"La Somiglianza per Contatto" di Georges Didi-Huberman

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Martina Valente “La somiglianza per contatto – Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta” di Georges Didi-Huberman “Ci sono impronte che ci precedono o ci inseguono ovunque. Molte ci sfuggono, molte scompaiono, talvolta sotto i nostri occhi. […] Molte continueranno a vivere dopo di noi. Ma per quanto siano numerose, possiamo domandarci se, considerata la loro diversità, esse diano davvero vita ad un genere.” La somiglianza per contatto Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta di Georges Didi-Huberman, pubblicato nel 2009 in Italia da Bollati Boringhieri, è un saggio affascinante che nasce dall’esigenza dell’autore di riabilitare l’Impronta, di inserirla nel percorso della storia e della critica d’arte. Un progetto che può sembrare forse debole, data l’aleatorietà apparente e la soggiacenza che evocano l’oggetto di studio in questione, ma Didi-Huberman, attraverso la metodologia rigorosa di discorso strutturato in due Ouverture che racchiudono tre parti che sfaccettano l’impronta in dodici aspetti diversi, riesce a convincerci dell’importanza di questa “procedura”, riposizionandola in quegli interstizi 1

Transcript of "La Somiglianza per Contatto" di Georges Didi-Huberman

Martina Valente

“La somiglianza per contatto – Archeologia, anacronismo emodernità dell’impronta”

di

Georges Didi-Huberman

“Ci sono impronte che ci precedono o ci inseguono ovunque. Molte ci sfuggono, molte scompaiono, talvolta sotto i nostri occhi. […]

Molte continueranno a vivere dopo di noi. Ma per quanto siano numerose, possiamo domandarci se, considerata la loro diversità, essediano davvero vita ad un genere.”

La somiglianza per contatto – Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta di

Georges Didi-Huberman, pubblicato nel 2009 in Italia da Bollati

Boringhieri, è un saggio affascinante che nasce dall’esigenza

dell’autore di riabilitare l’Impronta, di inserirla nel percorso

della storia e della critica d’arte. Un progetto che può sembrare

forse debole, data l’aleatorietà apparente e la soggiacenza che

evocano l’oggetto di studio in questione, ma Didi-Huberman,

attraverso la metodologia rigorosa di discorso strutturato in due

Ouverture che racchiudono tre parti che sfaccettano l’impronta in

dodici aspetti diversi, riesce a convincerci dell’importanza di

questa “procedura”, riposizionandola in quegli interstizi

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dell’arte finora invisibili e aprendola a varie possibilità

critiche.

La prima ouverture “Su un punto di vista anacronistico” (pag. 9)

presenta il progetto critico dell’autore e la sua crisi: come

parlare dell’Impronta come concetto? Da ciò la divisione in

problematiche, in sintomi, termine caro all’autore, su cui

interrogarsi. Perché l’impronta non appartiene né al passato

(pensiamo alla Preistoria che ha parlato di sé attraverso le

tracce) né al presente post-modernista: l’impronta necessita del

punto di vista anacronistico, anzi, ne è un esempio perfetto.

Per Didi-Huberman questo approccio critico è l’unico possibile

perché l’impronta non ha una storia. Vari precedenti illustri

mutuano l’autore nel suo procedimento, a partire da Carl Einstein

che nel 1915 procedette così per associare il Cubismo all’arte

africana ma è soprattutto a Walter Benjamin e Aby Warburg che

l’autore si rivolge. L’immagine dialettica e la Sopravvivenza

(Nachleben) sono le figure critiche di riferimento per un

approccio anacronistico in cui passato e futuro si compenetrano

per capire il presente, sono le basi di una critica d’arte che

prende in considerazione le impurità, gli scarti incomprensibili

che spingono <<lo storico a trasformarsi in antropologo>> per

analizzare un oggetto inattuale.

Se per ragionare in modo anacronistico bisogna partire dal

Presente allora è necessario anche mettere in luce la crisi di cui

è preda il nostro tempo, crisi che viaggia sui binari del

Postmodernismo e dell’Antimodernismo. Come esempio di questa

odiosa simmetria, l’autore cita L’Opera d’arte nell’epoca della sua

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riproducibilità tecnica, celebre saggio di Benjamin che, nella sua

banalizzazione, ha diviso la critica in due atteggiamenti: quelli

che rivendicano la perdita dell’origine/originalità dell’opera

d’arte come cesura con il passato (Postmodernisti) e quelli che la

piangono in un afflato di nostalgia (Antimodernisti). Sono questi

gli atteggiamenti da evitare per tracciare la storia

dell’impronta: possiamo ridurla ad un dubbio amletico se sia

contatto dell’origine o perdita dell’origine? Paragonando

l’impronta all’opera d’arte di cui parla Benjamin, forse Didi-

Huberman complica il discorso, soprattutto nell’abbandonarsi in un

appassionato sillogismo in difesa del suo punto di vista, ma in

realtà è funzionale per farci comprendere la problematicità della

questione e introdurci all’autore che più ha saputo mettere in

difficoltà l’apparato critico contemporaneo: Marcel Duchamp. La

sua opera Foglia di vite femmina che apre e chiude il saggio, un calco

abbastanza informe del sesso femminile, è citato per illuminarci

subito sul parallelismo con il geniale artista. Didi-Huberman può

introdurre a questo punto ciò che mancava per esemplificare il

discorso sulla perdita di origine benjaminiana: il Ready- made,

con tutto il suo carico di complicanze critiche. Infatti,

dall’apparizione della prima fontana duchampiana, viene messo a

morte il mestiere tradizionale dell’artista, diventando il simbolo

della non-arte, come l’impronta è la non-opera per eccellenza.

Per l’autore, rispecchiando il suo non accontentarsi del “qui ed

ora”, questi atteggiamenti critici poco dialettici non sono che un

retaggio accademico, che parte da Vasari, antesignano autore del

Modernismo che tutt’ora conosciamo. Infatti il terrore della

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perduta dell’unicità dell’opera d’arte, della sua riproducibilità

in serie fu ciò che spinse Vasari a demarcare le arti tra liberali

e meccaniche, insabbiando e cancellando dalla storia tutte quelle

tecniche ready-made che non brillassero di unicità, tra cui

l’Impronta.

Nella Parte Prima “L’impronta come paradigma: un’archeologia della

somiglianza” si entra nel vivo dell’analisi dell’impronta: dopo

aver chiarito il suo punto di vista, Didi-Huberman è libero di

procedere nella sua storia a ritroso in cui viene recuperata

l’importanza che l’impronta abbia avuto fin dai tempi dell’ ”alba

delle immagini” per arrivare all’Umanesimo.

L’impronta è prima di tutto un Gesto (pag. 25) , un dispositivo

tecnico completo, una sopravvivenza tecnica estremante primitiva.

Coinvolge, con la sua complessità, il tempo, la simbologia e

l’antropologia: l’uomo ha sempre utilizzato le estremità del

proprio corpo per imprimere un segno ma non si tratta di un gesto

rudimentale, rozzo e incolto ma di un’operazione euristica, perché

“fare un’impronta significa formulare un’ipotesi tecnica, per

vedere quale sarà il risultato”.

È un’apertura all’accidentale, un tentativo che può portare a

risultati brillanti, un qualcosa di indeterminato. Didi-Huberman

parla di Inconscio Tecnico per definire il gesto dei primitivi

quando si approcciarono alle prime tavole di argilla e vi

impressero la propria orma. Sono pagine dense di riferimenti

strettamente antropologici a cui l’autore si richiama per

tracciare questa origine del procedimento dell’impronta, quasi

come se fosse una tecnica d’elezione per quei primi uomini che

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ancora dovevano scoprire il mondo. Ma forse era un gesto più

importante e consapevole di quanto possiamo immaginare perché c’è

un parallelismo notevole tra le Wunderkammer e le grotte, ad

esempio quella di Lescaux, dove troviamo calchi ornamentali di

conchiglie e fossili. Che fossero consapevoli del valore

dell’arte, dell’imitazione?

“Ciò che noi consideriamo come <<origine>> guardava già verso

un’<<origine>> ben pù antica: anche il nostro antenato amava le

antichità, come quelle forme fossili che, quando ci si imbatteva,

aveva cura di mettere da parte. Ma accostandole al resto della

collezione, e soprattutto scolpendo forme equivalenti, non creava

altro che una collisione tra il Già-stato e l’Adesso”

Tecniche più semplici dell’impronta non ce ne sono eppure, già

nella Preistoria, c’era stata una complicazione: il mistero delle

impronte negative. È un mistero la tecnica, il significato e,

soprattutto il perché. A questo punto l’impronta assume un valore

dialettico, portatore di un paradosso: sono mani fantasma che

rappresentano l’assenza.

Ma ci sono anche le impronte fatte e le impronte falsificate, come

ad esempio quelle australiane, ulteriore conferma che non si

trattava solo di un procedimento ma una vera e propria

iconografia, un processo a tutti gli effetti che sta per essere

investito di un carico simbolico sempre più importante.

E se l’impronta trasmette la somiglianza delle cose, creando una

copia che possiamo considerare figlia carnale, lo fa tramite la

Matrice (pag. 48) , il luogo in cui si coagula la somiglianza. Sono

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matrici i crani scoperti a Gerico, i crani sovramodellati dipinti

ad imitazione delle fattezze del defunto: lo stesso cranio umano

diventa matrice per lo stampo da cui avranno origine poi le

maschere funebri e i ritratti romani. Viene messo in evidenza

quanta importanza avesse il gesto dell’impronta, questo procedere

direttamente sul volto per dare vita ad una somiglianza per

contatto, garanzia di vita per il morto nell’oltretomba, la

sopravvivenza della propria faccia.

Ma, come ribadito già nella prima ouverture, l’impronta non

esiste nella storia dell’arte, è la sua contropartita, un contro-

modello: Plinio il Vecchio, padre della storia dell’arte, cita il

calco come origine e fine della storia dell’arte, definita come

imaginum pictura. È un primo atto di censura dell’impronta, uno

scagliarsi contro la sua stessa natura perché, se da un lato il

calco del defunto è di per sé originale, la matrice permette la

riproduzione e quindi predispone alla presunta inautenticità del

ritratto: da qui la confusione, la decadenza dei patrizi romani

che ornavano i propri atri con innesti di maschere di defunti su

statue greche.

“La legittima trasmissione si svia in una trasformazione retorica

ed estetica che la <<legge dell’impronta>> rifugge, a che la

tecnica dell’impronta con tutta evidenza permette”.

La matrice è anche Potere (pag. 66), una suggestione che deriva dal

processo di impronta che diventa garanzia di singolarità: Didi-

Huberman si riferisce alle monete, alle medaglie, alle immagini

dei potenti sovrani la cui effigie avrebbe viaggiato in ogni parte

del mondo, recando in sé tutto il potere suggestivo dell’illusione

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ottica che un ritratto sa mettere in opera. È il paradosso

dell’impronta che il conio sia garanzia di autenticità ma allo

stesso tempo anche la capacità legittima di riproduzione

illimitata: è qui che Didi-Huberman supera la tesi di Benjamin,

che non aveva colto che finchè c’è una matrice originale c’è anche

l’autenticità, che non c’è riproduzione che intacchi l’aura

dell’opera, come una moneta che non si svaluta nel suo riprodursi.

È il contatto dell’aderenza il plusvalore dell’impronta, che l’ha

investita di poteri magici e che addirittura ha permesso l’unica

rappresentazione di Dio possibile: la Sindone.

È un esempio eccellente della somiglianza per contatto,

un’immagine che non può essere accusata di idolatria perché è una

non-immagine, è solo un’impronta suggestiva

“ è meno di un’immagine perché è un campo di tracce

indescrivibili, appena visibili, che procedono per semplice

impressione materiale, è matrice dell’immagine perché le

conferisce la sua legittimità, il suo prototipo di generazione,

come dicono i bizantini, ma anche la sua controforma negativa,

il suo carattere in senso tecnico, infine è più di un’immagine,

perché va oltre qualsiasi imitazione <<artistica>>,

qualsivoglia mano d’uomo – perché si attiene meno al visibile di

quanto non faccia una visione in senso forte, meno al volto per

naturam di quanto non faccia un volto divino per gratiam”.

È importante vedere come il processo dell’impronta abbia delle

implicazioni molto più profonde di quanto potessimo pensare,

soprattutto perché l’autore, trasversalmente al concetto di

potere, vi associa quello dell’Aura, altro termine benjaminiano.

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Il potere della Sindone è la sua Aura, ovvero quel desiderio

inappagato, quella fascinazione indescrivibile di un’opera che

arriva a toccare lo spettatore. La Sindone è un’immagine che esige

il contatto ma che lo esclude perché la mano umana è invisibile.

La storia dell’impronta delineata da Didi-Huberman è anche una

storia del non-detto, delle omissioni della cultura umanistica

sulle pratiche di calco dal vero. La formulazione dei principi

umanistici dell’Idea, del Disegno ha impedito che venissero

trasmesse tutte quelle pratiche più “scultoree”, legate al tatto e

alla manualità che avrebbero svilito il ruolo dell’artista

intellettuale al mero artigianato.

La storia dell’arte del Quattrocento, nonostante la censura

vasariana, è densa delle Sopravvivenze dell’impronta (pag. 87) :

Cennino Cennini dedica nove capitoli alle tecniche dell’impronta,

che oltretutto era una specialità dell’artigianato fiorentino

(come ad esempio gli ex-voto), la stessa cultura della città

conviveva con le immagini dei defunti e gli artisti stessi usavano

il calco dal vero come parte integrante del processo di creazione

artistica.

Donatello, uno dei maggiori sperimentatori delle possibilità

offerte dalla tecnica, usò il calco dal vero per il suo busto di

Niccolò da Uzzano ma Vasari rigetta questa attribuzione, ritenendo

impossibile che un artista del suo livello si abbassasse ad una

pratica tanto sgradevole e grossolana; anche la scultura “Giuditta

e Oloferne” fu creata a partire dall’innesto di vari calchi, le

cui tracce sono ancora visibili osservando bene il tessuto del

cappuccio della testa della donna.

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L’impronta, per la mentalità ed il gusto umanistico, è perturbante

secondo Didi-Huberman perché la sua visione impone lo sguardo del

contatto ovvero sulla tattilità a scapito dell’otticità, e poi

perché apre uno squarcio nel tempo al di là delle storicizzazioni

schematiche imposte dall’estetica Vasariana, per cui il contatto

con il mondo antico è superficiale e frutto dell’oblio di tutto il

resto.

Il calco è la contropartita della storia, un procedimento che

attraversa i tempi: nel Rinascimento, secondo Didi-Huberman,

l’impronta è stata tanto usata quanto bistrattata, come un

qualcosa da tenere nascosto onde evitare di offuscare le proprie

doti di artista. A causa della propria vocazione artigianale,

antropologica, archeologica sarebbe stata dimenticata dalla storia

dell’arte di Vasari, per poi riemergere e sopravvivere con

prepotenza fino ai giorni nostri.

La seconda parte del libro, “L’impronta come processo: verso la

modernità in scultura”, riprende la critica delle rigide

schematizzazioni dell’eredità umanistica, che non lascia spazio

alla distinzione di esperienze diverse da quelle categorizzate da

Vasari.

Per l’autore, a questo punto, l’impronta emerge come Lutto (pag.

109), come una “forma che trascina la somiglianza verso la morte”.

Il procedimento del calco, dopo il Rinascimento, in una

prospettiva piuttosto scaramantica, rimanda alla Morte: pensiamo

alle maschere funerarie (ricordiamo che già Plinio ne evidenziava

il paradosso di origine e fine dell’arte), ma anche alla pratica

dei frammenti anatomici che rimandava ad un contatto troppo

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diretto con la morte, la malattia, la bassa corporeità umana. Il

calco dal vero assume una connotazione mortificante perché

<<l’anatomia stabilisce per noi un “destino”: quello della nostra

frammentazione in pezzi, osservabili da altri, quello della nostra

messa a morte visualizzata”. Per quanto siano parte integrante

della vita pratica di un artista, i calchi sono antitetici alla

scultura per la loro aderenza eccessiva alla materia, a scapito

dell’Idea. E nulla può andare più detrimento dell’impronta che il

suo essere svincolata da un progetto ideale dell’artista, in un

secolo dominato dalle teorie dell’arte e dalle etichette dei

generi. La scultura (tradizionale) dà alla luce la vita

intrappolata nella materia, in pieno retaggio michelangiolesco,

mentre l’impronta ci permette di toccare la morte.

Didi-Huberman, con questo rovesciamento di senso, mette in luce

una nuova evidenza dell’impronta dopo l’enunciato iniziale perché

non solo è una forma che trascina la somiglianza verso la morte,

ma addirittura porta alla morte dell’arte stessa.

È un precipitato di luoghi comuni, di paure: quella della morte

fisica, quella della figura dell’artista intellettuale, quella

della riproduzione illimitata che svaluta il valore dell’opera.

Ancora una volta ci si trova dinanzi al paradosso impronta come

eccessiva aderenza all’origine e mancanza della stessa origine.

Didi-Huberman cita Horst W. Janson che nel 1957 mette in evidenza,

nel suo saggio sul dibattito del realismo nell’arte, quanto la

pratica del calco sia impossibile da annettere alle arti

tradizionali per la sua eccessiva dipendenza/eccesso di aderenza

alla materia, per l’indipendenza dalla mediazione intellettuale

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dell’artista e per la sua atemporalità, che si traduce in una

messa in crisi del valore della Storia.

Per l’autore, quindi, l’Anacronismo è da sempre uno dei terrori

suscitati dall’impronta: mette orrore questa sua palese vicinanza

temporale alla morte e questo suo aspetto così ancestrale.

Nel XIX secolo la critica d’arte ignorò il calco, concentrata

com’era sul Realismo nell’arte; ma in realtà, se non fu una

questione di generale interesse, la sua legittimità continuò ad

interessare individualmente gli artisti e David d’Angers non può

che essere la cristallizzazione esemplare del punto di vista di

uno scultore del tempo. Artista molto noto ai suoi tempi

nonostante la mediocrità, scrisse taccuini interessanti in cui la

pratica del calco emerge come la distruzione del valore morale

dell’arte: troppo simile alla morte e troppo dettagliato nel

riprodurre ogni ruga della pelle, ogni segno dell’opera mortifera

del tempo.

Didi-Huberman, attraverso le suggestioni di uno scultore che

rispecchia magistralmente la mentalità del suo tempo, è

interessato a mettere in luce quanto l’artista fosse realmente

terrorizzato dalla materia e paralizzato dall’inquietante

parallelismo tra la scultura come impronta di vita e la morte come

scultura di impronte.

Ma l’impronta può essere anche sensualità o addirittura Scandalo

(pag. 128). Charles Baudelaire, contemporaneo di d’Angers, ribalta

la sua posizione sul calco, enunciando una teoria estetica a

favore di un procedimento che mettesse in evidenza la grana della

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pelle, la testura del corpo della donna. Per lui, la scultura

doveva tornare ad essere primitiva e tribale perché, in balia

della perfezione anatomica, stava diventando “noiosa”.

Leggendo tra le righe delle sue poesie, Didi-Huberman rintraccia

una <<scrittura del contatto>>, che rimanda alla donna come un

idolo “moderno ed originario” fatto di pieghe della pelle e di

rughe, in una fascinazione perturbante per la morte e la

decadenza.

In quegli stessi anni, una scultura destò scandalo: “Donna morsa

da un serpente” di Auguste Clésinger, modellata sul calco dal vivo

di una modella. Era rappresentata una donna moribonda in tutta la

sua realtà e proprio l’indecenza dell’ utilizzo del procedimento

del calco dal vero fu ciò contro cui si scagliarono i critici,

contro quelle “piccole pieghe esattamente antitetiche alle grandi

superfici rivendicate, in quegli anni, da David d’Angers”.

Théophile Gautier, per cui la scultura doveva conservare l’aspetto

del corpo umano, scrisse un testo su questa scandalosa opera, in

cui apprezzava il coraggio dell’artista di aver scolpito una donna

vera, piuttosto che una ninfetta, una dea mitologica oppure una

santa:

<< Se non fosse di marmo, si direbbe che una bella e superba

creatura sia stata afferrata e bloccata a sua insaputa in uno

stampo magico nell’istante in cui qualche sogno incantevole e

terribile la faceva contorcere sotto [sic] le sue coltri di

piacere e dolore>>.

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È proprio la procedura del calco, secondo Didi-Huberman, a

garantire l’eroticità di questa scultura e la chiave per

comprenderla: Baudelaire e Gautier assimilano termini propri

dell’arte dell’impronta per scrivere delle donne, per alludere al

contatto e all’appropriazione del corpo dell’amata.

Nonostante il rifiuto, l’impronta è Propedeutica alla scultura (pag.

136): anche per un artista della fine del XIX secolo che non

scolpisce attraverso il taglio diretto del marmo, è necessario

realizzare il calco per poi lavorare sulla propria opera. Sono

secoli che questo processo è tanto utilizzato quanto negato dagli

artisti, nonostante abbia una grandissima valenza procedurale: la

scultura teme il calco perché ha paura di esserne svilita ma non

può farne a meno allo stesso tempo, è utile perché permette di

fare una copia e di venderne trenta.

Un grande scultore come Antonio Canova, ovviamente, odiava il

calco e il gesso ma tuttavia è indispensabile alla sua arte:

possiede addirittura una vasta gipsoteca in cui sono conservati i

calchi delle sue opere, un vero e proprio repertorio di forme

vitale per la sua arte. Ciò che colpisce Didi-Huberman è come

Quatremère de Quincy, strenuo difensore dell’Idea a scapito della

Materia, arrivi a giustificare il palese uso del calco in gesso

che facesse Canova: dapprima giustifica con i bisogni economici

questa proliferazione di opere del maestro, poi sviluppa un

interessante concetto sulla questione della riproducibilità,

spiegando che per Canova, in realtà, si tratta di <<doppi

originali>>, su cui lavorare per trovare forme sempre diverse,

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mettendo in luce ancora una volta il valore euristico

dell’impronta.

Solo con Rodin avviene la svolta, la presa di coscienza

sull’impronta come Lavoro (pag. 146). Il padre della scultura

moderna, alla fine del XIX secolo, si assunse la responsabilità

pratica dell’uso del calco: non lo nascondeva ma, anzi, arrivò a

farne il punto di arrivo delle sue sperimentazioni artistiche,

evidenziando un’euristica delle possibilità tecniche fino ad

allora tenute occultate dalla scultura tradizionale.

La differenza, rispetto alla gipsoteca di Canova, è radicale:

l’opera in progress di Rodin “diventa calco per poi essere subito

disseminata in una quantità considerevole di frammenti nomadi che

sono altrettante parti intercambiabili, altrettanti elementi

sintattici disponibili per nuove composizioni formali. Rodin non

lavorava solo nel suo museo personale ma nel suo museo scomposto,

nel suo museo smembrato, in cui ogni membro era virtualmente

capace di dar vita ad un nuovo organismo”.

Per Didi-Huberman, la nozione di calco di Rodin è un paradigma

formato dalla moltiplicazione (aspetto ancestrale dell’impronta

che dà vita a montaggi di frammenti che originano un movimento

organico), dalla frammentazione anatomica e dall’assemblaggio,

mettendo in luce l’artista come uno sperimentatore temerario delle

infinite possibilità di una procedura finora considerata

mortifera; la messa a morte attuata da Rodin quindi è la quella

non più dell’arte ma della scultura tradizionale perché il

procedimento del calco diventa un paradigma estetico che non

smette mai di autogenerarsi, dando vita ad infinite associazioni.

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Rodin forse non era consapevole di quanto fosse anacronistico

questo suo lavoro di riabilitazione dell’impronta ma di certo ha

contribuito a far riacquistare al calco tutti quei diritti e lo

statuto artistico che gli era stato negato per secoli.

Per Didi-Huberman, il testamento estetico di Rodin è stato il suo

“Calco della mano che regge un torso femminile”: un inquietante

calco della mano dello scultore, ancora in vita, che regge un

torso di donna nel palmo della mano. Al di là dei paradossi e

delle suggestioni intrinsechi a questa scultura, vediamo che Rodin

abbia accettato di sottoporsi ad una pratica che aveva sempre

rifiutato di praticare nella sua arte, come ultimo atto di un

utilizzo legittimo del calco come sugello della morte

dell’artista. Quello che ha inaugurato Rodin è un nuovo

atteggiamento della scultura: la fine della lotta tra l’Idea e la

Materia.

Nella terza parte del libro “L’impronta come procedura:

sull’anacronismo duchampiano” Didi-Huberman torna sulla scultura

“Foglia di vite femmina” (pag. 163) per capire su quali discorsi

critici è stata polarizzata la rivoluzione scandalosa del ready-

made: parlarne significa annunciare la <<sparizione suicida

dell’arte>>, che squarcia in due il percorso dell’arte del XX

secolo e molti, come Thierry de Duve, generalizzeranno il gesto di

Duchamp con la celebre formula “fai una cosa qualsiasi”.

Ma è proprio così arbitraria, nulla e sovversiva la sua arte?

Questo antagonismo parte dalla contestazione del criterio di

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singolarità dell’opera d’arte duchampiana: perso l’originale,

molte sono le copie della “Fontana” che, nella loro riproduzione

infinta, sembra che abbiano perso la loro materialità a scapito

dell’Idea generale, unica cosa su cui la critica pare si sia

soffermata. È un’idea che, per Thierry, sopprime l’oggetto e

trasforma l’opera d’arte soltanto in un lavoro concettuale, in

un’operazione sul discorso.

Parlare di Duchamp significa associarvi solo oggetti fittizi, la

volontà di condannare a morte l’arte e il mestiere dell’artista ma

Didi-Huberman vuole <<spazzolare la storia contropelo>>, accedere

alla contropartita della sua storia.

Per contestare l’istituzione del ready-made, analizza la

personalità dell’artista: chi è davvero Duchamp? Era il ciarlatano

manipolatore che destruttura l’arte per farsi autopromozione, come

siamo abituati a leggere? In realtà no perché le vicende della sua

vita mettono in luce che il suo atteggiamento era totalmente

diverso: Duchamp ha sempre voluto tenersi in disparte rispetto al

corporativismo artistico e al sistema delle gallerie già dal 1912,

quando il “Nudo che scende le scale” era stato ritirato dal Salon

des Indépendants, così come nel 1917 quando, esponendo la

“Fontana”, la sua vita continuò ad essere squattrinata ed isolata

dal sistema.

Realizzava opere che regalava ad amici, per mettere in discussione

il valore non commerciale dell’arte, tentava di rivoluzionare il

sistema senza trarne benefici, quindi senza la dietrologia della

truffa all’arte, della vendita di aria fritta di cui fu sempre

accusato. Tenendo conto dell’atteggiamento sociale di Duchamp,

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giungiamo alla conclusione il valore attribuito al ready-made

dalla posterità è assolutamente anti-duchampiano, perché è

abbastanza un controsenso già l’aver creato opere di questo

genere, senza tener conto dell’impatto che avrebbero avuto.

I critici dimenticano che l’artista si era imposto di non

smembrare il suo corpus di opere, di tenerle tutte insieme come

un’unità organica: ecco un altro contromotivo della storia

delineato dall’autore. L’opera di Duchamp è euristica, è sempre

aperta al caso, stretta tra il rigore metodico e l’abbandono agli

imprevisti. Si tratta di oggetti indivisibili perché hanno più

valore nel loro insieme, come un montaggio di pezzi. Levi-Strauss

aveva intuito questo aspetto del ready-made quando, alla domanda

<<Chi mi impedisce di considerare qualsiasi oggetto un ready-made?

>>, rispondeva

<<Non è possibile realizzare l’operazione con qualsiasi oggetto

sistemato in modo qualsiasi. Non tutti gli oggetti possiedono

quelle qualità latenti; per determinare un ready-made

occorreranno sempre determinati oggetti in determinati

contesti>>.

Un altro dei punti critici di Duchamp è la perdita del mestiere

dell’artista: scompare l’artista come abile detentore della

tecnica per far posto all’enunciato del “questa è arte” ma

sostenere questa convinzione significa anche non tener conto che

la sovversione evidente messa in atto è frutto dei suoi tempi,

quelli dell’industrializzazione dell’arte, della fotografia e

della riproducibilità tecnica.

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È un’operazione critica che ha avuto una risonanza più forte di

quanto si aspettasse l’artista.

L’opera di Duchamp però è sicuramente collocabile nella sfera del

Segno: sono opere in apparenza prive della manualità dell’artista

ma dense di teoria e due orientamenti critici si sono soffermati

su questo paradigma fotografico su cui si regge il corpus di

opere.

Jean Clair nel 1977 parla di primato tecnico di Duchamp partendo

dalla riflessione benjaminiana sul potere della fotografia

mettendo in evidenza le ossessioni dell’artista per le ombre e per

le silhouettes, rintracciando una storia che guardava al passato

con precedenti illustri fino al quadraturismo del XVII secolo ;

Rosalind Krauss, nello stesso anno, sempre partendo dalla

fotografia, formula un paradigma semiotico coniugando all’opera

duchampiana la categoria di Indice pierciana, dipanando così tutta

una serie di riferimenti postmodernisti che le permetteranno di

interpretare l’arte americana degli anni settanta.

Per Didi-Huberman la Krauss ha il merito di collegare il “senso”

al ready-made, stabilendo una relazione fisica con il referente

che ci permette di ritornare alla questione del Contatto, tornando

così all’Impronta.

Ci sono molte analogie tra l’atteggiamento di Rifiuto per un’analisi

dell’arte di Duchamp e l’impronta: i dibattiti critici suscitati

da entrambi sono simili, si scagliano entrambi sulle stesse

questioni della fobia del tatto della critica donatelliana

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(pensiamo all’accusa di pigrizia tecnica per aver usato la tecnica

del calco per la “Giuditta e Oloferne”), sull’apertura alla cosa

qualsiasi, sulla non-arte e, addirittura, morte dell’arte.

Chiarita questa analogia e individuata la tecnica del contatto e

dell’indice, Didi-Huberman cercherà di

<<interrogare l’impronta prima come paradigma e poi come

processo. Ricongiungendo i due livelli di efficacia,

probabilmente riusciremo a farci un’idea del modo in cui

l’impronta, questo gesto tecnico e ancestrale, può accedere allo

statuto di procedura artistica>>.

Il “Grande Vetro” (pag. 181) è un’opera molto complessa, con varie

stratificazioni di significato: è un’opera dotata di una grande

reversibilità, è considerata antropomorfa e macchinica ma, se

tanti critici, citando per esempio Jean Clair, ne hanno tracciato

una storia a ritroso per far guardare Duchamp al passato piuttosto

che al futuro, è necessario invece rintracciare gli aspetti più

anacronistici dell’arte del maestro francese.

Uno dei leitmotiv duchampiani è la sua “critica del retinico” ed

per Didi-Huberman è necessario approfondirne il significato per

capire la consistenza metodica della dimensione tattile

dell’artista. Per critica del retinico non si intende soltanto la

difesa dell’aspetto più intellettuale dell’arte, la difesa della

“materia grigia” enunciata nelle Note al Grande Vetro; si intende

anche in rifiuto dell’impressione retinica (pittorica) a favore di

un metodo più poetico, come si legge dalle stesse parole

dell’artista

19

<<Ritenevo che in quanto pittore, era meglio che fossi

influenzato da uno scrittore piuttosto che da un altro pittore.

E Roussel mi mostrò la strada. La mia biblioteca ideale avrebbe

compreso tutti gli scritti di Roussel e di Brisset, forse

Lautréamont e Mallarmé. Mallarmé era un grande personaggio.

Indicò la direzione che l’arte deve prendere: l’espressione

intellettuale, più che l’espressione animale. Ne ho abbastanza

dell’espressione “stupido come un pittore”>>.

È evidente nelle Note al Grande Vetro quanto Duchamp sia

suggestionato dalla letteratura ma anche dalla tecnica, e anche

un’altra enigmatica opera, la “Scatola Verde” del 1934, ha le

tracce di questo dualismo intellettuale/tecnico di Duchamp, in cui

emergono le terminologie dell’Impronta. Lo stesso autore prende

coscienza dell’oscurità del linguaggio duchampiano ma non può

sfuggirgli il valore fondante che ha la tecnica del calco nella

sua opera.

La sfida di Duchamp al sistema dell’arte consiste anche in quella

che chiama “materia rosa” che si contrappone a quella grigia: una

materia che per Didi-Huberman ha la possibilità di esistere come

immagine tattile e come processo di presa, la capacità di Duchamp

di osare e di pensare all’impronta come scarto di cosa che va

verso il dissimile piuttosto che, come la pensiamo noi cioè ad uno

stampo che permette di replicare.

Il “Grande Vetro” è intriso di rimandi alla tecnica del calco: lo

stampo, la matrice, il setaccio, le controforme sono tutti segni

di questo paradigma dello stampo che

20

<<prevede la produzione di una forma per contatto, per poi

sottoporlo a un ribaltamento in grado di trasportare quella

stessa forma verso l’invisibilità: verso qualcosa di simile ad

una forma intangibile che, nondimeno, sigla il suo rapporto con

un contatto originario ( ricordiamo che la stessa, paradossale

articolazione costituiva già nel caso della Veronica la

principale determinante del carattere auratico dell’immagine)>>.

Per Didi-Huberman i Nove stampi malici e il Pistone d’aria quindi

posseggono la stessa auraticità della Sindone per il loro essere

la traccia di un contatto invisibile, la traccia lasciata

dall’aria così come quella lasciata dal volto di Cristo.

Un altro richiamo al calco è dato dal rapporto dell’autore con le

tecniche della fotografia e tipografia, con un’associazione di

queste due categorie professionali che rispondono ad una precisa

presa di posizione sulla questione della tecnica artistica: sia

perché egli aveva iniziato la sua carriera nel mondo dell’arte

come stampatore ed amava dedicarsi al bricolage, ma poi perché

Artigiano è un termine che egli preferisce sempre ad Artista, un

anacronismo che per Didi-Huberman ha una precisa funzione critica

ed ironica, ma che possiamo interpretare anche come un modo

dell’artista per sovvertire il mondo dell’arte nobilitando una

delle categorie più al servizio di essa.

Certamente Duchamp fa suo l’aspetto più euristico dell’impronta,

in una metodologia che vediamo essere sempre più sperimentale e

piena di possibilità: sia la sua vita che la sua opera sembrano

essere affidate alla týche , al caso e all’occasione di creare

21

qualcosa di diverso, in un atteggiamento volto ad aprire il campo

tecnico del mestiere dell’artista.

Quando si affronta Duchamp, se ne tralascia l’analisi della

questione tecnica ma invece era una parte essenziale del suo

lavoro: la meticolosità era uno dei principali Leitmotiv. Didi-

Humerman, per rintracciare l’impronta come Esperienza (pag. 200)

mette in luce quanto fosse meditato, quasi ossessivo, il

procedimento delle opere duchampiane, realizzate in tempistiche

non convenzionali senza l’ansia della successiva vendita.

Guardandole se ne percepisce l’usura, lo stretto contatto con

l’artista, come se fossero ricoperte da una patina fisica che non

è altro che “un’emanazione del tempo e del contatto, una

brillantezza un po’ sporca legata al contatto e alla cura

eccessiva che Duchamp riservava alle sue opere”.

Il metodo di lavoro è definito dall’autore come Sperimentale,

preciso ma allo stesso tempo ispirato al caso, in cui la

componente euristica e manuale convivono in maniera molto più

forte di quanto non traspaia da una lettura superficiale: è lo

stesso artista che dichiara più volte di preferire la manualità

alla tecnologia (anche nel caso del cortometraggio muto “Anemic

Cinema” del 1925-26), un una sorta di <<ritorno al lavoro

manuale>> in cui Didi-Huberman collega il paradigma

dell’impronta.

Duchamp arriva addirittura a simulare la stampa, come nell’

”Assegno Tzank” del 1919 in cui falsifica a mano l’intero assegno

22

oppure a lavorare ossessivamente per riprodurre nella posizione

originale i foglietti delle Note al Grande Vetro, per poi crearne

settanta copie, passando così dalla forma accidentale alla forma

dell’accidente, in una concatenazione operazionale di serialità e

somiglianza.

A questo punto, appare chiaro che l’atteggiamento euristico

caratterizza il lavoro di Duchamp, lungi dall’essere “la cosa

qualsiasi” : la sua arte implica la questione del contatto, della

materia, dell’esperimento, della tecnica e, per rintracciare il

Paradigma dell’impronta, ancora una volta il critico deve scoprire

il contromotivo, ancora una volta bisogna spazzolare la storia

contropelo, cercando gli aspetti del calco più significativi

ovvero lo sdoppiamento, il raddoppiamento e il capovolgimento come

modi in cui può venire in contatto con la materia.

È contorta questa operazione critica ma non possiamo non essere

consapevoli delle molte analogie tra l’impronta (sia come

paradigma che come procedura) e l’arte di Duchamp, che si svela ai

nostri occhi sempre più anacronistica e quasi ieratica, frutto di

un lavoro senza tempo e restrizioni votato alla sperimentazione

infinita delle tecniche e dei linguaggi; il contatto attraverso

l’impronta è presente in molte opere, dandoci l’idea di una

manualità ossessiva fatta per gesti controllati e procedure

rigide, ma aperta a qualsiasi risultato, purché non sia nei canoni

dell’arte tradizionale.

Molte sono le opere in cui è presente l’aspetto dello sdoppiamento,

con l’implicazione della similarità, della simmetria dell’immagine

che Duchamp chiama “principio della cerniera”: pensiamo al “Grande

23

Vetro” e alle crepe nel vetro, uguali e simmetriche, che

diventeranno parte integrante dell’opera; pensiamo all’effetto

ottico del quadro “Chiaro di luna sulla baia di Basswood” o la

“Nonna dell’artista” o il finto palindromo “Anemic Cinema”. Si

tratta di opere in cui letteralmente c’è una cerniera che le

divide in due e le sdoppia, proprio come uno stampo.

L’impronta crea anche il raddoppiamento, visibile nelle opere in cui

c’è un altro leitmotiv cioè l’Alone, il nimbo che raddoppia la

figura e crea un’ombra, una silhouette a cui Duchamp stesso

collega sia termini ottici che termini tattili, in idea di

impronta che funge da cerniera, un cardine dialettico tra positivo

e negativo, forma concava e convessa. È proprio nello scarto tra

matrice e impronta che si colloca l’infrasottile, una quarta

dimensione dell’artista che permetteva di definire quella

percezione infinitesimale della materia che possiamo semplificare

come lo scarto tra la pelle e il corpo, l’involucro e la materia.

L’impronta, allo stesso tempo, capovolge sia le condizioni

morfologiche del suo referente (corpo convesso e concavo) ma anche

tutti gli altri sensi: Duchamp giocava con i capovolgimenti di

senso, attraverso giochi di parole, soprattutto a sfondo sessuale,

dalla grande valenza euristica; lo stesso vocabolario francese

sulla sessualità <<trabocca di espressioni legate non solo al

contatto (com’è ovvio) ma anche all’idea, o addirittura alla

tecnica, dell’impronta>>.

E così si ritorna a “Foglia di vite femmina”, con la

consapevolezza della sfida lanciata dall’artista alla scultura

tradizionale attraverso il paradigma dell’impronta: se la foglia

24

di vite aveva il compito di proteggere le parti intime femminili

rivestendole quindi in qualità di “oggetto di pudore”, ecco che

una volta staccata dal proprio referente inizia a turbare lo

spettatore perché è l’impronta capovolta di ciò che stava

coprendo. Didi-Huberman la definisce una “controforma” perché è

evidente che nasconde un enigma e svela un’intimità.

Soffermandoci sul processo di produzione di questa scultura,

sappiamo che l’originale fu regalata da Duchamp a Man Ray che,

girando un film, recitò una scena, che poi andò distrutta sulla

pellicola, in cui radeva i peli pubici di una modella: è come se

Duchamp avesse dato alla luce quella scena; ma al di là di questa

suggestiva ipotesi, è necessario capire se si tratti di un vero

calco.

Se fosse finto, allora dovremmo riconoscere all’artista una

straordinaria abilità tecnica di simulazione per aver conferito

un’aura reale all’oggetto; se si tratta di un vero calco, allora

dovremmo riconoscergli di aver conferito all’oggetto un’aura di

artificio che la classifica come opera d’arte. Non potendo sapere

quale sia la verità, è certo che Duchamp ha realizzato la

possibilità di capovolgere la somiglianza perché, pur non potendo

riconoscere per certo cosa essa sia, sembra un’impronta diretta.

L’artista poi realizzerà il negativo della scultura attraverso la

fotografia, invertendo il rilievo, e esporrà lo stampo utilizzato

per realizzare le molte copie della “Foglia di vite femmina”,

facendo emergere l’Impronta non solo come procedimento, ma come

sistema completo di generazione.

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Il calco accende in Duchamp quello che Didi-Huberman definisce

come “Erotismo tecnico” ( pag. 252) cioè un interesse per

l’interstizio, per l’intersezione tra forma e controforma che

danno vita, attraverso il contatto, ad un simile allo stesso tempo

“nativo” e “negativo”. Pensiamo alla moltitudine di fac-simile

prodotti a partire da un modello costruito dall’artista (la stessa

“Fontana” ha origine da un modello di cartapesta poi rivestito di

metallo e verniciato).

Tornando quindi al Ready-Made, prendiamo in considerazione i

termini che l’artista utilizza per descriverlo: “idea”, “frase” e

“indifferenza tecnica”, ovvero le fasi ed i presupposti della sua

creazione, il tutto permeato da una stranezza della riproduzione

tecnica.

Il lavoro di Duchamp è pieno di contraddizioni apparenti, che

possiamo sempre ricondurre al continuo gioco dialettico che di

presenta come <<una maniera nuova ed elaborata – non binaria- di

produrre e pensare lo “stesso” (même)>>.

Ed è proprio su Même che si concentra Didi-Huberman per condensare

le sue operazioni artistiche: esprime il simile che dipende dal

differente e il differente che dipende dal simile, come i ready-

made sono tutti simili ma non uguali perché hanno una matrice

comune ma non possono essere cloni ma solo oggetti simili.

È in questo scarto della somiglianza che si innesta il concetto di

Infrasottile, parola onnipresente nel vocabolario duchampiano: dandone

una definizione letterale, potremmo definirlo come

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“infinitesimale” ma in realtà non è altro che lo scarto che esiste

tra due oggetti apparentemente uguali, è la differenza

infinitesimale tra due oggetti prodotti in serie.

Per Didi-Huberman è attraverso la nozione di “infrasottile” che

possiamo cominciare a guardare l’opera di Duchamp, che ha cercato

di farlo emergere in modo subliminale in tutte le sue sculture ma

anche attraverso giochi di parole quasi nonsense, come “quando il

fumo di tabacco sa anche della bocca che lo esala, i due odori si

accoppiano per infrasottile”, rispecchiando il gusto di Duchamp

per il paradosso dell’impossibile. Sono molte le opere in cui

emerge la fenomenologia dell’infrassottile: “La septième face du

dè” del 1936 che rappresenta degli spellati di sigarette in cui la

materia friabile del tabacco è presentata come se fosse appena

uscita dalla matrice; “Aria di Parigi” del 1919 che esprime lo

scarto infrasottile tra la soluzione fisiologica presente

nell’ampolla poi svuotata per contenere l’aria, producendo poi un

dichiarato calco d’aria; la fotografia “Coltivazione di polvere”

del 1920 che, letta sotto l’angolazione dell’impronta e

dell’infrasottile, è l’opera di un lentissimo pellicolaggio

millimetrici attuato dalla polvere che si stratifica sui fili

incollati al “Grande Vetro”.

Per Didi-Huberman l’Infrasottile duchampiano ha la stessa valenza

dell’Aura benjaminiana ovvero

<<uno scarto visivo che indica il contatto, un’approsiazione che

tiene a distanza e fa filtrare ciò che Pierre Fédida ha definito

“il soffio indistinto dell’immagine”>>.

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Tornando all’Impronta presente nelle sue opere, “With my tongue in

my cheek” del 1959 viene definito come un <<sistema portatile

dell’impronta>> ma differente dalla lettura indicale fatta dalla

Krauss perché adesso è interpretato come un rilievo d’ombra, in

base ad una dialettica dell’immagine per cui “se l’ombra è più

vicina al versante ottico o rappresentativo, il risultato sarà

quello di un disegno dell’occhio, del naso e della bocca quanto

mai convenzionale”, per rendere così visibile lo spazio del volto,

creando così in realtà un ritratto più tradizionale di quanto

sembri. Ovviamente il punto di vista di Duchamp sulla sua stessa

arte è disturbante e criptico, in un sistema di significati oscuri

anche per chi tenti un’analisi più approfondita.

<<Ora tutti i motivi determinano esattamente il campo tecnico –

paradossale – dell’impronta: essa replica uno stesso per

contatto, ma il risultato di tale replica dà vita ad uno scarto,

magari infrasottile, in cui le somiglianze prodotte sono così

precise e brutali, così strane ed inquietanti da diventare,

almeno per un pensiero dell’imitazione, inassimilabili. Se l’impronta

ci parla della ripetizione e del caso, se essa, nel contatto,

provvede allo scarto di una distanza infrasottile, e nella

somiglianza, allo scarto nell’inassimilabile, allora dovremmo

pensare all’impronta come uno scarto del tempo, come una

differenza anacronistica, come un contropelo della storia.

Marcel Duchamp utilizza per tutto ciò un termine molto preciso:

Ritardo>>.

Il ritardo possiamo definirlo come il paradigma temporale, un contatto

dei tempi che ci riporta all’anacronismo dell’opera duchampiana, che reca

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in sé tutti i paradossi dell’impronta in un lavoro che di forme e

controforme attestate <<nel lavoro misterioso di uno scarto che si

imprime>>.

La seconda Ouverture “Su un punto di vista icnologico” chiude il

saggio di Didi-Huberman, dopo questo affascinante viaggio in cui

abbiamo scoperto l’impronta a livello paradigmatico, processuale e

procedurale; nasce come primigenia forma d’arte e diventa sempre

più importante e scandalosa, spesso messa a tacere e nascosta per

il suo non-essere nobile quanto un’Idea (o meglio, per terrore che

la sua facilità tecnica intaccasse l’aura dell’artista), criticata

per il suo alone mortifero, infine rivalutata da Rodin e

trasformata in una sorta di forma mentis da Duchamp, che ne ha

assimilato tutte le sfumature critiche innestando i suoi lavori

proprio sul paradigma del calco.

La forza critica dell’impronta, anzi, la sua problematicità

risiede proprio nelle sue contraddizioni: perché il calco si

riveli, bisogna che la matrice lo abbandoni, generando un’impronta

che produce sempre uno scarto, minimo ma disturbante allo stesso

tempo, frutto del caso e del tempo. Donatello, Rodin e Duchamp

sono gli artisti che hanno segnato le tappe del percorso critico

nel saggio e dimostrano che l’impronta non è mai stata

indifferente agli occhi di chi l’ha guardata, che fosse nascosta

tra le pieghe del panneggio di una scultura oppure spunto di un

procedimento apparentemente ossessivo e nonsense.

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Ma qual è stato il suo apporto all’arte del Novecento? Per Didi-

Huberman il prodigio della procedura dell’impronta nell’arte del

XX secolo è stato quello di essere stata una tecnica anacronistica

che ha saputo rompere con la tradizione artistica tanto quanto

l’arte delle avanguardie, ma senza disintegrare o astrarre il

referente, semplicemente ritornando con un’aderenza al reale

sovvertendolo, ribaltando la mimesi attraverso il contatto.

Per Didi-Huberman è stato necessario far convivere l’anacronismo

con l’archeologia, in un testo critico che vuole uscire dai binari

convenzionali della critica d’arte fatta di polarità e

categorizzazioni rigide, ma soprattutto chiusa rispetto ad altre

discipline. L’approccio archeologico è stato necessario per non

fermarsi alle apparenze rintracciando subito il referente senza

soffermarsi sul processo: parliamo di una disciplina abituata ai

tempi dilatati, che permette di soffermarsi sulle rimozioni

dell’arte e sulle sue inattualità. Le rigidità degli orientamenti

critici ortodossi impongono punti di vista o troppo positivisti o

troppo “informi” per un’oggetto di studio tanto mellifluo e

singolare per l’unicità di ogni sua manifestazione, per cui

l’autore chiudendo il suo saggio con l’apertura al punto di vista

icnologico, ci lascia una lezione importante: la Forma è in

continuo divenire, è un processo che tiene conto del tempo e della

materia, ed è il risultato di un processo infinito, libero di

fluttuare tra Passato-Presente-Futuro e, soprattutto, libero da

qualsiasi pregiudizio facile o etichetta.

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