi bozzet-ti risveglia nel lettore “quella successione d’idee che tanto deside-rava l’Albano, e che non ottiensi se non per mezzo della poesia” 21.

La citazione esplicativa di Poussin, che costituisce quasi il traitd’union tra i versi del Sepolcro campestre e l’Elogio di Gessner for-nendo nello stesso tempo una sorta di emblema della nuova poe-sia del paesaggio, situa il discorso del Bertola nella tradizione set-tecentesca dei commentatori del dipinto del Louvre, che oltre aDiderot ha come immediati precedenti Dubos e Conti, due auto-ri ricordati con ammirazione nell’Idea della bella letteratura ale-manna. Anche all’interno delle Réflexions critiques sur la poésie et

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sur la peinture, che nella prima metà del secolo avevano rinnova-to il topos ormai logoro dell’ut pictura poësis attraverso l’evoca-zione temperata degli affetti, la descrizione del quadro di Poussinrappresenta l’esempio per eccellenza della gradatio patetica, effet-to dell’insieme delle idee e delle sfumature malinconiche chesuscita nell’osservatore l’immagine contrastiva del sepolcro inArcadia.

Le plus beau paysage, fût il du Titien et du Carrache, nenous intéresse pas plus que le feroit la vue d’un cantonde pays affreux ou riant; il n’est rien dans un pareiltableau qui nous entretienne, pour ainsi dire; et commeil ne nous touche guères, il ne nous attache pas beau-coup. Les Peintres intelligents ont si bien connu, ils ontbien senti cette vérité, que […] ils ont introduit dans cestableaux un sujet composé de plusieurs personnagesdont l’action fût capable de nous émouvoir, et par con-séquent de nous attacher. […]. Ils y placent ordinaire-ment des figures qui pensent, afin de nous donner lieude penser; ils y mettent des hommes agités de passions,afin de réveiller les nôtres, et de nous attacher par cetteagitation. […]. Qui n’a point entendu parler de cettefameuse contrée qu’on imagine avoir été durant untemps le séjour des habitants les plus heureux qu’aucu-ne terre ait jamais portés? hommes toujours occupés deleurs plaisirs, et qui ne connoissoient d’autres inquiétu-des, ni d’autres malheurs que ceux qu’essuyent dans lesRomans ces Bergers chimériques dont on veut nousfaire envier la condition. Le tableau dont je parle, repré-sente le paysage d’une contrée riante. Au milieu l’on voitle monument d’une jeune fille morte à la fleur de sonâge: c’est ce qu’on connoit par la statue de cette fillecouchée sur le tombeau, à la manière des Anciens.L’inscription sépulcrale n’est que de quatre mots latins:Je vivois cependant en Arcadie: Et in Arcadia ego. Maiscette inscription courte fait faire les plus sérieusesréflexions à deux jeunes garçons et à deux jeunes fillesparées de guirlandes de fleurs, et qui paroissent avoirrencontré ce monument si triste en des lieux où l’ondévine bien qu’ils ne cherchaient pas un objet affli-geant. Un d’entre eux fait remarquer aux autres cetteinscription e la montrant du doigt, et l’on ne voit plussur leurs visages, à travers l’affliction qui s’en empare,que les restes d’une joie expirante. On s’imagine enten-dre les réflexions de ces jeunes personnes sur la mortqui n’épargne ni l’âge, ni la beauté, et contre laquelle les

IV. La gradatio patetica: Bertola e Sulzer 89

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

plus heureux climats n’ont point d’asyle. On se figure cequ’elles vont se dire de touchant, lorsqu’elles serontrevenues de la première surprise, et l’on applique à soi-même et à ceux à qui l’on s’intéresse 22.

L’attitudine meditativa dei pastori riuniti intorno al tumulocampestre – l’immagine letteraria, leggermente diversa da quelladi Poussin, è quella codificata del Sannazaro cui anche il Bertolaallude nell’intreccio complesso dei riferimenti – rispecchiasecondo Dubos i sentimenti dell’osservatore, suggerendo unacontinuità tra l’esterno e l’interno. Le figure del quadro costitui-scono infatti il double dello spettatore: sono “figures qui pensent”collocate dal pittore “afin de nous donner lieu de penser” 23. A suavolta Antonio Conti, nel Trattato dell’anima umana, aveva preso aprestito la definizione dei “sillogismi taciti” di Wolff – maestroanche di Sulzer – per illustrare la gradazione infinita delle ideesuscitate nello spettatore dalla rappresentazione “allegorica” e“misteriosa” del dipinto di Poussin (in questo caso correttamentedescritto), nel quale il diagramma degli affetti disegna le moda-lità di un’ottica che allarga il campo visivo alle risonanze interio-ri:

Interminabile è poi la progressione dell’idee e de’ sillo-gismi taciti, che ci somministra qualche cosa, che ha insé del misterioso e dell’allegorico. Il Pucino dipinse trale amenità silenziose dell’Arcadia un sepolcro, ove è lastatua d’una donzella coricata coll’iscrizione di sotto Etin Arcadia ego: un pastorello piegato a terra un ginoc-chio addita l’iscrizione ad un altro inghirlandato difiori. Un terzo giovine pensieroso la riguarda e lamostra ad una ninfa vagamente adornata, che gli tienela mano sulla spalla, e, leggendo, sospende il riso epensa alla morte. Mille riflessi e discorsi sulla caducitàdella vita e su la fragilità della bellezza non ci accompa-gnano forse alla vista del quadro24?

Se tuttavia, nel caso di Dubos e del Conti, l’insieme delle per-cezioni suscitate dai “sillogismi taciti” si appoggia ancora alle“mille considerazioni” dell’intelletto e del ragionamento che com-menta le forme allegoriche del paesaggio, nella gradatio poeticaevocata più tardi dal Bertola – che trova il suo corrispettivo nella“gradazione quasi furtiva” 25 di Gessner, risultato di “impercetti-

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bili combinazioni, legami, intervalli d’idee” 26 – il richiamo alle“passioni dell’immaginativa” 27 sembra costituire il tratto domi-nante.

A chiarire la natura complessa di una rêverie poetica che par-tendo dal topos di Poussin si serve dei toni e le sfumature dellapittura per attuare una sorta di progressiva cancellazione dellarealtà a favore degli spazi interiori, non bastano in questo caso néil passo notissimo delle Réflexions critiques né il riferimento gene-rico ai piaceri dell’immaginazione della tradizione inglese(Addison, Akenside, Pope e così via) o quello più preciso maimprobabile che chiama in causa ancora una volta il Diderot deiSalons, con la discesa dello spettatore nella natura animata delquadro, secondo un procedimento che il Bertola sperimenteràdirettamente nell’Idea della bella letteratura alemanna, quandoosserverà che i paesaggi di Gessner, dove “un botanico andrebbea erbolare”, hanno “tanto di verità, di varietà, di freschezza cheinvitano a passeggiarvi dentro” 28. L’intermediario tra i modellidella tradizione e le nuove idee rappresentate da Diderot potreb-be essere invece ancora una volta un testo di Sulzer, dove si leggenon a caso che i paesaggi di Rembrandt “semblent nous transpor-ter dans les lieux-mêmes qu’ils représentent”, al punto che “noussentons dans les organes du coeur la fraîcheur des ombres” 29.

Ma prima di esaminare più da vicino l’operazione compiuta daBertola sugli articoli dell’Allgemeine Theorie e sull’idea stessa dienergia, conviene soffermarsi un momento sulle descrizioni delleLettere campestri, per tentare di ricostruire il procedimento lette-rario dell’autore, che rovesciando per così dire l’approccio deiSalons trasforma la natura immaginata in pittura, sostituendoalla descrizione della realtà il quadro più mosso e variato di unafantasia poetica che scompone e ricompone gli elementi del pae-saggio seguendo la logica del desiderio. La prima delle due cita-zioni si trova nella lettera del 23 settembre 1779, quasi contem-poranea dunque alla stesura delle Rêveries rousseauiane, chedefiniscono in maniera autorevole la natura psicologica e tuttainteriore dei “piaceri dell’immaginazione”. Annota il Bertola:

… seduto su questa pietra ho ancora de’ piaceri d’im-maginazione novi in una chiusa campagna. Se fremegagliardamente il mare che bagna la costiera d’Amalfi,qui se ne sente lo strepito: pensando che se mi piacesse

IV. La gradatio patetica: Bertola e Sulzer 91

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

di far il cammino della montagna, che pure fan molti,singolarmente in cerca di erbe utili e rare, o a cacciagio-ne (e dell’une e dell’altra la montagna è ricchissima)avrei d’improvviso l’aspetto del mare, e un altro tuttoperegrino orizzonte, così pensando, io m’inebbrio di unpiacer vivissimo, e lascio il freno alla mia fantasia; e dimezzo a’ boschetti di cedri, ond’è lieta la costa, parmiguardar la tempesta 30.

Quasi due anni dopo, nella Lettera datata 20 febbraio 1781 eindirizzata all’abate Angelo Vecchi, si trovano due passi significa-tivi che letti insieme al precedente configurano quasi una sorta dianticipazione in prosa dell’Infinito leopardiano: gli elementi cisono tutti, solo che a disporli sia un respiro poetico più ampio, ingrado di animare la forma “sentimentale” dell’idillio attraversosoluzioni poetiche sconosciute al Bertola.

L’occhio misura di là la vicina altezza del Vesuvio, indiva tutto senza alcun ostacolo signoreggiando e Napoli ei colli e i monti, e il mare e le isole. Il tratto di verdurache dal poggetto frapponesi al mare, rende il color diquesto anche più risentito; e il contrasto di un luogogradatamente si vago e ridente coll’orrido della vallesottoposta è vivissimo. […][…] A rendere il quadro anche più pittoresco […] grup-pi di nuvole di simmetrica bizzarria nelle forme e nellegradazion de’ colori: talvolta ancora il mover del ventopiegando il fogliame ne va tratto tratto ampliando ilquadro; e talvolta osa pure interromperlo piacevolmen-te 31.

A complemento delle ricognizioni interiori attraverso lo spa-zio, che rivelano in filigrana temi e situazioni che saranno poidell’Infinito, si può aggiungere ancora la riscrittura immaginariadel topos antico dell’ubi sunt come rêverie attraverso il tempo,così come appare nella prosa più matura del Viaggio sul Reno:

A me andava ancora più d’una volta per l’animo l’ideade’ primi terribili sforzi di queste acque contro il molte-plice argine di tali e tanti monti; e l’immaginazionegodea di spaziare nel vortice de’ secoli, conghietturan-do i mirabili viaggi e i giganteschi lavori di questofiume. Mi parea talvolta di udire fra quelle tortuoseaperture la spaventevole voce, dirò così, de’ giovanili

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suoi sdegni; e talvolta mi parea di vedere scostarsi, fen-dersi, incavarsi, aprirsi, deprimersi le ardue e pertinacirocce, cui esso movea guerra, rinforzato dagli impetidelle montane alluvioni, col favor delle quali faceaquasi cambiar di vesta al nemico già soggiogato; final-mente lo stato attuale delle placide sue acque e delledipinte popolate sue rive dopo que’ sì sterminati scon-volgimenti mi presentava l’immagine di ampia provin-cia devastata gran tempo dalle armi di un conquistato-re, il quale venutone poi a possesso la fa rifiorire lieta etranquilla 32.

Quello che manca ancora al Bertola, probabilmente, è l’espe-rienza del naufragio interiore che il Leopardi deriva da Rousseau,come sembra provare il confronto con la situazione emotiva dellaCinquième promenade delle Rêveries, ispirata alle rive “sauvageset romantiques” del lago di Bienne:

Quand le soir approchoit je descendois des cimes del’Isle et j’allois volontiers m’asseoir au bord du lac sur lagréve dans quelque azyle caché; là le bruit des vagues etl’agitation de l’eau fixant mes sens et chassant de moname toute autre agitation la plongeoient dans une réve-rie délicieuse où la nuit me surprenoit souvent sans queje m’en fusse apperceu. Le flux et reflux de cette eau,son bruit continu mais renflé par intervalles frappantsans relache mon oreille et mes yeux, suppléoient auxmouvements internes que la rêverie éteignoit en moi etsuffisoient pour me faire sentir avec plaisir mon exi-stence sans prendre la peine de penser. De tems à autrenaissoit quelque faible et courte reflexion sur l’instabi-lité des chose de ce monde dont la surface des eauxm’offroit l’image: mais bientot ces impressions légéress’effaçoient dans l’uniformité du mouvement continuqui me berçoit, et qui sans aucun concours actif de moname ne laissait pas de m’attacher au point qu’appellépar l’heure et par le signal convenu je ne pouvois m’ar-racher de là sans effort 33.

Già nelle prime prove poetico-descrittive del periodo napoleta-no, in ogni modo, si affaccia quel procedimento di conversionedalla natura all’arte che dominerà nel Viaggio sul Reno, dove lospaziare dell’occhio “con piacer nuovo per cavernosi spaccatiimpenetrabili a vista umana” anticipa e prepara le divagazionipiù ampie e distese dell’immaginazione:

IV. La gradatio patetica: Bertola e Sulzer 93

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

Pochi più grati incontri può procurar la natura a chiviaggia su per un gran fiume di quello degl’affluenti,ancorché non si voglia andar su per essi, e lo paragone-rei volentieri a quello che in lontananza si fa de’ portiviaggiando per mare, ancorché non si voglia entrarvi edar fondo. Oltre alla vaghezza che accrescono alle rive,apprestano un grato pascolo alla nostra immaginazio-ne, la quale spazia su per quei canali, segna i confini didiversi paesi fra cui essi scorrono, congettura le città ei villaggi sulle lor rive, vi va ingrandendo ed agevolandoi mezzi della circolazione, penetra fino alle sorgenti,visita i monti donde questi scaturiscono e varia e dilatae colorisce in cento maniere l’orizzonte entro cui ci tro-viamo 34.

Non occorre attendere il Leopardi per concludere, con ilBertola, che l’immaginazione supera e colma l’insufficienza dellanatura dal punto di vista non solo estetico ma in rapporto alladinamica degli affetti, e che il cammino interiore della fantasiasostituisce il movimento stesso del viaggio, come conferma ancheil Ragionamento sulla poesia pastorale prospettando la funzionenecessaria dell’“occhio interno” del lettore che “aggiunge qualco-sa di nuovo al paesaggio, lo completa e lo arricchisce” 35. Sulruolo e lo statuto dell’immaginazione nel processo creativo siinterrogano del resto anche le pagine della Idea della bella lettera-tura alemanna quando sostengono contro il parere del Quadrioche “l’imaginativa in istato di passione è la madre dell’entusia-smo” 36, anche se poi la gerarchia degli autori presentata dalBertola in quel testo svela le sue preoccupazioni riguardo all’“attività” e alla “fecondità” di una “mente agitata” che “ponendoin rapido moto le idee, scoprendone i rapporti, raddoppiandonel’estensione” giunge a produrre “il brillante, il sontuoso e qualchevolta l’energico”, dimenticando talvolta “la finezza del gusto” e “ilfiore del sentimento” 37. Si tratta in fondo del confronto, delinea-to qualche pagina più oltre, tra la “miniatura tutta semplice, toc-cante e finita” di Gessner e il “quadro tutto allegorico, sontuoso,immenso” di Klopstock, modellato sull’esempio di Omero e diMilton, il cui “stile elevatissimo cammina con una graduazionemagnifica”, benché con “troppo ampia sfera d’idee, e troppi grup-pi di forme” 38. Non per nulla al “superbo colorito”, alla “sublimenaturalezza” e al “congedo energico” 39 della Morte di Adamo diKlopstock, che esercitano un fascino inquieto sul lettore, il

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Bertola preferisce il profilo più dimesso e aggraziato di Gessner,che originariamente contenuto nell’Idea della bella poesia aleman-na si ritrova poi nel Ragionamento sulla pastorale. È uno deipochi mutamenti nella disposizione della materia che dalla ver-sione napoletana del 1779 confluisce nel primo tomo dell’edizio-ne lucchese arricchita e ampliata del 1784, e il particolare è dinon poco conto perché segnalando il rilievo assunto dal generecampestre all’interno del nuovo canone letterario illumina nellostesso tempo il lettore sulle diverse accezioni della voce “energia”nel secondo Settecento e sulle sue modificazioni rispetto all’ar-chetipo rappresentato da Sulzer.

A differenza di quanto avviene nel caso delle “pitture “gigante-sche” di Klopstock, che “non passano all’anima per iscuoterla, maper soggiogarla totalmente” 40, durante la “produzione delle dolcipassioni” evocate da Gessner lo spirito poetico “si sta nella mag-gior calma del mondo, per spiegare a suo grado i pensieri alle dif-ferenti sfere degli oggetti”. Così “sulla traccia delle sue idee”, l’im-maginazione del lettore “si apre, si estende” e acquista “una piegapiù regolare e più nobile” 41, allo stesso modo, si direbbe, in cuinel Viaggio sul Reno l’“aere purissimo” e il “vasto e nuovo domi-nio degli occhi” sembra “ingrandire e fortificare” 42 i sensi dell’os-servatore.

Nonostante la loro provvidenziale distanza dal moto rapido econvulso degli affetti che contraddistingue i geroglifici sontuosidi Klopstock, le pitture animate di Gessner e i quadri naturali diHaller – giudicato “energico e sublime” per aver saputo impiega-re sapientemente “l’arte de’ contrasti” 43 – non risultano però incontrasto con l’idea di energia descritta negli Squarci derivati daSulzer che figurano in appendice alla Idea della bella letteraturaalemanna, ma ne costituiscono anzi secondo il Bertola unavariante più significativa nell’ambito della pittura affettiva delpaesaggio. Anche in generale, del resto, gli estratti del divulgato-re italiano di Sulzer corrispondono a una selezione e ricombina-zione dei materiali originali nell’ottica del genere rinnovato dell’i-dillio, in cui domina “l’inclinazione per le dolci impressioni” 44 ascapito di altri elementi, come il terribile, che rivelano la fratturaaperta all’interno dell’estetica classicistica nella seconda metà delSettecento. Da questo punto di vista, l’operazione compiuta negliSquarci corrisponde parzialmente a quella messa in attonell’Encyclopédie 45, che aveva scelto di non riprodurre la voce

IV. La gradatio patetica: Bertola e Sulzer 95

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

Kraft dell’Allgemeine Theorie riprendendone solamente alcuniaspetti all’interno degli articoli Expression e Intéressant. Ma forsecon una consapevolezza ancora maggiore rispetto al modellofrancese, la scelta del Bertola manifesta l’intento esplicito dimoderare lo slancio dirompente del testo di Sulzer in favore diuna contemplazione serena e pacata, come prova la voce relativaalle Belle-arti che merita di essere citata per intero, ricordandoche il traduttore la riteneva “la chiave di tutta l’opera di Sulzer”:

Le bellezze così sparse di tutti gli oggetti analoghe sonoe proporzionate a quella preziosa e dilicata sensibilità,il cui principio è come inerente al fondo de’ cuori; e tro-vasi di continuo svegliato e rianimato dalla impressionche su di noi fanno i colori, le forme, e gli accenti ditutto ciò che la natura ha così messo a portata de’ nostrisensi. Risulta quindi un sentimento più tenero che nesollecita e i nostri gusti fortifica; lo spirito e il cuorediventan più attivi: e noi allora più limitati non siamo asensazioni grossolane, comuni a tutti gli animali; maimpressioni più dolci vi si aggiungono, si impadroni-scono della nostra anima; diventiamo uomini. […]Crescendo il numero degli oggetti interessanti, cresce lanostra prima attività: con un unanime e general movi-mento tutte si riuniscono le nostre forze e dispiegansi;noi usciamo dalla polvere, e in questo slancio felice ciavviciniamo alle intelligenze superiori 46.

Eliminando le parti meno consone alla sua poetica, la traduzio-ne del Bertola mantiene però del testo originale il significatoprofondo di un’operazione definita come alchimia o trasformazio-ne intensa di sensazioni cui attribuire quasi una finalità morale,simile a quella che egli vedeva riflessa compiutamente nell’operadi Gessner, definita un’etica naturale “sotto forme e colori” 47.

In questa prospettiva, è ancora una volta il Viaggio sul Reno afornire la verifica letteraria delle idee derivate da Sulzer, chiaren-do la matrice sensistica e quasi fisiologica del processo creativoattraverso la descrizione “romanzesca” delle campagne diOberwinter, dove l’autore, per poter “dipingere quel fiume, quellecolline, quei monti”, ha dovuto “insinuar nel ritratto alquanto diquei vivi e dolci spiriti” di cui era “investito mentre respiravaquell’aria” 48. Mentre infatti le sensazioni prodotte dai luoghimalinconici “concentrano le nostre idee, alimentano in qualchemodo la nostra immaginazione e applicano, per dir così, qualche

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cosa sul nostro cuore che lo acqueta, lo calma e lo dispone a unblandissimo sopimento”, viceversa “in una campagna tutta riden-te si accrescono e si ravvivano i movimenti del nostro cuore, lenostre idee diventano impazienti di esternarsi, i nostri desideri sislanciano rapidamente fuori di noi e un impeto irresistibile cisforza a cercare una comunicazione fra le nostre sensazioni e lealtrui” 49. Come aveva affermato Sulzer nella dissertazione del1767, il fine delle arti non è il diletto derivato dall’imitazione,principio “aussi gratuit dans son origine que stérile dans sonapplication” 50, ma il possesso completo “de l’imagination et ducoeur de l’homme” 51.

Uno sguardo più ravvicinato ai testi del filosofo svizzero divie-ne a questo punto necessario per comprendere le ragioni dell’in-teresse profondo del Bertola e il senso compiuto della sua opera-zione. A differenza di altri scritti di teoria dello stesso periodo, ilmémoire dell’Accademia di Berlino ha il merito di dedicare un’a-nalisi distesa ai processi interiori della fantasia, distinguendo ilsentimento statico della meditazione, che deriva dalla perfezionedell’oggetto, dagli stati affettivi e graduali della contemplazione edell’emozione, generati rispettivamente dalla bellezza e dall’ener-gia. A questi tre momenti dell’anima Sulzer aveva intitolato qual-che anno prima un’altra dissertazione, l’Observation sur les diversétats où l’âme se trouve en exerçant ses facultés primitives, celled’appercevoir et celle de sentir, in cui la facoltà di sentire, definitacome la capacità di “être affecté agréablement ou désagréable-ment” 52 appare distinta dall’osservazione, rivolta all’apprendi-mento e alla pura conoscenza delle cose. Per il futuro teorico del-l’énergie, la percezione oggettiva della scienza, destinata a quella“recherche de la vérité” che consiste nell’“oubli de soi-même” afavore della percezione reale e completa dell’oggetto, contraddicenettamente, per finalità e manifestazioni, lo stato più immediatodel sentimento, definito “un acte de l’âme qui n’a rien de communavec l’objet qui le produit, ou qui l’occasionne”, e nel quale, all’op-posto, “l’âme n’est occupée que d’elle-même”, poiché “ce n’estpoint l’objet qu’on sent, c’est elle-même” 53.

Il passaggio dallo stato di meditazione a quello di sentimento,aveva notato Sulzer, è indotto da un elemento del paesaggio o dauna tonalità più forte delle altre, simile a “quelque chose qui ras-semble à l’éblouissement”, che presentandosi improvvisamenteall’occhio e all’immaginazione “en reveille subitement un grand

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Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

nombre d’autres” 54, provocando nello spettatore un movimentoconfuso e scomposto del tutto diverso dalla serie ordinata dei “sil-logismi taciti” descritti in precedenza dal Conti, che lo riportaall’improvviso su se stesso: “nous quittons brusquement l’objetque nous avons contemplé, et nous entrons dans l’état du senti-ment” 55. Tra queste due condizioni dell’anima, la prima rivoltaalla conoscenza, e la seconda puramente emotiva ma ancoradistante dalla percezione estetica, si trova lo stato di contempla-zione, che risultando “de la succession continuelle et rapide de laméditation et du sentiment” pone l’individuo in uno stato di pia-cere intenso e leggero simile “au cours paisible d’une rivière quitraverse une plaine” 56. Anticipando le conclusioni di Rousseaunelle Rêveries du promeneur solitaire, Sulzer ricostruisce in que-sto modo le dinamiche del processo interiore collegate al senti-mento dell’esistenza come percezione di sé:

On saisit un objet, et l’instant d’après, qui peut biennous paraître le même instant, on observe en soi-mêmel’impression qu’il fait sur nous. C’est ainsi que nousnous livrons à la contemplation d’un beau paysage:l’oeil parcourt rapidement les divers objets qu’il ydistingue, il se fixe sur chacun d’eux pour un instant,sans l’approfondir: et l’esprit, après avoir saisi chaquepartie, jouit un instant de l’impression agréable que cetobjet fait sur lui. Tout se passe sans effort; les impres-sions ne font qu’effleurer l’âme … 57.

Come si vede, il passo del filosofo svizzero esamina in manie-ra puntuale il ruolo e lo statuto dei piaceri dell’immaginazionedivulgati dalla tradizione settecentesca, da Akenside a Diderot,ampliando e in parte contraddicendo la definizione di Wolffsecondo cui la forza essenziale dell’anima consisteva nel produr-re e nel comparare tra loro le idee, seguita ancora da Dubos e dalConti. Già in questa prima fase del suo pensiero, che include sial’Observation che le precedenti Recherches sur l’origine des senti-ments agréables et désagréables (1753), Sulzer affianca infatti allaproduzione razionale delle idee il flusso perpetuo e imprevedibi-le delle immagini suscitate dal sentimento. Come aveva già rico-nosciuto in parte la Théorie des sentiments agréables di Levesquede Pouilly (1747), il percorso autonomo delle associazioni inte-riori risulta fondato sull’agréable, ovvero, precisa ancora Sulzer,

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sulla condizione “essenziale” che “l’âme soit en état de développeraisement une multitude d’idées liées ensemble”, poiché “toutobjet où l’âme ne trouve rien à démêler lui doit être entièrementindifférent”, mentre “un objet qui empêche à l’âme de développerce qu’il renferme de varié, ou qui met un obstacle à l’impresse-ment de l’âme pour la production des idées, ne peut que lui êtredésagréable” 58.

A questo punto si comincia a capire meglio la natura peculia-re delle descrizioni contenute non solo nelle Lettere campestri, maanche nel Viaggio sul Reno, a proposito del quale il Bertola dichia-ra significativamente di aver “cercato di narrare e di descriveresoprattutto per coloro che si piacciono di quelle campestri situa-zioni che ora muovono l’animo soavemente, ora l’agitano conforza e l’ingrandiscono” 59, assegnando un ruolo diretto alla fan-tasia nel passaggio dall’osservazione esterna ai moti e alle figuredell’interiorità. Non per nulla il giudizio negativo del pittore-pae-sista sulle rive di Poppard – con la “dispersione tutta slegata edincerta” degli oggetti e il disordine di una prospettiva che produ-ce l’effetto di una disarmonia stridente, al pari di una musicadove “la rispondenza de’ suoni fra le corde lontane e le vicine nonè esatta; né i numeri armonici si uniscono tra loro con proporzio-ne” 60 – rinvia da un lato al clavicembalo patetico di Diderot, chemisura le risonanze dell’animo, e dall’altro sembra costituisceuna prova concreta della percezione quasi fisica del désagréableteorizzato da Sulzer, che agendo sulle fibre corporee interrompela comunicazione tra l’esterno e l’interno.

Il mémoire del 1767 sull’energia ricordato in nota dal Bertolanegli Squarci comprende ed esaurisce in maniera definitiva leindicazioni delle dissertazioni precedenti, riservando alle bellearti un compito centrale nella costruzione di un paeasaggio inte-riore nel quale il poeta rende “sensibles” quelle verità che per ilfilosofo sono solo “intelligibles”, servendosi di un’“expressionfrappante qui est comme l’épigraphe du tableau” 61. All’internodell’état d’émotion definito dalla categoria dell’energia, l’unico acui appartiene la creazione estetica, Sulzer individua momentidiversi e riconoscibili. Se il primo e più transitorio riprende l’ideadi choc, di dispiegamento emotivo momentaneo seguito da un’in-terruzione, il secondo presuppone al contrario la nascita di una“nouvelle force” che passa dall’oggetto all’anima perfezionandolae stabilendo un flusso continuo di pensieri e di sensazioni. Il

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passo merita di essere citato per intero, anche per le analogie chepresenta con il testo riportato dal Bertola negli Squarci:

Au premier moment qu’une scène d’objets agréabless’ouvre devant nous, l’âme se sent émue par sa beauté;bientôt elle se livre à la contemplation de divers objetsqui se présentent sur la scène. A la première émotionsuccède peu à peu une tranquillité parfaite mêlée desérénité, ensuite un’agréable langueur, un état qui plaît,que l’on voudrait voir permanent, quiqu’il n’ait plus riende piquant; l’âme ne se rend plus compte de ce qu’ellesent; elle ne prend plus d’essor pour sentir vivement.Cependant, lorsque dans cet état l’oeil découvre unobjet qui se distingue des autres par quelque beautésupérieure, l’âme reprend tout d’un coup sa premièrevivacité; ce qui plaisait simplement commence à char-mer et à émouvoir. Voilà le passage de l’état de contem-plation à celui d’émotion, et voila un genre d’énergie quirésulte d’une qualité supérieure 62.

Nella ricostruzione patetica del paesaggio, fondata su una serieininterrotta di percezioni istantanee di diversa intensità, Sulzerattribuisce particolare rilievo a quello che definisce il “pathos dela nature inanimée”, utilizzando all’occasione il lessico propriodelle arti visive, fatto di coups d’oeil, di vedute e di situazioni lega-te alla categoria del pittoresco:

Dans la variété infinie de coups d’oeil, de vues et d’en-droits caractérisés qu’on voit dans la nature, il s’en trou-ve de tels qu’on ne peut les contempler sans être saisi dequelque passion, ou de quelque sentiment qui approchede la passion […]. En général la nature a visiblementimprimé à de certains endroits les caractères de gayeté,de tristesse, de respect, de dévotion, de peur ou d’hor-reur. C’est à l’habile artiste d’en profiter. Le peintre depaysages en choisissant de pareils endroits e y plaçantquelque action convenable au caractère du lieu est sûrde toucher le coeur. Tel est le tableau du Poussin dont aparlé l’Abbé du Bos, où dans un paysage délicieux onvoit le tombeau d’une jeune fille avec l’inscription et egoin Arcadia 63.

È forse possibile, a questo punto, ipotizzare che l’immagine delSepolcro campestre che il Bertola aveva senza dubbio desuntodalle pagine più note di Dubos debba qualcosa anche al passo di

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Sulzer, e che il nuovo genere della pittura di paesaggio delineatodall’autore tra le Lettere campestre e il Ragionamento sulla poesiapastorale, senza dimenticare l’apporto indispensabile del Viaggiosul Reno, abbia a suo modo contribuito allo sviluppo e alla divul-gazione di un’estetica dell’energia che agendo “immédiatementsur le coeur” sostituisce alla “singerie” di un’imitazione che lavo-ra unicamente “pour égayer l’imagination” 64 un’immagine “riccadi vita”, diretta all’“affinamento” delle facoltà spirituali dell’uo-mo. Una conferma in questo senso viene anche dalle pagine delRagionamento a proposito di Gessner, dove il Bertola annotasignificativamente

Tutte le pitture poetiche o ci rappresentano la naturainanimata, o in moto ce la rappresentano e ricca di vita.La prima rappresentazione è quella che può condan-narsi, qualora protratta sia a segno, che trattenendocicosì superficialmente, ci faccia accorgere di un bisognodi sentimenti; e ci continui il languore o dell’indifferen-za, mentre disposti siamo ad essere scossi ed impegna-ti. Vien essa però adoperata sommamente a propositodi certi luoghi che dirsi potrebbero di respiro, ne’ qualil’anima nostra affaticata par che un non so che diman-di assai prossimo all’inazione. Son senza numero i passidi Gessner ne’ quali siffatto artificio è posto in usomirabilmente. Dopo averci egli fatto palpitare, dopo diaverci inebbriato di un sentimento grande e profondo,passa a un dettaglio puramente fisico e gentile, in cui cidà quasi un riposo, e quindi una nuova attività per rice-vere impressioni rapide e gagliarde, o dilicate e soavi 65.

Nella difesa appassionata di Gessner l’attenzione dell’autore siappunta sul valore emotivo del dettaglio, condannato senza riser-ve dall’Encyclopédie 66, senza peraltro giungere ancora ad attri-buire alla natura inanimata quella vasta risonanza interiore pre-vista da Sulzer. Ma se al paesaggio ritagliato sugli elementi cam-pestri degli Idilli si aggiungono ora le “figure morali” e le “azioniconvenienti” teorizzate nel mémoire del 1767, si ottiene alla finequell’“artifizio dei contrasti” motivato dalla “sorpresa del pateti-co” proprio non solo di Poussin o della sua trascrizione poeticanel Sepolcro campestre, ma anche di tanti luoghi pittoreschi esublimi del Viaggio sul Reno, dove il processo interiore dell’imma-ginazione ha sostituito la descrizione puntuale ma senza vita deiDiari. Un esempio si ritrova nel nucleo di Lettere da San Goar,

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che come è stato dimostrato testimonia più di altri luoghi deltesto il progressivo affrancarsi dell’immaginazione dalle condi-zioni storiche e reali del viaggio, attraverso i “bizzarri scherzidella luce e dell’ombre” 67 e il gioco delle gradazioni in un “ina-spettato orizzonte” dove “lo spirito sente non so che di grande edi libero che lo ravviva oltremodo e lo innalza” 68, nel gioco dicorrispondenze che uniscono il “vasto quadro” 69 della natura alrapido mutare delle emozioni nello spazio interiore. Già la descri-zione rielaborata della lettera XIX presenta le caratteristiche delpaesaggio ideale delineato da Sulzer, sospeso tra gradazione econtrasto:

Lo sviluppo di quella terra e di quel cielo si venne facen-do a’ nostri occhi con bella gradazione; e ad ogni minu-to una nuova scena. Siffatto sviluppo usciva dall’ordina-rio perché facevasi entro uno spazio di cielo e di terralimitato e rinchiuso, nel quale tutte le parti acquistava-no un’aria di meglio espresso contrasto tra loro e altempo stesso rannodandosi le une colle altre facevanounità anzi lo erano; quindi un tutto insieme che nonlasciava luogo a distrazione e che era per noi ciò che unquadro il quale venga raccolto dalla cornice. E collavista e collo spirito andavamo noi misurando in piùsensi il campo di quel singolare bacino; per molto chevi ridesse entro la luce, i seni e le golette e il complessodel luogo ne risvegliavano ancora alcun che di patetico;ma di quel genere a un di presso che si attribuirebbe aduna fisionomia mesta e dolcemente pensierosa sullaquale brilli un sorriso 70.

Ma è soprattutto la lettera XIX sul personaggio letterario delvecchio ufficiale – che riproduce quasi l’incontro memorabiledell’Elogio di Gessner tra l’autore e il poeta degli Idilli e nello stes-so tempo riecheggia un topos romanzesco immediatamente rico-noscibile, tra Paul et Virginie di Bernardin de Saint-Pierre e Renédi Chateaubriand – a offrire libero corso a quella ricostruzionepatetica del paesaggio morale “con figure” di cui era maestroPoussin.

Ravvoltomi su per queste vie solitarie oltre a tre miglia,ebbi improvvisamente dinanzi una casetta attorniata daogni dovizia rurale. M’incamminai verso la medesimaspinto meno dalla curiosità che dal bisogno di dissetar-

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mi, e scopersi all’ingresso di angusto viale un uomo dicampagna il quale, come si avvide di me, corsemiincontro e allora, malgrado l’abito abbietto, i suoi atti ele sue parole mi mossero forte dubbio che la di lui con-dizione non fosse quella che m’era paruta da prima. Ibianchi e radi capelli, le rughe del volto accusavanoun’età assai avanzata, ma gli occhi vivissimi e l’agilitàdelle membra facean fede di prontezza e vigore. Senzadimandar ch’io mi fossi e che mi cercassi, m’invitò,m’introdusse nella romita sua abitazione. Riferirò lamaggior parte del dialogo che ebbi seco; a chi può nonpiacere un quadro di vita felice? 71.

Nel rapido schizzo che campeggia al centro della lettera, il “pit-tor paesista” attua una modalità espressiva opposta a quella chesceglierà il Manzoni attraverso l’inserzione della figura comica diDon Abbondio nell’incipit dei Promessi Sposi, dove la patognomi-ca espressiva del personaggio, con il suo potenziale psicologicorivelatore, sostituisce la descrizione più sobria e neutrale delFermo e Lucia, che per certi versi sembrerebbe presa a prestitodal Viaggio sul Reno. Non a caso, come è stato osservato, con ilBertola “è cominciata l’operazione di leggere in ciò che è intornociò che è dentro al soggetto, fino alla creazione di paesaggi chenon sono più semplicemente esterni, ma proiettivi di sé” 72. E tut-tavia proprio il confronto ravvicinato con i due passi manzonianimostra tutta la distanza fra la scrittura idealizzata del Viaggio sulReno e la prospettiva antropologica complessa del romanzo, cheall’epoca della ventisettana ha già archiviato risolutamente la ten-tazione dell’idillio.

Proprio in virtù di quella ricerca studiata dei “contrasti” e delle“gradazioni” patetiche che ancora seduce l’autore del Sepolcrocampestre, deciso se mai a rinnovare il vecchio codicedell’Arcadia, non stupisce di ritrovare all’interno del frammentonarrativo del Viaggio sul Reno l’immagine emblematica di “unpiccolo monumento funebre” che accoglie il lettore come un qua-dro in miniatura, nel quale ritornano ricomposti in una sorta dimise en abîme prospettica tutti gli elementi compositivi dell’este-tica bucolica. Ecco come prosegue, secondo una climax emotivapreparata con cura, l’incontro fra l’autore e il suo personaggio,che nello stile virgiliano ricorda il “coltivator d’orticello alla rivedel Galeso” 73:

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Nell’avvicinarmi alla porta, vennemi veduto un lavoret-to in scoltura il qual posava sopra un tavolino; feci duepassi per esaminarlo dappresso e riconobbi una speciedi mausoleo: un’urna mezzo scoverta attorniata dacipressi, una persona in piè presso l’urna con entroviuna mano come per trarne fuori alcuno. Io apriva labocca per interrogar la mia guida, quando i suoi occhiche si abbassarono un tratto e la commozione che gli sidipinse nel volto m’imposero di tacere 74.

Se a questo punto, nella “nicchia scavata nella rupe” in fondoal porticato “a ripararsi dalla pioggia o dal fitto meriggio”, il letto-re si aspetta di ritrovare “sopra uno scaffaletto” 75 i libri di Virgilioin compagnia di Thomson e delle Notti younghiane, il merito ècerto di una riscrittura allusiva che trasforma e ricombina i fram-menti dell’esperienza dando credito anche a chi, come Sulzer,aveva teorizzato la costruzione emotiva del paesaggio rivissutonella memoria. Non a caso, nella forma immediata e concisa deiDiari che precedono la rielaborazione letteraria, l’intermezzoarcadico che nel Viaggio sul Reno trasforma alla fine il vecchioufficiale nel “canuto ospite della fuggitiva Erminia” 76 si limitavaal “contrasto” esteriore tra “la purezza” e “la semplicità patriarca-le” dinanzi “ai guasti costumi delle città” 77, mettendo al centrodella scena non il malinconico cultore della letteratura pastorale,ma più semplicemente i contadini del Bernese osservati da unosguardo curioso e distante che ha come risultato il bozzetto:

Due o tre capanne incontrammo sulla nostra via; evenerabili vecchi decorati di una folta barba biancaarrestarono piacevolmente i miei sguardi. Il lor mododi salutare annunziava energicam(ent)e il loro caratte-re. Con uno di essi, che mi parve il più interessante, pre-gai il mio compagno di trattenersi; io perdea la piùparte del suo dialetto, se non che una cert’aria d’ilaritàsparsa sul suo volto, espressa da’ suoi gesti, parlavamichiaramente. È noto che i contadini del Bernese sidistinguono per un certo comico assai grazioso e spon-taneissimo. Povera gente! È noto che la più rispettabilparte di essa viene a perdere a Berna la sua innocenza,la sua salute, la sua felicità 78!

Nella studiata ricomposizione pittorica di toni e sfumature, ilViaggio sul Reno è forse il testo del Bertola più vicino al mémoire

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del 1767, che tuttavia come si è detto contiene anche significati-ve divergenze. Delineando una teoria del sublime e dell’energiache presenta numerose affinità con l’opera quasi coeva di Burke,Sulzer considera infatti l’importanza degli impulsi naturali all’in-terno dell’esperienza estetica, e accanto agli elementi riconduci-bili alle facoltà superiori dell’anima, che eccitano meraviglia estupore dando libero corso ai moti espansivi della sensibilità,ammette il potere misterioso e inquietante di quegli oggetti chehanno immediato rapporto con le “facultés inférieures de l’âme”,in cui dominano i sentimenti primitivi del desiderio e dell’avver-sione.

Les objets qui ont ce genre d’énergie se rapportentimmédiatement aux sentiments moraux et aux pas-sions, ou, pour m’exprimer dans le langage des philo-sophes, aux facultés inférieures de l’âme, en y produi-sant le désir ou l’aversion. […] L’émotion paroît siimmédiatement à l’un de ces objets, que quelques phi-losophes ne voient rien d’intérmediaire qui fit concevoirson origine, ont hardiment assuré qu’on ne pouvoitchercher d’autre explication à cela que la volonté del’auteur de la nature, qui a donné à l’âme des senscomme au corps 79.

L’energia che opera senza alcun tipo di mediazione poetica, eli-minando l’artificio della gradatio per concentrarsi sulle forme ori-ginarie e intense del pathos, genera secondo Sulzer “les vraies for-ces motrices de l’âme et la fait passer du sentiment à l’action”.Proprio per questo, l’artista non può ignorare nella sua analisidelle passioni gli effetti prodotti dall’“ébranlement des nerfs”, edeve concentrare il suo studio non solamente sugli oggetti visibi-li, detentori di un potere limitato e relativo, ma soprattutto suquelli che “frappent l’ouïe” e nella loro semplicità e immediatez-za istintiva possiedono “une force que rien ne peut égaler”. Più diogni spettacolo misterioso e toccante, “un seul ton de voix, un criinarticulé, peut percer le coeur et le remplir dans un instant detristesse, de commiseration ou d’effroi” 80.

Derivato probabilmente dall’Enquiry di Burke, che come sco-prirà qualche anno dopo l’Alfieri svela gli effetti terribili del suononei notturni della coscienza, il suggerimento di Sulzer rimaneestraneo al Bertola, che diversamente da altri autori della fine delSettecento, tra cui ancora una volta il Diderot dei Salons, non con-

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Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

templa l’esistenza di un’Arcadia insidiata dal problema della soffe-renza e del male 81. Le medesime divergenze ritornano del restocon chiarezza a proposito del canone degli autori stabilito daSulzer: se nella gerarchia ideale dell’Idea della bella letteratura ale-manna le miniature delicate di Gessner risultano superiori alle pit-ture sontuose e terribili di Klopstock, nel mémoire del 1767 la clas-sificazione si avvale del criterio moderno dell’energia, di modo che“les sentences graves énoncées d’une manière bien frappante pardes vérités triomphantes” e gli artisti dotati di “un goût mâle etsolide” precedono risolutamente “ces beaux esprits qui ont préfé-rablement réussi dans le gracieux, dans le beau délicat et recher-ché, dans ce qui pique et chatouille finement l’imagination” 82, aiquali è riservato l’ultimo posto nella scala delle preferenze.

Se il teorico dell’energia non può concedere nulla all’idea dellagrazia, centrale nel pensiero poetico del Bertola, qualche indica-zione al riguardo offriva l’articolo omonimo dell’AllgemeineTheorie che non a caso l’autore del Ragionamento sulla pastoraleaveva riproposto all’interno degli Squarci, osservando che Sulzerera ricorso a Winckelmann per designare con la parola Reiz “unacerta maniera, e forse soltanto una certa proprietà del bello nelleforme visibili”, poi divenuta “una proprietà ne’ pensieri, nell’im-maginazione, ne’ sentimenti e nelle azioni” 83. Analogamente, nelsistema estetico elaborato dal Bertola per fronteggiare la “meta-fisica” inutile e ingombrante di quanti pretendono di spiegare“cose la cui indole sembra destinarle a non poter essere mai spie-gate” 84, la grazia è percepita come una “fina voluttà dello spiri-to”, un “non so che squisitamente tenero e dilicato, che desta nelfondo del cuore il desiderio e l’inclinazione più viva” 85.L’impressione vaga e fuggevole del je ne sais quoi, a cui il criticosvizzero aveva riservato uno spazio limitato all’interno delle sueriflessioni, diviene così l’equivalente più perfetto di quelle “dolciimpressioni” su cui si fonda l’intero processo creativo, comeprova anche l’ammirazione riservata nell’Idea della bella letteratu-ra alemanna all’Ueber das Erhabene und naive di Mendelssohn,tradotto da Carlo Ferdinandi nello stesso anno 1779 con il titoloTrattati del sublime e del naturale nelle Belle-Lettere, nel quale lagrazia costituiva un genere tutto particolare di sublime esentedalla grandezza e dalla forza.

Dopo aver ribadito significativamente che “i colori locali dellaNatura non sono né tanto freschi né tanto vivaci quanto quelli di

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un abil colorista”, il trattato di Mendelssohn si appoggiava all’au-torità di Winckelmann per proporre a sua volta una lettura delquadro di Poussin più simile allo spirito del Sepolcro campestre diquanto non fosse in fin dei conti l’analisi eloquente di Sulzer, fon-data sulla sinergia della natura e della morale. Come si legge nellaversione italiana dell’Ueber das Erhabene und naive,

L’idea dell’Artista è o fondata sopra qualche avvenimen-to, o finzione, che sì facilmente non cade ne’ sensi. Intal caso un’iscrizion breve animar può tutta quanta l’a-zione, indicando in poche parole il fine a cui conspiranle parti. Un esempio di questa sorta n’è il Quadro diPoussin che rappresenta un pastore ed una pastorella, iquai teneri e dolenti vicini stanno alla tomba d’unapastorella, su cui leggesi quest’iscrizione ET IN ARCA-DIA EGO. Queste poche parole dichiarano tuttal’Effigie con l’oggetto dell’Artista, che appena indovina-to avremmo 86.

Al pari di Sulzer, e a differenza di Diderot, Mendelssohn attri-buisce grande valore all’epigrafe che dà significato ai contrastiirrisolti della pittura, ma in luogo del sublime delle passioni –teorizzato altrove attraverso gli esempi di Klopstock e diShakespeare – dà spazio alla grazia dolente del paesaggio espres-sa nella categoria del naiv, risultato della combinazione del sem-plice e del naturale:

La semplicità è incontrastabilmente un attributo neces-sario del Naivo. Tostoché l’espressione è sottile, vivace, dimolt’energia, o di gran facondia, denegar le si può asso-lutamente questa qualità di naiva, ed in ciò opposto ilsublime nell’espressione al Naivo. Bisogna, che sottoquesta semplice espressione nascosto sia un bel pensie-ro, una qualche verità importante, nobil sentimento, oun qualche oggetto, che si va mostrando tutto schietto 87.

Elemento necessario ma non esclusivo del genere pastorale, il“naivo” congiunge il carattere morale della pittura con l’“altabeltà del moto” 88, consentendo di accordare senza sforzo “unaconoscenza intuitiva, ch’è dunque perfetta” con l’osservazionetemporale e meditata di una “quantità di caratteri” 89 accomuna-ti da una “certa blandezza di passione” 90. Sono a ben vedere leproposte del Saggio sopra la Grazia, in cui il Bertola riprende le

IV. La gradatio patetica: Bertola e Sulzer 107

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

indicazioni preziose di Mendelssohn combinandole con la “sprez-zatura” del Castiglione e la “gradazione furtiva” di Gessner 91,lasciando da parte gli elementi più nuovi e vitali del sistema diSulzer a favore di un ritorno alla tradizione che faceva capo aDubos:

È qui in oltre da tener conto delle idee accessorie anco-ra, e di ciò che i metafici dicono concomitanza e asso-ciazione di idee; per cui la ragion dell’affetto si distendeottimamente su quegli oggetti che a bella prima crede-remmo mal comportarla. Sarà quindi grazioso un cesti-no di fiori non tanto per certo venusto disordine nellapiegatura delle foglie, nella giacitura de’ gambi, nel for-tuito intrecciarsi de’ fiori, quanto per alcun ché, onde dilà s’adombri l’affetto 92.

Più dell’energia di Sulzer – che rielaborata alla maniera delBertola offriva il supporto teorico a tanti luoghi del Viaggio sulReno situando nello stesso tempo l’arte della descrizione all’inter-no di un più vasto sistema di pensiero che comprende la letturasettecentesca del topos dell’ut pictura poësis – l’idea di naivdesunta da Mendelssohn appariva funzionale a un’estetica chepur ammettendo il contrasto rifiuta la violenza della percezione.Quella stessa gradatio patetica che in Sulzer e in Diderot giunge adare forma a una teoria del sublime sull’esempio di Burke, nelSaggio sopra la Grazia si accontenta di trasformare i “sillogismitaciti” del Conti nelle “transizioni velate” 93 della poesia, tanto“innocenti e leggere” quanto “ne’ dipintori le tinte che separano idiversi colori”.

1 Il topos della galleria di quadri percorre il Viaggio sul Reno dall’inizio(“per coloro finalmente che fossero disposti a visitare questo paese e princi-palmente per voi, io mi sono proposto di fare ciò che farebbe alcuno il quale,conducendoci a vedere una galleria a sé già ben nota, ne venisse tratto trattodicendo: guarda; e mentovasse l’epoche, le scuole, gli autori”) alla fine (“Mipiace di por fine alla descrizione di un viaggio fatto tra così pittoriche rivementovando appunto pittura. E quasi si direbbe che una sì ricca galleria siastata colà collocata a foggia di sostituzione, ma giudiziosissima e gratissimaa chi venga giù per quest’acque, poiché per via dell’arte gli si porge quel pasco-lo che la natura ha già incominciato a negargli”. Cfr. A. De Giorgi Bertola,Viaggio sul Reno e ne’ suoi contorni. Edizione critica e commento a cura diMichèle e Antonio Stäuble, Firenze, Olschki, 1986, pp. 51 e 168.

2 A. De Giorgi Bertola, Il Sepolcro campestre, in Operette in verso e inprosa, Bassano, Remondini, 1785-1789, t. I, p. 139. Sulla raccolta cfr. G.

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Scianatico, “Paesaggi campestri”, in Un europeo del Settecento. A. De’GiorgiBertola riminese, a cura di A. Battistini, Ravenna, Longo, 2000, pp. 299-303.

3 Bertola, Il Sepolcro campestre, cit., p. 143. Sul genere della poesia cam-pestre nel XVIII secolo si rinvia alle indagini di A. Di Ricco, Tra idillio arcadi-co e idillio filosofico: studi sulla letteratura campestre del Settecento, Lucca,Pacini Fazzi, 1995; A. Di Benedetto, “Immagini dell’idillio nel secolo XVIII:Bertola e le poetiche della poesia pastorale”, in Un europeo del Settecento, cit.,pp. 201-216; e da ultimo A. Beniscelli, L’io in figura: paesaggio e personaggioalla svolta dei lumi, in Id., Le passioni evidenti, cit., pp. 211-283.

4 Bertola, Il Sepolcro campestre, cit., p. 139.5 Ibid., p. 141.6 Bertola, Ragionamento sulla poesia pastorale e particolarmente sopra gli

“Idili” di Gessner, in Id., Idea della bella letteratura alemanna, Lucca, pressoFrancesco Bonsignori, 1784, t. II, p. 13. Com’è noto, Diderot era un grandeammiratore degli Idilli di Gessner e negli anni 1760-1761 aveva contribuitoalla traduzione francese uscita nel 1762 a opera di Huber. In occasione dellaversione francese della Morte di Abele (1759-1760), aveva inoltre dedicato unintervento all’opera di Gessner nella “Correspondance littéraire” del 15 feb-braio 1760 (ora in D. Diderot, Arts et Lettres (1739-1766), éd critique etannotée présentée par J. Varloot, Paris, Hermann, 1980, pp. 112-122.

7 Diderot, Salon de 1767, cit., p. 253.8 Id., Observations sur les “Saisons” de Saint-Lambert (“Correspondance

littéraire”, 15 février-1mars 1769), in Arts et Lettres (1767-1770), éd. critique etannotée présentée par J. Schlobach, Paris, Hermann, 1984, p. 21.

9 Id., De la poésie dramatique, in Id., Le drame bourgeois, éd critiqueannotée et présentée par J. Chouillet e A.M. Chouillet, Paris, Hermann, 1980,p. 382-383.

10 Bertola, Viaggio sul Reno, cit., p. 76.11 Su questo punto cfr. A. Di Benedetto, “Immagini dell’idillio nel secolo

XVIII. Bertola e le poetiche della poesia pastorale”, in Un europeo delSettecento, cit., pp. 201-216.

12 J.G. Sulzer, Armonia imitativa. Articolo tratto dalla Teoria Universaledelle Belle Arti, in Opuscoli scelti sulle scienze e sulle arti, Milano, pressoGiuseppe Marelli, 1778, t. i, p. 144. Come conferma la lettera all’Amaduzzidel 20 settembre 1783 (pubblicata in appendice all’Idea della bella letteraturaalemanna, cit., t. II, p. 218), il Bertola era al corrente della traduzione degliarticoli di Sulzer intrapresa dagli Opuscoli scelti, che gli contendeva “la gloriae il piacere di fare ulteriormente di tali doni alla nostra nazione”. Sempre aquesto proposito è forse utile segnalare che il “Mercure de France” pubblicònel 1776 una traduzione dell’articolo Opéra.

13 J.G. Sulzer, De l’énergie dans les ouvrages du Beaux-Arts, in Histoire del’Académie des Sciences et Belles-lettres de Berlin (1765), Berlin, chez Heude etSpener, 1767, p. 489

14 Bertola, Il Sepolcro campestre, cit., p. 141.15 Oltre alla già citata lettera all’Amaduzzi, si veda su questo punto la let-

tera di Gessner al Bertola (9 ottobre 1779) pubblicata in appendice all’Ideadella bella letteratura alemanna, cit., t.II, p. 290. Sul Bertola germanista cfr. E.Bonfatti, “Bertola e la letteratura tedesca”, e R. Unfer Lukoschik, “SalomonGessner fra Aurelio de’Giorgi Bertola ed Elisabetta Caminer”, entrambi in Uneuropeo del Settecento, cit., rispettivamente, pp. 425-436 e 401-426.

16 Bertola, Squarci di alcuni articoli tratti dalla Teoria universale delle BelleArti di Gio-Giorgio Sulzer, in Id., Idea della bella letteratura alemanna, cit., t.

IV. La gradatio patetica: Bertola e Sulzer 109

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

II, p. 255.17 Sulzer, De l’énergie dans les ouvrages du Beaux-Arts, cit., p. 492.18 A. De Giorgi Bertola, Osservazioni sopra Metastasio con alcuni versi,

Bassano, Remondini, 1784, p. XXXVI.19 L’ottava finale di Al sepolcro di Metastasio, che chiude l’elogio, ripropo-

ne alcuni elementi compositivi del quadro di Poussin, l’epigrafe e soprattuttola visione “di sbieco” dell’immagine, adattati alla descrizione della tomba delpoeta: “Dell’augusto ricetto in sulle soglie / altre vegg’io divinità minori /vario-atteggiate di sospiri e doglie, / versar pianto, offrir serti, o sparger fiori:/ nel lato estremo un breve marmo accoglie / schiere di forosette e di pastori;/ e scritto è in due di allor compagne / l’ebbe Arcadia qual padre, e Arcadia ilpiagne” (p. LXVII).

20 A. De Giorgi Bertola, Elogio di Gessner, Pavia, per Giuseppe Bolzani,1789, p. 24.

21 Loc. cit.22 Dubos, Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, cit., t. I, pp.

55-57. Sulla fortuna settecentesca del quadro di Poussin, commentato tra glialtri da Fénelon, Fontenelle, Diderot e Mme de Staël, e le sue varie interpre-tazioni cfr. Panofsky, “Et in Arcadia Ego”, cit., pp. 279-301), che tuttavia nondocumenta la fortuna delle stampe e delle incisioni tratte dal quadro, spessoresponsabili di un’erronea interpretazione del quadro.

23 Dubos, Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, cit., t. I, p. 55.24 A. Conti, Dell’anima umana, in Id., Scritti filosofici, a cura di N.

Badaloni, Napoli, Editrice F. Rossi, 1972, p. 84.25 Bertola, Elogio di Gessner, cit., p. 27.26 Id., Ragionamento sulla poesia pastorale, cit., p. 18.27 Id., Idea della bella letteratura alemanna, cit., p. 73.28 Ibid., p. 87.29 Sulzer, De l’énergie dans les ouvrages du Beaux-Arts, cit., p. 480.30 Bertola, Lettere campestri (Al signor Marchese Bali Sagramoso), in Id.,

Operette in verso e in prosa, cit., t. II, p. 140.31 Id., Lettere campestri (Al sig. Abate Angelo Vecchi), cit., pp. 158-159.32 Id., Viaggio sul Reno, cit., p. 85.33 J.J. Rousseau, Les rêveries du promeneur solitaire, in Id., Œuvres com-

plètes, cit., t. I, p. 1045.34 Ibid., p. 135.35 Bertola, Ragionamento sulla poesia campestre, cit., p. 23.36 Id., Idea della bella letteratura alemanna, cit., t. I, 73.37 Ibid., pp. 77-78.38 Ibid., p. 90.39 Ibid, p. 91.40 Ibid., p. 93.41 Id., Ragionamento sulla poesia pastorale, cit., p. 27.42 Id., Viaggio sul Reno, cit., p. 66.43 Id., Idea della bella letteratura alemanna, cit., pp. 43-44.44 Id., Squarci di alcuni articoli tratti dalla Teoria universale delle Belle Arti

di Gio-Giorgio Sulzer, cit., p. 245.45 Cfr. M. Delon, L’idée d’énergie au Tournant des Lumières (1770-1820),

Paris, P.U.F, 1988, di cui si veda anche la voce Énergie in Dictionnaire desLumières, Paris, P.U.F, 1997, pp. 395-397.

46 Bertola, Squarci di alcuni articoli tratti dalla Teoria universale delle BelleArti di Gio-Giorgio Sulzer, cit., p. 248.

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47 Id., Ragionamento sulla poesia pastorale, cit., p. 11.48 Id., Viaggio sul Reno, cit., p. 150. Sulle forme e i modelli del pittoresco

cfr. A. Battistini, “La sensibilità pittoresca della linea serpentina” e J. Lindon,“Il ‘Reno pittorico’ di Bertola e i suoi prodromi inglesi”, entrambi in Un euro-peo del Settecento, cit., rispettivamente pp. 237-262 e 345-354.

49 Bertola, Viaggio sul Reno, cit., p. 151.50 Sulzer, De l’énergie dans les ouvrages du Beaux-Arts, cit., p. 475.51 Ibid., p. 476.52 J.G. Sulzer, Observation sur les divers états ou l’âme se trouve en

exerçant ses facultés primitives, celle d’appercevoir et celle de sentir, in Histoirede l’Académie Royale des Sciences et Belles-Lettres de Berlin (1763), Berlin, chezHaude et Spener, 1770, p. 409.

53 Ibid., p. 412.54 Loc. cit.55 Loc. cit.56 Ibid., p. 416.57 Loc. cit.58 J.G. Sulzer, Recherches sur l’origine des sentiments agréables et désagréa-

bles, in Histoire de l’Académie Royale des Sciences et Belles-Lettres de Berlin(1753), Berlin, chez Haude et Spener, 1753, p. 75.

59 Bertola, Viaggio sul Reno, cit., p. 50.60 Ibid., p. 113.61 Ibid., pp. 482, 483.62 Sulzer, De l’énergie dans les ouvrages du Beaux-Arts, cit., p. 480.63 Ibid., pp. 488, 489.64 Ibid., p. 491.65 Bertola, Ragionamento sulla poesia pastorale, cit., pp. 27-28.66 Cfr. art. Pastorale, in Encyclopédie, cit., t. XII, p. 156.67 Bertola, Viaggio sul Reno, cit., p. 93.68 Ibid., p. 109.69 Ibid., p. 94.70 Ibid., p. 101. Sulla riscrittura letteraria del paesaggio cfr. le osservazio-

ni di M. e A. Stäuble, “Sul Reno: dalla realtà all’immaginazione”, in Un euro-peo del Settecento, cit., pp. 329-344, e F. Fedi, “L’invenzione del paesaggio:letteratura odeporica e filosofia della natura in Bertola”, in Id., Artefici dinumi. Favole antiche e utopie moderne fra Illuminismo ed Età napoleonica,Roma, Bulzoni, 2004. pp. 93-111. Come ha dimostrato G. Antonelli (“Linguae stile di Aurelio Bertola viaggiatore”, in Un europeo del Settecento, cit., pp.355-400), al processo di riscrittura corrisponde un’intensa rielaborazione lin-guistica e stilistica.

71 Bertola, Viaggio sul Reno, cit., p. 103.72 Raimondi, Quasi un epilogo, in Un europeo del Settecento, cit., p. 445,

di cui occorre ricordare, a necessario complemento, Il romanzo senza idillio.Saggio sui “Promessi Sposi”, Torino, Einaudi, 1974, (in particolare pp. 3-56).

73 Bertola, Viaggio sul Reno, cit., p. 106.74 Ibid., p. 105.75 Ibid., p. 106.76 Ibid., p. 108.77 Id., Diari del viaggio in Svizzera e in Germania (1787). Edizione critica e

commento a cura di M. e A. Stäuble, Firenze, Olschki, 1982, p. 268.78 Ibid., p. 268.79 Sulzer, De l’énergie dans les ouvrages du Beaux-Arts, cit., p. 485.

IV. La gradatio patetica: Bertola e Sulzer 111

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

80 Ibid., pp. 486-487.81 Su questo punto rinvio alle conclusioni di F. Lavocat, Arcadies malheu-

reuses. Aux origines du roman moderne, Paris, Champion, 1998.82 Ibid., p. 484.83 Bertola, Squarci di alcuni articoli tratti dalla Teoria universale delle Belle

Arti di Gio-Giorgio Sulzer, cit., p. 258.84 Loc. cit.85 Ibid., pp. 260-261.86 M. Mendelssohn, Principî generali delle Belle-Lettere e Bell’Arti. Trattati

del sublime e del naturale nelle Belle-Lettere, traduzione di Carlo Ferdinandi, inLausanna, Presso la Società Tipografica, 1779, pp. 40-41.

87 Ibid., p. 103.88 Ibid., p. 109.89 Ibid., p. 114.90 Bertola, Saggio sopra la Grazia nelle Lettere e nelle Arti, in Alcune

Operette in prosa di A. De Giorgi Bertola Riminese, Venezia, Tipografia diAlvisopoli, 1829, p. 116.

91 Cfr. a questo proposito C. Leri, “Poesia e pittura nel Saggio sopra la gra-zia nelle lettere ed arti”, e più in generale T. Scappaticci, “Tra retorica ed este-tica”, entrambi in Un europeo del Settecento, cit., rispettivamente pp. 167-186,187-200.

92 Bertola, Saggio sopra la Grazia, cit., p. 116.93 Ibid., p. 119.

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V. IL GIARDINO DI ARISTIPPO:ARTE E NATURA NEL TOURNANT DES LUMIÈRES

Nell’intreccio composito del Discorso sull’indole del piacere edel dolore di Pietro Verri, pubblicato a Milano nella edizione defi-nitiva del 1781, i paragrafi VIII e IX vengono dopo le pagine ini-ziali sulla confutazione della “morale geometrica” di Maupertuis,e in sintonia con l’interesse per le dinamiche misteriose della sen-sibilità sono dedicati all’esplorazione dell’universo mobile dellebelle arti attraverso il sentimento nuovo dell’inquietudine, intro-dotto nel testo con la variante significativa che chiude il para-grafo VII. Qui infatti, diversamente da quanto avviene nel libret-to del 1773, uscito a Livorno con il titolo più elementare di Ideesull’indole del piacere, l’insieme vago e sfuggente dei “dolori inno-minati”, ovvero “la serie dei mali che può aver l’uomo dentro disé senza avvedersene” e che “ogni uomo soffre senza esattamen-te distinguerne la cagione”, viene identificato in maniera sicuracon “l’uneasiness conosciuta dal pensatore Giovanni Locke” 1.

Occorre subito precisare che a parte questa brevissima masignificativa postilla si tratta di due luoghi del testo in cui la reda-zione definitiva nel testo dell’’81 si limita a riprodurre la stampalivornese del ’73, senza quei mutamenti e le aggiunte significati-ve che interessano l’ultima parte del libro, quando, prima delcapitolo finale che recupera a sorpresa la conclusione delle Ideesull’indole del piacere, l’autore si impegna in un travagliato pro-cesso di revisione dove l’indagine empirica e volutamente imper-fetta dei meccanismi della sensibilità si incontra con la riflessio-ne più aspra e bruciante delle Osservazioni sulla tortura, generan-do una serie di richiami e di corrispondenze che incidono profon-damente sulla struttura originaria 2.

Limitato ai paragrafi centrali, l’excursus estetico del Verri sem-bra già definito nelle sue linee generali nel testo degli anniSettanta, come mostrano le analogie numerose con le Ricercheintorno alla natura dello stile del Beccaria, edite nello stesso perio-

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

do, e da un altro punto di vista le note autografe di Pietro in mar-gine al manoscritto delle Idee sull’indole del piacere, che compro-vano l’autonomia del trattatello verriano rispetto alla tradizionerazionalistica e classicistica del Settecento. Messa a parte l’aggiun-ta significativa della citazione lockiana che chiude il paragrafo VIIponendo la riflessione teorica sotto il segno inequivocabile dell’u-neasiness, la trasposizione quasi automatica delle parti del testonell’insieme articolato dell’81 sembra dunque indicare solo unaconferma delle ipotesi formulate in precedenza, che assume peròun valore rilevante se si considera la storia interna del libro e ilrapporto mai interrotto con le estetiche irregolari del sublime edel pittoresco, di cui il Verri si fa fin dall’inizio portavoce.

Probabilmente anche grazie alla mediazione di Helvétius, l’au-tore forse più presente nella stratigrafia dialogica del Discorso, ladefinizione dei “dolori innominati” sovrappone il sentimentoindefinito dell’uneasiness, tradotto da Pierre Coste con il terminepiù diffuso di inquiétude, al modello notissimo di Dubos, perchiarire meglio la natura tutta psicologica di una mancanza inte-riore, “tedio, noia, inquietudine o malinconia” 3, all’origine diogni creazione artistica e letteraria. Come ribadisce in manieraperentoria l’incipit del paragrafo VIII riprendendo quasi alla let-tera le Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, “tutte lebelle arti hanno per base i dolori innominati” e “l’uomo vigorosoche ha la contentezza nel cuore è nel punto più rimoto della sen-sibilità”, la quale “s’accresce col sentimento della nostra debolez-za, dei nostri bisogni, dei nostri timori” 4, divenendo per così direla cifra stessa della modernità.

L’inquietudine che rivela all’uomo la sua insufficienza nell’uni-verso precario delle sensazioni e degli affetti, gli offre al contem-po lo strumento per superarla, secondo quella logica ambiguache Starobinski ha definito la legittimazione dell’artificio nellametafora eloquente del “rimedio nel male” 5. Per “uscire dalla tri-stezza che lo perseguita”, aggiunge infatti subito dopo il Verri let-tore attento di Dubos,

l’uomo per se medesimo si aiuta e cerca di abbellire e dianimare coll’opera della fantasia l’effetto delle belle arti,e per poco che abbia l’anima capace di entusiasmocome nella casuale posizione delle nubi ei ravviserà l’e-spressione di figure in vario atteggiamento, così nellevariazioni musicali s’immaginerà molti affetti, molti

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oggetti e molte posizioni, alle quali il compositoremedesimo non avrà pensato giammai 6.

Così, nella prospettiva aperta e mobile del Discorso, l’esteticadelle belle arti presa a prestito dalle Réflexions critiques si ampliafino a divenire quasi una teoria ermeneutica della ricezione. Inaccordo con le teorie retoriche di D’Alembert che avevano attira-to l’interesse del Beccaria 7 l’autore prefigura già il ruolo determi-nante del destinatario nella comunicazione emotiva generatadalla fantasia e dal sublime: non una semplice trasmissione diidee e di sentimenti, ma una sorta di partecipazione attiva chegenera significati sempre diversi nel sistema infinito dei richiamie delle allusioni interne che costituiscono il tessuto stesso dell’o-pera, non più limitata nello spazio e nel tempo. Se all’origine delpasso si trovano ancora le categorie dello pseudo-Longino cuil’Entusiasmo di Saverio Bettinelli aveva impresso nuovo slancio8, la nuova prospettiva individuata dal Verri ha il merito di con-centrarsi sul senso misterioso del “travaglio” che unisce l’autore eil destinatario del messaggio, ponendo l’accento sulle difficoltà ele dissonanze del circuito interpretativo piuttosto che sulla pie-nezza dell’espressione e sul “rapimento” dell’animo propri dellaretorica classicistica del sublime.

Procedendo nella lettura, il testo offre altre precisazioni chementre confermano la dipendenza originaria del Discorso dall’ar-chitettura magistrale di Dubos, chiariscono che la teoria dei“dolori innominati” si muove già in un’altra direzione rispetto alsuo modello, soprattutto se si tiene conto del fatto che l’inquiétu-de all’origine di ogni processo artistico non è destinata a placarsinella contemplazione del bello, come avviene nelle Réflexions cri-tiques, ma si trasforma nella chiave di lettura dell’intera esperien-za estetica. La “grand’arte”, continua infatti l’autore all’inizio delparagrafo nono,

consiste a sapere con tanta destrezza distribuire allospettatore delle piccole sensazioni dolorose, a farglielerapidamente cessare, e tenerlo sempre animato con unasperanza di aggradevoli sensazioni, in guisa tale ch’egliprosegua ad essere occupato dagli oggetti proposti, eterminatane l’azione, richiamandosi poi la serie dellesensazioni avute, ne veda una schiera di piacevoli, e siacontento di averle provate 9.

V. Il giardino di Aristippo 115

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

Qui il termine di riferimento del Discorso non è più solamentela teoria riconoscibile e diffusa delle “passions artificielles” decli-nata in vario modo per tutto il Settecento, che sulla scia delleRéflexions critiques insiste sull’importanza della conversione arti-stica degli affetti, quanto la scoperta inedita del dolore come sen-timento universale da cui prendono origine l’intero complessodella sensibilità e l’impulso stesso dell’arte. In altre parole,l’“aiguillon” di Locke diviene una sorta di grimaldello o strumen-to ermeneutico che consente di esplorare in profondità tutte levalenze dell’animo, dando vita a un più vasto sistema interiore diechi e risonanze che distingue l’universo moderno delle arti dauna visione ancora incentrata sull’imitazione della natura e sull’i-dea stessa di naturel 10.

Nel lume di queste premesse, conviene ora fermarsi sulloscambio di battute fra Pietro e Alessandro in margine alla copiamanoscritta delle Idee sull’indole del piacere, inviata dall’autore alfratello per raccoglierne a caldo opinioni e commenti 11, che ha ilpregio di fornire una visione sinottica delle due posizioni a con-fronto. Commentando il passo in cui Pietro insiste sulla necessitàdi inserire a tratti nel quadro delle “ombre più crude” e dei “trat-ti di pennello studiosamente strapazzati”, i quali generando “uneffetto spiacevole a vedersi” hanno la funzione di “fare gustare ladelicatezza, la luce e il colorito del sembiante”, Alessandro obiet-ta infatti in maniera esplicita:

Dirò che non ho altra idea del vero merito della pitturache la vera imitazione della natura. I più grandi autorinon hanno negligentata una pennellata, giacché non s’i-mita esattamente l’azione che fanno gli oggetti sull’oc-chio umano, che diligentemente descrivendoli. Dove ilpittore troverà con che fare una vera impressione, sarànella scelta della natura, di modo che nella scuolaromana non si dipinge mai senza la presenza dell’ogget-to. […]. Perché quanto è maggiore la perfetta imitazio-ne di quegli oggetti, tanto è maggiore l’azione che fannosullo spettatore. Il fuoco, la calda immaginazione devo-no far scegliere al Pittore un argomento interessante efare un piano del quadro che ecciti [il] sentimento rap-presentando qualche passione: ma nella esecuzionedella pittura tutto è esatto meccanismo, si tratta dicopiare diligentissimamente. Se il Pittore è Poeta nell’i-deare il quadro, dev’esser geometra nel dipingerlo 12.

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La replica immediata di Pietro, disposto solo in principio ariconoscere le competenze artistiche del fratello e nella realtàinteressato a ribadire quello che gli appare come un punto cru-ciale per l’intero sistema, non suona però meno decisa:

Hai ragione. Sei della buona scuola. Osserva però unafigura sarebbe più amena a vedersi se in ogni sua partefosse illuminata. Le belle donne alle feste notturnesanno assai bene che la loro figura è più seducente,forse non rifletteranno tutte che la molteplicità dellecandele spandendo una luce uniforme da ogni parteimpedisce che nel volto vi siano le ombre, ma egual-mente illuminandosi e le cavità e le prominenze delvolto ne nasce un colorito quasi d’un corpo lucido disua natura. Se un pittore ti facesse un quadro cosìsenza ombre e preso dalla bella natura ma col lume cheti dissi, farebbe una pittura del gusto delle chinesi, cheriuscirebbe esatta, finita ma troppo bella in ogni suaparte. Il pittore sceglie un punto di luce che dia mac-chia al volto, e dove sono le ombre certamente l’occhionon ha piacere a mirarle, anzi vi vuole l’educazione checi faccia piacere que’ contraposti. Un fanciullo preferiràuna figura chinese ben colorita a un Raffaello. Quest’èquello che io m’intendo di dire, che le ombre sono i latidisgustosi del quadro. Cancello i tratti di pennello stra-pazzati sebbene il Rembrandt e la scuola lombarda neusino 13.

È questo uno dei pochi casi in cui il confronto fertile delle idee,che solitamente imprime uno slancio nuovo al testo 14, si trasfor-ma in rigida contrapposizione: al termine del vivace scambio epi-stolare i due punti di vista rimangono distanti, e nel testo a stam-pa del ’73 le figure nitide e brillanti della “scuola romana” si ergo-no emblematicamente contro le “ombre” e le pennellate “disgu-stose” di Rembrandt e della “scuola lombarda”, che anche piùtardi l’autore del Discorso insiste a riproporre come l’esempioideale di un’arte fondata sugli effetti energici del contrasto e sulpassaggio repentino dal dolore al piacere. Come si evince da unfacile controllo, Pietro non apportò alcuna correzione al testo, néall’epoca delle Idee sull’indole del piacere né tantomeno alla finedegli anni Settanta, nella fase di revisione che lo trasformerànella trama più complessa del Discorso, quando il riferimentoalla maniera di Rembrandt e dei suoi epigoni italiani risultava a

V. Il giardino di Aristippo 117

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

maggior ragione più pertinente per lo sviluppo della teoria dei“dolori innominati” che costituisce la novità riconosciuta del trat-tato. A dare ascolto al maggiore dei Verri, è proprio il valoreintrinseco del contrasto a distinguere l’approccio artistico deimoderni, che comprende l’uso dell’artificio per ottenere una per-cezione più energica e vibrante, dalla pittura ingenua e “natura-le” dei fanciulli e dei selvaggi, cui viene ricondotta paradossal-mente la visione “geometrica” del classicismo romano illustratacon convinzione da Alessandro.

Più in generale, la conseguenza del ragionamento di Pietro è ilriconoscimento esplicito degli effetti della dissonanza e dei “trat-ti di pennello studiosamente strapazzati” 15 in una prospettivamobile e frastagliata dove le immagini “si alternano disgustose,poi aggradevoli e gentili” 16, del tutto simile a quella che compa-re nelle coeve Ricerche intorno alla natura dello stile, dove ilBeccaria aveva annotato significativamente:

Chiamasi patetico o appassionato quello stile nel qualele [idee] accessorie tutte indicano l’effetto e l’impressio-ne che soffre dagli oggetti chi scrive. Non v’è in naturaoggetto ridente e consolante che non abbia un lato serioo tormentoso. Il dolore si diffonde largamente per tuttala catena degli esseri sensibili. Respinto incessantemen-te, incessantemente ritorna; a tutti serve da stimolo, cheli sollecita ad allontanarsi dal presente, ed a spingerel’inquieto sguardo nell’avvenire, mentre il piacere nelseno dell’operosa voluttà facilmente addormentando gliuomini, non sarebbero spinti a quella progressiva seriedi mutazioni e vicissitudini, da cui dipende lo sviluppa-mento dell’umana perfettibilità, ed insegnandoci asostituirci ai nostri simili, stringe sempre più le relazio-ni morali, dalle quali l’amore non ragionato di noi stes-si ci allontanerebbe. Dunque gli oggetti li più ridenti eli più allegri possono, col considerarne le origini, le con-seguenze e le circostanze tutte, ricevere le tinte le piùforti e le più oscure della mestizia e del dolore. Anzi nonè mai più bello lo stile che quando vi sia un tal contra-sto, che necessariamente abbraccia una quantità piùgrande di sensazioni, e nel medesimo tempo più vera epiù reale 17.

Rispetto all’estetica della luce e del finito chiamata in causa daAlessandro o, negli stessi anni, dal Bertola, che ammette sola-mente il ricorso moderato alle risorse tradizionali di un chiaro-

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scuro nel quale la percezione dell’oggetto non risulta gravata daun eccesso di energia, la prospettiva radicale delle Ricerche sifonda proprio sull’intensità delle sensazioni. Secondo il Beccaria,che mette a frutto ancora una volta la lezione di D’Alembert 18, le“idee accessorie” semplicemente “suggerite o destate nell’animodi chi legge o di chi ascolta” favoriscono tutta una serie di rappor-ti emotivi con il destinatario che se fossero pienamente espressi“nuocerebbero al fascio intero delle sensazioni”, poiché “è leggedella nostra sensibilità che tutt’altra forza abbiano le idee espres-se e le tacciute” 19. Dipendente dalle idee accessorie, ovvero daidee “associate non immediatamente, ma per mezzo d’altre ideeintermedie” è non a caso quella sensazione mista di attesa e timo-re che si chiama curiosità, derivata “non dalla quantità delle ideeintermedie”, ma “dalla vivacità delle idee che la movono, perchéil moto doloroso eccitato sulle fibre interne che danno l’accorgi-mento di mancanza è maggiore in proporzione del movimentodelle fibre del senso esterno” 20. Come si può vedere, nella rifles-sione parallela del Verri e del Beccaria non agisce solo il richia-mo illuministico al dolore produttore di civiltà desunto da Lockeche ritorna più volte nell’ottica storica del Discorso, ma soprattut-to la visione moderna dell’inquietudine frutto di una mancanzache alcuni anni prima aveva dato vita al sublime di Burke, fonda-to sulla categoria psicologica della privazione, a conferma delruolo centrale attribuito alla sensibilità negativa nel sistema este-tico del secondo Settecento.

Nella Francia di Diderot e di D’Alembert la ricezione di Burkegiunge nel mondo dell’arte attraverso i Salons di Diderot e la teo-ria acutissima dei contrasti che induce a mettere in secondopiano l’immagine elegiaca di un dipinto notissimo di Poussincome i Bergers d’Arcadie, ripresa e commentata in vario modo daiseguaci di Dubos nella prima parte del secolo e divenuta quasi unemblema dell’arte raffinata della gradazione e del chiaroscuro,per riscoprire le valenze emotive di un quadro certo meno notocome L’homme aux serpents, costruito su una serie di repentinipunti di vista che escludendo ogni ricorso alla nozione classicisti-ca della gradatio o della sfumatura fa incontrare senza mediazio-ni il patetico e il terribile 21. Vale la pena di chiedersi allora se ciòche sembra senz’altro contare per il mondo francese, e quasi cer-tamente per il Beccaria nella formulazione non sempre chiarissi-ma delle Ricerche, possa in qualche modo agire all’interno di un

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Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

testo che si serve a sorpresa dell’espediente della rêverie speri-mentato in modi diversi da Diderot come strumento interpretati-vo.

Ai percorsi di fantasia dentro i paesaggi di Poussin, di Vernet edi Hubert Robert, corrisponde infatti nel Discorso una sorta di iti-nerario empirico all’interno di un immaginario “giardino dellasensibilità” intitolato dal Verri al filosofo cirenaico Aristippo, cheha la funzione di rappresentare l’intero universo dell’arte coltoper così dire in movimento, attraverso una serie di tappe emotiveche chiamano in causa non la contemplazione dell’oggetto, ma lasua percezione psicologica interiore. Qui la metafora animatadella promenade finisce per configurare un microcosmo o paesag-gio dinamico dominato dall’imprevisto e della sorpresa, dove lalibertà delle forme corrisponde all’immaginario aperto e mutevo-le della fisica newtoniana, con l’aggregazione spontanea degli ele-menti e delle sensazioni. A partire dall’Essai sur l’entendementhumain di Locke, del resto, il giardino, inteso come itinerariosensoriale e sentimentale nell’universo dell’esperienza (comemostrano, in modo diverso, le vicende tutte terrestri di Candide eJacques le Fataliste 22) diviene la terra d’elezione dell’“homme sen-sible” che associa la sfera dei fenomeni organici a quella degliaffetti.

La maschera stessa di Aristippo scelta dal Verri, probabilmen-te modellata sul breve ma intenso profilo dedicato al filosofo anti-co dall’Encyclopédie, indica non a caso un tipo di conoscenzalibera e asistematica, che insieme al valore intrinseco delle sensa-zioni riconosce l’instabilità e la perenne metamorfosi dell’io, alpunto che non esiste più un’unica dimensione definitiva, ma uninsieme di pulsioni e identità diverse per cui “il est mal de con-clure de soi à un autre, et du soi du moment présent au soi d’unmoment à venir” 23. A differenza di Epicuro, emblema riconosciu-to di una morale alta e immutabile che pone il piacere nella virtù24, il più “versatile” Aristippo fornisce un esempio altrettanto illu-stre ma più moderno e accessibile di filosofo naturale capace diadattarsi con disinvoltura “aux tems, aux lieux et aux personnes”,calato nella dimensione concreta della storia e dell’esperienza“soit qu’il veçut avec éclat sous la pourpre et dans la compagniedes rois, soit qu’il enseignât obscurément dans l’ombre et la pous-sière d’une école” 25.

Se poi, come suggerisce ancora il ritratto illuministico

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dell’Encyclopédie, si considera la qualità peculiare implicita diquesta visione del mondo pragmatica e utilitaristica, vale a direquella “commodité” razionale e generosa aliena dagli eccessisublimi di Antistene, di Diogene e di Socrate, ma sempre “accom-pagnée de dignité, pleine de difficultés et fort au dessus des talensd’un homme ordinaire” 26, si comincia a capire meglio il motivoper cui il Verri abbia fatto di Aristippo una sorta di alter ego dis-simulato, trasformandolo nel garante della morale provvisoria esperimentale del Discorso e di un’estetica parallela che si fondasulla natura viva e inesplorata delle sensazioni. Nella visione asi-stematica di Pietro il filosofo cirenaico ha il compito di illustrareil progetto di “scienza del sensibile” che come aveva insegnatoqualche anno prima l’Aesthetica di Baumgarten appare animataal suo interno dall’energia attiva delle passioni nei loro scambi erapporti molteplici 27.

Ma a questo punto è bene cedere la parola allo stesso Verri, perentrare a tutti gli effetti nel giardino allegorico, emblema delsistema delle arti, che compare al centro del Discorso:

L’abile artista in ogni genere debb’essere come il volut-tuoso giardiniero d’Aristippo. Un lunghissimo vialepiano, uniforme, fra due siepi paralelle, t’invita a unnojosissimo passeggio, che sempre ti presenta l’oggettomedesimo, e ti guida alla stanchezza prima che ti siaavveduto d’aver cambiato luogo. A quel viale s’assomi-glia ogni opera laboriosa, esatta, regolare, ove non siaviverun lato negligentemente tocco. Quel viale è un placi-do poema di versi tutti sonori, è una musica tutta diconsonanze, è una pittura cinese tutta monda e di viva-ci colori. Non v’erano viali nel giardino di quel filosofo.Il passeggio era preparato con una varietà deliziosa. Unsentiero t’invitava al bosco, l’attraversavi calpestandol’erbe e i fiori che i raggi del sole non avean veduti mai:una fresca umidità, un sacro silenzio regnavano d’intor-no, e quasi provavi spiacere e timidezza, come se ivi tiritrovassi separato dal soccorso degli uomini; appenaquesto sentimento cominciava a molestarti, improvvi-samente eccolo cessato; termina il bosco, e ti si affac-ciava da un lato la vista d’una spaziosa campagna popo-lata di case; spigni l’occhio quanto puoi, non troveraialtri confini che l’orizzonte. Esaminavi deliziosamentequest’oggetto; ma t’inquietava la curiosità di godered’altre sorprese, che ben conoscevi esserti preparateancora dopo un sì giudizioso principio, e questa curio-

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Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

sità, molestamente scuotendoti, ti obbligava ad inol-trarti. Dopo pochi passi inutilmente ti rivolgevi perrimirar nuovamente la bella vista, perché una collinettavicina rimaneva frapposta all’oggetto, e come un belsipario chiudeva la passata scena. Qui diventava piùangusto il teatro che avevi davanti gli occhi; varj ruscel-li parte cadenti, parte lambenti lo strato della collinaoccupavano piacevolmente il tuo sguardo. Restava daascendere. Il sentiero diventava rapido, e di qualcheincomodità. Appena cominciavi a provarne dolore estanchezza, eccoti una grotta non prima veduta, dovel’acqua zampilla da ogni parte, e dove agiatamente tisedi a rimirarla. L’acqua sapientemente diretta ivi davamoto a concerti musicali, che ti sorprendevano perchéinaspettati. La dolce melodia pastorale ti lasciava inpreda a soavissime immagini; l’ardita sinfonia dellaguerra e della caccia ti urtava in seguito, e ti rinvigori-va sin che, destandoti nuovamente l’importuna curio-sità, ti alzavi e proseguivi il passeggio, frattanto giàpunto da due dolori, stanchezza e curiosità. Il cammi-no giudiziosamente ti riconduce d’onde partisti senza lanoja di replicarti le stesse sensazioni. Ora ti ricreano isoavissimi odori de’ fiori e delle piante più rare, inseguito un prospetto impensato di antica architetturarovinata dal tempo; qui un tempietto, là un parco difiere, poi un piccolo canale navigabile ti sorprendonoaggradevolmente, e fanno rapidamente cessare i senti-menti dolorosi che naturalmente s’intrudono fra l’uno el’altro oggetto, e ritornavi all’albergo dopo un’ora beata-mente impiegata, pago del modo col quale eri frattantovissuto 28.

Fin dall’inizio, nella sua accezione letterale, il passo rinvia almodello del giardino pittoresco che nella seconda metà delSettecento trasforma profondamente il paesaggio secondo leindicazioni di autori come Hirchfeld, la cui Theorie derGartenkunst circola in francese dal 1779, e più tardi di Delille, chesul finire del secolo pubblica Les Jardins, ou l’art d’embellir le pay-sage aggiungendo nuovi elementi a una visione poetica che si ègià nutrita degli Idilli di Gessner e delle Rêveries di Rousseau.Come ha osservato Michel Baridon, “le triomphe de la perspecti-ve atmosphérique sur la perspective linéaire, sentie commeancienne et dictée par des a priori”, pervade il giardino della sen-sibilità che “dégéométrise la nature pour participer à sa vieprofonde” 29. Rifiutando le linee diritte e la regolarità del disegno

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in favore del contrasto e dal frammento come percezione parzia-le dell’intero, la prospettiva fantastica di William Chambers,esemplificata nelle vedute dei Kew Gardens di Londra che prece-dono di una decina d’anni la prima stampa del trattato verriano,contempla la rapida successione di una serie di scenari oppositi-vi che trascorrono dall’orrido all’idillico, dal romanzesco all’ele-giaco. Ma da questo punto di vista la promenade immaginaria delVerri ricorda anche la passeggiata “istruttiva” tracciata daWilliam Shenstone nella tenuta di Leasowes, in cui il percorsosensoriale e filosofico viene articolato in una serie di momentidiversi che includono la meditazione malinconica attraverso lascoperta improvvisa delle rovine ricoperte dalla vegetazione,immagine simbolica di un intreccio nel quale, come avrebbe di lìa poco suggerito Rousseau, l’arte dell’uomo combatte contro lanatura solo per rivelare il suo potere illusorio. Sull’esempio delleObservations on modern gardening di Thomas Whately, pubblica-te nel 1770, quasi subito tradotte in francese, e della Théorie desjardins di Jean-Marie Morel (1776), si sviluppano in Italia unaserie di imitazioni del jardin anglo-chinois di cui lo stesso Verriaveva offerto un esempio con l’articolo del “Caffè” intitolato Ledelizie della villa, in anticipo sulla riscrittura metaforica delDiscorso. Proprio per l’affinità implicita tra i due testi convienesoffermarsi sulla descrizione del “Caffè”, che decreta il ripudiodefinitivo del parco geometrico alla francese, emblema di ungusto oramai distante dalla sensibilità moderna, in favore dellefantasie ariose del giardino pittoresco, nel quale non figurano

viali, parterre o “simmetria alcuna, ma bensì la naturaferace, che ha prodotto una sorta di boscaglia irregola-re per dove non si sa bene come entrare; ma avvicinan-dovi, un sentiero vi guida in quel delizioso boschetto,dove le erbe che premete son dittamo, timo, serpillo esimili fragrantissime che imbalsamano co’loro naturaliprofumi l’aria che respirate; ivi per tubi sotterranei visbocca l’acqua, condotta nascostamente dalle vicinesorgenti della collina e così artificiosamente dispostache sembra nascere e serpeggiare in diversi piccoliruscelli che vanno inaffiando le rose, le fragole, le vio-lette ed altri fiori ed erbe grate per la figura e la fragran-za. Gli uccelli ivi liberamente vivono e fanno il loronido, e sono sì domesticati cogli uomini (fatti animalibenefici in quel recinto) che quasi non temono d’essere

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Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

da noi toccati. Questo passeggio è delizioso in ogni sta-gione, ma sopramodo nella state, quando le piante sonoben coperte; e qui sono sì giudiziosamente disposte chesembra opera libera della natura quello che è l’ultimoraffinamento dell’arte. Queste piante poi sono tuttefruttifere e nessuna sterile vi si sopporta, onde nel pas-seggio medesimo trovate che la natura vi presenta diprima mano i suoi più deliziosi doni. Nel mezzo di que-sto incantato boschetto v’è una circolar pianura, nellaquale stanno pittorescamente sparsi diversi rottamid’antica architettura, colonne, archi, piedestalli, iscri-zioni, scale mezzo diroccate, statue cadute e infrante,tante anticaglie in somma coperte d’erbe su di essenascenti; e sì graziosamente disposte e interrotte daalcune piante nate fra’ dirupi, ch’io mi rimasi attonitoed assorto per la sorpresa e per la vaghezza del disordi-ne … 30.

Al pari dell’Elysée di Julie che compare al centro della NouvelleHéloïse, cui rinvierà nello stesso anno del Discorso un altro scrit-tore vicino al Verri, Francesco Milizia 31, l’immagine delineatadelle Delizie della villa riflette in chiave allusiva il “paysage mora-lisé” del romanzo, dove l’itinerario naturale corrisponde a quellodell’animo, regolato nei suoi impulsi e sentimenti dalla tecnicacollaudata del dressage cartesiano, che nell’universo del sensismosi trasforma in metafora animata. Così nel verger di Julie, simbo-lo di un equilibrio effimero tra la ragione e gli affetti, lo spazioincolto della giovinezza diviene sotto la cura paziente del tempoe della volontà un giardino “frais, vert, habillé, paré, fleuri, arro-sé”, nel quale l’“agréable” sembra prevalere sull’“utile”: un locusamoenus rinnovato dall’utopia settecentesca del bonheur, doveperò le “sources artificielles” che contengono e dirigono le acquedel ruscello ribadiscono la necessità di educare la natura brutadei sentimenti. Vale la pena di riproporre una parte della notissi-ma pagina rousseauiana, filtrata attraverso l’ottica autobiografi-ca di Saint-Preux, che illumina il nesso fra arte e natura:

En entrant dans ce prétendu verger, je fus frappé d’uneagréable sensation de fraicheur que d’obscurs ombra-ges, une verdure animée et vive, des fleurs éparses detous côtés, un gazouillement d’eau courante et le chantde mille oiseaux portèrent à mon imagination du moinsautant qu’à mes sens; mais en même temps je crus voirle lieu le plus sauvage, le plus solitaire de la nature, et il

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me semblait d’être le premier mortel qui jamais eutpénétré dans ce désert. Surpris, saisi, transporté d’unspectacle si peu prévu, je restai un moment immobile,et m’écriai dans un enthousiasme involontaire: ÔTinian! ô Juan-Fernandez! Julie, le bout du monde est àvotre porte! […]. Beaucoup de gens le trouvent icicomme vous, dit-elle avec un sourire; mais vingt pas deplus le ramenent bien vite à Clarens: voyons si le char-me tiendra plus longtems chez vous. C’est ici le mêmeverger où vous êtes promené autrefois, et où vous vousbatiez avec ma Cousine à coups de pêche. Vous savezque l’herbe y étoit assez aride, les arbres clair-semés,donnant assez peu d’ombre, et qu’il n’y a avoit pointd’eau 32.

La reazione del protagonista dinanzi alla metamorfosi inattesae sorprendente della natura, condotta dall’artificio al suo piùpieno e maturo rigoglio, ha l’effetto di amplificare l’apparenzaillusoria di un giardino dominato dal senso del miraggio, delmutamento e della fantasmagoria ottica che diviene una sorta divertigine dei sensi, anche grazie all’uso straniato della botanicache trasforma il consueto nell’esotico:

Je me mis à parcourir avec extase ce verger ainsi méta-morphosé; et si je ne trouvai point de plantes exotiqueset de productions des Indes, je trouvai celles du paysdisposées et reunies de manière à produire un effet plusriant et plus agréable. Le gazon verdoyant, épais, maiscourt et serré était mêlé de serpolet, de baume, de thim,de marjolaine, et d’autres herbes odorantes. On y voyoitbriller mille fleurs de champs, parmi lesquelles l’œil endémêloit avec surprise quelques unes de jardin, quisembloient croitre naturellement avec les autres. Je ren-controis de temps en temps de touffes obscures,impénétrables aux rayons du soleil comme dans la plusépaisse fôret […]. Dans les lieux les plus découverts, jevoyois çà et là sans ordre et sans symétrie des broussail-les de roses, de framboisiers, de groseilles, de fourrés,de lilac, de noisetiers, de sureau, de seringa, de genêt,de trifolium, qui paroient la terre en lui donnant l’aird’être en friche. Je suivois des allées tortueuses et irré-gulieres bordées de ces bocages fleuris, et couvertes demille guirlandes de vigne de Judée, de vigne vierge, dehoublon, de liseron, de coulevrée, de clématite […]. Cesguirlandes sembloient jetées négligemment d’un arbre àl’autre, comme j’en avois remarqué quelquefois dans les

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Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

fôrets […]. Alors seulement je découvris non sans sur-prise que ces ombrages verts et touffus qui m’en avoienttant imposé de loin, n’étoient formées que de ces plan-tes rampantes et parasites qui, guidées le long desarbres, environnoient leurs têtes du plus épais feuillageet leurs pieds d’ombre et de fraicheur 33.

Emblema di un paesaggio tra il bucolico e il pittoresco, percor-so dalle inquietudini sottili del secondo Settecento, il verger diClarens assume fin da subito le sembianze illusorie di un “para-dis truqué” dove il mito nostalgico del primitivismo che proiettasul labirinto verde dell’Elysée il sogno robinsoniano di una terraincontaminata non può sopravvivere a quello che è stato definitoil “desengaño” del moderno, la rivelazione improvvisa del vinco-lo che unisce l’Arcadia al mondo irreale dell’Utopia 34. È probabi-le infatti che anche la metafora del giardino si configuri, dentrol’orizzonte profetico e pedagogico dei Lumi, come un’isola nellasocietà, vale a dire, per ripetere le parole di Baczko, come laproiezione di un’alterità ideale caratterizzata da un lato dallavolontà di isolamento che separa per sempre gli individui dallastoria, e dall’altro dal tentativo di aprirsi al mondo offrendo l’e-sempio persuasivo di una nuova immagine comunitaria 35.Senonché il dialogo che si sviluppa fra i tre personaggi delromanzo, scandito dall’allegoria metamorfica del paesaggio, apresubito una frattura all’interno della visione pacata e seducentedegli affetti ricomposti nel microcosmo familiare illusorio. Se daun lato le virtù sociali chiamate in causa dall’illuminista Wolmar,vale a dire “l’économie, la patience et le tems” sono responsabili,nel sistema coerente ma astratto di Clarens, di uno spazio esteti-co e morale dove il godimento quieto della contemplazione èincalzato dal “plaisir de la recherche et du choix” e dal sentimen-to pressante della “curiosité”, la presenza ambivalente di Julie,sospesa tra natura e artificio, svela il senso nascosto di un Edenfittizio percorso da segreti contrasti e tensioni sotterranee.

Ecco come prosegue l’esplorazione del giardino affidata anco-ra una volta alla memoria soggettiva di Saint-Preux:

Plus je parcourois cet agréable azile, plus je sentois aug-menter la sensation délicieuse que j’avais éprouvée en yentrant; cependant la curiosité me tenait en haleine: j’é-tois plus empressé de voir les objets que d’examiner

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leurs impressions, et j’aimois à me livrer à cette char-mante contemplation sans prendre la peine de penser;mais M.me de Wolmar me tirant de ma rêverie me diten me prenant sous le bras: tout ce que vous voyez n’estque la nature végétale et inanimée, et quoiqu’on puissefaire, elle laisse toujours une idée de solitude qui attri-ste. Venez la voire animée et sensible. C’est là qu’à cha-que instant du jour vous lui trouverez un attrait nou-veau 36.

Come il lettore sa, è proprio l’episodio della voliera in cui gliuccelli appaiono agli occhi incantati del protagonista “des hôteset non pas des prisonniers” 37, uno dei punti di svolta del libro,nella dialettica ambigua di ordine e disordine innescata dal con-fronto con l’universo libero e spontaneo della natura: “Qu’appelezvous des hôtes, répondit Julie? C’est nous qui sommes les leurs.Ils sont ici les maîtres, et nous leur payons tribut pour en êtresoufferts quelquefois” 38. Nell’ermeneutica simbolica del roman-zo, non a caso, l’utopia effimera dell’Elysée sarà ben presto sosti-tuita da un’altra metafora naturale: quella complementare del“réduit sauvage et désert” che insieme alla furia incontrollata deltorrente cela in figura il monumento vivo di una passione maisopita, “si constante et si malheureuse” 39. Come avviene per lefantasmagorie di Circe e di Armida cui alluderà ancora l’ultimoromanzo “rousseauiano” dell’Ottocento post-romantico, leConfessioni di un italiano del Nievo, lo spazio coltivato di Clarenssparisce quasi per incanto, lasciando intravedere, con il disingan-no del cuore, il nucleo originario di una sofferta quanto inutileeducazione sentimentale nell’immagine duratura del disadorno eprimitivo verger che si riverbera ancora una volta nel locus amoe-nus teatro dell’ultima promenade malinconica degli amanti, stret-to fra “un grand bois de chêne” e “la cime du majestueux Jura”.

È anche l’ultima metamorfosi del giardino che chiude la quar-ta parte del romanzo e prelude alla sua conclusione tragica,prima del notturno lacustre che suggella una volta per tutte l’im-magine del paradiso perduto scoprendo il potere negativo di unamemoria che esiste solo per aumentare l’infelicità del presente.Ascoltiamo dunque ancora una volta le parole di Saint-Preux, chetestimoniano la vittoria della natura bruta sull’artificio e la vio-lenza di una passione oramai intraducibile nella grammatica illu-ministica degli affetti:

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Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

Au milieu de ces grands et superbes objets, le petit ter-rain où nous étions étalait le charme d’un séjour riantet champêtre; quelques ruisseaux filtraient à travers lesrochers, et roulaient sur la verdure en filet de cristal.Quelques arbres fruitiers sauvages penchoient leurstêtes sur les nôtres; la terre humide et fraîche était cou-verte d’herbe et des fleurs. En comparant un si douxséjour aux objets qui l’environnent, il sembloit que celieu désert dut être l’asile de deux amants échappésseuls au bouleversement de la nature 40.

Prima di tornare alla compagine mista del trattato verriano, incui tutti questi elementi ritrovano una loro collocazione nell’am-bito della nascente teoria psicologica dell’arte, è forse utile segna-lare l’applicazione produttiva del modello rousseauiano in unambito più vicino, a cominciare dal suo trasferimento letterarionelle Avventure di Saffo, che vede la luce un anno dopo l’edizionemilanese dei Discorsi. Nella parte centrale del romanzo, che costi-tuisce una sorta di pausa narrativa rispetto alla dinamica convul-sa degli eventi simile alla scansione accelerata di una tragedia,Alessandro Verri mette in scena i colloqui tra la protagonista e ilfilosofo Eutichio “lungo un’ombrosa via ricoperta da’ rami deglialberi cresciuti in retto solco” 41, e “nelle vie del florido giardino”al riparo di una “grotta artificiosa”, ornata di “marmorei sediliall’ombra di sempre verdi allori” 42. Modellato sul simbolismotrasparente della Nouvelle Héloïse, il “piacevole albergo”dell’“ospite siciliano vuole rappresentare dentro la storia domi-nante di una passione invincibile l’ottica alternativa di chi haaffrontato e vinto “gli amorosi cimenti”, ma la sua collocazione alcentro del libro non può che segnalare ancora una volta l’ambi-guità costitutiva dell’immagine, la sua valenza illusoria per quel-lo che riguarda le vicende della protagonista e lo scioglimentostesso del dramma, prefigurato da una serie di allusioni traspa-renti come l’allegoria ripetuta della tempesta che scandisce iltempo del romanzo, o il volo degli uccelli che nel linguaggio diRousseau significa sempre l’unione proibita fra istinto e volontà,natura e destino. Come chiosa la voce del narratore,

… ella comprendeva che se fosse ivi giunta con animotranquillo, tante erano le delizie del luogo ed i socialiallettamenti, che non avrebbe invidiato il libero volodegli uccelli nell’aere sereno, vivendo in così piacevole

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albergo. Ma pure talvolta il prepotente amore turbavaquesta calma fallace, onde in mezzo de’ piacevoli ragio-namenti che si continuavano a passeggiando per quegliameni sentieri, le ricopriva la fronte mal nascostamestizia, e spesso anche scendevano le lagrime a mani-festarla, benché terse furtivamente 43.

Solo dopo aver ascoltato il racconto dei “giovanili errori” 44 diEutichio, con la rievocazione a distanza di un “naufragio” interio-re nella prospettiva quasi metastasiana del “provetto nocchieroche narra le passate procelle” 45, a Saffo è concessa una brevepausa dal “delirio” del cuore, tradotta ancora una volta nell’im-magine del giardino coltivato, ricordo “de’ tempi felici ne’ quali lacultura del pomario domestico era per lei delizioso trattenimen-to”. Così, “mossa dall’esempio” di un racconto esemplare, di fattoirripetibile dentro la realtà viva della passione,

prese un sarchio e potò un albero, nel quale si dissipa-va la forza vegetabile in rami soverchi; e quasi fossequesta una prova insufficiente della sua perizia, innestòcon molta e leggiadra prestezza l’albero vicino.Tralasciarono gli altri i loro lavori, attenti a quelli di lei,e lodaronla con lieti modi chiamandola amabile edesperta coltivatrice, e quindi Eutichio la introdusse nelpomario, dov’erano raccolti e ricinti di siepe spinosaalberi fruttiferi, non meno di stranieri climi, che dellaSicilia 46.

Anche nella cornice stilizzata del romanzo antico esiste insom-ma una corrispondenza manifesta tra l’arte sapiente della coltiva-zione, nella quale l’eroina si esercita nell’intervallo effimero deltormento amoroso, e la visione contemplativa di un’esistenzaregolata con saggezza, lontana dal tumulto degli affetti come dal“dissipato incanto” delle passioni. L’immagine emblematica delgiardino trova del resto alla fine del Settecento un terreno fertile,se è vero che la si ritrova con poche varianti in due romanzi percerti versi simili come il Sepolcro su la montagna, o Luigia edAlfonso di Giovan Battista Giovio e il libro incompiuto del Botta 47,entrambi del 1796, che dall’archetipo della Nouvelle Héloïse deri-vano non solo la grammatica interna, ma soprattutto la diffusainquietudine nei confronti dell’utopia cartesiana e poi illuministi-ca della maîtrise e del dressage delle passioni. Ecco come si pre-

V. Il giardino di Aristippo 129

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

senta il microcosmo degli affetti di matrice rousseauiana nellariscrittura stilizzata del Giovio:

Alfonso avria voluto che le vicinanze e l’accesso delpascolo fossero dell’amenità maggiore, del passeggiopiù facile, là troncava rami, qui toglieva, od accrescevala terra; giunse fino a romper macigni, e formarne pon-ticelli. Il viaggiatore sariasi meravigliato in veder fra ipiù remoti deserti di nostre rupi or leggiadre volte dicarpini, or bei sedili di fresche erbe, or ben regolatoruscello, sulle cui sponde smaltavasi il verde da più beicolori dei fioretti che soglionsi educare ne’ nostri giar-dini. […]. Due bei filari di viti scorrevano in lungo a duefianchi della casa, i quai terminavano poi in prospettocon un circolar pergolato. […]. Lungo la casa v’erano lepiù vaghe spalliere di gelsomini e di rose, e dirette eransì bene, che ognor pullulavano di fiori nuovi. Le api visi recavano a sciami, e tutta l’aria n’era imbalsamata.[…]. Ivi presso in bella conca naturale arrestavansi leacque cristalline del ruscello, che Alfonso aveva dalmonte guidato presso il nostro soggiorno 48.

Se l’esile dramma pastorale del Giovio, modellato sullo schemanarrativo di Paul et Virginie, si chiude con una battuta che sembraanticipare la tragedia imminente dell’Ortis (“son pur terribilianche le oneste passioni!” 49), il romanzo autobiografico del Bottanarra la cronaca interiore di un innamoramento “fatale” con lastessa attenzione minuziosa riservata alla vita delle piante e alciclo ininterrotto della natura, che nel libro alludono alla metafo-ra dell’esistenza nel suo perenne sbocciare per poi ripiegarsi eavvizzire sotto la morsa del gelo invernale. E “invernale” è anche,all’inizio, l’indole del protagonista: “pensoso e taciturno”, amantedei “tranquilli godimenti” dell’amicizia e timoroso delle “troppomosse passioni” che premono al suo interno come le acque di unfiume “lungamente da grosso argine rattenuto” 50. Ma d’altrocanto, come suggerisce la parabola del buon parroco viticoltore inuno dei passi più significativi del libro, solo la cura sapiente del-l’animo, l’educazione paziente degli affetti e dei desideri consentealla pianta di crescere senza “incatorzolire”, generando altri vir-gulti. Sull’esempio illuminante di Rousseau la botanica diviene neltesto incompiuto del Botta la scienza più vicina a decifrare i gero-glifici del cuore, nel tentativo di placare i “neri fantasmi d’imma-ginazione” 51 che fin dalle prime pagine preludono alla rottura di

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un idillio mai veramente cominciato. Non più compresa nella cor-nice del giardino, la metafora slegata della pianta finisce per espri-mere un’energia incontenibile e misteriosa che contiene in sé leragioni oscure del suo eccessivo rigoglio come del suo sfiorireimprovviso e irreparabile.

Nel caso precoce di Alessandro Verri il rapporto con l’archeti-po della Nouvelle Héloïse appare più complicato di quanto avven-ga nei romanzi che allo scadere del secolo hanno assorbito iltopos del giardino coltivato, con tutto ciò che questo comporta,attraverso l’idillio tragico di Bernardin de Saint-Pierre 52, perchéil tentativo scoperto di emulazione nel travestimento classicodelle Avventure di Saffo intende contrapporsi in maniera dichia-rata, proprio attraverso la figura di Eutichio, al romanzo “liberti-no” di Rousseau, nel quale, come aveva scritto l’autore in una let-tera al fratello, le “voci della natura” e i “più puri sentimenti” ser-vivano alla fine a giustificare l’impeto terribile di una passionesciolta da ogni vincolo 53. In luogo della “morale falsa” dellaNouvelle Héloise, diffusa “sotto il velo del sentimento filosofico” eattraverso i “veleni” di una retorica insidiosa al servizio dellaseduzione (sulla quale ritornerà con argomenti non dissimili ilFoscolo dell’Ortis), egli affida il racconto antico degli “acerbi casidella misera Saffo” alla mediazione prudente di una scrittura“non poetica, ma storica”, e tuttavia non aliena dal ricorso alla“poetica immaginazione” 54.

Senza addentrarci troppo in un confronto che meriterebbeun’indagine a parte, anche la breve incursione nel romanzo diAlessandro, vicino per molti versi al trattato di Pietro di cui rap-presenta in qualche caso la verifica in chiave narrativa, mostrache rispetto all’omaggio convenzionale delle Delizie della villa ealla replica romanzesca delle Avventure di Saffo è proprio lo sce-nario filosofico del Discorso ad assimilare le istanze più nuove eproduttive dell’universo rousseauiano. Calata all’interno dellariflessione più ampia sulla sensibilità, la metafora del giardino diAristippo coniata da Pietro abbandona la prospettiva statica del-l’allegoria morale, che configura un percorso già noto, per esplo-rare le valenze soggettive di una promenade che traduce la corri-spondenza segreta di corps e âme nelle leggi psicologiche enun-ciate dal Beccaria. Proprio tale corrispondenza, del resto, portacon sé l’attenzione per la dimensione nuova dello spazio nel rap-porto tra sensibilità, immaginazione e memoria, arricchito dallo

V. Il giardino di Aristippo 131

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

scambio emotivo tra l’artista-giardiniere e “la coscienza del ricet-tore-spettatore” 55, che come ha notato Starobinski nel caso nondissimile di Diderot sperimenta su di sé le valenze patetiche insi-te nel paesaggio. Al pari delle “idées accessoires” risvegliate da“hautes montagnes”, “antiques forêts” e “ruines immenses”, neltrattato verriano i richiami al “bel sipario” che chiude “la passatascena”, al “parco di fiere” e al “prospetto impensato di anticaarchitettura rovinata dal tempo” generano un insieme di immagi-ni e di sentimenti autonomi che riempiono il quadro più deglioggetti e delle figure con una identità precisa, in quanto proiezio-ni infinite di un mondo interiore mutevole e misterioso. Avevascritto Diderot negli Essais de peinture, la cui prima stesura risa-le al 1766:

La vue d’un torrent, qui tombe à grand bruit à traversdes rochers escarpés qu’il blanchit de son écume, mefera frissonner. Si je ne les vois pas, et que j’entende auloin son fracas, “C’est ainsi, me dirai-je, que ces fléauxsi fameux dans l’histoire ont passé: le monde reste, ettous leurs exploits ne sont plus qu’un vain bruit perduqui m’amuse”. Si je vois une verte prairie, de l’herbetendre et molle, un ruisseau qui l’arrose, un coin deforêt écarté qui me promette du silence, de la fraîcheuret du secret, mon âme s’attendrira; je me rappellerai decelle que j’aime: “Où est-elle? m’écrierai-je; pourquoisuis-je seul ici?” 56.

All’interno di un circuito ermeneutico nel quale la coppiaaction-réaction viene ad assumere un significato proprio a parti-re dal valore “quantitativo” della reazione che corrisponde sem-pre in maniera vitale all’azione 57, il pensiero del Verri sembra cosìritrovare la sua collocazione più precisa. Fuori dell’ambito mime-tico del romanzo, dall’allegoria morale delle passioni che conti-nua a riprodursi fino alla fine del secolo e oltre, ricevendo nuovoimpulso dagli scenari terribili della Rivoluzione 58, l’utopia deiLumi si è trasferita dentro il mondo dell’arte e della storia, con-tribuendo a delineare una prospettiva estetica non univoca nécompiuta, dove ogni stadio del cammino interpretativo corri-sponde a quello sensoriale secondo una scala delle passioni scan-dita dai “dolori innominati” e alimentata dall’energia creativa deicontrasti. Non si tratta di un itinerario morale, né di una rêveriesolitaria. Anche se il giardino di Aristippo prevede la figura del-

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l’artista-giardiniere che predispone per così dire le tappe del per-corso, solamente la reazione dello spettatore assunta come parteintegrante del cammino invera quell’itinerario, lo trasforma invita vissuta. Le passioni che costituiscono il motore sensibile del-l’esperienza non sono più proiezioni di quanto esiste fuori, nellamente e nella memoria dell’autore, ma fantasmi creati dall’imma-ginazione nell’assenza e nell’ombra, pronti a trasformarsi in altripaesaggi sconosciuti: le visioni e le vertigini dell’interiorità che ilTournant des Lumières si accinge a esplorare.

1 P. Verri, Discorso sull’indole del piacere e del dolore, in Id. I “Discorsi” ealtri scritti degli anni Settanta, a cura di G. Panizza. Con la collaborazione diS. Contarini, G. Francioni e S. Rosini (vol. III dell’Edizione nazionale delleOpere di P. Verri), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2004, p. 107.

2 Sul rapporto complesso tra il Discorso e le Osservazioni rimando allamia Nota introduttiva a Verri, Discorso sull’indole del piacere e del dolore, cit.

3 Verri, Discorso sull’indole del piacere e del dolore, cit., p. 106.4 Ibid., p. 105.5 Cfr. J. Starobinski, Le remède dans le mal. Critique et légitimation de l’ar-

tifice à l’âge des Lumières, tr. it., Il rimedio nel male: critica e legittimazione del-l’artificio nell’età dei Lumi, Torino, Einaudi, 1990.

6 Verri, Discorso sull’indole del piacere e del dolore, cit., p. 106.7 Cfr. su questo punto G. Gaspari, Beccaria lettore di D’Alembert, in Id.,

Letteratura delle riforme. Da Beccaria a Manzoni, Palermo, Sellerio, 1990,pp. 154-172.

8 Si veda a questo proposito E. Bonora, Pietro Verri e l’Entusiasmo delBettinelli (con lettere inedite di Pietro Verri), in “Giornale storico della lettera-tura italiana”, CXXX (1953), pp. 204-225.

9 Verri, Discorso sull’indole del piacere e del dolore, cit., p. 115.10 Sull’estetica classicistica e razionalistica del naturel cfr. A. Pizzorusso,

Crousaz e una dottrina del “Bello”, in Id., Teorie letterarie in Francia. Ricerchesei-settecentesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1968, pp. 325-350.

11 Come si evince dall’epistolario, il testo fu spedito ad Alessandro il 4novembre 1772. Si tratta del Ms. 390.I conservato presso l’Archivio Verri, dicui si veda la descrizione in G. Panizza, B. Costa, L’archivio Verri. Parteseconda. La “Raccolta verriana”, Milano, Fondazione Raffaele Mattioli per lastoria del pensiero economico, 2000, pp. 131, 132. Inviando al fratello lacopia delle Idee sull’indole del piacere Pietro scrive sulla c. IV: “Caro Sandrino,ho legati i fogli bianchi acciocché su questi tu scriva tutto quello che ti vienein mente alla lettura di questo scritto. Non vorrei da te una critica limata, mavorrei tutt’i pensieri che ti fa nascere la lettura. Scrivili come se fosse roba tua.[…]”. E Alessandro glossa: “Scriverò tutto quello che mi verrà in testa senzaamor proprio. 11 novembre 1772. Roma”. Ricevuto indietro l’esemplarepostillato, Pietro interviene a sua volta commentando le osservazioni del fra-tello, in un vivace scambio dialogico testimoniato in parallelo dalla corrispon-denza. Cfr. Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, dal 1776 al 1797, a cura diE. Greppi, A. Giulini, F. Novati, G. Seregni, Milano, Cogliati (e poi Milesi eGiuffrè), 1910-1942, t. V, in particolare pp. 202-209 (ma la revisione del testo

V. Il giardino di Aristippo 133

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

si estende ai mesi di novembre e dicembre 1772 interessando quasi tutte lelettere del periodo).

12 P. Verri, Idee sull’indole del piacere, Ms. 390.I, c.281v. 13 Ibid., c. 283r.14 Si veda ad esempio la lettera di Pietro del 28 novembre 1772: “ho ter-

minato di ripassare il libro. Ora ti accenerò il solo divergente che passa fra lenostre opinioni, poiché tutto quello che non ti accenno s’intende che l’hoadottato apertamente” (Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, cit., t. V, p.218). Più in generale sulle dinamiche dell’epistolario cfr. ora B. Anglani, “Ildissotto delle carte”. Sociabilità, sentimenti e politica tra i Verri e Beccaria,Milano, Franco Angeli, 2004 (parte II).

15 Verri, Discorso sull’indole del piacere e del dolore, cit., p. 116.16 Ibid., p. 117.17 C. Beccaria, Ricerche intorno alla natura dello stile, cit., pp. 143-144.18 Nell’articolo Élocution dell’Encyclopédie rielaborato poi nel secondo

tomo dei Mélanges de littérature, d’histoire et de philosophie, pubblicato adAmsterdam nel 1766. Su questo punto cfr. ancora Gaspari, Beccaria lettore diD’Alembert, cit.

19 Beccaria, Ricerche intorno alla natura dello stile, cit., p. 94.20 Ibid., p. 173.21 Cfr. D. Diderot, Salon de 1767, cit., p. 253.22 Cfr. in particolare M. Delon, “ ‘Convulsions de l’inquiétude’ ou ‘léthar-

gie de l’ennui’. Variation autour d’un thème voltairien”, in Voltaire et l’Europe.Hommage à Christian Mervaud, sous la direction de M. Delon et C. Seth,Oxford, Voltaire Fiundation, 2000, pp. 283-290.

23 Art. Cyrénaique, in Encyclopédie, cit., t. V, p. 605.24 Secondo il ritratto delineato da A. Verri, “Delle antiche sette dei filoso-

fi”, in Il Caffè 1764-1766, a cura di G. Francioni e S. Romagnoli, Torino,Bollati Boringhieri, 19982, t. II, p. 870.

25 Art. Cyrénaique, cit., p. 604.26 Loc. cit.27 Cfr. su questo punto L. Ferry, Homo aestheticus. L’invention du goût à

l’âge démocratique, Paris, Grasset, 1990, cap. II.28 Verri, Discorso sull’indole del piacere e del dolore, cit., pp. 117-118.29 M. Baridon, “Jardins”, in Dictionnaire européen des Lumières, sous la

direction de M. Delon, Paris, P.U.F., 1997, p. 624. Sulla ricezione italiana delgiardino pittoresco cfr. anche G. Venturi, Le scene dell’Eden. Teatro, arte, giar-dini nella letteratura italiana, Ferrara, Italo Bovolenta editore, 1979, pp. 73-159, e B. Basile, L’Elisio effimero. Scrittori in giardino, Bologna, Il Mulino,1993.

30 P. Verri, “Le delizie della villa”, in Il Caffè, cit., t. I, pp. 169-170.31 Cfr. F. Milizia, Delle case di campagna (1781), in L’arte dei giardini.

Scritti teorici e pratici dal XIV al XIX secolo, a cura di M. Azzi Visentini,Milano, Il Polifilo, t. II, p. 112.

32 Rousseau, La Nouvelle Héloïse, cit., t. I, pp. 471-472.33 Ibid., pp. 471-473.34 Si veda a questo proposito F. Lavocat, Arcadies malheureuses. Aux ori-

gines du roman moderne, cit., p. 481.35 Cfr. B. Baczko, Lumières de l’utopie, tr. it. L’Utopia. Immaginazione

sociale e rappresentazioni utopiche nell’età dell’Illuminismo, Torino, Einaudi,1979, pp. 26-27.

36 Rousseau, La Nouvelle Héloïse, cit., t. I, p. 475.

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37 Ibid., p. 476.38 Loc. cit.39 Loc. cit.40 Ibid., p. 518.41 A. Verri, Le avventure di Saffo poetessa di Mitilene, a cura di

A. Cottignoli, Roma, Salerno, 1991, p. 139. 42 Ibid., pp. 155-162.43 Ibid., p. 139.44 Ibid., p. 16145 Ibid., p. 160.46 Ibid., pp. 161-162.47 Cfr. C. Botta, Per questi dilettosi monti, a cura di L. Badini

Confalonieri. Con una premessa di A. Battistini, Bologna, Clueb, 1986. SulBotta cfr. ancora L. Badini Confalonieri, Il cammino di madonna Oretta. Studidi letteratura italiana dal Due al Novecento, Alessandria, Ed. dell’Orso, 2004,pp. 121-168.

48 G. Giovio, Il sepolcro su la montagna, o Luigia e Alfonso, in Id., Alcuneprose del conte G. Giovio, Milano, Silvestri, 1824, pp. 124-125.

49 Ibid., p. 180.50 Botta, Per questi dilettosi monti, cit., p. 96.51 Ibid., p. 92.52 Sul rapporto tra Rousseau e Bernardin de Saint-Pierre, e più in genera-

le sull’ambiguità costitutiva di Paul et Virginie tra idillio e dramma, cfr.G. Benrekassa, Fables de la personne. Pour une histoire de la subjectivité, Paris,P.U.F., 1985; e M. Rueff, Introduzione all’edizione italiana di Paul et Virginie,a cura di D. Monda, Milano, Rizzoli, 2003, pp. I-XLVIII.

53 Cfr. Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, cit., t. I, p. 204.54 Loc. cit.55 J. Starobinski, Diderot dans l’éspace des peintres, in Diderot descripteur.

Diderot rêve et raconte, la passion de Corésus, tr. it. Diderot e la pittura,Milano, TEA, 1995, p. 54.

56 D. Diderot, Essais sur la peinture, in Id., Œuvres esthétiques, éd deP. Vernière, Paris, Garnier, 1968, p. 685.

57 Cfr. J. Starobinski, Action et réaction. Vie et aventures d’un couple, tr.it., Azione e reazione: vita e avventure di una coppia, Torino, Einaudi, 2001.

58 Cfr. a questo proposito le considerazioni di S. Luzzatto, Ombre rosse. Ilromanzo della Rivoluzione francese nell’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 2004.

V. Il giardino di Aristippo 135

B

VI. FIGURE DELLA RETICENZA: UN SALONDI PIETRO VERRI

Nella seconda parte del Discorso sull’indole del piacere e deldolore, pubblicato nell’edizione milanese del 1781 dopo un inten-so lavoro di riscrittura che riprende e completa la tesi del più esilelibretto uscito anonimo a Livorno nel 1773 1, Pietro Verri svilup-pa la teoria secondo la quale “tutte le belle arti nascono dai dolo-ri innominati”. A ben vedere, anzi, i “mali” indistinti e misteriosidell’anima sono “la sorgente di tutti i piaceri più delicati dellavita”, poiché se “gli uomini fossero perfettamente sani e allegrinon sarebbero nate mai le belle arti” 2. Infatti

L’uomo vigoroso, che ha la contentezza nel cuore, è nelpunto il più rimoto dalla sensibilità: questa s’accrescecol sentimento della nostra debolezza, dei nostri biso-gni, dei nostri timori. Un uomo che abbia della tristez-za, s’egli avrà l’orecchio sensibile all’armonia, gusteràcon delizia la melodia d’un bel concerto, s’intenerirà, sisentirà un dolce tumulto di affetti, godrà un piacer fisi-co reale, cioè sarà rapidamente cessato in lui quel dolo-re innominato da cui nasceva la tristezza, coll’esser l’a-nimo assorto nella musica, e sottratto dalle tristi e con-fuse sensazioni di dolori vagamente sentiti e non cono-sciuti. Anzi per uscire dalla tristezza che lo perseguita,l’uomo per se medesimo si ajuta, e cerca d’abbellire ed’animare coll’opra della fantasia l’effetto delle bellearti, e, per poco che abbia l’anima capace d’entusiasmo,come nella casual posizione delle nubi ei ravviserà leespressioni di figure in vario atteggiamento, così nellevariazioni musicali s’immaginerà molti affetti, moltioggetti, e molte posizioni, alle quali il compositormedesimo non avrà pensato giammai. La musica singo-larmente è un’arte nella quale il compositore dà occa-sione a chi l’ascolta di associarsi al suo travaglio perottenere l’effetto della illusione. Una bella pittura, unasublime poesia, faranno qualche senso anche in chi nonne abbia gusto, o passione; ma una bella musica resterà

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

sempre un romore insignificante per chi non abbiaorecchio a ciò fatto, e positivo entusiasmo, per la ragio-ne già detta che la musica lascia fare la più gran partealla immaginazione di chi l’ascolta 3.

All’origine di un sistema estetico e morale fondato sulla sensi-bilità, dove la musica assume un significato particolare proprioper la sua essenza incompiuta e illusoria, non vi è dunque l’armo-nia della percezione, ma il sentimento acuto di una mancanza,già teorizzato da Locke sotto il nome di uneasiness e tradotto daPierre Coste con il termine più diffuso e fortunato di inquiétude.In questo modo il passo sui “dolori innominati”, che molto devealla teoria dell’ennui di Dubos ripresa con maggiore vigore daHelvétius, costituisce una sorta di corollario organico alla tesicentrale del libro, secondo cui il piacere non è una sensazioneautonoma e definita, opposta al dolore, come nella tradizionerazionalistica che fa capo a Maupertuis, ma un sentimento ambi-guo e complesso che esiste solo in quanto “rapida cessazione deldolore” 4.

Sebbene la ricezione della Philosophical Enquiry into theOrigin of our Ideas of the Sublime and Beautiful di Burke riman-ga un dato controverso e tutto da indagare, specie nel periodo cheprecede la traduzione italiana del 1804 a cui si deve la sua rapidae dichiarata diffusione, e nonostante il fatto che gli scritti delVerri (al pari di quelli di un altro autore contemporaneo assaivicino a Burke, l’Alfieri), non contengano alcun riferimento espli-cito al sistema del filosofo inglese, non vi è dubbio che esistonoanalogie profonde fra la tesi del Discorso e ciò che Burke chiamadelight, vale a dire una forma di piacere ottenuto per sottrazione,attraverso l’allontanamento del dolore: un “diletto provenientedalla mitigazione della pena” che palesa “il tronco d’onde germo-glia nella sua solida, vigorosa e severa natura” 5. D’altro canto l’i-potesi più economica di una conoscenza indiretta del testo diBurke attraverso i testi francesi deve escludere in questo caso lamediazione fortunata di Helvétius, altrove efficace divulgatoredelle teorie sulle passions fortes ben noto al Verri e allo stessoAlfieri, perché riguardo alla natura delle sensazioni l’autore delDe l’Esprit segue piuttosto la lezione di Locke, distinguendo tra-dizionalmente tra amore del piacere e fuga del dolore come motiinerenti alla conservazione dell’organismo 6. Con ogni probabi-

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lità, nella teoria inedita del piacere negativo, che Pietro rivendicaorgogliosamente nelle lettere al fratello come interamente sua 7,l’eco di Burke si deve all’influenza documentata di un autore pococonosciuto come Henry Lloyd, sul quale aveva attirato a suotempo l’attenzione Venturi 8. In attesa di un riscontro più precisosui materiali inediti conservati presso il Fitzwilliam Museum diCambridge 9, la questione rimane dunque aperta, ma è forseopportuno riproporla qui nelle sue linee essenziali per suggerire,in maniera tutt’altro che definita, il quadro teorico entro il qualesi colloca quella che Starobinski ha definito l’arte “non realizza-ta” diffusa dai modelli paralleli e complementari dell’Enquiry, delLaocoonte di Lessing e dei Salons di Diderot 10.

Prima che nell’edizione definitiva dei Discorsi, dove vieneaccolta senza alcuna variante, la riflessione sui “dolori innomina-ti” è già presente nelle primitive Idee sull’indole del piacere, tantoche Kant può leggerla nella traduzione tedesca di ChristophMeiners del 1777 e applicarla senza riserve all’interno di unariflessione sul bello e il sublime che include già il confrontonecessario con Burke 11. La precisazione cronologica è importan-te perché illumina il contesto in cui nasce la teoria verriana, cheal suo primo apparire, all’inizio degli anni Settanta, dialoga condue libri quasi coevi come i Principii della belle arti del Parini e leRicerche intorno alla natura dello stile del Beccaria, due tentatividiversi e per molti versi contrastanti di delineare una retorica del-l’arte come psicologia empirica. Se il valore autonomo della dis-sonanza, rifiutato dal Parini al pari di ogni altro “sentimentopenoso” 12, viene compreso e accettato da Kant proprio grazieall’influsso del Verri, spetta al testo difficile del Beccaria il com-pito di disegnare con maggiore coerenza i lineamenti di un’este-tica moderna che si fonda sul senso doloroso della privazione edell’oscurità secondo il dettato dell’Enquiry.

Ma torniamo al Discorso. Trasferendo l’analisi dei sentimential campo sperimentale delle belle arti già indagato dal Beccaria,il Verri osserva poco dopo che la pittura “non occuperà l’animoilare e giocondo di un uomo in un momento felice”, ma “per pococh’egli sia rattristato da qualche passione o dolore innominatol’uomo si presterà alla di lei azione, e da quella l’animo di luiresterà più o meno occupato” 13. In altre parole, la disposizionepatetica dello spettatore appare la condizione essenziale perun’ermeneutica che fonde insieme le ragioni universali dell’arte

VI. Figure della reticenza 139

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

(il cui scopo, come aveva insegnato Dubos, è di lenire i doloriinnominati) e l’interesse crescente per le dinamiche oscure eancora inesplorate dei meccanismi interiori. Osservando il pro-cesso dal punto di vista dell’artefice, l’autore aggiunge infatti che“la grand’arte” consiste “a sapere con tanta destrezza distribuireallo spettatore delle piccole sensazioni dolorose, a fargliele rapi-damente cessare, e tenerlo sempre animato con una speranza diaggradevoli sensazioni” 14, sostituendo al piacere statico e“pieno” della contemplazione un percorso mobile e frammenta-rio dentro il quadro, fatto di passaggi improvvisi, di scoperte e disnodi emotivi: una mappa della sensibilità che registra le reazio-ni del soggetto come una sorta di termometro interiore. Da que-sto punto di vista, l’esempio allegorico del giardino di Aristippocollocato al centro dei paragrafi sulle belle arti presenta moltipunti in comune con le “rêveries” di Diderot nella più celebre“promenade Vernet”, se non fosse che nella formulazione con-giunta dei Salons e degli Essais sur la peinture il paesaggio assun-to a emblema della nuova arte appare più completo, e divieneanzi una vera e propria teoria della modernità che celebra l’in-compiuto dello schizzo e della rovina, luoghi della libertà e del-l’immaginazione attiva 15.

Per spiegare meglio la sua definizione di un’arte fondata sulpiacere negativo, come “rapida cessazione di dolore”, il Verriintroduce accanto alla proiezione del paesaggio interiore domi-nato dall’imprevisto, l’inquietudine e la curiosità, il richiamo con-creto a un dipinto di storia che doveva aver colpito in modo par-ticolare la sua immaginazione, tanto da affiorare più volte coninsistenza nelle lettere al fratello Alessandro. Ancora una volta,come mostra la citazione del Discorso, il resoconto preciso e det-tagliato del soggetto e dei personaggi e la sequenza interpretivadel quadro ricordano da vicino la tecnica messa a punto daDiderot. Scrive Pietro:

Io ho provato un piacere assai vivo nel mirare la primavolta un quadro rappresentante la partenza d’AttilioRegolo da Roma. L’eroe campeggia nel mezzo, vestitodella toga, e del lato clavo: la fisonomia presa dall’anti-co esprime una placida e ferma virtù; pareami però nelriflettervi ch’ei premesse a forza un profondo dolore.Egli è nell’atto di incamminarsi alle navi cartaginesi chesono sul Tevere, alle sponde del quale si passa l’azione.

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Conobbi alla somiglianza il figlio dell’eroe; fanciulloancora, sembra opporsi passionatamente al passo disuo padre, mentre una figlia si copre il volto colla manodel padre in atto di baciarla, e stringendola fralle duetenere sue mani, cela le proprie lacrime, e la sua dispe-razione. Poco discosto da Attilio sta il console romano;la tranquilla maestà che gli signoreggia nel volto non glitoglie punto i tratti d’una sensibile e dolente amicizia.Una folla di Romani stassene dalla parte del console, ei più rimoti si arrampicano sulle piante per veder l’eroeal grand’atto. Una romana, che si vede per il dorso sten-dente il braccio verso l’eroe e additandolo a un suo par-goletto, sembra ammaestrarlo con quest’esempio, e dir-gli: mira, quegli è un Romano. Frattanto dueCartaginesi abbronziti sul mare, e che si distinguono albarbaro vestito, non meno che per i tratti odiosi dellaloro fisonomia, compajono attoniti e confusi. Tutto ilquadro esattamente è conforme al costume, e spiramaestà, grandezza, e sentimento. La voluttà che ne pro-vai non fu breve; mi sentii commovere come da una tra-gedia; mi feci illusione, come se esistessero gli oggetti;m’immaginai i loro sentimenti, le loro parole in quell’at-to; tristezza, compassione, rispetto, ammirazione, stu-pore, furono i diversi affetti che successivamente miagitaron l’animo 16.

Il quadro cui si allude è con tutta probabilità l’Attilio Regolo aRoma del pittore tirolese Martin Knoller (1725-1804), allievo diMengs e protetto del ministro plenipotenziario degli Asburgo inLombardia Carlo Firmian 17, che gli commissionò una serie diopere di soggetto storico-morale in omaggio alla poetica delsublime e dell’energia che aveva ricevuto nuovo impulso dalla let-tura di Plutarco e dalle pagine sulla Roma repubblicana diHelvétius, ricordate più volte nel Discorso. La scelta del Verriribadisce da parte sua l’interesse del secondo Settecento per lapittura della storia, in cui la nobiltà del soggetto assume il valoredi un exemplum e la raffigurazione delle passioni comporta unagrammatica leggibile dei sentimenti e dei caratteri che l’artistacondivide con il suo pubblico 18.

Senza dubbio, il modello cui si ispira la descrizione animatadel Verri è quello fondativo di Dubos, che nelle Réflexions criti-ques sur la poésie et sur la peinture aveva indicato come qualitàprima della pittura la possibilità di introdurre gli affetti sullascena attraverso i sintomi prodotti su ciascun individuo, parten-

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do dal presupposto che “tous les hommes s’affligent, pleurent etrient” e tuttavia “les mêmes passions sont marquées en eux à descaractères différents” 19. Accanto al protagonista dell’azione stori-ca compare un ampio numero di personaggi secondari interessa-ti all’azione principale ma influenzati nelle loro manifestazioniemotive dal sesso, dal temperamento, e dalla nazionalità, con lafunzione di riflettere il clima emotivo del quadro attraverso gradie sfumature diverse, in una sorta di gerarchia patetica abilmentecostruita secondo regole precise e ben definite. Così per esempiola commozione visibile del soldato che assiste al sacrificio diIfigenia non può eguagliare quella del fratello della vittima, e ilcodice delle passioni rappresentate nella scena deve rispettare icomportamenti e le reazioni che ci si attendono dal grado socia-le, dall’età e dall’indole dei personaggi ritratti. Tutt’altro che com-promessa, l’unità della costruzione viene garantita dall’effettointenso di una scena potenziata nelle sue possibilità espressiveattraverso il complesso sistema di rapporti proprio della pittura,che collega tra loro le figure per via patetica: infatti “l’émotion deces assistants le rend, pour ainsi dire, des acteurs dans untableau, au lieu qu’ils ne seroient que de simples spectateurs dansun poème” 20.

Nello stesso tempo, l’esistenza di una scala delle passioni tuttainterna al quadro non può ignorare l’archetipo greco di Timantee l’espediente messo in atto nel celeberrimo “sacrificed’Iphigénie”, dove il pittore, come ricordava già Jaucourtnell’Encyclopédie, “pour mieux donner à comprendre l’excès de ladouleur du père de la victime […] imagina de le représenter latête voilée, laissant aux spectateurs à juger de ce qui se passoit aufond du coeur d’Agamemnon” 21. Accolto fin da subito da autoricome Cicerone, Quintiliano, Valerio Massimo e Plinio, e poi daitrattatisti rinascimentali, che vedevano nella scelta ingegnosa delpittore antico una rinuncia consapevole a raffigurare ciò che perla sua intensità non può essere espresso in maniera diretta, ametà Settecento il topos del velo di Timante finisce per incarnarele ragioni di un’arte che procede per via allusiva. Dopo l’elogioconvinto di Winckelmann, il dibattito acquista nuovo slancio inoccasione del quadro eseguito da Carle Vanloo per il re di Prussia,esposto nel Salon del 1757, che contrariamente al modello origi-nario e ai suoi sostenitori moderni sceglieva di rappresentareAgamennone a viso scoperto, dando ragione a quanti, come

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Caylus, erano pronti a scommettere sulle risorse molteplici dellapittura nel dare corpo ai sentimenti più nascosti e terribili dell’a-nimo umano 22. Del medesimo avviso sarà, qualche anno dopo,anche un pittore di ritratti come Reynolds, che pur riconoscendoil potere immenso dell’immaginazione, preferirà lasciare all’artecomplementare della poesia il compito di appellarsi alle risorseemotive del non finito 23.

In maniera più discreta ma non meno decisa, tuttavia, l’arti-colo Peinture dell’Encyclopédie a firma di Jaucourt aveva giàmesso l’accento sull’equivalenza tra il linguaggio degli affetti e ilgenere della pittura, e parafrasando ancora una volta l’abbéDubos aveva fatto notare la “longue durée” delle “passionsinquiettes” e delle loro risonanze interiori, segnalando così unadisponibilità a comprendere, accanto alle immagini e ai caratte-ri espressi a tutto tondo, l’eco dei gesti e delle parvenze nello spa-zio interiore e soggettivo dell’immaginazione. In questo modo,pur muovendo da premesse note e immediatamente riconoscibi-li, il dittico dell’Encyclopédie si pronuncia alla fine a favore di unapittura che non contempla solo il visibile, ma anche i fantasmi diun’esperienza pronta ogni volta a risvegliarsi nell’animo dell’os-servatore, assai più di quanto lo stesso Dubos fosse disposto adammettere all’origine, prospettando un’idea dell’arte che attraversol’imitazione mirava a esorcizzare il potere oscuro delle passioni.

Comunque sia, gli esempi allegati nelle Réflexions critiques aproposito della pittura di storia rinviavano al grande modelloimplicito di Poussin, l’Iphigénie e soprattutto la Mort deGermanicus su cui si era soffermato prima Félibien, e non c’èdubbio che in tale ottica anche la partenza di Attilio Regolo daRoma, colta dal pittore neoclassico sullo sfondo allusivo del sacri-ficio di sé, delle sofferenze imminenti e della fine stoica dovessesembrare al Verri degna di comparire fra i soggetti più eloquentidal punto di vista patetico, specie dopo che il Metastasio ne avevafornito appena un decennio prima una versione di successo nelmelodramma citato ancora agli inizi dell’Ottocento fra gli esempisublimi del moderno. Come mostra il passo del Discorso, le indi-cazioni di Dubos continuano a operare per tutto il secolo, proba-bilmente per merito della rilettura psicologica dei Salons diDiderot, dove l’archetipo del velo di Timante e il problema piùgenerale della pittura delle passioni vengono rimeditati alla lucedelle teorie dell’energia e del sublime di Burke.

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Non a caso, proprio dagli Essais sur la peinture di Diderotviene la distinzione netta tra i “peintres de genres”, “imitateurs dela nature brute et morte”, e i moderni “peintres d’histoire”, cheguardano alla “nature sensible et vivante” 24 rappresentata dal-l’uomo morale e dal suo universo interiore. Ribadendo che ognietà della vita possiede un carattere e un’espressione propria 25,Diderot si spinge oltre Dubos elaborando una teoria dei rapportiverificata sul campo nei resoconti empirici dei Salons: ogni per-sonaggio aggiunto alla scena la modifica, generando un nuovoequilibrio, un sistema complesso di relazioni 26 che si riflette asua volta sullo spettatore, i cui sentimenti alla vista del quadroripercorrono l’iter patetico creato abilmente dal pittore. Così,seguendo la progressione evocata nel passo del Discorso, l’osser-vatore sperimenta a sua volta, in una sorta di itinerario moraleguidato, le passioni dei personaggi sulla scena: l’eroismo malin-conico del protagonista, la solitudine muta e dolente dei due gio-vinetti, il rispetto devoto del console, l’ammirazione muta dei cit-tadini e infine lo stupore ottuso, misto a incredulità, dei cartagi-nesi dinanzi a un gesto che appare incomprensibile a chi noncondivide i valori di Roma.

Se i confini spaziali sembrano ampliarsi per assecondare ilmovimento degli affetti, anche i limiti temporali appaiono modi-ficati dalla prospettiva patetica, che introduce per allusività, nellospazio breve dell’istante attribuito tradizionalmente alla pittura,l’aura emotiva degli attimi che precedono l’azione principale,delineando per così dire la storia interiore del personaggio. Comenota Diderot, la dimensione istantanea del “coup d’oeil” propriadella pittura consente di esprimere sulla tela un solo momentodella passione, ma l’artista di genio può superare tale limite evo-cando nel quadro le tracce della passione che l’ha preceduta,attraverso i caratteri, le azioni o le attitudini dei personaggi:

Chaque action a plusieurs instants; mais je l’ai dit et jele répète, l’artiste n’en a qu’un dont la durée est celled’un coup d’œil. Cependant, comme sur un visage oùrégnait la douleur et où l’on fait poindre la joie, jeretrouverai la passion présente confondue parmi lesvestiges de la passion qui passe, il peut aussi rester aumoment que le peintre a choisi, soit dans les attitudes,soit dans les caractères, soit dans les actions, des tracessubsistantes du moment qui a précédé 27.

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Assumendo il punto di vista degli Essais sur la peinture apparesubito evidente che l’azione dipinta nel quadro di Knoller e l’ef-fetto patetico suscitato nell’osservatore, di cui il Verri pare consa-pevole, non si riferiscono solamente al momento ultimo del con-gedo dell’eroe dalla città, ma contengono implicitamente, per viaallusiva, il tempo anteriore della storia. Le sofferenze, le esitazio-ni, le speranze illusorie e infine la risoluzione stoica del ritorno aCartagine sono senz’altro presenti, anche se non raffigurate inmaniera diretta, nell’atteggiamento fermo e sereno del protagoni-sta e nelle reazioni diverse espresse dalle figure partecipi dellascena tragica. D’altro canto lo stesso Diderot aveva aperto il Salondel 1765 con un’indicazione di metodo che riguardava proprio glieffetti della pittura, proclamando la necessità per il critico dilasciarsi invadere dalle sensazioni suscitate dalla vista del qua-dro, cogliendone in pieno il dinamismo interno:

J’ai ouvert mon âme aux effets, je m’en suis laissé péné-trer. J’ai recueilli la sentence du vieillard et la pensée del’enfant, le jugement de l’homme de lettres, le mot del’homme du monde et le propos du peuple; et s’il m’estarrivé de blesser l’artiste, c’est souvent avec l’âme qu’ila lui-même aiguisée. Je l’ai interrogé et j’ai compris ceque c’était que finesse de dessin et vérité de nature: j’aiconçu la magie des lumières et des ombres; j’ai connula couleur; j’ai acquis le sentiment de la chair. Seul, j’aimédité ce que j’ai vu et entendu, et ces termes de l’art,unité, variété, contraste, symétrie, ordonnance, com-position, caractères, expression, si familières dans mabouche, si vagues dans mon esprit, se sont circonscritset fixés 28.

È l’occhio patetico che giudica e condanna la mancanza dicontrasto energico tra le passioni sulla scena della ChasteSuzanne di Carle Vanloo o la debolezza della figura di Traianodipinta da Hallé, e che, viceversa, riconosce la perfetta mescolan-za degli affetti che dà vita al notturno di Artemisia creato daDeshays o alla supplica sublime dell’Esther s’évanouissant devantAssuérus a opera di Poussin. Non a caso, paragonando “l’émailbien triste et bien froid” di Hallé alle superbe composizioni d’in-sieme di Poussin e di Le Brun, Diderot precisa senza esitare chel’effetto mancato non dipende dalla scelta di un soggetto “bieningrat”, ma proprio dalla fragile consistenza emotiva dei perso-

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naggi secondari, che annullano la disposizione a climax e i suoieffetti sull’osservatore:

Vous vous trompé, Monsieur Hallé, et je vais vous direcomment un autre en aurait tiré parti. Il eût arrêtéTrajan au milieu de sa toile. Les principaux officiers deson armée l’auraient entouré; chacun d’eux aurait mon-tré sur son visage l’impression du discours de la sup-pliante. Voyez comment l’Esther du Poussin se présen-te devant Assuérus. Et qu’est-ce qui empêchait quevotre femme accablée de sa peine ne fût pareillementgroupée et soutenue par des femmes de son état? Lavoulez-vous seule et à genoux? j’y consens; mais, pourDieu, ne me la montrez pas par le dos: les dos ont peud’expression, quoi qu’en dise Mme Geoffrin. Que sonvisage me montre toute sa peine; qu’elle soit belle, qu’el-le ait la noblesse de son état; que son action soit forte etpathétique. Vous n’avez su faire que deux enfants; allezétudier la Famille de Darius, et vous apprendrez là com-ment on fait concourir les subalternes à l’intérêt desprincipaux personnages. Pourquoi n’avoir pas désignéla présence d’une armée par une foule de têtes presséesdu côté de l’empereur? Quelques-unes de ces figurescoupées par la bordure m’en auraient fait imaginer audélà tant que j’en aurais voulu. Et pourquoi du côté dela femme la scène reste-t-elle sans témoins, sans specta-teurs? Est-ce qu’il ne s’est trouvé personne, ni parents,ni amis, ni voisins, ni hommes, ni femmes, ni enfantsqui aient eu la curiosité de savoir l’issue de sa démar-che? Voilà, ce me semble, de quoi enrichir votre compo-sition, au lieu que tout est stérile, insipide et nu 29.

Come ribadirà poco dopo il Salon del 1767, dedicato ai generisublimi della pittura di storia e della pittura di paesaggio, lemanifestazioni della sensibilità intesa come reazione immediatadell’animo espressa attraverso i sintomi infallibili del corpo e illinguaggio veritiero delle fibre distinguono la perfezione esteticadei classici, limpida ed immutabile 30, dall’arte dinamica deimoderni, veicolo di un’esperienza morale dinamica che si compiesotto lo sguardo dello spettatore, in una sorta di teatro figurativo.Scrive Diderot:

Pourquoi le récit de ces actions nous [saisit] l’âme subi-tement, de la manière la plus forte et la moins réfléchie,et pourquoi laissons-nous apercevoir aux autres toute

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l’impression que nous en recevons? Croire avecHutcheson, Smith et d’autres que nous ayons un sensmoral propre à discerner le bon et le beau, c’est unevision dont la poésie peut s’accomoder, mais qui la phi-losophie rejette. Tout est expérimental en nous. […]. Aurécit d’une grande action notre âme s’embarrasse, notrecœur s’émeut, la voix nous manque, nos larmes coulent.Quelle éloquence! quel éloge! on a excité notre admira-tion. On a mis en jeu notre sensibilité. Nous montronscette sensibilité. C’est une si belle qualité! nous invitonsfortement les autres à être grands. Nous y trouvons tantd’intérêt! nous aimons mieux encore réciter une belleaction que la lire seuls. Les larmes qu’elle arrache denos yeux tombent sur les feuilles froids d’un livre. Ellesn’exhortent personne. Elles ne nous recommandent àpersonne. Il nous fait des témoins vivants. […]. Noshabitudes sont prises de si bonne heure qu’on les appel-le naturelles, innées; mais il n’y a rien de naturel, riend’inné que des fibres plus flexibles, plus roides, plus oumoins mobiles, plus ou moins disposées à osciller. Est-ce un bonheur, est-ce un malheur que de sentir vive-ment? y a-t-il plus de bien que de maux dans la vie?Sommes-nous plus malheureux par le mal qu’heureuxpar le bien? Toutes questions qui ne diffèrent que dansles termes 31.

Come si vede, le motivazioni profonde che inducono Diderot aconfrontarsi con il linguaggio della sensibilità riflesso nello spec-chio rivelatorio della pittura non sono diverse da quelle che pochianni dopo spingeranno il Verri a delineare la morale provvisoriadel Discorso, con l’abbandono del calcolo dei beni e dei mali diMaupertuis e l’avvio dell’indagine sperimentale sulla natura vivadella sensibilità, da cui deriva la questione ineludibile del rappor-to tra felicità e virtù, ragione e affetti. Sulla scorta degli esempirepubblicani di Helvétius, Alessandro Verri aveva del resto soste-nuto fin dall’epoca del “Caffè” l’esigenza di dare vita a una “mora-le di idee, non di parole”, che come quella antica attingesse alle“grandi ed ammirande immagini” 32, mettendo da parte una voltaper tutte la “fredda analisi” di un’inutile visione fondata sul razio-cinio.

Anche per questo, vale allora la pena di soffermarsi sul sogget-to proposto da Diderot ai pittori di storia come modello ideale,dedicato alla morte di Henri de la Turenne e alla consacrazione aiposteri del patriottismo di Saint-Hilaire. Si tratta anche qui di una

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composizione di quattro figure nella quale, come nel quadro diKnoller, gli elementi del paesaggio compaiono solo in funzioneemotiva, come spie narrative per introdurre la storia nella suadimensione completa, riassunta nella scena che ne raffigura l’epi-logo tragico. Anche in questo caso i personaggi che circondanol’eroe incarnano per gradi, in una sorta di climax interiore, le pas-sioni evocate sulla scena a seconda dell’età, del ruolo e dei rappor-ti che li legano al maresciallo morto, di cui riflettono a loro voltaun aspetto dell’indole interiore richiamata per via allusiva. Nonsolo l’eroe ferito che svela al figlio il vero significato di quellamorte e implicitamente sceglie di continuarne l’esempio, maanche i soldati che trasportano il cadavere manifestando attraver-so i gesti il diverso grado di coinvolgimento, e infine l’umile scu-diero che contempla con ingenuità commossa e quasi incredula ilcorpo senza vita del padrone: tutti indistintamente rivelano nelleloro attitudini qualcosa che appartiene alla vicenda esemplare delprotagonista e nello stesso tempo illumina le loro esistenze singo-le. La citazione merita di essere riproposta per intero:

Un troisième artiste me dit, donnez-moi un sujet d’hi-stoire. Et je lui réponds, peignez la mort de Turenne;consacrez à la postérité le patriotisme de Mr de St.Hilaire. Placez au fond de votre tableau, les dehorsd’une place assiegée. Que la partie supérieure de la for-tification soit couverte d’une grande vapeur, ou fuméerougeâtre et épaisse. Que cette fumée rougeâtre etenflammée commence à inspirer la terreur. Que je voieà gauche un groupe de quatre figures; le maréchal mortet prêt à être emporté par ses aides de camp dont l’unporte son bras, en détournant la tête; l’autre soutient legénéral par-dessous les aisselles, et montre toute sadésolation; le troisième plus ferme, est à son action.Que ses jambes pendent et que sa tête soit renversée enarrière, échevelée. Qu’on voit à droite, Mr de St. Hilaireet son fils; Mr de St. Hilaire sur le devant, son fils sur lefond. Que celui-ci tienne le bras fracassé de son père;que ce bras soit enveloppé de la manche déchirée duvêtement; qu’on voie à cette manche des traces de sang;qu’on en voie des gouttes à terre; et que le père dise àson fils, en lui montrant le maréchal mort, ce n’est passur moi, mon fils, qu’il faut pleurer, c’est sur la perteque la France fait par la mort de cet homme. Que le filsait les regards attachés sur le maréchal. Ce n’est pastout. Arrangez par-derrière ce groupe, un écuyer immo-

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bile, qui tienne la bride de la pie du maréchal; qu’ilregarde aussi son maître mort; et qu’il tombe de grosseslarmes de ses yeux 33.

Anche se non esiste alcuna filiazione diretta fra l’estetica mora-lizzata dei Salons e la sintesi pragmatica del Discorso, è evidenteche indicazioni di questo tipo rappresentano oramai un gustouniversale e condiviso proprio in virtù di una pittura che pone inprimo piano l’alfabeto del corpo: non solo la grammatica esplici-ta dei gesti e delle emozioni, ma soprattutto l’evocazione allusivadei sentimenti che richiede da parte dello spettatore uno sforzopiù profondo di immaginazione. Il rapporto dinamico tra l’auto-re e il suo pubblico diviene così simile a quello che regola l’esecu-zione musicale, nella quale, come aveva scritto il Verri, “il com-positore dà occasione a chi ascolta di associarsi al suo travaglioper ottenere l’effetto dell’illusione” 34.

Riprendendo il topos del velo di Timante all’interno dell’anali-si compositiva del quadro di Knoller, il Discorso si sofferma inmaniera esplicita sulla figura della reticenza incarnata dalla figliadi Attilio Regolo, la quale, come si è visto, “si copre il volto collamano del padre in atto di baciarla, e stringendola fralle due tene-re mani cela le proprie lacrime e la sua disperazione”. Già Dubosaveva notato l’effetto intenso del volto celato di Agrippina nelquadro di Poussin che raffigura la morte di Germanico, ma l’ave-va attribuito tradizionalmente a un escamotage geniale del pitto-re per evitare di confrontarsi con una sofferenza di difficile rap-presentazione proprio perché estrema:

C’est un chef d’oeuvre de Poussin que de nous avoir faitreconnaître Agrippine dans son tableau de la mort deGermanicus avec autant d’esprit qu’il l’a fait. Après avoirtraité les differents genres d’affliction des autres person-nages du tableau comme des passions qui pouvaients’exprimer, il place à côté du lit de Germanicus unefemme noble par sa taille et par ses vêtements, qui secache le visage avec les mains et dont l’attitude entièremarque encore la douleur plus profonde. On conçoitsans peine que l’affliction de ce personnage doit surpas-ser celle des autres, puisque ce grand Maître désespé-rant de la représenter s’est tiré d’affaire par un trait d’e-sprit. Ceux qui savent que Germanicus avait une femmeuniquement attachée à lui, et qui reçut ses derniers sou-

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pirs, reconnaissaient Agrippine aussi certainement queles Antiquitaires la reconnaissent à sa coiffure et à sonair de tête pris d’après les médailles de cette Princesse 35.

Anche per Dubos la figura della reticenza rivela l’aspetto inte-riore del personaggio allo stesso modo in cui il profilo della prin-cipessa inciso nella medaglie antiche ne riproduce quello esterio-re, e il gesto patetico equivale a una forma di identità profondache il pittore moderno sostituisce all’immagine di superficie pro-pria dell’antiquaria. Ma all’epoca del Discorso il velo di Timantediviene per così dire l’emblema stesso di una retorica espressivaconnessa al pathos dell’ineffabile 36, conscia del valore emotivodell’oscurità, della sospensione e della reticenza teorizzate dallopseudo-Demetrio, che nel secondo Settecento conosce una nuovafortuna critica pari solamente a quella dello pseudo-Longino cuispesso si sovrappone. Un esempio di rilievo è quello del teatrotragico dell’Alfieri, che all’uso insistito delle “idolopee” o “facitri-ci di immagini”, fondate sulla forza immediata dell’evidenza poe-tica coniuga la figura opposta e complementare della reticenza,persuaso più di altri che le “cose non pronunziate, e compresepiuttosto con l’immaginazione, nascono maggiori” 37. Anche illibro del Verri appare nelle sue linee generali fortemente influen-zato da una prospettiva estetica e psicologica che collega l’inten-sità del pathos all’assenza della visione, nella quale la tradizioneretorica del sublime che fa capo al Perì Hypsous e al De Locutioneviene rinnovata dai contributi moderni di Burke, Helvétius enaturalmente Diderot. A differenza del Parini, che nei Principiidelle belle lettere applicati alle belle arti sosteneva ancora l’idealeoraziano della chiarezza e dell’ordine, il Verri sceglie senza esita-zioni un’arte dell’energia fondata sugli effetti sorprendenti delcontrasto, della dissonanza e dell’oscurità, affermando sulla scor-ta del Beccaria che “le cose belle” devono essere “a una certadistanza le une dalle altre”, in modo tale che “abbia luogo tra unasensazione e l’altra d’intromettersi il dolore” 38.

Ma soprattutto a questa visione anticlassicistica, che privilegiagli effetti misteriosi della sospensione patetica su quelli razionalidella visione compiuta e rifinita nelle sue parti, l’autore aggiungeun contributo inatteso e in certa misura decisivo indagando lerisorse inedite della reticenza nel momento in cui lo spettatorenon è più il semplice destinatario dell’“entusiasmo” dell’artista

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che imprime su di lui le stigmate della commozione, come vole-va Diderot, ma viene chiamato a colmare il vuoto lasciato inten-zionalmente dall’artista attingendo alle sorgenti segrete della pro-pria sensibilità, in una sorta di apprendistato psicologico dellepassioni che equivale quasi a una forma di creazione autonoma.Come sintetizza il Discorso:

È un’arte sagacissima quella di lasciar fare qualche cosaallo spettatore e di servire di occasione puramente allesensazioni ch’egli eccita sopra di se medesimo. Alcunereticenze d’un oratore fanno il medesimo effetto, comela figlia di Attilio Regolo di cui ho parlato sopra,coprendosi il volto colla mano del padre in atto dibaciarla. Quel volto celato lascia in libertà la fantasiad’ogni uomo di figurarsi la fisonomia più bella, la piùaddolorata che ciascuno può immaginare. Quindiognuno risvegliando le idee più analoghe a se medesi-mo, agisce sulla propria sensibilità in un modo assaipiù energico di quel che farebbe, se l’oratore, il pittore,il poeta ecc. volessero agire in dettaglio essi medesimi adeterminare l’impressione 39.

In questo modo la figura polisemica della reticenza diviene lostrumento privilegiato per sondare quello che all’inizio del libroè definito “il labirinto della sensibilità”, dopo che la chiaveermeneutica dell’analyse ha rivelato i suoi limiti dinanzi ai “pic-coli e intralciatissimi fili che ordiscono la massa d’una passio-ne”, e il filosofo morale è obbligato a riconoscere che “come d’unfiume non puoi toccare con sicurezza il punto onde comincia,così nemmeno esattamente puoi toccare il più delle volte l’ideaprimordiale da cui nasce un sentimento” 40. Qui il pensiero delVerri incontra ancora una volta quello del Beccaria, determina-to a fornire i lineamenti di una scienza retorica che “megliodovrebbe chiamarsi psycologia”, nella quale un indistinto “senti-mento di mancanza” unito all’“oggetto della passione” 41 è all’o-rigine di ogni processo conoscitivo. Il breve ma decisivo “tratta-to sulle passioni” al centro delle Ricerche contiene una serie diipotesi sulla genesi e lo sviluppo degli affetti degna di figurareaccanto agli insegnamenti rivolti da Diderot ai “peintres d’hi-stoire”. Dopo aver osservato che “le passioni accelerano pergradi la loro forza e la loro violenza”, il Beccaria aggiungeva peresempio che

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La catena delle accessorie che accompagnano le ideeprincipali, significanti passione ed affetto, dovrà esserecrescente e, per così dire, accelerata dalle più remote allepiù prossime all’oggetto della passione, onde da alcunipochi ed oscuri lineamenti, ben lungi dall’impedire l’ef-fetto che si desidera e di nuocere all’impressione che sipretende di fare, servono a sospender l’animo di chilegge od ascolta, a risvegliare la necessaria curiosità, arimovere l’animo alienato da oggetti estranei allo scopo,a prepararlo a quella situazione nella quale vuol essere,perché senta profondamente ed esclusivamente i tocchie i risentimenti di quella passione che si descrive 42.

Ma anche riguardo alle possibilità intrinseche delle idee acces-sorie e dei meccanismi allusivi, l’incipit del secondo paragrafodelle Ricerche si era espresso con chiarezza:

Un’altra osservazione, non meno importante che gene-rale, sarà intorno al diverso effetto che le idee accesso-rie possono produrre quando siano espresse co’terminiloro corrispondenti, o quando siano sempliceente sug-gerite o destate nell’animo di chi legge o di chi ascolta.Espresse nuocerebbero al fascio intero delle sensazioni;destate solamente lo giovano, non solo perché la piccio-la fatica che facciamo e l’applauso interno del nostroritrovato ci rinfranca l’attenzione sul restante, mamolto più perché è legge della nostra sensibilità chetutt’altra forza abbiano le idee espresse e le tacciute, etutt’altra attenzione esigono da noi quelle che queste 43.

Sempre di più si ha la sensazione che il capitolo finale del Verriintorno alle belle arti rappresenti il segmento conclusivo di undialogo a più voci intorno al libro di Burke, ricostruibile solo atratti e per frammenti isolati ma non per questo meno illuminan-te. Non più identificata solo con l’inquietudine lockiana respon-sabile del progresso civile e del perfezionamento delle arti, la reti-cenza intesa al modo del Beccaria come “interno sentimento diprivazione” non serve più a valutare le scelte dell’artista e lepotenzialità intrinseche dell’arte nel riprodurre la realtà viva delleemozioni, ma si presta all’esplorazione autonoma degli abissidella coscienza. Nel momento in cui, sciolta da ogni vincolo,assume la funzione di “servire di occasione” ai sentimenti che lospettatore “eccita sopra di se medesimo”, la figura così rinnovataviene di fatto a coincidere, nella sostanza e negli effetti, con l’o-

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monima categoria evocata più volte nell’Enquiry: quella privazio-ne metafisica tutta interiore da cui scaturiscono le forme delsublime moderno.

Per un cammino secondario ma non meno significativo rispet-to alla strada maestra percorsa fino in fondo da Diderot nel Salondel 1767, anche l’autore del Discorso sembra convenire alla finecon l’Enquiry sul fatto che è la nostra immaginazione “la più este-sa provincia del piacere e della pena” 44.

1 Cfr. P. Verri, Idee sull’indole del piacere, Livorno, Stamperiadell’Enciclopedia, 1773.

2 Verri, Discorso sull’indole del piacere e del dolore, cit., pp. 106-107.3 Ibid., p. 108.4 Ibid., p. 86.5 E. Burke, Ricerca filosofica sull’origine delle nostre idee intorno al subli-

me ed al bello. Con un discorso sopra il gusto e diverse altre aggiunte, Milano,Sonzogno, 1804, p. 29.

6 Cfr. C.A. Helvétius, De l’Esprit, Londres, Société typographique, 1773,t. I, pp. 313-314.

7 Cfr. la lettera al fratello del 3 aprile 1779, in Carteggio di Pietro eAlessandro Verri, cit., t. X, pp. 235-236.

8 Cfr. F. Venturi, Le vite incrociate di Henry Lloyd e Pietro Verri, Torino,Editrice Tirrenia-Stampatori, 1977.

9 Su Verri e Lloyd rimando alla mia Nota introduttiva al Discorso sull’in-dole del piacere e del dolore, cit., pp. 28-30. Ma sui testi di Lloyd cfr. anche C.Capra, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna, Il Mulino, 2002,pp. 149-150.

10 Cfr. J. Starobinski, L’invenzione della libertà 1700-1789, Genève, Skira,1964, p. 9.

11 Cfr. P. Giordanetti, “Kant, Verri e le arti belle. Sulla fortuna di Verri inGermania”, in Pietro Verri e il suo tempo, a cura di C. Capra, Bologna,Cisalpino, 1999, t. I, pp. 429-447.

12 Cfr. G. Parini, Dei principii generali delle belle lettere, in Id., Tutte le opereedite e inedite, a cura di G. Mazzoni, Firenze, Barbera, 1925, p. 767. Sulla for-mazione estetica del Parini cfr. F. Fedi, “Parini e i teorici del neoclassicismo”,in Id., Artefici di numi, cit., pp. 3-26.

13 Verri, Discorso, cit., p. 109.14 Ibid., p. 115.15 Su questo punto, già oggetto delle ricognizioni di P. Vernière e

J. Starobinski, si è soffermato di recente il contributo di B. Salambrino,Ritratti, rovine, schizzi. La temporalità della pittura nel Diderot dei Salons, in“Studi Settecenteschi”, 23 (2003), pp. 181-196.

16 Verri, Discorso, cit., p. 110.17 Cfr. A. Scotti, “Il conte Carlo Firmian collezionista e mediatore del

“gusto” fra Milano e Vienna”, in Economia, istituzioni, cultura in Lombardianell’età di Maria Teresa, a cura di A. De Maddalena, E. Rotelli e G. Barbarisi,Bologna, Il Mulino, 1982, t. II, p. 673. Sul dipinto di Knoller si veda anche lalettera del 5 aprile 1780 (Carteggio, cit., t. XI, pp. 54-55).

VI. Figure della reticenza 153

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

18 Si veda a questo proposito G. Panizza, La “vera commedia” diFrancesco Corneliani e le ‘passioni’ di Pietro Verri, in “Nuovi studi”, 1 (1996),pp. 113-126. Sugli interessi artistici del Verri cfr. inoltre A. Morandotti, “Inmargine alla mostra Pietro Verri e la Milano dei Lumi”, in Pietro Verri e il suotempo, a cura di C. Capra, Bologna, Cisalpino, 1999, pp. 1001-1016.

19 Dubos, Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, cit., t. I, pp.87-88.

20 Ibid., t. I, p. 95.21 Art. Peintres grecs, in Encyclopédie, cit., t. XII, p. 264.22 Sul velo di Timante è fondamentale la ricostruzione di J. Montagu,

“Interpretations of Timanthe’s Sacrifice of Iphigenia”, in Sight and Insight.Essays on art and culture in honour of E.H. Gombrich, ed. by J. Onians,London, Phaidon, 1994, pp. 305-325.

23 Cfr. J. Reynolds, Discourses on Art, ed. by R. Wark, Yale, Yale U.P.,1988, p. 163.

24 D. Diderot, Essais sur la peinture, in Id., Œuvres esthétiques, éd de P.Vernière, Paris, Garnier, 1968, p. 726.

25 Ibid., p. 699.26 Ibid., pp. 712-713.27 Ibid., p. 714.28 D. Diderot, Salon de 1765, éd. critique et annotée présentée par

E.M. Bukdahl et A. Lorenceau, Paris, Hermann, 1984, pp. 21-2229 Ibid., pp. 69-70.30 Riguardo al rapporto tra antico e moderno nei Salons e al confronto

imprescindibile con Winckelmann cfr. E. Pommier, Winckelmann inventeurde l’histoire de l’art, Paris, Gallimard, 2003, pp. 212-214.

31 D. Diderot, Salon de 1767, cit., pp. 87-88.32 A. Verri, “Alcune idee sulla filosofia morale”, in Il Caffè, cit., t. II,

pp. 693-694.33 Diderot, Salon de 1767, cit., pp. 153-154.34 Verri, Discorso, cit., pp. 108, 109.35 Dubos, Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, cit., t. I, pp.

82-83.36 Utile a questo proposito il confronto con G. Leclerc, “Aux confins de la

rhétorique: sublime et ineffable dans le classicisme français”, in Dire l’éviden-ce (philosophie et rhétorique antiques). Textes réunis par C. Lévy et L. Pernot,Paris, L’Harmattan, 1997, pp. 403-435.

37 Demetrio Falereo, Della locuzione. Tradotto dal greco in toscano daMarcello Adriani il Giovane, Firenze, nella Stamperia di Gaetano Albizzini,1738, p. 23.

38 Verri, Discorso, cit., p. 119.39 Ibid., p. 120.40 Ibid., p. 96.41 Beccaria, Ricerche intorno alla natura dello stile, cit., p. 174.42 Ibid., p. 175.43 Ibid., p. 94.44 Burke, Ricerca filosofica sull’origine delle nostre idee intorno al sublime

ed al bello. cit., p. 8.

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VII. ALFIERI E IL SUBLIME DELLE ORIGINI

Nel canone tragico delineato da Ranieri de’ Calzabigi nellaLettera sulle prime quattro tragedie, l’Alfieri occupa com’è noto unposto a sé, e le ragioni della sua posizione appartata vengonoricondotte in primo luogo alle desolata realtà del teatro italiano,non solamente rispetto alla drammaturgia francese dei modernima soprattutto al modello essenziale degli antichi.

Ogni poeta ha la sua maniera, come l’hanno i pittori:ha la sua Sofocle, la sua Euripide, la sua Corneille, lasua Racine. Questi due tragici moderni hanno ciasche-dun di loro formata una scuola: quella del primo tendeal grande, al sublime, al maestoso; all’ampolloso, alvago, all’elegante, all’accurato, all’esatto inclina quelladel secondo. L’una e l’altra ebbe i suoi seguaci, i suoipartigiani. Crébillon si distinse in quella di Corneille; inquella di Racine non si osserva tragico di gran grido.Voltaire si fece una maniera propria sua: cercò d’imita-re l’uno e l’altro; si abbandonò anche al suo ingegno e sirese originale. Shakespeare ha una maniera stravagan-te, rozza, selvaggia, ma dipinge al vivo, al vivo rende icaratteri e le passioni de’ personaggi. Noi, tragici nonabbiamo; ond’ella non ha potuto imitar nessuno deinostri. Non veggo neppure imitati costantemente da leiné i Greci né i Francesi: mi servirò dunque per definirlei dell’espressione usata da Tiberio per Curzio Rufo:Curtius Rufus videtur mihi ex se natus. Ella è nato da sé,ed ha creato una maniera tutta sua; e prevedo che la suaformerà fra noi la prima scuola 1.

La suggestione del critico – che riecheggiava, adattandola alteatro, un’intuizione più generale del Principe e delle lettere a pro-posito dei “moderni scrittori”, i quali, se “vorranno essere padridi verità, di alto diletto, e fondatori di un nuovo secolo letterario,essere dovranno pria d’ogni cosa, figli di sé medesimi” 2 – erastata subito accolta dall’Alfieri. Nella Risposta al Calzabigi “la

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

miseria” di “non aver teatro” è ricondotta alla “fatale cosa” che“per farvelo nascere abbisogni d’un principe”, “impedimentonecessario al vero progresso di ques’arte sublime” 3. Per ritrovarele ragioni di uno spettacolo che insegni “ad esser liberi, forti,generosi, trasportati per la vera virtù, insofferenti d’ogni violenza,amanti della patria, veri conoscitori de’ propri diritti, e in tutte lepassioni loro ardenti, retti e magnanimi”, l’autore tragico dovràrisalire direttamente al “teatro in Atene”, esempio sublime di ognidrammaturgia “cresciuta all’ombra di un principe qualsivoglia” 4.

L’originalità forzata del “Sofocle moderno”, diffusa dal toposfortunato del Calzabigi e ribadita più tardi con orgoglio nellaVita, risulta dunque tutt’altro che priva di modelli: ricollegandosidirettamente all’immaginario eroico dei trattati politici, l’Alfierisembra introdurre da subito, all’interno del suo “teatro inattua-le”, l’allusione a un testo fondamentale come il Perì hypsous, cheper primo aveva testimoniato nella poetica del “forte sentire” ilfondamento della “greca energia” 5, stabilendo nello stesso tempouna stretta connessione tra libertà e eloquenza, stile e pensiero.In aggiunta alle osservazioni dell’amato Plutarco e del sublime diHelvétius, che aveva dedicato alcune pagine del De l’Esprit al tea-tro dell’epoca di Nerone, emblema della barbarie dispotica e deicrimini contro la giustizia e la virtù, l’autore delle tragedie dilibertà apprendeva proprio dalle pagine conclusive del trattatello,letto nella versione del 1748 a opera di Anton Francesco Gori, lecause politiche e morali della corruzione dell’eloquenza.Riassunte nel testo originale dal verso di Omero “la metà delvalor, servitù toglie” 6, queste erano seguite nella traduzionemoderna da una glossa significativa che certo aveva dovuto atti-rare l’attenzione dell’Alfieri per la sua forza e brevità emblemati-ca: “Siccome adunque […] le cassette, nelle quali io sento essernodriti i Pigmei, che nani appelliamo, non solo impediscono ilcrescere a quelli, che entro serrati vi sono, ma anche a cagiondella museruola, gli tengono rannicchiati; così potrebbe alcunodimostrare, che ogni servitù, ancorché giustissima, è dell’animaun’incassamento ed una pubblica e comune prigione” 7.

All’importanza dello pseudo-Longino per la formazione dellostile tragico aveva alluso del resto, sia pure confusamente, lo stes-so Calzabigi, quando nella Lettera aveva accostato la manieradell’Alfieri a quella di Shakespeare “per l’energia, e per la brevità,e per la fierezza” 8, avvicinando nello stesso tempo l’autore del

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Macbeth al retore greco che per primo aveva consentito la mesco-lanza di “prosa e verso” 9. Si tratta solo di un breve accenno, nelquale il riferimento al tragico inglese occulta in parte il valore diun’intuizione che apparirà manifesto solo nel carteggio con ilPepoli a proposito del sublime nel teatro alfieriano. Ma il ruolo diguida rappresentato dal trattatello nella formazione dei caratteri edello stile tragico trapela anche in un passo della lettera inviata daParigi a Mario Bianchi nella quale l’Alfieri, dopo aver sollecitatoun parere sul dialogo Della virtù sconosciuta – dove non a casocompare il ritratto del poeta che ha il compito di tramandare allegenerazioni future “sublimi verità in sublime stile notate” 10– pre-cisava di gradire sopra ogni cosa “il ragionamento naturale, but-tato in carta come la penna, anzi come il cuore lo darà loro” 11,aggiungendo poi significativamente, in una sorta di spontaneaassociazione di idee:

Così parimente mi faccia inviare quella nota dei libri,perché mi sono arrivati di Roma tutti i miei libri, eparecchi me ne manca, di cui sono ansioso di sapere sesi trovano fra cotesti lasciati in Siena; e tra gli altri ilTacito del Davanzati, col testo a colonna, stampa delComino; e il Longino e Demetrio Falereo, Del Sublime,legati insieme, e una bibbietta latina, e varj altri, chenon vorrei <aver> perduti, perché qui non li posso rifa-re che con pena grande 12.

Come si vede, la missiva al Gori delinea, dopo la Lettera delCalzabigi, un altro canone di autori, questa volta chiaramenteindicato dall’Alfieri. Accanto alla “bibbietta latina” non meglioidentificata, la traduzione di Tacito ad opera di BernardoDavanzati, con la quale l’Alfieri si era cimentato fin dal ’78 in unasorta di competizione letteraria che aveva come fine la brevità el’energia 13, e le edizioni parallele dello pseudo-Longino e dellopseudo-Demetrio volgarizzati da Anton Francesco Gori, evocateinsieme non solo a causa della rilegatura comune, suggerisconoun preciso itinerario di lettura che si è tentati qui di ripercorrere.Se infatti il primo accenno diretto allo pseudo-Longino comparenella lettera al Bianchi del 1788, le numerose allusioni dissemina-te nelle Rime provano che alla fine degli anni Settanta il sublimeè per l’Alfieri una categoria acquisita, come dimostra tra l’altro ilsonetto LXIV in cui il “raggiare” della donna amata è assimilato

VII. Alfieri e il sublime delle origini 157

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

al fiat lux dell’esempio biblico reso celebre da quel testo. NelCapitolo del 1789 dedicato ad André Chénier, il “sublime propo-sto” invera una scrittura tragica tormentata, alla quale è affidatoil compito di resistere all’ oblio e al silenzio della notte eterna ealla morte fisica del corpo 14, riecheggiando a distanza di anni lepagine del Principe e delle lettere a proposito dello “scrittore subli-me” che “tutto in se stesso, ed in sé solo trovando” e “fabro eglisolo della propria grandezza, non meno che dell’utile altrui, alleseguenti età tramanda eternamente la viva sua fama, non quasiun vuoto nome, ma corroborata e giustificata dal proprio libro” 15.

Il sublime, poteva leggere l’Alfieri nella versione settecentescadel Gori senza dubbio più vicina a Burke che a Boileau, consistenel “sommo pregio e l’eccellenza de’ ragionamenti […] impercioc-ché le straordinarie cose non persuadono, ma rapiscono e pongo-no in estasi gli ascoltanti”, e “il maraviglioso signoreggiamento,violenza incontrastabile arrecando, sottomette e sommamentesorprende l’uditorio”, abbattendo ogni ostacolo “a guisa di fulmi-ne” 16. Nel rapporto con il pubblico sta appunto il significato piùalto dell’eloquenza sublime, che comunica la virtù e la veritàinfiammando le passioni sopite: non a caso nell’articoloEloquence dell’Encyclopédie un filosofo come D’Alembert, a cuiAlfieri destinerà i due volumi dell’edizione senese delle Tragedie17, aveva scritto sulla scorta dello pseudo-Longino che “être élo-quent […] c’est faire passer avec rapidité et imprimer avec forcedans l’âme des autres, le sentiment profond dont on est pénétré”,aggiungendo a uso di uomini di teatro come Diderot e lo stessoAlfieri che “cette définition paroit d’autant plus juste qu’elle s’ap-plique à l’éloquence même du silence et à celle des gestes” 18.

Presente in maniera massiccia nella stratigrafia dei trattatipolitici, il richiamo a un’eloquenza alta che celebra la suprema-zia dell’impulso naturale, inteso dall’Alfieri come “bollore dicuore e di mente”, costella le tragedie di libertà, nelle quali domi-na il modello dell’oratore sublime. A mostrarlo vale il confrontotra l’esperimento giovanile della Cleopatra, dove la rivolta antiti-rannica di Antonio presenta ancora tratti dubbiosi e sfumati cheriflettono l’incertezza del personaggio, diviso tra amore e virtù 19,e le successive tragedie di libertà, dove la retorica del sublimeinterviene a delineare in maniera decisiva il ritratto del magnani-mo desunto da Plutarco e da Livio 20. Se infatti la natura “genero-sa e grande” di Antonio si rivela “inutil don” nel “laberinto infa-

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me” degli artifici di Cleopatra, e l’esempio a “morir forte” nonbasta a cancellare “il vergognoso peso” di un “perfido amor” cheriecheggiando quasi il Metastasio spoglia l’eroe di ogni valenzaideale, la dedica della Congiura dei Pazzi a Francesco GoriGandellini è già garanzia di un carattere sublime che, pur nel tra-vaglio interiore di quella “perplessità” necessaria al dénouementtragico, si rivela alla fine alieno dal compromesso. Alla passionedominante del tiranno, quel timore che restringe gli spiriti vitalie diminuisce il cuore, si contrappone così la folla degli affetti(“nobil vergogna, maraviglia, furor, vendetta, speme”) ridestatinei congiurati dall’“animo grande” di Raimondo, “maestro, ducee Nume”.

Ma sublime doveva essere soprattutto, nelle intenzioni dell’au-tore, il discorso di Don Garzia nell’omonima tragedia, le cui paro-le infiammate fanno “spiacevole ombra” allo “splendore infame”del tiranno, mentre in una sorta di rovesciamento prospettico il“bollore” di Timoleone, “luce” e “fiamma” che illumina tragica-mente le tenebre del potere, contrasta con la fredda immobilità diTimofane, al quale l’eroe chiede invano l’“alta, sublime ammen-da” della rinuncia al dispotismo. Il richiamo insistito al “Nume”dell’eloquenza al servizio della libertà si intensifica negli atti suc-cessivi, al punto che dinanzi all’impeto dei “forti divini detti”(“più caldi mai, nè più veri”) che provocano l’adesione immedia-ta di Eschilo (“Già del furor, che lui trasporta, ho pieno / invaso ilpetto) anche la volontà oscura del tiranno sembra vacillare (“Ah,forse voi dite il vero – Ma non v’ha più detti / E sien pur forti, chedal mio proposto / svolger possanmi omai. Buon cittadino / Piùnon poss’io tornare. A me di vita / Parte or s’è fatta, la immutabil,sola / Alta mia voglia; di regnar…”). E difatti, quasi non vi fosselimite agli effetti della retorica sublime che congiunge in ununico impeto parola e azione, Timofane muore da “ammiratore”della virtù di Timoleone, riconoscendo dopo il colpo mortale che“se impreso / Io non avessi a far… la patria… serva… Impresoavrei di liberarla:… è questa / D’ogni gloria… la prima…”.

Il giudizio dell’Alfieri su questi primi esempi di eloquenzasublime, che tentano di dare corpo e voce agli eroi di Plutarco, fucom’è noto piuttosto discorde. Salvando nella sostanza ilTimoleone “per la semplicità della azione” e “per la purità di que-sta nobil passione di libertà che ne riesce la sola motrice” 21, l’au-tore condanna di fatto le due tragedie medicee proprio a causa

VII. Alfieri e il sublime delle origini 159

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

della mancata realizzazione dell’eroe tragico, dovuta in parte alloscenario moderno di passioni in cui si svolgeva un conflittodegno di figurare solamente all’interno del teatro classico. Rivelail Parere a proposito del Don Garzia:

Se il luogo della scena di questa tragedia, in vece diessere la moderna Pisa, fosse l’antica Tebe, Micene,Persepoli, o Roma, questo fatto verrebbe reputato tragi-co in primo grado. Un fratello che uccide il fratello, e unpadre che vendica l’ucciso figlio uccidendone un altro,certo, se mai catastrofe vi fu e feroce, e terribile, e mistapure ad un tempo di somma pietà, ella era tale ben que-sta. Ma pure, mancandovi la grandezza vera dei perso-naggi, e la sublimità delle cagioni a tali inaudite scelle-ratezze, viene il soggetto a perdere gran parte della suaperfezione. Ho fatto quanto ho saputo per sublimarequeste cagioni, frammischiandole coll’ambizione diregno; ma per lo regno di Firenze e di Pisa, non si puòmai tanto innalzare un eroe, che a chi lo ascolta eglivenga a parere veramente sublime 22.

In altre parole l’Alfieri vedeva nel personaggio di Garzia “lostesso difetto del Raimondo della precedente tragedia”, ovveroche “per essere anch’egli di troppo alti pensieri, e impossibiliquasi nello stato suo diventa un personaggio poco verisimileancorché non falso”, concludendo in maniera categorica che “unautore che cerchi d’esser sublime davvero, non dee impacciarsimai con gente che sublime non poteva pur essere” 23. A questopunto l’unica strada possibile sembrava essere quella del ritornoall’antico indicata di sfuggita poche pagine prima, quando propo-sito della Congiura l’autore aveva ammesso che Raimondo era“un carattere anzi possibile che verisimile”, concludendo che ilfallimento della tragedia si doveva proprio alla proposta incon-grua di un “Bruto toscano” che per quanto “infiammato, innalza-to, e sublimato da chi lo maneggia”, sembrerà pur sempre “piùideale che vero”, mentre “la metà di quello ch’ei dice, posta inbocca del Bruto romano, verrà ad ottener doppio effetto” 24.

La riscrittura successiva dei due Bruti – anche qualora si tengaconto del tentativo di emulazione nei confronti di Voltaire 25 –pareva dunque una scelta coerente sulla via indicata da Plutarco edallo pseudo-Longino insieme, anche se rispetto allo schema delletragedie precedenti il “favellare franco” di Giunio Bruto dinanzi al

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“genio tutelar di Roma”, costretto a misurarsi con “l’egregio e vero/ Pentimento sublime” dei figli che “a brani a brani” gli “squarciail cuore”, può sembrare a prima vista una soluzione meno efficaceladdove elude proprio quel confronto diretto con il tiranno cheritornerà con forza al centro del Bruto II. Ma d’altro canto, argo-menta il Parere, Giunio Bruto costituisce “un soggetto tragico diprima forza, e di prima sublimità; perché la più nobile e alta pas-sione dell’uomo, l’amore di libertà, vi si trova contrastante con lapiù tenera e forte, l’amore di padre”, e “da un tal sublime contra-sto ne debbono nascere per forza dei grandiosissimi effetti” 26. Nonmeno importante dal punto di vista dell’effetto tragico è anche,come rileva ancora acutamente l’Alfieri, “la forza dell’orribile spet-tacolo del corpo dell’uccisa Lucrezia” vero e proprio esempio, sipotrebbe dire, dell’eloquenza muta invocata precedentemente daD’Alembert, se è vero che da tale vista “deve essere singolarmentecommosso quel popolo” e, come aveva insegnato anche lo pseudo-Longino, “ogni moltitudine commossa è tosto persuasa; ed appenaè persuasa […] ella opera e parla perlopiù giustamente, e spessoanche altamente, per semplice istinto di commossa natura” 27. Sulfronte composito delle interpretazioni moderne non andrà poi sot-tovalutata l’influenza di un passo del De l’Esprit in cui Hélvetiusaveva indicato in Bruto, esempio insieme a Catone di un’anticavirtù oramai sostituita dall’“ordre commun”, il modello più alto diuna probité intesa come “passion forte” e impulso di cuore 28.Nell’Alfieri, del resto, la “virtù” di Bruto appare connessa fin dall’i-nizio all’arte sublime della parola, come mostra il celeberrimopasso del Principe e delle lettere dedicato al paragone tra i “lettera-ti muti” e gli scrittori, tutto a favore dei secondi anche quando ilconfronto si svolge all’ombra della tirannide:

Ma quello scrittore, che sovra Bruto dicesse tutto ciòche l’eccellente pittore dee e vuole farne pensare, e chela maestà di un tanto uomo richiede, non sarebbe cer-tamente nè egli nè il suo libro, egualmente compensatoed accolto nella reggia. E ciò perché? perché assai piùdicono sopra Bruto le poche parole di Livio, di quelloche mai esprimerà o farà pensare un Bruto dipinto, oscolpito: e il fosse pur anco da Michelangelo stesso, ilquale solo era degno di ritrarlo. E le parole di Livio sonqueste: Juro, nec illos, nec alium quemquam regnareRomae passurum 29.

VII. Alfieri e il sublime delle origini 161

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

Dal punto di vista della dinamica interna degli avvenimenti edell’intensità degli affetti testimoniate dalla tradizione, la materiatragica del Bruto I (che porta sulla scena “l’amore di un veropadre superato dall’amore di libertà”) sembra essere dunque piùconvincente del Bruto II, in cui la forza del dramma appare affie-volita dalla figura di un “tiranno”, Cesare, che non meritando ilcarattere “maschio e sublime” 30 dell’eroe plutarchiano non puòneppure costituirne il degno antagonista. E tuttavia il giudiziodell’Alfieri al riguardo è netto: il Bruto II “somministra il verosublime in molto maggior copia che il primo, e che niun’altra ditutte queste precedenti tragedie”, e anzi “nessuna sublimità disoggetto e di personaggi può […] contrastare con questa” 31. Ilmotivo risiede nel fatto che il profilo tragico dell’eroe romano sirivela compiuto sia rispetto alla “grandezza ideale dei caratteri”che a ciò che egli chiama il “verisimile colossale” 32, vale a dire ilpunto di vista della poesia e della storia. Gli esempi di Plutarco edello pseudo-Longino convergono nella “maravigliosa fermezza”e nella “divina impetuosa eloquenza” di Bruto, che riprendendoquasi alla lettera la definizione del Gori “persuade, convince,infiamma” il popolo romano inducendolo a “ricordarsi, almenoper breve ora” che può “ridivenire” se stesso 33.

Il Bruto II rappresenta dunque il punto più alto del percorsoalfieriano verso il sublime degli antichi, e uno sguardo ravvicina-to alla tragedia sembra confermare l’opinione lucidissima dell’au-tore che giudica e confronta sulla base di una precisa intenzionedrammatica, mirata a dotare l’eroe plutarchiano dell’energia dellinguaggio. Non a caso dunque l’“eloquenza, l’impeto, l’ardire” e“un non so che di sovruman” che “spira” dalle parole di Bruto,“nobil, bollente spirto”, suonano più forti e persuasive dei “liberiaccenti” del pur sublime “orator di libertà”, Cicerone, poichéall’energia intatta della parola inverata dall’azione tragica è affi-dato il congedo dell’eroe alla fine del V atto (“Già volta / Sta nel-l’acciaro al petto mio la punta: / Morire io vo’: ma, mi ascoltatepria”). Saranno infatti ancora una volta i sublimi detti di Bruto,quella “persuasion intime de la vérité” che, come aveva scrittoD’Alembert, fa passare nell’animo dell’uditorio “le sentimentprofond dont on est rempli” 34, a “cangiare”, dinanzi al popolosbigottito e in preda a “stupor, terror, pietà”, l’idolo di Cesare da“cittadino” e padre nell’emblema del tiranno a cui il figlio salva-tore della patria offre l’estremo “dono” della morte.

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Il sublime, insegnava lo pseudo-Longino tradotto dal Gori, èlegato all’immaginazione: “sono le fantasie […] della grandezza edel parlare alto e magnifico […] grandissime apprestatrici: daalcune dette Idolopee, ovvero facitrici di immagini” in quantopongono “sotto gli occhi” 35 dell’uditorio figure quasi reali nellaloro concreta potenza drammatica. Non meraviglia dunque chenella gradazione sublime ricercata dall’Alfieri l’immagine suscita-ta dalla parola possa risultare alla fine più efficace dell’energiamuta del gesto: l’esibizione del corpo di Lucrezia nel Bruto I ècancellata dall’evocazione eloquente del corpo “estinto” del “re”,che recupera nella morte “le sublimi doti” e “l’alma / cui non fumai l’egual” una volta spenta la brama di potere che “diminuisce”l’animo del tiranno e di tutti coloro che nel desiderarlo ancora invita tradiscono la fede nei valori repubblicani. Sostenuta dall’evi-denza della retorica, la “fiamma del dire” si comunica per l’ulti-ma volta all’uditorio attraverso la figura della ripetizione (“fiam-ma sian l’opere vostre...”) che trasforma nuovamente la parola inazione.

Intorno alla prima metà degli anni Ottanta la ricerca del subli-me sembra rappresentare una preoccupazione costante perl’Alfieri, come conferma la lettera del 1785 al Tiraboschi, doveribadisce le ragioni dell’assenza di personaggi secondari sullascena e di “mezze e tinte e ombre nel quadro”, già affrontate inparte nel Parere a proposito dell’Antigone, con il pericolo costan-te che elementi di riposo e di distensione provochino una perditadi energia nella progressione dell’azione drammatica, anche inconsiderazione del fatto che “purtroppo il personaggio dovrà direnel corso della Tragedia tante e tante cose, che per se stesse nonsaranno nè sublimi nè forti” 36. È del resto ancora un ricordo del-l’eloquenza pseudo-longiniana trasportata al teatro quello che glifarà dire, nel passo dedicato all’Invenzione, che “riposo nelle coseappassionate vuol dire sospensione, e quindi notabile minora-mento di passione, il che equivale a freddezza”, e che “quandol’uomo ha cominciato ad essere commosso, egli vuole per naturasua non essere più interrotto, ed anzi, vuol che la commozionesua crescendo sempre all’ultimo termine della favola rapidamen-te lo conduca” 37.

Ma il Parere contiene anche riflessioni mirate riguardo alla sce-neggiatura e allo stile, e da questo punto di vista il trattatello dellopseudo-Longino poteva offrire, con l’aggiunta dello pseudo-

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Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

Demetrio, un elogio della brevità appassionata già presente inSeneca unita alla “sublime semplicità del dire” 38, fornendo unasorta di giustificazione ai difetti dell’“oscurità” e della “durezza”più volte lamentati dai contemporanei 39, forse non disgiuntadalla segreta convinzione che, per quanto “assai lontano da quel-la sua possibile perfezione, che l’autore avea più assai nella menteche nella penna”, quel modo di procedere era confortato da unesempio illustre, ispirato da ragioni non solo retoriche ma primadi tutto morali e civili. Dopo la puntigliosa disamina di un versodel Filippo che l’autore sottopone a un’implacabile rielaborazioneal fine di “riassumere la naturalezza spogliandola della trivialità”40, il giudizio che occorre “ragionar sovra i libri, ove pure meriti-no” per “chiarir la ragione dei diversi stili nei diversi generi”, e“fissare esattamente i giusti confini dello stile naturale, del ricer-cato, dello stentato e del dignitoso” 41 (quest’ultimo proprio dellatragedia), suona come una conferma ulteriore della riflessioneavviata intorno alle categorie dello pseudo-Longino che quasinegli stessi anni era al centro delle indagini parallele diD’Alembert e del Beccaria.

Tra le indicazioni di principio che uno scrittore alla ricerca diun nuovo stile tragico improntato insieme alla dignità e all’ener-gia di Plutarco e alla brevità essenziale di Seneca poteva ritrova-re all’interno del Trattato del Sublime vi sono anzitutto il ricono-scimento dell’impulso naturale come “affetto gagliardo ed entu-siastico” unito alla “giusta ed alta felicità de’ concetti” 42, giàaccolto all’interno dei trattati politici 43, e poi l’esortazione, nonmeno rilevante nel caso dell’Alfieri, a comporre e a parlare comedinanzi al “tribunale” o meglio al “teatro” dell’Antichità:

Adunque ancora noi volendo lavorar qualche cosa,che riecheggia altezza e maestade, sarà bene, che cifiguriamo nell’animo come avrebbe detta quell’istessacosa Omero, se toccato a lui fosse: dipoi come Platonee Demostene, o come Tucidide nell’Istorie l’avrebbe sol-levata e renduta sublime. […]. Ma ancor tanto meglio seci figureremmo nella mente, come ciò, che da noi sidice, lo ’ntenderebbe Omero, o Demostene, se fosseropresenti: o che impressione farebbe loro. Perché, a direil vero, egli è un gran cimento il proporsi un tal tribu-nale o teatro de’ propri ragionamenti: o davanti ad Eroie giudici e testimoni di questa sorta, render conto dellescritte cose, e portarla via netta 44.

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Alla sublimità dell’uditorio appare vincolata la scelta delle“cose grandissime”, illustrata nella X sezione del trattato, cheattraverso l’esempio lirico di Saffo giungeva a proporre quasi unmodello naturale della passione amorosa per la Mirra, anche invirtù di una traduzione come quella del Gori che si serve dei ter-mini correnti della fisiologia settecentesca per illustrare il lin-guaggio muto e incoerente degli affetti:

Dov’ella (Saffo) dunque fa spiccare questa sua virtù?Nello scegliere con somma avvedutezza e giudizio gliestremi e gli eccessi, e le cime di queste si fatte cose enel legarle scambievolmente tra loro. […] Non ti recaegli stupore, com’ella sopra un medesimo soggetto, l’a-nima, il corpo, l’orecchie, la lingua, gli occhi, il colore,cose in somma come aliene e trapassate e fuggite, vadacercando; e per via di contrarietà in un tempo stessoagghiacci, e divampi, esca fuor di sé e rientri?Perciocché ora teme, ora poco ne manca che nonmuoia: talché sembri essere in lei non una sola passio-ne, ma un cumulo e un concatenamento di passioni 45.

Accanto a queste indicazioni più generali, che se lette insiemeformano quasi una dichiarazione di poetica, occorre ricordarnealcune più precise e concrete, che risultano altrettanto illuminan-ti dal punto di vista della costruzione dello stile, come la sezioneXVIII dello pseudo-Longino dedicata alle Domande oInterrogazioni, che ribadiva la necessità sublime dei soliloqui(così spesso rimproverata all’autore 46), i quali “con il furore e l’u-scita della domanda, e della risposta, fatta a se medesimo comefosse un’altra persona” imitano “la congiuntura e l’opportunitàdell’affetto” 47; o la sezione XIX sugli Asindeti o scollegamenti, chein perfetto accordo con quanto sostenuto dall’Alfieri nel Pareredichiarava l’energia suscitata nell’uditorio dalle “cose interrotte enon meno accelerate che portano seco mostra dell’affanno” 48.Fondamentali risultano poi le considerazioni espresse nellasezione XXII a proposito dell’uso alfieriano dell’iperbato, piùvolte criticato dai recensori moderni, che il testo antico ammetteinvece come indizio “veracissimo di combattente passione” 49:

perciocché siccome quei, che s’adirano da vero, otemono, o dolgonsi, o per gelosia, o per qualche altracosa (che molte, e senza novero son le passioni, nègiammai alcuno ridir potrebbe quante elle sono) tratto

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Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

tratto intoppano; ed essendosi proposti una cosa, spes-so saltano ad un’altra, ficcando alcune cose nel mezzosenza giudizio, poi di nuovo ritornando alle prime: insomma qua e là dalla inquietudine, come da incostantevento girati e rigirati, in mille e varie guise permutano leparole, e i sentimenti, e l’ordine, che viene naturalmen-te dalla serie e dal filo del discorso: così presso gli otti-mi Scrittori per via d’Iperbati procede l’imitazioneinverso gli atti della natura 50.

Come si vede la traduzione moderna – che per illustrare laforza della passione trova il modo di inserire un rapido quantointenso accenno al Dante del V canto vicino al “tremendissimo”Tucidide, maestro riconosciuto nel separare “anche quelle cose,che totalmente sono tra loro connesse e inseparabili” – accentuala valenza psicologica presente nello pseudo-Longino disegnandoil diagramma di un’eloquenza sublime intesa prima di tutto comemanifestazione del pathos. Viene alla mente, a questo punto,quanto avrebbe scritto alcuni anni dopo un contemporaneodell’Alfieri, vale a dire il Beccaria, nelle Ricerche intorno alla natu-ra dello stile, che non a caso si aprivano con un elogio congiuntodi Locke, Condillac e D’Alembert quali garanti di una retoricaintesa come scienza dell’uomo: “Io mi sono sforzato di assogget-tare alla filosofia dell’animo, che con poca proprietà viene dettaMetafisica, e meglio dovrebbe chiamarsi Psycologia, questa partedell’eloquenza, che sotto il nome di stile viene compresa, abban-donata fin ad ora quasi intieramente alla fortuita impulsione delsentimento ed alla sconnessa ed irriflessiva pratica di un lungoesercizio” 51.

La dichiarazione programmatica del Beccaria, richiamataqualche anno dopo da Helvétius nel capitolo del De l’Hommededicato allo stile 52 era stata del resto quasi ripresa alla letteranel secondo libro del Principe, dove l’Alfieri aveva annotato che“la scienza dell’uomo […] è la prima parte e base d’ogni vera let-teratura” 53. Se si poi considera che il trattato del Beccaria mira-va se non a “spandere una luce nuova” riguardo alle “verità” dellostile, “almeno a scuotere le menti italiane, e a dirigere la fervidaloro inquietudine a tentare di scoprire quel secreto che i granmaestri ci hanno celato”, rivolgendosi “a quegli animi pronti epenetranti che sanno ripiegarsi in se medesimi a sentir profonda-mente, ed a quegl’ingegni arditi e liberi che si formano una scien-

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za de’ loro pensieri e non degli scritti altrui” 54, non stupisce cheun critico acuto come Antonio Bosi, nel suo Giudizio sulle trage-die del Sig.conte Vittorio Alfieri, dinanzi a una versificazione di“soverchia durezza”, “aspra ed ingrata” e dalle “trasposizionicrude all’orecchio e poco conformi al genio della nostra lingua” 55,chiamasse in causa proprio le Ricerche per definire uno stile che,come aveva già ammesso Helvétius, non consisteva più nell’“artde bien écrire”, bensì nell’“art d’éveiller dans le lecteur un grandnombre de sensations” 56.

Accanto alla rilettura settecentesca dello pseudo-Longino for-nita dal Gori, di cui si si potrebbero ancora citare a ragion vedu-ta i capitoli IV e XLI sulla necessità di evitare la freddezza e le“ariette” che impediscono l’espressione sublime 57, occorre men-zionare l’apporto del De locutione, che nella sua evidenza “istrio-nica” completa e integra le indicazioni del Perì hypsous dal puntodi vista per così dire teatrale. Come conferma di nuovo la prefa-zione moderna del Gori alla versione cinquecentesca di MarcelloAdriani, il richiamo allo pseudo-Demetrio si inserisce nella lineaideale di un’oratoria “maestosa” che da Tucidide giunge all’Alfieriattraverso gli esempi moderni e non meno sublimi del Tasso e delCasa 58. Anche in queste pagine l’autore tragico poteva trovareconferma di alcune coraggiose scelte stilistiche modellate d’istin-to su Seneca, leggendo ad esempio che “quant’è in brieve ristret-to, molto apparisce, e più fiero e vigoroso” 59, e che “l’asprezzadella testura […] genera ancora in molti luoghi grandezza”, comedimostravano, oltre a Tucidide, i grandi modelli di Omero e diDante, mentre occorre evitare che “le congiunzioni troppo esqui-sitamente si corrispondano”, perché “ogni esquisitezza ha delgretto” 60 e “la dolcezza della testura […] non è molto a proposi-to per lo stilo grave” 61. Tra i modi di una “brevità magnifica” lopseudo-Demetrio annoverava non a caso principalmente la reti-cenza, con la spiegazione che “alcune cose non pronunziate ecomprese piuttosto con l’imaginazione nascono maggiori” 62,dando ragione ancora una volta al Beccaria quando nelleRicerche aveva parlato della necessità per lo scrittore di introdur-re sempre nel discorso “idee accessorie” che contengano moltopiù di quanto non dicano.

Tra i “vizi” dello stile opposti al “magnifico”, anche lo pseudo-Demetrio aveva segnalato la mancanza di calore, con la precisio-ne, importante per l’Alfieri, che “il freddo è quello, il quale supera

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Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

il proprio sentimento dal concetto di cui si ragiona” 63. Tra le figu-re, l’iperbole era giudicata “fredda” per “la propinquità che ha col-l’impossibile”, ma con due significative eccezioni, rappresentatenel particolare dall’esempio mirabile di Saffo, che “con grandissi-ma grazia si servì di cosa, per natura sua pericolosa” 64, e nel gene-rale da quella “specie di Iperbole” che “ha insieme dello spavento”:infatti “ogni spavento è grande, perché porta temenza” 65. A unocchio attento e sensibile come quello dell’Alfieri, il trattatello pre-sentava una sorta di “grammatica del terribile” disposta a climax,che insegnava a “torre sempre nel fine il più terribile, perché ilcompreso nel mezzo svanisce” 66, e a ricorrere al “mal suono”quando l’effetto è di ottenere “una gravità piena di spavento”,come nel caso del verso di Omero “i Troiani s’accapricciaro quan-do videro il serpente macchiato”, riguardo al quale lo pseudo-Demetrio chiosava: “poteva dirsi con miglior suono, e conservarsiil verso […]. Ma dicendo in questo modo, né egli né il serpentesarebbe apparito terribile” 67. Partendo da queste indicazioni sicomincia a capire meglio il motivo per cui ancora nella lettera aErcole Consalvi del marzo 1799, a proposito delle osservazioni diquest’ultimo sulla Teleutodia, l’Alfieri annotasse senza esitazioni:“Infra frementi è fatto apposta, non so se bene; ma se avessi avutoaltri due o tre f da inserire in codesto verso mi pare che ce li avreimessi, per esprimere il muto urlìo di un petto in cui le parole ribol-lono, e vengono in su, senza potersi articolare, appunto per il trop-po affoltarsi” 68. Non siamo molto lontani, come si vede, dalleragioni interiori che avevano ispirato al Tasso “la poeticadell’‘orrore’ che si muta in ‘bellezza’” 69, evocata nel verso “E dimezzo la tema esce il diletto”, ripreso più tardi dal Bettinelli e dalCesarotti, senonché nel caso dell’Alfieri il processo sembra rove-sciato, e attraverso la frantumazione e la sospensione della tessi-tura tragica l’orrore riprende il sopravvento sulla bellezza, comeappare in quella sorta di riscrittura della Liberata rappresentatadalla battaglia finale del Polinice.

Emblematica appare anche la riproposizione in chiave tragicadelle sezioni X e XV dello pseudo-Demetrio, dedicate rispettiva-mente all’evidenza e alla costruzione del periodo, che insegnanol’artificio della “sospensione” e dell’“oscurità” per così dire “psi-cologiche”, vale a dire connesse alle ragioni profonde del dénoue-ment tragico. In particolare l’oscurità appare legata alla figuradella reticenza e introdotta anch’essa in una sorta di climax

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ascendente dove però l’elemento più importante è taciuto o sola-mente accennato: infatti “in molti luoghi l’oscurità genera gravitàperché quello, di cui s’entra in sospetto, è più grave” mentre “loapertamente detto si dispregia”. Così

… non bisogna dire le cose fatte in un tratto, che ellefurono fatte; ma appoco appoco, tenendo sospeso l’udi-torio, e forzandolo a cadere nelle medesime passioni: ilche fece Ctesia nel dar la nuova della morte di Ciro.Perché venuto il messaggiero, non dice subito aParisatide che Ciro è morto […], ma prima diede nuovach’egli aveva vinto: ella lieta se ne commosse. Dipoidomanda: Il Re come la fa? E colui risponde: fuggì. Edella soggiugne Di questo n’è cagione Tissaferne: e rido-manda: E Ciro dove si trova ora? Risponde il nunzio:Dove conviene trovarsi agli uomini virtuosi. Appocoappoco, in brieve più oltre proceduto, a fatica (come sisuol dire) lo fa scoppiare fuori; avendo dimostrato moltomoralmente ed evidentemente, che quel nunzio, controa sua voglia, portava ambasciata di tal rovina: e avendofatto cadere la madre, e l’uditore insieme, nell’affanno 70.

Viene da pensare a questo punto alle possibili applicazioni tea-trali del procedimento illustrato dallo pseudo-Demetrio, che sem-bra integrare dal punto di vista di una retorica degli affetti l’usussenecano del dialogo frantumato 71, fatto di domande e risposteridotte al minimo, applicato dall’Alfieri in maniera costante nelFilippo e nell’Antigone, creando ad esempio nella Merope quellacontinua sospensione dell’azione che corrisponde ai moti dell’a-nimo, lacerato tra speranza e timore. Non per nulla un criticocome il Cesarotti, che con la sua traduzione dell’Ossian avevainteso offrire un modello nuovo di stile patetico, mentre rimpro-verava all’Alfieri “inversioni sforzate, ellipsi strane, e soventioscure, costruzioni pendenti, strutture aspre” e “ riposi mal col-locati” 72, scriveva, a proposito di una delle tragedie più discusse,che “la scena fra Egisto e Merope è sparsa di tratti caratteristici einteressanti”, spiegando subito dopo che “la fluttuazione diMerope, l’ansietà nelle domande, gli equivoci sul nome del padre,l’arrestarsi ad ogni circostanza, dipingono al vivo lo stato del cormaterno. Impareggiabile è l’esclamazione in cui prorompe quan-do sente che l’ucciso era inseguito e pieno di sospetto: Barbaro, etu l’hai morto? e i trasporti in cui scoppia, all’udire che l’uccisodomandava la madre” 73.

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Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

A sua volta l’Alfieri, replicando alle osservazioni del Cesarotti,ribadiva l’originalità mirata delle sue scelte rispetto ai precedentidel Maffei e del Voltaire proprio con il fatto che nella sua Merope“la commozione degli uditori”, che costituiva senz’alcun dubbioil climax del dramma, veniva “protratta fino alla fine del quart’at-to” 74: rispetto allo “svelamento” del Bruto II, l’ambiguità sostan-ziale della Merope finiva così per coincidere con il punto di mag-giore effetto patetico, adattando l’antico espediente retorico auna nuova descrizione degli affetti in movimento. Forse anchesollecitata dalla lettura riflessa dello pseudo-Demetrio, l’arte dellasospensione e della reticenza si andrà progressivamente affinan-do all’interno del teatro alfieriano fino a dar vita alle figure diClitennestra e di Mirra, la cui dimensione psicologica intensa nona caso verrà compresa e utilizzata appieno dal Manzoni per lacostruzione del personaggio di Gertrude, pur nello spostamentoideologico dalla scena al romanzo.

La versione settecentesca del Perì hypsous a opera del Gori puòsenz’altro essere considerata una mislettura, uno dei tanti “luoghidel sublime” che hanno accompagnato la ricezione dello pseudo-Longino divenendone via via parte integrante, senza che peraltrola sostituzione e a volte il rovesciamento dei significati sia avve-nuta sempre in maniera pacifica. Una conferma giunge dal car-teggio tra Alessandro Pepoli e Ranieri de’ Calzabigi a propositodel teatro alfieriano, che coinvolge aspetti fondamentali come leidee di armonia tragica, di oscurità lirica, e la definizione stessadi sublime. L’iniziativa del carteggio spetta al Pepoli, che nellaprima lettera al Calzabigi lamenta l’apprezzamento “pericoloso”dimostrato da quest’ultimo nei riguardi di un modello tragico incui il “pensare” prevale insidiosamente sul “sentire” a causa diuno “sforzo d’ingegno” che non risiede solo “nell’orditura dellevicende”, ma “nella condotta stessa delle passioni”, rendendo“problematico non solo quello che deve avvenire, ma quello anco-ra, che ognuno possa sentire nel suo animo in seguito” 75.

A ben guardare, attraverso la sua interpretazione un po’ ridot-ta, il discorso del Pepoli individua alcuni elementi di fondo delteatro alfieriano autorizzati dalla lettura parallela dello pseudo-Longino e dello pseudo-Demetrio, ma per il critico che scriveavendo ancora in mente Metastasio e l’effimero trascolorare degliaffetti sul registro musicale e cromatico delle variazioni armoni-che tale ripetuta “tortura di riflessione” non può che risultare

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“condannabilissima”. Le sue osservazioni si appuntano in parti-colare sull’abuso del soliloquio e dell’iperbato, mentre a proposi-to della discussa brevitas alfieriana, che risulta dal “troncare isensi riducendoli in piccole frasi, benché vibrate” 76 scrive: “nonsa egli che la passione piuttosto abbonda di frasi anche sinonime,di quello che scarseggi? […]. Non sa egli che Seneca stesso ben-ché turgido, e troppo amatore dell’immagini, che oscurano, edelle sentenze che raffreddano l’interesse, è però semplice nellacostruzione del dialogo, ed è più intelligibile che Virgilio stesso, etanto più di quello, che Orazio?” 77. A sostegno delle sue obiezio-ni, sostenute dai modelli congiunti di Virgilio e di Orazio e dallalettura parziale di Seneca, il Pepoli chiama in soccorso da ultimol’autorità del Perì hypsous, letto però nella vulgata classicisticaproposta da Boileau come necessario supporto alla poetica ora-ziana dell’utile dulci, dell’armonia, della chiarezza e della varietà,rispetto alla quale i “caratteri tirannici” del teatro alfieriano risul-tano “sempre uniformi” 78 e la prevalenza dei monologhi e degliaffetti, “troncati nel loro nascere da una frase forzata e mozza” 79,appaiono “difetti essenziali” che tradiscono “l’armonia lirica” diun genere, la tragedia, che lo pseudo-Longino aveva definito “tur-gidum et grandiloquum” 80.

Nella sua risposta, il Calzabigi concorda con il Pepoli che “lacolorita poesia” convenga alla tragedia e che lo stile debba essere“di diversi colori” 81, ma esclude risolutamente che “la tragediasia una poesia lirica”, e in particolar modo “lirico non deve nèpuò essere il Dialogo” 82. Difendendo la verosimiglianza e l’effet-to potente del soliloquio, l’autore della Lettera paragona i pensie-ri “profondi” e “espressivi” dell’Alfieri al sublime “disegnar diMichelangelo”, e lo svolgimento dei suoi drammi “al tratteggiarsu’volti gli stiramenti parlanti delle passioni, tanto ricercato e stu-diato in tutte le scole di pittura, senza esservisi ancora fatti pro-gressi notabili” 83. Ma soprattutto al Calzabigi la lettura dellopseudo-Longino fatta dal Pepoli sembra “difettosa” 84, e, dopoaver obiettato che la “spezzatura” 85 del verso non è in contrastocon il modello biblico del Fiat lux, propone a sua volta una defi-nizione dello stile che non solo esce dall’ambito retorico e stilisti-co del classicismo francese, ma va anche oltre l’operazione erme-neutica compiuta dal Gori, quando all’inizio del suo volgarizza-mento aveva scritto che la “sublimità”, ossia la “naturale elevatez-za de’ concetti”, altro non era se non “un’eco e un rimbombo” del

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Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

“sentimento grande” 86, dove “rimbombo” era già l’annuncio diuna sensibilità nuova e più inquieta che assegnava un ruolo diprimo piano al senso dell’udito rispetto all’occhio, prospettandonello stesso tempo l’ipotesi di una progressiva catena di risonan-ze negli spazi infiniti dell’interiorità 87. Conclude infatti ilCalzabigi: “dico adunque essere il Sublime, quello che in ognisorte di dire, e di scrivere profondamente pensato, vagamente, econ verità espresso, all’improvviso mostrandosi l’anima solleva, eun fisico ribrezzo produce in chi legge, o ascolta” 88.

Al sublime delle “idee” e delle “verità” illustrato dal Gori eripreso dall’Alfieri nella retorica vibrata del Bruto II, il Calzabigiaffianca un altro tipo di effetto, legato questa volta alle sue mani-festazioni psico-fisiologiche: “gli stiramenti della passione” e il“fisico ribrezzo” che accompagna l’esperienza emotiva dello spet-tatore rinviano al paradigma di Burke, la cui Enquiry into theOrigin of our Ideas of the Sublime and Beautiful era uscita nel1757, mentre la traduzione francese divulgata con il consenso diDiderot e dell’Encyclopédie circolava fin dagli anni Sessantasuscitando reazioni di entusiasmo e di ripulsa. Con tutta proba-bilità, il Calzabigi si riferiva qui alla sezione del testo relativa aglieffetti fisiologici del sublime, e in particolare a quella “non natu-ral tensione di nervi” o “violento stiramento delle fibre” cheaccompagna un’impressione di “straordinaria forza” 89 emotiva, enon è un caso che proprio in quella parte del libro figurasseanche, dedicata agli effetti della parola, la distinzione tral’“espressione chiara” propria dell’intelletto, e l’“espressioneforte” che appartiene alle passioni”, motivata attraverso un’analo-gia tra i moti fisici degli affetti e le parole stesse:

Ora come v’ha qualche muovente tuono di voce, unvolto su cui stanno dipinti gli affetti, un gesto agitato,che indipendentemente dalle cose sulle quali si spiega-no fanno impressione, così vi sono delle parole, chededicate particolarmente a suggetti di passione, e sem-pre in bocca a chi è travagliato da qualche affetto, citoccano e muovono più di quelle, che con molto mag-gior chiarezza o distinzione esprimono la soggettamateria. Si concede alla simpatia ciocché si ricusa alladescrizione 90.

Appare evidente a questo punto come il dialogo tra il sosteni-tore della poetica metastasiana e dei modelli tragici del teatro

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francese, da Corneille a Voltaire, e un critico come il Calzabigi,che anche tramite la nuova sensibilità codificata da Burke è giun-to a considerare l’Alfieri “unico poeta tragico” 91, non sia più pos-sibile. Lo conferma da parte sua anche la Replica risentita delPepoli, che si appella senza riserve alle formule retoriche-stilisti-che di Boileau per ribadire la sua idea di “espressione armonicae rotonda” 92: una “sublimità” che “innalza colla grandezza de’pensieri” 93 e rifiuta “tutte le altre specie […] arbitrarie e relative”94: “Ella mi rimprovera ch’io sono arrollato al regimento diLongino; ma il suo stendardo è uno stendardo trionfante, e la sualancia è irresistibile, e l’usbergo che ha da colpire, non è incanta-to” 95. È senz’altro vero, come osservava il drammaturgo, chenella visione del Calzabigi l’autorità del Perì hypsous si era mesco-lata al modello anticlassico di Shakespeare, ma d’altro canto se sipartiva dalla traduzione italiana che precede l’Enquiry di undecennio quel mutamento di prospettiva risultava più compren-sibile e naturale che non rimanendo fermi ai principî incrollabilidella vulgata francese 96. Il sublime, aveva scritto infatti il Gori inun lessico che quasi prefigura Burke, arreca “violenza incontra-stabile”, “sorprende” e “sottomette” l’uditorio, abbattendo “ogniostacolo a guisa di fulmine” 97. In altre parole, il fenomenodescritto nel testo settecentesco utilizzato dall’Alfieri non era giàpiù l’effetto di estasi e di meraviglia che innalza l’animo, di cuitrattano ancora a inizio secolo gli articoli pubblicati da Addisonnello “Spectator”, ma la sorpresa repentina, accompagnata daterrore e reverenza, generata da una forza subitanea e oscura cheagisce prepotentemente sui meccanismi del corpo e dell’anima.

Rimane da chiedersi a questo punto quanto del dialogo tra ilPepoli e il Calzabigi, che illustra in maniera esemplare la plura-lità delle letture compiute sullo pseudo-Longino, possa essereapplicato anche al soggetto dello scambio epistolare, vale a direall’Alfieri, e se il nome di Burke possa trovar posto all’interno diun possibile canone moderno degli autori, nel quale figurano già,accanto agli esempi antichi, Shakespeare da una parte eBeccaria, D’Alembert e Helvétius dall’altra. In mancanza di altririferimenti certi, proprio dal testo di Helvétius si dovrà partireper illustrare quella parte del percorso dell’Alfieri, che, come scri-verà più tardi con enfasi giustificata il critico e giurista GiovanniCarmignani, “volgendosi al vero assoluto […] ha voltate le spalleal verisimil poetico” e alla “regola aristotelica” 98, e con quel suo

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Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

“camminar torreggiante e sublime in mezzo ai precipizi che lasua mano intrepida e coraggiosa aveva aperti intorno a sé” hasaputo elevare “un grande e maestoso edifizio ma di foggia nonancor conosciuta fin qui in mezzo alle ruine dell’arte” 99.

A prescindere dalle censure effettuate nella versione definitivadella Vita, dove anche il nome di Helvétius viene sottoposto alprocesso progressivo di damnatio memoriae che aveva già colpitogli autori francesi e in particolare Voltaire, nelle pagine del Del’Esprit, percorse dalle citazioni di Montesquieu e di Montaigne einnervate dal ricorso continuo alle immagini dell’antichità classi-ca, l’Alfieri aveva trovato, insieme all’elogio dell’ “homme pas-sionné” e delle “passions fortes”, e all’invito ben accolto a “péné-trer dans l’abyme du coeur humain” 100, un’analisi lucida e sprez-zante del dispotismo, condensata da ultimo nell’affermazioneluminosa che “le puissant sera toujours injuste et vindicatif” 101.Ma al libro inquieto e geniale di Helvétius, che come rivela piùonestamente la prima stesura della Vita destò nell’Alfieri “profon-dissima impressione” 102 si deve soprattutto un commento sulladistinzione introdotta da Burke tra il “grande” e il “forte” che haconseguenze di rilievo anche sul piano dell’invenzione poetica.Dopo aver affermato che entrambi “doivent nous présenter desgrands objets”, con la differenza significativa che “si le fort esttoujours grand, le grand n’est pas toujours fort” 103, l’autore fran-cese così concludeva:

Le fort est donc le produit du grand uni au terrible.Or, si tous les hommes sont plus sensibles à la douleurqu’au plaisir; si la douleur violente fait taire tout senti-ment agréable, lorsqu’un plaisir vif ne peut étouffer ennous le sentiment d’une douleur violente, le fort doitdonc faire sur nous la plus vive impression: on doitdonc être plus frappé du tableau des enfers que dutableau de l’olympe 104. En fait de plaisirs, l’imagina-tion, excitée par le desir d’un plus grand bonheur, esttoujours inventive; il manque toujours quelques agré-mens à l’olympe. S’agit-il du terrible, l’imagination n’aplus le même intérêt à inventer, elle est moins difficileen ce genre: l’enfer est toujours assez effrayant 105.

Una volta introdotta la differenza capitale, Helvétius passa aesaminarne gli effetti all’interno dei vari generi, con particolareattenzione alla tragedia dove “on donne le nom de passion à tout

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sentiment qui nous affecte très vivement, c’est-à-dire, à tous ceuxdont le spectateur peut être le jouet ou la victime” 106. Osservandoche l’immagine di Atreo “qui présente à son frère Thyeste unecoupe remplie du sang de son fils” colpisce i sensi e la fantasiadella “vittima” dello spettacolo più dei sentimenti suscitati nellospettatore tradizionale dai pallidi drammi francesi contempora-nei, ne consegue che “les objets de crainte et de terreur doivent,en fait d’idées, de tableaux et de passions, les affecter plus forte-ment que les objets faits pour l’étonnement et l’admiration géné-rale. Le grand est donc, en tout genre, ce qui frappe universelle-ment; et le fort, ce qui fait un’impression moins générale, maisplus vive” 107.

Rimasto interrotto nel De l’Esprit, il discorso viene ripreso inmaniera significativa nel capitolo del De l’Homme dedicato alsublime, dove Helvétius annota: “A quelle espèce de sensationdonne-t-on le nom de sublime? A la plus forte, lorsqu’elle n’estpas, comme je l’ai déjà dit, portée jusqu’au terme de la douleur.Quel sentiment produit en nous cette sensation? Celui de la crain-te: la crainte est fille de la douleur; elle nous en rappelle idée 108”.E più oltre, con maggiore convinzione: “De toutes les passions, lacrainte est la plus forte. Aussi le sublime est-il toujours l’effet dusentiment d’une terreur commencée 109”. Nel De l’Homme la “pas-sion forte” della crainte, derivata da Montesquieu e più volte evo-cata del De l’Esprit e dall’Alfieri stesso nella Tirannide, cambia disegno: fuori dall’ambito politico e storico della condanna deldispotismo, essa finisce per designare una categoria psicologicaoriginaria che, come chiarisce Helvétius sulla scorta di Burke,coincide con il sentimento del terrore: “Quelles sont les espècesde contes dont l’homme, la femme et l’enfant sont les plus avides?Ceux des voleurs et des ravenants. Ces contes effrayent; ils pro-duisent en eux le sentiment d’une terreur commencée, et ce sen-timent est celui qui fait sur eux l’impression la plus vive 110”.

Se il nostro compito fosse quello di ricercare la fonte alfierianadi un terrore scaturito dalle profondità della psiche, che restitui-sca per così dire alla formula iniziale del Calzabigi il suo senso piùcompleto, il richiamo a Helvétius sarebbe già sufficiente, ancheper tutto quello che l’autore francese deriva da Burke e contribui-sce a diffondere riguardo all’idea stessa di sublime. E tuttavia larilettura di alcune immagini tragiche ricorrenti attraverso le cate-gorie dell’Enquiry risulta illuminante per chiarire non solo la sin-

VII. Alfieri e il sublime delle origini 175

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

tassi, ma anche la grammatica interna di un “teatro terribile”, incui il precipizio della tradizione naturalistica inglese si è conver-tito, sulla scorta di Burke, in categoria metafisica. Come non darecredito, del resto, a un libro che già dalle sue prime battutedichiarava che “l’immaginazione è la più estesa provincia del pia-cere e della pena, siccome è la regione dei timori, delle speranze,e di tutte le passioni che vi sono congiunte”, e che “qualunquecosa si giudica atta ad eccitare nell’immaginazione queste ideedominanti in forza di qualche impressione primitiva e naturaledeve avere perfettamente un uguale potere su tutti gli uomini” 111?Nel caso particolare dell’Alfieri non importa tanto la nozione in sédi delight, accolta nelle Ricerche del Beccaria e nel Discorso sull’in-dole del piacere e del dolore di Pietro Verri, quanto il riconoscimen-to lucidissimo, nella mise en scène tragica, che “il diletto prove-niente dalla mitigazione della pena palesa, per dire così, il troncod’onde germoglia nella sua solida, vigorosa e severa natura” 112.Dalla passione dominante del terrore come “sorgente del sublime”scaturiscono le categorie “necessarie” dell’oscurità, del potere,della privazione, del silenzio, dell’uniformità, della ripetizione edell’assenza di cui si nutre il teatro di ombre dell’Alfieri dal Filippoal Saul, passando attraverso l’interiorizzazione progressiva delvuoto e del silenzio, mentre si intensifica il ricorso all’esteticatutta interiore dei suoni e dei rumori inaspettati, repentini o inter-mittenti, “più spaventevoli di un silenzio totale” 113.

Riguardo alla prima di queste categorie, l’oscurità, Burkeaveva scritto che “sembra generalmente necessaria per rendereogni cosa terribile”, aggiungendo in maniera significativa che “idispotici governi fondati sulle passioni degli uomini e principal-mente sul timore, tengono quanto è possibile il loro capo nasco-sto agli occhi del pubblico” 114. Più che dalle dimostrazioniasciutte di Montesquieu e di Helvétius, l’evocazione ossessivadell’“orribil reggia” di tenebre e sangue che fa da sfondo al dram-ma 115 deriva forse dall’intensità visionaria di queste pagine, nellequali domina non a caso uno degli autori cari all’Alfieri, vale adire Milton 116. Proprio dal Paradise Lost, esempio inimitabile diuna poetica che conosce il “segreto di ingrandire” ponendo “lecose terribili in più forte luce in virtù di una grandiosa oscu-rità” 117 Burke aveva tratto la descrizione evanescente della Morteincoronata che figura al centro del capitolo dedicato agli effettidelle tenebre:

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L’altra figura, se chiamarsi talePuò chi non ha figura in parte alcunaDistinguibil per membra e per giunture:O sostanza, se tal può dirsi cosaChe un’ombra par, ma la diresti entrambe,Stavasi nera come notte, e fieraQual dieci furie, e come inferno orrenda;E un dardo spaventevole imbrandiva,E per quanto appaia, teneva in testaLa somiglianza di regal corona 118.

Tenebre, silenzio, orrore, morte: dal punto di vista della pro-gressione interna dell’Enquiry i drammi congiunti del Polinice edell’Antigone rappresentano l’applicazione tragica più immediatadella dialettica del terribile messa in atto da Burke: nel Polinicel’immagine della morte che segue i passi dell’eroe nei momentirapidissimi che precedono l’incontro fatale con il fratello si mate-rializza per un attimo tra gli echi sparsi della Liberata che, acominciare dal doloroso resoconto della battaglia “dall’alte torri”offerto da Antigone, punteggiano il testo di allusioni tassianeriscrivendo il pathos della distanza attraverso la sostituzione del-l’occhio con l’udito e l’intensità della parola che ricrea le immagi-ni. E con la morte giunge il terrore che accompagna Polinice (eanzi “a lui davante / vola”), che nella intensità della prima versi-ficazione era descritto “in fiero aspetto”, quasi a segnalare mate-rialmente la sua presenza all’interno dell’“aspra mischia”, mentrenella versione definitiva rimane solo un’ombra, un fantasma eva-nescente, più simile all’archetipo di Milton. Come nel caso diElettra nell’Agamennone, il dramma dell’Antigone comincia daqueste scene indelebili, che incatenano la materia tragica stazia-na alla figura originaria della ripetizione, quella stessa che negliEstratti per la Tragica aveva fatto privilegiare all’Alfieri, dellaTebaide del Bentivoglio, proprio la visione ricorrente e ossessivadei “neri abissi” dell’“eterna notte”.

Gli autori citati nell’Enquiry, più volte piegati senza scrupolialle esigenze dell’autore, come risulta dalle numerose citazionicontraffatte e alterate, offrono senz’altro un volto inedito einquietante al lettore: e questo vale non solo per Milton o per ilVirgilio “notturno” della discesa agli Inferi richiamato per la cate-goria della privation che ancora una volta riunisce in sé tenebre,solitudine e silenzio, resa dall’Alfieri nella traduzione degli anni

VII. Alfieri e il sublime delle origini 177

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

’90 con lo “squallor tremendo di questa notte eterna” 119 che inve-ste di senso la “profunda nox” e le ombre silenti del testo latinoavvicinandoli agli esempi di Burke, ma soprattutto per i riferi-menti costanti ai Salmi, al Libro di Giobbe e al Leviatano, checaricano il sublime biblico della tradizione inglese, da Löwth aDennis, di nuovi significati 120. A paragone degli altri poteri “d’i-stituzione” che hanno “il medesimo legame col terrore”, avevascritto Burke, “la sola Scrittura può somministrare delle idee cor-rispondenti alla maestà di questo soggetto”, poiché “in essa dovesi rappresenta Dio in atto di apparire o di parlare, si richiamanole cose più terribili in natura, onde sollevare l’anima ed imprimer-le riverenza, e trepidazione, per la presenza divina” 121. E a ripro-va citava proprio un luogo celebre della Bibbia per illustrare che“altro è rendere un’idea chiara”, ed altro “muovere le passioni”attraverso immagini oscure e “con certi suoni adatti a tal uopo”:

Un passo del Libro di Giobbe deve la sua meraviglio-sa sublimità principalmente alla terribile incertezzadella cosa descritta. “Nell’orrore di una visione nottur-na, quando il sonno suole occupare i mortali, mi sor-prese paura e spavento: tutte le mie ossa si scossero; epassando innanzi alla mia presenza uno spirito, si driz-zarono i peli delle mie carni. Uno si fermò immobile almio cospetto, di cui non conosceva il volto, una larva, edudii una voce qual mormorio di lieve auretta: e che,l’uomo in paragone di Dio sarà forse più giusto? Saràegli più puro del suo creatore?”. Siamo già preparatialla solennità della visione, e spaventati ancora primadi conoscere l’oscura ragione della nostra perturbazio-ne: ma quando si presenta questa gran cagione di terro-re, cos’è? Non è, ravvolta nell’ombra della sua propriaoscurità, più tremenda, più agitante, più terribile diquanto potrebbe mai renderla una vivissima descrizio-ne, o la più chiara pittura? 122.

Non può allora essere un caso se a questo punto, a complemen-to dell’intuizione che il Saul va giudicato “assai più su la impres-sione che se ne riceverà” che non “su la ragione che ciaschedunopotrà chiedere a se stesso della impression ricevuta” 123, sorgespontaneo alla memoria del lettore il confronto con la “sovranavoce” che “in suon di tempestosa onda mugghiante” chiama il vec-chio re alla resa dei conti, e quasi si oppone, nella sua terribile evi-denza sonora, al “raggio” della luce divina invocato da David, in

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cui si manifesta il doppio volto dell’“eterno, onnipossente, immen-so” “sovran d’ogni creata cosa”. Rivelato dalle parole profetiche diAbimelech (“E tu, che sei? re della terra sei: / Ma, innanzi a Dio,chi re? – Saul, rientra / In te; non sei, che coronata polve”) chedanno voce al “fulmine” e al “turbo” della tempesta” divina, la tra-gedia biblica alfieriana finisce per configurare il conflitto, evocatoda Burke nei termini del sublime terribile, tra il tiranno terreno ela potenza celeste, tra la “quercia antica” che “innalzerà sue squal-lide radici”, e la “rovente folgore”, l’“impetuoso, irresistibil turbo”che “sterpa, trabalza al suol, stritola, annulla” “la mala infettapianta” al pari di “fiori, pomi, foglie”.

Riletta attraverso il mito moderno del Paradise Lost, un altrotesto caro all’Alfieri che istituzionalizza per così dire il senso dellasolitudine e della perdita, la manifestazione del divino non coin-cide più con il fiat lux dello pseudo-Longino, ma piuttosto conl’eccesso di luce che “si converte in una specie di tenebra” 124

(“Dark with excessive light thy skirts appear” aveva detto Milton):un’immagine non molto lontana, in fondo, dalla “caligine densa”del Saul.

1 R. de’ Calzabigi, Lettera sulle prime quattro tragedie dell’Alfieri, in V.Alfieri, Parere sulle tragedie e altre prose critiche, a cura di M. Pagliai, Asti,Casa d’Alfieri, 1878, p. 205

2 V. Alfieri, Del Principe e delle lettere, in Id., Scritti politici e morali, a curadi P. Cazzani, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, t. I, p. 242. Il passo è commentato inG. Santato, Lo stile e l’idea. Elaborazione dei trattati alfieriani, Milano, FrancoAngeli, 1994, pp. 110-111.

3 V. Alfieri, Risposta alla Lettera di R. de’ Calzabigi, in Id., Parere sulle tra-gedie e altre prose critiche, cit., p. 227

4 Loc. cit.5 Cfr. Alfieri, Del Principe e delle lettere, cit., p. 230.6 D. Longino, Trattato del Sublime, tradotto dal Greco in Toscano da

Anton Francesco Gori, Terza edizione di note accresciuta, in Bologna, nellaStamperia di Lelio dalla Volpe, 1748, p. 100 (la citazione è tratta dall’Odissea,XVII, 322).

7 Loc. cit.8 Calzabigi, Lettera sulle prime quattro tragedie dell’Alfieri, cit., pp. 205-

206.9 Ibid., p. 181. Per una lettura moderna del confronto con il drammatur-

go inglese cfr. A. Bruni, “Presenza di Shakespeare in Alfieri”, in Alfieri inToscana, a cura di G. Tellini e R. Turchi, Firenze, Olschki, 20032, t. I, pp.283-306.

10 Alfieri, La virtù sconosciuta, in Id., Scritti politici e morali, cit., t. I, p.261. Cfr. al riguardo G.A. Camerino, “‘Sublimi verità in sublime stile notate’.Un dialogo ‘toscano’ e la poetica dell’Alfieri”, in Alfieri in Toscana, cit., t. II,pp. 437-450. Ma su questo punto, come più in generale sulla presenza di

VII. Alfieri e il sublime delle origini 179

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

Longino nei trattati politici si rimanda anche alle conclusioni di G. Santato,Lo stile e l’idea. Elaborazione dei trattati alfieriani, cit., pp. 80-106.

11 V. Alfieri, Lettera a M. Bianchi, in Id., Epistolario, a cura di L. Caretti,Asti, Casa d’Alfieri, 1963, t. I, p. 401.

12 Ibid. p. 402. La richiesta riguardo alla “notarella de’ libri” è ribaditanella lettera successiva al Bianchi datata 7 ottobre 1788 (cfr. Epistolario, cit.,p. 405), mentre in un elenco parziale “dei libri lasciati in Parigi, Agosto1792”, conservato presso il Centro Alfieriano di Asti figura un “Longino dalGori, Bologna, Lelio Dalla Volpe, 1748, vol. 1”, segnalato da A. Di Benedetto(cfr. “Alfieri e le passioni”, in Giornale storico della letteratura italiana, CLVIII,503, 1981, pp. 321-343, poi ripreso nel volume Vittorio Alfieri. Le passioni e illimite, Napoli, Liguori, 1987, pp. 15-36). Sulla biblioteca parigina dell’Alfiericfr. C. Del Vento, “‘Io dunque ridomando alla plebe francese i miei libri, carteed effetti qualunque’. Alfieri ‘émigré’ a Parigi”, in Alfieri in Toscana, cit., t. II,pp. 491-578 (con annesso inventario dei libri e manoscritti redatto al momen-to del loro sequestro definitivo da parte delle autorità francesi nel 1794).

13 Cfr. E. Raimondi, Giovinezza letteraria dell’Alfieri, in Id., Il concertointerrotto, Pisa, Pacini Editore, 1979, pp. 65-190 (pp. 181 sgg.). Ma riguardoall’influenza di Tacito si veda anche C. Doni, Alfieri e Tacito, in “Lettere italia-ne”, XXIX (1977), pp. 17-33.

14 Cfr. V. Alfieri, Rime, ed. critica a cura di F. Maggini, Asti, Casa d’Alfieri,1954, p. 252. Per il repertorio tematico e stilistico delle Rime e le corrispon-denze con il teatro si veda V. Branca, Alfieri e la ricerca dello stile. Con cinquenuovi studi, Bologna, Zanichelli, 1981.

15 Alfieri, Del Principe e delle lettere, cit., p. 179.16 Longino, Trattato del Sublime, tradotto dal Greco in Toscano da Anton

Francesco Gori, cit., p. 3.17 Cfr. V. Alfieri, Lettera a Paolo Frisi, in Epistolario, cit., I., p. 174.18 J.B. Le Rond D’Alembert, art. Eloquence, in Encyclopédie, cit., t. V, p.

520.19 Sulla Cleopatra e le origini del teatro alfieriano si rimanda all’accurata

ricostruzione di M. Sterpos, Il noviziato tragico alfieriano: storia della“Cleopatra”, in Id., Il primo Alfieri e oltre, Modena, Mucchi, 1994, pp. 13-90.

20 Sull’importanza di Plutarco si vedano, oltre al già citato studio diRaimondi Giovinezza letteraria dell’Alfieri, le considerazioni di A. Fabrizi nelsaggio dedicato al Bruto I in Id., Le scintille del vulcano (Ricerche sull’Alfieri),Modena, Mucchi, 1993, pp. 301-330.

21 Alfieri, Parere sulle tragedie, cit., p. 118.22 Ibid., p. 105.23 Ibid., p. 107. Il passo richiama, per analogia, il passo della Vita già

ricordato da Raimondi: “Ma il libro dei libri, per me, […] fu Plutarco, le vitedei veri grandi. Ed alcune di quelle come Timoleone, Cesare, Bruto, Pelopida,Catone, ed altre, sino a quattro e cinque volte le rilessi con un tale trasportodi grida, di pianti, e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nellacamera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato. All’udire certitratti di quei sommi uomini, spessissimo io balzava in piedi agitassimo, efuori di me, e lagrime di dolore e di rabbia mi scaturivano dal vedermi natoin Piemonte ed in tempi e governi ove niuna alta cosa non si poteva nè farenè dire, ed inutilmente appena forse ella si poteva sentire e pensare” (V.Alfieri, Vita scritta da esso, edizione critica della stesura definitiva a cura di L.Fassò, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, p. 93.)

24 Alfieri, Parere sulle tragedie, cit., p. 103.

180

25 Cfr. G. Santato, Alfieri e Voltaire. Dall’imitazione alla contestazione,Firenze, Olschki, 1897.

26 Alfieri, Parere sulle tragedie, cit., p. 135.27 Ibid., p. 137.28 C.A. Helvétius, De l’Esprit, Londres, s.i.t., 1776, t. I, p. 97. Sul mito del

Bruto Primo cfr. P. Luciani, Riscritture di “Brutus”, in Id., Le passioni e gliaffetti. Studi sul teatro tragico del Settecento, Pisa, Pacini Editore, 1999, pp.157-170; R. Caira Lumetti, “‘Son quegli, ancor pronto a uccider tiranni’:riflessioni sul mito di Bruto in età giacobina”, in Mito e letteratura. Studi offer-ti a Aulo Greco, Roma, Bonacci, 1993, pp. 35-59; e infine gli Atti del ConvegnoBruto il Maggiore nella letteratura francese e dintorni (Verona, 3-5 maggio2001), a cura di F. Piva, Fasano, Schena, 2002.

29 Alfieri, Del Principe e delle lettere, cit., p. 160. Su questo punto cfr. leriflessioni di G. Savarese, Alfieri e l’ut pictura poësis, in “La Rassegna dellaLetteratura Italiana”, XCIII, (1989), pp. 1-12.

30 Alfieri, Del Principe e delle lettere, cit., p. 139.31 Ibid., pp. 140, 141. Sulla struttura del Bruto II cfr. B. Alfonzetti,

Congiure. Dal poeta della botte all’eloquente giacobino (1701-1801), Roma,Bulzoni, 2001, pp. 161-229.

32 Alfieri, Del Principe e delle lettere, cit., p. 141.33 Ibid., p. 143.34 D’Alembert, art. Eloquence, cit., p. 520.35 Longino, Trattato del Sublime, tradotto dal Greco in Toscano da Anton

Francesco Gori, cit., p. 39.36 V. Alfieri, Lettera a G. Tiraboschi, in Id., Epistolario, cit., t. I, p. 285.37 Id., Parere sulle tragedie, cit., p. 145.38 Ibid., p. 163. Sulla costruzione dello stile tragico alfieriano si vedano le

considerazioni di G.L. Beccaria in I segni senza ruggine. Alfieri e la volontà delverso tragico, in “Sigma”, IX (1976), pp. 107-151 e Id., “Linguaggio tragicoalfieriano, o del sublime”, in L’arte dell’interpretare. Studi critici offerti a G.Getto, Cuneo, L’Arciere, 1987, pp. 424-428.

39 Su questo punto cfr. A. Fabrizi, Incunaboli di critica alfieriana, in“Giornale storico della letteratura italiana”, CLXXI (1994), pp. 386-311.

40 Alfieri, Parere sulle tragedie, cit., p. 161. Il concetto è ribadito nelle Noteche servono di risposta alla Lettera dell’abate Cesarotti su “Ottavia”, “Timoleone”e “Merope” (ibid., p. 274). Sulle strategie della rielaborazione alfieriana siveda A. Camerino, Alfieri e il linguaggio della tragedia. Verso, stile, topoi,Napoli, Liguori, 1999.

41 Alfieri, Parere sulle tragedie, cit., p. 162.42 Longino, Trattato del Sublime, tradotto dal Greco in Toscano da Anton

Francesco Gori, cit., p. 18.43 Come ha chiarito Santato, la definizione dell’“impulso naturale” all’in-

terno del Principe e della Tirannide deve molto al sublime delllo pseudo-Longino (cfr. Lo stile e l’idea, cit., p. 105). Meno pertinente sembra, in questasede, il richiamo agli Essais di Montaigne proposto da Fabrizi, Le scintille delvulcano (Ricerche sull’Alfieri, cit., p. 152).

44 Longino, Trattato del Sublime, tradotto dal Greco in Toscano da AntonFrancesco Gori, cit., p. 37.

45 Ibid., pp. 26-28. Sulla “fisiologia” della Mirra cfr. G. Santato, “‘Oltre iconfini del natural dolore …”: retorica tragica ed esperienza-limite nellaMirra”, in Tra Illuminismo e Romanticismo. Miscellanea di studi in onore di V.Branca, Firenze, Olschki, 1983, t. IV*, pp. 353-376.

VII. Alfieri e il sublime delle origini 181

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

46 Cfr. Alfieri, Parere sulle tragedie, cit., p. 151.47 Longino, Trattato del Sublime, tradotto dal Greco in Toscano da Anton

Francesco Gori, cit., p. 50.48 Ibid., p. 5149 Ibid., p. 54. Sull’uso dell’iperbato nel Perì hypsous e in generale sugli

aspetti ‘irregolari’ del discorso cfr. G. Lombardo, “Longino e il linguaggiodella poesia”, in Da Longino a Longino. I luoghi del Sublime, Palermo,Aesthetica, 1987, pp. 37-55.

50 Longino, Trattato del Sublime, tradotto dal Greco in Toscano da AntonFrancesco Gori, cit., p. 54

51 Beccaria, Ricerche intorno alla natura dello stile, cit., p. 73.52 Helvétius, De l’Homme, in Oeuvres complètes. Nouvelle édition corrigée

et augmentée, Londres, s.i.t., 1781, t. II, p. 354. La prima edizione del Del’Homme, che circolava in una versione incompleta fin dal 1767, esce postu-ma nel 1772, due anni dopo la pubblicazione del trattato del Beccaria.

53 Alfieri, Del Principe e delle lettere, cit., p. 183.54 Beccaria, Ricerche intorno alla natura dello stile, cit., p. 620.55 A. Bosi, Giudizio sulle tragedie del Sig. Conte Vittorio Alfieri, in Alfieri,

Parere sulle tragedie e altre prose critiche, cit., p. 524. La coincidenza era statagià notata da Raimondi. Cfr. E. Raimondi, Un teatro terribile: Roma 1982, inId., Le pietre del sogno. Il moderno dopo il Sublime, Bologna, Il Mulino, 1985,pp. 31-32.

56 Helvétius, De l’Homme, cit., p. 354.57 Su questo punto cfr. le osservazioni dell’Alfieri nelle Note di risposta al

Cesarotti, cit., p. 272. Sulla questione della musica cfr. Camerino, Alfieri e illinguaggio della tragedia, cit., pp. 261-292; e Fabrizi, Le scintille del vulcano(Ricerche sull’Alfieri), cit., pp. 215-252.

58 Cfr. a questo proposito E. Raimondi, Poesia della Retorica, in Id., Poesiacome Retorica, Firenze, Olschki, 1980, pp. 24-70, e il già citato Id., Giovinezzaletteraria dell’Alfieri, pp. 163-167.

59 Demetrio Falereo, Della locuzione, cit., p. 4. 60 Ibid., p. 23.61 Ibid., p. 89.62 Ibid., p. 37.63 Ibid., p. 40.64 Ibid., pp. 43-44.65 Ibid., p. 84.66 Ibid., p. 76.67 Ibid., p. 77.68 V. Alfieri, Lettera a Ercole Consalvi, in Epistolario, cit., t. III, p. 12.69 Cfr. Raimondi, Poesia della retorica, cit., p. 69.70 Demetrio Falereo, Della locuzione, cit., p. 66.71 Sull’influenza di Seneca nella versificazione delle tragedie cfr. A.

Traina, “Alfieri traduttore di Seneca”, in Seneca nella coscienza dell’Europa, acura di I. Dionigi, Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 253-261 e, più ingenerale, l’intervento di C. Domenici “Seneca nel giudizio dell’Alfieri: “poetamagnus” o “declamator”?”, in Alfieri in Toscana, cit., pp. 451-490, cui si puòaggiungere ora S. Casini, Il ramo d’oro dell’antichità. Alfieri e la discesa agliinferi sulle orme di Seneca, in “La Rassegna della letteratura italiana”, IX(2003), pp. 5-33.

72 M. Cesarotti, Lettera su “Ottavia”, “Timoleone” , “Merope”, in Alfieri,Parere sulle tragedie, cit., p. 260.

182

73 Ibid., p. 257. 74 Alfieri, Note che servono di risposta alla Lettera dell’Abate Cesarotti su

“Ottavia”, in Id., Parere sulle tragedie, cit., pp. 269-270.75 A. Pepoli, Lettera al signor consigliere Calsabigi sulla lettera di questo

diretta al Signor conte Vittorio Alfieri da Asti sopra le prime quattro tragedie, inTeatro del conte Alessandro Pepoli, Venezia, nella Stamperia di Carlo Palese,1787, t. I, p. 80 (del carteggio danno notizia le “Novelle letterarie”, 23 (1784),p. 356).

76 Ibid., p. 91.77 Ibid., p. 85.78 Ibid., p. 99.79 Ibid., p. 92.80 Ibid., pp. 81-82. Sul rapporto Orazio-Alfieri cfr. A. Di Benedetto, Il

declino della fortuna di Orazio nel Settecento: Orazio in Alfieri, in “Giornale sto-rico della letteratura italiana”, CLXXI (1994), pp. 161-182.

81 R. de’ Calzabigi, Risposta alla lettera scrittagli dall’autore sopra le primequattro tragedie del Signor conte Alfieri, in Teatro del conte Alessandro Pepoli,cit., t. II, p. 9.

82 Ibid., p. 7. Sulle applicazioni di questo principio cfr. R. Candiani,L’intellettuale censurato. Calzabigi e l’Elvira a Napoli nel 1794, in “Critica lette-raria”, XXI (1993), pp. 733-753.

83 Calzabigi, Risposta alla lettera scrittagli dall’autore sopra le prime quat-tro tragedie del Signor conte Alfieri, cit., pp. 9-10.

84 Ibid., p. 10.85 Ibid., pp. 10-11.86 Longino, Trattato del Sublime, tradotto dal Greco in Toscano da Anton

Francesco Gori, cit., p. 18.87 Ma “rimbombo” è, come “rumore”, parola alfieriana: cfr. ad es. La con-

giura dei Pazzi, scena V, vv. 187-188: “Oh di quale alto / Fremito l’aria rimbom-ba”.

88 Calzabigi, Risposta alla lettera scrittagli dall’autore sopra le prime quat-tro tragedie del Signor conte Alfieri, cit., p. 13.

89 E. Burke, Ricerca filosofica sull’origine delle nostre idee intorno al subli-me ed al bello, cit., p. 133.

90 Ibid., pp. 184-185.91 Calzabigi, Risposta alla lettera scrittagli dall’autore sopra le prime quat-

tro tragedie del Signor conte Alfieri, cit., p. 22.92 Ibid., p. 44.93 A. Pepoli, Replica dell’autore alla Risposta del Consigliere di S. M.

Imperiale Ranieri de’ Calzabigi, in Teatro del conte Alessandro Pepoli, cit., t. II,p. 41.

94 Loc. cit.95 Ibid., p. 47.96 È forse utile ricordare qui i rapporti del Calzabigi con l’Accademia

Etrusca delle Antichità e delle Iscrizioni, della quale faceva parte il Gori. Cfr. F.Tariffi, “La formazione intellettuale di Ranieri Calzabigi dalla Toscanaall’Europa”, in La figura e l’opera di Ranieri de’ Calzabigi. Atti del Convegno diStudi di Livorno /14-15 dicembre 1987, a cura di F. Marri, Firenze, Olschki,1989, pp. 73-106.

97 Longino, Trattato del Sublime, tradotto dal Greco in Toscano da AntonFrancesco Gori, cit., p. 3.

98 G. Carmignani, Dissertazione critica sulle tragedie di Vittorio Alfieri.

VII. Alfieri e il sublime delle origini 183

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

Terza edizione con correzioni e nuove aggiunte, Pisa, Sebastiano Nistri, 1822,p. 67.

99 Ibid., p. 87.100 Helvétius, De l’Esprit, cit., t. I, p. 482.101 Ibid., t. I., p. 512.102 V. Alfieri, Vita scritta da esso. Prima redazione inedita a cura di L.

Fassò, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, p. 81. Nella redazione successiva, con unprocedimento consueto nell’Alfieri, l’apprezzamento iniziale di Helvétius,condiviso dal Beccaria e da Pietro Verri, si muta in critica (cfr. Vita scritta daesso, edizione critica della stesura definitiva, cit., p. 93).

103 Helvétius, De l’Esprit, cit., t. II, p. 51.104 Loc. cit.105 Loc. cit.106 Ibid., t. II, pp. 52-53.107 Ibid., t. II, p. 56.108 Helvétius, De l’Homme, cit., p. 345.109 Loc. cit.110 Ibid., p. 346 n. 1. Il passo di Helvétius riprende alla lettera l’ “Esame

dell’opinione di Locke sulle tenebre” contenuto nella sez. XIV dell’Enquiry diBurke, che mirava a dimostrare come le tenebre formassero “in origine” un’i-dea di terrore (cfr. Ricerca filosofica sull’origine delle nostre idee intorno alsublime ed al bello, cit., pp. 148-149).

111 Helvétius, De l’Homme, cit., p. 8. In riferimento alla conoscenza diBurke da parte dell’Alfieri, J. Lindon ha ipotizzato un rapporto diretto tra leReflections on the Revolution in France e l’ideologia politica alfieriana dell’ul-timo periodo (cfr. “Reticenze alfieriane nella ‘Parte Seconda’ della Vita”, orain Id., L’Inghilterra di Vittorio Alfieri e altri studi alfieriani, Modena, Mucchi,1995, pp. 59-84).

112 Burke, Ricerca filosofica sull’origine delle nostre idee intorno al sublimeed al bello, cit., p. 29. Cfr. su questo punto E. Raimondi, Le ombre sull’abisso,in Id., Le pietre del sogno, cit., pp. 65-89. Per una prima disamina delle cate-gorie di Burke applicate al teatro alfieriano rinvio anche al terzo capitolo delmio libro“Il mistero della macchina sensibile, cit., pp. 244-262.

113 Burke, Ricerca filosofica sull’origine delle nostre idee intorno al sublimeed al bello, cit., pp. 83-84.

114 Loc. cit.115 Sulla reggia-labirinto teatro di passioni oscure cfr. P. Bigongiari, “Il tra-

gico alfieriano come oscuro rispecchiamento dell’io illuministico”, in TraIlluminismo e Romanticismo, cit., pp. 325-351 e A. Barsotti, Alfieri e la scena.Da fantasmi di personaggi a fantasmi di spettatori, Roma, Bulzoni, 2001.

116 Già all’epoca dei trattati alfieriani Milton figura accanto a Dante ePetrarca fra gli autori che hanno “dilettato il mondo con l’utile”, in opposizio-ne a coloro che l’hanno “illuminato” come Locke, Bayle, Rousseau eMachiavelli. Cfr. Del Principe e delle lettere, cit., p. 152. La presenza massicciadel Paradise Lost è documentata anche dall’inventario della biblioteca parigi-na pubblicato da Del Vento.

117 Burke, Ricerca filosofica sull’origine delle nostre idee intorno al sublimeed al bello, cit., p. 53.

118 Loc. cit. La traduzione del 1804 utilizza la versione del Paradise Lost delRolli. Nell’originale i versi suonano così: “The other shape / If shape is mightbe called that shape had none / Distinguishable, in member, joint, or limb; /Or substance, might be called that shadow seemed,/ For each seemed either;

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/ black he stood as night; / Fierce as ten furies; terrible as hell; / And shook adeadly dart. / What seemed his head / The likeness of a kingly crown had on”(Milton, Paradise Lost, II, 666-673).

119 V. Alfieri, Eneide, in Traduzioni, a cura di M. Masoero e C. Sensi, Asti,Casa d’Alfieri, 1983, p. 249.

120 A questo proposito cfr. D.B. Morris, The Religious Sublime. ChristianPoetry and Critical Tradition in 18th-Century England, Lexington, TheUniversity Press of Kentucky, 1972.

121 Burke, Ricerca filosofica sull’origine delle nostre idee intorno al sublimeed al bello, cit., p. 66. Sul tremens biblico e l’intertestualità complessa del Saulcfr. A. Forlini, Alfieri “ateo malnato?” Letture eterodosse dalla Tirannide al Saul,in “Rivista di Letterature Moderne e Comparate”, LVII (2004), pp. 29-62.

122 Burke, Ricerca filosofica sull’origine delle nostre idee intorno al sublimeed al bello, cit., p. 58. Il passo, manipolato da Burke, è tratto da Giobbe, IV,13-17.

123 Alfieri, Parere sulle tragedie e altre prose critiche, cit., p. 125.124 Burke, Ricerca filosofica sull’origine delle nostre idee intorno al sublime

ed al bello, cit., p. 79. A questo riguardo appare significativo che A. DiBenedetto abbia visto un collegamento preciso tra il Saul e l’Abele, con cuil’Alfieri “creò il suo mito del peccato originale”. Cfr. A. Di Benedetto,L’“Abele”, Tramelogedia sola, in Id., Vittorio Alfieri. Le passioni e il limite, cit.,pp. 53-60, nonché Id., Un mito alfieriano: Caino, in “Testo”, 19 (1990), pp.101-114.

VII. Alfieri e il sublime delle origini 185

B

VIII. LA “PIANTA UOMO”.NIEVO E LE PASSIONI DEL MODERNO

La critica più recente ha messo in rilievo l’“estrema porosità”delle Confessioni, l’alta “tolleranza d’innesti e ibridazioni” di untesto nel quale l’impronta dell’umorismo di matrice sternianaproduce alla fine un “organismo narrativo per tanti versi diffor-me, capace di aggregare e combinare sostanze eterogenee” 1. Sel’atteggiamento antisistematico 2 e la “scelta di una tonalità can-giante” che a differenza dei Mémoires d’Outretombe diChateaubriand “alterna i registri dell’elegia e quelli picareschi” 3

hanno conseguenze importanti dal punto di vista del genere,della narrazione e della lingua, proprio l’“umorismo di struttura”di Sterne e di Heine, distinto dal comico e dal grottesco, consen-te di indagare dall’interno, in una sorta di prospettiva doppia, l’u-niverso composito delle passioni, gettando una luce diversa sulrapporto forzatamente dialogico con i modelli letterari che primadelle Confessioni avevano affrontato la questione in terminiromanzeschi, vale a dire soprattutto Rousseau e Foscolo.

Tutt’altro che compatto e unitario, nel libro del Nievo il para-digma instabile degli affetti si nutre di elementi eterogenei com-binati per antitesi e mai riconducibili a un unico punto di vista,anche perché la morale enunciata dalla voce di Carlino vecchio,che mira a restituire l’energia del pathos all’ambito della coscien-za, si scontra fin dall’inizio con le dinamiche misteriose dei sen-timenti che nello spazio emotivo – rousseauiano – della memo-ria assumono forme diverse e contraddittorie. Proprio la sceltaprecisa del “romanzo storico del presente” 4 costringe del restol’autore a fare i conti con “il rimescolio di sentimenti di affettiinusitati che si agita sotto la vernice uniforme della modernasocietà” 5, mentre la prospettiva complessa della storia chesubentra alle forme letterarie della “caricatura” e del “romanzo”impedisce da subito al racconto – e qui in particolare al raccon-to delle passioni – di adottare l’ottica dominante dei testi che lo

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

precedono, e ai quali comunque non rinuncia ad attingere in unasorta di mosaico variegato della fenomenologia dell’esistenza.

Per introdurre l’universo teorico entro cui si muove l’operazio-ne del Nievo, che ha un altro precedente di rilievo nella “sensibi-lità del Di Breme pasticheur” 6 vale una pagina dell’articolo inti-tolato L’humour e gli umoristi, apparso nel novembre 1855 sull’“Arte”, che delinea in maniera esplicita l’orizzonte letterario enarrativo delle Confessioni:

Non dileggio o sentimentalismo, il vero humour è sen-sibilità nel senso più vasto e profondo della parola. Ilvero humour, come ho detto, più che dalla testa, scatu-risce dal cuore; non il disprezzo, l’amore è la sua essen-za; non il riso, il quieto profondo sorriso è la sua mani-festazione. È una specie di sublimità inversa che esal-ta, come dire, nelle nostre affezioni ciò che sta sopra dinoi, mentre il sublime, propriamente detto, trae nellenostre affezioni ciò che sta sopra di noi. È il fiore, lafragranza, l’emanazione più pura d’una squisita, sensi-bil natura, d’una natura in armonia con se stessa,riconciliata col mondo, con le sue trivialità e contrad-dizioni, più ancora, che trova in quest’istesse contrad-dizioni nuovi elementi sì di bontà che di bellezza. Nullaè santo per esso, perché tutto appar santo ai suoi occhi;il mondo è per esso un divin tempio, ogni parolaumana una preghiera, ogni umano dolore un sacrificiosull’altare della natura. Esso trae il cielo in terra, nonper insozzarlo, ma per glorificare la terra. Esso ama ilbene e compiange i malvagi, dacché anche il vizio è peresso una malattia. Esso innalza ciò che sta al basso edabbassa ciò che sta in alto, non per umiliare, ma peruguagliare ambedue, perché solo dov’è uguaglianza èamore. Esso non consola, attutisce il bisogno di conso-lazione. Pronto ogni sempre a molcere, a disasprire, asoccorrere, esso ferisce con acuto pugnale se stesso permostrare sorridendo ai feriti che simili scalfitture nonsono mortali. La sua sollecitudine non ha fine col ram-marginarsi delle piaghe; le cicatrici sono piaghe altre-sì, la rimembranza altrsì è un dolore; esso spiana leprime e dissipa la seconda. Il divin spirito di amore chericoncilia e collega, che concentra, contemperandoli,in un sol foco i colori rifratti nel prisma della vita,codesto spirito è l’anima, la sostanza, l’essenza dell’hu-mour 7.

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Delle metafore del prisma e della “lanterna magica” si servirànon a caso anche Giuseppe Rovani nell’introduzione-manifesto aCento anni, dove “la forma del romanzo che tutto assume” riflet-te la complessa mescidanza di generi diversi e contrastanti che“al pari dell’iride ha tutti i colori”, e “piove come la luce di luogoin luogo e di ceto in ceto e di uomo in uomo” 8. C’è già in questaimmagine la persuasione convinta di quell’accostamento produt-tivo dell’elegia e della satira, della tragedia e della commedia, delcomico e del sublime che caratterizza la visione mutevole delNievo, dove la scena e i personaggi del libro non sono dati maiuna volta per tutte, ma appaiono sempre pronti a rovesciarsi nelloro contrario. Se poi al “quieto profondo sorriso” della “naturariconciliata col mondo”, una sorta di approdo ultimo della filoso-fia umoristica che ricorda da vicino la dimensione pacata e con-ciliante dell’ottuagenario nel romanzo, si unisce l’inquietudinenervosa dell’epistolario con Matilde Ferrari, teatro autobiografi-co delle passioni che torneranno poi ad affollarsi nelle paginedelle Confessioni, il ritratto dello scrittore appare quasi per inte-ro. A complemento si può richiamare ancora l’avviso di un criti-co come Tenca, che mostra una volta di più come la propensioneall’arabesco, alla mescolanza, al gioco delle forme apparentemen-te libere e disordinate costituisse la cifra esistenziale prima anco-ra che stilistica del Nievo fin dal suo esordio poetico, negli stessianni dell’articolo prima citato. Scrive infatti Tenca prendendospunto dalla fisionomia particolare della Poesia d’un anima.Brani del giornale d’un poeta, che compare in apertura di sezionenel volume dei Versi:

… più slegato ancora e balzano è l’altro componimentointitolato Poesia di un’anima nel quale l’autore ci offreuna specie di giornale poetico o raccolta di pensieri, diimpressioni, di ghiribizzi, secondo che pullulano o sonoimmaginati pullulare nell’animo di un poeta che manmano ne fa argomenti di canto. Il solo filo che dovreb-be dare unità a questo labirinto di versi, vari di metro,di indole, di pregio, cioè la storia delle vicende e dei tra-vagli di un poeta nella sua lotta col tempo, con lasocietà, con se stesso, questo filo non è afferrabile neimille viottoli in cui si divaga la fantasia dell’autore, enoi non abbiamo sott’occhio che un’accozzaglia diframmenti segnati con data di tempo diversa, solo indi-zio di svolgimento successivo di idee. E qui pure il con-

VIII. La “Pianta uomo” 189

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

cetto è alto e vigoroso, ma non viene padroneggiato dal-l’autore, il quale tocca in vero tutte le corde gravi, pate-tiche e burlesche e si studia di ripercuotere in esse ilvario aspetto della vita ma senza ragion di trapasso,senza un motivo finale, se ne è concesso usare una frasemusicale per un componimento che potrebbe benissi-mo essere paragonato a una sinfonia 9.

Il giudizio acuto del critico riproponeva di fatto in manieraproblematica il punto di vista dell’autore, che introducendo unaraccolta di versi “vari di stil, di tinta e di figura” li aveva definiti“strambe note cacciate in un canestro” 10, con la differenza cheTenca si augura che “il signor Nievo […] riordini i suoi pensieri eli padroneggi in guisa di farli rispondere a quel concetto ancoraistintivo che gli ferve nell’animo” 11, mentre l’orizzonte mentaledel poeta e poi del romanziere sembra attribuire fin da subito allascrittura le medesime condizioni di precarietà e mutevolezza checaratterizzano l’esistenza, la sua stessa trama disarmonica e stri-dente. Come ribadirà qualche anno più tardi, già impegnato nellastesura delle Confessioni, “le idee sono riverberi della luce nellaquale ci aggiriamo; ripercussioni, trasformazioni, accordi e stona-ture dei suoni che ci feriscono il timpano, rabbrividimenti del sol-letico che ci danno le carezze e i pizzicotti del prossimo”: nondunque teorie rifinite o sistemi solidi e indipendenti, bensì “la spi-ritualizzazione delle nostre attualità” 12. Ma già prima, in una let-tera a Matilde del maggio 1850, il Nievo annotava senza esitazio-ni: “è una gran baraonda senza principio e senza principio quellaroba che ha nome: il cervello: per trovare l’immagine della confu-sione il pensiero non deve fare una strada molta, basta ch’egli sifermi nel sito dov’è nato, cioè nella mente dell’uomo. Vi troverà unandare e venire di idee, un’accozzaglia di cognizioni, un caos dimille colori, un inferno e un Paradiso tali che spaventano al solopensarci” 13. E ancora, nella lettera successiva del 24 agosto:

Amore! – Matilde! – Amore! – che strana parola, cheammasso d’idee ch’essa racchiude! – le più sublimiabnegazioni, i vituperi più abbietti, la fede e il tradi-mento, l’estasi e il delirio, la vita e la morte sono il cor-teggio dell’amore! – Rileggi, o Matilde, le tante e tantelettere che t’ho scritto! – in molte di esse avrò parlatodell’amore! – ma in quante foggie diverse mio Dio! – oraegli era un Paradiso, ora un inferno; ora un’ebbrezza,

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ora un martirio, eppure era sempre, Amore! – La ragio-ne ci assicura che è impossibile anche l’esistenza idealedi un essere che contraddice a se stesso! – Che conchiu-sione terribile! – La ragione che rinnega l’amore! Lamente che rinnega se stessa ed il cuore! – Speriamo inDio che la ragione s’inganni! Sono tanto incerte e volu-bili le cose di quaggiù 14!

Ciò che colpisce in queste riflessioni solo apparentementedisincantate in cui dominano l’enfasi, l’iperbole e l’ossimoro diuna scrittura intrisa di autobiografia e letteratura con richiamicontinui alla fabula dell’Antiafrodisiaco 15, non è solo l’alternanzavoluta di tonalità e registri diversi, ma soprattutto l’accento sul-l’instabilità latente del pensiero e dei sentimenti. Al pari di quan-to avviene in un altro libro sterniano che lo precede, e che non acaso si poneva il problema del rapporto tra l’io e il tempo, tra larealtà e la coscienza, il romanzo e l’autobiografia, vale a dire leAvventure letterarie di un giorno di Pietro Borsieri, la scrittura delNievo testimonia “la trasformazione della narrazione oggettivadel viaggio nella fisiologia degli umori” 16: con la differenza chenel suo caso il viaggio è divenuto la vita stessa, colta per un atti-mo nel suo perenne, imprevedibile fermento di pulsioni e di sen-timenti. Come chiariranno in maniera definitiva le Confessioni,commentando attraverso la tecnica consueta della prolessi 17 lasostanza tragica che si cela nell’idillio inconsapevole di Leopardoe della Doretta, la “forza ordinatrice” cui soggiace il mondo dellanatura non sembra governare in maniera analoga il “mondo spi-rituale interno”, il quale è invece “un contrasto di sentimenti diforze di giudizi; un’accozzaglia informe e tumultuosa di passioni,di assopimenti, e d’imposture; un sobbolimento di viltà, di ardi-menti, di opere magnanime, e di lordure” dove “tutto si agita, simove, si cangia” 18.

Nella sua raffigurazione cosmica, il magma di energie contra-stanti evocato dal Nievo sotto forma di nebulosa del pensiero e deisentimenti non ha nulla in comune con la visione tradizionale diun autore più volte consultato come Balzac, a cui il mondo interio-re appare ancora soggetto alle leggi settecentesche, immutabili eprevedibili, di action e réaction. Nel paragrafo LIX dellaPhysiologie du Mariage, un libro rivolto ai seguaci moderni diRabelais che contiene fra l’altro un’ampia citazione del TristramShandy, e dunque tutto interno a quella prospettiva umoristica di

VIII. La “Pianta uomo” 191

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

cui si è parlato, lo scrittore francese osserva che “nos idées et nosaffections sont soumises aux mêmes lois qui font mouvoir le soleil,éclore les fleurs et vivre l’univers”, aggiungendo subito dopo:

Il n’existe pas dans la création une loi qui ne soitbalancée par une loi contraire: la vie en tout est résoluepar l’équilibre de deux forces contendantes. Ainsi, dansle sujet qui nous occupe, en amour, il est certain que sivous donnez trop, vous ne recevrez pas assez. La mèrequi laisse voir toute sa tendresse à ses enfants crée eneux l’ingratitude, l’ingratitude vient peut-être de l’im-possibilité où l’on est de s’acquitter. La femme qui aimeplus qu’elle n’est aimée sera nécessairement tyrannisée.L’amour durable est celui qui tient toujours les forces dedeux êtres en équilibre. Or, cet équilibre peut toujourss’établir: celui de deux qui aime le plus doit rester dansla sphère de celui qui aime le moins 19.

A differenza di Balzac, per il Nievo l’equivalenza illuministicatra l’interno e l’esterno, tra i moti dell’universo retti dalla fisicanewtoniana e i moti degli affetti, che rispondono a leggi analoghee riconoscibili di azione e reazione, sembra essersi spezzata. Lepagine della Physiologie du mariage, certo uno dei punti di parten-za della riflessione che lascia tracce visibili nella psicologia delromanzo, appaiono di fatto inadeguate, nella loro logica univoca etutto sommato coerente, a comprendere la fenomenologia com-plessa del rapporto tra Carlino e la Pisana, certo più simile, nellasua dinamica contraddittoria, tortuosa e imprevedibile, aun’“accozzaglia informe e tumultuosa di passioni, d’assopimenti,d’imposture”, di “opere magnanime e di lordure”. D’altro canto larinuncia esplicita a delineare un sistema morale con coordinateprecise e riconoscibili ha come conseguenza l’amplificazione diquella tendenza all’analisi già presente in Stendhal 20 e in Balzac.Non il tentativo di razionalizzare i sentimenti, già escluso nellasatira rabelaisiana delle “gens à microscope” che apre laPhysiologie 21, e rifiutato fin dall’inizio dal Nievo, che più volteinsorge contro il “coltello dell’anatomico” esercitato con freddezzasul cadavere della passione 22, quanto piuttosto una fantasticheriasemiseria sull’animo umano che assume toni iperbolici e allucina-ti proprio grazie alla lente d’ingrandimento dell’umorismo, senzaper questo rinunciare al suo valore di testimonianza veridica diuno stato d’animo e delle sue metamorfosi incompiute.

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Alla dissezione dei sentimenti subentra una disposizione inin-terrotta e quasi ossessiva all’auscultazione di sé che include latecnica rousseauiana della rêverie, se non fosse che i toni e i regi-stri stilistici variano di continuo, e l’elegia si muta in ironiamalinconica e viceversa, assecondando il trascolorare rapidodelle percezioni. Ecco come suona, attraverso la spia testuale delbattito del remo nell’acqua, la riscrittura di una pagina famosadella Nouvelle Héloïse, che nello spazio ibrido dell’epistolarioamoroso diviene un pastiche di topoi settecenteschi rivisti nell’ot-tica risorgimentale, mentre il notturno lacustre del romanzo cheaveva già fornito materia di ispirazione al Manzoni si trasforma,sotto la penna del Nievo, in uno scenario cittadino in cui dominauna sorta di spleen baudelairiano:

I fanali a gaz risplendono con un sorprendente riflessocontro le muraglie annerite dai secoli. La loro luceazzurrognola e gaja si stende sopra di esse, come il ful-gore dell’intelligenza che si diffonde invincibile sopral’ignoranza dei popoli! – Oh! Quante volte questa sera,girando per le belle piazze della città, riandava collamente le istorie vetuste della nostra sfumata grandezza!Ah! l’Italia sarà dunque sempre il paese delle rovine edelle memorie? L’alito dei giovani fidenti ed arditi nonringiovanisce mai le sue corone appassite? – Questasera il cielo era fosco ed azzurro, le stelle luccicavanorare e incerte nel vuoto dei firmamenti ed io solingo,meditabondo mi addentrava in tua compagnia per lecontrade più remote ed oscure! – Quanti pensieri, lamia Matilde! – quanti desiderii! – Fu pur generoso Iddioin questa parte della nostra natura! Poiché in un’orasorgono in noi tanti desiderii che ad appagarli nonbasterebbero due vite –Era tutto assorto nei miei sogni, quando un suono dicorde armoniche mi percosse gradevolmente l’udito –mi avanzai – la melanconica melodia usciva da un bal-cone illuminato di una casa bassa ed oscura – ella pare-va la speranza che ci parla fiduciosa, ed amica dalletetre caverne dell’avvenire – Ristetti su due piedi – l’on-data sonora mi lambiva lenta, e misurata come il batte-re d’un remo nell’acqua – e il suono diffondendosi nellospazio moriva tra l’indistinto mormorare degli echi –Non ti so dire quali fantasie spiccarono allora il volodalla mia testa! – il fatto sta che io m’appoggiai ad unpilastro, e nascosto dall’ombra d’uno sporto stetti inascolto finché l’amabile Sirena dell’armonia iterò le sue

VIII. La “Pianta uomo” 193

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

lusinghe – Quanto sentii allora, o mia Matilde, la vee-menza dell’amor mio! Come scoppiava il mio cuore nelpetto, mentre l’incanto dei concenti lo commoveva!Quanta potenza, quanto tesoro di affezioni e di beauti-tudine si versò sul mio cuore! – Mi pareva che tu t’im-medesimassi a me a mano a mano che le vibrazioniarmoniose penetravano nelle mie viscere! – mi parevadi stringerti sul mio cuore! – mi pareva di parlarti, e ohquanti pensieri ti svelava una mia sola parola, quanteidee divine, indefinite comprendeva una tua risposta! –Quando Dio volle la melodia tacque, e la visione dispar-ve, calò la temperatura del mio cervello e le mie gamberipresero l’ordinario suo movimento. Ma pure queimomenti di estasi, di soave abbandono vivranno sem-pre nella mia mente, e il tempo, quel distruttore univer-sale rispetterà le loro memorie anche nel giorno dell’ul-timo suo trionfo 23!

Consapevole o meno, la reminiscenza della Nouvelle Héloïse èimportante non solo perché aggiunge un tassello al mosaico giàampio delle citazioni 24, ma soprattutto perché illumina le diffe-renze implicite con la fonte e il significato assunto dall’immagi-nazione e dalla memoria nell’orizzonte del Nievo, che sulla scor-ta del Foscolo e appunto di Rousseau, da cui deriva l’“abolizionedi ogni gerarchia tra i ricordi” 25, trasforma i frammenti del vis-suto nei “simboli del passato”, erigendo un “sacrario tangibiledelle rimembranze” dove “tutta la varia vicenda della sorte nostraci si schiera dinanzi per via di figure e d’emblemi”, a seconda di“chi ha raccolto ed ordinato il museo” 26. Solo nello spazio con-templativo di una memoria che opera a ritroso nel tempo è forsepossibile la trasformazione della passione in romanzo, la ricom-posizione momentanea dell’ossimoro dell’esistenza, poiché nel-l’universo metamorfico del presente l’amore si nutre di fantasmi,di proiezioni effimere e ingannevoli che rispecchiano la polaritàscissa delle percezioni opposte del maschile e il femminile, cometestimonia la lettera del 20 luglio 1850 che recupera in chiave iro-nica l’omaggio balzachiano alla “bella théorie du crâne” 27 di Gall:

Mio Dio, cosa siamo noi altri uomini e cosa siete voialtre donne! Tutti ragazzi senza il lume della ragione.Barcolliamo di quà e di là, andiamo tentoni, come i cie-chi, intendiamo una cosa per un’altra come i sordi,cadiamo in tutte le buche come gli ubbriachi, e passia-

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mo di vaneggiamento in vaneggiamento come i pazzi!Oh se si potessero scoperchiare tutti i cervelli, quantomarciume si troverebbe ove si credeva non esservi chefior di roba! Cosa direbbe il Dottor Gall nell’ispeziona-re i trenta o quaranta bugigattoli in cui egli distribuì lasensitività morale e fisica dell’uomo? Egli direbbe chedi questi quaranta bugigattoli ben pochi ve ne sono chesiano abitati dal rispettivo sentimento, e che ve ne sonopiù di vuoti che di pieni! – E questa sarebbe la primacosa credibile che avrebbe detto il Dottor Gall 28.

Altre volte l’osservazione ravvicinata degli affetti assume trattiallucinati degni della Scapigliatura:

Dimmi, dimmi, Matilde! quando un delirio irresistibileagita le fibre del nostro cuore, quando la fiamma che ciconsuma le viscere s’innalza colle sue lingue di fuoco adinvolgere la mente, quando gli sguardi illanguiditi sifisano sull’oggetto amato con tutto l’ardore della spe-ranza, quando un brivido, un tremito istantaneo passacome un fulmine per le nostre membra, quando la vitatutta dell’anima e del corpo si condensa negli occhi perimbeversi di fede e di felicità, non è quello l’amore? Nonè quello il momento più caro più sublime della nostraesistenza? Ebbene: t’immagina che in quell’istante ilvolto dell’oggetto amato si sfiguri; che il suo petto siapra, sì che resti scoperto il cuore – Eccolo! Tu lo vedi!Tu ne conti le vene, le fibre ed i palpiti! Ebbene!Supponi di trovare in quel cuore il nido dei più iniquiaffetti, della sconoscenza più ingrata e mostruosa, saitu misurare col pensiero la veemenza, l’intensità delcolpo che a quella vista annientando le tue speranzeannienta il tuo spirito? 29.

A ben vedere è già compresa in queste lettere, nella formaimmediata del romanzo epistolare, tutta la fenomenologia amo-rosa delle Confessioni senza il filtro imposto a distanza da un’ot-tica retrospettiva che ripercorrendo la storia disordinata dellepassioni tenta di accordarla al ritmo della storia universale,lasciando alla voce di Carlino giovane il compito di confrontarsicon i fantasmi che via via prendono corpo nelle pagine del libro.Diversamente dalla visione tragica e uniforme di Rousseau e diFoscolo, quella sdoppiata dell’umorista continua a riflettere larealtà cangiante degli affetti, l’ambiguità e la contraddizione del-

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l’animo umano e delle sue proiezioni molteplici, consapevole delfatto che se l’amore “è il più potente talismano delle visioni”, d’al-tro canto l’illusione è “il sole della vita”: un “sole che tinge i qua-dri più neri col suo prisma di cento colori, prisma ingannatore,prisma lusinghiero e fallace, che somiglia alle antiche sirene cheammaliavano colla voce e uccidevano collo sguardo” 30.

È il tema ambivalente del giardino di Armida che avrà tantospazio nelle Confessioni: non solo nella vicenda emblematica diLeopardo e Doretta, ma anche in quella primaria di Carlino edella Pisana, come mostra nelle prime pagine del romanzo il pae-saggio che fa da sfondo ai giochi infantili, metafora del tempera-mento “sensuale e subitaneo” della Pisana, dove “il capricciodiventa legge” 31. Nella radura incantata che vede i giochi infanti-li dei protagonisti – come già nel “bel luogo” del Varmo dove però“la calma naturale pare quasi contemperare il chiasso e il tumul-to dei sollazzi fanciulleschi” 32 –, la natura incarna la lussurreg-giante attrattiva dei sensi, prefigurando i lacci della passioneamorosa, l’immagine stessa del labirinto delle passioni sottesa aquella superficiale e immediata del locus amoenus proprio dell’i-dillio. Come avviene nell’archetipo della Nouvelle Héloïse, ladescrizione è mediata dallo sguardo interiore del protagonista,immerso nell’atmosfera favolosa di una terra sconosciuta dovedominano la sorpresa e la curiosità ingrandite ancora dalla per-cezione dell’occhio infantile 33:

Le praterie vallive dove s’erano aggirati i primi viaggi,declinavano a ponente verso una bella corrente diacqua che serpeggiava nella pianura qua e là, sottograndi ombre di pioppi d’ontani e di salici, come unaforosetta che abbia tempo da perdere, o poca voglia dilavorare. Là sotto canticchiava sempre un perpetuo cin-guettio d’augelletti; l’erba vi germinava fitta ed altissi-ma, come il tappeto nel più segreto gabinetto d’unasignora. Vi si avvolgevano fronzuti andirivieni di mac-chie spinose e d’arbusti profumati, e parevano prepara-re i più opachi ricoveri e i sedili più morbidi ai trastul-li dell’innocenza o ai colloqui d’amore. Il mormorio del-l’acqua rendeva armonico il silenzio, o raddoppiava l’in-canto delle nostre voci fresche ed argentine. Quandosedevamo sulla zolla più verde e rigonfia, il verderamarro fuggiva sull’orlo della siepe vicina, e di là si vol-geva a guardarci, quasi avesse voglia di domandarciqualche cosa, o di spiare i fatti nostri. Per quelle pose

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tanto gradevoli noi sceglievamo quasi sempre unasponda della fiumiera, dove essa dopo un laberinto digiravolte sussurrevoli e capricciose si protende drittaper un buon tratto queta e silenziosa, come una matta-rella che d’improvviso si sia fatta monaca 34.

L’immagine della radura incantata e della “fiumiera” impreve-dibile e tortuosa, figura dell’indole capricciosa e seducente dellaPisana, appartiene alla tradizione rousseauiana del paesaggiomoralizzato, ma quella delle Confessioni è una natura primitiva,selvaggia e ribelle, ben diversa dal celebre verziere di Julie nelquale l’autore della Nouvelle Héloïse riassume l’utopia illuministi-ca dell’educazione degli affetti nella metafora del giardino colti-vato che amministra con equilibrio e misura la realtà viva deisentimenti. Il rovesciamento speculare della metafora del giardi-no, che al contrario di quanto avviene nella parodia esplicita delBorsieri non compare mai direttamente nel libro, serve a intro-durre il confronto dialettico con il modello rousseauiano.Diversamente dal finale sterniano della Storia di Lauretta, dovel’umorismo irresistibile dell’autore si prende gioco del “purismotopografico, florido e minuzioso” 35 del Settecento, nel Nievo l’ar-chetipo della Nouvelle Héloïse, integrato dalla visione pedagogicadell’Emile, sembra suggerire il paradigma sicuro a cui conformar-si per ottenere quella “euritmia morale” che manca al personag-gio della Pisana, come Saffo e Aspasia “capace di grandi passioninon di grandi affetti” 36. Scrive infatti il Nievo proprio all’iniziodel romanzo, delineando il carattere dei personaggi attraverso lavoce del protagonista:

Sì, sì; ve lo dico e ve lo confermo; giovani e vecchi, gran-di e piccini, credenti o miscredenti, pochi vivono ades-so che attendano e vogliano combattere le proprie pas-sioni, e confinare i sensi nella sentina dell’anima, dovela natura civile ha segnato loro il posto. Nato il male,non è questo il secolo de’ cilici e delle mortificazioni dasperarne il rimedio. Ma la educazione potrebbe farmolto coltivando la ragione, la volontà e la forza primache i sensi prendano il predominio. Io non sono bigot-to: e predico pel bene di tutti e pel vantaggio dellasocietà; alla quale la sanità dei costumi è profittevole enecessaria come la sanità degli umori al prosperared’un corpo. La robustezza fisica, la costanza dei senti-menti, la chiarezza delle idee e la forza dei sacrifizii

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sono suoi corollarii; e queste doti meravigliose, saldateper lunga consuetudine negli individui, e con essi por-tate a operare nella sfera sociale, tutti conoscono comepotrebbero ingerminare proteggere ed affrettare imigliori destini d’una intera nazione. Invece i costumisensuali, molli, scapestrati fanno che l’animo non possamai affidarsi di non essere svagato da qualche altissimointento per altre basse ed indegne necessità: il suo entu-siasmo fittizio si svampa d’un tratto o almeno diventaun’altalena di sforzi e di cadute, di fatiche e di vergo-gne, di lavoro e di noje 37.

Riportando il discorso morale all’ambito civile e politico, lavisione retrospettiva di Carlino vecchio concorda dunque con l’in-segnamento dell’Emile sul fatto che se “le tempérament précèdetoujours la raison”, occorre regolarlo “en cultivant la raison” 38.Dal modello pedagogico di Rousseau, come già prima di luil’Alfieri della Vita, l’autore deriva non solo il richiamo insistito ecoerente alla maîtrise degli affetti che dà forma (ancora una voltanon senza contraddizioni), al personaggio di Lucilio, ma anche ilconvincimento della continuità ininterrotta tra il bambino e l’uo-mo. Assecondando la nota formula dell’Emile secondo cui “cha-que âge a ses ressorts qui le font mouvoir, mais l’homme esttoujours le même” 39, il Nievo chiosa attraverso la metafora vege-tale: “il germoglio è nel seme, e la pianta nel germoglio” 40.Proprio per questo la pedagogia esplicita delle Confessioni plau-de a un’“educazione preventiva e avveduta” che “armi la raginecontro il continuo sforzo dei loro eccessi e munisca la sensibilitàcon un serraglio di buone abitudini, quasi riparo alle sorpresedell’istinto”. Altrimenti, “per quanto eccellenti qualità s’innestinoin nature siffatte, nessuno potrà fidarsene, rimanendo tutteschiave della prepotenza sensuale. La Pisana era a quel tempouna fanciulletta; ma che altro sono mai anche le bambine se nonscorci o sbozzi di donne? Dipinti a olio o in miniatura, i linea-menti d’un ritratto stanno sempre gli stessi” 41. La metafora pitto-rica rinvia anche qui al circuito semantico dell’Emile, doveRousseau aveva annotato:

Bien que nos gouts et nos inclinations changent, cechangement, quelquefois assés brusque est adouci parles habitudes. Dans la succession de nos penchans,comme dans une bonne dégradation de couleurs l’habi-

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le artiste doit rendre les passages imperceptibles,confondre et mêler les teintes, et, pour qu’aucune netranche en étendre plusieurs sur tout son travail. Cetterégle est confirmée par l’expérience; les gens immodéréschangent tous le jours d’affections, de gouts, de senti-mens, et n’ont pour toute constance que l’habitude duchangement; mais l’homme réglé revient toujours à sesancienes pratiques, et ne perd pas même dans sa vieilles-se le goût des plaisirs qu’il aimoit enfant 42.

Nell’universo fittizio dell’Emile, la tecnica della gradatio tra-sportata al morale configura dunque un’etica delle passioni cuirimane estranea la figura della Pisana, nella quale, come ricono-sce a posteriori Carlino stesso, “i difetti della bambina si disegna-vano così esatti nella donna che non mi accorsi certamente delpunto in cui questi supplirono a quelli” 43. Non a caso la sua vita-lità eccessiva, frutto di “sensuale licenza” 44 rappresenta quasil’antitesi speculare della modestia e del pudore di Sophie perquella funesta “inconstance des goûts” 45 destinata a non trovareun freno, una guida sicura che fin dall’infanzia moderi in leiimpulsi e desideri come avviene nel caso del personaggio femmi-nile nell’Emile. Del resto proprio la citazione dei versi tassiani uti-lizzata da Rousseau per descrivere il trionfo della seduzione el’orgoglio dissimulato della donna durante la prima apparizionedi Sophie (“Nol mostra già, ben che in suo cor ne rida” 46) rivelala presenza vitale di Armida dentro la rappresentazione dell’uni-verso femminile, soprattutto se si tiene conto che, come avevaosservato sempre Rousseau “le monde, c’est le livre des femmes;quand elles y lisent mal, c’est leur faute, ou quelque passion lesaveugle” 47.

Alla trama trasparente delle citazioni limpide e riconoscibiliche delimitano con una certa approssimazione il discorso peda-gogico del Nievo, strutturato sui due testi rousseauiani che aparere di Balzac avevano indicato “les vrais mobiles des lois etdes moeurs des siècles futurs” 48, corrisponde però un reticoloaltrettanto significativo di allusioni sotterranee che mirano ascomporne l’immagine e ad alterarne la fisionomia. Fin da subi-to il testo rivela infatti la sua ambivalenza nei confronti dellalezione rousseauiana, mostrando che le Confessioni assorbononon solo la fiducia nei confronti della regolazione degli affetti,espressa con forza nell’Emile e nel sistema più complesso della

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Nouvelle Héloïse, ma soprattutto l’idea implicita di una passioneincoercibile, rinnovata costantemente dalla memoria e purificatasolo dalla morte, quale è appunto quella di Julie e di Saint-Preux.Entrambe le visioni convivono nel testo, ma dal loro accostamen-to per contrasto attraverso la tecnica dell’umorismo emerge anco-ra una volta la molteplicità e l’ambiguità del reale. Osserva ilNievo alludendo per sineddoche all’immagine topica del giardinocoltivato:

La metafora di assomigliare l’uomo ad una pianta, chetenerella si torce e si raddrizza a talento del coltivatore,fu bastantemente adoperata, perché possa usarlaanch’io come una buona maniera di raffronto. Ma piùche una tale metafora varrà a spiegare la mia idea l’apo-logo del cauterio che aperto una volta non si può piùrichiudere: gli umori concorrono a quella parte, e con-vien lasciarli colare sotto pena di guastarne altrimentitutto l’organismo. Data la sveglia ai sensi come si puònegli anni dell’ignoranza, sopravverrà sì la ragione avergognarsene o a lamentarne la sozza padronanza; macome sopravviene la forza di debellarli e di rimetterli alloro posto di sudditi 49?

A guardar bene, le due figure della pianta e del cauterio sonodi segno opposto. Mentre allude all’educazione degli affetti, l’au-tore vi affianca l’immagine opposta della ferita aperta che evocala costellazione metaforica dell’Ortis, le piaghe “esulcerate”, le“cancrene di cuore” e le “viscere corrose” 50 con cui il Foscolodella Notizia bibliografica definisce la passione immedicabile delprotagonista, preda di una malattia interiore che si autoalimen-ta “esacerbandogli l’anima” 51. E certo l’archetipo foscoliano siriverbera più volte nelle Confessioni 52, a cominciare dal perso-naggio di Leopardo, che unisce l’energia disperata dell’Ortis allamalinconia socratica di Didimo, e poi nella figura più labile manon meno drammatica di Giulio Del Ponte, una sorta di parodialetteraria dello stesso Jacopo proiettata verso gli esiti romanze-schi di fine secolo, da Tarchetti a Verga, che dal suo più celebremodello deriva “la nera fiamma che lo distrugge” 53 mentre dafuori la voce del narratore tiene a precisare che nel suo caso i“due pensieri dozzinali” scaturiti “da un turbine vorticoso d’ideemonche e cozzanti, d’immagini camaleontiche, di passioni mutee furenti” erano il prodotto di una “mistione chimica” che

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“soverchiava il lavoro spirituale, supremo castigo dell’orgogliopigmeo” 54.

A conti fatti, comunque, la forza incoercibile e fatale della pas-sione non risparmia neppure il personaggio del narratore, cheall’inizio del libro si era definito “un temperamento meno che tie-pido” 55, forse con uno sberleffo ironico al personaggio delleConfessions rousseauiane, descritto come un “tempérament trèsardent, très lascif, très précoce” 56. Nella dialettica irrisolta dellibro, una frattura profonda separa la saggia moderazione diCarlino vecchio, che afferma di aver appreso “ad amare primache a desiderare” 57, dall’impeto quasi ossessivo con cui Carlinogiovane, nel dialogo in presa diretta con Giulio Del Ponte, rivelache la passione per la Pisana è nata in lui “prima della ragione,prima dell’orgoglio” 58. Ma anche all’interno della stessa sequen-za cronologica, prima che il pathos della distanza intervenga sultempo immediato della passione, lo sdoppiamento del protagoni-sta si riflette nel testo, passando dall’esortazione stoica iniziale(“Giulio, gli bisbigliai gravemente all’orecchio, tu hai giudicato laPisana! …Or guarda adunque se così come la conosci il tuo orgo-glio ti permette d’amarla” 59), sulla scorta manifesta degli afori-smi di Balzac (“Plus on juge, moins on aime” 60), all’ostinazionecaparbia del fanciullo che rivendica un possesso infantile, piùsimile nella sostanza all’atteggiamento spavaldo con cui l’io delleConfessions dichiara di non temere, nelle sue passioni “trèsardentes”, “ni honte ni danger”, perché “hors le seul objet qui l’oc-cupe, l’univers n’est plus rien pour lui” 61.

Messo sull’avviso da questi segnali, anche Carlino deve speri-mentare all’interno del suo Bildungsroman interiore il poteredominante della passione come malattia mortale che mina ilcorpo e l’anima, senza speranza di redenzione né di pentimento.Nella scena centrale del presunto commiato alla vita, dopo la rie-vocazione commossa del fantasma amoroso della Pisana nellesembianze mutevoli dell’astro lunare, si legge:

Conobbi allora esser vero che le passioni racchiudonoin sé i primi germi di moltissime fra le malattie cheaffliggono l’umanità. Dicevano i medici ch’era infiam-mazione di vene, o congestione del fegato; sapeva benio cos’era, ma non mi stava il dirlo perché il male da meconosciuto era pur troppo incurabile. Vedeva da lonta-no la mia ora avvicinarsi lentamente minuto per minu-

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to, battito per battito di polso. Il mio sorriso apparivarassegnato come di colui che non ha più speranze senon eterne, e a quelle affida colla sicurezza dell’inno-cenza l’anima sua. Perdonate, o stizzosi moralisti: visembrerà ch’io fossi inverso me assai largo di manica,come si dice. Ma pur troppo io m’avea composto di miocapo una regola assai diversa dalla vostra: pur troppo,secondo voi, puzzava d’eresia; scusate, ma tutto quelloche non era stato male pegli altri non lo addebitavacome male a me stesso; e se male avea commesso, neera pentito a segno che m’abbandonava senza pauraalla giustizia che non muore mai, e che giudicherà nondelle vostre parole ma dei fatti. Voi avreste circondato ilmio letto di catene sonanti di spettri e di demonii; viassicuro che io non ci vidi altro che fantasmi benigni evelati d’una nebbia azzurra di celeste melanconia, ange-li misteriosi che mestamente mi sorridevano, orizzontiprofondi che s’aprivano allo spirito e nei quali senzaperdersi lo spirito si effondeva, come la nuvola che sidirada poco a poco ed empie leggera e lucente tutti glispazii interminati dell’etere 62.

Condotto fino a questo punto dall’orchestrazione allusiva delNievo, il lettore non può fare a meno di pensare al precedenteillustre della morte di Julie, quando l’eroina dichiara nell’ultimalettera a Saint-Preux l’impossibilità di guarire la piaga amorosa enel momento supremo svela l’illusione di una salute irrecupera-bile, in presenza di una passione mai spenta che coincide con lavita stessa. Ascoltiamo dunque le ultime battute della NouvelleHéloïse, consapevoli del fatto che nel Nievo il momento dell’ele-gia e dell’imitazione scoperta è solo rinviato alle pagine conclusi-ve della morte della Pisana 63:

Il faut renoncer à nos projets. Tout est changé, mon bonami; souffrons ce changement sans murmure; il vientd’une main plus sage que nous. Nous songions à nousréunir: cette réunion n’était pas bonne. C’est un bienfaitdu Ciel de l’avoir prévenue; sans doute il prévient desmalheurs. Je me suis longtems fait illusion. Cette illu-sion me fut salutaire; elle se détruit au moment que n’enai plus besoin. Vous m’avez crû guérie, et j’ai crû l’être.Rendons grace à celui qui fit durer cette erreur autantqu’elle étoit utile; qui sait si me voyant si près de l’abîme,la tête ne m’eut point tourné? Oui, j’ai beau vouloirétouffer le premier sentiment qui m’a fait vivre, il s’est

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concentré dans mon cœur. Il s’y reveille au moment qu’iln’est plus à craindre; il me soutient quand mes forcesm’abandonnent; il me ranime quand je meurs. Mon ami,je fais cet aveu sans honte; ce sentiment resté malgrémoi fut involontaire, il n’a rien coûté à mon innocence;tout ce qui dépend de ma volonté fut pour mon devoir.Si le cœur qui n’en dépend pas fut pour vous, ce fut montourment et non pas mon crime; j’ai fait ce que j’ai dûfaire; la vertu me reste sans tache, et l’amour m’est restésans remord 64.

Anche nel soliloquio meno drammatico di Carlino, non ancoragiunto alla resa dei conti con se stesso, la cura non può consiste-re che nel male, secondo la vecchia formula che rinvia una voltadi più all’archetipo complesso di Rousseau e alla sua fermenta-zione produttiva nel tessuto eterogeneo del romanzo moderno.La presenza ambivalente della Pisana, al tempo stesso causa erimedio della malattia, provoca la guarigione immediata dell’in-fermo nel tipico accostamento di alto e basso, di sublime e comi-co proprio dell’umorismo:

La Pisana non volle più staccarsi dal mio capezzale; fuquesta la sua maniera di chieder perdono e di ottenerlopronto ed intero. Che dico mai di ottenerlo? A ciò aveabastato uno sguardo. Capii allora la vera cagione delmio male, la quale la superbia mi aveva forse tenutanascosta. Mi sentii rivivere, diedi la berta ai medici, erifiutai le loro insulse pozioni. La Pisana non dormì piùuna notte, non uscì un istante dalla mia stanza, nonlasciò che altra mano fuori della sua toccasse le miemembra, le mie vesti, il mio letto. In tre giorni divennecosì pallida e scarna che pareva più malata di me. Lelabbra tacquero, ma parlarono i cuori: ella mi avearidonato la vita e la possibilità di amarla ancora 65.

All’interno di uno scenario emotivo diseguale, costruito sullerovine del romanzo settecentesco e dominato dall’ossimorovivente della Pisana, non è forse senza significato che la passionepiù letteraria e meno terrestre del libro, l’amore ideale di Lucilioe della Clara, sia destinata a rovesciarsi nel suo contrario. Mabisogna anche osservare che il progressivo sfiorire del mito stil-novistico di Clara, cui corrisponde la speculare ascesa dell’ener-gia attiva della Pisana che “innalza gli slanci disordinati di un’a-

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nima alla sublimità del miracolo” 66, non è imputabile per nulla alpersonaggio complementare di Lucilio, colto in un ritratto stiliz-zato che molto deve agli eroi dell’antichità riscoperti dalSettecento giacobino e rivoluzionario, a proposito del quale ilNievo scrive:

Io sarei molto impacciato a guidarvi con sicurezza nellaberinto che mi parve esser sempre l’animo di questogiovine, e dinotarvene partitamente l’indole e i pregi e idifetti. L’era una di quella nature rigogliose e bollentiche hanno in sé i germi di tutte le qualità, buone e cat-tive; col fomite perpetuo di un’immaginazione sbriglia-ta per secondarle e il ritegno invincibile d’una volontàferrea e calcolatrice per guidarle e correggerle. Servoinsieme e padrone delle proprie passioni più che nessunaltro uomo; temerario e paziente, come chi stima alta-mente la propria forza, ma non vuole lasciarne sperpe-rar indarno neppur un fiato; egoista generoso o crudelesecondo l’uopo, perché dispregiava negli altri uominil’obbedienza a quelle passioni di cui egli si sentivasignore, e credeva che i minori debbano per necessitànaturale cedere ai maggiori, i deboli assoggettarsi aiforti, i vigliacchi ai magnanimi, i semplici agli accorti 67.

Quasi per assecondare fino in fondo il principio interno dellavariabilità e dell’avvicendamento dei ruoli che la forma viva delromanzo condivide con il reale, il fallimento del topos romanze-sco dell’amore contrastato – con la scelta convinta della monaca-zione che insieme al travestimento parodico di Orlando spezzal’unità tragica del racconto manzoniano di Gertrude aprendolo adiverse soluzioni narrative – viene attribuito senza esitazioni alpersonaggio monolitico e uniforme della Clara, nel quale lafedeltà statica nei confronti di un’idea diviene rinuncia alla vitaintesa come perpetuo mutamento e conoscenza infinita di sé.Dinanzi alla sua “allucinazione” mistica, anche lo stoico Lucilio,formato sulla “lettura dei vecchi storici e dei nuovi filosofi” 68 ecapace di “imbarcarsi” in ogni impresa e di “navigarvi” dentro“coll’eguale costanza, in onta alle bonaccie o ai venti contrari” 69,deve constatare alla fine non la morte dell’amata, bensì il “suici-dio” 70 della passione. Ma in fondo anche il suo sguardo raziona-le, che tenta una spiegazione filosofica dei fatti improvvisandoun’analisi dell’universo femminile degna di Balzac, “come il noto-

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mista che indaga il cadavere” 71, appare velato dal pregiudizio diuno schema intellettualistico che si sovrappone alla realtà senzacoglierla, al pari dello strabismo religioso della Clara. E difatti dalparterre di una tragedia sublime che però non convince del tutto,la voce di Carlino chiosa:

Io ammirai la facilità colla quale Lucilio subordinavaalla ragione i più fuggevoli e involontari movimenti del-l’animo. A forza di costanza e di esercizio egli governa-va se stesso come un orologio, e passioni affetti pensie-ri si aggiravano in quel modo ch’egli avea loro prefisso.Bensì non si poteva dire che egli sentisse fiaccamente,anzi a conoscerlo bene bisognava confessare che soltan-to con una pressura quasi sovrannaturale di volontàegli potea giungere a tener regolate e compresse le pas-sioni che lo agitavano 72.

È la conferma definitiva, se ce ne fosse bisogno, che il temailluministico della maîtrise degli affetti e l’intero disegno pedago-gico del Nievo convive dentro il romanzo con una forza eguale econtraria che celebra la vitalità metamorfica e irriducibile dellepassioni, mettendo in dubbio la coerenza interna di ogni schemaetico prestabilito.

Se esiste, nell’universo cangiante delle Confessioni, una formu-lazione etica mai smentita dagli eventi, questa si trova forse nel“libricciuolo di devozione” del vecchio Martino in cui si imbatteper caso il protagonista alla ricerca della sua identità: un “vilup-po di lettere, vaganti senz’ordine e senza freno come un branco dipecorelle ignoranti” su cui si esercita l’ermeneutica faticosa diCarlino, destinatario delle “pagine sdruscite” 73 del libro. Proprioa quei “ricordi o ammaestramenti d’esperienza ritratti da qualchestretta pericolosa della vita, vittoriosamente superata” 74 si deve ilprimo “scrupoloso” e “sottile” esame di coscienza riguardo allo“sfrenato amore per la Pisana”, rivelatosi di colpo “in tutta la suabestiale salvatichezza” 75. Da questa incarnazione umile delmanoscritto “dilavato e graffiato” di manzoniana memoria, ilnarratore ricava la filosofia della “tentazione” o della “prova” chesostituisce l’utopia usurata della “pianta-uomo”: un’etica elemen-tare ma sincera del confronto generoso con il mondo che si oppo-ne alla “vegetazione” silente della pianta, portando dentro leConfessioni l’atmosfera problematica della Nostra famiglia di

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campagna 76. Una citazione dai toni consueti chiude per semprel’epoca felice dell’infanzia:

La memoria d’un vecchio servitore morto, seppellito egià roso dai vermi mi costringeva ad abbassare il capo,confessando che con tutto il mio latino nella vera egrande sapienza della vita era forse più indietro che ivillani. Infatti nella loro semplice religione essi defini-scono coraggiosamente la vita per una tentazione, ouna prova. Io non poteva definirla altrimenti che coll’e-guali parole che si adopererebbero a definire la vegeta-zione d’una pianta. Aveva un bel piluccarmi le idee, unbel voltare e rivoltare questa massa di destini, di nasci-te, di morti e di trasformazioni! Senza un’atmosferaeterna che la circondi, la vita rimane una burla, unarisata, un singhiozzo, uno starnuto; l’esistenza momen-tanea d’un infusorio è perfetta al pari della nostra, col-l’ugual ordine di sensazioni che declina dalla nascitaalla morte. Senza lo spirito che sorvola, il corpo restafango e si converte in fango. Virtù e vizio, sapienza eignoranza son qualità d’un’argilla diversa, come ladurezza o la fragilità, o la radezza o lo spessore 77.

È senza dubbio uno dei momenti di retorica sublime del libro,insieme al ritorno tra le rovine del castello che seppellisce iltempo antico di Fratta mostrando ancora una volta, dentro l’im-magine ambivalente di quel mondo, la “voluttà fatta di pianto”,l’“avvilimento avvicendato alla beatitudine”, le “contraddizioni egli estremi” della vita umana 78. Ma anche qui, a guardar bene,l’umorismo interviene a disordinare la struttura composta di unaconfessione autobiografica che sfiora l’elegia, perché nella simbo-logia capovolta del libro la decifrazione perigliosa delle massimedi Martino prende il posto dell’epistolario educativo tra Saint-Preux e il suo mentore, Milord Edouard 79, richiamando per affi-nità la parodia manzoniana della corrispondenza mancata traRenzo e Agnese che rappresenta la liquidazione del romanzo set-tecentesco delle “anime belle”. Proprio il fatto che uno degli inse-gnamenti morali più alti provenga dalla “memoria d’un vecchioservitore morto, seppellito e già roso dai vermi” introduce l’ulti-mo sberleffo ironico nel genere alto dell’elogio che delimita ildiscorso pedagogico come una vecchia cornice ingiuriata daltempo, simile agli oggetti inutili che ingombrano la camera deldefunto: i “chiodi avanzati al becchino”, “una fiala con non so

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qual cordiale disseccato e corrotto” e “i polverosi rami d’olivo”appesi “nell’ultima Domenica delle Palme di sua vita”.Contaminato dall’“aria di morte” di quella stanza in cui anchel’occhio prende “una guardatura vitrea” 80, al lettore delleConfessioni non rimane che interrogarsi sulla parte più sternianadella morale di Carlino, meditando con lui sulla trama effimeradi un’esistenza che ha lo spessore sempre diverso dell’argilla, e inattimo trascolora dalla sapienza all’ignoranza, dal vizio alla virtù,come la natura lunare della Pisana che incarna il romanzomoderno delle passioni.

1 G. Maffei, “Nievo umorista”, in G. Mazzacurati et al., Effetto Sterne. Lanarrazione umoristica in Italia da Foscolo a Pirandello, Pisa, Nistri-Lischi,1990, p. 171. Sullo “sternismo” del Nievo si veda anche F. Portinari, Un gran-de romanzo “inglese”, in Id., Le parabole del reale. Romanzi italianidell’Ottocento, Torino, Einaudi, 1976, pp. 73-96.

2 Cfr. B. Falcetto, L’esemplarità imperfetta. Le “Confessioni” di IppolitoNievo, Venezia, Marsilio, 1998. Sull’“assenza di ricamo narrativo” e la “morfo-logia dinamica” delle Confessioni cfr. inoltre S. Calabrese, Intrecci italiani.Una teoria e una storia del romanzo (1750-1900), Bologna, Il Mulino, 1995,pp. 145-149.

3 U.M. Olivieri, Narrare avanti il reale. “Le Confessioni di un italiano” e laforma romanzo nell’Ottocento, Milano, Franco Angeli, 1990, p. 94.

4 P.V. Mengaldo, Appunti sulle Confessioni del Nievo, in “Rivista di lette-ratura italiana”, II (1983), pp. 465-518 (p. 473).

5 I. Nievo, Le Confessioni di un italiano, a cura di S. Casini, Parma,Fondazione Pietro Bembo/Guanda editore, 1999, t. II, p. 1515.

6 E. Raimondi, La radice quadrata del romanzo, in Id., Il romanzo senzaidillio, cit., p. 143.

7 G. Strafforello, L’humour e gli umoristi, in “L’arte”, V (1855), ristampa-to in U.M. Olivieri, L’idillio interrotto. Forma-romanzo e “generi intercalari” inIppolito Nievo, Milano, Franco Angeli, 2002 (Appendice I, Articoli su Sternenei periodici di metà Ottocento), pp. 143-144.

8 G. Rovani, Preludio a Cento anni, Milano, Garzanti, 1975, p. 4.9 C. Tenca, Recenti poesie italiane, in “Il crepuscolo”, VII (1856), ora

incluso in Id., Saggi critici, a c. di G. Berardi, Firenze, Sansoni, 1969, p. 263. 10 I. Nievo, Versi (1855), in Id., Tutte le opere, a cura di M. Gorra, Milano,

Mondadori, 1970, t. I, p. 172.11 Tenca, Recenti poesie italiane, cit., p. 264.12 I. Nievo, Attualità e teatri, o, a parlar schietto=sciocchezze, in Id., Le

Confessioni di un italiano. Scritti vari, a cura di F. Portinari, Milano, Mursia,19692, p. 818.

13 I. Nievo, Lettere, in Id., Tutte le Opere, cit., t. VI, p. 104.14 Ibid., pp. 148-149.15 Cfr. U.M. Olivieri, Un apprendistato in pubblico: note sull’epistolario

nieviano, in Id., L’idillio interrotto. Forma-romanzo e “generi intercalari” inIppolito Nievo, cit., pp. 71-83 e più in generale P.V. Mengaldo, L’epistolario diNievo: un’analisi linguistica, Bologna, Il Mulino, 1987.

VIII. La “Pianta uomo” 207

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

16 U.M. Olivieri, Pietro Borsieri e il romanzo d’area lombarda nella primametà dell’Ottocento, in Id., L’idillio interrotto. Forma-romanzo e “generi interca-lari” in Ippolito Nievo, cit., p. 54.

17 Cfr. Mengaldo, Appunti di lettura sulle Confessioni, cit., p. 484.18 Nievo, Le Confessioni di un italiano, cit., t. I, p. 267.19 H. de Balzac, Physiologie du mariage, Paris, Calmann-Lévy, 1829,

p. 112.20 Cfr. R. Campagnoli, Stendhal nelle “Confessioni” di Nievo e il labirinto

del romanzo, in “L’Archiginnasio”, LXVI-LXVII (1971-1973), pp. 447-482.21 Balzac, Physiologie du mariage, cit., p. 21.22 Nievo, Le Confessioni di un italiano, cit., t. II, pp. 1316 e1394.23 Id., Lettere, cit., pp. 164-165 (il corsivo è mio). Per facilitare il confron-

to, si dà di seguito la trascrizione del passo della Nouvelle Héloïse:“Insensiblement la lune se leva, l’eau devint plus calme, et Julie me proposade partir. Je lui donnai la main pour entrer dans le bateau, et en m’asseyant àcôté d’elle je ne songeai plus à quitter sa main. Nous gardions un profondsilence. Le bruit inégal et mésuré des rames m’excitait à rêver. Le chant assezgai des bécassines me retraçant les plaisirs d’un autre âge, au lieu de m’égayerm’attristoit. Peu à peu je sentis augmenter la mélancolie dont j’étais accablé.Un ciel serein, les doux rayons de la lune, le frémissement argenté dont l’eaubrillait autour de nous, le concours de plus agréables sensations, la présencemême de cet objet chéri, rien ne put détourner de mon cœur mille réflexionsdouloureuses. Je commençai par me rappeler une promenade semblable faiteautrefois avec elle durant le charme de nos premiers amours. Tous les senti-ments délicieux qui remplissoient mon âme s’y retracerent pour l’affliger; tousles événements de notre jeunesse, nos études, nos entretiens, nos lettres, nosrendez-vous, nos plaisirs […], ces foules de petits objets qui m’offroient l’ima-ge de mon bonheur passé, tout revenait pour augmenter ma misere présente,prendre place en mon souvenir. C’en est fait, disois-je en moi même, ces tems,ces tems heureux ne sont plus; ils ont disparu pour jamais”. Rousseau, LaNouvelle Héloïse, cit., pp. 520-521 (il corsivo è mio).

24 Su Nievo e Rousseau cfr. in particolare G. Natoli, Reminiscenze france-si nelle “Confessioni di un italiano” di Nievo, in Id., Marcel Proust e altri saggi,Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1968, pp. 140-198; C. Bozzetti, La for-mazione del Nievo, Padova, Liviana Editrice, 1959; N. Jonard, Le roussiaui-sme de Nievo, in “Rivista di Letterature Moderne e Comparate”, XXVIII(1975), pp. 117-131.

25 Cfr. F. Orlando, Infanzia, memoria e storia da Rousseau ai Romantici,Padova, Liviana Editrice, 1966, p. 25 e, più di recente, R. Turchi, I ricordid’infanzia di Carlino Altoviti, in Memoria e infanzia tra Alfieri e Leopardi, a curadi M. Dondero e L. Melosi, Macerata, Quodlibet, 2004, pp. 265-295.

26 Nievo, Le Confessioni di un italiano, cit., t. I, p. 215.27 Balzac, Physiologie du mariage, cit., p. 200.28 Nievo, Lettere, cit., p. 139. Si riferisce probabilmente all’Organologia di

Gall (Bologna, 1835).29 Ibid., p. 89.30 Ibid., p. 145.31 Nievo, Le Confessioni di un italiano, cit., t. I, p. 18332 Id., Il Varmo, in Romanzi, racconti, novelle, a cura di F. Portinari,

Milano, Mursia, 1969, p. 735. Cfr. a questo proposito G. Petrucci, Idillio einfanzia nel “Varmo” di Nievo, in “Annali della Scuola Normale Superiore diPisa – Classe di Lettere e Filosofia”, XVIII (1987), pp. 249-265.

208

33 Su questo punto cfr. C. Gaiba, L’infanzia come strada della realtà, in Id.,Il tempo delle passioni. Saggio su “Le Confessioni di un italiano” di IppolitoNievo, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 111-190.

34 Nievo, Le Confessioni di un italiano, cit., t. I, p. 181.35 Sull’immagine del giardino nella letteratura romantica si veda ancora

una volta Raimondi, Il romanzo senza idillio, cit., pp. 171-172.36 Nievo, Le Confessioni di un italiano, cit., t. I, pp. 101-102.37 Ibid., t. I, pp. 104-105.38 J.J. Rousseau, Emile, ou de l’éducation, in Id., Oeuvres complètes, cit., t.

IV, p. 636. Ma su questo punto cfr. anche Rousseau, Les Confessions, texteétabli par B. Gagnebin et M. Raymond, Paris, Gallimard, 1973, p. 36: “Jesentis avant de penser: c’est le sort commun de l’humanité”. Da segnalare èinfine il commento di Balzac, secondo cui: “la vertu des femmes est peut-êtreune question de tempérament” (Physiologie du mariage , cit., p. 58).

39 Rousseau, Emile, cit., p. 799.40 Nievo, Le Confessioni di un italiano, t. I, p. 225.41 Ibid., p. 183.42 Rousseau, Emile, cit., p. 800.43 Nievo, Le Confessioni di un italiano, t. I, p. 439.44 Ibid., t. I, p. 103.45 Rousseau, Emile, cit., p. 710.46 Ibid., p. 777.47 Ibid., p. 737. Sulla disposizione “romanzesca” degli amori di Emile e

Sophie cfr. A. Pizzorusso, Una continuazione incompiuta: ‘Emile et Sophie, oules solitaires, in Id., Letture di romanzi. Saggi sul romanzo francese delSettecento, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 141-172.

48 Balzac, Physiologie du mariage, cit., p. 148.49 Nievo, Le Confessioni di un italiano, cit., t. I, p. 102.50 U. Foscolo, Notizia bibliografica, in Id., Opere, cit., pp. 163, 169, 189.51 Ibid., p. 183.52 Nel giudizio del Nievo su Foscolo – dall’idealizzazione alla parodia –

influisce probabilmente il tentativo mazziniano di trasformare l’autoredell’Ortis in modello esemplare. Sul mito foscoliano in età risorgimentale èutile il confronto con C. Del Vento, Un allievo della rivoluzione. Ugo Foscolodal “noviziato letterario” al “nuovo classicismo” (1795-1806), Bologna, Clueb,2003, pp. 1-9.

53 Foscolo, Notizia bibliografica, cit., p. 170.54 Nievo, Le Confessioni di un italiano, cit., t. II, pp. 805-806.55 Ibid., t. I, p. 106.56 Rousseau, Les Confessions, cit., p. 47.57 Nievo, Le Confessioni di un italiano, cit., t. I, p. 106.58 Ibid., p. 604.59 Loc. cit.60 Balzac, Physiologie du mariage, cit., p. 126.61 Rousseau, Les Confessions, cit., p. 69.62 Nievo, Le Confessioni di un italiano, cit., t. II, p. 1189-1190.63 Cfr. a questo proposito Bozzetti, La formazione del Nievo, cit., p. 108.64 Rousseau, La Nouvelle Héloïse, cit., pp. 740-741.65 Nievo, Le Confessioni di un italiano, cit., t. II, p. 1194.66 Ibid., p. 1304.67 Ibid., t. I, pp. 162-163.68 Ibid., p. 163.

VIII. La “Pianta uomo” 209

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

69 Ibid., p. 166.70 Ibid., t. II, p. 1318.71 Ibid., p. 1394.72 Ibid., p. 1396.73 Ibid., t. I, pp. 526-527.74 Ibid., pp. 527-528.75 Ibid., p. 533.76 Sui contenuti ideologici del filone “campagnolo” e le sue applicazioni

nel Nievo cfr. in particolare S. Romagnoli, Nievo scrittore rusticale, Padova,Liviana Editrice, 1966; F. Portinari, “Tra il grano e la fame” (Brevi cenni di let-teratura rusticale), introd. a I Nievo, Novelliere campagnuolo, Milano, Mursia,1994, pp. 5-19; Olivieri, L’idillio interrotto. Forma-romanzo e “generi intercala-ri” in Ippolito Nievo, cit., pp. 97-142. Sulle influenze straniere cfr. infine N.Jonard, Ippolito Nievo e George Sand, in “Rivista di Letterature Moderne eComparate”, XXVI (1973), pp. 266-284.

77 Nievo, Le Confessioni di un italiano, cit., t. I, p. 536 (il corsivo è mio).78 Ibid., t. II, pp. 1205, 1206.79 Cfr. su questo punto le considerazioni di A. Pizzorusso, In margine al

romanzo: ‘Les amours de Milord Edouard’, in Id., Letture di romanzi, cit.,pp. 107-140.

80 Nievo, Le Confessioni di un italiano. Scritti vari, cit., t. I, p. 524.

210

INDICE DEI NOMI

Accorsi, M.G., 82nAdami, Antonio Filippo, 81nAddison, Joseph, 91, 173Adriani, Marcello, 167Agostino, Aurelio, santo, 40, 48Agrimi, M., 57n Ajello, R., 56n Akenside, Mark, 91, 98Alembert, Jean-Baptiste Le Rond

d’, 6, 83n, 115, 119, 158, 161-162, 164, 166, 173, 180n, 181n,

Alfieri, Vittorio, 6, 105, 138, 155-177, 179, 180n-185n

Alfonzetti, B., 181nAmaduzzi, Giovanni Cristofano,

109n Anglani, B., 134n Antistene 121Antonelli, G., 111nArcangeli, G., 27nArdissino, E., 22n Argan, G., 27n Ariosto, Lodovico, 23n, 68. Aristippo di Cirene, 6, 120-121,

131-132, 140Aristotele, 34, 42, 46, 66, 71Bacon, Francis, 5, 50, 62Baczko, B., 126, 134n Badini, Confalonieri L., 135nBaffetti, G., 22n, 27n Baltrusaitis, J., 26n Balzac, Honoré de, 191-192, 199,

201, 208n, 209n Barbarisi, G., 153nBarberi-Squarotti, G., 25n, 26n Barbieri, Giuseppe, 82nBaridon, M., 122, 134nBarocchi, P., 23n Barsotti, A., 184nBasile, B., 23n, 26n, 134n Battistini, A., 7, 57n, 58n, 60n,

109n, 111n, 135n Bauer, Formiconi B., 25n Baumgarten, Alexander Gottlieb,

121

Bayle, Pierre, 184nBeccari, Cesare, 6, 113, 115, 118-

119, 131, 134n, 139, 150-152,154n, 164, 166-167, 173, 176,182n, 184n

Beccaria, G.L., 181n Belgioioso, G., 56n Benedetto, Luigi Foscolo, 9, 22n Beniscelli, A., 22n, 81n, 82n, 109n Benjamin, W., 19, 26n Benrekassa, G., 135nBentivoglio, Cornelio, 177Berardi, G., 207nBernardin, de Saint-Pierre

Jacques-Henri, 102, 131, 135nBertola De Giorgi, Aurelio, 6, 85-

88, 91-97, 99-101, 103-105, 107-108, 109n-112n, 118

Bettinelli, Giuseppe, 67, 81n Bettinelli, Saverio, 115, 168Bianchi, Mario, 157, 180n Bigongiari, P., 184n Blumenberg, H., 80n Blunt, A., 27n Boccaccio, Giovanni, 23n Boileau Despréaux, Nicolas, 158,

171, 173 Bonfatti, E., 80n, 109n Bonora, E., 133n Borelli, Giovanni Alfonso, 33Borsieri, Pietro, 191, 197Bosi, Antonio, 167, 182n Botta, Carlo, 5, 129-130, 135n Bozzetti, C., 208n, 209n Branca, V., 180n Brunelli, B., 81n Bruni, A., 179n Bruto, Lucio Giunio, 161-162Buffon, Georges-Louis Leclerc de,

62, 154nBukdahl, E.M., 83n, 154nBurke, Edmund, 6, 79, 105, 108,

119, 138-139, 143, 150, 152,153n, 154n, 158, 172-178,183n-185n

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

Butor, M., 20, 26n Byron, George Gordon, 62

Caira, Lumetti R., 81n, 181nCalabrese, S., 207n Caloprese, Gregorio, 5, 32, 34, 39-

41, 43-47, 49-50, 52-53, 55,57n-59n, 65, 67-68, 71, 73, 75,78, 81n, 83n

Calzabigi, Ranieri de, 155-157,170-173, 175, 179n, 183n

Camerino, G.A., 179n, 181n, 182n Campagnoli, R., 208n Campanella, Tommaso, 33Candiani, R., 183n Cantillo, C., 60n Capra, C., 153n, 154nCardano, Girolamo, 31Cardinali, S., 22n Careri, G., 27n Caretti, L., 23n, 180n Carmignani, Giovanni, 173, 183n Carracci, Annibale, 89Casini, S., 182n, 207n Castiglione, Baldassarre, 108Catone, Marco Porcio (Uticense),

161Caylus, Anne-Claude-Philippe de,

143Cazzani, P., 179nCecchetti, A., 24n Cesare, Caio Giulio, 162Cesarotti, Melchiorre, 168-170,

182n Chambers, William, 123Chanut, Pierre, 30Chastellux, Francesco Giovanni di,

82nChateaubriand, François-Auguste-

René de, 22, 27n, 102, 187Chénier, André, 158Chiodo, D., 24n Chouillet, A.M., 109n Chouillet, J., 109n Cicerone, Marco Tullio, 49, 142,

162Cirillo, Domenico, 56n Cirillo, Nicola, 32, 56n Ciro il Grande, 169Condillac, Etienne Bonnot de, 10,

166Consalvi, Ercole, 168, 182n Contarini, S., 58n, 133n Conti, Antonio, 21, 27n, 88, 90, 98,

110n

Conti, V., 60n Corbin, A., 62, 69, 80n, 82nCorneille, Pierre, 79, 155, 173Cornelio, Tommaso, 33Corti, M., 24n Costa, B., 133nCosta, G., 82nCoste, Pierre, 114, 137Cottignoli, A., 135nCottingham, J., 58n Crébillon, Prospère Jolyot de, 155Croce, B., 58n Curtius, E.R., 61, 80n, 81n Curzio Rufo, 155

D’Andrea, Francesco, 33Da Pozzo, G., 25n Daniele, A., 25n Dante Alighieri, 61, 166-167, 184n Davanzati, Bernardo, 157, De Benedictis, Giovanbattista, 33,

56n De Liguori, G., 56nDe Maddalena, A., 153nDe Maio, R., 56n Del Vento, C., 180n, 184n, 209n Delcorno Branca, D., 23n, 24n Delille, Jacques, 122Della Casa, Giovanni, 49-50, 59n,

167Delon, M., 80n, 110n, 134nDemostene, 164n Dennis, John, 178Descartes, René, 5, 29, 31-35, 37,

39-40, 42, 44, 46-47, 50-51, 53,56n, 57n, 60n, 71

Deshays, Jean-Baptiste, 145Di Benedetto, A., 109n, 180n, 183n,

185n Di Breme, Ludovico Pietro, 188, Di Capua, Leonardo, 29, 33, 40,

55n, 57n Di Giandomenico, M., 56n Di Maio, M., 80nDi Ricco, A., 109nDiderot, Denis, 6, 62, 69, 79, 83n,

85, 86-87, 91, 98-99, 105, 107-108, 109n, 110n, 119-120, 132,135n, 139-140, 143-147, 150-151, 153, 154n, 158, 172

Dini, A., 57n Diodati, Domenico, 81nDiogene di Sinope, 121 Dionigi, I., 182n Domenici, C., 182n

212

Dondero, M., 208nDoni, C., 180n Doria, Paolo Mattia, 5, 39, 42-43,

50, 52-53, 55, 58n, 60n, 65, 69 Dubos, Jean-Baptiste, 74, 78, 82n,

86, 88, 90, 98, 100, 108, 110n,114-115, 119, 138, 140-141,143-144, 149-150, 154n

Elisabetta di Boemia, 30, 35, 37,38, 50-51, 53, 57n

Epicuro, 39-40, 120Epitteto, 65Estevan, Francesco Saverio, 42,

58n Euripide, 155

Fabbri, P., 82nFabrizi, A., 180n-182n Falcetto, B., 207n Falco, G., 81nFassò, L., 184n Fattori, M., 59n Federico di Prussia, 63Fedi, F. 111n, 153nFélibien, André, 143Fénelon, François de Salignac de la

Mothe, 110n Fenzi, E., 25n Ferdinandi, Carlo, 106, 112nFerrari, Matilde, 189-190, 195Ferrero di Lavriano, Giuseppe

Maria, 63Ferretti, F., 24n Ferry, L., 134nFimiani, M., 82nFirmian, Carlo, 141Fisch, M.H., 55n Foltran, D., 26n Fontenelle, Bernard Le Bovier de,

63, 80n, 87, 110n Forlini, A., 185n Forti, F., 81nFoscolo, Ugo, 64, 81n, 131, 187,

194-195, 209n Francioni, G., 133n, 134nFumaroli, M., 22, 27n Füssli, Johann Heinrich, 21, 27n

Gaetani D’Aragona, Nicola, 60n Gagnebin, B., 22n, 209nGaiba, C., 209n Galilei, Galileo, 26n, 29, 33, 40, 62

Gall, Franz Joseph, 195Gallo, Gaio Cornelio, 14Garin, E., 56n Gaspari, G., 133n, 134n Gavazzeni, F., 81nGebhardt, J., 58n Gessner, Salomon, 85, 90-91, 94-

96, 101, 107-108, 109n, 122Giarrizzo, G., 60n, 81n Gigliucci, R., 24n Giordanetti, P., 153nGiovio, Giovan Battista, 5, 129-

130, 135nGiovo, Niccolò, 43, 50-53, 60n Giulini, A., 133nGnudi, C., 27nGoldin, D., 82nGombrich, E., 24n, Gonzaga, Scipione, 26n Gori Gandellini, Francesco, 159Gori, Anton Francesco, 156-157,

163, 165, 167, 170-173, 179n,181n

Gorni, G., 25n, 26n Gorra, M., 207n Goudet, J., 24n Gravina, Gian Vincenzo, 5, 50, 59n,

65, 66-67, 74, 80, 81n, 82n Gray, Thomas, 88 Graziani, F., 27n Greppi, E., 133nGrimaldi, Costantino, 33, 47, 57n Gronda, G., 59n Grosser, H., 58n Guénon, R., 25n Guercino (Francesco Maria

Barbieri), 21Guerrini, L., 60n Güntert, G., 23n

Hallé, Noë1, 145-146Haller, Albrecht von, 95Hasse, Adolfo, 81nHeine, Heinrich, 187Helvétius, Claude-Adrien, 6, 62,

114, 138, 141, 147, 150, 153n,156, 166-167, 173-176, 181n,182n, 184n

Hirchfeld, Christian Cay Lorenz,122

Hobbes, Thomas, 35, 45, 68Huber, Michael, 109n Hutcheson, Francis, 147

Indice dei nomi 213

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

Jaucourt, Louis de, 83n, 143Jauss, H.R., 23n Jonard, N, 208n, 210n

Kant, Immanuel, 62, 139Klopstock, Friedrich Gottlieb, 94-

95, 107Knoller, Martin, 141, 145, 148-149,

153n

La Turenne, Henri de, 147-148 Lachterman, D., 58n Lavocat, F., 112n, 134n Le Brun, Charles, 145Leclerc, G., 154nLee, R.W., 22n, 23n Leopardi, Giacomo, 6, 93-94Leri, C., 112nLessing, Gotthold Ephraim, 139Levesque de Pouilly, Louis-Jean, 98Lévy, C., 154nLindon, J., 111n, 184nLivio, Tito, 158, 161Lloyd, Henry, 139, 153n Locke, John, 42, 54, 62, 113, 116,

119-120, 138, 166, 184n Lojacono, E., 56n, 57n Lollini, M., 60n Lomazzo, Giovanni Paolo, 12, 23n,

24n, 86Lombardo, G., 182nLomonaco, F., 56Longeon, C., 24n Lorenceau, A., 83n, 154nLöwth, Robert, 178Luciani, P., 81n, 181n Luzzatto, S., 135n

Machiavelli, Niccolò, 35, 45, 51-53,184n

Maffei, G., 207n Maffei, Scipione, 170Maggini, F., 180n Mahon, D., 27nMalebranche, Nicolas de, 39-40, 50 Manzoni, Alessandro, 103, 170, 193Marri, F., 183nMartello, Pier Jacopo, 16-17, 25n Martinelli, A., 26n Masoero, M., 24n, 185nMatorelli, Giuseppe, 83nMaupertuis, Pierre-Louis Moreau

de, 113, 138, 147

Mazzacurati, G., 207nMazzola, R., 57n Mazzoni, G., 153nMazzotta, G., 60n Meiners, Christoph, 139Melosi, L., 208nMendelssohn, Moses, 106-108,

112n Mengaldo, P.V., 82n, 207n, 208nMessina, S., 7Metastasio, Pietro (Trapassi

Pietro), 52, 63, 65, 67-69, 71,73, 75, 78-80, 81n-83n, 88, 143,159

Michelangelo Buonarroti, 161, 171 Milizia, Francesco, 124, 134n Milton, John, 94, 176-177, 179,

184n, 185nMolinari, A., 26n Monda, D., 135n Montagu, J., 154nMontaigne, Michel de, 61, 174,

181n Montesquieu, Charles-Louis de

Secondat, 174-176Morandotti, A., 154nMorano, Giuseppe Aurelio, 81nMorel, Jean-Marie, 123Moretti, W., 22n Morris, D.B., 185nMuratori, Ludovico Antonio, 64,

67

Natoli, G., 208nNerone, Claudio, imperatore, 156Newton, Isaac, 62 Nicole, Pierre, 60n Nicolini, F., 58n Nievo, Ippolito, 6, 127, 187-194,

197-199, 202, 204-205, 207n-210n

Noce, H.S., 25n Novati, F., 133nNussbaum, M.C., 59n Nuzzo, E., 57n, 58n

Olivieri, U.M., 207n, 208n, 210n Omero, 94, 156, 164, 167-168Orazio Flacco, Quinto, 171, 183nOrlando, F., 208nOsbat, L., 56n Ovidio Nasone, Publio, 31

214

Pagliai, M., 179n Panizza, G., 133, 154nPanofsky, E., 14, 24n, 27n Parini, Giuseppe, 139, 150, 153n Pascal, Blaise, 39, 52. Pepe, L., 22n Pepoli, Alessandro, 157, 170-171,

173, 183nPernot, L., 154nPetrarca, Francesco, 10, 184n Petrocchi, G., 19, 26n Petrucci, G., 208nPicart, Bernard, 86Pigeaud, J., 80n Pindaro, 66Pitagora di Samo, 35Piva, F., 181nPizzamiglio, G., 58n Pizzorusso, A., 7, 133n, 209n, 210n Platone, 34-35, 164Plinio il Vecchio, 142Plutarco, 43, 141, 156, 158-161,

164, 180nPoliziano, Angelo, 24n Pommier, E, 7, 154n Pope, Alexander, 63-64, 81n, 91Porcìa, Giovanni Artico di, 65Portinari, F., 207n, 208n, 210n Porzio, Lucantonio, 33, 37, 38-41,

57n Poussin, Nicolas, 14-15, 21, 24n,

27n, 85-86, 88, 90-91, 101-102,107, 110n, 119-120, 143, 145-146, 149

Propp, V.A., 23n pseudo-Demetrio, 150, 154n, 157,

164, 167-170, 182n pseudo-Longino, 6, 115, 156-157,

161-165, 167, 170-171, 173,179, 179n-181n, 183n

Pulci, Luigi, 24n Pulcini, E., 58n

Quadrio, Francesco Saverio, 94Quintiliano, Marco Fabio, 142Quondam, A., 81n

Rabelais, François, 191Racine, Jean, 155Radcliff-Umstead, D., 25n Raffaello, Sanzio, 117Raimondi, E., 7, 25n, 60n, 81n,

111n, 180n, 182n, 184n, 207n,209n

Rak, M., 56n, 59n Ramacciotti, V., 7Raymond, M., 22n, 209n Recuperati, G., 56n Regard, M., 27n Rembrandt, Harmenszoon van

Rijn, 91, 117Rey, R., 58n Reynolds, Joshua, 143, 154nRiccio, M., 58n Rigoni, M.A., 22n Ritter Santini, L., 80n Robert, Hubert, 86, 120Rolli, Paolo, 184n Romagnoli, S., 134n, 210n Romano, G., 27nRosini, S., 133n Rotelli, E., 153nRousseau, Jean-Jacques, 5, 10-11,

13, 21-22, 93, 98, 110n, 122-123, 128, 130-131, 134n, 135n,184n, 187, 194-195, 198-199,203, 208n, 209n

Rovani, Giuseppe, 189, 207nRueff, M., 135n

Saffo, 165, 168Sala Di Felice, E., 81n, 82n Salambrino, B., 153nSanna, M., 58n Sannazaro, Jacopo, 13-14, 21, 88,

90Sannia Nowé, L., 80n Santato, G., 179n-181n Savarese, G., 181n Scappaticci, T., 112n Schama, S., 24n Schlobach, J., 109n Scianatico, G., 109n Scotti, A., 153nSelmi, E., 81nSeneca, Lucio Anneo, 35, 65, 164,

167, 171, 182n Sensi, C., 185nSeregni, G., 133n Serrapica, S., 56n Seth, C., 134nShakespeare, William, 107, 155-

156, 173. Shenstone, William, 123Smith, Adam, 147Socrate, 35, 121Sofocle, 155-156Soldani, A., 23n Sozzi, B.T., 23n

Indice dei nomi 215

Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo

Sozzi, L., 7Sparrow, J., 20, 26n Staël-Holstein, Anne Louise

Germaine de, 110n Starobinski, J., 9, 22n, 25n, 114,

132, 133n, 135n, 139, 153n Stäuble, A., 108n, 111nStäuble, M., 108n, 111nStazio, Publio Papinio, 31Stendhal (Henri Beyle), 192Sterne, Laurence, 187Sterpos, M., 180n Strada Janovic, C., 23n Strafforello, Gustavo, 207n Sulzer, Johann Georg, 6, 87-88, 90,

95-102, 105-108, 109n-112n Suppa, S., 57n

Tacito, Publio Cornelio, 157, 180n Tarchetti, Iginio Ugo, 200Tariffi, F., 183n Tasso, Torquato, 5, 10-11, 14, 22,

23n, 25n-27n, 44, 59n, 68, 88,168

Telesio, Bernardino, 33Tellini, G., 179n Tenca, Carlo, 189-190, 207nTeofrasto, 17Thomson, James, 88, 104Tiberio, Claudio Nerone, imperato-

re, 155 Tibullo, Albio, 31Timante, 6, 143, 154nTiraboschi, Girolamo, 163, 181n Tiziano Vecellio, 89

Tommaso d’Aquino, 48Torrini, M., 55n, 56n, 59n, 60n Tozzi, Luca, 30-33, 56n Traina, A., 182nTucidide, 164, 167Turchi, R., 179n, 208n

Ulivi, F., 27n Unfer Lukoschik, R., 109n

Valente, M., 60n Valeriano Bolzani, Giovanni Pie-

rio, 17, 25nValerio Massimo, 142Valletta, Giuseppe, 33Vanloo, Carle, 142, 145Varese, C., 23n, 82n Varloot, J., 109n Vecchi, Angelo, 92Venturi, F., 139, 153n Venturi, G., 7, 23n, 26n, 134n Verbeek, T., 56n Verdino, S., 23n Verga, Giovanni, 200Verhulst, S., 7Vernet, Claude-Joseph, 6, 62, 120Vernière, P., 135n, 153nVerri, Alessandro, 116, 118, 128,

131, 133n, 135n, 140, 147, 154nVerri, Pietro, 6, 113-121, 123, 131-

132, 133n, 134n, 137, 139-141,143, 147, 150-152, 153n, 154n,176, 184n

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Finito di stampare nel mese di Febbraio 2006presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A.

Via A. Gherardesca • 56121 Ospedaletto • PisaTelefono 050 313011 • Telefax 050 3130300

Internet: http://www.pacinionline.it

SAGGI CRITICICOLLANA DIRETTA DA ARNALDO PIZZORUSSO E EZIO RAIMONDI

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SILVIA CONTARINI

UNA RETORICA DEGLI AFFETTI:DALL’EPOS AL ROMANZO

Silvia Contarini è ricercatrice diLetteratura italiana presso l’Università diUdine. Per l’editore Pacini ha pubblicato ilvolume “Il mistero della macchina sensibi-le”. Teorie delle passioni da Descartes aAlfieri (1997). Ha curato inoltre l’edizioneitaliana del Premier voyage dans l’Afrique diFrançois Levaillant (Firenze, Le Lettere,1994), gli scritti di André Jolles (I travesti-menti della letteratura. Saggi critici e teorici1897-1932, Milano, Bruno Mondadori,2003), e il Discorso sull’indole del piacere edel dolore per l’Edizione Nazionale delleOpere di Pietro Verri (Roma, Edizioni diStoria e Letteratura, 2004).

Rintracciare nei testi i lineamenti di unateoria delle passioni è modo oramai col-laudato di fare storia letteraria, rico-struendo accanto al variare dei contesti latrasformazione delle immagini simbolichedi una cultura. E i saggi qui riuniti hannotutti come punto di partenza la problema-tica degli affetti e la sua influenza suigeneri letterari nelle loro modalità narrati-ve e compositive, secondo una mappa d’in-terne corrispondenze. Ciò vale non soloper il topos lirico dell’iscrizione arboreache unisce Tasso e Rousseau nel rapportofra elegia e dramma, ma anche per lametafora classica e biblica della navigatiovitae, che nel primo Settecento, compliceil paradigma della nuova scienza diGalileo, di Cartesio e di Bacone, muta disegno divenendo l’emblema di un universoemotivo fondato sull’energia della coscien-za. Ma più della metafora nautica diMetastasio, è probabilmente l’identitàcomplessa del paesaggio, tra estetica eromanzo, a configurare l’ambiguità delTournant des Lumières consegnando alsecolo successivo il conflitto irrisolto traarte e natura, cuore e ragione. La crisi del-l’utopia rousseauiana, del giardino coltiva-to come metafora della sensibilità, ripro-posta in vario modo nelle riscritture italia-ne di fine secolo, è sancita definitivamentedal romanzo del Nievo, dove le passionirivivono nelle figure dell’ossimoro e dellacontraddizione.

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