Partially reworked draft of 2007 thesis (work in progress) [in italian]

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Michele Barontini FINE DEL JAZZ O ‘VIA NAZIONALE’ ? tempi, immagini, idee del jazz in Italia

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Michele Barontini

FINE DEL JAZZ O ‘VIANAZIONALE’?

tempi, immagini, idee del jazz in Italia

A Domenico e Mina

Prefazione

Questo testo è il rimaneggiamento di una tesi di dottorato in AntropologiaSociale presso la E.H.E.S.S. di Parigi e la Facoltà di Storia dell’Arte e delloSpettacolo dell’Università di Firenze, discussa nell’ottobre 2007. La tesi ha fi-nito per essere un lavoro abbastanza ponderoso, sulle vicende della diffusionedel jazz in Italia, nel contesto più ampio della produzione di cultura nazio-nale. Vicende talmente poco legittime e riconosciute nel quadro di un settoresempre meno conosciuto della vita del paese, da configurarsi in un ’destino’particolare. Particolare attenzione è data agli anni ’70, dei quali ho una espe-rienza di prima mano, ancora piuttosto viva, pur riconoscendo tutti i rischi diogni etnografia retrospettiva.

Infatti, molto presto, dopo avere avuto a disposizione uno strumento (unabatteria) nel 1971, l’incontro con il movimento della sinistra extraparlamenta-re della mia città mi faceva conoscere un grande appassionato di jazz, Giancar-lo ’Afo’ Sartori, il quale si batteva da anni affinché la questione Afroamericanafosse un elemento quotidiano della cultura politica della sinistra, e, soprattut-to, per portare il jazz contemporaneo nella città di Pisa. Accolto familiarmentenella cerchia di persone che conoscevano e amavano il jazz indipendentemen-te dalle eventuali cornici ’politiche’, non ho potuto che cercare di suonarlo,giudicando anche il rock e la pop music attraverso un filtro storico, diventan-do a mia volta, all’età di quindici anni, attivista di un complesso di idee, diaspirazioni e di sentimenti che associavano il jazz alla liberazione individualee collettiva.

Si trattava di un ideologia talmente complessa da non poter essere sem-plicemente definita come veicolo di un anti-americanismo che pure era moltodiffuso in Italia all’epoca, e che viene oggi sovente chiamato in causa comeparte del massimalismo culturale di una parte della sinistra, che vedrebbel’unica forza della cultura Nord Americana nel contributo del popolo Nero.

Più recenti lavori che si concentrano sui rapporti tra politica e industriaculturale nella costruzione dell’identità americana, danno ragione a chi intuivagià a quell’epoca che osservare più a fondo la battaglia condotta dagli artistiAfroamericani non costituiva un tema fra gli altri, ma era guardare all’essen-

VIII Prefazione

ziale della cultura degli Stati Uniti (Rogin 1996). Una volta compreso questosi esce dalla logica del giudizio definitivo e dello schieramento politico e del-le diatribe tra ’Bianchi’ e ’Neri’: gli appassionati di sinistra dovevano infatticostituire un gruppo molto particolare di compagni, poco o per nulla illusidell’impatto di qualsiasi condanna sommaria dell’America in generale.

Mi rendo conto che si tratta di un lavoro che non sviluppa molti dei nu-merosi punti di interesse che possono emergere dalla trattazione. Uno di essiveniva dall’incoraggiamento a ripensare le vicende ormai non più tanto recentidella diffusione del jazz dal punto di vista dell’antropologia, incoraggiamentoche veniva concretamente dalla Francia.

Ringrazio Patrick Williams e Jean Jamin per le conviviali e interessanticonversazioni e le preziose indicazioni, la Biblioteca « Franco Serantini » diPisa per la documentazione sui rapporti tra musica e movimento negli anni’70, Teresa Longo dell’Università di Nanterre per il sostegno alla scrittura, l’a-mico scrittore curatore delle pagine dedicate al jazz del quotidiano ‘Il Tirreno’,Afo Sartori e la moglie Gabri, i musicisti intervistati Filippo Monico, Mau-ro Grossi, Antonello Salis, Lello Pareti e Stefano Cantini, e tutti i musicistinon intervistati formalmente e consultati estesamente o occasionalmente tra iquali Roberto Bellatalla, Eugenio Sanna, Furio Di Castri e Tristan Honsinger.Considerandomi come parte in causa (’un musicista italiano’) e assumendomitutta la responsabilità di quello che dico, vorrei fosse ben chiaro che la maggiorparte dei luoghi di questo testo nei quali si esercita un legittimo diritto allacritica viene non solo dall’osservazione degli altri, ma anche, e forse in misuramaggiore, da quella di me stesso. Convengo chiaramente sulla parzialità delmio punto di vista personale, ma spero che i lettori siano ispirati a costruirela loro propria versione.

Qualcuno potrà vedere del pessimismo e un quadro negativo dell’Italiain generale, quando si moltiplicano le esortazioni ad amare il proprio pae-se. Dipende. Forse si può solo provare ad amare il proprio paese, e quelloche si continua ad amare è la propria gioventù, in realtà. In questo lavoro,che considero una riflessione ‘parzialmente conclusiva’, fatta intorno all’età dicinquanta anni, ho cercato di fare del mio meglio almeno affinché un lettorefrancese o uno spagnolo potessero capire quanto poco spazio a momenti idil-liaci tra noi ed il nostro paese ci sia stato in questi ultimi quarant’anni. Iltesto che segue non ne parla, ma c’è un collegamento fortissimo tra la cittàdi Bologna, cui è dedicata una parte che non tratta di jazz, e i tempi dellanarrazione. Nell’anno 1980, anno della più grande strage terroristica avvenutain Italia, il protagonista, amico e maestro Rafael Garrett si trovava vicino aBologna, nell’altra città universitaria del centro Italia, la citta di Pisa, la miacittà. La tempistica infame dell’attentato diceva che non c’era da indugiaree che il mondo era cambiato, che la strage stessa vi aveva contribuito, conquel modo di cambiarlo al quale il mondo sembra ormai rassegnato. Nel 1981Garrett tornò a Chicago, trovando una situazione in cui i musicisti della suagenerazione, quelli a lui più vicini e accomunati al suo passato erano sottopostia quelle che Anthony Braxton chiama le grandi ’purghe’ degli anni ’80.

Prefazione IX

Pur parlando di qualcosa che è oggi è resterà tutt’altro che un ‘affaredi stato’, ogni osservazione più approfondita sul contesto della società e del-la cultura avverte regolarmente l’ennesima e ulteriore svolta autoritaria, perquanto astute possano essere le sue mimetizzazioni, anche limitandosi ad os-servare le idee e le produzioni degli appassionati del ‘jazz italiano’ molto dopogli avvenimenti di cui si parla qui. Se tuttavia, così come accadeva per i primisostenitori del jazz in Europa, tutta la sua vicenda restava per noi quella diuna musica di ‘liberazione’, ci trovavamo oramai in compagnia di una schieradi appassionati e di nuove leve per i quali il jazz era semplicemente una listadi buoni musicisti, di eroi talvolta, ma che non aveva nessun rapporto con unconcetto del genere. Anzi.

Per concludere, è evidente il carattere di ‘assemblaggio’ di tutto il lavoro,talora verboso e ripetitivo, ma di cui spero si possa servire chi lavora di fanta-sia, come uno scrittore di narrativa o di soggetti cinematografici, per esempio.Magari entrandovi dai pochi concetti indicati nell’indice analitico. Del restotutta la storia che vi è raccontata, a brandelli, veniva forse dalla percezioneinconscia che nelle vocette urlanti e artefatte del rock ci fosse talvolta una ne-nia funebre, già percepita nel momento della sua maggiore influenza in Italia.Da qui la necessità di cercare quacos’altro, altrove. E qualcosa fu trovato.

2 agosto 2015 Michele Barontini

Indice

Parte I Introduzione:panorama d’insieme, problemi, metodi

1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre . . . . . . . . . . . . . . . 31.1 Per un’antropologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12

1.1.1 Digressione: Free-jaz in Mali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 351.1.2 Ripresa: tra antropologia storica e studi culturali . . . . . . 36

1.2 Sociologia della produzione simbolica e del gusto: Bourdieu el’art moyen . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 411.2.1 Riflessioni sul concetto di ’habitus’ . . . . . . . . . . . . . . . . . . 471.2.2 Il ’Campo Jazzistico’ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 501.2.3 Jazz e autodeterminazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 531.2.4 We Love N. Y. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56

1.3 Costruzioni storico-culturali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 581.3.1 Jazz in Italia : quali materiali e quale storia? . . . . . . . . . . 65

Parte II Il jazz come modernismo americano e come nuova moda

2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 732.1 Immagini dal ’campo’ italiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75

2.1.1 Contesti: interventismo della cultura . . . . . . . . . . . . . . . . . 812.1.2 Interpretazioni e riletture di contesto . . . . . . . . . . . . . . . . 852.1.3 « Zingari di lusso » . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100

2.2 Istituire il regionalismo italiano: il modello di ‘Strapaese’ . . . . . 1242.2.1 Altre facce di strapaese: Livorno e Trieste . . . . . . . . . . . . 136

2.3 Verso le conclusioni: sogni a metà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1392.3.1 Gli intellettuali e l’industria culturale . . . . . . . . . . . . . . . . 1402.3.2 La missione di Valentino Piccoli ad Harlem . . . . . . . . . . . 1412.3.3 New Deal « Bolscevico? » . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 144

XII Indice

2.3.4 Lo swing e la guerra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1452.3.5 Aggiustamenti: il jazz nel clima della liberazione . . . . . . 1502.3.6 Industria e sistema dei media: nuovi consumi di cultura 1532.3.7 Oltre strapaese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 160

Parte III Il jazz e la cultura popolare dell’Italia liberata

3 Immagini del jazz in un’altra Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1673.1 A Milano: « la Notte » e la mediazione del cinema . . . . . . . . . . . 1673.2 La « Dolce Vita » di Chet Baker . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1763.3 Poco prima del ‘68: nuove tendenze giovanili e cultura di massa1813.4 Max Roach, la Meazzi, e la gestione sociale della batteria . . . . . 1853.5 La città italiana verso gli anni ’70: scene di antropologia urbana1883.6 Le battaglie perdute del dopolavorismo democratico . . . . . . . . . 1923.7 Etnomusicologia e folk revival . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1943.8 « Nuove legittimazioni »: Eco, Schiano e Gaslini . . . . . . . . . . . . . 1973.9 Interferenze: sul dibattito antropologico in Italia . . . . . . . . . . . . . 2043.10 La generazione dei ‘70, e arrivano i Romani . . . . . . . . . . . . . . . . . 2093.11 Liberation Music Orchestra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2123.12 Mingus, Mingus, Mingus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2143.13 Il PCI e le nuove tendenze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2163.14 « Controindicazioni » e teoria della ’memoria remota’ . . . . . . . . 2203.15 Ancora modelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2243.16 Concerto e poi dibattito (1971-77) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2283.17 Le interpretazioni ’a caldo’ del ’68 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2313.18 Autonomia della cultura giovanile e musica . . . . . . . . . . . . . . . . . 232

3.18.1 Sulla periodizzazione 71-75 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2343.18.2 I giovani in persona . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 237

3.19 « Max », alias Massimo Urbani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2393.20 Black Power . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 244

3.20.1 Verso il ’78 e oltre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2463.20.2 Il CRIM di Pisa: approccio associativo al Jazz e

all’Improvvisazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 246

Parte IV Riconsiderando il ’Black Atlantic’ di Rafael Garrett

4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2514.1 La storia controversa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 251

4.1.1 Fonti: tornando a Du Bois . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2564.1.2 Osservazioni su middle-class, diasporicità e narrazioni . . 260

4.2 Narrazioni e ’microclimi’ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2624.2.1 Ancora nei paraggi d’Europa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2704.2.2 Space is The Place . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 272

Indice XIII

4.2.3 Diaspore d’Europa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2744.3 Ripresa: Jazz & Antropologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 276

4.3.1 Una presenza scomoda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2834.3.2 Friends & Neighbours . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2864.3.3 Dalle biografie dei musicisti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2874.3.4 Note di apprendistato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 289

4.4 Cadenza finale sospesa all’italiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2964.4.1 Appello al ’senso comune’ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3034.4.2 Match-making . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3084.4.3 Magari « Jazz e cultura mediterranea? » . . . . . . . . . . . . . 3114.4.4 Repliche: il caso Cafiso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 313

4.5 Conclusione mezzo tono sopra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 314

A Annesso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 319A.1 Interviste . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 319

A.1.1 Con Salis, Pareti, Cantini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 319A.1.2 Con Filippo Monico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 325A.1.3 Con Mauro Grossi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 329A.1.4 Con ‘Afo’ Sartori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 348

A.2 Annesso 2 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 361A.2.1 UN QUESTIONARIO

di Gianluigi Trovesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 361A.3 Annesso 3 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 363

A.3.1 Performance registrata: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 363A.4 Annesso 4 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 363

A.4.1 The Cry of Jazz (Bland 1959) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 363

Indice analitico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 393

Parte I

Introduzione:panorama d’insieme, problemi, metodi

1

Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

Attualmente, il jazz può essere visto come un modo di intendere la musicae la vita, il processo sociale di legittimazione di cerchie che si costruisconoattorno a ideologie diverse e contrastanti tra loro, organizzate in molteplicireti internazionali, nazionali e locali di produzione artistica e di rapporti so-ciali. Si tratta di gruppi che possono essere intesi come ’subculture’ che sirapportano con un repertorio enorme di registrazioni, storie, narrazioni, miti.In modi controversi il jazz (sotto forma di registrazioni musicali ad esso con-nesse direttamente o meno), può corrispondere anche ad un ’prodotto’, e ladiversa disposizione sociale ad interpretarlo come tale nel corso del tempo èsenz’altro significativa per rileggerne la storia.

Una ricerca puntuale sulle definizioni di ’jazz’ che si sono susseguite neltempo e secondo diverse prospettive ci porterebbe molto lontano, nondimeno,è senz’altro vero che il jazz sia stato un fenomeno che ha suscitato un interessesenza precedenti nel complesso quadro della cultura del Novecento (Carpitella1978), nella sua sostanza di « una delle più importanti invenzioni culturali delnostro secolo » (Jamin 1998:249).

La ricerca si propone di verificare le modalità con le quali il jazz si fastrada nella cultura italiana, tenendo presente che l’accoglimento e la reinter-pretazione del jazz in Italia è stato intensamente marcato dal suo passaggioin Francia, e che, in diversi momenti salienti di un radicale cambiamento dicultura musicale (specialmente negli anni ’20 e negli anni ’60-70), sia statoreinterpretato e ricollocato in uno spazio di attività, rapporti e connessioniin cui diversi tipi di ’pariginismo’1 si connettevano alle province d’Europa. In1 Il termine è parte del lessico della critica letteraria e artistica del Novecentoitaliano in quanto marcatura negativa dell’assunzione acritica di mode estere,specialmente nel periodo fascista, quando il primo ventennio del secolo, con lasua inquietudine e la forte conflittualità sociale e politica farà il paio con la belleépoque e sarà presentato come il vecchio modello di ogni vizio ed errore. Londra eBerlino, oltre a Parigi, sono i centri più importanti di questo commercio di jazz inEuropa con le sue connessioni con gli Stati Uniti, ma Parigi assume un significatoparticolare per l’Italia in quanto resta la capitale dell’arte, della moda, del buon

4 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

Italia i processi di ridefinizione del campo del jazz si presentano come lenti,faticosi e conflittuali. Tutta la ricezione e la storia ’difficile’ del jazz in Italiasono stati parzialmente spiegati con particolarità inerenti alla cultura nazio-nale e all’industria culturale: la banalizzazione e condanna del jazz nel periodofascista, una ricezione decentrata e provinciale per la mancanza di vere e pro-prie metropoli capaci di attrarre ed ambientare la pratica e la produzione, einfine comparando in particolare le differenze sostanziali nel sostegno alla ri-cezione del jazz da parte delle cerchie degli intellettuali francesi, con l’assenzadi un processo paragonabile a questo in Italia, nel primo quarto del Novecento(Mazzoletti 1983, 2004).

L’affermarsi del jazz coincide globalmente con la diffusione di massa deldisco e poi della radio. Parte della sua contraddittoria ’potenza innovativa’ èda mettere in collegamento anche alle modalità della sua comparsa e della suadistribuzione, veicolata dai primi mezzi di comunicazione di massa. Accantoagli eventi costituiti dagli incontri con le ’arti negre’ a teatro, il jazz tornacome ’oggetto’ di consumo che promette di venire incontro alle fantasie dellepersone, messe in grado di acclimatarsi alle innovazioni interiorizzandole, suo-nandole senza interruzione sui propri grammofoni, praticando a casa le danzealla moda, suonando insieme ai dischi. Data l’enorme importanza dell’intro-duzione del disco nella sua diffusione, trasmissione e riproduzione, il jazz come’moda’ coincide temporalmente con un tipo di approccio alla pratica musicaleche privilegia i materiali sonori e la registrazione piuttosto che la scrittura.Diventa importante notare, accanto al fatto che la presenza di forze ’vive’ diquesta musica in Europa è stata ed è fluttuante nel tempo connettendosi inmodo complesso alle sue vicende americane, che qui (più evidentemente chenella sua ’patria’) tutto un momento di iniziazione e di apprendimento si faintorno ai dischi, e che col mutare della cultura e dell’economia dei mezzi dicomunicazione, delle tecniche e dei supporti di registrazione, varia anche l’ideastessa di jazz e del suo ruolo in rapporto ad altri generi musicali.

È stato notato, nonostante i promettenti inizi dell’accoglimento delle ’artinere’ nella Parigi di inizio secolo, quanto il jazz si sia rivelato refrattario a far-si oggetto di studio antropologico (Jamin 1998; Jamin & Williams 2001). InItalia il discorso sulle origini del jazz assume respiro e spessore critico nel se-condo dopoguerra grazie in gran parte all’opera di LeRoi Jones (1968[1994])e alla sua ricezione sia nelle cerchie degli aficionado, sia nei contributi piùattenti ai rapporti che si venivano costruendo tra cultura musicale afroameri-cana e sociologia della musica (Carpitella 1978). Verso gli anni ’70 si diffondetra un pubblico più vasto l’idea della connessione delle origini del jazz conle tradizioni rurali delle work song, di quelle religiose come gli holy rolling,e, naturalmente, del blues. Soprattutto si afferma l’idea dell’impossibilità diprescindere dalla storia e dalla memoria dello schiavismo per qualsiasi valu-tazione del jazz (Jones 1968, Carles & Comolli 1973, Carpitella 1978). Piùdi recente, Cerchiari (1999) muove da queste problematiche per concepire un

gusto e dell’alta cultura.

1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre 5

’campo allargato’ etnologico di civiltà musicale afroamericana comprendentel’Africa e l’America Caraibica e Meridionale.

Il ’campo’ del jazz (Pierrepont 2001) è stato anche descritto (Becker 2004)o in qualche modo evocato (Goffman 1963) entro un certo tipo di cultura ur-bana moderna in cui vive e si riproduce secondo modelli sociologici studiatinella letteratura dedicata alle subculture urbane o alla devianza. L’interesseper lo studio di modelli di comportamento penalizza una maggiore penetra-zione riguardo alle persone concrete, allo spazio in cui si sviluppano le lorovicende e alla loro storia.

Per la letteratura che vede il jazz come oggetto storico-culturale (Hob-sbawm 1963, Jones 1968, Carles & Comolli 1973), invece, si tratta spesso diprivilegiare l’aspetto di uno spazio multiforme di pratiche sociali, le capacitàdi cambiare con grande rapidità non solo le proprie fasi stilistiche ma anchei propri ambienti e eventualmente le proprie ’scuole’ localizzate in vari centriurbani. Si sottolinea dunque il dato temporale accanto a quello spaziale: larapidità e dinamicità del susseguirsi delle fasi di sviluppo (hot jazz, swing,bebop, etc.), quanto la varietà e complessità delle sue capacità di apertura anuovi campi di solidarietà e di ricezione (Hobsbawm 2000).

La letteratura manualistica e di settore si è spesso servita di suddivisioniin periodi e categorie stilistiche generali entro cui collocare fatti biografici piùo meno noti e di rado tematizzare problemi storici. Una precisazione criticadi Diego Carpitella (1978) su questa letteratura ed un inquadramento gene-rale delle problematiche relative al jazz come oggetto di approfondimento e diricerca, compare in una rilettura etnomusicologica della sua parabola storica.Carpitella, in un conciso ed intenso contributo critico, proponeva di guardarealla storia del jazz secondo un criterio in cui si metteva in rapporto il suomodello-musicale autoctono alle innumerevoli repliche e attualizzazioni pos-sibili: tale modello avrebbe perso il suo carattere creativo alla fine del secolodiciannovesimo.

Attenendosi ad una prospettiva molto particolare (ma non nuova nellaletteratura)2 l’etnomusicologo italiano mostrava di ritenere che, in quantovicenda di sviluppo di moduli afroamericani di sintesi culturale, i momen-ti dell’appropriazione degli strumenti a fiato bandistici (sassofono, tromba,trombone e clarinetto), del perfezionamento tecnico della batteria e dello svi-luppo del piano stride nelle barrel house di Chicago, costituivano lo spartiac-que a partire dal quale ogni esecuzione di jazz sarebbe stata la replica di unmodello già formato. Come dire cioè che il momento dell’accoglimento deglistrumenti europei segna l’uscita dalla dimensione rurale e ’territorializzata’ del

2 Mi riferisco a tutte quelle interpretazioni del jazz che chiamano in causa la ca-tegoria del ’folklore’, tra cui quella di Hobsbawm (1963), e a un’idea che si faavanti molto presto nel discorso sul jazz come ’folklore’ nord-americano, accoltada Malipiero (1945) in una sua svalutazione presentata più avanti. Una recenteriformulazione della problematica riguardante i rapporti tra categoria di folklore edi popular culture nel campo statunitense è proposta da Levine (1992) e discussada Kelley (1992).

6 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

blues, significando, con la fine del processo formativo della langue folkloricaafro-nordamericana, l’ingresso in una logica affatto diversa.

Ma quale logica? Forse di un ingresso in una prospettiva di musica di con-sumo? O forse si tratta di notare che da una certa distanza la musica di JellyRoll Morton non sia così lontana come sembra da quella dei jazzmen attivinegli anni ’70? Purtroppo il concetto di replica nella pratica del jazz non vieneulteriormente sviluppato nel corso di questo contributo, concepito dialogandointensamente con il Le Roi Jones di Blues People (1968), e nel quale Carpitellainvita decisamente a vedere nel blues ed in altre forme vocali il vero nucleoformativo della musica afro-nordamericana. Vale a dire il modello secondo ilquale, in modo differenziale, si possono valutare le repliche e pervenire al fon-damento di una più matura estetica del jazz. Un altro argomento evidenziatoin questo articolo (1978 cit.) consiste nell’invito a comprendere e a condivi-dere con quello estetico il valore sociale e politico del ’primitivismo’ o megliodel ’nativismo’ della new music afroamericana, avvertendo però del rischio diaccoglierla direttamente e entusiasticamente come ’pratica imitativa’ da partedi una certa cerchia della produzione musicale giovanile del tempo. I già citatiavvertimenti a non fare troppo affidamento sulla manualistica del jazz, fatal-mente autoreferenziale perché basata su una ripartizione temporale e stilisticachiusa e ’standardizzata’, aprono a una nuova prospettiva di impegno criti-co sui rapporti tra blues, jazz e antropologia che sarà in seguito largamentedisattesa dall’etnomusicologia italiana.

Com’è noto, la cronologia che inquadra la definizione stilistica del jazzdipende in larga misura dalla discografia, che inizia dal 1917, presentando una’Jazz Band’ composta di soli bianchi, nel tempo in cui la Guerra Civile è allespalle, i Neri del Nord America hanno contribuito alla guerra e all’industriadi guerra e si discute di integrazione. Nel tempo, cioè, in cui si diffondono inuovi mezzi di comunicazione di massa, in cui il processo di industrializzazionee di urbanizzazione è all’apice e dopo che Booker T. Washington era stato alungo il rappresentante indiscusso degli Afroamericani e l’unico mediatorericonosciuto delle loro istanze nei confronti del potere politico.3 In questasituazione affatto particolare, che contribuisce sostanzialmente a dare formaad una standardizzazione che si baserà in seguito sulle opere e sulle peculiarità

3 Quando i musicisti della New Thing diranno che ’Jazz significa Jim Crow’ nonfaranno che richiamare l’attenzione su fatti storici. Il sistema della segregazionerazziale (’Jim Crow system’) si forma nel primo decennio del secolo scorso, quan-do i Neri vengono sistematicamente privati dei diritti acquisiti dopo la GuerraCivile (Silberman 1965:166). Quando, verso il 1905, le posizioni di Booker T.Washington e W.E.B. Du Bois, divergono apertamente specialmente rispetto alruolo degli intellettuali nel movimento per l’integrazione, Du Bois fonda NiagaraFalls Movement. In seguito la fondazione della NAACP (1910) segue alla rivoltarazziale di Springfield del 1908. Si intensifica la corsa al nord dei Neri richiamatinelle città dall’industrializzazione, mentre la segregazione nel sud si alimenta colterrore con una media di due linciaggi per settimana (Silberman cit. 163 e sgg.;v. inoltre Carles & Comolli 1973).

1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre 7

stilistiche delle varie fasi intese come differenza o sviluppo a partire dall’epocadel jazz (the age of jazz), la prima questione diventa quella di chiedersi se lastoria debba coincidere o meno con la discografia, come fa Patrick Williams(2001). Conviene dunque tenere presente queste osservazioni parallelamentea quella molto efficace dello stesso Williams secondo il quale la discografiapuò essere una potente ’machine a rèvér’ (Williams cit.) per l’appassionatoacquirente delle riedizioni ’integrali’ di determinate sedute di incisione o diincisioni su periodi più lunghi per determinati editori musicali.

Nel campo della ricerca storica, sociologica e musicologica italiana si è fattomolto poco per il jazz (Cerchiari 2003). Ciò non toglie che gli archivi mediatici,le collezioni private e associative possano fornire notevoli sorprese. Ma dato checi sono degli enormi vuoti di documentazione sulle incisioni di gruppi italiani(interi magazzini di 78 giri mandati al macero) e una politica di gestione’controllata’ degli archivi RAI (Mazzoletti 2004), specialmente parlare del jazzdell’anteguerra non può che portare ad interrogarci sul rapporto tra questamancanza di documentazione, il suo limitato rilievo ’pubblico’ ed il senso siadi ’eterno inizio’ che di ’eterno ritorno’ attribuito a questa parte dell’attivitàmusicale.

Esiste comunque una memoria abbastanza precisa delle ricezione localedegli eventi, dei progetti e delle connessioni sviluppatesi nel tempo tra cerchiedi aficionados e musicisti, alla quale è possibile e necessario riferirsi.

Sul piano più generale del commercio di prodotti culturali, in Europa, iljazz in quanto circolazione di dischi e libri ha avuto il merito di contribuiresostanzialmente al farsi di un’idea meno formale e più approfondita della cul-tura (non solo musicale) degli Stati Uniti. Da questo punto di vista vi sonostate sino dai suoi inizi interpretazioni che guardavano verso l’origine del jazze verso il blues come fonti primarie della popular music americana, accanto adinterpretazioni che lo vedevano come una moda passeggera, oppure, al contra-rio, come fenomeno di più vasta portata, capace di cambiare il modo stesso diconcepire la musica.

Un discorso sul jazz che intende porsi come autonomo da motivazioniextra-musicali comincia a porsi molto presto in Francia, con Hugues Panassiée con l’istituzione degli Hot Club de France. L’emergere di un tipo partico-lare di specialisti e appassionati che operano per la sua ’legittimazione’ entrocerchie più vaste di pubblico e nelle cliques della cultura ufficiale, permettedi intervenire sull’ambigua questione di quale sia il ’vero’ jazz e quale sia ilrapporto tra modello e replica. La competenza ’di campo’ di Panassié dirigea lungo l’attività associativa volta alla affermazione del jazz nel dominio delgusto artistico (Tournès 1999).

Più che nella ricerca sul jazz, le problematiche della legittimazione, dallasociologia della cultura di Bourdieu sono sempre più spesso evocate al fine difornire un quadro riferimento teorico negli studi sulla cultura e sulla ’popularmusic’, accanto alla tematica Gramsciana dell’articolazione in opposizione aquella del rispecchiamento tra società e arte (si veda p. es. Middleton 2001:24-57). In questa sede si cerca di porre l’attenzione al processo di ’legittimazione’

8 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

del jazz in Italia ed ai suoi esiti sul piano diacronico alla luce di alcuni concettichiave della sociologia della produzione simbolica di Pierre Bourdieu.

Il processo di legittimazione di una produzione simbolica specifica puoconvergere o coincidere con la legittimazione dei sostenitori e produttori. Inquesto ultimo caso in particolare, gli interessi e strategie dei musicisti e quelledegli aficionado e dei sostenitori del jazz sulla carta stampata sembrereb-bero logicamente contigui, ma possono implicare notevoli differenze propriosul piano sociale dell’habitus dei singoli attori. Inoltre, mentre la produzio-ne musicale si costruisce intorno ad una rappresentazione di continuità o direinterpretazione, il discorso sulla musica sembrerebbe piuttosto avvantaggia-to dal senso della discontinuità. Tuttavia, nella pratica musicale, è difficiledistinguere che cosa sia elemento di continuità dal suo contrario nella produ-zione di un interprete come Ray Charles, il quale si legittima reinterpretandoe ’gospelizzando’ i classici di Tin Pan Alley nel quadro della popular musicdegli anni ’50 e ’60 (Middleton 2001:37), riattivando in un nuovo contesto unprocesso di circolazione ’interculturale’ atlantica (Gilroy 1993; v. oltre pp. 9e 25 e sgg.).

Evidentemente è in gioco tutta una rappresentazione del nuovo mondo edelle sue capacità di creare modernismi innovativi: il letteralmente ’inaudi-to’ dei nuovi personaggi sonori. In diversi momenti, e attorno ad interpretie compositori che costituiscono ben presto una trama di tempi e ambienticomplessa, si rinnova l’interesse per quello stesso ’flusso’ tramite il quale iljazz si era precedentemente accreditato presso un vasto pubblico mondiale.Ponendosi come interpreti di questo fenomeno culturale, in Francia, Panassié,Hodeir, Vian e altri seppero a loro tempo inventare un modo creativo di favo-rire l’acclimatazione del jazz nella società francese e legittimare nel contemposé stessi.

La necessità di un ’drappello creativo’ di sostenitori del jazz, la solidarietàdi altri campi dell’arte (Cocteau, Mondrian, p. es.) e della letteratura è unaquestione importante e registrata come carente nel quadro italiano (Mazzo-letti 1983, 2004; v.oltre a p. 97). Questo tema particolare, caratteristico dellaricezione del jazz in Europa, assume una dimensione particolare laddove l’e-clettismo si accoppia al dilettantismo e al provincialismo, divenendo veicolo dicontroversie di legittimità culturale. Procedendo su questo piano è interessantenotare come il sostegno al jazz si trovi spesso a fare i conti con una situazionein cui la legittimazione è in gran parte mediata da quello che Philippe Lejeunechiama ’patto autobiografico’ (1986), e cioè un accordo tra lettore e autore incui la posta in gioco è l’identità di quest’ultimo4

4 O di entrambi. Il problema è sollevato acutamente da Jean Jamin (1998:262-263)in un modo diverso da come è accennato qui. Per Jamin il fatto di essere un’artedel momento e del luogo solleva la questione biografica nel jazz. Ma questa diventaun problema difficile da superare in etnomusicologia, volendo privilegiare il do-cumento musicale e rendendo conto delle circostanze di produzione della musica,dato che sarebbe difficile pensare ad un patto audiografico. Questo rende par-zialmente conto della limitata presenza in etnomusicologia di studi sul jazz. Per

1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre 9

Infatti vi sono stati anche qui gli schieramenti di personaggi di rilievo dellacultura dalla parte del jazz, e anche in Italia, nel momento cruciale della suaprima diffusione popolare in tutta Europa, si assiste a una spaccatura trainterpretazioni positive e vere e proprie stroncature e condanne irrevocabili.In Italia il sostegno al jazz si costruisce rispetto ad una pregiudiziale ideologica(sempre rinnovantesi) della debolezza degli Italiani di fronte alle mode altrui.Il ’dandysmo’ del jazz (Jamin & Williams 2001) è stato marcato come segno diuna tendenza al cosmopolitismo culturale opposto alle scelte politico-culturalidel regime fascista, vale a dire all’impresa di costruire sé stesso nei nuoviItaliani. Questa rappresentazione va ben oltre i limiti temporali del periodofascista: lo precede e lo segue di molto. Persino nella stampa specializzataitaliana del jazz la polemica tra detrattori e sostenitori delle tendenze piùattuali è continuata sino ad oggi secondo una polarizzazione ideologica tracosmopolitismo e nazionalismo culturale.5 Infatti, molti ritenevano negli anni’60 e ’70 che il free jazz non avrebbe avuto un futuro perché non si potevariprodurre, e che solo la frequentazione della tradizione avrebbe potuto fondarea pieno diritto l’edificazione di una scuola di jazz ‘nazionale’. In questo senso,quello più disponibile alle reinterpretazioni, parlare di jazz significa verificarela disposizione ’strutturale’ all’adattamento e alla negoziazione dei produttoridi cultura in un campo in cui il discorso della legittimazione si intreccia adifferenti e controversi discorsi di potere e di convenienza politica e socialesuscettibili di variazioni apparentemente sorprendenti.6

Carpitella privilegiare il parametro musicologico sarebbe arbitrario, dato che quel-lo etnologico o ’razziale’ è presupposto essenziale alla comprensione del fenomeno(1978:913).

5 Benché tutt’altro che sopita questa polarizzazione ideologica nella stampa tieneoggi, secondo un processo di adeguamento ai tempi che si rivela negli anni ’90, untono apparentemente più neutrale in cui si tende a pensare più a ’prodotti’ che aprese di posizione e di idee.

6 Intorno alla metà degli anni ’30 la creazione dei primi Hot Club nazionali a Torinoe poi a Milano significava la comprensione della modernità del jazz, un elementodi cosmopolitismo che si accordava con l’idea del jazz nella swing era. La ricezio-ne si diffonde poi enormemente durante la guerra e dopo. quando i canali sonoquelli diretti degli americani in casa propria. Verso la metà degli anni ’50, neglianni della ripresa economica, il centro della cultura torna ad essere la Franciacon l’esistenzialismo, e mentre lo sguardo torna ad essere rivolto all’interno delpaese, si avanzano i primi pesanti dubbi sulla natura di vero e proprio progressodell’industrializzazione italiana. Negli anni ’60 e ’70 nel clima della guerra freddaed in seguito, con la prima seria crisi economica che segue all’industrializzazione,c’è una transizione verso la popolarizzazione dei consumi culturali (con la popularmusic anglosassone) accompagnata dal dibattito sui rapporti tra nuova industriaculturale, politica e identità nazionale. Questo dibattito va di pari passo con unapolarizzazione di istanze di legittimazione culturale che sostengono una ’via na-zionale’ come parte di una più ampia ’via europea’ al jazz. Tutti questi momenti,qui sommariamente elencati, hanno influito direttamente sul carattere delle con-nessioni tra cerchie della produzione e quelle della distribuzione e del sostegno

10 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

Assume dunque un significato tutto particolare, oggi, una ricerca centratasull’ambiente di New Orleans tesa a mettere in una nuova luce il contributodei musicisti italiani emigrati negli Stati Uniti.

Nick La Rocca e gli altri musicisti bianchi della stessa generazionevedrebbero finalmente riconosciuto il merito, atteso da troppo tempo,di essere stati i primi a suonare una musica diversa dal ragtime e chenel 1916 a Chicago fu battezzata jazz (Mazzoletti 2004:33).

Emerge qui un argomento paradossale: gli Italiani erano anche a New Or-leans dunque questo fatto legittima la seguente ’scuola bianca’ di Chicagoe riconferma la gloria di Nick La Rocca come primo musicista di jazz7 Un’merito’ di ’musicisti bianchi’ sarebbe ’atteso da troppo tempo’, ma che cosaè atteso? Chi attende? La posizione di primi musicisti bianchi, nonostante siriferisca ad una presenza che fu realmente importante a Chicago, ma anchea New Orleans, non sarebbe prossima a quella di altri famosi personaggi co-struttori di potenti entità mafiose che in fondo hanno fatto moltissimo per iljazz negli anni venti e trenta? Inoltre, il primato tra i ’bianchi’ del jazz nondiverrebbe in questo modo elemento di contesa tra Ebrei e Italiani? Manca an-cora molto per trattare i contributi degli emigranti italiani al jazz, tra questouna puntuale definizione dello spazio culturale ’diasporico’ in cui si diffondevae si animava la pratica jazzistica.

Questo modo di porre la questione si spiega col fatto che nel passato recenteNick La Rocca e la sua Original Dixieland Jass Band sono stati presentaticome coloro ai quali ’toccò l’onore di registrare il primo disco di jazz’ (Carlese Comolli 1973:34). È stato poi dato risalto a questo fatto secondo quellalogica di sfruttamento dell’impresa e della distribuzione musicale che è partedell’esperienza storica della musica afroamericana.8 La diffusione di questaversione tra gli aficionados in Italia ha urtato la suscettibilità di una parte

politico. D’altra parte essi preludono alla odierna visione del jazz (a cui le cerchiedella distribuzione e di produzione hanno contribuito conformandovisi più o me-no agevolmente) come ’prodotto’ e come forma di spettacolo, come laboratorioartigianale di acquisizione di competenze, di registrazione, di produzione di even-ti musicali ed eventualmente come ’colore’ che serve a conferire valore aggiuntoad alcuni tipi di ’popular music’. Si direbbe in conclusione che sia oggi in causal’immagine e la replica del jazz piuttosto che la cosa in sé, fatto che potrebbeessere valido per molte altre forme d’arte e di spettacolo.

7 Nick La Rocca ha sostenuto il primato della ODJB, e con esso l’idea dell’apportoitaliano alla nascita del jazz, con i mezzi più brutali: ’... the negro learned thismusic from the whites ... the negro didn’t play any kind of music equal to whitemen at any time’ (Burns 2000, episodio 1, The Gumbo, 57:00).

8 Fatto talmente noto da essere completamente interiorizzato nel linguaggio deglispecialisti dell’adattamento musicale più attivi all’epoca del regime fascista. Cosìuno di loro, che resta nell’anonimato ma che sembrerebbe essere il maestro E.L.Poletto, parlando del rapporto coi propri editori, racconta a Michele Straniero(1978:203): ’Il guaio è che la maggior parte me le pagavano in contanti e poi idiritti se li tenevano loro, insomma mi toccava fare il negro. In moltissimi casi ho

1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre 11

delle cerchie della critica9 e di parte dei musicisti stessi, i quali hanno attesopazientemente il momento di rifarsi. Ed il momento è venuto quando ognisorta di rivendicazione del ’genio italiano’ è stata sottolineata e recuperatacondannando l’anti-nazionalismo e l’internazionalismo velleitario del ’68.

Il segnale che l’orientamento delle cerchie della critica jazzistica italianacambiava fino al punto di polarizzarsi intorno ad una versione contraria a quel-la dello sfruttamento dei bianchi della creatività musicale dei neri, può essereindividuato in un tentativo di adeguamento colto ad un livello di legittimi-tà ’nazional-popolare’. Si tratta di un articolo sociologico di Luigi Bonifazi,il quale definiva il lavoro di Carles e Comolli (1973) come ’meno pregevole’(rispetto a Blues People di Leroi Jones/Amiri Baraka), attaccava ’l’abbaglian-te concetto di negritudine’ come ’sacrificium intellectus’ e in quanto costru-zione ideologica, finendo addirittura per domandarsi se esista ancora, oggi,una comunità e una cultura afroamericana, per concludere che non esiste più(Bonifazi 1985:16-17).

Anche in Italia il mondo del jazz non ha mancato di interessare i letteratioltre che i musicisti. Tra gli scrittori più popolari del novecento italiano, OrioVergani scriveva un romanzo ambientato nel mondo del jazz (Vergani 1928),Mario Soldati parlava affascinato di Harlem e di Chicago ma condannava l’A-merica ’matrigna’ del sogno degli emigrati (Soldati 1935). Tra i modernisti ilcompositore e pianista Alfredo Casella si schierava a favore del jazz dalle sueposizioni di futurista moderato e di personaggio autorevole dell’establishmentmusicale nazionale (Casella 1931). Si tratta spesso di lavori modesti e circo-scritti quali isolati contributi di futuristi (Miletti 1934) o di parti di discorsipiù generali sull’America, sulla crisi e sul New Deal, che richiederebbero unatrattazione a parte. Ci si è poi sforzati molto di più, almeno agli inizi, disvalutare il jazz da parte di esponenti del teatro e del cinema ufficiale comeBragaglia (1929), da narratori alla moda (D’Ambra 1929; Monelli 1933; Picco-li 1934), o dal punto di vista della più alta cultura musicale (Malipiero 1945).

rinunciato alla percentuale e al nome’. Per un quadro più articolato di condizionicontrattuali penose nei confronti di Bud Powell si veda Paudras (1986).

9 La domanda se ’i bianchi’ possano suonare jazz, diventa problema di redistribu-zione del lavoro negli anni ’80 (si veda per q. Braxton sulle ’purghe degli anni’80’, a p. 297). Così Franco Fayenz ne parla con Ornette Coleman, il quale glirisponde che possono senz’altro farlo. Ma il critico insiste: ’...a questa domandanumerosi suoi colleghi usano replicare che, al massimo, alcuni bianchi riesconoa suonare bene il jazz strumentale, mentre falliscono totalmente nel jazz vocale,e fra gli altri cito il nome di Archie Shepp. Ma mi accorgo subito che Ornet-te nutre forti dubbi sulla sincerità di questo solista e lo considera fuorviato dalprevaricante impegno politico’ (Fayenz 1981:93). Da notare che questo è l’unicoluogo dove Shepp viene citato in questo libro. Sostenitore di Franco Fayenz (cheoggi scrive sul ’Giornale’ di Berlusconi) è lo scrittore e critico Afo Sartori, inizialepromotore del Circolo Ottobre di Pisa negli anni ’70, emanazione culturale delmovimento comunista ‘Lotta Continua’, del quale si veda l’intervista in annesso.Si veda inoltre alla voce ‘polemiche’, in indice analitico.

12 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

La critica al jazz di Malipiero, brevemente discussa più avanti (p. 125), impli-ca una critica alla cultura e alla società italiana nel suo complesso e assumeun rilievo particolare velandosi di quella ufficialità che evocava, auspicando ilritorno alla normalità e alla legittimità, nei momenti in cui il dibattito sulla’nuova musica’ tornava all’ordine del giorno in tutta Europa. Il momento incui la ’verità’ del jazz portato dalle truppe americane svergognava la ’replica’della jazz band fascista.

1.1 Per un’antropologia

Accogliendo il suggerimento di Jamin e Williams (2001), la diffusione del jazzin Italia sarebbe dunque una delle ‘appassionanti questioni’ poste all’antropo-logia dai rapporti di questa musica col Vecchio Continente. In un luogo dellostesso contributo10 i due antropologi francesi mettono in discussione una ideadel jazz in quanto musica della comunità dei Neri americani che ’africanizza’ciò che ’prende a prestito’ dalla cultura dei propri colonizzatori.

Une anthropologie du jazz devrait pouvoir répondre simplement à cesquestions: comment cette musique, si elle est bien celle d’une commu-nauté, peut-elle recevoir l’adhésion des personnalités qui, ni de prèsni de loin, ne sont lui pas liées? (. . . ) Frankie Trumbauer, Bix Bei-derbecke, Frank Teschemacher, Pee Wee Russel..., qu-avaient ils de« noir » ces collégiens de l’Austin High School, comme les appellesLucien Malson? (1983) La réponse est a chercher à la fois du côtédes musiciens et du côté de la musique. Ceux-là appartiennent à lasociété américaine mais ils n’adhèrent pas a ses valeurs (. . . ) Pourcertains d’entre-eux, la coïncidence entre le jazz et l’attitude critiquedevait être immédiate (. . . ) Jouer entre-eux, en petits comités, uneautre musique, c’était adopter une position d’observateur où le jazz semettait à distance du jazz, la musique critiquant la musique, et biensûr la société (. . . ) Celle-ci, la musique, montre une sophistication qui,probablement, tient à ses origines mélangées : qualité première la di-stinguant de tout ce qui, précisément est à ses racines et l’ouvrant àd’autres que les afro-Américains. A Chicago dans les années 20, a LosAngeles et à San Francisco dans les années 50, ces jeunes gens n’ontpas eu le sentiment d’emprunter une tradition. Tout de suite, la jazza été leur musique (Jamin e Williams 2001:24-25, corsivo mio).

In questa lunga citazione compaiono diversi argomenti di discussione. Ilprimo consiste nel concetto di mélange, vale a dire in una origine di sintesidovuta al contatto di culture musicali diverse, sul quale concordano molti

10 Posto come introduzione ai lavori presentati in un dibattito pubblico dedicatoai rapporti tra jazz e antropologia e raccolti in un numero unico della rivista«L’Homme», n. 158-159, 2001.

1.1 Per un’antropologia 13

autori,11 che implica la valutazione del jazz come qualcosa di diverso da unostile etnico e che non è detto neanche che appartenga alla comunità che piùvi ha contribuito, essendo spesso considerato come parte di un fenomeno piùampio ed in cui la questione degli apporti delle minoranze può porsi solo su unpiano politico12 come valutazione positiva del loro contributo all’edificazionedella cultura nazionale.

Il secondo è una conseguenza diretta del primo, e cioè il fatto che il jazzpresenti molto presto una vocazione all’apertura, un senso di universalismoche non esclude che sia praticato, apprezzato e reinterpretato da altri gruppisociali che non siano quelli dei Neri Americani. Consegue da questo l’inclusionedella questione del mélange in quanto elemento essenziale della modernitàvista dal punto di vista delle culture afroamericane (Gilroy 1993:73), con laloro capacità di dare forma a un fenomeno musicale unico nel suo genere ecapace di suscitare un interesse tanto ’vasto e plurimo’ (Carpitella 1978:913).

Il terzo argomento è quello della poca congruenza della categoria di ‘pre-stito’ nell’interpretazione del processo di sviluppo e diffusione, sia in quantoadesione o adozione di elementi culturali provenienti da una tradizione etnica,sia in quanto importazione di modelli americani. Il quarto argomento riguardala capacità di mobilitazione di forze più o meno coscientemente dissidenti el’assunzione di una posizione critica dinanzi alla società nel suo complesso.È qui incluso anche il tema del dissenso generazionale, che, specialmente inEuropa e negli Stati Uniti, è da considerare come un altro importante trattodella modernità.

Per discutere questi punti è necessario operare una apertura di campo suproblematiche, interpretazioni e perfino sul linguaggio di discipline che sonoandate costituendosi parallelamente alle stesse pratiche musicali.13 Il jazz si

11 Un consenso che non coincide coi frequenti appelli al ’meticciato’ culturale. Inquesta sede sono tenuti presenti in particolare i due contributi importanti diGilroy (1993:73) che ne fa un argomento centrale per la sua tesi del Black Atlantice Williams che definisce il jazz ’art de l’échange et du mélange’ (1991:15) nelcontesto di una comparazione tra cultura e musica ’Zingara’ e Afroamericana(op. cit. p. 11 e sgg.).

12 Innumerevoli testimonianze autobiografiche di musicisti afroamericani tengono aprecisare di non aver percepito il jazz come qualcosa di separato dalla musica ingenerale e da altri stili. Quando la questione della autonomia dell’arte afroameri-cana è stata posta, per esempio da personalità della cultura e della politica comeW.E.B. Du Bois e poi da Malcom X lo è stata secondo i criteri più ampi possibile.Le condizioni sociali degli afroamericani e le condizioni di produzione del jazz,fanno osservare a Ornette Coleman, nel bene e nel male, che ’nel jazz il Negro èil prodotto’ (cit. in Pierrepont 2002:57).

13 Si pensi al termine mainstream, ed alla sua attuale fortuna nel lessico delle scienzesociali. Secondo Charles Fox, il termine fu coniato dal critico inglese StanleyDance verso la fine degli anni ’50, ’in a moment when the music itself was eitherbeing scoffed at by the smarter modernists or condemned as deviationist by NewOrleans purists’ (Fox 1972:13). Il termine definiva una selezione che allora siiniziava da Jelly Roll Morton per giungere sino a Charlie Parker.

14 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

fa strada nel Novecento di pari passo col farsi progressivo delle idee stesse dimodernità. È fatale che esplorare il suo sterminato repertorio bibliografico ediscografico e quello di una propria tradizione orale significhi incontrare in-tuizioni folgoranti e fraintendimenti clamorosi, analogie fuorvianti e paradossicorretti.

La categoria antropologica di ’prestito’ si associa allo studio delle originidel jazz, ma tali origini sono difficilmente comprensibili prescindendo da unaprima immediata selezione su un materiale eterogeneo di pratiche, luoghi, bio-grafie, documenti sonori. Già nel primo quarto del secolo ventesimo prendeforma sotto specie del ’dandysmo’14 della élite estetica dei musicisti e degliaficionados quello che sarà chiamato stile hot e che si definiva differenziando-si dall’idea più diffusa e ’middle class’ di jazz. Un idea, quest’ultima, tantoebraico-americana quanto nera: quella rappresentata dall’enorme successo diautori come Irving Berlin e George Gershwin, poi dall’orchestra di Paul Wi-theman. Che vi sia stata una doppia identità: hot-jazz per i conoscitori edun jazz tout-court (straight) ’nuova moda’ per i profani, sarà la discriminanteprincipale della prima ricezione e della diffusione.

Questa dicotomia si costituisce in uno spazio culturale la cui meravigliosaaura di novità attiene ad una rivoluzione tecnologica (Appelrouth 2003:118)e all’emergere di una industria culturale globale del disco e del cinema senzaprecedenti. Fanno qui la loro comparsa i professionisti di generi di intratte-nimento ottocentesco americano quali il vaudeville e le minstrelsy, generi chesignificheranno a lungo la memoria della schiavitù per gli Africani degli StatiUniti. In un articolo dedicato ad una minuta rilettura del film «The Singerof Jazz», interpretato dall’entertainer di origine ebraica Al Jolson truccato in’Blackface’, inizio del cinema sonoro in occidente, Michael Rogin (1992:437)scrive:

[...] Jews had almost entirely taken over blackface entertainment bythe early twentieth century. Jewish song writers also turned to black-derived music to create the uniquely American, melting pot sound ofthe jazz age.

Citando un articolo di John Tasker Howard, comparso nel 1920 sulla ri-vista « Variety », Rogin prosegue la sua argomentazione sottolineando cheintorno agli anni ’20 il jazz, cominciato dai Neri15 stava diventando ’a Jewishinterpretation of the Negro’. Una ’vocazione’ i cui adepti avrebbero potuto

14 Su questo argomento, importante perché viene proposto nel corso di una riflessionesugli scopi e i metodi di una antropologia del jazz (Jamin & Williams 2001:24 esgg.) si ritornerà in seguito.

15 Le preoccupazioni dei pastori afro-americani i cui rapporti si leggono nell’indaginesociologica On Morals and Manners of the Negro, del 1913, riguardano sia il nordche il sud. La musica di cui si parla è il cosiddetto ragtime o più in generale’syncopated music’: Syncopated music with its sensual stimulus is in every housewith a piano and dancing at any hour (Du Bois & Granville Dill 1914:92).

1.1 Per un’antropologia 15

varcare indisturbati le porte di qualsiasi sinagoga dato che ’those who makeup The Syncopated Symphony were Jews’ (l. cit.).

Mélange e miscegenation, accanto a ’commercio’, sono le parole chiave checompaiono assai precocemente nei commenti di coloro i quali si propongonodi discutere la sostanza innovativa dell’età del jazz e del suo esito epocaleagli albori del consumo di massa della cultura. Ripensare oggi la lunga stradapercorsa dalla metafora del mélange significa anche anche cogliere un riman-do immediato al carattere spiccatamente performativo di questa musica. Uncarattere cioè la cui apertura alle varie interpretazioni chiama in causa im-mediatamente l’aspetto storico di un complesso di simboli e comportamentidi cui interi gruppi si impadroniscono e con la quale si identificano. Si trattainfatti di una musica che ’joue ce qu’on dit qu’elle est’ (Jamin 2001:298), chediventa (o pare diventare) quello che diciamo o che vogliamo che sia.16

Nel farsi del melting pot americano, le condizioni sociali del commerciodi cultura rendono possibile la costruzione di una ’versione ebraica’ del jazzparallelamente alle posizioni egemoniche che la comunità ebraica america-na andava assumendo nel cinema e nel teatro musicale17 Immediatamenteil carattere ’commerciale’ di questa versione, la sua stessa fortuna e la suacompromissione col varietà, pone con forza la possibilità che esista in qualcheluogo una versione ’autentica’ e che sia possibile incontrarla

Un fenomeno comparabile è documentato per la Jugoslavia da Vidic Ra-smussen (1991, 1999). Verso la fine dell’ordinamento comunista federale, l’e-mergere di una ’nuova’ musica rom è stata preceduta da successi commercialidi gruppi di musica tzigana come i Sar e Romà, composti da non-rom. Accan-to all’interpretazione dell’appropriazione di una pratica musicale in quanto’furto’ (peraltro largamente documentata anche nella letteratura del jazz con-temporaneo) rafforzata dal suo significato ’etnico’, si può supporre che questisuccessi non abbiano fatto che annunciare ed incoraggiare l’emergere di nuoverisorse e progettualità e che tali vicende possano essere viste in quanto capacidi fungere da catalizzatori di un processo di ’ri-etnicizzazione’ di musiche giàaccolte presso il pubblico più vasto. . Ma c’è anche una solidarietà originaleed un continuo commercio tra le diverse versioni del jazz che fa sì che moltimusicisti e dai punti di vista più diversi siano contrari a spiegare le origini

16 Jamin osserva che la comparsa del Free Jazz non ha cambiato per nulla questacaratteristica. L’importanza della composizione e della partecipazione del pubbli-co, quella dei luoghi e delle circostanze sottolineata da Jamin (2001), Jamin &Williams (2001) e da Williams (2001), non distingue il jazz da altri tipi di musicadel mondo ma contribuisce a comprenderne meglio la sostanza.

17 Il film Top Hat (Cappello a Cilindro), diretto da Marck Sandrich e uscito nel1935, musica di Irving Berlin e testo provieniente da una commedia ungherese diAlexander Farago e Aladar Laszlo, testimonia una doppia corrente atlantica dicircolazione di cultura che definisce i prodotti culturali della modernità novecen-tesca. Ma mentre l’Europa provvede gli Stati Uniti di scienziati (tutta la fisicaitaliana e tedesca con Fermi e Einstein), gli Stati Uniti sembrano rispondere conjazz e intrattenimento, portando acqua al mulino dell’antiamericanismo europeo.

16 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

del jazz come qualcosa di esclusivamente ’afro-americano’. Eppure le grandipersonalità del jazz degli anni ’20 erano ben coscienti del valore e dell’impegnodei musicisti Neri: in ’Music is My Mistress (Ellington 1981) Duke Ellingtonracconta a più riprese di un Paul Witheman che si recava spesso ad ascoltar-lo al Kentuky Club, dove suonava negli anni ’30, mostrando pubblicamenteil suo apprezzamento e non dimenticando di esprimerlo concretamente conbanconote da cinquanta dollari.

Il discorso introduttivo di Jamin e Williams tocca anche la questione del-l’aspetto generazionale del jazz, che assume un ruolo importante per l’inter-pretazione dei movimenti free degli anni ’60 e ’70, dato che, per coloro chese ne fanno promotori, il jazz significa una partenza da zero. Come dice beneWilliams in altra sede, ’le projet du jazz est bel et bien de changer l’ordre dumonde’ (Williams 1991:14). La controparte eufemistica di questa idea compa-re spesso nella letteratura specialistica del jazz e si traduce nell’idea (mezzaverità sentimentalmente borghese) che ogni generazione di ’veri’ aficionadoabbia i propri miti, i propri dischi, il proprio gergo e i propri luoghi, e cosìvia. In altre parole si tratterebbe della memoria del proprio ’momento’, dellamusica della propria giovinezza, opinione la cui cristallizzazione ingenua tuttaspostata sull’aspetto del consumo (di idee, di miti, di utopie oltre che di pro-dotti) taglierebbe corto su ogni approfondimento. Al contrario, questo ’rifareil mondo’ ha un proprio senso ben definito nelle crisi degli anni ’30 e ’40,poi degli anni ’60 e ’70, quando configura la solidarietà ideale sia di gruppidi giovani emarginati dalla vita reale dalla lunga immersione nelle istituzionieducative delle classi medie e sia dei giovani disoccupati delle classi lavoratriciintenti a cercare di improvvisare le proprie giornate i quali fanno conoscenzae solidarizzano appassionandosi alla versione ’vera’ del jazz, che col passaredel tempo diventa sempre più quella ’Nera’ (v. n. 21).

Per quanto riguarda il ’vero jazz’ o, forse, the real thing18 compreso cometensione verso il contesto sociale e simbolico che lo fa vivere, è oggi più chia-ra, con il progredire della sociologia e dell’antropologia dell’emigrazione, deglistudi post-coloniali e di genere, che una migliore comprensione delle sue fasipassa per l’accresciuta conoscenza del processo di urbanizzazione di cui sonoprotagonisti gli Africani degli Stati Uniti. Guardare ai movimenti dei musicistiche come King Oliver e Louis Armstrong si trasferiscono da New Orleans aChicago, ma anche valutare, come fa Maybeth Hamilton (2000), l’apporto dipratiche sociali e ambienti come i rent parties, di interpreti femminili qualiMa Rainey, Bessie Smith e Ida Cox e poi Billie Holiday, a lungo viste comepersonaggi mitici ma tutto sommato senza seguito, eccezionali figure che con-fermano la regola delle narrazioni ufficiali, che per lungo tempo sono stateversioni maschili, della storia del jazz (Duval Harrison 1993).

18 Per una trattazione più ampia del concetto di autenticità nell’arte americana,fondamentale nella storia del jazz, si veda Orvell (1989).

1.1 Per un’antropologia 17

Considerare l’enorme portata del movimento di urbanizzazione19 afroa-mericano è di vitale importanza per contestualizzare la costruzione della tra-dizione del jazz. Notare che solo cinquant’anni passano dal 1925 al 197520

significa prendere atto della lunga strada percorsa dal processo di innovazionestilistica in un periodo tanto breve. E questo non solo perché la memoria delleorigini dei musicisti giunge sino ai nostri giorni e perché il numero di coloroche sono nati o originari del sud degli Stati Uniti è altamente indicativo, maperché la diaspora nera ’interna’ degli Stati Uniti costituisce un processo so-ciale e culturale di enorme portata: basti pensare al carattere ’uniforme, nonlocalizzato e diasporico’ messo in evidenza per esempio dalla sorprendenteunitarietà delle forme di Black English Vernacular urbano, che emerge daglistudi di sociolinguistica di William Labov (1972:284-285).

Ma vi è anche un altro argomento (storico e sociologico) che risalta dalledomande di Jamin e Williams, e cioè quello della solidarietà o della comple-mentarietà di un nuovo gusto musicale con un ’modernismo’ incombente21che sottende una solidarietà ed anche una tensione con la cultura delle nuoveclassi medie che vanno formandosi in America e in Europa nel primo quartodel ventesimo secolo. In un lavoro antologico dedicato alla diaspora dei socio-logi tedeschi emigrati negli Stati Uniti con la svolta nazista, Mariuccia Salvati(1989) commenta le tesi di Kracauer sulle attitudini di consumo degli Ange-stellten, gli impiegati salariati studiati nella Repubblica di Weimar intorno aglianni ’20. Gli Angestellten ’entusiasti frequentatori di sale cinematografiche edi palestre’ e acquirenti di prodotti cosmetici

(...) mostrano una spiccata propensione per le spese di intratteni-mento (radio, cinema), per media e cultura popolare, per programmi

19 Naturalmente questo implica il suo inquadramento storico, vale a dire il periodoschiavista, poi quello della Guerra Civile che lo accompagna e prelude alla suaintensificasione agli albori del Novecento. La prospettiva in cui Carpitella (1978)vede l’affermarsi del modello del jazz ed il passaggio allo strumentismo quando lafase di formazione una ’langue folklorica’ è già avvenuta, deve molto alla delimi-tazione storica del periodo dello schiavismo vero e proprio, e cioè del fatto che iljazz inizia, per così dire, ’a cose fatte’, con un piede nella modernità.

20 Misuro la brevità di questo mezzo secolo facendo riferimento alle note musico-logiche di Leo Smith (1981:60 e sgg.) in cui vengono descritte le fondamentaliinnovazioni degli Hot Five e degli Hot Seven di Louis Armstrong, per giungere al1975, anno in cui la folgorante carriera di John Coltrane era terminata da quasiun decennio e lo stesso Smith frequentava il programma di world music pressola Wesleyan University, coltivando l’idea di una musica del mondo. Le rispostedelle giovani generazioni in Europa vanno misurate con quel ritmo decennale diinnovazioni ed invenzioni ben descritto da Archie Shepp, quando parla di ’culturalguerrillas’ (n. 31, p. 19 e n. 238, p. 122).

21 Il termine è preso a prestito da Gentile (1993), che parla di ’impending modernity’nel definire il senso di disagio espresso nel rapporto delle idee del fascismo neiconfronti dell’immagine degli Stati Uniti e delle innovazioni provenienti da oltreAtlantico.

18 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

assicurativi privati (che dovevano arginare in queste famiglie l’ansiaper una eventuale perdita di reddito), e una minore attenzione perla casa, i vestiti, l’educazione dei figli (di solito poco numerosi) (...)annunciavano uno stile di vita che sarebbe stato caratteristico dellesocietà industrializzate solo dopo la seconda guerra mondiale (Salvati1989:26).

Salvati osserva che sfuggiva forse agli analisti sociali non tanto la colloca-zione di classe dell’Angestellte né la sua ricerca di differenziazione dallo statusdell’operaio, ma piuttosto quanto il ’colletto bianco’ (white collar), come saràdefinito nella letteratura sociologica americana a venire,

fosse intrinsecamente condizionato, attaccato a quella crescita capita-listica che pure oggettivamente lo lasciava privo di ogni sicurezza, inbalìa di uno spietato mercato del lavoro (op. cit. 27).

È in gioco qui il problema della difficoltà di comprendere questa nuova clas-se, sia da parte della teoria sociale e politica liberale che da quella marxista, eil suo ruolo nell’ascesa del nazismo nel quadro della crisi politica ed economicadella Germania di Weimar. Così come sarà bersaglio dei socialisti per la suainesistente coscienza di classe e dei conservatori per il suo tradimento dellatradizione e dell’identità nazionale e quindi disprezzata dai filosofi reazionari espiritualisti sostenitori dell’ordine antico, la nuova classe sarà anche, di modomeno evidente ma significativo, il gruppo sociale più evidentemente connessoad una ’cultura incorporata’ di alienazione da cui il musicista di jazz avràpersino l’ossessione di differenziarsi.

Lo spazio in cui le innovazioni culturali si affermano è costituito da nuo-ve concezioni del tempo che si fanno strada nel mondo moderno. Mentre iloisirs22 si affermano e si popolarizzano attorno ad una divisione tra tempolibero e tempo lavorativo sempre più netta nel contesto urbano delle societàindustriali, i musicisti vendono al pubblico quello che hanno saputo fare del-la loro libertà, di un tempo relativamente privo di padroni e di imposizioni.I musicisti sono tenuti a sapere che ’le loisir [est] au centre du faisceau desdésirs, des attentes et des regrets’ (Corbin 1995:9).

Nell’etnografia delle subculture urbane di Howard Becker gli ’squares’ inquanto consumatori affollano le dance-halls, permettendo ai musicisti di so-pravvivere. Solo pochi tra questi riescono a diventare musicisti di jazz ap-prezzati, ma il telos di tutta la loro situazione professionale sta nel liberarsidall’oppressione dei loro clienti, che intendono letteralmente il servizio della

22 Sarà infatti nel campo cinematografico che S. Kracauer approfondirà le premessedel suo Angestellten (che è del 1930), con la sua rilettura del cinema tedescoche va dal 1918 el 1933 in From Calegari to Hitler, pubblicato nel 1946. Per unadifesa dell’importanza di questo autore nello studio dei materiali audiovisivi comedocumento storico si veda Ortoleva (1984:140-142).

1.1 Per un’antropologia 19

prestazione23 e trattano i musicisti come se fossero degli operai, non vedendoche in casi particolari (tramite i buoni uffici di mediazione del dandy in quan-to wise, hipster, cool, cat, ecc.) che si trovano dinanzi ad un professionistadetentore di un sapere sottile ed esoterico (Becker 2004:95-109).

Le più violente controversie nascono attorno alle pretese di dire a un musi-cista di jazz o di musica improvvisata cosa deve fare (tell him what to do), chiscrive ne ha viste tante, perché l’oggettivo atto di violenza simbolica costituitodalla performance deve assolutamente essere inteso come un dono [su questoargomento v. Bourdieu, p. 40].

La diffusione di questa musica, con modalità diverse e complementari inEuropa ed in America, resta pervasa dall’ambigua questione del suo gradodi legittimazione culturale nel contesto della ricezione e della produzione deibeni simbolici e della loro rappresentazione sociale, non essendo un arte ’le-gittima’, nel senso in cui tale legittimità si definisce rispetto a una posizionedominante (e quindi ad un commercio in capitale sociale) tacitamente ricono-sciuto (Bourdieu 1971, 1979, 1984:110). Per questo l’interesse per il confrontotra vicende ’nazionali’ del jazz in Europa, significa anche quello di metterealla prova istanze sociali di rinnovamento contro la difesa della ’legittimità’culturale che si giocano ad un livello più profondo di quello che il discorso deisostenitori e dei detrattori lascerebbe intendere.

Le dispute sul nuovo sono significativamente incorniciate da un confrontotra ideologie ’americaniste’ (e progressiste) contro un sistema gerarchico intesocome ’tradizionale’, attraverso il quale possono emergere omologie tra attorisociali che le sostengono da punti di vista e con interessi molto diversi. Al dilà delle puntualizzazioni e sul piano più generale, si tratta certamente dellastoria di una circolazione (inter)culturale di novità dirompenti, le cui ondatedi alta e bassa marea aprono spazi alla prossimità tra pubblico e artisti, malasciano un vuoto nel loro rifluire che non attende che di essere regolarmentee prontamente riempito da nuovi prodotti di sintesi figli delle ristrutturazionidel mercato globale della ’popular music’.

23 Il servizio di prestazione musicale in antropologia ed etnomusicologia non puòessere equiparato a lavoro retribuito essendo qualcosa di più complesso e dif-ferenziato e profondamente intrecciato alle convenienze parentali e sociali. Nelmatrimonio rom balcanico, la cultura supera i rischi impliciti in visioni diversedella prestazione di servizio musicale (Seeman 1990) differenziando in livelli e va-lore di scambio delle pratiche musicali e funzioni rituali: ai musicisti operanti incontesti più familiari sono riservati momenti delle celebrazioni meno remunerativie più faticosi; ai più affermati vanno invece i momenti all’apice della sontuositàcerimoniale ed in cui il flusso delle mance è più sostanzioso e socialmente signifi-cativo dei rapporti tra le famiglie. Le mance sono date ai musicisti per richiestadi particolari numeri spesso con la presenza di uno ’spiker’ che annuncia la prove-nienza e la somma ma sono destinati a chi organizza il matrimonio. Ambedue lesituazioni prevedono modi formalizzati di rivolgersi ai musicisti che precludono ilcrearsi di situazioni conflittuali, anche se i musicisti si lamentano spesso di essereletteralmente ’spremuti’ dai loro committenti (v. Barontini 2002).

20 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

In Europa la ricezione del jazz sta in rapporto alla maggiore o minoredomanda in un campo del mercato di beni simbolici di un ’oggetto’ che portacon sé le premesse delle origini dubbie di New Orleans e poi dei rent parties edegli slums metropolitani definendosi in rapporto verace alla dissolutezza, allaprostituzione e a vari tipi di commercio illecito (Roach in Jamin 1998). Essocostituisce d’altra parte un veicolo di emancipazione e di fierezza in quantomemoria della ’vera storia’ degli afroamericani, per i quali la musica e la vitanon possono fare a meno l’una dell’altra.24

In questo senso riflettere sull’irruzione del jazz in Europa, specialmente aParigi, Londra, Berlino, Torino, significa cogliere dall’inizio un fenomeno dicui si avverte la grande carica di innovazione, di sensualità, di passione. Masi tratta di una ’catastrophe apprivoisé’, una catastrofe privatizzata, addo-mesticata, come seppe definirla Jean Cocteau (Cocteau in Jamin & Williams2001:12-14). Le grandi potenzialità che si avvertono nel fascino immediato ecoinvolgente delle ’arti negre’ pongono la necessità che esse siano assimilate,interpretate e tradotte nel linguaggio delle arti musicali e delle scienze socialilegittime (Jamin 1998, 2001). Le modalità di questo rapporto di reinterpreta-zione possono dire molto sul conto delle società e delle culture in cui prendonoforma.

Eric Hobsbawm (1963) e Charles Fox (sebbene in maniera diversa)25 sot-tolineano l’importanza del sostegno dato al jazz in Inghilterra da parte delmovimento operaio e dalle classi popolari e medie.26 In Italia si tratta piut-tosto di una moda cosmopolita che si diffonde nei luoghi dell’intrattenimentoriservati alle classi più elevate (Mazzoletti 1983, 2004), le quali offrono il loropatrocinio allo sviluppo di nicchie esclusive di produzione. Ben presto divente-rà una norma per la stampa e la critica d’arte marcare come ’non italiano’ ciòche della modernità è auspicabile scartare in rapporto all’impresa rivoluziona-ria del fascismo. Con e malgrado questo, il jazz si istituzionalizza in una certamisura con le grandi orchestre, con la radio e con la jazz band all’italiana, ma sipone anche come una replica popolare praticata dalle orchestrine composte dadilettanti o semi-professionisti che operano negli ambienti dell’intrattenimento

24 Per esempio, in uno dei suoi rari momenti di loquacità Thelonious Monk avrebbeconfidato a Sonny Rollins che la vita senza la musica non varrebbe la pena diessere vissuta.

25 Charles Fox mette in evidenza il rapporto tra diffusione del jazz e livello di indu-strializzazione parallelamente al decadimento di quelle che chiama ’folk-cultures’,rimarcando che in Spagna, Grecia ed in Italia meridionale il jazz si afferma moltopiù lentamente per la persistente vivacità delle culture locali (Fox 1972:38).

26 Il mito delle origini popolari continua col rock e c’è un rapporto di continuità,almeno potenziale nella cultura inglese con lo sviluppo del jazz, essendo entrambiattinenti a diverse fasi di a quella che sarebbe ’la “rivoluzione industriale” dell’in-trattenimento popolare’ (Hobsbawm 1963, cit. in Naepels 2001:280; sul rapportotra intrattenimento e rappresentazioni sociali del tempo libero, si veda il citatoCorbin 1995).

1.1 Per un’antropologia 21

popolare, come i circoli rionali e i dopolavori.27I documenti relativi alla prima ricezione del jazz in Italia fanno pensare

molto meno che negli Stati Uniti, in Inghilterra in Francia, in Germania,Olanda e Belgio, alla solidarietà decisiva di settori importanti del pubblico piùgiovane con l’adeguamento di nuovi interpreti a nuovi standard musicali.28

Sembra qui più opportuno guardare alla ricezione del jazz entro le cerchiedella produzione, seguendo Carpitella, il quale parla di ’fasce [sociali] arti-gianali’ (1978) particolarmente sensibili alla necessità di adeguare le propriepratiche professionali, e cioè di musicisti professionisti o semiprofessionisticapaci di differenziare notevolmente le loro attività (caffè concerto, varietà,cinema muto, operetta, oltre che sale danzanti). Questi gruppi si adeguanoalle nuove mode che pur si fanno strada nel gusto del pubblico più ampio,ma il cui patrocinio assume un senso compiuto ed esplicito solamente per unpubblico urbano di livello medio-alto e per l’aristocrazia (Mazzoletti 1983,2004), unica classe sociale orientata a pensare e vivere in modo cosmopolitanell’Italia del tempo. Anche attraverso il filtro del jazz può dirsi confermata ladifficoltà della formazione di una vera e propria classe media in Italia, almenosino al secondo dopoguerra.

D’altro canto l’entusiasmo per le innovazioni tecnologiche, la possibilità dicontrollo sulle apparecchiature della radiofonia e l’elettrotecnica in generalerestano a lungo un elemento di per sé innovativo, dinamico ed immediatamentesignificativo sul piano della mobilità sociale. Mazzoletti (2004:65) rende no-to che Giorgio Nataletti, predecessore di Diego Carpitella alla direzione delCentro Nazionale di Studi di Musica Popolare presso l’Accademia di S. Ce-cilia a Roma, era già nel 1922 componente di un gruppo chiamato ‘YoungMen Jazz’, che si esibì alle stazioni di Radio Araldo, quelle che precedetterol’organizzazione della radio nazionale (URI). Nataletti, per anni affiancato daCarpitella, diresse con piglio innovativo il centro a partire dal primo dopoguer-ra, cercando di portarlo fuori dal clima letterario della demologia del regime(Carpitella 1992). Quella caratterizzazione della dimensione ’artigianale’ che

27 Qualche notizia su questi luoghi all’inizio del regime fascista si trova in Mazzoletti(1983, 2004), in Monteleone (1985) e più avanti nel corso del presente lavoro. Unambiente in cui le suggestioni del jazz della radio potevano assumere le forme piùdiverse e che sono da mettere in connessione col mondo praticato da Django Rei-nhard per la prima parte della sua carriera, prima di essere riuscito ad ’inventare’la prima e per molti unica, versione di jazz europeo.

28 Ci vorrà più tempo affinché questo tipo di rappresentazione si faccia strada nellasocietà. Il classico del neorealismo italiano Riso Amaro di Giuseppe de Santis, del1948, ci mostra una Silvana Mangano che in una scena memorabile danza nellarisaia, su invito delle proprie compagne di lavoro, mostra un’interiorizzazioneprofonda della musica moderna. Ma si tratta di una ragazza ’non cresciuta’ ilcui senso estetico infallibile è parte del suo rimorso, della sua ingenuità e, infine,cattiva sorte. Nella mia lettura del film come documento per l’argomento quitrattato la Mangano è ancora una ’persona’ più che il personaggio indimenticabiledi una sorta di ’inconscio cinematografico’ italiano.

22 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

l’etnomusicologo italiano mette in evidenza allude ad una vera e propria vi-sione del mondo e ad un importante elemento di qualificazione professionalenel sistema italiano della musica [v. su Rizza, pp. 72-73].

Lo stesso Carpitella toccando brevemente (e con una certa presa di distan-za scientifica) l’argomento delle cerchie della produzione del jazz in Italia, leconsidera come detentrici di un artigianato musicale che si adopera a replica-re il ’mito’ del jazz, e commenta l’esercizio di questo artigianato verso la finedegli anni ’70 come ’sempre più puntuale tecnicamente ma alquanto alienan-te’ (1978:924). È ormai chiaro che quel carattere di dinamismo ’Novecentista’che costituiva il fondamento della ricezione dell’anteguerra, non ha più motivodi esistere, ed il giudizio è tanto più suggestivo in quanto documento stori-co dell’orientamento della nascente etnomusicologia italiana. La legittimità diuna ricerca orientata verso una alterità culturale italiana presente nella mu-sica di quelle che Carpitella definiva come ’fasce folkloriche’ (1976), venivaaccolta in molti campi della vita musicale (e anche da molti musicisti jazz)come stimolo alla sprovincializzazione e alla ricerca di un livello ’autoctono’di cultura e di ricerca artistica. Ma una molteplicità di elementi problematicinella storia italiana della ricezione restavano celati in quel momento cruciale,all’indomani di un accresciuto interesse pubblico e del rinforzarsi delle cer-chie della produzione con l’adesione di una generazione di musicisti giovani egiovanissimi.

Già nel 1978, quando scriveva Carpitella, la generazione più giovane deimusicisti italiani di jazz si trovava dinanzi al problema fondamentale di sen-tirsi abbandonata ad un certo volontarismo che affliggeva la costruzione di un’nuovo’ (forse un ’alternativo’) campo del jazz in Italia. Aveva la possibilitàdi cercare altrove, oppure semplicemente abbandonare il proprio rapporto al-la ’passione’ o, almeno, cessare di considerarla come un ’affare di stato’ (v.pp. 195 e sgg., 250, 277). Sarebbe però riduttivo tracciare il profilo storicodella diffusione del jazz in Italia dopo il periodo cruciale del free jazz e dellecorrenti di innovazione provenienti dal resto d’Europa come un processo dilegittimazione di nuove cerchie emergenti della produzione simbolica che soli-darizzano col pubblico giovanile, piuttosto che come un fenomeno complessoe policentrico, fatto di innumerevoli aggiustamenti, tentativi e negoziazioni,in cerchie e ambienti in cui i giovani hanno a che fare con un gran numero dimeno giovani e trovano notevoli difficoltà persino a trovare altri giovani checomprendano quello che stanno facendo.

Pierre Bourdieu (1971) mette in evidenza l’incertezza ed alla precarietàche pervade il capitale culturale messo in gioco nel discorso del sostegno edella critica del jazz, ed è propenso a giudicarlo per questo come ’art moyen’in via di legittimazione accanto alla fotografia ed al cinema, rifiutando nelcontempo la categoria mediatica anglosassone di ‘popular culture’ per la suaambiguità. Questo in un noto contributo teorico, nel quale vengono anticipaticoncetti fondamentali della sua riflessione a venire pubblicato contemporanea-mente a importanti sviluppi della diffusione della ‘new thing’ in Francia: FreeJazz/Black Power di Carles e Comolli esce nello stesso anno (1973[1971]).

1.1 Per un’antropologia 23

Rileggendo sia Carpitella (1978) che Bourdieu (1971) pare che, a differenzache in Francia dove ci si fanno meno illusioni, la diffusione del jazz in Italiamostra fino agli anni ’70 che vi sia ancora spazio per interpretare il rapportoalla musica in senso artigianale, almeno sul piano dell’immaginario collettivo.Si tratta di un aspetto particolare di una disposizione più ampia e diffusanella società a concepire in questo modo i termini della professione musica-le, se si considera che in tutta Europa ed anche in Italia, gruppi di musicistiattivi nei mercati musicali più diversi, adottano il jazz parallelamente ai suoiprimi sviluppi (Mazzoletti 1983, 2004). Il jazz irrompe nel quadro di un pro-cesso di innovazione più ampio, nella quale l’industria culturale si fa stradaponendo le proprie sfide, di pari passo con il processo di specializzazione dellavoro che conduce alla formazione della società capitalista del consumo. Simanifesta doppiamente come elemento di cambiamento del gusto modificandostili preesistenti che come ’Arte Nera’, elemento di conoscenza e di adesione’specialistica’ da parte dei musicisti e degli aficionado.

Anche nelle sale da ballo Italiane e nei circoli privati nel primo quartodel ’900 si erano prodotte le condizioni di una dedizione al mestiere dellanuova musica da ballo che imponeva limiti tutto sommato pesanti ai musicisti(Becker 2004[1963]). Ma il jazz, come idea e come pratica, è comunque una‘terza forza’ che interponendosi tra produzione e consumo può dare un nuovosignificato al mestiere dell’orchestrale,29 facendo prospettare nuove forme dimobilità sociale, la realizzazione di una situazione professionale più adeguata,una ricerca di autenticità e autonomia espressiva. Nel primo quarto del secolo,e soprattutto nel clima che segue la prima guerra mondiale, il mercato dellospettacolo cittadino richiede musicisti moderni e non sottilizza quanto alla loropreparazione accademica, ma ne valuta l’abilità e la conoscenza dei nuovi stili.Nella nuova musica si perseguono criteri ’attualistici’, fino a che i musicistifiniranno per considerarla come praticata prima di tutto per loro stessi conil cambiamento radicale introdotto negli anni ’40 dal be-bop.30 La modernitàdel jazz significherà prima di tutto la loro convalida in quanto individualità29 Intendo con questo termine dalla risonanza inconfondibilmente corporativo-

fascista e per il ’campo italiano’, quei musicisti la cui occupazione principalesi svolgeva in orchestre da ballo localizzate in centri abbastanza grandi e circo-lanti in locali in cui il numero di serate e il livello delle paghe era abbastanza altoda configurare una occupazione fissa (in questa prospettiva si possono leggere lestorie dei musicisti citate in Mazzoletti 1982 e 2004). Questi musicisti sono statispesso attivi in settori diversi della professione musicale. D’altro canto le orchestredopolavoristiche locali disponibili alle classi lavoratrici tramite l’associazionismosocialista, repubblicano e cattolico, erano spesso composte da semiprofessionistiche praticavano anche la musica come seconda occupazione.

30 Col be-bop i musicisti mostrano di avere proprie idee su come sta andando il mon-do. Vale la pena di notare come il jazz italiano sia stato particolarmente poverodi risonanze pubbliche rispetto a questo stile che non si inserisce nel mainstream,a paragone del dixieland dello swing o persino della frenesia del mambo nel dopo-guerra. Un personaggio di bopper italiano (forse a sproposito indicato come tale)è Massimo Urbani che diventa noto nella prima metà degli anni ’70 e di cui si

24 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

unica all’interno della propria subcultura professionale (Becker 1963; Bourdieu1971:55; Hannerz 1998:208-209).

La rapidità della diffusione è sostanzialmente legata al rapporto con laregistrazione e il disco rispetto allo sviluppo e alla riproduzione dei modelli edei procedimenti. La differenziazione delle versioni del jazz correnti negli StatiUniti assume un ritmo decennale31 (’20, ’30 e ’40 ecc.) e segue una logica di’creazione della domanda’ in cui il disco e la radio giocano un ruolo centrale(Appelrouth 2003).

Le crisi del jazz in America corrispondono a dei momenti di intensificato’contatto col pubblico e gli artisti europei’ (Naepels 2001:280), negli anni 30,con la crisi economica, e negli anni ’60 e ’70 con quella prodotta dall’esplosionedel mercato del rock. In Europa, sia nel dopoguerra che negli anni ’50 e poinei ’60 e ’70, il jazz come idea e come pratica si ridefinisce cercando una suadimensione ’autoctona’ parallelamente ai processi di differenziazione di nuovigeneri di massa. Questo avviene nei ’50 e ’60 accanto alla moda del rhythm &blues, soul music, del rock, e poi nei ’70 con la ricezione della new thing, e conle controculture giovanili ed i grandi ed epocali eventi musicali (Monterey, Isleof Wight, Woodstock) per un pubblico itinerante e partecipante in dimensionisimili a quelle delle grandi partite di calcio.

Nell’Italia degli anni ’60 e ’70 l’industria culturale musicale e le multi-nazionali editoriali applicano ancora i procedimenti dell’adattamento e dellatraduzione, come già accadeva nell’anteguerra, producendo versioni italianedi successi inglesi e americani della pop music. Ma la società è cambiata e leforze in campo sono più ampie e diversificate. L’apertura di nuovi mercati ècaratterizzata da molti nuovi gruppi più o meno esclusivi, un pubblico gio-vanile che si moltiplica, una ricettività amatoriale giovanile mai vista prima,resa possibile dall’elettrificazione e la popolarizzazione degli strumenti e deglistessi modelli musicali. Il venire a termini con lo standard globale della diffu-sione della ‘popular music’ anglosassone diviene una questione molto discussaed interpretata ‘dal basso’ dei sostenitori della cultura ’media’ come fenomenoliberatorio ed innovativo e, spesso, dall’alto dei rappresentanti della cultura’legittima’ come fenomeno di massificazione e di evasione volgarizzante (v. cap2).

Verso la metà degli anni ’70 anche il jazz entra in campo come fenomenoche sembra capace di interessare il pubblico giovanile, anche perché permettedi formarsi un altro punto di vista su quel che accade nelle strategie di diffu-sione della ’musica pop’: la lunga e ambigua storia dei rapporti tra il jazz, ilblues ed i grandi successi della popular music americana favorisce una certapresa di distanza dagli eventi.

Una delle posizioni critiche più circostanziate sulle attività e gli interessidelle subculture ‘giovanili’ del jazz come ’presa di coscienza’ della centralità

parla più avanti.31 Per Archie Shepp si tratta di un carattere distintivo della musica nera (v. nota

238, p. 122).

1.1 Per un’antropologia 25

politica della questione afroamericana e contemporaneamente come momen-to sostanziale di una ’sprovincializzazione’ della cultura musicale nazionale, èstata espressa nettamente da un punto di vista neo-gramsciano, considerandoche le condizioni storiche della diffusione della cultura musicale nella societàitaliana non permettessero ancora alle subculture del sostegno un rapporto cri-tico e consapevole con l’oggetto dei propri interessi (Pintor 1978). Gli sviluppistorici di tutti gli anni ’70 e seguenti hanno in seguito dimostrato una sostan-ziale esitazione nel coinvolgimento della sinistra politica nella legittimazionedel jazz in Italia, nonostante che la sua fortuna in quanto ruolo di punto diriferimento estetico e di aiuto alla comprensione dei processi di globalizzazio-ne della popular music sia stato spesso colto come un fattore intrinsecamentedemocratico e che le cerchie della produzione e della distribuzione siano statepiuttosto attive, propositive e connesse tra loro.

D’altra parte il tentennamento del sostegno politico e accademico di frontealla ‘legittimazione’ culturale dell’operato delle subculture che lo sostengonoe lo propongono è una questione che resta comunque centrale nel discorso suljazz contemporaneo, benché tipicamente celata in forme diverse sia di sostegnoche di critica. L’autoreferenzialità dell’operato di queste cerchie e la mimesidel discorso erudito da parte della critica vengono impietosamente colte daPierre Bourdieu in questa analisi del loro agire.

Ainsi, c’est l’ensemble des déterminations inscrites dans leur positionqui incline les critiques professionnels de jazz ou de cinéma, souventrejetés vers ces arts « marginaux » par leur marginalité dans le champde production restreinte et tenues d’exercer le droit de discerner entrele légitime et l’illégitime sans pouvoir s’autoriser d’aucune garantie in-stitutionnelle, à émettre des jugements très divergents, insubstituableset voués à n’attendre jamais que de chapelles restreintes de produc-teurs et des petits sectes d’amateurs. Ces critiques ne se sentiraientsans doute pas tenues de singer le ton docte et sentencieux et le cultede l’érudition pour l’érudition de la critique universitaire ou de re-chercher une caution théorique, politique, ou esthétique d’un langageemprunté, si l’inquiétude de la légitimité de leur pratique ne les con-traignait à adopter en les exagérant les signes extérieures auxquels sereconnaît l’autorité des détenteurs du monopole du pouvoir légitimede décerner la consécration culturelle (Bourdieu 1971:101).

Si tratta di una pratica significativamente presente nella pubblicistica disostegno all’operato dei musicisti in modalità molto spesso polemiche32 e viste

32 Molta critica specializzata italiana fa uso di un discorso ‘medio’ almeno quanto ilmainstream della stampa italiana (v. su A. Polillo a p. 300 e sgg.). Resta vero cheogni critica, ogni parere positivo o negativo, ogni discorso stampato o altrimentimediato su qualsiasi musicista, ogni resoconto di attività festivaliere, è pervasoda una ’funzionalità’ di legittimazione autoreferenziale mascherata nell’impresamissionaria di legittimare questa musica nella società, che è presente sia laddove

26 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

dal punto di vista dell’ambiente degli ‘addetti ai lavori’. Il punto di vista op-posto, di chi attribuisce legittimità culturale al jazz sulla base di altre scienze’legittime’, può deplorare che gli sviluppi attuali comportino la perdita deisuoi punti di forza,33 confortando l’opinione che il jazz stia trasformandosi inuna ‘nuova musica classica’, raccolta e discussa negli ambienti delle ‘scienzeumane’, da etnomusicologi, antropologi e storici (Malm 2001, Pierrepont 2001,Hobsbawm 2000).

Porre in evidenza un processo di ’istituzionalizzazione’34 significa conside-rare aspetti sia positivi che negativi, certamente osservare quel cambiamentodi approccio ad un modello che si è posto tradizionalmente come luogo in cuiautodidatticismo e eclettismo non hanno mai costituito dei disvalori, e inducea storicizzare la definizione di jazz in quanto art moyen di Pierre Bourdieu(v. pp. 34 e sgg.).

Da un lato vi è una certa omologazione di scuola, con la tendenza adadottare stessi principi e svalutare programmi liberi o ’personalizzati’ a fa-vore della standardizzazione dei percorsi di apprendimento. Dall’altro restal’autonomia entro la quale i musicisti si creano un proprio suono e lottano peril proprio stile personale, la cui comparsa viene consistentemente differita almomento della ‘maturazione’. Ma l’avvenuta maturazione di un musicista (ela sua seguente ’consacrazione’ mediatica) è un fatto piuttosto esoterico, spe-cialmente per quanto riguarda rapporti che intercorrono nelle cerchie ristrettedella produzione e che si riverberano in quelle della produzione più ampia.

Il campo ristretto di produzione del jazz competono i primi termini del-l’inclusione, secondo un processo di esperienza in cui si privilegiano i ‘diplomisul campo’ della pratica musicale.35 Questo fatto costituisce un punto di forza

si sceglie in via preventiva di assumere un tono medio e conciliante, valutativoma disinteressato, sia quello celebrativo che incensa i musicisti di jazz come ’eroi’,iniziatori, e così via.

33 Vale a dire, prima di tutto, quello di essere una ’arte democratica’, fatto cheHobsbawm vuole cogliere nello stesso modo in cui funziona il suo sistema (Naepels2001:281).

34 Per l’Italia l’argomento saliente è quello dei corsi sperimentali di jazz istituitiin diversi conservatori, con l’apporto sostanziale di Giorgio Gaslini (si veda perquesto intervista a Mauro Grossi in Annesso). Per gli Stati Uniti, Appelrouthlo descrive brevemente come ’...secured through University degrees and LincolnCenter performances’ (2003:117), per il Lincoln Center ed il Jazz oggi si veda ilcap. 4.

35 Vale a dire nei termini espressi dalla sociologia dei campi della produzione sim-bolica di Bourdieu, ’le système des relations objectives entre différents instancescaractérisés par la fonction qu’elles remplissent dans la division du travail deproduction, de reproduction et de diffusion des biens symboliques’ (Bourdieu1971:54). Il campo di produzione ristretto si distingue da quello di grande pro-duzione per essere il primo un campo di produzione rivolto ai produttori stessi,autocentrato, ed il secondo per essere orientato verso il pubblico più vasto (op.cit., 54-55). Un minimo di cautela necessaria per quanto riguarda il rapporto congli strumenti critici forniti dalla sociologia della produzione simbolica di Bourdieu

1.1 Per un’antropologia 27

per i musicisti, che esternano le loro vere opinioni sui loro pari e sulle cerchieche esercitano pubblicamente il sostegno solo in sedi e modi ben precisi.36Spesso fanno questo con testi decifrabili solo parzialmente e comunque solonell’ambiente.37

L’autoreferenzialità, il biografismo, storie, lingue e culture diverse e perfi-no la gergalità costituiscono dunque dei problemi preliminari nel comprende-re quali siano i fatti e i discorsi che interessano veramente nel distinguere ilmarginale dal centrale nel ’campo jazzistico’ (Pierrepont 2002) (p. 44) e chericonducono all’aspetto di una forte istituzionalizzazione ’interna’ e all’altret-tanto forte concorrenzialità ideologica e simbolica che caratterizza le pratichedelle cerchie del jazz.

D’altra parte, quanto all’aspetto più evidente dell’istituzionalizzazione co-stituito dall’ingresso nei programmi di studio delle scuole musicali, avvieneche, nonostante il numero di musicisti di elevato livello tecnico sia in costan-te aumento, questi spesso si somiglino l’un l’altro (specialmente i pianisti enon a caso per il peso e la tradizione dello strumento). Vi è l’aspetto positivo,specialmente in un paese conservatore come l’Italia, che la vita delle scuole mu-sicali inizi a giovarsi della doppia competenza degli allievi, i quali molto spessoeffettuano i propri tentativi sia nel campo del jazz che del repertorio classico.L’aspetto positivo c’è dunque, ma è la vita delle istituzioni musicali a giovar-sene per prima, e consiste nel superamento tra gli irrigidimenti istituzionali ela ’compartimentazione’ tra stili e vocazioni che hanno avuto storicamente unriscontro immediatamente sociale nella storia di tutta la musica italiana. Èdunque verosimilmente il campo della cultura musicale ’legittima’ quello cheè prevedibile possa avvantaggiarsi di più dell’apertura all’interazione con lecerchie della produzione del jazz. D’altro canto è possibile che i musicisti lacui formazione precede questo processo di istituzionalizzazione rivendichino la’nobiltà’ e la ’disinteressatezza’ del loro metodo e delle loro pratiche e poeti-

sta nell’esplicitazione del suo fondamento storico e cioè in quel ’campo autono-mo’ della produzione artistica che Max Weber vede formarsi nella Firenze delrinascimento nel suo Wirtschaft und Gesellschaft (op. cit.:51). Studiare i processidi autonomizzazione dei campi dell’arte in tradizioni culturali non europee pone,com’è evidente, problemi di vasta portata.

36 Vale a dire in sedute e conversazioni delle cerchie più ristrette possibile e sempretenendo conto delle differenze tra produttori e non produttori ammessi all’ascol-to, nonché degli esiti rischiosi della concorrenza sleale esercitata dal fare ricorsoalla posizione di vantaggio fornita eventualmente dalla stampa e dalla radio perparlare in modo derogatorio di un proprio pari (Bourdieu 1971:103-104). La le-gittimazione vera e propria compete solo al discorso che circola nelle cerchie esotto-cerchie ristrette della produzione.

37 Gianluigi Trovesi (Trovesi 1985) scrive una lettera a Paolo Damiani in quantoresponsabile del convegno « Jazz e musica mediterranea » (v. p. 311 e sgg.) chepotrebbe diventare il copione di un monologo divertente e assurdo, ma molto serioin effetti, perché tocca questioni di potere e di lavoro (vedi testo riprodotto inannesso 2, p. 361).

28 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

che, opponendo l’autonomia alla ’standardizzazione’ causata dalla disciplinadel conservatorio, che applica ad una art moyen un metodo da arte colta.38

Tra questi esiti piuttosto recenti (a partire dagli anni ’90) e il primo signi-ficato dell’adesione al jazz contemporaneo, come controcultura, come solida-rietà ideale e come fratellanza artistica e di vita con i musicisti afroamericanidegli anni ’70 corre un processo lento e spesso contraddittorio di legittima-zione, di acclimatazione, di ricerca di una dimensione ’autoctona’ entro cuiil jazz in Italia ha cancellato e ridicolizzato la questione delle sue origini nelperiodo fascista39 e ha diminuito portata e significato del suo cosmopolitismo,divenendo sempre meno attento ai canali di circolazione inter-atlantici e te-nendo di conto del discutibile auspicio di porre le musiche nere come ’memoriaremota’ (v. § 3.14, p. 220).

Il jazz continua a farsi strada nella società italiana di oggi, sottoposta daimedia a una ’globalizzante’, rapida e ossessiva americanizzazione, cercandoda un lato una progettualità autonoma (spesso affiancando eventi letterarie teatrali nello spazio colto) e in un parallelo sforzo di venire a termini conla produzione della ’popular music’. Si tratta di un panorama che pone difronte a sé il definitivo esito del processo di legittimazione in quanto ’accli-matazione’ del jazz in Italia. Dopo aver contribuito a diffondere un ‘mododisincantato di guardare all’America’ l’approccio di oggi ricorda forse di più,quello dell’era fascista40 nel senso che da l’idea di una corporazione chiusanelle proprie sicurezze. Scompare l’idea della pratica e della passione del jazzcome strumento di solidarietà politica, di critica e di rinnovamento culturalee sociale, nel tempo stesso in cui si chiede al campo della produzione e delladistribuzione di diversificarsi, e nel quale una ’domanda indotta’ di rinnova-mento può tranquillamente ignorare l’obiezione della trasformazione in una‘nuova musica classica’ e tentare di far passare le invenzioni più appropriatenel mercato della popular music.

Se si guarda all’Inghilterra, dove le modalità della ricezione sono state piùdirette e hanno necessitato di minori adattamenti e dove il livello tecnico-professionale dei musicisti è stato sino dagli inizi più elevato e più distribuito,il jazz pare oggi subire una crisi di praticabilità economica forse ancora più se-ria, costringendo spesso all’emigrazione gli elementi più direttamente coinvolti

38 Questi temi emergono nelle interviste trascritte nell’annesso 1.39 Cominciano oggi a comparire contributi che si propongono esplicitamente di

discutere l’argomento come quelli di Mazzoletti (2004) e Cerchiari (2003).40 È evidente dallo stato attuale del dibattito politico e culturale e dalle insistenti

istanze di revisionismo storico, che il fascismo in Italia costituisce un capitolodelicato, controverso e irrisolto. Questo aspetto agisce di modo generale nei limitidell’argomento di questa ricerca, per il tipo di relazioni che le cerchie ristrettedella produzione simbolica intrattengono con quelle della produzione più ampia.Nella ricerca di una tradizione italiana del jazz si è ricorso di recente all’uso dimateriali della jazz band fascista contemporaneamente a quello della pop musicitaliana degli anni ’70 mentre nel contempo l’esecrazione per l’ideologismo diquegli anni veniva ridotto ad un luogo comune mediatico.

1.1 Per un’antropologia 29

nei suoi esiti più interessanti e innovativi. Per esempio, la diaspora sudafrica-na del jazz in Inghilterra (molto attiva per tutti gli anni ’80) è oggi in seriedifficoltà, così come tutta la scena creativa londinese. La differenza degli esititra Italia e Inghilterra fanno supporre che in Italia si sia fatto ricorso ad un’i-dea artigianale della professione del musicista che ha una lunga tradizione eche l’alleanza coi settori della musica colta, con lo spettacolo e la program-mazione dei festival estivi del turismo culturale, permettano dei margini diazione più ampi almeno ad una cerchia piuttosto ridotta di musicisti. In In-ghilterra invece, le cerchie del jazz stanno complessivamente pagando carauna crescente e continua diversificazione dei generi musicali popolari impostadai ritmi dell’industria ed una concorrenza sempre più dura per l’accesso alladistribuzione.

Sul piano più immediatamente comparativo, la questione del jazz inglesee dei suoi rapporti con scene europee vicine (come l’Olanda e il Belgio) e conil nuovo jazz sudafricano (esploso in Inghilterra negli anni ’70 e ’80) è moltoimportante in quanto conferma il carattere ‘diasporico’ (Clifford 1999) dellesubculture che hanno promosso nuove articolazioni del jazz in un senso diripresentificazione del significato di musica di una minoranza in un contestonuovo41 Si può dire che abbiano costruito un proprio rapporto col ’mito’ deljazz che ne fa un ‘fermento di rinnovamento’ trasferibile in diversi tempi eluoghi, capace di attivarsi in determinate condizioni storiche. Paul Gilroy notaa questo proposito che la forza tutta particolare delle forme culturali nerederiva da un carattere ambiguo che esprime in questi termini (Gilroy 1993:73).

(...) their special power derives from a doubleness, their unsteady loca-tion simultaneously inside and outside the conventions, assumptions,and aesthetic rules which distinguish and periodise modernity.

Ma l’aspetto mitico, cosmopolita e diasporico delle arti nere è anche traquelli più a rischio di eclissarsi rapidamente al mutare delle condizioni delmercato e, per quanto concerne il jazz, a seconda del maggiore o minore gra-do di radicamento delle sue subculture nel campo più vasto della produzionee delle loro eventuale capacità di adattamento al cambiamento del contesto.42

41 Si pensi al tema delle influenza del jazz e del rhythm & blues in diversi paesi afri-cani intorno agli anni ’50 e ’60, su cui riporta riferimenti e informazioni Boccitto(1995).

42 In questo senso l’instabilità della scena londinese del jazz, che sta mettendo daparte musicisti di valore è da leggere come tendenza dell’industria culturale e dellecerchie di distribuzione della musica a bruciare rapidamente le proprie creaturee alla sua necessità di un continuo ricambio di ‘articoli’, rappresentazioni e per-sonaggi. Essa ha sofferto senza dubbio dell’avvento di un ’Tatcherismo’ culturalein cui sembrerebbe non esistere più la società, ma solo la famiglia e dove l’econo-mia dei locali specializzati a basso prezzo è saltata. Queste note sulla situazioneinglese riassumono regolari comunicazioni personali col contrabbassista RobertoBellatalla, residente a Londra dalla fine degli anni ’70 sino ai primi anni del nuovosecolo.

30 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

Nella formulazione di Gilroy sarebbero proprio queste fluttuazioni e l’intera-zione con condizioni in costante mutamento nell’articolazione tra estetico e ilsociale a definire l’apporto delle arti nere alla modernità.

Il fatto che Londra abbia avuto la sua Denmark Street in quanto sede dellanuova editoria multinazionale accanto a Tin Pan Alley (Middleton 2001:34)testimonia di una tradizione di rapporti inter-atlantici più stretti tra campodi produzione della popular music e del jazz, argomento che spiega le carat-teristiche peculiari di alcuni settori del pop inglese del nostro tempo. Il datostorico di una maggiore permeabilità britannica alle musiche di oltre atlanticonel Novecento significa da un lato una maggiore penetrazione nella sostan-za, una capacità propositiva e di adattamento della produzione della popularmusic al jazz,43 ma anche una maggiore dipendenza delle cerchie della produ-zione ristretta da processi di ristrutturazione del sistema commerciale che hapermesso ai musicisti di jazz di vivere.

Forse non basta evocare il cambiamento del mercato della musica a giu-stificare l’interruzione della presenza di interi gruppi di musicisti europei chehanno circolato per anni per tutta l’Europa e oltre (penso qui alla scena in-glese e olandese in particolare). Si tratta sia di sostegni di accoglienza chevengono a mancare all’estero che di ambienti che si modificano in patria. Inuna intervista registrata e trascritta (v. annesso 1) al pianista e fisarmonici-sta Antonello Salis, egli si sofferma a lungo sulle legislazioni anti-nicotina dicerti paesi, che testimoniano benissimo di profondi cambiamenti di tendenzanel senso di quella che si rivela oggi come un’idea di democrazia autoritaria.Così come un cinema italiano del dopoguerra affollato di ragazzini e famiglie,di fumo di sigaretta e percorso da commenti a quello che accade in scena èanch’esso un cinema (come un asettico multisala moderno), ma è un ambien-te di un mondo completamente diverso sul piano sociale, può accadere chei musicisti sopravvivano agli ambienti in cui la loro performance era meglioacclimatata e siano costretti (spesso con fatica) a trovare il modo di risolveredifficili questioni di riconversione e di ri-legittimazione professionale.44

Alla luce di questo tipo di letture nelle quali sono al centro dell’attenzionela reinterpretazione del concetto e del modello musicale di jazz e della sua

43 Vi sono esempi noti di questa particolarità: non solo il gruppo dei Soft Machineha contribuito enormemente a diffondere il jazz presso il pubblico (globale) dellanuova pop music, ma anche il gruppo dei King Crimson, mentre presentava unmondo di elfi e folletti, dava spazio a musicisti che saranno protagonisti dellascena jazzistica londinese, quali Keith Tippet, Mark Charig, Nick Evans.

44 Si pensi alla carriera di Bessie Smith che nel 1923 incide Down Hearted Bluesper la Columbia vendendo circa un milione di copie e che non ripeterà più questoexploit, nonostante il sostegno instancabile di John Hammond Jr. il quale la orien-terà a collaborare con Armstrong e a tentare un registro più vicino alla popularmusic. Bessie Smith morirà in un incidente d’auto nel 1937 mentre Hammondpreparava il suo rientro in grande stile con le orchestre di Benny Goodman e diCount Basie, partecipazioni cinematografiche ed un concerto alla Carnegie Hall(Federighi 1986:26-30).

1.1 Per un’antropologia 31

pregnanza sociale all’interno di campi conflittuali di interessi e di rapportipolitici ed economici, risultano piuttosto parziali e rigide le interpretazioniantropologiche culturaliste e neo-diffusioniste come quella del già citato Cer-chiari (1999) che vorrebbero privilegiare il dato musicologico. Qui il jazz vienevisto nel quadro dei contributi musicali dei Neri Americani in continuità conun supposto ‘spirito’ della musica africana, secondo la traccia della ricercadegli ’africanismi’ indicata da Melville Herskovits. Questa, come in generaletutta la questione relativa alle origini del jazz, alle sue filiazioni, alle similitu-dini con altre tradizioni, all’ambigua categoria linguistica di prestito, si rivolgealla costruzione di modello di jazz alla luce di un altro modello (più ampio eaggiornato)45 relativo alla musica africana nel suo complesso.

Nonostante tutto l’interesse che suscita questo tipo di prospettiva di ricer-ca pone innumerevoli problemi: l’interdisciplinarietà e l’impianto comparativooffrirebbero prospettive affascinanti, tra cui quella della riflessione tra cam-po linguistico e musicale, ma la multiformità della cultura musicale africanasembra proprio quella più forzata a farne parte. Il jazz si è fatto strada ac-canto ad altre musiche ’diasporiche’ come quelle afroamericane brasiliane ecaraibiche molto più che ricercando ipotetici fondamenti nei documenti e nel-le ricerche dell’antropologia e dell’etnomusicologia africanista. Il paragone tragriot e bluesman diviene sempre più il luogo comune delle introduzioni allemeraviglie dell’universo afroamericano, almeno quanto la riprovazione controi colpevoli di ’sociologismo’ che si ostinano a scrivere di musica.

In questo panorama le riletture più stimolanti del fenomeno vengono dauna ricostruzione più ampia della vicenda culturale afroamericana che si arri-schiano a definire una propria posizione teorica quale quella del citato ’BlackAtlantic’ di Paul Gilroy o degli studi culturali interessati alla ricostruzionedel contesto e dell’epoca del jazz, che non il viaggio alla ricerca delle originiafricane di un modello arcaico. Gli studi letterari ’post-coloniali’ produconoun quadro nuovo e più ampio di connessioni, anche nella prospettiva di unastoria globale dello spettacolo e del sorgere di una nuova cultura del consumofatta di microstorie e di aspetti in apparenza più minuti quali gli studi su’Blackface’ (Rogin 1992, 1996; Cole 1996). Non mancano nuove prospettive diapprofondimento, quali quelle che si basano su punti di vista femminili e/ofemministi (Carby 1992, Duval Harrison [1988]1993, Monson 1994, Hamilton2000) che si prestano a ulteriori approfondimenti di alcuni aspetti dell’esteticae dei procedimenti musicali, e che tendono ad una rappresentazione semprepiù complessa e connessa a fenomeni di più ampia portata.

La peculiarità della modalità di rapporto ’dominato’ e di ’sapere soggioga-to’ che si fa strada nello studio del jazz, nella lettura dei discorsi dei musicistie delle opere non può prescindere ma neanche ridursi all’aspetto ’mitico’ del

45 Per Luciano Federighi il jazz ha ’nella voce umana il suo modello originario’(1986:28), ma è una vera tortura leggere una messe di riferimenti sonori puntualie eruditi su una guida scritta che ci pone davanti come primo problema quellod’iniziare un cammino lungo e faticoso per procurarseli.

32 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

presupposto storico dello schiavismo. Nel dibattito sul jazz e sugli afroame-ricani negli anni ’70 capitava spesso di sentir dire che essi fossero ’detentori’di quella cultura e noi no; oggi siamo più disposti a cogliere quanta genialità,senso estetico ed eleganza abbia avuto ragione della disperazione nel corsodi una vicenda sia artistica che di resistenza umana, civile e politica. Appa-re anche per questo poco verosimile, nel costruire una ’opportuna’ presa didistanza scientifica e filologica, omettere l’aspetto della partecipazione e del-l’apertura a tutti, nonostante l’articolarsi complesso di una molteplicità didiscorsi dell’autenticità prodotti entro campi specializzati della produzione dicultura.

Dal campo degli studi rom emergono indicazioni riguardo ad una ideologiadiffusa della musica comparabili a quelle del campo afroamericano. Si tratta divisioni del mondo che interpretano il fatto musicale nel senso di una autenticitàsostanziale dell’individuo e della sua capacità di comunicare. Questo vale inun campo di pratiche musicali fortemente performativo che non si rifiuta adun continuo scambio tra l’interno della tradizione orale di cultura e l’aperturaal commercio e all’istituzione di modalità di produzione di ’nuova’ musica diconsumo. Le frequenti citazioni della sapienza della propria nonna da parte diLeRoi Jones (2004) o di Frank Lowe46 non sono un elemento folkoristico né laprecisa individuazione di una folkway, così come non lo è l’invito ad esibirsidi una anonima ragazza da parte del gruppo di flamenco che vi dimostra chele migliori ballerine sono ’donne normali’. Esso tende piuttosto a introdurre aun modo di vedere il mondo tracciando una presa di distanza che è sia esteticache culturale e politica.47 In questo modo Frank Lowe parla di sé a partiredal problema del rapporto tra droghe e jazz moderno,48 in un frammentoautobiografico estremamente denso e conciso (Lowe 2000):

Most of the cats have to go in there and get this fucking foot off oftheir head man, have to get the pressure off. And all the drugs didwas put it into a world where they could just focus on the music. Itwasn’t just Bird. Stan Getz, all of them motherfuckers, man, all themcats. And all it was doing was getting the pressure off of them so theycould be relaxed man, and play, and think, and not have to act likemiddle America, that’s who they are. No, they some Bohemian mo-therfuckers, man. You know I was always enamored of the Bohemianthing. Kerouac, Ginsberg, all that shit. ’Cause it seemed closer to whoI was as a person. And that’s the truth. People, Black people I saw,didn’t really dig that. So I guess that’s why the hippie thing came in.I was always for it myself. I don’t dig stiffness man, rigidity. ’Cause,

46 Del sassofonista Frank Lowe, recentemente scomparso, si parla anche nel cap. 3.47 Houston Baker parla a questo proposito di ’blues geographies that can never be

understood outside a family commitment’, esprimendo quello che Gilroy com-menta come esempio un ricorrente ’tropo della famiglia’ nella contestualizzazionedelle arti musicali afroamericane (Baker 1987, cit. in Gilroy 1993:98).

48 Si veda sull’argomento il contributo di Hofstein (2001).

1.1 Per un’antropologia 33

I seen that lifestyle man. Before I became a musician. I mean, that’swhy I think being a jazz musician is one of the few things where I canutilize all of my Blackness. Any other profession I had I would haveto leave a little bit at the door. I can utilize my great grandmother’sfield holler, you under(s)tand. I don’t have to be ashamed of it. I canutilize that, you dig, into my art. If I was the President of the UnitedStates I’d have to be pleasing some other people or other things too.Like I do it, but I do it by going into myself. Being myself. Not bytrying to find out something what they might like, you understand. Ido it by just going inner and getting whatever really is me. But youcan’t do that with other professions. You got to censor that shit.

Leggendo e soprattutto ascoltando il ’suono’ di un discorso capace di rias-sumere tutta un epoca è difficile non convenire che laddove si parli di jazz’l’africanità musicale’ non possa essere tolta dal campo di indagine; a questotipo di idea può essere anche tentato un riscontro musicologico,49 ma è anchevero che le opinioni sull’argomento siano state ampiamente divergenti tra ijazzisti stessi. Non è questo il punto, il frammento autobiografico si offre alladecostruzione di una realtà sociale in modi che pretendono una preparazioneda parte dell’ascoltatore. Lowe si presenta come una persona che contraddicel’opinione comune, una persona gelosa della propria indipendenza in un mo-do simile a quello espresso da artisti dell’avanguardia come Man Ray o EzraPound, e lo fa in Black Vernacular. Nei termini di Labov si dimostra comeuna specie di lame,50 una persona che con la musica ha combattuto anchecontro la rigidità della ‘cultura vernacolare’ dimostrando simpatia per coseche gli altri (giovani) normalmente disprezzavano, come i freaks bianchi edpoeti della beat generation, per diventare musicista di jazz e oltrepassare ilproblema delle differenze, con l’essere apprezzato tra i ’suoi’ in quanto tale.

Dal frammento di Lowe ci si può muovere a individuare una duplice seriedi questioni, la prima è quella del riconoscere nel BEV (Black English Verna-cular)51 uno strumento e filtro interpretativo che non può essere secondarionell’approssimarsi alla musica e alle narrazioni che l’accompagnano, soprat-

49 Diego Carpitella avvertiva che la percezione del jazz non poteva essere disgiun-ta dalla ’precisazione di ordine antropologico-culturale del negro come non-americano’ (1978:914). Anthony Braxton propone un approccio personale ed inte-ressante alla questione dal punto di vista della ricerca musicale, in chiave analiticae artigianale al tempo stesso (Braxton s.d.), in cui sviluppa musicalmente tuttala questione dell’alterità della musica afroamericana.

50 Nella celebre monografia di Labov dedicata al Black English Vernacular (BEV)i lames (zoppi) sono « better individuals from the standpoint of middle-classsociety [...] some are unusually intelligent [...] some are weak or fearful types whoare protected from the street culture by their mothers, their teachers or theirtelevision set » (Labov 1972:285-286).

51 La cui denominazione emica era ‘our own language’ e ‘home language’, ma anche‘soul language’ (Labov 1972:288-289).

34 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

tutto nella ricerca di una etnografia urbana del jazz in cui ci si confronti nonsolo con i musicisti e le cerchie della produzione ma anche con il loro pubblico.

Ci troviamo di fronte ad una nuova rappresentazione del musicista neglianni ’60 e ’70, nella quale questi risponde anche alla propria cultura e anchecon questa polemizza mentre gioca la partita della propria rispettabilità so-ciale rompendo con la rappresentazione del professionista dell’intrattenimento(Carles & Comolli 1973). Parallelamente a questo processo di avanzamento cri-tico e culturale c’è anche una generalizzazione della differenza antropologicadella cultura degli afroamericani, della continua delusione delle loro prove nelteatro dell’integrazione, dell’accrescersi della distanza tra mondo dei bianchie mondo dei neri mano a mano che i problemi della segregazione vengono af-frontati nel silenzio di nuove politiche urbanistiche e di assistenza sociale cheseguono alla stagione di lotte e di rivolte degli anni ’60 (v. § 1.2.4, p. 56, e alcap. 4).

Basta forse questo a porre la questione che, laddove non implichi la fre-quentazione prossima, la visione dei contributi afroamericani al jazz basataesclusivamente sulle fonti sonore può costituirsi come una rappresentazione‘eurocentrica’ e di pertinenza di una ricezione che la vede molto simile a quel-la del primitivo in musica, o della rappresentazione del virtuosismo tzigano.In altre parole, si tratterebbe di gente che può fare bene nella musica e nellospettacolo perché non fa bene (non adattandosi all’integrazione) quasi nien-t’altro. Dopo l’esempio del jazz non pare oggi una novità che si parli semprepiù di musica zingara o tzigana o rom in quanto musica ’fatta da zingari, tzi-gani o rom’, alla maniera in cui si parlava di ’great black music’. Eppure daglianni ’60 in poi e con la scuola di Chicago della new music e da parte di ungran numero di jazzman e musicisti dell’avanguardia è proprio una accresciutavolontà di far emergere il ’fondo del barile’ del jazz, liquidare gli argomentisulla razza, la volontà di difendere un ruolo sociale della musica a mettere la’questione delle origini’ in una luce completamente diversa.

Il luogo comune del jazz come musica dei ‘Neri’, come etichetta di autenti-cità propria al sostegno di parte degli aficionados di tutta Europa, è il primoad essere messo in discussione per la legittimazione dei musicisti europei. Dovesi presenta, implica gli interessi concreti degli esponenti di qualche nuova cor-rente, come accadeva per il be-bop, sostenuto da Boris Vian contro il ‘papa’Panassié (Vian 1998). La stessa questione mette in evidenza per l’Italia deglianni ’7052 l’opzione immediata di una reinterpretazione ‘attualista’ e di una‘messa in fase’ di tutta una storia della ricezione con le tendenze ed i musicistidel proprio tempo. Si assiste dopo il ’68 ad una reinterpretazione autonomaa partire da un ’grado zero’ del jazz in quanto modo selezionato e creativo diun approccio alla musica. Ma la sua natura ambigua, l’indeterminatezza deisuoi ambienti ed il suo limitato grado di legittimità sociale, hanno contribuito

52 Che interessa particolarmente questo studio, dato che è in questo periodo cheviene posta l’autonomia del jazz in un contesto pubblico più ampio che nelle fasiprecedenti.

1.1 Per un’antropologia 35

a che sia stata molto presto espressa la necessità di ‘metterne sullo sfondo’ leorigini e le connessioni afroamericane (v. § 3.14, p. 220, e 3.18.1, p. 234).

Si avvertiva il paradosso fondamentale che mentre la musica afroameri-cana si apriva al mondo dialogando con una ideologia europea di musica diélite, mentre si comprometteva con l’ethos borghese della musica ricercandoparallelismi e solidarietà nella grande tradizione dell’arte contemporanea, siconsolidava anche una contemporanea tendenza alla ’autoctonizzazione’ dellecerchie europee della produzione e del sostegno al jazz (Tournés 1999 cit. inJamin 2001:289). Una divergenza di piani e di pratiche che comportava peri locali l’onere di aprire nuove vie e per i musicisti d’avanguardia ’stranieri’l’onore delle scene.

Tutta la fatica implicata nel processo di ‘riappropriazione’ delle ‘radiciafricane’ del jazz veniva proprio messa in evidenza in quegli anni dalle ten-denze della ‘new music’ la quale, dovendo rifarsi ad uno substrato profondoe mitico, di pari passo ad una visione politica attuale (Malcom X), o ad unavisione escatologica e sempre differita di liberazione (Martin Luther King),fatte poi entrambe oggetto dell’arma del terrorismo politico, non poteva farealtro che prendere la via della mediazione simbolica, dell’apertura ‘a tutte lereligioni’ (e a tutta l’umanità) come dichiarava John Coltrane negli anni ’60.Questo processo di appropriazione procede per invenzioni inimitabili e contri-buti individuali e collettivi. La stessa capacità di essere compresa e diffondersiin tutto il mondo della rappresentazione simbolica degli ‘africanismi’ del jazznelle cerchie dell’avanguardia di quegli anni, resterà a lungo un argomentodi grande interesse, la cui complessità sfugge ad un neo-comparativismo checonfonde campi africani e afroamericani.

1.1.1 Digressione: Free-jaz in Mali

Intorno agli anni ’60 il jazz ha fatto vari salti in Africa, nel clima pieno disperanze della decolonizzazione. È interessante seguirne una traccia in unatipica situazione di reinterpretazione culturale localizzata in Mali. MahamanMaïga, rivela a Jean-Marie Gibbal (1984) la costituzione del pantheon Son-ghoy degli esseri soprannaturali che si manifestano nelle cerimonie della suaconfraternita. Mahaman Maïga è un Bella, uno dei discendenti degli antichischiavi dei Tuareg. Lo spazio del pantheon Songhoy è abitato dagli

[...] Haouka, les génies blanc, apparus pendant la période coloniale,qui constituent la dernière famille des génies Songhoy : ils ne descen-dent pas dans la confrérie de Mahaman. Je me suis pourtant retrouvéun jour chez lui en compagnie d’un zima [prêtre des cultes Songhoys(p.65)] des Haouka. Ce prêtre venait de Hombori, il était de passage àSévaré et se rendait a Bamako. Un jour il gardait son troupeau dansla brousse, près de Gao. Deux Européens habillés de blanc des piedsà la tête se sont approchés de lui, montés dans un jeep-gaz (marquesoviétique), et l’ont pris avec eux ; c’étaient des génies Haouka. C’est

36 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

ainsi qu’il est entré dans le culte, puis qu’il est devenu zima. Il meconfia en deux entrevues une généalogie complète des Haouka tellequ’il avait reçue de son maître à Hombori : du généralissime de tousles Haouka, Istamboul, au dernier venu à travers une histoire récenteet qui s’appelle Free-jaz. Je ne restitue pas ici le détail des famillesMarseille et Malia, les deux principaux clans Haouka, dans la mesureoù le déroulement ultérieur de l’enquête ne m’a pas rapproché de leurconfrérie (Gibbal 1984:81).

Sembra che agli Haouka, serie di entità invadenti, ineducate e assurde,spetti in qualche modo l’onere di definire la modernità. Limitiamoci all’aspet-to ’musicale’ degli esseri soprannaturali. Non è essenziale nelle apparizioniconcrete dei due esploratori russi (?) tutti vestiti di bianco, ma pare esserloper la descrizione del capo supremo Istamboul, che segnala forse il passaggiodella musica del medio-oriente e forse di cerimonie di trance islamiche di am-bienti mediterranei nel Sahel, verosimilmente al seguito dei militari francesi.Ma soprattutto Free-jaz ha tutta l’aria di essere stato portato in Africa perun concerto panafricano da spiriti dotati di sassofoni urlanti, come ArchieShepp. Il primo problema riguardo ai nuovi spiriti venuti alla ribalta nell’eradello strapotere dei bianchi è quello di essere identificati, valutati e nominati,ma si può presumere una netta ostilità alla loro ’riproduzione’ ed un controlloseverissimo sul loro operato in Africa. All’inverso, Malachi Favors, parla inmolte interviste del pensarsi come al cospetto del Grande Spirito nel corsodella performance musicale con l’Art Ensemble of Chicago. Più avanti (capi-tolo III) si riporta nota di una protezione da generi performativi ’rischiosi’(perché intraducibili o perché politicamente scorretti?) nel rifiuto opposto aduna performance di Rafael Garrett, a Lagos. Garrett considera la cattiva ac-coglienza ricevuta qualcosa di simile a quello che un musicista creativo puòsperimentare negli Stati Uniti, magari davanti al pubblico totalmente impre-parato di qualche località isolata. Un po’ come la scena Row-High nel filmBlues Brothers.

1.1.2 Ripresa: tra antropologia storica e studi culturali

È forse opportuno ricordare quanto al tipo di partecipazione ai concerti, chel’ideologia del jazz progressivo, prevedeva che il pubblico fosse preparato al-l’ascolto di questa musica e soprattutto che la convinzione del superamentodelle mediazioni tra musica e pubblico costituite dai critici e dal loro discorsoarbitrariamente legittimante, era largamente diffusa. Lo spettatore, mai solo,faceva riferimento a piccoli gruppi di ’dandies’, i quali condividevano l’approc-cio più coinvolto e partecipato possibile all’evento, modi di essere, vestire edi parlare, e che spesso vigilavano su possibili incidenti che gli inesperti po-tevano causare. Si discuteva sulla musica prima, durante e dopo il concerto,con i musicisti stessi e con gli organizzatori. Talvolta la preparazione e le di-mensioni del pubblico europeo degli anni ’70 hanno impressionato i musicisti

1.1 Per un’antropologia 37

americani, che provenivano da un clima in cui il jazz e la improvised musicnon interessavano un vasto pubblico e stavano abbandonando quel rapportoe quel clima di contiguità con la soul music e l’universo dell’intrattenimentoche era ancora vivo negli anni ’60.

Raramente vi sono stati gruppi di musicisti, artisti e pensatori così vici-ni (anche malgrado loro) al discorso e ai risultati degli studi antropologici eetnomusicologici e così partecipi di un ’accademismo’ mai visto prima nellastoria della cultura musicale afroamericana. Si trattava di una convergenzacon quello che di più avanzato e innovativo veniva da tutte le cerchie dellaproduzione simbolica; in questo senso, per esempio, il rapporto tra ’actionpainting’ e l’idea stessa di ’free jazz’ è stato un momento molto importante eabbastanza trascurato. Questa generazione, che ha potuto in parte assistereai tempi in cui John Coltrane, Ornette Coleman e molti altri musicisti del-l’avanguardia effettuavano i loro esperimenti, con quella che è venuta subitodopo, è una generazione che è diventata ben presto detentrice di un ’saperesoggiogato’, la quale, dopo un iniziale entusiasmo del pubblico europeo piùavanzato, si è confrontata con la necessità di venire a termini con i mutamentidel campo della produzione e della distribuzione di cultura, cercare di divenireparte dei cicli pedagogici dei colleges o di imprese socio-culturali anche piùmodeste ma affidabili sul piano professionale, talvolta scomparire nell’oblio.53

Resta il problema della definizione del jazz in quanto ‘oggetto’ di studioantropologico, nonostante che in quanto modo di vedere il mondo esso pos-sa configurarsi come antropologia e che sia possibile pensarlo in quanto tale(Jamin & Williams 2001). Ma proprio in ragione del suo essere composto diinnumerevoli ‘antropologie’ individuali, il carattere politicamente controversodella sua pluralità dimostra che sono proprio le omissioni e le cancellazioni adare ragione di interventi di censura e di una pratica di potere che è estraneaalla sua natura. In questo senso, per il campo italiano, gli attacchi al free-jazzper una sua pretesa rottura con la tradizione o per il vizio del suo ’ideologi-smo’, come pure l’interesse per stili di ispirazione jazzistica praticati in Europaprima e durante l’avvento del fascismo e del nazismo, suscitano seri dubbi perla tempistica del loro emergere in seguito ai nuovi orientamenti della politicaufficiale. Come altrove, anche il campo del jazz italiano è percorso da unapluralità di memorie, idee, sogni, miti e pratiche sociali ed anche chi si dedicaa misurare persino il jazz secondo i venti della politica nazionale, non può di-rigere dall’alto un cambiamento generale in un panorama così eterogeneo. Masi tratta in ogni caso di argomenti significativi nel momento in cui penetrano

53 La presenza di una domanda del mercato francese ed europeo in generale neglianni ’70 per molti musicisti americani quali Archie Shepp, Sun Ra, Sunny Murray,Ornette Coleman, Steve Lacy, era una parte essenziale del campo globale deljazz. La drastica riduzione della domanda di jazz d’avanguardia in Europa, la’ri-nazionalizzazione’ in campi separati, verso la metà degli anni ’80 e oltre, hacausato il ritorno in patria di artisti stabiliti in Europa, talvolta la necessità dirivedere radicalmente il proprio sistema di lavoro.

38 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

entro le cerchie più impegnate a definirsi come rappresentanti di una delle artimeno legittime sul piano della cultura nazional-popolare.

Il sottile potere di orientare cambiamenti nelle atteggiamenti delle cerchiedella produzione va ricercato nel momento del loro rapportarsi alla selezionedegli argomenti più ricorrenti emessi dalle cerchie più ampie della produzio-ne simbolica. Sono tali argomenti a far emergere una strutturale tendenza adisporsi in allineamenti di convenienza, secondo le posizioni assunte in unarete di rapporti sociali che possono aprire l’accesso ai media come professioneo a certi settori del mercato. L’azione discriminante che essi esercitano nelprocesso di allineamento tra domanda e offerta culturale torna in quanto mo-dalità di un problema più ampio già sollevato (Monteleone 1976) riguardo adun eccesso di funzionalità di tutto il sistema mediatico italiano rispetto allacostruzione di ideologie di legittimità politica e culturale.

Come abbiamo accennato, il discorso sul jazz è più fortemente segnato dalproblema della sua legittimazione, specialmente laddove è stata posta di mo-do più pressante la questione della sua natura di ‘prestito culturale’, di modad’importazione, e così via, com’è avvenuto in modi diversi in tutta Europa.D’altro canto, nelle condizioni entro le quali esso viene praticato, a prescin-dere dal problema della sua legittimazione e del suo status nella cultura, èimpossibile mettere tra parentesi le realizzazioni concrete e le proposte deimusicisti che si assumono il compito di farlo vivere nel presente. Ogni rilet-tura del panorama di interpretazioni di una storia tutto sommato recente dàl’impressione di trovarsi dinanzi ad una problematica sempre attuale, un di-scorso mai interrotto, nel quale ogni elemento che può confortare questa oquella posizione viene ad aggiungersi a quelle che in una prospettiva di an-tropologia cognitiva, potremmo scorgere con Sperber (1999) e Piasere (2002),come eterne ‘rappresentazioni incomplete’.54

54 Un esempio dello stato di continua costruzione delle idee della musica contem-poranea consiste nell’importanza cruciale data dal modo di riproporle e di aprireuno spazio alla riflessione. Nuove questioni vengono poste dal riconsiderare rap-presentazioni ’dormienti’ riattivate da contributi documentari recenti che dannoun grande spazio alle interviste con i protagonisti della musica unite a frammentivisuali di concerti e apparizioni televisive d’epoca. I fasti della scena inglese deglianni ’60 e ’70 possono essere rievocati intorno alla nostalgia per gruppi rock digrande popolarità mondiale che sono stati direttamente legati alla ricezione deljazz nel dopoguerra. Musicisti come Eric Clapton, Jack Bruce e Ginger Baker,componenti dei “Cream” intorno al ’68 avevano dietro di sé una pratica in gruppidi blues e di jazz come le band di Alexis Korner e John Mayall, una cultura delcosiddetto ’interplay’, un amore ed una dedizione per il blues e la musica afroa-mericana che non tutti avevano, ma che il pubblico inglese era in grado di coglieree di apprezzare diversamente dalla percezione del pubblico medio dei teen-agersdel tempo in Italia o in Giappone, per esempio. Fare emergere queste correnti,neanche troppo sotterranee, ma percorse oggi dopo una fioritura dei ’culturalstudies’ della cosiddetta scuola di Birmingham e di interessi per la proposizionedi uno studio scientifico della pop music, pone in una diversa prospettiva tuttala questione di una memoria recente di rapporti tra jazz e modernità musicale,

1.1 Per un’antropologia 39

Le ‘cerchie ristrette della produzione’ (v. p. 43 e sgg.), le loro storie, quelledelle loro opere e delle loro apparizioni, si orientano attorno alla proposizio-ne di pratiche e opere le quali si pongono all’attenzione pubblica in quantoparte di processi più ampi di ‘destrutturazione’ e ‘ristrutturazione’ musicale55Da qui bisogna aspettarsi che vengano anche le proposte più interessanti aripensare la vicenda di questa musica e delle sue connessioni con altri mondi etradizioni. Prima di tutto è necessario guardare alle loro storie, ai loro progettie alle loro strategie, se è vero con Williams che il progetto del jazz è quello di’cambiare l’ordine del mondo’ (1991:14). Tale affermazione trova riscontro nonsolo nel pur legittimo scopo di ’rendere giustizia’ all’operare dei musicisti inquanto attori sociali e mediatori di nuove creazioni e nuove idee, ma rimandaanche ai modi in cui si avanzano nuove visioni del mondo nell’epoca moderna.L’antropologia storica contribuisce a chiarire i termini ’politici’ del campo incui le idee del jazz si fanno strada tra l’America e l’Europa.

Nel riassumere il percorso in cui emergono i contributi del pensiero illumi-nista alla storia del pensiero antropologico europeo Mondher Kilani, basandosiin gran parte sui lavori di Copans e Jamin (1978) e di Jamin (1979) ed i testidi De Gérando, di Rousseau o di esploratori come Boudin e De Bougainville,conclude che è solamente all’inizio del Novecento che si stabilirà un legametra ’l’indigeno esotico e l’indigente’. Si stabilirà cioè una specie di equivalenzatra l’eterogeneità ’esterna’ dei popoli primitivi e quella ’interna’ data dallenuove differenze che si creano entro la società industriale (Kilani 1997:121). Sichiariscono cioè le condizioni su un piano più ampio affinché la futura ’moda’del jazz significhi qualcosa di più di un fenomeno passeggero, mentre emer-ge anche un certo accento sulle modalità di ’imprint’ di questa equivalenza.Infatti i rapporti storici tra filantropismo, ideologie progressiste e antischiavi-ste e le arti giungono a confermare e si direbbe a dare una forma concreta aqueste correnti di pensiero. I gruppi corali afroamericani che giungono in Eu-ropa verso gli anni 70 dell’Ottocento dovrebbero fornire più che un sempliceorientamento generale per una preistoria della messa in arte itinerante dellaquestione razziale degli Stati Uniti.

Un altro problema è quello di un ’campo autobiografico’ che pone proble-mi notevoli ad uno studio del jazz che si vuole antropologicamente fondato.Lo stesso Williams lo inquadra nelle conclusioni a cui giunge dopo una serra-ta disamina di problemi epistemologici derivati dall’approccio alla discografia(Williams 2001:197-198) concludendo che sono le condizioni, il contesto, lavita che debbono essere interrogate (e possono rendere conto di una sorpren-dente irrequietezza di umori e di situazioni), perché la fabbricazione del jazzdipende, forse più di ogni altra musica, dalle ’circostanze’. Bisogna dunque

che, se considerata attraverso i criteri della riproduzione di modelli assume il sen-so di un complicato ’gioco di specchi’, ma dove il senso della vicenda musicaleafroamericana resta al centro delle questioni.

55 Si tratta di concetti proposti da Anthony Braxton (1995), per una interpretazionegenerale della storia della musica afro-americana.

40 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

usare il dato biografico non tanto e non solo perché i musicisti sono stati esono persone eccezionali, ma perché solo sapendone di più della loro vita pos-siamo comprendere meglio la loro musica. La ’passione’ del jazz è costituitada quello che è il suo corpus di registrazioni e di quello che non sappiamoancora (Williams op. cit.).

Williams, esaminando le pubblicazioni di raccolte di opere integrali, di-mostra che tutta la storia del jazz si è costruita su determinate immagini delsuo ’corpus’ di registrazioni che le informazioni di prima mano sulla vita deimusicisti e l’emergenza di registrazioni inedite possono rimettere radicalmen-te in discussione. Gran parte delle innovazioni poste dalle varie fasi del jazzsono logicamente conseguenti le une alle altre ma comportano problemi anali-tici diversi e vengono poste in essere in una prospettiva di riattivazione, nellascelta di determinate opere e procedimenti rispetto ad altri. L’ampliamentodello spettro di registrazioni disponibili tende senza dubbio a sfumare i limititra le fasi stilistiche e a dare ragione di un più lento processo di tentativi, diaggiustamenti e di conferme.

D’altro canto è anche possibile che, a posteriori, il progetto del jazz siavisto come una serie di repliche (Carpitella 1978). Allora per studiare il jazz’di qualcuno’ bisogna esplicitare il rapporto tra modelli e le loro ricorrenze,tra cui quelle più attuali, e del modo in cui assume significato l’interpretazionedei singoli produttori rispetto ad un pubblico composto di aficionado, dilet-tanti, praticanti, organizzatori. Un pubblico rispetto al quale lo specialismo,il collezionismo, il dilettantismo, l’associazionismo, la tradizione aneddoticae la stampa specializzata orientano il proprio ruolo di legittimazione tramiterappresentazioni (spesso lontane dalla realtà) del rapporto dei musicisti allapratica ed ai materiali e dinanzi al quale si fa infine avanti l’idea, impossibilein effetti, di ’rompere con ogni modello’.56

Il grado di eclettismo e di dilettantismo con cui la letteratura specializzatasul jazz attinge a teorie di vario tipo è certo indice di un grado di legittimazio-ne sociale limitato e di un alto tasso di conflittualità da parte degli specialistiintenti a ritagliarsi un proprio spazio o ad amministrare l’esistente.57 Si trattadunque in via preliminare, di tentare di risolvere le ambiguità causate dal suoessere al centro di un incrocio di discorsi di diversa natura, da una tradizione

56 Nel cap. 3 si parla di Rafael Garrett, conosciuto come musicista free, ma che pre-senta, come parte di un concerto improvvisato anche standards jazzistici. Questoapproccio si contrappone sotto diversi punti di vista a quello dei musicisti chesuonano ’sempre’ il repertorio o improvvisano ’sempre’, non tanto negandone lavalidità, ma ponendosi come un ’altro’ tipo di pratica.

57 L’esistente dell’oggi è costituito in gran parte dalla pedagogia del jazz bastatasostanzialmente su fake books, registrazioni e storie di vita, in parte sui festivalestivi e su progetti di produzione in cui il jazz tende ad essere visto come ’parte’degli elementi in campo. Per una discussione dello spazio in cui il jazz vieneportato d’estate laddove l’effimero può diventare industria stagionale-turistica, sivedano i paragrafi dedicati alla costruzione di uno spazio culturale strapaesano,a partire dall’epoca fascista.

1.2 Sociologia della produzione simbolica e del gusto: Bourdieu e l’art moyen 41

di scrittura, quella della critica ufficiale, direttamente coinvolta in un processodi legittimazione del proprio operato di mediazione tra musicisti e distribu-zione, dal fatto di essere insieme molte cose (Jamin e Williams 2001). Vi èpoi un certo ‘incrocio’ teorico all’interno delle scienze umane: l’antropologia ela sociologia musicale, semiologia musicale e generale, etnomusicologia e studiculturali, offrono un rimando continuo di approcci, interpretazioni e teorie piùo meno compatibili e più o meno in contraddittorie e di interesse diretto osecondario per il ‘campo jazzistico’.

Per queste proprietà ’di campo’ che orientano il discorso sul jazz, è forseopportuno suggerire che chi intende trattarlo non disdegni lavori di compila-zione in cui la selezione e la qualità delle citazioni resta una delle metodologieprincipali. La possibilità molto verosimile e frequente di un coinvolgimentoesistenziale del soggetto osservante con l’oggetto fanno sì che si possa ancheaccettare (almeno parzialmente) l’approccio post-modernista dell’etnografiacome forma letteraria, e con questo l’intrusione dell’autobiografia e del fram-mento aneddotico come fonte primaria. Si potrà ammettere infine che l’ar-gomento ’jazz’ offra molte possibilità alla decostruzione dei discorsi teorici edelle ideologie che lo riguardano direttamente o in modo mediato, per cui sipotrà tentare una sintesi entro interpretazioni anche contraddittorie che tentidi dare conto non tanto ’dell’equazione ma della disequazione di mondi’ diversi(Hastrup 1995:44, cit. in Piasere 2002:110).

1.2 Sociologia della produzione simbolica e del gusto:Bourdieu e l’art moyen

Dato che la ricerca empirica e teorica di Pierre Bourdieu è andata assumendoun ruolo sempre più importante anche per la sociologia dell’arte, è interes-sante fare qualche osservazione preliminare riguardo ad alcune parti della suaelaborazione teorica che riguardano la musica in particolare e che possonoservire utili specialmente nella ricerca del contesto e delle funzioni sociali en-tro le quali inquadrare la questione, cruciale per il jazz, del rapporto in cuiporre ricezione e ’legittimazione’ della pratica musicale. Il sociologo france-se interviene sull’argomento della musica con un approccio diametralmenteopposto a quello che muoveva Lévi-Strauss nel suo celeberrimo Le cru et lecuit. Per Bourdieu (1979) la musica non si rivela come passione che vivificauna attività intellettuale e creativa percepita come estraniante per il corpodello studioso, non è un conforto dello spirito, né un campo dove esercitare leproprie capacità analitiche e speculative liberi dalle imposizioni del soggetto,ma si costituisce e vive all’interno di costruzioni sociali.58

58 « L’art et la consommation artistiques sont prédisposées à remplir, qu’on le veuilleou non, qu’on le sache ou non, une fonction sociale de légitimation des différencessociales » (Bourdieu 1979:VIII).

42 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

Mais c’est aussi que la l’exhibition de « culture musicale » n’est pasune parade culturelle comme les autres : dans sa définition sociale, la« culture musicale » est autre chose qu’une simple somme de savoirs etd’expériences assortie de l’aptitude à discourir à leur propos (Bourdieu1979:17) .

La ricezione del jazz e la sua legittimazione debbono connettersi ad unsistema complesso di ulteriori distinzioni in fatto di gusto e di appropriatezzasociale. Non c’è nulla di più classant dei gusti sulla musica perché la musica èl’arte più ’spirituale’ e capace di dare luogo a stereotipi indiscussi, come quellodella assoluta condanna dell’insensibilità musicale come una forma grossolanae quasi bestiale di volgarità. L’ethos borghese della musica rappresenta laforma più radicale, la più assoluta di de-negazione del mondo e specialmentedel mondo sociale (op. cit. 18).

Bourdieu assume uno sguardo scettico, che prende le distanze dalla costru-zione sociale borghese della musica e dal suo ’spiritualismo’ nel momento stes-so in cui cerca, per così dire, ’di tirarla fuori dalla tana’. Concorda dunque conRoland Barthes sulla tattilità e fisicità del piacere musicale,59 mostrando unapropensione per quei discorsi sulla musica che per stare in piedi preferisconoriferirsi al corpo, alla dimensione sensoriale tattile e alle ’esperienze corpora-li primitive’ come i gusti alimentari (op. cit. 87). L’equiparazione del gustoalimentare al gusto come rapporto discriminante agli oggetti della culturadiventa presupposto teorico centrale (op. cit. 109). Tramite questa operazio-ne riduzionistica, che permette una costruzione teorica ampia e affascinante,Bourdieu non intende tanto mettere in luce l’opposizione del crescente pre-dominio di quella che chiama una hexis60 del corpo delle classi borghesi epiccolo-borghesi al tradizionale ’franc manger’ delle classi popolari francesi,quanto piuttosto dimostrare, per così dire, che si parla comunque (e quindi sioperano scelte) come si mangia, che lo si voglia o no.61

59 Cf. Roland Barthes, Le grain de la voix, in « Musique en jeu », n. 9, 1972. Orienta-menti simili si ritrovano in Paul Zumthor, nella sua opera maggiore ‘La presenzadella voce’, testimoniando di una convergenza di numerosi intellettuali di primopiano su questo argomento fondamentale e di un influsso oltre i confini nazionali.Intorno alla metà degli anni ’80 il testo di Zumthor era obbligatorio negli esamidi etnomusicologia al corso tenuto da Diego Carpitella all’Università di Roma.

60 Definita anche come ’mitologia politica incorporata del potere’ (Bourdieu 1979).61 La sua opzione non è nuova e può essere paragonata al concetto di gusto alla som-

mità della riflessione musicale e filosofica che si realizza storicamente nella culturaarabo-islamica e che assume un particolare significato iniziatico (iniziazione all’e-sistente) nel contesto della letteratura delle confraternite religiose. La presenzadel concetto di ’gusto’ [dhuq] nella letteratura arabo-islamica sulla musica rifletteforse una problematica storica di diffusione dell’alta cultura negli strati popolariesercitata dalle confraternite e dei rituali del sama‘. Sull’argomento si cf. Rouget(1986). Resta comunque stabilita una sovrapposizione concettuale tra ’gusto’ e’opinione’ nella lingua parlata.

1.2 Sociologia della produzione simbolica e del gusto: Bourdieu e l’art moyen 43

Inserendosi in questo modo in una tradizione di contributi sulla musicada parte di grandi personalità della cultura francese, Bourdieu sceglie una viapiuttosto nuova e per la quale si può osservare una certa vicinanza alla filo-sofia della musica nella cultura araba. Prodotto di una lunga sedimentazionestorica, la filosofia della musica dei paesi del mondo arabo e islamico possiedeuna tradizione teorica e letteraria autonoma, riconosce il carattere sensualedella musica, che vede come un prodotto insostituibile e importantissimo dellacultura e di cui non si può fare a meno, ma cui non sono accordate innate especiali virtù di edificazione spirituale se non nella sua modalità,62 cioè nellamaniera concreta di fungere da arte umana di cui l’uomo può avvantaggiarsie godere in questo mondo, al pari dell’arte culinaria e sessuale. Questo nonserve tanto a indicare accostamenti possibili a una tradizione, quanto a sotto-lineare il presupposto teorico che propone uno sguardo sulla cultura il quale,sebbene oggettivato in dati e ricerche effettuate nella zona di Parigi e dintorni(1979), si vuole equiparato ad una più ampia concettualizzazione etnologicadi cultura, nel momento in cui traspone il concetto ’depurato’ e ’vago’ di gu-sto artistico a quello elementarmente umano di gusto alimentare (Bourdieu1979:109).

Per dare conto di come si articolano i rapporti sociali che producono e legit-timano rappresentazioni pubbliche delle arti (per noi anche del jazz, a partiredalla prospettiva dei musicisti stessi), è opportuno considerare la teoria dei’campi’,63 cioè di quella prospettiva spazializzata che inscrive la produzionesimbolica ed il consumo in una dinamica di diversi ’campi’ sociali in cui sideterminano le posizioni e l’operato dei produttori di cultura. Il campo inter-no, quello degli ’addetti ai lavori’, sarebbe rappresentato da ciò che Bourdieuchiama ‘campo della produzione ristretta’ (1971:54) dei prodotti simbolici.L’opposizione tra ‘campo ristretto’ e ‘campo di grande produzione’ dei benisimbolici è secondo Bourdieu l’opposizione preliminare che ci permette di co-struire un modello atto a studiare il vastissimo dominio della produzione edella circolazione dei beni simbolici artistici ed intellettuali. In questo quadrogenerale il campo ristretto è quello nel quale tali beni sono convalidati edautentificati secondo i termini accettati dai propri pari.

(. . . ) le champ de production restreinte tend à produire lui-même sesnormes de production et les critères d’évaluation de ses produits etobéit a la loi fondamentale de la concurrence pour la reconnaissanceproprement culturelle accordée par le groupe des pairs, qui sont à lafoi des clients privilégiés et des concurrents (ivi:55).

62 Il concetto di modalità preoccupa particolarmente Bourdieu in quanto sfugge daogni metodologia statistica, enumerativa e tipologica, perché ’è nella maniera esolo in essa che si libera la verità sociale delle disposizioni’ (1979:70, n. 71), peril concetto di ’disposizione’ vedi oltre in questo paragrafo.

63 Che nel senso più ampio possono essere definiti come ’istanza di inculcazione emercato in cui la competenza culturale (o linguistica) resta definita per le suecondizioni di acquisizione’ (Bourdieu 1979:70).

44 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

Vi sono molte implicazioni possibili e conseguenti a questa costruzioneteorica che è di grande importanza per comprendere meglio alcune modali-tà che sembrerebbero vere e proprie folkways64 delle subculture del jazz. Ilcampo della produzione ristretta vive e si riproduce secondo un processo direinterpretazione che si esercita da parte delle istanze di consacrazione e diriproduzione (ivi 67-81).

Per il campo del jazz il primo presupposto della legittimazione dell’operatodei singoli artisti è la circolazione di produzioni, notizie e prove legittimanti lostatus, l’interesse ed il rispetto dei propri pari, le ’validations’65 conferite sulcampo. Nelle interazioni tra i campi entrano in discussione le forme di sostegnoe la letteratura, i metodi di registrazione e di pubblicizzazione delle opere, finoalla etichetta da tenere agli eventi mondani riservati a questa musica.

Si tratta di pratiche il cui carattere pubblico non può implicare il comple-to controllo dei musicisti, ma che debbono essere assunte e ’validate’ a lorovolta da critici, produttori, agenti, organizzatori di eventi perché il ’prodotto’possa accedere al mercato dei beni simbolici. Le differenze tra i ’due modi diproduzione’ (ristretto e grande) si chiariscono secondo il tipo di relazione cheintrattengono con le istanze di consacrazione e riproduzione (ivi:81). Il campodella grande produzione è quello specifico delle arts moyens, cioè di quelle arti(con in testa il giornalismo) che debbono evitare gli esoterismi e rivolgersi adun pubblico medio (indeterminato) dato che la loro condizione di esistenza èla ’redditività degli investimenti, da cui una estensione massima di pubblico’(ivi:82). Si tratta di due campi e due modalità che fanno parte di uno stessosistema (ivi:87) e che sarebbe altamente fuorviante vedere come separati oopposti.

Si può osservare che i due campi necessitino di due logiche diverse perfunzionare ma che queste siano solo relativamente contrapposte. Non sempreuna delle due parti in causa assume un ruolo dominante e se ciò accade lo fain modo relativo e nel quadro di progetti piuttosto ben definiti. Inoltre una

64 La ristrettezza del campo in quanto determinazione di un ’piccolo partito’ cultu-rale è tipico del jazz. Qui, la prima opposizione significante è quella tra ‘insider’ ed‘outsider’, ‘hip’ and ‘square’, discussa in quanto ‘dandysme’ da Jamin e Williams(2001), e che riguarda i termini di inclusione/esclusione. Il fatto di essere un ’pic-colo partito’ di artisti e sostenitori può comportare una vasta rete di connessionicosmopolite, rapporti di fratellanza stretti e inimicizie irriducibili, tradimenti, incerte fasi e certi ambienti persino un deciso accento sul carattere iniziatico delsapere musicale unito ad una visione metafisica. Più avanti in questo testo sifa riferimento alla figura del maestro Sun Ra, la cui orchestra fu vista al primoincontro come una ’chiesa nera’ dal sassofonista Johnny Griffin (1992).

65 Il pianista italiano Ferdinando Argenti (operante negli Stati Uniti, comunicazionepersonale) racconta che trovandosi ad accompagnare il sassofonista Lee Konitz,fu da lui richiamato all’attenzione per il fatto di avere già ricevuto due cenni di’validation’ e per non avere risposto. L’italiano osserva: ’ma tu sei Lee Konitz,che bisogno hai di validation?’, la risposta fu che tutti, chiunque siano, ne hannosempre e comunque bisogno.

1.2 Sociologia della produzione simbolica e del gusto: Bourdieu e l’art moyen 45

doppia competenza è d’obbligo nella polarizzazione di interessi comuni e nellamobilitazione delle forze necessarie alla realizzazione dei progetti. Nonostantesia abbastanza raro che il tipo di professione del musicista e quella del giorna-lista musicale, discografico, tecnico, organizzatore, gallerista d’arte che ospitagruppi musicali, possano implicare una vera e propria prossimità e regolaritàdi frequentazione, è anche vero che entrambi i gruppi debbono conoscere beneil mondo e il modo di ragionare dell’altro e che gran parte di quello su cuidiscutono, prima che di atti pratici, ruota attorno a un confronto intorno aduna memoria condivisa o condivisibile.

Secondo questo sommario inquadramento è possibile cogliere un processodi mutamento culturale in atto nel campo del jazz in Italia, inteso come insie-me di una molteplicità di ’campi’ percorsi da logiche diverse ma accomunateda una tendenza generale. Mentre nella fase di elaborazione culturale e so-ciale che seguiva gli anni ’70 era etichetta diffusa ai concerti di jazz quella dimostrare una vicinanza reale o supposta ai musicisti (che a loro volta eranomolto più ’disponibili’ di oggi), una chiassosità popolareggiante, ma cosciente(a suo modo) del proprio ruolo nel rituale della performance,66 oggi l’etichettacorrente incoraggia l’abito borghese e una partecipazione molto più simile aquella di un convegno associativo in cui si condividono le motivazioni statuta-rie e culturali ma in cui l’interazione col pubblico è limitata e le distanze ed iruoli sono rispettate.67 La divergenza della strategia comunicativa del singolodalle etichette vigenti in un determinato periodo e luogo in particolare, nonfa altro che effettuare una marcatura significativa dando indicazioni di posi-zione e distinzione; si tratta di un discorso in cui emergono immediatamenteinteressi di legittimazione che dimostrano tutta la delicatezza della posta ingioco che si delinea nel tipo di rapporti costitutivi dei campi.

Accade adesso, e non potrebbe essere altrimenti, che musicisti oggi di suc-cesso della generazione degli anni ’70 invitino colleghi rimasti più legati ad66 Il sassofonista Tino Tracanna nel corso di una intervista radiofonica nel corso del

programma radiofonico Jazz Concerto, radio 3, del 16/05/2004, ha definito la suaopinione su quello che accade oggi come ’si suonava meglio quando si suonavapeggio’, trasposizione di ’si stava meglio quando si stava peggio’ (si intende ’colregime’, con ’la monarchia’, ’quando c’erano meno soldi’) perché eravamo piùgiovani più curiosi, meno efficienti ma più felici. Molti musicisti più giovani diTracanna potranno intuire ma non afferrare bene il senso di quello che dice.

67 Mi riferisco (senza nostalgia ma non senza meraviglia) ad un pubblico che attendein fila il suo turno per fare i propri complimenti all’artista, piuttosto che buttarsiuna interazione libera come era negli anni ’70. L’istituzionalizzazione del jazz inquanto musica d’arte di cui parlano Malm (2001:34), Hobsbawm (2000), Pierre-pont (2001), in questo senso sembrerebbe, più che la costruzione di una nuovamusica classica, un processo di adeguamento ad una maggiore domanda sociale didistinzione nei campi più ampi della produzione culturale. Il calo della redditivi-tà simbolica della ricerca di distinzione in quanto comprensione delle istanze delcampo della produzione ristretta, rimanda sia ad un processo di legittimazioneculturale del jazz in quanto art moyen sia alla sua cornice più ampia per cui tuttele arti tendono ad essere oggi sempre più ’moyens’.

46 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

una logica di ’cerchia ristretta’ a smetterla di sognare. All’opposto, avvieneche chi resta estraneo dal tentativo di rivedere tutto l’establishment del jazzitaliano in una logica di art moyen li ripaghi con termini poco lusinghieri,specialmente, come spesso accade, ritenendo di aver contribuito a delle aper-ture di campo complessivamente vantaggiose per le cerchie della produzione.Questo dimostra, nei termini della teoria dei campi di Bourdieu, come l’accen-to si sia spostato dalla costruzione di un habitus appropriato al campo della’produzione ristretta’ ad uno che valuta come parte del medesimo la capacitàdi affermarsi nel campo di ’grande produzione’, cioè di una interpretazione (omeglio di una costruzione) del jazz come art moyen accanto alle altre come ilcinema, il giornalismo, la fotografia, la canzone d’autore.68

Ma il rendimento simbolico di una art moyen ’in via di legittimazione’,come Bourdieu vedeva il jazz (accanto al cinema e alla fotografia) all’iniziodegli anni ’70, è limitato, perché il tipo di competenza che implica è anco-ra al di fuori dall’immediato consenso di valore in termini di capitale socialedato alle competenze artistiche nel dominio della cultura legittima69 (Bour-dieu 1971:94). C’è da chiedersi se il progressivo e sempre più netto costituirsicome art moyen del jazz negli ultimi venti anni non vada interpretato comemutamento comune a diversi settori della produzione simbolica che attiene aduna più generale ridefinizione del significato dei consumi culturali. Una conte-stualizzazione storica del campo italiano permette di cogliere un fenomeno diportata più ampia, e cioè una commistione sempre più intensa tra campo dellearti legittime e campo delle arti medie.70 Resta comunque difficile procedere

68 Tutti i musicisti che dichiarassero pure di aborrire questa medietà farebberodel cinema, collaborerebbero con bravi cantautori, amerebbero la fotografia erilascerebbero volentieri interviste, essendo queste attività parte del loro stessomondo.

69 ’La culture libre illegittime reste purement fonctionnelle et pas « essentielle »’(Bourdieu 1979:24). Un parallelo molto felice in questo senso è dato dal tipo diinvestimento sociale e direttamente percepito come significante determinato dal-l’insegnamento delle lingue straniere. Ogni controversia sull’importanza di taleo tale altra lingua viene ad essere drammatizzata dalla riproduzione del merca-to nel quale gli investimenti in capitale culturale avranno un riscontro concreto(Bourdieu 1971:95, in nota). Similmente alla legittimazione di una lingua pococonosciuta emergono istanze di legittimazione di arti e linguaggi di difficile solu-zione, irrisolte (e a posteriori irrisolvibili) specialmente laddove si nota un divariocon altre tradizioni europee, come la difficile crescita e la comprensione del jazznel sistema italiano della cultura prospettata da Mazzoletti (1983, 2004, v. inoltrep. 107 e sgg.).

70 Una questione molto ampia e che meriterebbe uno studio a parte. Attualmenteuno degli aspetti più macroscopici di questo processo è quella ricerca di identitànazionale che affanna il discorso politico e particolarmente una destra italiana’in costruzione’ (rispetto ad una sinistra in costante ’de-costruzione’) la quale sitrova ad essere forza di governo ed è spesso costretta a fare i conti con la storia.Il modello delle politiche culturali fasciste in questa situazione è costantementee rischiosamente dietro l’angolo ed impone posizioni critiche e prese di distanza

1.2 Sociologia della produzione simbolica e del gusto: Bourdieu e l’art moyen 47

a quella ’santificazione’ che tende ad ’essenzializzare’ quest’ultime attraversoquella processualità che prevede ancora che i suoi esponenti e sostenitori sianoammessi ad un nuovo tipo di legittimità culturale nel momento in cui sonoliberati dal carico della funzionalità, strumentalità ed ideologizzazione delleproprie pratiche sociali e scelte in termini di gusto. Inoltre diventa sempre piùdiscutibile la caratteristica di ’medietà’, venendo a mancare termini adeguatidi comparazione in termini differenziali. ’Arte media, ma rispetto a che cosa?’Agli ’eccessi del passato e all’ideologia’, si risponde in molti casi, ma sembrache vi sia ben poco d’altro da scegliere visto che gran parte dei luoghi unavolta deputati all’alta cultura, perseguono strategie ’medie’ essi stessi, stra-tegie che sono intese in quanto adeguamento ai tempi e alle esigenze attualidelle istituzioni dello spettacolo e della loro gestione.

È altresì evidente che il compimento del processo di legittimazione si ponein un rapporto dialettico con un rapporto ’amatoriale’ con la musica in cuiavevano spazio la ricerca e la costruzione dei ’luoghi’ e delle persone, le con-troversie, la politica e la partigianeria, le prese di distanza, e così via.71 Perquanto possa sembrare banale, oggi è molto più comune supporre che dietrola musica ci siano singoli individui capaci di connettersi effettivamente traloro più che ’gruppi’, come si pensava ancora circa trenta anni fa,72 in unmomento cruciale per la ricezione e lo sviluppo del jazz in Europa, e come siè continuato a pensare a lungo.

1.2.1 Riflessioni sul concetto di ’habitus’

Secondo Bourdieu, il movimento dei beni culturali nella sfera pubblica è rego-lato da un rapporto di distinzione, di discriminazione e di scelta rispetto allalogica di concorrenza delle cerchie ristrette di produzione. Tale concorrenzaopera una specie di offerta imposta, alla quale il pubblico (inteso come classedominante in questo caso), non tanto si adegua, quanto si omologa posizio-nalmente, operando nel campo dell’esistente una scelta di messa in fase diinteressi sociali vari e conflittuali. Si tratta di interessi in cui la dimensione

singole e collettive. Ma bisogna ammettere che medietà e mediocrità accoppiata anazionalismo, incertezza e indeterminatezza di prospettive non sono certamenteappannaggio della sola destra nel campo delle politiche culturali.

71 Si tratta di complessi simbolici che caratterizzano intere epoche. Il cantautore,pianista Paolo Conte, che nei decenni del secondo dopoguerra ha vissuto l’epopeadell’aficionado musicista (prima dilettante e poi assurto al successo internaziona-le), mette in scena oggi quel mondo ormai scomparso di passioni provinciali e nonha dubbi nel riaffermare nelle sue frequenti apparizioni televisive che quello che’oggi’ si intende per jazz (ritenuto non a caso ’di moda’ da una certa stampa) siatutt’altra cosa.

72 Non altrimenti potrei interpretare attacco a Pharaoh Sanders di Xavier Daverat(2001:206) che sottolinea l’errore di considerare Sanders come l’alter ego di Col-trane. Considerare Sanders come parte di un gruppo, emergente all’epoca, è bendiverso che rapportarlo direttamente al suo mentore John Coltrane.

48 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

politica è centrale dato che la domanda che costituisce il campo del consumoè il luogo dell’opposizione di classi e frazioni di classe intorno al che cosa eal come dei beni culturali. Non c’è adeguamento della produzione al consumoo viceversa ma un laborioso e delicato lavoro di adeguamento reciproco tracampo dell’offerta e quello della domanda i quali si rapportano in un modoche deve assolutamente lasciare l’impressione, sia nell’artista che nel pubblico,della gratuità e della disinteressatezza della scelta.

Nella produzione del gusto oggettivato, definito come atto di violenza sim-bolica, e nella scelta che permette al gusto di oggettivarsi, deve restare unlimite tacitamente concordato di rispetto e di presa di distanza (Bourdieu1979:256-257). Un tale processo bidirezionale di oggettivazione è comprensi-bile secondo una categorizzazione distintiva del gusto e della distinzione inquanto ’disposizione estetica’ fondata ’in natura’ almeno come la concezioneingenua del linguaggio, la quale, incorporata in quanto habitus diventa motivodi avversione per gli stili di vita delle altre classi. Questo fa si che ’le lotteper il monopolio della legittimità artistica’ di artisti e esteti siano molto menoinnocenti di quanto possa sembrare (op. cit. p 60).

L’interesse immediato della sociologia di Bourdieu per l’argomento è chepuò permettere una relativizzazione del ’campo jazzistico’ entro la costruzionedi un modello virtuale il più possibile ampio della pratica sociale. Per tenerepresente i rischi dell’operazione riduzionistica operata trasferendo direttamen-te sul piano empirico le prospettive della teoria di Bourdieu sarà qui discussobrevemente un caso di applicazione del suo concetto di habitus in un camporelativamente omogeneo a quello trattato qui.

Infatti, per quanto ci interessa l’antropologia e la sociologia del corpo po-trebbero dialogare con le discipline musicali molto di più di quanto non fac-ciano attualmente.73 Rivolgendoci a selezionare nell’approccio di Bourdieuosservazioni relative al corpo e alle sue tecniche ci disponiamo ad evocare laparte pratica e ‘poietica’ del fare artistico. Turner e Wainwright (2002:331-333) vedono un approccio ’utile e produttivo per la teoria e la ricerca empiricain sociologia del corpo’ nella formula:

(Habitus) (Capitale) + Campo = Pratica(Bourdieu 1979:112, citato in Turner e Wainwright 2002:331)

formula che serve loro da espediente euristico per equiparare le differentilogiche dei diversi campi e azzerare ’la struttura dello spazio simbolico chetraccia l’insieme di queste pratiche strutturate, di tutti questi stili di vitadistinti e distintivi’ che si definiscono sempre oggettivamente e talvolta sog-gettivamente attraverso e per mezzo delle loro reciproche relazioni (Bourdieu1979:112). Si tratta di una formula che riduce un movimento di notevole com-plessità se si considera che la variabile habitus e quella di capitale interagiscono

73 Si veda per esempio Sassatelli (2000) per uno studio della ’fitness’ e delle pratichefisiche di cura del corpo.

1.2 Sociologia della produzione simbolica e del gusto: Bourdieu e l’art moyen 49

in uno spazio simbolico da definire volta per volta e che risulta in pratichesociali valutabili di modo differenziale.

Secondo Turner e Wainwright, che si occupano del corpo dei danzatoridi balletto, il corpo del danzatore sarebbe il luogo di quello che Bourdieuchiama hexis, e che essi definiscono come ’luogo della storia incorporata’74(Turner e Wainwright 2002:332). Il danzatore userebbe la propria arte comehabitus ’occupazionale’ dato che non ha altro che essa ed il proprio corpo(a costruire un habitus definito come ’innato’) (ivi) per accrescere il propriocapitale ricevendo input da performances pubbliche che legittimano il lorooperato in quanto specialisti della produzione. Ma paradossalmente il ruolo delcorpo nell’arte tersicorea si costituisce come difesa dalla rischiosa sua capacitàdi ’incorporare la propria storia’, nel momento in cui esso è in qualche modochiamato a esplicitare la storia dell’acquisizione della capacità di danzare edel suo potenziale di liberazione.

Concepire un ’habitus professionale’ che si serve del corpo come luogo del-la storia incorporata e come strumento sul quale si esercita una disciplina eduna identità sociale, quella del danzatore (ivi), significa verificare la produt-tività del concetto in uno specifico ambito professionale di cerchia ristretta,dalle premesse di una teoria che non si propone affatto di tipologizzare, ma alcontrario di ricostruire le pratiche sociali delle arti in quanto parte di un siste-ma di differenze che si definiscono a vicenda, ma che configurano un oggettoestremamente sfuggente proprio perché si definisce intorno ad un consensosociale tacito e sottinteso.

Ma su che cosa polarizzare il consenso? Se l’habitus, in quanto schemaacquisito e incorporato di disposizioni è ’sia lo strumento, sia l’esito dellapratica sociale’ (ivi:331) e anche ’sistema acquisito di disposizioni generatri-ci’ (Bourdieu 1979 cit. ivi:331), o ancora ’necessità incorporata’, (Bourdieu1979:190-191), è anche e prima di tutto uno strumento teorico per una scalasufficientemente ampia di fenomeni tramite il quale definire anche l’arte co-me pratica sociale. Ma se viene visto in quanto ’habitus del danzatore’ è lamarcatura del carattere storicamente e culturalmente visto come ’innato’ del-l’arte della danza a rivelare, proprio secondo la teoria del gusto di Bourdieu,una tipica attribuzione di legittimità culturale dall’interno di un campo bendeterminato della produzione artistica. È probabile che tale carattere ’innato’della disposizione alla pratica musicale sia rivendicato da artisti di ogni cam-po particolare, ma si potrebbe osservare che esso sia costruito socialmente intermini più vicini allo habitus di Bourdieu quando si intende sottolineare lapeculiarità del quadro di riferimento del valore sociale della musica e dei com-portamenti in cui si codifica, e cioè in modo differenziale, ponendo l’accentosulla diversa logica del campo e le diverse modalità di commercio in capitalesociale.75

74 Sulla interpretazione di habitus come ’storia incorporata’, che ricorre in diversiautori si vedano Piasere (2001:81-84) e Holt (1997).

75 La precedente citazione di Frank Lowe smaschera il discorso essenzialista e narrala risoluzione sociale dell’habitus. Tuttavia discorsi essenzialisti e innatisti potran-

50 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

Certo che se si pensa all’arte come ’ritrovamento di oggetti dimenticati’alla maniera di letterati come Marcel Proust e Olga Kristeva, la prospettiva diuna memoria del corpo che possa orientare alla scoperta e riscoperta di gesti esensazioni non può essere considerata come qualcosa di secondario (in tutti idipartimenti dei modernismi artistici). Si tratta del problema del tempo e dellanostalgia che sembra il piano su cui l’infinito e l’inconoscibile sono misurabilisu una scala umana. Su un piano più generale però, è certamente indicativodella ’provvisorietà’ dei discorsi su cui si legittimano le pratiche eterogeneedelle arti moderne il dover ricorrere all’attribuzione del carattere innato delladisposizione persino rispetto a un’arte di origine cortigiana come la danzaoccidentale che ha una storia ben determinata ed un commercio secolare conl’artificio teatrale, in virtù di quella stessa storia dalla quale ci si dovrebbeliberare nel momento della performance.76

1.2.2 Il ’Campo Jazzistico’

Per quanto riguarda una definizione sufficientemente ampia e flessibile di quel-lo che sarebbe da definire come ‘campo jazzistico’, esso resta da definire sia sulpiano spazio-temporale che sociale in quanto campo di significati pertinentie di interazione possibile della produzione simbolica dei singoli e di gruppidi interesse. Un campo che si osserva prima nei termini iniziali di esclusio-ne/inclusione e convalida/rifiuto e poi in quelli della manipolazione di uncapitale simbolico e di memoria volto alla propria riproduzione ed al propriosviluppo che molteplici subculture diffondono, commerciando e negoziando nelsistema della cultura in senso lato. Il rapporto dei prodotti del campo ristretto

no sempre erigersi a fondare caratteristiche sostanziali di musiche di ’diaspora’come il jazz e quelle di molte culture rom, del flamenco spagnolo, di certe tradi-zioni medio-orientali, e di tante altre presenti in ogni parte del mondo. Esse sonocaratterizzate da fenomeni trattati negli studi sul folklore e in etnomusicologiaquali di porsi come ’varianti’ di altre musiche, di concepire un apprendimentomusicale e della danza che si inizia molto presto, una conoscenza ed una parte-cipazione più diffusa ed egualitaria alla musica, modalità sociali differenziate dicommercio interno ed esterno. Tra questo quadro di riferimento e la costruzione’essenzialista’ come protezione dell’operato esoterico delle cerchie ristrette dellaproduzione simbolica nel sistema della cultura globale ci sono differenze sostan-ziali e storiche, anche e nonostante il fatto che il suo mercato di beni simbolici siacaratterizzato da una offerta e domanda di generi e pratiche musicali di sintesi incui il musicista ’tradizionale’ si trova spesso a collaborare con chi non si definiscetale.

76 Progetti teatrali che integrano diversi tipi di approccio alla danza, musica, poesia,arte visuale, confermano con le loro opzioni di trattamento del corpo, come ’Foi’ diLarbi Charkaoui (realizzato nel 2004 e trasmesso su Arte TV in data 22/05/2005),affrontano una vasta mole di questioni di grande complessità. Tuttavia sembra chesolo una pratica conseguente al carattere estremamente ’artificioso’ della danzaoccidentale sia capace di liberare il corpo dal peso della sua storia.

1.2 Sociologia della produzione simbolica e del gusto: Bourdieu e l’art moyen 51

con il campo allargato della produzione danno ragione delle particolari e con-crete strategie di legittimazione a prescindere dalle quali sarebbe difficile farsiun’idea ’di campo’ in quanto rappresentazione sociale. D’altra parte bisognacerto tenere conto delle specificità.

Secondo Pierrepont (2001, 2002), che affronta direttamente la definizionedel ‘campo jazzistico’ e con questo una possibile sociologia del jazz, questosarebbe caratterizzabile da una temporalità sia contingente e storica che mi-tica. Si tratta certo di un aspetto non di poco conto, per valutare la questionedella riproducibilità data dal rapporto a modelli che identificano concreti mu-sicisti del passato, per ciò che riguarda la selezione delle loro eredità entro ilrepertorio discografico e scritto e per l’esame più minuto di certe particola-rità riguardanti il rispetto di regole non esplicitate ma presenti.77 Il campojazzistico di Pierrepont è inoltre un ’campo di irradiazione’ nel quale il jazzè presente laddove si fa, non importa se nelle metropoli, nelle periferie o inprovincia. L’artificio con cui Pierrepont illustra una propria idea inclusiva, elargamente condivisibile, del campo jazzistico è quello di presentare una lungalista di luoghi, di tempi e di nomi di musicisti noti e meno noti. Anche chisia omesso da una tale lista vi è presente in un certo senso per la prossimitàavuta in passato o nel presente con uno di questi nodi del campo jazzistico(Pierrepont 2002:38-41). Esisterebbe ancora un ulteriore elemento comune nelsenso più ampio di una sociologia del jazz: i luoghi, gli ambienti e gli avveni-menti competono a gruppi sociali ’reduits ou amenés à l’ésclavage minoritaireà l’interieur du totalitarisme occidental’ (Pierrepont 2002:38).

Quanto alla grande varietà delle pratiche, degli stili, scuole e poetiche,è possibile cogliere a posteriori un certo aspetto determinato storicamentedello habitus del musicista, che si apprende e si trasmette e che muta nellastoria e nei diversi ambienti culturali ponendo le procedure musicali cometecniche del corpo, mnemotecnica, selezione di parametri improvvisativi e discrittura, cioè un insieme di temi di ricerca che restano di competenza piùspecifica per l’etnomusicologia. Da qui è possibile cercare di penetrare le ideedei musicisti e la natura simbolica di certi procedimenti che assumono laforma di un ‘concetto’ personale in quanto sistema incorporato di distinzionigeneratrici. In questo senso lo habitus è oggetto e soggetto di un processo dicontinuo adattamento e di messa a punto per diversi campi della produzionesimbolica, ma si rivela con particolare evidenza laddove entra a dare corpoa conflitti politici e sociali. Forse l’emergere più clamoroso e drammatico diun habitus che vorrebbe porsi in quanto aspetto di natura è quello in cui lamusica entra essenzialmente come irruzione cui interi gruppi e talvolta interesocietà si riferiscono ed è determinato da momenti in cui è la donna alla ribaltaed in cui la discriminazione di genere si aggiunge a quella di gruppo. Allora le

77 Si fa riferimento qui a quella dimensione nascosta che riguarda il rapporto conla presenza dei musicisti del passato, all’idea che il campo della musica sia popo-lato di presenze e ai modi di porsi rispetto a questo aspetto (si veda per questoPierrepont 2002:49-50).

52 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

rappresentazioni dominanti della donna vengono messe in discussione graziealla musica, come nel caso del blues urbano di Chicago, con Bessie Smith, MaRainey, Ida Cox, alla vera e propria rivoluzione apportata da Maria Callasnel mondo dell’opera, oppure come accade nei clamorosi cambiamenti dellarappresentazione pubblica della musica araba che si associano alla vicenda diUmm Kulthum in Egitto (Fuad 1983).

Anche la tradizione del jazz si pone come una serie selezionata di mae-stri. Il gusto per un musicista si definisce tanto per la sua posizione socialee politica che per le esperienze e le connessioni con altri musicisti che nehanno ’cambiato’ la posizione nelle cerchie della produzione simbolica. Qui ilmusicista di jazz, in quanto ’personaggio sonoro’ (Schaeffner 1926[1988]) deveacquistare un carattere personale inconfondibile, come requisito fondamentaleper la convalida nel campo ristretto dei propri pari.78 Questo principio, forsel’unico possibile per garantire repliche sempre diverse di uno stesso concettocorrisponde alla resa in termini orali di un frammento scritto, da un’intervistaa Lester Bowie :

I remember reading something Max Roach said that Jo Jones told him[Sic: Lester Young, n.d.e], and that was that you can’t join the thronguntil you sing your own song (Bowie e Favors 1994, corsivo mio).

Chissà se i maestri divengono agenti di una idea di ’storia incorporata’ o seconviene immaginarli mentre danzano o giocano a scacchi con un avversarioinvisibile. Bisogna ammettere che le loro modalità di consacrazione recanoevidenti assonanze religiose. La sensibilità di Bowie e la struttura rimata fannosì che il frammento restituisca il senso di una tradizione. Si tratta di un modellodi trasmissione piuttosto simile a repertori di tradizioni a metà tra l’orale elo scritto79 ed il tipo di formulazione riguarda sia l’aspetto individuale siaquello sociale del processo formativo. Ma la particolarità di questo ordine

78 Si è già accennato alla possibilità di interpretare secondo le vicende del lamequesto processo (facendo riferimento a Labov, 1972). Chi è lame si allontana daigruppi giovanili che conoscono gerarchie basate sulla competenza linguistica nel’signifying’, nelle ’dozens’, nei giochi linguistici come ’signifying monkey’, ’shine’e ’the fall’, per dedicarsi alla pratica della musica per trovare altri pari ed esserericonosciuto con gli esiti pubblici della sua attività. È logico supporre per una talevocazione una corrispondenza tra la lingua vernacolare e il jazz che è ancora tuttada scrivere. La musica afroamericana (o almeno certe sue ’zone’) è connessa con unidea di società che parla un’altra lingua, o la ignora o la corregge, rapportandosial Black English Vernacular.

79 Per il ’concetto’ e il personaggio di Lester Young (Jo Jones) e la sua presenza nelcampo jazzistico si veda naturalmente di Charles Mingus, Good Bye Porky PieHat, non senza aver fatto la conoscenza con la musica del primo. La selezione,il frammento, che si incrociano con la musica come superamento dei limiti dellecontingenze, il giungere ad un musicista attraverso un altro, costituiscono unaparte molto importante di ciò che si costituisce nel come conoscenza del jazz edei suoi personaggi (v. Pierrepont 2002).

1.2 Sociologia della produzione simbolica e del gusto: Bourdieu e l’art moyen 53

metafisico, capace di evocare la presenza di una voce, è il suo strettissimointreccio con una analoga metafisica del ’suono’ e del ’personaggio sonoro’,elementi inseparabili e che si spiegano a vicenda.80

La manipolazione dello habitus deve essere frutto di un lavoro duro, la-borioso e cosciente, ma non esita a costituirsi in ’un altro mondo’, futuro,passato, ideale, onirico, sociale, patologico, a seconda delle circostanze e deipunti di vista. Gli esempi stanno nella sostanza stessa della musica e sono latradizione del jazz: con Thelonious Monk l’elaborazione di un proprio sistemache include tutti i parametri musicali in una paziente applicazione quotidiana,costituisce una dimensione nella quale il tempo si sottrae ad ogni imposizioneesterna e si ricostituisce in una musica mai ascoltata prima. Dello stile pianisti-co di Count Basie si potrebbe osservare che la sua proverbiale e inconfondibilestringatezza sembrerebbe provenire da un vero e proprio ’stile sociale’81 e sicontrappone ’artigianalmente’ al virtuosismo di maestri come Art Tatum. Al-tro si potrebbe osservare sulla incorporazione di caratteristiche del tocco edel bilanciamento dei pesi nello sviluppo di caratteristiche timbriche nei bat-teristi laddove la qualità timbrica è direttamente espressa nell’uso del corpoe si direbbe corrispondere alla stessa struttura fisica dei personaggi. Si trat-ta comunque di lenti processi di personalizzazione e di sviluppo di gestualitàsonore82 talvolta alla ricerca razionale del minor sforzo e del miglior suonoe talvolta secondo posture molto vicine a quelli che sarebbero veri e propri’errori’ secondo la tradizione accademica, ma sviluppati e resi produttivi.

1.2.3 Jazz e autodeterminazione

Torniamo al primo dei contributi in cui Alexandre Pierrepont si adopera alladefinizione del jazz come ’campo’ di pratiche sociali su cui riflettere compa-rativamente. Mettendo l’accento sul carattere centrale del ruolo delle cerchiedella critica e della distribuzione per ogni tipo di commercio artistico, l’auto-re sottolinea l’importanza della selezione operata ’giorno per giorno dai suoi

80 I riferimenti alla tradizione possono assumere delle forme inaspettate : GeorgeLewis, per spiegare i criteri costruttivi del suo software musicale Voyager, scrivedi essersi trovato dinanzi al compito di dover fornire la macchina di un proprio’sound’ e di averlo affrontato con una logica che egli definisce come ’technology-mediated animism’, approccio che egli descrive citando Malachi Favors e le suenarrazioni di un personaggio che questi incontrava spesso nei suoi viaggi e che chia-mava ’this african brother who had instruments that played themselves’ (Lewis2000:37).

81 ’In the Cherry Blossom and places like that’, dice Clark Terry, ’you could seehim with his rhythm section pumping and he was talking with someone, have asip, etc. so and so ... it’s his social style which is also a musical style, that of hissparish indulgence over the keyboard’ (Terry in Burns 2000, ep. 6, 26:20).

82 Questo percorso entra nella formazione di Massimo Urbani come approccio estre-mamente personalizzato all’apprendimento del jazz (v. § 3.19, p. 239, e in annesso,intervista con Afo Sartori).

54 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

presentatori più abituali’. Essi rimangono gli unici investiti dal ruolo di me-diazione tra la proposta artistica come ’forzatura’ e l’adeguamento (a venire)della scelta del pubblico. Ma è l’esperienza dei momenti in cui qualcosa siè realmente dischiuso dinanzi a noi la responsabile della tipica partigianeriadell’appassionato, il quale sostenendo le sue preferenze parla di sé stesso.

[...] en l’absence d’une véritable sociologie de la production ou d’uneparticipation commune à « la vie du jazz », nos connaissances et nospréférences ne sont pas l’indice de nos seules subjectivités. Elles reflè-tent les accès qui nous ont été donnés, l’ordonnancement d’un tempsobjectif sanctionnant ce qui survient (2001:222) .

Una sociologia della produzione potrebbe servire da punto di partenzaper oltrepassare la costruzione di un fenomeno di commercio artistico inquanto scelta obbligata dalle semplici indicazioni presentate per tempo dai’presentatori ’abituali’. Una sociologia che affronti l’autobiografismo del jazze tematizzazioni quali le ricostruzioni dei movimenti dei musicisti e le lorostrategie di produzione in Europa.83 Essi infatti, come lo stesso Pierrepontosserva proseguendo la sua argomentazione, hanno reagito creando ’il loroproprio universo di riferimento’ facendo largo ricorso all’autodeterminazionee all’auto-produzione, più che rifugiarsi ’nell’ostilità al dato di una continuarazionalizzazione della produzione jazzistica’84 (l. cit., in corsivo nel testo).Il tema della conflittualità (o della de-legittimazione) del ruolo di mediazionedelle cerchie più ampie della distribuzione, della costruzione di un discorsomusicale che prevede quello scatto in avanti secondo il quale i musicisti cerca-no di dialogare ’direttamente’ col pubblico è stato posto nel corso degli anni’60 e ’70 e la sua eredità è certamente esistente e valutabile.85 Non solo, masi tratta di qualcosa che non può essere semplicemente espulso o cancellatodalla rappresentazione attuale del campo jazzistico.

83 In Italia, negli ’60 e soprattutto nei ’70 il mercato dei festival e dei concerti erafavorevole per i musicisti americani.

84 Tale razionalizzazione potrebbe essere esemplificata dalla contemporaneità trala costruzione di Chet Baker come personaggio musicale ’santificato’ da «DownBeat» come migliore trombettista nel 1953 (Gavin 2002:97) e del poco conosciutofiorire di una miriade di attività musicali nel South Side di Chicago tra cui quelleche sperimentano con nuovi tipi di forma e che rimangono per ora un fenomenolocale, di cui si parla più avanti.

85 Segno di un cambiamento importantissimo che parte dal ’campo’ americano e chenon può essere omessa da ogni trattazione della storia del jazz e della musicacontemporanea. Pierrepont (2001:224 e sgg.) menziona brevemente ma efficace-mente le cooperative musicali quali la AACM di Chicago, la Jazz Composers’Guild e la Jazz Composers’ Orchestra, il Jazz and People Movement, la NewYork Musicians Association, il Collective Black Artists ed il New York City Ar-tists Collective, l’occupazione di una quindicina di lofts a Manhattan da partedi un gruppo di musicisti, e negli anni ’80 il Musicians of Brooklyn Initiative, loImprovisers Collective e lo M’Base.

1.2 Sociologia della produzione simbolica e del gusto: Bourdieu e l’art moyen 55

Quanto all’autodeterminazione come progetto, alla distribuzione in pro-prio della propria produzione, la vicenda di Charles Mingus è certamenteilluminante: la sua carriera sta tipicamente in bilico tra tentativi, fatiche efrustrazioni ed infine il successo commerciale più ampio a cui giunge solo ne-gli anni ’70 con la Atlantic Records. Ma forse è Sun Ra l’esempio più precocee conosciuto di una pratica regolare e definitiva di questa politica. Quandola propria casa discografica Saturn esisteva già a Chicago esce il primo docu-mento visuale che testimonia di questo mutamento di tendenza nel mondo deljazz: The Cry of Jazz. Nel documentario (Bland 1959) il piano sociologico èsvolto da una voce recitante che si propone di dare voce ad una nuova letturadi concetti quali ’Negro’ music e ’Negro’ culture. Il piano dell’attualità, trat-tato in chiave di antropologia urbana, è affidato ad un gruppo di attori mistiper estrazione sociale e razziale, i quali recitano una tipica discussione su checosa sia il jazz, e che rende necessario discutere prima quale sia il ruolo degliafroamericani nella stratificazione sociale americana.

La musica di Sun Ra offre un piano base al documentario. Per lo spettatoreodierno il fascino di questa musica mette letteralmente alle strette l’esposi-zione della parte teorica del documento.86 La discussione termina con unainteressante previsione per la quale la morte del ’jazz’, inteso come simbolo diuna ideologia di opposizione minoritaria, segnerà la rinascita del Nero ameri-cano. Il documento offre immagini di notevole interesse girate nel South Sidedi Chicago e permette di farsi un’idea degli ambienti in cui cresceva una ricer-ca musicale, culturale e politica nel contesto di una sempre maggiore pressionedella questione razziale sull’opinione pubblica che lasciava presagire l’inizio diuna lunga fase di conflitti. Circa venti anni dopo quella che fu una stagionedi grande ricchezza creativa terminerà con le politiche di assistenza socialee di ristrutturazione dei grandi quartieri neri. Le istanze di autodetermina-zione culturale si pongono mentre lo stato e le amministrazioni permettonouno spazio di negoziazione e si sperimentano e si definiscono le politiche diintervento.87

86 Come nota Maybeth Hamilton seguendo la vicenda del blues revival e l’interesseper il jazz della sociologia e dell’antropologia americana degli anni ’50 e ’60 (2000),nel periodo maccartista l’intellettuale socialmente e culturalmente impegnato si’spiritualizza’ trasformandosi nel difensore dell’individuo, della sua libertà di esse-re e di esprimersi oltre le costrizioni della politica. Il film, concepito e prodotto daintellettuali afroamericani, può essere letto come provocazione rivolta alle cerchiepiù sensibili alle tematiche anti-segregazioniste. Uscendo dal piano specialistico,a partire dal jazz si perviene ad una visione del mondo contemporaneo.

87 Quello di marcare ogni discorso politico dei musicisti come politicamente scorrettoè un argomento in sé. Si veda per questo la lettura dei ripetuti ’rinascimenti’ dellearti afroamericane in rapporto allo sviluppo di politiche urbane di H. Gates Jr.nel cap. 4. Gates tratta questa istanza largamente condivisa di impegno socialee culturale verso l’autodeterminazione come un ciclico ’rinascimento’ delle artinere, ma liquidandolo come ’apertamente politico’.

56 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

È interessante notare come i tre film in cui compare l’orchestra di SunRa si pongono come luogo di riflessione antropologica sui destini del popoloafroamericano secondo una densa testualità musicale, discorsiva e teatrale. Intre fasi molto diverse tra loro ma tutte di importanza cruciale per la storiadella cultura, della musica e dei musicisti. Sun Ra offre la possibilità di veri-ficare la sfida posta dalla minore o maggiore distanza dell’altro antropologicotramite il tipo di trattamento del testo musicale nel progetto filmico. Affasci-nante anticipazione in The Cry of Jazz (Bland 1959), documentario di vitache contrappone narrazione e performance in The Joyful Noise (Mugge 1980),e infine decisamente film musicale composto di musica e recitazione in Spaceis The Place (Newman 2003[1973]). Tutti i film citano popolari modelli filmicidel genere fantascientifico americano come quelli espressi nella serie televisivaThe Twilight Zone (conosciuta più tardi in Italia col titolo ’Ai Confini dellaRealtà’).

1.2.4 We Love N. Y.

Nel 1982 Adelaida Reyes Schramm pubblicava uno studio in cui venivanoavanzate obiezioni sostanziali al tradizionale approccio della disciplina etno-musicologica, orientata all’approfondimento di sistemi modali in un contestolocale e circoscritto come nel caso del ’microsistema’ musicale sardo (Carpi-tella, Lortat-Jacob), oppure chiamata a tradurre concetti più ampi (musicaaraba, tarab), o a illustrare modelli musicali di vario tipo e origine: per esem-pio quello del gamelan indonesiano. Viene qui invece messo in discussionel’approccio antropologico-musicale nel quadro della definizione di un oggettodi studio urbano: quello dell’offerta di eventi musicali pubblici. La Schramm sichiede come possa essere definito l’oggetto dello studio etnomusicologico in uncontesto urbano, e particolarmente in quello così paradigmatico della metro-poli di New York. Le questioni poste si collocano all’incrocio tra particolaritànazionali e l’alto livello di cosmopolitismo entro cui si orientano le politichedi sponsorizzazione degli eventi musicali pubblici (accompagnati da una seriedi iniziative private) che hanno luogo a Manhattan tra il 1978 ed il 1981.

Evidentemente, sostiene la Schramm, l’espediente euristico di tracciare deiconfini tra quello che è centrale e quello che è marginale per l’oggetto di studio,si pone molto diversamente studiando un argomento in cui l’extra-musicaleed il musicale si comprendono l’uno attraverso l’altro e non possono essereseparati. I confini vanno visti come luogo di rapporti possibili (1982:6) nelquale la relazione tra

sponsors, performers, and audiences – suggests a dynamic that ac-counts for the continued functioning of a system of which they are alla part. [corsivo nel testo (p. 3)]

Ponendosi come sistemi di formazione di consenso e come segni delle ca-ratteristiche uniche della città (la maglietta I love N. Y. viene inventata in

1.2 Sociologia della produzione simbolica e del gusto: Bourdieu e l’art moyen 57

questi anni), emergono due diverse soluzioni progettuali: la ‘Jazzmobile’ edil Programma del Rockfeller Center. La prima è un sistema itinerante voltoa conservare e propagare il jazz e la seconda si pone come una proposta peril pubblico dei ’colletti bianchi’, dei turisti e di tutti coloro che partecipa-no ai concerti verso l’ora di punta in cui termina il lavoro d’ufficio. Il primoprogramma implica lo spostamento nei quartieri afroamericani e ispanici, ilsecondo resta collocato in centro. La Jazzmobile propone una varietà di stiliassemblati intorno ad una idea composita modellata e negoziata intorno al-le preferenze di gruppi etnici, mentre il programma del Rockfeller Center sicostituisce intorno ad una proposta altamente differenziata secondo modulidi ’gusto’: musica classica europea, Scott Joplin, Duke Ellington, jazz lati-no, bluegrass. Sono assenti quelli delle musiche d’avanguardia, delle musicheetniche non-americane o della disco-music e del cosiddetto hard-rock. La dico-tomia dei programmi può essere vista in un rapporto diretto con la concezionedei consumi musicali socialmente differenziati secondo le categorie di ’univore’e ’omnivore’ di Peterson (1997).

La Reyes Schramm metteva in guardia i propri lettori su quello che sicomprendeva guardando un po’ meglio la varietà e la ricchezza dell’offertamusicale nell’estate di New York. Mentre i colleghi etnomusicologi si occupa-vano di ’modellizzare’ e tradurre ideologie e pratiche esotiche, il sistema dellospettacolo si mostrava pronto a fagocitare qualsiasi cosa. Intorno al 1979, negliStati Uniti, i proventi dell’industria discografica arretrano dopo una crescitache era stata costante dagli anni del primo dopoguerra. Un fatto che coincidecon l’inclusione della pratica del jazz in un ’sistema del disagio sociale’. Lepiccole imprese ed i programmi di sviluppo in Europa di molti artisti afroa-mericani subiscono seri ridimensionamenti, mentre il jazz si ferma molto piùspesso in città escludendo i sottogruppi di persone storicamente dissenzienti(e politicamente perdenti), viene dunque portato nei quartieri neri e ispanicie finanziato con i fondi delle politiche sociali di sostegno alle minoranze.

Intendo qui per ‘sistema del disagio sociale’ una tacita convenzione a nonentrare nel merito del sistema gerarchico di differenze di statuto sociale chesi autoalimenta nelle società post-industriali di immigrazione. La tutela delsenso diffuso e implicito della differenza culturale degli immigrati (o irridu-cibilmente diversi o a da ’integrare’ secondo un programma d’accettazionedi ‘nostre regole’), si unisce alle politiche che dovrebbero favorirli in quantoelementi ‘a rischio’. Questo accade in Italia nel sostegno pubblico all’impiego,per cui il costo del lavoro di elementi a rischio certificati (tossicodipendenti,ex-reclusi, immigrati) viene ad essere vantaggioso per le imprese che se neavvalgono collaborando con le cooperative sociali ed il sistema dell’assisten-za. Con politiche del lavoro che tendono a ’precarizzare’ intere classi di età,un tale sistema viene percepito come in fase di estensione a tutta la società,alimentando i conflitti tra ’diversi’ e il razzismo.88

88 Il sostegno pubblico all’impiego dei ’soggetti a rischio’ implica un costo del lavorovantaggioso per le aziende che li ingaggiano collaborando coi servizi sociali. Evi-

58 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

Il concetto di diversità permea ogni evento (op. cit. p. 9). Eppure è ilmomento in cui hanno luogo quelle che Anthony Braxton definisce come ’legrandi purghe degli anni ’80’ (v. oltre a p. 297) nei confronti di quei musicistiche avevano praticato le idee di autodeterminazione e di presa di distanza daquella ’sindrome dell’intrattenimento’ che (nel bene e nel male) accompagnatutto il corso della storia del jazz.89 È interessante tenere presente che proprioin questo periodo inizia quella che d’ora in poi sarà una sempre crescentecircolazione pubblica dell’idea di ‘intercultura’ che compare alla conferenzaUNESCO di Nairobi nel 1976. Ma il farsi avanti del dibattito attorno a quellache dovrà essere la società a venire è parallelo ad un processo di contemporaneaistituzione di un sistema politico-amministrativo ed economico di esclusioneche si forma attorno all’imperativo di integrare. Gradualmente le agenzie del’sociale’ prima ancora che quelle della cultura divengono interlocutrici di unpubblico interessato a musiche esotiche, afro-americane, africane, rom. Unprocesso il cui terreno, come campo aperto alla riflessione antropologica, èben descritto da Kilani nella sua etnografia delle contese e dalle pretese cheinvestono i maghrebini in Francia e delle strategie di risposta e di interazionecon ideologie ’legittime’ maggioritarie che tendono a definirli a loro spese e’sopra la loro testa’.90

Come i giovani boers delle periferie francesi che praticano il rap e la breakdance, il più maturo sassofonista che si esercita in Central Park, mette ’inpausa’ il sistema del disagio sociale, le dinamiche della competizione e dellalegittimazione professionale, le bollette scadute e i problemi familiari. Non èstrano che spesso sia (o sia stato) disposto a dotarsi di una filosofia che capo-volga i rapporti di forza o da un sistema mistico tramite il quale alimentare lasua disposizione a fare spazio a ciò che lo spinge alla performance. Ma quantopotrà durare?

1.3 Costruzioni storico-culturali

È stato notato come le investigazioni empiriche della teoria del ’capitale delbuon gusto’ di Bourdieu pongano immediatamente il problema di una stori-cizzazione delle condizioni concrete del contesto (Holt 1997:109). Un modello

dentemente, un apprendista quindicenne maghrebino, in via di abbandono di unascuola poco o nulla attrezzata ad interessarlo allo studio, sarà preferito in molticasi per il basso costo dei contributi previdenziali e per la sua poca protezionenel sistema gerarchico degli status sociali ad un italiano che abbia compiuto lascuola dell’obbligo.

89 Su questo argomento e sul ruolo decisivo di organizzazioni quali la A.A.C.M.(Association for the Advancement of Creative Musicians) di Chicago, si vedaPierrepont (2001, 2002) ed il capitolo terzo in questo testo.

90 Mi riferisco a Kilani (1997:265-306), La Francia e il velo islamico. Universalismo,comparazione, gerarchia. Una politica ‘da zingari’ che i paesi arabi hanno adottatolargamente nei confronti delle minoranza ebraiche, dopo la nascita dello stato diIsraele.

1.3 Costruzioni storico-culturali 59

’sincronico’ dei campi della produzione simbolica riveste un notevole interesseper cercare di rispondere alla domanda che cosa il modernismo del jazz voglia’significare’ nel corso del tempo e al centro di quali contese sociali si collochi.Un modello virtuale può dare forma, significato e spessore storico ai discor-si e le interpretazioni che percorrono il campo simbolico e danno vita allerappresentazioni di un gruppo sociale ristretto e con una forte connotazioneprofessionale.

Accettata l’ipotesi di una verifica in un ’campo’ così controverso (una voltaammesso tutto l’interesse di ripensare una delle molteplici vicende europeedel jazz a partire dalla sua fase iniziale) ci si potrebbe avvantaggiare dellarilettura tutta una serie di ricerche su fascismo e cultura e sulla cultura delfascismo (Cannistraro, Mosse, Schnapp, Ben-Ghiat, Gentile, Adamson). Uncampo di ricerca in cui si pongono notevoli problemi di metodo. Se la storiadei rapporti tra fascismo e cultura annovera studi di tutto rispetto nel quadrodi un dibattito molto ampio a livello internazionale, è anche vero, nonostantetanti contributi di studiosi stranieri, che questioni di importanza centrale comequella del senso degli studi locali sull’affermazione politica e amministrativadel regime (i quali dovrebbero dare ragione di una realtà più articolata edifferenziata) sono gravati dall’essere relegati in un ambito specialistico.

Sulla notevole mole dei contributi di studiosi non italiani gravano i dubbi diuna lettura troppo ottimistica delle fonti e di una poca capacità di far emerge-re il non detto se non il non scritto. I punti più controversi di una metodologiadella storia culturale del fascismo potrebbero essere elencati sommariamente:ruolo delle ricerche locali, ruolo dell’etnostoria e delle narrazioni orali, com-presenza di una ’memoria soggiogata’ con una storia in corso di elaborazionee di riscrittura da parte dei mass-media che tende a perpetuare in forme nuo-ve quel tentativo di dominio sulla memoria che fu uno dei tratti distintividel regime. Alla sollecitazione a discutere il fatto reale che gli Americani ab-biano bombardato a tappeto tante città italiane mirando a che il popolo sisottomettesse a qualsiasi cosa pur di terminare con la guerra, il giornalismolegittimo odierno si oppone con la propria autorità e capacità di adeguarsi aduna narrazione del presente nella quale rassicurare che l’America di Bush èla stessa di Roosevelt e Eisenhower, o se non lo è per il momento lo ritorneràperché è un grande paese democratico, ecc.,91

Al contrario la memoria popolare dei bombardamenti delle città italianesta diventando una fonte sempre più importante per la storiografia contem-poranea e parlarne significa uscire dalla delega alle argomentazioni dominantiaffidate alla stampa legittima non solo riguardo alla memoria della storiaitaliana, ma rispetto alla contemporaneità nel suo complesso.92

91 (Ascoltato in: Prima Pagina, rassegna stampa di radio 3, mattino del 03/06/2004,condotta da Massimo Giannini, vicedirettore de « La Repubblica »: rtsp://mmm3.rai.it/radio/radio3/napoli/prima/2004/prima_2004_06_03.ra.

92 La storica Gabriella Gribaudi ne ha parlato nel programma radiofonico Fahrenheit(radio 3) nella presentazione lavori di un seminario da lei coordinato dal titolo LaGuerra e il Novecento, tenutosi presso l’università di Napoli nel giugno 2004. La

60 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

L’approccio dei cultural studies anglosassoni e degli studi critici post-coloniali si pone in consonanza con quel sostanziale cambiamento di paradigmascientifico che si può far risalire alla proposta di Wolfgang Iser di sostituireuna mappa antropologico-culturale dell’immaginario alle categorie di struttu-ra, funzione e comunicazione, riducendo ’le assunzioni metodologiche correntia presupposti euristici’ (Iser [1979] 1989:283). Questo nuovo approccio post-strutturalista della teoria letteraria contribuisce sostanzialmente a quell’aper-tura di orizzonti che si respira in lavori quali Orientalism di Edward Said, inThe Black Atlantic di Paul Gilroy, nell’accoglimento di un nuovo paradigmadella narrazione antropologica da parte di James Clifford quando si adoperaa descrivere la sua idea di ’umanità in viaggio’ e quando discute il concetto di’culture della diaspora’ (1999). Parallelamente, una notevole proliferazione distudi culturali, sulla scorta della tradizione della scuola di Birmingham lavoraad una storiografia ed una etnografia del campo della ’popular culture’. Conil rapido consolidamento dei cultural studies in quanto disciplina legittima, ilnuovo paradigma viene applicato agli studi sul fascismo in modo che mostradi applicarsi allo studio della cultura dell’epoca fascista.

Ma se da un lato le prospettive dei cultural studies e la teoria della costru-zione della tradizione mettono bene in evidenza un processo che è tipico dellamodernità di affannosa costruzione di paradigmi ’essenzialisti’ costruiti sullametafora delle ’radici’, è anche vero, come nota Cristine Chivallon, in una suadiscussione delle tesi di Gilroy (Chivallon 2002), che non basta contrapporread essi costruzioni opposte, per quanto sapienti ed affascinanti, come quelledell’intercultura o delle culture policentrate e diasporiche,93 nel momento incui esse rischiano, proprio per i rispettivi presupposti metodologici di rima-nere ancora troppo calate in quell’immaginario che ne costituisce il materialeprincipale.

Sfogliando la letteratura si incontra spesso l’esplicitazione di una discre-panza metodologica tra la definizione del fascismo come oggetto di ricerca deicultural studies e critica metodologica storiografica nel campo italiano. Comesi è accennato una storiografia locale archivistica e amministrativa è di crucia-le importanza per l’interpretazione dell’affermazione del fascismo nel sud della

stessa Gribaudi è editrice di un lavoro collettivo dedicato alla storia bellica delmezzogiorno (2003).

93 É proprio a partire dalla immediata valenza politica di simili costruzioni che nonsi può che ricordare Bourdieu quando sostiene che ogni commercio di capitale cul-turale nella lotta per la legittimità nel campo della produzione simbolica, sostanzadei termini in gioco nella lotta politica, implica il commercio di un ’principio didominazione dominato’ (1979:331), e che le posizioni progressiste scontino nellapratica il divario tra il programma enunciato e quello implicito, di un inerentefunzionalismo, laddove la hexis del conservatore gode dell’accordo immediato, es-senziale, con il personaggio, fatto che garantisce la riproduzione di un ’programmaincorporato di conservazione’ (op. cit. 499-500).

1.3 Costruzioni storico-culturali 61

penisola,94 potendo rimettere in forse prospettive più generali che ricorrononegli studi culturali. Per quanto riguarda il ’68 e il ventennio che lo segue,c’è invece il problema di una storiografia gravata dai ’buchi neri’ causati dallaresponsabilità accertata (e presto diventata tabù) delle catastrofiche ingerenzedei servizi segreti italiani e americani nell’agone politico, che si intreccia conuna lettura mediatica del ’68 che inizia negli anni ottanta e si sviluppa fino adoggi riducendone l’interpretazione in quanto preludio all’epoca del terrorismoglobale, per cui parlare di quel periodo diventa il parlare del terrorismo ’diquegli anni’ in rapporto a quello ’di oggi’. Verso il 1988 alcuni storici (AA.VV.1989) avanzano le loro opinioni sulla problematicita della stessa periodizza-zione del ’68, a partire dalla riscrittura data dalla celebrazione televisiva delventennale. C’è chi si pronuncia contro la moda dei lavori di storia locale eorale (Migone), mentre altri, come Passerini, difendono la metodologia etno-storica e oralista e puntano al considerare come fonte un archivio mediatico,sonoro, filmico e televisivo enorme. Si tratta di problemi non lontani da uncampo nuovo quale la ricerca sul jazz in Italia secondo una prospettiva an-tropologica perché il fascismo ed il ’68 costituiscono i momenti cruciali in cuisi costruiscono nuove rappresentazioni ed idee di jazz che si intrecciano convisioni e rappresentazioni contrastanti dell’America.

Lo storico Eric Hobsbawm ha contribuito in diverse occasioni ad inqua-drare ed a proporre prospettive di riflessione e di ricerca su argomenti inapparenza ’minori’ fornendo spunti che sono rimasti molto più spendibili incampo sociologico che storico e che aprono la questione della completa assenzadi ogni riferimento estetico per un argomento che lo richiederebbe,95 come ilseguente (Hobsbawm 1963:283).

È pacifico che tanto in Inghilterra che in U.S.A. la musica popolareinfluenzata dal jazz è molto più diffusa che in Francia e Germania ein Italia, dove le forme originali di musica leggera sono state, almenofino all’inizio del rock and roll, molto più resistenti perché basate suelementi del tutto diversi.

Questa osservazione generale può costituire una apertura tematica impor-tante. Quando Hobsbawm scriveva, nel bel mezzo del ’blues revival’ e di uninteresse per il rock & roll ed il jazz che percorreva l’Inghilterra, rinnovando ilflusso delle connessioni trans-culturali interatlantiche, era evidente che la linfavitale del blues era diversamente percepita nei paesi latini ed in Germania, e94 Una storiografia sul campo praticata da Lyttelton (1974) parla per l’affermazione

del fascismo nel meridione di ’fascismo prefettizio’ come l’ennesima presentifica-zione di un potere dello stato supplente e clientelare, ma che deve suo malgradosubire notevoli ridimensionamenti dai rapporti di forza territoriali. Da una imma-gine più precisa del fascismo nel mezzogiorno d’Italia consegue necessariamenteun giudizio storico più complesso e articolato, come afferma Ponziani (1993:30),sull’argomento si veda inoltre Cafagna (1988) e Gallerano (1991).

95 Vedere sull’argomento la discussione dei contributi di Hobsbawm agli studi suljazz di Naepels (2001).

62 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

che questo lasciva prefigurare un tipo di resistenza culturale che sta nelle co-se: non solo quella espressa ufficialmente dalla Chiesa o dal regime e così via,ma qualcosa che, nella stessa pratica musicale, si frappone alla diffusione diun modello ’anglosassone’ del jazz in Italia. È certamente vero che le distan-ze poste dal linguaggio non possono essere facilmente messe tra parentesi. Il’blues’ non è mai stato un elemento sostanziale della ricezione e delle rappre-sentazioni del jazz italiano; inoltre musicisti italiani osservano tuttora che ladifficoltà di trovare tra loro dei buoni interpreti di ’songs’ dipende dalla pocadimestichezza di molti con la lingua inglese e la sua metrica, e anche, si puòaggiungere, con la metrica del verso come concetto e strumento dell’armamen-tario artigianale del musicista contemporaneo.96 D’altra parte il rapportarsi amodelli jazzistici senza essere americani può anche essere visto come un van-taggio nel senso della ricerca di un multilinguismo musicale, come ha spessoosservato Giorgio Gaslini (v. § 3.8, p. 197). Lo stesso Gaslini, nel momentoin cui sperimentava con le tecniche seriali verso la metà degli anni ’60, po-neva una questione generale di una ricezione ed una elaborazione ’colta’ deljazz entro la divisione tra tradizione musicale ’colta’ e popolare che in Italiacorrispondevano e realtà culturali ben distinte. Si trattava però di un paeseche era molto meno interessato ad appartenere alla razza bianca a paragonedi quello attuale.97 Problematiche ben diverse si ponevano negli Stati Unitidove il jazz ed il blues si affermano rapidamente negli anni ’20 anche graziealla convenienza a trasmetterlo da parte delle emittenti radio private locali(Dowd e Blyler 2002, Appelrouth 2003), contemporaneamente allo stabilirsidi una tradizione di esecuzione, istuzionalizzazione e consumo di musica coltaeuropea.

Più che trovarci di fronte a un paese dallo spirito ’meno colto’ e più ’com-merciante’ di quello europeo, come lo stesso Gaslini mostrava di ritenere, negliStati Uniti si assiste ad un processo parallelo e concorrenziale di costruzionedelle rappresentazioni sociali delle arti colte e di quelle popolari per le qualinon è pacifico presumere una polarizzazione meccanicamente associabile aduno status sociale (Peterson 1997; Laubenstein 1929) e a visioni del mondoseparate e distinte da secoli. D’altro canto in Europa e in Italia, sino dai suoiinizi, il jazz non si è mai presentato da solo nella coscienza dei suoi sostenitori

96 Comunicazione personale con Furio Di Castri, estate 2003; si veda anche RenatoSellani a p. 306, e intervista a Mauro Grossi in annesso

97 In un documentario intitolato ’Italiani all’equatore’, realizzato nel 1958 da FrancoProsperi, Fabrizio Palombelli e Stanis Nievo per la televisione italiana, si dànotizia delle attività industriali degli italiani in Kenya. A Mombasa il manager diuna impresa ingegneristica costituisce una associazione per esortare i lavoratoriitaliani a imparare l’inglese e non trovarsi nella ’umiliante situazione’ di usare loswahili con altri bianchi (canale RAI Edu2, 04/02/2006). A questo vi sarà nonsolo un dissenso pre-politico o politico, ma anche estetico: l’impatto del rhythm &blues sulle generazioni dell’immediato dopoguerra fu fortissimo. È stupefacentee fa riflettere notare oggi come certi classici ’mozzafiato’ di Ray Charles, NinaSimone o James Brown possano oggi lasciare indifferenti molti tra i più giovani.

1.3 Costruzioni storico-culturali 63

ma sempre a fianco di altri generi e musiche del nuovo continente, ed in questosenso la sua diffusione è stata marcata da un contesto complesso dominatoda una tendenza cosmopolita di sostegno e di legittimazione che non potevaevitare collisioni e convergenze con il progetto del progresso razzista-coloniale.

In Italia il jazz entra qualificando uno status di classe elevato anche seprogressista nei campi dell’armamentario estetico e del costume ma i musici-sti leggeri sono in gran parte artigiani e gente del popolo. Se queste cerchiedi musicisti attivi nello spettacolo leggero, del tabarin, del varietà e persinodell’operetta si adeguano con entusiasmo alle novità americane, il rapportodi vicinanza al vero modello del jazz americano vive soprattutto nei luoghidi ritrovo più esclusivi. La jazz band all’italiana risponde poi negli anni ’30ad una potente necessità di popolarizzare il nuovo gusto musicale, mentre sicerca di edificare il sogno di una middle-class nazionale nel contemporaneocinema dei cosiddetti ’telefoni bianchi’.98 Nel corso degli anni seguenti allaseconda guerra mondiale si assiste ad un processo di graduale distacco dal pa-norama naturale di ampia ricchezza di connessioni col mondo dello spettacolodella prima metà del Novecento verso una sempre maggiore specializzazioneproduttiva e commerciale polarizzata in nuove forme nell’era della televisione.Processo che comporta l’abbandono in massa del pubblico più ampio dellesale teatrali, una ricerca di costi sempre più contenuti, e la scomparsa di mol-ti generi di spettacolo, coincidente col graduale disimpegno delle politiche disostegno e di finanziamento dello stato e delle amministrazioni locali che siconsuma completamente verso gli anni ’80, quando qualsiasi attenzione cor-porativa al mestiere della musica leggera viene a cadere e anche le orchestreRAI che avevano ospitato tanti musicisti di jazz italiani, vengono dismesse.

Il cambiamento della cultura della musica e dello spettacolo avviene inItalia, come nel resto d’Europa, intrecciando e separando scelte individuali edestini collettivi tra diversi ’americanismi’ con la ricerca di una ’nuova’ culturanazionale che conosce esiti parziali e controversi. I due momenti cruciali daquesto punto di vista sono il periodo fascista e quello del ’68 ed oltre. Quantoa quest’ultimo, se è corretto periodizzare la diffusione del rock and roll comefenomeno che cambia sostanzialmente anche la percezione del jazz, allorchéle cerchie dei sostenitori si affollano di giovani disoccupati ma consumatorie massificati, è ancor più interessante interrogarsi su aspetti meno noti dellanuova vicenda del jazz in Europa come quello del jazz nell’epoca fascista.99

Per un panorama su entrambi i periodi si cercherà di sottolineare le sceltedei musicisti in quanto ’agenti’ di cambiamento culturale e protagonisti di

98 La cui importanza consiste anche nella reazione che crea nelle cerchie del cinemaitaliano, che nel dopoguerra rinasce col neorealismo.

99 Un vuoto a cui tenta risponde Mazzoletti con le sue due monografie dedicate aljazz in Italia nella prima parte del ’900 (1983, 2004). Nella sua seconda opera inordine di tempo vengono menzionate le (perlomeno) miopi politiche archivistichedella RAI, la quale ha ritenuto di eliminare un gran numero di dischi a 78 giri,tutta una collezione di V-disc americani e un gran numero di parti staccate earrangiamenti prodotti dalle proprie orchestre jazz dopo che sono state sciolte.

64 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

vicende la cui memoria è oggetto di contese e rimozioni. In un clima in cuinuove forze salgono alla ribalta di un inquieto secondo dopoguerra e chiedonotutto, in una società in cui masse di giovani ’messi socialmente fuori gioco’dalla disoccupazione e dal ’parcheggio’ della scuola dell’obbligo si avvertechiaramente che gran parte di questo ’tutto’ è ancora da inventare. Emergela questione del tipo di capitale culturale richiesto in un campo mutato econtroverso come quello della musica, che richiede la formazione di un nuovopubblico100 e nuove file di produttori e commentatori esperti. Nel 68 e nelpost-68 (che in Italia si conclude con il rapimento e l’uccisione di Aldo Morodieci anni dopo) la solidarietà con il popolo afroamericano è parte di un’ideadi partecipazione politica e culturale largamente condivisa e condivisibile.

Invece, mentre nel periodo fascista la società del consumo di massa è ’infieri’, si può osservare che il procedimento (più che la poetica) del mélangesia pure bersaglio di controversie identitarie e razziste, ma che si configuricome modello operativo di ordinaria amministrazione per i musicisti italiani.Infatti, pur non astenendosi dall’imitare le innovazioni del secolo, la jazz-banddell’epoca fascista ha provocato esiti originali da leggere in rapporto all’eser-cizio della norma socio-estetica di quelle particolari condizioni e della censurae autocensura della produzione. Si tratta di esiti molteplici e graduabili inuna valutazione che si opera rispetto ai modelli americani del jazz ma chesi ricollega altrettanto fortemente ad una ricezione europea che ha già unapropria storia e una propria varietà. Si assiste dunque a una reinterpretazio-ne tramite specifici parametri musicali che garantiscono la presentabilità deinuovi prodotti. in due periodi cruciali dell’apertura di nuovi mercati al gustojazzistico.

Da quella operatività degli anni ’20 in Italia, in cui i ’pezzi di genere’ siunivano alle melodie americane, poi a quella degli anni ’30, in cui le grandiorchestre ’leggere’ come quelle di Barzizza e Angelini (e molti altri autori ecapi-orchestra) approfittavano della censura ’italianizzando’ i brani, appro-priandosene di fatto e assicurando i diritti a editori italiani, ma anche giun-gendo alle sottigliezze di una sorta di linguaggio cifrato comprensibile solo agliaficionado più esperti (Morelli 1979; Mazzoletti 2004), si passa poi nel dopo-guerra alla danza che celebra la vita e la fine della guerra con lo swing, alleinquietudini degli anni ’50, ed infine alla questione nera e a quella della libe-razione che rendono il jazz una musica ’impegnata’ negli anni ’60, radunando

100 In quegli anni Alan Merriam notava che stavano emergendo canzoni religiose chedivenivano hit della pop music. E osservava, di passaggio, un tema che diventerà digrande importanza col tempo, e cioè che la cosiddetta musica di consumo iniziavaa porre problemi nuovi, dato che la ’costruzione’ della pop music si fa in granparte nel cervello stesso dei giovani, nelle loro rappresentazioni dell’affettività, deldesiderio, dell’amore e del sesso. ’Certainly the study of the popular song textsas they reveal the kind of ideas welcomed by youth has important implicationsfor the society in general, particularly in regard to the shaping of idealized asopposed to real patterns of courtship and marriage’ (Merriam 1962:1176, corsivomio).

1.3 Costruzioni storico-culturali 65

folle di giovani entusiasti intorno a Charles Mingus e Sun Ra nella prima metàdei ’70.

In questo quadro generale la prospettiva di ‘creazione della tradizione’associata agli studi sull’epoca moderna da parte di Eric Hobsbawm resta per-tinente sia per le prospettiva della sociologia dell’arte come per quella dellastoria della diffusione del jazz e degli altri ’modernismi’ del secolo passatodentro e fuori dagli Stati Uniti. Essa assume una sfumatura particolarmen-te ambigua rispetto all’affermazione del jazz in Europa. Si trasforma cioè inuna problematica interpretativa che si riferisce ad una varietà di luoghi e dimemorie in cui si rischia di perdersi. Ogni opera singola di jazz e sul jazzcontribuisce a costruire tradizione, il problema è quale tradizione e di chi.Sulla scena italiana dagli anni ’70 ai ’90 forse nessuno meglio del sassofonistaMassimo Urbani è stato capace di impersonare il problema della distanza trala ’leggerezza’ dell’ispirazione richiesta dal concreto operare un genere per-formativo come il jazz e la sospetta densità delle ideologie della tradizione.Cosciente che i termini del suo operare per la musica e i musicisti si svolge-vano nell’accettazione della sfida di mettere in scena il ’vero jazz’, Urbani sitrovava comunque costretto ad un quotidiano rapportarsi con proiezioni sul-la sua persona di ideologie di legittimità o di giustificazione scientifica (proe anti-cosmopolite, mediterranee, americaniste, africaniste, marxiste) e spes-so di luoghi comuni, portando questa sua particolare situazione esistenzialetalvolta come un pesante fardello.101

1.3.1 Jazz in Italia : quali materiali e quale storia?

Quanto ai contributi sull’argomento del jazz in Italia, vi sono state opere diconsultazione tra le quali alcune ancora molto lette sul jazz in generale (Ca-raceni 1937, 1945; Levi e Testoni 1938; Polillo 2000), traduzioni di lavori cheaffrontano il jazz da un punto di vista storico-musicologico (Mellers 1975), ope-re che aprono campi di ricerca trascurati per molto tempo (Cerchiari 2003),talvolta con un significativo impiego di interviste registrate e di dati disco-grafici esaustivi (Mazzoletti 1983, 2004), altre che omettono di occuparsi diquestioni metodologiche (Zoli 1983) limitandosi a fornire una serie nutrita didati biografici e discografici, inchieste e rapporti di tipo giornalistico (Cogno1971; Castaldo 1976, 1976a) o raccolte di interviste (Fayenz 1981; Cerchiari,Gualberto, Piacentino e Piras 1980). In questo quadro generale non si trattatanto di tracciare i limiti di lavori settoriali, spesso affetti da un eccessivo‘ottimismo’ euristico,102 fatto piuttosto comune nella letteratura sul jazz enon estraneo alla stessa storia della musica. Carl Dalhaus (1980) mette in

101 Urbani, una delle figure centrali del jazz italiano dai primi anni ’70 in poi, sidomandava spesso perché e come era toccato ’proprio a lui’ questo compito difficiledi ’impersonare il jazz’ a questo mondo (cf. De Scipio 2002).

102 Il trombettista Paolo Fresu ha di recente spiegato in un programma autobiograficoradiofonico (Storyville a Fahrenheit, RAI 3), di non avere nulla contro la criticaa patto che si tratti di una critica ’al servizio dei musicisti’ e non ’contro’ di essi.

66 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

guardia quanto alle enormi difficoltà di concepire una ‘storia della musica’, lacui scrittura è stata molto più spesso l’assemblaggio di molte ’storie’: storiedelle opere, della ricezione o delle tecniche, cioè approfondimenti di aspettiparticolari (Casella 1929, 1931[2001]) che contribuiscono a creare una visioned’insieme di un determinato periodo.

Si è scelto dunque, in questa fase, di tematizzare dibattiti e contributi sto-riografici che siano di interesse immediato per la contestualizzazione e l’inter-pretazione delle strategie simboliche delle subculture che cercano di ‘mandareavanti’ il jazz in Italia e dei loro rapporti con l’establishment culturale italianonel suo complesso. Pertanto molte delle pagine di questo contributo si limi-tano a procedimenti di ’messa in contesto’ di testi che si vorrebbero talvoltaacritici, talvolta ipercritici o criptici dei musicisti o dei loro apologeti ed ese-geti, intervistatori e sostenitori.103 In questo senso le pagine che trattano dellastoria italiana, laddove citano i temi più generali del dibattito storiografico(del fascismo, del secondo dopoguerra e del dopo ’68 in particolare), vanno dipari passo con una ricerca di contesto in cui le ‘rappresentazioni subculturali’del jazz prendono forma e significato nella società cercando di farsi ‘rappre-sentazioni pubbliche’ partecipando ad una progettualità culturale, politica edeconomica fatta di prove e di errori, di connessioni e di trattative che mettonoalla prova in modo sempre diverso, a seconda delle condizioni storiche, speci-fiche istanze di ’legittimazione’ culturale e sociale. Ma come potrebbe esseredescritto lo stato attuale del movimento inter-atlantico del jazz in Italia?

L’apprendistato parallelo all’accesso ad una certa mitologia del jazz, glianeddoti e una sorta di ’agiografia’ motivazionale, rivelano nuovi discorsi dilegittimazione capaci di mostrare la tendenza a convergenze addirittura sor-prendenti: spesso oggi i musicisti italiani dalla carriera più lunga e articolata,come Enrico Rava tendono ad essere equiparati a quelli afroamericani in quan-to maestri.104 E perché non dovrebbero esserlo? Questo argomento è un luogo

103 Stefano Arcangeli, preparato sostenitore della new thing e della nuova musicaimprovvisata, organizzatore e fondatore del C.R.I.M. di Pisa e a lungo collabora-tore della rivista «Musica Jazz», ritiene oggi che la maggior parte delle intervisteai musicisti sia consistita in ’quello che volevamo sentirci dire da loro’, se non,talvolta, di vere e proprie ’prese in giro’ (comunicazione personale).

104 Il nutrito gruppo di musicisti ’romani’ di jazz formatosi negli anni ’70 (tra cuiMassimo Urbani, Larry Nocella, Maurizio Giammarco) è stato accusato di imitaregli ’americani’: dunque la messa fra parentesi della parte ’afro’ è significante dicome il discorso sul jazz in Italia si costruisce anche in un clima in cui gli artistiafroamericani sono molto presenti. Da subito vengono avanzati gli interessi digruppi emergenti di musicisti, viene contestato il dispendio di danaro pubblicoper gli americani e la disattenzione per le giovani leve, nonché la necessità diuna via ’autoctona’ al jazz. La fase ulteriore dello sviluppo di questo discorso èben espresso oggi dalle posizioni del pianista Stefano Bollani, il quale dichiarache ormai i musicisti della sua generazione (nati intorno agli anni ’70) non fannopiù distinzioni tra italiani e americani essendo i primi grandi come i secondi (’LaStrana Coppia’, Radio 3).

1.3 Costruzioni storico-culturali 67

comune delle interviste in genere,105 ma è anche uno dei più controversi nelladimensione della comunicazione libera tra musicisti.106 La maggioranza nonparla e non è intervistata, e comunque la selezione di chi siano i maestri ècomunque una operazione cruciale e rischiosa, carica di senso politico. In unclima di ’istituzionalizzazione’ e di emergenza di un processo di re-invenzionedella tradizione del jazz in Italia, con un accrescimento esponenziale di mu-sicisti in concorrenza tra loro, gli elementi di conoscenza dall’interno dellatradizione del jazz di questo paese ritornano in prodotti culturali e valore ag-giunto al prestigio degli insegnanti, segreti del mestiere, esperienze e progettiriusciti.107

Una quasi mitica (quando espressa nel linguaggio quotidiano) capacità ditrasformare un musicista di jazz in un musicista di jazz professionista restasino ad oggi unita ad una rappresentazione ed una pratica sociale di ’padrinag-gio musicale’ ed era espressa ieri concretamente dalla legittimazione conferitadal passaggio in uno dei gruppi di Enrico Rava, Franco D’Andrea, oppure diGiorgio Gaslini o di Mario Schiano, oggi di Stefano Bollani o Paolo Fresu. Imusicisti più conosciuti non esitano a parlare dei giovani di talento come dei’loro protetti’.

Dal lato opposto, la diffusione di un livello tecnico elevato e di un pa-trimonio comune di strumenti e procedimenti unito alla comprensione dellanecessaria capacità di ’saper imprendere’ sul piano più ampio possibile, in unalogica di globalizzazione dei mercati della cultura, fa sì che ideologia, politica e’intellettualismi’ siano banditi dal linguaggio del musicista di jazz. Collaborarecon i musicisti più affermati significa interiorizzare il processo di legittimazio-ne e promozione della propria musica come art moyen108 imponendo il proprio

105 Segue in parte, a mio parere, una inquietudine mediatica per la verifica del livellodelle nostre realtà culturali, istituzioni, esercito, calcio e patriottismo, ma soprat-tutto se e quanto il ’Sistema Italia’ sarà in grado in grado di reggere alle sfide delfuturo.

106 In gran parte sotto forma di gossip, luogo della comunicazione concorrenzialein cui la vera e propria caccia alla stroncatura ha il solo limite dell’eventualecensura collettiva a questioni troppo personali da conoscere (ma di solito prevalela curiosità).

107 In Jazz Inchiesta in Italia di Enrico Cogno (1971:187), il nome del futuro celebrecantautore e compositore Paolo Conte, compare in un elenco di una sessantina dinomi di musicisti jazz ’da ricordare’.

108 In definitiva può appare paradossale e perfino crudele (ma non lo è) che i mu-sicisti di jazz si siano dedicati, in modo largamente inconsapevole, a impegnarsitutta la vita educando (differenziandosi da loro e disprezzandoli) settori di quelleclassi medie che le scienze sociali faticano ancora a definire in quanto tali, e lecui ’avanguardie’ in termini di gusto e conoscenza sono state le sole a garantirela loro sopravvivenza. L’operato dei musicisti appare dunque intrinsecamente le-gato alla sorte di questa classe, analogamente a come Salvati vede la solidarietàindissolubile tra capitalismo industriale e ‘colletti bianchi’ (v. p. 17). E tanto piùquesto risulta evidente quando si sottolinea oggi l’importanza di piccoli gruppidotati di sapere e di intenzionalità politica nella società contemporanea (magari

68 1 Il discorso sul jazz: decostruire e ricomporre

habitus in uno spazio culturale che risponde sempre meno alla logica di unasubcultura di esperti e di aficionado o di un senso di impegno politico e civileche accentua il carattere centrale delle modalità della ricezione di un signifi-cato cosmopolita del jazz, e, soprattutto negli anni ’60 e ’70, la costruzione,in termini di autonomia, di un nuovo sistema di riferimento.

Nuove condizioni del processo di costruzione delle carriere sono rese tantopiù evidenti dalla grande necessità della produzione attuale di integrare il jazzcon altre forme d’arte, in particolar modo quella della parola, il teatro ed ilcinema, e dall’invenzione di veri e propri nuovi ambienti della produzione. Lamemoria stessa degli ambienti in cui il jazz viveva nei decenni del secondo do-poguerra, specialmente nel nord Italia (se ne discuteva in osteria, lo si facevaportandosi con se sul palco un bicchiere di vino rosso piemontese), l’auten-ticità di ieri si trasforma lentamente sino e diventare marchio pubblicitariodi un’offerta di slow food e vino di qualità accompagnato da un buon jazzaltrettanto verace.

Tutta la rischiosità dell’apprendistato del jazz è stata basata a lungo sutermini di inclusione/esclusione ad una forma di spettacolo che si è misurataa lungo intorno ad una idea di rottura delle barriere, all’irrompere del ’vero’(The Real Thing)109 che si manifesta e chiede ragione di esistere; tutto un pa-trimonio che rischia di perdersi davanti ad pubblico che si vuole consumatoredi ‘prodotti jazz’.

D’altra parte si avverte un tacito consenso diffuso attorno all’idea che lacornice sub-culturale che si esprime in una presa di distanza individuale, inlunghe ore di apprendimento solitario ed in un’idea giovanile e generazionaledi autonomia culturale come ‘avversione a ogni istituzionalizzazione’ (De Luna1988), descritta spesso come un’eredità degli anni ’60 e ’70 (ma molto pocoindagata e conosciuta di per sé),110 tenda a celare programmaticamente la

favoriti dall’uso dei nuovi media). Il modello delle cerchie di aficionado del ‘verojazz’ e del blues (con la sostanziale solidarietà di istanze progressiste sul pianopolitico ed estetico) sembra essere un fenomeno per nulla nuovo né secondario nelcantiere della modernità e della post-modernità.

109 L’espressione è la più carica di senso che io conosca sull’argomento in quantocapace di rimandare al piano effettivo della pratica (si cerca di apprendere econoscere ’vera’ musica e suonare con ’veri’ musicisti) e della ricerca di quello chenon si sa, cercando di giungere al nocciolo dell’essenziale. Il termine è trattato intermini del dibattito sull’autenticità del jazz che, secondo un apparente paradosso,riguarda in primo luogo il suo rapporto con il blues, per cui si veda Jones (2003)e Jamin & Williams, che riassumono in questi termini: « Le blues peut êtreregardé comme la musique d’une communauté, pas le jazz. Ce qui fait problème,c’est que le blues et le jazz sont à la fois collés l’un à l’autre et séparés l’un del’autre » (2001:24). Per una rassegna di studi storico-culturali recenti, tra cui illibro di Miles Orvell, The Real Thing: Imitation and Authenticity in AmericanCulture, 1880-1940, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1989, anchein Hamilton (2000).

110 Pierre Bourdieu (1984) tiene a sottolineare che probabilmente l’ideologia culturalegiovanilistica che affida un ruolo così cruciale alle scelte musicali e alla presa di

1.3 Costruzioni storico-culturali 69

vera natura sociale della pratica della musica e una comprensione effettivadello spazio in cui la pratica musicale si costituisce come mercato.

La discussione di questo aspetto presuppone un approfondimento dell’o-pinione largamente diffusa (e altrettanto contestata) che la pratica del jazzattualmente non si articoli più in discorsi, idee e conflitti capaci di trasforma-re la musica stessa111 Vi sono aspetti più generali che tendono a convalidarequest’ipotesi. Così, mentre i maestri della seconda metà del ’900 stanno scom-parendo dalla presenza nel mondo e mentre le loro registrazioni sono semprepiù sfruttate come modelli (con l’apporto di programmi digitali capaci di ve-locizzare il processo di apprendimento del fraseggio e di ogni fase dello studiodel repertorio e della composizione), si assiste ad un fenomeno contraddittorio:i maestri sono vicini (e spesso abusati) in quanto modelli musicali e lontani inquanto punti di riferimento, come fulcro di una tradizione culturale che tendea integrare il musicale all’extra-musicale, la musica alla vita e al pensiero.

distanza dal mondo pretendendo di costituirsi in ’alternativa’ è quanto di piùlontano si possa concepire dal pensiero sociologico.

111 Oggi si tratta di ’farcela’ o di stare ’a casa’, non c’è nulla da sostenere se nonpromuovere sé stessi e ’provarci’ sempre. Questo passaggio alla medietas nel jazzè particolarmente chiaro ed appare chiaramente osservando il pubblico presente aoccasioni animate da improvvisatori di rilievo quali gli olandesi Han Benninck eMisha Mengelberg, o ripensando alla lenta eclissi del jazz sudafricano a Londra.Gran parte del pubblico italiano di questi musicisti rimane quello di un gruppo disuper-aficionado cinquantenni mentre si avverte che persino le gags più innocentihanno difficoltà ad essere comprese dai più giovani. Viene a mancare la scontatezzadi un livello base di intesa col pubblico. In passato, sino almeno ai primi anni ’90,i concerti di jazz erano frequentati da un pubblico che spesso conosceva i musicistiper la prima volta ma che ostentava un approccio ospitale e amichevole, oggi tuttisono più informati ma pare più difficile stabilire un rapporto diretto e personalecol campo del jazz.

Parte II

Il jazz come modernismo americano e comenuova moda

2

Il jazz in Italia e l’epoca fascista

La costruzione della tradizione del jazz italiano può essere ricondotta a quattrofasi che hanno tutte un carattere fortemente innovativo e perfino, a posteriori,di rottura con le fasi precedenti: quella degli anni ’20 e del fascismo (con unmomento particolarmente intenso verso la metà degli anni ’30) e che proseguecon la guerra; quella che va dal dopoguerra alla metà degli anni ’60; quellache dalla metà degli anni ’60 percorre il movimento del ’68 e degli anni 70,includendo una fase di riflusso negli anni ’80; infine una fase di ripresa diinteresse, di valorizzazione e di discussione sul jazz italiano che va grossomodo dagli anni ’90 ad oggi. A tutte queste fasi corrispondono processi diadattamento nello spazio della produzione e della distribuzione della musica.La prima fase passa da un momento pionieristico ad un momento di maggiorediffusione e di adattamento a quella che era la canzone moderna, il ritmodel jazz passa nella canzone e si parla comunemente di orchestre e canto’sincopati’.

La seconda fase è quella che inizia col grande festeggiamento della finedella guerra con la musica dei V-disc e le big band dello swing. Poi, dopouna maggiore diffusione popolare, specialmente nei centri urbani dove sonopresenti le forze alleate, il jazz torna ad essere una musica per conoscitori.Intorno agli anni ’50 si assiste ad una fase in cui specialmente il cool jazz fuelaborato in una nuova immagine moderna e industriale del paese mediata dalcinema e dalla pubblicità. Una fase in cui i musicisti bianchi sono predominantied in cui si ascolta molto jazz in Europa, ma dove lo sviluppo della ricezionein Italia appare sempre più chiaramente essere sempre meno in fase con ciòche accade negli Stati Uniti.

La terza fase è quella caratterizzata da una ’riscoperta del jazz’ da partedi settori più avanzati del nuovo pubblico massificato della ’popular music’anglosassone. Dopo il ’68, il ’campo’ del jazz è molto più articolato e contro-verso che nelle fasi precedenti e comprende i primi esperimenti di cerchie dimusicisti che si rifacevano alla new thing e al free jazz. Mentre negli anni ’20e ’30 si trattava di un fenomeno più strettamente legato alle tendenze dellamoda, ad una certa mentalità ’modernista’ e cosmopolita, dopo la guerra, e

74 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

soprattutto dopo le innovazioni del be-bop il jazz vive molto di più in unambiente di specialisti e appassionati, e, soprattutto, diventa una musica daconcerto molto più che da ballo e da varietà. Anche il cool jazz degli anni’50 non aveva introdotto sostanziali novità a questa situazione, anzi avevacontribuito all’emergere di un certo movimento ’nativista’ afroamericano in-torno alle figure di Art Blakey, Horace Silver ed altri musicisti proponendouna musica più semplice e più vicina al rhytm and blues e alle tendenze piùpopolari della musica afroamericana. Si tratta di un quadro vario e articolato,che, parallelamente all’ingresso delle tendenze più radicali del ‘free’ e della‘new thing’ e le rivendicazioni degli afroamericani nell’insieme di riferimenticulturali e simbolici e di solidarietà militanti delle generazioni del movimen-to dopo il ‘68, può dare luogo ad interpretazioni molto diverse da parte deisingoli musicisti e delle cerchie dei loro sostenitori.

A partire dagli anni ’80, il riflusso dell’attenzione pubblica per l’attivitàmusicale di base configura un periodo di transizione in cui accanto all’attenzio-ne per la performance e l’improvvisazione, il processo di crescita di musicistiitaliani di jazz conosce un momento di crisi di ’identità’ delle cerchie del jazz,che coincide con la presa sulle cerchie giovanili delle culture punk. Il predomi-nio dell’industria culturale sul campo economico della musica si adatta ad unavivacità che si riduce, mentre la televisione guadagna sempre più spazio. Sipuò parlare da ora in poi di un graduale adattamento delle cerchie della pro-duzione e della distribuzione ad un radicale mutamento di tendenza, nel sensodi una sempre maggiore scissione degli eventi musicali dalla loro cornice ideo-logica progressista e interclassista, di una ricerca di integrazione del jazz nellacultura italiana nel suo complesso, di istituzionalizzazione pedagogica e dellaricerca di nuovi spazi economici da parte di una nuova piccola imprenditoria-lità specializzata. Ma il jazz in Italia resta pur sempre legato alle sue originie, similmente alla sua situazione in altri paesi europei, rimane un businessabbastanza limitato, molto legato all’associazionismo, alla sinistra politica1 eai luoghi in cui si svolgono forme di attività sociali tradizionalmente legate aldopolavorismo come il circolo ricreativo.2

1 Sebbene in misura molto meno netta che nel periodo che va dagli anni ’60 ai ’90.Per molti motivi tra i quali metterei una distanza sempre maggiore tra partiti ela società e per un sostegno estremamente tiepido e tentennante della sinistra aisuoi progetti (anche laddove essa riveste posizioni di governo locale), la solidarietàtra jazz e sinistra politica non è più un dato indiscusso.

2 Il circolo ricreativo dove si pratica la musica ritorna spesso nei racconti dei de-cani del jazz italiano anche come modello portato dagli emigrati in America. Nelracconto del trombonista e chitarrista Calcedonio Digeronimo si può notare comegli emigrati italiani portino questa istituzione a Buenos Aires, dove Digeronimorisiedeva con la famiglia emigrata dalla Sicilia verso la fine degli anni ’20: « Hocominciato perché sentivo gli altri. Sono stato sempre forte d’orecchio. Quand’e-ro ragazzino mio padre mi portava al Circolo... lui si metteva alla chitarra e mifaceva cantare qualche canzoncina. Ogni tanto mi diceva fermati e cambia tono eio subito cominciavo con la nuova tonalità. . . » (in Mazzoletti 1983:256).

2.1 Immagini dal ’campo’ italiano 75

2.1 Immagini dal ’campo’ italiano

Partendo da come il jazz si fa strada, talvolta irrompendo e talvolta unifor-mandosi ad un processo quotidiano di ambientazione dei modernismi musicalinella società e nella cultura italiana, un importante settore in cui individuareun terreno di cultura possibile all’evento/avvento del jazz è individuato dailuoghi in cui è concepibile e praticata una attività musicale amatoriale. Inquesta prospettiva si può tenere presente un sapere musicale preesistente ingrado di adattarsi ai modernismi americani. La cultura musicale promossa daicircoli bandistici, specie nel sud, e in particolare in Puglia, in Abruzzo e inSicilia, ha dato molti dei propri migliori elementi alle orchestre di tipo ame-ricano,3 così come li ha dati al teatro musicale ed alle istituzioni orchestraliin generale. Per quanto riguarda il nord il predominio della salon muzik neicentri urbani di tradizione asburgica del nord e del nord-est4 lascia supporreuno spazio riservato agli intrattenimenti danzanti che sarà più ricettivo edeconomicamente più attrattivo5 che non la provincia centro-meridionale neiconfronti delle nuove danze americane come lo one step ed il fox trot, precedutidal ragtime e dal tango argentino.

L’emigrazione è poi un fattore decisivo capace di catalizzare la creativitàe alla ricettività dei singoli: un tipico itinerario della nuova musica è beneesemplificato nei racconti dei musicisti originari del sud emigrati nel continenteamericano nel grande flusso di inizio secolo intensificatosi con la grande crisieconomica che accompagna e segue la prima guerra mondiale. Alcuni di essitornano nei luoghi d’origine verso la metà degli anni ’30 (con la seconda grande

3 Di origine pugliese erano Michele Ortuso, Potito Simone, Pippo Renna e Fran-cesco Paolo Ricci, esponenti della prima generazione dei musicisti di jazz italiani(Mazzoletti 1983:116), pugliese è pure il ricercato e giovane trombonista GianlucaPetrella.

4 Non solo Milano, che sarà il centro dove si concentra l’editoria musicale e lastampa popolare, ma il caso di Trieste di cui si parla più oltre è molto interessantein quanto una vera e propria aristocrazia culturale si dava qui al ’Wagnerismo’inteso come visione della vita attraverso il filtro del mito e che prevedeva la praticadi veri e propri rituali wagneriani. La vita musicale della buona società triestinaalla fine dell’ottocento e oltre era di eccezionale ricchezza e completamente calatain un clima mitteleuropeo (per cui si veda Levi 1999).

5 Il pianista di origine siciliana Nicola Moleti, si esibiva, al Trianon (una delletrenta sale milanesi fra tabarin, teatri, café chantant e cinematografi) verso il1919 con una formazione da salon muzik già americanizzata e priva di violini,composta da due cornette, trombone, corno, flauto, clarinetto piccolo, clarinetto,piano e percussioni (Mazzoletti 2004:23-24). I titoli di 53 matrici Disco ConcertoGrammofono e Atlanta recensite da Mazzoletti sono in maggioranza francesi edinglesi, a parte: ‘La bambola infranta’, ‘Marcia delle Suffragette’, ‘Marcia Aosta’,i due valzer ‘Amor mi Mosse’ e ‘Quadrifoglio’ e ‘L’abbandono’ (op. cit. 554-555);uno dei titoli è ‘Le dernier rag-time’.

76 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

crisi economica) per poi cercare miglior fortuna nei centri del nord Italia dovela richiesta di orchestre moderne è maggiore.6

Si può supporre poi una presenza (pochissimo documentata, interessantinotizie sui movimenti dei Reinhardt sono in Williams 1991) di orchestre iti-neranti nella Pianura Padana e in altre zone del centro Italia e dell’attivitàdei Sinti e altri gruppi Zingari come musicisti e operatori dello spettacoloviaggiante. Al centro ed al sud l’ambiente amatoriale per eccellenza era rap-presentato dalla tradizione delle orchestre a plettro di dilettanti (di originemediterranea e napoletana in particolare), nelle quali si svolgeva una azionedi divulgazione culturale, si trascrivevano e si adattavano arie d’opera, marcee danze alla moda e che costituivano il supporto e la necessaria cornice allaperformance vocale.

Vittorio Spina, leggendario chitarrista, romano d’adozione ma nato a Niz-za, è stato l’ispiratore del libro di Adriano Mazzoletti Il jazz Italiano dagliinizi al dopoguerra (1983) ed una delle fonti principali delle interviste. Quila citazione dei club di amatori rappresenta qualcosa di più di una semplicetraccia.

Nel racconto di Vittorio Spina si inserisce la vicenda di Django Reinhardt.Django è narrato da Spina come un proprio pari, si sarebbe tentati di dire co-me un ’fratello’7 Sul piano temporale è possibile farsi un’idea anche da questabreve storia quanto tempo, quanto lavoro e quanta pazienza ci siano voluti perfare forse l’unico vero e proprio esempio di jazz europeo: un esempio manou-che (Williams 1991). Il ruolo della chitarra si evidenzia in quanto strumentoportatile, come il violino, adatto agli spostamenti e come strumento diffusoe tradizionalmente veicolo dell’attività amatoriale.8 Si tratta di un mondo

6 Il già citato Calcedonio Digeronimo raggiunge lo zio, originario della provinciadi Ragusa, in Argentina, mentre il padre andava e veniva tra gli Stati Uniti e laSicilia. Sia il padre che lo zio, che il nonno erano stati membri della banda delpaese. Da emigrati continuano a suonare. Quando Digeronimo torna in Sicilia nel’32 racconta di aver già appreso la musica cubana e il jazz, forma un’orchestra colpadre e il fratello. Poi va Milano nel 1937 dove viene a contatto con i professionistidi quella città e inizia a lavorare stabilmente in locali di prestigio (Mazzoletti1983:255-257).

7 Non tanto rispetto ai Manouches francesi, quanto presso alcuni gruppi rom un-gheresi il concetto di “fratellanza di uguali” è stato osservato in quanto strutturasociale con un importante riscontro poetico e musicale nelle riunioni collettivedenominate mulatsago, per cui si veda Stewart (1997).

8 Per una lista più completa dei violinisti italiani dell’epoca si veda Mazzoletti(2004:193). Il notevole numero di eccellenti violinisti italiani (Agostino Valdam-brini, Max Springher, Sergio Almangano, Carlo Minari) che hanno praticato jazzo ’musica sincopata’ prima della seconda guerra mondiale, l’altrettanto notevolenumero di chitarristi (Vittorio Spina, Michele Ortuso, Luciano Zuccheri) o di chi-tarristi violinisti (Alfio Grasso, Michele Ortuso, Armando Camera), o di violinistipoli-strumentisti (Gianmario Guarino, trombettista e violinista e Sandro Bagali-ni, clarinettista, sassofonista e violinista, Romero Alvaro, pianista e violinista) èmolto importante per farsi un’idea del terreno di tradizioni musicali e strumentali

2.1 Immagini dal ’campo’ italiano 77

contadino ed artigiano nel quale la musica ha un proprio spazio commercialestagionale che è possibile seguire per comparire nelle fiere, nelle osterie e neicircoli nei quali il momento della musica è un evento socialmente significante;qui è possibile ‘fare le mance’ o avere pagato da mangiare e da bere. Talvolta èpossibile fermarsi per degli ingaggi più lunghi in qualche luogo particolarmentefavorevole.

In questo senso la storia narrata da Vittorio Spina, lascia trasparire unavia di comunicazione tra sud della Francia (Spina è un Nizzardo che si tro-va a vivere a Roma ma tornerà sempre in Francia), e l’Italia settentrionalee centro-meridionale. Spina parla di modalità di apprendimento musicale cheavvengono ad una età tanto precoce da essere poi dimenticate, come nellesocietà in cui la tradizione orale affida alla musica un ruolo così importantee difficile da penetrare. Ma soprattutto, per quanto ci interessa, definisce unmondo ed una mentalità che precede l’avvento del jazz nella sua vita, nellaquale è dato per scontato che agli Zingari e ai viaggianti (tra cui i musici-sti) vada un certo tipo di controllo culturale sul mercato del divertimento edell’intrattenimento.

Sulle vie di comunicazione più importanti le osterie annesse alle stalle per ilricambio e la manutenzione dei cavalli (poi dei mezzi meccanici) erano uno deiluoghi nei quali tutti i girovaghi si fermavano, e nei quali i ‘residenti’ oltre chegiocare a carte discutevano di politica, di cultura e spesso formavano gruppidi strumenti a plettro nei quali gli elementi più preparati erano in grado didiffondere le competenze musicali a chi le ricercava; si trattava dunque di unodegli ambienti più interessanti per i musicisti di passaggio, fino all’inizio dellaseconda guerra mondiale. Furono questi (o semplicemente certe taverne cono-sciute come ‘favorevoli’) i luoghi dove si concentrava l’attività degli amatori distrumenti a corde e di canto, luoghi insomma dove un buon musicista potevaessere riconosciuto e aiutato.9 Qui si suonava di tutto: arie d’opera, reperto-

’mediterranee’ incontrato dalla prima diffusione del jazz in Italia. Si tratta di stru-menti associati alla pratica vocale e molto diffusi anche nelle musiche popolari. Ilpolistrumentismo indica anche un concetto di artigianato musicale assai diversoda quello odierno e la possibilità di un approccio economicamente vantaggioso aeventi e ambienti musicali differenziati.

9 È opportuno prendere lo spunto dalla posizione centrale di Spina nella serie diinterviste raccolte da Mazzoletti per mettere in evidenza l’incrocio con i musici-sti della famiglia Reinhardt, da un lato per dare forma a quella presenza degliZingari e dell’orchestra zigana nell’intrattenimento popolare europeo che in Italiaha lasciato singolarmente pochissime tracce, se non proprio in forte legame coljazz ’alla francese’ di Django tra i musicisti italiani. Dall’altro per caratterizzaremeglio l’ambiente delle osterie, le quali potevano essere favorevoli anche per letendenze politiche di chi le frequentava. Durante il ’biennio rosso’ che precedel’avvento del fascismo al potere, le osterie socialiste e repubblicane erano stateviste come potenziale focolaio di sediziosi. In precedenza le campagne eugeneti-che auspicate da Lamberto Loria e le politiche antialcoliste di Giacomo Lombrosoavevano lasciato profonde tracce nella memoria popolare. Le osterie, l’ambientesociale maschile più frequentato, venivano viste da antropologi, psicologi, euge-

78 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

rio napoletano, romanze dell’ottocento, valzer, polka, ecc. Ecco di seguito laprima parte del racconto che Vittorio Spina fece a Mazzoletti nel 1962 .

Nel 1915, avevo dieci anni; andavo sempre a S. Lorenzo perché c’eraun circolo mandolinistico. A quell’epoca, di questi circoli era pienatutta Roma. Beh! Io non mi ricordo come ho imparato a suonare, stadi fatto che ero una specie di virtuoso e tutti mi volevano. Il circolo chefrequentavo si chiamava l’Usignolo e stava in via delle Anime Santedove tutte le sere provavamo. Un giorno vi capitò un certo Paul, unchitarrista francese, zingaro. Insieme a lui c’era un ragazzino, avràavuto cinque anni, che gli stava sempre dietro; si chiamava Django.Voleva sempre prendere la chitarra di Paul (credo fosse suo padre ol’amico di sua madre, non so) con la pretesa di suonarla. Insomma unaccidente. Io a quell’epoca ero fresco della Francia e conoscevo un saccodi pezzi francesi, così abbiamo suonato molto insieme, questo Pauled io. Era un grandissimo accompagnatore: valzer, polche, foxtrot,suonavamo di tutto. E Django stava sempre lì ad ascoltarci. Poi l’horivisto, nel 1927 o 1928 a Parigi quando lui già suonava il banjo eaccompagnava un fisarmonicista. Era molto bravo. Poi verso il ’34o ’35 son ricapitato a Parigi e abbiamo passato delle notti intere asuonare. Lui era gà con Grappelli. Una sera mi disse di andare a casasua. Aveva una bella casa, un bell’appartamento. Ma lui non ci andavamai. Sta di fatto che quella sera mi disse: « Victor, ce soir, alors, nousallons chez moi. » Quando mi disse « chez moi » ho pensato cheandavamo a casa sua. Invece no, Mi ha portato a Montmartre , sottol’arco, nella mischia. E tutti e due ci siamo messi a suonare, tutta lanotte e gli zingari tutti intorno che applaudivano. E giù a bere, unasbornia che alla fine non ci riconoscevamo e ci davamo del « lei »!aveva un gusto quell’uomo, straordinario, credo che sia stato il piùgrande chitarrista del mondo. Insieme abbiamo fatto tante bisbocce.L’ho rivisto molte altre volte a Nizza, una volta anche a Sanremo, poianche a Roma nel ’49.

Anche se Spina avesse inventato tutto, ed è poco probabile10 questa partedel suo racconto resterebbe in piedi come mito di fondazione e come augurio.Ma sarebbe buono come mito di fondazione del ‘jazz italiano’? In un certosenso sì, e bisogna notare il contributo essenziale di Mazzoletti nel costruirlo,se si tiene presente che il racconto di Vittorio Spina lascia presagire un gruppo

nisti e criminologi dell’Italia unita come luoghi dove si consumava la decadenzadella stirpe (v. per questo Pogliani 1984 e Monteleone 1985). Infatti nella Livornodi inizio secolo, secondo Bedarida (1956:72), il ’ponce’ alla Livornese più forte ecarico di rum veniva chiamato il ’lombrosino’, con gusto particolare dagli stessiebrei.

10 Come nota lo stesso Mazzoletti citando Delaunay (1954:23), pare che il soggiornoitaliano di Django da bambino sia quello che prelude alla riunione di tutta lafamiglia ad Algeri nel 1915.

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ristretto di potenziali iniziatori11 europei in cui prende corpo la vicenda diReinhardt in quanto incontro tra gli Zingari europei ed il jazz. Come raccontaCharles Delaunay, solo nel 1931, a Tolone, Django ascolta delle registrazionidi Louis Armstrong, Duke Ellington e Joe Venuti, poi ’si prende la testatra le mani e si mette a piangere’. In seguito ritornerà spesso dallo scultoreEmile Savitry col fratello Nin-Nin ad ascoltare questa musica che ormai hadeciso di prendere con sé (Delaunay cit. in Williams 1991:21). Nei primi annitrenta in Italia vi sono già diversi musicisti di jazz, molti di essi fanno partedi un’umanità in viaggio (Clifford 1999) che fa la spola tra gli Stati Unitil’Agentina, la Sicilia e il Nord Italia, come il trombonista siciliano CalcedonioDigeronimo (Mazzoletti 1983:255-258).

Dobbiamo considerare Spina come uno strumentista che, come Django,ha conosciuto prima del jazz il mestiere della musica da ballo e del virtuosoviaggiante. Una figura a suo agio in quella dimensione nella quale la musicasi rivela per un attimo senza preclusioni per nessuno, nella quale appare cosìnaturale e alla portata di tutti, ma che non è proprietà di nessuno e non accettaetichette se non quella della maestria strumentale e del senso del nuovo. Ilmondo conosciuto in cui i professionisti viaggianti della musica comparivanonel nord e centro dell’Italia provenienti da Genova, dalla Francia e a voltedalla stessa Spagna. Un mondo che non c’è più. In un luogo impregnato divino, di acciughe salate e fumo di sigari toscani, dove la sera prima di cena levoci surriscaldate da un pomeriggio di quarti, litri e mezzi litri si fermano perun attimo, i giocatori si interrompono con le carte in mano e canta un ubriaco.In estate, in questo clima di attesa, di nostalgia, di mancanza, poteva passarequalcuno al quale non era richiesto chi era né di lasciare alcuna traccia di séa mostrare che cosa era la musica.12

11 Il primo indizio di una particolare aura nella quale Vittorio Spina appare circon-fuso è che ’non ricorda come ha imparato a suonare’, è incorporato nello stessomodo in cui si esprime Deborah Bull prima ballerina del Royal Ballet di Londra.’Il problema col balletto classico (...) è che esso è per me una seconda natura. Cideve essere stato un periodo in cui l’ho appreso, allo stesso modo in cui ho impa-rato a parlare. Ma non ricordo assolutamente il processo.....’ (Bull 1969 riportatoin Turner and Wainwright 2002:332). Il modo di acquisizione più ’insensibile einvisibile’ è anche il ’più antico e più precoce’ dunque strumento di legittimazioneculturale di una pratica che si pone come ’nobile’ (Bourdieu 1979:79). La presen-za della figura di Django Reinhardt, del tema ’popolare’ della bella vita e dellebisbocce mette sullo stesso piano la nobiltà zingara dell’apprendimento musicale,fatto di immersione precoce e di contatto con lo strumento e con l’esecuzione pub-blica, ed è analogo all’apprendimento della lingua (per cui si veda Williams 1998,2000). La nobiltà di Spina viene conferita come a Reinhardt, a partire dall’arte,con la possibilità di attraversare e di avvalersi della frequentazione di tutti gliambienti sociali.

12 In quanto luogo cinematografico, in Ossessione, di Luchino Visconti l’osteriadi passaggio viene elevata a teatro di una vicenda di passione e di crimine diprovincia.

80 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

L’incidente vero e proprio viene con una cesura molto forte nel racconto dicolui che Adriano Mazzoletti indica come il padre fondatore del jazz italiano.Infatti poco dopo l’incontro coi Reinhardt ed i ’Gitani’, Spina incontra il jazzed i Neri americani. Un bel segnale di allerta, quello dell’incontro con Django,per prepararsi ad un incontro. Incontro in cui la curiosità e l’intelligenza so-no strumenti essenziali per andare avanti, nella crisi economica seguente allaprima guerra.

Due anni dopo quell’incontro con Paul e Django Reinhardt ne feciun altro. A Roma erano arrivate le truppe americane e questi solda-ti avevano formato un’orchestra che faceva le prove all’YMCA in viaFrancesco Crispi. Il capo di quest’orchestra era un sergente, si chia-mava Griffith e poi sposò una ragazza di Roma. Insomma, mi ci sonmesso subito dietro e andavo sempre a sentirli suonare. In quest’or-chestra c’era un ragazzo americano che suonava il banjo, ma io nonsapevo che strumento fosse. Così cominciai a fare un po’ d’indaginisu quelle quattro corde. Pensai, come sarà accordato? Se è accordatocome la chitarra allora è facile, perché io a quel tempo già suonavoquesto strumento, ma proprio non riuscivo a capire. A un certo puntopensai, com’è accordato è accordato. Sai, io da piccolo ero un para-culo, mi avvicinai e gli dissi: « Sai, anch’io suono il banjo; me lo faiprovare? » Il capo dell’orchestra disse di farmi provare e mi chieseche pezzo sapevo fare. Io che avevo orecchio... dissi subito: « quello diprima » e cominciai a suonare, ma non ne venne fuori niente. Alla finemi chiesero di suonare qualcosa che sapevo e allora le cose andaronomeglio. Così entrai in amicizia; mi dettero del cioccolato, sigarette,insomma mi rianimarono un po’ ! A casa mia si saltavano i pasti. Miopadre era morto da poco e non si vedeva una lira. Insomma questiamericani furono la mia salvezza, perché qualche giorno dopo venne-ro a cercarmi per invitarmi a lavorare per loro, andare a prendere laposta, fare qualche piccola commissione. Figurarsi con tutto quel bendi Dio! E poi c’era l’orchestra e io sempre lì ad ascoltarla, a cercaredi capire come faceva questo con il banjo. Un bel giorno questo suo-natore fu trasferito e il sergente Griffith mi chiese se volevo suonarecon loro. Figurarsi un po’ ! Fecero venire un altro strumento e io, duevolte alla settimana, suonavo con questa orchestra americana, per ilballo, alla Sala Pichetti, in via del Bufalo. Era una vera e propriagrande orchestra: trombe, tromboni, sassofoni e suonavano tutti pezziin voga a quell’epoca: Havana, Kalua, Original Fox Trot. Di improvvi-sazione non se ne parlava, era tutta roba scritta, ma erano tutti pezziche venivano dall’America, che questo Griffith trascriveva. E la genteballava e si divertiva. Però poteva entrare solo chi aveva l’invito: tuttinobili, aristocrazia, tutta gente altolocata. Insomma io mi son trovatoa suonare con questa orchestra e dopo un anno ero diventato moltobravo.

2.1 Immagini dal ’campo’ italiano 81

Il 1917 sta nella memoria di Spina come preludio a quello che poi avrebbeconsiderato come jazz, portato dalle orchestre militari americane ma con unasignificativa marcatura esclusivista. Gli americani non si servono di questa loromusica ’popolare’ per interagire col ‘popolo’ ma creano un club per la genteche conta.13 La divisione in due parti dell’intervista rende molto bene questaspecie di spartiacque in cui Django resta da una parte, sulle strade consuetedella musica. Dall’altra, ciò che in seguito si rivelerà come una prima avvisagliadel jazz si presenta come una novità della più esclusiva moda ‘cittadina’ allaquale il giovane musicista si adatta naturalmente e senza alcun problema.Questi mondi rimarranno a lungo estranei l’uno all’altro, come dimostreràl’antropologia italiana del secondo dopoguerra.

2.1.1 Contesti: interventismo della cultura

Il secondo tema di grande importanza nella narrazione di Vittorio Spina èquello della guerra. Dopo le due guerre mondiali la società italiana si inte-ressa come mai aveva fatto prima alle nuove mode musicali, cercando anchequi una licenza di dimenticare e di cambiare. La prima in particolare avevacontribuito sostanzialmente a rinforzare un vero e proprio ’assillo della dege-nerazione’ (Pogliani 1984: 60-77) che caratterizzava il pensiero razziale dellescienze positiviste europee a cavallo tra i due secoli.14 D’altro canto la cul-tura ufficiale non cesserà di rielaborare quei temi razzisti e interventisti chesaranno il segno politico del fascismo a venire e che segneranno la continuitàdi uno dei principali mali di tutta la modernità italiana sino ai nostri giorni,vale a dire del predominio del suo orientamento populista. Un orientamentoche informa di sé gran parte della produzione musicale italiana dell’Ottocento13 Che la diffusione di nuove mode musicali, contemporanea all’introduzione del fo-

nografo, sia veicolata da circoli esclusivi ed autentificata da élites cosmopolite,incaricate di mediare nei confronti dell’intera società, è una caratteristica dell’e-poca coloniale. Basti pensare al contemporaneo fiorire dei circoli privati riservatialla nuova musica (nadi ahli) al Cairo e Alessandria (Fuad 1983), i quali ten-devano anch’essi a misurarsi con una certa idea ‘parigina’ dell’intrattenimentomusicale, come nell’Italia pre-fascista e fascista. Alcune interessanti notizie sullanutrita presenza di musicisti italiani in Egitto nei primi decenni del Novecentosono riportate nel stesso testo citato di N.A. Fuad (1983:120).

14 Genetica ed eugenica, psicologia e neuropsicologia, antropologia ed etnologia era-no considerate come rami di una comune scienza dell’uomo e del progresso. Pergli ambienti dell’antropologia italiana, il ritardo nei confronti degli storici nel co-noscere il passato delle disciplina è evidente. Trattando del primo Convegno diEtnografia Italiana del 1911, Sandra Puccini conclude rilevando la ricchezza delletradizione ottocentesca e la ’necessità di non obliterare le radici dell’antropologiaitaliana’ (1985:148). Un’antropologia la cui rivista ospitava nel 1915 il suggeri-mento dell’eugenista e medico militare Placido Consiglio di formare battaglionidi reparti di ’anomali’ dalla evoluzione neuropsichica deficiente o incompleta invista di una fatale selezione benefica sul teatro di guerra in vista di futuri rischidi procreazione (Consiglio 1915:3-16, cit. in Pogliani 1984:65 e n.12).

82 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

e del Novecento (Carpitella 1992:81-165). Ma se l’Ottocento trovava il motivodi dar fiato alle sue trombe in una capillare diffusione sociale del melodrammaed in una situazione in cui le opere di Giuseppe Verdi suscitavano fiammate dipatriottismo, ben diversamente giustificabile sarà la persistenza di linguaggiartistici che si conformano al populismo ideologico nel Novecento.

Per inquadrare brevemente quella lunga tradizione reazionaria che costi-tuirà la sponda onnipresente agli esiti interventisti e populisti della culturaitaliana, può essere opportuno soffermarsi brevemente su una recisa condannadel valzer da parte dell’abate Antonio Bresciani, che risale alla metà dell’Ot-tocento. L’opera di mediazione costituita dal magistero della chiesa edifica subase reazionaria e tradizionalista una visione della modernità in cui anche leinnovazioni scientifiche sono messe al servizio del giusto e del vero. Una similemediazione protegge anche dagli eccessi dello scientismo dell’epoca.

Bresciani è autore prolifico di una serie narrativa popolare decisamente’codina’ e reazionaria nella quale si condannavano le società segrete dei patriotiitaliani e si tessevano le lodi della virtù modesta, religiosa e vereconda deipoveri contadini che costituivano la maggior parte della popolazione italiana.Sotto forma di ammonimenti pedagogici del tutore al principe,15 Brescianidefinisce il Valzer (Bresciani 1852:89):

[...] violento e inverecondo trastullo! Se il mondo nel suo dizionarionon l’appellasse la schietta e semplice danza de’ buoni tedeschi

plaudendo poi all’operato del dottor Frank (sic), ’quel celebre medico’che nel suo ’Sistema Completo di Polizia Medica’ si schierava ’gridando altoai suoi connazionali’ ottenendo poi l’emissione del decreto che ne sanciva laproibizione in due cantoni tedeschi della Svizzera e che imponeva ammendepecuniarie ai trasgressori (op. cit. 90). Ancora più interessante è osservareil ricorso dell’abate alla riscrittura cattolica dell’antica tradizione pitagorico-platonica: la musica è ancora armonia delle sfere, se non la si pratica e rimanenell’ambito delle categorie del pensiero, ma che conduce ’in basso’ laddoveviene praticata.

Per ultimo, circa la musica abbiti guardia, ch’ella non ti debba es-ser cagione d’inciampo: non già per la dolcezza delle sue note, per lasoavità dei suoi concenti, pei teneri sensi, onde t’inonda l’anima, perquell’ordine che ritragge dal celeste accordo delle stelle, dal misteriosoconcerto dell’universo, dalle melodie degli Angelici cori, e dal divinoamore dell’increata Sapienza. Sotto questo rispetto la musica non puòche levarti il cuore a Dio, da cui muove ogni armonia né cieli e sullaterra. L’inciampo che t’ho avvisato di sopra procede dalle male com-pagnie delle quali può esserti guidatrice la musica se non ti guardiattentissimamente. Imperocché ella suol essere occasione di associar-ti con suonatori, che di si dolce arte profanano le verginali bellezze,

15 Bresciani usa qui il battagliero appellativo di Tionide Nemesiano, il conte di Leoneè il Nobil Uomo Antonio dé Taddei.

2.1 Immagini dal ’campo’ italiano 83

facendola ministro d’osceni amori e di licenziosi piaceri. V’ha delleastute sirene che al dilettuoso suono dé lor canti lusingando gli ani-mi sprovveduti degli inesperti giovinetti, li traggono coi loro prestigiin fondo di ogni miseria. Tu non sai quanti desolati padri piangonoirreparabilmente i funesti effetti da un’arpa, o da un gravicembalocagionati (op. cit. 90).

Non dovrebbe ingannare il fatto che Bresciani intenda combattere il ’mo-derno’ con armi scolastiche. Contemporaneamente ad un testo ‘ad usum del-phini’ come il presente, l’Abate si adoperava ad usare i mass-media del suotempo, tempo in cui la letteratura si popolarizzava ed in cui le novelle a di-spense (come il suo famoso « Leonello », paradigma della rovina dei giovaniche si avvicinavano all’attivismo politico) circolavano in tutta la penisola.

La formula ’interventismo della cultura’ (tema della storiografia italianache riprendo per indicare la continuità di una corrente legittimista e populistanella società italiana che ritorna rinnovando il suo catastrofico apporto nell’I-talia contemporanea) è di Giuseppe Bottai, una delle menti più lucide tra gliintellettuali fascisti,16 che pubblica un articolo dal medesimo titolo nella suarivista « Primato » del 2 giugno 1940. Luisa Mangioni (1974:5-8) ne svilup-pa la genesi esaminando la pubblicistica del regime e coglie un cambiamentodi tendenza sostanziale nel 1911 con la campagna coloniale di Libia, impresapromossa dal governo di centro-sinistra di Giolitti, allora in piena crisi. Conla guerra di Libia e l’istituzione del suffragio universale,17 che è dello stes-so anno, si giunge alla prima grande crisi della democrazia italiana anche eper quanto entra in crisi tutta l’organizzazione culturale stabilitasi nel secoloprecedente.

Gli intellettuali che pubblicheranno i loro interventi sulla rivista letteraria« La Voce »18 riscopriranno la religione e con questa ’le proprie matrici po-

16 Fatto che, quando vorrà fare la prova della guerra in Etiopia, non gli impedirà discrivere sui suoi diari sul campo: ’Ci siamo. Ci siamo tutti. Cadaveri di gente nera.Non commuovono. Questa morte di colore sembra mascherata’ (Bottai 1936:19).Anche la morte è una messa in scena.

17 Che può essere interpretato come concessione all’opposizione socialista alla guerrae come contemporanea inclusione ’dall’alto’ nella modernità della donna italiana,con tutto quello che comporta. D’altra parte l’avventurismo coloniale è esso stes-so presentato dagli interventisti come un elemento della modernità, uno scattod’orgoglio contro l’arretratezza dell’Italia rispetto alle potenze europee. Quelleche W.E.B. Du Bois indicava intorno al 1914 in African Roots of the War (1915)e in Darkwater (1920), come cause ’profonde’ della prima guerra mondiale e delleguerre a venire, cioè la soluzione delle rivalità tra potenze europee per gli assetticoloniali, dunque il dominio sull’Africa e sulle risorse del mondo, sono oggi moltopiù evidenti sebbene molto poco discusse pubblicamente.

18 Ulteriori formulazioni programmatiche di interventismo culturale si trovano piùavanti nelle tesi di Widar Cesarini Sforza, e poi di Mino Maccari, Curzio Ma-laparte e della cerchia della rivista « Il Selvaggio », che saranno poi il gruppoteoricamente più vicino alle politiche regionaliste di riforma nel capitolo dedicato

84 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

polaresche e toscane’. I cattolici si pongono ben presto ’all’attacco del secolocon le armi del secolo’ (Mangioni, l. cit.) e lo fanno in modo particolare inToscana, terra in cui il movimento socialista e anarchico è più forte.

L’appello alla mobilitazione non investe solo l’alta cultura e le riviste let-terarie ma circola in fascicoli di canzoni popolari. L’osteria è qui un luogo discontro e di sedizione (Monteleone 1985) contro cui un altro religioso: DonDario Flori, sotto lo pseudonimo di Sbarra,19 pubblicherà a dispense in « Lachitarra », piccola rivista bimestrale di canto popolare, n. 1, marzo 1912. le sue’canzonette buone’ (Pivato 1990:41) in ottava rima contro i mali del secolo:

Ebrei, socialisti, massoni o radicali, son tutti merli uguali, non ci sipuò fidar (ivi 43)

A partire dal 1914 Sbarra, incide centinaia di matrici al motto di ’ognicampanile un fonografo’ (op. cit. 49). Così riasssume Pivato la sua valutazionedell’attivismo clerico-interventista (cit. 131):

Su tutta la pubblicistica popolare, la vinceva certamente quella mis-sionaria, per i suoi entusiasmi colonialistici in occasione della guerra inAbissinia. Essa arrivava a teorizzare che il colonialismo italiano, grazieallo spirito infusole dal cattolicesimo era « più buono », « più umano», « più giusto » di quello dei paesi protestanti come l’Inghilterra (...)Così la croce riscattava la spada (...)

Simili pretese torneranno nel delirio degli ultimi giorni di Salò (n. 210,p. 108). Le numerose croci in ferro arrugginite che accanto alle chiese dellacampagna toscana ricordano di essere state erette in memoria ’delle missioni’sono situate spesso accanto alle lapidi dei caduti, e forse sono persino negliocchi di chi si incarica, per quanto in apparenza ignaro del significato di questioggetti, di controllare l’aspetto dello sconosciuto che si sofferma a osservarle.20

Un importante modello di interventismo culturale ’essenzialista’ e legitti-mista sta dunque proprio nella pubblicistica cattolico-missionaria precedenteal fascismo e che approfitta degli spazi aperti dalle crisi della politica e dellacultura. Si tratta un modello che non va disgiunto della capacità dei centridirezionali della chiesa di orientarsi nelle diverse stagioni della politica italiana

a ’strapaese’ (Giovanni Papini e Ardengo Soffici in particolare).19 L’esempio seguito da Sbarra, che passerà rapidamente dalle tesi democratico-

cristiane di Murri ’alla nuova temperie clerico-interventista’ (Pivato 1990:47), èquello delle canzoni popolaresche moraliste del francese Théodore Botrel.

20 Una breve intromissione della memoria dello scrivente potrà chiarire quanto iltempo arrugginisca il significato di frammenti di rappresentazioni che restano ce-late in tutta la loro ambiguità. Solo oggi dopo aver sfogliato il libro di Pivato(1990) ho compreso che quella che mia nonna (classe 1893) canticchiò un giornomentre stava ai fornelli suscitando la mia curiosità infantile « Menelicche, Mene-licche son palle di piombo e non pasticche », sia stata probabilmente una delleproduzioni di Sbarra.

2.1 Immagini dal ’campo’ italiano 85

e dalla loro intelligenza a rapportarsi con i nuovi mezzi di comunicazione. Nel-l’epoca fascista la distribuzione e la produzione cattolica del cinematografo21

aveva dimensioni notevoli ed una struttura capillare, tanto da costringere nonsolo e non tanto gli enti statali, ma le cerchie stesse della produzione a venirea termini coi propri orientamenti ed i propri obiettivi (Bragaglia 1932).

2.1.2 Interpretazioni e riletture di contesto

Walter Benjamin introduceva le sue celebri tesi sulla riproducibilità dell’operad’arte avvertendo che le novità introdotte dal ’900 nella tradizionale riparti-zione delle arti, se interpretate secondo i termini ormai obsoleti di genio ecreatività, avrebbero condotto ad una ’elaborazione di dati in senso fascista’(Benjamin 1978:218). Proseguendo in una rilettura ed in una reinterpretazionedei materiali sulle fasi iniziali del jazz in Italia è evidente la contemporaneitàdell’avvento delle mode che veicolano una maggiore conoscenza del fenomenocon l’ascesa al potere ed il consolidamento del fascismo. Se l’esperienza umanadei modernismi trans-africani può essere vista come reazione all’orrore delladeportazione e della schiavitù, bisogna anche tenere presente quella disposi-zione a comprenderli e condividerli che s’alimenta alla memoria degli orrorieuropei del fascismo e della guerra.

È perfino banale notare che in comune col jazz il fascismo sembrerebbeavere almeno il fatto di essere uno tanti prodotti del ‘900, riproducibili, recu-perabili e replicabili sotto forma di specifiche varianti culturali e storiche. Inquesto senso le reinterpretazioni attuali dei conservatorismi moderni ci paionooggi significativamente intrecciate in quanto ’prodotto ideologico’ con quelleche Bourdieu chiama ’arts moyens’ diventando una modalità politica che sinutre delle domande di normalità, di protezione e controllo dell’esistente.22 Inquesta prospettiva anche il jazz, come vedremo più avanti, nei suoi sviluppiattuali può diventare elemento di una riappropriazione della cultura fascista(260 e sgg.).

Ora, non pare che questo tipo di problematica23 sia stata sufficientementepresa in considerazione nel campo italiano, se non in ricerche sulla peculiaritàstoriche del controllo politico sul sistema italiano dei media, a partire dalla

21 In seguito la propaganda anticomunista delle chiesa di Pio XII, intorno ai primianni cinquanta, comprenderà benissimo l’importanza della televisione.

22 Tutti i fascismi debbono affrontare il problema di che cosa debba essere intesocome classe media e quello della definizione del patrimonio culturale nazionale,non si danno grandi variazioni di contenuti ma di ’modalità’ (oggi televisive,mediatiche, calcistiche). Evito qui di esaminare una letteratura già ponderosa sulpopulismo praticato da Silvio Berlusconi e dalla destra italiana di oggi come eredeo meno di quello fascista.

23 Che si potrebbe vedere quantitativamente come enorme mole di dati processatiin senso fascista che hanno circolato e circolano nel sistema della produzionesimbolica, indipendentemente dal loro presentarsi sotto le vesti più varie.

86 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

radio, che muove i suoi primi passi in epoca fascista (Monteleone 1976, For-gacs 2000). Nello stesso tempo si può notare che anche i termini di ’genio ecreatività’ siano stati ben poco messi in discussione e riformulati nel pano-rama della cultura italiana ’media’, nonostante le variazioni dei tempi, dellepratiche sociali, delle tecniche, del gusto e del costume.

Massimo Bontempelli, una delle personalità più autorevoli della letteraturaitaliana nell’epoca fascista vedeva nel personaggio e nella vicenda di arte einterventismo di Gabriele D’Annunzio il modello di una nuova ’volontà dipotenza’ che legge, non senza ironia, secondo la categoria del ’prodigio’, madi un nuovo tipo.

Come prodigio, a lui niente può né deve riuscire impossibile. Inoltre,il prodigio ha da dimostrarsi di continuo in tutta luce; sia pure lucedi riflettori, ma piena e senz’ombre (Bontempelli 1939:110).

Dalla interpretazione del fascismo in quanto emergenza storica dello statototalitario e della sua natura di ’prodotto della moderna società di massa’(Cannistraro 1975:8), della sua presa del controllo della vita nazionale pro-prio nel momento della diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione (postial proprio servizio e sotto tutela) potremo muovere per contestualizzare lacapacità del jazz di ’rispecchiare’ tendenze di rinnovamento e di cosmopoli-tismo culturale entro il programma del regime. Le condanne fasciste del jazzsi appuntano sul dato della diversa ’spiritualità’ nazionale (e sulla mancanzadi ogni spiritualità: sul primitivismo del jazz) (Cerchiari 2003:104-113). Com-paiono nel contesto italiano gli stereotipi24 di un discorso che si va facendocontemporaneamente negli Stati Uniti in un clima di concorrenziale, e in unacontemporanea istanza di legittimazione, di istituzioni atte a riprodurre latradizione musicale europea in quel paese in quanto modalità di distinzione edi alta cultura (Laubenstein 1929, Peterson 1997, Appelrouth 2003).

Nonostante faccia parte dell’armamentario di novità della nuova cultura dimassa e nonostante che siano conosciuti gli esiti parigini della moda del jazz,che sia marcato come moda futile e di nessun rilievo e messo ai margini deldibattito culturale nazionale, il jazz esiste ed ha degli eccellenti musicisti. Sene parlerà con maggiore distacco in Italia solo dagli anni ’50 in poi, quandotenderà ad essere legittimato dall’uso mediatico (pubblicitario e cinematogra-fico) ponendosi come un elemento della costruzione di un nuovo spazio urbanocapace di simboleggiare sia un dinamismo industrioso ed un consumo gauden-te, che le crisi d’identità conseguenti alla crescente urbanizzazione del paese.24 Il Nederlands Jazz Archief offre una introduzione alla storia del jazz in Olanda

nella quale sono più volte citate le tesi del suo più noto esegeta reazionario L.M.G.Arntzenius (critico musicale del quotidiano De Telegraaf ) il quale si è attenuto pertutta la vita alla seguente spiegazione data da Paul Witheman, chiara risposta allaricezione parigina del jazz: « Il jazz iniziò coi negri; noi ci siamo messi all’operasu queste basi ma ora il jazz è diventato una forma d’arte americana. Non sipuò più parlare di arte negra. L’intero sviluppo di questa musica è un fenomenoamericano » (Gras 1991).

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Questo potrà accadere quando nuovi modi di essere, di pensare e di lavorarecambieranno la società italiana nel suo complesso e quando tutto il campodelle arts moyens avrà un interesse commerciale ed un ruolo enormementesuperiore a quello che aveva nell’industria culturale dell’epoca fascista.

Il quotidiano lavorìo della stampa nazionale per la legittimazione del re-gime e la modellazione dell’immaginario collettivo mette in luce quanto siintende per ’art moyen’ nell’Italia fascista. Un testo di grande interesse inmerito ai nuovi problemi e ai delicati rapporti tra stampa e committenza ècostituito dall’epistolario di quell’acuto osservatore dei nuovi modi di con-cepire la vita pubblica che fu Giovanni Ansaldo, direttore del ’Telegrafo ’diLivorno, giornale di proprietà di Galeazzo Ciano. Ansaldo, germanista e fran-cofono, esperto di politica internazionale e consigliere di Ciano è un uomo disinistra che diventa fascista per ambizione e non lo nasconde. Egli sottolineaperò l’assurdità della vicenda del ritorno di Rommel, il quale, sconfitto daglialleati e costretto a ripiegare in Tunisia, si precipita in Germania a riceverela croce d’onore, accolto da vincitore. Per Ansaldo è altresì chiaro che il prez-zo della disfatta che si annuncia con forza nel 1943 è la rinuncia alle colonieda parte dell’Italia, parte insostituibile della sua idea di quello che dovreb-be essere una moderna e grande nazione, mentre ammette che gli appelli alpatriottismo e alle armi sono ormai controproducenti nel clima dei bombarda-menti alleati, quando la fuga dalle città assume un aspetto di disobbedienzacollettiva (Ansaldo 2000:321 e sgg.).

Il ’campo’ in cui il jazz entra come una pratica musicale innovativa nelperiodo fascista si colloca in uno spazio di pratiche sociali per le quali esso nonpuò essere ancora concepito come ’puro’, specialistico. La sua pratica è vistacome un elemento ’corale’, di gruppo, e anche su questo si appuntano le critichedi chi lo osserva da un punto di vista negativo. Vi è una zona di eccellenza,anche sotto il segno del fascismo, nella tendenza di auto-selezionamento tra imusicisti che lo praticano,25 vale a dire entro quelle cerchie della produzioneche sono in grado di offrire una propria versione ’del jazz’, ma lo è molto dimeno in quello della produzione più ampia, nella quale sono il teatro di varietà(erede del café chantant), la rivista e l’operetta e poi l’avanspettacolo a fare laparte del leone in quanto generi di più vasta diffusione. Per quanto riguardail teatro di varietà, è noto l’interesse di futuristi quali Marinetti e Bragagliaper questo genere di spettacolo visto come una delle arti più importanti eritenute come ’intrinsecamente’ futuriste, ma che, qualcuno afferma, potrannoavere un ruolo di primo piano a patto che siano concepite rispetto ai capisaldidella ’teoria aristotelica’ (di unità di luogo e di azione), cioè della tradizione

25 I luoghi dove si ascolta e si richiede ’vero’ jazz tendono a porsi come club privati,o comunque come locali la cui esclusività tende a porsi come ’luogo protetto’.Uno di questi era l’Hotel Excelsior del Lido di Venezia, nel music hall chiamatoChez Vouz, dove era scritturata l’orchestra di Sesto Carlini e dove Cole Porter edElsa Maxwell si intrattenevano con il jet-set italiano. Qui, nel 1926, Porter e laMaxwell avevano invitato Ada Smith (Bricktop) per insegnare al pubblico i passidel charleston (Mazzoletti 2004:n.246).

88 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

culturale legittima. Entra in gioco qui un ’interventismo teorico’ della culturaa ’migliorare’ quello che esiste già con mezzi che non possono che snaturaree distruggere (Bragaglia 1929 in AA.VV. 1961a:1451). È altresì ben nota lacomponente nazionalistica ed controllo del regime sul varietà nel momento incui nei teatri si lanciano campagne di solidarietà per i militi in Abissinia esimili iniziative.26

I luoghi in cui un pubblico italiano più ampio incontra il jazz sono gli stessiin cui si fanno strada le compagnie di rivista e di varietà, oltre ai cinema edalle sale da ballo in cui sono presentate le nuove danze americane. Le nuovedanze arrivano nel secondo decennio del Novecento, il tango nel 1912 ed il foxtrot nel 1915 a Torino al cinema Ambrosio e poi a Roma, al tabarin Apollo,la cui orchestra era diretta da Umberto Bozza, già maestro privato di violinodel duce (Mazzoletti 2004:8-9). Verso il 1916 sarà il Trianon di Milano, coifratelli Faraboni, il luogo in cui le danze alla moda provenienti dalla Fran-cia, avranno un successo indiscusso (op. cit., p. 10). Ma è nel 1918, con lafine della guerra che i locali notturni si moltiplicano nelle grandi città quan-do compare anche il macchinismo sonoro che diventerà sinonimo di jazz: labatteria, strumento la cui presenza distingue un’orchestra moderna da unatradizionale (op. cit., p. 17). Nei decenni che seguono prende forma rapida-mente un panorama la cui vivacità è quasi sconcertante se osservato dal puntodi vista dell’organizzazione odierna dello spettacolo. Basta seguire le vicendedi vedettes internazionali come Lydia Johnson, ballerina e soubrette di originerussa, la quale (accompagnandosi a ottimi musicisti di jazz europei, americanie italiani), percorre tutta l’Italia nei teatri di rivista, per approdare a Napolinel 1931, dove sceglie di lavorare con i fratelli De Filippo. Oppure seguire letournées mozzafiato dell’orchestra francese di Roland Dorsay scritturata pertre spettacoli consecutivi alle 18, 20 e 22 al cinema Barberini di Roma e dalle23 in poi all’Hotel Palazzo (op. cit., p. 263).

Si incrocia all’età italiana del jazz uno sviluppo del ruolo dell’attore in cuiil virtuoso, inteso come ’prodigio artistico’ avrà un seguito popolare nel teatrodi varietà con modalità nuove e diverse dal campo dell’alta cultura letteraria.Qui la parole mette alla berlina la langue. Ettore Petrolini, con il proprio per-sonaggio Gastone, ucciderà il viveur rinunciatario, l’uomo del passato, del caféchantant con cilindro e mantello: un cadavere la cui immagine sopravviverà,prossimo in questo alle reinterpretazioni cinematografiche del personaggio delconte Dracula. Con Nerone, applaudito prima che inizi a parlare, macchiettadel nuovo rapporto tra la folla ed il dittatore, il varietà mostra esiti di grandevirtuosismo e lascia intravedere un rapporto nuovo e intimo tra attore e pub-blico. Sono interi e complessi discorsi di dominio sociale a venire esorcizzatiin un’ironia tutto sommato abbastanza misurata e fredda. Ma bisogna no-tare anche una particolare disposizione a concepire, accanto alla rivoluzione

26 Nei primi anni ’10 ’il patriottismo fu spesso pretesto ad attori di infimo ordineper accaparrarsi a buon mercato l’applauso del pubblico con l’aiuto di bandieree marce militari’ (AA. VV. 1961a:1451).

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’tecnica’ dell’attore, quella che diventa una vera e propria rivoluzione del pal-coscenico, nel momento in cui l’illuminotecnica, il cinema e l’elettroacustica ingenerale diventano un investimento che il regime incoraggia e sostiene anchenelle istituzioni scolastiche.27

L’aspetto tecnico entra nel modo di ragionare dei musicisti di jazz italia-ni al punto di impedire persino al direttore d’orchestra Piero Rizza di en-tusiasmarsi davanti all’orchestra di Duke Ellington, visto nel 1932 al teatroLafayette di Harlem.

L’orchestra Ellington era da me conosciuta ed apprezzata molto at-traverso i dischi, però quella sera mi deluse alquanto. Mi spiego, nonera l’orchestra che avevo immaginato di sentire, data la sua fama. Losquilibrio tra sax e brass era enorme, difetto che su un palcoscenicoaccade se non si usa un buon sistema di amplificazione per dosare levarie sezioni. Dunque, forti, fortissimi gli ottoni e i sax, dopo questofrastuono, sparivano. Peccato. Certo che gli impianti amplificatori diBroadway costano cari e i poveri proprietari del teatro Lafayette noncredo si potessero permettere eccessive spese, dato che il prezzo delbiglietto non superava i cinquanta cents (allora circa lire dieci) (Rizzain Mazzoletti 2004:410).

Si può supporre che una certa curiosità, un certo slancio all’appropriazio-ne modernista, abbiano giocato un ruolo fondamentale in rapporto ai nuovirepertori musicali e alla risoluzione dei problemi tecnici che questi suscita-vano. E che il cambiamento di tendenza nella valorizzazione del jazz e dellasua dimensione di ’sforzo collettivo’ negli anni ’30 vada di pari passo con uncambiamento dell’idea stessa di spettacolo, mediato dal rapporto con nuovetecniche e nuovi procedimenti musicali. L’insistenza di Diego Carpitella sulconcetto di jazz in quanto ’artigianato musicale’ (1978) si comprende meglionei termini di una domanda accresciuta e diversificata in termini di capitaleculturale rivolta alle cerchie dei musicisti, ma anche, per il ’campo’ italiano,in un certo slancio acritico della loro risposta di appropriazione delle nuovetecnologie. Le nuove musiche aprono nuove strade alla tecnologia e viceversa,ma le modalità di acquisizione sono artigianalmente dotate di una forte caricareinterpretativa e rischiano di affermarsi nel segno della sottovalutazione ditutta una serie di questioni solo in apparenza extra-musicali, attinenti alla suapoetica e a tutto un campo di idee e di storia.

27 Come nota Cannistraro (1974), l’impulso e l’interesse per la tecnica fu una dellecaratteristiche più positive delle politiche scolastiche del fascismo. Analoghe os-servazioni sono fatte in studi settoriali come quello di Monteleone sulla radio, ilquale nota un notevole impegno tecnico e stilistico applicato alle dirette calcistichevia radio e al virtuosismo di veri e propri inventori del genere della radiocronacacome Nicolò Carosio (Monteleone 1976). Gruppi di tecnici e registi italiani hannolegato le proprie sorti non solo ad Hollywood, ma anche alla storia del cinemaegiziano assumendo qui un ruolo pionieristico (Fuad 1983).

90 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

Non si potrà mai insistere abbastanza sul fatto che il fascismo sia associa-to in Italia a tutta una serie di cambiamenti epocali e che abbia contribuitosostanzialmente a un’idea della prassi artistica nella quale l’ottimismo per leinnovazioni tecnologiche e la svalutazione della riflessione teorica non sfioranominimamente più antichi modi di considerare la prassi culturale, radicati eaccettati inconsciamente nella società. Si consideri per esempio l’idea che levirtù dell’artigianato italiano siano immediatamente connesse al patrimonioartistico nazionale. Oppure l’attitudine delle istituzioni scolastiche a consi-derare l’approfondimento delle lingue straniere come un fatto di inclinazionipersonali e di autodidatticismo col latino al centro di ogni curriculum intel-lettuale legittimo. In netto contrasto con questi ’punti fermi’, dall’epoca deljazz proviene anche un nuovo status della registrazione che produce beni diconsumo, ma che diviene documento e fonte primaria nella pedagogia dellenuove musiche, fatto che comporta tutta una serie di problematiche di ampiaportata che resteranno a lungo eluse.28

Da una parte un processo tramite il quale il fascismo dissemina il propriodiscorso della modernità come versione di una ’società di massa che intendeproteggere le distinzioni di classe, di genere e di razza’ (Ben-Ghiat 1996:111),processo che significa scelte di politica culturale, controllo sulla stampa e sul-la radio, innovazioni tecniche e specifici e nuovi assetti imprenditoriali in unclima in cui si avverte un vero e proprio ’incombere della modernità’ (Gentile1993). Dall’altro quello di un settore musicale che il regime sentiva come so-stanzialmente di scarso interesse, a meno che non vi trovasse un intralcio o unavelata opposizione in ambienti, usi e subculture che si proponeva di ’fascistiz-zare’, come i circoli dopolavoristici di tradizione socialista e anarchica. Oltre aciò sembra opportuno ricordare una tendenza a considerare la musica e la let-teratura come questioni di pertinenza femminile, nonostante restino sfumatii termini sociali in cui questa solidarietà aveva una sua pertinenza simbolica.Non si tratta di una questione di poco conto, e anche considerare il cinemacome fonte storica non basta forse ad approfondire meglio argomenti qualiil ruolo ’tradizionale’ della donna italiana, messo a rischio dalla volontà diindipendenza economica delle donne delle classi medie urbane, rappresentatacome causa di immodestia e di libertinismo.29

28 Anche questo è uno degli argomenti su cui Diego Carpitella e poi la scuola romanadi etnomusicologia insisterà maggiormente contribuendo al dibattito metodologicoentro le cerchie dell’antropologia italiana. Per una vera e propria azione pedago-gica di ’svezzamento’ da queste metodologie che possono giungere a influenzaretutta la pratica musicale nel momento in cui manca una effettiva dimensione mu-sicale dell’ascolto e dell’interazione di gruppo si veda la parte dedicata ai metodidi insegnamento di Donald Rafael Garrett (§ 4.3.4, p. 289 e sgg.).

29 Con tutto l’interesse per le analisi di opere filmiche italiane dell’epoca cosiddettadei ’Telefoni Bianchi’, o di materiali colonialisti e razzisti, si tratta spesso di analisiche non restituiscono molto di più di quello che è sostanzialmente trasparente allavisione e che conferma tesi generali, come accade nell’articolo di Ben-Ghiat (1996).

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Nello spazio in cui le nuove mode (la ’musica sincopata’, il jazz ed il reperto-rio latino-americano) andavano diffondendosi già precedentemente all’avventodel regime, e dove le distinzioni di classe, genere e razza tendevano a sfumarsi,si è manipolato e adattato il jazz nel passaggio tra cerchie della produzionee cerchie della distribuzione in due modi diversi. I media nazionali (disco eradio) hanno contribuito decisamente alla formazione di uno stile sincopatoadattato al gusto italiano, fornendo nuovi modelli alle orchestre da ballo sianegli ambienti più esclusivi, sia in quelli amatoriali e dopolavoristici. Que-st’ultime operavano in un campo corrispondente alla prestazione di serviziomusicale di semiprofessionisti collocati in quelle ’fasce artigianali’ descritte daCarpitella (1976), della provincia italiana. In alcune zone hanno prodotto esitioriginali verificabili nelle orchestre da ballo itineranti come quelle delle famiglieCantoni e Casadei, particolarmente vitali in Emilia Romagna sino al secondodopoguerra e poi modernizzate nei gruppi più importanti del cosiddetto ’balloliscio’ come viene chiamato oggi.

Il cruciale cambiamento del clima politico, a partire dagli anni ’30, men-tre il fascismo ’totalitario’ suscita preoccupazioni ma anche consensi sempremaggiori in Europa e nel mondo da parte di chi vede di buon occhio l’autori-tarismo, il razzismo e l’attivismo fascista come soluzione ai problemi innume-revoli della società di massa, coincide con la condanna del permissivismo e del’rinunciatarismo’ degli anni ’20. Pare opportuno in questo senso richiamarel’attenzione al ritmo decennale di parole d’ordine ideologiche (in questo casolo stimolo all’azione si rivelò fatale) e al fatto che il jazz rispetti questo ritmodecennale nel suo sviluppo stilistico (v. in q. testo: indice analitico, voce ‘jazz,sue fasi decennali’). Questo riscontro in aspetti così in apparenza lontani traloro della categoria generale dei ‘modernismi’ dimostra che qualcosa di gravee di grande deve essere accaduto nei rapporti tra gli uomini ed il tempo.

Prende forma un fenomeno apparentemente innocente di selezione e adat-tamento nazionale al gusto e alle rappresentazioni più ammissibili della mo-dernità. Di grande interesse in questo senso è verificare come la jazz band nelventennio conservasse a suo modo il parametro ritmico, inscrivendo in un ri-ferimento ’sincopato’ elementi che invece dovevano essere preservati in quantocaratteristiche dell’arte musicale italiana, come certi timbri vocali della tradi-zione del canto leggero, e limitando severamente o togliendo completamentedi scena l’improvvisazione strumentale.30

Il periodo cruciale per questi sviluppi è quello degli anni ’30, cioè di queldecennio in cui nel clima della recessione economica mondiale ci si accorge chei totalitarismi europei ed il new deal di Roosevelt costituiscono una rottura colpassato e sono alle prese con imprese di ristrutturazione e di sperimentazionesociale ed economica su vasta scala. Ma è anche il periodo in cui il fascismo

30 La continuità con l’epoca televisiva è illuminante: spettacoli di varietà del sabatosera come Studio Uno, con esponenti del jazz italiano quali Lelio Luttazzi comeconduttore e la big-band diretta dall’Ellingtoniano Bruno Canfora, le gemelleKessler e Mina riproducono questa formula nella seconda metà degli anni ’60.

92 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

si pone il problema dell’egemonia sul territorio e si lancia nella sua politica’strapaesana’ della cultura (v. § 2.2, p. 124 e sgg.). In questo processo è im-portante notare una unanime convergenza nel rigettare in blocco l’urbanesimodegli anni ’20 e che la solenne condanna sia pronunciata di modo corale dai’capi supremi’. Mussolini condanna le mode Parigine, la degenerazione deiruggenti anni venti, il pericolo del bolscevismo imperante; Hitler conduce alpatibolo la repubblica di Weimar dinanzi ad una Germania plaudente, maanche Roosevelt, sebbene di modo più dimesso, condanna gli anni ’20 come’un decennio di dissolutezze’, e diventa comune in America parlare degli anniprecedenti la crisi come anni impotenti e rinuciatari.31

La soluzione fascista alla ’crisi economico-sociale della società di massa’(Cannistraro 1975:8) fu in costante divenire e sotto gli occhi di tutti con-seguente ad una logica di mero predominio: la disciplina richiesta tutta perl’amore del paese e della sua guida giunse ad un punto limite con la disfat-ta e con Salò. Rinunciatario significava, nel vocabolario fascista del tempo,un popolo (ma anche un individuo di sesso maschile) che abdicava alla suamissione storica civilizzatrice e dominatrice, e poi a riparare al tradimento diBadoglio. Oggi la ripresa o la replica dell’idea di rinunciatarismo nasconde dimodo analogo ad allora la condanna senza appello di quello che ci sta allespalle (del ’68 invece che degli anni ’20), in una sorta di ’ripulitura’ fretto-losa della memoria collettiva, di appello all’urgenza della necessità sociale didimenticare. Per le revisioni storiche attuali il momento discriminante sta nelvedere come errore politico l’esito ’di avventura’ della guerra insinuando unatteggiamento che rivaluta lo spirito positivo e attivista del fascismo. I politicidella destra di governo italiana non hanno esitato a giudicare ’rinunciatarie’le voci che chiedevano da sinistra, dopo penose sofferenze e distinzioni, la finedella spedizione italiana in Iraq. Questo significa quanto una diffusa nostal-gia di fascismo si scontra con la necessità di fare i conti con il passato e nonesita a tornare al linguaggio che le è storicamente proprio, tanto più laddovesi propone di perseguire interessi nazionali di dominio senza sottilizzare sullaloro ’legittimità’. Tutti fatti che non fanno che confermare come una teoriagenerale del fascismo (o meglio: dei fascismi) non solo sia possibile, ma siagrandemente necessaria (Burgio 1998).

D’altra parte, pur nei limiti dell’argomento trattato, l’emergere di rapportidi forza e di riesumazioni ideologiche tanto clamorose non possono collocarsiin un universo separato da quello delle cerchie della produzione musicale. Perquesto il problema del rapporto tra idee di replica e reinterpretazione (cioèil luogo dove si annida la questione dell’identità) non può essere eluso daldibattito sul contributo del jazz alla formazione di varie idee e pratiche sociali31 Un concetto formulato chiaramente da Mino Maccari nel 1924 nel sostenere la

centralità delle cerchie squadriste toscane nella gerarchia fascista, e che allora sirivolgeva ai resti dell’Italia liberale visti come purulenti brandelli di rinunciatari-smo. Per l’importanza del programma di Maccari e del suo giornale ’Il Selvaggio’per l’orientamento ruraleggiante e strapaesano delle politiche del fascismo a veniresi veda Adamson (1995). (Leuchtenburg 1968:316).

2.1 Immagini dal ’campo’ italiano 93

della modernità, per innocenti che possano sembrare i conflitti in campo.Questo problema non può che incrociarsi di modo significativo tra l’emergeredi una documentazione discografica e letteraria delle idee di jazz del regime equalcosa che accade oggi.

I paralleli tra l’Italia di oggi e quella del regime hanno una loro pertinenzaper l’argomento prescelto anche perché in quanto sia oggi sia circa settantaanni fa l’interesse che si polarizza attorno al jazz riesce a vivere invitandoil meno possibile alla festa i diretti interessati, cioè sminuendo l’attenzionepubblica sull’aspetto del jazz visto in quanto storia del popolo afroamerica-no, nonostante che l’apporto culturale degli africanismi transatlantici sia benconosciuto e giustamente valutato non solo in antropologia e nel campo de-gli studi afroamericani o nelle ricerche più aggiornate e diffuse sulla ’popularmusic’ americana e inglese (Middleton 2001), ma in tutto il campo letterario.Oggi, come ieri, nonostante sia necessario distinguere, laddove l’argomento èquello del jazz ’italiano’ pare che esso sia tornato a rappresentare una specia-lità sportiva: qualcosa di interessante che proviene dall’America ma che siamoin grado di fare in proprio, a modo nostro, altrettanto bene e magari anchemeglio di come lo si fa in tanti altri paesi europei.

Durante il primo quindicennio in cui il fascismo ebbe un enorme consen-so popolare, non ci fu bisogno di particolari attenzioni punitive nel mondodell’intrattenimento in cui il ballo e la canzone costituivano le attrattive prin-cipali, dato che l’opinione diffusa che si aveva del canto e del ballo era ancorain larga misura quella di passatempo innocuo riservato per lo più al pubblicofemminile e alle inquietudini innocenti dei primi amori. A questo riguardo èinteressante notare che il ritmo dei lavori casalinghi delle massaie borghesiè immediatamente uno dei criteri principali di organizzazione dei program-mi radiofonici. L’organo di informazione della radio italiana inizia nel 1925ad uscire ospitando su ogni suo numero un profilo diverso di donne musici-ste; spesso si tratta di persone cresciute nelle opere caritatevoli cattoliche ediventate delle stimate professioniste.

Se i temi relativi alla politica culturale del regime possono sembrare tuttosommato abbastanza distanti dall’attività delle cerchie dei musicisti più pre-parati e cosmopoliti, veri agenti della diffusione del jazz, è anche vero che ènecessario cercare di cogliere il significato di una modernità che si fa stradanel quotidiano, nei modi di accogliere e reinterpretare una quantità di ele-menti (’neutri’ almeno in linea di principio) di innovazione che si affermavanonella vita di tutti. Si può convenire senza dubbio con Cerchiari che la tempe-rie culturale del periodo fascista unitamente alla ’matrice cattolica e a quellaprovinciale della cultura italiana’ (di una stupefacente continuità) siano luo-ghi in cui ricercare ’le motivazioni esplicite o inconsce’ dello ’scetticismo el’incomprensione’ che accompagnano le valutazioni del jazz fino alla fine delNovecento (Cerchiari 2003:172). D’altro canto le ricerche che si concentreran-no a scrivere una storia più matura del jazz in Italia dovranno essere capaci disviluppare ed oltrepassare queste tematiche per contribuire ad una trattazionepiù articolata e complessa dei modernismi italiani del secolo scorso.

94 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

La jazz band e il regime

La storiografia del secondo dopoguerra si interessa sistematicamente ai rap-porti tra fascismo e cultura riprendendo il dibattito sul conflitto tra correnticulturali moderniste e futuriste, quelle dei tradizionalisti (sia cattolici chemonarchico-legittimisti) ed infine i regionalisti sostenitori di ’strapaese’ chelottano per farsi strada nel sistema culturale del regime. Questa lotta prendeforma verso la metà degli anni ’20, quando, ai primordi della costruzione del-l’Italia fascista, si deve distinguere sui segni della diffusione della cultura dimassa. Tra essi anche vi è anche la jazz band e le nuove danze afroamericane.

Gli esiti della modernizzazione novecentista sono individuabili in un nuovotipo di oggetti e beni di consumo inarrivabili per gran parte degli italiani comela radio, il fonografo, e, prima in America e poi anche in Italia con la Fiat diGianni Agnelli, l’automobile. Non solo questo: alla vigilia del fascismo, vi èin Italia una grave crisi economica, un profondo scontento dei lavoratori, unamobilitazione che culmina in una stagione di lotte e di scioperi. La rivoluzionesovietica è ancora giovane ed il movimento operaio in piena espansione, nascea Livorno il Partito Comunista Italiano nell’anno che precede la nomina diMussolini a Presidente del Consiglio. Il fascismo è l’involuzione conservatriceche restituisce la sicurezza di sé al capitalismo e alla finanza italiana, la storiadi una battaglia perduta dal movimento operaio.

Per quanto riguarda la prima fase del regime, pur partendo da una in-terpretazione positiva nei confronti delle novità del nuovo secolo largamentediffusa in tutta Europa, ma che in Italia doveva scontrarsi con l’autorità dellaChiesa, il jazz sarebbe uno di quegli elementi che non è facile incasellare in unatipologia di prodotti culturali di importazione. Diversamente dai trionfi pari-gini delle arti negre o dal commercio inter-atlantico che portava i Fisk JubileeSingers in Inghilterra già verso il terzo quarto dell’Ottocento,32 in Italia gliinizi del jazz ed i suoi sviluppi seguenti non sono meno suggestivi ed interes-santi, certo, ma sono caratterizzati dallo svolgersi in uno spazio controverso didiscorsi e progetti, che è abbastanza difficile riassumere in un atteggiamentodella cultura nazionale nel suo complesso. Soprattutto, non vi è alcuno spaziopubblico legittimo per un’adesione benevola con sfumature religiose.

Quello che caratterizza la vicenda del primo ’jazz italiano’ è un climadi controversia generale sulle sorti della cultura nazionale, che non è di persé sfavorevole ai movimenti ed alle attività dei musicisti. Il carattere dellasocietà e della cultura italiana, molto differenziata per zone e per tradizionilocali, priva di vere e proprie metropoli in cui la nuova cultura urbana riescaa formarsi entro proprie stabili connessioni internazionali e intercontinentali,se da un lato impedisce che ’la nazione’ intera accetti il jazz tra le tantenuove mode del tempo, non impedisce che ve ne sia richiesta. Inoltre una32 Per cui si veda anche Gilroy (1993). La precocità della ricezione delle arti nere

americane in Inghilterra è forse riassumibile nel senso di un benvenuto che restanelle parole di Charles Fox: «Nothing does an art or a nation so much good asletting foreigners in» (Fox 1972:96).

2.1 Immagini dal ’campo’ italiano 95

rete produttiva dello spettacolo altamente differenziata e connessa al mondoartigianale della musica non impedisce ma favorisce le imprese personali, itentativi, l’eclettismo, prevede una curiosità del pubblico ed un mercato perl’esotico, favorisce comunque lo svolgersi di progetti personali e collettivi entroreti internazionali.

Il jazz italiano si caratterizza non tanto per nascere più ’provinciale’ diquello di altri paesi europei, quanto per costituirsi come ’terminale’ di unmondo musicale sempre più differenziato e ricco, le cui acquisizioni profes-sionali significano spesso uscire dal paese, un paese che è ancora abbastanzaresistente al processo di formazione di una nuova classe media di consuma-tori di nuovi prodotti della cultura. Sul piano sociale ed economico questosignificherà una sostanziale discrepanza tra la facilità di appropriazione dellepratiche da parte delle nuove cerchie ristrette della produzione musicale e lacronica difficoltà di formazione di uno spazio più ampio, in cui l’operato deimusicisti e degli aficionado prenda significato ed assuma un valore autonomo,contribuendo a nuove rappresentazioni pubbliche di rilievo per la cultura, co-me avveniva in Francia e in Inghilterra. Paradossalmente, quello che accomunal’Italia con questi grandi paesi, o meglio lo strumento materiale e spiritualeprevisto per colmare il ritardo italiano in rapporto ad essi, è l’interventismocolonialista.

Anti-americanismo e discorsi della modernità

Con una sorprendente convergenza con l’affermazione di Benedetto Croce, ilquale, nella sua celebre risposta al ’Manifesto degli intellettuali fascisti’ pro-mosso da Giovanni Gentile nel 1924, dichiarava che fascismo e cultura eranoda porre in una vera e propria antinomia, è accaduto che è passato molto tem-po prima che il dibattito storiografico si occupasse del rapporto tra fascismoe cultura. Gli studi sui rapporti tra fascismo e cultura italiana si inserisconoimmediatamente dopo le revisioni storiche più importanti. Mentre aumentala distanza dal primo dopoguerra si precisano temi di ricerca quali il rappor-to tra fascismo e intellettuali, quello con le istituzioni accademiche e, infine,con l’industria culturale ed i mass-media. Dopo i discussi lavori di Renzo DeFelice, che contribuiranno comunque ad ampliare la discussione sul fascismoed a uscire da una impostazione dogmatica ancora influenzata dalle feritedella guerra civile e della spaccatura del paese in due, è uno studioso italoa-mericano, Philip Cannistraro (1974), ad aprire la strada ad un interesse allepolitiche culturali e mediatiche del fascismo in quanto modello e laboratoriodi una nuova società di massa, seguito poi da una nutrita serie di opere diautori italiani e stranieri.

Seguendo le vicende degli studi storici e di storia della cultura più recenti,si giunge ad una lettura di un quadro più generale nel quale il fascismo sipone come risposta all’americanismo culturale ed alle innovazioni, provenientidall’altra parte dell’Atlantico e dalla Russia comunista, ma lontano dall’esseremonoliticamente schierato e proibitivo, anche se è pur vero che una gran parte

96 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

del controllo che il regime esercitava sulla cultura era inteso come ’intelligence’e censura e poi come sostegno alle istituzioni più prestigiose e capaci di rendereuna immagine della grandezza della cultura italiana.

Il quadro si amplia di molto laddove si consideri, secondo un modelloantropologico corrente, una azione di subculture che operano in campi inno-vativi e modernistici alla periferia del sistema globale della cultura (Hannerz1998:281-295), ma che sono ben coscienti delle limitazioni imposte dai rap-porti di forza politici e dalle direttive generali delle politiche nazionali. Duemomenti chiave di rottura e di transizione (forse tra ’mondi’ differenti) ed incui le imposizioni e le difficoltà paiono superare ogni entusiasmo e ogni pos-sibilità di manovra, possono essere riscontrati nell’orientamento delle cerchiedel jazz italiano allorché nel primo dopoguerra tutta una generazione di musi-cisti associati all’epoca fascista scompare salvo poche notevoli eccezioni, e poinei primi anni ’80, quando viene a mancare un contesto di solidarietà pan-africana e di prossimità alle imprese di scambio tra Stati Uniti ed Europa cheimpone un ripensamento generale mentre si parla di severa crisi e mancanzadi idee che affligge tutto il settore musicale.

Resta molto difficile, pur con tutto l’inchiostro speso sinora, avere una ideapiù chiara di un processo entro il quale l’americanismo si oppone, ed eventual-mente si integra, alla tradizione, alla cultura e alla ’spiritualità mediterranea’italiana. Per il fascismo, inteso come gestione della modernità, parlare di que-stioni mediterranee significò sia un idea regionale e localistica che giungevadai teorici di strapaese, ma molto più immediatamente significò colonialismoe conquista. È interessante notare a questo riguardo quanto sia le idee correntidi cultura sull’America, sia quelle sul Mediterraneo e sull’Africa, siano rimastea lungo tenute nel vago ed abbiano dato luogo a delle costruzioni simbolichedi veri e propri miti moderni tuttora recuperabili e trasformabili a secondadelle costruzioni di diversi discorsi di dominio attualistici.33 Si tratta di unapratica simile a quella che oggi produce proposizioni mediatiche negazionisteinaccettabili sul piano storico, come per esempio il sostenere qualcosa come’il populismo in Italia nasce nel 68’.

Nel corso del Novecento il quadro della lotta ideologica tra destra e si-nistra ha comportato una serie di posizioni di condanna e di avvertimentidi diverso tipo nei confronti delle mode e degli elementi di rischio implicitinel cosmopolitismo culturale, nell’urbanizzazione ed in idee troppo ottimisti-che del progresso. Nell’agone politico c’è stata una sostanziale polarizzazioneconflittuale tra tra simbolismi, oggetti e visioni pragmatiche provenienti dal-l’America e principi, miti, teorie politiche e poetiche provenienti dall’UnioneSovietica e dal movimento socialista internazionale.33 Intendo qui ’discorsi di dominio attualizzanti’ in quanto giustificazioni di quello

che si può fare per la costruzione uno statu quo a partire da un pastiche effettuatosu quello ’che si sa’. Dunque discorsi di uso mediatico, politico e amministrativosecondo termini di velata minaccia o di rassicurazione, in funzione della pola-rizzazione e costruzione del consenso: così come l’anti-americanismo come ’vizioculturale’ della sinistra.

2.1 Immagini dal ’campo’ italiano 97

In questo contesto l’immediata accoglienza delle nuove musiche americaneche costituì il terreno di coltura del primo ’avvento’ del jazz fu oggetto di sva-lutazioni sistematiche da parte della pubblicistica più schierata dalla parte delregime, la quale non riusciva e porsi come eticamente positiva (come avrebbevoluto) ma che usava gli strumenti del razzismo più becero (molti autori di’pezzi di colore’ sul jazz restavano anonimi). Nonostante ciò, si assistette inItalia come altrove, al nascere di una musica leggera influenzata dal jazz34 Sipuò dire che il ritardo delle condizioni di un dibattito approfondito sul ruolodella nuova cultura popolare mondiale ’di massa’ non abbia impedito il per-corso di accoglimento e di reinterpretazione di ’una delle maggiori invenzioniculturali del secolo’ (Jamin 2001). Il processo di formazione di cerchie di so-stenitori e di interpreti dediti totalmente o in massima parte all’elaborazionedel repertorio e degli stili più importanti del momento si precisa decisamenteintorno alla prima metà degli anni ’30, proprio mentre si va verso l’esito ’im-periale’ del regime, parallelamente ad una crescente coscienza del caratteresostanziale dell’apporto afroamericano al jazz.

Nel laboratorio in cui ci si appropria della pratica dello swing o del jazz àla Django in Italia, come in tutti gli altri paesi europei, i titoli sono tradotti,talvolta in modo tendente decisamente al nonsense,35 talvolta tramite veri epropri segnali criptati rivolti all’ascoltatore evoluto, talvolta con semplici espe-dienti onomatopeici (Cerchiari 2003:161-167). Gli standards americani veri epropri passano accanto alla musica da ballo sincopata, spesso sotto nome degliadattatori e arrangiatori. Le leggi razziali e le circolari che proibivano i ’ne-grismi’ nei programmi radiofonici alla fine degli anni ’30 e nel periodo bellicodovranno fare ricorso all’expertise di tecnici che provenivano dall’interno dellecerchie del jazz36 che costituiscono i primi documenti di una categorizzazionepiù approfondita dei parametri della nuova musica.

In Italia, in quanto moda americana e mediatamente ’parigina’ manifesta-tasi nell’Italia liberale pre-fascista, il simbolismo del jazz sarà condannabiledalla Chiesa per la sua immoralità e per immediate conseguenze sulla castitàe virtù femminile, dal fascismo per la sua non italianità e negritudine, e, in-fine, dal movimento dei lavoratori per la sua futilità ai fini della costruzionedella futura umanità socialista. Si osserva qui il recupero di un tacito consen-so, piuttosto diffuso specialmente tra le classi più basse, ad una avversionee ridicolizzazione del senso comune in rapporto alle ’americanate’ del cinemamusicale e di una cultura della rappresentazione che si scontrava con modellinazionali del tutto diversi e che poteva contare su una tradizione teatrale e

34 E. J. Hobsbawm descrive questo vero e proprio miracolo di mercato come ’un de-cotto di jazz molto annacquato’ che ’diventava l’elemento dominante della musicaleggera, da ballo e cantata, di tutto l’occidente’ (1963:56).

35 Ma a ben guardare, come fa Morelli in un contributo in cui studia la produzionedi Scott Joplin (1979:395-435) si tratta di molto di più; la traduzione non fa checontinuare un processo tutto particolare di costruzione del significato dell’opera.

36 Si veda per questo Cerchiari (2003:152 e sgg.) per l’Italia e Openneer & Vuijsije(2002) per l’Olanda.

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su artisti di grande classe. Si tratta cioè di un punto di vista consolidatosinell’epoca fascista che si ritrova nella cultura della sinistra comunista italianadel dopoguerra, secondo il quale il jazz poteva essere visto dai profani comeun indesiderabile elemento americanista, parte di un generale orientamentomassificato e consumista che avrebbe cancellato l’identità nazionale italiana.L’aficionado più entusiasta delle orchestre di Ellington e Basie, di Armstronge Bechet, poteva solo controbattere argomenti di autenticità e di appartenen-za del jazz ai Neri e non agli americani in quanto tali. Da qui un dibattutodiscorso di autenticità che contrappone la ’vera’ cultura americana a quella’consumista’ e che avrà un notevole corso sino a tutta la seconda metà delnovecento, per emergere con forza con il ’68.

Trascurando e svalutando la jazz band dell’epoca fascista non solo è stataminimizzata l’importanza della ricezione e delle risposte locali al nuovo gustomusicale parigino che si diffondeva in Europa, ma si è trascurato anche ilmondo dei musicisti italo-americani emigrati.37 Questo è avvenuto sebbenel’andirivieni degli Italiani non sia mai cessato, e che, grazie al gran numerodi cittadini italiani e di origine italiana presenti in entrambe le Americhe,vi sia stata una rete di connessione inter-atlantica già presente prima delperiodo fascista.38 Le vicende dei ritorni in Italia negli anni ’30 di musicistiemigrati nel continente americano mostrano certo il cambiamento di un climagenerale e l’approssimarsi del conflitto, ma sono importanti per farsi un’ideadel processo di formazione delle cerchie della produzione del jazz. Dimostranoinoltre la concretezza di un processo più generale costituito da vari progettilocali di ambientazione dei modernismi musicali in Italia, e, nel contempo,la capacità di adattarsi e contribuire al crescere di nuovi spazi culturali, alcambiamento del gusto musicale e dell’assetto della distribuzione e del mercatodello spettacolo e del ballo. In definitiva anche qui il jazz concorre al formarsidi nuove rappresentazioni sociali della musica e dell’intrattenimento.

In questo panorama di notevole vivacità e complessità, possono essere pre-se in considerazione tematiche più precise, come il problema della svalutazionedi un discorso di rinnovamento dell’artigianato musicale dei musicisti italia-ni dominato dalle istanze legittime della politica e della cultura nazionale.Gli ’zingari di lusso’ di cui si parla nel paragrafo successivo sono ’zingari’ inquanto non rispondono ad una rappresentazione legittima di questa categoriaprofessionale e di lusso in quanto sono ’ben pagati’, ma il fatto di definirlicome tali significa anche che al loro temporaneo godimento di una situazionederegolata e anomica sarà messo presto un freno.

37 Nella stampa specializzata, che si definisce come tale solo nel dopoguerra con’Musica Jazz’, non mancano i profili dedicati ai ’musicisti del passato’ in quantocontributi ’alla memoria’ e che restano ben distanti dal tipo di informazioni dinormale amministrazione.

38 Nel disinteresse generale del regime se non sotto specie di agenzia sociale di de-cadimento morale per l’adozione dei costumi americani per cui si veda Wanrooy(1986) e il citato Pogliano (1984).

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Le valutazioni del jazz in Italia da parte delle forze in campo alla vigilia delfascismo non furono unanimi e si conformarono o reagirono alle varie formedella condanna dell’americanismo culturale. È dubbio che le fanfare militariamericane, come quella di James Reese Europe alle quali si fanno risalire leprime occasioni di ascoltare qualcosa di simile al jazz (verso il 1917) offrisserodavvero questa possibilità, ma è certo che quello che nei primo quarto del ’900veniva chiamato jazz era qualcosa di estremamente eterogeneo. Per quello checoncerne questo studio è importante notare, che, a posteriori, e a partiredal secondo dopoguerra, l’origine del jazz è stata collocata in questo periodosecondo la modalità di un prodotto americano osteggiato in quanto tale dalfascismo e valutato e praticato correttamente solo dopo la liberazione (Pirasix-ii, in Mazzoletti 2004).

Omissioni che contribuiscono ad un campo oggi più che mai controver-so della memoria. Mentre ancora oggi, e specialmente per le generazioni piùgiovani, praticare il jazz significa molto spesso ’apprezzare’, ’ammirare’ o ’a-derire’ alla cultura americana e spesso, di modo concreto, andarlo a studiarenelle istituzioni più prestigiose,39 per la generazione dei musicisti che sono oggiquarantenni e cinquantenni parlare di quello che si intendeva allora per ’jazz’significa rievocare una stagione in cui i musicisti non erano i soli coinvolti inuna continua lotta con l’operato di Jim Crow.40 In questo campo il personag-gio pubblico più noto e amato era il grande pugile Muhammad Ali/CassiusClay mentre il presidente del Frelimo Samora Machel era molto più conosciutodi un esponente di primo piano della new thing come Archie Shepp.

Nell’era della globalizzazione le barriere e le lotte intorno ad un simboloquale il jazz hanno molto meno senso di una volta. Da un lato questa musicagode di un ruolo nella pubblicità televisiva e nel cinema come se si trattassedi una presenza incontestata e mai interrotta nella memoria del consumatoreoccidentale e nessuno (o pochissimi) si sognerebbero di criticare una musicainventata dai Neri d’America. Lo sforzo per affermare questa musica nellasocietà italiana non si concentra più secondo i termini di una mobilitazionedelle coscienze dei giovani per un complesso di musica e idee al cui fascino

39 Quali la Berklee School of Jazz, di Boston. Bisogna aggiungere che la generazioneattuale dei musicisti più noti e giovani tra i quali il pianista Stefano Bollani, piùvolte intervistato in programmi radiofonici, tende a porre la tensione fra esterofiliae nazionalismo come una questione superata dai fatti: i personaggi e le vicendedel jazz italiano sono posti sullo stesso piano rispetto a quelli del jazz americanoed europeo.

40 Stagioni di una intensità indimenticabile, come sottolinea Jamin (1998), rievo-cando la ormai storica prima esibizione parigina di Charles Mingus con il sestettocomposto da lui stesso, Jacky Byard (piano), Dannie Richmond (bt.), Eric Dol-phy (alto, clar. bs., fl.), Clifford Jordan (ten.) e Johnny Coles (tb.), che eseguiva ilceleberrimo ’Fable of Faubus’, ispirato al governatore Faubus che ratificò l’espul-sione di alcune bambine afroamericane da una scuola elementare dell’Arkansas.Nel capitolo 3 si fa menzione di una stagione diversamente intensa e non lontanada quella descritta da Jean Jamin.

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essi aderiscono direttamente e contro un gusto musicale arretrato che è segnoanche di una arretratezza politica e culturale. Piuttosto si concentra secondola logica di affermare un prodotto culturale ed una propria visione artigianaledi concepirlo, produrlo e distribuirlo.41 Se entrambi questi elementi eranopresenti nelle stagioni precedenti del jazz (fascismo, dopoguerra e anni 70e ’80), il secondo è oggi decisamente quello più chiaramente all’ordine delgiorno. Questo vuol dire che lo spazio del mito e della storia del jazz rispettoall’artigianato musicale ed alla formazione tecnica vengono ad avere un pesodiverso nel ’sapere’ ricercato e comunemente ammesso per chi vuole dedicarsia praticarlo, e che a questo si aggiunge un nuovo modo di mettersi in rapportocon la storia, le aspirazioni, le idee delle generazioni precedenti. Per questomotivo è interessante cercare di definire i diversi contesti storici ed il senso dellemolteplici irruzioni del jazz nella società italiana e nella produzione e nelladistribuzione culturale. Nella memoria delle cerchie ristrette della produzionedel jazz si sedimenta una discontinuità storica della ricezione, una diversavalutazione del dislivello tra capitali culturali ed economici e differenze dihabitus a seconda delle generazioni e delle modalità dei loro inizi di carriera.

2.1.3 « Zingari di lusso »

Nonostante il discorso sul jazz non si articoli in maniera uniforme, i commentipiù conseguenti coi programmi culturali del regime lo presentano come unpoco rassicurante segno dei tempi, piuttosto che elemento neutro di una rap-presentazione sempre più cosmopolita della cultura. In effetti, e questa è unacostante della vita culturale italiana, il cosmopolitismo resta qualcosa di so-spetto. A patto che non siano travalicati i limiti del consentito, polarizzando loscontento nella società, si potrà comunque permettere che le classi privilegia-te commercino con subculture specialistiche dell’arte e dell’intrattenimento efacciano ciò che vogliono nel privato. Nella concezione del modernismo fascistasi tenterà di allontanare le nuove mode dalla portata delle masse lavoratrici.

Alla crisi economica e alle sfide del nuovo secolo il regime risponde conun modello prima autoritario e reazionario, poi totalitario e neo-corporativo

41 ’Nel jazz, il prodotto è il Negro’, concludeva Ornette Coleman (Coleman in Pier-repont 2002:57). E in Italia, paese che conta un numero notevole di musicisti chelo praticano, che cosa si tratterebbe di produrre? Gli esiti di questa domanda pos-sono essere molto curiosi. Vi è stato, grosso modo nel corso degli ultimi vent’anniuno sviluppo di una cultura ’localista’ del jazz da comprendere come adattamentoal mercato italiano, col ricorrere di tutta una serie di accoppiamenti turistici epubblicitari tra vino di qualità e jazz (jazz in ristoranti esclusivi, o in località diparticolare interesse turistico per esempio), che pare da un lato dimostrare la ba-nalità che se esiste un vino californiano potrà anche esistere un ’jazz italiano’, mache riprende una mentalità e una pratica turistico-commerciale che ha la propriaorigine nel periodo fascista (v. § 2.2): quella di abbinare prodotti agro-alimentarilocali e prodotti culturali in una offerta volta ad attrarre il pubblico a popolarele manifestazioni estive.

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dello stato e della società. Alle masse ancora in gran parte contadine del paesespetta la difesa e la costruzione: il compito di combattere, lavorare e edificarel’Italia fascista. Persino per il loro tempo libero e le loro festività è previstoil ’controllo e la trasformazione’ da parte dello stato totalitario.42 Ma tuttoquesto non potrebbe avere un orizzonte chiaro senza un sogno mediterraneo:quello di edificare un impero coloniale, porre fine alla lunga campagna di Libiaper presentarvisi ’con la cazzuola in mano’ dopo che il generale Graziani si ègià aperto la strada col gas nervino. La differenza che il fascismo vuole istituiredefinendosi rispetto alle democrazie coloniali è centrale per la costruzione delladifferenza tra colonialismo fascista e colonialismo capitalista.

Alla rappresentazione del jazz come musica selvaggia e insulsa provvedela parte della stampa più direttamente schierata col regime,43 ma il consensonon è unanime e vi sono resoconti anche positivi di un’attività di accoglimentoe di elaborazione del jazz che comunque esisteva.44

Il duce interviene precisando i termini per i quali questi non sono i segnidell’apertura al futuro del paese. Il termine che segnala i musicisti america-

42 La formulazione dell’articolazione del ’partito unico’ come ’vincolo che tutti uni-sce’ e ’fede comune’ come piattaforma per l’edificazione dello stato totalitario, cioè’lo Stato che assorba in sé, per trasformarla e potenziarla, tutta l’energia, tutti gliinteressi, tutta la speranza di un popolo’ è parte della dottrina economico-socialecorporativa del fascismo e compare nel discorso pronunciato da Mussolini al Con-siglio Nazionale delle Corporazioni nel 1933, riportato in «Educazione Fascista»,anno XI, n. 12, pp. 1003-1010. Il testo è presentato come ’documento fondamen-tale non solo per il Fascismo, ma anche per la riorganizzazione economica delmondo’ (ivi:1003).

43 In particolare sul «Popolo d’Italia», organo del PNF, ma anche sulla stampa piùvicina al governo come «Il Messaggero», di modo alterno su altri quotidiani più’liberali’ come «Il Resto del Carlino» di Bologna, «La Stampa» di Torino ed «IlCorriere della Sera» di Milano. Per l’alternanza di giudizi positivi e negativi dellastampa negli anni ’20 Mazzoletti (1983:188), parla di « vera e propria docciascozzese ». Quanto ai libri, va ricordato « Jazz Band » di Anton Giulio Bragaglia(1929), autore e critico teatrale modernista, il quale si produce con una prosagenericamente futuristica ad elucubrazioni volte a sostenere quanto sintetizzatonella seguente citazione di Mussolini. Il libro fu ignorato dal pubblico ma servì aBragaglia a farsi eleggere come segretario del Comitato Nazionale sceno-tecnicie come direttore del nuovo Teatro delle Arti presso la Confederazione fascistaprofessionisti e tecnici (Mazzoletti 1983:193).

44 Per i rapporti di Puccini col pianista Amedeo Escobar si veda Mazzoletti(2004:78). Riguardo alle idee dei pionieri italiani, il citato violinista e poi bat-terista «Lupo» Battisti racconta del suo ritorno dalla Grande Guerra, con unamano parzialmente mutilata e nel momento di crisi generale «...così - mi dissi –qui non c’è più niente da fare. Lo spirito zingaro l’avevo e me ne andai in Francia.La guerra era finita, andai a Parigi e cominciai a suonare nelle orchestre da ballofino al 1921. C’erano molte orchestre negre a quell’epoca a Parigi, straordinarie;suonavano una musica che non avevo mai sentito e che mi interessò subito. Capiiche quella musica, quel genere, era qualcosa di nuovo che avrebbe certamenteavuto molto successo» (Mazzoletti 1983:41, corsivo mio).

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neggianti in quanto « Zingari di lusso » descrive un nuovo tipo di marginalitàculturale definita rispetto a quello che fa parte del passato.45 Sembra il titolodi una rivista di avanspettacolo,46 non è chiaro se coniato dal duce stesso,maestro del giornalismo d’assalto e poi di un’arte oratoria non convenzionalee non accademica, o da qualche musicista. Mussolini stesso ha in casa la pas-sione per le novità: il figlio Romano sarà un pianista jazz, una musica ancora’da signori’ nell’Italia fascista, teatro di una crisi economica che perdura dalprimo dopoguerra. Nelle annotazioni in forma di diario dei suoi ’taccuini’ egliparla dello spirito che lo ha portato al potere e che dovrebbe rifare da capol’Italia come fecondato dal « fermento del nomadismo » (Biondi 1998:54).

Si legge in queste formule autobiografiche una simpatia personale per ilmondo della musica e dell’intrattenimento ed una volontà, per quanto espressacon retorica di bassa lega, di dipingersi ancora come il rivoluzionario cosmopo-lita che sarebbe stato in gioventù, quando si trovava con la ’fronda’ socialistafuggita in Svizzera. La furtiva lacrima del dittatore che ’capisce’ i poeti.

Ma c’è anche una fatale (e moderna) tendenza a ritrovarsi in casa quell’al-tro che l’Italia dovrebbe espurgare da sé nei proclami ufficiali della politica,la solidarietà dei più giovani con simbolismi moderni, per quanto ingenua-mente essa possa manifestarsi. Come abbiamo visto Romano Mussolini vorràdiventare a sua volta ’zingaro di lusso’ d’Italia, praticando il piano jazz pertutta la vita. La figlia Edda, poi moglie di Galeazzo Ciano, responsabile dellapropaganda e poi ministro degli esteri che il padre condannerà a morte co-me avversario politico, racconterà nelle sue memorie la volontà di fuggire conuna carovana di ’veri’ Zingari con cui aveva fatto amicizia a Milano quandoil padre era ancora giornalista al Popolo d’Italia (Zarca 1975:44-46). Alle in-quietudini di Edda, trovatasi poi a vivere nel clima esclusivo e frivolo della

45 Ma anche una indubbia ipoteca sul futuro. È il già citato Calcedonio Digeroni-mo detto Nello, trombonista siciliano, una delle figure più interessanti delle jazzband dell’epoca, a richiamare l’attenzione su questo termine. Dice Digeronimo: «Mussolini ci chiamava gli zingari di lusso e non voleva che ci organizzassimo insindacato. Guadagnano bene. Diceva! Ma ci sono anche gli zingari poveretti, dicoio. . . » (Mazzoletti 1983:258). L’assenza di un vero e proprio sindacato capace dirappresentare gli interessi dei musicisti perdura ancora in Italia. Quanto al sensodel termine in rapporto a un certo tipo di immaginario, Tino Fornai, violinistad’origine toscana attivo in Costa Azzurra e figlio di un giocatore d’azzardo profes-sionista, lo riassume così: «Un giorno nella Rolls-Royce di un Maharajah indiano,un’altro nelle strade a fare la questua, io, mio padre e mia sorella» (Mazzoletti1983:328). Fornai conobbe Django Reinhardt e Matelot Ferret e suonò con AndréHekyan (l. cit.). Il quintetto di Reinhardt e Grappelli era un punto di riferimentoben noto tra i musicisti italiani tra i quali i chitarristi ed i violinisti erano piut-tosto numerosi e richiesti sul mercato. I quintetto di Reinhardt e Grappelli fu’replicato’ dal quintetto del chitarrista Luciano Zuccheri nel 1938 (op. cit. 280).

46 La compagnia di Isa Bluette presentava al teatro Odeon di Torino riviste comeLa Valigia delle Indie, Sottane al Vento, Diavoli Rosa, Adama ed Evo, Minorennia noi e Gatte di lusso, dal 1925 al 1929 (AA. VV. 1961:1030).

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più alta società della capitale, non bastavano i proclami diretti alla nazione,come il seguente.

Non sappiamo cosa resterebbe del contenuto spirituale del fascismo serinnegassimo il tesoro d’arte e di pensiero ch’è tutto e inconfondibil-mente nostro, italiano, per copiare dai ’tabarins’ francesi e dai circoliamericani ciò che hanno di più primitivo e banale. Ma certo non ve-dremo spuntare l’alba dell’impero se le armi e le opere del suo avventodovessero venirci dalle ballerine e dai suonatori negri, anziché da unpopolo sano, semplice, serio, cioè fascista (cit. in Cavazza 1996:60).

Come si vede il tono del discorso del capo del fascismo in questa fasenon è rivolto tanto a proibire, quanto piuttosto ad indicare ‘altre migliorioccupazioni’ e altre migliori tradizioni. Questo lo sviluppo governativo dellostile oratorio propagandistico e interventista (ma di derivazione socialista) cheil giornalista Mussolini aveva elaborato al ‘Popolo d’Italia’, durante e dopo laprima guerra mondiale e che Antonio Gramsci svergognava puntualmente dallepagine della stampa socialista (Gramsci 1982). Ora, dopo che hanno vinto laguerra ma sono alle prese con una gravissima crisi economica, agli Italiani sipropone con insistenza di consolidare il proprio impero coloniale, tramite ilquale finalmente realizzare il sogno di potenza e di progresso propagandatadal regime.47 Una utile precisazione si appunta sui veicoli stessi tramite iquali il jazz si diffonde nel mondo. Si diffonde cioè tramite i « Tabarins »francesi e non meglio precisati ’circoli americani’ dove si pratica il vizio e lapromiscuità, non nei sani sebbene spesso poveri circoli ricreativi popolati soloda uomini e che si raggiungono dopo una onesta giornata lavorativa, come inItalia. Affinché quasi tutti i circoli ricreativi italiani diventino fascisti sarannoaccolte le tesi di strapaese in quanto ’territorializzazione’ del fascismo (v. §2.2). Intanto il duce si assume la paternità culturale e la direzione di ogniimpresa volta a fare più grande l’Italia ed a metterla ’al passo’ con le potenzemondiali, de-territorializzando ed esportando il fascismo.

È interessante considerare brevemente, quello che accadeva sul versante’alto’ della cultura musicale. Il fascismo e Mussolini stesso hanno investitomolto sulla musica, ponendo attenzione in particolare al teatro d’opera. Latraccia più immediatamente pubblicitaria, simile ad uno spot televisivo deinostri giorni, consiste forse nel libello « Mussolini musicista » di RaffaelloDe Rensis (1927). Nonostante il testo sia facile bersaglio all’ironia per unaletteratura che era pronta a dimostrare l’eccellenza del capo supremo in ogniaspetto dell’attività umana, colpisce il fatto che Mussolini a cinque anni dallasua ascesa a capo del governo abbia ritenuto opportuno spendere pubblica-mente il proprio status di appassionato di musica e di violinista dilettante.Perché lo fece? Evidentemente questo suo aspetto amatoriale-casalingo, in un

47 Si vedrà in seguito, seppur a grandi linee, alla luce della categoria storiograficadi ‘strapaese’, che cosa intendesse il regime quanto intonava le lodi di un popoloincorrotto e laborioso.

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periodo dove l’attenzione sulla musica è catalizzata da una serie di innovazionidi grande importanza doveva sembrare una strategia adatta a umanizzare lafigura pubblica del dittatore.

Le scelte di politica culturale del regime in fatto di musica andarono nelsenso della restaurazione di un primato musicale che l’Italia non aveva più dasecoli, era dunque fatale che non raggiungessero lo scopo. Sarebbe riduttivoconsiderare un campo così complesso e articolato come quello della politichedi settore del fascismo secondo i termini di una mancata restaurazione delleglorie passate, da un lato, e dall’altro di un totale asservimento della comunitàmusicale ufficiale. La documentazione storiografica dimostra che vi fu qui,come nel mondo universitario, un panorama generale di collaborazione e diacquiescenza e pochi casi isolati di opposizione attiva e determinata. Apparetuttavia evidente anche qui, come in altri settori della cultura, l’impossibilitàdi un controllo completo e di una completa ed inclusiva ’fascistizzazione’.

La presa di posizione del duce e della stampa di regime contro le modefrancesi e le musiche ’negre’ americane dà voce alla politica ’legittima’ dellostato in fatto di musica. Prima di tutto veniva il sostegno alla tradizione italia-na e soprattutto all’opera, ma anche alle novità che venivano dai quei futuristie quei compositori, direttori, cantanti, strumentisti e musicologi, i quali nonvolevano limitarsi alla celebrazione delle glorie patrie. Figure importanti dellacultura musicale italiana come Arturo Toscanini, Alfredo Casella, Gian Fran-cesco Malipiero, Titta Ruffo, Massimo Mila, furono di orientamenti culturaliprofondamente cosmopoliti sia per le loro scelte poetiche e scientifiche, sia peril fatto di essere chiamati a rappresentare la tradizione musicale italiana intutto il mondo.

Nella sua monografia sul campo della musica colta nell’Italia fascista, Har-vey Sachs (1987) insiste sul fatto che compositori, direttori come Toscaninie altre figure di spicco, tra cui i cantanti sulla cresta dell’onda erano consi-derati come personaggi pubblici capaci di influire sul gradimento da parte dideterminate cerchie intellettuali e, soprattutto, erano in grado di lamentar-si all’estero delle condizioni in cui si trovavano ad operare. Come tanti altripersonaggi pubblici avevano dunque un proprio archivio personale riservatopresso la presidenza del consiglio ed erano controllati dalla polizia segreta,nonostante che pochi di loro fossero dei veri e propri antifascisti.

D’altra parte l’impresa che Mussolini ed i suoi collaboratori più fedeli siimposero di porre ordine e di riformare gli enti lirici italiani, non era di pococonto. Nel 1930 la crisi degli enti lirici era al culmine, La Scala di Milano,in testa a tutti gli altri, era stata abbandonata da Toscanini nel 1929, dopoessere divenuta il primo ente lirico autonomo sperimentale del paese. Non sitrattava di una crisi passeggera: l’opera aveva da tempo perso il primato nelsistema dello spettacolo in Italia e la gente si orientava piuttosto, nonostantele ristrettezze economiche di gran parte della popolazione, verso lo sport, ilcinema ed il teatro di varietà.

Di fronte ad un’impresa di questo genere è possibile vedere la pubblicazionedi «Mussolini Musicista» come atto propedeutico alla necessità di addentrarsi

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in un terreno complicato e tutto sommato infido come quello di un mondodella musica, cercando di adattarsi alle nuove condizioni del mercato e dellacultura, piuttosto che come segno di una ’godlike omniscience by the Duce’(Sachs 1987:11). Si tratterebbe di una operazione pubblicitaria abbastanzaoculata, sia in quanto modo di andare incontro al popolo in un processo disempre maggiore diffusione della musica leggera intesa in quanto art moyennee sostenuta in modo sostanziale dalla diffusione del disco, sia come avance delcapo del fascismo verso le cerchie musicali nazionali viste come coacervo diraggruppamenti autoreferenziali, anarchicamente ambiziosi e creatori di po-tenziali problemi.48 E forse, ancora più in generale, un modo di piacere agliintellettuali italiani tra i quali era egemonica una visione umanistica dellacultura e per i quali valeva particolarmente la citata definizione di Bourdieudella musica come l’arte più spirituale e disinteressata, ma anche la più lon-tana e astratta. In questo modo il duce poteva accreditarsi come modernista’moderato’ e come persona di elevato sentire.

Ma gli investimenti nel settore musicale non daranno i risultati sperati. To-scanini, il più rispettato degli esponenti dell’alta tradizione musicale italiana,si trasformerà in un temibile avversario e si trasferirà negli Stati Uniti. Alcunitra i musicisti più riconosciuti dal governo, tra cui primeggia Mascagni, isti-tuiranno un canale preferenziale con l’Ufficio della Presidenza del Consiglio,chiedendo senza sosta riconoscimenti e sostegni finanziari per la loro fedel-tà al regime e per il loro impegno nella promozione dell’immagine dell’Italiaall’estero. I nuovi enti saranno popolati da dirigenti e impiegati nominati dal-l’alto e le commissioni ministeriali si riserveranno il diritto di intervenire nelleprogrammazioni dei teatri e persino nella scelta dei cantanti e dei musicisti.Verso il 1936 la prolificazione degli enti teatrali e degli interventi dello statoraggiunge l’apice (op. cit. p. 69), l’iniziativa statale nel settore della musica’colta’ e la corruzione dilagante nel medesimo fa da contraltare alla visibilitàe alla crescente richiesta di jazz in quel periodo.

Con l’emergenza ’globale’ di una nuova figura dell’artista dedicato allaregistrazione e di un mercato sostenuto da un pubblico di consumatori49 sifa strada immediatamente un carattere sociale di ’legittimazione’ del disconei confronti degli artisti, il quale precede e introduce cambiamenti di grandeportata e complessità; in particolare la nuova logica di mercato riconfigura

48 In quanto le istanze più elevate ed esteticamente ’disinteressate e spiritualiste’non potevano conformarsi totalmente alle politiche clientelari e burocraticiste delregime e potevano rivendicare il proprio controllo sulla grande musica.

49 Che si forma in Italia in una fase di molto successiva alle sperimentazioni delleprime multinazionali sui mercati mondiali. È importante notare con Mazzoletti(2004:126) che il primo centro italiano a porsi come punto di riferimento perla produzione di musica riprodotta fu Napoli e non Milano, dove imprenditoriartigiani tuttora operanti come la Phonotype iniziano la produzione verso il 1908,di modo analogo a quello che accade in Egitto (Racy 1976) dove piccole impresedi artigiani armeni ed ebrei si pongono immediatamente in concorrenza con lemultinazionali.

106 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

in un senso completamente diverso il ruolo della censura di stato, il lavoriodelle critiche negative, del gossip e l’eventuale ricerca di supporto del poterepolitico.

Una certa visibilità del jazz negli anni ’30, sia di per sé stesso, come musicaper iniziati, sia come tinta che colorava le varietà vocali e da ballo più com-merciali, rappresenta una risposta del settore privato alle mutate condizionidell’industria culturale mondiale che si avvantaggiava della sempre maggiorepopolarità del cinema e della diffusione del disco e della radio. Negli Stati Uni-ti degli anni ’20 il proibizionismo favorisce il sorgere di un numero altissimodi locali in uno spazio urbano in cui la musica entra come elemento capace diorientare la concorrenza. Nel corso degli anni ’30 il jazz raggiunge la vetta deiconsumi: da due milioni di dischi venduti nel 1932 si passa a 50 milioni nel1939, quando nella seconda metà degli anni ’30 il jazz assicura all’industriamusicale statunitense il 70

In Italia, e di modo analogo in Egitto ed in altre zone periferiche rispetto aicanali del flusso primario della comunicazione trans-culturale, c’è una palesedisparità di condizioni della pratica e del mercato musicale che configuranoil ritardo ad adeguarsi ad una industria del grammofono e del disco che vedeil predominio di imprese multinazionali discografiche ed editoriali (america-ne, inglesi e francesi), le quali impiantano proprie filiali nei mercati locali piùinteressanti adeguandosi prontamente alle loro esigenze. Per quanto limitatae condizionata potesse risultare la risposta dell’industria della musica italia-na dalle scelte politiche e culturali dirigiste e poi autarchiche del regime, ledimensioni del mercato furono caratterizzate da un seppur limitato emergeredi una classe media di consumatori. La presenza di una jazz band all’italianae della nuova ’musica sincopata’ negli anni ’30 poteva essere giustificata se-condo una logica commerciale di differenziazione delle proposte e di genericoprogresso del gusto del pubblico da parte delle cerchie della produzione e delladistribuzione. I freni e le controversie sui modernismi musicali contribuirannoa conferire ai simboli del jazz quel carattere di oggetto proibito e a quel sensodi mancanza che caratterizzerà sia la passione per il jazz durante il regime chelo stravincere del gusto musicale anglosassone negli anni ’50 e ’60.

La ricezione delle nuove mode resta per una certa misura al di fuori dallaportata del controllo immediato dello stato in un campo ’privato’ e artigianaledi attività, iniziative e progetti, semplicemente perché non se ne conosce a suf-ficienza la portata. Sono mediate anche le svalutazioni, in gran parte generalie prive di allusioni dirette a persone e situazioni specifiche, ma che investonoquestioni profonde specialmente laddove toccano l’argomento principe dellamessa in causa dell’anima e del corpo femminile.

Per esempio le maschiette ed il black bottom sono segni di una modernitàambigua e rischiosa in quanto «cancellano la femminilità delle donne italiane»(Pellizzi 1927 in Cavazza 1996:62). La distanza delle classi popolari dalle nuovemode e la ridicolizzazione delle mode esterofile ’passerà’ nel lessico popolare:lo shimmy era già diventato lo ‘sciamì’ e perfino lo ‘scimmiù’ nel vernacolo

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livornese.50 La nuova moda femminile è un segno di emancipazione, ma nonè vista come fenomeno di massa, sebbene anticipi quello che dovrà accaderedopo la guerra con la massificazione vera e propria della cultura ’nazional-popolare’.

I ruggenti anni venti

Descrivendo ’i ruggenti anni venti’, Adriano Mazzoletti parla dello sforzo deimusicisti e degli aficionado di acclimatare il jazz nella società italiana deltempo. Come narrazione di una fondazione che dovrebbe giungere al terminedi un periodo di anomia essa dipende dagli sforzi di uno sparuto gruppo dieroi.

Procedendo in questo racconto ci si rende conto degli sforzi quasi sovru-mani compiuti dai musicisti italiani dell’epoca ... Lo spazio che la stampadedicava al jazz era spesso utilizzato per fare del colore o per lanciare stralicontro questa musica. La radio, nata da poco, dopo un inizio in cui sembròinteressarsi al jazz, diradò sempre più le trasmissioni ... fino a estrometterloquasi completamente dalla programmazione (1983:144-145).

Gran parte del libro di Mazzoletti, uno dei rari contributi sulla storia deljazz in Italia prima della seconda guerra mondiale, consiste nel tentativo diricostruire le vicissitudini delle orchestre del tempo; vengono messe in luce levicende lavorative di figure professionali che si definivano ’orchestrali’.51 Sipuò supporre che il carattere del sostegno ricevuto dalle cerchie della culturache contava in Italia da parte degli artigiani-musicisti in movimento non siconfigurasse in qualcosa di simile all’eroismo degli anni del jazz in Francia.Da questo si ricava un primo orientamento generale: le sorti del jazz sonolegate ad una élite di orchestre da ballo che operavano in Italia ed in unampio arco di paesi stranieri, compresi la Germania e la Scandinavia, maanche l’Egitto e la Turchia (Mazzoletti 1983:138-139,141). Compete a musicistiprofessionisti o semi-professionisti i quali lo introducono, se possono, nei loroprogrammi, ma questi programmi possono essere tanto più jazzistici quantopiù si rivolgono ad un pubblico esclusivo e aristocratico. Nella narrazione delsassofonista Bios Vercelloni, riportata più avanti, si dipinge una specie di foto

50 Per esempio alla famosa melodia del celebre brano spagnolo ’Valencia’, si adattavaun verso demenziale, che mischiava esotismo spagnolo e americano: Valencia ci ho(sic) una pulce sulla pancia che mi balla lo scimmiù, come a proteggersi tramitela completa ridicolizzazione dell’esotico. La valenza è comunque critica rispettoalla ‘vita reale’.

51 Il termine si distanzia in modo decisivo da ogni pretesa artistica e sottolinea l’a-spetto lavorativo del mestiere della musica. Negli anni 70 ed in seguito mischiarsicon gli orchestrali dei gruppi da ballo significava la disperazione per il ’musicista’di jazz. Si tratta di un termine che conserva forti assonanze col sistema corporati-vo fascista, con la riorganizzazione delle corporazioni professionali dello spettacoloe del sistema dei versamenti previdenziali per cui ’orchestrale’ si affianca a attore,figurante, illuminotecnico, sarta di scena ecc.

108 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

di famiglia di varie e significative ambientazioni del jet set del regime in cuisono ammesse l’aristocrazia e le alte sfere dell’imprenditoria italiana, tra cuila famiglia Agnelli.

La vivacità degli anni ’20, in cui la ’moda’ del jazz coincide con le rapidetappe della sua formazione in America, corrisponde in Italia ad un contestoin cui si fa di tutto, compresi gli adattamenti di ouverture d’opera a tem-po di foxtrot, alla maniera di Paul Witheman, ed in cui le migliori orchestresono ingaggiate sulle grandi navi di linea per l’America. Si può parlare quiletteralmente di una connessione inter-atlantica che permette che i musicistipiù avanzati italiani stringano rapporti con quelli della scena di New York(Mazzoletti 1983:80,143; 2004:106-107). Vi sono comunque condizioni ogget-tive generali favorevoli alla pratica musicale più evoluta: si suona tutti i giorni,si prova tutti i giorni (anche nei circoli degli amatori), c’è la consuetudine deltè danzante alla domenica52 (nei centri urbani più importanti) (Mazzoletti1983:72), i cinema hanno proprie orchestre. C’è una molteplicità di ambientie di generi e repertori per i quali un musicista può essere richiesto. Una si-tuazione che incoraggia una, si direbbe, ’naturale’, disposizione all’artigianatomusicale, sebbene si tratti certo di una caratteristica ’sociale’, confermata an-che dal diffuso polistrumentismo, fatto importantissimo per comprendere ilprimo approccio italiano alla ricezione del jazz.53

Come ulteriore illustrazione del simbolismo evocato dal termine ’Zingari dilusso’,54 va segnalata la coesistenza tra orchestre ’zigane’ e ’jazz band’, specienei locali più esclusivi. Gino Mucci, contrabbassista nell’orchestra zigana delviolinista Umberto Verzellesi, narra di essere passato alla batteria dopo avere alungo osservato il batterista (di cui si ricorda solo il nome: Harry) che facevaparte del trio di ragtime del violinista Eddie Solloway e del pianista MonsSmith, mentre entrambe le orchestre erano scritturate all’Hotel Excelsior diVia Veneto a Roma nel 1921. La presenza a Roma di questo gruppo è citataanche dal pianista Amedeo Escobar, figura di riferimento nelle cerchie del jazz

52 Un po’ come accade nella cittadina brasiliana di Ilheus raccontata da Jorge Ama-do, dove queste abitudini europee sono nel segno del lusso, della civiltà e del pro-gresso. I fazenderos arricchitisi col commercio di cacao si ritrovano al té danzantedella domenica al Club Progresso dove si trovavano anche ’famelici conferenzieriche arrivavano da Bahia e perfino da Rio’ (Amado 1991:21).

53 Il Chicago Defender del 12 dicembre 1931 riporta una intervista del violinistaEddie South, il quale ricordando la situazione del jazz in Italia nel 1928 si esprimein termini lusinghieri rispetto alle capacità dei musicisti italiani: « I ragazzi italianisi sono inseriti talmente bene nel jazz, che le loro orchestre suonavano altrettantobene che le migliori orchestre americane » (South cit. in Mazzoletti 1983:180).Per il fenomeno dei molti violinisti polistrumentisti v. n. 8, p. 76.

54 Alfredo Casella cita, di modo opposto a Digeronimo e cinque anni prima, tragli atti meritori del regime in materia di politica musicale la creazione di «...unSindacato, il quale va ogni giorno maggiormente affermandosi, e che a poco a pocotende a controllare tutta la vita musicale della Nazione » (Casella 1932:869). Sitratta dei musicisti delle istituzioni orchestrali e non degli ’Zingari di lusso’.

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del tempo, come occasione fondamentale per la sua scelta vocazionale.

Tutte le sere ... mi piazzavo accanto al batterista per vedere comefaceva a suonare quei tamburi e quei piatti. Era veramente fantastico.A Roma non si era mai sentito nulla di simile. Fu allora che decisi didedicarmi alla musica da ballo sincopata. Copiai la batteria e riuscii acostruirmene una. Dopo di che, grazie alle mie conoscenze musicali, erodiplomato in contrabbasso all’Accademia di Santa Cecilia, cominciaia suonare la batteria in modo un po’ diverso dagli altri batteristidella città. In modo più « musicale » vorrei dire (Mucci in Mazzoletti1983:64-65, corsivo mio).

Dal che si può dedurre un approccio ’pionieristico’ in cui musicisti già’fatti’ non esitano un attimo a passare ai nuovi sistemi. Un approccio checorrisponde bene a quanto sostenuto da Eric Hobsbawm (1963:88) come unodei principali punti di forza del jazz: il suo carattere non convenzionale e’popolare’, anti-accademico e immediato, e questo tanto più in rapporto allasua riproduzione. È proprio qui da individuare ciò che stupisce di più rispettoalle sue enormi capacità di diffusione presso i musicisti, alla mobilitazione peril rinnovamento del loro artigianato e del loro modo di pensare la musica. Latrasmissione delle competenze del jazz passa certamente dai dischi, ma passamolto meglio dall’osservare ’cosa fanno’ gli altri musicisti. In certe condizionii passi necessari ad una acquisizione delle competenze minime necessarie allapratica possono essere effettuati molto rapidamente.

Tuttavia è difficile immaginare che la musica praticata all’Hotel Excelsiorfosse ’jazz’ e non piuttosto un campo in mutamento di una molteplicità di stilida ballo moderni il cui repertorio era composto da varie componenti tra lequali i successi delle orchestre sincopate americane. È senza dubbio ’jazz’ (peril modo in cui viene riportato) il fascino per lo strumento ed il personaggio,che sembra precedere persino quello per la musica stessa, e che colpisce tantoMucci.

E d’altra parte è abbastanza difficile figurarsi gli ‘sforzi sovrumani deimusicisti’, di cui parla Mazzoletti, se non come una reinterpretazione a po-steriori, sebbene tutta dalla loro parte. L’eroismo dei musicisti si rivela sulpiano culturale-artigianale55 e su quello sociale come un ’eroismo del vivere’largamente diffuso: un ’eroismo da crisi’, più che come intenzione di affermarela nuova musica nella società italiana. I musicisti del tempo sembrano moltopiù interessati ad accreditarsi in certi locali nei quali imporsi tramite un certotaglio di classe, ’moderno’, dando per scontato che sia quello ciò che più con-ta. Non sembrano affatto degli ’spostati’, molti di essi hanno famiglia e figli,per molti la musica è un secondo lavoro. Mazzoletti descrive una verosimileincessante importazione di partiture e dischi dall’America che giungono in va-

55 Theo Muccy è l’autore dello Shimmy dal titolo ’Narghilé’, programmato alla radioil 25 luglio 1925 nel programma di musica leggera per il ’Flauto Misterioso’ delSig. Mario Maris.

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ligie stracolme portate a mano, ma sottolinea il fatto che nel 1927 l’orchestradi Carlo Benzi, trovandosi di fronte alla possibilità di essere ingaggiata oltreoceano, entra in crisi per la poca propensione di alcuni membri dell’orchestraad allontanarsi dall’Italia, ’sia perché sposati da poco tempo, sia perché desi-derosi di approfittare senza troppo sacrificio delle laute paghe di quei tempi’(Mazzoletti 1983:144).

I musicisti italiani degli anni ’20 e ’30 sono tutt’altro che presi nell’ope-ra titanica di fondare il jazz in Italia. Non hanno ancora motivo di cercareun riconoscimento negli Stati Uniti perché il mestiere del musicista di jazzin Italia semplicemente non esiste ancora, forse perché sentono umanamen-te di aver ancora molto da imparare, perché gli orchestrali sono comunquesempre in giro anche in Italia, e infine perché non concepiscono ancora quellache in seguito sarà una costante di una ideologia di ‘riconoscimento assoluto’nel jazz: cioè l’idea di ‘farcela’ negli Stati Uniti.56 L’idea borghese del sognoamericano è di là da affermarsi nella società italiana. Come già all’inizio delsecolo, emigravano i contadini e chi non poteva fare altrimenti; gli orchestrali(specie se alla moda e tanto avanzati da conoscere il jazz e praticarlo conBenzi ricevendo ’laute paghe’) non appartenevano a queste categorie.

Osservando come le multinazionali del disco si accaparrano la diffusione deljazz in Italia mettendo in difficoltà le piccole etichette indipendenti, Mazzolettiprende atto che tutta una produzione musicale italiana degli anni venti siaandata irrimediabilmente perduta già con quella seconda ondata di interesseper il jazz verso la metà dei ’30 che è ’in fase’ con la grande fortuna delloswing. Evidentemente non solo le multinazionali ma Mussolini stesso avevatutto l’interesse sia a evitare ogni forma di protezionismo nel settore, sia a chela ricezione del jazz in Italia non avesse un passato che potesse dare coerenzae significato al presente. La popolarità dello swing sarà comunque una realtàcapace di orientare il processo di formazione di una versione italiana dellajazz-band nonostante le strette del regime che si concretizzano con le leggirazziali firmate da Mussolini ed approvate dal re nel 1938 (ivi:145).

Alcuni dei musicisti più importanti della jazz band italiana che si affer-meranno negli anni ’30 sono già emigrati in America e tornati, come nel casodi Calcedonio «Nello» Digeronimo, del quale riporto una narrazione in cui èpossibile trovarsi di fronte a quel tipo concreto di eroismo e di vitalità tantoapprezzato da Mazzoletti. Di ritorno a Gela dall’Argentina, nel ’32, Digeroni-mo, esponente di una impresa artigiana-familiare di musicisti siciliani si lancianella seguente impresa.

A Gela fecero uno stabilimento bagni....mi sono messo d’accordo condei ricchi, delle famiglie patrizie... che hanno fatto? Hanno compratodue banjo, batteria, sassofoni... e io ho formato un’orchestra di jazzche ha suonato di fronte a Mussolini quando ha fatto il suo viaggio in

56 Per il motivo del riconoscimento nella ‘patria del jazz’ si veda il caso paradig-matico di Django Reinhardt, trattato estesamente da Williams (1991). Oppure levicende, più recenti, di Dave Holland e Peter Kowald.

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Sicilia. Suonavamo bene, tutta roba da dischi dei veri jazzisti... JellyRoll Morton... I musicisti erano tutti della banda... io li ho istruiti.Poi un’orchestra rivale prese i miei musicisti, ma io avevo mio fratel-lo che suonava la chitarra, mio padre che aveva suonato a Chicago,un cognato sassofonista. Insomma la nostra orchestra aveva un rit-mo fantastico, perché aveva il basso tuba, due banjo, batteria, duesassofoni, tromba e trombone. Mussolini il giorno che venne a Gelami fece suonare ventisette volte ’Vivere’ che allora era di moda. PoiAlfieri venne vicino all’orchestra e disse: « Cambiate, fate un valzer,che a sua Eccellenza piace il valzer...». Quasi subito venne Mussolinie chiese: « Cos’è questo? », con due occhi così... mi ha fatto prenderepaura. « Un valzer Eccellenza...». « Bravo, bravo!! ». E si è messo agirare pure lui (Mazzoletti 1983:256-257).

Per interpretare come il jazz veniva usato come mezzo per accreditarsiprofessionalmente è interessante seguire ancora un poco la vicenda di Digero-nimo, il quale si sposta da Gela a Milano, percorrendo tutto lo spazio dellapenisola per unirsi ai musicisti che erano già attivi nel decennio precedente.

Un bel giorno .... stavo sentendo la radio con Angelini che trasmettevadalla Sala Gay e mi son detto: - Beh, se suonano loro posso suonareanch’io e così sono andato a Milano con chitarra, trombone, valigia...senza spago però. Era la fine del 1937. E cominciai a passeggiare inGalleria Vittorio Emanuele57 che era il punto di ritrovo degli orche-strali. Qualcuno mi voleva mandare via ma ... non mi conoscevano. Mivolevano mandare in Africa, Marocco, avevano bisogno di un trombo-ne ... ma io sono rimasto. Ho conosciuto un contrabbassista napole-tano che suonava alla taverna sportiva in via Passarella, con lui c’eraMorelli, un sassofonista contralto ... c’era un altro fratello di PieroRizza, che suonava il sax tenore, si chiamava Alfredo. Poi veniva DiCeglie con la chitarra. Insomma eravamo cinque o sei. Io facevo con iltrombone la parte della tromba. Una sera chiesi di fare qualche assoloimprovvisato. Come Alfredo mi ha sentito, andò subito a telefonare aPiero che arrivò lì e mi fece il contratto per il Casinò di Campione. Erala fine del ’37 e a dicembre si doveva iniziare (Mazzoletti 1983:257).

L’espressione del confronto ’...se suonano loro, posso suonare anch’io...’,esprime meglio di ogni altra lo scatto tramite il quale una certa ’legittimazio-ne’ sociale si preannuncia nella propria coscienza, del modo in cui un progettodi incontro e di movimento prende forma. I gruppi degli ’orchestrali’ della57 Le gallerie coperte Vittorio Emanuele presenti in molti centri importanti (Milano,

Roma, Firenze, Napoli), sono tra le opere più emblematiche della nuova architet-tura dell’Italia unita, nelle quali venivano posti i caffè ed i negozi più esclusividella belle epoque. Erano spesso anche il punto di ritrovo di attori e musicistied in questa veste (soprattutto una volta che lo splendore degli anni d’oro dellaRivista è passato) diventano poi un luogo della cinematografia Felliniana.

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musica sincopata, non hanno bisogno assoluto di molti improvvisatori, mane hanno bisogno i leaders per pensare e progettare la loro idea di mélan-ge e sperimentarla. Non c’è dubbio che la prima ricezione del jazz avvenganelle cerchie ristrette della produzione secondo una logica di rapporti direttie spesso immediati che si legittimano sul grado di interiorizzazione dei mo-delli americani e dell’improvvisazione; non c’è nemmeno dubbio che gli altrimusicisti dovranno prendere atto della decisione di Rizza così com’è. Già si-stemato in Sicilia, Digeronimo non resiste all’appello della radio e si presenta,con qualche difficoltà,58 ai rappresentanti della cerchia milanese del jazz, aiquali, secondo un preciso percorso di prossimità culturale, viene fatto com-prendere che ’si tratta di uno di loro’ e per questo è indirizzato verso una dellepiazze dove un elemento come Digeronimo può essere più a suo agio: il casinòdi Campione d’Italia, nelle vicinanze della frontiera svizzera. La narrazionesi colloca dopo la campagna coloniale d’Etiopia nel 1935-36, conclusa con laproclamazione dell’impero fascista. Bisogna aggiungere, quanto alla riluttanzadel trombonista di recarsi in paesi ’coloniali’, che l’ideologia imperiale fascistavedeva l’attività nelle colonie come momento di formazione di una gioventùche rischiava di ’imborghesirsi’ in Italia, proprio quello che voleva fare DeGeronimo.

La società è pronta o non è pronta (a cambiare)?

In Italia, negli anni cruciali del regime e del new deal americano, tra lo strepitodell’interventismo della cultura e le ’riforme’ che si risolvono in enti burocrati-ci e clientelari, ci si confronta comunque con l’invenzione di una nuova musicapopolare di consumo, più o meno in fase con i modernismi trans-atlantici. Pro-prio in questo campo le cerchie della distribuzione si servirono dell’apportodella jazz band e di un cosmopolitismo culturale dei musicisti che si inscri-veva entro certi limiti ben determinati di una gioventù scapigliata ma nontroppo. La jazz band all’italiana e le nuove orchestre sincopate rappresentanol’apice dell’innovazione musicale in un settore che non poteva avere un rilievonazionale, al massimo poteva costituire un passatempo per i giovani. La jazzband italiana rifaceva da capo il jazz rispecchiando e trasformando il modelloamericano e, in sostanza, trasformandolo in qualcos’altro.

Sarebbe tuttavia riduttivo (e lontano dalla realtà) vedere una semplice at-tività di ’copiatura’ di modelli americani come tema conduttore di un ripensa-mento sulla jazz-band italiana e sulle tendenze della musica ’pop’ degli anni 30e oltre. Certo il ricorso ad una rapida e spesso geniale ideazione ed elaborazio-ne di modelli ed acquisizioni stilistiche di notevole complessità meriterebberodi essere esaminati in sede critica e discussi più dettagliatamente.58 Poco importa se in Galleria Vittorio a Milano Digeronimo abbia incontrato qual-

cuno che sapeva che c’era bisogno di un trombonista in Marocco (fatto interessan-te di per sé) o se si tratta di una allusione alla sicilianità dell’aspetto del musicista,l’importante è che in questo caso il Marocco si presenta come ’trappola’ da evitaree che la vicenda continua in Europa.

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Nei limiti di un quadro molto generale di reinterpretazioni e di tentativi èl’aspetto eterogeneo di simili processi che è da mettere in evidenza. Quandosi passa al piano dei personaggi e delle pratiche è evidente che ogni modelloha un suo proprio carattere e una propria storicità. L’approccio di Rabagliatiquale insider nell’orchestra cubana di Lecuona è diverso da quello di LucianoZuccheri al Quintette de Hot Club de France,59 da quello di quartetti vocalidi successo come i famosi Cetra (v. n. 69, p. 309) o dalla geniale assimilazionee trasformazione delle pratiche di entertainers come Louis Prima da partedi Renato Carosone, il quale comprende (nel primo dopoguerra) che portarela pratica di musica sceneggiata di Louis Prima a Napoli, con idee e metodiappropriati, gli avrebbe guadagnato la comprensione di un vasto pubblico.

Tutti gli esempi citati costituiscono delle ipotetiche ’varianti’ di modelliesistenti e più o meno noti, una categoria quanto mai all’ordine del giornonegli studi sul sistema globale di produzione di cultura. Applicando a questoquadro i quattro parametri coi quali Ulf Hannertz ricostruisce l’aspetto com-plesso della descrizione dei rapporti tra culture e cioè dei parametri di ’stile divita, stato, mercato, movimento’ (1998:62-69), si può osservare che il tipo diconnessioni ed interessi inter-atlantici che si osservano in elaborazioni ’locali’come quelle suesposte sono senza dubbio governate dalla loro natura dina-mica di ’movimento’ mentre necessitano di un immediato adattamento delleconnessioni col mercato. Sembrerebbero apparentemente meno interessate aintrattenere rapporti nella cornice dello ’stato’, ma lo sono in quanto soggette acensura e controllate in uno stato totalitario. Qui lo stato, tramite il suo mododi interagire con la legislazione dei diritti autoriali di trasmissione, commerciadirettamente con l’industria culturale.60 Tutto questo influisce pesantementesu una produzione di significato che deve comunque porsi in rapporto con lostile di vita facendoci sognare e dicendoci qualcosa sulla realtà.

In questo senso tutto il rapporto con la cultura americana agisce da fil-tro di questo processo di reinvenzione che prelude a prodotti tutt’altro chedefinibili come nazionali61 e distribuibili in quanto tali, e proprio questo fil-tro è all’origine delle discontinuità del tipo di interesse della società nel suocomplesso. Riflettendo ad una certa distanza sul fenomeno della jazz band edanche tenendo conto dei suoi cliché e delle sue manifestazioni più popolarie conosciute, ci si chiede dinanzi alla sua natura di reazione, replica, rispec-chiamento, parodia, quanto ci sfugga in realtà del significato profondamente’teatrale’ implicito nell’idea di performance musicale del tempo, e tanto più inun campo tanto controverso e così simmetricamente aperto in questo momen-

59 Si veda nel cd Riviera RJR 007 quanto fosse evoluto e (diversamente) sofisticatol’artigianato del jazz alla Django di Luciano Zuccheri.

60 Tramite mediatori esperti come i compositori ed i produttori di testi e adatta-menti che, usando le possibilità intrinseche dei nuovi stili musicali giocano sulmascheramento dell’appropriazione e sulle varianti.

61 Gli esempi forniti poco sopra non hanno nulla di nazionale e uno si pone come’localizzazione’ di una musica già globalmente diffusa e nel quale semmai è unparticolare e peculiare carattere ’latino’ la posta in gioco.

114 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

to al mondo dell’arte varia e della rivista e del cinema in sede di produzione.Questo, molto più che non il preteso e ancestrale carattere ’melodico’ del pen-siero musicale degli italiani, potrebbe essere uno dei criteri più opportuni perfuture esplorazioni in questi materiali e in questa epoca.

Ma questa traccia implica anche tutta la necessità di uno studio più ap-profondito del carattere ’mediterraneo’62 della cultura italiana che emerge conforza nei lineamenti di una tradizione dello spettacolo. Limitandoci ad aspettiideologici largamente diffusi nella società italiana, da un punto di vista ’medi-terraneo’ si sa bene che oltre un certo limite in cui, in un certo senso, saremotutti ’americani’, non saremo più gli stessi: per esempio non conosceremo piùle donne, nel senso in cui le abbiamo conosciute in un altro tempo. Quandol’Italia tornerà ad essere un paese mediterraneo come gli altri, in cui si dà perscontato che le donne calabresi non conoscano (e abbiano pochi motivi valididi conoscere) l’italiano, il progetto della jazz band all’italiana giacerà da parte,dimenticato o ricordato sarcasticamente come colonna sonora del fallimentogenerale del fascismo, senza che fosse riconosciuto alcun merito a coloro chevi avevano partecipato.63 Non stupisce troppo notare che la maggior parte deigiovani italiani che scoprivano lo swing nel dopoguerra, ricordando con ironiala jazz band fascista del trio Lescano64 ed i nonsense di Natalino Otto, era-

62 Non solo l’ingombrante ’trombonismo’ letterario dell’epoca fascista, ma anchele esplorazioni post-belliche del campo mediterraneo possono rivelarsi altamen-te contraddittorie. Alan Lomax, all’indomani delle sue spedizioni in Italia conDiego Carpitella, pubblica su Nuovi Argomenti un articolo nel quale, tra le altrecose, rivela la scoperta di ’colonie di origine saracena’ cacciate dai cristiani sul-le montagne tra Napoli e Salerno, dalle quali ascolta ’l’unico esempio di musicaschiettamente araba in Europa’. La stessa Dominique Schnapper (1971), per cuisi veda oltre, la quale recepisce con cautela l’etnologia storico-religiosa di De Mar-tino, conferma quanto sia difficile costruire su fondamenta affidabili una specie dimodello ’monumentale’ di cultura mediterranea in cui l’elemento del movimentoe dello scambio sono assenti.

63 Il caso del già ricordato «Lupo» Battisti, romano, già violinista specialista nelrepertorio dell’operetta viennese e noto per essere tra uno di coloro che introdussela batteria a Roma, e che ricorda che prima dell’avvento della jazz band «. . . lamusica leggera non esisteva. Esisteva il pezzo di genere, il pezzo che oggi nonsi scrive più. Non erano canzoni. Musica, temi, belle melodie. . . » (Mazzoletti1983:41).

64 Paradigma della jazz band fascista, noto a tutti specialmente per la versione sin-copata della filastrocca infantile ’Maramao perché sei morto’. Il trio, sul modellodelle Boswell Sisters, fu ideato dal maestro Carlo Prato di Torino e fu scritturatopresso la EIAR. Le sorelle Leschan furono tra le poche interpreti dotate di un no-tevole senso dello swing nel panorama della musica vocale italiana e fecero epoca.Di origine olandese e di madre ebrea le sorelle Leschan si salvarono a stento dalladelazione: «. . .malgrado fossimo cattoliche e avessimo italianizzato il nostro no-me in Lescano; avessimo preso anche la nazionalità del paese che ci aveva dato lacelebrità, ci fu qualcuno che per interesse ci denunciò ai tedeschi. Erano tre ra-gazze che volevano prendere il nostro posto e che avevano formato un trio vocale.

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no portati ad ignorare sia di avere avuto ottimi musicisti di jazz nel propriopaese, sia il contributo notevole dato a questa musica dagli italo-americani.

Se la passione del jazz è anche nostalgia sarà rischioso confonderla con lanostalgia dell’epoca del jazz in Italia, preferendo tenere chiuso il capitolo fa-scista. In Olanda il bassista Jack De Vries il batterista Maurice Van Kleef ed iltrombettista Lex van Weren, ebrei, sopravvissero alla deportazione ad Ausch-witz in quanto membri dell’orchestra del campo. La storia di Lex van Werenfu raccolta poi nel libro di Dick WaldaTrompettist in Auschwitz, pubblicatonel 1980. Anche al campo di sterminio di Theresienstadt in Cecoslovacchia,era attiva una orchestra internazionale. Vi erano poi orchestre quali quella diTheo Uden Masman che operavano nelle organizzazioni nazificate del paesequali De Nederlandsch Omroep (la Radio Nazionale), il Nederlandsch Arbeid-sfront (sindacato nazista) ed il Frontzorg Nederland che forniva assistenza eoccasioni di intrattenimento ai membri delle circa 22.000 SS olandesi di stanzasul fronte orientale (Openneer & Vuijsije 2002).

Più avanti nel tempo, coloro che riscoprivano il jazz verso gli anni ’70tendevano a pensare che prima di Charlie Parker il jazz avesse prodotto pochecose veramente interessanti.65

I commentatori più avvertiti hanno recepito il problema della mancan-za di un riscontro sociale alla ricezione del jazz operata nelle cerchie dellaproduzione. Per il periodo fascista e anche nei primi anni ’70 il momento difondazione del jazz nazionale pare tacitamente ma costantemente rimandato66

ad una ‘crescita culturale’ della società nel suo complesso. Bisogna notare cheil ‘ritardo’ o il tiepido interesse della società, un entusiasmo sentito come pas-seggero nei confronti delle élites del jazz è piuttosto la regola che l’eccezioneanche nelle seguenti fasi iniziali che corrispondono a differenti generazioni e adiversi ‘spiriti dei tempi’.67

Fummo costrette ad andarcene ed a nasconderci» (Mazzoletti 1983:245).65 Avremo nostalgia di qualcosa che non abbiamo conosciuto ma almeno adesso si

tratta di Charlie Parker. Programmaticamente allineato a questo stato di cose èil progetto della ’memoria remota’ di Mario Schiano e R. Castaldo, di cui si parlaoltre (p. 187 e sgg.).

66 Non solo da Mazzoletti, ma anche da un punto di vista marxista come quello diPintor (v. p. 229).

67 Scrivendo nel 1981 Franco Fayenz, in veste di ‘cronista del jazz’ (Fayenz scriveoggi sul «Giornale», ed è da tempo uno dei pochi giornalisti professionali deljazz), conclude la presentazione di una collezione di interviste a maestri americaniraccolte negli anni ’70, notando che i tempi stanno cambiando. Adesso può darsianche che «col polverone un po’ diradato» (1981:viii), intendendo quello dellasinistra giovanile e movimentista, «riusciremo dunque a fruire con rispetto e convera partecipazione di (sic) qualsiasi genere di musica (. . . ) e a privilegiare inogni direzione e a ogni livello la preparazione, la qualità, la serietà? I prossimianni si preannunciano decisivi» (Fayenz 1981:xiv-xv). Parole profetiche dette aglialbori degli anni ’80, cioè ad un periodo di « involuzione conservatrice. . . attuatomediante il controllo dei mercati e la gestione del consenso » (Forgacs 2000:230-231).

116 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

È interessante notare che il discorso della ‘fondazione differita’, visto nellaprospettiva della ricostruzione biografica delle vicende dei musicisti sia untema ricorrente68 in molte riflessioni generali sul jazz italiano, che solo oggisembra esistere in quanto tale, e che si pone come giunto ormai alla fasefinale del proprio processo di ‘costruzione della tradizione’. Questo discorsoè immediatamente legato al tema del ritardo della cultura italiana nel suocomplesso e la Francia è spesso il primo termine di paragone su cui fondarel’interpretazione delle difficoltà dell’affermazione del jazz in Italia.

Quello che mancò al jazz italiano furono i critici, gli animatori, gli ap-passionati, i promotori che invece non mancarono in altre nazioni europee:Francia e Belgio soprattutto. L’Italia purtroppo non ebbe nella stessa epocai suoi Panassié o i suoi Goffin e quando li ebbe, o non furono all’altezza dellasituazione o considerarono il jazz, anche loro, semplicemente un hobby, e sotto-valutarono il jazz italiano. Anche gli intellettuali che si interessarono a questaforma musicale, erano uno sparuto gruppo. Solo per citare un esempio, JeanCocteau in Francia propagandò sempre questa musica e i suoi artefici. Suonòanche la batteria, forse male, ma quando nel 1929 incise insieme all’orchestradel pianista americano Dan Parrish due brani come cantante-dicitore, il suosenso del tempo e dello swing erano esemplari (Mazzoletti 1983:145-146).

Un discorso che sposta l’attenzione sul ’campo esteso della produzionesimbolica’, nei termini di Bourdieu: la costruzione della tradizione italianadel jazz si pone come rivalutazione e aggiornamento di un certo artigianatomusicale che non basta a costituire un fatto sociale che attiri l’attenzione del-le forze della cultura legittima. In breve, le pratiche del jazz non diventanofamiliari neanche ad una parte degli intellettuali italiani. Di contro al dato difatto che il jazz italiano non poté mobilitare l’interesse di artisti e pensatori, siosserva maliziosamente che Cocteau suonava ’forse male’ la batteria. Non allaFrancia e a Parigi il merito di un proprio originale approccio rispetto alle arti’negre’, alle riviste di Josephine Baker ed a musicisti come Louis Armstrong,Duke Ellington, Sydney Bechet, Coleman Hawkins. Non il riconoscimento cheil laboratorio in cui si faceva la grande arte del Novecento europeo era an-cora Parigi, ma all’Italia un gruppo di demeriti quali il dilettantismo e lasvalutazione del jazz italiano, una sostanziale mancanza di fiducia, la limita-

68 Non ne uscirà nemmeno un sostenitore del ‘nuovo jazz’ degli anni ’70 come GinoCastaldo (1978), né un minuzioso osservatore di ciò che accadeva negli spazimusicali alternativi come Giaime Pintor (1978:175), il quale si dichiarò scetticosul fatto che vi fosse una sufficiente preparazione musicale per comprendere iljazz tra i giovani del movimento. Un discorso che, pur cogliendo una parte dellaquestione, non teneva conto che quella specie di ’avvento’ del jazz in quantoscoperta poteva essere in grado di influire nella cultura nonostante e oltre il fattodi competere a piccoli gruppi di musicisti e di appassionati evoluti. Anche unatra le voci più ascoltate della sinistra meno ’ufficiale’ con Pintor (antifascista,appassionato protagonista delle battaglie di quegli anni e osservatore acuto dellaricezione della popular music in Italia) non intese legittimare l’avventura culturaledel jazz, venendo a confluire di fatto con una posizione parrocchiale.

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tezza della repubblica degli intellettuali italiani. Tutti temi che, per quantocomportino qualche elemento di verità divengono oggi69 moneta corrente neiluoghi comuni giornalistici e televisivi delle disquisizioni sull’identità naziona-le contemporanea, preludio necessario ai giudizi sulla poca competitività del’sistema’ o della ’azienda’ Italia. In sostanza, questo tipo di valutazioni,70 chepaiono confortare oggi tutta la necessità di una revisione e di una riparazioneai guasti del passato, sono molto poveri di idee e suggerimenti concreti per ilpresente.

Il motivo della cultura francese come termine di paragone delle mancanzenazionali ricorre in molti modi sulla musica in Italia prima e dopo il fascismo,e si ritrova anche molto dopo il periodo fascista nelle interpretazioni delle pe-culiarità della produzione di cultura in Italia in un autore molto conosciutoquale Umberto Eco. Negli anni ’60 un argomento tipico delle discussioni sulritardo della ‘popular music’ italiana consiste ancora nel paragonare la can-zone francese con quella italiana.71 Gli inizi del jazz italiano sono anch’essimitizzati come in ogni altro luogo, ma si tratta di personaggi ancor oggi sco-nosciuti ai più, nonostante il notevole contributo documentario di Mazzoletti(1983, 2004). Manca il sostegno dell’adesione di grandi figure della culturadel tempo, come accadeva in Francia. Il Puccini che pare carpire le innovazio-ni jazzistiche nel racconto di Escobar (Mazzoletti 2004:78), la difesa del jazzda parte di Alfredo Casella accanto alla osservante condanna di Mascagni(op. cit.), dimostrano come in Italia all’avvento del jazz anche l’avanguardiamusicale manchi di un orizzonte comune.

Al contrario, in Francia72 si aprono nuovi spazi, nuovi progetti e nuovesolidarietà: come osserva Jean Jamin, nonostante un sostanziale malinteso diciò che era veramente. La nascente antropologia francese, con Michel Leiris,André Schaeffner ed Henri Rivière, deve moltissimo alla scoperta della nuovamusica ed al dialogo con le tendenze delle avanguardie artistiche e letterariedegli anni ’20 presso le quali le « Arti Negre » erano così apprezzate (Jamin1998:249-250).

In Italia si guarda ancora da molte parti al jazz e alla jazz-band comead una curiosità e la maggior parte degli intellettuali considerano queste cosecome non degne di approfondimento. La tradizione francese documenta inveceimmediate e importanti conversioni al jazz come nel caso di Cocteau e unareinterpretazione radicale del jazz come quella di Reinhardt. Per quella italia-

69 Nel momento in cui il controllo completo del governo Berlusconi sulle retitelevisive più popolari (Mediaset + RAI) configura la questione di un esitomediatico-totalitario della cultura.

70 Vedi anche quella di Franco Fayenz in nota n. 9, p. 11 e n. 67, p. 115.71 Che compare alla fine degli anni ’50 come risposta alle proposte stereotipate della

cultura di massa; cantare alla francese è anch’esso uno standard della culturaitaliana, di solito si parla di questo quando l’attenzione al testo è preponderante(Eco 1977:282, 313).

72 Che i musicisti italiani frequentano molto volentieri e dove scoprono le orchestre’negre’, v, n.30.

118 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

na73 pare piuttosto che il formarsi di cerchie di musicisti italiani dedicati aljazz non facesse notizia proprio per un certo tipo di rappresentazione socialediffusa che tendeva ad ignorare la categoria professionale dei musicisti. D’al-tra parte si può supporre che determinati ambienti sociali e culturali sianostati capaci di mobilitare una adesione immediata e una particolare facilitàdi appropriazione delle tecniche musicali, marcando la dimensione artigianaledella prassi musicale, come fa Mazzoletti stesso (1983, 2004), e dalla cui operadocumentaria risulta una notevole presenza di musicisti italiani in Germania,Belgio, Francia e Stati Uniti.

È forse opportuno notare che la storia del jazz di questo periodo parequella più distante dal coincidere con la storia delle sue registrazioni.74 Leregistrazioni nelle quali è possibile ascoltare i musicisti italiani del temposono rare, tutt’ora oggetto di una archeologia di pochi collezionisti e ancoramolto poco conosciute presso la maggior parte degli appassionati. Per quantoriguarda una storia della ricezione della ’jazz band’ ed il suo impatto sulpubblico non si può non guardare alla Francia come terreno entro il qualeil jazz irrompe nella rivista: a Mistinguett e a Paris qui jazz (1920) seguel’enorme successo di Josephine Baker nella Black Review (Revue Nègre) del1925. Quello che giunge della ’frenesia del jazz’ è in gran parte la ’discesa’in Italia di grandi védettes internazionali e la percezione di un nuovo gustodel pubblico europeo. I circuiti di distribuzione internazionali dello spettacolomostrano che il varietà americano (sapendo adeguarsi al pubblico francese)aveva già maturato un proprio modo di presentare in uno spettacolo totale leforze vive della nuova musica.

Nel 1927, sulla scia della diaspora dell’arte e dell’intrattenimento afroame-ricano aperte dal movimento della Harlem Renaissance e dal grande successodi Josephine Baker a Paigi, era giunta in Italia la rivista Black People, diSpencer Williams e Joe Solmer, con Louis Douglas e Babe Goins, rispetti-vamente primo ballerino e soubrette, ed un’orchestra di quattordici elementidiretta da Sidney Bechet tra i quali Tommy Ladnier e (temporaneamente)Bubber Miley, in seguito una delle colonne portanti dell’orchestra di Duke El-

73 La quale segue da vicino ciò che accade in Francia per tutto il corso della suastoria.

74 Si direbbe che non possa coincidervi in nessun caso ma è certo che per gran par-te della letteratura jazzistica «la storia del jazz è quella delle sue registrazioni»(Williams 2001:180). Nella discografia acclusa alla monografia di Mazzoletti suljazz italiano d’anteguerra, poi ampiamente riveduta e ampliata (Mazzoletti 2004)c’è una prevalenza assoluta dei dischi di Gorni Kramer: circa 30 su 128 titoli. Cir-ca 20 recano l’annotazione formazione sconosciuta, altre formazione probabile. Ilpiù gran numero di registrazioni è del periodo 1935-1944 (v. Mazzoletti 1983:273e 383-422). La discografia jazz d’anteguerra è un campo di ricerca tutto da svi-luppare. Di recente vi sono state riedizioni su CD di alcuni di questi dischi periniziativa della rivista «Musica Jazz» e per le edizioni della «Riviera Records»,nella quale opera lo stesso Mazzoletti.

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lington. La tournée italiana toccò Trieste,75 Bologna, Firenze, Milano e Roma.Si tratta di imprese artistiche e commerciali di ampio respiro che propongonoil jazz insieme alla nuova rivista francese, tournées che durano anni toccando iprincipali paesi europei, con un notevole interscambio di musicisti che vanno evengono dagli Stati Uniti e con l’ammissione in orchestra di elementi europeidi primo piano (Mazzoletti 1983:165-166).

Il campo ristretto della produzione del jazz, nei termini di Bourdieu, inItalia pare decisamente penalizzato da quello della circolazione dei beni cultu-rali di importazione che è in massima parte confinato ad uno spazio elitario.76Si crea così una specie di corto circuito di ‘patronato esclusivista’. Infatti iljazz (nella sua versione ’parigina’) è stato talmente importante per le élitescosmopolite a partire dalla seconda metà degli anni ’20 da giustificare l’esi-stenza di orchestre al seguito degli spostamenti del jet-set del tempo. Questoracconto del sassofonista romano Bios Vercelloni che Mazzoletti descrive co-me ’a contatto con l’aristocrazia che frequentava i Grandi Alberghi Italiani’,(ivi:165) serve molto bene a delineare i contorni dell’ambiente in cui il jazzera di casa.

Questi ospiti illustri andavano dove andava il Conte Cesarino Cela-ni, o dove andava non so, la Principessa di San Faustino, erano tuttilì. Era un ambiente ultra chiuso. L’unico non titolato che ho visto acontatto con quella gente, e ci sono stato tanti anni, era solamenteGazzoni, i due fratelli Gazzoni, Agnelli naturalmente. . .ma dopo. Eragiovane, aveva forse diciotto o diciannove anni, era un po’ il teddyboy dell’epoca, ma era un ambiente chiusissimo. Non come oggi, chela persona importante è per esempio l’industriale milanese. Io sonostato nove anni a Villa D’Este e lì veniva tutta l’élite di Milano, ma seveniva, non so, il principe pinco pallino, non gliene importava nientea nessuno. Roma e Venezia invece erano i due punti di incontro del-

75 In questa stessa città l’arrivo di Josephine Baker nel 1932 segna l’emergere di unanovità capace di insidiare il tradizionale predominio dell’operetta mitteleuropea(v. p. 137).

76 I circoli amatoriali e ricreativi socialisti e repubblicani nei quali c’era posto perla musica in generale ed anche per le le jazz band, si pongono come luogo alter-nativo ai club dei nobili già da prima degli anni ’20. È importante notare qui lacoincidenza di un nuovo gusto estetico e la volontà di non privarsi di qualcosache sembrava appannaggio di una élite. In seguito il movimento del ’68 e dei ’70dichiarava di ’volere tutto’ (cioè non solo lavoro, ma cultura, intrattenimento);sotto questo aspetto la continuità ricercata e mancata con la cultura ed i luoghidell’associazionismo socialista che precedette il fascismo è stato più che un sem-plice motivo ideale. Anche per questo argomento si rende necessario rimandarea ricerche più approfondite e mirate. Nei limiti di questa ricerca, si può notareche i circoli sono citati nei racconti dei musicisti (Mazzoletti 1983) specialmentequando essi parlano degli inizi delle loro attività; in seguito il loro spostamen-ti con le orchestre riguardano ambienti interessanti economicamente che nellamaggioranza dei casi non sono luoghi ’popolari’.

120 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

l’aristocrazia italiana e straniera. A Venezia vi era l’élite più élite ditutti.Veniva Wally Simpson con il re d’Inghilterra, poi venne il fratelloche dopo è diventato re, insomma l’ambiente era quello. Andavano lì,chiacchieravano, giocavano a golf fra loro, senza bisogno di spiegareniente a nessuno, non c’erano fotografi né paparazzi. Amavano moltoil jazz, forse più come fatto di moda che altro. E decidevano della vitae della morte di un’orchestra. Bastava che uno di loro dicesse: « Maquest’orchestra non mi va, quest’orchestra dorme, non suona gli ulti-mi motivi americani. . . », l’orchestra aveva chiuso. . . finita! Però eranoanche in grado di lanciare un’orchestra, un musicista. La Principessadi San Faustino,77 per esempio, era impazzita letteralmente per Ales-sandro Rosati, che suonava con Carlini, se non lo vedeva in orchestraprotestava e protestava forte! Mi ricordo che quando suonai a Venezianel ’32 all’inaugurazione della Mostra Cinematografica, la San Fausti-no andò da Mirador e molto bruscamente chiese:« Ma dov’è Rosati. Non c’è? ». E Mirador:« Eccellenza non c’è sta con Carlini a Sanremo! ». « Mandatelo subitoa chiamare » disse di rimando la principessa.Questo era l’ambiente. E questo mondo chiuso, impenetrabile, avevaun rapporto intimo con i musicisti, che tutto sommato non proveni-vano certo da classi di un livello sociale molto aristocratico: Roganifaceva l’imbianchino, Vittorio Spina e sua sorella da ragazzi suonavanoper strada, così Alfio Grasso e suo fratello Rocco. Il jazz ha avuto inItalia un’origine molto popolare. Nessun ragazzo borghese si sarebbemai messo a fare il musicista. Ma, dicevo, c’era una grande familiaritàfra principi, marchesi, conti e noi musicisti. Così Rosati, forse perchési sentiva protetto, finì con l’esagerare. Era un bellissimo ragazzo, suo-nava bene, e faceva un po’ quel che voleva. Una sera si permise di direalla principessa Mafalda di Savoia, che gli chiedeva un certo pezzo:« A principé, so stanco morto, lasciame perde perché c’ho le fregne,nun te sono proprio niente! ». E questa uscita è rimasta proverbialefra i musicisti romani.

Per quanto chiuso e impenetrabile questo mondo non poteva resistere alpettegolezzo ed alla trionfale marcia della risposta di Rosati a Mafalda di Sa-voia. Non ci sono dubbi sulla classe sociale di questi musicisti: non ci sonogiovani ’borghesi’ cui non compete il mestiere dell’orchestrale. Si comprendeancora meglio dal racconto di Vercelloni che cosa intendesse dire Mussolinicon l’espressione « zingari di lusso », intendeva dire: ‘zingari adottati dall’éli-te’, ma pur sempre ’zingari’. Mentre attorno al jazz la nobiltà e il popolo diRoma si incontra, da altre parti dell’aristocrazia vi sono posizioni decisamente

77 Che diventò poi la sposa dello scrittore e giornalista già arrabbiato-fascista-strapaesano e collaboratore di Mino Maccari nella rivista « Il selvaggio », CurzioMalaparte.

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reazionarie che intendono fustigare i costumi della nuova élite del fascismo.Harvey Sachs (1987:175-176) riporta una esternazione del Conte Guido Vi-sconti Di Modrone, musicofilo appassionato, il quale si scaglia contro la modadel jazz e contro coloro i quali aprirono le porte ai negri, ed importarono ’lacocaina e ogni genere di bevanda alcolica’, incitando al nazionalismo culturaleed alla crociata contro la corruzione, ma prendendo atto però che nonostantele sue idee siano state accolte anche ’ai più alti livelli’, cioè ’laddove uno puòfare quello che gli piace’, il problema sembra lontano dall’essere risolto.

Nella dimensione dell’intrattenimento popolare più o meno direttamen-te controllato dal regime vi sono compagnie itineranti di attrazioni comiche,musica e corpo di ballo femminile. Il varietà itinerante, le cui stelle, capoco-mici come Wanda Osiris, Macario, Totò e altri si incaricano di far balenarein provincia il mondo parigino del cabaret e delle mode americane adattate,naturalmente, alla cultura ed al costume italiano. Da parte loro i musicistihanno un accesso interclassista a diversi mondi: fanno la spola tra le orchestreda ballo, le tournées con le riviste o le orchestre sui transatlantici come il Rex.Ma ci sono anche altre possibilità come il ’concertino del tè’ nei caffé concertodove si eseguono brani popolari del repertorio classico, operette e romanze,e anche l’accompagnamento dei film muti. Specie quest’ultimo è un lavorodescritto dai musicisti (Mazzoletti 1983, 2004) come un ottima palestra percerte strumentalità come la trasposizione a prima vista, ma scompare verso il1932 con l’avvento del sonoro. Il jazz è addomesticato, tradotto in un conte-sto complesso di riferimenti e di modalità dello spettacolo, compare accantoa valzer e mazurche, a romanze, vi si abbandonano i musicisti più progressistiche lo praticano negli ‘after hours’. Si ricorda di quel tempo in cui essi riusci-vano a ‘far passare’ qualcosa in certi locali da ballo, ma l’incisione di dischiera un terreno quasi completamente chiuso al jazz ’a causa della produzioneitaliana di canzoni e ballabili che commercialmente dovevano essere eseguitiall’italiana’ come ricorda il pianista Enzo Ceragioli (Mazzoletti 1983:299, v.anche 270-271). Le opere importanti sul jazz che iniziano a comparire nonvengono tradotte: nel 1935 viene distribuito il libro di Panassié Le jazz hot alprezzo di trenta lire, nell’edizione originale francese (op. cit.: 292).

Il musicista simbolo del tempo è Gorni Kramer, fisarmonicista e contrab-bassista mantovano la cui popolarità supererà quella di ogni altro musicista dijazz italiano: prendendo parte ad un gran numero di le incisioni, di collabora-zioni con l’EIAR, presente alla ricostruzione della radiofonia con la RAI e poidella televisione, nel dopoguerra e oltre. Kramer78 è un virtuoso della fisarmo-nica che suona sorridendo al pubblico79 con la naturalezza di chi potrebbe fare

78 Kramer incise molto materiale per la Fonit Cetra, marchio italiano che non avevaaccesso alla ristampa di matrici americane e dunque era interessata al mercatodelle orchestre italiane. La Fonit Cetra sarà poi nazionalizzata per divenire ad-dirittura editrice di ricerche etnomusicologiche negli anni ’70, con la eccellentecollana ‘I Suoni’, diretta da Diego Carpitella.

79 Lo stesso Kramer diceva: «. . . il grande musicista deve avere il senso dell’umori-smo, perché se la mette giù dura è finita. Tutti i grandi musicisti di jazz hanno

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altre due o tre cose insieme. Ha l’apetto di un Sinto80 Italiano, è un bell’uomoed è figlio d’arte81 Kramer è uno dei primi ‘personaggi musicali’ italiani pub-blici in grado di mediare tra la moda del jazz ed il mondo della musica leggeraitaliana. Le similitudini col personaggio di Django Reinhardt sono numerose:anche lui viene dal mondo dell’intrattenimento popolare e resterà sempre piùa suo agio in piccoli gruppi, suona uno strumento che rimanda alla dimensionepopolare, sposa il jazz integralmente e senza tentennamenti, ma, al contrariodi Django, resta un personaggio italiano.82 Sul piano pubblico continuerà la‘professione’, incidendo molto e comparendo molto in radio, senza però maidivenire una stella del jazz.

Ci sarà bisogno a lungo di una mediazione, di una bugia più o meno pia: iljazz non può apparire in tutta la sua ambiguità, qui non c’è posto per musicheillegali.83 Tra le sue capacità il bel fraseggio e la disinvoltura, la consuetudinealla scena è la dimensione entro la quale si manifesta un’arte che si presentacome ‘dono naturale’, ma Kramer e la cerchia dei propri musicisti davano perscontato che in quelle condizioni non si potesse puntare tutto sul jazz. Unodei compagni ricordati con rispetto è il pianista genovese Romero Alvaro chesuonava anche il violino alla maniera di Stèphane Grappelli. Alvaro era un

dell’umorismo, Armstrong, Waller, Gillespie » (Mazzoletti 1983:262).80 Che uno dei primi musicisti che rappresentano pubblicamente il jazz in Italia

abbia l’aspetto di uno Zingaro, un nome esotico, ed uno strumento popolare, nonpuò che far riflettere quanto alle convenzioni sociali del tempo rispetto all’artemusicale. La fisarmonica ha tutta una storia di rapporti col jazz in Europa e fortitradizioni in Francia, Belgio, Olanda, Germania e Italia. Tra i musicisti che lapraticano oggi nel jazz in Italia: Antonello Salis, Gianni Coscia e Riccardo Tesi,tutti musicisti di diverse generazioni e diversi retroterra culturali, ma si può diresenz’altro che lo strumento goda oggi di una specie di ’seconda giovinezza’.

81 Il padre, detto ‘gallo’ per la sua facilità di rapportarsi al gentil sesso, girava lefiere contadine di tutto il nord Italia (Mazzoletti 1983:260-268).

82 Nel 1967 Gorni Kramer dirigeva una big-band composta da alcuni tra i migliorisolisti delle orchestre RAI, nel programma Quelli della Domenica. Questo pro-gramma che consacrerà l’attore comico genovese Paolo Villaggio bilancia in mo-do caratteristico le proposte innovative di Villaggio ed il duo Cochi Ponzoni eRenato Pozzetto, da quelle ’classiche’ del panorama della musica leggera italianaaccompagnate dal duo di avanspettacolo ’in ritardo’ di Ric e Gian. Nella secondapuntata del programma (riproposta in data 17/07/2005 sul canale satellitare raiedu2 nel programma ’rewind’ dedicato ai materiali d’archivio) l’orchestra direttada Kramer accompagnò il cantante afroamericano Don Powell in una versioneitaliana di ’Petit Fleur’ che offriva un breve ma efficace solo di clarinetto. Il breveepisodio bastava (per chi ’sapeva’) a suscitare la nostalgia per il mondo della jazz-band all’italiana in quella che sarebbe stata l’era dei ’capelloni’. In quel periodouna parte delle cerchie del jazz italiano dell’anteguerra era ben lungi dall’essere’fuori combattimento’, dato che riuscirono in quello stesso anno a portare LouisArmstrong al festival della canzone italiana di San Remo.

83 Max Roach: « Quello che voi chiamate jazz è una musica illegale, inventata dadei magnaccia, dei contrabbandieri, dei ribelli. . . » (Roach in Naepels 2001:279).

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jazzman che faceva la professione. Una volta sorpreso a studiare progressionidi inusitati accordi al piano (Kramer dice « armonizzava moderno ») vienerichiesto dal caporchestra di suonare sempre così e lui risponde «. . .ma cosavuoi fare. . . tanta gente non capisce ».84

È la nascita degli hot club italiani, sul modello del primo Hot Club deFrance di Panassié, a dare il senso di un cambiamento nella società italianarispetto al jazz. A Torino si fa avanti una volontà di svecchiare la scena mu-sicale italiana che significa anche costruire ’da capo’ uno spazio associativoe culturale. Si inizia nella cantina di Ettore Sobrero, ’figlio del commenda-tor Sobrero, industriale delle calze’ (Mazzoletti 1983:268-269). Nel gruppo dimusicisti che si formano al club di Ettore Sobrero vi è il contrabbassista Ferdi-nando Buscaglione che sarà poi il popolare cantante e cabarettista consacratodagli inizi della televisione nel dopoguerra.85

Con lo hot club il fenomeno del dilettantismo musicale nel jazz acquistaun maggior peso: molti dilettanti di buon livello possono unirsi ai professioni-sti come Kramer e Alvaro nelle jam sessions della domenica. Mentre a ParigiDjango frequenta gli artisti, la borghesia del nord Italia crea dei luoghi incui il jazz possa essere socializzato. Nella città dell’industria pesante nasceuna importante variazione dei circoli di amatori di strumenti a plettro e del-le associazioni bandistiche. A Torino il primo hot club vero e proprio vienefondato nel 1933, segue poi nel 1936 quello di Milano e soprattutto si apread un pubblico di esperti in quegli anni l’attività di divulgatori, critici e or-ganizzatori del jazz quali Livio Cerri a Pavia, Ezio Levi, Giancarlo Testoni,Marcello Marchesi e poi Arrigo Polillo a Milano, Roberto Nicolosi a Genovae Silvio Vernoni e Battista Nizza a Torino. Nel riferimento al modello delloHot Club de France è possibile leggere la vocazione europea e cosmopolitadi queste cerchie cittadine.86 Si apre uno spazio pionieristico ma continuo diattività volte a creare le condizioni affinché il jazz ‘vada avanti’ nella societàe nel gusto musicale del paese. Agli ’orchestrali’ di professione e ai ragazziinquieti si affianca una nuova categoria di amatori, di dandies cosmopoliti in-

84 A. Mazzoletti ci riporta l’impressione di un musicista « che i suoi compagni nonamarono mai molto » (Mazzoletti 1983:276). Dunque era forse Kramer che nonpensava possibile ’armonizzare moderno sulla scena’. Forse qui Romero dice quelloche pensa Kramer mentre Kramer dice quello che Romero fa.

85 Buscaglione, esperto della canzone recitata e del jazz italiano resta sulla scena delsuo momento di grande popolarità l’appassionato ’popolare’ di jazz, il ragazzoperdigiorno e appassionato di cinema, musica americana e balere, anche se ilsuo personaggio evolverà verso una stilizzazione sempre più cinica. La sua uscitadal mondo avrà il tono di una tragedia. In un incidente d’auto all’alba di unanotte in bianco la sua fuoriserie americana si schianterà contro un camion caricodi cemento finendo proprio ai piedi della residenza dell’ambasciatore degli StatiUniti.

86 Gli 850 membri dello Hot Club de France nel 1938 erano per l’80 % domiciliatia Parigi e nelle periferie più vicine della città (Conte 2001 in Jamin 2001:294 n.16).

124 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

formatissimi su quello che accade in America, e quello che accade in Americaè nientemeno che l’era dello swing. Si schierano, almeno sul piano estetico eculturale, professionisti (tra cui molti architetti e avvocati), imprenditori epersonaggi anche di classi sociali più basse, a patto che sappiano accreditarsicome ’poeti’ del jazz e persone fuori dal comune. Gli hot club saranno, nelprimo dopoguerra, consacrati come le legittime e vere sedi dei sostenitori deljazz e della sua pratica, per perdere gradualmente di significato negli anni’70 e riconvertirsi gradualmente in centri di documentazione, festival, riviste,associazioni di promozione culturale.

2.2 Istituire il regionalismo italiano: il modello di‘Strapaese’

Ma fino a che punto poteva muoversi, a chi poteva venire predicato il ’verbo’degli hot club? Pur costituendo un argomento di grande complessità che ten-terò di tratteggiare in quanto fenomeno che contribuisce in parte a mettere inluce alcune peculiarità della diffusione italiana del jazz rispetto ad altri paesieuropei, vorrei insistere qui sulla costruzione sociale e culturale di ’strapaese’in quanto tema di importanza centrale per la ricerca storica e antropologicaitaliana. La corrente ’strapaesana’ nel pensiero e nell’arte costituisce infattiun modello di costruzione della tradizione in aperta reazione alle tendenzecosmopolite della cultura mondiale del primo quarto del secolo. Si tratta dellaformulazione novecentista dell’autoctonia e dell’autonomia della cultura ita-liana. La costruzione di uno ’spazio culturale strapaesano’ rappresenta poi unprocesso peculiare, importantissimo per studiare il Novecento italiano. Esso,nonostante assuma un particolare rilievo col fascismo e ne sia stato influen-zato sostanzialmente con l’adozione di scelte politiche conseguenti e con unforte sostegno statale e locale, non può esaurirsi in una sorta di ’incidente’di percorso del regime. Nei limiti di questa ricerca le osservazioni relative aun tale, ipotetico, spazio ’strapaesano’ intendono dare parzialmente conto diquanto esso costituisca una eredità problematica per la valutazione del campopiù ampio della produzione simbolica in Italia.87

87 ’Strapaese’ riesce a includere il jazz in maniera decisiva nella sua mappa intrica-tissima di programmi e progetti, di volontarismo e di vie alla ricerca del consensodelle minoranze culturali ed estetiche solo dopo il ’68. Lo include quando ormailo spazio ’strapaesano’ si è disposto ad una egemonia politica di (centro)sinistra.Non è un caso che l’evento spartiacque della diffusione di massa del jazz: UmbriaJazz 1973 e 1974, abbia luogo in una di quelle piccole città universitarie, di anticacultura e dotate di un centro storico medievale conservato nei secoli, che si inten-de investire di un nuovo turismo di massa. Umbria Jazz è un festival itineranteche propone la visita al tesoro dei beni culturali medievali di un’area estesa nelmomento in cui gli appassionati seguono le stelle del jazz internazionale. Il festival(per la sua collocazione spaziale) impone ai partecipanti di non dimenticare di’essere italiani’ nel momento in cui ammirano il meglio del jazz.

2.2 Istituire il regionalismo italiano: il modello di ‘Strapaese’ 125

Com’è noto, verso la metà degli anni ’30 Antonio Gramsci, negli appuntiche poi saranno raccolti in Letteratura e Vita Nazionale, rifletteva sulle pecu-liarità di campo della cultura e della vita artistica italiana osservando che essanon contribuiva al farsi di una vera e propria coscienza nazionale paragonabilea paesi europei quali la Francia e l’Inghilterra.

Lo spazio in cui operare una necessaria opera riformatrice (che anche moltiintellettuali fascisti auspicavano) era visto da Gramsci nella cultura piuttostoche nelle coscienze dei singoli, come pensava Benedetto Croce, tenace avver-sario del fascismo e monarchico liberale, nel bene e nel male vero e propriofulcro della vita culturale nazionale. Per Gramsci l’interesse nelle sorti dellaciviltà letteraria italiana e delle sue peculiarità era immediatamente connessoalla questione dell’identità nazionale.

Agli scrittori italiani ha proprio nuociuto l’« apoliticismo » intimo,verniciato di retorica nazionale verbosa (Gramsci 1975:84).

Il fascismo era alle prese con un’opera di riordinamento e di istituziona-lizzazione delle varie istanze della cultura nazionale, che Gramsci seguiva davicino e della quale era in grado di prevedere il sostanziale fallimento, nelmomento in cui rilevava che anche le tendenze più interessanti come il Futu-rismo di Marinetti, quella dei fiorentini riuniti intorno alla rivista « La Voce», e persino la corrente regionalista di « Strapaese », erano giunti a conflittocon «. . . l’assenza di carattere e di fermezza dei loro inscenatori e la tendenzacarnevalesca e pagliaccesca dei piccoli borghesi intellettuali, aridi e scettici »(Gramsci loc. cit.). Non c’è dubbio che una formulazione generale di questotipo rispondeva ad un disagio generalizzato, che poteva esistere nelle cerchieche vedevano un’opportunità di rinnovamento della cultura italiana nell’arrivodelle musiche del nuovo continente. Per coloro che partecipavano alle riunionidei clubs jazz-hot, l’equazione tra jazz e tempi moderni era una questioneindiscussa, che entrava in un campo di rappresentazioni conflittuali della mo-dernità. Probabilmente anche per i professionisti, i giornalisti, gli industriali, imecenati del jazz, l’Italia industriale avrebbe dovuto attrezzarsi diversamenteda come era concepita dagli intellettuali, i letterati ed i politici che contavanonel paese.

Il nome ‘strapaese’ corrisponde ad una categoria critico-letteraria che de-signa la produzione di padre Antonio Bresciani, il già menzionato fiero avver-sario del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, che la critica di Gramsci metteràin evidenza come paradigma di uno spiritualismo populista: quello della pre-tesa ’autenticità’ della cultura contadina, dei buoni sentimenti, del rapportodidascalico-didattico con le culture locali, con gli ambienti rurali, con la vitadei poveri, ecc. Si trattava anche di un raggruppamento concreto di scrittoried intellettuali (per Gramsci ’i nipotini di padre Bresciani’) uniti da una men-talità e di una prassi artistica ipocritamente popolaresca che Gramsci stessoriassumeva col termine di ‘gesuitismo’ (Gramsci 1975). La prassi artistica de-gli strapaesani (di ieri e di oggi) tanto più si rivela come elemento di un vero

126 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

e proprio progetto politico nel momento in cui distoglie il pubblico italianodalla conoscenza di opere più importanti e dal diverso apporto formativo.

La politica culturale del fascismo, col Ministero della Cultura Popolare el’Opera Nazionale Dopolavoro, istituisce un nuovo modo di rapportarsi tracentro e periferia, un modo di ’territorializzarsi’ pervenendo ad un compro-messo con l’egemonia della chiesa sul territorio nazionale. Da qui, intorno allaparrocchia, alla Prefettura, alle Case del Fascio, alle sedi del Dopolavoro, allePro-Loco e alle Opere Combattenti, si forma gradualmente un modello di po-litica culturale decentrata, che si rivelerà molto resistente al cambiamento, eche diviene il luogo in cui il modello letterario di ‘strapaese’ diventa modellosocio-istituzionale capace di riprodursi ben oltre l’epoca del regime.88

Una ricerca storiografica di notevole interesse sull’argomento della politicaculturale del regime svolta da Stefano Cavazza (1996), ha il merito di deli-neare chiaramente l’importanza dell’emergenza di un regionalismo culturaleche è precedente al fascismo, ma che il fascismo si sforza di istituzionalizzare,in particolare tramite l’Opera Nazionale Dopolavoro (O.N.D.). Convergonoin questa opera tutta una serie di contributi di folkloristi, etnologi, sacerdo-ti, proprietari terrieri, aristocrazia, intellettuali provinciali, i quali si sforzanodi sostenere il carattere regionale della cultura italiana entro una tendenzanazionale che si fa sempre più accentratrice e statalista. Il fascismo viene so-stanzialmente a patti con le culture locali dando loro un esito celebrativo esfruttando in funzione propagandistica le tradizioni popolari, che si ’consuma-no’ sempre più nel senso del proprio sfruttamento a fini turistici. Lo sviluppodel turismo di massa e la sua interpretazione in termini di sviluppo e di pro-gresso da parte delle istanze locali del potere è contemporaneo e segue gli esitidel modello strapaesano fascista. Ne rappresenta una componente essenziale.

Gli studiosi di folklore sono direttamente chiamati in causa nella costruzio-ne dello spazio culturale ‘strapaesano’ della produzione simbolica. In quantospecialisti, intervengono dalle pagine delle riviste locali e assumono posizionitalvolta critiche. È interessante notare che proprio da due studiose del fol-klore, la siciliana Carmelina Naselli e la fiorentina Amy Bernardy, venganole critiche più severe agli esiti spettacolarizzati del dopolavorismo. La primaparla di un auspicabile ‘religioso rispetto’ per le usanze del popolo, che vedeassai raro. La Bernardy, che ebbe responsabilità dirette nella O.N.D., si inca-rica di indicare dei criteri per la riesumazione della feste popolari, avvertendoche non si tratta di produrre ‘operette’, ma che le rievocazioni storiche sonoda fondare sul ricordo e sullo studio piuttosto che con l’impiego di mezzi tea-trali (Cavazza 1996:105). Vi è un controllo sulle modalità di partecipazionee l’intenzione di una azione pedagogica nei confronti delle masse. I parteci-panti dovrebbero essere educati a comportarsi come un pubblico borghese. È

88 Per chi ritiene l’Italia come paese sia ’post-fascista’ (dopoguerra) che pre-fascista(anni ’20 e oggi), e per chi ritiene che si debba pervenire ad una studio sempre piùpuntuale e comparato del fascismo, l’argomento di strapaese in quanto assetto deirapporti di potere tra centro e periferia si presenta come di importanza centrale.

2.2 Istituire il regionalismo italiano: il modello di ‘Strapaese’ 127

’preferibile un chiasso moderato, benefico e digestivo’ e ’liete brigate di man-dolinisti disposti a fare della buona musica’ alla ressa e agli assembramenti difolla e ai mercati venditori ambulanti (op. cit., p. 113). Un continuo distingue-re tra ’volgo’ e ’popolo’ nei commenti della stampa (op. cit., p. 143) dimostral’intento pedagogico della costruzione di spazi festivi percorsi da funzioni lu-diche, ideologiche e turistiche (op. cit., p. 248) che erano aperti a tutti, lapartecipazione non era segno di adesione al regime.

Le nuove politiche culturali si inseriscono in una consuetudine al commer-cio tra città e campagne, a vie privilegiate di acquisto diretto di prodottiagricoli dai produttori. Per esempio, secondo una modalità di approvvigiona-mento particolarmente comune da parte dei piccoli commercianti di alimentarie dei gestori delle osterie, secondo cui la qualità attestata dalla zona di prove-nienza dei generi offerti erano fondamentali. Poi, in generale, in quella mobilitàricreativa di chi si recava ’fuori porta’ nelle occasioni festive, al sabato, ecc.,elemento importante per l’economia delle zone rurali, e che lo è ancora in buo-na misura. In questa prospettiva il dopolavorismo ‘digestivo’ e i volonterosimandolinisti disposti a fare della buona musica non paiono delle novità, mauna ’fascistizzazione dell’esistente’. Nel senso di una appropriazione fascistadi qualcosa di preesistente è da interpretare anche il rigoroso controllo dellefeste strapaesane da parte delle autorità di polizia specialmente nei carneva-li, occasioni nelle quali si poteva manifestare la critica e lo scontro politico(op. cit., pp. 113-114). Le feste di strapaese evocano altre tematiche, e cioèaccanto ad una tendenza a recarsi nelle campagne per festeggiare, al seguirele feste contadine come momento di esaltazione del lavoro, c’è anche la ri-presa da parte del fascismo di un ‘ricreativismo’ e un dopolavorismo che eragià patrimonio del movimento socialista, ma che ha un senso molto diversonell’ambiente urbano.89

Una delle tesi generali più accettate sul rapporto tra fascismo e cultura èquella che indica nella chiesa, e nella sua indipendente organizzazione media-tica e culturale, e nell’accoglimento popolare del cosmopolitismo culturale, iprincipali concorrenti del regime. 90

89 Alla vigilia dell’avvento del fascismo il Corriere della Sera del 13/11/1921 attac-cava i circoli socialisti milanesi nei quali si ballava il foxtrot come locali pocoraccomandabili e nei quali scoppiavano frequenti risse. In precedenza, sullo stessogiornale in data 26/03/1920 era comparsa una condanna circostanziata dei nuoviballi in una nota vescovile che chiamava a « una crociata contro il ballo invere-condo e l’immodestia nel vestire » (Cit. in Mazzoletti 1983:56 e 53). Per gli anni’30, Marcello Cianfanelli, altosassofonista fiorentino, parla del suo ingresso nellacarriera dopo aver conosciuto Sergio Quercioli e distingue il lavoro professionalein locali di richiamo quali la Fossa Dell’Abate a Forte dei Marmi (1932) dal fre-quente lavoro nei circoli rionali e nei dopolavori fascisti fino al 1934. Finalmente,nel 1935, Cianfanelli suona in un vero e proprio gruppo jazz guidato dal violinistaMax Springher al Pozzo di Beatrice a Firenze (Mazzoletti 2004:338).

90 Sulla politica cinematografica del regime scrive Philip Cannistraro: «Durante l’in-tero ventennio del dominio mussoliniano la politica cinematografica fascista fu

128 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

Il problema del carattere nazionale dell’arte, la questione centrale del dif-ficile rapporto tra fascismo e cultura, viene posto in una fase in cui la societàsi trova ad un bivio storico in cui si avverte di perdere qualcosa del passato intermini di ‘autenticità’. I lacci alla modernizzazione ed alla creazione di unanuova umanità fascista dipendono dal guardare da provinciali all’esterno ac-cogliendo mode estranee che si insinuano nella società. Ad esse si oppongonosimboli solari e mediterranei.

Nelle tesi fasciste e nazionaliste e nelle loro varianti storiche c’è una tema-tizzazione della copiatura italiana di qualcosa che accade altrove, del cosmo-politismo ingenuo dell’accoglimento di costumi esterni, inteso come attitudinedi pigrizia, come vizio storico che il fascismo si propone a parole di combat-tere, ma solo a parole e nei confronti delle classi inferiori. Questo è evidentenegli attacchi al cosmopolitismo ed al carattere ‘parigino’ della jazz-band,della quale pare si intuisca la natura dirompente specialmente nell’era delloswing. Questi precisi attacchi avranno un senso ben tangibile verso la metàdegli anni ’30, con gli esiti di accentramento e di controllo dello stato sullacultura, con la politica di alleanza italo-tedesca e con gli esiti ’imperiali’ dellapropaganda. Sarà ben presto chiaro che l’Impero coloniale di Mussolini nonè per nulla gradito all’Inghilterra e infastidisce i loro alleati americani. Ma ilfascismo non proibirà mai nulla alle classi dominanti che praticano indistur-bate le stesse mode dei loro pari stranieri e ballano già con quella musica chediventerà di massa (ma solo provvisoriamente) nel momento in cui tutti (oquasi) faranno festa sulle ceneri del regime in una sorta di esorcismo generale.

È noto che non vi fu consenso unanime tra gli intellettuali fascisti rispet-to alla politica regionalistica del regime. La reazione interventista di WidarCesarini Sforza 91 alle tesi strapaesane, che sul Popolo d’Italia fece il puntodel dibattito sull’identità nazionale, definì molto bene i termini della con-traddizione dell’ideologia imperiale del fascismo: tutto passa dalla creatività‘rivoluzionaria’ del duce perché tutto è ormai ordinaria amministrazione; nonserve la ‘tradizione’ passata nello sforzo supremo di costruire la tradizione fu-tura. Una tradizione non si definisce per mezzo di dichiarazioni di intenti, chehanno un carattere morale, e che non bastano a stabilire che cosa differenzi gliitaliani dagli altri popoli. Cesarini Sforza sostiene una tesi ancora più precisa:nulla nel pensiero politico degli italiani e nella realtà politica della loro vita

afflitta dagli identici problemi che debilitavano il controllo esercitato dal regimesugli altri mezzi di comunicazione di massa: l’influenza della cultura straniera ela tenace concorrenza della attività culturali della Chiesa cattolica» (Cannistraro1975:313). del regime.

91 Il rabbino di Roma Elio Toaff (nato a Livorno) ha raccontato in una intervistatelevisiva che lo stesso Cesarini Sforza avrebbe messo in pericolo la discussionedella sua tesi di Diritto Commerciale a Pisa, tesi che trattava di argomenti diepoca ottomana, sostenendo che quell’argomento non era pertinente per una tesidiscussa in una università italiana. La tesi era interessante per la storia ebraicadi Livorno, città natale del Toaff, e fu comunque discussa, nonostante le leggirazziali, perché interessava comunque al relatore.

2.2 Istituire il regionalismo italiano: il modello di ‘Strapaese’ 129

pubblica, si è tramandato attraverso i secoli, in modo da costruire davverouna tradizione. Anche il Risorgimento è stato una creazione ex novo. E tale èlo Stato fascista che nega rivoluzionariamente gli immediati e corrotti prece-denti politici liberali della nazione e trova le sue origini ideali non in qualchetradizione, bensì ’nello sforzo originale e prodigioso di un Uomo di Genio’

Vista da qui la prospettiva di manipolazione e costruzione di una tradizio-ne nazionale è ben chiara, il discorso di Cesarini Sforza è ancora ’squadrista’come il fascismo del ’22, ma la sua sostanza politica sta nel suo anticipare lasvolta totalitaria della prima metà degli anni ’30. Da qui in poi entra in causail cronico ripartire da zero del paese ad ogni crisi politica e l’eclettismo nellacostruzione di tradizioni politiche e civili nelle quali gli elementi di continuitàpossono assumere le forme più diverse. Ci saranno correnti fasciste di intel-lettuali che negheranno l’importanza della Chiesa per la rivoluzione fascista,altri che ne faranno la quintessenza dell’italianità. Alcuni saranno antiame-ricani e altri molto meno. Negli anni ’70 le origini ’nere’ del jazz dovrannodiventare la sua ’memoria remota’. Sullo sfondo restano insolubili paradossiche assumono una preoccupante e rischiosa connotazione di oggettività. Saràda qui in poi evidente tutta la necessità di capire che cosa si debba cancellarenella memoria storica degli italiani per governarli.

Nel ’vocabolario della politica’ edito dal PNF nel 1940, è contemplata ladialettica tra le altezze della politica e dell’arte nazionale ed i veri e propri’misteri’ delle culture locali. Il fascismo che illustra la varietà delle culturelocali ricorre a termini quali ’molteplici fermenti mediterranei’; ma di qualemediterraneo si tratta? 92 In virtù di una strana alchimia, questi fermentiideologici, una volta fecondati dal lavoro dei campi, diventano poi nelle piazzestrapaesane ’cristiana integrità dello spirito italiano’ (ivi:136). Il fatto chequalsiasi idea innovativa in campo culturale nel passaggio alla provincia debbatrasformarsi (mossa dall’alto) in una costruzione parrocchiale-corporativa èbene esemplificata dal caso di Sironi.

Aveva parlato in precedenza di Mediterraneo anche l’artista Sironi, di unmediterraneo inteso come ritorno alla pittura murale:

È ovvio che l’ideale mediterraneo, solare, del risorgimento dell’affresco,del mosaico, della grande arte decorativa, non possa raggiungersi sotto

92 La questione non è marginale. Nel febbraio 1944 in uno dei commenti trasmessiper radio, e probabilmente opera dello stesso Mussolini nel clima di Gotterdam-merung di Salò, si recupera il sogno coloniale fascista in chiave anti-capitalista.Cioè sarebbero stati gli interessi dei poteri globali forti alleati con esercito, mo-narchia e industria italiani a far fallire il colonialismo ’di progresso’ dell’Italia el’idea di una ’più alta giustizia sociale’. «Il tradimento però è stato fatto più cheal fascismo, al popolo, a tutto il popolo dei campi, delle officine, delle professioni,perché nel nome di una grande idea mediterranea voleva sostituire il diritto allaproprietà al diritto di proprietà» (riportato in Cannistraro 1975:347). La ’gran-de idea mediterranea’ voleva significare l’idea della politica mediterranea fascistacome diritto alla rapina coloniale radicato persino nella mentalità di gran partedelle classi lavoratrici italiane.

130 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

certi aspetti che in Italia (Sironi 1932, in Bartolini 1996:313).

Si trattava della rivendicazione della gloria del passato artistico italianocontro il sette-ottocento francese, da Delacroix a Renoir, del ritorno della an-tica pittura murale celebrativa e grandiosa contro la tela borghese. Per Sironii francesi rappresentano la pittura nel mondo anche per la pubblicità che san-no farle, ma gli italiani non sono da meno, anzi. Si tratta di profezie di unvisionario, ma che ha un programma preciso: quello della inclusione dell’artefigurativa nell’architettura pubblica del regime. Un progetto al quale l’artistasarà fedele fino all’ultimo, ma in cui le cerchie dei faccendieri-organizzatoridi strapaese si inseriranno sfruttandolo fino in fondo a loro uso e consumo. Ilritorno alla gloria rinascimentale diventerà il leit motif che perdura sino adoggi nelle commemorazioni in costume antico delle ’nostre radici’, con i bale-strieri, gli sbandieratori, ecc. Si potrebbe dire che si affrontino qui due ideediverse del ‘celebrativo’: la prima è affidata al lavoro della bottega dell’artistacome in passato (nel programma di Sironi); nella seconda invece una improv-visata regia semi-teatrale si preoccupa letteralmente di fare impersonare lagrandezza passata alle genti del presente. La prima punta ad una continuitàideale e la seconda ad una continuità persino biologica, dando fiato alle teoriadegli etnologi e folkloristi reazionari che identificano razza e cultura: che siala gente del posto a sfilare nelle celebrazioni. Che queste due rappresentazionipubbliche venissero a conflitto è fatto comprensibile e documentato. Sironi sirecò personalmente da Mussolini, al quale era vicino ma della cui benevolenzapare non approfittò mai, a informarlo che l’arte commissionata nel progettodi strapaese stava « riempiendo di merda l’Italia » (Bartolini cit. 320).

Nel corso degli anni ’30 il regime tenta una armonizzazione della retedelle iniziative turistiche con gli esiti di grandeur propagandistica: con Staracesegretario del partito93 il modello è sempre più romano e imperiale e menoregionalistico. La rieducazione delle classi subalterne si concentra intorno allacostruzione della grandezza coloniale italiana.

La campagna d’Etiopia costituisce uno spartiacque per l’intensificazionedelle componenti ideologiche presenti nelle feste (medieval-rinascimentali). AdArezzo, nel luglio 1935 (prima che il conflitto esplodesse) la stampa ricordavache molti giostratori erano in Africa a combattere se necessario i Saracini in’carne ed ossa’.94

In modo analogo si parlava della riforma della festa di Piedigrotta a Napoli.Nel 1934 la stampa si rallegrava che i ragazzi del popolo non avrebbero potuto

93 Il controllo esercitato da Achille Starace sull’immagine pubblica del regime, sullastampa e su tutti mass-media fanno si che gli anni ’30 siano diventati ’era Starace’nella storiografia del fascismo (Cannistraro 1975).

94 In: « Domani si correrà la IV giostra del Saracino », La Nazione, 28-29 luglio1935. (Cavazza 1996:216).

2.2 Istituire il regionalismo italiano: il modello di ‘Strapaese’ 131

sfilare coi rituali carri di cartapesta e non avrebbero dato vita alle solitescorribande ’per via Roma dando fiato alle trombette’.95

Nel 1937, il partito, notando che la radio si diffondeva troppo lentamentenei centri rurali, dispone la creazione di ’uditori collettivi’ installando altopar-lanti nelle piazze e disponendo che le aziende agricole acquistino apparecchi ra-dio e stabiliscano orari di ascolto durante i programmi dedicati all’agricoltura(Cannistraro 1975:240).

Il regime avverte le enormi difficoltà che comporta l’opera di unificazionedelle culture locali. Nello spazio strapaesano si contrappongono danze folklo-ristiche e i balli moderni della moda cittadina. Si mette in scena il folklore, main certe zone anche i contadini ballano il tango ed il foxtrot quando fanno festa’sul serio’, per loro stessi. Vi furono direttive mai seguite contro i balli moder-ni negli anni ’20, ma si continuò a ballare con le jazz band.96 Presto sarà laparte folkloristica a perdere di interesse per prima, anche agli occhi del regime.Alla mostra nazionale del dopolavoro del 1938 essa fu ridotta a ricostruzionid’ambiente: a manichini e osterie ricostruite; un macabro spettacolo in cui ilvecchio mondo veniva letteralmente ’mortificato’ nell’anno dell’introduzionedelle leggi razziali (Cavazza 1996:139-141).

Cavazza indica una connessione di alcune tesi strapaesane col movimentodella Heimatschatzbewegung tedesca, che è della fine dell’Ottocento. Il suoelitarismo radicale fu espresso in Italia da gerarchi di origini nobili divenutipodestà di città d’arte quali il Bargagli-Petrucci a Siena (op. cit., pp. 178,182). Siena diventa un modello di particolare interesse in quanto qui, in que-sto periodo vengono posti i criteri del ripristino e del restauro architettonico esi ritorna alla toponomastica precedente al periodo dell’unificazione, quandofu già modificata per istillare il patriottismo nei cittadini. Si può osservare aSiena una coincidenza tra élite culturale e politica nel senso che qui l’idea di’strapaese’ è veramente al potere. Partendo dall’idea di un nesso organico tranatura e cultura, si procede di pari passo dalla conservazione dei monumen-

95 In: « La festa di Piedigrotta ridotta a più modeste proporzioni », La Nazione,6 settembre 1934. perché occupati nelle colonie. Nel 1936 la nuova Piedigrottapresentava un corteo composto nell’ordine da:

[...] banda del dopolavoro degli autotramvieri, da valletti del comune, daglialfieri coi gagliardetti dei vari dopolavoro, dagli sbandieratori e dal coro del GUF[Gioventù Universitaria Fascista], dai gruppi in costume e dai carri ispirati a eventistorici e forniti ciascuno di orchestra e cantanti In: « La festa di Piedigrotta» , IlPopolo d’Italia, 8 settembre 1936. (Cavazza 1996:143).

96 Con gruppi locali semiprofessionistici che riproponevano il repertorio più in vogainsieme ai balli ’tradizionali’. anche in seguito nei locali dei dopolavori. Fu perquesto stipulata una convenzione tra la SIAE e l’OND affinché i balli folkloristicifossero esentati dal pagamento dei diritti d’autore, ma nel 1936 si continuavaa lamentare l’effetto corruttore delle danze moderne nelle messe in scena deidopolavori così come si condannavano ‘elementi musicali e coreografici di carattereesotico e operettistico’. La soluzione fu quella di interpretare i balli moderni come‘generi di consumo’ diversi e sottoposti a diversi regimi fiscali.

132 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

ti e del paesaggio, alla conservazione del folklore, all’interno di un orizzonteideologico anti-urbano e anti-moderno contrario al ’cosmopolitismo confusio-nario’, e che non può che «sperare in una ripresa dell’artigianato tradizionale»(op. cit., pp. 182-183), ma che comunque riesce a produrre un vero e propriomodello di città turistica i cui destini si dividono da quelli dell’industria. Ilfascismo fa di Siena un modello di virtù tradizionali e competitive. Amy Ber-nardy vi recupera e promuove l’immagine di Santa Caterina come Patronadell’Italia e della Gioventù Femminile del Littorio. Con molte difficoltà e vi-cende alterne questo fascismo provinciale e padronale (piuttosto vicino allespeculazioni ultraconservatrici di Julius Evola)97 si avvicina al mondo del Pa-lio e lo ‘fascistizza’ esaltandone la pompa, preoccupandosi della veridicità dellaricostruzione medievale, non esitando a fane un palcoscenico per la celebra-zione della campagna d’Etiopia.98 Pare di assistere alle prove generali dellafutura ‘civiltà mediatica’.

Tra il ’21 con il ripristino del Palio di Livorno, il tentativo di Palio a Roma,al ’23, il Cantamaggio di Terni, in cui si assiste ad una ’curiosa ambientazionerionale quattrocentesca’, si può notare una specie di corsa a questo tipo diformalizzazioni. E’ interessante notare il salto epocale che salta il Seicento,come epoca spagnolesca e di sottomissione dell’Italia di memoria manzonia-na, il Settecento la cui gloria è tutta in Francia, e l’Ottocento che il fascismosvaluta come epoca del liberalismo e del romanticismo, per giungere diretta-mente a D’Annunzio. Le glorie italiane da rappresentare sono quelle degli eroie vanno da Pier Capponi che resiste a Carlo Ottavo a D’Annunzio e l’impresadi Fiume saltando imperturbabilmente tre secoli di storia.

L’approccio paradigmatico e generalizzante della citata folklorista fioren-tina Amy Bernardy alla storia patria prende forma tra le righe di una prosacoltivata e sensibilmente femminile che evoca la magia del viaggio e persinoil passato arabo della Sicilia, in una serie di interventi sulle regioni italiane

97 Per il filosofo ultrareazionario Julius Evola il bolscevismo e l’americanismo eranole due ali di quella che definiva ’la bestia senza nome’, preannuncio del ’Tramon-to dell’Occidente’. «Ciò a cui l’americano vibra più sinceramente che a qualsiasimotivo di un Bach, di un Palestrina o di un Wagner, ciò che sente che lo espri-me, incorpora la stessa logica della musica rumoristico-ritmica del bolscevismo:e lo jazz. Nei grandi ambienti delle metropoli americane ove centinaia di coppiesi scuotono insieme come fantocci epilettici ai sincopati negri dei charlestons edei black-bottoms, è veramente lo ’stato di folla’, la psiche primordiale dell’entecollettivo meccanizzato che si ridesta» (Evola 1929:124-125).

98 Quanto alla debole dissidenza italiana scrive Delzell : ’La propaganda marxistaera debole e fondata su clichés antimperialisti: non un centesimo per l’avventuraitaliana del capitalismo! Ma gli italiani erano disposti a credere a Mussolini che,poneva la campagna come tutt’altro che avventura capitalista’ (1966:134-135),ma piuttosto come impulso civilizzatore e colonizzatore dell’antica Roma e solu-zione ai problemi del paese, con la conquista di nuove terre per una popolazionecrescente e impoverita, che navigava in una crisi economica che datava dal primodopoguerra. e per la nuova veste imperiale del regime (op. cit., pp. 187-198).

2.2 Istituire il regionalismo italiano: il modello di ‘Strapaese’ 133

sulle pagine di «Educazione Fascista», organo dell’Istituto Nazionale Fascistadi Cultura. Ma anche lei, in quanto folklorista chiamata in teoria a raccontareun’altra storia, quella locale, si limita a richiamare un paradigma storico-letterario che assegna alla Sicilia un solo contributo all’identità nazionale chedata dal Tredicesimo Secolo: vale a dire l’influsso della scuola poetica dellaSicilia di Federico Secondo sugli stilnovisti e su Dante Alighieri. Quella scuolasiciliana ’dalla quale partono verso l’Italia settentrionale le più dolci armo-nie del linguaggio italiano che sarà poi di Dante’ (Bernardy 1929:457). Poi ilnulla degli inumerevoli domini stranieri fino alla fine dei Borboni e all’unitàitaliana. Che una folklorista impegnata e influente debba ancora fondare ilsuo discorso su un caposaldo della storia letteraria medievale, che si muovain un orizzonte così poco cosmopolita ed aggiornato, non potrà che rafforzarel’idea di plebi e contadini meridionali che emergono dall’antichità e che sonocollocati decisamente al di fuori dei tempi moderni in virtù della loro peculiare’psicologia popolare’.

Quale altro modo ci sarebbe per giustificare una differenza sociale e cul-turale tanto enorme tra le diverse regioni italiane e la disparità tra città ecampagna, se non vedendo i contadini come uomini del mondo antico? Pro-prio perché così inoffensivamente ’animabellista’, il discorso che mette insiemei profumi della Sicilia, i mandorli in fiore, la musicalità della lingua e le festepopolari con il ritorno al medio-evo testimonia di un progetto che muove dal-la localizzazione dei momenti di gloria patria per dare posto a investimenti,progetti, restauri, concrete politiche urbanistiche.99 Le intenzioni del regimeconsistevano in una vera e propria rieducazione delle classi subalterne, ma lapriorità era quella della ricerca e dell’ottenimento dell’adesione al fascismodelle élites locali. Si dimostra altresì come il rapporto tra i folkloristi del tem-po100 ed il ’campo’ dei loro studi fosse irrimediabilmente mediato, filtrato daiparadigmi umanistici correnti e lontano dal ricercare vie nuove. La meravi-glia per la ’psicologia popolare antica’ dei siciliani lo dimostra senza ombra didubbio.

Salvo la immersione, lunga piuttosto che penetrante, nello spagno-lesimo, la fisionomia della Sicilia alla fine del Tredicesimo Secolo èformata, e formata per rimanere qual’è, e ad essa si informa profonda-mente la sua psicologia popolare, che perciò tante volte ci sorprende:emerge dal tempo (loc. cit.).

Il regionalismo culturale-turistico strapaesano assume dimensioni tangibi-li e cospicue abbastanza presto, contemporaneamente ai quadretti regionali

99 È il momento della distruzione dei centri storici, di Roma in primo luogo e dimolte altre città, spesso e volentieri di quartieri ebraici, per far posto ai modernicubici palazzi di giustizia, simboli inequivocabili del nuovo corso dello stato.

100 Esponenti di una demologia e di una scienza del folklore ’che a parte singoli casifinì risucchiata in forme e gradazioni diverse dalla cultura di regime’ (Cavazza1996:142).

134 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

della Bernardy che interrompono il tono maschio e perentorio degli interventisulla rivista dell’Istituto Fascista di Cultura. Negli anni ’30, col municipalismofascista e con il turismo che si vuole di massa, le rievocazioni si moltiplicano:palio di Asti (1929), calcio in costume a Firenze (1930), giostra del saracinoa Arezzo (1931), palio di S.Giorgio a Ferrara (1933), gioco del ponte a Pi-sa e palio del Carroccio di Legnano (1935), e moltissime altre manifestazionisu scala più ridotta, che tracciano una mappa spazio-temporale di festivitàlaiche quanto a origine,101 ma spesso intrecciate col calendario cattolico e lecelebrazioni locali dei santi.

Il linguaggio dei commenti a questi eventi si costituisce parallelamentea quello della cronaca sportiva: vi si parla normalmente di ’tifo’. Accadonospesso eventi rissosi, e ci si appella ad un tifo102 che si vuole autentico mamisurato. Le vecchie élites vogliono queste manifestazioni, ma la rappresen-tazione pubblica dello sport di massa diventa sempre più importante, filtradalla città alla provincia e crea nuove difficoltà per la definizione culturalee commerciale degli eventi. Si dimostra che la ’ri-santificazione’ delle culturelocali padronali e artigiane implica un nuovo tipo di commercio: il Palio diSiena esige infatti il monopolio sul marchio, per essere l’unica tradizione inin-terrotta dal medioevo in poi, e lo ottiene. Gli intellettuali locali partecipanoa questi progetti ottenendo dei benefici economici e di prestigio personale,individuando magari le fonti storiche sulle quali fondare le rievocazioni, marestano fondamentalmente marginali. Il modello consociativo suggerito dallacomposizione dei comitati per queste festività, con il podestà, i gerarchi ed ilprefetto, i proprietari terrieri e le banche, i rappresentanti dei commercianti edegli artigiani e infine gli intellettuali locali, non fa che testimoniare quanto ilfascismo in fondo avesse un’idea abbastanza vaga di come ognuno potesse farela propria parte affinché anche l’Italia provinciale avesse il suo momento diattenzione e di gloria, e a che il laboratorio in cui si studiavano le possibilità

101 Neanche la ricerca di un senso di ’pacificazione’ o di uno sfogo tellurico-sportivoné di un compromesso nel quale bisogna pure fare qualcosa alla quale ’tutti’possano partecipare, possono giustificare l’incredibile oblio nell’Italia democrati-ca dell’origine (profondamente) fascista di queste manifestazioni e la loro gelosaamministrazione, attaccamento e persino affetto da parte delle amministrazionilocali di ogni colore politico. Quasi mai si è messo in dubbio in che misura e inche senso questo manifestazioni rappresentassero ‘le nostre’ tradizioni e questosi è potuto fare semplicemente facendo finta di mettere in mostra una tradizioneininterrotta dal medioevo piuttosto che ricordare che la messa in scena fascista è ilvero precedente storico. Le similitudini con l’oblio della jazz-band del ventennio,la pretesa di una ‘tradizione remota’ del jazz italiano (§ 3.14), le imposizioni dilimiti che dovrebbero ampliare la visuale, sono più che una semplice analogia.

102 Come abbiamo visto, nei propri ricordi del viaggio a New York nel 1932 (v. p. 89)Pietro Rizza si dice ’deluso’ dall’orchestra di Ellington, come pure dall’orchestradi Eddie Duchin, ascoltata al Lowe’s State, ’un cinema-varietà in Broadway’. Eaggiunge: ’Lo stile commerciale rende molto popolare un’orchestra, ma non puòinteressare gli amatori e tifosi del jazz’ (Rizza 1945 in Mazzoletti 2004:408).

2.2 Istituire il regionalismo italiano: il modello di ‘Strapaese’ 135

di una industria turistica nuova in cui si rivendeva una immagine manipolatadel passato ’andasse avanti’.

Lo stato favorisce le rievocazioni (benefiche per l’industria locale turistica)e si appropria di spazi consistenti in occasioni e momenti festivi, strutture ter-mali, beni naturali e culturali locali. Pare dunque che sul piano più generalesi tratti di un processo di riorganizzazione dei rapporti di potere territoria-lizzati che nel nord e nel centro assume l’esito spettacolare di un folklorismointerpretato, ma che nel sud e nelle isole incide molto meno su una varietàdi culture locali la cui complessità configura una resistenza. Questo processo,oltre alla mancanza di vere e proprie metropoli europee in Italia, caratterizzalo scontro con le tendenze culturali urbane e cosmopolite di cui il jazz è parte.Sono anche le cospicue energie spese nella costruzione dello spazio strapaesanoe la sua epocale influenza sulla problematica dell’identità italiana a togliere ilterreno al cosmopolitismo culturale di cui il jazz era un simbolo importantis-simo, prima ancora che fattori pur veri come il disinteresse degli intellettualio la lontananza del ’melos’ italiano da quello anglosassone. Si può anche sup-porre anche il fatto di mascherarsi da militi del rinascimento non assumessesignificati troppo contraddittori nemmeno dinanzi ai visitatori stranieri della’nuova Italia’, già abituati a questo per effetto della reputazione dell’operaitaliana. Il regime ricerca non solo la solidarietà delle classi popolari con unaideologia della forza che viene inclusa nelle rievocazioni storiche accanto atutta l’utilità di sperimentare modi di mobilitazione territoriale in funzionebellica, ma anche l’adeguamento a uno standard europeo di un nuovo tipo diturismo, con esiti che faranno epoca nelle pratiche del viaggio in Italia, comela visita al celebre balcone di Romeo e Giulietta a Verona e la gita in gondolaa Venezia.

Gli intellettuali che si affannavano dalla provincia ad inserirsi nei campilegittimi della cultura nazionale erano dunque impegnati in tutt’altre vicendee dipendevano pesantemente dalle visioni e dalle scelte politiche del regimenel campo della cultura nazionale. Il sostegno a ideologie americaniste come iljazz non poteva che esistere in gruppi di interesse trasversali e poco connotatisul piano politico e culturale. Come si è visto le jazz band più fortunate siproducevano al servizio della nobiltà, nei migliori alberghi, o sulle navi dacrociera, secondo il paradigma mussoliniano degli ’zingari di lusso’.

Esisteva però un’altro tipo di ricezione: quello della tradizione dopolavo-ristica operaia, antecedente al fascismo, nella quale i nuovi balli ebbero dasubito diritto di cittadinanza e dove il foxtrot della jazz band all’italiana diNatalino Otto, Rabagliati e Cinico Angelini, sostituì lo ‘shimmy’ ed il ‘blackbottom’ degli anni venti, e dove il tango (anch’esso semplificato e ’italianiz-zato’) assunse un dominio incontrastato sino ad oggi. Non c’è necessità disupporre ad un’azione censoria sistematica del regime sulla jazz band, ma èmolto più verosimile guardare alle modalità con le quali l’artigianato del musi-cista di intrattenimento si trovava ad operare entro ambienti di una geografiaculturale e sociale molto diversificata, ma molto attenta alla moda, special-mente presso le classi operaie e piccolo-borghesi urbane. Il ballo, per le classi

136 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

sociali più basse, può essere considerato, in un modo molto simile a quelloche rappresenta nelle culture descritte dall’etnografia, come minimo comunedenominatore dello svago e come competenza che marca il passaggio all’etàda matrimonio. Nella costruzione simbolica e sociale dell’ambiente della dan-za, che istituisce una proliferazione di locali adeguati a vari tipi di pubblico,dato che si ammette comunemente che ’tutti’ debbano essere in un modo onell’altro al corrente di quello che ’si deve’ saper ballare, le nuove mode sonomolto meno mortificate quanto più vi è distanza tra strapaese e la città.

2.2.1 Altre facce di strapaese: Livorno e Trieste

In una città portuale di media importanza come Livorno, cosmopolita, conuna grande comunità ebraica ed una forte tradizione operaia e socialista, idopolavori aziendali non furono mai dismessi nemmeno nel corso della guerra.Tra le file dei più esperti e appassionati ballerini di liscio tuttora attivi, sipossono cogliere testimonianze103 della vitalità dei dopolavori aziendali citta-dini, come quello della fabbrica di birra « Peroni ». Con la fine della guerra idopolavori che organizzavano le serate danzanti a prezzi popolari si moltipli-carono grandemente, rimanendo sempre luoghi diversi da quelli riservati alleforze armate americane, nei quali si praticava la prostituzione e attività divario tipo. In questo senso i più esposti al jazz in questa realtà locale sonostati proprio coloro che avevano accesso ai locali americani, frequentando ecollaborando a diverso titolo con le forze alleate.

Le serate danzanti nei dopolavori erano tenute da orchestre amatoriali cheeseguivano il repertorio più in voga e i classici del genere, difficilmente si ri-correva al fonografo o alla radio, anche nei periodi più difficili della guerra,fatta eccezione per il periodo del 1943 in cui i bombardamenti alleati distrus-sero gran parte delle città italiane di grande e media importanza e tra questeLivorno, porto di interesse strategico e snodo ferroviario. La presenza di uncaffè concerto, nel centro cittadino attirava nei suoi paraggi i giovani che pote-vano ascoltare musica nella stagione calda, senza pagare il biglietto d’accesso.La frequentazione delle sale da ballo dei dopolavori segnava un passaggio allamaggiore età sotto il controllo di rapporti sociali capillari e diffusi entro e oltrelo spazio del rione, essendo riservato ai diciottenni (con deroghe) e metteva ilballo al centro degli interessi dei giovani delle classi popolari. Le gare di balloerano praticate regolarmente ed erano motivo di un certo prestigio acquisitoin termini di capitale sociale da parte di ragazzi (e soprattutto ragazze) os-servati tanto per la loro bellezza e simpatia quanto per il loro ’giudizio’ neiloro rapporti con l’altro sesso.

Non solo la rilettura della storiografia fascista e dei problemi del regiona-lismo italiano e della sua varietà culturale, ma le narrazioni orali, la memoriapopolare dimostra quanto la ricezione di tendenze culturali come quella del

103 Le seguenti considerazioni sono riportate da un colloquio con Vanda Coen,livornese, operaia pensionata, sui propri vividi ricordi del periodo post-bellico.

2.2 Istituire il regionalismo italiano: il modello di ‘Strapaese’ 137

jazz siano stati fenomeni completamente immersi nel più vasto e lungo pro-cesso di modernizzazione ed urbanizzazione del paese, in un processo che è’interazione di spinte diverse’, non certo qualcosa di ’coerentemente pensato esviluppato’ 104 (Cavazza 1996:252), e che si svolge in spazi sociali e culturalie in condizioni diversissimi tra loro. Se i centri più importanti nel sostegno enella produzione del jazz in Italia furono le grandi città come Torino, Milano,Genova, Roma e Firenze, riveste un certo interesse gettare un breve sguardosu quello che accade in una delle città più oggettivamente cosmopolite delpaese. A Trieste, la città asburgica e mitteleuropea, l’accesso al mare che sipoteva raggiungere da Vienna in due ore di treno, l’intervento del regime sipuò cogliere in atto nel momento in cui i teatri di tradizione entrano in crisi.

Vittorio Levi, acuto osservatore e commentatore partecipe di un cinquan-tennio di vita musicale triestina, rievoca il dualismo tra l’aristocratico teatroVerdi, teatro di tradizione Wagneriana e Verdiana, ed il Politeama Rossetti105 ricordando che l’opera verista era ammessa solo nel secondo. Verso il 1930la crisi economica rende l’opera sempre più difficile da programmare in stagio-ni complete. Il Rossetti ospita solisti e complessi sinfonici ma anche operetteitaliane e tedesche, compagnie di ballo, riviste, programmi di varietà musicalee cinema sonoro, mentre l’epoca del film muto è già finita. Josephine Ba-ker arriva a Trieste nel 1932, marcando un passaggio epocale, e richiamandoal politeama una folla di persone agiate: ’mai si era visto lungo il viale XXsettembre una tale interminabile corsa di automobili.106

Nell’anno in cui a Roma la festa del decennale del regime pubblicizza l’ar-dua e ferale idea che il fascismo non rappresenti altro che una continuità con laRoma imperiale, il vero e proprio simbolo della sensualità femminile, che avevaprovocato pronunciamenti ufficiali di condanna da parte della Chiesa,107 arri-va nella Trieste già multiculturale e cosmopolita e che ora si scopre cattolica,bempensante e nazionalista: ha un successo strepitoso e si nota subito come

104 La fortuna delle imprese culturali strapaesane si spiega certo con una tensioneverso il passato ed il sistema di valori preindustriali, che precorre l’adesione alfascismo delle clasi dirigenti urbane e locali, una adesione che non metteva in sal-vo dai conflitti che la modernità portava con sé e che erano presenti nella stessaOpera Nazionale Dopolavoro. Ma la componente dell’innovazione tecnologica, dicostume ed i loro simbolismi attuali erano ben presenti anche nelle iniziative del-l’OND in cui ’la rivalutazione del costume tradizionale coesisteva con l’istruzioneprofessionale, il saltererello [sic] con la jazz-band’ (Cavazza 1996:252).

105 I Politeama, com’è noto, erano sale multifunzionali adatte alle nuove esigenze dellospettacolo che si erano venute facendo verso la fine del secolo diciannovesimo.

106 Levi nota che un successo paragonabile fu attribuito solamente a Franz Leharnel 1936, e osserva che si trattò di un successo che il pubblico volle attribuito informa « meno vistosa ma assai cordiale» (ivi)’ (Levi 1999:133).

107 Vedi per questo Mazzoletti (1983 e 2004), le tempestive memorie di Marcel Sauva-ge furono tradotte in italiano già nel 1928 col titolo Le memorie della Venere Negra(1928), a dimostrare la sensibilità del pubblico italiano per la rivoluzione operatadal corpo femminile della donna afroamericana nel mondo dello spettacolo.

138 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

il pubblico delle classi privilegiate accorra in massa a partecipare all’evento.L’evento artistico opposto sul piano della strategia politica è quello dello

stato che si propone di portare la cultura alla masse, direttamente sponsoriz-zato dal Pnf nel biennio 1936-38. Si tratta dell’itinerante e attrezzatissimo «Carro di Tespi », iniziativa che portava sulle piazze italiane i grandi interpretidella lirica e i grandi musicisti nazionali. La scelta è per repertorio classico:Rigoletto, Tosca, Sonnambula. Nel 1936, e nel 1937 Rigoletto e Aida. In se-guito le stagioni estive al Castello di S. Giusto richiamarono fino a 18.000spettatori (op. cit., p. 134).

Più tardi, in tempo di guerra, le stagioni del Verdi superano persino inofferta quelle in tempo di pace, l’attività si intensifica. Forse questo si spiegacon il bisogno di evasione, mentre la fonte di informazioni era ormai diven-tata Radio Londra. Nel teatro di tradizione cittadino, durante l’occupazionenazista, si crea una orchestra stabile composta da triestini, specialmente alloscopo di salvare dalla leva i giovani musicisti. La gente si stringe attorno alproprio teatro (op. cit., p. 137). Il maestro Antonio Illersberg, compositoretriestino di origini popolari, vi dirigeva il coro dopolavoristico nel 1938. Il tea-tro Verdi decideva di ospitare il Modern Jazz Quartet solo nel 1963. L’unicomusicista jazz ammesso alla Scala di Milano sarà, in tempi più prossimi a noiil pianista Keith Jarret. Due sole deroghe al jazz testimoniano della continui-tà di una programmazione interessata principalmente a grandi interpreti dellatradizione europea.108

Tuttavia Trieste ebbe una propria e vivace vita jazzistica. Il trombettistatriestino Astore Pittana è ricordato come il primo scopritore della tecnica ‘no-press’ tra i trombettisti italiani, ottenendo questo risultato verso il 1935 edaiutandosi con sole fonti registrate.109 Il pianista Gianni Safred e molti altrimusicisti parteciparono alla menzionata orchestra stabile triestina, che si di-videva in una orchestra sinfonica e due orchestre da ballo e che fornì elementiper piccoli complessi e per la repubblichina Radio Trieste dal 1943 al 1945.Nel periodo della guerra e nel primo dopoguerra si fece molto jazz a Trieste ealcuni dei musicisti di questa città saranno protagonisti della scena musicalenel dopoguerra: due tra i più conosciuti dal pubblico saranno Lelio Luttazzi,pianista, autore, presentatore e attore, e Bruno Canfora, arrangiatore e diret-tore d’orchestra, animatori di molte edizioni dei varietà televisivi più popolaridalla metà degli anni ’60 ai primi anni ’70.

108 Si vedano per questo le riproduzioni delle programmazioni annuali in appendicenel lavoro citato (Levi 1999). Che la tradizione musicale della città, che avevaanche una notevole colonia di compositori e musicisti nel corso dell’Ottocento edella prima metà del Novecento, non fosse affatto un terreno adatto all’innova-zione è confermato dall’accoglienza ricevuta a Trieste da Bèla Bartòk, il quale fuacclamato nella stessa serata per la sua esecuzione di musica tedesca e quasi igno-rato per la propria musica (ivi:90). Trieste coltivò a lungo il proprio Wagnerismomusicale.

109 Pittana cita come fonte i dischi di Erskine Hawkins e Sonny Durham (Mazzoletti1983:232). (Mazzoletti 1981:323).

2.3 Verso le conclusioni: sogni a metà 139

2.3 Verso le conclusioni: sogni a metà

Per inquadrare meglio la politica culturale del regime ed il suo fallimentonell’opera di edificazione di una cultura nazionale unitaria (problema tuttoraall’ordine del giorno) conviene tenere presente le notevoli difficoltà di comuni-cazione e persino di comprensione reciproca tra città e campagna. Se grandicittà e anche centri regionali importanti polarizzano la presenza di gruppi dimusicisti innovativi e se l’innovazione del gusto musicale e le nuove mode go-dono di un proprio pubblico e di un minimo di slancio vitale, la campagnaresta un altro mondo, ha una propria autonomia culturale e nel sud addirit-tura una distanza dalla cultura nazionale nel cui merito il fascismo esita adentrare.

Dove l’impresa strapaesana ha lasciato i segni più profondi, come in To-scana, Lazio, Umbria, Emilia-Romagna e altre zone del nord e del centro pro-vinciale e rurale si è affermata anche una mentalità e una pratica che segueun proprio corso oltre il passaggio dal regime all’Italia Repubblicana. Sonoproprio queste le zone nelle quali vi è stato nel dopoguerra, proprio per rea-zione allo ‘strapaese’ fascista, un ritorno nelle mani della sinistra delle attivitàculturali locali ed un più forte tentativo di diffondere nelle masse la ‘grandecultura’.110

Rispetto al mondo delle politiche culturali collettivistiche del primo do-poguerra dei partiti comunista e socialista (anch’esse modellate su un’ideadopolavorista), delle cooperative sociali, dei circoli del cinema, delle bibliote-che viaggianti, dei circoli di lettura (organizzati prima dai socialisti, poi daifascisti, poi ancora dai comunisti), si crea un ’dissenso simbolico’ mano a ma-no che il ricordo dell’entusiasmo dell’epoca della rinascita si affievolisce. Siforma cioè un nuovo agnosticismo se non un alone di dissenso culturale similea quello che circondava la passione per musica americana nel periodo fascista.

Per molta parte dei giovani che conobbero il dopoguerra dai racconti deipropri genitori, il rock, il rhythm & blues, ed il jazz saranno questioni diimportanza vitale negli anni ’60 e ’70: rappresenteranno l’aspirazione ad unmodo di essere diverso, diventeranno una bandiera questa volta sventolataverso la sinistra politica e democratica. Questo tipo di polarizzazione simbolicadi uno scontento profondo che le classi dei giovani sentono come incapacità dirispondere alle sfide culturali, politiche ed estetiche (in quanto conflittualitàdi rappresentazioni pubbliche e di riferimenti che il mondo pone al paese)genera subculture più o meno omogenee, ma la cui prospettiva temporale è dilunga portata. Alcune città di provincia collocate nelle zone più strapaesanedel centro e del nord hanno avuto gruppi estremamente agguerriti di sostegno

110 Anche qui la memoria popolare è chiarificatrice: le biblioteche popolari del dopo-guerra che si trovavano nelle ’case del popolo’ gestite dai socialisti e dai comunisti,languiscono negli anni ’60 e vengono smantellate. I libri tornano in parte al partitoo nelle case dei dirigenti che se ne appropriano.

140 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

al jazz111 e alle nuove tendenze che vie via si andavano facendo negli anni’50 e ’60 e poi nei ’70 e ‘80, gruppi che in molti casi, contribuiscono ancoraoggi al prolificare di festival che accoppiano turismo di piccolo raggio a eventimusicali.

È il modello sociale dell’interazione organizzativa degli eventi, i terminidelle inclusioni degli esperti e la necessità di soddisfare molteplici esigenzepotenzialmente conflittuali a costituire l’eredità dello spazio strapaesano nellaproduzione di cultura. Il jazz è oggi una componente che entra a pieno titoloin manifestazioni112 per le quali i musicisti italiani debbono lottare per ac-creditarsi e comparire in un mercato di iniziative culturali locali che dipendeancora da una geografia politica e sociale strapaesana.

2.3.1 Gli intellettuali e l’industria culturale

L’interpretazione storica più condivisa nell’Italia del dopoguerra è stata quelladel fascismo come ritardo, come interruzione e come errore da pagare. In uncommento dell’italianista di origine ebraica Attilio Momigliano all’indomanidella caduta del governo fascista nell’agosto del 1943, si legge:

Tutti respiriamo meglio. Come l’asfissiato quando gli si dà un po’d’aria; ma tutti attendiamo con ansia la soluzione del terribile nodo incui ci ha implicato lo scomparso: l’opera di intere generazioni perduta,la speranza di qualche generazione troncata (Momigliano 1969:188 inPestelli 1998:191).

Anche se l’ottimismo del dopoguerra sarà lo spirito che permetterà unaspinta in avanti, è pur vero che i conti col fascismo restano da fare: non lo sipotrà non mettere in discussione per non scontarlo in futuro. La questione delrapporto tra università e regime fascista torna spesso alla ribalta, nell’Italia dioggi, nell’epoca in cui la destra politica diventa forza di governo. Il problema

111 Per esempio le due città agricole di Asti e di Alessandria nei pressi di Torinohanno datto i natali rispettivamente a Gianni Basso, recentemente scomparso,sassofonista molto importante nel jazz del dopoguerra, ed al vibrafonista, pianistae ’chansonnier’ jazz Paolo Conte, due personaggi il cui amore per il jazz si misuracon il metro di Boris Vian. Le città di Pisa e di Lucca hanno avuto un momentodi fremito per Chet Baker, un celebre ‘quartetto di Lucca’ sul modello del MJQ,e in seguito (negli ultimi ’70 e primi 80) a Pisa un festival di Jazz e musicaimprovvisata molto importante che non è nato dal nulla. Bergamo ha avuto ungrosso festival jazz, ecc.

112 È sin troppo evidente notare il ritorno della ’jazz band’ nello spazio strapaesanonelle manifestazioni che risalgono al periodo fascista quali le ’feste del vino’. Peresempio, la cittadina toscana di Terricciola, in provincia di Pisa alla festa del vinodell’estate 2003 ha scritturato il gruppo di Stefano Bollani in una rappresentazionedi musica e teatro dedicata ai banditi, gli irregolari, gli anarchici, ecc., facendoconfluire in campagna un buon numero di appassionati dalle città di Pisa e diLivorno a gustare il programma ed i prodotti tipici della zona.

2.3 Verso le conclusioni: sogni a metà 141

è oggi quello della ’creazione’ di una destra che non rappresenti la nostalgiadel regime e la sua capacità di adeguarsi ai tempi, ma una moderna forzaeuropea.113

Allora, tra i docenti che rifiutarono di giurare quella fedeltà al fascismoche fu formalmente richiesta nel 1931, il rapporto fu di uno su cento che giu-rarono.114 I personaggi chiave dell’accademia italiana di origine ebraica eranomoltissimi, intorno al 20 %, e dovettero abbandonarla. Il regime trova peròun ’modus vivendi’ con gli intellettuali, ed in un certo senso il sistema uni-versitario italiano nel suo complesso resiste alla dittatura. Ma, osserva Pestel-li (1998:176-177), pare che l’università italiana resista alla dittatura almenoquanto alla democrazia. Il valore di questa capacità di resistere si rivela al-quanto problematico da valutare, molto simile ad una specie di ’imperturbatocorporativismo’ che resta fedele a sé stesso.

2.3.2 La missione di Valentino Piccoli ad Harlem

Tornando al jazz come tema capace di interessare gli intellettuali, si è giàcitato di passaggio l’interesse episodico di alcuni scrittori ’americanisti’ comeMario Soldati (1935). Un documento interessante da parte di un intellettualedel regime riguarda la missione in America dello scrittore Valentino Piccoli,115 umanista fascista e cattolico, autore di numerose opere letterarie e pe-dagogiche, il quale produce un interessante resoconto da New York in cui sipropone di trattare ’il problema negro’ nel Nord-America (Piccoli 1934). Che

113 Ma il ritorno della destra al governo è già avvenuto, in quanto entità mista emolto poco definita politicamente, occupando posti strategici e usando l’anticaarte della clientela. Oggi gli intellettuali di destra reclamano ed ottengono postichiave nei media e alla TV in particolare, insegnanti di religione formati in ambitocattolico invadono le scuole primarie e secondarie, storici ed esperti di armamentie di strategie geopolitiche, ex-militari in pensione diventano docenti universitari espiegano che cosa accade in Iraq. Ci si adegua molto rapidamente alle condizionidi guerra e si scelgono a controbattere le loro tesi dei ’contro-esperti’ che spessousano gli stessi criteri.

114 L’episodio è un momento importante della chiusura definitiva dell’approccio in-terventista fascista alla cultura e agli intellettuali (Cannistraro 1978:53), su 1200docenti 13 non firmarono perdendo la cattedra. Il giuramento fu preceduto, dueanni prima, da un analogo giuramento di fedeltà al fascismo sottoposto ai maestrielementari e ai professori delle scuole secondarie.

115 V. Piccoli fu romanziere, italianista, pedagogo, filosofo, autore prolifico la cuibibliografia comprende, oltre ai suoi romanzi e opere teatrali, traduzioni (I Mise-rabili), vite dei santi (Teresa di Avila), commenti letterari e storici sul risorgimentoitaliano, questioni di politica internazionale e di pedagogia, per giungere sino al-la mistica totalitaria (Orizzonti Imperiali, per i Quaderni della scuola di misticafascista Sandro Mussolini). Fu direttore dal 1927 della rivista di informazioneletteraria « I Libri del Giorno » edita dalla casa editrice Treves. Si trattava diuna ’rivista divulgativa frondista’, alla quale collaboravano gli scrittori RiccardoBacchelli ed Emilio Cecchi (v. Balduino e Luti 1993:942).

142 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

la ’musica negra’ sia trattata anche in un contributo su una rivista istituzio-nale come in un pezzo giornalistico di colore conferma quanto attuale fossela questione del jazz intorno agli anni ’30. Piccoli visita Harlem: il CottonClub in pieno splendore lo lascia freddo, mentre egli si commuove dinanzi allospiritual che ha occasione di ascoltare in un concerto alla Town-Hall direttodal ’maestro Hall Johnson’ ed in alcune visite presso alcune chiese nere diHarlem. Per Piccoli il jazz sarebbe poco più di un espediente per spillare soldiai turisti in visita nella metropoli americana.

Nell’ascoltare questi canti, mi colpì subito la profonda antitesi tra unasimile manifestazione di arte lirica e dolorosa, e quel barbarico jazz,messo in voga dalle mode parigine. Senza dubbio il jazz, accompagnatodalle danze irrefrenabili, è anch’esso un aspetto innegabile dello spiri-to della gente di colore. E ad Harlem, la Montmartre negra di NuovaYork, se ne trova ovunque. Ma si tratta di una messa in scena ad usodegli stranieri. Per quanto il varietà negro di Harlem – particolarmentenel famoso Cottom Club [sic] – abbia quanto di più perfetto si possaconcepire in tal campo sino a raggiungere espressione di vera arte, sisente sempre in queste manifestazioni qualcosa di artificioso e di for-zato. Il jazz appare il lazzo destinato a divertire, a scopo di guadagno,un pubblico indifferente e straniero. Quando l’uomo di colore cantaa sollievo della propria anima, per se e per i propri fratelli, nasconoquesti Spiritual Songs, pieni di aneliti drammatici verso la redenzioneceleste, appassionati, ardenti, sempre tristi (Piccoli 1934:841).

Bisogna notare il rilievo dato alla ’Montmartre Negra’ che dimostra la ri-cezione del linguaggio del movimento della Harlem Renaissance, come pureuna vaga convergenza con le tesi di W.E.B. Du Bois (v. parte 4), sul fattoche la chiesa negra vada vista come primo luogo della coscienza di sé del-l’identità afroamericana. Ma la vera preoccupazione di Piccoli non si limitaalla sua partecipazione agli spirituals, essendo piuttosto quella di verificare lapossibilità di un collegamento tra comunisti e i ’negri’ americani che voglianorivoltarsi alla loro condizione. Con questo argomento inizia la sua intervista aRoy Wilkins, allora vice-segretario della NAACP (National Association for theAdvancement of Coloured People), chiedendogli una vera e propria delazione.Piccoli chiede conto a Wilkins della presenza di un addetto al Department ofLabour Defence, di

[...] un certo Kodjo Kenum, negro del Dahomey, che fece parlare moltodi sé a Parigi qualche anno fa e si propone di fare un’opera mondialeper il ’comunismo negro’ (cit. p. 843-844).

Wilkins minimizza la possibilità dei bolscevichi di incidere sul popolo neroe sottolinea che l’obiettivo della NAACP è il pieno riconoscimento dei diritticivili e non il comunismo. Il giorno dopo Piccoli si reca a far visita alla sededella NAACP nella quinta strada ed ha l’occasione di conoscere nientemeno

2.3 Verso le conclusioni: sogni a metà 143

che W. E. B. Du Bois, allora presidente, il quale si dice ansioso a che Mussoliniesprima la propria opinione sul problema dei Neri Americani, come già hannofatto Gandhi ed Albert Einstein. Prende commiato dal suo interlocutore conparole riservate al duce piene di ’quell’ammirazione che è condivisa da tuttigli americani’ (l. cit., p. 847).

Le conclusioni del rapporto di Piccoli sono l’auspicio di una opera di pre-venzione della propaganda di sinistra e delle attività dei comunisti in Americacon l’invito alla destra di regime a non lasciar monopolizzare dalla sinistra lacausa dei Neri Americani, preoccupato della potenziale solidarietà tra i popoliafricani ed i Neri d’America, nel caso che la conflittualità aumenti ed il con-trollo delle loro guide intellettuali venga meno, nel qual caso la propagandacomunista potrebbe polarizzare ’l’odio contro quelle nazioni bianche, che han-no il compito di difendere la causa della civiltà nel mondo’ (p. 849). Quantoal proprio servizio per l’Istituto Nazionale Fascista di Cultura, per accordaremeglio la sua visione di umanista con la sensibilità spirituale ed il registro’animabellista’ del racconto, come abbiamo visto Piccoli mostra simpatia peri ’negri che soffrono’ e che si elevano dalle cure terrene coi loro meravigliosispirituals. Egli infatti deplora la modernità alienante della società americana,tutta basata sul profitto, dimentica di studio e introspezione e soprattutto diquella ’profonda cristianità’ di cui è ancora in grado di nutrirsi in Patria.

Il documento ha tutto l’aria di prodotto di una missione di ’intelligence’collocata in un clima in cui i rapporti con l’America si fanno sempre più diffici-li. L’anno seguente, il 1935, quando gli interessi americani divergevano aperta-mente da quelli dell’Italia fascista, nel clima dell’aggressione coloniale italianadell’Etiopia, fu inviato l’esperto di relazioni pubbliche Bernardo Bergamaschiin una missione che segue di un anno quella di Piccoli. La qualità informativadella missione è alquanto inferiore. Al suo ritorno Bergamaschi compilò unrapporto in cui scriveva, sintetizzando, che ’alle radici della inattesa ostilitàamericana’ stavano « la propaganda britannica, il protestantesimo nativista,quella parte della popolazione negra che subisce l’influenza dei comunisti e,infine, gli ebrei » (cit. in Monteleone 1976:163, n. 60).

La poca considerazione di Piccoli per il jazz era forse accentuata dal tro-varsi dinanzi ad un ’campo’ complesso di simboli, attività economiche e modidi vedere il mondo difficili da penetrare. Che il jazz sia da lui equiparato adun ’trucco’, ad una farsa per turisti (simile a quelle per cui in Italia i popolanivengono vestiti in costumi rinascimentali), è un dato senza dubbio interes-sante. Rientra in quella mentalità, così radicata negli intellettuali accademicie costantemente ’spiritualisti’ italiani, ma certo conosciuta in tutta Europa,che equipara il nuovo ad un alienante macchinismo industriale, da cui nonvorrebbe essere disturbato, e forse, per quanto concerne il jazz, perfino ad unresiduo di magia africana ancora nelle mani dei ’negri’. Ma il suo sospetto perl’orchestra di Duke Ellington aveva forse qualche altra ragione di essere, se civolgiamo all’interpretazione degli anni ’30 proposta da E.J. Hobsbawm.

144 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

2.3.3 New Deal « Bolscevico? »

Secondo quanto sostiene Eric Hobsbawm116 Piccoli avrebbe avrebbe avutoragione a fiutare qualcosa di ’bolscevico’ nel mondo dello swing. Il panoramatratteggiato dallo storico (e appassionato di jazz di ’lungo corso’), gli permettedi fare delle considerazioni interessanti, specialmente in rapporto alla sua te-stimonianza diretta del venire meno del ’mondo eroico’ del jazz. In un capitolodedicato alla recensione di The Duke Ellington Reader, di Mark Tucker (inHobsbawm 1993), e di Swing Changes: Big Band Jazz in new Deal America, diDavid Stowe, una breve introduzione degli argomenti trattati basta a inqua-drare bene tutta l’importanza della vicenda nota come «era dello swing» nelcorso della storia americana. Il jazz si pone tra i fenomeni dell’arte popolaree delle invenzioni economiche e sociali del novecento americano come Holly-wood ed il Fordismo, ma l’industria della popular music americana avrebbeavuto esiti completamente diversi senza una continua economia dell’immissio-ne della musica afroamericana nel mainstream commerciale. L’emergere delragtime e del jazz stile Chicago e New Orleans, la diffusione delle nuove danze(blackbottom, shimmy, fox-trot), il sostegno di sparuti drappelli di appassio-nati, danno l’avvio all’enorme fortuna di questa industria: almeno a partiredagli anni ’20 in poi ogni decade produce poi una innovazione ed una nuovatendenza.117

Sarebbe riduttivo vedere questo processo come il prodotto esclusivo di ungenio americano dell’impresa privata. L’aspetto pubblico e nazionale preval-se nell’era dello swing. Una coincidenza di interessi e di programmi politicied economici andavano allora nella direzione di un patto sociale nuovo e diuna nuova rappresentazione culturale dell’integrazione e del progresso. Il jazzdell’era di Roosevelt e del new deal, dovette molto alla sinistra americana.Nel racconto di Hobsbawm spicca la figura di John Hammond Jr., ’scoprito-re’ di Benny Goodman, di Count Basie e di Billie Holiday, il quale incarnauna miscela di radicalismo e snobismo culturale con una sensibilità ed unacapacità organizzativa talmente radicata e profonda da sfiorare l’incredibile.Hammond, che Hosbawm conobbe molto bene, viene da questi descritto come‘per anni vicino ai comunisti’, non nella veste di un generico progressista o un

116 Per uno panorama critico sintetico sui contributi di Hobsbawm alla storia e allasociologia del jazz si veda l’ottimo articolo di Michael Naepels (2001).

117 Archie Shepp vede in questo ritmo decennale un preciso carattere della musi-ca afroamericana: « Negro music and culture are intrinsically improvisational,existential. Nothing is sacred. After a decade, a musical idea, no matter how in-novative, is threatened. Just look at what’s happened since Parker and Coltrane.The reason is that black music thrives on change. We’ve got to keep trying newthings just to stay around. It hurts us in a way, because we haven’t been able todevelop retrospective, re-creational institutions that would preserve our culturethe way others have. So, we’ve had to be cultural guerrillas, in a sense, just inorder to survive » (Shepp 1990; per un’ulteriore discussione di questi temi si vedala parte 4).

2.3 Verso le conclusioni: sogni a metà 145

marxista osservante ma piuttosto in quella di un militante della cultura chenon tollerava mezze misure. La sinistra ebbe allora il merito di portare ’fuoridal ghetto’ la musica nera, mobilitando il singolare establishment di New Yorkcomposto da wasp liberali e radicali ebrei. L’inizio della carriera di Billie Ho-liday e le sue descrizioni del City Café, di Hammond stesso, di Artie Shaw e diGoodman mostrano una sincera ammirazione per la capacità di portare il jazzverso il grande pubblico senza per questo scalfire minimamente i termini dellapropria leale118 e sincera ammirazione per i musicisti afroamericani (Holiday2002).

Il ruolo di Hammond come scopritore e sostenitore di talenti dal 1933 allasua morte non aveva uguali. Si basava non solo sulla sua sbalorditiva capaci-tà di giudizio e sulla conoscenza della materia, ma anche sulla sua capacitàdi mobilitare tra le fondamentali componenti del successo di New York e diconseguenza della nazione: amicizie personali, un pubblico metropolitano or-goglioso della combinazione di liberalismo e snobismo del « New Yorker » euna comunità dello spettacolo decisa a sfruttare questo mercato (Hobsbawm2000:351).

Quando il jazz ’rientrerà nel ghetto’, col be-bop, Hammond non approve-rà; starà lontano dal jazz per un certo periodo per poi continuare a ‘scoprire’:Aretha Franklin, Bob Dylan, e, per ultimo, Bruce Springsteen. Ma resta daspiegare, continua Hobsbawm, questa repentina fine dello swing intorno aglianni 1946-48, una fine che coincide con la ’frammentazione della coalizioneRoosveltiana di operai, etnie urbane, afroamericani, agricoltori e intellettuali’(Stowe in Hobsbawm 2000:355), ma forse, conclude lo storico inglese, il veromistero fu nella mobilitazione degli anni trenta di musicisti, impresari e indu-stria dell’intrattenimento intorno ad una musica il cui pubblico era compostoessenzialmente di adolescenti e studenti.

2.3.4 Lo swing e la guerra

Nella sua recensione a Stowe, Hobsbawm mette in risalto in particolare le os-servazioni sullo swing e la guerra. L’America si presentò in guerra con questamusica e non con motivi patriottici preconfezionati, che ci furono ma rimaseropraticamente ignorati. Nel campo opposto, mentre gli italiani si impegnanoa produrre canzoni militari governative, lo stesso Goebbels ’autorizza le tra-smissioni di jazz per le forze armate tedesche riconoscendone il forte richiamopopolare’.119 La strategia mediatica italiana fa pensare alla nota definizione

118 Hammond viene ricordato con queste parole da Count Basie: « E’ stato un diavolod’uomo. . . e non mi ha mai chiesto un nichelino e non lo ha chiesto nemmeno atutta quella gente per cui ha fatto molto. Ed erano in tanti. Voleva solo vedere irisultati di quello che si supponeva dovesse accadere » (Hobsbawm 2000:430).

119 La ben nota deroga alla proibizione vigente del jazz in quanto ’arte del subuma-no’ (Burns 2000, ep. 8, Dedicated to Chaos, 3:19) « fu pubblicata a cura dellostesso ministro della propaganda nel «Volkischer Beobachter» del 1 marzo 1941» (Monteleone 1976:215).

146 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

di Ruth Benedict di quelle che sono civiltà ’di vergogna’, e comporta una va-lutazione diversa del valore simbolico della musica e diverse rappresentazionipubbliche del consumo di cultura.

Gli enti fascisti preposti alla censura continuano a rifarsi all’iconografiadel libertinaggio negro-parigino (ora che Parigi è nelle mani dei tedeschi),120e nella quale il jazz è ’frutto proibito’, sudore, corpi in libertà, e l’eserci-zio della guerra un esercizio di virtù maschile fisica e spirituale addiritturacontemplativa e contrapposta ’religiosamente’ a quanto poteva essere intesocome ’godimento dei sensi’. 121 La percezione nazista del jazz come ’possi-bile conforto’ alla truppa era funzionale ad un militarismo di tradizione, orasotto il controllo di un gruppo ristretto di eletti. Essa era ben più malizio-sa nell’intuizione del modernismo egualitario di questa musica e totalmenteestranea alle rappresentazioni religiose antiche e mediterranee della vocalità(seppur mediate dal cattolicesimo) che permangono in qualche modo in quellaitaliana-fascista.

Durante l’occupazione americana, con la presa in carico delle stazioni radioitaliane da parte del PWD (Psychological Warfare Department), l’orientamen-to mediatico americano non mostra di pretendere un impegno eticamente di-sinteressato in sostegno delle forze alleate, ma preferisce rivolgersi a un popolodistrutto e affamato con un impegno propagandistico orientato esteticamenteverso le rappresentazioni della donna americana, della famiglia e dello stile divita americano. Come nella pubblicità a venire, ci si limita a mostrare i pregi

120 Il 28 aprile 1937 Coleman Hawkins effettuava a Parigi una seduta di registrazionea suo nome con la All Stars Jam Band, che comprendeva Django Reinhardtalla chitarra, Stéphane Grappelli al piano, Benny Carter (alto e tromba), AndréEkyan all’alto, E. d’Hellemmes al contrabbasso e Tommy Benford alla batteria.Patrick Williams (1991:98-106) tratta estesamente queste incisioni e altre seguentieffettuate da Reinhard con gli Ellingtoniani Rex Stewart e Barney Bigard comedocumento di quanto Reinhardt fosse in perfetta fase con i migliori musicistiamericani e viceversa. La seguente incisione di Hawkins dell’ottobre 1939 di Bodyand Soul, vera pietra miliare della storia del jazz che cadeva appena dopo cheHitler aveva invaso la Polonia, assume il senso di un appassionato e partecipatomessaggio musicale alla città e alle persone che potevano ben rappresentare tuttal’Europa, come aiuta a supporre la lettura di Ken Burns nel suo Jazz (2000, ep.6, The Velocity of Celebration, 54:00).

121 Sul piano generale generale vi è un evidente riferimento ad una bipartizione ditempi di pace/guerra che si rifà alla civiltà romana antica e persino ad un mondoreligioso mediterraneo che trascende il facile nesso tra fascismo ed i fasti dellaromanità. L’Islam stesso inteso come tradizione religiosa, raccomanda che il corpodella donna sia protetto e modesto in tempi in cui la presenza delle forze delconflitto comportano rischi incontrollabili. D’altro lato c’era la censura che ilregime faceva a se’ stesso in quanto si sapeva bene che le deroghe alle disposizionidi guerra potevano venire proprio da parte dei gerarchi. Mazzoletti (1983:325)riporta l’esemplare punizione verso uno di essi, implicante il ritiro della tessera delpartito e la destituzione da ogni incarico, dopo una festa danzante che implicavail consumo di ’articoli proibiti’, cioè di musica americana.

2.3 Verso le conclusioni: sogni a metà 147

dei propri prodotti, lo swing è chiamato ad impersonare (più che uno stato)una società americana giovane, libera, razionale e dinamica e così viene perce-pito nella grande festa della liberazione in Europa. Ma l’esito propagandisticodello swing, che non basta assolutamente a rappresentarlo, implicò un ritornosui propri passi a guerra finita.

Hobsbawm si chiede infatti se lo swing non fosse stato in qualche modotroppo ‘pesante’ per la maggior parte degli squares, campagnoli, non-colti eoperai. Cioè di quegli americani bianchi che avrebbero preferito piangere conromantiche e più apparentemente ‘private’ ballads campagnole, come dimo-strerà il successo a venire della country music negli anni ’50. Probabilmenteparte di questa ’pesantezza’ fu costituita dall’esito dello swing e del suo ar-mamentario in quanto segno dell’America trionfante sui campi di battaglia.In seguito il successo della ‘country music’ significherà la necessità di volgersiverso casa per chiudere il capitolo guerra e piangere i propri morti, celebrandoil ruolo dei provinciali che erano morti sui campi di battaglia.

Il sogno interrotto della swing craze appare come fenomeno articolato ecomplesso, al quale contribuirono diversi fattori: sinistra politica, ’dandysmo’dell’ambiente di New York, condizioni favorevoli allo sviluppo dell’industriadiscografica, spinta al superamento ottimistico e modernista del problema del-la segregazione razziale proveniente dalle forze di questa stessa città. A questosi aggiunge certo una mobilitazione dei giovani ed uno sforzo di produrre unanuova rappresentazione della complessità culturale americana che emerge nel-l’industria dell’intrattenimento ed nel cinema in particolare. Col ritorno a casasi eclissa la voglia di partecipare e di celebrare: la guerra si conclude con il pas-saggio all’era della minaccia atomica con i massacri di Hiroshima e Nagasaki,i soldati afroamericani non sono accolti come trionfatori in patria e tornanoalle prese coi problemi di sempre. Un drappello di musicisti sta elaborandonon senza fatica una versione autonoma del rapporto col jazz, di cui si stainventando un nuovo modello. Nuove leve di musicisti inventano col be-boppropri modi di vestire, di rapportarsi, oltre che di suonare, e un intellettua-lismo che guarda all’Europa. Il bop sarà un momento essenziale del nuovoapproccio alla tradizione musicale afroamericana, in quanto attraverso il boped il suo modernismo dissidente e de-costruttivo sarà possibile interpretarediversamente anche il passato del jazz ed i singoli contributi dei suoi maestri.

Questo tipo di interpretazione sposta almeno di quindici anni indietro l’in-teresse di cogliere il coinvolgimento di intere generazioni di giovani per nuoveforme di musica come parte integrante e niente affatto accessoria attraver-so cui giungere a nuove elaborazioni culturali. La solidarietà tra ’studenti emusicisti’,122 argomento sollevato più volte attorno alla storia del jazz, ren-

122 La notano Hobsbawm (1963) e Malson in Jamin e Williams (2001; cit. p. 12).Gary Giddins (Burns 2000, episodio 5, Swing, 32:40) non ha dubbi a paragonarele condizioni di un band-leader affermato come Benny Goodman o Artie Shaw aquelle di una rock star di oggi: è da qui in poi che ci si esibisce davanti ad unpubblico di teen-agers sovreccitati che cercano di toccare i propri idoli.

148 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

de necessario un quadro dello sviluppo del jazz come propedeutica necessa-ria e confronto per ogni teorizzazione sulla popular music ed ai suoi aspettisociologici nel rapporto con le giovani generazioni.

È molto importante, per la tematizzazione proposta nel secondo capitolodi questa ricerca, notare che l’era dello swing fosse vista ’socialmente’ comeun periodo arcaico nei ’70, anni in cui sarà radicalmente esclusa dagli interes-si della nuova generazione del jazz che passeranno direttamente dal rock alleproposte dell’avanguardia e, retrospettivamente, al be-bop. In altre parole, laricerca nelle fonti del jazz precedenti al be-bop era vista come una questionelontanissima dalla costruzione di una rappresentazione pubblica e contempo-ranea del jazz in Italia che doveva ripartire da zero. Il nuovo modello del jazzcomporta una diversa valutazione della ’negritudine’ del jazz sia perché laguerra ha permesso l’incontro ed il dialogo coi neri americani in una manieramaggiore che in passato, sia perché la eco della stagione delle grandi lotteper i diritti civili degli anni ’50 e ’60 è ancora fortissima e rappresenta unaquestione aperta. 123

In Italia, in tempo di guerra e immediatamente dopo, come mostrano nu-merosi film neorealisti e una memoria espressa in una miriade di racconti orali,si può notare un gioco di ’rispecchiamento’ per il quale lo stile swing ed il bal-lo significava per chi vi partecipava l’affrancamento da tradizioni decrepite,l’ottimismo di essere vivi, un senso di libertà dall’influenza pervasiva dellachiesa e dell’ideologia bellicista del fascismo che si rispecchiava nelle canzonidi guerra, 124 diventate canzoni della disfatta. Ma l’irruzione del modernismodel jazz poteva assumere un aspetto monolitico e inquietante laddove il ‘loro’divertimento era sentito come imposizione da parte delle truppe d’occupazio-ne, sia per gli ex-fascisti che per coloro che potevano sostenere di non esserlo

123 Bisogna dare atto ai musicisti italiani di avere oggi completato una necessariadifferenziazione dal mondo degli aficionados delle generazioni precedenti, ben rap-presentata da musicisti quali Lino Patruno e Carlo Loffredo e da organizzatori ecommentatori quali Adriano Mazzoletti, i quali intendevano che l’apprendistatodel jazz passasse prima (e obbligatoriamente) per il cosiddetto genere Dixieland(che idolatravano) e per i quali lo swing era il vero e proprio jazz moderno, alquale avevano contribuito a pari titolo grandi come Bing Crosby e Coleman Haw-kins. La formulazione del jazz come ’memoria remota’ (per cui si veda alla parte3) significa prima di tutto questo dal punto di vista dell’analisi dei cambiamentiintervenuti nelle cerchie della produzione dopo gli anni 60, ma è stata formulatain maniera criptica e ambigua tanto da sembrare rivolta piuttosto al problemadell’identità del jazz.

124 « Orticello di guerra e prego Iddio che vegli su di te babbuccio mio », cantatacon un tono nostalgico e nel falsetto dedicato spesso alla nostalgia per gli affettipiù profondi nello stile del tempo (un timbro che si ritrova negli esiti più recentidel genere della Sevdalinka bosniaca), fu uno dei titoli che più attirò il sarcasmopopolare. Se ne accorsero anche gerarchi come Pavolini, il quale si lamentò dellaqualità delle nuove composizioni di guerra da lui stesso sollecitate, e Mussolinistesso che ordinò che le canzoni di guerra fossero esclusivamente cantate da voci’virili e maschili’ (Cannistraro 1975:262).

2.3 Verso le conclusioni: sogni a metà 149

stati. Nel 1943 dopo la caduta del fascismo e con la RSI la situazione era laseguente.

Mentre al Nord, la Repubblica Sociale Italiana iniziava...un’azione dipropaganda attraverso le cinque stazioni dell’EIAR (la cui direzionegenerale si era trasferita a Milano), al Sud prima e dopo al Centro, laPWB irradiava dalle stazioni di Bari, di Napoli e, in seguito, di Firenzee di Roma, una serie di programmi in cui il jazz predominava. Lostesso succedeva anche al Nord, ma gli scopi erano opposti. E mentrela nazione era squassata: i bombardamenti a tappeto, la guerra civile,la lotta fra tedeschi e alleati per la conquista metro dopo metro delterritorio, le retate, le devastazioni, gli eccidi, la fame, la borsa nera, gliitaliani che avessero avuto tempo e voglia di sintonizzarsi sulle radioattive in quel momento avrebbero ascoltato solo ed esclusivamentejazz (Mazzoletti 1983:341).

Questo configura qualcosa di più che una semplice annotazione, si trattadi un tema forse secondario per la storiografia, ma che compare regolarmen-te come luogo comune del montaggio dei documentari della guerra e dellaricostruzione: il jazz quale colonna sonora dell’arrivo degli americani e dellaliberazione. Si era arrivati questo esito drammatico ed ambiguo, dopo unaconvergenza della politica mediatica e della censura fascista sul modello tede-sco, prima, con la gestione diretta dei tedeschi delle radio della RSI e con lapropaganda occulta, poi. 125

I tedeschi usavano i musicisti di jazz italiani126 per combattere l’idea dif-fusa della superiorità americana e per ’disinformare’ quello che la propagandaamericana andava ’informando’. Per combattere una immagine composta da

125 Verso la metà degli anni ’30, sull’esempio della Germania nazista, il sistema dicontrolli fino allora assai frammentato, cominciò a essere unificato (Monteleone1976:58). Quando Galeazzo Ciano Ciano ottiene che l’Ufficio Stampa della Presi-denza del Consiglio, cioè di Mussolini stesso, si trasformi in Sottosegretariato perla Stampa e La Propaganda, lo fa dopo uno studio accurato dei criteri e dei poteriche Hitler aveva accordato a Goebbels, il quale poteva vantarsi nel 1935 che i di-scorsi del fuhrer furono seguiti da 56 milioni di ascoltatori, e di avere estirpato conla radio e la propaganda lo spirito di ribellione (v. op. cit.). In seguito la direzionedell’EIAR sulle cinque stazioni in funzione [nella RSI] era soltanto nominale: lavera e propria gestione era tedesca’ (Cesari 1978, in Mazzoletti 1983:342).

126 Il jazz aveva la funzione di ’invogliare all’ascolto’ di queste stazioni che ’esercitava-no una propaganda occulta’ (testimonianza di Giampiero Boneschi in Mazzoletti1983:342). Il gruppo di Boneschi eseguiva solo jazz, lui stesso avrà una carrieraimportante alla RAI Radiotelevisione Italiana come direttore d’orchestra in pro-grammi musicali di successo e due musicisti del suo gruppo dell’epoca, GlaucoMasetti e Franco Cerri, saranno due delle figure di spicco del jazz italiano deldopoguerra.

150 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

un misto di potenza, spavalderia e sicurezza di sé, sovente rotta dai racconti piùspassionati degli afroamericani e della loro versione del sogno americano.127

L’ambigua traccia della liberazione nella memoria popolare italiana è an-che quella dell’apertura al futuro in quanto progresso ed in quanto eccesso. Ilballo con gli americani significava spesso la prostituzione ed un colpo mortaleassestato a secolari concezioni della sacralità del corpo femminile. Da parte suail soldato americano che vedeva ed aveva a che fare con un mondo molto più’antico’ di quello che conosceva, poteva provare un senso di autentica parteci-pazione per rapporti sociali e umani più ‘autentici’ e solidali, inoltre molti traloro erano gli italo-americani. Prende forza un discorso che invita a superarele divisioni tra gli italiani, dimenticare Salò e la presenza di un gran numero dipartigiani comunisti armati che avevano contribuito sostanzialmente alla libe-razione, un discorso nel quale la musica americana significava semplicementevivere e dimenticare insieme gli orrori della guerra.

Hobsbawm conclude che nel dibattito storiografico sul ruolo della sinistraamericana nel periodo di Roosvelt, manca ancora una corretta valutazione delruolo dei ‘rossi e dei loro compagni di viaggio’ (Hobsbawm 2000:315) nel fareemergere le forze culturali che diedero forma e significato all’era dello swing inquanto rappresentazione epocale, fortemente ‘pubblica’ e collettiva dell’artemusicale popolare. Argomento su cui è interessante riflettere in Italia, dovela nostalgia dello swing è tuttora appannaggio della destra degli appassionatie dove una parte molto forte della sinistra comunista italiana per molti anniripensò con nostalgia gli anni della liberazione in quadro immaginario in cuiRussi molto più buoni, ‘lavoratori’ e modesti rispetto ai chiassosi, pragmatici ericchi americani, rappresentavano i partners privilegiati di una liberazione cheavrebbe dovuto culminare con l’incontro di due modesti e ‘autentici’ mondifatti di operai e contadini. Al rientro dalla guerra per gli americani, e conla ricostruzione, in Europa, visioni anche ideologicamente opposte tornavanoal richiamo della terra, al familiare, al proprio heimat, verso i canti popolaricontadini e verso la country music.128

2.3.5 Aggiustamenti: il jazz nel clima della liberazione

D’altra parte la tradizionale visione censoria ’legittima’ del jazz rimarrà su unpiano ancora ’spiritualista’, solo in apparenza più moderato e più generalmentedettato dai principi dell’alta cultura e accettabile per la dottrina sociale dellachiesa. Nel bel mezzo del clamore della liberazione il Radiocorriere riprende le

127 Se ne parlerà avanti grazie al film Paisà di Roberto Rossellini e attraverso lememorie di musicisti afroamericani di leva in Vietnam come il già citato FrankLowe.

128 In Italia il movimento dopolavorista riprenderà l’interesse per la musica popolaree le attività di recupero e di adattamento dei canti popolari questa volta in fun-zione socialista (canti di protesta, di lavoro) o cattolica (recupero delle tradizionipopolari di interesse religioso). Per la costruzione della tradizione della countrymusic si veda l’ormai celebre lavoro di Peterson (1997a).

2.3 Verso le conclusioni: sogni a metà 151

proprie pubblicazioni con un articolo di Riccardo Malipiero (1945) intitolato «Jazz ». Un articolo divulgativo che si propone una valutazione complessiva129

del fenomeno in rapporto alla musica d’arte. Malipiero ammette l’influssodel jazz sulla musica del ’900 europeo, ma valuta tale influenza come unacosa di limitata importanza. Per Malipiero il jazz è un fenomeno del folkloreamericano, il quale ’nato da una forza spirituale, sta morendo nel virtuosismo,come ogni forma d’arte’ (Malipiero 1945:2). Le considerazioni più interessantisono quelle sulla situazione di questa musica in Italia.

In Italia il jazz non è ancora oggi ben noto; la vera manifestazionevogliamo dire: infatti il fascismo con una delle sue tante espressionidemagogiche trovò modo di trovare nel jazz una forma di depravazioneantirazziale [sic]. Nacque così nel nostro paese una forma ibrida chesi volle chiamare jazz, ma che di questo prendeva soltanto la parteesteriore senza poterne rifare l’essenza: non si può in effetti rifare ilfolklore. Rifacendo il jazz non si fece che imbastardire quello che è ilfolklore italiano...(l.cit.)

Manifestazioni ’primordiali’ come il jazz, che pure negli anni ’20 si presentòcome qualcosa di nuovo con il ’jazz hot’, non sono ritenute capaci di trovarein sé stesse le forze per rinnovarsi. Inoltre, la jazz band anteguerra è definitacome un ’ibrido’. La ricostruzione del paese richiederà dunque il ritorno ’alleforze spirituali dell’arte’ e non alla ’eccitazione dispersiva’ (l. cit.) che purepuò essere accettata in una fase in cui l’uomo è depresso come in questo mo-mento, alla fine di una catastrofe così immensa. Evidentemente, quanto alleconclusioni, l’articolo è anche un invito a non disperdere le limitate energiee finanze del tempo della ricostruzione finanziando i musicisti di jazz soprav-vissuti al regime, ma a dedicarli al rifarsi delle forze spirituali (e materiali)necessarie alla vita artistica nazionale.

È interessante notare la comparsa in questa sede di una tensione fra ’fol-klori’ diversi, sebbene appena accennata e concepita di modo piuttosto sche-matico, ma che con l’ammonimento ’a non poter rifare’ dà voce ad una visionedel jazz tutta centrata all’interno delle cerchie musicali. Dalla cattedra del-l’alta cultura musicale italiana si può valutare, anche errando completamente,ma con argomenti che sono ancora parte delle controversie su questa musica,su ciò che è in essa è primordiale. Il jazz si vuole sempre più decisamentedefinito come un fenomeno primitivo che, volendo essere altro da sé, viene adessere completamente snaturato. In questa contrapposizione netta che preco-nizza la persistente difficoltà della cultura italiana legittima, ma non certodella società e delle cerchie musicali, a venire a termini con ’ibridi’ culturali,

129 Intervento molto simile a quello di Fritz Laubenstein (1929, cit. in Appelrouth2003) che scriveva nel clima di scontro tra legittimazione ’colta’ della tradizioneeuropea e quella ’popolare’ del jazz, sostenendo la prima ed ammettendo moltoparzialmente un contributo jazzistico alla pratica musicale che doveva costruirela musica del ’nuovo mondo’.

152 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

si rafforza l’interesse della ricerca sul jazz di anteguerra.130 Se il mélange didue folklori forma, quasi per malattia genetica una forma ’troppo bastarda’,questo significa immediatamente che che il compositore intende ’ora’ investireil folklore di un carattere nazionale in un quadro in cui una cosa è il folklore èaltra cosa l’arte. Cosa che rimanda ancora ad un equilibrio in cui la campagnaè una cosa e altra cosa è la città, ed in cui gli intellettuali ritornano ai loroposti pronti a suggerire le politiche specifiche per il futuro.

Ma la diffusione del jazz ha superato i limiti dell’ambiente cittadino, non èstato investito da alcuna ’politica’ culturale ufficiale (se non di modo negativo)ed è riuscito a tagliare trasversalmente le classi sociali, per quanto possibileper l’assetto della società italiana, con la semplice diffusione della fonografiae della radio. La difficoltà è a comprendere che tipo di ’oggetto’ e che ruoloavrà in Italia. A che servirebbe, una volta che la festa della Liberazione èfinita, la formazione di un simbolismo estetico che una cultura di minoranzarazziale e culturale e gruppi dissenzienti riescono comunque a ’vendere’ alleclassi medie interagendo con gli intellettuali e la piccola e grande industriamediatica, come sarà per la Francia? (Tournès 1999)

Le immagini salienti di questo commercio, che sviluppa un movimentoaltalenante di individuazione tra l’artificio dell’invenzione e la realtà e la veritàdella musica,131 possono essere riconosciute a posteriori nel mascheramentodi Al Jolson e la morte del Vaudeville celebrata dal film sonoro; il successivoemergere della sua controparte reale con Louis Armstrong, poi col nuovo espettacolare stile jungle di Ellington, in seguito con lo swing, immediatamentea casa propria nei colleges universitari americani, ed infine con la presa didistanza reciproca tra le cerchie del jazz, gli intellettuali bianchi progressistitra cui grandi organizzatori come John Hammond (che conclude una fase dellasua carriera indicando che il ’vero’ swing è quello dell’orchestra nera di CountBasie), e l’aperto disprezzo per la classe media e l’american way of life deiboppers.

L’età del jazz coincide con quella della formazione della classe media negliStati Uniti e dell’interesse sociologico della sua definizione in quanto feno-meno della società di massa. In quella sede la controversia sul jazz non fucertamente una questione semplicemente musicale ed estetica, ma marcò unconflitto “politico” dichiarato in un nuovo campo di battaglia che sorgeva dalladistinzione di recente istituzionalizzata tra le arti di livello “elevato” e quelle

130 Certo che si tratta qui dell’ultimo ’ibrido’ arrivato, ma i grandi momenti dellaproduzione culturale italiana del dopoguerra che cosa sono (per esempio il teatrodi Eduardo de Filippo o il cinema di Pier paolo Pasolini) se non una coscientee puntuale confronto rispetto al dato storico di quel mélange (colto-popolare,locale-nazionale) che costituisce l’identità italiana?

131 Non si dà opposizione tra artificio e natura ma tra l’artificio fine a se’ stesso ed il’vero’: da qui il futureless future degli afroamericani di cui parla Ed Bland (1958)si chiarisce anche sul piano della pratica artistica come la fine di una strategiadi inserzione di verità nella società americana, che inizia a non richiederla e noncomprenderla più.

2.3 Verso le conclusioni: sogni a metà 153

di livello “basso” o popolare’ (Appelrouth 2003:128). Se è vero che l’ambientedella ricezione più ampia è proprio lo spazio della ’classe media’ e che il jazz,fatte le dovute distinzioni e particolarmente nelle sue fasi più espansive, puòessere visto come una ’art moyen’ (Bourdieu 1971) e pure, per la sua antro-pologia, come ’arte dello scambio e del mélange’ (Williams 1991:15), bisognatenere presente il farsi graduale di una costruzione parallela e complementaredel suo significato secondo diversi e molteplici interpretanti, non ultimo tra iquali quello di un proprio e peculiare ’dandysmo’ del jazz (Jamin & Williams2001).

Proprio in questo senso considerare il rapporto dei musicisti e degli aficio-nado con le fasi di formazione di una nuova classe media italiana (che apparetimidamente solo nel secondo dopoguerra), sia una questione che merita piùdi un semplice accenno e che investe direttamente la costruzione della suanarrazione storica. Il rapporto tra le diverse forme e stagioni del jazz in Italiae le diverse fasi di formazione della classe media costituiscono uno degli ele-menti che permettono di studiare il fenomeno più in profondità, evitando difermarsi alle differenti fasi del suo affermarsi come se si trattasse di fenomeniindipendenti ed irrelati. Vi è poi il problema di porre i testi musicali e ideolo-gici rispetto al contesto, una volta ammessa la ’politicità’ del discorso sul jazz(Appelrouth 2003:128). Le soluzioni e i procedimenti adottati in dalle variecorrenti, quando il jazz in Italia assume un rilievo pubblico maggiore, dimo-strano fasi diverse di un processo dialettico di ri-posizionamento e di ricercadi legittimazione rispetto a modelli piuttosto vari ed eterogenei. Si può direcomunque che sia proprio la televisione a sancire ufficialmente la fine del jazzdi anteguerra come capitolo chiuso che riguarda il ’vecchio mondo’, special-mente nelle rari squarci di una nostalgia (allora pressoché inammissibile) checompariranno nei grandi show del sabato sera. ‘Nostalgico’, in quel tempo inItalia, è pressoché sinonimo di ‘fascista’.

2.3.6 Industria e sistema dei media: nuovi consumi di cultura

Giunti a questo punto sembra opportuno fare qualche considerazione sull’e-mergere di una nuova impresa culturale di massa intorno alla sempre maggio-re popolarità dei nuovi media: fonografo, cinema, radio e stampa popolare.Secondo Forgacs (2000:78-79) l’attenzione attuale alle vicende dell’industriaculturale in Italia nel periodo fascista non può che accogliere il cambiamentodi un paradigma storiografico-economico secondo cui si è molto meno propensi(rispetto ai passati decenni) ad interpretare l’avvento del fascismo come unvero spartiacque ed un momento di radicale rottura, quanto piuttosto comecompletamento ed il potenziamento di tendenze precedenti, che datano dallavigilia della prima guerra mondiale. Sul piano della storia delle idee, dei movi-menti di pensiero e del ruolo degli intellettuali si assiste ad una forte reazioneal positivismo e a tutte le tendenze razionaliste, e, nell’agone politico a unapolarizzazione tra movimento sindacale di sinistra e la destra nazionalista cheattacca i movimenti riformisti e la loro strategia pacifista durante la prima

154 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

guerra mondiale. La distruzione del quadro generale delle condizioni di vitadel riformismo moderato dell’Italia liberale verrà dopo una lunga opera di di-struzione dei simboli della cosiddetta impotenza pacifista. La crisi economicaculminerà in un’ondata mai vista prima di scioperi che giustificheranno il pat-to tra la monarchia e i fascisti. Il fascismo e gli sviluppi della seconda guerranon faranno che polarizzare nuovamente in forme diverse il conflitto politico,ma, per quello che riguarda gli elementi di continuità si può osservare come,sia durante il fascismo sia nel periodo post-bellico, l’industria culturale italia-na ed i media nazionali si uniformeranno alle direttive statali ed agli assettipolitici di governo molto di più di quanto non sia stato loro effettivamenterichiesto (Monteleone 1976).

Nonostante sia alquanto dubbio ipotizzare un’Italia ’liberale’ nell’accezio-ne odierna del termine per definire ciò che precede la dittatura fascista, non sipuò disconoscere un processo di ’fascistizzazione della cultura’ come ’alleanzatra interessi pubblici e privati’ (Forgacs 2000:108), che si comprende prin-cipalmente dai nuovi assestamenti tra stampa nazionale, finanza e industriaitaliana. Nello spazio culturale nazionale vi è una convergenza tra capitaleindustriale e finanziario e politica, e, con la guerra, un ulteriore processo diaccentramento che coincide col rafforzamento della grande industria a scapi-to delle piccola impresa. È l’assetto politico ed economico consolidatosi neltempo della prima guerra quello che il fascismo eredita e sviluppa. La stessapressione esercitata dal fascismo sulla stampa indipendente poteva contaresul successo di quel laboratorio di costruzione del consenso che si era formatointorno ai temi di interventismo nazionalista contro il pacifismo/disfattismosocialista nel periodo bellico.

L’accentramento dei capitali e l’industrializzazione della cultura precedonoil fascismo e subiscono poi un impulso sostanziale con l’intervento dello statoe la sua opera di protezione degli interessi delle classi dominanti in un climadi emergenza e di crisi. Le industrie del cinema, del teatro e dell’editoria sitrovavano in una situazione di instabilità alla fine della guerra e all’avvento delfascismo, fatto che contribuiva ad una politica editoriale che evitava i rischi,non considerando come proprio campo d’azione gran parte del ’900 europeo:russo, tedesco e francese. Dominavano le commedie, le storie sentimentali, lecanzoni sceneggiate, i racconti di avventure in un mercato piuttosto limitatoe poco ricettivo alle innovazioni più interessanti che provenivano dall’estero.Questo momento è doppiamente critico ed interessante perché rende necessa-rio interrogarsi in che cosa consistessero realmente, e da chi e in che modofossero sostenute in Italia le rappresentazioni sociali del cosmopolitismo e delnazionalismo culturale.

Gli intellettuali che si interrogano sul futuro dell’alta cultura italiana la-mentano questa situazione denunciando un ritardo e una generale mancanzadi iniziativa culturale rispetto agli altri paesi europei. Si possono vedere inquesto quadro gli interventi di Ojetti (’frondista’ culturale e fascista politi-co) sul «Pegaso», oppure Ardengo Soffici (nazionalista) e Marinetti e Casella(cosmopoliti), i quali, da posizioni diverse, hanno tutti tentato di suggerire

2.3 Verso le conclusioni: sogni a metà 155

a Mussolini quello che lo stato avrebbe dovuto fare e soprattutto su qua-li persone egli avrebbe potuto contare per una politica culturale degna delpatrimonio di antiche tradizioni del paese. Per loro il fascismo può essere ilmezzo provvidenziale o il prezzo da pagare per uscire da un’emergenza che lipenalizza senza dubbio. La corrispondenza della Presidenza del Consiglio conMascagni (assolutamente nazionalista in politica e in arte) è indicativa dellaseguente indesiderabile normalizzazione e consolidamento di un clientelismoportato alle estreme conseguenze: nominato Accademico d’Italia e divenutopersona chiave per l’immagine musicale del paese, Mascagni inonderà il ca-po del fascismo di lettere che riguarderanno persino le questioni più minute(Sachs 1987).

D’altro canto il nuovo potere politico non ha difficoltà a recepire gli au-spici al rinnovamento nel senso di una sempre maggiore potenza ed efficienzadei mezzi di costruzione del consenso. Il processo di costituzione dell’EIAR,l’ente radiofonico italiano che sarà poi l’ente radiotelevisivo nazionale RAI,è paradigmatico. L’EIAR sarà costituita dopo i lavori di una commissioneparlamentare appositamente istituita ed incaricata di stilare un rapporto ne-cessario al progetto di riforma e di riorganizzazione delle stazioni dell’UnioneRadiofonica Italiana (URI). La vicenda fu un modello di efficienza e di volon-tà politica e portò alla riforma in meno di un anno (il 1927) e a un comitatodi vigilanza sulle radiodiffusioni composto da rappresentanti dell’industria,della cultura e del giornalismo nominati dal capo del governo su propostadel Ministero delle Comunicazioni (Forgacs cit. 66-67); la commissione fu unacreazione di Costanzo Ciano.

Nel 1928, con la nascita dell’EIAR, quando la radio deve diventare unmezzo di comunicazione di massa moderno, il nuovo comitato di gestioneè composto da esponenti dell’industria radioelettrica, della grande stampa,dell’editoria, delle corporazioni degli artisti e tecnici e della SIAE. CostanzoCiano, eroe della prima guerra, ministro delle comunicazioni e manager deitrasporti ammassa una fortuna; alla sua morte il figlio Galeazzo continua latradizione di famiglia come sottosegretario per la Stampa e la Propaganda (op.cit., p. 70), lavorando agli esiti di ammodernamento dell’ente verso la metàdegli anni ’30, annunciati da una missione presso il suo omologo Goebbels edall’espressione della sua ammirazione per il sistema della propaganda nazista.

Considerando nel complesso il sistema della ’cultura popolare’, di una certastampa, della radio e del cinema del tempo, il jazz non avrebbe potuto essernetotalmente escluso, essendo già l’industria di Tin Pan Alley e di Hollywoodfenomeni che assumono il rilievo di una diffusione globale. Studi recenti hannointrodotto nelle investigazioni sulla cultura di massa in Italia una problematicastoriografica che prende forma decisamente negli anni ’70,132 e che inizia avedere come semplicistica l’interpretazione di molta parte della storiografia

132 Si vedano i citati Cannistraro (1972, 1979 et Monteleone (1979), ed il sostanzialeapporto in questo senso dell’opera di De Felice (1974).

156 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

postbellica che si figurava una ’ideologia di regime’ eccessivamente monoliticae omni-comprensiva.

...attraverso la cultura popolare la gente può aver sviluppato delle for-me di resistenza simbolica alla cultura «ufficiale» promossa dal regime(ad esempio mediante la scuola). I film hollywoodiani, i fumetti ame-ricani e la musica jazz, sotto questo punto di vista, sembrano averricoperto una certa importanza già negli anni ’30, consentendo ai gio-vani di rifiutare i modelli culturali della generazione precedente (deGrazia & Passerini 1983; cit. in Forgacs 2000:123).

Una opposizione ’culturale’ sotterranea, da rinvenire principalmente neigusti e negli orientamenti a conoscere quello che proveniva dal ’mondo’ econ un carattere moderatamente cosmopolita fu senza dubbio incoraggiatadalla parte più urbana e civile dei cattolici, ricettiva al magistero monarchico-liberale, ma antifascista, di Benedetto Croce. Questo orientamento ritorneràcome polo di formazione del consenso nel dopoguerra di De Gasperi e del’filoamericanismo’ democristiano (Pivato 1978, cit. in Forgacs 2000:132).

Esistevano comunque ’due Italie’, o più, cioè una situazione nella quale siala cultura ’alta’ (intesa come tasso di alfabetizzazione), che la nuova cultura’di massa’ (in quanto accesso alla stampa e ai nuovi media) si distribuivanosu una carta le cui macchie di leopardo erano principalmente concentratenelle città ed alcune zone industrializzate e di grande comunicazione. Questoquadro generale è confermato (oltre che da un consenso generalizzato deglistorici, degli antropologi e della storiografia economica), dalla lenta diffusionedei nuovi media nella società.133

In particolare la radio, troppo costosa per l’italiano medio, contava pochis-simi abbonati e fu trascurata dal fascismo che non riesce farne uno strumentodi propaganda politica e culturale e al quale poco serviva farne un veicolo perle mode più esclusive. Nel 1924

due ore di programmazione si riducevano in sostanza a due ore diradioconcerto dove, fra una grande quantità di musica operistica esinfonica, ballabili e musica melodica, apparivano le note del jazzamericano. Al confronto assai scarso era il parlato...’ (Monteleone1976:39).

Il 1927 è l’anno in cui la modernizzazione capitalistica di regime investeil nord; lo stato e l’alta finanza intervengono nell’industria elettrica.134 L’in-

133 La grande differenza tra la popolarità ed il fatturato dell’industria della produzio-ne di apparecchi radio negli anni ’20 e ’30, della pubblicità e delle vendite di dischitra Inghilterra e Stati Uniti e Italia, mostra che in Italia, solo nel dopouguerrai nuovi media divengono veramente ’di massa’ (v. Monteleone 1969; Hobsbawm1963; Appelrouth 2003).

134 I primi consigli d’amministrazione dell’ente radiofonico italiano, divenuto EIARnel 1928, comportano grosse quote azionarie detenute dall’industria idroelettricaitaliana (v. Monteleone, op. cit.).

2.3 Verso le conclusioni: sogni a metà 157

dustria editoriale milanese della popular music italiana si stabilizza in questoperiodo e, tra il 1927 e il 1936, la radio suscita l’interesse del capitalismo italia-no, della finanza e della politica del nord vicina a Costanzo Ciano (Monteleonecit; Cannistraro 1972). Ma la radio diventa qualcosa di simile a un mezzo dicomunicazione di massa in Italia solo nella seconda metà degli anni ’30 (Can-nistraro 1975:255), con la costruzione di apparecchi a basso costo culminatacon la cosiddetta ’radio balilla’ nel 1937 al prezzo di circa quattrocento lire,mentre il reddito di una famiglia media era di circa duemila lire annuali. An-che questo non basta a raggiungere una diffusione di apparecchi paragonabilea quella della Germania o dell’Inghilterra, più di dieci volte superiore.

La musica da ballo restava dunque la principale fonte di programmazionealla radio, dove il jazz americano non fu rappresentato in quanto tale almenosino al 1939, nonostante che il repertorio di musica leggera contenesse stan-dards americani e che essi fossero tradotti e italianizzati. La musica leggera,da ballo, è rappresentata alla radio come un continuum su cui non vale lapena di fare ulteriori distinzioni.

Ciò malgrado, in quegli anni vi furono eccellenti solisti e complessi, ma laloro attività si esplicò quasi unicamente nei locali notturni delle grandi città,dove si suonò molto jazz fra il 1928 ed il 1939 (Mazzoletti 1983:168).

Si è visto come la solidarietà tra lo ’spazio’ culturale del jazz ed il luogoconcreto dove la performance del jazz ha luogo135 permette di rileggere leinterviste disponibili nei lavori di Mazzoletti (1983, 2004) in quanto storiedi una generazione di musicisti che si adegua alle condizioni ’itineranti’ dellanuova musica. Si tratta di ‘microclimi’ in cui si ripercuotono certo le direttivedella politica nazionale, ma la cui vivacità è indiscutibile.

Il rapporto tra radio e le nuove condizioni della ricezione create dalla diffu-sione del grammofono e della musica registrata è comunque cruciale. L’editoriamusicale popolare milanese nasce alla fine degli anni ’20; molti nomi sono glistessi di oggi: Suvini Zerboni, Bixio, Monzino, Garlandini, affiancati da com-pagnie straniere come la Francis Day e la Chapell. All’inizio della radio ci sirecava ’sul campo’ trasmettendo ’quasi giornalmente’ dalle principali sale diTorino, Milano, Roma e Napoli (dal 1926 al 1929). Il periodo è caratterizza-to dalla ricerca di un consolidamento degli orientamenti e dei programmi. Inseguito questi collegamenti assumeranno un ruolo meno preponderante, so-stituiti da programmi di vario tipo, nei quali si inizia a formare un campodi sperimentazione radiofonica tra pubblicità, moda e consumo, cinema, pro-grammi femminili, e nel quale si va facendo una nuova immagine della musicamoderna.

Oltre le dirette musicali, oggi tornate ad essere innovative, le fantasie cul-turali, come ’finti radioviaggi’, i revival del cabaret umbertino della belle epo-

135 Jean Jamin mette l’accento sulla assoluta differenza tra riferimenti mediatici-musicali a un determinato evento e la memoria basata sulla presenza, e, eventual-mente su narrazioni di prima mano e dunque sulla necessità di dare conto dellecircostanze concrete nelle quali la musica è prodotta (Jamin 1998:262-263).

158 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

que, oppure favole radiofoniche di grande successo, come ’Topolino al castelloincantato’.136 Tali programmi saranno orientati su modelli già esistenti, co-me l’inglese non-stop-variety o il tedesco Bunte Stunden, costituito da unprogramma di varietà a tema: circo, automobilismo, matrimonio, temi do-polavoristici, la provincia, le canzoni. Questo programma-polpettone venivachiamato ’varietà a nastro’: grande successo ebbe quello creato nel 1932 peril lancio pubblicitario dell’utilitaria Fiat « Topolino » (Monteleone 1976:115).

Tra gli anni trenta e quaranta la crescita della vendita di dischi rendepopolari i nuovi cantanti che cercano di mettersi in fase con l’era dello swing,mentre la radio inizia ad assestarsi come un importante veicolo di pubblicitàe di introiti garantiti dai diritti d’autore (Mazzoletti 1983:250-254). Il mododi procedere del lavoro di composizione di successi della canzone è rievocatoda un intervistato anonimo (con tutta probabilità si tratta del maestro E.L.Poletto), in un articolo di Michele Straniero (1978:199).

Prima della guerra, uno scriveva una canzone, e questa canzone venivastampata per orchestrina. Anzitutto il novanta per cento dei musicistiscrivevano la musica, poi il paroliere applicava le parole, come pra-ticamente s’è sempre fatto, fino al momento dei cantautori e questoera un guaio perché il paroliere non era libero di trattare il verso co-me poté farlo dopo. Nel mio caso personale io usavo questo sistemaqui: mi veniva in mente uno spunto letterario, cioè un verso; allora suquesto verso io imbastivo le prime note della musica, che poi svolge-vo completamente col solito sistema del refrain, couplet, strofa, e poicontinuavo ad applicare le parole sulla musica già fatta. Io lavoravopresso un editore, il quale naturalmente badava solo ai suoi interes-si, come tutti gli editori. Noi stampavamo quattromilacinquecento ocinquemila copie della musica per orchestrina. Questa veniva spedita,secondo uno schedario che avevamo, a tutte le orchestre, che eranoappunto o si supponeva fossero quattromilacinquecento-cinquemila intutta Italia. Queste ricevevano la musica: se il nome dell’autore erasimpatico o più o meno conosciuto la eseguivano, e questi erano dirittid’autore che poi arrivavano. Ho reso l’idea?

La Cetra, casa discografica emanazione della stessa EIAR e la privataFonit, ma anche la Odeon francese e la Columbia Italiana, avranno tutto l’in-teresse ai ’passaggi’ in radio. Il fatto che l’EIAR avesse una propria orchestrae orchestre più o meno abituali che comparivano nel palinsesto radiofonico,faceva sì che gli editori stranieri come i citati Francis Day, Chapell, Sou-thern,137 premessero sui musicisti affinché facessero ’passare’ i loro brani di

136 Topolino (Mickey Mouse) fu indisturbato dal fascismo, anzi non ebbe difficoltàa farsi fascista, (come hanno notato molti commentatori) assumendosi il ruolodi simbolo della cultura di massa e del fordismo italiano della FIAT di GiovanniAgnelli.

137 Uno degli impegni più importanti del lavoro presso l’editore Southern del maestrointervistato era quello di verificare se nei pacchi di partiture provenienti dalle con-

2.3 Verso le conclusioni: sogni a metà 159

jazz nel flusso continuo di musica vocale e da ballo italiana. In questo modoun nuovo colore jazzistico entrava nella canzone italiana mentre le versionidi brani del repertorio jazzistico erano spesso arrangiati o addirittura firmaticome originali.

Con il ’crooner’ Alberto Rabagliati e con Natalino Otto (che rende po-polare il suo scat all’italiana) la ’jazz band’ entra trionfalmente nella culturapopolare italiana in via di formazione. C’è un nuovo modo di intendere ilritmo, nuovi timbri, nuovi strumenti, nuove danze. Ma c’è (e da subito) un’mettere il jazz sullo sfondo’ sul piano della pubblicazione. Se ai musicisti èconcessa una maggiore autonomia operativa e se sembrano più liberi di ricer-care, all’interpretazione vocale (vero ago della bilancia) è imposto il capestrodella censura. È importante notare sul piano generale che il rinnovamentodella musica popolare di intrattenimento si modella rispondendo ad un fa-scio complesso e diversificato di stimoli ’atlantici’ nei quali il jazz non è ilsolo elemento ma si presenta insieme all’enorme popolarità delle mode latino-americane. Lo dimostra la carriera di Alberto Rabagliati per anni uno dei’Cuban Boys’ nell’orchestra di Ernesto Lecuona, il famoso compositore di Si-boney e di moltri altri standards afro-cubani. Questo fatto attenua l’asprezzadel confronto diretto con lo ’swing’ americano, un complesso simbolico dallaportata egualitaria, democratica, che poteva essere recepito nella sua vera ve-ste solo laddove vi fosse stata una certa compatibilità sociale e politica con le’cerchie ristrette’ europee che si misero a praticarlo. La differenza tra l’accogli-mento e la creazione delle tradizioni ’nazionali’ del jazz in Italia e in Spagna,da un lato, e l’Inghilterra e l’Olanda e il Belgio e la Francia, dall’altro, stain gran parte in questa impossibilità di sintonizzare un pubblico più ampiocon la vera natura dello swing. Le porte si apriranno nel primo dopoguerra,quando ormai l’epoca dello swing volge al termine.

L’appassionato di jazz aveva comunque qualche occasione di poter inter-pretare il passaggio di veri brani di jazz come uno di quegli elementi di ge-nerale ’resistenza simbolica’ del gusto al panorama abbastanza amorfo dellacanzone dell’epoca.138 Già nel 1928 le trasmissioni in diretta dalle sale Dianae Cova di Milano avevano potuto presentare orchestre italiane di un certorilievo jazzistico. Inoltre nel 1929, la sede EIAR di Milano aveva trasmessoil programma « EIAR Jazz! », un programma significativamente povero dispiegazioni e commenti, che fu soppresso nel 1930. Nel 1936 va in onda unprogramma con l’orchestra di Pietro Rizza tutto a base di jazz ed il gruppodi Max Springher dal Savoia Danze di Torino. Gorni Kramer e i suoi solisti,l’orchestra Ramponi, il Quartetto Jazz dell’EIAR appaiono nel 1937. E nel

sorelle straniere vi potesse essere qualcosa di interessante per il pubblico italiano,adattare i testi e preparare la versione locale, dopo averla sottoposta all’editore(citato in Straniero 1978:200).

138 La replica italiana al jazz, per esempio Natalino Otto rispetto ad Armstrong,portava con sé il peso dell’originale, nel senso che ai più informati non potevasfuggire il carattere ridicolo e ostinatamente spensierato, in un clima che eratutto l’opposto.

160 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

1938 ancora Kramer per una sola serata. In seguito sia Kramer che Rizza nonfurono più scritturati dall’EIAR (Mazzoletti 1983, 2004).

L’attitudine dell’appassionato di jazz perennemente tradito dalla radionazionale, ma che comunque ’ci prova’ (cosa tuttora attuale, nonostante alcunipassi avanti) è bene illustrata da questo passo comparso sul periodico « Jazz» (n. 2, 1945), del cronista sportivo, grande appassionato e musicista torinese,Renato Germonio. Germonio è una personalità conosciuta del jazz torinese,già componente di un duo pionieristico composto da lui alla fisarmonica ed ilcitato Ferdinando (Fred) Buscaglione al contrabbasso.

Una bella sera apriamo la radio e sbagliando di stazione si pesca l’or-chestra Angelini. Ci si conturba, si fa per chiudere la stazione, matoh! chi è questo tizio che spara dentro a quel tenore in un modo cosìparticolare? E Mario Di Cunzolo che il padreterno del jazz ci ha man-dato giù dai cieli dello swing, caracollante su un argenteo sax tenore.Oggi Di Cunzolo è l’unico sax italiano che suoni nella perfetta scuolanegra. . . (Germonio in Mazzoletti 1983:251)

Il brano è interessante per la evidente vicinanza di stili di scrittura: ilgiornalismo sportivo, che deve moltissimo al mezzo radiofonico, offre il modelloal jazz. Finalmente si giunge a una rappresentazione pacifica della massa: ilmusicista di jazz diventa molto simile ad un fuoriclasse del calcio o del ciclismo,qualcuno che incarichiamo di farci sognare e rispetto al quale si è dispostianche ad eccedere per affetto e partigianeria. Da notare quella caratteristicadoppia competenza giornalistica, oggi sempre più rara, di chi si incaricava dinarrare i miti sportivi e musicali della modernità. Dopo il grande pionieredella radiocronaca Nicolò Carosio, Sandro Ciotti (a partire dagli anni ’60),e Giovanni Minà (nei ’70 e ’80) saranno tra i più noti giornalisti sportiviattivi alla RAI con competenze più che solide sul jazz e sulla popular musicmondiale e nazionale. È anche notevole, per banale che possa sembrare, notareche nel primo dopoguerra si parli di ’perfetta scuola negra’ come un piccolopasso di giustizia: negli sport, e nella boxe in particolare, c’è sempre statauna scuola negra. A Torino, città dell’industria pesante, si è sviluppata lacultura dello sport di massa e, in parallelo, la passione e la pratica del jazz edi primi hot clubs. Un terreno favorevole che segue esiti analoghi ad altri luoghieuropei. Ma l’editoria musicale che conta, come abbiamo visto, è a Milano epersegue il massimo dei profitti col minore sforzo possibile. Qui, negli anni ’50e soprattutto nei ’60, i musicisti italiani daranno voce allo spleen causato dallavorare per la nuova, democratica ma alienante, industria musicale.

2.3.7 Oltre strapaese

In ogni nuova costruzione dell’identità nazionale italiana il sud costituisce siaoggetto di propaganda e strumento di di consenso politico, che una temibileincognita. Il sud resta sostanzialmente estraneo agli esiti turistico-economici

2.3 Verso le conclusioni: sogni a metà 161

della costruzione di uno spazio strapaesano testimoniati nelle rievocazionimedievali-rinascimentali, anche se c’è un sistema complesso di ’feste patro-nali’ accentrate intorno al culto dei santi che potrebbe prestarsi (o meno) allasperimentazione. Ma vi sono differenze enormi tra il sud e il centro-nord: lin-guistiche, culturali, sociali, economiche. Se in un ipotetico paese della Pugliao della Calabria, nel 1927, ci fosse stato un apparecchio radio nell’osteria del-la piazza principale del paese che avesse trasmesso il programma intitolato «Da Colombo a De Pinedo » in occasione della trasvolata atlantica dei nuovibimotori Savoia Marchetti 55, vanto dell’aviazione fascista:

Come Carlo VIII trovò il suo Capponi, il mondo vide un altro ribelle:Mussolini. Non chiese egli alle campane il suono della riscossa, mabatté sicuro al cuore dei veri italiani. E fu un grido nuovo: il gridodegli arditi di guerra. E sorsero i manipoli. E sorsero le centurie. Esorsero le coorti. E l’Italia fu nuovamente una: un fascio di italianità!Italia, Italia, qual’è la mèta della tua sorte? Esperia, Ausonia, Terradei Canti e degli ardimenti, delle Aquile invitte. Faro del mondo: ecco ilprodigio si rinnova ed ancora De Pinedo s’innalza dalla rada di Elmasper un fantastico volo. In tre balzi supera l’ala forgiata dei Dedaliitaliani nei cantieri dei Savoia (in Monteleone 1976: 51 n.28).

Che cosa si sarebbe compreso? La radio era lontana dall’essere quello stru-mento di promozione dell’unità nazionale stretta intorno al simbolo del fascioche si sarebbe voluto, specialmente nel sud. Sarà con la spedizione di De Mar-tino e Carpitella in Lucania nel 1952 e con quella immediatamente seguentedi Carpitella ed Alan Lomax, che il regionalismo culturale italiano mostreràil suo vero volto, mentre la società agricola e pastorale del sud sta scompa-rendo. Uno spazio storico e socio-antropologico autonomo, sistematicamenteignorato dalla cultura nazionale, è percorso da forti tensioni di mutamento eriprende la via dell’emigrazione: interna verso il nord e verso la Germania e laSvizzera. Il nuovo sguardo sull’Italia e sulla sua sfaccettata ricchezza folkloricasvela e fa crollare definitivamente la costruzione fascista del ’mediterraneo’,ma la tradizione accademica umanistica italiana non sarà troppo disposta adialogare con l’antropologia italiana del dopoguerra. Sembra che non sappiache farsene, o che ne sia perfino disturbata.

Una polemica tra Diego Carpitella ed il musicologo Massimo Mila, di recen-te ripresa da Francesco Giannattasio (1998:71) e da Giorgio Adamo (2000:488-490), spiega bene un’attitudine che durerà a lungo. Mila scrive commentandol’edizione italiana degli Scritti Sulla Musica Popolare di Béla Bartòk, a curadi Carpitella, lavoro compiuto con il sostanziale interessamento di ErnestoDe Martino. In particolare Massimo Mila osservava che il canto popolare dinazioni europee come l’Italia, la Francia e la Germania, non avrebbero potu-to entrare nel vocabolario di un rinnovamento musicale unico come quello diBartòk (come vi entrano quello ungherese e balcanico), poiché non avrebberopotuto interessare e stimolare il compositore, trattandosi di

162 2 Il jazz in Italia e l’epoca fascista

[...] magari gemme preziose, ma un linguaggio armonico e tonale chein sostanza non si scosta da quello della musica colta europea; un girodi frase melodico fondato sui sottoprodotti del corale luterano e suidetriti delle arie e dei cori d’opera italiana e francese, cioè sui cardinistessi del linguaggio musicale romantico [...] (Mila 1955 in Adamo cit.489).

Bisogna tenere presente che il lavoro curato da Carpitella rispondeva allanecessità di un’opera di base per la ricerca etnomusicologica nel quadro delprocesso di costruzione delle discipline antropologiche del dopoguerra, e cheun’opera simile era tanto più necessaria in quanto era già stato raccolto sulcampo un notevole corpus di registrazioni. Da parte delle cerchie che pre-mevano per un rinnovamento estetico e scientifico radicale di tutta l’attivitàmusicale si trattava di una partita tutta da combattere. Carpitella rispondevadunque

dinanzi alle osservazioni di Mila, quasi ci chiediamo [...] ma che abbia-mo lavorato a fare? È ormai pacifico, infatti, che esiste un sottofondodella musica popolare italiana che non ha niente a che fare né conla musica colta, né con la Chiesa o cose simili (...) in questa musi-ca popolare, rintracciabile soprattutto nell’Italia centro-meridionale einsulare (ma anche nell’arco alpino, in Liguria, in Piemonte) si in-contrano scale pre-pentatoniche, pentatoniche, e modali, note blues,diafonie e polifonie varie [...] L’influenza colta e chiesastica esiste inve-ce, in un altro tipo di musica italiana ’popolaresca’ che noi chiamiamoanche ’artigiana’ e che è frutto tipico della storia cittadina del nostropaese; ed è soprattutto a questo tipo di musica che fino adesso si sonoriferite la maggior parte delle raccolte di canti popolari italiani, ed èsulle deformazioni di essa che si basò, per esempio, lo strapaese-ruraledel ’ventennio nero’ (Carpitella 1956 in Adamo l. cit.).

Carpitella reagisce ad un disinteresse, quanto alla possibile messa in di-scussione di sicurezze concettuali, che la musicologia italiana abbandoneràsolo molto tempo dopo, quando si annuncerà il raggiungimento di un ‘modusvivendi’ tra musicologi e antropologi della musica (Giannattasio 1998:85-86).Si tratta di quella pigrizia che gruppi di intellettuali emergenti combattono inuna condizione storica, politica e civile di conflitto e (ancora una volta) di cri-si. La ‘respublica humanistorum’ che alcuni ambienti culturali, civili e politicicominciano a mettere sistematicamente in discussione a partire dagli anni ’50per giungere a tutto il corso degli anni ’80, anni in cui si comincia a presagirela crisi imminente della sinistra ed in cui il problema dell’identità mediter-ranea tornerà di attualità. Ma, inquadrata nel dibattito culturale dell’Italiapost-fascista, la polemica assume il senso di una vera e propria rivolta esteti-ca oltre che culturale e politica, nella quale lo stesso Carpitella scorgerà poil’aspetto positivo della componente ’ideologica’ (Carpitella [1988]1992:26-34).Non altrimenti si potrebbe interpretare la rivendicazione della scoperta di uno

2.3 Verso le conclusioni: sogni a metà 163

spazio della musica popolare autonomo da quello che fu il campo del populismoletterario romantico e poi delle strumentalizzazioni chiesastiche anti-socialistee poi fasciste, di strapaese, di cui si è parlato nei precedenti capitoli: proprioin quel campo cittadino-artigianale, come lo definisce Carpitella, in cui il jazzsi farà ancora avanti in seguito.

Ulteriori elementi da osservare nella risposta di Carpitella a Massimo Milaconsistono proprio nell’identificazione delle fasce folkloriche ’agro-pastorale’e ’artigiana’, come due ambienti ecologicamente e storicamente decisamentedifferenziati: il primo è una acquisizione della ricerca sul campo del primodopoguerra, essendo stato reinterpretato letteralmente (e letterariamente) datutta la ricerca folklorica precedente ed indisponibile alla ricerca sino all’im-piego della registrazione sul campo, che, con poche eccezioni, è un metodoche inizia ad essere impiegato solo in questo periodo. Il secondo è quello il cuicampo è pervaso dai folklorismi dello ’strapaese’ fascista e che è stato per-meabile alla ricezione e alla pratica del jazz nell’anteguerra. Gli interventi piùapprofonditi di Carpitella sul blues e sul jazz (v. bibliografia) verranno dopocirca venti anni, dimostrando che la riflessione sulla musica afroamericana èancora negli anni ’70 un elemento sostanziale degli interessi e del bagagliodi esperienze della nuova etnomusicologia italiana, ancora in fase di lenta edifficile costruzione.

Parte III

Il jazz e la cultura popolare dell’Italia liberata

3

Immagini del jazz in un’altra Italia

3.1 A Milano: « la Notte » e la mediazione del cinema

Nel dopoguerra e nel corso della ricostruzione e del del boom economico, tra i’50 e i ’60, la capitale del jazz diventa Milano. A Milano, jazz significa un nuovoapproccio alla modernità. Che il jazz interessi è perfino sottinteso, molte coseinteressano. La città torna a comunicare con le altre grandi città d’Europae del mondo: l’approccio italiano a design, architettura, pubblicità, significauna capacità di sentirsi in sintonia coi tempi e con la cultura e l’arte moder-na. Musicisti come Bruno Maderna, 1 Luciano Berio, Giacinto Scelsi e LuigiNono, contribuiscono ad un radicale cambiamento di tendenza della musicacontemporanea italiana che muove i suoi passi in fase con l’avanguardia euro-pea e americana. Un intervento di Umberto Eco particolarmente significativo(1977:288, v. oltre) appare oggi singolarmente severo, ma testimonia che gliappassionati di jazz negli anni ’50 erano abbastanza gelosi del loro momentomagico. Eco avverte sui pericoli della mancanza di strumenti critici solidi nelprocesso di modernizzazione e di industrializzazione che sta cambiando deci-samente il paese: citando un articolo di Roberto Leydi, contrappone la civiltàed il progetto di rinnovamento del mondo del jazz di Milano e del suo pub-blico negli anni ’50 all’ansia di adeguarsi dei nuovi fans acritici e massificatidel rock & roll che verso la metà degli anni ’60 spuntano un po’ dappertuttoanche in provincia.

Milano segna anche il luogo della prima vera e propria ambientazione este-tica pubblica del jazz nel panorama della cultura italiana, in un momento incui succedono molte cose importanti negli Stati Uniti. Si assiste ad un feno-meno nuovo: il jazz inizia ad interessare gli intellettuali italiani, mentre uno1 È forse superfluo ricordare del contributo del musicista veneziano all’esperienzadi Darmstadt a partire dal 1951 e della sua direzione del Kranichstein Musiken-semble, e poi della fondazione insieme a Luciano Berio dell’Istituto di Fonologiadi Milano nel 1955. Il padre di Maderna proveniva dal mondo che si è tenta-to di descrivere nei capitoli precedenti, essendo pianista di musica leggera (Mila1976:111-112).

168 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

dei dibattiti più partecipati sulla cultura ruota intorno a quale debba esserela sorte del cinema italiano, che aveva dato le sue più grandi prove tra il 1945ed 1948. Nel corso degli anni ’50 molti intellettuali danno corpo ai dubbi piùseri sulla forza del cinema italiano e della capacità di esprimere una forzadi rinnovamento culturale in un clima completamente diverso. Già Rossellinicon il suo « Paisà » aveva toccato la questione razziale ponendo il problemadel dominio subito dal soldato afroamericano, che riesce a costruire la propriadiversità culturale e sociale dinanzi al ’popolo’ italiano fraternizzando con glisconfitti perché cosciente di essere anch’egli, una volta di più, uno sconfitto eda questa coscienza diventa un uomo nuovo. Negli anni del boom economicoi grandi temi, tra cui l’autenticità dell’identità italiana, diventano molto piùdiscussi e, sebbene vicini nella memoria, si intrecciano in modo problematicocon la visione ereditata dal neorealismo.

Con un benessere che inizia ad essere tangibile ed un notevole sviluppodei consumi, compresi quelli culturali, ci si chiede come il nuovo cinema possaavere un valore di critica sociale e politica. Nonostante i dubbi, non serve con-dannare i nuovi simboli del benessere: la questione dell’autenticità si intrecciacon una estetica edonistica, vale a dire che laddove c’è il piacere, questo rivelauna situazione autentica. Questo nuovo atteggiamento costituisce la media-zione italiana ad una nuova ricezione-elaborazione del ’popolare’, nel sensoanglosassone di un’arte prodotta secondo una più profonda consapevolezza diquello che vuole il pubblico, cosa che ogni intellettuale dovrebbe sapere. In uninteressante dibattito tra critici letterari e specialisti del cinema, registrato etrascritto per la rivista Schermi nel 1959, Giansiro Ferrata risponde ad una sol-lecitazione di Luciano Amodio il quale osserva che ’il dramma’ è che ’l’operaiodella Fiat sia contento’, proseguendo poi con la seguente argomentazione:

Una platea non sentirà mai orrore perché l’operaio della Fiat è conten-to [...] Dovrai pescarli nei momenti in cui stanno male, hanno lasciatola lambretta, sono a casa e vogliono trovare qualcosa di più perché glimanca: perché gli manca effettivamente. Ma se tu fai la satira dellalambretta non riesci, perché io non se tu l’abbia, ma è un momentodi delizia autentico. O della seicento. Il piacere è una cosa sacra, lafelicità quando c’è si esprime anche attraverso la carta oleata [quellain cui si incartavano i salumi e la pizza]: altrimenti creiamo un aristo-craticismo e un narcisismo nostro della problematica sociale (Amodioet al. 1959:161).

Si avanza la necessità di un linguaggio cinematografico che sia capace diparlare senza complessi e senza intellettualismi preconcetti dei cambiamentidella vita e della cultura del paese. Nel laboratorio del nuovo cinema è inte-ressante notare come il jazz entri in quanto componente del diverso spazio incui si vive in città. Questa innovazione è particolarmente evidente nel film «La Notte » di Michelangelo Antonioni, la storia della cui musica è stata rievo-cata di recente da Giorgio Gaslini in un programma radio. Antonioni girava ilfilm e si trovava ancora indeciso sul come risolvere il problema della colonna

3.1 A Milano: « la Notte » e la mediazione del cinema 169

sonora del film. Marcello Mastroianni, il protagonista, fu consigliato da NicolaArigliano (popolare crooner e contrabbassista) di rivolgersi a Giorgio Gaslini,2allora membro della direzione artistica della filiale italiana della His Masters’sVoice.

Per il cinema di questi anni il jazz è la città stessa, le sue periferie e i suoiamori comuni e tristi. È il nuovo ’spaesamento’ della cultura di massa e dellacittà industriale in piena espansione, una transizione che non convince deltutto, a costituire lo sfondo della vicenda. Non è un caso, forse, che Antonioniusi il jazz quando in « La Notte » e « Blow-up » parla dell’incomunicabilitàavvertita dagli intellettuali: sono necessarie ulteriori mediazioni per avvicinareil grande pubblico a questo complesso intricato di simboli veicolati da archi-tettura e pubblicità, cinema e televisione, nuova letteratura.3. Solo la musicapuò riuscire a riassumere tutto questo in un sentimento e questo tocca spessoalle atmosfere del cool jazz ed in particolare al suono della tromba di ChetBaker.4 Il periodo di lavorazione del celebre film « La Dolce Vita » di FedericoFellini, che ritrae una Roma gaudente e corrotta completamente all’oppostodi quello che era stata l’immagine del primo neorealismo con « Roma CittàAperta » di Rossellini, coincide con le disavventure di Chet Baker in Italia;la sua vicenda è un tipico esempio di mediazione del mondo del jazz in unospazio pubblico più ampio possibile e Baker è, evidentemente, un personaggiopopolare tra i giovani, uno di loro ‘che ha fatto successo’.

2 Dell’impegno di Gaslini, uno dei dei jazzmen più impegnati sulla scena italiana siparla più avanti. Al tempo della sua collaborazione a « La Notte » di Antonioni(uscito nel 1961) Gaslini aveva già prodotto un lavoro che aveva fatto discutere:il suo « Tempo e Relazione » era stato eseguito di fronte pubblico si era divisoin due. L’opera di Gaslini metteva insieme il metro ed il beat jazzistico ad unascrittura seriale decisamente svincolata dai moduli jazzistici. Nella colonna sonoradel film Antonioni sceglierà il più sciolto quartetto di Gaslini piuttosto che i lavoriper orchestra, in seguito, nel 1966, per « Blow-Up » Antonioni sceglierà il pianistaHerbie Hancock ed un sound il più possibile ’up-to-date’.

3 La metafora jazz-città-solitudine che si consolida in questi anni, dimostra di es-sere un luogo dell’immaginario che non si abbandona facilmente. Scrive WalterVeltroni nel suo libro dedicato al pianista scomparso Luca Flores: « Quando co-minciai ad ascoltare il cd [...] mi assalì una strana malinconia, un improvviso,spropositato dolore. Mi sembrò che quella musica mi facesse volare in una metro-politana piovosa. Che potessi volando sfiorare luci accese nelle stanze di famiglia,che potessi guardare la solitudine della città, che sentissi da fuori le voci di unlitigio ingiusto. Ma quel paesaggio, quella città notturna e piovosa era dentro dime. E lì, proprio lì, si stava svolgendo il mio volo silenzioso » (Veltroni 2003:9)

4 Da notare che la supremazia di Chet Baker non era per nulla incontrastata eche molti aficionado gli preferivano Miles Davis, secondo uno schema abbastan-za consueto per il jazz di contrapposizione ’sportiva’ (Coleman Hawkins/LesterYoung o John Coltrane/Sonny Rollins); a Baker toccherà la sorte di impersonarela doppia identità di giovane bruciato e di jazzman nei guai letteralmente oppostaa quella del personaggio di Miles Davis: schivo, riservato e geloso della propriaprivacy.

170 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

L’industria discografica, da parte sua, si allontana sempre più da questomondo. Mentre nel periodo prebellico la musica da ballo e vocale ’sincopata’era da considerarsi a tutti gli effetti un prodotto industriale (o pre-industriale),dagli anni ’50 comincia a non esserlo più in modo definitivo, e torna nel domi-nio dell’artigianato. La necessità di riciclarsi dei musicisti implicherà i dettamidella ricezione del be-bop e del cool col ritorno nelle ’cantine private’ o neinight club più esclusivi.5 La canzone ‘Innamorati a Milano’ (dell’autore einterprete Memo Remigi) sarà in seguito un successo della canzone italianacapace di riassumere l’atmosfera di quegli anni: una canzone che verrebbevoglia di definire come mélange: con un vago tocco di stile « francese » edesistenzialista, la cui metà è una forma vagamente bluesy risolta da un refrainmelodico tutto italiano che recita ‘eppure in questo mondo impossibile tu mihai detto ti amo...io ti ho detto ti amo...’. Questa canzone popolarizzerà glianni e la visione di Antonioni de ‘La Notte’. Una parte dei musicisti italianiformatisi nell’epoca fascista è presa dalla moda cool. Chet Baker, Gerry Mul-ligan, Stan Getz, Jimmy Giuffre, dimostrano che il jazz può essere una musicafatta da bianchi. La televisione, il cinema e la pubblicità offrono nuove spondeal jazz, ma la svolta del bop prima, e poi del cool contribuisce all’eclissarsidei musicisti che erano attivi nel periodo fascista, il loro modo di intendere iljazz pare sorpassato.6

Alcuni dei professionisti già attivi nell’epoca fascista riescono a rifugiarsinel lavoro di studio, nelle orchestre RAI e nell’industria discografica superandola crisi, ma la maggior parte semplicemente scompare. È finita un epoca, certo,ma c’è una specie di eccesso di consenso su chi potrà partecipare all’epocafutura, mentre la scomparsa dalle scene di tanti musicisti non scandalizzanessuno. Così commenta Mazzoletti il passaggio al periodo del dopoguerra:

Fortunatamente il jazz italiano del periodo 1935-1944 non è avaro diincisioni per cui è possibile constatare come molti solisti fossero dotatidi indubbia personalità. Non furono mai aiutati, questo è un dato difatto. La radio li boicottò e anche nell’immediato dopoguerra, quandole condizioni erano radicalmente cambiate, la critica italiana di allorali tenne volutamente in disparte. Eppure erano tutti musicisti la cuietà oscillava fra i trenta e i trentacinque anni! (Mazzoletti 1983:273).

Scorrendo le discografie disponibili si nota che l’orchestra ’sincopata’ EIARdiretta da Piero Rizza, una delle migliori orchestre italiane del ventennio, con-tinua ad essere edita su 78 giri sino al 1949 (Mazzoletti 2004:586-587) per la5 Come ’La Bussola’ di Viareggio, primo scalo italiano di Chet Baker e di musicistioperanti per un pubblico di aficionado selezionatissimi, come Romano Mussolini.Si veda per questo il paragrafo dedicato alla vicenda di Chet Baker a Lucca.

6 Per quanto possa sembrare azzardato il paragone, si può tenere presente per que-sto periodo, col Baudrillard del Système des Objets (1968), una vera e propriacorsa delle famiglie italiane appena sfiorate da un nuovo benessere a disfarsi del-la vecchia mobilia ereditata come patrimonio familiare per sostituirla coi nuovimobili prodotti in serie.

3.1 A Milano: « la Notte » e la mediazione del cinema 171

Voce del Padrone (‘His Master’s Voice’ Italiana), poi c’è un 78 giri per laDurium italiana nel 1950 (Zoli 1983:287), ma oltre questo anno c’è una de-finitiva eclisse nella distribuzione più vasta. Di uno dei più noti sassofonistitenore italiani: Eraldo Volonté, già attivo nella seconda metà degli anni ’30con orchestre ’sincopate’ tra cui quella quasi leggendaria di Dino Olivieri, 7 sitrova un interessante matrice per la stessa etichetta a nome ’Eraldo Volontéand His Orchestra’ dal titolo Crescendo in Be-Bop, incisa a Milano il 31 otto-bre 1949 (Zoli 1983:314), poi un ritorno solo nel 1957 con propri quartetti equintetti per i quali riceverà il premio per la critica discografica nel 1967 e nel1976. A dimostrazione della lunga strada percorsa da Volonté una delle suecomposizioni nell’album premiato dalla critica italiana 8 nel 1967 si intitolava« Ornette » ed era evidentemente dedicata ad Ornette Coleman.

Nel laboratorio dei nuovi media si assiste ad un nuovo tipo di interesse peril jazz. Con l’avvento della televisione il modello della pubblicità televisivain Italia era quello di una molteplicità di proposte che tradivano la presenzadi approcci altamente diversificati: piccoli spettacoli all’italiana alla manie-ra del varietà, shorts di stile americano e cartoni animati, anche di notevolequalità. In questi spazi l’uso del jazz poteva essere molto vantaggioso ancheper motivi strettamente economici: si potevano eludere diritti d’autore oppureconvogliarli sui musicisti italiani. Un commercial molto americano e modernoera interpretato da un signore per molti anni ripreso nell’acqua a raccoman-dare una certa marca di detersivo unico in grado di restituire dopo il lavaggioquelle camice bianche di cui aveva bisogno. Infatti il gentile signore immersonell’acqua e con un aspetto più che americano (reso più ancora più verosimiledalla doppiatura: molte pubblicità erano prodotte all’estero e tradotte) era ilchitarrista Franco Cerri. L’immagine telegenica all’estremo di Cerri, doppiatocome se si trattasse di un attore americano e delle sue camice bianche, graziealle quali è diventato l’unico esempio di musicista jazz divenuto agiato profes-sionista della pubblicità, è il simbolo nascosto di un jazz del dopoguerra cheaveva tutte le intenzioni di dimenticare la propria storia recente. Solo pochiaficionados di lunga data (e molto vicini alle cerchie dei musicisti) avrebberopotuto sapere che Cerri era stato impegnato nelle radio di Salò. 9.

L’immagine ‘risciacquata’ del jazz che diviene componente di un nuovosapere mediatico viene ulteriormente allontanata in seguito dalla generazionedei musicisti dei ‘70, i quali, come si vede altrove, furono in gran parte incorag-

7 Orchestra della quale mancano tuttora indicazioni di organico e che registrò ungran numero di matrici per la ‘Voce del Padrone’ (Mazzoletti 2004:326).

8 Si tratta di Eraldo Volonté presenta; Jazz (now) in Italy, Eraldo Volonté (ss., st.),Dino Piana (tb.), Franco D’Andrea (p.), Giovanni Tommaso (cb.), Franco Tonani(bt.), Milano 10 febbraio 1966, EQUIPE RECORDS EQLP 1001. Dal 1957 in poitutte le incisioni di Volonté sono per case discografiche minori, prodotti artigianalimolto più che le industriali produzioni della ‘Voce del Padrone’ su cui è presentesino al 1949.

9 Adriano Mazzoletti parlerà di questo nel suo primo libro sul jazz in Italia(1983:342)

172 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

giati e seguiti (almeno ai loro primissimi inizi) da collettivi politici, movimentipacifisti e comunisti, e anche dalla speranza di un dialogo culturalmente piùmaturo con l’America impersonato, in modi diversi, dal movimento giovanilee anche da una parte dei giovani intellettuali del PCI. 10 La memoria di checosa fosse il jazz prima della guerra è sottoposta alla cancellazione: semplice-mente pare che non sia mai esistito. L’insistenza sul 1936 con la fondazione delCircolo Jazz Hot di Milano (Piras 2004:IX) come data a partire dalla quale simettevano le basi per sviluppi che saranno colti solo nel dopoguerra, riassumei termini di una vicenda ben più complessa. Ciò è evidentemente significativodella persistenza di problemi e conflitti di lunga portata sul tema dell’identitànazionale, per cui si è preferito a lungo una tacita convergenza a vedere ilfascismo e la guerra come una parentesi storica.

Si può dire comunque che nel dopoguerra il dominio sul ’discorso del jazz’passi agli aficionado storici, agli specialisti, ai padri fondatori e che la que-stione della legittimità del discorso sul jazz abbia assunto una seppur limitataautonoma dimensione sociale, specialmente in quanto diviene una questionedi gusto e così sottoposta a nuovi ’arbitri’. Perde il suo carattere di novità,non richiamando più l’interesse di prima della guerra (magari in quanto ele-mento ’alieno’ e corruttore), e va circoscrivendosi entro cerchie di specialisti edi ’appassionati e tifosi’. Mentre tutta l’attenzione è sulla formazione di unaclasse media di consumatori parlare e definire un’art moyen come questa spet-ta (così come parlare di fotografia, di cinema e di architettura) a hobbisti colti:professionisti, avvocati, giornalisti, vale a dire a persone le quali tendono allalegittimazione del jazz facendo leva su un proprio capitale sociale e un propriostatus pubblico. Il discorso del jazz diventa appannaggio del sostegno illumi-nato, che compete molto meno ai musicisti stessi, i quali iniziano ad esserepersonaggi più verosimili nel ruolo di eccellenti artigiani-professionisti, talentisprecati, poeti e spostati, marginali ma belli. Ancora un po’ ’zingari’, forse,ma non più ’di lusso’, talvolta perfino un po’ imbecilli nella loro ostinazionedi voler ’essere’ quel che sono a tutti i costi.

Milano come ’città del jazz’ significa anche la voce della critica specializza-ta più seguita nel paese: quella della rivista « Musica Jazz » e del suo DirettoreArrigo Polillo. Una rivista fatta di recensioni di dischi e concerti, interviste,articoli biografici o tematici spesso tradotti dal francese « Jazz Magazine » eottime foto. I magri sovvenzionamenti ed un costo piuttosto alto fanno dellarivista un prodotto di lusso, con una veste grafica importante ma compostoin buona parte da contributi degli appassionati a titolo gratuito. Quanto alleidee del direttore Arrigo Polillo, autore di un lavoro d’insieme sul Jazz (2003),egli fu sospettoso persino nei confronti di John Coltrane, che Vittorio Testoni,

10 Tra i quali il citato, più volte sindaco di Roma ed ex-segretario del Partito Demo-cratico, Walter Veltroni, figlio di uno dei padri fondatori della televisione italiana,e, in quanto conoscitore di jazz e di cinema, amministratore bene-facente per lacomunità del jazz italiana.

3.1 A Milano: « la Notte » e la mediazione del cinema 173

suo predecessore nella direzione del giornale, addirittura stroncò. 11

Nella monografia di Arrigo Polillo « Il jazz »,12 più volte riedita e tutt’oramolto consultata, spiccano clamorose ‘preferenze’: un lungo capitolo dedicatoa Keith Jarret e pochi paragrafi a Rashaan Roland Kirk, visto riduttivamen-te come un ’sideman’ di Charles Mingus. Un suo capitolo indulgente ma ditono paternalistico e spesso allusivo su Django Reinhardt, si inizia sottoscri-vendo il giudizio di André Hodeir che definì la carriera del chitarrista come’incidente pittoresco piuttosto che un avvenimento storico’ (Hodeir in Polillo2003:518). Una presentazione nella quale Polillo in sostanza cerca di dare fon-do al massimo alle proprie risorse aneddotiche per ‘calarsi nel personaggio’ inun modo che, in sostanza, tende a sminuire il ruolo del grande chitarrista ma-nouche. Una prova che non può che riportare alla mente, nel bene e nel male,quanto l’aneddotica del jazz possa divenire in sostanza un discorso di poteremascherato da genere letterario orale e conviviale in cui vengono rielaborati imateriali più disparati per confermare quello che si sa già. L’esperienza dellamusica e la sua forza, la sua energia, certo, ma anche le discussioni al bardopo un concerto o a cena con i musicisti di passaggio, libri in lingue stranie-re, materiali che vengono accuratamente deposti nella memoria e riusati negliarticoli e nelle note di copertina, solidificandosi talvolta in giudizi irrevocabili.

Nelle pagine sulla vita di Bud Powell, commentando a tinte fosche la suavicenda terrena, Polillo nota laconicamente che i ripetuti elettroshock nongli giovarono certo, e riporta almeno la constatazione di Jackie McLean che,anzi, gli fecero perdere la memoria. L’avvocato non è mai stato nei cuori deimusicisti degli anni ’70, tempo in cui scriveva la sua opera sul jazz ed avevauna grande influenza nell’ambiente. Non poteva esserlo essendo uomo di altritempi e ‘avverso all’eversione’ nella società e nell’arte. Eppure parlerà nel suolibro delle rivolte afroamericane con rispetto ed esattezza,13 si interesserà disemiotica, sostenendo sempre che vi possa essere un modo scientifico, almenoper approssimazione, di scrivere di jazz, e che a questo si debba tendere.

11 Dopo la tournee italiana del 1960 col quintetto di Miles Davis. oltre la sua carrie-ra di hard-bopper e avversario di Sonny Rollins. È opportuno, più che compatirequeste prese di posizione, riflettere su quanto la cultura del fan di jazz debba aquella dello sportivo. Testoni avrebbe giudicato secondo uno schema di contrappo-sizione simile a quello che contrapponeva Bartali a Coppi, mettendo sullo sfondotutta una problematica che riguardava la formazione culturale e il provvedersidi mezzi per affrontare il clima di generosa e contraddittoria creatività di queltempo, l’avanzarsi del mercato globale della pop music, una nuova interpretazionedella refenzialità estetica e politica delle cerchie del jazz più avanzate.

12 Pubblicata negli anni del boom della costruzione delle culture giovanili (Torti2000) e di un emergere di un nuovo pubblico e di nuove cerchie della produzionedel jazz in Italia nei primi anni ’70.

13 Attualmente in ogni resoconto televisivo nella fascia di massimo ascolto in cuisi tocca il tema degli assassini politici in America manca sempre Malcom X erestano il Presidente Kennedy e Martin Luther King.

174 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

Polillo è uno scrittore che sa evitare il registro pedagogico e che usa conmolta parsimonia il metalinguaggio della descrizione dei procedimenti musica-li. Sarà difficile trovare nelle sue pagine passi come quelli di Lucien Malson, ilquale nel descrivere lo stile di Parker punta l’accento sul carattere totalmentee sempre orientato14 delle emissioni sonore, siano esse brevissime e interrotteoppure lunghe frasi che esauriscono un intero respiro (Malson 1959). Polillo èportato piuttosto a esprimere, come fa nel rispondere alle ’lettere al direttore’su Musica Jazz, giudizi concisi, ma spesso non si tratta di questioni di cui unmusicista possa essere particolarmente avido.

Ma anche agli scrittori di jazz più cauti possono cadere in giudizi affrettati,nelle polarizzazioni che assume il discorso sul jazz nella valutazione delle pra-tiche dei musicisti. Questo avviene specialmente quando si tratta di definirela ‘grandezza’ di un determinato interprete: per inversione si tratta di trovarenegli altri dei difetti dai quali egli è immune. Lo stesso Malson, per spiegareal lettore quanto sia grande Fats Waller, rimprovera ad Erroll Gardner « dilasciarsi sedurre nei tempi lenti – al punto di dimenticare il jazz – per dellefalse ricerche di un’armonia debussyana interiore »15 (Malson 1959:60, corsi-vo mio). Il lettore resta comunque con la curiosità di capire a che cosa puntiil commento e dove si possa ascoltare un Gardner ispirato da Debussy, cosache riveste comunque un certo interesse.

Il rapporto tra impressionismo francese e jazz diventa un argomento, spe-cialmente tra i commentatori europei. Quelle che sembrano semplici osserva-zioni diventano strumenti del discorso autorevolmente tecnico: argomentazioni’musicologiche’ da usare nel processo in cui si oppone il più autentico all’ar-tificioso. Per esempio, nelle pagine dedicate da Wilfrid Mellers all’analisi dibrani del repertorio jazzistico l’impressionismo di Bix Beiderbecke, tanto abilecome pianista da possedere alcuni pezzi di Claude Debussy (1975:308) e im-pressionista come compositore nel suo famoso « In a mist », diventano partedella costruzione di un personaggio unico nella storia del jazz. D’altra parte lasensibilità per quella parte del repertorio pianistico che è parte insostituibiledell’evoluzione moderna dello strumento sembra molto meno confacente agliartisti neri come Earl Hines, i cui ’svolazzi debussiani’ nell’edizione del 1928di West End Blues sono visti come un elemento che disturba l’unita artisticaed il pathos del pezzo (1975:304). Persino nei confronti di Duke Ellington siparla di armonia ’derivata dall’impressionismo mediato dalla musica pop’ (op.cit., p. 323). Come se Ellington non fosse stato capace di stabilire le proprieconnessioni con l’impressionismo in quanto tale, ma solo con il ’colore’ impres-sionista usato da alcuni maghi di Tin Pan Alley. Per Mellers, come per tantialtri autori del dopoguerra che hanno collocato l’autenticità del jazz nelle sue14 Questo senso dell’orientamento prevede una assimilazione tale dei patterns da

sapere sempre ‘dove ci si trova’ e permettere di interagire con la struttura diconseguenza, nel saper far rimbalzare la palla come si vuole e restare sempre inpiedi in una serie di costrizioni; questa mi pare la assoluta novità e la caratteristicadel ‘gesto’ del bebop.

15 Sulla portata sociologica di questo tipo commenti, si veda Bourdieu, p. 41 e sgg.

3.1 A Milano: « la Notte » e la mediazione del cinema 175

origini folkloriche, Ellington è un problema, proprio perché è lontanissimo dalfolklore, anzi è il primo che si pone il problema di reinventarlo di sana pianta,funzionalizzandolo allo spettacolo con il suo cosiddetto stile jungle. Elling-ton resta per Mellers ’compositore modesto’ (p. 332) e caso emblematico peressersi trovato quasi suo malgrado16 ad operare una sintesi tra jazz, arte ecommercio. Il fortunato attore di una operazione per la quale « la musica diuna minoranza alienata potette diventare quella della società industriale nelsuo insieme », (loc. cit.) fatto che non poteva avvenire « per mezzo di unosforzo intenzionale, ma soltanto attraverso una permeazione inconscia » (loc.cit.).

Al libro (e a tutto l’approccio al jazz) di Polillo fu dedicata, due anni dopola prima pubblicazione, una decisa stroncatura sulle pagine della autorevoleRivista Italiana di Musicologia da parte di Giampiero Cane (1977), in seguitodocente presso il Dipartimento di Arte Musica e Spettacolo dell’Università diBologna. La sostanza della recensione puntava a preferire e legittimare comemanuale sul jazz, piuttosto che quello di Polillo, il lavoro del citato Mellers(1975), che inquadra il jazz in una prospettiva più ampia di storia della musicain America. La critica di Giampiero Cane tocca molti punti ricorrenti nel di-battito di quegli anni, tra cui quello fondamentale di assumere il ’negro comecategoria’ (Cane 1977:341-342), che potrebbe essere letto come una critica da’sinistra’ al moderato Polillo. In questo senso ci si potrebbe ingannare proprionella lettura della visione della musica di Polillo, definita da Cane come ’idea-lista’ (p. 341) e dunque Crociana. Ma Cane sembrerebbe ancora più idealistadi Polillo nella sua continua distinzione tra le condizioni del commercio deljazz e la sua storia. Nella discussione di come valutare il rapporto tra ’arte’e ’mercato’,17 Giampiero Cane, che vede anch’egli l’autenticità del jazz nellesue origini folkloriche, si dice disposto a ’riflettere sulla debolezza di un ar-tista come Roland Kirk’, riprendendo il giudizio sostanzialmente negativo diPolillo. Tuttavia fa intendere che in qualche modo Kirk ’vende’ il folklore, coni suoi riferimenti al blues e alla pop music, ma che ’questa debolezza non hala forza di annientare quel folklore che egli si lascia alle spalle per entrare nelmercato’ (ivi). Dunque Kirk si trovava all’incrocio tra attribuzioni di sorpas-sati idealismi a Polillo ed il ’folklorismo neo-idealista’ di Cane; assurdo perPolillo e troppo ’istrione’ per Cane. Al contrario, le notizie delle sue (rare)

16 Le forze in campo, sul piano sociale e culturale, sono viste come qualcosa di tal-mente potente e sovrastante da far supporre attori sociali ’agiti’ da tali forze,come Mellers mostra di giudicare Ellington e i suoi collaboratori. Come osservaMondher Kilani « Occorre liberarsi dalla concezione reificante della cultura [...]come realtà che sovrasta gli attori sociali e guida le loro azioni [...] Una attenzioneparticolare dovrebbe essere prestata al linguaggio dell’azione sociale e alle rap-presentazioni degli attori sociali, i quali vanno considerati come reali intermediarinella costruzione dell’intelligibilità delle credenze e delle pratiche » (1997:33).

17 Argomento che Gilroy (1993) affronta vedendo la musica come luogo centrale perleggere la storia del concetto della ’doppia identità’ afroamericana di W.E.B. DuBois, per cui si veda p. 256.

176 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

apparizioni italiane erano ben diverse. Kirk era stato a Bologna nell’invernodel 1973, e le delegazioni degli appassionati18 avevano riportato per tutto ilpaese notizie letteralmente favolose di lui e della sua musica.

3.2 La « Dolce Vita » di Chet Baker

Si è accennato della coincidenza temporale tra la presenza di Chet Baker inItalia e la lavorazione de ’La Dolce Vita’, di Federico Fellini. Nel paragrafoprecedente si è anche fatto cenno di un più ampio campo di mediazioni cul-turali nelle quali la vicenda del jazz prende corpo e si fa strada in una societàitaliana che sta diventando una società dei consumi. Rileggendo alcune pagi-ne di un libro magistrale di James Gavin (2002) dedicato alla biografia deltrombettista americano emergono i lineamenti di un quadro più articolato.Molti elementi fanno di Baker una figura che è un segno dei tempi in mododiverso da quelle di molti altri musicisti di jazz. Il suo viso ed il suo corpodi ragazzo si adatta benissimo a ciò che l’industria dei Moghuls di Hollywoode James Dean faceva conoscere al mondo intero come ’gioventù bruciata’. Ilsuccesso precoce, il coinvolgimento con la droga, un nuovo modo di concepirela sessualità e l’amore a cui Baker da corpo con il suo suono unico e con lavoce sono ben conosciuti e ben documentati.19

La lettura che Gavin da della vicenda di Baker si sofferma sulla ricezionedel jazz in Italia di questi anni come questione direttamente riguardante rap-porti di potere che circoscrivono e definiscono il corpo delle persone, la lorosessualità, la possibilità o la promessa di riuscire a liberarsene o di metterlialmeno in discussione; si tratta di un dissenso decadente, Felliniano quantoalla scelta degli ambienti (Gavin 2002:177-178).

Secondo Aldo Santini, del «Tirreno», il pubblico italiano considerava iljazz come « il mondo del vizio e della perdizione. »20 I posti dove si suonavaerano ancora chiamati « hot club »: posti appartati, quasi proibiti, e apertisolo in certi giorni. Le orchestre pop-jazz suonavano per far ballare in luoghi

18 Tra cui erano Afo Sartori, di cui si può leggere l’intervista in annesso 1, p. 317, eRoberto Bellatalla, che ricordando quel concerto, in una comunicazione personalerecente, notava che c’erano dei discorsi sul suo essere un clown, sui momenti incui suonava tre sassofoni contemporaneamente ed altre cose, ma che dopo quelconcerto si sono dissipate ai quattro venti. Per una discussione particolareggiatadi Rip Rig and Panic di Roland Kirk si veda Monson (1994).

19 Mi riferisco alle prime permanenze di Baker in Europa dalla metà degli anni ’50.Meno noti sono i ritorni di Baker in Italia verso la fine degli anni ’70 e nel corsodegli anni ’80, quando diventa ancora una volta il fulcro di imprese al limite tramusica e pura avventura del jazz continua ad entusiasmare i giovani musicistiitaliani della generazione successiva a quelli degli anni ’50, come Nicola Stilo,Enrico Pieranunzi, Luca Flores, Furio Di Castri ed altri.

20 Aldo Santini, La magica tromba di Chet Baker è caduta nella fossa delle vipere,« Il Tirreno », 4 agosto 1960.

3.2 La « Dolce Vita » di Chet Baker 177

decadenti come il « River Club » dentro Palazzo Corsini a Firenze, un anticoedificio sull’Arno con affreschi, prostitute d’alta classe ed una clientela diantichi nobili e mondanità. In un ambiente simile, artisti come Helen Merrill,una cantante americana che viveva a Roma, si trovavano a disagio. « Non erauna bella situazione», dice. « Ma c’era qualcosa d’ipnotico. Forse cercavamosolo di scappare dalla realtà » (in Gavin, cit.).

I luoghi della ’perdizione e del vizio’ ritraggono ambienti post-fascisti, na-scosti, come le case di appuntamento di alto bordo o le bische clandestinenelle dimore della nobiltà decaduta. Gran parte della distribuzione dei localijazzistici in Italia era ancora molto legata negli anni ’50 a imprese e decisionidirettamente connesse alla presenza dell’armata degli Stati Uniti. L’osser-vazione di Helen Merrill conferma certamente la permanenza di un passatoscomodo, di gravi e pesanti contraddizioni percepite in rapporto alla realtà eal quotidiano, ma anche il fatto che comunque vi fosse un certo fascino nelfrequentare questo mondo e che non si trattasse unicamente di routine. Ilrumore mediatico e l’interesse pubblico suscitato dalla vicenda giudiziaria diChet Baker nella città di Lucca è importante perché non potrebbe costituireun migliore esempio di mediazione del jazz verso un pubblico molto più ampiodi quello che si sedeva abitualmente attorno al cerchio dei musicisti. Le moda-lità dell’esperienza sono tradizionali: uno scandalo all’italiana, un processo. Iljazz per tanta gente gente è molto prossimo al ricordo di un passato recente incui le donne dell’Italia sconfitta si prostituivano ai soldati alleati, e che deveassolutamente essere cancellato.

La strada dell’Europa per i musicisti americani si articola già intorno aifestival estivi del jazz: l’Italia (Fregene 26 luglio 1959), Parigi, il Belgio (Com-blain la Tour 2 agosto 1959) (Gavin 2002:175-176). L’Europa giunge alla finedi un periodo di vicende negative per la vita e la carriera di Baker, il quale,scrive Gavin, « aveva deluso tutti trascinando un sogno americano nel fango» (cit. 173). Un commento estremamente rivelatore, perché gli anni ’50 rap-presentano (e a maggior ragione per la ricezione europea del jazz) gli anni incui il mito americano si trascina nel fango da solo, con la fine della pretesainnocenza postbellica. Certo che Baker non aveva nessuna colpa. Forse gli ècapitato di essere particolarmente adatto a rappresentare la caduta dell’Ame-rica tramite la propria, mentre prendeva corpo sempre più, dopo la svolta delbe-bop, quel lento processo che Lodovic Tournès chiama ’autoctonizzazione’(1999:77 cit. in Jamin 2001:289) delle cerchie europee del jazz. Un proces-so che implica anche il fatto che si stabiliscano legami più stretti e profondi,più personali, con quella categoria assolutamente particolare di Americani chesono i musicisti.21

21 Il pianista Enrico Pieranunzi confida a Gavin: « Per gli americani, Chet era solo undrogato (...) qui pensavamo che fosse un grande artista con un grande problema.Era un uomo che aveva bisogno d’aiuto. Qui trovò un sacco di amici che capivanola sua fragilità, la sua timidezza, il suo dramma interiore. Era così dolce quandosuonava, così misterioso. In qualche modo riusciva ad esprimere con poche noteil dramma della vita. In Italia siamo più sentimentali e lo capimmo meglio »

178 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

La venuta di Chet Baker In Italia nel ’59,22 anno in cui in un inciden-te d’auto muore Fred Buscaglione, allora all’apice del successo, è annunciatacome un grande evento e non solo per il pubblico degli appassionati. Le disav-venture dell’asso della tromba al di là e al di qua dell’Atlantico sono affiancateda articoli scandalistici sull’eroina e la decadenza dei costumi. I media nonsi lasciano sfuggire un personaggio simile: il pubblico che accorrerà ai suoiconcerti sarà infatti ben superiore al normale.23 Se in precedenza il musicistasi trovava a interagire con una cerchia di seguaci pronti a seguirlo comunque eovunque, ora sembra rivolgersi ad un pubblico di profani pronto letteralmentea consumarlo.24

Molte testimonianze parlano di un fascino oscuro di Baker di «... un suonoseduttivo, mistico che attirava gli altri. Ma seguire la voce delle sirene signi-ficava restare prigionieri o morire » (Lisa Galt Bond in Gavin, cit. 175). Unfascino ben percepito dai giovani musicisti italiani, ai quali « bastava un sor-risetto di Chet » (Loffredo in op. cit. 179) per farsi coraggio, e che restavanofolgorati dai suoi arrivi a bordo di macchine sportive e con tenute tutt’altroche impiegatizie come le loro (l. cit.). Rapportandosi alle cerchie del cinema,Baker adotta una condotta professionale e compare in « Urlatori alla Sbar-ra », film di Luigi Fulci, da cui inizia il successo delle giovani vedettes dellapop music italiana Adriano Celentano e Mina Mazzini. Nel film canterà «Arrivederci », una canzone25 che il brasiliano Marino Barretto aveva reso unassoluto e indimenticabile successo per il pubblico italiano di quegli anni (cit.182). Accetta anche un cortometraggio documentario su se stesso e la moglieHalema ed il figlio Chesney Aftab (che lo avevano seguito in Italia), girato daun « ignoto documentarista » e intitolato tromba fredda (cool trumpet), lacui pellicola andrà perduta (virgolettato aggiunto, l.cit.).

Baker naviga nella scena dello spettacolo italiano con qualche difficoltà,si sottopone a disintossicazione in una clinica privata a Milano nel giugno

(Pieranunzi in Gavin cit. 177, corsivo mio). Pieranunzi si riferisce ai rapporti conBaker che si riferiscono agli anni ’80; proseguendo il proprio racconto tocca unaspetto molto importante riguardo al problema del rapporto tra modello e replicaquando parla di una capacità di sintesi nella pratica di Baker che nota mancareai musicisti italiani.

22 Da ricordare che nello stesso anno usciva il documentario di Ed Bland The Cry ofJazz (1958), con la collaborazione decisiva di Sun Ra, nel quale veniva formulatauna nuova teoria del jazz e del suo significato che oltrepassava di molto le versionicorrenti (v. oltre e nelle trascrizioni, annesso 4, p. 363).

23 Gavin conta almeno 12 articoli dedicati alla sua vicenda dalla stampa locale enazionale italiana tra il novembre 1960 e l’aprile 1961 (cit. 432).

24 Quanto a questo, la monografia di Gavin pullula delle affermazioni Chet Bakerdi essere solamente un musicista e di voler solo poter suonare ed essere lasciatoin pace.

25 Arrivederci parla del cambiamento dei costumi nel descrivere l’addio tra dueamanti come una questione naturale: quel restare civilmente amici (con una stret-ta di mano, da buoni amici sinceri); una lezione di vita nuova per la mentalità’mediterranea’ italiana.

3.2 La « Dolce Vita » di Chet Baker 179

1960, poi si lega alla diciannovenne inglese Carol Jackson, ballerina di filaal cabaret Olympia di Milano (cit. 181-182). Questo fatto gli guadagna unaattenzione ancora più intensa da parte dei giornali scandalistici che inizianoa seguirlo ovunque vada (cit. 184). Dopo un ulteriore tentativo di ’ripulirsi’è ormai pronto per cadere in trappola. Ottiene una scrittura per un’interastagione al Bussolotto di Bernardini a Forte dei Marmi, ’uno dei più bei nightclub d’Italia, in cui si esibivano stelle internazionali come Sammy Davis Jr.,Louis Armstrong e Joao Gilberto’ (cit. 185).

L’inizio della stagione non è dei più propizi: a Baker viene rubata la trom-ba a Napoli, ma inizia comunque l’ingaggio con una sezione ritmica guidatada Romano Mussolini (cit. 186). Preso da mancanze di soldi e di sostanzeoppiacee, inizia a consumare il ’Palfium’, un medicinale in vendita in Germa-nia e in Italia sotto presentazione di ricetta medica (cit. 187-190). Inganna oconvince diversi medici a procurarglielo, ruba un ricettario. Viene arrestato erilasciato dopo essere stato trovato in stato di semi-incoscienza nei servizi diuna stazione di benzina nei dintorni di Lucca (ivi). Nel frattempo il PubblicoMinistero Fabio Romiti sporge denuncia ed inizia un’indagine approfonditanelle farmacie di Pisa, Lucca e dintorni trovando venticinque dottori che ave-vano prescritto il Palfium a lui stesso, alla moglie o all’amante. Romiti pensavache ’i trafficanti di droga stessero avvelenando i valori cattolici di una terrabenedetta’, così commenta Gavin (cit. 191), e condurrà le indagini in modoirrituale e furiosamente punitivo. Il 22 agosto Baker viene arrestato in attesadi processo. Il suo primo interrogatorio è un disastro dal quale emerge unnumero incredibile di favori e compiacenze nei suoi confronti. Non si salvanessuno, nemmeno la moglie Halima, l’amante Carol Jackson, né il batteristaGene Victory, che comunque ’sfuggì all’arresto, e riuscì a comprare un bigliet-to per gli Stati Uniti, vendendo la sua batteria ad un ragazzo di Lucca’ (cit.192).

Nel frattempo ci sono i primi schieramenti in campo: mentre i giovaniappassionati prendono il treno per andare sotto le finestra del carcere a soste-nerlo,26 il più potente avvocato di Lucca, Mario Frezza, accetta di difenderlo.Da parte sua Dino de Laurentiis, produttore cinematografico de « La Strada» di Fellini, « Serpico » e tanti altri film di successo, vede un buon potenzialecinematografico nello scandalo ed anticipa una somma cospicua per un filmda farsi quando Chet uscirà dal carcere (op. cit., pp. 192-193). La giornali-sta Oriana Fallaci, rappresentante all’epoca della pubblicistica più impegnata,segue la vicenda e, a processo avvenuto, calca la mano su una giustizia oscu-rantista e ignara di chi fosse « il più grande trombettista bianco del mondo »(Fallaci 1962 in Gavin cit. 195, corsivo mio).

Al processo, apertosi l’undici aprile del 1961, Baker ritratterà gran partedella sua catastrofica confessione dichiarando di non essere stato perfettamen-te cosciente al primo interrogatorio. Sarà condannato ad un anno, sette mesi

26 C’è chi grida: «. . . forza Chet, abbasso i preti’ (intendendo il PM Romiti).Comunicazione personale di Giancarlo ’Afo’ Sartori, Pisa, v annesso 1.

180 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

e dieci giorni di prigione e a una multa di 140.000 lire, riconosciuto colpevoledi contrabbando di droga e falsificazione, ma assolto per il furto del ricettario.Il medico Bechelli, per il quale era stata riconosciuta corruzione, e per il qualesi era parlato di favori da parte della Jackson, fu invece condannato a tre annidi prigione ed una multa di 300.000 lire (cit. 197).

Ed infatti il leit motif del ’processo delle vipere’, come fu titolato dallastampa, non fu tanto quello della droga, che riguardava solo Baker e qual-che medico compiacente e che rischiava di coinvolgere inutilmente personaggiillustri, ma quello delle donne e dei costumi sessuali. Si procedette ad ’unmelodramma’ che ’tutta la città di Lucca venne ad assistere’ (p. 193). HalemaBaker fu chiamata ’la moglie mulatta o nera di Baker’ (ivi), mentre CarolJackson si dava compiaciuta ai paparazzi e le popolane lucchesi le gridavano’PUTTANA!’ (ivi). La stampa, cogliendo benissimo il fatto che il pubblico eracontro la Jackson, una ragazza che esibiva senza complessi il suo desiderio dinotorietà, commentò che Halema avrebbe potuto ’insegnare molto quanto aclasse a Carol’ (ivi).

In conclusione, per la pietà del pubblico nei confronti della moglie, cherischiò anch’essa una pena di due anni, per la indovinata strategia difensi-va e per il rilievo internazionale del personaggio, la pena fu in qualche modoattenuata. Fu aggravata invece la situazione di Bechelli per il suo tentato com-mercio con l’amante altrui accennato27 dalla Jackson (p. 196). Bechelli pagal’intrusione nel tipico intreccio a tre in cui l’uomo incosciente e vizioso ricevei favori di una bella e spregiudicata ragazza (incosciente come lui, ma è unpeccato veniale) e disonora se’ stesso, la povera moglie fedele e tutta la pro-pria famiglia in una tresca che a Lucca si intende naturalmente come qualcosache bisogna saper sostenere e per la quale pagare le necessarie conseguenze sescoperti.28

In seguito Baker dirà di aver vissuto per quasi un anno in una cella damedio evo, ma vi sono molte testimonianze che la sua reclusione non sia statatroppo dura, dato che almeno poteva ricevere le ’visite coniugali’ della Jack-son.29 Ai primi di dicembre del 1961, con un condono di circa quattro mesi

27 Alla contestazione della corte se la Jackson fosse stata accompagnata da Baker daBechelli per sedurlo e renderlo più cooperativo, la Jackson rispose che lo odiavae non voleva che la toccasse, che c’era stata altre volte prima e conosceva il suocomportamento. Alla domanda se Bechelli le avesse ’messo o no le mani addosso’rispose che le aveva messe ma solo per scherzo (cit. 196).

28 Discutendo con un occasionale compagno di viaggio originario della montagna neipressi di Lucca e residente da molto tempo a Parigi, questi espresse la propriaopinione sul bisogno in Italia di una vera riconciliazione tra ex-fascisti ed ex-comunisti. Ricordo di aver ribattuto che sarebbe stato difficile parlarne seriamentedato che mai come ora il paese si era ridotto ad un luogo in cui la gente sembravacontenta di pascersi delle immagini di ’bei culi e buoni sentimenti’. Lui disse chemi svegliavo in ritardo perché ’l’Italia è sempre stata così’.

29 Pratica oggi assolutamente impensabile anche per il detenuto fuori dal comune.(p. 199).

3.3 Poco prima del ‘68: nuove tendenze giovanili e cultura di massa 181

per buona condotta, Baker lascia il carcere. Negli anni a venire resterà la leg-genda del suono celestiale di una tromba che suonava, verso il tramonto, dallefinestre del carcere di S. Giorgio, a Lucca. Da parte loro perfino alcuni musi-cisti italiani degli anni ’70 continueranno a lungo a adorare quella ’immaginesdolcinata’ che li affascinava tanto e che era in gran parte una proiezione del-le loro menti: quella di un ’silenzioso, onnisciente Buddha del jazz’ (p. 179).Magari anche pagando di persona il prezzo del fascino sottile di quel suono edel periodo indimenticabile della loro vita passato insieme all’angelo caduto,ma mai privato del suo rango e della sua essenza, Chet Baker.

3.3 Poco prima del ‘68: nuove tendenze giovanili ecultura di massa

La rappresentazione più evidente del criterio di rispecchiamento sociale concui l’industria culturale italiana affronta l’irruzione della popular music deglianni ’60 sta nella traduzione di If I had a Hammer di Pete Seeger, che initaliano diventa un surf intitolato « Datemi un martello ». Il motivo, cantatoda Rita Pavone e divenuto un hit dei primi anni ’60, trasforma il contenutopolitico in un battibecco adolescenziale tra due ragazzine per aggiudicarsi unbel fidanzato.30 Si avverte qui la camaleontica persistenza dell’immagine stra-paesana dello spazio culturale nazionale che ora muove i passi dell’industriaculturale milanese. Si ripete cioè l’adattamento ora democristiano, dopo quel-lo fascista, delle mode cosmopolite al ’gusto italiano’: questo è il laboratorioche lo costruisce, sembra per ora che non ce ne siano altri. La mutazione dellospazio culturale e dell’economia del consumo musicale avverrà in gran partetramite l’offerta commerciale e la proposizione di mediazioni e poi alternativeitaliane ai gruppi stranieri con adattamenti e traduzioni talvolta geniali, comenel caso di gruppi quali l’Equipe 84, i Nomadi, i New Trolls, e (sebbene moltopiù di routine) con le proposte di esponenti del rock francese come Silvye Var-tan, Johnny Halliday, o di anglofoni naturalizzati in italia come Shel Shapiroe Mal ed i ’Primitives’. 31

È questo il momento in cui la moda agisce da potente ’regolatore sociale’,come dice Peppino Ortoleva, nella prospettiva di una proposta massiccia eindifferenziata di nuovi prodotti culturali, di quello che è un grande calderone30 L’operazione fu notata subito (Straniero et alii:1964) e ridiscussa estesamente da

Eco (1977:289 e sgg.).31 Nelle proposte d’archivio della RAI, in trasmissioni quali ’Eventi Pop’ si presen-

tano le clip con un senso di nostalgia e meraviglia. Rispetto alla questione delle’cover’ si nota una notevole differenza tra quelle proposte direttamente dalle ca-se discografiche come versioni per il mercato estero e quelle eseguite ’in proprio’migliori gruppi italiani. Spicca tra le prime la diversissima natura delle canzonidi Salvatore Adamo, il quale ha ’di per sé’ un enorme potenziale di attrattiva sulpubblico italiano, capace, per il fatto di essere figlio di immigrati meridionali, diattraversare le frontiere simboliche del linguaggio senza alcuna artificiosità.

182 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

nel quale si deve saper distinguere o soccombere ad un consumo passivo ealienante. 32

L’incontro col jazz dei prossimi figli della scolarizzazione di massa, del mo-vimento, del rock, delle ’canne’, della liberazione sessuale, del femminismo,ecc., che faranno sottili distinzioni sul rock che ’va bene’ e quello che è unprodotto del ’business’, è figlio di una capacità di selezione che già nei se-condi anni ’60 aveva saputo conoscere i prodotti della Tamla Motown, OtisRedding, Aretha Franklin, Stevie Wonder (ma anche nutrire passioni per fe-nomeni diversissimi come Arthur Brown ed i Creedence Clearwater Revival).Una tendenza minoritaria, senza dubbio, ma che si configura come spinta inavanti di un processo di scoperta che rimbalza dagli appassionati dell’era diChet Baker ai più giovani, dai ’fratelli maggiori’ e gli ’zii’ ai fratelli minori.

Un processo di scoperta del dialogo inter-Atlantico che ha implicazioniimmediatamente storiche e politiche. Dai dischi si risale a Woodstock o allaconvenzione di Chicago del 1968. Dalle cover dei gruppi italiani, si scopronoi Procol Harum; da Brian Auger, Jimmy Smith, Joe Zawinul ed i fratelli Ad-derley, dietro gli elfi e i folletti di Ian Anderson e dei Jethro Tull c’è RashaanRoland Kirk, da qui ci si interroga sul blues e sulle fonti del jazz e a tuttala problematica della questione afroamericana, e tutto si trova sul mercato.33 Non ci vuole molto a giungere alle figure mitiche del jazz, alla sua recentesvolta politica e culturale: Coleman, Mingus, Roach, Coltrane, l’Art Ensembleof Chicago. Più avanti nel corso dei ’70 e dei primi anni ’80, fare la conoscen-za con Sun Ra e poi con gli ’improvvisatori’ che si rifanno a sperimentatoriamericani: Cecil Taylor altrettanto che a grandi europei, Han Bennink e Mi-sha Mengelberg. Questo percorso di scoperta non può essere solamente unaquestione individuale e non potrà non avere una forte connotazione ideologicanel segno di una propria coerenza rispetto alla storia di (almeno) una partedella ricezione del jazz. 34

32 Per la generazione che aveva vent’anni nel ’68 si può ricordare la figura di ragazza-turista così idealizzata e lontana dalla realtà quotidiana come era Françoise Hardy,per coloro che sospiravano con le sue canzoni a mezza voce.

33 Un mercato che nasce con diverse velocità: in provincia il luogo stesso della ri-vendita di dischi, dove si può ascoltarli, ci si incontra per parlare di musica eper vedere che cosa si potrà acquistare, non appena si avranno i soldi. Il discorsopolitico sugli Afroamericani non può che presupporre l’incontro con i dischi. Senon è anche musicale sembra falso.

34 Se ci si è aperti alla cultura americana e a quella del mondo in questo perio-do affidando una grande importanza alle proprie scelte musicali, è estremamenteinteressante notare come questa attribuzione di valore sia diventata ’normale am-ministrazione postmoderna’ nella costruzione dell’immagine mediatica dei perso-naggi pubblici del nostro tempo. Essi tengono moltissimo a presentarsi come ’unodi noi’. Per esempio, in un frammento di un programma televisivo inglese dedica-to alla storia del rock, si coglie G.W. Bush, nel corso di un ricevimento ufficiale,che si svela fan di Ozzy Osborne, leader dei Black Sabbath, uno dei gruppi rockinglesi dei primi anni ’70 più lontani dal mondo del jazz e del blues e precursoredelle correnti ’sataniste’ nel rock, da poi che Clinton aveva imbracciato il proprio

3.3 Poco prima del ‘68: nuove tendenze giovanili e cultura di massa 183

Intorno al ’68 l’Italia sembra finalmente accorgersi di non essere più unpaese contadino: ormai si tratta di un paese industriale. Il flusso migratorioverso la Germania, Torino e Milano con le rimesse degli immigrati fa progre-dire anche il Mezzogiorno, mentre si accorciano le distanze tra le regioni: latelevisione, seguita da milioni di persone, contribuisce (a modo suo) a far su-perare le differenze linguistiche e culturali, la scolarizzazione di massa diventauna realtà. Ma il cambiamento porta con sé la nostalgia, se non la coscienzadi non avere più nulla di proprio, semplicemente perché gli ’Italiani’ di unavolta non ci sono più, perché lavorano e pensano in altri modi, perché hannodemolito e rifatto le proprie case e vivono circondati da oggetti spesso inutili,ma che sembrano fatti apposta per creare una discontinuità col passato. Sututto questo, in un contesto tutto sommato ottimista nonostante le difficoltà,incombe la risposta al 68 italiano. A Milano, il 12 dicembre 1969, una bombanella filiale delle Banca dell’Agricoltura in Piazza Fontana inizia la catena distragi e attentati che cambierà il corso politico del paese: si parlerà da subitodi ’strage di stato’. Le delegazioni operaie e studentesche parteciperanno aifunerali silenziose e smarrite ma con la coscienza che tutto è cambiato: si trat-ta di un terribile avvertimento nei loro confronti (v. anche Crainz e Moscati2006). Inizia da qui una strategia in cui il laboratorio di orientamento cruentodella conflittualità sociale e politica non conoscerà limiti e metterà in forse ilgenerale assetto democratico assegnato alla parte occidentale del continenteeuropeo dall’Atlanticismo.

Si è accennato alla condizione delle masse giovanili ed alla percezione poli-tica di sé stessi in senso subalterno. Se il salto verso un nuovo tipo di america-nismo culturale dipende in larga misura da un senso di ’modernità incombente’che torna, come già nel periodo fascista, oggi una attenzione particolare versola questione nera è possibile ed entra in quanto voluta scelta per un ’ame-ricanismo nero’. Significa dare alla questione la posizione fondamentale chegli compete, non solo di un accesso al repertorio e alle fortune del rhythm &blues e a una certa ideologia funk di risposta fuori dei canoni della correttezzaamericana. Si tratta piuttosto di salvare il salvabile. Il mito dell’America, chesi pretende baluardo della democrazia e dei diritti dei popoli, ha dato piùvolte prova di non poter essere creduto dinanzi a tutto il mondo. Si avvertel’aleggiare della persuasione che « la negritudine per molti neri (e molti bian-chi) era già negli anni cinquanta l’unica forza rimasta alla cultura americana» (Baraka 2004:190).

L’aumentato consumo e l’accresciuto interesse per il jazz negll’Italia deglianni ’70 segnala una tendenza al consumo culturale cosmopolita che oriental’attenzione delle multinazionali alle nicchie di mercato. Si tratta di una stra-tegia commerciale sottilmente consapevole dell’importanza di scelte in terminidi cultura musicale con le quali si cerca di costruirsi, differenziandosi al di làdi quello che lascerebbe pensare la collocazione della propria cerchia familiarenella società. E specialmente, per le cerchie dei musicisti e degli appassionati

sax, suonandolo malissimo, nei festeggiamenti seguenti alla propria elezione. . .

184 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

più giovani, ci si volge al jazz quando l’adesione al rock fa posto ad un mini-mo di indagine su quali siano le ‘vere’ fonti delle musiche di massa. Quandosi dice che tutti gli esponenti della ’popular music’ hanno preso a piene manidal blues e dal jazz in America, si inizia in questo periodo a formulare undiscorso che diventerà sempre più vero man mano che il tempo passa e chele storie di vita dei jazzmen e delle stelle della ’popular music’ vengono allaluce. Non solo, ma si apre una prospettiva di profondità inaudita rispetto allaversione del jazz degli aficionado ’legittimi’ e della povera stampa nazionale.Il ritardo cronico della ricezione misurato rispetto ad altri paesi europei vieneora colmato coi mezzi a disposizione che non possono essere mediatici ed uffi-ciali: nuovi canali di comunicazione si formano tra generazioni e gruppi socialidifferenti, con l’impegno politico e culturale come orientamento ai materialimusicali e ai repertori. La ’passione’ e il ’sentimento’, attributi ancora vali-di in una certa immagine (stereotipata sinché si vuole, ma allora largamentediffusa e partecipata) non solo dell’italiano, ma del latino, entrano anch’essia supplire alla mancanze della cultura nazional-popolare.

Charlie Parker e Billie Holiday non possono ’rappresentare’ alcunché per lastragrande maggioranza delle persone, ma per chi li conosce sono parte dellapropria stessa anima. Se un musicista italiano (come fu Massimo Urbani) siguadagna sul campo la capacità di suonare jazz come sa e come vuole, ci sitroverà davanti al prodigio di non sapere più ’chi suona che cosa e per chi’.Simbologie con forti assonanze, addirittura ai limiti del religioso nella consa-pevolezza o nella pretesa di ’rivivere’ o di ’ripresentificare’ non si riferisconosolo ad un vissuto interiore e sentimentale, ma testimoniano nuovi modi diintendere la dimensione collettiva. A Torino, la città che ha vissuto il ’68 in unmodo di gran lunga più cosciente di altre città italiane, un gruppo di giovaniaficionado (ma erano molto di più che questo), figli della seconda generazionedi operai immigrati chiamati ’i Pinerolesi’ (De Scipio 2002[1999]), ha regolar-mente animato dalla parte dell’uditorio ogni progetto musicale locale e ogniconcerto di gruppi americani, costruendo ambienti e situazioni inimitabili. Unaffollato concerto dell’orchestra di Gil Evans al palasport di Torino nel 1979vedeva il gruppo dei Pinerolesi in prima fila incitare il sassofonista tenoreGeorge Adams35 creando un ambiente che contribuiva a un evento paragona-bile, se fosse stato documentato, all’exploit dei ventisette chorus presi da PaulGonsalves al Festival Newport nel 1956.36

35 I Pinerolesi (che erano quasi tutti Siciliani e Calabresi, (v. Ponissi in De Scipio2002:43) urlavano ad Adams: vai George, sei bello, sei la spina nel mio cuore! Unavera e propria trance collettiva portò tutto il pubblico dalla loro parte.

36 Esempio noto di performance eccezionale discusso da Williams (2001) accanto amolti altri in una trattazione di quei veri e propri ’monumenti’ del jazz che sonocostituiti dalle riedizioni integrali, osservando che al centro della passione del jazzc’è il fatto che ’il corpo del jazz’ sia costituito di registrazioni, ma che ’la partepiù veritiera del jazz sia quella che la registrazione non ha percepito’ (op. cit.199). Qui si inserisce la strategia commerciale e filologica delle edizioni integralia restituire tutto quello che è disponibile (di quel corpo).

3.4 Max Roach, la Meazzi, e la gestione sociale della batteria 185

Una parte del pubblico giovanile è dunque in grado di guardare oltre igruppi rock e la ritualità della loro fruizione ‘generazionale’ e che costitui-scono piccole élites pendolari: nuovi dandy che agiscono in ambienti e classisociali differenti, facendo la spola tra il proprio ambiente familiare e il mondo.Nello stesso tempo si crea lo spazio per la nostalgia di un ’universo folklorico’sconosciuto e da riscoprire. La ricerca antropologica è ancora per la maggiorparte impegnata in una antropologia di ’noi stessi’ che interessa pochissimoi mass-media e incide indirettamente in quella produzione di cultura che sioccupa di dare forma all’identità culturale italiana.

3.4 Max Roach, la Meazzi, e la gestione sociale dellabatteria

In questo quadro generale mentre si affronta la ’sprovincializzazione’ nel cam-po dell’imprenditoria musicale con le versioni italiane della pop music anglo-sassone, un’altra piccola imprenditoria italiana mostra di avere idee origina-li, interagisce col business del jazz tenendo d’occhio una massificazione deiconsumi musicali che si annuncia promettente.

Su Musica Jazz, nel corso degli anni ’60, compaiono interessanti annuncipubblicitari specialistici, specialmente di compagnie discografiche o di fab-bricanti di strumenti, con in testa la milanese Meazzi. La fabbrica era notaspecialmente per i suoi strumenti a percussione, ma produceva anche chitar-re e strumenti a fiato. Nell’anno 1968 aveva creato una curiosissima batteriaelettronica, dotata di pick up magnetici e miscelatore, con la possibilità diregolare la sua amplificazione da parte dell’esecutore e sottoporre il suono adelaborazioni ed effetti (eco, replay, equalizzazione, ecc.).

Nel numero di gennaio del 1968 un annuncio su Musica Jazz presenta unMax Roach tutto sommato abbastanza perplesso nel momento in cui prendecontatto con la nuovissima « Tronicdrum » sotto la guida del Maestro Olivieri.Dallo stesso annuncio si apprende che Max Roach l’ha ’testata’ in una seratain cui è stato ospite, insieme alla sua gentile Signora Abbey Lincoln, dell’or-chestra di Giorgio Gaslini e nella quale ha eseguito « Protest » e « Prayer», tratti dalla sua « We Insist! Freedom now suite » con il nuovo strumento.L’evento è patrocinato dell’Organizzazione Circolo Culturale C.E.P.I.S di viade Amicis a Milano.

Per Max Roach il nuovo strumento non dovette essere particolarmente uti-le. Roach, la cui rara peculiarità è quella di porre il suo strumento al centro diuna entusiastica aspettativa, lavora su una fluidità e ricchezza timbrica capacedi ’prendere’ l’ascoltatore sino dalle prime battute. È verosimile pensare cheil suo sound37 venisse piuttosto appiattito che arricchito dalla nuova batteria

37 Si potrebbe dire una vera e propria ’divisa musicale’, nel senso impiegato nellostudio della musica nei rituali di possessione, per cui si veda Rouget (1986).

186 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

’elettronica’, a discapito del ’sound’, compreso quel continuo e scampanellan-te, ma discreto, continuum percussivo che ricorda la strumentazione ritualedi tante ’sedute di possessione’.38 Infatti la milanese Meazzi, non rinunciavaa mettere a disposizione le proprie batterie (acustiche) al grande Max in ognioccasione in cui si presentava in Italia affinché fosse fotografato e si discutessesulla bontà del prodotto nazionale scelto da un tale maestro, oltre che servirsidelle sue consulenze tecniche in fase di progettazione e di seguente messa apunto degli strumenti.

Quanto all’organizzazione dell’evento, si tratta di un ambiente piccolo mamolto integrato tra tutti i suoi settori, che comporta un ’business’, o se sivuole, all’uso del Black Vernacular, di un ’racket’. La Meazzi, il Comune diMilano, il Circolo Culturale C.E.P.I.S., il Maestro Gaslini, Max Roach e la suaSignora Abbey Lincoln, mettono insieme industria, innovazione tecnologica,politica culturale innovativa, in una tournee presso gli amici milanesi e altrepiazze europee.39

Con Max Roach quale consulente e mentore pubblicitario, la Hollywood-Meazzi ha comunque prodotto batterie di ottima qualità con ritrovati tecniciinteressanti, quali un carrello su ruote che impediva che la grancassa scivo-lasse sul pavimento e particolari sostegni (brevettati) dotati di un supportosu sfera che permetteva un orientamento molto comodo e veloce: tutte ideeinteressanti e innovative. Infine ha prodotto timpani a pedale per batteriatuttora molto ricercati. Peccato che i prezzi di questa serie fossero alti, e chela Meazzi si sia sorretta sempre sulla linea popolare a buon mercato, che eraveramente il minimo indispensabile anche per il batterista meno esigente. Leinnovative e solide intelaiature milanesi in tubi di lega leggera su rotelle dellebatterie Meazzi ’professionali’, ottime per essere spostate in un grande stu-dio televisivo, richiamavano alla mente un design da attrezzatura ospedaliera:

38 Per una discussione della evoluzione della batteria e dell’uso dei piatti nel be-bop, che comprende osservazioni di Boris Vian e Ross Russel sulla difficoltà diregistrazione di una delle particolarità musicali più importanti della nuova scuolasi veda Jamin (2001:293-294).

39 È interessante notare che la piazza più prossima sarebbe stata Torino, a pocadistanza de Milano ma che se ne distingue notevolmente come ’altra’ città deljazz. A Torino i grandi del jazz si sono fermati spesso anche chiamati ad esibir-si presso il conservatorio cittadino. Qui chi scrive ebbe occasione di assistere adue brevi seminari di Max Roach e ad una esibizione del gruppo di Elvin Jones,entrambi contornati di giovani allievi del Conservatorio e una marea di percus-sionisti di tutte le età accorsi sin da Genova e zone limitrofe. Inutile dire che imusicisti erano molto felici di un tale riconoscimento nell’ambiente scolastico ese ne avvantaggiavano. Chissà a Milano, a maggior ragione, di fronte al ’jet set’e nella città dell’industria, come avranno trascorso la tournée, in un periodo incui l’ospitalità italiana è ancora un ’punto d’onore’. Il documento è un notevoleesempio di ’match making’ (v. p. 308) in epoca non sospetta. Per la testimonianzadella stessa Abbey Lincoln, che il mercato del jazz negli Stati Uniti era all’epocagià penalizzato dall’arrivo dei musicisti rock inglesi v. p. 196, n. 54.

3.4 Max Roach, la Meazzi, e la gestione sociale della batteria 187

dunque l’aspetto estetico degli strumenti lasciava a desiderare rispetto allaconcorrenza.40

La stragrande maggioranza dei batteristi italiani preferirà sempre prodottiamericani, inglesi e poi giapponesi, lasciando alla Hollywood Meazzi il ruolodi primo amore presto dimenticato, poiché esisteva ed esiste ancora in circola-zione una grossa quantità di modelli Hollywood a buon mercato che venivanorivenduti una volta che il batterista era in grado di comprarsi lo strumentodei suoi sogni (Ludwig, Rogers, Premier, Gretsch, poi Sonor, Tama, Yamaha,etc.). Anzi vi erano precise regole ’sociali’ d’acquisto rivolte al far fronte aduna richiesta tanto nuova e assurda quale quella di acquistare una batteria.

Si assisteva cioè, in questo periodo, ad una vera ’presa in carico’, una ’ge-stione sociale familiare’ delle pretese causate dalla diffusione di massa deglistrumenti musicali. Forse le più laceranti situazioni di crisi erano causate pro-prio dallo strumento simbolo del jazz. Accadeva che le famiglie (affrante) deibatteristi in erba si impegnassero a pagarla a rate41 al passaggio di qualcheesame, oppure, quando la famiglia declinava con coraggio ogni responsabilità,il batterista se la comprava coi risparmi dei lavoretti estivi.42 Poteva accadereanche che un contratto stagionale ottenuto dall’orchestra da ballo emergentepermettesse di investire in strumenti in co-proprietà da riscattare lavorandonelle sale da ballo del sabato della domenica.43

Il risultato era che una quantità di Hollywood usate veniva rimessa sulmercato all’apertura di ogni stagione estiva. E dato che il popolo conosceva disolito il marchio italiano solo per la serie a buon mercato, il prodotto nazionaleaveva la fama di ferrovecchio buono per al massimo per i più giovani picchiatoririnchiusi nei loro garage, dato che nemmeno la più scalcinata orchestra da ballo

40 Per non parlare della assoluta necessità di costituire un oggetto di buon augurio.Non è superfluo notare che le preferenze per le batterie delle marche straniereha un importante senso estetico e di ripartizione per determinati settori e sub-culture musicali. La milanese Hollywood-Meazzi scelse un modernismo eccessivoper l’epoca e forse proprio l’errata prospettiva (anche sul piano commerciale) dipensare una batteria come strumento di ’lavoro’, piuttosto che come qualcosa perla quale l’importanza dell’impatto visuale era paragonabile a quello di una motoo di un’auto.

41 Ma di solito sulla parola e senza cambiali, dato il carattere di tentativo e di ricercadella fortuna in campo artistico. É stato detto che la cultura italiana di questitempi era la cultura delle cambiali.

42 Il desiderio di possedere una batteria è, per chi lo ha provato, di una forza al-lucinante. Qualcosa che, fatte le dovute differenze, ricorda l’aneddoto di MarcChagall nella sua infanzia, nella città ebraica Russa di Vitez. Racconta Chagallche avendo riscontrato in sé una urgenza di esprimersi col disegno e la pittura,fu mandato in prova da un pittore professionista, ma con l’ammonizione espressadal padre e dagli zii che si sarebbe prima dovuto controllare se in lui ci fossestato ’del talento’. Lui prontamente li avvertì che ’ci sarebbe andato anche senzatalento’.

43 E qui la cambiale doveva per forza intervenire in un modello molto diffuso digestione sociale ’dopolavoristica’ degli strumenti.

188 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

avrebbe voluto presentarsi in pubblico con uno strumento simile. Questo stockdi Hoolywood usate nel periodo del rock e del rythm & blues tradiva le sueorigini nell’epoca jazzistica degli anni ’50 e ’60 per le dimensioni ridotte delfusto dei suoi tamburi. Questo fatto poteva persino provocare una vera epropria vergogna, essendo i diversi standards del pop (Ringo Starr, GingerBaker, Robert Wyatt, John Hiseman, Ian Paice) ben conosciuti da riviste,poster e filmati, e costituiti da batterie di dimensioni dal medio all’enorme.Una prudente attitudine di ’passarsi’ strumenti usati dai più maturi ai piùgiovani, faceva sì che la vendita del nuovo avvenisse con fatica. Anzi, si puòdire che avvenisse solo nel caso (alquanto raro) che una famiglia borgheseal sicuro dai problemi di bilancio familiare decidesse di mettersi a guardareal proprio rampollo come una futura stella della musica dei ’capelloni’, pergiunta seduto dietro proprio allo strumento più rumoroso e primitivo.

Il carattere classista della società italiana, la prudenza in investimenti cul-turali di esito dubbio, ricordano la lunga persistenza dei modelli di condu-zione dell’economia familiare della società contadina e pongono uno dinanziall’altro due diversi sistemi di affrontare il problema dell’acclimatazione dellenuove tendenze musicali nella società: quello popolare e piccolo-borghese divoler seguire e verificare se non di circoscrivere e ignorare la natura e l’esi-to delle richieste giovanili e quello alto-borghese che poteva stroncarle senzapietà oppure darle per scontate come ’segno dei tempi’.

L’innovazione tecnologica e la produzione di serie venivano in qualche mo-do arginate nei loro sbocchi di mercato dalla cultura della cautela e del ri-sparmio delle classi lavoratrici. Ma comunque e nonostante tutto, i consumimusicali crescevano per esplodere letteralmente negli anni ’70.

La gestione sociale della batteria seguiva la logica nuova di una cultura dellavoro che entrava nelle case e che si rivelava in un modo piuttosto simile alparticolare atteggiamento degli italiani nei confronti dell’auto negli anni delboom economico di cui parla Gundle (1986). Essi ne erano i ’manutentori’e i gestori come se fosse un oggetto dell’azienda familiare e spesso volevanosapere che uso ne veniva fatto e dove si trovava anche dopo che lo strumentoera stato ceduto. Prima della comparsa del solitario ’bricoleur’ privato c’èstato (in alcuni casi c’è ancora) un operaio specializzato dalle mani d’oro alquale era affidato il compito di facilitare l’ingresso dei nuovi apparecchi radio etelevisivi, quello delle moto, della manutenzione e la riparazione degli impiantidomestici e così via, a cui facevano ricorso le famiglie di interi quartieri e paesi.

3.5 La città italiana verso gli anni ’70: scene diantropologia urbana

Ma se il jazz è un fenomeno tipicamente urbano, dove potrebbe vivere e ri-prodursi in un paese come l’Italia, nella transizione degli anni ’60 e ’70? Sof-fermiamoci brevemente sull’antropologia urbana del tempo. Ulf Hannerz citala piccola città del centro Italia di Montecastello studiata da Silverman in

3.5 La città italiana verso gli anni ’70: scene di antropologia urbana 189

Three Bells of Civilization (1975) come modello di studio di un piccolo centrourbano.

Se si ammette che è possibile riassumere una città in termini di unethos dominante senza farle torto – ciò che non è sempre il caso – èallora ragionevole cercare le radici di tale ethos. [......] La civiltà urbanaa Montecastello è un discorso di potere dei proprietari terrieri, unospazio urbano modellato su un ordine sociale immutabile, distanze,gentilezza e magnanimità, disinteresse; poi mediazione collo stato. Unacittà di potere in miniatura, con la sua main street come nei romanzidi Sinclair Lewis, in cui i businessmen colloquiano col mercato internoe esterno (Hannerz 1992:495).

Nello stesso periodo era stata condotta una analisi puntigliosa dello spaziosocio-culturale della città di Bologna di Dominique Schnapper (1971), tempo-ralmente collocata in un’Italia che cambia (o crede di cambiare) rapidamente.La ricerca sul campo si colloca verso il 1967. La Schnapper privilegia l’aspettodi stabilità e di permanenza di uno spazio sociale inscritto nella struttura e nel-la storia stessa della città, descrivendolo come l’attrazione e la sovrapposizionedi significati attorno ad un centro di potere. L’antropologa francese articolala sua ricerca intorno ad una dinamica di tensione e ricomposizione tra queglielementi mediterranei, che essa vede come simboli totalmente interiorizzati, el’affermarsi di nuove idee e pratiche del lavoro e del divertimento.

Un esempio del punto di vista della Schnapper è il soffermarsi sulla pre-senza di un simbolismo del colore nero nella veste femminile come sistemasimbolico ’perfettamente interiorizzato’ di significato religioso, che tematizzacome elemento di cultura mediterranea. Le spose novelle sono incoraggiatea portare vestiti colorati, ma solo per il primo anno, cioè per il periodo ne-cessario alla gravidanza del primogenito. Si fa menzione altresì di come letarantolate del Salento nell’etnografia di De Martino ’attaccassero’ le donnevestite di nero, mentre l’etichetta della ’terapia’ prescriveva vesti sgargianti.L’elemento mediterraneo si fa strumento per misurare l’adesione dell’indi-viduo a rappresentazioni sociali indiscusse e indiscutibili perché totalmenteinteriorizzate (Schnapper 1971:27-45).

La vita familiare si integrava in modi nuovi di intendere il lavoro ed ildivertimento nell’Italia del ’boom economico’ degli anni ’60. Le donne guida-rono una sperimentazione di modi di classi sociali più alte: l’acquisto dellarivista femminile, l’artigianato, la nuova cucina, con un’attenzione per la sele-zione dei modelli appropriati ad una dinamica di mobilità sociale verso l’alto.Gli incontri domenicali con amici in inverno e le gite fuori porta d’estate (op.cit., p. 50), che nei decenni precedenti erano nella quotidianità dei ’signori’,sono messi alla portata delle nuove classi medie. Già in precedenza c’era statala distruzione pressoché rituale dei simboli del passato celati in mobili (poidivenuti di valore) e suppellettili che restavano per generazioni patrimonio difamiglia. I travicelli in legno erano coperti da controsoffitti, si acquistavano’cucine economiche plastificate’ e mobili di una impressionante uniformità.

190 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

Insomma a partire dallo spazio abitativo, tutto viene adeguato ad uno stilee un ritmo di vita da classe media anche nelle classi operaie,44 ma si trattadi una nuova idea di classe media costruita in gran parte intorno ai consumicon un accento particolare sulla mobilità e sul turismo d’assalto: l’automobileper tutta la famiglia, le suppellettili veloci e pratiche di polietilene, borse daghiaccio per pic-nic, l’obbligatorietà del campeggio estivo. Torna in campo,nell’accettazione del nuovo consumismo nella cultura delle classi lavoratrici,l’assimilazione di quello sviluppo moderno del paternalismo industriale cherisale ai primi anni ’30 e che dovrebbe rappresentare l’aspetto concreto di unnuovo benessere.45

Ma ci sono i limiti di una quotidianità che resta fuori ogni discussione.Schnapper sottolinea la permanenza di un ritmo di soste, pasti in comune, tabùtelefonici della siesta, e si stupisce che essi possano essere mantenuti a Bologna(un centro di media entità già investito da un processo di industrializzazione)e persino a Torino, fatta eccezione per Milano. Li vede come espressione

d’une société où les rapports sociaux, à l’intérieur des divers groupeset d’un groupe à l’autre, gardent la forme traditionnelle et dont l’inté-gration repose sur la valorisation inconsciente de son passé (Schnapper1971:52-53).

Questa gelosa conservazione di stili di vita e di abitudini ’significative’ madate per scontate sono tra le caratteristiche delle abitudini più incomprensibilie assurde per molti stranieri al momento in cui ne fanno la prova nelle cittàitaliane.46

Quanto alle connessioni più significative, si paragona al sistema mafiosonel sud in cui i padrini controllavano perfino il lavoro degli emigrati a NewYork o dove lo spacciafaccendi è necessario per recarsi in Comune per ognialtra azione amministrativa. L’individuo44 La scelta di dedicarsi ad uno strumento (accolta dai genitori e specialmente dalle

madri più attive nel processo di ’riforma’ del foyer) in questo senso poteva essereun’espediente che si collocava, dal punto di vista emotivo dell’adolescente, tral’apatia e la tristezza causata dai rituali familiari auspicanti la mobilità sociale ela promessa di una incerta libertà imminente.

45 Con l’esempio storico della Olivetti e dell’aziendalismo illuminato delle sue mae-stranze che costituirà un modello anche per la gestione delle aziende statali, as-segni familiari, colonie estive, edilizia a riscatto, dopolavori culturali e sportivi, ecosì via.

46 Dieci anni dopo il periodo in cui fu fatta questa ricerca, Raphael Garrett, musici-sta afroamericano di cui si parla più avanti, residente per qualche anno nel centrodella città di Pisa, si mostrava stupito di queste abitudini e finì per considerarlecome parte di un complesso simbolico più ampio che detestava proprio perché fi-niva per limitarlo nelle sue libertà. Un suo modo di reagire a questa ’sonnolenza’ eai molteplici ’non si può fare’ che provenivano dai modi di organizzarsi dagli abi-tanti della cittadina toscana, fu che iniziò a sfidare col suono del suo contrabbassoe la sua presenza scandalosamente esotica i canterini strapaesani delle osterie, iquali, da parte loro reagivano mostrando un’eccessiva ferocia nei suoi confronti.

3.5 La città italiana verso gli anni ’70: scene di antropologia urbana 191

...continua ad essere relazionato al sistema nazionale per una serie dilegami indiretti e per il patronato, per la mediazione dei due segretaridei maggiori partiti e del parroco oppure dei farmacisti o dei funzionariin pensione, per trovare lavoro e regolare le questioni amministrative’(Silverman 1965:187 in Schnapper 1971:54).

Il padrinaggio è (tuttora) attivo e considerato preferibile a qualsiasi otte-nimento amministrativo anonimo (cit. 56). La persistenza di uno spazio ideale’strapaesano’ della cultura Italiana per il centro Italia è testimoniata dai datidi Paolo Luzzatto Fegiz (1967:339) che riporta come nel 1967 il 57

Bologna, (con deroghe a Torino e a Milano che confermano la regola) ècaratterizzata da uno spazio urbano in cui sussiste una peculiare ’permanen-za di significati’ perché il centro storico, quello culturale e quello economicocoincidono; qui la trama del prestigio delle famiglie nobiliari si associa ancoraalle consuetudini sociali dell’uscita in campagna ed è regolato tutto sommatorigidamente. Persino lo spazio urbano periferico che si supporrebbe percorsoda nuovi fermenti e cambiamenti viene reinscritto in rapporti di potere e ditradizione (p. 85-100).

Tra le righe delle osservazioni della Schnapper sulle abitudini delle buonefamiglie bolognesi si legge una profonda distanza tra il mondo della periferiae quello dei centri cittadini. Per tutto il corso degli anni ’70 e probabilmen-te tuttora, avere degli interessi in centro città, recarvisi continuamente perun giovane della periferia, rappresenta l’oltrepassare frontiere sociali invisibi-li, portare con sé le tracce della propria provenienza, e idee e proposte cherimangono distanti dalle pratiche e dai sottintesi più profondi di chi abita incentro e rientra la sera in una abitazione conosciuta e rispettata del centrostorico. Dopo il ’68 solo ’dividendo tutto’ si potevano superare questi limiti,tanto asfissianti. Di converso, i giovani della buona famiglia potevano darsi adun lungo processo catartico di liberazione dalle loro abitudini ’innate’ lascian-do la famiglia e vivendo in contesti collettivi ed informali. Il senso di ribellioneestetica, della necessità di una presa di distanza nello stesso tempo politica edestetica deriva anche dalla percezione che (tutto sembra congiurare affinché)qualsiasi novità possa essere riassorbita e resa inoffensiva.

Ne consegue tutta l’importanza di un sistema di distanze e mediazionisiffatto in processi di reinterpretazione delle pratiche di consumo culturalecomplessi e difficili da valutare.

Les pratiques culturelles nouvelles, comme le cinéma, sont réinterpré-tées dans la logique du système traditionnel de valorisation, tel quis’exprime dans l’espace social (op. cit., p. 113, corsivo mio).

Analogamente a quanto descritto nel paragrafo relativo alla organizzazio-ne degli acquisti di strumenti musicali, questa affermazione mostra come siadifficile avere un’idea di processi così complessi come quello della ricezionedi nuove pratiche culturali basandosi su una casistica quantitativa basata suiconsumi, com’è il caso di molta sociologia della musica.

192 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

3.6 Le battaglie perdute del dopolavorismo democratico

Tra i vari meriti di questo studio pionieristico di antropologia sociale urbana,c’è quello di uno spiccato interesse per le istanze di rinnovamento politico. Quisi colloca la discussione del momento cruciale dell’esordio dei circoli A.R.C.I.(Associazione Ricreativa Culturale Italiana, emanazione dei partiti Comuni-sta e Socialista), i quali nel clima della ricostruzione generosa e volontaristicadel dopoguerra, si riprendono lo spazio dopolavoristico fascista, proponendo-si portare la cultura alle masse lavoratrici. Verso la metà degli anni ’50, aBologna, città rossa di una provincia italiana tornata ’grassa’, i circoli del-la sinistra scoprono una comunanza di intenti con la corrispondente correntedello E.N.A.L., organizzazione sorella cattolica, democratica della Lombardia,tentando di promuovere un’azione culturale comune. Un documento dell’AR-CI, pronunciato in conferenza-dibattito, mostra le possibilità offerte da unanuova rete di spazi culturali Milanesi e Bolognesi resasi disponibile in seguitoa questo accordo e propongono di costituire una serie di eventi culturali. Sitratterebbe per loro di interferire col ’ritmo nobile’ delle tradizionali mani-festazioni culturali settimanali delle classi borghesi. Ma si tratta di incontriquotidiani tra lavoratori, ’nella tradizione mediterranea’ e maschile, perchéle donne ’purtroppo’ restano a casa (op. cit., p. 120). S’insinua qui il temastorico, impronunciabile ai tempi, di una continuità. Il dopolavoro è stato fa-scista per tanti anni, così la ’befana’ degli operai, oggi i borghesi guardanoalle case del popolo della periferia che pretendono di ’far cultura’ come a deidopolavori (post-fascisti) insuperbiti e velleitari. Anche i dirigenti comunistisono presto costretti ad ammettere che non sia cosa da poco trasformare uncircolo dopolavoristico in un circolo culturale.

Schnapper osserva che se lo spazio sociale è sentito dai propri abitanti inquesto modo così profondo, è come se esso decidesse del carattere stesso delleloro manifestazioni (p. 121) . Ciò non toglie che esso sia percorso da conflittiprofondi e da una serie di rimozioni, di tabù negoziati tra le diverse classi esubculture politiche. Diventava sempre più chiaro però, dopo una campagnadi attivismo e di incontri con gli intellettuali che devono essere stati toccantie di grande interesse durante gli anni ’50 e i primi anni ’60, 47 che il fiore dellacultura non sbocciava facilmente in uno spazio dopolavorista rioccupato.

Dunque l’impatto fortemente connotato di tensioni politiche del rock, delrhytm & blues e del jazz nelle culture giovanili in formazione48 negli anni ’60 e’70 ha significato un ennesimo attacco alle deboli proposte culturali locali dellasinistra venuto dopo una battaglia che veniva perduta dalle forze democratiche

47 Come la promozione di grandi film quali ’La Battaglia di Algeri’ di Gillo Pon-tecorvo. Eppure, oggi come ieri, la cultura diffusa nei circoli non impedisce aglionesti lavoratori e padri di famiglia di condividere le più trite generalizzazioniscioviniste della destra, ieri riguardavano i meridionali, oggi gli immigrati.

48 Ricordando per gli anni ’60 l’aspetto fondamentale della contemporaneità tral’aggravarsi della crisi razziale negli Stati Uniti e l’elaborazione culturale e politicadei movimenti giovanili.

3.6 Le battaglie perdute del dopolavorismo democratico 193

contro sé stesse. Localmente si è spesso ammesso che alcuni spazi venisseroaffidati a dei seri compagni giovani: si è tentato di ballare al ritmo del rockarrivando rapidamente a censure e a litigi con i consigli di amministrazionedei ’circoli’. Infatti gli ’uomini mediterranei’ che giocavano ogni giorno a carteal ’circolo’ non avrebbero potuto sopportare di andare a bere il caffè con gliamici temendo che la propria figlia avrebbe potuto ballare un ’lento’ tra lebraccia di uno scioperato in una sala dello stesso locale dotata di luci colorate,bassi divani e angoli appartati.

Ulteriori susseguenti decennali attacchi agli ’spazi’ hanno fatto sì che fos-sero cedute stanze ai giovani per prove e concerti, e, a seconda dei luoghipossono essersi verificate anche situazioni interessanti. Persino l’ambiente del-la sala del ballo popolare del sabato sera e della domenica pomeriggio, verso lafine dei ’60 e la prima metà dei ’70 era in grado di presentare talvolta gruppidi tutto rispetto. Per un breve periodo, tra i migliori gruppi rock capaci diimitare decentemente inglesi e americani si scelgono anche gli animatori delballo del sabato, questa volta però, contrariamente alla moda del jazz neglianni ’20 e ’30 i figli della borghesia e quelli delle classi sociali più basse sitrovano fianco a fianco.49

Negli anni ’70, anche in seguito alla concorrenza dell’attrazione dei gruppidella sinistra extraparlamentare e del movimento giovanile, l’ARCI inizia unapolitica di distribuzione culturale di popular music e di jazz sempre più decisa esempre più organizzata. Il discorso si sposta dalla pista da ballo periferica e dalcinema all’aperto, al telefono, agli uffici, al comune, si parlerà di queste cose incentro e in un modo ben diverso. Ma quando si tratterà di decidere a chi spettail volontariato e a chi la dirigenza, anche il partito ricadrà immediatamentenel ’vortice italiano del centro’, vortice, come abbiamo visto, che assume unaconnotazione mediterranea intorno ad una sino ad ora indiscussa concezionedella convenienza e del potere.

Tutta l’analisi dello spazio sociale centrato e concentrico della città italianadi Schnapper è valido proprio per l’indicazione della sua vocazione a persiste-re, sebbene si possa criticare la ricerca nell’universo simbolico mediterraneo difondamenti ad un sistema definito come univoco, interiorizzato e praticamenteindistruttibile. Per fare questo Schnapper cita le acquisizioni sulla tradizionereligiosa popolare correnti nell’antropologia dell’epoca e mutuate dalle ricer-che di De Martino, e perfino dal Mircea Eliade (del mito dell’axis mundi).Quanto a questo si può forse azzardare che lo stesso Eliade non abbia saputosfuggire ad una concezione interiorizzata, orientata e indiscutibile dello spaziosociale.

49 Mario Marino, percussionista attivo nell’area toscana e nativo di Siracusa, ri-corda che nella sua città, all’inizio degli anni ’70, il suo gruppo rock e di musi-ca latino-americana veniva talvolta scritturato persino in matrimoni di Zingari’Camminanti’.

194 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

Uno studio come questo, a parte il suo rilievo storico-documentario, mo-stra tutta la sua forza per quanto pone questioni tuttora aperte.50 Tutta lapresente costruzione dell’emigrazione in quanto minaccia alla sicurezza del-le popolazioni cittadine italiane, della costruzione dei Roma in nomadi, deicampi riservati a loro e delle pratiche di detenzione provvisoria per clandesti-ni, si riconferma in quanto reazione alla sfida costituita dalla globalizzazionedelle culture ad una tradizione secolare di adattamento a uno spazio urbanoorientato e percorso dal ’sentimento acuto di una gerarchia univoca e ricono-sciuta da tutti’ (p. 126), nei confronti del quale si consuma l’ultimo e inauditoaffronto alla normalità.

Ma le città italiane si differenziano enormemente tra loro. Le inchieste so-ciologiche sul lavoro minorile svolte con sensibilità e garbo dal regista MarioMonicelli a Napoli nel 1970 e sette anni dopo nel 1977,51 danno conto di unamassa di bambini che operano in tutti i campi e che giunti alla maggiore etàrischiano di passare dalla parte della camorra perché nessuno si sognerà diassumerli preferendo sfruttare altri figli di famiglie numerose mandati a ’im-parare il mestiere’. Lavoro minorile assolutamente generalizzato nei quartieripiù poveri, come in una metropoli medio-orientale, con in più il rischio incom-bente di una criminalità organizzata fortissima e organizzata capillarmente intutti i settori di interesse economico. Bisogna tenere presente che, pur tra tan-te manifestazioni di impegno, gli sforzi che si fanno per la cultura, i dibattiti,eccetera, restano distanti da questo mondo in cui essere meridionali significaprima di tutto dover faticare di più.

3.7 Etnomusicologia e folk revival

L’antropologia italiana meridionalista di De Martino negli anni ’50 e ’60 avevagià mostrato al pubblico degli intellettuali italiani un’Italia contadina scono-sciuta e in via di scomparire per sempre.52 Sebbene in ritardo, l’istituzioneuniversitaria riconosceva in Carpitella, con la sua esperienza di collaborazionicon l’Accademia di S. Cecilia con Giorgio Nataletti e col CNR, per gli studicon De Martino e le proprie ricerche di cinesica, una figura strategica di me-diazione e di rinnovamento metodologico. Si andava incontro ad esiti in cui50 Nell’estate 2005 una qualche insidia alla leadership di Silvio Berlusconi in quanto

capo del centro-destra in vista delle elezioni 2006 viene rappresentata proprio daun conservatore cattolico bolognese: il presidente della camera dei deputati Pier-ferdinando Casini, il quale vagheggia il ritorno a quel ’grande centro’ democraticoe cristiano il cui rapporto di filiazione diretta con il sistema di potere tracciatoda Schnappers trentotto anni prima non lascia adito a dubbi.

51 Recentemente riproposte sul canale televisivo Rai Edu2, programma « Rewind ».52 Un momento da giudicare cruciale per una cronologia del dopo ’68 è il 1976,

anno in cui la sinistra perde le elezioni amministrative per la prima volta e vieneconferita la prima cattedra di Etnomusicologia alla Sapienza di Roma a DiegoCarpitella, che aveva di fatto praticato la disciplina per tutto l’arco del dopoguerranel campo post-fascista della demologia e delle tradizioni popolari.

3.7 Etnomusicologia e folk revival 195

nuovi consumi musicali giovanili facevano emergere un fermento di praticheculturali ’incorporate’, di discorsi che presagivano l’avvento di una società deimedia e del nuovo ruolo dell’industria del consumo musicale, ed infine, nontanto di lotte per l’egemonia sul pubblico giovanile, quanto di analisi pro-fondamente diverse di quello che andava accadendo. Per questo non sono daenumerare (Torti 2000), ma da rileggere, gli scritti sul jazz di Carpitella e lesue prese di posizione rispetto alle proposte artistiche del tempo e quelle sulrevival folklorico, e dato che la scuola romana di etnomusicologia si presentavacome il laboratorio più qualificato per la ricerca interdisciplinare e per unateoria generale della musica oltre le distinzioni di stile e di milieu sociale.. Daun lato un revival folklorico prende corpo alimentandosi al significato politicoe civile di queste ricerche, ma nello stesso tempo si apre un campo alla ri-flessione sulle tradizioni locali italiane che da spazio ad una nuova etnografiamusicale e ad una maturazione dell’etnomusicologia. È vero come nota Torti(2000:295) che il clima di forte agitazione politica e sociale del ’68 favoriràuna maggiore visibilità della ’canzone politica impegnata’, sostenuta dai mo-vimenti organizzati che ritengono in questo modo spingere i giovani ed il loropotenziale rivoluzionario a non farsi letteralmente ’consumare’ dalla passivitànei confronti del business musicale, ma sarebbe sbagliato considerare questatendenza come ’egemonica’.

Sino dai primi anni ’70 sia esperienze quali la ’Nuova Compagnia di CantoPopolare’ diretta da Roberto De Simone, che un rinnovato interesse per lostudio antropologico delle musiche italiane delle ’fasce folkloriche e artigia-nali’ (Carpitella 1976) hanno fatto da contraltare a discorsi immediatamenteideologici e piuttosto rozzi che facendo leva sul riconoscere il carattere imme-diatamente politico dell’interesse dei giovani per la musica li invitavano allacanzone politicamente impegnata nella quale vedevano una continuità con letradizioni di lotta e di resistenza politica e culturale delle masse subalterne. DaNapoli e da Roma la risposta della NCCP significava il realizzarsi di un pro-getto molto più articolato nei suoi interessi metodologici, estetici e simbolici.Presto il gruppo si produrrà in una drammaturgia entro la quale valorizzarel’evento musicale che si inseriva in una lunga tradizione di dialogo di Napolie dei suoi artisti con la questione dell’identità culturale italiana.

Il campo del jazz può essere definito come più ’ambiguo’ e contradditto-rio. Riferendoci al modo in cui Carpitella stesso definiva la ‘fascia folkloricaartigiana’ (v. pp. 161-163), come quella in cui l’interventismo culturale delventennio si è maggiormente accanita, e come spazio di ricezione della ‘jazzband’ del ventennio in quanto espressione di un dissenso, forse pre-politicoe certamente estetico, per compararlo con l’attuale ricezione del jazz, si puònotare che esso continui a mancare del sostegno degli intellettuali nazionali.Sicuramente è compromesso in molti modi con una certa medietas, continuaa non possedere alcuna teoria e neanche scrittori che provvedano con efficaciaad ampliarne la portata pubblica. Da un lato il recepimento dell’approccioall’autonomia che proviene dalle cerchie afro-americane più attive, unito aduna capacità di collaborare e solidarizzare tra musicisti e sostegno (che si è

196 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

andata cristallizzando con gli anni in un sistema), incoraggiano e favorisconouna certa vivacità dei nuovi jazzmen e improvvisatori italiani. D’altro cantol’esempio di Umbria Jazz e di altri festival, fanno pensare a un nuovo stra-paese che si muove in una serie di iniziative locali private o supportate damovimenti o istituzioni intorno ad una scelta politica di ’che cosa’ program-mare fortemente influenzata da quell’interesse per le nicchie di mercato daparte delle multinazionali discografiche di cui si è parlato in precedenza.53Oltre a questo bisogna ricordare che il jazz si trova nella crisi economica piùseria almeno dal primo arrivo dei Beatles negli Stati Uniti. 54 Si producevacosì una scissione di piani sempre più decisa tra attività di base e attivitàconcertistica ed editoriale. Nella scelta degli ’spazi’ pubblici le trattative con ipartiti facevano trasparire un atteggiamento di ’tolleranza’ malcelata di fron-te alla poca rappresentatività politica delle cerchie ristrette del nuovo jazz edell’aura di dilettantismo di cui erano circondate. Così accanto alla venuta dicantautori legittimi e sostenuti dalla sinistra come Francesco De Gregori o En-zo Jannacci, si programmavano alle feste dell’Unità provinciali spazi giovaniliin cui ai gruppi locali veniva accordato un ingresso segnato dalla marginalità.Si concedeva cioè una autonomia in cui il free-jazz stava a lato della lotteriain cui si vincevano prosciutti e corone di salsicce (v. intervista a Afo Sartori,in annesso).

In questa situazione le posizioni dei musicisti progressivi e degli ’etnomu-sicologi’ sono venuti a convergere in senso lato aprendo spazi di discussionesulla massificazione dei consumi culturali non aliene da un certo rispetto re-verenziale (e spesso fraintendimenti e strumentalizzazioni clamorose) rispettoagli sforzi intrapresi dalla nuova etnomusicologia italiana, ed in particolare daDiego Carpitella e Roberto Leydi55 (ordinari di etnomusicologia rispettiva-mente a Roma e a Bologna). In fondo l’ideologia della canzone politica allaquale bastavano due accordi purché detti con passione ed un testo giusto (due53 I due importantissimi festival estivi di Pescara e Umbria Jazz del 1974 proponeva-

no praticamente di tutto: la selezione includeva sia artisti già anziani come EubieBlacke, Buddy Tate, Joe Jones, Arvell Shaw e Cozy Cole, specialisti italiani delDixieland come Carlo Loffredo e Marcello Rosa, il free italiano di Mario Schiano,l’orchestra di Woody Herman e quella di Gil Evans, Dexter Gordon, Sonny Stitt,Horace Silver, giovani emergenti come Chuck Mangione, l’astro nascente KeithJarrett, l’Art Ensemble of Chicago, e infine Charles Mingus che sarà il trionfatoreindiscusso di questa stagione.

54 Abbey Lincoln si esprime così al riguardo: ’ ... a lot in the music has been lost ...but I don’t think were dead, I think somebody came to kill it ... they brought theenglish musicians from England and they covered us over just like with a blanket... and put everything in another perspective ...’ (Burns 2000, episodio 12, 7:40).Roland Kirk proclamava nella sua poesia Clickety Clack (in Bright Moments cheè del 1974) : ’... Tom Jones and Humperdinck ... got everybody uptight, theymade people who can sing wanna get out and fight’..

55 Mi riferisco in particolare alla produzione di valutazioni di entrambi gli autori sulfolk revival (Leydi 1972; Carpitella 1973a, 1974) e a un intervento su un argomentocruciale quale il concetto di ’diritto autoriale’ per cui si veda Carpitella (1978a).

3.8 « Nuove legittimazioni »: Eco, Schiano e Gaslini 197

accordi e la ’verità’, erano infatti la famosa ricetta di Johnny Cash) tendeva asvalutare ogni approfondimento personale e l’idea stessa che la musica potesseessere oggetto di studio e di vocazioni professionali in cambio di un puro (esempre più impensabile) ‘sogno americano’.

3.8 « Nuove legittimazioni »: Eco, Schiano e Gaslini

Dalla parte dei laboratori sperimentali del jazz, immediatamente prima del’68, emerge la cerchia di Mario Schiano a Roma. Schiano riesce a porsi alcentro delle nuove esperienze degli intellettuali romani in luoghi di ritrovo edi produzione quali il folkstudio e trova sostegno presso artisti e cineasti attivinella capitale. In seguito sarà sostenuto da una parte meridionalista e progres-sista del PCI e i suoi progetti musicali avranno un ampio riscontro pubblico eeditoriale nel quadro dei festival dell’Unità e altre imprese culturali del par-tito (Faggiano 2003). Gli intellettuali nazionali però non riescono ancora amediare più di tanto nei confronti di una classe di politici e di organizzatoripiù attenti ad adeguarsi ai nuovi consumi culturali che interessati ad inter-pretare i mutamenti nelle cerchie della ricezione e nella produzione musicale.Seguendo un paradigma tipico italiano e storicamente strapaesano, anche lenuove idee di jazz cercheranno spesso il proprio appoggio direttamente nellamediazione politica contentandosi di riferirsi indirettamente a tendenze gene-rali del dibattito culturale, mentre puntano direttamente ad assicurarsi spaziorganizzativi e operativi.

Umberto Eco, riprendendo una indagine giornalistica di Roberto Leydi,era stato uno tra i primi (e tra i più letti) autori a porre la questione del-la ’presa in carico’ di un certo tipo di musica da parte di una determinatagenerazione in una prospettiva subculturale.56 Parlando di una canzone diconsumo che ormai si rivolge direttamente agli adolescenti facendo coincide-re funzionalità commerciali e produttive che colpivano nel cuore di questioni

56 Eco intende attrarre l’attenzione sui giovani in quanto ’consumatori’ di musicainsulsa, mostrandosi ancora prossimo all’Adorno di On Popular Music (1941), lasua idea di subcultura non cerca di essere neutra come nell’accezione odierna. Uncontributo recente sugli studi sulla popular music in Italia parla di ’vero e propriostigma che Adorno ha indelebilmente impresso a questa musica’ (Torti 2000:293),mentre Umberto Santucci osservava, già trent’anni prima, che l’analisi di Adornoera viziata dal ’pregiudizio di voler vedere le cose solo dal punto di vista dell’éli-te’ (Santucci 1968:18). È poi ben conosciuta la posizione di E.J. Hobsbawm chedichiarava che le pagine dedicate al jazz da Adorno sarebbero state tra le cose piùstupide scritte dal filosofo tedesco (v. in Jamin & WIlliams 2001:18). Nel citatoarticolo di Maria Teresa Torti, l’autrice osserva che il fenomeno delle subculturegiovanili che adottavano il jazz ’conferendogli valori differenti e sovversivi rispettoalla cultura dominante’ ed alla maggioranza dei giovani ’che accettava passiva-mente le scelte e i significati proposti commercialmente’, era già stata messa inevidenza da Riesman nel 1950 (Riesman 1950, in Torti 2000:294).

198 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

esistenziali (con Adriano Celentano, Rita Pavone, Francoise Hardy), Eco, chescrive nel 1964, porta a paragone e rivaluta l’assunzione del jazz negli annidel primo dopoguerra.

Una generazione si riconosce in una certa produzione musicale; non lausa soltanto, badiamo, la assume come bandiera, così come un’altragenerazione assumeva il jazz. Ma l’assunzione del jazz comportava,oltre ad un’adesione istintiva allo spirito del tempo, un progetto cul-turale elementare, la scelta di una musica legata a tradizioni popolarie al ritmo della vita contemporanea, la scelta di una dimensione in-ternazionale e il rifiuto di un falso folklore strapaesano di evasioneidentificato col ventennio o colla politica culturale dei telefoni bianchi(Eco 1977:288).

Eco si riferisce a Milano e alle città industriali del nord negli anni ’50, dovee quando il jazz poteva significare molte cose nuove insieme al senso di rivoltaestetica e simbolica contro l’ipocrisia dello strapaese fascista,57 che ritornavain forma ’stracattolica’ con le campagne e le scomuniche anticomuniste dellachiesa trionfale di Pio XII, a partire dalle elezioni vittoriose del 1948 contro ilfronte popolare, fino all’implosione di questa fase verso la metà degli anni 50.

Intorno ai primi anni ’60 ai club milanesi del jazz serve qualcosa di nuo-vo per attrarre il pubblico e si convertono in luoghi in cui si sperimenta unnuovo tipo di spettacolo e di canzone, in quello che viene chiamato gene-ricamente ’cabaret’ e dove emergono nuovi gruppi e artisti. Sul piano dellacultura nazional-popolare, la diffusione della moda del rock & roll americanoe la risposta dell’industria della canzone con gli urlatori italiani come Mina eAdriano Celentano, mostrano, nelle loro apparizioni televisive e persino filmi-che, soluzioni di un provincialismo sconcertante. Il pubblico giovanile parrebbela prima vittima delle nuove mode della canzone, ma si tratta di immaginiben distanti da una realtà molto più complessa.

A pochi anni di distanza dalla data di questo intervento, Umberto Eco trat-terà, proprio nel ’68, mentre fiorisce l’interesse per la nuova scuola di musicacontemporanea europea,58 nel suo libro La struttura assente (Eco 1989), unaquestione interpretativa tipica del dibattito sulla musica moderna, polemiz-zando con le tesi sostenute da Levi-Strauss, in le Le cru et le cuit (Lévi-Strauss1966). Eco muove ora da una posizione di sostegno dello ’sperimentalismo’ mu-sicale,59 e tale posizione appare assumere un significato del tutto particolare57 Scrive Jean Jamin che dopo la guerra la musica jazz da musica ’della Liberazione’

diventa musica ’di liberazione’, e prima ancora che di quella degli afroamericanidi cui si sapeva ben poco ’essendo les Fables of Faubus non ancora composte,quella dei modi provinciali ...’ (Jamin 2001:295).

58 Per musicisti quali Pierre Boulez, John Cage, Karlheinz Stockausen, MauricioKagel, Conelius Cardew, Bruno Maderna, Luciano Berio, Henri Pousseur e LuigiNono.

59 Per la ricezione italiana del concetto ed il suo rapporto col campo della teorialetteraria si veda l’ottimo riassunto di Annibaldi (1972).

3.8 « Nuove legittimazioni »: Eco, Schiano e Gaslini 199

nel contesto italiano, venendo a integrarsi con la necessità largamente percepi-ta (e il successo di questo libro lo dimostra), di un nuovo approccio alle scienzeumane e all’arte. La sua risposta individuale consiste nel proporsi come ricer-catore tanto dotto quanto eclettico e sperimentalista, capace di dialogare coni suggerimenti del formalismo russo, del serialismo, della semiotica, della lo-gica, della filosofia antica e moderna, dell’antropologia culturale e delle nuoveteorie dell’informazione.

La questione dibattuta non è di poco conto. Secondo Lévi Strauss, chebasa il suo ragionamento sulla teoria linguistica dei due livelli di articolazionedel linguaggio, non è possibile concepire di procedere sul primo livello di arti-colazione del sistema musicale come si fa usando le tecniche seriali (al livellodella preparazione dei materiali ’grezzi’) dato che ’il primo livello consiste dirapporti già reali seppur inconsci, rapporti che devono a questi attributi ilfatto di poter funzionare senza essere conosciuti o correttamente interpreta-ti’ (Levi Strauss in Eco 1989:310). A questo argomento Eco controbatte chela musica può essere considerata come un linguaggio ma che le forme di lin-guaggio musicale sono innumerevoli e magari, come la musica, ’con sistemi diarticolazione più liberi e diversamente atteggiabili’ (loc. cit.).

Ambedue le posizioni, come spesso accade in questo tipo di discussioni,hanno dei punti a loro favore, ma Eco opera una forzatura sulle le tesi dell’an-tropologo francese sostituendo al ’primo livello di articolazione’ il concetto di’codice primario’ e concludendo che non si vede perché ’questo debba esserecosì rapidamente identificato con uno dei suoi messaggi storici, vale a dire ilsistema delle attrazioni rette dal principio di tonalità’ (Eco 1989:311). LéviStrauss da parte sua non trattava di sistemi ’storici’, ma ipotizzava (per quan-to discutibile possa essere la sua tesi) l’ineludibilità di una comparazione tra ilsistema fonologico e tutti i sistemi sonori (modali, tonali, politonali o atonali),muovendosi in un campo teorico tipico dell’antropologia musicale, cioè quellodella definizione del concetto di musica.

Senza dubbio il libro di Umberto Eco assume il senso di una legittimazionedi un nuovo corso della riflessione italiana sull’arte moderna. Eco ha una certaidea di come il suo discorso potrà piacere in Italia ai propri studenti e ai giovaniintellettuali del movimento.60 Propende per una scienza ’nuova’, la semiotica,che si propone di parlare di tutte le arti e tutti i linguaggi,61 tratta di fumetticome di Aristotele, i suoi esempi sono spesso spiritosi e non-convenzionali. Lostile dei suoi interventi legittimerà, in un clima culturale affamato di novità,una nuova figura di intellettuale deciso a spaziare tra scienza, letteratura,musica e sociologia.

60 Per la storia di quest’opera, nata come una raccolta di dispense di teoria della co-municazione per studenti di architettura, poi integrata e ampiamente modificatasi veda l’introduzione all’edizione del 1989, pp. I-XXV.

61 Anche un personaggio tanto importante per l’arte e la cultura italiana come PierPaolo Pasolini, ebbe in questo periodo il suo innamoramento con la semiotica, percui si veda l’intervista ad una delle sue compagne più fedeli e coraggiose, l’attriceLaura Betti, anch’essa un tempo cantante di jazz (sul Manifesto, agosto 2004).

200 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

Infatti il suo libro influenzerà molto il tono del dibattito intorno ad unanuova sensibilità e alla necessità di nuovi strumenti critici nei confronti dellamusica proprio perché gli intellettuali tengono ora più di prima ad essere ’ag-giornati’, e soprattutto perché la vera battaglia da vincere è quella di trovareun nuovo ’modus vivendi’ nei confronti dell’industria culturale. Tra essi visono anche gli scrittori di jazz italiani, in quanto si trovano di fronte alle sfideposte dal free-jazz oltre che occupati a legittimare la loro ’arte media’ pressocerchie più accreditate della produzione simbolica, e cercano ovunque stimoliper un nuovo approccio alla contemporaneità. Polillo stesso si interesserà disemiotica ed Eco sarà molto citato nei contributi teorici alla sua rivista, e,forse suo malgrado, contribuirà a formare un certo tipo di musicofilo infor-mato e sempre dalla parte dell’avanguardia e della sperimentazione, sia essapolitica o artistica. Il tipo di appassionato cioè che crede fermamente in ungenerico progresso dell’arte, nella necessità che l’arte ’sappia provocare’, che siconsidera un esperto, ma che si interessa molto meno alle sottigliezze che allanecessità di schierarsi da una parte o dall’altra. Una tipica argomentazione diquesto modo di vedere si trova proprio in Eco, ed è uno dei punti fermi che sipotranno sostenere dopo aver preso le mosse dal suo dialogo con Lévi Strauss.

Dopo secoli in cui avevano trionfato le persuasioni ingenue circa unanaturalità del sistema tonale, basato sulle leggi stesse della percezionee sulla struttura fisiologica dell’udito, ecco che la musica (ma il proble-ma una volta ancora riguarda, in vari settori, tutta l’arte contempora-nea), grazie a una coscienza storica ed etnografica più raffinata, scopreche le leggi della tonalità rappresentavano delle convenzioni culturali[...] (1989:312).

Maurizio Agamennone e Jean Molino hanno richiamato l’attenzione sulfatto che una delle migliori formulazioni della natura culturale del sistema to-nale europeo si trova in MaxWeber (Agamennone 1991:189; Molino 2003:566).Come dire che non c’è bisogno di andare a cercare troppo lontano.62 In mol-ti punti del suo scritto Eco si appella alla storia della filosofia e ai classici,ma le teorie musicali del passato (specie le più antiche) non possono essere’neutre’, sono molto più spesso i mattoni di nuove costruzioni di ideologie dirinnovamento culturale. Basti pensare all’esempio di Marius Schneider, cosìaffascinante e così datato, oppure leggere con sorpresa la portata contem-poranea della reinterpretazione di speculazioni neoplatoniche di autori qualiMarsilio Ficino, Giuseppe Zarlino, Al Kindi (Tomlinson 1993), oppure dellospazio dedicato a Rameau da autori tanto diversi benché dialoganti fra lorocome Pierre Boulez e Jean Jacques Nattiez. Con estrema chiarezza si dimo-stra in questi casi come ’il passato della scienza sia posta in gioco di lottescientifiche presenti’ (Bourdieu 1984:80). Vista da una certa distanza tutta la

62 Si tratta de I fondamenti razionali e sociologici della musica (Weber 1974:761-839), va ricordato che l’interesse musicologico per questo testo in particolare èabbastanza recente.

3.8 « Nuove legittimazioni »: Eco, Schiano e Gaslini 201

polemica di Eco contro Levi Strauss e con quello che definisce il suo ’strut-turalismo ontologico’63 cela certamente la questione della ricerca di uno stilenell’ambito del saggio scientifico, ed il problema di una via ’nazionale’ alla ri-flessione teorica nelle scienze umane nella quale i riferimenti alla sapienza delmondo antico ritornano a fianco di uno sguardo complessivo sulla modernità.

È fatale che la ricezione ’popolare’ del testo tradirà lo spessore di quelladotta. Molti giovani comprenderanno nelle ’convenzioni culturali’ non tantoun termine tecnico proveniente dalla linguistica di De Saussure, ma piuttosto’le convenzioni sociali della musica borghese’. Nel momento in cui si incontranoFrank Zappa, Jimi Hendrix e Ornette Coleman, qualcuno chiamerà nel gruppoanche Schoenberg, o Varese, più volte citato nelle interviste a Frank Zappa(Pintor 1978[1973]).

Per i contributi dei musicisti, molto spazio viene assegnato da Musica Jazzagli scritti e ai progetti musicali di Giorgio Gaslini. Egli è infatti uno dei pochimusicisti di jazz con una doppia preparazione classica e jazzistica, frequenta-zioni nel mondo della musica contemporanea europea, incarichi nell’industriadiscografica. È stato anche un’abile montatore sonoro, la cui preparazione mu-sicale dava luogo a veri e propri virtuosismi con nastro e forbici. Gaslini nonnasconderà mai le sue opinioni politiche decisamente di sinistra. Si mostra afianco di movimenti di rinnovamento importantissimi per la cultura italiana.Nel 1974 è a Trieste a fianco di Gianfranco Basaglia, lo psichiatra che si poseal centro di un movimento che seppe condurre il parlamento italiano ad appro-vare la legge che impose una rottura radicale con la reclusione negli ospedalipsichiatrici e che insistette sulla natura sociale del concetto stesso di malattiamentale. Uno dei momenti più altamente civili del dopoguerra.

Restano famosi i ‘concerti-lezione’ di Gaslini, nei quali il pianista iniziavaparlando della storia del jazz servendosi del solo di pianoforte ed invitava poii musicisti del suo quartetto nella seconda parte del concerto. Nel 1957 esceil suo ‘lavoro da camera contemporaneo ispirato dal jazz’ Tempo e relazione,dal 1964 al 1967 scrive una suite all’anno; Oltre (64), Dall’alba all’alba (65),New feelings (tradotto come ‘Nuovi sentimenti’ con Steve Lacy, Kent Carter,Don Cherry) (66) e La stagione Incantata (67). In seguito Fabbrica Occupatae molti altri titoli mostrano il tentativo di superamento dei limiti delle micro-strutture del jazz e del farsi di un progetto di ‘musica totale’ che Gasliniperseguirà nel corso di tutta la sua carriera e che sembrerebbe anticipare il‘supermusician’ di cui parla oggi Roscoe Mitchell.64

63 In quanto, sostiene Eco, assurto da metodologia a filosofia e vera e propriametafisica.

64 Eccone una esposizione. « La tradition orale et la musique écrite ont peut-êtreété tenues séparément par certains, mais cela n’a jamais été mon expérience. J’aitoujours appris à faire les deux. Je crois fortement que nous sommes à l’époque dessuper-musiciens — des musiciens qui deviennent capables de maîtriser les stylesdu passé, autant que de créer les styles du futur. J’ai toujours étudié et je continued’étudier la composition et l’improvisation de façon intriquée. Je crois fortementque la bonne improvisation est une composition spontanée. Il est important, pour

202 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

Un tale progetto permette a Gaslini di intervenire come pacificatore nellepolemiche pro o contro il free jazz che sono all’ordine del giorno in quegli an-ni. Il suo impegno costante, specialmente sul piano compositivo, gli permettedi affermare di ‘stare andando verso un tipo di jazz autonomo europeo’. Lasostanza di tale affermazione è argomentata con chiarezza. Il nuovo cosmopo-litsmo e la passione civile dei musicisti della New Thing hanno contribuito arendere il jazz un fenomeno mondiale e a sancire la nascita di un nuovo jazzeuropeo, i cui esponenti (tra i solisti) cita in Jean Luc Ponty, Steve Harriot,Martial Solal e Joachim Kuhn; tra i compositori che gli stanno più a cuorecita solo sé stesso. Sono già tratteggiate in questo contributo di Gaslini le lineeprogrammatiche minime alle quali molti musicisti di jazz italiani ed europeisi atterranno sino ad oggi (Gaslini 1968:14).

Ogni musicista di jazz, a qualsiasi nazione appartenga, può fare deljazz il «suo» jazz e quindi attingere da un lato all’essenza del jazz edall’altro alla propria cultura.

Le implicazioni di questo discorso non sono solo genericamente identitariema ritornano ’artigianali’ dal punto di vista delle cerchie della produzione,nel momento in cui una certa padronanza del sistema e dei modelli permettedi creare nuova musica da altra musica, di suonare ’sopra’ a qualsiasi model-lo, come dice Antonello Salis (v. annesso 1). Gaslini punta decisamente allacomposizione, e, ritenendo che gli europei (e quindi gli italiani) abbiano ‘unistinto educato da secoli di civiltà’, possano, anzi, debbano fare del jazz ‘sen-za rinnegarsi’, ‘se hanno il temperamento necessario’. Ma che in fondo, datoche si tratta di una questione artistica, ‘esiste solo la legge della libertà’ e lateoria serve da orientamento (loc. cit.). Nello stesso articolo Gaslini non sitrattiene da una decisa stroncatura della ‘third stream’ di Gunter Schuller eJohn Lewis (op. cit., p. 13) che aveva tentato una convergenza tra tradizioneeuropea e jazz, dimostrando, pur con tutte le sue attenzioni alla composizione,alla tradizione e alla civiltà musicale europea, che in quanto musicista Gaslinipreferisce che gli afroamericani restino ’sé stessi’ e che questa preferenza haun immediato riscontro pubblico.65

Altri contributi si propongono di aggiornare una discussione che rischia didiventare uno sterile battibecco tra sostenitori del ‘free’ e ‘tradizionalisti’ inquanto portano nel dibattito sul jazz (seppure in modo spesso fugace) questio-ni dibattute nell’ambito più ampio della cultura nazionale. A considerazioniinteressanti si uniscono spesso analisi piuttosto frettolose della storia del jazzo addirittura una vera e propria pioggia di citazioni filosofiche, semiologichee sociologiche che si applicano alla riflessione sulla musica a venire. Per esem-pio, esso non può essere appannaggio dei club di appassionati e non può non

un élève, d’avoir une solide connaissance de la composition pour devenir un grandimprovisateur » (Mitchell in Mitchell e Buckner 2001:4-5).

65 Errori di gioventù. John Lewis era sé stesso ed è stato un grande, insostituibileinterprete del jazz.

3.8 « Nuove legittimazioni »: Eco, Schiano e Gaslini 203

tenere conto della vera e propria rivoluzione della pop music anglosassone(Rodriguez 1967). Da un lato il jazz o qualcosa di molto simile si ascolta neigrandi magazzini, è sempre più presente nel quotidiano, ma vi sono anche icontributi sugli aspetti politici e civili della ’nuova musica’ nei quali le citazio-ni da Archie Shepp, Leroi Jones/Amiri Baraka e Cecil Taylor hanno un ruolocentrale (Barbon e Barbieri 1969). Dall’altro vi è la difesa della contaminazio-ne tra jazz e pop-music, condotta in particolare da Miles Davis, e che moltiappassionati della vecchia generazione vedono come segno della fine dei tempi.A questo timore si può rispondere che ‘tutte le forme in cui si manifesta lospirito umano non muoiono, la loro funzione è proprio quella di essere controla morte’ (Santucci 1968:19).

Partendo da una posizione fenomenologica e storicistica piuttosto scola-stica (come accade spesso nei contributi dei giovani ospiti nella stampa spe-cializzata: spesso sono degli studenti), Antonio Barbon (1968) prosegue tragli articoli dei giovani sulla ’new thing’ vedendo l’evoluzione storica del jazzcome ‘un processo di emancipazione da vincoli musicali e consuetudinari’ esi domanda se il risultato di tale esito non dia ragione a coloro che intrave-dono una sua inevitabile ‘confluenza nell’alveo della musica dotta’. Questionetuttora aperta, dato che la rappresentazione pubblica del jazz tende semprepiù a porsi come quella di ’un’altra musica classica’, da poi che gli sono stateaperte le porte di alcuni conservatori italiani.66

In realtà la pratica di alcuni musicisti d’avanguardia dell’epoca mostradi avere interessi ben diversi. Le musiche di recente riedite del documentarioApollon, una fabbrica occupata, di Ugo Gregoretti lo dimostrano. L’Apollonfu la fabbrica romana occupata visitata dal ministro socialista del lavoro Bro-dolini, il ministro che diede al paese lo Statuto dei Lavoratori, accettandol’incarico ministeriale ed il compito di portare a termine lo statuto nonostan-te fosse affetto da una gravissima malattia che se lo portò via nello stessoanno. Che anche Mario Schiano, Marcello Melis e Marco Cristofolini abbia-no visitato la fabbrica e vi abbiano prodotto le musiche del documentario diGregoretti67 confermano un processo di ’autoctonizzazione’ del jazz (Tournès

66 Introducendo corsi di jazz sperimentali su programmi progettati dallo stesso Gior-gio Gaslini e da Gerardo Iacoucci nei primi anni ’90. Le materie studiate nel primoanno di corso presso l’Istituto Musicale Mascagni di Livorno diretto da MauroGrossi (anno 2004/2005) sono le seguenti: Acustica musicale, Analisi e armonia,Educazione percettiva, Semiografia della musica contemporanea, Storia del jazz,Storia della musica dal 1950, Teoria della musica (facolt.), Big Band, Composi-zione e orchestrazione jazz, Improvvisazione, Musica d’insieme (piccoli gruppi),Tecnica jazz del proprio strumento, Trascrizione e analisi, Organologia generale,Pedagogia generale (facolt.), Pianoforte per non pianisti, Pianoforte jazz per nonpianisti, Secondo strumento per pianisti jazz, Lingua straniera comunitaria, PopMusic, Tecniche di memorizzazione, Tirocinio didattico, World Music.

67 Apollon: una fabbrica occupata, riedizione del disco omonimo del 1969 su CD,allegato a (Faggiano 2003), il manifesto, cd 117. è un esempio abbastanza raro dicoinvolgimento del jazz in una vicenda culturale di rilievo nazionale. In particolare

204 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

1999), come fenomeno legato essenzialmente all’emergere del sostegno e dellareinterpretazione del free in Europa, ma in un modo che apre ai suoni dell’A-frica, dell’India e del Mediterraneo. Luoghi in cui è possibile e diviene semprepiù comune recarsi, mentre il viaggiare diventa un valore etico e spirituale.

3.9 Interferenze: sul dibattito antropologico in Italia

I temi sviluppati dall’antropologia culturale, anch’essa in un faticoso processodi legittimazione, sono ricevuti piuttosto debolmente dal movimento giova-nile nel ritorno di interesse per il jazz nei primi anni ’70. Ad altra sede ilcompito di misurare più precisamente la portata di un pensiero antirazzistae terzomondista, misurarsi con rappresentazioni del mondo che costituivanouna sponda di consenso e simpatia per le discipline antropologiche e per levicende e le creazioni del popolo Nero americano. Nondimeno esisteva senzadubbio di un sentire abbastanza diffuso che comportava una non-coincidenza,una cosciente non-identificazione di ’italiano’ in quanto europeo o ’occidenta-le’, ma di qualcosa di diverso, anch’esso cosciente di essere ’dominato’, e dalcuore e dalla dalla pelle non necessariamente ’bianchi’.

Il linguaggio genericamente antropologizzante, cui si è accennato in prece-denza, che vuole in qualche modo porre l’alterità radicale del free, usato daBarbon pare antiquata e più vicina al diritto romano, piuttosto che in fase coldibattito che si svolge da anni su una rivista prestigiosa quale « Nuovi Argo-menti », diretta da Alberto Moravia e Giovanni Carocci. Una rivista letterariache ha ripetutamente dato spazio istanze di rinnovamento provenienti dallecerchie di intellettuali che operavano per una nuova fondazione delle scienzeantropologiche in Italia. Già nel 1959, un numero della rivista dedicato al tema‘Mito e civiltà moderna’, chiariva nella premessa editoriale che ci si sarebbeoccupati del fenomeno del « ritorno alla religione », dell’influenza dell’arcaico,del mitico e dell’irrazionale nell’arte, nel costume e nella stessa politica, di unorientamento irrazionalista e mitologizzante che è parte delle stesse scienzereligiose, ed infine

come nuovo modellarsi del mito e delle forme di vita religiosa pressoi popoli coloniali e semicoloniali – o da poco usciti dal rapporto colo-niale – e presso le minoranze di colore, nel quadro del movimento diemancipazione politica e sociale di questi popoli e queste minoranze(Moravia & Carocci 1959:1).

Il numero contiene contributi di Annabella Rossi, Ernesto De Martino,Vittorio Lanternari, Remo Cantoni e Diego Carpitella (1959) e costituisce unmomento importante della precisazione dei temi storico-religiosi nel faticoso

la presenza di Schiano, Melis e soprattutto quella di Cristofolini, percussionistamolto inventivo e originale che usa un proprio insieme di percussioni tradizionalidi pelli animali e parti di batteria jazz.

3.9 Interferenze: sul dibattito antropologico in Italia 205

cammino verso una scuola nazionale di antropologia. La citazione introdutti-va deve molto in particolare all’articolo di Lanternari, che prelude ad un suolavoro molto importante sul tema dei movimenti religiosi nativisti e millena-risti nel quadro del processo di decolonizzazione del terzo mondo (Lanternari1977).

Che questo gruppo di studiosi, esponenti attuali e futuri di una scuolaromana di antropologia che non ha mai esitato a mettere l’impegno civile co-me componente essenziale della propria visione della disciplina, fosse unanimenell’accordare un’attenzione alla cultura degli afroamericani ed agli esiti delleloro lotte e dei movimenti artistici è indubbio. È altrettanto vero che nel cor-so della vicenda istituzionale delle discipline (studi storico-religiosi, etnologiae antropologia culturale, etnomusicologia) questi interessi restino al di fuoridella portata di una riflessione teorica molto influenzata dalla tradizione deglistudi storico-religiosi dalla quale muove i propri passi la nuova antropologiaitaliana, e da una ricerca etnografica in cui faceva scuola quella all’etnologiadi ‘noi stessi’ di De Martino che si accompagnava all’impegno civile e politico‘meridionalista’.

Diego Carpitella tratta in questa sede la ricezione e la reinterpretazionedel jazz nel novecento musicale europeo. Un tema che riprenderà in altre occa-sioni. In sostanza Carpitella noterà i problemi dell’applicazione della scritturamusicale, insistendo sul ricorso al jazz da parte di Stravinsky, Ravel e Milhaudin quanto emergenza del ‘primitivo’ e del popolare (1959, 1961). Si tratta perora di sottolineare come sia impossibile comprendere il ’900’ musicale euro-peo senza affrontare la questione dell’irruzione di arti provenienti dal mondointero nella coscienza degli artisti, la delicatissima questione della ricerca dinuovi modelli ed il pervenimento ad esiti di grande varietà, a soluzioni in cuiogni autore diviene un mondo a sé e per le quali la stessa questione dell’analisimusicale diventa altamente problematica.

È un fatto comunque che in Italia l’antropologia e l’etnomusicologia nonabbiano saputo o voluto costruire una propria visione del jazz, nonostante icontributi di alto livello dello stesso Carpitella (1974, 1978). Le scienze so-ciali e antropologiche in sostanza non hanno affrontato l’argomento che inmaniera generale e propedeutica a ricerche più approfondite che non sonomai venute.68 Accade in Italia qualcosa di molto simile alla vicenda del jazzin Francia ed ai suoi rapporti con l’etnologia francese. In qualche manieral’entusiasmo per le ’Arti Negre’ aiuta gli esponenti delle nuove discipline an-tropologiche a porsi di fronte alla società nel suo complesso e ad accreditarsinell’accademia. Ma poi, in seguito, sembra che le prospettive aperte dal porrele musiche afroamericane come oggetto di ricerca antropologica siano ’messesullo sfondo’ come una specie di vizio di ingenuità, fatto che non può che far

68 Il linguista Giorgio Raimondo Cardona, avrebbe dovuto trattare la svolta free diJohn Coltrane secondo la categoria linguistico-religiosa della glossolalia interve-nendo al seminario ’Il verso cantato’ organizzato dallo stesso Carpitella nel 1989,ma, per quanto ne sappia, la lezione non fu mai tenuta.

206 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

riflettere su una specie di rapporto ’utilitario’ con una musica e con tematichetanto popolari e diffuse nel clima culturale della Francia di anteguerra e deldopoguerra. André Schaeffner rinuncerà a sviluppare le premesse dei propristudi sul jazz (1926[1988]) proprio nel momento in cui la sua autorevolezzanell’establishment accademico e culturale francese è all’apice (e a concepireuno spazio riservato al jazz al ’Musée de l’Homme di Parigi quando ne era ildirettore). Da parte sua Michel Leiris si troverà ad ammettere alla fine dellapropria carriera che il « Il jazz ha costituito un incontro importante per noima che è stato infine interrotto per l’etnologia » (Jamin 1998:250; Jamin eWilliams 2001:18-21).

Vi sono comunque indicazioni su indirizzi di studio interessanti per i tempinel campo italiano. Vittorio Lanternari, nel discutere una questione di grandeimportanza teorica e storica come il concetto di ’acculturazione’, invita ariconoscere anche qui le sue formulazioni storiche interne ad un etnocentrismoeuropeo insidioso e rinascente 69 ed invita a studi culturali e antropologici chesappiano valutare correttamente una lunga storia di apporti extraeuropei aquella che intendiamo come cultura occidentale.

Basti pensare agli acquisti diretti di beni materiali come tabacco, dro-ghe, piante alimentari, ecc., e ad altri acquisti indiretti di moduli dipensiero, orientamenti artistici, musicali, letterari, filosofici, di modepratiche, costumi, modelli ideologici – dall’arte nativa africana al prin-cipio della non-violenza indù (sic), dai Negro Spirituals al riconosci-mento delle autonomie politiche e al nuovo umanesimo universalistaaperto dall’ampliato orizzonte etico-politico e sociale, dall’emergeredei popoli nuovi d’Africa, Asia, Oceania, America (Lanternari [1968]1974:11-12).

Sono qui proposte tematiche più ampie che ricorrono anche negli articolidedicati a discutere il jazz moderno, viste da una certa distanza come ’acquistiindiretti’. Il tema della crisi dell’occidente, primo tra tutti, era ben presentenella coscienza degli anni ’60 insieme alla denuncia della guerra nel Vietname della minaccia atomica. Di passaggio si può notare brevemente come il temadella non-violenza di Gandhi sia, proprio da uno studioso che proviene dallastoria delle religioni, presentato come un principio ’indù’ in un ampio ventagliodi elementi, molti dei quali corrispondono a ’beni materiali’. Il tema della nonpertinenza degli acquisti indiretti ’americani’ o della loro natura di generi di

69 Lanternari coglie benissimo, e lo conferma sostanzialmente proprio nei passi incui non si fa illusioni sul nuovo clima politico e sul sorgere di movimenti gio-vanili terzomondisti e rivoluzionari (Lanternari 1968), tutta l’ambiguità di una’acculturazione’ tutta sbilanciata a identificare il ruolo globalizzante di una cul-tura euro-occidentale come ’primo motore’ di una unificazione della cultura delmondo. La comprensione ingenua e mediatica odierna della globalizzazione comeprocesso culturale deve moltissimo a questo fraintendimento e pone questioni digrande portata per la storia delle discipline antropologiche.

3.9 Interferenze: sul dibattito antropologico in Italia 207

consumo ’borghesi’ tornerà molto spesso nel dibattito sull’identità culturalenazionale, sui giovani e la politica.

Per molti giovani scrittori ospitati da Arrigo Polillo su Musica Jazz po-co più tardi, la polemica contro le posizioni reazionarie sul jazz significheràaddirittura schierarsi dalla parte ’della vita piuttosto che della morte’, comesi è visto. Molto spesso sono inoltre citati temi e argomenti di discussionetipici della cultura italiana del tempo, come la necessità di scrollarsi di dossol’idealismo crociano e sottolineare l’attualità di Gramsci. Al centro di questodibattito si pone la personalità più impegnata a ripensare il ruolo dell’antro-pologia nella cultura italiana: Ernesto De Martino. Nonostante il rapportocritico, Ernesto de Martino fu forse il più Crociano tra gli antropologi ita-liani, ma anche uno dei più attenti ad una riflessione a tutto campo sullamodernità e tra i meno disposti alla semplice divulgazione acritica delle teorieantropologiche più recenti.

Nel 1965 Ernesto de Martino morì improvvisamente lasciando incompiutala sua ultima opera, che avrebbe certamente costituito un altro avvenimentoper la cultura italiana. Le fonti raccolte testimoniano di un percorso com-plesso e difficile in cui la questione dell’escatologia religiosa veniva trattatadal punto di vista filosofico, storico religioso ed etnologico, psicanalitico e disociologia dell’arte e del costume, parallelamente ad uno sforzo di riletturadel marxismo entro un nuovo orizzonte di umanesimo antropologico. Negliappunti che De Martino andava raccogliendo per il suo libro che voleva co-stituire un ‘contributo per lo studio delle apocalissi culturali’, editi negli anni’70 a cura di Clara Gallini, c’è anche una riflessione teorica in fase avanzata dielaborazione sull’arte contemporanea. Si tratta di una teoria che pone l’artecome tentativo di recupero della crisi esistenziale, come lo spazio analogo nellasocietà occidentale a quello del rito e del mito nelle culture tradizionali, valea dire una modalità di ricorso estremo alla cultura come strumento di difesadell’uomo dalla perdita di ogni orizzonte possibile. In questo senso, secondoDe Martino, proprio tramite lo studio dell’arte si può misurare la profonditàdella crisi della nostra cultura euro-occidentale.

In uno dei fascicoli contenenti gli appunti riediti e pubblicati postumi, DeMartino si proponeva di trattare l’apocalisse dell’occidente muovendo dallariflessione contemporanea storico-religiosa, antropologica, filosofica e psico-logica, integrandoli con la rilettura di documenti letterari e artistici in unpercorso che portava ad una riflessione teorica sull’arte contemporanea (1977,§ 264, pp. 472-473). Il frammento citato ha un carattere provvisorio, ma èfortemente calato nel clima e nelle angosce del periodo. De Martino parte dauna suggestione di Umberto Eco che parlava nel suo Opera Aperta (1962:191)della fortuna della filosofia zen e della sua tensione ad accettare la vita nellasua immediatezza. Segue una parte bibliografica di opere dedicate ai rapportitra zen e arte, beat-generation, zen e psicoanalisi, zen e Wittgenstein, zen eHeidegger, un riferimento a Cage ‘profeta della disorganizzazione musicale’,a Beckett, ed infine l’annotazione che Wittgenstein e Schweitzer finirono coldarsi ’alla filantropia e alla pedagogia spicciola’. Conclude questa parte il giu-

208 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

dizio che ci si trovi dinanzi a ‘un richiamo dunque alle cose stesse’, richiamopositivo nel momento in cui racchiude una reazione all’assolutismo scientista,ma che racchiude il rischio della sua assunzione inconsapevole.

‘Alle cose stesse’, alla immediatezza della vita, ai momenti zen, all’at-tività miocinetica, ecc, ecc., ma questa disperata nostalgia delle cosestesse che altro esprime se non quella malattia degli oggetti, anzi dellastessa oggettivazione, che è la fine del mondo? Ed è di questa malattiache dobbiamo innanzitutto parlare.(. . . )L’arte è un modo di recuperare gli eventi minacciati dall’irrigidimentoe dal caos, ed è quindi un modo di curare e di guarire il sempre pos-sibile ammalarsi degli oggetti. Ma questo recupero, secondo le varietemperie storiche e secondo le varie congiunture culturali, si compie avari livelli: se nell’arte vi è sempre un momento di discesa agli inferi,cioè sino al piano in cui l’oggetto è in crisi, non può essere stabilitouna volta per sempre di quanti gradini è lecito scendere per compierela anabasi. Ciò che importa è che il piano sia raggiunto e che l’anabasisi compia (sia comunicabile, intersoggettiva, reintegratrice), di guisache l’opera singola consenta di leggere questa vicenda. Ciò che impor-ta è che il momento della discesa non sia scambiato con la liberazione,e che la caccia spietata alla ‘malattia degli oggetti’ non sia esibitacome guarigione o idealeggiata proprio in quanto malattia. In questaprospettiva è possibile giudicare la cosiddetta ‘arte contemporanea’,che non è da condannare perché si è allontanata dal naturalismo eha consumato la catastrofe della figura. Questi son giudizi di estremarozzezza: in realtà l’arte figurativa del rinascimento non aveva biso-gno di scendere molto in basso per recuperare oggetti ed eventi, e percompiere l’anabasi verso la forma, mentre l’arte contemporanea deveraggiungere livelli molto più profondi per tentare la catarsi. D’altraparte questo carattere dell’arte contemporanea costituisce un docu-mento di quanto profonde siano le radici del male, di quanto grave siail pericolo della fine del mondo (De Martino 1977, § 265, pp. 473-474).

Una prospettiva di grande interesse, su cui varrà la pena di ritornare nelcorso di questa discussione, e che per il momento verificheremo parzialmenteper quanto risulta significativa in modi diversi anche nei contributi sul jazz, eche comunque mostra una certa consustanzialità 70 alle idee che vanno facen-dosi strada nel campo dell’improvvisazione musicale. È anche interessante no-tare come, secondo una strategia esplicativa più diretta possibile, De Martinoricorra al rinascimento costruendo inconsciamente quel ponte tra modernità

70 La teoria di De Martino si mostra particolarmente radicale e adatta a compren-dere le tendenze più avanzate dell’arte proprio perché tiene presente che non ’sipossa più operare come gli artisti del passato’, perché introduce una rottura, unadiscontinuità. L’anabasi è necessaria perché il mondo dell’uomo contemporaneo ela sua rappresentazione nasce sotto il segno del rischio della fine.

3.10 La generazione dei ‘70, e arrivano i Romani 209

e rinascimento che era stato già tipico del discorso sulle grandezze dell’arteitaliana nel periodo fascista. Diversamente dal ricorso al gandhismo ’indù’ diLanternari, che si rivolge al pubblico più informato e cosciente della societàcivile, quello al rinascimento in questo passo di De Martino pare sottenderel’intenzione di rivolgersi alla comunità degli studiosi i cui orientamenti sen-te ancora come profondamente retrogradi sul piano metodologico, usando lametafora più condivisibile. Tutta la vicenda della collaborazione di Diego Car-pitella con De Martino conferma della comprensione di quest’ultimo di unanecessità imprescindibile di innovazione metodologica di tutto l’establishmentdelle scienze umane in Italia (Carpitella 1988).

3.10 La generazione dei ‘70, e arrivano i Romani

Se negli anni ’50 e ’60 Milano costituisce il centro dove il jazz si connetteall’emergere di una nuova società dei consumi, dopo il ’68, e soprattutto daiprimi anni ’70 in poi, la città del jazz sarà Roma, non tanto perché si facciadi più o si producano più dischi ma perché la scena romana è più interessante,grazie a Massimo Urbani, Danilo Terenzi, Roberto Della Grotta, MaurizioGiammarco, Tommaso Vittorini, Mario Schiano e molti altri. La novità è nonsolo nell’emergere di una nuova generazione di musicisti che giunge alla musicacon il ’rock’ e scopre il jazz come ’vera’ fonte della migliore musica pop, maspecialmente nelle connessioni che queste nuove leve sanno sviluppare tra loro.È curioso notare come gli eterni inizi del jazz non abbiano capitali, ma cheal farsi del suo campo di interessi e di attività serva enormemente una città.Infatti delle reti e dei gruppi d’interesse si formano dalle prime apparizioniintorno a qualcosa che promette di iniziare in tutto il paese, ma è nelle città chele nuove tendenze interpretano più efficacemente la loro pratica come cartinaal tornasole della formazione del proprio pubblico e delle capacità critichedegli aficionado. Ora che l’interesse si sposta su di loro, anche il discorso sullamusica cambia e si costruisce intorno a controversie apertamente sociali epolitiche sul ruolo della musica.

Cambia anche il tono dei contributi della stampa specialistica: scegliendo-ne uno capace di anticipare il mutamento di tendenza intorno ai primi anni’70, si potrà citarne uno in cui Franco Pecori insisteva sul ‘free come relazione’(Pecori 1968:20-22), in un modo che trattava in termini ancora oggi attualiun modo di vedere il problema dei rapporti tra musicisti e della valutazionedei modelli entro la pratica musicale. Franco Pecori è attivo come batteristainsieme a Marcello Melis e Mario Schiano in un trio che si rivolge decisa-mente verso la ’free music’: sarebbe direttamente impegnato nella ricerca piùavanzata condotti dalla cerchia dei musicisti romani. Se Pecori vede ancoraromanticamente un musicista che va verso la ‘libertà’, intesa come autenticitàesistenziale, ha il merito di vedere i rischi di tale percorso. Almeno due passichiave dell’articolo hanno delle risonanze con l’ethos antropologico di De Mar-tino. Nel primo l’autore sostiene che il problema dell’artista moderno di jazz

210 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

è quello di evitare di cadere nella ‘mimesis’ intesa come ‘morte di una spintaespansiva, produttiva, comunicativa’ (cit. p.21), e ad ulteriore conferma citaun passo di Kafka che parla proprio del tema Demartiniano della ‘morte dellecose’. L’argomentazione proseguendo prevedendo una compromissione totaleed uno scandalo necessario, per compiere ciò che De Martino chiamava ‘ana-basi’ e di cui Pecori sottolinea piuttosto il ’carattere relazionale’ in quantopeculiarità della pratica della nuova musica. L’anabasi col free si fa ’insieme’e questo complica di molto le cose.

Ci si può chiedere allora quanto nelle prospettive più ottimistiche e ’im-pegnate’ al fianco dell’arte moderna vi sia stata una interpretazione ’collet-tivistica’, di ritorno dell’idea di collettività come valore contrapposto all’ideadell’artista romantico borghese. Ogni discussione in questi termini non po-teva e non può che dare luogo ad una deriva di interpretazioni parziali, diparziali verità e di fraintendimenti, ma la dimensione collettiva negli anni ’70si rivela sostanzialmente come un nodo di problematicità che si alterna aglieventi talvolta particolarmente felici che per queste cerchie configurano occa-sioni di suonare e di sentirsi parte di un tutto. Non si può non prendere attoche intorno a rappresentazioni simili a quella appena citata prendono formale motivazioni più profonde del proprio rapporto alla musica 71 e le doman-de chiave per discuterle. L’idea del rischio, il peso prezzo da pagare per leproprie scelte, le speranze mal riposte di chi guarda al futuro di una speciedi eroe, hanno spesso come contraltare un approccio alle sostanze tossicheche, se non generalizzato, sarà diffuso nelle cerchie della produzione del jazz,e spesso proprio nelle giovani promesse, che in questo modo evitano tutta laproblematicità di costruire gradualmente e faticosamente il proprio personag-gio. In questo modo restando o diventando almeno in parte dei coatti (macoatti ’artisti’) si conservano i legami con tutto un mondo di quotidianità edi rapporti sociali ed economici. 72

D’altra parte il rischio della ’malattia degli oggetti’, la fine della spintacreativa, implicavano già nell’avanguardia musicale che precede e presagisceil ’68 e nelle cerchie che prediligono la ricerca sull’improvvisazione in partico-lare, la questione del rapporto coi modelli. L’intesa collettiva non è soltantoracchiusa in un’ideologia del vivere la musica in un modo nuovo (che nonteme troppo di scambiare la discesa agli inferi con la liberazione nei terminidi De Martino), ma anche una più semplice intenzione a mascherare, a non

71 L’ultimo, grave e disarmante messaggio di questa generazione è del pianista LucaFlores, il quale diceva di ’amare quei musicisti che suonano ogni nota come sefosse l’ultima’ (Veltroni 2003).

72 Come se ’l’eterno presente’ di quella celebrazione della vita che conferisce un ca-rattere unico al jazz (in quanto varietà di musica afro-américana) (Bland 1959),recasse in sé un ’frutto avvelenato’ per chi lo ama e lo comprende al punto davolerci vivere dentro. Tutto questo è ben presente nell’intelligenza del sistema sim-bolico proprio della cultura del jazz rispetto ai rischiosi atti dell’appropriazione,dell’emulazione e dell’identificazione (v. parte 4 e annesso 4).

3.10 La generazione dei ‘70, e arrivano i Romani 211

esplicitare, se non di modo altrettanto artistico il proprio rapporto coi modelliimpiegati.73

Some improvisers in avant-garde music of the 1960s wished to avoidthe use of any model, and if, paradoxically, if the innovation itself isto be the model, it can hardly be considered an audible one (Nettl1974:17).

Anche se un processo di modellizzazione esiste comunque, e non può esserealtrimenti come sostiene Nettl, il suo grado di percepibilità e la sua densitàvaria ’da cultura a cultura e da repertorio a repertorio’. 74 L’improvvisazionemusicale ’totale’ tende a mettere fuori campo ogni trasparenza del modelloanche se non può cancellare i riferimenti ad altre pratiche. È in gioco la identitàe la ripetibilità dei modelli musicali; la loro decostruzione e ricomposizionesignifica affrontare il problema di ridefinire gli oggetti della prassi musicale cosìcome avevano fatto le tecniche seriali e le esperienze della musica concreta edelettronica. Saranno chiamate a farlo l’assoluta prevalenza della situazione, lapagina bianca dello zen o metafore ’totali’, 75 piuttosto che corpose trattazionidi come si potrebbe procedere nella composizione (Boulez 1968, Pousseur1968, Schaeffer 1966).

Ma mentre l’interesse per questi problemi cresce lentamente tra le avan-guardie dei dandy del jazz, anche per quanto riguarda le esperienze del jazzpiù avanzato (e i dischi più venduti che lo rappresentano), il legame col bluescome spazio simbolico e sociale della creatività afroamericana resta sia con imolteplici riferimenti ai ’giovani arrabbiati’ (come venivano spesso etichettatidalla stampa specialistica Shepp, Ayler, Coleman), sia a maestri quali Mingus,Monk, Parker, e così via. Il legame della nuova avanguardia col ’popolo delblues’ è confermato dall’informazione inoppugnabile della massiccia presenzadi musicisti che fanno parte degli ultimi movimenti migratori neri dal suddegli Stati Uniti verso l’inizio della seconda guerra mondiale.

L’attenzione per i giovani ’arrabbiati’ si accompagna, comprensibilmente,ad accese controversie e giudizi di ’fine del jazz’. Dopo un concerto di improv-visazione intorno al ’68 sarà difficile discutere liberamente per gli appassionati’storici’ con coloro che si presume abbiano scambiato l’improvvisazione per ’li-berazione’ o ’terapia’. I primi concerti di free music infatti comportano spesso

73 L’approccio totale alle arti degli esponenti della pop art degli anni 60 è senzadubbio un modello in sé per questo periodo, spesso coscientemente citato e volutocome antecedente storico.. La questione veniva individuata da Bruno Nettl in unsuo articolo dedicato all’improvvisazione.

74 Ma, oltre le griglie comparative, si potrebbe osservare che la guerra alla percepibi-lità del modello dichiarata in una determinata cultura musicale e in determinatecondizioni ’significa’ soprattutto riaffermare la ridondanza, l’autonomia e il poteredel gesto musicale. (l.cit.)

75 Ardite anche nella loro laconicità: Cornelius Cardew parla di etica dell’improvvi-sazione terminando il suo articolo citando Lao Tzu e ‘l’accettazione della mortecome una delle virtù che il musicista può sviluppare’ (Cardew 1969).

212 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

uno spazio dedicato al dibattito col pubblico, seguendo un costume che pro-viene dal cinema e dalle iniziative di divulgazione culturale della sinistra. Mal’improvvisazione pura e semplice sarà ben presto ’spiazzata’ proprio da quel-lo che fa un musicista come Archie Shepp. Dai concerti di Shepp è evidenteche ristabilire un rapporto ’storico’ col modello non è un tabù e che tutto puòessere usato, anzi, che ogni messa in opera di un modello musicale deve esse-re un’opera di ’ricreazione’, di modo analogo a quanto sosteneva e praticavaFerruccio Busoni.

Evidentemente sarà proprio questo aspetto quello più ambiguo per il so-stegno all’avanguardia. La mediazione passa ora per l’adesione dopo che erastata orientamento per censo e gusto, interclassismo. O si mostra di aderire alrepertorio standard del jazz come veri e propri ’adepti’, oppure lo si combattecome segno di arretratezza. Monk, Ellington, Bechet, Webster, sono talvoltatroppo vicini, mal compresi perché malamente ’riprodotti’, oppure troppo lon-tani da quello che fanno i nuovi musicisti americani ed europei. Viene messoin crisi un rapporto di eclettismo e di prossimità coi materiali della musica chegià c’era stato nel periodo fascista e nel primo dopoguerra. Insieme a questo,una rottura generazionale più generale che si manifesta entro le cerchie dellaproduzione musicale: i professionisti, che del jazz in Italia conoscono la storia,restano tali ma sono pochi, disillusi e poco disposti al dialogo con giovani chevedono segnati da dilettantismo e ideologismo in un clima di scontro sociale epolitico senza precedenti. Infine la logica interna delle cerchie della produzioneè messa in discussione dal fatto che molti nuovi musicisti vengono da famigliee da ambienti che non hanno nulla a che vedere con la musica.

La modellizzazione che prende forma con più evidenza è, come nel rock,quella relativa alle grandi scelte, cioè a quelle che decidono del significatopubblico di una determinata opera e dell’attività di un gruppo. I gruppi diGuido Mazzon e di Gaetano Liguori costituiranno delle versioni italiane apartire da un momento inaugurale in cui i popoli oppressi del mondo, ed igiovani oppressi del nostro paese, vengono posti nel luogo e nel rango degliafroamericani e distribuiti nelle iniziative musicali della sinistra.

3.11 Liberation Music Orchestra

Come esempio insuperato di quello a cui si tende nelle nuove cerchie dellaproduzione vi è l’opera di Charlie Haden e Carla Bley e della loro ’LiberationMusic Orchestra’, con la scelta di mettere su un piano parallelo l’internaziona-lismo politico e culturale e la memoria soggiogata degli sconfitti della guerracivile spagnola. L’operato di musicisti dell’avanguardia i quali (si veda comeesempio tra i più conosciuti Don Cherry) si mostrano capaci di interiorizzare imodelli della musica afroamericana incorporandoli senza bisogno di rievocarlisul piano della rilettura dei modelli del jazz e nel contempo di mostrare lastrada di una world music a venire, ha un influsso enorme nella ricezione deljazz in Europa in questo periodo.

3.11 Liberation Music Orchestra 213

Una certa circolarità e compromissione tra mito e artigianato, tra verità e‘fiction’, tra memoria e contemporaneità 76 tende ad emergere nella riletturadi queste opere, specialmente in quelle in cui la dimensione collettiva è unasfida risolta. Si tratta però di una sostanza che non è immediatamente tra-sparente dalla registrazione e che può sfuggire, racchiusa in un semplice gestoda ricostruire e rivivere a partire dal documento sonoro. Rimane di grandeinteresse riascoltare oggi il lavoro minuto intorno al quale Haden e compa-gni arrivano a far eseguire alla fine di un lungo percorso (davvero un’anabasiDemartiniana) persino un inno ormai divenuto banale come We Shall Over-come affidandolo al trombone di Roswell Rudd. Quando Rudd giunge infine,alla fine di un viaggio della memoria nelle musiche della libertà e della lottapolitica della Spagna e dell’America Latina, a suonare il famoso inno dellemarce per i diritti civili americane, il rapporto col modello si chiarisce: è unaquestione di pochi secondi, racchiusa in una cesura, una specie di istantaneamusicale di un gesto tardivo e persino timido nei confronti del leit-motiv del-l’antischiavismo americano. Si tratta in definitiva della soluzione di Rudd diun problema musicale (apparentemente) semplice: inserire in una forma disuite un inno da chiesa con una sua lunga storia. Ma si tratta di jazz: Ruddè chiamato ad entrare nella scena conclusiva con tutto sé stesso e la propriacomprensione delle intenzioni dell’opera. Sviluppi in cui si fa strada una nuo-va confidenza nel confronto e, in definitiva, nella parola. Qualche anno primale opere corali di John Coltrane, quali Ascension, Om, Kulu Se Mama, Livein Seattle avevano già sillabato una sorta di ’glossolalia strumentale’77 cheannunciava la rinascita religiosa e culturale dell’afroamericano facendo spazioa nuovi linguaggi.

Con la generazione degli anni ’70, forze nuove si affacciano a fare i conticon il jazz in Italia. Vi sono delle premesse completamente diverse da quelledelle generazioni precedenti, persino da quelle di coloro che si adoperavanoper far conoscere la ’new music’ a Roma, come Mario Schiano, e Franco Pe-cori. Mentre questi musicisti avevano dietro di sé la frequentazione di unaproduzione jazzistica ricchissima (Coltrane, Shepp, Coleman, Ayler), una fre-quentazione delle avanguardie musicali degli anni ’60, l’esperienza con il farsidella beat generation, la nuova generazione è quella dei ’figli della televisione’che debbono ora scoprire praticamente tutto (e dovrebbero farlo in fretta) perdistinguere in un panorama che potrebbe sembrare sconfinato.

76 Un ordine di questioni che compare nelle osservazioni di Diego Carpitella sulrapporto strettissimo che intercorre tra ’idee del jazz’ e le sue pratiche, che spie-ga i suoi rapporti tra sociologia e l’impianto o l’intenzione sociologica di tantaletteratura dedicata al jazz e perfino della musica stessa (Carpitella 1978).

77 Si veda alla nota n. 68, p. 206.

214 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

3.12 Mingus, Mingus, Mingus

La composizione sociale delle nuove leve pare decisamente interclassista e piùinteressata a colloquiare al proprio interno che con il mondo degli aficionado.Si tratta sia di ragazzi di buona famiglia che di figli di proletari e del cetomedio, come il pubblico che affolla i festival. Molti musicisti che cominciano acomparire regolarmente già nei primi anni 70 avranno dei rapporti difficili conla critica e con la promozione musicale, e tenderanno a lungo ad ignorarla.L’accento maggiore è a colloquiare coi propri pari, lasciando che l’esterno siaccorga che stanno emergendo forze nuove e nuovi modi dei concepire la mu-sica. Si arriva bruscamente al jazz passando per i gruppi amatoriali di rock;il jazz si presenta come una ’rivelazione urgente’ alla quale si rivolge imme-diatamente e senza troppe esitazioni. 78 In queste condizioni l’incontro piùimportante, quello capace di far loro « prendere loro la testa tra le mani »(come accadde a Django Reinhardt), è dovuto alla presenza di Charles Min-gus. Mingus nel 1974 è a Todi e Perugia alla fine del mese di luglio (dopo cheil caso Watergate ha portato Nixon alle dimissioni), dinanzi ad un pubblicodelle dimensioni di un festival rock. Compie ancora une delle sue apparizionieuropee in grande stile, con un gruppo nuovo e con un tipo di scrittura edi organico musicale agile e molto appropriato alle condizioni del momento79 Mingus polverizza ogni distanza culturale e generazionale tra un pubblicogiovane, curioso e insoddisfatto e il jazz e i suoi aficionado storici. Per unmomento cessa ogni conflitto. Ma l’importanza dell’episodio ’Umbria Jazz’ siridimensiona col tempo. Così si esprime Mario Schiano sulla percezione piutto-sto diffusa subito dopo l’evento che con Umbria Jazz la musica afroamericanapotrebbe diventare una musica di massa.

Umbria Jazz nasce per iniziativa di maggiorenti perugini, appassiona-ti di jazz americano, che possono permettersi di invitare i maggiorimusicisti provenienti dall’altra parte dell’oceano, con il supporto disponsor e maggiorenti locali. Era certamente un fatto di assoluto rilie-vo, gratis, con questa marea di giovani con il sacco a pelo che di ritorno

78 Per coloro i quali fanno i loro primi incontri col jazz in questo periodo la possi-bilità di ascoltare dei musicisti di grande rilievo pone una coscienza diversa della’sostanza’ musicale rispetto a quella delle fasi in cui il jazz si confondeva con leinnovazioni tecnologiche; d’altra parte configura anche un metodo di distribuzio-ne selettivo e ’di nicchia’ in cui il disco arriva sul mercato a breve distanza daglieventi concertistici.

79 Charles Mingus ha sempre affrontato con grande rispetto e generosità il pubbli-co europeo, presentando dei gruppi e delle composizioni che hanno fatto storia.In questa occasione si può dire che si mostra aperto verso un certo spirito checircola nella migliore pop-music senza rinunciare al suo tradizionale approccio difreschezza improvvisativa e di profonda conoscenza di ogni aspetto del jazz. Inquesta occasione (ma si tratta di un ricordo di trenta anni fa) circondato da unaffetto e una ammirazione assolute, si aggirava tra la folla stupito e sollevato dalsuccesso ricevuto e altrettanto curioso di osservare tutto quello che accadeva.

3.12 Mingus, Mingus, Mingus 215

dal festival rock di Modena a un certo punto decidono di fermarsi aPerugia... Inizialmente fu vissuta in maniera « rivoluzionaria », ma sirivelò poi deludente; non ci fu certo la mutazione che ci aspettava-mo. La preferenza accordata al jazz dalle masse giovanili rispondevain qualche modo alla crisi e alla commercializzazione del pop. Spera-vamo che questo fenomeno potesse essere gestito bene politicamenteper non cadere nello stesso errore, ma non fu così e ce ne accorgemmoqualche tempo dopo (Schiano in Faggiano 2003:51).

Soffermiamoci un attimo sull’idea di ’buona gestione politica’ di cui parlaSchiano. Limitandoci ai due rappresentanti più noti del jazz d’avanguardiaed alla loro risposta a Umbria Jazz, nel momento in cui nei commenti piùo meno politici si parla degli alti numeri di una risposta di rilievo ’nazio-nale’, entrambi si pongono in qualche modo alla guida dei giovani creandoproprie iniziative: Gaslini apre agli uditori (tra cui Massimo Urbani, MaurizioGiammarco e Tommaso Vittorini) al suo corso sperimentale di Jazz nel piùprestigioso conservatorio nazionale, mentre Schiano organizza un ’controfesti-val’ a Penne, di cui si parla poco oltre. È paradossale il fatto che le cerchie(che restano modestamente in disparte) degli organizzatori di Umbria Jazznon sappia che farsene del successo di una risposta ’politica’ al jazz, mentrechi la auspicherebbe resta a distanza, attendendo il momento di etichettarel’avvenimento come un qualcosa che non poteva essere ’rivoluzionario’ comesembrava. Nei paragrafi che seguono si cercherà di dare un’idea più generaledi rappresentazioni ed idee della policità della musica in questo periodo.

Una caratteristica di questi anni è che molte delle cose più interessanti peril jazz che si ’autoctonizza’ avvengono a Roma: quello che accade nella capitaleè troppo importante, come è evidente dalle memorie dei musicisti. Il corsosperimentale di jazz di Gaslini a S. Cecilia è aperto (per sua iniziativa) agliuditori, viene aperta la Scuola Popolare di Musica del Testaccio. Il Music Inn,gestito dal batterista e mecenate conte Pepito Pignatelli con l’ambiente chevi si era venuto a creare, permetteva un certo costante passaggio di musicistiamericani, presenti a Roma e diretti a Parigi e altre piazze europee, spessoaccompagnati da ritmiche locali. L’ambiente del Music Inn e di altri localiromani favorisce la creazione di una particolare subcultura.80 Al Music Inndi Pepito Pignatelli, a Roma, aperto ugualmente al free come al mainstream,si tratta di praticare e ’vivere’ jazz, molto più che scriverne e di pensarci.Qui, in un luogo in cui la ’gestione politica’ del fenomeno della accresciutapopolarità del jazz entra solo di riflesso, ma dove hanno accesso le migliorigiovani leve della cerchia della produzione, sembrerebbe quasi di tornare alle

80 Intesa come cerchia di persone organizzate e con un bagaglio simbolico e scopilargamente comuni. molto ’americanista’ che sviluppa un proprio modo di rappor-tarsi ai ’modelli’ e ai ’maestri americani’ ponendoli su un piano di parità nel qualeil sentimento unito alla ’corretta’ pratica, ad un artigianato musicale avanzato eal passo coi tempi, taglia fuori l’ambiente della critica nazionale.

216 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

condizioni iniziali del primo avvento di questa musica in Italia, quando EddieSouth parlava in termini lusinghieri dei ragazzi italiani (Mazzoletti 1983:180).

Un rapporto mutato e molto più critico rispetto alle magre istituzioni delcampo jazzistico italiano piace ed è compresa dai ’miti’ che scendono in campo,elogiano, e, temporaneamente, vivono a fianco dei ragazzi romani.81

Il sottotitolo di un libro recentemente dedicato alla vicenda di MassimoUrbani, il modello di questa generazione e di questo ambiente recita ’l’avan-guardia è nei sentimenti’ (De Scipio 2002): niente di più esplicito. La presadi distanza di questa generazione dal ’sistema del jazz’ è una delle sue ca-ratteristiche principali (si veda, più avanti, il paragrafo dedicato a MassimoUrbani), ma si tratta di un atteggiamento non facile da analizzare. L’elementodi una urgenza ’esistenziale’ è probabilmente quello che spiega meglio un rap-porto di prossimità e di fratellanza verso gli afro-americani per il quale nonc’è bisogno di studiare la loro storia e la loro lingua perché l’approccio tra idue mondi si fa con la musica. Non si tratta del fatto che vi sia senza dubbiouna egemonia della sinistra movimentista nei sostegni e nell’organizzazione deiconcerti, almeno nei primi anni ’70. Quasi tutti i musicisti saranno piuttostodubbiosi, sebbene le istanze utopiche del ’68 siano tutt’altro che completa-mente rifluite nel privato, sulla possibilità di incasellarsi in una idea di ’jazzmilitante’. 82 Quello che sorprende è il limitato interesse che suscitano pressola cultura italiana, gli intellettuali e la politica. Anche la sinistra politica saràsempre esitante nel sostenerli sino alla fine dei ’70 e non lo farà mai in modosostanziale.

3.13 Il PCI e le nuove tendenze

Chi avrebbe dovuto gestire bene la ’rivoluzione’ di Umbria Jazz? Non do-vrebbe più stupire il disinteresse degli intellettuali che si trovano impegnati inprocessi di legittimazione intorno a questioni diverse e che sono ’concorrenzia-li’ rispetto al jazz, il quale opera nel campo della cultura e delle arti medie. Uncampo nuovo e instabile che provoca non pochi problemi alla sinistra ufficiale.81 Resta proverbiale la frequente presenza nella borgata di Primavalle, di fronte al

bar del quartiere, di Chet Baker in attesa che Massimo Urbani scendesse di casa.Precedentemente anche Steve Lacy e Gato Barbieri avevano abitato per qualcheanno nella capitale.

82 Nel 1975 Schiano, Roberto Bellatalla (cb) e Lino Liguori (bt) suonano nell’AulaMagna dell’Università Statale di Milano al centro del movimento studentescomilanese. (Concerto della statale, EDIZIONI DI CULTURA POPOLARE VPA103, ristampato come VEDETTE VPA 103, 1975). L’anno dopo lo stesso Schiano’sviluppa’ il suo approccio all’Internazionale in Progetto per un Inno: Now’s TheTime, a Roma con la partecipazione dei cantautori Lucio Dalla, Francesco deGregori, Antonello Venditti ed il Canzoniere Internazionale di Leoncarlo Settimelli(1976 disco IT ZSLT 70030). L’idea di mettere insieme il nuovo jazz, cantautorie canzonieri politici gli guadagna l’interessamento del PCI. Per questi eventi vediCastaldo (1978:156-157) e Faggiano (2003:37-39).

3.13 Il PCI e le nuove tendenze 217

Da parte sua il Partito Comunista Italiano, reagisce con estrema cautelaalle richieste di rinnovamento della politica culturale provenienti dai movi-menti. Ci sono delle convergenze tra FGCI e istanze centrali del partito, chesi notano nella rivista di politica e cultura «Rinascita». Nel 1974 la rivistaaffidava al musicologo Luigi Pestalozza l’esclusiva sugli interventi musicali,tutti riguardanti la musica europea contemporanea e i resoconti di concertidi musica moderna. Lo stesso Pestalozza (1974) scriveva un importante reso-conto di un suo incontro con Amiri Baraka/Leroi Jones avvenuto in Somalia,subito dopo la sua svolta marxista. Non pare che i due si capiscano troppo:Baraka difende davanti al suo interlocutore, come spesso accade nelle intervi-ste agli intellettuali afroamericani, il valore di tutta la musica Nera, anche diquella commerciale. Qualche mese dopo un lettore residente nella provinciadi Ravenna scrive alla rivista auspicando più articoli del tenore di questo e,soprattutto, più spazio riservato al jazz (Contessi 1974). L’estate seguente,facendo un bilancio dell’andamento delle Feste dell’Unità estive, il segretariodella FGCI di Roma afferma che nella ’attuale crisi del capitalismo’ la musica’si sta sempre più chiarificando come strumento di lotta o comunque di eman-cipazione’.83 Nel 1975 c’erano state le contestazioni violente dei concerti diLou Reed a Milano ed espliciti attacchi nelle persone degli impresari DavideZard e Vincenzo Mamone, i quali erano stati già descritti come individui chespillavano sangue dalla rapa-pubblico di studenti, lavoratori e disoccupati.

Un altro già accennato versante critico ’disagevole’ per la sinistra parla-mentare del PCI era quello dei gruppi alla sua sinistra e specialmente di quelliche rivendicavano una continuità con le prime scissioni dall’ala di sinistradel PSI, definitasi dall’inizio come componente antistalinista e antiburocra-tica della sinistra italiana e di altri fuorisciti storici dal partito. In questoambiente politico si collocavano le attività dei gruppi del folklore militante,specialmente forti nel nord Italia, organizzati in gruppi di ricerca e collettividi lavoro che si rifacevano all’esperienza del Nuovo Canzoniere Italiano a cui,nei primi anni ’60, avevano contribuito Roberto Leydi, Dario Fo e GiovannaMarini, insieme al suo animatore milanese Gianni Bosio. Nel nuovo clima delpost-sessantotto, si propone una rinascita del ruolo politico della canzone po-polare da un settore degli intellettuali del movimento che giudica essenzialeche l’identità e l’autenticità dell’espressione delle classi subalterne impongal’assunzione militante ’da sinistra’ di tutta la problematica demologica edantropologica della individuazione e della ricerca delle tradizioni popolari ita-liane. Nel 1972 Roberto Leydi puntualizzava il suo distacco dalla prospettivamilitante 84 con la pubblicazione di un suo lavoro sul tema del Folk Revival(Leydi 1972); in seguito lo stesso Diego Carpitella precisava, in una serie ditrasmissioni radiofoniche dedicate ai ’temi caldi’ del folk-revival ed alla mu-sica afroamericana, i termini di un impegno scientifico che andava nel senso

83 Feste: evviva l’Unità nella diversità, in «Muzak», novembre 1975.84 Una prospettiva che significava anche una notevole attività editoriale con la

famosa collana dei «Dischi del Sole».

218 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

di ’studiare i rapporti tra testo musicale e contesto sociale nella loro estremacomplessità e non stucchevole apoditticità’ (Carpitella [1974] 1992:75).

Si trattava di temi intorno ai quali si andavano creando veri e propri schie-ramenti, con gruppi che consideravano la musica afroamericana e la solidarie-tà coi Black Panthers come elemento discriminante del loro atteggiamento diapertura al mondo ed altri che si richiamavano al folklore ’autoctono’, allatradizione delle lotte operaie e ad un marxismo più rigoroso, stemperando ilfervore ideologico in puntuali avvertimenti critici. 85 Riguardo agli sviluppidi veri e propri processi d’oggettivazione politica rispetto a idee di intratte-nimento e di consumo musicale che oggi risultano abbastanza lontani dallasensibilità delle persone, è opportuno ricordare che, a cavallo tra gli anni ’68e ’69, intorno a « La Bussola », il night-club viareggino di alta levatura dicui si è parlato relativamente alla vicenda di Chet Baker, i giovani comunistiavevano contestato il capodanno dell’alta borghesia e la polizia aveva sparatoad altezza d’uomo ferendo gravemente il giovane comunista pisano SorianoCeccanti che perderà l’uso degli arti inferiori. Nel 1972, a Pisa, c’era statapoi la morte dello studente-lavoratore Franco Serantini in una manifestazionecontro il comizio del partito neofascista locale. Le stragi e gli attentati che sisusseguono dal 1969, numerosi scontri cruenti minori, una conflittualità so-ciale persistente, l’incombere di un colpo di stato di tipo latino-americano,pongono per tutti gli anni ’70 la questione di una serie di morti e di battaglieche si ponevano a fondare la stessa definizione in quanto cultura politica degliopposti schieramenti.

D’altra parte il PCI, proprio in rapporto alle attività del Nuovo CanzoniereItaliano, era già intervenuto, con Achille Occhetto a negare senso al concet-to di una ’cultura alternativa’ delle classi operaie fondata sull’opposizionedominante/subalterno. Aveva scritto Occhetto, che:

(...) soprattutto è l’impostazione ideologica che sottende a questa po-sizione che ci sembra errata, perché si confonde con alcune storturedi alcuni critici italiani e, purtroppo, di movimenti di pensiero ricor-renti all’interno del movimento operaio che contrappongono la culturadelle classi subalterne a quella ufficiale, contrapposizione che li portaa vagheggiare una cultura della classe operaia in opposizione a tuttala storia della cultura delle classi dominanti (Occhetto 1966 cit. inVettori 1974:11-12).

Mentre la nuova antropologia pone il concetto di cultura come oggettodi ricerca e di riflessione (Rossi 1970), il linguaggio della politica interviene85 Si tratta di interventi importanti per la costruzione lenta e faticosa dell’antropolo-

gia culturale in Italia. Lo stesso Carpitella ricorderà in seguito che uno dei canalipiù importanti di questo lavoro di divulgazione culturale era stato negli anni ’50la citata rivista «Nuovi Argomenti», il cui numero unico del settembre-ottobre1954, dedicato alla Barbagia (curato da Franco Cagnetta) definirà come ’il primolavoro di antropologia culturale pubblicato in Italia nel dopoguerra’ (Carpitella1973:62-63).

3.13 Il PCI e le nuove tendenze 219

a definire i limiti di dove si possa giungere nel parlare di cultura e questoatteggiamento suona come una difesa dell’unica cultura possibile, cioè quella’legittima’ e istituzionale. 86

È anche vero che in questo periodo, differenze minime di età e di ambientesociale significano immediatamente il non riconoscersi in quello che viene ’pre-dicato’ da più parti per le migliori ragioni e con le migliori intenzioni. Comenel caso citato dallo stesso Vettori come esempio ’dell’aria di sufficienza’ concui si guarda anche da sinistra ’a questo tipo di lavoro politico’ (1974:10).

Un lavoratore-studente della sinistra rivoluzionaria torinese, dopo averascoltato, lo scorso anno scolastico, ballate come la Cecilia e L’eroina, si rifiu-tava di partecipare alla discussione obiettando: « Cosa mi importa di studiarequeste manifestazioni di sotto-cultura, chiaramente subalterna ai valori im-posti dalle classi dominanti? Dedichiamo piuttosto il nostro tempo ad unostudio più approfondito, che so, del Petrarca. La cultura popolare non esiste,non è mai esistita, come cultura autonoma; lo diventerà solo dopo che, conl’azione rivoluzionaria, il proletariato avrà ribaltato i rapporti di produzionee imposto la sua dittatura. La rivoluzione avviene nella struttura e non nellasovrastruttura ».

Si potrà sorridere oggi delle lezioni di Marxismo (si rispondeva così almaggio ’68, quando fu detto: ’davanti a noi l’impossibile’?), come dell’ideache l’ascolto di qualche ballata in dialetto milanese del secolo passato possacostituire un ’lavoro politico’. Nella corsa ad esemplificare posizioni estetiche,materiali, strumenti critici, è normale propagandare quello in cui si crede.Una intera puntata della trasmissione radiofonica di Carpitella dedicata alfolk revival si occupa della Nuova Compagnia di Canto Popolare di RobertoDe Simone e Peppe Barra come modo filologicamente e musicalmente correttodi riferirsi alle tradizioni popolari e creare qualcosa di nuovo. Ancora una voltala tradizione napoletana della musica e dello spettacolo fanno la differenza:infatti ’c’è tradizione e tradizione’ conclude Carpitella (1973a:56).

Qualsiasi scelta non può che risentire delle chiusure di certe pratiche del’politico’ ed il rifiuto delle preferenze estetiche altrui, dunque ogni scelta (fracui il jazz) implica una presa di distanza e la ricerca di chi siano i propri pari.La nuova ricezione del jazz assume un senso di autonomia radicale proprioper quanto è voluta (e sofferta) da coloro che non trovano altre soddisfacentiproposte estetiche e politiche, ed ovviamente ha un potere di attrattiva moltomaggiore per chi suona già o quasi. Vuol dire scegliere di suonare, assumersi ilrischio e presentarsi come ’uno che vuole suonare’. Si comprende anche quantola chiave per andare avanti stia molto più nell’accreditarsi presso i musicististessi (e in questo senso la vicinanza di Giorgio Gaslini e di Mario Schiano86 Il volontarismo ed il progressismo in politica accoppiati a conservatorismo cul-

turale rimandano alle osservazioni di Bourdieu (1979, 1984) su quei ceti medio-bassi che sono costretti ad affidare un ruolo centrale all’investimento scolasticoper legittimarsi nella società. L’intervento di Occhetto è altamente significativodi una sinistra che continua a pensare alla cultura come ’dopolavoro’ per chi nonè borghese.

220 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

coi giovani musicisti ed il pubblico del movimento sarà esemplare), che nonnel far trascrivere gli annunci dei propri concerti ma non poter costruirsi unconsenso presso la stampa e la critica. Questa situazione durerà abbastanzaa lungo: le iniziative sono molte e diversificate e la stampa è usa a riceveree pubblicare bollettini redatti in proprio di questo o quel gruppo locale. Inuna certa distribuzione volontaristica e politicizzata i nuovi musicisti restanosistematicamente ignorati, poco riconosciuti, visti come fenomeni locali, po-tranno comparire senza avere accesso ai diritti d’autore nelle produzioni piùvendute della pop music del tempo, 87 così saranno immortalati in questomodo contenziosi senza fine.

Nell’estate del 1975, dopo il clamoroso successo di Umbria Jazz del 1974,il festival gratuito e l’accoglienza tollerante della città propiziano il ripetersidel successo dell’anno precedente. Il festival di Pescara, a pagamento, vieneinvece contestato dal movimento che chiede prezzi politici e cultura per tutti.Vi sono scontri e cariche della polizia; mentre Miles Davis riesce a suonare,a Rashaan Roland Kirk viene occupato il palco su cui si dovrà esibire e,dopo lunghe trattative tra gli occupanti e l’organizzazione, il concerto vieneannullato. Perché proprio questo concerto?

3.14 « Controindicazioni » e teoria della ’memoriaremota’

Qualche giorno prima, a Penne, una località non lontana da Pescara, si tenevail festival Controindicazioni, inteso come una risposta al festival pescarese, chemostrava di ignorare la presenza di un movimento giovanile in mobilitazione.A Penne, l’ingresso era gratuito ed i musicisti emergenti della generazione dei’70 erano al centro dell’attenzione, molti tra di loro si incontrano qui per laprima volta. Si tratta di una iniziativa unica per il fatto che proviene dallacerchie dei musicisti stessi; potrebbe costituire un inizio in linea con gli esempidi autonomia organizzativa che i collettivi e le cooperative della new musicpraticano negli Stati Uniti.

Dando notizia di questi avvenimenti su « Muzak », Gino Castaldo fa par-lare Mario Schiano (animatore dell’iniziativa) a nome della nuova leva deimusicisti di jazz. La citazione scelta per il sottotitolo è esemplare: ‘NewOrleans è in provincia di Napoli’, perché potrebbe riassumere le intenzioniprofonde di una strategia comunicativa. Schiano formula una curiosa teoria(Castaldo 1976) che indirizza sul piano della pratica musicale la politicitàdell’autoctonizzazione del jazz:

87 Rimmel del cantautore Francesco De Gregori, un disco molto venduto all’epo-ca è stato inciso nel 1975 con la collaborazione di alcuni nuovi musicisti jazzromano, senza presentazione e senza nessun titolo di percentuale alle vendite(comunicazione personale di Roberto della Grotta).

3.14 « Controindicazioni » e teoria della ’memoria remota’ 221

Le origini nero-americane del jazz - dice Mario Schiano - devono rima-nere come back-ground, come memoria remota e possono anche nonessere esplicite. L’importante è che vada avanti un modo italiano difare jazz [corsivo mio].

L’idea di una presa di distanza dal jazz per poterlo rielaborare, come mo-mento iniziale che prelude a nuove ricerche, non è nuova. Gia nel 1968 AlbertoRodriguez scriveva (Rodriguez 1968:15), commentando alcune esibizioni delGruppo Romano Free Jazz, animato dallo stesso Schiano :

(...) il jazz costituisce la base, la memoria remota, su cui poi siinnestano le nuove ricerche.

Il concetto della ‘memoria remota’ espresso da Schiano e dalla sua cerchiaè molto importante in quanto pone la questione della possibilità di interioriz-zare e non tanto di esplicitare i modelli o riprodurli in quanto tali. Si poneuna continuità poetica e teorica tra avanguardia italiana (ed europea) e quellaafroamericana degli anni 60 e 70 in un senso che ha un impressionante riscon-tro nella pratica dei musicisti di questi trent’anni. Modi di procedere quali i’folklorismi’ sperimentati da Gianluigi Trovesi o, in modo diverso, i modulimodali di Antonello Salis, con l’ingresso di elementi, timbriche e materialitematici ‘locali’ (mediterranei, balcanici, ecc.), rispondono ancora oggi be-nissimo a questo programma. D’altra parte si può osservare come la ricezionedelle istanze dell’avanguardia afroamericana costituiscano una ulteriore spintain avanti di quel processo di ’autoctonizzazione’ del jazz in Europa che Lu-dovic Tournès (1999) e Jan Jamin (2001) scoprono a partire dai cambiamentiintrodotti dalla ricezione del be-bop in Francia. La ricezione di Coleman, Ay-ler, Taylor e tanti altri ’rivoluzionari’ della musica afroamericana significanonon solo una maggiore distanza dal jazz, dalle sue origini e dalla sua vicendaitaliana che non comincia oggi, ma contemporaneamente il momento in cui siinizia a parlare con più insistenza di ’scuole’ o ’vie’ nazionali al jazz (Schianoin Faggiano 2003:107).

Qualcosa di molto simile a una ’memoria remota’ è sostenuto Giorgio Ga-slini, altro musicista del panorama italiano che ha prodotto numerosi contri-buti critici e teorici. Ma la politicità del concetto lo trapassa rivelando la suaorigine in una strategia di corto periodo piuttosto che a quella prospettiva diapertura che si propone di costituire. Se nel 1968 si trattava di legittimare l’in-nesto delle nuove ricerche, nel 1975 si tratta invece di sostenere tutto il nuovojazz italiano (che comprende anche dei musicisti che avranno coi modelli unrapporto ben diverso da una memoria lontana). A che serve poi una ’memoriaremota’ 88 se non a preludere all’oblio vero e proprio? Se agli Afroamericaniè stata tolta la memoria del proprio passato con la schiavitù e se il jazz, il88 Il paradosso che lega concetto di ’memoria remota’, ricezione della new thing e

’autoctonizzazione’ è espresso ancora da Gino Castaldo, il quale commentandocome fatti innovativi la nascita di scuole popolari di musica come quella delquartiere Testaccio, a Roma, tenuta da musicisti di jazz per allievi interessati in

222 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

blues e il gospel si sono rivelati poi come loro coscienza storica (Bland 1959),perché mettere sullo sfondo proprio questo? In fondo il jazz non può che porsicome fondamento alla ’memoria remota’ degli Afroamericani.

Se considerato come rivolto alle cerchie della produzione jazzistica il con-cetto di memoria remota sembra significare qualcosa di molto simile a quelloche chiarirà Massimo Urbani ai suoi allievi: di stare lontano dallo strumen-to, di non perdersi nei particolari e di guardare all’improvvisazione nel suocomplesso. Guardare ai modelli da una distanza che permette una libertà diazione (v. p. 244). Ma detto nel quadro più ampio della rappresentazione delprogramma della nuova musica il discorso è ben diverso e decisamente caren-te. Si può senz’altro confrontare questa metafora decisamente ’troppo aperta’considerandola come formula minimale di un discorso tecnico celato al più va-sto pubblico, cioè di quanto un musicista come Steve Lacy è andato dicendospesso sull’argomento dei modelli del jazz. Parlando dei cosidetti Bud Powellpatterns. 89 Lacy ricorda che ai tempi del suo apprendistato musicale a NewYork dagli anni ’50 non potette che schierarsi al fianco di ’radicali’ dell’artecome Cecil Taylor e Mal Waldron, ma che, nonostante ciò, questo non potevasignificare semplicemente ignorare gli altri.

But for me playing with the accepted people never worked out. Simplybecause they knew all the patterns and I didn’t. And I knew what ittook to learn them but I just din’t have the stomach for it. I didn’thave the appetite. Why should I want to learn all these trite patterns?You know, when Bud Powell made them, fifteen years earlier, theyweren’t patterns. But when somebody analyzed them and put theminto a system it became a school and many players joined it. But bythe time I came to it, I saw through it — the thrill was gone. Jazz gotso that it wasn’t improvised any more. A lot of the music that wasgoing on was really not improvised (Lacy in Bailey 1980:72)

Quanto dichiara Schiano manca di questo tipo di precisazione fondata nel-la pratica musicale. Sostegno ulteriore all’ipotesi che ogni fase del jazz mettesullo sfondo le origini e le ricostruisce, e al fatto che le origini del jazz noncostituiscono più un ‘problema’. Può darsi però che lo siano in Italia, in questomomento. La sua apertura cerca fondamento soprattutto nell’impegno politi-co. Schiano sottolinea ’la consapevolezza politica (...) dichiarata o meno’ deinuovi musicisti, ’motivo di denigrazione per alcuni’, e osserva che molti di loro

gran parte al jazz o al pop, scrive: ‘nelle scuole popolari di musica il linguaggiocreativo ha un ruolo di primo piano, [ma] l’America c’entra ben poco, se noncome, per l’appunto, memoria remota’ (Castaldo 1978;120).

89 Le difficoltà incontrate nella vita non impedirono a Powell di assumere un ruolonella tradizione e nella riproduzione delle techniche del jazz moderno paragona-bile a quella di Alessandro Scarlatti (per cui si è detto che abbia compiuto unamappatura generale della tastiera come ’spazio sonoro’): i suoi patterns accordali,le sue posizioni, sono accuratamente studiate da tutti i pianisti di jazz moderni,i suoi soli trascritti e studiati, le sue composizioni riedite con regolarità.

3.14 « Controindicazioni » e teoria della ’memoria remota’ 223

sono ’riusciti a creare un nucleo autonomo, differente anche dal jazz europeo eche generalmente si rifà maggiormente a quello americano’. 90 Esprime poi ilproprio apprezzamento per Maurizio Giammarco, Patrizia Scascitelli, ClaudioLo Cascio e Giorgio Gaslini perché’ fanno cose ’molto personali e soprattuttoautoctone’ (Castaldo 1976).

Sul piano delle strategie del commercio tra le cerchie ristrette del jazze quelle della produzione culturale in senso lato le implicazioni dei discorsiteorici di Schiano e Gaslini (le più sostenute e legittimate dalla stampa edalla critica) mostrano tutta la difficoltà di rapportarsi ad una richiesta didefinizione identitaria del senso e dell’appartenenza del nuovo jazz italiano: èevidente che l’esperienza afroamericana compete ad una minoranza oppressacon la quale è rischioso identificarsi. All’interno degli ambienti del jazz lecondizioni del fermento sociale e politico favoriscono il cristallizzarsi di un’ideacollettivista ma pochissimo elaborata sul piano teorico, che entra in conflittocon una tradizione artigianale e per definizione socialmente ’dominata’ delmestiere di musicista che non può che rapportarsi con difficoltà con questenuove idee. Mentre Gaslini privilegia l’approfondimento e la riflessione sullefuture sorti ’europee’ della musica di derivazione jazzistica, Schiano mettel’accento sul meridionalismo e sull’autonomia dei progetti poetici e politicidei nuovi arrivati.

Molti di loro sono già musicisti formati che non hanno nessuna prevenzioneverso il fatto di essere considerati musicisti di jazz, e confidano sulla loromusica e sull’apprezzamento del pubblico che comincia subito a notarli. Tradi essi molti romani come i già citati Massimo Urbani, Maurizio Giammarcoe Tommaso Vittorini, Roberto della Grotta. Altri, molto spesso provenientidal nord e dal centro, sono più orientati verso una idea europea di jazz e diimprovvisazione musicale: Gaetano Liguori, Guido Mazzon, Filippo Monico,Roberto Bellatalla. I gruppi di Liguori e Mazzon (come già era successo peril gruppo pop-jazz degli «Area»), esibiscono un approccio militante al jazz,salutano mostrando il pugno e hanno accesso alla distribuzione nell’ambitodei Festival Dell’Unità del nord e del centro.

Una terza componente, più decisamente ’autoctona’ e meridionalista èquella nella quale l’incontro di cultura internazionale e locale che ci si attendeall’epoca dal jazz italiano emergerà chiaramente dai titoli e dai programmi,come per i Cadmo (di Antonello Salis, Riccardo Lai e Mario Paliano, chenon escludono il rock ed il folklore sardo dalle loro fonti), ed i progetti della

90 Ci vorrà qualche anno prima che i musicisti italiani più giovani in questo periodoinizino a muoversi in Europa; per alcuni si tratta di un normale ampliamentodi contatti, per altri una vera e propria scelta di uscire dall’ambiente italiano.È anche vero che la maggioranza di essi (e specialmente dei romani) ignorassel’importanza del carattere ’autoctono’ sottolineato da Schiano e che fosse decisa-mente ’americanista’ in quanto intenta ad assimilare e a rapportarsi con i modelliamericani nella costruzione di un proprio stile personale trasversale alla distin-zione tra free e mainstream (si veda per questo il paragrafo dedicato a MassimoUrbani).

224 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

cerchia di Mario Schiano (Perdas de Fogu, Partenza di Pulecinella per la Lu-na). I sardi Cadmo sono oggetto di un particolare affetto per non essere degliscapigliati rampolli della borghesia, ma non per questo avranno vita facile.

3.15 Ancora modelli

Sono queste le cerchie che tengono gli americani più ’sullo sfondo’, ma qualiamericani? Quando si parla di ’americani’ in senso quasi denigratorio si inten-de molto spesso ’mainstream’ e tecnicismo. Alcuni tra i musicisti free avrannoun grosso impatto nella pratica musicale di tutti, uno di questi è il già citatoDon Cherry, molto seguito in italia sia per il suo sodalizio con Ornette Cole-man, sia come collaboratore di progetti quali quello della ’Liberation MusicOrchestra’ di Carlie Haden e Carla Bley, sia per i propri gruppi, che produco-no tra i dischi più popolari ed importanti di quegli anni. Conseguentementead un’idea della pratica musicale centrata sull’importanza del ’collettivo’ edella musica d’insieme, pochi sono i musicisti che perseguono un rapporto piùindividuale con la scoperta della propria musica sul modello Coltraniano. Siguarda di più alla musica di Cherry e Coleman, specialmente per aspetti diinsieme, di timbrica, di ritmica e di interazione tra gli strumenti. Le nuoveleve non si presentano da sole, nonostante la critica si interessi più ai singoli,si presentano in gruppo e pretendono rispetto per tutti, non solo per i piùbravi.

L’importanza del modello Colemaniano di ’Free Jazz’ è rimarcata dal-lo stesso Castaldo un anno dopo il festival di Penne in quanto modello diimprovvisazione collettiva che recupera lo spirito originale del jazz e come«...indicazione utile per i suoi possibili sviluppi più che per una sua delimita-zione nel tempo e nello spazio in cui è stato realizzato» (Castaldo 1976a:29).Argomento che dimostra che al concetto di ’memoria remota’ corrisponde unaelaborazione che tiene conto del problema del rapporto con i ’modelli’. AncheColeman, aveva preso le distanze dal jazz nella sua forma storica e dai terminidi inclusione di una subcultura che oramai era sempre meno comunicante conla società americana, ma che il mondo (e soprattutto l’Europa) erano dispo-sti ad ascoltare. Con Castaldo come interprete delle nuove tendenze del jazzitaliano manifestatesi a Penne e con Schiano quale animatore e organizzato-re ’meridionalista’, con una serie di gruppi molto attenti all’apporto passatoe presente di Coleman e Don Cherry 91 come quello di Mazzon, Liguori, iCadmo e lo stesso Schiano, possiamo identificare un settore di attività e ideeconvergenti, che non esauriscono di certo il movimento della nuova musicadegli anni ’70, ma che esercitano un influsso articolato e piuttosto coerente.91 Qualche anno prima, nel 1966 Don Cherry e Steve Lacy, Enrico Rava e Gato

Barbieri, avevano collaborato con Giorgio Gaslini all’incisione di ’New Feelings’,e si erano esibiti in diverse città, facendo una grossa impressione (Gaslini 1968:14);in seguito anche il Don Cherry di ’Brown Rice’ con Frank Lowe e Baby Somersavrà un notevole impatto in Italia.

3.15 Ancora modelli 225

Questo aspetto è molto importante perché dimostra un approccio di sele-zione entro materiali registrati più compatibili e ’servibili’ di altri. Nonostanteche il mettere un modello (’free’ o meno) al centro dei propri interessi signi-fichi molto di più che un rapporto con l’aspetto mediato della musica, è purvero che i musicisti sono essi stessi degli esperti di jazz. 92 Accade infatti chesi ascolti moltissima musica oltre che suonare.

Alcuni dischi vengono particolarmente presi di mira dai musicisti in lunghefasi di innamoramento e di studio, anche di un solo esecutore. Si ammette diavere ancora parecchio da imparare e si parte dal materiale sonoro attacca-to direttamente o con la mediazione della scrittura. Ma l’attenzione a quelloche accade nelle cerchie dei musicisti supera quella per il repertorio, questoè dimostrato da un riferimento non americano molto importante alle prati-che di Coleman e di Ayler: il trio composto dai sudafricani Mongezi Feza eJohnny Dyani e dal percussionista turco Okay Temiz (1972). I musicisti e gliorganizzatori che erano a Penne conoscevano questo gruppo attivo in Euro-pa e cercheranno di mettersi in contatto con queste cerchie di musicisti. Iltrombettista Mongezi Feza morirà prematuramente in circostanze drammati-che, ma il contrabbassista Dyani sarà in seguito piuttosto conosciuto e moltoapprezzato in Italia. 93

È certo che la ’consapevolezza politica’ di cui parla Schiano sia un fattoreale e unificante. A Penne il senso della proposta politica e culturale fu moltochiaro: tra i giovani di questo movimento non mancano le idee, tra cui laprincipale è quella di ’riprendersi il jazz’ dalle mani di un gruppo ristrettodi appassionati, e poi quella che almeno una parte delle risorse spese peravere ’gli americani’ in estate potrebbe essere spesa per sostenere loro stessi.Da questo festival passarono veramente tutti coloro che erano direttamente oindirettamente interessati al nuovo jazz italiano. Qui si iniziarono conoscenzeed amicizie che durano ancora. L’accento sul carattere collettivo dei progetti

92 Molti ricordano la capacità di Urbani di riconoscere a ’prima vista’ dal suonoun sassofonista, menzionata più volte nei racconti orali dei musicisti nella suabiografia (De Scipio 2002). Niente di impossibile, ma si parla di un musicistaintorno ai sedici anni di età.

93 La questione nazionale com’è formulata qui da Schiano e Castaldo inizia benpresto a stare stretta a molti. Nel corso della seconda metà degli anni ’70 lascena olandese e quella inglese cominciano ad esercitare un’attrazione crescentesui musicisti italiani ed alcuni festival di improvvisazione musicale aprono undiscorso di cosmopolitismo pan-europeo e mondiale che intende andare oltre iljazz. D’altra parte la pratica del ’match-making’, cioè di invitare un musicistaamericano o europeo di chiara fama come passaporto per la propria legittimazionesi fa pratica sempre più comune, sino a diventare abusata nelle cerchie del jazz siamainstream che free in Italia. Sulla disarmante ridondanza del curriculum scrittocontro ai meriti guadagnati sul campo si poteva ascoltare il seguente commento:« yes, he played with this..played with that ... maybe this and that did’nt playwith him »; da verificare quanto la traduzione italiana col verbo ’suonare’ inveceche ’to play’ si discosti dal modello.

226 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

spiega perché si parli di autoctono ’soprattutto’; e perché il ’personale’ ed ilcreativo sono categorie che non bastano. Si parla di esperienze ’autoctone’,valutandole in sostanza come tali perché esistono e perché se ne parla. Sitratta di un concetto dato per scontato, ridondante, non servono ulteriorispiegazioni.

Con budget ridotti si crea l’occasione affinché si ritrovino i ’ragazzi’, igiornalisti, gli organizzatori, i politici e i compagni. Si tratta di subcultureda mettere in contatto tra loro, che vengono a patti, piuttosto che il rispon-dere ad un diffuso interesse della società per le novità delle nuove tendenzegiovanili. Ma potrà (forse) interessare la scoperta che in qualche luogo nonsi pretenda né di fare la ’rivoluzione’ col rock né di accettare passivamentetutto quello che l’industria della musica avrà da mettere in campo. Ci sonoanche persone che vengono da stagioni precedenti del jazz, tra cui Claudio LoCascio, didatta e organizzatore instancabile di Palermo, l’attivissimo Gaslinidei cui orientamenti democratici e progressisti abbiamo già accennato, ed ilTorinese Enrico Rava, la cui attitudine culturale è una della più cosmopoliteche il jazz italiano possa vantare in quest’epoca. Infine c’è l’approvazione co-rale dello stesso Schiano, almeno in quanto ’portavoce’ e animatore dei primiesperimenti di ricezione della New Thing a Roma.

Anche musicisti molto ’americani’ per i materiali che usano in questi an-ni, come Giammarco, Scascitelli e Lo Cascio sono visti come ’autoctoni’ daSchiano. Sono ’autoctoni’, per ora, semplicemente perché sono bravi e perchéchiamati a far parte del discorso di fondazione di una nuova maniera di inten-dere e di praticare il jazz in Italia. Sono caratterizzati in questo modo anchein quanto musicisti ’meridionali’ e interessati a progetti di uso di materialifolklorici o a trattamenti jazzistici della tradizione musicale napoletana. 94 Inquesto spazio operativo, che si apre a sviluppi futuri, il senso di una correntesotterranea sempre presente nella cultura musicale italiana, che tende ora ariproporre nelle cerchie del jazz i grandi temi della identità italiana e dellaquestione meridionale. Non si tratta di un fatto secondario in quanto dopo ilpredominio del nord Italia nel consumo e nella produzione del jazz che da-tava dagli anni ’20, ora, con la generazione dei ’70 il sud è presente, attiral’attenzione ed intende dirigere il coro.

Almeno temporaneamente si pensa che non vi debba essere scissione traimprovvisatori e ’moderati’ del jazz, lasciando che restino sullo sfondo notevolidifferenze tra le proposte già presenti in questo periodo. Il discorso di Schianoè ecumenico e inclusivo, celebra con piacere la fine dell’epoca delle cerchieristrette, delle ’conventicole’ e dei loro pettegolezzi distruttivi. In realtà sistanno formando nuove conventicole e nuovi pettegolezzi. Tra cui quello checircola da tempo su di lui e che proviene dalle cerchie che guardavano già

94 In musica (e non solo) l’Italia chiede da tempo a Napoli di salvare la situazione.Un espediente ricorrente nelle introduzioni all’etnomusicologia di Diego Carpitellaconsisteva nel raccontare l’aneddoto dell’Italiano all’estero che viene invitato acantare qualcosa ’di italiano’ e che se la cava con la solita canzone napoletana.

3.15 Ancora modelli 227

con sufficienza alle esperienze del nuovo free: quello di non saper suonare ilproprio strumento e di non mostrare alcuna intenzione di impararlo. Schianoè sempre stato un musicista che usa lo strumento come mezzo e non comefine; per lui ’performance’ significa anche preparazione e organizzazione deglieventi, la tessitura della rete di rapporti che permettono che le cose accadano.Il suo riconoscimento attuale, da Penne in poi il suo ruolo di organizzatoreinfaticabile viene unanimemente accettato tra i musicisti, dimostra che c’èposto per lui in questa nuova situazione.

Infatti da questo periodo in poi Schiano inciderà una quantità veramen-te notevole di dischi. 95 Gino Castaldo nel corso dell’articolo che commental’incontro di Penne (1976a) si lamenta per il poco interesse dei produttoridi dischi in questo settore. In realtà si incide parecchio e bene: il produttoreAldo Sinesio, ha già 24 LP al suo attivo nella sua collana «Jazz a confronto».Sinesio inciderà moltissimo jazz italiano e costituirà un esempio unico di pro-duzione indipendente, coronato da iniziative memorabili, tra i quali le sue sueproduzioni con Sun Ra. 96

L’idea di ’autoctono’, così data per scontata, suggerisce delle osservazionisupplementari. Pare che abbia un fondamento vergognoso di sé: vale a dire,che sia proprio dinanzi ad una consapevolezza culturale e anche politica deigiovani di quegli anni, che è anche quella dei musicisti in quanto tali, che sidebba giustificare la ’distonia spaziale’ di fare il jazz qui e non in America. Èevidente che per loro si tratta di qualcosa che ha un profondo significato, 97 edinfatti non sono tanto loro quanto gli scrittori di jazz coloro ai quali competetracciare i limiti e marcare chi e che cosa è dentro o fuori da questa festa.Vale a dire chi definisce la materia da appropriarsi come ’un gergo musicaleche vive altrove’. Questo è quello che Castaldo (1976a) intende per jazz facile:’disimpegnato, d’imitazione, sterile’, e così via.

Non si tratta tanto di capire chi intenda colpire il linguaggio di Castaldo,senz’altro uno dei giornalisti più impegnati nella costruzione del nuovo jazzitaliano di quegli anni, forse la dolce vita romana in ritardo del Conte PepitoPignatelli e del suo Music Inn; oppure una certa tradizione di un ’cosmopoliti-

95 Una discografia di Mario Schiano completa ed esauriente è stata recentementepubblicata a cura di Francesco Martinelli (2000).

96 Si tratta di una incisione in quartetto per l’etichetta Horo e di due incisioni memo-rabili per l’etichetta Black Saint con l’intera Arkestra. Other Voices Other BluesHORO HDP 23-24, (Sun Ra-piano; Crumar Mainman-keyb; Michael Ray-tp; JohnGilmore-ts, perc; Luqman Ali-p), Horo Voice Studio, Roma 1/8 e 1/13/78. Delmeraviglioso Reflections in Blue, Black Saint 101, 120 101 (1987, LP and CD),registrato al Jingle Machine Studio, Milano, 12/18-19/86 e del non meno impor-tante Hours After, Black Saint 120 111 (1990, LP and CD), della stessa sedutad’incisione.

97 Ma il rischio che sfugga esiste: si veda per questo il paragrafo dedicato a MassimoUrbani.

228 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

smo casalingo’. 98 Si trattava di ambienti il cui ’gossip’ era qualcosa di temibileper ogni giovane leva.99 C’è senza dubbio la volontà cosciente di passare aduna fase di ’fabbricazione di una nuova tradizione’ nella quale le nuove levedebbono lottare duramente per farsi strada nella stampa ed il sostegno localeper contribuire alla trasformazione di tutta la cultura e la società italiane.

Per ora i nuovi musicisti possono essere descritti come ’compagni’, ’intel-ligenti e personali’, che fanno cose ’autoctone’ (Schiano in Castaldo 1976:20),in quanto raccolgono diffuse critiche ’identitarie’ alla massificazione dei con-sumi culturali e, se aderenti alle cerchie del jazz, coscienti del problema dello’spaesamento’ a cui si potrebbe andare incontro limitandosi a ’rubare’ il jazzdai dischi senza viverlo; ma tutto ciò rimane sullo sfondo, in realtà si pensa avivere, prima di tutto.

3.16 Concerto e poi dibattito (1971-77)

Per comprendere meglio il ruolo delle nuove cerchie del jazz negli anni 70 ènecessario fare un passo in più verso quella dimensione ulteriormente ’media’e più ampia nella quale si avanzano nuove interpretazioni e rappresentazionipubbliche dell’arte e dei consumi culturali, campo in cui musicisti inglesi delrock hanno cambiato le carte in tavola già da una decina d’anni. Si tenterà diripercorrere brevemente i passi di quel tempo, con le sue ’allucinanti’ inter-minabili discussioni nelle quali diversi tipi di musica venivano passati per ilfiltro dell’ideologia e nelle quali i diversi partiti a favore del pop e rock o deicantautori impegnati o del jazz si scontravano tra loro. Quello che aveva im-pressionato nel ’74 è che i giovani si erano dati appuntamento anche ai festivaldi jazz, decretando successi clamorosi ed inaspettati e altrettanto clamorosecontestazioni e che questo aveva persino spiazzato le aspettative di organiz-zatori e musicisti. Si trattava di domandarsi il perché di questo fenomeno,valutarlo, socializzarlo.

Leggendo gli articoli di Muzak, una rivista musicale veramente ‘popolare’e molto seguita dal pubblico giovanile dal ’73 al ’76, nella quale autori di di-versa formazione si sforzano di commentare e di fornire argomenti critici aiclamorosi, talvolta persino imbarazzanti successi di ogni manifestazione ‘po-polare’ dedicata alla musica, si possono isolare tre punti di vista abbastanzarappresentativi. Il primo, quello del citato Gino Castaldo, è quello di un gior-nalista che si dedica con impegno alla diffusione delle informazioni ‘di base’98 Quello del jazz ambientato nella provincia italiana del dopoguerra. ‘Jazz e taglia-

telle’ potrebbe essere la formula giornalistica da usare in questo caso; qualcosache il regista Pupi Avati cerca di raccontare (con notevole tempismo) nella suaserie televisiva Jazz-Band, dei primi anni ’80. della ricezione del jazz degli anni’50 e ’60, in cui, in Italia come in Francia, i musicisti americani si trovavano spessoad esibirsi con sezioni ritmiche locali, ed in cui alcuni tra i più ’cattivi’ di loroapprofittavano che alcuni medicinali fossero buoni da ’bucare’.

99 Alcuni tra i migliori solisti del gruppo dei romani sono dei ’borgatari’.

3.16 Concerto e poi dibattito (1971-77) 229

sul jazz: tendenze, dati biografici, presentazioni di opere e concetti della sto-ria di questa musica. Le sue posizioni politiche sembrano abbastanza vicinesia a quelle del Partito Radicale e di Stampa Alternativa che del PCI. Bru-no Mariani invece muove dal punto di visto del ‘dandy’ (Jamin e Williams2001:24-28) appassionato anello di trasmissione della ’passione’, la cui vitanon sarebbe la stessa senza il jazz. Mariani è un avvocato pisano vicino almovimento ed in particolare a Lotta Continua. 100 Nell’intento di colloquiaredirettamente con i giovani propone una analisi delle strategie esecutive della‘Premiata Forneria Marconi’, gruppo Rock Progressive italiano che ripercor-reva le vie di modelli inglesi molto diffusi come i King Crimson. La PremiataForneria Marconi estasiava i giovani del movimento con un mondo di suonie testi popolato di elfi e accompagnato dal mellotron (La ’Premiata’ era unodei pochi gruppi italiani a possedere questo strumento assurdo e costosissimo).Mariani riflette e descrive quello per cui impazziscono i giovani suggerendo diascoltare il Miles Davis di Bitches Brew e magari rifletterci un po’ su piutto-sto che il succedaneo ’rock progressivo’ (modellato su gruppi inglesi). InfineGiaime Pintor, 101 dell’area del Partito di Unità Proletaria (PDUP), uno deigruppi comunisti più presenti nella vita politica italiana, aperto alle correntitrotskiste, piccolo, ma con un certo seguito tra gli intellettuali e che ha avutospesso una propria rappresentanza parlamentare, oscillava tra indicare comebuoni per il movimento i cantautori politici (popolari) e alcune proposte delrock più avanzato come il gruppo degli Area, che intorno al 1974 aveva inclusoMassimo Urbani nel suo organico. Anche Pintor osservava che la società nonera pronta; ammetteva il significato positivo del nuovo interesse per il jazz(1978c, 1978d), ma concludeva che per essere politicamente corretto e noncostituire un rischio di ingresso di ‘americanismo e disimpegno’ strisciante,il jazz doveva essere preceduto da una seria crescita culturale e musicologicache non vedeva possibile nelle concrete condizioni della società italiana e delleistituzioni educative e culturali (1978:175).

Torniamo al clima degli anni immediatamente posteriori al ’68 ed alle im-petuose tendenze di mutamento sociale e culturale e di conflittualità socialee politica. Per quanto riguarda l’interesse dei giovani del movimento per lemanifestazioni musicali, le analisi socio-culturali più diffuse, tra cui quella diUmberto Eco, vi vedranno confermate le proprie tesi dell’avvento della cul-tura del consumismo e di una folla di nuovi media. Un segno dell’avvento

100 La presenza dell’avvocato Mariani su una rivista molto diffusa e ’di tendenza’dimostra che il tacito accordo sulla convenzione di legittimità culturale vigevaanche nel movimento. Nello stesso periodo Giancarlo ’Afo’ Sartori, operaio, eranella stessa città e nello stesso movimento politico colui che si impegnava più di-rettamente nel jazz con l’attività dei Circoli Ottobre (v. § 3.20, p. 244 e ’intervistaa Afo Sartori’ annesso A.1.4).

101 Va dato atto a Pintor di avere scritto tra i contributi più interessanti e sufficiente-mente distanziati dalle questioni che stavano accadendo, nonché di avere saputocogliere globalmente l’aspetto sociale, politico ed estetico di questa faticosa espesso creativa messa in fase tra nuovi consumi culturali e ideologie.

230 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

della ‘società di massa’ era già stato lo stupore per i ‘capelloni’, che andavadall’irridente e divertito tono ‘di costume’ delle pagine dei rotocalchi sino alvero e proprio orrore nei confronti dell’inaspettato ‘monstrum’. Anche alcuniappassionati di jazz tentano con ogni mezzo di polarizzare il disprezzo nei loroconfronti: nel 1968 un lettore di Ostia aveva inviato ad Arrigo Polillo una poe-sia dedicata ai ‘capelloni’ ed ai loro ‘chitarroni’. 102 Polillo si limita a notarecon garbo che la concezione metrica del lettore sia alquanto free, ma aggiungeprofeticamente che siamo solo agli inizi dello strapotere di questi fenomeni.Da lì a qualche anno invece il loro libertarismo avrà contro un’arma poten-te. L’Italia diventerà mercato e non solo luogo di transito per il commerciointernazionale di eroina, che rafforzerà sempre più le sue basi in Sicilia. Si in-comincerà a morire di overdose, sui giornali si inizierà a leggere di « capellonitrovati morti ».103

Sono tempi duri per le classi popolari. Nell’Italia ancora in buona partecontadina della metà degli anni ’60 si cominciava a non poter più distinguereun giovane di sinistra da uno di destra per il tipo di abbigliamento e per ilmodo di comportarsi. Che la massificazione cancelli una cultura secolare edelle modalità immediatamente sociali ed estetiche di porsi è ‘il problema’ sucui discutere, secondo Pier Paolo Pasolini.104 Nel 1973 un delitto efferato, ilcosiddetto delitto del Circeo, aveva scosso enormemente l’opinione pubblica.Tre giovani neofascisti dell’alta borghesia romana avevano violentato due ra-gazze provenienti dalle borgate ed ucciso une delle due; le modalità del lorooperato nefasto erano state subito paragonate a quanto si era visto nel filmA Clockwork Orange. Anche i figli del benessere debbono farsi ’da zero’ in unclima in cui le cose che contano avvengono tra loro, non è più questione di fa-miglie, partiti e parrocchie. Quelli del movimento vivono lunghe giornate fuoricasa per magari tornare a cena come degli estranei, considerano la musica co-me un ’affare di stato’, cosa mai vista prima. Però, scelte in apparenza solopersonali, come quella tra jazz e rock spiegano anche certe forme di resistenzaalle dinamiche di diffusione di un vuoto di cultura che favorisce il teppismoe le droghe pesanti. I ragazzi del jazz potrebbero avere un rapporto con lascuola meno conflittuale, storie e miti urbani da raccontare agli altri,105 e sesoccombono anch’essi all’eroina è perché le condizioni economiche e socialidella città e del loro quotidiano li fanno passare da ‘bravi compagni’ a consu-matori frustrati a spacciatori. Questo avviene nelle lunghe serate passate con

102 In Lettere al Direttore, «Musica Jazz», luglio 1968, p. 7.103 «Il Telegrafo» di giovedì 29 agosto 1974 titola ‘Capellone trovato morto a

Portoferraio’.104 Nei suoi film questo argomento ritorna in molti modi e forme differenti.105 Alimentandosi ad una mentalità già cambiata e attentissima alla cultura e alla

musica afroamericana. Il cantante e musicista napoletano Enzo Gragnaniello hadi recente raccontato in un programma radiofonico dell’impatto fortissimo delRhythm & Blues negli anni ’60, tanto grande da mettere per lui in ombra, pertanti anni, persino la grande tradizione musicale e vocale della propria città, cheha conosciuto in seguito.

3.17 Le interpretazioni ’a caldo’ del ’68 231

gli amici in città. Negli appartamenti tenuti dai ’ragazzi’ passa un numeroincredibile di persone.

3.17 Le interpretazioni ’a caldo’ del ’68

Dopo il ’68 i giovani affollano le piazze ed i concerti rock a ‘prezzo politico’,affollano e talvolta boicottano i grandi festival che li suppongono tutti ’figlidi papà’ con i soldi del biglietto in tasca, mentre essi ritengono che la musicasia un elemento vitale della propria formazione, non un diversivo. Per quantoriguarda il jazz si dice dalla parte più impegnata che si tratta di una ‘riap-propriazione’. L’elitarismo ed i numeri che i musicisti erano abituati a vederenegli anni ’60 salta e stupisce loro stessi. Ci troviamo di fronte ad afroamerica-ni che reagiscono a questo, alcuni si mostrano entusiasti e altri ostentano unamaggiore freddezza. Essi potranno comunque sostenere al ritorno da questeesperienze, che se la gente affolla i concerti dei Cream o dei Pink Floyd, amaggior ragione potrà affollarsi anche intorno alla loro musica.

Ma chi sono questi giovani? Una delle interpretazioni storiografiche piùaccreditate del movimento giovanile del ’68 in Italia è quella che vede unadelle cause della crisi giovanile in una scolarizzazione di massa in quanto ‘re-galo deregolato dalla nascita’ dello sviluppo capitalistico italiano alle classilavoratrici del paese. Fu Rossana Rossanda, pubblicista e simpatizzante colmovimento, appartenente ad un primo gruppo di intellettuali marxisti dissi-denti dal PCI e per anni direttrice del quotidiano comunista il Manifesto, aaprire la strada. Secondo Rossanda la scolarizzazione di massa in Italia valetta come un aspetto del processo dello sviluppo capitalistico che distruggel’immagine tradizionale ed il ruolo sociale dell’intellettuale. La memoria delcontadino e dell’operaio, le classi che affidano in numero sempre crescente iloro figli alla scuola, serve sempre meno a comprendere una realtà nella quale,chi era sino a ieri destinato ad essere forza lavoro operaia o contadina si trovaad essere un intellettuale

...che ora si scopre spossessato dei suoi tradizionali orpelli; ora si sco-pre, a milioni, proletario e diverso dal proletario, senza alcuna piat-taforma sociale sicura. Il meccanismo che lo ha portato all’universitàgliela sta chiudendo in faccia: non c’è spazio per una élite delle suedimensioni; alle porte o dentro l’istruzione superiore, sarà bruscamen-te ridimensionato. Esso vive la sua condizione come crisi e crisi è(Rossanda 1968 in De Bernardi e Madera 1996:303).

Questo filo rosso che segna la fine delle dinamiche tradizionali di mobilitàsociale del passato, è stato seguito dalle analisi storiche contemporaneisteseguenti (di storici quali Tranfaglia, Galli della Loggia, Novelli-Tranfaglia), conl’aggiunta di un giudizio molto pesante sulla capacità del sistema capitalisticoitaliano a presentarsi almeno con una ‘faccia decente’; si tratta di un sistemacaratterizzato della assoluta incapacità di programmazione.

232 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

La stupefacente continuità di atteggiamenti, di linguaggio, la ritualità del-le occupazioni scolastiche, mai terminate sino ad oggi, prima che far rifletteresull’aspetto consumistico dei simboli di cui si nutrono le generazioni giovanili(l’esito ‘gadget’ delle magliette con l’effigie di Che Guevara p.es.), rimandanoal fatto che il sistema della scuola pubblica e dell’università italiana ha inqualche modo ‘incorporato’ il ’68. È riuscito cioè ad includere e ad interpre-tare il problema strutturale della distanza tra formazione e collocazione dellaforza lavoro, e della continua ristrutturazione dell’industria e del terziario inuna corsa contro il tempo nella quale la scuola è sempre penalizzata. Nono-stante molte aperture, ancora oggi l’università e la scuola pubblica in Italia edin molti altri paesi europei sono ben lontane da un regime di ‘welfare state’ edalla capacità di essere realmente propositive rispetto al mercato del lavoro eal livello politico e amministrativo. La sua residua presentabilità è dovuta co-munque e principalmente al suo costituire lo spazio aperto al confronto criticoe alla crescita. La crisi del ’68 è costantemente ripresentificata in ogni momen-to in cui i giovani sono chiamati a esprimersi oggi come ieri in un quadro incui, dopo quasi quarant’anni, nessun problema sostanziale è stato risolto ed ilconflitto sociale semplicemente attutito o differito da un aumento complessivodel benessere delle classi medie. Scrivere la storia del ’68 resta difficile, per imotivi che Giovanni De Luna identificava vent’anni dopo, specialmente nellemodalità movimentiste della comunicazione e dell’interazione sociale. Prevalela comunicazione orale su quella scritta, un senso di interminabilità e di verae propria ricerca di instabilità che combatte ogni istituzionalizzazione vera opresunta, e infine l’irruzione della prassi e della quotidianità in una dimensionedella politica che sino ad allora era stata solo ’ideologia, pratica parlamentaree routine sindacale’. Dal ’68 e fino a buona parte degli 80 politica sarà ancheuna dimensione collettiva in cui si mangia insieme e si vive insieme (De Lunain AA.VV. 1989:21).

3.18 Autonomia della cultura giovanile e musica

Il potenziale antiautoritario e creativo di queste masse di giovani, che, conmolte differenze, vanno elaborando linguaggi tutto sommato comuni, favori-sce i consumi di musica. La funzione promozionale, il ruolo di ’apriporta’,dei grandi concerti delle stelle britanniche e americane della musica pop èevidente. L’industria discografica americana, in costante crescita dal primodopoguerra, raggiunge il picco massimo delle vendite nel 1978 con quattromiliardi di dollari, per perdere circa mezzo miliardo nel 1979, entrando in unafase di recessione che durerà sino al 1982, anno delle spettacolari vendite diThriller, di Michel Jackson (Dowd e Blyler 2002:95).

La ricezione della musica afroamericana aveva alle spalle un passato recen-te in cui negli anni ’50 e ’60 artisti afroamericani sia pop che jazz erano staticonosciuti in tutto il mondo. Negli anni ’70 il mercato discografico italiano siorienta sia a favorire i consumi di massa, sia ad identificare nicchie di mercato

3.18 Autonomia della cultura giovanile e musica 233

quale quella del jazz. Il consumo di jazz tende ad indicare un rapporto critica-mente evoluto, che presuppone una cultura musicale. Attorno agli scaffali deljazz si fermano a discutere vecchi e nuovi aficionado, ma tra i nuovi, i musicistisono la maggioranza.106 Si tratta di nicchie di dimensioni ragguardevoli, entrocui contemporaneamente emergono diverse etichette indipendenti che produ-cono musicisti sia italiani che americani. Le cerchie del jazz sono talmentecollegate ed informate da costituire un target in cui sperimentare le stessetecniche di marketing del pop, facendo seguire la produzione di dischi allapresenza nei festival estivi, 107 oppure a creare un senso di aspettativa intor-no ai primi lavori di giovani musicisti italiani con un minimo di investimentopubblicitario.

I consumi di musica si diffondono in modo massiccio e si vorrebbero bor-ghesemente autoreferenziali e sufficienti alla messa in atto di una rivoluzioneestetica e di comportamenti nel commento legittimo della stampa e della tele-visione. Per chi non ama gli sviluppi giovanilisti si può tollerare aspettando chesi sia ’diradato il polverone’. Ma quando la crescita dei mercati della musicasul piano della lotta politica viene messa in rapporto alle ’armi della reazione’,compresa una rapida ed efficace diffusione di mercati urbani di droga pesante,che il mercato sia da combattere, significa qualcosa di completamente diverso.Non ci vorrà molto tempo prima che i giovani proletari che combattono ’idrogati’ nei collettivi politici e nei servizi d’ordine dei movimenti extrapar-lamentari diventino spie della polizia e/o spacciatori in proprio. Questi fattiche metteranno profondamente in crisi il significato politico dei movimentinelle città sono subito avvertiti e discussi: si tratta della stessa strategia checancella il movimento dei Black Panthers. 108

Per quello che riguarda il dibattito sulla musica, si può dire che esso sidispiega significativamente nei movimenti, nei collettivi, al di fuori delle isti-tuzioni. Parte dalle esperienze di autogestione didattica del ’68, uscendo dal-l’università ma mantenendo la memoria dell’origine della ricerca di un dialogocoi lavoratori in quel grande momento di rinnovamento politico e culturale.Gli slogan del maggio ’68 parlavano il linguaggio della riappropriazione e loparleranno a lungo secondo termini di un discorso di lotta al consumismo (ri-prendiamoci il nostro corpo; riprendiamoci la musica; riprendiamoci il nostrotempo; vogliamo tutto e lo vogliamo subito). Il linguaggio della riappropria-zione, connesso ad istanze di liberazione ampiamente diffuse nella cultura e

106 Si veda per questo l’intervista a Mauro Grossi in annesso.107 Mi riferisco nel primo caso all’uscita di due album di Charlie Mingus intitolati

Changes (vol I e II), con vendite paragonabili a produzioni del pop inglese e nelsecondo al caso di Cile Libero, Cile Rosso di Gaetano Liguori.

108 Oggi la versione più diffusa, di quello che accade nel contempo negli Stati Uniti,è che la crescita dei consumi, nonché le politiche sociali in favore dell’accesso allavoro e alla scolarizzazione, in una parola il welfare ed i consumi decideranno diuna crescita dei ceti medi afroamericani che metterà fuori gioco le istanze degliattori sociali più politicizzati e più noti in Europa (v. la discussione dell’analisidi H.L. Gates Jr., p. 252 e sgg.).

234 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

nella società, non può che incoraggiare la pratica musicale autonoma, controalla passività dei consumo acritico e passivo dei prodotti della ’pop music’.Questa è la questione centrale che percorre il discorso sul jazz e la musicaimprovvisata nel corso degli anni ’70, facendosi più determinato nei cinqueanni che vanno dal 1973 al 1978.

Nel famoso giornale uderground « Re Nudo » (n. 9 1971) si leggono arti-coli quali ‘il Maggio non è morto: ricostruzione del movimento’, si parla delfestival di Ballabio in cui viene ’sputtanato’ il gruppo rock genovese dei NewTrolls per aver cavalcato (male) il movimentismo, ma dove Carlos Santanaha un grande successo (sarà poi contestato a sua volta nel 1977). Si parla di’circuiti alternativi’ sino alla metà degli anni ’70. Il movimento non emargina,ma accoglie, sia chi pratica il folklore italiano con mezzi nuovi e vicini al jazz(lo fa il Canzoniere del Lazio) che la più nuda canzone politica. Paolo Pie-trangeli è al Centro Controculturale Re Nudo di Milano, (1972, n. 16). AnchePino Masi, menestrello di Lotta Continua, correrà verso Re Nudo mediandotra comunisti e hippies. Eppure questi cantanti politici (duri, propensi all’o-ratoria e con barba ed eskimo) hanno un certo sentore di spie della poliziaper molti altri giovani che li osservano, forse proprio per l’eccessiva volontàdi ‘rappresentare’ direttamente l’impegno politico nella canzone. In un cer-to senso si può dire che alcuni modelli di vigilanza, di convenzioni sociali di‘condivisione’ del quotidiano, e dell’interesse per la musica originate dal ’68si siano cristallizzate in modi riproducibili secondo processi che è difficile sto-ricizzare. Sarebbe comunque molto difficile concepire quell’uso della musicache De Nora (1999) definisce come ’tecnologia del sé’ facendo astrazione daicambiamenti che questo periodo introduce nel rapporto tra pubblico e musicain tante parti del mondo.

3.18.1 Sulla periodizzazione 71-75

La risposta italiana alla pop music e la ricezione del jazz negli anni ’70 pos-sono essere visti come due aspetti dello stesso fenomeno. Tutti gli arrivi deigrandi esponenti della pop music e del jazz dal 1971 al 1975 e le risposte diiniziative alternative, hanno una rilevanza centrale perché permettono di mi-surare un tipo di risposta culturale e sociale che si articola con la strategia diadattamento più compatibile all’apertura di nuovi o ’potenziali’ mercati dellecerchie più ampie della produzione. Giaime Pintor è molto chiaro su questomentre ragiona ’a caldo’ (1978e[1974]), e a posteriori (1978a), sulla ricezionedel pop in Italia.

La parte più gramsciana della riflessione di Pintor vede le correlazioni trasocietà e fenomeni nuovi di interazione delle masse con la cultura e l’industriaculturale come un processo di adeguamento reciproco e non come apodittico’rispecchiamento’. In questa ottica e non in una pura analisi ideologica va vi-sta la sua periodizzazione delle manifestazioni di dissenso, talvolta violento,che si verificava nei concerti dei privati e nei festival organizzati dal movi-mento. E nemmeno si tratterebbe di una fagocitatrice industria culturale a

3.18 Autonomia della cultura giovanile e musica 235

oggettificare le masse giovanili come preda di mercato con l’aiuto dell’intos-sicazione delle droghe. Anzi proprio le droghe leggere (marjuana e hashish)sono diretti ingredienti (1978e:73) di un ’calore’ che avvolge la produzione econtribuisce anche a creare nello spettatore quell’effetto di straniamento chepermette, paradossalmente, una diversa e più intensa partecipazione all’even-to musicale che avviene ’qui ed ora’. Il ’rispecchiamento’ (op. cit., pp. 66-68)è inteso da Pintor come contributo di interi gruppi di ascoltatori (e rispetti-ve classi sociali) in quanto partecipazione simultanea e creativa nel prodursidell’evento.

Ma questa idea di rispecchiamento significa per la musica pop, riconoscereil discrimine tra successo e insuccesso nel momento di adeguamento di pubbli-co e musicisti che si articola intorno ad una prassi dell’essere. In questo sensoi momenti di in cui tale adeguamento fallisce sono altamente significativi dirisposte sociali che inventano nuovi modelli di partecipazione. 109 Non di-versamente andrebbero interpretate le reazioni opposte agli attesi concerti diCarlos Santana e di Lou Reed, il primo (quasi) sempre acclamato in Italia, edil secondo contestato in modo clamoroso. Oppure ad assistere al ricevimentodei New Trolls e di Alan Sorrenti. Il secondo, un personaggio che si costruivain quegli anni come ’figlio delle stelle’ fu ricevuto con un concerto di barattolidi latta e altri materiali percossi dal pubblico, seguito da una catartica danzagenerale in costume adamitico al Festival di Licola della sinistra giovanile del1975 (Dessi 1976, Pintor 1978a:108). A questi fenomeni si aggiungeranno lerimostranze contro i musicisti di jazz ’bianchi’ o ’negri-bianchi’, ma esse sonoparte di un processo che col jazz in quanto tale ha a vedere in modo mediato,rispondendo più ad una certa tensione generale di adeguamento ad un fenome-no nuovo. Le contestazioni si appuntano sull’accusa di sfruttare la dimensionepolitica in funzione commerciale: l’ultima (e la più tardiva) si verifica nel 1977al Palalido di Milano, nei confronti di Francesco De Gregori che abbandonala scena per due anni.

Si trattava di superare il limite dello stucchevole nel supporre i rapportitra società e cultura tali da dover esibire il paradosso che anche se l’industriaculturale fosse una produttrice di sola ’spazzatura’ come si spiega che la so-cietà risponde creando il tipo di pubblico incaricato di ’consumarla’? D’altrocanto, mentre dai giovani si propaga nella società italiana una vera e propriarivoluzione sessuale, la televisione di stato risponde con l’ombelico scoperto(ad uso delle famiglie) della giovane soubrette Raffaella Carrà. Per GiaimePintor assistere a queste dinamiche significa coglierne il significato epocale,storico. Un motivo in più per ridiscutere la teoria marxista dei rapporti trastruttura e sovrastruttura senza sottrarsi ad una visione non sprovveduta degliaspetti sociologici della transizione italiana.

109 Il primo di questi eventi fu una carica completamente ingiustificata della poliziaal concerto dei Led Zeppelin al velodromo Vigorelli di Milano nel 1971. Nel 1975finisce sia la stagione dei grandi concerti pop (con le contestazioni a Lou Reed)che quella delle feste alternative con Licola e il Parco Lambro di Milano.

236 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

Da una parte il discorso politico del movimento esprime spesso il timore(non senza ragione) che le premesse del ’68 vadano a confluire in un diluvio di‘massificazione’ e di acculturazione alle mode della ’popular music’ anglosas-sone. Alcune tra le voci di protesta rispetto a questa tendenza generale sonoquelle che puntano ad una attività musicale che le masse possano comprende-re e puntano alla musica popolare italiana o alla produzione dei cantautori.Torna alla ribalta la questione della cultura nazionale: si tratta qui di defini-re che cosa sia veramente progressista in arte e comprensibile alle masse inquesto clima politico, un clima in cui il PCI è il più grande partito comunistad’Europa, ma sta perdendo il consenso sia di parte della base che di molti in-tellettuali. Il movimento giovanile lo critica ‘da sinistra’ come critica i partitiin generale, la carenza di democrazia delle loro strutture, le mancate apertureche consentano loro di comprendere attraverso e coi giovani (nelle loro ema-nazioni giovanili fanno l’apprendistato i futuri quadri di partito) i profondimutamenti che stanno scuotendo la società italiana. È evidente che mentre lecontroculture emergono e si scontrano sia in corso un processo di concentra-zione dell’industria culturale (Forgacs 2000). Si incrociano i piani multipli distrategie attivistiche e politiche su tempi brevi ed una risposta su tempi piùlunghi. Nel 1973 il colpo di stato in Cile fu percepito come un avvenimentoprossimo all’opinione pubblica italiana, in un modo che sembrerebbe oggi im-pensabile. Non solo era legittimo attendersi che quello che accadeva al Cilepotesse succedere anche in Italia, ma c’era la percezione di una connessionee di una affinità culturale profonda tra i due emisferi del del mondo ‘latino’che viene a mancare in seguito. Questo riposizionamento sarà facilitato daldiluvio della ricezione e del consumo delle tendenze anglosassoni delle modemusicali.

In questa situazione il dibattito sul ’folk revival’ (militante o meno) rap-presenta l’unica discussione non costretta dalle logiche da cerchia ristrettaa non iniziare nemmeno per immediate e interminabili polemiche. Vi parte-cipano voci autorevoli, come quelle degli etnomusicologi Diego Carpitella eRoberto Leydi, che sono anche due osservatori attenti delle vicende della rice-zione del jazz nel dopoguerra. Carpitella, secondo quella che sarà una costantedel suo pensiero, distinguerà tra un revival passivo e uno cosciente: il primocome il recupero dei canzonieri politici della storia del movimento operaio edei circoli di amatori e il secondo rappresentato dalle nuove produzioni fon-date su una ricerca matura delle fonti della musica popolare italiana (1973a).Contribuirà a mettere a fuoco i rapporti controversi tra blues ed il jazz, sotto-lineando l’importanza del movimento di revival folklorico del blues negli StatiUniti sulla percezione del jazz contemporaneo (1974:74-80). Si limiterà qual-che anno dopo, con il garbo che lo contraddistingue, a avanzare i suoi dubbisull’esperienza alienante di trovarsi alle prese coi modelli del jazz nell’Italiadegli anni ’70 (1978). Nella prima parte del decennio, lo si è visto, prenderàposizione a fianco della Nuova Compagnia di Canto Popolare e di Roberto DeSimone, i quali praticheranno una ricerca evoluta sul piano filologico e teatralesulla musica antica napoletana e su quella delle ‘fasce folkloriche’ dell’Italia

3.18 Autonomia della cultura giovanile e musica 237

Meridionale (Carpitella 1976). In questo contesto, nel 1976, a Carpitella saràconferita la prima cattedra di Etnomusicologia all’Università la Sapienza diRoma.

Eppure, pur auspicando l’ingresso delle questioni sociali e politiche nellavalutazione e nella produzione della musica, supportando il free e le propostepiù ardite degli improvvisatori ’totali’ o il teatro e la filologia della NuovaCompagnia di Canto Popolare, pare manchi la volontà o addirittura il tempodi parlare di questa società. Eppure molta della letteratura di argomentojazzistico aveva già tentato di restituire un complesso intreccio di vicendeumane, di connessioni tra musicisti ed il mondo in cui vivono, di tracciare unamappa di ambienti assente dalla scrittura sulla musica di questi anni, spessoscientistica e sentenziosa. Fino all’uscita del libro di Adriano Mazzoletti suljazz in Italia (1983) nessuno pare interessato al fatto che il jazz non inizi daoggi a circolare nel paese.

3.18.2 I giovani in persona

Chi intendiamo per i nuovi musicisti degli anni ’70? Si tratta di un gruppodi persone vicine ai vent’anni, spesso non li hanno raggiunti ancora, i quali,fatto il proprio apprendistato tra i gruppi rock ed eventualmente nelle baleredel quartiere o del paese, 110 decidono di uscire dalla logica sociale che vorràvederli lasciare la musica e mettere su famiglia e di puntare tutto sulla musica,trovando incoraggiamento nelle cerchie dei propri coetanei e degli appassiona-ti. In questo senso è necessario un passaggio da qualsiasi provincia e periferiaai centri in cui il movimento costituisce per loro uno spazio privilegiato disocializzazione e di autonomia. Tra i musicisti che verso la metà degli anni ’70erano già in grado di suonare qualcosa di interessante e che poi hanno seguitostrade orientamenti e poetiche diverse, si intende qui un gruppo che è statoabbastanza intensamente in contatto, almeno nel corso del decennio che vadalla metà dei ’70 a quella degli ’80. Si tratta di persone di estrazione per lopiù borghese o piccolo-borghese, con notevoli eccezioni.

A Roma: Massimo Urbani, il batterista Giampaolo Ascolese, la pianistaPatrizia Scascitelli ed il contrabbasista Roberto della Grotta, i sassofonistiGiancarlo Maurino (poi per molti anni con l’orchestra di Peppino di Capri),Tommaso Vittorini, Maurizio Giammarco, Eugenio Colombo, il trombonistaDanilo Terenzi, il contrabbassista Bruno Tommaso, il pianista Enrico Piera-nunzi, il gruppo dei Cadmo (proveniente dalla Sardegna) col panista AntonelloSalis, il bassista Riccardo Lai ed il batterista Mario Paliano, il flautista NicolaStilo, il sassofonista Mario Schiano che è di una generazione precedente, ma

110 L’entrata dei gruppi rock nello spazio sociale della ’balera’ in questo periodomeriterebbe un capitolo a parte: il ballo dopolavoristico diventa semi-spettacolorock popolato da giovani studenti, lavoratori e disoccupati dove non si ballavapiù, ma si iniziavano a celebrare i musicisti più capaci di ’rifare’ i modelli inglesi,americani e nazionali del rock.

238 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

che negli anni ’70 conosce una stagione particolarmente attiva sul piano mu-sicale ed organizzativo. Il gruppo del ‘Perigeo’ guidato dal batterista BrunoBiriaco e dal sassofonista Fasoli. A Milano il pianista Luciano Liguori ed il suotrio col batterista Toni Rusconi ed il pisano Roberto Bellatalla, il trombetti-sta Guido Mazzon ed il sassofonista Daniele Cavallanti, il batterista FilippoMonico, il pianista Riccardo Fassi, a Torino i fratelli Furio e Marco di Castri(rispettivamente bassista e chitarista e sassofonista), il sassofonista Enzo Ca-rabetta, il sassofonista e clarinettista Actis Dato, oltre al trombettista EnricoRava. Rava è della generazione di coloro che nel ’68 erano già maturi e cherisponde al clima dei ’70, in quel periodo Rava viveva a New York e partecipa-va alla scena locale da una posizione privilegiata. La produzione musicale diquesti anni di Enrico Rava è molto interessante per la notevole diversità conquella delle nuove leve. In questo stesso senso è anche interessante comparareil tipo di interessi in questi anni di musicisti già attivi da tempo come LuigiTrovesi, Giancarlo Schiaffini, Giovanni Tommaso.

Unitamente a questo gruppo, che non intende essere esaustivo, ma cheindica solamente alcune figure e gruppi di riferimento, vi sono tutti i gruppilocali che erano in contatto con i musicisti attivi nelle città più importanti.111In generale, buoni o discreti musicisti coetanei di questa generazione e chesi sentivano già limitati nelle cerchie giovanili e amatoriali del rock, eranopresenti in tutta la penisola ed erano molto interessati alle sorti di un nuovojazz in mano ai ‘giovani’.

Analogamente a quanto accade oggi nell’ambito di altre cerchie di produ-zione musicale che interessano più direttamente le culture giovanili, la presenzadi gruppi interessanti nella propria città o nelle vicinanze faceva sì che tutti imusicisti locali si recassero ad incontrare gli amici, i colleghi, i maestri, quelliche ammiravano e che tenevano d’occhio. Si può dire per questo i problemi dilogistica fossero in molti casi eliminati, cioè che le tournées fossero veramentealtro dal solitario andare in albergo e ripartire poco dopo: spesso i musicistivenivano dirottati da amici e sostenitori a casa loro, in situazioni nelle qua-li si teneva molto a far sì che uno si sentisse come a casa propria, potessecontinuare a vivere come a casa, mangiare casalingo, conoscere persone sevoleva, andarsene in giro in città o in campagna, ecc. Si può dire che c’eraun certo grado di serietà e di impegno nel comportarsi ‘come fratelli’. Si puòanche considerare la rete dei contatti e delle attività di questi musicisti comeun certo tipo di ‘subcultura’ intesa come gruppo di persone particolarmenteinteressate alla diffusione del jazz in quanto parte di un progetto culturale e

111 Per citare solo qualcuno tra quelli che conosco meglio, a Firenze il SassofonistaEdoardo Ricci e a Pisa, il citato Roberto Bellatalla (che inizia la sua carrieracon Guido Mazzon e Gaetano Liguori a Milano, in seguito impegnato in unalunga stagione a fianco di musicisti inglesi vicini alle esperienze del jazz-rock edel progressive come Elton Dean e Nick Evans e poi con la diaspora sudafricanaa Londra nei VivaLaBlack di Louis Moholo), i Batteristi Stefano Bambini e chiscrive, il chitarrista Eugenio Sanna.

3.19 « Max », alias Massimo Urbani 239

politico più ampio. 112 Almeno agli inizi e molto meno in seguito, nel corso dei70, gli sforzi volti alla distribuzione dei musicisti più giovani erano compiutida circoli fortemente connotati sul piano politico, direttamente o meno. Inaltre parole, la sinistra movimentista si è accorta immediatamente di giovanimusicisti e gruppi di sostegno che ’lavoravano sul jazz’ nell’Italia dei primi an-ni ’70 ed ha in qualche modo cercato di appropriarsi dei loro sforzi. Molti deimusicisti menzionati sopra, si presentavano a suonare con l’eskimo, ma pochisi facevano prendere da un discorso troppo semplice di ‘rispecchiamento’ tramusica e politica.

Questo nuovo tipo di irruzione del (e ’nel’) jazz è stato visto retrospet-tivamente da molti musicisti e osservatori come un impedimento, come unastrumentalizzazione ideologica che ha rallentato e magari sviato un maggio-re radicamento nel tessuto sociale e ostacolato una crescita complessiva dellacultura musicale. Una posizione che è riconoscibile in diverse prese di posizio-ne dei critici più importanti sulla scena italiana. Franco Fayenz si compiacerànel 1981 che «il polverone» del ’68 «si sia diradato» (Fayenz 1981). Ma comeabbiamo visto nella ’presa di distanza’ di questi nuovi musicisti c’è dell’altro,non si può spiegarla, sebbene possa risultare molto comodo a posteriori, conun clima ed un ambiente ideologico e politico che li faceva ’ribelli e asociali’,o perfino ’professionalmente suicidi’ nel modo di affrontare il mestiere dellamusica.

Si tratta di capire i termini delle loro risposte ai cambiamenti e alle aspi-razioni di tutta la società e del loro modo di interpretarle. Una delle questionicentrali è quella di nascere (tutti indistintamente) come musicisti suonandorock e le sue diverse etichettature o ryhthm and blues, fatto che li ha costrettia fare i conti da subito e per tutto il resto della loro vita con l’uscita dalcalderone della medietà, col problema di diventare musicisti ’veri’.

3.19 « Max », alias Massimo Urbani

La vicenda del sassofonista Massimo Urbani compare in un libro che si pre-senta come tributo alla sua memoria dei musicisti italiani, della cerchia deiparenti, di conoscenti, amici e organizzatori (De Scipio 2002). Un libro che pro-pone una raccolta di narrazioni colte all’indomani della sua scomparsa. Qui èpossibile cogliere le prospettive di una rete di rapporti e di progetti. Torna il’patto biografico’ del jazz, alla maniera di Spina e Mazzoletti (Mazzoletti 1983,2004), da cui sono esclusi programmaticamente i critici, per quanto essi sonostati assenti ’durante tutto l’arco della sua immensa vita’ (De Scipio 2002:3).Ecco l’unico filo conduttore di una storia possibile: un racconto a più voci,

112 Certo che la comunanza di interessi motiva di più il sostegno reciproco e un certotipo di ’vicinanza’; è pur vero che per decenni in Italia (direi dal ’68 alla fine deglianni ’80), giovani di tutte le nazionalità e italiani hanno potuto viaggiare per lapenisola con pochi o pochissimi soldi, contando sulla ’normale’ solidarietà dei lorocoetanei. Qualcosa di impensabile oggi.

240 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

proprio come si è sviluppato talvolta nei libri sul jazz americano. Un raccontoche abbraccia una temporalità cruciale per le rappresentazioni dell’America,del ruolo degli afroamericani nel jazz e del farsi di gruppi sempre più ampidi musicisti operanti in tutto il paese. I frammenti, spesso stringati, riportan-ti un discorso diretto e tematizzati per capitoli, paiono fermare le immagininelle menti dei musicisti che lo hanno conosciuto alle quali si aggiungono ri-flessioni e interpretazioni personali. Il racconto è capace di aprire la visuale suun mondo di intenti e sentimenti comuni, notevolmente diversificato quanto apercorsi, luoghi e argomenti. Massimo è posto al centro dello spazio ideale esimbolico nella casa popolare della borgata dove ha vissuto la maggior partedella sua vita coi genitori e i fratelli; da qui si dipana una rete sempre più fittadi contatti, esperienze e riferimenti che si espandono fino ad un ridimensio-namento lavorativo che coincide col circolare delle voci secondo cui Massimodiventava sempre meno affidabile professionalmente e non riusciva a fare piùfronte a quello che il suo ruolo richiedeva. La sua morte per collasso (avvenutanel giugno 1993 e lungamente paventata per il suo lungo rapporto con l’eroi-na) avviene in una situazione in cui non è più alla ribalta del jazz in Italia.Massimo non ha mai economizzato, ha sempre avuto bisogno di soldi per sé eper la famiglia, quando ne ha avuti ne ha sperperati parecchi, ha una moglieed un figlio in tenerissima età, si è ritirato in casa propria, ma ha subito unamarginalizzazione feroce. All’indomani della sua morte la moglie rischierà laperdita della potestà sul figlio e l’affidamento ai servizi sociali. I racconti deimusicisti, sebbene sinceri e toccanti, rivelano un elemento ambiguo nella lorocoscienza delle invisibili barriere che si erano venute creando tra loro e il loromaestro, amico, fratello e compagno di strada, ora che l’evocazione del passatone mostra il carattere contraddittorio. Massimo poteva suonare il blues: l’haconosciuto per tutta la vita.

Nel libro si sono dati appuntamento ed intesi i musicisti che hanno cono-sciuto meglio Max: i romani in particolare, spesso conosciuti nel quartiere edalla famiglia, ma anche quelli di altre città: Torino, per esempio, dove Mas-simo veniva chiamato agli inizi della propria carriera e dove era conosciutoe sostenuto per quanto possibile. 113 Dal vivere presto i giorni del farsi dellapropria musica in modo maturo, senza preoccupazioni e senza la famiglia in-torno (di cui aveva poi nostalgia); a Torino emerge la laconica constatazionedi Massimo che il jazz non può andare bene in una città di impiegati comeRoma (op. cit., p. 36).

’Suonare tutti i giorni’ (p. 52) consolidare i propri mezzi, connettersi auna tradizione, fare posto al futuro. Di questo c’è una profonda sicurezza. Mac’è anche il contrario. La Roma che portava ancora qualche segno di ’dolcevita’ che aveva attratto Steve Lacy e Chet Baker, Gato Barbieri e Don Cherryqualche anno prima non esiste più. La pratica del jazz non basta a far uscire

113 All’indomani della morte di Urbani è stato organizzato a Torino un ’concerto free’al quale ha partecipato un gran numero di musicisti e in cui è stata lanciata unasottoscrizione in favore della moglie e del figlio.

3.19 « Max », alias Massimo Urbani 241

Massimo da un quotidiano che lo penalizza, resta intrappolato nella vita diquartiere (cosa fatale nell’opinione molti colleghi) in un quotidiano che lo li-mita, non riuscendo o non intendendo staccarsi dalla vita in famiglia. MezzaItalia lo conosce e lo ammira, ma il capitale sociale acquisito non è sufficiente,o non riesce o non basta a convertirsi in indipendenza economica e di movi-mento, prima, e in quella crescita che significa autonomia e progettualità perun musicista maturo, poi. Urbani è visto come ’grande’ e ragazzo prodigio agliinizi della sua carriera e resta tale. Così gli inconvenienti maggiori sono quellidi tanti altri: il suo coinvolgimento con gli stupefacenti non ha nulla di eroico.Massimo Urbani non è stato mai un mito negativo. Essere un ‘bastardo’ nonera parte del suo essenziale, anche se poteva capitare che si trovasse in diffi-coltà. Conosceva un numero incredibile di persone in tutte le città d’Italia ele ricordava tutte o quasi, era capace di incontrare qualcuno dopo anni e diparlargli come se si trovassero ogni giorno al bar. 114 Il suo coinvolgimento conle droghe rientrava in quella parte della sua personalità che lo poneva come fi-gura capace di muoversi in ambienti molto diversi, di superare barriere socialimolto strette e in definiva di porsi come personaggio unico, innovatore tout-court, come una di quelle persone che introducono anche dei modi di esseree di parlare all’intersezione di determinate cerchie sociali. Chiama i musicistiman, e prosegue in romanesco. Il suo dandysmo comprende certamente ancheil suo rapporto con l’eroina. Ma forse più che l’eroina l’«essere Max», un mitovivente, è stata la costrizione e la stessa forza di Massimo Urbani. Borgataroe ’coatto’ (in romanesco), ma premiato come erede di Parker e come migliormusicista italiano, dunque eroe e punto di riferimento, ’nero’ e ’americano’di elezione e per affinità spirituale. La sua presa di distanza più immediata-mente chiara è quella dalle cerchie più intellettualistiche, pretenziosamente efalsamente ’jazz’.115

Ma nonostante la sua forza ed intelligenza, che lo fa entrare trionfalmentenelle cerchie nazionali della produzione e che gli suggerisce ben presto in chemodo indirizzare le proprie capacità ed il suo grande talento, deve conviverecon problemi sociali, resi più stringenti nel progressivo chiudersi di quell’ap-proccio corale e di quel sostegno diffuso che veniva ai musicisti nella societàdegli anni ’70 dalle cerchie dei giovani e del movimento, e non solo da loro. 116

114 Massimo ricordava benissimo e aveva un affetto e un rispetto particolare perle persone che aveva conosciuto quando era la promessa diciassettenne del jazzitaliano. Se ne trovava uno ad un concerto in cui rischiava di trovarsi poi inalbergo da solo, oppure con musicisti la cui compagnia non lo coinvolgeva più ditanto, preferiva lasciare l’albergo e passare la nottata dagli amici (comunicazionepersonale di Fabio Pellegrini).

115 Nel linguaggio di Massimo Urbani ’jazz’ era spesso un aggettivo, dato che granparte della sua vità è stata spesa per mostrare che cosa era ’jazz’ e che cosa nonlo era.

116 Il fratello Maurizio racconta: ’Giravamo senza una lira ma avevamo tutto. Mas-simo entrava e faceva due note e c’era da mangiare e da dormire, incredibile.Quando suonava era la luce’ (Urbani in De Scipio 2002:26).

242 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

Lamenta la mancanza delle sicurezze della teoria, del poter suonare in modi eambienti diversi, degli strumenti necessari alla composizione e alla direzionedei gruppi, del riuscire a far fronte ad un mercato via via più diversificato esempre più condizionante. 117

Il momento di Massimo era il tempo presente, la decisione, quello per ilquale era conosciuto, era vincere le paure, il buttarsi in una impresa,118 laprova di ’autenticità’ della sua musica e del suo personaggio.

Per questo diventa un musicista adorato da moltissimi altri. Se talvoltaquesti non rinunciano a pregarlo di calmarsi e cercare di amministrarsi meglioproprio per il valore della sua musica, come a dirgli: ’fallo per noi’, lui rispondevedendosi già morto ’[...] vorrei che si ricordassero di me [...] ricordatevi ditutto l’amore che ho dato ai musicisti’. 119

Che Urbani avesse persino il ’dovere’ di essere così si capisce anche ripen-sando ai tempi e all’ambiente in cui è vissuto, ma c’era una corrispondenza

117 Elemento di notevole importanza per ripensare l’approccio al jazz delle cerchie chehanno spinto maggiormente la carriera di Massimo Urbani nella prima metà deglianni settanta, è chiedersi che cosa ci si aspettava da loro; bisogna tenere presenteche una serie di radio private movimentiste e aperte alla new music sceglievanola poesia ’free’ di Albert Ayler come modello capace di rappresentare meglio iloro intenti e i loro metodi. Così per Radio Alice a Bologna, la più famosa delleradio indipendenti (chiusa per legge e con un massiccio intervento militarizzatonel 1979). Esperienze simili venivano disseminate sino alla più remota provinciaitaliana. La valutazione di quel periodo, oggi curiosamente lontano e vicino nellostesso tempo, senza dubbio importantissimo per comprendere il presente, va da unapproccio di ricostruzione, di testimonianza e di dibattito nel canale radiofonicoculturale, fino all’oltraggio all’intelligenza, nella definizione del ’68 quale ’ultimastupida illusione’ nei programmi di storia televisiva (Programma Rai 3 dedicatoal papato di Paolo VI, 22/07/2004).

118 Ricordo di averlo incontrato per l’ultima volta in un bar di Civitavecchia, neipressi di un teatro in cui tutti i musicisti italiani di jazz stavano tenendo unaassemblea associativa (doveva essere il 1988). Io al tempo abitavo a Roma estudiavo etnomusicologia all’università. Ricordo che terminammo la conversazionecon un curioso esempio di Massimo che mi mostrava la sua collocazione con unCampari soda (lo storico aperitivo di colore rosso) l’icona-indice del livello dellasua presa di distanza dal mondo. Probabilmente Massimo avvertiva che non erosoddisfatto della mia auto-esclusione dall’assemblea, nella quale mi consideravoun uditore esterno e che dentro di me avrei voluto essere come gli altri, che,ripetevano con piglio sindacale il loro maturato diritto a maggiori riconoscimenti,finanziamenti, scuole, posti di lavoro. Massimo per un momento mi ipnotizzò colsuo bicchiere di Campari, portandomi in un altro mondo, parlandomi col suoinimitabile tono confidenziale. Già quello che era in grado di dare alle persone simisurava su tempi lunghi e sulle questioni essenziali.

119 Si evidenzia da qui la coscienza di Urbani di svolgere un operato rivolto in massimaparte a motivare e sostenere più che a ’educare’ le cerchie della produzione deljazz in Italia, confermato dall’analisi cronologica della sua discografia, infatti piùo meno tutti hanno suonato con lui nella maggior parte in occasioni irripetibili oirripetute e pochissimi regolarmente (Varrone in De Scipio 2002:58).

3.19 « Max », alias Massimo Urbani 243

diretta col proprio personaggio sonoro, i suoi gusti, un certo modo di vedere,di conoscere e di rispettare tutta la tradizione del jazz e dell’improvvisazione,sapendo esserne parte così com’era. Non è un caso che il documento non glifaccia giustizia, in genere; per lui la registrazione è lontana, molto più di altrimusicisti, dal poter rendere l’idea della sua musica. 120

La ’presa di distanza’ di Urbani dal mondo degli appassionati e dalla cri-tica, il suo particolare dandysmo è anche il suo saper essere a modo suo nellesituazioni dai livelli più alti del jazz a quelli più conviviali. La sua capacitàdi orientarsi nell’improvvisazione era proverbiale, qualcosa che possedeva sinodagli inizi, quando aveva meno di vent’anni e già si parlava di lui. Giorgio Ga-slini dirà: ’quando Massimo era con me non aveva cultura armonica, gliel’hoinsegnata io’ (Gaslini in De Scipio 2002:65). Che cos’era la ’cultura armonica’di cui parla Gaslini può essere inteso con l’armamentario teorico e artigianalecon cui si misuravano gli altri musicisti, certo l’esperienza col più colto deimusicisti italiani del tempo gli è servita, ma non ha originato un concetto edun sistema fatto anche per essere studiato dagli altri. Per esempio si compren-de dalle testimonianze dei suoi allievi di sassofono, che si recavano presso dilui per le lezioni, che Massimo era poco portato a studiare sistematicamentele forme del jazz, degli standard, in vista di una esaustione del repertorio edella capacità di poterlo controllare. Sceglieva i ’propri’ standards (Cherokee,per esempio sarà un suo cavallo di battaglia) nel senso paradigmatico del su-peramento di una certa ’epoca’ storica (il bop) nelle difficoltà tecniche checomportava, ma nello studio usava metodi diversi e personalizzati (p. 44 esgg.) come quello di preferire il condizionamento tecnico di metodi ’classici’ enon jazz per sassofono e clarinetto.

Le incisioni successive indicano gli spazi dove Urbani si trovava più a suoagio: tra cui certamente quello che Leo Smith chiama ’extension bop’ (Smith1981:37), cioè quella rielaborazione attualizzata delle acquisizioni del bop edello hard bop su una strada già aperta da Coltrane stesso e da Mc Coy Tyner(ma largamente praticato negli anni 60), che prevede un ampio uso dei pedaliarmonici, arpeggi o sheets of sound, techniche ’neomodali’ e di una dimensioneritmica molto marcata con una generosa inclusione di africanismi e ’latinismi’ritmici, ma propensa anche all’uso di semplici cornici ritmiche provenienti dalrock e dal rythm & blues. Non tanto e non solo Parker e gli atri boppers,ma Cannonball Adderley, Jackie McLean e specialisti dell’extension bop comeSonny Fortune sono i corrispettivi tramite i quali studiare il mondo espressivodi Urbani ed i materiali della sua tecnica improvvisativa.

Era un musicista estatico, che faceva affidamento sul raggiungimento diun certo grado di ’calore’, e quindi di suono e di fluidità, più che sugli schemiarmonici e sul tracciare sulla carta le coordinate entro le quali muoversi. Unmusicista che faceva affidamento prima di tutto sul proprio corpo e seconda-

120 Ma si tratta di una caratteristica diffusa al tempo specialmente per certi tipi dipratica e di pubblico: si pensi al semplice ascolto delle registrazioni ’elettriche’ diMiles Davis rispetto al poterne seguire lo sviluppo.

244 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

riamente sui mezzi mnemonici e sui patterns. Dirà talvolta di non avere ’branisuoi’, di non conoscere l’armonia, di non saper suonare bene il piano e compor-re (De Scipio 2002:64). Ma anche Coltrane ha detto cose simili. Probabilmenteil destinatario si trova ’incapsulato’ in questo discorso: è molto probabile checerte cose vengano dette ad uso e consumo di chi ha un’idea scolastica deljazz e Urbani non si prendeva affatto alla leggera. C’è una intelligenza ed unostudio profondo dietro a certi risultati e se il metodo è nascosto (e resta taleperché non è schematizzato e codificato), non è detto che si debba trattarecome un mistero impenetrabile ma cercare di comprenderlo. La traccia po-trebbe essere questa ormai famosa frase: ’Quando suoni devi stare lontanodallo strumento’ (Urbani in De Scipio 2002:41).

3.20 Black Power

La cattiva coscienza, la vera e propria ‘menzogna’ costituita dagli esiti dellascuola di massa e dalla simultanea difficoltà non solo a ‘collocare’ ma anchea ‘capire’ i giovani, saranno soggette a fare il paio con altre come quella del-l’integrazione dei neri d’America. Tra coloro che si ponevano alla ricerca dialtre idee che non fossero quelle dell’ortodossia comunista, furono in molti aleggere le conferenze pubbliche ed i programmi politici di Malcom X. Oltrei suoi scritti (Autobiografia tradotta nel 1967) pubblicati tempestivamenteda grandi editori, compariranno (Giammanco 1968) analisi approfondite delmovimento, Stokely Carmichael e Frantz Fanon saranno conosciuti e spessocitati.

La vicenda di Malcom X, con la sua capacità mai vista prima, di dialogarecon il ‘popolo del ghetto’, e con la sua lucidità esemplare, unico tra i grandiafroamericani; tutti lo piangono e promettono che il suo esempio non andràperduto, dalle lavandaie a pagamento ai poeti come Etheridge Knight, che loaffianca subito a Coltrane, Monk, Bird, ai geni della musica e alla gente delghetto. Malcom è il genio della politica, ma ha qualcosa di loro nel suo stile,non è lo stesso leggere i testi dei suoi discorsi ed ascoltarlo parlare. Come leregistrazioni del jazz, le pubblicazioni e le apparizioni televisive si raccolgonoin un repertorio che non può che far concludere che «Malcom vive», come giàsi disse che Bird viveva.

Da una certa distanza, in Europa, il Reverendo King e Malcom X, cosìdiversi tra loro, sono comunque avvicinati dalla loro enorme popolarità dal-la stampa e dall’informazione televisiva. In seguito saranno accomunati dallastessa sorte, largamente annunciata, l’assassinio politico. Molto più che leanalisi sociologiche e politiche quello che accade ai neri americani sarà ’par-tecipato’ tramite la musica. Per la grande quantità di cose importanti cheavvenivano nella cultura musicale afroamericana di quegli anni e per l’enor-me impatto simbolico di ogni vittoria dei ’neri’ nello spettacolo e nello sport,lo stesso Malcom X era costretto a parlare di musica e di musicisti al suouditorio.

3.20 Black Power 245

Anche organizzare concerti di jazz progressivo nei primi anni ’70 in Italiasignificherà per molti (secondo modalità e in contesti diversi), ‘fare lavoropolitico’. I musicisti invitati saranno presenti e disposti a parlare dell’Americadimostrando in alcuni casi un certo scarto dal clima politico che trovano inEuropa, per alcuni è come se rivedessero qualcosa di già visto che indovinanosia semplicemente destinato a attutirsi e ad essere dimenticato. 121

Anche il ‘lavoro politico di base’ comporta un certo sostegno dato ai giovanimusicisti di jazz italiani del tempo. I Circoli Ottobre, emanazione culturale delmovimento e di Lotta Continua in particolare, daranno spazio a questi gruppi.I nuovi venuti potranno così dialogare con la generazione degli appassionatistorici di jazz. A Pisa, nei primi anni ’70, Afo Sartori e Pino Masi animerannoil Circolo Ottobre locale per una breve ma intensa stagione nella quale saràrichiesta anche la collaborazione di artisti molto noti. Non solo si esibisconoqui un Massimo Urbani giovanissimo nel 1972, il trio di Patrizia Scascitellicon Roberto Della Grotta, ma anche Archie Shepp e Noah Howard. Vi sonoeventi di altro tipo come un trio studentesco insieme al quale accetta di esibirsil’attore Giorgio Albertazzi nella pubblica lettura di poesie di Alberti e Neruda,122 convinto dal Masi a venire da Firenze in cambio di un invito a cena.

Nella cronologia italiana degli anni dal ’72 al ’78 vi è la reazione del movi-mento sindacale e studentesco al colpo di stato in Cile, alla morte di SalvadorAllende e ai massacri della dittatura argentina. Molto meno si parla in Italiadi quelli perpetrati in Sud Africa dai mercenari semiufficiali del governo. Glianni più pesanti del terrorismo sono proprio questi, la strategia della tensioneche era culminata in sanguinose stragi (P.zza Fontana, P.za della Loggia aBrescia, quelle della Stazione di Bologna e del treno Italicus nei primi anni’80) avevano immediatamente mostrato lo spettacolo angoscioso di indaginidepistate, di un inquadramento in una strategia globale seguita da vicino daiservizi segreti nazionali e americani, come emergerà con grande fatica nel corsodegli anni sino ad oggi, ma senza mai arrivare ad accertare la verità. Il pro-blema della storia politica recente in Italia resta ancora quello di fare i conti

121 Raphael Gerrett, di cui si parla nel cap.3, presente in Italia alla fine degli anni’70 rifiutava completamente gli eccessi dell’ideologia movimentista, il suo aspetto’ufficiale’, gli slogan roboanti, ma partecipava apertamente e senza pregiudizi alsuo manifestarsi sul piano sociale, sebbene prevedesse un immediato futuro in cuitutto sarebbe rientrato nei ranghi. Questa volta si sarebbe trattato del minutocontrollo delle azioni e dei pensieri stessi degli individui per mezzo dei ’computers’e delle nuove tecnologie.

122 Quanto al popolare attore, a lungo presentatosi come una personalità anarcoidee libertaria, fa riflettere il periodico riemergere delle sue imprese (da lui stessonegate e minimizzate) in quanto effettivo della legione ’Tagliamento’, una delleunità dell’esercito della RSI più feroci e collaborative a fianco dell’esercito tedesconel compiere rastrellamenti. Ne scrive Sergio Luzzatto sul ’Corriere della Sera’ del5 luglio 2006, anticipando un suo articolo a comparire sulla rivista ’Micromega’che riporta nuovi elementi emersi dalla documentazione raccolta dalla ricercatricevicentina Sonia Residori, e Gianfranco Capitta sul ’Manifesto’ del 6 luglio 2006.

246 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

con questo passato, la sua interpretazione e la valutazione del suo impatto sulpresente.

Troppo facile indicare in un ‘rispecchiamento ingenuo’ una certa conver-genza tra i racconti degli afroamericani, non tutti orientati a sostenere il pa-cifismo, e l’impatto liberatorio della New Music, accolto entusiasticamentedall’avanguardia estetica del movimento di sinistra. Archie Shepp mostra chesi può fare di tutto: la sua vicenda tra la metà degli anni ’70 e specialmenteverso la fine, è quella del passo indietro. Shepp conquista un grosso pubblicoin Italia proprio quando si impegna di più a ripensare a Byas, Webster e Ha-wkins. Parla del movimento di liberazione dei popoli oppressi con un discorsodecisamente marxista, in una intervista a Gino Castaldo effettuata dopo lasua acclamata apparizione al festival «Umbria Jazz» del 1975 (Castaldo 1975).Il titolo dell’intervista Viva Marx, viva Lenin, viva Archie Shepp si trasformain uno slogan molto conosciuto e deprimente per molti degli aficionado e deicritici che avevano vissuto la bella stagione degli anni ’50, con la sua integra-zione tra boom economico, nuovo cinema, pubblicità e jazz. Ma ’l’arrabbiato’Shepp suona in un modo che molti di loro non possono che apprezzare.

3.20.1 Verso il ’78 e oltre

Sono passati pochi anni dal ’68 e si va verso il ’78, la data cruciale del seque-stro di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, il culmine della cosiddettastrategia della tensione e inizio della parabola discendente dell’idillio tra lasinistra italiana e una gran parte del paese. Sarà uno stillicidio di attentati,rapimenti e minacce cruente (le ‘gambizzazioni’) la cui responsabilità sarà at-tribuita o rivendicata da gruppi armati di sinistra e di destra. Il PCI pagheràle conseguenze politiche più pesanti. Le ‘pregiudiziale anticomunista’ atlanticaimponeva la sua non partecipazione ai governi della Repubblica e la reazio-ne del partito era duplice. Nelle piazze, a fianco del movimento sindacale, alparlamento quella di appoggiare o meno esternamente i governi democristianidel momento: pentapartito, tripartito, monocolore, ecc.

3.20.2 Il CRIM di Pisa: approccio associativo al Jazz eall’Improvvisazione

In questo clima si stempera gradualmente anche la ricezione ’politica’ del jazz.I circoli ed i collettivi che l’avevano sostenuta e gli stessi ambienti che era-no stati così ’caldi’ e vitali nei primi anni ’70 invecchiano rapidamente. Unesempio di un mutamento di tendenza nelle cerchie di sostegno del jazz si hanella rassegna di Jazz di Pisa e nella istituzione del Centro Ricerca MusicaImprovvisata (CRIM) che vede un piccolo gruppo di operatori farsi avanti edottenere il sostegno dell’ARCI e del Partito Comunista. Questa ed iniziativesimili in un certo senso proseguono e si propongono di sviluppare l’interesseper il jazz che era stato un fenomeno dei primi anni ’70. Si tratta di nuovigruppi di intellettuali e operatori culturali che vedono la loro passione per

3.20 Black Power 247

il jazz come parte di un impegno culturale più ampio o di musicisti che sifanno anche promotori e che affidano le loro riflessioni alla scrittura. Diver-samente dalla prima fase movimentista, tutta ’orale’ e collettiva, si inizia avalutare positivamente l’individuo e le sue scelte, i suoi gusti, le sue ’chiaviinterpretative’. In una raccolta di scritti del CRIM distribuito nel corso dellaquarta rassegna del festival di Jazz di Pisa e Firenze (del 1979), si nota unnotevole cambiamento di strategia comunicativa e di contenuti. L’opuscolo siapre con una citazione da Proust di Du coté de chez Swann e termina conuna di Grillparzer. L’introduzione del rappresentante dell’ARCI, non fa pa-rola dell’enorme conflittualità della politica nazionale, del senso politico dellamanifestazione, neanche in rapporto ai recenti trascorsi movimentisti, ma sipone già su un piano tutto di politica ’culturale’ amministrativa, vale a direcome emanazione della volontà politica degli enti locali per ’un coinvolgimentoulteriore del territorio’ (Marconcini in CRIM s.d.:7). Tutti gli interventi se-guenti di Stefano Arcangeli, Roberto Terlizzi e Franco Bolelli, promettono unrapporto più evoluto e attento con la materia del jazz e dell’improvvisazionemusicale. Nel 1979 Rafael Garrett vive a Pisa e questo fatto costituisce unfatto di grande importanza per la cerchia che organizza il festival. Per circatre anni il ’territorio’ si confronta davvero con un esponente della tradizionejazzistica, e della più avanzata. 123

Bisogna tenere presente che si tratta di manifestazioni la cui importan-za nell’economia delle connessioni culturali tra la vita cittadina ed il restodel mondo non possono essere assolutamente paragonate per qualità e parte-cipazione a quelle del presente. La città di Pisa ha avuto un pubblico moltointeressato e competente per il jazz e comincia solo ora a dimenticare, perden-do i benefici di una manifestazione come questa che fu terminata negli anni ’80e mai più ripresa. D’altro canto, proprio nei primi anni ’80 l’interesse di moltaparte del pubblico del jazz si sposterà decisamente sul nuovo fenomeno dellaricezione della world music accompagnato da un interesse sempre crescenteper l’etnomusicologia, accompagnato da iniziative di grande interesse, tra lequali qualle svoltesi a Firenze a cura del Centro FLOG, dopolavoro OfficineGalileo, allora diretto da Gilberto Giuntini, nei quali si svolgeranno memora-bili rassegne tematiche di musica africana e asiatica (Musica dei Popoli), allequali collaborò in quegli anni lo stesso Diego Carpitella.

Negli anni seguenti al 1978 e alla svolta del rapimento Moro, la terza for-za del PSI riempirà il vuoto di rappresentanza politica lasciato dal costanteridursi della base elettorale del PCI proponendo un partito di sinistra ‘riformi-sta’ e di governo con l’allora segretario Bettino Craxi. La fortuna politica delPSI e delle sue alleanze con la DC e altri partiti di centro sarà bruscamenteinterrotta dopo altri dieci anni circa da ‘mani pulite’, cioè dall’emergere diun sistema di corruzione e clientela in cui tutta la classe politica italiana ai

123 La presenza di Garrett a Pisa, oltre che per motivi personali, era certamentemotivata dall’esistenza stessa del CRIM come istituzione di sostegno al jazz eall’improvvisazione musicale.

248 3 Immagini del jazz in un’altra Italia

massimi livelli di responsabilità era esposta. Il successivo vuoto di potere erappresentanza politica sarà poi sfruttato e trasformato in forza di governoda Silvio Berlusconi, magnate delle televisioni private e nuovo ‘deus ex ma-china’ del moderatismo italiano, che sarà in seguito decisamente di destra,nonostante il Berlusconi sia stato molto vicino a Craxi e che a quel periodorimonti la sua scalata finanziaria e le concessioni di assoluto favore da partedello stato per le sue reti televisive. Con il Cavaliere alle prese con la scalataalle televisioni private ed al monopolio sulla pubblicità televisiva si va versogli anni del cosiddetto ‘edonismo reganiano’.

Parte IV

Riconsiderando il ’Black Atlantic’ di RafaelGarrett

4

Connessioni e corti-circuiti interatlantici

4.1 La storia controversa

Prima di affrontare un capitolo in cui si cercherà di capovolgere la prospettivatenuta sin qui cercando di confrontare il panorama della scena italiana deljazz alla luce di una rilettura della formazione della new thing negli StatiUniti, è opportuno tornare brevemente sulle prospettive tracciate da JeanJamin e Patrick Williams nel loro articolo di presentazione al numero unicodella rivista l’Homme, intitolata « Jazz & Antropologia » (Jamin e Williams2001). Nelle loro conclusioni i due antropologi francesi hanno avanzato l’ideache molte delle figure centrali del jazz possano essere considerate come untipo particolare di antropologi, la cui presa di distanza verso il mondo e lacui osservazione partecipante sono parti essenziali di un certo tipo di pensieroe di operare musicale. All’opposto hanno individuato nelle opere di alcuniantropologi le caratteristiche di imprese creative realizzate con un approccioprossimo a quello jazzistico.

In questo paragrafo introduttivo, a partire da un attuale incrocio di con-troversie sulla storia del jazz, metto a fianco l’eredità musicale creatasi nelcorso di numerosi collettivi formatisi intorno alla personalità musicale di Ar-chie Shepp e a quella antropologica di Victor Turner come concordanti sullanatura dei generi performativi in quanto ’agenti attivi di cambiamento’ so-ciale e culturale. In seguito tratterò di Donald Rafael Garrett, collaboratoredello stesso Shepp in sedute di registrazione ormai storiche ed esponente dirilievo della cosiddetta ’scuola di Chicago’ della nuova musica afroamericana.I paragrafi seguenti cercano (per quanto possibile) di tracciare i contorni diun ambiente per arrivare al suo concetto di musica, alla sua pratica di tra-smissione di cultura ed all’aspetto pedagogico della attività musicale di RafaelGarrett in un contesto spazialmente e culturalmente lontano da quello in cuiquesta musica si è sviluppata.

Nel jazz, intorno agli anni ’70, il rinnovamento della ’Black Music’ è con-nesso ad un processo di apertura al mondo e di contemporanea critica dellasocietà e delle concrete condizioni di lavoro e di vita degli afroamericani a cui

252 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

partecipa un gran numero di artisti creativi. Mentre l’avantgarde afroamerica-na si adopera a formarsi un nuovo tipo di pubblico cosmopolita ed a istituirerapporti di collaborazione e solidarietà in Europa, in Giappone, in Africa, siassiste anche ad una graduale e progressiva presa di distanza del ’popolo delblues’ (Baraka 2003) dai musicisti e dal loro operato. Questa presa di distanzacoincide con una crescita economica dei ceti medi afroamericani, crescita cheli rende sempre più interessanti come consumatori prima che come protagoni-sti o inventori di prodotti dell’industria dell’intrattenimento. In un interventoche fa il punto sulla storia della cultura afroamericana del ’900 e oltre, HenryLouis Gates Jr. (Gates 1997), titolare della cattedra di Humanities ad Harvarde direttore del Du Bois Center for Afro-American Research, non ha dubbi adattribuire la crescita di una classe media urbana afroamericana alle politichesociali governative in materia di accesso alla scolarizzazione, ai posti di lavoroe ai sussidi di disoccupazione. Ma si tratta di una crescita a rischio, provviso-ria, di un benessere che può scomparire molto più rapidamente di come si èpresentato a partire dagli anni ’80.

Il periodo d’oro della ’nuova musica’ afroamericana, direttamente connessaalla tradizione del jazz, sarebbe da collocare in quello che Gates definisce il’terzo rinascimento delle Arti Nere’: 1 ’il più breve di tutti’ (dal 1965 e giàterminato nel 1975) perché ’costruito sul fragile fondamento dell’apertamentepolitico’. La chiave del ragionamento di Gates consiste non tanto nel ’poli-tico’ quanto nella sua apertura. Questa apertura come errore di aver volutoconfondere l’arte e la politica, è proprio il fattore che penalizza maggiormentequesto momento di rinascita culturale a distanza di poco più di venti anni,come dimostrato dalle brevi note sulla caduta di Amiri Baraka (LeRoi Jones)’diventato Marxista nel 1973’ (Gates Jr. 1997:4). È discutibile che un rinasci-mento culturale sia invalidato dalle prese di posizione politiche di alcuni deisuoi protagonisti, ma Baraka è l’unico esponente del ’terzo rinascimento’ cheGates prende ad esempio per quanto ha saputo dare voce a quel periodo. Ilsuo ’Blues People’ (2003) è il prodotto di una clima culturale dominato dauno schieramento di musicisti afroamericani tanto geniali quanto socialmen-te attivi e consapevoli, ma i cui rapporti con la dimensione dell’apertamentepolitico furono tutt’altro che semplici e univoci, come la valutazione di Gateslascerebbe intendere. Si tratta di omettere comunque il rapporto tra un grannumero di musicisti e il ’loro popolo’, anche se pare che l’elemento principaledi tale rapporto consista nel fatto che gran parte dei loro progetti siano rivoltiall’esterno e si svolgano principalmente in Europa.

1 Il primo essendo quello associato a figure quali Booker Washington e W.E.B.Du Bois, ed il secondo quello che corrisponde al sorgere di Harlem come centromondiale della nuova cultura afroamericana e con la febbre del jazz in Europa esegnatamente a Parigi nel 1925, il terzo quello di cui si parla in queste pagine, edil quarto quello che inizia intorno alla metà degli anni ’80 ed è rappresentato daToni Morrison e Terry Mc Millian in letteratura, Rita Dove nella poesia, SpikeLee, Julie Dash e John Singleton nel cinema, Public Enemy e Queen Latifah nelRap e infine Winton Marsalis e Cassandra Wilson nel jazz.

4.1 La storia controversa 253

Nel 1993, con il Premio Nobel per la letteratura a Toni Morrison, la lettera-tura afroamericana sale finalmente alla ribalta in piena ’epoca postmoderna’,dopo che i musicisti hanno per quasi un secolo connesso gli slums metropolitanicol mondo intero. Una lunga citazione incentrata sulla poetica della Morrison2

si può leggere in un capitolo dedicato all’approfondimento dei modernismi epost-modernismi musicali afroamericani nella celebre opera di Paul Gilroy TheBlack Atlantic (Gilroy 1993), in un discorso che non lascia dubbi su quantola nuova letteratura afroamericana debba alla scuola del jazz. Non stupisceche nuove visioni e interpretazioni della storia afroamericana nel campo let-terario e critico ed in quello dei cosiddetti cultural studies vengano da autriciche si cimentano con argomenti centrali per la storia del jazz. Emergono dun-que nuove tematizzazioni ’di genere’ (Carby 1992, Monson 1994, Hamilton2000) contemporaneamente alla ripresa di tematiche di ampio respiro qualiquella dei rapporti tra musica e linguaggio. La stessa Monson, tra i pochietnomusicologi che si ostinano a praticare il campo jazzistico, concorda conla propensione di diversi autori, tra cui lo stesso Gates tra i più autorevoli,a vedere un collegamento di importanza centrale tra filosofia e l’estetica dellinguaggio con la musica nel campo afroamericana. La lettura di un legameprofondo tra la pratica sociale ritualizzata del ’signifying’ ed una ideologiadell’improvvisazione musicale stanno a dimostrare che si debba prestare unamaggiore attenzione al fatto che i musicisti parlino spesso di ’dialogare fraloro’ o di ’dire o non dire’ qualcosa.3

Ma se il ’terzo rinascimento delle ’arti nere’ è stato il più musicale, ilpiù ’antropologizzante’ ed il più politico, nemmeno un musicista viene cita-

2 Mi riferisco al capitolo Jewels Brought from Bondage: Black Music and the Politicsof Authenticity, in The Black Atlantic: Modernity and Double Consciousness, pp.72-110, 1993, Cambridge: Harvard University Press.

3 La pratica del ’signifying’ in quanto performance di interazione linguistica ritua-lizzata è stata descritta da molti autori, tra cui Labov (1972) e lo stesso Gates(1988), e presa in considerazione da Monson (che discute le tesi di Gates in Mon-son 1994) come modello significativo per la pratica dell’improvvisazione. Il mini-mo che si possa commentare in questo senso è che la letteratura sociolinguisticadedicata al Black American Vernacular e le sue riletture critiche ed applicazioniinterdisciplinari sono ancora di notevole interesse per lo studio del jazz. In par-ticolare la Monson tende a svalutare le categorizzazioni (sub)culturaliste qualiquelle sviluppate dalla sociologia urbana della devianza (Goffman 1963, Becker1963), sia quelle di Hugues Panassié in quanto ipervalutazione ’primitivista’ delvero musicista di jazz in quanto afroamericano, vissuto nella propria comunità,illetterato, e così via, preferendo una cornice teorica alquanto più complessa eaperta. La Monson propende per una metodologia sostanzialmente etnograficae si basa su un certo numero di colloqui con musicisti basati a New York. Pa-trick Williams nella sua monografia dedicata a Django Reinhardt (1991) e indue contributi etnografici (1998, 2000) riguardanti le pratiche di apprendimentodella chitarra presso i Manouches, invita a studiare il modello dell’acquisizionedel linguaggio e dell’interazione in pubblico in rapporto all’acquisizione di un’repertorio’ di capacità strumentali e di pezzi.

254 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

to nella versione di Gates, eppure la memoria di una stagione di eccezionalevivacità creativa è ancora viva per un gran numero di persone da entrambele parti dell’Atlantico. Tra questi artisti Archie Shepp (anche lui ’Marxista’come Amiri Baraka/LeRoi Jones) per parlare di figure centrali. Riascoltareoggi Jeanne Lee insieme a Shepp in Blasé fa pensare che senza il loro contri-buto la letteratura di Toni Morrison avrebbe risuonato meno sontuosamentenell’ascolto silenzioso del lettore.4 Il fiorire della letteratura afroamericana el’irrompere di un punto di vista di genere sulla cultura del blues e del jazzsi annunciava negli anni ’70 coinvolgendo una generazione intera: è difficileelargire riconoscimenti ’corali’ quando si ammette comunemente che i meritiin campo artistico vadano riconosciuti al singolo creatore e alla sua opera. Delresto lo statuto di ’opera’ nel jazz è di per sé controverso. Si tratterebbe dellaregistrazione, dei fogli distribuiti alle prove o di un momento di particolarefelicità improvvisativa, o di tutto questo e parecchio d’altro?

Una recente controversia intorno alla gestione delle attività del jazz alLincoln Center vale bene a spiegare la discontinuità introdotta tra le genera-zioni dei maestri del jazz alimentata dall’orientamento delle volontà politichee delle logiche della legittimità culturale. Si tratta di Winton Marsalis, Stan-ley Crouch e Albert Murray, contro i quali si schiera ancora il ’disubbidiente’Shepp, affiancato da Oliver Lake, David Murray e William Parker. I terminidel contendere consistono dei cospicui finanziamenti gestiti dall’amministra-zione di Marsalis ed i suoi collaboratori, i quali hanno una visione socialee politica del jazz come ’pura arte’ americana, le cui compromissioni con lapolitica negli anni ’60 e ’70 sono un capitolo chiuso e che di fatto chiude l’ac-cesso al Lincoln Center.5 Questo significa anche che, dato che vi sono poche’alternative’ ad una politica culturale che vive di finanziamenti pubblici, laloro interpretazione del jazz significa escludere politici, comunisti e dissiden-ti. Significa considerare che vi debba essere un numero più limitato possibiledi intellettuali accreditati e che i musicisti sono una cosa e gli intellettualiun’altra. D’altra parte Shepp sostiene ancora, con Baraka, che:

This music is political by its very nature. The first music we [AfricanAmericans] created was a protest music that recanted slavery andspoke for liberation and freedom, and it always has (King 2003).

Argomento che sostiene una visione che sarebbe impossibile demolire sulpiano storico, sociologico e antropologico e tutt’altro che espressione di mas-simalismo politico. Con una facile condanna dell’intenzione politica di questo4 Una scrittura da ascoltare, come nelle lunghe discussioni in Jazz (Morrison 2001)tra la donna di un assassino e la madre adottiva della sua vittima che ruotanointorno a darsi ragione delle reciproche esistenze ed in cui la seconda dopo qual-che istante di silenzio prega l’altra di togliersi un indumento per sistemarne unparticolare, perché non può vederlo così.

5 Il citato articolo di King (2003) è un commento alle reazioni suscitate dalla pro-grammazione da parte del Lincoln Center di un programma intitolato ’Jazz andSocial Protest’.

4.1 La storia controversa 255

e simili discorsi, ad Archie Shepp non è riconosciuta la portata della sua vastaproduzione musicale da coloro che sostengono la ’purezza’ e la ’disinteressa-tezza’ del jazz come di qualsiasi altra forma d’arte, come Marsalis e Crouch, esi tenta di penalizzarlo per quello che ha creduto per tutta la vita e detto nelleinterviste a margine dei suoi concerti. In realtà sono adombrate qui due diver-se visioni ’universalistiche’ della musica dei Neri d’America: la prima quella diShepp e di tanti altri è quella che si apre direttamente al mondo, che muove insenso centrifugo verso altri lidi culturali. La seconda è quella di Marsalis che(in un clima sociale, politico e culturale ben diverso) si muove nel senso oppo-sto del cristallizzarsi in una oggettivazione attualizzante (in quanto prodottodi una tradizione e di una identità adattata ai rapporti di forza e al sistemadel jazz) che sappia indurre nel pubblico e ’nel mondo’ un rinnovato interesseper le arti musicali afroamericane. Quando si evoca oggi la tradizione del jazz,non si esita più (o comunque molto meno di qualche decennio fa) a chiamarecosì la propria musica. Ma si ha poca difficoltà ad escludere la memoria delterzo rinascimento dal Lincoln Center anche perché si sa che si è trattato di unmomento eccezionalmente vivo e fecondo di ’non-jazz’ (o di ’non solo’ jazz) lacui istituzionalizzazione rischierebbe decisamente di costituirsi tra i moltepliciatelier creativi di un ’museo culturale’ che pochi (sia tra i bianchi che tra ineri) hanno interesse a progettare.

La costruzione di quello che Gates chiama ’quarto rinascimento’ delle ArtiNere, citando Marsalis e Cassandra Wilson come esponenti di spicco del set-tore musicale, implica dunque la messa tra parentesi, se non l’emarginazione,degli esponenti del ’terzo rinascimento’. In quel periodo di innovazione e ditransizione i musicisti erano stati costretti ad inventare e usare termini quali’new music’, ’new thing’ o ’free jazz’, non tanto perché essi intendevano usciredai termini normativi di una tradizione, ma perché si trovavano all’interno diun processo estremamente dinamico di cambiamento, di sperimentazione, diapertura. La controversia sulla storia chiama in causa il senso stesso della mu-sica e diversi concetti (o filosofie) e raggruppamenti sociali ed economici che sifronteggiano; però da una angolazione più distante, sarebbe arduo sostenereche il jazz non rientri tra i ’generi performativi’ studiati da Victor Turner, ungenere di rappresentazione sociale che è (Turner 1993:76)

reciproco e riflessivo – nel senso che la performance è spesso una cri-tica, diretta o velata, della vita sociale da cui nasce, una valutazione(che può essere anche un netto rifiuto) del modo in cui la società trattala storia.

Accentuando l’aspetto riflessivo di questa definizione si comprende comela tesi di Shepp non possa essere ridotta alla voce eclettica e atipica di un’comunardo del jazz’, e che non possa essere compresa se non tentando unconfronto con le condizioni storiche della riflessione teorica e della ricezione. Ilpensiero teorico dei musicisti è stato abbastanza profondo, avanzato e sicurodi sé da costituirsi attorno à una molteplicità di risposte alla questione del-la doppia identità afroamericana. Mentre i musicisti erano iconoclasti verso

256 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

l’esterno erano tutt’altra cosa nei confronti di una eredità culturale che an-davano scoprendo nel contempo. Non si può dimenticare che, sul piano delcontesto della ricezione, il jazz e la ’new thing’ negli anni ’60 e ’70 (in Europae in America ma specialmente nella prima) sono stati interpretati come unamusica di liberazione e che chi l’apprezzava e la sosteneva, sosteneva anche lacausa del Popolo Nero. Un periodo inauguratosi con una grande inquietudine:ricorda Monson (1994:298 e n. 34) che l’anno in cui John Coltrane registròMy Favorite Things, il 1960, fu un anno di enorme tensione sociale e politica,e che in quel clima le due versioni del brano, una ’bianca’ e una ’nera’, nonpotevano che stare una di fonte all’altra in rapporto a quello che accadevanella società americana e nel mondo.

4.1.1 Fonti: tornando a Du Bois

Impossibile scindere le vicende delle musiche afro-americane dal loro lato oscu-ro: quello che pone il senso della presenza dei Neri in America, la memoriadello schiavismo per la quale ’il negro si precisa antropologicamente e cul-turalmente come non americano’ (Carpitella 1978:914), dalla prossimità deimodernismi africani all’esperienza del terrore, per cui il potere ed il senso del-la musica si porrebbe come inversamente proporzionale al potere limitato dellinguaggio (Gilroy 1993:73-74), ed infine a quella presa di distanza estetica eculturale che permette di trasformare in strumento di emancipazione il ruo-lo socialmente subalterno di specialista della musica e dell’intrattenimento alNero come allo Zingaro (Williams 1991:12).

È opportuno tornare al pensiero e alle opere di W.E.B. Du Bois, alla rap-presentazione della doppia identità (addirittura della ’doppia vita’) dell’afroa-mericano, contemporaneamente americano e nero e a ciò che consegue da taleambiguità. L’idea fondamentale di Du Bois è inscindibile dal suo significatopolitico, non propone una autenticità africanista, ma lascia supporre quandoparla di anima (soul) (Du Bois 1903[1999]), che qui risieda l’unità indivisibiledell’afroamericano, l’ultima frontiera della sua fierezza e della sua forza (op.cit. p. 5).

After the Egyptian and Indian, the Greek and Roman, the Teutonand Mongolian, the Negro is a sort of seventh son, born with a veil,and gifted with second-sight in this American world,—a world whichyields him no true self-consciousness, but only lets him see himselfthrough the revelation of the other world. It is a peculiar sensation,this double-consciousness, this sense of always looking at one’s selfthrough the eyes of others, of measuring one’s soul by the tape ofa world that looks on in amused contempt and pity. One ever feelshis two-ness,—an American, a Negro; two souls, two thoughts, twounreconciled strivings; two warring ideals in one dark body, whosedogged strength alone keeps it from being torn asunder. The historyof the American Negro is the history of this strife,—this longing to

4.1 La storia controversa 257

attain self-conscious manhood, to merge his double self into a betterand truer self. In this merging he wishes neither of the older selves tobe lost. He would not Africanize America, for America has too muchto teach the world and Africa. He would not bleach his Negro soul ina flood of white Americanism, for he knows that Negro blood has amessage for the world. He simply wishes to make it possible for a manto be both a Negro and an American, without being cursed and spitupon by his fellows, without having the doors of Opportunity closedroughly in his face.

’Gifted with a second-sight in this American world’, difficilmente si cerche-rà una formula più efficace per fondare un’antropologia afroamericana. Più dicinquant’anni dopo la cerchia dei sostenitori di Sun Ra a Chicago vi costruiràla propria antropologia del jazz: ’they created jazz on a special slant they hadon the american thing’ (Bland 1959). Come si è accenato in precedenza (cap.1) Paul Gilroy interpreta il pensiero di Du Bois facendo di questo concettol’elemento che contraddistingue l’artista afroamericano ’situato simultanea-mente dentro e fuori le convenzioni, le assunzioni e le regole estetiche chedistinguono e periodizzano la modernità’ (Gilroy 1993:73). Si tratta di unalettura prossima a quella di Archie Shepp e di Amiri Baraka, il quale sotto-linea il paradosso di una decisa lotta per la differenziazione dal mainstreamdello spettacolo accanto alla contemporanea potente coazione ad impersonar-ne le contraddizioni ed, eventualmente, anche a rimanerne ’impacchettati’,cosa che risulta con particolare evidenza dalla produzione dei rappers piùpopolari attualmente (Shepp 1990).

Paul Gilroy vede l’ingresso della musica nera nell’intrattenimento di massadell’ultimo quarto dell’Ottocento come il primo emergere di veri e propri ’siste-mi di circolazione interculturale’ (cross-cultural circulation patterns) (Gilroy1993:88). Si tratta di un genere di spettacolo nuovo per l’Europa in direttorapporto col movimento abolizionista, quello dei gruppi polifonici vocali le-gati all’istituzione della Chiesa Nera come i Fisk Jubilee Singers. È proprionell’opera di Du Bois che la musica nera diventa ’il segno centrale del valoreculturale nero’ e della sua ’integrità e autonomia’ (op. cit., p. 90). Non solo,ma il modello musicale precede e informa di sé quello letterario. Per Gilroyi Fisk Jubilee Singers sono il modello della ’tecnica di montaggio polifonicosviluppata da Du Bois in The Souls of Black Folk’ (l. cit.). L’opera di DuBois è interspersa di citazioni musicali come lo sarà, in modo diverso, il librodedicato a Bud Powell di Francis Paudras (1986), nel quale ogni capitolo recail titolo di un pezzo del pianista e dove i dati discografici sviluppano un pianotemporale ed emotivo che si intreccia con la narrazione.

La circolazione del jazz e delle altre forme di musica americana nera seguela traccia della venuta della musica della Chiesa Nera come avvento dell’au-tenticità musicale afroamericana, posta rispetto ai generi di spettacolo in cuiil personaggio del nero compare in una forma di travestitismo e di farsa grot-tesca, come nelle minstrelsy, con personaggi quali Zip Coon e Jim Crow, e

258 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

poi nelle seguenti apparizioni teatrali e filmiche di Blackface. I riferimenti al-la Chiesa Nera sono qualcosa che va molto oltre la rappresentazione di unospazio di culto. Du Bois la vede come primo luogo di un complesso di rappre-sentazioni comunitarie di sé stessi del popolo afroamericano del nord. Non cisono dubbi infatti che ’the Negro church antedates the Negro home’ (Du Bois1903[1999]:94), che sia l’istituzione comunitaria di gran lunga più importantee nello stesso tempo il luogo simbolico del destino dei Neri d’America.

La lettura sociologico-religiosa di Du Bois fornisce un modello sinteticomolto forte dell’aspetto dinamico della chiesa nera che egli definisce come uncomposto di tre elementi:

Three things characterized this religion of the slave,—the Preacher,the Music, and the Frenzy (Du Bois 1903[1999]:77).

Il primo dei quali (the Preacher) è descritto in quel misto di destrezzaambigua e di servizio che ne fa una personalità a tutti i costi unica, la seconda(the Music) come la più bella espressione musicale mai prodottasi sul suoloamericano ed il terzo (the Frenzy) come la trance collettiva secondo culturache risolve la crisi riaprendo l’orizzonte della vita, e che Du Bois consideracome qualcosa che esiste da quando esiste l’uomo e la religione stessa.

Questi temi sono strettamente intrecciati nell’interpretazione che ArchieShepp ci offre della vicenda del jazz ed in particolare di quella del cosiddetto’terzo rinascimento’ delle arti nere.6 In questo modo egli esprime la propriameraviglia per l’opera di John Coltrane che considera come colui che seppeliberare la black music dalla ’sindrome dell’intrattenimento’ (Shepp 1990).E seppe fare questo nel modo più radicale possibile quando iniziò a soste-nere efficacemente e senza remore la generazione di musicisti quali lo stessoShepp, Eric Dolphy, Pharoah Sanders e Rafael Garrett, includendoli nei proprigruppi.7

In a very significant sense, John Coltrane was perhaps the greatestradical of the avant-garde. It couldn’t be far enough out for Trane.Trane is the guy that created us, in a way. He believed in us. Hewas our mentor. To view it from an historical perspective, he freedblack music from the entertainment syndrome. [....] It is amazing thatthis kind of process could have evolved out of the black experience[...] Today, music is visual. You get a show where people are jumpingup and dancing, but it’s not a critical event in the sense of profoundcatharsis. Essentially it’s celebratory. Coltrane was celebratory in thatoriginal sense. He was digging for something; he was looking for that

6 Per una discussione del carattere di ’sintesi’ dell’opera di Archie Shepp e del suolegame con il pensiero di Du Bois si vedano le pagine dedicate all’argomento daCarles e Comolli (1973:263-267).

7 Una aspetto importante di questo rinnovamento è colto da Hofstein (2001:233)quando osserva che lo stacco dalla tossicodipendenza darà alla musica di Coltraneuna portata nuova e senza eguali (l. cit.).

4.1 La storia controversa 259

other dimension and he often found it. With music he did create afourth dimension; the sound was something total - at some pointsfear. He could combine all of those elements, audience participation,the response mechanism; it was like church sometimes with Coltrane’sperformance.

La sovrapposizione che si opera nella memoria tra chiesa e coscienza del-l’autenticità differita e mai completamente raggiungibile dell’identità afroame-ricana è talmente forte da restare significativamente associata a tutta l’operadi Coltrane, forse al suo stesso ’suono’. Eppure, da un certo punto di vista sitratta della solidarietà dell’arte contemporanea con la vita e con un discorsoteorico che racchiude i termini di un’antropologia nella ricerca di un luogodove il prezzo della cultura non sia ’la menzogna’ (Du Bois 1903[1999]:96).Molti appassionati di jazz si rifiuteranno di seguire Coltrane proprio a partiredalla svolta dettata dalla propria coscienza sociale, cioè quella che permette aShepp e alla generazione più giovane dell’avanguardia di iniziare a farsi strada.

Non si tratta dunque della chiesa in quanto tale ma dei luoghi in cui si ècelebrata quella tensione verso una autenticità impossibile (Williams 1991),con la quale entra in rapporto dialettico anche la necessità di stare sul mercatoe di sovvertire le leggi dell’arte ad ogni decade (Shepp 1990). Altre tensionipercorrevano già il mondo del jazz a segnalare una profonda necessità di daresenso all’arte togliendola dal quotidiano e dal medio. Solo due esempi. BudPowell, gigante incompreso e modello macroscopico dell’emarginato, vittimadi una violenza sociale che i musicisti comprendono bene incombere sulle lorovite, viene sorpreso da un incredulo Francis Paudras recitare il capitolo inizialedel Corano nel suo appartamento e ne riceve delle spiegazioni totalmenteinaspettate (Paudras 1986:174-175). Sun Ra che vede oltre la Chiesa Nera ilpassato mitico dell’Egitto e indica l’Africa come luogo d’origine dell’umanità,tesi oggi largamente condivisa. Non c’è dubbio che queste tensioni stiano adimostrare che la barriera del colore è da tempo un limite oltrepassato nellecoscienze nel momento in cui è più che mai presente nell’ordine del giornopolitico. Come afferma Gilroy la Black Music non può essere pensata comeun dialogo tra coscienza razziale ed una determinata comunità; la sua forzaconsiste nel fatto che essa può essere insegnata e trasmessa così come possonoesserlo ’i suoi segreti più riposti’.8

8 Nello stesso luogo Gilroy parla di ’segreti riposti’ e di ’regole etniche’. Quanto alleseconde potrebbero essere intese sia come regole di comportamento e ’stili etnici’del corpo, modi di suonare, di attaccare le note, timbrica, ecc. Si può presumere unessenziale che può essere incorporato (solo due esempi: i ’bianchi’ Roswell Rudd eCharlie Haden), ma che non lascia pensare ad eventuali protocolli ed etichette allequali sia preferibile uniformarsi. (Gilroy 1993:109). Lo stesso Shepp non ha maiavuto dubbi nel considerare le arti nere come parte di una grande e complessa’tradizione orale’ che può essere appresa e praticata da tutti, a prescindere darazza e cultura, ma che è effettivamente incorporabile a misura della coscienza diquesto suo carattere.

260 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

4.1.2 Osservazioni su middle-class, diasporicità e narrazioni

Negli anni ’60 la sociologia americana distingue un modo di vedere il mon-do maggioritario ed uno ’problematico’, quello che è middle class da quelloche non lo è e non vuole esserlo. Una definizione prossima e permeabile alrapporto tra cultura del jazz e che cosa sia middle class in America si trovanel Goffman di Stigma (1963). Qui la nozione di stigma è definita in quantopretesa implicita ma fortissima di interpretare la norma sociale e di attender-sene la realizzazione altrui (op. cit., p. 6). La label theory permette di farsiun’idea di quanto sia normale e middle class ’negoziare l’umanità altrui’ spe-cialmente in quanto oggetto di ’benevolent social action’ (cit., p. 5). Alquantorisonante con le rappresentazioni di vita e di ambiente del jazz è l’attenzionealla costruzione dello stigma sociale dall’esterno:9 « Americans who are stig-matysed tend to live in a literary defined world however uncultured they maybe » (cit., p. 25). L’opera di mediazione del wise è quella di chi si permettedi superare le frontiere dello stigma sociale essendo anch’egli un marginale,ma che si riserva il diritto a rifiutare ciò che viene dato per scontato nei suoiconfronti. Comunica. Da quella middle-class da cui proviene egli può passareal mondo della vita notturna e di altre categorie a rischio. Riportando unaindagine sulla prostituzione di Stearn (1961), Goffman cita volentieri le sueosservazioni sulla pratica sociale delle prostitute e delle call girl che si ’rifugia-no’ nella frequentazione di bohémiennes, artisti, attori e pseudo-intellettuali,in ambienti in cui ci si può permettere di essere una ’off-beat personality’(Stearn 161:181, cit. In Goffman 1963:28).

Di questi testi è interessante la capacità insinuante di includere un usogergale che si fa strada nel linguaggio quotidiano. Da categoria sociologica acategoria linguistica anche lo stile verbale maggioritario si pone come ’middleclass style’, per il quale Labov osserva negli afroamericani la percezione di ’va-ghezza’ e ’verbosità’ (1972:222). Il wise in quanto mediatore (che coincide conl’osservatore) diventa con termine emico lame, cioè colui che non si conformaai modelli linguistici vernacolari e che spesso è protetto dal suo commercio conla cultura maggioritaria, ma la cui condizione è considerata come una vera epropria ’deprivazione’ comunitaria per la sua ’loss of some magnitude in theirisolation from its rich verbal culture’.10 Si comprende come Gilroy possa re-clamare una coscienza diasporica che vede un potente ’mito ordinatore’ nellemolteplici interpretazioni dell’esperienza musicale11 afroamericana. Il musici-

9 Notevole anticipazione di un panorama post-moderno in cui le coordinate dellostigma sono fittivamente raccontate e trasformate in stratificazione sociale diconsumatori da parte della pubblicità e della programmazione televisiva. Chi nonconsuma o non consuma ’liberamente’ è stigmatizzato.

10 Un esempio di uso (in origine) radiofonico di tale ricchezza è più avanti in unastoria narrata da Lester Bowie.

11 Giusto criticare le pretese dell’antropologia post-moderna, e le contemplazioniestetiche dei cultural studies ma bisognerebbe affrontare storicamente la questio-ne. Nel campo del jazz vi sono numerosi ’segnali’ importanti rispetto agli inviti

4.1 La storia controversa 261

sta afroamericano è un ’passatore’ che non può essere totalmente ’lame’ mache assume questo aspetto proprio nel momento in cui si fa interprete delleistanze universaliste della cultura. È mediatore in un senso paradossale: nelmomento in cui va verso i bianchi ne prende le distanze.12

Nella costruzione di un sistema di differenze sociali, culturali, politiche ereligiose, la metafora del lame è ambivalente e fluida, compromessa tra la cul-tura degli insediamenti urbani (in gran parte prodotto dall’immigrazione dalsud) e di più stabili rappresentazioni religiose che fanno pensare al potenteruolo di controllo delle Chiese Nere. Se il discorso che non sta in piedi è ’zoppo’e dunque filtrato dal concetto del ’diabolico/detestabile’, segno di una ambi-guità insidiosa,13 esso sta anche a rappresentare lo spazio da riempire nellaricerca di autenticità e di ’verità’ della cultura afroamericana. Cioè proprioquello spazio in cui il progetto del jazz diventa quello di rifare da capo il mondo(Williams 1991:14). I progetti di movimento dei musicisti, i loro spostamenti,all’interno del paese e soprattutto quelli in Europa, significano anche il supe-ramento di questo tipo di rappresentazioni. L’ultimo grande lame del jazz èLester Young, noto per aver saputo inventare un proprio linguaggio oltre chela propria musica, ma pensare e chiamare qualcuno lame diviene molto prestoqualcosa di lame a sua volta. Il ’personaggio sonoro’ certo mostra un legamecol proprio tempo (quello presente) di una estrema profondità: lui, Billie Ho-liday, Count Basie restituiscono ambienti, situazioni assolutamente irripetibilinella memoria di chi li ha conosciuti nelle interviste che si susseguono nellanarrazione documentaria di Burns (2000).

Il susseguirsi delle fasi stilistiche del jazz può essere visto come una serie diingegnose prese di distanza dalle imposizioni delle aggregazioni storiche dellacultura e del gusto ’middle class’: dalla loro verbosità, vuotezza e inautenticità.Un riferimento centrale, extra-musicale in senso stretto, della rappresentazio-ne del jazz si volge verso una tradizione del linguaggio. La forza della musica

di Hannerz (ripresi da Piasere 2002) a riflettere sulla fine del discrimine tra artee vita come caratteristica centrale dell’antropologia post-moderna.

12 Nel corso di dieci pagine in cui Patrick Williams confronta il jazz e le musichezingare (1991:11-21) questo fenomeno è messo in luce sotto diversi aspetti.

13 In questo senso in The Cry of Jazz si dice: ’the Negro is the only human inAmerica’ (Bland 1959). Dopo lo schiavismo l’uomo bianco si assume il crimineassoluto dello sterminio atomico. Se il riferimento al simbolismo religioso permetteapprofondimenti sul ’campo’ del jazz e gli studi culturali, proprio l’Africa sembra ilterreno più refrattario alla possibilità del jazz di porsi in modo critico in rapportoalla cultura maggioritaria. Lo si vede (p. 29) nel modo in cui la società Songhoyha conosciuto, recentemente, nella ultima generazione di demoni ’coloniali’, gliHaouka, il genio chiamato Free-Jaz ed in quella risposta di ’indifference polie’che Pierrepont individua in rapporto ai tentativi attuali di acclimatare il jazz inAfrica (Pierrepont 2002:37).

D’altro canto la profondità del livello di cristallizzazione di rappresentazionicome quella del lame, permette al sociologo di origine nigeriana John Ogbu dicostruire una teoria di una cultura ’dell’opposizione’ (Ogbu 1984) vista comefattore essenziale nei problemi di scolarizzazione degli afroamericani.

262 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

sta nel suo saper essere complementare al linguaggio. Ed il linguaggio cambiarapidamente in quanto entità fluida e impalpabile che emerge nella perfor-mance. Anche per questo è corretto interrogarsi se il jazz non sia già di per séuna ’antropologia musicale’ e i musicisti i suoi migliori etnografi,14 come fannoJamin e Williams (2001). E per questo non è possibile mettere sullo sfondoil rapporto stretto che c’è stato tra cultura del jazz e cultura afroamericana,che, come si sostiene in The Cry of Jazz (Bland 1959), e poi in Blues People(Baraka 2004[1963]), sono due aspetti di uno stesso ordine di cose.

Il cambiamento dell’ideologia del jazz è anche in certa misura il prodotto diuna costruzione parallela, di una ricezione e reinterpretazione necessariamente’colta’ della missione che il Nero americano ha davanti al mondo (Du Bois1903[1999]:5), che si sviluppa piuttosto in disparte dal vocabolario tecnico edai contigui interessi di ricerca della sociologia e dell’antropologia americanadel dopoguerra. Il campo della pratica musicale che stimola lo sviluppo di unanuova filosofia della musica, sino al momento del ’rinascimento’ degli anni ’60e ’70, si connette all’economia di un sistema dell’intrattenimento vivace e incostante crescita. Accanto a lavori che si pongono a dimostrare che il tempodell’emergere del blues e del soul nel campo della pop music è stato un affaresocialmente ed economicamente vantaggioso per gli afroamericani (Dowd eBlyler 2002), bisogna anche notare la volatilità ed il relativo impatto socialedell’interesse del pubblico per i musicisti afroamericani che portavano il saperee l’artigianato del jazz nella pop music. Argomento da cui deriva la necessitàurgente di creare il proprio ’universo di riferimento’, come scrive Pierrepont(2001:222). Necessità manifestata in modo inequivocabile da un fiorire delleassociazioni cooperative dei musicisti negli anni ’60, che inizia a ripiegarsi susé stessa15 solo negli anni ’80. Il pubblico afroamericano non fa eccezione tragli altri: anche qui dagli anni ’60 in poi almeno, ha bisogno di personalitàartistiche con la più ampia capacità di interpretare ’un popolo’ ma le cerchiedei jazzmen non possono farlo che in condizioni particolari. La posizione delmusicista di jazz si complica nel quadro della sempre crescente importanzadel sistema industriale della popular music negli Stati Uniti e nel resto delmondo.

4.2 Narrazioni e ’microclimi’

Per avere un’idea del mutamento dell’interazione tra jazz e forme più diffu-samente apprezzate e conosciute della musica afroamericana, note come soul14 Quando la memoria dei luoghi e delle persone del jazz si unisce sulla pagina ad

opere concrete, come è il caso di un breve paragrafo della autobiografia di DukeEllington dedicato ai giovani, la capacità di evocare un universo assume una forzaed una chiarezza sorprendente (Ellington 1981:348-357).

15 ’Spiritualizzandosi’ e diventando sempre più autoreferenziale, sposando istanzepiù puramente estetiche e poetiche nel grande riflusso degli anni ’80 e nel rifiutodei contenuti politici del jazz degli anni precedenti.

4.2 Narrazioni e ’microclimi’ 263

music o rhythm & blues, è opportuno fare ricorso ad alcune testimonianzebiografiche. Ma prima di questo è opportuno fare un passo indietro, all’epocadello sviluppo del be-bop a New York, prima di passare a narrazioni dellagenerazione seguente dei musicisti dell’avanguardia, tutti o quasi originari delsud degli Stati Uniti.

Durante e dopo la guerra, col be-bop, si passa nelle cerchie più avanzatedei jazzmen ad una ideologia di completa dedizione alla ’propria musica’ equindi ad un vero e proprio esclusivismo culturale nella teoria e nella prassidei musicisti. Raymond Orr, trombettista e al tempo membro della celebreorchestra di Billy Eckstine, parla in questi termini del periodo in cui Harlem eluoghi come il Minton’s Playhouse divennero il laboratorio della nuova musica(Orr 2004):

Minton’s and Small’s Paradise were where the musicians hung out in NewYork. There were problems with the Gerry Mulligans, the Stan Getzs andothers because (we) didn’t want (them) to learn the music at the time. Therewere meetings and trickery when we were playing to discourage them learningthe music.16

Sollecitato a commentare la limitatezza del mercato del be-bop in rapportoalla sua enorme portata innovativa, Raymond Orr osserva che i musicisti nerierano talmente impegnati ad inventare ed a godersi la nuova musica da esserelontani dall’idea di venderla. ’The enjoyment was a pacifier for poverty. Therewas an anti-white musicians sentiment’ (loc. cit.), non basato esclusivamentesu base razziale, ma culturale. E dato che per i musicisti neri il raggiungimentodella sicurezza economica era ancora un fatto estremamente più difficile daottenere che per i bianchi, si comprende il vedere la comparsa di quest’ultimiad Harlem come a caccia di idee da ’rubare’. Dal bop in poi il jazz diviene unaquestione ’nera’ in un modo completamente diverso, da qui in poi (nonostantenon si tratti di una novità assoluta) il jazz guarda sé stesso con maggioredistacco e penetrazione, si costituisce come antropologia.17

Questo accade mentre e subito dopo che gli afroamericani hanno fatto la’loro’ seconda guerra mondiale, trovandosi spesso a negoziare la propria pre-

16 Questo stesso concetto è attribuito da Shepp a Thelonious Monk, del quale riportala citazione ’We were trying to keep the white boys from learning what we wereplaying’ (Shepp 1990).

17 Il trombonista Tricky Sam Nanton, figura centrale per un lungo periodo nell’or-chestra di Duke Ellington rappresenta la corrente sotterranea, ma fortissima neljazz, delle correnti africaniste. Oriundo delle Indie Occidentali, Nanton fu il pro-duttore di una serie di innovazioni sul piano timbrico e melodico che sarannofondamentali nel sound Ellingtoniano, un personaggio sonoro unico che ’non sigingillava con la musica degli altri’. Ellington (1981:91-93) stabilisce una continui-tà tra le idee di Marcus Garvey (sostenute da Nanton) e la sua pratica musicalecon quelle che verranno dopo coi Black Muslims ed il be-bop, sottolineando che ilbe-bop non è stato che ’l’estensione di Marcus Garvey’ nel campo musicale (op.cit. p. 93).

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senza nell’esercito con metodi di azione politica diretta,18 oltre che morire perla patria. Hobsbawm riporta l’interpretazione di John Hammond del be-bopcome vero e proprio ’rientro nel ghetto’ dopo il grande sostegno pubblico del-l’era dello swing. Il contemporaneo ritorno dei bianchi verso il folklore, allafine della guerra, testimonia di un umore completamente cambiato (Hobsba-wm 2000:351). Ma dal ghetto si cercherà di uscire, e vi si riuscirà (indivi-dualmente e in piccoli gruppi, se non come ’popolo’, come avevano già fatto iboppers) con la new thing o, per dirla con Gates, col ’terzo rinascimento’, cheegli definisce come fondato su una base ’overtly political’. L’idea dell’auto-determinazione e l’apertura al mondo nei discorsi programmatici, le diasporeo le migrazioni stagionali però possono implicare una cancellazione a memo-ria futura dalla lista delle glorie artistiche nazionali. Archie Shepp racconta,riferendosi al proprio periodo di formazione, che (2004):

Il n’y avait pas de séparation nette entre rhythm en’ blues et ce qu’onappelait jazz”. Dans certains orchestres, celui de Ivory Joe Hunterpar exemple, jouaient des gens comme George Coleman ou PhineasNewborn. Ces formations étaient des sortes de lieux de séjour, deshaltes où se retrouvaient les musiciens de jazz sans travail [...] Enfait, tous mes héros, sur le plan musical, ont été de grands bluesmen.Coltrane est un grand musicien de blues.

Queste orchestre vanno intese come vere e proprie istituzioni attive in vari’microclimi’ socio-culturali (2001:223). Sono il luogo della maturità e dell’e-sperienza, del rispetto ottenuto nelle organizzazioni sindacali dei musicisti. Permolti aspetti la musica nel suo presentarsi come vocazione resta legata all’isti-tuzione scolastica, e a sua volta l’istituzione scolastica è legata alla disciplinamilitare. A Chicago le scuole storiche che offrivano insegnamenti musicali dialto livello come la Du Sable High School (con Captain Dyett) e la EnglewoodHigh School (con Donald Myrick) si facevano concorrenza (Mitchell & Myers1995). Il servizio militare poteva permettere una attività musicale continua-tiva (nel quadro dell’istituzionalizzazione della presenza afroamericana nellebande e in altri ambienti), spesso ripensata favorevolmente come una praticadella disciplina con effetti positivi anche per la carriera musicale (Mitchell1995). Per Dewey Redman la pratica musicale del rhythm and blues si uniscea quella dell’insegnamento in una piccola scuola rurale del Texas, mentre lavera e propria svolta nella sua carriera è segnata dal trasferimento a New Yorke l’ingresso nella cerchia di Ornette Coleman (Redman 2002). Gli inizi dellacarriera di Ed Blackwell a New Orleans sono descritti così (Blackwell 1973):

J’ai d’abord étudié et pratiqué la batterie à l’école. Au moment où j’aidû quitter l’école, j’étais « capitaine » de l’équipe des batteurs. J’ai eu

18 Un numero cospicuo di rivolte razziali nei campi militari americani durante ilperiodo bellico è riportato da Silberman (1965:98-100). Lo stesso autore (p. 100)scrive che in quel periodo, i Neri degli Stati Uniti, ’sia civili che militari, perserola paura di parlare e di agire ...’

4.2 Narrazioni e ’microclimi’ 265

mon diplôme de fin d’études. C’est alors qu’une amie m’a présenté àson oncle qui était musicien. Il avait deux autres neveux qui venaientde former un orchestre et cherchaient un batteur. Le leur les avaitquittés pour entrer dans la Marine. Nous avons fait un essai et j’aiété engagé. On jouait du rhythm and blues. C’est comme ça que ça acommencé.

Analoghe descrizioni di una sfumatura labile dei confini tra jazz e soulmusic sono espresse da Lowe (2001) il quale avverte che le differenze stili-stiche erano sottolineate dalle strategie commerciali ma che nel discorso delpubblico si trattava semplicemente di ’musica’. Il rispetto e l’apprezzamentopubblicamente diffusi per interpreti quali Ray Charles e Nina Simone confer-mano il loro essere interpretati come coloro i quali portavano una certa ideadi autenticità nel business nazionale della musica.

Questo breve excursus nella letteratura orale delle interviste continua nel’microclima’ musicale di Chicago, verso gli inizi delle attività della AACM. Siforma qui una nuova cerchia di musicisti, originari del sud degli Stati Uniti,spesso stabilitisi a Chicago verso gli inizi degli anni ’60. C’è tutto un rapportoalla pratica del rhythm & blues riportato nei dati biografici e nelle narrazionidei musicisti originari del sud degli Stati Uniti e poi noti per il loro impegnonel nuovo corso degli anni ’60 e ’70, impegno che implica il movimento verso igrossi centri urbani, l’incontro e la collaborazione con musicisti già affermati.Frank Lowe (1973), originario di Memphis, lavora come sideman alla StaxRecords. Leo Smith, di una generazione più giovane e che inizia ad esserepiù conosciuto negli anni ’70, esprime un opinione precisa (Lewis and Smith1995):

Well, yes. Essentially in Mississippi, the art of blues music is practicedwith voice and instrument. When I began to play the trumpet, myfirst exposure to music was dealing with blues. I would say in thatbeginning of learning the blues as such, it was also the beginning ofthe trumpet for me, meaning that I learned how to play music whileplaying blues on the trumpet – if people understand what that means.It’s not that I went there as a musician. I learned how to become amusician while I was playing the blues. So it’s kind of unique.

Per Leo Smith il blues diviene un concetto olistico, fondamento della prati-ca della nuova musica improvvisata e della propria filosofia musicale oltre chedell’essere ’... the people who are the blues’ (Lewis in Lewis and Smith 1995,corsivo mio). Sono confermati i termini della quella ’presa di distanza’ delmusicista per cui la comprensione più profonda del blues come filosofia dellamusica e della vita orienta le scelte di personaggi che vanno considerati comedei ’filosofi viventi’ (loc. cit.). Quanto alle proprie vicende personali all’iniziodella propria carriera, anche Smith racconta di essere cresciuto musicalmente’intorno alla gente del Rhythm & Blues’, di avere avuto un’idea molto vagadel jazz nel primo periodo della sua formazione e di aver incontrato un vero

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e proprio maestro del jazz solo all’età di vent’anni: si trattava di Miles Da-vis incontrato in Italia (cit.). La testimonianza di Leo Smith è interessanteanche quando descrive di che cosa potesse trattarsi realmente, nello stato delMissisippi, suonare regolarmente in pubblico per un giovane musicista afroa-mericano. La narrazione fa riferimento a circa sette anni prima dell’incontrocon Davis in Italia.

Two guitars, a drummer, and me. And one of the guitar players sings,and none of them knew which key they were playing in, and none ofthem cared. In fact, it wasn’t even important. We played blues in thetradition of Howlin’ Wolf and Elmore James and Muddy Waters. Ifsomebody said, Play some of B.B. King . . . Any kind of blues, theseguys had the ability to articulate and make it come across. But noarrangement at all. My part, just like their part, had to be made upas we went along, because all that was known was the song, the verseof the song. So I had to make up riffs. I started out at 13. I had tomake up riffs and make solos in this kind of music of two guitars anda drum and one of them singing, with no keys, or no specific tonality– but definitely making a register within the spectrum of sound.

Da parte sua, George Lewis, cresciuto nel South Side di Chicago, indicacome required listening il Reverendo Clay Evans ed il suo famoso It Is NoSecret What God Can Do, nella stessa intervista (cit.). Riguardo agli ambienticontinua Lewis:

Well, we’d call them honky-tonks, or juke joints, or bottom houses.They had a lot of names for them. But essentially they were largerooms that had a band standing in the back, that could hold three orfour people, and the dance floor was really big. We would start at like9 o’clock and go until the next morning almost. So a really big space,people dancing, and generally they were gambling in the joint – andof course, if there’s gambling, there’s probably other things that goalong with that. There were fights, and there were confrontations. Itwas grim. I learned how to live, you know.

Lester Bowie, si sposta da St. Louis a Chicago verso il 1965; prima diconoscere la Experimental Band di Muhal Richard Abrams, che lo salverà dauna seria crisi motivazionale, aveva lavorato molto nel campo del Rhythm &Blues (Bowie and Favors 1994)

Well, my wife had gotten a hit record. Fontella Bass was my firstwife, and one of her records was starting to hit. I don’t think it wasRescue Me. It was something else. Anyway, I was hanging aroundthese companies like Brunswick Records. I just did a lot of sessions.And of course, playing around with bands. George Hunter was one bigband I played with.

4.2 Narrazioni e ’microclimi’ 267

Prima di Bowie era giunta a Chicago nel 1963 la cantante, pianista edorganista Amina Myers, da Little Rock, Arkansas. I suoi talenti erano richiestianche grazie alla diffusa popolarità di un interprete femminile incomparabilecome Nina Simone ed alla popolarità dell’organo elettromagnetico19 nei gruppipiù moderni. In Arkansas la Myers era attiva sia come organista nelle funzionireligiose della domenica, sia nei luoghi di intrattenimento notturno (Mitchelland Myers 1995)

Well, first of all, I was doing rhythm & blues and everything. And ayoung lady when I was in college came up to me and she said, « I havea job for you, but it’s playing in a nightclub. » I’ve told this story somany times. I wasn’t even thinking about playing in a nightclub. Isaid, « Girl, I can’t play no nightclub. » She said, « Yes, you can. Itpays five dollars a night. » And as I have said so often, we called her« the black Elizabeth Taylor, » because she looked just like ElizabethTaylor.So I went down there and got this job playing. I copied all of the . . .Because I was singing. I always sang and played at the same time. Icopied all of Ella Fitzgerald’s Stomping At The Savoy, note for note.But like Roscoe was saying, the jukebox there had Ornette Coleman,Lou Donaldson, and Ornette’s music was very popular. I always likedit. It sounded strange, but I liked it.

Dal sud i musicisti si recano a Chicago, seguendo una via storica di emi-grazione e incontrando un ambiente favorevole, nel quale è meno pressantel’urgenza di integrarsi nel mainstream dell’industria culturale che vige a NewYork, e avendo già fatto la conoscenza delle proposte più avanzate dell’epoca:la musica di Ornette Coleman, in Arkansas, è nei juke box. Anche la Myerssarà decisivamente impegnata con la AACM. Nella stessa intervista che è del1995 la Myers spiegava che la sua attività attuale era concentrata su un trioe sull’interpretazione del repertorio di Bessie Smith, oltre che al lavoro in so-lo ’blues, gospel, jazz and extended forms of music solo piano’ e nello stessotempo cercando di produrre concerti per organo a canne in Europa (Mitchelland Myers 1995).

Nel club cittadino di New York, come lo ricorda Malachi Favors rievocandoil suo sodalizio col pianista Andrew Hill (fine anni ’50), erano richiesti diversitipi di intrattenimento nei quali oltre alla band erano ingaggiati altri tipi dispecialisti (Bowie and Favors 1994).

19 Noto in Italia più con il nome della sua marca più famosa, cioè l’(organo) Ham-mond. La popolarità dei gruppi dotati di organo Hammond era dovuta al successodi Jimmy Smith, Wild Bill Davies e di un altro gruppo basato a Chicago: quellodi Gene Ammons (Ajaramu, batteria, John Logan, organo, Gene Ammons, saxtenore) come ricorda Fred Anderson (Anderson 1995). Lo stesso Sun Ra useràestensivamente le possibilità di diversi tipi di organo elettronico.

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At the time, smaller clubs would have maybe three or four pieces, anda singer who could sing the blues and pop, and maybe a shake dancer(we don’t see those any more). That’s what the clubs were like. Itwould take me some time to collect my thoughts on it; it’s so longago.

Roscoe Mitchell (1995) mette piuttosto in collegamento questo periodo al-la necessità di rendere comprensibili le nuove scoperte musicali alla luce delblues. Egli, ammettendo di non comprendere la sostanza musicale di quello cheOrnette Coleman stava facendo a quei tempi, ricorda invece la grande impres-sione ricevuta dall’ascolto di Albert Ayler in Germania, dove stava effettuandoil servizio militare. Ayler, da un blues suonato normalmente straight per dueo tre chorus, passava poi a mostrare effettivamente come si poteva estendere(stretch it out) la forma musicale più popolare e conosciuta del repertorio.

Per quanto riguarda Chicago come uno dei principali ambienti del jazz,per cui si dice che il suo South Side sia ’the northern outpost of Missisip-pi’ (Panken in Lewis and Smith 1995), molte testimonianze restituiscono lamemoria di un clima più aperto e favorevole alla formazione dei musicisti diquello di altre metropoli (New York ’in primis’). Richard Davis (1993) ricordala possibilità di ascoltare contrabbassisti eccezionali quali Wilbur Ware e KarlByrom nelle frequenti jam session, lavorare con Sun Ra nei locali di CalumetCity, sottolineando l’idea di un legame immediato e diretto con New Orleans,luogo di origine della madre. Per Leroy Jenkins, invece, che si descrive comemusicista che suonava il violino ’at teas and weddings and things like thataround Chicago’, traendo ispirazione della musica del tempo (Jenkins 1993)’blues, pop, anywhere from Nat Cole to Mahalia Jackson’ e con Charlie Par-ker come idolo della propria età giovanile Jenkins rimarca anche la presenza aChicago di maestri delle prime fasi del jazz come Stuff Smith ed Eddie South,e la consuetudine di gruppi che praticavano ancora il cosiddetto stile ChicagoJazz. Tommy Hunter da parte sua sottolinea la posizione autorevole che StuffSmith ed Eddie South avevano nel sindacato dei musicisti cittadino (Hunter1999)., riporta di una certa inquietudine e la ricerca di un ambiente più favo-revole a New York, prima del ritorno a Chicago attratto dalle attività dellaAACM e di Muhal Richard Abrams con la sua Experimental Band.

Interessante riflettere sui rapporti tra la circolazione del sapere musica-le nelle chiese e le implicazioni sociali di questa tradizione con Sam Rivers(1997), il cui peculiare ambiente culturale ebbe modo di respirare in famiglia.Figlio di un cantante del Silvertone Quartet e della sua accompagnatrice alpiano, Rivers nacque durante una tournée del gruppo nel sud del paese men-tre la famiglia era basata a Chicago. Entrambi i genitori si erano laureati allaFisk University ed alla Howard University, la madre in sociologia. Il nonnoReverend Marshall Taylor, era vescovo della chiesa metodista di Cincinnatie pubblicò varie raccolte di canti del periodo schiavista e inni religiosi versoil 1830-40. Il coinvolgimento con la musica di Rivers inizia in famiglia, macontinua durante il servizio militare negli anni ’40 che lo porta in California

4.2 Narrazioni e ’microclimi’ 269

dove, a Vallejo, si unisce al gruppo di Jimmy Witherspoon e più tardi a quellodi Billy Eckstine. Sam Rivers tratta altri argomenti relativi al tipo di saperenecessario ai musicisti del suo tempo, sottolineando quanto il polistrumenti-smo sia non solo necessario nel jazz ma anche che sia molto più diffuso diquanto il corpus di dischi e registrazioni lasci intendere. Rivers fa inoltre unaaffermazione molto diffusa e importante riguardo alla composizione ed allasua visione del jazz che si accorda molto bene con quello che è il discorsosulla blues culture (Rivers 1997) una volta che il suo ambiente di riferimentodiventa quello di un un business urbano più difficile, esigente e competitivo.

Jazz is especially about individuality, and you go out there and playsomebody else’s music, you’re giving Jazz a bad name. You know whatI mean?

Winton Marsalis, osserva che per i musicisti di oggi è molto più difficileapprendere quella che chiama una ’Blues expression’ perché oramai ’the soundis not prevalent in the culture’ (Marsalis 1997). Nelle testimonianze di que-sto gruppo di musicisti tutti più anziani di Marsalis, l’autodeterminazione el’inventiva, seppure con la premonizione dell’allontanamento fra ’sound’ e ’cul-ture’, è ancora una strategia umana ben diversa da quelli che sembrerebberoessere gli oscuri movimenti che orientano le produzioni delle cerchie degli arti-sti dell’epoca post-moderna. Un esempio è la storia della permanenza a Lagosdi Lester Bowie negli anni ’70 e del suo sodalizio musicale con Fela Kuti. Quiil famoso blues in si-bemolle diventa una specie di passaporto internazionale.Vale la pena di citare quello che è un aneddoto completo, un esempio di quellache è l’arte del racconto che i musicisti non cessano di praticare (Bowie andFavors 1994).

I had wanted to go to Africa for years. You know, you see Roots andyou want to go to Africa20. The Art Ensemble had been trying to go toAfrica. We were working with the French Ministry of Culture, and theywould send us everywhere but Africa. We knew they had a ministryin Senegal, they had ministries in Martinique and Guadaloupe, butthey would never send us there. And we tried many years to go.So finally, I just decided — I’m going to Africa, and after one of ourtours I just went. I didn’t know anyone in Africa. Now, I think RandyWeston gave me Fela’s name. He said, — Well, if you ever get there,check out Fela. So I went to Nigeria on a one-way ticket. I didn’t havea way to get back. I had 100.Anditcostme50 to take the cab to get tothe hotel. I had 40 bucks left. I had enough money for the room and ameal, and I didn’t have any more money. I had just arrived about 10o’clock at night, and I had to leave by check-out time. I didn’t knowanyone.

20 È un fatto noto che, col successo della celebre serie televisiva tratta dal libro diAlex Haley, le agenzie di viaggio abbiano trasportato, specialmente in Senegal,migliaia di afroamericani presi dallo stesso desiderio di Bowie

270 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

So I went to the restaurant, and the kitchen was closing, and I got totalking with the waiters. They said, — Well, you’re a musician... Theycouldn’t believe that I was like... — Here’s this American, and you’rejust showing up? You don’t have any money or nothing? You’re outhere with this trumpet? I don’t believe it. So anyway, they said, —Well, you’d better go see Fela. So I went to see Fela. The next day Igot up and I said, — Well, where does he live? They said, — Just getin the cab and just tell the cab driver to take you to Fela. So I got inthe cab and said, — Take me to Fela.Fela at that time had just been kicked out of his house. His house hadbeen burned down by the soldiers; this was right after that. So he hadtaken over this hotel. We pull up to the courtyard of his hotel. Thislittle guy comes up to me as I get out with my horn. He says, — Hey,what’s that? I said, — It’s a trumpet. He said, — Where you from? Isaid, — New York. He said, — You play jazz? I said, — Yeah, I playjazz. He said, — Well, you must be heavy then. I said, — Well, a littlebit. He said, — Well, you’ve come to the right place. I said, — Whyis that? He said, — Because we’re the baddest band in Africa.So from that moment on, he took me to Fela, and Fela... [Laughs]It was funny. They had to wake Fela up. They woke him up, andFela came in, and he said, — Oh, who is this guy? He motioned fora guy to bring his record player, and he had some of those JameyAebersol(d) [sic] type records, then he motioned for another guy tobring in his saxophone. So he put on this blues, a blues in B-flat, whichis my specialty, right? So I played this blues, man! One way ticket, youknow I was blowin’, baby. After I played a couple of choruses he said,— Stop. Somebody go get this guy’s bags. He’s moving in with me.So from that moment on, I was Fela’s guest of honor. I made threerecords with him, and it was quite an experience.

4.2.1 Ancora nei paraggi d’Europa

Il fatto che, grosso modo in questi anni, si sia scritto in Italia “Viva Marx,Viva Lenin, Viva Archie Shepp” (Castaldo 1975), non può che confermare l’in-terpretazione della musica del terzo rinascimento come musica di liberazionee nello stesso tempo come parte di una più ampia rappresentazione sociale incerca di legittimazione nell’Italia degli anni ’70. Per esagerato o poco felice chepossa suonare oggi a posteriori, questo slogan pone un argomento da appro-fondire: e cioè che nell’eccezionale ricchezza, problematicità, drammaticità delperiodo che va dal 1973 al 1978 in Italia, la rappresentazione del ruolo mon-diale degli Stati Uniti passasse per gli sviluppi della questione afro-americanaanche per chi non era un vero e proprio appassionato di jazz, molto spessoall’incrocio del binario dell’apertamente politico e di quello del commento allamusica pop. Scrivendo della Arkestra di Sun Ra su un giornale di informazione

4.2 Narrazioni e ’microclimi’ 271

musicale giovanile oggi impensabile come fu lo storico « Muzak », GiacomoPellicciotti la definisce come

una delle più straordinarie e reali proposte di spettacolo veramentetotale che gli USA ci abbiano mai offerto (Pellicciotti 1973:43)

D’altra parte si può osservare come sia proprio la capacità degli artistidella nuova musica nera non solo di comprendere l’aspetto pubblico e politicodel proprio agire, ma il loro ’farsi antropologi’ nell’interrogarsi e cercare dicomprendere la natura profonda ed il senso del loro stesso operare dovrebbeescludere la loro memoria dalla storia della cultura ’legittima’ mentre essa siriversa nell’universo della memoria digitale.

Il jazz è stato sempre frainteso e ha obbligato a prendere posizione susci-tando l’entusiasmo dei modernisti e le censure dei reazionari, poi, travolgentipassioni, solidarietà e speranze di gruppi dissenzienti. Precisamente in questosta la sua forza. Da una lettura frettolosa del citato articolo di King sembranoemergere i termini di un conflitto locale circoscritto intorno alle politiche disostegno al jazz del Lincoln Center, ma si tratta di molto di più: è in gioco lacancellazione di una intera generazione di musicisti e la revisione di un capito-lo cruciale della storia della cultura musicale che appartiene al mondo intero,malgrado che il senso comune del nostro tempo ci spinga a guardare alle vi-cende della musica tutt’altro che come ’affari di stato’ ma come un dominionelle cui vicinanze nulla di grave possa accadere.

L’emergere dell’arte musicale afroamericana è sempre stata una questione’globale’, come fa intendere Shepp, e lo è stata sin dagli inizi. L’Europa è par-te diretta in causa nella storia del jazz, ulteriore macroscopica dimostrazionestorica del ’carattere performativo’ di questa musica. Per la Francia, Jean Ja-min ci offre un panorama generale delle vicende di circolazione interculturalein quella che i musicisti americani stessi hanno chiamato the other country ofjazz (Jamin 2001:285). Le idee del jazz, che irrompono all’attenzione dell’inte-ro continente col successo definitivamente sanzionato dalla ‘Revue Nègre’, dalgraffio nell’anima parigina affibbiato dal corpo seminudo di Josephine Bakernel 1925, seguono un processo di acclimatazione nei gusti, le rappresentazionie le aspirazioni di più di una generazione. Idee che divengono il filo condut-tore di una rielaborazione non dogmatica e non convenzionale che percorree continua il proprio dialogo con tutta la cultura francese già con Debussy,Milhaud e Cocteau, ma anche con Vian, Trenet, Django Reinhardt e poi conMichel Legrand ed i grandi ’crooners’ Gilbert Becaud, Yves Montand, HenrySalvador, e, oltre a questo, come ’buona da pensare’ per sociologi, etnologi edetnomusicologi.

Negli anni ’60 e ’70 l’accoglienza che i musicisti della New Thing come SunRa, Cecil Taylor, Ornette Coleman, Archie Shepp, Don Cherry, Art Ensembleof Chicago, Steve Lacy e molti altri hanno avuto in Francia sono ben note:buona parte della produzione avviene qui. Jean Jamin ricorda l’importantecatalogo della Byg (2001:290), l’etichetta diretta da Jean Georgakarakos, cheprodusse (tra l’altro) storiche incisioni di Sun Ra, Art Ensemble of Chicago,

272 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

Sunny Murray, Cecil Taylor, Frank Wright, e molti altri. L’esempio fu prestoseguito da piccole etichette basate in Italia quali la Horo e la Black Saint,entrambe dirette da Aldo Sinesio. Ma per lui il coronamento di un impegnoche dura dagli anni 70 pare giungere molto dopo, al riparo da ogni clamore.Come si è già visto (v. n. 96, p. 227) a Milano, nel 1986, Sun Ra incideun’opera senza uguali: Reflections in Blue per la Black Saint. Reflection inBlue è un viaggio nel mondo dello swing, dei timbri e dei colori delle orchestred’anteguerra in cui Sun Ra racconta quello che molti dei suoi interlocutoripotevano solo sognare.21

La scelta della Francia come luogo in cui è stato a lungo possibile viveree lavorare per jazzisti di tutte le generazioni, l’aspetto itinerante (Pierrepont2002) del jazz torna ancora una volta, e non c’è dubbio che la Francia e so-prattutto Parigi, in quanto nodo centrale di un rete europea dello spettacoloe della moda, sia un luogo molto importante per studiare l’apporto del jazzin quanto catalizzatore di mutamenti nella cultura europea che sarebbero in-comprensibili a prescindere dalla sua capacità di spostarsi e mettere le basialtrove. Indimenticabili le accoglienze ricevute da Ellington alla vigilia dellaseconda guerra e da Miles Davis nel 1948, ma si tratta pur sempre di eventi edi connessioni che rientrano al mutare delle condizioni. Body and Soul è incisanel giorno in cui Hitler invade la Polonia: Hawkins giganteggia in quello chesembra sempre più una ’lettera’ a luoghi e persone che conosce bene (Burns2000). Incontri e rapporti che trascendono lo spazio musicale strettamenteinteso investendo la stessa visione di un epoca in cui le metropoli europeeinteragiscono con i cambiamenti provenienti d’oltreoceano. Uno spazio in cuinuovi ’generi performativi’ sono stati regolarmente ’agenti attivi di cambia-mento’ (Turner 1993:79), una storia le cui propaggini odierne rischiano spessodi apparire come prodotti-replica, anche alla luce del cattivo rapporto che siè venuto a costituire tra memoria del ’terzo rinascimento’ delle Arti Nere, lasua dimensione di via di comunicazione atlantica, ed i sistemi attuali del jazz.

4.2.2 Space is The Place

Nel bel mezzo del rinascimento culturale e delle politiche di parità di accessoal lavoro largamente disattese dello Equal Employment Opportunity Act, del1972, Sun Ra affida la pubblicizzazione del suo pensiero musicale e filosofi-co al film Space is The Place (Coney 2003[1973]).22 Si tratta di un lavoro21 Arrigo Polillo vide Sun Ra allo Slug’s di Manhattan nel 1967 e non lo ingaggiò,

pare (v. oltre p. 300-301). Probabilmente non avrebbe resistito al fascino di ’IDream too much’ ma venti anni prima prima era rimasto tra l’impaurito e l’i-norridito dinanzi alle ’urla belluine’ e alle competizioni di sassofoni, di quelli chechiamava ’imitatori’ di Archie Shepp nonché alle sfere spaziali del direttore e allecasacche lucenti tipo ’gitani di Granada’ dei suoi musicisti. Per il viaggio di Polilloa New York nel 1967 si veda (Polillo 1978), al cap. Un viaggio in USA.

22 Il film è stato riedito su DVD a trent’anni della sua realizzazione e distribuito neinodi commerciali della rete del pubblico pop. Vero direttore di una istituzione

4.2 Narrazioni e ’microclimi’ 273

complesso: performance filmica collettiva, testamento spirituale, parabola il-luminante della storia del jazz e della questione afroamericana, eccellente filmdi fantascienza. Dopo un preludio che ricorda i cabaret di Calumet City,23dove si assiste agli aventi del passato, l’arrivo a bordo della propria astronavedel caporchestra è atteso da una folla di curiosi e da uno speaker radiofonico,che sarà uno dei protagonisti del film. Lo speaker introduce l’arrivo del per-sonaggio Sun Ra presentandolo come di ritorno negli Stati Uniti (dopo che sene erano perse le tracce in Francia nel 1969), con la missione di salvare unpiccolo numero di umani Neri che intende portare nello spazio, su un pianetache ha già individuato.

Dopo una partita senza esclusione di colpi giocata dal Maestro contro unAntagonista spietato e potente, che lo impegna dai tempi di Calumet City,e nella quale terze parti rappresentate dal sistema mediatico e dalle agenziegovernative di intelligence si trovano a fluttuare da una parte all’altra, acca-drà che tutto sia giocato in un round finale che consiste nella sfida di suonare’ancora e nonostante tutto’. Questo accadrà in un concerto in cui Ra riappari-rà trionfalmente alla testa della sua Arkestra, dopo che due agenti dei servizisegreti lo avevano rapito. Alla partenza per lo spazio infinito, solo la ’partenera’ dello speaker radiofonico sarà ammessa sull’astronave. Il suo omologo,nero solo in apparenza e assolutamente privo di scrupoli, continuerà ad im-perversare sulla terra come giornalista detentore di un nuovo potere mediaticoche eclissa quello ’tradizionale’ dell’Antagonista, cioè quello del mafioso ne-ro imprenditore di bordelli, gioco d’azzardo e altri commerci illeciti minori,la cui sorte è quella di scomparire. Sun Ra, da parte sua, accoglie a bordo

e di un laboratorio artistico cooperativo, Sun Ra ha distribuito i propri dischicon la propria etichetta Saturn già a partire dagli anni ’50. Negli anni ’70 laImpulse tenterà una diffusione più ampia di alcune sue registrazioni nella distri-buzione jazz internazionale. L’Arkestra e tutte le varie denominazioni precedentidei gruppi diretti da Sun Ra rappresentano un esempio unico, che, con una attivi-tà documentata per circa quarant’anni, abbia continuato a percorrere una stradaparagonabile sia a quella delle big band come Ellington e Lunceford, di cui SunRa riutilizzava i materiali, sia a quella delle blues band di cui si è parlato in pre-cedenza, in un tipo di pratica che implicava sia la sperimentazione musicale, siala tradizione del jazz che l’integrazione della musica in una forma di spettacolototale.

23 Importante e necessario preambolo. Così descrive Calumet City, luogo situato aqualche decina di chilometri da Chicago, il batterista Tommy Hunter (1999) ilquale ebbe occasione di lavorarvi per due anni insieme a Sun Ra, all’inizio deglianni ’50. « Well, Calumet City was a place where I think it was either a steel millcompany or something, and it was a place where the mafia owned it. They hadall these strip clubs in Calumet City, and they had all these girls, and when theseguys would get paid they’d come to this club, and the girls would take them inthe back and steal their money and give them drinks that was watered down, ormaybe iced tea when they got drunk – stuff went on like that. I mean, I’ve evenseen people shot down. Well, I didn’t see it, but a club-owner I worked for, hegot shot down, and he had maybe 50 bullets before he hit the ground. »

274 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

con paterna benevolenza un ex-tossicodipendente, tre teenagers simpatizzantinazionalisti neri che fino all’ultimo avevano dubitato dei suoi poteri ma era-no riusciti a liberarlo, e tre prostitute duramente picchiate (una delle qualia morte) dai due maldestri quanto feroci agenti segreti. Infine salpa per lospazio.

4.2.3 Diaspore d’Europa

Si può parlare forse di una diaspora del jazz la cui rete di riferimento più ampiainclude molto presto l’Europa.24 Entro i suoi nodi si possono contare anche imolti musicisti italiani che hanno operato a lungo in Germania prima della 2aguerra mondiale, prima che le condizioni create dal nazismo imponessero lorodi abbandonare il paese. La sensibilità e le capacità di adattamento dei musi-cisti nel momento in cui si fanno antropologi-viaggiatori varia a seconda dellerispettive personalità e rispetto al contesto generale in cui operano. Intorno aloro si forma una rappresentazione oppositiva tra una maggiore densità e op-portunità di vita musicale e culturale a discapito della maggiore facilità dellavita in senso ’naturale’ e viceversa. Bud Powell a Parigi è altro che Powell aNew York, alla ricerca della possibilità di sottrarsi dai pericoli della ‘GrandeMela’; si è parlato in precedenza di Ellington e Miles Davis, che sottolineanoil rispetto che trovano in Francia in quanto artisti afro-americani. Si ricordainfine la breve ma intensa stagione di Eric Dolphy in Europa (forse un mitoancora più interno, caro ai musicisti stessi), ispiratore di giovani come MishaMengelberg, Han Bennink25 e Niels Henning Orsted-Pedersen.

Eric Dolphy introduce un grande cambiamento rispetto allo spleen deglianni 50, anni in cui i ’grandi’ si presentavano per suonare e sparire senza sot-tilizzare troppo sul tipo di rapporto musicale che si creava con i musicisti cheincontrava. D’altra parte le pratiche differivano almeno quanto la rappresen-tazione di sé dei musicisti, ma in molti casi le tournées europee nascondevanoil rischio di un certo tipo di atteggiamento ’condiscendente’ verso questioniquali l’uso di eroina e altri tipi di droghe, come si è visto in merito alla vi-cenda italiana di Chet Baker. Solidarizzare con i jazzmen significava essere alloro fianco, fino a metterli completamente al centro dell’attenzione e in gradodi disporre di quel che volevano, ma in questo si celava anche una profondaambiguità dei rapporti tra le cerchie dei musicisti ed il loro sostegno.

Quanto a Charles Mingus ed alla sua influenza enorme sull’idea di jazz deinostri tempi, è stata giustamente sottolineata da musicisti e commentatori,come segnale di un cambiamento profondo nelle rappresentazioni pubblichedel jazz la sua celebre dissociazione pubblica da quelle che chiamò azioni di

24 ’Non c’è artista negro, penso, che non abbia il pallino dell’Europa’. Così si iniziaun capitolo della versione italiana dell’autobiografia di Billie Holiday (2002:225).

25 Bennink ricorda (comunicazione personale di Roberto Bellatalla) che Dolphy eramolto severo con i propri ‘sidemen’ e molto fiero e geloso del proprio concetto e‘sistema’ armonico e improvvisativo.

4.2 Narrazioni e ’microclimi’ 275

’gente malata’ dopo una furiosa lite tra Charlie Parker e Bud Powell. Questoavvenimento precede di circa dieci anni la grande impressione suscitata inEuropa, nel 1964, da Mingus come interprete dei mutamenti avvenuti nelcampo jazzistico. Si pensi piuttosto alla ’musica’ che al jazz, ed eventualmenteai grandi afroamericani della musica piuttosto che a far divertire i bianchi.26L’exploit sarà ripetuto dieci anni dopo in un clima completamente diverso, inUmbria, dinanzi ad un pubblico composto da migliaia di giovani. Ma vi sonoprogetti ancor meno istituzionali di ’trasporto della musica’ : verso il 1969,c’era stato un ’ponte generazionale’ nuovo, esemplificato dall’arrivo in Franciadell’Art Ensemble of Chicago. L’impresa era stata caldeggiata dal batteristafrancese Claude Delcloo, che da parte sua rendeva onestamente noto di nonessere in grado di finanziarla. Ecco come Malachi Favors descrive le circostanzedi quell’evento; ancora una volta Bowie è ’restless’ (Bowie and Favors 1994).

Well, at the time, Lester again was becoming quite restless, and hecame to us and said he was going to get a trailer and take his family,and move them to a trailer, and just travel up and down the road. SoI listened, and we didn’t know what was going to happen. The AACMgot a letter from Europe, from a person by the name of Claude Delcloo,a drummer, a French drummer. He wanted the music to be broughtto France. However, he didn’t have any money to bring us there oranything. So at one of the AACM meetings Lester got wind of thisand came up with the idea that he would finance the trip to Francefor the Art Ensemble. And that was the beginning of it.

La decisione di andare in Francia si presenta come progetto economicoed esistenziale da parte di persone già disposte al movimento, alla ricerca dispazi culturali ed economici percorribili, ma la decisione necessita dell’accordocomune e viene sancita nel corso di un momento di dibattito associativo. Nel1969 Archie Shepp, Philly Joe Jones, Kenny Klarke, Hank Mobley, Steve Lacy,Don Cherry e Gato Barbieri, Leroi Jenkins, Anthony Braxton e anche Sun Raerano già (alcuni stabilmente, altri spesso) in Francia.

Nel corso dell’esplosione creativa della New Thing (e grosso modo fino al-l’inizio degli anni ’80) la Francia e anche l’Italia sono due ottimi luoghi di

26 In quell’occasione Mingus dirà: « ... Quand vous me classez dans la catégorie «jazzmen », vous limitez automatiquement mes possibilités de travail. Je ne veuxpas que ma musique soit appelée jazz. Savez-vous ce que cela veut dire, jazz ?A la Nouvelle-Orléans, to jazz your lady cela vent dire b... votre petite amie.Je ne veux pas que les critiques appliquent ce mot à ma musique. Qu’ils aillentplutôt se faire « jazzer» ! Ma musique est une oeuvre de beauté qui n’a rien àvoir avec ça ... Cette expression pornographique ne concerne pas la musique, pasplus d’ailleurs que l’amour. Lorsque je couche avec une femme, je ne la b... pas,moi, je lui fais l’amour. Le coït sans affection, à la sauvette, avec une p... ? Trèspeu pour moi ! Ma musique, c’est pareil. Elle a la beauté d’une femme qui ouvreles jambes. De l’amour véritable. Pas de pornographie. » (Mingus 1964).

276 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

osservazione in cui è possibile assistere ad una mobilitazione a rete delle cer-chie del sostegno e della distribuzione della nuova musica. Il fatto che si trattidi musica afroamericana pone dei problemi in più. C’è bisogno di un impegnodi traduzione e di diffusione del complesso universo simbolico del jazz e del-l’improvvisazione musicale verso un pubblico più ampio. Questo movimentocoincide con l’emergere di una nuova generazione di musicisti e prosegue inItalia con un processo contraddittorio ed esemplare di inversione, in cui dallospazio sperimentale e creativo si torna (intorno agli anni ’90 e oltre, dopola crisi della partecipazione politica e culturale degli anni ’80) verso un’i-dea diversa di jazz che si trasforma in qualcosa di sempre più letteralmente’autoctono’ e ’nazionale’ (jazz italiano, greco, turco, ungherese, portoghese,bulgaro ecc.) e ’istituzionalizzato’, mentre lo spazio ’diasporico e cosmopolita’che aveva messo in moto questo processo si restringe sempre più.27 Dagli ’90in poi l’interesse per il jazz ritorna ed è sostenuto da piccoli centri privati eindipendenti della produzione. L’esito di molte ’nuove leve’ è promettente, manon si fa un buon servizio alla musica suddividendola in spazi settorializza-ti della performance, e dandone per scontate le modalità concrete delle sueconnessioni con la società, con la cultura e col mondo.

4.3 Ripresa: Jazz & Antropologia

La caratteristica più evidente del ’terzo rinascimento afroamericano’ è chetutte le fonti sono ‘buone’ per elaborare la propria musica: non solo il jazz,ma ogni altra fonte. Frank Lowe (guardando in retrospettiva) interpreta benequesto concetto quando dice: ‘perché privarsi di una metà di cose che il mondoha da offrire?’ (Lowe 2000).27 Certamente la lotta per conquistarsi uno spazio operativo è andata in qualche

modo a spese di una circolazione di musicisti americani ed europei, che è statapercepita come soffocante per l’economia già ristretta del jazz in Italia. Ma visono molti altri fattori concomitanti alla progressiva affermazione dell’idea de ’ilnostro jazz’, che ’fa invidia all’estero’, e così via. Questa inversione di tendenzanon è riducibile alla reazione ad una sorta di assalto agli spazi vitali della ridottaeconomia del jazz in Italia e neanche si potrebbe addebitare semplicemente ad unasgradevole forma di ’protezionismo’ culturale. I motivi per la riduzione del sensodelle connessioni tra l’Italia e gli Stati Uniti in questo campo è influenzata damolteplici fattori che sarebbe impossibile analizzare dettagliatamente in questasede. Uno dei più importanti riguarda la perdita di interesse strategico direttodell’Italia per gli Stati Uniti mano a mano che il clima politico si adatta allariduzione del partito comunista prima e con il crollo dell’Unione Sovietica, poi. Sipuò insistere comunque sul fatto che ogni maggiore chiarezza portata su questoprocesso possa servire ad inquadrare la trasformazione dell’idea di ’autoctono’ inquanto sforzo cosciente e inaugurale di rappresentarsi dinanzi al mondo, che siframmenta in molteplici idee di costruzione di ’sistemi di legittimazione culturale’(che riguardano anche il jazz) e che si dipartono notevolmente dalle intenzioni deiprimi anni ’70.

4.3 Ripresa: Jazz & Antropologia 277

Dal punto di vista dei tempi e dei musicisti di cui si sta parlando è unfatto ben noto che essi non intendessero che in modo mediato la loro musicain quanto jazz. Questa mediazione si comprende in rapporto alle particola-ri esigenze strategico-promozionali dovute alla loro collocazione nelle cerchiedella produzione e anche a quanto jazz (e quanto blues) fossero riusciti lette-ralmente a ’incorporare’ nel corso del tempo e delle loro effettive esperienze.28D’altra parte essi avevano ben chiaro, nella maggior parte dei casi, un ap-proccio nel quale la propria comprensione degli strumenti, dei concetti, deisimboli e delle procedure che si costituiscono in rapporto diretto con determi-nate fonti musicali, la miscela di idee, materiali e procedimenti caratteristicidella cultura euro-americana con altre elaborate dai popoli ex-coloniali o inambito afro-americano potevano correre parallelamente al modo di vedere edi operare di molti antropologi.29

Se la precedente citazione di Frank Lowe è ben calzante per chiarire i ter-mini di una apertura, che, pur essendo retrospettiva, serve bene a rendereconto di un linguaggio diretto, con risonanze addirittura ’consumistiche’, ve-diamo che cosa diceva Sun Ra a Jean-Louis Noames trentacinque anni prima,nel momento stesso del precisarsi e del diffondersi di un nuovo atteggiamentodi autodeterminazione teorica e materiale delle cerchie del jazz (Sun Ra 1965).

Votre nouvel orchestre s’appelle « Sun Ra and his Myth-Science Or-chestra ». Qu’est-ce que cela signifie? Je crois que la science mythi-que est quelque chose d’important. Le mythe permet à l’homme dese situer dans le temps et de se rattacher au passé et au futur. Ceque je cherche, ce sont les mythes de l’avenir, du destin de l’homme(N.D.L.R.: Mythes eschatologiques). Je crois que, si l’on veut agir surla destinée du monde, il va falloir traiter avec le mythe. Ma musi-que, parfois, touche le mythe. Les savants, les écrivains, les poètes onttravaillé et pensé au mythe mais jamais les musiciens. Les musiciensjouent en référence au passé parce qu’ils le connaissent mais ils ontpeur quand on leur demande de jouer différemment. [...]Vous considérez-vous comme un musicien de jazz ?Auparavant, oui. Aujourd’hui, non. Le jazz, au début, était une chosebelle. Les musiciens qui ont créé le jazz n’ont jamais été très connus

28 Raphael Garrett ne aveva incorporato molto, moltissimo, ma lo mostrava difrequente, né lo considerava un merito.

29 Mi rendo conto di non poter più che accennare a questioni molto complesse.Per esemplificare un certo tipo di performatività musicale del tempo e conosciu-ta accolta da un pubblico piuttosto vasto, si potrebbe citare il famoso progettoRelativity Suite, commissionato a Don Cherry nel 1970 dalla Jazz Composers’Orchestra e pubblicato nel 1973. Se il successo di Cherry da a posteriori l’impres-sione di una compromissione con il livello ’medio’ della pop music e di successivetendenze new age, l’esempio opposto di Sun Ra ci mostra un musicista antropo-logo che (forse anche suo malgrado) non riesce che a fatica ad avanzarsi in unospazio medio di distribuzione e commercio.

278 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

du public. Mais les musiciens célèbres aujourd’hui ont tiré un grandenseignement de leur musique. Des groupes comme les Sunset Royalset les Carolina Cotton Pickers, d’autres encore, jouaient d’une manièrenaturelle comme ce que je veux faire aujourd’hui. Mais ils n’ont paseu de succès.De nombreux musiciens qui ont joué dans ces orchestres ont dû partirailleurs : ce sont ceux-là que vous connaissez maintenant. Et pourtantce ne sont pas des créateurs. Les vrais créateurs, c’étaient les leadersde ces orchestres qui jouaient d’une manière naturelle, libre, et par-couraient le pays. Mais ils n’ont jamais été aidés par la publicité; onles a laissé mourir. C’est pourquoi, aujourd’hui, il y a très peu degens qui aiment le jazz. Ce qu’on leur donne à l’heure actuelle, c’estune imitation de jazz. Le public le sait. Moi, j’ai joué avec ColemanHawkins, Stuff Smith : je sais de quoi je parle.

L’antropologia è la disciplina alla quale si rivolgono coloro i quali si trovanonella necessità di inserire l’elemento umano negli schemi sempre più ‘scientisti’e semplificati delle idee correnti sulla cultura e sulla società. Chi pratica lediscipline antropologiche cerca di pervenire a delle prospettive basate su unosguardo a distanza, meno convenzionale, e, almeno nelle intenzioni, più ap-profondito. Si tratta, dal particolare, di cercare di pervenire al generale, cosache del resto è parte integrante della vita quotidiana. Se un musicista comeSun Ra non sarà mai capito fino in fondo è pur vero che il suo armamentariosimbolico si dispiega entro le condizioni di una ’convergenza’ o di una ’com-plicità’, se si vuole, con il crescente interesse politico per l’Africa, nel climadella decolonizzazione,30 e rispetto al quale i contributi antropologici sullaquestione afroamericana sono certamente stati alla portata degli intellettualiafroamericani e preparati dall’esperienza dei boppers.

Si sarebbe tentati di generalizzare dicendo che ogni generazione ha il ’suo’jazz, ma, al contrario si dimostra qui che ogni generazione ’non lo ha’ e nonlo può avere. Ha piuttosto quello che ’crede di avere’. Per questo l’idea della’fine del jazz’ si rivela come una delle idee più produttive possibili in manoad musicista che è tra coloro che hanno partecipato e contribuito a lungo allosviluppo di questa musica:31 lo ’spirito’ del jazz può trascendere e trapassare30 Sun Ra incide nel 1956 Overtones of China e China Gates nel 1961, ben pri-

ma che il Presidente Mao dichiari il suo sostegno alla causa dei Neri americanicausando la reazione esultante della Nazione dell’Islam, allora guidata da ElijahMuhammad, e la immediata presa di distanza di Roy Wilkins e della NAACP(Silberman 1965:184-185); poi i riferimenti alla Cina scompaiono del tutto dallasua discografia. In seguito, tutta la vicenda della nuova musica e del free correràparallelamente alla guerra del Vietnam. I conosciuti continui rimandi all’Africanell’opera di John Coltrane e di tanti altri musicisti del terzo rinascimento nonhanno bisogno di ulteriori commenti (si veda comunque Kofsky 1970, Carles &Comolli 1973[1971], Fabiani 1983).

31 ’Le jazz ne fait pas système ; il s’ingénie au contraire à contourner ou à subvertirtout système, qu’il soit tonal, atonal ou modal’ (Jamin & Williams 2001:17-18).

4.3 Ripresa: Jazz & Antropologia 279

le generazioni. Sun Ra si dice interessato ad una ’scienza del mito’ che l’in-tervistatore si sente in dovere di precisare come ’escatologica’. Che cosa avràvoluto dire? Al contrario, l’intervistato parla nel modo più laico possibile, daintellettuale a cui è dato esprimere il proprio pensiero. È la comprensione piùprofonda possibile di una precisa fase storica del jazz quella che Sun Ra rico-struisce tramite la propria scienza del mito: la fine delle big bands dello swinge la sua sfida di far procedere questa cultura e questa pratica musicale in tem-pi che la vorrebbero defunta, con mezzi che si confrontano con l’impossibilitàche un tale progetto possa svolgersi nel mondo. Come spesso accade nelle in-terviste a Sun Ra l’aura di mistero (le denominazioni eccentriche, l’interessedel musicista per la fantascienza, le scienze occulte) viene dissipata nel modopiù efficace parlando dei dischi. Quando si tratta delle prime produzioni dellaArkestra, il fatto che si tratti di jazz, e del migliore, è inequivocabile. L’invitoai musicisti di elaborare un proprio pensiero, di studiare,32 di interrogarsi oltrelo spazio del jazz doveva essere largamente compreso negli anni a venire, SunRa ’sapeva di che cosa parlava’. Il ruolo della Arkestra rispetto alle cerchiedella produzione della new thing è centrale. È stato sottolineato a ragione ilriferimento di John Coltrane a John Gilmore, il sassofonista che fu uno deiprimi e poi dei più stabili collaboratori di Sun Ra, e come abbia ricercato ilsuo aiuto sulla via di un proprio stile e di un proprio suono.33

La ricerca di Sun Ra della teoria e della prassi di una musica ’naturale’,passa per una concettualizzazione tipicamente antropologica. Egli narra diaver incontrato, in un passato non troppo lontano, un livello di ’naturalezza’musicale nella cultura che sfida le pratiche ammesse nel presente e che deveessere oggetto di un duro lavoro di scavo e di ricerca per essere almeno fattointravedere, se non ricreato. Questa naturalezza non è un dato ’primitivo’, marivela una visione ’olistica’ della musica che comporta la presa in carico di ciòche la maggioranza delle culture demandano alla vita musicale circondandolada un contesto di ascolto, di sostegno e di empatia. Una visione che cambiacompletamente le carte in tavola rispetto all’idea corrente di musica, anche (esoprattutto) in una società come quella nordamericana. Il rapporto tra artee vita che si sviluppa nella ricerca di una pratica quotidiana di prossimità edi continua compromissione tra i due domini, questione per la quale Sun Raprecorre i tempi e che poi diventa parte della pratica di tanti altri musicisti,è frutto di una riflessione che può ben dirsi antropologica piuttosto che fruttodella mistica di una comunità chiusa di ’eletti’.

32 Il trombettista e compositore William “Bill” Fielder (Fielder 2004), parlando delperiodo intorno alla fine degli anni ’50, a Chicago, riporta: ’Sun Ra rehearsedevery day and, in between rehearsing, lectured’.

33 In una intervista riportata da F. Kofsky (1970) Coltrane spiegava di ’aver ascol-tato molto attentamente’ John Gilmore prima del suo famoso Chasing the Trane(si veda per questa ’pietra miliare’ Williams 2001), aggiungendo però di non sa-pere a chi faceva riferimento Gilmore stesso, ponendo l’accento su una dimensionepratica comune della ricerca (Fabiani 1983:205).

280 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

Non pare dunque strano prendere atto che nel jazz, e specialmente tra lecerchie di coloro che iniziarono a non chiamare più la loro musica in questomodo (sia per l’amore che portavano ai musicisti del passato, sia per cercaredi combattere una visione limitata della storia della musica afroamericana)queste idee abbiano fatto parecchia strada nel corso degli anni ’60 e ’70 e chel’eredità di musica e di pensiero di Sun Ra sia oggi oggetto di attenzione ecomprensione sempre crescenti.

Mentre parlare di ‘race’ diventa sempre meno tollerabile all’interno del-le comunità nere degli Stati Uniti, un modello sociologico ’culturalista’ perquanto corretto e moderato del rapporto tra il jazz e la sua gente posto dallariflessione di LeRoi Jones/Amiri Baraka è accolto sempre più nelle cerchie del-la produzione. D’altro canto il rifiuto di parlare ‘troppo facilmente’ dei maestridel passato che vige nelle cerchie ristrette dei musicisti è anche segno di un ri-spetto fondato nel senso della tradizione. Infatti è il termine di ‘New Thing’ acostituire una vera e propria precisazione dal punto di vista dei musicisti piut-tosto che quello molto più problematico e più facile alla strumentalizzazioneideologica di ‘Free Jazz’.

Ponendosi come seguito del be-bop nel segno di autenticità del ’vero’ jazzin quanto ’Real Thing’, ne mantiene il senso di qualcosa che amplia gli oriz-zonti passati e presenti della musica e inquadra un campo sociale e simbolicodi tensioni e conflitti (ben conosciuti e reali) dal quale prende le distanzeparlando un altro linguaggio. Non si tratta tanto di liberarsi dal peso di unatradizione paternalistica, quanto di evitare di chiamare in causa a spropositoi propri morti nel momento in cui si tenta qualcosa di nuovo, o si tenta diripetere un gesto di fondazione,34 che non si sa dove potrà portare. Una di-scontinuità per molti versi apparente che si nutre anche dalla tensione degliesponenti della cultura afroamericana ad aprirsi al mondo e che si manifestain varie questioni: per esempio anche accogliendo il tributo pagato al jazzdai poeti della ’beat generation’. Non solo portare altrove il proprio concettomusicale, ma anche imparare a prendere quello che il mondo ha da offrire.

L’antropologia culturale ed il jazz moderno crescono nello stesso terrenodi cultura, per quanto possono essere visti come due sfide creative alle inquie-tudini del secondo ’900 che sono andate trasformandosi in discipline umane.Ma la convergenza tra jazz e antropologia, e non potrebbe essere altrimenti,è una convergenza di pensiero e di metodo nel momento dell’apertura delleprospettive piuttosto che nella definizione sociale, culturale e scientifica delladisciplina. Forse riguarda prima tutto il complesso aspetto della musica comerisorsa e valorizzazione dei rapporti tra esseri umani. Se oggi alcuni antropo-logi rispettano la memoria di musicisti come Rafael Garrett (Pierrepont 2001,Jamin e Williams 2001a), ciò va a tutto merito della loro onestà intellettuale

34 Con poche illusioni sul carattere ’medio’ che sta assumendo e assumerà semprepiù in seguito l’immagine dell’Africa negli USA, si ricordi quel che dice il citatoLester Bowie (p. 231): ’I had wanted to go to Africa for years. You know, you seeRoots and you want to go to Africa’ (Bowie and Favors 1994).

4.3 Ripresa: Jazz & Antropologia 281

e della correttezza del proprio metodo. D’altro canto il momento e i temi diuna convergenza non sono ancora completamente messi sullo sfondo: è notoche una solidarietà tra cerchie del jazz e dell’accademia vi è stata, special-mente negli Stati Uniti, e che i musicisti e gli artisti abbiano potuto operarepedagogicamente nelle istituzioni universitarie,35 come insegnanti di musica,di danza, o come esperti di discipline applicate di interesse antropologico.

Alcuni di loro hanno ricevuto una sostanziale (benché tardiva) legittima-zione nelle cerchie accademiche in seguito al loro successo di pubblico in Eu-ropa. In Europa artisti come Garrett, Shepp, Don Cherry, lo stesso Sun Rae molti altri, potevano dare riscontro pubblico alle loro aperture sulle musi-che (caraibiche, orientali, medio-orientali e africane, europee) da una diversaprospettiva ed in un luogo ’neutrale’, traducendo i risultati delle loro ricer-che in un nuovo modo di intendere la tradizione del jazz36 e continuando adavvantaggiarsi del grande serbatoio di intelligenza e di vitalità delle cerchieafroamericane della produzione. Portavano con sé l’esperienza di chi ha vis-suto a lungo nelle metropoli americane, lasciandole non appena ha potuto. Siè ripetuto quello che era già successo con la piccola diaspora dei boppers aParigi,37 in condizioni diverse. Nel contempo un consumo di prodotti musicalienormemente accresciuto rende possibile per artisti come Miles Davis un com-mercio di jazz mai visto prima, e, d’altra parte, non tutti gli esponenti dellaNew Thing saranno così impegnati dall’immersione nelle proprie ricerche dadimenticare l’aspetto commerciale delle loro attività.38 Incontri simili possonocreare effetti a catena sulla distribuzione dei cataloghi di jazz, quali la richie-sta per opere precedenti dello stesso artista, ed in generale effetti benefici pergli altri cataloghi, creano spazio per le piccole etichette indipendenti, ecc..

Credo comunque di poter affermare senza discostarmi troppo dalla realtàche anche i musicisti più ‘antropologizzanti’ della ‘New Thing’ avanzerebberonotevoli dubbi sulle convergenze tra jazz e antropologia. In primo luogo perla loro rivendicazione di uno spazio estetico e poietico autonomo nel quale leimprese musicali nascono, si sviluppano e muoiono, e nel quale se le conver-genze ci sono si tratta di fenomeni interpretabili ‘a posteriori’ come tali. E poiper il fatto che, comunque sia, l’antropologia in quanto disciplina ed accade-

35 Roscoe Mitchell insegna all’Università di Madison-Wisconsin, Steve Lacy ha in-segnato a Boston per molto tempo, Archie Shepp all’Università di Amherst,Massachusetts.

36 Molti di loro erano musicalmente anche dei boppers, o qualcosa di molto simile.37 Le cui vicende sono raccontate magistralmente da Paudras (1986), nelle vicende

della propria rapporto di amicizia con Bud Powell.38 La vicenda di Charles Mingus è esemplare per comprendere il cambiamento del

mercato negli anni ’70. Dopo una vita di tentativi, di successi e insuccessi, solo neiprimi anni ’70, con uno stile di sintesi, tuttora attualissimo, e che precorre i tempia venire, il Mingus dei due volumi di Changes (con Don Pullen al piano, GeorgeAdams sax tenore, Jack Walrath tromba, Hamlet Bluiett al sax baritono, DannieRichmond, batteria) effettuerà un’operazione di grande successo commerciale masenza il minimo scadimento o concessione ’al ribasso’.

282 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

mia continuava e continua (sebbene in modo molto minore che in passato) adessere una scienza nelle mani dei bianchi.

La convergenza di metodo e di obiettivi tra jazz e antropologia è unaquestione molto sottile, selettiva, ancora aperta da parte delle cerchie dellaproduzione sul piano generale forse proprio nella ricerca di ’essere umani’,come dice bene Antonello Salis (intervista in annesso 1), ma che vede l’uscitadalla scena pubblica mondiale di un considerevole gruppo di musicisti afroa-mericani che hanno concretamente preparato l’interesse per la world musicverso la fine del terzo rinascimento delle arti nere, al principio degli anni 80.

Negli anni ’80 diventa comune parlare di ’afrocentrismo’ negli Stati Uniti,ma lo diventa in un modo completamente nuovo, in quanto mostra di essereinteso come una ’terapia nella misura in cui si schiera ed opera a favore diun ritorno all’autenticità della personalità africana dell’individuo’ (Fauvelle-Aymar 2002:84). Il fallimento di ogni strategia comunitaria di lotta politicapare così tacitamente interiorizzato da non affidare più che all’ambito spiri-tuale lo spazio di una realizzazione individuale. Parallelamente all’affermarsidegli etnicismi virtuali della new age, si puo parlare oggi di una diffusa ideolo-gia di ’reafricanizzazione’ che può fare a meno persino dei riferimenti concretiall’Africa (op. cit., 85), nella proposta di una rivoluzione ormai puramentepsicologica che ’si rivela pericolosamente paralizzante sul terreno sociale epolitico’ (op. cit. p. 86).

Questo cambiamento, forse uno dei tanti aspetti del processo di globaliz-zazione delle culture, coincide temporalmente con l’emergere del movimentoPunk, con tutta la sua attenzione alla fiction visuale e alla rottura con lasfera politica, i sistemi musicali, il pensiero, il misticismo, mentre in Fran-cia e sul mercato musicale europeo i musicisti africani tendono a sostituirsiagli afroamericani. Un momento in cui il ritorno delle politiche razziali delgoverno di Ronald Reagan39 coincideva con un laborioso addomesticamento’mediatico’. La questione afroamericana diventava argomento ricorrente nelleserie a puntate televisive come la famosa ’Fame’. Nel tempo in cui lo stile diMichael Jackson era diventato un paradigma per la danza ed il canto, le suerepliche divenivano tanto più innocenti esteticamente e socialmente maliziosein quanto spettacolo di un apprendistato (che solo la televisione poteva con-tribuire a rendere ’vero’) in una fiction socio-culturale che praticava propriola tematizzazione dell’intreccio dell’arte con la vita.40 Cioè con la traduzionein prodotto di consumo culturale di una memoria popolare41 e di un operare

39 L’argomento è trattato da Jacquin, Royot & Whitfield (2000:398), per il rap-porto tra disinteresse per la questione nera negli Stati Uniti ed il sorgeredell’afrocentrismo si veda Walker (2000:66-67).

40 In ogni caso non sembra che le officine di Fame abbiano prodotto gran che.41 Mi riferisco agli accenni già fatti nel corso di questo capitolo alle scuole secondarie

che avevano insegnamenti musicali di alto livello e che erano situate in quartieriNeri, come la Du Sable High School a Chicago. Qui il celebre captain Dyettogni anno presentava i suoi ’Hi Jinks’ in cui gli allievi migliori presentavano unospettacolo completo a cui partecipava tutta la comunità. Dyett aveva anche propri

4.3 Ripresa: Jazz & Antropologia 283

che fino ad allora era stato esoterico, ambiguo, e legato tanto a norme socialiproprie quanto ai mondi della prostituzione, del gioco d’azzardo, della dro-ga, e poi ai centri sociali e all’attivismo dei giovani neri vestiti all’africanae, infine, all’interpretazione della musica come arma di riscatto psicologico,culturale e sociale. Nei copioni delle fiction televisive i ’personaggi dei poveriragazzi afroamericani che cercano disperatamente di farsi strada nel mondodello spettacolo tornano ai vecchi modelli della sociologia della devianza deglianni ’60, adattati ed edulcorati per un nuovo modo di intendere la televisionea colori che diventa il mezzo più potente, quello capace di ’creare’ una realtàdi cui si è protagonisti e spettatori. Un momento catastrofico per alcuni, pre-sentito ed espresso per tutti dal saluto di Sun Ra al mondo e dalla partenzadella sua astronave nella scena finale del suo film Space is The Place: « Sonoun mito vivente, ma il mondo non conosce più il linguaggio del mito, cosìarrivederci ».

4.3.1 Una presenza scomoda

Le brevi note retrospettive di apprendistato musicale che seguono provengonoda luoghi ‘a bassa densità’ di cultura istituzionale e socializzata del jazz, inun punto tutto sommato periferico dell’Europa, in un tempo e in un luogo incui vivere era forse meno problematico che in una metropoli nordamericana,ma dove lo status del musicista di jazz aveva senso solo per poche (e tropposelezionate) persone.

Certo, la città di Pisa era sede di un festival di Jazz e Musica Improvvisatache non aveva uguali nel panorama italiano e la costituiva come un puntodove molti musicisti facevano regolarmente ritorno, lavoravano, stringevanorapporti di vario tipo e stimolavano i ’locali’ al fine di porre basi più solide edurature alla loro idea di una piccola città universitaria che potrebbe diventareanche una città della musica.

Ma il bagaglio di informazioni necessarie per decodificare il senso della pre-senza La ’presenza scomoda’ è una citazione da Williams (Williams 1991:18) ilquale osserva che Billie Holiday proprio quando canta le ’songs’ di Broadway,ne fa quanto di più blues possa esistere. Dove la musica commuove in quantopresenza ’scomoda’, che giunge inattesa perché è dove non dovrebbe essere.di una personalità come quella di Rafael Garrett in un luogo simile restavacospicuo e tali mancanze potevano materializzarsi in preoccupanti frainten-dimenti. Era più frequente il suo doversi proteggere da slanci di simpatia edi cameratismo troppo diretti ed infondati, piuttosto che da manifestazionidi incomprensione o di ostilità. La memoria dei complessi effetti del dépla-cement dei musicisti di jazz negli anni del ’terzo rinascimento’ dimostra chel’apertamente politico di Gates è una induzione, un labelling a posteriori resopossibile dalle condizioni culturali, sociali e politiche dei tempi e dei luoghi e

gruppi nel sindacato musicisti ed era una personalità centrale per il sistema dellavoro musicale nella metropoli.

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magari facilitato da alcune dichiarazioni di Archie Shepp. Molto più verosimileè ricordare che in un clima generale pur favorevole alla curiosità e all’impegnoculturale, e pur con con tutte le simpatie ’movimentiste’ possibili per un mu-sicista di jazz come simbolo vivente dell’amore per la libertà e l’arte, potevacapitare ad una persona come Rafael Garrett, e con una certa facilità,42 diimbattersi in situazioni imbarazzanti.

Era parte del linguaggio quotidiano di Garrett, l’avversione e l’irritazioneper essere suo malgrado ’etichettato’. L’emergere nella vita di tutti i giornidella labelling theory della sociologia americana degli anni ’50 e ’60 signifi-cava43 immediatamente una indesiderata ingerenza o supposizione infondata(al meglio), oppure un atteggiamento simpatetico eccessivamente formale eparrocchiale, esteticamente sprovvisto, che lo vedeva come ’persona difficile’,come un ’diverso’ interessante magari, ma da tenere a distanza. Tenendo pre-sente il discorso sul jazz e l’idea dell’acclimatarsi della sua cultura in Italia,vediamo come, dalla parte più informata della stampa italiana, Giacomo Pel-licciotti presentava Sun Ra, nel 1973, a una delle sue prime apparizioni, alleprese con una proclamazione di legittimità che assume un aspetto di vera epropria urgenza (Pellicciotti 1973:50).

Il cosiddetto mito di Sun Ra, in realtà, riflette una ben più seria e scot-tante condizione umana. L’Arkestra è una forma di vita alternativa,una comunità stretta, che nella sua utopia e nelle sue peregrinazioni «spaziali » rispecchia la realtà drammatica e dolorosa del popolo afroa-mericano. Quando un tale stato di soggezione non sfocia in una pre-cisa coscienza e non si tramuta in attività direttamente politica, essosi rifugia in una fantasmagorica quanto immaginaria serie di multifor-mi microcosmi, che come rifiuto di una certa condizione subalterna ecodificata diventa obiettivamente un fatto politico [corsivi miei].

La situazione è quella di dar conto di un fenomeno sorprendente, musical-mente avvincente, ma che presenta dei lati inquietanti per l’aura di mistero dicui è avvolto. In ogni caso sembra che la questione più importante da spiegaresia quella della ’politicità’ del simbolismo messo in movimento da uno spet-tacolo della Arkestra. Pare che Pellicciotti pensi che non potrà fare a menodi imbattersi in qualcuno che gli domanderà, (Gramscianamente) : ’va beneSun Ra, ma come la mettiamo con le masse dei lavoratori e degli studenti?’In questa ossessiva coazione a ’risolvere’ le questioni della politicità in termini42 Uomo maturo ma atletico e dall’abbigliamento eccentrico e giovanile, poteva esse-

re accolto perfino troppo gentilmente. Ma anche confuso con un poco rassicurante(o troppo simpatetico) ricordo dei militari americani in libera uscita, per riferiredi due situazioni estreme. Ricordo del vero e proprio sudore freddo che provavonel prevedere che un tale stava per dargli del ’tu’ e per apostrofarlo come unragazzino.

43 In discorso diretto: 44, invitando a riconsiderare le proprie opinioni, la distanza,ed il rispetto, ma si trattava di un sistema articolato di rappresentazioni, non diun luogo comune.

4.3 Ripresa: Jazz & Antropologia 285

di consenso immediato e rapporti di forza, si inquadra la scelta del ’rispec-chiamento doloroso’ come formula più semplice e piana, sebbene alquantodiscutibile, di rappresentare le culture afroamericane.

Una simile idea di rispecchiamento dinanzi a forme assolutamente nuoveche si costituiscono in una filosofia e in una poetica musicale, che implica unascelta di autodeterminazione sostanziale come unica possibile per sopravvive-re,45 quella cioè di essere un ’collettivo stretto’ che spartisce l’arte e la vita,meriterebbe di essere discusso meglio proprio entro una definizione di ’campo’del jazz. Tuttavia il testo di Pellicciotti è sufficientemente generale e parteci-pato da poter essere difficilmente messo in discussione quanto alle conclusioni:l’articolo si conclude tagliando corto e definendo l’Arkestra come ’un sognoche bisogna vivere nella realtà il più presto possibile’ (l.cit.).

Una vera e propria urgenza di costruire rapporti tanto stretti ed efficaci tramusicisti da fondare una progettualità estetica e sociale nei luoghi dove questasi rivela possibile (nel ’locale’) costituisce una metodologia, e, si potrebbe dire,un vero e proprio dovere del musicista verso la società. Per Rafael Garrett,a Pisa alla fine degli anni ’70 questo ha comportato una situazione in cuiun ’maestro’ inizia tutto da zero, collaborando anche con musicisti di limitatorilievo, e nella quale il luogo stesso delle attività pedagogiche aveva il caratteredi un punto in una rete più ampia, di un punto che si costituisce rispetto allecontingenze di una presenza ma che forse rischiava di non avere alcuna altraragione di essere collocato in un paese ed una determinata città piuttosto chealtrove.

Chissà se il soggetto principale di questo racconto si considerava in un pe-renne ‘viaggio di esplorazione e di ricerca’, certamente intorno all’anno 1979 sitrattava di una fase in cui il viaggio come processo stava volgendo al termine.Il tempo dei bilanci e delle decisioni viene per tutti, non c’è dubbio. La miamemoria di quel periodo però continua a porre la questione di quanto la deci-sione di rientrare andava formandosi gradualmente da quello che il viaggiatoreleggeva nei nostri sguardi e nelle nostre azioni.

Da un lato i rapporti di Rafael con i propri pari rivelavano già come anchel’Europa, alla fine dei ’70 iniziava ad essere sempre meno ’terra promessa’per gli esponenti della new music; dall’altro una urgenza dell’uomo di ’dona-re quello che ha’46 che non può essere rigidamente delimitata in termini dicapitale culturale: si direbbe dunque che la dimensione fatta più ’apertamen-te politica’ dalla propria intelligenza sociale sia proprio questa. Vale a dire

45 La posta in gioco essendo ’suonare ogni giorno’ potendosi confrontare regolar-mente con altri musicisti. Le idee di Raphael Garrett in merito dimostrano cheSun Ra è stato si un esempio unico e seguito solo parzialmente da altri collettivimusicali, ma che si trattava di idee talmente diffuse da costituire un elemento es-senziale della pedagogia e della trasmissione di cultura, come cerco di dimostrarepiù avanti.

46 Riferimento ad una testimonianza di un musicista yemenita nel documentario Mu-sical Gazz, presentato come ’incontro musicale a Sana’a tra musicisti tradizionalie jazzmen’ (Privet 2004).

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quella del mettere in discussione il concetto stesso di chi siano i ’propri pari’e dell’apertura più ampia possibile all’operare musicale indifferentemente dalfatto che gli ’allievi’ siano profani o meno.

Per questo non posso evitare di pensare a quanto e quale potrebbe esserestato il suo contributo se fosse rimasto più a lungo in Europa. Se si guardaalla musica come ’tecnologia del sé’, secondo una stimolante formula usatada De Nora (1999), nei gruppi aperti o nei laboratori in cui la musica e l’usodella voce entrava accanto alle tecniche del corpo praticate da tutti i parte-cipanti (musicisti e non), questa tecnologia era concepita come propedeuticaalla possibilità di praticare la musica concretamente, di superare la barrie-ra/abitudine di consumatori di musica registrata o di spettacoli musicali, conla grande implicazione di apertura che questo approccio può comportare.

Una sorta di ’preghiera laica’ attuata tramite pratiche di respirazione,emissione vocale, stretching e movimento, preparava i convenuti ai seminaridi Rafael Garrett all’improvvisazione musicale. Non è per nulla secondarionotare che tutta una serie di persone non coinvolte direttamente in attivitàmusicali era più interessata dalla cultura del fitness fisico, della cucina ma-crobiotica e del Tai Chi Chuann che Rafael portava dagli Stati Uniti e checonsiderava discipline complementari alla pratica musicale.47 L’altra ereditàdi una presenza proseguiva in interpretazioni che sono confluite in successivetendenze ’New Age’ e in vere e proprie imprese commerciali. In questo sensobasta notare che, tolta di mezzo la musica, quel che poteva sembrare perfino’troppo americano’ allora è diventato perfettamente normale oggi.

4.3.2 Friends & Neighbours

La lettura di una intervista di Frank Lowe, musicista molto presente negli an-ni ’70 in Europa, specialmente noto per i suoi lavori con Don Cherry, ricordacome Rafael Garrett sia stato il suo primo insegnante e come egli abbia intesoimmediatamente ripagarlo una volta che lo stesso Lowe aveva ottenuto unottimo ingaggio che lo avrebbe portato in diversi paesi europei. Avendo cono-sciuto e frequentato Rafael durante la sua permanenza in Italia dal ’78 all’81,le parole di Lowe, scomparso nel 2002, mi hanno aiutato a ricordare alcunimomenti del mio incontro con un uomo di profonda cultura ed intelligenza, lacui conversazione era altrettanto affascinante che la sua musica.

Un musicista come Rafael Garrett è prima di tutto un individuo che pren-de le distanze dalla società in quanto ha una opinione ben precisa di ciò che siassume la responsabilità di rigettare. Rigetta in primo luogo l’aspetto compe-titivo e la violenza implicita nell’ideologia del sogno americano, dell’ideologia

47 Sassatelli (2000) in uno studio sul sistema commerciale del fitness riporta di si-tuazioni in cui il rapporto è inverso. Resta comunque una valenza di gratuità delsimbolismo musicale. La musica registrata entra per distogliere l’attenzione dalcorpo in quanto luogo dove si esercita il potere dei conduttori. Chi usa la musicain cuffia ha già conquistato un proprio grado di autonomia.

4.3 Ripresa: Jazz & Antropologia 287

del farsi strada con ogni mezzo nella vita o soccombere che è così tipica dellegrandi città degli Stati Uniti e che si vorrebbe come unica strada percorribile(ancorché ’ancora più in salita’) per gli afroamericani. Approfondisce la musi-ca secondo le direttrici di un rapporto progressivamente più intenso coi propripari (in quanto punti di riferimento più che insegnanti o maestri) per giun-gere, con l’inclusione in una determinata ed esclusiva categoria di persone, aliberare, se possibile, il suo tempo dalla violenza di dover essere forza lavoroa basso costo.

Si tratta di una persona che decide la propria strada ed il proprio ruolo nelmondo, e che cerca di diventare un uomo mentre si fa come musicista. La realtàstorica che pone tale percorso come mai concluso e quella sociale del rischioincombente della possibile ricaduta in serie difficoltà sono espresse dallo stessoLowe (v. anche Braxton, p. 297) e dalla biografia, ancora da scrivere, dellostesso Rafael il quale morì nel 1989, a otto anni dal suo rientro negli Statesdopo che ne era stato a lungo assente, vivendo in Francia, Olanda, Turchia eItalia.

4.3.3 Dalle biografie dei musicisti

I pochi schizzi biografici disponibili48 su Rafael Garrett lo indicano come na-to a El Dorado, Arkansas, nel 1932 e morto a Chicago il 17 Agosto 1989.Facile immaginare che sia emigrato dal sud con la famiglia nel periodo im-mediatamente precedente la 2a guerra. Studia il clarinetto ed il contrabbassodai tempi delle scuole superiori alla Du Sable School con ’Captain Walter’Dyett,49 figura chiave della tradizione del jazz di Chicago. Stabilitosi in cittànel 1921, all’età di venti anni, Dyett diviene membro dell’orchestra di ErskineTate come violinista e dirige le orchestre dei Pickford Vaudeville Theaters edin seguito la fanfara dell’ottavo reggimento dell’armata degli Stati Uniti. Apartire dal 1931 Captain Dyett sarà un grande pedagogo per intere genera-zioni di musicisti di questa città nel teatro e nella rivista e come esperto nellaconduzione d’orchestra. Un maestro di grande capacità ed interessi che sapevaaiutare a non farsi intimorire nel mondo competitivo e multiforme dello spet-tacolo, il suo motto sembra fosse stato « He can who thinks he can ». Tra gli48 Faccio riferimento qui alla scheda biografica redatta da Joslyne Layne, che

compare sotto la dicitura ’All Music Guide’ su numerosi siti e motori di ri-cerca in internet, oppure sotto nome di Donald Rafael Garrett all’indirizzohttp://www.artistdirect.com/nad/music/artist/card/0,,434404,00.html

La migliore presentazione su Garrett, scritta da Suzaan Fasteau è al sitohttp://cdbaby.com/cd/kalizfasteau3

Ulteriori informazioni su Garrett sono anche consultabili su due siti dedicatial sassofonista e compositore Glenn Spearman ai seguenti indirizzi :http://www.plonsey.com/beanbenders/GlennSpearman.html,http://www.velocity.net/~bb10k/SPEARMAN.disc.html

49 Su Dyett, personaggio a lungo ignorato dalla letteratura specialistica sono com-parsi di recente diverse informazioni in rete. Si veda per esempio il seguente: DyettAcademic Center, http://dyett.cps.k12.il.us/whdyett/

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allievi più conosciuti di Dyett: Wilbur Ware, Gene Ammons, John Gilmore,Julian Priester, Johnny Griffin, Joseph Jarman, Clifford Jordan.

Verso la fine degli anni ’50 Rafael inizia il suo sodalizio con il pianistaMuhal Richard Abrams e la sua Experimental Band. Parallelamente prati-ca la scena dello hard bop con Ira Sullivan, Eddie Harris, Dewey Redman eRashaan Roland Kirk. Verso la metà dei ’60, dopo la collaborazione a fon-damentali progetti di John Coltrane (Om, Kulu se Mama, Selflessness, Livein Seattle), si trasferisce a S. Francisco, partecipa alla seduta di Live in St.Francisco di Archie Shepp, e forma un gruppo ‘progressivo’: il Sound Circus,con lo specialista di strumenti a fiato di origine giapponese Gerard Oshita ed ilbatterista Oliver Johnson. Un gruppo importante, di recente citato da RoscoeMitchell (2001), che lo colloca come pienamente attivo intorno al 1967.

In questo periodo approfondisce la conoscenza del Tai Chi Chuan (checonosceva molto bene e praticava regolarmente negli anni in cui ci siamo in-contrati). Probabilmente con Oshita inizia a praticare ed a costruire il flautogiapponese Shakuhachi. Uno di questi strumenti in possesso di Roscoe Mit-chell è all’origine della composizione Variations and Sketches from the BambooTerrace eseguito insieme a Gerald Bukner, baritono e improvvisatore già col-laboratore di Oshita (Mitchell & Buckner 2001). In questo periodo Garrettsi sposa con Zusaan Fasteau, una eccellente polistrumentista, con la qualecondivide una serie di progetti musicali in duo e con la collaborazione di altrimusicisti. I coniugi affrontano poi verso la metà degli anni ’70 un viaggio chelo porterà per qualche tempo in Turchia, dove collaboreranno con i musicistidi jazz attivi in quel paese ed entreranno in contatto con Akagunduz Kutbay,uno dei più grandi interpreti di musica tradizionale turca del Novecento tragli specialisti di flauto ney più grandi del secolo passato, personalità apertaalla sperimentazione e alla collaborazione con musicisti e artisti provenientida altre esperienze e tradizioni.

Nel 1978 Rafael si ferma a Pisa dove passa tre anni della sua vita primadel ritorno negli Stati Uniti nel 1981. In Italia collabora ancora con ArchieShepp, in diversi memorabili concerti. Partecipa a numerosi festival e concertiin Europa. Non avrà qui vita facile sul piano strettamente musicale, ma nonrinuncerà mai a tenere aperta la propria ‘bottega’, luogo frequentato da gio-vani e meno giovani, musicisti e appassionati italiani e stranieri. Anche a PisaRafael non ha mai lesinato a chi era in grado di avvantaggiarsene l’accessoa una parte dell’enorme quantità di stimoli e di esperienza che lo avevanoformato nel corso di più di trent’anni di attività musicale ai massimi livelli.Il violoncellista Tristan Honsinger in quegli anni è stato uno dei suoi ospi-ti più regolari così come il contrabbassista Roberto Bellatalla e altri menoconosciuti, ma neanche uno tra i musicisti italiani emergenti. D’altro canto,ricevevano il suo benvenuto in Italia in quel periodo praticamente tutti i mu-sicisti americani di passaggio (Steve Lacy, Steve Mc Call, Sam Rivers, tutti icomponenti dell’Art Ensemble of Chicago, Sun Ra & Arkestra); ricordo per-sino Max Roach meravigliatissimo di vederselo davanti domandargli che cosadiavolo stesse facendo lì a Torino ... Perdido!?.

4.3 Ripresa: Jazz & Antropologia 289

4.3.4 Note di apprendistato

Rafael era aperto ad accogliere ogni persona sinceramente interessata ad ap-prendere in campo musicale e seguiva metodi diversi a seconda delle personali-tà e delle tendenze degli allievi. Ricordo che essendo principalmente interessatoa suonare la batteria insieme a lui ho dovuto superare non poche difficoltà pri-ma di poterlo fare concretamente. In primo luogo ho dovuto cercare di nondisturbare le attività con altre persone e ricercare un mio modo di comunica-re, essere presente e contribuire a quello che accadeva. Cosa non facile poichéla sostanza di quello che si faceva era semplicemente improvvisare in gruppo.Solo dopo ripetute sedute insieme ad altri musicisti sono riuscito a parlare dimusica, a chiedere di questioni extra musicali, a farmi insegnare l’emissionedel ney ed a suonarlo insieme agli altri.

Per quanto concerne i primi incontri con Rafael, dunque, e anche le no-stre prime discussioni, non si concentrarono immediatamente e solo sul jazz,ma rispondevano a interessi che potemmo chiamare ’etnomusicologici’ e perla pratica di quelli che con linguaggio della cerchia dei musicisti dell’AACMquali Anthony Braxton, Leo Smith ed i membri dell’Art Ensemble of Chica-go, venivano chiamati ’little instruments’. Sia Anthony Braxton che MalachiFavors e Lester Bowie intervistati da Ted Panken all’emittente WKCR FM diNew York collocano l’ingresso di questi ’little instruments’, vale a dire percus-sioni africane, strumenti a fiato e a corda di origine medio-orientale, oggetti divario tipo come conchiglie e così via, intorno al 1966, 67 (Bowie & Favors 1994,Braxton 1995). In quello stesso periodo Rafael li praticava nel suo gruppo conGeorge Oshita e Oliver Johnson a San Francisco.

Mentre la pratica di questi strumenti costituisce una apertura alle musichedel mondo e prima di tutto a quelle africane con la certezza che il ’cosiddettojazz’ doveva includere anche queste cose (Favors in Bowie & Favors 1994), ilfatto di praticare questi strumenti in Italia aveva forse un significato diverso,ma senza dubbio accorciava sostanzialmente le distanze in un approccio allapratica collettiva. Che fossimo interessati al ney o alle percussioni africane,che ci potessimo scambiare dei nastri, tendeva a deporre a favore del fattoche avevamo compreso qualcosa di essenziale della filosofia musicale di RafaelGarrett e di tanti altri musicisti che conosceva e rispettava. Questo fatto peròintroduceva una distinzione tra strumenti ’piccoli e grandi’ che non facevache attribuire, almeno ai miei occhi, un carattere di preparazione, di pream-bolo ad un passaggio che avrebbe dovuto esserci, vale a dire al momento incui, finalmente, si sarebbero potuti usare con la stessa naturalezza anche glistrumenti ’grandi’, che in principio si rivelarono molto più ’rischiosi’.

Ricordo infatti che il mio essere ammesso a suonare con il ney, le percus-sioni e strumenti che non erano esattamente il mio solo interesse ha fatto siche mi decidessi un giorno a montare la batteria in casa di Rafael. Avevo inmente il jazz, che non si mostrava, ma sentivo che c’era. Dopo brevi tenta-tivi ricordo di essere stato aspramente ripreso per il mio voler essere a tutticosti una specie di dandy non cresciuto e incosciente, un ’figlio di mammà’

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che voleva piacere a tutti con il suo elegante strumentino. Gli feci perdere lapazienza e mi disse qualcosa come:

Hey you, who do you think you are with your smart-looking drum set,pack it, I don’t want to play with you ...

Ma nemmeno questo sarebbe bastato a mortificarmi. Erano i discorsi sullamusica stessa, quelli più temibili, ma di questo proprio si parlava molto meno:solo il piano etico e non quello estetico della pratica musicale poteva esserefatto presente in funzione di ammonimento pedagogico. Con tutto il rispettoper le persone citate, posso dire di essere stato onorato di aver ricevuto lostesso raggelante ma necessario ammonimento che Sun Ra rivolgeva a TommyHunter un paio di decenni prima (Hunter 1999): ’perche rifare Max Roach?Max Roach esiste già ... siediti là in fondo e ascolta ...’ .

Questa irruzione dello sguardo estraniato su di me, questa ammonizionesul rispecchiamento non voluto di quello che non riuscivo a pensare, di cuinon avevo una precisa cognizione e che anticipava ogni mia possibile interpre-tazione mi uccise per qualche tempo, perché da parte mia pensavo di essereabbastanza bravo. Mi resi conto che non era difficile capire che la maggiorparte di quello che sapevo fare dipendeva da dischi ascoltati e riusati. Natu-ralmente mi portai di nuovo tamburi, piatti e ferri in casa. Ma il colpo non fucosì forte da impedirmi di continuare a mantenere i contatti e a farmi vederea casa sua. Probabilmente sono stato osservato da Rafael dapprima muover-mi impacciato ed invidioso della libertà degli altri presenti (le sedute eranocontinue ed i passaggi frequenti), per poi assorbire lentamente il colpo. Forseinfluì anche una volta in cui ci presentammo in periodo natalizio a ’fare lemance’ nei negozi di Pisa. Rafael suonava una Zurna (l’oboe turco) ed io ilsuo Davul: un bellissimo tamburo tradizionale turco che Rafael si era porta-to dai suoi viaggi. Visto che ero impegnato al massimo nell’opera della miapersonale ’sprovincializzazione’ e che conoscevo qualcosa della musica turca ebalcanica mi permisi di completare l’opera indossando anche una sciarpa dilana a mo’ di turbante.

È vero che ’ridere è una cosa seria. Molto più seria delle lacrime’ (Mor-rison 2001:114). Dopo un certo periodo (non meno di due o tre mesi) in cuiparlavamo e passeggiavamo insieme molto più di quanto suonassimo, Rafaelmi disse di sfuggita che avrei potuto montare la mia batteria in casa sua.Ora ero pronto a ritentare cosciente (ma cercando di non pensarci troppo ineffetti) di quali e quanti mitici batteristi avesse conosciuto e ricordasse il mioamico-maestro, deciso a fare di tutto per evitare altri momenti di dolorosorisveglio alla realtà e conseguenti prese di distanza.

Il fatto che Rafael avesse acconsentito a lasciarmi suonare la batteria conlui fu la causa di un notevole progresso da parte mia. Si trattava di uno studioper me assolutamente nuovo e entusiasmante sulle dinamiche, i volumi ed itimbri, cioè la sostanza di un operare più maturo sul piano musicale. Rafaelinfatti non usava amplificazione se non in caso di assoluta necessità, la de-testava in concerto, e, naturalmente, la evitava nelle attività di routine e di

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laboratorio quotidiano. Inutile ripetere qui che eccezionale contrabbassista siastato. D’altra parte ricordo di aver ricercato in quel frangente una protezioneda possibili ricadute nella banalità e nella ripetitività sviluppando particola-ri strategie di preparazione alle percussioni costituite da tecniche del corpoabbastanza pesanti, ma tutto sommato appropriate ai miei circa vent’anni dietà. Si trattava di tradurre i benefici di questa routine in termini di timbro edi una maggiore ’naturalezza’ gestuale.

La mia personalità e le mie preferenze mi portavano a privilegiare un aspet-to di insieme del ruolo delle percussioni, dato che ammiravo musicisti-modellocome Art Taylor, Dannie Richmond, Charlie Persip, i quali combinano l’e-leganza con l’idea che ‘prima di tutto un batterista deve tenere in piedi iltempo’ e far muovere al meglio possibile i propri compagni.50 Rafael com-prendeva questo, la nostra attività era perciò molto diversa da quella tenutacon solisti o con altri bassisti, per i quali tendeva piuttosto a portarli a su-perare i propri limiti e ad improvvisare molto di più. Con me anche lui siavvantaggiava del lavoro di routine, lavorando sul timbro e l’attacco del piz-zicato, rinforzava i suoi enormi calli.51 Possedeva un contrabbasso di fabbrica50 Negli anni ’70 nuovi contributi teorici e musicologici comportavano una nuova

valutazione del ruolo degli Hot Five e Hot Seven di Louis Armstrong, per esempioquello di Leo Smith (1981 [1971-1979]), non trascurando l’aspetto ’mitico’ del jazz.Nel momento in cui si sviluppa la coscienza critica di simili apporti si comprendeche il metalinguaggio storico-musicologico non è sufficiente a spiegare la storia deljazz. Sun Ra parla di his-(s)tory in contrapposizione a my story, e di mythocracycontro democracy e aristocracy. Vale la pena di aggiungere una citazione di comedefinisce il proprio ruolo Baby Dodds, il ’mitico’ percussionista dei summenzionatigruppi, verso la fine degli anni ’20 a Chicago, osservando come l’astrazione delcontesto della narrazione fa dei suoi argomenti qualcosa di fuori dal tempo. « Lisento subito. Lavoro con tutti loro perché tutti mi interessano. Sento di esserel’uomo-chiave della band. Devi sentire quella persona con chiarezza, e sentirequello che vuole. E devi fare di tutto per darglielo ... Devi studiare la naturaumana di quel tipo, studiare dove vuole arrivare e vedere cosa cerca. E tutto questocon la percussione, per questo appunto non tutti quelli che suonano la batteriasono batteristi ... So che parrà strano sentirmi parlare di spirito. Ma suonarela batteria è un fatto dello spirito. Devi sentirtela nel corpo, nell’anima ... Puòessere anche uno spirito cattivo ... Se sei cattivo suonerai la batteria da cattivo,e se suoni da cattivo metterai la tua cattiveria nella mente di qualcun’altro. Cherazza di band riusciresti a fare? Nient’altro che una band dallo spirito cattivo. EDio non aiuta una simile band. Sono pronti a fare qualsiasi cosa. Sono dispostia camminare sui propri strumenti. A fare qualsiasi cosa. Potrebbero arrivare amettere del formaggio nel pianoforte di qualcuno. E se un batterista si limita asuonare la batteria non conta nulla ... Il suo compito è di aiutare gli altri e di nonscatenarsi e suonare per sé stesso ... Se un batterista non sa come aiutare gli altrinon esiste la band » (cit. in Mellers 301-302).

51 Anche i contrabbassisti bianchi hanno enormi calli, ma c’è in questa immaginedei calli delle mani una specie di versione urbana-jazzistica di un altro simbolismodel corpo, che compare nell’iconografia del blues revival in quanto persone di unaumanità che scompare, come si evince in particolare dalle fotografie di Frederic

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tedesco-orientale, un armadio con le corde ad una altezza vertiginosa dallatastiera da cui traeva un suono potente e inimitabile. Garrett era molto parcodi racconti sui musicisti del passato (ed io cercavo di non insistere troppo suquesto argomento), ma mi parlò più volte di Wilbur Ware, un maestro chenon aveva bisogno di portarsi dietro fogli scritti. Anche Rafael non si portavanessuno schema o partitura in concerto; ’consumava’ musica scritta, maga-ri studiando a casa trascrizioni di Bach per flauto, ma per nulla (almeno inquesto periodo) per la sua attività concertistica.

Le attività di gruppo si svolgevano in un modo molto informale. Capitavacomunque che ci fosse una certa continuità di persone che si trovavano neglistessi gruppi. Per quello che ricordo di questi gruppi, devo ammettere che lapresenza di una guida faceva sì che capitasse di rado che queste sedute fosseroassolutamente prive di interesse, come capitava a volte in situazioni in cuinon era presente Rafael. Tutto questo dipende dai rapporti tra i musicistie dal tipo di etichetta comune che a volte poteva degenerare in una vera epropria maleducazione improvvisativa, se non in sedute di delirio di gruppo.Comunque, ricordo abbastanza bene di avere spesso condiviso con altri lostupore di avere suonato molto meglio di come mi aspettavo.

Credo che gran parte di questo sia dovuto sostanzialmente ad una sorta diautocensura rispettosa che portava ad ascoltare con più attenzione quello chefacevano i compagni di seduta. Si trattava di un inizio, ma di una aperturamolto importante. Un lavoro costante, facilitato dall’essere vicini di casa ocomunque un grado di continuità maggiore in questi casi permette di sedi-mentare combinazioni di strumenti e di timbri, ricerca di incastri e di spazicomuni di interazione, oppure anche un tipo di interazione competitiva chesfugge anche a questo e porta altrove. Si tratta di esiti abbastanza standarddi questo tipo di pratica musicale. Ma la presenza di un ‘maestro’ favoriscel’emergere di dinamiche affettive, tra le quali quella di interpretare quello cheaccade sul piano musicale come immediatamente in rapporto al peso di unacerta ‘autorità spirituale’.

Nonostante questo punto di vista corrisponda ad un certo dato di realtà(pur riguardando solamente un aspetto della questione delle interazioni digruppo), resta comunque tutto da spiegare di che tipo di autorità si trattientro un contesto generale di ’performatività’ ritualizzata.52 Mi limiterò qui

Ramsey. Scrive Maybeth Hamilton (2002:159): ’Look For example at the though,callused black hands minutely detailed in Frederic Ramsey’s photographs’. Daqueste mani la Hamilton trae forza per sviluppare un discorso in cui la vicinanzaai Neri e alla loro arte è tutt’uno col progetto di raccontarne le storie, storie incui l’etnografia del blues si pone all’incrocio di desideri proibiti alla maggioranzadegli uomini bianchi.

52 La latenza di una certa ideologia della ’trance’ nelle sedute di improvvisazionecollettiva, è un fatto noto. Ma come sostengo qui, la presenza stessa di Raphaelcome riferimento bastava a ’addomesticare’ musicalmente questo calore. Sul pia-no più generale i chiarimenti in sede antropologica non si facevano attendere. Altermine di una conferenza tenutasi presso l’Odin Teatret, Roger Bastide, invitato

4.3 Ripresa: Jazz & Antropologia 293

a ricordare come un giovane praticante di quegli anni, interessato al jazz ealla musica improvvisata, potesse vedere un uomo che ha nella sua discografiaquattro sedute di incisione con John Coltrane e che sta mettendogli in qualchemodo a disposizione il suo ’capitale culturale’.

Questo periodo si concluse con un ‘gig’ in un locale fumoso di Torino nel-l’autunno del 1981, si chiamava « Birreria agli Artisti », in cui suonammoin duo: un duo in cui la musica improvvisata costituiva la cornice anche permomenti di jazz nei quali Rafael preferiva cantare accompagnandosi al con-trabbasso, oltre che suonare clarinetto, sassofono, percussioni e veri tipi diflauto. Il duo significava anche la stanchezza per i gruppi di lavoro e forse ladimensione minima di associarsi con qualcuno che ti capisse quando parlavi.La scelta dei materiali musicali veniva dal lavoro individuale di Rafael, non cisiamo mai accordati su alcun pezzo ed io mi limitavo a sostenerlo. Accadevache fosse ’tutta la memoria’ musicale, ogni risorsa ad essere spesa, dunquela memoria portava alla luce momenti musicali in cui si intuivano situazionidislocate in altre dimensioni spazio-temporali. Non solo la comparsa di stan-dards quali ’My Funny Valentine’, ’I’m beginning to see the light’, ma pure’Omma Aularesso’ una interpretazione degli Africa Djolé della tradizione delproprio paese (Guinea Bissau) si trasformava in ’I’ll remember April’ dandouna immediata applicazione pratica di una idea di mélange e nello stesso tem-po della individuazioni di procedimenti di equabilità rispetto a materiali inapparenza eterogenei (v. A.3.1, p. 363).

Di questo viaggio ricordo che partimmo sul furgone Wolksvagen di Rafaelormai privo di frizione, che dunque doveva essere fatto ripartire a spinta adogni pagamento di pedaggio in autostrada. Io avevo accettato di guidarlosino a Torino, ben felice dell’impresa: nemmeno la polizia stradale ed i vigiliurbani, che in un paio di casi ricordo impietriti alla nostra vista, hanno avutoil coraggio di fermarci. Ricordo che Rafael mi aveva detto di avere nostalgiadei piccoli locali fumosi, voleva mettersi alla prova in un luogo che potevaricordare i ‘joints’ dove si suonava quasi fino all’alba ed io avevo provvedutoprontamente a trovarne uno con l’aiuto di una amica. Siamo partiti e tornatitra grasse e risate e pochi soldi. Molto rispetto, affetto, e la tensione percepibiledi un altro ritorno già avvenuto della mente di Rafael verso ’casa’: verso suamadre e la sua gente. Dal canto loro le cerchie dei musicisti torinesi (sebbeneavvertite) hanno disertato clamorosamente questo evento, forse giudicandodistante dai loro interessi, troppo free e troppo ’pesante’ un duo composto daun bassista e un percussionista.

a discutere sui rapporti tra la trance ed il teatro, concludeva che era necessariofare attenzione tra una trance africana o afro-americana come strumento di con-trollo sociale ed una trance occidentale come forma di protesta contro le normeed i valori sociali, concludendo col domandarsi ’a chi giova la follia dei nostriadolescenti?’, e che ’la lotta contro la guerra e l’ingiustizia, come la religione ècosa troppo seria per esaurirsi in grida inarticolate ed in gesti convulsi, immedia-tamente recuperati dalla società dei consumi contro la quale voleva lottare e cheli recupera a proprio vantaggio’ (Bastide 1976:118).

294 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

La pertinenza pedagogica delle pratiche del quotidiano nella ’bottega’ diun musicista come Garret lo rendeva tanto inflessibile in certi casi, quantocasalingo in generale: tra l’altro era anche un ottimo cuoco. Il metodo eraquello della familiarità tra maestro e allievo nel senso di non intaccare mai ilrapporto di fiducia e la curiosità con forzature se non in casi assolutamenteepisodici. Ma l’allievo non era solo un allievo, ma qualcuno che desiderava eche aveva bisogno di qualcosa e che poteva dare qualcosa in cambio, ammessoin casa propria (con riserva), e col tempo affiliato in qualche modo ma con unapropria posizione ben precisa. Molte sono state le operazioni ed i progetti allequale non ho avuto nessuna parte pur essendo vicino alla ’bottega’, di questoero ben cosciente. Anche per questo credo che la strategia dell’insegnamentodella musica in contesti così altamente specializzati debba molto ai criteridell’educazione in senso lato.53

Torna qui una rappresentazione del processo di trasmissione che possiedeuna propria antropologia. Educazione e trasmissione di cultura vengono postisu un piano di equivalenza. Cioè vale a dire riprendendo le parole Lowe, chenel jazz (e in molte altre condizioni) ci si avvale di quello che ci ha insegnatonostra nonna prima ancora (e molte volte anche dopo) di quello che abbiamoappreso dall’insegnante di musica. Ricordo di essermi stupito in diverse occa-sioni non tanto per quello che mi veniva detto, ma per ’come’ veniva detto:senza mezzi termini e ’straight to the point’. Si trattava di una possibilitàperfino entusiasmante talvolta di vedere le cose con altri occhi: c’è una prag-matica ed una estetica della naturalezza a partire dal livello immediato dellinguaggio e del comportamento al quale la musica non sfugge.54

Come ho già accennato, mi sono trovato più di una volta ad assistere all’in-contro tra Rafael ed altri noti musicisti in giro in Europa, e nei quali assistevo aun riconoscimento immediato come di persone che si frequentano abitualmen-te. Garrett era uno di loro, tra più noti a Chicago e in altri luoghi dove avevavissuto, che nel tempo era diventato una specie di guru, in gran parte suomalgrado. Inconfondibile il rispetto e l’educazione che pervadevano le breviconversazioni di preambolo su quello che accadeva, cos’era accaduto, dov’eraquesto e dov’era quello, seguita dall’immediata adesione, se appropriata allasituazione, a ‘festeggiare’ l’incontro («come on, let’s ....»). Nonostante tuttoquello che si può dire di questi festeggiamenti, qualsiasi fermento catalizzatorenon era certo il centro della situazione, faceva parte del preambolo. L’essen-ziale era la presenza ed era dato per scontato che qualcosa di interessante o dispeciale potesse ‘accadere’ oppure no; tuttavia non era pensabile lasciare cheuno passasse indisturbato tra palco, albergo, riscossione, aereo e arrivederci.Questo modo di fare non dipendeva solo dal suo recarsi ad incontrare i pro-53 L’obiettivo è quello di poter suonare insieme ed è pur vero, come ricorda A.

Braxton, che ’a quartet is a family’, ’the orchestra is a family’ (Braxton 1985).54 Un notevole dislivello rispetto all’entusiasmo spesso miope della ’passione’ del

jazz. Per quanto mi riguarda ho sperimentato (o forse ho saputo, forse volutovedere) un tipo di contesto paragonabile a questo riguardo alla pratica musicalesolo partecipando all’interlocuzione e alla vita quotidiana con i Romà.

4.3 Ripresa: Jazz & Antropologia 295

pri pari, ma era un atteggiamento abbastanza comune e diffuso anche tra gliaficionado. Ricordo di avere partecipato, prima e dopo averlo incontrato, adinnumerevoli delegazioni che si recavano dietro le quinte a salutare i musicisti,ad invitarli a cena e così via, spesso senza averli mai incontrati prima.

Così c’è stato anche chi ha criticato Rafael Garrett per un suo preteso‘stare sempre in mezzo’ dove c’erano dei musicisti di jazz e di musica improv-visata, magari anche in buona fede, ma allora rivelando una concezione tuttada ripensare dell’aspetto sociale della musica che si proponeva di sostenere;chi ha storto il naso quando suonava il clarinetto col cappello steso per terranel centro città, chi gli chiudeva la porta delle osterie rinchiudendosi a suonarestornelli in onore ’del vino e di chi lo pigiò’. Un ridicolo porre limiti rispetto aciò che è serio e ciò che non lo è. In questo caso rivolgersi espressamente all’an-tropologia diventa necessario nel nome della verità: ma è davvero un’ultimaThule.

Nell’agenzia di impiego interstellare di Space is The Place, la macchina dapresa è lo sguardo stesso di Sun Ra che passa al vaglio due o tre tipi piutto-sto comuni, per avvertirli che l’agenzia non elargisce alcuno stipendio e cheessi debbono essere pronti a fare ’l’impossibile’. Queste scene sono bellissi-me ed esilaranti per come sono interpretate, ma impressionanti quanto allalimitatezza dello spettro delle connessioni sociali configurate da chi dovrebbecontattare un maestro del jazz degli Stati Uniti negli anni ’70. Compaiono quipochi personaggi mitici della sociologia e della narrazione fantascientifica: dueagenti dei servizi segreti, un hobo, una ragazza bianca in cerca di avventure.

Lo sguardo torna sul vecchio continente. Paragonando il modo in cui ilsuono di giganti come John Gilmore, John Coltrane, Booker Ervin (e quantialtri) si costituisce come una ’visione’, come un altro punto di vista sull’Ame-rica e sul nostro tempo e considerando questo sguardo musicale un dono senzaprezzo, quale potrebbe essere oggi il nostro atteggiamento di fronte all’iperte-sto di musica e vita del jazz espresso in frammenti biografici, registrazioni esaggistica, se non ricordare di essere ancora una volta nella posizione del poe-ta arabo, solo, in pieno deserto, sulle tracce dell’accampamento dell’amata?Garrett se ne va salutando non senza ironia, con My Funny Valentine, ChetBaker che va e viene in Europa, e questo deve pur voler dire qualcosa.

Poco dopo il suo ritorno a Chicago Rafael scrisse di aver messo su casa efamiglia e di essere in piena forma. Si incontrò con un amico di vecchia data: ilcritico e giornalista J.B. Figi, per una lunga intervista. L’intervista è raccoltanel fondo di storia orale del jazz presso l’Università di Chicago. Fu poi vistoe salutato a Londra verso la metà degli anni ’80 dal contrabbassista RobertoBellatalla,55 affezionato amico e allievo in Italia, quando girava con i « JazzDoctors » insieme a Frank Lowe e a Billy Bang.

55 Roberto Bellatalla, di cui si parla in più punti in questa ricerca, ha avuto ilgrande merito di apprendere da Garrett con intelligenza e rispetto, continuandoad elaborare il proprio stile personale.

296 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

Parlando di Garrett con Roberto ascoltiamo Hambone, che si trova in ’FireMusic’ di Archie Shepp, un pezzo fondamentale che il suo autore raccontaispirato dall’ascolto di una donna griot del Dahomey (Shepp 2004). Robertomi racconta una storia che vale bene a spiegare i termini umani di quellacreativa ’apertura al mondo’ su cui ho insistito in questo capitolo. Garrett fuscritturato in un tour africano insieme ad altri artisti afroamericani per unatournée a Lagos, in Nigeria, ma pare che la sua musica non cercò di strizzarel’occhio al pubblico, forse non tamburi lo ispiravano ma la corda fatta fischiaredall’archetto, causando lo sconcerto degli organizzatori. Garrett commmentòsghignazzando: ‘...you know ... [Africans] ... they can be fascist too, man ...’.

4.4 Cadenza finale sospesa all’italiana

Considerare l’idea della ’morte’ del jazz significa anche tornare al caratterepolitico delle interpretazioni della cultura che mettono in relazione così intimale ideologie e le idee di jazz con il campo della pratica. A questo propositola tesi della morte del ’corpo’ e non dello ’spirito’ del jazz è un presuppostosenza il quale sarebbe difficile cercare di comprendere quello che gli accadeoggi. Abbiamo posto a confronto le idee di jazz italiane dell’anteguerra e deldopoguerra con le testimonianze di musicisti che per la maggior parte appar-tengono al capitolo ’post-Sun Ra’ della storia di questa musica per aver unaidea della ricezione di un ’terzo’ spazio di dissenso56 estetico e culturale chepone una ulteriore discontinuità rispetto ad ogni fase precedente e che risal-ta specialmente sul piano dei progetti. Anche negli anni ’70, la ricezione deljazz non ha fatto eccezione alle fasi precedenti per il ruolo centrale giocatodal disco, ma si può osservare che vi sia stato un linguaggio ed un retroterracomune che si forma più sul rifiuto di quello che non è pertinente alla crescitadella pratica e di una certa idea della vita musicale, e quindi di determinatescelte. La tendenza generale di una grande ospitalità e della ricerca di co-noscenza ed una interazione diretta coi musicisti si specializza confinandosialla progettualità tipica delle cerchie della produzione. Nel terzo millennio losterminato e complesso mercato delle proposte musicali genera magazzini dispecialismo rispetto ai quali pochissimo si sa e ci si domanda rispetto a checosa esse vogliano significare.

Nelle cerchie afro-americane il rapporto alla musica e al mutare delle pra-tiche e dei tempi in quanto ’memoria’ delle persone e dei luoghi della musicafa si che sia necessario ricercare un rapporto più profondo tra ideologie ’comu-nitarie’ e pratica musicale. Opportunamente Jamin e Williams avanzano seri56 Pur bonariamente e ’alle tagliatelle’ la ricezione questo dissenso è stato svalutata

facendo leva su quella che Jaques Derrida vedeva come una scissione molto anti-ca nel pensiero occidentale dinanzi alle rappresentazioni pubbliche della follia esecondo la quale il dissenso va messo in relazione al carattere intimamente repres-sivo che si coglie in quella risoluzione del pensiero che pone il logos e la coscienzadinanzi alla follia

4.4 Cadenza finale sospesa all’italiana 297

dubbi sul fatto che si possa sostenere che il jazz sia la musica di una comunità(2001:24), altri commentatori avevano sostenuto in precedenza che non si puòparlare neanche di una comunità afro-americana (Bonifazi 1985), specialmen-te in seguito alla ristrutturazione dello stesso spazio vitale e abitativo urbanodei quartieri delle città e alle politiche di sostegno sociale (Gates 1997, ReyesSchramm 1982) che includono la questione razziale nel sistema del ’disagiosociale’ garantendone finalmente il controllo. Ma nemmeno questo basta a in-validare una solidità di legami tra ’idee’ di comunità e pratica musicale: da unlato, quello poetico e della riflessione, questa specie di legame ’metafisico’ deljazz con l’esperienza afroamericana e la sua memoria è indagato, avvertito epostulato in quanto forma di reciproco controllo tra il linguaggio verbale e learti. Anche parlare è un arte e molti musicisti sono altrettanto interessanti daascoltare quando suonano che quando parlano. Dal lato politico questo stessolegame è posto con sempre più forza dalla sua presenza scomoda e provvi-denziale nella ’popular’ culture, cioè più per il suo rapporto con la cultura’media’ e mediatica che per le formulazioni poetiche della ’negritudine’ ed ilgrido della Beat Generation.

La ben nota polemica su ’chi regna al Lincoln Center’ a cui abbiamo accen-nato, riguarda l’attualità del jazz in modo diretto è quello della riformulazionemoyenne del jazz. Dobbiamo seguire però quello che Anthony Braxton dice achiare lettere di una tale versione, nel momento in cui la definisce una strategiadel sud ed una ’mossa cristiana’.

Yes. Southern Strategy in the sense that that’s why Wynton Marsalisand the Neoclassic continuum is in power. They were put in power.This is a political decision that came about in the 1980s, when Dr.George Butler brought Wynton to New York. When the mature hi-stories of this music are written, I hope that there will be a sectionon what I’ll call the Great Purges of the 1980s. It involved kickingout anybody who had any originality or was unwilling to have themarketplace define their music, and bringing in a philosophical back-drop from Albert Murray consistent with what I’ll call the Christiangambit. That gambit states that Black people have this special rhy-thm, that the evolution of what we now call Jazz is just an African-American thing, that the proclivity spectra of African-Americans goesfrom hip-hop and blues and whatever, but not to a guy like me. Onlya certain spectrum of black or of African-Americans can be acceptedin this reseeded idea of blackness.

Qualche momento prima Braxton aveva parlato di ’trans-idiomaticità’ edi ’strutture narrative’ che hanno parte nella pratica del duo, celebrando lefelici condizioni di un suo lavoro con Andrew Cyrille (Braxton 2003). D’altraparte il jazz si adegua ai mutamenti della società: il ’christian-gambit’ serve avivere in un mondo neo-liberista e a parlare il suo linguaggio. Quella scissionetra necessità di senso comunitario e profonda coscienza della sua impossibilitàespressa da Gerald Early (Burns 2000, ep. 1) viene conchiusa nella coincidenza

298 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

del blues e del jazz con la storia e la memoria e con la ’profetica’ formulazionedi W.E.B. Du Bois della ’doppia identità’. Ma si era avvertito dalle cerchie piùavanzate del jazz la non-esistenza dei luoghi terrestri di una tale autenticità eidentità. Per Sun Ra ’space is the place’ significava anche avvertire musicistie pubblico della ’impossibilità’ del progetto del jazz.

Un tale punto di vista ha spinto alla ricerca di una visione olistica dellamusica dotata di una propria antropologia afro-centrata ma che supera ognietnicismo ed ogni ideologia essenzialista. Non può trattarsi più che di premesseuniversalistiche quando la proposta è sostanzialmente quella di confrontarsicon la condizione umana e con con la propria posizione nel mondo e nel cosmoper rivalutare in modo affatto diverso il ruolo della musica e dei musicisti. Dauna teoria della fine del jazz che in fondo è molto vicina al paradosso col qualeAntonin Artaud affermava che ’il corpo ed il teatro debbano ancora nascere’,si procede a una ’critica della pratica’ tanto benevola quanto inflessibile.57Ma il senso di prossimità della catastrofe e della minaccia atomica pongono laparadossale missione delle Genti Nere nel mondo da ’umanizzatori’ del popolobianco americano a ’umanizzatori’ del cosmo.

Gli intellettuali che danno voce ad una pratica che inizia a sperimentare58l’apertura delle forme del jazz alla fine egli anni 50 compaiono in un gruppoche si unisce intorno a delle serie domande da porre rispetto ai rapporti traarte e vita, formulate da una cerchia corrispondente con l’idea di Du Bois diun gruppo di intellettuali guidati dalla propria visione dell’intera società ame-ricana. Non è un caso che si giunga a questo risultato in un documentario suljazz prima che in altri settori, perché la musica è la candidata più qualificataa costituire ’the memory of the Negro Past’.59

Proprio in quanto tale, e in quanto parte di un progetto culturale e so-ciale, essa si costituisce in una tensione continua ed in un rapporto dialetticocon la cultura ’media’ americana. L’energia liberata da questa tensione vienecaptata in quanto propellente per la costruzione della pop music anglosas-sone: un addomesticamento ’medio’ delle pratiche e dei simbolismi del jazze del blues contribuisce ad una esplosione del mercato globale e all’enormecrescita del riferimento ’giovanile’ alla musica e al suo consumo. Ma la popmusic dei Beatles e degli Stones farà arretrare lo spazio vitale del jazz in tuttoil mondo, a partire dagli Stati Uniti (Abbey Lincoln in Burns 2000). Con imusicisti del terzo rinascimento e specialmente di coloro che praticherannoi programmi dell’autodeterminazione (Sun Ra, AACM, movimento del Lof-ts, musica improvvisata europea) (Pierrepont 2001), si riuscirà a tenere vivo

57 Sun Ra alla vigilia della sua esplosione europea aveva parole di apprezzamento perCharles Mingus ma non era tenero neanche con Thelonious Monk, che giudicavain un momento di stasi creativa (Sun Ra 1965).

58 Jackie Mc Lean, ricorda che delle forme di ’open music’ erano già praticate versola fine degli anni ’50 (Burns 2000, ep. 11, The Adventure, 55:00 c.ca).

59 In ’The Cry of Jazz’, il narratore Alex dice: ’through spiritual, through blues anthrough jazz we made a memory of our past ... and a promise of a world to come...’ (Bland 1956, 17:52; vedi anche annesso 4).

4.4 Cadenza finale sospesa all’italiana 299

ancora per qualche tempo l’interesse di una parte di pubblico europeo e (mol-to meno) americano che avverte il rischio di una ricezione completamente eautoritaristicamente ’media’ del jazz.60 L’energia e la creatività delle nuovecerchie afroamericane dirige la diffusione e lo sviluppo dei propri progetti inEuropa (ricezione della new thing e del free, nuova musica improvvisata, jazzsudafricano).

Sostenere che sia solo il corpo e non lo ’spirito’ del jazz ad essere mortosignifica dunque un nuovo capitolo della ricezione del jazz in America e inEuropa.61

L’accesso alle cerchie che praticavano questa musica passava per qualco-sa di molto simile al confine di un rapporto di scambio etnografico, in cuil’esigenza di inclusione dell’osservatore pone il problema radicale della suaridefinizione, frutto di una cooperazione stretta tra antropologo e informato-re. Ma la ridefinizione comporta anche un nuovo senso assunto dal praticarela cultura: l’osservatore, l’appassionato, l’antropologo, il musicista (’incluso’)convive ed è tenuto a superare, magari sfruttandole, le proprie mancanze.

In seguito l’essere della filosofia musicale di Sun Ra un punto di riferimen-to per i musicisti dell’avanguardia, della AACM e di coloro che ne sono stativicini, sarà un fatto (Chase 1992). La più tarda condivisione dei punti delmanifesto esplicitato in The Cry of Jazz è evidente e chiede di essere mediatain primo luogo dalla pratica. Nel corso dei decenni sarà ripresa, ampliata, pre-cisata, quella che in fondo è una tesi di natura assolutamente neutrale, se nonmoderata, e che si pone all’attenzione pubblica configurandosi in molteplicipratiche e poetiche.

Quando queste nuove proposte si presentano all’attenzione del pubblicoeuropeo, nel flusso di quei movimenti trans-culturali atlantici che si possonofar risalire all’arrivo del Fisk Jubilee Singers a Londra (v. pp. 94 e 257), loscarto tra quello che viene letto come ’dandysmo’, come collocazione culturaleurbana da cerchia ristretta delle manifestazioni concrete della musica e dellospettacolo di Sun Ra è accolto dapprima come sfida alla cultura musicale e’fine del jazz’ in quanto rischio per i riferimenti sociali e politici dell’esperto,

60 Non ne abbiamo parlato estesamente nel corso della ricerca, ma in Italia (moltopiù che altrove) le istanze di una ricezione del jazz che postula una differenzatra jazz ’tradizionale’ e jazz ’tout court’ che riemerge oggi dopo le polveri del 68,lamentando di essere stata messa da parte per motivi politici, torna come parolad’ordine di una egemonia culturale comunista violenta subita nel passato. Parolad’ordine che diviene credenziale nell’epoca Berlusconiana e oltre.

61 Nel programma filosofico, sociale, politico e poetico degli intellettuali di Chicagoche producono The Cry of Jazz (Bland 1959) l’attualità della visione di Du Boisdi The Spirit of Black Folks, dell’anima come frontiera della missione del Neroad umanizzare i suoi ascoltatori e amici comporta un ’nuovo patto’ con i bianchiche è basato su alcuni punti fermi essenziali e non chiede loro che una inauguralelealtà nel riconsiderare certezze troppo frettolosamente acquisite. Chiede molto dipiù ai musicisti semplicemente ignorando la pertinenza di sistemi di riferimentosolo e sostanzialmente imitativi alla pratica del jazz e al suo archivio.

300 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

poi rapidamente incluso per la sua avvertita ’forza’, perché si avverte che èimpossibile escludere qualcosa di simile dalla ricerca dello ’spirito’ del jazz.Ma a questa ’forza’ è tolta a lungo la possibilità di una ricerca di significazioneche testimoni della sua profondità e fecondità.

Nonostante sia vero che si tratti in gran parte di un mondo sostanzialmente’africano’, le condizioni di sopravvivenza di queste cerchie negli Stati Uniti leobbligavano a farsi molto attente a non chiudersi sia di fronte ai tentativi dellasperimentazione ed alla necessità di organizzare la vita produttiva sul pianodell’autodeterminazione,62 sia dinanzi all’ingresso ’dell’anima nera’ nel mondodella pop music, nell’attualità del tempo presente e nelle sue rappresentazionipiù largamente diffuse.

Ci si compromette e si dialoga con la cultura ’media’ esplorandone le pos-sibilità e opportunità ma evitando di restarvi intrappolati, secondo questaantropologia musicale, mentre nell’antropologia ufficiale si prendono le di-stanze da fenomeni culturali medi che dovrebbero costituirsi in argomentisociologici.63 ’Vere’ musiche tradizionali si sostituiranno all’ambiguo ’jazz emusica improvvisata’ nelle preferenze dei dandy musicofili negli anni ’80. Benpresto però le prospettive della critica letteraria e degli studi di genere co-stringeranno a riaprire il capitolo, per il ruolo che il jazz ha e continua adavere nella costruzione di interi sistemi di flusso culturale, per il suo essereun enorme repertorio di memorie e per la sua capacità di testimoniare il suotempo, il suo Novecento. Basterebbe il solo interesse dei dati autobiograficidei suoi personaggi a giustificare la riapertura del fascicolo dei rapporti trajazz e antropologia.

Nel panorama italiano l’America resta a lungo oggetto di un amore idealiz-zato che si scontra con ’tristi realtà’. L’Arrigo Polillo che scopre Sun Ra (AllanBates gli ordina letteralmente di andarlo a vedere) in un viaggio a New York,nel 1967 (Polillo 1978), somiglia ad un viaggiatore in una terra sconosciuta chevada a reclutare mercenari per sue personali battaglie da svolgere in patria(cerca idee per i festival italiani). Appare non favorevolmente impressionatodall’eccessiva magmaticità sonora e dai paludamenti della Arkestra e del suoleader, ma è costretto a riconoscerne la forza, se non il valore. Allo Slug’s, unpubblico di ’quasi tutti negri’ che di tanto in tanto erompono in ’urla belluine’guarda l’eccentrico caporchestra drappeggiato di una ’tunica luccicante, forseafricana’, in compagnia di altri undici musicisti che portano ’corte tunichetrapuntate di pailletes’ e camicie colorate ’come quelle che portano i gitani di

62 Chase (1992) riporta da un intervista di Sun Ra il suo racconto di un incontroin cui Muhal Richard Abrams si scusava di essere stato tra uno di coloro i qualilo avevano ridicolizzato a Chicago (verso la fine degli anni ’50) e che lui stesso,l’incontro avvenne a New York nel nel 1964, stava ’seguendo i suoi passi’ organiz-zando qualcosa per i musicisti di modo che potessero praticare e provare insiemeogni giorno.

63 Il manifesto di The Cry of Jazz esiste dal 1959 ed è stato ignorato dagli antropo-logi, per quanto ne sappia; nel 1959 Ray Charles riceveva il suo primo ’GrammyAward’ per la sua interpretazione di Georgia on My Mind.

4.4 Cadenza finale sospesa all’italiana 301

Granada’. Polillo, che si confessa ’allibito’ dalla loro pratica, avanza l’ipotesiche si tratti di un ’happening’ piuttosto che di musica, ma ammette che (siaquel che sia) (Polillo 1978):

... vi prende allo stomaco, vi scuote come un ciclone. Se penso all’a-sfittico, insensato free jazz di qualche musicista europeo desideroso diessere à la page, e lo paragono a questa musica feroce, mi viene dasorridere.

La venuta dell’africanismo futurista-egizio di Sun Ra in Italia sarà forseun poco ritardata dalle riserve di Polillo, ma è imminente. Per quanto ap-parentemente difficile sulla carta, gli arrivi di Sun Ra hanno dato luogo adegli ’eventi’ memorabili; che il suo arrivo a Umbria Jazz nel 1973 non abbiapreparato (almeno in quanto ’forza’) la partecipazione del pubblico giovanilel’anno dopo, nel 1974, con migliaia di persone che si innamorano (per sempre)di Charles Mingus e della sua musica?

La risposta a questi eventi, formulata nelle ipotesi di Mario Schiano della’memoria remota’, è un dire a ’mezza voce’, una risposta debole, un lasciareanch’essa alla ’forza’, alla ’energia’ quello che necessita di significazione e chele cerchie del jazz più avanzate formulavano già con dovizia di particolari dacirca trent’anni sulla morte ’del corpo’ del jazz. Quella di Schiano e del suoseguito è una formulazione eufemistica e parziale di una ’morte’ che impli-cava una rinascita. Si poteva, pur ammettendo che il piano ricercato dellamediazione alla musica prima che alle speculazioni teoriche e che la mancan-za di documentazione64 consentisse a Schiano di omettere l’esplicitazione piùcompleta, ponendosi di fatto sullo ’stesso piano’ dei musicisti afro-americani.Remoto sarebbe stato il blues ed il jazz del suo proprio personale apprendi-stato. Ma perché porre sullo sfondo nel momento della diffusione mediaticadel progetto del nuovo jazz italiano un preambolo leale e rispettoso rispetto atutta la questione afro-americana nel suo complesso? (Carpitella 1978, Bland1959)

Col tempo la questione afro-americana tende ad avere sempre meno l’a-spetto una questione globale ed assumere sempre più quello di un ’problemainterno’, mano a mano che il jazz diventa una ’musica americana’ alla qualetutti hanno partecipato, bianchi e neri. Diventa sempre più una ’memoria re-mota’ ora che sembra alla portata di tutti. Scompare quel procedere ’in fase’delle questioni politiche con quelle musicali e artistiche, processo che fondaquell’arretramento del ’sound’ nella cultura di cui parla W. Marsalis (v. p.

64 È vero che la conoscenza di quello che accadeva in queste cerchie era limitataverso il 1967. Mentre l’occhio di A. Polillo era tentato di guardare ai paludamentidi Sun Ra con l’atteggiamento divertito di chi scopre un orologio da polso albraccio del centurione romano in un kolossal storico, con l’orecchio riconosceva isassofonisti di Sun Ra come ’tutti meritevoli di un LP’, quindi artisti maturi (pursenza accorgersi della presenza del ’gigantesco’ John Gilmore) e contentandosi diclassificarli come dei ’seguaci di Archie Shepp’ (Polillo 1978).

302 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

269) e che indica oggi (a posteriori) un modo di vedere il mondo che non esi-ste più, che era già finito negli ultimi anni ’70, anni in cui parlarne in questitermini era già un’anticipazione comprensibile e condivisibile.

Così l’andamento delle pratiche del jazz in Italia non fa che (beffarda-mente) allinearsi ad una formulazione teorica di ’messa sullo sfondo’, alloraprogressiva e oggi ’stucchevolmente apodittica’ laddove si adopera a giuraresulla qualità del made in Italy, anche nel jazz, divenuto un altro prodottoartigianale del genio individualista degli Italiani.

D’altra parte l’uscita del ’sound’ dalla cultura non poteva che penalizzarela pratica musicale. Prima di tutto nel suo effetto sui rapporti trans-culturaliinteratlantici, i quali sono stati ridotti in cerchie locali più rivolte verso séstesse e al progetto dell’edizione musicale. Il confronto essenziale per la cre-scita musicale non si è più costituito in uno spazio in cui ospitare e far viverele cerchie dei musicisti così come si organizzavano in proposte e progetti, madi andarli a trovare sul posto in una richiesta pedagogica e/o di promozione,invitandoli singolarmente a legittimare i musicisti italiani. Gradualmente sipassava ad una frontiera della pratica musicale in cui il background cultura-le del jazz si allontanava dal pubblico, e dove ottimi solisti facevano i loroprogressi sulla scena commemorando questa musica, più che facendola vivere.Non in altro modo si può valutare il continuo, monotono e onnipresente ral-legrarsi del ’livello tecnico’ dei musicisti italiani mano a mano che ci si chiedesempre meno il ’perché’ del jazz,65 rappresentato da pratiche e idee spessoirrelate e incompatibili, spesso repliche di repliche, in cui è rafforzato il ruolodi patrocinio dei musicisti da parte di alcune istanze critico-editoriali semprepiù concretamente esplicito e sempre più necessario per esistere.66

La sensazione posta da una valutazione generale e sommaria dello statoattuale del processo di istituzionalizzazione delle cerchie del jazz in Italia,passa da constatazioni semplicissime, quali: 1) il livello ’moyen’ della cultu-ra musicale nazional-popolare dell’industria culturale è talmente basso che imusicisti oggi più attivi possono permettersi di sembrare dei ’dandy’ del jazzqualsiasi cosa facciano e qualsiasi cosa dicano; 2) una volta stabilito che ilsound non è più centrale nella cultura afroamericana (Marsalis 1997, v. inq. testo a p. 269), è possibile evitare tutta la problematica dell’incontro conl’alterità culturale. In questo senso è illuminante non solo notare gli sforzi diufficializzazione del jazz italiano che si fanno a Roma67 ma anche che nelle

65 Si chiede sempre meno ai musicisti di articolare che cosa hanno da dire: il jazzcome artigianato abbinato al vino di marca in questo senso diventa un luogocomune atroce.

66 Per valutare questo aspetto come indicatore della libertà di espressione in Italia,sarebbero necessari studi approfonditi rivolti alle forme e alla pratiche di interazio-ne coi media dell’associazionismo e della piccola impresa musicale da compararecon analoghe ricerche in altri paesi d’Europa.

67 Un gruppo ufficiale di jazzmen italiani suona di fronte al presidente della repubbli-ca Ciampi citando un tema riconoscibile della Cavalleria Rusticana di Mascagni,alludendo all’inclusione delle proprie origini livornesi nel novero degli italiani ac-

4.4 Cadenza finale sospesa all’italiana 303

aperture di Marsalis a quello che ’il mondo ha da offrire’ non ci siano certo imusicisti e gli intellettuali francesi o russi, o i poeti della beat-generation, mail ragazzo prodigio della Sicilia Francesco Cafiso, solitaria promessa e nostalgiadell’epoca di Massimo Urbani per il pubblico del jazz italiano.

Nemmeno vicende tragiche che facevano tristemente vero l’avvertimentodi una pratica che si faceva ‘alquanto alienante’ (Carpitella 1978; v. p. 236)come il suicidio di Luca Flores, sono servite all’emergere di qualche domandaplausibile su che cosa sia e dove vada il jazz italiano nel suo clima apparen-temente conviviale e spensierato, ma percorso da rimozioni e censure talvoltapenose. Quasi tutti i musicisti italiani si sono adoperati in dediche alla me-moria di Flores, ma nessuno si è provato né aspira a provarsi a mettere indiscussione le condizioni di vita e di senso di questa parte della vita culturaleitaliana. Dunque questa domanda, con la quale i musicisti non possono checonvivere e alla quale nella maggior parte preferiscono rispondere solo in parteo differire la risposta, resta aperta come moltissime altre sulla decadenza elo stato di grave crisi, o almeno sulla progressiva e preoccupante perdita dicontrollo delle idee sulla vita civile e culturale italiana.

4.4.1 Appello al ’senso comune’

Secondo una interpretazione del ruolo della creatività delle cerchie musicaliafro-americane inaugurata da Amiri Baraka (1968) e recepita in antropologia(Hannerz 1998:149), le innovazioni musicali afroamericane esplodono nel corsodi tutto il Novecento, ponendo la necessità di un continuo ricorso a nuoveinvenzioni in una corsa continua alla differenziazione (Gilroy 1993). L’attivitàdei musicisti italiani ed europei di jazz sarebbe da pensare come parte diuno sforzo di recepire e interiorizzare quel tipo di tensione. Infatti è ovvioammettere che tutti possano suonare jazz e che debbano pur cercare di vivernee che la portata delle intuizioni dei musicisti e sostenitori del jazz sia stataquella di aspettative differenti rispetto ad un panorama culturale nazionaleposto dinanzi al problema di diventare quello complesso e intricato di unpaese moderno. Si debbono incolpare i musicisti di jazz italiani di cambiareil loro modo di presentarsi e le loro versioni del passato della loro musica?Certamente no. D’altra parte non lascia ben sperare il fatto che una parte diessi sia disposta a esagerare limitandosi a descrivere in retrospettiva quella chenel 1968 e in seguito descrivono come una sbornia di ideologia che pervadevatutta la scena musicale.

colti dalla città eterna: a Ciampi è stata conferita la cittadinanza onoraria romanadal sindaco Veltroni (v. Omaggio jazz alle radici livornesi di Ciampi, «Il Tirreno»,28/11/2005, edizione di Livorno, p. II). Tre anni prima si era tenuta una comme-morazione dell’11 settembre, in data 11 settembre 2002, nella quale il trobettistaPaolo Fresu, trovandosi in Francia aveva suonato in videoconferenza insieme allaritmica che si trovava a Roma, al Colosseo, ed il concerto era stato trasmesso allatelevisione.

304 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

Probabilmente è da qui che un qualche tipo di riflessione sul ’campo ita-liano del jazz’ potrebbe ripartire, evitando di sorvolare sul rapporto con gliafroamericani, il sostegno alle loro produzioni musicali e le controculture e leutopie giovanili del ventesimo secolo. Per fare questo non basterà certamentefare appello al ’senso comune’ ed alla ordinaria amministrazione della cultura.Sotto questo aspetto vi è uno sfasamento assoluto tra discorso sulla musica,istituzionalizzazione e pratica. Molti musicisti più attivi nella ricerca e piùattenti all’emergere di nuove forze possono lamentare oggi che siano ancorauna volta ’i Neri’ i più ricercati nei progetti più importanti, dopo essere statiinvestiti in prima persona e di modo produttivo nel flusso interculturale.

Ma è la complessità stessa delle articolazioni tra il musicale ed il socialeed il contesto strutturale di concorrenza reciproca che fanno vivere le cerchiedella produzione di cultura ad avvertire che ’loro’ (i musicisti) possano esseredisposti a qualsiasi cosa: anche a ’mettere del formaggio nel pianoforte’ diqualcuno, come raccontava Baby Dodds (v. n. 50, p. 291). Fatto che cospiraa indicare altrove e in qualcun altro gli errori ed i motivi delle loro difficoltà:lo stesso gioco ripetuto di indicare ’le colpe’ delle crisi e delle ristrettezze deljazz a qualcosa e qualcun altro è ripreso da critici e scrittori e pare provengadirettamente dal loro modo di comunicare coi musicisti. Il basso tasso di coe-renza di queste tesi testimonia di condizioni particolarmente instabili, talvoltasi direbbe del loro stesso isolamento.

In termini generali, seguendo il complesso affresco di Hannerz (1998) suquella che chiama ’gestione sociale del significato’ questa attitudine designa-ta dal frammento di Baby Dodds potrebbe significare la forza stessa dellaparticolare situazione delle cerchie afroamericane della produzione portate aprendere le distanze dalle appropriazioni ’medie’ del jazz a farsi dei ’guerriglie-ri culturali’ (Shepp 2004) che circa ad ogni decade hanno proposto qualcosadi nuovo.

L’appello al sostegno delle forze della produzione italiana fanno inveceappello a quello che Ulf Hannerz (1998:166-168) chiama ’senso comune’ come’procedura operativa standard’ della gestione del flusso di significato culturale.Questo appello al senso comune, dotato di una propria retorica, è evocatoin virtù di una controversia che data da quando qualcuno in Italia (e nonerano pochi, nei primi anni ’70) ha iniziato a pensare che il jazz potesseben considerarsi ’morto’, almeno nei termini del suo sviluppo storico. Essosi adatta molto meno ad un quadro di libera ricerca, che non a quella corsaper la legittimazione di fazioni culturali attorno agli slogan di una frettolosacorsa all’attualità, che compare come caratteristica di uno dei momenti dicrisi più evidenti del progetto culturale dell’unità araba nel secondo Novecento(al Malham 1996). Vale a dire che tutto questo non può che far pensare adun frettoloso adattamento al dilagare delle ideologie neo-liberiste e alla tristerealtà che lo statu quo culturale imposto da questo nuovo mondo faccia tornarein superficie ogni destra, anche quella del jazz.

Adriano Mazzoletti, dilettante batterista, ex-dirigente RAI, storico e ar-chivista del jazz in Italia, ha accusato di recente Arrigo Polillo perché dava

4.4 Cadenza finale sospesa all’italiana 305

troppo spazio ai dilettanti degli anni ’70, tacciando di imbroglioni e dilettanticoloro che si riferivano alla new music (Mazzoletti 2004b). Appassionato dijazz tradizionale (adora Bix Beiderbecke e Jean Goldkette) si è legato alla cau-sa di tutti quei musicisti ’bianchi’ che oggi considera sottovalutati. Si descrivecapace oggi (con la sua autorità e le sue connessioni) di piazzare un solistanell’orchestra di Paolo Conte, per esempio, ma è stato anche colui che ha invi-tato Ornette Coleman a comparire alla televisione nazionale qualche decenniofa. Il pubblico del jazz era ben diverso negli anni ’70, e come ricorda MarcelloRosa (Rosa 2001), lo stesso Mazzoletti doveva invitare ai propri programmiradiofonici proprio quelli che oggi chiama ’imbroglioni’ e che allora guardavacome ’giovani dilettanti politicizzati’ che suonavano alle feste dell’Unità com-posizioni come «Cile Libero Cile Rosso», ma che avevano il ’vento in poppa’.D’altra parte Mazzoletti sottolinea che nella foga di derogare la pratica deimusicisti che erano gà attivi nel dopoguerra, una critica provinciale abbia giu-dicato pesantemente musicisti come Gianni Basso e Oscar Valdambrini perchéerano membri fissi delle orchestre RAI, ’impiegati’ della musica e non ’artisti’.

Il chitarrista Lino Patruno, musicista di jazz ’tradizionale’ legato al movi-mento del dixieland revival, quando anche in Italia (prima del ’68) fiorivanole marching bands, ricorda che furono fatte delle distinzioni tra musicisti ’didestra’ (lui stesso, Carlo Loffredo e Romano Mussolini) e di sinistra (GaetanoLiguori, Guido Mazzon, Mario Schiano) (Patruno 2001). Potrebbe sembrareridicolo, ma non lo è affatto, prima di tutto perché la ricezione del jazz piùcruciale, quella dei suoi inizi si svolge in un paese dove il fascismo è al po-tere e perché in seguito in Italia tutto è stato classificato come ’di destra’ odi sinistra; non per la responsabilità di qualcuno in particolare ma per unadivisione che ha segnato tutta la storia del paese, non si vede perché il jazzavrebbe dovuto sfuggire a questa semplificazione.68

Come si è già visto il cambiato clima politico ha imposto una maggiorefluidità ed un differente rapporto rispetto a quello che è l’aspetto tacitamenteconvenuto del senso comune in un modo che non condanna più qualche tracciae neanche una certa benevola tolleranza per inequivocabili segnali fascisti, maquesto non ha potuto significare il predominio assoluto dei musicisti più legatiad una idea di mainstream e di jazz tradizionale, anzi. Inoltre, gran partedel pubblico odierno deve fare uno sforzo non indifferente per figurarsi unrapporto tra jazz e fascismo e persino per conoscere i musicisti che all’epocafascista erano ai loro inizi. Le prime esibizioni di Franco Cerri nelle radiodella Repubblica di Salò, rese note dallo stesso Mazzoletti (1983), hanno forsegiustificato la necessità del suo lungo ammollo pubblicitario sul piani simbolico(l. cit., pp. 141-142) ma sono ritornate nell’ombra ed adattate ai tempi. Oggi68 Oggi l’immagine di un jazz ’di destra’ emerge dalle sulfuree performances del

funambolico e giovane Emanuele Urso: clarinettista ’come Benny Goodman’ ebatterista ’come Gene Krupa’ (visto da Patruno come ’promessa’ del jazz italiano)mentre ruggisce dinanzi ad un pubblico che pare composto da giubilanti militariin pensione (Programma ’Jazz Me Blues’ condotto da Lino Patruno sul canaleRai DOC).

306 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

Cerri fa iniziare il proprio rapporto con la musica a Django Reinhardt e ad unaoccasione in cui lo accompagnò in un club di Milano, dopo la guerra (Cerri2005).

Quasi altrettanto difficile è per chi è nato intorno agli anni ’80 comprende-re il clima che faceva accogliere Tony Formichella, promessa presto assentatasidalla scena dal jazz italiano dei primi anni ’70 (ne parla ancora Mario Schia-no in Faggiano 2000), da un gruppo di giovani del movimento che gridavanoin coro « compagno sassofonista non suonare col fascista ». Il trombonistaMarcello Rosa aveva incluso il giovane ’borgataro’ Formichella (sassofonistabaritono) nel 1975, cautelandosi rispetto ad una intervista in cui FabrizioZampa (giornalista RAI ed ex-batterista) lo accusava di essere contrario allanuova ’ribalta dei giovani’, per presentarlo nel suo gruppo a Umbria Jazz. Ilcoinvolgimento ’fascista’ di Rosa consisteva sostanzialmente nell’aver suonatospesso con Romano Mussolini, per un pubblico per il quale, come ammettelo stesso Rosa, ’nel 90 % dei casi l’associazione [del pubblico e degli organiz-zatori] col padre veniva fuori’. Nel 1975 comunque il gruppo simpatizzantecon Formichella fu caricato dalla polizia e, ricorda Rosa, nella rissa che neseguì ci fu un ferito da un colpo di coltello. Lo stesso Rosa dice qualcosa diparticolarmente interessante e paradossale quando nota che l’avant-garde diieri (Enrico Rava) è tutta sbilanciata oggi sul ’senso comune’ e che la suaosservanza odierna supera di molto la pratica dei musicisti che si sono sempredefiniti come ’tradizionali’ (Rosa 2001).

Il pianista Renato Sellani, un altro musicista che ha seguito da vicino tuttala vicenda del jazz del dopoguerra all’interno delle cerchie della produzionenazionale di cultura (è stato anche un buon attore e un ottimo conoscitoredella scena sportiva, fatto che lo faceva collaborare con i cronisti sportivi piùnoti) commenta oggi gli anni ’70 come un periodo in cui c’è stato una speciedi ’fermo pesca’ (Sellani 2003). Le giovani leve, cioè, non confluivano natural-mente a fianco dei musicisti delle generazioni precedenti. Pare comunque cheun tale ’fermo pesca’ abbia giovato al ripopolamento successivo, consideran-do il numero elevato di musicisti giovani o giovanissimi di buono e talvoltaottimo livello tecnico di oggi. Sellani nota però che accanto ad una crescitaesponenziale dei musicisti di jazz non ci sono gli spazi per suonare e che ilfatto di fornire loro dei diplomi conseguiti dopo lunghi periodi di duro lavorogli pare una responsabilità enorme che lui non si sentirebbe di sostenere, perSellani infatti il jazz ’non si insegna’.

La testimonianza di Sellani riporta l’accento su rapporti tra generazioni equindi sulle modalità di formazione e inclusione delle cerchie del jazz che neglianni 70 conoscono una vera e propria rivoluzione di cifre e di significati e chedepone effettivamente a favore di un massiccio apporto di ’dilettantismo’ nellecerchie del jazz, argomento che non può essere liquidato in due parole. Sellaniè un vero ’personaggio sonoro’, un pianista molto affidabile e a suo agio nelleballads, un insider che si qualifica tale proprio nel suo indicare che alla provadei fatti gli indicatori di una ricezione ’sbilanciata’ della pratica jazzistica inItalia siano da ricercare nella rarità di veri e propri cantanti e nella poca cura

4.4 Cadenza finale sospesa all’italiana 307

che spesso viene messa nell’esposizione dei temi a vantaggio del momentodella elaborazione e dei moduli improvvisativi. Ne abbiamo già parlato inprecedenza ed è certamente vero che imitare dall’inizio musicisti come JohnColtrane o Elvin Jones non sia una idea troppo azzeccata se non in casiassolutamente particolari. Dunque questo tipo di osservazione sembra proprioidentificare il luogo delicato della poca consapevolezza del momento in cui il’senso comune’ viene affrontato con la pratica musicale, laddove i musicistidotati di maggiore esperienza parlano di ’raccontare una storia’ (Cerri 2005)di contro all’emettere il numero maggiore possibile di note dei profani. Maquanto può conservare del suo impatto un discorso simile trasformandosi da’habitus’ acquistato sul campo e nel confronto con altri musicisti a ingiunzioneprescrittiva dei conduttori dei corsi di musica d’insieme nei conservatori?

Di tutto quello che è mancato alla pratica del jazz in Italia si potrebbedire che gli manchi continuamente ’tutto’, per definizione, che il jazz sia unospazio della mancanza, dell’assenza e della nostalgia. Ciò non toglie che siriesca a mettere in piedi il complicato e delicato convergere di condizioniche lo fanno vivere. Si potrebbe dire che quel che è mancato di più in Italiaconsisteva nella volatilità sul piano economico e sociale delle condizioni urbanein cui le cerchie del jazz potevano sperimentare tra loro con una sufficientedose di accreditamento e di interesse suscitato presso le altre cerchie dellaproduzione culturale. E soprattutto che il ruolo di regolatori dell’inclusione edella formazione delle carriere è rimasto in gran parte in mano al controlloindividuale e paternalistico di pochissimi moghul nazionali del giornalismo edella RAI (come a Milano e a Roma), dei festival e delle scuole di jazz, moltospesso ancora calati in una cultura ’pesante’ del patrocinio piuttosto che inambienti ’compositi’ e percorsi da un flusso di connessioni non solo episodichecon musicisti e di artisti provenienti dagli Stati Uniti e da altre parti delmondo.

Una raccolta di brevi articoli di Gian Carlo Roncaglia (Roncaglia 2004)racconta il carattere particolare delle vicende del jazz a Torino dal primo do-poguerra fino agli anni ’80. Nel racconto di Roncaglia i destini dei musicistie quelli degli amici torinesi, spesso dei veri e propri mecenati, si intrecciano.Nella Detroit italiana sono avvenute molte cose importanti, tra le quali unconcerto indimenticabile di Louis Armstrong al Teatro regio nel 1935, la na-scita degli Hot Club in un rapporto di stretta corrispondenza epistolare conHugues Panassié, la ricezione del jazz francese di Buscaglione e Germonio,una frontiera costantemente aperta con la Francia sino ai tempi in cui GatoBarbieri, Nana Vasconcellos, Steve Lacy ed Enrico Rava andavano e venivanotra i due paesi, una politica illuminata della sede RAI regionale e dei teatridi tradizione cittadini, che sono stati qui ’abituati’ ad accogliere il jazz. Cer-chie di appassionati che erano attivi dai tempi in cui Ferdinando Buscaglionediventava stella della canzone italiana, da appassionato di jazz e violinista econtrabbassista, si sono compromesse con i nuovi venuti sino alla comparsadelle prime cooperative dedicate al sostegno del free. Un locale come lo swingclub ha permesso, come avveniva nei locali tenuti da Pepito Pignatelli a Roma,

308 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

una presenza più o meno continua di musicisti americani in città (spesso dicoloro che erano già basati in Europa come Art Farmer, Kenny Clarke e DonByas). Le spese sostenute dalle amministrazioni locali per organizzare concertidi richiamo andavano incontro ad un tessuto di attività e di connessioni tra lecerchie cittadine, il pubblico era esigente ma caloroso e aperto verso gli ospiti,si era in grado di garantire più che il semplice concerto e la presenza di ospitiimportanti si sviluppava in laboratori pedagogici, conferenze-lezione, registra-zione di programmi televisivi, storie di vita quotidiana. Ma quello che più èinteressante è che nella memoria di Roncaglia si smentisce sostanzialmente laversione che vede negli anni ’70 l’uscita dal ’senso comune’ del jazz, l’ideolo-gizzazione e l’irruzione di dilettanti e impostori. Per Roncaglia, che seguiva lascena da molto tempo, gli anni ’70 sono stati invece i veri ’anni ruggenti’ deljazz a Torino.

Basterebbe questo a mostrare la necessità per futuri approfondimenti adun approccio diverso ad una storia locale di questi movimenti, ad uno studiodelle attività delle subculture jazzistiche nel contesto delle vicende delle pro-prie città. A Milano negli anni 50, a Roma nei ’60, e perfino un piccolo centrocome Pisa e nelle dimensioni ridotte di quello che un festival estivo riusciva acatalizzare alla fine degli anni ’70, ci sarà qualcosa da studiare meglio e piùin particolare di quanto non abbiamo saputo e potuto fare sin qui. Forse nellaFirenze di Luca Flores e Dado Moroni negli anni ’80 c’è stata una notevolespinta che veniva ancora una volta dai musicisti prima che dalla critica e dalsostegno, nel senso della ’autoctonia’ del jazz, mentre il jazz sudafricano diLouis Moholo entusiasmava un altro tipo di pubblico. In generale però quan-do gli ’stranieri’ si sono allontanati, accorciando i loro soggiorni allo strettoindispensabile, la distribuzione del jazz è diventata molto meno parte di unmovimento più ampio nella società e siamo rimasti molto più soli a fare i conticon noi stessi. È scattato qualcosa come una mancanza (questa si ’autoctona’)che non veniva temporaneamente mitigata in un orizzonte che si apriva: porredefinitivamente la questione del jazz italiano coincideva con la fine di qualcosadi molto più vasto che accadeva dentro di noi.

4.4.2 Match-making

La riformulazione del concetto di ’memoria remota’ (parola d’ordine settorialedi quella che doveva diventare ’memoria remota’ di Lenin e del comunismo) ein quanto teorizzazione che recepisce il programma della new music, porta allalegittimazione del jazz fatto da musicisti bianchi, ma non toglie che la praticadei musicisti italiani di jazz troppo spesso e di modo generale sia percepitacome mancante di spessore. La memoria è troppo remota e la performancemanca anche di quello spessore teatrale, comico e tragico, che tanto abbondavatra gli italiani di una volta.

Si è parlato di un tacito consenso a limitarsi alla sfera della forza e del-l’energia, più che a quella dei concetti nella ricezione e nella critica. D’altrocanto vi è anche un altro aspetto che permette di mettere in evidenza un livello

4.4 Cadenza finale sospesa all’italiana 309

scomodo e generalmente sottaciuto nella pratica attuale del jazz. Il tema qui èancora quello del delicato e già accennato rapporto tra giovani e le generazionidel jazz. Bix Beiderbecke e Frank Teschemacher mostrano l’emergere di unjazz di Chicago del quale i musicisti afroamericani apprezzano la ’veridicità’e l’intenzione. Circa un decennio dopo Benny Goodman è quasi spaventatodal trovarsi di fronte ad un pubblico di giovani che vanno ai suoi concerti inmassa, sfoggiando dei veri e propri rituali dell’evento, un modo condiviso divestire e di comportarsi. Count Basie, a Kansas City, è talmente a suo agio chesviluppa uno stile pianistico e una intenzione musicale informale, mondana,leggera; può continuare a suonare facendo la corte a qualche ragazza. Basieviene definito come ’la bollicina nella coppa di champagne’ (Ossie Davis inBurns 2000, ep. 6), fa pensare ad una condizione adolescenziale, spensierata,di un cameratismo piacevolmente ’dandy’. Tutte deposizioni a favore di unaspetto inaugurale, innovativo, ’boysh’. Col bebop ed il cool questo aspetto sicompromette con un ridimensionamento drastico del mercato, la competitivi-tà richiesta da un nuovi standards della pratica musicale ed il rischio di nonriuscire ad adeguarsi ad un orizzonte che si chiude; la ’forza’ della musica peròè preservata pure a prezzo della caduta nella dipendenza o nella depressione.In seguito la scomparsa di questo carattere, si direbbe di questo ’spirito’, saràun motivo essenziale nella comprensione della fine di un ciclo di vita dellamusica afro-americana detta jazz e l’apertura alla musica del mondo e delcosmo.

Questo carattere inaugurale,69 di eterno inizio, rappresenta un orienta-mento all’approfondimento dell’aspetto della pratica che riguarda l’interazioneextra-musicale entro le cerchie ristrette della produzione. Nato come senso dilibertà, di curiosità per il diverso, di avversità a ogni gerarchia e formalismo,esso non può che manifestarsi in quanto assenza per quanto viene ricercatoformalmente, laddove sopravvive in qualcosa di molto simile ad uno ’stile go-liardico’ formale che è percepibile (e ben visibile) direttamente nella praticamusicale. Forse per questo molti musicisti sono, o sono diventati, delle personefrancamente noiose. Dato che si associano intorno a progetti che hanno unaloro difficoltà a stabilizzarsi e dato che debbono porsi in quanto personalitàrichieste in più cerchie, l’aspetto dello sviluppo graduale e la crescita condi-visa della pratica e dei reciproci rapporti ne risulta fortemente penalizzata. Imusicisti si vedono di rado e vivono pochissimo insieme. La pratica ad altolivello artigianale corrente oggi in Italia rivela spesso individualità carenti di

69 Un carattere di lievità che si ritrova nella storia del jazz italiano, nei gruppidi Luciano Zuccheri, in certe formazioni degli anni 30, in certe band dixielandche nel dopoguerra si rivolgevano al blues-revival, fino alle prime band dei mu-sicisti degli anni 70 rimaste leggendarie come il gruppo ’Spirale’ di Roma (perfare solo un esempio, ma ne esisteranno molti altri). Si può aggiungere a questiesempi di particolare felicità ’inaugurale’ persino quello delle ’operette sincopate’,rifacimenti dei classici della letteratura con le quali il quartetto vocale Cetra siaffermò alla televisione italiana ottenendo un successo senza precedenti ed allequali partecipava il mondo del teatro e della canzone al completo.

310 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

una base comune di elaborazione, ma si può ovviare a problemi di questo tipoalla pratica di dare ai progetti l’incentivo pubblicitario suppletivo del felice (espesso forzato) incontro con l’ospite autorevole, straniero o nazionale.

La pratica del match-making, quella cioè di programmare a tavolino lapresenza di noti ospiti americani ed europei per legittimare la produzione mu-sicale o concertistica italiana, raggiunge nel jazz punte mai viste prima (altroindicatore della nostalgia e della mancanza), e sta a dimostrare la necessità disupplire a rapporti di collaborazione che una volta si inscrivevano in vicendedi viaggio e di improvvisazione della vita e della musica.

Le rivalutazioni della pop music e del jazz italiano (dove le condizioni eco-nomiche esistono come in certe zone della Lombardia e del Nord-Est) sonooggi fortemente compromesse con il discorso sportivo, con il commercio delvino di classe e con lo slow food. Rappresentano l’ultima fase del processodi ’autoctonizzazione’ del jazz in Italia. Si avverte anche quel senso naziona-listico invadente ed insinuante quanto superficiale, radicato nella cultura delmarketing dell’epoca del berlusconismo. L’idea è quella di ’essere bravi’ ed ap-prezzati nel mondo perché sappiamo fare degli ottimi ed originali prodotti. Sitende a legittimare, anticipandola, i termini di una costruzione della tradizio-ne a venire, si vende in anticipo la pelle dell’orso; d’altra parte le esortazioniall’amore per le opere dei nostri connazionali non sono assolutamente inno-centi in quanto falsificano la realtà storica nella revisione di qualcosa che nonha alcun bisogno di revisioni frettolose e tendenziose, ma che semmai necessitadi ricerca e di una discussione che dovrà farsi nel tempo. Ogni connazionaleche è stato in grado di dire qualcosa di proprio nella pop music o nel jazz,come nel cinema e nel teatro, non ha mai mancato del riguardo particolaredel pubblico e dell’affetto dovuto all’intelligenza e alla capacità di concluderedei progetti difficili sin dalle loro premesse.

Molti hanno insistito sull’idea che è nella città che il jazz vive e si diffonde,ma quali sono queste città? Il senso di un potere che sa bene che ’tutto devecambiare affinché nulla cambi’ si legge nella struttura delle città storiche ita-liane, dove i centri-salotto diventano sempre più vetrine impraticabili e senzavita. Le città grandi e piccole decadono, sia nei centri sfruttati dal turismo edall’economia di rendita, sia nelle periferie degradate dove le bande si conten-dono il mercato delle droghe vecchie e nuove, come a Napoli. Il senso di unavera e propria ’catastrofe urbana’ è l’immagine di una Milano ’raccorciata’negli anni 2000, tutta intenta a difendere quello che ha e che rischia di per-dere con la recessione economica. I saloni del design dei mobili sono vietati aiCinesi, perché essi possono copiare di frodo le creazioni dell’ingegno italianoriproducendole a prezzi stracciati, ma si tratta già di copie di modelli tradi-zionali dei secoli passati o di pacchiane variazioni su modelli di scarso o nullointeresse. Mancano le idee e solo gli attori satirici più intelligenti possono dirlo.La città solidarizza con un orefice che ha freddato un ladro extracomunitarioche gli rompe la vetrina armato di martello, l’uomo della strada avverte che hapaura, ma le rapine in un anno sono state in numero di cinque. Nei notiziaritelevisivi regionali, che danno voce allo strapaese del terzo millennio (diretti

4.4 Cadenza finale sospesa all’italiana 311

da Angela Buttiglione, sorella dell’ex ministro iper-cattolico e anti-gay dellePolitiche Comunitarie e poi dei Beni Culturali Rocco Buttiglione), Milano èdiventata un ammasso di quartieri senza speranza e di fiere di commercio digente piccola, paurosa e feroce nello stesso tempo. Lo slogan di Milano capitaledel design e del made in Italy, ripetuto come un articolo di fede,70 sgomen-ta. Tutto questo risulta semplicemente dal riportare alla mente la città deidecenni passati confrontandola con quella di oggi: se la peculiarità di Milanoera inventiva e iniziativa, industria culturale, jazz e cabaret, sarebbe tanto piùnecessario farvi ricorso in un’epoca come questa. Ma Milano diventa semprepiù piccola; ma allora, era veramente grande, prima, la città?

Muovendo da un contesto in cui il flusso tra rappresentazioni pubblichee idee, tra società e arte, passa per il piano tecnologico distributivo dell’in-dustria e dei media, prima di poter giungere a valutare la questione della’costruzione’ delle rappresentazioni pubbliche del jazz in Italia, può essere in-teressante considerare una delle più recise formulazioni della sua crisi, e dicome essa prepari il presente. Dopo aver tentato di inquadrare il pionierismodel periodo fascista e degli anni ’70, è da indicare lo spartiacque della suadissoluzione, alla metà degli anni ’80, quando la guerra tra Iran e ’Iraq segnail passaggio a quel nuovo assetto strategico- conflittuale centrato sulla regionemedio-orientale che conduce ai nostri giorni postmoderni.

4.4.3 Magari « Jazz e cultura mediterranea? »

Tra gli ultimi appelli che parlavano di una crisi, con il jazz considerato ormai’in terribile stasi creativa’ (Pecori 1985:24) quelli associati al progetto di ini-ziare un discorso su ’jazz e cultura mediterranea’, che si fa a Roccella Ionica,una località turistica del profondo sud che ospita uno dei più importanti festi-val italiani di jazz. Si tratta dell’immediato successore del discorso già iniziatodal CRIM a Pisa: il festival pisano chiude i battenti mentre Roccella Ionica èin pieno sviluppo. Da qui in poi sarà sempre più difficile criticare quello cheaccade nelle cerchie del jazz in Italia oltre i limiti di un discorso per ’addetti ailavori’. Mentre molte persone le abbandonano come spazi in cui ’condividere’il quotidiano, e mentre la world music e le musiche degli emigrati contendonoal jazz cospicue fasce di pubblico, il problema della autoctonizzazione del jazzin Italia viene posto intorno ai termini di una relazione che si avverte profondama ancora tutta da pensare e da costruire.

La presenza di Giorgio Adamo (1985) tra i relatori e le numerose citazionidagli scritti di Diego Carpitella in vari interventi, mostrano la ricerca di un

70 Si tratta di un discorso riproposto sempre più stancamente da moltissime parti: ilpartito di destra di tradizione neofascista oggi al governo con Berlusconi, AlleanzaNazionale, dedica un incontro a Milano sul tema del ’Made in Italy’ e del prodottoitaliano di qualità come proposta per superare l’attuale momento di recessioneeconomica (16 aprile 2004), ma in una atmosfera priva di entusiasmo.

312 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

rapporto con gli etnomusicologi italiani.71 Ma quello che appare immediata-mente l’argomento da discutere appare negli interventi di Franco Pecori (cit)e di Luigi Bonifazi (1985): la necessità di chiudere con l’esperienza dell’im-provvisazione musicale che Pecori chiama ’assoluta’, e che rappresentava giàl’orientamento del CRIM,72 di una filosofia della musica che è andata semprepiù scindendosi dal jazz e dal difficile coacervo di contraddizioni che rappre-senta. La risposta al ’vuoto dell’improvvisazione totale’ (ma Pecori non era ilbatterista del collettivo free-jazz di Roma?) è nel rivolgersi verso sé stessi, lapropria identità, le ’proprie tradizioni’. Gli approcci di apertura all’etnomusi-cologia degli atti di questo convegno non hanno bisogno di commenti quantoal loro carattere tardivo, strumentale, talvolta semplicemente assurdo.

’Jazz e cultura mediterranea’ resta comunque la metafora del jazz in Italia.E cioè quella di una ideologia ed una pratica della musica che si trasmette co-me qualcosa di inaugurale, costituzionalmente dissidente nell’urgenza di doveressere comunque e nonostante tutto, ma che deve scendere a patti con le resi-stentissime strutture di potere che il nostro mediterraneo politico e interiorevede inscritte nelle stesse pietre delle ’nostre’ chiese e nei lastricati dei ’nostri’centri storici. Una questione tutta nostra, che non ha nulla a che vedere con gliArabi (Mazzoletti 1985). L’esito di Umbria Jazz da evento che mette in crisi leidee di politica culturale di tutta la sinistra italiana a centro fieristico del nuovosistema di un mainstream italiano, mostra che l’idea di jazz e cultura medi-terranea si pone come evoluzione di un programma economico ’strapaesano’in cui la cultura rappresenta una specie di aceto balsamico. Umbria Jazz restail modello nazionale, ma la minuta geografia strapaesana della solidarietà tramaggiorenti locali, élites culturali di provincia e istanze economico-turisticheereditata dal fascismo e riprodotta nell’Italia di oggi (forse sia post- che pre-fascista), presiede ancora all’organizzazione degli innumerevoli festival estiviche servono a far passare il tempo sotto le stelle ai turisti cittadini. A rigordi logica, portare il jazz nei centri storici medievali dovrebbe rappresentaretutto meno che un motivo di vita per questa musica.73 Ma Umbria Jazz e71 La sontuosità erudita di alcuni interventi e l’eclettismo iperbolico di altri mostra-

no come in questo convegno si sia raggiunto un tasso di verbosità farneticante.L’interessante da notare qui è che se l’intellettualismo che spesso i musicisti dijazz condannano in Italia è quello che si incarna nelle file dei loro organizzatori,sostenitori, padrini, ecc., allora non hanno tutti i torti.

72 Il CRIM era andato sostenendo sempre più improvvisatori ’totali’ quali DerekBailey, Evan Parker, Richard Teitelbaum, Toshinori Kondo e ritagliando unospazio ad una idea musicale ’pura’ da perdere ogni connessione col mondo deljazz e l’immaginario di una parte consistente dei suoi sostenitori. Nel contempo,ricercando improvvisatori interessanti principalmente in Europa e negli USA enon giudicandoli che pressoché inesistenti in Italia, hanno causato una reazionedi stizza, che solo oggi si sta placando, da parte delle cerchie del jazz italianoche venivano escluse e viste con sufficienza da questo punto di vista di musica’assoluta’.

73 Un editoriale di Filippo Bianchi, direttore di Musica Jazz, riservato al commen-to sui festival estivi è un capolavoro di (amara) moderazione. Bianchi scrive che

4.4 Cadenza finale sospesa all’italiana 313

una miriade di iniziative di diversissimo interesse e livello restano il passaggioobbligato per le carriere di chi entra nelle cerchie della produzione che conta,affinché ’un modo italiano di fare jazz vada avanti’. Qualcuno ha osservatoche il ricorrere di certi nomi assomiglia molto all’ubiquità dei politici italia-ni. Francesco Cafiso è ’il vero trionfatore di Umbria Jazz 2004’, compare poiinsieme a Wynton Marsalis ed alla Lincoln Center Orchestra all’AuditoriumParco della Musica a Roma il 21 luglio (Pellicciotti 2004).74 Francesco Cafisoha ora diciassette anni ed è anche per quest’anno il capofila.

D’altra parte, anche questo mediterraneo vorace, nostalgico, pietroso ecementificato non può fare a meno di ricordare e di interrogarsi. Per la gene-razione dei musicisti che emerge oggi la vicenda di Massimo Urbani è divenutail mito dell’assenza, di quello che più manca oggi dalla scena italiana: la ricercaquotidiana di una corrispondenza tra la musica e il sentimento, tra l’improvvi-sazione del vivere e le proprie scelte, tra le aspirazioni alla libertà di un tempoe le memorie scomode in cui si sono sedimentate. Potrà dare forma a qualcosadomani, forse, per ora può orientare un investimento.

4.4.4 Repliche: il caso Cafiso

Urbani come promessa precoce, come ragazzo prodigio è rimasto nella me-moria delle cerchie del jazz, simbolo di una speranza, di un tempo e di coseche possono essere raccontate, ma che non si spiegano mai fino in fondo. Co-me Urbani veniva accolto a diciassette anni nel quartetto di Giorgio Gaslini,prima di iniziare a camminare sulle proprie gambe, oggi gli appassionati italia-ni hanno motivo di sperare in Francesco Cafiso, giovanissimo altista siciliano,comparso quattordicenne al festival invernale di ’Umbria Jazz’ insieme a Fran-co d’Andrea, Giovanni Tommaso e Roberto Gatto, e, immediatamente dopo,

’il burocrate pubblico (ma potremmo dire politico) si è sostituito al mecenatenella vita culturale’ non pensa alla durata ma si limita alla prospettiva del pro-prio mandato amministrativo. Prendendo atto che ’...i festival non «istigano lacreatività», non commissionano tante «novità» quanto vorrebbero’ conclude che’tuttavia consentono agli ascoltatori di godere di buona musica e ai musicisti disopravvivere un po’ meglio’ (Bianchi 2002). Bianchi, in un messaggio codificatocomprensibile agli ’addetti ai lavori’, intende forse dire che la maggior parte deisoldi spesi per il jazz consiste in danaro pubblico e che gli investimenti degli spon-sor privati restano ancora irrisori e che questo costituisce un fattore di incertezzae di episodicità delle politiche di sostegno e costruzione degli spazi culturali deljazz.

74 La promozione del ’made in Italy’ si affida alla promozione del jazz: Renzo Arbore(autore, presentatore e promotore radiofonico e televisivo, oggi tra gli organizza-tori di Umbria Jazz) si vede conferita la laurea Honoris Causa in scienze dellacomunicazione da parte dell’Università per Stranieri di Perugia, e questo a NewYork dove i templi del jazz sono ogni anno occupati per qualche giorno dai musi-cisti italiani. Arbore spiega al tg 3 del 30/03/2006 e poi a quello del 03/04/2006che il jazz italiano sarebbe ’il secondo nel mondo, per quantità e qualità’.

314 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

nell’estate del 2004. Intervistato al telegiornale della terza rete televisiva,75Cafiso racconta di una immediata intesa con lo strumento dopo avere ascol-tato un disco di Phil Woods, ma è suo padre a raccontarglielo e lui non siricorda chiaramente. Il suo è un talento naturale, che si manifesta un giorno:non si sa da dove venga ma si sa che porterà da qualche parte. Nell’estate2004 il pubblico ’porta in trionfo solo Francesco’ (Pellicciotti 2004). Il copio-ne della costruzione del personaggio è lo stesso: ammissione nelle cerchie deivecchi saggi del jazz, andare negli Stati Uniti a raccogliere il rispetto e le rac-comandazioni di qualche maestro, un match-making al top al Lincoln Center,al Birdland, e il gioco è fatto. E poi? Dice di essere un ragazzo tranquillo,come tutti gli altri e che prima di tutto pensa ad andare a scuola.

4.5 Conclusione mezzo tono sopra

Difficile sottrarsi alla sensazione che il jazz ’ritorni’, più che seguire lo sviluppocoerente di una crescita. Ritorna in Italia e in altri paesi d’Europa secondomodalità differenti, risvegliando attenzioni sopite e desideri di altri tempi.Ritorna negli Stati Uniti quando si guarda alla vitalità degli anni ’60 e ’70, esi protesta contro la politica del ’Lincoln Center’. Si ammette qui in linea diprincipio la fine di una egemonia, ma in fondo non abbandonando l’idea che icolleghi e i concorrenti di oltre oceano (a parte casi assolutamente eccezionali)non possano essere tra coloro che fanno cose ’realmente grandi’ (Ellington1981:345).

Ci siamo abituati a misurare la grandezza di un musicista in rapporto airispettivi concetti di musica. Dai personaggi sonori ai rispettivi concetti dimusica. Un altro aspetto non secondario della cambiamento di significato dijazz in quanto ’modernismo’. Da Coltrane, e forse da prima, diviene comuneparlare dell’elaborazione dell’individualità compositiva e improvvisativa deimusicisti come di un concetto (’Coltrane’s concept’, ’Dolphy’s concept’, etc.)e questo criterio diventa retrospettivo quando si presta attenzione ai musi-cisti delle stagioni precedenti. Se il ’concetto’ dei musicisti appare una sfidaa qualcosa di cui si avvertono le ristrettezze (come lo habitus di Bourdieu),la sua storia è anche quella di una lunga strada di consonanze e di incontricon proposte delle arti e delle scienze umane che iniziano dall’irruzione delle’Arts Nègres’ (ne abbiamo parlato), per giungere sino alla filosofia come artedi ’inventare concetti’ (Deleuze e Guattari 1996[1991]:5-21).76

75 In data 28/12/2003, poi nel 2005 e nel 2006 vari altri servizi dedicati a Cafiso sisono susseguiti regolarmente sulla stampa nazionale e locale e nei telegiornali.

76 A ben vedere troveremo tracce di jazz in altri punti chiave dell’opera di questi dueautori: nell’auspicio di una ’nomadologia’ di Deleuze e Guattari (1997[1968]:46), onell’evocazione di quel senso di ’anarchia incoronata’ (Deleuze 1997[1968]:53-55)dinanzi alla quale ogni mainstream culturale e cultura ’maggioritaria’ avverte lapossibilità di una chance artistica che possa originare qualche forma di catarsi.

4.5 Conclusione mezzo tono sopra 315

Quanto alla convergenza tra jazz e antropologia, anche aperture in ap-parenza secondarie puntano verso luoghi in cui si arriva provenendo da altrestrade per mostrare che, mentre si definisce l’oggetto di studio, si mette in gio-co l’univocità dell’oggetto stesso. Quando Leonardo Piasere dice: ’È veramentestrano quanto siano poco indagati i collegamenti tra la storia dell’antischia-vismo e la storia della nascita dell’antropologia in Europa’ (Piasere 2002:92),dice qualcosa che potrebbe essere ugualmente fondamentale per le future ’sto-rie mature’ del jazz (Braxton, v. p. 297 in q. testo). Questo richiamo di Piaserecompare in un testo in cui l’antropologo si impegna ad una critica serrata del-l’antropologia post-modernista con le sue idiosincrasie di creatività e di libertànarrativa, ma con i suoi orizzonti così angustamente nord-americani. Nel frat-tempo le metafore rizomiche di Deleuze e Guattari finiscono nelle mani deisociologi esperti delle reti terroristiche, il commento dell’attualità (tutto unvuoto mascherato dall’atto della legittimazione emergenziale) costituisce unaminaccia ad ogni approfondimento. Dopo l’undici di settembre 2001, le reda-zioni dei giornali si gettano sul mondo arabo, un mondo la cui cultura e le cuiparticolarità e aspirazioni non interessavano a nessuno sino a quel momento(Bosetti 2001 cit. in Zoia 2005). Che cos’è l’expertise mediatico? Qual’è il suoconcetto?

Il dissenso del jazz configura aperture e non limiti. Confrontando l’arcodal 1920 al 1970 con i quasi quarant’anni che ci separano da quella data pos-siamo notare che a partire dagli anni ’80 esce dal jazz quel movimento ritmicodecennale in cui la ’guerriglia culturale’ afroamericana (Shepp, p. 122, n. 238,in q. testo) riesce ad imporre al mondo nuove invenzioni, talvolta riattivandoenergie sopite, talvolta connettendosi ad altri ambienti, talvolta inserendosi inuna visione del proprio tempo, talvolta precorrendolo. Perché e come, resta dascoprire, ma forse è proprio da quel tipo di movimento che l’idea del carattereillusorio di ogni limite tra arte e vita si fa avanti prima che nell’antropolo-gia post-moderna. Possiamo ancora stupirci di connessioni imprevedibili, de-localizzate, di etnografie urbane, autobiografie e frammenti che narrano unavicenda per la quale resta da dimostrare in che modo ’vada avanti’? Certo chequella di Shepp può essere considerata come una interpretazione come tante,ma è parte del suo ’concetto’ di musica. Non dovremmo allora cogliere nessunrapporto tra l’uscita di scena dell’antischiavismo e la lotta per i diritti civili inquanto orizzonte politico e artistico ed il pensare il jazz come una specialità’nazionale’, come costituzione di una specie rappresentanza olimpionica di unaltro genere di sport nella vecchia Europa?

Nelle pratiche attuali del jazz italiano ed europeo il repertorio viene di-gitalizzato, rastrellato, talvolta saccheggiato, i musicisti aumentano conside-revolmente di numero (come gli anziani), si diffonde (specie tra quest’ultimi)la voce che ’il nostro jazz non sia inferiore a nessuno’, ma quanto più si usail repertorio, tanto più si evocano presenze di musicisti afroamericani spessosenza il minimo perché. Può capitare di far di loro le presenze scomode di unafesta piena di equivoci. Forse proprio notando questo Ellington giudicava imusicisti europei come raramente destinati a ’grandi cose’? Questi morti sono

316 4 Connessioni e corti-circuiti interatlantici

invitati a celebrazioni continue fin nelle parti più inaspettate dei continenti(nel nord prevalgono le birrerie, qui i ristoranti), come faranno a orientar-si in una simile bolgia se non limitandosi a fare capolino qua e là per poiscomparire di nuovo? Il ritmo dei pranzi e l’importanza del riunirsi a tavolaaiutano il jazz a vivere? Nella grande provincia strapaesana può anche darsidi sì. E ancora, se la pedagogia musicale è un racket commerciale in cui leposizioni acquisite sono difese con l’anima e coi denti, nessuno si sognerebbedi protestare contro il fatto che si possa invecchiare insegnando musica. Chilo vorrà potrà comunque volgersi verso luoghi in cui persone ben assortite siincontrano, si diversificano e si ri-connettono in modi veramente ’rizomici’,nel momento i cui il jazz può diventare uno dei rottami culturali raccolti erimessi in piedi dalle fanfare balcaniche, per esempio, al modo in cui GnawaMarocchini, Eschimesi, Pastori Mongoli e Indios dell’Amazzonia fanno ricorsoal libro dell’antropologia.

Il jazz non è il solo tra le clamorose distribuzioni de-territorializzate dellacultura entro le quali i Neri americani (possiamo aggiungere gli Zingari e lecomunità Ebraiche che si trovavano in Europa prima della shoah) operano unarielaborazione dei modelli maggioritari che giunge a fare della lingua qualcosadi molto vicino alla musica stessa (Deleuze e Guattari 1997[1980]:179). Al-l’opposto, c’è qualcosa nel sistema del jazz italiano che pare talvolta moltovicino a quelle concrezioni fasciste, quei ’microfascismi’ che restano dentro dinoi, che attendono e che ’chiedono solo di cristallizzare’ (op. cit., p. 24). Oggiall’evento del jazz in Italia si confronta un numero di generazioni impressio-nante: da chi ha conosciuto la seconda guerra mondiale a chi è nato negli anni’80. Per questo, il ’campo’ del jazz permette di osservare le trasformazioni e lesempre adattabili e negoziabili ’acclimatazioni’ delle innovazioni culturali co-smopolite in una cultura regionalista e sistemicamente ripetitiva come quellaitaliana. Qui i micro-panorami attuali non possono più permettersi di esse-re troppo diversi da quelli macro-mediatici. Eliminare ogni sconvenienza perprogrammare la rinascita economica e politica del paese dell’eterno ritorno,dove nulla è mai realmente risolto: non più contese, dibattiti, discussioni, malegittimazioni, certezze condivise sono necessarie a che l’impresa vada avan-ti. Ed ecco il concetto: una allusiva e totalitaria pubblicità ritrae una tavolaimbandita lunga chilometri di Italiani intenti a divorare vassoi di prosciutto.

Osservando questo il recupero del ’genio italiano’ nel jazz, somiglia moltonella sua attualità e nella sua vuotezza (quanti ci crederanno in realtà?), undiscorso ben più allineato a ’piacere’, teso ad inserirsi nel vento della conve-nienza e del potere. Se torna tristemente attuale discutere se i bianchi possanoo meno suonare il jazz e quale sia stato il loro contributo alla sua storia, c’èuna differenza non trascurabile tra chi opera in Italia affinché ai bianchi e agliitaliani vadano riconosciuti meriti a lungo trascurati (Mazzoletti 2004) e chisostiene che non ci si possa dividere sulla predominanza di questa o quellaminoranza in un elemento della cultura americana così chiaramente frutto diun contributo collettivo di minoranze culturali e di gruppi dissenzienti qualeil jazz (Jamin & Williams 2001).

4.5 Conclusione mezzo tono sopra 317

Tra ’jazz e cultura mediterranea’ in quanto metafora epistemologica daprendere sul serio nel bene e nel male, non c’è altra possibile approssimazioneche quella di osservare quello che accade nel campo del vicino, e poi andare achiedere di persona. Basta dare una breve occhiata nei siti e nelle mailing-listriservate alla musica araba turca e persiana (dove il vino è una venerabilemetafora spirituale), per notare gli sforzi di una quantità di persone punti-gliose che condividono documenti e files sonori, incontri, seminari, nei quali sidialoga comunque con chi protesta per l’umiliazione e la degenerazione che siabbattono sulla propria terra, sulla propria eredità culturale, sui propri alberie i propri spiriti. Gli appassionati occidentali e orientali (alberi e rizomi sonoqui difficili da identificare), mettono in comune idee e percorsi di approfondi-mento, trovano prove su prove della varietà e della complessità ’umana’ di unmondo che non può che rivoltarsi contro gli essenzialismi e contro i proclamidelle politiche ufficiali, certo contro gli appelli all’unità in un fronte militantearabo dittatoriale, ma anche contro l’agghiacciante parere degli esperti chericamano sugli eventi del terrorismo futuro.

Nel ’nostro’ mediterraneo i musicisti più richiesti percorrono il paese inlungo e in largo, ospitati dalle ’ritmiche’ locali, molto spesso trovandosi inbanchetti in cui la ’ciliegina sulla torta’, rappresentata dal jazz, può giunge-re alla fine di veri e propri exploits gastronomici fatti di slow food e vini diqualità. La crescita in marchi e qualità dei vini italiani corre parallela allacrescita del jazz e dei tanti ragazzi che dimostrano di essere ormai ’musicistidi razza’. Il jazz dei giovani è linfa e sangue che torna alla terra col vino, cui sifa spazio in ambienti e tavole imbandite, le quali, o non prevedono l’arrivo diospiti ebrei o musulmani, oppure debbono invitarli espressamente come attodi ospitalità e volontà di coesistenza pacifica. In certi casi, il rifiutare un piattoa base di maiale può suscitare il sospetto di una ostilità nascosta e irriducibile.Allora nasce il ragionevole sospetto che il jazz di questi tempi, di questa Italiache torna lo strapaese che pare trovarsi per caso nel mediterraneo, ma cosìriluttante a ricercare nel profondo i mille legami che delineano la ’politicità’delle cose e dei discorsi, non sappia costruire sufficienti anticorpi contro le con-crezioni micro-fasciste che restano così abbondanti nelle sue culture. D’altraparte l’evento ha la proprietà (chissà quanto illusoria) di rimettere ogni cosaal suo posto. Una volta che la musica è scomparsa nell’aria, vedendo tuttocon un occhio più benevolo e in uno stato di moderata euforia, si potrà anchemettersi l’animo in pace, dopo aver visto le correnti idee di jazz transitareattraverso antiche idee e pratiche locali della vita e dell’economia.

A

Annesso

A.1 Interviste

A.1.1 Con Salis, Pareti, Cantini

Antonello Salis è stato definito da Lello Pareti, il ’musicista più amato dagliitaliani’. Il suo modo di suonare e di rapportarsi con gli altri musicisti, è quellodi non risparmiarsi, di passare da un ’tour de force’ fisico. Non risparmiarsi.Specialmente alla fisarmonica ottiene un effetto di diffusione a 360 gradi dellasua musica. È un musicista la cui messa in gioco totale del corpo risaltaimmediatamente all’attenzione. Le sue strategia è quella di creare un centrodal quale spandere circolarmente la sua musica nell’ambiente in un modo checostringe i propri collaboratori, a mettersi in discussione e a ridefinirsi rispettoa quello che fa. Usando la voce, il fischio, vari timbri di fisarmonica, i bassi,ed avendo una concezione ritmica, percussiva e timbrica molto originale, variemodalità e registri di articolazione cattura l’attenzione dei propri compagnie del pubblico portando il proprio ’peso’ nell’evento e puntando sempre arialzare la posta in gioco. Si può dire che Salis abbia compreso molto benee saputo costruire un ’personaggio sonoro’ che non può passare inosservato.Per questo gode dell’affetto del pubblico. Salis continua a dare tantissimo aljazz italiano, a contribuito ai progetti di moltissimi musicisti italiani senzascivolare nei suoi problemi locali; ha una lunga lista di collaborazioni conmusicisti di tutto il mondo e si trova in una posizione molto particolare distima e apprezzamento generale. Introduce questa intervista premettendo chele questioni della musica non possano (o non possano più) essere trattate come’affari di stato’.

Antonello sa catturare l’interesse di chi lo ascolata anche parlando. Il fattoche lui stesso dichiari una strategia comunicativa omogenea tra musica e pa-rola (lo fa nell’intervista) avvalora, certifica, un paziente lavoro di costruzionedi un personaggio dello spettacolo che non esclude l’impegno civile e politi-co. Ricordo (sebbene non molto chiaramente) di aver parlato abbastanza a

320 A Annesso

lungo con lui l’ultima volta al festival di Penne, nel 1975. Allora mi raccon-tò, tra l’altro, delle difficoltà di vivere a Roma, del fatto che non aveva unpianoforte ed usava una tastiera ’muta’ per esercitarsi. In seguito, ho seguitoda lontano, ben sapendo, secondo le notizie delle ’voci’, che Salis era semprelo stesso che andava avanti molto bene senza rinunciare ad essere se stesso.Antonello ha mostrato di non temere la mia sortita da trent’anni di silenzioed ha confermato che la memoria di momenti così importanti per la sua (ela mia) generazione come fu il festival di Penne è conservata, confermando lamia presenza all’evento e provando che quello che va dicendo è, in sostanza lostesso da trent’anni, ed oggi la risposta del pubblico dimostra che ’funziona’.Quello che mi disse allora, confrontato con quello che ha detto in questa riu-nione a tavola prima di un concerto il 5 febbraio 2004 a Follonica, con quelloche riportano le sue interviste e la sua musica torna sempre a dimostrare unacoerenza ed una tenacia che lo contraddistinguono tra i musicisti italiani. Cisiamo riuniti a tavola a chiacchierare con lui, Lello Pareti e Stefano Cantini,nella tournée italiana intesa come promozione del trio dopo la realizzazionedi un CD a suo nome e con molte composizioni dello stesso Pareti.

Uno degli organici che più lo impegna consiste nella sua partecipazione,a volte da solo, a volte insieme con il trombettista Paolo Fresu, in veste disolisti ospiti della fanfara Rom Macedone della Kocani Orkestar.

MB - Su questa cosa del repertorio italiano; i pezzi italiani vanno fatti perforza? È la gente che li chiede?

Salis - Beh! Secondo me è cominciato un po’ per caso, per un fatto affettivo.Non credo sempre per business. Poi c’è la questione di un certo backgroundculturale. Io per esempio negli anni ’80 con un amico che aveva lo stessomio background culturale, diciamo, abbiamo fatto un lavoro sulla musica deiBeatles, proprio pensando agli anni in cui quelle cose avevano un ruolo cosìimportante nella nostra vita. La cosa è partita da noi, non è stata fatta perbusiness, ma con lo scopo di divertirci. Per esempio se io partecipassi oggi auna session rock, mi divertirei un casino perché ho iniziato con quelle cose lì.Poi, il resto, quando è cominciato il discorso delle canzoni italiane, ci sonoanche quelli che le hanno viste come business. E allora hanno cominciato asemplificare. . .Mogol, Battisti. . . e allora per me è allucinante perché io non miinteressavo di queste cose neanche quando avevo 25 anni, 30 anni di meno. Ame mi hanno messo l’angoscia quella roba lì. Istintivamente, anche quando nonsapevo chi era John Coltrane. Però, per un sacco di gente, evidentemente, l’havista come un business. Allora, il fatto che il pubblico dice ’si fanno i pezzi diBattisti’, allora richiama un sacco di gente, perché è un artista conosciutissimo,una figura epocale, allora vengono dei risultati strani, ibridi. La cosa non sisa cosa si aspetta nel sentire, magari proprio come un disco di Battisti. Imusicisti che spesso vengono dall’area del jazz, perché un musicista rock noncredo gli verrebbe mai in mente di fare un omaggio a . . . son più i musicistidi jazz a pensare questo, no? Sempre in cerca di business, o di . . . Allora il

A.1 Interviste 321

risultato è un ibrido. È un ibrido perché la gente non è contenta; sente i suonidi sassofono, di tromba. . .

MB – Non c’è nemmeno questo amore per . . .Salis – Per un appassionato di jazz, trova quella cosa lì un pò commerciale,

non molto interessante perché si tratta di canzoni. . . a volte. . . e poi si cercadi..per cui alla fine non piace né a chi va a sentire le canzoni di Lucio Battisti,è quella parte lì rimane insoddisfatta, come rimangono insoddisfatti chi quelliche amano il jazz. . . e quindi, però. . .

MB – Però. . . scusa se ti interrompo, non ha un senso di popolarizzazionedel jazz, nel senso di rompere un po’ quella vernice intellettuale degli anni ’70,questa storia, che a qualche bisogno risponde. . .

Salis – Mah, no, io non sono mica convinto . . . a mio avviso . . .MB – No . . . eh?Salis – Anche perché se uno ha orecchie, e come se uno ha curiosità, trova,

alla fine trova un sacco di cose, perché la gente dice ’ah, non si trova niente’. . . se uno cerca trova, alla fine trova . . . è lo stesso che, non so . . . il jazz vistocome forma di musica intellettuale . . . io sono arrivato ad amare il jazz avendola quinta elementare . . . .

MB – Questo non vuol dire che tu non appartenga ad una cerchia dipersone che produce simboli, hai fatto la quinta elementare ma lavori insiemea uno che scrive un romanzo . . . voglio dire . . .

Salis – Anch’io non è che ho avuto contatti subito appena finita la quintaelementare . . . anch’io potevo finire in mezzo a una marea di gente che ascoltamonnezza, voglio dire, invece no; ho avuto mie curiosità, forse sensibilità,mi sono interessato ad altre cose . . . e credo che questo sia appannaggio ditutti . . . voglio dire, chi ha un minimo di sensibilità. Tant’è vero che quandovai a sentire certi concerti, dici: ’non pensavo che avevo un pubblico così’ eviene fuori la gente. Viene fuori la gente che si interessa di certe cose e dici:’ah, questo mi fa molto piacere’. C’è una marea di gente, c’è un’area che sifa imboccare, si fa imboccare dalla televisione, si fa imboccare su tutto: sullamusica, sui gusti, sulle macchine, su tutto. Come drogata, allora vengono fuorii discorsi che la musica è una musica intellettuale.

MB – Oppure proprio il discorso del jazz nazionale, come arriviamo noi,nazione, ritirare fuori i materiali, non so . . . di Natalino Otto. . .

Salis – Come gli americani facevano con la canzone americana .. preso inquella maniera potrebbe essere pure una cosa normale. Solamente io credoche invece si è pensato al business. In particolare. Forse gli americani, fecerolo stesso prima che le canzoni diventassero standards del jazz. . .

MB – Scusa se ti interrompo. . . volevo fare un esempio tra Walk on Bydi Bacharach e quella di Roland Kirk . . . chi è in Italia che si prende laresponsabilità di ’dire una cosa’ . . . . (così forte)

Salis – Come ti ho fatto l’esempio del disco sui Beatles, e di noi: ’è unacosa che piace a me’ e la voglio suonare’, poi può essere anche discutibile.A qualcuno piacerà e a qualcuno non piacerà. Ma io credo che quello sia ilprincipio, che lui sia partito (credo eh?) con quell’idea. Non l’ha fatto per

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business . . . ha preso, ma vedi, noi possiamo prendere qualsiasi materiale esuonarci sopra, farlo diventare nostro, quindi anche noi potremmo fare unaserata con un repertorio improntato sul tema . . . solamente io mi rifiuto, mirifiuto proprio ideologicamente, io voglio dire già questa gente è stata santifi-cata a suo tempo, che poi ci sia anche il mondo jazz a santificare questa gentequa. Sinceramente, e tutto perché, non perché i musicisti di jazz impazziscanoper Battisti, ma perché pensano che forse si arriva ad un successo. Forse aqualcosa che cambia la tua vita, improvvisamente, da così a così, e fai il saltoverso l’alto. Non lo so, però di fatto sino a questo momento i risultati sonomodesti, anonimi, potrebbe sembrare che una critica negativa nei confronti diqueste cose qua. In realtà, è anonimo, un pezzo come un altro. Anzi, a volte ilfatto di affrontare certi pezzi molto conosciuti in una certa forma dalla gente,porta pure i jazzisti a essere più abbottonati, ancora più abbottonati, quindialla fine non suoni niente. Quindi alla fine non suoni niente. Non suoni quellacosa lì come la suonerebbe Fausto Papetti, voglio dire, pero non suoni neanchecome suoni quando vai a fare un concerto di jazz, perché ti mantieni, perchécerchi di essere più comprensibile possibile. . . .

Cosa ti dicevo?. . . . (Ho acceso, emozionato, una sigaretta e sono preso inflagrante. . . . )

Salis - E non si può fumare. . . . (Cantini racconta che in un albergo inCanada la stanza fumatori era senza riscaldamento a 42 gradi sotto zero.)

Salis – (Proteste contro il fondamentalismo antifumo) . . . . In Tunisia, sonoun po’ come noi una volta, fumano dappertutto. Non voglio fare discorsiantiquati. Però dateci uno spazio fumatori. Tipo bestiario, una cosa che cimettiamo la dentro e fumiamo e baffanculo, moriamo come cazzo ci pare. Poidetto da me, io non sono un fumatore, fumo più che altro le canne.

MB – Lo scrivo così com’è?Salis – Chi cazzo se ne frega. . . vai tranquillo. . . sono per rispettare la

gente. . .MB – E i grassi, ecco l’assistente sociale che ti ordina di dimagrire quaranta

chili . . .Salis – È una cosa americana, in America questa cosa ha preso piede

da tanti anni. Ma in Italia, siamo Italiani, non devo dire altro, quando cimettiamo in testa qualche cosa diventiamo solerti come i carabinieri. . . .cosedi cui nessuno è convinto ma che si devono fare, perché si devono fare ebasta. . . nessuno va a obiettare. . . .

MB – Si trovano le sigarette senza tasse su internet come il viagra. . .Salis – Alla fine poi si sviano tutta una serie di problemi più gravi. . . voglio

dire. . . con una canna oggi ti arrestano, secondo la proposta fatta dal governoattuale, e poi c’è il condono fiscale . . .

MB – Si vendono le isole . . . . mi ricordo Afo Sartori negli anni ’70, col-laborava coi Circoli Ottobre, era quello che portò Archie Shepp a Pisa, ioero bimbetto, cominciavo a suonare la batteria e parlavo con Beaver Harris,questa gente era accanto a noi, tutto il fatto della negritudine . . . . ora per lui. . . per il repertorio italiano fatto jazz. . . sono tutti bravi . . . . l’esagerazione di

A.1 Interviste 323

allora era ’solo i neri possono suonare jazz’, e noi si diceva, ’anche noi vogliamosuonare, si dovrà trovare una via . . . ’

Salis - Dove attingere . . . .MB – Non voglio discutere il percorso individuale, ma io penso che siano

tanti gli appassionati di jazz che hanno fatto questa scelta qui. . . .come quelloche non beveva il caffé la mattina senza Lotta Continua ora legge Il Foglio

Cantini – No, perché?Pareti – Una volta c’era un sogno . . . [spiega pacatamente il cambiamento

generale partendo dal muro di Berlino, e dall’aumento della produzione senzal’aumento dell’occupazione, il tema prende tutti e si sviluppano conversazioniparallele]

MB – È vero, infatti i risultati si sono visti sulle grandi questioni, le ma-nifestazioni sulla pace, i sindacati italiani, allora lì hai riacquistato una forza,sul locale e sul nazionale, meno, è un casino . . .ma io mi volevo riferire aisimboli che stanno dietro al jazz . . . . limitatamente. . . come cazzo hai fatto asostituire quello con quest’altro?

Cantini – Il jazz club di Arezzo è gestito dall’MSI, non dall’Alleanza Nazio-nale . . . . e l’Alexanderplatz. . . [si fanno i nomi di un programmatore di destra:Rubei, e di ’uno di sinistra’]

Salis – Ma sai che io vado più d’accordo col primo che col secondo, sai cheio sono un anarchico e per me non è un vanto, senza presunzione, mi intendomeglio con lui che con l’altro che sta con Veltroni e fa tutti i concerti, è la parteconcorrente, che fa i concerti a Roma adesso e fa tutti gli americani. A me noninteressa ma umanamente mi intendo più con coso . . . se devo lavorare con lui,trovo più umanità . . . quelli che si collocano attraverso il socialista craxianoe il DS illuminato con influenze della Margherita e così via . . . la Margheritache cazzo è . . . è formato da un sacco di roba ma alla fine che cazzo è . . .

Cantini – La Margherita è il meglio del peggio. . .Salis – Ma allora io preferisco Follini, non mi piace Follini, ma alla fine è

meno ambiguo. . . .Pareti – [Parla in difesa dell’alternanza, ma contro la demonizzazione

dell’avversario. . . .]Cantini – Quando Alemanno è l’unica persona seria . . . Fini corretto

politicamente. . . si rimpiange la DC. . . .MB – Non c’è un orientamento del pubblico anche nuovo?Salis – No nelle scelte del pubblico, no. Ma perfino Max Roach e Cecil

Taylor, litigarono perché il primo era reaganiano . . .MB – Mio dio!Salis – Lo vedi, allora si dice, il professore, quell’altro che legge il Foglio.

Ma come si fa. Ma io infatti parlando con lui, di Berlusconi, gli auguro. . . , unpo di tempo fa, e dice: ’Eh, ma tanto non credere che gli altri siano meglio’.Detto de lui mi ha lasciato un po’. . .

Cantini – Ma perché il tale? . . . [il nome di un notissimo musicista italianoè ripetuto da diverse parti] fa dei discorsi leghisti. . . .

324 A Annesso

Salis – Incredibile, comunque per lui, sai che se mi capita a tiro guarda saiche gli faccio un culo così. Senza pietà. Ma non perché. Non me ne f.. Perchéquesti devono essere. . . guarda stai zitto proprio. Non mi rompere i coglioni.Altrimenti allora tu mi fai capire che allora facevi così per moda, perché alloraera bello essere di sinistra . . .

MB – Ma allora la tua vita cos’è stata, cosa si faceva allora, si scherzava?Salis – No in realtà, nell’area della musica c’è gente che non capisce un

cazzo di politica, mica che ci deve capire per forza . . . . e allora i discorsi sullacoerenza. I discorsi sulla coerenza degli altri. Guarda, per me la coerenza con-ta: uno deve essere carne o pesce. Con tutti gli errori. Io anche all’epoca misentivo, facevo parte di una certa area, ma fai anche i conti con le contraddi-zioni di una certa area. Ma uno come fa a cambiare completamente? Sembrache è per convenienza che fanno così, allora mi fermo perché direi cose troppocattive. Se mi capita a tiro. Già dice delle cose sulla musica che prima nondiceva, di un antiquato, di un assoluto.

Pareti - Che dice?MB – Che i musicisti italiani hanno la melodia nel sangue, la melodia.Salis – Qui si va nel campo che uno dice che cazzo gli pare, ma non mi

deve stare vicino però, perché gli va detto che è una stronzata.MB – Se una persona autorevole come quella comincia a dire una cosa

così, poi cominciano subito a dire come lui . . .Salis – Ma non bisognerebbe mai copiare in tutto e per tutto . . . e come se

io all’epoca, mi piaceva molto quel pianista, e dicevano che andava a cacciadi camionisti. Come se io dico guarda che quello gli piace farsi gli acidi. . .

MB – Questa cosa di sapere tutte le storie, di essere hip . . .Salis – Si, hop. Uno può sapere anche cose intime. Se uno frequenta sa

anche cose intime.MB – Quale è una cosa che hai cercato e che hai trovato, che non era jazz

e che ti ha dato soddisfazione nella ricerca . . . Brasile, Nordeste, Tunisia . . .Salis – Ha, no. . . .ma non saprei. . . ., è che in realtà mi piacciono un sacco

di cose. . . sono solidale. . . come se facessero parte del mio intimo. . . però devodire non uso niente in particolare pensando che sia un business o che quellasia la via giusta. Io credo che la linea giusta sia quella che ti viene in mentelì per lì. Io come sono io. Io son così, quando chiacchiero, quando dico le coseche mi vengono in mente, i paradossi.

MB – Quella è la ricetta del jazz. Quello che dicevano i maestri.Salis – Non lo so io. Io non lo so, ragiono con la mia testa.MB – Intendo: ti devi fare la tua roba.Salis – Assolutamente, nel bene e nel male. Però almeno sei te stesso. Sei

autentico. E poi è la cosa più facile pure. La cosa più facile per me è quelloche suono. Se mi dovessi cominciare a preoccupare, a limare delle cose, giàil risultato sarebbe ostentato, non spontaneo, verrebbero fuori le falle, invececosì è: prendere o lasciare.

MB – Nemmeno con i grossi improvvisatori non vengono fuori mai proble-mi?.

A.1 Interviste 325

Salis – (Ride) Guarda a conoscere il mondo, ne vengono fuori delle belle.Miti che cadono. Quando dico miti che cadono penso a quelli che credonoa Gesù bambino. In realtà quando cresci dovresti pensare meno a credere aGesù bambino e pensare che tutti questi sono esseri umani, pensare ad essereumani.

A.1.2 Con Filippo Monico

Filippo Monico è un batterista milanese apprezzato e attivo che ha seguitotutte le vicende del jazz almeno dai primi anni ’70 ad oggi. Ci conosciamo daallora e non ha difficoltà ad accettare una breve intervista prima di esibirsial ’Circolo Territoriale ARCI’ di Montemagno (PI), nell’inverno del 2004, induo insieme al sassofonista Dimitri Espinoza.

MB - (. . . ) parliamo del festival di Penne del 1975Monico - Ho in mente l’ospedale psichiatrico che si affacciava sul luogo do-

ve si suonava, con la gente che. . . o rideva o piangeva in modo. . . chiaro. . . dallefinestre, poi ho in mente Mario Schiano che compariva, che ci portava a man-giare delle cose favolose, e quando passavamo con lui, anche noi, sbarbati,eravamo rispettati, ho in mente il cibo, gli spiedini di pecora, queste cose. . . epoi ho in mente tutti i musicisti, soprattutto di Roma, con cui veniva vo-glia di suonare, poi però ci si toccava dentro perché facevano troppo. . . perchésuonavano troppo sul tempo. . . .

MB - come, per esempio chi?Monico - Come Corrado Nofri, non so non mi ricordo, che faceva mol-

to latino, infatti poi lui è andato a Cuba, si è specializzato in quelle clave[hm. . . ] poi mi ricordo delle belle suonate con Massimo Urbani. . . li ho suo-nato in trio con Gaetano [Liguori] e in trio con [Guido] Mazzon, e li facevolitigare perché uno voleva che io fossi più riposato e l’altro. . . .cioè tutti e duevolevano che io suonassi prima con loro perché sennò dopo pensavano che iofossi stanco. . . invece anzi. . . [ride]

MB - ah, ah. . . [ride] È sottinteso (l’intervistato e l’intervistatore sono en-trambi batteristi) un malinteso senso di sfogo e di attivita fisica nella batteria,che invece è sentito da molti che lo praticano come uno strumento ’freddo’ chenecessita concentrazione, scioltezza e naturalezza, piuttosto che forza. Che nonstanca, ma al contrario (nelle migliori condizioni) ’carica’. Dunque per FilippoMonico suonare con due gruppi in quell’occasione era interessante e proprio ilsecondo gruppo avrebbe potuto avvantaggiarsi di questo fatto, contrariamen-te alle opinioni dei leader del gruppo. Poi l’intervistato concede che si possavedere il problema in termini di tecnica, ma i tempi si sovrappongono: chiparla vede le cose ora in un altro modo e ammette una certa fondatezza neitimori dei propri due conduttori trent’anni fa.

Monico - si no, io a quei tempi non avevo la tecnica per cui a quei tempi,in effetti, i muscoli si stancavano, infatti il mio ricordo, è quando ho vistoDannie Richmond. . .

326 A Annesso

MB - dopo. . . ripensando a quei tempi. . .mi sembra che c’ero anch’io trala gente, poi andai a Pescara e mi trovai a seguire il festival di Pescara e nonriuscii a seguire i concerto di Roland Kirk. . . perché c’era l’autoriduz. . .

Monico - anch’io, allora eravamo insieme, perché c’erano i fumogeni e luisi spaventò. . . io ero di fianco a lui che tremava dalla paura ed era incazzatonero..

MB - e quindi . . .Monico - e quindi disse ’io non suono’ . . . .MB - eh, poi ripensando a che modelli, quella generazione lì (tua, mia

di Roberto [Bellatalla]), c’erano, pensando che modelli avevamo in testa, chic’era, che modelli avevamo in testa, chi si pensava di più? Qualche riferimentobisogna che ci sia, ora non volevo farti un . . . .

Monico - il mio riferimento è Albert Ayler. Lo raccontavo l’altro giorno.Dopo trent’anni ho trovato uno che mi riparasse il giradischi, chi mi vedoarrivare? Me l’aveva già riparato una volta, poi voleva i soldi, perché è unosciamannato come me, e aveva bisogno dei soldi, mi trovo il capocommessodelle Messaggerie Musicali [di Milano] che arriva con questo giradischi, ap-passionatissimo, mi spiega cosa non devo fare per non farlo saltare più infinale. . . e io lo abbraccio perché. . . era scorbutico quando era schiavo delleMessaggerie Musicali, però lui e un’altro mi avevano consigliato dei dischi. Ilprimo disco, quando sono andato a suonare, a fare una jam session con Maz-zon, [Daniele] Cavallanti, ecc., avevo quindici anni, e loro mi han detto: ’Latua mamma non ti lascerà stare fuori la sera’, (infatti), e loro sono venuti acasa mia il pomeriggio delle domeniche, anche di sabato, anche tutti i g. . . ,ma il primo disco che sono andato a prendere, dopo aver suonato con Mazzonin questa. . . audizione-jam session, sono andato a chiedere una cosa di jazzattuale, e non più una cosa di Oscar Peterson come ascoltavo. . . io avevo undisco di Oscar Peterson e uno di Luis Armstrong. . .

MB - ci suonavi sopra. . .Monico - e con un amico improvvisavamo liberamente su Stomping at The

Savoy e . . . quello che fa anche Ray Charles . . . .MB - Georgia . . . .Monico - Georgia, Georgia . . . .[canticchia]. . . .e vado alle Messaggerie e

mi becco questo Albert Ayler. . . questo che in copertina si vede solo labarbetta. . . non mi ricordo il titolo. . . Love Cry. . . forse. . . .

MB - [pensoso] Love Cry. . . si, forse. . .mh, mh. . .Monico - vado a casa l’ascolto e, spaventatissimo, glielo riporto. . . eh, ehMB - ha, ha, ha [risata rumorosa]Monico - perché dico, no, non capisco, non . . . . . . . . . dopo un mese che ho

suonato cinque o sei volte con loro, con Cavallanti, torno e gli dico, vogliorisentirlo, l’ho ricomprato, e da lì non ho più . . . .

MB - è interessante questa cosa, perché i modelli passano anche per glialtri musicisti, cioè. . . viene scoperto ’uno che può suonare’, ma che è. . . .in uncerto senso. . . . . . . . . . . . ’non programmato’, no, che manca di modelli. . . .

A.1 Interviste 327

Monico - si, certo, un figlio della borghesia che era appassionato di que-sta musica, che comunque anche Oscar Peterson e Duke Ellington, si sentivache c’era sotto chiamale ’le palle’, ’lo stomaco’, ’la giungla’, ’l’Africa’, la fac-cen. . . riuscivano come Leonardo Da Vinci a nascondere, come i grandi pittoria nascondere delle cose sotto la pelle, insomma. . . .invece Albert Ayler te lasputava con una rabbia. . . con un amore infinito. . . . . . . . . boh?. . . . . . .e poi fi-no appunto, lì di via Montenapoleone [il salotto di Milano] si diceva, ancheadesso ci sono i ’borghesacci’ ma ci sono anche i . . . .. randagi che ammazzanola gente . . .

MB - eh. . .Monico - niente, si è trovato a tirar fuori le palle insomma. . . .non lo so se

le ho tirate ma . . .MB - ma si. . .Monico - ti dirò che in questi giorni, è la prima volta che comincio a

sentirle. . . .a sentire lo stomaco insomma, la maturità. . . .MB - ah, lo diceva Randy Weston dopo, quasi a ottant’anni di età. . . .[ride]Monico - quanti ne ha?MB - eh, tantiMonico - perché io l’altro giorno ho dormito al suo concerto, mi ha proprio

addormentato. . .MB - dice [Weston], comincio ora a sentirmi a mio agio, . . . ..Monico - proprio mi ha cullato come un nonno, io russavo in mezzo al

festival di Bergamo. . .MB - senti, e poi?Monico - E poi ho sentito Dannie Richmond. . .MB - a Umbria Jazz . . . .Monico - si. . . direi che Dannie Richmond. . . è il personaggio che mi ha fatto

capire che non c’è soltanto la libertà, ma c’è lo studio e la disciplina. . . perchécome Ed Blackwell riuscivo un po’ a imitarlo, come Andrew Cyrille ci riuscivo,ma così. . . .

MB - puntuale [insinua]. . .Monico - puntuale, nervoso. . .ma anche con la pancia, con l’amore, ho

sentito forse solo lui, così in simbiosi, o no in simbiosi in dialogo con il bassista,forse il più grande di tutti è lui anche se non era così personale, se non eracosì. . . .ci sto pensando adesso che. . . .adesso facendo gli esercizi, il suo dito,l’ho visto in qualche filmato, vedevo le sue dita nervose che toccavano lecose. . . poi nel disco senti quei colpi lì e mi son detto cos’è? È solo nervoso?No, ci vanno dentro anni di paradiddle, marce. . .

MB - e poi magari anche il fatto che era un sassofonista. . .Monico - questo non lo sapevo, quindi l’armonia. . . .MB - [conferma] si, si. . .Monico - ecco, dunque c’è tutta quella parte lì, cioè l’ascolto, di sapere il

basso dove sta andando, se bleffa, se non bleffa. . . perché devi aiutarlo se sitrova in difficoltà, se è bravo, puoi essere libero e ti appoggi, poi forse nondovresti mai appoggiarti . . . insomma tutte queste menate che ci han fatto

328 A Annesso

[ride] impazzire tutti e, che vorrei risolvere, che però poi Peter Kowald midiceva ’la musica a un certo punto dipende dalle persone con cui scegli disuonare’, e poi Cecil Taylor dice ’come mangi, dove dormi, come scopi, e tuttoil resto. . . ’, cioè . . . poi Cecil Taylor si è fatto i suoi studi ed è un musicista,non so se si è diplomato in pianoforte, chi se ne frega, Dannie Richmond nonso se ha un diploma alla Berklee. . .

MB - non credo. . . .Monico - adesso son tutti diplomati, però. . .MB - ecco appunto questo. . .Monico - . . . son tutti diplomati, ma però manca quella roba lì. E que-

sto guarda, questa è una frase di Angelo Paccagnini che . . . io ero disperatodopo aver sentito questa gente, soprattutto, ripeto, mi viene in mente Dan-nie Richmond, ero disperato, dicevo ’io non ho mai studiato’ dicevo ’basta. . . smetto di suonare’. Questo vecchi professore, compositore, Angelo Pacca-gnini, compagno di Stockausen nella fondazione degli istituti di musicolog. . . ,lì, [si corregge] di elettronica, compagno di Berio, eccetera, ma poi non si èimmischiato di politica e non ha fatto carriera nelle strutture . . . pubbliche. . . e Angelo Paccagnini, che io adoravo anche il suono che conduceva e midiceva ’io guarda arrivo dalla banda, poi faccio il conservatorio, faccio, stosalendo. . . ’ e lo diceva a ottant’anni questa cosa, ’sto salendo sulla montagnadella conoscenza da una parte, tu ci sali dall’altra . . . hai il sole dietro inveceio ce l’ho davanti e tutte ’ste cose . . . però prima o poi, arriviamo su tutti edue e suoniamo la stessa cosa’

MB - bello [con tono dimesso]Monico - e Mingus, porcav.., santo Dio o santo diavolo, Mingus. . . .cioè lui

ha messo insieme le due cose, non so, è arrivato a suonare con gli accordi dellamusica più colta, con gli arrangiamenti . . . però li faceva col cuore . . . però lifaceva suonare come una . . . come un villaggio . . . di . . . di . . .

MB - invece, te, vedi scolasticismo nei musicisti di oggi, la generazione,anche dopo di te . . .

Monico - mah, capita di vederne di tutte, c’è gente scolastica che di colpotrova l’ispirazione, finalmente trova, fa la musica sua, fa Baglioni, o come sidiceva Rava . . . si vede a lui piace quello . . . no è detto che . . . io mi ricordoLouis Moholo a Londra con un pianista bravissimo che però si sforzava di farel’africano, il libero . . . di fare quello ’che suda’ . . . e Louis Moholo gli ha detto’cazzo . . . fammi Michelle dei Beatles . . . basta ’sta finzione’ . . . . questo si èmesso a suonare Michelle ed è stato il momento più bello della serata, ma èstato uno dei momenti di musica più alti che io abbia sentito, più alto anche di. . . ., poi diciamo non c’è il più alto quando c’è, c’è, quando non c’è . . . . io hoaspettato quattro ore ad sentire che ci fosse musica tra Misha Mengelberg eLouis Moholo, perché uno andava da una parte e uno dall’altra nessuno . . . ha. . . si è tolto il cappello e ha fatto passare l’altro

MB - ah, questo è interessante . . . .Monico - per tre momenti, negli ultimi venti minuti, che non c’era più nes-

suno, eravamo in cinque, eravamo in Olanda, l’ultimo intervallo Louis Moholo

A.1 Interviste 329

mi dice ’è bello suonare con gente forte’, e gli ultimi venti minuti volavano,non sudavano più, cioè sudavano, ma sudavano . . . gioia . . .mentre prima era-no tutti e due a tener duro e a dire ’io sono Louis Moholo’ e l’altro diceva ’iosono Misha Mengelberg’, e ’tu cos’hai fatto da piccolo’, ’ma no ma a me nonpiace’, e alla fine erano due amici al bar e . . . finisce la canzone . . . .

A.1.3 Con Mauro Grossi

Mauro Grossi, pianista, è titolare della Cattedra sperimentale di jazz pressol’Istituto Musicale Mascagni di Livorno. Si tratta di una istituzione musicalemolto vicina ad un conservatorio di tradizione. Mauro Grossi ha accetta unintervista invitandomi nel suo studio, a casa sua, dopo essere stato contattatoall’istituto. Ha molto da dire. Parte della mia curiosità è legata a suoi lavori sumusiche di Mascagni, mentre io lo ricordo come pianista mainstream e anchepiuttosto incline al jazz rock, negli anni passati, pur sapendo del suo interesseper l’arrangiamento ed il lavoro pedagogico. Con Grossi e nella intervistaseguente, ho deciso di registrare anche le inflessioni vernacolari, dato che misono reso conto che l’argomento stesso ed il modo informale di trattarlo, leoscillazioni tra registri linguistici, siano interessanti da osservare.

MB – Ti volevo chiedere di due cose che mi hanno interessato parecchio:una leggendo un tuo intervento, una intervista, qualcosa . . .mi sembra diavere capito di un riferimento a Strolling di Horace Silver, come di un pezzoimportante, o che ti dice qualcosa su cui, cioè mi dice anche a me, che misembra proprio un idea . . . anche nel senso di un certo affetto per certi artisticome Horace Silver . . . .

MG – Certo . . .MB – e poi, un’altra cosa, invece, passando per strada ho visto dei mani-

festoni di musiche mascagnane, un progetto Mascagni in cui ho visto il tuonome . . .

MG – mi ridici un po’, lo fai [l’intervista] per la tua tesi [chiede spiegazioni]MB – non so neanche se accetteranno le interviste sopra [spiega. . . .]MG – comunque te ti laurei al DAMS . . .MB – no, io mi sono laureato prima, negli anni ’90, questo è un ciclo di

dottorato che speravo che mi portasse anche . . .MG – che ti portasse da qualche parte . . .MB – ecco . . .MG – speriamo bene . . . e sicché . . . che ti dicoMB – queste due cose.MG – Mah, Horace Silver, come hai detto, c’è un interesse sentimentale

per Horace Silver, per il momento, perché in generale il soul jazz è un mo-mento secondo me sintetico, eccezionale dal punto di vista stilistico, perchépermangono gli elementi della fase bop, ma non è propriamente un vero hardbop, si fa il recupero di certi modi africani anche se poi lo fanno personaggicome Horace Silver, che sono caraibici come personaggi, anche Sonny Rollins

330 A Annesso

che è la stessa cosa. Si ritorna alla questione della spiritualità, i riferimentireligiosi fanno venire in mente sprazzi, queste visuali, della chiesa battista, colgospel, queste cose cantate, queste messe infinite, e soprattutto la cosa che iljazz attraverso il riuso delle formule ripetitive del soul viene in qualche modoriportato al grande pubblico, senza che si causi un detrimento della musica.Io lo trovo geniale.

MB – Anche Cecil Taylor ha detto più volte che Horace Silver era . . . .MG – il massimo . . .MB – si era il massimo . . .MG – a parte che è difficilissimo trovare un artista come Horace Silver

che se fai caso, io non so quanti temi avrà scritto, ma mettiamo, non so,che ne abbia scritti centocinquanta, e son tutti buoni. Perché se ne conoscepochissimi. Cioè se vai a vedere Ellington che a modo suo, cioè anche quelli chenon sono buoni risultano sempre talmente Ellington che li accetti, ma HoraceSilver, a chiunque lo fai sentire suona logico, gli suona accattivante . . . non neha mai sbagliato uno. E il bello anche di Horace Silver, della forma, è comelui riesce a usare un quintetto, che poi è la derivazione dei gruppi tradizionaliarcaici, riesce ad usarlo . . .

MB – del bop, vuoi dire, Parkeriano [riferendosi al quintetto] . . .MG – . . . si, ma in fin sei conti è la derivazione dei sestetti . . .MB - . . . di Jelly Roll Morton . . .MG - . . . di Jelly Roll Morton o di Lous Armstrong . . . diciamo, si, sparito

l’elemento clarinetto sostituito dal sassofono, però le intenzioni originali sonole stesse, i generi cambiano, l’amplificazione, la tecnologia ha cambiato moltecose, inutile te lo stia a dire,

MB – hm .... ma in Horace Silver si vede questo dominio della forma. I brani sebbene

scritti per un complessino, un quintetto, hanno la stessa strutturazione deibrani orchestrali, cioè hanno introduzioni e spesso anche finali . . .

MB – . . . la coda . . .MG – . . . incornicia il pezzo spesso ci sono delle formule come dei punti

di ritrovo alla fine degli assoli, spessissimo, ci sono i cosiddetti speciali, chesono infra chorus che sono rispettose, però hanno questo carattere medio-improvvisativo, oppure hanno un carattere di shout-chorus . . . di punto diclimax comandato . . . e tu vedi sti pezzi e dici “ma come è possibile che questoha scritto per un quintetto, ha scritto centinaia di battute per far suonareun pezzo di . . . di quattro minuti”. E trovo che questo poi s’è perso. Perchépoi siamo ritornati ad un jazz in cui . . . . e io credo che sarai daccordo . . . .io per esempio io ora lo detesto . . . cioè il jazz quello dei pre-testi in cui tuprendi i pezzi e anziché usare il pezzo, il testo del brano che suoni, tu lo usisemplicemente per la struttura che ha, cioè per quanto è accogliente il chorus,cioè io trovo che sia un detrimento per la musica pazzesco. Se consideri cheabbiamo tartassato delle canzonette di musica leggera americana, i cosiddettistandards, soltanto per le caratteristiche strutturali degli accordi, soltantoper l’uso delle cadenze, senza sapere un acca di dove venivano, ignorando

A.1 Interviste 331

il fatto che avevano dei versi introduttivi, ignorando il fatto che avevano uncarattere originario, aggiungendo a volte note arbitrariamente, quindi facendodiventare i testi originali delle balbuzie, oppure cassando completamente dellafrasi. Io trovo mostruoso questo lavoro; cioè l’improvvisatore ha uno spazioche è l’improvvisazione, per quando riguarda il testo, secondo me il massimodell’intervento che poui fare usare certi materiali è: li reinterpreti, ma nonpuoi modificarli, allora scrivi degli originali. Non capisco il senso di usare lostandard per violentarlo. Sempre meno lo capisco [con gravità].

MB – Questo è un processo proprio . . .MG - . . . si, si . . .MB – . . . che tu entri . . . dentro, mano a mano che entri dentro . . . alla cosa

. . .MG - . . . in fin dei conti . . . . io tutti questi anni che pratico e che insegno

questa musica, se ci pensi bene è come avere una discussione su un argomento,tu non puoi cambiare argomento mentre lo discuti, io è da tanti anni che sentonelle jam sessions cose che sono pressoché inaccettabili, ma non nel senso chenon c’è gente brava, il livello medio si è alzato, quindi, figurati, ma si sente,come si dice, robetta, palestra, sciocchezze, formule, patterns, minuti e minutibuttati via in esosità, in stupidità, no? Io ci ho proprio una crociata controquesto come docente, mi ci incazzo sempre . . .

MB – è normale . . . eh, eh . . .MG – io dico, come disse David Turner, nel bellissimo film di Tavernier

“. . . perché, Dave, sei qui, e non puoi suonare Autumn in New York?” “Perchénon mi ricordo le parole”. Io trovo che sia una lezione di musica gigantescaquesta. Ora, il bello di Horace Silver è che è riuscito a fare dei testi che sonoaccattivanti quanto gli standards, pur essendo originali, quindi lui ti da questalezione. Ti dice in fin dei conti . . . .

MB- [interrompendo] . . . hai studiato anche i testi . . . .MG – . . . io degli standards cerco di impararli . . . le parole di quello che

posso . . .MB - . . . come no . . .MG – . . . anzi . . . tra l’altro sono divertentissimi . . . . alcuni sono di una

stupidità inammissibile, e quindi li pigli per quello che sono, ma alcuni sonodei veri gioielli . . . . per esempio . . .

MB - . . . va bé anche questo potrebbe essere un tema [fa il gesto come diuna sfera] anche a parte . . . di studio . . . enorme . . .

MG - . . . certo, enorme . . .MB - . . .MG – certo, alcuni se non c’era l’intervento di alcuni jazzisti erano spazza-

tura, mi viene un esempio Me, myself and I, cantato da . . . . da Billie Holiday,che poi è diventato un tema Mingusiano a sua volta, è talmente scemo il te-sto che cantato da Billie Hilday diventò un paradosso, ecco, se non l’avessepreso Billie Holiday, ci si sarebbe dimenticati di questo pezzo idiota, lei gliha dato uno spessore pazzesco, cioè, è riuscita con questo poco a fare tan-tissimo . . . . [sospira] . . . però secondo me è importantissimo questa cosa di

332 A Annesso

conoscenza dei materiali, non è che non li poi sonà se non li conosci o non poifa na’ jam session [tende al vernacolo livornese] non so’ così bigotto [terminavernacolo]. . .

MB - hmMG - . . . dico . . . se ci fai un lavoro serio abbi un lavoro serio. Perché non

ti avvicineresti mai alla sonatistica, senza, prima leggertela, poi andarti aleggere chi l’ha scritta [cadenzato], quando l’ha scritta, quali sono gli assunticompositivi. Non ti avvicini a Mozart dicendo “ah! È Mozart” potrebbe esse’Celentano . . .

MB – [mugolio]MG – . . . non è così . . .MB – [con sussiego] . . . un approccio storico . . .MG – . . . c’hai un approccio diverso, anche un minimo di filologia no?MB – mh [annuendo]MG – naturalmente questo non conta nulla quando la gente è sul palco,

quando la gente è sul palco tu vedi differenti approcci, c’è chi approccia iltema come un momento sacrosanto e c’è chi dice “. . . sbrigamosi perché poi sifa ’ soli e poi siamo più ganzi” [fortemente vernacolare] . . . . [shift brusco initaliano] Io trovo che questo sia atroce. In fin dei conti

MB – hmMG – ritornando a Silver, è uno che è riuscito a scrivere testi accattivanti

quanto gli standard, ma li ha scritti in un genere che è abbastanza fresco, infin dei conti Horace Silver è la porta fra il jazz e, si diceva prima, la Motown,no?

MB – hmMG – cioè la parte soul, la parte . . . popolare . . .MB – hmMG – in fin dei conti Horace Silver rappresenta uno dei vari momenti di

ritorno alle originiMB – hmMG - secondo me non andrebbe perso di vista il fatto che il jazz nasce

ludicoMB – hm, hm, hmMG - . . . c’e . . . che se il jazz non diverte tfff. . .MB – hmMG – cee [forma strascicata di ’cioè’] o assume dei valori particolari . . . .

o altrimenti . . .MB – si . . . [cambia completamente tono di voce tanto da sembrare una

terza persona] si poi c’è magari anche il fatto . . . di vendite . . . . di dischi suquarantacinque [torna alla propria voce] tipo Song for My Father, immaginoche . . . .

MG – [sovrapponendosi e francamente confermando] . . . naturalmente . . .MB – diverseMG – naturalmenteMB - centinaia di migliaia di dischi

A.1 Interviste 333

MG – io però non lo vivo poi in maniera negativa, io lo vivo in manierapositiva

MB – no, no infattiMG – cioè Mercy, Mercy, Mercy di Cannonball Adderley, che ha venduto

milioni di copie era nei juke box, io lo trovo un momento molto positivo peril jazz

MB – mhMG – [ridendo] e se no, qual’è un momento positivo?MB – ah, ahMG – per i-l ja-zz, dove viene assunto a livello popolare e quindi è un

po’ quello che tutti si sarebbe voluto, cioè andare ai concerti di Cecil Taylor etrovarci una parte del pubblico della musica pop, lo so che è utopico questo ma,eccoci [interruzione dovuta all’ingresso della moglie di Mauro] . . . (. . . ) . . . eccovedere quanto sia valido lui come organizzatore di musica. . . .ecco Strolling èun pezzo particolare, perché in Strolling c’è un comportamento di tutte lesezioni che è leggero e allo stesso tempo molto rigoroso. Il pezzo è leggero insenso, no, di Calvino . . . .

MB – hm [sorpreso pensa a Calvino il riformatore ma si tratta delloscrittore Italo Calvino] puro . . . cristallino [con un tono acuto abbastanzaimpudente]

MG – cioè è una leggerezza vera, una leggerezza come dice Calvino nelleLezioni Americane, quella lì, quella dove tutto il superfluo è evitato, si mira alnocciolo della questione e si mira a dare un’idea di una piccolissima big band,che però è una big band e allo stesso tempo è piccina . . . e tutti partecipano aquesto risultato, e poi c’è una parte genuinamente swing, un bellissimo chorus,c’è questa sottile ironia che pervade tutto questo pezzo

MB – hmMG – c’è una forma splendida . . . perchè c’è . . .MB – si andare a ca . . . a passeggio per la cittàMG – si esatto .. il codino finale che è meraviglioso, è così pittorico,

insomma, io Strolling è uno dei pezzi con cui parto, perchéMB – hmMG – parto perché il trattamento delle due voci è fatto bene, perché in

fin dei conti quasi tutti i quintetti fino agli anni ’60 non hanno quasi affattotoccato le voci ma hanno messo la tromba in unisono

MB – unisono [fa eco]MG - .. e in ottava e hanno soltanto usato solo l’effetto proiezione del-

l’unisono, invece qui c’è una visione differente. Spesso le voci sono su suonidifferenti, quindi abbiamo dell’armonia che viene fuori, spesso uno dei duestrumenti è di rifinitura quindi segue . . .

MB – spesso ..ti riferisci a diverse versioni . . .MG – diverse versioni e anche a diversi .. pezziMB – quante ne hai contate [sovrapposto] . . .MG - . . . e anche a diversi . . . pezzi

334 A Annesso

MB – di Silver . . . che sono sempre . . . Strolling? . . .MG – no . . . che sonoperò . . .

[l’argomento rivela la ricerca di un termine comune, è caldo e le emissionisi sovrappongono]

MB – che sono . . . ah ..MG – filosoficamente sono . . .MB – . . . simili . . . a quel . . .modo . . .MG – . . . simili a quel modo lì . . . capito[termine sovrapposizioni]MG – per cui è classico che io parta da quel pezzo li, o che parta anche da

Song for My FatherMB – certo . . .MG – o parta da Nica’s Dream, che è un pezzo poi . . . oltretutto speso gli

allievi non sanno chi è Nica . . . e non sanno che cosa voleva dire come titoloquesta cosa, che aveva jazzisticamente un significato profondo, e . . . . è unaltro pezzo tremendamente strutturato, insomma . . . . per cui . . .

MB – si c’è questa presenza di Monk da qualche parte, che è un contraltarea lui . . .

MG – si . . . perché poi in realtà sono due talmente simili, se vuoi, no?,al di là del ristato estetico, senti, si tratta di due persone, di due musicisti,fortissimi come architettti musicali e cani sullo strumento, tutti e due . . .

MB – hmMG – ciè .. Monk era un . . . non aveva bisogno del pianoforte, cioè . . . è

stato un suo mezzo, ma era veramente alla stregua di una zappa il pianoforte. . .

MB – hm [intimorito]MG – cioè . . . per me come per altri pianisti è durissimo avvicinarsi a Monk

quanto stai . . .MB – [irrompe in vernacolo] . . . devi sb., devi impara’ a sbaglià . . . comeMG – siii . . .MB – ci vorrebbe ’na vita pe ’ sbaglià così . . . eh eh . . .MG – si, t’hanno detto ’na vita che quello e’n brutto suono [laconico] e

come fai a dire ’eh ma Monk è un capolavoro’ . . . finché non arrivi al punto incui vai oltre . . . in cui ..

MB – [mette giù rapidamente] . . . ti interessa davveroMG – [componendo] il pianoforte non più come un feticcio ma solo come

un arnese . . . allora a quel punto lì dici: ’cazzo. . .musica!’MB – hmMG – capito [sorridendo] eh . . . . . . Horace Silver in fin dei conti è uguale,

non ha tecnica, suona con le dita stese, spesso fa queste cose sui bassi doveruggisce e basta non fa nemmeno gli accordi dowr diero deiro dowr grr grr[imita pefettamente il suono di un basso pianistico simile a delle molle sferra-glianti] che era trallaltro una cosa bellissima anche quella lì, perché ri-rendeallo strumento che c’ha questa cosa . . . secondo com’è trattato, di essere unpo’ frocetto

A.1 Interviste 335

MB – bellissima questa cosa . . . questa idea che stai dandoMG – capito di ri-rendere invece questa parte un po’ aggressiva, questa

parte un po’ bestialeMB – hmMG – come deve esse(re) . . .MB – stai facendo quasi quasi un intervista da darla a Musi(c)a Jezz(e)

. . .MG – he, heMB – perché, mi hai fatto a m. , se si puo interrompere un attimo, mi hai

fatto venì a mente una cosa, ché io [chiede tutta l’attenzione] . . . , scrivendoquesto lavoro, probabilmente ho fatto un pappié, . . . che, sarà una rottura dicoglioni [facendo risuonare tutto lo spazio possibile della cavità orale]

MG – ha ha ha [ridono entrambi, lasciandosi andare un po’]MB – perché anche c’è un mucch . . . . no c’è il momento degli anni settanta,

il sessantott(o), ci sono tutte le teorie di che cos’era quer momento lì, gli storici,la politi(c)a . . . però [acuto come per autoscusarsi] . . . in un momento credod’essermi salvato, io, perché ho scritto due paginette . . . su . . . [annuncia atutta voce] l’ho chiamata ’la gestione sociale della batteria’ . . .

MG – eh [curioso di vedere che cosa]MB – e ho scritto [con tono tra la meraviglia e l’ammirazione], che

p(e)r esempio, questa faccenda che [supervernacolare] a ’mi tempi (qu)ando(c)ominciai a s(u)ona(re), io cominciai ner settantuno [crea l’aria del racconto]

MG – anche prima di me [a bassa voce]MB – . . . c’era questo stock di Hollywood usate . . . di batterie usate schi-

fosissi. . . che erano batterie der tempo der jezz, che rano tutte piccine, noi cisi vergognava a avelle, però costavano po(c)o sicché . . . ddé

MG – avelle oraMB – dé . . .MG – ora son feticci puri . . .MB – per esempio, continuando a pensà così, m’è venuto a mente anche

che . . . queste batterie poi venivano cedute, ma non era nemmeno che te eriproprietario al cento per cento in fondo, perché tanto, . . . se potevi ti compraviquella (c)he volevi, e questa cazzo di Hollywood bla bla [cesura] . . . andava auna altro ragazzino che voleva sonà uguale a te, capito [commosso] . . .

MG – e ’na bella ide. . . [sussurra]MB – [continua col tono animato] allo(ra) qui ho detto, voglio domandà a

Mauro, p(e)r esempio sul pianoforte no, invece, cosa succedeva a quel momentolì quando un ragazzo si dovava mette a sonà, o cel’aveva a casa o sennò cosadoveva superà . . . per entrà no . . .

MG – nel senso proprio fisico . . . .MB – [ripete ridendo] nelsensoprop eh eh . . . oppure cominciava con . . .MG – classicamente si cominciava col Rhodes . . .MB - l’Hammond [sovrapposto a Rhodes]MB – col Rhodes ? [stupore]

336 A Annesso

MG – che ora è diventato un altro feticcio del duemila, no? Cioè ci sono iragazzi di vent’anni che l’oggetto più desiderato è un Rhodes, possibilmenteil mark 1, proprio il primo, è buffisima questa cosa, questo rebound in que-sto momento, e si iniziava lì, certo si iniziava con uno strumento diverso dalpianoforte, perché il Rhodes ci somiglia al pianoforte, è indubbiamente unpianoforte, ma non tutto il linguaggio del pianoforte lo puoi fare col Rhodes eviceversa; il Rhodes sostiene le note e il piano no, il Rhodes fa i bassi vuoti eil piano ti sdraia . . . quindi . . . il Rhodes è uno strumento senza letteratura, ilpiano è lo strumento più saturo di letteratura e di riferimenti che c’è, quindi,era un po’ strrano anche questo, poi col Rhodes l’uso del pedale diventavauna cosa quasi appiccicosa, perché sosteneva così tanto quasi come un organo,invece nel piano puoi usarlo in qualche modo molto meno perché c’è metàtastiera che in qualche modo è già ingrata per la durata . . .

MB – hmMG – e poi c’erano questi riferimenti che era l’ultima parte di Miles Davis,

che comunque erano tremendamente pesanti, per chi si affacciava al jazz [di-minuendo] . . . io devo dire la prima volta che l’ho sentito (ho avuto la fortunadi sentirlo presto) e ho sentito Bitches Brew mi sono chiesto ’ ma che cazzoè ’sta roba?’ . . . cioè ora lo sento e capisco che razza di operazione era, peroadesso, e capisco . . . quanto anche siamo in ritardo rispetto a un Miles e adalcuni personaggi

MB – siMG – che hanno una f.MB - . . . un rimbalzo di tempiMG – pazzescoMB – un ritardo di cui magari non bisognerebbe vergognarsi assolutamente

. . . .MG – no, anche perchéMB – proprio perché . . . anzi . . .MG – poi perché è una cosa che non ha affatto, connotazioni nazionali,MB – certoMG - perché questa cosa, questo rebound del Davis elettrico, e di tutti suoi

seguaci elettrici, di Shorter di Hanckok di Chick, che facevano tutti ’sti giristrani in qualche m., è una cosa che sta succedendo a un livello mondiale, c’èora un feticismo su questo momento, quando una critica di critici nati neglianno venti o trenta, l’ha stroncati . . .

MB – subitoMG – perché ha detto ’questa è musica commerciale’ . . . ora io mi domando

come si fa a dire di Live-Evil o di Bitches Brew che sono musica commerciale,minchia, non c’è una nota decente in tutto il disco, io ho l’integrale di BitchesBrew che son quattro CD. . .

MB – stroncarono anche Coltrane [due volte interrompendo] . . .MG – stroncarono anche ColtraneMB - . . . dissero: ’Chet Baker si, ma Coltrane cosa ci vuole dimostrare?’

ah ah

A.1 Interviste 337

MG – cosa incredibile, perché senti i dischi che hanno stroncato e dici: ’macome è possibile?’

MB – hmMG – ma questi erano fuori di testa, completamente. . .MB – hmMG – [dichiarando, annunciando un cambio netto] allo stesso tempo però

se mi permetti anche a me un piccolo inciso . . .MB – hmMG – beh, era più vivace la scena . . .MB – hmMG – cioè, io un po’ lo rimpiango un po’ quel periodo lì in cui c’erano

i bigotti e i progressisti, perché almeno c’erano i bigotti e i progressisti, cioèc’era dialettica, si stroncavano i dischi e si facevano svarioni, ma . . . si facevano. . . ora aprendo le riviste, una ogni tanto, perché non mi va di leggerle tuttele volte perché non mi piace più . . . .

MB – hmMG – [costernazione] ehh . . . devo dire che c’è un neutralismo, un descrit-

tivismo e un piattume, assoluto, cioè leggi le recensioni di cose che sai chesono a malapena sufficienti e nessuno ha il coraggio di dire: ’ si ma è stato unevento assolutamente pissero, non degno di nota’ . . . ’ questo ragazzo è dotato,però ora non è pronto, vaffanculo. . . ’

MB – hmMG – a me mi manca . . .MB – hmMG – cioè, la polemica tra Polillo e Gaslini mi manca [abbassa il tono della

voce] . . . in cui quello difendeva la grande tradizione e quell’altro difendeva ilgrande progresso, mi manca da morire perché lì aveva un che di di . . . ora èun mortorio . . . allucina(nte) . . . [a morire] . . .

MB – hm, hmMG – [ripristina il tono della voce] è chiaro, poi ci si può consolare dicendo

che succede lo stesso nel pop, è successa una crisi incredibile nella musica colta. . .

MB – hm ?MG - . . . perché insomma, in fin dei conti, il minimalismo e tutti questi

. . . questi mezzi gaglioffi di compositori che ci sono in giro ora . . . che fanno

. . . diciamo . . . . pezzi che assomigliano . . . alle alle alle . . . divagazioni malin-coniche degli adolescenti che studiano pianoforte e che se li vendono nei teatriinternazionali . . . devo dire che lo trovo quasi imbarazzante come fenomeno. . .

MB – hmMG - . . . e mi riferisco . . . a . . . tanti . . . ai più [con sicurezza] c’è un piat-

tume nella parte minimalista e in questi tipo Nayman, tipo Einaudi . . . tipo(tanto per fa quelche nome) . . .

MB – hm

338 A Annesso

MG – [volume basso e costernato] secondo me siamo vicini alla vergogna,perché, cosa c’è ?

MB – hmMG – a livello strutturale non c’è niente, a livello di cosa un c’è n., ha

messo lì du(e) accordi, e quando hai messo li du(e) accordi ? Ma se nel pope nel rock, quello che era underground una volta, questa stessa operazionel’avevano fatta dei bischeri che sapevano solo quei due, l’hanno fatta megliodi te . . .

MB – hmMG – . . . ci(o)è è inutile che fai, (c.) Lou Reed l’ha fatto gà meglio di te

. . . hmmMB – hmMG – David Bowie l’ha fatto meglio di te, gli Animals l’hanno fatto meglio

di te, in momenti non sospetti, è questa la cosa, [con franchezza] perché nonsi ha il coraggio di dirlo, ecco . . .

MB – hm, hm . . .MG – e . . . cosi ecco . . . io si, sono molto arrabbiato . . .ma non perché mi

levano il pane di bocca a me . . .MB – no (. . . ) hmMG – non è questo il problema, son cresciuto, io son cresciuto in una

generazione che credeva, non che con la musica si cambiasse il mondo, perl’amor del cielo, la musica è un commercio . . .

MB – hmMG – cioè quando la concepisci è una cosa intima, nel momento che la

porti fuori dal cancello è un prodotto, e quindi come tale, è giusto che passi. . .

MB – [con un timbro nuovo e ’poliziesco’ che Grossi non ha] deve esse(re)passato . . .

MG – passa delle trafile . . . deve essere trasformato, deve essere immagaz-zinato, deve essere riprodotto . . . io su questo . . . è anche un punto

MB – [sovrappone] su questo lo sapevi . . . cioè . . . hai avuto la fortuna disaperlo per tempo

MG – per tempo! In fin dei conti se ci ragioni no? Dici . . .ma io quandocominciavo ad ascoltare jazz dove l’ho comprati i dischi di jazz? Beh, io andavoa Livorno, andavo in Piazza Cavour, andavo a Firenze quando c’era . . . dopodopo Nannucci, ma prima andavo nei negozi quegli altri, nei negozietti dovesapevano che c’è, andavo da Nannuccci a Bologna

MB – hmMG – Venivo a Pisa . . .MB – ci stavi, ci parlaviMG – c(io)è roba . . .MB – e lì a Pisa ci trovavi amici . . . ci facevi quattro chiacchiere . . .MG – e contattavi gente . . . così. E poi soprattutto ti accorgevi che John

Coltrane era un prodotto né più e né meno come . . . non so, a quei tempi lì,come un altro cantante di pop, dici, ma John Coltrane è John C., si è vero,

A.1 Interviste 339

ma nel momento in cui vai a Pisa e lo trovi e a Livorno e lo trovi, non c’èbisogno che tu vada a New York per trovarlo . . .

MB – certoMG – è già un prodottoMB – vuol dire che c’era già una nicchia . . . sapevano che dovevi andare,

certoMG – vuol dire che chi ci ha investito ci vedeva dentroMB – certo . . . le filiali italiane delle americane . . . certo si si . . . quello è

un discorso . . .MG – cioè noi a volte ci si dimentica di questa cosa . . .Mingus ha smosso

un fatturato fortissimo . . .MB – ma infatti [sovrapposizione del convenire animatamente] si si in

quegli anni lì c’erano le vendite dei dischi, sono arrivate fino al ’79 anche negliStati Uniti

MG – in crescendoMB – in crescendo, poi nel ’79MG – paf, precipitateMB – precipitate, per poi ri-partire nell’82 con . . .MG – con Chick . . .MB – con [dichiarativo finale] con Michael Jackson . . .MG – con Michael JacksonMB – questo te lo dico proprio perché mi è capitato per le mani pro-

prio delle statistiche: con Michael Jackson ai tempi di Fame, di questi serialtelevisivi . . . terribili . . .

MG – ah, ahMB – [attacca improvvisamente e con una certa ’petulanza’] . . . invece

. . .Mascagni ?? [insistente] . . . eh, eh, come ’te lo sei puppato’ ?MG – [resiste amabilmente alla provocazione] ma . . . senti . . . dunque . . . .

in realtà sono idee venute a molti . . . questa . . . io qualche anno fa, in tempiancora meno sospetti di ora, perché non l’ho fatto, giuro di non aver fatto unacosa . . . furbesca [nota che il furbesco è il registro ottocentesco della culturazingara e ’alternativa’]

MB – hmMG – hmm . . . così come non penso che sia stia facendo una cosa poi

estremamente furbesca Danilo Rea, che è molto più avvezzo a queste opera-zioni furbette, con tutto che gli voglio molto bene e siamo molto amici . . .masuccesse di di essere contattato dal Teatro di Livorno che faceva due anni dicelebrazioni su Gershwin . . .

MB – hmMG - .. e mi proposero di fare un concerto di piano solo . . . e io accettai

con entusiasmo. Mi dissero ’però il concerto deve essere fatto su questa opera’che non è mai stata fatta e che si porterà in giro nel circuito cittadino e cheera Blue Monday Blues. Che più che opera diciamo era una scena lirica, erauna cazzatella giovanile, non è niente di che. E mi fecero lavorare su quellacosa lì. E poi si vide che era carino . . .mano a mano che ci si lavorava, perché

340 A Annesso

era carino, lavorandoci su, apparve, leggendo, documentandosi anche un po’,apparve ben chiaro, quanto Gershwin guardasse il verismo italiano

MB – il verismoMG – e fondamentalmente guardava Puccini, in primis perché è il più

grande, è fuori discussione, Mascagni, secondo, e Leoncavallo, guardava ’stitre, ’sti tre momenti della lirica italiana. Ma li guardava col microscopio,

MB – hmMG – tant’è che aveva preso perfino degli elementi scenici, per esempio,

non so, l’antefatto in proscenio cantato dal tenore lo aveva preso dai Pagliacci.E Blue Monday Blues cominciava così. Allora si era cominciata a delinearequesta cosa delle influenze: così com’è innegabile che quando un Puccini fa laFanciulla del West, guarda verso gli Stati Uniti; comincia a narrare di storieche hanno un afflato internazionale

MB – hm, hmMG – e . . . e allora è stato molto divertente andare a scovare gli elemen-

ti veristici in Gershwin, ed è stato inevitabile metterci insieme la cosa. Unacosetta di Mascagni che a me è sempre piaciuta . . . che è uno dei suoi piccoligioielli, che è l’Intermezzo della Cavalleria. La Cavalleria è un opera incredibileperché, in pochissimo tempo fa veramente dei danni, infatti ha avuto un suc-cesso clamoroso perché è sinteticissima, parla un linguaggio di immediatezzapazzesca, e artisticamente è un prodotto micidiale.

MB – hm, hmMG – perfino il grande Puccini si impressionò molto, su Cavalleria, disse:

’mmazza ma chi è questo?’, ci vinse il Concorso Sonzogno lui no?MB – mhMG – allora [ricapitolando] cercando di mettere insieme le affinità decisi

di prendere l’Intermezzo di Cavalleria e di farne due differenti versioni . . . unaall’inizio e una alla fine del concerto. All’inizio più pura e alla fine un po’più Gershwiniana, e questo è stato un po’ una cosa che è rimasta, e . . . dalì in poi ne è successe, io non so chi ha fatto per primo e non me ne freganulla, ma . . . è possibile Rava che faceva l’Opera Va . . . e ancora Rava checon Bruno Tommaso faceva Carmen, ridotta in forma di concerto, io stesso,nel mio piccolo mi dedicai a una forma di Porgy and Bess, solo per coro epianoforte e me la sono portata in giro per i teatri, tutta rarrangiata gospel. . .

MB – credo che Antonello Salis mi abbia raccontato che anche lui lo hannochiamato a fare qualcosa di operistico, su Verdi, proprio

MG – su Verdi, quando, Verdi per esempio fece un disco con risultatialterni . . . perché alcuni pezzi sono bellissimi e altri sono veramente da ridere. . . la Wien Aart Orchestra . . .

MB – hmMG – quindi . . .Manfred Ruckert fece un intero lavoro sull’operistica

italianaMB – ah

A.1 Interviste 341

MG – e interessante però no, che la Wien Art Orchestra, si buttasse sulrepertorio lirico italiano, che poi ha delle connotazioni particolari

MB – hmMG – ma io trovai estremamente interessante, ho sempre trovato estrema-

mente interessante . . . quanto di Italia e di Francia c’era negli Stati UnitiMB – ah [muggisce]MG – in particolare . . . in quell’occasione era vedere quanto verismo c’era

in GershwinMB- hm hmMG – e . . . quest’estate c’è stata questa opportunità, di dire . . . Clara Schu-

mann loro, così mi dicono ’ma non puoi fare qualcosa te, che c’è questa operinadi Macagni, Pinotta, che è minimale, non dura quasi niente, un’opera giova-nile, così, noi come si fa, va coperto il minutaggio’ . . . . allora mi ha detto:’perché non lavori un po’ te a delle cose che puoi fare con . . . con Mascagni?’. . . allora io mi sono preso un po’ l’intermezzo e un po’ dei momenti del Sil-vano . . . e li ho messi per pianoforte, contrabbasso, che diciamo sono il frontejazzistico e un quartetto d’archi e ho fatto questa cosa (che è stata anche unpo’ stressante) però mi sono divertito . . . [a concludere]

MB – hmMG - e . . .MB – l’hai incisa?MG – no, ancora no, perché ho una scaletta di cose da registrare, altre

priorità, però mi piacerebbe un giorno, provarci . . . sono tante le cose che miandrebbe di fare, che c’ho lì [da formale a più personale] . . . hai visto com’è ladiscografia, è un troiaio . . .

MB – [conferma senza mezze misure, scandita] è un troiaioMG – quindiMB – così facile fare un master . . . poi . . . dopoMG – e poi allo stesso tempo chi li produce . . . un quasi certo buco nell’ac-

qua, dal punto di vista finanziario, perché [appropriatamente dolente] . . . lamusica, ormai hai visto le majors sono tutte diventate piccole . . . comunquenon mi vengano a dire che non lo sapevano . . . è un progetto . . . quando la stes-sa Sony, TDK, mi mette in giro i supporti vergini dei CD e i masterizzatori e licommercializza, vuole dire che sapevano già tutto, che lo sapevano benissimoprima, io non ci credo a questa cosa che la riproduzione, tant’è che anche lariproduzione pirata è perseguita in modo piuttosto blando, non c’è veramenteil martellamento dell’evasione, così, è perseguita così, se li beccano li beccano,ogni tanto fanno una cosa a esempio, poi, la maggior parte masterizza

MB – ma anche perché . . .MG – son loro che se li vendono, si sono ritagliati un pezzetto di diritti

d’autore, lo sapevano benissimo . . . ci prendono per il culo, insomma . . . equindi queste sono . . . così . . .

MB – però è un bel problemaMG – si è un bel problema perché l’investimento vada sui progetti, son

costretti a farli i musicisti e smuoversi dal punto di vista economico, oppure

342 A Annesso

per certi versi la musica va in mano a avventurieri o a gente che scarica inparticolare le tasse

MB – ahMG – ne ho conosciuti anche di quelli che reinvestonoMB – delle associazioni, le ONLUS . . .MG – si, oppure anche dei privati che reinvestendo in una coiddetta re-

galistica da dare insieme ai loro prodotti, non so un tour operator che dà unCD insieme ai produttori di vino, che danno un incenso da annusare, il vinoda gustare e la musica da ascoltare . . .

MB – [rumori indistinti]MG – e che . . .MB – ma allora, ragazzi, voglio dì(re), come si fa a parla(re) di jazz?MG – ma infatti, bisognerebbe parlare di deodoranti . . . è un casino

insommaMB – ehMG – io vedo, io duro fatica ad avere le cose prodotte, anche se ho avuto

nella mia vita la fortuna di . . . qualche cosa di farlo di buono e anche di inciam-pare in qualche major, un paio di volte ci sono riuscito sono stato con la EMIun paio di volte . . . è stato peggio che esse(re) con gli indipendenti . . . perchéla EMI che investe si di te diciamo, quindicimila euro, e che comunque ti devedelle attenzioni, non te le dà, un privato che investe su di te quindicimila euro,per cui per lui è un buco, si dà da fare poi perché qualcosa rientri, alla EMIinvestire quindicimila euro puoi dire: ’oops ho perso quindimila euro! Oddoves., mah un lo so ma tanto c’è Michael Jackson che mi pareggia il conto, alloraconsidero lui, faccio finta di non averli avuti . . . ’, noi . . . il disco di Giammarcofatto con la Blue Note è andato così . . . ci(o)è si pensava che ci avrebbe apertole porte di non so che, che saremmo andati a suonare in America, di fare unapresentazione a Radio Atlanta . . . .

MB – negli anni ottanta?MG – no . . . questo è la bellezza di . . . recente . . . ora nel novanta . . . sei

. . . disco con la Blue Note, primo artista italiano per la Blue Note, uno scoop,paginoni da tutte le parti, copertine sulle riviste, tutto . . . Crystal Quartet cheandava fortissimo . . . rientro in date . . . non c’è stato

MB – hmMG – interessamento dell’etichetta . . . non c’è statoMB - [. . . ]MG – siamo andati a Parigi di nostra sponte . . . praticamente pagando una

manager e andando al Duc de Lambarts [?], rinomatissimo locale, dormendotutti ammassati in una stanza che ci hanno . . . ’nsomma il locale, come fannoi ragazzi

MB – hmMG – si ma facendo una promozione che dietro c’era la EMI . . . cioè la Blue

Note è un etichetta della EMI . . . io la trovai una cosa mostruosa, veramentemostruosa

A.1 Interviste 343

MB – però il rientro ci sono personaggi tipo Cafiso [con stupore] . . . di(c)oquestec. . .

MG – si ora . . .MB – poi quell’altro . . .MG – si quell’altro, il pianista cantante, c’è . . . poi chi c’è il sassofonista

. . . Di Battista . . . beh ora io qui rischierei di diventare cattivo . . .MB – no [determinato]MG – Stefano . . . è un bravo musicista . . .ma è stato anche molto fortunato

comunque . . . è un bravo musicista . . . per quanto riguarda Cafiso, se son roseMB – fiorirannoMG – per adesso è un fenomeno . . . nel senso del baraccone, insomma

. . . non mi . . . io l’ho sentito in un concerto alla televisione, l’ho ascoltato at-tentamente a Rai Doc, c’erano tutti amici, Riccardo Arrighini al pianoforte,Amedeo Ronga al basso e Stefano Rapicavoli alla batteria che son tutte e trepersone deliziose e con cui sono in ottimi rapporti . . . beh . . . c’era la stessaatmosfera delle jam sessions, quindi ha ripetuto un frasario che questo bam-bino ha . . . ha imparato a fare anche degli effetti, che inevitabilmente ripetecom’è ovvio . . . perché al di là del talento musicale . . .

MB – però Marsalis viene a corsa per farsi vedere con Cafiso . . .MG – ma io che ne so . . . forse ha una sua proiezione psicologica per il

fatto di essere stato portato a diciassett’anni a sedici anni con Art Blakey, adiciassette anni in un tour mondiale con Herbie Hancock . . . può darsi che luici si riveda . . . io quando ho visto Winton, l’ho visto all’antistadio di Bolognacol quartetto di Hancock, Ron Carter e Tony Williams, e faceva veramentespavento, altro che Cafiso . . .

MB – hmMG – cioè era veramente un tipo che c’era una propaggine . . . di Freddie

Hubbard una di Miles Davis, era veramente una spada e poi con Herbie nonfaceva gli standard

MB – hm hmMG – suonavano Sourcerer suonavano dei pezzi tardo davisiani veramente

incasinati per cui, era una grande prova di maturità anche per lui . . . Cafisofa pezzi parkeriani come impostazione, con tutto che ripeto, innegabilmente,non è che discuto sul talento, sarei un imbecille se lo facessi [alzando il volu-me, argomento che stanca] . . . penso che, come facevo con Ares Tavolazzi artavolino

MB – ueh uehMG – proprio siamo stati a suonare al Doctor Jazz [un club a Pisa], si

stava al tavolino, Ares cammina per il sessanta, io ne ho quarantasei . . . e sidiceva di una cosa che dietro un musicista, al di là una tecnica, al di là untalento, al di là di una bravura . . . e . . . ci deve essere un uomo [affermazionesicura] . . . non può esserci un ragazzo

MB - ehMG - sono rarissime le volte, perché siamo stati tutti ragazzi, e adesso che

sono passati un po’ di anni si capisce

344 A Annesso

MB – ah [nasale]MG – che cos’era veramente che è mancato a tutti, perMB – la generazione degli anni . . . dip.[sovrapposizioni, tema caldo]MG – si ma in generale . . . cioè un etàMB – il giovanilismo dellaMG – hai un’età che se esegui . . .MB – va bé . . . potresti esse(re) diluito fra altri tre (u)omini . . . dici un

giovane, come succedeva nelle botteghe dei musicisti, ne prendevano uno,massimo due

MG – certo, però poi chi esprime, non è il ragazzo talentoso nella bottegadi Michelangelo, è Michelaangelo . . . quando passa il pezzo tu trovi anche deicontenuti nei pezzi che fai . . .

MB – perché fai quel pezzo lìMG – perché te lo scegliMB – quel giornoMG – passa un periodo di onnipotenza . . . lo abbiamo passato tutti . . . in

cui pensi di non avere limiti, di poter fare di affrontare . . . solo perché ciriesci tecnicamente . . . quello è soltanto l’ultimo dei problemi, di riuscircitecnicamente . . .

MB – hm hmMG – e da lì che inizi, ri-inizi veramente a dire: ’ma, mi emoziona? -no,

allora se non mi emoziona non lo faccio’, e lo scarti, ’ma mi interessa? questosì, e perché mi interessa, ma perché così almeno la gente se suono sveltomi riconosce di più’, ’ai ma allora è questo il fine della musica? -no, allorasmetto di fare anche questo’. Cioè, cominci a scremare, in questi rampanti sivede per esempio lo sgomitare ’guardate me’, un po’ come vedere il concorsodelle veline, cioè metterebbero le tette in bocca al conduttore pur di esse(re)notate, non avrebbero scrupoli ad andarci sul palco direttamente, a fare unacosa porno pur di diventar famose e c’è uno sgomitare . . . abbastanza fastidioso. . . ripeto . . . probabilmento non è il caso di Cafiso, perché e talmente piccolo,però si vede una generazione un po’ così, che sembra concedersi tutto, peròsecondo me sono un po’ lontani dallo spirito del jazz, così com’ero lontano io,nello stesso periodo della vita, non son diversi da me. . .

MB – hmMG – io lo vedo come insegnante, non sono diversi da me . . .MB – appunto . . . perché poi c’è questa questione qui, no? Quando uno

insegna jazz oggi, quando a un allievo gli insegni jazz, non hai più personeche si vogliono buttare nel mondo del jazz perché . . . o non esiste . . . o perfarlo esistere ci vuole una serie di sforzi e di solidarietà e di buona volontàche è grossissim(o) . . . allora che cosa succede, c’è questa idea della doppiacompetenza per cui te (c’)hai un musicista che sarà in grado sia di affrontarequalsiasi tipo di lavoro orchestrale [a voce veramente alta, tanto da disturbare]oppure sarà un bravo concertista . . . . e . . . suonerà anche il jazz . . . cioè . . . èquella la direzione?

A.1 Interviste 345

MG – sentiMB – che tipo di allievi (c’)haiMG – senti [si prepara una risposta articolata] . . . io il corso di jazz com’è

stato istituito una ventina d’anni fa dal Ministero del Lavoro e quello dellaPubblica Istruzione, che è di progetto Giorgio Gaslini

MB – hmMG – era un corso che si rivolgeva a già diplomati nello strumento, quindi

diciamo che non era per tutti, aveva uno sbarramento e presuppondo con que-sto di superare un problema strutturale con questo in quanto al conservatorionon servirebbe soltanto un corso determinato di jazz, servirebbe un interodipartimento jazz in cui fai percussioni indirizzo jazz, sassofono indirizzo jazz,ance indirizzo jazz, chitarra, pianoforte, contrabbasso ecc. ecc., la qual cosaha ovvi riflessi dal punto di vista finanziario, per cui, per il momento, non èpossibile, per cui loro pensarono di incominciare questa trafila, magari finen-dola il secolo successivo, però di dare questo contributo per cui, per quantomi riguarda sbarcandoci gran parte del lunario mio, io non faccio altro cheringraziare ogni mattina quando mi sveglio . . . e penso che sia comunque unottimo principio quello di l’importante è cominciare

MB – hmMG – poi vediamoMB – hmMG – perché da quello sono sorte le cattedre, c’è stato un crescendo, e ora

si incomincia anche a vedere qualche istituzione più facoltosa o più coraggiosache ha incominciato a mettere intorno agli insegnanti di jazz alcune figure chesi occupano dell’aspetto strumentale

MB – hmMG – però la cosa era stata fatta perché uno non avesse problemi stru-

mentali, ma venisse per imparare il linguaggio, che non era pensata poi male,dicendo in tre anni io semino, non è detto che in tre anni diventi John Coltra-ne non c’è scritto in nessun contratto, però non è detto nemmeno che dopodieci anni di pianoforte sei Maurizio Pollini

MB – hmMG - sai la base del pianoforte, da lì a diventare un vero concertista ce ne

può passare altri venti di anni, di vita veraMB – certoMG – quindi trovo che in questo senso hanno fatto una scelta, l’unica

possibile, ma anche la migliore delle possibili, eccoMB – hmMG – per cui ci si rivolge spesso a musicisti dotati di un certo bagaglio

tecnico che hanno un problema con il linguaggio, o . . . per cui la parte teoricadiventa molto pesante, perché . . . hanno bisogno per esempio di ripianare dellelacune tra il bagaglio fornito dal conservatorio e quello che hanno letto daqualche parte e il tipo di competenza che gli è richiesto, il tipo di immediatezza,di abilità che è richiesto poi nella vita pratica . . . e poi il programma di jazzcome è stato esteso da Gaslini e da Gerardo Iacoucci, quello lì, l’originale . . .

346 A Annesso

MB – ce l’avete sempre, noMG – è sempre in vigoreMB – ahMG – ora è cambiatoMB – come programma ministerialeMG – ora io per due anni avrò diplomati con quel programma lì . . . e

prevede delle grandi competenze dal punto di vista compositivo, per cui peresempio secondo me non tutti i docenti che ci sono in giro sarebbero idonei perquesto tipo di programma, perché quando dici ti faccio una chiusa di dodiciore dove tu entri con un temino e te ne esci con un pezzo d’orchestra, c’hotanti colleghi che vorrei sape(re) cosa gli insegnano

MB – hmMG – e . . . perché ti serve uno specifico compositivo per quello, poi, secondo

me il percorso musicale, a parte che non ce n’è uno più valido di un altro,ognuno in qualche trova il suo, un informazione importante uno la trova dallastrada, una sera da un concerto

MB – in autonomia . . . lo può prende(re) a scuolaMG – io non credo che ci sia proprio veramente un punto ottimale

. . . ognuno ha un carattere . . . ognuno ha propri tempi . . . però è vero cheanche secondo me questa parte compositiva è abbastanza imprescindibile percapirne qualcosa di jazz, perché è composizione estemporanea, cioè io rifiutol’immagine americana di ’hai un problema? io ho le soluzioni. . . ’

MB - hmMG – l’impostazione Aebersold, o anche una certa parte del più bravo dei

didatti che è David Baker, perché se impari tutti i David Baker non diventicomunque un musicista di jazz e se ti impari lo scare syllabus di Aebersolddove ti fa vedere lo standard, poi ti fa vedere il chorus nudo con lo scheletrostrutturale e poi nell’ultima pagina ti dice come sono composte a livello in-tervallare le scale a cui lui fa riferimento, non diventi lo stesso un musicistadi jazz

MB – mh mh mh [ride]MG – anzi, ti fai una serie di pregiudizi, per cui io impiego gran parte del

tempoMB - a levarliMG – a levarli [convenendo insieme senza dubbio] perché arrivano allievi

che chiedono solo di accordi e scale, quando secondo me di accordi e scale. . . non ci si fa quasi niente . . . ci si mette tutt’al più si trova un punto dicontatto a livello gergale . . .ma quel sol minore quello della scala, si quello, fine. . .ma non hai capito nulla del sistema delle attrazioni tonali, non hai capitonulla del concetto compositivo che c’è dietro al pezzo, non hai stabilito uncriterio sull’improvvisazione, non sai la differenza tra orizzontalità e verticalità[si fa severo] non sai niente di ritmica, non sai quasi niente di niente, quindimen che meno puoi sapere di stili, men che meno puoi sapere di correnti . . . percui cosa fai cacci delle scale su degli accordi [bette le mani: tlak, tlak, tlak]bravo! L’avevi già fatto il prim’anno di strumento anche se non sapevi cosa

A.1 Interviste 347

stavi facendo, è ovvio che la scala di Do sta bene sull’accordo di Do, quindi.Per cui si lavora molto su quello, io perlomeno l’ho presa così dopo che li hofatti studiare teoricamente poi li metto a suonare, concettualmente, e poi glidico . . . non si può fare in classe

MB – cosa vuol dire suonare concettualmenteMG – se tu approcci un materiale, e dici, io ho un accordo e questo accordo

presuppone una scala, oppure questa zona del pezzo presuppone un approccio,insomma questa zona del pezzo è in una tonalità, allora vogliamo indagareche tipo di risultato dà un pensiero puramente tonale, senza preoccuparsi delcontenuto delle singole scale rispetto a quanto si preoccupa Aebersold, e farglinotare la differenza

MB – hmMG – poi gli istituisci dei modi, per esempio io procedo così, gli istituisci

dei modi di cercare di attaccare più significati possibili a improvvisare pernota singola

MB – hmMG- se tu tocchi una certa funzione di un certo accordo che si trova in una

certa funzione d’armonia, ottieni un certo risultato, questo certo risultato tudevi metterlo in una enorme tavolozza esattamente come farebbe un pittore equesto un giorno ne avrai bisogno perché ti serve proprio quel punto di azzurro. . . ecco cercare di abituarli a questo tipo di cose che è la musica . . . cioè lamusica, conoscenza vale poco, se prendi un libro di matematica c’è quattromilioni di regole in più di quante ci sono in tutte la teoria e in tutta l’armoniae in tutto il contrappunto e in tutti i libri di ritmica messi insieme

MB – hmMG – non c’è paragone, il diverso tipo di discorso che (c’)hanno le arti

rispetto a questo tipo di di di studio è che ti vogliono lì dal primo fondamentaleall’ultima cosa che hai imparato sempre pronto, tu sei lì con una tavolozza edici: mi serve . . . questo! . . .ma l’ho fatto la prima lezione . . . e allora? . . .ma(c’)ho sessantanni . . . e allora . . . se mi serve quello mi serve quello . . . questoè l’elemento di linguaggio che serve . . . per cui li spingo molto anche a nonchiudersi troppo nel jazz

MB – hmMG – questo è un altro discorso mio personale . . . io so’ stato incazzato

coi conservatori perché non erano aperti al jazz finché sono esistiti e io eroallievo, e ora che sono docente (di) jazz devo io discriminare uno perché suonarock [a voce alta] . . .mi dispiace . . . io non lo faccio se mi arriva l’allievo chegli piace il blues ma mi piace l’allievo, io dico Okay, cercheremo di rimediareun percorso, perché devo discriminare io da discriminato allora è una saga chenon finisce più . . .

MB – poi a Livorno di Blues c’è anche una tradizioneMG – si ma per dire . . . ecco . . . te la prendi con un’accademia poi quando

ti danno l’occasione di entrarci dentro ne fai un’altra . . .

348 A Annesso

A.1.4 Con ‘Afo’ Sartori

Afo Sartori è l’appassionato di jazz che rappresenta una delle memorie deljazz per la città di Pisa. È stato sotto le mura del carcere di Lucca ad in-coraggiare Chet Baker e a sentirlo suonare. Ha seguito più o meno tutti iconcerti interessanti che si davano ad una distanza ragionevole. Intorno a luisi sono organizzate spontaneamente carovane di persone che partivano per ifestival estivi. Ha ospitato tutti i musicisti di passaggio che poteva ospitare.Ha organizzato concerti memorabili, diretto un circolo culturale collegato alMovimento e a ’Lotta Continua’ in particolare. Oggi scrive di jazz sul Tirreno,ed ha un modo di guardare al passato molto interessante. Si dice anarchico,nonostante sia stato comunista, e ha rivisto molte cose del suo passato poli-tico, non di quello musicale. Il suo impegno è quello di sostenere il jazz ed imusicisti emergenti a prescindere dai tempi e dei cambiamenti delle situazionisociali e politiche.

MB - . . . cioè in che clima . . . in che clima maturava un evento come quellodella Bussola, e come si ricollegava anche un po’ alla storia del locale, che infondo era anche ’casa’ di Chet Baker in fondo . . .

AS - . . . si però era soprattutto la casa della grande borghesia . . .MB - . . . era diventata . . . non era più quella che era negli anni ’60 . . .AS - . . . no, ma . . .MB - . . . cosa rappresentava nell’immaginario dei giovani, che nel ’69

potevano pensare a un’azione come quella?AS – era l’immaginario di gente che andava a sprecare i soldi, insomma

. . . i proletari soffrivano, fra virgolette, no, si diceva noi . . .MB – inso’, si diceva ma c’era anche una crisi notevole . . . nso’AS - . . . si c’era ..MB - . . . cominciavano le sicurezze del boom economico . . . non c’erano più

. . . c’era stato il maggio . . .AS – infatti c’era questo clima, soprattutto fatto da gente d’avanguardia,

non è che aveva un dato sociale perché non c’era nessuno della gente [normale]. . . c’era[vamo] solamente noi . . . gli studenti . . .

MB – voi . . . a quei tempi . . . per esempio te Afo eri d’orientamentotrotzkista, c’era una tradizione trotzkista che si innestava in Lotta Continua?

AS – no, veramente no . . .MB – di una reazione a, a allo stalinismo del PCI, cheAS – si quello sìMB – voleva dire anche un’apertura culturale diversaAS – si quello si, ma il mio orientamento è sempre stato anarchi(c)o per

dì la verità e . . . anche se per ragioni così, facevo parte del partito di LottaContinua

MB – hmAS – però il mio orientamento è sempre stato un po’ anarchi(c)o . . . [riflette]

ma a quel tempo lì si era soprattutto contro ogni forma di autoritarismo no?

A.1 Interviste 349

Perché erano gli anni del ’68, perché l’autoritarismo, quasi contro il partito. . . si era dell’orientamento dietro a Adriano Sofri insomma che . . . era lontanoda ogni forma di partito, poi dopo nell’evoluzione Lotta Continua

MB – diventòAS – diventò un partito . . .MB – è nata non come partito, è diventata partito e . . . ha deciso di non

essere più partito a Rimini nel ’76 . . .AS – si . . . ha detto . . .mi son rotto i (c)oglioni . . .MB – sui problemi . . . delle donneAS – vivevamo nel terremoto . . . poi c’è stato il terremoto sociale, non

siamo più vissuti nemmeno nel terremoto, proprio non siamo più vissuti . . .MB – hm . . . non siamo più vissutiAS – come Lotta Continua . . . infatti . . . qualcuno si meravigliava degli

amici di Adriano Sofri, l’ha anche scritto no? Che non . . . che è andato ingalera senza che succedesse una specie di marasma sociale . . . perché . . . nonera più nessuno . . .

MB – hm [lievemente] . . . questa cosa qui mi fa pensa(re) anche a un’ideadello scrittore fascista Bontempelli, il quale in un discorso, parlando di D’An-nunzio . . . diceva eh, per il prodigio ci vuole tanta luce, tanta luce se un c’èquella del sole vanno bene anche i riflettori

AS – eh . . .MB – eh, eh, che è in una prolusione universitaria del ’38, no?, già tarda.

Però quanto anche di . . .AS – [precisa] morì nel ’38 D’Annunzio no?MB – si, perché è morto . . . però quanto moderno è questa affermazione,

per quanto retorica, però già moderna perché prevede già una civiltà dei media. . .

AS – infatti, ora il pubblico è proprio così, ora è la dimostrazione lampanteMB – ecco . . . tornando alla Bussola . . . come te lo rappresenti che dei

giovani pisani sono andati anche per fare vedere che c’era un dissenso anche. . . sui consumi, no?

AS – si, si, siMB – sui consumiAS – era soprattutto un discorso anticonsumista . . .MB – hmAS - che non erano solo i giovani pisani, giovani pisani perché era più vicino

ma venne dal Potere Operaio prati(c)amente di tutt’Italia . . .MB – tutt’Italia, eh, questo è importante . . .AS – era nato a Torino il Potere Operaio, e diventarono Lotta Continua,

ma era Potere Operaio, e infatti ci si dette tutti appuntamento alla Bussola,c’erano da più parti, da Lucca, da Viareggio, da Massa . . .

MB – e era già un gruppo di persone in grado di spaventare già [suppo-nente] . . . già che faceva già . . .

AS - . . . e si, si fece un bel po’ di casino [tagliando corto] . . . poi lorocominciarono a sparà, beccarono il . . . coso . . . il Ceccanti

350 A Annesso

MB – infatti ci fu una risposta grossa, fu una cosa grossa, me lo ricordoanch’io . . . [cambia argomento] e di lì arriva(re) dal ’69 al ’72 ’73, che sono leprime attività sul jazz e sugli afroamericani del Circolo Ottobre . . .

AS – si perché . . .MB – come si può fare un ponte . . .AS – al Circolo Ottobre servivano finanziamenti, dicevano ’datevi da fa’

fate qualcosa’ . . . e a Pisa fortunatamente c’ero io che m’occupavo di jazz da.. da un po’ di tempo, e capito questa cosa che s’andò a Roma a parlare co’Archie Shepp e gli si chiese di veni(re) a Pisa

MB – a Roma Archie Shepp dov’era impegnatoAS - . . . era un festivalMB – un festival, anche quello era un’iniziativa del movimento?AS – si, si era un’iniziativa dei . . . de’ romaniMB – hmAS – e s’andò a Roma e gli si chiese di veni(re) a Pisa, che a Pisa si fece

Libertà Uno, Libertà DueMB – questo è il ’73?AS - col Pino MasiMB – siAS – è il ’72 quando venne Archie Shepp, si, il ’72MB – è in quegli anni lì Shepp era al centro dell’attenzione anche perché

con Leroi Jones erano tutti e due più orientati sul discorso marxista . . .AS – no, Archie Shepp era addirittura, faceva parte del Partito (C)omunista

Ameri(c)ano . . . addirittura . . . prima c’era stata già l’iniziativa di NoahHoward . . .

MB – hmAS – perché tramite la sua manager, che era una francese, una toscana che

è stata in Francia, così, mi contattò me per vedere se si faceva un concerto, eallora tramite i Circoli Ottobre si fece questo concerto che, insomma, riscosseparecchio successo, e da allorà si aprì, si fece Archie Shepp, si fece altre cose

MB – e il pubblico che rispose a Noah Howard fu un pubblico composito,mi sembra di ricordare, io avevo sedici o diciassette anni [in realtà quattordici]però vennero sia giovani . . .

AS- però tutto orientato . . . tutto orientato a sinistra . . . perché c’eraquesta forte componente di sinistra che eravamo noi no?

MB – che metteva anche la questione nera alAS – si, si, siMB – al centroAS – anzi, noi mettemmo tutta la questione nera al centro . . . si fece quel

. . .mi ricordo per Archie Shepp si fece quel manifesto . . . con la faccia diSerantini . . . no

MB – o forse c’era semplicemente il logo del Circolo Ottobre come CircoloFranco Serantini . . .

AS – mi ricordo si fece lo slogan Black and White Unite and Fight, Bianchie Neri Uniti nella Lotta

A.1 Interviste 351

MB – ehAS – questo piacque parecchio a Archie Shepp, questa cosa quiMB – hm hm . . . si mi ricordo anche uscì un articolo di Gino Castaldo (l’ho

trovato) su Muzak, diceva: Viva Marx, Viva Lenin, Viva Archie Shepp, ah ahah [ridono] che gli avrà causato anche . . . diversi problemi . . . poi dopo . . . inpatria . . .

AS – [irrompe un’immagine intensamente, a voce alta] questo lo gridavanoa Umbria Jazz nel ’72, Umbria Jazz nacque nel ’72 o nel ’73, uno di queglianni lì: Viva Marx, Viva Lenin, Viva Archie Shepp(e), che un c’incastravaproprio una sega . . .

MB – eh eh ehAS – mentre espropriavano le botteghe di alimentari, rubavano i panini,

rubavano le pesche alle donnette . . . quella fu una cazzata pazzesca . . .MB – però Umbria Jazz ha continuato con grosso successo per tutti gli

anni ’70AS – si si . . .MB – e grossi guai non sono mai successiAS – si prese subito le distanze da quel discorso no global che voleva tutto

gratis, la musica gratis, la musica è di tutti, ti ri(c)ordi, quegli anni lì . . . io miri(c)ordo che andai a Padova, andai a sentì, andai a sentire . . . Gerry Mulligan

MB – ah . . . che non aveva niente a che vede(re)AS – no, nienteMB – con questo tipo di orientamentoAS – la musi(c)a è di tutti! . . . e lui prese il coso gli disse: ’tieni sona!’,MB – eh eh ehAS - capiva bene l’Italiano eh? Mulligan . . . dice . . . [essendo Mulligan] dé

. . . ’tieni sona!’MB – salirono dei politici sul palco a fa(re) . . . un discorso . . .AS - la musi(c)a è di tutti . . . la musi(c)a è di tutti . . . allora sona, se è

di tutti . . . non voleva pagà nessuno . . . allora come si doveva finanzià ’r jezz[terminando] e comunque . . . erano anni un po’ parti(c)olari eh? . . . ora . . . oraci riprovano

MB – si ma è cambiato tuttoAS – ehMB – c’era . . . c’erano . . . guardando i modelli dei musicisti che interessa-

vano in quegli anni lì, se mi aiuti un po’ a fa(re) mente locale . . .AS – erano tutti musicisti freeMB – tutti musicisti freeAS – solamente free . . . figurati aa . . . coso . . .MB – beh Archie Shepp a quei tempi era un musicista free . . . sui generis,

perché ti faceva anche ascolta(re) la tradizioneAS – si siMB – nel ’72AS – però la gente . . .MB – vidi Ben Webster dietro a Archie Shepp . . .

352 A Annesso

AS – un faceva mi(c)a questi discorsi quiMB – e va bè ma noi si sapevaAS – noi si sapevaMB - si stava studiando . . . si stava . . .AS – però la gente voleva senti(re) ’r free . . . il discorso sulla libertà . . . che

si opponeva alla musica accademi(c)a, no ?, queste ’ose eqquìMB – si ma ’nfatti [insiste] probabilmente anche l’unione di qualche pezzo

tradizionale ellingtoniano che faceva Shepp a quei tempi e qualche pezzo piùdel suo repertorio andava anche incontro a questi pubblici diversi . . .

AS – mi ri(c)ordo fece . . . In a Sentimental Mood . . . stupendo . . . veramenteMB – ehAS – poi . . . laggiù a Umbria Jazz contestavano regolarmente la gente che

sonavano in modo lirico . . . ricordo si misero a fischià Chet Baker che rientrò. . . a quel tempo lì rientrava dopo tutte le vicissitudini che aveva fatto, erasenza denti

MB – si siAS – ’nsomma si misero a fischiallo perché: ’ sei un bianco, servo dei

padroni’ . . .ma dio boia ma scherzate? . . . [tono annichilito dall’inumanitàdella situazione]

MB - . . . però Afo se(c)ondo me ora hai saltato quarche anno perché quandoè venuto Chet Baker non era più Umbria Jazz del ’72 ’74, sarà stato ’79 ’80

AS – no no see, c’andavo sempre anch’io . . . era quando . . . quando . . . quandoa Città della Pieve diedero l’assalto alla sede del misse [M.S.I. movimentosociale italiano, il partito neofascista]

Gabriella Magli – [interviene la moglie Gabriella] hai ragione si . . .MB – sarà stato il ’75 ’76? forse perché . . .AS – no, no prima . . . che io ne beccai due che . . .MB – prima, che . . . c’era un Chet Baker a giro lìGabriella – Enea un c’era anche? ’73 Enea [il figlio] era piccino EneaAS – si si era piccino Enea [come guardando la distanza]Gabriella – sicché . . . sarà stato un po’ prima del ’75AS – é .. era il ’73Gabriella – mi pare Enea era piccino . . . si ’73 . . . ’73MB – perché io Umbria Jazz i miei ricordi . . . io tante edizione non ne ho

viste però io lo fisso nel ’74 quando venne Mingus, con George Adams . . . eHamlet Bluiett

Gabriella – allora mi pare era il ’73MB – allora l’anno primaAS – l’anno primaMB – allora accidenti ho sbagliato tuttoGabriella – mi sa di si, siMB – l’anno prima contestaronoGabriella – perché Enea era piccininino era il ’73AS – [irrompe] Count Basie contestaronoMB – eh, queste big band americane . . . .

A.1 Interviste 353

AS – fecero dio b. de’ blocchi stradali venne la Celere . . . legnate . . .MB – mfAS – bisogna esse’ matti . . .MB – ee. . . nsomma Count Basie non dovrebbe essere stato da contestareAS – se(c)ondo me nessuno . . .MB – azz . . . forse lo smoking entrava negli occhi della genteAS – ma Chet Baker perché era bianco no?MB – hmAS – ’bianco di merda . . . ’ sentivi cose di questo tipo no . . . io feci una

leti(c)ata con due s’andò . . . s’andò alle mani eh . . .MB - hmAS - erano proprio accanto a me a di’ queste (c)ose, alla fine mi girai

’andate affa’ nculo’. . .MB – eh, poi te conoscevi Chet Baker . . .AS - mmàh ?MB - da quando era a San Giorgio [taglia sui cazzotti di Afo che facevano

male]AS – dé e poi mi fecero ’ncazzà di neroMB – ma lo sentisti quando fecero il concerto di festeggiamento quando

uscì dalla galera . . .AS – ma non a Lucca lo sentii a Livorno alla Gran GuardiaMB - e come fu?AS – eh . . . lui . . . [tacendo] . . . poi lo fecero anche a Pisa, c’era Franco

Mondini alla Batteria, Jacques Peltzer che era un suo amico belgaMB – si è famoso, c’è anche nell’autobiografia [sic] di Gavin . . .AS – poi chi c’era . . .MB – Romano Mussolini? noAS – Romano Mussolini ci suonava alla Bussola . . . qualche voltaMB – ma, Romano Mussolini forse anche il nome gli impediva di avere

una circolazione . . . piùAS – ma anche dopo . . . contestato da tutte le partiMB – ehAS – e invece poveraccio . . . fa la su(a) musica . . . tranquillo . . .MB - . . . dicevo Shepp si, ma poi cominciarono anche dei modelli ancora

più lontani tipo Johnny Dyani e gli africani in giro in Europa, no?AS – si, si,MB - non so se ti ricordi Mongezi FezaAS - siMB – questo è un tipo di irruzione no . . . innovativa . . . perché . . . cioé

Dollar BrandAS – questo venne . . . no(n) sull’onda politica . . . cioè . . . era un altro tipo

di approccio . . . era più . . . più volutamente musicale . . . no?MB – certo, hmAS – l’altro era politico, con la musica non ci incastrava niente . . . bastava

che facessero le pete negli strumenti, bastava che fosse free andava tutto bene

354 A Annesso

MB – si va bé, quello . . . però c’era dei modelli tipo, Don Cherry, moltomusicali, molto avanzati . . .

AS – ehMB – e c’era stato anche delle prove tipo la Liberation Music Orchestra

che era un discorso troppo riuscito tra il politico e l’artisticoAS – eh . . . la Liberatio’ Music Orchèstra . . .MB – eh . . . che era forte per quegli anni lì come, come modello . . . infatti

io penso che i gruppi come Gaslini . . . non Gaslini, Liguori . . .mh . . . tipoLiguori figlio di . . . Gaetano . . .Mazzon . . . picchiavano molto su quel . . . suquella lezione lì . . . di fa(re) uno spettacolo . . .

AS – anche Mazzon soprattutto . . . Gaetano Liguori fece Cile Libero CileRosso che era una cazzata pazzesca, infatti non ha avuto seguito, Mazzon siè riciclato con . . . con la

MB – con la Instabile [di solito prununciato all’americana] e suoi gruppi. . .

AS – non con con . . . la . . .MB - . . .AS – dio bono, con la grande orchestra che viene tutti gli anni a Pisa . . .MB – [puntualizza] l’Instabile . . . [pronunciato in’stabil’] . . .AS – l’Istàbil Music Orchestra si è riciclato con questa cosa qui . . . fanno

sempre le stesse cose . . . hanno fatto un concerto solo e fanno sempre quello. . . fanno come Cecil Taylor . . . anche lui ha fatto un concerto solo, sempreuguale eh? Magari gli da contenuti diversi ma fa sempre il concerto uguale . . .

MB – hm . . .AS – Toshinori Kondo, mi ri(c)ordo, venne qui fece quattro ’urregge nella

tromba, tutti a’ddì : ’occom’è bravo . . . ’, ma cos’è bravo . . .MB – questo è già il clima della musica improvvisata, dell’Europa, ecceteraAS – si, il discorso prosegue perché a Firenze hanno fatto tutto un festival,

al Musicus sono ammalati su queste (c)ose ’cquìMB . . . si però il seguito, quando i Circoli Ottobre hanno cessato anche

per mancanze organizzative eccetera, c’è stato anche un’individuazione di unpubblico, c’è stata, è venuto Sun Ra, c’era questa attenzione a chiamare deimusicisti che potessero . . . che proponessero uno spettacolo più . . .

AS – infatti . . . perché era soprattutto dovevano fare spettacolo, perché lagente doveva pagà e ’un rompe ’ (c)oglioni . . . perché serviva a finanziare lapolitica, che è una bischerata pazzesca

MB – però i concerti di Sun Ra hanno fatto . . . diciamo i danni . . . era unacosa notevole vedere questi musicisti . . .

AS – eh . . . Sun Ra . . . hm . . .ma Sun Ra era già più avanti perché Sun Ravenne per la prima volta in Italia nel ’72, a Umbria Jazz, io lo vidi a Perugia. . .

MB – . . . è molto interessante ripercorrere . . . perché Sun Ra gran partedel suo successo, della vita dell’Arkestra, dal ’69 in poi vuol dire Francia

AS – eh eh

A.1 Interviste 355

MB – perché negli Stati Uniti non avrebbero mai avuto questa possibilità dilavoro . . . di vita, no . . . e poi a un certo punto si è un po’ chiusa quest’aperturadella Francia, e anche dell’Italia della Spagna e della Germania . . .

AS – ehMB - . . . si trattava di grosse tournées, di reti notevoli . . .AS – e poi, ma quand’è che andò l’omo sulla Luna?MB – mi sembra nel ’71, il ’71AS – e Sun Ra . . . Sun Ra fece causaMB - alla NASAAS – alla NASA e al governo degli Stati Uniti per invasione di domicilio. . .MB – eh lui ha fatto un film che è un capolavoro [. . . ] questa epopea di

Sun Ra, come anche sforzo sociale, associazionismo, lotta alla droga e allaprostituzione

AS - mhMB – ma anche anche il rapporto che lui ha con i Black Panther che lo

vedono come una figura un po’ troppo sui generis, anche loro risultano quasibigotti . . . davanti alla mentalità di

AS – si loro erano leninisti . . .mamma mia . . . erano leninisti . . . i comunistipiù insopportabili son quelli lì . . . bigotti . . . hai ragione . . .

MB – . . . però hanno tutti nostalgia anche tra i musicisti . . . anche permotivi generazionali . . .

AS – anche perché c’era più lavoro, c’era più lavoro, ora vedi . . . no, c’èancora ma non come a quei tempi

MB – hm . . . per esempio anche la produzione discografica non so se tidice qualcosa Black Saint, Horo . . . nel libro di Mazzoletti dell’83, dice ’le casedisgografiche hanno sempre lasciato a desiderare . . . ’ però in quegli anno lìc’era Black Saint, la Horo . . . Jazz a Confronto

AS – si la HoroMB – che conservano dei cataloghi di Sun Ra che non ha nessuno nel

mondo . . .AS – c’avevano delle belle cose là . . . Irio De Paula che fece, quando venne

in Italia con Elsa Soares che era la ganza di Garrincha [il noto calciatorebrasiliano] . . . infatti quando Irio De Paula parla di Garrincha gli si illuminanogli occhi . . .

MB – che sono angolazioni fra sport e musica . . .AS – perché in fondo, specialmente in Brasile è quasi la stessa cosa . . . sono

artisti anche i gio(c)atori di pallone . . .MB - certo, certo, ma anche c’è una critica tutta inglese, una mentalità

anglosassone che avvicina non solo per i neri in quanto promozione sociale, maanche in Inghilterra fra le bande di minatori, che magari sono bande eccellentiche producono anche musicisti di jazz . . . e lo sport . . . come spazi culturalinon lontani come potevano essere nella mentalità intellettualistica del dopo’68

AS – eh

356 A Annesso

MB – però i musicisti rimpiangono anche questa vicinanza col pubblico, peresempio mi ricordo una volta che intervenisti in un concerto per un batterista. . .

AS – si, faceva un casino del diavolo . . . Nestor Astarita si chiamava . . .MB – e lui probabilmente italiano-argentinoAS – argentino . . .MB – poi quando cominciano a fare sul serio anche i musicisti italiani,

porta anche una certa novità perché si sposta l’attenzione anche sui nostrigiovani, sul vivaio anche in senso sportivo . . .

AS – bah, Massimo Urbani è nato qui a Pisa, ti ricordi quando veniva alCircolo Ottobre . . .

MB – mi ricordo dei concerti memorabili anche perché magari in questesituazioni faceva quello che voleva . . . non aveva da . . . poi Massimo Urbaninon mi sembra sia stato un ragazzo prodigio della musica ma che sia stato gia’sbozzolato’ dall’inizio . . .

AS – somigliava già a Charlie Parker ripensandoci bene . . . Charlie Parkerera il suo dio . . .

MB - [. . . ] poi c’era tutta una serie di altra gente tipo Roberto DellaGrotta. Già molto bravi . . .

AS – Roberto Della Grotta ora è a Milano . . . è sposato ha quattro figlioli. . . lo vidi a Livorno . . . ci parlai un attimo . . . anche lui aveva nostalgia diPisa, quando si faceva le (c)ose noi . . .

MB – si perché era un livello massimo di vita in comuneAS – hmMB – di condivisioneAS – con Roberto della Grotta e la Patrizia s’andò all’isola d’Elba, lui si

portò il contrabbasso, ’un lo sonò mai, sempre nell’acqua a fa’ l bagno . . .MB – e perché anche lui non è che . . .magari . . . viveva in ambiente che

. . .magari una vacanza all’Isola d’Elba ci stava anche bene . . .AS – ehMB - [. . . ] Franco Fayenz scrisse nell’81 [. . . ] ’speriamo che, ora che il

polverone del ’68 si è diradato . . . si potrà fa(re) musica con atteggiamento. . .

AS – un atteggiamento serio . . . difatti . . . si aveva della musica un’ideasubalterna alla politi(c)a a di(re) la verità eh? . . .

MB - . . . cioè questa era anche una parte dello scontro tuo con . . . cioè dicidentro di te o nel movimento?

AS – no . . . nel movimn. . . . nel movimentoMB – cioè . . . c’era sempre ’sto lavoro duro .. di confronto, che l’America

non era semplicemente le azioni de . . . la politica estera . . . insomma no? C’eraanche . . . una lezione dall’America

AS – e mmah? [cioè è certamente evidente] . . . che era una lezione di libertàperche insomma, il jazz era un’espressione di libertà, è sempre stato . . . libertàdi pensiero perlomeno

MB – estetica

A.1 Interviste 357

AS – ehMB – hm . . . . . . in questo erano . . .magari le frange intellettuali italiani,

tutti i sostegni alla beat generation che c’erano stati, come la [Fernanda]Pivano che era più sensibile, in fondo . . .

AS – si . . . anche se . . . la Pivano particolarmente non è che si interessavamolto di jazz . . .

MB – ma più di pop music . . . folklore . . . fino a Dylan, ecceteraAS – anche se, mi ricordo, scrisse delle pagine . . . stupende proprio su Chet

Baker sulla vicenda di Chet Baker, la Pivano . . .MB – ah si, e questo magari fa da contraltare a quelle della Fallaci, anche

lei intervenneAS – su Chett?MB – siAS – cosa disse?MB – scrisse su l’Europeo che . . . bene o male c’era una figura strapaesana,

italiana, impersonata dal giudice che aveva impostato tutto come una . . . comeun affronto alla tradizione . . . no . . . alla donna . . . il vizio . . . che era poi unaffronto a Lucca, che era una città piccola che non aveva bisogno di questisputtanamenti generali

AS – [si fa avanti] ma . . . perché poi Lucca se lo coccolava Chet Baker perdì la verità

MB – si, però i nottambuli professionisti che potevano andare a sentirlo elo conoscevano

AS – ehMB – però c’era . . . una città che gridò puttana alla Carol Jackson quando

fu vistaAS – è vero, ohMB – fu contestata dalle donne lucchesiAS - . . .MB - . . . e poi la Fallaci intervenne su questo dicendo che . . . va bè

. . .mancava la cultura per sapere chi e. . . . chi eraAS – chi era Chette davvero . . .MB – su giornali come Muzak si vede un interesse politico [. . . ] ma anche

di consumo [. . . ] i dischi si vendevano . . . su giornali come Lotta Continua c’èstato un dibattito sul jazz?

AS – noMB – su chi lo vedeva come politico e su chi era controAS – no, è cominciatoMB – non è stato assuntoAS – è cominciato dopo, che venne f(u)ori Muzak, il Pane e le Rose, non

so se te lo ri(c)ordiMB – siAS – ma non si è mai fatto un discorso politico sopra su cosa ci muoveva

. . . ci muoveva . . . c’era soprattutto l’amore per questa musica ma ci muovevasoprattutto il finanziamento

358 A Annesso

MB - hmAS - infatti venivano sempre i grandi capi a batte’ cassa . . . per noi era

semplicemente l’utile e il dilettevole, l’utile era il finanziamento e il dilettevoleveniva fuori dalla nostra passione, che era un fatto individuale però

MB – il finanziamento, perché gli incassi dei concerti andavano poi aicircoli . . .

AS – eh, tolte le poche spese che ci s’aveva . . . portavano via tutto a RomaMB – cioè un concerto come quello di Archie Shepp è costato . . .AS – ci si rimise un mucchio di soldiMB – eh . . . invece altri sono st.AS - . . . perché imposero . . . imposeroMB – un prezzo troppo bassoAS - il prezzo politicoMB - . . .AS – quindi la gente venne a senti(re) . . . perché c’era anche Gaslini, ven-

ne a senti(re) due concerti straordinari, robba dell’artro mondo . . . con conquattrocento lire, ma ’nsomma, mi pare . . . che pagassero

MB – hmAS – il prezzo politico . . .MB - . . .AS – e infatti s’è fatto degli sbagli a quel tempo lì che non si rifarebbero

piùMB – cioèAS – cioè tutta questa musica subalterna alla politicaMB – hmAS – ancillare addirittura alla politica, una serva della politica . . . prima il

discorso politico, poi, a parte . . . tutta l’ideologizzazione che c’era anche sullamusica . . . quella faceva schifo . . . come ha sempre fatto schifo

MB – ah quello anche [assume un tono da gossip] per esempio te come livedevi quelli dei circoli canterini, dei canterini operai, dei canzonieri

AS – no, a meMB – non ti parlo di Alfredo Bandelli, che conoscevi bene, ma di Ivan

Della MeaAS – si siMB – come questi che avevano un approccio quasi scientificoAS – a parte io . . . non mi piacevano perché li vedevo contro il jazzMB – contro il jazz [schioccanti, gracidanti risate]AS – ah . . . su questo ero proprio fissato, chi non sentiva il jazz non lo

apprezzavo . . .MB – aha . . . eppure . . . sotto sottoAS – hanno dato una mano a sprovincializzare la musica, anche se canta-

vano tutto di politica, specialmente Della Mea . . . comunque in qualche modohanno sprovincializzato il discorso . . . il discorso della musica

A.1 Interviste 359

MB – si anche perché . . .magari sulla canzone Michele Straniero e altragente avevano fatto dei lavori su amore/dolore . . . su Sanremo . . . cosa dicevanoveramente . . .

AS – addì la verità, su queste cose poi è venuto De André e il discorsoserio l’ha fatto lui . . .

MB – Paolo ConteAS – Paolo Conte è già dopo . . .MB – e già dopo però c’è stata tutta una riforma un cambiamentoAS – tutta la scuola di Genova, Bruno LauziMB – però Conte ci ha qualcosa in più, io vedevo che Paolo Conte era fra

il novero di . . . una sessantina di musicisti di jazz dimenticatiAS – a si, siMB – di un inchiesta di Enrico Cogno nel ’71AS – eh, lui faceva jezze, suonava il vibrafono nelle orchestrine jezze a

Torino . . .MB – come vicenda è abbastanza epica . . . eroica . . . perché nel ’71 era

messo lì, ’ah c’è un certo Paolo Conte’, e poi invece . . .AS – [compiaciuto] l’avvocato colla vocazione der jezzeMB – e invece ha saputo trasformare anche la vocazione der jezze in quar-

cosa . . . nsom(ma) una rappresentazione pubblica, popolare, per tutti, pochisono stati così in Italia . . .

AS – ma anche Fabrizio De André faceva jez, aveva un gruppo di jez,Bruno Lauzi faceva jez, poi da lì hanno fatto questa canzone che . . . è statabellissima per la verità

MB – una fra le poche cose . . .AS – mi ricordo io nel ’68 sentii la prima volta Carlo Martello ritorna

dalla battaglia di Poitiers e dissi ’diobo(ia) senti (ch)e rroba e questavì’ eroentusisata di questa (c)osa . . . .

MB – . . . . però c’era questa missione sprovincializzatrice, com’hai detto,che usciva da ambienti del jazz a commercio . . . però evoluto . . . però a musicadi consumo evoluta . . .

AS – era musica di consumo però . . . perché checché se ne dica anche ilconsumo ha la sua importanza

MB – non sarà anche uno dei motivi della nostalgia attuale che questopassaggio non si vede?

AS – è possibile, per esempio Paolo Conte è diventato un cantautore d’é-litte, invece un è d’élitt una sega . . . eh . . . si è d’elitt ma ha avuto moltaimportanza nella musica, le sue canzoni sono anche

MB – siAS – sono anche molto popolariMB – certoAS – c’è un concetto popolare dietro l’élite, te pensa a Bartali . . .MB – si è come se avessero costruito un altro Paolo Conte . . . però . . . nuove

proposte tipo Cammariere o altra gente . . . ora . . . che dovrebbero fare questoponte tra popolare e jazz ora sono . . .

360 A Annesso

AS - . . . Cammariere è bravo peròMB – però c’è questo senso d’essé un po’ recuperatiAS – come recuperatiMB - recuperati dal jazz dove stavano languendo e sono stati messi lì

perché sono bravi ragazzi . . . eh eh quanti Camm. . . . voglio di(re) che mancadei canali per cui non so un Grossi . . . no

AS - ehMB - invece di dove(r) passare a fare gli esperimenti su Mascagni, che

gli vengono richiesti dai teatri, però c’era abbastanza un senso un po’ diimposizione no? . . . dici . . . Grossi avrebbe preferito esse(re) un po’ più

AS – un po’ più libero . . .MB – contemporaneo, nel suo tempo, invece che gli dicessero ’guarda te

sei un bravo arrangiatore, facci una (c)osina su Mascagni ’, che pure, che puresi può fare no? . . . e mi raccontava queste cose con un po’ d’amarezza . . . vaga. . . però . . . questo anche perché in zone un po’ provinciali come le nostre unrapporto con l’industria è più difficile . . .

AS – ehMB - . . .AS - . . .MB . . . poi come vedi l’entrata . . . il PCI poi dopo un po’ vedendo queste

azioni del Circolo Ottobre . . . il successo della musica . . . del jazz . . .AS – hmmm, un c.MB – perché interessava ai giovani anche il jazz in sé no? Ha deciso un po’

di prendere l’iniziativa e come . . . come lo vedresti . . . perché a Pisa c’è statoanche il CRIM che si rifaceva più al Partito e all’ARCI . . .

AS – ma perché il Partito era . . . organizzava solo i tornei di briscola no?. . .

MB - hmAS – pero insomma . . . il CRIM l’ha preso la mano al Partito perché . . . un

potevano fa(re) una cosa così sperimentale . . . troppo d’élitt(e) . . . infatti feceroquella cosa al Giardino Scotto . . . che finì ner casino . . . entrarono quelli che lamusi(c)a è gratis . . . no . . . i soliti . . . la musica è gratis, volevano entrà senzapaga(re) e lì finì

MB – però ci furono furono fatti dal CRIM anche Shepp con Rafael Gar-rett, Cecil Taylor nel corso degli anni . . . anche loro un concerto più . . . grande. . . lo facevano sempre . . .

AS – ah si, siMB – lo tentavano sempre, poi Sun Ra lo hanno fatto anche loro . . . no,

oltre alle attività di laboratorio e altre cose . . .AS – però non c’era dietro il Partito . . .MB – no, noAS – erano iniziative di loro . . .MB – erano iniziative di un gruppo ristrettoAS – ristrettoMB – di operatori . . . infatti anche per quello . . .

A.2 Annesso 2 361

AS – [irrompe un ricordo] lì tentarono . . . quando portarono Leo Smitte[Smith] a . . . al Festival dell’Unità di Pontasserchio . . . che lo presero a curreggepoveraccio . . .

MB – ah, questa io un c’ero . . .AS – [sorridendo] lo mandarono via al grido di: ’te ne vai o no, sennò ti si

manda via noi . . . ’ . . . sa’ andò sul palco a fa le pete a fa’ le ’urregge con latromba . . .

MB - . . . eppure, Leo Smith in quegli anni lì [inizio ’80] pubblicò un librobellissimo [Smith 1981] a cura del CRIM sulle sue idee . . .

AS – si però con la musica . . .MB – di World Music . . .AS – specialmente a PontasserchioMB – si supponeva che fosse una piazza difficileAS – diob . . . abituati agli stornelli . . .MB – ah, questo sarà stato nell’80, ’81AS – eh si, era in quegli anni lì . . .MB - . . . un altro evento simile, me lo raccontava Stefano Bambini, quando

mise insieme un gruppo free con [Enrico] Ghelardi e altri musicisti pisani. . . dovevano suonare prima di Max Roach . . . allora mi ha raccontato avevanopreparato diverse gag . . . tipo . . . lattine di birra vuote lanciate in aria chefacevano rumore eccetera con cui inizia(re) il concerto . . . e il pubblico appenavide questi trucchetti e queste c(ose) . . . li contestò con una violenza inaudita,costringendoli proprio . . . acclamando Max Roach: ’si vole Maxe Rocce, basta. . . ’ e lì . . . fu che Ghelardi si convertì al meinstriam per tutta la vita

AS – infatti m’ha mandato due dischi Ghelardi bellini, fatti bene, peròmolto mainstream, molto swing

MB – standardsAS – ih ih . . . non era facile scimmiottare l’Art Ensemble eh . . .MB – certoAS - perché quelle erano cose che l’Art Ensemble faceva sempre.

A.2 Annesso 2

A.2.1 UN QUESTIONARIOdi Gianluigi Trovesi

Caro Maestro, eccoti dieci pezzi in «stile mediterraneo» tratti da «Ba-ghèt», »Cinque piccole storie», «Roccellanea», che potrebbero servire per uneventuale dibattito-conferenza-scontro-seminario-ecc . . .

L’ordine dei brani è voluto e non casuale, anche se la suddivisione èchiaramente «emotiva».

a) 1-2-3-4 I Balli storici del Mediterraneo;b) 5 – L’ancia, regina del mediterraneo;c) 6-7-8 L’elemento religioso;

362 A Annesso

d) 9-10 VALTURÈ chiaro che sarebbe auspicabile un’analisi tecnica: scale, timbri, ecc. ecc.:

si vedrà! Sarebbe anche importante rilevare anche il tasso di jazzità, ma perquesto non mi preoccupo perché, prima o dopo, qualche alambiccoman oh yesdistillerà il tutto.

I brani – che tu già conosci – non vanno assolutamente ascoltati, ma so-lo utilizzati in funzione di un referendum nazionale sull’altezza del diapason(440 o 442?) e per un altro referendum, non meno importante che rispon-da finalmente all’inquietante quesito: dove va il jazz? A questo proposito ioconsiglierei il seguente questionario:

1) Dopo aver ascoltato i brani 1-2-3 rispondete alla seguente domanda: «Ilsaltarello, l’estampida, la tarantella e la follia sono balli jazz? Se si in qualemusical sono stati lanciati?»

2) Dopo aver ascoltato il brano n. 5: «Charlie Parker suonava le launeddas?In che stile?»

3) Dopo aver ascoltato il sesto brano: «É questa la famosa processione diNew Orleans? Che tipo di ancia usa l’esecutore?»

4) Settimo e ottavo brano: «Vi sono note blù in questi brani? Quantevolte?»

5) Nono e decimo brano: «Dopo aver ascoltato questi brani, volutamentedescrittivi, leggeri, ammiccanti e diversi al punto giusto (l’ideale per un party),rispondi: Rommel era veramente un jazzista?»

6) I brani che avete ascoltato sono basati su scale e/o ritmi e/o timbrie/o armonie appartenenti alle culture musicali di aree geografiche come laProvenza, la Spagna Orientale, l’Italia e le isole, l’Africa del Nord, la Grecia.Domande:

a) É musica tzigana o baltica?b) quante volte si va in quattro?c) in che stile improvvisano i musicisti? (Dixie? Bob? Swing? Cool?)d) rispettano (i musicisti) le tradizioni e le armonie?Quali armonie, ma mi faccia il piacere!Mi fermo qui altrimenti sfioro il dramma. Ti saluto.CiaoGianluigi

N.B. Hai notato che ho inserito un solo brano dove figuri come autore?Non preoccuparti, la scelta non è stata casuale! Anche il fegato vuole la suaparte!

[N.d.R. ISMEZ 1985:85] Il presente scritto riproduce il testo di una let-tera inviata da Gianluigi trovesi a Paolo Damiani. Lo abbiamo incluso comedocumento esemplificatore di un certo modo giocoso di accostarsi ai proble-mi teorico-musicali, che è tipico di innumerevoli musicisti di jazz, tanto darappresentarne quasi una costante antropologica. Alla lettera era allegata una

A.4 Annesso 4 363

cassetta contenente dieci esempi musicali. Per la piena comprensione del testo,elenchiamo di seguito i brani: 1) C’era una volta un ballo (da «Cinque pic-cole storie»; 2) Estampida Suite («Top Jazz in Italy»); 3) Roccellanea, parteII («Roccellanea»); 4) C’era una strega, c’era una fata («Cinque piccole sto-rie»); 5) Launeddas («Baghèt»); 6) C’era una volta una piccola processione(«Cinque piccole storie»); 7) Studio contrappuntistico («Baghèt»); 8) Centro(«Shock!!»); 9) C’era una volta un piccolo cammello («Cinque piccole storie»);10 A day in Tunisia («Shock!!).

A.3 Annesso 3

A.3.1 Performance registrata:

Rafael Donald Garrett (cb, sax tenore, perc, voce), Michele Barontini (bt.,perc.), Tristan Honsinger (cello) Birreria ’Gli Artisti’, Torino, 1981, registra-zione privata.

Daramad, My Funny Valentine, Tune Up, I’m beginning to see the light,Naima, Intpercussion, Night In Tunisia, Omma Aulareso-I’ll Remember April,Trio (con Tristan Honsinger)

Questi materiali provengono da una registrazione amatoriale su audio-cassetta che è stata moderatamente riprocessata. Sono da considerare comeintegrazione al capitolo 3 della tesi e naturalmente vogliono dare un’idea del-l’attività musicale di Garret in quel periodo. Nelle parti in duo Garrett da unagrande prova nell’interpretazione di alcuni standards del repertorio jazzisticousando la voce e poi usando le percusssioni ed il sax tenore. Un interessanteoperazione di mélange è effettuata da Garrett su una suggestione africana delgruppo proveniente dalla Guinea Africa Djole, dal titolo Omma Aularesso,che viene ’associato’ allo standard I’ll Remember April. Con la partecipazionedi Tristan Honsinger al violoncello, il terreno della performance diventa quellodi una improvvisazione per archi e voce nella quale le percussioni si collocanosullo sfondo.

A.4 Annesso 4

Trascrizione e commenti di una selezione tra le scene del documentario «TheCry of Jazz», diretto da Ed Bland, con la partecipazione di Sun Ra e dellasua Arkestra.

A.4.1 The Cry of Jazz (Bland 1959)

Personaggi:Alex - arrangiatore ed esperto di jazz (di colore)

364 A Annesso

Bruce - ragazzo (biondo) amico di NatalieNatalie - ragazza (bianca dai capelli neri)Faye - ragazza (bionda) che mostra di intendersi con AlexJohn - giovane (bianco) interessato a Faye e avversario di Alex

Alex : how square can you get Bruce . . . jazz is an . . . offspring of rhythm& blues . . .

[la ragazza si rivolge aggressivamente e in modo quasi offensivo a Alex, chenon mostra di farci caso . . . ]

Louis: . . . jazz is mainly the Negro crying of joy and suffering 2:11Alex: . . . . they [Blacks] created jazz on a special slant they had on the

American thing 2:38John: 3:14 but . . . Jazz is AmericanLouis: . . . what can happen to you can happen to me, and in addition I

am negro[allora, che cosa è il jazz?]3:52 [ecco la lunga spiegazione della ’natura del jazz’ di Alex con le imma-

gini dei quartieri neri della città commentati dalla musica di Sun Ra. EssereNegro è il dato antropologico di un oggettivo rischio esistenziale ma il jazz èanche il trionfo del Negro sui pericoli dati alla sua condizione nella ’AmericanWay of Life’ . . . ]

Alex: jazz is the musical expression of the triumph of the negro spirit5:09 . . . the negro cry of joy and suffering in ’jazz’ is based on a contradic-

tion in ’jazz’, this contraddiction is between freedom and restraint.Let’s start with restraint in jazz, the feeling of restraint in jazz is caused in

part by the way jazz form operates, the basic formal unit in jazz wich is calledthe ’chorus’ repeats itself endlessly without going anywhere, that is why thechorus is restraining.

This endless repetition is like ’a chain around the spirit’ and is a reflectionof the denial of a future to the negro, in the american way of life.

Another restraining factor in jazz are the ’changes’. Like any other struc-ture the chorus is held together by certain materials and their patterns, thesematerials and their patterns are called harmonies, the jazzmen call’em ’chan-ges’. The changes are stated through the rhythm section, specially the piano& guitar, the pattern of the changes is repeated over and over again.

The two restraining elements in jazz are the form and the changes, theyare restraining because of the endless repetition, in much the same way thatthe negro experiences the endless daily humiliation of the american life, whichbequeathes them a futureless future’.

In conflict with America’s gift of a ’futureless future’ is the negro’s imageof himself through glorifying the imperant joy and freedom in each presentmoment of life, the negro transforms America’s image of him into a trasportof joy. Denied a future, the joy of celebration of the present is the negro’sanswer to America’s ceaseless attempts to obliterate him. Jazz is a musicalexpression of the negro’s eternal re-creation of the present.

A.4 Annesso 4 365

The negro ’spring worship’ at the present in jazz, appears through theconstant creation of new ideas in jazz. These new ideas are born by improvisingthrough the restraints of the form and the changes. Jazz reflects the improvisedlife thrusted upon the negro.

Now, a melody is one element which can be used in improvisation; the so-loist creates his melody through elaborating on various details of the changes.The manner in which each change will be elaborated upon is a problem ofthe ’eternal present’. As negro life admits many individual solutions, so doesthe way in which a change can be elaborated upon. Of course the negro, asman and/or ’jazzman’, must be constantly creative; that is how he remains’free’. Otherwise the dehumanizing portrait America has thrown upon himwill triumph.

For the negro each present moment must be ’electric’, full of meaning andseeding with life. This is made manifest in gesture, in walk and in dance. Nowwhat electrifies each present moment in jazz?

This electrification is born of the conflict of two types of rhythm whichexists simultaneously in nearly every bar of jazz. Some call this electrifica-tion, caused by jazz rhythm, ’swinging’. And it’s through ’swinging’ that anadditional feeling of freedom enters. The emphasys on the conflict of bothkinds of rhythm, namely a rhythm of ’stress’ and one of ’mend’, is characte-ristic of negro music all over the world. And through utilising this emphasisthe american negro produced this unique musical product, and the damagingcommentary on the human wastelands of America.

Through melodic improvisation and the ever present contraddiction inrhythm, the negro makes an art form that insists on the deification of thepresent, and which, among other things, is an unconscious holding action, untilhe’s also master of his future. Melodic improvisation and rhythmic conflict arethe joyful fringe and present oriented aspects of jazz, while the form and thechanges are the suffering, restraining and futureless aspects of jazz.

Negro life, in addition to its struggle to ’become’, also has its characteristicathmospheres, colours and sensuality. In jazz this is reflected by the sonorityof the music. The jazzman subsitutes the word ’sound’ for ’sonority’. Thinkof the ’sound’ of much negro music, compared to negro life.

[scena : John Gilmore gioca a biliardo & musica di Sun Ra]Now contrast this to the sound of jazz as performed by whites, compared

to white life.[signora pettina barboncino & musica ’west coast’]Negro life then, is created through jazz, as a contradiction between worship

of the present, freedom and joy, and the realization of the futureless future,restraint and suffering which the american way of life has bestowed upon thenegro.

The cry of joy and suffering in jazz is based on the ever-present contra-diction between freedom and restraint, the feeling of freedom is based on thenegro’s view of what life in America should be. While the feeling of restraintis based on the actual inhuman situation. . .

366 A Annesso

[interno miserabile con un bambino e scarafaggi in cucina]. . . in which the negro finds himself.John insiste sullo ’slant’ . . . (l’inclinazione) 16:30 [Alex risponde spiegando

gli stili e le fasi del jazz]22:00 il ’cool jazz’ come ’attempt to remove the negro influence in jazz’

perché . . .22:42 . . . white must be humble to negro in jazz. . .23:30 [definizione: ’the’ Sun Ra][sulla ’fine’ del jazz][in una associazione mista di giovani e ragazze bianchi e neri, ma le donne

Nere non sono qui, non stanno a perdersi in chiacchiere, Bruce aveva detto aNatalie che il rock & roll ’è’ jazz: tutto era cominciato da qui 2:00 . . . ]

[Louis era intervenuto dicendo a Natalie che il jazz è ’mainly the NegroCry of Joy and Suffering’ . . . 2:13 . . . ]

[poi entra la spiegazione dello ’slant’ . . . 2:34 . . .ma per Natalie le laboriosespiegazioni riguardo a questo ’slant’ sono solo una parte della storia . . . ]

[l’argomento della ’morte del jazz’ suscita una contesa, allora perché riu-nirsi per il jazz?, Alex invita a rapportarsi alla questione razziale con rispettoe umiltà, in seguito colpirà Natalie (la più aggressiva) dicendole che ’ha neces-sità di essere consolata’, Natalie potrebbe essere la figlia di modesti immigratiItaliani, Ispanici, Ebrei . . . ]

[una delle prove che rafforzano questo invito è che la situazione stessa nonoppone sostanziali dubbi alla veridicità del controllo ’Negro’ sullo ’spirito’ deljazz, e di tutta la musica moderna, ma e che tale posizione di primato e dicontrollo si vada disperdendo nella ’popular music’, le sue varietà e i suoiprodotti . . . ]

[per questo è già presumibile la necessità di un notevole sforzo per mostrarelo ’spirito’ del jazz al mondo nelle condizioni attuali e con l’assetto del businessmusicale; tuttavia si tratta di questo: Sun Ra lo farà per la sua intera, lungacarriera . . . ]

[è necessario mostrare lo spirito del jazz nel mondo perché pare che moltipopoli siano portati a comprendere il calore del jazz e dell’anima del Negro,spesso mostrando una contemporanea sfiducia nelle possibilità che i bianchiamericani sappiano controllare per il bene di tutti la loro macchina aggressivae super-armata . . . inoltre, pare che i bianchi abbiano ancora più bisogno deljazz degli stessi neri, poiché attraverso il jazz potranno provare a diventareumani, comprensivi e forse capaci di amare le altre creature viventi . . . ]

[Ma nello stesso tempo bisogna capire che il jazz è morto e John nonaccetta questa tesi . . . ]

Alex: . . . yes, jazz is dead . . . jazz, jazz, jazz, gentile slavery 25:44[Bland, Titus, Hill e Ra intendono ’the body of jazz’, sul quale non è

necessario piangere perché ’the spirit of jazz is alive’, le ragioni della mortedel ’corpo del jazz’ sono musicali, Sun Ra è incaricato di mostrarle con esempi

A.4 Annesso 4 367

musicali 27:05; la spiegazione torna alla descrizione degli elementi restrittivigià fatta da Alex . . . ]

changing the form and developing the changes loses the spirit of jazz it’sbody can’t grow and can only repeat himself

1. the changes cannot evolve and retain the form (27:39)2. the form cannot evolve and retain the swing3. the form and the changes cannot evolve simoultaneously, and have jazzthe jazz body cannot grow because it was not ment to growits dead body stands as a monument to the negro 28:11more so, the ’strangling image of a futureless future has made negro a dead

thing too’ 28:44the spirit of jazz is alive because the negro spirit must endure 29:23[I neri controllano il futuro dell’America perché ne sono la coscienza uma-

na, antropologica, altrimenti . . . il riferimento è alla bomba atomica, silenzio. . . ] 31:07

[il bianchi stanno prendendo a prestito dai neri perché non possono piùaggrapparsi ai loro principi e stanno rivolgendosi ai neri, sebbene con esita-zione e patetica vergogna, ma lo stanno facendo, convenire su questo è ’BlackAmericanism’ non ’Black chauvinism’ . . . ]

John: . . . so what is the death of jazz?Alex: the death of jazz is the first faint cry of the salvation of the Negro

through the birth of a new way of life 32:11.[. . . ]

Così si conclude il documentario. Più di venti anni dopo, Sun Ra torne-rà sulle preoccupazioni del proprio tempo, questa volta gridandole, nel suo’Nuclear War’ (1982).

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l’umanità, 259Black Music e antropologia

post-moderna, 261chiesa, 257civiltà musicale, 4Coltrane e spazio della Chiesa, 259concetti di jazz, 32, 262, 269, 272, 277coscienza diasporica, 260Cotton Club, 142doppia identità, 175, 256Fisk Jubilee Singers, 94, 257intercultural circulation patterns, 257Jazz at Lincoln Center, 254jazz come missione impossibile, 279jazz in Africa, 35, 261, 269Jim Crow System, 6letteratura contemporanea, 252minstrelsy, 257NAACP, 142narrazioni be-bop, 263New Age e tecniche del corpo, 286orchestre rhythm en’ blues, 264piccoli e grandi strumenti, 289scena di Chicago, 265signifying, 253

spirito del jazz, 296stili verbali, 260Sun Ra è una chiesa?, 44

antropologia urbanaBologna, 189e dopolavoro democratico, 192

arte contemporanea e escatologia, 208arti nere, 4

intercultura, 57interventismo della cultura, 83

jazz‘match-making’, 308‘validations’, 44a Montmartre, 78apprendistato del, 289campo del, 5come ‘art moyen’, 22creazione della tradizione, 64dimensione amatoriale, 47dinamismo ‘Novecentista’, 22e antropologia, 12, 205, 251, 276, 280e blues, 68e cinema di Michelangelo Antonioni,

169e cultura mediterranea, 311e etnomusicologia italiana, 163e etnomusicologia urbana, 56e fasce artigianali, 21e filantropismo, 39e folklore, 5e mélange, 13e nostalgia, 278

394 Indice analitico

e Novecento musicale europeo, 205e presa di distanza giovanile, 68e urbanizzazione, 16fasi di sviluppo, 5manualistica del, 5modelli e ricorrenze del, 40modelli musicali e linguistici, 61personaggi sonori, 52, 53, 243, 261,

263, 306primitivismo, 300prodotto culturale di nicchia, 183sua autoctonizzazione in Europa, 221sua ricezione in Italia e quella pop,

198sua storia come assemblaggio, 66sue fasi decennali, 17, 24, 144, 259,

315the real thing, 16trasmissione e legittimazione, 52

jazz in Italiaal conservatorio, 203circoli sinistra extraparlamentare, 245concerto e dibattito, 211, 228CRIM di Pisa, 246dissoluzione dei modelli in anni ’70,

212e ‘folk revival’, 236e dibattito sulla cultura nazionale,

235e nostalgia, 307generazione degli anni ’70, 209, 237,

306Mingus a Umbria Jazz ’74, 214ricezione della New Thing, 203

jazz italianoautoctonia e fiction, 220e la ‘memoria remota’, 221e pubblicità, 171festival ’74, 196scomparsa dei jazzmen attivi nel

ventennio, 170suo campo nei ’70, 195

pariginismocondannato da Mussolini, 92e arti negre, 86e arti negre profane e di chiesa, 94e censura, 146e chiesa italiana, 97

fascismo e jazz-band, 128Harlem, Montmartre Negra, 142in Egitto, 81jazz come, 3jazz-band aristocratica, 119La Revue Nègre, 271nella provincia italiana, 121passato del, 98sui transatlantici, 121

polemicaBraxton vs. Marsalis and ‘the

Neoclassic continuum’, 297Diego Carpitella vs. Massimo Mila,

161Shepp e Baraka vs. Marsalis e Crouch,

254Umberto Eco vs. Claude Lévi Strauss,

198pop musiccostruzione della, 64e consumi di massa in Italia, 188e politica, 182Italia anni ’60, 181

riproduzione sonora, 4

schiavismo, 4, 17, 32, 256, 261antischiavismo, 39, 213, 315

sociologiaarts moyens, 44campo del jazz, 50dandy, hip, etc., 44del gusto musicale, 42della legittimazione artistica, 46della produzione simbolica, 43e tempo come problema, 49, 54habitus, 48hexis, 49incorporazione delle disposizioni, 48label theory, 284musica come tecnologia del sé, 234stigma, 260

strapaesecategoria letteraria, 125come territorializzazione, 103, 126e dopolavoro, 126, 131, 137e folklore, 126e Heimatschatzbewegung, 131e interventismo, 83

Indice analitico 395

e interventismo missionario, 84e l’alba imperiale, 103e letteratura, 120e pittura, 130e spazio mediterraneo, 96

e turismo, 126movimento letterario, 94spazio politico di, 124sua eredità musicale, 162vs. anni ’20 rinunciatari, 91