G.Mariotti: La strada Francesca di Monte Bardone

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La strada Francesca di Monte Bardone di Giovanni Mariotti (da “La Giovane Montagna, n° 3, marzo 1940) Cinque anni or sono, il 28 febbraio 1935, moriva in Roma Giovanni Mariotti. Moriva in quella Città Eterna ch’egli aveva amata e onorata, senza mai dimenticare la sua piccola Patria, Parma, cui egli aveva dedicato dalla prima giovinezza tutte le cure, tutti gli studi, tutti gli affetti. In questa ricorrenza annuale della sua scomparsa, che fu e rimane un lutto cittadino, un lutto per gli studi, un lutto per la Patria, amici e studiosi ne rievocano la grande memoria, affidata al suo nome e alle sue opere. E noi non sapremmo in qual modo migliore ravvivare il ricordo ed onorare quella vita intemerata, vissuta nella dedizione al dovere e nella nobiltà degli studi più geniali, che pubblicando i tre capitoli (gli unici lasciati quasi compiuti) da lui dedicati alla strada Francesca di Monte Bardone, ch'egli studiò con amore e sapienza in tutta la sua vita. La parte che facciamo conoscere oggi è quasi una prefazione al suo studio, e la pubblicò poco prima del Quinto Congresso Storico Italiano, che si radunò a Genova dal 19 al 27 Settembre 1892 e che ripeté, con molte altre considerazioni, quale relatore del primo tema del Congresso. Il lavoro annunciato in varie occasioni, e pel quale il Mariotti continuò tutta la vita a raccogliere materiali e documenti, non venne scritto che in poche pagine lette molti anni dopo in sedute della Deputazione di Storia Patria per le Provincie Parmensi, ma rimaste inedite. Le adunanze tenute al Passo della Cisa il 17 Settembre 1924 ed a Montelungo nel 3 Settembre 1925 gli diedero modo di trarre profitto di parte dei dati raccolti, e di stendere alcuni brani importantissimi, i quali ci fanno rimpiangere come un lavoro così importante e disegnato con tanta grandiosità di concezione sia rimasto incompiuto. L'ultimo capitolo intorno a Montelungo è riuscito una vera e propria monografia a se stante, modello d'erudizione e di critica storica. Crediamo che i lettori ci saranno grati di queste pagine di vita e di storia paesana. Enrico Simonsfeld, un dotto tedesco che da molti anni studia con vivo affetto e con profonda erudizione le relazioni commerciali fra la Germania e l'Italia nel Medio Evo, ha pubblicate diverse pregevolissime monografie sulle colonie de' suoi connazionali fra noi, sui loro fondaci, sui loro commerci coll'Italia e col Levante; ma quando volle descrivere la grande via su cui passavano quegli antichi mercanti, ha dovuto confessare che non gli riusciva possibile trattare a fondo l'arduo argomento, perché mancano tuttora quegli studi preparatorii, senza dei quali, siffatte indagini non sono mature (1); e a questo

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La strada Francesca di Monte Bardonedi Giovanni Mariotti

(da “La Giovane Montagna, n° 3, marzo 1940)

Cinque anni or sono, il 28 febbraio 1935, moriva in Roma Giovanni Mariotti. Morivain quella Città Eterna ch’egli aveva amata e onorata, senza mai dimenticare la sua piccolaPatria, Parma, cui egli aveva dedicato dalla prima giovinezza tutte le cure, tutti gli studi,tutti gli affetti.

In questa ricorrenza annuale della sua scomparsa, che fu e rimane un luttocittadino, un lutto per gli studi, un lutto per la Patria, amici e studiosi ne rievocano lagrande memoria, affidata al suo nome e alle sue opere.

E noi non sapremmo in qual modo migliore ravvivare il ricordo ed onorare quellavita intemerata, vissuta nella dedizione al dovere e nella nobiltà degli studi più geniali, chepubblicando i tre capitoli (gli unici lasciati quasi compiuti) da lui dedicati alla stradaFrancesca di Monte Bardone, ch'egli studiò con amore e sapienza in tutta la sua vita.

La parte che facciamo conoscere oggi è quasi una prefazione al suo studio, e lapubblicò poco prima del Quinto Congresso Storico Italiano, che si radunò a Genova dal 19al 27 Settembre 1892 e che ripeté, con molte altre considerazioni, quale relatore del primotema del Congresso.

Il lavoro annunciato in varie occasioni, e pel quale il Mariotti continuò tutta la vitaa raccogliere materiali e documenti, non venne scritto che in poche pagine lette molti annidopo in sedute della Deputazione di Storia Patria per le Provincie Parmensi, ma rimasteinedite.

Le adunanze tenute al Passo della Cisa il 17 Settembre 1924 ed a Montelungo nel 3Settembre 1925 gli diedero modo di trarre profitto di parte dei dati raccolti, e di stenderealcuni brani importantissimi, i quali ci fanno rimpiangere come un lavoro così importantee disegnato con tanta grandiosità di concezione sia rimasto incompiuto.

L'ultimo capitolo intorno a Montelungo è riuscito una vera e propria monografia ase stante, modello d'erudizione e di critica storica.

Crediamo che i lettori ci saranno grati di queste pagine di vita e di storia paesana.

Enrico Simonsfeld, un dotto tedesco che da molti anni studiacon vivo affetto e con profondaerudizione le relazioni commerciali fra la Germania e l'Italia nelMedio Evo, ha pubblicate diverse pregevolissime monografie sullecolonie de' suoi connazionali fra noi, sui loro fondaci, sui lorocommerci coll'Italia e col Levante; ma quando volle descrivere lagrande via su cui passavano quegli antichi mercanti, ha dovutoconfessare che non gli riusciva possibile trattare a fondo l'arduoargomento, perché mancano tuttora quegli studi preparatorii, senzadei quali, siffatte indagini non sono mature (1); e a questo

proposito dichiara di aver trovato qualche sussidio in un sololavoro, l'opera dell'Oehlmann sui valichi delle Alpi nel Medio Evo(2).

Il rimprovero che indirettamente veniva fatto agli studiosiitaliani da questa osservazione delloro collega d'oltralpe era in buona parte meritato quando ilSimonsfeld scriveva il suo classicolavoro sul Fondaco dei Tedeschi in Venezia; ma, proprio in queigiorni, uscivano in luce la bellamonografia del Vaccarone sulle Vie delle Alpi Occidentali negli antichi tempi(3); la interessantenota di un egregio collega nostro, il Tononi, sulla Strada di monteBardone (4); una più ampiamemoria sulle strade di Val di Magra del ch. Dottor GiovanniSforza, della Deputazione Modenese (5) e la dotta monografia delProf. Pio Rajna sulle grandi strade battute dai Francesi e daiTedeschi attraverso l'Italia (6); e, pochi anni dopo, il Prof.D'Ancona, ripubblicando in Città di Castello, un giornale diviaggio del sec. XVI, illustrava di nuovo con note e con un saggiodi bibliografia quelle antiche strade (7) e il Prof. Uziellipubblicava gli studi di Leonardo da Vinci sulle valli e suivalichi delle Alpi Lombarde (8).

Tutte queste monografie, ricche di documenti inediti e didotte osservazioni, mostrano indubbiamente come anche fra noi sisia ora risvegliato lo studio di queste vecchie strade su cui sisvolse tutta la vita commerciale e politica del Medio Evo, e chefurono causa di interminabili lottefra le città italiane; le quali da esse appunto traevano granparte della loro potenza e della loro ricchezza.

Ma gli studi isolati del Vaccarone, del Tononi, dello Sforza,del Rajna, del D'Ancona, dell'Uzielli e di altri dotti italiani,appunto perché non coordinati fra loro, e fatti con intendimentidiversi, non possono certamente costituire quel complesso di studipreparatorii che il Simmonsfeld ci chiedeva; quegli studi senzadei quali niun dotto, né d'Italia, né d'oltralpe, potrà mai darela storiacompleta  dei nostri commerci e della nostra vita nel Medio Evo.

Le nuove ferrovie che attraversano in tutte le direzionil'Italia, le nuove strade carrozzabili che salgono tutte le piùaspre e remote valli delle Alpi e degli Appennini, hanno lasciatoormaiabbandonate e deserte le vecchie vie medioevali; ma, pure su diqueste ancor si conservano qua

e là vecchi ospedali che accoglievano un dì i pellegrini, ruine difortilizi in cui si esigevano ipedaggi, avanzi di antichi ponti, di grossi muri di sostegno, diselciati antichissimi; e iscrizioni, e sculture e dipinti; eripostigli di antiche monete straniere, e tombe di romei, dimercanti, di guerrieri, che, affranti dal lungo viaggio, ebberol'estremo riposo sul margine di quella via, in fondo alla qualeessi invano avevano sperato di rivedere la lontana sospirata terranativa.

Tutti questi avanzi vanno ora lentamente, ma continuamentescomparendo; ed io stesso, di molti che pur ne vidi nel territorionostro, or non riuscirei più a rilevare le traccie. Noi tuttiabbiamviste, l'una dopo l'altra, scomparire, sotto le rialzate ghiaiedel Taro, quasi tutte le pile del vecchio ponte di Fornovo,;abbiamo visto l'antico ospedale, che era in capo a quel ponte,trasformato or ora in una osteria, abbiamo visto lo ospedale diRespiccio travolto dalle acque della Sporzana; e molti altri diquegli antichi ricoveri di pellegrini mutati in case coloniche oin dimore signorili di villeggiatura.

Eppure tutti questi monumenti ricordavano ancora una grandevia, che, per ben dieci secoli(dal VII al XVI), fu la più battuta dai Tedeschi, dai Francesi,dai Fiamminghi, dai Britanni, dagli Scandinavi che si recavano aRoma, una via della quale ogni giorno si pubblicano oltralpe nuoviinteressantissimi ricordi.

E tutti questi monumenti, disseminati, quasi pietre miliari,sulle vecchie strade, scompaionoirreparabilmente proprio ora, mentre il Governo italiano siaccinge a compilare la Carta Archeologica d'Italia ed a questoscopo stanzia ogni anno rilevanti somme nel Bilancio dellaIstruzione.

Eppure a compilare esattamente quella carta per ciò cheriguarda il Medio Evo sarà necessario conoscere non solol'ubicazione precisa di città e castella, ma anche i tracciamentidelle vecchie strade, per cui le castella e le città comunicavanofra loro, e con Roma e coll'Alpi; ed è appunto la mancanza distudi speciali su quelle vie che ingenera confusione vivissima econtinueinesattezze nella narrazione de' fatti storici che si svolsero franoi nei secoli di mezzo.

Di tale confusione e di siffatte inesattezze ci sarà facileindicare più di un esempio anche in

scrittori reputatissimi solo per ciò che riguarda la Strada diMonte Bardone; ma il fatto si ripete pur troppo per ogni altrastrada; né vi si potrà porre riparo se non con uno studiosistematico completo di tutti i monumenti che ci restano dellevecchie vie, sia lungo il tracciamento di esse (ricoveri,ospedali, abbazie, ponti ed altri manufatti, iscrizioni, tombe,ecc.) sia nelle biblioteche e negli archivi (itinerari, relazionidi viaggi, cronache, statuti di Comuni e di spedali e altridocumenti d'ogni fatta).

Né questo può esser lavoro di un sol uomo o di una solasocietà: ed io sarei davvero lietissimo se tutte le Deputazioni ele Società storiche italiane, che, fra pochi mesi, debbonoriunirsi a Congresso in Genova, volessero di comune accordo, e connorme precise e sicure, e eguali ovunque, accingersi in ogni parted'Italia all'arduo ma gradevole studio.

E pare a me, che a decretare questo studio completo di tuttele antiche vie commerciali dell’Italia niun luogo sia più adattodi Genova che fu nel medio evo ed è ancora centro di attrazionegrandissimo pei commerci italiani, e per quelli d'oltremare ed'oltralpe; e niun anno più adatto di questo in cui si celebranole feste secolari del più grande dei viaggiatori, della piùinsigne, dellapiù meravigliosa delle scoperte geografiche.

Mi auguro che la nostra Deputazione voglia assumere nelCongresso storico di Genova lainiziativa della proposta; e che le Società consorelle voglianoseguirla su questa via. E intanto,per confortare la proposta con un esempio, mi accingo arintracciar, modestamente come per mesi può, i ricordi ed i monumenti delle vecchie vie medioevali perciò che riguarda il territorio delleProvincie Parmensi; e incomincio dalla Strada di Monte Bardone.

Non ho certo la pretesa di dare il mio lavoro modestissimocome traccia in siffatto genere distudi; lo presento soltanto perché la nostra Deputazione, prima, eil Congresso storico poi, nericonoscano e ne mettano in luce i difetti, segnando così, e a mee agli altri, la via migliore e piùsicura da seguirsi in queste difficili ma, pure interessantiricerche.

(1) SIMONSFFLD (D. HENRY): Der Fondaco dei Tedeschi in Venedig und dieDeutsch-Venetianischen Beziehungen. Band II, Stuttgart, Verlag der I. G.Cotta'schen Buchbandlung, 1887.(2) OEHLMANN: Die Alpenhisse in Mittelalter (Iahrbuch fur Schweizerisce Geschichte,Bd. Iii, IV, 1878-79).(3) VACCARONE LUIGI: Le Vie delle Alpi Occidentali negli antichi tempi, ricerche estudi pubblicati su documenti inediti. Torino, Candeletti, 1884.(4) TONONI: Gregorio VII e i Piacentini. Piacenza, Solari, 1885. La notarelativa alla Strada di Monte Bardone è inserita in fine al volume, dapag. 98 a pag. 104.(5) SFORZA: Memorie e Documenti per servire alla storia di Pontremoli. Parte II(Documenti).Lucca, Giusti, 1887. Vi è aggiunta, in appendice, una memoriasopra le Strade del Bratello e dellaCisa, da pag. 341 a pag. 371.(6) RAJNA: Un'iscrizione Nepesina del 1131 (nell’Archivio Storico Italiano. SerieQuarta, Tom.XVIII e XIX, 1886-87). La parte di questa interessante memoria cheriguarda più specialmente le Strade Francesche e Tedesche èinserito nel volume XIX da pag. 24 a pag. 54.(7) D'ANCONA (Prof. ALESSANDRO): L'Italia alla fine del secoloXVI, giornale del viaggio di Michele de Montaigne in Italia nel1580 e 1581. Nuova edizione del testo francese e italiano, connote ed un saggio di Bibliografia dei viaggi in Italia. Città diCastello, Lapi, 1889.(8) UZIELLI G.: Leonardo da Vinci e le Alpi (nel Bollettino del Club AlpinoItaliano, vol. XXIII, n. 56, anno 1889, da pag. 81 a pag. 156).

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Seconda puntata

(da “La Giovane Montagna”, n° 5, maggio 1940)

Recenti Pubblicazioni di dotti stranieri – alcune anzirecentissime – hanno richiamato l'attenzione degli studiosi sullestrade percorse nel medioevo dai pellegrini attratti dai piùlontani paesi ai venerati santuari di Gerusalemme, di S. Jacopo diGallizia, e, soprattutto, di Roma; e non soltanto sui tracciamentidi quelle antiche strade e sui grandi avvenimenti storici che sudi esse si sono svolti, ma anche - e ancor più - sulla influenza

che quelle vie percorse di continuo, e non daipellegrini soltanto, esercitarono sui commerci di quei remotitempi e sul progresso delle lettere edelle arti. Si direbbe quasi che, in questa vigilia di un nuovoAnno Santo, sia rinverdito ovunque,oltralpe e oltremare, il ricordo degli antichi romei e dellafaticosa e lenta ma continua ed efficaceopera di affratellamento da loro compiuta tra popoli lontanissimi,invano divisi da aspre catene dimonti e da vasti e tempestosi mari, alcuni dei quali, come quellidi Islanda, per molti mesi dell’anno, resi, per le nebbie ed ighiacci, inaccessibili.

La nostra celeberrima Strada di Montebardone avrebbeindubbiamente meritato di figurare la prima nel breve elenco diquelle grandi vie, molto più che da essa, appunto, sin dal 1886,per opera di un italiano dottissimo, Pio Raina, si iniziò lostudio dell'importanza che hanno per l'epopeafrancese le strade dei pellegrinaggi (1), dimostrando la necessitàdi ben conoscere l'andamento di essa per comprendere molti degliepisodi, fino ad ora rimasti oscuri, delle chanson de geste.

Invece la nostra Strada Francesca, da cui questi geniali studisi iniziarono, oggi dai nuovi dotti illustratori dei rapporti deipellegrinaggi col rapido progredire delle lettere e delle artibelle, èquasi del tutto dimenticata.

Giuseppe Bédier, il degno successore di Gastone Paris nellaCattedra del Collegio di Francia, enumera bensì, nel secondo e nelquarto volume delle sue ricerche sulla formazione delle leggendeepiche (2) i ricordi che ci rimangono del Monte Bardone nellachanson de geste che canta di Ami et Amile, nel Charroi de Nimes, neiNarbonnais, nelle Enfances Ogier; ma quando si accinge ad illustrarel'ampia descrizione della fuga di Ogiero il Danese sul MonteBardone, fatta da Raimbert de Paris nelle Chevalerie Ogier de Danemarche(versi 5965-5975) cade, per mancanza di precisa conoscenza deiluoghi, in gravi inesattezze. Cercheremo di correggerle piùinnanzi, restituendo quel testo, per noi importantissimo, alla suaantica lezione.

Emilio Male nella dotta monografia sopra “L'Arte del medio evoed i pellegrinaggi” pubblicati sulla Revue de Paris del 1919 e 1920,ricorda, egli pure, la fuga di Ogiero il Danese inseguito diCarlomagno lungo la strada di Monte Bardone (3), fa, qua e là,altri accenni alla celebre via e illustra i cortei di pellegrini,scolpiti così suggestivamente, nel sec. XII, dal nostro Antelami,

sulla facciata del Duomo di Borgo S. Donnino, ove la strada diMonte Bardone si staccava dalla vecchia Strada Claudia; ma, però,in quello studio, pure diligentissimo, dei monumenti diarchitettura e di scultura, che ancora si conservano sulle stradedei pellegrini e che dimostrano gli stretti rapporti che siavevano allora tra artisti di paesi lontanissimo, non vi è maicenno alcuno dei monumenti della strada nostra. Eppure l'illustrescrittore, che tanto si indugia per provare molto discutibilirapporti tra il grande scultore del Battistero di Parma e gliscultori francesi e specialmente quelli della Cattedrale diChartres avrebbe assai più facilmente potuto dimostrare l'originefrancese di alcune tra le più antiche sculture di Fornovo, diBardone, di Berceto. A Fornovo, ad esempio, sul vecchio paliottodell'altare, nella rappresentazione del martirio di Santa Marta,avrebbe potuto rivedere il Tarasco, il leggendario terribile mostroche infestava le rive del Ròdano, rappresentato nelle stesse formetipiche che esso ha nelle antiche chiese di Francia, e che noiitaliani non vedemmo mai nei nostri monumenti, mentre le vediamodi continuo riprodotte in Francia, non soltanto negli scrittori distoria dell'arte, ma anche nei libri di cultura popolare come, adesempio, nel Noveau Larousse illustré, che lo trae da un bassorilievodella chiesa di S. Salvatore in Aix (4).

Conobbe, invece, almeno in piccola parte, le sculture di MonteBardone un altro dotto, infaticabile illustratore delle nostreglorie artistiche medioevali, Arturo Kingsley Porter, il quale, inuna interessantissima memoria sul progresso della scultura inLombardia nel sec. XII, pubblicò ineleganti incisioni ed illustrò nel testo, non soltanto insignisculture del Duomo e del Battistero di Parma, del Duomo di Borgo San Donnino e della Pieve diCastellarquato, ma volle pure aggiungervi le sculture, cosìinteressanti e così poco conosciute, della porta maggiore dellaPieve diBerceto (5).

Pur troppo, però, in altre due più recenti monografie,pubblicate dallo stesso laboriosissimoscrittore nello stesso American Journal of Archaeology, la prima nel1920, sulle sculture romanichedi maestri italiani in Francia (6) l'altra, nel 1922, sulle sculture deipellegrinaggi (7) non vi è piùnessun cenno di Berceto e della sua Pieve, nessuno di Bardone, diFornovo, di Collecchio e delle altre chiese romaniche, cherimangono ancora come insigni pietre miliari sull'antica via.

E – ciò che è più doloroso – si è che di quei venerandimonumenti non vi è più alcun cennoneppure nella splendida, colossale opera pubblicata dal Porter,proprio in questi ultimi giorni in Boston per illustrare le ScultureRomaniche nelle strade di pellegrinaggio (8).

Quell'opera colossale, in dieci volumi elegantissimi, conmagnifiche incisioni distribuite in1527 tavole fuori testo, io l'ho scorsa tutta diligentemente, mamestamente, per farne un cennonella rassegna bibliografica del nostro Archivio Storico Parmense. Maconfesso che la penna mi si è fermata tra le dita.

A quale pro, infatti, annotare che l'illustre scrittorericorda, quasi ad ogni passo, il Duomo e il Battistero di Parma,il Duomo, San Savino e Sant'Antonino di Piacenza e il Duomo diBorgo San Donnino,che fa anche menzione qua e là, di altri minori monumenti dellenostre campagne, come, ad esempio, del Battistero di VigoloMarchese sorto nel 1008 e del chiostro di Santa Felicola pressoMontechiarugolo, che il Porter ritiene costrutto intorno al 1145?

A quale pro questi accenni su monumenti già conosciuti; quandoin un'opera destinata ad illustrare le sculture sulle vie deipellegrini, manca tutto il tesoro di sculture che la vecchia,abbandonata strada di Monte Bardone conserva gelosamente da secolinelle chiese di Collecchio, diTalignano, di Fornovo, di Bardone, di Berceto?

Meglio, meglio assai - anziché perder tempo a notare lacune inopere altrui - raccoglier tuttigli elementi che valgano a colmare le lacune giustamentelamentate.A ciò intende, appunto, questo mio modesto lavoro, nel quale verròraccogliendo tutto ciò che sulla strada di Monte Bardone cilasciarono scritto storici e cronisti, e i documenti che su diessa ancora conservano le nostre biblioteche e i nostri archivi(itinerari, relazioni di viaggi, statuti di Comuni e di Spedali,pie fondazioni a pro dei pellegrini) e le riproduzionifotografiche dei monumenti architettonici e delle sculture e degliaffreschi e delle antiche iscrizioni, che ancora si ammirano lungola strada dei vecchi romei, e i disegni che ancor si conservano ditaluni dei monumenti perduti, dal ponte medioevale di Fornovo, delquale, in questi ultimi anni, abbiamo visto ad uno ad unoscomparire le pile sotto il rialzato alveo del Taro, sino a questoeccelso ospedale della Cisa in summa Alpe, che, scomparso da secoliper l'incuria degli uomini e per la malvagità dei tempi, riappare

oggi, come per incanto, dalle sue vetuste fondamenta, per opera diun cittadino benemerito, il Dott. Giuseppe Molinari, appassionatocultore dei ricordi dei padri, al quale la Regia DeputazioneParmense di Storia Patria da queste alte vette - ove si svolserotante pagine di storia, ora liete, ora tristi, ma gloriose sempre- tributa oggi il più entusiastico plauso.

II°

Prima di addentrarci a ricordare le memorie storiche ed arintracciare i documenti ed i monumenti che ancor si conservanodella nostra Strada, sarà bene anzitutto conoscere esattamenteche cosa per Monte Bardone intendessero gli antichi.

Questo nome appare per le prime volte nelle vicende storichedel secolo VII e negli scrittoridel secolo VIII; e d'allora in poi si incontra di frequente in unnumero grandissimo di diplomi, di bolle, di rogiti, di statuti, dicronache, di atti e leggende di santi, di itinerari e di altridocumenti di ogni fatto, sino a tutto il secolo XIII.

Poi, nel secolo XIV, scompare di nuovo; e così completamente,così rapidamente, che gli scrittori del sec. XV e dei successivi,più non sanno rintracciare ove e che cosa sia il Monte Bardone; elo collocano, a caso, ora di qua ora di la dal Taro, ora sulterritorio di Parma, ora in quel di Piacenza, contraddicendosi dicontinuo, e ingenerando nella narrazione dei fatti storicisvoltisi nellenostre Provincie, una confusione grandissima, che, pur troppo,anche nei più reputati scrittorid'Italia e d'oltralpe, dura fino al dì d'oggi.

Il primo degli scrittori italiani che abbia cercato dirinnovare la memoria del monte e alpe diBardone è Ilario Biondo di Forlì; il quale, nella sua Italia illustrata(edita la prima volta in Romanel 1474, undici anni dopo la morte dell'autore, ristampata inVerona nel 1482 e poi in molti altri luoghi in Italia eall'estero) così si esprime intorno alla valle del Taro e al Montedi Bardone: Tarus exinde fluvius Padum illibatur. Intus ad sinistram ubi Coniotorrente angetur Fornovum, superius Complanum, Sancta Maria, et ad ortum fluvii Citiumcastella. Ad dexteram Solignanum et Bargum ubi alpem Bardonis olim fuisse dictuminvenio, in quo Lucprandus Longobardorum Rex monasterium, quod Bercetum dicititr,aedificavit (9).

Il Biondo, adunque, colloca giustamente l'alpe di Bardonesulla sponda destra del Taro, al di

sopra della villa di Bardone (Bargum) e della selva di Solignano,nome antico della villa che noi ora chiamiamo Selva del Bocchetto(10).

Invece Fra Leandro Alberti nella sua Descrittione di tutta Italia,pubblicata la prima volta a Bologna nel 1550, dopo aver descrittatutta la riva destra del Taro, che egli, seguendo le imposture diAnnio da Viterbo, colloca nella immaginaria Regione Bianora, possadescrivere, al di là del Taro, la regione Doria, altra stranainvenzione di Annio; e, dopo avere accennato alla valle del Cenoed al Castello di Bardi nel Piacentino, soggiunge: “Già eranoaddimandati questi alti monti l'Alpi di Bardono, ove LiuthprandoRe de i Longobardi, edificò il Monastero di Berceto, secondoPauolo diacono nel sesto libro dell' historie” (11).

A correggere questi errori, divulgati dalle molte edizionidell'opera dell'Alberti (12), che ebbe fra i viaggiatori e glistudiosi dei secoli XVI e XVII la stessa diffusione che hanno ora,fra noi, le guide del Baedeker, nulla opposero gli scrittori dellestorie parmensi; che, anzi, il primo di essi, Bonaventura Angeli,nella sua Historia della Città di Parma, edita nel 1591, segue in questaparte le invenzioni dell'Alberti, e rimprovera il Biondo che. pureaveva veduto e detto il vero.

“Bardone” dice l'Angeli, è “villa d'alcune poche case, con unaantica torre, ma dishabitata, aperta; et pendente, che non mostraattender altro che la sua ruina. Di questo luogo favellando ilBiondo dice, che 'l Tarro hà à destra Solegnano et Bardo, dove eitruova che gli antichi dissero l'alpe di Bardone. Ma pur troppoegli s'ingannò, poiché non è verisimile che una piccola villa,anzi dirò villuzza, tanta forza hauesse potuto hauere, che da sénominasse una tratta di monti così grande. Ma non è vero anchora,conciosiaché questo luogo è dall'Appennino distante molto,massimamente dalla parte detta Bardone, né quei monti, che tra luisi truovano et l'alpe, si chiamano di Bardone; ma vengono col nomedelle ville, che vicine li sono, detti. Chiamossi Bardone il montedi Bardo, castello nell'istesse alpe posto, lontano da dodicimiglia dal Borgo di Val di Tarro.” (13).

Solo nel 1642 un altro degli storici nostri, Ranuccio Pico, siaccinse a correggere gli erroridell'Alberti e dell'Angeli e dimostrò che il Biondo “non potevadare meglio in segno di quello che ha fatto per disegnare il sitodi Berceto, percioché se dalle rouine di quello fu costrutta etedificata la terra del moderno Berceto, in che maniera potrebbeessere ciò facilmente succeduto se il Monte di Bardone fossequello che deriva dal detto Castello di Bardi, che di molte miglia

con notabile distanza e di scoscesa via si discosta da Berceto?Onde molto più si accosta al vero che il detto monte o alpeprendesse il nome dell'istesso luogo di Bardone, ove ella cominciae va sempre innalzandosi fin a Berceto et ancor più oltre fin algiogo detto della Cisa di dove poi si cala fino a Pontremoli. Ebenché vi sia la distanza di alcune miglia fra l'un e l'altroluogo, nondimeno pare chel'istessa Alpe li congiunga insieme, mentre cominciando come hodetto da Bardone va semprecontinuando fin al giogo, oue forse, o iui intorno, fu edificatodetto Monastero, dalle cui rouine, secondo che dice dettoCronista” cioè l'Angeli “fu poi fabricato Berceto. Né rilevamolto l'argomento che egli adduce con dire che non è verisimileche una picciola Villa o Villuzza, come egli chiama, habbia datoil nome ad una tratta di monte così grande, e tanto da quellolontani; percioché non s'intende, né si parla di quei Monti checircondano il Castello di Bardi, mentre pazza cosa sarebbe volereprouare che detta Villa hauesse dato il nome a Monti tantolontani, e i quali ne ancor so se si chiamassero anticamente diBardone” (14).

“Ancorché” soggiunge il Pico “detta Villa di Bardone sia moltopicciola, la quale però in quel tempo poteva per avventura essereassai maggiore, non per questo disconviene che possa dare il nomea quel monte che se gli accosta, si come molti altri esempi sipotrebbono addurre di altri monti, che pigliano il nome dal luogo,benché vile, che, vi sia in qualche maniera congiunto; e si comeil medesimo si vede parimenti nella denominazione de' laghi, comeil Benaco, che piglia volgarmente il nome dalla picciola terra diGarda che alla riva di quello giace, benché altre terre molto piùnobili siano alla riva di esso” (15).

Rimase convinto della ragionevolezza di queste osservazioni,Pier Maria Campi; il quale, pubblicando pochi anni dopo il Ivolume della sua Historia Ecclesiastica di Piacenza, tolse al territoriopiacentino di Bardi, e restituì a quel di Parma e l'Alpe diBardone, e la strada, e il monastero, e tutti i fatti e leleggende che vi si riferiscono (16).

Ma nei primi anni del secolo successivo Monsignor GiustoFontanini torna a stampare che ilCastello di Bardi è situato a pié del Monte Bardone (17); e, quelche più sorprende, lo stessodottissimo Muratori, in una nota ai versi di Donizone nel Tomo Vdegli Sciptores Rerum Italicarum, toglie non solo all'Appennino di

Parma, ma anche a quel di Piacenza, la Strada Francesca e la traeal piano, identificandola colla Via Emilia di Lepido (18).

E’ ben vero che pochi anni dopo lo stesso Muratori,pubblicando la XXXII Dissertazione nelle Antiquitates Italicae medii aevi,corresse in parte l'errore, ed espresse il dubbio che nei versi diDonizone si parli non della nostra Emilia ma della strada diPontremoli. Dubitare nunc subit, egli dice, an eo nomine potius significeturviam per quam e Lombardia Pontremulum itur, atque inde Florentiam, Senam et deniqueRomam. Utcumque sit, nihil aliud Francigena via fecit, nisi quae ex Italia in Gallias ducit(19).

Il dubbio del Muratori venne poi tolto dal Lami, che nel terzovolume dell'Hodeporicon, edito nel 1743, dimostrò con interessantidocumenti come la Via Francesca continuasse al di là di Pontremoliper Lucca, Altopascio, il Galleno e Fucecchio (20); e, meglioancora, dal Targioni-Tozzetti, che nel VII volume dei suoi Viaggi in Toscana descrisse iltratto della Via Francesca da Pietrasanta a Lucca (21) ed altritratti ne ricordò nel volume IX e nel X.

Anche l'Affò, nel I Volume della Storia di Parma, uscito inluce nel 1792, combatte a proposito della Strada di Monte Bardone,gli errori dell'Angeli e del Fontanini (22); e meglio ancoralo fece Emanuele Repetti sia in una lettera diretta a GiovanniPietro Viessieux nel maggio 1823 e stampata nella vecchia Antologiadi Firenze, sia in parecchi articoli del suo dizionario dellaToscana (23).

Ma non ostante tutte queste fatiche di dotti italiani percorreggere i molti errori invalsi intorno alla Strada di MonteBardone, noi vediamo di continuo gli errori stessi adottati ancora(specialmente sulla fede del Muratori) da dottissimi scrittoristranieri.

Il Prof. Enrico Cristiano Werlauff dell'Università diCopenaghen, nelle note all'Itinerario islandese di Nicolò AbateTingorense, dice il Monte Bardone in Liguriae Apennino in Comitatu Parmensilocandus ad laevam amnis Coeni in Tarum ex currentis; e quindi lo colloca allasinistra non solo del Taro ma anche del Ceno, cioé evidentemente aBardi (24).

Il Bethmam, ripubblicando nei Monumenta Germaniae Historica ilpoema di Donizone, confonde di nuovo come già il Muratori laStrada Francesca di Monte Bardone colla Via Emiliadella nostra pianura (25).

Il Waitz, ripubblicando nel 1878 fra gli Scriptores RerumLongobardicarum, la storia di Paolo Diacono, per spiegare il passoove questi narra dell'entrata di Grimoaldo in Toscana per Alpem

Bardonis, aggiunge in nota: Bardi prope Parmam (26); e ripete poi lostesso errore nell'indice, riferendosi all'altro passo in cuiPaolo narra la fondazione della Badia di Berceto.

Cercarono di correggere tutti questi errori dapprima chiscrive oggi questi nuovi studi dandoconto nel 1876 di una escursione alpina fatta “sulla Strada dellaCisa” (27) poi, nel 1887, Giovanni Sforza, l'illustre, compiantoVice-Presidente della nostra Deputazione, che oggi stesso noiabbiamo commemorato qui sopra uno dei tanti teatri della suainesauribile attività di studioso (28); e, poco dopo, nel 1885,l'altro nostro illustre Vice-Presidente Professore Don GaetanoTononi (29).

Ma chi, sopratutti, contribuì a correggere i troppo inveteratierrori, specialmente presso glistranieri fu il Schütte in una apposita memoria, veramentemagistrale, sul Passo apenninico diMonte Bardone e gli Imperatori Tedeschi pubblicato in Berlino negliHistorische Studien dell’Ebering nel 1901. Ma anche in questa opera,eruditissima, che avrò cagione di citare moltevolte in questo mio povero studio, mentre è indicato con lamassima esattezza il tracciato dell’antica strade sulla montagna,da Fornovo a Pontremoli; è invece completamente errato iltracciamento dell'alto tratto della strada, nella pianura, sullasponda sinistra del Taro, dalla Strada Claudia (oggi Via Emilia)sino a Fornovo.

Lo Schütte, infatti, fa staccare la Strada Francesca dallaClaudia presso Castelguelfo o Ponteraro; e pone, di conseguenza,sulla Francesca anche Noceto, che non vi fu mai. La strada, cheancora in gran parte esiste e conserva l'antico nome passava moltopiù in alto, ai piedi dei colli, toccando successivamente gliospedali dei pellegrini di S. Leonardo del Coduro, di S.taMargherita di Araldo, di S. Pietro del Borghetto, di S. Stefano diRecchio, di S. Lazzaro di Medesano, di S. Giacomo pure diMedesano, di S. Genesio di Felegara e di San Nicolò del Ponte diFornovo. Meravigliosa serie di pii ricoveri, a poche miglia l'unodall'altro, i cui avanzi rimangono a dimostrare quanta fossel'importanza della via, quanta la pietà degli avi nostri verso ipellegrini!

Ma di questo avremo occasione di parlare a suo luogo. Per orabasti osservare che l'errore dello Schütte, confermatograficamente nella carta geografica che accompagna la memoria, funaturalmente seguito dagli storici e dai cartografi che vennerodopo di lui, e soprattutto dal Male, che nella piccola carta degli

Itinerari dei pellegrini in Italia, pubblicato nel II volume delle sue LeggendeEpiche (30).

E a sperare che la nuova più ampia carta topografica, che siunisce a questa memoria - diligente, esattissima operadell'Istituto Geografico Militare di Firenze - valga ormai atogliere ognierrore sul tracciato dell'antica gloriosa strada, ogni dubbiezzasugli avvenimenti di cui fu teatro, per ben dieci secoli, il MonteBardone (31).

(*) Questi due primi capitoli vennero letti nella tornata dellaDeputazione Storia Patria delle Provincie Parmensi al passo dellaCisa il 25 settembre 1924.

(1) PIO RAINA: Le fonti dell'Orlando Furioso. Firenze,Sansoni, 1900.

Idem: Una rivoluzione negli studi intorno alle “Chansons de geste”in Studi medievali diretti da F. Novati e R. Renie, vol. III, 1908-11,Torino, Loescher.Idem: Storia ed Epopea; in Archivio Storico Italiano, an. 1909.vol. XLIII; vedi anche GAUTIER LEON: Bibliographie des chanson degeste, Paris, Welter, 1897.

(2) JOSEPH BEDIER: La Chanson de Roland. Paris, Piazza, 1922.Idem: Les légendes epiques. Paris, Champion, 1908-1913, vol. II,pag. 196-219; vol. IV, pag. 413.

(3) EMILE MALE: L'art du moyen age et les Pelegrinages, inRevue de Paris, ottobre 1919, tomo V, pag. 716-754; febbraio 1920,tomo I, pag. 762.

(4) Nouveau Larousse Illustré.(5) PORTER (A. KLINGSLEY): Lombard Architecture. New Haven Yale

University Press.. 1916, 3 Vol. in 8" con atlante in folio. Dellachiesa di Bardone si occupa nel vol. II, pag. 92-94; di quella diBerceto nello stesso volume a pag. 101-106.

(6) PORTER (A. KLINGSLEY): Two romanesque sculptures in Francia byItalian masters (in American Journal of archaeology, 1920, XXIV, 121).

(7) PORTER (A. KLINGSLEY): Pilgrimage sculpture (in AmericanJournal of Archaeology, 1922, XXVI, 1).

(8) PORTER (A. KLINGSLEY): Romanesque Sculpture of thepilgimage roads. Boston, Mashall Jones Company, 1923. Diecivolumi: uno di testo e nove di illustrazioni.

(9) FLAVIO BIONDO, Italia Illustrata, Roma 1474.

(10) Interessa conoscere anche cosa ne dicesse il MOLOSSI: “ Einnanzi tutto avvertiremo che quella catena di monti che sidistende fra Piantogna e la Cisa, fu anticamente denominata ilBardone; via battuta da' romani e molto più dai monarchidell'impero d'occidente ne' secoli bassi.Dal frequente passarvi dei francesi lasciò da poi la vecchiaappellazione di Via del Bardone, equella assunse di Via Francesca, per la quale fra Parma e Luccacomunicavasi”.

MOLOSSI, Vocabolario Top., pag. 606 (Appendice), Parma 1832-34.

(11) ALBERTI (Fr. LEANDRO), Descrittione di tutta Italia, Bologna, perAnselmo Giaccarelli, 1550, ed. in fol. a car. 332 rect.

(12) Oltre alle due edizioni Bolognesi del 1550 (una in folio,l'altra in quarto) si possono ricordare più specialmente le Venetedel Bonelli (1553), dell'Avanzi (1561 e 1567), del Leni (1577) delPorta (1581), dell'Ugolini (1596) tutte in volgare. Ve ne hannoanche diverse edizioni in latino, a cominciare da quella diColonia del 1567.

(13) ANGELI, Hist. di Parma, Parma, per Erasmo Viotti, 1591, pag.767.

(14) RANUCCIO PICO, Teatro de' Santi .... di Parma, Parma, Vigna, 1642,pag. 356, 357.

(15) PICO, l. c. pag. 358.(16) CAMPI PIERO MARIA, Dell'Historia Ecclesiastica di Piacenza, Parte I.

Piacenza, Bazachi, 1651, pag. 184, col. 1°.(17) FONTANINI, Della istoria del dominio temporale della sede apostolica nel

ducato di Parma e Piacenza, Roma, 1720, pag. 16.(18) MURATORI, Scriptores Rerum Italicarum, Tomo V.(19) MURATORI, Antiquitates Ital. medii aevi, XXXII:(20) LAMI, Hodeporicon, Lucca, 1743.(21) TARGIONI-TOZZETTI, Viaggi in Toscana, vol. VII e IX.(22) AFFO’, Storia di Parma, vol. I.(23) REPETTI, Dizionario della Toscana ed Antologia di Firenze,

tomo X, giugno 1823.(24) WERLAUFF, Summa Geographiae medii aevi ad montem

Islandorum, cui accedit Itinerarium ad Romam et terram sanctamsusceptum. In Anniversaria ..... Regiae Universitates Hanniensis 1821. VediAntologia di Firenze, A.VIII, pag. 226.

(25) Monumenta Germaniae Historica scriptores rerum Longobardicarum etitalicarum, fasc. VI-1X, Hannover, 1878.

(26) Idem, Tomo XIII, Hannover, 1881.(27) Giornale il Presente di Parma.

(29) SFORZA, Memorie e documenti per servire alla storia di Pontremoli,Lucca, 1887.

(29) TONONI, Gregorio VII e i Piacentini, Piacenza, 1885.(30) MILE, Luogo citato.(31) La carta topografica non è stata trovata fra i documenti

lasciati dall'Autore, che l'avrebbe senza dubbio disegnata quandoavesse provveduto alla pubblicazione dello studio (Nota dellaGiovane Montagna).

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VII: - L’Ospedale di San Benedetto diMontelungo(da “La Giovane Montagna”, n° 6, Giugno 1940)

Lasciato il modesto ricovero di Santa Maria della Cisa, epercorsi appena poco più di trecento metri di strada, quasi inperfetto piano, nell'ultimo lembo del territorio parmense, i romeiprovenienti dalle lontane terre del Nord, giunti al valicosospirato di Monte Bardone, vedevano aprirsi all'improvvisoinnanzi al loro sguardo, ansioso di nuovi orizzonti, la magnificavalle della Magra, verdeggiante di boschi e di prati e ricca dicampi, di vigne, di uliveti. Finalmente l'ultima aspra giogaia di

monti era vinta; e Roma - la santa meta del lungo pellegrinare -era ormai vicina!

La discesa nell'opposto versante dell'Appennino si presentava,almeno per il primo tratto fin presso Montelungo, facile e noneccessivamente rapida; e la via correva ampia e libera ai lati daogni ingombro, giacché la provvida Comunità di Pontremoli, con unalegge severissima, faceva obbligo agli abitanti delle ville vicinedi abbattere tutte le piante per buon tratto a destra e a sinistra della strada, per modo che i viandanti fossero sicuri da ogniinsidia (1).

A Montelungo, a sei miglia (nove chilometri) dal valico edall'Ospedale della Cisa, un altro più ricco e più ampio ricoveroapriva le sue porte ai romei: l'ospedale di S. Benedetto di Monte- lungo.

Di esso si ha raramente ricordo negli itinerari dei pellegriniche dai paesi d'Oltralpe tendevano a Roma. Questi, infatti,ristorati ai ricoveri di Berceto, di Roncalia e della Cisasull'alto Appennino, non sentivano alcun bisogno di una nuovasosta e si affrettavano a raggiungere a Pontremoli la sospiratapianura

Ma non così era per i pellegrini che da Roma ritornavano aipaesi del nord. Una fermata a mezzo dell'aspra salita era provvidenziale per i romei; e, piùancora, lo era per i mercanti e per i principi, che dovevanoattraversare il Monte Bardone con impedimento di merci e di armi.

Nel 1191 Re Filippo Augusto di Francia, di ritorno dallaCrociata, fa sul Monte Bardone, fraPontremoli e Fornovo tre tappe: Montelungo (Saint Benoit in Monte -Bardun) Berceto (SaintMorant in Monte - Bardun) e Cassio (2); e dietro lui, fanno sosta aMontelungo quasi tutti gli altriprincipi che affrontano l'aspra salita del monte, sino a CarloVIII di Francia che passa a Montelungo la notte del 2 luglio 1495(3) e a Massimiliano I d'Austria che vi si trattiene la notte dal21 al 22 novembre 1497 (4).

Ma degli itinerari e delle vicende storiche della celebre stradadovrò occuparmi in altra parte di questo studio; quì debbo solodire - e il più brevemente possibile - delle origini e dellevicende di questo primo alpestre ospedale che si apriva ai romeisul territorio lunese.

In questa ricerca fui preceduto da due dei più illustriscrittori delle cose storiche e geografiche della Toscana: nel suoaureo Dizionario Geografico Storico Emanuele Repetti (5) e il compianto

nostro Vice Presidente Conte Giovanni Sforza in una breveappendice al II volume delle Memorie Storiche di Pontremoli (6); sicché,dopo gli studi di quei due insigni Maestri, si potrebbe ritenereche il compito di chi deve intrattenersi di nuovo su questoargomento potesse riuscire di molto facilitato. Ma ciò pur tropponon è; giacché al Repetti prima, allo Sforza poi, parve sidovessero riferire a questo Montelungo nostro alcuni importantidocumenti del secolo VIII e del secolo X, che indubbiamente siriferiscono a tutt'altre terre.

Da ciò la erronea attribuzione delle origini di questo nostroOspedale ai Monaci della insigne Badia di San Colombano di Bobbio;i quali - si può affermarlo sopra una lunga serie di documentiirrefragabili - non ebbero mai quassù alcuna possidenza e nonesercitarono mai, su queste giogaie di Monte Bardone, alcuna diquelle insigni opere di beneficenza e di previdenza sociale, percui si resero benemeriti in tante altre parti d'Italia.

Il Repetti non ignorava certamente la celebre frase del grandeGerberto: quae pars Italiae possessiones beati Columbani non continet?; edimmaginò che anche sul Monte Bardone la insigneAbbazia qualche cosa dovesse pur possedere. E quel nome diMontelungo, ripetuto in documentibobbiesi del 774 e del 972, gli fece credere che vi si parlasseappunto di questa nostra terra.

Non pensò l'illustre geografo che, non solo Toscana in (cosìin val di Magra come in Val d'Arno) ma in Piemonte, in Liguria,nell'Emilia, nel Lazio e in ogni altra parte d'Italia, ove siaqualche montagna di forma allungata, si hanno ancora oggi - e siebbero assai di più nel medio evo - castella e terre designatecol nome di Montelungo; sicché nei vecchi documenti, quando non visia indicazione precisa della diocesi o del comitato, o accuratadescrizione di confini, è quasi impossibile accertare a quale deimolti paesi omonimi il documento si riferisca.

Abbiamo noi, nei documenti citati dal Repetti, qualcheindicazione, che ci consenta di attribuirli al Montelungo nostro?o non vi abbiamo, invece, designazioni precise che ci obblighino ariferirli ad altre terre dello stesso nome in altre regionid'Italia?

Lo studio non è facile; ma è pur doveroso il farlo. Ecomincierò dal documento più antico.

°°°°°°°Il 5 giugno 774 Carlo Re dei Franchi e, da pochi giorni, anche

Re dei Longobardi, da Pavia,

appena conquistata, fa ampia donazione della selva e della cortedi Montelungo al monastero di San Colombano di Bobbio, rettoallora dall'abate Guinibaldo.

Non dice il Re in quale diocesi fossero la selva e la corte dalui donate al monastero bobbiese; e non lo dissero né il Muratori,che, per primo, nel 1738, pubblicò quell'interessante documento(7), né il Migne (8) e il Datta (9) che lo ripubblicarono nelloscorso secolo, e neppure il Tangl (10), ed il Cipolla (11) che dinuovo lo riprodussero, in più corrette edizioni, nel secolonostro.

Solo il Repetti credette di ravvisare in quel documento unprimo lontano ricordo del Montelungo lunese; e non nel volume IIIdel suo Dizionario, stampato nel 1839, ove si discorre diproposito del Montelungo nostro; ma soltanto nel volume VI, oSupplemento, uscito in luce nel 1845. “Si aggiunga” ivi è detto“l'atto di donazione fatta con diploma del 5 giugno 774 dato inPavia da Carlo Magno al Mon. di San Colombano di Bobbio della SelvaRegia appellata Monte - Longo (12)”.

Non una parola di più aggiunge l'illustre scrittore perdimostrare la ragionevolezza dell'attribuzione del diplomacarolino al Montelungo nostro, anziché ad alcuna delle tante altreterre di ugual nome, che si avevano allora, e che si hanno ancorain Italia; e non una parola spende a questo proposito il ConteSforza, che, pure, fa propria, senza discuterla, l'opinione delRepetti (13).

Eppure basta un rapido sguardo al momento storico in cuiquella donazione fu fatta; basta unesame, anche superficiale, del testo stesso del documento, perconvincersi che sarebbe occorsa ben ampia, e serena, e severadiscussione per giungere a siffatta conclusione.

Non conviene dimenticare che Re Carlo era entrato solo dapochi giorni nell'espugnata capitale dei Longobardi, ed avevaassunto il titolo di Re anche del popolo vinto. Il giorno precisodella caduta di Pavia non si conosce; è certo soltanto che non fuprima del 30 maggio, non dopo il 2 giugno del 774. Dunque settegiorni, appena, dopo l'ingresso trionfale del nuovo Re nella cittànemica, se questo avvenne il 30 maggio, o, meglio, dopo soli tregiorni, se Pavia cadde il 2 giugno, il nuovo Re, con un solenneatto di munificenza sovrana, vuol dimostrare che non sisostituisce ai Re Longobardi soltanto nel titolo, ma anche nellaprotezione alle loro istituzioni: tra le quali primeggiava lagrande Abbazia di Bobbio.

Che qui si tratti di un vero atto di alta e lungimirantepolitica già lo constatò l'Hartmann (14)ponendo in rapporto il diploma del 5 giugno in favore dell'Abbaziadi Bobbio, con altri atti di dataprossima, come questa, all'inizio del nuovo Regno, con i quali ReCarlo distribuì il patrimonio regio ed i beni conquistati airibelli, premiando l'opera, non solo, de' suoi fedeli, ma anche diquelle istituzioni longobarde che avevano dimostrato di accettare- se non con entusiasmo, almeno con lealtà - il nuovo regime.

Per dimostrare, adunque, il suo interessamento, la sua altaprotezione alla grande Abbazia longobarda di Bobbio non sarebbebastato certamente il dono di una selva e di una piccola corte inlocalità sterili sull'Alto Appennino. Ben altro occorreva perdimostrare la munificenza del nuovo Re Franco verso la maggioreAbbazia del suo nuovo Regno; quella, che giustamente l'attualeSommo Pontefice, che, nell'Ambrosiana e nella Vaticana, ne meditòcon profondo studio i documenti, non esitò di definire “la veraMontecassino dell'Italia Settentrionale” (15).

Ma v'ha di più. Re Carlo voleva bensì, con quel suo atto dipreveggente politica, favorire imonaci longobardi di Bobbio, ma non voleva, in pari tempo, recareoffesa agli altri monaci, ancheessi longobardi, della insigne Abbazia di Berceto, fondata 55 anniprima, nel 719, dal Re Liutprando e, in quei giorni, nel suomassimo splendore.

Queste Abbazie che i Re Longobardi avevano costrutte suivalichi principali delle Alpi e degli Appennini per la difesa e lacura delle grandi vie, avevano tutte, oltre alla casa principale,altre caseminori (hospitia, xenodochia, cellae) o, in termini generali “obbedienze”nei punti più difficili delle strade a loro affidate; e anche inqueste case minori, come nella casa madre, esse esercitavano lapiù larga ospitalità verso i pellegrini.

E' quasi di questi stessi giorni, di cui ora si parla, ed èdiretta allo stesso Re, Carlo, la letteradi papa Adriano I (784-791) con la quale vivamente si raccomandaalla protezione del Re l'Abbazia di S. Ilario di Galeata sopra unodei valichi più, frequentati dell'Appennino Tosco-Romagnolo; e glisi raccomanda il monastero, “una cum hospitalibus, qui per callesAlpium siti sunt, pro pegrinorum susceptione” (16).

Anche Berceto, come Galeata, come Bobbio, come tutte le altreAbbazie dell'Appennino, aveva indubbiamente in diversi punti dellaStrada di Monte Bardone i suoi hospitales pro peregrinorum susceptione; e

un d'essi doveva sorgere indubbiamente a Montelungo, a metàdell'aspra salita dalla pianura di Pontremoli al valico dellaCisa. Il togliere quell'ospedale, con la selva che lo circondava,alla vicina Abbazia longobarda di Berceto per darlo all'altralontanissima Abbazia, pure longobarda, di Bobbio, sarebbe stataper i monaci di Berceto una grave e immeritata offesa ben lontanadai desideri e dai metodi di governo di Re Carlo.

Dissi longobarda, al pari di quella di Berceto, anche l'abbaziadi Bobbio; ma non intendo, con ciò, di contraddire il Tamassia, ilquale giustamente ricorda come, nel sec. VII, nel monastero diBobbio “si succedotto abbati di sangue franco, ardenti ortodossi,che per le tradizioni della loro nazione e lo spirito religioso”si oppongono vigorosamente ai re Longobardi ariani (17), e ammettoanch'io, con lui, che fossero franchi, e l'abate Attala, e l'abateBertulfo, e i monaci Meroveo, Agebado e Bandacaino (18). Dicosoltanto che tutti questi abati. tutti questi monaci franchi eranoormai da molti anni scomparsi; e che nella seconda metà del sec.VIII, durante il regno di Desiderio, i monaci erano ormai quasitutti di nazione longobarda, e longobardo – lo indica lo stessonome - era l'abate che essi si erano prescelto: Guinibaldo.

Orbene, questo abate longobardo, sceso - primo, forse, fratutti i principi ecclesiastici delRegno - dalle montagne di Bobbio alla reggia di Pavia, espone alnuovo Re vittorioso i bisogni della sua Abbazia, i desideri deimonaci suoi fratelli; e il Re concede all'Abbazia e a lui,Guinibaldo, secundum ipsius ftatrum petitionem, la selva e la coste diMontelungo e altre terre vicine.

Può supporsi che questo abate longobardo, che portava al ReFranco l’ambita adesione alnuovo regime per parte della più ricca e possente abbazia delRegno, si contentasse di chiedere per la sua Abbazia una modestaselva dell'alto Appennino, lontanissima da Bobbio e situata quasisulle porte di un'altra Abbazia, retta da monaci della stessanazione longobarda e dello stesso Ordine di San Benedetto? (Continua) G. MARIOTTI

(1) Pontremuli Statutorum ac Decretorum volumen, Parmae, apud SethViottum, 1571,lib. IV, cap. LX, pag. 110.

(2) Intorno al passaggio di Re Filippo Augusto di Frranciavedi BENIDI, ABATE DI PETERBOROUGH, De vita et gestis Henrici II nelBOUQUET, Rerum Gallicarum Scriptores, T. XVIII, 540-41.

(3) SFORZA GIOVANNI, Memorie e Documenti per servire alla storia diPontremoli, parte I, vol. II, pag. 541 e 565. Lo Sforza cita unarelazione dell'Ambasciatore Manfredo Manfredi al Duca Ercoled'Este, con la quale gli dà notizia che il 2 luglio Re Carlotrovavasi “con lo esercito di là da Pontremulo VI miglia ad unoloco allogiato che si denomina Montelungo, dove el stava congrandissimo disagio” per “manchamento de victuarie” (R. Archiviodi Modena. Cancelleria Ducale. Estero, Ambasciatori).

(4) Il 21 novembre Massimiliano, proveniente di Sarzana,pranzò a Pontremoli “e quantunque cadesse gran copia di neve dalcielo, nulladimeno volle andare la sera a dormire a Montelungo”.CAMPI B., Memorie di Apua oggi Pontremoli, cap. VIII. cfr., SFORZA G.,Op. Cit.part. I, vol. II, pag. 551 e 570.

(5) REPETTI EMANUELE, Dizion. Geogr. ecc. della Toscana, vol. III, p.412, e vol. VI (Supplemento), p. 156.

(6) SFORZA G., Op. cit., parte II, p. 372-375. (7) MURATORI, Antiquitates Italicae, Milano. 1738, tom. 1, pag.1003-1004.

(8) MIGNE, Patr. Lat., LXVII, 1000.(9) In Monum. Hist. Patr. Chartarum, tom. I, p. 22-23 (Torino,

1836).(10) In Monum. Germ. Hist., Diplomata Karolinorum, tom. I, p.

114.115 (Hannover, 1906).(11) In Fonti per la Storia d'Italia pubbl. dall'ISTITUTO

STORICO ITALIANO. Codice Diplomatico del Monast. di S. Colombano di Bobbio,vol. I, pag. 130-131 (Roma, 1918).

(12) REPETTI, Op. cit., vol. VI (Supplemento), p. 156.(13) SFORZA, Op. cit., parte II, p. 372.(14) HARTMANN L. M., Geschiste I.taliens in Mittelalter, vol. III, par.

I, pag. 2, (Gotha,1908).(15) RATTI ACHILLE, Le ultime vicende della Biblioteca e dell'Archivio di S.

Colombano di Bobbio, Milano, Hoepli 1901, pag. 9, Il SacerdoteAchille Ratti, Dottore della Biblioteca Ambrosiana, pone come datodella dedicatoria di questo interessantissimo studio: “il primo disettembre dell'anno giubilare 1900”. Quanta strada ha percorsal'illustre storico dal Giubileo del 1900, a questo nuovo Giubileodel 1925!

Tra le molte altre dottissime monografie in cui Papa Pio XIillustrò alcuni ricordi storici bobbiesi, ha per le provincie

parmensi speciale importanza quella sulla fuga dell'ArcivescovoAriberto. In essa sono raccolte preziose notizie anche sull'altranostra abbazia di San Salvatore di Val di Tolla (v. RATTI ACHILLE,Il probabile itinerario della fuga di Ariberto Arcivescovo diMilano in Archivio Storico Lombardo, serie III vol. XVII, anno XXIX, pag.1-25 (Milano, 1902).

(16) MURATORI, Rer. Ital. Script., tom. III, par. II, p. 234. Sullesuccessive edizioni della lettera di Papa Adriano, cfr. KEHR P.F., Regesta Pontif. Rom. Italia Pontificia, vol. V, p. 139 (Berlino 1911).

(17) TAMASSIA G., Longobardi, Franchi e Chiesa Romana fino a' tempi di ReLiutprando, Bologna, 1888, pag. 151.

(18) TAMASSIA, Op. cit., pag. 153, nota 2.

Questo capitolo venne dall'Autore letto nella tornata dellaDeputazione di Storia Patria per le Provincie Parmensi tenutasi aMontelungo il 3 settembre 1925. Di esso vi è un breve cenno nelverbale.

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La strada Francesca di Monte Bardone

VII. – L’Ospedale di San Benedetto diMontelungo(da “La Giovane Montagna, n° 7, Luglio 1940)

No certamente. Ben altre dovevano essere in quei giorni leaspirazioni. e quindi le domande, dell'Abbazia Bobbiese.,

Dalle prime donazioni del Re Agilulfo nel 591 (Bobbio colcircondario di quattro miglia da ogni parte), della ReginaTeodolinda nel 613 (il Monte Penice con diverse corti che locircondano) del Re Adalauldo nel 625 (altre terre del Penice allaTrebbia) e, via via, di Liutprando, di Rachis, di Astolfo e dialtri Re e Duchi e di ricchi privati, l'Abbazia di Bobbio, allacaduta del Regno Longobardo, nel 774, possedeva ormai, quasi perintero, le alte valli della Trebbia, dell'Aveto, del Ceno e del

Taro. Ma tutti quei possedimenti, erano di poco reddito, così perl'Abbazia, come per i livellarii, i massari, gli arimanni a cuil'Abbazia ne affidava la coltivazione; e ciò perché i monaci ed iloro dipendenti, da quelle terre, non avevano libero accesso almare, che in quei giorni, in mezzo a tante ruine delle antiche viedi terra ed alle angherie che su di essa si esercitavano, eraancora il più sicuro e comodo ed economico mezzo di comunicazione.

Anche politicamente il libero accesso dell'Abbazia di Bobbioal mare, aveva la sua alta importanza; e il mare era lì, quasi adue passi dalle terre della Badia; e i valichi del Cento Croci (m.1053 s. m.) del Bocco (m. 937) e di Cabane (m. 1091) aprivano,nell'aspra catena dell'Appennino, tre vie relativamente facili ebrevi alla marina di Moneglia, di Sestri Levante, di Lavagna e diChiavari; nelle quali - specialmente a Moneglia ed a Sestri - siavevano approdi di navi frequenti e sicuri (19).

Il possesso di quelle vie attraverso l'Appennino, di quegliapprodi sul mare; ecco, secondo ogni probabilità, il desiderioesposto dai monaci di Bobbio al Re Carlo nella sua nuova Reggia diPavia il 5 giugno 774: e la pergamena che ora esaminiamo è lamunifica risposta del Re alla petizione dei monaci.

La pergamena pervenuta fino a noi non è il diploma originaledel Re; è una copia del XIIIsecolo, di non dubbia autenticità e di carattere regolare, ma concorrezioni e ritocchi che ne rendono difficile e alcuna voltaanche dubbia la lettura specialmente nei nomi di luoghi; e ciòspiega le varianti che si hanno nelle diverse edizioni deldocumento fatte nei due ultimi secoli dal Muratori, dal Migne edal Datta, e in questi ultimi anni dal Tangl e dal Cipolla.

Sono varianti, però - è bene dirlo subito - che nulla tolgonoal carattere prevalentemente marittimo del possedimento donato dal Re Carlo all'Abbazia. Pocoimporta, infatti, il sapere se ilcaput, in cui uno dei confini del possedimento scende usque ad mare,si chiama Sirtarium, comerilesse il Muratori, o ferratum come lessero il Datta ed il Tangl,oppure Sirta (norum) come lesse il Cipolla. Il carattere moltominuto della copia, qualche ritocco della stessa mano che lascrisse, qualche danno sofferto dalla pergamena, sia nello stessoArchivio di Bobbio, sia nel trasporto dalla Badia di Bobbio, primaa Voghera, poi ad Alessandria, e infine all'Archivio di Stato diTorino (20), spiegano queste diverse lezioni.

Resta ad ogni modo certo che a questo “Caput” di nome non benprecisato, il confine del nuovo possesso della Badia scendeva usque

ad mare. Qui e la pergamena, e le diverse edizioni di essa, nonammettono alcun dubbio.

E niun dubbio può ammettersi sull'altro confine che ilMuratori nel 1738 e il Datta quasicento anni dopo, nel 1836 lessero concordemente: rivum finalemdescendente de Montelongo (omonte lug) intrantem in mare. Qui il Tangl e il Cipolla credettero dipoter leggere rivum Sinalem invece di rivum finalem; e la difficoltà didistinguere la s dalla f nel minuto carattere dell’amanuense delsec. XII che scrisse quella pergamena spiega facilmente la diversalezione. Ma sia che il rivo si chiamasse Sinale, oppure soltantofinale (cioè: segnante un confine) rimane certo, in tutte le lezioni, cheesso scendeva da Montelongo ed entrava in mare; il che vuol dire chenon scendeva dal Montelongo nostro, ove i rivi terminano tutti, onella Magra, o nella Magriola, o in torrentelli anche minori,sempre, ad ogni modo, a grande distanza dal mare.

Una terza volta viene ricordato il mare nel diploma carolinodel 774; ed è nella parte, chedirò riassuntiva, del documento, ove si dichiara che tutte leselve, le corti e le altre terre (haec omnia) donate con quell'attoall'Abbazia, tenevano uno dei capi in mare e l'altro capo (versoterra) dal confine degli arimanni da un lato a Gregania,dall'altro a Montelungo. Anche qui nelle diverse edizioni, sonoalcune lievi varianti, che non val la pena di rilevarepartitamente, ma che apparirebbero dallo specchio, ove siraccogliessero le varie lezioni delle quattro principali edizionidell'insigne documento (21).

Il confine verso terra del complesso dei possedimenti cedutidal Re Carlo all'Abbazia è indicato nel documento in modo cosìvago, che riesce ora ben difficile l'identificare il tratto dilitorale in cui quei possessi erano situati. Le diverse lezionidel documento, accrescono le difficoltà della ricerca.

Tre soltanto sono i nomi di luogo indicati in quella, tropposommaria, descrizione di confini:fines arimannorum, Greganie, Montelungo. Ma, con la scomparsa degliarimanni, sono scomparsinaturalmente anche i confini delle terre che erano state loroassegnate, e sarebbe ora vano il ricercarli; quindi i veri nomigeografici si riducono a due soltanto: Gregania e Montelungo.

E confesso subito che per quanto io abbia percorso molte voltea piedi, sia il litorale, sia levallate interne dei circondari liguri della Riviera di Levante ovel'Abbazia di Bobbio ebbe dal secolo VII sino al secolo XIII vasti

possedimenti, non mi sono imbattuto mai in località che sichiamasse Gregania o Gregallia; né siffatto nome ho trovato mai, nénelle carte geografiche e corografiche antiche, né nella Carta degliStati Sardi al 50.000, pubblicata dal R. Corpo dello Stato Maggiorenel 1852 e 1853, né nei fogli al 100.000 e nelle tavolette al25.000 della nuova accuratissima Carta d'Italia dell'IstitutoGeografico Militare di Firenze. Né siffatto nome, dopo il diplomacarolino, appare mai più negli innumerevoli documenti bobbiesi.

Ciò ha fatto nascere in me il dubbio che nel diplomaoriginale, ora perduto, quel nome sidovesse leggere in altra forma, male interpretata nell'unica copiache ne conserviamo, scritta nelsec. XII, quando, da molti anni, per le devastazioni dei Saracenie per le usurpazioni dei Conti di Lavagna e di altri feudatari,l'Abbazia aveva perduta gran parte delle corti, delle case, delleterre, che già aveva possedute sul mare, sicché ormai in Bobbiomale se ne ricordavano i nomi e i confini. Eloquente prova di ciòsono le frequenti correzioni dei nomi geografici, fatte sullapergamena, sia dalla stessa mano che scrisse la copia, sia piùtardi, da altra mano.

Nel litorale, che già fu posseduto dall’Abbazia Bobbiese, ilnome che oggi più assomigli a Gregania è quello di Gavarnie, piccologruppo di case a m. 179 sul mare, all'estremo confine occidentaledel Comune di Castiglione Chiavarese, a breve distanza a norddella strada nazionale del Bracco.

A meno di un chilometro da Gavarnie, a m. 351 sul mare, è ilmonte sul cui vertice da tempoimmemorabile si erge la Croce dei Tozzi, e che ci ricorda il montem incervice insignitum cruce, di cui è cenno nel diploma carolino; e ai piedidel monte è il gruppo di case di S. Michele sul fiume Petronio,che ci richiama alla memoria il finem Sancti Michaelis exeuntem de fluminePetrurio, ricordato nel diploma tra i confini dell'Alpe Adra, donataall'Abbazia Bobbiese insieme con la corte di Montelungo.

L'abitato di San Michele è sulla via pubblica che sale aCastiglione (viam publicam, que vadit ad Castellionem) ed è situato proprioallo sbocco di una piccola valle ove sono i villaggi di Castagnetoe di Varici, la valicula que noncupatur Castanetum Vilici, ricordato dodicisecoli addietro nel diploma del Re Carlo (22).

Potrei continuare a lungo in questi confronti ma non ne valela pena. Aggiungerò solo che ameno di un chilometro da Gavarnie, ma a sud della stradaprovinciale del Bracco, e quindi non nel versante del fiumePetronio, ma nell'opposto versante sul mare, è un gruppo di case

che ancora ha il nome di Pero, vecchio nome che ricorda il Pirumagrestem del diploma carolino; e, subito dopo, a mezzo chilometroda Pero, si ergono ancora maestose le case di Montelungo, le qualidalla loro superba altura ancora dominano la sottoposta rada diMoneglia, frequentata anche oggi da piccole navi ma molto piùricca di commerci nel Medio Evo (23).

Credo non occorra una parola di più per dimostrare che diquesto Montelungo ligure, non del nostro, parla il diploma regiodel 7 giugno 774.

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Ed eccoci. al secondo documento attribuito dal Repetti alMontelungo nostro. E’ un placito tenuto il 20 agosto 972, nella villa diGragio, dal Marchese Oberto Conte delSacro Palazzo per una vertenza tra il Monastero di Bobbio e quellodi S. Martino di Pavia, relativa ad abusivo taglio di cento piantein silva una qui est posita in loco qui dicitur Montelongo.

Anche in questo caso, né il Marchese Oberto, né il notaioGiovanni che scrisse il documento, né il giudice Benzo, che viaggiunse di sua mano alcune correzioni, credettero di dire inquale diocesi, in quale contado fosse situato il Montelongo di cuiessi si occupano; né credette di potercelo dire il Muratori, cheper primo pubblicò il documento nel 1717 nel capitolo XVI dellesue Antichità Estensi (24). E il grande storico, se avesse davverocreduto che in quel placito si parlasse del Montelungo lunese, nonavrebbe certamente mancato di notarlo, giacché egli aveva studiatae studiava con affettuosa cura la Lunigiana e l'avevadiligentemente percorsa tutta in due viaggi recentissimi, sicchéin quello stesso primo volume della monumentale opera sulle AntichitàEstensi, né può vantare le “molte belle valli e pianure, da mevedute” egli dice “negli anni 1714 e 1716”.

Evidentemente nel 1717 egli non poteva aver dimenticato ilMontelungo nostro; e non avrebbe certamente taciuto se avessecreduto di potere attribuire ad esso quell'importante documento.

Invece non una parola sul Montelungo lunese in quel capitoloXVI, in cui pubblica il placitodel Marchese Oberto I, e, per di più, poco dopo, nel capitoloXVIII, dovendo ricordare di nuovo quel documento, esprime laconvinzione che esso riguardi terre bobbiesi ai confini conPiacenza.

“Nel privilegio” egli ci dice “de i Malaspina vengonoannoverati molti Stati in Valle Trebiae, la qual Valle comincia disopra a Bobbio e viene a terminare nella parte Occidentale delPiacentino: il che ci ricorda che anche il Marchese Oberto I ebbede i Vassalli in quelle parti, siccome vedemmo al Cap. XVI”.

I vassalli, adunque, che assistettero al placito del MarcheseOberto nel 972, nel concetto del Muratori, non erano lunesi mabobbiesi, non di val di Magra, ma di val di Trebbia o di alcunedelle piccole valli vicine. Bobbiese, infatti, era allora, ed èancora, la villa di Grazi (Gragio) in cui fu tenuto il placito (25)e Bobbiese, e non lontana da Gragio, doveva essere logicamente laselva sul possesso sulla quale si doveva pronunciare giudizio.

Ma tra i confini di quella selva – confini quanto mai confusi,ed ora di impossibile identificazione sui luoghi o sulle cartetopografiche - tra cerri, viti, chiodi di ferro infissi neglialberi ed altricapisaldi effimeri scomparsi da un millennio figura anche una“Pisina, quae dicitur Pellosa”; e basta questo al Repetti per ravvisare inessa il Lago Peloso del Comune di Zeri e pertrasportare sull'Appennino Pontremolese la Piscina, la Selva e lacontesa tra due Monasteri che su questi monti non ebbero maiingerenza alcuna.

“Silva” dice il testo pubblicato dal Muratori “silva decernitur Cerro,ubi ab antiquis Clavos ferreos infixus fuerat; verum etiam de ipsoCerro deinde ... per vites, quae ... Pisina, quae dicitur Pellosa” (26). Ora io midomando quale costrutto si possa trarre da questo documento pienodi lacune, nel quale non è ricordato mai alcuno dei confini chesiamo soliti vedere nei diplomi imperiali e nelle altre carte cheriguardano davvero il nostro Montelungo e i monti Pontremolesi.Non il Monte di Cirone e il Monte Rotondo del diploma di FedericoI del 1167 (27); non il valico della Cisa (fauce Cisae) e il valicodi Cirone (et a fauce montis de Cirono) e il monte Gotra, e il Tarodinedel diploma di Federico Il del 1226 (28); non la Magra, laMagriola, il Verde, il rivo Braiola dell'altro diploma di FedericoII del 1245 (29).

Un solo corso d'acqua indica il placito del 972; de mane ex aliaparte ascendentem per fossatum qui dicitur Rocudoso: così, almeno, dice iltesto pubblicato dal Muratori. Ma la nuova edizione del Cipolla,a Rocudoso sostituisce Rovedoso, e soggiunge, in nota che “forse siriferisce a questo punto quanto si legge, della mano che scrissel'atto, al margine inferiore della pergamena: de mane ex alia parteascendentem per fossatum qui dicititr Mundasum” . (30).

Non so quale di questi tre nomi sia il giusto; sosoltanto che nessun fossato con un nome che assomigli a questi, ioho trovato mai nel territorio del Montelungo nostro, e indocumenti che ad esso si possano con sicurezza attribuire.

Pochissimi altri accenni di confini sono nel placito delMarchese Oberto e nessun d'essi assomiglia neppure lontanamente ainomi delle località che circondano il Montelungo lunese. Sicchéunico appoggio alla opinione esposta del Repetti, che si debbatrovare quassù la selva in contesa tra i due Monasteri di Bobbio edi Pavia, rimane pur sempre quella Pisina quae dicitur Pellosa, nellaquale egli, dapprima in forma dubitativa nel 1885 (31) poi conrecisa affermazione nel 1843 e nel 1845 (32) vede indicato il LagoPelosio della montagna di Zeri.

Non considera il Repetti che, anche nella media e nell'infimalatinità, come nel latino classico, e come, del resto, anche nelvolgare nostro, col nome di piscina si è sempre indicata una vascadi piccole proporzioni, costrutta dall'uomo per usi domestici; enon si è mai confusa una piscina con un lago, opera tanto piùgrandiosa della natura.

Non considera che, ad ogni modo, quel Lago Peloso, posto suilontani monti di Zeri, dista daMontelungo, a linea d'aria, più di 13 chilometri; e che questadistanza si raddoppia per la necessità di attraversare, tra le duelocalità, alte catene di monti e profonde vallate.

Non considera che se la selva di Montelongo di cui parla ilplacito, fosse stata davvero cosìsterminata, non si comprenderebbe la ragione della contesa tra duemonasteri dallo stesso ordinereligioso pel taglio di 100 sole piante, che in una così immensaestensione di boschi, doveva quasi apparire un nonnulla. (Continua)

G. MARIOTTI

(19) Per Moneglia vedi CASALIS GOFFREDO, dizionario Geografico degliStati di S. M. il Re di Sardegna, Torino, 1854, vol. XI, pag. 6 - 17.

(20) I preziosi documenti dell'Archivio di Bobbio “furonomessi a soqquadro da un drappello di Crovati (sic) loggiati (sic) li14, 15, 16 e 17 aprile 1814 nel locale di S. Colombano”; cosìafferma, in una dichiarazione del 23 aprile 1815, il Delegato delGoverno Sardo incaricato delprimo trasporto di quei documenti alla R. Intendenza di Voghera.

Soppressa poco dopo l'Intendenza di Voghera e fusa con quelladi Alessadria, non si sa di

preciso che cosa sia avvenuto dei documenti bobbiesi; si sasoltanto che nel 1821 essi erano fortunatamente raccolti nel R.Archivio di Stato di Torino (cfr. RATTI A. Op. cit. pag. 26).

(21) La seconda edizione del MURATORI (Opera Omnia, Tom. III,pagg. 228-229, Arezzo 1774) e quella del MIGNE (Patr. Lat. LXVII,1000).

(22) Il villaggio di Verici nella Carta degli Stati di S. M. il Re diSardegna, pubblicata nel 1853 (Foglio LXXVII) ha ancora il vecchionome di Velici, che ricorda ancor più il Vilici del diploma diCarlomagno.

(23) Casa del Pero, presso la Cadé – Tavoletta IV N. O. delfoglio 71, Voghera dalla Carta d'Italia dell'Istituto GeograficoItaliano, presso il margine orientale.

(24) MURATORI, delle Antichità Estensi, Cap. IX, XVI e XVIII.(25) Grazi Inferiore e Superiore, segnate nel foglio 71 della Carta

d'Italia al 100.000 a breve distanza dalle sorgenti del Tidone, adest di Romagnese e al Nord di Pietra di Corvo. Ivi sonodistinti in due abitati, ma non vi è la indicazione di Inf. e Sup.Si trovano invece dette indicazioninelle tavolette originali al 25.000 e così:

Il N. E. (Bobbio) Grazi Inf. a 763 s. l. m. e Grazi Sup., a m.864, sono segnate nell'estremomargine Nord della tavoletta, anzi, in parte, fuori del margine.

(26) Per Pelosum et Pilosum vedi DU CANGE, Glossarium mediae et infimaelatinitatis; Tom. V, pag. 182, Parisii, Didot 1845.

Piscina ha nel medio evo varii significati, ma quasi sempre diopera dell'uomo. Vedi DE VIT, Totius Latinitatis Lexicon, Tom. V, pag.683. Prato, 1858-60.

(27) SFORZA. Memorie e documenti per servire alla storia diPontremoli. Parte II, Documento N. II, pag. 243.

(28) Idem Idem. Parte II, pag. 292. Documento N. XX.(29) Idem Idem, Parte II, pag. 292. Documento XXII. HUILLARD-

BREHOLLES, Historia diplomatica Federici secundi, Tom. VI.(30) Codice diplomatico di Bobbio, I, pag. 336, Documento

XCVII.(31) REPETTI. Dizionario Geografico fisico-storico della Toscana, vol. II,

pag. 619, Firenze 1535.(32) Idem Idem. Vol, III, pag. 412, vol. V pag. 840.

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(manca ultima parte, pubblicata nel numero di agosto 1940)