SCENARI 2021 - Amazon S3

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2021 SCENARI Agnelli, Bernstein, Brand, Cagnoli, Cohen, Cousteau, Cucinelli, Cundari, Di Vico, Friedman, Lavia, Mingardi, Osaka, Panella, Perina, Rocca, Soncini, Stiglitz, Westwood, Zafesova e molti altri F O R E C A S T 10€ NUMERO 1 ANNO 2021 CON ARTICOLI DA ISBN 978-88-945890-0-9 SCENARI 2021

Transcript of SCENARI 2021 - Amazon S3

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Agnelli, Bernstein, Brand, Cagnoli, Cohen, Cousteau, Cucinelli,

Cundari, Di Vico, Friedman, Lavia, Mingardi, Osaka, Panella, Perina, Rocca, Soncini, Stiglitz, Westwood,

Zafesova e molti altri

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F O R E C A S T

10€NUMERO 1ANNO 2021

C O N A R T I C O L I D A

ISBN 978-88-945890-0-9

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Il virus corona è arrivato l’anno scorso, quello populista quattro anni fa, entrambi hanno cambiato il mondo, ma il mondo adesso ha trovato gli antidoti ed è pronto a contrattaccare

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In una notte di novembre di quattro anni fa, era l’8 novem-bre 2016, ho avuto la percezio-ne esatta che il mondo sarebbe entrato in un tunnel dal quale sarebbe stato disagevole uscire. Quella notte Donald Trump ave-va vinto a sorpresa, a sorpresis-sima, le elezioni presidenziali americane sconfiggendo Hillary Clinton grazie a una serie di cir-costanze straordinarie, tra cui anche l’aver vinto con tre milio-ni di voti in meno rispetto alla sua avversaria, e a un aiutino da parte dei servizi segreti rus-si, abili a sfruttare le falle di un sistema occidentale consegna-tosi inconsapevolmente agli al-goritmi delle piattaforme digita-li tra gli applausi di noi entusia-sti del progresso tecnologico e lo sfregarsi le mani degli agenti globali del caos.

Le avvisaglie di uno smot-tamento tellurico del mondo come lo avevamo conosciuto fino ad allora c’erano state qual-che mese prima, a giugno, con il referendum britannico a favore della Brexit, ma in quel momen-to non erano ancora state colte in pieno e il risultato nazionali-sta è stato interpretato come un goffo scivolone dell’allora pre-mier britannico David Cameron e non come il primo passo di un processo di disgregazione euro-pea e occidentale che l’elezione di Trump avrebbe reso palese.

Un mese dopo l’elezione di Trump, il 4 dicembre 2016, c’è stato il fallimento del tentativo italiano di riformare la Costitu-zione e da lì in avanti, con l’ec-cezione della vittoria di Emma-nuel Macron in Francia contro un’avversaria dal tradizionale

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Ecurriculum reazionario, le te-nebre hanno avviluppato l’Oc-cidente, e non solo, con l’asce-sa dei movimenti populisti e so-vranisti in Europa, sostenuti dai russi e da Trump e diventati un appetitoso boccone per la Cina, e il contemporaneo calo eletto-rale dei riformisti e dei liberalde-mocratici (sia quelli al governo sia quelli all’opposizione).

A partire da quella notte di novembre del 2016, i regimi autoritari hanno cominciato a vivere la loro primavera, final-mente senza nessuno che osas-se contestargli alcunché. La ri-tirata americana dalla guida del mondo libero e la crescita della Cina, prontissima a sfruttare gli spazi geopolitici e commerciali lasciati liberi da Trump, hanno avuto effetti in Occidente e in Oriente, in Europa, in Africa e in Asia. La Turchia ha assunto un ruolo egemonico in Medio-riente, dalla Libia alla Siria, l’e-spansionismo russo ha ripreso vigore ai suoi confini occiden-tali e oltre con la manipolazio-ne dell’opinione pubblica euro-pea e americana orchestrata dal Cremlino.

Trump ha governato da pre-sidente antiamericano, alimen-tando tensioni sociali e razziali internamente e trasformando l’America da faro della libertà e città illuminata sulla collina a modello per i despoti di tutto il pianeta, oltre che da sobillato-re della disgregazione atlantica e da smantellatore della rete di organizzazioni multilaterali e internazionali con cui il genio americano ha governato il mon-do per quasi un secolo assieme agli alleati.

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LEXi Jinping ha conquistato

nuovi alleati con il suo piano Marshall chiamato Belt & Road Initiative, Putin ha piegato l’op-posizione interna e quella ester-na, ha diffuso il caos e assieme ai governi nazionalisti unghere-se, polacco e turco ha contribui-to a far passare l’idea che la de-mocrazia sia un sistema obsole-to da sostituire con una dottrina illiberale e autoritaria capace di decidere e di reprimere il dissen-so, trovando terreno fertile nella destra estrema anche italiana e nei movimenti nati per sostitu-ire la democrazia rappresentati-va con le fregnacce basate sugli algoritmi.

L’Italia ha sperimentato il primo governo populista e so-vranista d’Occidente, con il Conte uno, seguito dal primo governo populista e d’establi-shment, il Conte due, osteggia-to da un’opposizione ancora più populista, con i risultati imba-razzanti in termini di efficienza e di credibilità mostrati ancora prima che scoppiasse la pande-mia da Coronavirus e culminati politicamente nel referendum contro la democrazia parlamen-tare ideato da un manipolo di analfabeti associati a un’azien-da di web marketing milanese.

Quattro anni così, con Jair Bolsonaro in Brasile e altri fa-scistoni in ogni angolo del pia-neta e con la critica al model-lo progressista della globalizza-zione che rischia di cancellare il miglioramento della vita di centinaia di milioni di persone grazie alla libera circolazione di capitali, beni e idee degli ultimi decenni.

Ci sono state le eccezioni del-

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LEla civilissima Nuova Zelanda di

Jacinda Ardern e dei due pilastri dell’Occidente Angela Merkel e Emmanuel Macron, ma poi è ar-rivato il virus, il virus cinese se-condo la definizione di Donald Trump, particolarmente mal af-frontato e combattuto dai gover-ni nazionalisti e populisti.

Oggi non siamo ancora fuori dal tunnel, ma a partire da gen-naio 2021 il mondo comincerà a costruirsi gli anticorpi al virus corona e al virus populista, con la somministrazione delle pri-me dosi di vaccino e con l’arri-vo di Joe Biden alla guida degli Stati Uniti.

Non sarà facile tornare alla normalità sanitaria e democra-tica degli anni precedenti e non ci sarà un giorno preciso in cui la luce sarà riaccesa e le tenebre finalmente dimenticate.

Come leggerete in questo nu-mero di Linkiesta Forecast, in-sieme con le firme del New York Times, non è nemmeno detto che sarà possibile liberarsi da queste entità biologiche e ideo-logiche che da parassiti hanno ammorbato gli ultimi quattro anni della nostra esistenza.

Sarà necessaria una grande e straordinaria mobilitazione pubblica e globale. Dovremo affrontare ancora difficoltà eco-nomiche e sociali e ripensare i sistemi di protezione della salu-te e del dibattito pubblico, met-tendo in sicurezza il pianeta e regolamentando le piattaforme digitali. Ma nessuno può toglier-ci l’ottimismo e la speranza con cui si apre il 2021, l’anno della somministrazione dei due vac-cini per immunizzare il mondo dai suoi parassiti virali e politici.

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CONTRIBU

TORSINFO

F O R E C A S T

Con articoli daNew York Times Turning Points

L’immagine di copertina è di Johanna Goodman

Stampato nel mese di dicembre 2020 da Grafiche Antiga S.p.A. Crocetta del Montello (Treviso)

D I R E T T O R E

R E S P O N S A B I L E

Christian Rocca

A R T D I R E C T O R

Giovanni Cavalleri

N E W S R O O M

Lidia BarattaAlessandro CappelliGuido De FranceschiIrene DominioniAndrea FioravantiFrancesco MaselliPietro MecarozziAnna PrandoniDario Ronzoni

S E G R E T E R I A

Alessandra di Canossa

Andrea Agnelli, Imran Amed, Amy Bernstein, Linda Boström Knausgård, Russell Brand, Giovanni Cagnoli, Roger Cohen, Gianluca Comin, Fabien Cousteau, Michele Crisostomo, Brunello Cucinelli, Francesco Cundari, Oscar di Montigny, Dario Di Vico, Vanessa Friedman, C. L. Gaber, Gianluca Giansante, Masha Goncharova, Marco Granelli, Mario Lavia, Kai-Fu Lee, Francesco Lepore, Alberto Mingardi, Naomi Osaka, Carlo Panella, Ilaria Parogni, Flavia Perina, Hye-young Pyun, Guia Soncini, Joseph E. Stiglitz, Alessandro Terzulli, Tricia Tisak, Nadya Tolokonnikova, William Wegman, Vivienne Westwood, Anna Zafesova

Linkiesta Linkiesta Paper Linkiesta Forecast Linkiesta Festival Europea Gastronomika K

D I R E T T O R E

E D I T O R I A L E

Christian Rocca

D I R E T T O R E

G E N E R A L E

Marco Sala

S E R V I Z I G E N E R A L I

Federico Renesto

I N F O

[email protected]

A M M I N I S T R A Z I O N E

[email protected]

P U B B L I C I T À

[email protected]

Linkiesta.it s.r.l.Sede Legale: Via Brera, 820121 MilanoNumero di partita IVA e numero d’iscrizione al Registro Imprese 07149220969 del Registro delle Imprese di Milano.Registrazione presso il Tribunale di Milano, n. 293 del 26 Maggio 2010ISSN 9 772724 299008

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L ’ O C C A S I O N E P E R R I PA R A R E L E C R E P E D E L L A N O S T R A D E M O C R A Z I A 4 2di J O S E P H E . S T I G L I T Z

I L C O M P L O T T I S M O G L O B A L E N O N È F I N I T O 4 6di F R A N C E S C O C U N D A R I

U N R I T O R N O A L D E C O R O 5 0di R O G E R C O H E N

P R O V A C I A N C O R A , J O E 5 4di C A R L O P A N E L L A

U N A N N O D I I M M A G I N A Z I O N E P O L I T I C A R A D I C A L E 5 8di N A D YA T O L O K O N N I K O V A

F O R Z A AT L E T I , PA R L I A M O N E A P E R TA M E N T E 6 2di N A O M I O S A K A

I L C A L C I O T R A 2 0 A N N I 6 6di A N D R E A A G N E L L I

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U N ' I N T E L L I G E N Z A A R T I F I C I A L E D A L V O LT O U M A N O 7 4di K A I - F U L E E

L A G R A N D E D O M A N D A 7 8di C . L . G A B E R

G L I A N T I C O R P I P E R T O R N A R E A L L A N O R M A L I TÀ 0 7di C H R I S T I A N R O C C A

G L O B A L A G E N D A 2 3di M A S H A G O N C H A R O V A

L A L U N G A C O R S A V E R S O I L Q U I R I N A L E 8 2di M A R I O L A V I A

C ’ È ( D O L C E ) V I TA L A F U O R I , M A S E R V E U N N U O V O M O D E L L O 8 6di F L A V I A P E R I N A

C O M E N O N S P R E C A R E I L R E C O V E R Y I TA L I A 9 0di G I O V A N N I C A G N O L I

A S C U O L A I L 2 0 2 0 N O N È A N C O R A F I N I T O 9 8di I R E N E D O M I N I O N I

D O B B I A M O A R M A R E G L I I TA L I A N F O O D W A R R I O R S 1 0 2di A N N A P R A N D O N I

1 8 C O S E C H E S O N O S U C C E S S E P E R L A P R I M A V O LTA N E L 2 0 2 0 1 0 6di T R I C I A T I S A K

I L PA PA B E N E D I C E L E F A M I G L I E O M O S E S S U A L I 1 1 4di F R A N C E S C O L E P O R E

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BUSINESS

EUROPEA

PIANETA

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L E D O N N E B I E L O R U S S E E L E D O N N E P O L A C C H E 1 6 2di A N N A Z A F E S O V A

I R E N E T I N A G L I , D E P U TATA E U R O P E A D E L L ’A N N O 1 6 4

V Ě R A J O U R O V Á , C O M M I S S A R I A E U R O P E A D E L L ’A N N O 1 6 5

L E A M B I Z I O N I G L O B A L I D I M A C R O N 1 6 6di F R A N C E S C O M A S E L L I

I L C A N D I D AT O I D E A L E 1 7 0di A L E S S A N D R O T E R Z U L L I

M A C H E C I È V E N U T O I N M E N T E C O N L A B R E X I T ? 1 7 2di R U S S E L L B R A N D

I L M O T O R E N O N S I È S P E N T O 1 2 2di A L B E R T O M I N G A R D I

R E G I O N A L I Z Z A R E L A G L O B A L I Z Z A Z I O N E 1 2 6di D A R I O D I V I C O

L E D O N N E P O T R A N N O U S C I R N E P I Ù F O R T I D I P R I M A ? 1 3 2di A M Y B E R N S T E I N

L ’ U F F I C I O È U N L U O G O R E M O T O 1 3 6di L I D I A B A R A T T A

I L N U O V O A R T I G I A N O 1 4 0di M A R C O G R A N E L L I

I L B O O M D E L L A T V P O T R E B B E T R A S F O R M A R S I I N U N B U M 1 4 2di D A R I O R O N Z O N I

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e G I A N L U C A G I A N S A N T E

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U N A C O N V E R S A Z I O N E 1 5 2di V A N E S S A F R I E D M A N

I N O S T R I O C E A N I , I L N O S T R O F U T U R O 1 7 8di F A B I E N C O U S T E A U

L ’ U O M O A L C E N T R O D E L L A C U R A 1 8 2di O S C A R D I M O N T I G N Y

L A C I T TÀ C I R C O L A R E 1 8 6di M I C H E L E C R I S O S T O M O

N O T E U M A N I S T I C H E S U L L ’A N N O D E L L A PA N D E M I A 1 8 8di B R U N E L L O C U C I N E L L I

H O U N P I A N O P E R S A LV A R E I L M O N D O 1 9 2di V I V I E N N E W E S T W O O D

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C O M F O R T F O O D , C O S E C H E C I P I A C C I O N O U N M O N D O 1 9 6di I L A R I A P A R O G N I

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K N A U S G Å R D

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La guida globale all’anno 2020, pubblicata dal New York Times a di-cembre del 2019, annunciava come imminenti eventi di varia natura: a Tokyo, le più costose Olimpia-di estive della storia; a Dubai, il primo World Expo organizzato in Medio Oriente; a Bruxelles, il confezionamento di un “tappeto” composto da 500mila fiori e lungo 75 metri.

Ragazzi, non ci abbiamo preso. Dopo che la pandemia di Coronavi-rus ha spazzato il mondo, in molti Paesi le regole stabilite dalle au-torità sanitarie e le restrizioni de-gli spostamenti hanno causato la proibizione di ogni assembramen-to e hanno quindi costretto alla cancellazione di molti eventi o alla loro riprogrammazione per il 2021.

Eppure, nel nostro isolamen-to, abbiamo dato prova di una notevole capacità di adattamento. Prendiamo, per esempio, le prote-ste contro la brutalità della polizia che sono scoppiate in tutto il mon-do dopo la morte di George Floyd a Minneapolis in maggio. Oppure le corse ippiche del Royal Ascot, che si sono tenute a giugno nel Berk-

tivi o del mondo dell’arte che sono tradizionalmente biennali ma che ora sono previsti uno in seguito all’altro in anni successivi e delle versioni “digitali”, completamente nuove, di iniziative a cui in prece-denza si partecipava di persona. E, avanti, procediamo con un po’ di coraggio.

shire in Inghilterra, anche se, per la prima volta nei suoi sessantotto anni sul trono, la Regina Elisabetta non ha presenziato. O addirittura la Maratona di Tokyo, che si è svol-ta a marzo, un appuntamento che è stato mantenuto riducendone però la partecipazione a circa due-cento atleti di punta, mentre i cor-ridori che si erano originariamente iscritti erano trecentomila (è una

soluzione che gli organizzatori della maratona stanno prenden-do in considerazione anche per la corsa del 2021).

Così, l’agenda internazionale per il 2021 riflette sia l’impatto del lockdown sia il convincimento che le cose alla fine torneranno alla normalità. Ci troverete degli even-ti del 2020 che sono stati spostati al 2021, degli appuntamenti spor-

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E V E N T I

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O S C U O T E R A N N OD E L I C A T A M E N T E I L M O N D O

di M A S H A

G O N C H A R O V A

©️ 2020 THE NEW YORK TIMES COMPANY & MASHA GONCHAROVA

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G E N N A I O

C O N S U M E R E LE CT RO N I C S S H OW

Appuntamento chiave a Las Vegas dal 1979, il

CES (Consumer Electro-nics Show) organizzerà quest'anno la sua prima

edizione solo online,

piena di relatori, di di-mostrazioni dal vivo e di occasioni di digital networking – e con la promessa ai suoi più

di 170mila partecipanti virtuali di tornare sulla

Strip nel 2022.

S T A T I U N I T I

6–9 gennaio

A U S T R A L I A

18–31 gennaio

S V I Z Z E R A

Settimana del 25 gennaio

AU ST R A LI A N O P E NI giocatori di tennis che arriveranno nel

Paese per gli Australian Open potranno evitare

la quarantena di 14 giorni. Cinque cosiddette

“bolle biologicamente sicure” saranno aperte

sei settimane prima dell’inizio del torneo,

permettendo ai gioca-tori di acclimatarsi e di allenarsi. Attenzione,

però: agli U.S. Open del 2020, il francese Benoit

Paire è risultato positivo al Covid-19 proprio mentre si trovava in

una di queste bolle, un giorno prima dell’inizio

del torneo.

D I A LO G H I D I DAVO SChe aspetto avrà e come funzionerà una

Davos digitale? In primo luogo, verrà consumato molto meno carburante per aerei privati. E, per ora, saranno convo-cati online solo “Dialoghi di Davos” di

alto livello, per dare tempo agli organiz-zatori di decidere una data sicura per-ché i leader di tutto il mondo possano

partecipare di persona, visto che la loro agenda dei lavori prevederà una cosetta

da nulla come «tracciare un percorso comune per la ripresa e dar forma al

“Grande Reset” per l’era post Covid-19».

A sinistraVisitatori al CES di Las Vegas

In alto a destraI premi della Berlinale

A destraLa prima del film “Lady Macbeth” di William Oldroyd al Sundance Film Festival del 2017

SopraPartecipanti al World Eco-nomic Forum, il meeting che si tiene ogni anno a Davos, in Svizzera

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S T A T I U N I T I

28 gennaio – 3 febbraio

G E R M A N I A

11–21 febbraio

S U N DA N C E F I LM F E ST I VA L

Il Sundance Film Festival si adatta a cucinare la

sua rassegna cinemato-grafica con gli ingredien-ti che ha a disposizione

quest’anno. Benché negli ultimi tempi abbia abi-tualmente ospitato più di 100mila tra insider

dell’industria del cinema e sedicenti tali in una

località sciistica moda-iola come Park City in

Utah, nel 2021 il festival sfrutterà i severissimi

regolamenti sul distan-ziamento sociale come un’opportunità per de-mocratizzarsi, curando una versione della sua programmazione che sarà disponibile per il

pubblico in almeno ven-ti cinema di varie città degli Stati Uniti e forse anche in altri luoghi.

B E R LI N A LE ( G E N D E R N E U T R A L )

Un piccolo passo per un festival cinematografi-co internazionale, un

gigantesco balzo per l’u-guaglianza di genere. La Berlinale sarà il primo festival di alto livello a indicare i premi per le

migliori interpretazioni

con definizioni gender neutral, eliminando le

categorie “miglior atto-re” e “migliore attri-

ce” e premiando con il suo ambitissimo Orso d’argento la “migliore

interpretazione da pro-tagonista” e la “migliore interpretazione da non

protagonista”.

B I E N N A LE D I GWA N G J UNel 2020 la Bienna-

le di Gwangju, che si presenta come la più antica e grande bien-nale d’arte dell’Asia,

avrebbe dovuto avere come focus «lo spettro della mente estesa at-

traverso mezzi artistici e teorici» e come titolo “Minds Rising, Spirits Tuning”. È stata spo-

stata al 2021. E ora, con un salto in avanti verso un tempo in cui la gran

parte della socializ-zazione si verificherà comunque ancora su

Zoom, FaceTime o Skype, il tema assu-merà un significato

completamente nuovo.

C O R E A D E L S U D

26 febbraio–9 maggio

S T A T I U N I T I

9 marzo

E LI Z A B E T H H O LM E S A P RO C E S S O

Sette anni dopo aver lan-ciato Theranos, un’azien-da privata che promette-va di rivoluzionare i test

di laboratorio medici grazie all’utilizzo di pre-sunti metodi innovativi per il prelievo e l’analisi del sangue e per l’inter-pretazione dei dati rica-vati, Elizabeth Holmes e il suo partner d’affari (e per un certo periodo

anche partner nella vita) Ramesh “Sunny” Balwani andranno a processo con più di dieci imputazioni ©

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What’s your power?

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per frode (il dibattimen-to avrebbe dovuto inizia-re nel luglio 2020, ma è

stato rimandato). La lista dei testimoni

potrebbe comprendere l’ex segretario di Stato

americano Henry Kissin-ger, il presidente esecuti-vo di News Corp Rupert

Murdoch e l’ex segretario alla Difesa americano

James Mattis.

H O L A M O H A LL ALa festa sikh di Hola

Mohalla è una celebra-zione della durata di tre giorni dedicata alle arti

marziali, in cui i lottatori partecipano a esercizi

militari e a combattimen-ti simulati, dimostran-do le loro capacità, per

esempio nel maneggiare la spada o nell’andare a

cavallo. La festa ha avuto origine ai tempi del guru

sikh Gobind Singh che organizzò il primo evento di questo genere nella cit-tà di Anandpur nel 1701.

Dopo tutto quel com-battere, i partecipanti si dedicheranno ad attività più melodiose, come re-citare poesie o cantare

inni sacri.

E U ROV I S I O N S O N G C O N T E STIniziate il conto alla rove-scia! Sul palco dell’arena Ahoy di Rotterdam, che

nel 2020 era stata tra-sformata in un ospedale d’emergenza per ospita-re i malati di Covid-19, si svolgerà l’Eurovision Song Contest. Anche se le regole prevedono che siano presentate canzo-ni nuove, molte nazioni hanno deciso di farle co-munque interpretare agli artisti che erano già stati selezionati per l’edizione 2020 della gara, che è sta-

ta poi cancellata.

I N D I A

29–31 marzo

O L A N D A

18–22 maggio

S T A T I U N I T I

25 aprile

SottoDevoti sikh ad Amritsar, nel 2020, durante l’Hola Mohalla, una celebrazione che dura tre giorni dedi-cata alle arti marziali

In alto a destraL’olande-se Duncan Laurence festeggia la vittoria alla finale di Tel Aviv dell’Eu-rovision Song Contest 2019

A P R I L E

M A G G I OC E R I M O N I A D E G LI O S CA R

Lo show di premiazione dell’industria dell’enter-tainment sta facendo il

gioco dei quattro canto-ni: la Academy of Motion

Picture Arts and Scien-ces terrà la sua 93esima cerimonia degli Oscar

in aprile, due mesi dopo la data originariamente prevista, per allungare il periodo entro cui i film devono uscire per poter essere presi in conside-razione, visto che la pre-sentazione di molte pel-licole è stata posticipata

a causa della diffusione del Covid-19. Allo stesso modo, saranno conse-gnati in ritardo anche i Golden Globes, la cui

cerimonia di premiazio-ne, che si tiene di solito nella prima settimana di gennaio, quest’anno è stata fissata per il 28

febbraio. Anche i premi bafta, che spesso sono considerati un indicato-

re approssimativo di quello che accadrà

agli Oscar, saranno po-sticipati dal 13 febbraio

all’11 aprile.

I N D I A

Maggio

U N B U S P E R LO N D R AQual è la miglior cura per

riprendersi da un anno di lockdown? Per qualcu-no potrebbe essere pren-dere un autobus di lusso, il “Bus per Londra”, che partirà da Delhi e attra-verserà 18 Paesi dell’Asia

meridionale, dell’Asia Centrale e dell’Europa, viaggiando per 20mila chilometri e 70 giorni

nella sua marcia verso la capitale inglese. N

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A P R E U N N U OVO PA RC O D E LL A U N I V E R S A LLa Universal apre a Pechino il suo

quinto parco a tema. È stato annuncia-to che tra le attrazioni ci saranno sette specifiche aree – tra cui “La terra dei

minions”, “La fantastica terra di Kung Fu Panda” e “Il magico mondo di Harry

Potter” – e che biglietteria e ingressi saranno organizzati attraverso l’uso di

un sistema tecnologico per il riconosci-mento facciale supportato da Alibaba. Resta una sola domanda: dopo il Co-

ronavirus, i visitatori saranno davvero almeno dieci milioni ogni anno come

era stato previsto?

C I N A

Maggio

C O L O M B I A

E A R G E N T I N A

11 giugno–11 luglio

F R A N C I A

26–29 giugno

G I U G N O

TO U R D E F R A N C ESi pensava che il 2021 sarebbe

stato l’anno in cui tutto l’amore dei danesi per il ciclismo

avrebbe potuto mettersi in mostra, dal momento che la

tappa di apertura del Tour de France, nota come “Grand

Départ”, si sarebbe corsa per la prima volta in Danimarca.

Ma – sì, avete indovinato – questo storico evento ha dovuto

essere posticipato, in seguito a un conflittuale intreccio di date tra il Tour, i Campionati

europei e le Olimpiadi. I danesi dovranno aspettare il 2022 per ospitare il Grand Départ che

nel 2021 si correrà nella ventosa Bretagna: la città di Brest, nel

dipartimento del Finistère, ospiterà la partenza della gara per la quarta volta nella storia

del Tour.

C O PA A M É R I CAAmanti del calcio, prepa-ratevi per uno spettacola-re mese di giugno! Il più antico torneo internazio-nale di calcio del mondo,

la Copa América, che avrebbe dovuto disputar-si nel 2020, si svolgerà in contemporanea con gli Europei che si gioche-ranno anch’essi dal 11 giugno all’11 luglio. Di

conseguenza, il Campio-nato europeo femminile è stato spostato al 2022.

G I A P P O N E

23 luglio–8 agostoL U G L I OO LI M P I A D I D I TO K YO

Tokyo ospiterà con un anno di ritardo i primi

Giochi Olimpici sospesi della storia recente,

dopo che il Giappone ha dovuto misurarsi con sfide politiche,

economiche e logistiche che nessuna nazione

aveva mai dovuto affrontare, compresa la

scelta di dove conservare per un anno la fiamma

olimpica. La data di inizio delle Olimpiadi invernali di Pechino è fissata per il 4 febbraio

2022, a meno di sei mesi di distanza dalla fine dei

Giochi estivi.

In altoIl Brasile festeggia la Copa América del 2019

A sinistraI cerchi olim-pici già installati da-vanti al nuovo Japan Natio-nal Stadium di Tokyo

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U N A STAT UA P E R L A DY D

In quello che avrebbe dovuto essere

il sessantesimo compleanno della

principessa Diana, i suoi figli, il principe William, duca di Cambridge, e il principe Harry, duca del Sussex, stanno unendo le forze – nonostante la distanza fisica (e forse anche simbolica) tra Londra e Los Angeles – per l’erezione di una statua in onore della

loro madre nei Sunken Gardens del Kensington

Palace, in cui sono cresciuti entrambi.

I N G H I L T E R R A

1 luglio

R U A N D A

Settembre

I N I N T E R N E T

17 agosto

A G O S T O

K W I TA I Z I N AIn una cerimonia annua-

le che in kinyarwanda (la lingua nazionale del Ruanda) si chiama Kwi-ta Izina (cioè: “dare un nome”), i ranger, le gui-de, i guardiani e i veteri-nari scelgono dei nomi

per i cuccioli di gorilla di montagna nati nel Vol-

canoes National Park. La tradizione fa parte di un programma di eventi che dura una settimana e che è incentrato su una serie di iniziative per la salva-

guardia dei gorilla.

SottoIl gorilla di montagna Segasira nel Volcanoes National Park

A destraLady Diana, che nel 2021 avrebbe com-piuto ses-sant’anni

A D D I O , I N T E R N E T E X P LO R E R

Microsoft stacca la spi-na dopo 25 anni al suo

browser Internet Explo-rer. Il suo sostituto Mi-crosoft Edge utilizzerà

Chromium, un software

open-source sviluppato da Google su cui si basano anche Google Chrome e molti altri browser. Così Google espande dapper-tutto nell’universo onli-ne la sua influenza sugli standard della privacy.

F R A N C I A

11 settembre

S E T T E M B R E

M A R AT H O N D U M É D O CMentre corri su e giù per le colline vicino a Borde-aux, potresti fermarti a bere qualcosa – magari un Château Lafite Roth-schild. Naturalmente,

potresti accompagnarlo con qualche prelibatez-za locale – delle ostriche o una bistecca – per poi proseguire verso il tra-

guardo. È questo ciò che succede lungo i 42,195

chilometri della Mara-thon du Médoc, che alcu-ni considerano la corsa

più lunga del mondo per-ché prevede molte soste per mangiare, per bere e

per ascoltare concerti. A

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S C O Z I A

1-12 novembre

C O N E F E R N Z A O N U S U L C LI M A

Con il suo nome così armonioso, la venti-

seiesima “Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climati-

co aperta ai partecipanti alla Convenzione quadro

delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici” (altrimenti detta cop26) sarà il più grande vertice internazionale mai ospi-

tato dal Regno Unito.

Con il senno di poi, lo spostamento al 2021 di

questo summit si è rive-lato un vantaggio: con l’elezione di Joseph R.

Biden Jr. a presidente nel 2020, ci si aspetta che gli Stati Uniti facciano una virata di 180 gradi nelle

loro politiche sul cambia-mento climatico e sulla tutela dell’ambiente, in primo luogo tornando

ad aderire all’Accordo di Parigi.

A sinistraAlcuni tecnici camminano tra i “distretti” in costruzio-ne nel sito dell’ Expo di Dubai, origi-nariamente previsto per il 2020

Al centroBoris John-son e David Attenborough al lancio del summit sul clima COP26 a Londra

SottoLa corsa alla Luna continua con una mis-sione russa

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O T T O B R E N O V E M B R E

WO R LD E X P O A D U BA IDubai ospita con un

anno di ritardo il Wor-ld Expo, e sarà la prima località mediorientale a farlo nei 170 anni di sto-ria del Bureau Interna-tional des Expositions. All’Expo si attende la

partecipazione di più di

190 Paesi. «E le mascot-te?», vi chiederete. Come

vi abbiamo già detto l’anno scorso: «Impa-

ra a conoscere Rashid e Latifa mentre si imbarca-no in un entusiasmante

nuovo viaggio, guidati da Salama, il saggio albero

del ghaf!».

E M I R A T I A R A B I U N I T I

1 ottobre 2021–31 marzo 2022

M I S S I O N E LU N A R E RU S S ANel contesto di una corsa alla Luna che coinvolge

numerosi Paesi, la Russia ritorna nello spazio con la sua prima missione

lunare dal 1976. Il lander denominato Luna 25 si

dirigerà verso il polo sud lunare, segnando il pri-

mo passo di un piano per lanciare nel 2030 un vei-colo dotato di equipag-

gio che possa atterrare in quel punto.

R U S S I A

1 ottobre

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P R I M A O P O I N E L 2 0 2 1B A R B A D O S

Intorno a novembre 2021

S V I Z Z E R A N E G L I O C E A N I N E L L O S P A Z I O

E G I T T O

L ' E X C O LO N I A AC C O M I ATA L A R E G I N A

Barbados, un’ex colonia britannica indipendente

dal 1966, cerca di libe-rarsi ulteriormente dei residui del suo passato rimuovendo la Regina Elisabetta dal ruolo di sovrana del Paese – e

sarà il primo Stato a far-lo negli ultimi 30 anni circa. La regina rimane “monarca cerimoniale” negli altri 16 Paesi che

formano il Commonwe-alth, compresi Australia, Canada e Nuova Zelanda.

I M P O ST E PAG A B I LI I N C R I PTOVA LU TAFatti da parte,

contante! Nel cantone svizzero di Zugo, soprannominato

“Crypto Valley”, le criptovalute stanno

pacificamente sfidando la tua posizione di re.

I cittadini di quella parte della Svizzera

potranno scegliere di pagare le loro imposte

– fino a una cifra di 100.000 franchi (pari a circa 93.000 euro) – in

Bitcoin o in Ether.

I L D E C E N N I O D E G LI O C E A N I A LL ' O N U

Con il lancio del De-cennio delle scienze

oceanografiche per uno sviluppo sostenibile, le

Nazioni Unite sperano di riuscire finalmente a de-dicarsi all’elefante (ma-rino) nella stanza: e cioè

allo stato degli oceani di tutto il mondo, la cui salute declinante minac-

cia il benessere dei tre miliardi di persone per le quali il mare costitui-sce la fonte primaria di

proteine.

F I N I S C E I L R E A LI T Y D E I K A R DA S H I A N

Dopo quattordici anni, la stagione finale del re-ality “Keeping Up With the Kardashians” va in onda sul network E!.

Se durante questa loro interminabile e incom-prensibile avventura i

Kardashian sono riusciti a provare qualcosa è che la celebrità è una risorsa inesauribile che può es-sere sfruttata da chiun-que sappia come fun-

ziona una telecamera. O che non lo sappia.

SottoIl Miami Beach Convention Center trasformato in un centro per fare i tamponi per il Covid-19

SinistraUn operaio durante la co-struzione del Grande mu-seo egiziano a Giza

A P R E I L G R A N D E M U S E O E G I Z I A N OIl Grande museo egiziano, frutto di

uno dei più prestigiosi – e più rinviati – progetti di costruzione espositiva del Ventunesimo secolo, verrà inaugura-to a Giza e potrà vantarsi di mostrare

tutti insieme per la prima volta circa 5.600 oggetti della collezione di Tu-

tankhamon. In origine, l’apertura del museo era prevista per il 2011, ma ha

subito un notevole ritardo a causa del-le Primavere arabe.

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D I C E M B R ES T A T I U N I T I

2–5 dicembre

A RT BA S E L M I A M I B E AC HArt Basel Miami Beach, la più eccitante di tutte le fiere internazionali di Art Basel, tornerà dopo

un anno in cui è rimasta pressoché confinata nelle sue viewing room digita-li e in cui la sua sede, il

Miami Beach Convention Center, è stato utilizza-to come un ospedale da campo di riserva e come

luogo dove fare i tamponi per il Coronavirus con la modalità drive-through.

Un luogo straordinario a ridosso delle Alpi, ricco di tesori d’arte e naturalistici Un desiderio di dar vita a una viticoltura in equilibrio con l’ambiente, nel rispetto dei principi naturali e di sostenibilità. Una cultura antica dalla quale nascono vini pregiati, la cui vivacità accompagna da sempre brindisi e degustazioni dona piacere, leggerezza e gioia di vivere. Uno stile di vita inimitabile, riconosciuto in tutto il mondo, un prodotto unico, capace di illuminare ogni attimo.

Benvenuti in Franciacorta.

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taVERY ITALIAN, ERY FRANCIACORTA

I L B 2 0 I TA LY 2 0 2 1Con la presidenza del

G20, l’Italia sarà alla gui-da anche del B20, il sum-mit parallelo riservato a imprese e organismi di rappresentanza. Il 21-22

gennaio cominciano i la-vori, organizzati da Con-

findustria, coordinati dall’ex presidente Emma Marcegaglia e articolati in specifiche task force.

L A D I ST R I B U Z I O N E D E L VAC C I N O

Secondo le previsioni del ministro della Salute, Ro-berto Speranza, nel mese di gennaio (ma non si sa la data ufficiale, perché mancano ancora alcune autorizzazioni) dovrebbe cominciare la distribu-zione del vaccino an-

ti-Covid anche in Italia. Al momento sono state opzionate 202.573.000

dosi.

CA M P I O N AT I M O N D I A LI D I S C I

Dall’8 al 21, a Cortina d’Ampezzo si tengono i Campionati Mondiali di Sci alpino. Edizione nu-mero 46. Sarà il «primo grande evento interna-

F E ST I VA L D I S A N R E M OIl mese comincia con

la 71esima edizione del Festival di Sanremo, dal 2 al 6 marzo. A condur-re la popolare kermesse della canzone italiana

sarà, come l’anno prece-dente, Amadeus, che ha insistito per la presen-za del pubblico in sala.

«Senza, non è Sanremo». Colpisce l’altissimo nu-

mero (300) delle canzoni candidate. «Almeno il triplo rispetto all’anno

scorso. Nessuna per for-tuna parla di Covid». Un centinaio, assicura, sono

davvero belle.

F I N E D E L B LO C C O D E I LI C E N Z I A M E N T I

Il 3 scadrà il blocco dei licenziamenti (per giusti-ficato motivo oggettivo),

zionale post-Covid, op-pure il primo durante il

Covid», secondo Alessan-dro Benetton, presidente della Fondazione Cortina 2021. Attesi, salvo restri-

zioni, 600 atleti da 70 nazioni per 13 titoli mon-diali in palio. Insieme a loro oltre 6mila addetti

e 60mila spettatori. «Nu-mero dimezzato rispetto alle previsioni per rispet-tare i limiti imposti dalla

pandemia».

prorogato dal decreto Ristori fino al 31 gennaio e poi prolungato a tutto marzo dalla Legge di Bi-lancio. Il provvedimento era stato accompagnato

con una cassa integrazio-ne di 12 settimane.

lano, Torino, Napoli e Bologna. Ci saranno in-

dicazioni sul futuro della politica nazionale? Nel 2016 la vittoria di due esponenti grillini, uno

alla guida della capitale e l’altro a Torino antici-pò gli esiti delle politi-

che del 2018. I tempi per la campagna elettorale

sono però stretti e con la pandemia ancora in atto c’è chi scommette che il voto slitterà a settembre.

S A LO N E D E L LI B RO D I TO R I N O

A Torino dal 13 al 17, la 33esima edizione del

Salone del Libro. Dopo il mezzo stop della scor-sa edizione, quando la pandemia ha obbligato l’organizzazione a mi-

grare online, si torna al Lingotto. Il titolo “Vita

Supernova” celebra il set-tecentesimo anniversario dantesco. E, come sem-pre, ci saranno incontri e conferenze con nomi

di rilievo della scena cul-turale ed editoriale (non

solo italiana).

B I E N N A LE D I A RC H I T E T T U R A

L’apertura ritardata del-la 17esima Biennale di

Architettura di Venezia, curata quest’anno da

Hashim Sarkis, potrebbe segnare l’inizio di un ac-cumulo di appuntamenti post-pandemia nel mon-

D E A D LI N E P E R I L R E C OV E RY F U N D

È fissata per il 30 aprile la deadline per la presenta-

zione dei piani nazio-nali per beneficiare dei fondi del Recovery and Resilience Facility. Con i suoi 672,5 miliardi di

euro sui 750 totali, il pro-gramma costituisce la

componente più impor-tante del Next Genera-tion Eu, lo strumento

con cui l’Unione europea distribuirà i fondi per la ripresa economica e so-

ciale post-pandemia. Sarà necessario delineare pro-grammi di investimento

e riforme precisi secondo le indicazioni dell’Ue.

G E N N A I O

I N I T A L I A

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E LE Z I O N I I N 1 . 2 5 5 C O M U N ISi vota per l’elezione dei sindaci di 1.255 comuni. L’attenzione però sarà

tutta per i risultati delle grandi città: Roma, Mi-

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Un luogo straordinario a ridosso delle Alpi, ricco di tesori d’arte e naturalistici Un desiderio di dar vita a una viticoltura in equilibrio con l’ambiente, nel rispetto dei principi naturali e di sostenibilità. Una cultura antica dalla quale nascono vini pregiati, la cui vivacità accompagna da sempre brindisi e degustazioni dona piacere, leggerezza e gioia di vivere. Uno stile di vita inimitabile, riconosciuto in tutto il mondo, un prodotto unico, capace di illuminare ogni attimo.

Benvenuti in Franciacorta.

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taVERY ITALIAN, ERY FRANCIACORTA

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do dell’arte. L’edizione 2021 della Biennale di Ve-nezia, che probabilmente è il più importante even-to artistico del mondo, è stata già spostata e si terrà dal 23 aprile al 27 novembre del 2022: ciò

significa che andrà a so-vrapporsi a Documenta, la manifestazione che si

tiene ogni cinque anni in Germania (e che è previ-

sta nel periodo che va dal 18 giugno al 25 set-

tembre del 2022), e con la Biennale di Lione, che è stata a sua volta rinviata e che aprirà nel settem-

bre del 2022.

è stato un successo collettivo, «in cui la

risposta di tutti è stata all’altezza delle nostre migliori aspettative».

S A LO N E D E L M O B I LE D I M I L A N O

Edizione numero 60 per il Salone del Mobile

di Milano, la fiera di riferimento mondiale

del settore arredo e design. Nelle intenzioni degli organizzatori sarà quella della ripartenza. Dopo lo stop del 2020 scivola, per sicurezza,

da aprile fino alle soglie dell’autunno.

Un grande evento che coinvolgerà tutte le

categorie del settore: se davvero la pandemia

sarà alle spalle, verrà ricordato come il più

festoso di sempre.

YO U T H 4 C LI M AT EDal 28 al 30 settembre

Milano ospiterà YOUTH4CLIMATE, un evento dedicato ai giovani di tutto il

mondo che rientra nel quadro della cop26, la Conferenza delle Nazioni Unite sui

cambiamenti globali, prevista a Glasgow

dal 1 al 12 novembre. A seguire, dal 30 al 2

ottobre ci sarà la “Pre-cop26”, la sessione di preparazione in vista

dell’incontro in Scozia.

E U RO P E I D I CA LC I OL’11 giugno 2021

a Roma si terrà la partita inaugurale del Campionato europeo

di calcio 2020 (un anno dopo). La nuova formula,

pensata per festeggiare il 60esimo anniversario

degli Europei, distribuisce tra 12 città

(senza affidarsi a una/due nazioni) l’organizzazione

della fase finale del torneo. Il primo incontro

è all’Olimpico: qui la nazionale italiana

giocherà contro la Turchia. La finale è invece

al Wembley Stadium di Londra l’11 luglio.

M O ST R A D E L C I N E M A D I V E N E Z I A

Dal 1 settembre comincia l’edizione

numero 78 della Mostra internazionale del

cinema, che durerà fino al 12. È uno dei pochi festival di cinema che

nel 2020 hanno scelto di resistere alla pandemia, allestendo una versione ridotta e in conformità

con i protocolli di sicurezza. Il vincitore fu “Nomadland” di Chloé

Zhao, ma per il direttore artistico Alberto Barbera

I L G 2 0 A RO M AIl 30 e 31 ottobre Roma sarà teatro del primo

vertice italiano del G20. La scelta è stata defini-ta dopo una attenta va-lutazione dei problemi logistici, di sicurezza e

di accoglienza. In un pri-mo tempo, il presidente del Consiglio, Giusep-pe Conte, aveva propo-sto come sede Bari, che risulta però inadeguata per ospitare un summit

con 20 delegazioni e circa 40mila ospiti.

G LO BA L H E A LT H S U M M I TCome confermato dal presidente della Com-

missione europea, Ursula Von Der Leyen, l’Italia ospiterà il Global Heal-th Summit, in una data ancora da fissare. Come sede di svolgimento si

sono già proposte Mila-no e Bergamo (tra i centri

più colpiti dalla prima ondata pandemica), ma è stato fatto anche il nome di Trieste (visto il succes-so di Esof) e di Firenze.

Qualcuno ha anche avan-zato l’ipotesi Romagna.

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I N I Z I A I L S E M E ST R E B I A N C O

Il 3 agosto inizia il seme-stre bianco, il periodo finale del mandato del

presidente della Repub-blica italiana durante il

quale non può sciogliere le Camere e il voto anti-cipato diventa impossi-bile. Sergio Mattarella è stato eletto il 31 gennaio del 2015. Chi sarà il suc-cessore? In mancanza

di una figura in grado di mettere d’accordo i par-titi, secondo alcune voci potrebbe essere ancora

lo stesso Mattarella.

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insegnato a chiamarla recessio-ne e a darne la colpa all’avidità delle multinazionali.

Un anno normale, non come il 2015, quando a Parigi te ne sta-vi lì bello sereno a un concerto, chiedendoti se la tipa che avevi portato a sentire quel gruppo poi ti avrebbe chiesto di salire a casa, pensando che la cosa più impor-tante che dovevi ricordarti di fare quella sera l’avevi fatta, mentine in una tasca e profilattici nell’al-tra, eri uno previdente, conside-rato anche che dagli anni Ottan-ta per quel cazzo di Aids ancora non avevano trovato un vaccino e l’idea che lo prendessero solo

pomiciata poteva ucciderti era un bel problema.

Un anno normale, non come il 1983, quando Eddie Murphy portava in giro per i teatri ame-ricani e poi in televisione, sulla prestigiosa Hbo, un monologo in cui diceva che aveva paura che la sua ragazza prendesse l’Aids in discoteca con l’amico gay, su-dandosi addosso, e poi tornasse a casa e glielo attaccasse.

Un anno normale, non come il 1944, quando a Napoli si beve-va la cicoria perché il caffè era troppo caro, lo trovavi solo al mercato nero, era per le grandi occasioni, e neppure ti avevano

E se il 2021 fosse un anno norma-le? Normale: con gli agi e i disagi che è normale esistano.

Un anno normale, non come il 1977, quando a Milano cammi-navi bello tranquillo per strada e dal niente spuntavano dei tizi che volevano cambiare il mondo e nell’attesa ti sparavano.

Un anno normale, non come il 1603, quando a Londra non solo non potevi andare a teatro a vedere Otello, giacché i teatri venivano chiusi ogni volta che l’epidemia di peste faceva più di trenta morti a settimana, ma neanche potevi guardare Netflix sul divano, giacché l’invenzione dello streaming avrebbe tardato persino più di quella dei vaccini.

Un anno normale, non come il 1980, quando a Bologna te ne stavi bello sereno al primo bi-nario ad aspettare il treno che t’avrebbe portato alle tue ferie d’agosto, canticchiando “Colpa d’Alfredo” senza che nessuno ti dicesse che non eri inclusivo perché era una canzone razzista sessista e forse pure abilista, te ne stavi lì senza un problema al mondo, e un attimo dopo non c’eri più, perché la stazione era saltata per aria.

Un anno normale, non come il 1982, quando solo negli Stati Uniti c’erano 852 morti per Aids, e alla Casa Bianca i giornalisti ridacchiavano chiedendo se il presidente fosse preoccupato per questa malattia di, insomma, gente dalla morale non proprio specchiata, e nessuno era ben sicuro di come si prendesse ma soprattutto di come non si pren-desse: si poteva limonare? Sicuri sicuri che la saliva no? Se eri un ragazzino, pensare che la prima

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i gay s’era dimostrata infondata, eri lì che tenevi il ritmo col piede e poi mica lo sai che è successo, qualcuno ha cominciato a spa-rare, più di qualcuno, erano pa-recchi, e dopo un po’ c’erano più morti di quanti se ne vedano in un film d’azione.

Un anno normale, non come il 1869, quando senza neanche prometterti una flat tax o farti detrarre l’affitto del mulino co-minciarono a tassarti la macina-tura del grano, e neanche c’era-no i talk show per andare a la-mentarti degli sprechi di Stato, delle auto blu, della casta che ti arrubbava il futuro.

Un anno normale, non come il 1954, quando il prezzo medio d’un frigorifero corrispondeva a sei mesi di stipendio medio, e d’altra parte i lussi son lussi, mica pretenderai che avere il lat-te fresco in casa che non marci-sce per più d’un giorno e mezzo sia una cosa che costa pochi spic-ci, dove credevi di vivere: in un romanzo di fantascienza? Chi credi di essere: la generazione che si proclama la più disagiata di tutti i tempi?

Un anno normale, non come il 1961, quando le lavatrici era-no una tale costosa avanguardia che le più metropolitane delle

nostre nonne lavavano i panni nella vasca, e le più campagnole andavano a lavarli al fiume, che se pensiamo a che tragedia ci sembrino adesso quei due gior-ni in cui non dico si stia senza lavatrice, ma anche solo si rom-pa l’asciugatrice e tocchi, san-to cielo, fare quel primitivo ge-sto di stendere i panni bagnati, sembra di parlare d’un milione d’anni fa, e quasi passa la voglia di dire che nessuno è mai stato povero, infelice, stressato come noi, noi con la memoria storica dei pesci rossi.

Se devo esprimere un deside-rio, vorrei un 2021 normale.

In cui ci lamentiamo di stron-zate e diciamo che siamo i più sfortunati, i più economicamen-te in difficoltà, i più provati dal logorio della vita moderna che si-ano mai esistiti, e nessuno ci ride in faccia. In cui, come nel 2020, Time possa titolare che questo è stato «l’anno peggiore di tutti i tempi», e tutti possiamo annuire forte, perché il senso del ridicolo l’abbiamo eliminato assieme ad altre anticaglie.

Il 2020 è l’anno in cui abbia-mo scoperto che, se c’impegnia-mo, un vaccino per una malat-tia pericolosa lo troviamo in sei mesi, e c’è caso che col vaccino i teatri possano riaprire prima dei dieci anni che servirono nel Seicento.

Il 2021 sarà l’anno in cui ma-gari applicheremo il bicchiere mezzo pieno alle difficoltà reali, invece che a quelle immaginarie, e troveremo il vaccino per quel-la malattia degli anni 80, quella che ci portiamo dietro da quan-do non ci consideravamo i più sfortunati di tutti i tempi.

Nel 2020, come in tutti gli anni, ci

sono stati disastri (gli incendi in

California, foto in apertura) e tentativi di

ripartenza (qui, un padre con la

figlia, in Cile, tre mesi dopo la morte

della moglie per Covid-19)

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Come molti dei miei concittadini sono rimasto sconcertato quando il presidente Donald Trump si è rifiutato, di fronte alla sconfitta elettorale del 3 novembre, di avviare una transizione pacifica. Lo ha detto a ottobre dello scorso anno, quando nei sondaggi figurava in costante svantaggio ri-spetto a colui che si sarebbe rivelato il vincitore: l’ex vicepresidente Joe Biden.

A rendere la situazione ancora più grave ci ha pensato poi il senatore dello Utah Mike Lee, un repubblicano che siede nella Commissione Giu-stizia del Senato, il quale ha dato seguito alle af-fermazioni di Trump con un tweet: «La democra-zia non è l’obiettivo; lo sono invece la libertà, la pace e la prosperità. Noi vogliamo che la condi-zione umana prosperi. Una democrazia marcia può ostacolare il raggiungimento di questo obiet-tivo». Democrazia marcia? L’unica cosa da salvare in questa dichiarazione è il fatto che finalmente un politico repubblicano è stato onesto sulle sue intenzioni. Questo potrebbe essere un punto di svolta nella narrazione del nostro Paese e per il dibattito pubblico nazionale.

Se non ci dovrà essere una transizione paci-fica – o anche solo tranquilla – dei poteri presi-denziali, e persone come il senatore Lee l’avran-no avuta vinta e avremo davvero abbandonato la democrazia, a quel punto le nostre vite e la nostra concezione degli Stati Uniti come baluardo della rappresentanza popolare e del rispetto dei diritti umani cambieranno per sempre.

Più di un anno fa, nel mio libro “Popolo, pote-re e profitti. Un capitalismo progressista in un’e-poca di malcontento” (Einaudi) ho riflettuto sul dilemma che deve affrontare il Partito repubbli-cano. Ha sostenuto una serie di politiche contra-rie al volere della maggioranza degli americani, favorevole all’assistenza sanitaria universale, a un accesso all’istruzione più facile, a salari mi-nimi più alti, al controllo più rigoroso sulla ven-dita delle armi e così via.

L’unico modo in cui il Partito repubblicano può mantenere il suo potere è attraverso politi-che antidemocratiche, privando le persone dei diritti civili (impedimento del voto) o togliendo forza alla loro voce (manipolazione delle circo-scrizioni elettorali) fino a completare la compo-sizione della Corte Suprema per limitare, in que-

Nel mezzo di una pandemia devastante per gli Stati Uniti, un numero record di elettori americani ha scelto Joe Biden come presidente. Secondo il premio Nobel per l’economia potrebbe essere il punto di svolta

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Un fulmine squarcia il cielo del New Hampshire mentre Donald Trump scende dall’Air Force One ad agosto durante la campagna elettorale presidenziale

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Negli anni della mia giovinezza, a Gary, India-na, a scuola ci venivano insegnati i punti di for-za della democrazia americana, ci spiegavano il nostro sistema di pesi e contrappesi e ci veniva illustrato il concetto di Stato di diritto. Era una democrazia dove la voce della maggioranza era espressa con chiarezza ma i diritti della minoran-za venivano rispettati. Non si parlava di fiducia – era scontata – o di fragilità istituzionale, cose che affliggevano invece le repubbliche delle banane.

Guardavamo dall’alto in basso gli altri Paesi, dove il denaro infangava il processo politico. Tut-te cose che precedevano alcune decisioni della Corte Suprema, come la sentenza “Citizens Uni-ted versus the Federal Election Commission”, con cui fu consacrato il ruolo economico delle grandi società nel processo politico. Per noi era impos-sibile anche solo immaginare un’America domi-

sto modo, il raggio di azione di un Parlamento o di un presidente democratico.

Abbiamo visto ciò che i Repubblicani hanno effettivamente fatto in questi anni, ed era in con-trasto con tutto il loro patriottismo, con i conti-nui richiami alla Costituzione degli Stati Uniti. Adesso hanno cominciato a parlare delle loro in-tenzioni in maniera più chiara e forse possiamo discutere sul tipo di Paese che vogliamo diventi l’America. Siamo d’accordo con il senatore Lee sulla questione dei veri obiettivi? Questi obiettivi giustificano i mezzi? Siamo disposti a rinunciare alla nostra democrazia per ottenerli? E rinuncia-re alla democrazia ci porterebbe davvero a rag-giungerli? Di sicuro, la storia ci fornisce molti segnali di allarme.

Gli ultimi quattro anni ci hanno reso consape-voli della profonda fragilità delle nostre istituzio-ni, quelle che garantiscono l’uguaglianza, la liber-tà politica, una pubblica amministrazione di qua-lità, una stampa libera e attiva e lo Stato di diritto.

Quando ero capo economista della Banca mondiale, circa 20 anni fa, insegnavamo ai Pa-esi a costruire istituzioni funzionanti. All’epoca il nostro modello e metro di paragone erano gli Stati Uniti. Non eravamo sicuri di come si creas-sero buone istituzioni, non sapevamo nemmeno dare una definizione esatta di questa espressione, ma quando le vedevamo le riconoscevamo. Com-prendevano sia buone regole sia buone prassi e le società efficienti le avevano entrambe. Era ne-cessaria la presenza di uno Stato di diritto, ma le norme sociali rispettate da tutti i cittadini aveva-no una maggiore flessibilità. Non è possibile tra-sformare in legge tutto ciò che rientra nella defi-nizione di “buona abitudine”: il mondo è troppo complesso e in continuo cambiamento.

Poco tempo dopo sono diventato presidente di un gruppo internazionale, la commissione per la “Misurazione del rendimento economico e del progresso sociale”. Il nostro obiettivo era studia-re le economie sane, dove i cittadini godevano di un elevato livello di benessere, e individuare gli elementi che contribuivano a creare e sostenere queste società. Un ingrediente su cui ci concen-travamo, spesso tralasciato nelle analisi prece-denti, era la fiducia dei cittadini l’uno nell’altro e nelle istituzioni.

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Poliziotti contro i manifestanti nei pressi del palazzo di giustizia Mark O. Hatfield di Portland, in Oregon, ad agosto

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Il sequestro di persona di alcuni manifestan-ti pacifici, avvenuto la scorsa estate a Portland, Oregon, da parte di personale di sicurezza non adeguatamente identificato e a bordo di automo-bili non contrassegnate, suscita in noi un brutto presentimento. Porta con sé l’odore acre delle camicie brune di Hitler. Lo stesso vale per le af-fermazioni di un presidente che si dichiara, per dirla in breve, al di sopra della legge o del risul-tato di un’elezione libera e regolare.

Supponendo, tuttavia, che la nostra democra-zia sopravviva, allora questo momento critico po-trebbe condurci in una direzione del tutto diver-sa: affronteremo cioè il compito, più arduo ma rinvigorente, di rafforzarla. Abbiamo conosciuto i suoi punti deboli, tastato la fragilità nella sua struttura. Abbiamo visto la potenza distruttiva del denaro nella nostra politica, che mina la fi-ducia e inasprisce le disuguaglianze sociali. Ab-biamo visto come questo processo porti a una maggiore polarizzazione e abbia trasformato un sistema virtuoso, fatto di pesi e contrappesi, in un sistema di stallo e scontro.

Ma non riusciremo a ripristinare né la fidu-cia né un sentimento di coesione sociale finché non affronteremo, in maniera diretta, l’intreccio delle nostre disuguaglianze razziali, etniche ed economiche. Sono linee di faglia che ci divido-no e minano il senso di solidarietà, necessario per la democrazia.

Ricostruire la nostra democrazia sarà arduo ma ci farà rialzare. Perché “democrazia” significa molto di più che una elezione ogni quattro anni. Le democrazie che funzionano implicano un im-pegno civile di ampio raggio, vissuto in una gran-de varietà di istituzioni che operano nella società. L’azione collettiva non riguarda solo il governo o le istituzioni pubbliche, né distrugge l’indivi-dualità o la libertà; al contrario le può rafforzare consentendo a tutti di stare meglio.

Abbiamo visto avvicinarsi la fine dei nostri amati diritti, abbiamo guardato nell’abisso e con-templato cosa ci aspettava là sotto. Una visione terribile che forse ha dato la spinta decisiva al ri-torno di quella solidarietà nazionale, di cui oggi, il popolo americano ha un grande bisogno, per ricostruire la nostra democrazia.

nata in via permanente da una minoranza poli-tica che si fa beffe dei diritti della maggioranza.

Ebbene, negli ultimi anni abbiamo avuto un presidente che ha fatto scempio delle regole. Sen-za volerlo, però ci ha insegnato a non dare per scontate le nostre buone prassi. Ha anche messo in chiaro che ormai è necessario tradurre in leg-ge alcune abitudini consolidate, come il rispet-to per il ruolo degli ispettori generali, la preven-zione dei conflitti di interesse e la divulgazione delle dichiarazioni dei redditi.

Spero che questo momento critico nel nostro dibattito pubblico non costituisca anche un pun-to di svolta nel futuro della nazione. Se a prende-re decisioni rimarranno persone che disprezzano la democrazia, come il presidente Trump e il se-natore Lee, la storia ci ha insegnato dove andre-mo a finire. Si vedono già alcuni indizi.

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Se pensate che gli anni che abbiamo alle spalle, diciamo dal 2016 in poi, siano stati caratterizzati dal proliferare di teorie della cospirazione, fake news, post-verità e qualunque altro orrendo neo-logismo possiate immaginare, aspettate di vede-re i prossimi.

Prima di proseguire, però, mettiamoci d’accor-do su un punto. Prevedere catastrofi è sempre un pessimo investimento: se poi non si verificano, quelli che hai inutilmente spaventato non manche-ranno di fartela pagare; e in caso contrario, avran-no tutti altro a cui pensare. Dunque premetto che anch’io, come ciascuno di voi, spero che l’arrivo dei vaccini ci permetta di superare una volta per tutte questo periodo angoscioso, e che le fosche profezie sulla comparsa di nuovi virus non meno letali del Covid si rivelino infondate. Temo però che in ogni caso le conseguenze psicologiche – e dunque anche sociali e politiche – dell’esperienza vissuta dall’intera umanità nel corso del 2020 ci accompagneranno per un bel po’. E penso che una delle prime sarà proprio una nuova primavera del

complottismo globale, alla quale mi sembra pe-raltro che Donald Trump, cui non manca il fiuto, abbia cominciato a prepararsi per tempo. Le forze democratiche, al contrario, continuano a sembrar-mi piuttosto disarmate dinanzi a una simile mi-naccia, forse anche per un difetto di comprensione.

Gli intellettuali progressisti tendono infatti a considerare le teorie della cospirazione in due modi: come una lettura semplificata della realtà, che deve il suo successo proprio alla capacità di sol-levarci dalla gravosa fatica del pensare (duro com-pito al quale essi, ovviamente, mai si sottraggono); e come qualcosa di completamente estraneo, un problema che riguarda esclusivamente gli altri.

Quanto al primo punto (il complotto come ver-sione semplificata di una realtà troppo complessa) basta guardare alle teorie fiorite attorno all’11 set-tembre. Un ingenuo potrebbe pensare infatti che una macchinazione internazionale ordita da una rete terroristica diffusa su tutto il pianeta per get-tare nel caos le democrazie occidentali, tutto som-mato, dovrebbe essere abbastanza per gli aman-

Gli intellettuali progressisti tendono a considerare le teorie della cospirazione come una lettura semplificata della realtà e come una malattia che colpisce

esclusivamente gli altri. Ma si tratta di due errori

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le del saggio di profitto è a dir poco controversa, mentre la pace punitiva e l’umiliazione della Ger-mania erano un fatto. Come esempio del potere seduttivo dell’irrazionalità dinanzi all’apparente aridità della ragione, se ne poteva certo scegliere uno migliore: ma nessuno ci fece caso, perché ir-razionali sono sempre gli altri. E figurarsi se un intellettuale poteva avere dubbi su chi facesse ap-pello alla ragione e chi al pregiudizio, in un dibat-tito tra un marxista e un nazista.

In verità, sono pochissime le personalità al ver-tice del potere politico o economico, dell’accade-mia, dell’arte o dello sport che non abbiano mai manifestato la convinzione che i fatti essenziali della storia del mondo dipendano dalle macchi-nazioni di una ristretta cerchia di persone. Che a tirare i fili dietro le quinte sia la lobby gay, come pensano gli oscurantisti, o invece l’Opus Dei, come ripetono gli anticlericali, tutto sommato, non cam-bia molto. Alla fin fine stiamo sempre parlando dello stesso primordiale bisogno di riordinare il caos e soprattutto l’insopportabile arbitrio del caso nelle nostre vite.

Eccettuati i casi più estremi, la maggior par-te dei sospetti sollevati dai complottisti sono del resto non tanto infondati, quanto indimostrabili. Una sfilza di indecidibili interrogativi cui l’unica risposta seria che si possa dare, il più delle volte, è semplicemente: boh.

Ma in questo il complottista è tragicamente si-mile a ogni genere di fanatico: tutto può accettare come risposta, tranne il realistico riconoscimento della parzialità delle nostre conoscenze. Che sono tanto incomplete e imperfette da non permetterci di escludere nemmeno che a volte, con una pro-babilità prossima ma pur sempre superiore allo zero, abbia persino ragione lui.

Per lo stesso motivo, personalmente, non posso escludere che proprio l’esperienza della pandemia, imponendo alla nostra attenzione il peso del caso sulle nostre vite, ma anche quello della razionalità, intesa anzitutto come capacità di prevenire e pro-grammare, produca un effetto contrario a quello da me pronosticato, aprendo la strada a una lunga stagione di governi e movimenti politici fondati sul valore della razionalità e della responsabilità. Teoricamente, è plausibile. Però, siamo seri, voi ci scommettereste?

ti del genere cospirazionista. E invece, come ben sappiamo, l’argomento dei complottisti è proprio l’opposto: troppo semplice!

Il ritornello è sempre lo stesso: la realtà non è mai come appare. Di conseguenza, se non può essere più grande, dev’essere più piccola. Spesso anche grottescamente, imparagonabilmente più piccola. Come è imparagonabile e ridicolo, nonché anacronistico, di fronte allo spettro di una jihad globale, il gergo a metà tra il poliziottesco e la propaganda estremista anni 70 di tanti libri, ar-ticoli e documentari sull’11 settembre, la strage di Charlie Hebdo o le origini dell’Isis, con le loro allusioni a oscure manovre di Israele e della Cia. Magari fosse tutta una montatura della Cia! Non ci mettereste subito la firma?

Quello che conta non è dunque il bisogno di semplificare, ma di rendere prevedibile, che è un’e-sigenza innata dell’animo umano, e agisce impla-cabilmente anche sulle menti più raffinate. Anzi, direi soprattutto sulle menti più raffinate. E vengo così al secondo punto, all’idea cioè che il complot-tismo sia una malattia che aggredisce soltanto le persone rozze e poco inclini alle fatiche del pen-siero critico. Ebbene, anche qui, è molto spesso vero il contrario. Per fare un solo esempio, non c’è al mondo fan più sfegatato del pensiero critico di un terrapiattista, il quale per sostenere le sue teo-rie non esiterà a sciropparsi intere biblioteche di studi scientifici e pseudoscientifici, astrusi calco-li astronomici, assurde ma non per questo meno complicate teorie fisiche alternative.

Ricordo ancora un convegno di tanti anni fa in cui uno dei maggiori filosofi italiani rievocò, citan-do Ernst Bloch, un pubblico dibattito avvenuto a Berlino nel 1933 (uno degli ultimi, evidentemente) tra un comunista e un nazista, contrapponendo l’arida razionalità dell’intellettuale marxista che pretendeva di spiegare agli operai la legge della ca-duta tendenziale del saggio di profitto, lasciandoli molto perplessi, alla capacità del suo avversario di fare appello alle loro passioni più elementari, parlando dell’orgoglio ferito dei tedeschi e della pace punitiva inflitta alla Germania. Fermo restan-do che i nazisti sono stati indubbiamente tra i più terribili diffusori di falsificazioni e manipolazioni della storia, a nessuno, che io ricordi, venne natu-rale osservare che la legge della caduta tendenzia-

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Il movimento complottista

americano QAnon, nonostante

la sconfitta di Trump, ha eletto

a Washington alcuni deputati e

continuerà a farsi sentire anche nel

2021 e oltre

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UN RITORNO

Tramontata l’orribile epoca Trump, con Joe

Biden gli Stati Uniti devono puntare non a un ripristino ma a

una reinvenzione dei tradizionali rapporti

con gli alleati e il resto del mondo

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Le cose vanno dette: il presidente Donald Trump ha attaccato il cuore della democrazia america-na, ma la democrazia americana ha resistito alla sfida. Joe Biden entra in carica in gennaio come quarantaseiesimo presidente degli Stati Uniti. Il decoro tornerà alla Casa Bianca: è un determi-nante mutamento morale. I dittatori sparsi in tutto il mondo non avranno più carta bianca per fare indisturbati del loro peggio.

Biden, con 306 grandi elettori, lo stesso nu-mero ottenuto da Trump nel 2016 quando definì la sua vittoria «un trionfo schiacciante», ha lar-gamente prevalso. Tutte le proteste e le sbruffo-nerie di Trump non potranno annullare questo dato di fatto. L’oscenità del rifiuto di concedere la vittoria da parte del presidente è percepita in modo attenuato in un Paese assuefatto all’inde-cenza. Ma, ciò nonostante, mostra la reale entità del tentativo di Trump di sovvertire le istituzioni e le tradizioni democratiche.

Lo sbandamento autoritario in America è sta-to un pericolo vero. L’Europa si sentiva già sola nella sua difesa della rule of law e dei diritti uma-ni. Quella voce infida, adulatoria, lamentosa che proveniva dalla Studio Ovale, e che trasudava nar-cisismo, è penetrata nelle teste di tutti. Il genio politico di Trump risiede nella sua sensibilità per il lato oscuro della natura umana e nella sua ener-gia formidabile, a cui fanno da combustibile i so-cial media, nel vellicarlo. Il volume si è abbassato mentre l’incubo sta svanendo. E, di colpo, c’è uno spazio mentale per pensare di nuovo.

Ci sono molte cose alle quali pensare. L’or-dine mondiale post 1945, guidato dall’America,

Il mandato del quarantaseiesimo presidente degli Stati Uniti comincia il 20 gennaio 2021: non sarà facile per Joe Biden far tornare l’America grandeA

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repubblicana, appartenente alla destra estrema e armata di una Glock, che è appena stata eletta al Congresso.

Tra i liberal e l’altra America che la pensa in modo diverso è collassato perfino il modo stesso di esprimersi. Trump, un impostore di genio, ha visto lo spazio politico che tutto questo apriva da-vanti a lui. La sua nostalgia è rivolta a un qualche indefinito momento della grandezza americana, in cui i proprietari maschi bianchi comandava-no da soli, le donne stavano a casa e il dominio globale degli Stati Uniti era incontrastato. Trump ha avuto successo grazie all’ansia e al senso di umiliazione provocati dai rapidi mutamenti de-mografici e dalle alterazioni nel panorama eco-nomico. È improbabile che lui scompaia. E, se lo facesse, magari in una cella di una prigione, il trumpismo troverebbe qualche altro interprete.

Biden farà alcune cose rapidamente: aderirà nuovamente all’Accordo di Parigi sul climate change; riaffermerà l’importanza dei valori ame-ricani, inclusa la difesa della democrazia e dei diritti umani; ricostruirà i vacillanti rapporti con l’Unione europea e gli alleati in tutto il mondo; rimetterà nel suo giusto posto la verità, di modo che la parola dell’America valga di nuovo qualco-sa; rifiuterà l’approccio a somma zero di Trump, che non è riuscito a comprendere i reciproci be-nefici del libero commercio e di un ordine glo-bale basato su regole.

In Medio Oriente, Biden sterzerà lontano dall’acritico supporto verso Israele di Trump, per dirigersi verso un più equilibrato approccio dell’America riguardo al conflitto con i palestine-si e cercherà una strada per rianimare l’accordo sul nucleare con l’Iran. Restituirà un metodo alla politica americana. Anzi, ripristinerà la politica, al posto della pancia e degli impulsi istintivi che sono stati il modus operandi di Trump, in par-ticolare nel caso della sua caotica reazione alla pandemia.

Questa ristrutturazione da parte di Biden e tutta buona e giusta, ma il mondo è andato avanti e la ricerca dello status quo ante non può essere l’orizzonte del nuovo presidente. La bellicosità di Trump e la Brexit hanno galvanizzato l’Euro-pa, indirizzandola verso quella che il presidente francese, Emmanuel Macron, ha definito «auto-

è finito: la presidenza Biden non lo riporterà in vita. Con gli Stati Uniti che erano assenti ingiu-stificati e con un Consiglio di sicurezza delle Na-zioni Unite inconcludente, la pandemia ha mo-strato un mondo senza leader. Le barriere erette dal virus non saranno smantellate rapidamente. Né scomparirà l’economia basata sul lavoro da remoto, accompagnata dall’impatto psicologico, potenzialmente devastante, della solitudine. Le società occidentali affrontano incessanti sfide al loro modello democratico lanciate da una Cina in crescita, con il suo repressivo Stato di sorve-glianza, e dalla Russia del presidente Vladimir Putin, per il quale il liberalismo è obsoleto per-ché presuppone che «gli immigrati possano uc-cidere, saccheggiare e stuprare impunemente».

Le migrazioni di massa, gli effetti dirompenti dello sviluppo tecnologico, le difficoltà economi-che derivate dal virus e l’assottigliamento della classe media creano le condizioni in cui prospe-rano il nazionalismo e la ricerca di capri espiatori su cui questo di basa. Queste circostanze con-tinueranno ad alimentare movimenti illiberali come quelli guidati da Trump, da Putin e dal pri-mo ministro ungherese Viktor Orbán. Per le de-mocrazie liberali la sfida fondamentale è riuscire a costruire una risposta che preveda, innanzi-tutto, opportunità economiche ed educative più inclusive ed equità fiscale. L’impunità per chi è ricco e l’allargamento delle disuguaglianze han-no infranto la “società”, intesa come comunità con ben determinati interessi condivisi.

Negli Stati Uniti, il divario culturale tra le élite urbane e il Paese profondo rimane estremo. I 72 milioni di voti di Trump riflettono qualcosa di più dell’America first che si percuote il petto con i pugni. Barack Obama, in una recente intervista alla rivista Atlantic, ha detto: «Negli Stati Uni-ti stiamo entrando in una crisi epistemologica». L’ex presidente ha osservato che gli americani stanno perdendo la capacità di distinguere il vero dal falso e, in queste circostanze, la democrazia viene meno.

Ok, ma io ho cercato di immaginare come “crisi epistemologica” sarebbe stato interpreta-to a Rifle, Colorado, dove ho recentemente fat-to un reportage presso lo Shooters Grill, la cui proprietaria è Lauren Boebert, una trentatreenne

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nomia strategica». Per la prima volta la Germa-nia ha concesso la federalizzazione del debito europeo, consentendo all’Unione di emettere ti-toli come un governo nazionale, un importante passo verso un Europa più forte e più integrata.

È tempo di un “New Deal” tra l’Europa e gli Stati Uniti che riconosca l’emancipazione euro-pea e il mutare delle priorità americane cemen-tando allo stesso tempo un’alleanza di valori e di interessi spesso coincidenti.

L’evoluzione europea è stata evidente nei rap-porti con la Cina, che in precedenza erano pura-mente commerciali. Ora, la Cina espansionista del presidente Xi Jinping è vista come una rivale sistemica.

L’Unione europea è stata critica verso la situa-zione dei diritti umani in Cina, imponendo san-zioni in reazione alla repressione a Hong Kong, ed è giustamente scettica nei confronti delle van-terie cinesi sul fatto di aver dato una migliore risposta alla pandemia.

Tuttavia, le nazioni europee vogliono lavorare in Cina. Una delle maggiori sfide per l’Occidente, con l’Amministrazione Biden, sarà individuare il delicato punto di equilibrio grazie a cui fron-teggiare con fermezza la Cina di Xi pur evitando uno sconto aperto.

La Cina è una minaccia esplicita al modello

liberale dell’Occidente. Questa minaccia deve es-sere riconosciuta e bisogna resisterle. La tecno-logia cinese, per esempio, non è neutrale. Con-voglia informazioni verso Pechino. Ma la Cina è anche parte integrante dell’economia globale.

Lo sfilarsi da ogni suo coinvolgimento da par-te di un’arrabbiata “China first” non gioverebbe a nessuno. La bellicosità gratuita e incoerente di Trump ha inutilmente complicato i difficili rapporti tra la più grande potenza mondiale e la potenza che la vorrebbe sostituire.

Le elezioni americane sono state un punto di svolta. E hanno mostrato un’altra volta che quelli che demoliscono la democrazia lo fanno a loro rischio. Le democrazie sono lente a reagire, sono spesso goffe e intrinsecamente disorganizzate. Ma sono anche caparbie e, se provocate, risolute. Sanno che i diktat di un autocrate sono inconci-liabili con la ricerca della dignità umana e della libertà. Sanno fare appello alle loro forze per dire a un bullo: «Sei licenziato!» – parole che Trump ancora non sopporta di sentire.

Il risultato è la rinascita di una speranza, per quanto tenue, per il Ventunesimo secolo.

I vaccini potrebbero essere in arrivo. Quello che è certo è che un presidente americano deco-roso è già arrivato.

L’uscita di scena di Trump è un sollievo per gli americani e per i loro alleati, soprattutto europei. Ma fuori dalla Casa Bianca potrebbe continuare a inquin-are il dibattito politico ER

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In Medio Oriente, quando era vice di Obama, Biden ha sbagliato tutto. Ora da presidente si troverà a gestire le conseguenze di quegli errori in un’area ormai completamente trasformata dal protagonismo iraniano e dalla politica estera di Trump

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AJ O EIl presidente Joe Biden dovrà calibrare le sue strategie in Medio Oriente a partire da un ele-mento insolito: le conseguenze degli errori di Barack Obama, da lui allora pienamente condi-visi, in quel quadrante del mondo. Innanzitut-to sul dossier del nucleare iraniano: la volon-tà dei Democratici di ripristinare l’accordo sul nucleare con l’Iran del 2015, poi denunciato da Donald Trump nel 2018, si scontrerà con l’erro-re strategico compiuto da Obama (e da Biden) nel 2015. Si è infatti dimostrata fallimentare

la decisione presa da quella Amministrazione: escludere dal tavolo delle trattative il progetto di espansione “rivoluzionaria” di Teheran, così come il suo programma missilistico.

E così è successo quanto Obama e Biden non avevano previsto: dal 2015 in poi l’Iran ha approfittato della fine delle sanzioni e della ri-conosciuta e piena legittimità internazionale

“regalatagli” da Obama, per uscire dall’isola-mento nel quale era costretto, e per sviluppare indisturbato una travolgente politica di aggres-

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però affatto accettata oggi dalla presidenza “ri-formista” di Rouhani. Anzi. Sarà quindi ben dif-ficile che venga accettata dalla presidenza ol-tranzista che, come tutto sembra indicare, si installerà a Teheran con le elezioni del giugno 2021.

Biden, peraltro, avrà spazi di trattativa con l’Iran ancora più ridotti, in conseguenza dell’eccellente mossa strategica messa a punto da Donald Trump: infatti l’Accordo di Abramo chiude 50 anni di politica araba contro Israele e coinvolge tutti gli Stati mediorientali più stretti alleati di Washington in una “trincea” politico militare (copyright di Condoleeza Rice) in fun-zione anti iraniana.

Anche sulla questione palestinese Biden si troverà con le mani legate. Nel 2011, l’allora vi-cepresidente partecipò alla definizione del pia-no di pace presentato da Obama, che poi abor-tì rapidamente. Oggi è costretto a confermare l’assenso di Trump all’annessione israeliana del Golan (indispensabile alla sicurezza di Isra-ele) e lo spostamento dell’ambasciata degli Sta-ti Uniti a Gerusalemme, deliberata da una ri-soluzione del Congresso nel 1995, proposta dai Democratici. In cambio, darà ad Abu Mazen una riparazione, aprendo un’ambasciata pres-so la Anp a Gerusalemme Est e riprenderà il fi-nanziamento alla Unrwa interrotto da Trump. Ma non potrà tentare di proporre un nuovo pia-no di pace. L’Accordo di Abramo infatti vanifica il presupposto stesso della strategia araba, che si basava sul “piano Fahd” del 1992: riconosci-mento di Israele da parte dei Paesi islamici solo in cambio della nascita di uno Stato Palestine-se nei confini del 1967.

Con l’Accordo di Abramo, questa strategia è ribaltata: con la regia dell’Arabia Saudita, alcu-ni Stati arabi di importanza centrale (a cui si aggiunge il Marocco) riconoscono ora Israele e prescindono totalmente dalla questione pa-lestinese, da loro ritenuta ormai marginale. Il tutto, per la prioritaria motivazione di costru-ire un potente asse politico-militare contro l’I-ran. Emarginata dagli stessi Stati arabi, la diri-genza palestinese, divisa tra Anp (egemone in Cisgiordania) e Hamas (egemone a Gaza), avrà da Washington solo un appoggio per protesta-

sione e di espansione militare in tutto il Medio Oriente, fino alle rive del Mediterraneo.

Inoltre, il vuoto provocato dalla decisione di Obama di non intervenire nel 2013 nella crisi siriana (che è costata 200.000 morti), neanche dopo la scoperta dell’uso di armi chimiche da parte di Assad, è stato subito “riempito” dagli ayatollah e da Mosca. Teheran infatti, quando il regime di Assad stava per crollare, ha inviato le sue Brigate Internazionali Sciite in Siria: un contingente militare di 50.000 uomini arma-ti, che includeva Hezbollah libanesi e afghani. Grazie a questo esercito, comandato dal gene-rale dei pasdaran Ghassem Suleimani, il rais di Damasco è riuscito a sopravvivere e poi a vin-cere. Contemporaneamente, Vladimir Putin ha inviato in Siria un massiccio contingente rus-so, che ha sostenuto il regime di Assad con l’a-viazione. Dal 2017 in poi, Suleimani si è quindi potuto ergere a governatore plenipotenziario di una zona di influenza militare diretta iraniana, che comprende l’Iraq, la Siria e il Libano (con Hezbollah), senza contare le pesanti infiltrazio-ni a Gaza.

Oggi l’Iran è dunque assurto al ruolo di in-vitta potenza regionale, come è stato rivendi-cato esplicitamente da Ali Younesi, consigliere del presidente Rouhani: «L’Iran oggi è ridiven-tato quell’impero che è stato nella sua storia, e ora Baghdad è il centro della nostra civiltà, del-la nostra cultura e della nostra identità, come lo era nel passato. Mi riferisco all’Impero Sas-sanide, che governava nell’epoca pre-islamica e che ha conquistato l’Iraq e la Siria. La capitale dell’impero era Baghdad. In tutta l’area del Me-dio Oriente è l’Iran che protegge tutte le nazio-nalità».

Biden ha dunque chiaro che ormai si è co-stituito questa sorta di neo “Impero Sassanide”, che è in totale contrasto con gli interessi degli Stati Uniti e che minaccia direttamente Gerusa-lemme. Infatti, migliaia di missili iraniani sono oggi dislocati in Siria sul confine con Israele, Paese che hanno colpito più volte. E, con il mo-dello Shahab 3b, Teheran tiene sotto mira, oltre che Israele, anche l’Arabia Saudita e la stessa Turchia. La volontà di Biden di allargare il tavo-lo della trattativa sul nucleare con l’Iran non è

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re contro i nuovi insediamenti israeliani nei Territori.

Biden ha partecipato attivamente all’Ammi-nistrazione di Obama, la più gelida nei confron-ti di Gerusalemme dopo quella di Eisenhower. Ma dovrà ora considerare Israele sotto un nuo-vo profilo. L’Accordo di Abramo progetta la for-mazione di un’immensa zona economica isra-elo-araba all’insegna dell’hi-tech e di massic-ci investimenti. Israele, infatti, collabora con la nuova strategia tracciata dal principe saudi-ta Mohammed bin Salman di industrializzare

i Paesi del Golfo per uscire dalla monocoltura petrolifera investendo sulle nuove tecnologie e sull’industria. Un nuovo polo di sviluppo re-gionale, con vertici a Gerusalemme e a Riad ed esteso a tutto il Golfo, che mette in campo in-vestimenti produttivi per migliaia di miliardi di dollari. Ora, gli Stati Uniti di Biden dovranno rapportarsi con questo polo inedito, non solo sotto il profilo politico-militare, ma anche (e vigorosamente) sotto quello economico. E do-vranno scegliere se essere o meno della partita.

In apertura, ebrei ultraortodossi in una spiaggia a Tel Aviv nel giorno riservato solo agli uomini. Sopra, musulmani in preghiera a Giaffa, in Israele, nel giorno che chiude il mese di Ramadan

C O N L ’A C C O R D O D I A B R A M O A L C U N I S TAT I A R A B I , C O N L A R E G I A D E L L ’A R A B I A S A U D I TA , H A N N O R I C O N O S C I U T O I S R A E L E R I T E N E N D O M A R G I N A L E L ’A N N O S A Q U E S T I O N E PA L E S T I N E S E

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RADICALELa morte di George Floyd, l’uomo di colore che a maggio 2020 è stato ammanettato, immobilizzato e ucciso da un poliziotto bianco, ha suscitato un’ondata di proteste in tutto il mondo. Ne scrive la cantante delle Pussy Riot

Nel 2020 non siamo stati colpiti soltanto da una pandemia globale, ma anche dai manganelli del-la polizia. Abbiamo visto manifestanti in tutto il mondo respirare i gas lacrimogeni, perdere la vi-sta dopo essere stati colpiti da proiettili di gomma, sopportare torture e, in alcuni casi, morire. Abbia-mo cercato disperatamente di trovare i nostri cari tra chi era stato arrestato o portato in carcere per aver partecipato a proteste pacifiche.

Questo è stato un anno di immaginazione po-litica radicale: il 2020 ci ha invitato a prendere sul serio i nostri sogni e ci ha ispirato a immaginare un futuro migliore e alternativo.

Faccio parte di movimenti anti-autoritari, fem-ministi e lgbtq. dal 2007. Quando ho co-fondato il gruppo Pussy Riot nel 2011, potevo solo sognare un tempo in cui le comunità femministe e queer avrebbero prosperato in Russia e in cui gli artisti mainstream sarebbero stati coinvolti nelle nostre manifestazioni anti-Cremlino. E invece gli attivisti globali hanno ottenuto moltissimo negli ultimi anni. Il mio arresto e la mia incarcerazione con un altro membro delle Pussy Riot nel 2012, insieme al nostro ostinato rifiuto di smettere di protestare dopo il nostro rilascio alla fine del 2013, ha con-tribuito a incoraggiare i nostri compagni artisti e

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radicale dei loro cittadini. Il presidente Trump ha etichettato gli attivisti per la giustizia sociale come «terroristi» e ha detto di volerli «soggiogare». Il pre-sidente russo Vladimir Putin crede che se sei critico nei suoi confronti sei un nemico dello Stato e devi essere messo a tacere.

Nel mio Paese, la Russia, le forze dell’ordine sono state impegnate per quasi 10 anni ad arrestare i membri delle Pussy Riot. I nostri video musicali si concentrano sulla violenza della polizia, sia in patria sia all’estero, perché riteniamo che questo sia un problema che può essere risolto solo grazie agli sforzi congiunti degli attivisti di tutto il mondo. Nel febbraio 2015 abbiamo pubblicato la nostra pri-ma canzone in lingua inglese, «I Can’t Breathe», in memoria di Eric Garner, morto l’estate precedente dopo che un agente di polizia di New York lo aveva immobilizzato in modo da impedirgli di respirare.

Ad agosto, il governo russo ha tentato di ucci-dere il leader dell’opposizione Aleksei Navalny, un mio amico, avvelenandolo con un agente nervino. Più o meno nello stesso periodo, in Bielorussia, il regime del presidente Aljaksandr Lukašėnka, ami-co di Putin, arrestava pestava e torturava i manife-stanti pacifici, rendendoli soltanto più determinati. Se i governi reagiscono con forza eccessiva, come

musicisti a impegnarsi in politica. Ho imparato che, sebbene il cambiamento possa non avvenire dall’oggi al domani, con il tempo piccole azioni possono costruire qualcosa di duraturo e profondo: uno per uno, gli agenti di polizia possono cambia-re o essere sostituiti, fino a quando la morte di un uomo, di una donna o di una persona non binaria disarmati per mano delle forze dell’ordine diven-terà un ricordo del passato.

La tragica morte, il 25 maggio 2020, di George Floyd, ucciso mentre era sotto custodia della poli-zia a Minneapolis, ha portato a uno dei più grandi movimenti sociali della storia americana. Ha ri-acceso il movimento Black Lives Matter: secondo diversi sondaggi, tra i 15 e i 26 milioni di americani hanno partecipato alle manifestazioni organizzate da Black Lives Matter nelle settimane successive alla morte di George Floyd.

Black Lives Matter avrà una profonda influenza sul modo in cui vedremo la giustizia nel 2021 e ol-tre. La giustizia deve essere giustizia razziale, ma anche giustizia economica, giustizia di genere e giustizia ambientale. I movimenti sociali di mas-sa del 2020 ci hanno insegnato a pensare in modo olistico e intersezionale, a porre grandi domande e a immaginare un futuro migliore.

Quest’anno abbiamo cominciato a ipotizzare percorsi molto diversi per la nostra civiltà, e ci sia-mo posti domande nuove: e se ripensassimo radi-calmente la sicurezza pubblica? Potremmo trarre vantaggio da una minore sorveglianza nelle nostre vite? Dovremmo reindirizzare i fondi e le risorse della polizia verso programmi a favore delle comu-nità emarginate, ridistribuendo alcune responsa-bilità della polizia agli assistenti sociali? E se la polizia, un’istituzione che ha perso la nostra fidu-cia, venisse smantellata e un’altra organizzazione sociale più responsabile prendesse il suo posto? Di chi sono al servizio gli agenti di polizia e chi proteggono? Proteggono me? Dobbiamo ancora mettere in carcere le persone? Il sistema carcerario ha riabilitato qualcuno? Usare il lavoro carcerario praticamente gratuito non è una forma di schiavi-tù? Possiamo immaginare un mondo post-polizia, post-prigione?

I governi, specialmente quelli con simpatie ver-so i regimi autocratici, hanno reagito con nervosi-smo all’immaginazione politica coraggiosamente

In aperturagesti distensivi tra manifestanti e soldati della Guardia nazionale durante una protesta per la morte di George Floyd, a Los Angeles. A destra, una delle manifestazioni pacifiche in Bielorussia a favore della democrazia e contro il regime di Lukašėnka

I MOVIMENTI DI PROTESTA DI MASSA HANNO CAMBIATO L’ATTEGGIAMENTO DEL MONDO NEI CONFRONTI DELLA GIUSTIZIA SOCIALE

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hanno fatto in tutto il mondo, e non riescono a proteggere i manifestanti pacifici, non fanno altro che accendere e giustificare ancora più resistenza.

Nel corso del 2020 sono scoppiate proteste an-tigovernative e movimenti di massa contro la vio-lenza della polizia a Hong Kong, in Cile, Libano, Messico, Regno Unito e Francia.

Il Covid-19 ha portato alla luce crepe nella leader-ship politica mondiale e ci ha costretto a mettere in discussione le disuguaglianze economiche, razzia-li e di genere con cui tutti conviviamo. Il modo in cui i nostri governi hanno gestito la pandemia ha costretto molti di noi a lottare per la sopravviven-za economica e fisica. Negli Stati Uniti, milionari e miliardari hanno ricevuto enormi agevolazioni fiscali dal governo, mentre troppe persone comu-ni sono state lasciate senza possibilità di ricorrere alle cure sanitarie a prezzi accessibili o con redditi insufficienti a pagare l’affitto.

Il virus a volte ha limitato la nostra capacità di protestare nelle strade, ma abbiamo imparato nuovi modi per svolgere i nostri doveri civici e sia-mo diventati attivisti digitali più efficaci. Tenendo presente il possibile danno che i social media pos-sono causare alla nostra salute mentale, abbiamo lavorato su qualcosa che chiamerei «igiene di In-

ternet», l’utilizzo di strumenti digitali ancorato a determinati principi. Oggi, le immagini e i video pubblicati online hanno una straordinaria capa-cità di contrastare la propaganda, le fake news e l’arroganza di chi è al potere con fatti visivi sem-plici ma rivelatori. In Bielorussia il canale Nexta sull’app di messaggistica Telegram svolge un ruo-lo fondamentale nella resistenza all’autocrazia di Lukašėnka. L’agenzia di stampa delle Pussy Riot Mediazona e il canale YouTube di Navalny «Navalny Live» stanno cambiando le opinioni di milioni di russi smascherando la corruzione, l’incompetenza e la crudeltà del sistema politico di Putin.

Il nostro futuro deve ancora essere scritto. Quan-do noi Pussy Riot scriviamo nuova musica, ci chie-diamo: come sarà il punk attivista nel 2030? Di cosa parlerà? Nella primavera del 2021 pubblicheremo il primo album in studio «RAGE». Le canzoni del disco riflettono su questioni globali come la sicu-rezza pubblica, la salute mentale e il rapporto dei cittadini con il loro governo.

Un attivismo sostenuto, organizzato, creativo, pacifico e intelligente ci avvicinerà alla realizza-zione di un mondo pienamente democratico nel 2021 e negli anni a venire.

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F O R Z AMesse sotto pressione sia dal pubblico sia dagli sportivi che ne fanno parte, le quattro principali leghe professionistiche degli Stati Uniti hanno cancellato partite e allenamenti per protestare contro il razzismo e la brutalità della polizia. Ne scrive la campionessa giapponese di tennis, una delle tre migliori del mondo

«Sta’ zitto e palleggia».Questo è quello che una conduttrice televisi-

va aveva consigliato a LeBron James dopo che lui, in un’intervista del 2018 alla espn, aveva discus-so di razzismo, di politica e della difficoltà di es-sere nero e di essere anche una figura pubblica in America.

Non c’è bisogno di dire che lui non ha seguito il suggerimento.

Il LeBron attivista ha catturato per la prima volta la mia attenzione nel 2012. Lui e i suoi com-pagni di squadra dei Miami Heat avevano postato una fotografia che li ritraeva col cappuccio della felpa tirato sulla testa come segno di protesta per l’uccisione di Trayvon Martin, un teenager nero disarmato della Florida che indossava una felpa con il cappuccio quando fu ferito a morte da un colpo sparato da George Zimmerman, un volon-tario delle “ronde di vicinato”.

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A T L E T INel 2014, un altro nero, Eric Garner, morì a Sta-

ten Island dopo che degli agenti di polizia lo ave-vano stretto in una presa di soffocamento, una mossa che a quel tempo era vietata dalla polizia e che da allora è diventata illegale in tutto lo Stato di New York. Poco dopo, durante un riscaldamen-to prepartita, LeBron indossò una T-shirt con le parole “I can’t breathe” (“Non riesco a respirare”), le ultime parole di Garner, catturate da un video girato mentre gli agenti lo strangolavano.

Saltiamo direttamente alla scorsa estate, ed ec-colo ancora al centro di un dibattito culturale: Le-Bron ha la voce più potente e la tribuna più visibile e le sta usando per protestare contro il razzismo sistemico, le disuguaglianze e la brutalità della polizia. E il tutto avviene mentre continua a gio-care alla grande, a dispetto dello svolgimento di proteste senza precedenti, di una pandemia che ha cambiato il mondo e di profondi dolori perso-

nali, tra cui la tragica morte del nostro comune amico Kobe Bryant.

LeBron è straordinariamente coraggioso nel suo indefesso sostegno alla comunità nera. È ri-soluto, chiaro e appassionato. Sia in campo sia davanti a un microfono, è impossibile fermarlo ed è un’ispirazione per gli altri. È dedito al suo mestiere, ma è anche dedito alla sua comunità, benché debba continuamente lottare contro una consolidata storia di silenziamento degli atleti che dicono la loro.

I musicisti cantano e scrivono sempre dei mo-vimenti sociali, dell’attivismo e dell’uguaglianza. Gli attori dicono a voce alta le loro opinioni e spes-so danno il loro personale endorsement alla can-didatura di un politico, ospitando attività di fun-draising e dando delle feste. E dagli imprenditori, dagli scrittori e dagli artisti addirittura quasi ci si aspetta che abbiano un’opinione sulle ultime no-

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stizie e agli stessi trattamenti disuguali che han-no condotto all’uccisione di persone che hanno esattamente il nostro stesso aspetto, ma che non godono delle stesse protezioni che ci sono offerte dalla nostra celebrità e dal supporto che possia-mo avere. Provate a chiedere al cestista della nba Sterling Brown, che un poliziotto ha colpito con un taser. O al mia collega, il tennista James Bla-ke, che, mentre si trovava fuori da un albergo di New York, è stato sbattuto a terra e ammanettato per quindici minuti da alcuni agenti (che hanno poi sostenuto che si fosse trattato di un errore di persona). Il solo fatto che siamo degli atleti non significa che quello che succede attorno a noi, nel Paese in cui viviamo, non ci coinvolga. Né ci può costringere a tenere la bocca chiusa.

Gli sport non sono mai stati apolitici e, finché saranno praticati da degli esseri umani, apolitici non lo saranno mai.

tizie e che difendano pubblicamente il loro parere. Ma, quando si tratta di noi atleti, spesso ricevia-mo critiche per aver espresso le nostre opinioni.

Le gente vede in noi soltanto dei “corpi” che riescono a compiere ciò che sarebbe fisicamente impossibile per quasi chiunque altro e che diver-tono i fan spingendosi sempre oltre i propri limiti? Non ci si immagina che questi insiemi di muscoli, ossa, sangue e sudore possano essere anche capa-ci di esprimere un’opinione? Lo sport dovrebbe essere solo sport e la politica solo politica?

Spesso il messaggio è questo. Colpisci la palla. Affonda il colpo. Sta’ zitto e palleggia.

Ma, quale che sia il ragionamento, si ignora sempre un elemento determinante: quando non stiamo svolgendo una performance atletica, vi-viamo nello stesso Paese in cui vivono gli altri. E, come moltissimi atleti possono oggi testimoniare, ciò significa che siamo soggetti alle stesse ingiu-

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Muhammad Ali è stato per decenni una voce a favore della giustizia, persino dopo essere stato condannato a cinque anni di prigione per aver ri-fiutato la chiamata dell’esercito a causa delle sue convinzioni religiose. Alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, Tommie Smith e John Carlos furono fischiati quando sul podio sollevarono il pugno guantato di nero e in seguito, quando fe-cero ritorno negli Stati Uniti, dovettero affronta-re un’ondata di critiche da parte del pubblico e anche dei media.

Colin Kaepernick ha messo a repentaglio la sua carriera quando si è inginocchiato durante l’inno nazionale prima di una partita della nfl e ha ri-schiato di non giocare mai più un down in quella lega a causa di quel gesto. Megan Rapinoe è stata una convinta sostenitrice del movimento lgbtq e di quello per l’uguaglianza salariale, anche quan-do questo ha comportato affrontare il presiden-

te degli Stati Uniti e rifiutarsi di andare in visita alla Casa Bianca. Venus Williams ha fatto più di quanto la gran parte della gente non sappia per coltivare l’eredità di Billie Jean King nella lotta per l’uguaglianza per le donne nel tennis. Coco Gauff, pur essendo così giovane, è intensamen-te attiva online e ha parlato pubblicamente e in modo molto appassionato a sostegno della cam-pagna Black Lives Matter.

Ma, anche dopo tutti questi passi avanti, conti-nuo a pensare che noi atleti abbiamo ancora tanta strada da fare. Oggi, grazie all’attenzione televisiva che riceviamo e alla nostra massiccia presenza sui social media, noi atleti abbiamo una tribuna più grande e più visibile di quanto non lo sia mai sta-ta. Per come la vedo io, questo significa che abbia-mo anche una maggiore responsabilità di esporci pubblicamente. Io non palleggerò stando zitta.

Naomi Osaka è una delle più grandi tenniste contemporanee. Ha vinto sei titoli WTA su dieci finali disputate, tra cui tre tornei del Grande Slam (due US Open e un Australian Open)

In apertura LeBron James, Eric Reid con Colin Kaepernick e Sebastian Vettel. In queste pagine: Lewis Hamilton, un fan di Kaepernick e Naomi Osaka

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Una proposta condivisa e sostenibile per una nuova governance dello spettacolo sportivo più bello del mondo, con atleti, imprenditori e consumatori al centro di un progetto basato sulla mutualità e su modelli adeguati alla generazione Z

Il calcio è lo spettacolo sportivo più amato e se-guito del mondo. Solamente il basket può com-petere con la sua popolarità.

Il calcio non è lo spettacolo sportivo più ricco del mondo. Basket e football americano hanno numeri migliori poiché sono in grado di sfruttare maggiormente il proprio potenziale.

Quindi il problema sono i soldi, giusto? Sba-gliato.

La piramide del calcio è strutturata in molti livelli che vanno dall’iper-professionismo delle competizioni europee e dei campionati nazionali delle Big 5 (Inghilterra, Germania, Spagna, Fran-cia e Italia) ai campionati dilettantistici di qualsi-asi Paese, da Panama alla Lituania, dalla Nigeria alla Mongolia. Il calcio è un unicum, governato dalle stesse norme e alimentato da vasi comu-nicanti tra i diversi livelli attraverso il meccani-smo promozioni/retrocessioni. Chiunque fondi un club può un giorno arrivare ai vertici. Keep the dream alive.

La pandemia di Covid-19, la cui morsa non ac-

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liardi di euro nel biennio ’19-’21), ma ha generato una crepa profonda nel monolite. Una crepa nel-la quale la base della piramide ha dovuto bloc-carsi repentinamente. I dilettanti non giocano quasi più, i giovani non si avvicinano allo sport e i consumatori devono selezionare necessaria-mente molto più di prima. Nel frattempo, si affac-cia definitivamente la nuova generazione Z, che ha valori, oltre che interessi, molto diversi da chi l’ha preceduta: il calcio del futuro deve pensare a questi giovani.

Lo spettacolo calcistico ha tutto per continuare a prosperare e a essere il migliore del mondo. Ci sono i protagonisti, ci sono gli investitori e ci sono gli appassionati. Queste tre componenti sono le fondamenta sulle quali ricostruire. In fin dei conti non sarebbe una rivoluzione, sarebbe un ritorno alle origini. Le Federazioni, le Leghe, la stessa fifa e la uefa nacquero basandosi su queste domande essenziali: chi gioca? Chi paga, cioè chi si assume il rischio? Chi è interessato, chi guarda?

Nei decenni la complessità del movimento ha progressivamente messo in secondo piano queste domande, che oggi devono essere riproposte con forza per ripartire di slancio. Intendiamoci, nes-suno mette in discussione la necessità di avere parti terze indipendenti che sappiano dettare le regole e imporre la loro applicazione.

Oggi tuttavia non è così. fifa e confederazio-ni, la più importante delle quali è quella europea, la uefa, sono regolatori, organizzatori, broker e distributori del prodotto principale, sia esso il Campionato del Mondo o la Champions League. Lo schema degli ultimi decenni ha alimentato un’asimmetria che il Covid ha messo drasticamen-te in discussione: i calciatori sono protagonisti, ma non hanno quasi nessun potere decisionale rispetto a impegni e calendari. Gli imprenditori o gli investitori si assumono il rischio, ma non possono determinare formati e regole d’accesso e incassano proventi tramite l’intermediazione di autorità terze. Gli organizzatori/regolatori non sono né protagonisti né imprenditori, ma gesti-scono, incassano e determinano. Quando la cresci-ta è costante, i problemi si nascondono, quando la disruption arriva, il cambiamento è inesorabile.

Riforma delle competizioni europee, Super-lega, nuovi campionati nazionali, progetti più o

cenna a diminuire, ha invece mandato in frantu-mi questo sogno. Il calcio di base si è fermato, i campi sono chiusi e molti di essi non riapriranno perché le loro risorse sono prosciugate per sem-pre. La facilità di accesso del calcio, quello che ha portato tutti noi ad amare questo gioco è messa a repentaglio dalle norme di distanziamento e da un desiderio di emulazione diminuito dall’imma-gine di stadi vuoti, quindi tristi.

Il Covid ha cambiato tutto e, come scrisse qua-si vent’anni fa Warren Buffet, «After all, you only find out who is swimming naked when the tide goes out» e il calcio ha nascosto sotto la marea molti difetti strutturali della sua piramide monolitica.

La piramide del calcio, in più di un secolo e mezzo di storia, ha subito alcune restaurazioni rilevanti, ma sempre nel quadro di una popola-rità e di una crescita economica costanti, quasi sempre in doppia cifra percentuale.

Oggi il Covid non ha solamente innescato un quadro recessivo imponente (solo per il calcio europeo si parla di ricavi mancati di circa 6,5 mi-

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PROTAGONISTI , INVESTITORI E APPASSIONATI SONO LE TRE FONDAMENTA SU CUI RICOSTRUIRE IL CALCIO POST COVID

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meno segreti: in questi mesi i media internazio-nali hanno raccontato una realtà in rapido movi-mento. Tutte queste ipotesi, siano esse credibili o meno, si basano sull’assunto dal quale il dibattito deve partire. Cosa sarà il calcio nel 2040? Calcia-tori, imprenditori e consumatori sono centrali in questa riflessione.

Il processo di polarizzazione proseguirà inar-restabile. Saranno pochissimi i calciatori a poter essere ammessi al tier 1 del gioco e a loro, in virtù del successo commerciale dello spettacolo, sarà necessario continuare a garantire risorse adegua-te, magari in uno schema lavoratore-datore di la-voro interamente rinnovato. Club e Fifpro hanno rappresentanze e professionalità adeguate per di-scuterne fin da subito. Anche il numero di club che daranno vita al vertice dello spettacolo calci-stico dovrà essere ridiscusso, non per asseconda-re i desideri di un avido gruppo di imprenditori bensì perché l’offerta di calcio sia adeguata alla domanda e garantisca qualità.

Infine, il pubblico: il grande carburante del-

lo show. Nuovi modelli di distribuzione, nuove piattaforme tecnologiche, generazione Z. Spes-so si confonde la sostenibilità con l’economicità.

Il calcio del futuro ha il dovere di coltivare la protezione degli investimenti, i livelli di remune-razione e la distribuzione adeguata dei proventi. Il panorama recessivo colpisce oggi principalmente i club, ma soprattutto la mutualità, la solidarietà tra i vari livelli della piramide.

Se calciatori, investitori e pubblico sapranno, attraverso il dialogo con le istituzioni, dare vita a uno spettacolo che esprima tutto il potenziale, il calcio non sarà solamente il più amato tra gli sport, ma lo sarà per distacco rispetto a qualsiasi altro sport in qualsiasi kpi.

E le risorse potranno essere messe a disposi-zione di fifa, confederazioni, federazioni e leghe per finanziare il calcio, maschile e femminile, di base, sia esso quello dei dilettanti o quello delle giovani generazioni, che domani potranno sogna-re di arrivare al vertice. Anche così si mantiene vivo il sogno, anzi si rende sostenibile la realtà.

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La ricchezza delle aziende Big Tech negli ultimi anni è cresciuta a ritmi impressionanti. I bilanci di piattaforme online come Amazon e Google, come Apple, Facebook e Twitter hanno visto i numeri moltiplicarsi in tempi rapidissimi.

Con l’arrivo della pandemia la tendenza si è accentuata: molte azioni quotidiane, dal lavoro alla spesa, dalle conversazioni con gli amici allo studio, sono state trasferite online. Questo ha av-vantaggiato ulteriormente le società informatiche.

Quel che spaventa di più del mondo Big Tech, però, non sono i fatturati. È il potere politico che queste aziende hanno conquistato nell’ultimo periodo: il vero pericolo non è la distorsione del mercato, ma la minaccia che rappresentano per la democrazia.

L’avvertimento arriva da Foreign Affairs ed è firmato da Francis Fukuyama, Barak Richman e Ashish Goel, membri del programma di lavoro su democrazia e internet della Stanford University.

Più che nella sfera economica, insomma, il vero potere delle grandi aziende del settore informati-co va cercato nella loro funzione di controllo sulla circolazione delle informazioni. In un certo senso,

Amazon, Google, Facebook, Twitter, grazie ai dati personali degli utenti, costituiscono una concentrazione di potere politico, prima ancora che economico, mai vista prima nelle mani di aziende private

Con la pandemia ancora più azioni quotidiane si sono trasferite online e i bilanci di molti giganti del settore, come Amazon, sono cresciuti a ritmi rapidissimi

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– Twitter ad esempio ha bollato come fuorvianti alcune frasi di Trump – ma un approccio di questo tipo non è sostenibile sul lungo periodo.

«Questo schema – si legge nell’articolo – elude il vero problema che pone un potere simile: qualsia-si soluzione efficace passa da una sua limitazione. Inoltre bisogna chiedersi se una scelta arbitraria possa essere in qualche modo equa: i democrati-ci temono la manipolazione dei dati informatici da parte di estremisti stranieri e non; molti con-servatori si sono lamentati del fatto che a gestire le piattaforme online siano persone solitamente molto progressiste, come Jeff Bezos, Mark Zucker-berg o Jack Dorsey».

Nonostante una consapevolezza quasi unani-me sui rischi che comportano le Big Tech, le armi a disposizione delle democrazie per rispondere a quelle minacce sono poche o sono spuntate: limi-tare troppo la libertà di espressione non è un’op-zione percorribile, così come incentivare una mag-gior concorrenza per queste aziende potrebbe non essere sufficiente. Allora Fukuyama, Richman e Goel propongono una soluzione che definiscono promettente, ma che fin qui ha ricevuto poca at-tenzione: il “middleware”, cioè un software che faccia da intermediario tra una piattaforma onli-ne e i suoi contenuti.

L’aggiunta del middleware permetterebbe agli utenti di scegliere come vogliono che siano filtra-te le informazioni. «I middleware possono essere usati in più modi, e ogni fornitore dovrebbe esse-re trasparente circa la sua offerta in modo da far scegliere agli utenti il servizio che preferiscono. Le notizie e i post popolari di personaggi politici su un social network potrebbero semplicemente essere affiancati da etichette come “fuorviante”,

“non verificato” e “non contestualizzato”.Un middleware più invadente invece potreb-

be arrivare a modificare l’aspetto del feed su una piattaforma, come ad esempio gli elenchi di pro-dotti su Amazon, gli annunci su Facebook, i ri-sultati di una ricerca su Google o i video correlati su YouTube».

Il primo interrogativo su questa strategia ri-guarda il trasferimento di potere dalle grandi aziende ai fornitori di middleware, che potreb-bero a loro volta manipolare le informazioni: se venisse concesso loro troppo potere potrebbero

spiegano i tre autori, «questi colossi ora domina-no la diffusione delle notizie e il coordinamento della mobilitazione politica. E questo crea pericoli per ogni democrazia».

È un potere che nessuna azienda ha mai avuto prima, neanche in situazioni di monopolio come quello che hanno creato: nessuno nella storia ha avuto accesso a informazioni su amici e familiari di un utente, conosce redditi, beni patrimoniali e dettagli intimi sulla vita delle persone.

Quei dati non sono solo un asset da valorizza-re in termini di ricchezza puramente economica: sono una fonte di potere politico. «Cosa accadreb-be se uno dei dirigenti di queste grandi aziende fosse mal intenzionato e sfruttasse le informa-zioni per ricattare un pubblico ufficiale? O, peg-gio ancora, se quelle informazioni private fosse-ro usate in accordo con i poteri del governo? Im-maginiamo ad esempio Facebook che collabora con un dipartimento di giustizia particolarmente

“politicizzato”».L’immagine usata da Fukuyama, Richman e

Goel per descrivere questa condizione è quella di una pistola carica appoggiata sul tavolo: non è detto che chi sta dall’altro lato decida di prender-la e premere il grilletto. Ma bisogna chiedersi se «una democrazia possa permettere che ci sia una pistola carica sul tavolo».

Il turning point che ha fatto capire l’entità del potere detenuto dalle grandi aziende è stato pro-babilmente il 2016, l’anno dell’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, ma anche della vittoria di Brexit in Regno Unito: lo spazio di discussione fornito da alcune piattaforme aveva consentito la diffusione deliberata di notizie false e delle teorie del complotto, portando così a una polarizzazio-ne del dibattito politico.

Tutto questo è stato possibile grazie alle filter bubble – le bolle create dagli algoritmi – che pro-pongono agli utenti solo informazioni a loro affini, facendo da amplificatore per alcune notizie e da ostacolo per altre. «Il timore è che le piattaforme abbiano accumulato così tanto potere da arrivare a influenzare un’elezione, più o meno deliberata-mente», scrivono i tre autori.

Da quel momento qualcosa si è mosso: è stato chiesto ai proprietari delle piattaforme online di intervenire e assumersi maggiore responsabilità

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credibili, è anche vero che i gruppi di cospirazio-nisti farebbero l’esatto il contrario. Gli algoritmi su misura andrebbero a frammentare il sistema politico. Ma è un rischio che impallidisce di fron-te a quello rappresentato dalla concentrazione di potere delle grandi aziende: la vera grande minac-cia di lungo periodo per la democrazia».

L’uso di middleware potrebbe sottrarre un po’ di questo potere, dividerlo e consegnarlo a una pluralità di aziende inserite in un mercato com-petitivo che permette agli utenti di personalizzare le proprie esperienze online.

Neanche in questo modo si potrebbero elimi-nare del tutto i discorsi di odio o le teorie del com-plotto dalle piattaforme online. Ma ne verrebbe limitata la portata e l’efficacia. Come spiegano Fukuyama, Richman e Goel: «Oggi il contenuto che offrono le piattaforme è determinato da al-goritmi non trasparenti, generati da programmi di intelligenza artificiale. Con il middleware, gli utenti della piattaforma avrebbero modo di con-trollarli. Lo farebbero loro in prima persona, non un programma di intelligenza artificiale invisibile che decide cosa possiamo vedere e cosa no».

manipolare i feed a piacimento; se, al contrario, ne avessero troppo poco, i middleware avrebbero una semplice funzione di filtro supplementare che non produrrebbe grossi risultati. «L’approccio mi-gliore sta da qualche parte nel mezzo, ma, indipen-dentemente da dove si traccia la linea, diventa ne-cessario l’intervento dei governi a fare da garanti».

Un altro interrogativo va posto sul modello di business. I tre autori ipotizzano di formare un mercato che proceda per accordi preventivi sulla condivisione dei ricavi pubblicitari tra Big Tech e fornitori di middleware. «Accordi – scrivono – che in ogni caso dovrebbero essere supervisionati dal governo: è logico attendersi che le grandi aziende come Facebook e Amazon siano restie alla condi-visione delle entrate derivanti da pubblicità».

Resta da capire se l’adozione di questa strate-gia porti una ulteriore frammentazione dell’in-formazione, con la conseguente polarizzazione delle idee e delle posizioni politiche: «Gli scettici potrebbero sostenere che adottare i middleware rafforzi le filter bubble: se è vero che le università inviterebbero i propri studenti a utilizzare midd-leware che li indirizzino a fonti di informazioni

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La pandemia ha accelerato l’introduzione di interazioni senza contatto e la sostituzione dei lavoratori con computer e altre tecnologie, ma il desiderio di un incontro personale è diventato ancora più irresistibile e necessario

Da anni l’automazione, la robotica e l’intelli-genza artificiale si fanno carico di compiti ri-petitivi e di routine. Una tendenza accresciuta dalla pandemia da Covid-19, sotto la spinta di una tripla necessità: l’aumento della produttivi-tà, l’abbassamento dei costi e la sicurezza delle persone. D’un tratto gli esseri umani hanno co-minciato a evitare ogni contatto e a desiderarlo più che mai. Così, ora ci sono aziende di delivery, idraulici e perfino alcuni fornitori di servizi me-dicali che vantano di offrire un servizio a “con-tatto zero”. Eppure, al tempo stesso fremiamo di piacere di fronte alla possibilità di incontrare qualcuno di persona e mangiarci insieme.

Proprio mentre ci avviamo nel futuro dell’e-conomia dell’intelligenza artificiale, il 2020 ci ha insegnato l’importanza dei legami umani.

Quando cominciai nel 1983 la carriera nel settore dell’intelligenza artificiale, nella mia domanda per il dottorato alla Carnegie Mellon University la descrissi come «la quantificazione del processo del pensiero umano, l’esplicazione del comportamento umano», oltre che il nostro «passo finale» per la comprensione di noi stessi.

In un senso mi sbagliavo, in un altro avevo ra-gione. I programmi di IA sono in grado di ripro-durre e perfino di superare il cervello umano in molti campi. Ma se è vero che l’intelligenza ar-tificiale ci consente di comprendere meglio noi stessi, questo avviene soltanto perché ci libera dal tran tran dei lavori routinari e lascia che ci dedichiamo alla nostra umanità e alle nostre re-lazioni e affetti.

Sappiamo già che molti dei lavori in cui sta ora avvenendo un fenomeno di sostituzione non torneranno più: l’intelligenza artificiale li svolge meglio delle persone e, di fatto, a costo zero. Questo porterà a un enorme ritorno econo-mico, ma anche a un terremoto lavorativo sen-za precedenti. Nel mio libro “A.I. Superpowers: China, Silicon Valley, and the New World Order” (Le superpotenze dell’intelligenza artificiale: Cina, Silicon Valley e il Nuovo Ordine Mondia-le), avevo calcolato che per il 2033 l’intelligen-za artificiale e l’automazione avrebbero coperto dal 40% al 50% degli impieghi attuali.

Allora serve prepararsi fin da ora ad affron-tare la scomparsa di milioni di posti di lavoro

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S La Conferenza Mondiale dell’Intelligenza artificiale a Shanghai, nel 2020

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i loro curricula aumentando il numero di corsi di formazione per lavori sostenibili. Ai gover-ni toccherà aprire la strada e fornire incentivi e sussidi, evitando di rincorrere alla cieca misure di scarso impatto come il reddito universale di base. Anche le aziende potrebbero offrire pro-grammi per la formazione, come ad esempio il Career Choice di Amazon, che finanzia con una borsa fino a 12mila dollari l’anno, per quattro anni, tutti i dipendenti a ore che scelgono di lau-rearsi in settori ad alta richiesta come la mecca-nica aeronautica, la progettazione assistita e le discipline infermieristiche.

Con o senza la pandemia, vista la crescita del-la ricchezza e l’allungamento della vita media i lavori di assistenza umano-centrici (l’infermie-ristica ne è un esempio), aumenteranno di nu-mero e di importanza. L’oms prevede che per il 2030 avremo bisogno di circa 18 milioni di ope-ratori sanitari, che costituiscono il numero ne-cessario per raggiungere l’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile dell’Onu nell’ambito della salute e

e ad accelerare l’acquisizione delle nuove abi-lità richieste dall’IA, che sarà sia uno strumen-to sia un collega. Per farlo, propongo la tattica delle “tre R”: re-imparare, ricalibrare, e Rinasci-mento. Sono le componenti di una operazione di immensa portata, con la quale immaginiamo da zero il nostro modo di vivere e di lavorare e affrontiamo la questione economica più impor-tante del nostro tempo: la rivoluzione dell’intel-ligenza artificiale.

La prima cosa da fare, e forse anche la più semplice, è avvertire le persone il cui posto è in pericolo, preparando programmi con cui possa-no ri-studiare le loro mansioni alla luce delle no-vità introdotte dall’IA.

La buona notizia è che ci sono tantissime cose che l’intelligenza artificiale non sa padro-neggiare. La creatività, l’interazione sociale, i lavori fisicamente complessi o le operazioni di destrezza. E poi, certo, non sanno adoperare gli strumenti di IA che richiedono operatori umani.

Le scuole professionali dovranno ripensare

Una mano creata dall’azienda OpenAI, e guidata dall’intelligenza artificiale, impara a risolvere il cubo di Rubik M

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L’ INTELLIGENZA ARTIFICIALE CI AIUTERÀ A CREARE UN NUOVO ED EQUO CONTRATTO SOCIALE, MA SOLO SE CI RICORDIAMO CHE COSA CI RENDE UMANI

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del benessere per tutti. C’è un’urgente necessità di riconsiderare questi ruoli di assistenza uma-no-centrici, vitali ma sottovalutati, sia nella per-cezione comune che nella remunerazione. Que-sti impieghi saranno il fondamento della nuova economia dell’intelligenza artificiale.

Se da un lato dovremo formare le persone per la transizione definitiva verso questo nuo-vo mondo, dall’altro sarà necessario ripensa-re molti dei lavori attuali. Come hanno fatto i software qualche decennio fa, anche l’intel-ligenza artificiale contribuirà ad accrescere il pensiero creativo dell’uomo grazie alla sua in-stancabile capacità di macinare masse di dati, ipotizzare alternative e ottimizzare i risulta-ti. Non esisterà una sola, generica intelligenza artificiale, ci saranno invece diversi strumenti specifici, studiati a seconda della professione e dell’impiego. Potremmo immaginare per i ri-cercatori farmaceutici un programma per la ge-nerazione di molecole basato sull’IA, mentre per chi invece opera nel marketing un’agenda di pianificazione pubblicitaria che funziona con l’IA, oppure un programma di fact-checking per i giornalisti.

L’unione del tocco umano e dell’ottimizza-zione tecnologica porterà alla reinvenzione di molti lavori e alla creazione di molti altri. All’in-telligenza artificiale toccheranno i compiti di routine, mentre gli esseri umani si occuperan-no della parte che richiede, appunto, umanità. Per esempio: i dottori del futuro continueranno a essere il punto di riferimento principale dei pazienti. Ma per stabilire le cure migliori si af-fideranno alle capacità di diagnosi offerte del-la tecnologia. Il medico vedrà cambiare il suo ruolo, diventando una sorta di assistente com-passionevole in grado di dedicare più tempo ai suoi pazienti.

L’arrivo di internet sui telefonini ha fatto na-scere nuovi lavori (come l’autista di Uber), allo stesso modo l’intelligenza artificiale creerà nuo-ve professioni che al momento non riusciamo nemmeno a immaginare. Ad esempio ingegneri dedicati all’intelligenza artificiale, data scientist, etichettatori di dati e riparatori di robot. Dovrem-mo stare attenti, cogliere il nascere di questi nuo-vi lavori e far sì che tutti ne siano al corrente. Così

potremo dare loro la giusta formazione.Infine, proprio come i mercanti e le ricche

città italiane furono all’origine del Rinascimen-to, anche noi dobbiamo sperare che l’intelligen-za artificiale produca qualcosa di quel livello. In un’economia nuova, dove le macchine si fanno carico di compiti e mansioni, l’IA porterà più flessibilità nei tradizionali meccanismi del lavo-ro. Permetterà di ridefinire i termini dell’equili-brio vita-lavoro, andando a incidere sulle abitu-dini dei giorni feriali e modificando le soglie del pensionamento. Con un nuovo contratto socia-le fatto di più libertà e tempo libero, le persone potranno inseguire le loro passioni, sviluppare creatività e talenti ed esplorare nuovi modi per dare forma alle proprie carriere come mai pri-ma di ora.

I pittori, gli scultori e i fotografi potranno ser-virsi degli strumenti dell’intelligenza artificiale per comporre, sperimentare, enumerare e per-fezionare le proprie opere. Gli scrittori, i giorna-listi e i poeti le useranno per spingere le loro ca-pacità espressive in direzioni mai immaginate. Gli educatori, ormai sciolti dall’obbligo dei voti e delle scartoffie, potranno liberare la propria energia per inventare lezioni che educhino alla curiosità, al pensiero critico, alla creatività. I programmi di intelligenza artificiale aiuteranno a spiegare fatti e numeri, mentre gli insegnanti passeranno più tempo a sviluppare l’intelligen-za emotiva degli studenti. Queste tre “R” sono la più grande impresa della storia dell’umanità. Le aziende dovranno formare un numero spro-positato di lavoratori, gli Stati raccogliere una quantità astronomica di denaro per distribuirlo e finanziare la transizione. Le scuole dovranno reinventare l’istruzione e far uscire laureati cre-ativi, aperti e multidisciplinari. Tutto dovrà es-sere ripensato: l’etica del lavoro della società, i diritti dei cittadini, le responsabilità delle azien-de e il ruolo dei governi.

In tutto questo, sarà cruciale il ruolo delle tecnologie. Se la sapremo impiegare nel modo giusto, l’intelligenza artificiale ci libererà e ci permetterà di coltivare la nostra creatività e la nostra empatia, sia nei confronti degli altri sia della nostra umanità.©️ 2020 THE NEW YORK TIMES COMPANY & KAI-FU LEE

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Le persone infrangono le regole per diverse ragioni e motivi. Certe volte è per amore, certe altre per giustizia. Certe volte infrangono le regole per portare avanti un’idea o semplicemente per cambiare lo status quo. In realtà, sembra che molte regole siano state stabilite soltanto per essere infrante. Qualche mese fa, abbiamo chiesto a un gruppo di star del cinema e della televisione per quali cose, secondo loro, valesse la pena di infrangere le regole

È decisamente più facile infrange-re le regole quando hai avuto un buon esempio di infrazione delle regole. Se penso all’esempio da-tomi da mio padre e da mia ma-dre, vedo che loro hanno gioca-to seguendo le regole, ma che le hanno anche infrante quando era necessario farlo. Mio padre, [Den-zel Washington], ha lottato per la-sciare un segno e per portare alla luce delle storie molto forti. E mi ha portato su alcuni set cinema-tografici in cui c’erano altre perso-ne capaci di infrangere le regole, come Spike Lee. Lui è un altro ma-verick, che è stato capace di fare le cose a modo suo e che nello stes-so tempo ha incoraggiato gli altri a farlo. Mi ricordo di quando ero un ragazzino e mi aggiravo sul set di “Malcolm X”; alla fine Spike mi ha fatto partecipare. C’è una sce-na in cui tutti quei ragazzini si al-zano e dicono: «Io sono Malcolm X». Quello è stato un momento importante per me, perché quello era un uomo che non si rassegna-va ad accettare le regole e lì c’era una nuova generazione che pro-nunciava il suo nome.

Si infrangono le regole quando le cose non sono giuste. Ci sono alcune occasioni in cui assoluta-mente, per definizione, bisogna infrangere quasi tutte le regole per cambiare lo status quo. Si in-frangono le regole quando le rego-le sono sbagliate o inique. Quindi infrangere le regole quando ne sperimenti l’ingiustizia non è sba-gliato. Anzi, è del tutto giusto. Pro-prio in questo periodo mi sento abbastanza ottimista per quanto riguarda quelli che si stanno bat-tendo contro lo status quo. È un periodo pesante e le persone sono in piazza a parlare dei due partiti politici che non stanno davvero lavorando a favore del popolo. Si vedono la passione e la possibilità di infrangere le regole e questo mi rende davvero ottimista.

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Le risposte sono state accorciate, editate (e tradotte in italiano) per ragioni di leggibilità.

John David Washington ha recitato nei film “BlacKKKlansman” e “Tenet”.

Susan Sarandon è un’attrice che ha vinto un premio Oscar ed è una militante politica.

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Ho sempre dovuto infrangere le regole perché ho avuto a che fare con Hollywood per tutta la mia vita. E non lascerò che mi inca-sellino. Ho sempre sentito dire: «Se infrangi le regole, non ti of-friranno nessun lavoro. Devi sta-re al gioco». È un gioco che può confondere. Mi è stato detto che se faccio troppe commedie, allo-ra non mi faranno più fare ruoli drammatici. Ma mi è stato anche detto che se faccio troppi ruoli drammatici, allora non farò mai più parte del cast di una comme-dia. Di fatto, a Hollywood così come nella vita, le regole sono lì per proteggere quelli che sono nelle posizioni di potere. Le rego-le mantengono lo status quo. Di questi tempi, la vita è tutta un’in-frazione di regole e questo, per certi versi, rende magnifico que-sto periodo. L’America sta arrivan-do a una resa dei conti. Persino i dirigenti degli Studios hanno ini-ziato a mettere in dubbio se stessi. Stanno infrangendo le loro stes-se leggi e stanno accogliendo tra loro latinos e neri. Era ora.

In quale occasione vale la pena di infrangere le regole? Te lo dirò. Sai che è il momento di infrangere le regole quando sei affamato o asse-tato e non hai nessuna speranza di cibo o di acqua. Infrangi le regole quando sei in strada insieme con la tua famiglia e non hai un posto dove ripararti. Un sacco di perso-ne stanno perdendo la loro abita-zione, ma ogni giorno si alzano con la missione di provvedere alla loro famiglia. Sto parlando del mi-nimo per sopravvivere. Un sacco di famiglie saranno presto sfrattate dal posto in cui vivono e non han-no modo di pagare per un nuovo appartamento o una stanza di mo-tel. Infrangeranno le regole? Sì, e potrebbero pensare, come lo pen-so io, che la parte peggiore della faccenda sia il fatto che tutto que-sto, con dei leader capaci, avrebbe potuto essere evitato. Le persone disperate infrangono le regole. E invece quando non va bene in-frangere le regole? Nella vita biso-gna dare il buon esempio. E quin-di, di questi tempi, non bisogna entrare in un negozio della catena Trader Joe’s senza indossare una mascherina. Non bisogna essere uno di quei tipi che entrano in un Walmart e litigano con un addet-to che lavora duro perché non vo-gliono indossare una mascherina. Come Paese, siamo così impegnati a sottolineare le differenze che ci sono fra noi che questo ci porterà a infrangere le regole per la soffe-renza e la frustrazione. Non avrem-mo bisogno di infrangere le regole se avessimo trattato le persone in modo diverso.

In ognuno di noi c’è un piantagra-ne. Io credo che una regola che non fa del male a nessuno sia una regola da seguire. Poi ci sono altre regole che uno prende meno sul serio. Va bene infrangere una re-gola se uno si dice: «È una regola soltanto perché qualcuno ha deci-so che lo fosse». E, se questo non procura qualche danno a un altro essere umano, quel tipo di regola può essere infranta.

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John Leguizamo è un attore, un autore di teatro e un comico. Ha fatto il suo esordio come regista nel 2020 con il film “Critical Thinking”.

Scott Eastwood ha recitato nei film“ Pacific Rim – La rivolta” e “The Outpost”.

George Lopez è un comico e un attore.

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Il 2021 sarà un anno politico lunghissimo, non solo per la gestione del piano di ripartenza e per le elezioni a Roma, Milano e Torino, ma perché si concluderà nel 2022 con l’elezione del Capo dello Stato

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VERSO IL QUIRINALE

Il 2021 sarà un anno politica-mente lungo perché terminerà nei primi mesi del 2022, quan-do si eleggerà il presidente del-la Repubblica, la grande tom-bola della politica italiana per la quale da tempo si elabora-no tattiche e manovre. Come in un mondo parallelo ma re-ale, l’Italia politica è entrata in una fase inedita con un gover-no debole ma senza alternative e partiti sempre più infragiliti che tirano dritto senza grandi idee e senza scaldare i cuori. È debole il centrosinistra, mal-grado qualche segnale di resi-stenza, tuttora carente in fatto di leadership e al tempo stes-so minato da vecchie e nuove rivalità interne; è più debole di prima, pur con voti di tutto rispetto, un centrodestra che sconterà la crisi del sovrani-smo aperta dalla sconfitta di Donald Trump e anch’esso at-traversato dalla faglia apertasi fra Matteo Salvini e Silvio Ber-lusconi; è debole, in tutto, quel Movimento Cinque Stelle che non incarna più lo spirito del tempo come qualche anno fa; è debole la proposta dei riformi-sti di centro incapaci di dar vita a un nuovo polo; ed è debole anche la figura del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, il cui sostanziale tirare a cam-U

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pare, se forse può consentire il prolungamento del galleggia-mento personale, non pare in grado di produrre una credibi-le nuova offerta politica.

I primi mesi del 2021 saran-no dominati da una mega-in-cognita: come uscirà il quadro politico dalla fase più acuta della pandemia, alla prova con la vaccinazione di massa e il tentativo di ridare fiato a un’e-conomia a pezzi? La scommes-sa è altissima. Ma al tavolo da gioco siedono uomini politici improvvisati, privi di un rap-porto reale con il popolo e il suo sentire: è quello che passa il convento nell’era post-parti-ti e in un certo senso post-po-litica. Per cui tutti dovrebbero sentire l’urgenza di una colos-sale riforma di sé stessi.

Qualcuno reagirà? Forse ap-parirà un Partito democratico rinnovato e più aperto, forse arriverà una nuova proposta riformista nel solco di Joe Bi-den e magari, a destra, si vedrà un conservatorismo repubbli-cano di rottura con il trucismo salviniano. Chissà. Certo è che lo scontro fra democratici e so-vranisti va visto in modo nuo-vo. Il clivage non pare più es-sere quello sovranismo contro europeismo e nemmeno quel-lo apertura contro chiusura, quanto quello della credibili-tà della risposta della politica ai nuovi, enormi, problemi so-ciali.

Finora è buio pesto, a co-minciare dal Recovery fund, ovvero lo spartiacque fra il pri-ma e il dopo. A occhio e croce, il centrosinistra appare messo un po’ meglio dei suoi avversa-

ri che scontano l’inaridimento della proposta politica di Salvi-ni, mai più ripresosi dal disa-stro del Papeete. Ma al Pd an-cora manca un’elaborazione positiva sul post-pandemia: ed è singolare che sui temi delle nuove tecnologie, della scien-za, dell’ambiente e del nuovo welfare la sinistra italiana non esca dal generico, tutta avvi-luppata nella ragnatela del po-liticismo. Sempre alla ricerca di sé stesso, il Pd sta vivendo una fase strana, ben piazzato in campo ma sempre lontano dalla forza elettorale di un tem-po. Incapace di fare egemonia. Di incontrare il popolo. Men-tre il declino del vecchio M5s dell’epoca di Beppe Grillo e Roberto Casaleggio potrebbe indurre quel che resta del Mo-vimento a correre nelle braccia

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Il mandato del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, scade nel 2022, ma c’è chi indica la possi-bilità che, come ac-cadde con Giorgio Napolitano dopo la precedente crisi economica e poli-tica, l’attuale Capo dello Stato possa essere rieletto

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del Pd, unica ciambella di sal-vataggio per gli ex rivoluziona-ri del vaffa: e forse sarà questo l’epilogo mesto di una storia ormai al tramonto.

Da parte sua, Giuseppe Conte scruta il cielo cercando di capire se in questa stagna-zione della politica riuscirà ad andare avanti. Senza contare che nel Paese potrebbe salire un malcontento generale per la crisi economica fronteggiata senza grandi iniziative che non siano quelle dei (sacrosanti) sussidi e ristori. La scommes-sa di Conte è di trasformarsi da tecnico della manutenzione a politico della rinascita italia-na: ma i dubbi su questa im-presa sono molti di più delle certezze.

Nessuno può dire in quelli condizioni si arriverà alle ele-

zioni comunali della prima-vera inoltrata. Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, Trie-ste: un test fondamentale per misurare la capacità di tenu-ta e di innovazione delle varie forze politiche e per misurare i rapporti di forza all’interno delle coalizioni (Giorgia Melo-ni più forte di Salvini?). È tutto aperto, tutto possibile, ma sul-la carta il centrosinistra par-te avvantaggiato, soprattutto perché le Amministrative rap-presentano tradizionalmente il tipo di consultazioni a esso più consone (qualità dei candi-dati sindaci, insediamento ter-ritoriale, conoscenza dei pro-blemi).

L’altra grande, grandissima partita, dicevamo all’inizio, è quella del Quirinale. Inutile qui fare i nomi dei pretenden-

ti, l’elenco è già lunghissimo. Probabile che il primo colpo spetterà al centrosinistra con gli alleati (se tali si conferme-ranno) del M5s, mentre alla de-stra toccherà mediare per otte-nere un nome non sgradito. La guerra sarà ancora una volta fra i vari cavalli e i cavallini di razza del mondo dem, esatta-mente come avvenne nel 2014, quando dopo gli affossamenti di Franco Marini e di Romano Prodi tutti i partiti pregarono Giorgio Napolitano di fare un bis. E non mancano quelli che anche stavolta immaginano un’analoga conclusione, con la richiesta in ginocchio a Ser-gio Mattarella, unanimemen-te considerato un grandissi-mo presidente, di fermarsi un altro po’ sul Colle più alto di Roma.

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L’Italia pre-pandemia era un Paese disorganizza-to, impoverito, ma ancora felice di essere Italia perché conservava un’opportunità di “dolce vita” per tutti grazie al clima, alla bellezza gratuita del mare e delle montagne, alla cultura della piazza che da sempre, qui, mette il divertimento e la so-cialità interclassista alla portata di chiunque. Sen-za quel tipo di “dolce vita” – stroncata dal Covid

– l’Italia vede deperire il suo genius loci, lo spirito dei luoghi che informa le biografie individuali e collettive. E si capisce perché nella temperie del lockdown gli italiani abbiano litigato soprattutto parlando di discoteche, ristoranti, cene, cenoni, impianti sciistici, raduni familiari e assai meno di scuola o lavoro. La qualità del tempo libero, qui, non è un accessorio. La qualità del tempo libe-ro, qui, è la vera risposta alla domanda che molti italiani si fanno da anni: «Perché resto in Italia? Perché non me ne vado altrove?».

Il 2020 ha richiesto al Paese uno strappo cul-turale superiore a ogni altra nazione europea e il 2021 alzerà ulteriormente la posta. Una parte non piccola dei cittadini ha visto la sua way of life seriamente minacciata o addirittura azzera-ta. Niente più weekend al mare, niente più gior-

La pandemia ha privato l’Italia del suo genius loci, e cioè di quel “nostro” modo di goderci la vita. Ma se proveremo a fare gli adulti e ad ascoltare le donne, potremo ricostruire economia e tessuto sociale proprio sull’inclinazione alla bellezza

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Roma, Milano, Venezia. Nel nostro Paese la qualità del tempo libero non è un accessorio, ma per molti è la vera risposta alla domanda «Perché resto qui?»

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ma anche di un modello economico in declino, una sorta di premio di consolazione per le scarse opportunità offerte dal sistema Paese.

Senza il benefit “sole cuore amore”, nel 2021 delle domande indecifrabili (Basterà il vaccino? Finiranno le restrizioni? Sopravviveremo ai licen-ziamenti di primavera?) l’Italia è destinata fatal-mente a rivelarsi ai suoi cittadini come una na-zione dove è poco conveniente vivere, lavorare, fare progetti. Un Paese triste. E infatti i due effet-ti del virus già statisticamente determinati sono entrambi legati alla depressione individuale e so-ciale: un nuovo crollo della natalità e un’accelera-zione dell’emigrazione all’estero. L’Istat prevede un record negativo degli indici demografici: dai 420mila nuovi bambini registrati nel 2019 (la quo-ta più bassa in 150 anni) si scenderà addirittura a 393mila, forse anche meno. Gli scenari sull’emi-grazione sono più confusi. Tra il 2019 e il 2020 è aumentata dell’8,1 per cento e l’opinione generale è che alla ripresa della mobilità tra nazioni una quota ben superiore farà le valige e se ne andrà in cerca di miglior fortuna.

Entrambi i fenomeni vedono come “parte deci-

nate sulla neve. Niente più eventi, mostre, prime teatrali, presentazioni di libri, shopping, luoghi dove esercitare l’arte dello stare al mondo. Nien-te più raduni famigliari e uscite di gruppo, che in Italia non sono solo il nocciolo rituale di una tradizione ma l’obbiettivo delle giornate e del-le settimane: si lavora, anche duro, sapendo che alla fine ci si siederà a tavola, con gli amici, con i parenti, poco importa se per la cena esagerata o per la merenda vegana.

La propensione nazionale per questo tipo di so-cialità è stata enormemente rafforzata dagli anni della crisi. I bassi stipendi e la precarietà del lavo-ro – il salario medio degli under 30 è di 830 euro al mese, ai limiti della soglia di povertà – hanno reso proibitivi progetti di lungo periodo come comprare o affittare una casa, costruire una fa-miglia, accendere un mutuo per aprire un’attività, ma, fuori da queste prospettive, rappresentano un considerevole argent de poche. Se vivi ancora coi genitori, se non devi pagare le bollette o le spese per un figlio, 830 euro sono un buon budget per il divertimento. Insomma, la “dolce vita” italiana non è solo figlia di una propensione edonistica,

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“dolce vita” prima affidata all’aggregazione metro-politana si ricollochi progressivamente altrove. Ad esempio, nelle opportunità che apre lo smart working a una nazione di borghi spesso bellissimi e ben collegati, dove sarebbe possibile insediare non tanto un utopico ritorno ai vecchi tempi ma un modo nuovo di vivere la modernità, di attrar-re investimenti e capitale umano.

Certo, serve un modello. Un’idea di Paese che associ al tran tran dei garantiti (i pensionati, i la-voratori pubblici a reddito certo) nuove prospet-tive per gli altri e soprattutto per le donne, che potrebbero qualificarsi come vero motore della resilienza. Un progetto che traduca in realtà l’i-spirazione green dei finanziamenti europei – un’i-spirazione che sembrerebbe fatta apposta per noi

– e non sciupi le enormi opportunità economiche del Next Generation Eu in ambizioni modeste o addirittura fraudolente. Il genius loci italiano, cioè l’inclinazione alla socialità e alla bellezza, potreb-be addirittura uscirne irrobustito, e la domanda

“Che ci faccio qui?” potrebbe trovare nuove rispo-ste, più soddisfacenti della vita da eterni vitelloni felliniani che sembrava il nostro destino.

dente” le donne, che in Italia sono state penalizza-te dall’epidemia molto di più rispetto agli uomini, visto che è toccato a loro sopportare il maggior peso della chiusura delle scuole e dell’impratica-bilità della sanità “ordinaria”, trasformandosi in badanti o baby sitter a tempo pieno. Il Recovery Plan offre loro scarse prospettive: anche se andas-se in porto nei tempi brevi, è tutto puntato sulle infrastrutture e quindi su lavori quasi esclusiva-mente maschili. Perché restare? Perché azzarda-re un figlio in queste condizioni?

E tuttavia il 2021 porta con sé anche un’altra potenzialità, un possibile choc post-traumatico di segno diverso, in politica e nella società. Sia-mo stati il Paese più incline a cavalcare le futili rivendicazioni populiste, quando sedevamo al ta-volo dell’aperitivo inveendo contro gli immigra-ti e la perfida Europa, immaginando impossibili autarchie che ci avrebbero reso tutti più ricchi e più felici. Il Covid potrebbe accelerare l’uscita da questa infinita adolescenza obbligando gli italiani a diventare adulti, a rivedere le priorità e gli stili di vita nonché le diffuse maldicenze sull’Unione matrigna. E non è impossibile che la ricerca di

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LO SCENARIO ECONOMICO ITALIANO DEL 2021

Fare previsioni sul 2021 è un esercizio intrinsecamente pe-ricoloso. Se, riportando indie-tro la lancetta del tempo di un anno, ci fossimo dedicati a ini-zio gennaio a immaginare l’e-conomia italiana nel 2020, il ri-sultato sarebbe stato impietoso

– ovviamente a causa dello scop-pio della pandemia di Covid-19, quindi con una forte giustifica-zione. Malgrado ciò, anche le previsioni per il 2021 sono un esercizio soggetto a errore, so-prattutto in presenza di una esternalità devastante come il Covid-19, che rende il quadro di riferimento molto volatile.

LO SCENARIO DELLA PANDEMIA E LA RISPOSTA DEI GOVERNI

Credo che, con il primo seme-stre, il tema Covid sarà pres-soché esaurito. In parte per-ché a mio avviso, almeno nei Paesi occidentali, l’immunità di gregge naturale è già molto avanzata. E se pure questa mia personale convinzione si rive-lasse errata, il tema si esaurirà comunque perché la campa-

gna vaccinale estesa, con alme-no tre vaccini approvati da ini-zio anno, renderà effettiva l’im-munità di gregge. Nel peggiore dei casi entro giugno.

Questo non significa mini-mamente che il Covid sparirà, cosa palesemente impossibile. Sparirà tuttavia la possibilità che esploda di nuovo, renden-do ingestibile la questione sa-nitaria. Uno scenario di fron-te al quale non vedremo proba-bilmente una risposta univoca da parte dei governi. Lo spettro delle regolamentazioni com-prenderà sia una risposta mol-to liberale negli Stati Uniti, an-che con la nuova Amministra-zione, sia – temo – una risposta difensiva, tardiva e potenzial-mente ondivaga in Italia, an-che a causa di una modesta o modestissima terza ondata tra gennaio e marzo.

Il freno allo sviluppo econo-mico che ne deriverà sarà quin-di soggetto a variazioni. Ma, come nel 2020, mi aspetto che in Italia sarà ai massimi livelli rispetto al resto d’Europa, con conseguenze molto negative sul rimbalzo del Pil.

COME SARÀ L’ANDAMENTO DEL PIL

Rispetto a un 2020 chiuso tra -10% e -12% dopo il devastante lockdown natalizio, sottovalu-tato dal governo sotto il profilo della crescita economica, e un debito su Pil intorno al 165%, il 2021 sarà sicuramente un anno con segno positivo, ma proba-bilmente meno delle aspettati-ve iniziali. Io mi aspetto un for-te rimbalzo del turismo esti-vo e invernale (per differenza rispetto al 2020, dove è stato zero) fino a Natale 2021, insie-me a una significativa risalita nel campo della ristorazione, che presumo sarà riaperta de-finitivamente intorno a marzo o aprile. Di contro, il recupe-ro sarà meno forte del previsto per quanto riguarda i consumi delle famiglie a causa del calo delle aspettative di reddito di-sponibile nel tempo.

L’inevitabile decremento dell’occupazione e la chiusu-ra di molte imprese, soprattut-to commerciali e di servizi, in-sieme alla contemporanea in-capacità del governo di tenere alti gli stimoli fiscali del 2020

Lo scenario economico italiano 2021 è difficile da prevedere, anzi è pericoloso, ma nella seconda metà dell’anno ci sarà un forte rimbalzo in alcuni settori, anche se il recupero sarà meno forte del necessario

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raturo nel tempo, dell’ostili-tà (nemmeno troppo celata) del governo alle imprese, cui si accompagna l’assuefazione ai sussidi di un vasto strato di economia e territorio, ossia l’e-satto opposto di ciò che serve per stimolare lo sviluppo.

Ci ritroveremo quindi a fine 2021 con un differenziale di svi-luppo rispetto ai Paesi euro-pei molto elevato (anche con-siderando che si parte dal li-vello già esasperato del 2019), con un ciclo di investimenti ri-tardato, con un euro realistica-mente un po’ più forte rispetto al dollaro e, soprattutto, senza avere avviato una seria politica economica per lo sviluppo.

IL RECOVERY PLAN E IL SUO UTILIZZO

A fronte di questo scenario di crescita, forse rilevante in ter-mini assoluti ma molto infe-riore se confrontato ai partner europei, ci sarà nel 2021 il tor-mentone ricorrente del Reco-very Plan, a oggi uno dei segre-ti meglio custoditi in Italia.

Difficile commentare rumor e voci, ma mi aspetto che i “pi-lastri” del piano, almeno in Italia, siano la digitalizzazio-ne, l’economia verde e le infra-strutture.

Per quanto riguarda digi-talizzazione ed economia ver-de temo che le parole supere-ranno i fatti e, soprattutto, che l’impatto sull’economia del Pa-ese sarà pressoché nullo. La di-gitalizzazione ormai si traduce in portare il 5G in tutto il Pa-ese, cosa che succederebbe co-munque in termini economi-camente sostenibili. Ci potrà essere una certa accelerazio-

ne (modesta, secondo me) ma l’impatto non sarà né differen-ziale rispetto all’Europa, né so-stanziale. Lo stesso vale per l’e-conomia verde, settore in cui è progressivo e ormai molto avanzato lo spostamento del-le fonti di produzioni di ener-gia verso le rinnovabili (l’Italia è al 35% circa, la Germania al 75%, giusto per ricordarlo). Ci sarà una naturale e progressi-va crescita della percentuale di auto elettriche vendute. Ma an-che in questo caso non si intra-vede alcun differenziale di va-lore tra noi e il resto di Europa e nemmeno un sostanziale vo-lano per la crescita.

Diverso l’impatto di un pia-no per le infrastrutture, che potrebbe avere una forte valen-za di sviluppo economico, ma è prevedibile che la burocra-zia dello Stato e le varie e nu-merose istanze di “controllo” collocate a tutti i livelli limite-ranno (e di molto, per non dire del tutto) la spesa effettiva nel 2021.

Manca completamente a oggi la consapevolezza che lo sviluppo economico vero si basa su produttività e vantag-gi competitivi duraturi. La pro-duttività, come si sa, discen-de dagli investimenti e dal co-sto del lavoro, in un quadro in cui i primi dovrebbero esse-re fortemente stimolati (indu-stria 4.0 e oltre) e il secondo ab-battuto (taglio del cuneo fisca-le). Non vedo grandi risorse su questo tema (a parte la decon-tribuzione al Sud, che non avrà alcun impatto sostanziale per-ché nessuno vi investirà se pri-ma non viene risolto il proble-

(sono finite le risorse, cosa am-piamente prevedibile), tende-ranno a rendere il rimbalzo dei consumi meno forte del previ-sto e di conseguenza a ritarda-re le decisioni di investimen-to delle imprese, che hanno in ogni caso ampia capacità pro-duttiva in eccesso.

Per contro, la liquidità ac-cumulata nel 2020 per il crollo dei consumi e per il sostegno fiscale può esercitare un effet-to di riequilibrio a mio avviso solo parziale. Il combinato di-sposto di questi effetti può por-tare a un rimbalzo del Pil tra il 4% e il 7% , dove la fascia più centrale, il 5-6% costituisce l’a-spettativa più realistica.

Un grosso problema per l’I-talia sarà determinato dal dif-ferenziale di sviluppo cumula-to nel 2020-21 rispetto agli altri Paesi dell’Eurozona. La rispo-sta italiana alla pandemia è stata tutta concentrata in sti-moli a pioggia senza un mini-mo di strategia. Soprattutto, la quota riservata alle impre-se è stata minima. L’opposto ha fatto, ad esempio, la Ger-mania. Da qui deriverà un ul-teriore differenziale sul piano degli investimenti e della com-petitività e, di conseguenza, un divario molto pesante su quel-lo della crescita economica. La valuta unica – irrinunciabile – e la differente capacità di ge-stione del ciclo non faranno che accrescere il differenziale di produttività, relegando ulte-riormente l’Italia al ruolo di ul-tima della classe in Europa per crescita e produttività.

Purtroppo sarà questo l’ef-fetto drammatico, perché du-

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I pilastri del piano di utilizzo dei fondi e dei prestiti europeI saranno la digitalizzazione, le infrastrutture e l’economia verde

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MANCA LA CONSAPE VOLE ZZA CHE LO SVILUPPO ECONOMICO SI BASA SU PRODUTTIVITÀ

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ma enorme del VERO controllo del territorio), per cui si per-derà ancora tempo prezioso.

Quanto allo stimolo di set-tori strategici, il pensiero va al turismo, che è stato addirit-tura mortificato nel 2020 e ri-guardo al quale non si intra-vede da parte del governo nes-suna consapevolezza, per non parlare di un’azione concre-ta. Servirebbe un massiccio piano di stimolo, con aiuti an-che a fondo perduto, analogo a quanto la Germania ha GIÀ FATTO per i suoi settori strate-gici, ma non si vede nemmeno all’orizzonte nessuna consape-volezza.

Infine, non si parla di stimo-lo né di risorse dedicate nem-meno per i settori che hanno valenza di export. Di conse-guenza soffriremo come tutti il calo degli investimenti, avve-nuto su base globale nel 2020 e che si riverbera nei suoi effetti di contabilizzazione anche sul 2021. Non solo: soffriremo più di tutti la mancanza di atten-zione del governo nei confron-ti delle aziende che esportano.

In estrema sintesi, mi aspet-to che i fondi del Recovery Plan arrivino in ritardo, che il piano sia implementato con indu-gio, che i finanziamenti ven-gano dispersi in mille rivoli di modesto impatto complessi-vo, in assenza di una chiara vi-sione del percorso di sviluppo economico del Paese. Risulta-to: nessun impatto per il 2021, salvo forse contribuire a copri-re qualche buco di bilancio fat-to nel 2020. Si allocheranno ri-sorse a Sanità e probabilmen-te scuola, in modo corretto, ma

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IL TIMORE È CHE RITARDI E INADEGUATE ZZA DEPOTENZINO L’ IMPATTO DEL RECOVERY PLAN

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riduca anche marginalmente non tanto la politica moneta-ria (che resterà ultra espansi-va), ma banalmente la quanti-tà di titoli di Stato italiani ac-quistati rispetto al totale delle emissioni.

Nel 2020 questa percentua-le raggiunge, tra PEPP, SURE e altri programmi, il 45% circa, mentre è prevedibile che scen-da intorno al 30% se non al 25% nel 2021. L’ombrello BCE, insomma, non è eterno e len-tamente si chiuderà lasciando un debito pubblico di 2,75 tril-lioni a fine 2021, destinato a di-ventare 3,0 trilioni nel 2024.

Prima o poi la domanda dei mercati sarà evidente: si chiederanno cioè se lo svilup-po economico italiano sarà in grado, anche con tassi bassi o bassissimi, di fare scendere il rapporto debito/Pil. Se questo governo fosse ancora in cari-ca a fine 2021 (e visto il seme-stre bianco a partire dall’esta-te è probabile che lo sia) la mia previsione è che la domanda sarà di attualità verso la fine dell’anno e qualche tensione sullo spread comincerà a ma-nifestarsi. Nulla di gravissi-mo, ma costituirebbe il prelu-dio di un 2022 e di un 2023 che potrebbero configurare invece scenari molto meno rassicu-ranti.

L’uscita dalla drammatica dimensione del debito avviene solo con uno sviluppo sostenu-to e a oggi non ci sono le con-dizioni minime perché questo succeda.

LA SPESA PUBBLICA

Non vedo nel 2021 alcuna pos-

sibilità che venga iniziata una doverosa revisione al ribasso della spesa pubblica impro-duttiva. È probabile che succe-da invece l’opposto. Inutile sot-tolineare quanto dannosa sia questa facile previsione.

QUALI SARANNO I SETTORI TRAINANTI DELL’ECONOMIA

L’analisi del tessuto econo-mico italiano e dei suoi set-tori trainanti indica in modo abbastanza chiaro le priorità. Al tempo stesso, evidenzia la mancanza pressoché totale di politica industriale e di visione in questa fase storica. L’Italia dipende in modo massivo da:

• turismo, semplicemente devastato dal Covid-19;

• dal suo ruolo di subfornito-re per la industria manifat-turiera e in particolare au-tomobilistica tedesca, e ci sarà un rimbalzo ciclico;

• dall’industria per i macchinari di precisione, che rimbalzerà solo quando sarà riassorbita la capacita produttiva in eccesso globale (e quindi molto poco nel 2021, andranno meglio gli anni successivi);

• dalla filiera moda/lusso, che si spera beneficerà dal rimbalzo dei flussi turistici globali e dalla ripresa sostenuta dei consumi in Cina e Stati Uniti;

• parzialmente, dall’industria della trasformazione alimentare, che potrebbe crescere nel tempo ma ancora adesso non costituisce un forte contributo all’export.

non vedo risorse tangibili allo-cate verso lo sviluppo del Pae-se e dell’economia che rimane l’unica strada stretta di ridu-zione dell’immane fardello del debito pubblico.

Mi rendo conto che è una previsione molto negativa, ma è basata sull’osservazione dell’operato svolto finora del governo e sul presupposto che sarà PURTROPPO questo stes-so governo l’artefice del Reco-very Plan. Un’occasione stori-ca e unica per l’Italia che, rea-listicamente, viste le premesse e gli attori, verrà gettata al ven-to. L’unico motivo di speranza è che non riusciranno a spen-dere nemmeno volendolo e che le risorse allocate potran-no essere disponibili per futu-ri esecutivi di ben altro spesso-re e competenze.

IL PROBLEMA DEL DEBITO PUBBLICO

Il 2020 è stato caratterizzato da pesanti interventi della BCE che hanno sterilizzato comple-tamente lo spread e comprato una vasta maggioranza del de-bito pubblico in eccesso. Que-sto trend continuerà anche nel 2021 ma avrà molto meno impatto. Di conseguenza mi aspetto che il rapporto debi-to/Pil raggiungerà a fine 2021 il 165%, numero che considera il significativo rimbalzo del Pil, ma anche l’ipotesi che nel pri-mo semestre lo spread riman-ga fermo. Ma mi aspetto che nel secondo semestre dell’an-no, a fronte di una ripresa eco-nomica molto forte in Germa-nia, in Francia e nel Nord Eu-ropa, e con una certa pressione sul tasso di inflazione, la BCE

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IL SISTEMA BANCARIOLe banche entrano nella cri-si con un bilanciamento mol-to più solido in termini di risk weighted asset e di tier 1 capital, soprattutto se confrontato alla drammatica crisi 2008. La ga-ranzie statali sui prestiti fino a 400 miliardi, per quanto non completamente utilizzate a oggi, hanno comportato un ul-teriore grosso scarico dei ratio.

Nel 2021 ci sarà sicuramen-te un aumento delle sofferenze, ma credo che sia sottovaluta-

to il combinato disposto di in-tervento delle garanzie statali e di politiche di credito molto più cautelative. In altre parole, non credo che ci saranno pro-blemi di tenuta o di necessità di capitale per nessuna delle grandi banche italiane.

È probabile che sarà dato ul-teriore impulso al processo di consolidamento dopo l’opera-zione Ubi. Sicuramente verrà risolto il tema Monte dei Pa-schi di Siena e probabilmente sia Banco Bpm, che Bper risul-

La domanda interna sarà fortemente condizionata dal-la politica fiscale, la quale ine-vitabilmente dovrà iniziare il percorso di rientro e, qualora la domanda di lavoro da par-te delle imprese non riprenda a dare stimolo, non potrà esse-re di sostegno.

Manca completamente oggi la consapevolezza del fatto che, quando finirà il metadone del-lo stimolo fiscale, le imprese e i privati dovranno esprimere do-manda di beni, servizi e quin-di lavoro. Per ottenere questo risultato lo Stato dovrebbe sti-molare in modo massiccio gli investimenti e la produttivi-tà delle aziende, in particolare quelle dei settori trainanti so-pra citati, anche a costo di fare scelte molto nette in regime di scarsità di risorse.

Il sostegno alle imprese che hanno prospettive di sviluppo sarebbe fondamentale per am-plificare il ciclo, ma contrasta in modo netto con la visione politica dell’attuale governo e perciò non sarà offerto, se non in minima parte.

Le imprese saranno quin-di chiamate, non diversamen-te che in passato, a cercare op-portunità di sviluppo in modo autonomo, pur essendo zavor-rate dal costo dei mali storici italiani, cioè un carico fiscale elevatissimo, una burocrazia statale farraginosa e comples-sa e, infine, un sistema di am-ministrazione della giusti-zia lento e inefficace. Di certo qualche impresa, come in pas-sato, crescerà, ma la maggio-ranza ripeterà le assai modeste performance storiche.

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teranno protagoniste di questi processi.

Al temine ci saranno in sce-na tre grandi operatori, Inte-sa, UniCredit e Banco Bpm, ag-gregata in qualche modo, più due operatori esteri come Bnp (Bnl) e Crédit Agricole (cioè Cariparma e Creval), tutti mol-to solidi, con economie di sca-la significative in grado di as-sicurare credito all’economia e generare valore. Non preve-do in alcun modo crisi di sog-getti dimensionalmente ope-ranti dopo l’evidenza degli ul-timi casi (Banca Popolare di Bari e Carige). Si può afferma-re con relativa sicurezza che il lungo processo di ristruttura-zione del credito in Italia è ar-rivato quest’anno al suo com-pimento.

UNA SINTESIIl 2021 sarà un anno di rimbal-zo economico dopo il tragi-co 2020. Sarà a mio avviso un rimbalzo purtroppo inferiore a quello dei nostri partner eu-ropei. Non mi aspetto crisi di spread o bancarie, ma non mi aspetto nemmeno quel cam-bio di passo del governo e del-la politica che sarebbe assolu-tamente necessario.

Questo potrà avvenire solo dopo l’elezione del nuovo pre-sidente della Repubblica nel 2022 e con le probabili imme-diate elezioni successive.

L’Italia ha un tessuto im-prenditoriale molto solido che è riuscito a sopravvivere in un ambiente ostile, con uno Stato assente o peggio limitante. La crisi del Covid-19 ha inferto un colpo durissimo al sistema ma

il problema, negli anni a veni-re, sarà più concentrato sulla necessità di riformare adegua-tamente, rapidamente e perva-sivamente lo Stato, riducendo i limiti che genera allo sviluppo economico e alla crescita della produttività.

Paradossalmente, la crisi della pandemia e l’incremen-to massivo del debito pubbli-co che ha generato renderanno questa necessità, già evidente da tempo, del tutto ineludibile. Sarà possibile agire però sol-tanto con un nuovo Parlamen-to, non più dominato da forze populiste sostanzialmente in-capaci di operare.

La vera domanda allora è se il tempo SPRECATO nel 2021 e forse anche nel 2022 in attesa di questa necessaria e urgen-te evoluzione ci sarà conces-so dall’evoluzione della con-correnza internazionale, dal-la compiacenza dei mercati finanziari verso il nostro im-mane debito pubblico e, in po-sitivo, da almeno un lustro di tassi di interesse compressi a zero. Il Covid-19 è stato per l’I-talia una brutale sveglia, ma ha anche offerto una finestra di opportunità grazie all’ atteg-giamento molto più disponibi-le dell’Europa.

A oggi, e penso anche quest’anno, sprecheremo col-pevolmente questa opportu-nità. La finestra lentamente si chiuderà e non manca molto tempo. Tutto dipende, in po-che parole, da quanto questa consapevolezza verrà condivi-sa dai cittadini italiani quando saranno chiamati alle urne nel 2022 o, peggio, nel 2023.

L’Italia ha un tessuto imprenditoriale molto solido che è riuscito a sopravvivere in un ambiente ostile, con uno Stato assente o peggio limitante

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Dopo un anno, quello della pandemia, in cui l’istruzione italiana è stata bastonata, di-menticata, ignorata, il 2021, l’anno della rivalsa della scuo-la, degli studenti e dei giovani, è arrivato. Forse. Probabilmen-te. No.

La didattica digitale è de-stinata a proseguire, accanto a quella in presenza: un po’ per la necessità di continuare a os-servare le norme di distanzia-mento, un po’ per non vanifi-care gli investimenti fatti nel corso dell’anno precedente. Si spera che, con il tempo e con un po’ di pratica, la didattica digitale sarà anche migliorata, emancipandosi dallo status di surrogato povero della scuola tradizionale, per abbracciare almeno in parte le sfide della rivoluzione tecnologica.

Il 2021 è anche l’anno del piano Next Generation Eu, il programma europeo di finan-ziamenti “per la prossima ge-nerazione”, di cui il capitolo dell’istruzione è uno dei car-dini principali. Però, malgra-do gli «investimenti senza pre-cedenti» in arrivo e i grandi annunci, nei confronti dei ra-gazzi i segnali del cambiamen-to sono stati deboli, ed è im-probabile che la scuola italia-na vedrà la rivoluzione di cui ha bisogno.

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Il 2021 rischia di riproporre, aggravati, gli stessi fenomeni già innescati dalla didattica a distanza. Ma, per fortuna, questo è anche l’anno del piano Next Generation Eu, ovvero la nostra ultima possibilità

Il danno psicologico generato dalla pandemia sui più giovani sarà soltanto attenuato dal ritorno in aula

Per il 2021 lo scenario è quin-di generalmente sconfortante, caratterizzato dall’emergenza di alcuni trend specifici.

Il primo è l’aumento espo-nenziale di ripetizioni e lezioni private. Secondo i dati di Skuo-la.net, che gestisce un portale dedicato, la richiesta di lezio-ni individuali per compensare le lacune generate dalla Dad è cresciuta dal 15 al 100 per cento nel 2020, e la tendenza proba-bilmente continuerà nel 2021. A queste si uniranno i corsi spe-cialistici, soprattutto in ambi-to digital. Erogati prevalente-mente da piattaforme private, articoleranno ulteriormente il panorama della formazione extrascolastica, così fertile dal punto di vista delle aziende e così povero da quello dell’of-ferta pubblica.

Il secondo trend riguarda l’aumento delle forme di iso-lamento fra bambini e ragazzi, fenomeno già noto in una real-tà sempre più social e sempre meno sociale: il danno psicolo-gico generato dalla pandemia sulle nuove generazioni può essere solo attenuato dal ritor-no a scuola. I ragazzi faranno più fatica di prima a studiare, a costruire rapporti, a sentir-si compresi. Non tutti divente-ranno degli hikikomori, ma un senso di solitudine e di frustra-

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zione è destinato ad accompa-gnarli ancora a lungo nel loro percorso di crescita.

Terzo fenomeno, uguale e contrario al precedente, la cre-scita di episodi di delinquenza minorile: istigati dalla crisi eco-nomica e dalla povertà familia-re in tutti i sensi, non solo in quello finanziario, molti ragaz-zi rischiano di rifugiarsi in una socialità estrema, aggregando-si in branchi che si renderan-no responsabili di vandalismi di vario genere. Un allarme già lanciato dalla procuratrice per i minorenni di Napoli e che ri-schia di allargarsi a macchia d’olio in tutto il Paese.

Quarto e non ultimo, l’ag-gravarsi di tendenze in atto già da anni in Italia: la dispersio-ne scolastica (destinata ad au-mentare secondo numerosi rapporti), la disoccupazione giovanile (per l’Istat si è ormai sforata quota 30,2 per cento) e il numero di Neet (già al 22 per cento, il dato peggiore nell’U-nione europea).

Queste tendenze negative potrebbero naturalmente es-sere tamponate con ingenti in-vestimenti nel comparto dell’i-struzione e il varo di un mas-siccio piano per l’occupazione giovanile, ma si tratta di azioni i cui effetti saranno misurabi-li solo nel corso di anni, men-

Nel futuro prossimo potrebbero aumentare la dispersione scolastica, la disoccupazione giovanile e il numero dei Neet

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tre la crisi economica e l’impo-verimento di un’intera gene-razione hanno effetti tangibili già oggi.

Secondo Alessandro Rosina, demografo dell’università Cat-tolica di Milano e coordinato-re dell’Osservatorio Giovani, il 2021 è l’anno in cui l’ago della bilancia dovrà necessariamen-te pendere da un lato o dall’al-tro: «O il governo riconoscerà che serve un approccio diverso, che inglobi il contributo dei giovani nei piani europei, op-pure le nuove generazioni con-tinueranno a non trovarsi rap-presentate, e partirà una prote-sta collettiva».

Il 2021 potrebbe dunque es-sere l’anno di un movimento sociale giovanile che alle già note istanze ambientaliste uni-sca anche quelle per i diritti di una generazione a cui sono sta-te voltate le spalle.

«Se non dovesse accadere nessuna delle due cose», dice Rosina, «saremo finiti: le frat-ture economiche, sociali e la-vorative a livello generazionale sono troppo profonde per po-ter essere saldate più avanti. Il Next Generation Eu è la nostra ultima possibilità: o la pande-mia ci serve per costruire di-scontinuità, o dobbiamo rasse-gnarci a diventare sempre più marginali». 1

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Nel 2020 abbiamo vissuto la comparsa di un ci-gno nero che ha cambiato, e cambierà sempre più, non solo le dinamiche sociali ma anche le nostre abitudini e i nostri comportamenti come consumatori.

Il cibo sta diventando la prima ricchezza del Paese: in Italia raggiunge i 538 miliardi di euro, quasi un quarto del Pil (dati Coldiretti), compren-dendo la filiera agroalimentare estesa, dai cam-pi agli scaffali e alla ristorazione. Se parliamo di export, per quanto riguarda questo settore il Made in Italy nel mondo ha raggiunto i 43 miliar-di di euro di esportazioni e il trend è in continua crescita. Esportiamo in Germania, Francia, Stati Uniti, Regno Unito e Giappone, prevalentemente.

La Germania e la Francia sono i primi acqui-renti per quasi tutti i prodotti, gli Stati Uniti ama-no i vini, le acque minerali e gli oli, la Spagna il nostro pesce fresco. Il Regno Unito è al secondo posto per la frutta, per gli ortaggi lavorati e con-servati e per i gelati, l’Austria al terzo per i cere-ali e il riso.

In assoluto, i prodotti italiani più esportati sono vino, cioccolato, caffè e dolciumi, pasta, pane e farinacei, frutta e ortaggi lavorati e conser-vati, prodotti lattiero-caseari, ma anche salumi.

La pasta italiana, in particolare, dopo il re-cord di 2,6 miliardi di euro in esportazioni nel 2019, a marzo 2020 ha fatto un ulteriore balzo nelle vendite all’estero del 21 per cento in volu-me, con 97mila tonnellate esportate in più, di cui 72mila sui mercati comunitari. Positivo, contro ogni aspettativa, anche il risultato del vino, con una crescita del 5,1 per cento sui mercati extra Ue nel primo quadrimestre 2020.

Sono numeri che fanno riflettere e che porta-

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Studiare bene i mercati di destinazione, combattere l’italian sounding, investire nella comunicazione digitale. Con questi ingredienti, e grazie ai suoi “ambasciatori”, il Made in Italy mangereccio può trainare il Paese fuori dall’economia del Covid

La vendemmia del Barbera nel Canavese

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IA aziende italiane.

A seguito del Ceta, Comprehensive Economic and Trade Agreement, i dazi canadesi sulle im-portazioni dall’Europa sono ridotti del 98 per cen-to, e negli ultimi due anni l’export verso quel Pa-ese è cresciuto a doppia cifra. Con gli Stati Uniti, invece, non c’è un accordo bilaterale e per que-sto moltissimi brand italiani non sono tutelati: nessun produttore italiano riesce infatti a com-petere con i prodotti fake.

Carlo Ferro, presidente dell’Agenzia ice (l’or-ganismo attraverso cui il nostro governo favo-risce il consolidamento e lo sviluppo economi-co-commerciale delle nostre imprese sui merca-ti esteri), è fortemente convinto che il Made in Italy salverà un Paese in cui, afferma, «L’export è stato l’unico driver della crescita del Pil dopo la crisi del 2008 ed è il primo degli ingredienti del Pil che anche oggi nel post Covid segna dati di crescita». Il quadro di riferimento è quello del patto per l’export per rafforzare il supporto del sistema Paese alle Pmi, ma Ferro sostiene che per dare slancio all’economia nel 2021 sarà neces-sario avere anche ulteriori opportunità grazie a nuove politiche e a nuovi investimenti in Europa.

Bisogna imparare a fare sistema. La prospet-tiva è di riuscirci, ma in modo contemporaneo: l’Italia ha un un vero e proprio esercito di amba-sciatori in ogni angolo del mondo, che sono vo-gliosi di scendere in campo per sostenere il Made in Italy e sono pronti a essere coinvolti anche con strumenti digitali. Su questo, come sottolinea Alessandro Schiatti, profondo conoscitore della situazione internazionale, abbiamo un reale van-taggio competitivo rispetto agli altri Paesi: «Noi li chiamiamo italian food warriors, i guerrieri che combattono ogni giorno per portare l’autentico cibo italiano sulle tavole degli stranieri. Alcuni di questi “guerrieri”, magari sconosciuti in Patria, sono invece noti e apprezzati in tutto il mondo». Sono uomini che rappresentano l’Italia ma han-no un forte radicamento all’estero e sono la no-stra forza e il nostro veicolo di trasferimento di conoscenza.

Perché il 2021 deve essere anche l’anno dell’e-ducazione al consumo: il popolo cinese, che co-stituisce il principale canale di sfogo potenziale per i prodotti italiani, ha una grande tradizio-

no a farci alcune domande. Come possiamo con-tinuare a valorizzare e a comunicare al meglio il Made in Italy? Come cambieranno le dinamiche dell’export agroalimentare? In che modo questa crisi può aiutarci a modificare in maniera sostan-ziale le abitudini consolidate, che sono storica-mente accettate ma poco efficaci?

«Tre sono i temi forti su cui lavorare per il rina-scimento a cui andiamo incontro: coinvolgimen-to delle risorse umane nelle aziende, sostenibi-lità e digitalizzazione», così sostiene Francesco Panella, ristoratore e volto televisivo, che negli Stati Uniti ha costruito la sua credibilità di ita-liano all’estero. La parola “rinascimento” ritorna in tanti interventi di protagonisti del settore, in tante parti del mondo. Ed è forse il tema determi-nante: cogliere il cambiamento in maniera posi-tiva e provare a cambiare strada, strutturando e incanalando in una struttura più solida la nostra grande biodiversità e creatività.

Il 2021 è l’anno nel quale imparare a comuni-care diversamente, e soprattutto a comprendere che bisogna adeguarsi al Paese in cui andiamo. Capire il luogo nel quale vogliamo esportare è conditio sine qua non per creare una strategia vin-cente: serve la voglia di cogliere gli aspetti carat-teristici di ciascun mercato.

Certo, non può mancare un sostegno istitu-zionale, e in questo potremmo prendere come riferimento gli accordi fatti con il Canada o con il Giappone, che stanno dando ottimi risultati in termini economici e di riconoscibilità.

Perché quello che viene chiamato “italian sounding” è un grave problema, che deve rimane-re centrale nel 2021: secondo Coldiretti e Filiera Italia sale ad oltre 100 miliardi il valore del “falso” Made in Italy agroalimentare nel mondo, con un aumento record del 70 per cento nel corso dell’ul-timo decennio: oggi più di due prodotti “di tipo italiano” su tre venduti nel mondo sono “falsi”.

Il primo modo per sconfiggere l’italian soun-ding è rendere illegali i prodotti che vengono spacciati per italiani, ma italiani non sono.

Ed è quello che fanno gli accordi bilaterali tra Unione europea e Canada, per esempio, che prevedono una tutela di 160 prodotti italiani dop e igp, che possono essere venduti con il nome italiano solo se autenticamente provenienti da

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ne culinaria, ma la sua popolazione giovane è sempre più alla ricerca di prodotti occidentali e ricercati. Bisogna riuscire a farglieli conoscere, e soprattutto bisogna far capire che l’autentici-tà della scelta è determinante per la sua qualità finale. La Cina è nei sogni commerciali di tutti i produttori, che lavorano per sfondare in quel mercato così competitivo ma così ampio, come sottolinea Vito Palumbo, brand manager di Tor-maresca: «L’Italia rimane, per fortuna, il nostro mercato principale con quasi il 50 per cento del fatturato. La restante metà è legata in primis a Sta-ti Uniti, Germania, Giappone, Benelux e Inghil-terra. Per il 2021 ci auguriamo e prevediamo un ritorno al fatturato del 2019. La sfida, da sempre, è la Cina, su cui stiamo lavorando. Invece, nel Sud-est asiatico c’è un particolare interesse per la Puglia. Il primitivo è, al momento, la varietà trainante ma, soprattutto grazie alla passione de-gli americani, ci sono ottime speranze per i rosé, con i quali cerchiamo di avvicinarci al successo di quelli provenzali».

Per questo la formazione, il racconto e l’appro-fondimento sono indispensabili. E, per diffon-derli, sono molto utili le potenzialità del digitale. È esattamente ciò che sta facendo I Love Italian Food, il network internazionale che promuove e difende la vera cultura enogastronomica italiana. Una community che, dal 2015, ha raggiunto più di tre miliardi di contatti digitali in tutto il mondo.

Il fondatore Alessandro Schiatti è certo del-la necessità di un profondo cambiamento, che, dopo l’inizio della pandemia del Covid, vede ora possibile per la prima volta: «Oggi si può ripensa-re il modo di fare formazione. I ristoranti sono la prima porta d’accesso del nostro cibo sui mercati internazionali e i cuochi/ristoratori sono i primi ambasciatori della nostra cultura. Ma, perché possano farlo nel modo corretto, devono essere formati e informati. Oggi è possibile fare forma-zione, degustazioni e, in generale, “alfabetizza-zione” in modo nuovo, molto meno costoso e in grado di raggiungere i professionisti in ogni an-golo del pianeta».

L’export dei prodotti del Made in Italy salverà il bilancio italiano? È un’alternativa possibile se sapremo cogliere tutte le opportunità che il nuo-vo scenario ci offre.

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I BTS, una band pop sudcoreana che aveva già fatto impazzire i

ragazzini fin dal 2013, con il brano “Dynamite” (cantato in inglese),

ha agguantato a settembre la prima posizione nella Hot 100, la classifica dei singoli della rivista

Billboard.

Ad aprile, l’Amministrazione Trump ha definito il gruppo ultranazionalista Movimento imperiale russo come una

minaccia terroristica globale. È la prima volta in cui il governo applica questa etichetta a un gruppo di suprematisti bianchi.

Al largo di Nazaré, la brasiliana Maya Gabeira ha cavalcato l’onda più alta

registrata nel 2020 (22,4 metri), diventando la prima surfista donna a ottenere

questo riconoscimento. L’impresa è stata certificata dalla World Surf League e dal

Guinness dei primati.

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I N B A S E A U N A N U O V A L E G G E C O N T R O V E R S A

Mentre nel 2020 molte case di moda hanno venduto

mascherine protettive per il volto, Louis Vuitton è stato il primo brand a realizzare

una visiera protettiva, come elemento della sua cruise

collection per il 2021. L’articolo, che costerà 961 dollari e che

presenta il monogramma distintivo del brand stampato

sul suo rivestimento, può essere indossato con la visiera tirata su o tirata giù a seconda di quanto

sia richiesto dalle regole di distanziamento sociale.

Tilloy-lez-Marchiennes, un villaggio con circa 600 abitanti, ha eletto in marzo il

primo sindaco francese dichiaratamente transgender. Marie Cau, che si è candidata

con un programma che pone l’accento sulla sostenibilità economica, dice che secondo lei è stata eletta per i suoi valori e non per la sua

identità di genere.

Il 30 giugno, la polizia ha condotto i primi arresti applicando una nuova contestata

normativa, a meno di 24 ore dalla sua entrata in vigore. Chi critica questa legge sostiene

che essa riduce l’autonomia del territorio di Hong Kong e dà al governo cinese più potere

nell’imporre limitazioni alla stampa e alle manifestazioni di protesta.

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S T O R I A R E C E N T E

In gennaio, gli astronomi hanno mostrato le più dettagliate immagini del Sole che si fossero mai

viste, ottenute grazie al telescopio solare Daniel K. Inouye, che è il più grande del mondo. Il telescopio è stato costruito alle Hawaii nel vulcano Haleakala,

il cui nome ha un significato molto appropriato: “Casa del sole”.

L’Arabia Saudita ha annunciato in giugno che ai pellegrini prove-

nienti da Paesi stranieri non sa-rebbe stato consentito di viaggia-re verso la Grande moschea della Mecca, cancellando di fatto, per la prima volta nella storia, l’hajj (il pellegrinaggio che costituisce il quinto pilastro dell’islam, ndr). Benché spesso in passato guerre, epidemie e altri avvenimenti tali da rendere pericolosi gli sposta-

menti abbiano avuto conseguenze sull'effettiva possibilità di effettua-

re l’hajj, questa è la prima volta, fin dalla sua istituzione nel 632,

che un divieto di viaggio ufficiale impedisce il rituale sacro.

In agosto, Germania e Israele, due Paesi che condividono una storia

lunga e dolorosa, hanno svolto per la prima volta esercitazioni

militari congiunte su suolo tedesco. Berlino sta cercando di modernizzare il suo esercito e di contrastare l’infiltrazione di opinioni di estrema destra nei

ranghi delle forze armate.

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V A N I T Y F A I R

In agosto, la compagnia tecnologica SkyDrive ha completato in Giappone il primo test pubblico riuscito di un’auto volante. Il veicolo

dotato di equipaggio, che è stato denominato SD-03, ha sorvolato per quattro minuti il Toyota Test Field, sede del settore sviluppo

dell’azienda. SkyDrive programma di rendere l’auto disponibile sul mercato entro il 2023.

In Africa, per la prima volta, sono stati usati dei palloni aerostatici a propulsione solare per assicurare collegamenti internet. Una controllata di Alphabet (la holding a cui fa

capo Google) ha lanciato in luglio 35 palloni per fornire una rete 4G LTE alle aree centro-

occidentali del Kenya.

Dario Calmese, che ha fotografato Viola Davis per il numero di luglio-

agosto dell’edizione americana di Vanity Fair, è stato il primo fotografo di colore a scattare un’immagine per la cover di

quella rivista. Questa scelta si è innestata sulle polemiche attorno alla copertina di agosto di Vogue,

che ritrae Simone Biles e che è stata scattata da Annie Leibovitz.

Alcuni hanno detto che le foto non valorizzavano il colore della pelle

della Biles e che, al posto della Leibovitz, avrebbe dovuto essere ingaggiato un fotografo di colore.

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Negli Stati Uniti, un paziente cieco, il cui corpo non forma le proteine necessarie a convertire

la luce in segnali per il cervello, è stato operato con la tecnica di edi-ting genomico CRISPR. Nel tenta-tivo di restituirgli la vista, i medici

gli hanno iniettato microgocce contenenti il sistema di editing nell’occhio. È la prima volta che questa tecnica viene usata all’in-

terno di un corpo umano.

In luglio, il gruppo statale China Aerospace and Technology ha lanciato Tianwen-1, la sua prima missione solitaria verso Marte (atterraggio

previsto per inizio 2021). In settembre, l’agenzia spaziale cinese ha reso noto un altro successo: è riuscita per la prima volta a far atterrare, dopo

averlo lanciato, un veicolo spaziale riutilizzabile.

Gli scienziati del Royal Ontario Museum e della McMaster

University hanno identificato un osteosarcoma (un cancro maligno

delle ossa) in un esemplare di Centrosaurus apertus, dinosauro

erbivoro che visse circa 76 milioni di anni fa. Secondo un paper

pubblicato da Lancet Oncology, è la prima diagnosi confermata di

cancro in un dinosauro.

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L A C I N A H A L A N C I A T O U N A M I S S I O N E V E R S O M A R T E E H A F A T T O A T T E R R A R E U N

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C O N N E S S EA L L A D R O G A

In ottobre, il generale Salvador Cienfuegos Zepeda, un ex ministro della Difesa del Messico, è diventato il primo alto ufficiale del Paese centroamericano a essere arrestato negli Stati Uniti con imputazioni connesse alla droga. Cienfuegos ha fatto parte del governo dal 2012 al

2018, durante il mandato del presidente Enrique Peña Nieto.

Con i trader che, nel contesto di incertezza causato dal Covid,

cercano posti sicuri in cui investire, nell’estate del 2020 il prezzo dell’oro a raggiunto

un picco record, con una quotazione massima superiore ai 2.000 dollari all’oncia. Anche

altri metalli preziosi, come l’argento e il platino, hanno

aumentato il loro valore.

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G U A R D A N D O A V A N T IN E L 2 0 2 1

Una missione spaziale indiana con presenza umana

L’India prevede di inviare per la prima volta un equipaggio nello spazio nel dicembre del 2021. Il progetto, denominato Gaganyaan, si basa su tecnologia indiana e, secondo quanto è stato reso noto dall’agenzia spaziale di New Delhi, prevede il lancio in orbita per una settimana di tre astronauti e di un robot umanoide.

In Scozia la conoscenza dei temi lgbtq entra nei programmi scolastici

Entro maggio 2021 tutte le scuole della Scozia dovranno includere nei loro programmi l’insegnamento della storia e delle tematiche lgbtq. È il primo Paese in cui avviene. La Scozia ha legalizzato i matrimoni fra persone dello stesso sesso nel 2014.

Il viaggio attraverso l’Atlantico di una nave robot

La Mayflower Autonomous Research Ship è stata svelata a settembre in occasione del 400esimo anniversario del viaggio verso il Nuovo Mondo della prima Mayflower. Ed è pronta per essere sottoposta a test in mare, in preparazione del suo viaggio inaugurale nell’aprile del 2021. Sarà la prima nave robotizzata a solcare l’Atlantico e seguirà più o meno la scia della sua omonima.

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P E R S O N E D E L L O S T E S S O S E S S O

Per la prima volta durante il suo pontificato, Papa Francesco ha manifestato il suo supporto alle unioni civili tra persone dello stesso sesso. In un’intervista per il documentario “Francesco”,

la cui prima è stata proiettata in ottobre alla Festa del Cinema di Roma, il Papa ha parlato di come gli omosessuali abbiano il diritto di far parte di una famiglia e li ha definiti “figli di Dio”. È il primo

Pontefice ha manifestare supporto per le unioni civili.18 ANGELO CARCONI/POOL PHOTO VIA AP

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«Le persone omosessuali hanno il diritto di essere in una fami-glia. Sono figli di Dio e hanno diritto a una famiglia. Nessuno dovrebbe essere estromesso o reso infelice per questo. Ciò che dobbiamo creare è una legge

sulle unioni civili. Hanno dirit-to di essere coperte legalmente. Io ho difeso questo». Riportate nel documentario “Francesco” di Evgeny Afineevsky, queste parole del Papa hanno fatto il giro del mondo quando sono

state rese note il 21 ottobre. In realtà, pur avendo una portata rivoluzionaria soprattutto per quello che attiene all’impegno globale per l’ottenimento di una legge sulle unioni civili, la dichiarazione è completamen-

Le parole del Pontefice sono rivoluzionarie per la Chiesa, ma non per Bergoglio perché lui è sempre

stato favorevole alle unioni civili

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te in linea con quanto sostenu-to al riguardo da Jorge Mario Bergoglio, sia pur non espres-samente, sin dai tempi dell’epi-scopato a Buenos Aires.

Ne aveva già parlato Sergio Rubin, per quanto smentito nel 2013 da Miguel Woites, di-rettore dell’Agencia Informati-va Católica Argentina (Aica), e nel 2014 dal basiliano Thomas Rosica, che all’epoca lavorava presso la Sala Stampa della San-ta Sede come assistente di lin-gua inglese. Il futuro biografo del Papa sosteneva che l’allora arcivescovo di Buenos Aires ri-tenesse le unioni civili una giu-sta tutela e un buon compro-messo per evitare l’introduzio-ne del matrimonio egualitario in Argentina, che fu legalizzato il 15 luglio 2010.

Bergoglio, che condusse all’epoca un’aspra e aperta bat-taglia contro il matrimonio tra persone dello stesso sesso, de-finendolo «una deriva antropo-logica», nulla disse contro il ri-conoscimento delle unioni ci-vili, avviato a livello locale tra il 2001 e il 2007. Anzi, la Pontificia Universidad Católica Argentina Santa María de los Buenos Ai-res organizzò nel 2001 una “Jor-nada sobre la Unión Civil”, che come istituto fu legalizzata, il 13 dicembre 2002, dall’assem-blea legislativa della città.

Le affermazioni di Rubin, che hanno dunque trovato una manifesta conferma nelle paro-le stesse di Francesco, non era-no però affatto isolate. Il gesu-ita Juan Carlos Scannone, già professore di Bergoglio e pub-blicamente riconosciuto qua-le “teologo del Papa” (decedu-

to il 28 novembre 2019), aveva già detto al giornalista france-se Frédéric Martel: «Credo che Jorge intendesse davvero dare diritti alle coppie omosessua-li, era la sua idea. Ma non era favorevole al matrimonio poi-ché è un sacramento. La Curia romana, invece, era ostile alle unioni civili: il cardinale Soda-no era particolarmente rigido a riguardo. Anche il nunzio di stanza in Argentina era molto ostile alle unioni civili».

Sempre in “Sodoma”, il li-bro-inchiesta di Martel su omo-sessualità e Vaticano edito si-multaneamente in otto lingue nel febbraio 2019, sono inoltre riportate le dichiarazioni del biblista protestante Marcelo Figueroa, pastore della Chie-sa presbiteriana e direttore per 25 anni della Società biblica ar-gentina, che dal 2016 dirige l’e-dizione settimanale argentina de “L’Osservatore”: «Penso che Jorge sia favorevole alle unioni civili; per lui è una legge lega-ta ai diritti civili. Le avrebbe ac-cettate se il Vaticano non fosse stato ostile». Parole, seguite da questa valutazione di Martel: «Gli amici più stretti del futuro papa da me incontrati sottoli-neano la difficoltà di Bergoglio ad agire a favore dei diritti de-gli omosessuali in Argentina a causa del Vaticano. In priva-to, Bergoglio avrebbe sostenu-to il progetto di legge come un buon compromesso per evitare il matrimonio. «Era molto isola-to», fanno tuttavia notare i suoi amici. A loro avviso, su questo tema si è svolta una violentis-sima battaglia tra il Vaticano, sostenuto localmente da alcu-

ni sacerdoti ambigui, e il futu-ro papa che, alla fine, ha dovu-to rinunciare alle sue idee più aperte».

Ma, com’era prevedibile, le parole “inedite” del Papa han-no avuto subito un effetto esplosivo mondiale tanto che, appena quattro giorni dopo l’anteprima romana del docu-mentario, si era già detto al ri-guardo tutto e il contrario di tutto. Tra riduzionisti, negazio-nisti, complottisti, massimali-sti le interpretazioni sono state tante e tali da costituire un gi-nepraio, in cui raccapezzarsi ri-sulta ancora poco agevole. Ma tra le polemiche si è potuto in-nanzitutto chiarire che Afinee-vsky ha attuato un’opera di as-semblaggio di quattro spezzoni

– tre già noti e uno del tutto ine-dito – di una video-intervista ri-lasciata dal Papa nel 2019 alla giornalista messicana Valenti-na Alazraki di Televisa. Di ciò si può avere contezza confron-tando il video con la trascrizio-ne ufficiale, come apparsa sulle varie edizioni di Vatican News e su L’Osservatore Romano il 28 maggio 2019, e la clip “rico-struita” dal regista con l’ormai arcinoto risultato sopra ripor-tato. In una tale successione la parte finale sulla legalizzazione delle unioni civili, che è quella inedita, può apparire quale di-retta conseguenza dei tre perio-di antecedenti. Il che ha spin-to entusiasticamente attivisti e politici, anche nostrani, a par-lare di un riconoscimento del-lo status familiare per coppie di persone dello stesso sesso – c’è chi è arrivato a leggervi un’a-pertura in tema di omogenito-

rialità – da parte del Papa. Ma in realtà quelle parole, tagliate poi dal girato nella realizzazione fi-nale della video-intervista e per-ciò non presenti nelle trascri-zioni ufficiali, furono pronun-ciate al termine di una risposta a ben altra domanda, di cui, a distanza di un anno, si possono finalmente comprendere appie-no il tenore e il significato:

«D. Lei ha fatto tutta una bat-taglia sui matrimoni con persone dello stesso sesso in Argentina. E poi dicono che è venuto qui, è sta-to eletto Papa e ora sembra molto più liberale di quanto lo fosse in

Argentina. Si riconosce in questa descrizione che fanno alcune per-sone che l’hanno conosciuta pri-ma, o è stata la grazia dello Spi-rito Santo che le ha dato di più?

R. La grazia dello Spirito Santo esiste, certo. Io ho sem-pre difeso la dottrina. Ed è cu-rioso, nella legge sul matrimo-nio omosessuale… [ciò che dob-biamo creare è una legge sulle unioni civili. In questo modo sono coperti legalmente. Mi sono battuto per questo]. È un’incongruenza parlare di ma-trimonio omosessuale».

Ma perché quel taglio? Gli

organi ufficiali della Santa Sede avevano scelto la strada dell’as-soluto silenzio, mentre l’azien-da radio-televisiva messicana si era limitata a diramare un secco comunicato: «Il Grupo Televisa chiarisce che il con-tenuto dell'intervista di Valen-tina Alazraki sul suo incontro con Papa Francesco, che ha ri-cevuto e trasmesso, non è sta-to modificato: è quello forni-to dal Vaticano. La prospetti-va dell'intervista era un’altra». Cioè, come esplicitato altrove, gli abusi sessuali del clero su minori. Come a dire, insomma,

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IL PAPA È FAVORE VOLE AI DIRITTI DELLE COPPE OMOSESSUALI , MA NON AL SACRAMENTO

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che l’espunzione è stata opera-ta direttamente al di là del Teve-re ed è da lì, ossia dall’Archivio del Ctv-Vatican Media, che la parte tagliata è riemersa. Mes-sa a disposizione di Afineevski, è stata da questi assemblata con l’accennata operazione di taglia e cuci, per poi confluire nel suo documentario.

Ma diciamoci la verità, pur a voler essere benignisti, la moti-vazione addotta – e c’è da pen-sare concordata – da Televisa regge poco o nulla: basta leg-gere il lunghissimo testo del-la video-intervista papale, per

rendersi conto che l’argomen-to dell’attinenza al focus è in-consistente come neve al sole e che, anzi, l’aver espunto la parte sulle unioni civili ha reso l’intero dettato meno linea-re. Non si può far dunque tor-to a padre Antonio Spadaro per aver subito detto il 21 ottobre, al montare del clamore media-tico internazionale, che le paro-le di Francesco erano note. Ma a chi, verrebbe da domandare? Indubbiamente a lui e ai pochi che conoscevano il girato ori-ginale dell’intervista di Alazra-ki. Da qui, però, a sostenere –

come fatto sempre dal diretto-re de La Civiltà Cattolica – che in quelle stesse parole non c’è alcuna novità e a minimizzar-ne così la portata deflagrante ce ne corre.

Sempre il 21 ottobre il ne-o-prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, Marcello Semeraro, creato poi cardinale il successivo 28 novembre, am-metteva invece che «forse è la prima volta che [il Papa] ne par-la in modo così esplicito. Ma le sue parole seguono un percor-so già aperto in precedenza in particolare all’interno dell’e-1

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sortazione apostolica “Amoris Laetitia”». Un percorso aperto, come già rilevato, durante gli anni dell’episcopato bonaeren-se, quando Jorge Mario Bergo-glio si vide isolato nella sua bat-taglia, sia pur combattuta nelle retrovie, per le pressioni con-trarie di Angelo Sodano e Filip-po Bernardini, rispettivamen-te segretario di Stato e nunzio apostolico dell’epoca, che con-tribuirono a metterlo in mino-ranza nella Conferenza episco-pale argentina, dove s’impose la linea vaticano-conservatrice dell’arcivescovo Héctor Rubén Aguer. Aspetto, quest’ultimo, nuovamente lumeggiato su El Clarín da Sergio Rubin, che con Víctor Manuel Fernández, arci-vescovo di La Plata e da tempo consulente teologico di Papa Francesco, ha anche definitiva-mente sgombrato il campo dal-le interpretazioni di chi spinge il travisamento mediatico del-le parole del Papa fino a negar-ne il sostegno a una normati-va sulle unioni civili. E, questo, per il solo motivo che France-sco dice nella video-intervista ad Alazraki: «Lo que tenemos que hacer es una ley de conviven-cia civil». Da qui, la conclusione che il Papa sosterrebbe la ne-cessità di una legge sulla con-vivenza civile (sul modello dei Pacs) e non sulle unioni civili. Ora, a parte il fatto che Fran-cesco afferma subito dopo di essersi battuto per questo – e, come già accennato, tra il 2001 e il 2007 in Argentina si discus-se di unioni civili –, l’arcivesco-vo Fernández, in una breve ri-flessione condivisa via Twitter dalla Conferenza episcopale ar-

gentina il 22 ottobre, ha chiari-to che le parole usate dal Papa si riferiscono alle unioni civili, come sono comunemente inte-se, sì da esserci equivalenza tra ley de unión civil e ley de convi-vencia civil. Non senza aggiun-gere che le parole di Francesco riflettono appieno la posizione avuta da arcivescovo di Buenos Aires.

Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. I nega-zionisti hanno continuato così ad agitare, quali prefiche scal-manate, lo spettro della fake news basata sulla “voluta” tra-duzione erronea e non si dan-no pace del travisamento delle parole del Papa da parte della

“lobby omosessualista”: in Ita-lia ne sono stati rappresentanti il sito Adista e il leader del Po-polo della Famiglia, Mario Adi-nolfi, approdato alla più sicu-ra sponda negazionistica dopo aver inizialmente dichiarato, sempre nel fatidico 21 ottobre: «Le parole del Papa sono impor-tanti e definitive, ha fatto bene a pronunciarle. Ribadiscono la distinzione tra l’istituto del matrimonio, che per il Papa e l’ordinamento giuridico italia-no non può che essere tra un uomo e una donna, rispetto a quello dell’unione civile pen-sato per i gay. Il problema si pone quando con una eviden-te forzatura si vuole sovrappor-re l’istituto delle unioni civili a quello del matrimonio». Che è poi la tesi dei riduzionisti (ri-badire, cioè, con forza la diffe-renza tra matrimonio e unioni civili per minimizzare il carat-tere di novità espressa nelle pa-role inedite di Francesco), fat-

ta propria sia da presuli di peso come il cardinale honduregno Óscar Rodríguez Maradiaga o i vescovi italiani Massimo Cami-sasca e Bruno Forte, sia da espo-nenti del mondo del Family Day come Massimo Gandolfini, Si-mone Pillon e, appunto, Adinol-fi, prima che questi, ovviamen-te, mutasse posizione. Il che è anche comprensibile, se si tie-ne in conto che Marione, al di là degli stracci poi volati negli anni scorsi tra lui e Gandolf-Pil-lon, è stato con gli stessi tra i massimi organizzatori dei Fa-mily Day del 20 giugno 2015 e 30 gennaio 2016 (quello, per ca-pirsi, dove apparve lo striscione con la scritta: “Renzi, ce ne ri-corderemo”) contro l’allora di-segno di legge sulle unioni ci-vili. Ma di stracci, stavolta, ne sono volati contro di lui e Gan-dolfini, la cui “fedeltà al Papa” è stata liquidata sui social come opportunistico voltafaccia e sul quotidiano online Nuova Bus-sola Quotidiana come atteggia-mento da traditori.

Ed è proprio su blog o media di indirizzo ultraconservatore e antibergogliano, soprattut-to di Oltreoceano come LifeSi-teNews, che si grida maggior-mente allo scandalo per le pa-role del Papa e si riprendono le dichiarazioni dei soliti Burke, Müller, Schneider, Viganà e de-gli anti-Biden Strickland e To-bin, per veicolare maggiormen-te l’idea di un Pontefice che, nel migliore dei casi, sbaglia dot-trinariamente sulla questione unioni civili o, nel peggiore, conferma con le sue aperture di essere un eretico, un devius a fide, una persona da convertire

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con la preghiera. Insomma uno che, secondo Marcello Pera, «ci manda tutti a fondo» ed «è uno scandalo per laici e cristiani». Sorvolando sulle considerazio-ni di chi è andato, lui sì, vera-mente a fondo col passare da-gli studi su Karl Popper all’ossi-morico concetto di rivoluzione liberale con Salvini e Orbán, non si può non osservare che la falange dei presuli antibergo-gliani trova un valido appiglio per le proprie argomentazioni nel documento dannatorio del-la Congregazione per la Dottri-na della Fede a guida Ratzinger che, datato 3 giugno 2003, reca

“Considerazioni circa i proget-ti di riconoscimento legale del-le unioni tra persone omoses-suali”. Ma, al solito, si assolutiz-za il valore di quanto prodotto dall’ex Sant’Uffizio e lo si consi-dera come vincolante per sem-pre, immutabile, non suscet-tibile di variazioni nel tempo. Eppure, basterebbe citare, a ri-prova contraria, il decreto del 20 gennaio 1644 sul divieto di attribuire il titolo “immacolata” alla concezione di Maria, poi definita come tale l’8 dicembre 1854 da Pio ix. O quello del 28 novembre 1958, in cui si vietò la diffusione di immagini e scrit-ti sulla devozione della Divina Misericordia secondo il diario

– posto anche all’indice perché ritenuto in più punti infetto di mariavitismo – di suor Fausti-na Kowalska, che dal 2000 la Chiesa cattolica venera come santa con tanto di istituzione, a livello universale, della festa della Divina Misericordia. Ov-viamente grazie a “santo subi-to”, cioè a quel Giovanni Pao-

lo ii che avrebbe approvato, tre anni dopo, le “Considerazioni” della Cdf.

Le parole di Francesco sono dunque il superamento di un documento che, come altri, può, nel tempo, essere integra-to e approfondito fino all’accan-tonamento. Solo che bisogne-rebbe avere il coraggio di dirlo con chiarezza. Non già ricorre-re a maldestre operazioni pom-pieristiche come ha fatto la Se-greteria di Stato in una comuni-cazione ai nunzi, resa nota il 31 ottobre dall’arcivescovo Franco Coppola, rappresentante ponti-ficio in Messico. In essa, con di-stinguo degni di miglior causa, si è cercato di contestualizzare le parole del Papa e metterle in relazione con quelle di una pre-cedente intervista del 2014, che in realtà, con buona pace dell’e-stensore della Terza Loggia, non hanno affatto la stessa portata assertiva di quelle edite nel do-cumentario. Poi la conclusione: «È pertanto evidente che papa Francesco si sia riferito a deter-minate disposizioni statali, non certo alla dottrina della Chiesa, numerose volte ribadita nel cor-so degli anni». Ma a essere evi-dente è solo la toppa messa dal-la Segreteria di Stato, che, per usare il noto proverbio, è peg-giore del buco.

In un tale coacervo di posi-zioni non è mancata quella di chi vede il Papa vittima di un complotto, ordito da una sorta di Deep Church, e ancora una volta in trappola. Ora, sarà pur vero che Afineevski ha taglia-to, invertito e cucito passaggi di quella video-intervista sì da offrire un risultato pro domo

Le parole di Papa Francesco sono il superamento di un documento che, come altri, può nel tempo essere integrato e approfondito fino all'accantonamento

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NESSUNA TRAPPOLA PER IL PAPA, IL QUALE HA ESPLICITATO QUELLO CHE HA SEMPRE PENSATO

sua (è dichiaratamente omo-sessuale) nel suo lungometrag-gio, ma è parimenti innegabi-le che non c’è nessuna trappo-la al Papa nell’aver finalmente esplicitato, e per giunta con le sue stesse parole, quello che ha

sempre effettivamente pensato di una necessaria tutela giu-ridica per le coppie di perso-ne dello stesso sesso. Che non equivale affatto a trascinare la Chiesa e l’umanità sempre più nel baratro. Con buona pace di

Pera o di Fiore (di Forza Nuo-va) ma anche di chi in Vaticano conduce, forse in buona fede, azioni pompieristiche dando però prova di essere più reali-sta del re. Pardon, più papista del Papa.

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IIl 2020 dovrebbe averci insegnato quanto preca-rie siano le previsioni economiche. Il 23 febbra-io, due giorni dopo la comparsa del primo caso di Covid-19 in Lombardia, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, profetizzava che «l’impatto del Coronavirus sul Pil dell’Italia po-trebbe essere di oltre lo 0,2 per cento». Durante le sue “Considerazioni finali”, a fine maggio, lo stesso governatore parlava invece di un arretra-mento del prodotto interno lordo del 13 per cento. Da quando la pandemia ci ha investito, le stime del suo impatto, per l’Italia, sono state costan-temente riviste: al rialzo, per quanto riguarda la sua gravità.

Per il resto del mondo le cose sono un po’ di-verse. Gli Stati Uniti hanno avuto dati sorpren-dentemente buoni nel terzo trimestre: se a metà anno era opinione diffusa che il prodotto sareb-be tornato al livello del 2019 per la fine del 2022, ora si pensa che ciò avverrà già nell’ultimo tri-mestre del 2021. Per alcuni è merito di uno “sti-molo” economico senza precedenti, per altri del fatto che i mercati dei fattori produttivi negli Stati Uniti restano più flessibili che altrove e possono

“spostare” persone e risorse più facilmente verso impieghi più promettenti.

Ora la World Trade Organization (Wto) stima per il 2020 un decremento del commercio mon-diale del 9,2 per cento, un valore più basso dello scenario più ottimistico previsto ad aprile, che era una decrescita del 13 per cento. Lo scenario meno ottimistico segnalava che si sarebbe perso un terzo (il 32 per cento) degli scambi internazio-nali. In buona parte ciò è dovuto a come i Paesi asiatici hanno gestito l’epidemia: la Wto prevede che nella regione i commerci si ridurranno, sulla durata dell’anno, solo del 4,5 per cento. Proprio quei Paesi hanno sottoscritto, a novembre, una Regional Comprehensive Economic Partnership che dovrebbe assicurare un aumento degli scam-bi, andando a ridurre i dazi su un ampio nume-ro di prodotti. Nei Paesi occidentali, l’accordo è stato letto come un altro passo nella direzione di un’egemonia cinese ma – sempre di stime si trat-ta – il Peterson Institute suggerisce che a guada-gnarci di più saranno Giappone e Corea del Sud.

Le previsioni per il 2021 si muovono quindi in un contesto di profonda incertezza. Le grandi or-

Le prospettive per il 2021 non sono per forza cupe: il commercio internazionale si è adattato, l’avanzamento tecnologico è più veloce di prima. È quindi possibile un ottimismo temperato. Poi, purtroppo, c’è l’Italia

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rispettose dei diritti individuali (la Svezia) o dei vincoli costituzionali (gli Stati Uniti). In Occiden-te, però, tutti hanno finito per convergere su una situazione di fatto simile, nella quale la mobilità viene disincentivata e molte attività imprendito-riali non possono avere luogo.

Ciò al principio aveva fatto prevedere un col-lasso delle catene di fornitura internazionali. L’e-sperienza finora è stata però diversa. Con mille problemi, le imprese hanno dato prova di una straordinaria capacità di adattamento, i com-merci si sono in buona parte “spostati” online, non abbiamo sperimentato situazioni di penuria di particolari beni, neanche nelle filiere agroali-mentari che hanno dovuto ristrutturarsi profon-damente: ciò che realizzavano per la ristorazio-ne ha dovuto essere convertito in prodotti per il consumo domestico.

ganizzazioni internazionali invitano alla cautela: la ripresa dipenderà dal ritrarsi della pandemia. I primi risultati nella corsa al vaccino sembrano suggerire che non sia lontano il tempo nel quale potremo finalmente dire di essercela lasciata alle spalle. Gli scettici replicano che un programma di vaccinazioni di massa dell’ampiezza necessa-ria è qualcosa di totalmente inedito, nella sto-ria della medicina moderna. A differenza della ricerca sui vaccini, che è stata condotta in larga misura da aziende private alle quali lo Stato ha, in buona sostanza, assicurato un mercato per i loro prodotti, riducendo grandemente il rischio imprenditoriale, la distribuzione del vaccino sarà in capo alle autorità pubbliche. Produrne i quan-titativi necessari è già una sfida, distribuirlo sarà una fatica di Sisifo.

È forse bene ricordare che due sono i motori della crescita economica: da una parte, gli scam-bi, il commercio internazionale, la maggiore spe-cializzazione indotta da una divisione del lavoro più estesa, tutto ciò che possiamo ricondurre a una maggiore “socialità” e a una maggiore inter-connessione fra persone e Paesi. Dall’altra, gli avanzamenti scientifici e tecnologici. Questi ulti-mi hanno bisogno di una società aperta, sia per-ché si fondano su reti che consentono di condi-videre ciò che si è appreso di nuovo, sia perché è abbastanza improbabile che una società sia chiu-sa al mondo e al diverso e nello stesso tempo so-stenga entusiasticamente tutti gli esperimenti e le innovazioni attraverso le quali si crea nuova co-noscenza. Ma questi due “motori” della crescita non necessariamente vanno sempre alla stessa velocità. Per capire come sarà il 2021, e gli anni a venire, dovremmo probabilmente sapere che ne è stato dell’uno e dell’altro nel 2020. È chiaro che la nostra socialità è stata fortemente compressa dalle politiche di contrasto all’epidemia. Alcu-ni Stati, come l’Italia, hanno fatto fin dal prin-cipio la scelta di un lockdown molto stringente, provando a dare una “martellata” al contagio e forse immaginando di poter replicare il model-lo Wuhan, in condizioni diverse sia dal punto di vista del diritto (restiamo un Paese vagamente li-beral-democratico) sia dal punto di vista della sa-nità pubblica (la circolazione del virus era meno

“concentrata”). Altri hanno cercato soluzioni più

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La riapertura degli stabilimenti FCA con le misure di sicurezza anti contagio

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per le generazioni future. E il 2020 ci lascia an-che con un discorso pubblico che non può farci dormire tranquilli: è dominato da allarmismi e isterie, privilegia la sicurezza su qualsiasi altro valore, ha visto la proliferazione di scienziati e pseudoscienziati le cui previsioni non sono ri-sultate molto migliori di quelle degli economisti. Ciò suggerisce la possibilità di un forte ritorno di fiamma dei populismi.

Con che velocità rientreranno le maggiori spe-se pubbliche indotte dalla pandemia? Quanto tempo ci vorrà per rendere al mercato tutte quel-le attività che nella pandemia sono state nazio-nalizzate? Sono domande a cui è difficile trovare risposte rassicuranti.

I due motori della crescita, commercio e tec-nologia, non si sono rotti. Ma la politica può sem-pre provare a spegnerli.

Questo motore della crescita, indubbiamente, va oggi a velocità ridotta rispetto a un anno fa, ma miracolosamente non si è spento. L’altro moto-re della crescita, quello basato sul progresso tec-nologico, forse ha perfino accelerato: la rapidità dello sviluppo dei vaccini, in particolare di quelli basati sull’RNA messaggero, passerà alla storia come uno dei trionfi della scienza. Non è impos-sibile che qualcosa del genere stia avvenendo sia per le cure (anticorpi monoclonali) sia per tutta una serie di tecnologie di supporto ad altri set-tori economici (a cominciare dalla logistica) che sono state sollecitate da problemi nuovi.

È possibile essere ottimisti, allora? Forse sì, anche se purtroppo le nostre società non sono solo scienza e mercato. Il 2020 ci lascia con debiti pubblici straordinariamente accresciuti che ine-vitabilmente si tradurranno in minore ricchezza

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Il forum internazionale di Da-vos, che possiamo considerare come la principale vetrina me-diatica e intellettuale della glo-balizzazione, nel 2020 non si è tenuto causa Covid-19 (tornerà solo a giugno 2021, con il signi-ficativo titolo “The great reset”) e la decisione presa dagli orga-nizzatori è una perfetta meta-fora dei momenti che abbiamo vissuto e stiamo vivendo e più in generale delle tendenze del-la mondializzazione. La località montana della Sviz-zera era stata, solo per fare un esempio, il teatro nel quale il 17 gennaio del 2017 il leader ci-nese Xi Jinping aveva potuto cogliere l’occasione per tenta-re di strappare agli occidenta-li la bandiera della globalizza-zione, presentandosi coram po-

pulo come l’alfiere del mondo largo che rifiuta sdegnosamen-te protezionismi e barriere. «La globalizzazione un tempo era vista come il tesoro di Ali Babà, ma ora agli occhi di molti è di-ventato il vaso di Pandora. Però, che piaccia o no, l’economia globale è il grande oceano da cui non si può sfuggire». Xi Jinping aveva affrontato an-che il tema della redistribuzio-ne della ricchezza nel mondo dei flussi e aveva implicitamen-te ricordato agli occidentali che se non erano stati capaci di co-niugare “efficienza ed equità” la colpa non era certo di Pechino ma andava rintracciata nell’in-capacità del nostro sistema di contrastare l’egemonia del ca-pitale finanziario sacrificando, invece, il benessere delle classi

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G L O B A L I Z Z A Z I O N ENo, non è un ossimoro né una contraddizione, ma un’idea che si fa sempre più strada tra chi analizza i possibili scenari post-pandemia dell’economia internazionale

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sero a tutti noi e che, di conse-guenza, i Paesi occidentali non potessero costruire per tempo il primo e più elementare argi-ne alla diffusione del Covid-19. Ma la delocalizzazione non ha riguardato solo le mascherine: anche molti principi attivi usa-ti dall’industria farmaceutica sono prodotti per la stragrande maggioranza in Cina. Al con-trario, proprio Pechino ha col-to l’occasione offerta dal Covid per accelerare l’impegno nazio-nale nella produzioni di chip, con la manifesta intenzione di rendersi indipendente dalle forniture a stelle e strisce.

Da qui la riflessione sull’in-terruzione delle catene di pro-duzione che tutti i Paesi oc-cidentali hanno aperto e che Emmanuel Macron ha forse esplicitato con maggiore for-za di altri leader nell’editoriale che apre il piano France Relan-ce: «La Francia del 2030 dovrà essere più indipendente, più competitiva, più attrattiva. Si tratta di non dipendere più da-gli altri per i beni essenziali, di non rischiare più l’interruzione di approvvigionamenti critici».

Per questo motivo France Relance è stato concepito come un programma «di rilocalizza-zione di beni essenziali nella sanità, negli input industria-li, nell’agro-alimentare». Ma la domanda, più che legittima, è: si può richiudere il vaso di Pan-dora?

Se queste sono le intenzioni di Parigi, per avere una visione più ampia e meno influenzata dai colpi di teatro della politi-ca occorre però rifarsi ai muta-menti e alle ferite che intanto

la pandemia ha assestato al si-stema degli scambi internazio-nali, già ampiamente minato dalla guerra commerciale Sta-ti Uniti-Cina. Con un caveat: la dinamica di de-globalizzazione era iniziata pre-virus. L’econo-mista Alessandra Lanza (Pro-meteia) ha ricordato che l’ini-ziativa Global Trade Alert aveva rilevato già nel 2018 – anno di inizio del contenzioso Washin-gton-Pechino – il picco di in-terventi restrittivi del commer-cio estero (versus liberalizza-zione) da parte dei governi. In quell’anno, per l’appunto, sono stati emessi la bellezza di due-mila provvedimenti restrittivi.

Nelle prime settimane del Covid-19 sono stati ben 95 i Pae-si che hanno introdotto norme temporanee sulle esportazioni per limitare il commercio con l’estero di molte forniture me-diche, mettendo in gravissima difficoltà soprattutto le regioni in via di sviluppo. Si può quindi dire, con Prometeia, che la crisi pandemica ha colpito il mondo durante un fisiologico rallenta-mento di quella globalizzazio-ne che aveva invece caratteriz-zato sia il periodo precedente alla Grande Crisi 2008-15 sia il recupero dell’economia che le aveva fatto seguito.

L’Unctad ha stimato per il commercio internazionale una contrazione record del 27 per cento nel solo secondo trime-stre del 2020 in confronto al tri-mestre precedente e la stessa Prometeia prevede «una piena ripresa degli scambi sui livelli pre-Covid» solo nel 2022, con un calo del 2020 sul 2019 quanti-ficabile in 11 punti. Ovviamente

medie. Al tempo, l’economista Andrea Goldstein, autore del li-bro “Capitalismo rosso”, fu tra i pochi a osservare che a Davos il numero uno di Pechino non aveva raccontato tutta la veri-tà. Da winner della globalizza-zione – quale è considerato da tutti gli analisti – invece di fare prediche avrebbe dovuto offri-re all’Occidente una sorta di in-dennizzo: più libertà economi-ca in Cina come contributo alla crescita dell’Occidente e alla sua stabilità. Ma questa scelta non è stata adottata, anzi via via Pechino è diventata l’em-blema del capitalismo politico dei nuovi anni Venti.

È interessante partire da questo flashback perché, se vo-gliamo, la rapida ed estesa dif-fusione del virus ha dimostrato che davvero la globalizzazione è il grande oceano da cui non si può sfuggire ma anche che la sua ingovernabilità è una mi-naccia alla quale occorre far fronte, per quanto l’operazione si presenti tutt’altro che age-vole. Sul piano immediato e in chiave sanitaria i Paesi hanno risposto come potevano, chiu-dendo i confini, ma tra gli ad-detti ai lavori è partito un dibat-tito sulla necessità di regolare la mondializzazione e di miti-garne alcuni tra i più evidenti squilibri.

Prendiamo un caso tutto sommato lineare, quello che potremmo chiamare l’effet-to mascherine. L’aver delegato la produzione di alcuni beni a basso valore aggiunto ai Paesi asiatici ha fatto sì che al mo-mento del bisogno (estremo) quei dispositivi medici mancas-

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la fenomenologia della crisi le-gata alla diffusione internazio-nale del virus andrà aggiornata mese dopo mese, se non setti-mana dopo settimana, perché le reazioni che i singoli sistemi e l’insieme dell’economia degli scambi saranno capaci di dare non possono essere previste più di tanto. Troppe sono le va-riabili sanitarie, politiche e ge-oeconomiche in divenire.

Gli economisti si sono addi-rittura prodotti nella descrizio-ne accurata di svariate tipolo-gie dell’auspicata ripresa (a V, a U, a L o a radice quadrata) e hanno quasi esaurito le lettere dell’alfabeto senza venirne ve-ramente a capo. Ha creato inve-ce una certa sensazione la velo-ce ripartenza della performan-ce dell’export cinese (+21,1 per cento di novembre 2020 su no-

vembre 2019).Incamerato una sorta di ri-

chiamo alla prudenza nei giu-dizi e nelle previsioni, è però interessante operare una rico-gnizione del dibattito sviluppa-tosi finora sui format della glo-balizzazione. E annotare come l’idea che si è fatta più strada è quella che riporta alla cosid-detta regionalizzazione degli scambi. Le tre grandi macro-a-ree (Stati Uniti, Cina ed Euro-pa) si muoverebbero verso una tendenziale autosufficienza e quindi ci sarà una spinta a potenziare i rispettivi merca-ti interni, il commercio estero vedrà un accorciamento della distanza media percorsa dal-le merci scambiate, saranno progettate operazioni di back reshoring delle produzioni. In Italia questa linea di pensiero è

Il presidente Xi Jinping alla cerimonia di apertura del China International Import Export a Shanghai

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Camion in coda per imbarcare i container al porto di Qingdao, nella provincia di Shandong nella Cina orientale

Questo articolo di Dario DI Vico è tratto dal Bollettino, la rivista del Gruppo Generali fondata nel 1893 e da poco completamente riprogettata

N E L D I B AT T I T O I TA L I A N O , D I R E S H O R I N G S I E R A PA R L AT O N E L P I A N O C O L A O . P O I P E R Ò N O N S E N ’ È FAT T O P I Ù N I E N T E

stata espressa per tempo e con maggiore convinzione dal pro-fessor Romano Prodi che ha riconosciuto anche di recente che «la tendenza è quella, ma si tratta di un processo ancora largamente in corso; del resto è stato evidente a tutti come gli Stati Uniti abbiano sofferto l’effetto mascherine». Vuol dire, sempre secondo l’ex presiden-te della Commissione Ue, non che la globalizzazione si sia fermata ma solo che abbia mo-strato i suoi limiti (struttura-li?). Caso mai, proprio in virtù della sua esperienza a Bruxel-les, Prodi si rammarica che l’U-nione europea sia in ritardo nel concepire una politica comune esplicitamente rivolta a tenta-re di governare questa transi-zione. E non si scandalizza se il governo più lesto a muover-si, quello francese, abbia poi incartato quella stessa politi-ca dentro un involucro enfati-camente dedicato alla sovrani-tà nazionale con molte conces-sioni alla retorica patriottica. «È più semplice che partano prima i singoli Paesi che la Commissione», sostiene Prodi. E aggiunge però l’economista Alessandra Lanza: «L’Europa fa-rebbe bene, dopo la svolta sulla mutualizzazione del debito, a fare il passo successivo, ovvero a pensarsi come una macro-a-rea industriale che dispone di un ottimo mercato di consu-matori».

Ma le operazioni di resho-ring sono davvero alla nostra portata? Riportando indietro lavorazioni a basso valore ag-giunto si impatta subito con i differenziali di costo del lavo-

ro e, per quanto non siano più larghi come prima, il rischio di dover sussidiare le produzio-ni di ritorno per non interrom-pere gli approvvigionamenti è alto. Cosicché è facile che la de-stinazione più diretta non sia quella del nostro Sud (dove ce ne sarebbe peraltro grande ne-cessità) ma che il reshoring pos-sa utilizzare, almeno sulla car-ta, l’indirizzo della Turchia o dei distretti di fornitura dell’in-dustria tedesca che sono loca-lizzati in Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca.

Nel dibattito interno italia-no, un programma di reshoring era stato espressamente indi-cato dal piano Colao, poi però non se ne è più parlato in ma-niera esplicita se non di recen-te, in un seminario del Centro Studi Confindustria di fine no-vembre. Tra gli addetti ai lavori ci sono in merito opinioni di-verse e le chance più o meno alte attribuite a una politica di reshoring equivalgono a un giudizio di merito sugli asset-ti post-Covid della globalizza-zione. La verità, dice ancora Prometeia, è che sfruttare le specializzazioni di altri Paesi è molto meno costoso di co-struirne di nuove domestiche come, allo stesso tempo, affi-darsi a pochi fornitori, indipen-dentemente dalla loro posizio-ne geografica, crea un rischio di concentrazione che potreb-be innescare effetti a catena in tutto il mondo. La riorganizza-zione delle linee di produzione all’interno dei confini naziona-li non riduce quindi la vulnera-bilità di un sistema industriale, concentra l’esposizione ai soli

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ta; 3) l’apparato tecnico e del-le conoscenze manifatturiere si è riconfermato ai suoi livel-li standard anche di fronte alle discontinuità logistiche di que-sta fase.

Tutto ciò vale per la fa-scia medio-alta delle imprese, meno si sa invece delle Pmi in-dipendenti non inserite stabil-mente in catene di fornitura. Si può però pensare che sia in atto una ulteriore polarizzazio-ne: chi sta in cordata ha com-piti e orizzonti più lineari ed è atteso dalla sfida del 4.0, chi vaga per acchiappare ordini è destinato a soffrire. Se questa tendenza trovasse conferma, aumenterebbe la responsabili-tà delle grandi aziende capofi-liera, pubbliche e private, che dovranno essere capaci di pro-grammare la discontinuità – un

ossimoro, lo so – per l’intera fi-liera in cambio di una relativa cessione di sovranità da par-te dei fornitori. Del resto, il si-stema può restare in equilibrio soltanto così e forse varrebbe la pena di parlarne più esplici-tamente. È chiaro, infine, che nel medio periodo anche nel manifatturiero, e non soltanto nei servizi (dove il fenomeno è già palese), andremo incontro a una ulteriore scrematura del-le imprese perché inciderà ne-gativamente l’invecchiamento medio degli imprenditori. In dieci anni, tra il marzo 2010 e il marzo 2020, l’età dei piccoli imprenditori italiani si alzata e di tanto. Gli over 50 due lustri fa rappresentavano il 54,8 per cento dei titolari di imprese in-dividuali, ora sono diventati il 66,4 per cento.

shock domestici e aumenta i costi di produzione.

Vale la pena chiudere la ri-flessione sulle tendenze del-la globalizzazione e sui rifles-si sull’industria nazionale con qualche cenno alla risposta che il sistema manifatturiero ha sa-puto dare all’emergenza pande-mia. In estrema sintesi possia-mo concordare su almeno tre evidenze: 1) la partecipazione delle imprese italiane alle gran-di catene internazionali del va-lore non si è affatto interrotta e, di conseguenza, l’integrazio-ne non ha subito dietrofront, al punto che il 50 per cento del nostro export è fatto di beni in-termedi; 2) la motivazione im-prenditoriale è rimasta alta e non abbiamo registrato casi clamorosi di “dimissioni” da parte di imprenditori di pun-

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Già all’inizio della pandemia di Covid-19 le attività economiche di tutto il mondo si sono orientate verso un’organizzazione basata sull’inevitabilità del remote working. A giugno circa il 40 per cento degli americani con una occupazione lavoravano da casa, spiega la direttrice della Harvard Business Review

Che durante la pandemia le donne che lavorano abbiano dovuto svolgere mansioni doppie e tri-ple è ormai una notizia vecchia. Quando le don-ne devono destreggiarsi tra la loro giornata di la-voro in azienda e una quota sproporzionata di lavori domestici e di impegno nell’accudimento della famiglia – e questa cosa capita a troppe fra noi – la situazione diventa presto difficile. Que-sta storia viene racconta da uno studio dietro l’altro.

Un report annuale sulle donne e il loro posto di lavoro – compilato dalla società di consulenza manageriale McKinsey & Company e dalla non profit LeanIn.org, che si occupa della condizio-ni professionali delle donne – ha mostrato l’im-patto negativo sugli Stati Uniti della pandemia e della recessione che l’ha accompagnata.

La probabilità di aver perso il proprio posto di lavoro è più alta per le donne, e in particolare per le donne di colore. E, per quanto riguarda le donne che un’occupazione ce l’hanno anco-ra, le strutture che prima rendevano possibile lavorare e, nello stesso tempo, prendersi cura della famiglia si sono sgretolate. Le scuole, per esempio, sono passate alla didattica a distanza o a quella mista, costringendo molte mamme che lavorano a impegnarsi come assistenti all’inse-

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IL COVID-19 HA INFERTO UN DURO COLPO ALLE DONNE CHE LAVORANO

POSSIAMO USCIRNE PIÙ FORTI DI PRIMA?

Illustrazione di D I A N A E J A I T A

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o il non averlo, è diventato un indicatore intrin-seco del valore morale di una persona».

Per quanto la nostra nuova realtà sia stata brutale, c’è stata anche qualche piccola benedi-zione. Milioni di noi non devono più avere a che fare con il supplizio del pendolarismo e i luoghi di lavoro sono diventati molto più flessibili nella loro organizzazione delle attività, e questa è una tendenza che probabilmente continuerà.

Tuttavia, non possiamo ignorare il fatto che non dovendo fare spostamenti da pendolari stia-mo lavorando più ore – ed è un tempo per il qua-le non siamo pagati. Tutta questa nuova flessi-bilità pone al nostro equilibrio tra vita e lavoro sfide più difficili e ci costringe a riconoscere che certe regole sono ormai obsolete.

L’antica venerazione per il “lavoratore idea-le” sta subendo un duro colpo. L’idea che il di-pendente di maggior valore sia quello che con-tribuisce con il maggior numero di ore, è sempre disponibile e dà la priorità alla sua professione rispetto a ogni altra cosa non ha mai avuto mol-to senso per la gran parte delle donne che lavora-no, che, dopo tutto, hanno sempre dovuto fare le acrobazie tra le responsabilità in ufficio e quelle a casa.

Qualche mese fa, Joan C. Williams, direttrice

gnamento e, contemporaneamente, a occuparsi delle proprie responsabilità professionali.

Secondo il report, negli Stati Uniti una donna su quattro sta pensando di allentare il proprio impegno professionale o di lasciare del tutto il lavoro. Questa non dovrebbe essere una sorpre-sa per nessuno. E una simile tendenza minaccia di disfare anni di miglioramenti conquistati dal-le donne nei luoghi di lavoro.

Ma i numeri non raccontano l’intera storia. Le donne devono gestire una quantità di stress che un tempo sarebbe stata inimmaginabile. Persone che riuscivano a tenere in aria molte palline ora le fanno regolarmente cadere, quan-do i loro vari ruoli – professionali e di accudi-mento – entrano in diretta collisione, da un’ora all’altra, quando non addirittura da un minuto all’altro. Lo ha fatto recentemente notare Kathe-rine Goldstein, la conduttrice del podcast “The Double Shift”: «Mi sembra che tutte le madri do-vrebbero accordarsi per una nuova formula di cortesia che sostituisca la domanda “Come stai?” con, per esempio, “Oggi hai pianto?”».

A sette mesi dall’inizio della pandemia, tre donne che quest’anno hanno perso il lavoro si sono aperte con noi nel podcast “Women at Work” della Harvard Business Review, di cui sono una delle conduttrici, e ci hanno raccon-tato come se la stanno cavando. Abbiamo ascol-tato la storia di Veronica che l’anno scorso era finalmente passata dal web design ai massaggi terapeutici – il lavoro dei suoi sogni – e che ama-va la sua nuova vita. Ma la pandemia ha costretto il centro dove lavorava a chiudere e ora sta cer-cando di tornare al web design. Veronica sta fa-cendo i necessari aggiustamenti alla sua nuova realtà, facendo quello che deve fare per guada-gnarsi da vivere.

Abbiamo ascoltato anche la storia di Emily, un’artista la cui compagnia operistica ha chiuso i battenti a marzo e non si è esibita per mesi. «Il problema non ha a che fare con il lavoro, il pro-blema ha a che fare con il senso delle cose», ci ha detto. «Sono una cantante se non canto?». Per quelli fra noi la cui percezione di sé è inestrica-bilmente legata al loro lavoro, non lavorare può infliggere un colpo esistenziale. Come ha scritto la sociologa Aliya Hamid Rao, «l’avere un lavoro,

M E N T R E N E G L I U F F I C I C I A D AT T I A M O A U N A “ N U O V A N O R M A L I TÀ”, L E A Z I E N D E D E V O N O A V E R E C O M E P R I O R I TÀ L A C R E A Z I O N E D I P R O S P E T T I V E C O M P L E TA M E N T E N U O V E P E R L E D O N N E C H E L A V O R A N O

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e fondatrice del Center for WorkLife Law pres-so l’Hastings College of the Law dell’Università della California, ha notato in un articolo come il concetto di lavoratore ideale dipenda esso stesso dal modello “persona-che-porta-a-casa-il-pane / casalinga”, un residuato di un’epoca precedente in cui l’uomo medio andava al lavoro e la donna media si occupava della casa. Joan C. Williams sostiene che «quel concetto di “lavoratore idea-le” ha a lungo imposto uno sforzo maggiore alle donne, che non solo svolgevano la loro giornata lavorativa ma dovevano anche far fronte all’im-pegno che ci si aspettava da loro nella cura del-la famiglia e della casa». E continua: «Se c’e mai stato un momento in cui archiviare l’antiquata nozione di lavoratore ideale è proprio questo». Amen.

Stiamo anche acquisendo una maggiore con-sapevolezza del fatto che il nostro valore non di-penda dal fatto di avere formalmente un lavoro. Tim O’Brien, presidente del programma Leader-ship for the 21st Century della Harvard Kennedy School, fa notare che quando fondiamo i nostri ruoli professionali con la percezione di noi stes-si, perdiamo il senso della prospettiva e la nostra capacità di giudizio ne risente. «Questo schema peggiora quando si fonde il proprio ruolo con l’autostima, pensando che si abbia valore e si sia utili soltanto in funzione del ruolo che si ricopre formalmente», ha scritto O’Brien.

Emily, la nostra cantante lirica, sembra aver preso a cuore questa idea. «Io non so quando mi esibirò di nuovo», ci ha detto. «Penso di dover soltanto ricordare a me stessa che non sono un essere umano determinato dal suo lavoro. Non posso essere definita da quello». Tenuta lontano dalla vocazione che ha seguito per quindici anni, sta vedendo se stessa sotto una nuova luce.

Questi ultimi pochi mesi hanno senz’altro co-stretto molte donne a misurarsi con nuove pro-spettive. Lisa, che è un’imprenditrice nel setto-re dell’assistenza sanitaria e che è stata la terza ospite del nostro podcast, ci ha detto: «Quando il Covid ha colpito, si è fermato tutto. Sono uscita dalla routine e, in realtà, è stato rigenerante. Per quanto difficile possa essere stato, per me perso-nalmente è stato un bene. Sono stata capace di trasformare in positiva una cosa negativa».

In modo simile, nella sua ricerca, la dottores-sa Rao ha riscontrato resilienza e determinazio-ne in molte donne che hanno patito la perdita del lavoro. «Questo ha costretto le donne a ripen-sare al modo in cui vogliono tornare a far parte della forza lavoro», mi ha detto. «Stanno pensan-do a come tornare a lavorare alle loro condizioni:

“Preferirei avere maggiore controllo su quello che faccio. Forse aprirò uno studio privato o diven-terò consulente e lavorerò in proprio”».

Ora, non vorrei dipingere una situazione troppo rosea. Questo ultimo anno è stato spieta-to. Tante donne dovranno recuperare molto ter-reno in termini di carriera e di retribuzione. E potrebbero non riuscire a farlo completamente. Altre potrebbero trovare nuovi percorsi di cresci-ta che ora darebbero loro maggiore soddisfazio-ne. E questa sarebbe una cosa positiva.

Una lezione che dovremmo tutti imparare dalle crisi del 2020 è che per le donne è arrivato il momento in cui calibrare le loro aspettative sulle loro aspirazioni – e non su qualche anti-quato modello esterno – e per i datori di lavoro di rispettare questa cosa.

Non stiamo tornando alla “normalità”. E for-se questa è una buona cosa.

Nel 2021 e negli anni a venire le donne dovranno recuperare molto terreno in termini di carriera e di re-tribuzione

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L ’ U F F I C I O È U N L U O G OAlmeno in alcuni settori, il ricorso all’home working (anche solo parziale) sarà irreversibile e potrebbe colpire la competitività di Paesi meno attrezzati con banda ultra larga e spazi coworking, come ad esempio la Cina o l’India. E, ah già, anche l’Italia

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Il lavoro non sarà più quello che avevamo lasciato in ufficio prima del Covid-19. Neppure con l’arrivo del vaccino. Il 2021 sarà l’anno della normalizzazione del lavoro da remoto, il banco di prova di un cam-biamento che continuerà anche dopo l’emergenza.

Una rivoluzione che non prevede alcuna contro-riforma, ma solo vincitori e vinti in una gara glo-bale che vedrà alcuni Paesi resistere meglio alla recessione proprio grazie a un maggiore ricorso al lavoro a distanza. Disegnando la geografia del lavoro post-pandemica in una nuova mappa che peserà – e non poco – sulla resilienza economica di Paesi e città.

Se, secondo le previsioni dei manager, il futuro del lavoro sarà ibrido, al 50 per cento da remoto e al 50 per cento in presenza, più della metà della for-za lavoro al mondo non ha però alcuna possibilità di operare a distanza. Il lavoro da remoto richie-de due elementi essenziali: una connessione che funzioni e uno spazio di lavoro diverso dall’ufficio. Due cose non scontate in molte parti del mondo. E neanche in Italia.

Non tutti i lavori, è chiaro, si possono fare davan-ti a uno schermo. E alcuni, più di altri, richiedono la presenza, anche saltuaria, in azienda. L’infermiere deve andare ogni giorno in ospedale, il cuoco deve essere davanti ai fornelli. Ma un medico, se dota-to delle tecnologie giuste, può svolgere una parte della sua attività a distanza. E anche nelle fabbri-che, con l’industria 4.0, attività come la manuten-zione o il collaudo possono esser fatte da remoto.

Ci sono lavori, come quello dell’insegnante, che hanno un chiaro vantaggio dall’essere svolti di per-sona. E, quindi, torneranno auspicabilmente alla presenza fisica. Altri che hanno funzionato anche meglio senza l’ufficio.A

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Finanza e assicurazioni sono ai primi posti per grado di “remotizzazione”, seguiti da consulenza alle imprese e information technology.

Nella classifica dei Paesi “smart”, non a caso, la Gran Bretagna è al primo posto: la forza lavoro d’Oltremanica potrebbe teoricamente lavorare da remoto per un terzo del tempo, senza risentirne in termini di produttività. A seguire, Germania e Sta-ti Uniti. Nelle economie avanzate, più di un quar-to degli occupati potrà lavorare a distanza da tre a cinque giorni alla settimana.

McKinsey ha analizzato oltre 800 occupazioni e relative mansioni in nove Paesi: Cina, Francia, Germania, India, Giappone, Messico, Spagna, Re-gno Unito e Stati Uniti. Con l’obiettivo di misurare il grado di “remotizzazione” potenziale del lavoro per ogni territorio. Il potenziale massimo è con-centrato in pochi settori. E in testa, ovviamente, ci sono i servizi. In larga parte questi settori, turi-smo e viaggi in particolare, sono stati duramente colpiti dalla pandemia. Ma potrebbero nello stesso tempo essere protagonisti della “revenge spending” una volta arrivato il vaccino.

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megalopoli asiatiche, si vive spesso in case picco-lissime o senza un accesso affidabile alla banda lar-ga, per cui andare in ufficio diventa una necessità.

Ma wifi e spazi di lavoro conteranno molto nella capacità di resilienza economica alla pandemia. La Cina sta mostrando una discreta ripresa, eppure la bassa quota di posti di lavoro che possono essere eseguiti da remoto potrebbe danneggiare la capaci-tà futura di competere sulla scena globale. Soprat-tutto se lo smart working sosterrà – come sembra

– la capacità di aumentare la produttività del lavoro.

In fondo alla classifica, si trovano le economie emergenti, comprese Cina e India. Nella nuova gara globale per lo smart working, anche i giganti pre-Covid rischiano di sembrare lumache. In que-sti Paesi, la forza lavoro è concentrata in occupa-zioni fisiche e manuali, dalla manifattura all’agri-coltura. Risultato: in Cina, soltanto il 16 per cento del tempo di lavoro può essere svolto a distanza senza intaccare la produttività. In India si scende al 12 per cento.

E, anche quando in teoria un lavoro può esser fatto da remoto, nella pratica ciò non avviene. Nelle

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più Paesi sfruttano bonus e sgravi fiscali per aprire porti e aeroporti ai nomadi digitali, da noi si trat-ta sulla rete unica, i cantieri della banda ultralarga sono in ritardo e non saranno conclusi neanche entro il 2022.

In tempi di lavoro forzato da casa, tanti italiani hanno preferito lasciare le metropoli per spostar-si nei borghi o nelle città del Sud. Ma, senza wifi veloce e spazi di coworking adeguati, le geografia del lavoro italiana – quella sì – potrebbe tornare all’epoca pre-Covid.

Lo stesso discorso vale per l’Italia che, in questa corsa globale, parte da infortunata. L’indice Desi (Digital economy and society index) ci vede quar-tultimi in Europa. E le infrastrutture digitali sono ancora un Far West di tecnologie, con prestazioni che vanno dal lentissimo al velocissimo.

Le previsioni del Politecnico di Milano parlano di 5,35 milioni di lavoratori con almeno qualche giorno a settimana da remoto a fine emergenza. Ma questi numeri non sono affatto scontati sen-za l’attrezzatura adeguata. Perché mentre sempre

Scene di vita lavorativa da casa, un fenomeno nato con la pandemia ma destinato a restare L ’ I TA L I A È Q U A R T U LT I M A I N E U R O PA ,

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Siamo fieri di essere stati in questo terribile 2020 un punto di riferimento importante per le nostre aziende. Con diligen-za e applicazione abbiamo cer-cato di chiarire ai nostri iscrit-ti i contenuti dei vari dpcm approvati spesso dal governo all’ultimo minuto, in modo frettoloso e con il rischio di so-vrapposizione.Tutte le strutture territoriali, regionali e nazionali di Confar-tigianato hanno svolto il loro compito di supporto per le no-stre aziende che volevano e vo-gliono mantenere in vita la pro-pria attività, nonostante questa pandemia. Un risultato del ge-nere non era scontato. In que-sto periodo ci siamo riappro-priati di un ruolo che da qual-che anno avevano cercato di

toglierci: quello dell’interme-diazione.

In questo momento un’as-sociazione di rappresentan-za come Confartigianato deve fare proprio il monito del San-to Padre che nella prima dome-nica di Avvento ha detto: «Non si può oggi cadere nel sonno della mediocrità e dell’indiffe-renza». È giunto anche per noi il momento di fare sentire la nostra voce.

Ben prima della pandemia, alla fine del 2019, si vedeva già che l’Italia non era sulla strada giusta per garantire una cresci-ta costante della sua economia. Il nostro Paese è sempre agli ul-timi posti nella classifica della crescita del Prodotto interno lordo e da troppo tempo vede altri Stati correre come un tem-

po riuscivamo a fare anche noi. Bisogna essere sinceri: l’Ita-

lia ha un problema strutturale e non possiamo lasciarci sfug-gire l’occasione del Nex Gene-ration Eu. Tutto il Paese deve rispondere in modo coeso a questa sfida con proposte serie, ragionate ed efficaci per rimuo-vere gli ostacoli che impedisco-no all’Italia di crescere. Biso-gna ricordare sempre che una gran parte dei quasi 209 miliar-di di euro che riceveremo sono in gran parte prestiti. Non spre-chiamo ciò che le nuove gene-razioni dovranno ripagare in futuro.

Per questo motivo gli inve-stimenti devono essere indiriz-zati lungo due direttrici: la so-stenibilità ambientale, sociale, economica e la digitalizzazio-

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ne. Quest’ultimo tema è deci-sivo per il 2021 soprattutto nel settore della formazione digi-tale. Bisogna far capire il cam-biamento veloce che è avvenuto durante la pandemia.

Un tempo le nostre aziende avevano come unico patrimo-nio il capannone e l’esperienza, ma oggi bisogna ragionare in modo diverso: la competenza e la conoscenza sono fattori deci-sivi che creano un patrimonio intangibile ma fondamentale per sopravvivere nel mercato di domani. Un sapere che biso-gna essere in grado di capitaliz-zare tutti i giorni. La formazio-ne continua è e sarà alla base di tutte le componenti all’interno dell’impresa. Questa è la sfida cruciale per il 2021 perché è l’u-nico modo per tornare a essere protagonisti.

Non sarà facile raggiunge-re questo obiettivo. Ecco per-ché Confartigianato non vuo-le essere solo un’associazione di rappresentanza, ma anche di prossimità. Dobbiamo esse-re vicini ai bisogni delle nostre aziende con un modello che unisca innovazione, territoria-lità e sussidiarietà.

L’innovazione non deve es-sere solamente rivolta verso la conoscenza e l’applicazione di nuove tecnologia. Bisogna in-novare anche la forma. Faccio

un esempio concreto: In Italia dal Dopoguerra a oggi abbiamo avuto fantastici solisti nel mer-cato con eccellenze che ci invi-dia tutto il mondo. Ora però il paradigma è cambiato e dob-biamo diventare un’orchestra. Come? Mettendoci in rete, dan-do vita a delle strutture per af-frontare i mercati esteri. Oppu-re in luoghi dove sono presen-ti grandi competitor che hanno capacità finanziarie e tecniche che da soli non riusciremmo a sviluppare. In parole povere: associazioni di rappresentan-za importanti come Confarti-gianato devono sviluppare un nuovo modo di stare assieme: perdere magari un po’ di indi-vidualità a favore di una cora-lità necessaria per restare sul mercato.

Siamo presenti in tutta Ita-lia e siamo capillari nei territo-ri, sapendo che la territorialità non deve essere una lotta tra campanili ma una valorizzazio-ne del brand totale per compe-tere in un mercato internazio-nale. Un esempio concreto e la collaborazione con Alibaba e ice in cui le aziende di Confar-tigianato avranno l’opportuni-tà di essere inserite nei canali B2B (Business-to-business) in-ternazionali. Bisognerà sfrutta-re gli strumenti digitali che ci permettono di uscire dal terri-

torio, valorizzandolo allo stesso tempo. In uno slogan: passare da local a glocal.

Non siamo solo attori econo-mici, ma anche sociali. Credia-mo nel modello vincente della sussidiarietà. L’Italia ha il tas-so di over 65 più alto d’Europa, pari a circa il 35 per cento del-la popolazione ed è al secondo posto nel mondo per tasso di longevità, subito dopo il Giap-pone. Una situazione invidiabi-le, ma che comporta delle sfide da non sottovalutare.

Dobbiamo essere attenti ai bisogni di questa fascia di po-polazione. Stiamo pensando di affiancare al welfare statale un welfare aziendale che sia ade-guato a supportare le persone che oggi non lavorano più e non hanno mezzi di sostenta-mento perché non riescono ad arrivare a fine mese una volta raggiunta la pensione. Ci sono esempi virtuosi di associazio-ni che ristrutturano mobili e li mettono a disposizione a prez-zi calmierati a favore di arti-giani che non hanno maturato una pensione sufficiente a vive-re una vecchiaia dignitosa. An-che questo vuol dire fare rete.

Resilienza è stata la paro-la del 2020. Nel 2021 le aziende italiane dovranno essere coese, unite e innovative, nella forma e nella sostanza.

Un tempo le nostre aziende avevano come unico patrimonio il capannone e l’esperienza. Oggi dobbiamo ragionare in modo diverso, garantendo

la formazione digitale e facendo rete (senza dimenticare che siamo attori economici ma anche sociali). Così scrive il presidente di Confartigianato

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Nel 2015 il Ceo di Fx Network (gruppo Fox), John Landgraf, aveva coniato l’espressione

“peak tv” per indicare il punto di saturazione delle produzioni televisive, dopo il quale sarebbe cominciata l’inevitabile discesa. Da quel momento ogni anno c’è qualcuno che teme lo scoppio della bolla. Finora ha continuato a crescere, senza esplodere: il nu-mero degli spettatori è aumenta-to, quello delle produzioni vola, i contenuti si sono moltiplicati e sono entrati nuovi protagoni-sti nel mercato. Al tempo stesso, però, sono cresciuti anche i co-sti, mentre i parametri qualitati-vi sono diventati sempre più alti e proibitivi. Lo stop imposto nel 2020 dalla pandemia ha riacceso vecchi timori. La fine è vicina?

È verosimile che il 2021 si rive-li, in questo senso, un anno de-cisivo. Le conseguenze del Covid e l’incertezza dei prossimi mesi metteranno in luce alcune anti-che fragilità dell’industria. Ad esempio, quelle che dipendono dalle sue dimensioni: negli ulti-mi 15 anni alle piattaforme digi-tali tradizionali, come YouTube e Dailymotion (che producono contenuti user-generated) si sono aggiunti gli ott, come Netflix, Amazon Prime, Hulu e il cinese iqiyi, insieme ai colossi del tech come Apple+ e quelli dei media tradizionali come Disney+. Se si contano le ore di programmazio-ne, Netflix ne mette a disposizio-ne 44mila, Hulu ben 53mila e i re-centissimi arrivi come Peacock e Hbo Max, insieme a Paramount+ che è attesa per quest’anno, ne aggiungeranno altre 44mila. Giu-sto per dare un’idea. Il rischio, avvertito da più parti, è quello

Netflix e tutti gli altri, dopo la pandemia, faranno i conti con la penuria di nuovi prodotti, ma subito dopo correranno il rischio opposto: lo scoppio della bolla, causato dalla saturazione di un mercato drogato dal Covid. Senza contare che i costi stanno diventando insostenibili se non per i colossi più ricchi

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perde la capacità di attrarre nuo-vi spettatori e al tempo stesso di-venta più costoso (basti pensare ai cachet degli attori). Ma gli stop and go dell’anno passato hanno disarticolato il processo nel suo insieme e non è da escludere che, almeno in via provvisoria, venga-no inseguite soluzioni alternati-

di sovrastare gli spettatori. Se-condo una ricerca di Nielsen, nel 2019 il pubblico americano poteva scegliere ogni giorno tra 600mila show. Gli spettatori im-piegavano in media sette minuti per individuare quello che prefe-rivano e poi, superata quella so-glia, il 58 per cento di loro tor-nava a guardare i vecchi canali televisivi abituali.

In parallelo, sono molte le preoccupazioni che riguarda-no la sostenibilità economica. Nel 2020 il dato globale degli investimenti per i contenuti te-levisivi (compresi i broadcaster tradizionali) ha toccato quota 160 miliardi di dollari: nel 2010 erano 87 miliardi (Dati Boston Consulting Group). Nel giro di 10 anni sono di fatto raddoppiati e aumenteranno anche nel 2021. Il problema è che i costi per la produzione di un singolo epi-sodio (di qualità) possono arri-vare a toccare quota 15 milioni di dollari. Un’enormità, ma gli utenti sono ormai abituati a li-velli semi-hollwoodiani ed è dif-ficile (leggi: impossibile) tornare indietro. In questo quadro di ten-sione nel 2020 è arrivato il Covid, che ha sconvolto i ritmi di pro-duzione e, costringendo milio-ni di persone a rimanere a casa, ha drogato il mercato delle visua-lizzazioni e degli abbonamenti: nei periodi di lockdown le sotto-scrizioni agli ott sono salite alle stelle (al primo posto Netflix, con il 24 per cento, poi Amazon, con il 16, e Disney+, con il 15).

Gli effetti di queste storture si vedranno quest’anno. È pre-vedibile, innanzitutto, una forte carenza di nuovi programmi nei primi mesi, come conseguenza

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del blocco prolungato dei lavori e dell’andamento a singhiozzo delle riprese. In seguito, quando le cose saranno tornate alla nor-malità (già verso la fine dell’an-no?), è molto probabile che gli spettatori saranno inondati da un eccesso di offerta. Entrambe le situazioni non sono ottimali. Nella prima fase c’è un pubblico ampio a disposizione, dovuto al protrarsi delle misure di conteni-mento, al quale tuttavia le piat-taforme non saranno in grado di garantire una programmazione adeguata. In quella successiva, al contrario, il diluvio di nuove produzioni rischierà di venire disperso di fronte al prevedibi-le calo degli utenti, i quali, libe-rati dagli obblighi sanitari, ri-prenderanno più o meno la vita di sempre e dedicheranno meno ore alla fruizione di contenuti video. Insomma, meno spetta-tori, meno ore viste, meno sot-toscrizioni. Mentre i costi, se si aggiunge anche l’eventuale spe-sa per profilassi sanitarie, con-tinueranno a salire. Sarà a que-sto punto che scoppierà la bolla?

Di sicuro, la pressione econo-mica (soprattutto sulle ott) si farà sentire. E potrebbe anche mandare in crisi quello che, da tempo, è un modello produtti-vo vincente: la preferenza delle piattaforme per la varietà nelle produzioni rispetto alla loro lon-gevità. Non è un mistero: da tem-po le serie televisive (per fare un esempio) durano meno stagioni. Spesso ne vengono fatte due o, al massimo tre. L’esigenza è quella di minimizzare i costi e al tempo stesso allargare il più possibile la platea di possibili sottoscritto-ri. Un titolo, se viene prolungato,

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ne, dove a contare sarà la dispo-nibilità finanziaria (e qui Apple e Warner Media si trovano già in vantaggio) mentre i piccoli ser-vizi di nicchia che ripropongono contenuti scelti con cura ma pro-dotti da altri, come Mubi e Acorn Tv saranno quelli che soffriran-no di più. Secondo alcune analisi,

con la fine della pandemia e delle sottoscrizioni, alcuni di loro sa-ranno costretti a chiudere e resi-steranno solo quelli che avranno saputo costruire intorno a loro una solida comunità. È solo un segnale, una goccia nell’oceano dello streaming. Ma sta a indica-re le crescenti difficoltà in arrivo.

ve (l’idea di un nuovo canale di finta diretta da parte di Netflix, allo studio da anni, ha comincia-to a essere sperimentato in Fran-cia già dal novembre scorso).

In linea di massima, per chi produce contenuti di qualità lo scenario più probabile sarà un inasprimento della competizio-

Evento di presentazione della terza stagione della serie tv spagnola “La casa di carta” in Piazza Affari a Milano

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Lo scenario che viviamo è ca-ratterizzato da una elevata dose di incertezza, non solo a livello sanitario ma anche economico, sociale e istituzionale. Insieme alla pandemia, l’opinione pub-blica vive una profonda crisi, che rafforza le differenze socia-li e genera, in larghe fette di po-polazione, sentimenti di sfidu-cia e frustrazione profonda. In questo contesto la comunica-zione e le relazioni istituzionali rappresentano il terreno su cui giocare una partita fondamen-tale per aziende, istituzioni e manager: solo gli attori che sapranno reagire al meglio ai cambiamenti in atto potranno superare questa fase e cogliere, magari, anche alcune oppor-tunità che ogni crisi inevita-bilmente genera. Per questo è interessante delineare le prin-cipali tendenze che potranno fare la differenza nell’anno ap-pena iniziato.

Più umanità nei messaggi. Tra i tanti cambiamenti del-

lo scenario di cui tenere conto c’è il profondo impatto psico-logico che la pandemia genera nel pubblico, dovuto al dolore per la perdita dei propri cari, ai cambiamenti e alle restrizioni sociali ed economiche. È un elemento che sarà fondamen-tale tenere a mente nel dialo-go con i cittadini, con i clienti e con i propri dipendenti. Per i professionisti della comunica-zione sarà importante attinge-re alle competenze provenien-ti dall’universo delle scienze comportamentali: psicologia, scienze sociali e behavioural economics avranno un ruolo centrale nella costruzione di messaggi sempre più profondi e personalizzati, che tengano conto del contesto vissuto da chi li riceve.

Inserirsi nei trend dell’in-formazione. Una delle difficol-tà per chi si occupa di comu-nicazione deriva dal fatto che l’opinione pubblica e i media siano focalizzati sul racconto

della pandemia. Per aziende e istituzioni sarà cruciale quin-di, lavorare in modo innova-tivo, sfruttando al meglio le occasioni per legare i propri messaggi ai temi di attualità. Non parliamo di banali – e a volte controproducenti – ope-razioni di newsjacking ma del-la capacità di identificare tem-pestivamente i temi e di co-struire un legame forte con le emozioni del pubblico e le necessità dei media. Soltanto così si potrà garantire al pro-prio brand una copertura am-pia, intelligente ed efficace sui mezzi di informazione broa-dcast e social.

Digitale, non solo strumenti ma creazione di una comunità. La sempre maggiore centralità della comunicazione digitale è ogni giorno più chiara e conti-nuerà a crescere nel 2021. Per aziende, istituzioni e manager l’importanza di rafforzare la di-gital strategy non è più rinvia-bile, ma il vero valore aggiun-1

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La creazione di messaggi efficaci (per esempio sui vaccini) sarà determinante per uscire dalla

pandemia. E anche le aziende dovranno rivolgersi all’opinione pubblica tenendo conto dell’inedito

contesto psicologico che si è generato in questi mesi

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to sarà la capacità di costruire e alimentare una communi-ty: non un semplice bacino di clienti affezionati al brand, ma una vera e propria comunità di utenti attivi e partecipi a cui dare valore e di cui ascoltare bisogni e consigli.

Le relazioni istituzionali più che mai centrali. Mai come oggi le relazioni con i governi e le istituzioni territoriali sono rilevanti e appare evidente come siano destinate a esserlo ancora di più con l’arrivo delle risorse del Recovery Fund. Una buona strategia di Public Affairs può incidere in maniera deter-minante nel conto economico delle aziende. Sarà quindi fon-damentale intercettare subito rischi e opportunità derivanti dall’intervento delle istituzio-ni e agire in fretta per accom-pagnarle o suggerire modifi-che. Saranno avvantaggiate in questa attività le aziende che possono contare su relazio-ni consolidate con i decisori e

quelle che hanno una solida re-putazione.

Più attenzione a chi lavora in azienda. Il lavoro a distanza è destinato ad affermarsi sem-pre di più, questo comporta per le imprese nuove responsa-bilità. Se la forza di ogni azien-da risiede più che mai nelle sue persone, occorrerà dunque una maggiore attenzione per la salute e il benessere dei lavora-tori. Due aspetti che andranno monitorati attentamente, an-che alla luce degli impatti psi-cologici che possono derivare dal lavoro a distanza.

Le imprese socialmente re-sponsabili e sostenibili avran-no un vantaggio competitivo. In un momento in cui la sen-sibilità del pubblico è così ele-vata, l’attenzione alla respon-sabilità sociale d’impresa gio-cherà un ruolo centrale non solo come leva di marketing, di reputazione e di posiziona-mento, ma anche per attirare e trattenere i talenti in azien-

da. Parallelamente, il crescen-te interesse verso la sostenibili-tà, anche in ambito finanziario, premierà le imprese che tenga-no in considerazione nei loro investimenti i fattori esg, ov-vero aspetti di natura ambien-tale, sociale e di governance.

La comunicazione come leva per uscire dalla pandemia. Uno dei temi da affrontare nel nuovo anno è quello del vacci-no contro il Covid-19. I primi dati mostrano una certa fred-dezza da parte del pubblico ri-spetto alla possibilità di vacci-narsi. Per le istituzioni, italiane e internazionali, sarà essenzia-le impostare una comunicazio-ne univoca e trasparente, cre-are condizioni di fiducia, agi-re tempestivamente contro la disinformazione e aiutare l’o-pinione pubblica a orientarsi nella complessità di uno sce-nario in rapida evoluzione. L’u-scita dalla pandemia passerà – anche – per una comunicazio-ne efficace.

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DIl virus ha messo in crisi l’industria della moda, causando fallimenti e licenziamenti, ma anche la miseria di milioni di addetti alla produzione

Quest’anno il mondo ha dovuto confrontarsi con due sfide gigantesche: il Covid-19 e la catastrofe economica che il virus ha lasciato come una scia. Entrambi hanno preteso un pesante tributo ai lavoratori economicamente vulnerabili, che già dovevano lottare con paghe basse e poche pro-tezioni sociali. I loro problemi hanno mostrato la sfrenata disuguaglianza che permea molti set-tori del mondo globalizzato – inclusa l’industria della moda.

Le pressioni economiche provocate dalla pan-demia hanno semplicemente dimostrato quanto la moda sia dipendente dallo sfruttamento di la-voro a basso costo e quanto sia devastante questa reciproca dipendenza nei momenti difficili. E se la Banca mondiale avverte che ben 150 milioni di persone potrebbero ricadere nella fascia della po-vertà estrema entro la fine del 2021, la questione non può essere ignorata.

Nella prima parte del 2020, quando il Covid-19 ha iniziato a diffondersi e i lockdown hanno por-tato il mondo alla paralisi, la gran parte della sof-ferenza è ricaduta sui milioni di lavoratori sot-topagati del settore dell’abbigliamento nei Paesi in via di sviluppo. Quando la catena produttiva dell’industria della moda si è interrotta – e i paga-menti sono stati congelati e gli ordini sono stati cancellati – i proprietari delle fabbriche sparse in Vietnam, Cambogia, India e Bangladesh hanno subito un brutto colpo. Molti lavoratori sono stati mandati a casa senza paga e sono stati lasciati ad arrangiarsi da soli nel mezzo di una crisi sanitaria globale di quelle che capitano soltanto una volta ogni cento anni. M

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Mentre il Covid-19 continuava a infuriare, gli attivisti per i diritti umani hanno portato l’atten-zione anche sulle complicità dell’industria della moda con la repressione della popolazione uigura nella regione cinese dello Xinjiang.

Gli uiguri, che sono la principale minoranza musulmana della Cina, sono diventati il bersaglio di una campagna di repressione da parte del Par-tito comunista che è al potere a Pechino. Circa un milione di persone sono state arrestate, sono sta-te forzate ad abbandonare il loro modello di vita tradizionale e sono state utilizzate in programmi di lavoro coatto. Secondo un report dell’Australian Strategic Policy Institute, tra il 2017 e il 2019 alme-no 80mila persone sono state trasferite lontane dallo Xinjiang e sono state condotte in fabbriche sparse per la Cina, dove sono state messe al lavoro con la proibizione di lasciarlo e sono sottoposte a costante sorveglianza.

Secondo quanto affermato dai mezzi di infor-mazione gestiti dallo Stato cinese, i trasferimen-ti sarebbero continuati anche nel 2020, perfino mentre il Paese lottava con la pandemia. In luglio, una coalizione di organizzazioni internazionali che si chiama End Uyghur Forced Labor (Basta con il lavoro coatto per gli uiguri) ha pubblicato i nomi dei brand della moda che si pensa non ab-biano preso misure adeguate per assicurarsi che nella loro catena produttiva non siano coinvolti lavoratori coatti provenienti dallo Xinjiang (circa l’85 per cento del cotone cinese, che costituisce il 20 per cento della produzione mondiale, viene dal quella regione).

Nel settore dell’abbigliamento, i lavoratori asia-tici non sono gli unici in grave difficoltà. Un’in-chiesta di luglio del Sunday Times di Londra ha scoperto che i dipendenti di una fabbrica di Leice-ster, in cui si producevano vestiti per Boohoo, un retailer di ultra-fast-fashion, erano pagati soltanto 3,50 o 4,64 sterline all’ora (in Gran Bretagna la paga minima per le persone con più di 25 anni è di 8,72 sterline all’ora). Secondo la campagna non profit a favore dei diritti del lavoratori Labour Behind the Label, numerose fabbriche di abbigliamento a Leicester sono rimaste aperte durante la pan-demia con scarsa considerazione delle misure di distanziamento sociale: alcuni dipendenti hanno detto che è stato loro chiesto di andare al lavoro

La pandemia ha accentuato le disuguaglianze, mentre gli effetti dell’impatto del virus sull’economia si avvertono maggiormente tra i lavoratori meno protetti

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benché fossero stati trovati positivi al Covid-19. In generale, le prospettive per i lavoratori a

basso reddito sono cupe, specialmente in un mo-mento in cui il mondo combatte un virus letale. Uno studio condotto dai ricercatori dell’Imperial College di Londra indica che nei Paesi a reddito basso o medio-basso le probabilità di morire a causa del Covid-19 sono molto più alte per chi è povero. E anche negli Stati Uniti le ripercussio-ni economiche della pandemia sono state molto peggiori per gli adulti a basso reddito.

Nel 2016, durante VOICES, un incontro per in-novatori dell’industria della moda organizzato da The Business of Fashion, il trend forecaster Li Edelkoort ha chiesto: «Com’è possibile che un ve-stito sia più economico di un panino? Com’è pos-sibile che un prodotto che deve essere seminato, deve crescere e poi deve essere raccolto, pettinato, filato, tessuto, tagliato e cucito, rifinito, stampato, etichettato, impacchettato e trasportato costi un paio di euro?».

È una domanda che mi è rimasta impressa da allora.

Le industrie del cotone, dei tessuti e dell’abbi-gliamento erano intrecciate con lo sfruttamento del lavoro ben da prima che il Covid-19 ne espones-se alla vista il marciume. L’industria della moda è stata a lungo connivente con un sistema che retribuisce le persone con paghe sotto la soglia della sussistenza per massimizzare i profitti. Que-sto modello di business, focalizzato sul vendere montagne di abiti a prezzi chiaramente insosteni-bili, ha corrisposto retribuzioni sempre più basse a chi quegli abiti li ha fabbricati.

Prendiamo il Bangladesh, dove vivono quattro milioni di lavoratori dell’industria dell’abbiglia-mento. Molti di loro guadagnano poco più della paga minima stabilita dal governo: solo 8.000 taka (meno di 100 dollari) al mese. Chi conduce cam-pagne a favore di salari più equi sostiene che per vivere serenamente i lavoratori avrebbero bisogno del doppio di quella cifra.

Nelle loro catene produttive, perfino i più bla-sonati brand della moda partecipano allo sfrutta-mento dei lavoratori più vulnerabili. Marchi del lusso come Dior e Saint Laurent spesso si rivol-gono a subappaltatori in India per la produzione di ricami intricati e di decorazioni a costi inferio-

ri. Gli artigiani superspecializzati ingaggiati per svolgere il lavoro ricevono poco merito e pochi soldi per la loro attività. Infatti, le aziende che li hanno ingaggiati spesso porteranno gli abiti in Europa per l’assemblaggio finale, etichettando-li in modo ingannevole come “Made in Italy” o

“Made in France”.Si dice che la vera indole di una persona si veda

da come reagisce durante una crisi. Lo stesso po-trebbe dirsi dell’industria della moda, che vale 2.500 miliardi di dollari, di fronte alla sfida che deve affrontare. La pandemia ha condotto a un significativo calo nei suoi fatturati, a un’ondata di fallimenti tra i retailer e all’incertezza dei con-sumatori. Un rapporto congiunto di The Business of Fashion e di McKinsey & Company, di cui sono stato coautore, stima che il giro di affari dell’in-dustria della moda potrebbe contrarsi addirittura del 30 per cento entro la fine dell’anno.

Il fashion business sarà capace di fare di ne-cessità virtù e di cambiare in meglio?

L’industria della moda deve prendersi di più le sue responsabilità per revisionare un model-lo di business che, di fatto, affonda le sue radici nell’iniquità. La soluzione non è cancellare con-tratti, spostare la manifattura in fabbriche locali e rimpiazzare gli esseri umani con i robot, ma, anzi, dedicare significative risorse al miglioramento delle condizioni di lavoro per gli addetti più es-senziali del settore: le persone che fabbricano i nostri vestiti. Le aziende del mondo della moda devono tenere in mente questi lavoratori men-tre pianificano il lungo percorso verso la ripresa.

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©️ 2020 THE NEW YORK TIMES COMPANY & IMRAN AMED

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CONVERSA

ZIONE In settembre, mesi dopo

che la pandemia di Coro-navirus ha per la prima volta stravolto le setti-mane della moda a New York e nelle città euro-pee, Vanessa Friedman, la fashion director del New York Times, ha parlato con quattro superesperti di moda, mentre il settore si adattava a questa nuova normalità

Nella scorsa stagione, la marea montante del Co-vid-19 stava lambendo le scarpe coi tacchi della Moda, mentre il palcosce-nico dello stile si muove-va da una città all’altra, da una sfilata all’altra. A New York, gli stilisti cine-si, bloccati a casa, si sono persi la possibilità di fare l’inchino alla fine della loro collezione. Quando è stato il turno di Milano, un italiano era già morto a causa del virus. E, già alla fine di quella settima-na, Armani aveva deciso di fare una sfilata senza pub-blico. A Parigi, le feste era-no state cancellate mentre venivano distribuite ma-scherine e gli uscieri stava-no lì impettiti con gran-di contenitori di liquido sanificante per le mani. E, giusto un attimo dopo che tutti si erano sparpagliati per tornare verso le loro ri-spettive case, è iniziata la pandemia.In questa stagione tutto è cambiato. Gran parte del-le sfilate saranno digitali. Qualche grande nome si è chiamato completamente fuori. Altri ancora stan-no facendo a modo loro,

secondo un loro persona-le calendario. C’e ansia nell’aria. Ma la moda non è finita. Sta semplicemen-te attraversando una fase transitoria ed è alle pre-se con grandi domande che riguardano dei vecchi schemi che per anni era-no sembrati insostituibi-li. Per esplorare che cosa questo potrebbe signi-ficare, il nyt ha riunito quattro persone che fanno parte di questo mondo: Tory Burch (dell’omonimo brand), Virgil Abloh (di Off-White e Louis Vuitton menswear), Gwyneth Pal-trow (di Goop) e Antoine Arnault (di lvmh, il più grande marchio del lusso del mondo).

di V A N E S S A F R I E D M A N

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V A N E S S A Devo chiederlo. Se si considerano tutte le assenze di questa stagione, qual è ormai il senso di una sfilata?

V I R G I L Di recente abbiamo fatto una sfilata maschile a Shanghai, che ha preso in pre-stito elementi presi da espe-rienze cinematografiche e te-atrali per dare un messaggio positivo. Invece di una tradizio-nale sfilata in passerella, che può essere molto impostata, con i modelli con quegli sguar-di seri nel volto che cammina-no avanti e indietro come degli attaccapanni, quello che ho fat-to è stato trasformare lo show quasi in una parata per il Gior-no del Ringraziamento. I mo-delli erano presi dalla strada e

camminavano semplicemente, come se stessero chiacchieran-do con degli amici, trasmetten-doci così una sensazione che di questi tempi non ci viene donata molto spesso. Oltre a occuparsi concretamente della creazione di vestiti, il mio ate-lier ha l’ambizione di pensare che il mondo possa essere un posto migliore.

T O R Y Stranamente, prima della pandemia, avevo deciso di non fare sfilate in questa stagione. Stavamo aprendo un negozio in Mercer Street e ave-vo pensato che sarebbe stato molto interessante tornare a dove eravamo quando abbia-mo lanciato questo marchio per la prima volta, con uno sto-

Una sfilata del settembre scorso di Giorgio Armani. I grandi brand non hanno rinunciato a presentare le loro creazioni, per quanto a porte chiuse (ma, in questo caso, in diretta tv)

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Ere event che era durato un’inte-ra giornata e dove avevano fat-to un salto tutti. Sto pensando molto a quello che siamo stati e anche al prodotto – semplicità, qualità e un modo di mostrarlo più personale.

A N T O I N E : Per i marchi più piccoli ha senso saltare una stagione o due. Perché si spen-de decisamente tanto. E, se sai quanto costa, dopo aver deciso di non farlo, provi quantome-no un po’ di sollievo. Invece per i brand che hanno i mezzi per produrre delle sfilate è fantasti-co avere dal vivo questo mondo creativo. E non è soltanto una decisione personale. C’è un’in-tera economia intorno a queste sfilate. E questa cosa non va sottovalutata.

G W Y N E T H Quando abbia-mo iniziato a fare la G Label di Goop, ho davvero avuto la sen-sazione che fosse un po’ com-plicato accedere al sistema del-la moda – forse un tantino anti-quato in termini di calendario. E in realtà ho reagito alla con-tinua raffica di stimoli “com-pra ora” / “indossa ora” dello streetwear cercando di costruire un po’ di eccitazione e di attesa concentrate intorno a una col-lezione. Durante la pandemia siamo diventati superframmen-tari. Abbiamo tagliato tutto il budget del marketing e siamo comunque stati capaci di ave-re un buon impatto. Quando un’impresa è un po’ sotto pres-sione, bisogna avvicinarsi a quello spirito creativo. È il lato positivo dei social media, che non sempre hanno lati positivi.

V A N E S S A Pensate che questo costituisca un punto di non ritor-no per la moda?

A N T O I N E Ancora un paio di appuntamenti con le sfilate e poi si decideranno molte cose. In realtà, sfilare non è essenzia-le. Tuttavia, certe volte hai biso-gno di mostrare quello che stai creando.

T O R Y Io penso che ogni azien-da sia diversa. Buona parte del calendario era impostato sulle esigenze della vendita all’ingros-so e noi per l’85 per cento ven-diamo direttamente al cliente.

V I R G I L Noi stiamo aspettan-do il momento di svolta in cui la prossima generazione si farà davvero strada. Conosciamo i nomi di Karl Lagerfeld, Mar-giela, Yves Saint Laurent – e sappiamo come abbiano ri-voluzionato il settore passan-do dall’haute couture al prêt-à-porter. Nella mia generazione, abbiamo introdotto lo streetwe-ar in questo mondo e ora ne ve-diamo gli effetti nel mercato del lusso. Io penso che questo sia un momento in cui possiamo ridefinire che cosa significhi la moda.

G W Y N E T H Ci sarà probabil-mente una separazione tra i brand che hanno davvero mol-te risorse economiche, e usano queste sfilate come uno splen-dido momento di marketing e teatro, e i brand più piccoli come il mio, che continueran-no a concentrarsi nel tentativo di creare un interesse per il pro-dotto attraverso un momento

culturale. E penso che sia un bene. Questo costringe tutti i brand, grandi e piccoli, a diven-tare più creativi nel modo di raggiungere il cliente.

V A N E S S A E riguardo a quello che si produce? È vero che ora i pantaloni della tuta governano il mondo?

T O R Y Ovviamente le perso-ne si stanno vestendo più ca-sual, ma quello che mi sembra interessante è che le persone stanno comprando prodotti di diverso tipo. Io non so dove va-dano, ma stanno comprando cose. Che si stiano vestendo per Instagram, per piccole fe-ste o per quello che sia, guarda-no la moda in un modo che li aiuta a distrarsi.

A N T O I N E Posso confermarlo. In un mondo in cui non puoi davvero uscire un granché, e i ristoranti sono perlopiù chiusi e anche i locali notturni e non ci sono eventi, le persone sen-tono ancora il bisogno di perce-pire la gioia di comprare qual-cosa di cui si sono innamorate o che hanno desiderato a lungo. Per quanto riguarda la nostre verdite, la quota di vestiti da sera è ancora molto alta.

G W Y N E T H Abbiamo appena lanciato un abito ed eravamo nervosi riguardo al timing, ma sono rimasta sorpresa di quan-to sia andata bene. È stato inte-ressante vedere come l’attenzio-ne delle persone si sia spostata prima sul loungewear e sulle tute per stare a spignattare a casa e ora di nuovo sulla moda.

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NE V A N E S S A Le tendenze esisto-

no ancora?

V I R G I L Sui social media; sì, direi che le tendenze esistono eccome.

G W Y N E T H Ho in casa una ragazza di 16 anni. Quindi, sì, i trend esistono eccome. Tut-tavia io tendo a comprare pez-zi classici che si sottraggono alle tendenze, perché temo di aver avuto qualche perio-do un po’ discutibile nel mio passato.

T O R Y È capitato a tutti! An-ch’io amo l’idea di cose che sono per sempre. E penso che anche altri stiano cercando le stesse cose – cose sulle qua-li possano investire. Io mi ri-volgo a persone che vogliono cose speciali. Sostengo ferma-mente questo punto.

V A N E S S A E questo che cosa significa per quanto riguarda il problema “eccesso-di-cose”?

T O R Y Una delle questioni ri-guardo a cui non si discute ab-bastanza è la sovrapproduzio-ne. Noi siamo molto attenti a questo aspetto – e stiamo ulte-riormente migliorando. Quan-do penso alla sostenibilità, mi sembra ovvio che tutti dobbia-mo considerarla una priorità assoluta. È uno sforzo un po’ titanico quello che dobbiamo fare nell’intero settore della moda. Ma dobbiamo farlo. I clienti sono completamente concentrati su quello che un brand rappresenta – soprattut-to i clienti più giovani. E sono

profondamente interessati a quello che i brand stanno fa-cendo per rendere il mondo un posto migliore.

V I R G I L Nell’ultima collezio-ne LV ho introdotto l’idea di far confluire tutte le mie sta-gioni in una sola. Penso che sia importante eliminare l’i-dea che una cosa abbia meno valore per il semplice fatto di essere della stagione prece-dente.

T O R Y Il modo in cui le donne fanno shopping sta cambian-do. Io non credo che pensino: «Voglio indossare qualcosa che poi non indosserò più». Non credo che questa sia una cosa moderna. E quindi anche noi, dal punto di vista delle sta-gioni, stiamo ragionando in modo diverso. Ora è più una cosa che ha a che fare con le consegne e con l’idea di in-dossare una cosa quando ti va di indossarla. Dieci anni fa le persone facevano il cambio dell’armadio in primavera e in autunno. Ora è una cosa ob-soleta.

A N T O I N E Però c’è anche una realtà del mercato che dobbia-mo capire. Non so con sicurez-za se decideremo di avere una sola stagione per tutti i nostri brand. Questa cosa cambiereb-be profondamente il business.

V A N E S S A Si ha senz’altro l’impressione che sempre più spesso i consumatori chiedano conto ad aziende come le vostre della loro posizione su tutti que-sti temi di cui abbiamo parlato,

ma anche su un’altra delicata questione di cui si discute molto in questo periodo: la giustizia sociale. Questo nostro gruppo di discussione è molto “bianco” e questa cosa riflette i difetti e la reale situazione del settore della moda. LVMH ha appena annun-ciato un nuovo stilista per Fendi womenswear, Kim Jones, che ha un talento incredibile ma che anche lui un altro bianco. An-toine, nel fare questa scelta hai tenuto conto della questione che riguarda la diversità?

A N T O I N E Per essere com-pletamente sinceri, nel caso di questa particolare scelta, no. Decidiamo queste cose con grande anticipo. Questo tema della diversità, questo tema dell’inclusione, è sta-to messo in cima alle nostre priorità, ma non è facendo mosse affrettate e nominan-do un nuovo stilista nero che si risolve qualcosa. Abbiamo reso pubblici i dati relativi agli Stati Uniti sulla diversità del-la nostra azienda e, se guardi i risultati, questi sono in realtà abbastanza buoni per quanto concerne la rappresentazione delle diverse etnie. In Francia non è permesso raccogliere simili dati. Tuttavia, c’è anco-ra molto lavoro da fare. Nel nostro board la presenza di persone non bianche è pari a zero. Questo – lo spero, lo spe-ro davvero molto – cambierà a breve.

V I R G I L Quello di cui ci oc-cupiamo è la moda, ma questa attività proietta un’immagine che vedi mentre guidi lungo

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Houston Street o ti dirigi ver-so l’aeroporto e guardi le pub-blicità. Abbiamo la possibilità di imprimere cambiamenti. È una cosa che va affrontata tipo in dodici punti – a livello di educazione ma anche per quello che riguarda il modo in cui poniamo attenzione al va-lore e a chi vi contribuisce.

A N T O I N E Uno dei pochi ri-svolti positivi di questa pande-mia è che lavoreremo molto di più con le persone del posto. Prima, quando facevamo una sfilata a Los Angeles, traspor-tavamo tutti da Parigi – 60 o 70 modelle, i parrucchieri, i truc-catori, tutti. E quando apri una qualunque rivista, vedi che sono sempre i soliti tre foto-

grafi, gli stessi parrucchieri, gli stessi truccatori. Abbiamo de-ciso che d’ora in poi, per gran parte dei nostri brand, che si tratti di eventi o di shooting, lavoreremo con talenti locali. Cosa che ci farà uscire da que-sta piccola mafia che è costi-tuita dall’abitudine di lavorare sempre con le stesse persone. Penso che questa cosa dopo la pandemia non esisterà più.

V I R G I L Ora l’epicentro è ciò che sta ai margini. Anzi direi che quello che sta ai margini è il nuovo futuro – la creatività viene dai posti non tradiziona-li. L’Africa può essere la nuova Berlino o la nuova Parigi. È lì che vedremo le novità positive per il settore.

La scenografia di una recente sfilata di Giorgio Armani, che già in primavera aveva deciso di presentare i suoi modelli senza pubblico

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I L P R E M I O E U R O P E A D E L L ’ A N N O 2 0 2 0Il nostro futuro dipende dal coraggio di chi ci ricorda l’importanza di quello che diamo ormai per scontato. Per questo la super giuria de Linkiesta ha scelto le donne polacche e le donne bielorusse che protestano anche per noi, che non riusciamo neppure a ricordarci i loro nomi

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A Brest, nel Sud-Ovest della Bielorussia, Sviatlana Tsikhanouskaya si rivolge alla folla, tra lo sventolio delle vecchie bandiere nazionali bianco-rosse

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È il più bel paradosso di un anno così strano per essere vero: le donne ad aver lasciato il se-gno più evidente in Europa nel 2020 sono quelle di cui facciamo fatica a ricordare il nome. Sono Sviatlana Tsikhanouskaya, Ma-ria Kolesnikova, Veronika Tse-pkalo, Marta Lempart, Klemen-tyna Suchanow e altre centinaia di militanti, lavoratrici, studen-tesse, impiegate, accademiche e casalinghe che in Bielorussia e in Polonia lottano per ottenere qualcosa che nel nostro Vecchio Continente sembrava ormai scontato: il rispetto dei diritti ci-vili. Una maggioranza silenziosa abituata a sentirsi chiamare mi-noranza. Eroine non violente ar-mate di cartelloni, fiori bianchi e mascherine nere con un fulmi-ne rosso. L’eco delle loro parole di libertà urlate nelle piazze di Minsk, Cracovia e Varsavia è sta-ta più forte del suono dei man-ganelli e del silenzio dei media locali. E ha raggiunto le città di tutta Europa.

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getto e mai come soggetto. Ne-gli ultimi mesi hanno raccolto l’eredità di movimenti come So-lidarność che neanche trent’an-ni fa soffiavano contro il comu-nismo con una forza tale da far crollare il Muro di Berlino.

Ci vuole ancora più coraggio a farlo in un’epoca in cui alcuni piccoli uomini hanno eroso l’e-redità democratica e rappresen-tano il volto del nazionalismo ottuso, del sovranismo anacro-nistico e della misoginia impu-nita.

Il premio Europea dell’anno va alle donne polacche e bielo-russe anche perché la loro pro-testa ha una qualità duplice: è allo stesso tempo individuale e collettiva. Queste donne sono state capaci di rimanere da sole davanti ai riflettori per denun-ciare singolarmente la violazio-ne dei diritti umani. Che fosse una conferenza stampa, un di-scorso in piazza o un’elezione. Ma, allo stesso tempo, hanno di-mostrato di sapersi unire senza divisioni personalistiche quan-do la cosa più importante era fare notizia portando migliaia di persone per strada.

Nei primi mesi del 2021 tor-neranno a far notizia, la cancel-liera Angela Merkel, ormai arii-vata alla fine del suo mandato, la presidente della Commissio-ne Ue, Ursula von der Leyen, e la presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde. Ma l’esempio di quelle donne, il cui nome non è così importante sa-per pronunciare, è una piccola luce che può illuminare un 2021 che si annuncia ancora oscuro per quanto riguarda il rispetto dello Stato del diritto.

Linkiesta assegna loro la prima edizione del premio Eu-ropea dell’anno per aver ispira-to con l’esempio quotidiano di questi mesi i cittadini che cre-dono ancora nella democrazia, nella libera scelta e nell’ugua-glianza di dignità e diritti. Le oltre cinquemila donne del Coordination Council hanno organizzato per settimane del-le proteste contro Aljaksandr Lukašėnka, che ha falsificato il risultato delle elezioni presi-denziali del 9 agosto.La loro, nonostante gli arresti e le intimidazioni, è stata una pressione costante e pacifica, che ha costretto le istituzioni europee a comminare per la pri-ma volta sanzioni finanziarie e politiche contro il dittatore che da 26 anni gestisce la Bielorus-sia come se fosse una sua pro-prietà.

Allo stesso modo, le don-ne dello Strajk Kobiet hanno evitato che calasse il silenzio sull’ultima riforma liberticida promossa dal governo sovrani-sta polacco, eterodiretto da Ja-rosław Kaczyński, con la compli-cità della Corte costituzionale i cui membri sono scelti diretta-mente dall’esecutivo: il divieto di abortire per gravi malforma-zioni del feto.

Una giuria di otto donne ita-liane – Emma Bonino, Mara Car-fagna, Simona Bonafé, Lia Quar-tapelle, Flavia Perina, Andrée Ruth Shammah, Sofia Ventura e Anna Zafesova – ha deciso di premiare la forza del collettivo in un’epoca così individualista.

Le donne dell’Est sono state sempre considerate ai margini della storia, descritte come og-

A sinistra, la studentessa polacca Nina Michnik, con il numero di telefono del suo avvocato scritto a pennarello sul braccio, prima di una manifestazione in cui potrebbe rischiare un fermo di polizia. Sotto, Marta Lempart, una delle leader dello Strajk Kobiet

La giuria del Premio EUROPEA DELL’ANNO:

• Emma Bonino • Mara Carfagna • Simona Bonafé • Lia Quartapelle • Flavia Perina• Andrée Ruth Shammah• Sofia Ventura• Anna Zafesova

Scendono in piazza ormai da mesi. Nonostante tutto. Nonostante i manganelli, gli arresti, i licen-ziamenti e le minacce. Nonostante a volte sembra che non ci sia nessuna speranza. Se per 26 anni la Bielorussia è stata conosciuta nel mondo prin-cipalmente come «l’ultima dittatura d’Europa», come l’aveva definita Condoleezza Rice, oggi è famosa per le sue donne.Nessuna protesta degli ultimi anni ha avuto un volto più bello, e coraggioso, della manifestazio-ne permanente che dal 9 agosto scorso – data del-le elezioni presidenziali in cui il dittatore Aljak-sandr Lukašėnka ha rubato la vittoria alla leader dell’opposizione Sviatlana Tsikhanouskaya – va in piazza a Minsk e nelle altre città belarusse.

Non è una rivoluzione soltanto al femminile, anzi: è dal 1989 che nell’Est Europa non si vede-va una protesta più trasversale, che coinvolgesse uomini e donne, vecchi e giovani, capitale e pro-vincia, intellettuali e operai. Ma la rivoluzione di Minsk ha un volto di donna, per parafrasare il ti-tolo del romanzo di un’altra bielorussa celebre, la scrittrice premio Nobel Sviatlana Aleksievič.

Sono state le donne belarusse a fare da scu-do umano a una rivoluzione non violenta che ri-schiava di diventare un massacro, sono state loro a conferire alla rabbia un tocco di ironia, a tra-sformare la frustrazione della repressione in co-raggio e speranza.

Irriverenti come solo le donne sanno essere, hanno ridicolizzato il dittatore che paragonava il Paese che governa a «un’amata che non si può cedere a un altro». Lukašėnka predica una sorta di femminicidio politico. Le bielorusse hanno ri-sposto spazzando via tutti i pregiudizi sulla doci-lità delle donne dell’Est.

È anche una ribellione contro un dittatore ma-chista, che ha eliminato dal campo politico tutti gli avversari maschi. Il triumfemminato sceso in campo contro Lukašėnka era composto da don-ne decise a correre in vece dei loro uomini, im-prigionati o esiliati dall’autocrate. Non temeva le donne, «la politica non è roba per loro», diceva. Non poteva sbagliarsi di più.

La casalinga Sviatlana Tsikhanouskaya ha vin-to le elezioni presidenziali, affiancata dalla ma-nager Veronika Tsepkalo e da Maria Kolesnikova, l’unica politica di professione.

Le prime due sono ora in esilio in Europa, Ma-ria Kolesnikova è in carcere con accuse di sov-versione.

Ma decine di migliaia di loro consorelle conti-nuano la battaglia, fondendo la tradizione dell’e-mancipazione ereditata dal periodo sovietico e della Resistenza partigiana ai nazisti con una nuova consapevolezza dei propri diritti e del pro-prio valore, che porta nell’ultimo pezzo di Urss un’autentica ventata di Europa.

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Due ragazze si baciano sotto la vecchia bandiera bielorussa durante una manifestazione a Minsk

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C’è qualcosa di stranamente simmetrico nelle proteste che sono esplose quasi contemporane-amente in Bielorussia e in Polonia. Mentre la pri-ma è l’ultimo frammento dell’impero comunista a ribellarsi al passato autoritario, in una sorta di 1989 avvenuto con più di trent’anni di ritar-do, sognando un balzo nel futuro, la seconda sta combattendo un ritorno al passato, dopo essere stata il Paese più all’avanguardia nella trasforma-zione post-comunista, per tanti versi una vetrina dell’integrazione europea nell’Est.In un certo senso, sono due proteste contro ana-cronismi ormai intollerabili: un dittatore nel pie-no centro d’Europa, e una legge antiaborto che spoglia le donne del diritto a disporre del pro-prio corpo.

Nessuno avrebbe pensato che nel 2020, nell’U-nione europea, le donne si sarebbero trovate a gridare «io sono mia» e a dover rivendicare la li-bertà di «non essere un’incubatrice» come reci-tano i cartelli in piazza.

Nessuno avrebbe potuto credere che un gover-no appartenente alla stessa Europa dove ormai perfino baluardi conservatori come l’Irlanda han-no ceduto avrebbe deciso di togliere anche l’ulti-ma scorciatoia per abortire.

E nessuno avrebbe potuto immaginare la vio-lenza della rivolta che ne sarebbe scaturita: ma-nifestazioni, blocchi di strade, assedi alle sedi

delle istituzioni e alle chiese. La violenza, anche fisica, degli scontri. La

violenza verbale, con le donne aderenti allo #StrajkKobiet, lo sciopero femminile, a sfidare il conservatorismo del governo anche con una violazione dei tabù linguistici.

Non è uno sciopero e non coinvolge solo le donne: mezza Polonia è scesa in piazza per quella che è rapidamente diventata una protesta contro i reazionari. La spaccatura tra liberali e sovranisti, tra europeisti ed euroscettici, tra tolleranza e xe-nofobia, lo scontro del nostro tempo, in Polonia è passata dalla protesta delle donne, per diven-tare una rivolta trasversale che ha scosso anche il pilastro della società polacca, la Chiesa cattoli-ca, rompendo la promessa di intoccabilità di cui godeva anche per il suo ruolo nell’abbattimento del comunismo.

Una «rivoluzione», dicono le donne in piazza. «È una guerra», è lo slogan con cui l’opposizio-ne di centrosinistra si è presentata in Parlamen-to. Ma soprattutto, è la vittoria dell’Europa, in quell’Est che molti bocciano come il traditore del sogno europeo: come in Bielorussia le gene-razioni meno anziane vogliono abbattere l’ulti-mo pezzo di cortina di ferro, in Polonia quelli che hanno trascorso la loro vita adulta in Europa non tollerano più di dover rinunciare ai loro diritti in nome di un’ideologia.

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Una protesta a Varsavia contro il tentativo di introdurre misure più restrittive sull’aborto

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Irene Tinagli ha scelto uno dei mestieri più difficili del mon-do: smontare una a una tutte le bufale e le teorie del com-plotto sull’euro e l’Unione eu-ropea. In un Paese come l’Ita-lia in cui la polemica sterile è una forma d’arte, tentar l’im-presa sembra paragonabile a svuotare l’oceano con un cuc-chiaino. Ma Tinagli ha svolto la sua fatica di Sisifo in ogni in-tervista, intervento televisivo, webinar e tweet con la pazien-za del tecnico e l’empatia di chi sa che far capire la complessi-tà dell’Europa non è semplice. La sua specialità è spiegare ai sovranisti come funziona dav-vero la linea di credito speciale per le spese sanitarie del Mec-canismo europeo di stabilità. Dal 2019 ricopre uno dei ruo-li più influenti a Bruxelles: la presidenza della Commissione Problemi economici e moneta-ri del Parlamento europeo. Già, problemi economici. Tradotto: molto potere, moltissime gra-

ne e un lavoro di mediazione continua con gli eurodeputati. Se fatto male un lavoro del ge-nere può stroncare sul nasce-re una carriera promettente, se svolto bene può portare molto in alto. Non a caso il suo pre-decessore, Roberto Gualtieri, è diventato ministro dell’Econo-mia. Il 2020 di Tinagli non po-teva essere più impegnativo: il Parlamento europeo ha dovuto negoziare con la Commissio-ne e il Consiglio Ue il nuovo bilancio pluriennale dell’Unio-ne 2021-2027 da 1074,3 miliardi di euro collegati ai 750 miliardi del NextGenerationEu. Nell’ac-cordo di luglio il Consiglio eu-ropeo aveva tagliato alcuni pro-grammi importanti dalla ricer-ca alla salute all’Erasmus fino a InvestEu di cui Tinagli era re-latrice. Anche grazie a lei il Par-lamento ha trovato un accordo per recuperare 16 miliardi e un piano per introdurre la Digital tax e la tassa sulle transazioni finanziarie.

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D E P U TATA E U R O P E A D E L L ’A N N O I R E N E T I N A G L I

Irene Tinagli è presidente della Commissione Problemi economici e monetari del Parlamento europeo

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Le premesse potevano esse-re catastrofiche. Una politi-ca proveniente dal gruppo di Visegrad dello stesso partito del premier sovranista Andrej Babis nominata commissaria Ue per i valori e la trasparen-za. Non un compito facile in un’era in cui dilaga la disinfor-mazione online anti Ue da par-te di Russia e Cina, dove a Est lo Stato di diritto è in crisi e da Malta alla Slovacchia, dalla Francia all’Irlanda i giornalisti vengono minacciati o uccisi per le loro inchieste scomode. E invece la ceca Věra Jourová si è rivelata la commissaria giu-sta al posto giusto. Il coraggio e la costanza delle sue azioni a difesa dei valori europei meri-tano una menzione speciale. A settembre nel primo rapporto della Commissione sullo sta-to di diritto dei 27 Stati mem-bri ha definito l’Ungheria di Viktor Orbán una «democrazia malata» criticando la corruzio-ne e la mancanza di indipen-

denza di media e magistratura. Nessuno nella Commissione aveva usato parole così dure contro Budapest. A giugno ha attaccato Donald Trump, elo-giando Twitter per aver segna-lato come contenuto fuorvian-te due tweet dell’ex presidente degli Stati Uniti sulle schede elettorali postali. Senza timore ha accusato la Cina di diffon-dere disinformazione sul Co-ronavirus proprio nel momen-to in cui il Servizio di Azione esterna aveva ricevuto pres-sioni da funzionari di Pechino per annacquare il report. Se sarà la donna europea del 2021 lo vedremo dagli effetti del suo Piano d’azione per la de-mocrazia europea, presentato a dicembre per risolvere una delle sfide più ambizione per la Commissione: contrastare le fake news senza trasformar-si in un Grande Fratello. Non sarà facile. Ma forse solo lei è la commissaria giusta al posto giusto. 1

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La ceca Věra Jourová è vicepresidente della Commisione europea e commissaria Ue per i valori e la trasparenza

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Il 2021 dimostrerà se Monsieur le President ha davvero abilità politiche all’altezza delle sue parole. E se è capace di non giocare sempre da solo

«Think-tanker in chief», così a novembre 2020 la ri-vista di Politico.eu descriveva Emmanuel Macron e la sua politica estera, giudicata in modo severo a causa della discrepanza tra le ambizioni e i ri-sultati raggiunti.

Il 2021 sarà l’ultimo anno utile, prima delle ele-zioni presidenziali, per recuperare alcuni dossier di grande importanza per Parigi e provare a risponde-re alle critiche della stampa, di alcuni centri studi e, in parte, anche degli alleati europei.

Macron è riuscito a rimettere la Francia al cen-tro del dibattito globale e a presentarsi come un leader capace di influenzare tutti i dossier di poli-tica estera. Questo è indubbiamente un suo meri-to, tuttavia non sempre accompagnato da grandi successi diplomatici.

Il presidente francese aveva investito molto sul rapporto personale con Donald Trump per provare a trovare dei punti di incontro su dossier dove le differenze erano profonde: l’accordo sul nucleare iraniano, l’impegno in Siria, la salvaguardia del multilateralismo e delle relazioni commerciali tra Stati Uniti e Unione europea. A

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“Think-tanker in chief”: così Politico.eu

(nel novembre 2020) ha definito il

presidente francese Emmanuel Macron

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Difficile sostenere che Parigi abbia ottenuto granché, e anzi la relazione tra i due presidenti, ottima a inizio mandato, si è presto deteriorata, diventando molto fredda negli ultimi mesi.

Per Macron il cambio di Amministrazione negli Stati Uniti è un’occasione: avere alla Casa Bianca un alleato più prevedibile rassicura Parigi, vista la centralità della relazione con Washington per un’efficace politica estera e in particolare per defi-nire il rapporto con la Cina. Bruno Tertrais, vicedi-rettore della Fondation pour la recherche stratég-ique, spiega che sarà importante, nei primi mesi del prossimo anno, «trovare un equilibrio tra l’al-leanza totale con gli Stati Uniti e il bisogno di indi-pendenza dell’Europa. È evidente che il cambio di Amministrazione dominerà i primi mesi del 2021».

Anche la gestione della Brexit è un fascicolo im-portante sulla scrivania dell’Eliseo. Il rapporto tra Francia e Regno Unito è profondissimo, per l’im-portanza della cooperazione militare e soprattutto perché i due Paesi condividono la frontiera maritti-ma (e anche terrestre, se si considera l’eurotunnel): l’adattamento a un’Inghilterra libera dai vincoli europei è una priorità per concentrarsi sul futuro della relazione anglofrancese.

Parigi e Londra sono legate da un comune desti-no nella Difesa, specialmente in ambito nucleare, e non considerano «alcuna situazione in cui gli interessi vitali di uno possano essere minacciati senza che lo siano anche quelli dell’altro», come si legge negli accordi di Lancaster House firmati il 2 novembre 2010. Il rilancio della spesa milita-re annunciato da Boris Johnson a novembre 2020 è stato accolto con sorpresa ma con soddisfazio-ne da Parigi, che non vede in teoria contrasti tra l’alleanza con Londra e l’appartenenza all’Unione europea. Il 2021 dirà se questo assunto resiste alla reale separazione.

L’adozione del Recovery Fund e la gestione di fondi comuni per il rilancio dei Paesi europei è attribuibile in gran parte al volontarismo france-se e per Macron sarà uno dei fattori chiave per la rielezione.

Se affrontare gli effetti economici della pande-mia sarà la questione dominante dell’anno pros-simo, il rischio per Parigi è che i grandi passi in avanti nella cooperazione europea subiscano una battuta d’arresto a causa delle elezioni tedesche.

Il processo elettorale della Repubblica federale è lento e i risultati sono spesso seguiti da una lunga fase di trattative per la formazione del governo, che per la prima volta da 15 anni non sarà guidato, a meno di colpi di scena, da Angela Merkel.

Emmanuel Macron dovrà cercare, per quanto possibile, di tenere in piedi l’asse con Berlino, an-che se, come sottolinea Thomas Gomart, direttore dell’Institut français des relations internationales, non è soltanto la Francia ad aver bisogno della Ger-mania, che «supererà il Covid-19 meno indebolita rispetto a Francia e Italia, con cui lo scarto econo-mico si accentuerà. I tedeschi devono cercare un modo per tenere insieme la volontà di rinsaldare la relazione transatlantica e la necessità di rima-nere presenti sul mercato cinese. Sta diventando evidente come il sistema di alleanze militari con-dizioni il rapporto con la tecnologia e l’apertura della propria economia. Alla luce di questo l’asse franco-tedesco sarà importantissimo anche per la Germania».

Le due capitali dovranno trovare un punto di incontro per tenere insieme l’impegno di Parigi nella difesa delle rotte commerciali nel Pacifico, per esempio con il supporto logistico di Berlino, e la necessità dei tedeschi di non trovarsi troppo esposti davanti a possibili ritorsioni cinesi: questa differenza è stata evidente nella presa di coscien-za, molto più lenta a Berlino che a Parigi, del pe-ricolo rappresentato da Pechino in un settore ad alta tecnologia come il 5G. La sfida di Macron è riuscire a difendere un approccio complementare su queste questioni.

Naturalmente non tutto dipenderà dalle azioni del presidente francese. E però provare a temperare l’atteggiamento bonapartista, la tendenza a gioca-re da solo, avventurandosi in progetti, dichiarazio-ni e azioni unilaterali con la convinzione che poi, per forza di cose, gli alleati seguiranno è un buon modo per ottenere di più sui dossier internazionali.

Riuscire a dominare questo tratto, avere fortu-na con le elezioni tedesche, chiudere il capitolo Brexit e tessere una relazione profonda con Joe Biden: questi elementi costituirebbero un ottimo trampolino di lancio per la campagna elettorale del 2022. Anche perché, visto il suo profilo divisivo in politica interna, l’unico modo per incarnare l’unità dei francesi è riuscire a rappresentarli nel mondo.A

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La diffusione della pandemia globale causata dal virus Co-vid-19, comparso a inizio 2020 e propagatosi rapidamente su scala mondiale, ha stravolto il contesto macroeconomico globale. Lo shock simultaneo di domanda e offerta – conse-guente alle misure restrittive adottate da numerosi governi per contrastare e contenere il contagio – e l’elevata incertez-za legata all’evoluzione della pandemia stessa, hanno avuto un forte impatto sulle decisioni di consumo e di investimento delle famiglie e delle imprese e sugli scambi commerciali, de-terminando una profonda re-cessione del Prodotto interno lordo mondiale nel 2020 (-4,2 per cento, secondo le previsioni di Oxford Economics, in linea

con le ultime stime del Fondo monetario internazionale).

La recrudescenza dei con-tagi in autunno ha inevitabil-mente implicato il ripristino di lockdown – seppur parzia-li e meno stringenti rispetto a quelli imposti nella prima on-data. Ciò nonostante, le previ-sioni del Consensus (e cioè la media delle previsioni prodot-te dagli analisti finanziari, ndr) per il 2021 continuano a punta-re a un rimbalzo robusto dell’at-tività economica globale (+5 per cento circa). Lo scenario di pre-visione base, ovvero quello a maggiore probabilità di acca-dimento, proietta infatti una ripresa a V con un pieno recu-pero di quanto perso nel 2020 – sia nelle economie avanzate sia in quelle emergenti, seppur con

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intensità eterogenee tra le varie aree geografiche.

Le relazioni commerciali – già messe a dura prova da un contesto globale fragile, a causa delle tensioni protezionistiche ereditate dagli anni preceden-ti, e ulteriormente condizionate dall’insorgere della pandemia – riprenderanno vigore, sostenu-te anche dal ritorno di un ap-proccio costruttivo e multila-terale promosso dal neo-eletto presidente degli Stati Uniti, Joe Biden.

In questo scenario, si atten-de che il volume del commercio internazionale di beni torni ad accelerare nel 2021, con un re-cupero pressoché completo (+7 per cento, rispetto al -7,3 per cento stimato per il 2020). An-che il valore dell’export italiano, secondo le previsioni del “Rap-porto Export” di SACE presen-tato lo scorso 10 settembre, tor-nerà a crescere a un ritmo del 9,3 per cento il prossimo anno. Tale crescita sarà possibile gra-zie all’effetto traino degli scam-bi internazionali e per un rim-balzo statistico rispetto al -11,3 per cento stimato per il 2020 e in linea con i dati disponibili per i primi 9 mesi.

Sebbene i rischi al ribasso ri-mangano significativi, le recen-ti notizie sui progressi scientifi-ci nella ricerca di vaccini contro il Covid-19 rappresentano inve-

ce un fattore di rischio al rialzo, in grado di ridurre l’incertezza sul futuro e incidere sulla com-ponente di aspettative che con-corre alle decisioni di domanda.

Nonostante la presenza di fattori mitiganti, in particola-re per il breve periodo, il lasci-to della crisi da Covid-19 è de-stinato a perdurare e rimarrà profondo per l’economia mon-diale, con un marcato aumento del debito da parte dei governi nazionali e delle proprie impre-se, sia nelle economie sviluppa-te sia nei mercati emergenti, a detrimento del merito di credi-to degli stessi.

Oltre all’aspetto prettamen-te economico, bisognerà valu-tare anche l’impatto della cri-si sulla stabilità politica e l’ac-countability dei governi. Il clima di incertezza ha rafforzato il po-pulismo, dando nuova linfa ad atteggiamenti protezionistici in campo commerciale e sovrani-sti in campo politico. Se in Pa-esi più maturi questa tendenza ha portato a un inasprimento del dibattito politico intra-na-zionale, in alcune geografie emergenti si è assistito al con-solidamento di assetti politici autocratici.

Queste criticità socio-politi-che si alimentano anche dell’at-tuale debolezza dell’approccio multilaterale alla politica inter-nazionale, la cui crisi, avviata in

ambito commerciale già negli anni 2000, è stata accentuata dalla più recente “guerra tarif-faria” tra Stati Uniti e Cina. Oggi più che mai, la cooperazione in-ternazionale e il rafforzamento dell’approccio multilaterale sa-ranno fondamentali per supe-rare gli effetti della crisi provo-cata dal Covid-19. Un sistema libero, aperto e basato su rego-le incentiva le riforme, favori-sce l’accesso ai mercati globali e rappresenta un terreno di ri-soluzione delle dispute. Inoltre, tale approccio può incoraggiare una maggiore trasparenza delle politiche nazionali, riducendo l’incertezza e favorendo com-mercio e investimenti esteri.

Già in passato è stato dimo-strato come un ordine globale, condiviso e supportato da tut-ti sia necessario e vantaggioso per tutti i Paesi. L’Unione euro-pea, che in questa fase di stallo del multilateralismo si è sem-pre fatta promotrice dell’aper-tura, rappresenta il candidato ideale per guidare il processo di riforma della governance dell’Organizzazione mondiale del commercio, come sottoline-ato recentemente dalla stessa presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Da questo punto di vista l’Italia potrà giocare un ruolo cruciale per l’Unione in virtù della pre-sidenza del G20 nel 2021.

La cooperazione internazionale e il rafforzamento dell’approccio multilaterale, soprattutto nell’ambito del commercio, saranno

determinanti per superare la crisi. E nessuno meglio dell’Unione europea potrebbe guidare la “riapertura” del mondo

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BRIl 31 gennaio la Gran Bretagna ha formalmente lasciato l’Unione europea dopo averne fatto parte per quasi 50 anni.

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Quattro anni dopo il referen-dum sulla Brexit, comprendia-mo ancora il significato di que-sta simpatica parola composta? La “EXIT” della Gran “BR”eta-gna dall’Unione europea, che alla fine è avvenuta il 31 gen-naio del 2020, è stata descritta come un barcollare all’indietro verso il nazionalismo, come un assalto luddista al sogno pro-gressista del globalismo. In che modo dobbiamo quindi consi-derare gli ideali di centralizza-zione e di federalismo ora che il mondo è stato alterato per sempre dal Coronavirus – una forza veramente globale, che è, in qualche modo, sia arcana sia futuristica, sia universale sia microbica?

Le spaccature culturali che il referendum del 2016 aveva fat-to venire alla luce si sono rapi-damente rimarginate quando all’inizio dell’anno si è diffusa la nebbia del Covid. Di fronte a questa minaccia, l’NHS – il Servizio sanitario nazionale in-glese, che è (beccatevi questa!) gratuito – è diventato un idolo matriarcale de facto, rappresen-tando una nuova unità nazio-nale con tutta la regale femmi-nilità della Regina Vittoria o di una delle due Elisabette. In quello che avrebbe potuto sem-

Il Regno Unito ha lasciato l’Unione europea nel 2020, non sapendo bene a che cosa andava incontro, spiega l’attore britannico Russell Brand

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Russell Brand è un comico, attore, scrittore e militante politico britannico

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brare una sorta di lezioso ritua-le orwelliano, le persone, ogni giovedì alle 8 di sera, hanno iniziato a uscire tutte insieme davanti alla soglia di casa o sui balconi per applaudire il per-sonale sanitario della nazione in una esibizione di solidarietà disorganizzata e stramba, ma animata da buone intenzioni.

Il manifestarsi di queste ce-rimonie strappalacrime si è poi affievolito quando in maggio è stato scoperto che cosa aveva fatto, poco tempo prima, Do-minic Cummings – uomo del primo ministro Boris Johnson con la “rossa mano destra” (il riferimento è a un verso del Pa-radiso perduto di John Milton che allude al pugno vendica-tore di Dio, ndr), nonché prin-cipale architetto della campa-gna “Vote Leave”. Cummings e la moglie, malati di Covid-19, si erano spostati per centinaia di miglia verso il Nord dell’In-ghilterra per visitare la fattoria della famiglia di lui. Al tempo del viaggio in macchina della coppia che li ha condotti da Londra verso Nord, e cioè alla fine di marzo, la gran parte del-la popolazione britannica stava osservando con zelo religioso la severa quarantena nazionale.

In reazione a queste rivela-

zioni, il vecchio virus delle po-lemiche intorno alla Brexit è riapparso con un rinnovato vi-gore: per chi aveva votato “Re-main”, la condanna di Cum-mings costituiva una faccenda di rilevanza nazionale, chi ave-va votato “Leave” era meno in-teressato alla questione. Una cosa sulla quale eravamo tutti d’accordo è che non avremmo più preso così seriamente le re-gole relative al lockdown.

«La geografia è destino», pare abbia detto Napoleone, l’antico arcinemico della Gran Bretagna. E infatti una cosa della Gran Bretagna che è dif-ficile ignorare è il fatto che sia un’isola. Dal momento che il Paese non è fisicamente colle-gato alla terraferma europea, tutti i legami con il Continen-te possono essere soltanto con-cettuali. E questi legami sono stati spesso un po’ tesi. C’è vo-luto un tempo maledettamen-te lungo per procedere con l’i-dea di una galleria sottomarina tra l’Inghilterra e la Francia. E, una volta che finalmente, alla fine degli anni Ottanta, fu av-viata la costruzione del tunnel sotto la Manica, il progetto fu afflitto da molti problemi che ora è facile vedere come delle manifestazioni di un inconscio

desiderio di preservare il fossa-to naturale che divide i due Pa-esi e che è mantenuto da una reciproca inimicizia.

L’opposizione a un potere esterno europeo è un tema ri-corrente nella mitologia bri-tannica, con tutti i suoi assedi, le sue invasioni, le sue nobi-li sconfitte e le sue rancorose collaborazioni. D’altro canto, il conflitto interno alla nazione è stato storicamente sublimato dal nostro efficiente e restrit-tivo sistema per classi. Per lun-go tempo gli inglesi, come po-polo, non si sono scontrati tra loro con altrettanto disprezzo e altrettanta ferocia di quelli che hanno mostrato durante il dramma della Brexit. Certo, nel lontano 1649 il re Carlo I fu decapitato, ma è stato solo per ridere: undici anni dopo abbia-mo reinsediato suo figlio sul trono e probabilmente, essen-do inglesi, ci siamo scusati sen-za riserve per il disagio causato.

Di norma noi non facciamo rivoluzioni e, se le facciamo, di sicuro queste rivoluzioni non redistribuiscono in modo radi-cale il potere, ma lo consolida-no. La Rivolta dei contadini del 1381 finì con la decapitazione del suo leader. La Gloriosa rivo-luzione del 1688 non fece altro

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che concedere il potere ad ari-stocratici stranieri che crede-vano in Gesù in un modo solo leggermente diverso da quello degli aristocratici locali. E la Rivoluzione industriale sempli-cemente meccanizzò lo sfrutta-mento della working class. La nostra cultura stratificata tiene ciascuno di noi all’interno del suo recinto. Se, a prima vista, il referendum sulla Brexit offriva agli elettori una semplice scel-ta binaria tra il rimanere nell’U-nione europea e il lasciarla, in realtà è stato visto come qual-cosa di più: l’opportunità di vo-tare per l’establishment o fargli il dito medio.

Questa lettura non troppo sofisticata del problematico re-ferendum è stata resa più facile dal fatto che in Gran Bretagna era già stata smantellata una reale rappresentazione politi-ca della gente comune, in par-ticolare attraverso il riposizio-namento del Partito laburista, negli anni Novanta con Tony Blair, in una specie di partito neoliberale ed “establishmen-tofilo”. In quegli anni l’obiet-tivo della sinistra britannica si spostò dal perseguimento dell’uguaglianza economica a favore della working class verso una specie di ottimismo per-formativo e vacuo che masche-rava una capitolazione davanti al conservatorismo economico.

Sono convinto che, sulla scia di questo tradimento, un nostalgico desiderio di equità diffuso nella working class ab-bia condotto al risorgere del nazionalismo – e, alla fine, al supporto alla Brexit. I partiti fondati per rappresentare i la-

voratori li invitavano a mettere da parte quelle bandiere e quel-le icone dell’inglesitudine che storicamente erano state utiliz-zate (per quanto cinicamente) per ispirare il loro sacrificio – e questo è, in parte, il motivo per cui la campagna per il Remain ha fallito. Il focalizzarsi del La-bour sull’uguaglianza cultu-rale più che sull’uguaglianza economica significava che per la working class non c’era altro posto dove andare se non fra le braccia dei Brexiteers.

Io, che sono a mia volta un prodotto dell’Inghilterra ope-raia, non credo che queste persone siano intolleranti e arretrate, come vengono abi-tualmente dipinte da chi le de-monizza. Io penso che queste sappiano solo di essere state pugnalate alle spalle. Dal mo-mento che oggi la politica si basa quasi soltanto su opinioni

– e cioè sulle cose che dici più che sulle cose che fai – l’emer-gere di piattaforme globali di comunicazione online ha for-nito un formidabile birrificio digitale in cui il malcontento e le divisioni possono orribil-mente fermentare. Giudizi, fra-si violente e odio possono esse-re inviati con fredda e solitaria sicurezza.

Questa pandemia, insieme con l’emergere di una fram-mentazione sociale di cui la Gran Bretagna post Brexit è un chiaro esempio, mostra che non possiamo più vivere in si-stemi centralizzati che, siano essi grottescamente populisti o abbiano invece una natura liberal-tecnocratica, hanno il solo obiettivo di proteggere le

Il focalizzarsi del Labour sull’uguaglianza culturale più che sull’uguaglianza economica ha convinto la working class ad andare tra le braccia dei Brexiteers

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gerarchie e di servire chi sta al loro vertice. Entrambi sono il chiaro segnale che c’è bisogno di reali alternative politiche e di un vero cambiamento, non di quei superficiali aggiusta-menti cosmetici che sono l’u-nica cosa che la democrazia bi-partisan è in grado di fare.

Forse anche prima del vi-

rus, prima della Brexit, siamo già stati tutti in quarantena nel nostro nudo individualismo – un isolamento molto più tos-sico. Eravamo lì, incarcerati e soli nella prigione delle nostre identità provvisorie senza nes-suna fiducia e senza nessun interesse al di là dell’effimero soddisfacimento dei nostri ca-

pricciosi desideri. Questa è la divisione che il popolo britan-nico deve superare perché ci possa mai essere un qualche vero senso di unità tra noi: in definitiva, dobbiamo decidere se lasciare l’isola del sé o se ri-manerci intrappolati dentro.

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Senza oceano, non c’è vita. Essendo io un Cousteau, questo messaggio ce l’ho praticamente inscritto nel mio Dna. È un messaggio che ho cercato di condividere con il mondo negli anni che ho passato come portavoce della causa ambientalista. Purtroppo, visto il pessimo stato in cui versano oggi i nostri oceani è chiaro che il messaggio non ha raggiunto molte persone. Ora che riflettiamo sul 2020 – uno degli anni più difficili che si ricordi, sia dal punto di vista sociale che scientifico – e cerchiamo nuove strade per andare avanti, diventa

fondamentale che tutti capiscano questo semplice fatto: senza un oceano in salute non avremo un futuro in salute. Molti di noi conoscono, per averle vissute, la bellezza e la magia degli oceani. Eppure è molto meno compreso quanto essi siano legati alla nostra vita quotidiana: è l’oceano che ci dà l’ossigeno che respiriamo e che nutre i raccolti che mangiamo.

Ho accettato la sfida (e il privilegio) di passare 31 giorni ininterrotti in un habitat subacqueo, espe-rienza che mi ha regalato una prospettiva unica per

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La diffusione del virus e le sue conseguenze sociali ed economiche hanno portato a una sensibile riduzione delle emissioni di anidride carbonica,

ma nel 2021 dobbiamo cominciare a intraprendere i passi radicali necessari per proteggere il nostro ecosistema, naturalmente affidandoci

alla scienza e al potere dell’ingegno umano

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delle microplastiche, anzi li ingeriamo quando mangiamo cibo proveniente dal mare, così come non riusciamo a vedere i droplet emessi durante la respirazione, quelli che trasportano il Coronavi-rus passando di persona in persona. Questo con-tribuisce a rendere le due minacce all’apparenza insuperabili.

Ma non siamo soli in questa battaglia. Nessu-no di noi è naturalmente immune al virus, o agli effetti dell’inquinamento e del cambiamento cli-matico. E se agiamo in modo collettivo possiamo creare un vero cambiamento.

Le azioni di ogni giorno, all’apparenza piccole, possono aiutarci a combattere sia il virus che l’in-quinamento. Per esempio, indossare una masche-rina lavabile e riutilizzabile è un buon modo per proteggere la salute di chi ti sta vicino e, al tempo stesso, assicurarsi che meno plastica vada a finire nell’oceano. Per proteggere ancora di più fiumi e canali, dovremmo evitare di comprare beni di con-sumo avvolti nella plastica, azione che a sua volta ridurrà la domanda per questi prodotti.

Viviamo in un sistema a circuito chiuso. Non possiamo davvero buttare “via” le cose. La plastica che lasciamo nella spazzatura finisce spesso nei corpi di animali marini. e poi trova la strada che la riporta in mezzo a noi.

Come mio nonno Jacques-Yves Cousteau, sono convinto che noi proteggiamo ciò che amiamo e amiamo ciò che capiamo. Siamo in grado di dare una stima della grandezza della crisi del Coro-navirus e di quella climatica soltanto se imparia-mo le lezioni della scienza, compresa una verità sgradevole: se aspettiamo troppo, ci dobbiamo aspettare nuove devastazioni. Dobbiamo capire che stare dalla parte della natura significa stare dalla parte dell’umanità.

Ora più che mai ci serve speranza. Ma non dob-biamo limitarci ad aspettarla: dobbiamo crearla.

Il mio modo per andare incontro a un futuro più aperto alla speranza – e contribuire agli sfor-zi di chi cerca soluzioni agli incalzanti problemi con cui ci confrontiamo – è la creazione di Proteo, un nuovo habitat subacqueo, che è anche la più avanzata stazione di ricerca del mondo sott’ac-qua. Il primo elemento di quello che diventerà un network si troverà nel mare dei Caraibi, a circa 18 metri sotto la superficie, al largo dell’isola di

cogliere il valore intrinseco dell’oceano come si-stema di supporto fondamentale alla vita. A essere sinceri, per parafrasare Arthur C. Clarke, sarebbe più appropriato chiamare il nostro pianeta Oceano, non Terra. Senza l’acqua, la Terra sarebbe soltanto uno dei miliardi di granelli di pietra che vagano nel vuoto nero come inchiostro dello spazio.

Come facciamo a cambiare la nostra visione dell’Oceano e a comprendere il suo legame con il pianeta? Si può cominciare, ad esempio, studian-do la lezione del 2020. Il Coronavirus ha provocato grandi sofferenze e tragedie, ma ha anche portato alla luce alcune delle strutture invisibili alla base della nostra vita di tutti i giorni, dall’ingiustizia razziale alle estreme disparità nella distribuzione della ricchezza, tutte cose che gravano sulle nostre comunità. Si tratta di realtà che per alcuni sono sempre state evidenti, ma a molti di noi è stato necessario, per aprire gli occhi, il cambiamento epocale provocato dal Coronavirus.

La pandemia è servita anche a ricordarci la bel-lezza della natura. Quando a primavera il Covid-19 si era diffuso in tutto il pianeta, obbligando un Paese dopo l’altro a mettere in atto rigide misure di lockdown, abbiamo visto il mondo della natu-ra tornare ad affermarsi in poco tempo. I canali fangosi di Venezia sono diventati più limpidi. Lo smog sulle colline di Hollywood si è dissipato. Le automobili sono scomparse dalle strade e tutto ciò ha portato a un crollo significativo, anche se temporaneo, delle emissioni di anidride carbonica. Tutti questi sviluppi erano incoraggianti, sugge-rivano che era possibile un cambiamento impo-nente e che, dopo tutto, ci fosse speranza per un futuro più verde.

Eppure, con il protrarsi della pandemia, è esploso anche il consumo di plastica. Le borse della spesa e i guanti in lattice hanno comincia-to a riempire i nostri cestini della spazzatura. Le mascherine hanno preso a scivolare nei canali di scolo delle strade e a finire nei corsi d’acqua, rive-landosi un potenziale pericolo per la vita marina. Che lo comprendiamo o meno, i rifiuti di plastica stanno soffocando la vita del nostro ecosistema.

L’inquinamento ambientale e la pandemia con-dividono un tratto inquietante: i meccanismi e i processi che li muovono sono in gran parte in-visibili all’occhio umano. Non vediamo i residui

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Curaçao. Sarà, in sostanza, una sorta di stazione spaziale per l’esplorazione degli oceani, che per-metterà a scienziati e osservatori da tutto il mon-do di vivere sottacqua senza sosta per settimane o, potenzialmente, mesi.

In quel periodo studieranno (e risolveranno) i misteri degli oceani. È un mondo, quello subac-queo, di cui finora abbiamo esplorato solo il 5 per cento. C’è una necessità urgente – e una op-portunità ideale – di comprendere meglio come questi influiscano sul cambiamento climatico e cosa possano insegnarci sull’energia pulita e la sostenibilità alimentare.

E, certo, c’è anche la loro spettacolare biodi-versità. Quali possibili svolte per la medicina po-tranno derivare dalla scoperta di nuove specie, per esempio?

Il primo habitat Proteus, il cui completamento è programmato per il 2023, comprenderà anche uno studio di produzione video, per permettere a milioni di persone in tutto il mondo di vivere le meraviglie della vita subacquea. Attraverso que-sto programma saranno sempre di più coloro che comprenderanno il potere del nostro semplice messaggio: senza oceano, non c’è vita.

Ogni giorno che passa senza nuove soluzioni alla crisi climatica ci avvicina al momento in cui altre specie animali moriranno a causa delle de-vastazioni scatenate da un pianeta che si surri-scalda. Il cambiamento climatico non rallenterà solo per permettere alle nostre priorità di recu-perare terreno.

Però mantengo la speranza. Una stazione di ricerca come Proteo è essenziale per la protezio-ne delle nostre acque e per assicurarci il futuro. Credo che l’ambiente marino contenga, perché no?, combinazioni naturali che potrebbero aiutar-ci ad affrontare questa pandemia, o la prossima.

Nella storia, nei momenti di massima crisi, l’u-manità si è ritrovata per condividere le idee, mette-re in piedi soluzioni radicali e cercare nuovi modi per sopravvivere. Ora è il momento di intrapren-dere azioni simili. Se guardiamo al 2021, e anche oltre, dobbiamo intraprendere i passi necessari per proteggere i nostri oceani, affidandoci alla scienza e al potere dell’ingegno umano. Le nostre vite dipendono da questo.

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seguenti, Belterra e Campo Verde

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L ’ U O M OUna delle più imponenti illuminazioni che ho derivato dalla fortuna delle tante chiacchierate fatte con l’amico Patch Adams (l’originale e non il personaggio del famoso film interpretato da Robin Williams), nasce dalla sua convinzione che se si cura una malattia, si può vincere o per-dere; ma se si cura una persona, si vince sempre, qualunque sia l’esito della terapia.

Non è dunque solo il “fattore cura” la chiave risolutiva per qualsiasi contesto di crisi e di in-certezza come quella in cui ci ritroviamo adesso; se essa non pone l’uomo al centro della propria vocazione, avrà un risultato giocoforza parziale e insufficiente per una risposta d’insieme.

Se indossiamo questa lente, l’osservazione del processo evolutivo che avrà il mondo nei prossimi 3 anni, per via della forte accelerazione data dalla tecnologia, dal digitale e dalla auto-mazione, avverrà in un’ottica controcorrente, e i dati delle importanti ricerche condotte a livello globale, appariranno in una luce differente. Di sicuro i prossimi anni registreranno la scom-parsa di 75 milioni di posti di lavoro che sono diventati obsoleti perché sostituiti dalle mac-chine. Contemporaneamente però, assisteremo A

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Nei prossimi anni spariranno milioni di posti di lavoro obsoleti. Ma se, invece di

spaventarci, comprendessimo che la chiave di volta per affrontare questa sfida è

l’azione individuale vedremmo quante occasioni ci sta già

offrendo il futuro

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sione del sentiment generale come la diretta con-seguenza della pandemia e, per comodità, rite-nere che tra poco, passata la tempesta, tutto alla fine tornerà come prima. Ma è ancora possibile rimandare la vera domanda che dobbiamo por-re a noi stessi? E cioè, le nostre idee sul mondo sono frutto di una lettura analitica della realtà oppure di pura e semplice percezione?

Una lettura analitica ci direbbe che solo in Italia nei prossimi tre anni ci sarà bisogno di coprire 400mila posti nel comparto della sani-tà e dell’assistenza sociosanitaria. Già si vedono emergere anche alcune nuove figure professio-nali, come gli educatori sanitari che hanno l’o-biettivo di formare e informare le persone sui rischi per la salute e sulle relative prevenzioni.

Ci direbbe che a fronte di un 81,8% di italia-ni che si sentono preoccupati per il futuro del mondo, anche per i tanti problemi legati all’am-biente come l’inquinamento di aria, acqua e suolo (che preoccupa il 56,3%), quello dei mari per via della plastica, dei rifiuti e del petrolio (il 52,5%), il surriscaldamento della Terra con il conseguente scioglimento dei ghiacciai (il 53%), i disastri ambientali (il 48,4%), in questo nostro

alla nascita di 133 milioni di nuove opportunità occupazionali. Solo in Italia si stima che ci sarà bisogno di 2,5 milioni di occupati in più.

Uno degli aspetti principali di questa pro-spettiva ci racconta che gli individui potranno sempre più ambire a svolgere attività qualitati-vamente evolute, con una intuibile ricaduta po-sitiva sulla qualità della vita intellettuale, psico-logica e perché no, anche economica. Mestieri e saperi in larga parte ancora in divenire e che, in virtù della loro condizione ancora non codifi-cata, siamo umanamente incapaci di registrare come dato di fatto. La qual cosa li rende a tutti gli effetti inesistenti ai più. È una questione di percezione.

Ancora un esempio: solo un anno fa, nel no-vembre 2019, secondo un’indagine condotta per Flowe, società di cui sono presidente, gli italia-ni di età compresa tra i 18 e i 65 anni, pensava-no che lo scenario generale fosse positivo per il 54%, che fosse molto positivo per il 17,8%. I ne-gativi invece erano il 9,8%. Oggi, i negativi sono saliti al 21,5% e solo il 10% ritiene che stia an-dando tutto bene.

Sarebbe molto facile archiviare questa inver-

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re il problema (34,4%). Anche in questo caso è una questione di approccio: si cerca una cura alla malattia e non all’uomo, sbagliando, per-ché contrariamente a quanto gli italiani riten-gono, l’azione individuale è in realtà la chiave di volta di questa materia. Chi individualmen-te attiva percorsi di educazione e di formazione continua lungo l’arco dell’intera vita, cambia natura all’argomento e non lo vede come “pro-blema disoccupazione” ma come occasione di crescita professionale e prima ancora persona-le. E non ci sono alibi legati all’età o alla pro-venienza che tengano; è dimostrato che se ben gestita la convivenza lavorativa delle diversità di Baby Boomers, Millennials, Generazione X e Z nelle aziende, favorisce quell’innovazione che equivale all’elisir di lunga vita. Le aziende più visionarie, che secondo uno studio della società di consulenza PWC sono al momento circa l’8%, stanno adottando programmi specifici per valo-rizzare questo concentrato di diversità genera-zionale, forti della dimostrazione, ottenuta sia da molte ricerche sia da esperienze sul campo, che i team eterogenei portano valore e fanno crescere il fatturato.

futuro prossimo è già manifesto il bisognoso di professionalità che si occupino di ambiente, di green, di ecosostenibilità. I lavoratori ricercati dalle imprese italiane per cogliere al meglio le opportunità offerte dalla green economy vanno dalle 480mila alle 600mila unità nei prossimi 3 anni.

Ci direbbe che all’orizzonte ci sono anche 200mila opportunità nel settore dell’istruzione e dei servizi formativi, e non solo, poiché, come abbiamo già detto, l’evoluzione che stiamo vi-vendo e che arriva a lambire ogni piega con cui si tessono le nostre esistenze, dall’assetto socia-le al modello economico, dalle capacità cogni-tive a quelle affettive, relazionali, e di comuni-cazione, è frutto dell’accelerazione tecnologica che sarà proprio la fucina di tutti quei lavori ai quali ancora non sappiamo dare un nome.

Tornando alla ricerca poc’anzi citata, per i nostri connazionali le entità chiamate a risol-vere il problema della disoccupazione sono i singoli governi (lo pensa il 78,8%). Ritengono importante anche l’apporto delle singole azien-de (75,3%), invece pensano che a livello indi-viduale non si possa fare molto per contrasta-

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L ALa pandemia in corso impone un ripensamento del model-lo economico corrente per raf-forzare la riflessione sui profili ambientali e sociali venuta in ri-lievo nella sua imprescindibile centralità. Ha anche reso lam-pante una massiccia necessità di intervento sui punti noda-li delle grandi città, come il si-stema sanitario, che nell’emer-genza ha accusato i suoi limiti, le infrastrutture digitali, il tra-sporto urbano, il sistema scola-stico, riorganizzato virtualmen-te in tempi ristretti. Allo stesso tempo, nel passaggio forzato a una situazione di distanzia-mento sociale, abbiamo perce-pito come una comunità meno congestionata, con meno traffi-co e un lavoro organizzato sul-

le esigenze delle persone, offra segnali inequivocabili su come ridefinire le comunità nel futu-ro, con uno slancio nuovo verso la personalizzazione del profi-lo lavorativo e la tutela dell’am-biente.

La connessione tra un’azien-da elettrica e le città è inevita-bile. Enel distribuisce energia elettrica in molte aree metro-politane nel mondo e non può eludere il tema del migliora-mento dell’operatività cittadi-na e della qualità della vita in una comunità urbanizzata. Te-nendo in considerazione il ruo-lo centrale che svolgono nell’e-conomia globale, le città sono il luogo in cui si manifestano con la massima intensità le contrad-dizioni del nostro modo di vi-

vere. Se riuscissimo a sciogliere anche in parte tali incongruen-ze, l’impatto sul miglioramen-to sociale e ambientale sareb-be esponenziale. Le città infatti ospitano oggi oltre la metà della popolazione mondiale e gene-rano più dell’80 per cento della produzione economica globale. In tal senso, un cambio di para-digma, con l’introduzione nel-le comunità urbane di elementi di economia circolare, ovvero di risparmio e riutilizzo di risorse considerate di scarto in un’eco-nomia ad alto tasso consumi-stico, può essere la chiave. L’e-conomia circolare può portare incredibili benefici nelle aree urbane, perché utilizza l’inno-vazione per ridisegnare l’intero modello economico in modo

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Gli ambienti metropolitani, in cui vive più della metà della popolazione mondiale e si produce più dell’80 per cento della ricchezza, sono i laboratori ideali di

un modello economico competitivo ma anche sostenibile e green. Il presidente dell’Enel racconta come si sta

costruendo questo nuovo paradigma

di

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C I R C O L A R Eche sia competitivo perché so-stenibile. Essere veramente circolari significa sviluppare e condividere nuovi servizi, pro-lungare la vita utile dei prodot-ti, preservare e rigenerare valo-re sotto forma di energia e mate-riali, creare nuove opportunità di lavoro e stimolare la com-petitività e l’inclusione sociale, coinvolgendo in quest’opera di riassetto tutta la comunità. Un esempio per tutti, realizzare le colonnine di ricarica con mate-riale riciclabile. Significa avere le potenzialità per separare il modello economico dal consu-mo delle risorse.

Enel è fortemente impegnata nell’economia circolare, quale fattore fondamentale della stra-tegia aziendale. Stiamo rapida-mente procedendo alla decar-bonizzazione e i nostri obiettivi sono certificati su basi scientifi-che in linea con l’Accordo di Pa-rigi. Oltre a ciò, “siamo circolari” in tutto ciò che facciamo, dal-la produzione dei componenti, alla loro costruzione, gestione e chiusura del ciclo dei nostri im-pianti rinnovabili. Con questo stesso approccio ci rivolgiamo alle città, perché crediamo for-temente che sia possibile trova-

re soluzioni, anche sviluppando pratiche virtuose a livello locale, per affrontare problemi globa-li, usando gli ambienti metro-politani come laboratori per l’e-conomia circolare. Allo stesso tempo, sappiamo che non pos-siamo costruire un mondo più

“verde”, senza che le città svol-gano un ruolo determinante in questo processo.

A settembre scorso, Enel ha pubblicato la terza edizione del position paper, “Città circolari – Le città di domani”, preparato insieme ad altre aziende per fornire il più ampio spettro di conoscenze e punti di vista. Il position paper pone l’attenzio-ne su come realizzare e far fun-zionare pienamente una città circolare, attraverso il coinvol-gimento di tutti gli stakeholder in una visione di medio termi-ne che rappresenti chiaramente la città del futuro. Molte di que-ste condizioni necessarie per la circolarità sono ora a portata di mano.

In molte aree, le tecnologie necessarie per attuare questa transizione sono disponibili e competitive, esistono inoltre numerosi business case consoli-dati e operatori finanziari pron-

ti a sostenere iniziative concre-te Per accelerare il processo, un elemento chiave è certamente la collaborazione tra istituzioni, aziende e cittadini.

I progetti messi in campo dal nostro gruppo in diversi conti-nenti e contesti dimostrano che, nonostante le peculiarità di ogni città, la transizione ver-so il nuovo paradigma si basa su declinazioni concrete di una stessa visione, la cui realizzazio-ne potrà avere una portata glo-bale soltanto partendo dalle re-altà locali. Le città rappresenta-no infatti un cardine essenziale della risoluzione delle sfide glo-bali, perché i loro abitanti sono legati da un senso di apparte-nenza che li porta a essere più propensi a collaborare per una causa comune,

Da anni Enel è impegnata a contribuire, attraverso le pro-prie attività aziendali, alla tran-sizione verso un modello econo-mico incentrato sulla sostenibi-lità e, a tal fine, collabora con tutti gli stakeholder che condi-vidono la sua visione. Tutto ciò che facciamo, e che faremo per le città del futuro, è parte essen-ziale della nostra strategia e del nostro impegno.

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A suo tempo abbiamo preso dai padri il testimone della vita, e tenendolo saldo

abbiamo corso, visionari, coraggiosi e fiduciosi. E ora ecco che a nostra volta

consegniamo la nostra testimonianza ai figli dei nostri figli: un testimone,

universale, umanistico e armonioso, che ha un nome grande: dignità dell’uomo

A sinistra Particolare di “Mamma con bambino” (1624) di Cornelis de Vos

Nelle pagine seguenti Particolare di “Allegoria della pittura” (1658) di Elisabetta Sirani

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NOTE

UMANISTICHE

SULL’ANNO

DELLA

PANDEMIA

Dinanzi ai passati comuni pericoli, nella stagio-ne delle nostre pene, penso, ricordo; mi guardo indietro, mi sento un po’ come un naufrago che, uscito dal pericolo, si volge verso il passato incerto dove ha incontrato così vago dolore; però in esso vedo anche il bene che vi ho trovato, ed è quello che oggi per me è più importante, perché, ispi-rato dalla bella anima di Pavel Florenskij, volgo gli occhi in alto e in avanti, verso il cielo e verso il futuro, e di nuovo penso a un orizzonte di rina-scita fatto di ideali senza tempo, un domani fon-dato sulla dignità della persona umana, radioso per opportunità, con pensieri geniali, con visioni

coraggiose e profetiche, con azioni sagge, quasi un nuovo mondo, un mondo dove la fratellanza dei popoli non sarà più un’espressione, ma una cosa tangibile e quotidiana.

Nei giorni della pandemia il mio cuore ha pal-pitato più forte e più sensibile, e l’animo, preso dal timore e dalla speranza al tempo stesso, mi ha ispirato sentimenti e parole; scrissi in quei giorni alcune lettere, come un diario da fratello a fratello, lettere rivolte a ogni persona umana. La lettera di primavera parlava di rondini, e di navi-ganti: la pandemia era iniziata da poco, era marzo, e si sentiva lo smarrimento ma anche la fiducia S

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domani, vediamo la storia dell’uomo come divisa tra un passato ricco di umanesimo, un presente troppo spesso immemore dei valori, e un futuro che li vedrà nuovamente forti nel segno della di-gnità umana. Giambattista Vico, seppe gettare lo sguardo oltre le convenzioni, e ci ha lasciato, con la sua preveggenza geniale, il grande dono, l’idea dei Corsi e Ricorsi della storia; e secoli dopo di lui un’altra grande mente inconsueta, quella di Nietzsche, parlò di Eterno Ritorno.

Tra il xv e il xvi secolo Cina e India, con la loro economia mercantile, rappresentavano forse il cinquanta per cento del Pil del mondo, e dall’al-tra parte del pianeta, da Marco Polo nel Medioevo, alle grandi banche come il Monte dei Paschi di Siena, alla famiglia de’ Medici, l’Occidente era un possente mediatore culturale, con l’Italia in prima fila; tutti allora guardavano a noi con stima e ap-prezzamento, alla nostra arte, alla nostra scienza, alla nostra sapienza economica, creativa e vitale. Però poi le cose cambiarono: attorno agli anni Cinquanta dello scorso secolo Cina e India non rappresentavano che il dieci per cento del Pil dei popoli; e sono cambiate ancora perché oggi tali due nobili nazioni hanno ripreso a crescere, labo-riose come api, ferme nelle loro grandi tradizioni, amorose della loro millenaria cultura, profetiche nella loro attualità di fermento creativo che ogni giorno è nuovo. Così anche l’Occidente torna a vivere dei suoi geni, e l’Italia, fra i sette grandi Paesi economici del mondo, può ancora essere orgogliosa di sé, della sua abilità manifatturie-ra, benevolmente accolta, espressa in così tanti settori produttivi: nella moda, nell’arredamento, nella cucina, ma anche nella produzione del vino, e addirittura nella produzione di acciaio di alta qualità; una manifattura che ha ereditato dall’ar-tigianato le attitudini umanistiche tramandate di padre in figlio e la dignità che permette sempre il contatto diretto e naturale tra artefice e prodotto artificiato, vi trasferisce qualcosa del suo animo, e con la sua regola garantisce durata, proporzione, temperanza, bellezza.

Così imprevedibili nella creazione, anticon-venzionali, sentiamo in Italia il bisogno di lasciar cadere nell’ombra ogni semplice quotidianità e avvertiamo il bisogno di una grande e nuova vi-sione per il futuro; proprio per questo vedo con

verso i nostri governanti e verso le persone che, medici o infermieri, diventavano custodi premu-rosi delle nostre persone. Un mese dopo, quando sembrava che la parte più incerta della pandemia, in un’alternanza aleatoria, stesse per terminare, parlai, con una nuova lettera, del tempo nuovo; consideravo una crisi che non era strutturale ma contingente; pensavo al tempo delle nuove op-portunità, della crescita economica che sarebbe seguita, dei cambiamenti che avremmo accettato con fiducia e coraggio, e nelle limitazioni presen-ti mi dedicavo a restituire alle cose belle il loro valore; percepivo nuovamente nella loro sacralità la famiglia, le tradizioni, le cose quotidiane come il pane o l’acqua. Ancora dopo pensai al domani, alla mia discendenza, e scrissi una lettera ai ni-poti: ho sempre amato parlare ai bambini; volevo che un giorno sapessero che quando ci trovammo nelle difficoltà non voltammo la testa né rinun-ciammo, ma, con gli occhi diritti verso il futuro, seguitammo a tenere saldo il timone della dignità umana. Esortai i miei amatissimi nipoti a essere amabili, frugali, sinceri, solleciti verso il prossi-mo, solerti e creativi. E dicevo loro: «Il creato e tutto quello che ne fa parte deve essere sempre amato e custodito».

E proprio al Creato pensai con intelletto nuovo in quei giorni, quando erano tornati ancora a esse-re difficili; da sempre ho percepito il creato come il nostro paterno custode, ma ora sembrava che questo padre, dai rami del quale per millenni co-gliemmo i frutti più dorati che generosamente ci donava, fosse lui ora ad aver bisogno di noi, quasi cercasse il nostro aiuto; e ci parlava con la sua voce silenziosa e forte, quella delle foreste, dei ghiac-ciai, dei fiumi e dei mari sofferenti; e ricordando allora i grandi pensatori, da Platone ad Aristotele fino agli illuministi Hobbes e Locke, e infine Rous-seau, sognai come un nuovo contratto sociale con il Creato, desiderai che sorgesse l’alba di un patto inclusivo, non limitato alle persone umane, ma esteso al Creato con tutto quello che ne fa parte. Mi piaceva pensare che se armonia significa con-nessione, proporzione, accordo, tale armonia era alla nostra portata con un simile grande patto, e su tale tema scrissi un’ulteriore lettera, pensan-do al domani, al continuato volgere dei cambia-menti. Se pensiamo alla relazione tra ieri, oggi e

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chiarezza tre grandi temi per il domani: la tecno-logia, che i nostri giovani, con il loro bravi cuori, sapranno, ne sono certo, includere armonicamen-te con l’umanesimo; il ritorno alla riparazione e al riutilizzo, e anche qui i giovani saranno prota-gonisti, perché lasceranno per sempre la cultura dello scarto e del consumo che, non sempre bella, abbiamo seguito forse un po’ troppo negli ultimi tempi. Come terzo tema mi piace immaginare che proprio noi italiani, legittimati dalla storia e dalla nostra connaturata vocazione, osiamo, con qual-che timore, con gentilezza, proporci al mondo an-cora una volta quali mediatori culturali, fiduciosi di essere accolti con benevolenza, portatori di una cultura umanistica proficua e inclusiva.

Oggi è il tempo della speranza e della fiducia nel domani radioso, un domani dove tutti e cia-scuno, se lo vorranno, potranno vivere nei luoghi natii, e nessuno sarà costretto a guardare con tri-stezza la patria abbandonata; ognuno potrà vivere nei luoghi dove un’economia saggia porta a un duraturo e diffuso equilibrio tra profitto e dono, dove la sacralità del lavoro si armonizza con il be-nessere, e penso a William Morris, che connetteva nel lavoro arte, benessere e ricchezza e sognava un lavoro piacevole da fare, onorevole, nei luoghi belli, le case pulite e sane, le città piene di verde, a contatto con la bellezza che genera a sua volta la grazia di tutti i prodotti realizzati senza causa-re danno al creato.

Noi, siamo come dei naviganti, e abbiamo biso-gno che la nostra barca sia leggera, che il mare sia gentile, il vento a favore; scrutiamo costantemen-te l’orizzonte, che rappresenta il futuro, pensan-do ai giovani, che ne saranno protagonisti; a loro guardiamo, cercando la speranza e il perdono; essi si confronteranno con i grandi temi della tecno-logia, e sapranno utilizzare ogni utilità dell’intel-ligenza artificiale come ancella dell’intelligenza umana; a loro oggi chiediamo le idee geniali, i nuovi lavori che per noi sono inimmaginabili.

A suo tempo abbiamo preso dai padri il testi-mone della vita, e tenendolo saldo abbiamo corso, visionari, coraggiosi e fiduciosi; e ora ecco che a nostra volta consegniamo la nostra testimonianza ai figli dei nostri figli: un testimone, universale, umanistico e armonioso, che ha un nome grande: dignità dell’uomo.

I G I O V A N I S A P R A N N O U S A R E L ’ I N T E L L I G E N Z A A R T I F I C I A L E C O M E A N C E L L A D I Q U E L L A U M A N A : E A L O R O O G G I C H I E D I A M O I D E E G E N I A L I

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DEL COVID E DEL TROVARE CONSOLAZIONE NELL’ARTELe cose che mi sono mancate di più durante il lockdown sono stati i musei, le gallerie d’arte e il teatro: sono i punti più alti dell’esistenza.

Lo scorso inverno ho fatto un viaggio speciale a Vienna e ho visitato tre mostre che esibivano lavo-ri di tre grandi maestri: Jan van Eyck, Caravaggio and Albrecht Dürer. Con ciascuno dei loro dipinti, senza eccezione, ho percepito lo shock di non aver mai visto niente di simile prima di allora.

Il dipinto del 1607 di Caravaggio in cui Davide solleva la testa di Golia: la spontaneità, la forza vitale. Dalla mostra di Dürer, inchiostro nero su carta verde: l’Autoritratto da nudo del pittore tede-sco, nudo come vedeva se stesso nello specchio

– la nuda verità! La Madonna alla fontana di Van Eyck, il figlioletto della Vergine premuto contro la sua guancia, il tendersi delle braccia del picco-lo oltre la clavicola della madre che gli fa formare delle pieghe sulla schiena. Qualche volta penso a quel dipinto quando vado a letto: è la pace asso-luta sulla terra.

La pandemia ci rispedisce verso le nostre risorse personali. Per me l’arte non ha tempo: ferma l’o-rologio. È davvero un’imitazione della realtà. E la grande arte è rilevante nel presente quanto lo era quando è stata creata.

DELLA POLITICA E DELL’ECONOMIA GLOBALEIo definisco un politico sotto il capitalismo come una persona che ha il potere di ignorare la soffe-renza. La corruzione è globale e il capitalismo è corrotto come una mela marcia anni dopo la sua data di scadenza. C’è una sola via per sfuggire alla distruzione: sostituirlo con un’equa distribuzione della ricchezza.

I governi devono essere i custodi della terra: la terra non dovrebbe essere posseduta da privati. E il ruolo dei custodi dovrebbe attenersi alla mas-sima “Quello che è bene per il pianeta e bene per l’economia”.

La narrazione cambia soltanto quando il mon-do cambia.

DELL’ATTIVISMOSin dai primi giorni del punk, negli anni Settan-ta, sono stata una militante contro la guerra e a favore dei diritti umani. Voglio che tutti sappiano

Il quattro e il jack di spade del mazzo di carte di Vivienne Westwood, un progetto che fornisce un piano per salvare il mondo dall’autodistruzione

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SERVE UNA “CLIMATE RE VOLUTION” PER SALVARE L’AMBIENTE ATTRAVERSO IL LAVORO SERIO CON LE ORGANIZZAZIONI NON PROFIT E NON SOLO

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che il capitalismo e la crudeltà sono connessi. Me ne sto occupando attraverso il sito Climate Re-volution. Sui social media, mi sto vestendo ogni settimana per i miei Discorsi del venerdì, usando la mia moda per coinvolgere le persone nella po-litica. Se le persone non sono consapevoli, come potremo salvare il mondo dalla corruzione e dal cambiamento climatico?

DEL CAMBIAMENTO CLIMATICOStiamo guardando attraverso le lenti di un mon-do che cambia. Se la razza umana non capovol-ge il cannocchiale, affronteremo un’estinzione di massa. Il cambiamento climatico raggiungerà un punto critico.

Questo è il motivo per cui ho creato Climate Re-volution: per salvare l’ambiente attraverso il lavoro con le organizzazioni non profit. Il nostro obiettivo è parlare con una sola voce. Da militante ho creato molte immagini per promuovere questioni politi-che e ambientali che ho reimmaginato nel disegno di un pacchetto di carte da gioco. Chi l’avrebbe mai detto! La risposta risiede nelle carte – una strategia completa per salvare il mondo: comprare meno, fermare i sussidi alla pesca su scala industriale, educare i bambini e così via. Abbiamo persino un manifesto, che dettaglia la nostra necessità di ab-bandonare il capitalismo verso quella che io chia-mo “Terra di nessuno” – una visione del mondo basata sul principio secondo cui a nessuno do-vrebbe essere consentito di possedere della terra.

DELLA MODA E DELLA SOSTENIBILITÀRidurre, riutilizzare, riciclare. Il riciclare non è suf-ficiente a rallentare il cambiamento climatico, ma con il ridurre e il riutilizzare possiamo incidere davvero. Probabilmente una delle cose più impor-tanti che io abbia mai detto è: «Comprate meno, scegliete meglio, fate durare». È tutta una questio-ne di qualità, non di quantità.

I vestiti popolari si sono ora ridotti a un muc-chio di capi sportivi fatti a macchina e di stracci da poco, fabbricati in luoghi come i laboratori in-donesiani e cinesi basati sullo sfruttamento dei lavoratori. Invece dobbiamo tornare a produrre indumenti di alta qualità. Le nostre scelte di con-sumatori possono avere un enorme effetto sull’in-dustria della moda.

DELLE LEZIONI DELLA STORIALa mia gioia è leggere. Aristotele definisce la fe-licità come il vivere all’altezza del proprio poten-ziale. Facendolo, diventiamo quelli che siamo

– così come una ghianda diventa una quercia. Leggere per me è questo: tu trovi te stesso per-ché ti dimentichi di te mettendoti nei panni di qualcun altro. È il modo più efficace che ci sia per entrare in relazione con il mondo e scopri-re la natura umana. Ne tiri fuori quello che ci metti dentro.

Ho creato un book club che si chiama “Intel-lectuals Unite” per promuovere la lettura. Una cosa è leggere i giornali per stare al passo con i tempi, ma abbiamo bisogno anche del passato. La grande letteratura è senza tempo. Io racco-mando i classici perché hanno resistito alla prova del tempo e ci danno una visione d’insieme delle epoca in cui hanno vissuto. Noi siamo il passato; non possiamo capire il mondo senza conoscere quello che è successo prima di noi.

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©️ 2020 THE NEW YORK TIMES COMPANY & VIVIENNE WESTWOOD

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Autrice di libri di cucina ed ex concorrente di The Great

British Baking Show

S E L A S S I E A T A D I K A

Chef e fondatrice di Midunu, un’impresa ghanese del settore alimentare che offre

esperienze culinarie e cioccolati artigianali

P L A T A N O

A Città del Messico, con la parola “mol-lete” si indica un bolillo – un panino messicano croccante all’esterno e soffice all’interno – che vie-ne tagliato a metà, vie-ne spalmato di burro e viene riempito con frijoles refritos (fa-gioli ricotti) e formaggio. Di solito viene tostato in forno finché il for-maggio non si scioglie leggermen-te e viene servito con pico de gallo. Si possono trovare mollete guarni-ti con chorizo, con prosciutto, con maiale arrostito o addirittura con chilaquiles. Il bolillo ha la funzione di “veicolo” e di base. Ma niente batte un mollete semplice. Quan-do ero un ragazzo, nella caffetteria della mia scuola il mercoledì era il “Giorno del mollete”. I molle-te che servivano lì erano leggen-dari. Dopo la ricreazione l’intera classe puzzava di burro e di pico de gallo. Il vero potere del mollete risiede nel suo essere una cosa ca-salinga d’altri tempi: un piacevole, semplice equilibrio di consistenze e sapori, economico ma perfetto. Quando sono all’estero – pieno di nostalgia – mi mancano i mollete. Assaggiarne uno significa essere a casa con i miei genitori, mia mo-glie e il mio cane. Anche se si può avere questo umile panino aperto a metà ogni giorno, quando ero piccolo chiedevo a mia mamma dei mollete in occasione del mio compleanno, al posto della torta. E qualche volta lo faccio ancora.

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P E D R O R E Y E S

Food writer e direttore creativo di Paladar, un’impresa messicana che

si dedica allo sviluppo di progetti ed esperienze nel settore culinario)

M O L L E T E

Quando ero piccola, sapevo che ogni volta che con mio fratello mi-nore avremmo visto il nostro fra-tellastro nella Chinatown di Lon-dra, avremmo poi chiesto di anda-re in pasticceria a prendere un po’ di torta al pandano, una fragrante spugna verde che è soffice come una nuvola. E che, ogni volta, io avrei cercato di trattenermi il più a lungo possibile dal mangiar-la – perché più a lungo io avessi resistito, più a lungo avrei potuto immaginare come sarebbe stato assaggiarla. Una volta che avessi finito la torta, sarebbe poi passato molto tempo prima che io potessi mangiarne dell’altra. La tradizio-ne si mantiene anche oggi. Ogni qualvolta torno a Chinatown, per me è un obbligo comprare della torta al pandano. Le pasticcerie sono sempre rumorose e affollate ma è questo che le rende familia-ri e accoglienti. E ancora assaporo le fette di torta come facevo allora. Il mio compagno Nabil ha notato che ho un rituale quando mangio delle delizie dolci: ne stacco un pezzo, lo appoggio attentamente sul mio ginocchio e poi aspetto

fino a che non pos-so più trattenermi dal mangiarlo. Lo faccio perché mi sento confortata

dal fatto che la tor-ta è lì che mi aspetta,

proprio come ha sem-pre fatto.

Da quando ho memoria, il pla-tano mi ha sempre dato gioia e conforto. Quand’ero piccola, in Ghana, mia madre escogitava vari modi per portare questo alimento sulla nostra tavola. I platani verdi acerbi venivano bolliti e mangia-ti con verdure cotte. O venivano tagliati in fette sottili e poi fritti per essere serviti leggermente sa-lati – la nostra versione delle pata-tine. Pochi giorni dopo, i platani sarebbero stati arrostiti a fuoco vivo per poi essere mangiati con le noccioline in un per-fetto snack, conosciu-to localmente come

"Kofi Brokeman” – un pasto economico che tutti possono permet-tersi.

E se non avessimo avuto tempo per montare la griglia? Avremmo bollito i platani per poi servirli con zup-pa di arachidi. Avevamo perso l’at-timo e i platani erano diventati un po’ troppo molli? Li tagliavamo a pezzi, li condivamo con peperon-cino e zenzero e friggevamo il tut-to – quel piatto lo chiamiamo ke-lewele. Ci eravamo completamen-te dimenticati di loro e i platani erano diventati neri? Li avremmo mescolati con cipolle e spezie e ne avremmo fatto tatale, frittelle di platano da mangiare con fagioli stufati. Oh, platano, lasciami con-tare tutti i modi in cui ti amo!

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K A T S U S A N D O

H I S A T O H A M A D A

Executive chef and cofondatore del brand di ristorazione giapponese

Wagyumafia

T E Y A M I K H A E L

Panettiere presso The Lebanese Bakery

di Beirut

Z A ’ A T A R M A N O U S H E H

Da bambina, ogni volta che faceva-mo una passeggiata nel Nord del Minnesota, la mia mamma dako-ta indicava i possibili utilizzi del-le piante che trovavamo lungo il percorso. Ma non ha mai usato la parola “weed”, perché tutto ha una

storia e un po-sto nelle nostre vite. Strappava

continuamente steli dal terreno e se

li spremeva in boc-ca, dicendo cose come

«Questo può alleviare il mal di denti» o «Mio padre

chiedeva sempre a me e a mia so-rella di raccoglierla quando spun-tava in primavera!».

Tutte le volte che vedo un ce-spuglio di mirtilli selvatici, che su al Nord crescono rigogliosamen-te, mi tornano in mente quei mo-menti. Per me niente al mondo ha un gusto migliore di quelle piccole esplosioni di sapore. Li raccolgo immediatamente. E subito lì, in mezzo alla natura, me li metto in bocca per assaporarli e, mentre lo faccio, percepisco un senso di con-nessione con la terra accanto a me. Il petto mi si riempie del ricordo di essere stata amata e nutrita, di avere un’esperienza condivisa non soltanto con mia mamma, ma con la terra stessa.

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D A N A T H O M P S O N

Attivista per il “cibo indigeno” e fondatrice di The Sioux Chef, un progetto per

rivitalizzare la cucina dei nativi americani

M I R T I L L I S E L V A T I C I

Sono sempre stato affascinato da quello che accade quando la cultu-ra orientale e quella occidentale si incontrano, specialmente in cam-po alimentare. Un katsu sando mostra quanto il risultato possa essere buono. Benché il sandwich sia un concetto molto inglese, il katsu sando, con la sua farcitura di carne impanata con il panko, è molto giapponese. Fin da bam-bino ho sempre pensato che i sando – non importa se con maiale, con pollo o con manzo Wagyu (i miei preferiti) – avessero un sapore sontuoso e avvolgente. E sono anche facili da mangiare in un solo boccone. Un sando di solito è servito con un miscela di ketchup, miele e salsa Worcester-shire, un condimento inglese che si è diffuso in Giappone nel XIX secolo, quando le relazioni con la Gran Bretagna si fecero più strette. Il risultato è un sublime sandwi-ch giapponesizzato: nella cucina e nella cultura nipponica accade spesso che, quando importiamo qualcosa, ci piaccia poi crearne una nostra interpretazione.

Da chef, ho grande apprezza-mento per lo street food, e il mio modo di cucinare ne è molto ispi-rato. E quando assaggio una pre-libatezza appartenente allo stre-et food come il sando, questo mi

ricorda il modo in cui il cibo è un linguaggio globale che ci

unisce.

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Uno za’atar manousheh bollente, appena uscito dal forno, è di gran lunga il mio comfort food prefe-rito: un morbido e soffice pane piatto arricchito dallo za’atar, una miscela di spezie scricchiolante e acidula. È così facile da fare ed è pieno di sapori e memorie libane-si. Mi piace completare il mio ma-nousheh con lo za’atar di mia non-na, una miscela che ha perfeziona-to per 55 anni.

Il manousheh mi riporta alla mente i meravigliosi momenti passati a casa con la mia famiglia, a scuola, al lavoro o fuori con gli amici. A un certo punto ho comin-ciato a sentire il bisogno di condi-videre questa sensazione piacevo-le con persone di tutto il mondo. Questo è il motivo per cui ho deci-so di imparare l’arte di preparare il manousheh.

In Libano il manousheh è diffu-so come il caffè e per tradizio-ne lo si mangia volen-tieri a colazione. Per tutti noi le cinque del mat-tino sono “le ma-nousheh in punto”: quello è il momento in cui i panettieri di tutto il Libano iniziano la loro giorna-ta per garantire che la colazione preferita della nazione sia pronta per il suo popolo. Mi procura una tale felicità essere uno di quei pa-nettieri! IT

ALIA

I L G U S T O

D I C A S A

Sei amanti della tavola e del vino ci raccontano che cosa mangiano

quando vogliono cullarsi nei ricordi

testi raccolti da A N N A P R A N D O N I

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S O N I A P E R O N A C I

Fondatrice di GialloZafferano, imprenditrice digitale e personaggio

televisivo, ha appena pubblicato “Viaggio goloso tra i sapori d’Italia”

C A N E D E R L I

Pur essendo di origini siciliane, amo i mondeghili da quando ero adolescente. A me piacciono molto e portano anche un po’ di buonu-more. Tra i miei preferiti, a Mila-no, quelli del Ratanà e di Peck. Il mio “segreto” quando li preparo sta nella selezione degli ingredien-ti e nell’attesa. Un po’ come il pane, anche questo piatto ha bisogno dei suoi tempi affinché tutti gli elementi si amalgamino al meglio. Per me, tra gli ingredienti più im-portanti, oltre al vitello, ci sono un buon pane raffermo, l’olio evo, e le cipolle: io scelgo spesso quelle rosse di Tropea, dolci naturalmen-te e delicatissime, oppure quelle di Giarratana. Sono l’emblema della cucina della tradizione. Mi piace dire che è la cucina della felicità, che porta in tavola piatti come le polpette o i mondeghili, almeno qui a Milano. Essendo a cavallo tra due tradizioni, quella milanese e quella siciliana, li abbino spesso con la caponata, tra le meraviglie della cucina siciliana. Un mix incre-dibile per questo contorno, la cui regina è la melanzana, con sedano, cipolla, pomodoro, olive, capperi e miele in salsa agrodolce. Tra le mie ricette preferite quella agrigenti-na. Oppure, con abbinamento più classico, con crema di peperoni, senape, mostarda e cipolla fritta marinata al limone, cosi ricorda la ricetta originale ma è più attuale. Entrambe le soluzioni sono l'idea-le, in ogni stagione, per una pausa golosa o un apertivo in compagnia. Cibo buono senza tempo.

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F E D E R I C O L O R E F I C E

Fondatore di Congusto, campus e scuola

di cucina professionale

M O N D E G H I L I

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Per me pensare al cibo del ricor-do significa pensare a mia nonna Ottilia, nata a Innsbruck e vissuta in Alto Adige, mentre preparava i canederli. Partiva il giorno prima, sceglieva le rosette, le tagliava a fette sottili, poi a bastoncini, poi a cubetti. Li metteva a riposare in una ciotola di metallo smaltata, bianca e blu, coperti da un cano-vaccio, per farli seccare. Il giorno successivo cominciava la prepara-zione: lei faceva le cose con molta calma, non aveva molto da fare, seguiva solo i suoi nipoti. Aggiun-geva gli ingredienti con attenzio-ne, e questa calma mi ha aiutata quando, da giovanissima sposa, ho provato a rifarli in Calabria dove mi ero trasferita.Sembrava un rito, in realtà lei la-vorava piano perché non voleva rompere nessuno degli ingredien-ti. Oltre al pane, aggiungeva la cipolla soffritta nel burro, un pro-fumo che quando lo sento mi ri-porta subito a lei. Poi univa speck, uova, farina. Mescolava in modo leggero per non compromettere la sofficità dei canederli. La mag-gior parte delle persone li fa con le mani, ma l’impasto è delicato e non va pressato. Lei preparava le pallotte usando un mestolo. Da piccola la guardavo vicino al tavo-lo della cucina, ma mi faceva solo guardare: i canederli erano una sua prerogativa. Ho poi impara-to a prepararli da grande, facendo mente locale sui suoi gesti. E per me questa è la ricetta del ricordo e dell’attesa.

C H I A R A M A C I

Blogger e personaggio televisivo, percorre l’Italia da Nord a Sud

alla ricerca del morso perfetto nelle cucine delle nonne

M O Z Z A R E L L A D I B U F A L A

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Sono nata ad Agropoli, a due passi da Paestum e da Battipaglia. E, an-che se sono stata lì solo fino a un-dici anni, nel mio dna c’è la moz-zarella di bufala.

Quand’ero bambina, la cosa che tutte le mattine arrivava a casa appena fatta era la mozzarel-la di bufala. C’erano i casari che ci lasciavano, appena svegli la mat-tina, un cartone di polistirolo e per me dentro c’era la cosa più buona del mondo: questa mozzarella appena fatta.

Si lasciava fuori dal frigorifero nella sua acqua un po’ tiepida e durava qualche giorno. Era buo-nissima mangiata così, ma per me la cosa vincente era quando pote-vo avere accanto il pomodoro di Sorrento o il cuore di bue e man-giarli insieme.

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C R E S C I A

L O R E N Z O B I A G I A R E L L I

Non è uno chef, ma cucina, scrive, viaggia e mangia. Ha scritto “Qualcuno da amare qualcosa da mangiare” e partecipa come ospite a “È sempre mezzogiorno” su Rai1

Le suggestioni più belle, più tene-re ci derivano dalle esperienze fat-te durante l'infanzia. Al punto che poi, quando diventiamo adulti, de-sideriamo riviverle ogni tanto e ad-dirittura in loro troviamo rifugio, conforto appunto. Il profumo e il sapore della pizza di patate, zuc-chero e cannella per me racchiu-dono tutto questo. È una ricetta antica della Tuscia. Mia nonna Celestina, durante i lunghi mesi di vacanza nella casa materna, a Tuscania, la preparava spesso e, se chiudo gli occhi, la rivedo appena sfornata nelle sue teglie nere, i “te-sti” come li chiamava lei. Questa pizza dolce ci veniva regolarmen-te riproposta da mia mamma, una volta ritornati in Sardegna, e ci faceva rivivere il profumo di quel-la cucina, nella casa in tufo della nonna, che accolse i giorni più spensierati della mia vita. La ricet-ta, senza dosi, a occhio come spes-so usava, è semplice: si prepara un impasto morbido di farina e altret-tante patate bollite e poi schiaccia-te, si aggiunge qualche cucchiaio di zucchero, si stende, bassa, nella teglia imburrata e poi si spolvera con abbondante zucchero e can-nella. E si inforna.

Dopo tanti anni e tanta vita, questa pizza, che mia moglie Evi ha imparato a fare per me, anche nei giorni più grigi, col suo profu-mo di cannella sa restituirmi una dolce sensazione di quiete, di casa, di mani asciugate nel grembiule. E si sposa molto bene con un bic-chierino del mio Passito Lillò.

Ho un sentimento di appartenen-za e di slancio verso la Franciacor-ta, perché è parte della mia storia sia umana sia artistica. È un luogo che appartiene alla nostra contem-poraneità anche se ha radici anti-che, un luogo che è stato in grado di innovare e ricreare, di andare a prendere un seme che era lì e di svilupparlo, facendolo diven-tare una caratteristica specifica e creandoci pure un’economia. Qui si esprime un sapore autentico e vero, non c’è niente di formale, ci sono contenuti potenti.

Quello che coniuga meglio la relazione di significati tra arte, ter-ritorio e anche sapore delle bolli-cine è un’opera che guarda caso (il caso è un progetto che ha voluto che l’opera fosse lì) è installata sul-la piazza delle cantine di Bellavi-sta: un’altalena alta 15 metri, un progetto che ho studiato e realiz-zato con i miei figli Rocco e Olivie-ro. Alla nascita dello studio di ar-chitettura e creatività dei miei figli ho voluto inglobare loro in questa opera, che è la nostra prima opera comune e condivisa.

Posta su una collina che domi-na tutta la Franciacorta, quest'ope-ra cerca di rappresentare la gioia, il benessere, la bellezza che ti dà l’altalena: quel piacere inspiegabi-le da bambini, che è un po’ come la teoria del volo. Quella sensazio-ne di essere staccato da terra, di godere dei piaceri più semplici. Come un bicchiere di bollicine.

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S T E F A N O S O I

Architetto, ha scelto la Sardegna come terra d’elezione. Ha creato un’azienda

vitivinicola e Il Tinello, un progetto di percorsi esperienziali tra vini e cibo

V E L A S C O

Artista pittore e scultore. Il suo percorso artistico indaga il paesaggio e dalla sua

Bellano e si sposta spesso in Franciacorta, nella terra delle cantine e di un’altalena

P I Z Z A D I P A T A T EZ U C C H E R O E C A N N E L L A B O L L I C I N E

La crescia marchigiana per me ha il sapore dell’infanzia e dello sta-bilimento balneare a Senigallia. Ha sempre sofferto del calo repu-tazionale rispetto alla piadina; è un po’ la cugina sfigata, il Paperi-no del cibo. Eppure per me è una ricetta bellissima, che ricorda la storia, è un piatto ricco, con tan-te uova e tanto pepe, in un tempo in cui si celebrano i piatti poveri. Una preparazione estestica, ritua-le, ultimamente sminuita.

Si mangia e si prepara in ma-niera complessa: più uova ci metti e più sei bravo, bisogna impastare, sfogliare, attorcigliare: prepararla è una liturgia che nobilita il piatto e anche chi lo prepara. È la cosa di cui faccio incetta appena posso, ed è buona per forza perché è col-legata a quando avevo dieci anni.

Da piccolo la compravo ai chio-schi: abbiamo una famiglia che si esprime attraverso i ricordi legati al cibo. A parte le mie nonne, nel-la mia famiglia non c’è tradizione di cibo cucinato, ma di cibo man-giato. I luoghi del cibo erano mete di pellegrinaggio. E per la crescia facevamo quaranta minuti di auto per andare alla Trattoria Il Pergo-lato dalla Maria, nel pesarese: si andava apposta perché più ti avvi-cini a Urbino più il riflesso di que-sto sole giallo gustoso è più forte.

Mi piacerebbe tanto farla cono-scere ancora di più, comunicare una tradizione vera, non posticcia, una ricetta con una storia radicata nel territorio.

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In febbraio, la città di Daegu, in Corea del Sud, è diventata il luogo in cui si è sviluppato il primo grande focolaio di Coronavirus fuori dalla Cina

Illustrazione di I N A J A N G20

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UN padre si è sentito abbandonato.

Ha svolto un’occupazione manuale per tutta la vita, lavorando nel settore delle costruzioni. A settant’anni è diventato un addetto alla sicurezza. Poi, quando è diventato troppo vecchio per lavorare, si è messo a passare il tempo in un centro comunale per anziani. Giocava a janggi con altri uomini della sua età, leggeva presso la biblioteca pubblica e passeggiava nei parchi del quartiere. Ma con la diffusione del Covid-19 tutte le strutture hanno chiuso all’uniso-no, portandosi via ogni possibile accesso alla socialità. Mio padre è stato costretto a trascorrere l’inverno chiuso nella piccola stanza in cui ha vissuto per vent’anni nella casa di Seul di suo figlio e di sua nuora, confinato in poche parole e in ancora meno metri quadrati.

In febbraio, la diffusione del virus ha imboccato una curva nefa-sta, con l’emergere in breve tempo di numerosi focolai nella città di Daegu. Le prospettive erano fosche. Mentre il contagio si tra-smetteva nelle corsie degli ospedali e nelle residenze per anzia-ni e il numero dei morti cresceva rapidamente, stava diventando chiaro come il Covid-19 estendendesse i suoi tentacoli verso i più vulnerabili fra noi.

Nel corso della sua vita, mio padre ne aveva già passate tante. Nato nel 1940, negli ultimi anni dell’occupazione giapponese, è stato un bambino durante la guerra di Corea, un giovane adulto durante lo spietato periodo dell’industrializzazione che cominciò negli anni Sessanta e un uomo di mezza età durante le sconvolgenti ondate che hanno condotto alla democratizzazione. Quando aveva soltanto dieci anni, un combattente comunista uccise suo padre. E, ciò nonostante, la polizia riteneva erroneamente che suo padre fos-se un simpatizzante comunista, benché fosse un innocuo cittadino.

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Ogni volta che ci ha raccontato questa storia, mio padre ha iniziato dicendo: «Vostro nonno è morto ingiustamente». Come se essere consapevoli di questo fosse la chiave per capire ogni altra cosa.

Ritenuto colpevole per proprietà transitiva, mio padre non poté perseguire i suoi sogni. Lavorò in cantieri da tutte le parti, ma non riuscì mai a viaggiare per piacere. Non ha mai bevuto, non ha mai preso niente che non si fosse guadagnato e non ha mai speso de-naro in scommesse. Eppure la vita non lo ha mai ricompensato per il suo buon comportamento. Una volta, mentre stava lavorando, è quasi caduto da una grande altezza. Un’altra volta, mentre stava lavorando all’estero, è stato espulso perché gli mancava un docu-mento necessario. Ha perso troppo presto sua moglie, mia madre, per una malattia.

Qualche anno fa, mio padre riuscì a ottenere la testimonianza dei vicini di quando era bambino e di alcuni agenti di polizia e combatté una lunga battaglia in tribunale per investigare le cause della morte di suo padre con l’obiettivo di riabilitare il suo nome come quello di un patriota. Non fu facile, ma quando ci riuscì fu estremamente felice come se avesse finalmente ricevuto una com-pensazione per la vita dura che aveva vissuto.

Eppure mio padre non si è mai sentito così solo come quando tutto è diventato inaccessibile – persino il Cimitero nazionale di Seul, dove mio nonno è stato sepolto una seconda volta per ripo-sarvi con tutti gli onori. Incapace di rassegnarsi a trascorrere i suoi migliori anni in quarantena, mio padre cominciò ad agognare il suo luogo natale, un villaggio vicino alla città di Gwangju, nella zona sudoccidentale del Paese. Si era sempre ripromesso che un giorno vi avrebbe fatto ritorno, ma ora l’epidemia aveva preso una decisione per lui. Se doveva passare i suoi giorni in solitudine, per-ché non farlo fra le sue colline e i suoi ruscelli preferiti?

Sapendo che avremmo posto obiezioni ai suoi piani o avremmo insistito per aiutarlo, fece dei viaggi segreti tra Seul e Gwangju per cercare una piccola casa da prendere in affitto e ci informò solo un giorno dopo che vi si era trasferito. Io e i miei fratelli – due sorelle e un fratello più grandi di me – ci arrabbiammo molto. In che modo un anziano cittadino ad alto rischio, vivendo tutto solo, avrebbe potuto rispettare il distanziamento sociale?

Noi, che eravamo abituati a divertirci online e a farci consegna-re cose con la sola pressione di un bottone, non potevamo capire quanto per lui l’isolamento fosse stato velenoso. Non sapevamo ancora come fosse essere vecchi. Né come ci si sentisse a essere ignorati e dimenticati in casa in nome della sicurezza.

Io e i miei fratelli ci precipitammo a bordo di un treno diretto a Gwangju, per riportare nostro padre a Seul, convincendolo di quan-to fosse più sicuro stare in isolamento in famiglia. Il treno era vuo-to. Quel giorno, il 29 febbraio, aveva visto la conferma di 813 nuovi casi di Coronavirus, il dato più alto da quando era stato registrato il primo caso, il 20 gennaio. Tenemmo su le mascherine per ogni

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secondo di quelle due ore e mezza di viaggio in treno verso sud. Trovammo nostro padre nella sua casa in affitto, ma si rifiutò

di tornare indietro con noi. E, visto che la casa non era abbastanza grande perché potessimo dormirci tutti, fummo costretti a passare una notte in un piccolo albergo, sfidando un’altra volta le racco-mandazioni delle autorità preposte alla quarantena, che sugge-rivano di rimanere in casa e di evitare assembramenti. L’albergo quasi vuoto appariva inquietante. Io e le mie sorelle andammo a dormire con la preoccupazione derivante dall’insistenza con cui mio padre voleva rimanere lì.

La mattina successiva, sul tardi, andammo con nostro padre in cerca di un posto dove mangiare. Le strade di Gwangju apparivano deserte. Camminammo per un lungo tratto, senza riuscire a trovare nessun posto aperto. Alla fine, arrivammo a un mercato all’aperto vicino all’ospedale universitario.

«Quando avevo 15 anni», disse mio padre, «facevo a piedi tutta la strada fino a questo mercato per vendere angurie».

Conoscevo poco della sua infanzia. Fra le immagini di lui che avevo visto, quella in cui era più giovane era una fotografia dall’a-spetto austero in cui aveva circa vent’anni, appena prima di trasfe-rirsi a Seul. Quante facce fa indossare la vita? Nella faccia tesa e dall’aspetto solitario che lui indossava ora, non riuscivo a vedere nessuna traccia del ragazzo tenace che camminava una dozzina di miglia per vendere meloni, o dell’inquieto giovane uomo che si prepara a trasferirsi nella metropoli.

«Faceva così caldo ed era così lontano».Con queste parole le sue diverse facce si sovrapposero. Lui si era

fatto da sé, facendo affidamento sulle sue sole forze. Questa era la radice, questo era il gambo della sua autostima.

Sua sorella era rimasta lì, nel posto dove erano nati, a coltivare pesche. Noi eravamo cresciuti mangiando quelle pesche, ma era improbabile che saremmo riusciti a gustarle anche quest’anno. Pri-ma dello scoppio della pandemia, lei si era fatta molto male a una gamba ed era ancora convalescente in ospedale. Dal momento che il Covid-19 continuava a diffondersi, gli ospedali avevano smesso di permettere le visite. Mio padre sembrava già addolorato perché forse non avrebbe mai più potuto rivederla.

Ci disse quello che aveva sentito dal figlio di sua sorella: «Lei pensa che tutti l’abbiano abbandonata».

Quando pensai a tutte le persone che si trovavano nella stessa situazione di mia zia – immobilizzata e convinta di essere stata ab-bandonata nella sua stanza di ospedale – mi colse una sensazione inquietante. Questo era il nostro futuro. La vita avrebbe fatto di tutti noi dei vecchi malaticci.

Riuscimmo a trovare un ristorante aperto al mercato. Dopo co-lazione, lungo la strada verso la metropolitana, passammo davanti all’ospedale. Lavoratori con equipaggiamenti protettivi che copri-vano loro l’intero corpo si stavano occupando delle persone che

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attendevano di fare il test al centro prelievi collocato all’esterno della porta di ingresso. Avevamo visto nel notiziario del mattino che qualcuno della zona era risultato positivo e che ora stavano testando chiunque fosse entrato in contatto con quella persona. Vedere il centro prelievi, e trovarci così vicini a quel posto, ci pro-curò agitazione. Eravamo terrorizzati di perdere nostro padre a causa del virus.

All’ingresso della metropolitana, nostro padre salì sulla scala mobile, la sua mano aggrappata con forza al corrimano. Sul treno, strinse forte un sostegno per mantenere l’equilibrio. Tutto quello che una persona giovane avrebbe potuto fare senza toccare niente, per un anziano era impossibile. Per quanto cercasse di stare attento, rispetto a me lui veniva in contatto con il fiato e con le mani di mol-tissime più persone e per questo era molto più esposto al contagio.

Questo è il modo in cui il Covid-19 si prende i nostri anziani. Puoi perdere tua madre che ha la pressione alta, tua nonna che lot-ta con il diabete, tua sorella che ha un problema di salute cronico. Le nostre connessioni con queste persone sono la ragione per cui dobbiamo proteggerci dal virus.

Il dovere di prevenire la malattia è legato alla capacità di immagi-narci nei panni degli altri. Non si tratta di intromettersi nell’igiene personale di altre persone e di sottrarre loro la libertà, ma sempli-cemente di fare quello che è necessario per non diventare una fonte di contagio, una minaccia per la vita delle persone connesse a noi.

Mio padre ha finito per rimanere a Gwangju fino a luglio, quando dei problemi di salute lo hanno costretto a tornare da noi. Da allora ha seguito le notizie sullo sviluppo di un vaccino. Alcune cronache lo hanno rincuorato, ma la notizia secondo cui Paesi più potenti gareggiavano per “vendere il riso prima ancora di averlo raccolto”

– e cioè di acquistare un vaccino che ancora non esiste – lo hanno indotto a dire: «Anche se troveranno un vaccino, persone come noi riusciranno a ottenerne una dose?». I suoi anni di resistenza alla povertà, alla discriminazione, alla delusione e alle frustrazioni gli hanno fatto dire così. Nel corso della sua vita – e non conta quanto duramente le “persone come noi” si fossero impegnate – i nostri sforzi si sono troppo spesso scontrati con l’esclusione.

Di recente ho guardato un documentario in cui degli abitanti di una regione italiana, la Lombardia, manifestavano chiedendo una riforma del sistema della Sanità pubblica. I familiari di alcune persone morte, la rabbia ben visibile sui loro volti, mostravano un cartello con la scritta: “La salute è un diritto”.

La salute è qualcosa di più che una responsabilità personale: è un bene collettivo che deve essere garantito da un solido sistema sanitario nazionale. Vorrei che non ci fosse più bisogno di convin-cere nessuno del fatto che la salute di ciascuna delle nostre comu-nità dipende dalla salute individuale di ognuna delle persone che ne fanno parte. ©️ 2020 THE NEW YORK TIMES COMPANY & HYE-YOUNG PYUN

UN ARTISTA INTERPRE TA L’ANNO: IL 2020 VISTO ATTRAVERSO GLI OCCHI DEI CANI

Per il fotografo William Wegman, quello trascorso è stato l’anno in cui tutte le ansie che avevamo trattenuto sono giunte al punto di ebollizione

Persino io, che non presto attenzione quasi a nulla, sono in grado di vedere che il 2020 è stato un incubo. Mentre stavo pensando allo stato in cui si trova il mondo, mi sono imbattuto in due mie vecchie fotografie, due Polaroid 50 x 60 centimetri, scattate nel 2005.

In entrambe le immagini, il modello è Mazzy, il bracco di Weimar blu di Marlo Kovach, che era allora la mia assistente. Non ho mai incontrato un cane a cui piacesse così tanto essere fotografato e quindi ho lavorato spesso con Mazzy. Era dipendente dalle luci forti, dal lampo dei flash che la circondavano sul set.

La prima fotografia, Splitting Image, rappresenta profeticamente, in un interno tetro, un cane scuro con occhi luminosi che si affaccia dietro al ritaglio di una versione in miniatura di se stesso. Uno dei due cani è assorto e fissa un

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punto distante posto alle nostre spalle, l’altro guarda dritto verso l’osservatore. Uno è vigile, l’altro è preoccupato e come disincarnato.

La seconda fotografia, Occhi, prende questo sguardo disincarnato e lo moltiplica. Questa immagine appare disorientante e quasi selvaggia. Tra l’altro, sembra essere una fotografia monocromatica, ma, se la si guarda più da vicino, si può vedere che in realtà è a colori: gli occhi di Mazzy sono di un verde acido fosforescente e sinistro. Sono oscuri e profetici, sono un loop senza fine di separazioni, di cose che non sono così in bianco e nero come potrebbero sembrare.

Queste due immagini mi sono sempre sembrate di cattivo augurio, ma soltanto ora, nel contesto del 2020, ho iniziato a capirle davvero.

La “modella” in queste fotografie è Mazzy, un bracco di Weimar blu

In apertura, William Wegman, “Splitting Image,” 2005, 20 x 24 black-and-white Polaroid, courtesy Sperone Westwater, New York

A sinistra, William Wegman, “Eyes,” 2005, 20 x 24 color Polaroid, courtesy Sperone Westwater, New York

QUESTE IMMAGINI MI SONO SEMPRE SEMBRATE DI CATTIVO AUGURIO, MA SOLTANTO ORA HO INIZIATO A CAPIRLE

©️ 2020 THE NEW YORK TIMES COMPANY & WILLIAM WEGMAN

UNA SCRITTRICE INTERPRE TA L’ANNO IN VERSI : DESIDERANDO LE NOSTRE STESSE VITE

Per Linda Boström Knausgård, autrice di romanzi e di poesie, il 2020 è stato un periodo di riflessione, un promemoria costante di quanto la vita sia effimera

La vita non vissuta è una poesia, o una scena teatrale, che gira attorno a un’epoca nuova. Si concentra su quello che accade in quelli che popolano il testo e in noi lettori mentre osserviamo il balletto che la poesia descrive. Forse stiamo desiderando di fare qualcosa di reale. Forse stiamo desiderando le nostre stesse vite.

Nella poesia, Isacco e Ismaele si incontrano di nuovo. Io immagino che questi fratelli abbiamo trascorso molto tempo sentendo uno la mancanza dell’altro. Ho pensato a loro per anni. Loro parlano di colombe e della morte, il grande condor, e tutto questo mentre guardano il ballo.

Voglio credere che questo testo incarni la risposta alla domanda su che cosa sia possibile, perfino in un anno come il 2020.

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seg

ue il

rit

mo,

una

cor

eogr

afia

stab

ilita

, i d

anza

tori

sta

nno

danz

ando

un

balle

tto

Un

uom

o so

stie

ne u

n or

olog

io, a

lla fi

ne tu

tto

quel

lo c

he u

diam

o è

il ti

cche

ttio

del

l’oro

logi

o (U

na tr

ansi

zion

e da

i mov

imen

ti c

oreo

graf

ati

[ del

dan

zato

re a

l sem

plic

e ti

cche

ttar

e de

ll’or

olog

io)

Avev

o ch

iest

o ch

e un

a nu

ova

epoc

a in

izia

sse

Qui

tra

noi

Un

fulm

ine

colp

isce

(Mos

tra

se s

tess

o)Pu

oi s

cegl

iere

un

pezz

o di

con

osce

nza

da p

orta

re c

on te

Solt

anto

uno

Puoi

sce

glie

re c

ome

ti p

are,

la li

bert

à è

tua,

ma

se q

uello

che

vuo

i son

o lim

itaz

ioni

sono

dis

poni

bili

(Car

ica

l’oro

logi

o)C

iò c

he m

orir

à di

vent

a un

iniz

io, l

asci

a tu

tto

I mie

i ric

ordi

?Sì

, anc

he q

uelli

. Ric

orda

re n

on s

arà

poss

ibile

. Tu

muo

ri. T

utti

noi

mor

iam

o D

i pun

to in

bia

nco?

Sì, p

er c

erti

ver

si, p

er a

ltri

ver

si n

oN

on p

otra

i dec

ider

e qu

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Ma

avve

rrà

Che

cos

a sa

i del

la n

uova

epo

ca?

Tu n

e ha

i cer

tam

ente

esp

erie

nza.

Que

llo c

he v

edi d

avan

ti a

te.

Non

ser

ve a

nie

nte

aver

e pa

ura.

Ben

e, b

ene,

que

sto

è gi

usto

Salu

ta il

nuo

vo c

on fi

duci

a, s

ii se

reno

Chi

sei

tu, q

uello

che

ci s

pieg

herà

tutt

o?M

ai, n

ient

e pe

nsie

ri d

i que

sto

tipo

, cam

bia

la m

elod

ia e

asc

olta

ciò

che

si s

ente

a m

alap

ena

Eppu

re c

resc

eI m

orti

: cre

sce,

cre

sce,

cre

sce.

EX

TR

A2

14

LI

ND

A

BO

ST

M

KN

AU

SG

ÅR

D

Alza

ti q

uand

o pa

rlo

con

teSe

i un

uom

o vi

olen

to?

Ho

idee

, pen

sier

i.Q

uali,

se

poss

o ch

iede

re?

Com

e pu

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oman

dare

sen

za v

iole

nza?

Tutt

o di

pend

e da

l fat

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he tu

cre

da a

me,

a o

gni m

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ingo

la p

arol

aN

on p

ensa

re n

eppu

re p

er u

n is

tant

e ch

e io

ti r

ivel

i qua

lcos

a su

di m

eI m

orti

: Su

di m

e, d

i me,

di m

e, d

i me,

di m

e, d

i me,

di m

e, d

i me

L’uo

mo

che

ha p

arla

to d

i una

nuo

va e

poca

por

ta v

ia il

suo

oro

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o da

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cosc

enic

oEc

co, s

e ne

van

no, t

utti

folli

Non

torn

eran

no in

diet

ro, s

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o so

li qu

i, si

amo

liber

i ed

eppu

re n

oN

on c

apis

co n

ient

e, a

dess

o di

’ che

cos

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gnifi

cano

le tu

e pa

role

Vita

, è p

assa

ta, e

non

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erà

indi

etro

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tutt

i dev

ono

med

icar

e se

ste

ssi

Siam

o gi

à m

orti

?Il

mor

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io d

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orti

sta

lì d

ietr

o, lì

sot

to, m

orm

oran

o lib

eram

ente

Q

uant

i, du

e, o

tre,

cin

quan

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mila

, set

tece

ntom

ilatr

enta

?Va

i ava

nti,

sdra

iati

sem

plic

emen

te, l

aggi

ùIn

dica

ver

so i

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ti, il

loro

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tuo

sonn

o sa

rà s

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sog

niAm

o i m

iei s

ogni

Allo

ra s

tai p

ropr

io lì

, lì p

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i sog

nare

È co

sì fa

cile

?, s

olta

nto

qual

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paro

la, r

ide

Tutt

o in

izia

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uovo

. Isa

cco,

Ism

aele

, il s

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ficio

e il

des

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I mor

ti m

orm

oran

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acco

, Ism

aele

, il s

acri

ficio

Il tu

ono

roto

la, l

a fo

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e la

mpe

ggia

e n

el s

uo la

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ved

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o il

balle

tto

dei d

anza

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Tutt

i gua

rdan

o lo

ro c

he d

anza

no, c

iasc

uno

nella

sua

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te, p

ensi

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se p

otes

si a

scol

tarl

iAp

plau

soSe

mpl

icem

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gua

rda

Isac

co e

Ism

aele

si a

bbra

ccia

no, c

ondi

vido

no u

na r

isat

aIs

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: Gua

rda

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llett

o. S

tann

o da

nzan

doIs

mae

le: m

i pia

ce m

olto

gua

rdar

lo, m

i pia

ce m

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co: A

llora

sei

ben

sal

do, s

olo

a ch

i è b

en s

aldo

può

pia

cere

mol

to g

uard

are

la d

anza

Ism

aele

: For

se

EX

TR

A2

15

LI

ND

A

BO

ST

M

KN

AU

SG

ÅR

D

Rid

ono

L’uo

mo

con

l’oro

logi

o fa

il s

uo in

gres

so.

L’U

omo:

Il T

empo

sta

pas

sand

o. N

on d

imen

tica

telo

.Is

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: Ci s

iam

o in

cont

rati

e g

ià d

obbi

amo

sepa

rarc

iIs

mae

le: C

osì s

ta s

crit

toIs

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le d

à un

bac

io d

i add

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frat

ello

, bis

ogna

and

are,

sub

ito

Man

cher

emo

l’uno

all’

altr

o?At

trav

erso

i m

illen

niAd

dio.

Isac

co e

Ism

aele

cad

ono

l’uno

fra

le b

racc

ia d

ell’a

ltro

Gua

rdan

o il

balle

tto

di n

uovo

Il b

alle

tto

di n

uovo

nel

la p

iena

luce

del

gio

rno

Ism

aele

: Che

cos

a ti

fa il

ved

erli

danz

are?

Isac

co: M

i fa

mal

eIs

acco

: Dav

vero

, mi f

a m

ale,

mi f

a m

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Ism

aele

: Que

sto

è il

desi

deri

o de

lla v

ita

non

viss

uta

Un’

eter

nità

più

tard

iB

enve

nuti

Isac

coIs

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leA

scol

ta q

uest

o, n

on r

ispa

rmia

re i

dett

agli,

si s

ussu

rran

o l’u

n l’a

ltro

, il p

anor

ama

dei l

oro

pens

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è p

roie

ttat

o di

etro

di l

oro

Un

ucce

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ola

attr

aver

so il

pae

sagg

io, p

reci

pita

giù

dav

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a Is

acco

e Is

mae

le.

È la

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te, i

l con

dor,

l’org

oglio

so e

mis

sari

o de

lla m

orte

solt

anto

un

ucce

lloU

n uc

cello

, dic

i, se

foss

e st

ata

una

colo

mba

sta

rem

mo

già

fest

eggi

ando

, ma

il co

ndor

, con

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Che

lo p

orta

no d

all’i

nfer

no e

rit

orno

Cos

ì vel

oce

nel f

ende

re i

pens

ieri

, Ism

aele

frat

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mio

A ch

e co

sa s

tai p

ensa

ndo?

Ai p

rati

att

rave

rso

i qua

li ho

cav

alca

to d

a ba

mbi

no. P

ensi

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sper

anza

fors

e, s

empl

icem

ente

Sì, s

pera

nza

e de

side

rio

Que

lli c

he v

ivon

o a

lung

o.So

lo lo

ro?

Sì. S

olo

loro

©️ 2

02

0 T

HE

NEW

YO

RK

TIM

ES C

OM

PAN

Y &

LIN

DA

BO

STR

ÖM

KN

AUSG

ÅRD

TH

E

YE

AR

I

N

PH

OT

OS

21

6T

HE

Y

EA

R

IN

P

HO

TO

S

U N A N N O

F O T O G R A F I C A M E N T E

21

72

17

TH

E

YE

AR

I

N

PH

OT

OS

V I S S U T O

La pandemia ha coinvolto (e sconvolto) tutto il pianeta, influenzando anche la politica, l’economia,

il commercio e persino le religioni e i loro riti

Ma negli ultimi mesi sono successe anche molte altre cose, dall’invasione delle locuste (sì, anche quella...) a una

sentenza storica a favore della comunità lgbtq

©️ 2

02

0 T

HE

NE

W Y

OR

K T

IME

S C

OM

PA

NY

TH

E

YE

AR

I

N

PH

OT

OS

21

8

A fin

e ge

nnai

o, P

echi

no h

a im

post

o un

sev

ero

lock

dow

n a

Wuh

an, l

a ci

ttà

da d

ove

si p

ensa

che

abb

ia a

vuto

ori

gine

l’e-

pide

mia

di C

ovid

-19,

che

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allo

ra s

i sta

va d

iffon

dend

o in

al-

tri P

aesi

. Que

sta

mis

ura

è st

ata

rite

nuta

ade

guat

a da

ll’Om

s.

Tutt

avia

, il g

over

no c

ines

e è

stat

o cr

itica

to p

er a

ver

cerc

ato

di n

asco

nder

e la

ver

a en

tità

dell’e

pide

mia

.

WU

HAN

, CIN

ALE

AU

TORI

TÀ O

RDIN

ANO

IL L

OC

KDO

WN

GE

NN

AI

O

NO

EL C

ELIS

/AG

ENC

E FR

AN

CE-

PR

ESS

E —

GE

TTY

IM

AG

ES

TH

E

YE

AR

I

N

PH

OT

OS

21

9G

EN

NA

IO

Dopo

43

mes

i di i

ncer

tezz

a se

guiti

al r

efer

endu

m s

ulla

Bre

xit

e 47

ann

i di m

embership,

il 3

1 gen

naio

Lon

dra

ha la

scia

to fo

r-m

alm

ente

l’Ue.

Alc

uni B

rexi

teer

s, p

rovv

isti

di b

andi

ere,

han

no

fest

eggi

ato

l’add

io n

ella

pia

zza

del P

arla

men

to, m

entr

e al

tri

citt

adin

i, fav

orev

oli a

rim

aner

e ne

ll’un

ione

com

mer

cial

e, h

an-

no o

rgan

izza

to c

ontr

oman

ifest

azio

ni.

LON

DR

A, R

EGN

O U

NIT

OAV

VIEN

E FO

RMAL

MEN

TE L

A BR

EXIT

AN

DR

EW

TES

TA/T

HE

NE

W Y

OR

K T

IMES

22

0T

HE

Y

EA

R

IN

P

HO

TO

S

A pa

rtir

e da

febb

raio

, l’ag

rico

ltura

del

la S

omal

ia, d

el K

enya

e d

i al

tri P

aesi

del

l’Afr

ica

orie

ntal

e è

stat

a de

vast

ata

dall’

inva

sion

e di

cent

inai

a di

mili

oni d

i locu

ste

del d

eser

to. G

li sci

enzi

ati h

anno

sost

enut

o ch

e qu

esta

infe

staz

ione

sia

stat

a ca

usat

a da

fatt

ori

lega

ti al

cam

biam

ento

clim

atic

o, c

ompr

eso

il ri

scal

dam

ento

de

ll’Oc

eano

Indi

ano.

LAIS

AMIS

, KEN

YALE

LO

CU

STE

DEV

ASTA

NO

L’A

FRIC

A O

RIEN

TALE

KH

AD

IJA

FA

RA

H/T

HE

NE

W Y

OR

K T

IMES

FE

BB

RA

IO

TH

E

YE

AR

I

N

PH

OT

OS

22

1F

EB

BR

AI

O

ATU

L LO

KE

FOR

TH

E N

EW

YO

RK

TIM

ES

A fe

bbra

io, a

New

Del

hi, a

lmen

o 53

per

sone

son

o st

ate

ucci

se

nel c

orso

di s

cont

ri tr

a gr

uppi

di m

usul

man

i e g

rupp

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ndù.

La

pol

izia

, che

ris

pond

e ag

li or

dini

del

par

tito

indù

a g

over

no,

è st

ata

criti

cata

per

ave

r co

ncen

trat

o le

inda

gini

sui

lead

er

mus

ulm

ani,

benc

hé la

gra

n pa

rte

delle

vitt

ime

appa

rten

esse

pr

opri

o al

la c

omun

ità is

lam

ica.

NEW

DEL

HI,

IND

IASI

SCA

TEN

ANO

VIO

LEN

ZE C

ON

TRO

I CIT

TAD

INI M

USU

LMAN

I

22

2T

HE

Y

EA

R

IN

P

HO

TO

S

L’8

mar

zo d

ecin

e di

mig

liaia

di d

onne

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o sc

ese

in s

trad

a in

tu

tto

il Mes

sico

per

rich

iam

are

l’att

enzi

one

sulle

viol

enze

di c

ui

sono

vitt

ima

e il

9 ha

nno

part

ecip

ato

a un

o sc

iope

ro n

azio

na-

le: n

on s

ono

anda

te a

l lav

oro,

non

si s

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mos

trat

e in

luog

hi

pubb

lici e

non

han

no c

ompr

ato

nulla

, per

sim

ular

e in

mod

o si

mbo

lico

una

gior

nata

sen

za d

onne

.

CIT

TÀ D

EL M

ESSI

CO

, MES

SIC

OLE

DO

NN

E PR

OTE

STAN

O C

ON

TRO

LA

VIO

LEN

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I G

ENER

E C

ON

UN

A M

ARC

IA E

UN

O S

CIO

PERO

MA

RZ

O

LUIS

AN

TON

IO R

OJ

AS

/TH

E N

EW

YO

RK

TIM

ES

TH

E

YE

AR

I

N

PH

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OS

22

3M

AR

ZO

Il 9

mar

zo l’

Italia

è s

tato

il p

rim

o Pa

ese

euro

peo

a de

cide

re

un lo

ckdo

wn

per

cont

rast

are

il Co

rona

viru

s. G

ià il

18 m

arzo

l’E

urop

a av

eva

supe

rato

la C

ina

per

num

ero

di c

asi e

di m

orti.

In r

apid

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cces

sion

e, a

nche

Mad

rid,

Par

igi, B

erlin

o e

Lond

ra

hann

o in

trod

otto

mis

ure

per l

imita

re i m

ovim

enti

delle

per

so-

ne e

con

tene

re la

diff

usio

ne d

el v

irus

.

PAR

IGI,

FRAN

CIA

IL C

ORO

NAV

IRU

S C

OST

RIN

GE

I PAE

SI E

URO

PEI

A D

ECID

ERE

I PRI

MI L

OC

KDO

WN

AN

DR

EA M

AN

TOV

AN

I/TH

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YO

RK

TIM

ES

22

4T

HE

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EA

R

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P

HO

TO

S

Ad a

prile

, in

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ito a

l cro

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elle

ven

dite

cau

sato

dal

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an-

dem

ia, i

col

tivat

ori o

land

esi h

anno

dov

uto

dist

rugg

ere

circ

a 40

0 m

ilion

i di fi

ori, c

ompr

esi 1

40 m

ilion

i di t

ulip

ani. D

i nor

ma,

la fl

oric

ultu

ra o

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ese

ha la

sua

stag

ione

mig

liore

da

mar

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aggi

o, p

erio

do in

cui

cad

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la P

asqu

a, il

gior

no d

ella

mam

ma

e la

Gio

rnat

a de

lla d

onna

.

AALS

MEE

R, P

AESI

BAS

SIIL

CO

RON

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US

CO

STRI

NG

E I C

OLT

IVAT

ORI

D

I TU

LIPA

NI A

DIS

TRU

GG

ERE

I FIO

RI

AP

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LE

ILV

Y N

JIO

KIK

TJIE

N/T

HE

NE

W Y

OR

K T

IMES

TH

E

YE

AR

I

N

PH

OT

OS

22

5A

PR

IL

E

Nei P

aesi

mus

ulm

ani l

e m

isur

e di

dis

tanz

iam

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soc

iale

do-

vute

al C

ovid

-19

hann

o co

stre

tto

i fed

eli a

oss

erva

re in

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o vi

rtua

le il

Ram

adan

– c

he è

un

mes

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ast

ensi

one

dal c

ibo,

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preg

hier

a e

(abi

tual

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te) d

i pas

ti co

mun

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ra

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erru

zion

e de

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iuno

diu

rno.

Anc

he m

olti

dei l

uogh

i più

sa

cri d

ell’I

slam

son

o st

ati c

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i alle

vis

ite.

KUAL

A LU

MPU

R, M

ALAY

SIA

UN

RAM

ADAN

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TUAL

E

ALE

XA

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RA

RA

DU

/TH

E N

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YO

RK

TIM

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22

6T

HE

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EA

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P

HO

TO

S

In s

egui

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lla m

orte

di u

n uo

mo

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olor

e, G

eorg

e Fl

oyd,

avv

e-nu

ta a

Min

neap

olis

il 2

5 m

aggi

o m

entr

e si

trov

ava

nelle

man

i de

lle fo

rze

dell’o

rdin

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aia

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iglia

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in tu

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il Pa

ese

hann

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anife

stat

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pia

zza

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ro in

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azio

ne p

er

il ra

zzis

mo

e la

bru

talit

à de

lla p

oliz

ia. L

e pr

otes

te in

mol

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Linkiesta commenta, analiz-za e approfondisce l’attualità politica, economica e cultu-rale italiana e internazionale con l’obiettivo di alimentare il dibattito pubblico e di raffor-zare per quanto possibile una comunità intellettuale capace di difendere il sistema liberal-democratico e la prevalenza dei dati di fatto dagli attacchi interni ed esterni dei suoi ne-mici.

Lo fa ogni giorno sul sito, con l’edizione di carta, con le riviste, con i podcast, con il Fe-stival e con il Club degli amici, dei sostenitori e dei benefatto-ri del giornale.

Il Club è un’occasione per consolidare la comunità che ruota intorno al quotidiano e per allargare i ricavi di un sito che resta gratuito ma che deve cominciare a transitare verso il caro e vecchio modello di busi-ness dei lettori che acquistano il giornale. Info su Linkiesta.it.

LINKIESTA CLUB

www.linkiesta.it/linkiestaclub

STUDENTI60 Euro

AMICI 120 Euro

SOSTENITORI600 Euro

BENEFATTORI1200 Euro

Una riunione di redazione de Linkiesta, a fine 2020

Gli amici, i sostenitori e i benefattori contribuiscono alle attività della redazione per migliorarne i contenuti e consolidare la comunità intellettuale del giornale

L I N K I E S T AC L U B

LINKIESTA FESTIVAL

Ogni anno, a inizio novembre, Linkiesta organizza il suo Festival al Teatro Parenti di Milano e in diretta televisiva su Skytg24 oltre che in streaming sul sito e sui social.

Tra gli ospiti delle prime due edizioni: leader politici, ministri, sottosegretari, sindaci, economisti, politologi, direttori di giornali, imprenditori, sindacalisti, rappresentanti di categoria, medici, chef, scrittori.J

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Il primo quotidiano italiano interamente dedicato alle questioni politiche, economiche e culturali delle istituzioni UE e dei suoi Stati membri

UN GIORNALE, QUATTRO GIORNALI

Ai primi tre numeri pubblicati nel 2020, ne seguiranno altri nel 2021 con maggiore regolarità, con un design innovativo e l’ispirazione delle Weekend Edition anglosassoni

Linkiesta è una media company contemporanea che edita 4 quotidiani al giorno e prodotti giornalistici digital, print e live

Nella seconda metà del 2020, sono usciti tre numeri di Lin-kiesta Paper, un giornale for-mato broadsheet di nuova pro-gettazione, contemporaneo ma anche ben radicato nella grande tradizione dei Sunday Paper anglosassoni, celebra-to dalla rivista Monocle come uno degli esperimenti di carta più interessanti dell’anno.

Nel 2021 Linkiesta Paper, con i suoi dorsi Europea, Ga-stronomika, Greenkiesta, Il lavoro che verrà e altri nuovi, tornerà nelle edicole di Milano e Roma (e sul sito) con un de-sign innovativo e contenuti di grande rilievo.

Un quotidiano digitale e un giornale di carta che si occupa della cultura del cibo, della sua industry e dei suoi protagonisti italiani e internazionali

Una sezione del quotidiano digitale e un dorso cartaceo de Linkiesta che fa da osservatorio di informazione e di dibattito sul mondo del lavoro

Il quotidiano del Linkiesta dedicato ai temi della salvaguardia del pianeta, della sostenibilità, dll’energia, dell’innovazione tecnologica green

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Una rivista letteraria. Di car-ta. Nel pieno di una crisi senza precedenti. Qualcuno potreb-be pensare che a Linkiesta be-viamo troppo, eppure la prima edizione di K è andata esauri-ta in meno di due settimane (tranquilli abbiamo stampato la seconda edizione) e stiamo già preparando il numero 2 (Primavera 2021) e il numero 3 (Autunno 2021).

Curato da Nadia Terrano-va e da Christian Rocca, il pri-mo numero di K ha coinvolto 19 autori italiani i quali hanno partecipato con un racconto originale scritto appositamen-te per il numero inaugurale de-dicato al Sesso, il tema più ba-nale e difficile allo stesso tem-po da affrontare in letteratura.

Il risultato è un volume di oltre trecento pagine, proget-tato da Giovanni Cavalleri e ar-ricchito dalle fotografie di Ste-fania Zanetti, dall’illustrazione di Maria Corte e da due anti-cipazioni di romanzi stranie-ri. Non perdetelo e prenotate il volume 2 sulla Memoria.

Nato da un’idea di Christian Rocca e curato da Nadia Terranova, K è stato disegnato da Giovanni Cavalleri

Il primo numero contiene 19 racconti originali dedicati al Sesso. A primavera 2021, il secondo fasciolo a tema Memoria

K , L A R I V I S TA L E T T E R A R I A D E L I N K I E S TA

Oltre ai racconti a tema, ogni numero della rivista ospita anche un servizio fotografico

K - VOLUME 1 SESSO con Camilla BaresaniJonathan BazziCarolina CapriaTeresa Ciabatti Benedetta CibrarioFrancesca d’AlojaMario DesiatiAnnalisa De Simone Viola Di GradoMario FillioleyDacia Maraini Letizia Muratori Valeria Parrella Romana Petri Lidia Ravera Luca Ricci Marco Rossari Yari Selvetella Elvira Seminara eDon Winslow Maggie O’Farrell

Ordinabile su Linkiesta.it

Acquistabile nelle migliori librerie indipendenti d’Italia (consulta elenco su Linkiesta.it)

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