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ROBERTO ANTONELLI CONTINI E LA POESIA ITALIANA Un possibile approccio al problema “Contini e la poesia italiana” po- trebbe essere certamente di tipo storicistico: analizzare il canone delle opere e dei poeti, nonché le modalità interpretative con cui la critica di Contini si è confrontata nel corso del tempo, tentando di ricostruirne mi- nutamente una possibile linea evolutiva (aggettivo da non assumere nel senso di “progressiva”). Sarebbe certamente una modalità interessante e passibile di stimolanti aperture, per quanto di assai difficile e delicata espletazione: ma soprattutto esorbiterebbe dai limiti di una relazione e si abuserebbe forse della pazienza dell’uditorio. Mi limiterò dunque a tenta- re di identificare gli assi portanti e il senso complessivo dell’iniziativa con- tiniana nella critica italiana del XX secolo, cercando di raccogliere le di- chiarazioni esplicite e le tracce sparse in tutta l’opera dello stesso Contini, ordinandole solo talvolta, quando se ne presenti l’opportunità o la neces- sità, nella successione e nel senso cronologico. È un’operazione del resto del tutto coerente con alcune proposizioni fondamentali più volte ribadite con particolare attenzione dal nostro au- tore, a cominciare dalla crociana contemporaneità di ogni storia e dal con- seguente «carattere selettivo (tendenzioso per gli agnostici fautori d’una, in diversi termini, irrealizzabile obbiettività) […] di qualsiasi oggetto o problema storiografico» (UE, 107 1 ). Correremo cioè il rischio dell’incom- pletezza o della tendenziosità del catalogo, ovvero dell’antologia di fram- menti criticamente orientati, e quello ad esso connesso di uno «smisurato orgoglio» (EL, 242, per usare ancora una proposizione dello stesso Conti- ni). Sono affermazioni datate la prima al 1973 la seconda al 1937, a dimo- 1 Utilizzo le seguenti sigle per le opere di Contini utilizzate nel testo: AE = Altri esercizi (1942- 1971), Torino 1972, cito dall’edizione 1978 nei «Paperbacks»; AL = Un anno di letteratura, citato nell’edizione Einaudi «Paperbacks», Torino 1982, Esercizi di lettura, sopra autori contemporanei, con un’appendice su testi non contemporanei. Edizione aumentata di «Un anno di letteratura»; DV = Dili- genza e voluttà, Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini, Milano 1989; EL = Esercizi di lettura (1939), nell’edizione Einaudi «Paperbacks», Torino 1982, cfr. sopra; UE = Ultimi esercizi ed el- zeviri (1968-1987), Torino 1988; VAL = Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino 1979.

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RobeRto Antonelli

Contini e la poesia italiana

Un possibile approccio al problema “Contini e la poesia italiana” po-trebbe essere certamente di tipo storicistico: analizzare il canone delle opere e dei poeti, nonché le modalità interpretative con cui la critica di Contini si è confrontata nel corso del tempo, tentando di ricostruirne mi-nutamente una possibile linea evolutiva (aggettivo da non assumere nel senso di “progressiva”). sarebbe certamente una modalità interessante e passibile di stimolanti aperture, per quanto di assai difficile e delicata espletazione: ma soprattutto esorbiterebbe dai limiti di una relazione e si abuserebbe forse della pazienza dell’uditorio. Mi limiterò dunque a tenta-re di identificare gli assi portanti e il senso complessivo dell’iniziativa con-tiniana nella critica italiana del XX secolo, cercando di raccogliere le di-chiarazioni esplicite e le tracce sparse in tutta l’opera dello stesso Contini, ordinandole solo talvolta, quando se ne presenti l’opportunità o la neces-sità, nella successione e nel senso cronologico.

È un’operazione del resto del tutto coerente con alcune proposizioni fondamentali più volte ribadite con particolare attenzione dal nostro au-tore, a cominciare dalla crociana contemporaneità di ogni storia e dal con-seguente «carattere selettivo (tendenzioso per gli agnostici fautori d’una, in diversi termini, irrealizzabile obbiettività) […] di qualsiasi oggetto o problema storiografico» (UE, 1071). Correremo cioè il rischio dell’incom-pletezza o della tendenziosità del catalogo, ovvero dell’antologia di fram-menti criticamente orientati, e quello ad esso connesso di uno «smisurato orgoglio» (EL, 242, per usare ancora una proposizione dello stesso Conti-ni). sono affermazioni datate la prima al 1973 la seconda al 1937, a dimo-

1 Utilizzo le seguenti sigle per le opere di Contini utilizzate nel testo: AE = Altri esercizi (1942-1971), torino 1972, cito dall’edizione 1978 nei «paperbacks»; AL = Un anno di letteratura, citato nell’edizione einaudi «paperbacks», torino 1982, Esercizi di lettura, sopra autori contemporanei, con un’appendice su testi non contemporanei. Edizione aumentata di «Un anno di letteratura»; DV = Dili-genza e voluttà, ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini, Milano 1989; EL = Esercizi di lettura (1939), nell’edizione einaudi «paperbacks», torino 1982, cfr. sopra; UE = Ultimi esercizi ed el-zeviri (1968-1987), torino 1988; VAL = Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), torino 1979.

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strazione di alcune costanti teoriche e critiche e della difficoltà (non im-possibilità, peraltro) di dislocare nel-tempo varianti significative del meto-do di un pensiero critico che tende a presentarsi come perfettamente con-sapevole e orientato sin dai precocissimi inizi.

l’invito a considerare la critica continiana come un sistema dotato di una sua coerenza diacronica proviene infatti non soltanto da esplicite e ri-badite posizioni metodologiche generali dello stesso Contini, ma da anche da ripetute affermazioni relative al proprio statuto di critico e di lettore a tali posizioni associabili. Critico militante innanzitutto e prima di tutto, e non-amante del passato, sempre per esplicita dichiarazione («io non amo il passato», in una importante lettera del 1° agosto 1974 a Carlo de Mat-teis2), Contini, pur rispettando la più rigorosa filologia, non nasconde di partire sempre dalle domande del presente per tornare al passato. per dir-la in termini non arbitrari dovuti a nietzsche, ovvero all’eversore dello storicismo accademico tedesco, la sua si presenta come una filologia e una storia “retrospettiva”, per consapevole e fortissima scelta, sin dai primi Esercizi di lettura (1939), dove i testi non contemporanei erano non per nulla relegati in un «appendice», e da Un Anno di letteratura (1942), fino ai saggi più giustamente famosi della maturità, come Dante come perso-naggio-poeta della Commedia (1958):

ogni storia è storia contemporanea, suona un famoso teorema crociano. se questa impostazione e corretta, non cadrà necessariamente nell’anacronismo ogni tentativo di richiamarsi all’attualità per illuminare eventi di culture sopite o remo-te. anche al dantista, forse, non è illecito uno speditivo ricorso a codesto artificio. l’assunto generate, oggi, è di sottolineare un connotato del personaggio che dice “io” nella divina Commedia. Ma enunciare il tema in questo modo è gia usare o abusare, ad altri fini ermeneutici, d’una cellula linguistica nata nel tessuto della critica sui moderni. Marcel proust, voglio dire, serve di metafora per un discorso non del tutto elementare su dante. non mi dissimulo l’effetto eventualmente in-grato, e si dica pure snobistico, d’una tale catacresi: […] pure, il più grande scrit-tore dei nostri tempi mi sembra davvero proporzionato al compito che gli viene attribuito (VAL, 335).

non vorrei che si equivocasse: non sto teorizzando di un Contini tutto contemporaneista, ovviamente, per quanto i suoi primi lavori a stampa, dal 1930 sino almeno al 1936, siano inequivocabilmente e quasi totalmen-te dedicati a testi moderni o contemporanei (salvo poche recensioni). non

2 C. De MAtteis, Contini e dintorni, lucca, M. pacini fazzi, 1994, p. 78.

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sto neppure proponendo un Contini per così dire “attualizzatore” che so-pravanza e piega il dato, ossia il testo e la sua storicità, alla propria visio-ne del mondo. in lui è sempre evidente la profonda traccia di quanto di positivo è inerente per tradizione alla filologia in quanto disciplina e “scienza”; sarebbe però ugualmente erroneo non vedere nelle citazioni frequenti dei pensatori e scienziati novecenteschi relativisti (da poincaré a einstein a Heidegger), le profonde relazioni con la riflessione e le dedu-zioni che solcano tutta la sua opera, dall’ecdotica alla critica, con esiti pro-fondamente innovativi. Contini sa bene – e lo dice esplicitamente – che la posizione dell’osservatore incide sull’osservato, con tutte le conseguenze del caso: il problema semmai è la consapevolezza della propria posizione nel circolo ermeneutico.

per quanto riguarda il versante medievistico e romanzo, in questi stessi anni egli affronta con ogni evidenza una lunga e paziente veglia d’armi linguistico-filologica; per questo inizia dal contemporaneo, «dalla Z», giu-sto quanto affermerà ancora nel 1941 nella Risposta a un’inchiesta sull’università, teorizzando, con evidente proiezione autobiografica, la ne-cessità pedagogica di partire dai contemporanei:

Resta bene inteso che nessuna ricerca critica e, in genere, linguistica è didatti-camente concepibile, ai suoi inizî, se non come esercizio sui contemporanei, in quanto non impongono anche la necessità di ricostruire preliminarmente una cul-tura dall’a alla zeta: soppresso insomma (e per modo di dire) il primo termine, in quella dialettica di filologia e presenza che fa la vita della cultura. Ma è una sop-pressione provvisoria e di comodo: e ciò non vale tanto a profitto della filologia, inconcepibile ormai senza un vivo senso dei valori, quanto dal punto di vista oppo-sto, perché non si crei ingombro alla necessaria solitudine del poeta. [corsivi miei] (EL, 387-388).

intendo semplicemente affermare che senza capire il senso di quella «presenza», di quella «dialettica», di quel «vivo senso dei valori», di quella «necessaria solitudine del poeta», che caratterizzeranno le modalità di let-tura e l’attività di Contini per tutta la vita, non si potrebbero comprende-re alcune caratteristiche assolutamente particolari della sua critica, rivolu-zionarie nella cultura e nell’università italiana degli anni trenta, che spie-gano la sua assoluta grandezza e originalità e spiegano anche (e di conse-guenza?) la direzione e il senso fondamentale dell’approccio continiano alla poesia italiana e la sua perdurante importanza anche per noi, oggi. naturalmente non tutto può quadrare in maniera perfetta: malgrado la compattezza e coerenza delle sue scelte e l’evidente tentativo di raziona-

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lizzazione e sistemazione a posteriori, che aggiunge ulteriore coerenza al sistema, vi sono elementi ancora non secondari da spiegare e da collocare lungo la via maestra, e vi è un percorso culturale e critico che si arricchi-sce e si chiarisce in progress, ma che è certamente già riscontrabile negli anni giovanili (e perfino nella sua pur rapida attività di poeta ermetico e di traduttore da Hölderlin), dove ritroviamo addirittura alcuni elementi caratterizzanti la linea interpretativa degli anni posteriori, fino agli Ultimi esercizi (1988).

elemento primigenio della ricerca continiana è dunque la comprensio-ne della propria collocazione nel novecento, della propria posizione nel mondo e nel circolo ermeneutico, giusta i rilievi dei fisici e di Heidegger. il novecento al centro, perciò, e sulla base della sua interpretazione anche la lettura e il catalogo degli autori e della ricerca filologica e storica.

Ma allora, quale novecento? Qui va tenuto in particolare conto l’essere egli un giovane che parte dal contemporaneo, dalla «zeta», in un mondo, quello filologico romanzo degli anni trenta, generalmente dominato dallo storicismo e dall’idealismo, perfino negli elementi più avanzati. Contini non si unisce alla schiera dei sacerdoti e custodi del Bello, dei restauratori e conservatori di un umanesimo ormai contraddetto dalla Krisis della grande cultura europea, pur essendo un inesausto ricercatore e cultore della “verità” (un tratto certamente cattolico e rosminiano che lo seguirà lungo tutta la vita ma che si spiega anche con la sua vicinanza al maestro santorre debenedetti, il più saldo e insieme moderno dei filologi del suo tempo – si pensi solo alla critica delle varianti e al suo impatto sul Contini giovane, Come lavorava l’Ariosto, 1937). pur nell’interesse e nella stima per tanti «neoumanisti», da Renato serra ai rondisti, a Giacomo debene-detti, la distanza che Contini stabilisce fra sé e un umamesimo conservato-re e in definitiva provinciale (si ricordi il «bovarismo» poi attribuito al pur lodato Giacomo debenedetti) è netta: «forse non è stato abbastanza osservato come un modello attivo di ragionamento sia stato ammirato dall’autore “as a young man” in alfredo Gargiulo, mentre titolari di una bellezza di cui poter essere soltanto nostalgici (poiché in lui la verità pre-ponderava sul desiderio di bellezza) apparivano emilio Cecchi e Giacomo debenedetti», AE, vii-viii).

per Contini, da numerose dichiarazioni, ribadite lungo tutto l’arco del-la propria attività, dire novecento significa infatti dire Krisis, significa as-sumere (con ladislao Mittner) l’angoscia quale «sentimento araldico del secolo»: la Crisi della cultura, del catalogo dei sentimenti ottocenteschi e crociani, dei generi letterari, delle istituzioni formali costituisce per Conti-ni, in italia e in europa (o in europa e in italia?), il centro da cui partire

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per comprendere se stessi, la propria collocazione nel circolo ermeneuti-co, e la letteratura. e quindi, non sarà tanto la norma al centro della pro-pria attenzione ma il rovescio della norma: il Caos, le regole infrante, la deviazione, il Movimento, il Presente e la rivolta contro la Tradizione.

fra interpretazione della propria costellazione temporale ed esercizio critico si realizza quindi un primo corto circuito: se la letteratura del no-vecento si iscrive sotto la deviazione e il movimento, saranno il riconosci-mento della deviazione dalla norma, l’unione dei punti di differenziazio-ne, le famose «curve di livello», a indicare il metodo atto a leggere e spie-gare il testo. sarà il movimento del testo nel tempo, prima e dopo la sua pubblicazione, a suggerire nuove modalità di lettura, adatte a quanto era maturato in europa nei decenni precedenti: se i saggi degli anni 1931-1940 sono complessivamente iscrivibili sotto la generica insegna della lin-guistica e della critica stilistica, in particolare di leo spitzer, il magistero di santorre debenedetti e poi l’arrivo in svizzera producono un decisivo salto in avanti, suggerendo di inserire, in un sistema pur sempre segnato dalla stilistica, il movimento del testo (Saggio d’un commento alle correzio-ni del Petrarca volgare, 1941), come sarà più tardi esplicitamente chiarito:

la scuola poetica uscita da Mallarmé e che ha in valéry il proprio teorico, considerando la poesia nel suo fare, l’interpreta come un lavoro perennemente mobile e non finibile di cui il poema storico rappresenta una sezione possibile, a rigore gratuita, non necessariamente l’ultima. È un punto di vista di produttore, non d’utente. sennonché, se il critico intende l’opera d’arte come un “oggetto”, ciò rappresenta soltanto l’oggettività del suo operare, il “dato” e l’ipotesi di lavo-ro morale della sua abnegazione; e una considerazione dell’atto poetico lo porte-rà a spostare dinamicamente le sue formule, a reperire direzioni, piuttosto che contorni fissi, dell’energia poetica. Una direttiva, e non un confine, descrivono le correzioni degli autori; e soltanto oggi la coscienza mallarméana, alla pari con la riduzione unitaria delle personalità imposta dall’estetica dell’espressione, ne con-sente uno studio rigoroso e poeticamente fecondo (VAL, 5).

la critica stilistica segna dunque il primo Contini ma rimane, anche dopo le acquisizioni saussuriane (ovvero il testo quale sistema) e il con-fronto con lo strutturalismo jakobsoniano (la rivendicazione dei tratti per-tinenti), il metodo di riferimento primigenio, che non verrà mai abbando-nato, semmai articolato e precisato. verrà infatti poi affinato in quella «critica verbale» che risolve nella centralità e organicità del testo molti dei problemi su cui si era dibattuta la critica stilistica (compreso Giacomo devoto, ancora eccentrico rispetto a una concezione organicistica del te-sto quale sistema): se il testo è un sistema occorre interrogarne le devia-

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zioni ma anche le rispondenze, verbali nel senso più ampio del termine, quindi semantiche e fonosimboliche, memoriali (negli anni seguenti si sa-rebbero forse definite intra- e intertestuali). esula dal nostro ambito af-frontare la teoria ecdotica di Contini, la sua costante e varia riflessione sulla polarità lachmann-Bédier all’insegna del grande modello, pasquali, ma non sarebbe difficile mostrarne la stretta correlazione con le scelte più strettamente teoriche e critiche e con la loro evoluzione.

Un giovane riflessivamente e genialmente prensile dunque, che sul ri-conoscimento di una Crisi generale dell’umanesimo e della tradizione re-alizza nei fatti, e certo secondo modalità che diverranno solo nel tempo progressivamente più lucide e vero e proprio sistema (al momento dell’enunciazione appunto della «critica verbale», Filologia ed esegesi dan-tesca, 1965), un circuito unitario in cui immediatamente il critico rimanda al filologo, il filologo riassume sul piano ecdotico le problematiche inter-pretative generali (la questione lachmann-Bédier e la critica delle varian-ti), il filologo-critico diviene – “deve” divenire – scrittore e magari anche poeta e traduttore, con evidente interrelazione fra i vari momenti. pur se la sincronia completa fra tutti questi momenti si limita al periodo giovani-le – dal 1933 al 1941 –, l’idea che non si possa essere critico senza essere scrittore, oltre che essere praticata con successo per tutta la vita, viene di nuovo teorizzata poco prima di morire, nell’intervista a ludovica Ripa di Meana (1989):

e aggiungo: non si può essere un critico letterario, se non si è un buono scrit-tore. non conosco nessun critico letterario sopportabile che non sia uno scritto-re. Questo, direi, in tutte le lingue: è la cosa veramente costitutiva, in tutte le lin-gue. non riesco a vedere esempi di critici eminenti, che siano tali soltanto per la mente e non per la scrittura (DV, 132).

per «scrittura» non dobbiamo però più intendere la bella scrittura dei pur apprezzati rondisti, dei “nostalgici della bellezza”: tra Crisi e rappre-sentazione della crisi si stabilisce per Contini un legame necessario. Come non c’è più posto per la nostalgia del Bello, così la scrittura non sarà più ricerca del Bello, ma di quella «verità» richiesta all’intellettuale dal Caos e dalla Crisi: «l’espressività è l’equivalente di una realtà non pacifica, al me-tafisico e al sociale» (1963, Introduzione alla Cognizione del dolore, poi in VAL, 616). Una scrittura dunque aperta alle sollecitazioni di varie “occa-sioni” e di vari generi e livelli, in una dimensione di tipo tecnicamente «sublime», in quanto caratterizzata dalla compresenza di vari livelli e ge-neri. e non è lo stile sublime, per molteplici aspetti (a cominciare da quel-

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lo fondamentale, lo scarto, la torsione rispetto alla «norma» e il pastiche), uno stile potenzialmente espressionistico, e «misto», almeno nella versio-ne cristiana, fino a dante e alla Stilmischung novecentesca?

l’attenzione del lettore, come quella del critico nelle opere analizzate, viene infatti spostata sulla parola, sulla compenetrazione, fino alla compli-cità, fra critico e lettore, sulla rivelazione, quando scatta, di un rapporto “analogico”, di «amicizia», sulla capacità di penetrare in uno stile critico nuovo, non retoricamente rivolto al “Bello”. entrambi si scoprono parteci-pi di uno smarrimento e di un’angoscia, che nel critico Contini può rivelar-si perfino come un esercizio intellettuale e comunicativo «penoso», nel senso di “carico di pena”, e non immediatamente pacificatorio. fra “veri-tà” e livello stilistico si stabilisce così un rapporto forte, quasi di necessaria commistione di generi, che impone la riproposizione in ambito critico di tecniche e strumenti del discorso poetico, fino a conquistare quella polise-mia interna, quello spessore semantico che è uno degli specifici più carat-teristici della funzione poetica, e della scrittura critica continiana. elabora-zione di un linguaggio tecnico, usando materiali di varia estrazione, e com-posizione di un razionalissimo pastiche non sono ipotesi contraddittorie, nella resa continiana: contribuiscono a fissare per il lettore il fascino di un mistero, che è proprio della scrittura poetica (e qui varrebbe ricordare le righe iniziali – e non solo – del saggio sull’ermetismo con l’elogio dell’oscu-rità ispirato da Mallarmé, EL, 383) e che viene trasposto in una scrittura critica in cui il lettore trova una traduzione insieme chiarificatrice e “com-pensativa” del testo esaminato, una discesa «alla radice delle cose», per ri-prendere una proposizione espressionistica molto cara a Contini.

scarto, Stilmischung e pastiche, torsione anche violenta della norma di-vengono allora progressivamente, fino alla sistemazione complessiva del 1977 nella voce Espressionismo dell’Enciclopedia del Novecento, le guide per ridisegnare la storia della poesia italiana. se è vero infatti che Contini ha nutrito un certo disinteresse per i generi letterari (come ha recente-mente ribadito Mengaldo3), ciò non andrà però collegato al pensiero cro-ciano, ma semmai al suo opposto: alla constatazione della rottura tutta no-vecentesca del sistema dei generi, alla loro commistione e in definitiva a quella «coagulazione» verbale (sostantivo emerso fin dalla prima recensio-ne a Gadda, Il castello di Udine 1934) che l’espressionismo porta con sé in ogni genere letterario, specie nella sua variante italiana, il plurilinguismo, fino alla commistione dei generi.

3 P.V. MengAlDo, Tra Contini e Croce, «strumenti critici», XX, 2005, p. 443.

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se altrove l’espressionismo «fa assistere ad un prolungamento dell’io nel mondo, dissoluzione dell’uomo nella realtà esterna o assorbimento del rea-le nell’umano che sia» (UE, 89), in italia si definisce soprattutto per il «prolungarsi dell’io in un suo corpo linguistico» e per il conseguente scon-volgimento che porta nella norma, a livello lessematico e sintattico ma, an-cor più esplicitamente, nella mescidazione, addirittura preliminare, di lin-gue e stili, riallacciandosi oggettivamente ad analoghi esperimenti già ben attestati nella tradizione letteraria italiana, fin dal duecento: «È finalmente in questo significato metastorico che va intesa la categoria di espressioni-smo adoperata, ancor prima che elaborata, dalla critica italiana [ovvero in primis dallo stesso Contini]: categoria che, come le sue congeneri, è anzi-tutto di critica militante [corsivo mio]» (UE, 89-90). l’espressionismo dun-que prende atto della perdita e della frammentazione dell’io (il pronome per eccellenza espressionistico) e ne riproduce i frammenti, l’«urlo», l’an-goscia («ich habe angst») ma, ciò facendo, pur se non può a priori porsi il problema di una nuova tradizione (definendosi appunto l’espressionismo per opposizione alla tradizione), alla denuncia della distruzione deve ne-cessariamente, fisiologicamente, far seguire la ricostruzione, dunque (ag-giungiamo noi), nella prospettiva storica, se l’operazione è riuscita, una nuova tradizione, pur se all’espressionismo storico questa è negata proprio in quanto radicalmente opposto, nelle cose, alla norma.

l’auctor per eccellenza dell’espressionismo continiano sarà quindi, e no-toriamente, Gadda ed è interessante notare che anch’egli compare fra i pri-mi autori recensiti e analizzati (Primo approccio al Castello di Udine, 1934), quando ancora Contini si dedica, pur rispondendo a “occasioni” esterne, come egli stesso affermerà, a passare in rassegna il vecchio e il nuovo del ro-manzo e della poesia italiana contemporanea. Gadda diviene però ben pre-sto, prima della Cognizione del dolore, cui Contini dedica una straordinaria e analitica introduzione (1963), il nume tutelare, la prova in re della sua vi-sione della letteratura. È proprio con Gadda e la sua «funzione» in ambito non solo italiano ma europeo che già nel 1944 Contini concluderà la sua In-troduction à l’étude de la littérature italienne contemporaine:

la violence proprement “hénaurme” qu’il fait subir au langage correspond ini-tialement à un sentiment de rage, de fureur et de désespoir devant la contrainte bourgeoise, bien plus: devant l’insupportable condition humaine; son grotesque est un reflet de la grande injustice; mais lentement M. Gadda s’affranchit de cet esclavage du mode pratique pour devenir le poète de sa lombardie si romantique, si sombrement exubérante et si calmement contrôlée et realiste. il est le proprié-taire d’un monde aux réflexes excessifs, dont la possibilité de vivre ne saurait être

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atteinte dans un stoïcisme immédiat, mais après la traversée de l’enfer tout entier. d’une main de maître, il sait désormais soulever le couvercle de la vie normale et tracer une section implacable des mouvements de la grande chaudière. on aura remarqué que les situations de connaissance les plus hardies ne se développent en general pas dans le secteur de la poésie lyrique: c’est l’art narratif, dont la matière directe est le temps, qui parvient à attaquer l’eternité en pleine poitrine. Mais à certains indices, même en poésie lyrique, la possibilité de quelques déformateurs, charriant dans leur fleuve toutes sortes de perles et de détritus, de sautes d’hu-meur et de rictus expressifs, en somme de quelque audiberti italien, ne nous semble nullement exclue. et c’est dans la mesure même où nous croyons à l’im-portance proportionnelle des Tonnes de semence et de Toujours dans la poésie eu-ropéenne que nous soulignons la fonction de M. Gadda et la virtualité du courant poétique qu’il pourrait représenter (AE, 264 [corsivo mio]).

È un giudizio a cui aderirà pasolini, totalmente solidale, come vedre-mo, con l’operazione critica e ricostruttiva continiana, e non solo per il caso Gadda. Ma si noti quella frase finale («la virtualité du courant poé-tique») e i sintagmi «poésie européenne» e «courant poétique». Contini si dimostra una volta di più non crocianamente indifferente ai generi lettera-ri, ma li pospone ad un elemento per lui più significativo: lo stile e la com-mistione dei generi. del resto non è la stessa attività di Contini la dimo-strazione in re, abbiamo visto, di un tale attraversamento dei generi? l’espressionismo (in questo caso linguistico) attraversa tutti i generi, an-che al di là della sola letteratura, li scompone e li ricompone: non ha quin-di senso catalogarli e irrigidirli. la «funzione Gadda» vale al di là della “prosa”, è attesa, per così dire, al di là della prosa, e troverà completa-mento in pasolini, l’unico poeta «scoperto» da Contini (per sua dichiara-zione esplicita), e nel saggio su pascoli, di circa dieci successivo (1955), ove viene retrodatata proprio sul versante lirico, e per un poeta qualifica-to di “impressionismo”, l’insorgenza di istituti e matrici linguistiche tipici dell’espressionismo.

la riflessione sulla crisi novecentesca dell’umanesimo porta Contini in più occasioni a investigare la prosa d’arte e i petits poèmes en prose (dun-que non per nostalgie rondiste) o a dedicare le sue maggiori attenzioni a prosatori come proust e Gadda (di cui può sottolineare oltre alla “poetici-tà” addirittura la “liricità”: «l’arte di Gadda è tutta lirica», dichiarerà espli-citamente nell’Introduzione alla Cognizione del dolore, 1963, VAL 605). proust e Gadda del resto sono significativamente accomunati nella pratica del pastiche, tecnica emblematica dell’espressionismo e della visione conti-niana della letteratura e della funzione del critico, all’insegna del riconosci-mento reciproco fra autore, personaggio e lettore sotto l’insegna della cha-

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ritas. il punto di partenza è sempre la rottura portata dall’avanguardia espressionista (la «madre di tutte le avanguardie») e quel principio di con-taminazione dei generi che scorre anche lungo tutta la critica di Contini, fi-no alla riflessione esplicita sul senso del modello ideale baudelairiano (1983: «Une prose poétique, musicale sans rythme et sans rime», UE 24).

nel 1951 il saggio sui Preliminari sulla lingua del Petrarca è dichiarata-mente condotto da «un angolo visuale particolare», ma è un angolo che conferma una nuova visione storiografica che parte appunto – come ab-biamo tentato di mostrare –4 dal novecento e ripercorre a ritroso l’intera tradizione italiana per fondarne una nuova (operazione resa possibile da quella particolare opzione tutta linguistica, secondo Contini, dell’espres-sionismo italiano – assunto in senso metastorico, eppure ben contempora-neo: è questa la consapevole e magistrale ambiguità di fondo del saggio sull’Espressionismo). Ciò che segna in profondità il saggio del ’51 è l’affer-mazione dell’unilinguismo petrarchesco e la normatività diacronica del Canzoniere, contrapposti al plurilinguismo dantesco, assunto quale ante-nato di un’altra tradizione che accompagna costantemente l’altra fino al suo pieno recupero novecentesco.

le opere e gli autori del canone continiano si dislocano perciò con as-soluta coerenza o al di qua (nel duecento, fino a dante) o al di là (nell’ottocento scapigliato e nel novecento postpetrarchesco), della fase normativa che pure ha espresso l’egemonia letteraria italiana in europa. sono prevalentemente lirici, ma sarebbe nei fatti erroneo sottolinearne troppo tale qualità. le scelte operate nella Letteratura pubblicata presso sansoni, pur in parte guidate dal canone scolastico, e quindi non valutabi-li tanto nelle presenze quanto nel tipo di presenze, seguiranno la stessa li-nea. la coerenza con cui Contini espunge da una filologia romanza intesa come filologia nazionale ogni interesse umanistico o rinascimentale è fer-rea, fino alle ultime ricerche, salvo singole prove del tutto eccezionali (a differenza ad esempio del suo maestro santorre debenedetti o dell’altro grande contemporaneo, Carlo dionisotti, pur egli animato da intenzioni insieme critiche e ricostruttive di carattere generale), motivate da ragioni veramente occasionali o immediatamente teorico-metodologiche, quindi isolatissime (recensioni a opere su Boiardo, ariosto, Michelangelo). lo ha ribadito recentemente pier vincenzo Mengaldo, sottolineando la distanza di Contini, in ciò solidale con Curtius, dalla cultura illuministica:

4 R. Antonelli, Esercizi di lettura di Gianfranco Contini, in Letteratura italiana, Le Opere, iv Il Novecento, ii. La ricerca letteraria, torino, einaudi, 1996, pp. 339-405.

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Questa tendenza antimetafisica, Contini lo vede bene, non abbracciava però affatto in Croce il pensiero antimetafisico per eccellenza, quello illuministico […]. ora di ciò che si dà ex negativo è difficile addurre prove, ma io ho sempre percepito con certezza l’assoluta estraneità di Contini, salvo qualcosa come l’am-mirazione per diderot narratore (ma contestuale al rifiuto del diderot “ideolo-go”), per la civiltà illuministica – anche quella umanistica (Mengaldo 2005, 440).

ii centro, per Contini, a partire dalle indagini sull’espressionismo, è dunque sempre il novecento, un novecento tutto culturale, anche filosofi-co, e letterario, laico, sempre «antimetafisico» e antiideologico, ovvero an-corato fermamente, quasi positivisticamente, al “dato”, ma ben segnato da Rosmini e dal cattolicesimo lombardo: potrà apparire bizzarro, ma è pro-prio sul versante della priorità del dato che egli s’incontra, «nonostante tutto», con Croce, anche nell’esclusione di ogni elemento ideologico dalla valutazione dell’opera, Commedia compresa, riprendendo e dilatando in senso formale, «nonostante tutto», una lucida affermazione crociana:

proposizioni filosofiche, nomi di persone, accenni a casi storici, giudizi morali e politici e via dicendo, sono, in poesia, nient’altro che parole, identiche sostan-zialmente a tutte le altre parole, e vanno interpretate in questi limiti (Filologia ed esegesi dantesca, VAL, 411)

che viene così completata: «sarebbe certamente esagerato asseverare la fine dell’esegesi ideologica, ma è evidente che quella buona si svolge tutta sopra un solido fondamento verbale».

È da qui che si torna indietro per rintracciare le radici di ogni proble-ma. in questa prospettiva anche il lavoro sull’epocale antologia dei Poeti del Duecento, rivela di nuovo una stretta unità fra filologia e critica e una sapiente e complessa strategia. iniziata agli inizi degli anni Cinquanta con un gruppo di straordinari collaboratori, esce nel 1960 e marca immediata-mente non solo una nuova epoca della filologia italiana ma si segnala an-che per una consapevole e ben mirata tendenziosità. dall’antologia vengo-no esclusi i testi più famosi, e “famigerati”, della poesia duecentesca, spe-cie siciliana: lo nota immediatamente natalino sapegno (ora in Letteratu-ra e critica 694) e lo ricorda poi anche angelo Monteverdi, pur entrambi decisi ammiratori dell’impresa continiana, in particolare l’amico e sodale Monteverdi:

Questi ultimi, Guido [delle Colonne] e stefano [protonotaro] […] a cui, col notaro loro maestro, il Contini dà il maggior peso nella sua antologia, ritenendo che “l’importanza culturale […] e la poesia dei siciliani è tutta nell’aspetto ma-

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nieristico”. egli ha invece voluto ridurre “nei giusti confini”, dice, “il favore ver-so figure di tono presuntivamente popolareggiante […] quale Giacomino puglie-se; e ha dato ‘scarso o nullo corso’ al ‘repertorio’ ormai tradizionale dei canti così detti oggettivi. […] Reazione, che si può bene intendere, che appare anzi critica-mente fondata; ma che praticamente si spinge, credo, troppo oltre. eppur si trat-ta, ripeto, di un fatto importante […]. non è dello stesso imperatore federico la canzoncina Dolze meo drudo? poi c’è Rinaldo d’aquino ecc.” per finire, in un saggio purtroppo incompiuto per la morte dell’autore: “Così in Cielo trova con-clusione e perfezione quella corrente della scuola siciliana che si affianca sin dalle origini (e talora presso gli stessi poeti) alla corrente primaria (aulica e manieristi-ca) così ben rappresentata da Giacomo da lentino. e perciò questi due nomi [Giacomo da lentino e Cielo d’alcamo] a me sembrano ottimamente riassume-re, agli inizi della storia letteraria d’italia, tutto il senso della scuola siciliana”.5

Ma altra era evidentemente all’epoca l’intenzione di Contini, che pure, pochi anni dopo, dimostrerà di condividere nella sostanza le posizioni di Monteverdi nella relazione lincea dedicata alla Poesia rusticale come caso di bilinguismo, poi riunita in volume nel 1988 (Ultimi esercizi ed elzeviri. (1968-1987)), a due anni dalla morte, quale preludio al saggio sull’espres-sionismo, del 1977. anche nei Poeti del Duecento in realtà Contini inten-deva ribadire una linea e costruire una nuova tradizione, più ampia e me-no “italiana” in senso risorgimentale / desanctisiano: più rispettosa della pluralità di centri e di lingue (forte ad esempio la presenza di esemplari mediani e settentrionali rispetto alla comune usanza di privilegiare i to-scani). È una tradizione più attenta soprattutto alla diversità dei livelli sti-listici, in base alla quale viene proposta anche una precisa gerarchia esteti-ca, ove, di nuovo, come nel novecento mallarmeano e nel suo periodo er-metico, viene privilegiato il versante “chiuso” e “oscuro”, dai trovatori (ove l’eroe privilegiato è il dantesco – e infine scarsamente pertrarchesco – arnaut daniel) al “municipale” Guittone («scuro so che par lo / mio detto, ma ecc.»), del quale si tenta una forte rivalutazione, che va ad im-pattare perfino sullo stesso giudizio dantesco. del resto «l’italiana è so-stanzialmente l’unica grande letteratura nazionale la cui produzione dia-lettale faccia visceralmente, inscindibilmente corpo col restante patrimo-nio» (VAL 610, Introduzione alla Cognizione del dolore, 1963): «il bilin-guismo di poesia illustre e poesia dialettale è assolutamente originario, co-stitutivo della letteratura italiana», ivi, 614).

5 A. MonteVeRDi, Giacomo da Lentino e Cielo d’Alcamo, in Cento e Duecento. Nuovi saggi su lingua e letteratura italiana dei primi secoli, Roma, edizioni dell’ateneo, 1967, pp. 296-305.

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per rifondare una letteratura e una critica novecentesca italiana in linea con la contemporanea poesia europea occorreva ripartire appunto dalle radici, prima della grande Codificazione, analizzando perciò preliminar-mente le scelte monolinguistiche del Grande Codificatore, petrarca, per opporlo decisamente al più grande espressionista e miscelatore di stili del-la letteratura europea, dante, quando tutto era ancora possibile e la peni-sola si esprimeva per lingue municipali e regionali. Quelle lingue che se-gnano l’intera tradizione multicentrica italiana e che si propongono sin dall’inizio con funzioni anche di tipo espressionistico, di quella “dialettali-tà riflessa” scoperta proprio da Croce e così rilevante nel decorso nove-centesco della nostra letteratura.

se fra il commento alle Rime di dante e il saggio sulle correzioni al pe-trarca volgare ci si potrebbe limitare a postulare una volontà di puntare consapevolmente su una nuova interpretazione dei due massimi poeti del-le origini e del canone nazionale (ma personalmente non lo credo, coeren-ti come sono con la strategia critica continiana), il saggio petrarchesco del 1951 appare anche collegabile, almeno a posteriori, quasi quale premessa, di un saggio per eccellenza novecentesco, dedicato a Il linguaggio di Pa-scoli: come quello su petrarca stabilisce i paletti per la reinterpretazione della storia della lirica italiana prenovecentesca, quello su pascoli illumina le premesse della storia lirica italiana novecentesca, di fatto secondo com-ponente di un dittico che fonda la linea critica complessiva di Contini sul-la lirica italiana e si ricongiunge profondamente a quanto per Contini era chiaro già nella valutazione e nell’esaltazione della «funzione Gadda». pa-scoli è escluso dalla rassegna consegnata alla voce Espressionismo negli an-ni settanta (forse proprio in quanto, e infine, «rivoluzionario nella tradi-zione» VAL, 227, con cui pasolini6), ma è lo stesso Contini che avverte nella stessa voce, sulla scorta di spitzer (UE, 66), quanto l’etichetta “im-pressionismo” possa in taluni autori scivolare in quella di “espressioni-smo” («si vede qui [in paul Morand] all’opera […] il trascendentalismo, che dilata spiritualmente la forma impressionistica. […] l’impressionismo trapassa quindi lentamente e impercettibilmente in espressionismo»), tan-to da poter affermare che fra impressionismo ed espressionismo «non si tratta di scontro frontale: in particolare l’espressionismo non si oppone puramente e semplicemente all’impressionismo, ma cresce su una premes-sa impressionistica e la ingloba». fino ad una presa di posizione definiti-va: «Quanto fragile, se del tutto astorica, la distinzione di impressionismo

6 P.P. PAsolini, Pascoli (1955), in Passione e ideologia (1960), Milano, Garzanti, 1994, pp. 298-299.

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ed espressionismo, mostra il fatto che sono riferiti al primo numerosi esempi solitamente riferibili al secondo […]» (UE, p. 68).

proprio pascoli risulta essere, nell’analisi di Contini, non soltanto il sovvertitore e l’innovatore radicale della tradizione poetica italiana ma an-che, almeno per una questione linguisticamente decisiva, e cioè il settore pregrammaticale (e postgrammaticale, quanto a dire le eccezioni alla nor-ma, gli “scarti”), il punto di partenza delle successive avanguardie euro-pee, anche le piu radicali:

tutto quello che abbiamo reperito fin qui costituisce una serie di eccezioni alla norma. Come si può interpretare un simile dato di fatto? Quando si usa un lin-guaggio normale, vuol dire che dell’universo si ha un’idea sicura e precisa, che si crede in un mondo certo, ontologicamente molto ben determinato, in un mondo gerarchizzato dove i rapporti stessi fra l’io e il non-io, tra l’uomo e il cosmo sono ben determinati, hanno dei limiti esatti, delle frontiere precognite. le eccezioni alla norma significheranno allora che il rapporto fra l’io e il mondo in pascoli è un rapporto critico, non è più un rapporto tradizionale. È caduta quella certezza assistita di logica che caratterizzava la nostra letteratura fino a tutto il primo ro-manticismo. Ma questa considerazione, per importante che sia, deve essere subi-to differenziata. le eccezioni di cui si discorreva sono anteriori alla grammatica: se si tratta di linguaggio fono-simbolico, per esempio di onomatopee, abbiamo a che fare con un linguaggio pre-grammaticale. Ma ci sono eccezioni alia norma che […] si svolgono durante la grammatica, vale a dire sono esposte in una lingua provvista d’una sua struttura grammaticale parallela a quella della nostra, in un altro linguaggio; e ci sono eccezioni le quali si situano addirittura dopo la gram-matica, perché, quando pascoli estende il limite dell’italiano aggregando delle lin-gue speciali, annettendo poi quelle lingue specialissime che sono intessute di no-mi propri, realmente ci troviamo in un luogo post-grammaticale.

Mi si chiederà a questo punto: ma tutto questo è poi caratteristico di pascoli, serve a definire lui solo? È certissimo che del linguaggio speciale e del linguaggio post-grammaticale tutto il tardo romanticismo, tutto quello che da qualche tem-po si suol chiamare il decadentismo, ha fatto uso assai copioso, basti citare d’an-nunzio e l’intero movimento simbolistico [ma non, aggiungiamo noi, come ele-menti estranei e autonomamente, plurilinguisticamente considerati]. d’altra par-te, per ciò che è dell’eccezione onomatopeica e fonosimbolica, soccorrono alla mente, ma allora allo stato puro, esperienze come quella del futurismo o come, fuori d’ltalia, quella di Dada e poi del primo surrealismo [c.vo mio]. però qualcosa è unico in pascoli, cioè il fatto che egli esperisca contemporaneamente i due set-tori: il settore pre-grammaticale e il settore grammaticale e post-grammaticale” (VAL, 224).

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su questa linea, per la quale nel saggio arriverà a impiegare esplicita-mente l’aggettivo “espressionistico” per definire alcuni aspetti fondamen-tali di pascoli, nell’anniversario pascoliano e quindi nello stesso anno del saggio continiano, si situa anche pasolini (frequentatore assiduo e notorio del pascoli sin dalla tesi di laurea). Questi, anzi, in Passione e ideologia raccoglierà alcuni saggi in una sequenza oltremodo significativa: Pascoli, La lingua della poesia, Montale, tre poeti in dialetto (genovese abruzzese, molisano), Gadda, Osservazioni sull’evoluzione del Novecento, La confusio-ne degli stili. È una serie ricondotta in varie occasioni al magistero di Con-tini e alle posizioni di quell’auerbach che in realtà non appare così alieno a Contini come è sembrato a Mengaldo (si tratterà semmai di una troppo vicina concorrenza, per usare un’altra proposizione continiana).7 anche per pasolini pascoli è all’origine del nostro novecento, per una serie ana-liticamente esposta di ragioni, le prime delle quali di tipo chiaramente espressionistico, pur sottolineando, su un piano più socioletterario che letterario, al contrario di Contini, i suoi limiti:

il “plurilinguismo” pascoliano (il suo sperimentalismo antitradizionalistico, le sue prove di “parlato” e “prosaico”, le sue tonalità sentimentali e umanitarie al posto della casistica sensuale-religiosa petrarchesca) è di tipo rivoluzionario ma solo in senso linguistico, o per intenderci meglio, verbale: la figura umana e lette-raria del pascoli risulta dunque soltanto una variante moderna, o borghese in senso odierno, dell’archetipo italiano, con incompleta coscienza della propria for-za comunque innovativa (PI, pp. 298-299).

secondo pasolini sarebbe comunque difficile sottovalutare l’intera serie delle innovazioni introdotte da pascoli e in particolare la componente espressionistica dei primi tre punti del catalogo proposto: 1) l’introduzio-ne della lingua parlata «sotto forma di koinè, […] con cui prefigura l’inte-ro organismo stilistico dei crepuscolari e degli epigoni di questi» (ma sol-tanto?); 2) l’immissione in poesia di lingue strumentali, delle quali «accen-tua intenzionalmente la violenza espressiva» (preludio a certa «disperata sordità» di sbarbaro e a certe «crudezze autobiografiche falsamente inge-nue di saba»); 3) l’immissione di lessico vernacolare, con cui abbiamo lo schema della «poesia media dialettale del primo novecento».

se pascoli è dunque anche per pasolini all’origine del novecento, Gad-da è la punta estrema della tradizione linguistica espressionistica, plurilin-guistica, italiana, come nel maestro Contini, esplicitamente citato:

7 P.V. MengAlDo, Tra Contini e Croce, cit., p. 444.

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il barocco di Gadda è un barocco realistico: categoria di stile anteriore (anzi!) al seicento: si trova nella costante della letteratura italiana che il Contini definisce plurilinguismo, in antitesi all’unilinguismo petrarchesco, cioè quella lingua asso-luta, e quasi astorica nella sua suprema purezza, che si è sempre posta come mo-dulo della letteratura italiana-fiorentina. e dire che la letteratura italiana (non fio-rentina) era cominciata proprio sotto il segno del pastiche. il pastiche gaddiano, proprio: letterario di origine, come in Gadda, non metafisico (quello del gran modulo realistico ch’è la Divina Commedia). dai rimatori italo-provenzali, fran-co-veneti, siciliani, al trecento realistico, al Quattrocento macaronico, al Cinque-cento sensuale ecc. fino al Romanticismo […] alle soglie della nostra epoca, la grande costante petrarchesca appare incrinata ed esausta: come il mondo sociale e politico in cui aveva potuto esistere; mentre l’altra corrente, la dantesca, appare potenzialmente vivificata e possibilitata a nuovi sviluppi. Mentre il petrarchismo linguistico si perpetuava nelle scuole, nelle accademie, privilegio delle classi con-servatrici e dominanti, il dantismo linguistico lussureggiava nella vita letteraria militante […] (PI, 345).

da qui, da pascoli e Gadda, si dipana non solo un ribaltamento storio-grafico nell’interpretazione del novecento, attivo in tutta l’esperienza cri-tica di Contini, ma anche una vera e propria scuola, ancora attiva, che ri-ceverà il coonestamento continiano, a saldatura del cerchio, proprio nel saggio dedicato a pascoli:

ora, la linea pascoliana persiste ed è ancora attuale, specialmente se si adotta il punto di vista da cui ci siamo posti, quello linguistico; ed è attualità vivacissima se si pensa agli esperimenti compiuti in questi ultimi anni da un animoso poeta, romagnolo del resto, ma che ha cominciato a scrivere in friulano, pier paolo pa-solini, e della giovane scuola che riuscì a promuovere e riunirsi attorno. se si va-lutano nel loro insieme i prodotti di questo singolare félibrige friulano, è indub-bio che li caratterizzi proprio il gusto di operare, con temi anche modernissimi, in una materia verbale che come tale sia inedita: a un simile esperimento sarebbe difficile negare il predicato di pascoliano (VAL, p. 238).

È una nuova tradizione italiana, proposta in varie occasioni, con evi-dente cautela ma non per questo meno chiara, anche nella sua estensione a una serie di altri poeti in dialetto, da di Giacomo a tonino Guerra, a pierro e tanti altri, cui Contini e pasolini dedicano particolare ascolto e che impongono all’attenzione nazionale, fino al più recente franco scata-glini e alla sua scuola, per indicarne soltanto uno dei più rilevanti fra i re-centi. Contini è molto attento a non sovrapporre espressionisti e “dialetta-li” (e sarebbe bene distinguere definitivamente fra poeti “in dialetto” e “dialettali”), diversamente da pasolini, ma sarebbe comunque difficile

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non osservare come è proprio l’iniziativa continiana (e pasoliniana) che ha aperto il canone novecentesco alla tradizione in dialetto (non vernacola-re), anche per poeti precedenti la seconda metà del secolo, da tessa a Giotti a Biagio Marin, fino al recentissimo Zanzotto, via via estraendone le motivazioni linguistico-esistenziali che li allontanano dalla tradizione puramente vernacolare e li ricongiungono alla grande tradizione poetica europea.

e Ungaretti e Montale, i primi auctores di Contini, come si collocano in questa prospettiva? l’attenzione su Ungaretti sembra esaurirsi col 1942: dopo tale data non c’è più un intervento continiano di rilievo dedicato specificamente a Ungaretti, salvo la presa di distanza consegnata, guarda caso, al saggio sulla Bufera di Montale. Una clamorosa conferma ci viene proprio dall’epicedio del 1971, tutto giocato sul ricordo autobiografico, di componimenti e di luoghi, e nulla o quasi sul versante critico (UE, 343) e, come si vedrà, da un esplicito confronto fra la collocazione di Ungaretti e quella di Montale. per Montale infatti il discorso è diverso, per il ruolo attivo svolto da Contini nell’elaborazione poetica di Montale e per l’atten-zione che sarà dedicata, con Rosanna Bettarini, all’edizione critica della sua opera, singolare ed eccezionale omaggio a un autore in vita, e per la collocazione eccezionale attribuita a Montale nel canone italiano (pari – dice Contini –, a quella di eliot nella letteratura novecentesca di lingua in-glese). non per nulla, all’uscita della Bufera Contini si pone esplicitamen-te il problema della «localizzazione» del “suo” Montale. Montale in un certo senso potrebbe paradossalmente essere considerato «l’anello che non tiene» del sistema critico continiano se lo si riducesse al solo espres-sionismo linguistico. non così se risaliamo alle ragioni dell’attenzione ri-volta da Contini all’espressionismo e al ruolo dell’“oscurità” e dell’ermeti-smo nel sistema letterario novecentesco.

occorre a questo punto ricordare di nuovo che per Contini l’espressio-nismo, per quanto storicamente determinato e tedesco di origine, è non solo l’avanguardia europea primogenita, e quindi il punto di riferimento delle altre avanguardie storiche, ma anche il collettore di altre esperienze d’avanguardia: «più d’una stilla futurista finì nei calici dell’espressionismo primogenito, quello tedesco; così come la discendenza francofona del fu-turismo, apollinaire, dada, più tardi il surrealismo, non si qualificano espressionisti solo perché svolti (nonostante arp, Ball, ecc., in Dada) in un altro ambiente linguistico» (UE, 90). l’espressionismo dunque tracima in altre esperienze e altre esperienze lo fecondano. Qual è il loro punto co-mune? a leggere e a connettere diverse affermazioni di Contini, è ancora

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una volta la Crisi e lo “scarto”, ma uno scarto connesso sia alla questione della «grammaticalizzazione», sia al rapporto con la «realtà esterna» e alle conseguenti “nevrosi” e risposte possibili.

alla luce della posizione rispetto a questo binomio, un autore mai qua-lificato – né qualificabile – quale “espressionista” come Montale può esse-re allora facilmente collocato da Contini accanto a Gadda, certo per la co-mune matrice storico-culturale, e per la «lunga fedeltà» del loro interpre-te, ma anche, credo, per il senso complessivo della loro poesia nei con-fronti della vita e della storia (cfr., nel brano seguente, il “portare al limi-te”, la “violenza d’un urto”, la “violenza esterna” [si ricordi l’«enorme violenza» di Gadda], le «catastrofi pubbliche, come i privati cataclismi», il «mondo istantaneo, discontinuo e indiretto della speranza»). Un comu-ne “male di vivere” e una comune “nevrosi”, pur articolati in diverse pro-poste linguistiche:

anche quando si dice: realtà “esterna”, l’epiteto cade tra quelle ideali virgolet-te; nel senso che, se un esperimento, s’intenda un esperimento del conoscere e rappresentare, è portato al suo limite, esso può progredire solo grazie alla violen-za d’un urto; e questa violenza, detta “esterna”, gli è pero intimamente necessa-ria. Guerra, tirannia, emergenza, guerra fredda (perché La bufera si conclude sul Sogno del prigioniero), catastrofi dunque pubbliche, come i privati cataclismi, sembrano inventati per conferire una durata, già più che abbozzata del resto nelle Occasioni [c.vo mio] al mondo istantaneo, discontinuo e indiretto della speranza, cioè della poesia, montaliana. nell’opera di Montale la prima fase è negativa e di-struttiva: egli non ritrova un oggetto nella cui realtà possa avere fiducia. la se-conda fase è relativamente positiva o costruttiva: nel tessuto insensato del mondo si schiude, sia pure improbabilmente, il sospetto d’un’eccezione significativa. semplifichiamo leggermente il fatto, per necessità di razionalizzazione; e di questi due momenti facciamo coincidere il primo con Ossi di seppia, il secondo con Le occasioni. se ne ricaverà che il “terzo libro”, ossia, per la medesima, venialmente abusiva, identificazione dialettica, La bufera, sarà la sede d’un discorso non solo non condannato a catalogare l’aridità, ma neppure teso esclusivamente, volta per volta, attorno al nucleo momentaneo dell’occasione che riscatta. in presenza d’una realtà troppo energica per essere recusabile, la sede d’una verità in forma di mito (AE, 146).

Qui si colloca una riflessione inedita ed esplicita sul rapporto di Mon-tale con la lirica italiana del novecento, e in particolare con Ungaretti, per oppositi, ricongiungendolo alla linea ideale, non linguistica, di Gadda e al rapporto di questi con la deteriorata «realtà esterna» e con la Crisi (ma si ricordino comunque le osservazioni continiane sul rapporto fra prosa e

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poesia in Montale e su Satura), in quanto entrambi massimi interpreti ita-liani di quella Crisi novecentesca dalla quale, abbiamo visto, era partita tutta la riflessione continiana sul secolo e sulla propria collocazione nel se-colo e nella critica:

Una tale fenomenologia del “terzo libro”, si accennava, riguarda ogni esperi-mento portato al suo limite: al limite dei rapporti fra mondo formale e realtà. per questo, con premesse psicologiche tanto diverse da parere addirittura avverse, un altro ragguardevole esempio se ne può additare in Giuseppe Ungaretti. Una pri-ma fase, L’allegria, era elementare ma insieme distruttiva, distruttiva dell’ordinato discorso convenzionale nell’atto stesso che enunciava umili nuclei di verità poeti-ca senza residuo (frammenti, interiezioni o impressioni che si vogliano chiamare). in Sentimento del tempo brani di una realtà lirica estesa se non complessa, inten-samente cromatica (e sia pure dei colori perituri e “decadenti” dell’autunno), si scandiscono secondo misure riconoscibili, di cui viene accusata, quasi ostentata, la coincidenza con la tradizione: fase, dunque, positiva e ricostruttiva. II dolore, con le poesie seguenti, sancisce l’avvento d’una realtà drastica e brutale, che tut-tavia non rimette in gioco l’ordine raggiunto (come invece la giovanile guerra dell’Allegria, che aveva disgregato ritmi e altre apparecchiature oratorie, e ridotto l’autore al suo mero centro vitale), ma al contrario riempie di “contenuto”, un contenuto elegiaco, gli schemi della recuperata retorica. Qui naturalmente si fer-ma il parallelismo; affinità che è nella dialettica dell’interprete solo perché egli tratta fantasie veramente moderne, cioè per definizione spinte al limite della sfera di rappresentazione. Ma la restaurazione (per usare una metafora gia politica-mente qualificata) in Ungaretti portava sulla melodia (cioè su un formato fluire di sentimenti), in Montale sulla stessa preliminare felicità. e su questo terreno Mon-tale si separa da tutta l’altra lirica italiana del secolo, occupando, s’intende per l’animo e non per il mestiere, una posizione più avanzata: quel drammatico atteg-giamento di “crisi” per cui il suo secondo libro parve dare una complice voce (voce senza quasi soluzione) all’angoscia dominante proprio nell’anno che inau-gurava la seconda guerra mondiale, mentre oggi, assestate le immaginazioni in un’amministrazione pressoché ordinaria, non si vuol negare che, almeno pro tem-pore, la sua udienza paia diminuita (AE 146-147).

e se ne vedano immediatamente la conferma e le conseguenze riguardo all’inquadramento (in definitiva gerarchico, “canonico”) delle restanti esperienze poetiche novecentesche, ermetismo compreso, nello stesso sag-gio sulla Bufera (AE, 147-148):

la differenza costitutiva fra Montale e i suoi coetanei sta in ciò che questi so-no in pace con la realtà (a più forte ragione col mondo immaginario se il loro è un universo fittizio), mentre Montale non ha certezza del reale. perciò quei poeti

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non derogano alla dominante eminentemente letteraria della tradizione italiana: il loro primum è formale, siano essi letterari o poeti autentici, perché l’assumibilità in forma della loro esperienza vitale è gia garantita dietro le quinte. e potranno allora muovere da tirocini d’avanguardia, si dica (com’è il caso insigne di Unga-retti) futurismo e dada, si dica surrealismo, perché lo strumento conoscitivo bell’e assicurato, da dinamitare ove occorra per poi ricomporlo, è la grammatica. ii primum di Montale sta molto più addietro, è in un minimo di tollerabilità del vivere; e la sua iniziazione stilistica poté essere appieno tradizionale, quando non provinciale; il suo primo libro, non previamente ossesso dalla distinzione di poe-sia e non poesia, abbondare in zone prosastiche (dove cioè non sia accertato il va-lore liberatorio della forma), convogliare copia di quelli che il gergo ortodossa-mente idealistico definirebbe “residui psicologistici”. Che spettacolo a quegli an-ni inconsueto! vedete Cardarelli, il più rigoroso realizzatore d’un’istanza poetica che sia pura e tematica: dove perciò coincidano, come nel suo augurio, grammati-ca e ispirazione. Ma confrontate anche i poeti di leve meno alte, i cosiddetti er-metici. nei limiti in cui il loro discorso pare scostarsi dall’obbedienza a una realtà riconoscibile, non so se perseguendo l’ideale di atematicità brillantemente formu-lato dal maggior critico di quel movimento, di fatto si assiste a una dissolvenza mistica delle giunture semantiche che non si allontana moltissimo (anche a trala-sciare l’edonismo verbale) dall’impostazione dannunziana.8

si pone cosi, a chi abbia un minimo zelo d’inquadramento storico, il quesito della localizzazione di Montale. Che, certo diverge come più non si potrebbe da-gli uffici stralcio di quel classicismo romantico in cui si accese, con gli uomini e i vicini della “Ronda”, la luce più splendida della letteratura di ieri. Una realtà quotidiana e assurda, che cola irrazionale e ininterpretabile senza possibilità di tagli e inquadrature necessarie, come fusa in ghisa: questa è l’essenza dell’atteg-giamento che volentieri chiamerei realismo esistenziale; e che, anch’esso attuato scrupolosamente da alcuni narratori (allora quasi esclusivamente toscani) subito prima della seconda guerra mondiale, ha poi trovato un buon collaudo della sua probità flaubertiana e courbettiana nell’applicazione a temi “civili”. È una delle due correnti più attuali; che, attraverso una gradazione di deformazioni grotte-sche o magiche del reale (dove felicemente si recuperano alcuni scrittori della ge-nerazione anteriore), raggiunge la seconda corrente attiva, quella dell’espressioni-smo regionale (sola a ricongiungersi con una tradizione recente, il verga rustica-no, dossi e, come riesce ormai flagrante, pascoli). Che se la provincia dell’espres-sionismo regionale, non necessariamente vernacolare, ma fecondata dall’idioti-smo americano, giunge a includere Conversazione in Sicilia, altro libro rappresen-tativo di quegli anni, l’ambiguità fra reale e simbolo torna a essere comune con Montale, non appena egli si impegni a decifrare un senso nella distesa arida della sua durata: Le occasioni, insomma.

8 Ma cfr. al riguardo anche la Risposta a un’inchiesta sull’«ermetismo», in EL, pp. 383-386.

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Un simbolismo in cui la forza delle cose, la volontà a suo tempo espres-sionista, di andare «alla radice delle cose», porta le cose alla più essenziale e disperata aridità di cose, segni linguistici assoluti, extrastorici, “chiusi”, senza l’intervento dell’interprete. ancora una volta, nel saggio già citato dedicato a Montale (1957), pasolini, un anno dopo il saggio continiano coglierà la grande novità dell’interpretazione continiana, facendola pro-pria (e ricollegandola alle scoperte di pascoli9):

il suo [di Montale] razionalismo si è spinto oltre i confini dell’estetica, fino a individuare un mondo vivente sopra i suoi oggetti, oggettivamente: il mondo sto-rico. Come in un Gadda, la sua violenza politica è, ancora, negativa […]. il suo linguaggio resta – ed è naturale – quello del suo razionalismo di raffinato, di feri-to: un linguaggio extrastorico, per così dire – non soltanto necessariamente com’è, per definizione, quello della poesia, ma anche nella specie, cioè in rappor-to all’argomento coscientemente scelto.10

e allora, e ancora, quella Crisi della cultura, del catalogo dei sentimen-ti, dei generi letterari, delle istituzioni formali, come centro da cui partire per comprendere se stessi, la propria collocazione nel circolo ermeneuti-co, e la letteratura. e quindi, non sarà la norma al centro della propria at-tenzione ma il rovescio della norma: il Caos, le regole infrante, la devia-zione, il Movimento, ma anche e soprattutto il «male di vivere», il presen-te e la rivolta e la lotta, da pascoli a Montale a Gadda, a Contini (e pasoli-ni), contro un mondo chiuso e ostile, comprensibile – o interpretabile – forse soltanto come sistema testuale e quindi linguistico.

9 P.P. PAsolini, Passione e ideologia, cit., pp. 323-324.10 ivi, pp. 325-326 (si noti il termine “violenza” [corsivo mio], mutuato da Contini su Gadda,

AE, p. 264, cit.)