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ITALIA : 150 Años como nAcIón

cátedra Extaordinaria Italo calvino

Primera edición: 2013DR © Universidad nacional Autónoma de méxicoFacultad de Filosofía y Letrascátedra Extraordinaria Italo Calvinociudad Universitaria04510 méxico, D. F.Impreso y hecho en méxicoIsBn 978-607-02-4726-2

mariapia Lamberti - Fernando Ibarra - sabina LonghitanoEditores

ITALIA : 150 Años como nAcIón

cátedra Extraordinaria Italo CalvinoX Jornadas Internacionales de Estudios Italianos

24-28 de noviembre de 2011

Facultad de Filosofía y LetrasUniversidad Nacional Autónoma de México

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I letterati e la Grande Guerra: serra, Boine, Palazzeschi

mimmo CanGianoDuke University

Alle soglie del novecento Ibsen espresse, in due personaggi, una dicotomia desti-nata ad informare di sé gran parte del ventesimo secolo. Da un lato Brand, il ten-tativo di racchiudere il fluire della vita in una forma stabile, assoluta: una continua repressione della vita, una continua violenza contro le possibilità insite nella vita al fine di ritrovare l’autenticità perduta del senso; dall’altro Peer Gynt, il valore assoluto della superficie, l’identificazione del soggetto col fluire del tempo, la cre-denza in un’uguaglianza fra sensazione, stato d’animo soggettivo e Verità. Da un lato la presa sicura della forma che stritola la vita e la trasforma in statua, immo-bilità che dovrebbe esprimere una certezza (come nel dramma Diana e la Tuda di Pirandello) e finisce, invece, per esprimere una sclerotizzazione (si pensi al Peter Kien di Canetti); dall’altro una resa alla vita espressa in un proposito di continua simpatia con le cose, un adagiarsi pacifico in un mondo privo di gerarchie, dove ogni valore creato immediatamente distrugge il valore precedente e dove l’Io, il soggetto, ha ormai abdicato a qualsiasi capacità ordinativa del caos: cosa fra cose passeggia felice per un mondo pieno di colori, abbandonandolo ai rapporti di forza che lo sovrastano.

Votarsi a medusa, votarsi a Proteo: Brand e Peer Gynt sono due estremi, migliaia di personaggi esprimeranno posizioni intermedie, di volta in volta ten-dendo verso uno dei due lati, ma ciò che conta è che tutti esprimono una risposta, in norvegia come in Francia, in Austria come in Italia, a un problema condiviso: tale problema è ovviamente la crisi del pensiero metafisico, vale a dire la “morte di Dio”, la perdita di un principio unificatore della realtà. Ad essere entrato defi-nitivamente in crisi è il rapporto fra vita e Totalità: quando Dio muore, infatti, è l’intera ricerca del Fondamento a subire uno scacco. La realtà perde la possibilità di una base di valori sul quale fondarsi, non ha piú un sistema in cui ordinarsi e perde cosí i confini che le davano forma. Il pensiero invano risale a un Fonda-mento ultimo, cerca una causa e trova solo un effetto che rimanda al suo antece-dente; è cosí che il Soggetto sprofonda in un abisso d’infondatezza, cosí si apre la lunga storia del disincanto. Il pensiero non è piú il luogo dove le contraddizioni trovano una sistematizzazione, ma è solo il luogo dove queste contraddizioni si intensificano. Ciò avviene perché è lo stesso Soggetto che dovrebbe aggregare il reale a scoprirsi d’un tratto disgregato, ridotto ad un crogiuolo di relazioni psi-chiche, incapace di impugnare saldamente la propria precaria e barcollante unità, e dunque incapace di dare unità al mondo. Potremmo parlare, in un caso, come nell’altro, di eccesso di difesa: la ricerca della Verità che si traduce in impulso al

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dominio ed alla repressione, alla riduzione della vita in uno schema sicuro; oppure l’ipostatizzazione delle antinomie al fine di eludere la questione: se ogni Verità è solo una menzogna, una costruzione artefatta del pensiero, Peer Gynt vi risponde esasperando il problema, rinunciando a qualsiasi certezza, abbandonando la realtà nelle mani del caso.

Non dilunghiamoci oltre su questo: ciò che conta è per ora il problema, non la risposta. Un problema, si diceva, presente anche in Italia: il problema della Verità in un universo che sembra escluderla. Ascoltiamo a titolo di esempio il giovane Papini:

ma dietro ogni parete c’era il vuoto; al di là d’ogni muro c’era il buio, e l’eco era talmente singolare che ad ogni sí di speranza tornava indietro uno stanco no senza fine. […] Di ogni cosa ho visto il pro e il contro e il contro del pro; tutte le idee eran diamanti e prismi, ed erme quadriformi e sfingi con mille risposte a dieci domande. A nessun problema si può rispondere in una maniera sola e sol-tanto in quella maniera. [...] scettico io? no – disgraziatamente. neppure scetti-co. Lo scettico è fortunato: una fede gli rimane, la fede nella impossibilità della certezza. [...] Fra le cose possibili vi è anche questa: che la verità si trovi e che qualcuno la possegga. [...] Voglio una certezza certa – anche una sola! Voglio una verità vera, anche piccola, anche meschina – una sola! ma una verità che mi faccia toccare la sostanza piú intima del mondo; il sostegno ultimo, il piú solido; una verità che s’impianti da sé nella testa e non faccia piú concepire ciò che a lei contraddice; una verità, insomma, che sia una conoscenza, una conoscenza vera e propria, perfetta, definitiva, autentica, assoluta.1

Lo spettro si era aggirato per le vie d’Italia almeno dal 1903 (anno di pubbli-

cazione del Leonardo e dei primi libri di Govoni), vi soggiornerà a lungo, trovan-do una prima sistemazione addirittura nel 1947, quando savinio pubblicherà su La Fiera Letteraria un saggio dal titolo significativo: “Fine dei modelli”.

La Grande Guerra ne rappresenta un importante banco di prova: i diversi schieramenti vi cercano, fra le altre cose, una risposta al problema in questione. Vorremmo fornirne adesso tre esempi: l’andata al popolo di serra, l’ordine milita-re invocato da Boine, la neutralità di Palazzeschi, tre esempi che vanno a mostrare come il sommovimento politico sia stato anche possibilità di risposta a un proble-ma esistenziale.

Proprio Boine, in una nota di Plausi e botte, aveva definito Serra “un classicista Ancien Régime”, e in effetti, nel vivido panorama culturale di quegli anni, tutto giocato sul rifiuto del sapere accademico e tradizionale, il raffinato ‘lettore di pro-vincia’, l’esegeta di Carducci e Pascoli, dovette apparire ai piú come una figura antica, persa nel vagheggiamento, e nella difesa, di un ormai impossibile classici-smo umanista. cosí, quando il 30 Aprile 1915, alla vigilia dell’entrata in guerra, La Voce di De Robertis pubblicò l’Esame di coscienza di un letterato, non piccola deve essere stata la sorpresa fra gli intellettuali italiani.

1 Giovanni Papini, Un uomo finito, pp. 193-194.

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Serra confessa che il suo carduccianesimo è stato un rifugio, una chiusura vo-lontaria nella letteratura provinciale, e aprendo il suo sguardo sulla nazione scrive: “sento che è piena di uomini come son io, stretti dalla mia angoscia e incamminati per la mia strada”.2 L’ironico lettore di montaigne si arruolava ora volontario per il fronte, affermava: “Il presente mi basta; e non voglio né vedere né vivere al di là di quest’ora di passione” (id.), e voleva andare “come verso un destino rivela-to e decisivo, un’anima leggera, affrancata da tutte le responsabilità precedenti” (p. 35). molti letterati compiranno questa scelta proclamando ragioni di natura politico-sociale (riscatto della patria, miglioramento delle condizioni economiche e cosí via), Serra è invece estraneo a tutto ciò (“la guerra non cambia niente. Non migliora, non redime, non cancella: per sé sola”, p. 46), e neppure condivide la retorica dell’eroismo:

È inutile aspettare delle trasformazioni o dei rinnovamenti dalla guerra, [...] come è inutile sperare che i letterati ritornino cambiati dalla guerra. Essa li può prendere come uomini, in ciò che ognuno ha di piú elementare e piú semplice. (p. 39)

Si può dire che Serra continui a esercitare su ogni cosa una sorte di epoché, su ogni cosa salvo la decisione di andare in guerra: “o prima o dopo, quando bisogna andare, si va” (p. 90). Questo perché la guerra è per lui il momento della scelta senza il dubbio, la catastrofe generale annulla qualsiasi considerazione scettica sul presente e sul futuro: è la necessità di schierarsi che rende felici, la lotta permette la semplificazione estrema del tutto. Si tratta di mettere fra parentesi i disaccordi quando la questione da affrontare è vitale, si tratta, infine, di servirsi di questa questione vitale sapendo che essa può fare dell’agire una necessità, e come tale un puntello su cui impiantare un’immagine sicura della realtà.

Allora Serra rifiuta di abbandonarsi ancora una volta a quello che Raimondi definisce “il classicismo della memoria”,3 e la scelta militare si identifica in questo caso con la possibilità di riappropriarsi del classicismo perduto, inteso come fe-nomeno non problematico, non scettico, unitario. Da buon reazionario si oppone alla modernità, vi innalza contro la ricerca di una scelta non tormentata dal dubbio:

Fra mille milioni di vite, c’era un minuto per noi; e non l’avremo vissuto. sare-mo stati sull’orlo, sul margine estremo; il vento ci investiva e ci sollevava i ca-pelli sulla fronte; nei piedi immobili tremava e saliva la vertigine dello slancio. E siamo rimasti fermi. [...] eravamo destinati a questo punto, in cui tutti i peccati e le debolezze e le inutilità potevano trovare il loro impiego. Questo è il nostro assoluto. È cosí semplice.4

L’Esame non è, come Croce scriverà con sarcasmo qualche anno dopo, un testo interessato al recupero di una voluttuosità dell’esistenza, è invece un testo interes-

2 Renato serra, Esame di coscienza di un letterato, p. 83.3 Ezio Raimondi, Un europeo di provincia: Renato Serra, p. 107.4 R. serra, op. cit., p. 76.

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sato al recupero di un’umanità non problematica: “La guerra interessa serra per la semplificazione estrema che impone”.5

Boine invece non va in guerra: tisico, viene riformato alla visita militare, ma si im-pegnerà a piú riprese a trovare fondi per la gente al fronte. se pur la critica fascista lo affiancherà a Serra come “spirito della vigilia” (secondo il titolo di un fortunato libro del ’27), in realtà l’approccio boiniano al conflitto, se si guarda solo ai Discorsi militari, sembrerebbe del tutto antitetico a quello del collega. I Discorsi, libro scritto “come ad illudermi d’aver anch’io pagato il legittimo tributo che i giovani della mia leva hanno piú concretamente pagato”,6 non è un testo per letterati, ma un rigoroso codice di vita militare scritto per soldati di cultura medio-bassa (i vertici dell’eser-cito ne supportarono una seconda edizione). È una trattazione rigorosa, che include, sotto lo stesso schema, il giuramento alla bandiera e l’igiene personale. È un gran-dioso monumento all’Ordine, tutto vi è rigorosamente codificato al riparo del salu-tare ombrello dell’obbedienza. nella vita militare l’autore vede, infatti, un possibile perfezionamento della vita civile. Ciò che supporta il discorso, diviso in brevi e tito-lati paragrafi, è una dialettica costante che puntualmente giunge a una sintesi. Nella disciplina militare la vita appare infatti logicizzata, riacquista un significato nel suo rapporto di inferiorità nei confronti della legge che la sostiene. Esercito, legge, pa-tria, fondamenti che riunificano la contraddittoria e caotica ambiguità dell’esistenza, che diventa cosí nuovamente giudizio, scelta, selezione:

l’eserCito è oltretutto, sPeCie in una nazione moDerna, Come un Generatore Di orDine. si chiede da ogni parte la regola e l’ordine; si sente il bisogno dell’or-dine. (pp. 631-632)

Stando a ciò, verrebbe davvero facile classificare Boine come un piccolo Brand pre-fascista. ma con Brand Boine condivide l’abisso di infondatezza sul quale questo bisogno di ordine si forma, un abisso che guarda da un lato all’esperienza dello stadio etico kierkegaardiano e, dall’altro, già getta lo sguardo sulla seconda Inattuale nietzschiana (Sull’utilità e il danno della storia per la vita) e sulla co-scienza critica della storia come eterno ripetersi. si guarda, ad esempio, a questa lettera a cecchi appena posteriore ai Discorsi:

Il primo risultato ideale di questa guerra è una insopportabile miseria [...]. Il secondo sarà che per vent’anni la patria empirà di sé tutte le rettoriche. sono i soliti trabocchetti della storia e della società. Quando si comincia a intendere e si vede lucido, un giro di manovella ed il sipario cala, coi soliti cartelloni suoi [...] La Storia, caro Cecchi, è un barile di merda che il diavolo rotola per la china della morte: sotto sopra, su giú la merda è sempre quella.7

5 Guido Guglielmi, “Postfazione” a R. serra, ibidem, p. 97.6 Giovanni Boine, “Discorsi militari” (1914), Il peccato e le altre opere, p. 559.7 G. Boine, Carteggio Giovanni Boine-Emilio Cecchi (1911-1917), p. 159.

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E sempre a cecchi pochi mesi dopo:

La gente non muta nemmeno se scroscia il cannone; c’è canaglia che pensa alla carriera in mezzo ai moribondi, vanitosi che si stan preparando il posto ai futuri congressi, mediocri che son mediocri e fan mediocre e grigio tutto quanto [...]: se vuoi sapere se i soldati si battono hai venti risposte differenti, venti impressioni e trecento fatti contraddittori. si battono si fanno scannare qui, piú giú fuggono: lo stesso che oggi gli dan la medaglia, domani è un vigliacco [...] la conclusione è che non c’è nessuna conclusione che manca una coscienza unica, perché dove non è, nemmeno la guerra la mette, e che dopo sarà come prima. (pp. 183-185)

Lo slancio e la fede di serra sono assenti in Boine, per questo il bisogno di Ordine e di Sistema (ciò che definiva “Conversione al Codice”) è in lui piú estre-mo. A differenza di serra, Boine si era già soffermato a lungo nel gorgo dell’e-sistenzialismo, aveva da ragazzo cercato una risposta nella Religione, aveva poi separato Dio dalla chiesa, scegliendo quest’ultima, perché essa era per lui costru-zione sistematica, porto sicuro; menzogna certo, verità artefatta certo, ma edifican-te, abitabile, di contro alla Verità di una Trascendenza impossibile:

ma, fuori d’Iddio, ma, per contro a Dio la legge dell’ordine, la logica dello spirito è una sola, tende ad essere una sola (la tradizione tende verso la storia), e dell’umana attività, dello spirituale procedere Iddio, se mai, è fonte, è come polla di fiume, sta lontano alle spalle, sta nemicamente dietro [...] noi, innanzi a Dio, fuggiamo e Dio paurosamente c’insegue.8

La guerra è per lui l’ultima possibilità di una vita carica di significato, l’ultimo disperato argine che il codice, la forma, prova ad innalzare contro lo strabordante potere di un’esistenza che si è svelata in primo luogo contraddizione:

Darò al Signore padrone degli spiriti, le genuflessioni e la lunga recitazione dei salmi: –Non permetterò che mi turbi nell’intimo mio. Mi difenderò contro Iddio; difenderò la mia terrena individualità contro la strapotenza invadente d’Iddio [...] ed avendo con me il mio codice, la giustificazione di un codice ordinato e bollato, ecco io vivrò tranquillo.9

Palazzeschi ha parlato di serra soltanto una volta. È il 18 settembre 1915, il ce-senate è caduto combattendo sul Podgora e De Robertis vorrebbe, in suo ricordo, realizzare una raccolta di scritti da pubblicare su La Voce. È una delle poche volte che Palazzeschi abbandona la sua proverbiale mitezza, e la risposta è fulminante: “E della sua prematura perdita che debbo dire? Per conto mio questo bravo gio-vinotto sarebbe ancora vivo, non sono fra quelli che debbono battersi il petto”.10

8 G. Boine, L’esperienza religiosa (1911), L’esperienza religiosa e altri scritti di filosofia e di letteratura, p. 137.

9 G. Boine, “conversione al codice” (1912), Il peccato e altri scritti, pp. 486-487.10 Riportato da E. Raimondi, op. cit., p. 117.

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Tale risposta è strettamente connessa alla scelta per la neutralità. È un principio di critica costante a qualsiasi ordine, uniformità, regolarità, sistema, che guida Palazzeschi verso il rifiuto della guerra. Ciò che a Boine si era rivelata come unica speranza di Verità è invece per Palazzeschi una sfacciata mortificazione della vita:

Il giorno dopo incontrai per una via molti uomini vestiti dello stesso colore, con identiche scarpe e berretto, ugual numero di uguali bottoni all’identica giubba. camminavano serrati l’uno all’altro con un certo modo di fare i loro passi ad un tempo come fossero stati un uomo solo. non ci riuscivano ma quella era la loro mira, si capiva benissimo.–che cosa sono? – domandai ad uno che come me si era fermato a guardarli.–sono soldati. – mi rispose quello con molta disinvoltura.–Ah! soldati.–sicuro.se il mio piú intimo amico fosse stato fra quegli uomini e non mi fosse corso incontro certo io avrei dovuto faticare per ritrovarlo.11

La critica al meccanismo omologante si lega alla posizione anti-interven-tista difesa da Palazzeschi sulle pagine di Lacerba. L’“ideale di risolutezza e di combattività”,12 necessario all’opzione interventista, è direttamente apparentato al procedimento anti-relativistico adottato dagli uomini nei confronti della realtà:

Quasi sempre taccio. I miei lunghi silenzi, mentre gli altri si arroventano in un ideale di risolutezza e di combattività, dimostrano assai bene la mia freddezza. che cosa debbo fare? Debbo dimostrare quello che non sento? Debbo mettermi a sbraitare per non udire piú questo mio io che in quest’ora è piú scettico, piú ironico, piú amaro? (id.)

Il silenzio di Palazzeschi si configura anch’esso come opzione critica, op-posizione all’affrettarsi degli uomini dietro valori astratti, al seguito di ideali che nascondono sempre un’ansia semplificatrice e dunque identitaria. È contro questa volontà tesa a serrare le fila di valori in realtà inesistenti che Palazzeschi muove il proprio inno alla differenza, facendosi alfiere di una visione tutta terrena del mondo, e dunque priva di gabbie calanti dall’alto e pretendenti, inglobando solo ciò che si piega all’apriorismo di cui sono portatrici, di dare del mondo una lettura integrale.

La proposizione continua della diversità che la natura propone si trasforma allora nell’elogio culturale dell’Altro, vale a dire della struttura Altra dell’esisten-za, esaltata da un’apoteosi dell’eccezione che, lungi dal confermare la regola, ne decreta la totale vanità. Il movimento verso la contingenza non conduce alla pas-sività nei confronti del reale, ma ad un’attitudine ipercritica tesa ad additare i ten-tativi di ridurre questa complessità:

11 Aldo Palazzeschi, “Varietà”, Tutti i romanzi, vol. I, pp. 1256-1257.12 A. Palazzeschi, aforismario Spazzatura, ibidem, p. 1311.

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E quando vengo per le vostre case trovo che avete le finestre le porte tutte com-pagne, le seggiole le chicchere, i bicchieri, i piatti, le forchette. se vi dico che uno di essi à un bugnolo o una piccola venatura, mi fate il broncio come se v’avessi scoperto una magagna.13

La “piccola venatura” diventa allora emblema di un mondo restio a farsi con-tenere in prigioni concettuali, la cui ansia di perfezione si rivela ansia di semplifi-cazione: tentativo di immortalare l’informe complessità della vita.

Il proposito pedagogico che Palazzeschi mette in atto va dunque ad attaccare implicitamente il modello “secondo” di realtà (o di seconda realtà) che gli uomini cercano invano di sovrapporre al primo, e lo denuncia come un’illusione.

Fattasi la contingenza (cioè la possibilità) forma filosofica dell’esistere, bi-sognerà liberare gli uomini da quel procedimento violento teso a produrre, nell’il-lusione dell’essere, classificazioni e identificazioni. La stessa chiamata a raccolta che la guerra reclamava rientrava, come esemplifica la metafora dei soldati, in tale proposito.

Ma ciò che qui interessava far notare era come, per tutti e tre gli autori, la guerra si presentò, fra le altre cose, come banco di prova in cui verificare il mede-simo problema.

Bibliografia

Boine, Giovanni, Il peccato e le altre opere. Parma, Guanda, 1971.Boine, Giovanni, Il peccato e altri scritti, ed. di Davide Puccini. milano, Garzanti,

1983.Boine, Giovanni, L’esperienza religiosa e altri scritti di filosofia e di letteratura,

ed. di Giuliana Benvenuti e Fausto curi. Bologna, Pendragon, 1997.Boine, Giovanni, Emilio CeCChi, Carteggio (1911-1917). Roma, Edizioni di storia

e Letteratura, 1983.PalazzesChi, Aldo, Tutti i romanzi, vol. I, ed. di Gino Tellini. milano, mondadori,

2002.PaPini, Giovanni, Un uomo finito (1912). Firenze, Vallecchi, 1974.raimonDi, Ezio, Un europeo di provincia: Renato Serra. Bologna, Il mulino, 1993.serra, Renato, Esame di coscienza di un letterato (1915), ed. di Enzo colombo.

Bologna, Pendragon, 2002.

13 A. Palazzeschi, “Varietà”, ibidem, p. 1258.