La Voice Over del Neorealismo Cinematografico Italiano

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La voice over del neorealismo cinematografico italiano Copyright © 2013 by Barbara Moscatelli

Transcript of La Voice Over del Neorealismo Cinematografico Italiano

La voice over del neorealismo

cinematografico italiano

Copyright © 2013 by Barbara Moscatelli

Sommario

Introduzione III

Capitolo I: Neorealismo 5

Capitolo II: La voice over 10

1. Chi narra 11

2. Cosa narra 12

3. Come narra 13

4. A chi narra 14

5. Dalla teoria alla pratica 15

Capitolo III: Paisà (1946) 17

1. La voce di Paisà 20

Capitolo IV: Il testimone (1946) 25

1. La voce de Il testimone 29

Capitolo V: La terra trema (1948) 33

1. La voce di La terra trema 35

Capitolo VI: Germania anno zero (1948) 44

1. La voce di Germania anno zero 47

Capitolo VII: Sotto il sole di Roma (1948) 51

1. La voce di Sotto il sole di Roma 54

Capitolo VIII: Riso amaro (1949) 59

1. La voce di Riso amaro 63

Capitolo IX: Non c’è pace tra gli ulivi (1950) 70

1. La voce di Non c’è pace tra gli ulivi 74

Capitolo X: Il cammino della speranza (1950) 81

1. La voce de Il cammino della speranza 85

Conclusione 88

Bibliografia 90

Filmografia 92

Introduzione

«La Resistenza, dal punto di vista mediologico, fu soprattutto radiofonica.

Ascoltare radio Londra era già un atto di “radio militante” e fu la radio, non le

ricetrasmittenti militari, ma proprio la normale radio, a consentire

l’organizzazione della guerra partigiana, fino a quell’ultimo messaggio, Aldo

dice 26 x 1, che fece scattare l’ultimo atto della liberazione. Il cinema del

neorealismo non mancò di rievocare questi episodi ma soprattutto fece suo

quello che può essere considerato il suo specifico codice radiofonico, cioè la

voce over. I film degli anni Trenta non hanno mai fatto ricorso all’uso

sistematico della voce fuori campo, che diviene invece assai frequente nel

cinema neorealista (da Paisà fino a Sotto il sole di Roma, Germania anno zero

e Non c’è pace tra gli ulivi la voce del racconto orale, quella che ci presenta

ancora le immagini più vive e autentiche delle storie dei tedeschi e dei

partigiani è ciò che sostituisce nel cinema neorealista le inquadrature di

raccordo, i passaggi narrativi, la sceneggiatura di ferro, le didascalie, insomma

gran parte del “linguaggio” cinematografico degli anni precedenti)»1.

Da questa affermazione ho avuto desiderio di indagare quale sia, in un

cinema che professa la totale aderenza alla realtà, l’uso della voice over, una

voce sì connessa al mezzo radiofonico, e nello stesso tempo una voce astratta

che nella vita reale non potrebbe esistere slegata dalla sua fonte di emissione,

1 GRUPPO CINEGRAMMA, Neorealismo e cinema italiano degli anni ’30, in Il neorealismo

cinematografico italiano, a cura di L. Miccichè, Marsilio, Venezia 1999, p. 381

IV

ma che nel cinema si può manifestare pur essendo priva di un corpo e di un

luogo di provenienza, quasi una presenza sovrumana, irreale che ci

accompagna nella visione del film.

Scopo della mia indagine allora è quello di capire di chi è questa voce, cosa

narra, in quale modo e a chi, insomma come il neorealismo abbia usato questo

mezzo di espressione così aereo eppure così penetrante.

Partendo da una ricerca generale sul neorealismo che mi ha portato a

leggere i contributi di Alberto Farassino, Lino Miccichè e quelli più recenti di

Francesco Pitassio e Paolo Noto, mi sono addentrata nello studio dei maggiori

autori neorealisti quali Roberto Rossellini, Luchino Visconti, Giuseppe De

Santis, Renato Castellani e Pietro Germi. Una volta fatto ciò non mi è rimasto

altro che eleggere alcuni loro film come campioni della mia analisi

sull’impiego della voice over nel periodo neorealista, non prima però di aver

approfondito questo particolare mezzo diegetico grazie ai contributi di Federica

Villa e Paola Valentini. Quindi senza altri indugi iniziamo.

Capitolo I

Neorealismo

Prima di procedere all’analisi dei film pare opportuno un breve inquadramento

per capire in quali coordinate temporali muovere la mia ricerca, ovvero

cercando di stabilire in che periodo il neorealismo si è affermato e perché

proprio in quel periodo e non in altri.

La storia del neorealismo è stata più volte raccontata, attraverso libri e

saggi, interviste e testimonianze lungo un arco di tempo che va dai primissimi

anni ’50 a oggi. Si è tentato di individuare i confini, di definirne i caratteri

salienti, di evidenziarne gli elementi costitutivi, ovvero di tracciare delle linee

di tendenza omogenee che consentissero una definizione generale del

movimento.

Ammesso e non concesso che si tratti di un movimento e non piuttosto di

una particolare condizione storica che rese possibili certe esperienze e certi

risultati. Questa particolare condizione si presentò dopo la fine della seconda

guerra mondiale: il ritorno alla normalità, la graduale ripresa della vita

quotidiana, le speranze di un mondo migliore, la nascita e la difesa della

democrazia nelle sue diverse componenti politiche e sociali furono istanze

unanimemente sostenute dagli italiani. Una condizione che, nel campo del

cinema, significò anche il bisogno di ricominciare a girare film, sebbene con

pochi mezzi tecnici e finanziari, con strutture modeste o addirittura assenti,

senza teatri di posa.

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Da qui, sintetizzando molto, nasce quello che fu definito “neorealismo”, a

indicare un particolare modo di far cinema al di fuori della tradizione dello

spettacolo abituale, spesso privo di attori professionisti, realizzato nei luoghi

stessi dell’azione, con scenografie naturali, storie esili e quotidiane, personaggi

comuni. Un cinema che si contrappone al modello imperante più per necessità

che per convinzione, infatti potevano essere intraprese altre strade se la realtà

italiana fosse stata diversa. Ricorda lo stesso Rossellini: «Nel 1944, subito

dopo la guerra, tutto era distrutto in Italia. Il cinema come ogni altra cosa.

Quasi tutti i produttori erano spariti. Qua e là fiorivano alcuni tentativi ma le

ambizioni erano estremamente limitate. Si poteva godere di un’immensa

libertà, l’assenza di un’industria organizzata favoriva le iniziative più

eccezionali. Qualsiasi progetto andava bene. Fu questo stato di cose a

permetterci di intraprendere lavori a carattere sperimentale; ci si accorse ben

presto, d’altronde, che i film, malgrado tale carattere, divenivano opere

importanti, tanto sul piano culturale che su quello commerciale»1.

Anche sulla datazione del movimento si è discusso a lungo. Si è voluto

anticiparlo agli anni della seconda guerra mondiale, agli ultimi anni del

fascismo, individuando in alcuni film la proposta di superare i limiti del cinema

di regime con un nuovo realismo che attingesse, da un lato, alla tradizione

letteraria dell’800 opportunamente aggiornata e legata alla situazione sociale

del momento; dall’altro, alla realtà quotidiana come si presentava allora, al

fronte o nelle retrovie, fra la gente, in mezzo ai fatti, agli accadimenti. Sul

1 R. ROSSELLINI, Il mio dopoguerra, «Cinema Nuovo», n. 70, novembre 1955, p. 345

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primo versante operarono alcuni collaboratori della rivista «Cinema», da Mario

Alicata a Giuseppe De Santis a Luchino Visconti. Sul secondo versante

troviamo invece Roberto Rossellini, Cesare Zavattini e Vittorio De Sica.

Va tuttavia osservato che fu solo dopo la fine della seconda guerra

mondiale, con la conquista della libertà democratica, che il cinema italiano

poté “rinascere” su nuove basi, affrontando con nuovi occhi e nuovo spirito la

realtà circostante. Se ci sono, come ci sono certamente2, dei precedenti è con il

1945 che il movimento si costituisce, anche al di fuori di quegli stessi

presupposti e antecedenti. Perché fu proprio la nuova situazione a determinare

le nuove scelte etiche ed estetiche, prima ancora che ideologiche e politiche3.

Una situazione che metteva di fronte ai registi e agli sceneggiatori una realtà

diversa, oggettivamente drammatica in sé, che bastava riprendere, organizzare

filmicamente per creare uno “spettacolo” nuovo, nuovo in quanto costruito su

elementi non “spettacolari” a differenza del cinema hollywoodiano.

Sotto questa luce, e tenendo conto che in quegli anni l’impatto di alcuni dei

film neorealisti in Italia e all’estero favorì una produzione continuata che

poteva contare su un pubblico abituale e sull’appoggio della critica, si può

sostenere che il neorealismo ha una vita alquanto breve, concentrata in poche

stagioni cinematografiche, legata strettamente alla situazione contingente

dell’Italia di allora, influenzata dalle condizioni politiche e sociali del tempo.

Se il neorealismo comincia nel 1945, prendendo come data simbolica il 24

2 GRUPPO CINEGRAMMA, Neorealismo e cinema italiano degli anni ’30, in Il neorealismo

cinematografico italiano, a cura di L. Miccichè, Marsilio, Venezia 1999 3 G. RONDOLINO, Cinema del dopoguerra: uno sguardo d’insieme, in Storia del cinema

italiano 1945-1948, a cura di C. Cosulich, Marsilio, Venezia 2003, pp. 58-60

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settembre, quando Roma città aperta di Rossellini è proiettato al teatro Quirino

di Roma in occasione del Primo Festival Internazionale d’Arte

Cinematografica, Drammatica e Musicale, si può indicarne la fine al 1948-

1949, nel momento in cui finisce un periodo ben determinato della storia

politica e sociale dell’Italia democratica e ne inizia un altro. In questo senso si

può condividere quanto scrive Alberto Farassino a riguardo di quella che egli

stesso ha definito «la storia e la geografia del neorealismo»: «Ci sono infatti

molti buoni motivi per collocare tra il 1948 e il ’49 (comprendendo nel periodo

film datati ufficialmente 1950 per via dei tempi di lavorazione e uscita) la

conclusione sostanziale dell’esperienza neorealista. Le elezioni del 1948

segnano certamente la fine di molte illusioni di rinnovamento. La legge sul

cinema del 1949 rappresenta un inquadramento che il cinema neorealista non

ama e un premio a quel cinema di consumo diffuso che esso non è riuscito a

diventare. Il cambiamento delle condizioni di vita (che consente per esempio

nel 1949 la realizzazione di quella che è già una commedia delle vacanze e del

benessere, Una domenica d’agosto di Emmer, uscito nel 1950) sottrae al

neorealismo molto materiale umano e narrativo. Ma fra i molti buoni motivi

c’è per esempio il convegno di Perugia del 1949 in cui viene riaffermata la

“validità del neorealismo”, e dunque la coscienza del neorealismo come

fenomeno, stile, programma che in realtà ne segna l’esaurimento.

Sostanzialmente è dal 1948 che su giornali e riviste cominciano ad apparire

discorsi non “del” neorealismo ma “sul” neorealismo, che diventa dunque

qualcosa da definire e commentare, su cui discutere, per il quale lottare e

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schierarsi, ma proprio perché non è più qualcosa che, semplicemente, si fa»4.

Delimitato così un campo temporale d’azione ho scelto una piccola rosa di

film neorealisti che presentano un commento in voice over da analizzare. Prima

però di intraprendere la mia analisi voglio incominciare un altro capitolo

introduttivo, questa volta dedicato alla voce fuori campo.

4 A. FARASSINO, Neorealismo, storia e geografia, in Neorealismo. Cinema italiano 1945-1949,

a cura di A. Farassino, EDT, Torino 1989, p. 32

Capitolo II

La voice over

Prima di analizzare in dettaglio la voce narrante presente in alcuni film

neorealisti, vorrei fare un breve excursus sulle caratteristiche intrinseche della

voice over. Per fare questo mi affiderò al testo scritto qualche anno fa da

Federica Villa1, la quale a mio avviso ha ben sintetizzato i vari punti di vista

riguardanti questo particolare meccanismo diegetico.

La voice over solleva degli interrogativi ai quali non ci si può sottrarre:

quale identità dare a questo locutore, come posizionarlo spazio-temporalmente

rispetto a quanto racconta, secondo quali strategie narrative procede il suo dire

e quindi come e a chi narra?

L’unica cosa certa è che la voice over si situa in uno spazio disomogeneo a

quello della diegesi, cioè a quello delle immagini del mondo del film. Di

conseguenza non condivide la stessa dimensione spaziale dei personaggi del

suo racconto. Abita uno spazio visivamente indefinito.

Per quanto riguarda, invece la sua collocazione temporale (oltre a parlare

più o meno sincronizzata con le immagini pertinenti al suo dire e a parlare ad

intermittenza nell’economia discorsiva del film) è sempre postdatata rispetto

agli eventi del film, mentre sul piano delle strategie narrative adottate, essa ha

due possibilità: può parlare in prima persona, quindi il racconto sarà di tipo

confidenziale e personale, oppure in terza persona e in questo caso il racconto

1 F. VILLA, Il narratore essenziale della commedia cinematografica italiana degli anni

Cinquanta, ETS, Pisa 1999

11

sarà di carattere espositivo, ovvero il narratore riferirà semplicemente una

vicenda allo spettatore.

1. Chi narra?

Il narratore è un personaggio, ma esso viene posto in un luogo particolare che

gli garantisce una visione sugli altri personaggi. Guarda il mondo del film con

distacco, dall’alto, dal di fuori. Grazie a questa particolare posizione egli può

collocare i protagonisti in un preciso contesto d’appartenenza, dando loro una

dimensione.

Chi narra è un’identità che non ha un corpo e non abita nessuno spazio

determinabile, quindi a differenza degli altri personaggi rimane anonima e

grazie a questo suo statuto può basarsi esclusivamente sull’unico mezzo di

comunicazione a sua disposizione: la voce. Modulando tono, ritmo e volume,

essa può facilmente attrarre a sé lo spettatore, creando in questo modo un ponte

tra platea e schermo, o al contrario lasciarlo a debita distanza. Una voce del

sapere, la voce fredda del potere e dell’ordine che dispensa ciò che conosce a

piacimento2.

Il potere della voice over proviene proprio dal fatto di non poter essere

collegata a un corpo. Essa suggestiona l’ascoltatore penetrando nella sua

profondità, avvolgendolo in un ambiente sonoro che, a differenza delle

immagini, le quali sono poste in uno spazio irrimediabilmente lontano, lo fa

avvicinare al mondo della diegesi.

2 M. VERNET, Figures de l’absence 2: la voix off, «Iris», 1985, n. 1, pp. 47-55

12

2. Cosa narra?

Il narratore instaura una continuità referenziale tra quanto viene detto e quanto

viene mostrato dalle immagini, creando un gioco continuo di rimandi.

Gli interventi in voice over sono parte di un testo extradiegetico che ha dei

forti legami con la diegesi, rispetto alla quale può avere diverse funzioni:

1) Funzione didascalica, quando il narratore racconta ciò che poi viene

subitamente mostrato;

2) Funzione informativa, quando il narratore racconta quello che verrà

mostrato in seguito o anche solo parzialmente;

3) Funzione narrativa, quando il narratore racconta quello che non verrà mai

mostrato dalle immagini.

Ne consegue che se prevale la funzione narrativa, il narratore è colui che si fa

carico del racconto diventando parte integrante di esso nonché elemento

necessario e indispensabile della diegesi.

Instaurando un legame con le immagini che non può essere continuo, ma

solo a intervalli, il narratore deve instaurare una coerenza sia a livello del

racconto sia tra i suoi vari interventi. Essa si divide in:

1) Coerenza testuale, quando l’intervento del narratore rispecchia le

immagini;

2) Coerenza co-testuale, quando vi è coerenza tra le immagini e le parole;

3) Coerenza narrativa, quando vi è coerenza tra i diversi interventi narrativi

della voice over;

4) Coerenza espositiva, data dalla conformità tra le diverse modalità di

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intervento del narratore in voice over.

3. Come narra?

Essendo il narratore un personaggio, è anche lui detentore di una prospettiva, di

un punto di vista sulla storia. A seconda della sua conoscenza della diegesi il

narratore può essere a:

1) Focalizzazione zero, ovvero il narratore è onnisciente sapendo più dei suoi

personaggi, o meglio ne dice di più di quanto ne sappia uno dei

personaggi;

2) Focalizzazione interna, in questo caso il narratore dice solo quanto ne sa

un singolo personaggio (focalizzazione interna fissa) o quanto sanno più

personaggi legando, in questo caso, insieme più saperi (focalizzazione

interna variabile) oppure dice quanto sanno più personaggi sul medesimo

avvenimento (focalizzazione interna multipla);

3) Focalizzazione esterna, nel caso in cui il narratore dice meno di quanto ne

sa il personaggio.

Per meglio precisare, la focalizzazione interna si ha quando la macchina da

presa sta dietro ad un personaggio, quasi pedinandolo e origliando ciò che dice,

assumendo così il suo pensiero.

La voice over in questo modo viene a definire un punto di vista cognitivo

sulla storia e, di riflesso, veicola un sapere, a differenza dell’immagine che

descrive un punto di vista percettivo e quindi determina un vedere.

Inoltre la voice over può strutturarsi secondo una:

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1) Focalizzazione interna, è il caso dei monologhi interiori, quindi è in

sostanza la voce del personaggio;

2) Focalizzazione esterna, quando si è in presenza di un racconto in differita e

quindi la voce è quella di un narratore che testimonia una storia;

3) Focalizzazione zero, quando ad emergere è il piano della narrazione

filmica, quindi la voce è solamente un’istanza enunciatrice di un racconto

che viene portato avanti per lo più dalle immagini.

4. A chi narra?

Il cinema è un «teatro della comunicazione»3 in cui dire qualcosa implica fare

qualcosa, far recepire qualcosa e far sortire degli effetti sull’ascoltatore.

Ma la voice over per chi parla? Per i personaggi o per lo spettatore o per

entrambi? La voice over come la didascalia può marcare l’instaurarsi di un

canale di comunicazione tra gli autori del film e lo spettatore, sottolineando il

fatto che si sta offrendo e quindi ricevendo un film. Lo spettatore è quindi

inequivocabilmente uno dei destinatari delle parole del narratore.

Infatti spesso nei film si anticipano e si rendono esplicite le domande e le

attese del proprio pubblico, cioè si fornisce un programma a priori di quello

che sarà contemplato nella storia attraverso l’uso di didascalie e voices over. La

voice over così ha il compito di dare, offrire e promettere qualcosa al suo

pubblico. Il narratore fa proprio lo sguardo superiore e il mondo diegetico, la

storia stessa, non solo per il fatto di raccontarla e quindi rivendicarne per così

3 D. DAYAN, Le spectateur performé, «Hors cadre», 1984, n. 2, p. 35

15

dire la paternità, ma soprattutto perché è questa stessa garanzia di possesso a

rendere la storia comprensibile, a sanarne eventuali lacune o momenti di non

sufficiente chiarezza, il prendere possesso della storia da parte del narratore in

voice over diventa in sostanza il necessario requisito per l’esistenza della storia

in quanto tale.

Il narratore inoltre ha la capacità di dare voce ad un parere circolare, ovvero

di rendere noti desideri, necessità e posizioni del proprio pubblico. Diventando

un soggetto disposto a parte ma comunque in forte contatto con chi l’ascolta

può garantire l’attestazione della visione del mondo che lo circonda. Egli

mostra inoltre un atteggiamento promettente: i suoi interventi possono

anticipare in apertura di film ciò che verrà poi raccontato, impegnandosi così a

non deludere lo spettatore. Il narratore sembra costruire il mondo diegetico in

rapporto a come lo spettatore lo vorrebbe e al tempo stesso costruendolo mette

in forma le stesse attese dello spettatore.

In conclusione il narratore si definisce in rapporto di stretta analogia tanto

con il pubblico che ne segue la narrazione tanto con i personaggi che ne

realizzano il mondo descritto.

5. Dalla teoria alla pratica

Ora, dopo aver delineato le caratteristiche tecniche e formali della voice over

possiamo analizzarla nel contesto di alcuni film neorealisti, i quali vengono

spesso accompagnati da questa presenza anche se solo per iniziare o

concludere il film, quasi come una sorta di cornice. In un cinema che si

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dichiara riscopritore della realtà la voce over diventa fondamentale per

individuare il luogo e il tempo della diegesi, ma non solo. Essa può dare voce

all’autore il quale dovendosi mimetizzare dietro la realtà e non potendo

intervenire sensibilmente sulle immagini può dichiarare la sua poetica e il suo

messaggio attraverso questo personaggio anonimo e super partes, rivolgendosi

senza filtri al suo pubblico chiamandolo direttamente in causa.

Capitolo III

Paisà (1946)

«Roma città aperta e Paisà erano didattici, anche Germania anno zero era

didattico, proprio perché lo sforzo che facevo […] era di prendere coscienza

degli avvenimenti nei quali ero rimasto immerso, dai quali ero stato travolto

[…] partire dal fenomeno ed esplorarlo […] ho voluto soltanto osservare,

guardare, obiettivamente, moralmente, alla realtà»1, così Roberto Rossellini

rifletteva nel 1972 sul suo lavoro nell’ambito del cinema neorealista.

Verso la fine del 1945 il successo che Roma città aperta stava riscuotendo

in America e, di riflesso, in Italia e nel resto d’Europa, permise a Rossellini di

impegnarsi in un nuovo film, finanziato dall’ex-sergente dell’U.S.Army, Rod

Geiger grazie a un accordo tra la OFI (Organizzazione Film Italiani) di

Rossellini, Campos e Ponti e la Foreign Film Production, appunto, di Geiger.

Paisà nacque come un film a episodi sull’amicizia tra gli italiani e i

liberatori americani mediante la collaborazione alla sceneggiatura dello stesso

Rossellini, di Sergio Amidei e Federico Fellini, voluto dal regista per

equilibrare la forte personalità di Amidei; capitava così che talvolta Rossellini

facesse riscrivere a Fellini le scene inventate da quest’ultimo. Anche il rapporto

tra Rossellini e Amidei non era sempre idilliaco, infatti per l’ultimo episodio

Amidei aveva pensato all’arrivo di due soldati americani in Val d’Aosta con il

compito di frenare le azioni partigiane, poiché il freddo stava rallentando

1 R. ROSSELLINI, L’intelligenza del presente, in La trilogia della guerra, Cappelli Editore,

Bologna 1972, p. 13

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l’avanzata delle truppe alleate, ma l’entusiasmo degli italiani avrebbe dovuto

coinvolgere gli americani, dando così una svolta eroica al film. Rossellini,

invece, non approvava questo impianto retorico e il film si concluse così con

l’esecuzione di alcuni partigiani a Porto Tolle, sul delta del Po, evidenziando la

lotta senza speranza e la violenza immediata e atroce della guerra, intrise però

di una solidarietà tenace e dignitosa2.

La struttura finale del film si compone di sei episodi che ripercorrono

l’avanzata delle truppe alleate dalla Sicilia al Po in un arco di tempo che va dal

10 luglio 1943 al 25 dicembre 1944, descrivendo alcune situazioni

emblematiche che mettono a fuoco i rapporti tra i singoli personaggi e la

guerra, intesa come condizione umana e sociale abnorme e tragica3: in Sicilia

Carmela accompagna i soldati americani fra i campi minati e, mentre la

pattuglia va avanti, rimane con un soldato di guardia, una fucilata tedesca

uccide il ragazzo e anche Carmela morirà precipitando dagli scogli; a Napoli

uno sciuscià ruba le scarpe ad un soldato di colore, il quale scoprirà,

inseguendolo, della desolata miseria in cui il ragazzino è costretto a vivere; a

Roma una prostituta riconosce un soldato americano con il quale aveva avuto

una relazione, ma quest’ultimo riparte senza averla riconosciuta; a Firenze una

crocerossina inglese è alla ricerca del capo dei partigiani mentre nella città

infuria la battaglia fra le due rive dell’Arno, ma è troppo tardi, il capo dei

partigiani viene ucciso in combattimento; sull’Appennino emiliano tre

cappellani militari alleati chiedono alloggio in un convento francescano e i

2 S. MASI, I film di Roberto Rossellini, Gremese, Roma 1987, pp. 27-29 3 G. RONDOLINO, Roberto Rossellini, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 57-61

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frati, apprendendo che solo uno dei tre è cattolico, decidono di digiunare

sperando che tale “fioretto” conduca al cattolicesimo sia il protestante che

l’ebreo; nell’ultimo episodio a Porto Tolle i partigiani e i paracadutisti alleati

combattono una guerra solitaria contro i nazisti, i quali riservano ai partigiani

trattamenti feroci e abietti.

L’uomo quindi si trova a far parte di un tutto che è stato lacerato dalla

guerra, trovandosi così, con la sua fragilità, smarrito e in balia del caos, pur

conservando la forza di lottare4.

Paisà fu presentato alla Mostra di Venezia del 1946, dove riscosse una

pallida accoglienza, di cui è prova la recensione decisamente dura di Nino

Ghelli su «Cine Illustrato» che recitava così: «Paisà è minato da

un’insopportabile lentezza narrativa. […] Lento, inefficace come montaggio,

sciatto nella sceneggiatura, il film è inutilmente minuzioso e fondamentalmente

superficiale»5. La caratteristica della lentezza verrà rivalutata come segno di

verità neorealista, infatti in questo modo sembra che il regista si ponga al

servizio della materia che deve trattare, facendo finta che le cose che filma

esistano già indipendentemente dalla diegesi, ovvero restituendo la sensazione

del vero6.

Anche l’interesse per le piccole cose rispecchia lo stile anti-spettacolare

proprio del neorealismo che ha cambiato in qualche modo lo sguardo sul

mondo. In Paisà assistiamo a piccoli eventi che sembrano insignificanti, ma

che collegati tra loro e posizionati in un determinato contesto, partecipano a

4 AA. VV., Storia del cinema italiano 1945-1948, a cura di C. Cosulich, Marsilio, Venezia 2003 5 S. MASI – E. LANCIA, I film di Roberto Rossellini, Gremese Editore, Roma 1987, p 29 6 G. RONDOLINO, Roberto Rossellini, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 57-61

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qualcosa di più grande (in questo caso la liberazione). Rossellini sembra

dunque suggerire che il banale non esista e che ogni persona può

potenzialmente rivelarci qualcosa7.

Non tutti i critici però ebbero una visione così pessimistica sul film, ne è un

esempio Arturo Lanocita che sul «Corriere della Sera» commentava nel 1946:

«Nei film di Rossellini va cercato quel che egli ci mette, una testimonianza del

tempo così da far pensare più spesso al documentario che al documento.

Rossellini si stacca dalle vibrazioni dei nostri giorni con l’obiettività e la

misura dell’estraneo se non del postero»8. L’impronta documentaristica rilevata

da Lanocita è messa in evidenza dalle immagini di repertorio che intervallano i

vari episodi e soprattutto dal commento in voice over.

1. La voce di Paisà

Paisà, come molti film neorealisti, è accompagnato da una voice over che,

sullo sfondo di immagini documentaristiche, introduce ognuno dei sei episodi.

La prima funzione che sembra assumere il commento fuori campo è quello

di dare le coordinate temporali e spaziali del film, in modo da mettere subito in

evidenza la veridicità dei fatti trattati: «La notte del 10 luglio 1943 la flotta

anglo-americana apriva il fuoco contro le coste meridionali della Sicilia» è la

frase che apre il primo episodio, a cui seguiranno le altrettanto precise

indicazioni degli altri episodi: «L’8 settembre i cannoni della flotta alleata

erano puntati contro Napoli», «Il 22 febbraio 1944 sbarco alleato ad Anzio.

7 G. RONDOLINO, Roberto Rossellini, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 57-61 8 S. MASI – E. LANCIA, I film di Roberto Rossellini, Gremese Editore, Roma 1987, p 29

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Angosciosa attesa di Roma. […] la città saluta i liberatori. 4 giugno 1944.»,

«nei primi giorni d’agosto le truppe dell’VIII Armata liberavano quella parte

della città (Firenze) a sud dell’Arno». Ma chi è questa voce narrante?

La voce, che nella realtà è quella di Giulio Panicali, appare subito al di

sopra degli eventi, come se a parlare fosse uno storico accademico che ha

ricostruito con il senno di poi il quadro degli eventi o un generale che

contempla “dall’alto” lo svolgersi delle operazioni con occhio critico e

distaccato9. Lo si può ben vedere dalle frasi brevi e coincise che caratterizzano

tutti gli interventi, come per esempio nell’introduzione all’episodio romano:

«Lunga, tragica sosta a Cassino. Il 22 febbraio 1944 sbarco alleato ad Anzio.

Angosciosa attesa di Roma. Dopo una serie di battaglie durissime sanguinose,

lo schianto tedesco. Passano per le vie di Roma le truppe di Kesserling in fuga.

Miracolosamente intatta, la città saluta i liberatori. 4 giugno 1944.».

Se andiamo però ad analizzare il tono e l’impostazione della voce, ci sembra

di assistere piuttosto ad un cinegiornale dell’epoca o a una trasmissione

radiofonica di Regime. Durante il periodo fascista, infatti, la radio era usata

come mezzo di coinvolgimento delle masse per fascistizzare la cultura

nazionale. A questo scopo si usava uno stile accattivante e domestico, un

linguaggio semplice e diretto ma soprattutto un timbro adeguato, e un

perentorio tono sostenuto dal volume della voce, così si può notare a proposito

del commento a eventi che avessero una forte impronta nazionale, come la

partenza dei Legionari in Africa Orientale il 2 agosto 1935 o in occasione

9 F. CASETTI-L. MALAVASI, La retorica del neorealismo, in Storia del cinema italiano 1945-

1948, a cura di C. Cosulich, Marsilio, Venezia 2003, p. 185

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dell’annuncio dell’attacco all’Etiopia tenuto dal Duce il 2 ottobre 193510. A

farla da padrone diventava così il potere ipnotico della voce, quella «voce

unica e autoritaria della macchina» come ben l’aveva definita Pirandello e

come l’aveva esaltata Marinetti in un commento sul ritorno dall’America della

Squadra atlantica di Italo Balbo: «Quale efficacia suggestiva, quale carica

emotiva potesse raggiungere un’accorta disposizione dei microfoni, pronti a

raccogliere e amplificare […] la voce fremente di uno speaker invasato»11.

Tornando alla voce di Paisà, essa riflette bene il linguaggio sintetico e il tono

asettico ma imperioso della radio così da creare una connessione indissolubile

tra lo spettatore e le immagini, anche grazie alla caratteristica propria della

voce di creare un ambiente sonoro, per usare le parole di Michel Chion, che

avvolge l’ascoltatore più di quanto possano fare le immagini, inchiodate allo

schermo. Il narratore, quindi, parla per lo spettatore, gli sta accanto

spiegandogli quello che le immagini non riescono a dire.

Che rapporto ha, dunque, la voce over con le immagini?

Le immagini che scorrono con le parole del narratore sono spezzoni di

documentari, qualcosa, insomma, non ancora risolto pienamente nella finzione,

anche se pertinente ad essa. Ciò crea un registro visivo diverso da quello della

storia, una sorta di cornice, un prologo prima dell’immersione nella diegesi che

viene reso uniforme e coeso dalla voce fuori campo. Il narratore prende così le

distanze dal mondo rappresentato, ponendosi marcatamente a parte rispetto ai

10 F. MICHELONE, Storia della radio e della televisione in Italia: un secolo di suoni e immagini,

Marsilio, Venzia 1999, p. 88 11 G. GARRONE, L’Aedo senza fili, «Il Ponte», VIII, 1952, p. 1408

23

personaggi. Ma qualcosa alla fine del film cambia. L’ultimo intervento è

inserito nel film, quindi non vi è più una separazione dal mondo diegetico, ma

una progressiva immersione in esso12. Lo si poteva già intuire dal graduale

affiorare di un certo coinvolgimento in alcuni aggettivi usati nel terzo e nel

quinto intervento, come: «tragica sosta», «angosciosa attesa», «battaglie

durissime sanguinose», «aspramente conteso», «accanita disperazione», per

finire con il sesto commento «Al di là delle linee i partigiani italiani e i soldati

americani dell’OSS, fraternamente uniti combattono una battaglia che i

bollettini non registrano, ma forse più dura, più difficile, più disperata». Il

narratore conquista lo spazio della storia, facendo convergere racconto e

cronaca, il visto al vissuto. Si arriva a una forma di cronaca-racconto in cui il

soggetto narra, vive e riceve una storia sovrapponendo narratore, personaggi e

spettatore, creando un noi collettivo. Mettendo in campo una conoscenza

comune favorisce la transitabilità dello spettatore nel film. Con la battuta finale

della voce over «Questo accadeva nell’inverno del 1944. All’inizio della

primavera la guerra era già finita» si crea una sorta di catarsi, di liberazione dal

male della guerra, finita da appena un anno, che aveva oppresso milioni di

italiani e non solo.

In conclusione, il narratore di Paisà oggettivizza gli eventi, diventa voce di

testimonianza. Chi parla è «un soggetto che ha vissuto direttamente un

avvenimento collettivo e che nello stesso tempo ne restituisce una versione

12 F. VILLA, Il narratore essenziale della commedia cinematografica italiana degli anni

cinquanta, ETS, Pisa 1999, p. 162

24

ufficiale»13, un soggetto anonimo e testimone che, facendosi portavoce della

Storia, attesta la realtà rendendola oggetto di memoria nel tempo. Il narratore di

Paisà svolge una funzione sociale: parla per rendere testimonianza e per restare

nel tempo quale mementum mortis.

Quello che emerge è il fatto che il narratore in voce over si ponga come

soggetto anonimo, e quindi non identificabile con un singolo, e soprattutto

come soggetto testimone, ovvero qualcuno che parla per oggettivizzare la

Storia, e lo fa marcando la propria distanza dal mondo rappresentato in quanto

si pone al di sopra e in continuità rispetto ai sei episodi di cui è composto il

film.

13 F. CASETTI, Dentro lo sguardo: il film e il suo spettatore, Bompiani, Milano 1986, p. 111

Capitolo IV

Il testimone (1946)

Nato da un soggetto dello stesso regista, Pietro Germi, Il testimone fu

realizzato nel 1945 dalla Orbis Film, una casa di produzione sostenuta dal

Vaticano e saldamente controllata dal Centro Cattolico Cinematografico.

In realtà i produttori avrebbero voluto acquistare da Germi soltanto il

soggetto e affidarne la realizzazione a un regista più malleabile e al tempo

stesso più esperto. Ma il giovane regista si oppose: o il film lo facevano

dirigere a lui oppure il soggetto se lo sarebbe ripreso. Per appianare i contrasti,

Germi chiese ed ottenne la supervisione dell’amico e maestro Alessandro

Blasetti. Questi gli diede effettivamente una mano, ma soltanto in fase di

sceneggiatura: dopo qualche settimana preferì tirarsi indietro, avendo

constatato che l’allievo si stava mostrando da un lato estremamente preparato

sotto tutti i punti di vista e dall’altro estremamente poco disposto a farsi

supervisionare da chicchessia1.

In una imprecisata grande città un uomo, Pietro Scotti, è condannato a morte

per un omicidio commesso a scopo di rapina. A inchiodarlo è stata la

testimonianza di un anziano impiegato dell’anagrafe, il ragionier Giuseppe

Marchi. Ma prima che il colpevole venga giustiziato, il testimone ha un

ripensamento, non sentendosi più molto sicuro di se stesso e del proprio

orologio (sulla cui precisione si erano appuntate tutte le sue certezze) si

1 E. GIACOVELLI, Pietro Germi, Il Castoro, Milano 1997, pp. 15-19

26

ripresenta a Palazzo di Giustizia e ritratta la precedente deposizione. Tornato in

libertà, Pietro conosce una ragazza, Linda, che lavora in un’osteria e la porta a

vivere con sé. I due decidono di sposarsi al più presto, ma all’anagrafe si

imbattono casualmente proprio nel ragionier Marchi. Questi, volendo rimediare

al presunto errore di qualche tempo prima, decide di aiutare i due giovani

accelerando il disbrigo delle pratiche, ma nel far ciò comincia a frequentarli

con una certa intensità e torna ad avere qualche dubbio (ha scoperto, fra l’altro,

che il proprio orologio è stato manomesso dall’avvocato difensore di Pietro).

Sentendosi perseguitato dall’anziano ragioniere, Pietro si reca a casa sua per

ucciderlo, ma scopre che il vecchietto è già morto da qualche giorno di morte

naturale. Comprende allora che tutti siamo condannati a morte e che il rimorso

è anche più pesante di una condanna. Tornato da Linda, le confessa di essere

un assassino e dopo averle chiesto perdono va a costituirsi, mentre lei lo

insegue per le vie deserte della città.

Germi realizzò la sua opera prima guardando al cinema hollywoodiano di

genere. Il giallo e il noir di marca americana sono nella sigaretta sempre accesa

del protagonista, nei frequenti dettagli degli oggetti-chiave (l’orologio), nei

primi piani insinuanti o rilevatori, nelle ombre che si proiettano sui muri come

oscuri rimorsi, nelle prime pagine dei giornali, nelle immagini simboliche di

una prigione sotto i titoli di testa e sotto la parola fine2.

Il testimone sembra volersi soffermare di più sul lato psicologico dei

personaggi rispetto alla trama del film giallo. Il vero personaggio-chiave, infatti

2 M. SESTI, Tutto il cinema di Pietro Germi, Baldi & Castoldi, Milano 1997, pp. 147-154

27

è quello dell’anziano testimone (non è un caso che il titolo del film sia proprio

Il testimone) impersonato da Ernesto Almirante, «omino improbabile,

enigmatico, profugo di altri universi, di altri film: con il suo aspetto pensoso,

da giocattolo meccanico, da Professor Balthasar, sembra un po’ il vecchietto

che in It Happened Tomorrow di René Clair consegna a Dick Powell il

giornale dell’indomani, o comunque uno di quei personaggi del realismo

poetico francese che simboleggiano il destino e spesso se ne fanno

ambasciatori»3.

Quella del testimone è una presenza sottile, profonda, una personificazione

delle regioni più insondabili e lugubri della psiche: quasi che, con tutto il suo

amore per gli orologi, il vecchietto si porti appresso il passare inesorabile del

tempo. Infatti, come un personaggio soprannaturale, come un messaggero del

fato, sparisce nel nulla; ma proprio scomparendo induce il colpevole ad

assumersi il peso delle proprie colpe. Sembra voler dire che il destino di ogni

uomo è già scritto, ma occorrono gli altri uomini per aiutarci a decifrarlo4.

Un altro mezzo che rivela l’approccio psicologico del regista è l’uso della

voce off che saltuariamente interviene per svelare i pensieri di Pietro Scotti.

Il primo intervento si ha quando Pietro è in carcere ed è convinto che verrà

condannato. Il suo vicino di cella viene portato via e lui osserva: «Avrà sentito

anche lui quella campana? Avrà guardato anche lui quella stella? Cosa vedrà

ora?».

Il secondo intervento non è poco distante e così seguiamo Pietro che si

3 E. GIACOVELLI, Pietro Germi, Il Castoro, Milano 1997, p. 18 4 E. GIACOVELLI, Pietro Germi, Il Castoro, Milano 1997, pp. 15-19

28

incammina verso la libertà mentre pensa: «Venisse qualcuno a dirci: Andate

siete liberi; rimetterci i nostri panni; attraversare il cortile; uscire all’aperto;

respirare. Camminare per le strade tra la gente, camminare lungo il fiume,

attraversare il ponte», quasi come se fosse una lista di cose da fare.

Il terzo intervento, molto sintetico, ci rivela la preoccupazione che si

impadronisce del personaggio, il quale si sente braccato dal ragioniere: «Non

sapete niente, non avete prove contro di me».

L’ultimo pensiero che ascoltiamo di Pietro è quello più decisivo, quello che

mette in chiaro la sua posizione di assassino e di personaggio perseguitato dal

senso di colpa, un senso di colpa che sta diventando insopportabile da

sostenere: «Bisogna che lo veda (il ragioniere), bisogna che io mi liberi di lui,

mettergli il volto vicino, ben in luce e dirgli: Eccomi! Sono io, ero io. Ma

lasciatemi in pace. Vedete com’è bella la vita. Lasciatemi in pace, dunque.

Sono stato io, ma lasciatemi in pace. E se lui mi guardasse, mi guardasse con

quegli occhi e dicesse». Il fischio di un treno interrompe i pensieri del

personaggio, ma ormai abbiamo ben capito cosa lo tormenta.

Anche le molte panoramiche e carrellate, specie in avanti verso i

personaggi, sembrano voler sondare la psiche di coloro che vengono

inquadrati, come se tutti fossero in qualche modo dei sospettati, dei colpevoli.

C’è quasi un’ossessione per la Colpa che si riverbera nel film attraverso

un’atmosfera greve e insieme immateriale da cui sembra emergere una

sentenza generale di condanna. Non per niente il film è inaugurato e concluso

dall’immagine quasi espressionistica di una prigione, come dire che alla

29

prigionia della condizione umana non si sfugge, che tutti siamo dei presunti

colpevoli (o, peggio, dei presunti innocenti) condannati a morte da tempo

immemorabile5.

Questo continuo senso di colpa e di incertezza del reale è introdotto anche e

soprattutto dalla voice over che apre il film.

1. La voce de Il testimone

La voice over che sentiamo subito dopo i titoli di testa introduce subito lo

spettatore nella diegesi, il quale viene interpellato in prima persona. Dopo la

descrizione di «una città, una strada, quanta gente si accalca, si mescola e passa

senza sosta», accompagnata da delle immagini altrettanto eloquenti, il narratore

esclama con voce perentoria: «Guardate! Avanzano tutti ad un segnale come

verso una meta comune. Sembrano così vicini e sono tanto lontani.». Non c’è

dubbio, la voce che sta parlando si sta rivolgendo proprio a noi, quasi come se

volesse mostrare noi stessi attraverso il film, analizzandoci al microscopio e

giudicandoci.

Germi vuole parlare con le masse, vuole parlare di esse, e per farlo usa la

comunicazione di massa, ovvero il timbro secco e adulatorio della radio, qui

portato agli estremi. La voce, infatti, sembra sostenere un’arringa più che una

conversazione alla radio6. L’arringa che qui si afferma come modello

privilegiato di comunicazione e discorso, ma soprattutto afferma il rapporto

con la legge, in quanto principio etico e sovra individuale.

5 E. COMUZIO, De Sica, Germi, Lattuada, Letture, Milano 1977, p. 150 6 M. SESTI, Tutto il cinema di Pietro Germi, Baldi & Castoldi, Milano 1997, pp. 147-154

30

Si deduce di conseguenza che, come sostiene Vittorio Spinazzola, «non è

tanto il rapporto fra individuo e società a interessarlo, quanto fra il cittadino e

lo Stato: un discorso ben caratterizzato, dunque, e destinato ad ampie

risonanze, in un clima in cui l’ansia di uscire dal disordine del dopoguerra e del

vecchio edificio statale per dare vita a nuove norme di diritto, conformi al

mutato quadro costituzionale, si scontrava accesamente con la tendenza a una

pura e semplice restaurazione della legalità consegnata nei codici del passato

regime»7.

Proseguendo nella descrizione della città, teatro della diegesi, il narratore ci

informa che: «Questo è il luogo dove alcune colpe degli uomini, ma solo

alcune, vengono giudicate, giudicate da altri uomini. Ma è così difficile

giudicare».

Entriamo così in un’aula di tribunale, luogo che rispecchia appieno la voice

over, la quale, adesso, continua la sua serrata arringa con ancor maggior enfasi,

presentandoci direttamente i componenti della corte e il protagonista Pietro,

richiamando la nostra attenzione con ripetute frasi esclamative: «Guardate

quest’uomo che con gesti calmi e sicuri sta riponendo dei fogli nella cartella: è

l’accusatore! Egli ha ben recitata la sua parte, egli è ben sicuro della sua tesi, o

almeno lo sembra. Queste facce intente sono quelle dei giudici su cui pesa la

responsabilità di assolvere e condannare. E guardate invece quest’uomo che si

agita sventolando la toga come un nero uccellaccio. Egli è il difensore. Egli

sostiene che l’accusato è innocente. Egli è sicuro della sua innocenza, o almeno

7 V. SPINAZZOLA, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Bulzoni,

Roma 1985, p. 28

31

lo sembra. Ed ecco, guardate! Questo è l’uomo la cui vita è in gioco,

guardiamolo bene. Potessimo leggere qualcosa su quel volto, scendere a fondo

di quella coscienza e sapere: colpevole o innocente?»

Con queste frasi secche e ripetute, disposte in un inesorabile climax

ascendente, il narratore non solo ci dà delle informazioni di carattere

descrittivo, ma ci rivela la natura dei personaggi che popolano la storia. Essi

sono come degli attori su un palcoscenico. L’accusatore ha infatti «ben recitato

la sua parte» e, come in teatro, gli attori sembrano calarsi completamente nella

parte: l’accusatore è sicuro della sua tesi e il difensore è sicuro dell’innocenza

dell’imputato. O almeno lo sembrano.

Infatti entrambi non possono avere ragione, altrimenti si creerebbe un

paradosso. Quindi i giudici, a cui spetta l’onere così importante di decidere per

la vita di un uomo, sono in balia della relatività.

La domanda posta della voice over «colpevole o innocente?» alla fine del

suo primo e ultimo intervento viene raccolta dal difensore che così continua,

quasi come se fosse un portavoce del narratore stesso: «A questa domanda il

Pubblico Ministero ha già dato un’eloquente risposta. Egli non ha dubbi, voi

l’avete udito. Egli afferma che l’imputato è colpevole, colpevole di assassinio a

scopo di furto e chiede la morte per lui».

Germi sembra volerci dire che il cittadino è in balia della legge, una legge

decisa dagli uomini, i quali si arrogano il diritto di prendere delle decisioni più

grandi di loro, nonostante sia «così difficile giudicare».

In conclusione la voice over de Il testimone è una voce anonima che usa la

32

sua forza di oratore e di personaggio super partes per accompagnare lo

spettatore ad una riflessione sul suo rapporto con lo Stato.

Introducendo il racconto offre a chi guarda un esempio di come, anche se la

legge può sbagliare, il rimorso e la colpa sono di per sé delle prigioni che

possono condurre l’uomo alla disperazione o, come in questo caso, alla

redenzione, in una visione forse un po’ utopistica.

Capitolo V

La terra trema (1948)

Una delle caratteristiche che contraddistingue i film di Luchino Visconti è

quella di rappresentare l’uomo nella sua realtà e complessità, creando un

cinema a misura e al servizio dell’uomo, un cinema antropomorfico come lui

stesso ha sostenuto: «Il cinema mi ha attirato perché riunisce e coordina i

desideri e i bisogni di molte persone, che lottano per un mondo migliore»1.

La terra trema esce in Italia nel 1948, ma fin dal ’40-’41, Visconti

desiderava fare un adattamento de I Malavoglia, un libro che lo aveva sempre

affascinato per il «ritmo che dà il tono nostalgico e fatale dell’antica tragedia a

questa umile vicenda della vita di ogni giorno»2, passione condivisa con gli

amici del gruppo «Cinema» che propugnavano come modello per un nuovo

realismo cinematografico la grande tradizione letteraria del romanzo

ottocentesco. Visconti, che ne aveva acquistato i diritti e nel dicembre del 1942

Mario Alicata, in carcere perché coinvolto in attività antifasciste, incomincia a

lavorare a una sceneggiatura de I Malavoglia. Tuttavia abbandona presto il

romanzo di Verga per dedicarsi prima al documentario Giorni di Gloria (1945)

e successivamente all’attività teatrale, dirigendo in tre anni undici allestimenti,

fino al 1947, anno in cui si recherà in Sicilia per dare corpo a un documentario

in tre parti sulla condizione dei lavoratori nell’isola.

Il primo episodio della trilogia riguardava la lotta di un pescatore e la sua

1 L. VISCONTI, Per un cinema antropomorfico, «Cinema», n. 174, 25 Settembre 1943, p. 31 2 A. BENCIVENNI, Luchino Visconti, La Nuova Italia, Firenze 1982, p. 17

34

famiglia contro i ricatti dei grossisti di pesce; il secondo, il tentativo di un

gruppo di minatori di gestire in cooperativa una miniera abbandonata; il terzo,

l’occupazione delle terre incolte da parte dei contadini. Il film si sarebbe

dovuto concludere con la vittoria dei contadini, sostenuti dall’aiuto degli altri

lavoratori in una galoppata che avrebbe fatto tremare la terra.

Il film è finanziato dalla società ARTEA di Alfredo Guarini, sotto la

protezione del Partito Comunista, ma i fondi finiscono presto e Visconti decide

di autofinanziarsi vendendo alcuni suoi beni fino all’arrivo economico di Salvo

D’Angelo, direttore dell’Universalia. Il progetto, però, viene limitato al primo

episodio, ampliandone le dimensioni e accentuandone il rapporto con I

Malavoglia.

Segnato dall’esperienza della guerra e della Resistenza, Visconti ricerca nel

film le ragioni storiche, economiche e sociali della questione meridionale,

mostrando la sconfitta di ‘Ntoni Valastro come una tappa verso la conquista di

una nuova coscienza sociale, come una lotta tra sfruttati e sfruttatori e non più

una battaglia contro il fato, come lo era invece nel libro di Verga3.

L’attaccamento alla patria non è visto come una fatalistica rassegnazione, ma

come un diritto a combattere e a progredire all’interno del proprio ambiente.

Per mostrare questa situazione, Visconti usa inquadrature lunghe, lente, spesso

immobili, che evidenziano un ritmo descrittivo-psicologico, più che epico-

narrativo, come a voler seguire il lento crescere del desiderio di cambiamento e

mettere in evidenza, in contrapposizione, la caduta delle illusioni e di

3 L. MICCICHE’, Visconti e il neorealismo: Ossesione, La terra trema, Bellissima, Marsilio,

Venezia 1999, p. 79

35

conseguenza il contrasto tra la volontà e la rassegnazione umana.4

Anche il problema della lingua è visto in una nuova prospettiva rispetto a

Verga. La lingua de I Malavoglia è oggettiva con l’intento di rappresentare la

realtà con distacco; Visconti, invece, fa parlare i suoi personaggi usando il

dialetto catanese della vera Aci Trezza, restituendo così il fascino e la

musicalità di una lingua misteriosa e arcaica con un tocco di polemica. «La

lingua italiana non è in Sicilia la lingua dei poveri», compare nella didascalia

introduttiva al film, infatti gli unici personaggi che parlano in italiano sono il

clandestino che spinge Cola al contrabbando, i funzionari che pignorano la casa

del nespolo e la voice over che commenta il film.

1. La voce di La terra trema

Non esiste alcun documento che attesti quando e perché venne deciso di

inserire una voice over. Si suppone che il problema del commento in over

sound venga affrontato solo a film concluso, caldeggiato dal PCI, per rendere

almeno parzialmente comprensibile un testo altrimenti impenetrabile ai più. Se

così fosse, il commento sarebbe un’aggiunta posticcia, non voluta dall’autore

del film. Sembra infatti, come ha rilevato Stefania Parigi5, che Visconti nel

1951 abbia chiesto a Fausto Montesani di cancellare il commento dalla

sceneggiatura desunta, pubblicata su «Bianco e Nero» e che nelle varie

interviste rilasciate Visconti non accenni mai alla voice over che percorre il

4 AA.VV. La terra trema di Luchino Visconti: analisi di un capolavoro, a cura di L. Miccichè,

Lindau, Torino 1996 5 S. PARIGI, Il dualismo linguistico, in La terra trema, a cura di L. Miccichè, Lindau, Torino

1996

36

film, quasi l’avesse rimossa, parlando di una copia originale del film presentata

a Venezia nel 1948 con sottotitoli, affermazione sconfessata dalle recensioni

d’epoca.

Il commento, anche se non voluto, non è però superfluo. Sebbene non

strutturalmente necessario, fornisce un’aggiunta di informazioni e un surplus di

senso che sottolinea, interseca, dilata, fino a orientare, come accade

nell’intervento finale, il senso originario del testo filmico vero e proprio. Così

la voice over assume su di sé più funzionalità: traduce e riassume i dialoghi

siciliani (anche se in minima parte), esplica e descrive ad abundantiam

dialoghi e accadimenti del profilmico, spiega integrando e aggiungendo

dettagli della vicenda, esplicita l’ossatura ideologica della vicenda6.

Dopo una didascalia introduttiva, che funge da dichiarazione di poetica,

sottolineando una realtà storicamente e geograficamente definita e la volontà di

rappresentare un conflitto di classe partendo dalla rappresentazione di persone

autentiche, incomincia a parlare la voce del narratore, che nella realtà è affidata

a Mario Pisu: «Come sempre, i primi a cominciare la loro giornata, a Trezza,

sono i mercanti di pesce, che scendono al mare quando ancora il sole non è

spuntato di là da Capo Mulini. Perché come tutte le notti, le barche sono uscite

in mare e ora rientrano con quella poca pesca che hanno fatto. Se c’è la pesca si

vive, alla Trezza – e dal nonno al padre ai nipoti è sempre stato così». Ci

vengono date, quindi, da subito delle coordinate spaziali (Trezza) e temporali,

anche se indefinite, ovvero sappiamo che questa situazione si ripete da

6 L. MICCICHE’, Visconti e il neorealismo: Ossessione, La terra trema, Bellissima, Marsilio,

Venezia 1990, p. 171

37

generazioni senza possibilità di cambiamento. Inoltre viene resa esplicita una

determinata condizione, che non sembra essere delle più rosee, dato che la vita

dei mercanti di pesce è legata alla poca pesca della notte. Subito dopo questo

primo intervento generale, il narratore introduce i veri protagonisti della storia,

i quali scopriamo essere legati indissolubilmente alla vita secolare di Trezza

«Una casa come tante altre, fatta di vecchia pietra – e le sue mura hanno tanti

anni quanti il mestiere di pescatore. A quest’ora, prima di giorno, la casa si

risveglia. E’ la casa dei Valastro. […] la famiglia ha sempre avuto una barca

sull’acqua, da quando esiste il nome Valastro». Anche i nostri protagonisti,

dunque, fanno parte di un tempo e di una situazione che si rinnova da

generazioni, quasi come se il tempo non esistesse. Ma qual è questa situazione?

Lo spiega sempre il narratore alla fine del secondo intervento: «Il lavoro è

amaro, se il guadagno se lo mangiano tutto i grossisti. […] Tutte le spese

ricadono sulle spalle dei pescatori, mentre i grossisti s’arricchiscono senza

fatica, a comprare per niente quel pesce che è costato tanto sudore della fronte»

e subito dopo «Dodici ore di fatica nelle ossa … E a casa non riportano

nemmeno quel tanto che basta per non morir di fame. Eppure, le reti, quando le

hanno tirate su, erano piene». Ecco svelato l’asse centrale della diegesi, la

premessa che scatenerà le azioni di ‘Ntoni, il quale stanco di essere sfruttato

dai grossisti cercherà fortuna mettendosi in proprio, rompendo la ciclicità del

tempo passato.

Già da questi primi interventi si deduce che la voice over è al di sopra degli

eventi, sapendo tutto sui suoi personaggi e persino sul loro futuro «E il

38

pensiero di non aver guadagnato abbastanza […] continuerà ad angustiarli, gli

avvelenerà anche le poche ore di riposo» (Seq. XI), una voce quindi che riporta

i fatti probabilmente perché conosce in prima persona i personaggi, i loro

sentimenti, i loro pensieri: «Se i grossisti hanno ritirato la denuncia – pensa

(‘Ntoni) – è perché di loro pescatori non ne possono fare a meno. E allora,

perché i pescatori non potrebbero cercare di fare a meno dei grossisti che li

sfruttano? A queste cose ha riflettuto ‘Ntoni» (Seq. XXXII), ma una voce

anche che cerca un contatto diretto con ciò che sta narrando, infatti in più

occasioni il narratore pone delle vere e proprio domande che sembrano rivolte

ai personaggi e che sospendono la funzione esplicativa, lasciando lo spettatore

a parte «Ma dove trovare il denaro per rendersi indipendenti?» (Seq. XXXIII),

«Ma che si lamenta Lorenzo, non ha sentito Raimondo? I padroni sono loro»

(Seq. XXXVI) oppure «Che ti dice il cuore ‘Ntoni? Hai tutto quello che volevi,

adesso» (Seq. LIII), «Che racconta quel forestiero che sulla sciara non si era

visto mai?», «E chi se la sarebbe più presa in moglie, a Trezza, Lucia Valastro,

che va sulle bocche di tutti per via di don Salvatore?» (Seq. XCVI).

Anche l’adozione in parte dei caratteri tipici della lingua e del pensiero dei

protagonisti del racconto7, presuppone che il narratore voglia instaurare un

contatto con essi. Ne è un esempio esplicito l’uso dei proverbi tipico di una

tradizione arcaica: «Gli uomini sono fatti per essere presi dalle ragazze, come i

pesci del mare sono fatti per chi se li deve mangiare» (Seq. XIV), «E’

questione di tempo. Come il verme che dice alla pietra – Dammi tempo che ti

7 AA.VV. La terra trema di Luchino Visconti: analisi di un capolavoro, a cura di L. Miccichè,

Lindau, Torino 1996, p. 159

39

buco» (Seq.XXXVI), «Buontempo e maltempo non dura tutto il tempo» (Seq.

LXV), «Ché il mare è amaro, e il marinaio muore in mare» (Seq. CX).

Infine il narratore acquisisce un livello di confidenza con i suoi personaggi

tale da intervenire anche con battute ironiche; al commento «Ma ‘Ntoni ha

ancora l’amore di Nedda. Nedda gli sarà vicina» (Seq. LXX) seguono le grida

di ‘Ntoni che cerca invano Nedda per il paese, infatti quest’ultima non vuole

più avere a che fare con l’impoverito ‘Ntoni.

Lo speaker però, comunque rimane fuori dall’universo diegetico

rappresentato, in quanto non è un personaggio coinvolto direttamente nella

storia. In questa veste il narratore si fa carico di esplicitare l’ideologia sottesa al

film, nonché il punto di vista autoriale di Visconti, il quale dichiara: «Io

preferisco sempre raccontare le sconfitte, descrivere le vittime, i destini

schiacciati dalla realtà»8 evidenziando la memoria più che la storia, l’ideologia

più che la politica. Gli interventi che scandiscono assiduamente il racconto

evidenziano il progredire della coscienza di classe di ‘Ntoni, la successiva lotta

per creare un domani migliore e la tragica fine delle illusioni, una lotta allo

stesso tempo contro la storia e il fato («non bastava l’ostilità degli uomini, ché

anche la natura gli si è messa contro»), solitaria e tragica9. Se nei primi

commenti viene ribadita la ciclicità del tempo in cui «i domani non sono molto

diversi dai giorni prima, o da quelli che verranno», e la «schiavitù senza

scampo», con il decimo intervento si profila un cambiamento: «Se ci andassero

i giovani, sul molo, a vendere, chissà, le cose andrebbero diversamente», e così

8 L. MICCICHE’, Un incontro al magnetofono con Luchino Visconti, in Morte a Venezia di

Luchino Visconti, a cura di L. Miccichè, Cappelli, Bologna 1971, p. 23 9 L. DE GIUSTI, I film di Luchino Visconti, Gremese, Roma 1990, p. 41

40

sarà. Infatti ‘Ntoni coi fratelli più giovani prova a contrattare con i grossisti per

«vedere un po’ se quella ingiustizia può finire». La contrattazione si conclude

con una rissa e l’arresto di ‘Ntoni, ma la sua coscienza è ormai cambiata:

«Perché i pescatori non potrebbero cercare di fare a meno dei grossisti che li

sfruttano?». E’ giunto quindi il momento di «mettersi a lavorare da soli», a

costo di ipotecare la casa, «l’importante è essere tutti d’accordo». «Ma nessun

altro li segue», eppure i Valastro incominciano a fare fortuna grazie a una

grossa pesca di acciughe, senonché una notte la barca dei Valastro viene

distrutta in una tempesta. Persa ogni cosa «i grossisti hanno la loro rivincita. E

gliela faranno pagare cara, a ‘Ntoni, la sua ribellione», infatti quando cerca

lavoro tutti gli rispondono di no e così è costretto a vendere proprio ai grossisti

gli ultimi trenta barili di acciughe, «ma quando la fame ti stringe alla gola,

bisogna rassegnarsi all’ingiustizia, cedere, farsi spogliare». Così ‘Ntoni passa

le giornate ubriacandosi e ben presto deve lasciare la casa, «dove sono nati e

sono morti tanti Valastro» e la barca «che è nata con loro, passerà nelle mani di

estranei». Così ‘Ntoni è stato sconfitto, ma non importa, poiché ormai ha preso

coscienza delle sue possibilità e spetterà ai posteri cambiare le cose.

L’assunto ideologico è affidato alla scena tra ‘Ntoni e la piccola Rosa. Il

ragazzo attraverso un espediente tecnico si ritrova a parlare rivolto alla

macchina da presa10: «ma venni ‘u iorno ca ‘u sannu sentiri tutti ca iu ci aiu

rraggiuni! Allora, a perdiri tutti cosi como mi finiu a mmia, a statu bbeni pi

tutti! Bisogna ca n’imparamu a vulirni bbeni unu cu’nn’autru, e di essiri tutti

10 AA.VV. La terra trema di Luchino Visconti: analisi di un capolavoro, a cura di L. Miccichè,

Lindau, Torino 1996, p. 146

41

‘na cosa. Allura sì, ca si po’gghiri avanti!» (Ma viene un giorno che lo sanno

sentire tutti che io ci ho ragione! Allora, a perdere tutte le cose come è successo

a me, è stato bene per tutti! Bisogna che impariamo a volerci bene l’uno con

l’altro, e di essere tutti una cosa. Allora sì, che si può andare avanti). Concetto

che viene ribadito subito dopo dalla voce narrante in quello che sarà il suo

penultimo intervento: «nessuno potrà aiutarlo finché tutti non avranno imparato

a volersi bene, ad essere come una cosa sola. E’ dentro di sé che ‘Ntoni dovrà

trovare il coraggio per ricominciare.» Dunque ‘Ntoni ha fallito solo perché la

sua è stata una lotta individuale, non perché le sue intenzioni erano sbagliate.

Le ultime immagini del film non sono accompagnate dalla voice over. Si

sentono solo le grida incomprensibili dei pescatori accompagnate visivamente

dalla barca su cui ‘Ntoni ha ripreso a lavorare. E’ come se l’ultima parola

spettasse a chi agisce nella Storia e non a chi vi assiste, il narratore si fa da

parte, lasciando nuovamente lo spettatore distante, quasi impotente di fronte a

quella particolare situazione.

A questo punto serve chiarire che rapporto ha il narratore con lo spettatore.

Chi assiste alla proiezione del film non può che seguire la voice over, una delle

poche voci che parla in italiano, la quale assume così il ruolo di guida e di

testimone. Il commento però, evidenzia anche l’incolmabile estraneità dello

spettatore rispetto al racconto, sottolineando la sua incapacità di comprendere

la lingua dei pescatori e in qualche modo anche la loro situazione. D’altra parte

come recitava la didascalia introduttiva, «la lingua italiana non è in Sicilia la

lingua dei poveri», un italiano infido e burocratico, usato come strumento di

42

raggiro e di sopraffazione (si ricordino i funzionari che pignorano la casa e il

clandestino che circuisce Cola)11. Ma forse proprio rimarcando questa distanza,

il narratore vuole incitare lo spettatore ad agire nella Storia.

La voice over quindi sembra qualcosa di ibrido, un personaggio vicino sia ai

soggetti rappresentati sia agli spettatori con i quali condivide la lingua e il

punto di vista oggettivo, attraverso il quale commenta e valuta l’azione. Crea

un ponte instabile tra i personaggi e lo spettatore, infatti allo stesso tempo è

colui che rende comprensibile la trama del film e porta in esame agli occhi di

chi guarda una situazione sconosciuta e colui che sottolinea la lontananza tra i

due mondi, «ratifica l’estraneità dello spettatore e fa della sua chiamata di

correo un’astratta questione etico-ideologica»12.

In conclusione il narratore in voice over de La terra trema svolge una

funzione sociale. La didascalia in apertura di film ci informa che gli attori, tutti

abitanti reali del paese di Acitrezza, parleranno il siciliano e non la lingua

italiana. Parleranno, dunque, per una minoranza. Ebbene il narratore in voce

over che inizia a raccontare «Come sempre i primi a cominciare la giornata a

Trezza sono i mercanti di pesce che scendono al mare quando il sole non è

ancora spuntato», interviene a punteggiare la storia, con l’obiettivo, appunto, di

rendere comprensibile alla maggioranza la difficoltà del parlato dei dialoghi e

quindi rendere pubblica una realtà particolare. Dunque si tratta ancora di un

soggetto anonimo e testimone, che oggettivizza, e in questo caso razionalizza,

gli eventi per la collettività. Un soggetto che, per quanto tenti di avvicinarsi ai

11 A. BENCIVENNI, Luchino Visconti, La Nuova Italia, Firenze 1982, pp. 17-22 12 L. MICCICHE’, Visconti e il neorealismo, Marsilio, Venezia 1990, p. 180

43

suoi personaggi, rimane distanziato dalla vicenda in quanto ha un’evidente

diversa estrazione socio-culturale.

Capitolo VI

Germania anno zero (1948)

Nel 1946 muore tragicamente il primogenito di Rossellini, Marco Romano. Il

suo pessimismo pare farsi più acuto, più doloroso. Per contrappeso c’è il

successo di Paisà all’estero, le offerte della produzione. In questa particolare

situazione, Rossellini va alla ricerca di se stesso, tentando un’interpretazione

della crisi dei valori nella Germania distrutta in un film che lo allontana dalla

realtà italiana del momento: Germania anno zero, realizzato nel corso del 1947

a Berlino.

La morte del figlio significò una vera crisi di valori, e il viaggio in

Germania, che suggerirà a Rossellini la storia del ragazzo tedesco suicida, è un

pretesto per ritrovare attraverso la morte il significato della vita. Rossellini,

così, continua a essere un ricercatore assiduo del significato della realtà umana

e sociale, qualunque e dovunque essa sia, creando un cinema per l’uomo, per

aiutarlo a capirsi e a comprendere la propria condizione1.

Subito dopo la caduta del Reich Berlino è una città fantasma. In questo

panorama di macerie e miserie si aggira un bambino tredicenne. Edmund cerca

di provvedere al sostentamento della sua famiglia che vive ammassata in

un'unica stanza in casa d’altri. Suo padre, gravemente malato, è a letto. Suo

fratello maggiore ha disertato dall’esercito e ha paura di mostrarsi in giro: non

ha nemmeno la tessera alimentare. Giorno dopo giorno la vita di Edmund si

1 G. MICHELONE, Invito al cinema di Roberto Rossellini, Mursia, Milano 1996, pp. 80-81

45

rivela senza speranze. Ritrova un suo vecchio maestro di scuola che gli insegna

una teoria del nazismo: i deboli devono essere sacrificati in modo che i forti si

salvino. Edmund mette in pratica questo concetto e avvelena suo padre,

diventando un assassino. Il vecchio maestro non offre nessun conforto alla sua

pena e così vaga sconsolato attraverso le rovine di Berlino, fino a quando entra

in un edificio di fronte a una chiesa smembrata e sale in alto: da qui vedendo il

carro funebre che porta via la salma del padre, disperato, si getta nel vuoto.

Germania anno zero, che dopo Roma città aperta e Paisà può essere

considerato il terzo episodio di una trilogia della guerra, mette in campo una

visione più universale della condizione umana. La distruzione della Germania,

messa in evidenza nell’immagine di una Berlino ingombra di macerie, è anche

il simbolo di una condizione più generale, l’anno zero non solo dei tedeschi ma

di tutti gli uomini e anche il ricominciare da capo verso un superamento di

posizioni morali e ideologiche. Così il peregrinare del protagonista,

l’inconcludenza dei rapporti interpersonali, l’agghiacciante relazione di causa

ed effetto sul piano morale, sono i sintomi di una nuova, tragica e disumana

situazione che coinvolge i singoli e la collettività2. Ciò si rispecchia nella

recitazione degli attori che tengono lo sguardo alto, perso nel vuoto, quasi

come se non vedessero i loro interlocutori.

Questa voglia di proporre una condizione umana di Rossellini è stata ben

recepita da Massimo Mida che nel recensire il film sulla rivista «Bianco e

Nero» si espresse con queste parole: «Germania anno zero ha innanzitutto un

2 S. MASI, I film di Roberto Rossellini, Gremese, Roma 1987, pp. 32-36

46

grande merito: quello di far conoscere a tutto il mondo, attraverso il grido

straziato e sincero di un autentico poeta, il duro destino e la realtà di un paese,

il calvario materiale e spirituale dei suoi abitanti. Cogliendo con estremo rigore

il dramma di un popolo in profonda crisi umana e sociale, Rossellini suggerisce

indirettamente a tutti gli uomini un messaggio di pace e fratellanza»3.

Ma il simbolismo è sempre accompagnato dalla concretezza della

rappresentazione realistica. La cinepresa segue i personaggi scoprendone a

poco a poco la dimensione reale che fa tutt’uno con l’ambiente, i luoghi, le

cose.

La storia di Edmund che vive, quasi estraneo e abbandonato a se stesso, in

una famiglia dilacerata, subisce l’influenza di una educazione nazista sino ad

uccidere il padre “socialmente inutile” e finisce suicida sullo sfondo di una

Berlino distrutta, è anche la rappresentazione emblematica di una crisi morale

ed esistenziale, manifestazione di una condizione umana. Pare che Rossellini

voglia limitarsi a seguire il protagonista nel suo vivere quotidiano, nelle sue

azioni minime, nei suoi pensieri e nei suoi atteggiamenti sullo sfondo di una

Berlino smembrata e rasa al suolo, quindi realistica, ma anche pregna di un

significato altro, ovvero quello della desolazione umana lasciata dalla guerra.

Così senza analizzare nel dettaglio la società tedesca del post-nazismo,

Rossellini si limita a proporre non delle soluzioni, ma delle possibilità, ossia

fatti che possono essere interpretati in vario modo4.

Quello di Rossellini sembra un atteggiamento che si presta a equivoci

3 S. MASI, I film di Roberto Rossellini, Gremese, Roma 1987, p. 35 4 G. RONDOLINO, Roberto Rossellini, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 62-64

47

perché è la realtà, nella sua polivalenza, a suggerire interpretazioni equivoche o

ambigue. Nel limitarsi a documentare la realtà egli pare rifugiarsi dietro

l’evidenza, e quasi annullarsi nella manifestazione, addirittura nella nascita, di

una realtà, di cui la sua cinepresa è soltanto un mezzo di rivelazione.

Ciò che il regista ci mostra deve stimolare lo spettatore a riflettere

sull’uomo messo di fronte alle sue responsabilità, a cogliere un possibile

superamento degli schemi comportamentistici abituali e a sentirsi capace di

reagire davanti alla crisi di valori di una società che diventa la crisi di una

intera civiltà5.

Quasi un intento pedagogico quello di Rossellini, come ci suggerisce il

commento in over sound che apre il film.

1. La voce di Germania anno zero

Subito dopo una didascalia sentiamo le prime parole della voice over che con

un timbro asettico e impersonale ci dà delle informazioni, non sulla diegesi

come di consuetudine, ma sul film stesso: «Questo film girato a Berlino

nell’estate del 1947 non vuole esse che un quadro obiettivo e fedele di questa

immensa città semidistrutta».

La voce quindi sembra prendere le veci dell’autore, il quale vuole mettere

subito in chiaro l’oggettività con cui prenderà in esame la vicenda trattata dalla

diegesi. Una professione di poetica, quindi, che rispecchia il concetto

neorealista del pedinamento della realtà, osservata e riportata senza filtri.

5 S. BERNARDI, I paesaggi nella “trilogia della guerra”: realtà e metafora, in Storia del

cinema italiano 1945-1948, a cura di C. Cosulich, Marsilio, Venezia 2003, pp. 108-113

48

Questo concetto però pare messo subito in discussione dalla voce stessa, la

quale prosegue dicendo: «in cui (Berlino) tre milioni e mezzo di persone

trascinano un’esistenza spaventosa, disperata, quasi senza rendersene conto.

Vivono nella tragedia come nel loro elemento naturale, ma non per forza

d’animo o per fede, per stanchezza».

Qui la voce narrante non sembra assumere una posizione distaccata e

oggettiva rispetto alla realtà, ma appare molto coinvolta in quello che vuole

mostrare. Il tono di voce si fa più intenso sulla parola «spaventosa» e anche lo

stesso uso dell’espressione «trascinano un’esistenza» appare come una

marcatura di pathos, più che una constatazione di fatto.

Il tono della voce poi è reso ancora più ricco di pathos mediante

l’accompagnamento visivo, ma soprattutto per mezzo dell’accompagnamento

musicale.

Le immagini inquadrano con fare documentaristico una Berlino in macerie e

semideserta, che di per sé rispecchia in modo fedele la realtà, infatti Rossellini

girò veramente per le strade di Berlino, senza impiego di alcuna scenografia,

riportando la realtà così come si presentava nel dopoguerra6.

Invece la musica che accompagna la voice over assume un andamento

ascendente a intervalli regolari che mette in evidenza l’andamento stesso delle

frasi pronunciate dal narratore. Infatti essa ha i suoi punti di culmine nelle

pause che la voce si prende per scandire il suo discorso. E’ come se mettesse

l’accento sui punti di maggior rilevanza scuotendo lo spettatore.

6 S. MASI, I film di Roberto Rossellini, Gremese, Roma 1987, pp. 32-36

49

Un altro elemento che mette in dubbio la totale oggettività dell’opera è la

didascalia posta prima dell’inizio del film. Essa recita così: «Quando le

ideologie si discostano dalle leggi eterne della morale e della pietà cristiana,

che sono alla base della vita degli uomini, finiscono per diventare criminale

follia. Persino la prudenza dell’infanzia ne viene contaminata e trascinata da un

orrendo delitto ad un altro non meno grave, nel quale, con la ingenuità propria

dell’innocenza, crede di trovare una liberazione dalla colpa».

E’ chiaro che in queste parole emerge il pensiero del regista, il quale vuole

sottolineare come il male sia scaturito dall’aver perso la retta via. La guerra si è

impossessata degli uomini, i quali non sanno più rispettare i padri e li uccide,

prima di autodistruggersi7.

L’intento, quindi è quello di smuovere le coscienze senza giudicare, come ci

tiene a sottolineare anche la voice over, la quale prosegue affermando: «Non si

tratta di un atto d’accusa contro il popolo tedesco e neppure di una difesa, una

serena costatazione di fatti». Quella di Rossellini è una posizione morale che

consiste nell’amore per il prossimo, non in una posizione dunque moralistica8.

Non vuole giudicare, ma riportare una situazione che sia di esempio per

migliorare la Storia.

L’intervento del narratore si conclude così con una vera e propria

dichiarazione di intenti: «Ma se qualcuno dopo aver assistito alla storia di

Edmund Koesler penserà che bisogna fare qualcosa, che bisogna insegnare ai

bambini tedeschi a riamare la vita, allora la fatica di chi ha realizzato questo

7 S. MASI, I film di Roberto Rossellini, Gremese, Roma 1987, pp. 32-36 8 G. MICHELONE, Invito al cinema di Roberto Rossellini, Mursia, Milano 1996, pp. 174-175

50

film avrà avuto una grande ricompensa».

Dunque lo scopo finale di Germania anno zero è squisitamente di tipo

pedagogico. Rossellini vuole scatenare nei suoi spettatori la voglia di protestare

contro l’ingiustizia e la sofferenza che schiaccia l’uomo. Sebbene il ricordo

della guerra sia ancora vivo (sono passati solo due anni), gli uomini devono

ritrovare la forza per impegnarsi ad aiutare il prossimo, in modo tale da

spezzare quella catena di violenza insulsa che continuava a ripetersi con lo

scoppio della Guerra Fredda. Un messaggio, quindi di fratellanza e solidarietà.

In conclusione la voce di Germania anno zero è la voce del regista che si

maschera dietro la voce di un personaggio anonimo per esprimere le sue

intenzioni e la sua posizione morale rispetto alla vicenda trattata.

E’ come se prendesse il microfono in mano e parlasse alla platea prima della

visione del film per augurarle un rinnovamento spirituale da propagare anche al

di fuori della sala cinematografica.

Capitolo VII

Sotto il sole di Roma (1948)

Se per Rossellini il neorealismo è una «posizione morale», per Castellani è «un

modo di raccontare una certa realtà, che nel dopoguerra si propone come

istintivo e necessario»1. A questo si aggiunge l’esigenza materiale di raccontare

le vicende in modo estremamente pratico, con i mezzi limitati a disposizione.

Per cercare i protagonisti di Sotto il sole di Roma Castellani manda nei vari

quartieri di Roma suoi incaricati che con gli altoparlanti radunano gente

avvisando che si cercano attori per un film. Folle di giovani accorrono nelle

palestre di quartiere. Castellani sceglie i migliori e scatta molte fotografie. Tra

questi Oscar Blando ottiene la parte di Ciro. Ha 24 anni e fa il bagnino in uno

stabilimento di Ostia. Francesco Galisando sarà il Geppa. Più difficile si

presenta la ricerca per la ragazza. Il coproduttore, Antonio Roi, propone di

consultare un “mago”, Valdemar. Costui prende la carta di Roma, si arma di

pendolino e sentenzia: «la sua ragazza è qui», indicando Trastevere. Le

ricerche si intensificano e la ragazza alla fine si trova nei pressi della caserma

Lamarmora. E’ Liliana Mancini e sarà Iris2.

La sceneggiatura viene scritta con l’aiuto di Sergio Amidei. Si comincia

così a girare il film con tutti attori “presi dalla strada”, salvo Alberto Sordi, che

veniva dal varietà.

E’ la storia di Ciro e del Geppa. Ciro, diciassettenne, disoccupato, è un

1G. DE VINCENTI, Il dopoguerra di Castellani, Lattuada e Zampa, in Storia del cinema italiano

1945-1948, a cura di C. Cosulich, Marsilio, Venezia 2003, p. 211 2 S. TRASATTI, Renato Castellani, La Nuova Italia, Firenze 1984

52

ragazzo scavezzacollo che va a fare il bagno nella “Marrana” e perde le scarpe

per la strada. Figlio di una guardia notturna, ozia volentieri mentre la mamma

lavora duramente. Geppetto, detto il Geppa, abita al Colosseo e usa il giornale

al posto delle lenzuola. I ragazzi raccolgono cicche di sigarette per venderle:

mezzo chilo per settanta lire, il prezzo per un paio di scarpe. Ma loro le scarpe

le rubano. Una volta si sbagliano prendendo due sinistre così le riportano al

negozio scaraventandole dentro una vetrina. Iris, innamorata di Ciro, gli

compra le scarpe con i soldi della spesa. Poi arrivano i tedeschi. Nella Roma

occupata i ragazzi fanno la “borsetta nera”. Ciro e Geppa vengono arrestati e

rinchiusi in un gabinetto dal quale escono furtivamente a causa di un

bombardamento. Nel frattempo la mamma di Ciro muore e arrivano gli

americani portando allegria e nuovi motivi di corruzione. Al «Liberty Club»

non si vendono più cicche ma sigarette. Ciro balla con la moglie del direttore

del dancing Fernando, facendole la corte, ma dopo qualche giorno si stanca e

decide di ricattarla, ricatto impedito poi da Iris. Ciro allora si ravvede e per

cambiare vita decide di fare un furto di gomme, ma Geppa scopre il piano e lo

riferisce a Iris, la quale lo raggiunge in tempo per fermarlo, ma nel trambusto il

padre di Ciro muore. Il ragazzo, così, davanti al cadavere del genitore

comprende quali siano i suoi doveri di uomo.

La vicenda è presentata in soggettiva. Il regista vede la realtà attraverso gli

occhi del giovane Ciro per il quale sostanzialmente tutto è motivo di

divertimento e di beffa, perfino i rischi della guerra. La voce fuori campo è qui

usata, per la prima volta, non come un espediente narrativo che si sovrappone

53

sulla storia dal di fuori, ma come elemento costitutivo della storia stessa. Le

istanze del neorealismo, quindi, si fanno sentire senza però monopolizzare

l’attenzione del regista. I personaggi appaiono qui creati in una vivida

immediatezza umana all’interno di un’atmosfera storica ben percepibile e

dettagliata3.

Sotto il sole di Roma nasce contemporaneamente a Germania anno zero e a

Ladri di biciclette, ma sembra distanziarsene. In realtà Castellani arriva sulla

stessa materia in modo diverso, originale e personale. Del neorealismo prende

l’essenziale, come i locali che hanno la stessa destinazione nella vita e

l’ambiente che è quello dei poveri, o come la predilezione per le riprese

esterne, l’uso di attori non professionisti, il linguaggio dialettale, ma

principalmente il modo coraggioso e nuovo di guardare la realtà, abolendo i

diaframmi spettacolari più convenzionali4.

Castellani si può riconoscere quindi nella definizione di Carlo Lizzani: «Il

neorealismo non è una moda scaturita da contingenze puramente casuali, non è

un frutto marcio del dopoguerra, non è una trovata di un uomo d’ingegno, o

uno slogan pubblicitario lanciato da qualche giornale straniero. E’ una delle

manifestazioni di rivolta di un certo numero di intellettuali e di artisti italiani

alle sovrastrutture più antiche e secolari di una vecchia cultura che per troppo

tempo ha rinviato il proprio riesame»5.

Alla base del film c’è lo sguardo alla condizione giovanile come ad un

3 S. TRASATTI, Renato Castellani, La Nuova Italia, Firenze 1984, pp. 42-50 4 AA. VV., Il neorealismo cinematografico italiano, a cura di L. Miccichè, Marsilio, Venezia

1999, p. 322 5 C. LIZZANI, Pericoli del conformismo, «Cinema», n. 12, 1949, p. 11

54

luogo e ad un tempo magico e disperato insieme, ma anche come a un

osservatorio privilegiato per un giudizio sincero sulla realtà circostante6.

La trama ricalca una sorta di romanzo di formazione, con la voce narrante

del protagonista che racconta i suoi diciassette anni nell’estate del 1943 e poi i

fatti salienti della sua vita fino all’inizio della repubblica. E’, come dirà alla

fine, l’età della «gioventù senza pensieri», quella in cui non ci si assumono

responsabilità, quella dei tentativi, delle prove, del riuscire a farla franca grazie

a qualcuno che ci protegge, e soprattutto perché a pagare sono gli adulti, i

nostri genitori. Ed è proprio il passaggio dall’adolescenza all’età adulta e in

definitiva il rito attraverso cui si entra a far parte di una collettività di

responsabili, che questo film rappresenta. Ciro perde entrambi i genitori, e

questa perdita contribuisce a segnare una tappa, nel film, dell’iter pedagogico

del protagonista7.

Ma torniamo ora sui nostri passi andando ad analizzare la voce di Ciro che

assiduamente percorre tutto il film.

1. La voce di Sotto il sole di Roma

«Il ricorso a un narratore fuori campo che interpreta praticamente il ruolo

dell’autore semplifica il processo narrativo: contrariamente, per esempio,

all’abitudine di Rossellini di mettere artificiosamente nelle bocche dei

personaggi elementi informativi essenziali per capire la situazione. Questo

purché l’uso del narratore non significhi fare della letteratura in un mezzo che

6 S. TRASATTI, Renato Castellani, La Nuova Italia, Firenze 1984, pp. 42-50 7 G. DE VINCENTI, Il dopoguerra di Castellani, Lattuada e Zampa, in Storia del cinema

italiano 1945-1948, a cura di C. Cosulich, Marsilio, Venezia 2003, pp. 207-211

55

non è letterario»8, così rifletteva Castellani in un’intervista nell’estate del 1983

sull’uso della voce narrante nei suoi film.

Sotto il sole di Roma si apre, come molti altri film con una voice over, ma

ha una particolarità nuova. La voce è quella di Ciro, il protagonista della storia:

«Questa che io vi racconto non è una storia inventata. E’ la mia storia». Quindi

quella che ci viene proposta è una storia raccontata in soggettiva da colui che

l’ha vissuta in prima persona, non più da un soggetto anonimo.

La voce fin dall’inizio si rivolge direttamente allo spettatore: «Questa che io

vi racconto […] è la mia storia». Ci sta parlando direttamente come se fosse al

nostro fianco in sala, e ribadisce questo stretto rapporto con noi spettatori

anche attraverso l’uso di interrogative nel corso dei suoi commenti in over

sound, come «Tornai a casa verso le due, affamato, senza una lira e i soldi delle

scarpe mi erano rimasti in tasca al Geppa. Dov’era andato il Geppa? Sparito», e

più avanti: «Ci andavamo tutti a ballare. Il Nerone con una ragazza che abitava

di fronte a lui. Il Coccolone con una cugina, Bruno e il Pirata con due

sigarettaie. E io? Anch’io andavo a ballare con la sora Tosca». Quasi come se

volesse instaurare un dialogo con chi lo ascolta.

Dato che il narratore è il detentore della storia, le inquadrature sullo

schermo di conseguenza non sono altro che le sue parole trascritte in immagini.

Un racconto orale che diventa visivo.

Significativo è il fatto che molto spesso le sue parole seguono o precedono

le immagini come se fossero un flusso continuo e inseparabile. Per esempio

8 S. TRASATTI, Renato Castellani, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 5

56

quando Ciro sta per uscire con gli amici commenta: «Quel giorno mi gridò (sua

madre) anche» seguito subito dalla voce in campo «E lascia a casa quelle

scarpe nuove!» oppure alla battuta del padre del Coccolone «torna a casa se no

‘sta sera a casa te striglio» Ciro commenta: «Macché, noi correvamo già verso

la marrana» e altri: «i compagni mi venivano a fischiare alla finestra ma io

gridavo» «via che dormo!»; «allora Romoletto vedendo che perdeva, mi dice

pieno di rabbia» «a pagliaccio, ti sei fatto comprare le scarpe da una donna».

E’ la voice over la creatrice della diegesi e quindi del suo tempo e del suo

spazio: «Abitavamo a porta San Giovanni. La mia finestra dava sul piazzale

dove tutto il giorno passavano i tram» e continuerà lungo tutto il film:

«Quell’estate del 1943 pareva che fosse più caldo degli altri anni. Io aspettavo

che mi chiamassero a fare il soldato perché gli alleati erano sbarcati in Sicilia e

chiamavano anche le classi più giovani», «La mattina del 19 luglio, il giorno

che bombardarono Roma. Da quel giorno la guerra arrivò di colpo dentro casa.

I tedeschi comandavano a Roma». E ovviamente si farà anche carico di

presentare i vari personaggi che prenderanno parte al racconto sempre

supportato dal racconto delle immagini.

Ciro sembra analizzare a distanza di tempo (i verbi sono sempre usati al

passato) il suo percorso formativo. Egli incomincia il racconto dicendo che

trascorre le giornate a fare «il bagno alla marrana» oppure «stavo in casa e

passavo le giornate sul letto», una gioventù senza pensieri dunque, ma poi

qualcosa cambia: «i biglietti da mille valevano poco ma ce ne erano tanti.

Addio marrana e ranocchie», «Io mi sentivo stanco, scontento. Ero scontento di

57

Tosca, delle bugie che dovevo dire a Iris», «Che c’avevo in quei giorni io non

lo so. Ero scontento, ce l’avevo con tutti. Quello che il Geppa m’aveva detto

m’aveva fatto montare il sangue agli occhi. Sputare in faccia! A me! Iris aveva

ragione, ero un porco. Ma appunto perché aveva ragione mi faceva ancora più

rabbia». Ciro si sta rendendo conto che le cose non possono continuare, che

qualcosa deve cambiare, e la rivelazione gli giunge alla morte del padre:

«Allora capii. In quel minuto capii che era stato mio padre quello che pagava di

nascosto la vetrina rotta della calzoleria, le scarpe che noi ci perdevamo. Era

quello che pagava sempre per tutti. Anche adesso aveva pagato con la vita per

me. La gioventù senza pensieri era finita. Ora toccava a me pagare». Ciro è

diventato finalmente adulto e può concludere la sua storia retrospettiva.

La voce narrante però non è totalmente immersa nel passato, ma mantiene

dei legami con il presente, anche se non sappiamo con precisione da dove ci sta

parlando. Lo si può notare nei commenti riguardo ai personaggi e ai luoghi.

Dopo che ha introdotto la figura di Iris, esclama: «Quanto m’era antipatica

allora» oppure nel descrivere il luogo dove si trova la marrana: «Oggi il

sentiero non c’è più. Hanno costruito. E nemmeno le canne ci sono più» o

quando all’arrivo dei tedeschi sottolinea come «Io facevo finta di niente ma

c’avevo una paura!».

Il tono di voce assunto da Ciro sembra però più vicino a colui che sta

raccontando alla radio la sua storia, piuttosto che a una persona che sta

parlando con i suoi amici della sua vita. Infatti la sua voce è quasi fredda,

assumendo talvolta un’aria distaccata sebbene le sue parole rivelino il

58

contrario.

Castellani era molto legato al mezzo radiofonico, infatti al Politecnico di

Milano dove studiava Architettura conosce Luigi Castiglioni, il quale lo

introduce all’ora radiofonica dei GUF e all’esperienza del suono metraggio,

facendo il suo debutto con La fontana malata e La battaglia del Piave. Grazie

a questo debutto, molto apprezzato dal fascismo, gli viene proposta nel 1935

una collocazione all’ufficio stampa in Africa Orientale con il compito di

organizzare le trasmissioni radiofoniche per l’Italia, compito che però non

verrà accettato dal regista9. Quindi Castellani sembra rimanere ancorato al

trattamento della voce fuori campo dei suoi predecessori pur rinnovando la sua

dimensione che da oggettiva diventa soggettiva.

In conclusione la voce di Sotto il sole di Roma diventa un personaggio ben

riconoscibile e coinvolto direttamente nella diegesi, anzi senza di lui la storia

non ci sarebbe nemmeno. Diventa il fulcro del film. Un personaggio non più

anonimo, ma che si rivela al pubblico come testimone di una storia personale e

unica.

9 S. TRASATTI, Renato Castellani, La Nuova Italia, Firenze 1984, pp. 11-14

Capitolo VIII

Riso amaro (1949)

«Col suo cinema De Santis individua le classi popolari come protagonista e

come spettatore. Vuol fornire loro uno specchio, cioè la possibilità di guardarsi

attraverso il film»1. E’ per questo motivo che De Santis realizza Riso Amaro, la

cui idea nasce quando il regista di Fondi, di ritorno da Parigi dov’era stato per

una proiezione di Caccia tragica, si imbatte alla stazione di Milano in due treni

di mondariso. Affascinato dai canti, dalle battute e dalle grida delle donne,

decide di sottoporre alla Lux nel 1947 un possibile progetto su questa realtà.

Il film viene così realizzato nel 1948 con la collaborazione alla

sceneggiatura di Carlo Lizzani, Corrado Alvaro e Gianni Puccini e presentato

al Festival Internazionale di Cannes del 1949.

I treni che portano le mondariso alle pianure sono pronti per partire, tra la

folla alcuni agenti in borghese sono sulle tracce di Walter Granata, un ladro che

la notte prima ha rubato una collana da cinque milioni. Anche la sua fidanzata

Francesca si trova alla stazione, ma lei non essendo pedinata può facilmente

nascondersi tra le mondine portando con sé la refurtiva, così sale sul treno dove

incontra Silvana, la quale volendo ottenere la sua fiducia (l’aveva vista in

stazione insieme a Walter, uomo affascinante di cui Silvana si è invaghita) la

aiuta a trovare lavoro in risaia presentandola come clandestina. Le mondine si

stabiliscono in una caserma momentaneamente deserta e qui Silvana ruba di

1 S. MASI, Giuseppe De Santis, La Nuova Italia, Firenze 1982, p. 44

60

nascosto la collana a Francesca. Tutte si recano al lavoro, ma sembra che le

clandestine non possano lavorare; dopo un simbolico scontro che ha per teatro

la risaia, le lavoratrici “regolari” si schiereranno a fianco delle irregolari

ottenendo di poter lavorare tutte quante insieme. Dopo questo episodio Silvana

restituisce la collana sotto gli occhi di Marco, un giovane militare in servizio

nella zona, riappacificandosi con Francesca, la quale le racconta la sua vita con

Walter. Quando questi arriva in risaia si scazzotta subito con Marco per via di

Silvana; poi rivela a Francesca che la collana è falsa. Perseguitato ancora dalla

polizia, Walter decide di nascondersi nel magazzino del riso, dove si incontra

quotidianamente con Francesca e dove complotterà con alcuni caporali per

rubare il riso. Il sergente Marco corteggia senza essere ricambiato Silvana, la

quale a sua volta diventa l’amante di Walter. E’ sera: le mondariso hanno

organizzato una festa d’addio. Walter conta sulla confusione per potersi

allontanare indisturbato con i camion carichi di riso, contando anche di allagare

la piantagione. Silvana viene proclamata Miss mondina 1948, ma arriva la

notizia dell’allagamento. Marco insieme a Francesca cerca Walter, il quale,

fallito il colpo, si sta recando alla macelleria con Silvana. In un duello

all’ultimo sangue, il ladro viene ucciso. Silvana sale su un’alta impalcatura e si

lascia cadere nel vuoto.

Silvana si chiamava Silvana davvero, Silvana Mangano. Di cinema ne aveva

fatto poco, ma dopo Riso Amaro divenne più che una star, un mito, realizzando

il sogno della mondina Silvana.

Ma Riso amaro non è solo un film che si offre ad un pubblico popolare. E’

61

anche un’opera sulla cultura di massa, cioè una riflessione intorno ai problemi

del consumo di massa della cultura nell’Italia del dopoguerra. L’Italia che Riso

amaro mette in scena vive il trauma di una liberazione che non è solo

abbattimento del regime fascista, ma anche liberazione del desiderio di

accedere a quelle forme di sogno collettivo che arrivavano soprattutto dagli

Stati Uniti (Silvana legge «Grand Hotel», mastica chewing-gum, balla il

boogie-woogie, si porta il grammofono in risaia). Negli ultimi anni quaranta il

problema della definizione del far cultura era molto sentito, come pure era

molto sentita la necessità di misurarsi con i nuovi miti. Quali? Vi erano nuovi e

vecchi miti, ma soprattutto vi erano nuovi mezzi che li veicolavano2.

L’analisi della visione mitica della vita presso le classi contadine occupa

una parte rilevante nel film, il quale può essere suddiviso, come sostiene

Stefano Masi3, in tre livelli: nel primo giace allo stato puro la materia mitica, il

secondo livello, invece, si risolve tutto sul piano visivo e sonoro (si ricordi il

sinistro cigolio del duello nella macelleria), il terzo, infine, analizza il mito

descritto dal primo livello.

«Il cinema interessa all’artista perché gli dà la possibilità di parlare a tutti»4

e De Santis sembra riuscirci. Il primo livello di Riso amaro funziona in

relazione ad un immaginario popolare. Qui il male è il male e il bene è il bene;

ci sono i vincitori e ci sono i vinti, secondo una schema antico. Prendiamo per

esempio il mito del destino. Walter ricorda a Francesca il rapporto di

2 AA. VV., Visioni moltiplicate: immagini culturali in Riso amaro, a cura di G. Michelone e G.

Simonelli, Edizioni Mercurio, Vercelli 1996 3 S. MASI, Giuseppe De Santis, La Nuova Italia, Firenze 1982, pp. 41-51 4 G. DE SANTIS, Confessioni di un regista, «Rivista del cinema italiano», n 1-2, gennaio-

febbraio 1953, p. 8

62

complicità che li lega nel male: «Mondina o cameriera, tu sei sempre legata a

me … ricordatelo: fino alla galera!», loro sono la coppia di cattivi, uno dei

quali è pentito e minacciato dall’altro che invoca l’impossibilità di agire sul

proprio destino e mutarlo. Walter però sbaglia la sua previsione, aprendo la

speranza, la possibilità di riscatto in una visione che può essere definita

socialista (non si dimentichi che De Santis era un fervido sostenitore del Partito

Comunista).

Il secondo livello è indirizzato alla borghesia silenziosa, rispettabile che non

ha però la cultura dell’intellettuale, quindi a una classe priva sia di quella

permeabilità al mito che è caratteristica dell’immaginario popolare sia del

bagaglio di conoscenze proprie di una élite colta. La stessa borghesia che aveva

permesso al regime fascista di prendere il potere e che amava solo la bellezza

fine a se stessa. A questo livello le evoluzioni che la macchina da presa compie

sulla gru, le coreografie delle mondine disposte come in un musical di

Hollywood hanno un senso puramente visivo e spettacolare.

Il terzo e ultimo livello è destinato a chi ha velleità intellettuali. A coloro

che si interessavano della diffusione della cultura, poteva sembrare inquietante

la presenza di uno speaker radiofonico che, al principio del film, mescola

informazione e spettacolo, dati geografici e retorica5. La sua voce è morbida, il

suo tono professionalmente accattivante: «Sono alcuni secoli che nell’Italia

settentrionale si coltiva il riso. Come in Cina, come in India. Cresce su

un’immensa pianura che copre le provincie di Pavia, di Vercelli, di Novara. Su

5 S. MASI, Giuseppe De Santis, La Nuova Italia, Firenze 1982, pp. 41-51

63

questa pianura hanno impresso segni incancellabili milioni di mani di donne.

[…] Oggi abbiamo voluto offrire ai nostri ascoltatori una trasmissione

eccezionale …». Qual è questa trasmissione eccezionale? E’ semplicemente la

realtà, realtà all’interno della quale il medium radiofonico ricerca lo spettacolo.

E’ già lo spettacolo della comunicazione di massa, della riproduzione e della

trasmissione della realtà. Emerge quindi per i più attenti il problema filosofico

della consistenza della realtà, il conflitto tra questa e l’illusione. Lo si può

notare in piccoli dettagli, come la collana falsa ritenuta vera o le sagome umane

di cartone che i soldati trascinano e che servono per le esercitazioni di tiro.

Ma passiamo ora ad analizzare in dettaglio la presenza di questo speaker

radiofonico “inquietante”.

1. La voce di Riso amaro

Subito dopo i titoli di testa compare un’inquadratura in primo piano di un

uomo che parla guardando direttamente in macchina da presa. E’ lo speaker

radiofonico che non ha ancora rivelato la sua posizione. Egli ci introduce nella

storia descrivendo, come sempre, lo spazio, ovvero l’Italia settentrionale delle

pianure di riso, e i protagonisti, le mondariso che con le loro «mani delicate e

veloci, le stesse che sanno infilare pazientemente l’ago e cullare i neonati»

sono le uniche a poter svolgere questo lavoro allo stesso tempo duro e preciso.

Ma parla anche di luoghi, azioni e tempi lontani, leggendari, quasi da sogno,

come se stesse parlano di un racconto romanzato di un mito, di una leggenda:

«Sono alcuni secoli che nell’Italia settentrionale si coltiva il riso. Come in Cina

64

come in India. […] Su questa pianura hanno impresso segni incancellabili

milioni di mani di donne che l’hanno frugata e assestata per quattrocento, per

cinquecento anni. E’ un lavoro duro e immutabile»6.

Eppure vi è qualcosa di insolito nella voce del narratore, infatti non è quella

voce impostata e asettica, quale poteva essere la voce di Paisà e quale deve

essere la voce di uno speaker radiofonico, ma una voce dolce e suadente, quasi

fraterna, che sembra parlare tra sé e sé più che allo spettatore o a un microfono.

Lo si intuisce anche guardando le immagini. L’uomo non ha sempre lo sguardo

fisso in camera, ma lo rivolge in uno spazio fuori dall’inquadratura che noi non

possiamo vedere, ma che intuiamo, come quando alla frase «è un lavoro duro e

immutabile: le gambe nell’acqua, la schiena curva, il sole a picco sulla testa»,

volge gli occhi al cielo, come se le sue parole incominciassero a creare lo

spazio diegetico. Che stia ricordando, preparandosi a raccontarci una storia che

ha vissuto?

Dopo questa introduzione intimista, vi è uno scatto brusco, quasi

un’inversione a U. La macchina da presa fa una carrellata all’indietro fino a

inquadrare il narratore a mezza figura, mostrando così il microfono

radiotrasmittente e lo spazio circostante, ossia la stazione con i treni che

porteranno le mondariso nelle pianure.

Anche a livello sonoro assistiamo a un repentino cambiamento. Innanzitutto

entrano in scena i rumori della stazione con le grida delle donne (mentre prima

vi era un innaturale silenzio) nonostante lo spazio sia sempre quello; ciò

6 AA. VV., Riso amaro: il film, la storia, il restauro, a cura di G. Michelone e G. Simonelli,

Edizioni Falsopiano, Alessandria 1999, pp. 82-89

65

conferma lo stato particolare in cui si trova lo spettatore all’inizio del film,

quasi come se fosse nella mente dello speaker ad ascoltare i suoi pensieri.

In secondo luogo è il narratore stesso a stupirci, strappandoci dall’atmosfera

ovattata iniziale cambiando completamente registro di voce. Adesso ha

indossato i panni dello speaker radiofonico e ci parla con voce asciutta,

determinata e allo stesso tempo accattivante, nonché con una certa fretta: «Qui

parla “Radio Torino”. Oggi abbiamo voluto offrire ai nostri ascoltatori una

trasmissione eccezionale. Ci troviamo fra i treni che trasportano le mondariso

sui luoghi del lavoro». Veniamo a questo punto portati a contatto con la storia

attraverso una panoramica da destra a sinistra che mostra un tratto di stazione e

il gran movimento di mondariso tra binario e binario e altre mondine che

arrivano con un camion. Ma siamo ancora legati alla voce off che non

mostrandoci mai più il suo corpo ci fornisce altre indicazioni su tempo, spazio

e caratteristiche delle future protagoniste, cambiando per l’ennesima volta tono

di voce. Questa diventa arida, impostata, dal tono interpretativo piatto e con

uno stile semplice e coinciso, assumendo un’aria distaccata, quasi assente, al

contrario del coinvolgimento emotivo delle prime battute: «Ogni anno ai primi

di maggio, le mondine partono verso la pianura del riso. Vengono da ogni parte

d’Italia. E’ una mobilitazione di donne di tutte le età e di tutti i mestieri,

contadine in maggioranza, ma anche operaie, commesse, sarte, dattilografe. La

stagione di monda dura quaranta giorni. E sono quaranta giorni di gravi fatiche.

Diamo ora la parola a una mondariso, una fra le tante. Ehi, tu, vieni qua: il tuo

nome per favore. – Cerri Severina di Monselice. – Ecco, attenzione, attenzione

66

perché adesso Severina Cerri vi dirà le impressioni, i bisogni, gli ideali di

queste lavoratrici.». In questa ultima parte dell’intervento la voce torna

compartecipativa, pur rimanendo nella sfera di influenza della radio. Essa

diventa dialogo, quindi parola agita7.

A questo punto la panoramica si arresta su due uomini in piano americano

che sembrano poliziotti e ascoltiamo il loro dialogo. Ora siamo completamente

immersi nella storia. Stiamo vedendo il racconto di Severina trasmesso alla

radio, oppure stiamo assistendo alla storia con gli occhi dell’intervistatore, che

dopo aver ascoltato la testimonianza della mondariso ce la riporta filtrata dalla

sua memoria?

Lo speaker radiofonico, quindi, è colui che narra la storia, prendendo lo

spettatore per mano e coinvolgendolo in prima persona guardandolo dritto

negli occhi, per poi separarsi diventando pura voce narrante, voce della

tradizione orale. Allo stesso tempo però, sembra voler assumere una posizione

distaccata, frapponendo tra sé e lo spettatore la macchina fredda della radio.

Non sa se essere un personaggio identificabile o un narratore anonimo.

De Santis sembra così volerci dare una campionatura delle varie tecniche

oratorie e comunicative che la voce può offrire, semplicemente cambiando il

tono, il ritmo e il volume. Una voce che ha il potere di conquistare il suo

ascoltatore, un potere che può rivelarsi un’arma a doppio taglio, sfociando

nell’omologazione culturale dei nuovi mezzi di comunicazione (i personaggi

negativi sono vittime della fascinazione di questi mezzi, come Silvana che

7F. VILLA, L’analisi, la voce narrante in un film di confine, in Visioni moltiplicate: immagini

culturali in Riso amaro, a cura di G. Michelone e G. Simonelli, Edizioni Mercurio, Vercelli

1996, pp. 80-84

67

ascolta il grammofono in risaia)8. Il novecento, infatti, è un secolo di svolta dal

punto di vista cognitivo ed espressivo, come ha evidenziato Pietro Ingrao9.

Libro, cinema e radio diventano potenti strumenti di educazione e formazione

di massa; si rompe l’isolamento e l’idiotismo del villaggio e del piccolo centro

di provincia; si accelerano i processi di urbanizzazione. L’Italia del dopoguerra

si trova così sospesa tra le sue tradizioni rurali e le nuove tradizioni

“americaneggianti”.

La figura dello speaker assume quindi «l’incarico di far assistere ad un

avvenimento un’immensa folla invisibile e non solo di farla assistere, ma di

tenerla interessata sino alla fine»10, agganciando senza tregua il pubblico al

visivo che genera. Ma egli introduce un racconto che, partendo da

un’informazione sociologica, si sviluppa come “messa in scena” della realtà,

non riporta la realtà stessa, quindi può anche ingannare.

La voce fuori campo riappare solo alla fine del film, la quale si sofferma sul

futuro delle mondine: «E così un’altra monda è passata. Ora si torna a casa.

Alcune riprenderanno il lavoro accanto alla macchina da cucire, altre si

spargeranno sui campi per la mietitura; altre ancora torneranno nelle fabbriche

e un altr’anno, a maggio, verranno di nuovo sulla pianura del riso, e forse

saranno le stesse che abbiamo conosciuto di Arceto, di Schio, di Nonantola, di

Rio Saliceto, di Casumaro, di Cento, dell’Emilia, del Veneto, della Lombardia,

di ogni villaggio del Nord». La voce si rivolge allo spettatore quando afferma

8 E. PREMUDA, Il coro sulla scala: il rapporto suono-immagine nella stagione neorealista di

Giuseppe De Santis, Edizioni della Battaglia, Palermo 2000, p. 27 9 P. INGRAO, Un’educazione sentimentale, in Rosso fuoco: il cinema di Giuseppe De Santis, a

cura di S. Toffetti, Lindau, Torino 1996, pp. 57-61 10 E. GIOVANNETTI, Il cinema e le arti meccaniche, Sandron, Milano 1930, p. 183

68

«e forse saranno le stesse che abbiamo conosciuto» enumerando di seguito le

provenienze delle mondine che effettivamente collaborarono come comparse al

film. La realtà prende il sopravvento, siamo fuori dalla diegesi e non a caso

manca un qualsiasi riferimento della voice over al destino dei personaggi

principali, motori della finzione11. Si chiude un cerchio: lo speaker ritorna a

parlarci con quella voce calma e distesa dell’inizio del film, riprendendoci per

mano, ma questa volta allo scopo di farci uscire dalla diegesi. E’ significativo

che l’ultima battuta del dialogo, che precede l’ultimo intervento della voice

over sia «Su via, qui non c’è più niente da vedere, andate».

Il fare riferimento alle mondine come a persone la cui conoscenza viene

condivisa con lo spettatore implica, inoltre, che il narratore non le ha perse di

vista nemmeno un attimo, seguendole, silenzioso, durante l’arco dell’intera

vicenda. Ha ascoltato attentamente la storia di Severina Cerri, ed ora che l’ha

raccontata ad altri, il suo compito è terminato.

In conclusione, in Riso amaro la voice over anonima e testimone sembra

cambiare fisionomia rispetto ai suoi predecessori. Sebbene il locutore non sia

un narratore in voice over propriamente detto, tuttavia la sua voce viene

percepita a tratti come tale. La voce che si fa sentire all’attacco del film ha

un’origine visibile, ben iscritta nel quadro. E’ la voce che sottolinea lo sguardo

in macchina di un uomo in primo piano che rende noti alcuni dati sulla

coltivazione del riso nell’Italia settentrionale. Un carrello indietro,

congiuntamente alla frase «Qui Radio Torino», rivela che l’uomo è uno

11 E. PREMUDA, Il coro sulla scala: il rapporto suono-immagine nella stagione neorealista di

Giuseppe De Santis, Edizioni della Battaglia, Palermo 2000, p. 31

69

speaker radiofonico che sta registrando un servizio sull’arrivo e lo smistamento

delle mondine.

Si vede come il narratore non sia più un soggetto anonimo distanziato dal

mondo rappresentato, bensì un singolo che si trova nella storia. La voice over

facendosi in viene attribuita ad un soggetto, perdendo così la qualità

dell’anonimato. Ora è una figura con un volto determinato a prendere su di sé il

mandato di condurci nel mondo della diegesi, a introdurci nella storia delle

mondine. Il suo essere inscritto nel quadro relativizza quelle parole al suo dire,

espropriandole dalla bocca della possibile collettività che si nasconde dietro

all’anonimato. Quindi non più voce dietro alla quale sta un coro, ma una voce

appartenente ad un singolo corpo.

Capitolo IX

Non c’è pace tra gli ulivi (1950)

Nel recensire sulla rivista «Cinema» Un pilota ritorna (1942) di Rossellini,

Giuseppe De Santis evidenziò che «creare una coscienza generale, senza limiti

di sorta, cui ogni uomo si senta indissolubilmente legato in un rapporto di

diritti e di doveri con gli altri, questo è il compito più urgente dell’educazione.

[…] Dunque: propagandare, sia risvegliare negli animi intorpiditi fiducia e

speranza!»1. Intento che non era riuscito ad esprimere Rossellini con i suoi

primi film, ma che il regista di Fondi svilupperà nel suo quinto

lungometraggio, realizzato nel 1950: Non c’è pace tra gli ulivi.

De Santis era molto interessato alle lotte contadine e dopo il successo di

Riso amaro avrebbe voluto realizzare un progetto sull’occupazione delle terre,

intitolato Noi che facciamo crescere il grano. Ma a un certo punto la Lux si

rifiutò di produrlo; così al posto di questo film fece Non c’è pace tra gli ulivi,

sceneggiato assieme alla squadra di Riso amaro, ovvero in collaborazione con

Carlo Lizzani e Gianni Puccini.

Siamo in Ciociaria. Il pastore Francesco Dominici è appena tornato al suo

paesino dopo tre anni di guerra e altrettanti di prigionia, ma la sua famiglia è

ridotta in miseria a causa di Agostino Bonfiglio che le ha sottratto il gregge.

Francesco decide di farsi giustizia da sé e, di notte, insieme ai suoi famigliari

va a riprendersi le sue pecore, ma Bonfiglio se ne accorge e si lancia

1 G. DE SANTIS, Un pilota ritorna, «Cinema», n.140, 25 aprile 1942, p. 34

71

all’inseguimento dei fuggitivi. Riuscirà a recuperare solo le pecore rimaste

indietro assieme alla sorella di Francesco, Maria Grazia, la quale verrà

violentata da Bonfiglio. Quest’ultimo fa causa a Francesco, il quale viene

arrestato anche a causa dell’indifferenza degli altri pastori che sanno ma non

parlano. In tribunale l’unica che può testimoniare a favore di Francesco è

Lucia, sua fidanzata, la quale però, avendo dei debiti verso Bonfiglio,

testimonierà il falso. Così Francesco viene condannato a quattro anni di

carcere, ma evade poco prima di Pasqua, con l’intento di uccidere Bonfiglio.

Intanto gli altri pastori hanno preso coscienza del fatto che Bonfiglio li sta

sfruttando e decidono di mettersi dalla parte di Francesco, il quale viene

accolto da Bonfiglio con una scarica di mitra. Parte un inseguimento durante il

quale Bonfiglio ucciderà Maria Grazia per poi, braccato da Francesco, gettarsi

da un dirupo. Francesco si consegna ai carabinieri, ma ci sarà la revisione del

processo.

Non c’è pace tra gli ulivi stilisticamente esprime, sin dal principio, alcune

idee portanti, concretate con estremo rigore lungo l’intero film.

In primo luogo sfrutta le potenzialità narrative legate alla tecnica della

profondità di campo, grazie alla presenza sul set del fotografo Piero Portalupi.

Il panfocus tiene a fuoco sia il personaggio in primo piano che quello sullo

sfondo, riuscendo soprattutto a fornire una straordinaria definizione

all’immagine, i cui contorni appaiono insolitamente netti. Applicata in Non c’è

pace tra gli ulivi, essa rende quasi astratta la realtà delle alture abbastanza aride

della Ciociaria sulle quali pochi ulivi solitari spiccano tra le molte rocce e i

72

bassi cespugli, in un panorama selvatico e inospitale, reso ancora più incisivo e

definito dal bianco e nero di Portalupi2.

De Santis, inoltre, dirige i suoi attori con l’evidente intenzione di

sottolineare l’astrattezza di una particolarissima messa in scena: li lascia in

pose statuarie, li fa guardare quasi in macchina, un po’ più in alto dell’obiettivo

(si veda per esempio la prima scena tra Francesco e Lucia), fa abbassare la

macchina da presa in modo che l’inquadratura ci mostri personaggi dal basso

verso l’alto3. Così facendo, e soprattutto grazie all’uso del panfocus, dietro i

personaggi possiamo vedere, ben leggibile sullo sfondo, quel paesaggio al

quale il regista tiene tanto.

Sempre sulle pagine di «Cinema» il regista scrisse: «L’importanza di un

paesaggio e la scelta di esso come elemento fondamentale dentro cui i

personaggi dovrebbero vivere recando, quasi, i segni dei suoi riflessi, così

come intesero i nostri grandi pittori quando vollero sottolineare maggiormente

ora il sentimento di un ritratto, ora la drammaticità di una composizione, sono

aspetti di un problema quasi sempre risolto nel cinema degli altri paesi, mai nel

nostro»4.

Nel film De Santis mira a sottolineare l’appartenenza dei contadini e dei

pastori alla propria terra e viceversa. Un rapporto violento e sanguigno tra terra

e uomini. Gli uomini e le donne appaiono come rocce uscite dal paesaggio.

Perfino le nubi, che il panfocus disegna con contorni assolutamente netti dietro

2 S. MASI, Giuseppe De Santis, La nuova Italia, Firenze 1982, pp. 51-57 3 V. ZAGARRIO, La Ciociaria tra Acitrezza e la Monument Valley, in Non c’è pace tra gli ulivi:

un neorealismo postmoderno, a cura di V. Zagarrio, Scuola Nazionale di Cinema, Roma 2002,

pp. 68-72 4 G. DE SANTIS, Per un paesaggio italiano, «Cinema», n.27, 10 ottobre 1941, p. 21

73

Raf Vallone e dietro i fieri contadini ciociari sembrano massicce, forme

immobili, masse bianche del paesaggio che è teatro della vicenda5.

Il mondo ciociaro rappresentato nel film si esprime attraverso una cultura

decisamente arcaica. Prendiamo, per esempio, il gioco di sguardi: i personaggi

tendono a non guardarsi negli occhi, spesso guardano verso la macchina da

presa oppure tengono lo sguardo molto alto. Tutto ciò contribuisce a rendere

irreale, fantastico, il complesso del film.

De Santis applica questo procedimento per due motivi: da un lato, aveva in

mente un progetto di straniamento, dall’altro intendeva rifarsi ad una

constatazione antropologica, cioè il fatto che i contadini ciociari hanno

un’estrema riluttanza nell’esprimere i propri sentimenti, per cui quando lo

fanno tendono realmente a non guardarsi negli occhi6.

De Santis interviene così su uno dei codici cinematografici tra i più radicati

nella pratica di scrittura del film: il codice degli sguardi, sul quale si regge il

concetto di campo e l’impossibilità del suo scavalcamento. Questo codice è

sempre servito a costruire lo spazio della scena cinematografica. De Santis lo

rielabora per poter attuare un discorso antropologico personale, con il risultato

di approdare a quello che Alberto Farassino definiva «un cinema astratto,

lunare, allucinato, assolutamente unico nel panorama del cinema italiano di

quegli anni»7.

5 J. GILI, “Non c’è pace tra gli ulivi” tra constatazione documentaristica, impegno politico e

amore liberatore, in Rosso fuoco: il cinema di Giuseppe De Santis, Lindau, Torino 1996, p.136 6 V. ZAGARRIO, La Ciociaria tra Acitrezza e la Monument Valley, in Non c’è pace tra gli ulivi:

un neorealismo postmoderno, a cura di V. Zagarrio, Scuola Nazionale di Cinema, Roma 2002,

pp. 68-72 7 A. FARASSINO, Giuseppe De Santis, Moizzi Editore, Milano 1978, pp. 9-13

74

In Non c’è pace tra gli ulivi, inoltre, ritroviamo quel particolare uso della

voce fuori campo che De Santis ha già sperimentato. Ma in questo film la cosa

non è affatto mascherata e la voice over dichiara esplicitamente la propria

provenienza: «Chi vi parla è il regista del film». Ormai De Santis è un autore

affermato e può prendere la parola in prima persona.

1. La voce di Non c’è pace tra gli ulivi

La voce narrante ci fa sentire la sua voce subito dopo i titoli di testa. Essa come

sempre ci introduce nel luogo della storia, ovvero nella «Ciociaria. Una terra

che confina con il Lazio, la Campania e l’Abruzzo. Essa è nota a tutti soltanto

come una regione dove la gente porta ai piedi la ciocia e balla il saltarello;

eppure, non lontano da qui, è Cassino, ultimo segno di una sua secolare

sofferenza. E’ una terra che fu sempre calpestata nei secoli da cento eserciti

diversi: etruschi, romani, normanni, saraceni, spagnoli … e anche ieri, eserciti

di ogni parte del mondo, e per ultime le orde marocchine, lasciarono qui ferite

inguaribili.». Quello che ci viene presentato è un mondo arcaico, primitivo,

quasi un mondo originario, dove rifugiarsi dal presente.

Così anche il tempo non sembra trascorrere in questo luogo chiuso, ove

abitano persone dal carattere duro come i luoghi in cui abitano: «In tali offese,

antiche e nuove, è da ricercare l’origine del carattere così cupo dei ciociari,

diffidenti verso gli altri e tanto gelosi dei propri sentimenti, pronti all’ira come

alla gioia, fieri e spacconi, spietati nel soffrire e nel far soffrire. Chi vi parla è il

regista del film».

75

Ecco che la voice over dichiara esplicitamente la sua provenienza, il regista

afferma la sua presenza assumendosi la responsabilità di quello che racconta, si

mette in gioco sin dall’inizio. E’ dalle sue parole che nasce il racconto, creando

uno stretto legame con le immagini del film.

Il piano sequenza dell’incipit calca la mano con enfasi su particolari già

descritti dal commento in over sound. Alla frase «eserciti di ogni parte del

mondo lasciano qui ferite inguaribili» ci viene mostrata una croce composta da

due pezzi di legno su cui è appeso l’elmetto di un soldato tedesco, oppure al

commento «In tali offese antiche e nuove», l’immagine di una contadina che,

seduta tra l’erba secca e le rocce, sta allattando un neonato8.

Il narratore soprattutto ci sta raccontando una storia che ha vissuto in prima

persona, essendo lui stesso natio di quelle zone: «Sono nato anch’io da queste

parti e conosco molte storie accadute qui. Quella che vi racconterò si è svolta

di recente, su queste montagne.». Quindi lui stesso non può che essere

coinvolto nella storia, pur rimanendo una figura esterna al contesto sociale

descritto. La sua è una voce di intellettuale che analizza la condizione del

mondo rappresentato e, per quanto partecipe, assume una posizione giudicante

che progressivamente si rivela onnisciente e portatrice di un messaggio ben

preciso, come si vedrà nell’ultimo intervento9.

La voice over di Non c’è pace tra gli ulivi sembra essere imparentata con

quella di La terra trema. De Santis aveva lavorato con Visconti a Ossessione e

8 V. ZAGARRIO, La Ciociaria tra Acitrezza e la Monument Valley, in Non c’è pace tra gli ulivi:

un neorealismo postmoderno, a cura di V. Zagarrio, Scuola Nazionale di Cinema, Roma 2002,

p. 66 9 E. PREMUDA, Il coro sulla scala: il rapporto suono-immagine nella stagione neorealista di

Giuseppe De Santis, Edizioni della Battaglia, Palermo 2000, pp. 37-38

76

a una riduzione della novella di Verga, l’amante di Gramigna, progetto mai

andato in porto. E’ quindi plausibile che De Santis sia stato influenzato dal

lavoro di Visconti10 anche grazie alla rivista «Cinema» a cui ambedue

collaboravano.

Entrambe le voci infatti, sono portatrici di un’ideologia e presentano un

mondo arcaico che lotta per interrompere la ciclicità degli eventi che rischia di

travolgerli. Come i Valastro, anche la famiglia Dominici vive in una situazione

tragica e scomoda. A dircelo è come sempre la voce narrante che ci presenta a

uno a uno i componenti della famiglia: «Questo è Francesco Dominici, pastore

da quando è nato. Ha ventotto anni: tre ne ha passati in guerra, altri tre in

prigione. Ora è disoccupato. Suo padre. Su queste montagne tutti hanno

qualcosa: chi un campicello, chi un piccolo gregge. Lui non ha che una casa di

pietra per la sua famiglia. Concetta, la madre. Sono pochi i giorni che riesce a

fare da mangiare. Maria Grazia, sorella di Francesco. Ha diciassette anni, e

forse, come sempre alla sua età, qualche fantasia per la testa. Ma per ora si

contenta di mordere un lembo del suo fazzoletto. Ed ecco cosa è rimasto alla

famiglia Dominici», ovvero una pecora tra l’erba legata a una corda, come ci

rivela l’immagine.

Ma a differenza della voce di La terra trema che metteva in campo una

storia particolare, lontana dallo spettatore, il narratore di Non c’è pace tra gli

ulivi sembra avere una spinta più universale, che trapela dalla frase «Anche qui

(in Ciociaria), come in tanta parte del mondo, c’è chi ha e chi non ha, chi

10 M. MARCUS, Una pasqua sanguigna: da Verga a De Santis tramite Visconti, in Non c’è pace

tra gli ulivi, Scuola Nazionale di Cinema, Roma 2002, pp. 107-112

77

possiede qualcosa e chi niente», quasi a voler creare un legame con chi

osserva, il quale può benissimo trovarsi nella medesima situazione descritta

(siamo nel periodo della restaurazione).

Dopo questa lunga descrizione iniziale che porta lo spettatore ad immergersi

nella storia, il narratore ricomparirà solo attraverso due interventi lungo il film.

Il primo serve a segnalare il passare del tempo, ma non solo. La sua

funzione principale è quella di non lasciare spazio ad ambiguità alcuna,

richiamando l’attenzione dello spettatore sull’assetto ideologico. In particolare

in questo passaggio si evidenzia la totale indifferenza degli altri pastori. Siamo

ancora in una fase di stallo, dove Francesco vuole cambiare le cose, ma è

circondato dell’indifferenza, come ‘Ntoni Valastro: «Quest’anno la neve è

arrivata presto sulle montagne del mio paese, e nulla può fermare i pastori nella

loro discesa verso la pianura. Nemmeno l’avventura di Francesco Dominici,

pur così clamorosa, può mutare il corso alle loro antiche abitudini; e forse

l’hanno già dimenticata, ansiosi come sono di trovare cibo per i loro greggi

[…] E’ necessario che qualcuno dei pastori testimoni in favore di Francesco nel

processo che si sta preparando. Ma chi vorrà testimoniare per Francesco? Per

far da testimoni, i pastori dovrebbero abbandonare il gregge in pianura, risalire

la montagna, spendere danaro per il viaggio».

Compare anche una domanda rivolta probabilmente allo spettatore, proprio

come era solito fare il narratore di La terra trema ai suoi personaggi.

Il secondo intervento all’interno del film è il meno rilevante, in quanto mette

in luce solo il contesto temporale: «E’ già primavera. I pastori della mia

78

regione lasciano il mare. Riprendono il noto cammino che li riporta sulle nostre

montagne. Essi si affrettano per giungere in tempo a festeggiare la Pasqua con

le loro famiglie». L’unica cosa rilevante è la frase conclusiva, che evidenzia

come il narratore sia in realtà onnisciente, potendo prevedere il futuro dei

protagonisti: «Ma questa sarà una Pasqua di brutte sorprese per i pastori.».

Passiamo quindi all’intervento più importante della voice over, l’ultimo, il

quale ha il compito di chiudere il film esplicitando chiaramente l’ideologia

portante del racconto.

Che sia il più importante e denso di significato, lo rivela la protesta che De

Santis imbastì contro il Nulla Osta del 18 febbraio 1950 che gli impose di

sopprimere dal brano finale dello speaker che accompagna Francesco e Lucia

in chiusura di film «Questa è la storia di Francesco Dominici, pastore della

Ciociaria. Voi l’avete visto lottare persino contro la legge per avere ragione,

poiché si sentiva forte di un suo legittimo diritto. Spesso è costretta ad agire

così, la gente dalle mie parti. Francesco era solo, ma ha ottenuto giustizia

quando anche gli altri pastori hanno compreso che soltanto uniti gli uomini

possono dividere il giusto dall’ingiusto» le parole «persino contro la legge».

Polemica alquanto strana visto che la censura aveva visto la frase-pagliuzza e

non la trave marxista che tacitamente sostiene tutta l’argomentazione11, così

sulla carta in fin dei conti l’assetto ideologico rimaneva intatto.

Il narratore, quindi, senza mezzi termini ci rivela come il film sia la storia di

una presa di coscienza anzitutto individuale e poi collettiva. De Santis denuncia

11A. FARASSINO, Attori e pecore, storie di produzione di Non c’è pace tra gli ulivi, in Non c’è

pace tra gli ulivi: un neorealismo postmoderno, a cura di V. Zagarrio, Scuola Nazionale di

Cinema, Roma 2002, pp. 82-83

79

un mondo diviso in classi, ma soprattutto si sofferma sull’assunzione del valore

della solidarietà, intendendo per solidarietà la presa di coscienza che non può

esservi soluzione alcuna agli affanni individuali se non attraverso l’azione

collettiva, unendo energie e propositi, sortendo dal proprio guscio e aiutando

gli altri a farlo12.

Si rovescia così la visione deterministica iniziale proprio come in La terra

trema, ma in modo più positivo e ben augurante per il futuro.

Non a caso il film si conclude con un’inquadratura sui pastori, mettendo

così in risalto l’aspetto corale della presa di coscienza. Lo dice De Santis stesso

in un articolo sulla «Rivista del cinema italiano»: «Nel mio lavoro io mi sono

sempre sforzato di guardare non solo alle rinunce individuali della povera

gente, ma alle sue capacità di lotta, lotta che è il motivo della sua stessa

esistenza; mi interessavano cioè non gli individui isolati, semmai questi

individui come rappresentanti d’una classe, cellule di uno stesso organismo: la

comunità, il coro non il solista»13.

In questo ultimo intervento la voice over chiama direttamente in causa lo

spettatore: «Voi l’avete visto lottare», il narratore ha fornito le istruzioni per

agire nella Storia, e ciò spetta solo agli ascoltatori.

Il narratore di Non c’è pace tra gli ulivi è legato sia ai personaggi, con i

quali condivide lo spazio, anche se non simultaneamente, usando più volte nei

suoi interventi aggettivi possessivi («montagne del mio paese», «i pastori della

12 J. GILI, “Non c’è pace tra gli ulivi” tra constatazione documentaristica, impegno politico e

amore liberatore, in Rosso fuoco: il cinema di Giuseppe De Santis, Lindau, Torino 1996, pp.

135-138 13 G. DE SANTIS, Confessioni di un regista, «Rivista del cinema italaino», n.1/2, gennaio-

febbraio 1953, p. 24

80

mia regione», «nostre montagne», «spesso è costretta ad agire così, la gente,

dalle mie parti») e prevedendo le loro azioni; sia agli spettatori, i quali sono i

veri destinatari della sua storia e del suo messaggio.

In conclusione in Non c’è pace tra gli ulivi è il regista stesso a farsi

narratore in voice over. Il percorso di individuazione del locutore anonimo che

si è intravisto in Riso amaro qui viene spinto alle estreme conseguenze: il

soggetto oltre ad essere un singolo si carica anche di un’evidente unicità.

Un soggetto che testimonia una vicenda per proporla come esempio al suo

pubblico, invitandolo ad agire nella Storia.

Capitolo X

Il cammino della speranza (1950)

Il film nasce nel 1948, quando Pietro Germi stava partecipando nelle vesti di

attore al lungometraggio Fuga in Francia di Mario Soldati nella parte

dell’operaio Tembien. Durante le riprese del film, a Bardonecchia, era venuto a

conoscenza di una storia vera, raccontatagli da una guardia di finanza: pochi

giorni prima alcuni calabresi erano stati salvati dal congelamento mentre

tentavano di attraversare il confine francese (perennemente coperto dalla neve)

con scarpette di tela e giacchette estive. Da qui, e da un romanzo di Nino di

Maria, nacque, con la collaborazione di Tullio Pinelli e Federico Fellini, la

sceneggiatura di un film che sarebbe stato conosciuto poi come Il cammino

della speranza, ma che inizialmente doveva avere un titolo ben più brutale e

provocatorio: Terroni1.

La chiusura di una solfara lascia senza lavoro gli abitanti di un piccolo paese

della Sicilia, ma giunge da lontano un misterioso ingaggiatore, Ciccio, che

promette loro di farli emigrare in Francia per un compenso di ventimila lire a

persona. Anche se la paura è grande, la speranza lo è di più, e i paesani

accettano: «Tutto sarà meglio di quello che abbiamo adesso». Vendono così

ogni bene per poter racimolare la somma richiesta, e decidono di portarsi

appresso le donne, i vecchi e i bambini. Inizia dunque un lungo viaggio

attraverso l’Italia, in pullman e in treno. Fra gli emigrati c’è Saro, vedovo con

1 E. GIACOVELLI, Pietro Germi, Il Castoro, Milano 1997, p. 33

82

tre figli; ci sono due sposini; c’è un anziano ragioniere che non ha voluto

separarsi dai compaesani; c’è un bandito latitante, Vanni, con la sua ragazza,

Barbara, tenuta a sdegnosa distanza dalle altre donne. Alla stazione di Napoli

l’ingaggiatore cerca di scappare ma Vanni, di nascosto dagli altri, lo insegue e

lo riporta sul treno. Giunti a Roma, Ciccio si vendica, denunciando il bandito

alla polizia prima di dileguarsi. Vanni riesce a scappare, i compagni vengono

fermati e ricevono un foglio di via che li obbliga a far ritorno entro tre giorni al

paese. Non avendo però più niente da perdere, decidono di proseguire

ugualmente verso nord. In Emilia trovano lavoro per qualche giorno in una

fattoria, ma sono additati come crumiri dai braccianti del luogo in sciopero.

Scoppia così una violenta rissa nella quale la figlia di Saro viene colpita alla

testa da un sasso. Per questo motivo, mentre gli altri riprendono il viaggio, Saro

è costretto a fermarsi per alcuni giorni in Emilia; gli fa però compagnia

Barbara, che si sta innamorando di lui ed è disposta a diventare madre dei suoi

figli. I compagni d’avventura si ritrovano alcuni giorni dopo fra le nevi della

Valle d’Aosta, ormai a breve distanza dalla sospirata frontiera. Ci sono anche

Saro e Vanni: quest’ultimo, geloso di Barbara, sfida il rivale in duello a

coltellate sulla neve e resta ucciso. Anche l’anziano ragioniere muore, disperso

insieme al proprio cane nella tormenta. Ma alla fine il gruppo raggiunge la

frontiera. I gendarmi francesi li avvistano, dovrebbero rimandarli indietro,

invece la pietà è più forte del dovere, e fanno finta di niente. Gli emigrati così

possono ripartire con rinnovata speranza verso la Francia e verso il futuro.

Girato tra Favàna (Agrigento), Roma e Courmayeur, il film ebbe un

83

cammino non meno difficile di quello dei suoi personaggi. In un primo tempo

fu addirittura privato dei contributi ministeriali straordinari, che fino ad allora

non erano mai stati negati: lo si giudicò infatti privo dei necessari requisiti

tecnici e artistici. Poi, anche se i contributi gli vennero concessi da una

commissione d’appello presieduta da Andreotti, il film dovette comunque

subire vari tagli, in particolare nelle sequenze in cui la polizia, descritta in

modo realistico, non veniva messa in buona luce. In ogni caso c’erano troppi

“panni sporchi” che venivano messi in mostra2.

Il cammino della speranza inizia con una miniera chiusa, con una presa di

coscienza che induce ad abbandonare la terra natia per recuperare il diritto al

lavoro e alla dignità. Quello del film è «un neorealismo epico, una ballata

popolare […] è un film tutto italiano, ai limiti del regionalismo, un viaggio

morale attraverso il paese, da Sud a Nord, come quelli di Paisà e del futuro

Stanno tutti bene»3.

Il film sembra un racconto del raggiungimento dei propri sogni nonostante

le pessime condizioni di partenza: la povertà; la gente costretta a lasciare per

sempre la terra dov’è nata e dove non potrà morire; il viaggio, stipati come

bestie, attraverso la miseria e verso la speranza; gli sguardi muti in cui al fondo

della tristezza e della rassegnazione si accende ogni tanto qualche lampo di

rabbia o per lo meno di consapevolezza. I protagonisti vagano, trascinandosi

dietro i bambini, per un paese che è il loro ma li considera estranei, intrusi;

finiscono per diventare più o meno involontariamente crumiri e per scontrarsi

2 M. SESTI, Tutto il cinema di Pietro Germi, Baldini & Castoldi, Milano 1997, pp. 170-179 3 E. GIACOVELLI, Pietro Germi, Il Castoro, Milano 1997, p. 34

84

con altri poveri come loro. Ma non perdono mai del tutto la speranza, e alla

fine di ogni disavventura, di ogni primo piano doloroso, c’è qualche orizzonte,

qualche campo lungo, qualche montagna al di là della quale il futuro è ancora

tutto da vivere, tutto da costruire4.

Nel film si trova anche quell’atteggiamento solidale che si può riscontrare

anche in altri film neorealisti. Persino la donna del bandito, la donna perduta,

malvista dalle compaesane, viene infine accettata nel gruppo; e quando c’è un

breve ritorno di astio nei suoi confronti, con le altre donne che non vorrebbero

farla salire sul camion, il paladino della giustizia e degli ideali neorealisti (Raf

Vallone) accorre a difenderla a spada tratta gridando: «Disgrazie ne abbiamo

avute anche troppe. Nemmeno una bestia si potrebbe sperdere così». Il culmine

della solidarietà viene poi raggiunto nella festa campestre: il fervore delle notti

all’aperto dopo una giornata di lavoro, la musica che unisce bergamaschi e

siciliani, le coppie che si lasciano trascinare dal valzer, i bambini che ballano

fra loro, i vecchi che guardano la gioia dei giovani da lontano con serenità5.

In questo film sociale però, Germi non perde mai di vista gli individui

grazie all’uso frequente dei primi piani che non giudicano, ma si limitano a

prendere nota del loro agire, e facendo affiorare la loro umanità più attraverso i

silenzi che le parole, oppure attraverso la musica della chitarra che sconfigge i

momenti difficili mentre si sta camminando per campi che non sono i propri,

per strade che non sono quelle di casa6.

Il film si conclude però con una voce narrante che appesantisce il finale

4 M. SESTI, Tutto il cinema di Pietro Germi, Baldini & Castoldi, Milano 1997, pp. 170-179 5 E. COMUZIO, De Sica, Germi, Lattuada, Letture, Milano 1977, p. 160 6 E. GIACOVELLI, Pietro Germi, Il Castoro, Milano 1997, pp. 32-38

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ottimistico, rimarcando ciò che era stato detto attraverso la serie di sguardi e

primi piani carichi di speranza per il futuro che conclude il racconto.

1. La voce di Il cammino della speranza

Poco prima della fine del film, quando i nostri protagonisti sono giunti in cima

alla montagna dopo aver superato la tormenta, entra in scena la voice over che

ha nella realtà la voce di Pietro Germi stesso. Un ingresso quindi diretto del

regista che vuole avere l’ultima parola prima che finisca la sua opera.

Il narratore entra senza maschere nella diegesi in puro stile oratorio

rivolgendosi direttamente al pubblico. Infatti non sentiamo più i rumori che

provocano i personaggi che stanno camminando nella neve, ma solo la voice

over che si staglia sopra una musica leggera prendendo pieno possesso della

sfera uditiva.

La scena oratoria attrae molto Germi, il quale in un’intervista confessò: «Se

avessi tempo proverei a diventare deputato perché quando ho davanti molte

persone la mia timidezza svanisce e divento un oratore eccellente»7. Il suo

intento sembra quindi quello di prendere diretto contatto con la massa che lo

sta ascoltando in modo tale da «aiutare il genere umano a farsi delle domande»8

così da potersi migliorare.

Il messaggio che l’autore vuole trasmettere è affidato alle ultime frasi

dell’intervento in over sound: «Quassù, dove la solitudine è grande, gli uomini

sono meno soli e certamente più vicini che per le vie e nei caffè delle nostre

7 O. FALLACI, Il regista con la porta chiusa, «L’Europeo», 10 giugno 1962, p. 32 8 G. BACHMANN, Man is no longer enough for man, «Films and Filming», settembre 1966

86

città, dove la gente si urta e si mescola senza guardarsi in faccia. Lo scambio di

una sigaretta, l’offerta di un sorso di vino, hanno quassù un senso di calore

umano, esprimono un bisogno di fraternità che sovente gli uomini dimenticano,

ma che sempre fermenta nei loro cuori. Perché i confini sono tracciati sulle

carte, ma sulla terra, come Dio la fece, per quanto si percorrano i mari, per

quanto si cerchi e si frughi lungo il corso dei fiumi e sul crinale delle

montagne, non ci sono confini su questa terra». Germi vuole così evidenziare

come ormai l’uomo sia immerso in un luogo alienante, quello della città de Il

testimone, che rende gli uomini estranei agli altri uomini, in un tempo invece

che avrebbe un estremo bisogno di solidarietà umana.

Il narratore, essendo di fatto l’autore della storia, non può che essere

onnisciente. Infatti egli si dilunga, forse anche troppo, sul destino dei

protagonisti e dei coprotagonisti, riassumendo allo stesso tempo la storia

appena raccontata e il pensiero dei personaggi: «Poi, come Dio volle, passò la

bufera ed essi varcarono il confine. Erano stremati, ma il loro passo era vivace.

Davanti a loro più non c’era l’aspra paurosa montagna, ma un facile e aperto

declivio dove la loro speranza e le loro illusioni scivolavano dolcemente. La

Francia. E mentre la guardavano il loro pensiero andava con accorata tenerezza

al bianco paese di Sicilia, ai luoghi, alle cose, alle persone care che avevano

abbandonato per sempre. Ma soprattutto andava ai compagni che avevano

perduto lungo il cammino. A Lorenza, smarrita e sola nella grande città. Ad

Antonio, al quale tutto ormai avevano perdonato. A Mommino che più non

avrebbe cantato le sue canzoni. A Vanni misero e lieto che li aveva lasciati

87

gridando “salutatemi la Francia!”. Al ragionier Carmelo, ora sepolto nella

neve, che gli aveva risposto con voce rotta “Ci rivedremo, ci rivedremo”. Essi

non rivedranno più il buon Carmelo».

Da queste parole si deduce anche l’impianto retorico ed epico in puro stile

ottocentista che Germi imprime al suo intervento9. Questo stile dà

un’impressione di ridondanza e pesantezza al finale con l’uso di molte

subordinate e aggettivi superflui, che non riescono a far trasparire quella stessa

carica emotiva che invece danno le ultime immagini con quegli sguardi rivolti

all’orizzonte, alla Francia, alla salvezza.

Ad appesantire ancora di più il finale ci si mette inoltre il tono e il timbro di

voce di Germi che, come ha sottolineato Enrico Giacovelli, è «incapace di

modulare la propria voce senza darle un’intonazione da cattiva recita

scolastica»10.

In conclusione, la voice over de Il cammino della speranza è ancora una

volta onnisciente e legata al pensiero dell’autore, il quale però non si maschera

dietro un soggetto anonimo, ma si mette in gioco con la propria voce, voce che

così possiamo ricondurre a un corpo noto, anche se non a uno spazio

determinato.

9 M. SESTI, Tutto il cinema di Pietro Germi, Baldini & Castoldi, Milano 1997, pp. 170-179 10 E. GIACOVELLI, Pietro Germi, Il Castoro, Milano 1997, p. 37

Conclusione

Siamo giunti al termine di questa breve panoramica all’interno della voice over

nel cinema neorealista italiano, ma prima di chiudere il sipario vorrei fare

alcune riflessioni.

Chi narra nei film neorealisti è in partenza un soggetto anonimo che nel giro

di poche anni diventa un singolo soggetto ben identificabile. La svolta si ha con

Sotto il sole di Roma (1948) in cui la voce narrante è quella di Ciro,

personaggio unico e riconoscibile, così capita anche in Riso amaro (1949) dove

a parlarci è uno speaker radiofonico che mostra da subito il suo corpo e

succederà anche in Non c’è pace tra gli ulivi (1950) e in Il cammino della

speranza (1950), nei quali è il regista a prendere le veci del narratore, corpo

non visibile ma riconducibile a una soggettività ben precisa.

Cosa narra la voice over, invece non sembra cambiare, essa assolve sempre

le funzioni didascalica, informativa e narrativa, accompagnando lo spettatore

nell’immersione della diegesi, informandolo sulle coordinate spazio-temporali

e sui personaggi della storia, aggiungendo informazioni altrimenti non

deducibili dal racconto. La differenza sta nel messaggio che l’autore vuole

veicolare: solidarietà e fratellanza per Rossellini, politica socialista di riscatto

delle classi subalterne per Visconti e De Santis, riscatto da una società

alienante per Germi. Insomma il contenuto cambia ma il mezzo per inviarlo

rimane il medesimo.

Come narra la voce fuori campo è infatti la focalizzazione zero. Il narratore

89

è onnisciente sia nel caso in cui è anonimo, sia nel caso in cui è un soggetto

preciso: in Paisà la voce era cosciente di tutte le fasi della guerra, cosa che i

suoi personaggi non possono sapere dato che la stanno ancora vivendo, in La

terra trema la voce predice il futuro dei suoi protagonisti, in Sotto il sole di

Roma Ciro racconta al passato una vicenda che ha già vissuto, in Riso amaro lo

speaker alla fine ci rivela il destino delle mondine, in Non c’è pace tra gli ulivi

il regista ha già assistito a quella vicenda.

A chi narra la voice over, invece è principalmente lo spettatore, il quale è il

destinatario del messaggio dell’autore e soprattutto è per lui che il film si

proietta. Ma a volte il narratore interagisce con i suoi personaggi: ne Il

testimone la voce fuori campo conclude il suo intervento lasciando

esplicitamente la parola al difensore che raccoglie la sua domanda, ne La terra

trema la voce pone delle domande che sembrano voler creare un legame con i

protagonisti del suo dire così come in Non c’è pace tra gli ulivi, in Riso amaro

infine lo speaker intervista, grazie al suo particolare statuto, una mondina, un

personaggio della storia.

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Filmografia

Germania anno zero, regia di Roberto Rossellini (1948)

Il cammino della speranza, regia di Pietro Germi (1950)

Il testimone, regia di Pietro Germi (1946)

La terra trema, regia di Luchino Visconti (1948)

Non c’è pace tra gli ulivi, regia di Giuseppe De Santis (1950)

Paisà, regia di Roberto Rossellini (1946)

Riso amaro, regia di Giuseppe De Santis (1949)

Sotto il sole di Roma, regia di Renato Castellani (1948)