Stellato fisso, domattina piove. Il folklore, l'antropologia e la poesia del Pascoli

29
1 1 Mariano Fresta STELLATO FISSO DOMATTINA PIOVE Il folklore, l’antropologia e la poesia del Pascoli 1.- Con l’occhio del demologo. Fino ai primi decenni del Novecento era possibile individuare nella regione toscana tre sistemi ben distinti di conduzione agricola: la mezzadria, diffusa nei territori interni di piano- colle, appoderati fin già dal XVI secolo; la piccola proprietà contadina, prevalente nelle aree di alta collina e di montagna; infine i latifondi delle maremme in cui, per la malaria, lo sfruttamento si limitava alle colture cerealicole e al pascolo del bestiame allevato allo stato semibrado 1 . Gli studi demologici, avviati in Toscana a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, hanno avuto come oggetto privilegiato quasi esclusivamente il mondo mezzadrile, vuoi perché questo ha segnato, nel corso di vari secoli, l’evoluzione storico-sociale della regione, vuoi per i suoi aspetti particolari che hanno suggerito teorie di analisi economica diverse, vuoi perché si trattava di un sistema economico-sociale che ha conservato a lungo elementi di origine antica e quindi appariva di particolare interesse per lo studioso di folklore. Il mondo, dunque, della piccola proprietà contadina è stato trascurato, mentre le zone maremmane, specie quelle del Grossetano, hanno avuto una qualche attenzione dal 1970 in poi 2 . Nelle poesie del Pascoli e nei Primi e Nuovi Poemetti in particolare, da lui espressamente dedicati a una famiglia contadina, non c’è traccia della mezzadria, per la semplice ragione che il territorio della Garfagnana e quello di Barga in cui il poeta visse per alcuni anni e dal quale prese temi e linguaggio per molte delle sue composizioni, essendo quasi interamente di montagna, non avevano niente a che fare con le zone in cui predominava l’istituto di colonia. Ma, se si tralasciano le caratteristiche giuridiche, che differenziavano il sistema mezzadrile dalla conduzione affittuaria o da quella diretta dei piccoli proprietari, le condizioni materiali di vita e il patrimonio culturale appaiono comuni e condivisi in tutto il mondo contadino della Toscana (e forse dell'Italia intera) dagli inizi dell’Ottocento fino ai primi decenni del Novecento. Nessuna meraviglia, dunque, se, a chi ha studiato il mondo mezzadrile toscano e le sue tradizioni culturali, la lettura integrale dell’opera poetica pascoliana riserva una scoperta sorprendente; buona parte, infatti, di tutto quanto egli ha appreso attraverso i libri e le ricerche sul campo, se la ritrova condensata in forma poetica e spesso racchiusa in un’intuizione che ne illumina i significati più reconditi. Anche nei componimenti ispirati da problemi molto vicini alla sensibilità personale del Pascoli c’è spesso un accenno, un termine o un’immagine che ci riportano alla campagna, alla vita semplice e dura del mondo contadino tra la fine del Diciannovesimo secolo e l’inizio del Ventesimo. Insomma, pare che il Pascoli, allo stesso modo dei moderni ricercatori di tradizioni popolari, abbia fatto ricerca sul campo non occupandosi soltanto di stornelli e strambotti, ma rivolgendo la sua attenzione anche al lavoro manuale e i suoi strumenti, 1 Si veda G. GIORGETTI, Linee di evoluzione delle campagne toscane contemporanee, in Capitalismo e agricoltura in Italia, Ed. Riuniti, Roma 1977. 2 Meritoria in questo senso è l'attività dell'Archivio delle Tradizioni Popolari della Maremma Grossetana.

Transcript of Stellato fisso, domattina piove. Il folklore, l'antropologia e la poesia del Pascoli

1

1

Mariano Fresta

STELLATO FISSO DOMATTINA PIOVE

Il folklore, l’antropologia e la poesia del Pascoli

1.- Con l’occhio del demologo.

Fino ai primi decenni del Novecento era possibile individuare nella regione toscana tre

sistemi ben distinti di conduzione agricola: la mezzadria, diffusa nei territori interni di piano-

colle, appoderati fin già dal XVI secolo; la piccola proprietà contadina, prevalente nelle aree di

alta collina e di montagna; infine i latifondi delle maremme in cui, per la malaria, lo sfruttamento

si limitava alle colture cerealicole e al pascolo del bestiame allevato allo stato semibrado1.

Gli studi demologici, avviati in Toscana a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, hanno

avuto come oggetto privilegiato quasi esclusivamente il mondo mezzadrile, vuoi perché questo

ha segnato, nel corso di vari secoli, l’evoluzione storico-sociale della regione, vuoi per i suoi

aspetti particolari che hanno suggerito teorie di analisi economica diverse, vuoi perché si trattava

di un sistema economico-sociale che ha conservato a lungo elementi di origine antica e quindi

appariva di particolare interesse per lo studioso di folklore. Il mondo, dunque, della piccola

proprietà contadina è stato trascurato, mentre le zone maremmane, specie quelle del Grossetano,

hanno avuto una qualche attenzione dal 1970 in poi2.

Nelle poesie del Pascoli e nei Primi e Nuovi Poemetti in particolare, da lui espressamente

dedicati a una famiglia contadina, non c’è traccia della mezzadria, per la semplice ragione che il

territorio della Garfagnana e quello di Barga in cui il poeta visse per alcuni anni e dal quale prese

temi e linguaggio per molte delle sue composizioni, essendo quasi interamente di montagna, non

avevano niente a che fare con le zone in cui predominava l’istituto di colonia. Ma, se si tralasciano

le caratteristiche giuridiche, che differenziavano il sistema mezzadrile dalla conduzione affittuaria

o da quella diretta dei piccoli proprietari, le condizioni materiali di vita e il patrimonio culturale

appaiono comuni e condivisi in tutto il mondo contadino della Toscana (e forse dell'Italia intera)

dagli inizi dell’Ottocento fino ai primi decenni del Novecento.

Nessuna meraviglia, dunque, se, a chi ha studiato il mondo mezzadrile toscano e le sue

tradizioni culturali, la lettura integrale dell’opera poetica pascoliana riserva una scoperta

sorprendente; buona parte, infatti, di tutto quanto egli ha appreso attraverso i libri e le ricerche sul

campo, se la ritrova condensata in forma poetica e spesso racchiusa in un’intuizione che ne

illumina i significati più reconditi. Anche nei componimenti ispirati da problemi molto vicini alla

sensibilità personale del Pascoli c’è spesso un accenno, un termine o un’immagine che ci riportano

alla campagna, alla vita semplice e dura del mondo contadino tra la fine del Diciannovesimo

secolo e l’inizio del Ventesimo. Insomma, pare che il Pascoli, allo stesso modo dei moderni

ricercatori di tradizioni popolari, abbia fatto ricerca sul campo non occupandosi soltanto di

stornelli e strambotti, ma rivolgendo la sua attenzione anche al lavoro manuale e i suoi strumenti,

1 Si veda G. GIORGETTI, Linee di evoluzione delle campagne toscane contemporanee, in Capitalismo e

agricoltura in Italia, Ed. Riuniti, Roma 1977.

2 Meritoria in questo senso è l'attività dell'Archivio delle Tradizioni Popolari della Maremma Grossetana.

2

2

alla vita quotidiana, al tipo di alimentazione, alla devozione religiosa, al mondo animale e

materiale che circondava quella società.

Chi si è occupato, invece, di studiare e verificare il valore poetico e letterario dei

componimenti pascoliani non ha dato molto peso a questi aspetti etnografici, limitandosi a mettere

in nota sia i riferimenti alla vita, al lavoro e al folklore contadino della Toscana, delle Marche e

della Romagna, da cui il Pascoli prendeva gli spunti, sia i suoi debiti nei confronti delle opere

demologiche che circolavano in Italia alla fine dell’Ottocento. L'attenta e minuziosa osservazione

che il Pascoli dedicò alla vita quotidiana delle famiglie contadine non ha suggerito nessuna

riflessione di carattere storico-antropologico. La critica letteraria in sostanza ha preso atto che il

mondo contadino è stato l’ispiratore della poesia pascoliana, ma non ha mai cercato (e, d’altra

parte, non era nemmeno suo compito) di indagare quel mondo, di verificare se la vis poetica del

Pascoli avesse illustrato in modo veritiero (ma che si tratti di verità si dà per scontato …) il mondo

agricolo e se questa rappresentazione poetica ha un diretto corrispettivo nella realtà delle

condizioni materiali e culturali di vita dei contadini toscani alla fine dell’Ottocento.

Questo tipo di analisi, svolta con l'occhio del demologo, mi accingo a fare adesso, pur non

tralasciando di seguire, ovviamente, le vie già percorse dai critici letterari, soprattutto quelli come

Giuseppe Nava, che hanno trovato nessi importanti tra il patrimonio folklorico e l’opera del

Pascoli, e riconducendo il tutto alla mia esperienza di studioso e di ricercatore del mondo popolare

tradizionale toscano. I miei riscontri, tuttavia, non partono dal singolo brano o dal singolo

poemetto per andare a rintracciare l’aspetto del patrimonio folklorico da cui il poeta ha preso lo

spunto; cercano, invece, di vedere in qual modo le condizioni esistenziali, sociali e culturali del

mondo contadino toscano, che le ricerche storiche e quelle antropologiche ci hanno fatto

conoscere, si riflettano nell’opera pascoliana e come si siano trasformate una volta che il Pascoli le

ha assunte e trasfuse nella sua visione ideologica e in quella poetica.

2.- La critica e il folklorismo del Pascoli.

La presenza nelle poesie pascoliane

3 di numerosi elementi tratti dal folklore non poteva

passare inosservata. Non solo si ritrovano nei Primi Poemetti e nei Nuovi poemetti componimenti

che illustrano vicende umane, comportamenti e tradizioni che ricorrono in determinati periodi del

calendario e che i folkloristi hanno inserito in precise categorie, come quelle del Ciclo della vita e

del Ciclo dell’anno, ma in tutte le raccolte c’è anche un numero considerevole di riferimenti alla

vita contadina, al mondo agricolo con tutte le sue credenze, i suoi atteggiamenti, le sue forme

espressive, dai termini dialettali ai proverbi, dai canti alle fiabe. Ovvio, pertanto, che critici

letterari e studiosi di folklore si siano soffermati ad analizzare questi elementi, i primi per

rintracciare le origini di certa poesia pascoliana, gli altri per farne riscontri con il patrimonio della

cultura popolare.

Già nel 1924 Giovanni Giannini, profondo conoscitore e accurato raccoglitore di tradizioni

popolari lucchesi, aveva pubblicato un saggio in cui aveva collazionato tutto quanto il Pascoli

avesse ripreso dalla cultura popolare, soprattutto di quella della media valle del Serchio. Il lavoro

del Giannini, essendo dunque una completa ricognizione dei testi pascoliani, risulta una

rilevazione puntuale di tutti i frammenti, piccoli e grandi, e delle suggestioni che il patrimonio

folklorico aveva proposto all’elaborazione del poeta4.

Nel 1956, al Convegno concernente il primo centenario della nascita e il cinquantenario

della morte del poeta parteciparono anche Vittorio Santoli, che pur essendo un insigne

germanista si occupava di canti o, come si diceva allora, di poesie popolari e che aveva già

3 Per semplificare, i titoli delle opere pascoliane sono indicati con le seguenti sigle: MY (Myricae), PP

(Primi poemetti), NP (Nuovi poemetti), CC (Canti di Castelvecchio).

4 G. Giannini, Le tradizioni popolari nella poesia pascoliana, in Lucca a G. Pascoli, Lucca 1924, p. 51 e sgg.

3

3

pubblicato un fondamentale lavoro filologico su cinque Canti della raccolta Barbi5; e Paolo

Toschi, in quel momento lo studioso più importante in Italia della Storia delle Tradizioni

popolari6.

Nella sua analisi Vittorio Santoli, citando più volte il saggio del Giannini, rivolge la sua

attenzione a quei passi in cui il Pascoli riprende, alla lettera o variandoli leggermente, i temi, le

espressioni, i versi e addirittura intere strofe di stornelli e rispetti della tradizione popolare. Il

Santoli chiama «intarsi» questi frammenti di canti popolari che «presuppongono la fioritura

degli studi di poesia popolare avvenuta intorno all’Ottanta [del XIX sec.]». Ma questa

influenza, secondo lui, si mescola nel Pascoli con quella che gli derivava attraverso la lezione

del Carducci dalla letteratura culta del Tre/Quattrocento, per raggiungere esiti di preziosità

decadente alessandrina. Lo stesso alessandrinismo il Santoli rileva nelle strutture metriche dei

componimenti pascoliani, le quali riprendono quelle popolari dello stornello e del rispetto,

alternandole con quelle più eleganti e complesse di derivazione madrigalesca: «E per questo

cangiantismo esse raggiungono la preziosità alessandrina» (p. 75).

In sostanza il Santoli, pur nella sua sapiente disamina, non si allontana da una critica di

stampo letterario; e continuando a parlare di “poesia” e non di “canto” popolare, fa mostra di

rifarsi ancora a una concezione romantica del folklore; in questo modo è ovvio che gli

rimangano sconosciuti tutti gli aspetti storici, demologici e antropologici che stanno dietro ai

versi dei canti popolari e dei loro portatori. In questo senso, la sua critica non coglie appieno la

sensibilità con cui il Pascoli aveva osservato la società agraria e l’aveva saputa poeticamente

rappresentare, andando di là della semplice ripresa di proverbi, stornelli e stilemi vari

dell’espressività e della cultura tradizionale contadina.

Più avvertito, a livello etnografico, è l’intervento di Paolo Toschi; anche lui parla di

«intarsi» e d’incastonature, ma soprattutto egli rileva nell’opera del Pascoli una profonda

conoscenza della cultura popolare tradizionale che riguarda

il ciclo della vita umana, la vita agricola tradizionale, e la poesia popolare; ma non

trascurabili apporti troviamo anche per i proverbi e le leggende, il ciclo dell’anno, i giuochi

fanciulleschi e varie credenze e superstizioni (pag. 168).

Osserva poi che questa conoscenza del poeta non riguarda solo la Romagna, sua terra

d’origine, ma anche le altre regioni in cui gli accadde di risiedere come la Lucania, la Sicilia e

soprattutto la Toscana. La conclusione che il Toschi trae è che

attraverso la poesia pascoliana il folklore subisca un processo di transfert sopra un piano di

“realismo magico”, sì che il documento, pur possedendo il suo pieno valore d’informazione

esattissima7, trasporta parole e cose nel clima della poesia e della lingua nazionale. (170)

L’analisi toschiana, quindi, mette in risalto le competenze folkloriche del poeta, ma

senza scendere, anche lui, più in profondità, senza mettere in rapporto questi elementi di

folklorismo con le condizioni storiche di vita di quei contadini cui il Pascoli si ispirava.

Insomma, per dirla con Gramsci, per il Toschi il folklore continuava a permanere nell’ambito

del pittoresco o quanto meno, crocianamente, nell’ambito di una psicologia minore e poteva

essere spiegato anche senza tener di conto le condizioni materiali di vita e i rapporti di

produzione nelle campagne.

Negli anni 70-80 del secolo scorso si sono occupati del Pascoli, fra gli altri, Luigi

5 V. Santoli, Cinque canti della Raccolta Barbi, Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, 1938.

6 I due interventi si trovano in Studi per il centenario della nascita di G. Pascoli, pubblicati nel Cinquantenario

della morte (Convegno bolognese 28-30 marzo 1958) «L'Archiginnasio», Bologna 1962, vol. II, Vittorio

Santoli, Pascoli e la poesia popolare, pp. 69-77; Paolo Toschi, Pascoli e le tradizioni popolari, pp. 165-171.

7 Corsivo mio.

4

4

Baldacci e Mario Tropea8.

Il Baldacci, nell'introduzione alla sua scelta di poesie pascoliane, non si occupa,

ovviamente, del folklore in Pascoli, ma ha modo di fare qualche osservazione importante sulla

condizione esistenziale dei lavoratori agricoli. Così, infatti, commenta la seconda parte della

composizione L'Angelus:

Quei duri solchi, quella gente in riga che semina, dicono la fatica del lavoro, dicono anche

l'umiliazione di una fatica alienata (p. XXVII).

E poi ancora, riferendosi a tutto il linguaggio poetico pascoliano, scrive:

...Egli ha capito una cosa: che la poesia dialettale moderna può essere soltanto poesia gergale;

che essa non può ridursi al giochetto di verniciare di dialetto la lingua nazionale, ma che deve

individuare prima di tutto i livelli tecnici, o diciamo culturali-tecnologici, ai quali il dialetto

s'identifica col gergo, cioè con la parola che appartiene a quella e non ad altra cultura.... C'è

un'identificazione totale con un mondo religioso, retto da un sentimento profondo della vita e

della morte. E' il modo più commosso col quale la poesia italiana, da sempre, si è accostata

alla cultura pastorale e contadina. Altri dirà che è un modo paternalistico, pietistico: borghese

(p. XLIII).

A parte le sue conclusioni, su cui si può dissentire, quel che scrive Baldacci è vero: c'è

da parte del Pascoli un'adesione totale al mondo culturale dei contadini di fine Ottocento; ma,

come avrebbe detto successivamente Mario Tropea, i Poemetti e i Nuovi poemetti, pur

costituendo realmente con la loro «struttura volutamente didascalica» una «Erga kai Emérai

circoscritta in Lucchesia, piena di minute descrizioni di lavori domestici e opere campestri»,

finiscono per trasformarsi in una «mistificante rappresentazione ieratica del lavoro contadino»

(p. 28).

La critica letteraria, quindi, si divide sull’ideologia pascoliana: per Baldacci essa è

positiva, per Tropea, invece, la rappresentazione che si dà della società contadina è idealizzata e

forse anche sublimata, quindi falsa. E poi, a proposito della storia di Rosa e Rigo, Tropea

aggiunge che la

dimensione cosmico-domestica informa l’epica rustica di Rigo e Rosa, scandita dentro lo

scenario dei campi e, pur con accentuate tipicità regionalistiche, sullo scorrere del flusso naturale:

si rivedano all’interno i titoli dei cicli dalla Sementa alla Vendemmia, che sottolineano

allusivamente il nascere (L’accestire), manifestarsi (La fiorita), maturare (La mietitura) dell’amore

contadino e il suo frutto presentandosi come storia esemplare e modello irenico della piccola

proprietà contadina composta in momenti idillici sull’esempio della vita da Pascoli condotta a

Castelvecchio e di analogie che egli intravedeva tra l’età augustea di Orazio e Virgilio (i quali nelle

loro opere avevano “abolito” la schiavitù ignorando la parola servus; cfr. Il fanciullino, pag. 26) e

quella tormentata del secolo in cui egli viveva9.

Nella Letteratura Italiana diretta da Alberto Asor Rosa (Einaudi), del Pascoli si presenta

solo la raccolta di Myricae. Il commento è affidato a Stefano Giovanardi10

che, pur non

affrontando l’analisi con l’ottica dell’antropologo, tuttavia dà alcune importanti indicazioni di

lettura; a proposito del linguaggio e dei termini tecnica usati dal Pascoli così scrive:

Nell’uso comune gli oggetti non hanno nome: la loro evidenza fisica annulla

qualsiasi concettualizzazione, qualsiasi possibilità di fruizione estetica. Ma

8 G. Pascoli, Poesie, Scelta dei testi e introduzione di Luigi Baldacci, Note di Maurizio Cucchi, Garzanti ,

Milano 1974; M. Tropea, Giovanni Pascoli, in M. Tropea-G. Savoca, Pascoli Gozzano e i crepuscolari,

Letteratura Italiana, Laterza Bari 1988 (prima ed. 1981), si veda in particolare p. 28.

9 Tropea, 1988, p. 28.

10 S. Giovanardi, Pascoli Myricae, Le opere, vol. III Dall’Ottocento al Novecento, Torino 1995, pp. 1067-1090.

5

5

basta che la poesia li rinomini perché essi si carichino di un investimento

psichico che dall’autore si comunica al lettore e che conferisce in sostanza a

quegli stessi oggetti uno statuto simbolico …

Il lessico contadino, quasi del tutto privo di astrazioni

concettualizzanti e dunque a suo modo vergine di superfetazioni simboliche, si

prestava benissimo alla bisogna; e inoltre si legava al feticcio primario

dell’esistenza di Pascoli, a quell’infanzia felice nella tenuta dei Torlonia, presto

divenuta una sorta di età dell’oro … (p. 1077).

In questo modo si può concludere con lui che “la descrizione della natura agreste e della

vita dei contadini” sono assunte “di norma come mito positivo e salvifico, ma non esenti da

pronunciate inquietudini simboliche” (p.1074).

Nadia Ebani nella sua introduzione ai PP e nelle note di commento11

sorvola su tutta la

questione, privilegiando una lettura molto raffinata e dotta, lontanissima d’altronde dalle

condizioni materiali di vita e culturali della famiglia contadina. Per esempio, nel commento al

componimento Per casa, si sofferma sul fatto che il pane azzimo preparato da Rosa e le erbe

amare cucinate in padella dalla madre, come condimento alla polenta, hanno un loro

riferimento alla Bibbia, in questo caso ai cibi «necessari al passaggio, alla purificazione del

Phase …» (p. 34). Nessun commento sul fatto che polenta ed erbe amare costituissero il cibo

quotidiano dei contadini …

Molto attento alle problematiche esistenziali, filosofiche ed ideologiche del Pascoli è lo

studio di Renato Aymone premesso all’edizione dei Nuovi poemetti della Mondadori12

. Ma il

critico è anche pronto a cogliere alcuni significati antropologici, senza però andare al fondo

della questione, così come si può vedere dal seguente passo:

Un rigido e complesso sistema rituale governa le opere dei Poemetti in relazione alle

vicende stagionali, e regola congiuntamente la vita del singolo all’interno del gruppo

familiare, a seconda del sesso e dell’età, ai diversi lavori campestri e domestici (XXXIV).

E poi ancora:

Nel fitto sistema rituale che scandisce la vita dei campi si inseriscono forme cerimoniali

legate specificamente al passaggio da una fase biografica alla successiva; un passaggio che

implica sempre – come dimostra Van Gennep (Riti di passaggio,Boringhieri, Torino 1981)

– un'alta valenza di carattere sociale (XXXV).

Su questa valenza dei riti di passaggio Aymone torna più volte, come nel caso della

composizione Le armi, oppure a proposito delle vicende della storia d’amore tra Rosa e Rigo, o

a proposito della Morte del papa. Si tratta, tuttavia, soltanto di accenni fugaci alle pratiche

folkloriche, perché la sua analisi è rivolta non al materiale da cui Pascoli traeva spunto, ma agli

esiti poetici, estetici ed ideologici cui il poeta giungeva attraverso la rielaborazione di questo

materiale.

Molto più attenta al mondo popolare è l’analisi condotta sull’opera di G. Pascoli da

parte di Giuseppe Nava, da considerarsi oggi uno dei più informati critici pascoliani.

Nella sua Introduzione ai Canti di Castelvecchio, Nava riconosce questa presenza così

ricca di elementi folklorici. Il suo commento, tuttavia, tende a riportare gli elementi della

cultura contadina dentro gli schemi della classicità (Esiodo, per esempio) e alla sensibilità del

decadentismo:

L’ordine di successione [nelle poesie dei Canti] dell’anno agricolo rientra nella concezione

pascoliana, classica e decadente insieme, dell’eterno rinnovarsi della natura, in cui vita e

11 G. Pascoli, Primi Poemetti, a cura di N. Ebani, Fondazione Pietro Bembo, Ugo Guanda Editore, Parma 1997.

12 Pascoli G., Nuovi poemetti, a cura di Renato Aymone, Mondadori (Oscar classici), Milano 2003, pp. V-LXVIII

6

6

morte succedono ininterrottamente …13

.

In questo caso, usando l'aggettivo “classica”, Nava mette in secondo piano il fatto che la

concezione ciclica del tempo non appartiene al mondo classico solamente, perché essa è durata

per millenni nel mondo contadino ed è viva ancora oggi come senso comune. Probabilmente

per il Pascoli, il fatto che essa sia stata propria anche del mondo antico non fa che nobilitare i

contadini che ancora la mantengono14

.

Nel corso della sua analisi, Nava si sofferma sul recupero che fa il Pascoli di alcune

credenze popolari romagnole, come quella dei sogni e dei segni premonitori (Brivido), dei

banchetti funebri (Tovaglia). A pag 17, si esprime contro il Bonfiglioli (P. Bonfiglioli, Pascoli

e il Novecento, in Palatina, II, 7, luglio settembre 1958) che per l'uso di queste credenze aveva

parlato di “miseria psicologica”15

, mentre, secondo lui, il Pascoli attua “una mediazione” tra le

credenze folkloriche e i miti classici.

Successivamente Nava torna sul rapporto poesia-folkore in Pascoli16, con uno studio che

amplia notevolmente la lista dei fatti folklorici cui il poeta fa riferimento. Egli distingue tra gli

elementi provenienti dal patrimonio popolare della Romagna, rimossi in qualche modo dalla

memoria del poeta da quelli più propriamente toscani e garfagnini che quelli romagnoli fanno

rivivere; collega le citazioni pascoliane con gli studi teorici (Spencer, Sully, Rinach) e con le

raccolte del Tommaseo, del Tigri, del Nerucci, e del Nieri, che il poeta conosceva. Tale attenta

ricognizione gli fa esprimere le seguenti conclusioni:

… nei Canti non ci troviamo di fronte a una raccolta di materiali folclorici sparsi,

utilizzati come occasione di poesia, ma a una vera e propria mentalità, o episteme, che

si struttura in costruzione di testi organici, al di là delle apparenze (come è noto, le

raccolte pascoliane non sono mai dei puri e semplici contenitori di liriche, ma

rispondono a progetti complessi e calcolati)

Ciò significa che il mondo contadino rappresentato dal Pascoli nelle sue poesie ha una

sua organicità, esattamente come organica era la “civiltà” contadina di fine Ottocento, specie

quella dei mezzadri e quella della conduzione diretta della piccola proprietà di montagna.

Quindi le opere pascoliane vanno lette non come un testo in cui ogni tanto compare

qualche intarsio particolare, tratto da una cultura non classica o estranea alla tradizione

letteraria della poesia. Tutto l’impianto è invece, coerentemente con l’ideologia del poeta,

costruito su un progetto ben preciso e sviluppato con contenuti, stilemi e linguaggio tratti dalla

vita reale, per rappresentare il mondo contadino nella sua totalità materiale e culturale; anzi

per ricrearlo e plasmarlo perfetto e privo di imperfezioni e malvagità, in contrapposizione a

quello “imperfetto” della realtà.

3.- «Io amo di essere un contadino».

Descrivendo se stesso, il Pascoli così si rivolgeva a un amico: «Sono grosso e colorito,

ben diverso da ciò che promettevo. Non un indizio esterno ch’io conosca l’alfabeto. Molti si

13 Pascoli, G., Canti di Castelvecchio, introduzione e note di G. Nava, Rizzoli (Biblioteca Universale), Milano

1998, pp. 7-8.

14 In verità, nella nostra vita moderna e nonostante le molte sovrapposizioni culturali, anche feste laiche,

come Capodanno, Carnevale, ecc., quelle religiose, come Natale, Pasqua, San Giovanni, e quasi tutte le feste

patronali hanno a che vedere con il calendario agrario e con la concezione ciclica del tempo.

15 L’espressione è ripresa, con molta probabilità, da E. De Martino che riecheggiava, a sua volta, il giudizio

estetico di Benedetto Croce sulla poesia popolare.

16 Nava, G., Il mondo del folclore nei “Canti di Castelvecchio”, in Nel centenario dei Canti di

Castelvecchio, a cura di Mario Pazzaglia, Patron Editore, Bologna 2005, pp.227-233.

7

7

sono compiaciuti di affermare che sembro un fattore, piuttosto che un poeta … Io amo, in

verità, di essere un contadino, più che un letterato»17

.

Così, nella sua opera, il Pascoli fa del mondo contadino il paradigma della condizione

umana, che gli appare tanto perfetta da volerla fare propria. Qui non è il caso di ripercorrere il

lungo tragitto ideologico che portò il Pascoli dai giovanili aneliti di stampo anarco-socialista

all’accettazione di una concezione imperialistica espressa nel discorso di Barga La grande

proletaria si è mossa. Mi limiterò a ricordare la concezione del mondo che si ricava dalla

lettura del brano “La siepe” (PP), dove c’è l’apologia del piccolo proprietario agricolo o, come

diremmo oggi, del “coltivatore diretto”, tutto teso a proteggere la sua fonte di ricchezza contro

le insidie non solo del ladro “dorme ‘l dì” e del passeggero occasionale, ma soprattutto contro

una società che si avviava, sull’onda del capitalismo, a distruggere le strutture economiche e

sociali d’Italia che per millenni si erano basate sull’agricoltura. C’è una miopia culturale e

politica nel Pascoli che, davanti agli sconvolgimenti che si prospettano, lo fa rifugiare nel

passato, come aveva fatto settant’anni prima il marchese Gino Capponi; ma questi ebbe una

maggiore consapevolezza storica, perché, teorizzando e promuovendo l’irrobustimento di un

istituto semifeudale come la mezzadria, cercava di impedire sia l’avanzata del capitalismo e

con esso dell’industrialismo, sia quella del socialismo18

. Per il Pascoli, che forse vedeva nel

sistema mezzadrile quegli aspetti che rendevano il colono quasi un moderno servo della gleba,

la soluzione politica e sociale è solo nella piccola proprietà che fa del contadino una persona

libera e indipendente.

In Pascoli questa paura del nuovo, dei possibili cambiamenti sociali, è ribadita nel

componimento Nebbia (CC), in cui il fenomeno atmosferico serve al poeta a isolarsi, a tenersi

lontano dal mondo e a tenerlo lontano, dimostrando di avere, oltre al timore delle novità, una

chiusura ideologica ed egoistica nei riguardi del mondo esterno.

Egli vuol sentirsi ed essere contadino, per questo decide di risiedere nel territorio di

Barga, dove può vivere con i contadini, dove può frequentare contadini e fattori19

. Per questo

accetta e fa propria l’ideologia del piccolo proprietario terriero, «libero e sovrano», la quale,

come si può vedere da “La siepe”, non riguarda solo le strutture economiche della società

agraria, ma anche quelle familiari: la moglie fa parte della proprietà, perché l’anello

matrimoniale è come un contratto che “dice mia la donna che fu mia”. Si tratta di un’ideologia

patriarcale in cui il campo, la famiglia e gli animali costituiscono l’esclusiva proprietà

dell’uomo: capo, marito, padrone20

.

Nonostante questa concezione, alquanto gretta in verità, della vita e della società umana,

con il suo sentirsi contadino il Pascoli riesce a dare del mondo della campagna un’immagine

fortemente realistica e in molti casi anche altamente poetica; ma i Primi Poemetti e i Nuovi

poemetti e tutti i numerosi riferimenti ad usi e credenze folkloriche sparsi nelle altre opere, pur

essendo veri, anche nei minimi dettagli, sono sempre funzionali all’estetica e all’ideologia

pascoliane e mai rivolti, come vedremo, ad un’identificazione effettiva delle condizioni storiche

e culturali della società contadina.

17 La frase è riportata, come didascalia al corredo fotografico, sia nel volume Myricae, a cura di P.V. Mengaldo,

Rizzoli (BUR) 1998, p. 106, sia in quello dei Canti di Castelvecchio, a cura di G. Nava, Rizzoli (BUR) 1999, p.

47.

18 G. Capponi, Sui vantaggi e svantaggi sì morali che economici del sistema di mezzeria, in G.A. Bastogi, Una

scritta colonica, Tip. Ricci, Firenze 1903.

19 I suoi rapporti con il mondo contadino non furono tuttavia idilliaci; si veda a proposito Gian Luigi Ruggio,

Giovanni Pascoli. Tutto il racconto della vita tormentata di un grande poeta, Simonelli Editore, Milano 1998,

pp. 211 e seguenti.

20 Tutti i discorsi del capoccia, nella sezione intitolata L’accestire, è connotato, fa notare la Ebani, da un uso

iperbolico del possessivo “mio”; Ebani, cit. p.251.

8

8

4.-Tentativo di lettura antropologica.

4.0 - Premessa

L’analisi che mi propongo di svolgere non si basa soltanto sulle due raccolte

concernenti la famiglia di Rosa (PP e NP), nelle quali con maggiore organicità sono riportate

consuetudini della vita contadina, ma riguarda anche altri componimenti delle raccolte

precedenti e successive in cui sono disseminati molti frammenti della cultura tradizionale

delle campagne romagnole e toscane. Non tutti gli elementi folklorici presenti nelle liriche

saranno esaminati, specie là dove l'analisi antropologica tende a trasformarsi in critica

letteraria. Per esempio, nel Gelsomino notturno troviamo, tra l’altro, due evidenti elementi di

folklore: le Pleiadi, infatti, sono indicate con il nome contadino di Chioccetta21

, e nella prima

strofa è riportata la credenza secondo la quale i morti ritornano, che è patrimonio di tutte le

culture popolari e rientra anche nelle tradizioni religiose di molti popoli; sono due temi che

permettono al poeta di creare immagini del tutto originali. Tuttavia, il componimento non può

essere analizzato secondo l’ottica demoantropologica che finirebbe per impoverirlo.

La mia analisi, comunque, sarà condotta principalmente sui Primi poemetti e sui

Nuovi poemetti, le due opere cui il Pascoli ha affidato la sua rappresentazione del mondo

contadino.

Su queste due opere, tuttavia, occorre fare una precisazione: in esse il Pascoli sviluppa

la storia di una famiglia contadina seguendo le fasi del ciclo dell’anno (i cambiamenti

stagionali della natura, i determinati periodi in cui vanno fatti i lavori dei campi, ecc.)22

e

quelle del ciclo della vita (infanzia, adolescenza, giovinezza, maturità, vecchiaia, morte, a cui

sono accomunati l’ingenua gioia di vivere, l’amore, la saggezza, ecc.; ma anche i cambiamenti

di status, come quello del matrimonio, importante perché occupa la parte centrale del ciclo).

Nei suoi poemetti, però, i due cicli non hanno sviluppo parallelo, perché essi si

intrecciano e si saldano fra di loro, formando, come accade nella vita reale, un unicum

esistenziale inscindibile. La mia analisi avrebbe potuto seguire l’andamento dei due cicli, così

come ha fatto il Pascoli; ma ciò che nella sintesi poetica è chiarissimo, sarebbe diventato

estremamente ingarbugliato e disarticolato nel tentativo di realizzare lo scopo che mi sono

prefisso, cioè di mettere a confronto quanto è espresso nella poesia pascoliana con quello che

risulta dalle indagini storiche e demologiche. Cosicché, per rendere più chiara, anche se più

rudimentale, la mia discussione, raggrupperò e analizzerò i temi di interesse demologico

presenti nelle opere pascoliane in appositi paragrafi.

4.1- Condizioni materiali di vita

Il Pascoli, come si accennava poco sopra, oltre a prendere spunto dalle manifestazioni

dell’espressività tradizionale, pone molta attenzione agli aspetti materiali della vita dei suoi

personaggi, come le condizioni sociali, il lavoro agricolo e quello domestico, l’alimentazione,

ecc., pur se la loro rappresentazione è depurata da qualsiasi problematicità relativa alle

contraddizioni e ai conflitti che in quella società erano ben presenti.

Nel componimento di apertura dei PP, intitolato Alba, è descritta la scena del risveglio delle

due sorelle, Rosa e Viola, che dormono nello stesso letto. Le case contadine non erano molto

grandi e per giunta gli spazi maggiori erano riservate alle stalle e ai locali di deposito dei

prodotti e degli attrezzi di lavoro. Il Pascoli ci parla di una famiglia composta da sei persone, i

21 Si ricordi che nei Malavoglia del Verga la costellazione è indicata con il nome popolare di Puddara (Pollaio).

22 Anche i CC seguono lo svolgimento dell’anno dall’inverno all’autunno e poi ancora dall’inverno alla primavera.

Si veda a proposito il saggio di G. Nava, Il mondo del folclore cit, p.229.

9

9

due coniugi e quattro figli, una famiglia piuttosto piccola se paragonata a quelle polinucleari

mezzadrili e composte da numerosi membri che erano costretti ad abitare in spazi ristretti, in

una situazione di grande promiscuità; cosa che avveniva anche nelle famiglie dei piccoli

coltivatori. Il Pascoli coglie questa situazione, ma senza chiedersi e spiegarcene le cause; anzi,

il fatto che le due sorelle dormano nello stesso letto ci viene presentato come una

manifestazione di affetto e di solidarietà sororale. Al massimo, per la sua osservanza ai principi

piccolo-borghesi del suo tempo, fa dormire le due sorelle in una camera diversa da quella dove

dormono i fratelli Nando e Dore.

Anche nella raccolta CC si trovano riferimenti indiretti alle condizioni di vita delle

campagne di fine Ottocento. Una delle caratteristiche principali della vita campagnola era la

mancanza di circolazione del denaro, tanto che le prestazioni degli artigiani (fabbri, falegnami,

calzolai, ecc.) erano ripagate in natura. Oppure si ricavava un po' di denaro, per le spese più

immediate, come quelle per lo zucchero, il petrolio, il baccalà, ecc., dalla vendita di uova e di

qualche pollo. Il Pascoli conosce questa situazione e la rappresenta, implicitamente, in uno dei

suoi componimenti più famosi: Valentino. Il denaro, infatti, per il vestito nuovo del ragazzino è

ricavato dalla vendita di tutte le uova fornite dalle galline per un intero mese. Era proprio della

massaia l’amministrazione delle risorse domestiche che consistevano, appunto, nella gestione

di un pollaio e nell'allevamento di piccioni e conigli. Molte delle spese spicciole e quelle per il

vestiario non prodotto in casa (il lavoro di filatura della canapa e della sua tessitura occupava le

donne per molte ore delle veglie invernali) erano possibili grazie al pollaio e all’accortezza

economica della massaia. Le scarpe, invece, avevano altra provenienza: al posto della suola si

usava uno zoccolo di legno, ricavato dall’acero campestre, e per tomaia si usava quella ormai

vecchia di scarpe ormai inutilizzabili. Si trattava, però, di calzature usate solo nei mesi

invernali, perché appena arrivava il mese di marzo, tutti camminavano senza scarpe e senza

zoccoli: per marzo, ogni baco va scalzo, recita un proverbio contadino23

; ed infatti Valentino ha

il vestito nuovo, ma continua a portare le scarpe che “mamma” gli “fece”.

Le condizioni materiali di vita dei mezzadri erano soggette alle clausole del contratto

colonico il quale prevedeva che spese e utili fossero suddivisi a metà tra il proprietario (che

metteva il fondo, la casa, le bestie ed i grandi attrezzi) e il mezzadro (che metteva il lavoro suo

e della sua famiglia24

). Alla fine dell'annata i prodotti del podere, quindi, dovevano essere

suddivisi in parti uguali tra proprietario del fondo e famiglia mezzadrile; questa divisione,

tuttavia, era solo teorica perché il patto prevedeva anche una serie di prestazioni lavorative non

remunerate, come la manutenzione delle strade di accesso ai poderi e quella dei fossi per la

regimazione delle acque; prevedeva anche il pagamento di certi “dazi”, come un certo numero

di uova al mese, due galletti per Ferragosto, due capponi per Natale, metà del maiale, a

risarcimento del fatto che gli animali da cortile si erano alimentati con gli scarti dei prodotti del

fondo.

Questi “dazi” o “regalie” sono ricordati in un componimento del Pascoli che, in questo

caso, probabilmente si rifà ad una famiglia mezzadrile della Romagna, dove, diversamente

dalla Garfagnana, la mezzadria era molto diffusa. Si tratta di Primo canto della raccolta CC:

Galletti arguti, gloria dell'aia

che da due mesi v'ospita e pasce,

ora la vostra vecchia massaia,

quando vi sente, pensa alle grasce;

23 Nell’Atlante paremiologico Italiano (a c. di Temistocle Franceschi, in «Studi Urbinati di storia filosofia e

letteratura», Supplemento linguistico n. 3, 1981-1984, Università degli Studi di Urbino, 1985), alla voce

marzo, si trovano altri proverbi con lo stesso significato.

24 La quota messa a disposizione dal proprietario era proporzionale al numero delle braccia presente nella famiglia e

quindi alla quantità di lavoro che questa poteva erogare.

10

10

quando vi sente, pensa ai padroni

il contadino vostro che miete,

e mentre lega mane e covoni …

I galli cantano, ma il contadino e la massaia sanno che quegli animali sono destinati a pagare le

“grasce”, ovvero i dazi, al padrone.

4.3 Lavori stagionali e ciclo dell’anno

Sono molti i componimenti pascoliani in cui si affronta il tema del lavoro, in tutte le

modalità in cui si manifesta: quello dei campi e quello domestico, quello stagionale e quello

quotidiano. Addirittura è contemplato non solo il lavoro umano ma anche quello delle bestie e

quello delle macchine. Gli animali da lavoro compaiono quasi sempre quando la scena si sposta

sui campi, sia se sono protagonisti sia se fanno da comprimari. In MY protagonista assoluto è

una macchina complessa (Il mulino) con tutti i suoi congegni: il componimento dà ragione a

Baldacci quando dice che il poeta ha dovuto appropriarsi di un linguaggio tecnico-culturale per

poter narrare quel mondo anche nei particolari meno significativi. O, addirittura, diventa

protagonista di una canzone la granata (CC), ovverosia l'umile scopa elevata a «emblema ...

d'un esercizio quotidiano di purificazione morale» (Nava)25

.

Il Pascoli predilige, però, i grandi lavori che segnano il passare delle stagioni; in questo

modo può dare ai suoi poemetti la scansione del ciclo dell’anno. I PP, infatti si aprono con l’inizio

dell’annata agraria segnata dalla semina, i NP si chiudono con la vendemmia, che è l’ultimo

grande lavoro dell’anno.

La preparazione della semina del grano è attività essenziale, perché alla produzione di

questo cereale (che si augura se non abbondante, almeno sufficiente) si affida la vita della

famiglia; il tempo della semina, che avviene tra la seconda metà di ottobre ed i primi giorni di

novembre, segna l’inizio dell’anno agrario, è un “capodanno” agricolo. Altri “capodanni” ci sono

nel ciclo annuale, come quelli del periodo solstiziale dell’inverno, che però riguardano l’anno

astronomico, o quelli che capitano durante il passaggio dall’inverno alla primavera (per restare in

Toscana, è il periodo dei Bruscelli, delle Vecchie, delle Maggiolate e dei Maggi drammatici della

Garfagnana) e che riguardano altri momenti cruciali del lavoro e della vita dei campi. Che il

periodo della semina sia considerato come l'inizio di ogni anno agrario è ribadito anche dal fatto

che proprio in quei giorni si stipula il contratto tra proprietario e mezzadro per la nuova annata

agraria; è questo periodo, dunque, quello in cui giuridicamente inizia il rapporto padrone-

mezzadro oppure padrone-affittuario; l'undici di novembre, giorno in cui si festeggia san Martino,

è considerato l’inizio dell'anno tout court. Anche il resto della popolazione contadina, compresi i

piccoli proprietari, condivideva questo calendario. I primi giorni di novembre sono anche quelli in

cui le famiglie contadine, che per vari motivi si spostavano da un podere all'altro26

, operavano il

trasloco: “fare san Martino” è un modo di dire diffuso nel mondo contadino del Centro e del Nord

Italia per indicare il trasferimento da una dimora all'altra.

Ovvio, dunque, che il Pascoli, sentendosi contadino fra i contadini, abbia scelto, tra i tanti

“capodanni” segnati da molti riti antichi, questo caratterizzato da una delle principali attività

agrarie e contrassegnato dalla sottoscrizione, allo “scrittoio” padronale, del rinnovo del contratto

colonico o di quello d'affitto. Il dotto e convincente commento di Nava, sul perché il poeta fa

25 Nava, p. 123; tra l'altro, in nota, Nava ricorda che il bruciamento della scopa fa parte dei riti apotropaici del

carnevale contadino.

26 Per esempio, a causa di una disdetta del contratto o perché il podere era diventato troppo grande per la

diminuzione del numero dei membri della famiglia, o troppo piccolo per il motivo opposto.

11

11

coincidere l’inizio dell’anno col periodo del ritorno dei morti, va pertanto integrato con il fatto

reale che per il mondo contadino l’anno cominciava appena finita la seminagione. Che in quello

stesso periodo la tradizione folklorica fissasse il ritorno dei morti è una coincidenza sentita, molto

probabilmente, più dal Pascoli che dai contadini27

.

A testimoniare il rilievo di questo periodo nel mondo agricolo è il componimento

successivo Nei campi, in cui è espressa la trepidazione del capoccio, il capo di casa, che recita

una frase tradizionale, riferita alla semina del grano, presto è talora, tardi è sempre male, che in

qualche modo riecheggia il proverbio raccolto nella Val di Chiana senese: per san Martino la

sementa del pigherino (cioè del pigro); insomma, tra la fine di ottobre e la prima decade di

novembre, la semina dev’essere già fatta. La stessa trepidazione si trova nel componimento

successivo in cui il capoccia spera che dopo la semina venga la pioggia, senza la quale il grano

non germoglia28

. La pioggia arriva, provvidenzialmente, appunto durante la notte.

I tre componimenti di esordio di questo poemetto sono da mettere a confronto con quelli

che aprono i NP, soprattutto con Accestisce. Mentre, infatti, nei primi vediamo gli uomini

depositare nel grembo della natura i semi che produrranno il nuovo raccolto, negli altri assistiamo

all’inizio dell’idillio tra Rosa e Rigo: in questo modo gli avvenimenti del ciclo dell’anno, che

appartengono a tutta la comunità, si fondono con quelli del ciclo della vita che, invece,

appartengono ai singoli29

. Altro collegamento, secondo me necessario, è da farsi con il

componimento Il seme (NP), in cui si narra di Rosa e Rigo che si accingono a sposarsi. Siamo

un'altra volta all’inizio del nuovo anno: c’è stato di già il raccolto del grano, sono finiti i grandi

lavori stagionali: c’è il tempo, dunque, per preparare questo “passaggio” di status e c’è,

soprattutto, una disponibilità finanziaria, con il grano già immagazzinato e magari già venduto,

che permette di approntare il corredo e tutto quello che occorre per fondare una nuova famiglia.

Intanto, si deve pensare alla scelta delle sementi per la prossima semina e, così, il ciclo dell’anno

di nuovo si salda con quello della vita.

Un altro lavoro stagionale è l'aratura che anticipa di poche settimane la semina; ma

quest'attività si svolge anche per altre coltivazioni che occupano un'estensione non piccola del

fondo. La prima immagine di aratura è già in MY (Arano), nel gruppo intitolato L'ultima

passeggiata, in cui i versi sono modulati sul ritmo lento dei buoi che tirano l'aratro. Altri episodi

di aratura e vangatura si trovano nel componimento Il torcicollo (NP) in cui si descrive la semina

del mais e della canapa. In questo brevissimo poemetto, in cui si parla anche della costruzione di

uno spaventapasseri a difesa dei semi sparsi nei solchi, si può vedere la conflittualità tra

natura/animalità/umanità, vista dal Pascoli come un intreccio inscindibile che caratterizza

l'esistenza universale.

La vigna, più di ogni altra coltura, esige cure assidue; tra queste c’è la potatura delle viti,

uno dei lavori paragonabile per importanza alla semina del grano. Occorre una certa sapienza nel

sapere quali tralci tagliare e quali lasciare per la produzione. Nel mondo contadino questa attività

è riservata agli uomini, mentre le donne ne svolgono una più modesta, quella di raccogliere i tralci

in fascine che serviranno per cuocere il pane nel forno. Nel componimento Il cuculo vediamo

Rigo che pota la vigna e lega le viti; dietro di lui, Rosa e Viola raccattano i tralci tagliati. Il grano

è già avanti e le viti hanno ormai qualche gemma: occorre sbrigarsi, prima che arrivi il cuculo che

conferma col suo canto che si è già in piena primavera. E difatti, non appena Rigo ha finito di

potare l’ultimo filare e Rosa e Viola hanno raccolto l’ultimo fastello, ecco che si sente risuonare il

verso del cuculo. E’ il momento in cui arrivano i genitori di Rosa e suo fratello Dore: il gruppo,

con Rigo, prefigura la nuova famiglia che da lì a poco si formerà. Ancora una volta ciclo della

natura (con la potatura e la legatura delle viti avvenute durante la luna “buona”) e ciclo della vita

27 G. Nava, Il mondo del folclore nei “Canti di Castelvecchio”, p. 230.

28 “Semente in terra – e speranza in cielo”, recita un altro proverbio contadino: T. Franceschi, cit, 8.5.6.8.

29 Ancora un altro accostamento tra ciclo dell’anno e ciclo della vita: nella notte in cui arriva la pioggia che farà

germogliare il grano, Rosa ripensa al racconto di Rigo e sogna il suo futuro di sposa.

12

12

(il fidanzamento di Rosa e Rigo, con gli auspici dell’imminente primavera), collimano.

Il lavoro della mietitura s’intreccia con l’ultima fase dell’allevamento dei bachi da seta e

con i preparativi per le nozze di Rosa (NP, I Filugelli). Sono, quelli della mietitura e della

trebbiatura, lavori molto massacranti che si svolgono tra giugno e luglio, dalle primissime ore del

mattino fino a tarda sera, con un intervallo nelle ore più calde del giorno. Le attività sono febbrili,

sia nel campo dove operano i falciatori e quelli che raccolgono i fasci di grano in mannelle e

predispongono il trasporto del raccolto nell’aia; sia sull’aia dove si batte il grano e si insacca e

s’innalza lo stollo (un palo lungo) intorno al quale costruire il pagliaio30

; sia in casa, dove la

massaia e le donne più esperte cuociono e preparano i cibi che in quei giorni devono essere

abbondanti e molto calorici, mentre le ragazze fanno la spola tra la cucina e il campo di lavoro

cariche di brocche d’acqua e fiaschi di vino. Durante la mietitura e la trebbiatura, lavori che

esigono molte braccia, molte energie e tempi stretti, era consuetudine tra i contadini aiutarsi

reciprocamente: per questo ogni famiglia ospitante cercava di non far cattive figure offrendo agli

ospiti pietanze numerose e abbondanti, immolando per l’occasione buona parte di quello che il

cortile e l’orto offrivano. Si può dire che i pranzi e le cene consumati durante questi lavori

possono essere paragonati, per l’abbondanza dell’offerta, ai banchetti nuziali dove la quantità del

cibo è ben augurale e funzionale alla ritualità della festa.

Ma di tutto questo nei versi del Pascoli non c’è traccia, intento com’è a creare il consueto

parallelismo tra i cicli naturali e le vicende personali di Rosa. Al massimo c’è una ricerca costante

e meticolosa nell’uso di una terminologia tecnica tratta dal dialetto toscano o dall’italiano

arcaico31

.

La vendemmia è l’ultimo lavoro stagionale dell’anno, con la raccolta dell’uva che desta

tanta allegria. E difatti tra le vigne si inseguono gli stornelli: ne sono riportati ben quattro che si

alternano alla descrizione del lavoro; e, mentre cantano, le ragazze colgono i grappoli recidendoli

con le piccole ugne esperte …

al nodo che si trova – a mezzo il gambo32 .

E’ un affresco piuttosto vivace e lieto quello che dipinge il Pascoli, ma il poemetto, nella seconda

parte, affronta la vicenda triste della morte del primo figlio di Rosa. L’esaltazione gioiosa della

vita è sempre accompagnata nel poeta dal sentimento della fine; un tema questo che percorre tutta

la sua opera e che impregna tutta la sua concezione dell’esistenza: nascita e morte si alternano

nelle vicende umane e così, mentre piange il suo bambino morto, Rosa avverte che nel suo grembo

è in gestazione un’altra vita.

4.3.1 Lavori femminili

Al lavoro femminile il Pascoli dedica molti componimenti33

forse più di quanti ne dedichi

a quello maschile. La ragione di questa discrepanza può dipendere dal fatto che il mondo

femminile e quello domestico in generale erano più congeniali alla sensibilità del poeta, ma

oggettivamente il lavoro delle donne era quantitativamente maggiore di quello degli uomini. Le

30 Si veda Paese notturno, in MY, Tristezze.

31 Maliziosamente si può qui ipotizzare che il silenzio del poeta sulla trebbiatura fu dettato, per una specie di

ritorsione inconscia, dal litigio che vide protagonisti il Pascoli e i suoi vicini di casa: costoro effettuavano la

trebbiatura, con fastidiosi rumori e schiamazzi, proprio nell’aia su cui si affacciava il balcone del poeta. Si veda

Ruggio, cit.

32 La vendemmia, Canto I, II, vv. 19-21. E’ il realismo di questi particolari che contrasta con l’idealizzazione che il

poeta fa del mondo contadino.

33 Oltre a quelli dei PP e dei NP che riguardano Rosa, Viola e la loro madre, anche MY e CC contengono

componimenti dedicati al lavoro femminile, come, per es., La cucitrice, Ida e Maria, Notte, Lavandare (MY);

La figlia maggiore, La tessitrice (CC).

13

13

donne, infatti, oltre ai lavori domestici (allevamento dei figli, pulizia della casa, preparazione dei

cibi, bucato), cui gli uomini non partecipavano se non in casi eccezionali, aiutavano anche nei

lavori agricoli meno impegnativi e poi la sera, mentre gli uomini giocavano a carte o

chiacchieravano, esse erano dedite alla filatura della canapa e alla tessitura, ai lavori di rammendo

e di cucitura del vestiario.

Abbiamo già visto, in alcuni componimenti concernenti i lavori stagionali, le donne intente

ai lavori campestri che loro competevano; ma è soprattutto sul lavoro casalingo che si appunta

l’attenzione del Pascoli, sia nelle prime raccolte, con riferimenti più o meno brevi, sia soprattutto

nei PP e nei NP dove le attività femminili sono trattate in poemetti piuttosto estesi, come Il bucato

e I filugelli.

In MY abbiamo già una prima scena di donne che lavorano (Galline):

Cantano a sera intorno a lei stornelli

le fiorenti ragazze occhi pensosi

mentre il granturco sfogliano, e i monelli

ruzzano nei cartocci strepitosi.

Si tratta di una scena realistica, anche se nei versi pascoliani essa risulta idealizzata

calligrafica e manieristica. Era proprio delle serate di fine estate, calato il fresco, stare sull’aia a

separare i tutoli dalle foglie, per avere il mais pronto da macinare per la polenta o da sgranare per i

polli. Qui siamo davanti ad uno di quei componimenti per i quali il Santoli parlò di “intarsio” e di

“alessandrinismo” e in cui i contadini sono ritratti in atteggiamenti idillici, purificati dalla loro

corporeità e senza nessuna connotazione storica34

.

E’ nei PP che il poeta affronta con maggiore continuità e con maggiore realismo le varie

attività femminili. Il terzo componimento della raccolta, Per casa, si apre con il fruscio della

scopa che percorre la cucina: è il primo lavoro di ogni giornata che si svolge non appena sono

state aperte le finestre. Gli uomini sono già al lavoro, a seminare, le donne accudiscono alle

faccende domestiche, in rapida successione. Non appena la casa è spazzata ecco che Rosa si mette

al telaio, mentre Viola esce a far pascolare le mucche. Il lavoro al telaio è accompagnato dal canto

di Rosa che ripete alcuni versi della Passione di Cristo, un testo probabilmente ripreso da una

Sacra rappresentazione garfagnina35

. Qualche tempo dopo, la madre la chiama per farsi aiutare a

preparare la desina, il pranzo per i seminatori. Rosa, quindi, staccia la farina, impasta il pane, lo

cuoce (Il desinare). Poi, mentre Rosa cuoce la polenta, la madre appronta il condimento: nella

padella infuocata versa un po’ d’olio, aggiunge qualche spicchio d’aglio e delle erbe campestri. La

sagacia e l’esperienza della massaia riescono a rendere appetibile la povera polenta solo con un

po’ di olio soffritto ed aromatizzato e qualche erba spontanea. Il pranzo è pronto; torna Viola e

tutte e tre le donne vanno a trovare i loro uomini occupati nella semina, portando loro il pasto.

In questi primi poemetti è descritta una normale giornata di lavoro di una famiglia

contadina. Si tratta di una descrizione paradigmatica, perché per tutto l’anno le giornate saranno

eguali e perché non ci sarà nessuna pausa, tranne forse quella delle giornate invernali. Le quali,

tuttavia, non saranno di riposo assoluto, perché le donne continueranno ad eseguire i lavori

domestici e gli uomini avranno da fare sempre qualcosa nella stalla o avranno da riparare attrezzi

di lavoro o piccoli oggetti casalinghi. Il Pascoli su queste attività prolungate e ripetitive non dà

nessun giudizio, non le colloca nel contesto più ampio della condizione contadina, ma le accetta

incondizionatamente e le fa accettare ai suoi personaggi come qualcosa cui non ci si può sottrarre.

34 Il calligrafismo e l’alessandrinismo sono accentuati dal costrutto alla greca di “ragazze occhi pensosi” e

dall’aggettivo “strepitosi” usato nel suo significato etimologico.

35 In tutta la Valle del Serchio e nelle zone limitrofe la tradizione del teatro popolare, che contempla, oltre alla Sacra

rappresentazione anche il Maggio drammatico ed altre forme di spettacolo, è molto radicata e diffusa anche oggi.

Il Pascoli, tuttavia, ne accenna brevemente, e senza indicazioni di sorta, solo in questo componimento.

14

14

Allo stesso modo accetta l’inferiorità e la subalternità delle donne in seno alla famiglia contadina,

nella quale solo gli uomini hanno la prerogativa di dirigere tutta l’attività economica del fondo e di

svolgere quei lavori in cui il ruolo del sapere e della decisione è prettamente maschile, come la

semina, la potatura delle viti e la cura degli animali da lavoro; mentre alle donne sono riservate le

mansioni più banali e meno gratificanti, come portare da mangiare e da bere agli uomini, oppure si

affidano a loro i lavori agricoli più marginali come raccogliere i tralci potati dall’uomo. Il Pascoli

è consapevole di questa subalternità delle donne contadine e del loro faticoso lavoro, ma non

riesce ad andare al di là di un sentimento di compassione, come quello che mette in bocca a Rigo

(NP: La lodola, II):

Voi fate troppo, autunno verno estate.

Rosa, se non lavate, voi stendete!

Rosa, se non tessete, voi filate!

Per voi non c’è momento di quïete.

Tutto tenete lindo netto asciutto,

lustrate ogni solaio, ogni parete.

Parete un uccelletto, biondo, sdutto,

snello, che cala becca salta frulla

in un minuto. E sola fate il tutto!

Tra i lavori casalinghi uno dei più importanti e dei più complessi, per il sapere tecnico che

presupponeva e per la lunga procedura, era il bucato. Ad esso si dedicava periodicamente una

giornata apposita, perché occorreva scaldare abbondante acqua nel paiolo appeso al focolare,

preparare la conca (o bucatoio), un orcio di grandi dimensioni munito di un foro in basso, per lo

scarico dell’acqua. Dentro questo vaso si metteva la biancheria, si copriva il tutto con il

ceneraccio, un panno grosso di canapa, su cui si poneva della cenere fornita dalla brace del

focolare; su questa cenere si versava l’acqua bollente che, filtrando, ne assorbiva la potassa

necessaria a sgrassare e togliere lo sporco della biancheria. L’operazione si svolgeva più volte,

fino a che i panni non diventavano bianchi; dopo di che, sciacquati in acqua fresca e strizzati, essi

erano sciorinati sui cespugli intorno casa36

.

Il Pascoli a questa operazione dedica un intero poemetto (L’accestire, PP), suddiviso in

più parti, non dimenticando di appaiare alla descrizione dei procedimenti le vicende iniziali

dell’amore tra Rosa e Rigo. Anche qui notiamo l’accuratezza della terminologia e delle varie fasi

del lavoro, dalla raccolta delle foglie di alloro per profumare l’acqua di lavaggio fino alla stesura

della biancheria al sole. Ma l’operazione del bucato serve al Pascoli anche per raccontare la storia

dei panni: essi sono stati tessuti con la canapa che produce il podere ed è sulla coltivazione di

questa utile pianta che si sofferma il poeta (La canzone del bucato) e poi sulla sua lavorazione, la

sua tessitura, lavori del tutto femminili, fino a tornare di nuovo al luogo in cui la pianta cresce, il

canapaio.

Anche l’allevamento del baco da seta aveva un’enorme importanza nell’economia di una

famiglia contadina, perché integrava le scarse entrate del podere; si trattava di una attività

piuttosto rilevante dal punto di vista del tempo e delle energie occupate, che era svolta dalle

donne. E difatti, nel poemetto I filugelli, è Rosa, la maggiore delle figlie e già in età da marito,

che cura l’allevamento di questo animale. Tutti i procedimenti, dalla nascita dei bachi alla loro

trasformazione in bozzoli, dalla loro alimentazione alla produzione della seta, sono

accuratamente seguiti dal poeta, ma il suo scopo è quello di seguire Rosa (non senza qualche

atteggiamento da voyeur) in queste attività insieme con quello di usare nella descrizione una

terminologia puntuale (dialettale, ovviamente) e scientificamente corretta; dell’importanza

36 Si vedano i primi versi de La bollitura, PP.

15

15

economica dell’allevamento del baco da seta in una comunità, familiare o sociale, che si basava

sull’autosufficienza alimentare, ai limiti di una pura sussistenza, dell’esito commerciale del

prodotto, dell’eventuale rapporto con qualche socio esterno al mondo agricolo, nei versi del

Pascoli non c’è nessuna traccia37

.

4.3.2 - Lavori di bambini

Nelle interviste della fine degli anni ’70 del secolo scorso, molti ex-mezzadri riferivano

che il padrone o il fattore consigliavano ai capi di casa di non mandare a scuola i figli, ma di

mandarli a lavorare, magari a pascolare le pecore e i maiali, perché così avrebbero guadagnato

qualche soldo in più. Questo accadeva nelle famiglie mezzadrili, di cui il Pascoli non si occupa,

ma molti sono i bambini e i ragazzi rappresentati nella sua poesia mentre sono occupati in

qualche attività più o meno faticosa; tra di loro i fratelli minori di Rosa. Dobbiamo dedurre,

allora, che le condizioni di vita e di lavoro dei figli dei contadini piccoli proprietari erano

identiche a quelle dei figli dei mezzadri. E difatti i fanciulli che appaiono nei versi pascoliani

molto spesso lavorano e raramente si vedono giocare (come in Galline, MY), oppure godere di

un giorno di festa (Valentino); il più piccolo, Dore, ha il privilegio di essere scelto per

rappresentare simbolicamente la primavera:

Poi, nella selva, coi capelli al vento

Lungo il ruscello, il fanciulletto Dore

Col flauto verde annunzïò l’avvento

Dei fiori brevi e dell’eterno amore. (da Il pittiere, NP)

E poi ancora:

E passò l’acqua e risalì sul colle:

per tutti i poggi il sufolo selvaggio

schiudeva i bocci, apriva le corolle … (da Il solitario, NP)

Anche Viola lavora: già all’inizio dei PP la madre, rivolgendosi a Rosa, ci informa che

Viola è fuori con la mucca, via - per Ginestrelle, (Per casa); e poi la vediamo guardare le

mucche seduta all’ombra di un castagno, mentre si dedica ad altri lavori femminili, col

gomitolo, i ferri e un calzerotto (Il vecchio castagno). Portare al pascolo gli animali e lavorare a

maglia sono, quindi, i lavori assegnati alle ragazze. Alcuni lavori, invece, svolti dai ragazzi

sono elencati nel poemetto La morte del papa (parte VI), quando la bisnonna, rivolgendosi al

nipotino, dice che egli è pronto ad aiutare in tutti i lavori e

che va colle sue genti alle faccende,

anco alla ruspa dopo fatto appieno;

e ch’abbada alle pecore, e contende

se vanno a danno e poi che fa in Corsona

le vetrici e le monda e le rivende.

Bambini che lavorano sono presenti anche nei CC, come ne Il ritorno delle bestie, in cui

un fanciullo guida tre mucche verso la stalla, mentre la notte avvolge tutto nel silenzio e nelle

tenebre. Questa realtà infantile è vista dal Pascoli con grande realismo e anche con un

37 Questo silenzio è, comunque, comprensibile, perché una volta scelto di ritagliare un’immagine ideale della

famiglia contadina, il contorno è totalmente rimosso.

16

16

atteggiamento di profonda pietà e solidarietà; ma, nonostante ciò, accetta quella condizione di

sfruttamento minorile come un destino cui non ci si può sottrarre, come una condanna

esistenziale che riguarda anche il mondo infantile e adolescenziale.

4.4. – Gli attrezzi di lavoro.

Nessun lavoro può essere svolto senza l’aiuto di attrezzi adeguati. Nella realtà storica i

contadini trovavano nel podere, in dotazione, gli arnesi più importanti, poi acquistavano gli altri

nelle fiere periodiche dove accorrevano artigiani di ogni specie. In paese, invece, c’era il fabbro

che provvedeva, oltre a fornire attrezzi nuovi, a riparare quelli che l’uso aveva consunto o

deformato.

Quasi a conclusione dei PP il Pascoli inserisce un poemetto dal titolo Le armi, che gli

offre l’opportunità di descrivere la fucina del fabbro vista in piena attività e, lungo il viaggio di

Nando da casa all’officina, di illustrarci le varie coltivazioni di quella zona e le diverse attività

lavorative di quella stagione. Segue poi un’accurata descrizione degli attrezzi e delle loro

funzioni. Anche qui si nota la precisa terminologia degli arnesi e del loro uso. Il tutto compreso

nell’atmosfera del rito: difatti, come ha osservato Aymone, nel momento in cui Nando si accinge

a tornare a casa e si carica gli attrezzi sulle spalle, è come se ricevesse un’investitura. Da quel

momento egli è considerato uomo fatto, è inserito nella società degli adulti, è pronto ad usare le

sue “armi” non per una guerra, ma per un «lavoro pacifico dei campi»38

.

4.5.- Alimentazione

4.5.1 – Cibo quotidiano

Spesso, nell’illustrare la vita quotidiana della “sua” famiglia e quella di altri personaggi, il

Pascoli ha modo di accennare ai cibi consumati durante i pasti. Abbiamo visto, nel poemetto

riguardante la semina, le donne preparare il pranzo da portare sul campo ai seminatori. Un pranzo

poverissimo, fatto di pane azzimo, di polenta condita con erbe spontanee soffritte. La letteratura

agraria ottocentesca ci parla di mezzadri sobri nel mangiare e nel vestire, ma spiega questa

sobrietà come una virtù propria delle genti di campagna39

; la realtà storica, però, è molto diversa

da quella rappresentata da parte di chi voleva idealizzare la figura dei contadini e nascondere

dietro una bugia una verità piuttosto dura. C’erano sì, nelle zone pianeggianti, dei poderi che

rendevano molto e che permettevano alle famiglie coloniche un’esistenza non grama; ma la

maggior parte degli abitanti delle campagne, specie quelli delle zone disagiate e di quelle

montane, come erano quelle barghigiana e garfagnina, spesso soffriva la fame e generalmente si

nutriva di cibi poveri di proteine e di zuccheri. Nelle zone appenniniche del pistoiese e del

lucchese era diffuso un proverbio che indicava, metaforicamente e poeticamente, il cibo

quotidiano di quelle genti: pan di legno e vin di nugoli, ovverosia castagne ed acqua. Gli animali

da cortile, abbiamo visto nel brano di Valentino, servivano ad acquistare capi di vestiario e stoffe,

ma soprattutto a comprare il sale40

, il baccalà, i salacchini (pesce, come le alose e gli agoni,

conservati sotto sale), refe ed aghi per il rammendo, candele per l’illuminazione ecc.. . Era raro

pertanto che qualche pollo o qualche coniglio finissero sulla tavola, tranne nei giorni della

38 Ebani, cit, p. 385.

39 Si Veda per esempio J. C. De’ Sismondi, Della condizione degli agricoltori in Toscana, in Biblioteca

dell’economista, vol. II, Torino 1860, p. 555.

40 Si veda La morte del papa, parte V: Con l’ova abbiamo da comprare il sale.

17

17

trebbiatura. Ancor più raro il consumo di carne bovina, limitato comunque ad un po’ di lesso.

Nell’episodio narrato in Per casa abbiamo visto che genere di pranzo è approntato per i

seminatori che stanno nel campo fin dalle prime luci dell’alba: esso, certamente, ha un numero di

calorie inferiore a quello del fabbisogno di chi lavora la terra, ma ci pensa la massaia a rinforzare

il cibo spillando del vino buono (Il desinare, str. III):

Ma la pia madre altro pensò; discese;

spillò la botte d’un segreto vino.

In genere la bevanda quotidiana era l’acquarello, un vinello ottenuto aggiungendo acqua alle

vinacce già spremute, o il vino andato a male. Quando però si svolgevano dei lavori pesanti, allora

si distribuiva del vino buono messo da parte per l’occasione. E così era possibile raggiungere in

parte le calorie necessarie a sopperire al dispendio delle energie.

A proposito del cibo quotidiano, il Pascoli, sempre nel componimento Il desinare (PP), si

sofferma a descrivere, quasi con tecnica cinematografica, tutte le operazioni necessarie alla

preparazione della polenta e del condimento relativo.

Altri accenni sui cibi di ogni giorno troviamo nel poemetto La morte del papa; in questo caso

si tratta del ricotto, cioè latte cotto fino a farlo diventare cremoso e tale da poterlo trasportare in

una specie di cartoccio di foglie fresche di faggio.

Alla pianta del castagno, fornitore di cibo per tutti i giorni (dalle ballotte alla polenta, dal

castagnaccio ai necci), oltre che di legna per cucinare e riscaldarsi, sono dedicati due poemetti uno

in MY e l’altro, Il vecchio castagno, nei PP.

4.5.2 Cibo festivo

In tutta l’opera poetica pascoliana non ci sono mai scene di pranzi festivi, tranne una che si

trova nei Canti di Castelvecchio, La canzone del girarrosto. Ma qui l’ambiente non è contadino,

anche se la cucina, in cui si svolge la scena, rimanda ad un luogo campagnolo e probabilmente è

quella di casa Pascoli. E’ di domenica e in casa si prepara la pasta al sugo (la bionda matassa di

pasta) e l’agnello allo spiedo: è difficile che in casa di contadini, anche se allevavano un piccolo

gregge, la domenica si mangiasse l’agnello.

Poi ci sono, qua e là, riferimenti alle festività religiose41

, con qualche accenno a quelle

agrarie di primavera. Nel mondo contadino toscano le feste religiose non avevano un grande

rilievo, a parte la Pasqua, sentita come festa della primavera e del rinnovamento e celebrata il

lunedì dell’Angelo con una colazione piuttosto abbondante in cui si consumavano le uova sode,

benedette in chiesa, la torta salata cosiddetta di Pasqua e il capocollo. Le feste più sentite erano

quelle che avvenivano alla fine dei grandi lavori, come la trebbiatura, che si celebravano con la

benfinita, e i passaggi di status come il matrimonio. Al banchetto di nozze partecipavano parenti,

vicini di casa, amici in genere; esso era costituito da molte portate e da abbondanti piatti. Tra

l’altro, in molte zone il banchetto di nozze era duplicato: prima i convitati mangiavano a casa della

sposa e immediatamente dopo a casa dello sposo, sempre con lo stesso menu.

La mancanza dei momenti festivi nella rappresentazione pascoliana del mondo contadino

rappresenta ovviamente una scelta del poeta, che voleva una società sobria, dedita al lavoro e alla

famiglia, non distratta da situazioni che potevano traviarla; in questo senso il suo modo di vedere

il mondo contadino collima con quello del Sismondi e di coloro che per tutto l’Ottocento avevano

scambiato la povertà e a volte la miseria della vita dei contadini e soprattutto dei mezzadri come

una virtù da elogiare e custodire42

. Tra l’altro, in E lavoro (da La mietitura, NP) parlando del

41 In MY, (Festa lontana) si parla di una festa, di cui si sentono i rumori, gli scampanii e gli spari dei mortaretti,

ma i protagonisti della composizione possono solo immaginare l’evento e non viverlo.

42 Si veda la precedente nota in cui è citato il de Sismondi.

18

18

grano che cresce anche in terreni poveri e senza concimazione, al Pascoli sfugge un’affermazione

espressa come verità assoluta e non riferita soltanto al grano:

… Per tenere il capo ritto

giova la cara buona povertà.

Ora sembra ovvio che i proprietari terrieri e i loro intellettuali scrivessero certe cose,

nascondendo la realtà, ma il fatto che il Pascoli, pur di idealizzare la figura del contadino

proposta come modello di vita universale, abbia trascurato questo aspetto della condizione

campagnola appare contraddittorio con la sua descrizione del mondo agricolo così precisa e

veristica da rasentare a volte la pignoleria.

5.- La religiosità

Nei PP ricorrono due preghiere, tutte e due nella stessa giornata e a conclusione di un

lavoro molto importante come quello della semina: l’Angelus, a mezzogiorno, quando le tre

donne raggiungono i loro uomini nel campo, per portar loro il pranzo, e l‘Ave Maria, alla fine

della giornata lavorativa.

Gli studi sulla mezzadria e le inchieste sul campo degli anni 1970/80 evidenziano una

mancanza di religiosità di tipo cattolico: in grande maggioranza i contadini erano indifferenti ai

dettami della Chiesa e se la domenica frequentavano la Messa, se mandavano i loro figli alla

dottrina e se li facevano battezzare e cresimare era perché così imponeva il contratto colonico,

che in alcuni casi prevedeva delle sanzioni per chi si fosse sottratto a questi obblighi. Il Pascoli

era certamente consapevole di questa situazione tanto da non affrontare mai il tema della fede,

pur se diverse volte parla di suore, di santuari, di comportamenti religiosi (preghiere, segni di

croce, ecc.) dei personaggi che compaiono nei suoi versi. Anche l’immagine dell’Aldilà, per

esempio nel poemetto La morte del papa, è descritto così come lo immaginano i semplici che

hanno imparato a conoscerlo attraverso gli affreschi e le tele che si trovano nelle chiese, o, più

probabilmente, come viene rappresentato nelle immaginette della devozione popolare. Il

cattolicesimo, dunque, come religione “primitiva”, naturale e spontanea, in cui più che la fede

sono importanti le pratiche: la preghiera al momento opportuno, e gli eventi cruciali della vita,

come nascita, matrimonio e morte, suggellati dai riti celebrati in chiesa.

In questo modo la preghiera di mezzogiorno e quella della sera non appartengono alla

fede, a determinate credenze metafisiche; esse, oltre ad invocare la protezione sul grano che è

sepolto nei solchi, ed essere quindi formule apotropaiche, esprimono insieme la serenità di

coloro che chiudono la giornata di lavoro, consci di aver svolto il proprio dovere e avendo la

speranza di un buon raccolto.

6.- Il tempo, la natura e l’uomo

6.1 La scansione del tempo

L’intreccio fra ciclo dell’anno e ciclo della vita si fa molto più stretto nei NP, tanto che

la scansione del tempo e il racconto delle vicende di Rosa e Rigo si saldano fortemente. La

raccolta, infatti, si apre con nove componimenti raggruppati sotto il titolo La fiorita, in cui si

parla dell’arrivo della primavera e si raccontano le prime fasi dell’amore dei due giovani. I

componimenti sono a loro volta intitolati a volatili la cui comparsa nelle campagne coincide

con determinati periodi stagionali e determinati lavori agricoli43

. Si parte dal pettirosso (Il

43 Sul simbolismo degli uccelli in Pascoli si veda Nava, Introduzione a G. Pascoli, Canti, cit, p. 18, che a sua volta

19

19

pittiere), uccello tipico dell’inverno, il periodo in cui comincia la conoscenza tra i due giovani,

e si finisce, a primavera inoltrata, con il canto dell’usignolo che contrappunta la dichiarazione

d’amore di Rigo a Rosa.

C’è in questo intreccio dei due cicli la concezione pascoliana dell’uomo, (qui

rappresentato ovviamente dal contadino), la cui vita non può che seguire quella della natura,

perché ne è parte integrante, non solo nello scorrere delle stagioni e del tempo, ma anche nella

sua evoluzione biologica. Giuseppe Nava, a proposito della lingua pascoliana, dà al concetto di

“parola propria”, come inteso dal poeta, «una valenza magica», di una

magia come mentalità antropologica, secondo la ben nota definizione di Mauss, che

sente l’uomo indiviso dal mondo circostante, vegetale ed animale, da esso agito e su

di esso agente, in una trama di corrispondenze e relazioni empatiche od ostili44

.

Così ne La rondine l’arrivo della primavera astronomica coincide con il rinascere della

natura e lo sbocciare del sentimento amoroso tra i due giovani (L’albero ha il fiore, la rondine il

nido); alla rondine è associata l’immagine di Rosa che con Rigo darà vita ad una nuova

creatura. La primavera, i fiori (con il gioco dei nomi Rosa/rosa), e il bambino che nascerà

richiamano l’atmosfera delle cerimonie primaverili, come quella della Maggiolata, molto

diffusa in Toscana.

Ancora altri esempi possiamo trovare su questo rapporto inscindibile tra “natura – uomo

– animali”: ne abbiamo visto già uno leggendo la poesia Il torcicollo (NP); un altro riguarda il

brano Accestire, sempre compreso nei NP, in cui c’è un parallelo preciso tra la natura che si

prepara alla riproduzione del grano e l’innamoramento di Rosa e Rigo: ed identico è il processo

tra l’accestire del grano sottoterra e il formarsi della creatura nel grembo di Rosa.

6.2 La natura e l’uomo

Questo intreccio determina altresì una concezione dell’uomo molto diversa da quella che

l’antropologia, l’antica e la moderna, ci ha fatto conoscere: quella che vede l’essere umano

composto da due elementi, la natura e la cultura, che convivono, per dirla hegelianamente, in una

situazione di eterna dialettica. Nel Pascoli, però, questa dialettica non c’è, come si può vedere dal

Valentino dei CC, in cui nemmeno il vestito nuovo riesce ad allontanare il fanciullo dalla sua

“naturalità”, tanto che alla fine il poeta può paragonarlo a

l’uccello venuto dal mare,

che tra il ciliegio salta, e non sa

ch’oltre il beccare, il cantare e l’amare

ci sia qualch’altra felicità.45

Lo stesso Dore solo in alcuni momenti sembra appartenere al mondo umano, come

quando reca il mazzetto di alloro alla sorella Rosa, perché lo metta nell’acqua del bucato (PP,

L’alloro), per il resto, egli, come simbolo della primavera che ritorna, passa col suo zufolo da

un componimento all’altro, come una divinità mitologica, per segnare i vari momenti della

bella stagione. E pare di ritrovare in lui una qualche suggestione del Vico che vedeva nella

richiama un’osservazione di G. Barberi Squarotti.

44 G. Nava, Riflessione linguistica e studio del folklore in Pascoli, in La ricerca di Gastone Venturelli, «Lares»,

LXX, n. 2-3, maggio-Dicembre 2004, p. 389.

45 Anche per Giorgio Barberi Squarotti Valentino è la rappresentazione di uno stato di innocenza, pur se contaminato

dalla sua appartenenza all’umanità; egli sarebbe il simbolo della “condizione evangelica della natura”

(Interpretazioni della simbologia pascoliana in Simboli e strutture della poesia del Pascoli, D’Anna, Messina-

Firenze 1966, p. 25 e p. 31). La stessa Rosa, come abbiamo visto più sopra, è accostata alla rondine prima e poi

all’uccelletto che cala becca salta frulla.

20

20

fanciullezza dell’uomo quella dell’anno e quella del mondo.

In conclusione si può dire che nella concezione pascoliana c’è identità tra natura e

cultura perché tutte le attività umane, compreso il lavoro, sono viste come fatti naturali e non

culturali. Non solo tutti i processi di nascita crescita e morte dell’uomo appartengono alle

vicende naturali, ma anche i saperi del contadino, come arare, seminare, raccogliere, e le

capacità di utilizzare determinati attrezzi, e gli stornelli, i proverbi, di cui il poeta fa largo uso

nel comporre le sue opere, sono visti come aspetti della natura e dunque non costituiscono

“cultura” e non entrano in conflitto con i processi e gli eventi della natura. Il contadino, e

pertanto anche l’uomo, nella visione del mondo pascoliana è assimilato totalmente alla terra e

per questo le sue azioni, le sue attività e i suoi modi di esprimersi collimano con le vicende

astronomiche e con quelle degli animali che popolano la terra, soprattutto gli uccelli.

E’ sottinteso il pensiero del Pascoli, ma altrettanto evidente: per lui la cultura, e cioè la

dottrina che si impara sui libri, ci separa ed allontana dalla natura, per questo il poeta desidera

essere un contadino piuttosto che un letterato; al massimo la dottrina può servire per capire la

condizione fragile e misera dell’uomo rispetto all’universo, mentre la poesia si riduce a

risarcimento o a mera consolazione per questa miseria e questa fragilità esistenziale.

6.3 La diversità

Con la composizione Il cacciatore (PP) entra in scena Rigo, il futuro consorte di Rosa. Il

capoccio lo presenta come giovine assennato e figlio di un onesto uomo: sono queste le qualità

umane che si richiedevano in una società contadina. L’assennatezza significava precisione nel

lavoro e soprattutto dedizione alla vita agricola; l’onestà della famiglia garantiva la sobrietà con

cui occorreva affrontare una vita fatta di fatiche e priva di agiatezze. Rigo, dunque, è presentato

come un ideale capo di una futura famiglia.

Rispetto, però, ad altri giovani, eventuali pretendenti della ragazza, Rigo ci viene

presentato come cacciatore, come uno, quindi, che va girando di qua e di là, che quasi non ha

fissa dimora né famiglia. Egli tuttavia, praticando la caccia, è esperto del mondo animale, come

dimostra raccontando, durante la veglia, la leggenda del rigogolo o reattino (illustrata nella

composizione successiva La cincia); conosce profondamente la natura e ne sa svelare i significati

simbolici. Egli, infine, rappresenta l’avventura, contrapposta alla vita monotona e ripetitiva del

contadino: per questo Rosa si innamora di lui.

Il cacciatore, però, una volta sposatosi, finisce con il tornare contadino e noi lo vediamo

mentre con grande perizia pota le viti. In questo senso il padre di Rosa aveva visto giusto: il

giovane prometteva bene. Forse in questo episodio c’è un’altra reminiscenza vichiana: gli uomini

prima sono stati cacciatori, poi agricoltori. Così il giovane Rigo è cacciatore, poi diventa

contadino. E forse lo stesso percorso ha tenuto il padre di Rosa, prima cacciatore, poi bravo

agricoltore.

A proposito de La cincia, c’è da aggiungere che nel raccontare la favola di questo

uccellino Rigo non solo riecheggia i racconti delle veglie, ma nella enumerazione doviziosa di

nomi di animali e di piante assolve ad un’importante funzione della veglia, che non era solo un

modo per passare il tempo, perché le favole dovevano avere anche un aspetto pedagogico-

didattico sia quando se ne ricavava la “morale”, sia per le notizie e le cognizioni che potevano

essere trasmesse con la loro narrazione.

7.- Cultura ed espressività contadina

7.1 Stornelli e rispetti

21

21

Se molti aspetti della condizione materiale contadina trovano ampia trattazione

nell’opera del Pascoli, innumerevoli sono i riferimenti alla cultura orale; il poeta, oltre ad usare

una lingua molto vicina a quella parlata nella valle del Serchio, specie nelle parti in cui occorre

un linguaggio tecnico e specifico, coglie a piene mani modi di dire, proverbi, versi di canti,

brani di fiabe, preghiere, stornelli. Si tratta, come già osservato dal Santoli e da altri, di intarsi,

a volte preziosi, a volte stucchevoli, ma che testimoniano della simpatia che il Pascoli provava

per queste manifestazioni di espressività popolare e del profondo studio con cui guardò ad esse.

E’ soprattutto in Myricae che si trovano numerose citazioni tratte dalla cultura popolare,

quasi come se esse fossero un esercizio preliminare alle prove molto più impegnative dei Primi

e dei Nuovi Poemetti.

Le citazioni più numerose riguardano gli stornelli e i rispetti. I primi sono tra le più

semplici forme del canto popolare: in genere si tratta di una strofa di un quinario e due

endecasillabi, di cui il primo ripetuto due volte. Era un semplice canto, a volte improvvisato,

che si usava in molte occasioni, come durante i banchetti di nozze, durante le serate estive

passate sull’aia, o mentre si era al lavoro. Poco più sopra, infatti, abbiamo visto, a proposito de

La vendemmia, che i raccoglitori dell’uva si scambiavano stornelli. In questo caso il poeta

riporta tutti interi gli stornelli, mentre le altre volte si limita al verso iniziale, come Fiore di

spina (MY, Sera d’ottobre).

In Lavandare tutta la seconda strofa della lirica riporta quasi interamente uno stornello

marchigiano; il componimento è certamente uno dei capolavori del Pascoli che in questo caso

ha saputo fondere una forma di espressività popolare con la sua capacità di tradurre la realtà

degli oggetti (qui un aratro abbandonato in un campo lavorato a metà) in simboli, ottenendo un

risultato altamente poetico.

L’altra forma di canto è il rispetto, del quale il poeta riporta alcuni frammenti, o

prendendo un verso come spunto per iniziare una sua composizione: M’affaccio alla finestra e vedo il mare,

o per usare un distico per concludere una lirica, come in Ultimo canto (MY):

Amor comincia con canti e con suoni

e poi finisce con lacrime al cuore.

Ancora due distici di rispetto sono utilizzati per raccontare come si svolge la serenata

che un giovanotto va a portare davanti ad un casolare in cui abita una ragazza, forse la sua

“dama”46

. I due distici sono intarsiati dentro un sonetto, occupando il primo i versi 1-2 della

prima quartina (Sospira e piange, e bagna le lenzuola – la bella figlia, quando rifà il letto); il

secondo occupa gli ultimi due versi della seconda (e si rimira il suo candido petto – e le

rincresce avere a dormir sola). Si tratta di una raffinata tecnica compositiva che si può

riscontrare ogni qual volta il poeta costruisce questi intarsi eleganti, queste preziosità

alessandrine, come ebbe a scrivere il Santoli. Questa grande perizia metrica è messa

maggiormente in evidenza quando il Pascoli si mette ad imitare la struttura del rispetto che è

tecnicamente complessa, molto diversa da quella della semplice ottava, perché è formata da una

quartina con rima alterna ABAB (che costituisce la “testa”) e da due distici con rima baciata

CCDD (che costituiscono la “coda”); ma l’originalità della struttura metrica sta nel fatto che i

due distici della coda sono dei versi transformati, sono due versi paralleli in cui però c’è una

variazione nella desinenza (cuore / amore; canto / pianto)47

. Il Pascoli, inoltre, qui arricchisce e

collega più strettamente le parti della composizione con molte rime interne e aggiungendo ben

cinque riprese del titolo (lontana/ lontana; lontana /lontano /lontana) posizionate alla fine,

46 Lo stornello in MY.

47 Su questi problemi metrici del rispetto e dello stornello si veda A.M. Cirese, Ragioni metriche, Sellerio editore,

Palermo 1998, pp. 120-123.

22

22

all’inizio e all’interno dei versi, rendendo il rispetto ancora più complesso e più prezioso:

Cantare, il giorno, ti sentii: felice?

Cantavi; la tua voce era lontana.

Lontana come di stornellatrice

Per la campagna frondeggiante e piana.

Lontana, sì, ma io sentia nel cuore

Che quel lontano canto era d’amore.

Ma sì lontana, che quel dolce canto,

dentro, nel cuore, mi moriva in pianto (MY, Tristezze, Lontana)

7.2 Letture contadine

Parlando delle fonti del teatro popolare lucchese, Giovanni Giannini48

ebbe a scrivere:

Nei giorni di festa e la sera, quand’han terminato il lavoro, entrando nelle loro casupole

annerite dal fumo, non è raro di trovarli tutti assorti nella lettura di qualche libro (…)

come la Gerusalemme liberata, che molti sanno a memoria, ed anche l’Orlando

innamorato, il Furioso (… ). Più noti ancora e più diffusi sono gli antichi romanzi

cavallereschi, come i Reali di Francia e Guerrino il Meschino …

Queste letture, insieme con quella della Bibbia e di testi agiografici formavano la “cultura”

dei contadini49

, i quali, da esse traevano i nomi per i loro figli (Rizieri, Uliana, Orlando, Clorinda,

Armida, Assuero, Abigaille, ecc.) e prendevano spunto per i copioni delle loro forme teatrali (il

Maggio drammatico e il Bruscello, rispettivamente nel Nord e nel Sud della Toscana)50

.

L’eco di queste letture si trova in MY nel componimento Il vecchio dei campi, dove è

ricordato un personaggio dei Reali di Francia51

Racconta al fuoco (sfrigola bel bello

un ciocco d’olmo in tanto che ragiona),

come a far erba uscisse con Rondello

Buovo d’Antona.

8.- La socialità, la veglia

Nella prima stanza de La Poesia, che apre i CC, il Pascoli fa parlare la poesia,

simboleggiata da un lume che, appeso alla trave di una stalla, diffonde la sua luce su una veglia,

48 G. Giannini, Teatro popolare toscano, «Curiosità popolari tradizionali», XIV, Palermo 1885-1899, ora in ristampa

anastatica, Forni, Bologna 1968.

49 Queste letture appartenevano anche ai contadini e agli abitanti dei villaggi non solo toscani, come possiamo

vedere dall’ironica descrizione del sarto nei Promessi sposi del Manzoni.

50 Cfr. M. Fresta, Un sondaggio sull'onomastica a Montepulciano, «L’Uomo», VII, 1-2, Roma 1983 e poi

anche in

«LARES», L, 4, 1984; Vecchie segate ed alberi di Maggio, a cura di M. Fresta, Editori del Grifo, Montepulciano

1983.

51 Andrea da Barberino (ca. 1370 – ca. 1432) è l’autore di questo farraginoso romanzo cavalleresco il cui titolo

completo è: I Reali di Francia. La generazione degli Imperatori, Re, Principi, Baroni e Paladini e la storia di Buovo

d’Antona. Nuova edizione eseguita su quella purgata di Venezia del 1721, Bietti, Milano 1960. Il romanzo fu

composto tra la fine del 1300 e i primi del 1400.

23

23

cioè una riunione serale di contadini. La lampada illumina le donne che filano, i narratori di storie

di cronaca e di novelle, quelli che improvvisano stornelli d’amore, gli innamorati che bisbigliano

confondendo le loro voci con il lieve rumore dei fusi, i bovini che ruminano il cibo lentamente.

E’ una scena tipica delle serate invernali, quando per il troppo freddo la veglia avveniva

nella stalla, l’unico posto caldo di tutta la casa; se la veglia si svolgeva nelle grandi cucine

contadine, al centro di tutto c’era il focolare a dare un po’ di luce in più rispetto a quella prodotta

dalle candele o dal lume a petrolio, e a scaldare le persone, che magari finivano per appisolarsi e

sognare, come accade al capoccia in La veglia dei Primi poemetti.

Era generale abitudine che da novembre fino a marzo le famiglie contadine

organizzassero, a turno, veglie in cui convenivano persone del vicinato, corteggiatori delle

ragazze, amici del capoccia. Nelle veglie prendevano forma le situazioni descritte dal Pascoli, ma

non tutte insieme; diciamo che il poeta ha voluto darci un’idea complessiva di tutto quanto

poteva accadere in siffatte occasioni. In genere, durante una veglia, le donne filavano o tessevano

o rammendavano, gli uomini chiacchieravano, o giocavano a carte, o discutevano di problemi di

lavoro. Non in tutte le famiglie c’era la persona capace di intrattenere i presenti leggendo qualche

pagina della Bibbia o dei Reali di Francia (come il Vecchio dei campi, visto poco più su), o

raccontando barzellette, o cantando qualche “storia” sentita alla fiera da un cantastorie.

La stalla, dunque, o la cucina erano, durante le veglie, i luoghi deputati in cui circolavano

le notizie, in cui c’era lo scambio delle idee, in cui si giocava, si scherzava e si cantava; la stalla e

la cucina erano, inoltre, quasi gli unici luoghi di socializzazione per singoli e famiglie, costretti

per molti giorni dell’anno a restare isolati nei cascinali. La veglia, infine, oltre ad essere il

momento del passatempo, offriva anche le occasioni per la formazione culturale in senso lato e

per la preparazione alla vita dei ragazzi e dei giovani.52

Il Pascoli coglie l’importanza e la centralità della veglia nella comunità contadina ed è

proprio nella cornice delle riunioni serali che egli tratta i temi sentimentali relativi alla storia

d’amore tra Rosa e Rigo e soprattutto vi delinea la sua concezione del mondo e la sua filosofia.

Ne La cincia, infatti, il cacciatore Rigo racconta la fiaba del re che vorrebbe aver le ali per

volare e che una fata trasforma in reattino mentre i suoi cavalli e i suoi cani diventano

rispettivamente cinciarelle e cinciallegre; è una favola che incanta l’uditorio e soprattutto “la

fanciulla da’ capelli d’oro”. Nella stessa raccolta dei PP il titolo La veglia appartiene al ciclo

relativo al ritorno dai campi degli uomini, al loro riposo davanti al focolare, il cui tepore, dopo la

stanchezza della giornata faticosa, invita al sonno e al sogno. Ma dopo la cena, il Pascoli dà la

parola al capoccio che espone la sua filosofia di vita, fortemente legata alla sua esperienza di

contadino. Alla veglia partecipa anche Rigo. Ed è forse a lui che il ragionamento del capoccio si

rivolge, perché il giovane cacciatore possa imparare a diventare un buon agricoltore. E così nella

visione economica ed esistenziale del capo di casa, assume grande importanza il lavoro accurato

(Oh! Il campetto con siepe e fossetto) che garantisce il grano e il vino, cui si accompagnano l’olio

e i prodotti dell’orto. Il tutto si conclude con l’elogio della Siepe di cui si è parlato poco più

sopra.

L’altra veglia è rappresentata nel lungo componimento intitolato Il ciocco, pubblicato

nella raccolta dei Canti di Castelvecchio. Questo poemetto è senza dubbio uno dei più importanti

e forse quello centrale per capire la posizione del Pascoli nei confronti della società e che ci

permette di misurare, analizzando le sue stesse parole, la sua sincerità nell’assumere come

propria e come modello universale l’esistenza dei contadini.

Nella prima parte del poemetto, il Pascoli ci descrive una veglia, cui partecipano donne,

che svolgono i loro abituali lavori serali, e uomini che parlano dei loro lavori, degli effetti che

produce nei campi l’andamento stagionale; sono presenti anche il poeta e il suo fattore, il

52 Sulle veglie e sulle loro funzioni si veda F. Mugnaini, Le veglie: forme di sociabilità nella mezzadria toscana, in La Val d’Orcia di Iris. Storia, vita e cultura dei mezzadri, a cura di M. Fresta, Le Balze, Montepulciano 2003, pp. 137-167. Nell’opera pascoliana la veglia, oltre che

in La poesia, è rappresentata in La cincia e La veglia nei Primi Poemetti e ne Il ciocco nei CC. Anche in Notte di

MY e L’or di notte in CC è adombrata una situazione di veglia.

24

24

“salcigno zi’ Meo”. Poi l’attenzione viene attirata da un ciocco, un grosso pezzo di legno, che

arde nel focolare e in cui avevano fatto il nido delle formiche. La discussione si sposta, quindi, su

questi insetti, sulla loro organizzazione sociale, sui loro usi e costumi. Le considerazioni dei

partecipanti alla veglia sono piuttosto inusuali, visto che è molto difficile pensare che quei

contadini barghigiani potessero affrontare tali temi filosofici e sociologici. E’ quindi il Pascoli

che mette in bocca ai vegliatori ragionamenti funzionali alla sua opera pedagogica, che lo

convinceva a scegliere spesso il poemetto didascalico come suo strumento principale di

comunicazione poetica e di educazione civile, per realizzare, come annota il Nava, il «suo

ambizioso programma di fare della poesia la coscienza della scienza»53

.

C’è da aggiungere che a questa discussione così elevata non partecipa nessuna delle

donne; tuttavia, anche se i temi fossero stati meno alti e avessero toccato problemi di

organizzazione di lavoro, di rapporti col vicinato o con il proprietario e i suoi agenti, le donne

avrebbero mantenuto ugualmente il loro silenzio. Anche in questo caso il Pascoli si dimostra

attento osservatore della realtà agricola, negando, come nella realtà storica, qualsiasi intervento

delle donne in affari sentiti come espressamente maschili54

.

Poi la veglia finisce e il poeta e lo zi’ Meo tornano a casa. E’ questa la seconda parte del

poemetto, in cui il poeta, dopo aver guardato il cielo fittamente stellato, inizia una lunga serie di

considerazioni di ordine astronomico, filosofico ed esistenziale, che espone facendo largo uso di

nozioni scientifiche, di pensieri filosofici e di mitologia classica. Anche lo Zio Meo guarda il

cielo e da quella visione ricava una considerazione semplicissima, frutto della sua esperienza

priva di dottrina e fortemente legata alla vita materiale: Stellato fisso, domattina piove. Il Pascoli,

riportando e interpretando la frase del fattore, così la commenta: era andato alle porche il suo

pensiero. Ovverosia: lo zio Meo ha da poco seminato, il tempo è rimasto asciutto, ma ora occorre

che piova. Le previsioni meteorologiche, che lo zio Meo ha imparato a fare attraverso l’attenta

osservazione dei fenomeni celesti e atmosferici, gli dicono che la pioggia è in arrivo, per questo

se ne va contento a letto.

9.- Conclusioni

La conoscenza del mondo contadino in Pascoli è profonda e totale, sia per quanto

riguarda la vita quotidiana, i lavori grandi e piccoli, i rapporti familiari, sia per quanto attiene

alla lingua e alle varie manifestazioni dell’espressività. Nonostante questo, però, la

rappresentazione della famiglia di Rosa e di tutta la comunità contadina che via via appare nelle

sue poesie risulta paradossalmente falsa. Forse questa contraddizione tra il verismo dei dettagli

e l’immagine che viene delineata del mondo contadino è frutto, da una parte, della poetica del

“fanciullino” e, dall’altra, della stessa documentazione sulla cultura tradizionale che il Pascoli

ebbe tra le mani e che studiò profondamente.

La “poetica del fanciullino”, che il Pascoli perseguì con tenacia e assiduità, sta alla base

di tutta la sua produzione e quindi anche dei Primi e dei Nuovi poemetti. L’accettazione di

questa poetica comporta che il fanciullino e il poeta coincidano, obbligando quest’ultimo a

liberarsi da ogni stratificazione e incrostazione culturale e ad isolare gli oggetti, i gesti e le

parole dal loro contesto, se vuole scoprire l’essenza delle cose e giungere ad una pura

rappresentazione del reale. Sennonché questa rappresentazione pura racchiude il pericolo

dell’astrattezza, con il risultato che quello della campagna ci appare come un mondo che ha il

disegno e i colori dell’utopia.

53 G. Nava, commento ai Canti di Castelvecchio, cit. p. 139.

54 Su questo aspetto si veda M. Fresta, La memoria maschile, in Mirna Coppi – M. Fresta, Il passato nella memoria

contadina, in «Annali Cervi» n. 2, Il Mulino, Bologna 1980.

25

25

A conferire questa atmosfera di idealizzazione e di mito al mondo agricolo cantato nei

suoi versi furono anche le suggestioni che al Pascoli venivano da tutti gli studi della seconda

metà dell’Ottocento sulla mitologia comparata, e quelle, molto più importanti, che gli

derivavano dalle raccolte di canti, di proverbi, di usi e costumi del mondo contadino, che erano

state pubblicate dal Tommaseo, dal Tigri, dal Rubieri e da molti altri ricercatori. Noi sappiamo

che questi lavori del primo folklorismo italiano avevano la peculiarità di essere stati effettuati in

pieno romanticismo e che di quella temperie culturale erano impregnati sia nel bene che nel

male.

Il movimento romantico, infatti, trovò nell’espressività, negli stornelli e negli strambotti

particolarmente, delle classi sociali più basse e incolte, quella poesia spontanea, sentimentale,

semplice e “popolare” che andava ricercando e che voleva opporre a quella dotta, intrisa di

retorica e di inattuale mitologia, propria di coloro che Berchet chiamava “parigini”. Per i

romantici le genti che abitavano le campagne e soprattutto le montagne erano i portatori di una

fede religiosa genuina, di sentimenti puri e autentici, di una purezza espressiva e linguistica

ormai perduta dalle classi alte, tanto da poter essere indicate come le vere rappresentanti

dell’anima nazionale55

. La pastora e poetessa improvvisatrice Beatrice Bugelli di Pian degli

Ontani, nel pistoiese, scoperta dal Tommaseo, divenne il modello vivente di questa poesia e fu

oggetto di visite di illustri letterati, fra cui il giovane Pascoli56

.

Questo giudizio romantico passò dalla poesia a tutte le altre manifestazioni

dell’espressività e della vita delle genti campagnole e si accompagnò a quell’altra visione della

loro sobrietà e della loro semplicità tratteggiata da coloro che si erano occupati del mondo

agrario e della mezzadria, fin dagli anni ‘30 circa del sec. XIX, e che avevano avuto il capofila

nello svizzero de’ Sismondi. In questo modo il contadino, fosse esso mezzadro, affittuario o

piccolo proprietario, fu idealizzato e quasi sublimato, nascondendo dietro questa supposta

purezza un mondo fatto di fatiche, di privazioni, di miseria e di fame e, soprattutto, di

subalternità57

.

Probabilmente la famiglia di Rosa e tutti quelli che attorno ad essa girano derivano

anche da questa immagine romantica delle genti campagnole, ormai stereotipata, che il Pascoli

accoglie senza discuterla perché in fondo congeniale alla sua sensibilità sociale e alla sua

ideologia estetica e politica.

Così, nell’opera pascoliana il mondo contadino, pur essendo descritto e rappresentato

minutamente (il lavoro quotidiano, l’alimentazione, il linguaggio, l’espressività in genere; e le

speranze e i dolori dei membri di una famiglia presa a modello per tutta l’umanità) risulta a noi

lettori freddo e lontano; sentiamo che nel poeta c’è una solidarietà ideologica ma non umana.

Perché la campagna e i suoi abitanti sono visti in una luce ideale, in un rapporto, anch’esso

ideale, di armonia con la natura. Perché i mali sono soltanto quelli che la natura, inconsapevole,

impone agli uomini, non perché cattiva ma perché forse ignara (come in Leopardi)

dell’esistenza umana.

La solidarietà del poeta verso questo mondo è quella che nasce dalla pietas di una

55 Si vedano gli studi di A. M. Cirese, La poesia popolare, Palumbo, Palermo 1958; ma anche Clemente,

Letterati, mezzadri e padroni, cit.; e poi P.P. Pasolini, La poesia popolare italiana, in Id, Passione ed ideologia,

Garzanti, Milano 2009 (prima ed. 1960), pp. 151- 275.

56 Claudio Rosati, Beatrice Bugelli di Pian degli Ontani, Poetessa, Pastora, Brigata del Leoncino, Pistoia 2001, p. 5.

57 Questa idealizzazione riguarda le genti del contado, ma non le classi sociali basse della città, giudicate

molto negativamente come si può vedere in uno scritto di Renato Fucini il quale, dopo aver assistito ad una

rappresentazione di un Bruscello nella montagna pisana, chiudeva il suo articolo così: «E in tal modo gentile si

rallegrano i barbari abitatori di queste montagne, mentre nelle civili borgate della pianura, fra i bestiali bagordi

carnevaleschi, il popolaccio si scoltella ubriaco» (Il Bruscello della Serra, in Tutti gli scritti, Trevisini, Milano

s.d., pp. 782-790).

26

26

persona che vive gli stessi affanni esistenziali; né può essere altrimenti, giacché egli non si pone

i problemi della materialità della condizione contadina, né include questa condizione nel quadro

più generale della società in cui i rapporti umani e quelli di classe trovano una spiegazione ed

anche la possibilità di essere modificati.

Al poeta sono bastati l’esperienza giovanile con il socialismo bakuniniano e qualche

mese di carcere58

per cancellare dalla sua coscienza e dalla sua mente qualsiasi pensiero di

solidarietà politica. Crede di essere anche lui un contadino, ma se va a caccia, con l’hammerless

gun59

, se ne torna a casa senza avere sparato un solo colpo, perché per lui gli uccelli sono

manifestazioni della natura; il contadino-cacciatore, per il quale, invece, gli uccelli fanno parte

di un’alimentazione di sopravvivenza, spara senza alcun tentennamento60

. Il non voler chiedersi

il perché e il come della condizione di vita del contadino non gli consente poi di capire quali

sono i problemi veri dell’Italia di allora e di tutto il mondo agrario minacciato dall’imminente

industrialismo che avrebbe, nel giro di pochi decenni, devastato e annullato strutture

economiche e sociali che si erano perpetuate per secoli.

Il fatto è che manca in questa raffigurazione del mondo agricolo del Pascoli la presenza

della Storia: le sue campagne, i suoi personaggi, sono pure immagini chiuse dentro una

campana di vetro senza nessun legame con la realtà del loro tempo; anche la stessa lingua,

esemplata sul dialetto garfagnino e toscano non giunge mai alla rappresentazione realistica di

un Manzoni e tanto meno a quella veristica del Verga, perché essa «è sempre in funzione della

vita intima e poetica dell’io, e, quindi, della lingua letteraria, nel suo momento centralistico e in

definitiva ancora tradizionale»61

. Il risultato è che, oltre alla lingua, su cui pure si esercita a

lungo lo sperimentalismo del poeta, tradizionali rimangono i contenuti, nel senso che molte

volte la raffigurazione di paesaggi e personaggi tende pericolosamente a scadere nell’Arcadia.

Nel precedente paragrafo sulla Veglia è stato sintetizzato il contenuto del poemetto Il

ciocco. Non sappiamo se l’episodio, cui il poemetto si riferisce, sia dovuto alla finzione poetica

o sia stato ispirato da un fatto reale, comunque esso consente di formulare alcune ulteriori

considerazioni sul rapporto tra il Pascoli e il mondo contadino:

a) Nella seconda parte del componimento, i due amici escono dal luogo della veglia;

dopo aver guardato il cielo stellato, il Pascoli si dilunga in un ragionamento che tocca temi

esistenziali con riflessioni scientifiche, filosofiche, mitologiche, più o meno rifacendosi alla

Ginestra leopardiana. Anche lo zi’ Meo guarda il cielo, ma si limita a fare una considerazione

brevissima, racchiusa in un semplice proverbio tradizionale di carattere meteorologico: Stellato

fisso, domattina piove.

I due distinti comportamenti sono la prova che tra il poeta e lo zi’ Meo esiste una

enorme disparità culturale, che separa in modo insuperabile l’intellettuale, - in possesso di una

formazione dottrinaria che gli permette di spaziare dal mondo classico a quello moderno, dalla

poesia alla filosofia -, dal vecchio fattore in possesso solo di un’esperienza empirica e di una

filosofia della vita basata piuttosto sui proverbi e sulle sue speranze che su conoscenze di natura

intellettuale.

b) Il poeta cerca di immedesimarsi nel contadino e di far sua la concezione del mondo

e della vita della piccola comunità agraria di Barga, ma la differenza, tra il suo mondo e quello

agricolo, rimane ugualmente abissale: e forse egli sa che, in fondo, il vecchio fattore, nel vivere

secondo natura, ha ragione e che le sue riflessioni filosofiche sono solo un esercizio

intellettuale per dimostrare a se stesso la sua supremazia culturale. Se da una parte egli vuole

58 Su queste vicende giudiziarie del Pascoli si veda Ruggio, G. Pascoli, cit., pp. 44-48.

59 The Hammerless Gun, (Canti di Castelvecchio), dove il Pascoli racconta di essere andato a caccia per provare un

fucile senza cani, regalatogli da un amico, e di essere stato incapace di tirare un solo colpo.

60 Il Pascoli ne La cincia mostra Rigo cacciatore in azione, ma fa in modo che il giovane non riesca a premere

nemmeno il grilletto del fucile, perché gli uccellini scappano prima dello sparo.

61 P.P. Pasolini, Pascoli, in Passione e ideologia, pref. di A. Asor Rosa, Garzanti, Milano 2009 (prima ed. 1960), p.

300.

27

27

essere contadino o crede di sentirsi contadino, dall’altra non gli riuscirà mai di colmare questa

enorme disparità perché gli manca una precisa coscienza storica e una solidarietà col mondo

agricolo che non può essere solo quella dettata dalla bontà d’animo o da un’ideologia senza

legami col mondo reale.

Come, nonostante gli sforzi del poeta, tra il dotto umanista e il semianalfabeta fattore

del Ciocco non può esserci uguaglianza, così tra l’intellettuale borghese, benché intriso di

sentimenti umanitari, e il mondo contadino non può esserci alcuna solidarietà.

Negli ultimi anni, seguendo le indicazioni di una certa antropologia americana, che in

Italia è stata conosciuta, tra l’altro, per mezzo del volume I frutti puri impazziscono62, anche

qualche studioso italiano, come Pietro Clemente, si è avvicinato al mondo della poesia

vedendola non solo come «fonte, luogo di deposito di tracce documentarie … come fonte di

vere e proprie descrizioni etnografiche», ma accettando anche «l’idea che “il codice espressivo

e comunicativo della poesia divenga chiave della descrizione e della comprensione etnografica

(F. Dei, Fatti, finzione, testi: sul rapporto tra antropologia e letteratura, in «Uomo e cultura»,

pp. 45-52. 1993) 63

».

L’analisi di Clemente è stata condotta principalmente sul poeta molisano Eugenio

Cirese, ma si è rivolta anche al Pascoli, soprattutto ai componimenti dei Primi poemetti, per

verificare in quali modi la poesia restituisca la memoria che riguarda sia la vita nella sua totalità

e nei suoi singoli ed anche minuti aspetti, sia i rapporti tra generazioni diverse, i gesti

quotidiani, gli oggetti domestici e gli strumenti del lavoro, la geografia dei campi e dei villaggi,

i sentimenti vissuti. Il Pascoli, in effetti, rielabora nella sua memoria poetica le esperienze e le

conoscenze che ha potuto fare direttamente “sul campo”, osservando attentamente la vita

paesana e quella contadina di Barga e di altre località agricole. Egli è capace di restituirci

immagini, personaggi e cose che noi, oggi, non possiamo più conoscere direttamente perché

lontani da essi molte decine di anni.

La sua, difatti, è spesso una poesia etnografica, ma la ricostruzione integrale, reale e non

astratta, del mondo che dipinge si può avere solo se il lettore conosce, da un punto di vista

storico-sociale, quegli uomini e le loro condizioni. La preparazione della desina, per esempio, e

il pranzo consumato in mezzo al campo sono accadimenti che, per non essere intesi come fatti

strani e pittoreschi, hanno bisogno di essere inquadrati in precise condizioni di vita e di lavoro.

Per capirli bene non bastano i versi pascoliani e la puntualità del suo linguaggio costruito sul

dialetto garfagnino; occorre invece, per dirla con Umberto Eco64

, la cooperazione di un lettore

dotato di competenze storiche e in possesso di una specifica enciclopedia per capire fino in

fondo cosa il poeta volesse rappresentare.

«Le figure retoriche con cui lo sguardo candido del fanciullo altera la realtà non mirano ad

“abbagliare gli occhi altrui” ma ad “illuminare la cosa”, a rivelare l’essenza celata nel

fenomeno»65

. I personaggi, i loro gesti, gli oggetti, nel Pascoli, sono potentemente illuminati,

ma i contorni rimangono bui. E’ come ammirare la luccicante punta di un iceberg senza poter

vedere la sua immensa mole nascosta sott’acqua, oppure guardare la fotografia di una persona

che si staglia nitidissima su uno sfondo piatto, grigio e senza significato.

62 A cura di J. Clifford, Bollati Boringhieri, Torino1993.

63 P. Clemente, Penne di petto: antropologia, poesia, generazioni, in «Il gallo silvestre», n. 13, 2000, p.

(rispettivamente)121 e 119. Sul Pascoli poeta di villaggi e paesi, si veda, sempre di Clemente Paese/paesi, in I

luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Laterza, Bari 1997, pp. 23-28.

64 U. Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1985.

65 A. Battistini – E. Raimondi, Pascoli: la catarsi degli oggetti, in Retoriche e poetiche dominanti, Letteratura

Italiana (dir. A. Asor Rosa), vol. III.1 Le forme del testo, teoria e poesia, pp. 262-263, Torino 1984.

28

28

BIBLIOGRAFIA

A) Edizioni delle Opere del Pascoli

Myricae, a cura di G. Nava, Salerno Ed., Roma 1978.

Canti di Castelvecchio, introduzione e note di Giuseppe Nava, Bib. Univ. Rizzoli, Milano,

19892.

Primi poemetti, a cura di Nadia Ebani, Fondazione Pietro Bembo, Guanda Editore, Parma

1997.

Myricae, introd. di P. Vincenzo Mengaldo; note di Franco Melotti, B.U.Rizzoli, Milano

19989

Nuovi poemetti, a cura di Renato Aymone, Mondadori (Oscar classici), Milano 2003.

Poesie, Scelta dei testi e introduzione di Luigi Baldacci; note di Maurizio Cucchi, Garzanti,

Milano 2009 (1° ed. 1974).

B) Studi

BATTISTINI Andrea e RAIMONDI Ezio, Pascoli: la catarsi degli oggetti, in Retoriche e poetiche dominanti, in Letteratura Italiana (dir. Asor Rosa), Le forme del testo, Teoria e poesia, Einaudi, Torino 1984, pp.262-267. CIRESE Alberto Mario, Ragioni metriche, Sellerio, Palermo 1988

GIANNINI Giovanni, Le tradizioni popolari nella poesia pascoliana, in Lucca a G. Pascoli, Lucca 1924, p. 51 e sgg.

GIOVANARDI Stefano, Myricae di G. Pascoli, in Letteratura Italiana (Dir. A. Asor Rosa),

Le Opere, vol. III Dall’Ottocento al Novecento, Einaudi, Torino 1984, pp. 1066-1090.

NAVA Giuseppe, Pascoli e il folklore, in «Giornale storico della lett. Italiana», CLXI, 1984,

pp. 507/43

NAVA, Riflessione linguistica e studio del folclore in G. Pascoli, in La ricerca di Gastone Venturelli, Prima giornata, LARES, LXX, n. 2-3 – Firenze Maggio-Dicembre 2004.

NAVA G., Il mondo del folklore nei “Canti di Castelvecchio”, in M. Pazzaglia, Nel centenario dei “Canti di Castelvecchio”, Bologna, Patron, 2005, pp. 227/233.

POGGI SALANI Teresa, Sulla dialettalità del Pascoli, in “Studi di Grammatica Italiana”, vol.

XVIII, 1999, Le Lettere, Firenze 2000, pp. 91-112.

SANTOLI Vittorio, Pascoli e la poesia popolare, in Studi per il centenario della nascita, pubblicati nel cinquantenario della morte, a c. Commissione per i testi di lingua, Bologna

1962

TOSCHI Paolo., Pascoli e le tradizioni popolari, ivi.

TROPEA Mario, Pascoli, in G. Savoca-M. Tropea, Pascoli, Gozzano e i crepuscolari,

Laterza, Bari 1982.

VENTURELLI Gastone, Pensieri linguistici di Giovanni Pascoli, con un glossario degli elementi barghigiani della sua poesia, Accademia della Crusca, Firenze 2000.

29

29

C) Sulla mezzadria, l’agricoltura e il folklore in Toscana

CLEMENTE, COPPI, FINESCHI, FRESTA, PIETRELLI, Mezzadri, letterati e padroni, Sellerio Editore, Palermo 1980

CULTURA contadina in Toscana, voll. 2, Bonechi, Firenze 1983

GIORGETTI Giorgio, Linee di evoluzione delle campagne toscane contemporanee, in

Capitalismo e agricoltura in Italia, Editori Riuniti, Roma 1977

(La) VAL d’Orcia di Iris. Vita storia e cultura dei mezzadri, a cura di M. Fresta, Le Balze,

Montepulciano 2003.